Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

ANNO 2023

LA CULTURA

ED I MEDIA

NONA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Covid: sembrava scienza, invece era un…calesse.

L’Umanità.

I Benefattori dell’Umanità.

Le Invenzioni.

La Matematica.

L’Intelligenza Artificiale.

La Digitalizzazione.

Il PC.

I Robot.

I Chip.

La telefonia.

Le Mail.

I crimini sul web.

Al di là della Terra.

Gli Ufo.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Da Freud all’MKUltra.

I Geni.

I Neuroni.

La Forza della Mente.

Le Fobie.

L’Inconscio.

Le Coincidenze.

La Solitudine.

Il Blocco Psicologico.

La Malattia.

La Depressione.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scrittura.

La Meritocrazia.

Le Scuole al Sud.

Le Scuole Private.

Il Privatista.

Ignoranti e Disoccupati.

Ignoranti e Laureati.

Decenza e Decoro a Scuola.

L’aggiotaggio scolastico.

La Scuola Alternativa.

La scuola comunista.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’onestà e l’onore.  

Il Galateo.

Il Destino.

La Tenacia.

La Fragilità.

Body positivity. Essere o apparire?

Il Progresso.

Le Generazioni.

I Baby Boomer.

Gioventù del cazzo.

Il Linguaggio.

I Bugiardi.

L’Ipocrisia.

I Social.

Influencer.

Le Classifiche.

L’Amicizia.

Il fastidio.

L’Invidia.

L’Odio.

Il Mostro.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Moda.

Le Auto.

I Fumetti.

I Giochi da Tavolo.

L’Architettura e l’Ingegneria.

Il Restauro.

Il Podcast.

L’Artista.

La Poesia.

La Letteratura.

Il Teatro.

Le Autobiografie.

L’Ortografia.

Intrecci artistici.

La Fotografia.

Il Collezionismo.

I Francobolli.

La Pittura.

I Tatuaggi.

Le Caricature.

I Writer.

La Musica.

La Radio.

Le Scoperte.

Markalada, l'America prima di Colombo.

La Storia.

La P2 culturale.

Ladri di cultura.

I vandali dell'arte.

Il Kitsch.

Gli Intellettuali.

La sindrome di Stendhal.

Gli Snob.

I radical chic.

La Pubblicità.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Alberto Asor Rosa.

Alberto Moravia.

Aldo Nove.

Alessandro Manzoni.

Alessia Lanza.

Aleksandr Isaevic Solzhenicyn.

Andy Warhol.

Andrea Camilleri.

Andrea Pazienza.

Anna Premoli.

Annie Duchesne Ernaux.

Anselm Kiefer.

Antonio Delfini.

Antonio Riello.

Artemisia Gentileschi.

Benedetta Cappa.

Barbara Alberti.

Beethoven.

Banksy.

Camillo Langone.

Caravaggio.

Carlo Emilio Gadda.

Cristina Campo.

Curzio Malaparte.

Dacia Maraini.

Dante Alighieri.

Dante Ferretti.

Dario Fo.

Dino Buzzati.

Domenico "Ico" Parisi.

Eduardo De Filippo.

Elena Ferrante.

Eleonora Duse.

Emanuel Carnevali.

Emmanuel Carrère.

Émile Zola.

Emilio Isgrò.

Ennio Morricone.

Enrico "Erri" De Luca.

Erin Doom.

Eugenio Montale.

Eve Babitz.

Ezra Pound.

Fabio Volo.

Federico Fellini.

Federico Palmaroli: Osho.

Friedrich Nietzsche.

Filippo Tommaso Marinetti.

Francesco Alberoni.

Francesco Piranesi jr.

Franco Cordelli.

Franco Ferrarotti.

Franz Kafka.

Fulvio Abbate.

Gabriele D'Annunzio.

Gaetano Bonoris.

Gaetano Salvemini.

George Orwell.

Georges Simenon.

Giacomo Leopardi.

Giacomo Puccini.

Giampiero Mughini.

Gianfranco Salis.

Gianni Vattimo.

Gianrico Carofiglio.

Gioachino Rossini.

Giordano Bruno Guerri. 

Giorgio Manganelli.

Giovanni Testori.

Giovanni Verga.

Giovannino Guareschi.

Giuseppe Prezzolini.

Giuseppe Verdi.

Hanif Kureishi.

Italo Calvino.

Jago sta per Jacopo Cardillo.

Jacques Maritain.

Jean Cocteau.

Jean-Jacques Rousseau.

John Ronald Reuel Tolkien.

Johann Wolfgang von Goethe.

J. K. Rowling.

Jorge Luis Borges.

Julius Evola.

Lara Cardella.

Laura Ingalls Wilder.

Lee Miller.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lina Sotis.

Luigi Illica.

Luigi Vanvitelli.

Luis Sepúlveda.

Louis-Ferdinand Céline.

Ludovica Ripa di Meana.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Marcello Marchesi.

Marcello Veneziani.

Marina Cvetaeva.

Mario Vargas Llosa.

Mark Twain.

Martin Scorsese. 

Massimo Rao.

Matilde Serao.

Maurizio Cattelan.

Mauro Corona.

Michel Houellebecq.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarroti.

Michelangelo Pistoletto.

Michele Mirabella.

Michele Rech: Zerocalcare.

Milo Manara.

Oliviero Toscani.

Oriana Fallaci.

Pablo Neruda.

Pablo Picasso.

Paul Verlaine.

Pier Paolo Pasolini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Pietro Cavallini.

Pietro Citati.

Primo Levi.

Robert Capa.

Roberto Ruffilli.

Roberto Saviano.

Salman Rushdie.

Sergio Leone.

Sergio Pautasso.

Sibilla Aleramo.

Stefania Auci.

Susan Sontag.

Suzanne Valadon.

Sveva Casati Modignani.

Tim Page.

Truman Capote.

Tullio Pericoli.

Umberto Eco.

Umberto Pizzi.

Wolfang Amadeus Mozart.

Vasco Pratolini.

Veronica Tomassini.

Virginia Woolf.

Vitaliano Trevisan.

Vittorio ed Elisabetta Sgarbi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

Lo ha detto la Televisione…

L’Opinionismo.

L’Infocrazia.

Rai: Il pizzo e l’educatrice di Stato.

Mediaset: la manipolazione commerciale.

Sky Italia.

La 7.

Sportitalia.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le fake news.

I Censori.

Il Diritto d’Autore e le furbizie di Amazon.

La Privacy.

L’Oblio.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

Wikipedia, l’enciclopedia censoria.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Se questi son giornalisti!

Gli Uffici Stampa.

Il Corriere della Sera.

Avanti!

La Gedi.

Il Fatto Quotidiano.

L’Espresso.

Il Domani.

Il Giornale.

Panorama.

La Verità.

L’Indipendente.

L’Unità.

Il Manifesto.

Il Riformista.

I più noti.

Alberto Dandolo.

Alberto Matano.

Alda D’Eusanio.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Amedeo Goria.

Andrea Scanzi.

Angela Buttiglione.

Angelo Guglielmi.

Annalisa Chirico.

Antonello Piroso.

Antonio Caprarica.

Antonio Di Bella.

Augusto Minzolini.

Attilio Bolzoni.

Barbara Costa.

Barbara Palombelli.

Bruno Vespa.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carmen Lasorella.

Cesara Bonamici.

Claudio Sabelli Fioretti.

Clemente Mimun.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Corrado Formigli.

Cristina Parodi.

David Parenzo.

Donatella Raffai.

Enrico Mentana.

Enrico Varriale.

Enzo Magistà.

Fabio Fazio.

Federica Sciarelli.

Ferruccio Sansa.

Filippo Facci.

Flavia Perina.

Franca Leosini.

Francesca Barra.

Francesca Fagnani.

Francesco Borgonovo.

Francesco Repice.

Furio Focolari.

Gennaro Sangiuliano.

Gian Antonio Stella.

Gian Marco Chiocci.

Gianni Riotta.

Gigi Marzullo.

Giovanni Minoli.

Hoara Borselli.

Indro Montanelli.

Italo Cucci.

Ivan Zazzaroni.

Jas Gawronski.

Laura Tecce.

Lirio Abbate.

Lucia Annunziata.

Luisella Costamagna.

Malcom Pagani.

Manuela Moreno.

Marco Travaglio.

Mario Sechi.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Massimo Gramellini.

Maurizio Mannoni.

Mia Ceran.

Michele Cucuzza.

Michele Santoro.

Milena Gabanelli.

Myrta Merlino.

Natalia Aspesi.

Nicola Porro.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Flores d'Arcais.

Riccardo Iacona.

Roberto D’Agostino.

Roberto Poletti.

Romana Liuzzo.

Rula Jebreal.

Salvo Sottile.

Selvaggia Lucarelli.

Serena Bortone.

Sigrido Ranucci.

Tancredi Palmeri.

Tiberio Timperi.

Tiziano Crudeli.

Tommaso Cerno.

Valentina Tomirotti.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.

 


 

LA CULTURA ED I MEDIA

NONA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Comandamenti.

Partigiani.

Condannati.

Sputati.

Automatizzati.

Ignoranti.

Viziosi.

I Comandamenti

Papa Francesco Bergoglio attacca la disinformazione: “il primo peccato del giornalismo”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Agosto 2023 

Il Papa ha chiesto un aiuto al mondo del giornalismo in vista del Sinodo dei Vescovi che si svolgerà nel prossimo ottobre a Roma : " oso chiedere aiuto a voi, maestri di giornalismo: aiutatemi a raccontare questo processo per ciò che realmente è, uscendo dalla logica degli slogan e di racconti preconfezionati. No, la realtà”.

Il Papa evidenzia e contesta i danni della disinformazione. “E’ uno dei peccati del giornalismo, che sono quattro: la disinformazione, quando un giornalismo non informa o informa male; la calunnia (a volte si usa questo); la diffamazione, che è diversa dalla calunnia ma distrugge; e il quarto è la coprofilia, cioè l’amore per lo scandalo, per le sporcizie, lo scandalo vende. La disinformazione è il primo dei peccati, degli sbagli – diciamo così – del giornalismo”, ha detto il Santo Padre accogliendo in udienza la delegazione che gli ha conferito il Premio “è Giornalismo”.

”Dovete sapere che io, ancora prima di diventare Vescovo di Roma, ero solito declinare l’offerta di premi. Mai ne ho ricevuti, non volevo. E ho continuato a fare così anche da Papa. C’è però un motivo che mi ha spinto ad accettare il vostro, – ha spiegato Bergoglio – ed è l’urgenza di una comunicazione costruttiva, che favorisca la cultura dell’incontro e non dello scontro; la cultura della pace e non della guerra; la cultura dell’apertura verso l’altro e non del pregiudizio. Voi siete tutti illustri esponenti del giornalismo italiano. Permettetemi, allora, di confidarvi una speranza e anche di rivolgervi con tutta franchezza una richiesta di aiuto. Ma non vi chiedo soldi, state tranquilli! La speranza è questa: che oggi, in un tempo in cui tutti sembrano commentare tutto, anche a prescindere dai fatti e spesso ancora prima di essersi informati, si riscopra e si torni a coltivare sempre più il principio di realtà – la realtà è superiore all’idea, sempre –: la realtà dei fatti, il dinamismo dei fatti; che mai sono immobili e sempre si evolvono, verso il bene o verso il male, per non correre il rischio che la società dell’informazione si trasformi nella società della disinformazione“.

Papa Francesco, ripreso dall’ da Adnkronos, indica la strada: “Per far questo, c’è bisogno di diffondere una cultura dell’incontro, una cultura del dialogo, una cultura dell’ascolto dell’altro e delle sue ragioni. La cultura digitale ci ha portato tante nuove possibilità di scambio, ma rischia anche di trasformare la comunicazione in slogan. No, la comunicazione è sempre andata e ritorno. Io dico, ascolto e rispondo, ma sempre dialogo. Non è uno slogan”.

Il Papa ha chiesto un aiuto al mondo del giornalismo in vista del Sinodo dei Vescovi che si svolgerà nel prossimo ottobre a Roma : “Vogliamo contribuire insieme a costruire la Chiesa dove tutti si sentano a casa, dove nessuno sia escluso. Quella parola del Vangelo che è tanto importante: tutti. Tutti, tutti: non ci sono cattolici di prima, di seconda e di terza classe, no. Tutti insieme. Tutti. È l’invito del Signore. Per questo oso chiedere aiuto a voi, maestri di giornalismo: aiutatemi a raccontare questo processo per ciò che realmente è, uscendo dalla logica degli slogan e di racconti preconfezionati. No, la realtà”. 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO IN OCCASIONE DEL CONFERIMENTO DEL PREMIO “È GIORNALISMO”

Sabato, 26 agosto 2023

Cari amici, benvenuti!

Vi saluto e vi ringrazio per questo incontro e per il conferimento del Premio “è Giornalismo”. Dovete sapere che io, ancora prima di diventare Vescovo di Roma, ero solito declinare l’offerta di premi. Mai ne ho ricevuti, non volevo. E ho continuato a fare così anche da Papa. C’è però un motivo che mi ha spinto ad accettare il vostro, ed è l’urgenza di una comunicazione costruttiva, che favorisca la cultura dell’incontro e non dello scontro; la cultura della pace e non della guerra; la cultura dell’apertura verso l’altro e non del pregiudizio. Voi siete tutti illustri esponenti del giornalismo italiano. Permettetemi, allora, di confidarvi una speranza e anche di rivolgervi con tutta franchezza una richiesta di aiuto. Ma non vi chiedo soldi, state tranquilli!

La speranza è questa: che oggi, in un tempo in cui tutti sembrano commentare tutto, anche a prescindere dai fatti e spesso ancora prima di essersi informati, si riscopra e si torni a coltivare sempre più il principio di realtà – la realtà è superiore all’idea, sempre –: la realtà dei fatti, il dinamismo dei fatti; che mai sono immobili e sempre si evolvono, verso il bene o verso il male, per non correre il rischio che la società dell’informazione si trasformi nella società della disinformazione. La disinformazione è uno dei peccati del giornalismo, che sono quattro: la disinformazione, quando un giornalismo non informa o informa male; la calunnia (a volte si usa questo); la diffamazione, che è diversa dalla calunnia ma distrugge; e il quarto è la coprofilia, cioè l’amore per lo scandalo, per le sporcizie, lo scandalo vende. La disinformazione è il primo dei peccati, degli sbagli – diciamo così – del giornalismo.

Per far questo, però, c’è bisogno di diffondere una cultura dell’incontro, una cultura del dialogo, una cultura dell’ascolto dell’altro e delle sue ragioni. La cultura digitale ci ha portato tante nuove possibilità di scambio, ma rischia anche di trasformare la comunicazione in slogan. No, la comunicazione è sempre andata e ritorno. Io dico, ascolto e rispondo, ma sempre dialogo. Non è uno slogan. Mi preoccupano ad esempio le manipolazioni di chi propaga interessatamente fake news per orientare l’opinione pubblica. Per favore, non cediamo alla logica della contrapposizione, non lasciamoci condizionare dai linguaggi di odio. Nel drammatico frangente che l’Europa sta vivendo, con il protrarsi della guerra in Ucraina, siamo chiamati a un sussulto di responsabilità. La mia speranza è che si dia spazio alle voci di pace, a chi si impegna per porre fine a questo come a tanti altri conflitti, a chi non si arrende alla logica “cainista” della guerra ma continua a credere, nonostante tutto, alla logica della pace, alla logica del dialogo, alla logica della diplomazia.

E ora vengo alla richiesta di aiuto. Proprio in questo tempo, in cui si parla molto e si ascolta poco, e in cui rischia di indebolirsi il senso del bene comune, la Chiesa intera ha intrapreso un cammino per riscoprire la parola insieme. Dobbiamo riscoprire la parola insieme. Camminare insieme. Interrogarsi insieme. Farsi carico insieme di un discernimento comunitario, che per noi è preghiera, come fecero i primi Apostoli: è la sinodalità, che vorremmo far diventare abitudine quotidiana in ogni sua espressione. Proprio a questo scopo, fra poco più di un mese, vescovi e laici di tutto il mondo si riuniranno qui a Roma per un Sinodo sulla sinodalità: ascoltarsi insieme, discernere insieme, pregare insieme. La parola insieme è molto importante. Siamo in una cultura dell’esclusione, che è una specie di capitalismo della comunicazione. Forse la preghiera abituale di questa esclusione è: “Ti ringrazio, Signore, perché non sono come quello, non sono come quello, non sono…”: si escludono. Dobbiamo ringraziare il Signore per tante cose belle!

Capisco benissimo che parlare di “Sinodo sulla sinodalità” può sembrare qualcosa di astruso, autoreferenziale, eccessivamente tecnico, poco interessante per il grande pubblico. Ma ciò che è accaduto nell’anno appena passato, che proseguirà con il momento assembleare del prossimo ottobre e poi con la seconda tappa del Sinodo 2024, è qualcosa di veramente importante per la Chiesa. È un cammino che ha incominciato San Paolo VI, alla fine del Concilio, quando ha creato il Segretariato del Sinodo dei Vescovi, perché si era accorto che nella Chiesa occidentale la sinodalità era venuta meno, invece nella Chiesa orientale hanno questa dimensione. E questo cammino così, di tanti anni – 60 anni – sta dando un frutto grande. Per favore, abituarci ad ascoltarsi, a parlare, a non tagliarsi la testa per una parola. Ascoltare, discutere in modo maturo. Questa è una grazia di cui abbiamo bisogno tutti noi per andare avanti. Ed è qualcosa che la Chiesa oggi offre al mondo, un mondo tante volte così incapace di prendere decisioni, anche quando in gioco è la nostra stessa sopravvivenza. Stiamo cercando di imparare un modo nuovo di vivere le relazioni, ascoltandoci gli uni gli altri per ascoltare e seguire la voce dello Spirito. Abbiamo aperto le nostre porte, abbiamo offerto a tutti la possibilità di partecipare, abbiamo tenuto conto delle esigenze e dei suggerimenti di tutti. Vogliamo contribuire insieme a costruire la Chiesa dove tutti si sentano a casa, dove nessuno sia escluso. Quella parola del Vangelo che è tanto importante: tutti. Tutti, tutti: non ci sono cattolici di prima, di seconda e di terza classe, no. Tutti insieme. Tutti. È l’invito del Signore.

Per questo oso chiedere aiuto a voi, maestri di giornalismo: aiutatemi a raccontare questo processo per ciò che realmente è, uscendo dalla logica degli slogan e di racconti preconfezionati. No, la realtà. Qualcuno diceva: “L’unica verità è la realtà”. Sì, la realtà. Ne trarremo tutti vantaggio e, ne sono certo, anche questo “è giornalismo”!

Cari amici, di nuovo vi dico il mio grazie per questo incontro, per quello che significa in riferimento al nostro comune impegno per la verità e per la pace. Affido tutti voi all’intercessione di Maria e vi raccomando: non dimenticatevi di pregare per me! Redazione CdG 1947

Dagospia il 24 maggio 2023 LO SCIACALLO IN REDAZIONE – IL FIGLIO DI PIERO OTTONE RICORDA LE DIECI REGOLE STILATE DAL PADRE PER ESSERE UN BUON GIORNALISTA. E FRANCESCO MERLO REPLICA CON IL DECALOGO DEL PERFETTO GIORNALISTA “SCIACALLO”: “IMBRUTTIRE IL BRUTTO, AUMENTARE IL NUMERO DELLE VITTIME E CONTARE I DISPERSI COME MORTI. TRASFORMARE L’ALLUVIONE IN UN’ALLUVIONE DI COLPE. FARE IL TITOLO “SI POTEVA EVITARE” E RACCONTARE TUTTE LE ESITAZIONI COME ALLARMI IGNORATI...” (ANCHE A “REPUBBLICA” A QUALCUNO FISCHIERANNO LE ORECCHIE?)

Dietro il giornalismo. I 10 comandamenti di Ottone. E le discussioni con Eco sull’obiettività. Da professionereporter.eu il 29 Luglio 2022  

In un’intervista a Stefano Malatesta su la Repubblica, 25 settembre 1996) Piero Ottone, che aveva diretto Il Corriere della Sera dal 1972 al 1977, dava le dieci regole che, secondo lui, dovrebbero essere alla base del buon giornalismo. Le ha riproposte su Facebook Stefano Mignanego, figlio di Ottone e per molti anni Direttore delle relazioni esterne del Gruppo Espresso.

“In particolare -scrive Mignanego- l’ultima regola, quella sull’obiettività, fu all’epoca motivo di ampio dibattito. Mio padre ne discusse tanto, e a lungo, con Umberto Eco. Mio padre diceva: ‘Si, forse non esiste l’ obiettività assoluta, l’impossibilità di conoscere la cosa in sé, come direbbe un filosofo. Ma se adesso guardi attraverso la finestra verso il mare, ti accorgi che sta piovendo. E questa è una realtà incontrovertibile, non c’ è bisogno di rifarsi a Kant. Quindi bisogna tendere verso questo assoluto, come fanno i giornalisti anglosassoni, e non cercare delle scuse per costruirsi la realtà che più ti fa comodo. Il bravo giornalista deve essere disposto a seguire una serie di regole base, valide per tutti: citazione rigorosa delle fonti, separazione tra notizia e commento, descrizione dei vari punti di vista sullo stesso argomento. L’informazione libera e obiettiva costituisce il contributo della stampa affinché la società italiana… migliori il sistema democratico. Nulla è più benefico della verità, anche se amara… Il giornale deve essere creduto da tutti, quali che siano i colori politici di chi lo legge. Purtroppo il giornalismo in Italia si è assunto il compito di convincere, di influenzare, di educare il pubblico. È proprio questo equivoco che ha rovinato i giornali italiani’”.

Ricorda Mignanego: “Umberto Eco, invece, nel ‘69 scriveva sull’Espresso che l’obiettività è un ‘mito’, ‘una manifestazione di falsa coscienza, una ideologia’. In seguito, però, ammise che le poteva essere riconosciuta una sua validità sul piano empirico: ‘Il limite alto dell’obiettività è irraggiungibile perché non può mai esserci una corrispondenza assoluta fra evento e resoconto giornalistico, il limite basso dell’obiettività consiste nel separare notizia e commento; nel dare almeno quelle notizie che circolano via agenzia; nel chiarire se su una notizia vi sono valutazioni contrastanti; nel non cestinare le notizie che appaiono scomode; nell’ospitare sul giornale, almeno per i fatti più vistosi, commenti che non concordano con la linea del giornale; nell’avere il coraggio di appaiare due commenti antitetici per dare la temperatura di una controversia…’. Una volta riconosciuto all’obiettività un ruolo centrale nella pratica giornalistica, Eco propose anche una precisazione di cosa voglia dire informazione obiettiva: ‘Le regole dell’obiettività giornalistica sono almeno tre: la separazione del fatto dall’opinione personale; un rapporto bilanciato dell’eventuale dibattito in corso; la convalida delle affermazioni giornalistiche attraverso fonti attendibili ed autorevoli’”.

Ed ecco i dieci comandamenti della stampa, secondo Piero Ottone.

1) Scrivi sempre la verità, tutta la verità, solo la verità;

2) Cita le fonti. Se la tua fonte vuole restare anonima, diffida;

3) Verifica quel che ti dicono. Se non puoi verificare, prendi le distanze;

4) Non diffamare il prossimo, ed evita frasi tipo: “Sembra che quel tale abbia rubato…, si dice che il tal altro abbia ammazzato..

5) Non obbligare il lettore a leggere una colonna di roba prima che cominci a capire cosa è successo;

6) Non fare lunghe citazioni tra virgolette all’inizio di un pezzo senza rivelare subito chi sia il suo autore (il metodo non crea suspense, come forse crede il giornalista: dà solo fastidio);

7) Non mettere mai tra virgolette, nei titoli, frasi diverse da quelle che sono state pronunciate;

8) Evita le iperboli e le metafore come bufera (“il partito è nella bufera”‘), giallo (“il giallo di Ustica”), rissa (“ed è subito rissa tra x e y), fulmine a ciel sereno, scoppiato come un bomba;

9) Prima di scrivere nel titolo che Londra è nel panico, va’ a Londra e controlla se otto milioni di persone sono davvero uscite di testa;

10) Non dire mai: “L’obiettività non esiste”. E’ l’alibi di chi vuole raccontare palle.

Da “Posta e risposta – la Repubblica” il 24 maggio 2023.

Caro Francesco, sabato nella tua posta ho trovato quel bel riferimento a Hemingway, e mi sono venute in mente le regole che mio padre, Piero Ottone, seguiva, e voleva far seguire, per fare buon giornalismo. 

Ti allego i suoi 10 comandamenti.

1) Scrivi sempre la verità, tutta la verità, solo la verità. 

2) Cita le fonti. Se la tua fonte vuole restare anonima, diffida. 

3) Verifica quel che ti dicono. Se non puoi verificare, prendi le distanze. 

4) Non diffamare il prossimo, ed evita frasi tipo: “sembra che quel tale, si dice che il tal altro.” 

5) Non obbligare il lettore a leggere una colonna di roba prima che cominci a capire cosa è successo.

6) Non fare lunghe citazioni tra virgolette all’inizio di un pezzo senza rivelare subito chi sia il suo autore (il metodo non crea suspense: dà solo fastidio). 

7) Non mettere mai tra virgolette, nei titoli, frasi diverse da quelle che sono state pronunciate. 

8) Evita iperboli e metafore come bufera (“il partito è nella bufera”), giallo (“il giallo di Ustica”), fulmine a ciel sereno, scoppiato come un bomba.

9) Prima di scrivere nel titolo che Londra è nel panico, va a Londra e controlla se otto milioni di persone sono davvero uscite di testa. 

10) Non dire mai: “L’obiettività non esiste”. È l’alibi di chi vuole raccontare palle. (Piero Ottone, la Repubblica ,25 settembre 1996)

Stefano Mignanego 

Risposta di Francesco Merlo:

Ecco, invece, nelle sciagure, i dieci comandamenti dello sciacallo: 

1) Imbruttire il brutto.

2) Aumentare il numero delle vittime e contare i dispersi come morti.

3) Trasformare l’alluvione in un’alluvione di colpe. 

4) Fare il titolo “Si poteva evitare” e raccontare tutte le esitazioni come allarmi ignorati.

5) I competenti sono sempre sprovveduti.

6) La Protezione civile è sempre lenta e impreparata a tutto.

7) Individuare, tra i colpevoli a prescindere, pochissimi “eroi”, meglio se vecchi o giovanissimi.

8) Chiedere ai superstiti come si sentono e consolarli promettendo che i politici pagheranno e “niente resterà impunito”.

9) Accarezzare la testa del bimbo e poi anche quella della madre che sorride mentre stringe le mani guantate degli “angeli del fango”.

10) Dire che questa è la fine del mondo e nulla sarà più come prima, “nemmeno noi che abbiamo visto e raccontato”.

Perché L’Indipendente a volte pubblica le notizie in ritardo.  Andrea Legni – direttore de L’Indipendente - su L'Indipendente il 24 Maggio 2023

Il buon giornalismo, per essere praticato, richiede tempo. Tempo per comprendere una notizia e approfondirla. Tempo per capire se un certo fatto è realmente accaduto, per separare il vero dal falso, per capire se dietro la superfice della notizia c’è altro. Tempo per mettere insieme i pezzi e renderli al lettore in un articolo capace di fare chiarezza sull’accadimento e sul suo contesto, cercando di assolvere al ruolo di spiegare in parole chiare e comprensibili a tutti anche le dinamiche più complesse del mondo in cui viviamo. Il buon giornalismo è, in pratica, il contrario di quello si legge spesso sui principali giornali, pieni di contenuti scritti di fretta e all’affannosa ricerca di titoli e contenuti sensazionalistici per produrre maggiori volumi di traffico e, quindi, introiti pubblicitari.

Quello in cui viviamo è un tempo che si muove al ritmo di un consumo frenetico: di prodotti, ma anche di informazioni. Districarsi nella complessità di questo sistema, fatto di milioni di input disponibili alla velocità di un click su migliaia di piattaforme, non è semplice. Spesso, per comodità o per mancanza di tempo, gli utenti nemmeno si soffermano a leggere la notizia, ma si informano fagocitando un titolo dietro l’altro sui social. I mezzi di informazione sono pienamente consci di queste dinamiche. Così, nella corsa per pubblicare una notizia prima della concorrenza, si perde per strada un criterio fondamentale: la verifica dei fatti. Numerose testate importanti, consultate ogni giorno da milioni di italiani, finiscono così con il pubblicare – talvolta coscientemente, altre per sola fretta e mancanza di deontologia – bufale totali e contenuti fuorvianti. E se questa affermazione vi suona eccessiva, andate a consultare la nostra rubrica Anti Fakenews, una sorta di galleria degli orrori aggiornata ogni settimana con le bufale pubblicate sul mainstream.

Facciamo solo un esempio. Il 15 novembre scorso, un missile vagante è caduto in territorio polacco, abbattendo una fattoria e uccidendo due persone. La prima agenzia a lanciare la notizia è Associated Press, dopo che uno dei suoi giornalisti ha dichiarato di aver avuto conferma da una sua fonte – ritenuta autorevole – del fatto che il missile fosse russo. Il fatto rimbalza su quasi tutti i principali quotidiani, i quali cavalcano l’entusiasmo una notizia che si presta perfettamente alla propaganda atlantista che hanno scelto di portare avanti, alimentando il panico in milioni di persone e potenzialmente esacerbando le tensioni geopolitiche. Basteranno pochissime ore per arrivare alla conclusione che, con tutta probabilità, il missile era ucraino. 

L’episodio descritto costituisce un esempio di un fatto di gravità estrema, perché riguardante un conflitto che ha assunto fin da subito una portata globale. Naturalmente anche dentro la redazione de L’Indipendente avevamo visto il lancio dell’Associated Press. Ma anziché correre a pubblicare la notizia, ci siamo messi al lavoro per capirne di più. E così, mentre quasi tutti i grandi giornali italiani uscivano – puntualissimi ed in contemporanea – con una bufala che faceva credere ai loro malcapitati lettori di trovarsi sull’orlo di una guerra mondiale per l’attacco russo ad un Paese della NATO, noi abbiamo potuto tenere al riparo i nostri lettori dal leggere una notizia falsa.

Fin da quando L’Indipendente è stato fondato ci siamo dati un obiettivo sopra a tutti gli altri: diventare un porto sicuro per chi cerca un giornalismo coraggioso e scomodo – certo – ma soprattutto ancorato ai fatti. Un giornale al riparo dalle falsità e dalla propaganda. Per questo, talvolta, L’Indipendente pubblica le notizie un po’ in ritardo: perché non partecipiamo a nessuna corsa di velocità e abbiamo il solo obiettivo di dare notizie corrette. Come possiamo farlo? Semplice: rinunciando ad ospitare sul nostro sito ogni tipo di pubblicità. È la corsa ai click che generano introiti pubblicitari a portare i media a sacrificare la precisione e la verifica delle fonti a discapito della velocità. Più si punta sulla quantità e sui titoli strillati più lettori si ottengono: più lettori si hanno, più soldi si guadagnano con gli spazi pubblicitari. Questo è il meccanismo perverso che domina la gran parte dei giornali. Una dinamica nociva alla quale ci possiamo sottrarre, perché il nostro sostegno finanziario deriva al 100% dagli abbonamenti dei lettori.

Quindi la prossima volta che leggerete un articolo in ritardo su L‘Indipendente ricordatevi di queste righe: non è che siamo distratti, è che verifichiamo le fonti. Almeno noi.

Partigiani.

Antonio Giangrande: I giornalisti di sinistra: voce della verità? L’Espresso e l’ossessione per Silvio Berlusconi.

«Quando la disinformazione è l’oppio dei popoli, che li rincoglionisce. I giornalisti corrotti ed incapaci ti riempiono la mente di merda. Anziché essere testimoni veritieri del loro tempo, si concentrano ad influenzare l’elettorato manovrati dal potere giudiziario, astio ad ogni riforma che li possa coinvolgere e che obbliga i pennivendoli a tacere le malefatte delle toghe, non solo politicizzate», così opina Antonio Giangrande, sociologo storico ed autore di tantissimi saggi, tra cui “Governopoli”, “Mediopoli” ed “Impunitopoli”.

Il declino di un’era. 20 anni di niente. Silvio Berlusconi: ossessione dei giornalisti di destra, nel difenderlo, e di sinistra, nell’attaccarlo.

1977: quell'articolo premonitore di Camilla Cederna su Silvio Berlusconi. Uno splendido pezzo di una grande firma de "L'Espresso". Che aveva già capito tutto dell'ex Cavaliere, agli albori della sua ascesa.

1977: Berlusconi e la pistola. Il fotografo Alberto Roveri decide di trasferire il suo archivio in formato digitale. E riscopre così i ritratti del primo servizio sul Cavaliere. Immagini inedite che raccontano l'anno in cui è nato il suo progetto mediatico. Con al fianco Dell'Utri. E un revolver sul tavolo per difendersi dai rapimenti, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”.

Il Caimano in prima pagina: vent'anni di copertine dell'Espresso. Sono 88. La prima, il 5 ottobre del 1993. L'ultima, ma non ultima, il 25 novembre 2013. Ecco come l'Espresso ha sbattuto il Cavaliere in prima pagina.

5 ottobre 1993. Berlusconi a destra. Nuove Rivelazioni: QUI MI FANNO NERO! Dietro la svolta: Le ossessioni, la megalomania, la crisi Fininvest….

17 ottobre 1993. Esclusivo. I piani Fininvest per evitare il crac. A ME I SOLDI! Rischio Berlusconi. Rivelazioni. Il debutto in politica e l’accordo con segni. A ME I VOTI!

21 novembre 1993. Elezioni. Esclusivo: tutti gli uomini del partito di Berlusconi. L’ACCHIAPPAVOTI.

7 gennaio 1994. BERLUSCONI: LE VERITA’ CHE NESSUNO DICE. Perché entra in politica? Forse per risolvere i guai delle sue aziende? Che senso ha definirlo imprenditore di successo? Quali sono i suoi rapporti oggi con Craxi? Cosa combina se si impadronisse del Governo? Quali banchieri lo vedono già a Palazzo Chigi? Esistono cosi occulti nella Fininvest? Chi sono? Insomma: questo partito-azienda è una barzelletta o una cosa seria?

4 marzo 1994. Speciale elezioni. CENTO NOMI DA NON VOTARE. Dossier su: buoni a nulla, dinosauri, inquisiti, riciclati, voltagabbana.

11 marzo 1994. DIECI BUONE RAGIONI PER NON FIDARSI DI BERLUSCONI. Documenti esclusivi da: commissione P2, magistratura milanese, Corte costituzionale.

29 luglio 1994. Troppe guerre inutili. Troppi giochetti d’azzardo. Troppe promesse a vuoto. Troppo disprezzo degli altri. Troppe docce fredde per lira e borsa….LA FANTASTICA CANTONATA DEGLI ITALIANI CHE SI SONO FIDATI DI BERLUSCONI.

26 agosto 1994. Tema del giorno. Atroce dubbio su Berlusconi: ci sa fare o è un…ASINO?

18 novembre 1994. Dossier Arcore: LA REGGIA. Storia di un Cavaliere furbo, di un avvocato, di un’ereditiera. Dossier alluvione. LA PALUDE. Storia di un governo ottimista e di una catastrofe.

14 aprile 1995. L’incubo di pasqua. Ma davvero la destra vince? VENDETTA!

9 giugno 1995. L’AFFARE PUBBLITALIA. Tre documenti eccezionali. 1. Dell’Utri. Viaggio tra i fondi neri. Della società che voleva conquistare un paese. 2. Berlusconi. Le prove in mano ai giudici: dal caso Berruti alla pista estera. 3. Letta. I verbali dei summit di Arcore. Con i big di giornali e televisioni Fininvest.

10 settembre 1995. Case d’oro/ esclusivo. L’ALTRA FACCIA DELLO SCANDALO. Rapporto sui raccomandati di sinistra. Rivelazioni: manovre ed imbrogli della destra.

17 settembre 1995. L’ALTRA FACCIA DI AFFITTOPOLI/NUOVE RIVELAZIONI. 745.888.800.000! Come, dove e quanto hanno incassato i fratelli Berlusconi rifilando palazzi e capannoni agli enti previdenziali.

25 ottobre 1995. SHOWMAN. Berlusconi ultimo grido. L’attacco a Dini e Scalfaro: astuzie, bugie, sceneggiate.

2 febbraio 1996. L’uomo dell’inciucio. Segreti, imbrogli, stramberie, pericoli…. SAN SILVIO VERGINE.

5 aprile 1996. Dall’album di Stefania Ariosto: festa con il cavaliere. C’ERAVAMO TANTO AMATI. Nuove strepitose foto/La dolce vita di Berlusconi & C. Caso Squillante/Tutto sui pedinamenti. E sui gioielli Fininvest. Se vince il Polo delle Vanità/Poveri soldi nostri…

24 ottobre 1996. D’Alema e Berlusconi: il nuovo compromesso. Origini, retroscena, pericoli. DALEMONI.

18 dicembre 1996. FORZA BUFALE. Rivelazioni. Chi e come alimenta la campagna contro Di Pietro. Qual è la fabbrica delle false notizie agghiaccianti sul Pool Mani Pulite. Che cosa fa acqua nei rapporti della Guardia di Finanza. I segreti dell’agenda di Pacini Battaglia. Le grandi manovre per l’impunità. E il ritorno di fiamma dell’amnistia….C’è in Italia un partito antigiudici. Ha capi, quadri, ha compagni di strada. Per vincere deve spararle sempre più grosse. Inchiesta su un malessere che non passa. E che nessuna riforma risolve.

3 maggio 1996. THE END.

10 aprile 1997. ALBANIA SHOW. Speciale/tragedie e polemiche, sceneggiate e pericoli.

3 agosto 2000. Esclusivo. Un rapporto dei tecnici della Banca d’Italia. COSI’ HA FATTO I SOLDI BERLUSCONI.

22 marzo 2001. LA CARICA DEI 121. Fedelissimi, folgorati e riciclati. Con loro Berlusconi vorrebbe governare l’Italia.

16 maggio 2001. L’AFFONDO. Berlusconi si gioca il tutto per tutto. Ma la partita è ancora aperta. Le urne diranno se sarà alba o tramonto.

24 magio 2001. E ORA MI CONSENTA. L’Italia alle prese con il Cavaliere pigliatutto.

19 dicembre 2001. GIUSTIZIA FAI DA ME. Sondaggio choc: i giudici, gli italiani e Berlusconi.

7 febbraio 2002. L’importante è separare la carriera degli imputati da quella dei giudici. L’ILLUSIONE DI MANI PULITE.

15 maggio 2003. COMPARI. Negli affari, nella politica, nei processi. Berlusconi e Previti pronti a tutto. A riscrivere le leggi e a sconvolgere le istituzioni.

11 settembre 2003. Esclusivo. GLI ZAR DELLA COSTA SMERALDA. Le foto segrete dell’incontro Berlusconi-Putin.

29 gennaio 2004. RISILVIO. Vuole rifare il governo, rifondare Forza Italia, riformare lo Stato. E per cominciare si è rifatto.

13 maggio 2004. LE 1000 BUGIE DI BERLUSCONI. Il suo governo ha stabilito il record di durata. E anche quello delle promesse non mantenute. Ecco il bilancio.

24 giugno 2004. – 4.000.000. Ha perso voti e credibilità. Ora gli alleati gli presentano il conto. L’estate torrida del cavalier Silvio Berlusconi.

3 marzo 2005. AFFARI SUOI. Società e fiduciarie nei paradisi fiscali. Falsi in bilancio. Così Silvio Berlusconi dirottava i proventi del gruppo Mediaset sui diritti Tv.

7 aprile 2005. RISCHIATUTTO. Il voto delle regionali segnerà il destino dei duellanti. Romano Prodi e Silvio Berlusconi? Ecco che cosa ci aspetta dopo il verdetto delle urne.

21 aprile 2005. FARE A MENO DI BERLUSCONI. L’ennesima sconfitta ha chiuso un ciclo. Gli alleati del Cavaliere pensano al dopo. E a chi potrà prendere il suo posto.

2 febbraio 2006. PSYCHO SILVIO. Impaurito dai sondaggi tenta di rinviare la campagna elettorale. Occupa radio e tv. Promuove gli amici nei ministeri. Distribuisce una pioggia di finanziamenti clientelari. Così Berlusconi le prova tutte per evitare la sconfitta.

6 aprile 2006. DECIDONO GLI INDECISI. Identikit degli italiani che ancora non hanno scelto. Ma che determineranno l’esito del voto del 9 aprile.

9 novembre 2006. LA CASA DEI DOSSIER. Da Telecom-Serbia alle incursioni informatiche. Ecco il filo che lega le trame degli ultimi anni. Con un obbiettivo: delegittimare Prodi e la sinistra.

29 novembre 2007. Retroscena. VOLPE SILVIO. Il piano segreto di Berlusconi per far cadere Prodi e tornare al Governo. Fini e Casini azzerati. L’Unione sorpresa. Ma Veltroni è tranquillo. Non mi fanno paura.

24 aprile 2008. Elezioni. L’ITALIA DI B&B. Il ciclone Berlusconi. Il trionfo di Bossi. Lo scacco a Veltroni. E l’apocalisse della sinistra radicale rimasta fuori dal Parlamento.

15 maggio 2008. Inchiesta. LA MARCIA SU NAPOLI. Silvio Berlusconi arriva in città con il nuovo governo. Per liberarla dai rifiuti ma anche per spazzare via la sinistra da Comune e Regione.

25 giugno 2008. DOPPIO GIOCO. Si propone come statista. Aperto al dialogo. Ma poi Berlusconi vuole fermare i suoi processi. Ricusa i giudici. Vieta le intercettazioni. Manda l’esercito nelle città. Ed è solo l’inizio.

3 luglio 2008. Esclusivo. PRONTO RAI. Raccomandazioni. Pressioni politiche. Affari. Le telefonate di Berlusconi, Saccà, Confalonieri, Moratti, Letta, Landolfi, Urbani, Minoli, Bordon, Barbareschi, Costanzo….

19 febbraio 2009. Berlusconi. L’ORGIA DEL POTERE. L’attacco al Quirinale e alla Costituzione. Il caso Englaro. La giustizia. Gli immigrati. L’offensiva a tutto campo del premier.

19 marzo 2009. Inchiesta. PIER6SILVIO SPOT. Le reti Mediaset perdono ascolto. Ma fanno il pieno di pubblicità a scapito della Rai. Da quando Berlusconi è tornato al governo, i grandi inserzionisti hanno aumentato gli investimenti sulle tivù del cavaliere.

14 maggio 2009. SCACCO AL RE. Il divorzio chiesto da Veronica Lario a Berlusconi. Tutte le donne e gli amori del Cavaliere. La contesa sull’eredità. Le possibili conseguenze sulla politica.

11 giugno 2009. SILVIO CIRCUS. Per l’Italia la fiction: tra promesse fasulle e clamorose assenze come nel caso Fiat-Opel. Per sé il reality: le feste in villa e i voli di Stato per gli amici.

17 giugno 2009. Governo. ORA GUIDO IO. Umberto Bossi è il vero vincitore delle elezioni. E già mette sotto ricatto Berlusconi e la maggioranza. Nell’opposizione Di Pietro si prepara a contendere la leadership al PD, reduce da una pesante sconfitta.

25 giugno 2009. ESTATE DA PAPI. Esclusivo. Le foto di un gruppo di ragazze all’arrivo a Villa Certosa. Agosto 2008.

9 luglio 2009. Il vertice dell’Aquila. G7 E MEZZO. Berlusconi screditato dalle inchieste e dagli scandali cerca di rifarsi l’immagine. Con la passerella dei leader della terra sulle macerie. L’attesa per un summit che conferma la sua inutilità.

16 luglio 2009. SILVIO SI STAMPI. Tenta di intimidire e limitare la libertà dei giornalisti. Ma Napolitano stoppa la legge bavaglio. E i giornali stranieri non gli danno tregua. Umberto eco: “E’ a rischio la democrazia”.

23 luglio 2009. TELESFIDA. Tra Berlusconi e Murdoch è il corso una contesa senza esclusione di colpi. Per il predominio nella Tv del futuro. Ecco cosa succederà e chi vincerà.

30 luglio 2009. Esclusivo. SEX AND THE SILVIO. Tutte le bugie di Berlusconi smascherate dai nastri di Patrizia D’Addario. Notti insonni, giochi erotici, promesse mancate, E ora la politica si interroga: può ancora governare il paese?

12 agosto 2009. Governo. SILVIO: BOCCIATO. Bugie ed escort. Conflitti con il Quirinale. Assalti al CSM. Debito Pubblico. Decreti di urgenza. Soldi al Sud. Clandestini e badanti. Bilancio del premier Berlusconi. E, ministro per ministro, a ciascuno la sua pagella.

3 settembre 2009. DOPPIO GIOCO. Montagne di armi per le guerre africane. Vendute da trafficanti italiani a suon di tangenti. Ecco la Libia di Gheddafi cui Berlusconi renderà omaggio. Mentre l’Europa chiede di conoscere il patto anti immigrati.

10 settembre 2009. SE QUESTO E’ UN PREMIER. Si scontra con la chiesa. Litiga con l’Europa. Denuncia i giornali italiani e stranieri non allineati. E, non contento, vuol metter le mani su Rai 3 e La7.

1 ottobre 2009. GHEDINI MI ROVINI. Oggi è il consigliere più ascoltato del premier. Autore di leggi ad personam e di gaffe memorabili. Storia dell’onorevole-avvocato, dai camerati al lodo Alfano.

8 ottobre 2009. SUA LIBERTA’ DI STAMPA. Attacchi ai giornali. Querele. Bavaglio alle trasmissioni scomode della tv. Così Berlusconi vuole il controllo totale dell’informazione.

15 ottobre 2009. KO LODO. La Consulta boccia l’immunità, Berlusconi torna imputato. E rischia un’ondata di nuove accuse. Ma la sua maggioranza si rivolge alla piazza. E apre una fase di grande tensione istituzionale.

19 novembre 2009. LA LEGGE DI SILVIO. Impunità: è l’obbiettivo di Berlusconi. Con misure che annullano migliaia di processi. E con il ripristino dell’immunità parlamentare. Mentre Cosentino resta al governo dopo la richiesta di arresto.

16 dicembre 2009. SCADUTO. I rapporti con i clan mafiosi. Lo scontro con Fini. I guai con la moglie Veronica e con le escort. L’impero conteso con i figli. L’anno orribile di Silvio Berlusconi.

21 gennaio 2010. Palazzo Chigi. SILVIO QUANTO CI COSTI. 4.500 dipendenti. Spese fuori controllo per oltre 4 miliardi di euro l’anno. Sono i conti della Presidenza del Consiglio. Tra sprechi, consulenze ed eventi mediatici.

4 marzo 2010. UN G8 DA 500 MILIONI DI EURO. Quanto ci è costato il vertice tra la Maddalena e l’Aquila. Ecco il rendiconto voce per voce, tra sprechi e raccomandazioni: dal buffet d’oro ai posacenere, dalle bandierine ai cd celebrativi.

18 marzo 2010. SENZA REGOLE. Disprezzo della legalità. Conflitti con il Quirinale. Attacchi ai magistrati e all’opposizione. Scandali. E ora per la sfida elettorale Berlusconi mobilita la piazza. Con il risultato di portare il paese nel caos.

31 marzo 2010. STOP A SILVIO. Le elezioni regionali possono fermare la deriva populista di Berlusconi. Bersani: “Pronti al dialogo con chi, anche a destra, vuole cambiare”.

13 maggio 2010. IL CASINO DELLE LIBERTA’. Le inchieste giudiziarie. Gli scontri interni al partito. La paralisi del Governo. Dopo le dimissioni di Scajola, Berlusconi nella bufera.

27 maggio 2010. STANGATA DOPPIA. Prima il blocco degli stipendi degli statali, i tagli sulla sanità, la caccia agli evasori e un nuovo condono. Poi la scure sulle pensioni e un ritorno alla tassa sulla casa.

8 luglio 2010. I DOLORI DEL VECCHIO SILVIO. La condanna di Dell’Utri per mafia e il caso Brancher. La rivolta delle Regioni contro i tagli e l’immobilismo del governo. Le faide nel Pdl e i sospetti della Lega. Il Cavaliere alla deriva.

15 luglio 2010. SENZA PAROLE.

11 novembre 2010. BASTA CON ‘STO BUNGA BUNGA. BASTA LO DICO IO.

18 novembre 2010. QUI CROLLA TUTTO. Le macerie di Pompei. L’alluvione annunciata in Veneto. L’agonia della maggioranza. L’economia in panne. Per non dire di escort e bunga bunga. Fotografia di un paese da ricostruire.

16 dicembre 2010. La resa dei conti tra Berlusconi e Fini è all’atto finale. Chi perde rischia di uscire di scena. FUORI UNO.

22 dicembre 2010. FINALE DI PARTITA. Voti comprati. Tradimenti. Regalie…Berlusconi evita a stento la sfiducia, ma ora è senza maggioranza e deve ricominciare daccapo. Anche se resisterà, una stagione s’è chiusa. Eccola, in 40 pagine, di foto e ricordi d’autore.

27 gennaio 2011. ARCORE BY NIGHT. Un harem di giovanissime ragazze pronte a tutto. Festini, orge, esibizioni erotiche, sesso. L’incredibile spaccato delle serate di Berlusconi nelle sue ville. Tra ricatti e relazioni pericolose.

10 febbraio 2011. PRETTY MINETTI. Vita di Nicole, ragazza chiave dello scandalo Ruby. Intima di Berlusconi, sa tutto sul suo harem. Se ora parlasse.

26 maggio 2011. MADUNINA CHE BOTTA! Milano gli volta le spalle, Bossi è una mina vagante, il PDL spaccato già pensa al dopo. Stavolta Berlusconi ha perso davvero. Analisi di una disfatta. Che, Moratti o non Moratti, peserà anche sul governo.

21 giugno 2011. Esclusivo. VOI QUORUM IO PAPI. Domenica 12 giugno l’Italia cambia, lui no. Domenica 12 giugno l’Italia corre a votare, lui a villa Certosa a occuparsi d’altro. In queste foto, la wonderland del cavaliere. Lontana anni luce dal paese reale.

7 luglio 2011. Sprechi di Stato. IO VOLO BLU MA PAGHI TU. Il governo brucia centinaia di milioni per i suoi viaggi. E Berlusconi si regala due super elicotteri. A spese nostre.

21 luglio 2011. MISTER CRACK. La tempesta economica. La borsa in bilico. La paura del default. E un premier sempre isolato. Il varo della manovra è solo una tregua. Prima della resa dei conti. E spunta l’ipotesi di un governo guidato da Mario Monti.

25 agosto 2011. LACRIME E SANGUE. Diceva: meno tasse per tutti. Ma la pressione fiscale non è mai stata così alta. Chiamava Dracula gli altri. Ma ora è lui a mordere i soliti. Processo all’iniqua manovra d’agosto. Che ci cambia la vita e non tocca gli evasori.

15 settembre 2011. E SILVIO SI TAGLIO’ 300 MILIONI DI TASSE. Il Premier impone il rigore agli italiani. Ma gli atti sulla P3 svelano le trame per evitare la causa fiscale sulla Mondadori. Dal presidente della Cassazione al sottosegretario Caliendo, ecco chi si è mosso per salvarlo dalla maximulta.

29 settembre 2011. SERIE B.

13 ottobre 2011. SQUALIFICATO. Condannato dalla Chiesa, mollato dagli imprenditori, bocciato dalle agenzie di rating. E’ l’agonia di un leader né serio né credibile che non si decide a lasciare. Denuncia Romano Prodi a “L’Espresso”: Qualsiasi governo sarebbe meglio del suo.

17 novembre 2011. THE END. Berlusconi tenterà di sopravvivere, ma ha dovuto prendere atto della fine del suo governo. Intanto la crisi economica si fa sempre più drammatica e la credibilità dell’Italia è ridotta a zero. Non c’è più tempo da perdere.

19 gennaio 2012. I GATTOPARDI. Crescita, liberalizzazioni, lotta all’evasione e alla casta…Monti è atteso alla prova più dura. Ma i partiti frenano. Come se avessero voluto cambiare tutto per non cambiare niente.

5 luglio 2012. RIECCOLO. Attacco euro e Merkel. Destabilizza il governo Monti. Blocca la Rai. E rivendica la leadership del suo partito. Così Berlusconi prova ancora una volta a farsi largo.

14 febbraio 2013. VI AFFONDO IO. Pur di risalire al china Silvio Berlusconi sfascia tutto accende la campagna elettorale con promesse da marinaio e terrorizza i mercati. Davvero può farcela? Chi lo fermerà? E come dovrebbe reagire il PD? L’Espresso lo ha chiesto a due guru.

19 settembre 2013. BOIA CHI MOLLA. Accettare il silenzio la decadenza o l’interdizione. O fare un passo indietro prima del voto. Berlusconi ha pronta una via d’uscita. Per restare il capo della destra.

29 novembre 2013. EXTRA PARLAMENTARE. Per Berlusconi si chiude un ventennio e comincia lo scontro finale: fuori dal Senato e in piazza, dalle larghe intese all’opposizione dura. Contro il governo, contro Napolitano, contro l’Europa…..

"Report", tribunale rosso a senso unico. Salvini ultimo bersaglio del programma Rai. Mai una puntata dedicata ai guai di esponenti Pd. Paolo Bracalini il 28 Novembre 2023 su Il Giornale.

Una puntata su Salvini, una su Gasparri, una su Urso (con repliche), una su La Russa e famiglia, più di una sulla Santanchè, una su Brugnaro sindaco (di centrodestra) a Venezia, una sull'assessore della giunta regionale (di centrodestra) in Sicilia, una su Zaia, una pure su Silvio Berlusconi, anche se non c'è più. Report indaga «con inchieste e approfondimenti su politica, economia e società», recita la Rai, ma sulla politica sembra avere una passione particolare per gli esponenti del centrodestra. Le uniche inchieste su leader di sinistra sono state quelle su Matteo Renzi, che però a sinistra è considerato di destra, quindi non va calcolato. E su Roberto Speranza, per la gestione della pandemia, ma insieme ai vertici della Regione Lombardia (centrodestra). Briciole in confronto alle attenzioni dedicate a Lega, Fi e Fdi. Un esponente Pd può accendere serenamente su RaiTre senza temere sorprese, per il centrodestra invece è l'appuntamento domenicale con il tribunale, il giorno in pretura firmato Sigfrido Ranucci, il conduttore wagneriano del programma creato da Milena Gabanelli.

Malgrado il costante stato di allarme da censura di regime, i vertici della Rai «meloniana» non hanno mai messo in forse Report, riconfermato senza dubbi per la stagione e in palinsesto fino a maggio. «Il giornalismo d'inchiesta è nel contratto di servizio della Rai» fanno notare da Viale Mazzini, nel senso che è parte integrante della mission aziendale rispetto al suo azionista pubblico, per cui il programma - insieme ad altri format Rai di inchiesta - resterà finché Ranucci non deciderà di imitare altri protomartiri della sinistra televisiva che hanno traslocato, di loro iniziativa, su altre reti. Neppure dalle file del centrodestra è mai arrivata la richiesta di rimuovere o cancellare il programma (Salvini, dopo la puntata di ieri sulle presunte sciagure legate al Ponte sullo Stretto, si limita alla battuta: «Con tutto rispetto per Report, guardo altro in televisione»). In commissione di Vigilanza, dove è stato convocato Ranucci insieme al responsabile dell'Approfondimento Rai, Paolo Corsini, il programma di RaiTre è però stato accusato di fare un «giornalismo di teorema, con «attacchi politici di matrice ideologica», e un «particolare accanimento nell'ultimo anno», cioè da quando governa la Meloni. L'elenco dei politici di centrodestra attenzionati da Report sembra confermare l'attenzione speciale.

Sotto accusa anche i metodi disinvolti del programma, con le panzane di Baiardo riilanciate e le bufale sui testamenti colombiani del Cavaliere (in onda durante le suppletive a Monza), l'uso di intercettazioni e «pentiti» inquadrati di spalle per raccontare inconfessabili segreti del centrodestra. Nel metodo di lavoro di Ranucci c'è anche il rapporto con i servizi segreti. L'ex 007 Marco Mancini, finito in una puntata di Report per un incontro all'autogrill di Fiano Romano con Matteo Renzi, ha svelato che la soffiata a Ranucci non è arrivata da una oscura prof di Viterbo che passava di lì, ma da una telefonata dall'utenza di Carlo Parolisi, ex dirigente del Sisde. La stessa fonte usata da Report, con voce camuffata, per riconoscere in Mancini l'interlocutore di Renzi in quelle immagini. Una vicenda piena di zone oscure. Le inchieste di Report non toccano l'opposizione, che anzi le cavalca per attaccare la maggioranza, il M5s chiede «chiarimenti» a Salvini sul Ponte, la sinistra interpella la giunta delle elezioni sulla «compatibilità» del senatore Gasparri. Inchieste senza «valutazioni ideologiche», ma finora a senso unico.

DAGOSPIA il 16 maggio 2023. FLASH – A CIASCUNO LA SUA REALTA': "REPUBBLICA" E "CORRIERE" RIESCONO A DARE DUE LETTURE OPPOSTE SULL'ESITO DELLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE - PER IL QUOTIDIANO DIRETTO DA MOLINARI "L'ONDA DI DESTRA SI E' FERMATA", PER IL GIORNALE DI URBANETTO CAIRO "IL CENTRODESTRA E' AVANTI NELLE CITTA'". COSA DEVE FARE UN POVERO LETTORE PER CAPIRE COME E' ANDATA?

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” l'1 giugno 2023.

Abbiamo sempre tifato per Schlein […] ma un vero amico quando l’altro sbaglia glielo dice […] Ora che ha perso le Comunali, cioè le elezioni più propizie al Pd, ci sta ancora più simpatica. Anche perché i giornaloni che per tre mesi l’avevano pompata come un incrocio fra Dolores Ibarruri, Indira Gandhi e Golda Meir, ora che ha seguito tutti i loro consigli gridando al fascismo, difendendo il fazismo, sposando il bellicismo e nascondendo il tutto con supercazzole da assemblea studentesca, già la scaricano col classico calcio dell’asino.

Il Corriere celebrava “I magnifici 5 della squadra Schlein” […] Rep strombazzava “Schlein e la community: il manifesto del nuovo Pd”, “Schlein conquista il congresso Cgil”, “Effetto Schlein: 4mila iscritti in un giorno”. […] Si sbucciava le ginocchia anche quando sbagliava: “Schlein, Vogue e la loook-strategia”, “Schlein col fazzoletto rosso supera la prova della piazza”, “Schlein indossa il look da comizio”. Concita passava dall’“avercene di Meloni” all’avercene di Elly: “La donna nuova che spinge Giorgia nel secolo scorso”. 

Cappellini in piena estasi vedeva “Millennials alla riscossa. Sfida coi boomers dem per cambiare il partito” e riusciva a esaltare anche la sua inesistenza: “L’assenza è presenza: le pause di Schlein”.

La Stampa era tutta un’“Offensiva Schlein”, “Schlein a valanga”, “Il Manifesto Schlein”, “La Pax di Elly”, persino la “Primavera Schlein”. Per Domani dello sponsor-portafortuna De Benedetti, “Il cambiamento di Schlein fa paura”, “Schlein si prende l’opposizione”, “Schlein porta in Europa l’altra Italia”. Lì Damilano celebrava sobriamente l’“Effetto Schlein. Il nostro tempo. La nostra parte. Domenica 26 febbraio, una data che segnerà la nostra storia”. […] Corriere: “Giorgia ed Elly si parlano”, “Leader (e vite) parallele”. Stampa: “Meloni-Schlein: le due Europe”.

Ora le lingue retrattili dei maestri cantori la degradano a pippa lessa. Corriere: “Stavolta la sfida non si è nemmeno giocata”, “Schlein, alibi in stile Belushi per spiegare lo stop”. Rep: “Una leadership che non incide e non comunica alla maggioranza degli italiani, ma solo all’arcipelago delle minoranze”. Stampa: “Serviva un progetto e quel progetto non c’è”, solo “un’illusione artificiosa”. Dai servi encomi ai codardi oltraggi. Fino al prossimo carro del vincitore (si fa per dire).

Il direttore onnipresente. Travaglio conquista La7, Otto e Mezzo (Fatto): tutte le presenza in tv con Scanzi e Padellaro. Riccardo Puglisi su Il Riformista il 9 Giugno 2023 

Nel panorama televisivo italiano La7 è un caso piuttosto eclatante per la sua posizione politica particolarmente netta, così come emerge dai suoi talk show. Grazie ai dati raccolti con Tommaso Anastasia e Nicola Chelotti, posso qui fornirmi dei numeri più precisi, alla faccia del postmoderno disprezzo per l’analisi quantitativa.

Mi soffermo su Otto e Mezzo di Lilli Gruber e su DiMartedì, presentato da Giovanni Floris. Il modo più semplice per analizzare la posizione politica di un talk show consiste nel verificare la percentuale di ospiti politici che appartengono ai diversi partiti. Bisogna però tenere altresì conto del fatto che anche i giornalisti –invitati in massa nei talk show italiani – hanno una connotazione politica che di certo non si nasconde profondamente, e che lo stesso vale – anche se in misura minore – per gli esperti.

Nel 2016 il 62 per cento degli ospiti politici da Lilli Gruber (sessantadue percento) apparteneva al Partito democratico, mentre nel 2021 si raggiunge il massimo del 66. Anni strani? Mica tanto, perché la percentuale minima di ospiti del Pd viene raggiunta nel 2018 (al tempo del governo Conte I) con un robusto 39.4 per cento, a cui aggiungere il 7.6 degli ospiti appartenenti ad Articolo Uno (formazione capitanata da Bersani e Speranza).

Nello stesso periodo gli ospiti grillini oscillano intorno al 12 per cento, con percentuali simili per Lega e Forza Italia solo nel 2018 e 2019. Nel caso di DiMartedì c’è invece un’interessante discesa della percentuale degli ospiti del Pd, che vanno da un’eclatante 53.4 per cento nel 2016 al 19.9 del 2021. Gli ospiti grillini di Floris oscillano intorno al 17 per cento, con una punta del 29 nel 2017. Si tenga anche presente che nel 2020 il 19 per cento degli ospiti di Floris appartenevano ad Articolo Uno, per la precisione l’allora ministro della salute Roberto Speranza 21 volte e Pierluigi Bersani 9 volte. Le puntate di DiMartedì nel 2020? 38.

E i giornalisti? Nel periodo 2016-2019 ci sono state 1215 ospitate di giornalisti da Floris: qui spiccano le 191 ospitate per giornalisti di Repubblica, seguite dalle 177 per il Corriere, le 133 per Libero e le 104 per il Fatto Quotidiano. Il quadro diventa galvanizzante nel caso di Otto e Mezzo: 2252 ospitate, di cui 682 per giornalisti del Fatto Quotidiano (cioè il 30 per cento delle ospitate totali), a cui possiamo confrontare le 278 ospitate (cioè il 12 per cento circa del totale) per i giornalisti del Corriere, che peraltro giocherebbero in casa a motivo di Urbano Cairo editore in comune. E chi ci ritroviamo tra i giornalisti del Fatto? Un aitante terzetto domina la scena ai limiti della co-conduzione, ovvero Antonio Padellaro con 151 presenze, Andrea Scanzi con 171 presenze e soprattutto Marco Travaglio, con 248 presenze: l’11 per cento delle ospitate totali di giornalisti, poco meno delle ospitate di tutti i giornalisti del Corriere. Quindi non si può concludere che con un fragoroso, nonparcondicioso: Travaglio c’è! Riccardo Puglisi

Il “bullismo” giornalistico di Gramellini sa di misoginia. Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore, su Il Riformista il 18 Maggio 2023 

Ai bei tempi della Scuola di giornalismo di Urbino mi venne insegnato che il giornalismo dovrebbe essere il cane da guardia del potere politico. Significa che noi giornalisti dovremmo porre l’attenzione su ciò che fanno i politici al governo più che quelli all’opposizione. Più su Meloni, Salvini e Berlusconi, insomma, che non su altri.

Questo non significa che non si possa fare le pulci ai leader dell’opposizione, ci mancherebbe altro. Ecco dunque che quando succede che in un partito di minoranza – un nome a caso: Azione, di Carlo Calenda – si hanno intere classi dirigenti che si dimettono in polemica con il proprio leader nazionale e fondatore (sempre Carlo Calenda), uno si aspetterebbe che la brillante penna di Massimo Gramellini approfitti per stigmatizzare il fallimento politico di Calenda e il dissolvimento di Azione.

Non uso il termine in modo esagerato: a Modena, città del numero 2 di Calenda, Matteo Richetti, si sono dimessi in massa 38 iscritti del direttivo provinciale, e non so quanti iscritti ad Azione siano rimasti in quella città. In Piemonte si è dimesso il segretario regionale, l’ex deputato Gianluca Susta. A Firenze se n’è andato il segretario cittadino, l’imprenditore Franco Baccani. In Emilia ha salutato la consigliera regionale emiliana Giulia Pigoni. Alla Camera, la deputata Naike Gruppioni. E queste sono solo le defezioni degli ultimi giorni. Gli ultimi tre politici sono passati a Italia Viva, ossia quel partito politico contiguo, aderente allo stesso eurogruppo, con cui Azione si è presentata sotto lo stesso simbolo, non avendo le firme per partecipare alle elezioni del 2022 da soli. Piccolo dettaglio che molti azionisti omettono, ma che Calenda ha correttamente riconosciuto.

Oppure ti aspetteresti che l’arguto Gramellini decidesse di prendere in giro quel senatore romano che, in pieno spirito Il Marchese del Grillo, ha fin qui litigato personalmente con Emma Bonino, Federico Pizzarotti, Enrico Letta e Matteo Renzi – vale a dire tutti i leader del centrosinistra italiano del 2022/2023.

E non è che l’ha fatto in modo asciutto, sobrio e diplomatico: no. Mancava solo che gli citasse i morti, per il resto gliene ha dette di tutti i colori e anche di più. Dileggio, critiche, insulti. Calenda sui social è preso dallo spirito di Blair, ma non Tony: Linda, la bimba dell’esorcista. L’ex manager della Ferrari quando rompe con qualche leader politico con cui fino al giorno prima si abbracciava e baciava in pubblico ai limiti degli atti osceni, lo fa all’incirca come facevamo noi alla bella età di 8 anni: “non mi hai fatto niente, / faccia di serpente! / Specchio riflesso, / buttati nel cesso!” e daje di ostentazione di palmi di mani intrecciate e braccia tese. Poi però Carletto chiede scusa, eh. Ammette l’errore. Solo che lo fa con allarmante frequenza, per dirla con Charlie Brown.

Insomma, l’ottimo Gramellini avrebbe davvero l’imbarazzo della scelta, se volesse inzuppare il pane della sua ironia. Invece cosa ti combina la firma del Corriere? Se la prende con Matteo Renzi. Colpevole di aver “sfilato” la deputata Gruppioni e la consigliera regionale Pigoni. Capito come? E’ Renzi che le ha “sfilate”, come fossero perline di una collana, oggetti, ammennicoli.

L’ipotesi che le due donne politiche siano arrivate a una scelta politica ponderata in modo autonomo e indipendente non sfiora la mente dell’arguto giornalista torinese. E cosa avrebbe dovuto fare, di grazia, Renzi? Rifiutarsi di accogliere la deputata e la consigliera regionale? Respingerle? Dire loro, con un dorso della mano sulla fronte, “No, tornate con Carlo, io non vi merito!” O non avrebbe dovuto organizzare una conferenza stampa? Non dire niente a nessuno, nella speranza che Calenda e il resto del mondo non si accorgessero delle dimissioni delle due e della loro entrata in Italia Viva? Oppure non doveva elogiarle per la scelta fatta?

Caro Gramellini, in democrazia i partiti hanno l’obiettivo istituzionale di attrarre voti (e classi dirigenti) di altri partiti: lo chiamiamo gioco democratico. Non c’è “bullismo” se io mi prendo i voti che erano tuoi. Non c’è “bullismo” se Renzi celebra una deputata che, davanti ai giornalisti, dichiara: “Me ne sono andata da Azione per un problema di leadership, di autorità e di autorevolezza”. Perché lo dichiara LEI, la donna deputata, e quelle parole – ci creda o no – non gliel’ha mica scritte o chieste Renzi. Pensi: le deputate, ancorché provviste di utero, sono in grado di produrre pensiero autonomo e di scriversi un discorso politico, spiegando a parole loro come mai lasciano un signore romano che pochi anni fa ammise di “non capirci nulla di politica” in favore di un altro signore di Rignano sull’Arno riconosciuto perfino dai suoi avversari come uno dei politici di oggi più intelligenti.

Oddio, soppesati i competitori di Renzi, non mi pare si debba essere Churchill per esser valutati così bene, ma questo – caro Gramellini, ne converrà – è un altro discorso.

 Bulli vivi in Azione. Massimo Gramellini su Il Correre Della Sera il 17 maggio 2023

Segnaliamo ai servizi sociali un grave caso di bullismo politico, informando i lettori che, per la delicatezza della vicenda, siamo stati autorizzati a fornire soltanto le iniziali dei protagonisti. 

La vittima sarebbe un burbero pacioccone dall’umore variabile e dallo spiccato accento romano: C.C. 

L’aguzzino, un predatore toscano di indubbia intelligenza applicata alla cattiveria, con tendenza ai comportamenti autolesionistici sul medio-lungo periodo: M.R. 

Da tempo M.R. aveva messo nel mirino C.C. , con cui condivideva interessi ed elettori, seminandogli il cammino di trappole e prendendosi gioco di lui anche in pubblico. Nelle ultime ore però la situazione è degenerata: infatti M.R. ha sfilato a C.C. la deputata bolognese Naike Gruppioni e la coordinatrice emiliana Giulia Pigoni. Così, per sfizio. Al puro scopo di farlo soffrire, le ha persino definite «due straordinarie fuoriclasse della politica», nonostante fino a ieri non avesse mai parlato di loro neanche ai suoi amici arabi più intimi. 

Il bullizzato ha finto di abbozzare, ma si capiva che era molto provato, e questo suo disagio ha rallegrato ulteriormente M.R. «Si faccia delle domande!», lo ha irriso. 

Una, se permette, ce la facciamo anche noi. Se M.R. bullizza C.C., e C.C. si lascia bullizzare da M.R., quale alternativa rimane agli elettori, pochi o tanti, che non si riconoscono nelle idee di Schlein né in quelle di Meloni? Non resta loro che sperare in Gruppioni. O in Pigoni? 

Il quotidiano La Stampa ormai al servizio della sinistra italiana non ne “azzecca” una ! Povero giornalismo…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del giorno il 25 Aprile 2023

Ma costa molto a questi giornalisti fare del giornalismo libero ed indipendente, e non schierato ? A proposito il direttore Giannini quando garantirà il diritto di replica a "Striscia la Notizia" ? O preferisce finire anche lui dinnanzi al Consiglio di Disciplina dell' Ordine dei Gionalisti ?

Se non è il direttore Massimo Giannini, è l’editorialista della “Stampa” Marcello Sorgi, a coprirsi di ridicolo, già noto alle cronache per aver scambiato in passato l’ ex premier inglese Boris Johnson per il tennista tedesco Boris Becker, il quale dopo essersi come sempre vantato di essere “bene informato”, scrivendo un articolo in cui sostiene che Giorgia Meloni in occasione del 25 aprile si sarebbe isolata. 

Chi le ha parlato spiega che la leader di Fratelli d’Italia – scrive sul quotidiano La Stampa Sorgi (a proposito, chi avrebbe parlato alla Meloni ?) – consideri le polemiche sul 25 aprile rivolte contro di lei come un invito alla sottomissione, una sorta di mancato rispetto della volontà popolare che solo sette mesi fa l’ha proiettata alla guida del governo senza interrogarsi sulle sue posizioni sul Fascismo e sull’antifascismo”. Continua Sorgi: “Un esempio di testardaggine che, se portata alle estreme conseguenze, rischia di trasformarsi in una prova di miopia politica. Oltre a farle pagare un prezzo, non solo sul piano interno, ma anche su quello internazionale, che poteva risparmiarsi”. 

Un presunto isolamento, smentito dalle immagini di questa mattina dall’altare della Patria, che ritraggono Giorgia Meloni ed anche il presidente del Senato, Ignazio La Russa, sorridenti al fianco di Sergio Mattarella, per celebrare la festa della liberazione. E come se non bastasse, proprio questa mattina Giorgia Meloni, ha scritto una lettera al “Corriere della Sera”, con la quale prende le distanze “da qualsiasi nostalgia del fascismo”. E questo sarebbe l’isolamento, il silenzio “che diventerà assordante”, di cui scriveva Sorgi.

Ma costa molto a questi giornalisti fare del giornalismo libero ed indipendente, e non schierato ? A proposito il direttore Giannini quando garantirà il diritto di replica a “Striscia la Notizia” ? O preferisce finire anche lui dinnanzi al Consiglio di Disciplina dell’ Ordine dei Gionalisti ?

Redazione CdG 1947

Littizzetto-scandalo: cosa cita da Fabio Fazio. E la Rai tace. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 25 aprile 2023

Dai, dai, che ora, lo dice. Con i miei figli, sdraiati sul divano, nelle domeniche affossate nella noia televisiva, ci divertiamo a fare un gioco: vince chi becca per primo Luciana Littizzetto a Che tempo che fa mentre cita le «Poltrone Sofà» o gli «artigiani delle qualità», ficcati qua e là, come un cameo di Hitchcock in un monologo, in una finta battuta o in un ammicco che può sembrare improvvisato e invece è un capolavoro di calcolo.

Lucianina non s’è smentita, anche l’altra sera: la sua smodata passione per l’azienda mobiliera ha preso il sopravvento. «Papà, tranquillo, guarda che ora arriva...» mi ha rassicurato il piccolo Tancredi. E, infatti, ecco che al minuto 100 del programma arriva la battuta della comica nel descrivere «una delicatissima poltrona a forma di scorpione, idea di relax e serenità, ti punge e diventi un supereroe delle Poltrone Sofà...». Grande Tancredi. E grande pure Luciana. La quale riesce sempre ad evocare l’azienda - che in Francia e in Italia è già stata multata per pubblicità ingannevole - in tutte le posizioni e occasioni possibili. Ma lo fa con classe innata. Cito random.

Il 20 febbraio 2020 la Litti, nel collegamento da casa sua, aveva ospite Piero Pelù; e, nella solita gag dell’ormone selvaggio, se n’era uscita, all'improvviso, con una frase sui pantaloni del rocker fiorentino, a suo dire sexyssimi «come un divano di Poltrone e Sofà». Che non c’entrava un piffero, frase avulsa dal contesto, assolutamente fuori luogo che ha spiazzato Pelù e ha imbarazzato Fazio collegato dallo studio. Solo pochi mesi prima, novembre 2019, nel divertente remix-parodia di Giorgia Meloni, Luciana aveva declamato: «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana» aggiungendo la frase: difendiamo la nostra identità/difendiamo la nostra qualità/poltrone e sofà». E anche lì, le risate dell’insieme avevano lasciato scivolare sotto silenzio la frase posticcia sul mobilificio.

Ma, il mese prima, l’ardore rrefrenabile di Lucianina per i divani l’aveva portata ad un gesto estremo. La signora aveva invocato in studio - come prassi - la presenza di virili maschi italiani guarda caso testimonial pubblicitari (ieri l’altro c’era il ragazzone nudo che offre un «succhino?», quello di un spot immobiliare).

Sicché prima s’era materializzato l’attore che impersona Capitan Findus; e dopo, a seguire, in una scena paradossale, avevano fatto irruzione proprio «gli artigiani della qualità», ossia i due testimonial della marca di divani che, in quel momento, inondava di spot ciclici i palinsesti. La Litti, introducendoli, aveva commentato «Ho bisogno di qualità, del 2X1». Ma i mobilieri erano stati citati anche l’8 ottobre 2018. E il 20 gennaio del 2020, quando si era rotta una gamba («Che artigiano della qualità. Il mio osteopata massofisioterapista»). E persino sulla sua rubrica sulla Stampa gli «artigiani della qualità» affiorano dappertutto; l’ultima volta nel pezzo titolato «Cadiamo tutti, sarà l’asse terrestre» o è colpa degli «artigiani della qualità».

Roba che, as usual, nel contesto del racconto, c’entrava come i cavoli a merenda. Il collega Luca Bottura mi rimproverava d’esser troppo sospettoso. Ma lo diceva due anni fa, assai prima che la Litti non piazzasse ancora una mezza dozzina di “poltrone e sofà” sul servzio pubblico. Laddove, di prassi, ogni spot, parola, viene piazzata col bulino; dove perfino le citazioni di eventi benefici e marchi no profit sono passati al setaccio di una spietata selezione. Ora, mi dicono che l’Authority abbia già avuto segnalazione del sordo lavorio degli artigiani, della loro incontinenza fatta di scaffalature, cuscini e piumoni divenuti per Litti insopprimibile richiamo ancestrale. E alcuni potrebbero pensare ad uno spot spudorato in prima serata della Litti, che si perpetua come un contratto negli anni; ma non possibile, perché in quel caso, lo spot dovrebbe essere segnalato. A meno che anche Rai Pubblicità trovi del tutto normale il chiodo commerciale della comica.

Nel maggio 2021, su segnalazione dell’Unione Nazionale Consumatori, l’Agcom avviò un procedimento istruttorio nei confronti di British America Tobacco Italia e Stefano De Martino e Cecilia Rodriguez per uso occulto del marketing. Per dire. Forse non è soltanto ossessione per poltrone, tendaggie truciolati... 

Lucia Annunziata a rischio? Augusta Montaruli: "Ne chiederemo conto". Libero Quotidiano il 24 aprile 2023

Scoppia ancora la polemica su Mezz'ora in più. Il motivo? La conduzione di Lucia Annunziata. La giornalista, proprio durante la puntata di domenica 23 aprile su Rai 3, ha ammesso: "Io sono faziosa. Lo sono apertamente. Sono faziosa ma apertamente". Quanto basta a scatenare l'ira di Fratelli d'Italia che, attraverso la vicepresidente della Vigilanza, Augusta Montaruli, assicura: "Chiederemo conto nelle audizioni già programmate in commissione". "Il collegamento infelice tra 25 Aprile e le modalità con cui il governo sta trattando l'immigrazione - spiega ancora la deputata - sono solo l'ultimo attacco di una faziosità palese e offensiva nella tv pubblica, di cui Lucia Annunziata si sta rendendo protagonista. La Rai non può essere la clava ideologica verso il governo dando una visione distorta del suo operato. L'atteggiamento assunto in trasmissione, non per la prima volta, sono una violazione del pluralismo".

A farle eco Francesco Filini. Per il capogruppo in Vigilanza "è stata scritta un'altra pessima pagina di giornalismo in Rai, con Lucia Annunziata che dimentica ancora una volta di essere una giornalista del servizio pubblico e indossa le vesti di oppositrice del Governo Meloni. Arrivare a parlare di un 25 aprile di diritti negati perché il governo italiano avrebbe 'tagliato corto il diritto all'immigrazione' non è solo sintomo di faziosità, ma addirittura di scarsa conoscenza delle norme: in nessuna parte del mondo esiste il diritto ad immigrare in maniera indiscriminata e senza controllo". 

Basta pensare che solo qualche settimane fa la Annunziata ha avuto uno scontro acceso con il ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità, Eugenia Roccella. Da qui la frase infelice della giornalista: "Prendete le responsabilità di fare queste leggi, ca**o!". Il tutto sulla tv pagata dagli italiani.

25 Aprile, Sallusti: "Lucia Annunziata indignata speciale, la sua specialità". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 25 aprile 2023

Tanto hanno fatto e tanto hanno detto che anche il 25 aprile di quest’anno va così, festa della divisione. Giorgia Meloni ha tenuto i nervi saldi, Ignazio La Russa si è divertito a prendere per i fondelli le sinistre con sadico cinismo, i soliti tipo Gad Lerner e Lucia Annunziata sono caduti nella trappola recitando come da copione il ruolo di indignati speciali, la loro specialità. Stasera cala il sipario, fine dello spettacolo e da domani si torna a lavorare, appuntamento all’anno prossimo, stesso copione e stessi attori e stessi comprimari alla Gianfranco Fini che come tutte le vecchie glorie non resistono alla tentazione di fare un giro di campo pur che sia. 

Il calendario dei perditempo prevede come prossimo turno del torneo “commedia all’italiana” la festa del Primo Maggio: fuori i politici antifascisti dentro i cantanti democratici, il famoso concertone di Roma, insomma Fedez e Ferragni al posto dell’Anpi, una specie di dopo Festival di Sanremo di inizio estate. Cosa diavolo c’entrino i cantanti con i lavoratori non si capisce ma va bene lo stesso, del resto neppure i sindacalisti hanno mai lavorato davvero un giorno in vita loro eppure saranno lì al gran completo. Ma superato anche quell’ostacolo mediatico - si passerà dal governo amico dei fascisti al governo nemico dei lavoratori - la strada per l’esecutivo dovrebbe farsi se non in discesa almeno piana. 

Un respiro di sollievo ma attenzione: a quel punto conteranno i fatti, non più le parole. Non dubitiamo che l’agenda sia pronta, dico che nell’aria c’è molta attesa, che le polemiche fin qui viste e ascoltate non hanno scalfito di un millimetro - lo testimoniano anche i sondaggi - la fiducia che gli italiani di ogni ordine e grado hanno riposto nelle urne nel settembre scorso. E che cosa si aspettano questi italiani? L’altro giorno uno di loro, uno che tutto il mondo conosce ed apprezza, me l’ha riassunto in modo assai efficace: «Giusto all’inizio fare catenaccio, ma ora vogliamo vedere il contropiede, vogliamo il gol che ci stupisca». Stupire, sorprendere: parliamo delle specialità di Giorgia Meloni. Per quel poco che ne so può accadere da un momento all’altro, un po’ di pazienza e ci sarà di che festeggiare oltre il 25 aprile e il Primo Maggio.

Sorrisini, applausi e "talk boh". Il travet della partigianeria tv. Da "Ballarò" a "Dimartedì" il conduttore "sardo" da vent'anni replica il suo show: stessi ospiti, stesse idee, stessa ideologia. Luigi Mascheroni su Il Giornale il 17 Aprile 2023

Forse aveva ragione Giuliano Ferrara quando, a chi gli chiedeva un'opinione su Giovanni Floris, rispose: «Ha troppi denti». E su un vecchio televisore in bianco e nero scorre l'episodio di Alberto Dentone Sordi, giornalista ferrato e risoluto che partecipa senza complessi al concorso Rai. Scioglilingua, prova scritta con citazioni in arabo, tedesco, fiammingo, e sorriso.

Detto «Sorrisino» dagli amici (non così tanti) e «Durban's» dai nemici (non così pochi), Giovanni Floris è giornalista ferrato, risoluto, studioso, sempre preparato - falce e pennarello - pacato, deciso, gentile (come dice la vecchia nonna sarda, gallurese di Tèmpiu, «Gjuanni è così beddu: sorride sempre»), faccia e modi del bravo ragazzo, un professionista che prepara la scaletta anche per andare in bagno, professorino figlio di professoressa del Tasso («Ah, la Floris!»), metodico, abitudinario vacanze sempre a San Teodoro, bermuda stinti e quelle Crocs raccapriccianti, sempre il cinepanettone a Natale, stessi amici per la pizza, stesso gruppo di lavoro, stesse infinite riunioni, stessa noia redazionale - occhialino da intellettuale zdanoviano, realismo socialista e pragmatismo antiberlusconiano. «Giovaaaaaaaa!!!».

Sardo di origini nuoresi, romanista tottiano e romano del Nomentano, dalle Domus de janas alle catacombe di Villa Torlonia, Giovanni Ciao Giova Floris rimane un cattolico democratico di piazza Bologna, un cattocomunista cacio e pepe, Pajata e Vaticano, suppliche e supplì, passato indenne dalla liberalissima Luiss - docenti: Dario Antiseri, Luciano Pellicani, Domenico Fisichella e Antonio Martino; compagni di corso: Giovanni Orsina, Andrea Mancia, Fausto Carioti e Vittorio Macioce gli altri fissati con l'epistemologia di Karl Popper, lui con la storia del Partito comunista. Tesi: «Capitale e lavoro: dallo scontro alla cooperazione conflittuale?». E anche i talk, in fondo, sono scontro e conflitti.

Tesi, Antiseri e sintesi: Floris alla fine sceglie il giornalismo. Piccole collaborazioni politically oriented l'Espresso, l'Avanti! poi Scuola di giornalismo a Perugia e l'entrata in Rai: al Giornale Radio. Le scorciatoie per il successo sono solo due: bravura e fortuna. Giovanni, al quale entrambe sorridono, da cui il famoso risolino, da bravo giornalista si trova nel posto sbagliato al momento giusto. A New York, per sostituire un collega in ferie, l'11 settembre 2001. Che per lui fu tutto, tranne che una tragedia. E così diventa la voce e il volto italiano da Ground Zero. Uno, due, tre... passa un anno e grazie al più grande floriscultore di Viale Mazzini, il plenipotenziario apostolico palermitano Paolo Ruffini, direttore di tutte le reti democraticamente corrette, da Rai3 a «Lazette», diventa l'étoile del nuovo talk show Ballarò, stagioni 2002-2014, dodici anni di applausi e sorrisi. Poi il passaggio a La7: Dimartedì, di tutti i mesi, da dieci anni.

Interruzione pubblicitaria. Lettiano con un debole televisivo per Bersani e una cotta politica per Elsa Fornero - c'è chi sorride e c'è chi piange - in quello stesso 2014 il ridanciano Giovanni Flori (ride, ride sempre, anche alle battute stinte dei comici ospiti fissi in trasmissione, che di solito come Luca&Paolo sono della sua stessa scuderia, chez Caschetto, altro furbetto del quartierino televisivo) a La7 ottiene anche il preserale, Diciannovequaranta, un flop sospeso dopo due settimane. E a un certo punto, da Nuoro a Castel Sant'Angela, novello Piero e Alberto, nel 2017 s'inventa persino una striscia culturale, Artedì, altro flop espunto senza clamori dal palinsesto. Morale. Da 22 anni Floris, cambiandogli nome, fa lo stesso programma, con gli stessi identici ospiti, mandando in loop un'identica eterna trasmissione, un ininterrotto teatrino delle maschere, qua a sinistra facciamo sedere quelli presentabili, lì a destra gli scappati di casa...

Format di Ballarò-Dimartedì. Copertina: pezzo dei due comici di turno, di solito sui «fasci», con Floris che si sbellica per riempire le pause. Poi si invitano degli ospiti, tanti ospiti, una caterva di ospiti, un nugolo di ospiti, a caso, così che tutti parlano di qualcosa, senza capo né coda, del tutto fuori contesto, tutti gratis (tipi esemplari: Diego Della Valle che scambia Floris per Formigli; gente che non ha particolari titoli accademici; un'anziana partigiana che recita la parte richiesta e intanto presenta il suo libro, pensa un po', edito dalla Mondadori...); Floris che affetto da dromomania saltella qua e là, dando e togliendo la parola, incapace di stare fermo nello stesso posto o sullo stesso argomento per più di un pixel; poi molti applausi, una valanga di applausi, una piramidale cascata di applausi, del tutto immotivati, e il sottile retropensiero che la trasmissione, indipendentemente dai temi, si poggi solo su una frase della settimana, fuori posto, di un politico di destra. Il resto viene da sé.

Esempio. Dimartedì scorso, blocco 23.10-23.50. Temi sfiorati: le nomine della Meloni, il Patto di stabilità - sanità e scuola en passant «l'identità di questa destra», immigrazione, la Destra e l'Europa, le pene agli eco-vandali, il decreto anti-Rave (ancora?!), le tasse, le pensioni, l'(anti)fascismo, il musical su Silvio Berlusconi a Londra, una marketta al libro di Antonio Caprarica, la legge di bilancio, l'eliminazione del reddito di cittadinanza, la lotta alla corruzione «Lasci parlare...» - i dossier aperti con l'Europa, il Pnrr, una frase del 2018 della Meloni su Orbán (ma che cazzo c'entra?, ndr), la flat tax, i costi delle armi all'Ucraina, la transizione di sesso nei minori, l'immigrazione come sostituzione etnica «Abbassiamo lo studio...» - un blob di dichiarazioni dei politici di destra sui genitori omosessuali, Macron, la Cina, l'atlantismo della Meloni, una clip di Salvini e Putin, una di Meloni e Mosca, Ignazio La Russa, la Russia e «il tema dei temi, che rimane la guerra»... Applausi. «È difficile tenere insieme tutto». Sorriso. Ma cos'è?!? Talk boh...

Resumè: 40 minuti, 35 argomenti, 11 ospiti. E li chiamano talk show di approfondimento.

Domanda. Ma che cazzo ha da ridere Floris?

Flos Floris. «Ut flos in saeptis secretus nascitur hortis». Scegliere fior da Floris. Il fior Floris del giornalismo. «Tu fior de la mia pianta/ Percossa e inaridita,/ Tu de l'inutil vita/ Estremo unico fior». Fare un fioretto. Il più bel fiore che non colsi. Essere nel Floris della vita. Un fior di galantuomo. «Non è tutto rose e Floris». Avere i nervi a floris di pelle (in senso figurato). Ma soprattutto: un sorriso a floris di labbra.

Trentadue denti, 55 anni, moglie scrittrice - che come lui pubblica per Berlusconi, lui per Rizzoli, lei per Sperling ('Tacci vostra...) - detto il «Vespino di sinistra» malsopportato dal Vespone, Giovanni Floris è oggi il giornalista più strettamente vicino a Urbano Cairo, giocandosi il primato con Enrico Mentana (e se questo è la ghiandola pineale di Urbano, quello è l'aorta), l'unico che in assenza forzata di Lilli può condurre Otto e mezzo, prendendosi un bel nove... E così si avverò il sogno del grigio burocrate - la versione Facis, tendenza Lebole, del giornalismo che ha finito per costruirsi la più perfetta delle maschere, anonima ma telegenica. Button down e orgoglio altissimo, abiti color travet e impegno civile. È lui l'impeccabile direttore dell'orchestra più democratica e più bella, che se la suona e se la canta. Sempre sulla stessa musica. «Abbassa lo studio...». Applausi.

«Alè!».

Condannati.

(ANSA il 7 aprile 2023) - La Procura Generale di Milano ha chiesto la conferma della sentenza con cui il Tribunale ha condannato a 2 anni e 6 mesi di carcere e a una multa di 50mila euro Roberto Napoletano, l'ex direttore del Sole 24 Ore, ora alla guida del Quotidiano del Sud, per presunte irregolarità nei conti del gruppo editoriale nel periodo in cui era ai vertici.

 Il giornalista risponde di false comunicazioni sociali e aggiotaggio informativo. Il sostituto procuratore generale Celestina Gravina, nel suo intervento, oltre ad aver parlato di "bolla di falsificazione" di "entità non del tutto disprezzabile", ha citato per esempio alcune mail del maggio 2015, "che vedono il dott. Napoletano dare l'ordine di incrementare le copie": ciò dimostrerebbe il suo "diretto interesse al di là di ogni ragionevole dubbio".

Il pg ha inoltre sostenuto che è "pacifica" la sua "partecipazione alla diffusione dei comunicati" al mercato e che, citando una sentenza della Cassazione sul "superamento del lato formale della qualificazione" e un ordine di servizio del 2012, ha aggiunto che il ruolo ricoperto da Napoletano "equivaleva" a quello di "direttore generale" con "poteri di coordinamento tra i contenuti e le vendite".

Napoletano, in qualità di direttore editoriale del Sole 24 Ore, secondo le motivazioni di primo grado, condivise da Celestina Gravina, si sarebbe "attivato con impegno costante nell'attività aziendale relativa alla diffusione delle copie cartacee e digitali, (...) assumendo, in particolare, le decisioni gestionali".

 Inoltre avrebbe fornito "le indicazioni numeriche da inserire nei rapporti informativi ad Ads", Accertamenti diffusione Stampa srl, "e nei comunicati sociali che rappresentavano al Mercato i dati e i ricavi diffusionali del quotidiano" pur avendo "immediata contezza dell'impossibilità di verificare" se fossero esatti o meno. Tutte accuse che il giornalista ha sempre respinto, rivendicando la correttezza del suo operato e precisando di aver "ricevuto un giornale sull'orlo del baratro" e di aver "conseguito risultati editoriali sempre positivi".

Sputati.

Rai, lecito sputare contro le giornaliste: porcheria e vergogna. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 27 aprile 2023

Quattro. Quattro giornaliste Rai aggredite e minacciate in cinque giorni è un record di una tristezza infinita. Per tre giorni, dai possenti ascolti del day time, sono circolati - a loop, nei siti e su tutte le testate d’informazione- gli attacchi, a volte feroci a brave colleghi intente a raccogliere notizie dal ventre della cronaca nera.

Un’imperlata di reati e di violenza imbarazzanti.

Per prima è toccata a Tatiana Bellizzi inviata di Ore 14 aggredita e presa a sputi dal fidanzato della figlia della coppia che ha ucciso e cosparsa d’acido Marzia Capezzuti, la milanese trattata come un animale e seviziata per anni in una casa in provincia di Salerno. Contestualmente, la stessa sorte è toccata a Barbara di Palma direttamente da La vita in diretta, alla quale l’aggressore di anni 23 addirittura, dopo sputi e offese, ha strappato il microfono, e «ha minacciato, ha urlato, ha fatto gesti viscidi (cioè ha mostrato le parti intime, ndr)» prima che intervenissero due vigilesse di passaggio. Risultato: la giornalista sconvolta, gli astanti terrorizzati, un bambino piccolo in macchina che piange terrorizzato, “bip” a raffica nel montaggio della scena ripresa. E l’umiliazione delle colleghe che raggiunge vette imbarazzante: la Di Palma crolla emotivamente, piange e si sente “sporca”; e il conduttore del programma Alberto Matano, condannando il brutale gesto, abbraccia da lontano la sua giornalista. 

DI SANTI E MADONNE Giorno successivo, altro scenario: Trevignano, luogo della Madonnina a lacrimazione intermittente e della «veggente» Gisella, la bancarottiera fraudolenta che fa da dimafono – con tanto di testo corretto- alle dichiarazioni quasi omicidiarie di una Maria Vergine che le confiderebbe l’avvento di apocalissi sul Vaticano e di preti dalla mani mozzate. Qui, nella piana delle liturgie sovvenzionati dai fan, in mezzo ai fedeli che finalmente stanno chiedendo indietro i soldi del biglietto, ecco il marito della veggente che scatta. Placca la collega Filomena Leone sempre della Vita in diretta e le strappa il microfono.

Il giorno dopo la collega Arianna Giunti sempre Ore 14, autrice dello scoop sul sacerdote “sospeso” da cui promanerebbe l’ispirazione per il business della Madonnina piangente- viene raggiunta sul cellulare privato e minacciata brutalmente. Il minacciatore comunica con voce mafiosa a Arianna (che comunque, nonostante l’aspetto angelicato, reagisce come un pitbull) «Se mandi in onda il servizio chiamo il ministro apposito, i vertici Rai, il tuo direttore...». Tra l’altro, in questo momento, non c’è un direttore di Raidue, ma tant’è. Epperò il “ministro apposito” non si fa vivo ma la minaccia alla Giunti prosegue con un anatema : «Attenta a quello che mangi e bevi, può esserci il demonio». Qui, onestamente, ci si inoltra nella psichiatria. Sembra una scena dell’Esorciccio. Infine, per tornare seri, ecco, sempre scuola Milo Infante (che in questi giorni nefasti di nera tocca comunque anche il 10% di share) Nicole Di Giulio che si trova ad indagare sulla bambina abusata di Scandale; e a Scandale viene fermata, e ripresa in strada, e intimata ad andarsene dalla grida belluine non di un passante qualsiasi, ma del sindaco stesso del paese. 

Ora, non è tanto spiazzante che ottime colleghe giovani, nell’esercizio della professione vengano trattate in modo così indicibilmente violento. Quello, in fondo, è un rischio del mestiere. Semmai mi chiedo, a parte le telefonate di solidarietà di qualche direttore, perché il potente ufficio legale della Rai non quereli. Perché, soprattutto non si registra nessuna reazione dall’a Carlo Fuortes, ma soprattutto dalla presidente Marinella Soldi Rai? La Soldi è sempre così attenta alla tutela delle quote rosa nei programmi in viale Mazzini; eppure ora risulta desaparecida (probabilmente distratta da l’ennesimo premio ricevuto da Variety come donna mondialmente influente); e proprio nel momento in cui si tratta di difendere con ogni mezzo le sue dipendenti...

Automatizzati.

Il giornalismo automatizzato è già tra noi. Walter Ferri su L'Indipendente il 13 Gennaio 2023.

In questi ultimi giorni una notizia sta avviando un dibattito acceso tra gli esperti di tecnologia: si è scoperto che la rivista di settore CNET sta pubblicando già da mesi alcuni articoli scritti con l’ausilio di un’intelligenza artificiale. Anzi, per essere più precisi, è emerso che sta subappaltando a una macchina la composizione di alcuni pezzi finanziari e che il ruolo della redazione sia limitato al controllare che quanto prodotto dallo strumento non contenga amenità problematiche.

Il progetto di CNET non rappresenta un primato, già in passato testate di portata internazionale si sono appoggiate a delle IA per velocizzare il proprio carico di lavoro – si vedano Associated Press e The Washington Post –, tuttavia il caso in questione è atipico sotto molteplici aspetti. Le realtà editoriali hanno attinto alle potenzialità delle intelligenze artificiali già dal lontano 2014, tuttavia l’uso di una macchina all’interno della cucina redazionale è tradizionalmente confinato a obiettivi basilari e ripetitivi quali il riportare i risultati della Borsa o delle attività sportive, elementi che non richiedono una scienza particolare e che si limitano a fagocitare i dati ricevuti dalle istituzioni di riferimento. Si tratta di automatismi che limitano il proprio intervento a testi estremamente sintetici, scevri di ogni commento o approfondimento, lapidari per natura.

Quanto intavolato da CNET esplora però una dimensione di natura diversa. Il giornale web Futurism ha identificato che almeno 73 articoli divulgativi presenti sulla rivista siano stati generati con una tecnologia di automatizzazione. Pezzi quali “Cos’è Zelle e come funziona?” si limitavano originariamente a segnalare l’identità dell’autore semplicemente con un generico “Money Staff”, ovvero si guardavano bene dal notificare il pubblico che dietro a una simile etichetta non vi fosse alcun essere umano. Da che è emersa la notizia, l’azienda non ha rilasciato nessun commento, tuttavia ha provveduto a modificare il suo portale in modo che fosse perlomeno garantita in merito una minima trasparenza.

Bisogna rimarcare che CNET, reduce da un recente rebrand, non ha commesso alcun reato e che l’uso delle intelligenze artificiali, essendo adeguatamente supervisionato da un editore umano, non si sia neppure tradotto in una marcata disinformazione, eppure l’episodio non può che sollevare qualche osservazione sullo stato della Stampa odierna e sulla gestione delle IA nel ramo della comunicazione. La sostituzione degli autori con delle macchine è il frutto di un’attività giornalistica di natura generalista che fa più affidamento alle tendenze del momento che a un lavoro redazionale profondo, un fenomeno che, mescolato con una situazione di precariato allarmante, sta secondo il Media Pluralism Monitor ledendo la pluralità dell’informazione. Dall’altro lato non si può non notare che l’applicazione dell’intelligenza artificiale sia in Occidente ancora ancorata a una deregolamentazione che un domani potrebbe causare danni ingenti.

Il mondo accademico continua a notificare con i suoi report che l’introduzione di strumenti capaci di scrivere testi convincenti in maniera veloce ed economica possa tradursi in un prossimo futuro in un’ulteriore intensificazione delle strategie di disinformazione e propaganda. Le possibilità di intervento a disposizione dei Governi sono molteplici e vanno dall’imposizione di regolamenti ferrei in stile cinese al responsabilizzare blog, social e rotocalchi attribuendo loro gli obblighi editoriali normalmente confinati alle testate registrate. Esistono molteplici percorsi utili a prevenire il peggio, ma la loro percorribilità è sempre condizionata a una dimensione politica. In tal senso, l’Europa sta lavorando animatamente al cosiddetto AI Act, una proposta normativa che vede in contrapposizione interessi economico-civili profondamente divergenti. Solo il tempo ci rivelerà quali saranno le priorità dominanti che andranno a definire il panorama legislativo. [di Walter Ferri]

Ignoranti.

Antonio Giangrande: Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad arrivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande: ITALIA. PROCESSO ALLA STAMPA. COME IL FATTO DIVENTA NOTIZIA.

Siamo sicuri di essere e di voler essere correttamente informati di quello che succede intorno a noi?

In Italia la notizia è tale solo se data da un giornalista iscritto all’albo di origine fascista e non perché il fatto vero, raccontato correttamente da chiunque, può suscitare un pubblico interesse. Se non creata dal pennivendolo, la notizia è solo una misera e opinabile opinione. L’opinione si eleva a notizia solo se è pubblicata come editoriale dal direttore dell’organo di informazione, o da un suo delegato. Gli esperti, che hanno molto da dire, invece, se graditi, parlano solo se intervistati.

Il giornalista, come in tutte le categorie professionali, può essere un incapace raccomandato, vincitore di un esame-concorso truccato. Come tutti, del resto, in Italia. Inoltre in questa professione può essere anche uno sfruttato a 5 euro al pezzo.

La preparazione culturale del giornalista non permette alcuna competenza specifica, né egli ha alcuna esperienza diretta dei fatti, vivendo recluso in redazione, di conseguenza si appoggia alle considerazioni di coloro che lui reputa esperti. Quindi, non ci si aspetti da lui un approfondimento peritale del fatto.

Importante sapere è che i fatti non sono cercati dalle redazioni giornalistiche, d'altronde non possono prevedere gli eventi, ma sono vagliati in base alle segnalazioni ricevute. Sono cestinati i suggerimenti scomodi o che comportano approfondimento e ricerca. Sono dileggiate le note che urtano i loro convincimenti o danno fastidio ai loro amici. Alcune fonti, poi, sono da loro trattati erroneamente come mitomani o pazzi.

Quindi come far diventare notizia, un fatto vero ed interessante ed assolutamente conoscibile?

“Conditio sine qua non” è che il fatto deve essere giornalisticamente pubblicabile: vero; pubblicamente interessante; con obbiettiva, corretta e civile esposizione. A questi requisiti noti si aggiunge il modus operandi corrente: comodo, condiviso ed omologato. Insomma diventa notizia quella che tutti danno. Non esiste lo scoop, se non quello artefatto.

Chi ha un fatto da far conoscere, per prima cosa ha bisogno di attivarsi nel cercare quanto più contatti redazionali, per poter inviare la segnalazione o il contributo pre confezionato in stampo giornalistico. Tra il mucchio si può trovare la redazione interessata alla problematica condivisa dalla sua politica editoriale. Le grandi testate nazionali, che nessuno più legge, destinati all’estinzione dall’inevitabile assottigliarsi del numero dei loro lettori, disdegnano tutto quanto esce dalla loro dotta (a loro dire) professionalità. Le piccole testate lette solo dal parentado redazionale ed interessate esclusivamente alle loro sagre paesane, scartano le segnalazioni non attinenti la competenza condominiale. Eccezionalmente, nel mucchio si può anche trovare qualcuno che si impietosisce e fa passare il suggerimento come l’istanza di un caso umano.

Se la nota parte da un organo politico o istituzionale, avrà fortuna solo se il ricevente è un suo referente politico o destinatario di contributi pubblici. Invece le veline dei magistrati e degli organi di polizia giudiziaria, pur attinenti fatti coperti da segreto istruttorio, hanno pubblicazione certa e pedissequa alla virgola, specie se si sbatte il mostro in prima pagina.

Il contributo già formato in stampo giornalistico, inoltre, non deve urtare la suscettibilità del ricevente. Bisogna apparire inferiori intellettualmente. Quindi non deve essere perfetto in sintassi e grammatica ed essere zoppicante nella fluidificazione del discorso. Avere un linguaggio politically correct. Non avere intercalari di linguaggio comune e moderno, né usare un lessico comprensibile al popolo. Non offendere nessuno. Meglio appuntare i nomi. Non denunciare il malaffare di magistrati ed avvocati e comunque del sistema di potere precostituito di cui i giornalisti sono servi, salvo eccezioni. Chi è giornalista lo sa, chi dice verità scomode è tacciato di mitomania, pazzia o addirittura accusato di diffamazione a mezzo stampa. Oggi il valore del giornalista si compara alla quantità delle querele a carico. Parlar male della politica e di politici in particolare, può segnare l’interesse della redazione avversa a quel partito.

Non approfondire la tematica, pur se esperti, sareste chiamati prolissi. Basta l’accenno del profano. Non collegarli a casi similari, sareste chiamati confusionari. Basta l’allusione dell’inesperto. L’autore del contributo non si deve presentare nel testo, sarebbe accusato di autocelebrazione ed autocitazione. Meglio essere anonimi. Sia mai che diventi propaganda gratuita, perché la pubblicità è l’anima del commercio….e pure dell’informazione. E poi, il testo come può essere firmato come proprio da chi lo riceve e lo pubblica?

Le recensioni dei libri, inviate alle redazioni cultura, devono essere attinenti ai testi pubblicati dall’editore della testata: non è permesso agevolare la concorrenza. Gli scrittori, poi, violentino il loro talento e diano una parvenza di inettitudine allo scritto. Insomma, bisogna essere sintetici e divulgativi. I giornalisti superano l’esame di abilitazione nello svolgimento di una prova di sintesi di un articolo o di un altro testo scelto dal candidato tra quelli forniti dalla commissione in un massimo di 30 righe di 60 caratteri ciascuna, per un totale di 1.800 caratteri compresi gli spazi. Per le moderne testate tutto questo spazio è troppo, meglio centellinare i periodi, se no nella pagina non entra nello spazio lasciato libero dalle inserzioni pubblicitarie. Per esempio, questo pezzo è troppo lungo è sarebbe di sicuro cestinato.

L’espressione del pensiero deve essere misurato e limitato in spazi preconfezionati. Non si consulti il dizionario, ma la calcolatrice.

Seguendo queste basilari regole, forse, dico forse, tra 1500 testate, ai cui contatti email arrivano le note stampa, qualcuno di loro può prendere in considerazione la missiva sotto forma di lettere al direttore e far leggere ai suo pochi lettori quello che solo allora diventa notizia.

In caso contrario, se i giornalisti altezzosi o permalosi ci ignorano, ci si apre un blog o si fa parte di un social network o di un portale di giornalismo partecipativo. In tal caso, però ci si accorge che i commenti dei lettori alla notizia da noi data, spesso, sono postate da gente esaltata ed alienata: lo specchio della società. Solo allora ci si rende conto qual è l’umanità frustrata che ci circonda e che la notizia dovrebbe leggere. A quel punto ci si pensa che è meglio tenere il fatto per sé, non elevandolo a notizia, e far vivere gli altri nell’illusione di essere informati su tutto. Perché gli altri son convinti che la notizia è solo quella detta dai tg. Perche?!? Perché l’ha detto la televisione!!!

Per inciso ed in conclusione, voglio dire che sui media ho scritto un saggio “Mediopoli. Disinformazione, censura ed omertà”. Ho cognizione di causa. Facendo parlar loro, la cronaca diventa storia. Per il resto i miei scritti, quelli sì, pur non pubblicizzati, sono al vaglio del giudizio dei miei tanti lettori, anzi studiosi, oggetto delle loro tesi di laurea. Ad ognuno il suo.

Dr Antonio Giangrande

Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia

Massimo Gramellini per corriere.it il 12 gennaio 2023.

Ergendosi in tutto il suo carisma nell’aula del Senato, Maurizio Gasparri ha preso la parola con un incedere degno di Marcantonio: «Non ho certo la presunzione di dare lezioni di storia come altri…»

 Dopo una breve pausa per lasciarci il tempo di compatire questi «altri», ha aggiunto: «Ma qualche libro è bene leggerlo, ogni tanto». E lui, modestamente, li lesse.

I problemi sono iniziati appena ha esposto il risultato delle sue letture. Tema prescelto: la guerra di Crimea contro l’impero russo. Gasparri ha detto che fu combattuta dal regno di Piemonte tra il 1861 e il 1863 quando l’Italia ancora non esisteva, con ciò riuscendo nell’impresa di inanellare tre sfondoni in una sola frase.

Il regno piemontese si chiamava di Sardegna, la guerra di Crimea fu combattuta nel decennio precedente, e tra il 1861 e il 1863 l’Italia era già nata.

 Persino il senatore latinista Lotito, seduto accanto all’oratore, dopo avere annuito vigorosamente ai primi accenni di Crimea, sentendolo sciorinare date a casaccio si è guardato intorno smarrito in cerca di un Bignami. Bisogna riconoscere che Gasparri ha poi saputo spiegare la ragione che spinse Cavour a partecipare a una guerra in cui non aveva niente da guadagnare, se non il fondamentale ingresso nel salotto buono d’Europa.

Quindi qualche libro lo ha letto davvero. È che ha voluto esagerare, esponendosi così agli sberleffi di Calenda, la cui maggiore autorevolezza deriva dal fatto incontestabile che con Cavour ha in comune ben due lettere del cognome.

Viziosi.

(Adnkronos il 10 gennaio 2023) - "E' mai possibile che un noto giornalista di una delle più importanti testate italiane, uno di quelli che va anche ospite di talk e trasmissioni in tv e che si qualifica come uno che ha funzioni direttive nel gruppo per cui lavora, proponga un articolo della prestigiosa testata in cambio della disponibilità di un'imprenditrice a spogliarsi e a fare delle cose con lui in una video chat erotica?" Roberta Rei annuncia il caso che sarà messo in onda domani sera a 'Le Iene'.

 Racconta l'imprenditrice: "Era squallido. Se vuoi scrivere un articolo su di me lo scrivi perché sei interessato a me, in cambio di nulla. Mi è arrivata una richiesta su Instagram, di una persona che era interessata a quello che io facevo nella vita, lavorativamente: il Sud, il lavoro, l'imprenditoria femminile... e quindi la cosa mi ha incuriosita - spiega - anche perché era una testata importante. Lui, prima di chiamarmi, mi ha dato dei link, per farmi vedere che effettivamente era un giornalista. Ho controllato ed era vero che lavorava su (...), motivo per cui mi sono fidata. Solo che poi è stato un po' ambiguo, perché puntava non ad una chiamata conoscitiva ma ad una videochiamata. 'Lo sapremo solo io e te... Tu fai uno spogliarello per me, io in cambio ti do un articolo su (...) Il che mi ha schifata, ci sono rimasta malissimo ed è il motivo per il quale ho chiamato Le Iene", conclude l'imprenditrice.

Articolo in cambio di spogliarello: giornalista nel mirino delle Iene. La denuncia di un'imprenditrice pugliese. La donna ha deciso di denunciare tutto alla trasmissione condotta da Teo Mammucari e Belen Rodriguez, e ha poi spiegato com’è avvenuto il contatto con l'uomo. La Gazzetta del Mezzogiorno l’11 Gennaio 2023

Sulle pagine ufficiali social delle Iene è stato pubblicato un post in cui la iena Roberta Rei ha rivelato di aver ricevuto una segnalazione da parte di un’imprenditrice pugliese, Stefania Pellicoro di Gioia del Colle, che ha fatto una clamorosa rivelazione su un famoso giornalista di una testata nazionale: l'uomo pare le abbia offerto un articolo sul suo quotidiano in cambio di uno spogliarello sul web. La notizia ha fatto il giro dei social: nel promo pubblicato su Instagram si vede l'imprenditrice che racconta lo squallore della proposta indecente: “Era squallido…Se vuoi scrivere un articolo su di me lo scrivi perché sei interessato a me, in cambio di nulla….”

La donna ha deciso di denunciare tutto alla trasmissione condotta da Teo Mammucari e Belen Rodriguez, e ha poi spiegato com’è avvenuto il contatto: “Mi è arrivata una richiesta su Instagram, di una persona che era interessata a quello che io facevo nella vita lavorativamente: il Sud, il lavoro, l’imprenditoria femminile…Ho controllato ed effettivamente era un giornalista…”

L’imprenditrice sul famoso giornalista svela: “E’ stato un po’ ambiguo. Voleva subito fare una videochiamata. Ed in questa occasione si sarebbe presentato in mutande, cogliendo la palla al balzo per farmi delle proposte di un certo tipo. Mi ha detto che lo avremmo saputo solo io e lui…’Tu fai uno spogliarello per me, io in cambio ti do un articolo su…'”

Richiesta prontamente respinta dall’imprenditrice, che ha deciso di denunciare l’accaduto: “Mi ha schifata, ci sono rimasta malissimo…”.

Da leiene.it il 10 Gennaio 2023.

Un articolo in cambio di uno spogliarello osé in videochiamata? La proposta indecente è stata fatta da un importante giornalista di una delle maggiori testate italiane a Stefania, imprenditrice di 43 anni della moda che ha anche un suo profilo OnlyFans. Ecco come lo abbiamo smascherato con Roberta ReI, in diretta

Da fanpage.it il 10 Gennaio 2023.  

Si chiama Stefania Pellicoro la donna che accusa un giornalista, pare noto, di molestie nell’esplosivo servizio di Roberta Rei che sarà trasmesso nella puntata de Le Iene in onda martedì 10 gennaio su Italia1. Lo conferma una dipendente della donna a Fanpage.it. Si tratta di un volto noto al grande pubblico: Stefania ha partecipato a Ultima Fermata, il programma tv targato Fascino andato in onda tra marzo e aprile del 2022 su Canale5. Prese parte al programma per affrontare una crisi di coppia con il compagno Luca Santonienna. Originari di Bari, raccontarono in tv di possedere quattro negozi di abbigliamento.

Le accuse di Stefania Pellicoro

Ed è proprio di abbigliamento che Stefania si occupa. Imprenditrice affermata, ha raccontato a Le Iene di essere stata contattata da un noto giornalista che le avrebbe chiesto di spogliarsi e a partecipare a una chat in cambio di articoli da pubblicare sulla sua testata. “Era squallido. Se vuoi scrivere un articolo su di me, lo scrivi perché sei interessato a me. In cambio di nulla”, ha raccontato Stefania di fronte alle telecamere de Le Iene.

L’uomo, giornalista che partecipa a talk e programmi tv e che, secondo Roberta Rei, si qualificherebbe come professionista che avrebbe funzioni direttive all’interno del gruppo per il quale lavora, l’avrebbe contattata attraverso il suo profilo Instagram: “Mi è arrivata una richiesta su Instagram di una persona che era interessata a quello che facevo nella vita, lavorativamente. Il Sud, lavoro, imprenditoria femminile. Quindi la cosa mi ha incuriosito, anche perché era una testata importante”.

 Stefania Pellicoro a Le Iene: “Il giornalista voleva una videochiamata”

Prima di chiamarmi, mi ha dato dei link per farmi vedere che era effettivamente un giornalista. Quindi ho controllato ed era vero che lavorava a (nome zippato, ndr). Motivo per cui mi sono fidata. Solo che poi è stato un po’ ambiguo perché puntata non ad una chiamata conoscitiva ma ad una videochiamata”, prosegue la donna nella sua denuncia a Le Iene, “‘Lo sapremo solo io e te. Tu fai uno spogliarello per me, io in cambio ti do un articolo’. Il che mi ha schifata. Ci sono rimasta malissimo ed è il motivo per il quale ho chiamato Le Iene”.

 Chi è Stefania Pellicoro

Stefania è diventata popolare con la partecipazione a Ultima Fermata. In tv raccontò di essere in crisi conio compagno Luca che, dopo una relazione durata 12 anni, l’aveva tradita con la dipendente di uno dei loro 4 negozi di abbigliamento. Stefania è originaria di Gioia Del Colle ed è madre di tre figli.

Gianluca Nicoletti per “La Stampa” il 12 gennaio 2023.

Si vocifera che il giornalista presunto virtual porcone «smascherato dalle Iene» scriva su una delle maggiori testate italiane. Comprendo quindi di essere io stesso nella rosa dei possibili sospettati, dico a mia preventiva difesa che mai ebbi contatto digitale con la bella pugliese imprenditrice nel campo della moda, per solo diporto spogliarellista su OnlyFans, la cui virtù fu dal reprobo vilmente attentata.

 Cercherò di ricostruire una possibile trama dell'accaduto, che trovo una perfetta case history sulle mutazioni nel costume e nel malcostume in epoca digitale, lo farò ispirandomi all'immortale Rashomon del maestro Kurosawa, capolavoro esemplare sull'assoluta relatività di ogni verosimile ricostruzione, prodotta dai protagonisti e testimoni di un fatto delittuoso.

La prima a prendere la parola è colei che, nella narrazione a disposizione della collettività, è la vittima. Ecco la mia libera sintesi di ciò che lei ha dichiarato nel servizio tv che la rende oggi celebre: «Sono una quarantenne imprenditrice pugliese che si è fatta da sola; ho iniziato come operaia e grazie al mio impegno e la mia indefessa dedizione al lavoro ora sono titolare di tre bei negozi di vestiti.

L'idea che un giornalista mi proponesse tramite Instagram un'intervista per un'importante testata italiana, che mi avrebbe descritta come esempio di imprenditoria femminile al Sud per me era "wow!". Tanto che l'ho raccontato subito ai miei tre figli. È stato umiliante quando in realtà mi ha detto che in cambio voleva vedermi spogliata.

 Io ho un profilo su OnlyFans dove vendo come contenuto la mia immagine, anche nudo artistico. Uno spogliarello costa 150 euro, quindi sarebbe come se questo articolo io avessi dovuto pagarlo.

Gli ho detto che io mi spoglio solo per chi dico io e per quanto dico io, lui insisteva sull'"equo scambio" quindi ho deciso di rivolgermi alle Iene.

 Il doppio risultato sarebbe stato quello di sputtanarlo e di ottenere molta più visibilità di un articoletto sfigato in un sito web, va bene la testata importante, ma chi si legge la storia di una che vende vestiti, volete mettere il titolo in prime time: 'Ti spogli per me in cambio di un articolo?" con il baluginare delle mie foto su O.F, che oggi sarà preso d'assalto?».

 Cosa ha da dire la brava giornalista delle Iene? «Sono la paladina degli indifesi, la vendicatrice dei soprusi, faccio parte della schiera degli angeli sterminatori che osano oltre i confini che nostri pavidi colleghi non osano lambire. In questo caso ho giustamente messo all'indice un sistema deplorevole di quel noto squallido mercimonio che, da sempre, è stato confinato nelle chiacchiere consumate negli angoli più reconditi di ogni redazione. Il potere nel mondo dell'informazione è solidamente in mano ai maschi.

Molti colleghi, anche titolati, ne approfittano per barattare la loro possibilità di accendere fari su persone o situazioni, per compiacere il loro compulsivo istinto predatorio. Avviene nel turpe ricatto ad aspiranti colleghe, avviene nella promessa di promuove carriere, come di dare visibilità a persone che avrebbero vantaggio nell'apparire.

 Questa imprenditrice e donna ha pieno diritto di mettere in mostra tutta la sua bellezza. Ha deciso di far vedere contenuti solo per adulti a pagamento, è pieno suo diritto farlo. Per dimostrare che non guardiamo in faccia a nessuno, Il prossimo servizio delle Iene lo faremo per capire se questa attività di 150 euro a spogliarello è poi regolarmente denunciata nei redditi, dal momento potrebbe procurare varie migliaia di euro al mese, anche solo nel prodursi in un paio di performance artistiche quotidiane, al posto dell'ora di Pilates».

Infine la parola al sospettato di aver barattato deontologia per scopofilia: «È un attentato alla libertà di stampa.

 Già sono al centro del dileggio nel noto gruppo Facebook: "Giornalisti che non riescono a scopare", la mia professionalità ne è fortemente compromessa. È vero che le Iene hanno il filmato che mi vede in mutande, mentre chiedo alla signora: "voglio vederti in intimo", questo però fa parte del mio lavoro di giornalista investigativo. Stavo facendo un'inchiesta sul lavoro nero in OnlyFans, vi pare che avrei rischiato la mia professione per uno spogliarello che avrei avuto per soli 150 euro? Lo crediate o no il mio era un esperimento sociale».

Uffici stampa e giornalisti. Non amici, non nemici, ma alleati. Chiara Corona su L'Inkiesta il 26 Luglio 2023

Approfondire quali sono i ruoli di queste due figure professionali e indagare come si sviluppa la loro relazione e quali aspetti si potrebbero migliorare sono stati gli argomenti dell’ultimo appuntamento estivo di Tavola Spigolosa

L’attacco è provocatorio: «Nel limitarsi a riportare le informazioni fornite da queste realtà e le loro foto perché più belle, noi giornalisti perdiamo l’unico potere che ci è rimasto: scegliere cosa pubblicare e cosa no». Inizia così l’approfondimento sul tema Anna Prandoni, direttrice di Gastronomika. Il risultato? Oggi quanto viene scritto è, in troppi casi, un «copia incolla» di ciò che viene dettato dagli uffici di stampa. Ad analizzare bene i fatti, queste figure professionali adempiono regolarmente a quanto richiesto dal loro ruolo, i giornalisti invece sembrano essersi dimenticati il proprio: essere i mediatori tra le informazioni raccolte e i lettori, riflettere su quali di queste potrebbero trovare più interessanti, ma soprattutto su quali sono le più utili per loro. Infine, ragionare se queste sono coerenti con la linea editoriale e se possono essere pubblicate o meno.

«Da giornalista non dovrei copiare e incollare un comunicato stampa», specifica la direttrice, svelando però che qualche volta sono le stesse agenzie a invitare a farlo «almeno così lo scrivi bene». A tale proposito Marcello Lovagnini, account director presso GRASSI & PARTNERS spiega:«Un buon ufficio stampa non lo dovrebbe dire. Tuttavia, di fronte al moltiplicarsi di interlocutori non propriamente affidabili e una qualità media diminuita, a volte è meglio che lo facciano, se il comunicato stampa è scritto bene». Questo vale almeno quando l’intento non è quello di comunicare un concetto, ma delle informazioni utili al lettore in merito a delle attività riguardanti un’attività ristorativa o il mondo dell’hotellerie.

Con «copiare» si intende riportare le comunicazioni basilari, insieme eventualmente a quella frase funzionale a far comprendere al meglio ciò che il cliente vuole raccontare. Tuttavia, questo non toglie il valore aggiunto di un buon articolo, realizzato integrando le informazioni ricevute dall’ufficio e riformulandole con il proprio punto di vista e stile. Lo afferma lo stesso Lovagnini: «Il nostro compito è anche quello di cercare interlocutori affidabili che sappiano dare un punto di vista originale e personale sulla storia, che aiutino a creare un bouquet di notizie e una rassegna stampa più variegati e che aiutino lo stesso cliente a riflettere, a fare il passaggio successivo ed evolvere».

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Concorda con questo punto anche Véronique Enderlin, fondatrice dell’ufficio stampa Les Enderlin Press Office, PR: «Sono gli articoli che fanno venir mal di pancia ai competitors, quelli che sono stati scritti con il cuore. Tutti noi ce ne accorgiamo, in primis il cliente». Eppure, a volte non è semplice trovare un comunicato stampa ben scritto.

Interviene Penelope Vaglini, giornalista e co-fondatrice di Coqtail Milano, riportando il punto di vista della sua fazione: «Come ci sono tanti nostri colleghi con background non forti, così vi sono tanti uffici stampa improvvisati, che non fanno bene questo lavoro perché non l’hanno mai fatto prima». Quanto offrono sono elaborati lacunosi, mal scritti, fonti da cui è difficile prendere ispirazione e, nel peggiore dei casi, appunto da ricopiare. Ritornando al precedente «copia e incolla», Vaglini non giustifica il suo comparto, ma denuncia una nuova prospettiva del fenomeno, dal punto di vista dei giornalisti freelance: «Questi sono costretti a scrivere sei, sette articoli al giorno. Come fai ad approfondire, a offrire una tua visione, se non hai il tempo per sviluppare e assimilare il tema?».

Quanto detto fino a ora riconduce a un problema, se non unico, il principale: l’editoria è in crisi. Come dichiara consapevolmente Anna Prandoni: «Noi eravamo quella cosa lì e ora non lo siamo più». Al contempo, innegabile è il ruolo fondamentale dell’ufficio stampa nel sostentamento, almeno in parte, di questo settore. Ma che cosa fa esattamente un ufficio stampa? La loro prima funzione è quella di comunicare ai giornalisti il patrimonio di informazioni e novità riguardanti i loro clienti, in conformità alla loro personalità e all’ambito in cui lavorano. Lo specifica Alessia Rizzetto, fondatrice della sua omonima agenzia di comunicazione Alessia Rizzetto PR & Communication, riportando quanto ha appreso dalla sua esperienza nel settore: «Quello che il giornalista si aspetta e vuole è una storia da raccontare, che possa trovare spazio nel giusto contesto… È importante conoscere i propri interlocutori, ciò che li interessa è proporre loro un contenuto che sia coerente con ciò che ricercano. Proporre la storia giusta alla persona giusta».

Il mezzo con cui questa viene veicolata, o almeno dovrebbe essere, è il comunicato stampa, strumento cardine di questo lavoro e che tuttavia lei abolirebbe. «La maggior parte finiscono nello spam, nessuno li legge. Servono più a soddisfare l’ego del cliente che l’esigenza effettiva dell’ufficio stampa. Ti permette di avere una traccia di quello che andrai a veicolare, ma se tu hai chiari i valori del brand che rappresenti, non serve».

La domanda sorge spontanea: «Il cliente riesce a interiorizzare questa procedura, la capisce?» «Questo è proprio l’altro ruolo dell’ufficio stampa» spiega Lovagnini. «Essere mediatori tra i desiderata del cliente è quello che è l’effettivo stato del panorama dei media a livello regionale quanto internazionale». Il compito diventa pertanto quasi «psicologico», o meglio educativo: spiegare al cliente che non vi è il bisogno di comunicare una notizia o, eventualmente, indicargli quale è il modo giusto con cui veicolarla; aiutarlo strategicamente a sceglierne una piuttosto che un’altra in base al giornalista quanto alla tipologia di testata in cui verrà riportata, online o cartacea. Ancora, individuare gli aspetti della sua storia che possono risultare più interessanti ed efficaci. Infine, insegnargli a riservare certi contenuti solo alla stampa, a non soffermarsi sull’immediato, ma aspettare per vedere i risultati positivi di questa operazione.

L’ufficio stampa è quindi come afferma Marcello Lovagnini «in mezzo a due fuochi». Da una parte si rivolgono ai giornalisti, costruendo con loro un rapporto basato su uno scambio professionale costruttivo, «do ut des»: loro forniscono informazioni, novità, «le foto più belle» agli interlocutori, quest’ultimi si sentono liberi di raccontare ciò che loro credono sia più adatto al lettore e non si aspettano di essere invitati a tutti i loro eventi. Dall’altra parte si interfacciano con i clienti, che li ascoltano e si fidano delle loro scelte, o almeno dovrebbero.

Questo è il mondo ideale che è stato presentato finora, quello reale è però ancora lontano da rispecchiarlo. «Perché questo meccanismo non funziona?» chiede Prandoni. Per Marcello Lovagnini il problema sono le tempistiche: «Tutto è molto più veloce, ogni giorno vi sono mille progetti che devono essere presi, impacchettati e lanciati». Aggiunge: «Sono moltiplicate le occasioni di visibilità con l’online e l’avvenuta dei social. Si sono moltiplicati i modi per raccontare le storie e insieme la voglia di raccontare, tutto e soprattutto subito. Ciò che vorresti fare alla perfezione fa i conti con la giornata e il suo numero di ore limitato». A occupare gran parte del tempo è anche lo sviluppo e il mantenimento del rapporto empatico con il cliente, essenziale, come sottolinea Véronique Enderlin: «Bisogna trascorrere regolarmente del tempo con lui per capire le sue intenzioni, i suoi sogni, ciò che non ci dice, il «non palpabile» che noi dobbiamo tradurre in parole e fotografie».

Dispendiosa in termini temporali è anche la relazione con i giornalisti: «Spesso è difficile rintracciarli, non sono presenti in loco e possono concederti solo una breve chiamata, non abbastanza per presentar al meglio la tua idea» riconosce Lovagnini. Inoltre, «Le redazioni si sono contratte e gli interlocutori diminuiti». Parla di quelli «interessanti», coloro che sono in grado di produrre un articolo di valore e che, nel sempre più frequentato e abusato settore dell’enogastronomia, «non sono tanti».

A questo punto, se il tempo a disposizione è poco, effettuare una selezione strategica di coloro con cui relazionarsi diventa un elemento fondamentale. È Ezio Zigliani, di Ezio Zigliani Press Office & PR a sostenerlo, insieme agli altri quattro relatori: «Bisogna conoscere e individuare chi è più «utile» a creare una rassegna stampa interessante». La questione che si pone ora è: «Come si fa a scegliere a chi mandare cosa?».

A rispondere per primo è Lovagnini: «Devi conoscere i tuoi interlocutori, capire cosa scrivono, dove e quando; incontrarli nelle occasioni ufficiali, durante gli eventi». Una volta fatto ciò, la loro elezione come candidato per ricevere una notizia dipende però dal «target finale che si vuole raggiungere» come specifica Alessia Rizzetto. «Sulla base degli obiettivi che si stabiliscono a monte, bisogna capire quali sono le testate più in target, quali informazioni fornire loro e quando, a seconda delle tempistiche d’uscita di un prodotto». Questo significa instaurare anche un rapporto con l’interlocutore, non tuttavia di «amicizia» come specifica Lovagnini, ma di rispetto e aiuto reciproco. Per Enderlin la figura del «giornalista amico» è colui che decide di impegnare parte del suo tempo ad aiutarti a migliorare la struttura e stesura del tuo comunicato stampa, a farti notare gli elementi meno chiari e a suggerirti cosa andrebbe corretto. Un rapporto basato sulla trasparenza è quindi quello che dovrebbe esserci tra giornalisti e uffici di stampa.

Lo ribadisce la nostra direttrice: «Tu (Pr) mi fornisci le informazioni, io le interiorizzo, le capisco. Non dovrai ripetermi la notizia più volte, perché quando mi servirà, mi tornerà in mente». Certo, a complicare questo procedimento sono i numerosi comunicati stampa che i giornalisti ricevono al giorno, tra cui sono costretti a loro volta a fare una selezione. Come racconta Penelope Vaglini, questo avviene prestando attenzione a diversi elementi: se la notizia è rilevante e interessante leggendo l’oggetto dell’email, se c’è il tuo nome all’interno ma, prima di tutto, se conosci chi è la realtà che te l’ha inviato. Si gioca sulla fidelizzazione, sul rapporto che si instaura con il giornalista, di reciproco aiuto per cui «se avrai delle esigenze temporali di far uscire presto una notizia, io dedicherò parte del mio tempo a scriverne un articolo».

Ovviamente non si può redigere un pezzo solo sul cliente di quell’ufficio stampa o sulla sua ultima novità, ma come suggerisce la giornalista: «Bisogna collegare i puntini e cercare di comprendere se può rientrare in una tematica più ampia», interessante anche altri attori. Talvolta questi possono essere anche loro concorrenti, ma come specifica Alessia Rizzetto: «Se però tutti sono nel posto giusto al momento giusto questo non può che dar più valore, al cliente in primis».

Vuoi rivedere la diretta del dibattito? Lo trovi qui!

Riassumiamo, primo punto: gli uffici stampa servono. Lo sottolinea Ezio Zigliani: «Le aziende non hanno spesso la capacità di avere un ufficio di marketing interno che abbia gli strumenti per realizzare le foto della definizione giusta o per comporre una sua presentazione che non sia una semplice brochure», risorse che invece l’ufficio stampa provvede a garantire. Oltre questi, si aggiunge la sua attività di consulenza, il suo compito di creare una strategia efficace e che crei aspettativa intorno alla novità. Infine, il loro essere «guardiani della porta» come  dice Marcello Lovagnini: monitorare ciò che i giornalisti pubblicano in merito al loro cliente. Ciò si traduce nel non mandare lo stesso comunicato stampa a più interlocutori nello stesso momento, centellinando nel tempo così come distribuendolo, dando l’anteprima di una notizia a uno e di un’altra a un altro, ed evitare che loro ne parlino prima che questa sia stata resa ufficialmente pubblica.

Negli ultimi anni, gli uffici stampa stanno inoltre facendo propria la missione di educare i loro clienti all’idea che non sia necessario avere una rassegna stampa fitta come un «bibbione», spingendoli ad abbandonare la «sbornia» di scrivere un comunicato stampa per qualsiasi novità e progetto, ma solo su quelli realmente interessanti e finalizzati alla comprensione del brand. Non c’è bisogno di scrivere di tutto. Lo sottolinea la stessa Anna Prandoni, puntualizzando inoltre sul fatto che se un giornalista preparasse un articolo su qualsiasi evento in cui è stato invitato o di ciò che ha ricevuto come regalo dall’azienda, probabilmente quest’ultima non andrà a comprare una pagina pubblicitaria sull’editoriale per cui lavora, in quanto ha già la copertura mediatica che le serve. A lungo andare, andrebbe a fare un danno al settore in cui lavora e a lui stesso.

A riguardo, Penelope Vaglini è dell’avviso che nell’ambito enogastronomico sia importante avere la possibilità di testare e provare il prodotto, al fine di riuscire a parlarne. Il problema è quando l’ufficio stampa pone lo scriverne come un’imposizione, invece che una scelta che il giornalista dovrebbe compiere considerando sia la qualità complessiva dell’alimento che la sua comunicazione.

Le conclusioni

A ragione di quanto detto finora, è giunto il momento delle richieste da parte di entrambi le fazioni. Véronique, Marcello, Ezio e Alessia, rappresentanti dell’uffici stampa, chiedono ai giornalisti di: leggere bene i materiali che vengono inviati loro; non relazionarsi personalmente con il cliente da loro presentato senza che loro non ne vengano a conoscenza; conservare le email e i comunicati, al fine di creare un archivio da cui attingere nel momento in cui ne avranno bisogno. Dall’altra parte Anna e Penelope implorano per non ricevere più WeTransfer che scadono, suggerendo come alternativa WeDrive. Infine, chiedono di evitare di inviare comunicati stampa di notizie che notizie non sono: la realizzazione del nuovo sito aziendale o il nuovo menu dello chef di turno.

Il dibattito si conclude con le risposte alla domanda «Che consiglio daresti a chi ha appena iniziato o vuole intraprendere questo lavoro?». Ezio Zigliani ritiene che chi vuole occuparsi di ufficio stampa dovrebbe prima dedicarsi al mondo del giornalismo, per capire come funziona e come poi relazionarsi a esso. Alessia Rizzetto suggerisce come attività imprescindibile quella di leggere, creare un proprio database di informazioni e di giornalisti, farsi una cultura. Agire con buon senso aggiunge Véronique. Marcello Lovagnini ritiene che sia essenziale avere uno sguardo critico, conoscere il panorama completo e imparare a scrivere, prima di tutto in italiano. Dal lato giornalistico, la nostra direttrice Anna Prandoni consiglia di scrivere avendo sempre in mente il lettore e ciò che gli può essere più utile. Penelope invece, avere pazienza e rispettare sempre il lavoro altrui.

Il rispetto è proprio il valore su cui è emerso dovrebbe basarsi il rapporto tra uffici stampa e giornalisti, insieme a conoscenza reciproca, eleganza e gentilezza, che non guasta mai.

Il Corriere della Sera: Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Storia

Prima pagina del N. 1 del Corriere della Sera (5 marzo 1876). La sede del «Corriere» dal 1889 al 1904 (via Pietro Verri). 

Il Corriere della Sera è uno storico quotidiano italiano, fondato dal napoletano Eugenio Torelli Viollier a Milano nel 1876. Pubblicato da RCS MediaGroup, è il primo quotidiano italiano per diffusione e per numero di lettori. Il suo slogan è: “La Libertà delle idee”.

Un giornale con la denominazione Corriere della Sera, fondato dal ventitreenne Giuseppe Rovelli, fu pubblicato a Torino nel 1866, ma dopo solo due numeri (1º agosto e 2 agosto) il quotidiano cessò le pubblicazioni per mancanza di fondi.

Dalle origini al 1900

Il Corriere della Sera nacque nel febbraio del 1876 quando Eugenio Torelli Viollier direttore de La Lombardia, e Riccardo Pavesi, editore della medesima, decisero di fondare un nuovo giornale.

Il primo numero venne annunciato dagli strilloni in piazza della Scala alle 21 di domenica 5 marzo 1876, con la data del 5-6 marzo. La doppia data indicata consentiva la validità del giornale per il pomeriggio del primo giorno e la mattina del giorno seguente. Per il lancio venne scelta la prima domenica di Quaresima (tradizionalmente quel giorno i giornali milanesi non uscivano). Il Corriere sfruttò quindi l'assenza di concorrenza; però, per non inimicarsi l'ambiente, devolse in beneficenza il ricavato del primo numero. La foliazione era di quattro pagine, stampate in 15 000 copie.

Come sede del nuovo giornale fu scelto un luogo di prestigio, la centralissima Galleria Vittorio Emanuele. Tutto il giornale era raccolto in due stanze ed era fatto da tre redattori (oltre al direttore) e da quattro operai. I tre collaboratori di Torelli Viollier erano suoi amici:

Raffaello Barbiera (1851-1934), veneto, che aveva rinunciato al suo impiego al Comune di Venezia per inseguire le sue velleità letterarie. Aveva conosciuto Torelli nel salotto della contessa Maffei pochi mesi prima della fondazione del giornale;

Giacomo Raimondi (1840-1917), l'unico nato nella città dove si pubblicava il giornale, nonché l'unico che aveva già svolto la professione di giornalista. Già collaboratore del quotidiano economico Il Sole e del Gazzettino Rosa (dove si firmava "l'Economista"), l'aveva lasciato quando il periodico aveva deciso di aderire all'Internazionale marxista. Nel 1892 aveva fondato, con l'industriale Riccardo Gavazzi, l'Associazione per la libertà economica. Nel dibattito tra protezionisti e antiprotezionisti, si collocava tra quest'ultimi;

Ettore Teodori Buini, originario di Livorno. Amico personale di Eugenio da dieci anni, colto e poliglotta, aveva viaggiato in tutto il mondo, tanto che Torelli lo aveva definito "personaggio salgariano".

Teodori Buini fu nominato caporedattore. Portò al giornale anche sua moglie, Vittoria Bonaccina, che tradusse alcuni dei romanzi pubblicati sulle pagine del Corriere. La signora Bonaccina non era l'unica donna: collaborò anche la moglie di Torelli, Maria Antonietta Torriani, scrittrice di romanzi d'appendice con lo pseudonimo "marchesa Colombi". Per le indispensabili corrispondenze da Roma si era offerto di collaborare gratuitamente Vincenzo Labanca, vecchio amico di Torelli Viollier. Per l'estero c'erano accordi con l'Agenzia Stefani e la francese Havas.

L'amministratore del giornale era il fratello di Eugenio, Titta Torelli. Il giornale veniva fatto stampare da una tipografia esterna, che possedeva uno stanzone nei sotterranei della Galleria Vittorio Emanuele.

Dall'articolo di fondo del nº 1 del «Corriere della Sera»: Al Pubblico

"Pubblico, vogliamo parlarti chiaro. In diciassette anni di regime libero tu hai imparato di molte cose. Oramai non ti lasci gabbare dalle frasi. Sai leggere fra le righe e conosci il valore delle gonfie dichiarazioni e delle declamazioni solenni d'altri tempi. La tua educazione politica è matura. L'arguzia, l'esprit ti affascina ancora, ma l'enfasi ti lascia freddo e la violenza ti dà fastidio. Vuoi che si dica pane al pane e non si faccia una trave d'una fessura. Sai che un fatto è un fatto ed una parola non è che una parola, e sai che in politica, più che nelle altre cose di questo mondo, dalla parola al fatto, come dice il proverbio, v'ha un gran tratto. Noi dunque lasciamo da parte la rettorica [sic] e veniamo a parlarti chiaro.

Noi siamo conservatori. Un tempo non sarebbe stato politico, per un giornale, principiar così. Il Pungolo non osava confessarsi conservatore. Esprimeva il concetto chiuso in questa parola con una perifrasi. Ora dice apertamente: "Siamo moderati, siamo conservatori". Anche noi siamo conservatori e moderati. Conservatori prima, moderati poi. Vogliamo conservare la Dinastia e lo Statuto; perché hanno dato all'Italia l'indipendenza, l'unità, la libertà, l'ordine. In grazia loro si è veduto questo gran fatto: Roma emancipata da' papi che la tennero durante undici secoli. [...] Siamo moderati, apparteniamo cioè al partito ch'ebbe per suo organizzatore il conte di Cavour e che ha avuto finora le preferenze degli elettori, e - per conseguenza - il potere.[...] L'Italia unificata, il potere temporale de' papi abbattuto, l'esercito riorganizzato, le finanze prossime al pareggio: ecco l'opera del partito moderato. Siamo moderati, il che non vuol dire che battiamo le mani a tutto ciò che fa il Governo. Signori radicali, venite tra noi, entrate ne' nostri crocchi, ascoltate le nostre conversazioni. Che udite? Assai più censure che lodi. Non c'è occhi più acuti degli occhi degli amici nostri nel discernere i difetti della nostra macchina politica ed amministrativa; non c'è lingue [sic] più aspre, quando ci si mettono, nel deplorarli. [...] Gli è che il partito moderato non è un partito immobile, non è un partito di sazi e dormienti. È un partito di movimento e di progresso. Sennonché, tenendo l'occhio alla teoria, non vogliamo perdere di vista la pratica e non vogliamo pascerci di parole, e sdegniamo i pregiudizii liberaleschi. E però ci accade di non voler decretare l'istruzione obbligatoria quando mancano le scuole ed i maestri; di non voler proscrivere l'insegnamento religioso se tale abolizione deve spopolare le scuole governative; di non voler il suffragio universale, se l'estensione del suffragio deve porci in balia delle plebi fanatiche delle campagne o delle plebi voltabili [sic] e nervose delle città. [...]

[Conclusione] A' giornali dello scandalo e della calunnia sostituiamo i giornali della discussione pacata ed arguta, della verità fedelmente esposta, degli studi geniali, delle grazie decenti, rialziamo i cuori e le menti, non ci accasciamo in un'inerte sonnolenza, manteniamoci svegli col pungolo dell'emulazione, e non ne dubitiamo, il Corriere della sera potrà farsi posto senza che della sua nascita abbiano a dolersi altri che gli avversari comuni".

Nei giorni successivi le vendite del quotidiano si assestarono sulle 3 000 copie. Il prezzo di un numero era di 5 centesimi (un soldo) a Milano, 7 fuori città. Il giornale era così composto: la prima pagina ospitava l'articolo di fondo, la cronaca del fatto più rilevante e i commenti al fatto. La seconda era dedicata alla cronaca politica italiana e straniera. La terza pagina ospitava la cronaca milanese e le notizie telegrafiche. La quarta pagina era dedicata per tre quarti alle inserzioni pubblicitarie e agli annunci economici. I caratteri venivano stampati in corpo 10. Il Corriere andava in macchina alle 14 per essere distribuito circa due ore dopo, e usciva con una doppia datazione (5-6 marzo, per esempio), poiché la lentezza dei trasporti faceva sì che spesso giungesse nelle altre regioni l'indomani. La doppia datazione sarebbe perdurata fino al dicembre 1902. Il primo romanzo d'appendice pubblicato sul foglio di Torelli Viollier fu L'incendiario di Élie Berthet. Nei suoi primi dieci anni di vita il Corriere affidò la raccolta pubblicitaria alla A. Manzoni & C. di Attilio Manzoni.

La realizzazione del Corriere, come di quasi tutti i giornali dell'epoca, era artigianale: la scrittura degli articoli, tranne che per le corrispondenze da Roma, era "fatta in casa", non essendoci cronisti (li aveva solo Il Secolo). La maggior parte del lavoro era affidata alla penna e alle forbici (per i dispacci "adattati") di Torelli Viollier, con un ritmo d'aggiornamento di 2/3 giorni per le notizie interne e di 10/15 per l'informazione proveniente dall'estero. Il giornale non aveva una tipografia propria (con i conseguenti problemi di gestione dell'autonomia del giornale) e limitava al massimo la pubblicazione di disegni e incisioni, che invece erano frequenti sul Secolo. Torelli assunse in redazione delle nuove leve: Luigi Gualdo (che Torelli Viollier aveva conosciuto a Parigi), Raffaele de Cesare (gestirà la famosa rubrica Note Vaticane) e Ugo Sogliani (futuro caporedattore). Per non rimanere troppo distante dal concorrente, Torelli Viollier decise fin dal 1877 di ricevere notizie via telegrafo (da Roma). Il primo telegramma estero giunse da Parigi nel 1878.

Proprio il 1878 fu un anno di svolta. Al principio dell'anno re Vittorio Emanuele II fu colto da un'improvvisa malattia che lo portò alla morte. Tutti i giornali italiani diedero ampio spazio all'avvenimento, ma dopo la sua morte tornarono a pubblicare le solite notizie. Torelli Viollier invece continuò a trattare la notizia della morte del re per un'ulteriore settimana. Ciò fece aumentare le vendite da 3 000 a 5 600 copie; le vendite salirono nel resto dell'anno fino a sfondare a dicembre quota 7 000 copie giornaliere. Nel consueto articolo di fine anno, che Torelli Viollier pubblicava prima delle festività natalizie, il direttore ringraziò i lettori e confermò il suo impegno a trattarli "non come avventori [...], ma come amici e soci in un'impresa comune, giacché come tali li consideriamo, e tali sono".

Dagli anni ottanta Milano iniziò a essere investita da una rapida trasformazione economica e sociale. Un nuovo ceto di commercianti e industriali (di origine né aristocratica, né liberale) si affermò come nuova forza emergente. Il Corriere seppe intercettare questo nuovo pubblico e in pochi anni riuscì ad attirare la sua attenzione. Nel 1881 la tiratura raggiunse stabilmente le 10 000 copie giornaliere. Nell'articolo di fine anno (Programma per l'anno 1882), Torelli annunciò il potenziamento dell'uso del telegrafo per la trasmissione dei pezzi dei corrispondenti, che fino ad allora si erano avvalsi prevalentemente del servizio postale. Il direttore voleva che anche le notizie dall'estero giungessero in tempi rapidi: nel 1882 inviò i primi corrispondenti all'estero, nelle città di Parigi, Londra e Vienna. Nel Programma per l'anno 1883 Torelli annunciò che non avrebbe più utilizzato i rendiconti dell'agenzia Stefani per quanto riguarda i lavori del Parlamento, ma avrebbe raccolto le notizie in proprio.

Nel 1883 il Corriere si dotò finalmente di una tipografia propria. Fu acquistata una nuova rotativa (König & Bauer) capace di produrre 12 000 copie l'ora. Nel sotterraneo lavoravano una ventina di macchinisti e ventiquattro tipografi su tre turni. Il Corriere cominciò a stampare due edizioni al giorno: una nel primo pomeriggio e una seconda in serata. Alla fine del 1885 il giornale produceva quasi esclusivamente notizie in proprio. Torelli Viollier poteva affermare che "ben di rado il Corriere stampa notizie ritagliate da altri fogli e le forbici della redazione, che sono il redattore capo di molti giornali, arrugginiscono".

Dal 1883 al dicembre 1885 la tiratura passò da 14 000 a 25 000. Il Corriere vendeva il 58% delle copie in Lombardia, il 20% tra Piemonte ed Emilia (seguendo le direttrici delle linee ferroviarie), il resto era distribuito in Veneto, Liguria, Toscana e in alcune città delle Marche e dell'Umbria. Nella città di Milano era il secondo quotidiano, davanti a La Perseveranza e dietro a Il Secolo. Tuttavia, mentre il Secolo aveva alle spalle il sostegno di una casa editrice (la Sonzogno), il Corriere doveva contare solamente sulle proprie forze.

La forza del giornale stava nell'alleanza tra Torelli Viollier e il nuovo socio di Busto Arsizio (poi trasferitosi a Milano), Benigno Crespi (1848-1910), fratello del ricchissimo industriale cotoniero Cristoforo Benigno Crespi: Torelli Viollier desideroso di fare un giornale moderno; Crespi attento ai bilanci, ma sensibile a effettuare investimenti, anche cospicui, per mantenere il giornale competitivo. L'ingresso di Crespi quale proprietario e finanziatore del Corriere aveva portato: all'acquisto di una seconda macchina rotativa (che aveva permesso un miglioramento della fattura delle pagine e un aumento consistente delle copie stampate), all'incremento dei servizi telegrafici e all'assunzione di nuovi collaboratori, scelti da Torelli in completa indipendenza. I redattori del Corriere diventarono sedici.

Tiratura dalla fondazione al 1900

1876: 3 299

1878: 7 645

1881: 10 000

1885: 25 000

1890: 65 000

1900: 90 000

Un avviso pubblicitario del 1887 pubblicato su una rivista di Milano.

 

Nel 1887 il Corriere stipula il primo contratto con una concessionaria di pubblicità, la ditta Haasenstein & Vogler. Il giornale si assicura così un'entrata annuale fissa. Il contratto durerà fino al 1915, quando Luigi Albertini deciderà di gestire autonomamente le inserzioni pubblicitarie. A partire dalla seconda metà degli anni ottanta le colonne del Corriere ospitarono stabilmente varie rubriche giornaliere, nate sperimentalmente negli anni precedenti. Le principali furono:

la rubrica letteraria, pubblicata di lunedì (nata nel 1879),

la Cronaca dalle grandi città, realizzata dagli inviati nelle principali città italiane (dal novembre 1883),

La Vita, consigli di igiene e di economica domestica (apparsa nel 1885),

La Legge, dove un esperto legale rispondeva ai lettori (nata nel 1886).

Il quotidiano continuava a pubblicare su ogni numero un romanzo d'appendice a puntate. Le pagine a disposizione erano sempre quattro, di cui una (la quarta) dedicata in gran parte alla pubblicità.

Nel 1886 Torelli Viollier ideò la figura del "redattore viaggiante", ovvero il cronista che sceglieva un itinerario e scriveva tutto quello che vedeva lungo il percorso: fatti, persone, storie, ecc. Nello stesso anno per la prima volta le copie vendute del giornale sorpassarono le copie distribuite in abbonamento. Alla fine del decennio le vendite raggiunsero 60 000 copie, ponendo il Corriere tra i giornali più venduti del Nord Italia.

I nomi dei giornalisti che lavoravano al Corriere cominciarono a essere noti: Paolo Bernasconi (inviato a Parigi), Dario Papa, A. Barattani, Carlo Barbiera, Vico Mantegazza. Fece la sua prima comparsa il medico e criminologo Cesare Lombroso. I collaboratori fissi e saltuari erano circa 150. Redattore capo era Ugo Sogliani. A partire dal 1888 il Corriere spostò la prima edizione all'alba e arretrò la seconda edizione al pomeriggio, tradizionalmente letta dai lombardi dopo il lavoro. L'edizione mattutina servì a far arrivare il giornale nelle regioni più lontane entro il giorno di pubblicazione. Nel 1889 il giornale si trasferì in via Pietro Verri, in un palazzo di proprietà di Crespi.

Nel 1890 venne inaugurata la terza edizione, diversa e con notizie fresche. Le uscite quotidiane furono così scadenzate: la prima veniva distribuita a partire dalle 4 di notte, la seconda dalle 15 e la terza dalle 22:40. La novità che attirò maggiormente la curiosità dei lettori fu il notiziario sportivo. Apparso nel 1892, era curato da Augusto Guido Bianchi (Torino 1868 - Milano 1951), assunto giovanissimo nel 1887 appositamente per coprire il settore ciclistico, che si stava espandendo molto velocemente. Nel 1893 Torelli Viollier autorizzò Bianchi a fondare un settimanale sportivo, Il Ciclo (primo numero: 4 ottobre 1893; dal 1894 La Bicicletta). In tre anni il periodico raggiunse la ragguardevole tiratura di 25 000 copie. Era evidente lo sforzo del Corriere per fornire un prodotto completo al fine di conquistare sempre più larghe fette di mercato. Il Corriere, come gli altri quotidiani più importanti, era un giornale di quattro pagine su cinque colonne, con dimensioni un po' più piccole del formato lenzuolo. A partire dagli anni novanta il Corriere offrì ai suoi lettori notizie di prima mano anche da luoghi diversi dalle capitali europee (si pensi ai corrispondenti di guerra in Africa). Negli anni novanta Torelli Viollier cambiò il concetto grafico della prima pagina: abolì l'appendice (la parte bassa della pagina), che fu sostituita da un articolo letterario (un pezzo di argomento intellettualmente elevato) in quinta colonna, con continuazione nella prima colonna della seconda pagina. Nacque così l'«articolo di risvolto». Adolfo Rossi subentrò a Ugo Sogliani come caporedattore.

Nel 1896 Torelli Viollier potenziò i servizi da Roma nominando Michele Torraca, parlamentare e giornalista professionista, capo dell'ufficio romano del Corriere. In settembre assunse il venticinquenne Luigi Albertini come segretario di redazione, ruolo inesistente all'epoca in Italia e ritagliato su misura: Albertini mostrava già spiccate doti organizzative ed elevate conoscenze tecniche, mentre non aveva alle spalle una solida carriera giornalistica. Albertini si impose agli occhi dei colleghi per il piglio organizzativo e la capacità decisionale, doti che espresse anche in occasione delle proteste di maggio del 1898, quando decise di mandare tutto il personale direttamente nelle strade di Milano, in cerca di nuove notizie.

Proprio i fatti di maggio segnarono una svolta nella direzione del quotidiano. La linea di Torelli Viollier venne messa in discussione finché il 1º giugno il fondatore decise di rassegnare le dimissioni. I proprietari insediarono alla direzione l'editorialista e deputato di area conservatrice Domenico Oliva. Nel resto dell'anno Luigi Albertini, ancora lontano dai vertici del Corriere, viaggiò nelle principali capitali europee per studiare la fattura dei più moderni quotidiani stranieri, accrescendo il proprio bagaglio di conoscenze organizzative.

L'era Albertini

Il bilancio del Corriere della Sera 1899/1900 vide un ridimensionamento delle principali voci del giornale. Nell'assemblea del 14 maggio 1900 i proprietari espressero le loro preoccupazioni per il futuro della testata. Luigi Albertini, che era stato promosso direttore amministrativo all'inizio dell'anno, si unì al coro esprimendo le proprie rimostranze sulla gestione. Oliva per tutta risposta rassegnò le dimissioni. Il 26 aprile era morto Eugenio Torelli Viollier. In luglio i proprietari assegnarono ad Albertini l'incarico di gerente responsabile (cioè direttore editoriale); Albertini entrò anche nel capitale sociale con una piccola partecipazione. Non fu nominato nessun nuovo direttore politico (oggi direttore responsabile), per cui in ottobre Albertini riunificò le funzioni di direttore editoriale e direttore responsabile. Meno di due anni dopo fu raggiunto in via Solferino dal fratello minore Alberto, che rimase al suo fianco per tutta la durata della sua esperienza al Corriere.

Il sorpasso sul Secolo.

Tiratura dal 1903 al 1913

1903: 76 000

1904: 94 000

1905: 112 000

1906: 150 000

1910: 200 000

1911 (ottobre): 275 000

1913: 350 000

Fonte: Andrea Moroni, Alle origini del «Corriere della Sera» (2005).

Albertini confermò Vittorio Banzatti nella carica di redattore capo, cui succedette nel 1903 Oreste Cipriani. Il segretario di redazione fu Andrea Marchiori. In soli quattro anni Albertini seppe raddoppiare le vendite portandole da 75 000 a 150 000, surclassando il diretto concorrente «Il Secolo» (nelle pubblicità, «Il Secolo» si fregiava del titolo di "più diffuso quotidiano italiano") e diventando il primo quotidiano italiano per diffusione. Nascono in questo periodo alcuni periodici collegati al prodotto-Corriere pensati per un pubblico eterogeneo: «La Domenica del Corriere» (8 gennaio 1899), popolare, «La Lettura» (gennaio 1901), diretto dal commediografo Giuseppe Giacosa e rivolto al pubblico colto, il «Romanzo mensile» (aprile 1903), che raccoglie i romanzi d'appendice pubblicati a puntate sul «Corriere», il «Corriere dei Piccoli» (27 dicembre 1908), periodico illustrato per ragazzi. Nel 1901 il Corriere festeggia i 25 anni di vita. Per dare risonanza all'evento organizza, insieme con l'Automobile Club di Torino, il Giro d'Italia in automobile, la prima manifestazione del genere mai disputata in Italia. I chilometri da percorrere furono circa 1.650. La corsa partì da Torino ed arrivò a Milano attraversando longitudinalmente la penisola.

Intanto, nel 1904 il giornale si era trasferito in un nuovo grande stabilimento, con oltre mille addetti: un palazzo, modellato sulla sede del «Times» di Londra) progettato da Luca Beltrami. Da allora il «Corriere» mantenne sempre lo stesso indirizzo: Via Solferino 28. In tipografia vennero installate le quattro nuove rotative Hoe, fatte venire dagli Stati Uniti. La nuova tecnologia consentì di portare la foliazione prima a 6 pagine, poi a 8. La prima pagina venne ridisegnata a sei colonne. Albertini decise di potenziare anche l'approvvigionamento di notizie dall'estero, stringendo accordi di collaborazione con i quotidiani stranieri. Dapprima raggiunge un accordo con il francese «Le Matin». Il quotidiano parigino aveva già un'intesa con il quotidiano britannico «The Standard»; ciò consentì al Corriere di ottenere informazioni anche sui fatti riguardanti il Regno Unito e gli USA. Sempre desideroso di migliorare l'approvvigionamento informativo, Albertini volle avere notizie dal Regno Unito in tempo reale. A questo scopo nel marzo del 1905 strinse un accordo diretto con il «Daily Telegraph». L'intesa consacrò il Corriere a livello internazionale. Inoltre consentì ad Albertini di sostituire «Le Matin», le cui fortune erano in calo, con il ben più diffuso «Petit Journal».

Saldi attivi di bilancio

del Corriere della Sera

In lire italiane:

1900: 260 272

1903: 256 191

1906: 408 506

1909: 767 253

1912: 1 295 195

1915: 2 147 467

1918: 3 424 125

1921: 12 301 666

Fonte: Lorenzo Benadusi,

Il «Corriere della Sera» di Luigi Albertini (2012)

Nel 1907 il Corriere pubblicò i reportage del proprio inviato più famoso, Luigi Barzini dal raid Pechino-Parigi. Gli articoli, apparsi in Terza pagina, conferirono al quotidiano milanese e al suo inviato speciale una risonanza mondiale. Al successo della Terza del «Corriere» contribuirono in maniera decisiva anche gli elzeviri di Ettore Janni, critico letterario, e Ugo Ojetti. Il 18 dicembre 1907 da Fort Monroe, negli Stati Uniti, Barzini trasmise in esclusiva italiana per il Corriere il primo articolo via telegrafo senza fili. Nel 1908 il quotidiano milanese, memore del successo del primo Giro automobilistico d'Italia tenutosi qualche anno prima, progettò di lanciare con il Touring Club Italiano e la Bianchi il Giro ciclistico d'Italia. Ma la concorrente Gazzetta dello Sport lo bruciò sul tempo, organizzando essa stessa il Giro d'Italia per il 1909.

Durante la Campagna di Libia (1911-12), sapendo che l'interesse del pubblico sarebbe stato altissimo, Albertini mandò in Tripolitania i suoi migliori inviati, tra cui Luigi Barzini e Guelfo Civinini. Attestato su posizioni liberal-conservatrici, il Corriere si schierò contro la politica di Giovanni Giolitti. Nel periodo del neutralismo italiano (1914-15) Albertini mantenne il giornale su una posizione di prudente attendismo pacifista. Il sostegno agli interventisti fu dichiarato pochi mesi prima dell'entrata in guerra. Con la direzione di Albertini il Corriere conobbe un crescendo inarrestabile: 275 000 copie nel 1911, che salirono a 400 000 nel 1918, grazie all'interesse per la guerra mondiale, per toccare quota 600 000 nel 1920. La "macchina" del Corriere era guidata da Eugenio Balzan, direttore amministrativo dell'azienda-Corriere, noto per la sua puntigliosità nel sorvegliare i conti. Tra il corpo redazionale vanno segnalati: Augusto Guido Bianchi, redattore sportivo; Oreste Rizzini, caporedattore della politica estera; Giacomo Raimondi, decano del «Corriere», esperto di materie economiche e finanziarie (Luigi Einaudi fu il suo successore); Alberto Colombani, titolare della critica musicale, mentre quella teatrale è di competenza di Giovanni Pozza (verrà sostituito nel 1914 da Renato Simoni). La rubrica sportiva è a cura di Adolfo Cotronei.

Scrivevano per la Terza pagina del quotidiano milanese molte fra le firme più prestigiose della cultura italiana, come Gabriele D'Annunzio, Benedetto Croce, Luigi Pirandello, Grazia Deledda, Ada Negri, Renato Simoni, Giuseppe Antonio Borgese, Francesco Pastonchi e Massimo Bontempelli. Fuori dall'ambito strettamente letterario si annoverano il politologo Gaetano Mosca e il giurista Francesco Ruffini e, soprattutto, l'economista Luigi Einaudi. La collaborazione di Einaudi al quotidiano milanese, durata ben 21 anni, cominciò nel 1904, dapprima in forma anonima e dal 1906 firmando i propri articoli. Albertini ottenne un contratto d'assoluta esclusiva con i prestigiosi collaboratori, accorgimento che permise al giornale di realizzare pagine culturali di altissimo livello. Nell'ottobre del 1921 Luigi Albertini fu designato membro della missione italiana alla Conferenza sul disarmo negli armamenti navali di Washington. Cedette formalmente la direzione al fratello Alberto, lasciandogli così tutte le funzioni operative.

Il Corriere durante il Ventennio

Il Corriere della Sera si mostrò molto distaccato nei confronti dell'uomo politico emergente nell'Italia del 1922: Benito Mussolini. Il 27 ottobre, nell'imminenza della marcia su Roma, Mussolini contattò personalmente Luigi Albertini chiedendo al giornale di tenere una linea neutrale. Il tentativo non ebbe effetto. Per ritorsione, quella stessa notte il comando militare fascista di Milano ordinò ai miliziani di porsi davanti all'uscita della tipografia, impedendo così l'uscita del quotidiano il giorno 28. Il governo Mussolini mostrò insofferenza per l'indipendenza politica del giornale, già a partire da quel giorno. Dopo il Delitto Matteotti (10 giugno 1924) il Corriere, nonostante i tentativi d'intimidazione, rappresentò la voce indipendente e più autorevole contro il regime. La tiratura toccò alte vette: ottocentomila copie nei giorni feriali ed un milione la domenica.

Dal giugno 1924 al novembre 1925 furono effettuati centinaia di sequestri di copie del Corriere in varie parti d'Italia, di cui 12 ordinati dalla sola Prefettura di Milano. Il 2 luglio 1925 il prefetto di Milano Vincenzo Pericoli inviò agli Albertini una formale diffida, che implicava una minaccia di soppressione della testata. Nel novembre 1925, dopo una serie di diffide e intimidazioni, il regime fascista ottenne le dimissioni di Albertini dalla direzione e la sua uscita dalla società editrice del quotidiano. Tramite cavilli giuridici, la famiglia Crespi, detentrice della maggioranza delle quote della società, ne acquistò anche la quota in mano agli Albertini, rimanendo il proprietario unico. Il 28 novembre Albertini scrisse il suo ultimo articolo di fondo.

Dopo l'uscita di scena di Albertini lasciarono il giornale: Alberto Tarchiani (redattore capo dal 1919), Mario Borsa e Carlo Sforza (editorialisti di politica estera), Luigi Einaudi (editorialista di economia), Francesco Ruffini (giurista e storico), Augusto Monti (esperto di pedagogia e problemi dell'istruzione), Ettore Janni (critico letterario), Guglielmo Emanuel e Luciano Magrini (inviati speciali) ed altri redattori e inviati. Eugenio Balzan, il direttore amministrativo, rimase invece al suo posto. La direzione fu affidata temporaneamente a Pietro Croci, corrispondente da Parigi. Gli subentrò Ugo Ojetti, mente più incline alla letteratura che alla politica. Ojetti assunse Orio Vergani, che divenne una delle firme di punta del Corriere; inoltre decise il cambiamento nell'aspetto grafico della pagina, che passò da sei a sette colonne. Ojetti guidava il giornale da Milano, ma la pagina politica del Corriere era fatta a Roma, dove il regime aveva collocato un suo uomo, Aldo Valori.

Ad Ojetti seguì la debole direzione di Maffio Maffii, durante la quale iniziò la fascistizzazione del quotidiano milanese. Sotto l'imposizione del regime, il Corriere si conformò alle esigenze della dittatura: uso tassativo dell'agenzia ufficiale Stefani e delle disposizioni di Achille Starace, il vice segretario del Partito Nazionale Fascista. Nel 1928 venne assunto il ventiduenne Dino Buzzati. Fece una lunga carriera al Corriere e nei settimanali del gruppo.

Alla fine del 1928 sbarcò a via Solferino un giornalista di professione, Aldo Borelli, proveniente dalla direzione de La Nazione di Firenze. Borelli fu un giornalista di regime: lasciò che ad occuparsi della politica fosse la redazione romana, che riceveva e pubblicava le veline del governo. Inoltre, seguì le direttive del regime con particolare zelo, invitando redattori e collaboratori del giornale a scrivere articoli razzisti e antisemiti. Un altro emblematico esempio dell'atteggiamento antiebraico di Borelli è dato dalla censura che impose alle notizie relative alle persecuzioni inflitte dai nazisti agli ebrei e ai polacchi. Confermò il capo redattore Oreste Rizzini e si concentrò sulla pagina culturale. Continuarono a collaborarvi le grandi firme dei tempi di Albertini: Bontempelli, Borgese, Croce, D'Annunzio, Ada Negri, Pirandello, Simoni e Pastonchi. Ad essi si aggiunsero: Corrado Alvaro, Silvio D'Amico, Giovanni Gentile, Arnaldo Fraccaroli, Giovanni Papini e Attilio Momigliano. Consulente di Borelli per le pagine culturali fu il critico Pietro Pancrazi.

Nel 1929 il Corriere cominciò a pubblicare anche recensioni cinematografiche. La novità fu accolta inizialmente con sorpresa, poiché il cinema era ritenuto un argomento «non serio», ma i brillanti articoli di Filippo Sacchi fecero ricredere anche i più diffidenti. Nel 1934 il Corriere si dotò di una nuova rotativa Hoe. Nello stesso anno cominciò a produrre in proprio le fotografie da pubblicare sul giornale. Nel 1935 anche Borelli, come Ojetti pochi anni prima, decise un aumento delle colonne della pagina, che passarono da 7 a 8. Alcuni numeri dell'azienda-Corriere: nel 1935 lavoravano per il giornale (e i suoi periodici illustrati) quasi 1500 persone, fra redattori, collaboratori, tipografi, impiegati. Durante gli anni trenta Borelli assunse una schiera di giovani che, negli anni seguenti, divennero tra i migliori giornalisti italiani: Indro Montanelli (che al giornale conobbe Dino Buzzati, di cui divenne grande amico), Guido Piovene, Paolo Monelli e Gaetano Afeltra. Nel 1936 fu assunto Michele Mottola, destinato a diventare, negli anni cinquanta, vicedirettore.

Nel 1939 uscì in prima pagina un lungo articolo a firma di Benito Mussolini che illustrava le proprie idee sulla storia. Accanto si pubblicò il manifesto di Walter Resentera che celebrava l'anniversario dei Sansepolcristi, i fasci di combattimento. Fu una delle cause della damnatio memoriae di Resentera, valente pittore, nel dopoguerra.

Il 10 giugno 1940 l'Italia entrò in guerra. Il 14 febbraio 1943 la sede del Corriere fu bombardata. I danni furono ingenti, ciò costrinse l'editore a trasferire in periferia tre rotative e altri macchinari. Il 25 luglio del 1943, alla caduta del fascismo, Borelli pagò per tutti e fu allontanato, venendo sostituito da Ettore Janni, il più anziano degli antifascisti di via Solferino. Dal 3 agosto l'edizione pomeridiana (esistente sin dal 1902) uscì con una propria testata: «Il Pomeriggio» (e la sottotestata «Corriere della Sera»), sotto la direzione di Filippo Sacchi. L'esperimento di doppia direzione ebbe breve durata, terminando l'8 settembre.

Dopo l'8 settembre, e la successiva occupazione nazista di Milano, Janni e Sacchi ripararono all'estero. Si autosospesero dal giornale sedici redattori: alcuni entrarono nelle file della Resistenza, altri si allontanarono da Milano, altri ancora si nascosero da amici e conoscenti. Furono tutti considerati dimissionari (quindi licenziati) dalla gerenza della società editrice. Durante il regime della Repubblica Sociale fu posto alla direzione del quotidiano Ermanno Amicucci. Tra il 24 giugno e il 18 luglio 1944 uscì una serie di articoli intitolati Storia di un anno. La ricostruzione andava dall'ottobre 1942 all'otto settembre 1943. La serie riscosse subito un grande interesse. Alla 19ª ed ultima puntata il direttore Amicucci rivelò che l'autore degli articoli era Benito Mussolini.

Dal 1945 al 1973

Un mese dopo la sospensione imposta dal Comitato di Liberazione Nazionale (27 aprile - 21 maggio 1945), il quotidiano torna in edicola con la testata Corriere d'Informazione. L'anno successivo esce come Il Nuovo Corriere della Sera (la testata Corriere d'Informazione passò all'edizione del pomeriggio, avvalendosi di una propria redazione separata). Il quotidiano uscì in un unico foglio: nella prima pagina si trovavano le notizie nazionali e internazionali; la seconda pagina, sotto l'intestazione Corriere milanese, ospitava la cronaca di Milano e della provincia.

Il nuovo direttore designato dal CLN, l'azionista Mario Borsa, segnò una netta rottura con il passato, pubblicando editoriali coraggiosi sulla necessità dell'Italia di fare i conti con la dittatura e di chiudere subito con la Monarchia. In occasione del referendum istituzionale del giugno 1946, Borsa schierò il Corriere in favore della Repubblica. Il suo articolo di fondo terminava con queste parole: «Paura di che? Del famoso salto nel buio? Lo credono i nostri lettori: il buio non è nella Repubblica o nella Monarchia. Il buio, purtroppo, è in noi, nella nostra ignoranza, o indifferenza, nelle nostre incertezze, nei nostri egoismi di classe o nelle nostre passioni di parte».

Nel frattempo la famiglia Crespi era ritornata proprietaria del Corriere dal 1º gennaio 1946. Alla fine dell'estate i Crespi sostituirono Borsa con il liberale Guglielmo Emanuel. La conduzione di Emanuel si rifà prettamente allo stile albertiniano, il nuovo direttore ripristina anche il rigoroso rispetto delle gerarchie. Principale editorialista (fino al 1953) è Cesare Merzagora. Il Corriere di Emanuel vende in media 405 000 copie.

Nel 1952 i fratelli Mario, Vittorio e Aldo Crespi chiamarono alla direzione Mario Missiroli, proveniente dal Messaggero. Al suo arrivo, Guido Piovene lasciò via Solferino mentre ritornò Enrico Massa, che era uscito dal Corriere nel 1925 (con Luigi Albertini). Fu chiuso il mensile d'informazione bibliografica La Lettura, nato nel 1901. Missiroli promosse Gaetano Afeltra, uno degli uomini-macchina del giornale, caporedattore centrale. Diventerà il suo alter ego. A questo tandem si aggiunse l'altro caporedattore centrale, Michele Mottola. Nel 1953 il direttore assunse Panfilo Gentile, e Giovanni Spadolini come editorialisti (quest'ultimo dopo soli due anni verrà chiamato alla direzione del Resto del Carlino).

Il Corriere si trovava in un periodo d'oro: sia il quotidiano che La Domenica del Corriere primeggiavano nel proprio settore, con vendite in crescita. L'azienda di via Solferino decise di aprire un nuovo stabilimento-stampa, per fare fronte alle crescenti tirature del settimanale. Nel 1958 il Corriere diventò il primo giornale italiano ad impiegare un elaboratore elettronico per calcolare i dati di vendita nelle edicole. Nello stesso anno iniziarono i lavori di ampliamento della sede. Lo stabilimento fu allargato con l'aggiunta di un nuovo edificio in cemento, vetro e acciaio, all'angolo tra via Moscova e via San Marco. Fu installata una nuova rotativa, una "Man"; il nuovo edificio ospitò anche gli uffici della diffusione. I lavori si conclusero nel 1963.

In quegli anni furono valorizzati i più illustri giornalisti, editorialisti, inviati speciali, corrispondenti dall'estero mai avuti dal Corriere: Domenico Bartoli, Luigi Barzini, Dino Buzzati, Egisto Corradi, Max David, Enzo Grazzini, Eugenio Montale, Indro Montanelli, Giovanni Mosca, Vittorio G. Rossi, Orio Vergani, Gino Fantin, Enrico Emanuelli, Augusto Guerriero, Silvio Negro, Carlo Laurenzi, Ennio Flaiano e tanti altri. La linea politica di Missiroli era un misto di cauto equilibrismo e di equidistanza dai partiti. Impose ai giornalisti la consegna di non cercare nessuna notizia in esclusiva, sostenendo che ci si dovesse attenere scrupolosamente ai lanci ufficiali delle agenzie di stampa.

Vendita media giornaliera

del Corriere

*1962: 380 000

1963: 406 000

1964: 425 000

1965: 441 000

1966: 457 000

1976: 654 818

All'inizio degli anni sessanta la proprietà assunse la convinzione che il Corriere dovesse rinnovarsi. Due fatti apparirono particolarmente significativi: 1) Il concorrente Il Giorno, più moderno e scattante, stava intercettando molti nuovi lettori; 2) La concorrente Rizzoli annunciò (1961) l'uscita di un quotidiano nato da una costola del settimanale Oggi: Oggi quotidiano. Per la direzione del nuovo giornale i Rizzoli puntarono su Gianni Granzotto, che aveva 47 anni, contro i 75 del direttore del Corriere. I fratelli Crespi decisero che Missiroli avesse fatto il suo tempo e rescissero il contratto. Però non intesero cambiare la linea del giornale: come successore scelsero non un antimissiroliano, bensì un Missiroli giovane.

Il primo candidato fu Giovanni Spadolini: aveva solo 36 anni ma era già direttore di un quotidiano da oltre 100 000 copie: il Resto del Carlino di Bologna. Missiroli lo considerava il suo «delfino» ma la scelta, oltre a dividere la famiglia Crespi, provocò la minaccia di dimissioni da parte di otto firme di prestigio, tra cui Indro Montanelli (secondo Mario Cervi, inizialmente Montanelli avrebbe proposto ai Crespi di nominare direttore Mario Pannunzio). Per uscire dall'impasse, la proprietà negoziò con gli otto giornalisti la nomina di Alfio Russo, l'ex corrispondente da Parigi, che qualche anno prima aveva lasciato il Corriere per andare a dirigere La Nazione di Firenze. Gaetano Afeltra, direttore del Corriere d'Informazione, fu nominato vicedirettore del Corriere (tuttavia si dimetterà ben presto per contrasti con Russo). Michele Mottola divenne il secondo vicedirettore. Le cariche di direttore dell'edizione del mattino e del pomeriggio vengono riunificate. Arturo Lanocita fu promosso caporedattore centrale.

Alfio Russo portò con sé da Firenze alcuni giovani che diventarono giornalisti di prim'ordine: Giovanni Grazzini, Gianfranco Piazzesi, Leonardo Vergani (scomparso poi prematuramente), Giuliano Zincone e Giulia Borghese, la prima giornalista donna assunta al Corriere. Il nuovo corso fu avvertito immediatamente dai lettori. Nel luglio 1962 fu pubblicata un'inchiesta di Indro Montanelli sull'Eni di Enrico Mattei. L'inchiesta, uscita a puntate dal 13 al 17 luglio, dimostrò che la politica estera italiana non era quella guidata dal governo, ma quella dell'Eni, e che Mattei aveva fatto pagare il metano oltre il dovuto per finanziare la ricerca di un petrolio che in Italia non esisteva e per costringere i governi ad attuare una politica filoaraba, in modo da portare gli Stati arabi a rompere il monopolio delle Sette sorelle con continui rialzi di prezzo del greggio (prezzi che poi ricadevano sul consumatore italiano). In seguito Mattei scrisse una lettera formale molto risentita, mentre l'Eni tolse la pubblicità al quotidiano milanese (la pubblicità rendeva annualmente 700 milioni).

I primi anni della direzione di Russo furono volti a contrastare l'ascesa del principale concorrente sulla piazza di Milano: Il Giorno. Raccontava i fatti di cronaca con un taglio nuovo e pubblicava un inserto sportivo il lunedì che aveva molto successo. Russo corse ai ripari: trasformò sia la cronaca che lo sport. Venne promosso alla direzione della cronaca di Milano Franco Di Bella, mentre a capo dello sport fu chiamato Gino Palumbo. Inoltre fu inaugurata la rubrica delle lettere al direttore, che al Corriere non esisteva, segno che Russo intese adottare un approccio meno intellettuale. Nel 1963 ruppe lo schema tradizionale della foliazione inserendo le «pagine speciali»: da quella letteraria a quelle dedicate ai giovani, alle donne, alle scienze, ai motori, all'economia e alla finanza. L'orientamento del quotidiano restò moderato e liberale, con uno sguardo attento e critico verso il centrosinistra, tanto che in quello stesso 1963, all'indomani dell'ingresso dei socialisti nel governo Moro, Russo sostituì tutti i redattori politici: Aldo Airoldi, notista, Goliardo Paoloni, Alberto Ceretto e Tommaso Martella, resocontisti rispettivamente di Palazzo Chigi, della Camera e del Senato. Gli inviati di punta divennero Piero Ottone, Alberto Cavallari ed Enzo Bettiza, entrambi nati nel 1927 (nel 1964 avevano appena 37 anni).

Dopo il disastro del Vajont (9 ottobre 1963), il Corriere lanciò una sottoscrizione pubblica per aiutare le popolazioni rimaste senza casa. La sottoscrizione batté largamente quella indetta dalla televisione di Stato. Tant'è che il Comune di Vajont dedicò una piazza del proprio paese chiamandola Piazza del Corriere della Sera in segno di riconoscenza verso il giornale milanese. È del 1965 uno scoop internazionale: l'intervista a Papa Paolo VI, realizzata da Alberto Cavallari (la prima intervista italiana a un Papa era stata concessa da Papa Giovanni XXIII a Indro Montanelli). In occasione della Fiera di Milano del 1964 il Corriere uscì per la prima volta a 32 pagine.

Il Corriere di Russo fornì un'ampia copertura anche degli avvenimenti esteri: quando la Grecia, nel 1967, venne rovesciata dalla dittatura dei colonnelli, il Corriere della Sera fu l'unico giornale italiano a mandare sul posto un proprio inviato, Mario Cervi. Infine, il Corriere mantenne in pianta stabile in Vietnam Egisto Corradi, che inviò dall'Estremo oriente memorabili corrispondenze. Sul finire degli anni sessanta, i nuovi equilibri in seno alla famiglia Crespi resero necessario un avvicendamento al vertice del giornale. A sostituire Alfio Russo venne chiamato Giovanni Spadolini, già candidato in pectore sette anni prima. Piero Ottone e Alberto Cavallari, molto vicini ad Alfio Russo ed entrambi aspiranti alla successione, non presero bene la decisione dell'editore. Lasciarono il giornale, l'uno per dirigere Il Secolo XIX di Genova l'altro Il Gazzettino di Venezia.

Di solito la direzione del quotidiano rappresentava il coronamento della carriera per un giornalista. Vedere arrivare in via Solferino un professionista in piena ascesa fu un'assoluta novità, tanto che per la prima volta una troupe della Rai vi si recò per intervistare il nuovo direttore. Spadolini, uomo di cultura e professore universitario, allargò la schiera dei collaboratori alla terza pagina, chiamando Leonardo Sciascia, Giacomo Devoto, Denis Mack Smith, Leo Valiani, Goffredo Parise (inviato in Cina e in Biafra) e Alberto Arbasino. Gaspare Barbiellini Amidei scrisse di cultura e attualità: altre firme illustri sono Giorgio Bassani, Manlio Cancogni, Guido Calogero e Piero Chiara. Spadolini promosse Dino Buzzati, che aveva stabilito il record di vendite de La Domenica del Corriere, portandolo dentro il quotidiano come critico d'arte. Leopoldo Sofisti fu nominato caporedattore. Fu promosso al rango di condirettore Michele Mottola, mentre Gian Galeazzo Biazzi Vergani fu nominato vicedirettore. Fra gli altri giornalisti assunti da Spadolini vanno ricordati Piero Ostellino, Francesco Ricciu e Luca Goldoni. La linea politica spadoliniana era ben delineata fin dal primo articolo di fondo intitolato Il dialogo: il nuovo direttore si dichiarò fautore di un'alleanza del centro con la sinistra riformista.

Il 1968 fu l'anno della contestazione studentesca, e il Corriere della Sera fu oggetto di un attacco, in quanto «simbolo borghese», il 12 aprile, pochi giorni dopo l'insediamento di Spadolini. Del gruppo di manifestanti fece parte anche l'editore Giangiacomo Feltrinelli. Il Corriere raccontò i maggiori eventi che coinvolsero gli atenei universitari e intervistò i massimi intellettuali dell'epoca: Ugo Stille incontrò Herbert Marcuse; Enzo Bettiza, inviato a Parigi, parlò con Raymond Aron, Emil Cioran, Eugène Ionesco, Claude Lévi-Strauss, Edgar Morin, Jean-François Revel, Jean-Paul Sartre, Jean-Jacques Servan-Schreiber ed altri. Nello stesso anno fu pubblicata la prima intervista fatta dal quotidiano al leader storico del socialismo italiano, Pietro Nenni. Seguì, l'anno seguente, la prima intervista del Corriere ad un leader del partito comunista, Luigi Longo (realizzata da Enzo Bettiza).

Nel 1969 scoppiarono forti agitazioni sindacali che culminarono nei mesi tra settembre e dicembre, periodo ricordato come «autunno caldo». Spadolini, per spiegare le violenze del tempo, coniò la formula «opposti estremismi», che presto venne ripresa dagli altri organi d'informazione. L'8 novembre 1969 rimase ferito Aldo Mariani, cronista del Corriere d'Informazione. Alla fine dell'anno il Corriere di Spadolini vantava una diffusione media giornaliera di 630 000 copie, che aumentava a 710 000 per l'edizione del lunedì.

Nel 1970, dopo la sanguinosa strage di piazza Fontana, il Corriere inizialmente seguì la linea dettata dalla Procura di Milano, che accusò formalmente gli anarchici di essere gli autori dell'attentato. In un secondo tempo via Solferino prese le distanze dal dibattito politico e ritornò al ruolo collaudato di osservatore equidistante. Ma questa linea, improntata al garantismo, rende più impopolare Spadolini alla sinistra, attirando la rabbia dei contestatori e dell'universo giovanile.

Via Solferino si mantenne neutrale anche in occasione delle elezioni per il Presidente della Repubblica svoltesi nel dicembre 1971. Nel gennaio di quell'anno il Corriere era ai massimi livelli di vendita: veleggiava sulla quota record di 620 000 copie di tiratura e 500 000 di vendita media giornaliera. La pubblicità portava nelle casse del giornale nove miliardi all'anno. La Domenica del Corriere vendeva 850 000 copie e raccoglieva anch'essa miliardi di pubblicità. Il Corriere d'Informazione, anche se economicamente passivo, era sulle 130 000 copie. A partire dall'inizio del 1971 e fino al febbraio-marzo del 1972, le vendite subirono un calo.

All'inizio degli anni settanta entrò nell'attività del giornale Giulia Maria Crespi, figlia di Aldo e unica erede di famiglia, che debuttò creando l'ORGA (un'organizzazione che portò per la prima volta il bilancio del giornale in rosso), e successivamente volle dirigere la linea politica. Con l'arrivo della Crespi fu infranta la regola che aveva contraddistinto la vita del quotidiano, ossia l'equidistanza politica: da quel momento i partiti politici fecero pressioni perché i propri iscritti rappresentassero la redazione. I nuovi dirigenti del sindacato avevano il sostegno dei comunisti e pretesero che i comitati di redazione dei giornali agissero in sintonia con i consigli di fabbrica, di cui la CGIL aveva la maggioranza.

I Crespi erano soliti far firmare ad ogni nuovo direttore un contratto iniziale di cinque anni, per poi prolungarlo eventualmente di un anno alla volta. Invece nel 1972 Spadolini, al quarto anno di direzione, venne licenziato. Il 3 marzo gli si comunicò la risoluzione del contratto. Per la prima volta da quando, nel 1925, la famiglia Crespi era diventata proprietaria del quotidiano, un direttore era costretto a lasciare anzitempo l'incarico. Sul licenziamento di Spadolini, che apparve come un vero e proprio defenestramento, tanto da provocare perfino uno sciopero, esistono tesi diverse, ma nessuna di esse ha mai trovato conferma. Fin dall'agosto del 1971, avevano preso forma delle voci, secondo le quali la proprietà sarebbe stata intenzionata a sostituire Spadolini con Indro Montanelli. Venuto a conoscenza della cosa, quest'ultimo ne aveva messo al corrente Spadolini, ma senza ottenere ascolto. Come nuovo direttore, la proprietà decise di affidare il quotidiano a Piero Ottone, che entrò in carica il 15 marzo 1972.

Dai Crespi ai Rizzoli

Piero Ottone valorizzò alcuni giovani redattori, tra cui Giampaolo Pansa, inviato di punta per le pagine politiche, Massimo Riva, giornalista economico poi passato a la Repubblica, Giuliano Zincone e, come collaboratore, Pier Paolo Pasolini, a cui era stata affidata la rubrica Scritti corsari tenuta fino alla sua morte, nel 1975. Con la direzione di Piero Ottone, la linea politica del Corriere fece una netta virata a sinistra. Le vendite però non ne beneficiarono: nel 1972 l'azienda "Corriere" chiuse i bilanci con un passivo che sfiorò i 2 miliardi su un fatturato di 52 miliardi. Alla fine del 1973 il deficit toccò la cifra di 7 miliardi su un fatturato di 57. Neanche il clima all'interno del giornale migliorò. La redazione si spaccò in due: tra i più critici vi era Indro Montanelli, che rilasciò due interviste ai settimanali Il Mondo e Panorama, in cui parlò per la prima volta di una sua possibile uscita dal giornale.

La reazione della proprietà non si fece attendere: il 17 ottobre 1973 Piero Ottone comunicò a Indro Montanelli che la sua collaborazione con il giornale doveva considerarsi conclusa (si seppe in seguito dopo un ultimatum della stessa Giulia Maria Crespi). Al licenziamento seguì una vera e propria fronda: una trentina di giornalisti decisero di raggiungere Montanelli, impegnato nella fondazione da zero di un quotidiano milanese alla destra del Corriere: Egisto Corradi, Carlo Laurenzi, Enzo Bettiza, Mario Cervi, Gianfranco Piazzesi, Leopoldo Sofisti, Giancarlo Masini, Roberto A. Segre, Antonio Spinosa, Egidio Sterpa, Cesare Zappulli e Gian Galeazzo Biazzi Vergani. Ad essi si aggiunsero Guido Piovene e Gianni Granzotto: il nuovo quotidiano, chiamato il Giornale nuovo (poi divenuto il Giornale), uscì con il primo numero il 25 giugno 1974.

In risposta alla forte spaccatura che si era creata nella redazione del Corriere, nella primavera del 1974 Piero Ottone elaborò un nuovo programma improntato al decentramento del lavoro. Non più un solo vicedirettore, ma tre, per poter seguire meglio i giornalisti, i collaboratori e gli amministratori del giornale. Inoltre, il comitato di redazione assumeva un ruolo che andava ben al di là delle questioni sindacali, coinvolgendolo nella fattura stessa del giornale. Il programma venne presentato dallo stesso Ottone il 30 marzo nell'assemblea dei redattori, che lo approvarono. I critici (in particolare Enrico Mattei su Il Tempo) commentarono: «Ottone ha creato un "soviet" in redazione».

Durante la direzione di Piero Ottone si verificarono alcuni episodi di tensione e di autocensura. Nel 1974 Cesare Zappulli scrisse sulla Domenica del Corriere un pezzo critico sull'operato di Bruno Storti, segretario della CISL. Il 1º marzo il consiglio di fabbrica e il comitato di redazione organizzarono un'assemblea a cui parteciparono circa mille persone, tra cui i comitati di redazione dei quotidiani Avanti! e l'Unità, in contumacia contro Zappulli: sul numero successivo della Domenica del Corriere comparve un duro comunicato sindacale contro il giornalista, che non ebbe possibilità di replicare.

L'anno dopo, il 19 maggio 1975, giunse da Lisbona la notizia che i militanti comunisti avevano occupato con forza la redazione del quotidiano Repubblica, filosocialista. Renzo Carnevali, caposervizio della redazione esteri, riportò la notizia intitolando I comunisti occupano il giornale socialista ma a tarda notte, senza autorizzazione, alcuni redattori modificarono il titolo in Tensione a Lisbona fra Pc e socialisti. Il giornalista protestò con il direttore, e successivamente fu costretto a dimettersi, faticando a trovare qualcuno che gli offrisse un posto di lavoro.

Enzo Bettiza, inviato del Corriere della Sera tra il 1964 e il 1974 (e successivamente condirettore del Giornale nuovo), descrisse in modo molto critico la linea editoriale sotto la direzione Ottone, spiegando che si era finiti per fare un quotidiano che era «la negazione anziché l'imitazione del Times» (a cui il direttore diceva di volersi ispirare), pieno di commenti e incentrato su un giornalismo ideologico, aggiungendo:

«L'Italia e il mondo che avevano preso a specchiarsi nel Corriere [...] evocavano una specie d'immenso Nordeste brasiliano brulicante di favelas [...] le cui disgrazie, sociologizzate, venivano attribuite tutte a un unico mostro dai contorni indefiniti: il sistema. [...] Dalle inchieste che Ottone concordava coi redattori più arrabbiati e più pietosi veniva fuori un cupo affresco medievale. I treni non erano più treni, ma "veicoli per deportati". Le stazioni non erano più stazioni ma "bolge dantesche". Il colera del napoletano non era più una malattia, ma "la fase acuta che mette in risalto il male cronico della nostra società". L'industria non era più l'industria, ma un moloch avido di carne umana che "continua a ferire e uccidere l'operaio". Il sistema capitalistico veniva raffigurato come la metafora del sistema tout court e bollato col marchio di "istigazione a delinquere". Il mondo del lavoro appariva un vivaio di microbi portatori di "paralisi flaccida, silicosi, polinevrite, asbestosi, saturnismo". I delinquenti non erano più tali, perché vittime della società, mentre quelli veri indossavano "il camice bianco negli ospedali psichiatrici", oppure dirigevano "da una poltrona di velluto rosso i desperados della lupara". Altri ancora, dai loro grattacieli in vetrocemento, erano puntigliosamente intenti ad "avvelenare l'aria, l'acqua, il cibo". L'Italia appariva come inghiottita da un cataclisma di dimensioni apocalittiche. [...] In un Corriere che, scavalcando spesso a sinistra l'Unità, diffondeva una simile visione a.»

Il 12 luglio 1974 la proprietà del giornale, che l'anno prima aveva visto l'ingresso di Gianni Agnelli e Angelo Moratti come soci di minoranza, passò interamente al gruppo editoriale Rizzoli. Rizzoli si presentò come un editore puro, privo cioè di interessi finanziari esterni all'editoria. Il nuovo proprietario confermò Piero Ottone alla direzione, accolse l'ingresso di due grandi firme come Enzo Biagi e Alberto Ronchey e annunciò un piano di potenziamento del giornale, che scattò nel 1976 con la nascita dell'edizione romana. L'obiettivo fu un aumento di 10-15 000 copie nella capitale. Nel 1977 furono lanciati un inserto economico settimanale e un supplemento in rotocalco a colori (in vendita il sabato con un sovrapprezzo di 50 lire).

Il 2 giugno di quell'anno Indro Montanelli subì un attentato da parte delle Brigate Rosse, che lo gambizzarono in piazza Cavour. La notizia del ferimento fu riportata in prima pagina, omettendo però di citare il nome del famoso giornalista. Nell'occhiello c'era scritto Dopo i magistrati e le forze dell'ordine i gruppi armati colpiscono la stampa, mentre il titolo era I giornalisti nuovi bersagli della violenza. Le Brigate rosse rivendicano gli attentati.

Il nome di Montanelli apparve soltanto nel secondo elemento del sommario, nonostante fosse stato per decenni una delle firme più importanti della testata e dell'intero panorama giornalistico italiano. Secondo Franco Di Bella, che definì quel comportamento «un episodio sconcertante di faziosità», la responsabilità non sarebbe però da attribuire al direttore Piero Ottone, che in quelle ore si trovava fuori Milano.

Circa tre settimane prima, durante gli scontri in via De Amicis che causarono la morte del brigadiere Antonio Custra, il fotografo Paolo Pedrizzetti fotografò un estremista a gambe piegate, con il passamontagna sul volto, mentre sparava contro la polizia. Quell'immagine diventò l'icona degli anni di piombo. La sera del 14 maggio quella fotografia fu offerta anche alla cronaca del Corriere della Sera che, a differenza degli altri quotidiani, la rifiutò. Il giorno dopo fu pubblicata con grande risalto da molti giornali. Il capocronista Salvatore Conoscente e il suo vice Giancarlo Pertegato dissero di non essere stati loro a rifiutare quella foto, senza tuttavia dare spiegazioni pubbliche. Gli editori Andrea e Angelone Rizzoli chiesero al direttore di svolgere un'inchiesta interna, e successivamente fu deciso di nominare Enzo Passanisi nuovo capocronista.

Intanto, le costose iniziative adottate dal nuovo editore non avevano prodotto i risultati attesi. In luglio la società editrice fu ricapitalizzata. I nuovi soci chiesero a Rizzoli un cambio di direzione al Corriere entro fine anno. Ottone li anticipò, dimettendosi il 22 ottobre 1977. L'abbandono di Ottone fu seguito dall'uscita di Michele Tito, Giampaolo Pansa e Bernardo Valli che, con altri collaboratori, lasciarono il quotidiano milanese (tra essi Umberto Eco, Franco Fortini e Natalia Ginzburg).

Il successore di Ottone fu Franco Di Bella (già vicedirettore per cinque anni), che veniva richiamato al Corriere da Bologna, dove dirigeva il Resto del Carlino: la scelta significava che l'editore, oltre ad avvalersi di un collaudato uomo-macchina, voleva rendere il quotidiano più moderno e incisivo. All'inizio i lettori diedero ragione alla nuova linea editoriale: il Corriere continuò a vendere.

Nel corso del 1978 si realizzò il passaggio dalla fusione a piombo alla fotocomposizione: la nuova tecnologia fu inaugurata il 26 settembre di quell'anno. Di Bella rese più vivace il giornale che si arricchì con l'inserto settimanale sull'economia (coordinato da Alberto Mucci, ex direttore de Il Sole 24 Ore), con l'avvio della corrispondenza da Pechino affidata a Piero Ostellino e con alcune interviste clamorose di Oriana Fallaci.

All'inizio di novembre del 1978 il direttore diede spazio in prima pagina alla missiva di una lettrice che affrontava il tema del matrimonio e del divorzio. Temi come il costume e la vita moderna avevano rarissimo accesso alla «vetrina» di un quotidiano d'informazione italiano. Per il Corriere della Sera si trattò di una novità assoluta. La lettrice ammetteva di tradire il marito e affermava di non poter divorziare poiché non avrebbe potuto affrontare gli alti costi di una vita da sola. Di Bella incaricò Luca Goldoni, cronista di punta del quotidiano, di rispondere alla lettrice (4 novembre). Il botta e risposta tra lettrice e Corriere ebbe una vasta eco su tutta la stampa italiana. Molti altri quotidiani ripresero l'argomento, tutti i principali settimanali dedicarono una copertina al rapporto di coppia e all'adulterio. Di Bella osservò soddisfatto il dibattito che aveva provocato quella lettera, e ne ebbe buoni motivi: il giornale superò le 770 000 copie di diffusione. Alla fine del 1979, la Rizzoli fissò gli obiettivi da raggiungere negli anni ottanta: il quotidiano di via Solferino doveva puntare al milione di copie.

Nel 1980 il Corriere della Sera fu colpito frontalmente dal terrorismo: una delle firme di punta del quotidiano, l'inviato Walter Tobagi, specialista sui temi dell'eversione armata e presidente dell'Associazione Lombarda Giornalisti (il sindacato dei giornalisti lombardi), venne assassinato la mattina del 28 maggio.

Gli anni ottanta

I costosi investimenti effettuati dall'editore tra il 1977 e il 1979 non avevano prodotto i risultati sperati. La Rizzoli aveva compiuto scelte imprenditoriali sbagliate, che avevano ulteriormente peggiorato i conti del gruppo. La casa editrice si era lanciata in oscure manovre finanziarie, che emersero alla luce del sole nel 1981, quando scoppiò lo scandalo della loggia P2. Il Corriere della Sera fu coinvolto al massimo livello poiché nell'elenco di personaggi pubblici affiliati alla loggia eversiva c'era anche il suo direttore Franco Di Bella, il presidente del gruppo Angelone Rizzoli così come il direttore generale Bruno Tassan Din. Apparve chiaro come la Rizzoli non fosse più da tempo la proprietaria reale: il quotidiano, già da qualche anno, era in mano al duo Roberto Calvi-Licio Gelli. Il tutto all'insaputa dell'opinione pubblica.

Per il prestigio del Corriere della Sera il colpo fu durissimo e Di Bella fu costretto alle dimissioni. Episodio-simbolo delle vicende del giornale, in questo periodo, fu la pubblicazione di un'intervista in ginocchio di Maurizio Costanzo, egli stesso membro della P2, a Licio Gelli. Nell'intervista Gelli parlò del suo progetto politico di «rinascita» dell'Italia: spiccavano nel disegno del Gran Maestro l'abolizione del servizio pubblico radiotelevisivo e il controllo dei giornali più importanti. Nei due anni seguenti il Corriere, screditato, perse 100 000 copie. Tra il 1982 e il 1983 venne superato nelle vendite dalla Gazzetta dello Sport perdendo il primato tra i quotidiani italiani: non accadeva dal 1906.

Dopo l'uscita di scena della famiglia Rizzoli il giornale fu acquistato da una cordata di cui facevano parte nomi importanti dell'industria e della finanza nazionali, tra cui la FIAT. Per il Corriere divenne prioritario recuperare il rapporto di fiducia coi propri lettori, che si era pericolosamente incrinato. La ricostruzione fu opera soprattutto di Alberto Cavallari, direttore con un mandato triennale dal 1981 al 1984. Durante i suoi tre anni Cavallari riuscì a mandare il giornale ogni giorno in edicola, nonostante le difficoltà economiche (spesso mancavano i soldi per la carta). A Cavallari sarebbe dovuto succedere Gino Palumbo, un altro grande professionista valorizzato da Alfio Russo. Ma a causa della malattia che di lì a qualche anno lo portò alla morte Palumbo fu costretto a rinunciare. Il 18 giugno 1984 Cavallari consegnò al nuovo direttore Piero Ostellino un giornale che aveva ritrovato fiducia in se stesso e che era ritornato in testa alle classifiche di vendita. La media giornaliera del triennio 1983-1985 si aggirò intorno alle 470-490 000 copie vendute.

Alla fine del 1986 il Corriere perse per la seconda volta il suo storico primato: questa volta ad opera del quotidiano romano la Repubblica: 515 000 copie di diffusione quotidiana a fronte delle 487 000 del "Corriere". Nel febbraio 1987 fu operato un avvicendamento alla direzione: l'editore ringraziò Piero Ostellino e chiamò Ugo Stille, glorioso corrispondente dagli Stati Uniti da oltre trent'anni, una colonna del Corriere. Scopo della nomina era rinverdire il blasone della testata. Per quanto riguarda il recupero del primato nelle vendite, fu operato un immediato rinnovamento del giornale. Poi gli esperti della Rizzoli Periodici, coadiuvati da Paolo Pietroni, idearono e realizzarono un supplemento in carta patinata da abbinare al quotidiano. Sabato 12 settembre uscì il primo numero di Sette. Di grande formato, la rivista contava 122 pagine stampate in rotocalcografia. Il lancio avvenne un mese prima dell'uscita del supplemento del giornale concorrente, Il Venerdì di Repubblica. Nonostante il prezzo lievemente aumentato, l'iniziativa fu un successo: per diversi mesi il numero del sabato del Corriere non scese mai sotto le 900 000 copie di tiratura ed arricchì di molto la raccolta pubblicitaria. Negli altri giorni della settimana il quotidiano di via Solferino non riusciva però a scalfire il primato del concorrente: durante il 1988 il Corriere vendette in media 530 000 copie, la Repubblica 700 000.

Un nuovo capitolo della lotta per il primato si ebbe l'anno seguente: il 14 gennaio 1989 il Corriere lanciò Replay, un gioco a premi basato sul recupero dei biglietti usati nella Lotteria di Capodanno: ogni giorno venivano premiati quattro biglietti non vincenti giocati nelle lotterie nazionali, per un totale di 10 milioni di lire di premi al giorno. L'idea ebbe un grande successo: il primo giorno la tiratura arrivò a 980 000 copie. Nei mesi successivi le vendite in alcune città raddoppiarono. Entro l'anno il Corriere della Sera raggiunse le 800 000 copie di media, ritornando ad essere il primo quotidiano italiano.

Gli anni novanta

Con l'arrivo alla direzione di Paolo Mieli (1992-1997) si avviò un ricambio generazionale. Il nuovo direttore alleggerì il giornale abbandonando la distinzione tra «parte seria» e «parte leggera». In pratica la nuova formula previde la collocazione nelle pagine iniziali degli eventi importanti (sotto la nuova testatina "Primo Piano"), anche non politici: maggiore spazio allo sport, agli spettacoli ma anche all'economia. Chiuse l'inserto Corriere cultura nato nel 1986 e, uniformandosi agli altri quotidiani, soppresse la terza pagina rinviando la cultura nelle pagine interne e fondendola con gli spettacoli. Il nuovo direttore decise che la stagione dei giochi a premi era finita e lanciò un corso di inglese e francese su audiocassette. Successivamente spostò Sette al giovedì, abbinandolo ad un supplemento sulla tv. Tali iniziative ebbero successo e permisero al giornale di consolidare il primato. Secondo i dati ADS, infatti, nel primo quadrimestre del 1993 il Corriere registrò una diffusione di 641.969 copie, che crebbe a 667.589 nel secondo. Il vantaggio sulla Repubblica si attestò sulle trentamila copie.

Durante tutto il dopo-Tangentopoli Mieli preferì mantenere una posizione di terzietà rispetto al dibattito politico. L'unico punto su cui si schierò fu il conflitto di interessi attribuito a Silvio Berlusconi, che vinse le elezioni del 1994. Gli editoriali sull'argomento furono affidati al politologo Giovanni Sartori. La "discesa in campo" di Berlusconi causò anche il ritorno, seppure momentaneo, di Indro Montanelli in via Solferino. Erano passati 21 anni da quando si era dimesso dal Corriere per fondare un suo quotidiano: ebbene, in gennaio Montanelli lasciò «il Giornale». Scrisse per tre mesi sul Corriere come editorialista, prima di dar vita alla sua nuova creatura, la Voce. Tra il 1994 e il 1996 nacquero tre nuovi supplementi: Corriere Lavoro (4 febbraio 1994), Corriere Soldi (4 marzo 1995, che confluirà nel Corriere Economia dal 6 ottobre 1997) e Io Donna, il primo femminile allegato a un quotidiano a diffusione nazionale (23 marzo 1996). Nel 1995, dopo la sfortunata avventura con la Voce, ritornò in via Solferino Indro Montanelli. Al «principe» del giornalismo italiano venne affidata la pagina della corrispondenza quotidiana coi lettori, intitolata La stanza di Montanelli, che curò fino alla sua morte, nel 2001.

La battaglia per il primato tra i quotidiani italiani continuava senza esclusione di colpi anche sul fronte degli inserti e dei prodotti abbinati. All'inizio del 1996 Repubblica e Corriere presentavano ai lettori un supplemento al giorno (esclusa la domenica). Inoltre il Corriere usciva in alcune regioni italiane con la formula del "panino": ad esempio in Campania veniva venduto insieme a un quotidiano locale al prezzo di copertina del giornale locale, o a un prezzo leggermente rialzato. Mieli lanciò anche nuovi dorsi locali. Il 1996 fu un anno elettorale. Il 17 febbraio, in piena campagna per le elezioni, il direttore pubblicò un articolo di fondo in cui dichiarava il proprio sostegno alla coalizione dell'Ulivo. Fu la prima volta che il Corriere suggerì ai propri lettori per chi votare. Alle elezioni politiche prevalse il centrosinistra. Repubblica e Corriere si trovarono così a doversi confrontare sullo stesso terreno politico. La lotta fu aperta e i due quotidiani si riposizionarono: nettamente a favore del governo la prima, più critico il quotidiano milanese.

Il 23 aprile 1997 Paolo Mieli venne nominato direttore editoriale del Gruppo RCS e lasciò la direzione a Ferruccio de Bortoli, suo vicedirettore. Nel 1998 de Bortoli strappò alla concorrente Repubblica Giuseppe D'Avanzo, cronista esperto e autore d'importanti inchieste. Il 4 dicembre 1998 venne inaugurato il sito web corriere.it, dopo circa due anni di presenza in rete su rcs.it/corriere. Nel 2000 fu varata l'edizione romana (16 pagine di cronache locali).

Dal 2001 

Il 19 novembre 2001 l'inviata del Corriere Maria Grazia Cutuli fu uccisa in Afghanistan, sulla strada che collega Jalalabad a Kabul, assieme ad altri tre giornalisti.

Il 29 maggio 2003 si verificò un nuovo avvicendamento alla direzione: al posto di De Bortoli arrivò Stefano Folli, caporedattore dell'edizione romana. Folli strappò a Repubblica alcuni collaboratori, che portò con sé a Milano: Sabino Cassese, Luigi Spaventa e Michele Salvati. Il quotidiano romano si rifece portando via al Corriere Francesco Merlo. La battaglia si svolse anche sul fronte dei prodotti commerciali allegati al quotidiano: Repubblica offriva cento opere letterarie e un'enciclopedia in venti volumi; il Corriere rispose con film e compact disc. Le vendite del giornale però non aumentarono, anzi il primato nella diffusione nazionale fu insidiato dal concorrente.

Si decise quindi di richiamare in servizio Paolo Mieli: era il dicembre 2004. L'anno seguente il direttore approvò la riduzione del formato del giornale, sull'onda di un cambiamento che stava coinvolgendo tutti i quotidiani in formato lenzuolo (a nove colonne). Le colonne passarono dalle tradizionali nove a sette, il colore fu inserito in tutte le pagine e il formato fu ridotto da 53 × 38 cm a 50 × 35 cm, avvicinando il Corriere al formato berlinese. Venne modificato il corpo del carattere, in modo da rendere la lettura più agevole. Il primo numero con il nuovo formato e l'impaginazione tutta a colori uscì il 20 luglio 2005. Il 14 ottobre uscì il nuovo supplemento mensile «Style». Negli anni successivi nascono i fascicoli «Corriere di Bologna» (30 gennaio 2007) e «Corriere di Firenze» (26 febbraio 2008), collocati al centro delle edizioni nelle rispettive città metropolitane.

Il 30 marzo 2009 il Consiglio di amministrazione richiamò alla direzione del giornale De Bortoli, che prese nuovamente il timone della testata dalle mani di Mieli, così come era avvenuto nel maggio del 1997. Le prime novità apportate dalla direzione de Bortoli riguardano la valorizzazione delle collaborazioni femminili. Nel giro di pochi giorni accadono due novità assolute al Corriere: 1) Viene nominata per la prima volta vice-direttore una donna, Barbara Stefanelli; 2) Un editoriale in prima pagina viene affidato per la prima volta ad una donna, la scrittrice Isabella Bossi Fedrigotti (30 aprile). Nello stesso anno il Corriere diventa disponibile in formato elettronico sui lettori e-book, come Amazon Kindle, primo in ordine di tempo tra i quotidiani italiani.

All'inizio del 2010 il vantaggio sullo "storico" concorrente la Repubblica si è ridotto a 30 000 copie, rispetto alle 80 000 del marzo 2009, mentre la versione on line si arricchisce anche di una versione tradotta in lingua inglese e una in cinese, orientata alla comunità cinese presente in Italia. Nel 2011 ritorna il mensile di attualità librarie La Lettura. La storica testata era stata fondata nel 1901 da Luigi Albertini. Esce in allegato all'edizione domenicale del quotidiano.

Nel 2014 Nando Pagnoncelli ha preso il posto di Renato Mannheimer come sondaggista del quotidiano. Il 24 settembre 2014 il «Corriere» ha abbandonato lo storico formato lenzuolo (già ridotto a 7 colonne) per adottare il Berlinese a sei colonne.

Nel 2015 De Bortoli lascia la direzione del quotidiano al condirettore Luciano Fontana.

Dal gennaio 2016 i contenuti digitali sono presentati in un'unica piattaforma, leggibile sia su computer, tablet e smartphone. La consultazione degli articoli è diventata a pagamento (modello paywall). Un'altra importante novità è la consultazione online delle edizioni passate del quotidiano, rese disponibili sin dal primo numero.

Nell'aprile 2019 i dati Audiweb hanno mostrato per la prima volta il sorpasso del sito web corriere.it sul rivale storico repubblica.it (9 211 739 utenti unici contro 9 155 290).

Nel marzo 2022 l'editore Urbano Cairo dichiara che gli abbonamenti all'edizione digitale del quotidiano sono 423 000. Alla fine dell'anno il numero di abbonati supera quota 500 000.

Corriere ed elezioni politiche

Durante il voto per le elezioni politiche del 1992, il direttore Ugo Stille scrisse che «compito di un grande giornale come il "Corriere della Sera" è anzitutto quello di rompere gli steccati che rischiano di disgregare l'Italia, di chiarire quali sono gli elementi possibili di intesa al di là delle astratte posizioni ideologiche, e soprattutto di indicare la netta volontà della classe dirigente di "aprire al nuovo", non per compromessi ideologici, ma per elaborare insieme le premesse di una Italia moderna. Marciando su questa strada, si può e si deve ricostruire il Paese e il fatto che ciò implichi un incontro con uomini come La Malfa o Segni non muta i termini dell'equazione e non deve alterare il corso prestabilito».

Durante il voto per le elezioni politiche del 1994, il direttore Paolo Mieli, a commento della campagna elettorale trascorsa, scriverà di aver apprezzato «la coerenza tranquilla dei moderati Segni e Martinazzoli» e che sarà «tanto meglio se il centro avrà la forza numerica e politica per controllare e condizionare sia la destra che la sinistra, per imporre una legge elettorale a doppio turno, per far cadere un governo che non adempia ai doveri di risanamento economico o, peggio, che tolleri abusi».

Prima delle elezioni politiche del 1996, il Corriere non auspicò la vittoria di nessun polo in particolare, ma dichiarò di essere contrario a un pareggio e di auspicare che vincitori e vinti dopo le elezioni lavorassero per delle riforme costituzionali secondo la logica del compromesso.

In occasione delle elezioni politiche del 2001, la direzione di Ferruccio de Bortoli tre settimane prima spiega che «compito di un'informazione indipendente e non schierata è quello di favorire una scelta libera e consapevole dell'elettore. E di custodire, chiedendone il rispetto, quelle regole di civiltà e trasparenza del confronto democratico». E aggiunge che «non è corretto dire che dietro la Casa delle Libertà vi è solo un partito-azienda: c'è un blocco sociale vero, moderato, più coeso di quello opposto, una parte importante e vitale dell'Italia. Ma non si parlerebbe più di partito-azienda se Berlusconi separasse nettamente i destini del politico da quelli dell'imprenditore. Ci guadagnerebbero lui, il suo prossimo probabile governo, la sua coalizione (che godrebbe di maggiore considerazione europea), le sue aziende: in definitiva, il Paese». Sempre de Bortoli il giorno delle votazioni concluderà spiegando che «l'equidistanza del Corriere ci è sembrata utile se non preziosa. Crediamo di aver contribuito a migliorare la qualità dell'offerta politica. Il nostro giornale è stato un tavolo delle idee. Un giornale aperto, non un partito. I lettori hanno potuto valutare i programmi fin nei dettagli, le posizioni di tutti, dai due poli ai radicali, da Rifondazione a Democrazia Europea, all'Italia dei Valori. I nostri editorialisti hanno espresso anche orientamenti differenti, ma tutti uniti da un filo ininterrotto. Il filo del Corriere che lega insieme i valori di una democrazia liberale ed europea, nel segno della civiltà dell'informazione. Principi ai quali non abbiamo mai derogato e che saranno il metro con il quale giudicheremo, giorno per giorno, il prossimo governo. Nella critica costruttiva non abbiamo mancato di riconoscere i meriti della maggioranza uscente. [...] Berlusconi presidente del Consiglio, se vorrà essere riconosciuto come parte non anomala del centrodestra europeo, dovrà subito dare risposte alle grandi questioni sollevate anche dall'opinione pubblica internazionale (la teoria del complotto della stampa estera è infondata). [...] Poi il Cavaliere potrebbe dire: giudicatemi solo dai risultati. Quello che appunto faremo noi. Con chiunque vinca».

L'8 marzo 2006, prima delle elezioni politiche del 2006, con un proprio fondo Paolo Mieli decise di spiegare «ai lettori in modo chiaro e senza giri di parole perché» il Corriere auspicasse la vittoria de L'Unione di centro-sinistra guidata da Romano Prodi. Un auspicio, tuttavia, «che non impegna l'intero corpo di editorialisti e commentatori di questo quotidiano e che farà nel prossimo mese da cornice ad un modo di dare e approfondire le notizie politiche quanto più possibile obiettivo e imparziale, nel solco di una tradizione che compie proprio in questi giorni centotrent'anni di vita». Una decisione, secondo Mieli, conseguente al giudizio particolarmente negativo sulle scelte politiche adottate dal Governo uscente di Silvio Berlusconi, ma anche per scongiurare un pareggio fra le coalizioni e ripetere il fenomeno, giudicato salutare, dell'alternanza, e infine perché L'Unione aveva «i titoli atti a governare al meglio». Anche se Mieli azzeccò la previsione, la scelta di appoggiare una coalizione ebbe un effetto indesiderato: nelle settimane seguenti il Corriere perse 40 000 copie.

Durante la campagna elettorale per le politiche del 2008 (11 marzo-14 aprile), il direttore non ha pubblicato alcun editoriale.

Denominazione delle testate

Edizione mattutina

Dal 5 marzo 1876 al 25 aprile 1945: Corriere della Sera

26 aprile 1945: Il Nuovo Corriere (numero unico)

dal 27 aprile 1945 al 21 maggio 1945: Sospensione da parte del CLN

dal 22 maggio 1945 al 6 maggio 1946: Corriere d'Informazione

dal 7 maggio 1946 al 9 maggio 1959: Il Nuovo Corriere della Sera

dal 10 maggio 1959: Corriere della Sera

Edizione pomeridiana

fino al 2-3 agosto 1943 tutte le edizioni del Corriere hanno la stessa testata

dal 3-4 agosto 1943 al 23-24 aprile 1945: l'edizione del pomeriggio esce sotto una testata autonoma: «Il Pomeriggio» (esce anche il lunedì mattina, in sostituzione dell'edizione principale)

dal 7 maggio 1946 al 15 maggio 1981: Corriere d'Informazione (fino al 26 febbraio 1962 esce anche il lunedì mattina, in sostituzione dell'edizione principale)

Numero del lunedì

Esce dal 5 marzo 1962: Corriere della Sera del lunedì.

La testata viene abbreviata di solito con Corsera, o anche chiamata Corrierone o, per sineddoche, il quotidiano di via Solferino (sede storica della testata).

Variazioni dell'assetto proprietario

febbraio 1876 - Da un accordo tra il giornalista Eugenio Torelli Viollier e l'editore, e uomo politico, Riccardo Pavesi nasce il Corriere della Sera. Il giornale è di proprietà della Società de «La Lombardia», editrice del quotidiano «La Lombardia». Presidente della società editrice è Riccardo Pavesi. Torelli Viollier è direttore ed amministratore. Per avviare il nuovo quotidiano si prevede che occorrano 100 000 lire. Pavesi trova due soci finanziatori: gli avvocati Riccardo Bonetti e Pio Morbio. Nonostante ciò vengono raccolte solo 30 000 lire.

marzo-aprile 1876 - Riccardo Bonetti entra in magistratura ed abbandona la società.

1º settembre 1876 - Il sodalizio tra Riccardo Pavesi ed Eugenio Torelli Viollier si scioglie per divergenze politiche. La Società de «La Lombardia» mette in vendita il giornale. Si costituisce una "società di fatto" (società civile secondo il Codice di commercio vigente all'epoca) per rilevare la proprietà. Vengono raccolte 45 000 lire; il capitale sociale è suddiviso in nove carature. Tre quote sono acquistate da Pio Morbio. Gli altri soci sottoscrivono una quota ciascuno. Sono: il duca Raimondo Visconti di Modrone, il marchese Claudio Dal Pozzo, il nobile Giulio Bianchi, il commendatore Bernardo Arnaboldi Gazzaniga e il cavaliere Alessandro Colombani. Anche Riccardo Pavesi entra nella nuova società, con una quota acquisita a titolo personale. Buona parte del capitale è utilizzata per rilevare il Corriere, al costo di 22 000 lire.

1º ottobre 1876 - La prima assemblea della nuova società conferma Eugenio Torelli Viollier (il cui nome non figura nell'atto costitutivo) come gerente responsabile. Il nuovo amministratore del quotidiano è Giuseppe Bareggi.

1882 - Primo investimento nel giornale di Benigno Crespi (1848-1910), industriale milanese del tessile con interessi nei settori agricolo, elettrico e immobiliare. Il Crespi, che ha sposato la sorella di Pio Morbio, Giulia, acquista una sua quota, proprio grazie alla parentela acquisita. Si ritira invece Riccardo Pavesi. Nei suoi primi sette anni di vita il giornale non è ancora riuscito a distribuire un utile ai propri soci.

1884 - Pio Morbio apre un'attività negli Stati Uniti e si trasferisce in America. Le sue quote vengono rilevate dal cognato Benigno Crespi. Torelli Viollier è alla ricerca di un nuovo socio che sostituisca gli attuali, che appaiono interessati solo a salvaguardare i propri investimenti piuttosto che ad impegnarsi per l'affermazione del giornale sul mercato.

1885 - Il 30 marzo Torelli Viollier e Crespi fondano una nuova società, la E. Torelli Viollier & C. per la proprietà e la pubblicazione del giornale «Corriere della Sera»; è una società in accomandita semplice, in cui Crespi ha il ruolo di accomandante e Torelli Viollier di accomandatario. La società ha la durata di soli 6 anni ed un capitale di 100 000 lire, interamente conferito da Crespi. Torelli riceve per contratto uno stipendio di 10 000 lire annue. Crespi è interessato alla sola gestione economica: lascia piena autonomia a Torelli Viollier nella linea politica del giornale e della scelta dei collaboratori. Lo stesso 30 marzo la nuova società liquida i vecchi soci al costo complessivo di 70 000 lire. Alla fine dell'anno la gestione del Corriere è finalmente in utile, di circa 33 000 lire, che in pochi anni salgono fino a toccare quota 100 000. Nel 1889 la sede del quotidiano viene trasferita in via Pietro Verri, in un palazzo di proprietà di Crespi.

1886-1893 - L'utile del Corriere raggiunge e supera le 220 000 lire annue. Per Benigno Crespi è ormai la maggiore fonte di guadagni, superando anche gli introiti dell'industria tessile. All'inizio degli anni novanta l'attivo di bilancio superò il milione di lire. Nel 1891 la società viene prorogata fino al 1895. Nel 1894 l'architetto Luigi Broggi, amico personale di Torelli Viollier, è nominato amministratore del giornale.

1895 - Aumento del capitale sociale a 196 000 lire e proroga della società fino a 1905. Entrano due nuovi soci: Ernesto De Angeli (altro industriale tessile) ed il fondatore della Pirelli, Giovanni Battista. Il capitale è diviso in 16 quote di 12 000 lire ciascuna. Crespi ne conserva la metà, De Angeli e Pirelli ne sottoscrivono tre ciascuno, mentre Torelli si riserva le ultime due. Ogni quota dà diritto ad un voto, quindi Crespi dispone di fatto del controllo della società. I nuovi soci chiedono un avvicendamento alla direzione, ma Crespi mantiene al suo posto Torelli Viollier.

1900 - Il 26 aprile muore Eugenio Torelli Viollier. L'atto di costituzione prevede, nel caso della sua morte, la continuazione della società e il riscatto della sua quota sociale. Il 13 luglio viene redatto un nuovo atto sociale. Diminuito delle quote di Torelli, il valore della nuova editrice (una società in accomandita semplice come la precedente) scende a 168 000 lire. Il capitale sociale viene suddiviso in 56 carature, del valore di 3 000 lire ciascuna. Crespi ne sottoscrive 32, De Angeli 11, Pirelli 7, Luca Beltrami (nuovo socio) 4, Luigi Albertini (nuovo socio) 2. I voti non sono più assegnati in proporzione alle quote di capitale, ma viene conservata la precedente proporzione. Benigno Crespi, pertanto, non va oltre il 50% dei voti in consiglio, nonostante possieda il 57% delle quote. La nuova società modifica la ragione sociale in Luigi Albertini e C. per la proprietà e la pubblicazione del giornale «Corriere della Sera» e di altre pubblicazioni e si rinnova dopo 5 anni. Luigi Albertini è insieme gerente responsabile e direttore amministrativo. Il suo compenso è pari al 5% dell'utile del Corriere.

1907 - Muore Ernesto De Angeli, nelle cui quote subentra il nipote Carlo Frua. Il capitale sociale viene portato a 180 000 lire. Ne beneficia Luigi Albertini, che sottoscrive 4 nuove quote. Carlo Frua cede una caratura (scendendo da 11 a 10) a favore di Alberto Albertini, fratello di Luigi.

1910 - Muore Benigno Crespi; l'industriale lascia le partecipazioni ai figli Mario (1879-1962), Aldo (1885-1978) e Vittorio (1895-1963).

1920 - I fratelli Albertini acquistano tutte le quote di Pirelli, di Frua e di Beltrami, diventando così i soli comproprietari, assieme ai Crespi. Il capitale sociale è suddiviso in 60 carature, così distribuite: 35 ai fratelli Crespi, 22 a Luigi Albertini e 3 ad Alberto Albertini. Il passaggio delle quote avviene il 3 gennaio al prezzo di 250 000 lire a caratura.

1925 - Il fascismo pone ai Crespi una scelta obbligata: estromettere gli Albertini o altrimenti perdere il giornale, che sarebbe stato sospeso a tempo indeterminato. Il legale dei tre fratelli, Tullo Massarani, trova l'appiglio giuridico: scopre che il contratto di proroga della società editrice del Corriere, in scadenza nel 1930, firmato dai soci nel 1920, non è stato registrato dal notaio Gerolamo Serina e può quindi essere rescisso in qualsiasi momento a richiesta anche di uno solo dei sottoscrittori. Sfruttando tale cavillo legale, in novembre i Crespi ottengono lo scioglimento anticipato della società ed acquistano le quote dei fratelli Albertini. Gli Albertini sono liquidati con 40 milioni di lire, di cui 33 a Luigi per le sue 22 carature e 7 ad Alberto per le sue tre carature e per la sua liquidazione da direttore politico del Corriere. La società editrice viene sciolta; al suo posto viene creata la «F.lli Crespi & C. - Corriere della Sera». I tre figli di Benigno (Mario, Aldo e Vittorio) dividono il capitale sociale in tre quote. Nel 1934 Mario Crespi viene nominato senatore.

27 aprile - 31 dicembre 1945 - Per decisione del Comando alleato, al quotidiano è imposto il controllo del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), che scavalca la proprietà nella gestione del Corriere. Il CLN sanziona il giornale per la sua connivenza con la Repubblica Sociale. Il quotidiano è sospeso per circa un mese (27 aprile - 21 maggio); epurati i vertici, ottiene l'autorizzazione a riprendere le pubblicazioni dal Psychological Warfare Branch (PWB) alleato, che ne mantiene la gestione fino al 31 dicembre. Dal 1º gennaio 1946 proprietà e gestione del quotidiano ritornano nelle mani della famiglia Crespi.

12 giugno 1951 - Vengono costituite tre società in accomandita per azioni che gestiscono le tre quote del capitale sociale della società in accomandita semplice: 1) «Crema Spa» (Mario); 2) «Alpi Spa» (Aldo); 3) «Viburnum Spa» (Vittorio).

1962-63 - Muoiono Mario e Vittorio Crespi. I successori di Mario sono Elvira Leonardi (figlia primogenita nata nel 1909 dal primo matrimonio della moglie di Mario), con i fratelli Tonino Leonardi e Franca Leonardi Rocca. Il successore di Vittorio è Mario (detto "Mariolino") Crespi Morbio (nato nel 1932). Aldo è impossibilitato a condurre la gestione aziendale a causa di una malattia invalidante. La figlia Giulia Maria ottiene la responsabilità della gestione editoriale. Il direttore generale Colli viene mandato in pensione, quando il bilancio è largamente in attivo; al suo posto viene chiamato Egidio Stagno, già direttore amministrativo del Mattino di Napoli. Successivamente la società in accomandita viene sdoppiata: ne viene creata una per il quotidiano ed una per i periodici. La scelta si rivela infelice. Se alla metà degli anni sessanta, la gestione unica aveva fruttato alla famiglia Crespi profitti per oltre 5 miliardi di lire all'anno, nel 1970 l'utile scende a 700 milioni. Il 1971 vede per la prima volta il bilancio in rosso, per 1 miliardo e 970 milioni. In quell'anno morì Michele Mottola.

1973 - L'esercizio 1972 si chiude con una perdita di 2 miliardi e 63 milioni di lire, superiore a quella del 1971. Il Corriere è ancora gestito da una società in accomandita semplice. Ciò significa che, in caso di deficit, i soci devono mettere mano al patrimonio personale per ripianare il passivo. Due rami su tre della famiglia Crespi decidono di vendere. Giulia Maria è l'unica della famiglia che sceglie di restare nella proprietà. In cambio, ottiene dagli altri soci la facoltà di scegliere i due nuovi soci. Si fanno avanti Eugenio Cefis (Montedison), il petroliere Attilio Monti, l'industriale Nino Rovelli: per tutti la risposta è "no". La Crespi ha già deciso di puntare sulla famiglia Agnelli. La trattativa è avviata in maggio; gli incontri si svolgono in gran parte nell'abitazione della Crespi, in corso Venezia. Il 19 luglio 1973 viene siglato l'accordo conclusivo: Agnelli compra la quota dei Leonardi ("Viburnum"); come secondo socio, la scelta cade su Angelo Moratti, petroliere (che rileva "Crema"). Le quote sono costate 14 miliardi l'una.

L'accordo prevede che la vecchia società in accomandita, che aveva gestito da sempre il quotidiano di via Solferino, si trasformi in società a responsabilità limitata, con un capitale diviso in parti uguali tra il gruppo Fiat, il gruppo Moratti e Giulia Maria Crespi. La transazione dev'essere effettuata entro il 1973. Il nuovo consiglio di amministrazione è costituito da sei persone, due per ciascuno dei soci. La presidenza viene attribuita a Giulia Maria Crespi, che riveste la carica di socia accomandataria responsabile e mantiene le sue prerogative: la scelta della linea della testata e i rapporti col direttore, cui si aggiunge il diritto di veto alla sua nomina. Ai due nuovi soci viene invece attribuita la responsabilità manageriale e finanziaria. Agnelli e Moratti concordano nel non volersi intromettere nella gestione editoriale del quotidiano, che lasciano completamente a Giulia Maria Crespi.

1974 - L'accordo non è ancora stato attuato, per via delle resistenze dei nuovi soci, che mostrano di non credere nei piani di risanamento proposti dalla Crespi. I fatti sembrano dare loro ragione. In maggio, infatti, vengono forniti i risultati dell'esercizio 1973: il deficit della società editrice del Corriere è pari a 7 miliardi e 183 milioni di lire: la perdita è più che triplicata rispetto al 1972. Il passivo del triennio 1971-1973 sfonda gli 11 miliardi di lire (11,216 miliardi). Per l'esercizio 1974 si prevedono altri 7 miliardi di deficit. I tre soci del Corriere dovranno fronteggiare un enorme "buco" di oltre 18 miliardi. Ai primi di luglio Giulia Maria Crespi decide improvvisamente di vendere la sua quota del Corriere, con una mossa che prende Agnelli e Moratti in contropiede. Il 12 luglio viene firmato l'accordo di transazione con la casa editrice Rizzoli, presieduta da Andrea, figlio del fondatore Angelo. La famiglia Crespi esce definitivamente da via Solferino dopo 92 anni. Passano quattro giorni ed anche Moratti vende la propria quota, sempre a Rizzoli. Agnelli, a questo punto, è rimasto isolato. Per l'Avvocato la scelta diventa obbligata: il giorno successivo la Rizzoli si aggiudica anche la sua quota: avrebbe potuto farne a meno avendo già il 66,6& del capitale ma, disse Andrea Rizzoli, "non potevo venire meno alla parola data agli Agnelli". Secondo un rapporto dell'Istituto Mobiliare Italiano redatto nel 1975, l'investimento della Rizzoli per acquisire l'«Editoriale Corriere della Sera» è stato di 41 miliardi e 945 milioni di lire, così suddivisi:

Struttura dell'investimento

*15 miliardi e 445 milioni, in contanti, per "Alpi", cioè la quota di Giulia Maria Crespi;

13 miliardi, parte in contanti e parte differiti, per acquisire "Crema" (di Moratti);

13,5 miliardi, somma da devolvere entro 3 anni, per avere "Viburnum" (della Fiat).

In realtà la cifra sarà maggiore (parte del prezzo pagato all'estero, parte indicizzato nel capitale e negli interessi): 63 miliardi per acquisire un'azienda tecnologicamente superata e sindacalmente agguerrita, con un'esuberanza di personale valutata attorno alle 1500 persone e con i conti dissestati, almeno 55 miliardi di perdite e interessi passivi. Il nuovo proprietario unico ribattezza la società editrice «Rizzoli-Corriere della Sera» (oggi RCS MediaGroup). Nel corso di un'intervista, rispondendo ad una domanda sulle fonti dei finanziamenti, il consigliere delegato Angelone Rizzoli, figlio di Andrea e nipote di Angelo, dichiara che l'operazione è stata gestita in piena autonomia ed è stata finanziata "da istituti di credito pubblici e privati italiani e da una banca estera, la Morgan".

1978 - Angelone Rizzoli subentra al padre Andrea nella presidenza del gruppo.

1981 - La RCS viene coinvolta nel dissesto del Banco Ambrosiano. Riesce però ad evitare il fallimento e nel 1982 viene posta in amministrazione controllata. Il 7 agosto 1982 il ministero del Tesoro e la Banca d'Italia creano il Nuovo Banco Ambrosiano. La banca eredita, tra le proprietà della RCS, anche l'«Editoriale Corriere della Sera». Il capitale sociale della società editrice del quotidiano ammonta a 4 500 000 000 lire ed è diviso in azioni da mille lire l'una. In data 9 agosto 1983 il regime di amministrazione controllata è prorogato di un anno. Le 4 500 000 azioni vengono costituite in pegno dalla Rizzoli Editrice spa come segue: 2 250 000 azioni a favore del Nuovo Banco Ambrosiano, della Banca Cattolica del Veneto e del Credito Varesino; 2 250 000 azioni a favore della Rothschild Bank AG di Zurigo.

1984 - Il gruppo RCS, risanato, è acquistato da una cordata di cui fanno parte nomi importanti dell'industria e della finanza nazionali. Tra essi: Gemina (holding posseduta dalla famiglia Agnelli), è la prima azionista con il 46,28%; «Iniziativa ME.TA.» (società controllata da Montedison), è il secondo azionista con il 23,24%. Tutta l'operazione è avvenuta sotto la regia di Mediobanca. Gemina, maggiore azionista, si assume la responsabilità di nominare il direttore del quotidiano. In un secondo tempo, i principali soci si costituiscono in patto di sindacato al fine di bloccare eventuali scalate da parte degli azionisti di minoranza.

1986 - La RCS viene riorganizzata per comparti: il Corriere della Sera viene inserito nella RCS Quotidiani.

2016 - Il gruppo Fiat Chrysler Automobiles (FCA), in vista dell'obiettivo di tornare ad essere un produttore puro di auto, decide il disimpegno da RCS. Il 15 aprile l'assemblea dei soci di FCA approva la scissione finalizzata alla distribuzione ai propri azionisti delle azioni di RCS detenute dal gruppo. La Fiat esce dall'azionariato della società editrice del «Corriere della Sera» dopo 32 anni (e a distanza di 43 anni dal primo investimento).

15 luglio 2016 - Con un'operazione di borsa (OPAS) sulle azioni RCS MediaGroup Urbano Cairo acquisisce il controllo del gruppo editoriale che pubblica il «Corriere della Sera». Il 3 agosto Cairo diviene presidente e amministratore delegato di RCS.

Direttori

Eugenio Torelli ViollierLuigi AlbertiniAnno 1952: Guglielmo Emanuel, direttore uscente, Mario Missiroli, suo successore, e Gaetano Afeltra, redattore capo del «Corriere».Giovanni SpadoliniFerruccio de Bortoli

 Eugenio Torelli Viollier, 5 marzo 1876 - 31 maggio 1898 (gerente responsabile)

Alfredo Comandini maggio 1891 - novembre 1892 (direttore politico)

Andrea Cantalupi 1895 - maggio 1896 (direttore politico)

Luca Beltrami maggio-novembre 1896 (direttore politico)

Domenico Oliva, 5 giugno 1898 - 23 maggio 1900

Luigi Albertini, 24 maggio 1900 - ottobre 1921 (gerente responsabile)

Alberto Albertini (fratello di Luigi), ottobre 1921 - 29 novembre 1925

Graditi al regime fascista

Pietro Croci, 30 novembre 1925 - 17 marzo 1926

Ugo Ojetti, 18 marzo 1926 - 17 dicembre 1927

Maffio Maffii, 18 dicembre 1927 - 31 agosto 1929

Aldo Borelli, 1º settembre 1929 - 26 luglio 1943

Dopo la caduta del fascismo: nomine approvate dal Minculpop defascistizzato

Ettore Janni, 28 luglio-10 settembre 1943

Dopo la nascita della RSI

Amedeo Lasagna, redattore capo con funzioni di direttore: 16 settembre - 5 ottobre 1943

Ermanno Amicucci, 6 ottobre 1943 - 25 aprile 1945

Sospensione per decreto del CLN: 27 aprile - 21 maggio 1945. Le pubblicazioni riprendono con la testata Corriere d'Informazione. Nominato dal CLN

Mario Borsa, 22 maggio 1945 - 6 agosto 1946

Scelti dalla famiglia Crespi

Guglielmo Emanuel, 7 agosto 1946 - 14 settembre 1952

Mario Missiroli, 15 settembre 1952 - 14 ottobre 1961

Alfio Russo, 15 ottobre 1961 - 10 febbraio 1968

Giovanni Spadolini, 11 febbraio 1968 - 13 marzo 1972

Piero Ottone, 14 marzo 1972 - 29 ottobre 1977

Scelti dalla famiglia Rizzoli

Franco Di Bella, 30 ottobre 1977 - 19 giugno 1981

Alberto Cavallari, 20 giugno 1981 - 19 giugno 1984

Scelti dal primo patto di sindacato RCS

Piero Ostellino, 20 giugno 1984 - 28 febbraio 1987

Ugo Stille, 1º marzo 1987 - 9 settembre 1992

Paolo Mieli, 10 settembre 1992 - 7 maggio 1997

Giulio Anselmi condirettore fino al 24 novembre 1993

Scelti dal secondo patto di sindacato RCS

Ferruccio de Bortoli, 8 maggio 1997 - 14 giugno 2003

Stefano Folli, 15 giugno 2003 - 22 dicembre 2004

Paolo Mieli (2ª volta), 23 dicembre 2004 - 9 aprile 2009

Ferruccio de Bortoli (2ª volta), 10 aprile 2009 - 30 aprile 2015

Luciano Fontana, 1º maggio 2015 - in carica

Avanti! della Domenica. Avanti! compie 126 anni, le celebrazioni del nostro giornale. Daniele Unfer su Il Riformista il 27 Dicembre 2022

Le celebrazioni dell’anniversario dalla nascita dell’Avanti! si sono svolte a Roma con una maratona di interventi e di riflessioni tra le diverse anime della sinistra. Si sono succeduti esponenti del partito, dell’associazionismo e delle fondazioni socialiste, insieme ai leader e i protagonisti dei partiti del centrosinistra. Dalla giornata dedicata al giornale organo del Psi è partito “l’impegno a costruire un grande movimento socialista e socialdemocratico con l’obiettivo delle elezioni Europee del 2024” – ha detto il segretario del partito, Enzo Maraio, e “un appello a tutta la sinistra ad armare l’opposizione e costruire un’area forte di centrosinistra”. Appello a cui hanno risposto in molti.

Due saluti istituzionali e di alto profilo da parte di Anna Foa, presidente della Fondazione Modigliani e di Alberto Aghemo, presidente della Fondazione Matteotti, che hanno ospitato l’evento nel cuore di Roma, scelto come luogo simbolico perché “rappresenta un punto di riferimento preziosissimo nell’ambito degli studi sulla storia del socialismo e del movimento operaio italiano”– ha detto durante l’intervento di presentazione in apertura Giada Fazzalari, direttrice dell’Avanti! della domenica cui è seguito quello di Livio Valvano, direttore dell’Avanti! Online. Gli interventi si sono aperti con quello di Luigi Iorio, coordinatore della segreteria nazionale PSI, che ha fatto un confronto tra Italia e Europa dove i socialisti sono al governo e vincono le elezioni: “Quando in Italia cerchiamo di mutuare i programmi che hanno portato i partiti socialisti a vincere, lo facciamo con poco coraggio. Bisogna invertire la rotta”

Sullo stesso filone Andrea Orlando, deputato del PD, che osserva che “in Europa è avvenuta una convergenza delle tradizioni socialdemocratiche e la nascita del Pd aveva questa ambizione ma mancava il contributo della tradizione socialista che era stata rimossa. Un errore da non compiere una seconda volta”. Orlando vede il “socialismo come occasione per dare risposta alla crisi della politica” e per questo bisogna “riconoscere la tradizione del socialismo e riconoscere che appartiene anche a chi viene da altri percorsi”.

E’ intervenuto poi Gian Franco Schietroma, segretario Psi del Lazio, che ha ricordato che il Psi si presenterà con il proprio simbolo alle prossime elezioni regionali, a sostegno di Alessio D’amato, presente in sala. Il candidato alla presidenza della regione Lazio ha sottolineato l’importanza del ruolo dei socialisti anche alle prossime elezioni: “Bisogna seguire una rotta – ha detto D’Amato – che non guarda né ai populismi né ai sovranismi. Sono convinto che dalle urne esca una grande affermazione dei Psi e mi auguro anche insieme ai radicali”.

 Pia Locatelli, responsabile esteri del partito ha fatto un affresco delle pagine più significative del giornale, ricordando che l’Avanti! storico è digitalizzato, da qualche anno, ed è consultabile sul sito del Senato. Gabriella d’Angelo, della segreteria del Psi, ha posto l’accento sulle conquiste delle donne raccontate dal giornale. Lorenzo Cinquepalmi, responsabile Giustizia del Psi ha focalizzato il suo intervento sulle questioni sollevate dal ministro della Giustizia Nordio: “Su tanti temi di giustizia giusta, come gli abusi della carcerazione preventiva e la negazione del principio costituzionale della funzione rieducativa della pena, Nordio sarà avversato prima di tutto dalla sua stessa maggioranza. Cinquepalmi, tra le altre cose collaboratore di questo giornale”, ha aggiunto che “se Nordio saprà portare avanti questi temi sulla riforma della giustizia, allora andrà sostenuto”.

La ripresa dei lavori nel è proseguita con vari interventi, tra i quali quello di Gennaro Acquaviva, presidente della Fondazione Socialismo, Piero De Luca, vice presidente del gruppo Pd alla Camera, Cecilia D’Elia, della segreteria del Pd, Luca Fantò, responsabile Psi Scuola, Fabio Natta, segreteria Psi, Cesare Pinelli, Direttore di Mondoperaio, Gianvito Mastroleo, presidente onorario della fondazione Di Vagno, Andrea Puccetti, membro del direttivo della Fondazione Rosselli, Andrea Volpe, consigliere Psi Campania, Maria Cristina Pisani, Presidente del Consiglio Nazionale del Giovani, Luciano Belli Paci, fondatore del circolo Rosselli di Milano, Francesco Bragagni, assessore socialista al comune di Rimini.

Il segretario generale della Uil Pierpaolo Bombardieri, intervenuto nel dibattito, ha sostenuto che “bisogna ricordare che c’è uno spazio in questo Paese per le idee socialiste”. Parlando della manovra economica del governo ha aggiunto “La cosa più vergognosa è aver colpito le donne con l’abolizione dell’opzione donna e in generale una manovra basata sui condoni. Spero che da oggi ci sia la possibilità di poter ricostruire un’idea che non abbiamo mai perso: quella del socialismo riformista”.

Nel Pd c’è una svolta socialdemocratica?” – è la domanda che si è posto Claudio Martelli. “Non mi farei troppe illusioni. Non vedo nel dibattito congressuale del Pd un livello che merita troppa attenzione”. Poi parlando delle prossime elezioni europee ha aggiunto che “non ci sono obblighi di alleanze. Non vedo una riflessione all’altezza dei tempi sia nell’internazionale socialista che nel Pse”. “Serve – ha detto ancora Martelli – una azione di conoscenza come premessa alla scadenza europea. Tessere il tessuto socialista, ecco cosa serve”.

Enrico Letta è tornato sulla sconfitta elettorale del 25 settembre: “è stato buttato un seme che deve germogliare per dare risposta alle domande a cui nessuno oggi sta rispondendo. Il lavoro che stiamo facendo per il congresso è un lavoro di allargamento. Quello che è accaduto a Bruxelles è scandaloso e non deve sporcare le nostre sfide”- ha aggiunto. Valdo Spini ha ripercorso la storia dell’Avanti!, il più antico giornale di partito italiano, che ha ripreso il nome dal quotidiano della socialdemocrazia tedesca, Vorwarts. Il percorso che Spini sottolinea necessario è quello di “riconciliare il nostro popolo col riformismo socialista, risvegliare quell’area di più di un terzo delle nostre cittadine e dei nostri cittadini che non va a votare. Ecco il nostro compito nella situazione politica attuale”. “Sono personalmente convinto che un rassemblement dei socialisti italiani, se lo sapremo condurre avanti, potrà avere un effetto anche nel dibattito interno al Pd”.

Pietro Folena ha iniziato raccontando la sua storia familiare: “mio padre era socialista. Mia madre era una cristiano sociale socialista iscritta al PSI. Quindi io vengo da questa storia. Ho attraversato la gioventù comunista contestando l’Unione Sovietica anche in anni in cui nel mio partito c’erano ancora molte contraddizioni e molti ritardi”. “Oggi – ha continuato Folena – l’alternativa sta in una capacità di riforma democratica in un nuovo compromesso che possa mettere le redini al capitalismo finanziario globale e digitale. Bisogna avere un’idea di partito politico. I partiti politici della Prima Repubblica – ha aggiunto – hanno avuto tutti i loro difetti ma erano partiti radicati nella società e hanno educato la società”.

Bobo Craxi nel suo intervento ha sottolineato che “non vi può essere un vero centrosinistra senza una più forte area socialista. Bisogna recuperare le aree che sono appartenute al centro sinistra. A cui il populismo di Grillo non è mai appartenuto”. Per questo bisogna “mantenere un dialogo con la sinistra di ispirazione socialista, aprire un dialogo al centro, unire i socialisti, i laici ed i liberali per un vero centro sinistra, rilanciare L’Unità del Partito in una prospettiva di conservazione dell’identità e dell’autonomia politica del socialismo italiano”.

Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia Romagna e candidato alla segretaria del Pd si è detto “preoccupato per la possibile irrilevanza del Partito Democratico. Nemmeno nel 2018 che stata una sconfitta pesante avevamo avuto una concorrenza tale. Lo dico agli amici del terzo polo che fanno opposizione più al Partito Democratico che al Governo”. Secondo Bonaccini “la vocazione maggioritaria va rimessa al centro. Il partito democratico deve avere l’ambizione di parlare anche a chi non lo vota. Che il Pd sia in salute è un bene per la democrazia italiana. Se dovessi pensare a una sinistra massimalista e radicale farei un regalo alla destra. Non credo che si prendano i voti per come ci si chiama ma per i contenuti delle proposte. Nel congresso dobbiamo chiarire la nostra identità”.

Per Bruno Tabacci bisogna partire da un elemento chiaro: “Gli elettori non vanno più a votare perché pensano che sia del tutto inutile. Non vedono più la connessione tra la loro volontà e il voto. Con queste legge elettorale abbiamo tagliato molti ponti. Oggi rinasce la questione morale e rinasce in un momento che non ci sono più i partiti. Bisogna tornare alle radici politiche. Abbiamo 5 anni. Le radici democratiche e socialiste devono essere in prima file per riannodare i fili. Ricordare un grande quotidiano come l’Avanti! è un momento importante perché la politica deve essere qualcosa che si innalza senza andare a rimorchio dei sondaggi”.

Benedetto della Vedova ha iniziato con una voce di ottimismo: “Penso – ha detto – che la situazione attuale sia migliore di quanto potessimo pensare solo qualche mese fa. In +Europa noi non ci sentiamo un pezzo del centro sinistra, ci sentiamo una forza liberale nella sua dimensione che si allea o si è alleata con un centrosinistra e i socialisti. Non so se riusciremo alle elezioni regionali come io auspico a convergere anche a fare le liste insieme ma il tema dei temi è un tema del futuro non è un tema del passato ed è un radicamento della democrazia”.

L’ultimo intervento prima della chiusura del segretario Enzo Maraio è stato quello di Ugo Intini: “Siamo diventati extraparlamentari – ha detto – e come tali possiamo dire cose crude, non ‘politicamente corrette’: la verità. La più cruda è che forse non siamo più in una vera democrazia. Le cifre (quasi incredibili) sono nascoste dai media. Meloni ha trionfato sì alle lezioni, ma ha preso 3 voti degli italiani su 19. Il centrodestra ha sì una maggioranza schiacciante. Ma grazie a un sistema elettorale infame e truccato. Ha infatti preso il voto di 7 italiani su 26. I giornali nascondono la verità perché parlano soltanto di sondaggi e di percentuali sui voti espressi. Ma questi sono i voti veri, le cifre vere. Si spiegano con il fatto che gli italiani non vanno più a votare: disgustati da una politica meschina; da un sistema elettorale bipolare che li costringe a scelte innaturali. Sono state nascoste le cifre ma è stata anche cancellata la storia”.  Un primo passo, quello delle celebrazioni dell’Avanti!, verso gli stati generali del socialismo dove la parola d’ordine sarà “unità”. Daniele Unfer

Dagospia il 29 aprile 2023. MA CE LI VEDETE STEFANO CAPPELLINI (CHE HA SCRITTO ANCHE UN LIBRO SULL’ESSERE TIFOSI DELLA FIORENTINA) E IL ROMANISTA MASSIMO GIANNINI ANDARE ALLO STADIO CON LA SCIARPETTA BIANCONERA? IL GRUPPO GEDI (REPUBBLICA, STAMPA) OFFRE AI GIORNALISTI LO SCONTO PER I BIGLIETTI DELLA JUVENTUS: COME SE LA SIGNORA FOSSE (IN REALTÀ LO È) LA SQUADRA DELL’AZIENDA. FIORELLA PIEROBON HA RICORDATO CHE A MEDIASET IN TANTI CAMBIARONO LA PROPRIA SQUADRA PER IL MILAN. ACCADRA’ COSI’ ANCHE NEL GRUPPO GEDI?

Da ilnapolista.it il 29 aprile 2023.

Come se la Juventus fosse la squadra dell’azienda. Il Gruppo Gedi – presidente John Elkann, ad e direttore generale Maurizio Scanavino che oggi è anche direttore generale della Juventus – offre ai propri dipendenti (giornalisti e amministrativi) lo sconto per i biglietti della Juventus nella partita contro il Lecce. Del Gruppo Gedi fanno parte, tra gli altri, Repubblica, La Stampa, Huffington Post, Radio Deejay. 

Questo il testo della e-mail inviata dal gruppo ai propri dipendenti. 

Buon pomeriggio, il Gruppo Gedi offre la possibilità di assistere al match Juventus-Lecce, in programma mercoledì 3 maggio ore 18 all’Allianz Stadium, con tariffe agevolate.  Ogni dipendente ha la possibilità di acquistare fino ad un massimo di 4 biglietti a partire da 14€ cad. (invece di 45€!) Sarà sufficiente collegarsi al link qui sotto riportato ed inserire il codice dedicato. La promozione sarà valida fino a esaurimento posti.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per la Verità il 13 aprile 2023.

L’inchiesta della Procura di Roma sulla presunta truffa milionaria ai danni dello Stato da parte del gruppo editoriale Gedi procede nel massimo riserbo. Al punto che se ne sono perse le tracce, almeno a livello mediatico. E così alcuni parlamentari di Fratelli d’Italia hanno deciso di chiedere lumi al ministro della Giustizia Carlo Nordio sullo stato dell’arte. Risale a due mesi fa l’ultimo articolo sull’argomento ed è stato pubblicato proprio da questo giornale. Uno scoop che i deputati hanno recuperato e citato in un’interrogazione a risposta scritta appena depositata.

 Non si può non constatare che l’improvviso ritorno d’interesse sulla vicenda giudiziaria combaci con alcuni pesanti giudizi rilasciati dall’imprenditore ed editore Carlo De Benedetti sulla premier Giorgia Meloni e sulla maggioranza che la sostiene.

 Insomma più che un messaggio per l’attuale proprietà di Gedi, la famiglia Agnelli-Elkann, l’istanza sembra un avvertimento per i precedenti controllori, De Benedetti e figli. Infatti tra gli indagati ci sono alcuni ex fedelissimi dell’Ingegnere, a partire da Monica Mondardini, già ad della casa editrice e attuale amministratrice del gruppo Cir, la cassaforte dell’editore del Domani.

 L’imprenditore ha appena dato alle stampe la sua ultima fatica letteraria, Radicalità, e ha partecipato alla kermesse organizzata dal suo giornale intitolata senza troppa fantasia «L’Italia di Domani. Tempi radicali».

Proprio durante la due giorni di incontri e dibattiti, a cui hanno partecipato Elly Schlein e Stefano Bonaccini, ha accusato i nuovi governanti di «incompetenza», giudicandoli «in gran parte degli ignoranti», «delle persone che non capiscono neanche quello che dicono», ma soprattutto ha sbeffeggiato «la figurina del nostro primo ministro», la Meloni, che, a giudizio dell’editore, si dice soddisfatta quando esce da una riunione a Bruxelles dopo non aver ottenuto alcunché, dimostrando così «autolesionismo» e «demenza».

 (...) Ma da Roma è arrivata pronta la risposta, sotto forma di interrogazione, quella presentata dai deputati Sara Kelany, Francesco Filini, Carmen Letizia Giorgianni, Paolo Pulciani e Massimo Ruspandini.

 E proprio la Kelany, prima firmataria, ci spiega il senso dell’iniziativa: «Il nostro timore, fondato su oggettivi elementi, come il ritardo nella conclusione delle indagini e il fatto che non si sia ancora provveduto al rinvio a giudizio, è che possano andare prescritti reati gravissimi che, se accertati, avrebbero sia procurato enorme danno all’Erario, sia falsato la concorrenza in un settore in crisi come quello dell’editoria, nodale per la tenuta democratica della Nazione».

A questo punto la parlamentare, neppure troppo tra le righe, ci fa comprendere come la coincidenza temporale con le esternazioni di De Benedetti potrebbe non essere casuale: «Aggiungo che all’epoca dei fatti il gruppo era di proprietà di De Benedetti, il quale pochi giorni fa, alla festa del giornale di cui oggi è editore, ha scompostamente affermato che il governo Meloni sarebbe pieno di dementi e incompetenti. Ecco il gruppo Gedi, che faceva e fa del moralismo un’arma per attaccare quotidianamente il centro-destra, sembra, invece, essere caduto nella truffa ai danni dello Stato. Mi chiedo se sia questo il modello di competenza di cui è portatore De Benedetti».

 La dichiarazione di guerra lanciata dall’editore «radicale» e dal suo giornalino ha trovato pronto il partito di maggioranza relativa. L’interrogazione è la prima reazione di chi non sembra più disposto a subire attacchi in silenzio. Soprattutto da parte di un miliardario che risiede in Svizzera, da dove sparge giudizi sferzanti sull’Italia.

I deputati, come detto, in premessa, citano un articolo pubblicato dalla Verità lo scorso 19 febbraio, dal titolo «Presunta truffa di Gedi, per ora pagano soltanto i prepensionati» e ricordano quanto riportato da questo giornale a partire dalla fine del 2021 a proposito dell’inchiesta della Procura di Roma sulla presunta frode messa in atto da Gedi, indagine che coinvolge oltre 100 tra top manager e dipendenti (in gran parte ex) e 5 società dello stesso gruppo.

 I cinque esponenti di Fdi sottolineano anche che nel dicembre 2021 i magistrati ordinarono nei confronti di queste aziende un sequestro preventivo di oltre 38 milioni di euro, corrispondenti all’ipotizzato «illecito risparmio dei costi del personale» realizzato dal gruppo editoriale attraverso manovre che avrebbero causato all’Inps danni per decine di milioni di euro.

 A questo punto i parlamentari pungono De Benedetti nell’orgoglio di imprenditore: «Inoltre, per i titolari dell’inchiesta, le operazioni del gruppo Gedi sarebbero avvenute “a discapito […] della libera concorrenza nel settore commerciale di riferimento”, con evidente enorme danno per tutti i competitori, particolarmente grave in un settore in crisi come quello dell’editoria; a tal proposito, è bene ricordare come il gruppo Gedi sia stato l’editore del settimanale L’Espresso, fino al luglio 2022, e sia tuttora l’editore dei quotidiani La Repubblica e La Stampa, nonché di diversi altri quotidiani, periodici, emittenti radiofoniche e televisive».

Media ostili, che criticano aspramente tutti i giorni il governo, mentre gli inquirenti dormicchiano: «Lo scorso mese di maggio i magistrati titolari dell’inchiesta hanno firmato l’avviso di conclusione delle indagini nei confronti di 101 persone e cinque aziende del gruppo Gedi, ma, da quanto si apprende dai media, la Procura di Roma non avrebbe ancora formalizzato la richiesta di rinvio a giudizio per gli indagati, e nemmeno sembrerebbe stata fissata la data dell’udienza preliminare». Una lentezza che perplime i firmatari: «Il ritardo nell’esercizio dell’azione penale, quindi la richiesta di rinvio a giudizio, rischia di far cadere in prescrizione diverse annualità nel corso delle quali il sistema truffaldino avrebbe operato, con un indubbio vantaggio per gli indagati, in caso di condanna, ma soprattutto un notevole danno per lo Stato; a rendere la questione ancora più paradossale, il fatto che il fascicolo penale sia stato aperto nel 2018 e l’avviso di chiusura delle indagini» sia arrivato «solamente nella primavera del 2022».

Per questo i cinque deputati chiedono a Nordio se «sia a conoscenza dei fatti riportati in premessa» e «quali urgenti iniziative, per quanto di sua competenza, intenda promuovere, per scongiurare il verificarsi dell’inaccettabile circostanza che un evento di così grave portata, che riguarda non solo un presunto danno all’erario, ma anche la tutela della libera informazione, elemento cardine della nostra società e del nostro Stato, cada in prescrizione, senza che le eventuali responsabilità degli indagati vengano accertate dalla magistratura». De Benedetti, ma anche i nuovi padroni del gruppo Gedi, sono avvertiti. Adesso a Nordio toccherà verificare se la flemma degli inquirenti capitolini sia giustificata.

Dalla rubrica delle lettere di “Repubblica” l’11 marzo 2023

Caro Merlo, da lettore di Repubblica sin dalla fondazione, mi sono sentito offeso, disorientato e umiliato dalle parole dell’ingegner De Benedetti nei confronti di Repubblica , pronunciate a Piazza Pulita . Fanno seguito alle volgari parole che nel 2018 pronunciò dalla Gruber contro Eugenio Scalfari. A quelle volgarità seguì la replica del direttore Calabresi e la sua intervista a Scalfari. Perché questo rancore, questa mancanza di signorilità? Non dovrebbe prendersela con i suoi figli che gli vendettero, a sua insaputa, quel che lui gli aveva regalato?

Pasquale Regano - Andria

Risposta di Francesco Merlo

Ho ricevuto diverse lettere su Carlo De Benedetti e ho scelto la sua anche perché rievoca una mia intervista a Eugenio Scalfari che, sullo stesso argomento, fu un momento di rara allegria. Cominciava così: “Caro Eugenio, sei rimbambito?”. E lui: “Sono arrivato a un’età, tra i novanta e i cento, che non è più quella dei vecchi né dei molto vecchi, ma quella dei vegliardi. Spesso sono rimbambiti, ma talvolta sono ancora più lucidi degli altri perché vedono di più e meglio. A volte sono bambini, altre volte sono saggi e tra le cose che vedono meglio ci sono i rancori e le acidità. I vegliardi sanno riconoscerli e, se è il caso, anche aggirarli”.

 Non ho mai fatto rileggere a nessuno il testo di un’intervista ed Eugenio non me lo chiese. Fu pubblicata il 18 gennaio 2018. Finiva così: “De Benedetti parla di matrimonio monogamico. Spiega che quello con Repubblica è indissolubile, dice che ama ancora Repubblica e che l’amerà per sempre”. E Scalfari: “La ama, ma vuole liberarsene. La ama come quegli ex che provano a sfregiare la donna che hanno amato male e che non amano più”.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” il 19 febbraio 2023.

L’ex archivista dell’Espresso e della Repubblica, la sessantacinquenne romana Anna Piludu, indagata dalla Procura di Roma per concorso in truffa aggravata ai danni dello Stato, non è superstiziosa: «Per me il fato non c’entra nulla. Nella vicenda che mi coinvolge ci sono precise responsabilità».

 Fatto sta che all’ex dipendente del gruppo Gedi, prepensionata nel 2010, venerdì 17 febbraio è arrivata una mazzata: l’Inps, dopo un accertamento che aveva già portato alla revoca «in autotutela» dell’erogazione della sua pensione, le ha chiesto di restituire 235.332,57 euro entro venerdì 17 marzo. Ci vuole una bella razionalità per non maledire la data che i latini consideravano portatrice di sventure.

Per chi non se lo ricordasse stiamo parlando dell’inchiesta che coinvolge 101 (in gran parte ex) dipendenti e cinque società del gruppo editoriale Gedi (che pubblica tra gli altri i quotidiani La Repubblica, La Stampa e Il Secolo XIX), per una presunta frode ai danni dell’Inps. La holding nel dicembre 2021 è stata oggetto di un sequestro preventivo da 38,9 milioni di euro, equivalente all’«illecito risparmio dei costi del personale» realizzato sino a quella data dal gruppo attraverso una manovra che avrebbe causato all’Inps un danno da 22,2 milioni di euro, cifra che non tiene conto delle presunte illecite percezioni di assegni per quasi tutto il 2022.

Il computo degli indagati comprende 80 prepensionati considerati senza titoli (compresi 16 dirigenti), 17 manager accusati di truffa, sei sindacalisti ritenuti complici dell’oliato sistema, due funzionari Inps tacciati di infedeltà e altre due figure minori. Quattro indagati hanno ricoperto o ricoprono ruoli di spicco nel gruppo. Il nome più importante è quello dell’ex amministratore delegato Monica Mondardini, oggi al vertice della Cir della famiglia De Benedetti all’epoca dei fatti contestati proprietaria anche di Gedi.

 Ci sono poi il capo delle risorse umane Roberto Moro, il suo vecchio vice Romeo Marrocchio (poi passato al Sole 24 ore) e il direttore generale della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi. Per poter ottenere i vantaggi previdenziali le frodi sarebbero state fondamentalmente di quattro tipi: dai fittizi demansionamenti di dirigenti agli illeciti riscatti di annualità (a spese dell’azienda), dall’utilizzo come collaboratori di dipendenti prepensionati ai trasferimenti (solo a tavolino) di personale. La Piludu ha ricevuto l’avviso di chiusura delle indagini a settembre, poi, ai primi di ottobre, ha avuto la notizia dello storno dell’assegno previdenziale.

 Adesso è arrivata l’ufficialità: per l’Inps la pensione percepita dalla donna era «una prestazione indebita per mancanza del requisito pensionistico». Infatti la dirigente della filiale Inps dell’Eur Maria Rosa Riso ha informato la sfortunata ex lavoratrice che «a seguito di verifiche è emerso» che la Piludu «ha ricevuto per il periodo dall’1 agosto 2010 al 30 settembre 2022 un pagamento non dovuto sulla pensione».

A saltare all’occhio è che stiamo parlando di un fascicolo penale aperto nel 2018 e per cui l’avviso di chiusura delle indagini è partito solo nella tarda primavera di un anno fa.

 La Procura di Roma […] in questo caso non ha ancora chiesto il rinvio a giudizio per i destinatari dell’avviso, né è ancora stata fissata la data dell’udienza preliminare. La sensazione, magari sbagliata, è che a Piazzale Clodio non abbiano particolare fretta di mettere alle strette un gruppo editoriale che secondo il coordinamento dei comitati di redazione potrebbe essere sul mercato e che si è sempre dimostrato pronto a cantare le gesta dei magistrati inquirenti.

 […]   Come detto, alla Piludu è stata notificata la richiesta di risarcimento immediata: «Vogliono indietro dieci anni di pensione come se in questi anni quei soldi non mi fossero serviti per vivere» si lamenta la donna. Nella lettera si legge che «il versamento può essere effettuato online sul sito www.inps.it […] utilizzando la modalità pagamento online pagoPa» o «tramite l’home banking». Il tutto entro trenta giorni dalla notifica.

 Poi la Riso, bontà sua, informa la Piludu che «ha facoltà di proporre ricorso amministrativo» entro 90 giorni. «Di certo farò ricorso. Penso che prima debbano essere accertate le responsabilità di ognuno» […]. […] Agli atti […] sono stati depositati documenti con firme da lei non riconosciute. «Qui ci sono colpe ben precise e non sono le mie» ribadisce la Piludu. E di chi sarebbero? «Degli autori dentro a Gedi di questa truffa, dei sindacati e dell’Inps che non ha controllato perché implicata ad alti livelli. Non può essere solo responsabilità di due impiegati dell’istituto previdenziale che ha ammesso di aver fatto negli anni due controlli su quei prepensionamenti e di non aver trovato nulla di irregolare. C’è poi la sicurezza dei dirigenti Gedi che sostengono di non avere nulla da temere».

[…] Quanto sta succedendo alla Piludu è già accaduto a Enrico Battistini, 65 anni, ex poligrafico addetto, tra l’altro, all’impaginazione della Repubblica e degli altri giornali del gruppo. L’uomo ha un’invalidità civile riconosciuta del 70 per cento e nell’autunno scorso, dalla sera alla mattina, si è ritrovato senza pensione. A Battistini l’Inps ha scritto per chiedere la restituzione in un’unica soluzione di 263.858,59 euro, l’equivalente degli assegni versati dall’ente previdenziale a partire dal gennaio 2013. Somme che l’ex poligrafico, contattato ieri dalla Verità, non è in grado di rendere. […]

A.G. per professionereporter.eu il 17 dicembre 2022.

I migliori pezzi del web andranno sulla carta del giorno dopo. Mentre, fino a ieri, i migliori pezzi della carta andavano sul web del giorno dopo. L’informazione mainstream si sposta ufficialmente sul web. La carta non sarà più un “omnibus” con tutta la giornata raccontata e spiegata. Addio, insomma, al giornalismo di Eugenio Scalfari e di Ezio Mauro. 

Se ne parla da anni, ma ora -a quanto pare- ci siamo. Lavoro diviso in due turni. I due terzi dei deskisti sul web, un terzo sulla carta. Grande rilievo agli esperti Seo, i tecnici che si occupano di far arrivare i pezzi sulla prima schermata di Google.

C’è uno slogan per tutto questo? Sì, c’è: “Less is more”, frase che John Elkann ha pronunciato in una recente visita al giornale. Meno è più.

E’ questa la rivoluzione che i vicedirettori de la Repubblica, Francesco Bei e Carlo Bonini hanno presentato al Comitato di redazione giovedì 15 dicembre. Una rivoluzione che, nella sostanza, prepara anche il Corriere della Sera, dove l’incontro della Direzione con il Cdr è in agenda lunedì 19 dicembre. Bei e Bonini hanno comunicato di aver chiesto al Direttore Molinari di chiudere l’esperienza delle firme in condominio con la Stampa, che appartiene pure a Gedi. Nell’ottica di rafforzare l’identità de la Repubblica.

Ora che succede? Il Cdr è incaricato di raccogliere osservazioni, critiche, proposte. Il 9 gennaio ci sarà un incontro, stavolta con il Direttore Molinari. Poi, quest’ultimo scriverà il Piano definitivo e chiederà di presentarlo in prima persona in assemblea. L’assemblea voterà. Ma sarà un voto non vincolante, “simbolico e politico”, secondo il Cdr, perché Azienda e Direzione hanno intenzione di far partire il Piano comunque, a metà febbraio.

Vediamo più in dettaglio. Due gli obiettivi generali. Il primo, far decollare gli abbonati digitali con “un traffico di qualità” e non un traffico qualsiasi, come finora. Il secondo, offrire sulla carta qualità e radicalità di scelte, per motivare all’acquisto. I vicedirettori -riferisce il Cdr- hanno dichiarato la fine del quotidiano “Omnibus”: Repubblica di carta “non avrà più l’ambizione di informare su tutto come è stato il giornale di Scalfari ed Ezio Mauro”. 

Hanno parlato di un ritorno alle origini del ‘76, quando Scalfari voleva proprio un quotidiano di grandi scelte, senza Sport, Spettacoli, Cronaca. Che non incontrò grande favore e fu quindi pian piano modificato. Qui c’è stata poi la frase di Bonini sulla concorrenza con il Corriere, che ha creato una forte polemica.

Dunque, “Less is more”, copyright John Elkann. Il giornale di carta si farà così: per il 70-80 per cento con i contenuti già pubblicati sul web, per il 20 per cento con commenti o esclusive. Come campagne su temi sociali, per onorare “la funzione civile del giornalismo”. 

L’obiettivo di diffusione del giornale di carta non è maestoso: “Perdere non più della media del mercato” (quindi il 9-10 per cento). Ma -nota il Cdr- purtroppo per ora Repubblica perde molto più di tutti gli altri, meno 17 per cento il dato di ottobre.

Il lavoro sarà diviso tra due turni, 8-15 e 15-22. Chi lavora il pomeriggio, fino alle 18 si occuperà del sito e solo dopo due o tre deskisti si staccheranno per chiudere le pagine di carta. I deskisti dovranno farsi carico del rullo delle notizie o di eventuali dirette, chi scrive dovrà produrre contenuti di qualità, inchieste e lavoro sul campo, su web e carta. 

Potenziamento per la squadra Seo, che due volte al giorno comunicherà ai desk l’andamento della giornata: due assunzioni da Gedi Digital.

Più di un giornalista su cinque è del quotidiano di Travaglio. Cartabianca, il regno dei giornalisti del Fatto Quotidiano: tutti gli ospiti di Bianca Berlinguer. Riccardo Puglisi su Il Riformista il 28 Giugno 2023 

Rispetto alle degenerazioni del pensiero post-moderno, secondo cui si giudica un’affermazione soprattutto sulla base di chi la fa, mi piace portare avanti una tesi molto più antiquata secondo cui siano soprattutto i dati empirici -e quando possibile gli esperimenti controllati- a dirci qualcosa su come funzioni la realtà, andando largamente a prescindere dall’identità di chi questi dati li analizza.

Ebbene, ciò vale con forza nel caso dei mass media, e nella fattispecie nella valutazione di quale sia la loro posizione politica, così come traspare ad esempio dalle scelte degli ospiti nei talk show televisivi. Sempre sulla base dei dati raccolti e analizzati con Tommaso Anastasia, Nicola Chelotti e Marco Gambaro, qui vi fornisco qualche dato oggettivo sulle scelte degli ospiti presso Carta Bianca, presentato da Bianca Berlinguer, figlia di Enrico Berlinguer, già segretario del Partito Comunista Italiano (amo essere preciso).

Come già fatto per Otto e Mezzo e Di Martedì su La7, vorrei analizzare sia le presenze dei politici, che dei giornalisti appartenenti alle diverse testate. E in più vorrei aggiungere qualcosa sugli esperti che a vario titolo vengono invitati, in funzione di quale sia il tema saliente in quei giorni. Partiamo dai partiti: nelle puntate che vanno dal 2017 al settembre 2022 ci sono state 659 ospitate di politici, e vi invito a non stupirvi del fatto che la parte del leone la fa il Partito Democratico, negli ultimi mesi nevroticamente ululante contro il regime dittatoriale in RAI, forse anche perché a Cartabianca poteva contare su 233 ospitate, cioè più di un terzo delle ospitate totali (per l’esattezza: il 35%).

Buon secondo è il MoVimento 5 Stelle (altra sorpresona) con 95 ospitate totali, cioè il 14% circa, mentre al terzo posto c’è la Lega, con 78 ospitate totali, cioè quasi il 12%, seguita a ruota da Forza Italia con 74 ospitate, cioè circa l’11% del totale. Mi permetto altresì di evidenziare la quinta posizione di Articolo Uno (dove militavano Bersani e Speranza) con 38 ospitate, cioè quasi il 6% del totale.

A far bene i conti, il Governo Giallo Rosso del Conte 2 totalizza un sontuoso 55% delle ospitate politiche totali (anzi il 57%, se si aggiunge il 2% di ospitate di esponenti di Italia Viva).

E che dire dei giornalisti? Il quadro è piuttosto eclatante, come per La7, con l’unica differenza che Cartabianca viene trasmesso su un canale pubblico, finanziato largamente dal canone, cioè una tassa specifica pagata dai cittadini. Ci sono state 694 ospitate totali di giornalisti, e -sorpresa sorpresa- il giornale che riesce a piazzare più ospiti da Bianca Berlinguer è Il Fatto Quotidiano, con 158 ospitate, cioè il 23% del totale. Dato che l’amico Marco Travaglio appare solo su La7, nel 65% di queste ospitate c’è Andrea Scanzi, che si è seduto nel salotto della Berlinguer per ben 103 volte (Peter Gomez è lontanissimo secondo con 25 ospitate). 

Al secondo posto c’è La Verità con 114 ospitate, cioè poco più del 16% del totale, mentre al terzo posto c’è il Corriere della Sera con 61 ospitate, cioè quasi il 9% del totale. Repubblica è al quarto posto con 41 ospitate, cioè il 6% del totale. Spiccano 29 ospitate di giornalisti dell’Huffington Post (il 4% del totale) e 10 ospitate di Dagospia (cioè di Roberto D’Agostino).

E gli esperti? Come dicevo sopra, essi vengono ovviamente invitati sulla base della loro conoscenza degli argomenti all’ordine del giorno, quindi è cosa buona e giusta analizzarne le presenze a seconda dei diversi periodi. Nel 2020 e 2021 (gli anni della pandemia) l’esperto più presente a Carta Bianca è il medico infettivologo Massimo Galli (48 ospitate su un totale di 999, battuto soltanto dalle 63 ospitate del raggiante Andrea Scanzi), mentre nel 2022 (l’anno dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia) spicca Alessandro Orsini con 14 ospitate su 256 totali fino a settembre, facendosi battere dal solo Mauro Corona, e battendo persino Andrea Scanzi (che si ferma a 13 ospitate).

Riccardo Puglisi

Marco Zonetti per Dagospia il 28 Giugno 2023 

Continua la faida a distanza, a colpi di editoriali, fra Matteo Renzi, senatore, leader di Italia Viva e finanche direttore del Riformista, e il "collega" Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano. Motivo del contendere questa volta è l'interrogazione in Commissione di Vigilanza Rai presentata dalla vicepresidente Maria Elena Boschi per chiedere se Travaglio e le firme del Fatto Quotidiano, Andrea Scanzi e Alessandro Orsini in primis, siano pagati per andare ospiti a #Cartabianca a "difendere Putin".

Travaglio ha risposto a tono in un editoriale, ripreso da Dagospia, precisando che a fare "servizietti a Putin gratis" era Renzi. Il quale a sua volta, in un altro editoriale di poche ore fa, ha puntualizzato: "Io vedo Travaglio in TV, con lo striscione del Fatto Quotidiano dietro (chissà se quello striscione sia considerato o meno pubblicità, cambio merci, avviso a pagamento): posso chiedere se le mie tasse hanno contribuito a questo show o se le idee di Travaglio costano al contribuente?". 

Ma la stessa domanda potrebbe essere rivolta allo stesso Renzi, ricordando per esempio quando ai primi di maggio 2023 fu ospite dei Cinque Minuti di Bruno Vespa, nel momento di massimo ascolto di Rai1 dopo il Tg1, per presentare il primo numero del Riformista da lui diretto (e il cui direttore responsabile è Andrea Ruggieri, nipote dello stesso Vespa).

La prima pagina del quotidiano era di fatto ben visibile sugli schermi di Rai1, così come sugli schermi di Rai3 è visibile lo "striscione" del Fatto Quotidiano contestato da Renzi a Travaglio. Come se non bastasse, lo stesso giorno, in seconda serata, Renzi fu nuovamente ospite di Vespa a Porta a Porta e nuovamente venne mostrata la prima pagina del quotidiano diretto dal senatore di Italia Viva e dal nipote di Bruno. 

Se l'accusa di conflitto d'interessi per la doppia ospitata con presentazione del giornale, accusa mossa dal consigliere di amministrazione Rai in quota Dipendenti Riccardo Laganà, fu respinta da Viale Mazzini, l'ufficio legale della Rai pretese comunque con una diffida che i video della partecipazione di Renzi a Cinque Minuti e Porta a Porta fossero rimossi dal sito del Riformista. A questo punto, attendiamo la replica di Travaglio a Renzi con un altro editoriale.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 28 Giugno 2023  

Il pover’ometto che è passato in nove anni dal 40,8 al 2% ha partorito […] un pensierino: “Chiederemo in Vigilanza di sapere se chi va in tv a difendere Putin (i personaggi alla Orsini/travaglio) sono mai stati pagati da Carta Bianca e dalle altre trasmissioni del servizio pubblico[…]”. 

[…] né io né Orsini abbiamo mai difeso Putin.  Se però il tapino volesse dedicarsi a un cheerleader di Putin, gli suggeriamo un certo M.R.. Sotto il suo governo, la dipendenza italiana dal gas della Russia (sotto sanzioni dal 2014 per aver invaso la Crimea) aumentò a dismisura. 

E così le esportazioni d’armi a Mosca: fu lui ad autorizzare la vendita di 94 blindati Lince Iveco per 25 milioni in barba all’embargo. Il 5 marzo 2015 incontrò Putin a Mosca: “La cooperazione Russia-italia prosegue attivamente nonostante il contesto difficile” (era il suo modo di non nominare l’invasione della Crimea).  E disse alla Tass che l’ucraina doveva concedere l’autonomia al Donbass come l’italia all’alto Adige.

[…] Il 10.6.2015 il nostro eroe ricevette Putin all’expo di Milano: “Grazie di essere qui, la accolgo con grande gioia... Lavoreremo insieme per ripartire dalla tradizionale amicizia Italia-russia” per “un futuro ricco di energia per il pianeta e per la vita”. 

Il 17.11.’15, alla domanda “Possiamo fidarci di Putin?”, rispose: “Faccio una risposta da twitter: sì. Nessuno nella comunità internazionale può pensare di costruire l’identità europea contro il vicino di casa più grande considerandolo nemico... Sarebbe assurdo alzare una cortina di ferro tra Europa e Russia”.

Il 17.6.’16 rivide Putin al Forum Economico di San Pietroburgo e chiese alla Ue di ridiscutere le sanzioni: “Russia ed Europa condividono gli stessi valori”. Gran finale: “Avete notato? Oggi il presidente Putin è stato più europeista di me! Spasiba!”. 

Putin ricambiò: “Complimenti, lei è un grande oratore. L’italia può andare fiera di un premier così”. E gli diede un passaggio sulla sua auto blindata. […] non sappiamo se il cheerleader di Putin percepisse la giusta mercede per i suoi servizietti. Ma temiamo che, eccezionalmente, lavorasse gratis.

Perché si arrabbia per sapere se lui, Scanzi, Orsini e altri “arrotondano” le loro entrate? Conte e Travaglio, servizi e servizietti: la replica di Renzi al direttore del Fatto Quotidiano. Matteo Renzi su Il Riformista il 28 Giugno 2023 

Marco Travaglio non perde l’occasione per manifestare la sua ossessione nei confronti miei e del Riformista. Ieri il direttore del Fatto Quotidiano mi ha dedicato il suo ennesimo articolo di fondo polemico. E teoricamente ironico. Avrebbe voluto far ridere ma non ci è riuscito. Capita.

Quali sono i fatti?

Italia Viva ha chiesto in Commissione di Vigilanza di sapere se Travaglio, Orsini e altri editorialisti de Il Fatto Quotidiano ricevono soldi dalla Rai per le loro apparizioni televisive a cominciare da Carta Bianca. Il FQ dice da sempre di essere orgoglioso di non ricevere finanziamenti pubblici. Poco importa se risulta che Travaglio and company abbiano avuto accesso tre anni fa a un significativo aiuto statale.

La verità è che il Fatto è in linea con il pensiero grillino: no ai soldi pubblici ai giornali. E ai giornalisti. E allora perché Travaglio si arrabbia per sapere se lui, Scanzi, Orsini e altri “arrotondano” le loro entrate? Io vedo Travaglio in TV, con lo striscione del Fatto Quotidiano dietro (chissà se quello striscione sia considerato o meno pubblicità, cambio merci, avviso a pagamento): posso chiedere se le mie tasse hanno contribuito a questo show o se le idee di Travaglio costano al contribuente?

Che male c’è nel chiedere trasparenza sui soldi della Rai, cioè del canone, cioè dei cittadini?

Travaglio si è offeso. E allora mi ha attaccato dicendo che io facevo “servizietti a Putin gratis”. Come al solito un linguaggio da premio Pulitzer per coprire l’ontologica incapacità di fare politica. Chiedere a Russia e Ucraina di fare dei territori contesi un’area come l’Alto Adige – proposta non solo italiana del 2015 – avrebbe evitato la guerra. Non si chiama servizietto, si chiama politica estera. Che è esattamente la materia che Travaglio non capisce. Se la capisse potrebbe dedicare uno dei suoi editoriali alla risposta alla seguente domanda: perché in piena pandemia i soldati russi sono entrati in Italia, invitati dall’allora Presidente del Consiglio? Come si chiamava quel premier? Non si è trattato di un servizietto gratis in quel caso. Si è trattato di un drammatico errore politico. Il cui costo lo hanno sostenuto i cittadini italiani e la credibilità della Repubblica.

Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975) è un politico italiano e senatore della Repubblica. Ex presidente del Consiglio più giovane della storia italiana (2014-2016), è stato alla guida della Provincia di Firenze dal 2004 al 2009, sindaco di Firenze dal 2009 al 2014. Dal 3 maggio 2023 è direttore editoriale de Il Riformista

"La contabilità è la vera economia politica". I conti del Fatto Quotidiano, l’andamento dei depositi bancari di Seif e quello da capogiro di Travaglio in tv. Riccardo Puglisi su Il Riformista il 13 Giugno 2023

L’economista Sergio Ricossa era solito dire che «la contabilità è la vera economia politica», in quanto dentro ai dati su ricavi, costi, entrate e uscite di un’impresa (o di una serie di imprese) si può capire davvero come vadano le faccene economiche, a partire dalla singola impresa o dal singolo settore, fino ad arrivare al PIL totale di un paese. Ma la domanda di partenza è: quanto valore crea o distrugge un’impresa? Qui – basandomi sull’ottimo pezzo apparso su StartMag nell’aprile scorso – voglio concentrarmi sull’andamento di SEIF (Società Editoriale Il Fatto), la quale pubblica il giornale Il Fatto Quotidiano come prima fonte di ricavi e produce contenuti multimediali, in particolare quelli che appaiono sul sito TV Loft. SEIF è peraltro quotata in borsa, dove non spicca per il numero di scambi effettuati – ieri un corposo totale di zero titoli scambiati – e neppure per la valorizzazione totale (6 milioni 730 mila euro).

L’ultimo bilancio di esercizio relativo al 2022 mostra numeri contrastanti. I ricavi totali dalla gestione ordinaria sono in peggioramento, in quanto erano pari a 32 milioni circa nel 2021 e sono scesi a poco meno di 28 milioni nel 2022: un calo del 12,5%, che è particolarmente pronunciato nel caso del settore media content (da 3,5 milioni a 2,2 milioni, cioè un calo di quasi il 38%, pagina 38 della nota integrativa). Poiché i costi non scendono nella stessa misura, il cosiddetto EBIT (i profitti “ordinari”, calcolati prima di avere tolto spesa per interessi, imposte e dividendi) è negativo nel 2022 per 5,5 milioni di euro (pagina 7 della relazione di gestione degli amministratori), mentre era positivo e pari a 466 mila euro nel 2021. E qual è stato l’utile netto di SEIF nel 2022? Negativo? Assolutamente no: l’utile netto è pari a 2 milioni e mezzo di euro, rispetto ai 168 mila euro del 2021.

Il lettore più accorto potrebbe a questo punto domandarsi come si possano conciliare questi numeri, cioè un fatturato in calo e nel contempo utili netti in aumento. Ebbene, il 14 dicembre scorso gli amministratori di SEIF hanno deciso di costituire una società separata, chiamata Loft Produzioni, interamente posseduta da SEIF, alla quale è stato attribuito il ramo d’azienda dedito alla produzione di contenuti multimediali. Quale l’effetto di ciò sul bilancio? Il ramo d’azienda era precedentemente valutato 6,4 milioni di euro, mentre la partecipazione nella nuova società viene valutata dopo perizia 13,3 milioni di euro, cosicché si realizza una plusvalenza straordinaria pari a 6,9 milioni di euro circa. Ebbene, il raccordo contabile consiste nel fatto che questa plusvalenza entra nel conto economico come ricavo straordinario, e ciò contribuisce a spostare SEIF dal territorio delle perdite a quello degli utili.

Con la prossima relazione semestrale potremo verificare per bene l’andamento di Loft Produzioni, tenendo altresì conto dell’andamento non eccelso di media content nel 2022 rispetto al 2021, di cui dicevo sopra. Il principio cruciale in ragioneria è quello della «rappresentazione veritiera e corretta», il quale impone di fornire ad azionisti, lavoratori, fornitori e al pubblico un quadro franco dell’andamento economico, patrimoniale e finanziario dell’azienda in questione. In particolare, una partecipazione finanziaria ha valore nella misura in cui produce un flusso futuro di utili corrispondenti a tale valorizzazione, o trova un compratore sul mercato disposto a convertirla in denaro sonante.

Quindi: chi vivrà vedrà (i conti), ma nel contempo si può già vedere come i depositi bancari di SEIF abbiano avuto un andamento ben peggiore delle contemporanee ospitate del direttore Marco Travaglio su La7: erano 3 milioni 100mila euro a fine 2021, mentre sono 695 mila euro a fine 2022, un ingombrante calo di 2 milioni 400mila euro. Tanto per darvi un’idea del ritmo, con una quarantina di partecipazioni a Otto e Mezzo stiamo parlando di 60mila euro ad ospitata. Riccardo Puglisi

Comprare o vendere le azioni di Travaglio...Keynes spiega le azioni del Fatto Quotidiano: rialzisti e ribassisti, attenzione a non scottarsi le mani.  Riccardo Puglisi su Il Riformista il 15 Giugno 2023 

L’eccezionale capitolo quinto nella Teoria Generale di Keynes contiene una delle descrizioni più interessanti e illuminanti a proposito del funzionamento dei mercati finanziari: in particolare, Keynes illustra il meccanismo tramite cui una parte più o meno rilevante del capitale di un’impresa venga messa sul mercato, cosicché gli investitori iniziali –i fondatori- possano accrescere il capitale stesso dell’impresa con nuovi apporti di capitale, potendo beneficiare nel contempo di una maggiore liquidabilità dei propri capitali.

Non soltanto si tratta di vendere, possibilmente a prezzo generoso, quote esistenti della società così da ottenere un incasso immediato, ma anche di poter liquidare successivamente altre quote (a meno di accordi specifici tra azionisti o con i primi finanziatori dell’impresa) sulla base del prezzo fatto in borsa e aggiornato in maniera più o meno continuativa. Keynes giustamente rileva come questa valorizzazione in tempo reale dell’investimento abbia anche effetti negativi, che consistono nel fatto di dare spazio eccessivo alla speculazione finanziaria, intesa come l’attività di breve o medio termine finalizzata a beneficiare della volatilità dei prezzi stessi, con un atteggiamento che può essere rialzista o ribassista.

Il punto cruciale evidenziato da Keynes è che non raramente questi movimenti di prezzo siano di fatto scollegati dall’andamento del business dell’impresa, ma largamente guidati dalle aspettative formulate da chi opera sul mercato. Detto in termini banali: il valore di un titolo azionario potrebbe crescere semplicemente perché uno o più soggetti lo comprano nell’attesa che il valore del titolo cresca, cosicché l’eccesso di domanda fa salire il prezzo stesso (e viceversa nel caso di soggetti vendono in quanto si aspettano che il valore del titolo scenda). In entrambi casi potrebbe configurarsi quell’affascinante fenomeno delle aspettative che si autorealizzano, nella forma di un prezzo che sale perché molti (o pochi influenti) si attendono che salga e dunque comprano.

Avendo ben rammentato che Keynes amava speculare in borsa (e che i suoi capitali hanno avuto oscillazioni piuttosto selvagge), possiamo ragionare sul fatto che i rialzisti banalmente guadagnano quando comprano un titolo che nel tempo successivo sale di valore, mentre i ribassisti guadagnano in una maniera più “barocca”, i cui detrattori non esiterebbe a definire un po’ “sadica”: tale maniera consiste ad esempio nel vendere “allo scoperto” un titolo che non si possiede facendoselo prestare da chi lo possiede, per poi acquistarlo successivamente a un prezzo più basso, così da restituirlo a chi te lo ha prestato e intascare la differenza tra prezzo iniziale di vendita e prezzo successivo di acquisto.

Esiste ovviamente anche un approccio conservativo alla speculazione ribassista (altro che sadico) il quale consiste nel vendere un titolo che si possiede nel momento in cui si ritenga che nel futuro andrà sempre peggio, fino all’esito peggiore che è il fallimento, cioè l’azzeramento del valore del titolo. I nemici dei ribassisti sono piuttosto diffusi e ovviamente includono nel loro novero i proprietari dei pacchetti azionari delle società oggetto delle attenzioni dei ribassisti: in un celebre articolo dell’economista Owen Lamont intitolato “Go Down Fighting” si raccontano le aspre contese –per usare un eufemismo- tra i proprietari delle società quotate e i ribassisti, che spesso vanno a cercare informazioni sulle reali prospettive di tali società, alla ricerca dei bluff, cioè di stime eroiche degli utili futuri a cui poi corrispondono perdite ingenti, inesistenti fatturati, prodotti farlocchi eccetera.

Quando la scoperta di questi bluff è veritiera il ribassista meramente anticipa con il suo comportamento l’informazione che precedentemente era rimasta nascosta, guadagnandosi e mostrando il vero valore delle società in questione.

Tornando ai casi nostri, le strategie rialziste o ribassiste hanno successo non solo grazie al tempismo, ma anche a motivo della banale capacità (o fortuna) di capire meglio –e in anticipo sugli altri- i piani futuri di una data impresa. Nei giorni scorsi mi sono occupato ad esempio dell’andamento dei conti del Fatto Quotidiano, i quali nel 2022 si sono caratterizzati per la valorizzazione a 12,5 milioni del ramo d’azienda chiamato dedito alla produzione, distribuzione e vendita di contenuti multimediali, che è stato scorporato in una società autonoma –interamente posseduta dalla società quotata SEIF che possiede altresì come asset principale il quotidiano.

La valutazione del ramo d’azienda, magistralmente redatta dai professori Gimede Gigante e Andrea Cerri, è inclusa in una perizia di più di 100 pagine e ovviamente si basa sul piano d’azione (business plan) preparato dagli amministratori della società stessa sull’orizzonte temporale che va dal 2023 al 2025. Gli utili futuri attesi sono desunti da lì e vengono poi stimati per gli anni successivi fino al 2030 ipotizzando che gli andamenti dei primi tre anni proseguano negli anni successivi.

A pagina 99 e 100 del documento visionato (documento pubblico e scaricabile dal registro delle imprese in quanto allegato al verbale di conferimento di azienda della fine di dicembre 2022) si prevede ad esempio che i ricavi per abbonamenti a Loft TV crescano fino a 600mila euro circa nel 2025, quando nel 2021 erano pari a 200 mila euro circa. Ma la parte del leone nei ricavi della Loft Produzioni la fanno le vendite dei contenuti, che già negli anni scorsi hanno avuto una forte crescita, ma che fortemente dipendono da pochi clienti, in particolare dal canale Discovery. Dunque le decisioni prese da quest’ultimo, nel senso di incrementare o ridurre gli acquisti da Loft Produzioni, possono avere un impatto forte sull’andamento degli utili futuri. È ovviamente difficile fare previsioni ma non si può che notare ancora una volta –tornando al buon vecchio Keynes- che il prezzo di SEIF in borsa raramente trova riscontro in scambi corposi che rendano il titolo liquido. Quindi attenzione a non scottarsi le mani, sia come rialzista che come ribassista. Riccardo Puglisi

Il giornalismo grullino del Fatto: per colpire i nemici inventano pure le strette massoniche. Davide Vecchi su Il Tempo il 20 dicembre 2022

Ieri dopo aver letto il Fatto Quotidiano ho dovuto controllare le agenzie di stampa uscite mercoledì scorso relative al convegno organizzato da Il Tempo sul futuro della Capitale. Ho avuto conferma che quel giorno i relatori (quattro ministri, il sindaco Roberto Gualtieri, l'ambasciatore Giampiero Massolo, l'ad di Ferrovie, Luigi Ferraris, e monsignor Vincenzo Paglia) hanno dato vita a un interessante dibattito sui grandi eventi che coinvolgeranno Roma nei prossimi anni, a partire dal Giubileo. E mi sono rincuorato. Perché nel leggere il resoconto riportato ieri dal Fatto sembrava più una riunione massonica addirittura con radici nella P2: «La stretta massonica per Carrai» e «La destra abbraccia Gualtieri». 

Avendo lavorato al Fatto per quasi un decennio ammetto di non essere rimasto molto sorpreso, conosco bene la capacità di lettura della realtà di alcuni miei ex colleghi. Sono quelli dell'intercettazione totalmente inventata sulle qualità estetiche di Merkel, il famoso «culona inchiavabile» attribuito a Silvio Berlusconi, o della imminente morte di Papa Benedetto XVI che - scriveva il fatto nel febbraio 2012 - sarebbe scomparso da lì a 12 mesi: sono trascorsi dieci anni e il Pontefice si sta godendo la meritata pensione. Ma la lista di titoli e scoop poi sonoramente schiantati dalla realtà sarebbe lunga. L'acredine grullina (grillina, pardon) è a me facilmente comprensibile: la presenza tra gli oltre duecento convenuti (dall'ex procuratore Capo di Milano, Francesco Greco, al presidente di Coldiretti, Ettore Prandini) di due nemici giurati di alcuni dei valenti cronisti del Fatto: Luigi Bisignani e Marco Carrai. Con Bisignani l'autore ha delle vecchie ruggini per motivi immagino personali, con Carrai invece è un odio riflesso nei confronti di Matteo Renzi, al quale è legato da un rapporto di amicizia. E soprattutto Carrai è stato archiviato dall'indagine tanto cara al Fatto (nonostante ieri abbiano scritto sia ancora indagato).

Comprendo la delusione. Pur di screditare i due, il giornalista ha addirittura individuato una fantomatica «stretta di mano massonica», qualunque cosa sia. Quel che si dice giornalismo grillino (e non grullino, ci mancherebbe): piegare la realtà a seconda delle proprie simpatie. Per carità: non dipende dal direttore, Marco Travaglio, che non può certo controllare le didascalie di una paginetta con quattro foto. Ma certo l'autore fa danno a lui, al giornale e ai suoi lettori. Si sa, c'è chi è più realista del Re anche nelle redazioni e c'è chi, pur di denigrare nemici personali, vede indagati dove non ce ne sono e misteriose strette di mano massoniche. Ma ci è andata bene. Avremo potuto essere indicati come una nuova loggia, del resto la redazione è in Piazza Colonna, tra Palazzo Chigi e Montecitorio, a due passi dall'Altare della Patria. Qualche spunto nuovo per i colleghi del Fatto ché la P2 è roba di oltre quarant'anni fa. Coraggio, a voi la fantasia non manca.

Estratto da “Il romanzo del giornalismo italiano” di Giovanni Valentini (ed. La nave di Teseo), pubblicato dal “Fatto quotidiano” mercoledì 1 novembre 2023.

Era il 18 gennaio del 1988 quando Carlo De Benedetti, ancora socio di minoranza del Gruppo editoriale L'Espresso, annunciò a Parigi la scalata alla Société générale de Belgique. La holding belga, fondata a Bruxelles nel 1822, possedeva mezzo Congo attraverso partecipazioni in vari settori: carbone e siderurgia come nell'Ottocento, ma anche trasporti, chimica, tessile, cemento, costruzioni metalliche. 

Negli ambienti di sinistra, veniva considerato l'archetipo del capitalismo disumano, ossessionata dalla sete di denaro, ma nello stesso tempo accusata di essere un ente rigido e burocratico, allergico all'innovazione. Un boccone prelibato, dunque, per l'Ingegnere, istigato dal suo chaperon Bernard Guetta, giornalista francese esperto di geopolitica. 

A quella data, come raccontò Giuseppe Turani in un articolo pubblicato su L'Espresso in aprile, De Benedetti aveva già comprato il 18 per cento delle azioni della Vieille Dame, com'era chiamata la Sgb, e si apprestava a lanciare un'Opa per il 15%. “In questo modo”, spiega Turani, “sarebbe arrivato al 33% e si sarebbe posto come azionista di riferimento, in pratica come padrone e gestore.”

Ma, a tre mesi di distanza, che cosa rimaneva dell'atmosfera eccitata di quei giorni? “Nulla, soltanto tre fallimenti”, rispondeva Turani nel suo articolo. Con la spregiudicatezza e l'arroganza che gli hanno fatto perdere tante sfide finanziarie, l'Ingegnere era partito da Torino per andare a Bruxelles con una scatola di cioccolatini Peyrano sotto il braccio e una spavalda dichiarazione che gli sarebbe costata cara: “La ricreazione è finita!” Fatto sta che quelle vecchie volpi degli azionisti di Sgb, durante il fine settimana, decisero un aumento di capitale per diluire così la quota di De Benedetti. 

Per lui, quindi, il primo fallimento fu quello di essere costretto a puntare sul 51%, con una spesa molto più alta. Il secondo, non avendo raggiunto quell'obiettivo, consisteva nel fatto che l'Ingegnere non aveva più il controllo della Società e, anzi, nemmeno un consigliere al vertice della holding. E il terzo fallimento, concludeva Turani, era stato quello di trovarsi di fronte all'ipotesi di una cogestione: uno smacco per un finanziere come lui, abituato ad avere pieni poteri ea comandare anche solo con il 25%.

La scalata alla Sgb era stata un tentativo scaltro e audace, fallito per una scatola di cioccolatini. Fu proprio quello, Lo smacco, il titolo della nostra copertina, con una foto d'archivio in cui De Benedetti appariva seduto su una poltroncina gialla, affranto, piegato in due con la fronte poggiata su una mano e una cartellina verde nell'altra. Il giorno stesso in cui uscì L'Espresso mi chiamò al telefono inviperito, coprendomi di improprii. 

A farlo infuriare di più era stata l'immagine che lo ritraeva in un atteggiamento di sconforto, non riusciva a coglierne il significato e l'effetto simbolico: “Che cosa c'entra quella foto con tutta questa storia? Dove l'avete presa? È un affronto personale!”.

Al contrario, Caracciolo gongolava di divertimento. E si complimentò con me per quella copertina. Lui aveva il pregio della souplesse e la classe aristocratica del Principe rosso. Ma soprattutto era un editore per mestiere e passione civile. E poi, il triplice fallimento dell'operazione non doveva essere dispiaciuto neppure al suo cognato, Gianni Agnelli. In realtà, il primo titolo che avevamo predisposto era Waterloo. All'ultimo momento, però, preferii cambiarlo per non infierire su CdB, come lo chiamavano in codice Carlo ed Eugenio con una certa nonchalance. 

La bozza della copertina originaria, riprodotta a colori su carta lucida, rimase nella vaschetta di plastica sulla mia scrivania, fino al termine della mia direzione. E lì la lasciai, in eredità al mio successore Claudio Rinaldi, insieme a un'altra – a suo modo storico – che avevamo pubblicato il 14 febbraio '88 e di cui andavo particolarmente fiero.

Raffigurava il Governatore della Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi, seduto su una poltrona di velluto rosso sullo sfondo di una spiaggia caraibica. Il titolo di quel fotomontaggio recitava Ultima spiaggia. Nel mio editoriale, intitolato a sua volta Il governo del Governatore, di fronte alla caduta di Giovanni Goria, al disfacimento del sistema politico e al “ballo” della lira sui mercati internazionali, auspicavo la nomina di Ciampi a presidente del Consiglio. 

Lui allora mi telefonò: “Lei sa che non sono abituato a chiamare i direttori dei giornali. Ma questa copertina mi ha colpito. Vorrei sapere se è una tua idea o se hai raccolto qualche 'voce' sul mio conto.” “No, più che un'idea è una nostra proposta. Un pallone da prova. Ma noi ci auguriamo proprio che si realizzi”, gli risposi.

Passarono cinque anni prima che l'ex governatore fosse chiamato a Palazzo Chigi. Poco tempo dopo l'elezione a Capo dello Stato nel '99, il presidente mi fece invitare a cena al Quirinale e, salendo la scaletta per raggiungere l'altana da dove si vede tutta Roma, m'intimò amabilmente: “Da stasera, mi devi osare del tu. Altrimenti, non t'invito più!”. 

L'ultima volta che lo incontrai quando era ancora in carica, nella tenuta di Castel Porziano, mi congedò tenendomi i polsi con le mani: “Mi raccomando! Tu sei il più giovane della vecchia guardia”. 

L'avvento di CdB

Una brutta mattina del 1989 Scalfari convocò Marco Benedetto e me a Repubblica per annunciarci formalmente la decisione di cedere il Gruppo a De Benedetti. Fu un discorso scarno e rapido, durante il quale Eugenio tradì una qualche emozione: “Io, come sapete, non ho eredi maschi. Le mie due figlie non hanno alcuna intenzione di occuparsi di editoria. Ormai il Gruppo s'è allargato troppo per continuare a fare da solo e ha bisogno di rafforzarsi sul piano finanziario. De Benedetti è già nostro socio, è un amico e credo che sia la persona migliore alla quale possiamo passare il testimone”. 

Per quanto la “voce” circolasse da tempo, per noi fu un colpo di scena. Marco e io ammutolimmo. L'operazione era decisa e non restava altro che prenderne atto. Spiega Paolo Panerai, giornalista e fondatore della Casa editrice Class, nel suo libro intitolato Le mani sull'informazione: “Quotato in Borsa, forte di un settimanale (L'Espresso, nda) che da poco aveva raggiunto l'apice della sua fortuna superando Panorama – e non se ne vedevano ancora le crepe – ricco del 50% di quello che sarebbe diventato il secondo quotidiano italiano di fatto gestito da Caracciolo e Scalfari nonostante la governance dell'alternanza ai vertici del consiglio con gli uomini della Mondadori, il gruppo L 'Espresso-Repubblica era il target ideale per De Benedetti, sempre più schierato politicamente a sinistra”.

Eugenio aveva prevenduto la sua quota strategica, la seconda del patto di sindacato dopo quella di Caracciolo, spuntando per lealtà le stesse vantaggiose condizioni per lui e per gli altri soci: Aldo Bassetti, estromesso a suo tempo dalla sua famiglia per aver acquistato azioni dell' Caffè espresso; Cristina Busi, vedova dell'imprenditore bolognese concessionario della Coca-Cola in Emilia Romagna, compresa la Riviera adriatica; l'industriale farmaceutico, Claudio Cavazza, inventore della carnitina che – secondo la leggenda – aveva consentito alla nostra Nazionale di calcio nel 1982 di vincere i Campionati del mondo in Spagna e grande collezionista di opere d'arte; Mario Ciancio, direttore-editore del quotidiano La Sicilia di Catania, proprietario di alcune emittenti televisive e poi della Gazzetta del Mezzogiorno di Bari, destinato a diventare nel '96 presidente della Fieg (la Federazione editori di giornali) con l'appoggio del Principe rosso.

A Scalfari, l'affare fruttò circa 80 miliardi delle vecchie lire su un totale di 450: una “paccata di soldi”, come gli avrebbe rinfacciato in seguito De Benedetti in un'infelice e sgradevole sortita televisiva, nel gennaio 2018, durante la trasmissione Otto e mezzo di Lilli Gruber su La7. Ma anche Caracciolo ei soci minori, in virtù della mossa di Eugenio, realizzarono un bel guadagno. Così l'Ingegnere strapagò l'acquisto del Gruppo L'Espresso e potrà finalmente far stampare “Editore”, sotto il suo nome e cognome, sul biglietto da visita.

Il romanzo del giornalismo italiano. Redazione CdG 1947  su Il Corriere del Giorno il 31 Ottobre 2023

Cinquant’anni di informazione e disinformazione italiana raccontati dalla "penna" di Giovanni Valentini. Un memoir appassionante come un romanzo, fitto di retroscena inediti, che diventa anche una riflessione imprescindibile sul mestiere di cronista, sulle responsabilità di chi porta le notizie ai lettori, con un interrogativo sospeso sul futuro di questa professione, tra social network e intelligenza artificiale: faremo davvero a meno dei giornalisti?

L’ultima opera di Giovanni Valentini in passato direttore del settimanale L’Espresso e vicedirettore del quotidiano la Repubblica al fianco di Eugenio Scalfari , attualmente editorialista del Fatto Quotidiano racconta nelle 334 pagine un viaggio articolato in 20 capitoli nel giornalismo italiano con oltre 250 personaggi tra giornalisti, scrittori, editori e politici. Barese e figlio d’arte di suo padre Oronzo Valentini che è stato il più “autorevole” direttore nella storia del quotidiano pugliese La Gazzetta del Mezzogiorno.

Pubblicato dalla casa editrice La Nave di Teseo, in libreria da oggi 31 ottobre, Il romanzo del giornalismo italiano è un “viaggio” in cui il giornalista racconta in prima persona le sue varie esperienze professionali che si incrociano con le vicende della vita pubblica del nostro paese: dal quotidiano Il Giorno al quotidiano Repubblica (di cui è stato fra i fondatori) ; passando dalla direzione del settimanale L’ Europeo a quella del L’ Espresso, dopo quella dei quotidiani veneti del Gruppo (Il Mattino di Padova, la Nuova Venezia, La Tribuna di Treviso) ; dalla direzione editoriale di Tiscali fino all’incarico di Portavoce dell’Autorità Antitrust.

Il suo viaggio giornalistico racconta e descrive una trama di episodi, aneddoti, retroscena e anche pettegolezzi, in gran parte inediti e sconosciuti, che riguardano personaggi noti e meno noti: da Eugenio Scalfari a Umberto Eco, da Antonio Padellaro a Marco Travaglio, da Carlo Caracciolo a Carlo De Benedetti, dal presidente Sandro Pertini a Francesco Cossiga, da Silvio Berlusconi a Carlo Azeglio Ciampi, da Rosy Bindi a Giorgia Meloni, da Antonio Di Pietro a Renato Soru.

Giovanni Valentini

Questi che vi proponiamo di seguito per gentile concessione dell’ autore e dell’ editore, sono alcuni estratti che riguardano in particolare il quotidiano la Repubblica ed il settimanale L’Espresso. Fu Scalfari, dopo aver assunto già due volte Giovanni Valentini al quotidiano La Repubblica e averlo nominato capo della redazione milanese, a volere che il giornalista tornasse a Roma, nel luglio del 1984, per dirigere L’Espresso all’età di 36 anni.

L’assemblea di redazione, fedele al vecchio direttore Livio Zanetti sotto il controllo dei “tupamaros superstiti capeggiati da Paolo Mieli”, manifestò un parere contrario, pur escludendo pubblicamente riserve di natura personale. Ma, trattandosi di un parere consultivo, l’editore confermò la nomina con il consenso del Comitato dei garanti.

Nel suo “Romanzo del giornalismo italiano”, Giovanni Valentini rivela un retroscena conosciuto da pochi. Due anni prima, l’editore Carlo Caracciolo era andato a Padova – dove Valentini dirigeva i quotidiani veneti del Gruppo – e gli aveva già fatto una proposta. “L’Espresso è in difficoltà,” esordì il Principe-editore. “Zanetti comincia ad avere la sua età e il giornale ha bisogno di un ricambio.” E, parlando anche a nome di Eugenio Scalfari, aggiunse: “Vorremmo che tu tornassi a Roma, a settembre, per fare il caporedattore e prepararti dall’interno a prendere il suo posto.”

Per correttezza professionale e personale, e per verificare che il direttore del settimanale L’ Espresso fosse favorevole a quella soluzione, prima di accettare l’incarico Valentini volle incontrare personalmente Zanetti il quale si negò più volte. Alla fine, in piena estate romana, i due giornalisti si incontrarono a pranzo a Roma al ristorante “Il Passetto” . 

Dopo aver chiacchierato del più e del meno per un buon quarto d’ora Zanetti, facendosi schermo del “corporativismo” redazionale, ammise abbassando gli occhi: “Sì, sono al corrente della proposta di Carlo (Caracciolo n.d.r.) . Anche a me farebbe piacere averti come caporedattore. Ma, vedi, mi sembra che non tutta la redazione sia d’accordo” ed aggiunse “Prendiamo un po’ di tempo e magari ne riparliamo più avanti”. A quel punto Valentini irritato dall’ipocrisia e dalla falsità di Zanetti, reagì con la sua nota veemenza e franchezza: “Chiudiamo qui il discorso, non parliamone più”, gli rispose a muso duro: “Lasciami solo dire che il tuo è stato un comportamento da vigliacco”. E l’autore del libro aggiunge “prima che mi alzassi e me ne andassi, lui biascicò: “È vero, hai ragione…”.

Giovanni Valentini dedica tre capitoli, ai suoi sette anni trascorsi nella “storica” sede di via Pò a Roma, alla direzione del settimanale L’Espresso (1984-1991) dal titolo “L’Espresso amaro”, “Il fortino di via Po” ed infine “Venduti e comprati” dall’insediamento all’ideazione della “Bustina di Minerva” di Umberto Eco, dalla campagna sulla concentrazione televisiva e pubblicitaria di Silvio Berlusconi al filone dell’ambientalismo, fino all’avvento di Carlo De Benedetti ed alla “Grande spartizione” con la Mondadori che mise fine alla “Guerra di Segrate”. 53 pagine piene di aneddoti e retroscena che raccontano da “dietro le quinte” di vicende pubbliche vissute dall’interno della redazione di via Po, passando dal “caso Malindi” ai “sassolini di Cossiga” fino ai segreti di Gladio e all’operazione “Stay-Behind” contro il pericolo di un’invasione nemica.

Allorquando il settimanale L’ Espresso pubblicò lo “scoop” sull’organizzazione paramilitare Gladio rimasta fino ad allora segreta, il Capo dello Stato Francesco Cossiga telefonò all’Ingegnere-editore Carlo De Benedetti per protestare, come se fosse lui l’autore dell’inchiesta o il direttore del giornale: “Con questo articolo, hai fatto peggio che se avessi stuprato mia figlia!” inveendo contro De Benedetti, come lo stesso racontò poi a Valentini: “Finché ci sarò io, non metterai più piede al Quirinale. E domani ti farò restituire i telefonini che mi hai regalato.”

L’ex direttore del settimanale L’ Espresso racconta nel suo libro : “De Benedetti, pur senza lamentarsi o recriminare, rimase turbato da quello scontro con il presidente della Repubblica. Avvezzo agli ambienti felpati dell’alta finanza, lui non aveva né l’aplomb né l’esperienza di un editore come Caracciolo. Ho motivo di ritenere che il caso Gladio fu all’origine della mia rottura con l’Ingegnere che sarebbe arrivata appena un anno dopo”.

Rimosso nel luglio del ’91, dopo sette anni dalla direzione dell’Espresso per volere di De Benedetti che insedia Claudio Rinaldi, in autunno Valentini rientra ancora una volta a La Repubblica. A dicembre di quell’anno, come racconta l’ex direttore nel suo libro “Il romanzo del giornalismo italiano” (editore La Nave di Teseo), Eugenio Scalfari gli annuncia che intende nominare un “pacchetto” di vicedirettori, tra cui lui, ma il giornalista barese riesce a dissuaderlo: “Per quanto mi riguarda, ti ringrazio di aver pensato a me. Ma, come ti avevo detto fin dall’inizio, ho bisogno di ricaricarmi, di leggere, di andare al cinema e al teatro… Per un po’ di tempo, preferisco dedicarmi a scrivere”.

In relazione alla nomina di cinque vice direttori, Valentini aggiunse: “Poi, se me lo consenti, vorrei sconsigliartelo. Passerebbero la maggior parte del tempo a farsi la guerra tra di loro, rallentando il lavoro e la programmazione del giornale”. E il direttore Eugenio Scalfari lo ascolta e gli dà retta. Siamo alla fine del ’94, quando Scalfari per rilanciare la testata a quasi vent’anni dalla fondazione, fa un appello alla bandiera e decide di nominare tre vicedirettori: Mauro Bene, Antonio Polito e lo stesso Giovanni Valentini che a quel punto non si può più tirare indietro. I “tre fratellini” (come li chiamavano al giornale) si rimboccano le maniche, riformano il “timone” del giornale e la grafica, raddoppiano le pagine dei Commenti, e la “nuova Repubblica” passa dal bianco e nero al full color e riprende quota nelle vendite.

Nella primavera del ’96, Giovanni Valentini viene incaricato anche di coordinare il gruppo di lavoro che fonda il sito repubblica.it e il direttore, in tono tra lo scettico e l’ironico, gli chiede: “Ma tu mi devi spiegare perché dobbiamo cannibalizzarci le vendite in edicola…”. Una mattina di maggio è lo stesso Scalfari ad annunciare nella riunione di redazione l’avvicendamento alla guida del giornale. “L’editore,” esordisce, “mi ha chiesto una rosa di tre nomi. Io ho domandato: una ‘rosa’ interna o esterna? Mi è stato risposto: esterna, per favorire una discontinuità. E allora, ho fatto i nomi di Ezio Mauro, Claudio Rinaldi e Paolo Mieli”.

Nessuno ha l’ardire di chiedere a Scalfari il motivo per cui la nuova proprietà pretende una “discontinuità”. Valentini chiosa nel suo “romanzo”: “Caracciolo e De Benedetti si divertirono poi a dire che Scalfari s’era convinto di essere stato lui a scegliere Ezio Mauro”. Giampaolo Pansa nel suo libro “La Repubblica di Barbapapà” scriverà: “Scalfari aveva immaginato una scelta sorprendente: Bernardo Valli. Ad affiancarlo da condirettore poteva impegnarsi Valentini, già direttore dell’Espresso e molto legato a Eugenio”. Ma l’interessato nel suo volume pubblicato per l’editore La Nave di Teseo commenta: “Non so se fosse vero o meno“.

Ma racconta Valentini, “onestamente, Scalfari non mi parlò mai di quell’ipotesi. E comunque, la vendita a Carlo De Benedetti aveva cambiato le carte in tavola”. Fino ad arrivare ai giorni nostri, con il passaggio del Gruppo L’Espresso alla Fiat di John Elkann, sotto l’egida editoriale della Gedi. 

Oltre a un capitolo intitolato “Mani ferite, la vera storia di Tangentopoli” raccontata dall’ ex magistrato Antonio Di Pietro; a quello sul “Mistero della Sapienza“, dedicato al delitto di Marta Russo all’Università La Sapienza di Roma, il “romanzo” di Giovanni Valentini ne comprende uno più personale intitolato “Una vita con Barbapapà”, uno sul “Giornalismo on line” e infine si conclude con quello che risponde all’interrogativo sul futuro della professione, fra social network e intelligenza artificiale: faremo a meno dei giornalisti ? Un libro questo che ci sentiamo di consigliare vivamente a chiunque faccia il giornalista o voglia diventarlo. Redazione CdG 1947

Dagospia martedì 31 ottobre 2023. Anticipazione de “Il romanzo del giornalismo italiano”, di Giovanni Valentini (ed. La Nave di Teseo) 

Titolo: Il romanzo del giornalismo italiano. Sottotitolo: Cinquant’anni di informazione e disinformazione. 

È articolato in 20 capitoli; 334 pagine; oltre 250 personaggi tra giornalisti, scrittori, editori e politici, il nuovo libro di Giovanni Valentini, già direttore del settimanale L’Espresso e vicedirettore del quotidiano la Repubblica, oggi editorialista del Fatto Quotidiano.

Pubblicato da La Nave di Teseo, in libreria dal 31 ottobre, Il romanzo del giornalismo italiano è un “memoir” in cui l’autore racconta in prima persona le sue varie esperienze professionali intrecciate con le vicende della vita pubblica nazionale: dal Giorno a Repubblica; dalla direzione dell’Europeo a quella dell’Espresso, passando per quella dei quotidiani veneti del Gruppo; dalla direzione editoriale di Tiscali fino all’incarico di Portavoce dell’Antitrust. 

Una trama di episodi, aneddoti, retroscena e anche pettegolezzi, in gran parte inediti, che riguardano personaggi noti e meno noti: da Eugenio Scalfari a Umberto Eco, da Antonio Padellaro a Marco Travaglio, da Carlo Caracciolo a Carlo De Benedetti, da Sandro Pertini a Francesco Cossiga, da Silvio Berlusconi a Carlo Azeglio Ciampi, da Rosy Bindi a Giorgia Meloni, da Antonio Di Pietro a Renato Soru. Ecco, qui di seguito, alcuni estratti che riguardano in particolare la Repubblica e L’Espresso.

Fu Scalfari, dopo aver assunto già due volte Valentini a Repubblica e averlo nominato capo della redazione milanese, a volere che il giornalista tornasse a Roma, nel luglio del 1984, per dirigere L’Espresso all’età di 36 anni. 

L’assemblea di redazione, fedele al vecchio direttore Livio Zanetti sotto il controllo dei “tupamaros superstiti capeggiati da Paolo Mieli”, manifestò un parere contrario, pur escludendo pubblicamente riserve di natura personale. Ma, trattandosi di un parere consultivo, l’editore confermò la nomina con il consenso del Comitato dei garanti. 

Nel suo “Romanzo del giornalismo italiano”, l’autore rivela ora un retroscena conosciuto da pochi. Due anni prima, Caracciolo era andato a Padova - dove Valentini dirigeva i quotidiani veneti del Gruppo - e gli aveva già fatto una proposta. “L’Espresso è in difficoltà,” esordì il Principe-editore. “Zanetti comincia ad avere la sua età e il giornale ha bisogno di un ricambio.” E, parlando anche a nome di Scalfari, aggiunse: “Vorremmo che tu tornassi a Roma, a settembre, per fare il caporedattore e prepararti dall’interno a prendere il suo posto.”

Per correttezza, e per verificare che il direttore fosse favorevole a quella soluzione, prima di accettare l’incarico Valentini volle incontrare personalmente Zanetti che si negò più volte. Alla fine, in piena estate romana, i due giornalisti si incontrarono a pranzo al ristorante Il Passetto.  

Dopo aver traccheggiato per un buon quarto d’ora Zanetti, facendosi schermo del “corporativismo” redazionale, ammise abbassando gli occhi: “Sì, sono al corrente della proposta di Carlo. Anche a me farebbe piacere averti come caporedattore. Ma, vedi, mi sembra che non tutta la redazione sia d’accordo.

Prendiamo un po’ di tempo e magari ne riparliamo più avanti”. A quel punto, irritato dall’ipocrisia e dalla falsità dell’interlocutore, Valentini reagì con veemenza: “Chiudiamo qui il discorso, non parliamone più”, replicò a brutto muso: “Lasciami solo dire che il tuo è stato un comportamento da vigliacco”. E, racconta l’autore del libro, “prima che mi alzassi e me ne andassi, lui biascicò: “È vero, hai ragione…”. 

Ai sette anni della sua direzione all’Espresso (1984-1991) Valentini dedica tre capitoli intitolati L’Espresso amaro, Il fortino di via Po e infine Venduti e comprati: dall’insediamento all’ideazione della Bustina di Minerva di Eco, dalla campagna sulla concentrazione televisiva e pubblicitaria di Berlusconi al filone dell’ambientalismo, fino all’avvento di De Benedetti e alla “Grande spartizione” con la Mondadori che mise fine alla “Guerra di Segrate”.

Sono 53 pagine dense di aneddoti e retroscena che raccontano da “dietro le quinte” di vicende pubbliche vissute dall’interno della redazione di via Po, passando dal “caso Malindi” ai “sassolini di Cossiga” fino ai segreti di Gladio e all’operazione “Stay-Behind” contro il pericolo di un’invasione nemica. 

Quando il settimanale pubblicò lo scoop sull’organizzazione paramilitare rimasta fino ad allora segreta, il Capo dello Stato telefonò all’Ingegnere-editore per protestare, come se fosse lui l’autore dell’inchiesta o il direttore del giornale: “Con questo articolo, hai fatto peggio che se avessi stuprato mia figlia!” inveì contro De Benedetti, come lui stesso riferì poi a Valentini: “Finché ci sarò io, non metterai più piede al Quirinale. E domani ti farò restituire i telefonini che mi hai regalato.”

Scrive nel suo libro l’ex direttore del settimanale: “De Benedetti, pur senza lamentarsi o recriminare, rimase turbato da quello scontro con il presidente della Repubblica. 

Avvezzo agli ambienti felpati dell’alta finanza, lui non aveva né l’aplomb né l’esperienza di un editore come Caracciolo. Ho motivo di ritenere che il caso Gladio fu all’origine della mia rottura con l’Ingegnere che sarebbe arrivata appena un anno dopo”.

Destituito dopo sette anni dalla direzione dell’Espresso nel luglio del ’91, per volere di De Benedetti che insedia Claudio Rinaldi, in autunno Valentini torna ancora una volta a Repubblica. 

A dicembre di quell’anno, come racconta l’ex direttore nel suo libro “Il romanzo del giornalismo italiano” (La Nave di Teseo), Scalfari gli annuncia che intende nominare un “pacchetto” di vicedirettori, tra cui lui, ma il giornalista riesce a dissuaderlo: “Per quanto mi riguarda, ti ringrazio di aver pensato a me. 

Ma, come ti avevo detto fin dall’inizio, ho bisogno di ricaricarmi, di leggere, di andare al cinema e al teatro… Per un po’ di tempo, preferisco dedicarmi a scrivere”.

Quanto alla nomina di cinque vice, aggiunge: “Poi, se me lo consenti, vorrei sconsigliartelo. Passerebbero la maggior parte del tempo a farsi la guerra tra di loro, rallentando il lavoro e la programmazione del giornale”. E il direttore gli dà retta. 

Alla fine del ’94, per rilanciare la testata a quasi vent’anni dalla fondazione, Scalfari fa un appello alla bandiera e decide di nominare tre vicedirettori: Mauro Bene, Antonio Polito e lo stesso Valentini che a quel punto non può più rifiutare. I “tre fratellini” si rimboccano le maniche, riformano il “timone” del giornale e la grafica, raddoppiano le pagine dei Commenti, la “nuova Repubblica” passa al full color e riprende quota.

Nella primavera del ’96, Valentini viene incaricato anche di coordinare il gruppo di lavoro che fonda il sito repubblica.it e il direttore, in tono tra lo scettico e l’ironico, gli chiede: “Ma tu mi devi spiegare perché dobbiamo cannibalizzarci le vendite in edicola…”. 

Una mattina di maggio è lo stesso Scalfari ad annunciare nella riunione di redazione l’avvicendamento alla guida del giornale. “L’editore,” esordisce, “mi ha chiesto una rosa di tre nomi. Io ho domandato: una ‘rosa’ interna o esterna? Mi è stato risposto: esterna, per favorire una discontinuità. E allora, ho fatto i nomi di Ezio Mauro, Claudio Rinaldi e Paolo Mieli”.

Nessuno ha l’ardire di chiedere il motivo per cui la nuova proprietà pretende una “discontinuità”. Chiosa nel suo “romanzo” Valentini: “Caracciolo e De Benedetti si divertirono poi a dire che Scalfari s’era convinto di essere stato lui a scegliere Ezio Mauro”. 

Scriverà Giampaolo Pansa nel libro La Repubblica di Barbapapà: “Scalfari aveva immaginato una scelta sorprendente: Bernardo Valli. Ad affiancarlo da condirettore poteva impegnarsi Valentini, già direttore dell’Espresso e molto legato a Eugenio”. Ma l’interessato nel suo volume per La Nave di Teseo commenta: “Non so se fosse vero o meno.

Ma, onestamente, Scalfari non mi parlò mai di quell’ipotesi. E comunque, la vendita a CdB aveva cambiato le carte in tavola”. Fino ad arrivare ai giorni nostri, con il passaggio del Gruppo L’Espresso alla Fiat di John Elkann, sotto l’egida editoriale della Gedi.  

Oltre a un capitolo intitolato Mani ferite, la vera storia di Tangentopoli raccontata da Di Pietro; a quello sul Mistero della Sapienza, dedicato al delitto di Marta Russo all’Università La Sapienza di Roma, il “romanzo” di Valentini ne comprende uno più personale intitolato Una vita con Barbapapà, uno sul Giornalismo on line e infine si conclude con quello che risponde all’interrogativo sul futuro della professione, fra social network e intelligenza artificiale: faremo a meno dei giornalisti?

Iervolino indagato, su Affari la richiesta di Woodcock di rinvio a giudizio. Eleonora Perego su Affari Italiani il Martedì, 31 ottobre 2023. Gli atti della richiesta di rinvio a giudizio per i sette indagati per corruzione, tra cui l'editore de L'Espresso Danilo Iervolino

Concorso in corruzione, l'editore de "L'Espresso" Iervolino indagato per un'assunzione favorita in Unipegaso

Concorso in corruzione aggravata: questo il reato per il quale i pm di Napoli Sergio Ferrigno e Henry John Woodcock (il pm che in passato ha messo sotto inchiesta Berlusconi, la Guardia di Finanza e che ha indagato sulla P4 e sugli appalti Consip) hanno chiesto il rinvio a giudizio per sette indagati tra cui Danilo Iervolino, allora al vertice dell'Università Pegaso e attuale presidente della Salernitana calcio, oltre che editore de L’Espresso.  Insieme a lui il segretario generale del sindacato Cisal Franco Cavallaro, il segretario generale del Ministero del Lavoro Concetta Ferrari e Fabia D'Andrea, all'epoca dei fatti vice capo di Gabinetto del ministro del Lavoro.

"Il dottor Danilo Iervolino è completamente estraneo ai fatti ricostruiti dall’ufficio di procura. Non ha mai conosciuto ne’ incontrato la dottoressa Ferrari, ed il di lei figlio", afferma su affaritaliani.it Giuseppe, Saccone, avvocato di Iervolino. "Non ha mai parlato con la dottoressa Ferrari al telefono né è mai stato intercettato un suo colloquio con i protagonisti della vicenda avente ad oggetto i fatti contestativa - prosegue il legale -. Nemmeno vi è prova che egli sapesse, nel momento della sottoscrizione del contratto di docenza di cui si parla nell’imputazione, che quell’incarico fosse correlabile alla elargizione di favori di qualunque genere… A prescindere dalla inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali effettuate nel procedimento sui dispositivi appartenenti a soggetti diversi dal Dottor Iervolino. Inutilizzabilità dichiarata dal giudice del riesame, siamo certi che proprio quei colloqui contengono  la prova incontrovertibile della sua estraneità ai fatti. Attendiamo con fiducia la fissazione dell’udienza preliminare e non escludiamo di definire il procedimento con il giudizio abbreviato". 

Corruzione, indagato Iervolino: «Un'assunzione all'Università Pegaso per aiutare un sindacalista». L'ateneo: «Noi parte lesa». Titti Beneduce su Il Corriere della Sera il 30 ottobre 2023

Per il patron della Salernitana e altri sei chiesto il rinvio a giudizio, prima udienza il 24 novembre. Sullo sfondo la scissione di un patronato

Concorso in corruzione aggravata: questo il reato per il quale la Procura di Napoli ha chiesto il rinvio a giudizio per 7 indagati tra cui il segretario generale del sindacato Cisal Franco Cavallaro, 58 anni; il segretario generale del Ministero del Lavoro Concetta Ferrari, 64 anni; Fabia D'Andrea, 58 anni, all'epoca dei fatti vice capo di Gabinetto del ministro del Lavoro; Danilo Iervolino, 45 anni, già al vertice dell'Università Pegaso e attuale presidente della Salernitana calcio. Cavallaro, secondo l'accusa, al fine di ottenere la scissione parziale del patronato Encal-Inpal in patronato Encal-Cisal e patronato Inpal avrebbe corrotto Ferrari e D'Andrea con alcuni favori. In particolare, Cavallaro avrebbe richiesto a Iervolino l'assunzione di un figlio della Ferrari quale professore dell'Università Pegaso (30.000 euro lordi all'anno). Il gup ha fissato l'udienza preliminare per il 24 novembre.

La vacanza e la barca

 Cavallaro è poi accusato di aver pagato una vacanza a Tropea alla Ferrari e al marito, oltre al noleggio di una barca e regali come una borsa di pregio e una cravatta al marito della Ferrari. Avrebbe poi «sponsorizzato» due persone di interesse della D'Andrea. La scissione parziale del patronato Encal-Inpal in patronato Encal-Cisal e patronato Inpal - ottenuta il 18 gennaio 2018 - ha consentito la conservazione dello status di Patronato con conseguente mantenimento in favore di entrambi delle sovvenzioni pubbliche, delle sedi e del patrimonio in loro possesso. In caso di scissione totale, invece, tali benefici sarebbero stati tutti persi. Parti offese nell'inchiesta il Ministero del Lavoro, il Patronato Inpal e l'Università telematica Pegaso.

Pegaso: «Noi parte lesa»

In riferimento alla richiesta di rinvio a giudizio, Università Pegaso precisa che «si tratta di una vicenda precedente all'attuale gestione, per la quale è stata fornita piena collaborazione alla Procura, che ha qualificato Università Pegaso come parte lesa e si riserva di ricorrere in tutte le sedi a propria tutela».

Gli avvocati

«Con riferimento alla notizia inerente il coinvolgimento del segretario generale della Cisal in un procedimento penale presso il Tribunale di Napoli, colpisce il fatto che chi ha divulgato tale notizia si sia guardato bene dal dire che il competente Tribunale della Libertà, con venti pagine di motivazione, ha ritenuto insufficienti finanche i semplici indizi di colpevolezza a carico del mio assistito». Lo afferma in una nota l'avvocato Domenico Colaci, difensore del segretario generale della Cisal Francesco Cavallaro; analoga la riflessione dell'avvocato Giuseppe Saccone, che assiste Iervolino. «Prediamo atto della diffusione, tardiva e non casuale, di questa notizia», commenta anche l'avvocato Alessandro Diddi, legale di Concetta Ferrari. «Peccato - aggiunge - che siano già state chieste delle misure cautelari per gli indagati, tutte rigettate dal giudice per le indagini preliminari sia dal Tribunale delle Libertà di Napoli».  Il nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Napoli ha già eseguito un sequestro preventivo nei confronti del figlio della Ferrari per un importo di oltre 68 mila euro, pari ai compensi netti percepiti come professore dalla Pegaso dal primo aprile 2019 al 10 giugno 2022.

Da Savoiagate a Consip passando per Vallettopoli. WoodcockFlop, una carrellata dei ‘nulla di fatto’ del pm anglo-napoletano Henry John. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 2 Novembre 2023 

Il procedimento per corruzione nei confronti dell’imprenditore Danilo Iervolino, fondatore dell’Università telematica Pegaso e attuale numero uno della Salernitana, destinato a finire come raccontato ieri sul Riformista in un nulla di fatto, è solo l’ultimo di una lunga serie di flop del Pm aglo-napoletano Henry John Woodcock.

Il più celebre è senza ombra di dubbio il Savoiagate. Nel 2006, Woodcock, allora Pm a Potenza, aveva accusato Vittorio Emanuele di Savoia, figlio dell’ultimo re d’Italia, di far parte di una associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e allo sfruttamento della prostituzione. Vittorio Emanuele venne fermato mentre si trovava a Varenna, un paesino sul lago di Lecco. Dopo un viaggio durato tutta la notte, fu tradotto nel carcere di Potenza dove rimase per una settimana prima di andare ai domiciliari. Finito l’iniziale clamore mediatico, l’inchiesta approdò a Como per competenza territoriale e Vittorio Emanuele, assolto perché il fatto non sussiste, sarà poi risarcito con 40mila euro per l’ingiusta detenzione patita.

A seguire Vallettopoli, una maxi inchiesta sul mondo spettacolo. Fra gli indagati, Elisabetta Gregoraci, Fabrizio Corona, Lele Mora, l’allora ministro Alfredo Pecoraro Scanio. Anche questa inchiesta si chiuderà con una sfilza di assoluzioni. Altra inchiesta mediatica, finita in un nulla di fatto, sarà Vipgate e coinvolgerà Franco Marini, Nicola Latorre, Maurizio Gasparri, Francesco Storace, Umberto Vattani, Tony Renis e Anna La Rosa. Associazione per delinquere, turbativa d’asta, corruzione ed estorsione, le accuse. Dopo Potenza per Woodcock arriva il trasferimento a Napoli con l’inchiesta sulla P4, una loggia P2 al quadrato. Figura centrale è Luigi Bisignani, accusato di aver creato un sistema informativo parallelo. Saranno coinvolti il magistrato Alfonso Papa, all’epoca deputato del Pdl e l’allora capo di Stato maggiore della guardia di finanza Michele Adinolfi, il comandante in seconda della Gdf Vito Bardi, oltre ad una pletora di dirigenti della Rai, delle Ferrovie e dei Ministeri. Le accuse verranno ridimensionate dalla Cassazione che stabilirà l’insussistenza dell’associazione a delinquere.

Dopo la P4, parte Consip, un’altra maxi indagine. Il procedimento sulla centrale acquisti della Pa nel 2016 coinvolge l’entourage dell’allora premier Matteo Renzi, il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Tullio Del Sette, i vertici della guardia di finanza, l’imprenditore ed editore di questo giornale Alfredo Romeo. Qui c’è una cosetta che vale la pena ricordare, così per sorridere anche se c’è francamente poco da ridere, la parte principale del reato contestato a un dipendente della Romeo Gestioni è il regalo di un myrtillocactus una pianta, tutta attorcigliata che ha un valore che solitamente non supera i cento euro, a una funzionaria della Regione Campania. Sì, cento euro. Torniamo sei, il fascicolo dell’inchiesta verrà poi spacchettato in vari tronconi, alcuni dei quali trasmessi per competenza a Roma. Quelli nei confronti di Romeo e Del Sette si sono conclusi con una assoluzione. Altri si trascinano stancamente nelle aule dei tribunali. L’inchiesta Consip, comunque, verrà ricordata per la più grande fuga di notizie della storia della Repubblica, con una intera informativa di oltre mille pagine redatta dai carabinieri del Noe finita integralmente nelle redazioni dei giornali.

Per questa indagine Woodcock subirà anche un procedimento disciplinare al Csm poi archiviato per “condotta irrilevante”. Al Pm furono contestate le modalità dell’interrogatorio di Filippo Vannoni, il presidente della municipalizzata fiorentina Publiacqua, accusato di essere a conoscenza che la Procura stava facendo indagini nei confronti di altri manager pubblici. Vannoni venne sentito alla vigilia di Natale del 2016 da Woodcock come persona informata dei fatti, quindi come testimone e senza l’assistenza di un difensore. Per il Csm però già allora c’erano tutti gli elementi per iscriverlo nel registro degli indagati. Fu un interrogatorio “molto duro”, disse poi Vannoni, con domande “pressanti” concentrate soprattutto sui “rapporti con Matteo Renzi”, e poi una frase, “vuole fare una vacanza a Poggioreale”, che gli sarebbe stata rivolta da Woodcock e di fronte alla quale il manager era rimasto “colpito e intimidito”. Nell’elenco di flop non può mancare l’inchiesta sui vertici di Cpl Concordia, accusati di corruzione in relazione agli appalti per la metanizzazione dell’isola di Ischia, con l’arresto del sindaco Giosi Ferrandino, ora europarlamentare Pd. Scontato l’esito: tutti assolti. Dulcis in fundo, il procedimento a carico del professore Francesco Fimmanò, ex componente del Consiglio di Presidenza della Corte di Conti, fatto anche perquisire all’alba, la cui ‘colpa’ era stata quella di aver fatto l’avvocato, rappresentato l’Università Pegaso nel procedimento innanzi alla Sezione consultiva del Consiglio di Stato. Paolo Pandolfini

"Io vittima di uno stalking giudiziario". Gli scoop di Woodcock, il calvario di Danilo Iervolino: “Costretto a lasciare Napoli per i miei figli, la gente mi evita”. Danilo Iervolino è una delle tante vittime del Pm inglese che alla comunità economica napoletana ne ha fatte più di Carlo in Francia. Paolo Pandolfini su Il Riformista l'1 Novembre 2023

«Sono stato costretto a vendere la società e ad andarmene. Purtroppo svolgere una attività imprenditoriale a Napoli era diventato impossibile a causa dell’attenzione, che definirei “morbosa”, della Procura della Repubblica nei miei confronti», afferma Danilo Iervolino, fondatore dell’Università Telematica Pegaso, di cui ha lasciato la direzione lo scorso anno, e attuale presidente della Salernitana nonché proprietario del settimanale L’Espresso. Il Pm napoletano Henry John Woodcock ha chiesto il suo rinvio giudizio per l’accusa di corruzione. L’udienza preliminare è fissata il prossimo 24 novembre.

Dottor Iervolino, ci spieghi cosa è successo.

«Guardi, questa vicenda inizia nel 2018. I magistrati stavano indagando Franco Cavallaro, il segretario generale della Cisal, un sindacato molto presente nel pubblico impiego, nell’ambito di un procedimento per voto di scambio. Il trojan nel suo cellulare registra un colloquio con Concetta Ferrari, all’epoca direttore generale del Ministero del lavoro, con cui Cavallaro intratteneva rapporti di amicizia. Quest’ultimo rappresenta alla dirigente che poteva far avere al figlio, dottore di ricerca in ingegneria, un contratto di insegnamento presso la mia Università telematica. Teniamo presente che Cisal aveva una convenzione con l’Ateneo».

E poi?

«Il ragazzo, che non conoscevo, come non conoscevo la madre, si presenta alla Pegaso e riceve un contratto integrativo. Ma come lui tanti altri».

Non mi sembra un fatto grave.

«Appunto. Dagli ascolti del trojan, però, emerge che Cavallaro avrebbe fatto una serie di regali e attenzioni alla dottoressa Ferrari per ottenere un parere favorevole alla scissione del suo patronato e che gli avrebbe prodotto delle utilità».

Andiamo avanti.

«Cavallaro ad un certo punto chiede al professor Francesco Fimmanò, direttore scientifico della Pegaso e mio avvocato, di poter avere un appuntamento col vicecapo-gabinetto del Ministero del lavoro, la prefetta Fabia D’Andrea, per questioni inerenti il sindacato, avendo visto che entrambi sono spesso impegnati in convegni o pubblicazioni comuni anche al Cnel. Fimmanò glielo fissa aggiungendo, a fronte del tentativo di Cavallaro di spiegargli il problema, che D’Andrea nessun ruolo o potere poteva avere nella vicenda. D’Andrea, comunque, offre dei consigli e dà notizie per le quali avrebbe ricevuto molto tempo dopo un corso di formazione per una sua giovane amica.

E dopo questo episodio?

«L’anno scorso io e Fimmanò riceviamo un invito a comparire da Woodcock con la descrizione del fatto. Gli mandiamo una nota rappresentando che è inutile sentirci non conoscendo nulla delle vicende connesse al contratto e alla presentazione. Come dice Fimmanò: “Non è che se le presento un ministro e dopo lo spara, posso mai rispondere di concorso in omicidio”. La scorsa estate, comunque, arriva la chiusura delle indagini sempre per le stesse cose».

E per gli altri soggetti?

«Woodcock in primavera aveva fatto una richiesta cautelare ai domiciliari per Ferrari e Cavallaro e un obbligo di dimora per D’Andrea. La richiesta è stata rigettata dal gip nel mese di maggio. Il magistrato ha allora fatto appello al Riesame. Senza attendere la decisione, a luglio ha chiesto il rinvio a giudizio per tutti».

Il Riesame è arrivato la scorsa settimana.

«Sì. Ed ha annichilito l’appello del Pm. Con un provvedimento ineccepibile lo ha dichiarato inammissibile, in quanto non v’è alcun indizio visto che queste captazioni trojan di terzi ante 2020 sono inutilizzabili per giurisprudenza ormai consolidata. Guarda caso, esce la notizia della richiesta di rinvio a giudizio per un procedimento che è già su un binario morto».

Procedimento che si trascina dal 2018.

«Negli ultimi 5 anni il dottor Woodcock ha ‘gemmato’ una serie enorme di imputazioni, sempre dallo stesso procedimento in cui avrei corrotto il Parlamento».

Si spieghi.

«Anni fa, con uno meccanismo per il quale ho sporto querela nei confronti di Woodcock, è stato abusivamente acquisito ogni dato che mi riguardasse. Sono stato intercettato per anni, con cimici in casa quando ero coi miei bambini e mia moglie, in auto, in ufficio, ovunque, uno stalking giudiziario. Come dicono i miei avvocati, dallo stesso procedimento se ne tira fuori un altro e così all’infinito, è una tecnica consolidata, così la competenza resta sempre allo stesso Pm che, che coincidenza, la prima volta era di turno».

Che fine hanno fatto questi procedimenti?

«Faccia una ricerca in internet. Basterebbe leggere quello a seguito del riesame del 2021 per chiedersi come sia possibile che dopo quanto hanno rilevato e stigmatizzato con toni gravissimi i giudici in tre diverse ordinanze si continui ad andare avanti».

Dove sarebbe la corruzione in quest’ultimo procedimento?

«Non lo so. Avremmo conferito un contratto ad un ingegnere dottore di ricerca che pare sarebbe stato poi utilizzato da Cavallaro per avere il via libera sulla scissione di un patronato. Ma lo leggo come voi, perché non so neppure di cosa parliamo ed è frutto di colloqui tra terzi, senza che io ne abbia avuto mai neppure contezza. Non ho mai messo piede al Ministero del lavoro, tanto meno per questioni sindacali. Non so neppure perché proceda la Procura di Napoli visto che i fatti si sarebbero svolti tra la Calabria e Roma».

È in guerra con Woodcock?

«Ma no. Io non sono in guerra con nessuno, vorrei solo lavorare, produrre e vivere in pace coi miei figli. So soltanto che questa persecuzione mi ha costretto a lasciare Napoli ed a svendere la metà del mio gruppo per proteggere i miei bambini, ormai traumatizzati da perquisizioni con centinaia di poliziotti e finanzieri a casa ed in ufficio. Ma questo è un tema che molti purtroppo conoscono da anni, dal Re Vittorio Emanuele, al povero sindaco di Castellaneta, all’Ispettore generale del Ministero della giustizia Andrea Nocera, agli imprenditori Alfredo Romeo e Gianluigi Aponte. La lista è così lunga che non basterebbe un intero giornale».

E l’indagine fiscale?

«È finita con una archiviazione dopo essere stata pubblicata sul Fatto Quotidiano, grazie alla notizia della proroga delle indagini di un altro procedimento, pure quello archiviato».

Ma davvero lei ha venduto il suo gruppo e abbandonato Napoli per queste vicende?

«Ma lei ha compreso cosa mi è capitato e mi sta capitando? Ha visto la rassegna stampa? Ha visto le dichiarazioni degli attuali gestori del mio vecchio gruppo? Vorrei che per un giorno si capisse quello che ho passato. Io ho avuto in casa centinaia e centinaia di poliziotti, i miei bambini terrorizzati hanno cominciato a pensare di avere un papà criminale. E poi tutte quelle imputazioni con gli aggettivi più turpi e disdicevoli: mi vergognerei solo a pensarle quelle cose. Questo per non parlare delle complicazioni nella mia vita di relazioni umane e a tutto quello che è accaduto a chi mi è stato intorno, i miei commercialisti, medici, avvocati, ad iniziare da Fimmanò che si trova in questo bailamme per aver presentato un segretario di un sindacato ad un vicecapo-gabinetto del Ministero del lavoro, una cosa normalissima in un Paese normale».

È cambiato l’atteggiamento del prossimo nei suoi confronti?

«La gente ha cominciato ad evitarmi soprattutto per non incappare nel solito Pm che oggi trae una pubblicità inaspettata dal fatto che presiedo un club di serie A».

Lei è considerato un golden boy dell’economia italiana.

«Sì. Per riprendere a firmare un atto ho dovuto superare momenti di sconforto. Ho dovuto vendere l’azienda per tre volte in meno il suo valore. Ma cos’altro potevo fare? Si rende conto che siamo ancora a parlare di questo procedimento a cinque anni di distanza? E poi che succede se verrò prosciolto nuovamente? Nulla, ci siamo sbagliati?»

Faccia una previsione.

«Ho troppo rispetto per i giudici e sono abituato a difendermi nei processi. I giudici sono una delle categorie più sane e serie del Paese, non confondiamo con i casi di malagiustizia, anche se questa volta è ancora più incredibile degli altri. Sui co-indagati si è già pronunciato il gip ed il Riesame ha rigettato ogni richiesta per la totale mancanza di indizi. La richiesta di rinvio a giudizio ha solo una motivazione ed è quella per la quale mi sta intervistando. Stranamente una notizia vecchia di mesi esce, dopo che lo stesso Riesame ha azzerato l’inchiesta, su piccoli siti, individuati abilmente, ed è subito diventata virale visto che riguarda il presidente di una squadra di serie A».

Paolo Pandolfini

"Sono innamorato della città". Chi è Danilo Iervolino, l’imprenditore nuovo proprietario della Salernitana che ha fondato l’Università telematica Pegaso. Antonio Lamorte su Il Riformista l'1 Gennaio 2022

Danilo Iervolino è un napoletano innamorato di Salerno. È lui l’uomo della salvezza, almeno in questa fase, per i granata. L’imprenditore di 43 anni ieri ha presentato un’offerta che è stata accettata dai trustee del club campano. Avrebbe messo sul piatto tra i 10 e i 13 milioni di euro per l’acquisto della Salernitana. Iervolino è noto per esser stato il fondatore dell’Università Telematica Pegaso. Era per Forbes nel 2020 uno dei cento migliori manager e imprenditori in Italia.

Iervolino è nato il 2 aprile del 1978 a Palma Campania, in provincia di Napoli, comune di origine dei genitori dove vive ancora oggi. Ha studiato all’Università Parthenope, Economia e Commercio. Quindici anni fa, quando aveva solo 28 anni, fondò l’Università telematica Pegaso, riconosciuta e accreditata dal ministero dell’Istruzione nel 2006. Si ispirò ad alcuni modelli americani che aveva approfondito in un suo soggiorno negli Stati Uniti. Divenne il più giovane a capo di un’università europea. Pegaso ha oggi oltre novanta sedi d’esame, 100mila studenti iscritti ed è considerata la migliore università telematica italiana.

Dallo scorso settembre Iervolino non è più il patron di Pegaso: ha ceduto il 50% delle azioni di Multiversity, holding cui fanno capo UniPegaso e l’Università Mercatorum, che deteneva al Fondo Cvc per circa un miliardo di euro. E qualche giorno fa ha comprato il 51% di Bfc Media, gruppo d’informazione specializzato nel personal business che detiene testate come Forbes Italia, Bluerating, Robb Report, Private, Ite, Assett Class, Cosmo, Equos, Bike e Trutto&Turf.

Forbes lo aveva premiato per aver diretto le sue imprese “con a lungimiranza dei grandi leader, soprattutto in un momento difficile come quello che stiamo vivendo”. Iervolino ha stanziato 500mila euro di caparra per la Salernitana, pari al 5% della cifra complessiva. Dovrebbe in una decina di giorni procedere con il saldo del prezzo totale. Dalla FIGC dovrebbe inoltre arrivare il via libera alla proroga di 45 giorni per completare l’iter di trasferimento quote. L’imprenditore avrebbe previsto altri 20 milioni di investimento per gestire il club e per il calciomercato.

A Il Corriere dello Sport le sue prime parole dopo la notizia: “Farò di tutto per tentare di salvare la Salernitana in A. In ogni mio progetto ho sempre messo grande entusiasmo e accadrà anche in questo progetto calcistico. Sono innamorato di Salerno, voglio costruire un rapporto osmotico con la città. Ho costruito un rapporto fraterno a Salerno con l’avvocato Lello Ciccone, mio grande amico. Punterò sui giovani e sulla crescita del club”.

La Salernitana ha rischiato di essere esclusa dalla serie A: la scorsa estate era stato posto il 31 dicembre come termine entro il quale la società doveva cedere le sue quote a terzi. Fino alla sua promozione nella massima serie i proprietari del club erano Claudio Lotito, presidente della Lazio, e il cognato Marco Mezzaroma. Le regole della Federazione impediscono che club sotto la stessa proprietà partecipino allo stesso campionato e perciò le quote di Lotito e Mezzaroma erano state cedute a una società appositamente creata, il trust amministrato da Paolo Bertoli e Susanna Isgrò.

L’ufficialità dell’acquisto di Iervolino dovrebbe arrivare lunedì dopo le verifiche necessarie. Alla FIGC è intanto stata inviata la proposta vincolante d’acquisto. La società PVAM s.a., fiduciaria del Fondo Global Pacific Capital Management doo, ha intanto depositato alla Procura della Repubblica di Salerno un esposto in quanto si sarebbe a suo dire vista rifiutare due offerte per l’acquisizione della Salernitana – di 38 milioni in titoli obbligazionari e di 26 milioni cash – superiori a quella di Iervolino. A dare la notizia all’Ansa l’avvocato Francesco Paulicelli.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Si sgonfia l’indagine. Inchiesta Pegaso, flop di Woodcock: per il Gip “Non ci fu corruzione”. Viviana Lanza su Il Riformista l'8 Luglio 2021

Ricordate l’inchiesta Pegaso? Era l’indagine sui vertici della famosa università telematica, inchiesta presentata come il terremoto giudiziario del momento che sfociò, in febbraio, in perquisizioni e sequestri di atti e pc sui quali il Tribunale del Riesame si pronunciò poi accogliendo le istanze difensive e commentando in maniera molto critica le scelte del pm. Ebbene, tanto rumore per nulla verrebbe da dire ora alla notizia che il giudice per le indagini preliminari Tommaso Perrella ha firmato il decreto di archiviazione. Che non vi fossero elementi per continuare a sostenere le accuse di corruzione deve averlo pensato anche il pm Henry John Woodcock che, dopo la bocciatura dell’inchiesta da parte del Riesame, ha fatto richiesta di archiviazione.

L’indagine è quella che a febbraio scorso si abbatté sui vertici dell’università telematica Pegaso per una serie di sospetti di corruzione in relazione all’iter di un emendamento alla legge di Bilancio 2020 (l’emendamento che al comma 721 cambiava il regime fiscale nei confronti degli atenei privati, quindi anche della Pegaso) e sulla trasformazione dell’università in società per azioni. L’archiviazione allontana quindi ogni accusa dall’operato del patron Danilo Iervolino, del direttore generale dell’ateneo Elio Pariota, del capo dell’ufficio marketing Maria Rosaria Andria, del vice prefetto Biagio Del Prete, del professor Francesco Fimmanò, avvocato, docente di Diritto commerciale e componente del Consiglio di presidenza della Corte dei conti, del professor Giuseppe Fioroni, dei magistrati del Consiglio di Stato Claudio Zucchelli e Paolo Carpentieri.

«Non sussistono i presupposti per procedere a un vaglio dibattimentale delle due ipotesi delittuose formulate dal pm», scrive il gip nel disporre l’archiviazione. «In particolare – aggiunge – quanto alla cosiddetta vicenda Fioroni, non emergono profili di rilevanza penale nelle condotte dei soggetti coinvolti». Il perché è spiegato così: «Dal 2018 Fioroni non riveste più alcuna carica pubblica né esercita alcun ufficio pubblico, ragion per cui l’attività di intermediazione dallo stesso posta in essere nel 2019 in favore della Pegaso, nell’ambito di una manovra di espansione economico-patrimoniale finalizzata all’acquisizione dell’università privata Link Campus University, risulta sottratta all’applicazione dello statuto penale della pubblica amministrazione».

E lo stesso vale per la vicenda relativa all’iter che ha condotto il Parlamento all’emanazione del cosiddetto “comma Pegaso” in base al quale anche le università non statali sono escluse dalla tassazione ordinaria prevista dal Testo unico delle imposte sui redditi. Tutto questo ha fatto vacillare l’ipotesi accusatoria sulle presunte corruzioni legate alla gestione del gruppo universitario Pegaso. «Iervolino, Fimmanò e gli altri presunti corruttori non hanno posto in essere alcuna condotta illecita ai fini dell’ottenimento dell’ormai famoso parere del Consiglio di Stato del 14 maggio 2019», sottolinea il gip nel decreto con cui mette un punto all’inchiesta, la sgonfia, la chiude, scagionando tutti gli indagati. Accolte, dunque, le tesi degli avvocati Vincenzo Maiello e Giuseppe Saccone e di tutti i penalisti del collegio di difesa che avevano contestato le ipotesi accusatorie. Ora il caso è chiuso, l’inchiesta archiviata.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Da “L’identità” il 13 Gennaio 2023.

Altan non c’è più. Sul suo Espresso. Dopo 31 anni per la prima volta il settimanale fondato da Eugenio Scalfari esce in edicola senza la storica vignetta del grande satirico padre della Pimpa che apriva il settimanale.

 Il silenzio del giornale e del suo editore Danilo Iervolino lasciavano pensare a un

fatto casuale. Ma invece Altan ha proprio detto addio. Il 29 dicembre scorso dopo la sostituzione del direttore Lirio Abbate il più famoso vignettista italiano ha scelto di "scendere dalla barca", come ha fatto sapere ai colleghi cui era più legato.

Pare proprio che le parole di Altan non lascino dubbi sulla ragione dell'addio. Le circostanze dell'allontanamento di Abbate, ha confidato Altan ad alcuni giornalisti, non sono più sopportabili. E così ha aggiunto a "dopo 31anni lascio la barca anch'io".

 E così la direzione di Alessandro Mauro Rossi, uomo di fiducia di Iervolino, socio di Bfe, membro del cda e direttore di Forbes, si apre con un addio di enorme peso. Che lascia intendere che L'Espresso non sarà più quello che conoscevamo.

Nasce il nuovo Espresso: coraggioso e visionario. Che il futuro sia con noi. Alessandro Mauro Rossi su L’Espresso il 12 Gennaio 2023.

Da domenica in edicola un giornale completamente rinnovato. Ma la nostra anima resterà intatta: combattiva, progressista, laica, indagatrice

Sulla copertina di questo primo numero della nuova serie de L’Espresso, Oliviero Toscani ha ritratto la mano di Adélia Chitula Moura, una ragazza angolana di 30 anni, di cui 20 passati in Italia, dove fa la geometra. È dipinta di bianco nel segno dell’integrazione. L’indice e il medio, colorati di rosso e di verde, formano il segno della vittoria. Vince non solo chi è più bravo o più forte ma anche chi è più tenace, più intelligente, chi non si arrende. È l’immagine degli italiani. Infatti il titolo è “L’Italia di domani”.

L’insieme disegna quello che vorremmo fosse, e che in parte sarà per forza di cose, il nostro Paese: multietnico, accogliente, vincente, resiliente, tollerante, che guarda al futuro. Il nostro tempo ci dice che dobbiamo impegnarci per la difesa del genere umano: dalle guerre, dalle pandemie, dai cambiamenti climatici, dalle dittature, dalle cattiverie, dallo sfruttamento del lavoro, dalle diseguaglianze.

Contemporaneamente guardare avanti per sostenere i protagonisti dell’Italia migliore, di un mondo migliore. L’Espresso continuerà ad essere, orgogliosamente, il giornale che difende gli ultimi, ma saprà anche dare spazio ai primi, a coloro che costruiscono futuro e speranza per il nostro Paese.

Il giornale cambierà, rispetto a quello che siete stati abituati a leggere negli ultimi anni. Fisicamente si vedrà subito: il formato è più grande, la carta, ecologica e certificata, più spessa, il procedimento di stampa, da Rotocalco a Rotooffset, più amico dell’ambiente. Resterà invece intatta l’anima de L’Espresso: combattiva, progressista, laica, indagatrice. Lo spettro però si allargherà al mondo della produzione, alle tendenze culturali e sociali, alle donne che lavorano, ai giovani più intraprendenti, coinvolgendo sempre di più la gente comune, i protagonisti della vita quotidiana. Mostrerà ai lettori quello che altri non vogliono far vedere. Avrà un occhio speciale verso la scuola, l’Università, il pubblico impiego, i diritti, l’ambiente, ma anche la tecnologia, le startup e la space economy, vere scommesse sul futuro.

In avvio di giornale una gallery fotografica documenterà il nostro tempo. Poi “Prima pagina” con il servizio di copertina. A seguire torneranno le sezioni, in piena sintonia, con il “Settimanale di politica, economia, cultura”.

Insisteremo con le inchieste: non a caso un campione come Sergio Rizzo sarà a fianco dei nostri giornalisti più curiosi e irriverenti. Aumenteranno i commentatori: da Maurizio Costanzo a Carlo Cottarelli, da Ray Banhoff a Francesca Barra, da Massimo Cacciari a Nicolas Ballario, da Claudia Sorlini a Virman Cusenza a tanti altri, con nuove rubriche anche meno scontate come quelle dedicate agli animali domestici, al vino di Luca Gardini, il miglior “palato” al mondo, alla tavola con Andrea Grignaffini, questi ultimi due curatori delle Nuove Guide de L’Espresso.

Aumenteremo anche la presenza sul digitale con sempre più articoli, servizi e opinioni sul sito in attesa del lancio del grande Progetto Multimediale a cui stiamo lavorando da tempo in mezzo a mille complessità dovute alla tecnologia che vogliamo proprietaria e alla straordinarietà del prodotto che coinvolgerà i lettori e li renderà protagonisti. Insomma L’Espresso sarà uguale e differente, coraggioso e visionario, rivoluzionato e rivoluzionario. Che il futuro sia con noi.

P.S. Un ringraziamento speciale a Lirio Abbate. Questo progetto è in parte anche suo.

MAIL A DAGOSPIA il 15 Dicembre 2022.

Riceviamo e pubblichiamo: 

Caro Roberto, ho letto la Dagonota secondo cui la rimozione di Lirio Abbate dalla Direzione de l’Espresso sarebbe stata richiesta da Exor o da CNH Industrial. Sei fuori strada, e ti do una notizia: aspettiamo a braccia aperte il ritorno di Lirio nel Gruppo GEDI (controllato da Exor).

Andrea Griva - Comunicazione Gruppo GEDI

DAGONOTA il 15 Dicembre 2022.

Lirio Abbate non è più il direttore dell’Espresso. Lo comunica il cdr del settimanale, che ha proclamato lo stato di agitazione in polemica con l’editore, Danilo Iervolino. 

Ma come mai Abbate è stato fatto improvvisamente fatto fuori? La goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso è un’inchiesta, pubblicata nell’edizione di domenica scorsa, 11 dicembre, sull’Amazzonia. Ma cosa c’era di tanto scomodo nel lungo articolo, firmato da Paolo Biondani e Pietro Mecarozzi da giustificare il siluramento del direttore? 

La risposta è semplice: un attacco durissimo a Exor e Cnh di John Elkann. Le due società degli Agnelli venivano tirate in ballo tra quelle che finanziano i colossi brasiliani accusati dei roghi che stanno devastando le foreste amazzonica. E Yaki, memore dei bei tempi in cui era lui l’editore dell’Espresso, non avrebbe affatto gradito.

Il nipote dell’Avvocato si è incazzato e l’ha fatto presente a Iervolino, minacciando di stracciare l’accordo per la distribuzione del settimanale in allegato a Repubblica (che scade a marzo). E a quel punto il vispo “golden boy” dell’editoria italiana si è rivalso sul direttore, che già la settimana prima gli aveva causato qualche grattacapo con la finta esclusiva sulla polizia cinese in Italia. 

A sostituire Abbate dovrebbe arrivare Alessandro Rossi, fedelissimo di Iervolino: è direttore editoriale di “Forbes Italia” e manager di punta della BFC Media, società di cui il presidente della Salernitana ha acquisito il controllo completo a maggio.

COMUNICATO DEL CDR DELL’ESPRESSO il 15 Dicembre 2022.

La nuova proprietà dell’Espresso oggi ha comunicato al comitato di redazione l’immediata e immotivata sostituzione del direttore Lirio Abbate proprio nel momento in cui deve essere attuato il piano editoriale. La redazione dell’Espresso ha proclamato lo stato di agitazione, si riunisce in assemblea permanente e ha dato mandato al cdr di prendere ogni tipo di iniziativa a tutela del prestigio e dell’indipendenza della testata.

Il cdr dell’Espresso Il sindacato Rsa

Barbara Alberti per Dagospia il 17 dicembre 2022.

Quando Lirio Abbate, che fino ad allora non conoscevo di persona, mi ha chiesto di fare una rubrica sull’Espresso, ho provato un orgoglio infantile, come il tamburino che viene notato da Garibaldi. Uno degli uomini più coraggiosi del nostro tempo, che ha sfidato la mafia siciliana, la ndrangheta, mafia capitale, è sulla lista nera delle più spietate associazioni a delinquere, personalmente odiato e minacciato da boss come Provenzano e Carminati- e porta il suo eroismo con semplicità, come un vecchio cappotto-  stava considerando me, una casalinga che scrive.

Poi, per avere avuto troppo coraggio, il direttore Lirio Abbate è stato licenziato. A nessuno oltre che a lui verrebbe mai in mente di farmi scrivere sull’Espresso, ma se per qualche strano caso dovesse accadere, mi dimetto fin da ora, rifiutando un lavoro che nessuno mi ha offerto. Essere come Lirio Abbate non si può, ma un piccolissimo gesto di solidarietà, seppure immaginario, un tamburino  di coscienza lo deve fare.  

Da liberoquotidiano.it il 19 dicembre 2022.

Fiorello, chiudendo la puntata della settimana di Viva Rai2!, questa mattina 16 dicembre, rende omaggio a Lirio Abbate, ormai ex direttore de L'Espresso:  "Volevo salutare un mio amico. Si chiama Lirio Abbate. A questo punto mi tocca dire, ex direttore de L’Espresso", ha detto il conduttore. Che ha aggiunto: "È stato rimosso proprio ieri, all’improvviso. E questa cosa dispiace anche a noi. Vi faccio vedere l’ultima copertina sua de L’Espresso. L’uomo dell’anno, questo ragazzo, Lorenzo Parelli, che purtroppo oggi non c’è più, morto sul lavoro. Grazie Lirio Abbate".

Quello che è stato direttore de L'Espresso subito dopo Marco Damilano, è stato infatti rimosso e sostituito dall'editore. Una scelta che non è stata condivisa dai giornalisti della testata che hanno proclamato lo stato di agitazione. Lirio Abbate ha spiegato così sull’ultimo numero de L'Espresso sotto la sua guida, il senso della sua scelta nell’articolo dal titolo "La memoria di Lorenzo Parelli contro il lavoro insicuro: perché è lui la persona dell’anno per L'Espresso. "Il suo nome - ha scritto Abate - rappresenta il fallimento di una società precaria che non è riuscita a proteggere un giovane. Di una scuola che è costretta a formare gli studenti in luoghi pericolosi. Di un mondo produttivo che continua a mietere vittime". 

Lirio Abbate per espresso.repubblica.it il 19 dicembre 2022. 

Dal 21 dicembre non sarò più il Direttore responsabile de L’Espresso. Ritengo che ogni editore abbia il diritto di scelta sulla direzione di una testata. Però, è altrettanto ovvia la mia sorpresa per questa decisione. Quando ho iniziato a dirigere questo giornale ho chiarito che sarei stato al servizio dei lettori e non al servizio di questo o quel politico o imprenditore. 

E prima di tutto che ci sarebbero sempre state le notizie, documentate e riscontrate, che hanno rilevanza pubblica, sociale e politica. Spero, guardando ai contenuti dei numeri che abbiamo fatto, di aver onorato questo tacito accordo con i lettori. 

Quando il nuovo editore mi ha chiesto nei mesi scorsi di proseguire nel mio incarico, ricevuto in precedenza da Gedi, ho accettato in base a un piano editoriale che ho illustrato al nuovo azionista, e ho poi condiviso con la redazione.

Ho spiegato che L’Espresso è «un certo modo di fare giornalismo», completamente diverso dagli altri media, con un metodo nel guardare al mondo, senza bavagli né pregiudizi, aperto a tutti. 

Ho delineato un giornale che non guarda solo al nostro Paese, che mette insieme carta/digitale/piattaforme social, in cui si devono leggere le notizie e far prevalere il giornalismo di qualità, affidabile, ricco di informazioni esclusive, con una visione rivolta al futuro.

Doveva essere, come questa testata è stata dal 1955, innovativa, con una proiezione editoriale digitale, un giornale partecipativo, accanto a quello di carta. La base piantata nell’identità de L’Espresso e una struttura formata da un linguaggio moderno. Pur restando sempre un giornale di Politica, Cultura, Economia e Attualità, ho progettato e lavorato a un giornale del tempo presente, e di conseguenza rivolto ai nuovi e diversi bisogni dei cittadini che lo abitano.

Ci siamo concentrati a rafforzare l’autorevolezza della testata e la qualità delle news in linea con la sua storia. Irrobustendo il tema dei diritti civili, le battaglie sociali e culturali, la difesa dell’ambiente. Tonificando la Cultura che muove idee, le intercetta, le spiega, le offre ai lettori, interpretando tendenze, gusti e ancora una volta scenari intellettuali inediti. Ed esclusivi. 

Il tutto animato dallo spirito di libertà. Un giornale «al servizio dei cittadini» che si basa su totale autonomia, legalità, difesa dei diritti, cultura, economia e sfrontata spregiudicatezza nel narrare i fatti e facendo i nomi dei protagonisti, specie quando il potere vuole tenerli nascosti, imbavagliando i giornalisti. Senza tralasciare l’impegno civile, politico, culturale e una partecipazione sincera alla crescita del Paese.

Un giornale che non è contro qualcuno o a favore di qualcun altro, ma in difesa di principi e valori d’interesse generale: il pluralismo e l’indipendenza dell’informazione. L’autorevolezza è il punto cardine e questa va preservata e rafforzata quotidianamente con il lavoro di qualità di ognuno di noi. 

L’Espresso si è sempre caratterizzato per le inchieste documentate ed esclusive, che spesso disturbano i potenti, ledono interessi consolidati. È l’aspetto tipico di questo giornale con le sue rivelazioni, intese come assolvimento d’un compito civile. È il connotato della mia storia professionale che ho voluto continuare durante questa direzione.

Il giornalismo d’inchiesta è per sua natura scomodo, ma la domanda di fondo che qualcuno ogni tanto pone e a cui voglio dare subito una risposta è: ma questo giornalismo d’inchiesta è utile alla società, oppure no? Sì, lo è. 

Nel nostro Paese dovrebbe esserci quotidianamente l’affermazione del diritto di sapere. E invece c’è una diffusa e purtroppo trasversale convinzione che non sapere sia meglio. Non raccontare invece aiuta i malfattori a proseguire indisturbati. «Tante inchieste de L’Espresso hanno anche contribuito a salvare la democrazia di questo Paese», è stato detto, inchieste che hanno restituito un po’ di verità agli italiani, una parte dei quali ha sempre avuto paura di conoscerla. Ed è per questo che la tentazione di rimuovere la verità nel nostro Paese è molto forte.

C’è una gran voglia di mettere a tacere i media, talvolta ci si appunta a un errore (che è in agguato e quando si verifica va evidenziato e corretto), per ammutolire un’intera filiera d’inchieste, come se quello che è stato fatto prima non avesse più alcun valore. Questa ipocrisia italiana è insopportabile. 

Il giornalismo d’inchiesta viene esaltato quando si parla del giardino del vicino, quando invece si tocca quello degli “amici” viene massacrato e gettato nella polvere. Ho guardato alla difesa di chi è più debole, proseguendo la battaglia sui diritti, contro la corruzione e il malaffare, le contraddizioni della politica: un esempio è la copertina che ho scelto lo scorso agosto: “Mazzetta nera”. 

Oltre a far sapere, a far comprendere, a far ricordare, occorre dare il diritto di parola: dialogare, interpellare, ascoltare. E un ruolo abbiamo iniziato ad assumerlo anche sull’Unione Europea che vive anni decisivi, sfide mai conosciute prima e conflitti interni che rimettono in questione la logica stessa dell’integrazione.

Allo stesso tempo ci siamo resi conto negli ultimi anni che solo l’unione e la solidarietà ci permetteranno di mantenere la nostra indipendenza e difendere i valori della democrazia e della libertà. L’unione ci consente di agire. Lo abbiamo visto durante la pandemia con la distribuzione dei vaccini, lo vediamo con il piano di rilancio Next Generation EU e lo stiamo vivendo nella crisi energetica attuale. 

I singoli Paesi, anche i più grandi dell’Ue, non pesano quanto l’Unione Europea pesa quando agisce unita. Il dibattito politico, invece, si svolge sempre a livello nazionale perché non si è mai creato uno spazio mediatico comune a tutti gli europei. Questo stavo iniziando a creare con L’Espresso.

 Se si vuole rafforzare la comprensione reciproca tra le popolazioni e far crescere la coscienza dei legami politici, economici e culturali che ci uniscono, servono dibattiti sulle sfide comuni, sulle particolarità di ogni Paese e sulle immagini, spesso caricaturali, che abbiamo gli uni degli altri. 

Per questo ho dato spazio a dibattiti attraverso contributi di tante voci straniere, personalità di ogni Paese, politici, economisti, letterati, giornalisti e intellettuali.

 Ma sopra ogni cosa ci devono essere le notizie. Che non devono essere mercificate, che non si limitino a essere semplici note di quanto successo, come quelle che ci “suggeriscono” le società di pubbliche relazioni o dichiarazioni, spesso solo di intenti, che si fanno in occasione di eventi organizzati. Ma fatti e storie esclusive, accanto alle notizie di qualità che presuppongono un giornalismo originale, che scava per trovare la vera essenza che si cela dietro un fatto.

Un giornalismo d’inchiesta che indaga sui torbidi intrecci di denaro, politica e condotte aziendali (qui spesso arriva il ricatto della pubblicità che viene ritirata). Un giornalismo di reportage internazionali da luoghi difficili da raggiungere e aree di conflitto pericolose. Storie che richiedono le competenze di professionisti. E sono orgoglioso di affermare che questa redazione lo ha fatto, perché ne ha la forma e la stoffa, il prestigio e la professionalità e ringrazio tutti per il tempo che mi hanno dedicato, e il lavoro che hanno svolto.

Tutto l’Ufficio centrale, cuore di questo giornale, i super creativi dell’ufficio grafico, veri artisti anche per il progetto che verrà, e i colleghi “digitali” del sito e dei social, gli inviati, l’ufficio fotografico e tutto il comparto Idee. Ringrazio in particolare i collaboratori come Altan, Michele Serra, Bernardo Valli, Massimo Cacciari, Bruno Manfellotto, Luigi Vicinanza, Gigi Riva, Wlodek Goldkorn, Barbara Alberti, Michela Murgia, Loredana Lipperini, Chiara Valerio e Mauro Biani. Come pure tutti i lavoratori de L’Espresso che non si sono mai risparmiati in nulla, anche quando era indispensabile risolvere problemi legati ad aspetti logistici e tecnologici che non era di loro competenza affrontare.

Per mesi ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo tenuto alto il nome e la storia de L’Espresso. Ma voglio ringraziare soprattutto voi lettori che mi avete seguito e sostenuto. E ringrazio le tantissime persone che in queste ore mi hanno scritto in segno di affetto e solidarietà. Vi lascio con la tranquillità professionale che traggo da questa esperienza che mi porta ad avere con voi la coscienza pulita, giornalisticamente parlando. 

Permettetemi dunque di concludere, salutandovi con familiarità e grande affetto sincero. Ciao.

L’AMAZZONIA BRUCIA ANCHE PER NOI: SOLDI ITALIANI DIETRO GLI INCENDI IN BRASILE. Estratto Dell’articolo di Paolo Biondani e Pietro Mecarozzi Per “l’Espresso” il 15 Dicembre 2022.

Dietro gli incendi delle foreste dell’Amazzonia ci sono anche soldi italiani. Finanziamenti per decine di milioni concessi dalle maggiori banche del nostro Paese. E prestiti commerciali per somme molto più alte, per un totale di circa un miliardo e mezzo di euro, che arrivano da società finanziarie con la targa italo-olandese del gruppo Exor, che controlla anche la Fiat. […]

Mirko Crocoli per affaritaliani.it - articolo dell'8 settembre 2021

L ARTICOLO DELL ESPRESSO SULL AMAZZONIA (CON ATTACCO A CNH DI JOHN ELKANN)

Ha lanciato 11 start up nell’editoria, scrive libri gialli comici con il macellaio Dario Cecchini. 

I RICORDI: l’ ”Unita”, poi “Class”, “Milano Finanza”, “Italia Oggi”, “Bloomberg” e oggi ci parla di Forbes Italia. L’evento del 15 settembre al Four Seasons di Firenze: “forse il più importante insieme al Private Banking Award”. 

IL GRUPPO BFC MEDIA: Otto magazine, quattro siti, milioni di visitatori, newletters quotidiane, 200 mila iscritti, due tv, accordi con Amazon, Samsung, Huawei, Twitter. A ottobre il lancio dell’edizione italiana di Robb Report, il magazine mondiale del lusso per antonomasia. 

Da buon toscano, Alessandro Rossi, ha sempre la battuta pronta. Per esempio a chi gli chiede se parla inglese, risponde con un sorriso “like a spanish cow”. Sarà. Intanto però è l’unico giornalista italiano ad aver portato nel nostro Paese due colossi Usa dell’informazione come Bloomberg e Forbes. 

E senza mai avere dietro i grandi gruppi dell’editoria italiana. Per creare Bloomberg Investimenti nel 1998 ha fondato una società con Rolando Polli, altri soci italiani e Mike Bloomberg. Per Forbes invece il grimaldello è stata BFC Media, la società fondata dall’amico Denis Masetti e quotata alla Borsa di Milano, all’Aim, di cui è socio da molti anni.

Oggi Alessandro dirige, con successo, l’edizione italiana di Forbes ed è uno dei manager di punta di BFC Media. Ha cominciato da molto lontano, da Siena, dove è nato nella contrada dell’Onda, e dove ha mosso i primi passi professionali al settimanale Nuovo Corriere Senese, prima di passare alla redazione toscana de l’Unità e poi a Milano, nel 1986, per fondare Milano Finanza con il nascente Gruppo Class Editori. Da lì, piano piano, Alessandro ha costruito la sua carriera, passando per Repubblica, poi tornando al gruppo Class fino a incontrare, 13 anni dopo, Mike Bloomberg. Ecco che cosa ci ha detto. 

Alessandro, che cosa si porta con sé di quel periodo a l’Unità e la Repubblica?

Sono stati periodi completamente diversi. Alla redazione regionale toscana de l’Unità sono stato assunto nel 1980 dove ho fatto il praticantato e sono diventato professionista. E’ stata una scuola professionale di altissimo livello: ho avuto colleghi come Gabriele Capelli e Renzo Cassigoli, persone integerrime, di grande professionalità, cultura e umanità. 

I miei direttori si chiamavano Claudio Petruccioli e Emanuele Macaluso: credo, come si dice, che basti la parola. Sono molto legato a quel periodo, perché ero giovane e poi perché lì ho incontrato mia moglie Daniela. A Repubblica invece è stata una parentesi. Mi vollero fortemente Scalfari e Pansa che, dissero, erano stati fulminati da un mio pezzo su Milano Finanza sulla guerra del Credito Romagnolo tra gli schieramenti guidati da Agnelli e da De Benedetti. Era il 1988, arrivai in carrozza, ma le grandi strutture non fanno per me. Troppo impersonali, si perde troppo tempo a parlar male dei colleghi. Dopo un anno alla redazione economica di Milano tornai a Milano Finanza per fondare Mf. Meglio re nell’orto che ortolano nel regno. 

Cofondatore di importanti realtà editoriali come “Bloomberg Investimenti”, “Milano Finanza” e “Italia Oggi”. Giornalista di lunga data ma anche e soprattutto “creatore” di magazine di indiscusso spessore. 

Diciamo che ho una passione per le start up e le piccole case editrici dove la gente si conosce tutta e ci si può guardare negli occhi. Ho avviato 11 nuove iniziative tra quotidiani, settimanali, magazine e siti web. L’esperienza più importante è stata quella nel gruppo Class dove sono stato per 13 anni partecipando appunto alla fondazione di Milano Finanza (eravamo in sei ed io ero l’unico professionista in redazione insieme a Massimo Novelli che però se ne andò al secondo numero), poi di Mf e Italia Oggi.

Ho ancora delle minuscole partecipazioni azionarie in quei giornali. Lì c’era la figura imperiosa di Paolo Panerai, un talento straordinario, un uomo difficile, ma sicuramente unico. A lui devo moltissimo. Nella sua bottega ha forgiato alcuni dei migliori giornalisti italiani. Compreso il vostro direttore con cui ho lavorato assieme per un paio d’anni. Poi un giorno mi chiamò Michael Bloomberg perché voleva fare un giornale in Italia e alcuni amici comuni gli avevano parlato di me. 

Insieme a Rolando Polli, director di Mc Kinsey, mettemmo assieme una squadra di azionisti di tutto rispetto, mentre Mike tenne per sé il 50%. Paolo si arrabbiò tantissimo anche perché credo che mi considerasse quasi un figlio adottivo, una sua creatura. Dicono che non me l’abbia ancora perdonata. Ma secondo me fa finta. Con Bloomberg sono stati quattro anni strepitosi fino alla bolla dei titoli tech e alle torri gemelle. 

Certo, da l’Unità a Bloomberg e Forbes il passo è lungo…

Meno di quanto sembri. Almeno per me. Intanto perché sono un professionista e poi perché la politica ormai mi interessa molto poco. Ma soprattutto perché mi sono sempre ispirato a Romano Bilenchi, senese anche lui, di Cole Val d’Elsa, che con il suo Nuovo Corriere aveva dato esempio che è possibile pubblicare un giornale con opinioni libere e indipendenti. 

Il Nuovo Corriere era finanziato dal Pci che lo chiuse dopo la rivolta degli operai di Poznan del 1956 proprio perché ospitava opinioni dei grandi liberali e cattolici del tempo da La Pira a Ungaretti a Anna Banti e prese una posizione allora considerata scomoda. Cos’è, in fondo, Forbes, almeno il mio, se non un magazine del capitalismo democratico che celebra il successo e non la ricchezza e valorizza chi restituisce parte della sua fortuna ai suoi collaboratori o ai meno fortunati? 

Come nasce la passione di mettersi in gioco anche nei piani dirigenziali? 

E’ sempre stata una scommessa con me stesso, riuscire a costruire qualcosa e a governarla. Sono un leader per caso, uno che è arrivato dove è arrivato da solo, senza padrini, con molta fatica, ma sempre con fermi principi morali e professionali. E tanto lavoro. Se fossi stato più accondiscendente (credo che il termine esatto sia paraculo) forse avrei potuto fare una carriera ancora più importante. Ma a me basta quello che sono. Se penso da dove sono partito. 

Attuale direttore responsabile dell’edizione italiana di “Forbes” e direttore editoriale della casa editrice BFC Media. Correva l’anno? Quando parte l’idea e come si è sviluppata nel corso del tempo? Oggi, ricordiamolo, è un magazine molto seguito e apprezzata soprattutto nel mondo dell’economia, del management e dell’imprenditoria. 

BFC Media è nata nel 1995 per iniziativa di Denis Masetti. Lui sì che è un manager vero, strutturato, coraggioso e anche visionario. Io sono più concreto, operativo e anche creativo. Ci integriamo e intendiamo alla perfezione. Siamo amici proprio da quegli anni e abbiamo fatto un lungo percorso insieme.

L’anno di svolta è stato il 2015 quando ci siamo quotati con 1,6 milioni di fatturato: oggi viaggiamo vicino ai 15 milioni, quasi 10 volte in sei anni. E’ chiaro che l’arrivo di Forbes ci ha dato una grossa mano, ma anche noi ci abbiamo messo del nostro. Intanto abbiamo posizionato il giornale non improntandolo sulle storie dei miliardari ma su quelle di successo. Il successo piace a chi lo racconta e a chi lo legge. E poi è democratico: tutti possono avere successo indipendentemente dai risultati economici. Oggi apparire su Forbes significa acquisire reputazione, affidabilità, credibilità per la propria azienda.

Ma poi c’è tutto il resto: otto magazine complessivi, quattro siti con milioni di visitatori, newletters quotidiane per oltre 200 mila iscritti, due tv (Bike con la nuovissima tecnologia Hbb tv e Bfc sul 511 di Sky), accordi per i contenuti con i più grandi player del mondo da Amazon a Samsung, da Huawei a Twitter. E a ottobre lanceremo l’edizione italiana di Robb Report, il magazine mondiale del lusso per antonomasia. 

C’è soddisfazione nel suo staff?

Direi che il più soddisfatto sono io. Ma credo anche loro. C’è entusiasmo e orgoglio: firmare su Forbes a 30 anni non capita proprio a tutti. La redazione è molto giovane, ma è una caratteristica di tutta la nostra azienda. Lavorano sodo con grande passione e molta professionalità. Siamo bravi anche a dare il giusto peso alle cose: non mancano le occasioni per scherzare, divertirci, fare gruppo. Dopo, però, tutti al pezzo… 

Sono ormai in voga anche da noi (come negli Usa), le famose liste top women e men. Esserci è simbolo indiscusso di successo. Su quali criteri giudicate i vari soggetti? 

Vengono scelti dalla redazione sulla base di informazioni che raccogliamo tutto l’anno. Per esempio sulla lista degli Under 30 2022, in uscita ad aprile prossimo, stiamo lavorando su centinaia di profili giunti in redazione o da noi individuati, sin dal maggio 2021. E così per le altre liste. Il difficile è trovare ogni anno cento nomi nuovi per ogni elenco. 

Se le diciamo Dario Cecchini lei cosa ci risponde? 

Un grande, grandissimo amico. E’ il macellaio più famoso al mondo. Ma è anche molto umile. Ha ristoranti a Dubai, Bahamas, Bolgheri e presto ad Erbusco ma torna sempre a casa, a Panzano in Chianti. Sa vivere e sa ridere. Abbiamo molte cose in comune e soprattutto abbiamo fondato la Libera Università della Nobile Arte del Cazzeggio dove noi due siamo docenti e discenti. E’ un modo come un altro per non prenderci troppo sul serio e ricordarci sempre da dove veniamo. Insieme abbiamo scritto anche un libro per Giunti, è un giallo, un giallo tutto da ridere ambientato nel paesino di Panzano in Chianti con personaggi reali. Per capirlo basta leggere il titolo: “Il mistero della finocchiona a pedali”. Ad aprile ne uscirà un altro.

Come si struttura il suo lavoro. Roma, Milano, il Chianti? Riesce a coniugare affetti, impegni e dirigenza? 

Vivo in campagna a Panzano in Chianti da diversi anni dove avevo comprato una casa durante la mia parentesi milanese quasi ventennale. Non è lontana da Firenze dove c’è sempre un treno che in un paio d’ore al massimo mi collega con Milano o Roma. Vivo la mia vita con molta intensità e trovo il tempo per tutto e tutti, anche per la mia nipotina Giorgia e il mio cane Viola che riesco a portare a caccia (o forse è lei che porta me).

Come “Forbes” fate anche eventi annuali dedicati ai vari settori. Cosa c’è in programma per i prossimi mesi? Al Firenze Four Seasons ci sarà un incontro con le piccole e medie imprese. Ci spiega meglio? 

Facciamo oltre 100 eventi all’anno tra virtuali e fisici. Quello di Firenze è uno di questi, forse il più importante insieme al Private Banking Award. E’ nato quattro anni fa ed ha un successo di partecipanti straordinario. Quest’anno è dedicato alle pmi e sarà il kick off di un grande progetto di Forbes su quelle aziende che abbiamo chiamato Piccoli Giganti del Made in Italy. 

Ora andiamo al Covid-19. Pandemia devastante. Ci vuol raccontare anche a livello personale come ha vissuto questo dramma globale e quanto le sue aziende hanno risentito del fermo dovuto al lockdown? Il settore ne ha sofferto?

Abito in aperta campagna e il primo lockdown è stata un’occasione per stare un po’ più a casa. Personalmente non ho avuto grossi problemi anche se ho lavorato tantissimo da remoto. Come azienda abbiamo utilizzato quel periodo per lavorare a nuovi progetti. È stato proprio durante il lockdown che è nata l’idea di lanciare la tv e il magazine Bike dedicato a chi ama vivere in movimento e poi di acquistare il trisettimanale Trotto&Turf, il giornale degli appassionati di cavalli. Nel 2020 il fatturato di BFC Media è salito del 40% rispetto all’anno precedente. 

Vaccini sì vaccini no, green pass sì green pass no. Qual è il suo pensiero? 

Sono vaccinato. Senza se e senza ma. Il green pass è utile anche se non decisivo perché il contagio è subdolo. Però dà un minimo di garanzia di sicurezza. Ed oggi è quello che tutti cerchiamo. 

Ultima a conclusione. Vuole ringraziare qualcuno in particolare per i suoi 40 anni di onorata carriera?

Di solito si ringraziano sempre le mogli. E io sono riconoscente a mia moglie Daniela che ha avuto una gran pazienza e comprensione. Professionalmente sono legato a tutti coloro che mi hanno dato molto ricevendo in cambio solo professionalità, disponibilità e, in qualche caso, amicizia. Quindi sono molto grato, come dicevo, a Gabriele Capelli e Renzo Cassigoli, ma anche a Denis Masetti, Paolo Panerai, Eugenio Scalfari, Mike Bloomberg e Maurizio Boldrini, oggi professore di Scienze della comunicazione all’Università di Siena, che è stato il mio primo maestro.

Da professionereporter.eu il 24 dicembre 2022.

Comincia un lento, ma deciso esodo dall’Espresso, dopo la brusca sostituzione del Direttore Lirio Abbate con Alessandro Rossi da parte del nuovo proprietario Danilo Iervolino. Il numero del 24 dicembre non sarà in edicola perché la redazione è in sciopero, ma sulla edizione del 31 dicembre Michele Serra annuncerà l’addio e spiegherà i motivi. 

Fra i collaboratori sono già andati via le scrittrici Michela Murgia e Barbara Alberti, che era arrivata da poco e Loredana Lipperini. Lascerà probabilmente anche l’ex direttore Bruno Manfellotto, mentre dovrebbe restare il filosofo Massimo Cacciari. 

Questa estate, per motivi che non c’entrano con i mutamenti dell’assetto del giornale, era andato via il grande inviato Bernardo Valli. La grande paura ora in redazione è che arrivi la telefonata di saluto del grande disegnatore Francesco Tullio Altan. E potrebbe andar via anche l’altro disegnatore del settimanale, Makkox, reso celebre dalla partecipazione a Propaganda Live su La7.

Il nuovo direttore Rossi, che dirige anche Forbes, ha già preso le redini del giornale, per ora in punta di piedi. Ha detto che la linea editoriale non cambierà. Ha raccontato la sua storia professionale: si è occupato prevalentemente di economia e negli ultimi anni ha studiato molto il marketing nei media.

Estratto da open.online il 6 aprile 2023.

Un fulmine inatteso ma non troppo a ciel sereno per la redazione del quotidiano Domani. Dal ruolo di vice direttore, Emiliano Fittipaldi, giornalista autore di numerose inchieste, ha preso ufficialmente il posto di Stefano Feltri alla direzione del giornale.

 Una decisione annunciata poche ore fa dal Consiglio di Amministrazione di Editoriale Domani SpA e che decreta la fine della guida operata da Feltri, direttore della testata dal 15 settembre 2020, data in cui Domani uscì per la prima volta nelle edicole d’Italia.

«L’Editore e il Consiglio di Amministrazione ringraziano Stefano Feltri per l’impegno e il lavoro svolto in questi anni e augurano al nuovo direttore di affrontare con passione l’importante sfida che lo attende», spiega la nota ufficiale. E ancora: «L’Editore ha deciso di sostenere il giornale con nuovi importanti investimenti in ambito digitale al fine di consolidare il ruolo che Domani si è conquistato nell’ambito del panorama informativo italiano».

 […] Ora la separazione che sembra essere stata tutto tranne che consensuale: il post pubblicato sui social dall’ex direttore dal titolo Domani è un altro giorno parla del comunicato «preparato dall’azienda», annunciando così la sua dipartita: «Dopo quasi tre anni di intenso e appassionante lavoro, si chiude la mia esperienza di direttore del quotidiano Domani che ho contribuito a fondare con un team piccolo ma battagliero di giornalisti nel 2020», scrive Feltri, «non è mio costume fare polemiche o commenti sui posti in cui ho lavorato, quindi non chiedetemeli».

[…]  «nell’immediato mi dedicherò con più tempo a seguire il lancio del libro Inflazione, che sta andando molto bene e ringrazio tutti anche per questo».

 Creato come società editrice il 4 maggio 2020, il primo numero cartaceo del Domani è arrivato in edicola il 15 settembre 2020. Dopo un mese e mezzo circa erano arrivate le dimissioni del presidente del Cda Luigi Zanda: a sostituirlo l’ex Dg Rai Antonio Campo Dall’Orto, tutt’ora in carica.

 A controllare i passaggi l’ingegnere e storico editore di la Repubblica, Carlo De Benedetti, attraverso due società: la Romed con il 98% delle azioni e la Romed International, con un capitale iniziale dichiarato per il nuovo quotidiano di 10 milioni di euro. Una cifra che De Benedetti avrebbe a sua detta destinato a una Fondazione creata ad hoc, passaggio però mai avvenuto.

Nel primo anno di vita del giornale, di quei 10 milioni di euro risultavano versati soltanto 2.550.000 euro, con un bilancio che a fine 2020 registrò una perdita di 1.937.143 euro e un fatturato di 2.346.635 euro. Con un calcolo fatto sulle vendite relative ai soli tre mesi e mezzo di esercizio. Per il 2021 il capitale sociale versato è salito invece a 6.050.000 su 10 milioni, con un fatturato cresciuto a 4.550.132 di euro.

 Ad aumentare però sono state anche le perdite, pari a 2.303.372 di euro. Ad oggi i numeri del 2022 rimangono ancora sconosciuti in attesa della pubblicazione dei documenti di bilancio. Quello che è certo è che le perdite finora registrate hanno già eroso il capitale che da 10 milioni si è ridotto a 5.759.485 di euro, con 3.950.000 di euro ancora da versare.

Se l’andamento dei conti del 2022 fosse simile a quello dei due anni precedenti le prospettive di crescita per il quotidiano sarebbero a questo punto davvero minime. Una delle ipotesi formulate nell’ultimo periodo era stata allora quella di ridurre i costi almeno di carta e stampa trasformando il Domani in un quotidiano esclusivamente digitale. La stessa digitalizzazione di cui parla anche la nota ufficiale di poche ore fa sulla nomina di Fittipaldi a direttore.

 Un’idea quello di un giornale online che però sembra ancora non aver trovato un iter formale. Al momento, con costi del personale che a fine 2021 ammontavano a 2.387.353 di euro, la decisione è stata quella di tagliare lo stipendio del direttore.

Con ancora però scarsi risultati nella risoluzione dei problemi strutturali. Intanto i tentativi di dare un più stabile futuro industriale al Domani continuano: le ultime indiscrezioni parlano di una ricerca di possibili soci finanziatori.

Perché De Benedetti ha silurato Feltri e ha promosso Fittipaldi direttore di “Domani”: le idee, la giudiziaria e gli avvocati. Redazione su Il Riformista il 7 Aprile 2023

De Benedetti ha deciso il ribaltone alla testa del suo quotidiano, cioè “Domani”. Ha mandato via il direttore, Stefano Feltri, che non l’ha presa affatto bene, e ha messo al suo posto Emiliano Fittipaldi, che era il vice di Feltri. Il motivo dell’avvicendamento probabilmente è duplice. Il primo, evidente, è che il giornale, dopo più di due anni di vita, non ha dato i risultati sperati, né in termini di vendite né tantomeno di peso politico e di visibilità. Il secondo motivo è forse che Feltri era un pochino autonomo, mentre De Benedetti ha fondato “Domani” perché sia il suo giornale, proponga non solo – evidentemente i suoi interessi – ma anche le sue idee. E invece pare che Feltri ogni tanto mettesse sul giornale le idee proprie, e questo indispettiva l’editore.

Feltri era un giovane direttore ma già con una discreta esperienza giornalistica. È stato anche vicedirettore del “Fatto”, poi ha rotto con Travaglio. Si è occupato su diversi giornali, per anni, di politica, di economia e dell’intreccio tra politica ed economia. Con competenza e autorevolezza. Forse con scarsa aggressività, e può darsi che sia stata proprio la mancanza di aggressività il difetto che gli è stato contestato. Fittipaldi invece è sempre stato un cronista di giudiziaria. Piuttosto legato alle procure. E probabilmente è questa la caratteristica che cercava De Benedetti.

Evidentemente De Benedetti intende cambiare la linea del suo giornale, rinunciare casomai a un po’ della sobrietà e dell’autorità di Feltri e passare su un solco giornalistico più simile a quello di Travaglio o di Libero. Recuperando i vecchi strumenti del giustizialismo che, da diversi anni, danno sempre belle soddisfazioni agli editori. Chiedere più prigione per tutti rende, di solito, in termini di copie. Anche se magari a questo punto le testate legate alle Procure e ad altre fonti analoghe di informazione, sono un po’ troppe. Si rischia il sovraffollamento.

Tuttavia le persone che sanno qualcosa di quel che sta succedendo, dicono che De Benedetti abbia deciso nuovi investimenti per salvare il suo giornale e intenda usare questi investimenti soprattutto sul web. Vedremo. Pare che il colloquio tra editore e direttore uscente non sia stato garbatissimo. Feltri non sapeva di essere a un passo dal licenziamento, tanto che la sera prima, in Tv, aveva fatto lo spiritoso sulla nomina di Renzi al Riformista e aveva detto di non sentirsi suo collega. Senza sapere che sarebbe rimasto suo collega solo per una notte. Dicono che la questione finirà in mano agli avvocati. Succede.

Se per il "Domani" di Stefano Feltri non c'è più un domani. Cosa c'è dietro il licenziamento del direttore del quotidiano (ottimo giornalista e volto televisivo). Francesco Specchia il 7 Aprile 2023 su Libero Quotidiano

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Chiamateli piccoli presagi, segni del destino, semiotica dell’editore. Quando l’Ingegnere bofonchia nervoso; sbuffa più del solito; distilla un livore incontrollato per la Meloni da qualsiasi palco e in qualunque posizione; e comincia ad indicare i direttori dei suoi giornali come «quello là..» cancellandone nome e identità; be’, ecco, è proprio in quei momenti che capisci che Carlo De Benedetti sta pensando di trombarti.

Se, infine, sorride-come ha fatto alla sua festa del suo giornale a Modena, pochi giorni fa- CdB ha già individuato a chi dare la colpa. Ed è per questo, che, quando l’Editore del quotidiano Domani fa fuori poco educatamente il suo direttore Stefano Feltri; bè, si tratta sì di un lampo, ma non del tutto a ciel sereno. Solo fino a 24 ore prima Feltri discuteva, ignaro, da direttore del Domani, sulla possibilità di dare del “collega” a Matteo Renzi subentrato nella direzione editoriale del Riformista. Ventriquattro ore dopo, Stefano s’è ritrovato col licenziamento sulla scrivania, accompagnato da una nota che era il sussurro del capo. E cioè: «Il cda di Editoriale Domani spa ha deciso un cambio alla direzione del quotidiano nominando direttore Emiliano Fittipaldi, già vice direttore di Domani. L’Editore e il cda ringraziano Stefano Feltri per l’impegno e il lavoro svolto in questi anni». Vaghi ringraziamenti formali al lavoro svolto, buona fortuna.

Punto. Stefano Feltri che è un ottimo giornalista, un volto televisivo (specie di Otto e mezzo a La7) e soprattutto un signore dai pensieri e coscienza in ordine, ha abbozzato, e ha ribattuto: «Dopo quasi tre annidi intenso e appassionante lavoro, si chiude la mia esperienza di direttore del quotidiano Domani che ho contribuito a fondare con un team piccolo ma battagliero di giornalisti nel 2020». E ha chiosato: «Non è mio costume fare polemiche o commenti sui posti in cui ho lavorato, quindi non chiedetemeli». Un aplomb invincibile, il suo.

PUNTARE AL DIGITALE Non ha neanche battuteggiato intorno a quel passaggio del comunicato aziendale su «l’Editore ha deciso di sostenere il giornale con nuovi importanti investimenti in ambito digitale al fine di consolidare il ruolo che Domani si è conquistato nell’ambito del panorama informativo italiano». Parole che sanno di beffa, perché era Feltri a voler puntare alla versione web; mentre l’Ing s’impuntava cocciutamente perla costosa scelta cartacea, comprensiva della distribuzione capillare sul territorio e degl’inserti settimanali (originalissimi, peraltro, quelli sui fumetti e sulla geopolitica). Ora, invece, la nuova conversione digitale evocata del capo spetterà a Emiliano Fittipaldi, storico e cazzuto inchiestista dell’Espresso, autore di tomi preziosi sugli scandali vaticani e non solo, e già vice di Feltri medesimo dalla fondazione del quotidiano. Fittipaldi è di una dozzina d’anni più vecchio di Feltri –rispettivamente 49 e 37 anni- ; appartiene alla vecchia scuola, avrà bisogno di un editor digitale e di una buona truppa di Seo per spiccare il volo in Rete. In bocca al lupo.

Epperò, sembra che, a parte un naturale spostamento dall’analisi più economico-finanziaria di Feltri alla cronaca più spinta di Fittipaldi, Domani non subirà troppi cambiamenti. Resta l’assetto della direzione con i vecchi cronisti, resta la linea ferocemente antigovernativa. E restano, ovviamente, i bilanci in perdita: l’ultimo marcato da 7,2 milioni di euro di costi a fronte di 4,5 milioni di valore totale della produzione. Si dovevano ripianare i debiti, come insisteva Feltri; e De Benedetti alla fine l’ha accontentato, cominciando proprio dallo stipendio del suo direttore.

IL CASO FONDAZIONE L’Ing, per far partire l’avventura del giornale, aveva investito 10 milioni di euro. Non pochi. L’ambizione, neanche troppo nascosta, era quella di occupare gli spazi lasciati liberi da Repubblica, passata alla Exor e al Gruppo Gedi di John Elkann. De Benedetti aveva annunciato anche la nascita di una Fondazione a cui attribuire la gestione della testata in forza di una migliore indipendenza dell’editore stesso dalle notizie, ma la fondazione è rimasta lettera morta.

Domani non s’è mai fatto rilevare le vendite da Audipress.

Però -bisogna dirlo- ha raccolto notevoli apprezzamenti per serietà, capacità d’analisi e d’inchiesta, visibilità; ma è rimasto in un mondo di nicchia. Feltri ha provato a fare un giornale rigoroso, approfondito, autorevole pur nella militanza spesso estenuante, alto (troppo alto, a volte): comunque un’anomalia nel panorama editoriale italiano.

Ora, da ieri i rumors sui destini attorno al giocattolino dell’ingegner Carlo vorticano impazziti. E noi non sappiamo perché si sia «rotto il rapporto di fiducia tra due caratteri, diciamo, forti» (affermano dalla redazione) cioè tra editore e direttore. Non sappiamo neppure se c’entrino –come sostengono altri- l’influenza di Antonio Campo Dall’Orto in cda o gli sguardi in tralice di Luigi Zanda; o se davvero, dei 10 milioni stanziati dalla fondazione del quotidiano nel 2020, ne siano rimasti appena 5,7; né se Fittipaldi abbia avuto assicurazioni per una copertura finanziaria a lungo termine, e che il vecchio non dia fuori di matto. Ma se Carlo De Benedetti, coi tempi che corrono, si aspettava davvero di fondare una nuova Repubblica e di trovare un nuovo Scalfari, e di dettare l’agenda alla politica e di guadagnarci pure; be’forse ha sbagliato valutazione. Oddio, non che non gli capiti spesso..

Le nomine. Angelucci lancia la “Fox News all’italiana”, il network della destra: Sechi e Capezzone a Libero, Feltri e Sallusti al Giornale. Carmine Di Niro su L'Unità il 7 Settembre 2023 

Ad anticipare il comunicato ufficiale odierno c’era stata la visita “di cortesia” a Palazzo Chigi. Mercoledì Antonio Angelucci, il re delle cliniche, parlamentare della Lega (con un passato in Forza Italia) e soprattutto editore con la società Tosinvest di Libero, il Tempo e del Giornale (per il 70%, il restante trenta resta alla famiglia Berlusconi) si è recato in visita dalla premier Giorgia Meloni per comunicare la nascita della già ribattezzata “Fox News all’italiana”.

Un network di giornali di destra che, come spiegato dallo stesso Angelucci, non lesinerà critiche all’esecutivo: “Se il governo farà degli errori noi saremo inflessibili e lo criticheremo”, dice l’imprenditore a Il Foglio.

Tante le novità nei dui quotidiani di punta del gruppo. A Libero, come ampiamente previsto, sbarca come direttore responsabile Mario Sechi, ex numero uno dell’Agi che nel marzo scorso era sbarcato a Roma come capo ufficio stampa della presidenza del Consiglio. Pochi mesi nel “palazzo” e poi il ritorno a curare la macchina quotidiana di un giornale: il periodo capitolino per Sechi è stato segnato da grandi difficoltà nella gestione della comunicazione della Meloni, dall’imbarazzante gestione della conferenza stampa del governo a Cutro, dopo il drammatico naufragio costato la vita ad oltre cento migranti, alle polemiche per i rapporti inesistenti tra premier e stampa, con i mancati appuntamenti alle conferenze e la corsa continua della Meloni per sottrarsi alle domande dei cronisti.

Ad affiancare Sechi come direttore editoriale di Libero ci sarà Daniele Capezzone, ospite fisso delle trasmissioni di approfondimento politico su Rete4. Come comunicato dalla società editrice, a Libero sbarcano come nuove firme anche Pietrangelo Buttafuoco, Annalisa Chirico, Giordano Bruno Guerri e Marco Patricelli.

Da Libero invece traslocano i precedenti vertici del quotidiano. Vittorio Feltri diventa direttore editoriale de Il Giornale, mentre Alessandro Sallusti è il nuovo direttore responsabile del giornale fondato da Indro Montanelli. Augusto Minzolini, direttore uscente del quotidiano che fu della famiglia Berlusconi, resterà come editorialista: confermati anche i tre vicedirettori Nicola Porro, Francesco Del Vigo e Marco Zucchetti, con l’assunzione come quarto vicedirettore di Osvaldo De Paolini, firma storica del giornalismo economico. Al Giornale, recita un comunicato del quotidiano, entrano inoltre come collaboratori Mike Pompeo, già Segretario di Stato americano ed Edward Luttwak, economista, politologo e volto noto della tv.

Libero e il Giornale, come rivela Il Foglio, vivranno sotto lo stesso lo tetto: il palazzo di La Presse, a Milano, in via dell’Aprica. Carmine Di Niro 7 Settembre 2023

Estratto dell’articolo di Ilario Lombardo per “la Stampa” il 27 giugno 2023.

[…]La trama del nuovo Quarto potere della destra italiana è già scritta. […] Antonio Angelucci, detto Tonino. […] Compra e vende, crea un polo, locale e nazionale. Diversifica, per un po' di tempo. […] i giornali servono a sussurrare ai poteri, se a loro volta questi servono al business. 

Un perfetto esempio di editore impuro. Che oggi, con il figlio Giampaolo, ha in mano la principale concentrazione della stampa di destra: Il Tempo, storica testata romana con una sede a trenta secondi a piedi da Palazzo Chigi; Libero, foglio corsaro fondato da Vittorio Feltri; e adesso, da pochi giorni, anche Il Giornale, fondato da Indro Montanelli e di proprietà per oltre 30 anni dell'ex premier e fondatore di Forza Italia appena deceduto, Silvio Berlusconi.

[…] una holding mediatica che continua a credere nel potere della carta, […] Gli Angelucci hanno in mente di soddisfarli tutti gli elettori di centrodestra […] Con una geografia precisa. Uno più trasversale e radicato nel Lazio, dove il re delle cliniche ha il suo regno, ed è Il Tempo. Un altro, Libero, con una spinta decisa verso le ragioni della premier Giorgia Meloni. Infine Il Giornale, che l'editore vorrebbe dedicato alla vasta zona di interesse che va da Forza Italia, al Terzo Polo, fino alla Lega versione nord. La borghesia lombarda è l'oggetto del desiderio. Il sogno è soffiare lettori al Corriere della Sera.

Il giro dei direttori è funzionale alla causa. Alessandro Sallusti dopo due anni lascia Libero e torna a Il Giornale, assieme a Feltri come editorialista. A Libero, salvo smentite, dovrebbe andare (anche qui un ritorno, dopo anni) Mario Sechi, già direttore del Tempo, poi dell'Agi e capo ufficio stampa di Meloni a Palazzo Chigi, finito in rotta con il clan delle fedelissime della leader. Un incesto politico-giornalistico che in altre democrazie liberali aprirebbe qualche interrogativo.

Basta mettere in fila i protagonisti: un editore, che è un deputato della Lega, chiama per dirigere uno dei suoi quotidiani il portavoce della presidente del Consiglio, che in passato è stato candidato per il partito dell'ex premier Mario Monti. E richiama per l'altro giornale un suo storico direttore, Feltri, che nel frattempo è diventato consigliere regionale per FdI.

Niente di strano in Italia, il Paese […] dei giornali diretti, oggi, da un senatore in carica, Matteo Renzi, leader di Italia Viva ed ex premier (il giornale è Il Riformista, e fino al 2019 anche questo era di proprietà di Angelucci). Angelucci è parlamentare di lungo corso […] Un tempo simpatizzante di An, si fa eleggere prima con Berlusconi, poi nel 2023 con Salvini. […] Come con i giornali, Angelucci fa con i partiti: diversifica. Sta nella Lega ma non vuole grane con la premier di FdI e mette alla guida di Libero un direttore che Salvini non gradisce. L'uomo non ama sentirsi dire no.

Dentro Forza Italia si racconta una storia. È il 2018: si stanno componendo le liste per le elezioni, Angelucci, che è deputato azzurro già da dieci anni, ha voglia di ricandidarsi, per la terza volta, ma Licia Ronzulli, al tempo ascoltatissima da Berlusconi, non ne vuole più sapere «dell'amico di Verdini». I voti sono in calo, gli spazi saranno ristretti, ci sono altre bocche da sfamare. Tonino Angelucci cerca Berlusconi, ma fatica a trovarlo, il telefono non era più nelle mani del padre-padrone del partito. Gli rispondono: «Le passiamo l'onorevole Ronzulli». E lui: «No, grazie. Non parlo con le infermiere».

Finisce che l'imprenditore riesce a parlare con Berlusconi, pare grazie a Gianni Letta, e viene eletto in Parlamento. Cinque anni dopo, cambia partito, passa alla Lega, ma resta in famiglia, nel centrodestra. Nell'improvvisa campagna elettorale dell'estate scorsa, spunta anche il figlio Giampaolo. 

Meloni, in crescita da mesi, è data per vincitrice. C'è spazio per diversificare le candidature. Gli Angelucci ci provano. L'idea è infilare il rampollo nelle liste di FdI. Ma è la futura premier, a quanto pare, a frenare: «Mo' non possiamo avere il papà eletto in un partito e il figlio in un altro».

Il Giornale cambia editore, Paolo Berlusconi: “Ceduto ad Angelucci 70% quote”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Aprile 2023 

Confermata l'avvenuta firma: "Cessione fatta a gruppo amico, rimarrò presidente onorario"

“Acommento della cessione del 70% delle quote azionarie di Società Europea di Edizioni alla Finanziaria Tosinvest della Famiglia Angelucci, posso dire che si tratta di una cessione fatta ad un gruppo amico da anni con cui sono sicuro collaboreremo con grandi unità di intenti”. A dichiararlo all’Adnkronos è Paolo Berlusconi, che conferma così la chiusura della trattativa tra gli Angelucci e la famiglia Berlusconi, e l’avvenuta firma per l’acquisizione del ‘Giornale‘, e Giampaolo Angelucci, presidente della Finanziara Tosinvest che in una nota ha annunciato: “PBF Srl e Finanziaria Tosinvest hanno sottoscritto il preliminare di acquisizione e vendita di azioni pari al 70% delle quote societarie di SEE Spa, società editrice di Il Giornale e della sua controllata Il Giornale On Line Srl“, hanno annunciato in una nota. L’esecuzione dell’operazione, prosegue il documento, “è subordinata all’avveramento di condizioni sospensive d’uso in operazioni similari”. Hanno supportato la vendita lo studio legale Munari&Partners di Milano per la PBF e lo studio di Gravio Avvocati per la Tosinvest.

“A testimonianza di ciò – spiega il fratello di Silvio Berlusconi e socio della Pbf-Paolo Berlusconi Finanziaria– rimarrò presidente onorario de Il Giornale, che per tanti anni ha rappresentato un’autorevole voce liberale nel panorama dell’editoria nazionale“. L’operazione era stata annunciata con un tweet del 31 dicembre scorso da Nicola Porro vicedirettore della stessa testata milanese, anche se la notizia già circolava da giorni. Le prime indiscrezioni erano apparse il 2 dicembre su Bloomberg, secondo cui le parti erano ormai vicine all’accordo.

Lo scorso marzo Paolo Berlusconi aveva spiegato le circostanze che hanno portato alla chiusura dell’accordo: “Da parte mia c’è un legame affettivo e quindi ho deciso, anche per aderire a un desiderio di mio fratello Silvio dovuto soprattutto all’affetto che lui nutre per questa creatura che lui ha salvato e poi mi ha passato nel tempo, di partecipare con una quota di minoranza”. Il fratello del cavalier Berlusconi confermava dunque anche i rumors usciti: “Devo dire che i signori Angelucci sono stati molto signori nel aderire a questa nostra istanza dopo che ci eravamo impegnati per un acquisto che poteva essere anche totalitario”, dichiarò.

Con questa cessione dopo le precedenti dismissioni di praticamente quasi tutti i mezzi di stampa editi dalla famiglia Berlusconi, anche attraverso la Mondadori, come il settimanale Panorama rilevato anni fa dalla società editrice di Maurizio Belpietro a cui fa capo il quotidiano La Verità , il gruppo di Segrate esce mestamente dall’editoria, con importanti perdite di bilancio.

Antonio Angelucci, deputato passato recentemente da Forza Italia alla Lega, ed editore attraverso  la propria finanziaria Tosinvest, dei quotidiani Il Tempo e Libero, aveva ceduto alla società Polimedia il Gruppo Corriere, a cui fanno capo le testate Corriere dell’Umbria, Corriere di Siena, Corriere di Arezzo e Corriere della Maremma. 

Redazione CdG 1947

DAGONEWS l’8 marzo 2023.

Questa mattina Andrea Favari, ad della Società Europea di Edizioni, editore del “Giornale”, ha comunicato al cdr, riunito con urgenza, che la maggioranza è stata ceduta agli Angelucci.

La decisione è stata preceduta da una concitata riunione a cui erano presenti Silvio, Marina e Pier Silvio Berlusconi, Gianni Letta e Fedele Confalonieri.

Mentre il Cav e Gianni Letta sostenevano la necessità di mantenere un piede nel “Giornale”, e Confalonieri nicchiava, i due figli dell’ex premier spingevano per liberarsi di quella che loro considerano - da tempo - una inutile e costosa zavorra.

 Gli Angelucci rileveranno il 70% delle quote, mentre il 30% rimarrà in mano a Paolo Berlusconi e ai figli. La partita sembrava già chiusa da settimane per la cessione del pacchetto completo, poi Silvio Berlusconi ha improvvisamente stoppato la trattativa, salvo poi ripensarci nelle ultime ore.

Da adnkronos.com il 9 marzo 2023.

"Per la vendita del Giornale c’è un accordo ormai consolidato con gli Angelucci". Ad affermarlo all'Adnkronos è Paolo Berlusconi, che conferma così la chiusura della trattativa che porterà il Giornale nelle mani della famiglia Angelucci, imprenditori nell'ambito delle cliniche private, già editori di 'Libero' e 'Il Tempo'.

 "Abbiamo interesse a rimanere in una partecipazione consistente in assoluto accordo con i signori Angelucci", aggiunge Berlusconi, confermando dunque che la sua famiglia manterrà una quota minoritaria del quotidiano.

 Paolo Berlusconi spiega poi le circostanze che hanno portato alla chiusura dell'accordo: "Da parte mia c’è un legame affettivo e quindi ho deciso, anche per aderire a un desiderio di mio fratello Silvio dovuto soprattutto all’affetto che lui nutre per questa creatura che lui ha salvato e poi mi ha passato nel tempo, di partecipare con una quota di minoranza".

Berlusconi conferma dunque anche i rumors usciti sulla stampa sul fatto che, inizialmente, l'idea fosse quella di una cessione al 100%, poi modificata: "Devo dire che i signori Angelucci sono stati molto signori nel aderire a questa nostra istanza dopo che ci eravamo impegnati per un acquisto che poteva essere anche totalitario", scandisce.

 L'imprenditore ci tiene poi a sottolineare un aspetto: "Non è vero, come ho letto su molti giornali, che ci sarebbero state incomprensioni in famiglia sull’impostazione per la vendita . Ho visto un po’ di gossip su crisi interne, su schieramenti, se farlo o non farlo. Niente di tutto questo è vero". E chiarisce: "Queste cose non mi riguardano, perché la maggioranza è di mia proprietà e quindi sono io che decido". Ma, chiosa, "essendo il rapporto con mio fratello molto intenso sono sempre molto sensibile a quelli che sono i suoi desideri".

Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 9 marzo 2023.

Berlusconi vende anche Il Giornale. La famiglia Angelucci compra il 70% e ne acquisisce il controllo. La residua presenza nel capitale con «proporzionale rappresentanza» nel Cda è il contentino alla fazione che si è strenuamente opposta alla capitolazione. Ronzulli in testa. Ma nella sostanza ha vinto la famiglia, Marina in testa. Infatti esce anche la Mondadori.

La foglia di fico del 30% resta in carico al fratello Paolo. Seguiranno due diligence e dettagli in un mese, valutazione dell'Autorità di garanzia delle comunicazioni in un paio di mesi, definitivo passaggio di quote a giugno. Poi nuovo Cda e probabile cambio di direzione. Le fonti dell'universo arcoriano parlano di «minoranza sostanziosa» che resta a Berlusconi. La sostanza è che dopo il Milan e i periodici, Silvio dismette un altro pezzo del suo apparato mediatico e sentimentale.

[…] Angelucci, re della sanità laziale (e non solo) ma anche deputato della Lega dopo esserlo stato in quota Silvio per tre legislature, cova antiche mire espansionistiche. Parallelamente tratta anche per rilevare La Verità. Gli abboccamenti ci sono stati, ma il fondatore Belpietro è disposto a svestire i panni del proprietario, non anche quelli del direttore.

Valuta la creatura 15 milioni e chiede un lungo contratto per sé. Due giorni fa ha smentito i persistenti rumors di intesa. Si vedrà. Nell'attesa, quel che è certo è che Angelucci, aggiungendo Il Giornale al primo amore Libero e al Tempo, punta a diventare il Murdoch italiano. Monopolizzando l'editoria conservatrice fin nelle sfumature: dalle sbiadite liberali alle arrembanti sovraniste. E diventando soggetto politico a capo di una falange mediatica, in grado di influenzare Meloni e Salvini.

 Per questo Ronzulli (ma anche Gianni Letta, mentre Confalonieri pareva agnostico) suggerivano a Berlusconi di non abdicare. Un presidio editoriale serve sempre, tanto più ora che gli alleati allungano le grinfie su quel che resta di Forza Italia. Ma le strategie industriali e finanziarie di Marina e Piersilvio hanno prevalso su quelle del partito.

Il Giornale è anche un pezzo pregiato della storia del giornalismo italiano. Fondato da Indro Montanelli nel 1974 dopo la rottura con il Corriere della Sera di Piero Ottone che aveva virato a sinistra, alla fine del decennio fu rilevato (e salvato) da Berlusconi. Silvio ne cedette la proprietà al fratello Paolo nel 1990, sbeffeggiando i limiti antitrust della legge Mammì.

Ma all'inizio del 1994, mentre «scendeva in campo», fu lui in prima persona ad arringare i giornalisti in una drammatica assemblea in via Negri, sconfessando Montanelli e chiedendo fedeltà politica. Indro se ne andò sdegnato, fondando La Voce che ebbe vita breve. Al suo posto arrivò il corsaro Vittorio Feltri, seguito da Belpietro, rifondando Il Giornale e il giornalismo di destra. […]

Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per “la Repubblica” il 14 marzo 2023.

Gli Angelucci sono una dynasty sanitaria tutta d’oro. È una famiglia che vede a capo dei suoi componenti Antonio (Tonino) Angelucci, 79 anni, che tempo fa in coincidenza con l’avvio di problemi avuti con la magistratura si è fatto candidare in Parlamento dove è stato eletto per quattro legislature consecutive, prima con Forza Italia, accanto a Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e Denis Verdini, e adesso con la Lega di Matteo Salvini.

Lo scettro però lo detiene pubblicamente Giampaolo Angelucci, 52 anni, detto “Napoleone”, figlio del capostipite. […]

Hanno cliniche private nel Lazio, convenzionate con i soldi pubblici regionali, e poi altre strutture anche in Puglia e Abruzzo. E adesso puntano ad espandersi verso il Nord. In progetto c’è una marcia sulla Lombardia dove vogliono sgomitare e farsi largo per afferrare pure loro la grossa fetta di soldi pubblici che ogni anno è destinata ai privati.

 La testa di questa grande holding si chiama Tosinvest. Ma cassaforte è la Spa di Latigos Sca, che è la holding lussemburghese della famiglia Angelucci […].  Qui finiscono i grandi flussi di denaro gestiti dalla famiglia che oggi è legata, a doppio mandato, con Matteo Salvini. Tonino ha sempre avuto stretti rapporti con i politici, e quelli che hanno provato ad opporsi […] subivano affronti personali e proteste in cui alla fine aveva la meglio l’imprenditore della Sanità.

 E proprio su questo settore regionale, con Francesco Rocca presidente del Lazio, sembra allungarsi l’ombra di Angelucci. Intanto perché Rocca è stato presidente del Consiglio di amministrazione della Fondazione San Raffaele fino a pochi giorni prima della sua candidatura. E anche se questa Fondazione dicevano che non gestiva quasi nulla nel Lazio, occorre sottolineare che amministra un centro di cura a Ceglie Messapica in provincia di Brindisi: una struttura da 170 dipendenti […].

[…] Insomma, il governatore sembra molto legato a Tonino. Con un passato vicino ad Allenza Nazionale, ai tempi di Gianfranco Fini, Angelucci è passato in Forza Italia che gli ha garantito un posto in Parlamento per tre legislature, […] adesso è salito sul carroccio di Salvini, che è il fidanzato della figlia del banchiere toscano Denis Verdini, già coordinatore del Pdl, uno dei migliori amici di Tonino Angelucci.

[…] Qualche anno fa, dopo che la Banca d’Italia ha commissariato il Credito cooperativo fiorentino di cui era presidente Verdini, ha imposto a lui e a sua moglie, Maria Simonetta Fossombroni di coprire il buco e ripianare il “rosso” di oltre nove milioni di euro. A salvare il coordinatore del Pdl è stato proprio […] Antonio Angelucci che oggi dichiara un reddito di quattro milioni e mezzo.

Il re delle cliniche private romane […] ha elargito ai coniugi Verdini una somma complessiva di nove milioni e 334 mila euro. Salvandoli. […] a garanzia del prestito ha ottenuto l’ipoteca della grande tenuta “Villa Gucci”, con oltre ventimila ettari di terreno, un casolare, campi da tennis e piscina, subito fuori Firenze, nella quale vive Denis Verdini.

 […] Oggi Angelucci è deputato leghista, componente della commissione Cultura, scienza e istruzione. In passato è stato indagato in varie indagini, ma alla fine è uscito sempre indenne. È stato pure denunciato dalla sua ex convivente, […] che lo accusava di averla lasciata, abbandonando la casa in cui coabitavano insieme con il bambino. La donna lo ha accusato di averla fatta pedinare e minacciare. Querela rimessa dopo che la notizia era stata pubblicata dai giornali.

I quotidiani (informazione di destra) sono ora il pallino di Giampaolo e Tonino Angelucci, già editori di Libero e Il Tempo, che portano sotto la loro proprietà pure Il Giornale , lo storico quotidiano milanese fondato da Indro Montanelli e da 30 anni di proprietà della famiglia Berlusconi. Insomma, con la Sanità in poppa puntata verso la Lombardia, per evitare che la “fortuna” non molli questa famiglia è decisivo sporcarsi le mani d’inchiostro per contare davvero.

Estratto dell’articolo di Daniele Martini per editorialedomani.it il 14 gennaio 2023.

C’era una volta Panorama. Avrebbe potuto essere questo il titolo del libro arrivato da poco in libreria sulla storia del settimanale fondato nel 1962 che portò in Italia un modo nuovo di fare giornalismo, meno paludato e tronfio, tenacemente legato ai fatti, presentati senza fronzoli e svolazzi, con un linguaggio tanto semplice e stringato quanto preciso e studiato.

Quel linguaggio e quel tipo di informazione fecero rapidamente scuola, al punto da condizionare le altre testate sia periodiche sia quotidiane, costrette ad adeguarsi.

Da questo punto di vista Panorama fu davvero il Settimanale che cambiò l’Italia come recita il titolo autentico del ponderoso volume (530 pagine, 25 euro) edito da Faam (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori) […]

 Panorama fu una favola bella nel mondo dell’editoria italiana nel secondo Novecento, però non una fiaba a lieto fine. […] C’è una data, il 1994, considerata come lo spartiacque nella storia del settimanale. Il 1994 è l’anno del berlusconismo trionfante, il tempo in cui Silvio Berlusconi diventa capo del governo […]

 […] Per Panorama che per lunghi anni sotto la testata aveva stampato il motto «I fatti separati dalle opinioni» quella novità è traumatica […] Per rassicurare e forse anche per evitare prevedibili contraccolpi, soprattutto in redazione, Berlusconi fece sapere in giro che non avrebbe spostato nulla, neanche le piante nei corridoi. […] ma nel caso di Panorama il cambiamento non era fisiologico, era ontologico, riguardava l’essenza.

[…] A portare il giornale in edicola, settimana dopo settimana, rimasero quasi tutti i giornalisti di prima e io tra quelli, ma al di là della loro voglia di autonomia e indipendenza, erano l’anima, il sangue, il cuore e la pelle del giornale che stavano cambiando. Ricordo un fatto del 1996, l’assemblea di insediamento del nuovo direttore, Giuliano Ferrara, che era stato anche ministro del governo Berlusconi.

 […] Ferrara […] disse […] che l’autonomia dei singoli giornalisti non esisteva, era solo una favola consolatoria; ciò che garantiva il pluralismo e la libertà dell’informazione in una società moderna e democratica era la pluralità dei giornali e della proprietà di essi. Questo era il nuovo comandamento e per Panorama fu l’inizio della fine.

Da Lamberto Sechi che […] cercava di evitare ministri e potenti per conservare in modo maniacale l’autonomia sua e del giornale, si era arrivati a Panorama in mano a un politico e per di più capo del governo. Il giornale campò ancora a lungo, ma il piano inclinato era stato imboccato, e tuttora una pallida copia di quel che fu si trova in edicola, con un nuovo editore, Maurizio Belpietro, ex direttore di Panorama, l’ultimo che ho avuto, un professionista puntiglioso.

 […]

[…] a Panorama […] non si doveva mai scrivere in prima persona. Una regola stampata insieme ad altre in un manualetto […] una sorta di messalino con le regole che i giornalisti avrebbero dovuto rispettare per ottenere uno stile asciutto e uniforme […] unico e riconoscibile. […] noi giornalisti non dobbiamo scrivere per noi stessi o per […] soddisfare la nostra vanità o per fare sfoggio di erudizione, ma dobbiamo scrivere per il lettore, mettendoci sempre dalla sua parte, in qualche modo al suo servizio. Cercando di capire le sue esigenze, dando per scontato nulla, spiegando in maniera semplice anche ciò che a noi sembra ovvio, ma che può non essere tale per chi ha in mano il giornale e vuole capire […]

Non è il lettore che deve far fatica a leggere, sei tu giornalista che devi far fatica per accertare i fatti e poi per spiegarli in maniera chiara: questa era la filosofia di Panorama. Non c’era niente di pedagogico o di paternalista, si trattava però di un nuovo modo di fare informazione in Italia […]

La Verità fa “informazione” sul clima con i soldi dell’ENI. Andrea Legni – direttore de L’Indipendente - giovedì 3 agosto 2023.

Lunedì 30 luglio il quotidiano La Verità ha pubblicato una lunga intervista sul cambiamento climatico a tal Luigi Mariani, di professione agronomo. L’agronomia è la scienza che studia l’agricoltura, e un suo specialista sta alla questione climatica come un alpinista alla vulcanologia o, se preferite, come i cavoli alla merenda. Ad ogni modo Mariani si è premurato di farci sapere che legge molto e che secondo lui quello della crisi climatica è un allarme ingiustificato, prima di lanciarsi in sentenze del tipo: sarà anche vero che se la concentrazione di CO2 raddoppia si avrà una temperatura più alta da 1 a 3 gradi centigradi, ma in compenso anche «la produzione dei pomodori in serra raddoppierà» e aumenterà anche «la bellezza e la varietà della vegetazione». Permettere all’industria di continuare con le emissioni, insomma, non solo non sarebbe un problema, ma un vero e proprio affare. Caso vuole che, poche pagine oltre l’intervista a Luigi Mariani, il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro ospitava la pubblicità a tutta pagina di quello che è considerato proprio il più grande emettitore italiano di gas serra, ovvero la multinazionale petrolifera ENI.

La Verità del 31 luglio: a pagina 6 l’intervista a Luigi Mariani, a pagina 12 la pubblicità dell’ENI

Due giorni dopo invece, il 2 agosto, La Verità ha deciso di appaltare un’intera pagina direttamente alle ragioni dell’industria del petrolio, intervistando sul cambiamento climatico Andy May, di professione petrofisico. Dal suo curriculum vitae, disponibile in rete, apprendiamo che, dal lontano 1974 e fino alla pensione, May ha sempre lavorato per l’industria del gas e del petrolio, occupandosi anche di estrazione con la tecnica della fratturazione idraulica: una procedura devastante per l’ambiente e talmente pericolosa che l’Olanda l’ha vietata perché fortemente sospettata di causare terremoti. Tra gli ex datori di lavoro di May figura la Exxon Mobil, multinazionale petrolifera americana che è il quarto emettitore di CO2 a livello globale e che – come provato da una recente inchiesta – conosceva gli effetti (definiti in un documento interno “potenzialmente catastrofici”) delle emissioni di CO2 sul clima dagli anni ’70, ma li ha tenuti nascosti. Non sorprenderà sapere che – nell’intervista rilasciata a La Verità – Andy May ha negato con granitica convinzione che esistano prove del fatto che l’industria che gli ha dato da mangiare per tutta la vita abbia una qualche responsabilità nel cambiamento climatico in atto.

Spesso si ritiene che la vulgata giornalistica che nega il problema del cambiamento climatico sia l’esatto contrario della corrente mainstream, rappresentata da giornali come La Repubblica o il Corriere della Sera. Entrambe le narrazioni sono invece perfettamente accettabili dalle multinazionali fossili, che infatti continuano a sovvenzionare tutti e due i fronti della finta barricata con importanti sponsorizzazioni.

Se quotidiani come La Verità negano il problema, le altre lo ammettono (ed anzi portano avanti una intensa campagna), ma scelgono di non mettere mai nel mirino quelli che sono i reali colpevoli dell’aumento delle emissioni: ovvero le industrie fossili e quelle degli allevamenti intensivi. Quante volte avrete letto sui principali media che il cambiamento climatico è antropico, ovvero che avviene “a causa dell’uomo”? È una definizione che non significa niente. Dare la colpa genericamente agli uomini significa mettere sullo stesso piano i manager delle multinazionali fossili e i megaricchi che si muovono in jet privato con i lavoratori che non hanno i soldi per una nuova auto elettrica e con i popoli del Sud del mondo o indigeni che questa situazione, da sempre, la subiscono e basta. In fondo, dare la colpa a tutti significa non darla a nessuno: una narrazione perfettamente utile a quei potentati economico-industriali che da decenni emettono gas serra e altre sostanze nocive impunemente.

Noi de L’Indipendente sulla questione climatica continueremo invece a fare informazione senza padroni. Sulle nostre colonne non troverete mai la pubblicità dell’ENI, nè – d’altra parte – la troverete nemmeno di industrie dell’energia elettrica né di qualsiasi altro settore. Dal primo giorno rifiutiamo rigorosamente ogni tipo di pubblicità perché questa è, secondo noi, la precondizione necessaria per fare realmente un’informazione che renda giustizia al nome che abbiamo scelto per il nostro giornale. Sulla crisi climatica, come su ogni altra questione, abbiamo un approccio non ideologico ma dato dall’analisi dei dati. Seguendo questa prospettiva abbiamo pubblicato decine di articoli, focus e inchieste sul tema, utili ad approfondirlo e completi di link alle fonti utilizzate. Ci muoviamo come sempre con il beneficio del dubbio e verifichiamo le fonti, che non si trovano nelle opinioni – spesso contrastanti – di quello e quell’altro presunto esperto, ma nei fatti, nei dati e nelle ricerche scientifiche. [di Andrea Legni – direttore de L’Indipendente]

Le strane sentenze. La giudice Zanda e il sostegno de La Verità di Belpietro che deve processare per diffamazione. Valeria Cereleoni su Il Riformista il 3 Giugno 2023 

È stata aperta un’azione disciplinare nei confronti di una giudice, Susanna Zanda. Questa magistrata è celebre per alcune decisioni molto controverse, dalla carta igienica di Travaglio fino al Wi-Fi nelle scuole. Da qualche tempo la Verità, quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, difende a spada tratta la dottoressa Zanda dedicandole articoli su articoli. Paginate su paginate e tutte a sostegno.

Nel frattempo, scopriamo che la dottoressa Zanda trattiene da mesi in decisione una causa civile intentata contro La Verità. Dunque la magistrata sotto azione disciplinare viene difesa solo da un quotidiano sulle cui diffamazioni la stessa Zanda dovrà giudicare. E tutti zitti.

Chissà se qualcuno prima o poi noterà la lunga lista delle strane sentenze della dottoressa Zanda, quella che non ha mai smentito la scandalosa frase “Renzi usa il tribunale come fosse un bancomat”. Belpietro invece fa la battaglia “pro domo sua”. Anche comprensibile, diciamo. Ma con quale faccia la Verità può parlare di conflitto di interessi? Valeria Cereleoni

La Verità” passa ad Antonio Angelucci, il signore della sanità privata. Stefano Baudino su L'Indipendente il 7 marzo 2023.

Antonio Angelucci, re delle cliniche private, editore, deputato, immobiliarista, condannato in primo grado per falso e tentata truffa e sotto inchiesta per tentata corruzione, sta per acquistare da Maurizio Belpietro la proprietà del quotidiano “La Verità”. La notizia circola da tempo ma negli ultimi giorni sono giunte importanti conferme. Sul piatto un accordo da 15 milioni di Euro e un contratto che consentirà a Belpietro di continuare a dirigere il giornale per altri dieci anni. Per Angelucci, già proprietario di Libero e Il Tempo questa operazione rappresenta il penultimo tassello per ottenere il completo controllo della galassia di testate riconducibili al centro-destra italiano. L’ultimo sarebbe invece l’acquisizione de Il Giornale dalla famiglia Berlusconi, altra trattativa che va avanti da tempo e data più volte come quasi conclusa, ma ancora non annunciata.

Ma facciamo un passo indietro. Antonio Angelucci è uno degli uomini più potenti dell’universo politico, editoriale e imprenditoriale italiano: amico di lungo corso di grandi leader di partito come Gianfranco Fini e Massimo D’Alema, nonché del banchiera Cesare Geronzi, Angelucci è proprietario della holding Tosinvest (controllata da una società che ha sede in Lussemburgo), cui fa capo la società Tosinvest Sanità, che gestisce una lunga serie di ospedali, centri di riabilitazione, case di cura e poliambulatori nel centro-sud dello stivale. Con il gruppo San Raffaele, Angelucci controlla infatti 24 strutture tra Lazio e Puglia. Al contempo, Angelucci è anche immobiliarista: con la sua Due A Srl ha svolto numerosi progetti nel nord-est di Roma, allungando lo sguardo anche verso altri quadranti della Capitale.

In questa biografia, rappresentativa di un coacervo di affari, relazioni di livello e grande influenza mediatica, non poteva ovviamente mancare un lunghissimo capitolo politico, apertosi nel 2008 e tuttora in corso. Angelucci ha infatti ricoperto la carica di deputato per ben quattro legislature, dapprima nelle file di Forza Italia e del Popolo delle Libertà, poi in quelle della Lega di Matteo Salvini, con cui è risultato eletto nella tornata dello scorso settembre. Interessante è rilevare come, nelle legislature 2008-2013 e 2013-2018, Angelucci sia risultato il deputato più assenteista in assoluto, in entrambi i casi con oltre il 99,50% di assenze, mentre al momento detiene lo scettro di deputato più ricco dell’arco parlamentare.

La storia di Angelucci è però anche quella di un celebre imputato. Nel 2019, dopo un lungo processo, è stato assolto insieme al figlio Gianpaolo dal Tribunale di Roma dall’accusa di aver ottenuto la liquidazione indebita, tra il 2003 e il 2010, di 163 milioni di euro tramite presunte false diagnosi d’ingresso e certificazioni di prestazioni sanitarie non autorizzate, grazie al supporto di vertici della Tosinvest, dei dirigenti del San Raffaele di Velletri, di alcuni primari e di Dirigenti della Regione Lazio e dell’Asl. Di segno opposto invece una sentenza riferita a un caso legato alla sua attività di editore: nel 2017, Angelucci è stato infatti condannato ad un anno e quattro mesi per falso e tentata truffa in un processo incentrato contributi pubblici percepiti tra il 2006 e il 2007 per i quotidiani “Libero” e il “Riformista” (poi ceduto dall’imprenditore). Nel 2013, la Guardia di Finanza aveva infatti eseguito un sequestro preventivo di 20 milioni nei confronti delle società “Editoriale Libero” e “Edizioni Riformiste” che, secondo l’accusa, avrebbero dichiarato di appartenere ad editori differenti al fine di aggirare il divieto di richiedere contributi pubblici per più di una testata da parte del medesimo editore. Angelucci è inoltre indagato per tentata corruzione (il pm ha chiesto il rinvio a giudizio) per aver offerto nel 2017 ad Alessio D’Amato – ai tempi responsabile della ‘cabina di regia’ del servizio sanitario regionale, poi divenuto assessore Pd alla sanità del Lazio – 250mila euro per far riconoscere alla sua clinica San Raffaele di Velletri i crediti vantati nei confronti della Regione.

Come ricordato, il rampante deputato-imprenditore è parallelamente proprietario delle testate giornalistiche Libero e Il Tempo, punto di riferimento di una larga fetta di destra italiana, sia a livello partitico che di opinione pubblica. Ma, evidentemente non ancora soddisfatto, in queste settimane Angelucci sta lavorando alacremente al fine di rilevare dalla famiglia Berlusconi la quota di maggioranza de Il Giornale. E ora, per chiudere il cerchio, si appresta a mettere le mani sul quotidiano La Verità, diretto da Belpietro, azionista di maggioranza de “La Verità Srl” da cui è controllato. Un giornale che, fino ad oggi formalmente svincolato da logiche di dipendenza politica, era di fatto rimasto l’unico tra quelli rappresentativi delle istanze della destra italiana a poter godere di un certo margine di autonomia (come ben dimostrato dalla narrazione “politicamente scorretta” sulla pandemia). Ma che tra poco cadrà nelle strette e mortifere maglie dell’editoria impura, compromessa con il mondo degli affari e contigua alle frange più potenti della “politica politicante”. Di cui Angelucci è forse il massimo interprete. [di Stefano Baudino]

Da “La Verità” il 10 marzo 2023.

In merito alle notizie circolate in questi giorni riguardo a cambiamenti azionari avvenuti all'interno della compagine azionaria de La Verità, si precisa quanto segue: il capitale della Sei è attualmente detenuto al 78,12% da Maurizio Belpietro, al 16,93% da Nicola Benedetto e al 4,95% da Mario Giordano e nessuna variazione è intervenuta di recente.

 Dunque, chiunque sostenga che La Verità sia stata venduta a terzi non solo dice il falso, ma lede di interessi della nostra società editrice e della comunità dei lettori che dal 20 settembre del 2016 ci segue.

Perché L’Indipendente a volte pubblica le notizie in ritardo.  Andrea Legni – direttore de L’Indipendente - su L'Indipendente il 24 Maggio 2023

Il buon giornalismo, per essere praticato, richiede tempo. Tempo per comprendere una notizia e approfondirla. Tempo per capire se un certo fatto è realmente accaduto, per separare il vero dal falso, per capire se dietro la superfice della notizia c’è altro. Tempo per mettere insieme i pezzi e renderli al lettore in un articolo capace di fare chiarezza sull’accadimento e sul suo contesto, cercando di assolvere al ruolo di spiegare in parole chiare e comprensibili a tutti anche le dinamiche più complesse del mondo in cui viviamo. Il buon giornalismo è, in pratica, il contrario di quello si legge spesso sui principali giornali, pieni di contenuti scritti di fretta e all’affannosa ricerca di titoli e contenuti sensazionalistici per produrre maggiori volumi di traffico e, quindi, introiti pubblicitari.

Quello in cui viviamo è un tempo che si muove al ritmo di un consumo frenetico: di prodotti, ma anche di informazioni. Districarsi nella complessità di questo sistema, fatto di milioni di input disponibili alla velocità di un click su migliaia di piattaforme, non è semplice. Spesso, per comodità o per mancanza di tempo, gli utenti nemmeno si soffermano a leggere la notizia, ma si informano fagocitando un titolo dietro l’altro sui social. I mezzi di informazione sono pienamente consci di queste dinamiche. Così, nella corsa per pubblicare una notizia prima della concorrenza, si perde per strada un criterio fondamentale: la verifica dei fatti. Numerose testate importanti, consultate ogni giorno da milioni di italiani, finiscono così con il pubblicare – talvolta coscientemente, altre per sola fretta e mancanza di deontologia – bufale totali e contenuti fuorvianti. E se questa affermazione vi suona eccessiva, andate a consultare la nostra rubrica Anti Fakenews, una sorta di galleria degli orrori aggiornata ogni settimana con le bufale pubblicate sul mainstream.

Facciamo solo un esempio. Il 15 novembre scorso, un missile vagante è caduto in territorio polacco, abbattendo una fattoria e uccidendo due persone. La prima agenzia a lanciare la notizia è Associated Press, dopo che uno dei suoi giornalisti ha dichiarato di aver avuto conferma da una sua fonte – ritenuta autorevole – del fatto che il missile fosse russo. Il fatto rimbalza su quasi tutti i principali quotidiani, i quali cavalcano l’entusiasmo una notizia che si presta perfettamente alla propaganda atlantista che hanno scelto di portare avanti, alimentando il panico in milioni di persone e potenzialmente esacerbando le tensioni geopolitiche. Basteranno pochissime ore per arrivare alla conclusione che, con tutta probabilità, il missile era ucraino. 

L’episodio descritto costituisce un esempio di un fatto di gravità estrema, perché riguardante un conflitto che ha assunto fin da subito una portata globale. Naturalmente anche dentro la redazione de L’Indipendente avevamo visto il lancio dell’Associated Press. Ma anziché correre a pubblicare la notizia, ci siamo messi al lavoro per capirne di più. E così, mentre quasi tutti i grandi giornali italiani uscivano – puntualissimi ed in contemporanea – con una bufala che faceva credere ai loro malcapitati lettori di trovarsi sull’orlo di una guerra mondiale per l’attacco russo ad un Paese della NATO, noi abbiamo potuto tenere al riparo i nostri lettori dal leggere una notizia falsa.

Fin da quando L’Indipendente è stato fondato ci siamo dati un obiettivo sopra a tutti gli altri: diventare un porto sicuro per chi cerca un giornalismo coraggioso e scomodo – certo – ma soprattutto ancorato ai fatti. Un giornale al riparo dalle falsità e dalla propaganda. Per questo, talvolta, L’Indipendente pubblica le notizie un po’ in ritardo: perché non partecipiamo a nessuna corsa di velocità e abbiamo il solo obiettivo di dare notizie corrette. Come possiamo farlo? Semplice: rinunciando ad ospitare sul nostro sito ogni tipo di pubblicità. È la corsa ai click che generano introiti pubblicitari a portare i media a sacrificare la precisione e la verifica delle fonti a discapito della velocità. Più si punta sulla quantità e sui titoli strillati più lettori si ottengono: più lettori si hanno, più soldi si guadagnano con gli spazi pubblicitari. Questo è il meccanismo perverso che domina la gran parte dei giornali. Una dinamica nociva alla quale ci possiamo sottrarre, perché il nostro sostegno finanziario deriva al 100% dagli abbonamenti dei lettori.

Quindi la prossima volta che leggerete un articolo in ritardo su L‘Indipendente ricordatevi di queste righe: non è che siamo distratti, è che verifichiamo le fonti. Almeno noi.

I dieci articoli più importanti pubblicati su L’Indipendente nel 2022. L'Indipendente l’1 gennaio 2023.

Leggendo i principali quotidiani spesso si ha l’impressione che fare informazione non sia nulla di più che una gigantesca operazione di copia-incolla. Frequentemente le notizie vengono appiattite su posizioni comuni, senza che nessuno si prenda la briga di interrogarsi davvero su cosa stia accadendo e analizzare i fatti. Su L’Indipendente cerchiamo di fare un lavoro differente, senza rincorrere la pubblicazione veloce alla ricerca dei click, ma prendendoci il tempo necessario per analizzare, fare ricerche, andare oltre le verità di comodo. In questo modo durante l’anno appena trascorso abbiamo fatto luce su molte delle notizie più rilevanti, pubblicato inchieste che sui media mainstream non trovano spazio e cercato di portare all’attenzione dell’opinione pubblica storie e battaglie che meritano di essere conosciute. Di seguito, vi proponiamo 10 tra i nostri lavori giornalistici che riteniamo più rilevanti tra quelli pubblicati nel 2022.

Obbligo vaccinale, tra politica e scienza

Con il decreto legge n.1 del 7 gennaio 2022 il governo italiano imponeva l’obbligo vaccinale a tutti i cittadini che avessero compiuto 50 anni di età. La strategia di contenimento della pandemia italiana si confermava come del tutto incentrata sulla campagna vaccinale e sulle restrizioni e gli obblighi che ne sono conseguiti, ma quanto era davvero basata su criteri scientifici? Con questo approfondimento abbiamo provato a dipanare la questione, riportando dati e studi scientifici al riguardo.

Il vaiolo delle scimmie e la nuova corsa ai vaccini

Non avevamo fatto in tempo ad arrivare alla fine dell’emergenza legata alla pandemia da Covid-19 che sui giornali di mezzo mondo rimbalzava già un nuovo allarme: quello per il vaiolo delle scimmie. I contagiati godevano tutti di buona salute e le stesse istituzioni avevano rassicurato sul fatto che la situazione non fosse allarmante, in quanto il virus è noto da decenni e non ha mai provocato epidemie diffuse. Tuttavia l’OMS riunì immediatamente un “meeting di emergenza” e in diversi Paesi iniziò la corsa ai vaccini, mentre i quotidiani italiani lanciarono da subito una campagna di terrorismo mediatico, nonostante in Italia non vi fossero morti. Partendo da dati oggettivi, abbiamo cercato di fare un po’ il punto della situazione, per capire se l’emergenza fosse fondata o meno.

La battaglia per la liberazione di Julian Assange

Assange perde la battaglia per la sua liberazione: il Regno Unito ordina la sua estradizione negli Stati Uniti, dove rischia fino a 175 anni di carcere in una prigione di massima sicurezza. La sua vicenda non è stata trattata con particolare attenzione dai media principali – anzi, in alcuni casi non è stata trattata affatto -, ma riguarda tutti noi molto da vicino, perché va a incidere sulla libertà di informazione, un diritto fondamentale di tutti noi.

I battaglioni neonazisti ucraini e la mistificazione del mainstream

Immediatamente dopo lo scoppio della guerra russo-ucraina è stato evidente come l’informazione mainstream fosse appiattita acriticamente su di un unico punto di vista, volto a glorificare l’impresa della resistenza ucraina e criminalizzare la Russia per partito preso. Così anche i gruppi neonazisti presenti in Ucraina, la cui esistenza è nota almeno dal 2014, sono stati ridipinti in chiave nazionalista o patriottica. Grazie a quest’inchiesta esclusiva, basata su fonti verificabili, siamo riusciti a ricostruire una rete strutturata che collega il battaglione Azov e altri simili a centinaia di fazioni alleate neonaziste e neofasciste in tutto il mondo.

Il depistaggio di Stato sulla morte di Paolo Borsellino

Si tratta del più grande depistaggio della storia repubblicana, ma rimarrà senza un colpevole. L’omicidio di Paolo Borsellino, dopo decenni di indagini, si conclude in un nulla di fatto, quantomeno a livello penale. Due prescrizioni e un’assoluzione per i tre poliziotti accusati di aver imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino, il quale si era auto-accusato di aver fatto esplodere l’ordigno che causò la morte dei coniugi Borsellino e dei membri della loro scorta. A seguito della sentenza abbiamo ripercorso la vicenda, cercando di fare chiarezza nei fatti.

Anche i migliori se ne vanno

Dopo le dimissioni di Mario Draghi, i principali quotidiani di informazione si sono uniti in un canto funebre tra il disperato e l’amareggiato, in lutto per la perdita di un personaggio che ha evidentemente – a loro parere – ridisegnato le sorti dell’Italia. Era la chiusura della parabola del governo dei migliori, incaricato di rimettere in piedi le finanze dell’Italia e il suo prestigio internazionale. Ma poi è andata davvero così?

Trattativa Stato-mafia: era nell’interesse dello Stato

Non è che la trattativa Stato-mafia non ci fu. Ma venne intavolata nel nome di un obiettivo nobile, fermare le stragi. Questo si legge nelle motivazioni della sentenza d’Appello al processo “Trattativa Stato-mafia”, che vede condannati solamente gli uomini di Cosa Nostra, mentre in primo grado erano previste pene esemplari anche per gli uomini dello Stato. La vicenda dunque si chiude su di un capitolo finale che fa molto discutere e non piace a molti tra gli esponenti di spicco dell’antimafia, che parlano di «giustificazione della collusione con i criminali».

Pedemontana veneta: un gigantesco spreco di soldi pubblici

Un’opera pubblica che rischiava di costare tre volte lo Stretto di Messina e di dubbia utilità, in quanto il guadagno sul tempo di percorrenza rispetto ai percorsi già esistenti sarebbe stato di pochi minuti. Stiamo parlando della Pedemontana veneta, opera contestata da tempo tanto per l’impatto ambientale quanto per l’irragionevolezza in sé. Tanto che Laura Puppato, ex sindaca di di Montebelluna (uno dei Comuni attraversati dall’opera) ha dichiarato senza tanti giri di parole: «Neanche da ubriachi si poteva firmare una cosa del genere».

La strana teoria dell’auto-sabottaggio dei gasdotti Nordstream

Il 26 settembre delle esplosioni hanno provocato gravi danni ai gasdotti Nordstream che trasportano il gas dalla Russia all’Europa. Da subito, e per intere settimane, i principali media hanno avallato la teoria che si fosse trattato di un sabotaggio messo in atto da Mosca. Nonostante si trattasse di una “verità” senza prove e soprattutto senza un movente, visto che evidentemente alla Russia per cessare il flusso di gas verso l’Europa sarebbe bastato chiudere i rubinetti senza auto-infliggere danni milionari a una propria infrastruttura. Su L’Indipendente, al solito, abbiamo preferito aspettare e lavorare alla ricerca di una verità non di facciata, fino ad avere gli elementi in mano per svelare tutte le incongruenze della versione ufficiale e i tanti indizi che portano invece verso Washington.

Alfredo Cospito, ovvero: come punire le idee

Finire in isolamento per le proprie idee: così si potrebbe riassumere la vicenda di Alfredo Cospito. Già in carcere perché accusato di aver piazzato alcuni ordigni presso una scuola carabinieri, Cospito è un anarchico rinchiuso in regime di 41 bis per via di alcuni scambi epistolari intrattenuti negli anni con varie realtà della galassia anarchica. La linea che divide la pericolosità effettiva di un soggetto dal processo alle idee è, tuttavia, molto sottile.

10 buone notizie del 2022 che possono insegnare qualcosa. L'Indipendente il 31 dicembre 2022.

Il 2022 è stato segnato da tanti eventi. Molte di queste sono buone notizie. Ma non tutti sono disposti a darle. Perché, come si suol dire, no news is good news. Tuttavia, noi de L’Indipendente ci siamo sforzati, nel corso di quest’anno, di offrire uno sguardo diverso sul mondo, dando spazio a notizie che offrano uno spaccato di realtà positiva. Sono storie di movimenti sociali che si sono battuti per la propria causa fino alla vittoria, di popolazioni indigene che hanno trovato il modo di far valere i propri diritti, di politici e imprenditori innovativi che, con coraggio, hanno deciso di rompere con politiche obsolete e inefficaci per promuovere innovazioni nel nome del benessere sociale. Ne abbiamo selezionate dieci, tra quelle da noi pubblicate quest’anno. Buona lettura

Il Perù rinuncia alla politica inefficace del proibizionismo

Pedro Castillo, eletto presidente nel Perù nel luglio 2021, è deciso a segnare una netta inversione di marcia nella lotta al narcotraffico nel Paese. Optando per la rottura con l’obsoleto modello di repressione e criminalizzazione del narcotraffico imposta dagli Stati Uniti, la quale non ha prodotto alcun risultati nel contrasto al commercio di stupefacenti, Castillo e il suo esecutivo optano per una “eradicazione volontaria, pacifica e progressiva”, offrendo alle famiglie dei coltivatori mezzi di sostentamento alternativi alla coltura della coca e cercando così di far andare di pari passo eradicazione e sviluppo alternativo.

Dopo 12 anni Stefano Cucchi ottiene giustizia

«Stefano non è caduto dalle scale»: queste sono le parole di Ilaria Cucchi subito dopo l’udienza che ha portato alla condanna definitiva dei carabinieri coinvolti nel pestaggio mortale del fratello, avvenuto nella notte del 15 ottobre 2009. Si chiude così con esito positivo una vicenda giudiziaria durata oltre un decennio, che ha messo a nudo l’omertà e la violenza che regnano in alcuni ambienti delle forze dell’ordine, tanto che l’avvocato Fabio Anselmo lo definirà un «processo al sistema».

Messico: nazionalizzare le risorse per garantire l’autodeterminazione

Il litio, metallo fondamentale per la realizzazione di batterie di cellulari e auto elettriche e cruciale per la transizione energetica, è una risorsa del Paese e va quindi nazionalizzata. Questo la decisione del presidente messicano Obrador il quale, consapevole di come l’ingerenza delle multinazionali straniere possa influenzare la vita di un Paese, influendo anche sulle politiche nazionali, mira così a garantire la capacità di autodeterminazione del popolo messicano e la propria sovranità energetica.

La mobilitazione popolare ferma la costruzione della base militare

Il premier Draghi e il ministro della Difesa Guerini ci avevano provato: con un decreto passato del tutto inosservato e siglato il 14 gennaio – molto prima dello scoppio della guerra in Ucraina – erano a un passo dal trasformare parte dell’area protetta di San Rossore, Migliarino e Massaciuccoli, in Toscana, in base militare. Tuttavia, la mobilitazione della società civile è stata tale da far tornare il governo sui propri passi (seppur non abbia del tutto abbandonato il progetto) e trovare soluzioni alternative.

Il Botswana sta sconfiggendo l’HIV

In Botswana era in corso una delle più gravi epidemie di HIV mai registrate. Tuttavia, grazie alle strategie interne recentemente adottate, il Paese africano è riuscito a ridurre drasticamente il tasso delle infezioni. Il traguardo raggiunto è stato tale da essere riconosciuto anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), la quale ha conferito al Botswana “lo status di livello argento”.

Nel Borneo la mobilitazione indigena ferma la deforestazione

Attivisti e ONG della zona dello Stato del Sarawak, nel Borneo malese, sono riusciti a dimostrare alle autorità, grazie alla raccolta di immagini e video catturati coi droni, le attività illegali di disboscamento ai danni di una foresta protetta. La Samling, “il gigante malese del legname”, ha respinto le accuse, negando di aver avuto anche solo l’intenzione di invadere le terre indigene, ma la tribù Penan ha fatto sapere che la società ha completamente abbandonato l’area il giorno prima della manifestazione di protesta organizzata dalla popolazione locale e prevista per il 15 luglio. Un tempismo troppo perfetto per essere considerato una coincidenza.

Un miliardario per la tutela del pianeta

Yvon Couinard, ideatore e fondatore del brand di abbigliamento outdoor Patagonia, ha devoluto l’intera azienda alla causa ambientale. Patagonia ha assunto così le sembianze di una società privata senza scopo di lucro, divisa tra un fondo fiduciario e un’organizzazione, appositamente create per allontanare possibili rischi e assicurandosi così che le entrare annuali vengano devolute alla lotta contro il cambiamento climatico e alla difesa degli ambienti naturali.

Sempre più persone nel mondo hanno accesso all’acqua potabile

La popolazione mondiale che dispone di acqua potabile è passata da 3,8 miliardi nel 2000 a 5,8 miliardi nel 2020. Si tratta di una notizia eccellente, che dimostra come le politiche messe in atto a livello globale riescano a ottenere risultati concreti nel garantire un sempre più equo accesso alle risorse di base, nonostante il problema della carenza di acqua pulita sia ancora troppo radicato e complesso per essere risolto del tutto.

La Colombia cerca la “pace totale” con i guerriglieri

Il Parlamento colombiano ha approvato un disegno di legge, fortemente voluto dal neo-eletto presidente Gustavo Petro, che prevede l’apertura di negoziati di pace tra le autorità governative e i gruppi ribelli ELN e FARC. Nonostante quello verso la “pace totale” sia comunque un cammino lungo e complicato, si tratta di un primo tassello per porre fine a una sanguinosa guerriglia interna che va avanti da oltre 50 anni e ha già mietuto milioni di vittime. A fare la differenza, questa volta, potrebbero essere le importanti riforme volute da Petro, in particolare nel settore dell’agricoltura e della lotta al narcotraffico.

La Spagna taglia ai ricchi per dare ai poveri

Con l’approvazione della legge di Bilancio per il 2023, la Spagna di Sanchez ha autorizzato la spesa sociale più alta di sempre per il Paese (ben 274 miliardi di euro), introducendo misure volte a mitigare l’effetto dell’inflazione causata dalla guerra in Ucraina sulle fasce più vulnerabili della società. Il tutto tassando banche, compagnie energetiche e grandi patrimoni, permettendo cose una più equa redistribuzione della ricchezza e dimostrando come, pur muovendosi entro i canoni di austerità imposti da Bruxelles, una certa volontà politica possa permettersi di muoversi in una direzione che non comporti necessariamente il taglio dei servizi.

19 agosto 1989. Il Pci e noi ragazzi terribili dell’Unità. Ci guidava Renzo Foa, volevamo essere giornalisti-giornalisti, autonomi dal partito, e per fare questo sapevamo che dovevamo liberarci del tabù dei tabù: Togliatti. Piero Sansonetti su L'Unità il 20 Agosto 2023

In quel periodo, fine ottanta, l’Unità ribolliva. C’era un gruppo dirigente del giornale, giovane, guidato da Renzo Foa, che era travolto da un grande impeto di indipendenza e di laicità. C’eravamo messi in testa che volevamo fare i giornalisti-giornalisti e non i militanti del partito. E che l’Unità dovesse essere un giornale di sinistra, autenticamente di sinistra, anche radicale, ma autonomo dal partito e libero dai pasticci della tradizione comunista.

Avevamo aggregato al giornale molti commentatori non di partito: Balducci, Caffè (che poi morì nell’87), Graziani, Tranfaglia, Luce Irigaray, Gozzini, Wilma Occhipinti, Dacia Maraini, Ginzburg, Tamburrano, Flores, Manconi. Vi dico la verità: sentivamo però che liberarci davvero dallo stalinismo voleva dire anche dare una mazzata al togliattismo, e persino a quella generazione di leader togliattiani di gigantesca statura intellettuale che andavano indifferentemente dalla destra amendoliana alla sinistra di Ingrao. Prima dell’89 avevamo già compiuto qualche ragazzata. Nell’87, anniversario della morte di Gramsci, avevamo pubblicato un articolo di uno storico, Umberto Cardia, che addossava proprio a Togliatti le responsabilità della lunga carcerazione di Gramsci.

Era successo il finimondo. Credo che rischiammo il licenziamento. Fummo convocati a Botteghe Oscure e bastonati da Pajetta, Napolitano, Natta ed altri. ma mantenemmo il nostro posto e anche il nostro piccolo potere. I direttori dell’Unità cambiavano (Macaluso, Chiaromonte, D’Alema) ma noi giovani ex sessantottini avevamo preso il potere, e il giornale, alla fin fine, lo facevamo noi. Quell’anno il direttore era D’Alema, che ci guardava un po’ di sbieco, ma lasciava margini incredibili di libertà. Quando non era d’accordo diceva: “i giornalisti siete voi. Fate…”.

Al vertice del giornale c’erano Foa, io, De Marco, Ceretti, Di Blasi, Guadagni, Spataro, Tulanti, Fontana, Rondolino, Sappino e un’altra decina di persone, meno compatte rispetto a noi ma tuttavia di altissimo livello professionale e, come noi, convinte che bisognasse liberarci del passato (Paolozzi, Leiss, Geremicca, e il gruppo dei milanesi guidato da Bosetti e Pivetta). E quel 19 agosto del 1989, vigilia del venticinquesimo anniversario della morte di Togliatti, il direttore, D’Alema, era in vacanza e irraggiungibile. Così Foa ed io decidemmo di pubblicare in prima pagina un articolo di critica a Togliatti nel venticinquesimo della sua morte. Ci consultammo con Bosetti, che era d’accordo e poi pensammo al titolo. Non mi ricordo se l’idea fu di Renzo o mia. Ne eravamo comunque entusiasti: “c’era una volta Togliatti…”.

Poi ci chiedemmo chi, autorevolmente e spericolatamente avrebbe potuto mai scrivere questo articolo. Ci venne un solo nome. Quello di Biagio. Ma non confidavamo molto che avrebbe mai accettato di compiere un’azione così temeraria. Accettò subito. Ci costò caro? Beh, credo di sì. Alla festa dell’Unità, in settembre, fummo massacrati. Tutto il vecchio gruppo dirigente del Pci era contro di noi. Ci difese D’Alema, che era molto incazzato, credo, perché oggettivamente gli avevamo fatto una mascalzonata, ma rispondeva sempre all’etica comunista secondo la quale comunque il direttore difende i suoi.

Nelle settimane successive moltissimi alti dirigenti del Pci scrissero sull’Unità per contestare Biagio. In modo molto aspro. Passò qualche mese e cadde il muro di Berlino. Altro che c’era una volta Togliatti. Biagio aveva ragione, avevamo ragione noi. Però non ce la riconobbero. Mai. Fummo segnati come inaffidabili. Oggi rileggendo quell’articolo vedo quanto fosse forte l’analisi di De Giovanni. Poi vedo anche un’altra cosa. La distanza tra il livello di quei dibattiti e la qualità della discussione politica di oggi. Quasi quasi ho nostalgia di Togliatti…

Piero Sansonetti 20 Agosto 2023

I figli di Enrico Berlinguer contro l'Unità: "Per favore, lasciate in pace nostro padre". Huffpost 11 Giugno 2023

"Non trasformare il suo ricordo in un brand pubblicitario" scrivono in una lettera Bianca, Maria, Marco e Laura che esprimono sconcerto e amarezza di per l'utilizzo di una foto del padre per promuovere l'uscita in edicola del quotidiano diretto da Piero Sansonetti che, precisano, "dell’antico e glorioso giornale conserva solo il nome"

"Per favore, lasciatelo in pace". Si conclude così la lettera firmata su Repubblica dai quattro figli di Enrico Berlinguer - Bianca, Maria, Marco e Laura - che esprimono sconcerto e amarezza per l'utilizzo di una foto del loro padre usata come promozione dell'uscita in edicola dell'Unità, diretta da Piero Sansonetti. Si commemora proprio oggi il trentanovesimo anniversario della scomparsa del leader del Partito comunista italiano, morto a Padova poco dopo aver pronunciato il suo ultimo discorso in piazza.  

I figli di Berlinguer contestano l'uso di una fotografia del 24 marzo 1984 in cui il padre "sorrideva circondato da tanti compagni mentre una grandissima manifestazione attraversava le vie di Roma per protestare contro i tagli alla scala mobile voluti dal governo presieduto da Bettino Craxi. Il titolo a tutta pagina dell'Unità era: ECCOCI. E nell'occhiello si leggeva: Un flusso ininterrotto di lavoratori con treni, pullman e navi". Una foto "così significativamente legata al suo tempo e così, di quel tempo, potente espressione per pubblicizzare un prodotto inevitabilmente tutto diverso". 

Questo un estratto della lettera: 

"Quella stessa foto l’abbiamo rivista in questi giorni, utilizzata come spot pubblicitario, per promuovere l’uscita in edicola di un nuovo quotidiano che ha assunto un vecchio nome, l’Unità, diretto ora da Piero Sansonetti. Grande è stato il nostro sconcerto e, ancor più, la nostra amarezza. Da quella prima pagina sono passati, così come dalla morte di nostro padre, quasi quarant’anni e, nel frattempo, il mondo è totalmente cambiato. Tutto è mutato: da oltre tre decenni non esiste più il partito comunista italiano e nessuno di quell’antica leadership.

Da allora l’Unità ha avuto numerosi direttori fino a concludere definitivamente la sua storia ormai sei anni fa. Quello che torna oggi nelle edicole è un quotidiano interamente nuovo che dell’antico e glorioso giornale conserva solo il nome. E solo perché quando è stato messo all’asta un imprenditore più rapido di altri è riuscito ad acquisirne la proprietà. Ma della storia precedente, nulla rimane: e nemmeno uno di quei redattori che hanno tenuto in vita il giornale fino al 2017.

Come spiegarsi, allora, sotto il profilo giornalistico, politico, culturale e anche morale la volontà di affermare a tutti i costi una continuità tra il giornale fondato da Antonio Gramsci e quello oggi in edicola? E come spiegarsi che venga utilizzata una foto così significativamente legata al suo tempo e così, di quel tempo, potente espressione per pubblicizzare un prodotto inevitabilmente tutto diverso?

Certo la memoria storica appartiene a tutti e per noi è motivo di gioia sapere che la vita e l’attività di nostro padre vengano sentite e vissute da quanti gli vogliono ancora bene, ciascuno secondo la propria soggettività, ma altra cosa è trasformare il suo ricordo in un brand pubblicitario.

Per favore, lasciatelo in pace.

Firmato Bianca, Maria, Marco e Laura Berlinguer.

Scusaci, Sansonetti. Il Pd e le grottesche feste dell’Unità, senza il giornale o forse senza il partito. Mario Lavia su L'Inkiesta il 10 Giugno 2023

Il Partito democratico si interroga sui suoi storici raduni estivi dei militanti che da quest’anno saranno dedicati a un quotidiano che non è più di proprietà e per di più con una linea opposta sull’Ucraina (almeno per ora) 

Al Nazareno qualche dirigente di primo piano ha posto il problema direttamente ad Elly Schlein: le Feste dell’Unità saranno le Feste di un giornale che è tornato in edicola con la gloriosa testata, ma che non solo non è di proprietà del partito ma porta avanti linee molto lontane da quelle del partito medesimo. L’equivoco come direbbero i giuristi è in re ipsa. L’Unità-fondata-da-Antonio-Gramsci diretta da Piero Sansonetti non è del Partito democratico, ma com’è noto è di proprietà dell’imprenditore Alfonso Romeo (che edita anche Il Riformista di Matteo Renzi) e non ha dunque alcun rapporto organico con il Partito democratico che da sempre organizza decine di Feste dell’Unità, specie nel centro-nord. 

La situazione è inedita. Anche quando L’Unità cessò di essere l’organo ufficiale del partito, e persino quando i giornali del Pd erano due (L’Unità e Europa), la questione si è sempre risolta pragmaticamente ricorrendo ad una tradizione consolidata: la “Festa dell’Unità” d’altronde è un brand da decenni, un elemento persino storico del rapporto tra politica e masse. Anche se da anni non sono più gli appuntamenti-monstre del passato e dei grandi comizi finali sono pur sempre un’occasione per far esprimere militanti ed elettori del Pd, oltre che una discreta tribuna per i loro dirigenti. 

Oggi però L’Unità non ha nessun legame giuridico, economico e nemmeno politico con il Pd. Certo, c’è una dichiarata vicinanza del direttore Sansonetti al partito di Elly Schlein, che dal giornale è abbastanza sostenuta. Ma la linea dell’Unità è proprio un’altra, anzi opposta, per esempio sull’Ucraina (e scusate se è poco), è una linea cosiddetta pacifista contraria all’invio delle armi, quella che anche ieri sul giornale di Sansonetti spiegava Moni Ovadia, mentre il titolone dell’editoriale del direttore era eloquente: «Hanno scelto Paolo Ciani? Quindi ora (finalmente) il Pd diventa pacifista», che è esattamente il contrario non solo di quello che pensa gran parte del gruppo dirigente del partito, molto contrariato dalla elezione di quel vicecapogruppo, ma anche di Schlein e dei suoi collaboratori che hanno spiegato che la scelta di Ciani non prelude a nessuna svolta. 

Due giorni prima invece aveva aperto con questo titolo: «Fabbricano armi, fanno la guerra… e se la prendono con D’Alema» (era il giorno della notizia di Massimo D’Alema indagato per via del commercio di navi e quant’altro con la Colombia-ndr), con singolare accostamento del sostegno alla Resistenza ucraina contro i macellai di Mosca alle presunte irregolarità di un ex dirigente del partito e ex direttore dell’Unità in una faccenda magari regolarissima, ma molto meno nobile. 

Di passaggio c’era stata anche una polemica sulla opportunità che sul giornale «fondato da Antonio Gramsci» debba scrivere Giusva Fioravanti, l’ex terrorista nero pluriomicida da tempo impegnato nell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, una polemica su cui Sansonetti ha tenuto il punto in nome del sacrosanto diritto di tutti i cittadini al reinserimento e alla necessità di tenere accesa la luce sulle pessime condizioni delle carceri italiane. Ma il fatto che questa luce debba essere tenuta accesa da uno dei riconosciuti colpevoli della strage di Bologna non è piaciuta a molti militanti di sinistra tra cui il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di Bologna Paolo Bolognesi («Siamo schifati»).

In ogni caso, le polemiche tra partito e giornale sono di antica data e segno di salute. L’aspetto grottesco è che non stiamo parlando del giornale del partito ma di un quotidiano indipendente, al quale tuttavia il partito dedicherà le sue feste (anche se certo non gli incassi). Un altro tocco paradossale in questo tempo al Nazareno già così confuso.

Estratto dell’articolo di Stefano Iannaccone per “Domani” l'8 giugno 2023.

C’è un problema con l’ascensore a Palazzo Chigi? Niente paura, con un importo di 4mila euro arriva la Romeo gestioni e lo risolve. Se c’è bisogno di un intervento di manutenzione al sistema antincendio? Per poco meno di 2mila euro arriva sempre la Romeo gestioni. E se servono dei lavori agli infissi della sede del governo? Gli addetti della Romeo accorrono di nuovo. Insomma, sotto forma di raggruppamento temporaneo di imprese, la società è di casa alla presidenza del Consiglio, compiendo decine e decine di interventi, secondo quanto stabilito da un vecchio contratto. 

[…] La Romeo gestioni è una delle realtà che compongono il gruppo fondato da Alfredo Romeo […]. La sua vicinanza con la politica è nota, da sempre vanta buoni rapporti con Matteo Renzi e la sua famiglia, in testa il padre Tiziano. Nel frattempo, le aree di azione dell’imprenditore napoletano si sono allargate al mondo editoriale: dopo Il Riformista, ha riportato in edicola L’Unità, intrecciando così politica, potere economico e informazione.

Le prossime settimane saranno decisive per capire il rapporto con le istituzioni, nello specifico quello tra il gruppo di Romeo e la presidenza del Consiglio. Il 30 giugno […] scade l’accordo esecutivo che assegna da un decennio alla sua società gli interventi di manutenzione di tutti gli edifici della presidenza del Consiglio […].

L’accordo è entrato in vigore nel 2013, nell’ambito della convenzione Consip Facility management 3, nel lotto relativo agli immobili del centro di Roma. In quell’anno è stata sottoscritta un’intesa della durata di sette anni, attraversando vari governi. Successivamente, si è proceduto con una serie di proroghe […]. 

Giorgia Meloni ha ereditato il prolungamento disposto nel maggio 2022 fino al prossimo giugno. Ora tocca a lei: la decisione fa capo solo alla struttura di Palazzo Chigi e può essere presa in base alle esigenze manifestate dal governo.

[…] La Consip, intanto, ha messo a disposizione una prima opzione: la convenzione Facility management (Fm) 4 per cui Romeo è finito sotto processo negli anni scorsi, con l’accusa di turbativa d’asta, venendo assolto «perché il fatto non sussiste». D’altra parte risulta tuttora imputato per traffico di influenze, in un altro filone dell’inchiesta sugli appalti Consip. Al netto delle vicende giudiziarie […] la convenzione Fm 4 è stata aggiudicata dal raggruppamento temporaneo di imprese Engie servizi.

C’è poi l’accordo quadro della Consip chiamato “grandi immobili”, che si suddivide in due lotti: il primo, relativo agli edifici con superficie compresa tra 25mila e gli 80mila metri quadri, vinto dalla Romeo Gestioni e dal rti Dussmann service; il secondo destinato ai patrimoni immobiliari ubicati nel Comune di Roma, con superficie inferiore a 25mila quadri, di cui risultano fornitori Romeo Gestioni e il rti Italiana facility management. In tutti casi, la decisione della presidenza del Consiglio avrà un impatto sul rapporto con la società dell’imprenditore-editore. 

E qui si intreccia la partita dell’informazione, che si muove tra gli affari con Palazzo Chigi e le linee editoriali seguite dai due quotidiani acquistati da Romeo. […] Non stupisce allora che Il Riformista possa assumere una posizione comprensiva verso il governo.

Il direttore editoriale è Matteo Renzi […]. Il direttore responsabile è Andrea Ruggeri, già deputato di Forza Italia. Ma la situazione è diversa se si parla dell’Unità, che assume toni talvolta teneri nei confronti del governo. È un fatto più sorprendente perché si tratta del giornale fondato da Antonio Gramsci, come si onora di scrivere sotto la testata, il quotidiano diretto da Piero Sansonetti.

Un esempio è il primo editoriale, in difesa della premier sulle inchieste giornalistiche condotte intorno alla rete dei rapporti economici e societari della sua famiglia. E così via, tra un rimpianto per il centrodestra di Silvio Berlusconi e una celebrazione del «trionfo» della presidente del Consiglio il 2 giugno, gli articoli hanno scelto talvolta una linea morbida. O una critica dai tratti gentili.

Le accuse e la polemica. La figura barbina di Stefano Iannaccone e del Domani: per attaccare Romeo spara cappellate contro l’Unità. Siamo andati a controllare le prime pagine dell’Unità di questi circa quindici giorni. Non ne abbiamo trovata neanche una senza un titolo contro la Meloni. Neanche una. Redazione su L'Unità il 9 Giugno 2023

C’è un giornalista del Domani, che si chiama Stefano Iannaccone, che ieri ha fatto uno scoop. Ha scoperto che l’appalto delle pulizie a palazzo Chigi fu vinto dalla Romeo Gestioni e dunque la Romeo gestioni esegue i lavori che le competono a Palazzo Chigi. Il giornalista dice che però l’appalto potrebbe passare alla Engie, e sembra favorevole a questo passaggio. Naturalmente non sappiamo perché il giornalista abbia scritto questo articolo.

Difficile che lo abbia fatto di sua iniziativa, perché di solito ai giornalisti non interessa molto chi legittimamente, facendo il suo dovere, esegue le manutenzioni a Palazzo Chigi. Probabilmente qualcuno gli ha chiesto di scriverlo, per motivi che non ci interessa indagare. Forse il suo editore, forse qualcun altro. Succede nel giornalismo, è sempre successo. C’è anche un termine di gergo (che qui tralascio) per definire questo tipo di articoli. Il problema è che il giornalista sostiene che Romeo, per mantenere buoni rapporti con Giorgia Meloni, ha imposto una linea morbida all’Unità, di cui è editore, verso Giorgia Meloni.

Siamo andati a controllare le prime pagine dell’Unità di questi circa quindici giorni. Non ne abbiamo trovata neanche una senza un titolo contro la Meloni. Neanche una. E una coincidenza statistica così clamorosa non era mai successa a nessun altro giornale. Copiamo qui solo i 16 titoli delle prime 16 prime pagine. Iniziamo dal numero di anteprima.

A tutta pagina il titolo con grande foto di Meloni. “Cara Meloni, è finita la pacchia”. Poi di seguito: “Parte la sfida a Meloni”; “A Meloni un ceffone al giorno da Parigi”; “Bankitalia boccia Meloni”; Sberle da Bankitalia, Canada e Francia: povera Meloni”; “Senza Berlusconi la destra è zero”; “Nasce Tele Giorgia”; “Mattarella zittisce Fratelli d’Italia “ (questi due titoli sono in prima pagina nello stesso giorno); “Decreto immigrati: sette morti al giorno”; “Destra: è tornato Almirante”; Tele Giorgia: la mamma è Meloni il papà è Conte”; “ Una volta c’era don Milani ora c’è Crosetto”; “Cara Meloni ti racconto la guerra in Etiopia”; “ Giorgia sceriffa planetaria contro lo Stato di Diritto”; “Avvisi di garanzia per la strage di Cutro”; “Altro che piano Mattei!”; “Meloni, ora parlaci di Bibbiano”.

Ora c’è solo una osservazione da fare: se ti chiedono un articolo contro Romeo perché per qualche ragione lo vogliono danneggiare, e tu non hai la forza di dire di no, vabbé, scrivilo. Ma prima un pochino informati. sennò fai una figura proprio barbina, amico mio, e magari anche il tuo direttore ti tira le orecchie, birbante!

La ripartenza. Come sarà l’Unità, un giornale vecchio e nuovo non ossessionato dal potere. Sarà un giornale vecchio e nuovo. Aperto alla ricerca e al contributo di tutti. Con l’ossessione di creare pensiero, discussione, programmi, strategie. Piero Sansonetti su L'Unità il 2 Giugno 2023 

In questi giorni ho ricevuto alcuni messaggi che contestano l’uso dell’immagine di Enrico Berlinguer negli annunci che informano del ritorno in edicola, dopo 7 anni, dell’Unità. Mi si dice: ma questa non è più l’Unità del Pci, perché usate il volto e l’immagine di Berlinguer?

Rispondo volentieri a questa domanda.

L’Unità che abbiamo riportato in edicola con Alfredo Romeo vuole essere esattamente questo: il ritorno della vecchia Unità, che fu il giornale del Pci e del Pds e che seppe anche rendersi autonoma dal Pci e dal Pds e svolgere la sua funzione con impegno e con spirito aggressivo. Quale funzione? Quella di criticare costantemente il potere, metterlo in discussione, ostacolarlo. E di condizionare e terremotare il mondo dell’informazione.

Ho lavorato in quella Unità per molti anni (decenni). Ho combattuto insieme ai miei compagni per l’autonomia del giornale dal partito per molto tempo e con ottimi risultati. Per aprirlo all’esterno, alle collaborazioni di giornalisti e intellettuali non comunisti. Negli anni Novanta, soprattutto, con le direzioni di Chiaromonte, di D’Alema e di Foa, l’Unità era diventato un quotidiano indipendente, dove i giornalisti mettevano la verità – o quello che si riusciva a capire della verità – davanti alla linea del partito.

Mettemmo in discussione Togliatti, avanzammo dubbi sull’abbandono di Gramsci da parte del Pci, fummo il primo giornale al mondo a intervistare Alexander Dubcek, il leader della primavera di Praga, in clandestinità, quando in Cecoslovacchia ancora imperava il regime comunista. Ricordo anche quando fummo ferocemente critici (“strage di Stato”) nei confronti del governo Prodi, perché la marina italiana aveva speronato a colato a picco una nave di profughi. E ricordo quando scrivemmo in prima pagina un articolo per difendere i diritti di Raffaele Cutolo in prigione.

Il giornale era indipendente, ma era l’Unità. Poi al passaggio del secolo le cose cambiarono un po’, il giornale fu prima acquistato dagli Angelucci che chiamarono direttori che con il passato del giornale avevano poco a che fare. E tolta addirittura la fascia rossa in prima pagina e sostituita con una azzurra, fu stravolta la linea. Certo, quel giornale c’entrava poco col vecchio Pci e con la sua anima. Poi ci fu una svolta ulteriore, con Furio Colombo, personaggio straordinario, giornalista di primissimo piano, ma anche lui molto lontano dalla tradizione e dallo spirito del vecchio Partito comunista. Infine iniziò il declino, che portò a varie chiusure del giornale e poi al fallimento.

Certo, il Pci oggi non c’è più, e non possiamo tornare ad essere il giornale del Pci. Però l’idea per la quale siamo nati è quella di riprendere quello spirito. Quello sforzo di analisi, di elaborazione, di pensiero. Quella filosofia. Quei punti di riferimento ideali. Perché il Pci non c’è più, e il Pci fu un partito criticabilissimo per molti aspetti (la libertà, il garantismo…) ma fu un luogo eccezionale di creazione politica, di cultura, di lotta, di intelligenza, di passione e di altruismo. Noi vogliamo ridare vita e anima a quello spirito. E all’immagine di Berlinguer che sfilava perché voleva opporsi al taglio della scala mobile. E partendo da lì, lavorare per aiutare la nascita di una sinistra nuova, spavalda, che sappia tenere insieme i valori essenziali della modernità, e cioè la libertà e l’uguaglianza.

Oggi la sinistra è immobile, quasi pietrificata dal terrore di sbagliare. Non riesce a prendere posizione su temi essenziali: la guerra, le tasse, l’immigrazione, il garantismo, le riforme istituzionali. Perché? Perché ha sostituito la democrazia di massa e lo sforzo per elaborare la politica – crearla, sperimentarla – con una vera e propria ossessione per il potere.

La grande domanda che sottende l’attività dei partiti di sinistra sembra ormai solo questa: cosa possiamo fare per tornare nella stanza dei bottoni? L’Unità non sarà il giornale ossessionato dal potere. Sarà un giornale vecchio e nuovo. Aperto alla ricerca e al contributo di tutti. Con l’ossessione di creare pensiero, discussione, programmi, strategie. E di spingere la sinistra alla ricerca di una sua nuova identità. Garantista, socialista, cristiana e liberale. Piero Sansonetti 2 Giugno 2023

La storia dell'inserto. Storia di Tango, l’inserto settimanale satirico diretto da Sergio Staino dell’Unità.

Estate 1986. A Forattini, che accusava Tango di non avere il coraggio di mettere alla berlina i dirigenti del Partito comunista, Staino risposte su Tango con una caricatura dell’allora segretario Alessandro Natta mentre nudo danzava, come lo Spadolini di Forattini, al suono di una orchestra diretta da Craxi e Andreotti. L’episodio creò scompiglio ma rappresentava anche la fine di quel sottile culto della personalità che fino ad allora, almeno all’esterno del gruppo dirigente, aveva circondato l’immagine del segretario generale. Paolo Persichetti su L'Unità il 26 Maggio 2023

Lunedì 10 marzo 1986 l’Unità si presenta in edicola con una novità al suo interno: un inserto satirico di quattro pagine rosa. Era nato Tango, «settimanale di satira, umorismo e travolgenti passioni», diretto da Sergio Staino. Sarà subito un grande successo.

L’edizione del lunedì subisce un immediato incremento di vendite, oltre 30 mila copie di media in più con punte di 50 mila e 1300 nuovi abbonamenti solo per quella edizione. Un pubblico di lettori affezionati che acquistano il giornale solo per leggere il suo inserto e che Staino raffigurerà in una sua vignetta dove Bobo, il suo alter ego, mentre si accinge ad acquistare una copia di Tango si vede rispondere dall’edicolante che esce insieme all’Unità: «Pazienza», risponde sconsolato.

Il nuovo inserto consente all’Unità di stampare il quotidiano anche a Roma, oltre alla tradizionale tipografia di Milano, migliorando la sua diffusione in tutta Italia e in particolare nel Meridione, prima penalizzato. L’esperienza durerà circa due anni, nel 1988 dopo 127 numeri, chiuderà – sosterrà Staino in una intervista – per stanchezza dopo aver suscitato non poche polemiche. Prima esperienza di satira in un quotidiano organo stampa di un partito che si trovò all’improvviso proiettato dalle regole e dai modi inamidati del centralismo democratico in una sorta di seduta permanente di autocoscienza collettiva.

La satira sull’Unità c’era sempre stata fin dai memorabili corsivi di Fortebraccio, pseudonimo di Mario Melloni, con un passato nella Resistenza bianca, poi deputato democristiano espulso dal partito perché nel 1954 aveva votato contro l’adesione dell’Italia alla Unione europea occidentale, ritenuta una sorta di semaforo verde al riarmo della Germania. Dopo aver frequentato Franco Rodano, l’intellettuale ponte tra cattolicesimo e partito comunista che Togliatti utilizzò in tutti i modi per tentare di staccare dalla Dc – senza mai riuscirci – la sua componente popolare di sinistra, Melloni iniziò a collaborare a Paese sera per approdare all’Unità nel 1967, prendendo il nome di un capitano di ventura dell’Umbria medievale, Braccio da Montone detto Fortebraccio, scelto per lui da Maurizio Ferrara allora direttore del quotidiano del Pci. Per tutti i giorni, salvo il lunedì, fino al 1982, Fortebraccio uscì in prima pagina taglio basso con il suo corsivo, divenuto un appuntamento soprattutto per i suoi avversari al punto che non apparirvi voleva dire non esistere politicamente. Fu proprio ispirandosi a Fortebraccio che Bettino Craxi scelse il nome di Ghino di tacco per i suoi corsivi al vetriolo sull’Avanti, brigante vissuto nel tredicesimo secolo, rifugiatosi a Radicofani, una rocca situata sulla via Cassia tra la Repubblica di Siena e lo Stato pontificio.

L’ironia di Fortebraccio era misurata, elegante, soprattutto rivolta all’esterno, contro gli avversari, democristiani, gli industriali: aveva affibbiato a Gianni Agnelli il soprannome di «avvocato basetta». Quella di Tango invece si rivolgeva volentieri all’interno del partito, al suo gruppo dirigente seguendo la massima maoista di tirare contro il quartiere generale. Nella estate del 1986 vi fu uno degli episodi che fece più discutere: in una intervista Giorgio Forattini, vignettista leggendario di Repubblica, aveva sostenuto che Tango era solo uno strumento di propaganda a cui mancava il coraggio di mettere alla berlina i dirigenti del partito comunista, come lui faceva quotidianamente con Andreotti, Craxi e Spadolini, raffigurato come un maxiputto.

Staino rispose su Tango con una caricatura dell’allora segretario Alessandro Natta mentre nudo danzava, come lo Spadolini di Forattini, al suono di una orchestra diretta da Craxi e Andreotti. L’episodio creò scompiglio ma rappresentava anche la fine di quel sottile culto della personalità che fino allora, almeno all’esterno del gruppo dirigente, aveva circondato l’immagine del segretario generale, figura venerata e inattaccabile. Impensabile rappresentare – come aveva fatto Forattini – un Berlinguer imborghesito che in pantofole e grisaglia sorseggiava tè sulla sua poltrona mentre dalla strada giungeva l’eco lontana delle manifestazioni di piazza degli anni 70. E proprio Forattini rispose su Repubblica con un disegno di Natta che armato di un panetto di burro in mano inseguiva il povero Bobo, con la didascalia «Ultimo Tango a Parigi». Oggi si sarebbe parlato di body shaming e basta, il bromuro del politicamente corretto ha addormentato il pensiero.

Per Tango collaborarono nomi come Altan, Ellekappa, Vincino, Vauro, Andrea Pazienza, Dalmaviva, Roberto Perini, Disegni & Caviglia, Giuliano, Daniele Panebarco, Gino e Michele, Angese, Davide Riondino, Paolo Hendel, Stefano Benni, Piergiorgio Paterlini, Patrizia Carrano, Roberto Vecchioni, Lella Costa, Francesco Guccini, Francesco De Gregori, Patrizio Roversi, Susy Blady, Lorenzo Beccati, Renato Nicolini, Sergio Saviane, Michele Serra. Sembrava che un pezzo del Male, la più alta, irripetuta e irriverente esperienza di satira politica indipendente degli anni 70 fosse incredibilmente approdata in uno di quei palazzi della politica presi di mira nel decennio precedente. Uno di quei palazzi che quando le vie della città ribollivano di giovani, donne e operai, invece di mischiarsi tra loro si richiudeva in difesa della fortezza, come nel deserto dei Tartari.

Alberto Menichelli, responsabile centrale della vigilanza del Pci, ha raccontato tempo fa in un libro di Luca Telese come loro difesero la sede del Pci: «Ogni sabato, ogni giorno in cui c’è una manifestazione, noi dovremo essere in grado di cordonare i cinque vertici della pianta di Botteghe Oscure, schierando per ogni vertice duecento persone. Formeranno un primo cerchio intorno ai compagni della vigilanza che restano nel palazzo a presidio, dunque almeno mille persone: un muro protettivo […] Dal 17 marzo [1977] in poi, ogni volta che ci sarà mobilitazione di piazza noi faremo in modo che i compagni siano già dentro». Paolo Persichetti 26 Maggio 2023

Valerio Fioravanti, il terrorista nero, firma sull'Unità: è polemica. I familiari delle vittime: inaccettabile. Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023

Il direttore dello storico quotidiano appena tornato in edicola: «I suoi articoli  nella pagina  appaltata a  'Nessuno tocchi Caino'. Ma gli chiederò di scrivere ancora per un milione di ragioni» 

«Mi dicono che sui social sia scoppiata una polemica per il fatto che l’Unità ospita articoli di Valerio Fioravanti...». É l’incipit dell’editoriale di domani che ha appena finito di scrivere Piero Sansonetti, il direttore de l’Unità, lo storico quotidiano fondato nel 1924 da Antonio Gramsci, da pochissimo tornato nelle edicole. 

Ma altro che polemica, è scoppiato un putiferio lunedì scorso, 29 maggio, che era anche il giorno del 72° compleanno di Sansonetti. É uscito infatti quest’articolo: «Democrazia VS Guantanamo, uno a zero: il carcere super-duro non ha funzionato», firmato da Valerio Fioravanti. Non un omonimo, ma proprio lui, Giusva il Tenente, il terrorista nero dei Nar, i Nuclei Armati Rivoluzionari, oggi sessantacinquenne e uomo libero grazie ai benefici della legge Gozzini, nonostante le decine di condanne ricevute: in tutto otto ergastoli, 134 anni e 8 mesi di carcere per 95 omicidi di cui è stato giudicato colpevole in via definitiva, tra cui gli 85 morti della stazione di Bologna (2 agosto 1980), la strage che Fioravanti - a differenza degli altri delitti - ha sempre negato di aver compiuto. 

Su Twitter si è scatenata la tempesta: «Gramsci dovrebbe scoperchiare la tomba e venirvi a cercare uno per uno», scrive Daniele. E ancora, Gennaro: «Io mi auguro che l’Unità di Sansonetti fallisca domattina». «Ma cosa può mai spingere ad acquistare una gloriosa e simbolica testata per poi farne scempio?», domanda Furio. «Un insulto alla storia della sinistra italiana», twitta Andrea.

 «Autore materiale», commenta Mario Luca unendo il tutto, definendo così il terrorista nero che ora scrive sui giornali ma ha lasciato dietro di sè una lunghissima scia di sangue: Roberto Scialabba e Maurizio Arnesano, Enea Codotto e Luigi Maronese, l’appuntato di polizia Francesco Evangelista (detto Serpico) e il giovane Antonio Leandri ucciso per errore. La fidanzata di Antonio, Fiorella Sanfilippo, giusto pochi giorni fa ha esternato a Walter Veltroni sul Corriere della Sera tutta la sua amarezza: «Non hanno mai chiesto scusa». 

Perchè in questo coro d’indignazione non ci sono soltanto le voci dei lettori affezionati a l’Unità. «Noi siamo schifati», ha dichiarato al ilfattoquotidiano.it Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di Bologna. Durissimo anche Federico Sinicato, avvocato dei familiari delle vittime della strage di piazza Fontana a Milano e piazza della Loggia a Brescia: «Tutti i detenuti e i condannati hanno diritto ad avere una progettualità di vita, secondo i principi costituzionali. Tuttavia questo non significa che tutti possano fare tutto. Ci sono anche la dignità e i diritti delle vittime che vanno difese. Offrire spazi mediatici a una persona che si è macchiata del reato di strage non è accettabile». 

Ed ecco allora che torniamo al direttore Sansonetti e al suo editoriale: «Prima di tutto vi dico che Fioravanti ha scritto in queste settimane sulla pagina che abbiamo appaltato a “Nessuno Tocchi Caino”. Posso dirvi che sono molto, molto orgoglioso di ospitare sull’Unità il lavoro di “Nessuno Tocchi Caino” così come fino a un paio di mesi fa l’ho ospitato - con molti articoli di Fioravanti - sul Riformista. Poi vi dico che nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, se si presenterà l’occasione, chiederò a Fioravanti di scrivere anche sull’Unità. Perché? Per un milione di ragioni. Vi dico le più semplici. Perché Fioravanti è Caino. Perché Fioravanti è una persona. Perché Fioravanti è un essere umano...». 

Insomma, Fioravanti - spiega Sansonetti - lunedì scorso ha scritto sulla pagina gestita direttamente dalla storica ong che si occupa da anni dei diritti dei detenuti, guidata da Sergio D’Elia (ex Prima Linea), presso cui Fioravanti lavora come dipendente fin dal 1999, quando ottenne la semilibertà dopo 18 anni di carcere. Eppure lo stesso l’aver trovato un suo articolo sul giornale fondato da Antonio Gramsci, che fu arrestato e incarcerato dal regime fascista nel 1926, ha scosso le coscienze di molti: «Fioravanti ha scontato la sua pena e ha diritto di rifarsi una vita ma mi fa schifo che scriva sull’Unità», il tweet di Melania. 

Così, il direttore (che nel frattempo ha lasciato il Riformista a Matteo Renzi) per difendersi dagli attacchi cita degli episodi: «1981, mese di luglio, nel carcere di Rebibbia un gruppo di detenuti dà vita a uno spettacolo teatrale. L’Antigone. Tra i protagonisti Salvatore Buzzi, che è lì dentro per avere ucciso con 43 coltellate un collega. Tra gli spettatori ci sono Pietro Ingrao, Stefano Rodotà, don Di Liegro (che ha organizzato lo spettacolo) Oscar Luigi Scalfaro... Ingrao andò lì, e strinse la mano a Buzzi. Con grande naturalezza».

E infine, a proposito dell’Unità, rivela: «Ero condirettore del giornale, nei primi anni novanta, e il direttore era Walter Veltroni. Beh, fu proprio Walter a decidere di pubblicare un articolo di Valerio Fioravanti e di Francesca Mambro sulla prima pagina». Perciò, conclude Sansonetti: «Possibile che ci siano larghi settori di sinistra che oggi, nel 2023, siano così arretrati, in termini di civiltà, rispetto ai dirigenti del Pci degli anni ottanta e novanta? Possibile che dobbiamo pensare a Ingrao o a Veltroni come “marziani”, come personaggi del futuro remoto?». Ma la polemica, quasi sicuramente, continuerà.

Fioravanti continuerà a scrivere per l’Unità, anche se c’è chi vuole mettergli il bavaglio. Fioravanti è una persona, è un essere umano, è sapiente. Perché esercitare una censura nei suoi confronti? Piero Sansonetti su L'Unità il 31 Maggio 2023

Mi dicono che sui social sia scoppiata una polemica per il fatto che l’Unità ospita articoli di Valerio Fioravanti. Non l’ho seguita bene perché non sono molto attivo sui social. Tanto più ora che per motivi misteriosi Twitter mi ha espulso. Però ho capito la sostanza della contestazione: Valerio Fioravanti è stato un terrorista fascista. Non solo un terrorista e non solo un fascista. Le due cose insieme, e questa sarebbe la cosa insopportabile.

Terrorista e fascista sono le due parole proibite. Sono l’espressione del male, dell’infamia, dell’abominio. Nel conformismo dilagante è così. E la cosa straordinaria è che oggi questo conformismo è molto più diffuso di quanto non lo fosse negli anni di fuoco, negli Ottanta, nei Novanta, quando la violenza dominava la politica e il paese. Allora mi limito a poche osservazioni. Prima di tutto vi dico che Fioravanti ha scritto in queste settimane sulla pagina che abbiamo appaltato a “Nessuno Tocchi Caino”. Sapete chi è Caino? Beh, questo ve lo spiego un’altra volta. Posso dirvi che sono molto, molto orgoglioso di ospitare sull’Unità il lavoro di Nessuno Tocchi Caino così come fino a un paio di mesi fa l’ho ospitato – con molti articoli di Fioravanti – sul Riformista.

Poi vi dico che nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, se si presenterà l’occasione, chiederò a Fioravanti di scrivere anche sull’Unità. Perché? Per un milione di ragioni. Vi dico le più semplici. Perché Fioravanti è Caino. Perché Fioravanti è una persona. Perché Fioravanti è un essere umano. Perché Fioravanti ha una biografia. Perché Fioravanti è sapiente. Perché non trovo non dico una ragione, ma nemmeno un centesimo di millesimo di ragione per immaginare di dovere esercitare una censura nei confronti di Fioravanti. E infine perché ho sempre apprezzato quel brano della Bibbia che ci racconta di quando Dio si schierò a protezione di Caino.

Infine vorrei citare alcuni episodi. 1981, mese di luglio, nel carcere di Rebibbia un gruppo di detenuti dà vita a uno spettacolo teatrale. L’Antigone. Tra i protagonisti Salvatore Buzzi, che è lì dentro per avere ucciso con 34 coltellate un collega. Tra gli spettatori ci sono Pietro Ingrao, Stefano Rodotà, don Di Liegro (che ha organizzato lo spettacolo) Oscar Luigi Scalfaro. Eravamo in quella fase della nostra vita nella quale ovunque si sparava. C’erano più di 2000 omicidi all’anno (oggi sono meno di 300), impazzava la lotta armata e la mafia uccideva quasi tutti i giorni. Ingrao andò lì, e strinse la mano a Buzzi. Con grande naturalezza.

C’è un altro episodio, raccontato giorni fa sul Dubbio dal mio amico Damiano Aliprandi. È una lettera scritta da Tina Anselmi – partigiana, combattente, politica incorruttibile – al ministro Silvio Gava, suo compagno di partito, a favore di Giovanni Ventura. Il quale era accusato, insieme a Franco Freda, di avere eseguito l’attentato che provocò la strage di Piazza Fontana. Ma vi voglio anche raccontare di Fioravanti e di Francesca Mambro e l’Unità. Ero condirettore del giornale, nei primi anni Novanta, e il direttore era Walter Veltroni. Beh, fu proprio Walter a decidere di pubblicare un articolo di Valerio Fioravanti e di Francesca Mambro sulla prima pagina dell’Unità.

Tralascio, ovviamente, le cose che disse Marco Pannella di Fioravanti e della Mambro, perché sono più ovvie per chiunque abbia conosciuto o solo sentito parlare di Pannella e della sua cristallinità leggendaria. Ora io faccio solo due osservazioni, in forma di domande. La prima è questa: possibile che ci siano larghi settori di sinistra che oggi, nel 2023, siano così arretrati, in termini di civiltà, rispetto ai dirigenti del Pci degli anni Ottanta e Novanta? Possibile che dobbiamo pensare a Ingrao o a Veltroni come “marziani”, come personaggi del futuro remoto?

La seconda domanda parte da una constatazione. Il patrimonio di conoscenza di Valerio sul sistema della giustizia e sul sistema carcerario americano è altissima. Lui è una fonte straordinaria di conoscenze. E secondo voi sarebbe un gesto intelligente – o magari qualcuno pensa che sarebbe un gesto antifascista – cancellare queste conoscenze per mettere la mordacchia a Fioravanti? Sulla base di che cosa? Di un’idea di etica? Vi prego: spiegatemi su cosa si basa questa etica. Piero Sansonetti

Il caso Fioravanti. Così Pannella accolse Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. Chi giudica chi? Questa straordinaria istanza della sospensione del giudizio, vive oggi su un giornale fondato, guarda caso, proprio da un carcerato. Sergio D'Elia su L'Unità il 3 Giugno 2023

Caro Piero, sono sempre più convinto che abbiamo fatto bene a seguirti anche sull’Unità. Perché su Fioravanti hai scritto, che meglio non si poteva, cosa vuol dire il nostro “Nessuno tocchi Caino”. Il tuo discorso su Valerio, “il Caino, l’uomo, il sapiente” marchiato dai “militanti del bene” col “fine pena mai”, è un saggio del pensiero – tu diresti – socialista, cristiano, liberale e – aggiungerei io – nonviolento del Diritto e della Giustizia.

Il tuo discorso su Valerio è un inchino grandioso al principio cristiano “non giudicare” da cui solo può originare il fine a cui dobbiamo tendere del disarmo unilaterale della violenza propria del diritto e della giustizia penali. La giustizia che brandisce una spada, in nome di un popolo in animo di lanciare pietre, nella prospettiva penitenziaria della privazione non solo della libertà ma di tutto: della salute, della dignità, della vita…

Ecco, tutto ciò, in un momento, sarebbe dissuaso dalla semplice domanda: chi giudica chi? Questa straordinaria istanza della sospensione del giudizio, mai pensata, poco sentita e per nulla praticata dai primi agli ultimi sedicenti seguaci di Cristo, vive oggi – grazie a te – su un giornale fondato, guarda caso, proprio da un carcerato. Non poteva che essere così. E ai patiti della pena, ai cultori delle manette, delle sbarre e dei chiavistelli suggerirei un breve momento di “rieducazione”, la pratica di un giorno in quella straordinaria opera di misericordia corporale che è “visitare i carcerati”.

Opera che continuiamo a incarnare nel nostro “viaggio della speranza” che da gennaio ha fatto tappa già in sessanta istituti di pena. A proposito, caro Piero, lancio qui una proposta. A settembre, nell’anniversario della morte di Mariateresa Di Lascia, la fondatrice di Nessuno tocchi Caino, facciamo insieme una visita a Turi ed entriamo nella cella dove è stato carcerato Antonio Gramsci, il fondatore de l’Unità.

Nell’andare a Turi, magari, facciamo tappa a Nola, dove è nato Giordano Bruno, per onorare l’eretico e l’eresia di un pensiero letteralmente “religioso”, cioè volto all’armonia, al dialogo, all’unione di cose e storie diverse. Perché così funziona l’universo, su questo si regge il mondo: sulla legge e l’ordine, sull’amore e la nonviolenza. Questo vale anche per noi, credo, nel nostro piccolo mondo associativo, politico, editoriale.

Scusami, se nel parlare di te e del tuo amico Valerio parlerò un po’ anche di me. Forse, sarà più accettabile, essendo la mia storia di matrice “politicamente corretta” in quanto opposta a quella di Valerio. Anche se in realtà è la stessa storia, perché il destino tragico della violenza che uccide con il prossimo anche se stessi e la maledizione senza scampo dei mezzi che prefigurano e pregiudicano i fini, sono gli stessi. Allora, mi ricordo che quando, mezzo secolo fa, la mia prima vita fu bruscamente interrotta dall’arresto ed è iniziato il mio ininterrotto – per una dozzina d’anni – peregrinare nelle patrie galere, all’ingresso di una di esse molto speciale c’era una scritta: “qui entra l’uomo, il reato resta fuori”.

Anni dopo, un grande capo del Dap, Nicolò Amato, concepì una visione diversa del carcere che definì il “carcere della speranza”. Grazie a lui uscii dal “carcere duro” e l’anno dopo entrai nel Partito Radicale. Con un permesso premio andai al Congresso per consegnare al partito della nonviolenza la mia prima vita violenta. Marco Pannella l’accolse, tutta, la mia vita, non la fece a pezzi come un quarto di bue sul bancone di macelleria: da una parte quella buona, nonviolenta, dall’altra quella cattiva, violenta. “Violenti e nonviolenti sono fratelli”, diceva Marco. Nemici sono i rassegnati, gli indifferenti. La differenza, aggiungeva, è che i violenti sono rivoluzionari per odio, i nonviolenti lo sono per amore.

È qui, nel nome, nella visione e nel metodo di Pannella, che la mia vita si intreccia con quella di Valerio (e di Francesca). Per contrappasso Marco affidò a me la missione contro la pena di morte nel mondo, l’omicidio politico, l’errore capitale dello Stato che nel nome di Abele diventa esso stesso Caino. Per amore della semplice verità che l’uomo della pena può essere diverso da quello del delitto, Marco accolse anche Valerio Fioravanti di cui pensava e ripeteva spesso: “Se avessi dei figli non esiterei un attimo ad affidargliene la cura e l’educazione”.

Così, quando Francesca e Valerio sono usciti da Rebibbia, ad attenderli c’erano i senza potere, gli inermi, i radicali nonviolenti, pannelliani di Nessuno tocchi Caino. Convinti della loro diversità dai tempi del delitto e anche della loro estraneità al più orribile dei delitti. Credenti nella supremazia dei valori costituzionali e universali della persona sui sentimenti popolari di vendetta. Osservanti il diritto-dovere di accoglienza degli ultimi tra gli ultimi: i carcerati.

È qui che la storia di Nessuno tocchi Caino si intreccia con quella de l’Unità. A Nessuno tocchi Caino può iscriversi chiunque, su l’Unità può scrivere chiunque, anche Valerio Fioravanti. Sono luoghi dove entra l’uomo e il reato resta fuori, dove è possibile essere sé stessi, cioè identificarsi col diverso, difendere l’opposto.

Sergio D'Elia 3 Giugno 2023

Censura e intolleranza. Le battaglie per Valerio Fioravanti di Rossanda, Pintor e Parlato. Denunciammo la vergogna del processo 7 aprile (contro l’Autonomia operaia) come la farsa delle indagini sulla strage di Bologna. Quanti insulti! Tiziana Maiolo su L'Unità il 3 Giugno 2023

Spero mi scuseranno i miei amici Francesca Mambro e Valerio Fioravanti se non riesco più a seguire i mille processi sulla strage di Bologna che attraversano e riempiono, loro malgrado, la vita della loro famiglia, passato e presente. Sì, ho scritto “amici”. Ma avrei potuto usare il termine di “compagni”, essendo noi parte di una stessa comunità, quella dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino”, di cui sono stata uno dei fondatori e sono tuttora dirigente.

Per l’abolizione della pena di morte nel mondo, il nostro punto di partenza. Che tradotto in italiano vuol dire tante cose, abolizione dell’ergastolo e anche del carcere. E dell’intolleranza. Quella di sinistra e di destra, ma ho conosciuto di più la prima. E, se non riesco più a seguire i processi che, dopo oltre quarant’anni paiono più il trastullarsi di pochi con il gioco dei “mandanti” che non una vera, ancorché ormai inutile, verità processuale, il motivo è proprio nella mia distanza dal mondo dell’intolleranza. Quella che ha colpito Piero Sansonetti per la pubblicazione di un articolo.

Non ho nessuna affezione particolare per la storia dell’Unità. Ricordo ancora, era il 28 aprile del 1971, quando uscì in edicola il primo numero del Manifesto, il quotidiano “cugino” pubblicò un corsivo offensivo dal titolo “Ma chi li paga?”. La mia storia, più vicina a quella della sinistra detta “extraparlamentare”, non è quella di Piero Sansonetti. Nel presente, siamo più vicini di quanto non sembri. Soprattutto su alcuni presupposti che hanno visto rinascere l’Unità, il garantismo e la tolleranza, prima di tutto. Non potrei scrivere su questo quotidiano, se le porte non fossero aperte anche per Valerio Fioravanti, così come per Sergio D’Elia, con la sua storia opposta e speculare del terrorismo di sinistra.

Non potrei, se in questo collettivo non fossimo tutti insieme pronti a difendere i diritti dell’avvocato Giancarlo Pittelli, processato per concorso mafioso, così come quelli di Matteo Renzi per Open a Firenze e nella stessa città per Berlusconi e Dell’Utri indagati come mandanti di bombe. Il Manifesto di Rossanda Pintor e Parlato ha condotto una vera campagna di stampa in favore dei diritti di Mambro e Fioravanti. Con la stessa passione con cui ci siamo impegnati contro il processo “7 aprile” che aveva coinvolto non solo i “compagni che sbagliano”, ma anche quelli che forse sbagliavano sul piano politico, dal nostro punto di vista, ma non su quello penale.

Ma per quello, nessuno dell’Unità o del Pci si è mai permesso di insultarci. È successo invece proprio per la strage di Bologna. Perché lì c’è molto di più di una ferita aperta. Lì è nato, all’ombra della federazione del partito comunista che di sera si riuniva con alcuni pubblici ministeri, un vero partito. Il partito dell’intolleranza, quello che ogni 2 agosto, nel ricordo tragico di quegli 85 morti e di quei 200 feriti del 1980, si esibisce nei fischi agli esponenti del governo, tranne quando siano considerati “amici”. Mi domando con quale diritto quei pochi ritengano di interpretare i desiderata politici degli 85 morti. Si sono costruite carriere, su quei morti. E anche su quei fischi.

I giovani cronisti del Manifesto, tra loro c’erano molti emiliani (come me, che sono nata a Parma) e bolognesi, erano andati subito sul luogo della strage, non solo a fare il loro mestiere di giornalisti, ma a lavorare a mani nude insieme ai tanti volontari che si erano stretti nella loro comunità. Più di adesso, ovviamente, perché lì non c’era nulla di naturale, in quella calamità. Pure, quando il 19 luglio del 1990, a dieci anni dalla strage, una corte d’assise d’appello aveva assolto Francesca Mambro e Valerio Fioravanti e il Manifesto diretto da Valentino Parlato aveva titolato “Lo scandalo di una sentenza giusta”, da Bologna erano partiti gli insulti.

Intanto l’Unità diretta da Massimo D’Alema aveva pubblicato una prima pagina bianca in segno di protesta. E poi, noi del Manifesto ci siamo beccati i simpatici attributi di fascisti e “oggettivamente” mandanti di stragi da parte della federazione bolognese del Pci. Pubblicammo le loro amichevoli osservazioni e poco ci mancò, visto i loro rapporti simbiotici con alcuni pm, che non ci facessero processare come “mandanti”. Magari insieme a Licio Gelli e l’intero gruppo di deceduti di recente condannati. Ridicolmente, secondo il mio parere. E chissà se al Manifesto la pensano ancora così. Lo spero. Anche perché, se tutti nel frattempo, non solo Mambro e Fioravanti, ma tutti noi, siamo cambiati, non possiamo esserlo che in meglio. E aprire le porte a questo cambiamento.

L’altro ricordo che mi vincola, pur se non vorrei, a tutta questa vicenda della strage e anche al partito dell’intolleranza, risale al 2015. Allora collaboravo a un rimpianto quotidiano che si chiamava Il Garantista ed era diretto da Piero Sansonetti. Avevo scritto un articolo che pareva seguire il filo di continuità rispetto alla campagna del Manifesto. Pur da distanza politica. Ma era accaduto che, dopo 26 anni (26!) di carcere Francesca Mambro e Valerio Fioravanti avevano ottenuto la libertà condizionale.

Provvedimento legittimo e doveroso, avevano trascorso la giovinezza in carcere, avevano pagato per quel che avevano fatto e anche per quello, la strage, su cui si sono sempre dichiarati estranei. Indovinate? Era insorto Paolo Bolognesi, il successore di Torquato Secci al vertice dell’Associazione bolognese che io chiamo partito degli intolleranti. Era diventato deputato proprio per quei meriti e aveva subito presentato un’interrogazione al governo, che era stata rintuzzata nella risposta dal sottosegretario Cosimo Ferri. Ora la storia si ripete, addirittura per un articolo sull’Unità. Mambro e Fioravanti, e tanti altri, sono cambiati. Voi no. Peccato.

Tiziana Maiolo 3 Giugno 2023

La polemica su Fioravanti. Quei giovanotti del Manifesto che non conoscono Rossanda, Pintor e Parlato…Massimo Franchi e Andrea Carugati hanno polemizzato sui social con l’Unità perché pubblica “Nessuno Tocchi Caino” e articoli di Valerio Fioravanti. Piero Sansonetti su L'Unità il 6 Giugno 2023 

Mi dicono che due giovani giornalisti del Manifesto (Massimo Franchi e Andrea Carugati) hanno polemizzato sui social con l’Unità perché pubblica “Nessuno Tocchi Caino” e articoli di Valerio Fioravanti. Credo di avere già risposto in modo esauriente, sulla questione, nei giorni scorsi e avere spiegato che per me esistono le persone, che sono tutti eguali, e non ho mai fatto distinzioni tra incensurati, imputati e condannati.

Siccome però questi ragazzi denunciano l’incoerenza di chi collabora all’Unità (alla quale collabora anche Fioravanti), vorrei fornire loro una informazione che sicuramente non hanno. Il manifesto, per il quale loro ora lavorano, è stato fondato da Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Valentino Parlato. I quali oltre ad essere assolutamente garantisti, guidarono negli anni Ottanta una campagna a favore di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Qualora i due giornalisti non conoscano i nomi di Rossana, Valentino e Luigi possono chiamarmi al telefono, oppure consultare Wikipedia. Piero Sansonetti 6 Giugno 2023

A ciascuno il suo Giusva. La politica della malafede e il bando rosso degli ex terroristi neri (e viceversa). Carmelo Palma su Linkiesta il 7 Giugno 2023

A fasi alterne, destra e sinistra mostrano una intransigenza a geometria variabile verso il coinvolgimento di criminali che hanno scontato la loro pena. Forse è un modo per negare o a rimuovere la compromissione del proprio campo politico con la violenza negli anni '70

Quando Adriano Sofri nel 2015 venne invitato a una riunione degli stati generali dell’esecuzione penale, Maurizio Gasparri accusò Andrea Orlando di avere nominato un assassino consulente ministeriale. Alcuni anni prima, lo stesso Gasparri aveva accusato il governo Prodi di «riciclare i terroristi» per avere inserito Susanna Ronconi, con un passato in Prima Linea e un presente e futuro da dirigente del Gruppo Abele e di Forum Droghe, in una consulta di operatori sulle tossicodipendenze del ministero degli Affari Sociali. Nello stesso periodo altri parlamentari della destra presentavano allarmatissime interrogazioni in cui, enumerando incarichi e affidamenti, gratuiti e retribuiti, a ex terroristi rossi, intimavano al Governo di assumere «iniziative, anche normative… per evitare che a terroristi ed a condannati per gravissimi reati vengano affidati, in futuro, incarichi presso ministeri ed enti locali».

A parti inverse, la cronaca politica antica e recente ha proposto casi identici e semplicemente rovesciati, in cui a denunciare la vergogna della nobilitazione pubblica degli avanzi dell’eversione fascista e a trarre conclusioni circa la mancata recisione del cordone ombelicale con il Ventennio sono stati politici di sinistra: a volte i medesimi politici che da destra erano indiziati di inconfessata intelligenza con la sinistra post-brigatista.

Il caso più grottesco – riguardando una persona che ha fama, evidentemente immeritata, di misura e di cultura giuridica non propriamente gasparriana – è quello di Andrea Orlando, che, forte dell’appello di molti familiari di vittime dell’eversione di destra, ha denunciato «con sgomento» il tradimento di Falcone per l’elezione alla presidenza della Commissione Antimafia di Chiara Colosimo, macchiata da una antica collaborazione con una associazione di ex detenuti guidata dall’ex Nar Luigi Ciavardini.

Sulla stessa linea il PD della Capitale aveva lanciato una petizione su Chance.org per la rimozione di Marcello De Angelis, ex militante di Terza Posizione, da responsabile della comunicazione istituzionale della Regione Lazio, in ragione di una condanna per associazione sovversiva finita di scontare oltre trent’anni fa. 

A corredo di questo prevedibilissimo rimpiattino politico tra destra e sinistra sugli scheletri eversivi stipati negli armadi della parte avversa c’è poi sempre, puntualissimo, quello della pubblicistica di area, che in queste occasioni eccelle per puntiglio conformistico e per fedeltà (anche a destra) trinariciute.

In questo caso è perfino inutile fare nomi, perché comprende quasi tutte le firme che contano dell’informazione (con rispetto parlando) di destra e di sinistra. Il “quasi” è rappresentato da quanti non si schierano, ma in genere non si dissociano da questo gioco, che non è bello, e quindi non dura poco, ma sembra destinato a trascinarsi in eterno o almeno fino a quando – per consunzione logica degli argomenti o per estinzione anagrafica delle memorie personali – le retoriche contrapposte di destra e sinistra continueranno a radicarsi nella tossica etnicità degli scontri di piazza degli anni ’70.

Ovviamente il non plus ultra della cattiva coscienza sulla violenza degli altri è stato raggiunto sul caso più scandaloso, quello di Valerio Fioravanti, accusato di lordare con il suo nero passato le pagine del giornale fondato da Antonio Gramsci, su cui però, come ha ricordato Piero Sansonetti, Fioravanti aveva già scritto parecchi anni fa, quando a dirigere l’Unità era Valter Veltroni. A quanto pare – aggiungo io – la benevola accoglienza riservata al condannato per la strage di Bologna serviva allora a esibire la superiorità morale della sinistra, mentre oggi la repulsione per i suoi articoli serve a ribadire il concetto della minorità morale della destra, nel momento in cui proprio quella post-fascista è diventata maggioranza politica.

La cosa storicamente più interessante in questo festival della malafede non è registrare la sostanziale identità dell’atteggiamento della destra e della sinistra. È comprendere quanto questa intransigenza a geometria variabile serva a negare o a rimuovere la compromissione del proprio campo con il culto della violenza necessaria, da cui da entrambe le parti è stata nutrita la reciproca ostilità e di cui, sia a destra che a sinistra, le deviazioni eversivo-terroristiche sono state manifestazioni non programmate e anche violentemente avversate (la politica della fermezza imposta dal Partito comunista italiano, la pena di morte per i terroristi richiesta dal Movimento sociale italiano), ma tutt’altro che estranee ai rispettivi album di famiglia. La violenza fascista come alibi di quella comunista, e viceversa.

L’avevano capito e scandalosamente dichiarato nel pieno degli anni di piombo i radicali, che prima denunciarono nelle leggi d’eccezione anti-terroriste un modo per esorcizzare il fantasma imbarazzante di questa parentela e in seguito furono, per usare un gergo gasparriano, dei formidabili “riciclatori” di ex terroristi, come dimostra l’esperienza di Nessuno Tocchi Caino, nata esattamente trent’anni fa: prima affidata deliberatamente da Marco Pannella alle cure di un ex terrorista di Prima Linea, Sergio D’Elia – che sarebbe poi sbarcato anche in Parlamento con la Rosa nel Pugno, attaccato da destra e difeso, ca va sans dire, da sinistra – e quindi integrata con le figure di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, a cui la stessa sinistra che difendeva il diritto di D’Elia di sedere in Parlamento non riconosce oggi il diritto di scrivere su l’Unità.

Dopo la polemica. Chi è Caino, il primo assassino della storia. Chi pensa che tacitare Caino sarebbe un virile gesto antifascista, ha capito davvero poco della logica inclusiva della nostra Costituzione. Andrea Pugiotto su L'Unità il 24 Giugno 2023 

1. Sembra sopita la polemica esplosa all’indomani della pubblicazione su l’Unità di un articolo a firma di Valerio Fioravanti, peraltro dal contenuto «civilissimo» (Stefano Cappellini, La Repubblica, 3 giugno). Ma è come brace sotto la cenere: il putiferio riprenderà alla prossima occasione, trainato da pagine social usate come le pareti di un vespasiano. Il direttore Sansonetti, nella sua replica, ha lasciato appeso il quesito di fondo: «Sapete chi è Caino? Beh, questo ve lo spiego un’altra volta» (l’Unità, 1 giugno). Si parva licet, raccolgo la pertinente provocazione rispondendo a mio modo.

2. Caino è, innanzitutto, un personaggio biblico (Genesi, 4, 1-16). Fratricida per motivi abietti, subisce per questo una triplice condanna: la lontananza da Dio, la fatica infruttuosa del lavoro della terra, la condizione di esule ramingo. Al tempo stesso, è posto al riparo dalla vendetta altrui: «Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato». Dunque, dopo l’omicidio di Abele, Dio pone Caino davanti alle sue responsabilità, sanzionandole severamente, e lo rende riconoscibile, non per farne un bersaglio bensì per tutelarlo. Giuridicamente, è un rebus denso di significati: quali?

Primogenito di Adamo ed Eva, Caino è il primo nato tra gli uomini: dunque, «la violenza dell’uomo appare come originaria» (Massimo Recalcati, Il gesto di Caino, Einaudi 2020); riguarda potenzialmente tutti, perché «io vivo adesso dentro ogni umano, e lo strattono/fino all’insolenza, fino al delitto/a volte» (Mariangela Gualtieri, Caino, Einaudi 2011). È il primo insegnamento. Ecco il secondo: il peccato originale commesso nell’Eden dai suoi genitori perde, con Caino, la dimensione privata per trasformarsi in violenza sociale: due fratelli, «uno non sopporta l’altro; ed ecco che l’odio si scatena, e subito la terra è irrigata di sangue» (Gianfranco Ravasi).

Proprio perché fatto sociale, l’atto criminale per quanto efferato merita giustizia, non vendetta: da questa Caino va protetto, senza che ciò ne giustifichi l’azione. È il terzo insegnamento: in uno Stato di diritto, il monopolio pubblico nell’esecuzione penale serve proprio per emanciparla da forme di giustizia fai-da-te e dalla logica del taglione, perché l’occhio per occhio rende tutti ciechi. A fondamento di tutto c’è la distinzione tra errore ed errante: Caino è colpevole, ma non si risolve integralmente nella sua colpa. Teologicamente si direbbe: distinguere tra l’esistenza e l’essenza dell’uomo. Giuridicamente noi diciamo: distinguere tra il reato e il reo, nel nome di una dignità umana che, «come non si acquista per meriti, così non si perde per demeriti» (Gaetano Silvestri).

3. Caino, però, è anche un personaggio letterario, protagonista dell’omonimo romanzo di José Saramago (Feltrinelli 2010). Lo scrittore portoghese ne fa un viaggiatore nello spazio e nel tempo che attraversa tutti gli episodi più significativi dell’Antico Testamento: dalla cacciata dall’Eden fino alle vicende dell’arca di Noè (con finale a sorpresa, rispetto al racconto biblico). Attraverso questo Caino errabondo, a cavallo di una mula come un Don Chisciotte ante litteram, scopriamo le spropositate pretese del Dio della Bibbia e i suoi smisurati castighi.

L’allegoria letteraria capovolge l’immagine di Caino quale personificazione del male. È invece il suo dio a rivelarsi più crudele di lui e di tutti i peccatori. Disossato dall’ateismo professato da Saramago, e declinato in chiave giuridica, lo stupore misto allo sdegno del suo Caino davanti a un potere ingiusto e vendicativo disegna – per antitesi – i tratti essenziali di una pena costituzionalmente orientata. Ci dice innanzitutto che il diritto penale, per conservare la sua umanità (imposta dalla prima parte dell’art. 27, comma 3, Cost.), deve essere diverso dal suo oggetto, spezzando la ritorsiva logica per equivalente della pena. Non a caso, il sintagma «Nessuno tocchi Caino» evoca la battaglia radicale per l’abolizione universale delle pene massime: quella di morte e quella fino alla morte (l’ergastolo).

Lo sdegno del Caino letterario ci ricorda, inoltre, quanto sia essenziale la proporzionalità delle pene, se queste «devono tendere alla rieducazione del reo» (come prescrive la seconda parte dell’art. 27, comma 3, Cost.). La dismisura sanzionatoria del legislatore rovescia indebitamente i ruoli, inducendo Caino a percepirsi Abele perché vittima di una pena spropositata, quindi ingiusta.

4. Pur nella abissale distanza, il Caino biblico e il Caino letterario convergono su un punto. Entrambe le narrazioni fanno capire come il momento punitivo sia eminentemente collettivo perché, se ridotto entro il rapporto asimmetrico tra colpevole e offeso, rischia di degenerare nella vendetta di vittime rancorose (così nella Bibbia) o guidata dalla collera di un dio iracondo (così nel romanzo di Saramago).

Posso tentarne anche qui una traduzione giuridica. Il finalismo rieducativo della pena si proietta oltre il perimetro dello Stato-apparato per chiamare in causa lo Stato-comunità nel sostenere il percorso di risocializzazione del condannato. Infatti, l’orizzonte lungo e inclusivo dell’art. 27, comma 3, immette un’obbligazione costituzionale che grava, innanzitutto, sul reo chiamato a «intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità». Ma «non può non chiamare in causa – assieme – la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino» (Corte costituzionale, sent. n. 149/2018).

Tutto ciò si riassume nel «diritto alla speranza», di cui anche Caino è titolare. L’evocativa espressione non nasce dal pulpito, ma dalla Corte EDU (Vinter e altri c. Regno Unito, in tema di ergastolo). Ed è sempre la Corte di Strasburgo a riconosce che la dignità umana «impedisce di privare una persona della sua libertà, senza operare al tempo stesso per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di riguadagnare un giorno questa libertà» (Viola c. Italia n. 2). Detto altrimenti, il diritto alla speranza, quale diritto a ricominciare, è la misura della dignità di Caino: negare l’uno significa negare l’altra.

5. Come sottolinea Andrea Camilleri nel suo Autodifesa di Caino, (Sellerio 2019), il racconto biblico ha un epilogo ri-generativo: diventato padre, Caino «costruì una città alla quale diede il nome di suo figlio: Enoc» (Genesi, 4,17). Il primo assassino, al termine della sua vita tormentata, è il primo costruttore di città nella storia dell’umanità. È l’atteggiamento di Caino che si fa speranza contro ogni speranza, agendo affinché le cose cambino invece di sperare che cambino indipendentemente dal proprio agire: «Spes contra spem» (Lettera ai Romani, 4,18). Caino che – dopo tanto tempo e lungo patire – sostituisce alla violenza passata il ricorso agli strumenti nonviolenti dell’ordinamento democratico, e li usa nell’interesse generale, è il segno più tangibile che la scommessa costituzionale è stata vinta. Da tutti.

6. Quanto a lungo dovrà errare Caino, con un fratricidio che pesa sulle spalle, prima di fare reingresso nella vita della città? Durerà il tempo della pena stabilita dalla legge generale e astratta, applicata in concreto dal giudice: oggi, per i reati ostativi più gravi, 30 anni di detenzione+10 di libertà vigilata (troppo pochi?). Dopo, per lo Stato Caino recupererà il pieno esercizio dei diritti di cittadinanza: anche quello di manifestare liberamente il proprio pensiero, che la Costituzione riconosce a «tutti» (art. 21, comma 1).

Chi vede in ciò un intollerabile oltraggio, invoca una pena aggiuntiva priva di base legale. Equivoca il segno imposto su Caino, scambiandolo per un’arroventata lettera scarlatta. Rimpiange l’ostracismo dell’antica Atene. Vuole, senza dirlo, che per lui la pena sia spietata e perenne. Quanto a chi pensa che tacitare Caino sarebbe un virile gesto antifascista, ha capito davvero poco della logica inclusiva della nostra Costituzione.

Andrea Pugiotto 24 Giugno 2023

Facebook il 30 maggio 2023. Angela Azzaro: SONO STATA LICENZIATA E CACCIATA DALL'UNITA', IL GIORNALE FONDATO DA ANTONIO GRAMSCI

Venerdì tardo pomeriggio sono stata chiamata dal responsabile Risorse umane della Romeo edizioni e sono stata prima licenziata e poi cacciata in malo modo dalla redazione, senza neanche avere il tempo di parlare con il direttore Sansonetti che in quel momento era fuori e senza avere neanche il tempo di fare mente locale per capire quali effetti personali portare via.

Che cosa è successo?

Dopo l’acquisizione della testata del giornale fondato da Antonio Gramsci mi è stata offerta dal direttore e dall’editore la direzione dell’Unità on line. Nella prima riunione fatta con Sansonetti e con l’editore, ho chiesto conto delle risorse con cui affrontare la nuova sfida. Quanti giornalisti? Quale budget? La riunione si è chiusa bruscamente e nel giro di due giorni mi è stato comunicato che non sarei stata più direttrice dell’on line. Il direttore in quell’occasione mi ha ribadito che sarei rimasta con lui alla vicedirezione dell’Unità. Conferma arrivata sempre da parte del direttore anche qualche giorno prima dell’uscita.

Il giovedì prima del debutto nuovo capovolgimento: mi si comunica che sull’Unità non sarebbe stato indicato neanche l’incarico di vicedirettrice.

Dopo altre due settimane, cioè venerdì, mi è stata consegnata la lettera di licenziamento “per giustificato motivo oggettivo” legato - scrivono - agli investimenti sostenuti per l’acquisizione dell’Unità e alle perdite legate al Riformista nel 2022.

“In tale contesto – si legge – abbiamo deliberato la soppressione della sua posizione lavorativa in quanto ritenuta SUPERFLUA E NON STRETTAMENTE NECESSARIA”.

Ci sarebbe quasi da ridere. Perché tutte e tutti sanno il mio impegno in questi quattro anni al Riformista. La mia dedizione, il mio contributo all’ideazione, alla scrittura, alla realizzazione del giornale. La mia storia professionale e politica per il resto parla da sola.

Ma non c’è nulla da ridere perché definire una giornalista, una lavoratrice, “superflua” e “inessenziale” è esattamente la logica che L’Unità – che anche oggi si autoproclama giornale dei diritti - dovrebbe duramente contrastare. Invece…

Invece venerdì sono stata cacciata dalla redazione. Come se fossi una ladra, come se vivessimo in un mondo senza diritti, in cui la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori può essere calpestata senza nessuna remora.

Garantisti con tutti, fuorché con le lavoratrici e con i lavoratori.

Capurso, operaio muore folgorato: era impegnato in lavori edili. Si indaga: disposta l'autopsia. Sequestrata la cabina elettrica

 

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” il 17 maggio 2023. 

Se la buona convivenza si vede dal mattino, quella tra il Riformista e l’Unità, gemelli diversi ospitati allo stesso piano del quartier generale delle aziende dell’editore Alfredo Romeo, rischia di essere complicata. 

Ieri, il giornale fondato da Antonio Gramsci, all’ennesimo riesordio, ha dato una lettura della tornata elettorale appena passata di questo tipo: «Si ferma l’onda della destra: la sinistra vince a Brescia. 5 stelle out». Il Riformista di Renzi, l’ha vista all’opposto: «Le urne? Avanti a destra». Con perfida chiosa: «L’effetto Schlein non si è visto arrivare».

[…] Ma la vera chicca è la diatriba tra giornalisti ed ex giornalisti dell’Unità. Sansonetti ha fatto sapere, nel suo primo editoriale, di voler «ricostruire un’ideologia», nel senso non marxiano, ma gramsciano del termine. 

E i vecchi cronisti dell’Unità, messi alla porta senza troppi complimenti, lo hanno bastonato dalle pagine del Manifesto. 

«Questa Unità non ha nulla a che vedere con la testata fondata nel 1924, né con le battaglie del segretario del Pci perché con scientifica, padronale protervia calpesta ogni diritto dei suoi lavoratori: i giornalisti e poligrafici che hanno tenuto in vita il giornale sono stati esclusi, cancellati perfino vilipesi. Siamo di fronte a un caso mai contemplato nel mondo del lavoro: un’intera redazione sostituita da un’altra».

E il nuovo direttore come avrebbe «spazzato via un intero corpo redazionale»? Con un insulto sorprendente: «Sansonetti ci ha tacciato di essere “renziani”, proprio lui che ha lasciato il Riformista nelle mani del leader di Italia viva». Avete letto bene: Sansonetti avrebbe usato «renziano» come insulto. 

Ma se i vecchi redattori pare siano stati lasciati a casa con l’accusa di vicinanza al fu Rottamatore, sono stati, invece, imbarcati ex terroristi come Paolo Persichetti o no global con problemi giudiziari come Luca Casarini. La politica sarà affidata alla compagna di Sansonetti e madre dei suoi due figli, Angela Nocioni. 

Fra le firme Tiziana Maiolo, ex Riformista, che Renzi avrebbe allontanato quando ha scoperto che in gioventù era stata al Manifesto. Della compagnia fanno parte anche Angela Azzaro, ex Liberazione, paladina dei diritti Lgbtq, e Valentina Ascione, compagna di Riccardo Magi parlamentare di +Europa.

Al Riformista sono rimasti Aldo Torchiaro, voce militante di Radio Leopolda, Paolo Guzzanti e la Fusani. Gli unici renziani doc arruolati nell’iniziativa al momento sembrano Erasmo D’Angelis (già alla guida dell’Unità targata Matteo) ed Enrico Zanetti, ex viceministro e sottosegretario. 

La supervisione del quotidiano è affidata a Benedetta Frucci, responsabile comunicazione di Italia viva, fiorentina come Renzi, persona di strettissima fiducia. Il responsabile del sito è un altro fedelissimo: Alessio De Giorgi, già fondatore di Gay.it […]. […]

DAGONEWS il 20 dicembre 2022.

Alfredo Romeo, sempre più editore (di sinistra, si fa per dire) e sempre meno imprenditore delle pulizie (di destra), condannato in primo grado a due anni e mezzo per corruzione relativa a dei bandi di gara Consip, ha deciso: l’Unità, che ha recentemente rilevato dal curatore fallimentare, torna in edicola come quotidiano, mentre il Riformista, che edita dal 2019 quando il gruppo Tosinvest (famiglia Angelucci) gli cedette la testata, in edicola ci rimane, ma come settimanale. 

L’imprenditore napoletano ha anche scelto i direttori: Piero Sansonetti dirigerà il quotidiano fondato da Gramsci, di cui è stato condirettore (direttore Peppino Caldarola) oltre averci lavorato a lungo, lasciando così la tolda di comando del Riformista, che andrà a Paolo Liguori, già nel gruppo come direttore editoriale di RiformistaTv (lo è anche di TgCom, l’unico legame professionale che gli è rimasto con Mediaset).

La staffetta tra Riformista e Unità avverrà tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, e comunque non oltre il 12 febbraio, quando il giornale che è stato l’organo ufficiale del Pci compirà 99 anni. 

Per Romeo questa operazione “di sinistra” – fatta propria mentre a palazzo Chigi si è insediato il primo governo di destra della storia repubblicana – è anche l’occasione per resettare i suoi rapporti con la politica.

Ha fatto rumore, per esempio, la rottura con Italo Bocchino, già parlamentare di An finiano di stretta osservanza, ora direttore editoriale del Secolo d’Italia ma soprattutto lobbista e sciupafemmine (nel suo palmares Mara Carfagna, Sabina Began e Catia Sulpizi).

Bocchino aveva lavorato per Romeo, tanto da essere coinvolto nel caso Consip, ma il re delle pulizie parla di pessimi risultati e di tradimenti. Resta invece solido il rapporto di Romeo con un altro napoletano doc, Paolo Cirino Pomicino.

Estratto dell’articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 21 gennaio 2023.

[…] Il ritorno dell’ Unità in edicola, previsto per gennaio, è slittato a fine febbraio. Il direttore responsabile dell’Unità di carta sarà sempre Sansonetti, [...] diventato anche un opinionista dei talk di Rete4, dove è spesso l’antagonista di sinistra di Daniele Capezzone, non necessariamente su posizioni contrapposte.

Ma a chi affidare la direzione della parte digitale, ormai decisiva in qualunque progetto editoriale? Romeo punta in alto: Michele Santoro. Un’offerta al conduttore di Samarcanda e Annozero è già stata recapitata. Santoro conferma, ma per ora la risposta è no: «A 72 anni non ho voglia di finire sotto un editore», dice Santoro.

 Che però non chiude la porta a Romeo: «Sono contento che riporti in vita l ’Unità , è un fatto positivo se aumentano i luoghi dove è possibile tornare a dare voce a chi non ce l’ha. Ma è questo l’obiettivo? Non lo so, perché nessuno mi ha chiesto cosa farei io. Quello che posso escludere è fare il direttore di un progetto non mio».

Anche perché Santoro, nel frattempo, un progetto suo ce l’ha, sempre legato all’idea di dare rappresentanza politica alla sinistra senza partito: uno spazio digitale a cavallo tra un sito di informazione e una piattaforma di scambio di opinioni, proposte e iniziative.

 Li vogliamo chiamare i meet up di Santoro, come quelli alle origini del Movimento 5 Stelle? «Ci sarà più informazione e più tecnologia », spiega Santoro, che negli ultimi mesi è tornato spesso ospite in tv a parlare di guerra in Ucraina. Lui la chiama “la guerra di Biden”. E questo è un titolo di giornale che, Unità o no, Belpietro certamente non cambierebbe.

TORNA IN EDICOLA L’UNITÀ MA SENZA I “SUOI” GIORNALISTI. Da odg.it Martedì 10, 2023.

La protesta del Cdr e della redazione del quotidiano fondato da Antonio Gramsci: «Il direttore Piero Sansonetti dirigerà un giornale realizzato dai redattori de Il Riformista. Noi cancellati»

La solidarietà e la preoccupazione dell’Esecutivo dell’Ordine dei giornalisti

«Il 18 aprile il Riformista cambia nome e diventa l’Unità». A comunicarlo ufficialmente con una nota è il Cdr e le redattrici e i redattori del quotidiano fondato da Antonio Gramsci. «Il 18 aprile – si legge nel comunicato – l’Unità tornerà in edicola. Ma senza le giornaliste e i giornalisti che la storica testata della sinistra hanno difeso e fatto vivere anche negli anni bui e dolorosi della sua chiusura. In questo nuovo progetto editoriale noi, lavoratori dell’Unità licenziati nei giorni scorsi dal curatore fallimentare, semplicemente non esistiamo. Cancellati». Il direttore designato Piero Sansonetti, proseguono giornaliste e giornalisti, «dirigerà un giornale realizzato, sia nella parte cartacea che in quella online, dai redattori de Il Riformista. I giornalisti e i poligrafici dell’Unità non saranno della partita. Viene, infatti, ignorata una questione cruciale, sancita da sentenze che fanno giurisprudenza: la testata sono anche i suoi lavoratori. Un legame indissolubile. Il 18 aprile semplicemente Il Riformista cambierà nome e si chiamerà l’Unità. Questo è il progetto, sicuramente inedito».

Per le lavoratrici e i lavoratori: «Siamo di fronte a un caso mai contemplato nel mondo del lavoro e che, soprattutto in ambito editoriale, può aprire scenari con esiti drammatici. Lo ribadiamo al direttore Sansonetti e all’editore Romeo: la testata sono anche i lavoratori. Un concetto tanto più vero nel caso dell’Unità, per la storia e il ruolo del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, ma anche per l’abnegazione e i sacrifici con cui noi giornalisti e poligrafici ci siamo battuti per tenere in vita il giornale, unici, assieme alla Federazione nazionale della Stampa e alle Associazioni regionali, a denunciare la vivisezione della testata e dei suoi archivi. Siamo stati gli unici a pagarne le conseguenze».

Il 3 giugno 2017, incalza la nota della redazione, «l’Unità è stata chiusa per le scellerate scelte dell’editore Pessina, nel silenzio complice del Partito Democratico che ne deteneva una quota e alla quale ha poi rinunciato senza darne neanche comunicazione al Cdr. Nel frattempo, parliamo di un arco di tempo lungo 6 anni, si sono perse le tracce dell’archivio storico e di quello fotografico, patrimonio di questo Paese che, grazie alla nostra collaborazione e al nostro impegno, nei mesi scorsi sono stati indicati alla curatela fallimentare e ritrovati. Apprendiamo ora che anche l’archivio online è stato ceduto con la testata e appartiene al nuovo editore».

In conclusione, «non è una bella storia quella che raccontiamo e ai responsabili vecchi e nuovi diciamo un forte, corale “NO”. Non esiste spazzare via un intero corpo redazionale, parte indissolubile di un giornale che ha parlato sempre alla sinistra, che ha dato voce alle sue istanze. E tutto questo proprio ora con un governo di destra così aggressivo nei confronti dei fragili. Scusaci Sansonetti (cit.) ma proprio non va. E lo diciamo a voce alta, senza paura, con la schiena dritta che l’Unità ci ha insegnato ad avere».

Accanto alle lavoratrici e ai lavoratori si schiera, l’Esecutivo dell’Ordine nazionale dei giornalisti unendosi alla Federazione nazionale della Stampa italiana. L’esecutivo, temendo una speculazione editoriale, esprime preoccupazione per come si sta sviluppando quella che poteva essere un’opportunità per recuperare una storica testata che con il suo patrimonio professionale ha contribuito alla democrazia e al pluralismo del nostro Paese. L’Ordine sarà al fianco dei colleghi per ogni iniziativa che il Cdr intenderà intraprendere a tutela dei colleghi, delle colleghe e dei poligrafici.

Romeo finanzia la rinascita dell’Unità e rilancia Il Riformista, dai giornali manettari solo ‘giustizialismo dell’editoria’. Paolo Liguori su Il Riformista il 3 Aprile 2023

Caro Piero, ho letto il tuo articolo sulle sorti, il futuro e lo sviluppo del gruppo Editoriale che naturalmente edita sia Il Riformista e quindi farà anche l’Unità nel prossimo mese.

È un articolo molto interessante, che mette a fuoco soprattutto i deficit culturale, politico, di riflessione e di idee della sinistra, ma questo lo sapevamo già. Oggi però siamo di fronte a un accanimento assurdo contro un gruppo Editoriale piccolo, ma che resta una realtà molto particolare, molto interessante in un mondo che non produce più nulla se non vecchi giornali come La Repubblica o giornali come Il Fatto che si autodefiniscono di sinistra ma insomma, noi sappiamo bene che sono giornali assolutamente giustizialisti e manettari.

Detto questo però qui c’è un problema molto grave perché riguarda la cultura e la società italiana. Un editore, Romeo, decide di finanziare la rinascita dell’Unità ma anche di rilanciare Il Riformista. Dopo la tua direzione il giornale ha preso quota soprattutto negli ambienti garantisti e si è creato un nome.

Naturalmente sceglie come interlocutore Matteo Renzi, la cosa diventa politica e addirittura provoca un terremoto nella sinistra. I giornali ne parlano, forse si divide il Terzo polo, forse no, forse si metteranno d’accordo ma non per contenuti politici, si metteranno d’accordo per mantenere il finanziamento pubblico.

Allora la miseria di questo mondo è ancora più esplicita e la cosa grave è che più questo mondo va in miseria, più si accanisce contro gli altri e allora addosso a Romeo perché aveva casi giudiziari dai quali è stato prosciolto e assolto, e non una parola di sostegno a chi in questo momento – diciamo facendo tendenza opposta a quello che avviene nella società – decide di investire in questo tipo di pubblicistica.

Quindi io ne farei un problema proprio attuale grave. Perché si dà addosso a quell’esperienza che è una delle poche che in questi anni si è affermata in un deserto di idee di convinzioni. Perché si vuole ostacolare e impedire la rinascita dell’Unità.

Queste sono domande molto interessanti, sono domande a cui noi dobbiamo chiedere risposte perché questa è una forma di giustizialismo dell’editoria. Cioè: non ci può essere libertà, proibita la libertà se non sei omologato, se non sei certificato dal solito vecchio gruppo di potere sulla sinistra (non della sinistra), non puoi fare il tuo lavoro da editore libero.

Per noi è l’asfissia, noi crediamo in certe battaglie che sono state fatte e pensiamo che debbano continuare. Quindi caro Piero forza, avanti e coraggio. Paolo Liguori

Devono preoccuparsi loro. Vedremo. Romeo fa arrabbiare tutti, da Scanzi a Travaglio tutti preoccupati da Riformista e Unità. Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Aprile 2023

Era da parecchio tempo che la politica, in Italia, procedeva in assenza di una stampa di sinistra. Dopo decenni – dagli anni cinquanta agli anni novanta – nei quali la sinistra aveva dominato in quel campo. Con dei giornali di grandissimo prestigio. L’Unità, prima di tutti, e l’Avanti, e Rinascita, Paese Sera, e settimanali popolari come Vie Nuove, e poi ancora l’Espresso, e qualche anno dopo il manifesto e Repubblica. Una flotta in grado di scompaginare la stampa governativa o di destra, di imporre temi, discussioni, punti di vista, principi, idee.

L’Unità era un gran giornale, quello di Ingrao, Pajetta, Macaluso, Chiaromonte, e poi, più recentemente, di Veltroni e D’Alema. Il manifesto era il giornale arrembante di due giganti come Pintor e Rossanda. Paese Sera di Tommaso Smith e Fausto Coen cambiò la storia dei giornali popolari. E poi l’Espresso e Repubblica di Scalfari. Questi giornali erano come corazzate. Portavano informazione, idee, cultura, polemiche. Spesso combattevano tra loro, mi ricordo i duelli epici tra Scalfari e Reichlin, ma anche tra Pintor e Tortorella. E persino tra l’Unità e Paese Sera sulla questione arabo-israeliana. Gli altri giornali, e anche la Tv di Stato – l’unica Tv esistente, all’epoca – erano condizionati in modo formidabile dalla stampa di sinistra. Spesso inseguivano. E anche la politica italiana ne era condizionata. I grandi successi del Pci in buona parte furono dovuti alla sua capacità di fare informazione e giornalismo. Togliatti, quando dopo la Liberazione riaprì l’Unità, disse ai nuovi direttori (Spano, Ingrao e Tortorella): “Dobbiamo fare il Corriere della Sera del proletariato”. Non voleva un foglio di propaganda.

Voleva un giornale-giornale. E i collaboratori furono tutti di altissimo livello. Filosofi come Garin, Geymonat, Luporini, Badaloni, scrittori come Calvino, Sibilla Aleramo, Natalia Ginzburg, sceneggiatori e registi come Zavattini, Scola, Maselli, grandi artisti come Guttuso, Treccani, Pomodoro, commentatori come Caffè, Padre Balducci, Napoleoni ( vado solo a memoria e cito appena qualche nome). Poi, piano piano, la stampa di sinistra iniziò la ritirata. La stampa e la Tv di destra presero il sopravvento e a sinistra restò ben poco. Negli ultimi anni il poco si è trasformato in nulla. Addirittura c’è in giro gente che – in mancanza d’altro – ritiene che possa essere considerato di sinistra un giornale come il Fatto, cioè un quotidiano qualunquista legato agli ambienti più arretrati e reazionari della magistratura.

La notizia che un imprenditore napoletano, e cioè Alfredo Romeo, ha deciso di impegnarsi per restituire alla sinistra la sua capacità di fare informazione, ha gettato nel panico una parte dell’establishment. E anche alcuni settori, abbastanza vasti, del giornalismo, che in questi anni si erano accoccolati nella comoda posizione di assenza della sinistra e di non necessità di pensare, battagliare, impegnarsi, creare conflitti. Romeo ha deciso di mettere in campo due vascelli, magari ancora leggeri, ma sicuramente in grado di fare danni. Il Riformista e l’Unità. E perdipiù ha deciso di consegnare il Riformista nelle mani di un politico di primissimo piano, che ha dominato la ribalta del centrosinistra negli ultimi 10 anni. Parlo di Renzi. Che io, politicamente, non ho mai amato, ma che indubbiamente qualche peso nella politica italiana l’ha avuto, a partire dal 2013. Non l’ho mai amato Renzi, perchè non condivido molte delle sue idee. Né il job act, né le posizioni non-pacifiste, né alcune iniziative parlamentari che non ho considerato garantiste (Guidi, Lupi, Salvini, amore per Gratteri, omicidio stradale…).

Resta il fatto che le sue sono idee, e che oggi le idee son merce rare in politica. Rarissima. E resta il fatto che la sinistra, se un giorno o l’altro vorrà vincere, dovrà rivolgersi a un pezzo di opinione pubblica che è racchiusa in un territorio abbastanza vasto. Che va da quelli che hanno idee più radicali ( se dovessi definirle userei un uovo termine politologico: bergogliane) e che sono anche più liberali, più garantisti, più anti-Stato, a quelli che hanno idee più moderate, meno conflittuali, (che se dovessi definirle con un vecchio termine politologico, direi “riformiste”). Probabilmente il vecchio castello ormai un po’ ammuffito dell’informazione italiana, specie sul versante che si autodefinisce di sinistra, non era pronto a questa frustata. Non l’ha gradita. Ha messo in campo tutte le energie che le son rimaste per reagire. Sulla carta stampata, sulle Tv, sui social.

Mi è capitato di vedere un brano della trasmissione della 7 (“Otto e Mezzo”) nella quale un certo Andrea Scanzi (noto come il “Cruciani dei poveri…”) si scagliava contro Romeo sostenendo che è un manutengolo di Renzi, o viceversa, e che Romeo pagava Renzi, se ho capito bene, già negli anni 90, quando- credo – Renzi aveva circa 15 anni e con le tangenti prese da Romeo probabilmente andava a comprare le figurine dei calciatori sperando che uscisse qualche calciatore della Fiorentina, magari Gabriel Batistuta. Scanzi era stato incitato da Lilli Gruber alla tirata contro Romeo ( una Gruber anche abbastanza maleducata verso il Riformista: succede) segno che la sua non era una uscita improvvisata, ma pensata bene e voluta dalla rete. Lo stesso giorno si era esibito il Fatto, con pagine intere contro Romeo, e poi il Domani, giornale di De Benedetti, e anche alcuni – come si dice – “giornaloni”.

Mi chiedeva ieri Romeo: “ma secondo te c’è da preoccuparsi?”. Io, che sono sempre imprudente, ho risposto di no, anche per tranquillizzarlo. Lui mi ha chiesto: “ma allora devono preoccuparsi loro?”. Non so rispondere a questa domanda del mio editore. Rispondo per l’Unità: se riusciremo a fare quello che vogliamo fare, cioè se riusciremo a ridare voce a una sinistra colta, radicale, pacifista, garantista, contraria allo sfruttamento, alle guerre e alle prigioni, beh, forse sì: devono preoccuparsi loro. Vedremo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La storia del quotidiano. Se il manifesto fosse andato male c’era un piano B: aprire un ristorante a Saturnia. Racconta Luciana Castellina: «Se con il manifesto fosse andata male avremmo tirato fuori quella vecchia idea. Magri e Rossanda chef, Pintor sommelier. Nome? Ovvio: il manifesto». Carmine Fotia su L'Unità l'1 Luglio 2023

Ricordo però anche alcuni che non scrivevano, coloro che dovettero fare i lavori più difficili e meno appariscenti: Filippo Maone, artefice dello straordinario successo di diffusione della rivista e poi geniale architetto della diffusione del quotidiano, ovvero ciò da cui ne dipendono vita e morte; Ornella Barra, prima segretaria di redazione, il vero cuore di ogni giornale; Giuseppe Crippa, operaio di Bergamo, burbero e inflessibile amministratore dal cuore d’oro, con l’impossibile compito di gestire i pochissimi soldi e pagare i nostri stipendi eguali per tutti, prima equiparati a quelli degli operai metalmeccanici e poi tenuti al minimo sindacale del contratto dei giornalisti.

L’apertura del primo numero del quotidiano era di Ninetta Zandegiacomi: “Dai 200.000 della Fiat riparte oggi la lotta operaia”, e poi un reportage dalla Cina di un grande reporter che avrei in seguito conosciuto da vicino, K.S. Karol, compagno di Rossana Rossanda, egli stesso una leggenda vivente: polacco di nascita, un occhio di vetro e l‘altro di un azzurro vivo, capelli bianchi e impermeabile alla Philip Marlowe, da ragazzo era stato nell’Armata Rossa, un apolide ribelle che scriveva come un Dio, dietro il fumo delle sue gitanes senza filtro.

Nel primo numero il direttore Pintor scrive: “È aperta nel nostro paese una partita dal cui esito può dipendere la sorte del movimento operaio…se non fosse questa la nostra convinzione, non ci saremmo impegnati in un lavoro e in una lotta che hanno per scopo ultimo la formazione di una nuova forza politica unitaria della sinistra di classe. E non faremmo ora, questo giornale”. Tale, dunque, l’avevano pensato i suoi fondatori, ma le cose non andarono così e questo nodo si è spesso intricato producendo dolorose discussioni e divisioni, tra chi privilegiava la “forma giornale” e chi la “forma partito”. Nel 2021, per i cinquant’anni del giornale, intervistai per l’Espresso Norma Rangeri, che dopo 14 anni, attraversando e affrontando crisi economiche e dolorose rotture con i fondatori, ha appena passato il timone al più giovane Andrea Fabozzi.

Così Norma, con il suo bel caschetto di capelli neri a incorniciare un viso uguale a quello della ragazza che 50 anni fa per la prima volta varcò le porte del mitico Quinto Piano di via Tomacelli 146, dove aveva sede la redazione del giornale, mi raccontò la sua storia: “Ho incontrato il manifesto come gruppo politico tra il ‘71 e il ‘72, alla facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, a Roma. Per fare la tesi con Lucio Colletti avrei dovuto sapere il tedesco e per emanciparmi dalla famiglia avrei dovuto fare qualche lavoretto. Così capitò che una mia cara amica che lavorava alla segretaria di redazione del manifesto, mi trovò un posticino nella postazione dei dimafoni dove arrivavano gli articoli dei corrispondenti, a braccio o registrati, che io trascrivevo diligentemente a macchina con carta copiativa per i caporedattori. E ben presto il quinto piano di via Tomacelli diventò più importante dell’università, al punto che pur avendo finito tutti gli esami rinunciai a fare la tesi e a laurearmi per la disperazione della mia famiglia. Era successo che avevo incontrato un’altra famiglia, quella di Luigi Pintor, Lucio Magri, Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Valentino Parlato, Aldo Natoli, Lidia Menapace”. 

“I cenacoli intellettuali finiscono tutti male- mi aveva raccontato Luciana Castellina due anni prima, per i 50 anni della rivista – . Noi non volevamo fare gli intellettuali, volevamo fare una battaglia politica”. “Un giornale – mi disse la Rangeri – per vivere ha bisogno di una ragione sociale, deve rappresentare idee, bisogni, persone, deve avere, come si dice oggi, una vera community. Questo Dna il manifesto ancora ce l’ha, altrimenti non avremmo superato la micidiale prova dell’amministrazione controllata dopo il drammatico fallimento della cooperativa, fondandone una nuova e in salute. Altri giornali, che in questo mezzo secolo hanno provato la titanica impresa di un quotidiano nazionale, sono via via tutti morti della stessa malattia: l’improvvisazione verniciata di glamour, insomma sotto il vestito niente. Nonostante i nostri limiti e difetti, il nostro elisir di lunga vita è un po’ il segreto di pulcinella: siamo liberi e indipendenti, non abbiamo padroni e nemmeno padrini. Forse, proprio perché non apparteniamo a nessuna filiera di potere, in questo sistema di media, parlo soprattutto della televisione pubblica,  il manifesto semplicemente non esiste”.

Come ogni forma della politica anche il manifesto ha conosciuto divisioni che spesso si sono trasformate in abbandoni: i più dolorosi quelli dei fondatori che però tutti, anche quelli che non ci sono più, erano tornati a scrivere per il giornale. Per i più giovani, invece, si è trattato di una fisiologica diaspora che li ha dispersi, spesso in posizioni importanti, nel mondo dei giornali che allora chiamavamo “borghesi”.

Ora questa storia è giunta a un tornante. Norma Rangeri e Tommaso Di Francesco sono gli ultimi direttori che si sono formati alla scuola dei fondatori. Il cambio avviene mentre in tutto il mondo la sinistra, in ogni sua variante, affronta l’offensiva di una destra sovran-populista e deve decidere come reagire alla brutale aggressione della Russia all’Ucraina.

La tradizionale spinta pacifista che anima il manifesto non ha impedito a Norma Rangeri di assumere una netta posizione di sostegno anche con le armi alla resistenza ucraina. Più critica la posizione del condirettore Tommaso Di Francesco. Io, per il poco che vale, la penso come lei, ma il fatto di scrivere su un giornale che ha una posizione pacifista molto netta mi fa apprezzare la necessità di un dialogo con i pacifisti veri, cosa ben diversa dai pacifinti sostenitori di Putin. Norma e Tommaso sono stati non solo miei compagni, ma anche amici carissimi. Sono compagni non per ideologia ma perché con loro ho letteralmente diviso il pane e questo non si dimentica, anche quando si imboccano strade diverse.

E questo ha un valore politico, secondo me, perché ci parla di quei valori semplici che uniscono le persone di sinistra e che oggi sono spesso sopraffatte dalle ideologie, dalle burocrazie e dalle gerarchie politiche e che sono invece vive nell’animo di tante persone. La forza del manifesto è stata sempre l’ambizione di parlare a queste persone prim’ancora che ai vertici politici. A Tommaso e Norma un saluto affettuoso, a Andrea l’augurio di saper mantenere il manifesto come luogo libero e critico della sinistra.

P.S.: Le storie, tutte le storie, hanno le loro sliding doors e anche questa che vi abbiamo appena raccontato avrebbe potuto finire diversamente, mi rivelò Luciana Castellina: “C’era un piano B, se fosse andata male con la rivista: dal momento che Lucio e Rossana erano molto bravi a cucinare, avevamo individuato un posto, alle cascate di Saturnia, dove avremmo aperto un ristorante. Chef sarebbe stato Lucio, sous-chef Rossana, terzo chef Valentino, Luigi avrebbe fatto il sommelier, ed io avrei curato i rapporti internazionali e le pubbliche relazioni. Come l’avremmo chiamato? Che domanda: il manifesto, ovviamente”.

Carmine Fotia 1 Luglio 2023

Estratto dell’articolo di Stefano Iannaccone per “Domani” l'8 giugno 2023.

C’è un problema con l’ascensore a Palazzo Chigi? Niente paura, con un importo di 4mila euro arriva la Romeo gestioni e lo risolve. Se c’è bisogno di un intervento di manutenzione al sistema antincendio? Per poco meno di 2mila euro arriva sempre la Romeo gestioni. E se servono dei lavori agli infissi della sede del governo? Gli addetti della Romeo accorrono di nuovo. Insomma, sotto forma di raggruppamento temporaneo di imprese, la società è di casa alla presidenza del Consiglio, compiendo decine e decine di interventi, secondo quanto stabilito da un vecchio contratto. 

[…] La Romeo gestioni è una delle realtà che compongono il gruppo fondato da Alfredo Romeo […]. La sua vicinanza con la politica è nota, da sempre vanta buoni rapporti con Matteo Renzi e la sua famiglia, in testa il padre Tiziano. Nel frattempo, le aree di azione dell’imprenditore napoletano si sono allargate al mondo editoriale: dopo Il Riformista, ha riportato in edicola L’Unità, intrecciando così politica, potere economico e informazione.

Le prossime settimane saranno decisive per capire il rapporto con le istituzioni, nello specifico quello tra il gruppo di Romeo e la presidenza del Consiglio. Il 30 giugno […] scade l’accordo esecutivo che assegna da un decennio alla sua società gli interventi di manutenzione di tutti gli edifici della presidenza del Consiglio […].

L’accordo è entrato in vigore nel 2013, nell’ambito della convenzione Consip Facility management 3, nel lotto relativo agli immobili del centro di Roma. In quell’anno è stata sottoscritta un’intesa della durata di sette anni, attraversando vari governi. Successivamente, si è proceduto con una serie di proroghe […]. 

Giorgia Meloni ha ereditato il prolungamento disposto nel maggio 2022 fino al prossimo giugno. Ora tocca a lei: la decisione fa capo solo alla struttura di Palazzo Chigi e può essere presa in base alle esigenze manifestate dal governo.

[…] La Consip, intanto, ha messo a disposizione una prima opzione: la convenzione Facility management (Fm) 4 per cui Romeo è finito sotto processo negli anni scorsi, con l’accusa di turbativa d’asta, venendo assolto «perché il fatto non sussiste». D’altra parte risulta tuttora imputato per traffico di influenze, in un altro filone dell’inchiesta sugli appalti Consip. Al netto delle vicende giudiziarie […] la convenzione Fm 4 è stata aggiudicata dal raggruppamento temporaneo di imprese Engie servizi.

C’è poi l’accordo quadro della Consip chiamato “grandi immobili”, che si suddivide in due lotti: il primo, relativo agli edifici con superficie compresa tra 25mila e gli 80mila metri quadri, vinto dalla Romeo Gestioni e dal rti Dussmann service; il secondo destinato ai patrimoni immobiliari ubicati nel Comune di Roma, con superficie inferiore a 25mila quadri, di cui risultano fornitori Romeo Gestioni e il rti Italiana facility management. In tutti casi, la decisione della presidenza del Consiglio avrà un impatto sul rapporto con la società dell’imprenditore-editore. 

E qui si intreccia la partita dell’informazione, che si muove tra gli affari con Palazzo Chigi e le linee editoriali seguite dai due quotidiani acquistati da Romeo. […] Non stupisce allora che Il Riformista possa assumere una posizione comprensiva verso il governo.

Il direttore editoriale è Matteo Renzi […]. Il direttore responsabile è Andrea Ruggeri, già deputato di Forza Italia. Ma la situazione è diversa se si parla dell’Unità, che assume toni talvolta teneri nei confronti del governo. È un fatto più sorprendente perché si tratta del giornale fondato da Antonio Gramsci, come si onora di scrivere sotto la testata, il quotidiano diretto da Piero Sansonetti.

Un esempio è il primo editoriale, in difesa della premier sulle inchieste giornalistiche condotte intorno alla rete dei rapporti economici e societari della sua famiglia. E così via, tra un rimpianto per il centrodestra di Silvio Berlusconi e una celebrazione del «trionfo» della presidente del Consiglio il 2 giugno, gli articoli hanno scelto talvolta una linea morbida. O una critica dai tratti gentili.

E' la prima volta che lascio un giornale senza essere cacciato...Lascio il Riformista a Renzi, resta il garantismo contro le bufale-giudiziarie dei giornaloni che coprono la mafia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Aprile 2023 

Giornali italiani, quasi tutti, hanno messo la sordina a quella che ieri era la notizia del giorno: la sentenza della Cassazione che dichiara solennemente che la trattativa Stato-mafia non c’è mai stata. Perché mettono la sordina? Perché quasi tutti i giornali italiani, e molte tv, soprattutto la tv di Stato, hanno per decenni sostenuto la tesi che la trattativa c’era stata. Lo hanno sostenuto con due obiettivi: colpire i Ros del generale Mori e cercare di coinvolgere Berlusconi in uno scandalo che potesse travolgerlo.

Chiunque conoscesse un minimo i fatti capiva in un attimo che Berlusconi non c’entrava nulla di nulla, con quella storia di mafia, e che il generale Mori era ed è l’unico tra i viventi ad aver combattuto e ferito la mafia con tutte le sue forze. Per anni giornalisti e magistrati, tanti, di tutti i colori, hanno costruito le proprie carriere, anche formidabili carriere, sullo stravolgimento della realtà. E in questo modo hanno favorito la mafia, sviando le indagini, o insabbiandole o inquinandole. E stordendo l’opinione pubblica. Le loro carriere non saranno scalfi te da questa sentenza. Oggi io lascio Il Riformista, che era tornato in edicola 4 anni fa dopo 7 anni di assenza. Lo lascio a Matteo Renzi. Con questo grande orgoglio: Il Riformista è stato uno dei pochi giornali a battersi contro la bufala della trattativa, e contro la cosiddetta antimafia che faceva il gioco della mafia eri ho dato un’occhiata ai giornali. Grandi e medi. Di vari orientamenti politici. Per capire con quale taglio avessero dato la notizia del giorno. Cioè la solenne dichiarazione della Corte di Cassazione, la quale ha certificato che una trentina d’anni di politica e cultura antimafia sono stati costruiti tutti su svariate balle, utili solo a impedire la lotta alla mafia. Diciamo, con indulgenza: eterogenesi dei fi ni. (Dando per scontata la buonafede).

Mi ha sorpreso un po’ (perché dopo 48 anni di professione sono ancora un fesso ingenuo) il modo in cui la gran parte dei quotidiani, o forse la totalità (escluso solo Il Giornale). hanno messo la sordina alla notizia. Piccoli titoli, niente paginate, e persino, da parte di qualcuno, la faccia tosta di scrivere che è stato accertato che la trattativa stato-mafia non c’è stata ma invece c’è stata. “Il Fatto di Travaglio” – che in questi anni ha impartito molte lezioni – fa anche dello spirito. Dice: siccome i mafiosi sono stati prescritti dal reato di trattativa, vuol dire che sono colpevoli e quindi la trattativa c’è stata. Esempio lampante di come si prende una cosa chiara e la si ribalta in modo che abbia un significato contrario. Gli inglesi dicono “fake”. Il problema è che, all’insaputa di Travaglio, i mafiosi – Bagarella, Brusca e altri – erano accusati di “minacce a corpo politico”, non di “trattativa”. La trattativa, secondo le accuse della stampa, delle tv e dei Pm aggregati a stampa e tv, sarebbe avvenuta tra i mafiosi e i carabinieri e Dell’Utri, ma invece i magistrati di appello e poi quelli della Cassazione hanno accertato che era solo una bufala. In linea teorica (teorica, perché la prescrizione non è una condanna) i mafiosi possono aver minacciato senza trattare con nessuno.

Non ci vuole un genio per raccontare come sono andate le cose. Riassumo in poche righe. I Ros dei carabinieri, guidati da Falcone, stavano scoprendo il velo sui rapporti della mafia con ampi settori di imprenditoria del Nord, e avevano preparato il famoso dossier-Mori. La mafia, per reazione, prima attaccò Falcone, uccidendolo, e poi (siccome Borsellino chiedeva che fosse assegnata a lui l’inchiesta sul dossier-Mori) uccisero anche Borsellino. A quel punto la Procura di Palermo, con un documento firmato dal senatore Scarpinato e dal dott. Lo Forte, pochi giorni dopo l’uccisione di Borsellino chiese l’archiviazione del dossier-Mori. E l’ottenne in qualche settimana appena. Le indagini sui rapporti tra mafia e imprenditoria si persero. Contemporaneamente un altro pezzo dello Stato (polizia e forse anche magistratura) si incaricò di deviare le indagini sull’omicidio Borsellino, e ci riuscì bene ammaestrando un pentito di nome Vincenzo Scarantino che raccontò un sacco di balle ai magistrati – tra i quali anche Nino Di Matteo – che gli credettero e nessuno più indagò sulle ragioni vere dell’uccisione di Borsellino.

A quel punto la lotta antimafia era impacchettata, finita. Ma restava un pericolo in azione: i Ros di Mori. Che nel frattempo avevano catturato il capo di Cosa Nostra, cioè Totò Riina, cosa vista non troppo bene in vari ambienti. Fu allora che la Procura dichiarò guerra a Mori per neutralizzarlo. E lo trascinò in diversi processi (quattro mi pare) che lo immobilizzarono per un quarto di secolo. Sempre assolto, sì, perché le accuse erano davvero scombiccherate, ma al prezzo di inaudite sofferenze morali per lui, per i suoi carabinieri e anche per Marcello Dell’Utri. Fino all’altro giorno, quando la Cassazione ha definitivamente mandato a quel paese gli inetti – si, dai: diciamo inetti, siamo generosi…- della Procura di Palermo, e ha definitivamente riabilitato gli imputati.

La persecuzione contro Mori è stata sostenuta, in tutti questi anni, da un formidabile schieramento di stampa e tv, soprattutto tv di stato. Testimonianze false, filmati, fiction, ore di improperi nel talk. Vogliamo riassumere il tutto con una frase breve: un ingente schieramento ha difeso a spada tratta la mafia, immobilizzandone i nemici, e si è autodefinito schieramento antimafia. Non aveva nulla di antimafia: era il contrario. E Mori, in modo del tutto evidente, è tra gli italiani viventi l’unico (assieme ai suoi collaboratori) ad avere combattuto davvero Cosa Nostra. Questo giornale, Il Riformista, che è tornato in edicola dopo sette anni di silenzio il 29 ottobre del 2019, in questi quasi quattro anni si è occupato molte volte della trattativa. E quasi sempre – a parte gli eccellenti articoli di Damiano Aliprandi sul Dubbio – se ne è occupato in spaventosa solitudine. Cercare di raccontare la verità, di smontare le fandonie costruite nella fabbrica comune di Procure&giornali&Tv, di andare ai fatti, di mettersi contro i magistrati più famosi, non è un mestiere facile. Loro sono potenti: ti rendono la vita impossibile. Escludendoti dalle fonti e perseguitandoti con le querele. Personalmente ne ho collezionate decine dai magistrati più famosi di Italia. Perché lo fanno? Per intimidirti: è il loro metodo, sono convinti che funzioni, a loro ha sempre funzionato.

In questi quattro anni la missione principale di questo giornale è stata sempre la stessa: informare e far valere il principio fondamentale del garantismo per tutti e contro tutti. Che noi consideriamo la colonna portante della modernità. Siamo stati in prima linea, quasi sempre soli, per difendere i Rom lapidati all’unanimità, per difendere Dell’Utri e Cuffaro e Berlusconi – il perseguitato numero uno dalla giustizia – e per difendere Cospito, e la preside siciliana, e tanti assessori di sinistra, e i vecchi esuli in Francia che il governo italiano rivorrebbe indietro, contro ogni legge e diritto, e chiunque venga messo sul banco degli imputati dalla macchina infernale della stampa forcaiola e poi delle Procure. L’altro giorno, per dirne una, Marco Travaglio – che ieri non ha voluto commentare con la sua penna la sentenza sulla trattativa – si è indignato perché i giornali parlavano poco di uno scandalo clamoroso: una assessora al Comune di Roma indagata per corruzione per avere ricevuto in regalo quattro bottiglie di vino. Non ci credete? È così. E se si ha la coscienza a posto ci si vergogna un po’, oggigiorno, per il fatto di appartenere alla categoria dei giornalisti. In questa categoria c’è un sacco di brava gente, colta, professionalmente dotata. È così: ma conta pochissimo questa gente. Contano i vertici del giornalismo, e sui vertici è meglio tacere.

Vi saluto cari lettori. Questo è l’ultimo giorno nel quale firmo da direttore Il Riformista. Dalla settimana prossima il direttore editoriale sarà Matteo Renzi e il direttore responsabile Andrea Ruggieri. Faccio a loro tanti auguri. E son convinto che terranno ferma la linea garantista. Io tra un paio di settimane assumerò la direzione dell’Unità. Che tornerà in edicola dopo sei anni di assenza. E che è un giornale gloriosissimo e grandioso, nel quale, da giovane, ho lavorato per trent’anni. E che sarà un giornale radicalmente di sinistra (come in questi ultimi mesi, del resto, è stato Il Riformista). Sono molto contento del mio nuovo incarico, perché penso che la sinistra italiana abbia un bisogno assoluto dell’Unità. La speranza è che l’Unità e Il Riformista insieme – pur distanti su moltissime idee e su tanti giudizi politici – possano in qualche modo iniziare una controffensiva contro la palude giornalistica che sta uccidendo, in Italia, l’informazione.

I ringraziamenti? Naturalmente alla redazione, magnifica, con la quale abbiamo fatto Il Riformista, dando tutti noi stessi. E poi – forse soprattutto – al mio amico Alfredo Romeo, cioè all’editore, che ha creduto in questa sfida e che da questo mese di maggio sarà alla testa di due quotidiani di centro e di sinistra. Senza gli sforzi di Alfredo non avremmo mai potuto neppure immaginare questa avventura. Non lo conoscevo, prima del 2019. Mi ha fatto ricredere sull’imprenditoria meridionale. Mi ha dimostrato che esiste gente capace, orgogliosa, coraggiosa, onesta, che sa sfidare il capitalismo becero, e che sa usare la forza di imprenditore per combattere grandi battaglie civili. Come la battaglia per il garantismo. Che lui sente fortissima, anche perché è uno di quelli che, da innocente, ha dovuto subire anni di persecuzioni. Sono molto contento di continuare a lavorare con lui, e provare, con lui, a resuscitare il giornale di Gramsci.

P.S. Mentre scrivo mi rendo conto che questa è la prima volta che lascio un giornale senza essere cacciato…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Renzi alla guida del “Riformista” è una nuova parte in commedia: media e politica son cose serie. Lilli Gruber su Il Corriere della Sera il 25 Aprile 2023

Nei panni di direttore farà la guardia al potere? E resta la domanda su quali siano i veri interessi che Renzi tutela rivestendo più ruoli, ad esempio quello di politico stipendiato dai cittadini e conferenziere stipendiato da una monarchia assoluta come l’Arabia Saudita

Sette e Mezzo è la rubrica di Lilli Gruber sul magazine 7. Ogni sette giorni sette mezze verità. Risposte alle vostre domande sull’attualità, il mondo, la politica. Questa puntata è uscita sul numero in edicola il 21 aprile. La proponiamo online per i lettori di Corriere.it

Cara Lilli, che c’azzecca Renzi direttore di giornale? Non gli bastava fare il senatore, dirigere una testata è una cosa delicata; come lei sa. Meriterebbe più dedizione e non solo opportunismo.

Tiziana Montrasio

Cara Tiziana,

il senatore Matteo Renzi è un uomo indiscutibilmente intraprendente e scaltro. Non ha ancora compiuto 50 anni, ma è già stato presidente di Provincia, sindaco, presidente del Consiglio per tre anni, leader di due partiti; alla sua attività politica poi negli ultimi anni ha affiancato quella di divulgatore televisivo con un documentario su Firenze (andato male), ed è tuttora conferenziere a pagamento in giro per il mondo.

Fa parte del board della fondazione saudita Future Initiative Investment del principe ereditario Mohammed bin Salman, tuttora considerato il mandante del feroce omicidio del giornalista Kashoggi... Ed è, come detto, senatore della Repubblica. Ora, conosciamo bene il “ritornello”: non c’è alcuna incompatibilità legale fra il ruolo politico di Renzi e le sue altre attività private. Resta però il tema dell’opportunità politica, così come resta inevasa la domanda su quali siano i veri interessi che Renzi tutela rivestendo contemporaneamente più ruoli, ad esempio quello di politico stipendiato dai cittadini e conferenziere stipendiato da una monarchia assoluta come l’Arabia Saudita.

A tutto ciò, avendo evidentemente ancora molto tempo libero ( l’indice di presenze di Renzi al Senato è del 34,8% ), il leader di Italia viva ha deciso di affiancare la carriera giornalistica, assumendo per un anno la direzione del quotidiano Il Riformista. Attenzione, Renzi non sarà il direttore responsabile: in Italia per legge può esserlo solo chi è iscritto all’Albo dei giornalisti. Sarà quindi un direttore editoriale. Non è una differenza di poco conto, visto che non dovrà essere lui a rispondere di eventuali querele. Quindi, per fare un esempio concreto, uno dei recordman di querele ai giornalisti, il senatore Matteo Renzi, non potrà citare in giudizio il direttore Matteo Renzi. E già questo deve essere stato un bel sollievo nell’assumere il nuovo incarico.

Renzi ha poi ricordato che esistono precedenti illustri di parlamentari direttori di quotidiani, citando Walter Veltroni e Sergio Mattarella. Vero, anche se andrebbe precisato che i due hanno diretto giornali di partito come L’Unità e Il Popolo, organi ufficiali di Pds e Dc, entrambi senza esserne in quel momento i leader. Resta quindi una contraddizione da cui non si esce: se Il Riformista non è un giornale di partito - come ha sottolineato il leader di Azione, Carlo Calenda - e se il giornalismo per sua vocazione deve controllare l’operato del potere, cosa ci fa Matteo Renzi lì? Nella vita si può cambiare, spesso è salutare farlo. Ma c’è un modo di dire preciso per chi occupa diversi ruoli contemporaneamente: fare tante parti in commedia. Appunto, commedia. Mentre la politica e il giornalismo dovrebbero essere delle cose serie.

Estratto da ilriformista.it il 12 aprile 2023.

Dopo l’annuncio di Matteo Renzi, alla guida editoriale del Riformista, sarà Andrea Ruggieri il nuovo direttore responsabile del quotidiano che sarà diretto fino al 2 maggio da Piero Sansonetti.

 L’annuncio arriva dall’avvocato Alfredo Romeo, editore del Riformista. “Sarà Andrea Ruggeri il direttore responsabile del Riformista. Lavorerà insieme a Matteo Renzi per rendere Il Riformista sempre di più il giornale punto di riferimento per tutti i riformisti.

 A Renzi e a Ruggeri ho chiesto di fare un quotidiano aperto, capace di informare e creare dibattito, e aiutare l’Italia ad uscire dall’attuale immobilismo, che ingabbia la sua fantasia e il suo sviluppo, e di entrare in una stagione di riforme che producano ricchezze, benessere ed equità sociale”.

Quanto al Riformista – fa sapere Renzi nella sua Enews – sono lieto di annunciare che il direttore responsabile che mi affiancherà in questa avventura sarà Andrea Ruggieri, giornalista professionista, già impegnato in Parlamento con Forza Italia nella scorsa legislatura. Con Andrea stiamo costruendo una bella squadra redazionale e condividendo molte idee affascinanti. Ne parleremo presto. Saremo in edicola col “nostro” Riformista dal 3 maggio: per adesso prosegue il lavoro dell’ottimo Piero Sansonetti che tra qualche giorno prenderà la guida de “l’Unità”.  […]

Dagospia il 17 aprile 2023. Da “Un Giorno da Pecora” - Rai Radio1

“Hanno tolto me da Fi mettendo al mio posto un senatore che non sa parlare italiano, si chiama Francesco Silvestro, vi faccio sentire qualche istante di una sua intervista. Con uno del genere come faccio a votare per Fi?” A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Andrea Ruggieri, ex deputato di Fi e ora direttore responsabile de il Riformista. 

Chi è che non l’ha più voluta in Fi? “Coloro che hanno fatto le liste: Tajani, Barelli, Bernini e Ronzulli”. Che tipo di rapporto aveva con questi suoi ex colleghi? “Con Tajani ho provato in tutti i modi ad andare d’accordo, Barelli e Bernini mi hanno sorpreso, con loro credevo di avere un buon rapporto. Ronzulli non mi amava, non faceva che parlare in giro, tecnicamente, quasi in maniera calunniosa di me”. 

Qualcuno ha detto qualcosa di falso su di lei? “Hanno mandato in giro pettegolezzi inventati che mi hanno danneggiato, qualcuno che voleva screditarmi si è inventato più di una volta aneddoti inesistenti, contrari al mio stile di vita, spacciandoli per veri, nel tentativo patetico di screditarmi agli occhi di Silvio Berlusconi”. Ruggieri, a Un Giorno da Pecora, ha poi raccontato di quando, nel 2017, chiamava Arcore imitando la voce di Gianni Letta pur di parlare con Berlusconi. 

“Io chiamavo Berlusconi e non me lo passavano. Allora telefonavo di nuovo ma stavolta imitando la voce di Letta, e dicevo alla segreteria: ‘buongiorno sono il dottor Letta, c’è il Presidente’? E loro me lo passavano”. E cosa diceva al Presidente? “Guardi sono Andrea, ho dovuto fare questa cosa per parlarle. E lui scoppiava a ridere…”

DAGOREPORT il 5 aprile 2023.

Uscito malconcio dalla partita sulle nomine Rai, dove la sua pupilla, Maria Elena Boschi si è dovuta accontentare della vicepresidenza della Commissione di Vigilanza, Matteo Renzi ha già il radar puntato verso le sue prossime mosse, obiettivo europee 2024.

 Sia Azione, del suo “partner in crime” Carlo Calenda, sia ''Arabia Viva'', infatti, pretendevano la guida della Vigilanza, sostenendo di non aver ricevuto adeguata rappresentanza nelle commissioni parlamentari.

La mancata nomina di MEB, se da un lato ha fatto masticare amaro Matteonzo d’Arabia, dall’altro non è dispiaciuta troppo a Don Ciccio Calenda, che vive con silenziosa goduria tutto ciò che porta al ridimensionamento della truppa di Italia Viva.

 D’altronde, tra i due ego-leader del Terzo Polo, ormai è in corso una guerra fredda: Renzi e Calenda non si sono mai amati, caratterialmente “non si prendono”, e il progetto politico della fusione tra i loro due partiti appartiene al cestino dei ricordi, al punto che alle regionali in Friuli Venezia Giulia sono stati superati anche dalla lista dei No-Vax.

Quel che resta di Forza Italia dialoga ormai solo con Calenda, avendo ormai compreso che Renzi è la parte meno affidabile (e perdente) del tandem. Anche perché le grandi strategie di Matteonzo sono andate a farsi benedire: sperava, con il voto determinante per l’elezione di Ignazio La Russa a Presidente del Senato, che il suo partito potesse diventare una stampella del governo Meloni.

 Ma dopo il siluramento di Licia Ronzulli e la svolta governista-tajanea degli azzurri, l’operazione è miseramente fallita, rendendo inutili i voti di cui dispone in Senato. Non serve un pallottoliere per capire che le truppe renziane sono ridotte a quattri amici al bar: intorno a Matteo ormai sono rimasti pochi fedelissimi, tra cui Bonifazi, Marattin e Boschi. Gli stessi “italiaviveur” Bonetti e Rosato vanno a corrente alternata, praticando dei distinguo rispetto alla linea del loro leader.

Capita l’antifona, e subodorando aria da fine cuccagna, anziché perdere per KO, Renzi ha preferito perdere ai punti, facendo un’inversione a U rispetto al progetto di grande stratega d’Aula.

 È in questo contesto che, una settimana fa, è arrivata la proposta di diventare direttore del “Riformista” da parte di Alfredo Romeo, già coinvolto nell’inchiesta Consip con suo padre, Tiziano, e con la dentiera avvelenata verso i magistrati.

 Da una parte. Dall'altra Matteonzo, rimasto invischiato nell'inchiesta della Fondazione Open, ha ingaggiato una violenta battaglia contro Travaglio e Ranucci e i giudici di Firenze, Turco e Nastasi, accusandoli di abuso di ufficio; una battaglia dalla quale è uscito con le ossa rotte.

L’elegante imprenditore napoletano, che negli ultimi tempi ha rotto misteriosamente i rapporti con il suo consigliori Italo Bocchino (anche lui venne indagato per il caso Consip), dopo aver acquisito l'Unità, dove ha piazzato il sodale Sandonetti, aveva offerto la direzione del quotidiano a due esponenti di Forza Italia, ricevendo un “no, grazie”. Alla ricerca di un profilo tra l'iper-garantista e l’anti-giustizialista, Romeo ha pensato a Renzi, che negli ultimi mesi si è costruito un perfetto identikit da randellatore di magistrati, con le sue invettive contro la Procura di Firenze.

 Ricevuta la proposta, Renzi ha cominciato a far circolare voci sul suo bisogno di fare un “passo di lato”, di prendersi una pausa, di voler dedicare più tempo “per studiare, per leggere, per perdere quei dieci chili che ho preso”. Insomma, ha fatto scrivere al “Corriere della Sera” di avere necessità di un “pit-stop”, mai così provvidenziale.

Ps. Gli “addetti ai livori” hanno notato che Renzi è diventato direttore editoriale del quotidiano che per mesi ha sponsorizzato e difeso l’ex 007 Marco Mancini, attaccando i suoi principali nemici: Elisabetta Belloni e Franco Gabrielli, cioè coloro che l’hanno silurato dall’intelligence.

Dagospia. Dal profilo Facebook di Vincenzo Iurillo. Roma, 5 apr. (LaPresse il 5 aprile 2023) - "No, non ritiro le querele" ai giornalisti e "ora anzi le rischio". Così Matteo Renzi, nella sede della associazione della stampa estera, durante la sua presentazione come nuovo direttore del Riformista. gir/fed

Matteo Renzi non è iscritto all'Ordine dei Giornalisti (è riscontrabile da fonti aperte, l'albo è consultabile on line sul sito Odg) e di conseguenza non può assumere la direzione di un giornale. Dunque, non saranno attirate sulla sua figura le querele di cui il direttore responsabile risponde per omesso controllo su ciò che va in pagina. Renzi va ad assumere il ruolo di direttore editoriale. Che è un'altra cosa.

Ma anche se fosse stato iscritto all'ordine dei giornalisti, in qualità di parlamentare, Renzi non poteva comunque assumere il ruolo di direttore responsabile.

Il mandato di parlamentare comporta forti garanzie e protezioni giuridiche: un deputato o un senatore non sono perseguibili per l'espressione delle proprie opinioni (immunità parlamentare).

Come ci ricordano fonti aperte, la prima legge repubblicana sulla stampa (l. 8 febbraio 1948) stabilisce che, nel caso in cui un parlamentare sia posto alla direzione di un giornale, debba essere contestualmente nominato un Responsabile (art. 3), che risponda per tutti gli obblighi di legge. In questi casi il giornale ha un “direttore” e un “responsabile”. Le querele le rischia solo quest'ultimo. Quindi Renzi come sempre è un cazzaro.”

Estratto dell’articolo di Vincenzo Iurillo per “il Fatto Quotidiano” il 7 aprile 2023.

La notizia è appena di due giorni fa: Matteo Renzi direttore editoriale del Riformista. Il proprietario del quotidiano è Alfredo Romeo, un uomo dal lungo curriculum professionale e anche giudiziario. Che cominciò molti anni addietro nella prima Tangentopoli degli anni 90, quando Romeo a Napoli fu condannato per mazzette miliardarie al deputato Dc Vito e altri, intorno alla gestione del patrimonio pubblico comunale.

 Condanna a 2 anni e 6 mesi annullata nel 2000 dalla Cassazione per prescrizione, dopo la riqualificazione del reato da corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio a corruzione per atto d’ufficio.

Nel 2008 poi l’imprenditore è stato arrestato e rinviato a giudizio per gli appalti del cosiddetto ‘sistema Romeo’ con l’accusa di aver messo a libro paga mezza politica napoletana per farsi cucire addosso le delibere Global service. Ne esce con l’assoluzione totale.

 Nel marzo 2017 poi Romeo è stato assolto in un processo che lo accusava di abusi edilizi sulla costruzione di due piani di un lussuoso albergo su via Marina. Un’altra indagine per peculato intorno alla gestione del patrimonio immobiliare comunale viene chiusa invece nel 2019 con l’archiviazione.

[…]  oggi ha anche diversi processi in corso. Nel 2017, infatti, Romeo è stato arrestato nell’ambito di un’inchiesta romana e condannato in primo grado nel 2022 a due anni e mezzo per la corruzione di un funzionario Consip che ha patteggiato.

 In un altro processo, nato dalla medesima indagine, è ancora imputato per traffico di influenze illecite sulla gara Consip FM4 con il padre del suo neo-direttore, Tiziano Renzi (per il quale la procura in un primo momento aveva chiesto l’archiviazione).

 […]

Processi in corso per l’imprenditore anche a Napoli, dove Romeo è alla sbarra in due processi nati da indagini sulle commesse dell’ospedale Cardarelli: uno per corruzione insieme a un suo stretto collaboratore, Ivan Russo; e un altro per associazione a delinquere finalizzata a reati di Pubblica amministrazione, con alcuni tra i suoi più stretti collaboratori, tra cui l’ex parlamentare Italo Bocchino e alcuni dirigenti della Romeo Gestioni Spa. A Napoli, Romeo poi è stato prosciolto da due ipotesi di evasione fiscale e da una ipotesi di corruzione per lavori di riqualificazione urbana nelle aree prossime al suo hotel.

Le polemiche sulla nuova direzione del giornale. Travaglio e giornaloni contro Riformista e Unità: Renzi e Romeo allarmano l’establishment. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 aprile 2023

La notizia che Matteo Renzi assumerà la direzione del Riformista dal primo maggio ha scombussolato l’establishment. Sia nel campo della politica sia – soprattutto – nel campo dell’editoria e del giornalismo. La ragione della sorpresa e dell’irritazione non sta solo nella mossa improvvisa dell’ex presidente del Consiglio, che – attraverso la direzione di un giornale – riapre la sua battaglia politica e di idee (Si racconta che quando a Riccardo Lombardi fu proposta da Nenni la vicesegreteria del partito, egli rispose con sdegno: “Non so che farmene, voglio la direzione dell’ Avanti! perché io voglio fare politica, non il burocrate…”).

La seconda fortissima ragione dello stupore e della rabbia va cercata nel nome dell’editore. Il fatto che Alfredo Romeo raddoppi la sua forza editoriale, affiancando al vecchio e rilanciato Riformista la testata prestigiosissima dell’Unità, e che diventi il più importante editore della sinistra (dai tempi del vecchio Terenzi) non è stata accolta affatto bene. Nel mondo dell’editoria gli editori liberi non sono mai piaciuti. Anzi, sono temutissimi. Se un imprenditore mette la sua forza economica al servizio dell’informazione e di alcune idee – e non per corrompere l’editoria e le idee – la cosa preoccupa molto. Oggi la debolezza, in Italia, della stampa e del sistema di informazione è evidentissima. Non a caso l’Italia nella classifica dei paesi con l’informazione libera è più giù del settantesimo posto. Maglia nera. L’informazione in Italia è totalmente dominata da due colossi: il potere economico e le Procure. Che talvolta si affiancano, raramente si contrappongono, spesso si spalleggiano. Gli attori principali di questo poderoso schieramento sono Il Fatto, giornale delle Procure, e quelli che Travaglio chiama “i giornaloni”. Sono entità simili e complementari.

Né le Procure né il potere economico hanno visto di buon occhio il rilancio editoriale di Romeo. Hanno l’impressione che sia sceso in campo un corpo estraneo che non può essere controllato. E perciò è pericoloso: è corsaro, è indipendente, non risponde alla tirata di briglia, non si fa imbeccare. Va combattuto con cannoni ad alzo zero. La storia anche di imprenditore di Alfredo Romeo è sempre segnata dalla sua indipendenza, che non è mai piaciuta in giro. Romeo ha sempre lavorato in solitudine, non è mai entrato nelle cordate, non ha mai diviso il pane coi suoi concorrenti, non ha mai cercato né accettato accordi o compromessi. Romeo ha sempre avuto questa idea – giusta o sbagliata, non saprei – che un imprenditore deve lavorare da solo, rischiare da solo, guadagnare da solo, investire da solo. A me – che da qualche anno sono suo amico – me l’ha spiegata tante volte questa sua filosofia, e mi ha anche detto che è una filosofia che gli ha reso molto nella vita ma gli ha imposto anche prezzi altissimi. Tra gli altri quello di avere trascorso in prigione circa un anno, e aver subito ingiurie, assalti, insolenze, diffamazioni, per poi essere del tutto assolto.

Ve l’ho detto che è amico mio, oltre ad essere mio editore, ma non è per questo che dico che Romeo è un perseguitato, nel senso letterale della parola. È un perseguitato perché così dicono i fatti: è stato messo due volte in prigione, è stato intercettato per circa 12 anni, giorno e notte – in casa in ufficio, in auto, al ristorante, persino in arereo, dove, a parte lui, non hanno mai intercettato nessuno- è stato inquisito 16 volte, è incensurato, ha già ottenuto una decina di assoluzioni. Le intercettazioni non hanno portato a nessun risultato: solo spese per lo Stato. Ora, diciamoci la verità: quanti di noi, se intercettati per 12 anni consecutivi, ne uscirebbero idenni? La sostanza della vicenda giudiziaria di Romeo è questa. È uno degli esempi più lampanti di malagiustizia e di collusione tra potere economico e magistratura, e di uso di pezzi della magistratura per alterare le leggi della libera concorrenza e per danneggiare l’economia sana a vantaggio dell’economia “protetta”.

Gran parte della stampa, dicevamo, è rimasta sorpresa e si è infuriata per questa invasione di campo di Romeo. L’idea dei gruppi dirigenti della stampa è evidente ed è sempre stata quella: “l’informazione è cosa nostra. Nessuno è ammesso al nostro tavolo se non si sottomette”. Romeo, invece, senza chiedere il permesso, ha dato una gran manata sul tavolo e ha deciso di irrompere nell’arena con dei giornali indipendenti in un paese che non conosce indipendenza della stampa. Prima ha guidato per tre anni l’esperienza – che io credo sia stata molto importante – del Riformista, unico giornale totalmente garantista, poi ha raddoppiato acquistando l’Unità. Il più furioso di tutti, naturalmente è Il Fatto. Che è andato un po’ fuori di testa. Travaglio ha scatenato le sue pagine contro Romeo, e anche contro Renzi. Con articoli in gran parte comici. A partire dal suo, che riesce a parlare di tutte le ipotetiche malefatte di Romeo senza mai dire che l’accusa che gli è stata fatta, e cioè di avere turbato le aste di Consip, si è conclusa con un’assoluzione piena che chiude definitivamente tutta la vicenda, e cioè anni e anni di campagna di stampa diffamatoria e di calunnie. Il tribunale ha detto: no, Romeo non ha turbato un fico secco.

Anni – dicevamo – di campagna di diffamazione, che hanno portato danni umani, fisici e anche economici – grandissimi – a Romeo. Per i quali, credo, nessuno lo risarcirà. Ma il punto sommo della comicità, da parte del Fatto Quotidiano, è raggiunto da un articolo pubblicato in pagina interna, nel quale si citano con sdegno anti-Romeo tutte le sue vicende processuali. E poi, ogni capitoletto, ciascuno dedicato all’indignazione per gli orrori combinati da Romeo secondo i Pm, si conclude con una riga che sembra uno scherzo, sempre uguale: “Però è stato assolto…”. Alto giornalismo, diciamo la verità, non so se ormai è il tipo di giornalismo che si insegna nelle scuole di giornalismo. Certo, se dico che è robaccia lo faccio solo perché sono un tipo che usa le parole con sobrietà.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Renzi: “Così sarà il mio Riformista”, le polemiche di Fontana che dimentica i direttori-onorevoli avuti in passato. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 6 aprile 2023

Matteo Renzi spariglia. Non lascia, «raddoppia», dice. E alla politica affianca una sfida giornalistica che ci riguarda direttamente. Sarà il senatore che ha inventato la Leopolda, guidato il Pd, conquistato Palazzo Chigi e fondato Italia Viva a dirigere Il Riformista a partire da maggio, mentre Piero Sansonetti dirigerà l’Unità: i due quotidiani del Gruppo Romeo saranno parallelamente in pista.

Due voci diverse, libere e indipendenti del centrosinistra e del mondo liblab, unite dalla sensibilità garantista e dall’attenzione al mondo dei diritti. Alfredo Romeo finalizza una operazione destinata a essere ricordata: «Oggi più che mai editoria e informazione sono capisaldi delle libertà e della democrazia. Nel panorama della stampa italiana ci sono ampi spazi da riempire, così, ho deciso di investire per aiutare a colmarli», dichiara. E precisa: «L’editoria difficilmente è un affare vantaggioso, ma non penso che il profitto possa essere l’unico scopo e l’unico interesse di un imprenditore». Certo, quella di avere un Renzi alla guida di una testata non è una notizia come un’altra e le reazioni, dagli auguri della premier Giorgia Meloni a quelli di Carlo Calenda, hanno coinvolto in primis la politica. Il quotidiano arancione festeggia il suo quarto anno di crescita mettendo alla guida della testata un Renzi deciso a dare il suo contributo a quella fabbrica delle idee riformiste da rilanciare. Classe 1975 e da sempre appassionato di informazione e nuovi media (ha scritto un libro su Google e uno su Twitter), Renzi ha dato vita lo scorso anno a Radio Leopolda, in breve arrivata a diventare l’emittente di riferimento di una vasta area politico-culturale.

La presentazione delle due novità, nuova Unità e nuovo Riformista all’Associazione Stampa Estera davanti a un centinaio di giornalisti e operatori dell’informazione. Sansonetti può dirsi soddisfatto, nel passargli il testimone: Il Riformista rinato con lui nel 2019 è entrato nelle classifiche dei 50 media più letti e influenti, e tra i parlamentari è al quarto posto come testata. Senza mai piegare la testa o mangiarsi una notizia, ha pubblicato inchieste e interviste che oltre ai lettori hanno portato a decine di querele. “Tutte di magistrati”, commenta con un filo di ironia Sansonetti: “Tra loro è difficile che si archivino”. Renzi chiarisce da subito che il garantismo rimane pietra angolare della testata. Il senatore prosegue: «Ho una passione vera con tutto ciò che ha a vedere con verità e viralità. Dopo la sconfitta referendaria l’unica cosa che dissi è che ‘stiamo entrando nell’era della post verità». E poi: «La verità del Riformista sta nel non essere col sovranismo di Giorgia Meloni né con la linea del Pd di Elly Schlein e del Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte».

Matteo Renzi continua: «Non lascio ma raddoppio. Continuerò a fare il parlamentare, continuerò a fare opposizione e inizierò a fare questa operazione di verità con il Riformista. Non ci sarà posizione politica legata a vicende del Terzo Polo». «Ci saranno posizioni diverse rispetto a prima – continua Renzi – a partire dalla guerra in Ucraina. Il trait d’union con l’Unità è quello del garantismo radicale“. E poi indica i temi forti, le priorità: l’innovazione, le riforme, il nucleare. Con l’ambizione di “proporre un’agenda diversa” rispetto a quella dell’attuale dibattito e parlare «ai moderati del centrodestra e alle aree del Pd che non si riconoscono in Schlein». Matteo Renzi descrive così l’indirizzo che vorrà dare a Il Riformista, in una doppia veste di parlamentare e direttore che a chi storce la bocca, ricorda fu già di “Veltroni a L’Unità e di Sergio Mattarella al glorioso Il Popolo”.

La notizia arriva in mattinata, la annuncia un tweet del quotidiano, rilanciato poi da Renzi: «Siamo stati bravissimi a tenere il segreto», si diverte l’ex premier, rivelando che Giorgia Meloni «è stata la prima a saperlo: resto un suo fiero avversario, ma l’ho chiamata stamattina per dirglielo». Dunque prima anche di Carlo Calenda, che però «mi sembra entusiasta, ha già ritwittato… «Se rilancia un giornale sono contento – commenta il leader di Azione – Dopodichè non è il giornale del Terzo Polo e non rappresenterà la linea del Terzo Polo». L’idea di dirigere il giornale, scherza ancora Renzi, arriva da un insospettabile: «Non dirò mai il nome dell’autorevole parlamentare del Pd che ha suggerito a Sansonetti il mio nome per la direzione del Riformista, gli rovinerei la carriera politica… e non voglio rovinare la carriera di Gianni Cuperlo». L’obiettivo dunque è quello di parlare a quell’area che va «dai moderati ai liberali che non si riconoscono certo nella “sinistra radicale” di Elly Schlein. Lo spazio politico per il Terzo polo sono convinto che ci sia e sia ampio, penso che lo spazio del Riformista debba andare oltre il Terzo polo», chiosa Renzi.

Un obiettivo «in linea con la mia esperienza politica: non lascio ma raddoppio. Continuerò a fare il parlamentare dell’opposizione, continuerò a intervenire in Aula, continuerò a fare quello che facevo prima. Ma ci metto anche un’operazione che per me serve al Paese». In un ruolo singolare, considerando il rapporto con i giornalisti, segnato da numerose querele: “Non le ritiro”, afferma Renzi, “e ora semmai rischio di riceverle…”. E arriva anche una domanda sui rapporti con l’Arabia Saudita, patria del giornalista Kashoggi fatto barbaramente uccidere: «Il mio giudizio sul futuro dell’Arabia Saudita fu molto criticato, parlai di nuovo Rinascimento, se parliamo di geopolitica non ho alcun motivo per cambiare idea», rivendica Renzi. «Poi come in tanti altri Paesi non c’è un regime di libertà di informazione, come anche in alcuni Paesi d’Europa e io su questo ho sempre parlato nelle sedi opportune».

Non sono mancate le voci polemiche. Il M5S sentenzia prima ancora di poter valutare il lavoro del futuro direttore: «Renzi oggi ci fa sapere che assume la direzione del Riformista ma che non ha alcuna intenzione di lasciare il suo ruolo da parlamentare». Lavorare, e molto, sembra essere un argomento che preoccupa parecchio, da quelle parti. «È francamente preoccupante che un parlamentare in piena attività diriga contemporaneamente un quotidiano. Renzi non vede o fa finta di non vedere che ci sono ragioni di opportunità evidenti nell’assumere questo doppio incarico: la legge non lo vieta, ma che credibilità può avere un giornale diretto da un leader di partito? Qualsiasi parvenza di imparzialità della testata è totalmente compromessa, ma evidentemente per Renzi – abituato ai doppi incarichi fuori dal Parlamento – questo non è un problema», fanno sapere i capogruppo M5S in commissione Cultura alla Camera e al Senato, Anna Laura Orrico e Luca Pirondini. Esorbitante l’intemerata del direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana.

«Mi stupisce che Renzi voglia fare tremila mestieri e non l’unico per cui è stato eletto dal popolo italiano, che è quello di fare il senatore della Repubblica», dice lo stesso Fontana che ha lavorato all’Unità diretta dall’onorevole Macaluso, a quella diretta dall’onorevole Chiaromonte, a quella diretta dall’onorevole D’Alema e anche a quella diretta dall’onorevole Veltroni, adombrando che vi sia una qualche incompatibilità tra fare il senatore e dirigere un giornale. Gli risponde Vittorio Feltri: «Nessun conflitto di interessi, non esiste incompatibilità. Renzi sarà capace di farlo bene. Renzi è tutt’altro che stupido, a me piace molto. Certo, di puttanate nella vita ne ha fatte tante, specialmente in politica e, secondo me anche immeritatamente, è stato messo in un cantuccio. Ma io credo che saprà fare bene, almeno me lo auguro».

Diversa l’analisi di Vittorio Sgarbi, che vede nella direzione affidata a Renzi il progetto di una cucitura tra elettori (e lettori) liberali e riformisti: «Il Pd non smotta verso di lui, la Schlein è formidabile e chi è già dentro resta lì. Lui che pensava di recuperare i moderati non avrà altro che andare verso destra. Un tema che lui ha ereditato da Berlusconi è quello della giustizia. Il Riformista è un classico giornale che fa queste battaglie. Il suo problema è che non piace al popolo, che non vuole essere preso per il c..o. Per cui è bravissimo, ma gli è andata male per cui fare il direttore di un giornale può essere molto efficace per esprimere delle posizioni».

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Estratto dell'articolo di Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 6 aprile 2023.

Chiederà un’intervista a Giorgia Meloni. E ad Elly Schlein. Chi? Matteo Renzi. Neo-direttore del Riformista. “Perché no? – risponde a Repubblica l’ex rottamatore, nel giorno dell’investitura – Con Meloni verrebbe bene. Una chiacchierata tra un ex premier e una premier in carica. Potremmo parlare di come ti cambia la vita a Palazzo Chigi”.

 […] E Schlein? “Come Meloni, non sarà il target, diciamo così, del giornale che ho in mente. Ma la intervisterei”. Sempre che la nuova inquilina del Nazareno accetti. Ai nuovi quasi-colleghi della carta stampata Renzi però non farà sconti. Anzi. "Non ritirerò le querele - annuncia - semmai ora ne rischierò qualcuna". Senza grandi angosce, in realtà: le querele arriveranno al direttore responsabile, che non sarà lui, dato che farà il direttore editoriale.

Questione di incompatibilità: Renzi non è iscritto all'albo dei giornalisti e, soprattutto, è parlamentare, dunque non può avere la responsabilità di un giornale, per legge. E sempre perché conserverà lo scranno in Senato, anche le querele contro gli articoli che firmerà in prima persona saranno scudate dall'immunità parlamentare: le indagini dovranno essere vagliate dalla giunta per le autorizzazioni di Palazzo Madama.

 Renzi direttore, dunque, ma senza il fardello degli strascichi legali. […] dirigerà il giornale ex Angelucci ora di proprietà di Alfredo Romeo (che è stato imputato con Renzi padre nel caso Consip, “tutte invenzioni”, dice il senatore), lo stesso imprenditore che ora vorrebbe rilanciare il giornale fondato da Gramsci.

[…] Per Renzi sarà un regno, editorialmente parlando, piccolino: le copie del Riformista non sono censite; si sa invece che ha 5 redattori, ma quasi tutti trasmigreranno con Sansonetti a l’Unità, che ne avrà 7 e infatti il vecchio comitato di redazione già protesta.

 Dunque Renzi potrà assumerne 4-5, di giornalisti, tra cui il direttore responsabile, da spedire in tv, e un caporedattore-macchina. La nuova avventura cartacea comunque lo stimola. “Anche Mattarella è stato direttore del Popolo”, ricorda. E anche Veltroni e D’Alema, proprio con l’Unità.  “Sono felice, è una fase in cui c’è un disperato bisogno di verità e di libertà”. E a proposito di libertà d’informazione, gli chiedono in conferenza stampa, ne parlerà anche in Arabia Saudita? “Sul tema – replica lui - ho sempre fatto sentire la mia voce come membro del governo e del parlamento. Il caso Kashoggi? L’ho condannato”.

[…] Calenda per ora è il più entusiasta, forse perché spera di avere finalmente campo libero nel gestire il partito: “Complimenti per il prestigioso incarico”, gli ha twittato ieri. Ma appunto, Renzi in realtà non lascia. Nel cartello centrista-macroniano continua a credere, assicura, nonostante il risultato striminzito alle regionali friulane.

[…] Recluterà collaboratori anche fra gli eletti dem, che un po’ si offrono, come ieri in Senato faceva, scherzando, la ministra Daniela Santanché: "Fammi scrivere di turismo". Risposta: “Ma no, semmai Briatore, che vi ha criticato”. “Figurarsi, non gli ho parlato per due giorni”.

La svolta editorial. Renzi direttore del Riformista: no, non mi piace. Matteo Renzi è diventato il nuovo direttore de Il Riformista. Quindi ora fa il senatore o il giornalista? Nicola Porro il 6 Aprile 2023,

Non posso non affrontare la questione che riguarda il nuovo direttore del Riformista, Matteo Renzi. Stamani, Roncone, sul Corriere della Sera, lo sfotte dicendo che Renzi fa qualsiasi lavoro tranne fare il senatore nonostante sia pagato dai contribuenti. Poi il Domani lo definisce il “direttore irresponsabile“. Il perché sia irresponsabile ce lo spiega Travaglio in questa specie di burocratismo assurdo. Renzi, infatti, non è iscritto all’ordine giornalisti e quindi non può essere direttore responsabile. Di fatto, non deve rispondere legalmente delle cazzate che verranno scritte sul Riformista.

Io ad esempio sono direttore responsabile di questo sito quindi, ad ogni cazzata che scrivono i miei giornalisti, ne pago le conseguenze sia penalmente che civilmente. Renzi non solo gode dell’immunità parlamentare, ma ci avrà una testa di paglia (oppure un suo amichetto) che sarà responsabile di quello che verrà scritto sul giornale di cui lui è direttore editoriale.

La cosa divertente, come dice Travaglio, è che Renzi, rimasto senza elettori, ora va alla ricerca di lettori. Io credo che nella vita uno debba decidere che cosa fare e cosa no. Un senatore non può pensare di fare il giornalista: non è libero di dire certe cose perché è di parte. Anche io sono di parte, ma gli unici a cui devo rendere conto siete voi commensali. Non devo cercare voti al Senato né tantomeno mi candido a governare il Paese.

Francamente non so se sarà un ottimo giornalista o meno, so solo che, in un paese normale, le carriere da politico e da giornalista non dovrebbero mescolarsi come invece è successo nei casi di Polito, Gruber, Santoro e tanti altri che oggi si dichiarano giornalisti e, in quanto tali, pretendono di non essere considerati di parte.

Nicola Porro, 6 aprile 2023

Renzi nuovo direttore del “Riformista”: giornale di proprietà del coimputato del padre. Stefano Baudino su L'Indipendente il 5 Aprile 2023

«Capisco che a qualcuno faccia un po’ sorridere o preoccupare, ma io ho una passione vera per il rapporto tra verità e viralità». Matteo Renzi ha aperto con queste parole la conferenza stampa con cui oggi ha annunciato di essere stato nominato nuovo direttore del quotidiano Il Riformista. Al suo fianco, un soddisfatto Piero Sansonetti, che gli cede il posto per andare a dirigere L’Unità, storico quotidiano fondato da Antonio Gramsci, riaperto dopo anni di crisi. Entrambi agiranno sotto l’egida dell’editore Alfredo Romeo, il quale è peraltro coimputato con Tiziano Renzi – padre dell’ex premier – per traffico di influenze illecite nell’ambito dell’inchiesta Consip. In questi anni, ovviamente, i due sono stati strenuamente difesi da Sansonetti, in nome della linea garantista che rappresenta il marchio di fabbrica del quotidiano.

«Io penso che la forza di un giornale libero, che oggi si deve giudicare non più dalle copie vendute ma dalla credibilità e autorevolezza della narrazione che propone, sia proprio quella di riuscire a fornire un racconto, una verità, che nel caso del Riformista sta nel proprio nome», ha dichiarato Renzi. Un’identità che, secondo il senatore del Terzo Polo, si troverà fisiologicamente a contrapporsi a quella del «sovranismo» della maggioranza di destra e a quella della «sinistra radicale che ha vinto il congresso del Pd con Elly Schlein».

La scelta di accettare la nomina è considerata da Renzi «molto in linea» con la sua esperienza politica. Una strada che, peraltro, l’ex premier non ha nessuna intenzione di mollare: «Non lascio ma raddoppio, continuerò a fare il mio lavoro da parlamentare e intervenire in aula», ha chiarito. Ancora una volta, insomma, un importante esponente del mondo politico italiano si trova a entrare in tackle scivolato nel mondo dell’informazione, in barba ai più basici meccanismi sottesi alla separazione tra potere politico e mediatico.

Nessun altro parlamentare, oggi, detiene la direzione di una testata giornalistica. Renzi si difende dalle accuse di conflitto di interessi citando, in particolare, due casi: «Tanti parlamentari hanno fatto i direttori: Veltroni era vice direttore dell’Unità, Mattarella direttore del Popolo». Peccato che, quando Veltroni lo dirigeva, L’Unità fosse l’organo ufficiale del Partito Democratico della Sinistra; lo stesso discorso vale per Il Popolo, testata ufficiale del Partito Popolare Italiano negli anni della direzione di Mattarella. Una sottile differenza che Renzi si è ben guardato dal sottolineare.

L’operazione ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio assist fornito alla sua forza politica di appartenenza. Renzi lo dice senza mezzi termini: «Nel mio piccolo darò una mano anche da direttore del Riformista al progetto del Terzo Polo», di cui si ritiene «un leale collaboratore». Ma il senatore punta ancora più in alto: «Il Riformista ambisce ad essere letto come primo giornale da un pezzo di mondo dell’attuale maggioranza, penso al mondo dei moderati di Forza Italia, dell’Udc e di un centro-destra riformista che c’è e fa fatica a imporsi, e che parla a un mondo dell’area del Pd che non si riconosce appieno nelle posizioni della Schlein».

Rispetto al rapporto con L’Unità, al netto della diversità di vedute sulla guerra in Ucraina – Renzi, a differenza di Sansonetti, è estremamente favorevole all’invio delle armi a Kiev – il politico delinea un «fil-rouge»: ovviamente, quello del «garantismo». A questo proposito, Renzi cita la situazione dell’ex vicepresidente del Parlamento Europeo Eva Kaili, coinvolta nell’inchiesta “Qatargate” e sottoposta a carcerazione preventiva da 5 mesi «perché confessi». Nonostante abbia ammesso che vi sia un problema di «libertà di informazione» in Arabia Saudita, dove è arrivato a guadagnare oltre un milione di euro per “prestazioni fornite in qualità di consulente“, rispondendo alla domanda di un giornalista il neo direttore del Riformista ha comunque voluto difendere il regime di Riad, che a suo dire avrebbe assunto «una leadership in un percorso di innovazione».

Non possedendo Renzi il patentino da giornalista professionista, potrà ricoprire la carica di direttore editoriale ma non quella di direttore responsabile (per il quale si attende la nomina nei prossimi giorni). La nuova avventura del politico, di cui ancora non si conoscono i dettagli contrattuali, partirà ufficialmente il 3 maggio. [di Stefano Baudino]

Matteo Renzi è il nuovo direttore del quotidiano “il Riformista”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Aprile 2023

L'ex presidente del Consiglio ricoprirà l'insolita veste di direttore di una testata giornalistica per un anno. L'attuale direttore, Piero Sansonetti, va a dirigere L'Unità. Entrambi i giornali hanno come editore, l'avvocato ed imprenditore napoletano Alfredo Romeo

Adarne notizia è non solo l’ormai ex direttore Piero Sansonetti, “Matteo Renzi è il nuovo direttore del Riformista” e lo stesso leader di Italia Viva ha confermato la notizia. “Ho accettato una sfida affascinante: per un anno sarò il direttore de ‘Il Riformista’”, ha twittato Renzi, dando appuntato a una diretta su Facebook “per – scrive l’ex premier – raccontarvi questo progetto”.

Renzi: “Non lascio l’impegno in politica ma raddoppio”

 “Non lascio ma raddoppio, continuerò a fare il parlamentare di opposizione, a intervenire in Aula, a fare esattamente quello che stavo facendo, ma ci metto sopra un carico da novanta, tentando di fare un’operazione che serve al Paese. Sarò direttore per un anno, poi vedremo cosa fare da grandi”, ha detto Renzi, nella conferenza stampa in cui ha reso noto il suo nuovo incarico.

Meloni prima a sapere che dirigerò il Riformista”

 “Stamani ho chiamato la presidente del consiglio, di cui sono un fiero oppositore e a cui non lasceremo passare mezza virgola, per informarla. È stata la prima a sapere questa notizia”, ha rivelato l’ex premier. “Ringrazio Sansonetti per il lavoro di questi anni” al Riformista, ora che dirige l’Unità “sarà affascinante capire su quali temi l’Unità si caratterizzerà, sarà bello dialogare e discutere a distanza. Credo che la vera notizia sia il ritorno dell’Unità in edicola. Una grande scommessa”, ha aggiunto il leader di Italia Viva.

Ho accettato una sfida affascinante: per un anno sarò il direttore de @ilriformista. Ci vediamo in diretta su Facebook alle 12 per raccontarvi questo progetto.

Subito dopo Carlo Calenda, leader di Azione, si è complimentato con Renzi per “il nuovo prestigioso incarico“. Ed ha aggiunto: “Il Riformista è un giornale che ha fatto tante battaglie di civiltà, con Matteo avrà una voce ancora più forte”, conclude Calenda. Solo poche ore prima il leader del Terzo Polo, su Tgcom24, aveva detto: “Renzi già da tempo non è negli organismi direttivi del Terzo polo, ha fatto un passo indietro. L’aveva promesso e l’ha fatto, fine. È nei fatti, ha rispettato una promessa fatta agli italiani”.

L’avvocato Alfredo Romeo editore de il Riformista e de l’Unità ha pubblicato una sua nota sul sito del quotidiano affidato a Matteo Renzi: “Sono entrato nell’editoria per una ragione semplice: oggi più che mai editoria e informazione sono capisaldi delle libertà e della democrazia. Nel panorama della stampa italiana ci sono spazi molto ampi da riempire. Ho deciso di investire risorse per aiutare a colmare questi spazi. L’editoria difficilmente è un affare vantaggioso, ma non penso che il profitto possa essere l’unico scopo e l’unico interesse di un imprenditore. Sono un imprenditore meridionale, che ha lavorato molto nella sua vita e che da sempre è legato, sia affettivamente sia intellettualmente alle idee di libertà e di giustizia sociale. Perciò mi sono lanciato in questa sfida“.

Il Riformista nato per raccordare la sinistra al centro

 “Questa è la ragione per la quale, quattro anni fa, ho acquistato la testata Il Riformista. Che è nato come quotidiano di raccordo tra le posizioni della sinistra e quelle del centro. In una cornice radicale, liberale e garantista. Poi si è attestato su posizioni più nettamente di sinistra, ma ha sempre mantenuto alta la bandiera del garantismo. Quando lanciai il Riformista dissi: ‘Sarà il giornale dei rom e dei re. I rom e i re sono uguali’ – continua Romeo -. In questo spirito ho deciso di allargare il nostro intervento. Investendo nuove risorse. Voglio dare a tutte le correnti ideali della sinistra e del centrosinistra la possibilità di esprimersi. Perciò ho rilevato la testata dell’Unità, giornale storico, fondato da un gigante politico come Antonio Gramsci. Nelle prossime settimane l’attuale direttore del Riformista Piero Sansonetti assumerà la direzione de l’Unità, della quale è stato giornalista e condirettore per diversi decenni, e finalmente la sinistra storica e tradizionale tornerà ad avere un suo giornale. Spero sia un contributo perché la sinistra torni a pensare e a correre. Il Riformista invece tornerà alla sua vocazione originale liberal-democratica, garantista e pluralista, rappresentando tutte le idee costruttive che vanno dalla sinistra più moderata di aspirazione socialista e democratica, alle tradizioni popolari e quelle liberali, con uno sguardo fortemente rivolto al futuro del mondo“.

Per questo ho chiesto a una personalità italiana di grande spessore, come Matteo Renzi, di assumerne la direzione. E lui, generosamente, ha accettato”, prosegue l’editore, concludendo: “L’Unità e il Riformista saranno giornali diversi, in alcune cose anche contrapposti. Dialogheranno e combatteranno, per il pluralismo e per la crescita del paese. Penso che dal mese di maggio, quando tutti e due i giornali andranno a regime, la sinistra italiana potrà avere nuovo ossigeno, nuovo cuore, nuova anima. Lo stesso mi auguro per tutte le forze riformiste del paese ovunque collocate. Io sosterrò questo sforzo naturalmente nel pieno e assoluto rispetto dell’ indipendenza di due direzioni così autorevoli“.

Nel corso della conferenza stampa di presentazione svoltasi presso la sala della stampa estera a Roma è stato anche confermato che Piero Sansonetti sarà il nuovo direttore de L’Unità. “Mi ha fatto fuori…”, ha ironizzato l’ormai ex direttore del Riformista, ed il suo successore, Matteo Renzi, seduto accanto a lui, ha risposto con una sua abituale battuta ormai arcinota nell’ambiente politico, un vero e proprio evergreen: “Stai sereno…”. Redazione CdG 1947

Matteo Renzi, la «bulimia» dell’ex premier tra politica, affari e conferenze. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2023

Le assenze al Senato per i viaggi all’estero (e le cause nei tribunali), aspettando di esaudire il sogno di allenare la Fiorentina 

In attesa di diventare allenatore della Fiorentina (è il suo sogno: e, prima o poi, riuscirà a realizzarlo), Matteo Renzi si è lasciato (o fatto?) nominare direttore de Il Riformista, un quotidiano che Piero Sansonetti — passato per lo stesso editore a dirigere l’Unità — ha finora tenuto su posizione garantiste, nemico dichiarato di ogni populismo (che poi nessuno sa mai bene dove cominci e dove finisca, questo cosiddetto populismo).

Comunque: facendo sfoggio della consueta sicurezza, che i suoi nemici definiscono battente protervia (gentaglia invidiosa, sia chiaro), Renzi spiega che non lascia la politica, raddoppia. In realtà, questa è una piccola, deliziosa bugia: perché, come vedremo tra qualche capoverso, Renzi non solo raddoppia, ma — ormai da qualche tempo, più o meno da quando fu costretto a lasciare Palazzo Chigi — triplica, quadruplica, quintuplica mosso da botte di una bulimia che tiene dentro politica e passioni, affari e debolezze.

La buona notizia, intanto, è che sembra rendersi conto di essere un senatore della Repubblica ancora in carica, eletto da migliaia di persone che hanno creduto in lui e nel partito che ha fondato, Italia viva (e anche in Carlo Calenda, con cui si è fidanzato politicamente). Certo: nessun italiano, appena informato su come vanno le cose di questo Paese, vota il suo candidato illudendosi di vederlo in Parlamento dalla mattina alla sera. Tutti sappiamo che deputati e senatori arrivano il martedì pomeriggio e, bene che vada, se magari c’è qualche votazione importante, ripartono e spariscono il giovedì, dopo l’ammazzacaffè di pranzo. 

Il fatto è che Renzi, al Senato, lo vedevamo già molto meno degli altri anche prima dell’annuncio di questa avventura editoriale. Tipo che chiedi ai suoi: dov’è? E quelli ti rispondono, tra il rassegnato e il mortificato: «Matteo è all’estero». Conferenze, simposi, seminari. Ogni tanto lo segnalano in Arabia, gira voce sia molto amico di Bin Salman (è sempre complicato capire le amicizie degli altri). Di sicuro, una volta s’arrischiò a dire che da quelle parti c’è «un nuovo Rinascimento». Che poi Renzi dovrebbe pure intendersene. Per Lucio Presta — che lo strapagò, sembra — ha infatti ideato e condotto un documentario su Firenze (visto, in verità, solo dalla moglie Agnese e pochi intimi). Poi, per non farsi mancare niente, c’è l’attività letteraria. Ultimo libro pubblicato: «Il mostro. Inchieste scandali e dossier. Come provano a distruggerti l’immagine». Cioè, la sua. Perché, ecco: ci sarebbe pure l’impegnativa attività nelle aule di giustizia. Dove viene chiamato. E chiama. Detto che, ogni tanto, qualche causa per diffamazione la perde malamente, adesso alle querele dovrà stare attento lui (occhio, senatore: certe volte, come lei sa bene, basta uno stupido aggettivo).

In ogni modo: lui è in gran forma (aveva detto di volersi prendere un periodo di riflessione: e certo, come no?). In conferenza stampa, accanto al suo editore, Alfredo Romeo, e a Sansonetti, sfoggiava un bel doppiopetto blu che, finalmente, si chiude senza che i bottoni stiano per schizzarti addosso. Merito della corsa: domenica, alla Maratona di Milano, ha persino abbassato di 12 secondi il suo record personale. Attualmente stiamo però tutti cronometrando la durata della convivenza con Calenda. La tremenda batosta alle regionali induce al pessimismo. Anche perché la coppia, a parte certe differenze al girovita (Calenda, piano piano, sta diventando una drop 2), ha tratti caratteriali profondamente simili (bum bum!). La politica c’entra e non c’entra. Del resto, come insegna Renzi, non si vive solo di quella.

L'annuncio dell'editore Alfredo Romeo. Matteo Renzi è il nuovo direttore del Riformista, la presentazione

Redazione su Il Riformista il 5 Aprile 2023

Piero Sansonetti: “Sono stato fatto fuori, l’altro giorno l’ho incontrato ha detto ‘stai sereno’ ed ecco qui Renzi direttore. Romeo ha deciso di diventare l’editore dei giornali di sinistra e del centrosinistra con L’Unità e Il Riformista. L’idea di Renzi è stata geniale”. Le parole di Matteo Renzi da nuovo direttore del Riformista: “Grazie a Piero Sansonetti per il lavoro di questi anni, chiunque di noi è curioso di rivedere in edicola L’Unità, questa è la vera notizia. Sarà bello dialogare a distanza”. Il senatore prosegue: “Ho una passione vera con tutto ciò che ha a che vedere con verità e viralità. Dopo la sconfitta referendaria l’unica cosa che dissi è che ‘stiamo entrando nell’era della post verità'”. “La verità del Riformista sta nel non essere nel sovranismo di Giorgia Meloni né con la linea del Pd di Elly Schlein e del Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte“.

Matteo Renzi continua: “Non lascio ma raddoppio. Continuerò a fare il parlamentare, continuerò a fare opposizione e inizierò a fare questa operazione di verità con il Riformista. Non ci sarà posizione politica legata a vicende Terzo Polo”. E sulle posizioni politiche specifica: “Non ci sarà posizione politica legata a Terzo Polo. Ci saranno posizioni diverse rispetto a quella avuta da Sansonetti. A partire dalla guerra in Ucraina. Il trait d’union con l’Unità è quello del garantismo radicale“.

Il Riformista a guida Renzi uscirà “il 3 maggio. Ci sarà un direttore responsabile perché non sono giornalista. Sarò direttore per un anno, fino al 30 aprile 2024″. E sul nuovo percorso con l’editore: “Sono orgoglioso di lavorare con Romeo, a maggior ragione dopo quello che gli ho visto subire in questi anni con l’inchiesta Consip“. Poi scioglie ogni dubbio: “Un parlamentare può fare il direttore di giornale? Ce ne sono stati tantissimi nella storia di questo Paese. Mi piace ricordare Sergio Mattarella direttore del Popolo”. Il nome del nuovo direttore: “Siamo stati bravi a mantenere il segreto fino ad oggi su di me successore di Sansonetti. Ho informato Giorgia Meloni, è stata la prima a sapere questa notizia e a cui continuerò a fare in modo fiera opposizione”. Con il governo “non faremo discussioni da ultrà come con i rave, i cinghiali, la carne sintetica. Vogliamo parlare di cose concrete. Sogno un luogo, una palestra, nella quale ciascuno possa sentirsi a casa nella sua libertà”.

Alle domande Renzi risponde: “Ritirerò le querele ai giornalisti adesso? No, le rischio le querele adesso passando dall’altra parte del tavolo”. Gli emonumenti, fa sapere il senatore saranno pubblici a fine anno: “Quanto guadagno al Riformista? Al momento non ho ancora firmato un contratto“. Che giornale sarà? “Proveremo a innovare nella continuità. Non lascio il Terzo Polo ma, voglio essere molto chiaro, raddoppio. Ho avvisato Calenda e mi è parso entusiasta”. Come tratteremo vicende magistratura? “Saremo più moderati, non faremo ‘titoli sobri’ come Sansonetti… L’attenzione che il Riformista darà al mio processo, Open, sarà molto scarsa. Non so se saremo all’altezza del Riformista di Sansonetti nell’affermazione della cultura garantista”.

Le domande dei giornalisti in sala vertono sul suo futuro politico: “Che ruolo avrò nel Terzo Polo? Sarò iscritto perché ci credo, al momento di candidati vedo solo Calenda poi quando arriverà la candidata alternativa lo comunicheranno i diretti interessati. Io non sono della partita”. Lo stipendio raddoppia? “Non ho alcun problema a rendere pubblici i dati a fine anno. Non guadagno solo facendo il parlamentare ma anche con altro. Anche i giornalisti dovrebbero comunicare quanto guadagnano…”. La politica estera: “Come è noto ho espresso giudizio sul futuro dell’Arabia Saudita 3 anni fa che fu molto criticato. Spiegai che si stava costruendo stagione di nuovo rinascimento. Faccio una scommessa: da qui al 2030 ci sarà un cambiamento radicale”. Retroscena sul passo indietro? “Da un paio di mesi non vado più in televisione dopo una trasmissione su Rete4 dove sono stato 52min a parlare di Pos su roba che non esisteva perché non c’era un atto del governo”.

Riprende la parola Piero Sansonetti: “Ringrazio Renzi per aver accettato questa sfida. Ringrazio Alfredo Romeo per L’Unità, diventa editore della sinistra, una persona che per 16 volte colpito dalla magistratura, intercettato per 12 anni”.

Matteo Renzi è il nuovo direttore de Il Riformista. In diretta presso la sala conferenze dell’Associazione della Stampa Estera in Italia in Via dell’Umiltà 83 a Roma la presentazione. Dopo oltre tre anni il direttore Piero Sansonetti lascia la direzione de Il Riformista per passare a quella de l’Unità, testata storica salvata da Romeo Editore che verrà rilanciata dopo gli anni bui che l’hanno portata al fallimento.

L’avvocato Alfredo Romeo editore de il Riformista e de l’Unità ha dichiarato: “Sono entrato nell’editoria per una ragione semplice: oggi più che mai editoria e informazione sono capisaldi delle libertà e della democrazia”.

Nel panorama della stampa italiana ci sono spazi molto ampi da riempire. Ho deciso di investire risorse per aiutare a colmare questi spazi. L’editoria difficilmente è un affare vantaggioso, ma non penso che il profitto possa essere l’unico scopo e l’unico interesse di un imprenditore. Sono un imprenditore meridionale, che ha lavorato molto nella sua vita e che da sempre è legato, sia affettivamente sia intellettualmente alle idee di libertà e di giustizia sociale. Perciò mi sono lanciato in questa sfida.

Questa è la ragione per la quale, quattro anni fa, ho acquistato la testata “Il Riformista”. Che è nato come quotidiano di raccordo tra le posizioni della sinistra e quelle del centro. In una cornice radicale, liberale e garantista. Poi si è attestato su posizioni più nettamente di sinistra, ma ha sempre mantenuto alta la bandiera del garantismo.

Quando lanciai il Riformista dissi: “Sarà il giornale dei rom e dei re. I rom e i re sono uguali”.

In questo spirito ho deciso di allargare il nostro intervento. Investendo nuove risorse. Voglio dare a tutte le correnti ideali della sinistra e del centrosinistra la possibilità di esprimersi.

Perciò ho rilevato la testata dell’Unità, giornale storico, fondato da un gigante politico come Antonio Gramsci. Nelle prossime settimane l’attuale direttore del Riformista Piero Sansonetti assumerà la direzione de l’Unità, della quale è stato giornalista e condirettore per diversi decenni, e finalmente la sinistra storica e tradizionale tornerà ad avere un suo giornale. Spero sia un contributo perché la sinistra torni a pensare e a correre.

Il Riformista invece tornerà alla sua vocazione originale liberal-democratica, garantista e pluralista, rappresentando tutte le idee costruttive che vanno dalla sinistra più moderata di ispirazione socialista e democratica, alle tradizioni popolari e quelle liberali, con uno sguardo fortemente rivolto al futuro del mondo .

Per questo ho chiesto a una personalità italiana di grande spessore, come Matteo Renzi, di assumerne la direzione. E lui, generosamente, ha accettato.

L’Unità ed il Riformista saranno giornali diversi, in alcune cose anche contrapposti. Dialogheranno e combatteranno, per il pluralismo e per la crescita del paese .

Penso che dal mese di maggio, quando tutti e due i giornali andranno a regime, la sinistra italiana potrà avere nuovo ossigeno, nuovo cuore, nuova anima. Lo stesso mi auguro per tutte le forze riformiste del paese ovunque collocate.

Io sosterrò questo sforzo naturalmente nel pieno ed assoluto rispetto dell’ indipendenza di due direzioni così autorevoli.

Su Twitter il leader di Italia Viva, Matteo Renzi: “Ho accettato una sfida affascinante: per un anno sarò il direttore del Riformista. Ci vediamo in diretta su Facebook alle 12 per raccontarvi questo progetto”. Arrivano le congratulazioni anche di Carlo Calenda che su Twitter scrive: “Complimenti a Matteo Renzi per il nuovo prestigioso incarico. Il Riformista è un giornale che ha fatto tante battaglie di civiltà, con Matteo avrà una voce ancora più forte”.

Estratto dell’articolo di Mario Ajello per “il Messaggero” il 5 marzo 2023.

Una miriade di protagonisti: dalla A di Alessandro Magno e di Aung San Suu Kyi alla Z di Zapatero e di Zelensky. E in mezzo (senza gli italiani a parte Mattarella) tutti gli altri. Ogni leader fornisce a Gianluca Giansante, sapido e sapiente esperto di comunicazione ma non solo, docente alla Luiss e socio di Comin&Partners (ovvero relazioni istituzionali, politiche, aziendali), curiosità e spunti per illustrare qual è il modello di Leadership (questo il titolo del volume edito da Carocci) più adatto ai nostri giorni. […]

 E quella poesia di Brecht in cui si dice che il leader non vince mai da solo? - Giansante traccia un identikit di come va interpretata la funzione di guida politica e di Stato ma anche di qualsiasi gruppo associato.

Chi è ancora inchiodato nella concezione carismatica o titanica del leader, finirà per deporre le proprie vecchie armi concettuali perché i ragionamenti condotti dall'autore non lasciano scampo a proposito dell'approccio innovativo alla leadership di cui c'è estremo bisogno. Sei un leader che crede solo in se stesso, e magari si riferisce al proprio Ego usando la terza persona? Allora vuol dire che ha perso il treno della modernità.

Quella, per esempio, che già incarnavano uno come Marco Aurelio e uno come Nelson Mandela: grande coppia questa scoperta da Giansante! […] Forse perché Marco Aurelio, più di altri, trasmette la forza gentile della leadership, la capacità di un leader - e Mandela nella sua prigione sudafricana lesse attentamente le pagine dell'imperatore filosofo - di non essere vendicativo e di sforzarsi di comprendere le motivazioni e i linguaggi degli avversari e di saper diffondere emozioni positive. Non certo intese come buonismo ma come chiave politicissima per la costruzione del futuro.

Il nuovo segreto della leadership non sta nell'idea di potenza, ma nel motto di Martin Luther King: «Un vero leader non cerca il consenso, lo crea». Ma per fare questo occorre anche essere ben dotati di serotonina e di ossitocina: le due sostanze che favoriscono la collaborazione e la socializzazione […]

 […] Tu sei un leader vecchio o un leader adatto ai tempi nuovi? […] Il vecchio si basa sul comando, il nuovo sulla cooperazione.

Il vecchio usa la forza, il nuovo cerca il consenso. Il vecchio concepisce la leadership come auto-riferita ed egoistica, per il nuovo l'agire del leader è altruistico. Per il vecchio il gruppo è al suo servizio, per il nuovo è il leader che è al servizio del gruppo. E via così. […] prima di leggere il libro di Giansante, ogni leader si crede un Dio. E ovviamente sbaglia.

Marco Zonetti per Dagospia il 3 marzo 2023.

La direzione marketing della Rai, in collaborazione con l'istituto Ipsos, effettua un monitoraggio continuativo della notorietà dei personaggi famosi, avvalendosi di immagini fotografiche mostrate a un campione di 1000 casi, rappresentativo della popolazione nazionale di età superiore ai 16 anni. Più è elevata la percentuale abbinata al personaggio, più la notorietà di quest'ultimo è diffusa a livello nazionale. 

Dagospia è entrata in possesso di questo documento riservatissimo, ed è in grado di pubblicare la top 15 dei personaggi più noti secondo tale monitoraggio. Di seguito ecco i nomi in classifica decrescente, a partire dal quello più riconosciuto da parte del campione sondato. Con una certa sorpresa, la più nota è Luciana Littizzetto. 

 Seguono il "Pupone" Totti, Albano, Michelle Hunziker, Lino Banfi e Valentino Rossi ex aequo, Christian De Sica, Jovanotti, Renato Zero, Amadeus e Mara Venier al decimo posto.Si piazza bene Ezio Greggio all'undicesimo, e altrettanto bene Diego Abatantuono. Adriano Celentano è tredicesimo, Carlo Conti quattordicesimo e Maria De Filippi "solo" quindicesima.

Seguiranno prossimamente altre classifiche, con altrettante sorprese... Luciana Littizzetto: 96.4% Francesco Totti: 95.8% Al bano: 94.8% Michelle Hunziker: 93.9% Lino Banfi-Valentino Rossi: 93.1% Christian De Sica: 92.9% Jovanotti: 92.8% Renato Zero: 92.7% Amadeus: 92.4% Mara Venier: 91.9% Ezio Greggio: 91.7% Diego Abatantuono: 91.5% Adriano Celentano: 91.4% Carlo Conti: 90.7% Maria De Filippi: 90.5%

Estratto dell'articolo di Aldo Fontanarosa per repubblica.it il 3 marzo 2023.

In Rai lo chiamano "monitoraggio continuativo". Sotto la lente della tv di Stato finiscono 850 professionisti. Di queste persone, Viale Mazzini vuole sapere praticamente tutto: se il pubblico le conosce, se le considera brave, se viceversa abbiano stancato i telespettatori, se siano capaci di suscitare delle emozioni, se abbiano una effettiva visibilità sui social. In generale, se siano giudicate brave e di quale reputazione godano.

 Per stilare la classifica delle personalità più amate dagli italiani, la Rai cerca una società specializzata in sondaggi capace di un monitoraggio davvero intensivo degli umori del Paese. Questa società dovrà garantire alla tv di Stato venti sondaggi nell'anno, fino a due al mese.

Ogni personaggio sarà giudicato da mille persone, di età superiore ai 16 anni. Chi siano gli 850 osservati speciali, non è noto. Ad ogni sondaggio, la televisione pubblica potrà indicarne 400. Gli altri saranno scelti dalla società del sondaggio.

I professionisti monitorati apparteranno a categorie come:

- attori di ficion, cinema e teatro - conduttori, comici, show girl,

- giornalisti (inclusi quelli dei telegiornali, gli sportivi, i cronisti politici),

- cantanti e rock star - esponenti del mondo della cultura,

- sportivi (dal calcio allo sci, fino al nuoto) - chef,

- influencer e YouTuber - manager - personaggi della moda.

 (...)

 Per ottenere il servizio, la Rai è disposta a pagare fino a 95 mila euro:

- 47 mila 500 per un anno,

- altri 47 mila 500 per un'opzione di rinnovo per ulteriori 12 mesi.

Marco Zonetti per Dagospia il 3 marzo 2023.

Chi sono i giornalisti più noti in Italia secondo il riservatissimo monitoraggio della Rai effettuato in collaborazione con Ipsos, sul quale Dagospia ha messo le mani in assoluta esclusiva? Presto detto: di seguito la "top quindici" con le relative percentuali, in ordine decrescente a partire dal più riconosciuto a fronte di una fotografia mostrata ai mille sondati.

Bruno Vespa 89.8%

Alfonso Signorini: 86.3%

 Enrico Mentana: 81.3%

Paolo Brosio: 77.9%

Benedetta Parodi: 71%

Lilli Gruber: 70.1%

Cristina Parodi: 70%

Mario Giordano: 69.9%

Barbara Palombelli: 67.3%

Cesara Buonamici: 67%

Gigi Marzullo: 64.1%

Giovanna Botteri: 61%

Bianca Berlinguer: 54.8%

Lucia Annunziata: 54.1%

Giovanni Floris 52.6%

Com'è ovvio, vorrete sapere anche le percentuali di riconoscibilità di altri giornalisti del piccolo schermo, ed eccovi accontentati.

 La direttrice del Tg1 Monica Maggioni si assestava nel maggio 2021 al 20.4%, e Serena Bortone da anni alla guida di Oggi è un altro giorno, nel dicembre 2022 era nota al 28.3% dei sondati.

 Monica Giandotti, già conduttrice di Uno Mattina e ora al timone di Agorà, racimolava nel dicembre 2022 il 7.6%. Francesca Fialdini, già Vita in Diretta, già Zecchino D'Oro, già Uno Mattina, e ora da anni alla guida di Da noi… a ruota libera era riconosciuta nel dicembre 2022 a prima vista dal 30.1% dei sondati.

Milena Gabanelli, storica regina di Report, raccoglie il 39.6% mentre il suo sostituto Sigfrido Ranucci si accontenta del 28.9%. Pierluigi Diaco segna il 29.4%, mentre Ilaria D'Amico ottiene il 48.4%, Luca Telese il 35.6%, Concita De Gregorio è nota al 27.9% dei sondati, David Parenzo al 25.3%.

 Alessandro Giuli, conduttore di vari programmi su Rai2 e ora Presidente del Maxxi, nel luglio 2021, data dell'ultima rilevazione che lo riguardava, era riconosciuto dal 4.5% dei sondati. La sua ex collega di Seconda Linea, Francesca Fagnani, già al timone di Belve da anni, nell'ottobre 2022 (quindi prima del passaggio a Sanremo) segnava invece il 10.6% di riconoscimento.

Francesca Parisella, già conduttrice di Anni 20 e Anni 20 Notte, e ora co-conduttrice di Elisir, al dicembre 2022 era nota al 5.1% dei sondati. Gerardo Greco al novembre 2021 segnava il 14.1%.

 E il consorte di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno? Nella rilevazione del marzo 2021 era noto solo al 5.4%, ma ora sicuramente la percentuale sarà aumentata.

 E Veronica Gentili, regina di Rete4? Nel gennaio 2022, malgrado i tanti anni di conduzione su Rete4, si assestava sul 22.9%.

 Quanto a Tiziana Panella, da molto tempo alla guida di Tagadà? Nel maggio 2022 era riconosciuta dal 22% dei sondati. Nella stessa data, la collega Myrta Merlino – da anni al timone de l'Aria che tira – segnava il 26.3%.

 E Alberto Matano, già mezzobusto del Tg1 e ora da varie stagioni alla conduzione de La vita in diretta? Nel dicembre 2022, tre mesi fa, era noto al 39.6% degli intervistati, mentre il collega Salvo Sottile, ora alla guida de I fatti vostri, sempre nel dicembre 2022 era riconosciuto dal 53.1%. Il sostituto di Sottile A Mi manda RaiTre, Federico Ruffo, nel dicembre 2022 raccoglieva invece la percentuale del 3.7%.

 E Mario Sechi, ora passato a collaborare con Giorgia Meloni? Nel novembre 2021 racimolava un 18%, mentre Gaia Tortora, nel maggio 2021, data della sua ultima rilevazione, era sul 9% di riconoscimento.

Roberto Vicaretti, conduttore di Agorà Estate e di Titolo Quinto, nell'aprile 2021 era forte di un 2.5% di riconoscimento, laddove il collega di Rai3 Marco Carrara, storico collaboratore di Agorà e alla guida di Timeline, nonché prezzemolino in vari eventi Rai, raccoglieva nel luglio 2022 il 3.3%.

 E Andrea Scanzi? La firma del Fatto Quotidiano e ospite assiduo nei talk show, in data maggio 2021 era riconosciuto dal 28.9% dei sondati. Il suo collega Peter Gomez, invece, nell'aprile 2021 poteva fare affidamento su un 29.8%. Gianluca Semprini, volto di RaiNews e poi alla guida de La Vita in Diretta Estate, nel giugno 2022 vantava un 11.2% di riconoscimento.

Il barricadero Michele Santoro, dal canto suo, nel novembre 2021 (prima della sua esposizione mediatica degli ultimi tempi) poteva ancora contare su un 61.4% di riconoscimento, mentre Giuseppe Cruciani de La Zanzara si assestava nel giugno 2022 al 33.2%.

 Vira Carbone, da anni alla guida di Buongiorno Benessere, nel giugno 2021 raccoglieva il 6.4% mentre Monica Setta, al timone da anni di Uno Mattina in Famiglia, nel settembre 2022 era nota al 19.3% dei sondati. Il suo collega Tiberio Timperi, nella stessa data, era riconosciuto dal 61%.

 Stupisce la bassa percentuale di Franca Leosini, che nel settembre 2021 si assestava sul 22.4%, mentre Massimo Gramellini, suo collega a Rai3, era noto nel marzo 2021 al 19.8% dei sondati.

Paolo Del Debbio nell'ottobre 2022 contava sul 44% di riconoscimento, mentre il suo diretto concorrente Corrado Formigli nel maggio dello stesso anno raccoglieva il 31.3%.Giuseppe Brindisi al timone di Zona bianca, nel maggio 2022 contava su un 27.9% di riconoscimento.

 Senio Bonini, ora alla guida di Tg1 Mattina e prima di Agorà Extra, nel gennaio 2022 contava su un 4.1% mentre Annalisa Bruchi, da molti anni alla conduzione di programmi economici Rai in prima e seconda serata e dall'autunno 2022 padrona di casa di Restart, nel dicembre 2022 era nota al 3.8% dei sondati.

E Luisella Costamagna, passata dal giornalismo di approfondimento di Agorà a Ballando con le Stelle? Nel dicembre 2022, dopo l'esperienza danzereccia in prima serata su Rai1, era riconosciuta dal 21.8% dei sondati.

 Maurizio Belpietro contava nel dicembre 2022 su un 48.1% di riconoscimento, mentre Massimo Bernardini da molto tempo alla conduzione di Tv Talk era riconosciuto nel settembre 2022 solo dal 14% degli intervistati.

A presto con altri approfondimenti. E con altri nomi.

Marco Zonetti per Dagospia il 4 marzo 2023.

Dopo la pubblicazione della classifica parziale dei personaggi più noti in Italia secondo il riservatissimo monitoraggio effettuato dalla Rai in collaborazione con Ipsos, a Dagospia sono arrivati tantissimi messaggi che chiedevano le altre posizioni, e così abbiamo deciso di pubblicare le prime 100.

 Come abbiamo già visto, la classifica è dominata da Luciana Littizzetto, la più riconosciuta dal campione sondato, mentre l'amica Maria De Filippi è "solo" quindicesima.

 Degno di nota l'alto posizionamento di Orietta Berti, che all'undicesimo posto supera Bruno Vespa (primo dei giornalisti), Eros Ramazzotti, Gerry Scotti, Paolo Bonolis e Fedez nella top 20. Benissimo Pupo (21) che, ex aequo con Alessandro del Piero, batte perfino Gianni Morandi (22) e Cristiano Ronaldo (24). 

Fiorello è al venticinquesimo posto, mentre al ventisettesimo troviamo Pippo Baudo. Checco Zalone (28) precede Raoul Bova (29) e Alberto Angela, che staziona al trentunesimo, ex aequo con Ficarra & Picone. Ilary Blasi spicca al trentaduesimo quando invece l'ex marito Francesco Totti è al secondo posto.

 Laura Pausini troneggia al trentatreesimo posto mentre, con l'86.6% di riconoscimento, Barbara D'Urso s'insedia al trentaquattresimo superando Federica Pellegrini (35), Alfonso Signorini (36), Tiziano Ferro (39), Zlatan Ibrahimovic (40) e i Ferragnez (41), ovvero Fedez e Chiara Ferragni rilevati - nel maggio 2022 - come coppia. Fabio Fazio (44) precede i Maneskin, che si assestano – secondo la loro rilevazione avvenuta nel marzo 2022 –  alla posizione numero 49 con l'82.9% di riconoscimento.

 Sabrina Ferilli è al cinquantesimo posto subito prima di Antonella Clerici (51), prevalendo su Enrico Mentana (56), Rocco Siffredi (59), Piero Chiambretti (62), Flavio Insinna (64), Roberto Mancini (65) e Pino Insegno (67).

 Pamela Prati agguanta il numero 69, superando in riconoscibilità Monica Bellucci e Ambra Angiolini, ex aequo al 70. Massimo Giletti raccatta la posizione 75 ma risulta comunque più noto di Chiara Ferragni (80) e di Belen, solo ottantatreesima in classifica.

Milly Carlucci racimola l'ottantottesimo posto, mentre Alba Parietti è soltanto novantaquattresima. E se Silvia Toffanin si posiziona al novantanovesimo posto, Lilli Gruber con il suo 70.1% non riesce a entrare nella top 100 ristagnando al numero 105, in buona compagnia con Luca Argentero che si piazza alla posizione 102, con il 71.3% di riconoscimento.

 Ma ecco di seguito la classifica dei primi cento personaggi secondo il monitoraggio Rai-Ipsos, e a presto con altri approfondimenti. E altri nomi.

 1) Luciana Littizzetto 96.4

 2) Francesco Totti 95.8

 3) Albano 94.8

 4) Michelle Hunziker 93.9

 5) Lino Banfi 93.1 Valentino Rossi 93.1

 6) Christian De Sica 92.9

 7) Jovanotti: 92.8

 8) Renato Zero 92.7

 9) Amadeus 92.4

 10) Mara Venier 91.9

 11) Ezio Greggio 91.7

 12) Diego Abatantuono 91.5

 13) Adriano Celentano 91.4

 14) Carlo Conti 90.7

 15) Maria De Filippi 90.5

 16) Orietta Berti 90.1

 17) Bruno Vespa 89.8

 18) Eros Ramazzotti 89.5  Gerry Scotti 89.5

 19) Claudio Bisio 89.3  Paolo Bonolis 89.3

 20) Fedez 89.2

 21) Alessandro Del Piero 89.1    Pupo 89.1

22) Gianni Morandi 88.9   Claudio Amendola 88.9

 23) Massimo Boldi 88.6  Vanessa Incontrada 88.6

 24) Cristiano Ronaldo 88.5

 25) Fiorello 88.4

 26) Gianna Nannini 88.3

 27) Pippo Baudo 88.1

 28) Checco Zalone 87.9

 29) Raoul Bova 87.8   Antonino Cannavacciuolo 87.8

 30) Enzo Iacchetti 87.2

 31) Alberto Angela 87.1 Ficarra & Picone 87.1

 32) Ilary Blasi 87

 33) Laura Pausini 86.9

 34) Barbara D'Urso 86.6

 35) Federica Pellegrini 86.4  Simona Ventura 86.4

 36) Alfonso Signorini 86.3

 37) Mara Maionchi 86.2

 38) Giorgio Panariello 86 

39) Tiziano Ferro 85.7

 40) Zlatan Ibrahimovic 85.2

 41) Fedez-Ferragni 84.8

 42) Enrico Papi 84.3

 43) Enrico Brignano 84.2  Gigi D'Alessio 84.2

 44) Fabio Fazio 84.1

 45) Loredana Bertè 83.8  Luca & Paolo 83.8

 46) Arisa 83.5

 47) Cristiano Malgioglio 83.3

 48) Luciano Ligabue 83.2

 49) Maneskin 82.9

 50) Sabrina Ferilli 82.7

51) Antonella Clerici 82.2

 52) Giancarlo Magalli 82.1

 53) Riccardo Scamarcio 81.8

 54) Vladimir Luxuria 81.7

 55) Christian Vieri 81.5

 56) Enrico Mentana 81.3

 57) Lorella Cuccarini 81.2

 58) Massimo Ranieri 80.6

 59) Rocco Siffredi 80.4

60) Leonardo Pieraccioni 80.2

 61) Katia Ricciarelli 80.1   Luca Laurenti 80.1

 62) Piero Chiambretti 79.8

 63) Rita Dalla Chiesa 79.7

 64) Flavio Insinna 79.6 Maurizio Crozza 79.6

 65) Roberto Mancini 79.5

 66) Elisa 79.1

 67) Pino Insegno 78.8

68) Elio 78.6  Beppe Fiorello 78.6

 69) Pamela Prati 78.5

 70) Teo Mammuccari 78.2   Monica Bellucci 78.2   Gabriel Garko 78.2   Ambra Angiolini 78.2

 71) Paolo Brosio 77.9  Elisabetta Canalis 77.9

 72) Iva Zanicchi 77.8

 73) Il Volo 77.7

 74) Giovanni Storti 77

75) Massimo Giletti 76.9

 76) Giacomo Poretti 76.8

 77) Nino Frassica 76.7

 78) Carmen Russo 76.2

 79) Paola Cortellesi 76.1

 80) Chiara Ferragni 75.7   J Ax 75.7

 81) Emma Marrone 75.5

 82) Licia Colò 75.3

83) Belen Rodriguez 75

 84) Claudio Lippi 74.9

 85) Pierfrancesco Favino 74.7

 86) Lillo & Greg 74.5  Carlo Cracco 74.5

 87) Alessia Marcuzzi 74.4

 88) Milly Carlucci 74.2

 89) Francesco Facchinetti 74

 90) Fabio De Luigi 73.8  Ornella Muti 73.8

 91) Mahmood 73.5

 92) Aldo Baglio 73.1 93) Ale & Franz 72.9  Sandra Milo 72.9  Alex Britti 72.9

 94) Alba Parietti 72.8

 95) Giorgio Chiellini 72.7

 96) Valerio Staffelli 72.5

 97) Marisa Laurito 72.4

 98) Angela Finocchiaro 72.3   Bebe Vio 72.3 

99) Silvia Toffanin 71.8  Paola Perego 71.8

 100) Alessandro Borghese 71.5    Rita Pavone 71.5

Marco Zonetti per Dagospia il 4 marzo 2023.

Ricordate quando, nel giugno dell'anno scorso, la direttrice del Tg1 Monica Maggioni decise di punto in bianco di rimuovere Francesco Giorgino, Emma D'Aquino e Laura Chimenti dalla conduzione dell'ambitissima edizione delle 20.00 sostituendoli con Elisa Anzaldo, Giorgia Cardinaletti e Alessio Zucchini e innescando così un putiferio di polemiche con strascichi anche legali?

 Ebbene, leggendo il documento riservatissimo relativo al monitoraggio Rai-Ipsos sulla notorietà dei personaggi televisivi pervenuto in esclusiva a Dagospia, abbiamo scoperto che - nel periodo compreso tra il febbraio e il maggio 2022, pochi mesi prima della rimozione dei tre mezzobusti - era stato effettuato dall'azienda un sondaggio relativo al "riconoscimento" di vari conduttori e inviati del Tg1.

 Nel febbraio 2022 la fotografia di Elisa Anzaldo era stata riconosciuta dal 10.3% dei sondati, mentre nel marzo 2022 solo il 5.7% del campione aveva riconosciuto quella di Giorgia Cardinaletti e il 3.4% quella di Isabella Romano, successivamente promossa alla guida del poco seguito Tg1 Mattina. Valentina Bisti, già al timone di Uno Mattina, era risultata invece nota al 10.9%. 

Nel maggio 2022 la Tv pubblica aveva poi effettuato una rilevazione a tappeto relativa al riconoscimento di numerosi giornalisti televisivi italiani (Rai-Mediaset-La7), sondando anche i volti del Tg1 elencati di seguito. Giorgino era stato riconosciuto in fotografia dal 49% dei sondati, Emma D'Aquino dal 21.7%, Laura Chimenti dal 20.7%, Francesca Grimaldi dal 18.5%, Alessio Zucchini dal 18%, Roberto Chinzari dal 13.4%, Maria Soave dal 13%, Barbara Capponi (già al timone di Uno Mattina Estate) dall'8.3%, Perla Di Poppa dal 7.9%, Dania Mondini dal 7.3%, Giulia Serenelli dal 7.2%, Micaela Palmieri e Adriana Pannitteri dal 6.3%, Gabriella Capparelli dal 6.2%, Cecilia Primerano e Susanna Lemma dal 5.3% del campione, Gianpiero Scarpati dal 3.5%, Giuseppe Rizzo dal 2.5%.

Come vediamo, i tre "epurati" dall'edizione delle 20.00, Giorgino, D'Aquino e Chimenti, erano anche i tre giudicati più noti dal campione sondato da Rai/Ipsos. Stupisce quindi la loro improvvisa sostituzione al timone dell'ambitissimo Tg1 di prima serata con Alessio Zucchini, che godeva di una percentuale di riconoscimento inferiore ai tre, e con Elisa Anzaldo, il cui riconoscimento era ben cinque volte inferiore a quello di Giorgino e due volte inferiore rispetto a D'Aquino e Chimenti. E che dire di Giorgia Cardinaletti, risultata, per il campione esaminato, quasi dieci volte meno riconoscibile di Giorgino e quasi quattro volte meno nota rispetto a D'Aquino e Chimenti? Anzaldo e Cardinaletti erano peraltro superate nella percentuale di riconoscimento da vari colleghi del Tg1. 

 Interessante anche il fatto che il sondaggio su Elisa Anzaldo, Giorgia Cardinaletti, Isabella Romano (come abbiamo visto poi promossa alla guida di Tg1 Mattina) e Valentina Bisti fosse stato effettuato dall'azienda qualche mese prima (febbraio-marzo 2022) rispetto a quello generale relativo ai giornalisti televisivi italiani (maggio 2022).

Quale fu, dunque, il criterio utilizzato un mese dopo da Monica Maggioni (riconoscibile nel maggio 2021 al 20.4% dei sondati, quindi assai meno di Giorgino e con percentuale lievemente inferiore a quella di D'Aquino e Chimenti) per decidere l'avvicendamento dei mezzibusti nell'edizione più importante? Sarebbe interessante saperlo. 

Marco Zonetti per Dagospia il 5 marzo 2023.

Dopo aver esaminato la classifica dei primi cento personaggi italiani (dello sport, della Tv, del cinema, del mondo della cultura ecc.) e la top 20 dei giornalisti, quali saranno invece i conduttori e presentatori Rai più noti secondo il monitoraggio esclusivo di Viale Mazzini in collaborazione con Ipsos, pervenuto in esclusiva a Dagospia?

 Quanti riconoscono a prima vista Alessandro Cattelan? E, secondo il campione sondato, è più "noto" lui o Stefano De Martino? E come si piazza Milly Carlucci rispetto ad Antonella Clerici o a Simona Ventura?

 Bianca Guaccero è più o meno "famosa" di Pierluigi Diaco che l'ha sostituita nel pomeriggio di Rai2? E qual è la percentuale di "notorietà" di Marco Damilano, approdato lo scorso anno alla conduzione di un programma Rai con un putiferio di polemiche anche istituzionali?

Le sorprese si trovano soprattutto in fondo alla classifica, dove spiccano diversi personaggi che, negli anni, hanno talvolta condotto prestigiose prime serate Rai e che, ciò malgrado, ottengono numeri alquanto bassi di "riconoscimento".

 Prima di passare alle cifre, vi sveliamo però chi è il primo e chi è l'ultimo della classifica. Amadeus, non c'è da stupirsi, svetta fra i conduttori Rai con il 92.4%, mentre in 135ma posizione campeggia Giampiero Marrazzo, fratello di Piero, che attualmente conduce Il posto giusto su Rai3, e che ottiene una percentuale di "riconoscimento" pari all'1.1%. Ma tutti gli altri?

 Di seguito la classifica, che - accanto ad alcuni nomi non immediatamente riconoscibili o, se celebri, non considerati "conduttori a tempo pieno" - indica i programmi Rai che tali personaggi presentano, presenteranno prossimamente o hanno presentato di recente. Buon divertimento!

1) Amadeus 92.4

2) Mara Venier 91.9

3) Carlo Conti 90.7

4) Bruno Vespa 89.8

5) Gianni Morandi 88.9

6) Vanessa Incontrada 88.6

7) Fiorello 88.4

8) Pippo Baudo 88.1

9) Alberto Angela 87.1

10) Simona Ventura 86.4

11) Mara Maionchi 86.2 (Nudi per la vita, prima serata Rai2)

12) Giorgio Panariello 86 (Lui è peggio di me, prima serata Rai3)

13) Gigi D'Alessio 84.2

14) Fabio Fazio 84.1

15) Luca & Paolo 83.8

16) Cristiano Malgioglio 83.3 (Mi casa es tu casa, prima serata Rai2)

17) Antonella Clerici 82.2

18) Massimo Ranieri 80.6

19) Flavio Insinna 79.6

20) Fiorella Mannoia 79.3 (La versione di Fiorella, seconda serata Rai3)

21) Pino Insegno 78.8

22) Paola Cortellesi 76.1

23) Alessia Marcuzzi 74.4

24) Milly Carlucci 74.2

25) Alba Parietti 72.8 (Non sono una signora, in partenza a maggio 2023, prima serata Rai2)

26) Paola Perego 71.8

27) Geppi Cucciari 69.8

28) Stefano De Martino 69.3

29) Alessandro Cattelan 68.8

30) Max Giusti 67.5

31) Stefano Gabbani 66 (Ci vuole un fiore, prima serata Rai1)

32) Gigi Marzullo 64.1

33) Anna Falchi 63.9

34) Drusilla Foer 63.3

35) Nek 62.6 (Dalla strada al palco, pomeriggio Rai2)

36) Michele Santoro 61.4

37) Tiberio Timperi 61

38) Marco Liorni 60.2

39) Pif 58.1

40) Loretta Goggi 57 (Benedetta Primavera in partenza il 10 marzo 2023, prima serata Rai1)

41) Roberta Capua 56.8

42) Bianca Berlinguer 54.8

43) Lucia Annunziata 54.1

44) Salvo Sottile 53.1

45) Alessandro Greco 51.6

46) Paolo Conticini 49.5 (Una scatola al giorno, preserale Rai2)

47) Elisa Isoardi 49.3

48) Gad Lerner 49.1

49) Bianca Guaccero 48.6

50) Ilaria D'Amico 48.4

51) Luca Barbarossa 48.3

52) Marco Giallini 47.1 (Lui è peggio di me, prima serata Rai3)

53) Federica Sciarelli 43.6

54) Eleonora Daniele 43.1

55) Serena Rossi 42.1 (La canzone segreta, prima serata Rai1)

56) Corrado Augias 40.8

57) Roberto Bolle 39.8 (Danza con me, prima serata Rai1)

58) Alberto Matano 39.6

59) Lorena Bianchetti 39.3

60) Clementino 37.8 (Made in Sud, prima serata Rai2)

61) Paola Ferrari 37.7

62) Camila Raznovich 36.5

63) Sveva Sagramola 36.2

64) Paolo Mieli 35.8

65) Nunzia De Girolamo 34.8

66) Pierluigi Pardo 33.8

67) Veronica Maya 30.2

68) Francesca Fialdini 30.1

69) Andrea Vianello 29.9

70) Pierluigi Diaco 29.4

71) Massimiliano Ossini 29.1

72) Sigfrido Ranucci 28.9

73) Serena Bortone 28.3

74) Mario Tozzi 25.2 (Sapiens, prima serata Rai3)

75) Milo Infante 23.8

76) Beppe Convertini 23.2

77) Franca Leosini 22.4

78) Emma D'Aquino 21.9 (Amore criminale, prima serata Rai3)

79) Luisella Costamagna 21.8

80) Monica Maggioni 20.4

81) Manuela Moreno 20 (Tg2 Post, Rai2)

82) Massimo Gramellini 19.8

83) Marco Frittella 19.5 (Uno Mattina, Rai1)

84) Monica Setta 19.3

85) Marco Damilano 18.9

       Mia Ceran 18.9

86) Roberta Rei 18.8 (Filorosso, prima serata Rai3)

87) Luana Ravegnini 16.3 (Check-Up, il sabato a mezzogiorno, Rai2)

      Andrea Delogu 16.3

88) Stefano Bollani 15.3 (Via dei Matti n°0, Rai3)

89) Alessandro Di Sarno 15 (Italiani fantastici e dove trovarli, Rai2)

90) Massimo Bernardini 14 (Tv Talk, il sabato pomeriggio, Rai3)

91) Lorella Boccia 12.8 (Made in Sud, prima serata Rai2)

92) Federico Quaranta 13.6

   Donatella Bianchi 13.6 (Linea blu, Rai1, candidata M5s alla presidenza della Regione Lazio)

93) Roberta Morise 13.3 (Camper, Rai1)

94) Andrea Perroni 13.2 (Radio Due Social Club, Rai2)

95) Benedetta Rinaldi 13.1 (Elisir, Rai3)

96) Maria Soave 13 (Uno Mattina Estate, Rai1)

97) Carolina Rey 12.9 (Weekly, Rai1)

98) Pino Strabioli 12.6

99) Ema Stokholma 11.7

100) Ingrid Muccitelli 11.6

101) Gianluca Semprini 11.2 (Vita in Diretta Estate, Rai1)

         Riccardo Iacona 11.2

102) Marcello Masi 11 (Vita in diretta Estate, Rai1)

103) Valentina Bisti 10.9 (Tg1; Uno Mattina, Rai1)

104) Francesca Fagnani 10.6

105) Francesca Romana Elisei 9.5 (Tg2 Post, Rai2; Titolo Quinto, Rai3)

106) Barbara Capponi 8.3 (Uno Mattina Estate, Rai1)

107) Emanuele Biggi 8.1 (Geo & Geo, Rai3)

108) Monica Giandotti 7.6 (Uno Mattina, Rai1; Agorà, Rai3)

109) Daniele Piervincenzi 7.5 (Popolo sovrano, Rai3)

110) Peppone Calabrese 7.4 (Linea Verde, Rai1)

111) Alessandra De Stefano 7

112) Marzia Roncacci 6.6

        Marco Bianchi 6.6 (Linea Verde Estate, Rai1)

113) Vira Carbone 6.4 (Buongiorno benessere, dal 2014 su Rai1)

114) Edoardo Camurri 6.1 (Alla scoperta del ramo d'oro, Rai3)

115) Greta Mauro 5.7 (Top, prima Rai1 ora pomeriggio Rai2)

116) Gino Castaldo 5.6 (Magazzini musicali, Rai2)

    Giorgia Cardinaletti 5.6 (Tg1 delle 20.00; Via delle Storie, seconda serata Rai1)

117) Giusi Sansone 5.5 (Agorà Weekend, Rai3)

118) Fabio Gallo 5.3 (Weekly, Rai1)

        Laura Tecce 5.3 (Onorevoli confessioni, Rai2)

119) Francesca Parisella 5.1 (Elisir, Rai3)

120) Giorgio Zanchini 5 (Filorosso, prima serata Rai3; Quante storie e Rebus, daytime Rai3)

       Livio Beshir 5 (Buongiorno estate, Rai2,  Star bene, Rai2)

121) Melissa Greta Marchetto 4.8 (Magazzini musicali, Rai2)

         Giulia Capocchi 4.8 (Linea Bianca, Rai1)

122) Eva Crosetta 4.6 (Sulla via di Damasco, Rai3)

123) Angela Rafanelli 4.5. (Sex, seconda serata Rai3; Linea Verde Radici e Linea verde Estate, Rai1)

         Alessandro Giuli 4.5

         Giancarlo De Cataldo 4.5

124) Sabina Stilo 4.3 (Belle così, Rai2)

125) Senio Bonini 4.1 (Tg1 Mattina, Rai1; Agorà Extra, Rai3)

126) Sabrina Giannini 3.8 (Indovina chi viene a cena, Rai3)

     Annalisa Bruchi 3.8 (Restart; Patriae; Povera patria; Next; Kronos; Tabloid; Night Tabloid, Rai2)

127)  Federico Ruffo 3.7 (Mi manda Rai3)

         Livio Leonardi 3.7 (Paesi che vai, Rai1)

128) Isabella Romano 3.4 (Tg1 Mattina, Rai1)

129) Marco Carrara 3.3 (Agorà, Timeline, Rai3)

130) Giammarco Sicuro 3.1 (Uno Mattina Estate, Rai1)

         Angelo Mellone 3.1

131) Marco Sabene 3 (Tg2 Post, Rai2)

132) Matilde D'Errico 2.7 (Sopravvissute, Rai3)

133) Roberto Vicaretti 2.5 (Agorà Estate, Titolo Quinto, Rai3)

137) Valentina Cenni 2.4 (Via dei matti n°0, Rai3)

135) Giampiero Marrazzo 1.1 (Il posto giusto, Rai3)

Marco Zonetti per Dagospia Il 6 marzo 2023.

Mentre infuria la guerra tra il presidente della Regione Lombardia Luciano Fontana e il microbiologo e ora senatore Pd Andrea Crisanti, abbiamo scoperto un dato interessante attinto dal documento riservatissimo pervenuto a Dagospia e relativo al monitoraggio Rai-Ipsos sul grado di notorietà di un migliaio di personaggi più o meno famosi.

 Ora, in materia di Covid e di misure per contrastarlo, si sarebbe pensato che nel caso di un esperto chiamato in Tv a informare i cittadini, la "notorietà" fosse l'ultima caratteristica da rilevare e che si privilegiassero le competenze o l'autorevolezza. E invece, nell'aprile 2021, quando si era da poco insediato il Governo Draghi e a Viale Mazzini regnava ancora l'assetto giallo-verde M5s-Lega con Marcello Foa presidente e Fabrizio Salini Ad, la Rai procedette a monitorare il livello di "riconoscimento" di alcuni biologi, infettivologi, epidemiologi. In una parola, le "virostar" che prima facevano il bello e il cattivo tempo su ogni canale televisivo e che adesso, all'allentarsi dell'emergenza, sono chiamate in televisione in veste di "tuttologi".

Il più riconosciuto risultò essere Matteo Bassetti, seguito da Massimo Galli e Roberto Burioni (strano trovarlo "solo" al terzo posto, visto il suo imperversare sui social da anni, ma tant'è). In quarta posizione, piuttosto distaccato, il suddetto Andrea Crisanti, mentre Antonella Viola si piazzava quinta con una percentuale del tutto inferiore.

Per qualche motivo oscuro non furono invece mai rilevati Pierluigi Lopalco, Fabrizio Pregliasco, Maria Rita Gismondo e Ilaria Capua. Forse perché, nel giugno 2021, con l'avvento del nuovo CdA Rai e la carica di amministratore delegato assegnata a Carlo Fuortes, il monitoraggio della notorietà delle "virostar" parve di fatto cessare.

Di seguito, i cinque nominativi con le relative percentuali di "riconoscimento".

 Matteo Bassetti 49

Massimo Galli 43.6

Roberto Burioni 40.7

Andrea Crisanti 25.3

Antonella Viola 10.6

Marco Zonetti per Dagospia Il 6 marzo 2023.

Negli ultimi due anni, fino al dicembre 2022, la Rai in collaborazione con Ipsos ha sondato un campione di mille persone chiamato a identificare, da una foto, circa un migliaio di personaggi del mondo della Tv, dello sport, della cultura, del cinema, della canzone, e così via.

 Dagospia ha messo le mani sul documento riservatissimo stilato dalla Tv pubblica a partire dai dati del sondaggio e, dopo aver pubblicato la top 100 dei personaggi più noti e la classifica dei conduttori Rai, ora è la volta di presentarvi quella dei volti Mediaset.

 La top ten del Biscione è di fatto occupata militarmente dai conduttori di Striscia la Notizia, e qui è necessario aprire una piccola parentesi. Ben sei dei primi dieci classificati si avvicendano infatti al timone del Tg satirico di Antonio Ricci durante l'anno, fra i quali i due più riconosciuti dal campione, ovvero Michelle Hunziker ed Ezio Greggio, che sono anche fra i venti più riconosciuti in assoluto nel migliaio di personaggi analizzato.

Gli stessi inviati di Striscia, Staffelli, Brumotti, Petyx e così via sono mediamente più alti in classifica rispetto a personaggi ritenuti più "blasonati". Perfino l'ex velina Elisabetta Canalis ottiene un ottimo 77.9%, superiore perfino a quella di Belen Rodriguez.

 Tornando all'elenco dei volti di casa Mediaset, al terzo posto si piazza Maria De Filippi mentre notiamo un prodigioso Claudio Bisio testa a testa con Paolo Bonolis in quinta posizione. Se Barbara D'Urso scalza dalla top ten Alfonso Signorini, per quanto riguarda Belen, Silvia Toffanin e Federica Panicucci, le tre primedonne spiccano "solo" al diciottesimo, ventesimo e ventiduesimo posto.

 Ma le sorprese provengono soprattutto dai volti dell'approfondimento di Rete4: Paolo Del Debbio, Nicola Porro e in particolar modo Veronica Gentili, che non ci aspettavamo di vedere così bassi. C'è anche Andrea Giambruno, compagno di Giorgia Meloni, al terzultimo posto, ma la sua rilevazione risale al marzo 2021 quindi senz'altro oggi dovrebbe essere più alto in graduatoria.

 In ogni modo, ecco la classifica. Buon divertimento!

 1) Michelle Hunziker 93.9

2) Ezio Greggio 91.7

 3) Maria De Filippi 90.5

 4) Gerry Scotti 89.5

 5) Claudio Bisio 89.3

     Paolo Bonolis 89.3

 6) Vanessa Incontrada 88.6

 7) Enzo Iacchetti 87.2

 8) Ficarra & Picone 87.1

 9) Ilary Blasi 87

10) Barbara D'Urso 86.6

11) Alfonso Signorini 86.3

12) Enrico Papi 84.3

13) Luca Laurenti 80.1

14) Piero Chiambretti 79.8

 15) Teo Mammucari 78.2

 16) Paolo Brosio 77.9

 17) Iva Zanicchi 77.8

 18) Belen Rodriguez 75

 19) Valerio Staffelli 72.5

 20) Silvia Toffanin 71.8

 21) Luca Argentero 71.3

 22) Federica Panicucci 69.9

       Mario Giordano 69.9

 23) Anna Tatangelo 69.4

 24) Nicola Savino 69

25) Barbara Palombelli 67.3

26) Cesara Buonamici 67

27) Davide Mengacci 66.5

28) Vittorio Brumotti 65.4

 29) Elena Santarelli 62

30) Elisabetta Gregoraci 60.7

 31) Alessandro Siani 60

 32) Roberto Giacobbo 57.9

33) Giulio Golia 54.6

34) Aurora Ramazzotti 54.4

35) Maddalena Corvaglia 53.7

36) Pucci 52.1

37) Cristina Chiabotto 51

38) Pio e Amedeo 49.9

39) Roberta Lanfranchi 45.9

40) Alvin 45

41) Maurizio Battista 44.5

42) Paolo Del Debbio 44

43) Cesare Bocci 42.6

44) Elena Guarnieri 42.4

45) Nicola Porro 39.2

 46) Sergio Friscia 38.6

 47) Gianluigi Nuzzi 36.9

48) Giulia Salemi 33.2

49) Ellen Hidding 32.3

50) Filippo Bisciglia 30.8

 51) Alberto Bilà 30.8

52) Giuseppe Brindisi 27.9

     Sonia Bruganelli 27.9

 53) Costanza Calabrese 27.9

 54) Mikaela Neaze Silva 27.2 (Striscia)

 55) Max Angioni 27.1

 56) Veronica Gentili 22.9

57) Roberto Lipari 20.6

 58) Shaila Gatta 16.2 (Striscia)

59) Fiammetta Cicogna 18.4

60) Alessandra Viero 14.1

 61) Francesco Vecchi 13.6

62) Simona Branchetti 11.7

63) Massimo Callegari 11 (Pressing)

64) Monica Bertini 10 (Pressing)

65) Vincenzo Venuto 7.5 (Melaverde)

 66) Andrea Giambruno 5.4

67) Benedetta Radaelli 4.8 (Pressing)

68) Dario Donato 3.2 (Pressing)

Marco Zonetti per Dagospia il 7 marzo 2023.

Dopo la classifica dei conduttori Rai e Mediaset, non poteva mancare quella relativa a La7, tratta dai dati del monitoraggio riservatissimo Rai/Ipsos sul quale ha messo le mani in esclusiva Dagospia.

 I volti del canale di Urbano Cairo, incentrato quasi interamente sull'approfondimento e sul dibattito politico, sembrerebbero influentissimi per quanto riguarda l'orientamento e le decisioni di voto del cittadino-telespettatore. Ma quanto in realtà sono noti al grande pubblico secondo il sondaggio Rai-Ipsos?

Dai dati emerge che Enrico Mentana è il personaggio più riconosciuto di La7, seguito da Massimo Giletti e a sorpresa, al terzo posto, da Licia Colò. L'adorabile Colò, al timone di Eden - Un pianeta da salvare, batte Lilli Gruber (quarta) e Giovanni Floris (sesto), a sua volta superato anche da Caterina Balivo che, alla guida del game show Lingo, si piazza in quinta posizione.

 Note dolenti per Myrta Merlino, solo tredicesima, mentre scopriamo che la Rai ha fatto monitorare anche la notorietà del patron di La7 Urbano Cairo, il quale appare più noto di vari suoi conduttori, saldo com'è all'ottavo posto ben sopra Corrado Formigli, Concita De Gregorio, la già citata Merlino e David Parenzo, solo quattordicesimo. Tali volti "blasonati" soccombono finanche a Fabio Troiano, che su La7 conduce Bell'Italia in viaggio.

E se il marito di Pierluigi Diaco, Alessio Orsingher, staziona al penultimo posto, come si piazzerà invece Zoro? E Tiziana Panella di Tagadà? Bando alle ciance, ed ecco a voi la classifica di "notorietà" dei personaggi di La7, buon divertimento!

 1) Enrico Mentana 81.3

 2) Massimo Giletti 76.9

 3) Licia Colò 75.3

 4) Lilli Gruber 70.1

 5) Caterina Balivo 54.1

 6) Giovanni Floris 52.6

 7) Luca Telese 35.6

 8) Urbano Cairo 33.3

 10) Corrado Formigli 31.3

 11) Fabio Troiano 30.6

 12) Concita De Gregorio 27.9

 13) Myrta Merlino 26.3

 14) David Parenzo 25.3

 15) Zoro alias Diego Bianchi 24.9

 16) Tiziana Panella 21

 17) Alessandra Sardoni 17.9

 18) Andrea Purgatori 17.1

 19) Gaia Tortora 9

 20) Alessio Orsingher 6.6

 21) Annalisa Manduca 1.4

Francesco Melchionda per perfideinterviste.it il 9 maggio 2023.

Sono sincero: il “Guarda come Dandolo..”, pubblicato su Dagospia, è diventato un mio rito quotidiano. E, siamo pure franchi e onesti: alzi la mano chi non le brama! Alzi la mano chi non le clicca! Impossibile schivarle: troppo forte la curiosità di scoprire, conoscere, capire, le monde e le demi-monde del grande circuito mass-mediatico dello Stivale. Le “dandolate” – a volte veri e propri scoop, altre ancora ritratti sibillini – sono, oggi, tra le più temute. 

Dopo settimane di corteggiamento serrato, rinvii, e tenacia e pazienza, riesco – finalmente! – a stanare il mitico Alberto Dandolo.

Lo raggiungo a Milano, dalle parti di viale Monza, suo vero e proprio quartier generale. Da quel dedalo di strade, a poche centinaia di metri da Piazzale Loreto, le orecchie e gli occhi del Partenopeo registrano i movimenti tellurici e clandestini della Società nostrana. Con oltre 4000 contatti nel telefono, i suoi tentacoli possono arrivare ovunque. Nessuno può sentirsi al riparo.

“Pigro” – così si è autodefinito, ed è vero, a pensarci, visto quello che mi ha fatto penare per averlo tra i miei – mi aspetta, seduto in un bar, con un succo d’arancia tra le mani, e il suo amato cane che, appena mi vede, mi salta subito addosso.

Il caldo, nonostante si sia a maggio, non ci dà già tregua. Sbrigati velocemente i convenevoli (avevamo già rotto qualsiasi forma di formalismo nelle telefonate che ci eravamo fatte), attacco subito. 

Dandolo mi osserva attentamente: abituato com’è a carpire dettagli e sfumature dei suoi soggetti, vuole capire chi sia veramente. Fa domande, mai a caso. Gli dico: Alberto, ma le domande te le devo fare io, rilassati! Si rassegna, forse rassicura, e, grazie a Dio!, si mette nelle mie mani.

Arrivato nella città della Madonnina e del peccato, della ricchezza e della povertà per nulla mascherata dalle vetrine accecanti e lussuose, non m’interessava conoscere i “cazzi” altrui, tutt’altro.

Mi incuriosiva, piuttosto, capire come mai uno studioso e appassionato di Filosofia, e ben voluto dal sommo Umberto Eco, si occupasse delle doppie, triple, quadruple vite degli altri. Chi c’era, insomma, dietro quelle sugose pillole quotidiane… 

Alberto Dandolo, sei napoletano di nascita, se non sbaglio. C’è un ricordo che hai impresso nella tua memoria degli anni partenopei?

Ti rispondo con le parole della immensa Lea Vergine: “Napoli non cambia, figlio mio. Napoli è quella merda lì, ma merda dal profumo divino. Napoli non è un luogo come gli altri, a Napoli lo straordinario è quotidiano.

Il mio rapporto con Napoli è come il rapporto con una mamma, molto amata, che non solo non ricambia l’amore, ma combatte il figlio. Allora il figlio deve scappare. Ho compreso il mio amore per Napoli solo quando l’ho lasciata. 

E poi a Napoli c’è dentro tutto e quando c’è dentro tutto, non c’è stupore.

E’ un luogo eccezionale, come pochi altri al mondo. L’unica città che non ha mai avuto un ghetto. Napoli è anche città di riti arcaici, come la “figliata”, un rito legato alla cultura napoletana dei femminielli, la rappresentazione di un parto maschile. Napoli assomiglia solo a Napoli. “

Chi sono i tuoi genitori?

Radamisto, mio padre, morto giovanissimo 23 anni fa, era un uomo libero, anarchico e accogliente. Un avvocato ribelle e generoso. Un uomo perbene e visionario. Un sognatore. Mamma Lucia una donna pragmatica, intelligente, forte. Una insegnante aperta al confronto. Il mio vero grande punto di riferimento. Lei, per me madre e padre insieme. 

Recentemente, in lungo post su Instagram, hai raccontato la malattia mentale di tuo fratello. Stremati dal dolore – così scrivi – l’avete fatto arrestare. Cosa è successo in particolare?

La malattia psichiatrica non riguarda solo il paziente ma l’intera famiglia. Il vero grande dramma è che chi è affetto da certe patologie mentali, e di solito sono le persone più sensibili e buone, rifiuta ciclicamente i farmaci e cade in periodiche crisi psicotiche con appendici di pericolosi impulsi aggressivi verso sé stessi e gli altri. Esiste però un grande vuoto giuridico. Bisogna attendere che la persona malata commetta un reato affinché venga ricoverata o arrestata. Insomma, c’è bisogno che ci scappi il morto per correre ai ripari. Un incivile e ingiustificabile controsenso in un Paese del cosiddetto “primo mondo”. 

Cresci nella città dei femminielli: a che età scopri di essere omosessuale?

Sempre saputo. Sempre sentito. Mai stato né un problema e mai avvertito come un dramma della diversità.

Come reagì la tua famiglia? Ti mise al bando, come spesso accade nelle famiglie del Sud?

Ma figuriamoci! La mia famiglia non ha avuto alcuna reazione, così come non ha avuto alcuna reazione alla etero sessualità dei miei fratelli 

Trovi più poetico essere chiamato frocio o gay?

Nessuno dei due. Preferisco essere chiamato col mio nome di battesimo e non essere identificato in un sostantivo che mi definisce attraverso parametri sessuali. Ma se proprio mi si volesse incasellare in una definizione allora come disse il grande Paolo Isotta preferirei il termine ricchione. Gay è un inglesismo che non mi eccita, frocio lo trovo un termine piccolo borghese e omosessuale mi sa di clinico. Ricchione lo trovo quantomeno musicale e denso.

Il sommo Arbasino, a differenza di Pasolini, viveva la propria omosessualità in maniera giocosa, leggera, divertente. Tu, invece?

Non la vivo. Nella misura in cui vivo me stesso. Vivo e basta.

Una volta hai detto: ho sofferto di bulimia sessuale da stress… Spiegati meglio. Cos’è ti era successo?

Nei periodi di tensione o sofferenza diventavo un bulimico tout court. Per riempire i vuoti mi riempivo di cibo e di sesso. Poi dopo 4 anni di analisi ne ho compreso le ragioni e le cause e ho affinato gli strumenti per non incorrere in quello che era in realtà un banale ma pericoloso meccanismo di autoflagellazione. 

E quali esperienze bulimiche hai fatto?

Io oggi vivo bulimicamente la vita ma non tendendo alla autodistruzione bensì al sano accrescimento del piacere in tutte le sue sfumature.

Quante volte hai scopato pagando qualcuno?

Mi è capitato. Per pigrizia. Non si perde tempo in aperitivi, cene, incontri preliminari o lunghe chat prima di arrivare al dunque. Nel momento in cui si desidera far esultare la carne lo si fa. Senza troppo spreco di energie. C’è una domanda e una offerta che si incontrano con grande trasparenza e rispetto reciproco. Nulla di più onesto. 

Alberto, quand’è stato l’ultima volta che hai fatto turismo sessuale? E dove?

Mai fatto turismo sessuale. Detesto questo tipo di approccio al viaggio. Il viaggio è una cosa seria. È una esperienza intellettuale.

Ti è mai capitato, nelle tue scorribande notturne, di travestirti da donna?

Mai. Io mi sento profondamente maschio e virile. L’unica volta che ho indossato una parrucca da donna è stata per lavoro. Dovevo per Dagospia fare una inchiesta sul mercato della prostituzione dei trav a Milano. Misi una mia foto con volto coperto (ma si intravedeva la barba) e parrucca da donna su un sito di incontri specializzato seguita da un annuncio surreale. In 3 giorni mi contattarono via email 103 uomini. Di tutte le età ed estrazioni sociali e al 90% impegnati con donne. 

Hai mai scopato una donna?

Certo. Il sesso, a condizione che venga praticato tra adulti consenzienti, è gioco, gioia, sperimentazione. E poi perché sottrarre quando si può aggiungere?

Come hai conosciuto Umberto Eco? E perché ti spedì addirittura a Buenos Aires?

Avevamo una amica comune, la Piera. Era la proprietaria dello storico Caffè del Museo in via Zamboni a Bologna. Piera è mezza napoletana e mezza mongola ed era ai tempi la migliore amica di Eco. Il Professore mi suggerì un Master in Relazioni pubbliche internazionali presso la sede di Buenos Aires dell’Università di Bologna. Mi raccomandò e fui preso. Erano solo 20 posti in tutto il mondo. Alle selezioni arrivai secondo. Però devo ammettere che oltre alla importante segnalazione di Eco io gli feci fare bella figura perché mi preparai con grande scrupolo.

Chi sono i tuoi informatori?

Dalle mie amiche trans che operano in Viale Monza al politico potente.

E cosa ti raccontano le tue amiche trans? Sentiamo

Le amiche trans mi danno notizie. Devi sapere che il mondo del piacere e quello del potere ad una certa ora si incontrano e comunicano. I potenti (di qualsiasi ambito professionale) a fine giornata sentono il bisogno di deresponsabilizzarsi e di godere delle “cure” senza etichette e gerarchie di chi come chi per lavoro vende piacere concede. I potenti con loro si confrontano, si aprono, si raccontano. Perché non percepiscono l’asservimento passivo al loro ruolo sociale. 

Sei stato più paraculo o vile?

Né paraculo né vile. Sono due caratteristiche che non ho. Ma se proprio dovessi scegliere forzatamente direi paraculo. Se per paraculaggine si intende una declinazione della pigrizia.

E tu, per estorcere notizie sugose, quante volte ti è capitato di essere ipocrita?

Le notizie non si estorcono. Si cercano, si verificano e si danno.

Come trascorre le giornate un narratore di vizi come te?

Nella totale castità. Ho una vita quasi monastica.

Ti è mai capitato, scrivendo di gossip, di pensare: cazzo, mi sono laureato in Filosofia, e mi tocca scrivere di corna e minchiate?

Il gossip è una cosa molto seria. Tratta della vita delle persone. E per un uomo non vi è nulla  di più sacro della vita.

Ci sono state delle letture che ti hanno aiutato a capire meglio il bosco e sottobosco del gossip?

Benedetto Spinoza e Martin Heiddeger. Le opere di entrambi mi hanno insegnato che relazionarsi all’altro in quanto natura presuppone liberarsi o quanto meno sospendere le sovrastrutture culturali tra cui la morale. Per fare il nostro lavoro bisogna essere a-morali (non immorali). Non bisogna pre-giudicare pur presupponendo kantianamente che ogni pensiero è un giudizio. Pensare è giudicare ma mai pre-giudicare. 

Chi ti ha insegnato i rudimenti del giornalismo? Ne eri totalmente sprovvisto, immagino!

Il giornalismo non si insegna e non si impara nella misura in cui non esistono manuali per apprendere cosa sia una notizia. La notizia la si sente. La si riconosce per istinto. È un dono, una attitudine naturale che non tutti posseggono. Poi interviene ovviamente l’esperienza che ti permette di migliorare e di affinare quell’impulso tanto da renderlo strumento di una vera e propria professione.

E chi ti ha minacciato in passato? Non essere generico.

Mai minacce dirette ma direi dei pizzini. Ma li conto sulle dita di una mano. Ricordo un alto dirigente Rai, un noto calciatore e un influente prelato. 

Quando Lorenzetto, sul Corriere, ti ha chiesto chi sono i tuoi rivali nel campo delle indiscrezioni, hai detto: me stesso! È arroganza, la tua?

Friedrich Nietzsche nei “Frammenti postumi” scriveva: “la falsa modestia è superbia”.  Ed io superbo non sono.

A chi, scrivendo di pettegolezzi, hai fatto del male? Fuori i nomi…!

Non parlerei di male ma di diffamazione. Sicuramente a Belen e a Francesca Pascale. Poi chiesi loro privatamente e pubblicamente scusa e ho avviato con entrambe splendidi rapporti umani che tutt’ora durano.

Quante, e quali, dandolate, se così possiamo definirle, non hai potuto scrivere? Spesso, se non ricordo male, i nomi sono omessi. Paraculismo, viltà?

Sono infinitamente maggiori in numero le notizie che non ho scritto rispetto a quelle pubblicate. Mi sono da sempre imposto un codice deontologico molto rigido che non ho mai trasgredito. Se una notizia, ad esempio, potrebbe arrecare indirettamente un danno a un minore o se potrebbe rovinare definitivamente la vita professionale o affettiva di una persona nota non la scrivo. 

Tra spettacolo e giornalismo, chi sono i tuoi intoccabili, e perché?

Roberto D’Agostino. Il mio geniale, cinico, psichedelico maestro e “scopritore”. Ne approfitto, citando Dago, per evidenziare e fare un grandissimo plauso alla redazione di Dagospia: il vicedirettore Riccardo Panzetta, Francesco Persili, Alessandro Berrettoni, Federica Macagnone, Luca D'Ammando, Ascanio Moccia e Gregorio Manni... Un gruppo di grandi professionisti, uniti da una enorme competenza e dalla passione per questo lavoro. Senza di loro, Dagospia non sarebbe lo stesso giornale. E poi la mia amica – sorella Maddalena Corvaglia. Con lei siamo famiglia. 

Chi, tra i vip o presunti tali, ti ha deluso di più?

Nessuno perché il sentimento della delusione lo contemplo solo in relazione ai miei rapporti privati. Le persone di cui scrivo sono solo l’oggetto del mio lavoro. Racconto le loro vite. Verso di loro non nutro sentimenti di alcun tipo e né pregiudizi. Non fanno parte del mio privato. 

Chi sono i più ipocriti: i calciatori, i politici, gli imprenditori? E perché?

L’ipocrisia non conosce categorie professionali.

Che reazioni ti suscitano le debolezze dei protagonisti dei tuoi resoconti: indulgenza, schifo, feroce sarcasmo, vergogna, pena?

Ti ho risposto prima. Non suscitano in me alcuna reazione.

Quanta morbosità c’è nel voler smascherare i vasi di pandora?

Per quanto mi riguarda nessuna. È il mio lavoro. Punto.

Ti sei mai sentito un codardo?

Mai.

Ci sono stati dei momenti in cui hai avvertito il senso del fallimento?

Certo, come tutti. Quando si vive con intensità è disumano non incorrere in degli inciampi. Ed io sono inciampato perché ho vissuto. Ho vissuto però il pentimento.

Mi sono pentito ogni qual volta non sono riuscito a sfruttare pienamente il mio tempo. Mi pento tutt’ora quando lo spreco in amenità che mi sottraggono alle cose che contano: gli affetti, le passioni vere (la filosofia e i viaggi), la sete di conoscenza.

Quali sono i difetti più fastidiosi di Alberto Dandolo?

Sono pigro e lunatico.

Chi sono i tuoi nemici? Ne avrai a frotte…

Ho difficoltà a rispondere a questa tua domanda perché non riesco ad individuare nessun mio nemico. Se ho dei nemici ti confesso che non ho mai avuto la percezione di averli. Essere nemico di qualcuno implica un sentimento di tale acredine, ostilità e invidia che se ne avessi avuto seppur il minimo sentore credo che lo avrei quantomeno avvertito. A volte sono stato io il nemico di me stesso. Ma poi con me sono arrivato ad un armistizio! L’unico nemico che mi viene in mente è la noia. Ecco, con la noia combatto con tutte le armi che ho. 

Fino a quando ti farai i cazzi degli altri? Ci hai mai pensato?

Fin quando mi pagheranno per farmeli…

Marco Zonetti per Dagospia mercoledì 22 novembre 2023.

Altro che autunno! Per Alberto Matano, la stagione in corso è un'autentica primavera, visto il fortunato periodo professionale di cui è protagonista. In primo luogo il conduttore de La Vita in Diretta, già mezzobusto del Tg1, surclassa dal lunedì al venerdì la rivale Myrta Merlino, che, alla guida di Pomeriggio Cinque in sostituzione di Barbara D'Urso, arranca e viene spesso battuta anche da Sveva Sagramola con il suo Geo.

In secondo luogo, il buon Alberto è in video sei giorni su sette, essendo anche parte integrante del cast di Ballando con le Stelle il sabato in prima serata. Addirittura capita spesso che egli delizi spettatrici e spettatori per ben sette giorni la settimana, chiamato di frequente in aiuto dall'amica Mara Venier a Domenica In. Un autentico re di Rai1, per usare l'espressione cara a Pinuccio di Striscia la Notizia.

Di questi giorni, inoltre, la notizia della nomina di Alberto quale vicedirettore ad personam dell'Intrattenimento Day Time, un incarico che gli permette in ultima analisi di avere maggiore autonomia rispetto al direttore Angelo Mellone in quota Fratelli d'Italia. Un colpaccio non soltanto mediatico ma soprattutto politico. 

Seppur caduto in disgrazia quello che per molto tempo si era ritenuto il suo dante causa, ovvero l'ex sottosegretario e ministro pentastellato Vincenzo Spadafora, il simpatico giornalista calabrese ha dimostrato infatti di resistere indenne e di saper far valere le sue capacità anche con un assetto governativo di tutt'altro colore, sia a Palazzo Chigi sia in Rai.

Audience, presenza in video, incarichi professionali: il volto barbuto più famoso della Tv italiana riesce a trasformare in oro e a far crescere esponenzialmente tutto ciò che tocca. Non ultima la chioma abboccolata, che - come hanno notato in molti - ora appare ben più folta e rigogliosa rispetto ad alcune foto del passato che lo ritraevano con un'ombra di calvizie incipiente. Ennesimo prodigio di Alberto dei Miracoli.

Anticipazione da “OGGI” mercoledì 16 agosto 2023.

Il giornalista e conduttore di La vita in diretta, Alberto Matano, un anno dopo l’unione civile con l’avvocato Riccardo Mannino, sul settimanale OGGI in edicola da domani, per la prima volta parla di sé e di perché a lungo ha preferito mantenere riservata la sua sfera privata. «Non ho mai voluto raccontare le mie cose, al di là di compagna o compagno, sono sempre stato molto discreto fin quando ho potuto, considerando il lavoro che faccio.

Penso che un giornalista che fa il telegiornale, che rappresenta “il” Tg, sia solo un tramite e non sia tenuto a raccontare la propria vita», spiega Matano, a lungo conduttore del Tg1. A La vita in diretta invece è arrivato il suo coming out: «Con il pubblico si è stabilito un rapporto di fiducia. Raccontiamo l’Italia, ho pensato fosse giusto raccontare con onestà anche me stesso. Tutto è cominciato dal bullismo, a me è capitato a scuola, sono cresciuto in ritardo, mi prendevano in giro, fino a 16 anni ero alto 1 e 60, ero più esile. E poi c’è stata la legge sull’omofobia che in quei giorni era in discussione al Senato. Ho sentito un calcio nello stomaco, una ferita che si è riaperta.

Ho avvertito il bisogno di dire la mia. Questo è stato il motore di tutto. Poi io e Riccardo ci siamo sposati e quindi è diventato inevitabile l’aspetto pubblico». Matano nega di essere stato costretto a non esporsi in precedenza («Sono sempre stato libero. Tutte le persone con cui lavoravo, dai direttori ai colleghi di redazione, conoscevano Riccardo»), ma ammette: «Non posso dire che siano state tutte rose e fiori. Ogni tanto c’era quel rumore di fondo... È chiaro che se qualcuno voleva colpirmi - non trovando altri spunti - ha utilizzato anche questo argomento in modo più o meno esplicito. A un certo punto però me ne sono fregato».

Il bilancio di un anno di matrimonio arrivato dopo 15 anni insieme? «Qualcosa di importante, inaspettato, cruciale, bellissimo». Tanto da essere pentito di non averlo fatto prima e da ringraziare Mara Venier per aver favorito le nozze: «Una sera a cena ha cominciato a dirci: “Ma cosa aspettate a sposarvi?”. Riccardo ha preso il telefono e ha iniziato a cercare una data. È cominciata la corsa contro il tempo per organizzare tutto in un mese e mezzo. La ringrazio ancora perché è stato il clic che mancava per portarci a questo passo».

Alda D'Eusanio rimproverata da Diaco? "Difendo il diritto alla parolaccia". Hoara Borselli su Libero Quotidiano il 12 novembre 2023

«Detesto i moralisti e i bacchettoni. Quelli che vogliono fare i maestrini». Chi parla è Alda D’ Eusanio, ospite di un programma in Rai, è stata protagonista di un acceso confronto con il conduttore Pierluigi Diaco. 

Alda ci racconta cosa è successo?

«Durante BellaMa’ su Rai 2, all’interno di un ragionamento che si faceva sulle ragazze di facili costumi, ho usato i termini “mignotta” e “puttana”».

A quel punto cosa è successo?

«Diaco mi ha subito ripresa dicendo che non accettava che all’interno della sua trasmissione, in una rete del servizio pubblico, venissero usati termini così volgari e parolacce. Ha iniziato a bacchettarmi e a fare il moralista».

Lei si è ribellata al rimprovero.

«Ho ribadito quello che penso da sempre, ovvero che la volgarità o l’offesa stanno nell’intento di come uno pronuncia la parola e non nella parola stessa. Uno termine usato in contesti diversi, con toni diversi, assume significati completamente diversi. Non sopporto quando fanno i bacchettoni».

Diaco ritiene abbia fatto il bacchettone con quel rimprovero?

«Assolutamente sì e gliel’ho detto. Ho ribadito che anche nella lingua parlata ogni tanto viene detta una parolaccia senza che questo debba destare scandalo. Sia chiaro, io non faccio l’elogio alla parolaccia, dico semplicemente che non si può essere ripresi se si dice una parolaccia senza l’intenzione di offendere ma semplicemente quando è un modo di dire. Credo che ogni tanto un sonoro “vaffanculo” ci sta bene e non fa male a nessuno».

Diaco le ha ribadito che lui essendo un conduttore è un modello seguito e non può accettare che gli spettatori sentano certe espressioni nel suo programma, soprattutto nel servizio pubblico.

«Siamo davanti all’ipocrisia delle ipocrisie. Nel servizio pubblico non si dicono parolacce ma non si dovrebbero neppure dire stronzate. La buona educazione non dovrebbe aleggiare solo nel servizio pubblico ma ovunque. Io mi reputo una persona educata che può usare espressioni colorite ma senza l’intenzione di offendere».

Troppo moralismo?

«Sì, un moralismo ipocrita di chi si finge insegnante e bacchettone. Insopportabile».

Nota una pericolosa censura?

«Non credo ci sia una censura delle parolema un giusto ripensamento da parte dei dirigenti, soprattutto a Mediaset, a tornare ad avere dei toni più equilibrati e non spettacolarizzare la volgarità. E questa la trovo un’operazione giusta e doverosa. Nella Rai questo c’è sempre stato ma ho trovato insopportabile in Diaco questo suo volersi mettere nei panni dell’educatore, del maestrino, del moralista. Su questo io mi batto e non ho problemi a dire quello che penso, a stanare le ipocrisie».

Lei subì una censura in Rai o sbaglio?

«Ho subito censure di ogni genere perché sono una persona libera e dico sempre quello che penso. Non sono nota per essere una che dice parolacce. In Rai sono stata tagliata fuori per tre anni».

Cosa aveva detto?

«Ecco questa fu una censura bruttissima. Fui chiamata in una trasmissione subito dopo il mio terribile incidente che mi costò un mese di coma e in collegamento c’era un ragazzo sulla sedia a rotelle con la madre dietro al ragazzo che gli doveva sorreggere la testa perché gli si piegava completamente, non riusciva a tenerla dritta. A me quel gesto rimase particolarmente impresso».

E allora cosa accadde?

«La madre raccontò che questo figlio era andato in coma dopo un incidente in macchina e dopo dieci anni lei lo tirò fuori dal coma con i medici che le dicevano di lasciarlo andare. Lei ha combattuto con tutte le sue forze per tenerlo in vita. A me chiesero cosa ne pensassi di quella vicenda e io espressi il mio pensiero».

Quale era?

«Ho detto che se io dovessi stare 10 anni chiusa nel mio corpo come una bara senza aprire gli occhi, senza parlare, senza avere la possibilità di fare nulla, preferirei morire. Ho fatto un appello a mia madre dicendo: “Ti prego mamma, se dovesse capitarmi la stessa cosa, non tenermi in vita”. Io il coraggio di vivere così non lo avrei. La dignità della vita è fondamentale».

Questo suo pensiero cosa le costò?

«Tre anni di esilio dalla Rai. Mi cacciarono via facendo tante scuse al ragazzo, come se io avessi detto la cosa peggiore del mondo. Gubitosi impose il mio allontanamento da qualunque programma. Sono rientrata da poco».

Quel poco che è bastato per trovarsi nuovamente al centro di una polemica.

«Lo scotto che pagano le persone libere. Non mi sono mai piegata all’ipocrisia di facciata e al conformismo prima, si figuri se inizio adesso». 

Dagospia il 12 giugno 2023. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, ancora una volta Alda D’Eusanio racconta una cosa non vera. Sostiene infatti di aver vinto una querela nei miei confronti e, con il ricavato, di aver comprato vari regali (ogni volta cambiando versione). Nella prima edizione della “Garzantina della televisione” del 1996 riprendevo un giudizio del direttore di Raidue Luigi Locatelli che aveva definito D’Eusanio “zarina”. Non io, ma Luigi Locatelli (nel frattempo, l’epiteto “zarina” è diventato d’uso comune).

Nella causa civile, il giudice invitò le parti a una transazione e Garzanti (non io) preferì percorrere quella strada, con un accordo più esiguo delle spese legali sostenute. Già una volta il Tribunale di Milano ha invitato D’Eusanio a non confondere una transazione con una presunta “vittoria”, ma lei insiste, forte del fatto che il giornalista di Repubblica che l’ha intervistata non ha controllato nulla. Spero si tratti di una défaillance della memoria da parte di D'Eusanio e non di malafede.

Aldo Grasso

Estratto dell’articolo di Giacomo Galanti per repubblica.it il 10 giugno 2023

Alda D’Eusanio è nata nel 1950 a Tollo, piccolo paese dell’Abruzzo. Romana d’adozione, ha avuto una lunga carriera in Rai da giornalista del Tg2 e da presentatrice di alcuni programmi di successo. Per esempio ha ideato L’Italia in diretta, oggi Vita in diretta. È stata sposata con il celebre sociologo Gianni Statera, morto nel 1999. 

Non è che la richiamano in Rai?

Ma guardi, a me piacerebbe fare l’opinionista. Qualche ospitata. Ma non è che smanio. […] 

Magari adesso è il momento buono, si stanno liberando un po’ di posti.

Mi stupisce il clamore che c’è attorno a una cosa che è sempre accaduta. Ogni volta che in Italia è cambiato il Governo, è cambiata anche la governance della Rai. […] 

Le piace Giorgia Meloni?

Sì, devo dire che mi piace anche se ha idee opposte alle mie. Però le riconosco una capacità che oggi in pochi hanno e questo è un peccato perché non ha una controparte. 

Suo padre era missino.

Papà era convintamente missino. E quando da giovane sono stata molto comunista e molto rivoluzionaria lui era parecchio addolorato. L’ho riconquistato tempo dopo, per un suo compleanno. 

Cosa gli ha regalato?

Ho caricato Donna Assunta Almirante in macchina e l’ho portata al mio paese. Non le dico cosa è successo. 

Racconti.

Mio padre l’ha accolta al centro del paese come fosse arrivato un capo di Stato insieme ad altri quattro o cinque vecchietti e hanno portato Donna Assunta al bar missino. Poi lei gli ha consegnato un regalo: una cornice d’argento con dentro la foto di Giorgio Almirante. E papà ha alzato questa cornice tra le mani in lacrime dicendo: “Il grande capo”. Pensi che una volta gliel’ho chiesto perché fosse missino.

Risposta?

Mi disse: “La mia patria mi ha mandato in Russia a combattere, quando sono tornato i comunisti ci hanno acchiappato e massacrato di botte perché dicevano che eravamo fascisti. Cosa vuoi che diventassi?” 

Che famiglia era la sua?

[…] Eravamo poveri. Babbo faceva il contadino e ha imparato a scrivere e leggere a 20 anni. Glielo insegnò il prete del paese. […] La mia è stata un’infanzia bella. Noi bambini giocavamo per strada, con gli animali. Tollo è un paese agricolo, in aperta campagna. Ci sono 3.500 abitanti. Ci conoscevamo un po’ tutti. […] 

Cosa ha studiato?

Dopo le elementari e le medie i miei mi mandarono al collegio delle suore. È stato uno dei periodi più bui della mia vita.

Come mai?

Perché le suore sono cattive. Io ero una ragazzina un po’ vivace e mi punivano in continuazione, mi mettevano in ginocchio sui ceci o sui fagioli secchi. Me ne han fatte di tutti i colori. Da una parte ce l’avevo con i miei genitori, mi sentivo molto abbandonata ma era anche l’unico modo per studiare. 

Così scappa a Roma.

Decido di fare l’università appoggiata da mio padre ma molto contrastata da mia madre secondo cui le donne si dovevano sposare e fare figli. […] Ho scatenato un conflitto tale tra i miei genitori che sono scappata di casa. Avevo 18 anni. 

Dalla campagna abruzzese alla capitale, com’è stato l’impatto?

All’inizio dormivo sulle panchine alla stazione Termini. D’altronde non avevo un soldo, non avevo nulla. Poi pian piano ho iniziato a fare tanti lavori: nei ristoranti, nei bar. Ho fatto anche la ragazza alla pari a casa di un avvocato, mi ricordo che stava in via Cortina d’Ampezzo. Aveva un bimbo piccolo e io gli stavo dietro. E intanto studiavo Sociologia all’università. 

Quando decide di fare la giornalista?

Era un mestiere che sentivo mio già da piccola. Quando il venerdì c’era il mercato, venivano tutti i contadini dalle varie contrade a casa di mamma per farsi leggere le lettere che i figli immigrati avevano scritto. A un certo momento, avevo circa 7 anni, mamma faceva rispondere a me. E allora io facevo la cronaca del paese e i contadini erano contenti. Perché mamma si limitava a scrivere “Io sto bene, tu come stai?”. Mentre io mettevo tutto: “La comare si è sposata, la figlia della vicina è scappata col vicino”. 

Come arriva in Rai?

Mentre studiavo conosco questo giornalista Rai che comincia a farmi fare l’aiuto estensore testi e a correggere le bozze. Insomma, tutto quello che capitava. Ho fatto 15 anni di precariato e sono stata assunta nel 1987 o 1988. Ci sono entrata che avevo quasi 40 anni. 

Ha lavorato tanto al Tg2.

Alla Rai sono entrata come normale redattrice poi sono andata al Tg2 dove lavoravo quasi sempre di notte. Fino a quando non mi hanno mandano a fare il programma di Rai2 che ho creato e chiamato L’Italia in diretta e che poi è diventato Vita in diretta. 

In quell’epoca, da comunista era diventata socialista. Al Tg2 comandavano loro. Qualche aiutino l’avrà avuto per la sua carriera.

Non ho mai nascosto la mia appartenenza socialista […] non sopportavo questo strapotere che diversi socialisti in un certo periodo hanno esercitato ed esibito. Al Tg2 avevano occupato tutto in maniera esagerata, cosa che poi facevano anche gli altri partiti con il Tg1 e il Tg3. 

Però è stata molto amica di Bettino Craxi.

[…] Con Bettino c’era un’amicizia sincera e senza secondi fini. Tanto è vero che io ho iniziato ad avere successo quando Bettino è fuggito ad Hammamet. Guardi, se era per i socialisti sarei stata a pulire i cessi al Tg2 per sempre. 

È famosa un’intercettazione in cui lei al telefono saluta Craxi mandandogli un bacino sulla bua.

In quel momento l’Italia aveva l’uomo nero, che era appunto Bettino, ma aveva bisogno anche di una strega. All’epoca conducevo il Tg2, non avevo potere, non avevo nulla. […] telefonavo a Bettino la sera verso le 22 e mi misero su tutti i giornali come se fossi non un’amica, ma l’amica di Craxi. Perché appunto lui aveva un’ernia cervicale e allora gli dicevo “va be’ Betti’ te do un bacino sulla bua che ti passa” […] Per tutti i miei amici della carta stampata, quell’ernia dal collo è passata all’inguine. Quindi io mi sono ritrovata a fare altre cose, ha già capito. 

Nelle sue parole si sente ancora un grande affetto per il leader socialista.

Penso che Bettino sia stato ucciso. Lui è morto di crepacuore. Sì è vero, aveva tanti acciacchi come il diabete, ma è morto di crepacuore e dispiacere. […] disse davanti a tutto il Parlamento che la politica costava e che tutti avevano dovuto ricorrere al finanziamento illecito. Tutto il sistema era corrotto, per il fatto di averlo detto e denunciato lo hanno condannato a morte. 

Anche suo marito, Gianni Statera, era socialista. Come vi siete conosciuti?

Mio marito l’ho conosciuto all’università. Lui era preside della facoltà di Sociologia e io stavo per laurearmi. E me ne sono innamorata follemente. È stata la cosa più bella della mia vita. 

Era gelosa?

Lui era fascinosissimo ed era molto corteggiato. […] Gli ho concesso il primo bacio dopo sei mesi. Era stato anche vittima di un attentato, i terroristi gli avevano messo una bomba nella macchina con un volantino fatto ritrovare nel bidone dell’immondizia davanti al Messaggero “Questo è il primo avvertimento a Gianni Statera servo della Cia servo dei padroni eccetera eccetera”. Comunque sì, io ero gelosa e basta, lui era geloso anche dei miei pensieri. 

Prima di Statera c’era stata qualche altra storia importante?

Ho avuto solo un altro fidanzato: era un giornalista dell’Unità e di Paese Sera che aveva 25 anni più di me. Quando ho conosciuto mio marito era già finita da 5 anni. Ho avuto solo due uomini nella mia vita. Sono stata fortunata in amore. 

[…] Non ha mai nascosto la sua fede. Una volta ha addirittura detto che sogna di vivere avvolta nella barba di Dio.

Sono molto credente, ma non praticante. […] se devo parlare col padre eterno ci parlo direttamente, non ho bisogno di andare a sentire le messe. […]

Quindi fedele sì, ma niente chiesa.

Non credo assolutamente nel Vaticano che è uno Stato straniero con una politica precisa fatta da uomini. 

E Papa Francesco? 

Papa Francesco non mi piace. È troppo a favore di telecamere e macchine fotografiche. Molto showman. 

Torniamo alla tv. Lei è stata protagonista di alcuni episodi che hanno fatto discutere. Per esempio quando ha indossato la maglietta “Dalla: non è un cantante ma un consiglio”.

Mamma mia, volevano linciarmi. I genitori cattolici mi denunciarono per istigazione alla prostituzione. […] 

Marco Pannella una volta le ha consegnato dell'hashish in diretta.

[…] venne da me, per ordine della commissione vigilanza Rai, per parlare di referendum. Lui arriva e mi molla questo pacchetto in mano. Pensavo fosse un pezzettino di carta col numero di telefono per chiedere soldi per i Radicali. Quando invece capisco che era hashish o marijuana, non mi ricordo, mi giro verso le telecamere e dico “Questo è il veleno che uccide i nostri figli”. Niente da fare. L’Ordine dei giornalisti mi ha messo sotto processo per cinque anni. Capito? Cinque anni. E alla fine sono uscita innocente. Poi più avanti è arrivata la fatwa per cui non ho più potuto mettere piede in Rai per molto tempo.

Una fatwa?

Dopo il coma causato da un incidente stradale, fui chiamata alla Vita in diretta a parlare della mia esperienza. Sono andata in tv che ero ancora sotto psicofarmaci. A un certo momento si collegano con questo ragazzo sulla sedia a rotelle e con la testa abbassata, circondato da un gruppo di amici e dalla mamma. La madre raccontava che il figlio era stato in coma 10 anni e tutti i medici dicevano di lasciarlo stare mentre lei con il suo amore era riuscita a riportarlo alla vita. Però quel ragazzo non parlava e non si muoveva. Io allora dissi che se non avessi avuto la dignità della vita avrei preferito non continuare. Quel coraggio non ce l’ho.

E che è successo?

Un finimondo. Il quotidiano Avvenire cominciò un attacco contro di me che durò quasi un mese e la presidente della Rai di allora, Anna Maria Tarantola, fece una fatwa contro di me. La signora ha un cognome che onora nel carattere perché è un ragno velenoso. E vietò a tutti i programmi di ospitarmi. Poi dopo ho scoperto perché l’Avvenire aveva scatenato tutto quel casino. 

Perché?

Perché una loro giornalista, Lucia Bellaspiga, aveva scritto un libro con la madre del ragazzo e lo pubblicizzavano portando questa povera creatura in giro per l’Italia. […] 

[…] Ha anche partecipato al Grande Fratello Vip.

Purtroppo sì.

In quell’occasione è stata squalificata perché ha affermato che il marito di Laura Pausini “pare la crocchi di botte”.

Quella era una diceria non vera, una di quelle chiacchiere che escono nel nostro ambiente tanto è vero che io ho detto “pare”, “dicono che”. Lei mi ha querelata, all’inizio mi aveva chiesto un milione di euro. Però mi sono tanto scusata e non lo ridirei. 

[…] Aldo Grasso una volta l’ha chiamata “zarina” e lei l’ha querelato. Come mai si è così offesa? 

Posso dirlo? Mi sono davvero girate le palle. Zarina a me? Ma se ogni volta che avevo un programma di successo la Rai me lo toglieva! Solo che lui voleva dire che ero l’amica di Craxi. Così l’ho querelato e mi ha dovuto risarcire. Con i soldi che mi ha dato ho regalato una cravatta di cashmere a Bruno Vespa e una borsa alla Buttiglione. Insomma, ho fatto un regalo a tutte le vittime preferite di Aldo Grasso. Io mi sono comprata un anello molto bello che va al dito medio.

Ai tempi ha avuto come agente Lele Mora. Quando è caduto in disgrazia ha ricordato che lei è stata una delle poche a rimanergli vicino.

[…] Lele Mora è uno molto stupido ma molto buono. Era uno che poteva fare una fortuna ma si è fatto del male da solo. 

Prima ha ricordato il suo incidente, quando è stata investita in Corso Vittorio Emanuele II a Roma.

È stato davvero molto brutto. Ho passato un mese in coma, più le varie terapie per riprendere la memoria e la parola. Sono stati 5 anni molto duri. 

[…]Si frequenta con gli amici del mondo dello spettacolo?

In verità poco, lavorano tanto e hanno sempre da fare. Del nostro mondo mi incontro ancora con Nancy Brilli e Sandra Milo. 

[…] Ha qualche rimpianto?

Ho amato molto il mio lavoro però ho fatto tanta fatica. Se avessi avuto un altro carattere forse ora starei meglio. Magari non dire sempre quello che pensavo e mediare un po’ di più mi avrebbe aiutato. […]

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 28 marzo 2023.

Il 10 maggio 1981 al Comunale di Torino si affrontarono la Juventus e la Roma, una partita scudetto. Finì 0-0. Un punto fondamentale per la Juve che vinse poi il 19° titolo. Nel finale, Bruno Conti trova Pruzzo che di testa anticipa Prandelli e allunga il pallone, Turone si fionda, colpisce di testa e insacca: 1-0 per la Roma.

 (…)

 «Er gol de Turone» è una sorta di cold case italiano, di tragedia senza fine, per la tifoseria romanista è una indelebile macchia che si tramanda di padre in figlio. Ma è anche un tuffo nel passato della tv italiana: «Il processo del lunedì» del 1981 (ideato da Enrico Ameri, che conduce due edizioni affiancato da Carlo Nesti), i corrispondenti da Torino Beppe Barletti e Andrea Boscione, la telecronaca di Nando Martellini, il commento della partita a «90° minuto» di Beppe Viola, la «Domenica sportiva» condotta da Tito Stagno, il commento di Gian Paolo Ormezzano, la disputa perenne tra Giorgio Martino (tifoso romanista) e Carlo Sassi, il commentatore della moviola.

A distanza d’anni, Martino sostiene che il «telebeam» (la prima applicazione elettronica alle immagini) dimostrò poi che il gol era valido; Sassi è per il fuorigioco: «Hanno un po’ acchittato quel macchinario pro domo propria. Ma Turone era in fuorigioco». Benedetto sia il Var! Turone l’ho incontrato nel 1966, allo stadio Valerio Bacigalupo di Savona, finali regionali juniores. Avrei dovuto marcarlo, invano. Turone fu il migliore in campo, segnò e fece vincere il Genoa. Al termine della partita mi mostrò la palla, prima di consegnarla all’arbitro, per dirmi: finalmente la vedi. Da quel giorno ho smesso di giocare a calcio perché sul campo si è giudicati solo per quello che si fa. Per il resto c’è sempre un signor Sancini.

Chi è Alessandra De Stefano (ex direttrice di Rai Sport) e chi la sostituirà. Luca Bocci il 28 Marzo 2023 su Il Giornale.

La giornalista, diventata popolare coprendo gli eventi ciclistici, a sorpresa ha rassegnato le dimissioni dal ruolo di direttrice di Rai Sport. Ripercorriamo insieme la sua carriera e i successi e cerchiamo di capire le possibili motivazioni per questa sua mossa. Chi potrà succederle alla guida della testata sportiva del servizio pubblico?

Tabella dei contenuti

 Una vita per lo sport

 La passione per le due ruote

 Il "Circolo degli Anelli"

 Il flop Mondiale e le dimissioni

 La corsa alla successione

Uno dei vizi capitali del giornalismo italiano, almeno secondo i suoi molti critici, sarebbe di perdere fin troppo tempo a discutere questioni di bottega pensando che siano fondamentali anche per i lettori. Quando, però, a lasciare la scena è una figura molto popolare come Alessandra De Stefano è davvero difficile trattenersi. La notizia, arrivata nella giornata di lunedì 27 marzo con uno stringato comunicato stampa della Rai, è un vero e proprio fulmine a ciel sereno: la popolare giornalista sportiva si è dimessa da direttrice di Rai Sport, incarico che aveva assunto nel novembre 2021. Se si erano susseguite insistentemente voci su dissapori interni alle varie redazioni della testata sportiva del servizio pubblico, niente lasciava pensare che la situazione precipitasse in maniera così repentina. Ripercorriamo insieme la carriera di questa esponente di spicco del giornalismo sportivo italiano, cercando di capire le motivazioni di questa scelta e il futuro per il servizio sportivo di “mamma Rai”.

Una vita per lo sport

La nota diffusa lunedì dall’emittente pubblica è alquanto criptica, lasciando aperte molte domande sulle vere motivazioni dietro la scelta della direttrice di Rai Sport. A quanto pare, la giornalista avrebbe “rassegnato questa mattina le proprie dimissioni dall’incarico di direttrice di Rai Sport per motivi personali”. L’amministratore delegato della Rai avrebbe poi ringraziato la giornalista per il lavoro svolto in tutti questi anni, rimarcando la sua bravura. Un commiato fin troppo stringato per una professionista entrata nella Testata Giornalistica Sportiva nel lontano 1992.

Alessandra De Stefano è diventata poco alla volta un volto noto dell’emittente pubblica, partecipando all’inizio dietro le quinte a vari programmi di successo, da “Scusate l’anticipo” allo storico “Dribbling”. Tre anni dopo, il passaggio a redattore della testata, dove era rimasta per cinque anni, prima di venire promossa al ruolo di inviata per la sezione Sport Vari, cosa che le permise di esprimere appieno la sua passione per le varie discipline “minori”, con particolare attenzione al ciclismo.

La passione per le due ruote

Una volta lasciata la vita dietro le quinte, la De Stefano ha trovato il suo terreno naturale, dando il meglio di sé nelle manifestazioni sportive più importanti al mondo. Dopo aver seguito in prima persona diverse edizioni dei Giochi Olimpici, si è specializzata nel seguire gli eventi chiave del ciclismo negli ultimi anni. La sua voce e il suo volto erano diventati presenza costante nelle case degli italiani nelle competizioni seguite dalla Rai, dal Giro d’Italia, al Tour de France, alla Vuelta a España, fino ai Campionati del Mondo. Poco alla volta, la De Stefano si era ritagliata sempre più spazio nel panorama delle due ruote, dalle telecronache agli speciali, dalle interviste ai servizi per il telegiornale.

Il cambiamento di marcia avvenne più avanti, nel 2010, quando iniziò a condurre in prima persona trasmissioni dedicate alle due ruote, da “Anteprima Giro” a “Cronache gialle” su Rai Sport, fino a “Giro Mattina”, “Tour Replay” a “Il grande Fausto” su Rai 3. In un panorama tradizionalmente riservato ai colleghi maschi, Alessandra era stata un segno del cambiamento interno al servizio pubblico, diventando la prima donna a condurre il programma più storico del ciclismo, il famoso “Processo alla tappa”, creazione di uno dei più grandi innovatori della televisione italiana, Sergio Zavoli. Poco alla volta, si era fatta strada all’interno della gerarchia di Rai Sport, venendo impiegata come inviata anche per eventi di prima linea come gli Europei di calcio del 2016. Successo dopo successo, era arrivata la nomina a vice direttrice di Rai Sport del 2019 e il favore dei pronostici per una crescita ulteriore nell’organigramma della struttura sportiva.

Il "Circolo degli Anelli"

Il momento della svolta è arrivato in uno dei momenti più difficili della televisione italiana, la copertura dei Giochi Olimpici di Tokyo, resi complicati dalle restrizioni legate alla pandemia e dalla necessità di inviare una squadra di inviati ben più limitata rispetto alle altre edizioni del passato. Vista anche la pesante differenza di fuso orario, serviva qualcosa di diverso, un programma innovativo, che fosse in grado di mascherare l’accesso più limitato e conciliare le necessità di palinsesto con quelle dell’informazione. La risposta della De Stefano era stato un programma come il “Circolo degli Anelli”, progettato, curato e condotto direttamente da lei. L’intuizione principale era stata quella di affidarsi a due campioni molto famosi ma decisamente a proprio agio davanti alle telecamere come Sara Simeoni e Yuri Chechi, scommesse forse azzardate che si sarebbero rivelate un successo clamoroso. La formula funzionava, il pubblico era contento, si divertiva e seguiva in numeri sempre più interessanti, trasformando un possibile disastro in un successo inaspettato per “mamma Rai”.

Nonostante quel che pensano i tanti critici, il successo del “Circolo” aveva garantito alla De Stefano quel che le mancava per raggiungere un obiettivo che fino a non molti anni fa sarebbe stato considerato impensabile. La De Stefano a pochi mesi dalla chiusura delle Olimpiadi di Tokyo era stata infatti nominata direttrice di Rai Sport, la prima donna a dirigere la principale testata giornalistica sportiva del servizio pubblico. Dal novembre 2021 in avanti, il potere della giornalista era cresciuto ulteriormente, vista la nomina a capo della Direzione Sport; una progressione impressionante, specialmente in una struttura complicata e farraginosa come la Rai, che sembrava non avere mai fine. Purtroppo per la De Stefano, ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Poco alla volta, le critiche si erano infittite, rendendo la situazione sempre più difficile. Il calendario offriva però un evento per rifarsi e mettere a tacere i nemici interni ed esterni: il Mondiale invernale di Qatar 2022.

Il flop Mondiale e le dimissioni

Invece del successo che molti si aspettavano, la copertura dei mondiali si era rivelata molto meno efficace rispetto a quella delle Olimpiadi. Invece di inventare qualcosa di nuovo, la De Stefano aveva provato ad adattare il format del “Circolo degli Anelli”, chiamando ancora Sara Simeoni, molto popolare in ambito olimpico ma un po’ un pesce fuor d’acqua in ambito calcistico. A complicare ulteriormente le cose, il fatto che le storiche bandiere della copertura sportiva della Rai, dalla storica “Domenica Sportiva” a “Novantesimo minuto” fossero entrate in una crisi forse irreversibile. Gli ascolti in calo e il fatto che le corazzate di una volta non fossero più in grado di essere rilevanti in un panorama mediatico cambiato incredibilmente negli ultimi anni avevano moltiplicato le critiche nei confronti della direttrice. A parte le scelte editoriali più o meno fortunate, il vero tallone d’Achille della De Stefano si sarebbe rivelato un altro: la gestione di una serie di redazioni sempre più riottose e polemiche.

Il flop del mondiale sarebbe stato un problema ma, paradossalmente, a causare più grattacapi alla direttrice di Rai Sport sarebbe stata la scelta di Lia Capizzi, giornalista esterna alla Rai, per prendere la conduzione della storica “Domenica Sportiva”, un guanto di sfida nei confronti dei redattori interni. Non è dato sapere se siano state proprio queste le cause delle dimissioni, ma si parla con molta insistenza di una specie di faida tra le redazioni di Roma e di Milano, con i meneghini che si sarebbero stancati di essere il “parente povero” dei capitolini. Altrettanto tossiche, poi, sarebbero state le mille polemiche legate alla figura di Enrico Varriale, storico conduttore della Rai che, nonostante abbia una causa in corso con l’azienda, aveva recentemente reso nota la sua richiesta di ritornare in video con un programma suo. Qualunque sia stata la ragione, la De Stefano ha scelto di togliere il disturbo, aprendo le porte ad una complicata successione.

La corsa alla successione

Nel comunicato reso pubblico dalla Rai, l’amministratore delegato Carlo Fuortes ha reso pubblico il nome del successore della direttrice, una faccia altrettanto conosciuta agli sportivi italiani, Marco Franzelli. Non si tratta però di una scelta definitiva ma di una soluzione ponte in attesa delle complicate procedure necessarie per la nomina ufficiale di un successore. Al momento Rai Sport sarà guidata da un giornalista di lungo corso come Franzelli, con anni ed anni di esperienza alle spalle. Dopo aver esordito neanche maggiorenne a fianco di Maurizio Costanzo, a partire dal 1980 è entrato nella famiglia della Rai, come redattore sportivo al TG1. Da qui in avanti, Franzelli si è occupato un po’ di tutto, da "Unomattina" a “Linea Diretta”, dal canale all-news Rainews24 fino a Rai Sport.

A sentire chi ha l’orecchio ben piantato al suolo e sa come si muovono le cose a Saxa Rubra, i veri papabili si starebbero muovendo con circospezione, per evitare che, come si suol dire, chi entra Papa esca cardinale. Servirà quindi ancora qualche tempo come si muoveranno le varie fazioni e se questa nuova battaglia potrà unire o dividere ancora di più le redazioni della testata sportiva, le cui relazioni sono ai minimi termini. La speranza, ovviamente, è che questo momento di riflessione serva per ripensare la copertura sportiva e trovare un modo di portare lo storico servizio in un’epoca lontana mille miglia dalle glorie del passato. Resta ancora da capire, insomma, se Rai Sport saprà cambiare coi tempi o se sarà condannata ad un triste futuro di progressiva irrilevanza.

Estratto dell’articolo di Valerio Palmieri per “Chi” il 7 giugno 2023.

Quando la sposa ha pronunciato il suo discorso sulla spiaggi a della baia di Mezzana, anche i giornalisti dal cuore più duro si sono commossi: primo fra tutti lo sposo, Alessandro Sallusti, direttore di Libero. E considerando che il suo testimone era Giuseppe Cruciani, e che l’officiante della cerimonia era Nicola Porro, c’è da gridare al miracolo. Ma non è finita: perché, pochi giorni prima, l’unione civile era stata celebrata dal sindaco di Milano, Giuseppe Sala: «Siamo vicini di casa», ci racconta la sposa, Patrizia Groppelli, firma di “Chi”, «infatti gli avevamo chiesto di sposarci sul pianerottolo», scherza.

Dopo sette anni d’amore, lo spigoloso commentatore politico e l’esuberante opinionista si sono detti “per sempre”. La loro unione era nata sulle ceneri del matrimonio fra Patrizia e Dimitri D’Asburgo e del legame fra Sallusti e Daniela Santanchè. Due coppie unitissime, spezzate da un colpo di scena degno de Il segreto: il principe e l’attuale ministra del Turismo, infatti, flirtavano da tempo.

«Eravamo gli unici a non saperlo», ironizzò Sallusti quando spiegò alla Groppelli della tresca. «Ringrazio Alessandro per avermi accolto: eravamo due animali feriti», ci dice oggi Patrizia, «ma, alla fine, devo ringraziare anche loro per il dolore che ci hanno provocato. Manderò un mazzo di fiori augurando il meglio». 

Sulla spiaggia, durante una cerimonia ristretta ad un gruppo di amici storici della coppia, Porro è stato il mattatore: dopo aver chiesto alla coppia di giurarsi amore eterno in ricchezza e in povertà, ha chiesto a Sallusti se sarà in grado di non ricevere querele e di non essere incarcerato, e alla Groppelli se frequenterà ancora a lungo i salotti tv di Barbara D’Urso.

Poi, la scena è passata alla sposa, che, a piedi scalzi, ha citato Milan Kundera, aggiungendo: «Per magia ho incontrato il mio Ale, il mio mago gentile, il mio uomo fiero che ha spiegato le pieghe, a volte capricciose, del destino di entrambi. E più forte del destino non esiste niente. [...] Ale, sei il mio posto. Sei il mio posto, la mia casa, il mio amore più grande, la mia felicità detta a gran voce, non più appena accennata».

Patrizia ci concede altre confidenze: «Abbiamo deciso di sposarci 20 giorni fa. Alessandro mi ha detto: “Per celebrare il tuo cinquantesimo compleanno, ti sposo”». 

E poi: «Mi ha salvato la vita in tutti i sensi. Siamo usciti insieme da una burrasca: ma quando ci siamo dati il primo bacio non eravamo ancora lucidi...». Fu Patrizia, infatti, ad accorgersi di un problema di salute di Alessandro quando erano ancora soltanto amici e a convincerlo a farsi ricoverare. 

E fu lì, in ospedale che, passato il pericolo, si scambiarono il primo bacio. «È lei che ha salvato la vita a me», dice Sallusti: «ho avuto un mezzo infarto prima e dopo quel bacio», scherza. E aggiunge: «Dopo tanti anni dovevo sposarla: è stata una sanatoria». Non dice che, in realtà, per il compleanno ha regalato alla sua sposa un anello con brillante che acceca.

«Lui è la mia vita, la mia anima, la persona più generosa che conosca», ribadisce Patrizia. «È un “cattivo” gentile, che sa usare la spada e il fioretto e che trova sempre una soluzione a tutto. Ogni mattina ci alziamo presto e chiacchieriamo piacevolmente davanti a un caffè prima di andare al lavoro. Viaggio di nozze? Non abbiamo tempo, la nostra vita è già un viaggio di nozze». [...]

Dagospia il 22 maggio 2023. Da “Un Giorno da Pecora” – Rai Radio1

Il direttore di Libero Alessandro Sallusti si racconta a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1. Ospite di Giorgio Lauro e Geppi Cucciari, il giornalista ha parlato di aspetti meno noti della sua vita, anche al di là della politica. A partire dalla sua amicizia con l’ex leader del Pd Pierluigi Bersani. 

“Siamo amici, almeno io mi reputo un suo buon amico, Pierluigi è una persona molto interessante. E un paio di settimane fa mi ha invitato in una trattoria a Bettola, abbiamo fatto una mangiata straordinaria”. Come mai questo invito? “Tempo fa avevo pubblicato una foto di Bersani che usciva con un regalo dal negozio di Louis Vuitton, che era per sua moglie, lui se l’è presa e io ho chiesto scusa pubblicamente”.

L’ex segretario Pd ha accettato le sue scuse? “Certo, le ha accettate e abbiamo fatto pace davanti ad una buona bottiglia di vino piacentino”. A proposito di inviti, lei è stato tra gli invitati alla festa per i 50 anni di Matteo Salvini. “Si, e mi colpì una cosa”. Quale? “Berlusconi pretese che Salvini si cambiasse la camicia, lui l’aveva chiara e il Presidente la voleva scura. Al punto che ha mandato un suo autista in macchina a prendergliela. Evidentemente il Cavaliere viaggia col bagagliaio pieno di camicie…” 

Lei è stato a lungo direttore del Giornale e ora dirige Libero. “Il Giornale è un quotidiano conservatore paludato, Libero è un quotidiano conservatore birichino. E il più bravo a fare i titoli birichini e sicuramente Feltri”. Che rapporto avete? Si può definire un suo amico? “Si, anche se il suo unico vero amico è stato un prete, con lui concetto di amicizia strano. A Vittorio devo tantissimo, è stato lui a volermi a Libero anche se pensava avessi fatto il suo vice e non il direttore”.

Sembrava ci fosse stato qualche screzio tra voi all’indomani della sua nomina. “Non è così. Feltri è uno dei tre giornalisti che hanno segnato la storia del giornalismo italiano. Scalfari ha inventato Repubblica, Enzo Biagi ha inventato un modo di fare giornalismo in tv e Vittorio Feltri ha creato il feltrismo”.

A proposito di quotidiani, spesso il suo ed il Fatto Quotidiano sono in completa antitesi… “A me diverte leggerlo ogni mattina, è satira pura”. A proposito di tv lei potrebbe essere uno dei nuovi volti per la ‘nuova Rai’? “No, non so condurre e non credo di esser capace. Tanti anni fa però Berlusconi mi propose di fare una striscia su una rete Mediaset come quella che fa Vespa oggi. E gli dissi di no”. 

Tra i nomi dei giornalisti di c.destra associati alla Rai quello più quotato pare esser Nicola Porro, che con lei ha lavorato a lungo al Giornale. “Porro di centrodestra? Lui è del partito di Porro, se rinascessi vorrei rinascere Nicola. Lui è bravo, si diverte, prende tutti per il culo, ha successo, è ricco. Ditemi dove devo firmare…”

Lei però non iniziò la sua carriera scrivendo sui giornali ma in radio. Scelta che le costò anche l'ammissione alla maturità. “Si, perché la mattina andavo a lavorare a Radio Como: le prime radio private erano di sinistra, questi la notte andavano a far bisboccia e ci volevo uno come me, di destra, che la mattina andasse a lavorare…” Cosa faceva? “Mettevo dei dischi. Allora c’erano le dediche, le persone chiamavano e io cercavo di capire se dall’altra parte del telefono c’era qualcosa di interessante. Un paio di volte presi delle tramvate…" 

Quindi loro chiamavano, lei prendeva il numero, e poi le richiamava… “Qualcosa di simile, sì”. Quali erano i dischi che lanciava di più? “Erano i primi anni Settanta, i tempi di Battisti e del primo Antonello Venditti”. 

Veniamo alla vita di coppia: si sposerà con la sua compagna Patrizia? “Io mi sono già sposato due volte, ho dato”. Tra le sue relazioni più note non c’è però un matrimonio ma la storia con l’attuale Ministra Daniela Santanché? “Chapeau, è riuscita a reinventarsi e ad avere un ministero. Non la sento più da otto anni. Ci siamo lasciati molto bene…Chi tra lei e Patrizia è più rompiscatole? In modo diverso ma ad ottimi livelli sono entrambe due buone rompiballe…"

 Tende, Sallusti inchioda gli studenti: "Non è mai morto nessuno!" Libero Quotidiano il 13 maggio 2023

Continua la protesta delle tende, con gli studenti che denunciano il caro affitti e si scagliano contro il governo. Se ne parla anche a L'Aria Che Tira, dove Alessandro Sallusti dà una lezione ai giovani. "Stiamo mettendo assieme troppe cose che solo apparentemente c'entrano l'una con l'altra". Il direttore di Libero ricorda che "stiamo parlando della carenza di poli universitari attrezzati". Eppure - spiega nella puntata di venerdì 12 maggio su La7 -. Non è un problema che esiste da oggi e non è risolvibile al 100 per cento". Il motivo è semplice: "Se l'università ha diecimila iscritti, non è che può avere altrettanti alloggi da mettere a disposizione o gratuitamente o a tariffe convenzionate. Non vorrei che questo problema reale diventasse la pretesa di vivere a chilometro zero. Non è che il lavoro deve essere fuori casa e l'università a portata di passeggiata a piedi in 5 minuti". 

Da qui l'aneddoto raccontato davanti alle telecamere di Myrta Merlino: "Io non mi sono laureato, ma i miei amici di Como che hanno fatto buoni studi hanno fatto i pendolari con Milano per 5 anni e non è mai morto nessuno. Abbiamo una carenza di servizi per casi veri, ma non si può pretendere che tutti vivano a costo zero di fianco all'università".    

Non è della stessa idea la conduttrice, che già nella puntata di ieri si è presentata in studio in tenda. "Oggi - risponde - sono cambiate tante cose. Lo studio e il primo lavoro non ti danno la garanzia di andare avanti. Una volta il sacrificio ti dava la sensazione di farlo per qualcosa, ora no". 

Klaus Davi per liberoquotidiano.it il 23 Dicembre 2022.

«Cosa succedeva ai miei tempi? Quando andavo alle scuole medie a Como, mentre già sognavo di fare il giornalista, mi ricordo che avevo 12/13 anni e alla fine della seconda ero stato promosso, allora dico a mio padre: "Per la promozione mi avevi promesso la bicicletta nuova", e lui mi dice: "Sì, non c'è problema, però prima ti fai un mese a lavorare", a 12/13 anni. 

Mi dice: "Conosco un amico che ha una pompa di benzina a Como e quindi vai a fare il benzinaio per un mese". Io andai a fare il benzinaio, mi ricordo che la pompa di benzina era ESSO e non c'erano tute piccole, avevo una tuta da uomo tutta rimboccata perché era grande e feci anche dei bei soldini, perché poi chi veniva a far benzina vedeva questo ragazzino e mi regalava la mancia. L'anno dopo è successo ancora, mi ha fatto fare il fattorino, l'anno dopo ancora e sono andato a fare il mozzo sui battelli. 

Cosa voglio dire? Lì ho capito che non volevo fare il benzinaio né il mozzo sui battelli né il fattorino, ma ho appreso una cosa fondamentale, che se vuoi raggiungere degli obbiettivi devi lavorare, non c'è altro sistema. Il mio obbiettivo era di avere la bicicletta, il motorino, dovevo lavorare. Capisco che se oggi mandi tuo figlio a 13 anni a fare il benzinaio vieni arrestato tu e viene arrestato anche il benzinaio e il bambino dato in affido a una comunità e poi si aprirebbero dibattiti sui giornali su schiavismo, sfruttamento per lavoro minorile.

Però i ragazzi e i genitori di oggi non sanno cosa perdono perché è lì che nasce tutto: a 12/13 anni impari che devi lavorare e che lavorare non è una tortura, è una cosa importante che dà gratificazione. Aver tolto tutto questo dalla società ha portato a vedere quello che succede oggi, giusto o sbagliato io prendo atto che non funziona. Io poi ho fatto il giornalista». 

«In quinta superiore non sono stato ammesso alla maturità e questa è stata una tragedia anche perché in casa nessuno sapeva nulla di questo mio non studio. E lì succedono 2 cose. La prima è una delle lezioni che mi ha dato mio padre: cadendo dalle nuvole, va dal preside (nelle piccole città sono tutti amici, era amico del preside, si chiamava Bianchi) e gli dice "Cosa è successo a mio figlio?", e il preside "Questo non veniva, non studiava", "Ma non potevate avvisarmi?", ribatte mio padre", e lui "Potevamo, però stai tranquillo, proprio perché non ti abbiamo mai avvisato tu puoi fare ricorso al TAR, lo fai in via d'urgenza e vedrai che lo ammettiamo"; al che mio padre gli ha detto "Senti signor Bianchi, io non faccio nessun ricorso al TAR perché mio figlio è uno stronzo però sei uno stronzo anche tu perché non mi hai avvisato". 

E questa l'ho trovata una grande lezione. Adesso siamo di fronte a famiglie che se le chiama il professore loro interpellano il Telefono Azzurro. La seconda fortuna è che per sfuggire alle ire di mio padre sono andato ad arruolarmi volontario, l'unico modo per togliermi di torno era fare il militare. Non potevo stare a casa 3 mesi con il disastro che avevo combinato, avevo una famiglia severissima, allora sono andato al distretto e ho chiesto se c'era un modo per partire subito e l'unica soluzione era prestare servizio al Battaglione San Marco. 

Non avevo idea di cosa fosse ma firmai e la settimana dopo mi tolsi dalle palle. Fu un'enorme fortuna perché grazie a quell'esperienza mi sono immerso nel mondo reale che non era quella piccola città borghese del Nord ma era ancora un'Italia con mille problemi nei confronti di oggi di cui ho conosciuto un'umanità e con cui mi sono confrontato, tutto è durato due anni e mezzo poi sono diventato quello che sono diventato».

«La primissima fidanzata purtroppo non l'ho più rivista perché fu una ragazza molto sfortunata, non c'è più da tanto tempo. La prima fidanzata vera l'ho sposata. Io sono culturalmente monogamo, di fatto sono un disgraziato, cioè vivo questa discrasia per il fatto che mi sarebbe piaciuto tantissimo essere stato monogamo, perché credo nella monogamia come valore, ma non sono stato capace di esserlo. 

Infatti ho cambiato diverse mogli, ho sfasciato diverse famiglie, non me ne vanto, cioè non sono stato capace. Al primo matrimonio mi sono sposato in chiesa e tra l'altro ero molto orgoglioso perché era una delle ragazze più ambite della città la quale non so per quale strano motivo era invaghita da me, di una famiglia anche importante, molto agiata.

È diventata la madre di mio figlio, è la donna a cui devo tutto perché le devo non solo di avermi dato il figlio ma di averlo tirato su in maniera apparentemente interessante, perché poi i giornalisti sono dei disgraziati, non ci sono mai, sempre in giro... Io ho fatto anche l'inviato, ho passato anni a girare il mondo, guerre non guerre, Africa, insomma ne ho fatti di giri. Per cui a questa donna devo tutto».

Estratto dell’articolo di Daniela Seclì per fanpage.it il 10 giugno 2023

Amedeo Goria si è raccontato in una lunga intervista rilasciata a Fanpage.it. Nel corso della sua carriera, il giornalista ha condotto il Tg1 e diversi programmi targati Rai, dalla Domenica Sportiva a Uno Mattina Estate. A 69 anni, ha ripercorso i momenti salienti del suo percorso professionale e della vita privata. 

Nel 1987 ha sposato Maria Teresa Ruta e dal loro matrimonio sono nati i due figli Guenda e GianAmedeo. L'amore è finito dopo qualche scappatella di troppo. […] 

Cosa ne pensa di quanto accaduto in Rai con l’addio di Fazio e Annunziata?

Conosco la Rai come le mie tasche. E se fossi stato più prono agli incanti della politica, avrei potuto fare ben altra carriera. Detto questo, mi rifiuto di credere che qualcuno del centrodestra abbia detto a Fazio o a Lucia Annunziata di cambiare atteggiamento. 

Non condivido questa prosopopea, questo egocentrismo di persone che pensano di essere al centro del mondo, quando a me non risulta che lo siano. Magari al loro posto metteranno Monica Maggioni, che mi fregò un'edizione di Uno mattina estate e poi ha fatto una grande carriera. È brava, determinatissima. 

Negli anni '80 conobbe la sua ex moglie Maria Teresa Ruta.

Tra la fine del 1984 e gli inizi del 1985. Mi fu presentata da un caro amico e collega, Fulvio Bianchi, nel corso di un evento a Torino. […] 

Nel 1987 vi siete sposati. Il matrimonio è durato una decina di anni. Perché è finita tra voi?

Io ho fatto le mie frivolezze, che sono state determinanti per la separazione e per il divorzio. Ho fatto qualche scappatella di troppo, poi i rapporti si incrinano e ogni piccolezza diventa un pretesto per litigare. Credo che ogni persona abbia un suo destino e io non sono un uomo adatto a sposarmi. 

Chi prese la decisione di dire basta?

Io ero più debole. È stata Maria Teresa a prendere la decisione, che poi è diventata consensuale. Abbiamo aspettato che i figli fossero grandi per divorziare. Inizialmente gli motivavamo il nostro distacco con il lavoro. Io ero a Roma, loro a Milano. Quando hanno raggiunto l'età per capire, abbiamo formalizzato ufficialmente la cosa. […] 

Quanto a lei Amedeo, mi pare che anche la relazione con Vera Miales sia finita.

Sono single. Con Vera è finita da più di un anno. Ci siamo comunque voluti bene, al di là delle luci dei riflettori che sono corrompenti. Dopo la storia con Vera ci sono state delle ragazze che si sono avvicinate a me, pensando che io avessi la bacchetta magica per trasformarle in personaggi pubblici. Mi dicevano esplicitamente il loro scopo. […]

È vero che quando era più giovane, le proposero di fare il gigolò?

Successe una volta a Torino, avevo intorno ai 29 anni. Conoscevo il titolare di un'agenzia matrimoniale, che metteva a disposizione anche degli accompagnatori. Un giorno, due donne di Saluzzo di 35 anni, vennero a Torino e vollero togliersi lo sfizio di farsi accompagnare da due uomini, pagandoli. Uno dei due ragazzi si ammalò. Il titolare dell'agenzia mi propose di sostituirlo. 

Accettò di farlo?

All'epoca frequentavo una ragazza, oggi ricordo a malapena chi fosse. Alla fine decisi di uscire con la mia fidanzata e l'ho sempre rimpianto. La mia filosofia di vita è: se puoi provare una cosa nuova, fallo, accumula esperienze. Una cosa nuova te la ricorderai sempre. La routine la dimentichi.

Lei ha sempre parlato di sesso con naturalezza, dimostrando come si possa vivere la propria sfera intima con soddisfazione a ogni età. Come è cambiato il suo approccio al sesso a 69 anni?

Devo dire che non è cambiato. Ancora adesso mi compiaccio quando sto bene in salute e non ho altri pensieri. Perché, come si dice, il cosino maschile non vuole pensieri. Sono contento quando guardo una bella ragazza, fintanto che ho questa curiosità, mi sento vivo. Anche perché sono sessualmente attivo. Vorrei dire una cosa alle persone mature. 

Prego.

Le invito a fare sesso, perché il sesso fa bene, eiaculare spesso fa bene alla prostata. Si vive più a lungo, c'è bisogno di avere orgasmi. Sarei anche per la riapertura delle case chiuse, anche se in Italia questa cosa non passerà mai. Però una regolamentazione permetterebbe a chi fa quel mestiere, di ricevere uno stipendio adeguato, di evitare malattie e diminuire il rischio di violenza sessuale.

Spesso ha dichiarato che le piace trasgredire. Mi racconti una delle sue trasgressioni.

Ho provato molto in campo sessuale, anche con più persone. Sono stato abbastanza libertino. 

Quindi ha partecipato a un'orgia?

Sì, mi è successo di farlo in modo allegro con più persone. Sono stato in quei locali che a me non piace definire "per scambisti", io li chiamo locali trasgressivi, libertini. Come spirito sono molto francesi. Ho provato un po' di tutto in questo senso. Sono molto aperto. Ciascuno nel sesso può fare quello che vuole, basta che non dia fastidio agli altri.

Una fantasia che non ha ancora realizzato?

Non saprei. Alcuni uomini mi corteggiano su Instagram, mi chiedono foto nudo, mi scrivono: "Mi arrapi, sei sempre intrigante". Ma non sono attratto da loro. Poi una donna trans, molto bella, mi aveva scritto per venirmi a trovare a Roma per fare delle foto con me. Mi ha detto: "Però devo avvertirti che sono trans". Va be', poi non l'ho mai conosciuta ma ho il massimo rispetto per tutti. 

[…]C’è una donna dello spettacolo o della politica che la attrae e che le piacerebbe conoscere meglio?

Sono molto amico di Irene Pivetti. È una persona a cui sono molto vicino. […] 

Però ho letto che ha un debole per Sonia Bruganelli…

Sonia sì. Però è un intrigo diverso, abbastanza intellettuale. Conosco Paolo Bonolis… Al Grande fratello legavo con lei. All'inizio non le ero simpatico, poi ha cambiato idea. 

Ricordo una puntata del Grande Fratello Vip dove lei partecipò come ospite, durante la quale Antonella Elia disse: "Ho saputo che il soprannome di Amedeo Goria è l'idrante".  

Pupo non osava dirlo e lo disse Antonella Elia. Devo ringraziare Alba Parietti per questo, un giorno disse: "Parlano di questo Amedeo Goria, ma chissà cosa ha". L'unica cosa che posso dire è che alla mia età, 69 anni, sono ancora vivace, attivo. […]

Estratto dell’articolo di Maria Francesca Troisi per mowmag.com il 20 Gennaio 2023.

Altro merdone pestato. Si è sempre detto che la cultura non ha prezzo, tranne se si tratta di Andrea Scanzi, che a mezzo social dichiara placidamente di non sentire suo il mondo della scuola, perché qualora invitato, dovrebbe andarci aggratis. Già, perché gli istituti scolastici non dispongono di soldi per pagare le lezioni di una celebrità del suo calibro.

Spargere cultura nelle scuole? “Me lo chiedono da sempre e quel mondo non lo sento vicino e non mi attrae. Non viaggio gratis, le scuole non hanno soldi e anche se ci fosse un gettone direi di no. Chi vuole vedermi, viene a teatro. Dove do tutto quello che ho”. A fare il musicologo de noantri.

 Sparata infelice che non passa inosservata, anzi le bastonate non si contano. Tra tutte spicca il post avvelenato dello scrittore Paolo Di Paolo, che replica duro: “Uscita ributtante del mese. ‘Quel mondo non lo sento vicino’… La frase più stupida e più intollerabile che si possa sentire da chi presume di poter ‘spargere cultura’. Anzi: da qualunque essere (realmente) umano. Non c’è niente di più importante della scuola. Niente. Detto questo, non so se è bene che Andrea Scanzi vada nelle scuole. Meglio di no”. […]

Ma non sono le uniche battute a far discutere, e con lo stesso scazzo. E pensare che la richiesta d’interazione era partita da lui! Opinioni su autonomia differenziata e federalismo fiscale? Scansa che è un piacere. “Non parlo gratis di politica, perché non lavoro gratis. Se me lo chiederanno in Tv, o ne scriverò sul Fatto, avrai la risposta”. […]

Estratto dell'articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 30 gennaio 2023.

Angela Buttiglione, ricorda il suo esordio in Rai?

Mi chiesero di preparare un servizio sulle elezioni in Germania. Scrissi il pezzo, lo portai al caporedattore, che lo fece leggere al vicedirettore e quindi tutti insieme si precipitarono dal direttore. Io rimasi fuori dalla porta, ad aspettare il giudizio. A un certo punto sentii uno di loro esclamare: “Ma questo davvero l’ha scritto una donna?”.

 Quando è stata assunta?

Nel maggio 1969, a ventitré anni. Eravamo due donne al telegiornale: Bianca Maria Piccinino ed io”. 

Di cosa si occupava?

Lavoravo alla redazione del tg delle 17,30, “il tg dei bambini”, perché leggero e rosa. Le giornaliste allora si occupavano di moda, costume, spettacoli. Era un mondo parecchio maschilista”.

 […]

Cosa fece col primo stipendio?

Lo diedi in casa. Erano 200mila lire. Mio padre, questore, commentò: “E’ quello che prende un mio vice!”. […]

 La tv era la Rai?

Monopolio assoluto. Ricordo che la troupe per i servizi esterni era composta da ben cinque persone: il giornalista; il fonico; l’operatore; il datore delle luci; l’operaio che portava le nostre borse e fungeva da autista”.

 Che qualità doveva avere un giornalista?

Doveva parlare un italiano perfetto, possibilmente senza inflessioni. Chiara Valentini, una bravissima collega, che poi sarebbe diventata una firma dell’Espresso, biografa di Berlinguer, venne esclusa dal corso per via del suo accento milanese”.

 Quale corso?

Quello con cui entrammo in Rai. Superammo prima un concorso. C’erano seicento concorrenti, lo passammo in trenta, che furono ammessi a un corso preparatorio di sei mesi, senza alcuna promessa di assunzione. Alla fine fummo assunti in quindici”.

 Chi c’era?

Bruno Vespa, che risultò il primo in graduatoria. Paolo Frajese, Nuccio Fava, Claudio Ferretti, Bruno Pizzul, Vittorio Roidi”.

 […]

 Dove ha conosciuto suo marito?

Al mare, a Gallipoli, dove tornavamo ogni estate, a casa dei nonni materni. All’epoca era uno studente in economia, di Lecce: Massimo Faccioli Pintozzi. Ci siamo sposati nel 1972, avevo ventisei anni”.

 Da quanto tempo eravate fidanzati?

Un anno. Mio padre mi rinchiuse nello studio e mi interrogò a lungo: “Sei sicura della tua scelta?” “Saprai conciliare famiglia e lavoro?” Aveva un sacro rispetto della famiglia”.

 Quanti figli ha avuto?

Quattro. Esmeralda nata nel 1973, dirigente dell’Unicredit, vive a Milano; Liliana, nel 1975, giornalista a Sky, a Milano; Marina, nel 1980, pubblicitaria a Roma; Vincenzo, 1982, autore televisivo in Rai”.

 E come ha fatto?

Io non tornavo a casa a pranzo, e quindi durante il giorno li seguiva una tata. Però la sera cucinavo io”.

 Dopo aver condotto il Tg1 delle 20?

I miei figli mi telefonavano: “Mamma, stasera quando torni?” Come se non sapessero che leggevo il telegiornale. Organizzavo la cena a rate, in ogni ritaglio possibile, pulivo la verdura la mattina presto, anche la scelta della padella era decisiva per poi perdere meno tempo possibile. Ho sempre avuto metodo”.

 […]

Quanto era competitivo il mondo Rai?

Può immaginare. Ma mi sono data subito una regola: non dare adito a pettegolezzi, stroncarli subito. Mi sono totalmente concentrata sul lavoro”.

 Com’era Bruno Vespa?

Molto sicuro di sé, ma permaloso, pretendeva che la sua indubbia bravura fosse riconosciuta”.

 Paolo Frajese?

Un pazzo scatenato. Grande cronista. Il suo servizio su via Fani, il giorno che rapirono Aldo Moro, andrebbe studiato nelle scuole di giornalismo”.

 Emilio Fede?

Ho condotto con lui molti telegiornali. Gli davo dei gran calci sotto il tavolo, perché si distraeva, faceva casino”.

Gianni Bisiach?

Uno stakanovista. Stava sempre in moviola”.

 Quando le hanno affidato la conduzione del Tg1?

Negli anni Ottanta. Condurre il tg delle 20 era la definitiva consacrazione”.

 Quanto rendeva famosi?

Ti dava una popolarità enorme. Ricordo che una volta mi presentai in un ristorante che aveva chiuso la cucina e la riaprirono per me e i miei amici”.

 […]

La popolarità non l’ha cambiata?

Per molti andare in video è stata una droga. Frajese ci è morto. Ricordo che fu io a comunicargli che la Rai non gli avrebbe rinnovato il contratto di corrispondente da Parigi. Non riusciva a farsene una ragione. Poco dopo ha avuto l’infarto fatale”.

 In cosa consiste “la droga”?

Intanto i soldi che ti danno. E poi la grande notorietà. Il Tg1 faceva otto milioni di telespettatori. Ciò offriva molte lusinghe: partecipazioni a convegni o tavole rotonde, collaborazioni. Diventavi famoso”.

 Lei ne è stata immune?

Io avevo la mia famiglia, una vita di relazione, interessi. Mi sono salvata così”.

 Era tesserata della Dc?

Io? Assolutamente no”.

 Ma veniva inquadrata in quota dc.

Sì, ricordo bene. Ma io nemmeno votavo per la Dc”.

 Non votava per la Dc?

No, votavo per i partiti piccoli, laici, Pri, Pli”.

 Ma non ha appena detto che era cattolicissima?

Sì, ma laica in politica”.

 Il Tg 1 non era filo-democristiano?

Sì, ma tutte le redazioni erano lottizzate, anche dai partiti di sinistra. Il Pci sistemò in Rai molti figli di”.

 […]

 Lei non ha conosciuto i grandi capi dc?

No, l’unico è Francesco Cossiga, che ha abitato sopra casa mia”.

 […]

Fino a quando è stata il volto del Tg1?

Ho smesso nel 1994. Nominarono direttore Carlo Rossella, che esordì dicendo: “Toglietemi la Buttiglione dal video”.

 Perché?

Ero l’anima di un giornale che lui non voleva più fare. Rappresentavo la Rai di Bernabei. Solida, rassicurante, pedagogica, non prevaricante”.

 Molto paludata anche.

Ma guardi che non abbiamo mai nascosto niente. Eravamo molto seri, prima di dare una notizia si incrociavano tre fonti”.

 […]

Vespa alla sue età conduce ancora Porta a porta.

Guardi, avrei potuto lavorare ancora, collaborare, scrivere: mi hanno offerto di tutto, dalle ospitate fino alla politica”.

 E perché ha detto di no?

Bisogna sapersi ritirare. Ho dato”.

Letteratura. Guglielmi e il Gruppo 63: un'avventura in Bermuda. Angelo Guglielmi, che era nato ad Arona, sponda piemontese del lago Maggiore, nel 1929, è morto l'11 luglio scorso a Roma. Luigi Mascheroni su Il Giornale l’11 Gennaio 2023

Angelo Guglielmi, che era nato ad Arona, sponda piemontese del lago Maggiore, nel 1929, è morto l'11 luglio scorso a Roma. Ha fatto però in tempo a vedere le bozze del suo ultimo libro, che esce ora da Aragno (editore che adorava), frutto di una serie di incontri - al sabato mattina, nella sua casa romana - con Carmelo Caruso, firmissima del Foglio. Titolo - sul quale l'autore e il giornalista hanno discusso, riso e alla fine deciso insieme - L'avanguardia in bermuda, ossia «La formidabile avventura del Gruppo '63». E in effetti la storia di «quella piccola ganga di scrittori sperimentali», seppure anticipata dalla pubblicazione della raccolta di poesie I Novissimi curata da Alfredo Giuliani, comincia a Palermo nell'ancora caldo ottobre di quell'anno sfrontato, caotico, sovversivo: il '63.

Il libro, lo si deve dire, non si può perdere. Già l'incipit è da sottolineare: «Eravamo degli sprovveduti? Per niente. Avevamo ragione? Assolutamente sì. Abbiamo avuto fortuna? Mah. Il successo di pubblico non pensavamo di pretenderlo. Non si può insomma dire che la nostra piccola rivoluzione sia stata piccola. Violenta però mai»). In XXVIII capitoletti, un'ottantina di pagine, si racconta - meglio di qualsiasi manuale scolastico - cosa fu quel movimento («un incendio che per una manciata di anni ha seminato il panico nel mondo della letteratura»), perché nacque (per sperimentare nuove modalità espressive, così come il Barocco smantellò la tradizione del classico), con quali intenzioni («portare alla sbarra tutto quello che era stato scritto in quegli ultimi anni», denunciare la fine del romanzo, disprezzare «la lingua antica») e chi furono davvero i «sessantatreini» (che ebbero Anceschi come «impresario», Gadda come «profeta», la Feltrinelli come «casa», anche se alla fine Giangiacomo si capiva «che stava deragliando»...), da Balestrini a Manganelli.

Tra le pagine su cui mettere un post-it, la 33. Dove Guglielmi ricorda quando recensì le Piccole vacanze di Alberto Arbasino elogiando il suo linguaggio, e finendo così: «Sa un po' di merda, come capita alla più raffinata cucina francese». Arbasino rimase felicissimo di quella frase.

Mirella Serri per Tuttolibri – La Stampa il 7 febbraio 2023.

Entraîneuses, ovvero prostitute: così Carlo Cassola, Giorgio Bassani e Pier Paolo Pasolini chiamavano, senza mezzi termini, i principali esponenti del Gruppo '63: Angelo Guglielmi, Alberto Arbasino ed Edoardo Sanguineti. I quali, a loro volta, rimandando al mittente, li appellarono i «Salazar della letteratura», cioè despoti delle patrie lettere.

 Cassola e Bassani si consideravano gli aedi, i cantori della Resistenza e per il loro stile classico e sdolcinato furono anche ribattezzati, sempre dagli stessi critici e scrittori sperimentali, le «Liale della letteratura», come la nota autrice di romanzi rosa, ovvero scrittori di serie B. «Non accettavano nessun tipo di critica.

 Si schermavano dietro la tensione morale e l'impegno politico», ricorda Guglielmi nell'appassionato memoir L'avanguardia in bermuda. La fantastica avventura del Gruppo ‘63 (Aragno editore) a cui ha lavorato con il giornalista Carmelo Caruso fino a pochi giorni prima della scomparsa, a 93 anni, nel luglio del 2022. Quest'anno ricorrono i sessanta anni dalla nascita del Gruppo '63, di cui Guglielmi, storico direttore di Rai3 e gran protagonista della critica letteraria italiana (sulle pagine di Tuttolibri), è stato uno dei più combattivi padri fondatori.

L'appuntamento che diede vita al Gruppo '63 si svolse dal 3 all'8 ottobre 1963 a Palermo e vide radunati all'hotel Zagarella una trentina di romanzieri, musicisti, poeti, giornalisti (tra cui Andrea Barbato e Sandro Viola) a cui si aggiunse un imbucato, Alberto Moravia che si trovava in vacanza a Noto. L'assemblea siciliana lanciò un appello per una nuova letteratura e si modellò, seguendo il suggerimento di Luigi Nono, sulle orme del tedesco Gruppo '47 che si riuniva a Monaco e a cui aderivano scrittori del calibro di Heinrich Böll e Hans Magnus Enzensberger.

 Il drappello palermitano cambiò il volto della nostra produzione artistica: interruppe i legami degli scrittori con il verbo neorealista, svecchiò i punti di riferimento e portò aria fresca dal punto di vista linguistico nella vecchia casa della letteratura italiana. Che assomigliava, si diceva, a una di quelle dimore mal aerate, che puzzano di chiuso, con «minestre e merletti, porcellane e broccoletti»

 (...)

 Uno dei primi approcci che testimoniò la verve pugnace dei «nuovi» scrittori fu al Blue bar di Milano dove i trentenni in doppiopetto (i bermuda li misero a Palermo) battibeccavano con i «cardinali» delle lettere Carlo Bo, Eugenio Montale, Alfonso Gatto, Vittorio Sereni. «I nostri giudizi erano opposti, contraddicevano i loro e la differenza di età si avvertiva», ricorda Guglielmi. Aveva fraternizzato con Arbasino recensendone le Piccole Vacanze e parlando del suo linguaggio come qualcosa di «brillante e cupo, marcescente e dolce. Sa un po'di merda come capita alla più raffinata cucina francese»; un giudizio irriverente che però mandò in visibilio l'autore.

 Non conoscevano sosta le liti che opponevano i tradizionalisti agli innovatori. Gli sperimentalisti proposero che, al posto del premio Strega, venisse assegnato a Pasolini, sdegnato per l'affronto, il premio Fata.

 Leonardo Sciascia li detestava e Italo Calvino diventò un affettuoso compagno di strada.

(...)

DAGONOTA il 6 gennaio 2023.

Guglielmi, Angelo bifronte. Parallelamente all'attività di critico letterario, di cui il libro postumo, ‘’L'avanguardia in Bermuda’’, scritto con il giornalista de “Il Foglio” Carmelo Caruso, riavvolge l’avventura disgregante nella letteratura italiana del Gruppo 63 (vedi il pezzo a seguire), dal 1987 al 1994 Guglielmi ricoprì la carica di direttore di Rai 3. 

Indicato da Walter Veltroni (ma Guglielmi precisava che “Veltroni mi ha scelto per fare brillare la sua stella”), sotto la sua direzione nacquero programmi cult come Telefono giallo, Samarcanda, Un giorno in pretura, La TV delle ragazze, Blob, Fuori orario. Cose (mai) viste, Chi l'ha visto?, Mi manda Lubrano (poi divenuto Mi manda Raitre), Avanzi, Quelli che il calcio, eccetera.

 E vennero lanciati personaggi come Corrado Augias, Michele Santoro, Donatella Raffai, Enrico Ghezzi, Marco Giusti, Roberta Petrelluzzi, Serena Dandini, Fabio Fazio, Piero Chiambretti, Giuliano Ferrara, Daniele Luttazzi, Maurizio Mannoni e Franca Leosini. Sette anni che cambiarono la televisione italiana, non solo di qualità ma anche di quantità: lo share medio della rete passò in pochi anni da meno dell'1% a oltre il 10%. 

Meno conosciuto il dopo Rai di Guglielmi. Negli ultimi mesi del 1995, un anno dopo l’uscita da Viale Mazzini, venne chiamato da Vittorio Cecchi Gori, il produttore cinematografico fiorentino, proprietario del canale Videomusic nonché senatore del Partito popolare che aveva appena acquisito Telemontecarlo per una cifra attorno a 100 miliardi di lire dal gruppo Ferruzzi. 

Cecchi Gori propose a Guglielmi di prendere il timone di comando dell’emittente. Ma alla sua richiesta di imbarcare nell’avventura di Telemontecarlo tutto lo staff di Rai3 (oltre ai suoi Augias e Santoro, Chiambretti e Fazio, Dandini e Ghezzi, nonché il suo consigliere-principe, Sandro Parenzo), Vittorione mandò tutto all’aria. Inoltre pare che non gli piacesse l'approccio verso una tv fortemente commerciale prospettato dal novello editore di Tmc-Videomusic.  

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 6 gennaio 2023.

Si incontravano ogni sabato, il vecchio Angelo Guglielmi e il giovane Carmelo Caruso, senza mai parlare della "buona televisione", («non la guardo e non la so fare»), la famosa Raitre, di sinistra ma con Ferrara, «il mio amico Giuliano». Solo letteratura, invece, anche a pranzo, mangiando un uovo sodo immacolato, senza ditate sul bianco: «Il cibo deve stare su un carrello, non a tavola». 

Ne è nato il libro postumo di Guglielmi, L'avanguardia in Bermuda, un piccolo capolavoro di malinconia, edito da Aragno, «il solo che non fa libri per fare soldi». È una Spoon River dove la prosa di Arbasino «sa di merda come capita alla più raffinata cucina francese», Vittorini traduce gli americani «ma non sa l'inglese», Calvino in silenzio si interroga «su cosa resterà dopo la fine della Storia». E Cassola, Bassani e Pasolini, «liale della letteratura», hanno il ruolo dei «Salazar, dei despoti». 

Emilio Cecchi è «il papa» che Guglielmi prova a spodestare, Moravia e Dacia Marina si «imbucano» nel vagone letto dell'avanguardia che demolisce «il Canone», ma si incantano a Segesta. E Feltrinelli già deraglia: «Diventa frettoloso, approssimativo, scalmanato». Solo noi lettori siamo allegri, saltellando da un ciglio all'altro dei 28 paragrafi: lì in fondo c'è Sciascia con le antipatie di moralista, al Blu Bar si riuniscono i cardinali, Bo, Montale, Gatto, Sereni e Anceschi, che è «l'irregolare regolato». 

Un bel giorno, forse di maggio, non più «belletrista» ma finalmente «lievitante», «Gadda diventa Gadda». Filippini scopre la letteratura latino-americana ma anche la filosofia di Merleau-Ponty, e Balestrini, che rivendica il numero «transnazionale» 63, si avvelena d'ideologia. 

 Compaiono le dotte scempiaggini di Toni Negri e si intravedono i mandati di cattura e le fughe a Parigi nella filigrana di questi scritterelli errabondi dove Umberto Eco diventa «di vaga sinistra» e John Cage, nella Pensione Fontana di Milano, compone la "Fontana mix" per risarcire la concupiscenza della signora Fontana, che avrebbe soddisfatto se non fosse stato omosessuale. 

Si trasforma, alla fine, in un agitato manualetto di letteratura italiana contemporanea per classi di quinto liceo, la serpentina di ricordi avvolgenti che la penna stregata di Carmelo Caruso arieggia e ordina, pur senza mai tradire l'intensità nervosa che di Guglielmi era il fascino. 

È vero che il tema è "il gruppo 63", ma è difficile oggi pensare che siano cocci di uno stesso vaso Dorfles e Celati, Giorgio Manganelli e Achille Bonito Oliva, Furio Colombo e Sanguineti. Forse, già allora, le cinque giornate di Palermo degli "illeggibili", abbronzati in bermuda e sbronzati in doppiopetto, non furono un'epica, ma solo un pretesto per il gran finale della letteratura italiana. E per questo libro che le dà l'addio.

Estratto dell’articolo di Giovanni Tizian per editorialedomani.it martedì 26 settembre 2023.

Lobbista o giornalista? Questo è il dilemma attorno ad Annalisa Chirico, premiata dalla Rai meloniana e salviniana con un programma tutto suo dal titolo Ping Pong su Radio 1, ribattezzata Radio Salvini per via di un palinsesto rinnovato con volti amici del capo della Lega sovranista: da Marcello Foa, ex presidente Rai, alla stessa Chirico, la cui amicizia con il leader leghista è documentata da anni. Lei è iscritta all’ordine dei giornalisti, albo dei pubblicisti, e allo stesso tempo imprenditrice di se stessa a capo della Ac Advocacy e communication. 

L’oggetto sociale è: «La fornitura di servizi per lo sviluppo delle imprese, la costruzione e il rafforzamento del loro brand e la valorizzazione dei loro vantaggi competitivi... La consulenza nel campo del public, regulatory e government affairs... dall’advertising istituzionale e implementazione di campagne anche digitali di comunicazione istituzionale».

Contattata da Domani Chirico segnala che «il termine lobbying non è mai citato nei documenti societari», eppure public affairs è un sinonimo, mentre la parola «lobbying» appare nella sezione del sito dell’azienda, nella sezione «aree di competenza». 

Ac Advocay nell’ultimo bilancio ha dichiarato oltre 1 milione di euro di fatturato, con un utile di 260mila euro. Che finiscono tutti in tasca alla giornalista, in quanto unica socia. Un balzo in avanti notevole rispetto ai comunque ottimi 794mila euro di fatturato del 2021, con 194mila di utili. 

[…] Chirico è dunque un Giano bifronte: giornalista, editorialista ospite dei talk show a difendere le tesi del governo sull’immigrazione, sulle tasse, fervente oppositrice del reddito di cittadinanza. 

E pure professionista al servizio delle aziende, organizzatrice di eventi lautamente sostenuti da società private e di stato, curatrice d’immagine di interessi privati. […] Il rischio […] è di sconfinare in un conflitto di interessi poco opportuno per un’iscritta all’ordine dei giornalisti, per di più ora voce di Radio 1, servizio pubblico. 

Molto amica di Matteo Renzi e il suo avvocato Alberto Bianchi, un tempo. Decisamente a destra da quando ha sposato la linea sovranista dell’altro Matteo, Salvini. […] 

Chirico si è formata nella redazione de Il Foglio, considera Giuliano Ferrara suo maestro. Più di Giorgio Mulè, altro suo mentore. Pioniera della critica al politicamente corretto, si è esercitata nella saggistica con un libro dal titolo raffinato e provocatorio: Siamo tutti puttane. 

Ha anticipato di qualche anno la tendenza retorica, oggi molto in voga a destra, sulla dittatura del politicamente corretto. «L’essere puttana è uno stato esistenziale, comune a maschi e femmine. Siamo tutti puttane, in senso figurato, perché cerchiamo, ognuno a suo modo, di districarci nel complicato universo dell’esistente». 

Al di là del contenuto dei suoi scritti, esiste però una questione di opportunità connessa agli affari privati di cui si occupa quotidianamente.

[…] Che il percorso professionale di Chirico fosse a una svolta in Rai è stato chiaro quando con toni trionfalistici aveva annunciato la messa in onda su Rai 3 del documentario Leggenda Italia-Peninsula Valley, un viaggio on the road lungo l’Italia per raccontare le eccellenze imprenditoriali e industriali del paese. 

Il 31 marzo alle 16.20 il prodotto piazzato da Chirico sulla terza rete del servizio pubblico ha totalizzato uno share del 4,1 per cento con 343mila spettatori. Scritto e diretto dalla giornalista-imprenditrice, Leggenda Italia è stato prodotto da Ac Advocacy e Communication, la ditta con la quale organizza eventi e fa attività di lobbying. 

Il documentario ha avuto il patrocinio del ministero dello Sviluppo Economico e degli Affari esteri. Con il supporto di Italian trade agency, ministero degli Esteri, Adler e beIt (un marchio degli Esteri insieme a Ice, l’Agenzia per la promozione all’estero delle imprese italiane). […] Non è noto se tutti hanno donato un contributo. 

Domani ha, tuttavia, scoperto quanto ha stanziato Ice: il contratto dell’aprile 2022 è di 25mila euro, oggetto: «Affidamento servizio per realizzazione del documentario Leggenda Italia» alla società Ac Advocacy e Communication, cioè Chirico.

Nel viaggio […]  la giornalista ha intervistato una decina tra imprenditori e manager. Ampio spazio ha trovato la Adler, per esempio. È una delle società che compare nei titoli di coda tra i sostenitori. […]

Nel documentario un’altra tappa del viaggio è Grottaglie, nella sede di Leonardo Spa, il colosso di stato degli armamenti. Qui produce elicotteri e parte del Boeing 787. Il brand Leonardo lo ritroviamo pure sul sito LaChirico.it: ha acquistato uno spazio pubblicitario sul portale gestito tramite la società Ac Advocacy e Communication. Il confine tra contenuto giornalistico e marketing è sempre più sottile.

[…] Chirico dice a Domani che non esiste alcun conflitto di interesse. E però persino nel programma su Radio 1 è riuscita a mescolare pubblico e privato: i primi due ospiti sono stati il presidente del Senato Ignazio La Russa e il ministro dell’Ambiente Guglielmo Pichetto Fratin. 

Entrambi saranno pure protagonisti il 28 settembre dell’evento “The Young Hope” organizzato da Ac Advocacy e dall’associazione Fino a prova contraria, presieduta sempre da Chirico. Giunta alla quinta edizione, la scuola di Fino a prova contraria è dedicata ai giovani e può vantare sponsor di un certo livello: in prima linea le aziende di stato, come Poste Italiane, che nel 2022 ha staccato un contributo di 30mila euro. 

La scorsa edizione è stata supportata anche da Sace, Leonardo, Snam, Saipem e molte altre. A queste si aggiungevano le multinazionali private: Google e Philip Morris, Edison e alcune banche. 

Sace […] ha stanziato per la scuola di Chirico 20mila euro nel 2022. Non è l’unico sostegno: tra il 2021 e il 2022 ha acquistato spazi pubblicitari sul sito LaChirico.it per 39mila euro. Anche altri colossi controllati dal governo hanno versato cifre attorno ai 25 mila euro per ogni evento organizzato da Chirico, in media due o tre all’anno. 

Contattata da Domani, ha declinato l’invito a replicare: «Ho già sentito parole che non mi piacciono. Scrivete quello che volete, sono molto curiosa di leggere». Su una cosa vuole essere chiara: «Non faccio la lobbista, vi sfido a trovare un solo contratto che abbia come oggetto questa attività». 

Ci fidiamo, ma nel sito dell’azienda Ac Advocacy il termine «lobbying» proprio tra i servizi offerti ai clienti. […]

Estratto dell’articolo di Claudio Plazzotta per “Italia Oggi” il 7 aprile 2023.

Antonello Piroso, […] Poi alla radio e al teatro ci arriviamo. Però io devo parlare con lei di tv. Spesso analizza i dati Auditel sui social e bacchetta anche molti critici. Perché?

Risposta. Io mi diverto sempre a guardare i numeri e le statistiche. La passione mi arriva dal 1991, quando feci il programma Primadonna su Italia 1: direttore di rete Carlo Freccero, regista Gianni Boncompagni, io ero il valletto di Eva Robin’s. Il programma fu un disastro e venne chiuso, giustamente, dopo un mese. Non sapevamo cosa fare […] e io mi inventai la rubrica TribunAuditel in cui segnalavo il programma più visto e quello di più scarso successo, con tanto di grafici.

D. Vabbè, però adesso dobbiamo aprire un’altra parentesi: Boncompagni…

R. Lui arrivava dalla Rai, da Domenica In dove il suo impegno era minimo, una volta a settimana. Non presenziava mai alle prove, arrivava in Rai alla domenica pomeriggio e passava il tempo a leggere le riviste di armi che si faceva recapitare dagli Stati Uniti. La regia era spesso curata in realtà dalla sua assistente, Simonetta Tavanti.

 D. Beh, d’altronde il motto di Boncompagni sul lavoro è sempre stato «presto e male»…

R. Esatto. Però, alla fine di quella stagione, aveva accettato i tanti miliardi che gli aveva offerto Mediaset, e si era impegnato a fare tutti i giorni Non è la Rai su Canale 5, e poi, sempre tutti i giorni, anche Primadonna su Italia 1. Figuriamoci…

D. Torniamo a oggi: perché bacchetta i critici televisivi quando leggono i dati Auditel?

R. Perché mi accorgo che ci sono molti account social che, nel leggere i dati di ascolto, stravolgono la realtà. Sono account che fatturano, che scrivono perché hanno rapporti diretti con i broadcaster tv, con i personaggi tv, con le agenzie, le società di produzione. E ci mancherebbe, […] ma andrebbe detto per onestà, e non solo intellettuale.

 D. Un programma pompato dai social?

R. Beh, ad esempio Belve di Francesca Fagnani. È celebrato da siti, social e giornali, ma mi dicono vada però molto forte in digitale, in pillole. Diciamo che la Fagnani è una belva da bolla, una social belva, una belva virtuale.

 La vera belva che azzanna è Selvaggia Lucarelli, una belva reale. In tv, comunque, ci sono un sacco programmi in cui qualcuno intervista qualcuno: è una formula antica, e nessuno si inventa nulla. […] Io non sopporto i minuetti e i pasticcini di Fabio Fazio come conduttore, e ovviamente non come persona. Però quando intervista il Papa, quando intervista Obama che gli vuoi dire? C’è il problema che vengono intervistate sempre le stesse persone. Poi ci sono le eccezioni, come Stefano Lorenzetto: lui cerca solo storie laterali.

D. Quando lei uscì da La7 nel 2012, dopo essersi inventato Omnibus, aver condotto molte trasmissioni, e aver diretto anche il Tg di La7, molti erano convinti che sarebbe andato a condurre programmi su altre reti generaliste. Ricordo che all’epoca parlai con importanti dirigenti televisivi, che però mi risposero tutti: no, non accadrà, conosciamo Piroso, è un rompicoglioni…

R. Non so se Marco Tronchetti Provera, mio editore in tv, o Paolo Salvaderi, big boss di Radio Mediaset, pensino la stessa cosa. Io ho sviluppato una certezza: se in Italia vuoi fare un dispetto a qualcuno, basta passeggiare per i corridoi delle tv e iniziare a mettere in giro alcune di queste voci. Ad esempio «quello porta sfortuna», oppure «è un massone», «è un cocainomane», «è della lobby gay», «ha un cattivo carattere, intrattabile, arrogante, presuntuoso».

 D. Di sicuro lei sembrava avere una grande opinione di sé, ricordiamo i suoi gessati, la sua camicia bianca con maniche arrotolate e tatuaggio in bella vista…

R. Aldo Grasso scrisse che ero egoriferito, come tutti quelli che fanno tv sono vanitosi e narcisi. Mi chiedo: Mentana, Ferrara, Santoro, financo Mara Venier, non lo erano? Non lo sono? Tutti costretti ad andare in video controvoglia, strappati alle loro letture nell’eremo di Camaldoli? No, vanno in video perché vogliono andarci, e si piacciono molto.

 D. Ma lei era un rompicoglioni, sì o no?

R. A Mediaset non me lo hanno mai detto. E se lo avessero pensato non mi avrebbero chiamato per propormi la conduzione di Matrix. Poi, però, scelsero – per ragioni, per dir così, extraprofessionali - un altro.

 […] D. Allora ci racconti la sua verità.

R. Io a La7 sono arrivato a 42 anni, facevo il giornalista da 18 anni. E non è che fossi impegnato come giardiniere di casa Tronchetti Provera: ero stato per anni un inviato di Panorama e autore televisivo, capo progetto di Domenica In nel 1999-2000, quando portai in Rai Amadeus, che il direttore di Rai 1 Agostino Saccà non voleva.

 […] Marco Tronchetti Provera nel 2001 compra Telecom Italia […] e si ritrova in pancia sia La7 sia la consulenza di Maurizio Costanzo che, si diceva all’epoca, guadagnava l’equivalente di un milione di euro all’anno.

 Per sei mesi vanno in onda solo Giuliano Ferrara, Gad Lerner e Jane Alexander.

Fantastico Lerner, che all’arrivo di Tronchetti Provera si fa liquidare un sacco di soldi grazie a una clausola del suo contratto come direttore del tg di La7, ma, uscito dalla porta, poi rientra a La7 dalla finestra accreditato come uomo di riferimento di Romano Prodi.

 D. E lei che fa?

R. Io nel frattempo facevo il freelance, e avevo pubblicato una intervista ad Afef. Costanzo mi chiede che ne penso di Afef, e poi la invita al Costanzo Show. Esplode il fenomeno Afef, con cui mantengo un buon rapporto di amicizia.

Lei si fidanza con Tronchetti Provera. Costanzo, allora, propone ad Afef di condurre un programma su La7. Ma lei declina l’invito, spiegando di trovare sgradevole che la compagna dell’editore possa condurre un programma. Costanzo, perciò, non sapeva chi chiamare, a La7 non ci voleva andare nessuno, era una tv morta. Afef gli segnala tre nomi, tra cui anche il mio. […] Da La7 mi chiamano, e mi prendono per fare l’oscuro autore di un programma del mattino, con una rubrichetta di cinque minuti in video. Tanto per ricordare che non è che mi abbiano candidato alla direzione del Tg1.

 D. E lì che succede?

R. Beh, c’è Uno Mattina sulla Rai, e Costanzo vuole fare un programma simile chiamato Settimo Cielo. Per fortuna, durante le riunioni, quel nome viene cassato e si sceglie Omnibus. All’inizio Omnibus era un Uno Mattina in piccolo. E non funzionava. Proposi a Costanzo di sparigliare: se Uno Mattina parla di cronaca, allora noi occupiamoci di politica, facciamo una cosa diversa. E così fu.

 D. Terminata la sua esperienza a La7, nel 2012, è sostanzialmente sparito dalla tv…

R. Negli ultimi anni mi hanno proposto più volte di condurre talk politici. Ma ho risposto con un no grazie, ho già dato. In tv c’è poca fantasia, c'è la transumanza della stessa compagnia di giro da una rete all'altra, Feltri, Sgarbi, Travaglio, Orsini, Corona, Santoro, tanto per buttarla in caciara, è impossibile sviluppare un ragionamento.

 In un talk, come ospite, vado due-tre volte l'anno, per le affettuose insistenze di qualche collega, ma poi mi guardo da fuori e mi domando, novello Chatwin: «Che ci faccio qui?». […] E allora preferisco fare direttamente la radio e basta, almeno non mi devo neanche truccare e la faccio da casa mia.

[…] D. Ho letto che, se potesse, le piacerebbe fare un programma tv in seconda serata di cazzeggio alla Renzo Arbore. Ma non è, ad esempio, quello che già fa Alessandro Cattelan su Rai 2, con risultati non proprio brillanti?

R. Cattelan ha poco a che fare col pubblico della Rai. L’amministratore delegato dell’epoca, Fabrizio Salini, lo ha portato in Rai facendo un grande errore, perché avrebbe dovuto partire in seconda serata, piano piano.

 Invece lo hanno buttato allo sbaraglio su Rai 1 in prima serata e lo hanno bruciato. Il cazzeggio si può fare in tanti modi, pure il programma di Fiorello è cazzeggio, e anche Propaganda Live. Dipende sempre da come si fanno le cose. Ricordando che in tv non si inventa nulla.

 D. La politica ha una insana passione per la occupazione militare della tv. Tuttavia le ultime elezioni le hanno sempre vinte le forze politiche meno presenti in tv, dai 5 Stelle alla Lega, fino a Fratelli d’Italia. Quindi?

R. Giusta osservazione. Si diceva che anche Berlusconi controllasse tutta la tv, ma poi ha perso elezioni nel 1996 e nel 2006. Diciamo che la Rai sta a Roma, e a Roma è tutto molto sfumato, tutto si confonde, tutti sono amici anche se si sono visti una sola volta. Non c’è il centro-destra o il centro-sinistra, ma, come dice Dagospia, c’è solo il centro-tavola. E le pedine le sposta Gianni Letta: a Roma tutti devono qualcosa a Letta, in tv, nello sport, negli enti pubblici, nella burocrazia ministeriale. […]

Estratto dell’articolo di Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 18 febbraio 2023.

Antonello Piroso. Finalmente la rivediamo in tv.

«Grazie ad Adriano Panatta, mio fratello televisivo. […] Lo scorso novembre l’ho visto a Milano; e mi ha fatto invitare al programma Rai Il Circolo dei Mondiali.  Ci siamo divertiti, al punto che la direttora di RaiSport Alessandra De Stefano ci ha detto: “Ma perché non fate ancora una cosa insieme?”. Così mi sono ritrovato con lui a Domenica Dribbling, condotto da Paola Ferrari. Riprendiamo il 12 marzo, tutte le domeniche alle 17».

 Dieci anni assente dal video. Cos’è successo?

«Dopo avermi sostituito al TgLa7 nel 2010 con Enrico Mentana, nel 2012 La7 non mi ha rinnovato il contratto e mi sono dovuto inventare un altro mestiere. Così su Blogo.it ho dato vita a Blogo in diretta […] per intercettare il pubblico migrato su Internet. In dieci mesi feci 22 milioni di visualizzazioni in diretta. […]  Venne anche Giorgia Meloni, a presentare il suo nuovo partito: Fratelli d’Italia. Era il dicembre 2012, la gente pensava fosse pazza. Molti colleghi che oggi pietiscono per incontrarla, all’epoca la perculavano: “Ma la nana senza Berlusconi ndo’ và?”. Si è visto: a Palazzo Chigi».

 E dopo Blogo in diretta?

«Mi fanno diverse proposte. Dirigere l’Unità, ma per Matteo Renzi […] ero […] troppo di sinistra, e la cosa non si fa. Dirigere Tiscali news: ma Renato Soru mi chiede di trasferirmi in Sardegna. Grazie, no. L’Isola dei Famosi, prima come concorrente, poi come inviato, e prima che mi facciano la terza telefonata per promuovermi conduttore, gli anticipo un no un’altra volta: "Non sono ancora morto professionalmente"».

 E poi?

«Incontro Lucia, nasce mio figlio Romeo, mi dedico a fare il papà, e mi sposo nel 2020, durante la pandemia, cerimonia con mascherine, quindici persone in tutto, rito civile officiato da Panatta».

 Intanto c’è la radio.

«Dopo una stagione a Radio2, nel 2017 mi arriva una telefonata dal gruppo Mediaset per sostituire Beppe Severgnini a Rock&Talk su Virgin Radio. Nasce il Cavaliere Nero  […] Sono ancora lì, mezz’ora di radio alle 8.15 dal lunedì al venerdì, e più ascoltatori di un programma tv».

 Ma in tv non tornerebbe stabilmente?

«Per il fatturato, sì. Ma non per un talk politico. Nel 2002 ho inventato Omnibus su La7. Appuntamento ancora in onda, ma intanto la politica al mattino è diventata un format, da Agorà in giù. Solo che è consunto. Tutti a pestare l'acqua nello stesso mortaio, e da lì alla morta gora è un attimo. Non esiste altro Paese al mondo con una programmazione televisiva sia verticale (dalla mattina alla sera) sia orizzontale (da lunedì a domenica), piena di talk, su tutte le reti».

 Come mai? Per i costi?

«Certo. Un talk show ha solo costi industriali, ma non quelli “sopra la linea”: niente scenografie mirabolanti, collegamenti satellitari, orchestra, diritti Siae. E ospiti gratis. Paghi solo il conduttore. Se anche fai solo il 5% di share, come Cairo con La7, con ricavi pubblicitari stabili e costi minimi, hai trovato l’Eldorado. Perché cambiare?».

 […] «[…]. In ogni caso, fare la tv generalista oggi è complicato. Negli ultimi dieci anni il pubblico delle sette sorelle generaliste è passato da 25 milioni a 14. Gli altri sono sulle piattaforme a vedere film, serie tv e sport».

 Ha visto Sanremo? Lì gli ascolti ci sono ancora.

«In numeri assoluti ha perso qualcosina, ma rimane non un programma, bensì un evento. Io non discuto lo spettacolo, che funziona per quelli a cui piace il genere “sagra di lusso”. Ma contesto la narrazione che si fa di Sanremo. I giornalisti e la gente della tv, prigionieri nella loro bolla autoreferenziale, ti dicono che “L’Italia si è fermata per Sanremo”. Ma è una fake da social.

Dieci milioni di spettatori, tantissimi, non sono il Paese: sono una frazione della fruizione televisiva. Così come Amadeus non è Pippo Baudo, Sanremo non è “tutto” il mondo, ma rappresenta solo lo spirito dei tempi in cui il massimo della trasgressione è il bacio tra Fedez e Rosa Chemical. E il monologhino della moglie che avrebbe potuto scrivere mio figlio di 7 anni».

 Sanremo ha riportato in scena il problema del rapporto politica e tv.

«Chissà perché, ogni volta che vince la destra si urla al regime. Per vent’anni abbiamo sentito parlare del regime televisivo berlusconiano, dove peraltro prosperavano gli “anti”: i Santoro, i Travaglio, i martiri da palcoscenico, quelli che "se vado in onda io c’è la democrazia, se mi chiudono il contratto c’è la dittatura".

 Ciò nonostante, Berlusconi, con tutte le sue tv, perse due volte le elezioni, alla faccia del regime mediatico. Il fatto è che la tv se la racconta in un modo, ma la “maggioranza silenziosa” vota in un altro. Ma poi: da quanto sentiamo lo slogan “Fuori i partiti dalla Rai”? […] La verità è che non si tollera l’occupazione partitica della Rai, comunque sbagliata, solo quando a farla sono i nostri avversari.

[…]  Anche se c’è chi riesce a stare in Rai con tutti i governi, vedi la sinistra “chiaggne e fotte”: Michele Serra, Corrado Augias, Fabio Fazio. O l’equivicino Bruno Vespa, il Sempiterno. È in Rai da 60 anni.

 La vera rivoluzione sarà quando un amministratore delegato di Viale Mazzini, e il partito che lo indica, avranno il coraggio di dire a Vespa – al quale auguro altri 60 annidi Porta a Porta- non “Lei è fuori“, ma: “Da domani, lei va in onda una volta a settimana”».

Estratto dell'articolo di Mattia Buonocore per davidemaggio.it martedì 14 novembre 2023.

Solo domenica scorsa, vi abbiamo dato conto di una ‘rissa sfiorata’ a Ballando con le Stelle tra Antonio Caprarica e Teo Mammucari, al rientro di quest’ultimo in Sala delle Stelle dopo la consueta esibizione. Oggi, arriva la consueta precisazione di Milly Carlucci che, via social, preferisce smontare la questione ‘rissa’ piuttosto che entrare nel merito della vicenda.

Ora, a prescindere dalla già superflua precisazione sulla mancata rissa, visto che di “rissa sfiorata” si è scritto, fa sorridere che si potesse anche solo immaginare che uno stimato giornalista di 73 anni potesse alzare le mani verso un altro concorrente o che potesse essere bersaglio (fisico) di Mammucari. Ma tant’è, ognuno interpreta con gli strumenti che ha. Ciò che è inopportuno e, se vogliamo, anche poco utile per il pubblico al fine di capire le dinamiche del programma è l’incredibile consuetudine di ridurre sempre tutto a tarallucci e vino: “una discussione con toni accesi nei limiti della dialettica civile”. Poi, la ciliegina: “sono due belle persone”. Talmente civile che Antonio Caprarica voleva abbandonare il programma.

Per fare chiarezza, ho sentito poco fa Antonio Caprarica che ha esordito così:

E’ stata una discussione molto accesa, dai toni molto accesi in cui gli ho detto quello che pensavo, che trovavo queste battute non degne di uno che vuole fare quello che vuole fare lui, battute da comico di terza classe. Tutto lì. 

Ma come è nato il tutto?

La questione è nata quando Mammucari è tornato dalla sala (delle stelle, ndDM), dopo che c’era stato quel battibecco che a me era uscito veramente dallo stomaco, perchè io queste cose le odio, le detesto. Finire nel trash è una cosa che… se l’avessi immaginata non avrei mai accettato l’invito a partecipare al programma. Per me Ballando è una trasmissione elegante, simpatica, piacevole in cui magari uno litiga coi giurati ma litiga a favore di telecamera. Mai avrei immaginato che un concorrente, livido di rabbia perchè mi avevano dato 10, dice che sono un tronco. E va bene, sono un tronco, e passi il tronco, ma un cane morto senza una zampa… non so che altro poteva dire. E’ una roba…

E, dunque cosa è successo?

Quando lui è rientrato nella sala (delle stelle, ndDM) facendo finta di niente, io gli dico: “tu adesso ti devi scusare pubblicamente per le espressioni da maleducato che hai adoperato“. E lui: “ma io non ho detto niente, in fin dei conti tu hai detto che mi davi delle bastonate“. “No, io ti avevo detto semplicemente che se continuavi a chiamarmi tronco di legno, i tronchi alla fine si trasformano in bastoni in molti casi“. Ho detto questo, non che gli avrei dato una bastonata. E lui: “Ma io no, perchè tu… i giudici ti favoriscono“.

“I giudici mi favoriscono? Sei fuori di testa veramente, allora. Veramente sei un caso serio“. E gli dico che queste non sono delle battute ma delle trovate da comico di terza fila. Questo è stato il tenore, dopodiché gli altri si sono allarmati e la mia ballerina mi ha detto “lascia perdere“, la sua gli ha detto “lascia perdere“, e ci siamo dati le spalle. Buonanotte e fine. 

E Milly?

Quando sono tornato in studio (per la parte finale del programma, ndDM), c’era Milly che ci aspettava e le ho detto: “Mi dispiace molto – perché c’era stato quel battibecco quando lui era in studio (alla fine dell’esibizione) e io nella Sala delle Stelle – ma francamente quando si esagera non è uno che può stare qui.

Quindi volevi lasciare il programma?

Sì è vero, questa cosa mi ha dato molto fastidio, ai nervi, perché appunto non sono abituato a questa robaccia, perché appunto questa per me è robaccia, questo genere di risse qui. Una trasmissione come Ballando non ha bisogno di questa roba. Ti do un’anticipazione perché o c’è, come dire, una presa di distanze ufficiali, oppure… All’inizio avevo detto: “parlerò con Milly, mi dispiace molto ma così non posso continuare”. Poi sinceramente con altrettanta sincerità ti dico che ho pensato che lasciare sarebbe stata una mancanza di rispetto per il pubblico. […]

E interagirai con lui?

Per me questa storia è finita. Per me non ci sono più storie con questo concorrente, per me la storia finisce qui. Poi, siccome sono una persona civile, se si rende conto di aver esagerato… Il punto cruciale è il rispetto, è quello che esigo. Io continuerò con la trasmissione finché la trasmissione garantirà questo rispetto […]

Antonio Di Bella: «Pressioni durante i 45 anni in Rai? Ovvio: Fini arrivò a chiedere la mia testa per un servizio su Nassirya». Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera sabato 29 luglio 2023

Corrispondente dagli Usa, direttore di “TeleKabul”, da sempre a viale Mazzini. Il padre Franco guidò il Corriere dal 1977 al 1981, anno dello scandalo P2: «Nell’elenco degli iscritti c’era anche il suo nome e lui disse subito “scrivete tutto”...Per la nostra famiglia fu una tragedia, ma io e lui non ne abbiamo mai parlato» 

Antonio Di Bella, 67 anni, giornalista conduttore e dirigente televisivo Rai da poco in pensione

Questa intervista è uscita su 7 in edicola il 28 luglio, unitamente all’articolo di Paolo Decrestina sul Bar Vanni «covo» degli autori Rai (lo trovate nel link sotto). Lo pubblichiamo online per i lettori di Corriere.it

«È un dolore per chi come me ha passato la vita in Rai vedere la partenza di tanti bravi professionisti». Per Antonio Di Bella, un curriculum da giornalista del servizio pubblico lungo così, approdato a giugno alla pensione dopo 45 anni in cui ha rivestito anche ruoli di prestigio (da direttore del Tg3 a quello di Rai3, passando per le corrispondenze da New York e Parigi fino alla guida di Rainews), gli addii di Lucia Annunziata e Bianca Berlinguer, figure simbolo della terza rete già “feudo” della sinistra, non rappresentano solo una grave perdita sul piano professionale, ma comportano un di più di dispiacere per un legame anche personale coltivato negli anni. «Con loro, e con altri che se ne sono andati, ho lavorato a lungo. Per molti di loro ho stima, amicizia e anche affetto».

Il ricambio imposto dai nuovi assetti politici è stato radicale quanto traumatico. Per qualcuno è stato un primo passo verso lo smantellamento del servizio pubblico. Per altri, solo un fisiologico spoil system . Di Bella, lei che ne pensa?

«Si va verso una media company e l’offerta deve arrivare al pubblico sulle diverse piattaforme. È un mondo che cambia profondamente e non solo in Italia. Ma credo che il servizio pubblico almeno in Europa abbia ancora un ruolo importante. Basti pensare agli anni del Covid. C’è bisogno di un servizio pubblico forte e autorevole al servizio del cittadino utente, dei suoi bisogni e dei suoi diritti».

Quindi, cambiano i protagonisti ma il ruolo della televisione pubblica non cambia.

«Si abusa molto di questo tema, soprattutto relativamente all’informazione. Io credo si debba fare del buon giornalismo, che non è prerogativa esclusiva del pubblico o del privato. Enzo Biagi diceva che l’acqua deve arrivare pulita nelle case...».

«MI DISPIACE PER I COLLEGHI CHE SE NE SONO ANDATI ALTROVE, PER MOLTI DI LORO HO STIMA, AMICIZIA E ANCHE AFFETTO»

Lei è stato direttore del Tg3 a lungo (dal 2001 al 2009).

«L’ho guidato per otto anni, più di quanto non abbia fatto un mostro sacro come Sandro Curzi».

E come c’è riuscito?

«Mettendo in campo una grande capacità di ascolto e umiltà. Ho cercato di valorizzare una redazione composta da ottimi giornalisti. In quegli anni è nata Linea Notte , per esempio. Prima di diventarne direttore, proprio lì ho vissuto la mia esperienza professionale più esaltante».

A TeleKabul, davvero?

«Ma sì, al di là delle definizioni coniate per metterci in cattiva luce, quella redazione era composta da giovani giornalisti di talento desiderosi di rompere un certo modo compassato di gestire il telegiornale. Allora dominava lo stile del Tg1, per intenderci. Lì nacquero colleghe come Federica Sciarelli o Giovanna Botteri, per esempio».

Lei, dopo essersi occupato tanto di cronaca (ne parleremo dopo), proprio mentre scoppiava Tangentopoli nel 1993 fu mandato a New York come corrispondente.

«Curzi e Angelo Guglielmi (allora direttore di Rai3, ndr) volevano sprovincializzare l’informazione, aprirsi al mondo. Erano gli anni della Guerra del Golfo e delle sue conseguenze. Il direttore mi chiese di andare in America per 15 giorni. Ci rimasi sei anni. Negli Usa ero stato da studente per un anno, fu un ritorno che vissi con entusiasmo. Ebbi la fortuna di raccontare l’elezione di Bill Clinton e quasi tutta la sua esperienza da presidente».

«IL RICORDO PIU’ DURO SONO LE LACRIME INARRESTABILI DI MIO PADRE DAVANTI AL CORPO DI WALTER TOBAGI UCCISO DAI TERRORISTI»

Torniamo alla sua direzione del Tg3. Mai avuto pressioni?

«Ne ho avute, ma è fisiologico quando ci si trova a lavorare per un’azienda di Stato. Gianfranco Fini arrivò a chiedere la mia testa per un servizio sui carabinieri morti a Nassirya completamente travisato. Ma si sbagliava e tutto finì nel nulla».

Poi è passato a dirigere la rete (in due diversi momenti, tra il 2009 e il 2011).

«Un mestiere completamente diverso, dove bisogna anzitutto capire le differenze. L’impianto giornalistico che le aveva dato Guglielmi mi ha comunque reso il compito più facile. Ho ereditato e difeso trasmissioni come Che tempo che fa, Ballarò, Glob ; trasferito in tv Caterpillar da Rai Radio2 e varato Vieni via con me condotta da Fabio Fazio e Roberto Saviano».

Ha anche chiuso Mi manda Rai Tre .

«Era in crisi d’ascolti. Ormai non tirava più. Ma da lì Andrea Vianello inventò Agorà che funziona molto bene ancora oggi».

Finita l’esperienza da direttore, eccola a dicembre 2012 a Parigi come corrispondente.

«E mi sono toccati anni terribili. Mi sono trovato a raccontare prima l’attentato alla sede di Charlie Hebdo (12 vittime) e poi gli attentati del 13 novembre 2015, compreso quello al Bataclan (137 morti in tutto). Andai in onda ininterrottamente per ore».

Come si fa a reggere tante ore di diretta?

«Bisogna cercare di non essere banali e di non dire fesserie. Cosa complicata perché lì sei da solo a valutare in tempo reale le notizie che ti arrivano. Servono esperienza e buon senso».

Per un curioso scherzo del destino lei era a Washington il giorno dell’assalto a Capitol Hill (6 gennaio 2021). Altra diretta drammatica e interminabile.

«In questo caso sono stato fortunato e un po’ incosciente. Ero l’unico italiano presente. Appena avuta notizia dell’assalto, mi sono precipitato sul posto. Ho trovato uno scenario incredibile, con telecamere e macchine fotografiche sfasciate. Eppure sono riuscito ad arrivare fin sotto Capitol Hill. E ho raccontato quello che succedeva da una postazione migliore di quella dei colleghi americani».

Ma perché si è arrivati a tanto?

«È esplosa la rabbia e la paura della classe media americana che si sente scavalcata dalla globalizzazione. È stato un attacco al cuore della democrazia. Per fortuna sventato, ma stiamo attenti perché Trump è ancora in pista...».

Lei ha vissuto tutte queste esperienze al culmine di una carriera iniziata da una radio privata di Milano...

«Sì, ho iniziato a Radio Milano Centrale, era il 1978. Collaboravo con Mario Luzzatto Fegiz».

Ha sempre voluto fare il giornalista?

«Da ragazzo non avevo le idee chiarissime».

Fu condizionato da suo padre, Franco Di Bella, direttore del Corriere della Sera dal 1977 al 1981?

«Ebbe sicuramente un peso anche se non era favorevole. Voleva che studiassi Economia in America».

Franco Di Bella (1927-1997), direttore del Corriere della Sera dal 1977 al 1981

 Avevate idee molto diverse?

«Erano gli Anni 70, anni molto politicizzati. Eravamo su fronti opposti. Lui era un conservatore, di destra. Io ero dall’altra parte. Ricordo un litigio memorabile sul Cile».

Inevitabile chiederle della iscrizione alla P2 che costò la direzione del Corriere.

«Fu una tragedia. In famiglia l’argomento era tabù. Papà non era tipo da farsi mettere sul banco degli imputati. Noi due non ne parlammo mai. Mi fa piacere ricordare quello che ha testimoniato più volte Antonio Padellaro, capo della redazione romana quando furono rese note le liste della P2. Mio padre disse: scrivete tutto».

Da cronista lei ha raccontato il terrorismo a Milano ma anche tanta cronaca nera (da Vallanzasca a Epaminonda, da Terry Broome a Luciano Lutring) e le vicende tragiche di figure come Roberto Calvi e Michele Sindona. Qual è il ricordo che l’accompagna?

«Le lacrime inarrestabili di mio padre inginocchiato davanti al corpo di Walter Tobagi assassinato dai terroristi. Ero un ragazzo, non lo dimenticherò mai».

Che disastro Augusto Minzolini su Rete 4. Il canale Mediaset è ossessionato dai talk show. Di pancia e di governo. Ma l’enfant prodige dei cronisti politici, poi direttore del Tg1 berlusconizzato, naufraga in prima serata e costringe la rete a correre ai ripari. Beatrice Dondi su L'Espresso il 3 Ottobre 2023 

«Augusto piantala». Se nel 1978 Minzolini avesse dato retta all’esortazione dei suoi compagni di occupazione nella scena di Ecce Bombo, forse non ci avrebbe neppure provato a condurre in solitaria un talk show televisivo. Invece incurante di tutto si è lanciato nello studio di “Stasera Italia week end” sicuro che la palestra da opinionista, a cui aveva fatto l’abbonamento da tempo gli avesse ridato i muscoli necessari. 

Così, con le palpebre socchiuse, frasi scandite come nelle gare di dizione e lunghe pause tra un pronome e un aggettivo, tra un ehm e un mmm, ha volantinato un’aria gelida nell’intero studio con battute sagaci del tipo «andiamo in pubblicità sennò mi licenziano», mentre le telecamere ondeggiavano da un ospite all’altro tentando di attutire l’impatto da novizio. E dopo un solo fine settimana è stato, tristemente, commissariato. «Al mio fianco una sorpresa che mi accompagnerà in tutta questa avventura: Safiria Leccese» si è trovato a dire con l’entusiasmo che generalmente lo contraddistingue. E, stringendo i denti, ha dovuto condividere il risicato posto al tavolo con la giornalista, volto storico di Mediaset che ha preso le redini del programma, gli ha dato quel minimo sindacale di velocità e liquidato le lungaggini con stile: «Dai Augusto, sii telegrafico». Ma per risolvere la questione, stando alle indiscrezioni riportate da Tv Blog non basterà neppure il supporto di Leccese, al punto che Mediaset starebbe pensando a una sostituzione vera e propria, sia per "l'accompagno" che per Minzolini stesso. 

D’altronde, l’ex senatore aveva messo le mani avanti quando in un’intervista a Tv Sorrisi e Canzoni aveva dichiarato: «In televisione devi essere veloce, il conduttore deve dare il ritmo», senza specificare se questo compito spettasse a lui o a qualcuno realmente in grado di farlo.  

Certo, non deve averla presa bene il direttorissimo che tanto in passato ha dato al Tg1 berlusconiano. 

Proprio lui, a cui si deve il neologismo “minzolinismo” per intendere un modello spregiudicato di giornalismo scoopistico fondato sulla divulgazioni di confidenze, dichiarazioni  informali o frasi carpite di uomini politici. Lui che ai tempi delle «cene eleganti» si premurò di sottolineare che non voleva che nel suo Tg si parlasse di «gossip nazionale». Sempre lui che mandò in onda «l’assoluzione» di David Mills senza correggerla in «prescrizione», scatenando un putiferio dal colore viola come il popolo. Insomma, un professionista di lunghissimo corso a cui a sorpresa serve un tutor per la diretta era giusto quel colpo di scena che mancava nella lunga settimana informativa formato telenovelas. 

Perché nella nuova nuova Rete 4, quella che arriva dopo la nuova Rete 4 del 2018 che avrebbe dovuto sostituire la vecchia Rete 4 in stile Emilio Fede, l’approfondimento dalle forme variegate si spalma  in ogni fascia oraria, cercando di mettere in pratica quel che aveva annunciato Pier Silvio Berlusconi alla vigilia dei palinsesti autunnali: «Abbiamo trasformato Rete 4 da rete di film e telenovele in rete dell’informazione. Adesso entriamo nella fase due, in cui proveremo ad allargare lo spettro editoriale rivolgendoci a un pubblico più trasversale e puntando ad avere professionisti di peso». Ma come si dice, ciascuno a suo modo.  

A partire dal brand Bianca Berlinguer, che grazie al suo nome prova il martedì a far digerire la presenza malvista dell’esuberante Mauro Corona in canottiera. Tanto a compensare l’eleganza ci pensa il generale Roberto Vannacci. La figura più ambita di questo «nuovo corso» della rete, dopo infiniti collegamenti col labbro sudato in tutti i programmi, è approdato nello studio di Mario Giordano, unico fortunato che al momento è riuscito ad averlo in carne, ossa e dichiarazioni leggerissime che arrivano come da tradizione dritte alla pancetta di un Paese aggrappato suo malgrado alle battaglie ripetute come tormentoni estivi. Ai migranti invadenti, le farine di grillo e l’orda di zingare furbette inseguite sui metro, il varietà del mercoledì “Fuori dal coro” ha così potuto allargare gli orizzonti oltre il confine delle mura domestiche: «Se uno si trova il delinquente in casa o nel negozio, la difesa è sempre legittima?», ha chiesto il nostro all’autore del best seller “Il mondo al contrario”. «Secondo il mio parere sì». Argomento chiuso e via verso nuove occasioni per promuovere governo e dintorni. 

Come al mercato, non dico uno ma ben due impegni per Nicola Porro che resta stretto al suo “Quarta Repubblica” del lunedì,  pur ereditando la striscia di “Stasera Italia” che fu di Barbara Palombelli e che lo costringe a una maratona di oltre cinque ore di veemenza. E poi “Dritto e Rovescio”, il giovedì di Paolo Del Debbio che guida la classifica degli ascolti e può permettersi di far dire al vicepremier: «Molti (migranti) arrivano con il telefonino, le scarpe, la catenina, l’orologino...», Giuseppe Brindisi ai nastri di partenza e l’imperdibile Andrea Giambruno, che mentre Meloni scrive il Diario di Giorgia va in onda con il “Diario del Giorno”, nel primo pomeriggio all’ora in cui i lupi non sono ancora appostati dietro l’angolo. Eccezion fatta per il venerdì della cronaca nerissima di Gianluigi Nuzzi (in fondo non così distante dall’andazzo generale), anime e animelle, sangue e populismo occupano lo spazio che una volta ospitava le pene d’amore delle soap venezuelane.  

Oggi Rete 4 non è più il canale dei Bellissimi, la “Manuela” Grecia Colmenares ha scelto la Casa del Grande Fratello e quello spazio restato orfano del sentimento, si è ammalto gravemente di opinionismo, ma gli intrecci creativi alla fine sono rimasti gli stessi. Al punto che la sigla di Julio Iglesias cantata con la mano sul cuore ci starebbe benissimo. Magari proprio sugli occhi chiusi di Minzolini.

STORIA DI UN CRONISTA CONTROVENTO. Le bombe, Riina e Saddam. Diario di un «cane romantico».

Attilio Bolzoni: "I giornalisti? Prima eravamo più liberi, servono cani romantici"

Il giornalista Attilio Bolzoni autore del libro "Controvento. Racconti di frontiera" (Zolfo, 2023). ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 21 novembre 2023

Le guerre di mafia negli anni Ottanta. Il maxi processo a cosa nostra. L’Iraq, l’Afghanistan, il Messico. In un libro il giornalista Bolzoni ha raccolto più di 80 articoli. Tappe di una carriera sempre in prima linea

L’amico Diego

«I cronisti come cani romantici, non dovrebbero mai mollare la presa»

Lo scrivere lento è un privilegio che raramente mi è stato concesso. Ma non me ne sono mai lamentato, perché l’ha deciso il lavoro che ho scelto, mestiere che ha segnato i miei tempi e mi ha trascinato in una lunghissima avventura. Dopo quasi mezzo secolo di articoli confezionati all’interno di rigidi confini – orari di chiusura delle pagine in tipografia da rispettare, righe o battute da trasmettere con ossessiva precisione in redazione (nella seconda metà degli anni Settanta, quando ho iniziato come cronista all’Ora, i “pezzi” si dettavano ancora per telefono agli stenografi) – ho capito che lo scrivere lento, al contrario di quanto si possa immaginare, a volte può togliere e non dare a chi, come me, fa o ha fatto il giornalista.

C’è sempre una tensione che monta improvvisa, un’ansia molto speciale che si agita e agita quando fuori è già buio, quando ancora ci sono appunti da rimettere a posto, quando i minuti passano e sei sempre più esitante davanti a una schermata bianca in un fetido café nei vicoli del porto di Sfax, nella penombra di una stanzetta dove si stampa uno sconosciuto foglio della piana di Gioia Tauro o dentro un viaggio che sembra non finire mai.

È in quel momento che c’è lo scarto, che c’è qualcosa che prende forma, le dita che battono sui tasti per aggiungere o eliminare un aggettivo, per un incastro adeguato al capoverso successivo, per lasciare un graffio che sarà poi la tua impronta digitale.

LA STRADA CONTROVENTO

Mi tornano in mente questi istanti che hanno preceduto migliaia di volte la spedizione di una corrispondenza, mentre cerco un ordine nella selezione di cronache e racconti che testimoniano la mia attività pubblicistica in Sicilia e lontano dalla Sicilia, temi e storie assai distanti fra loro ma tutti accomunati da quel lusso negato, lo scrivere lento.

Non ho avuto grandi difficoltà a individuare i reportage o le interviste da scegliere, direi che si sono scelti da soli, con naturalezza. Anno dopo anno, argomento per argomento, di luogo in luogo. È la strada che ho fatto, controvento in più di un’occasione.

C’è Palermo, dove da giovanissimo ho vissuto nella sua stagione più spaventosa. Quando finisce Palermo, così scrivo in uno dei miei articoli, comincia la Sicilia, che ho sempre considerato diversa rispetto alla capitale di un’isola che solo in apparenza comanda sui paesi, paesi che conservano radici ben più profonde e che quelle radici sanno farle valere su una città troppo immodesta per accorgersi della sua sottomissione.

E poi il sud che ho esplorato nei suoi incarognimenti, la Puglia e la Calabria, terre attraversate o raggiunte sopra «il corpo del reato più lungo del mondo», i 443 chilometri dell’autostrada Salerno-Reggio. Nella raccolta c’è mafia e c’è anche un po’ di Afghanistan dopo le Torri gemelle, c’è una Baghdad devastata dalle bombe, qualche cronaca dai Balcani.

Non sono e non sono mai stato un giornalista esperto di “esteri”, in quei territori sono capitato quasi per caso per raccontare ciò che vedevano i miei occhi. Ho sempre pensato che non ci siano tanti modi di fare giornalismo, ma uno solo, nel cortile davanti casa o a migliaia chilometri di distanza. Oltretutto non mi è mai piaciuta neanche la qualifica di “inviato di guerra” che talvolta viene frettolosamente appiccicata a quei giornalisti che si sono ritrovati su qualche fronte, per quanto mi riguarda non mi sono mai sentito “in guerra” se non da ragazzo, a Palermo, quando stato e mafia si tenevano per mano per governare insieme una città infetta.

LATITANTI

Lontano dal mio ambiente, lontano dall’Italia, in alcune circostanze ho avvertito un certo disagio per il provincialismo, i limiti del mio giornalismo. Sicuramente è successo in Iraq, alla fine del 2003, quando ci fu il clamoroso arresto di Saddam Hussein. Ero lì.

Dietro alla cattura di ogni grande latitante – non importa se si chiami Totò Riina o Pablo Escobar, se l’operazione di polizia o militare avvenga a Corleone o nel deserto di Tikrit – c’è sempre qualcosa di indicibile. Tirarono fuori Saddam da un buco nella terra, una fossa malamente coperta da detriti, lui respirava a fatica grazie a un rudimentale impianto di ventilazione, sotto il ventre aveva due fucili mitragliatori e 750mila dollari in biglietti da cento. Sono stato costretto ad accettare la versione ufficiale (alquanto traballante) del suo ritrovamento. In simili frangenti, in Italia ho rappresentato vicende simili assai diversamente, ricordando i tanti segreti intorno al covo di Totò Riina mai perquisito o la facile resa di Matteo Messina Denaro trasformato da un’informazione remissiva in un patetico personaggio da reality show.

Nei miei archivi ho ritrovato il Mediterraneo con i suoi passeurs, la dolce vita dei contrabbandieri italiani in Montenegro, gli zingari amici di Vito Ciancimino che difendono a Bucarest la pattumiera più grande d’Europa, i ristoranti “Mafia” sparsi per la Spagna. E c’è anche la spericolata resistenza dei reporteros messicani sulle rive del Rio Bravo o Rio Grande, il Tamaulipas e il Texas, l’inferno e il paradiso, su una sponda la morte e la paura e sull’altra le ville dei sindaci della frontera chica, di giorno amministratori nel loro Messico e di notte residenti nella contea di Starr a godersi i frutti della corruzione in una piccola città che per perfida coincidenza si chiama Roma.

Poi ci sono le interviste a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino, accompagnate da una sorta di backstage che svela cosa è accaduto prima e dopo quegli incontri. Voglio chiudere l’elenco con un paio di articoli firmati con gli amici di una vita, Giuseppe D’Avanzo e Franco Viviano.

GLI AMICI DI UNA VITA

Con Giuseppe ci siamo appassionati alla saga mafiosa di Corleone e poi alle amicizie palermitane di Giulio Andreotti e di Silvio Berlusconi, le nostre cronache cominciano all’inizio degli anni Novanta e finiscono quando Peppe, troppo presto, se n’è andato.

L’articolo che ho inserito è del 20 marzo 1994 e dà conto della prima indagine dei rapporti del Cavaliere di Arcore con i boss della Cupola.

Per quell’articolo sono stato convocato come testimone, ventotto anni dopo, dai magistrati che indagano sulle stragi del 1992. Nel 2022 erano ancora a caccia della talpa. Con Franco, a doppia firma, c’è invece l’articolo sull’indagine per mafia a carico del Padrino dell’Antimafia, il vicepresidente di Confindustria Antonello Montante che aveva ammaliato tantissimi magistrati, procuratori che pur avendo fama di grandi esperti di cose di mafia evidentemente sono in grado di riconoscere il malaffare solo quando ha addosso i pantaloncini a pinocchietto dei Casamonica o mostra le facce truci dei soliti macellai delle periferie meridionali. Imbarazzante.

Quando ogni tanto li sento dibattere su vecchie e nuove mafie, mi sfugge sempre un sorriso ripensando alle loro strusciatine con quel Montante. La maggior parte degli scritti che leggerete provengono da Repubblica dove ho lavorato felicemente per quasi quarant’anni, prima con Eugenio Scalfari e poi direttore Ezio Mauro. Sono cresciuto in quella comunità giornalistica e da lì ho visto il mondo diventare un altro mondo.

E alla fine gli articoli e i commenti su Domani, giornale dove sono approdato e dove ho trovato nuovi amici. Forse devo una spiegazione per la foto di Tony Gentile in copertina del libro, con quel cane a prima vista sperduto nelle campagne di Gibellina in una strada che sembra uscire dal Cretto di Burri. Di cani e giornalismo un giorno mi ha parlato Diego Enrique Osorno, collega che ho conosciuto in Messico, un talento del nuevo periodismo latino-americano.

Con Diego c’eravamo inoltrati in territori proibiti fra Ciudad Mier e Matamoros, e al ritorno a Monterrey, la sua città, mi ha invitato all’università di San Pedro dove una volta la settimana conduceva un programma radiofonico. Gli ho chiesto perché avesse chiamato la sua rubrica Los perros romanticos, i cani romantici. Mi ha detto che i giornalisti non dovrebbero mai mollare la presa, proprio come certi cani. Ma, mi ha assicurato Diego, denti e mascelle non bastano. Ci vuole anche il cuore. Cani romantici.

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

Estratto dell’articolo di Francesco Melchionda per perfideinterviste.it sabato 15 luglio 2023.

Da tempo, compulsando le pagine di Dagospia, avevo voglia di raccontare Barbara Costa. Più volte, nelle mie chiacchierate con Giampiero Mughini, facevo il suo nome, per capire se, in effetti, vi era la possibilità di poterla raggiungere. 

Perché, è inutile nasconderlo: i suoi articoli si delibano con avidità. Quando si entra nel vortice “dagospiniano”, inevitabile dibattersi nella prosa costiana. […] Nei suoi scritti, ci siamo tutti noi, con i nostri segreti, anche quelli più estremi e inconfessabili. Ci spogliano di freni inibitori, abbattono tabù. E, soprattutto, ci interrogano… 

[…] E così, sgomberato il campo da impegni e noie, e grazie alle ambasce del sempre generoso Mughini, arrivo al numero della Costa. La chiamo per presentarmi e raccontarle cosa voglio da lei, in questa lunga confessione. Nella sua risposta, ferma e decisa, mi pone solo un paletto: niente foto personali, ma solo quelle che le hanno cambiata l’esistenza, la mente, il corpo, le parole… Per il resto – mi dice – sarò libera e sincera… Le rispondo: va bene, Barbara. Mi fido di te. 

[…] Barbara Costa è vera, esiste. Non recita, non ha pose, non finge un ruolo che non le appartiene, anzi. Arriva dritto alla questione delle cose, delle sue cose. Evita orpelli, ghirigori, e inutili barocchismi. […]

Barbara Costa, a che età hai avuto la prima pulsione sessuale?

Ma che ne so? Se intendi la prima volta che ho avuto voglia di toccarmi, ti rispondo… da sempre! O meglio, da finché ho memoria. Non mi ricordo la prima volta che mi sono masturbata, ma di sicuro non avevo ancora il ciclo, né i peli sul sesso. Ero molto piccola. 

Ovvio che tecnica e voglia e fantasie sono cambiate crescendo, e continueranno a cambiare. Ma se invece vuoi sapere la prima volta che ho desiderato fisicamente qualcuno, me lo ricordo benissimo, a 12 anni, col primo che mi è piaciuto, no, il secondo, vabbè, si chiama Ivan, coetaneo, e però già adulto, un ventenne, nel fisico e nella voce.

E con Ivan non ci ho mai fatto niente!!! Che scema che ero! È stato lui a farmi “volere” il sesso, sì, me lo ricordo, bellissimo, stavamo sul divano di casa mia. Ivan è stato il secondo, perché la prima è stata Noemi. Onanisticamente. La prima che mi ha “toccata” – e che io ho un pochino “saggiato” – è stata Oriana. Sempre alle medie. Io sono nata bisex, e bisex me la vivo. 

Da sempre, se non erro, vivi in provincia: come mai questa scelta? Hai paura di confrontarti con la metropoli? Ti senti fragile?

Per i soldi, costa meno! Ma poi non è vero. Io ho vissuto l’adolescenza e gli anni dell’università e post a Roma. Nel senso che stavo in giro a Roma, Roma frequentavo, e questo vale per le persone, e cinema, pizza, mostre, compere, musica, libri… ma pochissimo discoteche e locali, che nulla mi hanno mai interessato. Io sono cresciuta tra libri, rock e cinema. […] Non mi è mai fregato né mi frega da dove proviene o abita una persona. Mi interessa che non mi annoi. Fragile??? Mica crederai che una metropoli ti fortifichi? Va là, ti deprime, casomai. Almeno a me. Io Roma l’ho vissuta appieno ma oggi mi fa orrore quanto puzzi, sia sporca, ovunque la guardi. 

Che infanzia hai vissuto? Ti immagino solitaria…

Ma assolutamente no! Ma perché? Io ho avuto un’infanzia normalissima, allegrissima, senza traumi che oggi va tanto di moda piagnucolare. Sono nata e cresciuta in una borgata post-pasoliniana. 

Come vivono i tuoi genitori la tua sessualità, così libera, disinibita, prorompente, che, poi, vien fuori anche con la scrittura? Ne sono consapevoli, o vivi tutto alle loro spalle?

Prorompente? Boh, è la mia. Non la ostento, ma non ho problemi a fare ciò che mi piace con chi mi piace e gli piace. Io non “c’entro” niente con i miei genitori. Nel senso che gli devo la vita e ci vogliamo bene, sì, ma loro hanno avuto altra autoeducazione e esperienze estranee alle mie. Vedi, io nasco e vengo dal proletariato. I miei non hanno cultura né studi. 

E sono web illetterati. Io sono l’unica tra i familiari ad avere una laurea ma non solo: io sono cresciuta e vivo con i libri. Loro con la TV. I miei non hanno strumenti per comprendere ciò che ho deciso di vivere e scrivere. Ma per me non è un problema. Affatto. L’unico grosso ostacolo è stato chiarirgli che non avrebbero avuto nipoti. Io non voglio figli, non voglio farmi una famiglia, non fa per me, e poi mi offende dover giustificare me stessa mostrando alla società chi amo e no, e con chi faccio sesso, e no.

[…] Sono stati fondamentali, i tuoi genitori, per la tua crescita? O assolutamente assenti e incapaci di cogliere le tue sfumature ed esigenze?

M’hanno sempre fatto fare quel che mi pare, meglio di così! Ma io non sono una che “chiede”. Sempre fatto da me. Mai rotto le palle a nessuno. Pensa che, tempo fa ho avuto bisogno di fare un intervento chirurgico, e mia madre lo ha saputo il giorno prima! Me ne ha dette di ogni. 

Non ti sarebbe piaciuto, invece, avere con loro un confronto? Ci sono persone che lasciano un segno anche se sono privi di letture e letteratura…

No. Io non credo al cosiddetto sapere della strada. Per me è una grande cazzata. È il “sapere” di chi fondamentalmente non ha né arte né parte, si mette mai alla prova in nulla, non conosce la vittoria né la sconfitta, non rischia o ha rischiato la faccia o il culo per qualcosa. Ovvio che il sapere non è solo quello umanistico, ma io i confronti li voglio e li cerco con chi decido io. I segni te li lascia la vita, ogni volta che è stronza con te.

Ti senti in armonia con i tuoi tempi, e con il pubblico di oggi? Ho la sensazione che ti senti fuori posto…

Io sto benissimo, pienamente nel presente, ingorda del passato, totale menefreghista del futuro. Ma ti riferisci al fatto che non sto sui social? Io non ho social, mai aperto un profilo che sia uno, su nessuna piattaforma, e ho WhatsApp solo per comunicare con la Dagoredazione e tutto ciò che concerne il mio lavoro. Stop. 

Me ne impipo di selfie, tweet e di tutta ‘sta roba. A me delle opinioni che stanno lì frega il nulla. Che me ne faccio? Se fai ciò che vuoi, vivi meglio che puoi. E con i compromessi al minimo. I patemi ti vengono se segui gli altri. A me importa di me, e di chi voglio bene io. Se hai una ricetta migliore, dimmela. Il pubblico? Il pubblico non esiste. Esiste la singola persona che decide di regalarmi 5 minuti del suo tempo perché vuole leggere un mio pezzo. Tale persona è il mio padrone.

Com’è nato il tuo libro, Pornage? Quale fu lo stimolo, la molla?  Avevi bisogno di dire: ragazzi, cazzo, esisto anche io?

Ma nooo! Senti, Francesco, non mi sono spiegata: io non voglio stare al centro di niente, io non chiedo niente. Ma se volessi quello che mi dici tu, me ne starei sui social a selfare e a sproloquiare della qualunque. La casa editrice “Il Saggiatore” mi ha cercato, mi ha proposto di scrivere Pornage, in assoluta libertà, e io ho accettato perché voglio fare tutto quello che mi va e mi piace. Così non mi vengono i rimpianti. 

Come mai è stato un flop editoriale? Te lo sei chiesto? Eppure, il sesso tira sempre…

Ah, carino che sei, è stato un flop? Se lo paragoni a Saviano e Ferrante, sicuro. Per essere un saggio che sarà contemporaneo nel 3000, è andato più che bene. Io sono fierissima del mio piccolo Pornage, ma ancora di più sono fiera di tutti i ragazzi/e che mi hanno mandato i loro elogi e critiche. Che poi, di Pornage ne hanno parlato tutti, bene e male. Certo, io non ho fatto promozione se non qualche intervista scritta, perché non è nella mia indole promuovermi. Chi mi vuol leggere, apre Dagospia, o va su Amazon. 

Cosa hai pensato quando Natalia Aspesi, su Robinson di Repubblica, ha sostenuto che l’autore di Pornage era un uomo?  Ti sei sentita offesa?

Ho pensato che poteva benissimo farsi gli affaracci suoi! Io non ho chiesto recensioni a nessuno, Il Saggiatore ha fatto avere una copia di Pornage alla Aspesi, e la signora […] si è messa a “indagare” su ciò che per lei ho o non ho tra le gambe. Come se il cervello fosse sessuato! E come se per scrivere di sesso e pornografia una persona debba avere il pene! […] 

[…] So per certo che due tuoi mentori sono stati Mughini e D’Agostino: cosa ti hanno insegnato?

Niente, perché a scrivere – per di più di pornografia – non te lo insegna nessuno. Impari facendolo. Ma è vero: io devo tanto a Giampiero Mughini e a Roberto D’Agostino. Devo a Mughini l’aver accettato un confronto tra il mio pornografico sapere – piccolo – e il suo, grande.

Perché quando ami la pornografia, più ne sai e più ne vuoi sapere, e però senza confronto – cioè senza sbatterci la testa – non cresci. È Mughini che ha bussato per me a Dagospia, ma è D’Agostino che mi ha aperto le porte a scriverci. Che mi fai fare una marchetta? Voglio pubblicamente ringraziare Riccardo Panzetta, il vicedirettore di Dagospia, che “passa” i miei pezzi. È lui che mi sopporta e che frena le mie idee più strampalate. 

Scusa, Barbara, non è riduttivo limitare Mughini solo al confronto sul porno? Mughini è tanto altro…!

Ma certo, ma guarda che tra me e Mughini il rapporto è questo: uno scontro prettamente intellettuale. Tra alti e bassi, e se lo vuoi sapere, in questo momento è bassissimo. E però, lasciami chiarire questo: a parte che in Italia, tranne Mughini, tranne D’Agostino, il sapere porno è scarsa roba, o dimmi chi ci sta che sa e che io non so. No, dimmelo, perché ci corro. 

E poi: io a Mughini sono andata a rompergli le scatole per i libri che ha scritto, e il giornalismo, che ha fatto, e con chi, e perché abbiamo letto gli stessi libri – lui più di me, c’è bisogno di specificarlo? – ascoltiamo gli stessi dischi, e ancora: io so benissimo che Mughini ha, quanti 40?, anni di presenza televisiva alle spalle, e però, io del Mughini “televisivo”, diciamo così, so nulla. Io non ho cultura televisiva. Se invece vogliamo parlare del Mughini che ha conosciuto Sartre, Prezzolini, Brera, mezzo e più mondo culturale e politico italiano, e non solo, sono pronta.

Come mai, dopo tanti anni di scrittura giornalistica, nessun giornale ha voluto la tua firma? Sei una scassacazzi? Non accetti i controlli, o, più semplicemente, non ti hanno proprio cercato?

Sarà che nessun direttore, di nessun giornale, ha le palle di D’Agostino. Non mi ha mai cercato nessuno, nemmeno per sbaglio. Mettici pure che io non faccio sorrisini né salamelecchi a nessuno. 

Sì, ho capito, ma non mi dire che non ti piacerebbe scrivere per un grande giornale…

Non credo che i grandi giornali, come li chiami tu (ma perché, a Dagospia siamo piccoli!?), apprezzino le mie idee né la mia schiettezza. Si rivolgono a lettori che potrei sturbare, anche non parlando di porno. 

Leggendoti, mi sono sempre chiesto: perché Barbara Costa non prova a scrivere anche di altro? Non pensi di essere monotematica e di annoiare?

Il giorno che annoierò non mi troverete più su Dagospia. E però, qui ti stano: io scrivo di altro, alternato al porno, mio tema principe, e scrivo di rock, di letteratura, di politica. Ogni mio pezzo porno è politico. 

Perché il porno specchia la realtà, vi è immerso. Io scrivo sempre di libertà, che è la nemesi della politica. Perché non scrivere di Kissinger partendo dalla sua passione per le donne? Lui non si è fatto mancare niente. Bravo. Kissinger da poco ha compiuto cento anni, e tutti a sdilinquirsi. Delle magagne che in politica ha combinato, ne ho scritto solo io. Sì o no? Che poi, i fatti, bisogna avere le palle, di scriverli, ma prima, bisogna saperli. Studiarli.

Tante donne si eccitano, nei giochi con i loro compagni, ad essere pagate? A te è mai capitato, di provare una ebbrezza simile?

Dipende dal feticismo con cui nasci, maturi e vivi. Se una persona ha il feticismo di farsi pagare per il sesso, così godendoci, che se lo viva e più e meglio che può. Fuori dal fetish, quel che a letto ti piace e ti piace fare lo scopri provandolo. Dicendo sì e no. Io nel sesso sono basica. A due. Non starla tanto a menare coi preliminari. Mani e lingua sono importantissimi. Ma tutto questo vale fino a un certo punto, vale la persona che sta con me, quello che piace a lui, a me, con lui, quello che troviamo che funzioni. 

Che rapporto hai con la masturbazione? Per tante donne è quasi una vergogna, soprattutto il doverlo confessare. Mi vien da dire: poveracce…!

Ognuna pensi e provveda per sé. Io mi masturbo spesso, non ogni giorno ma di dovere quando mi deve venire il ciclo – mi attenua i malesseri – e quando ho il ciclo – godo di più – ma soprattutto quando mi piace e sto con una persona. E uso le dita. 

Nei tuoi articoli, che Dagospia prontamente pubblica, spesso scrivi di quanto siano attraenti e sessualmente accattivanti le trans… Ha mai avuto un rapporto sessuale con loro?

Le trans sono più curate. Io, ad esempio, sono una femmina pasticciona, pigrona, e, se non sto con nessuno, poco mi curo! Non ho fatto sesso con un/a trans. Finora. Io scrivo di pornostar trans per la loro grazia e bravura, sì, ma perché sono persone, non fenomeni da baraccone che tanti media vorrebbero rifilarci. Non sono né hanno nulla di strano. O di diverso. Anzi. 

Sei più geisha o dominante con il tuo uomo?

Le geishe non scopano. Io sono la groupie della passività, io non cerco altro che un uomo che faccia lui, decida lui, tutto come vuole lui, per me il massimo è scopare come gli animali, con il maschio che domina, che si “serve” di me. Mi bagna solo il pensiero. Solo che bisogna saperlo fare e trovarti con uno che ti piace che te lo fa. 

Barbara Alberti, una volta, mi ha detto questo: “I maschi hanno sempre paura. La disgrazia del maschio è che deve sempre dimostrare di essere maschio. Cioè, dominatore. Poveretti. Lo dico con sincera compassione. Io sono molto gentile coi maschi, in ragione della loro disgrazia, l’erezione. Un meccanismo infido e disobbediente, che diventa la clessidra della loro vitalità, e li ossessiona…”. Sei d’accordo? 

No, proprio per niente. Io non ho alcuna avversione nei confronti del “maschio”. Ma perché biasimarlo così? Metterlo in croce così? Che poi anche le donne hanno l’erezione, pure noi siamo legate a ciò che vuole il nostro clitoride…Questo dell’Alberti mi pare l’ennesimo attacco. Gratuito e pretestuoso. 

Che sentimenti ti suscita il maschio?

A me piace. E molto. Molto più delle donne, è innegabile, e chi lo nega? A me del “maschio” piace come si muove, come occupa spazio, come si siede, e la voce. L’odore. I peli. Te l’ho detto, sono sessualmente basica. 

[…] Com’è Barbara Costa, quando si innamora? Petulante, ossessiva, possessiva, noiosa?

Dovresti chiederlo a chi è stato oggetto del mio amore! Io sono stata innamorata due volte. Due uomini. Più grandi di me. Vuoi lo scoop? Sono due uomini stra-stra-stra-famosi. Notissimi. Nei loro rispettivi campi, fuori dal mio. Puoi crederci o no, non mi interessa. Nessuno lo sa, chi sono. Né mai lo saprà. Lo sappiamo io, e loro. Col secondo è finita a fine gennaio. Ma ce l’ho dentro. Ce li ho, tutti e due, dentro. Mi hanno cambiata. E in meglio. Quando respiri persone così realizzate, così sicure di sé, e del loro estro, è un privilegio e il vissuto, chi tu sei, ti fa salti incredibili. Vuoi sapere del terzo? Sì, sì, ci starebbe pure il terzo, ci sta uno che è un mesetto, che mi ha tolto la pace. Chissà se se po fa’. Io di me so questo: è raro, è difficile che mi piaccia qualcuno ma, se mi piace, sono io che faccio il primo passo, io che ci provo, che ti scrivo e ti chiamo. Che ti corteggio. Non il contrario. C’è più sugo. E poi a me un uomo piace viziarmelo. 

Anche tu usi la vagina come strumento di potere?

No, guarda: a me importa nulla di chi conquista posti, fosse pure il mio, perché fa pompini o altro. Io non l’ho mai data a nessuno, perché, per come è strutturata la società, solo così puoi vivere la tua dose di libertà. Non devi nulla a nessuno, e nessuno ti può rompere i coglioni. Come dice Gassman ne “Il Sorpasso”: “Con un sì ti impicci, con un no ti spicci”. Che è la mia filosofia di vita. Poi ogni figa è libera di ospitare chi vuole. Ma in Italia, se vuoi la strada spianata, più che strumento, la vagina la devi sposare a pene celebre, o, da vagina, ritrovarti figlia di pene celebre.

Hai mai provato ad avere un compagno cuckold? Ti ecciterebbe questo tipo di relazione?

Non te la puoi far piacere. Il cuckold è un feticismo, un comportamento sessuale con cui nasci. Non puoi sceglierlo. Se lo fai per “accontentare” un partner cuckold, gode lui, tu no. E questo vale per ogni pratica sessuale. E poi il cuckoldismo coinvolge la coppia. Io non mi metto né vivo la coppia, quindi a me, che tu scopi un’altra davanti a me, o che io mi faccia scopare da un altro, davanti a te, non mi dice niente, non mi eccita per niente. 

Quali sono stati, per te, i film porno cult, indimenticabili, che ti hanno, poi, spalancato il mondo della sessualità?

No, no, non sono stati film, se non la pornografia come la fa Rocco Siffredi che è un porno che è il suo, ed è irreplicabile. Siffredi è un unicum porno. Non il mondo della sessualità, bensì della pornografia (che non sono la stessa cosa! 

La pornografia è in ogni sua forma una rappresentazione del sesso, non il sesso in sé e per come è, giammai il suo insegnamento) me l’hanno spalancato tre uomini: Hugh Hefner, Larry Flynt e Riccardo Schicchi. Hefner perché per primo ha affrancato la pornografia dal ghetto, l’ha resa nobile, e ne ha fatto cultura. Flynt perché m’ha intellettualmente sbattuto al muro, togliendomi quei pochi tabù che avevo, e forzando i miei limiti. Mi ha seminato la mente. E Schicchi, che ha pornograficamente dato la sveglia a un’Italia di rincoglioniti. Ma la pornografia per me è in Godard, in Woody Allen, è nella pop art, che mi stimolano di continuo.

[…] Da dove nasce il tuo amore per Oriana Fallaci? Io ritengo, ad esempio, che la Aspesi le sia nettamente superiore…

Ma scusa, Francesco, ma tutti questi grandi giornalisti italiani, iniziassero a farsi leggere oltre i loro gruppetti di amichetti, qui in Italia, e poi ci si provassero, a farsi leggere fuori! Fallaci è tradotta in tutto il mondo, pure in Cina, e, dove è illegale, circolano copie pirata! Ma vogliamo riconoscere la grandezza di questa signora che mai si è fatta pubblicità, e solo grazie alla sua prepotente scrittura ha portato il suo nome, e quello dell’Italia, ai vertici del mondo? Ma chi altro come lei? Chi? La Aspesi? Ma fammi il favore! Io lo posso ben dire, perché di Aspesi ho letto i libri, anche dei ’70, ma ‘ndo va? Io le firme di oggi non le leggo, non mi dicono nulla. Tranne Aimi: fa interviste fighe. Io leggo Bocca, Montanelli, e sai perché? Perché mi pigliano a schiaffoni. Io questo cerco. E mi leggo la Fallaci perché mi diverte, mi insegna, non mi annoia, ha avuto uomini che le invidio (Francois Pelou), ha vissuto come voleva, e pagandolo in prima persona. Come, seppur nel suo piccolo, fa la sottoscritta. Sicché, non ci rompete i maroni.

[…] Che rapporto hai con le donne, Barbara? A naso direi che ti stanno sul cazzo…!

No, a me stanno antipatiche le metooiste e tutte quelle che vogliono la parità e portano avanti un discorso sulla donna vittima, debole, oppressa. Io non voglio essere pari all’uomo né a nessuno. Io voglio fare il mio, ne ho abbastanza di vittimismi, piagnistei, rotture su “quello mi ha toccato il culo, il seno, mi ha palpato, mi ha guardato troppo”, come se non ci fosse nessuna, tranne la sottoscritta e qualche altra, che non si sia trovata ad aver a che fare con un porco e non l’abbia preso a schiaffi, e basta, finita lì!

No, è da anni che mi devo sorbire le lagne del passato, di quello che secondo loro io ora devo ritenere giusto, e io ne ho le scatole piene, ma poi, ‘ste neofemministe andassero a convincere qualcun altro: il MeToo è lotta di potere. Nient’altro. Bieca, per giunta. Si vuole togliere egemonia al pene famoso di turno per darla a chi ha come unico titolo la figa. Più sessista di così! E io di questo ne ho scritto a sfinirmi. 

Ho sempre ritenuto la chitarra uno strumento di piacere… Alcuni assoli, in primis quelli di Clapton, assolutamente orgasmici…  Cosa simboleggia la chitarra per te? So che ne vai pazza…

Ma che simboleggia, è! Per me è! I chitarristi sono il più gran regalo che il mondo potesse farmi, meno male che sono occidentale, fatta e finita, e fin da piccola ho scelto loro, che mi fanno bene, e che fanno, imbracciano cultura! Sono degli Dei. Sì, lo so, Hendrix, Clapton, per me di più Slash, di più Jimmy Page, e Keith Richards, quando è uscito “Life”, mi ha ribaltato l’esistenza… che ti stavo dicendo? 

Ah sì, tutti questi, grandissimi, io però, fammi dire degli italiani, posso? Ti dico quelli che piacciono a me. Alberto Radius, sì, Radius è Dio più degli altri, no, vabbè, me sento male, davanti a Radius! Ok, ti dico: a me piace Portera. Parecchio. Mi piace Poggipollini. Mi piace Ghigo Renzulli. E comunque, tutti zitti e chini davanti a Maurizio Solieri. Non c’ha rivali. Solieri è la felicità del mio clitoride. 

[…] Quali sono i tuoi peggiori difetti?

Dico troppe parolacce, è vero. Però non bestemmio, ma perché non sono religiosa, non ha senso. Non parlo italiano, ma romanesco imbastardito, e me ne vanto. Tutti – tutti! – mi dicono che sono troppo severa con me stessa. Non conosco la pazienza, porto rancore, non cambio idea se prima non me ne porti e dimostri una contraria e migliore, e ce ne vuole, e poi: io sono snob e misantropa, non mi piace uscire, io sto bene sola, io sola non mi annoio mai, e mi piace stare al telefono quanto Warhol, e metto al centro di tutto e sopra tutto chi amo, non si fa, ma io lo faccio… Bastano? 

Da quello che scrivi e da come ti racconti, sembra che la tua vita sia piena, intensa… È proprio così, o la scrittura ti aiuta a colmare dei vuoti pazzeschi…?

Sono fortunata, faccio la vita che mi piace, lotto per farla, pago quel che devo pagare, leggo uno/due libri a settimana, soprattutto biografie, a me interessano i cazzi altrui, sì, ma di chi ha vissuto e non si è lasciato vivere. I vuoti mi verrebbero se mi accodassi mogia alla massa. Io ho preso le mie decisioni. Sono in una fase in cui so nitido ciò che voglio e non voglio. Dico no. Come Godard in “Addio al Linguaggio”. E come Vasco in “C’è chi dice no”. Chi gliel’ha scritta? Solieri. Vedi? Tutto in me si lega, e torna.

E cos’è che non vuoi…?

Le catene. Di qualsiasi tipo.

Massimo Falcioni per "tvblog.it" il 28 ottobre 2021. Un divertentissimo siparietto che, probabilmente, conteneva anche la volontà di togliersi qualche sassolino dalle scarpe. A Stasera Italia Barbara Palombelli ha ricordato la sua esperienza in Rai, approfittando della presenza di Clemente Mastella. L’argomento è venuto a galla per caso, anche perché in quel momento si stava affrontando un tema lontano anni luce come quello del possibile successore di Mattarella al Quirinale. Tra i candidati, oltre a Draghi, si è fatto il nome di Pier Ferdinando Casini. Occasione ghiotta per aprire il capitolo della Dc e della sua centralità nella storia d’Italia. La Palombelli, a quel punto, è tornata indietro con la memoria agli anni ottanta: “All’epoca Mastella era il vero capo della Rai”. Di fronte ai “no” con la testa del sindaco di Benevento, la conduttrice ha rincarato la dose: “Come no. Eri il capo della Rai, mi hai pure licenziato dalla Rai. Me lo ricordo come se fosse ieri”. A Mastella – che ha continuato a negare la circostanza (“no, assolutamente no”) – la Palombelli ha inoltre riportato un altro aneddoto. “Tra gli amici dei democristiani cito Beppe Grillo che quando tu organizzavi le feste dell’amicizia e dei giovani democristiani veniva e si esibiva. Lo dico perché tanti ragazzi non lo sanno, non erano nati”. In questo caso, l’ex leader dell’Udeur ha risposto in maniera affermativa: “Sì, veniva, veniva. Ricordo una festa a Verona, suscitò un gran casino. Partecipava, non aveva la fobia della Democrazia Cristiana”. Fino al curioso aneddoto condito di frecciata al comico: “Io ai tempi inviavo i torroncini di un paesino della mia provincia. Li inviavo un po’ a tutti. Lui andò in tv al sabato sera e disse "Mastella ci vuole corrompere". E fece vedere la scatoletta. Dopo quell’episodio non me li fece mai tornare indietro. Se li era fregati”.

Palombelli in lacrime: ecco cosa ha detto su Rita Dalla Chiesa. Francesca Galici il 2 Ottobre 2021 su Il Giornale. Barbara Palombelli e Rita Dalla Chiesa smentiscono le voci su un possibile dissidio tra loro nato anni fa, quando si sono avvicendate alla guida di Forum. Barbara Palombelli, ospite di Silvia Toffanin a Verissimo, non è riuscita a trattenere le lacrime durante l'intervista andata in onda sabato pomeriggio. A far piangere la conduttrice e giornalista è stato soprattutto un filmato in cui sono state mostrate le sue due figlie adottive, Monica e Serena, che sono arrivate a casa di Barbara Palombelli e Walter Veltroni quando erano ancora due bambine. Ma il centro dell'intervista con Silvia Toffanin c'è stato soprattutto il rapporto tra la conduttrice e Rita Dalla Chiesa, che per lunghi anni ha condotto Forum, portandolo al successo. Da anni si vocifera di un rapporto non idilliaco tra le due, proprio per l'avvicendamento a Forum. Voci di corridoio riportavano di un risentimento da parte della figlia del generale Dalla Chiesa per non essere tornata alla conduzione del programma che lei ha contribuito a far crescere. Tuttavia, sia Rita Dalla Chiesa che Barbara Palombelli hanno sempre smentito i dissapori e proprio per mettere a tacere tutte le voci, l'ex conduttrice di Forum ha voluto inviare un videomessaggio a Verissimo per la conduttrice di Stasera Italia, ribadendole anche pubblicamente la sua stima. "Questo è per far vedere che noi non siamo rivali come è stato scritto. Poi non riesco a vedere Forum perché è come vedere un grande amore che se ne va con qualcun altro". Rita Dalla Chiesa, quindi, ha concluso: "Ti sono sempre molto vicina". Barbara Palombelli è apparsa piacevolmente sorpresa della sorpresa della collega: "Questo sì che è un regalo". Durante l'intervista, Silvia Toffanin e la sua ospite hanno commentato le dichiarazioni di Rita Dalla Chiesa, ribadite del videomessaggio ma già pronunciate tempo fa, quando la conduttrice rivelava di non riuscire a guardare più Forum. "Mi dispiace tantissimo. Io fui chiamata di corsa quando lei accettò un’offerta a La7. Sì, sono entrata in casa sua, ma il fatto che mi voglia bene mi fa piacere. Anche io le voglio bene", ha detto Barbara Palombelli, ricambiando l'affetto e la stima di Rita Dalla Chiesa.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Barbara Palombelli, confessione inaspettata: "Mi tolgono 15 anni, tutti i giorni...", ecco cosa accade prima della messa in onda. Libero Quotidiano il 25 marzo 2021. Barbara Palombelli ironica. A Stasera Italia, in onda su Rete Quattro il 24 marzo, si parla dei ritocchini estetici aumentati con l'arrivo del Covid. Tutta colpa - è la giustificazione degli esperti - delle videoconferenze e da un senso di sconforto dettato dalle lunghe giornate di quarantena. In studio interviene così la giornalista Sabrina Scampini che si lascia andare a un consiglio a tutte le donne impegnate quotidianamente in interminabili dirette su Zoom, mostrando una lampada ad anello. “Durante le conferenze, guardiamo molto più noi stessi che gli altri, le imperfezioni del nostro viso ci risultano più evidenti e creano depressione - spiega -. Se posso dare un suggerimento, consiglio di usare questa luce circolare. Tante volte non bisogna andare a fare degli interventi chirurgici, basta mettere una luce vicino al computer e vi assicuro che sarà sicuramente meglio. Risulterete con molte meno rughe e vi piacerete di più”. Da qui la replica della conduttrice di Mediaset: "Eh beh, è la magia delle luci che mi tolgono almeno una quindicina d’anni tutti i giorni in televisione. Ringrazio Cristiano Mastropietro che fa questo lavoro”. Una vera e propria confessione che la Palombelli non tiene per sè. Anzi, come tutte le donne ammette i piccoli difettucci.

Barbara Palombelli: «La domanda ad Andreotti suggerita da un tassista. Mio marito Rutelli? Dopo una settimana vivevamo insieme». Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2023.

La giornalista compie 70 anni: «Non ho mai spento candeline. Ho conosciuto per caso mio marito Francesco Rutelli» 

Auguri a Barbara Palombelli, che aveva 15 anni nel ’68 e che oggi compie 70 anni. Giornalista di carta stampata ( L’Europeo, Panorama, Corriere, Repubblica , di nuovo Corriere), di radio e di televisione in Rai e in Mediaset, oggi su Canale 5 e Rete 4 con Forum , testimone di un’Italia che è cambiata, ma non abbastanza. Con lei ripercorriamo le tappe di una generazione.

Emozionata, si festeggia?

«Mai festeggiato, mai spento le candele, neppure a 18 anni e neppure questa volta, mai fatto per me; poi per gli altri, i figli, si fa».

Scaramanzia?

«Non credo, è che la festa obbligata mi mette malinconia. Anche quando ci siamo sposati con Rutelli eravamo in quattro, alle 8 del mattino: non dipende dall’età».

Partiamo dal ’68, che faceva?

«Lavoravo, ho iniziato a 15 anni, in seconda liceo scientifico. Il pomeriggio facevo la segretaria di una scuola di danza: volevo essere autonoma, mio padre diceva: “Se vuoi la libertà, te la devi conquistare”».

Ma intanto intorno a lei c’era un mondo in tumulto.

«Certo, intorno a me c’erano Giuliano Ferrara e Paolo Mieli che non erano ancora direttori di giornali, erano ragazzini che giocavano a fare la rivoluzione al liceo come me. Io ero sempre quella più piccola, quella che li inseguiva. Una volta ricordo che proprio inseguendo Giuliano Ferrara a Valle Giulia sono capitata in una delle aule dove il fratello di mia nonna, che era architetto, stava facendo lezione. Io mi buttai dalla finestra, sempre seguendo Giuliano. Un salto di due metri. Ci siamo anche divertiti».

Un ’68 allegro e leggero.

«I primi anni era così. Però i grandi ci dicevano: se volete parlare, documentatevi...».

Non un ’68 da 6 politico?

«No, quello viene dopo. All’inizio era il Movimento degli studenti. Ecco, la cosa più bella per me è scoprire che le persone con cui ho passato quel periodo sono ancora le persone che amo. Non ci sono fratture ma una continuità che mi tiene compagnia, mi conferma anche che ho vissuto una bella vita».

E all’università?

«Anche lì lavoravo, facevo ricerche per la Rai: facevamo il lavoro che oggi fai con un clic su Google. Poi quando è morto mio padre, che era un agente di cambio, e ci siamo ritrovate senza una lira, il marito di Ida Magli, Adriano, che era professore ma anche vice direttore di Radio 2, mi ha segnalato insieme ad altri per un contrattino Rai».

Poi arrivò il giornalismo.

«Quello c’è sempre stato, a sei anni facevo giornaletti e li vendevo ai familiari. Poi da ragazza sono andata a bussare a tutti i giornali, Espresso, Repubblica, Corriere, mi sono presentata dicendo: “Mi piacerebbe scrivere”».

Comunque, a fine anni ’70 la carta stampata.

«Nel ’79 sono arrivata all’Europeo. Ma il giorno più bello della mia vita professionale è stato quando sono entrata in via Solferino per firmare il contratto di inviata al Corriere con Ugo Stille. Ho portato a Milano anche mia madre: mi aspettava al bar sotto. Gli anni ’90 invece li ho fatti a Repubblica, mi sono molto divertita, con Di Pietro, Berlusconi: andavano fatti lì, era come stare al cinema».

Tanta tv e tanti giornali. Qual è la differenza?

«La tv mi è sempre sembrata una cosa molto facile. La carta stampata richiede più fatica. Quando Gianni Letta mi invitò la prima volta a Italia domanda a intervistare Andreotti, mi sono detta: fai una domanda e via. Pensavo che la tv fosse un modo per accendere la luce sulla tua firma» .

Una domanda e via, però deve essere quella azzeccata!

«Sì, e siccome arrivai in ritardo feci la domanda suggerita dal tassista: “Onorevole, dove lo trova il tempo pe fa’ i libri?”. E mentre i colleghi facevano tutti quei pipponi, io chiesi quello che si domandava la gente a cena».

Amori pochi ma buoni, ha scritto nel suo libro «Mai fermarsi». Ricorda il primo?

«Me lo ricordo benissimo anche perché mi ha insegnato un sacco di cose, è funzionario della Camera, un cervello brillantissimo: con lui ho imparato i segreti delle leggi. Anche Francesco, mio marito, l’ho conosciuto per caso, un amico comune mi chiese di dargli una mano per Radio radicale: dopo una settimana eravamo a vivere insieme, lui allora era senza casa... stasera dormo qui, e poi è rimasto, sono quasi 44 anni». 

Un fulmine durato una vita.

«Non so come mai. Eravamo persone diverse, lo siamo ancora. Forse il segreto è rimanere se stessi. Anche se l’equilibrio è difficile, la sensazione, se vuoi tirare una riga, è che io mi sono fatta un grande c... Però nei momenti in cui non ero in prima linea ho fatto anche passi indietro. Penso sempre che c’è anche un’altra cosa che puoi fare. Bisogna avere piani A, B, C... io ho piani fino alla Z. Adesso per esempio sto lavorando a un canale tematico su Salute e Benessere, sarà il mio prossimo step».

Come vede le donne oggi?

«Benissimo quelle di 20-25 anni; un po’ meno quelle sui 40-45 perché molte hanno fatto delle rinunce grosse per la carriera e quindi avrei voluto dire a ognuna di loro: “Non vale la pena, occupatevi anche della vita privata”. Faccio una grande campagna per la crioconservazione degli ovuli: penso che sia una cosa importante far nascere i bambini, a me piacciono molto, quest’estate sono arrivati due nuovi nipotini. È una società fatta di singoli. Io continuo a pensare che quello che ci unisce, con Francesco, è il fatto di pensare che insieme possiamo cambiare le cose».

Rimpianti?

«Rifarei tutto. Io me la sono proprio costruita la mia vita, perché da ragazzina cercavo di leggere, di fare, di andare al cinema, di stare a sentire: ho sempre avuto il culto delle persone grandi quindi a 18 anni frequentavo Edda Ciano, Paolo Stoppa, Eduardo De Filippo, Moravia».

Un privilegio avere Roma come scenario...

«La mia famiglia è qui da 500 anni, io non riesco a immaginarmi da un’altra parte»

Bruno Vespa: «Franco Marini era sicuro di diventare presidente della Repubblica. Mise da parte una bottiglia pregiata, però poi…» Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 16 agosto 2023.

«Papa Celestino V ci ha insegnato il perdono. E il traforo del Gran Sasso, che ho visto nascere, ci ha portati nel mondo» 

Bruno Vespa è nato a L’Aquila nel 1944. Ha iniziato a lavorare come giornalista a 16 anni, scriveva articoli sportivi per la sede aquilana del quotidiano Il Tempo

Un ritratto dipinto a più mani: 40 interviste esclusive ad artisti, scrittori, sportivi, cantanti, imprenditori che svelano il legame con le città dove sono nati, cresciuti, cambiati. È il tema del numero speciale di 7 in edicola l’11 agosto. Questa è una delle interviste

È dalle sfumature che si indovinano le radici. I modi asciutti, talvolta ruvidi, di Bruno Vespa nascono in una città dove fa (ancora) freddo, dove chi si fa «una vasca» di troppo nel corso principale è uno «sfaticatu » e dove ogni tanto gli anziani ancora mormorano con un cenno della testa: «Co’ tanti galli a cantà, non se fa mai jorno», cioè quando sono in tanti a decidere non arriva mai a una conclusione.

L’Aquila, oggi meno di 70mila abitanti, un centro storico tra i più belli dell’Italia di mezzo che, lentamente, rinasce dopo il terremoto del 2009.

Bruno Vespa si commosse in televisione davanti alle immagini della sua città distrutta. E cinque anni fa, in occasione del decennale del sisma, da una parte si rallegrò «per i progressi fatti», ma dall’altra non poté fare a meno di denunciare la lentezza della burocrazia, perché «con Porta a Porta abbiamo raccolto tre milioni per rifare il Teatro Comunale, ma i lavori procedono a fatica». In trasmissione ha raccolto anche un milione e mezzo per ricostruire un asilo a Onna, paese aquilano profondamente danneggiato, «e l’asilo fu costruito dai falegnami di Trento in tre mesi ed è perfettamente operativo».

Che legame ha oggi uno dei giornalisti più famosi d’Italia con la sua città d’origine?

«Un legame profondo, fatto di ricordi e di piccole e grandi lezioni di vita, anche se manco da tanto tempo».

Vespa è nato nel 1944 a due passi dalla Fontana Luminosa, opera degli Anni 30 dello scultore Nicola D’Antino, tra i simboli della città. E vicino anche alla caserma degli Alpini. Padre rappresentante di commercio, madre maestra elementare. «L’Aquila» racconta «ha potuto contare su una borghesia solida, compatta. Colta, e non solo perché ha sempre attribuito grande valore all’università e agli studi, ma anche perché io ricordo una straordinaria stagione musicale che animava la città nel periodo della mia giovinezza. Pochi lo sanno ma all’epoca la città era in testa alle classifiche mondiali per fruizione della musica». 

Gli Anni 60 segnarono in qualche modo il rinascimento culturale aquilano: il teatro, con gli spettacoli su testi di Alberto Moravia e Ignazio Silone, entrambi presenti in platea, con attori come Gigi Proietti, Paola Gassman e Ugo Pagliai, con la Società Aquilana dei Concerti che ospitava i grandi nomi internazionali.

«Da Arthur Rubinstein e Arturo Benedetti Michelangeli», elenca Vespa. Questa passione musicale continua ancora oggi, nonostante la penuria di spazi adatti. Sulla scalinata della bellissima chiesa di San Bernardino, per esempio, il Comune ha ideato un cartellone estivo che a luglio ha avuto tra gli ospiti artisti come Brad Mehldau.

È stato anche grazie alla musica che Vespa ha intrapreso la carriera giornalistica: a diciotto anni, al suo primo impiego in Rai, trasmetteva due volte al giorno le notizie da L’Aquila nella sede di Pescara. Ma prima c’era stata la collaborazione con Il Tempo e con altre testate.

«L’Aquila era molto fiera dei suoi appuntamenti culturali internazionali e davamo spazio ai grandi nomi. Ho un aneddoto curioso da raccontare: una volta arrivò il grande pianista russo Sviatoslav Richter. Gli era stato concesso di lasciare quella che allora era l’Unione Sovietica e potete immaginare quanta attesa c’era per la sua esibizione abruzzese. Qualche ora prima dello spettacolo, però, si diffuse la voce che Richter era scomparso». Allarme tra i cronisti, caccia all’uomo, ipotesi tra le più fantasiose («L’ha rapito la Cia»), ma quando Vespa racconta il finale, questo appare più buffo che rassicurante: «Ritrovammo Richter da solo, in piedi , sotto una pioggia battente, a contemplare la chiesa di San Bernardino a due passi dal Teatro comunale».

Sontuoso interno barocco, un mausoleo che custodisce le spoglie del santo al quale è intitolata: la basilica – tra le più belle della città – è una delle tappe più consigliate per chi arriva in centro. «L’Aquila» fa notare Vespa «è ricca di chiese importanti non solo sul piano artistico e architettonico, ma anche storico. E dietro ci sono numerose storie». Pensiamo solo alla Basilica di Santa Maria di Collemaggio, fondata nel 1288 per volere di Pietro da Morrone – qui incoronato papa con il nome di Celestino V (quello del “gran rifiuto” dantesco) nel 1294: il terremoto del 2009 l’ha danneggiata seriamente ma oggi il luogo di culto è rinato grazie a una collaborazione tra pubblico e privato, una strada che funziona. Vespa è particolarmente affezionato alla Chiesa di Santa Maria Paganica, dove Giuseppe Molinari, oggi arcivescovo emerito dell’Aquila, celebrò le esequie di Irma Castri Vespa, amatissima madre del cronista, mancata nel 2003. «Ma non scordiamoci del Duomo» puntualizza «che domina l’omonima piazza ed è ancora in restauro. Sia prima del terremoto che, per fortuna, anche di recente, questa città ha vissuto di spazi sociali importanti: dal Corso Vittorio Emanuele per le passeggiate domenicali alla Fontana Vecchia come punto di ritrovo». 

In questa «passeggiata virtuale» nella sua città, Bruno rievoca tanti ricordi legati al cinquecentesco Castello spagnolo, uno dei simboli più potenti di un capoluogo «che ha attraversato tanti periodi difficili. I terremoti naturalmente, perché nella sua storia quelli devastanti sono stati più di uno, e le crisi economiche. Eppure ci sono stati dei passaggi cruciali, come la costruzione del Traforo del Gran Sasso, che io ho visto nascere». Per chi non conoscesse questa grande opera pubblica, il Traforo è un tunnel autostradale di quasi undici chilometri, costituito da due percorsi, ciascuno a due corsie e a senso unico, che «buca» il massiccio del Gran Sasso e che attraversa l’Appennino abruzzese. Il tunnel collega Roma al mare Adriatico passando per L’Aquila e Teramo. Nel 1968 ebbero inizio i lavori di questa grande infrastruttura, strettamente connessa ai laboratori sotterranei dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, che hanno sede proprio nel cuore della montagna. «Mi ricordo quando si cominciò a lavorare al tunnel» riflette Vespa «e fu certamente un’idea progettuale avanzata quella di collegare Roma all’Adriatico con un tunnel così lungo.

Ma il Traforo ha anche cambiato la storia aquilana, perché la città si è aperta non solo a Roma ma anche al Teramano e alla costa. Prima, per raggiungere Teramo bisognava attraversare il passo delle Capannelle: ore di cammino, senza contare la neve o altre difficoltà. Ricordo anche che Giorgio Bocca scrisse che una delle due “canne” del Traforo avrebbe dovuto essere riservata alle peco re. Pensate un po’ quanto è cambiata questa terra nel corso dei decenni». Prima del Traforo, per molti L’Aquila era «un altro mondo» e così anche buona parte dell’Abruzzo per gli stessi aquilani. È anche per questo che il capoluogo abruzzese oggi è molto legato a Roma, con intrecci culturali e politici. «Anche la Marsica l’abbiamo scoperta poco per volta. Un tempo andare da quelle parti voleva dire intraprendere un viaggio. Poi è arrivata la Roma-L’Aquila e ci siamo avvicinati. Ricordo quando una volta, di notte, mi sono ribaltato a bordo della mia Cinquecento sul ghiaccio di Sella di Corno sulla statale per Rieti e Roma».

La nostra passeggiata prosegue attraverso ricordi e considerazioni. «L’Aquila» osserva il giornalista «ha tante piccole-grandi peculiarità. Per esempio la Perdonanza Celestiniana, un piccolo giubileo che si ripete ogni anno il 28 e il 29 agosto». Il rito fu istituito direttamente da papa Celestino V nel 1294 con la Bolla pontificia con la quale concesse l’indulgenza plenaria a chiunque fosse entrato – confessato e comunicato – nella basilica di Santa Maria di Collemaggio dai vespri del 28 agosto a quelli del 29. Oggi la Perdonanza è una celebrazione che prevede un corteo, l’apertura della Porta Santa e altri rituali, oltre a essere «Patrimonio d’Italia per la tradizione».

Forse nell’alveo del «patrimonio d’Italia» meriterebbero di entrare anche alcune specialità gastronomiche come il salame di Campotosto o la lenticchia che si coltiva con lo zafferano negli altipiani vicini, per esempio quello di Navelli. «Vorrei ricordare uno chef come Niko Romito» dice Vespa «che a Castel di Sangro ha realizzato un progetto importante». Oltre al ristorante, l’Accademia che porta il suo nome fa formazione e apre la strada alla ricerca sulla cucina abruzzese. Che è sostanziosa ma non elaborata: sugo di castrato con pallottine di carne, arrosticini e formaggi. Vespa, però, è anche un produttore di vino, oltre che un raffinato sommelier. «Ricordo con affetto un grande amico abruzzese, che è stato Franco Marini. Era così sicuro di venire eletto presidente della Repubblica che mise da parte una bottiglia pregiata per berla con me dopo la sua elezione… ». Infine, il carattere degli aquilani, sospesi tra la bellezza limpida della scrittura di Ignazio Silone e la ricchezza della prosa dannunziana. Vespa non si sbilancia: «Silone è stato un maestro, ma ci sono certi libri di D’Annunzio che ancora oggi rileggo con trasporto».

Estratto dell’articolo di Filippo Ceccarelli per repubblica.it il 12 giugno 2023.

Stai a vedere che prima o poi Giorgia Meloni lo fa presidente della Repubblica Bruno Vespa, 78 anni, il Gran Consacratore di quel Potere da cui a sua volta è stato consacrato in questo fine settimana nella sontuosa fattoria turbovinicola di Manduria. […] occasione mondana, profittevole calamita, fiera delle vanità, giardino zoologico del comando e cerimonia di regime, la migliore cornice per ambientarvi qualsiasi pellicola. […] 

In quel gioiello del Cinquecento che è la Masseria “Li Reni”, […], sono giunti quest’anno la presidente del Consiglio e otto ministri, […] la piscina scavata nella roccia, mutui riconoscimenti sotto i gazebi, società partecipate e monsignori, cibi stellati, alta densità di scalatori sociali per metro quadro, poltroncine a forma di cactus, sintomatico trasbordo dalla Terza alla Quarta Camera en plein air.

[…] Suite imperiali, fragranze fruttate nei saloni, fantasmagoria eno ed ego produttiva a sfondo dinastico, “il Bruno di Vespa”, “il Rosso dei Vespa”, il bianco “Donna Augusta”, perfino un passito, “Zoe”, dedicato alla cagnolina di famiglia […] A tratti, specie nella più meticolosa voglia di sorprendere, sembra quasi di cogliere un che di berlusconiano, per quanto il traguardo del lusso sia stato conquistato con una accelerazione democristoide. Fatto sta che all’imbrunire veniva sollevato l’ideale ponte levatoio, un efficiente servizio di navette rispediva a casa politicume, giornalisti, intrusi e nel feudo Vespa veniva allestita la liturgia della cena esclusiva, dal latino ex-claudo, chiudo fuori, possibilmente a chiave.

Qui, nel Sancta Sanctorum dell’informalità sovrana, Meloni, Salvini e gli altri hanno fatto i loro numeri a beneficio dei Vips sfoggiando sperimentata umanità recitativa e intrattenendo con aneddoti e scomode verità sul Pnrr. Tali fasti hanno dunque connotato il Vespismo mandurione modello Casa&Bottega con implicito collegamento promozionale ed endemico prolungamento nel Tg1, […] 

La premier si fida molto di Vespa, ne accetta i consigli, forse pure sollecitandoli su questioni di pace e guerra. […] colpiva il tono lapidario della smentita scolpita dal Principe dei talk a proposito del pranzo per i suoi 60 anni in Rai allorché, scrisse Dagospia, Meloni, fumatrice assatanata, avrebbe spento una cicca nel tastevin sul tavolo: "Giorgia Meloni è una signora e non fuma a tavola".

Sarà. Quanti cicli di potere ha accompagnato, Vespa, e quanti leader ha cresciuto nel suo salottone di frementi ambizioni e ingegni subliminali: il risotto di D’Alema, il Contratto di Berlusconi (che gli ha presentato trenta libri!), la scommessa condonata a Renzi, il Ponte e ri-ponte di Salvini... Dovessero approssimarsi le prospettive quirinalizie sarà anche il caso di ricordare che nel 2020 creò quello della Nazione, “Terregiunte”, uve di Amarone e Primitivo. E sempre al vino si torna, un brindisi, un singhiozzo, un riflesso di straniante meraviglia.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” l'11 giugno 2023.  

Il Pd vuol portare al Cda Rai l’ennesimo caso Vespa – l’“artista” in pensione che profumatamente paghiamo dalla notte dei tempi per scorticarsi le ginocchia davanti ai politici su Rai1 – per l’automarchettificio messo su nella leccheria di Manduria, dove si produce un rarissimo vino a base di saliva. Ma sbaglia bersaglio: il “codice etico” Rai non va invocato solo per la batteria di sponsor accorsi alla kermesse vespiana (Poste, Fs, Bmw, Confagricoltura, Ance, Aiscat, Philip Morris, Novartis, Banca Ifis ecc.), ma anche perché in un’ora di “intervista” alla Meloni il nostro eroe è riuscito a non farle una sola domanda degna di questo nome.

Non mancavano solo le famose seconde domande, ma pure le prime. Ecco i pigolii del semiconduttore nei Cinque minuti su Rai1. “In questi giorni dovrebbero sbloccarsi 21 miliardi della terza rata: riusciremo ad averli?”. “Cuneo fiscale e aumento dei salari: pensa l’anno prossimo di avere più soldi?”. “L’aumento del Pil non è un fuoco di paglia”. “Arriveranno soldi dal Fmi alla Tunisia per evitare un’ondata storica di migranti?”. 

Ed ecco il seguito del Forum in Masseria. “Una riflessione da madre sull’omicidio della povera Giulia e del bambino che portava in grembo”. “Il problema della personalità giuridica del nascituro”. “Ha incontrato il cancelliere Scholz e, se ho capito bene, avete fatto dei passi in avanti sui migranti”. “Lei vuol fare l’hub”. “Schlein sostiene che è allergica ai controlli e sta impostando uno Stato autoritario”.

“Gli avversari le rimproverano la vicinanza a Vox, Polonia e Ungheria”. “Premierato e autonomia: a Sud han paura di essere regioni di serie B. Succede, non succede...”. “Insomma, devono rassegnarsi alla sua presenza”. “L’opposizione dice che la delega fiscale penalizza i dipendenti rispetto agli autonomi”. “Posso chiederle quando pensa di sottoscrivere il Mes?”. “Noi resteremo al fianco di Zelensky fino alla fine della storia?”.

Le risposte alternano rari sprazzi di buon senso a colossali spropositi senza la minima obiezione. […] Se si fosse intervistata da sola, la Meloni sarebbe stata molto più impertinente, non foss’altro che per non scivolare sulla bava. Ma le interviste senza domande non scandalizzano più nessuno. Qualcuno s’è indignato perché la premier a Tunisi ha fatto una conferenza stampa senza giornalisti. Ma nessuno ha notato la differenza.

Marco Zonetti per Dagospia l'11 giugno 2023.

L'evento organizzato da Bruno Vespa nella sua masseria pugliese, con la sfilata di ministri del Governo Meloni fra cui la stessa presidente del Consiglio, ha scatenato un mare di polemiche, con il caso sollevato in primis dal Partito Democratico intenzionato a portarlo all'attenzione del CdA Rai, e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana capitanata da Vittorio Di Trapani, già segretario del potentissimo sindacato Usigrai, determinato a presentare un esposto all'Antitrust. 

Come ha riportato Dagospia, Vespa ha risposto a tono a Di Trapani: "Quando, per le prime edizioni, abbiamo ospitato i ministri del governo Draghi nessuna obiezione. Appena è arrivato al Governo il Centrodestra, ci scopriamo asserviti. Come mai?".

Siamo andati a controllare sul sito ufficiale della Masseria Li Reni per accertarci della veridicità delle parole di Vespa, scoprendo che l'evento "Forum in Masseria" nacque nel giugno 2021, con ospiti fra gli altri, oltre al presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, immancabile in ogni edizione, l'allora ministro del Turismo Massimo Garavaglia e l'allora ministro per il Sud e della coesione territoriale Mara Carfagna. Nel luglio 2021, Vespa organizzò inoltre un "incontro con i leader" invitando il leader del Pd Enrico Letta, il leader di Italia Viva Matteo Renzi e la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni.

L'evento Forum in Masseria si replicò l'8 e 9 ottobre del 2021 e vide partecipare, fra gli altri, gli allora ministri Giancarlo Giorgetti (Sviluppo Economico), Andrea Orlando (Lavoro e Politiche Sociali) e Renato Brunetta (Pubblica Amministrazione). 

Il 9 ottobre 2021, la Masseria Li Reni fu poi teatro di un dibattito sull'ingiustizia amministrativa, che vide l'epifania dell'ex premier e presidente del M5s Giuseppe Conte, al quale si aggiunsero Francesco Paolo Sisto (allora sottosegretario di Stato alla Giustizia), Anna Rossomando (allora vicepresidente del Senato), Andrea Ostellari (allora presidente della Commissione Giustizia del Senato), Augusta Montaruli (allora membro della commissione Affari Istituzionali della Camera dei Deputati).

Con l'avvento del 2022, il nuovo anno vide tornare la kermesse Forum in Masseria il 27 e 28 maggio. Tra gli ospiti, ricomparve Mara Carfagna, alla quale si affiancarono gli altri ministri del Governo Draghi Enrico Giovannini (Infrastrutture e mobilità sostenibile), Stefano Patuanelli (Politiche agricole, alimentari e forestali), Roberto Speranza (Salute), e perfino Luigi Di Maio (Esteri).  

Qualche mese più tardi, a luglio, per la rassegna "A cena con", fra gli altri riapparve il senatore Matteo Renzi per presentare il suo libro ll Mostro. La cena, ci fa sapere il sito ufficiale, aveva "un costo di 75 euro, compreso un calice dei vini Vespa per ciascuno dei piatti". "A ciascun ospite", allettava gli avventori il programma: "sarà consegnata gratuitamente una copia del libro che l’autore sarà lieto di firmare". Che fortuna, potremmo commentare. 

A conti fatti, dunque, nella sua replica al presidente della FNSI, Vespa ha ragione: gli anni scorsi, la sua masseria ha visto sfilare una nutrita serie di ministri del Governo Draghi e nessuno ha proferito parola. Viene però trascurato un dettaglio: con l'arrivo dell'esecutivo Meloni, Vespa ha visto esponenzialmente aumentare le sue presenze in video grazie alla nascita di una striscia quotidiana ad hoc, blindatissima nel momento di maggior ascolto di Rai1, ovvero in prima serata subito dopo il Tg1 e prima del programma di Amadeus. Lo spazio, peraltro, è lo stesso che un tempo era occupato da Enzo Biagi con Il Fatto e che gli fu tolto dopo l'editto bulgaro. Senza contare che Vespa viene oggi considerato il vero uomo di riferimento in Rai per Giorgia Meloni.

E' quindi ovvio che, rispetto ai tempi del governo Draghi, la presenza en masse dell'esecutivo Meloni, capitanato dalla stessa presidente (che per giunta ha inaugurato con la sua ospitata la suddetta striscia televisiva) nella masseria vespiana sia risultata piuttosto eclatante rispetto agli anni scorsi. Forse, potremmo obiettare che, se oggi è giusto eccepire sul fatto che un conduttore del servizio pubblico televisivo inviti esponenti del Governo nella sua masseria, sarebbe stato il caso di farlo anche ai tempi di Draghi, che però, dal canto suo, nella masseria di Vespa non si presentò.

Estratto dell’articolo di Ilario Lombardo per “la Stampa” il 10 giugno 2023

Bruno Vespa è fermo sulla ghiaia, con un'impazienza ben mascherata. «Ma come? Sono ancora tutti in piedi? Non va bene, non va bene. Avevo detto che dovevano essere pronti. Portateli ai tavoli, subito. Devono essere tutti seduti ai loro posti. Appena lei arriverà, si alzeranno per salutarla». […] il conduttore tv impartisce ordini al telefono mentre attende che Giorgia Meloni esca dalla suite per la cena. È giovedì sera, la premier è atterrata in ritardo, l'intervista con Vespa che avrebbe dovuto aprire la rassegna nella masseria salentina del conduttore Rai è stata rinviata all'indomani. Sono un paio d'ore che gli ospiti bighellonano, incuriositi e affamati. Qui li chiamano tutti sponsor.

Sono manager, dirigenti di azienda, banchieri. Seguono la rotta del nuovo potere, affidandosi al suo regista. Bruno Vespa è tante cose. […] Il maestro di cerimonia della politica italiana, padrone unico e assoluto di un salotto televisivo che si è guadagnato il nome di Terza Camera, dove si sono seduti tutti. Persino Beppe Grillo: «Ma ancora Elly Schlein non è venuta».

Con Meloni c'è un grande feeling, e lei lo ha preso un po' da consigliere. […] È un vignaiolo, proprietario di una masseria a cinque minuti di macchina da Manduria, orgoglioso delle sue etichette che qui spuntano ovunque e che sono protagoniste di un libro lasciato in bella mostra, dove ogni vino della casata è abbinato a un piatto di uno chef italiano rigorosamente tristellato (si parte con il Brut Rosé Noitre per accompagnare il rognone con sorbetto di senape di Massimiliano Alajmo): un libro scritto da Vespa, sui vini di Vespa, per gli ospiti di Vespa. Ma Vespa è soprattutto una cosa quando lo vedi in azione, dal vivo, anche nella sua Masseria, con un caldo che scioglie la concentrazione a chiunque, non a lui. È un regista. Ha il montaggio in testa.

Taglia e cuce con gli occhi e con gli occhi controlla ogni cosa, e ogni cosa deve essere funzionale a questo teatro all'aria aperta e in movimento. Al suo fianco c'è sempre il suo storico autore Maurizio Ricci. «Sono con lui dal secondo anno di Porta a Porta. Prima ho fatto un po' di film con Ermanno Olmi». Ma la vera curatrice dei dettagli e della messa in scena finale è Donna Augusta Iannini, sua moglie dal 1975. Sceglie la fragranza melogranata che assale gli ospiti in soggiorno, si lamenta che le telecamere impallano la vista del palco dove il marito intervista Meloni, cambia all'ultimo le tovagliette per la cena, vigila sui giornalisti non accreditati sospettati di scrocco aggravato, «Se non glielo dici tu, prendo il microfono io e mi sentono…». «Non lo fare, per carità», la ferma Vespa.

Tutto è pronto […] spunta anche una principessa con uno splendido corallo al collo. È Carolina Theresa Pancrazia Galdina zu Fürstenberg: in breve Ira von Fürstenberg, è qui in qualità di zia di Ernesto Fürstenberg Fassio, presidente di Banca Ifis. Nobili e contado.

Un fuori programma sono i coltivatori di ciliegie che entrano nella tenuta e si fiondano su Meloni prima dell'intervista. «Venga presidente, una foto con le nostre ceras'». In fondo, anche loro hanno bisogno di uno sponsor […] 

Gianluca Comin, fondatore e guida di Comin&Partners, si rallegra: l'organizzazione sta andando liscia, i manager e gli imprenditori che ha portato in Puglia sembrano soddisfatti. Ha solo un cruccio: nessuno si fila il ministro della Salute Orazio Schillaci, l'unico presente prima dell'arrivo del ministro-cognato Francesco Lollobrigida e di Guido Crosetto. Il clima sarebbe disteso e informale, se non fosse per lo zelo degli agenti che su ordine dello staff di Meloni, eternamente in ansia per i giornalisti, blindano entrate e uscite del labirinto di tufo della masseria seicentesca che fu delle monache benedettine e che a fine Ottocento il neonato Stato italiano sequestrò e mise all'asta.

Il bisticcio con la polizia avviene di fronte a una signora in bikini e panama che prende il sole su una sdraio di fronte alle piccole piscine in stile termale. È la signora Palenzona. Il marito, Fabrizio, un passato nella Margherita, ex Unicredit e oggi presidente di Aiscat Servizi, è in prima fila a sorridere e ad applaudire alle battute di Meloni. Gli applausi e le risate sono ripetute. Quando attacca Schlein, quando difende i Paesi di Visegrad e accenna qualche smorfia contro Bruxelles (qui la battuta migliore su Polonia e Ungheria è di un collega cronista: «Sta dicendo che è colpa del comunismo se sono fascisti»). La più entusiasta sembra Maria Bianca Farina, presidente di Ania, l'associazione delle assicurazioni.

Applaude convintamente, anche lei in prima fila, due sedie più in là dell'immancabile segretaria personale della premier, Patrizia Scurti, e al presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti. Lo fa più timidamente la presidente di Ance, Federica Brancaccio. La sera prima ha fatto compagnia a Meloni per una sigaretta. Rappresenta i costruttori e ha le sue idee sul Pnrr. […] 

La premier racconta aneddoti, poi si concede alle curiosità e ai dubbi dei manager. Si torna sempre al Pnrr. Meloni scarica le difficoltà sulle rigidità della Commissione europea e sull'impianto definito dai suoi predecessori, Giuseppe Conte e Mario Draghi. Il Recovery Plan è l'oggetto della prima domanda che fa Vespa. […] 

"Maxi spot all'iniziativa imprenditoriale del giornalista'. (ANSA il 10 giugno 2023) "Valuteremo un esposto all'Antitrust sull'evento organizzato da Bruno Vespa nella sua masseria": lo ha detto il presidente della Fnsi, Vittorio di Trapani, in occasione dell'intitolazione dell'aula comunale di Brusciano a Giancarlo Siani. A renderlo noto è lo stesso di Trapani sui suoi profili social. 

"L'appuntamento in Puglia - afferma il presidente della Federazione nazionale della stampa - si è tramutato in un maxi spot a una iniziativa imprenditoriale dell'artista Vespa. Né possiamo tacere che si tratta di una ulteriore dimostrazione di sudditanza al governo: da 'terza camera' a 'resort del governo'. Del resto, i dati dell'Osservatorio di Pavia relativi ai tg sono impressionanti. Siamo certi che siano già all'attenzione dell'AgCom".

Estratto dell’articolo di Andrea Tornago per editorialedomani.it il 10 giugno 2023 

La terza Camera, in versione estiva. Un Porta a Porta nel cuore del Salento. […] Nella masseria della famiglia Vespa in Puglia sta sfilando durante questo week-end il governo al completo, Giorgia Meloni con otto ministri, per dialogare con imprenditori e dirigenti sull’“Italia che verrà”. Guido Crosetto, Francesco Lollobrigida, Adolfo Urso, Gilberto Pichetto Fratin, Orazio Schillaci, Raffaele Fitto e Gennaro Sangiuliano.

Nei vari panel tematici si discute con i rappresentanti di aziende e organizzazioni di settore. Previsti anche il governatore Pd della Puglia, Michele Emiliano, il sindaco di Bari e presidente dell’Anci, Antonio Decaro, il leader del M5s Giuseppe Conte. Ora, Domani scopre che l’evento potrebbe essere non solo un grande successo mediatico per il conduttore lautamente pagato dalla Rai, ma anche un ottimo affare economico. 

Leggendo la locandina del forum pugliese si scopre che l’evento vespiano ha attratto sponsor stellari: Novartis, Bmw, Philip Morris Italia, Siram Veolia, Maire, Confagricoltura, Ntt Data, Aiscat, Poste, Banca Ifis, Ferrovie, Ance. Una delle società sponsor dell’evento, secondo le informazioni raccolte dal Domani, ha versato circa 35 mila euro. La raccolta complessiva oscilla invece tra i 220 e i 250 mila euro. 

Un bel gruzzoletto che dovrebbe finire, tolte le spese, direttamente nelle tasche degli organizzatori. In primis, alla famiglia Vespa […] Il re di Porta a Porta ha deciso di non fare tutto da solo, ma ha chiamato in supporto l’agenzia romana Comin & Partners, specializzata in comunicazione strategica per istituzioni e grandi aziende. […] La masseria Li Reni a Manduria, in provincia di Taranto, è di proprietà del celebre conduttore, ed è intestata alla società Futura Agricola 2015. Soci Bruno Vespa con il 50 per cento delle quote, i figli Alessandro (rappresentante legale) e Federico ciascuno con il 20 per cento e la moglie Augusta Iannini con il 10 per cento. 

[…]  La passione per la Puglia e per le sue splendide masserie ha origini antiche per la famiglia Vespa. Porta il segno di un’amicizia: quella con Vincenzo Consoli, l’ex patron di Veneto Banca, l’istituto di credito di Montebelluna (Treviso) finito in liquidazione coatta nel 2017 e ceduto per 50 centesimi a Intesa Sanpaolo. Vespa e Consoli erano soci nella vecchia masseria Cuturi, sempre a Manduria, in provincia di Taranto. Lo sono stati tra il 2012 e il 2014.

L’antica masseria Cuturi infatti risultava intestata per il 62 per cento alla società Pavi dell’avvocato Lorenza Cracco, moglie del dentista padovano Paolo Rossi Chauvenet, consigliere di amministrazione di Veneto Banca tra il 2008 e il 2014, e alla moglie di Consoli, mentre il 31 per cento delle quote apparteneva ai coniugi Vespa e il restante 7 per cento ad altri soci. Vespa poi ha ceduto le quote di Cuturi e nel 2014 ha comprato la masseria Li Reni. Quindi anche la moglie di Consoli ne è uscita nel 2015.

Chissà se l’amicizia con Consoli avrà aiutato Vespa a non uscire travolto dal crac Veneto Banca, di cui era un importante azionista: possedeva 279.482 azioni del valore di 40,745 euro ciascuna, come ricorda Renzo Mazzaro nel libro Banche, banchieri e sbancati. 

Di certo nella vicenda Veneto Banca ci sono i sommersi e i salvati. Chi ha visto i risparmi di una vita andare in fumo e chi ne è uscito in piedi. Nel 2013 Bruno Vespa, prima del diluvio, riesce a vendere le sue azioni del valore di 11,3 milioni di euro. Anche se nelle traversie che hanno colpito la banca veneta avrebbe perso “873 mila euro”, come ha raccontato lui stesso alla trasmissione Report nel 2016. 

La cosa più strana? Che il nemico numero uno delle banche, Giuseppe Conte, si senta a suo agio in masseria con il vecchio amico di Consoli, il banchiere che nel gennaio scorso è stato condannato in appello a 3 anni per ostacolo alla vigilanza. Al leader del M5s, ospite d’onore del forum di Vespa, sono affidate le conclusioni. 

Estratto dell’articolo di Antonello Caporale per “il Fatto quotidiano” il 9 giugno 2023.

Manduria non è Medellin, l’Italia di certo non è la Colombia e vive tranquilla. Eppure c’è un profumo sudamericano, qualcosa di debordante e persino di eccentrico in questa convocazione del governo di Roma nella masseria di Bruno Vespa per consacrare il suo potere affluente nel libro della storia patria. 

Non bastasse Giorgia Meloni con il suo nugolo di ministri […], Vespa ha scelto anche la voce dell’opposizione e selezionato Giuseppe Conte per il comizio finale. Equivicino, com’è nello stile della casa.

[…] Giorgia Meloni […] fa per Vespa cose che non ha fatto nemmeno per gli alluvionati romagnoli che pure sarebbero senza un tetto e senza un soldo.  Aviotrasporta il corteo ministeriale che parlerà all’Italia godendo di un mirabile sostegno degli sponsor, vecchi e nuovi. 

Ferrovie dello Stato, e poi Ance, Anci, Ania. E Bmw, Maire, Novartis (casa farmaceutica), Philip Morris (leader del tabacco), Poste, Siram Veolia. […] Meloni parlerà al Paese con dietro i marchi degli sponsor e naturalmente quello della masseria Li Reni, la magione di Vespa, il fabbricatore di ogni cosa.

Democratico fino al midollo, chi voglia stasera consumare la cena, per soli 150 euro al tavolo del ristorante Donna Augusta (il nome della amata consorte del principale), o domani sera con un ticket super popolare: solo 100 euro e mangerete da Dio, con due chef bis stellati, un capolavoro a quattro mani. Avrete Urso al vostro fianco, o Fitto, ma vi potrebbe capitare anche Emiliano, il presidente pugliese, o Decaro, sindaco di Bari, o persino Sangiuliano, il ministro della Cultura. What else? 

[…]  Qui, nel baricentro del Salento del nord, appena dietro Taranto, appena davanti Brindisi e Lecce, Vespa ha superato i suoi stessi parametri vitali. Al tempo del potere berlusconiano concedeva la sua sala da pranzo per raddrizzare le reni al centrodestra.

Vespa, oggi vignaiolo, ha ottenuto da Propaganda Fide, che Filippo Ceccarelli su Repubblica ha giustamente definito l’immobildream dei privilegiati, una magione stratosferica su piazza di Spagna, alla Rampa Mignanelli. E lì, per esempio, convocò 13 anni fa, Berlusconi, Letta, Casini, Draghi, allora governatore della Banca d’Italia, Geronzi, allora come oggi superpotente romano, e naturalmente il cardinal Bertone, grande cerimoniere vaticano, affinché ogni nodo fosse sciolto e diluito nella porcellana di casa. 

Oggi l’upgrade con l’aviotrasporto dell’intero esecutivo nella propria campagna.

Intendiamoci: la Meloni, nella sua determinata azione di cambiamento, gli aveva già affidato la Rai aggiungendo allo storico Porta a Porta i Cinque minuti di sale e pepe dopo il tg, perché fosse chiaro che il vento è cambiato.

Ieri sera la premier ha dovuto saltare l’incontro previsto ed è giunta solo per cena. Stamane riparerà e si farà intervistare da Vespa. Il quale per chiarire definitivamente che l’equivicinanza è stile di vita, ha scelto di convocare Giuseppe Conte nel ruolo di primo oppositore. Da Vespa a Vespa. Tutto si tiene.

Estratto dell’articolo di Ilario Lombardo per “la Stampa” il 9 giugno 2023.

Giorgia Meloni ha un problema con la puntualità. «Ci hanno appena detto che arriverà alle 21, con due ore di ritardo. Ci sono duecento persone che sono venute qui apposta per lei». Alla Masseria di Bruno Vespa sono tutti increduli. Lo staff degli organizzatori guarda sgomento gli ospiti: era stata la premier a stravolgere l'agenda degli inviti, costringendo ad anticipare l'inizio della rassegna di un giorno.

Sono le cinque di pomeriggio, di ieri. Fino a pochi minuti prima il conduttore Rai sperava di riuscire comunque a inserire la prima parte dell'intervento della premier nella sua trasmissione "Cinque minuti", in onda alle 20.30. I giornalisti che la seguono in giro per il mondo, però, lo avevano avvertito. Meloni ha un rapporto difficile con l'orologio. Lo sanno collaboratori, cronisti, cerimoniale di Palazzo Chigi e gli altri leader. Tutto rinviato a domani mattina, cioè a oggi, ore 11.

«Un Forum Ambrosetti più rilassato», tra gli ulivi, la canicola pugliese, l'ombra che è un po' una speranza. Il paragone con il summit economico- politico che ogni anno chiude l'estate a Cernobbio porta il copyright di Comin&Partners, la società che ha in mano l'organizzazione del Forum in Masseria, format extra-televisivo di Vespa. 

A cinque minuti di macchina da Manduria, va in scena l'appuntamento che apre l'estate della politica all'aria aperta. Quarta edizione, terzo anno: mai così zeppa di sponsor, come si intuisce subito dal cartellone all'ingresso bruciato dal sole: Ferrovie, Poste, Ance, Philip Morris, Novartis, solo per citare alcune delle grandi aziende che hanno voluto marcare una presenza tra i volti più noti della nuova leva meloniana. Un salotto fuori dal salotto, in questo podere seicentesco che porta il nome Li Reni, appartenuto a un nobile casato di Eboli, passato alle monache benedettine e dopo l'Unità d'Italia confiscato e messo all'asta a fine Ottocento, finché di mano in mano è stato acquistato dal conduttore Rai.

Alle quattro di pomeriggio Vespa si rilassa in acqua, nella grande piscina su cui affacciano alcune suite della masseria. È con il suo storico autore Maurizio Ricci. «Ci avete sorpreso nel pieno di una riunione di lavoro» scherza. Tutto è pronto, compresa la cena dello chef stellato: tagliatella di seppia, risotto con granita di riccio, cornucopia di orata e i vini della tenuta del vignaiolo Vespa. 

[…] Meloni arriva poco dopo le nove di sera con il compagno, parla pochi minuti coi cronisti, ma il clou è rimandato a oggi. L'anno scorso era stata proprio lei a rappresentare la quota dell'opposizione, soggiornando qui. Ancora c'era il governo di Mario Draghi, e la crisi che avrebbe portato a elezioni anticipate non sembrava così vicina.

Meloni si aggirava curiosa, e rilassata con i cronisti, tra le murature e le volte realizzate in tufo salentino, le stanze arricchite di volumi sul vino ed etichette di casa – Il Bruno dei Vespa, Donna Augusta dedicato alla moglie, Zoe alla cagnolina – le sedie a forma di cactus di una piazzetta del giardino, i cuscini rossi ovunque, la piccola piscina dal sapore termale. Una giornata di relax, come tante quando non era al governo, quando poteva permettersi di arrivare in ritardo e nessuno se ne accorgeva.

Estratto dell’articolo di Tommaso Ciriaco per “la Repubblica” il 9 giugno 2023.  

Il telo è rosso, l’abbronzatura dorata, l’acqua riflessa dalla roccia di un verde smeraldo. Bruno Vespa esce dalla piscina, si asciuga. Scena iconica, sguardo profetico (in realtà probabilmente già sapeva). 

«Spero che la Meloni non faccia ritardo, altrimenti la serata si complica ». La premier fa di più: annulla l’intervista pubblica delle 19 con cui si apre il Forum nella masseria Li Reni, regno incontrastato del direttore.

Arriva all’ora di cena, accompagnata dalla figlia Ginevra. Salta pure la puntata di Cinque minuti in cui doveva essere ospite, tutto slitta alle 11 di oggi. E il potere accorso tra i vigneti resta deluso, anche se già a metà pomeriggio si rimedia con panzerotti, focaccia pugliese e un calice di “Bruno di Vespa” e “Rosso di Vespa”, di scontata produzione autoctona. 

Niente di nuovo tra le vasche etrusche della masseria, in realtà. La presidente del Consiglio non è nuova a forfait dell’ultimo secondo […]. Alle 18 il termometro segna 28 gradi, i delusi si ritrovano tutti accaldati nel cortile, con lo sguardo perso: sono le decine di uomini del dispositivo di sicurezza e i rappresentanti degli sponsor che hanno litigato per partecipare al gran ballo della destra di governo.

«Impegni internazionali», sorride Vespa. Sorride, nulla lo scuote. È ascoltato da Meloni. E sa maneggiare il potere anche avvolto dal telo rosso, dopo un bagno in piscina assieme allo storico autore di Porta a Porta , Maurizio Ricci […]. «Riunione di lavoro». Progettano l’evento, che durerà quattro giorni. 

[…] La masseria vanta dodici stanze. Quella imperiale è stata riservata alla presidente del Consiglio. Nel salone degli ospiti un dolce odore di albicocca, nel cortile sedie a forma di cactus (il primo istinto è non sedere sulle spine, ma è solo un attimo). Di rosso, oltre al vino del direttore, soltanto quello dei cuscini.

Per il resto, mille sfumature di fiori e il lilla della bouganville. Tanti i brand che hanno voglia di sostenere chi sta occupando ogni centimetro del Paese. Quest’anno, raccontano, la coda degli sponsor era talmente lunga che hanno dovuto prevedere una selezione all’ingresso. Alla fine l’hanno spuntata Poste italiane, Bmw, Confagricoltura, Ferrovie, Novartis, Aiscat Servizi, Ance, Banca Ifis, Philip Morris Italia, Ntt Data, Maire, Siram Veolia, mentre a gestire l’organizzazione dell’evento è stata chiamata Comin & Partners. A loro, Vespa ha riservato le altre stanze della masseria. Qualche ministro, invece, si è dovuto accontentare degli alberghi in paese, poi dicono che la politica non soffre i poteri forti. […]

Da liberoquotidiano.it il 2 febbraio 2023.

Piccolo inconveniente a Porta a Porta. Bruno Vespa non è riuscito a contenere il dibattito. Il programma di Rai 1 ha trattato, tra i vari temi, quello dei social. E, più in particolare, l'esibizione delle forme femminili su Instagram e Facebook. Ricordando il momento in cui uscirono le prime foto a luci rosse sui giornali americani, il conduttore si è lasciato andare a uno sfogo che è immediatamente diventato virale: "Te**e che sfondavano la copertina. Te**e enormi, gigantesche".

 A far eco al giornalista Manuela Arcuri. Anche lei ospite di Vespa, l'attrice si è detta favorevole alla decisione di mostrarsi così come si è sui social network: "Io sono favorevole all’esposizione. Perché coprire i capezzoli quando il resto del seno passa. Il seno fa parte del nostro corpo". Ma la discussione non ha accennato a finire. Così anche Carmen Russo ha voluto dire la sua.

Questa volta un po' in controtendenza: "La censura è segno di potere e non va bene, ma è necessario buongusto. La stellina o il cerchietto nero attirano di più e involgariscono. Sono segno di cosa sporca e brutta". Finita qui? Neanche per sogno. Vespa ha voluto ricordare come ha vissuto l’avvento dei "giornaletti proibiti": "Ci fu un passo ulteriore dopo il bikini ascellare. I giornali americani avevano te**e che sfondavano la copertina. Te**e di qua, te**e di là. Te**e enormi, anche brutte, esagerate. Gigantesche". Un filmato che ha fatto il giro del web e che ha visto molti utenti chiedersi cosa ne pensi la Rai.

Estratto dell’articolo di Marco Franchi per “il Fatto quotidiano” il 28 gennaio 2023.

[…] “Ma come, una vita di militanza, poi arriva lui e in un batter di ciglio diventa il più ascoltato da Giorgia?”, sono le voci che si levano dal variegato universo dei giornalisti Rai tendenti a destra. Che non sono pochi. Nicola Rao, Angelo Mellone, Paolo Corsini, Paolo Petrecca, Pierluigi Diaco, Angelo Polimeno Bottai, solo per dirne alcuni [...].

 Che ora rimuginano tutti appassionatamente contro Bruno Vespa, diventato il principale consigliere politico di Giorgia Meloni. […]Ruolo che prima si dividevano ex aequo l’ex consigliere Giampaolo Rossi e il giornalista Alessandro Giuli, ora entrambi fuori dall’azienda: il primo sempre sul punto di rientrare e il secondo nominato alla guida del Maxxi.

[…] E invece sembra che la premier, di fronte a questuanti di ogni genere e grado, abbia preferito l’usato sicuro del buon vecchio Bruno. Ormai diventato così potente da decidere da solo anche l’ospitata di Zelensky a Sanremo. La bollinatura di Palazzo Chigi è arrivata con la scelta dell’ad Carlo Fuortes […] di affidargli una striscia informativa in prima serata subito dopo il Tg1 delle 20, lo spazio che un tempo fu del Fatto di Enzo Biagi.  In una fascia, l’access prime time, di enorme ascolto. Così, giusto per sparare un missile terra-aria tra i piedi del Tg2 Post (tanto ormai Sangiuliano non c’è più) e soprattutto di Marco Damilano, conduttore di altra striscia su Rai3. […]

E dunque Vespa sia, nonostante conduca già tre serate a settimana di Porta a Porta […]. Col conduttore abilissimo a sfuggire al famigerato tetto dei 240 mila euro introdotto alla fine del 2016. Quando l’allora dg Antonio Campo Dall’Orto bussò alla sua porta per rimodulare lo stipendio da 1 milione e 900 mila l’anno, si trovò davanti alla seguente obiezione: “Ma quale giornalista, io sono un artista! Porta a Porta non fa solo informazione, ma intrattenimento. E poi io non sono dipendente, ma esterno”. […] Dopo diversi tagli, il contratto di Vespa è stato poi ridotto a 1 milione e 200 e ora a 1 milione. […]

Dagospia il 28 gennaio 2023. RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO 

 Caro Roberto,

mi spiace che riportando l'articolo del Fatto Quotidiano che mi riguarda, abbiate tagliato il riferimento all'identico trattamento usato nei confronti di Giovanni Floris quando era in RAI.

 È ora di chiarire che dai tempi di Biagi tutti i giornalisti che collaborano con le reti hanno lo stesso contratto artistico professionale.  Tutti. Non solo io. Dobbiamo fare l'elenco nominativo? È così difficile stabilirlo una volta per tutte?

Bruno Vespa

Claudio Plazzotta per “Italia Oggi” il 28 dicembre 2022.

La factory libraria di Bruno Vespa ha ormai un calendario e delle strategie commerciali molto consolidate per continuare a vendere decine di migliaia di copie tutti gli anni, a colpo sicuro. Lo schema vuole l'uscita del pezzo forte, il libro di Natale, attorno all'inizio di novembre, pubblicato da Mondadori (prezzo di copertina 20-22 euro). Poi, sempre attorno a quella data, c'è anche l'uscita della riedizione del libro di Natale dell'anno prima, ma con gli Oscar Mondadori, e quindi a costi più contenuti (14-15 euro). Infine, non bisogna dimenticare il saggio primaverile su temi più leggeri, in libreria di solito all'inizio di maggio, pubblicato da Rai libri (19-20 euro).

La routine si ripete anno dopo anno, e vede nello stesso Vespa, professionista instancabile, la migliore macchina promozionale. Nonostante la messa a punto di tre puntate a settimana del programma tv Porta a porta su Rai Uno, infatti, il giornalista ha ancora l'energia, la tigna, la capacità e il network di relazioni per parlare del suo nuovo libro in decine di altre trasmissioni televisive. 

La testata TvBlog si è presa la briga di contare le ultime perfomance: per La grande tempesta, uscito il 4 novembre scorso, Vespa ha iniziato un tour televisivo il 7 novembre con 33 ospitate in sei settimane, di cui 19 nei primi 18 giorni di dicembre. Infaticabile. E con una strategia che, pur tenuto conto dell'asfittico mercato librario italiano, funziona alla grande e che Vespa dispiega ormai con sapienza stagione dopo stagione. 

Il libro Perché Mussolini rovinò l'Italia, uscito nel novembre 2021, ha venduto finora 91.160 copie (dati Gfk recuperati in esclusiva da ItaliaOggi), mentre Quirinale: 12 presidenti tra pubblico e privato, uscito a fine aprile 2021 per Rai libri, è arrivato a 20.046 copie.

Ancora meglio Perché l'Italia amò Mussolini, nelle librerie a novembre 2020, con 151.357 copie vendute, cui sommare pure le 1.619 vendute l'anno dopo nella riedizione Oscar Mondadori. Un po' sotto le aspettative il volume Bellissime!, uscito in luglio (e non come di consueto in aprile-maggio, a causa delle restrizioni Covid) e che si è fermato a 9.414 copie.

Il primo della serie di libri dedicati da Vespa a Mussolini va in distribuzione nel novembre 2019: Perché l'Italia diventò fascista vende ben 119.963 copie. Il saggio di Rai libri dedicato alla Luna e distribuito nella primavera 2019 arriva invece a 12.306 copie.

E, poi, tra i più recenti successi, Rivoluzione, del novembre 2018, con 58.256 copie vendute; Soli al comando, del novembre 2017, con 74.172 copie; C'eravamo tanto amati, del novembre 2016, con 63.951 copie; Donne d'Italia, del novembre 2015, con 65.972 copie e, nello stesso anno, il primaverile La signora dei segreti, scritto a quattro mani con Candida Morvillo per Rizzoli, con 27.286 copie.

Interessante anche notare come la gran parte delle vendite dei volumi natalizi di Bruno Vespa si concentri proprio nel periodo festivo, in concomitanza delle sue maratone televisive, che quindi si rivelano veramente un formidabile strumento di marketing.

E il conteggio di TvBlog (le 33 ospitate tv dal 7 novembre al 18 dicembre) non tiene in considerazione «le 18 puntate di Porta a porta andate in onda nel lasso di tempo osservato, e poi il commento di Vespa alla Prima della Scala con Milly Carlucci e le interviste rilasciate dal giornalista nei tg e nelle varie radio che spesso hanno un canale televisivo dedicato sul digitale terrestre».

I dati relativi alle vendite di Vespa nel 2022 sono ovviamente ancora parziali. Ma, in base alle rilevazioni Gfk fino al 20 dicembre 2022, il libro primaverile di Vespa, Donne al potere (Rai libri), è arrivato a 5.728 copie, mentre il nuovissimo La grande tempesta, quarto capitolo della saga di Vespa su Mussolini (un personaggio storico che funziona ancora tantissimo in libreria, con il milione di copie vendute nel mondo della trilogia M a lui dedicata da Antonio Scurati, e le 90 mila copie del nuovissimo libro di Aldo Cazzullo, Mussolini il capobanda), è a quota 27.521.

Giuseppe Candela per Dagospia il 26 Dicembre 2022.- Ricostruzioni farlocche, dirigenti che hanno già cambiato casacca, esterni che prenotano un posticino. A viale Mazzini il vero potente è già di casa: Bruno Vespa. Il feeling con Giorgia Meloni è totale, i rapporti con la maggioranza ottimi. le quotazioni di Bru-neo sono alle stelle…

Dagoreport del 4 OTTOBRE 2022

E tre! Per ora sono arrivate a ben tre le feste apparecchiate da Bruneo Vespa per celebrare i suoi primi 60 anni in Rai (più vetusto di lui, scomparso Piero Angela, c’è rimasto solo Corrado Augias). Le danze si sono aperte lo scorso 11 settembre, a casa del conduttore di “Porta a Porta”, dove brillava la presenza della lanciatissima Giorgia Meloni, protagonista anche di una comica gaffe.

E’ notoria la passione di Vespa per il vino, che produce con orgoglio nelle terre pugliesi. Quindi davanti ai gentili ospiti (Calenda, Matone, etc.) ha sfoggiato la sua arte di sommelier mettendosi al collo il tastevin, l’aggeggio che serve per degustare la bontà del vino. 

Una volta posata sulla tavola la piccola ciotola in argento, è successo che la Reginetta della Garbatella, inesauribile tabagista, si è accesa una sigaretta e ha scambiato l’argentato tastevin per un miserabile posacenere. A Vespa, davanti a tanto oltraggio, sono entrati in circolo tutti i nei….

Marianna Aprile per Oggi.it il 26 Dicembre 2022.

Lo diceva Neruda che al governo si suda. Ci perdonerà il Maestro Renzo Arbore se ci ispiriamo a uno dei suoi capolavori per chiosare il gran da fare che Giorgia Meloni ha – e avrà – in questi mesi con la Rai. Il giro di poltrone e direzioni che da sempre accompagna, nella tv pubblica, ogni cambio a Palazzo Chigi è ufficialmente iniziato col rimpiazzo alla direzione del Tg2, resa vacante dalla nomina a ministro della Cultura dell’ex direttore Gennaro Sangiuliano.  

Al suo posto è arrivato Nicola Rao, già vicedirettore del Tg1, unico nome proposto al Cda Rai, che quindi ha solo potuto ratificarlo. È solo l’inizio ma ci dice che la presidente del Consiglio sta affrontando la “pratica” Rai esattamente come aveva preconizzato Bruno Vespa in una recente intervista a Oggi: «Che la Rai sia squilibrata a sinistra è un fatto, l’auspicio è che il riequilibrio avvenga con cautela e con persone competenti».

 

Sulla competenza si valuterà dopo che le decisioni saranno prese, ma sulla cautela qualcosa possiamo già dire: la stessa nomina di Rao è avvenuta poco prima che i 3 mesi previsti per il rimpiazzo scadessero, per esempio. Grande cautela c’è anche sulla striscia quotidiana, 5 o 10 minuti al massimo, che l’amministratore delegato Carlo Fuortes vorrebbe affidare proprio a Vespa. Un progetto importante, erede di quel Il Fatto di Enzo Biagi che un altro governo di centrodestra chiuse nel 2002, a seguito del famoso editto Bulgaro di Berlusconi.

SE NE PARLA DA TEMPO – Sulla striscia quotidiana per il conduttore di Porta a Porta si ragiona da tempo e si continuerà a farlo ancora per un po’: il progetto è allo studio ma non imminente. C’è chi dice che ogni decisione sia rimandata a dopo Sanremo, che al momento catalizza ogni sforzo della Rai; e chi sostiene che a rallentarne la realizzazione sia la necessità di farla collimare con altre esigenze e altre aspirazioni. 

Al solito, sono vere entrambe le cose. Tra le aspirazioni da incastrare con la striscia di Vespa ci sono quelle dell’attuale direttrice del Tg1, Monica Maggioni. Da tempo vorrebbe cimentarsi con una trasmissione di attualità politica in seconda serata, una collocazione da tempo saldamente presidiata da Porta a Porta. Se davvero Vespa ereditasse l’autorevole striscia che fu di Biagi, Maggioni potrebbe forse trovare più facilmente spazio. 

Ma, dicevamo, il puzzle è più complesso e intricato di così, e coinvolge anche le direzioni di Tg e reti e persino la poltrona dell’ad Fuortes: sulla carta, l’incarico scade tra più di un anno, ma è impensabile che per iniziare a incidere sulla Rai, come ha fatto chiunque l’abbia preceduta a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni voglia attendere così tanto.  

Le manovre potrebbero quindi cominciare già sotto la gestione Fuortes. Magari con una striscia quotidiana da giustapporre a Il cavallo e la torre, che Marco Damilano conduce, con buoni risultati, ogni sera su Rai3 e che però non contribuisce certo al “riequilibrio” evocato da Vespa.

Dagospia il 26 Dicembre 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Roberto, approfitto del rilancio di ieri di un Dagoreport del 4 ottobre per correggere la notizia secondo cui nella cena per i miei 60 anni in RAI Giorgia Meloni avrebbe scambiato un tastevin da me indossato per un posacenere.

La notizia è sbagliata per tre ragioni. 

1. Non ho mai indossato il tastevin.

2. Nessun sommelier l'ha indossato quella sera. Non era una cena di degustazione e in quelle normali sarebbe stonato.

3. Giorgia Meloni è una signora e non fuma a tavola.

 Grazie per la pubblicazione e tanti carissimi auguri di buon Natale. 

Bruno Vespa

Bruno Vespa: «Subii il fascino di Saddam. Mio figlio Federico? Mi spiace che per lui ci sia un tetto di cristallo». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 25 dicembre 2022.

Il giornalista e i 60 anni in Rai: iniziai in una testata dialettale. Come un idiota lasciai il Tg1 senza chiedere nulla. Io e mia moglie siamo conflittuali ma non potremmo mai fare a meno l’uno dell’altra

Riproponiamo qui una delle interviste più lette del 2022, quella di Candida Morvillo a Bruno Vespa, uscita sul Corriere il 16 ottobre.

Sessant’anni di Rai Bruno Vespa li conta dal primo settembre 1962: «Avevo 18 anni: il primo lavoro, durato sei anni, fu trasmettere due volte al giorno alla sede di Pescara le notizie da L’Aquila, dove c’era anche una grande società dei concerti. Allora, con un vecchio Nagra a manovella, registravo anche interviste per la radio nazionale con Arthur Rubinstein, Arturo Benedetti Michelangeli, Svijatoslav Richter, il giovane e promettente Maurizio Pollini... Ho fatto l’abusivo finché, nel 1968, ci fu il concorso, lo vinsi e, nel ‘69, entrai al Tg».

Aveva cominciato a 16 anni come corrispondente del «Tempo dell’Aquila», come arriva il sacro fuoco del giornalismo?

«Al Circolo del tennis, avevo 15 anni, un pregevole latinista mi propose di collaborare a un giornale dialettale. Non sapevo scrivere in aquilano e composi noiosissimi articoli sui concittadini che avevano dato i nomi alle strade. L’anno dopo, cominciai col Tempo. L’emozione del primo stipendio fu enorme: cinquemila lire»

Quante erano cinquemila lire nel 1960?

«Per me, un miliardo. Ricordo ancora il cassiere del Banco di Napoli che contava i biglietti da mille: vestito, come usava, da lord, col panciotto e i gemelli d’oro. Quell’anno, c’erano le Olimpiadi a Roma e, all’Aquila, si disputavano gare ultraminori, così iniziai a collaborare gratis con Radio Rai. Ogni mezz’ora, dovevo raggiungere un enorme telefono nero, chiamare quello che sarebbe diventato Tutto il calcio minuto per minuto e dire: Ghana 1-Costa Rica 0».

La direzione del Tgl arrivò nel 1990. Momenti topici della carriera?

«Il battesimo del fuoco già pochi mesi dopo l’assunzione. Il 12 dicembre ‘69, ero a Palermo per la strage mafiosa di Viale Lazio, quando dal Tg mi dissero: torna, hanno messo una bomba a Milano a Piazza Fontana. Da lì, annunciai l’arresto di Pietro Valpreda definendolo “il colpevole”, cosa che giustamente mi è stata rinfacciata per decenni. Però, se lei sui giornali dell’epoca trova un “presunto”, le mando un fascio di rose».

E perché se la presero tanto solo con lei?

«In tutti questi anni, se la sono presa con me per le ragioni più disparate. Lì, comunque, poco prima della diretta, ebbi la notizia dell’arresto dal direttore Villy De Luca, andai dal questore Giuseppe Parlato, che si rincantucciò sotto la scrivania, e dissi con l’arroganza di chi ha 25 anni: o adesso o mai più. Mi rispose: mi faccia parlare col ministro. Uscì e anche lui disse: abbiamo arrestato il colpevole. Mi affidarono anche la politica, fatta senza leggere appunti per renderla più discorsiva. Però, ero piuttosto fumantino e, fino al ‘76, mi fu vietato di avvicinarmi alla Dc per paura di grane».

Proprio lei, che fece scalpore ammettendo che la Dc era il suo editore di riferimento?

«Avevo detto che lo era della prima rete, non era un mistero... Il Psi lo era della seconda e il Pci della terza. lo ero la persona con più titoli per fare il direttore del Tgl, ma se Arnaldo Forlani avesse detto “Vespa no”, non lo sarei diventato. Tenga conto, però, che non ho mai avuto un colloquio privato con Forlani, né la tessera Dc né ho mai partecipato a una riunione politica ».

Dunque, questo carattere «fumantino»?

«Nel ‘72, Giovanni Malagodi è al governo con Giulio Andreotti e io vado al congresso del Pli. Lui chiede di non inquadrare le minoranze e io: appena mi assume al partito, ne riparliamo. Ovviamente, detti alle minoranze uno spazio elevatissimo. Poi diventai quirinalista: m’impose Biagio Agnes. Seguivo i viaggi di Giovanni Leone, al cui staff stavo sullo stomaco e, onestamente, credo che avessero ragione: volevano Claudio Angelini, bravissimo giornalista, che era loro amico. Però, siccome i rapporti fra il segretario di Leone, Nino Valentino, e Agnes erano pessimi, Agnes, per fargli dispetto, mise me. Un giorno, tornando dalla Val d’Aosta, trovo un telegramma rosa di Stato. Finalmente, penso, un ringraziamento. Invece, era un cazziatone micidiale di Valentino. Diceva che il presidente se l’era presa perché avevo tagliato un intervento del governatore della Valle d’Aosta. Mi arrabbio come una scimmia e gli scrivo una lettera di questo tenore: tu fai il tuo mestiere, io faccio il mio. Ci fu un chiarimento al Quirinale. Leone non sapeva niente di questa storia».

Altre reazioni fumantine?

«Mariano Rumor, ministro degli Esteri: torna da un viaggio e il suo portavoce mi dà un foglio con le domande. Dissi no, ma alla fine, lessi le domande fuori campo, tornai alla Rai, le tolsi, unii le risposte e uscì una cosa totalmente priva di senso. Rumor se ne scusò moltissimo. Dal 1976, fu il direttore Emilio Rossi ad affidarmi la Dc. Il lancio vero me lo diede l’omicidio di Aldo Moro, purtroppo».

Annunciò lei sia il sequestro che il ritrovamento del corpo.

«Non ci volevo credere: era impensabile che qualcuno avesse fatto violenza a quell’uomo intangibile e l’avesse ucciso. Rimasi in onda dalle 9,30 del mattino alle due di notte. Anche il Pci ci riconobbe il merito di aver tenuto insieme l’Italia. Ugo La Malfa e Giorgio Almirante volevano la pena di morte per i terroristi, ma demmo la sensazione che il Paese tenesse e invece, purtroppo, al vertice, non teneva affatto».

Chi le aveva dato la linea editoriale?

«Nessuno. Ero solo in studio. Mi venne spontanea, mi presi una responsabilità enorme, poi, condivisa col direttore».

Negli anni di piombo, ha mai temuto per la sua incolumità?

«Non l’ho mai raccontato, ma ci fu un episodio negli anni ‘80... Tornavo a casa, pioveva e lasciai l’auto al portiere per portarla in garage. Molto tempo dopo, lui mi confessò d’aver visto due uomini armati, uno aveva detto: non è lui. Il padreterno mi ha messo mano sulla spalla».

Chi c’è fra i suoi incontri memorabili?

«Gianni Agnelli, incontrato una volta all’anno per vent’anni. Telefonavo: verrei a Torino il tal giorno, se è libero. Andavo e mi faceva mille domande: politica, giustizia, terrorismo, Mani Pulite... Nell’80, dopo la marcia dei 40 mila, mi diede un’intervista nonostante i suoi fossero contrari. Il suo attacco a Enrico Berlinguer fu memorabile. Quando lasciò la presidenza a Cesare Romiti, per la prima volta, sembrò subire le domande. E dovetti fare lo slalom per ignorare il tema successione: il figlio Edoardo era ancora vivo, lui era innamorato del nipote Giovannino».

Fra le sue interviste, Saddam Hussein durante la prima guerra del Golfo.

«Il governo non voleva che la facessi e tentò di non mandarla in onda. Fu un’intervista molto dura, eravamo due Paesi virtualmente in guerra e io subii il grandissimo fascino di Saddam».

Papa Wojtyla le telefonò in diretta nel 1998.

«Non se l’aspettava neanche Navarro Valls che era in studio con me. Avevo conosciuto Wojtyla a Cracovia nel 1977. Lamentava che il regime gli facesse mancare perfino la carta per stampare i giornali cattolici. Non ho mai visto una messa come quella che vidi lì. Ho ripensato a quella concentrazione devota facendo la diretta da Leopoli il Venerdì santo scorso: è stato così che ho capito che gli ucraini non si arrenderanno mai».

Mentre Wojtyla le parlava al telefono, lei sembrò commosso.

«È il mio papa. Nel mio studio, alle mie spalle, ho il suo ritratto. A Cracovia, gli avevo detto: non sarebbe ora di avere un papa polacco? Undici mesi dopo ne annunciavo l’elezione...».

Come arriva Porta a Porta?

«Nel ‘95 avevo lasciato la direzione del Tgl senza chiedere e trattare nulla: un idiota assoluto. Una sera, vedo lo spot di una seconda serata di Carmen Lasorella in onda dal lunedì al venerdì. Vado dalla presidente Letizia Moratti e le dico: vuole che me ne vada? Diede tre serate a Carmen e due a me. Venivamo da Samarcanda di Michele Santoro e “vi piace che hanno ammazzato Lima?”. La politica narrata in modo educato era impensabile, ma funzionò».

Mandò in onda Massimo D’Alema che preparava il risotto. Oggi, i politici sono tutti su Instagram fra pane e salame, pizza: lei, allora, che aveva intuito?

«Che erano finiti i tempi del pudore di Berlinguer. Vidi questo stacco fra Prima e Seconda Repubblica che andava spiegato alla gente. Cominciammo a scavare nelle abitudini dei politici, a intervistare i loro compagni di scuola».

I famosi plastici come le vennero in mente?

«Da sempre, i giornali li facevano in due dimensioni. E, anni prima, li aveva fatti in 3D Corrado Augias senza scandalo».

Giulio Andreotti ribattezzò il programma la Terza Camera del Parlamento.

«Diceva: se dico una cosa in Senato, non la sa nessuno, se la dico da te, la sanno tutti».

Lei da che infanzia e famiglia viene?

«Normale, con una mamma bravissima maestra elementare e un padre rappresentante di commercio. Non mi è mai mancato niente e ho sempre frequentato persone più brave di me, per cui, non ho mai provato l’invidia».

Come conosce sua moglie Augusta lannini?

«Comuni amicizie aquilane maturate a Roma, nel ‘71. Si è insinuata nella mia vita mettendo in ordine i miei ritagli di giornale. Discutiamo tutti i giorni, abbiamo caratteri conflittuali, ma nessuno dei due riuscirebbe a fare meno dell’altro».

Chi dà la linea in casa?

«Lei. E anche nella masseria in Puglia».

A proposito di Puglia, come si vincono Tre Bicchieri col vino, facendo un altro mestiere?

«Scegliendo un bravo enologo come Riccardo Cotarella».

È contento che il più grande dei suoi due figli, Federico, faccia il giornalista?

«Mi spiace che per lui ci sia un tetto di cristallo. Temo sia vero ciò che ha scritto Maurizio Costanzo: usando uno pseudonimo, lavorerebbe di più. Eppure, in Rai, i “figli di” non mancano».

Proprio Federico, ha raccontato che, la sera, davanti alla tv, «le fa i grattini sulla pelata perché anche lei ha bisogno di affetto».

«Nessuno sa che sono romanticissimo, affettuoso e, che, ci mancherebbe altro, anch’io ho bisogno di affetto».

Insulti a ruota libera. “Meloni demente”? Quello coi problemi è De Benedetti. Max Del Papa su Nicolaporro.it il 2 Aprile 2023.

Il commendator Carlo De Benedetti dalla confederazione elvetica traccia lo stato clinico di Giorgia Meloni: “È una demente, non ha ottenuto niente e si è messa alla guida di un cacciabombardiere”. Ha parlato Albert Bandura. C’era una volta una filastrocca sul Ciccio bombardiere eccetera, che sarebbe adatta al tipo ma diventa sgradevole, anche iconicamente, e quindi transeat. L’analisi, per definizione lucidissima nell’Ing. Grand Bollett. di Stat., maturava nel quadro di un incontro pubblico con la neosegretaria piddina Schelin sul tema “Perché gli italiani che non vivono in Svizzera devono pagare una patrimoniale bestiale sul modello svizzero (anche per gli italiani che risiedono in Svizzera). Discussione da emigranti, molto tecnica, molto Piddì.

Meloni, dunque, demente: silenzio, parla CDB. Non Tso, attenzione. CDB. Donna Giorgia ha senza dubbio qualche problema di tenuta mentale, ma non la sua: lei fa quello che può, che non necessariamente coincide con quello che vorrebbe (e che vorremmo); quello che sta nelle possibilità del realismo, circondata da una rete di poteri guasti e da un cerchio assai poco magico di tanti de Maledetti che aprono la bocca e regalano perle di futurismo più che arditismo. Comunque sia, più il dannato Pnrr langue nel deserto dei tartari e meglio è per noi tutti: indebitarsi per altri 200 miliardi con cui finanziare uteri in leasing, piste riciclabili, scuole di gender, asili gender, intrugli vaccinali e altre gigacazzate da agenda 2030, questo sì che è insano. Ma vediamo un attimo, a proposito, chi è il lucidissimo, terso CDB.

Carlo De Benedetti è uno dei grandi capitalisti all’italiana, di quelli che in pianura Padana piace chiamare affettuosamente “buletèr”, bollettari, per dire forte propensione al rischio, tanto le conseguenze le pagano tutti tranne lui. Insomma uno votato a dissipazione sicura, da ripianare con i soldi dei correntisti e in generale dei cittadini. Un uomo chiamato spezzatino: dove passa, lascia lacerti. Cir, Olivetti, Sorgenia, SME, lui arriva, smembra, crea holding cubiste e se ne va. Non gli riuscì in Fiat, et pour cause, ma dal meteorico passaggio cavò la solita paccata di miliardi. Poi gli spezzatini diventano carne di porco, citofonare Telecom, quindi Tim, che ancora si porta in pancia la distribuzione strategica. A spese della collettività, ¢a va sans dire. Il tutto, sempre, con un piccolo aiuto procedurale dagli amici giudici, perché va così e chi ha fatto il militare a Cuneo lo sa. Pure la famiglia, ha spezzettato. Per non dire di Repubblica, lacerata a foglio parrocchiale dell’Anpi.

Ma a CDB, lucido come canna di fucile, che gli frega? Lui sta sullo yacht ormeggiato a Lugano en attendant Lilli Gruber. Nel frattempo ha fondato Domani, affidandolo per giunta a Stefano Feltri: e quella coi problemi sarebbe Giorgia? Oggi il chirurgico, analistico CDB rivolge il bacio della morte ad Elly, giudicata quanto di meglio sul fronte psico attitudinale. Però con i 3 passaporti e le ville di famiglia. Nel meraviglioso mondo di Elly e Cibidì si fanno cose, espropriano case, impongono patrimoniali punitive, rivoluzioni verdi bile. Hanno preso una sardina viziata da centro sociale per sputare meglio sui poveri ma onesti. Questo sì che è lucido, netto, logico. Come un laser, proprio. Cibidì, che spezzatì: vedrete che il Pd, tessera n. 1 all’ing. Lucid. Psich. Grand. Industrial., farà la fine di tutto il resto, e a ripianare saranno i piddini (ben gli starà). Max Del Papa, 2 aprile 2023

Paola Ferrari all’attacco di De Benedetti: «Dal nonno dei miei figli parole disgustose su Meloni». Lorenzo Salvia il 2 Aprile 2023 su Il Corriere della Sera.

L’editore di «Domani» critica la presidente del consiglio: «Questa è una destra incompetente». La giornalista tv, che ne ha sposato il figlio: «Mi dissocio totalmente da quello che ha detto rivolto alla premier. L’avversario politico va rispettato»

«Sull’immigrazione non è successo nulla al Consiglio europeo e questo mette l’Italia in posizione dei debolezza: vista dalla parte degli altri Paesi europei, vuol dire che basta darle niente che lei è soddisfatta. Questo dimostra demenza». Carlo De Benedetti, editore del quotidiano Domani, parlava così ieri della presidente del consiglio Giorgia Meloni , definendola «una figurina».

Nel corso di un dibattito con la segreteria del Pd Elly Schlein , organizzato proprio da Domani, ha anche aggiunto rivolto al governo e alla destra: «Questi sono, prima di tutto, degli incompetenti. Poi sono in gran parte degli ignoranti. Poi sono in gran parte delle persone che non capiscono quello che dicono».

Il giorno dopo arriva la risposta della giornalista televisiva Paola Ferrari, che ha sposato il figlio di Carlo De Benedetti, Marco: «Voglio prendere totalmente le distanze da quello che è stato detto dall’ingegner Carlo De Benedetti, che è il nonno dei miei figli, perché sono parole estremamente gravi che mi hanno profondamente turbato, dette nei confronti del presidente del consiglio e in modo particolare, ma non solo, di una donna».

Spiega ancora la giornalista: «Con la famiglia di mio marito ho un rapporto molto distante da parecchi anni, ma certe cose mi feriscono . L’avversario politico va sempre rispettato».

Estratto dell'articolo di Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 20 marzo 2023.

Siamo un Paese di vecchi e malato di continuismo, per cambiare il quale occorre una nuova Radicalità, come da titolo del nuovo libro di Carlo De Benedetti, uno che va per i 90 ed è dagli anni ’70 il faccione bofonchiante di quella classe padronale dell’Italia capitalista che con il suo dilettantismo politico e l’avidità di ricchezza ha falcidiato l’Italia, facendo dell’intreccio malato tra finanza e informazione- ieri come oggi e Domani- la ricetta di un potere che ha scavalcato il secolo e due Repubbliche. Però dice che «Elly Schlein è giovane e ha tutte le doti per fare bene».

 Che è il bacio della morte – offerto da un seducente Mefistofele - per la sinistra che sogna una grande Ztl eco -socialista, città 30 all’ora e turbo -liberismo, diritti individuali e doveri collettivi, pubbliche rivendicazioni e poi tutti nel board della banca privata dei Rothschild. Ah: il libro (giusto per dire gli attorcigliati sentieri politico -editoriali di quest’Italia di affari&consorterie) è pubblicato dalla Solferino di Urbano Cairo, uno che De Benedetti reputa un amico ma considera un coglione, e intanto però, per smarkettarlo in tv, fa il giro delLa7 chiese: Lilli, Giletti, Piazzapulita e la coscienza sporca di chi dice: «Pago le tasse in Svizzera ma faccio beneficenza in Italia».

Italiano con due passaporti, residenza civile a Dogliani (Cuneo, perché siamo tutti uomini di mondo) e domicilio fiscale tra Lugano e Sankt Moritz (perché chi non ha uno chalet in Engadina?), case fra il Piemonte, Roma, buen retiro a Marbella e quartierino a Montecarlo, propaganda arcobaleno ma maggiordomi di colore, una sontuosa collezione di orologi, «soprattutto Patek Philippe e vecchi Rolex», come tutti i veri comunisti, Carlo De Benedetti è il vero showrunner della dynasty del capitalismo italiano colpito dalla sindrome di Buddenbrook, un infinito gioco d’azzardo, saltando dall’industria alla finanza e viceversa, senza mai un finale all’altezza del prologo. Sempre però difendendo la sacralità del lavoro, degli altri, e del profitto, il proprio.

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Fiuto negli affari, gusto dell’azzardo, doppiogiochismi finanziari, anguillismo giudiziario e un debole per i poteri forti. Come dice chi lo conosce bene: quando «Attila» vede un affare lascia da parte qualsiasi forma di galateo e diventa un predatore. Carlito’s way, alla maniera di De Benedetti.

Domanda. Perché si danno alla politica tutte le colpe di questo debenedetto Bel Paese ma sulle responsabilità dei moschettieri del nostro capitalismo persevera invece una ruffiana reticenza?

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 Carlo De Benedetti ha sempre avuto un’ossessione: costruire - e distruggere - in una generazione quello che altri hanno creato in due, tre, quattro...

Ritenendosi successore di Adriano Olivetti senza esserlo.

Con l’ambizione di apparire il contraltare di Agnelli credendoci. E finendo con l’assomigliare a Berlusconi – soldi, politica, donne e giornali –, solo meno simpatico e più di sinistra.

(...) Nel 1976 arriva come amministratore delegato in Fiat, dove lo chiamavano «Tigre» per l’aggressività e il licenziamento facile, ma resta cento giorni. Lui, a posteriori, si giustificò: «Non si può costruire auto con dei coglioni». E Umberto Agnelli rispose: «L’unico suo lascito è il ristorante per i manager, che abbiamo chiamato Il resto del Carlino».

 Il resto, è Storia. Arriva in Olivetti nel ’78 trasformandola da azienda meccanica in elettronica, evolvendola in Omnitel e uscendone nel ’97. Après nous, le déluge. La abbandona moribonda, e dietro di sé le macerie.

 Poi trionfi e cadute. Lo schianto contro la Société Générale de Belgique. Il coinvolgimento nella bancarotta del Banco Ambrosiano. L’epica ed edipica guerra di Segrate per il controllo della Mondadori, persa. Lo scandalo di Poste italiane e la carcerazione-lampo per Mani Pulite. I giorni neri di Sorgenia e poi quelli rossi di Repubblica, il giornale-partito che guida la ventennale crociata antiberlusconiana; l’amore-odio con Eugenio Scalfari (del quale poi disse «Gli ho dato un pacco di miliardi, è un ingrato»), il gruppo Gedi regalato dai figli a John Elkann («Come editore è pessimo. Repubblica ormai è un giornale distrutto»), però poi fonda Domani, un Foglio per principianti, quando per l’intellighenzia cambiare Ezio Mauro con Stefano Feltri sarebbe stato più umiliante che passare da Draghi alla Meloni.

Cose che Carlo De Benedetti detesta: la Meloni; i sindacati; la Consob; Mps; il ricordo di Cuccia, ma anche quello di Craxi; l’amianto (ma oggi adora il green); Prodi; il ragionier Colaninno; Marco Tronchetti Provera; le diseguaglianze sociali (no, dài: questa è una cazzata). Di sicuro, i tre figli.

Cose che Carlo De Benedetti adora: le privatizzazioni; le plusvalenze; giocare a Risiko, ma con le aziende invece che con i carri armatini; la pasta al dente Buitoni; i Baci Perugina («Buoniiii!»); la patrimoniale (stiamo scherzando, dài...); battere bandiera delle Cayman; la Sardegna, la fig*; raccontare barzellette sugli ebrei («Te l’ho detto che è un Berlusconi di sinistra»); la serie tv Succession; il Corviglia Ski Club di Sankt Moritz; la frase «Le élite hanno fallito»; i vigneti, da cui lo slogan «falce&Brunello»; farsi intervistare da Lilli.

Marinaio (sullo yacht con cui ha fatto il giro del mondo due volte con la moglie, i Lerner, i Rampini, le Gruber, i lecchini e le madame milanesi), ex alpino (soldato semplice), scalatore (finanziario)... le auto, l’informatica, l’energia, i telefonini, il business immobiliare... quante cose, e come passa il tempo... L’Olivetti è sparita, Repubblica non è più sua, coi figli ha litigato, Scalfari se n’è andato (dopo che fece in tempo a dire che preferiva Berlusconi a Di Maio) e De Benedetti si è ridotto a tifare Elly Schlein. E potremmo continuare...

«Ah, no! Navuma basta».

Dalla rubrica delle lettere di “Repubblica” l’11 marzo 2023

Caro Merlo, da lettore di Repubblica sin dalla fondazione, mi sono sentito offeso, disorientato e umiliato dalle parole dell’ingegner De Benedetti nei confronti di Repubblica , pronunciate a Piazza Pulita . Fanno seguito alle volgari parole che nel 2018 pronunciò dalla Gruber contro Eugenio Scalfari. A quelle volgarità seguì la replica del direttore Calabresi e la sua intervista a Scalfari. Perché questo rancore, questa mancanza di signorilità? Non dovrebbe prendersela con i suoi figli che gli vendettero, a sua insaputa, quel che lui gli aveva regalato?

Pasquale Regano - Andria

Risposta di Francesco Merlo

Ho ricevuto diverse lettere su Carlo De Benedetti e ho scelto la sua anche perché rievoca una mia intervista a Eugenio Scalfari che, sullo stesso argomento, fu un momento di rara allegria. Cominciava così: “Caro Eugenio, sei rimbambito?”. E lui: “Sono arrivato a un’età, tra i novanta e i cento, che non è più quella dei vecchi né dei molto vecchi, ma quella dei vegliardi. Spesso sono rimbambiti, ma talvolta sono ancora più lucidi degli altri perché vedono di più e meglio. A volte sono bambini, altre volte sono saggi e tra le cose che vedono meglio ci sono i rancori e le acidità. I vegliardi sanno riconoscerli e, se è il caso, anche aggirarli”.

 Non ho mai fatto rileggere a nessuno il testo di un’intervista ed Eugenio non me lo chiese. Fu pubblicata il 18 gennaio 2018. Finiva così: “De Benedetti parla di matrimonio monogamico. Spiega che quello con Repubblica è indissolubile, dice che ama ancora Repubblica e che l’amerà per sempre”. E Scalfari: “La ama, ma vuole liberarsene. La ama come quegli ex che provano a sfregiare la donna che hanno amato male e che non amano più”.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” il 19 febbraio 2023.

L’ex archivista dell’Espresso e della Repubblica, la sessantacinquenne romana Anna Piludu, indagata dalla Procura di Roma per concorso in truffa aggravata ai danni dello Stato, non è superstiziosa: «Per me il fato non c’entra nulla. Nella vicenda che mi coinvolge ci sono precise responsabilità».

 Fatto sta che all’ex dipendente del gruppo Gedi, prepensionata nel 2010, venerdì 17 febbraio è arrivata una mazzata: l’Inps, dopo un accertamento che aveva già portato alla revoca «in autotutela» dell’erogazione della sua pensione, le ha chiesto di restituire 235.332,57 euro entro venerdì 17 marzo. Ci vuole una bella razionalità per non maledire la data che i latini consideravano portatrice di sventure.

Per chi non se lo ricordasse stiamo parlando dell’inchiesta che coinvolge 101 (in gran parte ex) dipendenti e cinque società del gruppo editoriale Gedi (che pubblica tra gli altri i quotidiani La Repubblica, La Stampa e Il Secolo XIX), per una presunta frode ai danni dell’Inps. La holding nel dicembre 2021 è stata oggetto di un sequestro preventivo da 38,9 milioni di euro, equivalente all’«illecito risparmio dei costi del personale» realizzato sino a quella data dal gruppo attraverso una manovra che avrebbe causato all’Inps un danno da 22,2 milioni di euro, cifra che non tiene conto delle presunte illecite percezioni di assegni per quasi tutto il 2022.

Il computo degli indagati comprende 80 prepensionati considerati senza titoli (compresi 16 dirigenti), 17 manager accusati di truffa, sei sindacalisti ritenuti complici dell’oliato sistema, due funzionari Inps tacciati di infedeltà e altre due figure minori. Quattro indagati hanno ricoperto o ricoprono ruoli di spicco nel gruppo. Il nome più importante è quello dell’ex amministratore delegato Monica Mondardini, oggi al vertice della Cir della famiglia De Benedetti all’epoca dei fatti contestati proprietaria anche di Gedi.

 Ci sono poi il capo delle risorse umane Roberto Moro, il suo vecchio vice Romeo Marrocchio (poi passato al Sole 24 ore) e il direttore generale della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi. Per poter ottenere i vantaggi previdenziali le frodi sarebbero state fondamentalmente di quattro tipi: dai fittizi demansionamenti di dirigenti agli illeciti riscatti di annualità (a spese dell’azienda), dall’utilizzo come collaboratori di dipendenti prepensionati ai trasferimenti (solo a tavolino) di personale. La Piludu ha ricevuto l’avviso di chiusura delle indagini a settembre, poi, ai primi di ottobre, ha avuto la notizia dello storno dell’assegno previdenziale.

 Adesso è arrivata l’ufficialità: per l’Inps la pensione percepita dalla donna era «una prestazione indebita per mancanza del requisito pensionistico». Infatti la dirigente della filiale Inps dell’Eur Maria Rosa Riso ha informato la sfortunata ex lavoratrice che «a seguito di verifiche è emerso» che la Piludu «ha ricevuto per il periodo dall’1 agosto 2010 al 30 settembre 2022 un pagamento non dovuto sulla pensione».

A saltare all’occhio è che stiamo parlando di un fascicolo penale aperto nel 2018 e per cui l’avviso di chiusura delle indagini è partito solo nella tarda primavera di un anno fa.

 La Procura di Roma […] in questo caso non ha ancora chiesto il rinvio a giudizio per i destinatari dell’avviso, né è ancora stata fissata la data dell’udienza preliminare. La sensazione, magari sbagliata, è che a Piazzale Clodio non abbiano particolare fretta di mettere alle strette un gruppo editoriale che secondo il coordinamento dei comitati di redazione potrebbe essere sul mercato e che si è sempre dimostrato pronto a cantare le gesta dei magistrati inquirenti.

 […]   Come detto, alla Piludu è stata notificata la richiesta di risarcimento immediata: «Vogliono indietro dieci anni di pensione come se in questi anni quei soldi non mi fossero serviti per vivere» si lamenta la donna. Nella lettera si legge che «il versamento può essere effettuato online sul sito www.inps.it […] utilizzando la modalità pagamento online pagoPa» o «tramite l’home banking». Il tutto entro trenta giorni dalla notifica.

 Poi la Riso, bontà sua, informa la Piludu che «ha facoltà di proporre ricorso amministrativo» entro 90 giorni. «Di certo farò ricorso. Penso che prima debbano essere accertate le responsabilità di ognuno» […]. […] Agli atti […] sono stati depositati documenti con firme da lei non riconosciute. «Qui ci sono colpe ben precise e non sono le mie» ribadisce la Piludu. E di chi sarebbero? «Degli autori dentro a Gedi di questa truffa, dei sindacati e dell’Inps che non ha controllato perché implicata ad alti livelli. Non può essere solo responsabilità di due impiegati dell’istituto previdenziale che ha ammesso di aver fatto negli anni due controlli su quei prepensionamenti e di non aver trovato nulla di irregolare. C’è poi la sicurezza dei dirigenti Gedi che sostengono di non avere nulla da temere».

[…] Quanto sta succedendo alla Piludu è già accaduto a Enrico Battistini, 65 anni, ex poligrafico addetto, tra l’altro, all’impaginazione della Repubblica e degli altri giornali del gruppo. L’uomo ha un’invalidità civile riconosciuta del 70 per cento e nell’autunno scorso, dalla sera alla mattina, si è ritrovato senza pensione. A Battistini l’Inps ha scritto per chiedere la restituzione in un’unica soluzione di 263.858,59 euro, l’equivalente degli assegni versati dall’ente previdenziale a partire dal gennaio 2013. Somme che l’ex poligrafico, contattato ieri dalla Verità, non è in grado di rendere. […]

L'ingegnere dimentica le sue responsabilità. La memoria corta e ipocrita di Carlo De Benedetti. Michele Prospero su Il Riformista il 14 Marzo 2023

Radicalità va cercando. L’ingegner De Benedetti taglia con un rasoio molto affilato i partiti e i sindacati, da sempre per lui una vil razza dannata. È stata soprattutto loro la colpa della deriva dell’economia italiana, dice. Il Pd è solo “un partito di baroni imbullonati” che il popolo disilluso ha prima tradito e poi deciso di salvare con le primarie in un gesto di rivolta contro gli orribili apparati. Il sindacato è anch’esso un sepolcro imbiancato responsabile della diseguaglianza, della fuga dei cittadini dalla politica, della precarietà.

Si è quasi per magia ricomposta, in questi giorni di lunghi festeggiamenti per il Nazareno risanato, la coppia che negli anni ’80 sognava di abbattere l’economia mista. Il Professore e l’Ingegnere si ritrovano infatti di nuovo insieme, stavolta però sotto le bandiere della radicalità come manifesto per il nuovo Pd. Quarant’anni fa il loro incontro era nato sotto ben altre stelle. Prodi, in veste di presidente dell’Iri, cercava di procedere verso la privatizzazione dello Sme come segno di un sicuro mutamento di fase. I critici immaginavano che il preferito dalla svolta potesse essere proprio l’Ingegnere. Su certe opzioni di politica industriale nacque, in ogni caso, lo scontro duro con Craxi. Il leader del garofano delle ondate di privatizzazione non voleva saperne. E comunque esigeva che allo Stato rimanesse in dotazione il 50% delle quote azionarie per conservare un chiaro potere di indirizzo e di controllo.

I suoi uomini nell’Iri non solo osteggiavano la svendita ai privati del gigantesco apparato pubblico collocato in dismissione, ma proponevano addirittura di ampliare la presenza statale nei settori strategici del software “dove l’Italia era rimasta indietro, rafforzando la Finsiel pubblica con l’acquisto della Ois, un’azienda del gruppo Olivetti” (S. Colarizi, Passatopresente, Laterza, 2022). L’irrilevanza ormai cronicizzata dell’Italia nel campo dell’innovazione e dell’informatica è riconducibile anche alle ubriacature privatistiche assaporate quando il ministro Carli proponeva, con il soccorso del vincolo esterno, una ritirata generale del pubblico. Le scelte politiche e imprenditoriali dei primi anni ’90 hanno ucciso un arrugginito (anche per via dei cosiddetti “oneri impropri”) modello di sviluppo, senza però riuscire a proporne un altro più adatto al ciclo mondiale del neoliberismo. Le colpe di una politica travolta dalla magistratura, e spiazzata nel suo ruolo essenziale di progettazione di un nuovo governo dell’economia, sono arcinote. Sulle responsabilità specifiche dei capitani storici del capitalismo italiano continua invece una certa reticenza.

Eppure il quadro della inadeguatezza del padronato nel gestire la fase della mondializzazione è del tutto trasparente. Nei primi anni Novanta “in Italia erano entrate in sofferenza le industrie della chimica, della gomma e dell’informatica di cui era stata fiore all’occhiello l’Olivetti di De Benedetti, alle prese con settemila esuberi. A determinare questa situazione aveva concorso anche il fallimento degli obiettivi internazionali che De Benedetti si era posto – un accordo con l’Att (American Telephone and Telegraph) e il controllo della Société Générale de Belgique. Non era stato il solo imprenditore a non raggiungere la meta dell’espansione sui mercati esteri: anche Pirelli aveva subìto una sconfitta nel tentativo di assumere il controllo della Continental; la Fiat non era riuscita a stringere accordi prima con la Ford poi con la Chrysler” (Colarizi, op. cit.).

La decapitazione dei vertici delle forze politiche affidava alle imprese, protagoniste in prima fila delle bordate antipartitocratiche, un’assoluta sovranità nel gestire le imprevedibili parabole economiche, ma i risultati dell’autogoverno degli industriali non sono apparsi brillanti. Alle privatizzazioni seguirono affannose ricerche di partner esteri e soprattutto l’invocazione di compratori anche al ribasso per acquisire aziende decotte. Il passaggio delle imprese sotto il controllo della direzione centrale situata all’estero inibiva l’innovazione tecnologica, marginalizzava la produzione industriale. È stato osservato che “il complesso di queste operazioni di controllo del capitale straniero conduceva l’industria italiana ad abbandonare gradualmente i settori tecnologicamente d’avanguardia (elettronica, nucleare, chimica fine, farmaceutica) per rifugiarsi nei settori meno avanzati” (A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana, Bollati Boringhieri). In sofferenza nei mercati, l’unica potenza di interdizione che le grandi industrie in ritirata sprigionarono fu quella verso le procure. L’evviva della stampa ad ogni tintinnar delle manette si concedeva sin quando nelle retate finivano i “cinghiali” dei partiti. Non appena però i cancelli delle patrie galere si aprivano per i signori del capitale, le grandi famiglie, forti questa volta del sostegno dei giornali (di loro proprietà), avevano le risorse per uscire presto dai guai.

Simona Colarizi ricorda in questi termini alcuni passaggi di quegli anni: “Nel novembre 1993 De Benedetti ottenne subito gli arresti domiciliari dopo una sola notte a Regina Coeli, naturalmente previa piena confessione a Di Pietro di reati compiuti nelle vesti di impotente concusso. Agnelli non era mai stato toccato, e per avere l’immunità a Romiti erano bastati il suo commovente pentimento davanti al cardinale arcivescovo di Milano e tre ore di intenso colloquio col pool in Questura, dove era arrivato in elicottero, per rilasciare una dichiarazione spontanea”. Fa bene De Benedetti a rammentare nel suo saggio-manifesto le carenze della politica, per colpa delle quali “un intero popolo è rimasto solo”. Andrebbe però valutato anche l’impatto non meno devastante che, nell’emersione della solitudine del lavoro al tempo della globalizzazione, ebbero le fatali operazioni che videro le imprese occupare una postazione centrale nella costruzione di un capitalismo antipolitico.

Mentre in Francia o in Germania il sistema dell’economia, nelle fasi di innovazione accelerata, contava sul ruolo regolativo e costruttivo del pubblico per un atterraggio più morbido entro le dinamiche mondiali dei capitali e delle reti della finanza, a Roma le imprese giocavano le loro carte nel rigonfiare le grandi ondate dell’antipolitica. Presentavano la caccia grossa ai partiti e alla “casta” come il formidabile shock ciclicamente indispensabile per rianimare la mortifera azienda Italia. Ma già nel 1996 il destino delle imprese di De Benedetti nell’informatica e nella telefonia era segnato, la Fiat arrancava sotto le grinfie della General Motors e nel panorama economico rimanevano solo “tre «campioni nazionali» semipubblici (come l’Eni, l’Enel e la Finmeccanica). Troppo poco per navigare nei mari alti del mercato globale” (V. Castronovo, Storia economica d’Italia, Einaudi).

Le imprese senza Stato, in un tempo che mostrava la propagazione di variegati capitalismi politici, hanno visto un recupero di connessioni con il potere nelle forme anomale del berlusconismo (l’impresa che si fa Stato) o negli esercizi di influenza di apparati economico-mediatici nella determinazione delle leadership e delle specifiche politiche della sinistra. Emblematica di questa eterodirezione è certamente la svolta dell’agosto del 2000, quando in “un incontro riservato svoltosi in Sardegna tra il segretario dei Ds Veltroni, quello dei democratici e popolari prodiani e l’editore Carlo De Benedetti” si accantonò la candidatura di Amato, “macchiato” dal passato socialista, e fu scelto Rutelli come leader dell’Ulivo (N. Tranfaglia, La transizione italiana, Milano, 2003). Anche nell’estate del 2012 l’Ingegnere entrò in maniera significativa nelle dinamiche interne al Partito democratico. Promise di interrompere il fuoco quotidiano di Repubblica e L’Espresso contro Bersani, preso di mira per una presunta carenza di dono carismatico al cospetto di un Vendola allora molto sponsorizzato dalle firme più autorevoli del gruppo editoriale, in cambio di un semplice ritocco dello statuto del Pd, un codicillo per consentire a un giovane sindaco toscano di partecipare alle primarie di coalizione.

Quanto alle politiche pubbliche e alle linee di diritto del lavoro varate nella Seconda Repubblica, De Benedetti imputa alla sinistra e ai sindacati l’adozione di scelte nuoviste, nel complesso tragiche, che “si sono trasformate in boomerang” diffondendo una irrimediabile alienazione politica in vaste fasce sociali. La denuncia della svalorizzazione del lavoro, dei costi delle delocalizzazioni, degli effetti negativi della drastica riduzione del potere contrattuale dei grandi sindacati è molto forte nei toni. L’Ingegnere afferma che “un paese che si regge su costo basso del lavoro, niente investimenti e scarsa produttività è un paese che vive di espedienti, senza solide basi economiche, esposto a ogni crisi. L’ingiustizia è anche antieconomica”. Poiché lo scritto di De Benedetti affonda il coltello sulla pelle viva dei partiti e dei sindacati, imputando loro una sostanziale incapacità nel contrastare “la svalutazione del lavoro e la stagnazione della produttività”, corre allora l’obbligo di formulare una domanda.

È vero, come si legge nel libro, che in questi anni “non solo il sindacato non si è adeguato alle nuove forme contrattuali, lasciando senza tutele intere categorie di lavoratori perlopiù giovani, a tempo determinato, a chiamata, a progetto e altro; non ha nemmeno saputo tutelare gli interessi dei suoi interlocutori tradizionali, la massa dei lavoratori dipendenti”. Però la netta denuncia delle tendenze dissolutive di un capitalismo della precarietà e delle esclusioni si rivela in questo caso radicale quasi quanto il vuoto di memoria. De Benedetti ha infatti smarrito il filo di momenti salienti della storia recente quando se la prende con gli attori politici che spesso lo hanno persino ascoltato quale imprescindibile oracolo nel concepimento delle loro legislazioni ostili al lavoro e causa non irrilevante della fuga degli operai e dei precari dalla sinistra politica.

Sul Sole 24 ore dell’11 gennaio 2018 si possono leggere queste parole lapidarie, quasi la confessione, agli occhi di un novello soldato della critica intransigente, di un grave reato politico-sindacale: “A Renzi io dicevo che lui doveva toccare, per primo, il problema lavoro e il Jobs Act – qui lo dico senza vanto, anche perché non mi date una medaglia – gliel’ho suggerito io”. Indovini, Ingegnere: chi ha pronunciato queste frasi da medaglia d’oro nella corsa alla Radicalità? Michele Prospero

Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 16 marzo 2022.

Il tribunale di Cuneo ha assolto Carlo De Benedetti dall'accusa di diffamazione nei confronti di Matteo Salvini. I fatti oggetto del processo risalgono al maggio 2018. L'editore partecipò a un dibattito tenutosi a Dogliani, nel Cuneese, al Festival della Tv e dei Nuovi Media. 

Commentando la situazione politica del momento, De Benedetti parlò anche del leader leghista definendolo così: «Il peggio. Antisemita e xenofobo», nonché «antieuropeo e finanziato da Putin». Salvini si sentì diffamato da questi giudizi e presentò denuncia. Dopo quasi quattro anni è arrivata la sentenza di assoluzione per De Benedetti.

Il sostituto procuratore Attilio Offman nella sua requisitoria aveva definito le affermazioni dell'editore «un giudizio di valore senza dubbio infamante», e aveva chiesto la condanna dell'imputato a 800 euro di multa. 

Il legale di Salvini Claudia Eccher aveva parlato invece di affermazioni «fuorvianti, e danneggianti, soprattutto perché provenienti da uno dei principali editori italiani» e aveva chiesto un risarcimento del danno di 100mila euro. Di tutt' altro avviso la difesa dell'imputato, rappresentata dagli avvocati Marco Ivaldi e Elisabetta Rubini. Secondo i legali l'oggetto del processo «non era una critica a Salvini come persona, ma come politico» e quindi De Benedetti doveva essere «libero di esercitare quella critica politica a un esponente politico».

Una ricostruzione condivisa dal giudice Emanuela Dufour che ha assolto l'ingegnere perché il fatto non costituisce reato. «Dare dell'antisemita a Salvini è una infamia inaccettabile, come peraltro condiviso anche dal pm, visto che la locuzione ha un significato preciso e non è equivocabile», dichiara il legale di Salvini. 

«La sentenza meriterà, e lo diciamo fin da ora, appello. È una sentenza politica», prosegue l'avvocato Claudia Eccher, «ed è potenzialmente pericolosa: può indurre chiunque ad adottare i medesimi comportamenti emulatori e diffamatori nei confronti di un qualsivoglia esponente politico tenuto conto che un tribunale italiano non ha ritenuto l'episodio grave e diffamatorio».

 Sempre ieri si è venuto a sapere che lo stesso Salvini andrà a processo il prossimo 9 giugno, accusato di diffamazione aggravata nei confronti di Carola Rackete, l'ex comandante della Sea Watch 3, perché, tra giugno e luglio del 2019, avrebbe offeso «la reputazione» della giovane, attraverso dirette Facebook e post su Twitter, con frasi come «quella sbruffoncella di questa comandante che fa politica sulla pelle di qualche decina di migranti», «criminale tedesca», «ricca tedesca fuorilegge», «ricca e viziata comunista».

La Procura di Milano, dopo aver disposto la citazione diretta a giudizio per l'ex ministro dell'Interno, difeso sempre dall'avvocato Eccher, ha da poco notificato la data di inizio del processo, davanti alla quarta sezione penale, nel quale Rackete è parte civile, a seguito della denuncia, rappresentata dall'avvocato Alessandro Gamberini.

Nei mesi scorsi, il gip di Milano Sara Cipolla, accogliendo la richiesta del pm Giancarla Serafini, aveva disposto, invece, l'archiviazione dell'accusa di istigazione a delinquere contestata sempre a Salvini dopo la denuncia della giovane. Non è finita. Perché il capitano è finito anche in un articolo fake, girato sui social, dove inviterebbe a investire su presunti fondi in bitcoin. Una vera e propria truffa rilanciata da profili hackerati. Sulla vicenda lo staff del leader della Lega ha fatto sapere di aver messo al lavoro i propri legali per tutelare l'immagine salviniana.

L'Annuncio termina tra 15s. Se non è reato dire "Salvini antisemita". Vittorio Macioce il 16 Marzo 2022 su Il Giornale.

La dignità di una persona non vale neppure 800 euro. Se ti chiamano antisemita, e non lo sei, non sei stato soltanto diffamato, ma ti disegnano sulla coscienza una meschinità, un marchio infame, che non ti appartiene.  

La dignità di una persona non vale neppure 800 euro. Se ti chiamano antisemita, e non lo sei, non sei stato soltanto diffamato, ma ti disegnano sulla coscienza una meschinità, un marchio infame, che non ti appartiene. Ti deformano. Ti cancellano. Non sei più tu. Non importa chi sei o cosa fai, ma prima di sputare una sentenza del genere dovresti avere una prova inconfutabile, una certezza pressoché assoluta. È qualcosa che va oltre l'insulto. È una condanna pubblica che si basa sul nulla. Se ti danno dell'antisemita e non lo sei chi lo fa ne paga le conseguenze. Questo non vale se chi subisce l'infamia si chiama Matteo Salvini.

La storia è questa. È il maggio 2018. Carlo De Benedetti è ospita del Festival della Tv di Dogliani, nella Langhe, in provincia di Cuneo. Lo intervista Lilli Gruber. Il discorso cade su Salvini e l'imprenditore piemontese non si limita a un giudizio politico, ma è un fiume in piena di livore e disprezzo. Non si ferma e passa il limite. «Salvini? È il peggio. Antisemita, xenofobo e antieuropeo». Non ha dubbi. Non spreca un forse. Non c'è un ragionamento. È l'invettiva di chi sa che in fondo colpire Salvini non è reato. La platea applaude.

Si va in tribunale. L'accusa è diffamazione. Gli avvocati di Salvini chiedono un risarcimento di 100mila euro. Le ingiurie arrivano da uno dei più noti editori italiani. Non è questo comunque il punto. Non sono i soldi. È che si possono dire tante cose di Salvini, ma che sia antisemita davvero no. È uno che è andato al confine con il Libano per manifestare contro Hezbollah e ha più volte denunciato il ritorno dell'odio verso gli ebrei che si respira anche in Europa. La sua politica estera è stata sempre filo israeliana. Non è possibile trovare una sola parola contro gli ebrei. Quella di De Benedetti è un'esplosione di odio, ma non è un buon alibi per non riconoscere la diffamazione. La pena oltretutto è simbolica. Il pubblico ministero chiede un risarcimento di 800 euro.

Il tribunale di Cuneo invece ieri lo ha assolto. Non c'è diffamazione. Non si conoscono ancora le motivazioni della sentenza, ma è stata presa per buona la tesi della difesa. De Benedetti non ha insultato Salvini in quanto uomo, ma come politico. Non c'è nulla di personale. È simbolico. È una critica alla sua politica. È come dire di Draghi che è un anti atlantista, solo che l'infamia è comunque più grave. Non è vero, ma è politica. Solo che la sentenza di Cuneo ha dal punto di vista logico delle conseguenze non da poco. Se definire Salvini antisemita non è diffamante, allora significa che il capo di un partito di maggioranza è antisemita. La Lega è antisemita. Il governo è antisemita. Abbiamo un problema. Ce lo dice un giudice di Cuneo.

Giulio Gambino per “TPI - The Post Internazionale” il 28 aprile 2022.

Il 24 febbraio 2022, con l’invasione dell’Ucraina, e iniziato un nuovo secolo. Cosa succede ora?

«La prima conseguenza e la de-globalizzazione. Abbiamo vissuto gli ultimi 25-30 anni in qualche modo “ubriacati” dalla globalizzazione, di cui hanno beneficiato i Paesi consumatori, ma soprattutto quelli esportatori. 

Abbiamo visto il boom della Cina, della Corea del Sud, del Vietnam come conseguenza del fatto che le imprese dell’Occidente inseguivano solamente una strategia di breve termine, cioè i costi. 

Si delocalizzava in Vietnam non avendo in mente alcuna idea strategica, se non quella di quanto si potesse risparmiare sui componenti della catena del valore. Ecco, noi siamo entrati in una fase di de-globalizzazione perchè la prima pulsione a cui assistiamo e nazionalistica». 

Quanto male farà?

«In Europa mascheriamo questa pulsione dietro l’unita comunitaria del Vecchio continente ma in realtà ogni nazione bada principalmente ai propri problemi, anche in relazione alle conseguenze della guerra in Ucraina. Pero e certamente una svolta clamorosa, si apre proprio una nuova epoca». 

La de-globalizzazione porterà anche alla fine dell’egemonia Usa sul mondo?

«Sul piano geopolitico e chiaro che esiste un dibattito tra chi non riconosce la democrazia come adatta a governare i tempi che viviamo e chi invece crede nella democrazia. Nel ricercare le cause e le colpe di questa condizione, il comportamento imperialista degli Stati Uniti negli ultimi 50 anni ha avuto un suo ruolo, con guerre sconsiderate come l’Iraq, o di impulso, come l’Afghanistan, che hanno determinato un rifiuto sicuro verso un’unica potenza che ti diceva cosa potevi e cosa non potevi fare.

Il che ha innescato a sua volta il dibattito sulla democrazia come l’abbiamo conosciuta e amata. Per cui oggi l’alleanza Cina-Russia riguarda due Paesi che, al di là della guerra in Ucraina, non condividono il futuro della democrazia». 

A questo, quindi, si riduce la guerra in Ucraina: una sfida globale tra chi e a favore della democrazia e chi invece preferisce i regimi autoritari?

«Si tratta dell’evento, in termini geopolitici, più rilevante di quello che stiamo vivendo e vivremo. Le offro un esempio plastico della caduta della leadership americana nei confronti del resto del mondo: quando Biden e stato eletto presidente, Mohammed bin Salman non gli ha telefonato, e questo e stato considerato dalla Casa Bianca un incredibile sgarbo. 

Successivamente, Biden ha chiamato il sovrano dell’Arabia Saudita, che è il più grande sgarbo che si può fare a bin Salman. E il messaggio tra le righe era: “Ci parliamo tra chi comanda”. Sembra quasi un episodio tra zitelle dispettose, ma ci sono delle conseguenze. 

Quando Biden ha chiamato bin Salman, lui non ha più preso il telefono. Ma soprattutto, ha accettato di vendere il petrolio alla Cina in renminbi: per la prima volta da quando esiste, il petrolio non viene trattato in dollari. Il popolo forse non lo capisce neppure, ma e una cosa storica».

Questa guerra ha già trasformato l’economia globale in un’economia di guerra...

«Stiamo già vivendo due fenomeni. Il primo e la spirale vorticosa dei prezzi dei fertilizzanti nel mondo: negli ultimi due mesi sono aumentati del 50-60 per cento. Questo perchè l’Ucraina, la Bielorussia e la Russia costituiscono forse il 70 per cento della produzione di fertilizzante nel mondo. 

Ci sono Paesi, come il Brasile, che non sono in grado di fertilizzare i propri campi e che potrebbero a breve termine andare incontro a una carestia. Il secondo tema e quello del grano, di cui l’Ucraina e un grande produttore a livello mondiale.

La semina avviene tra marzo e aprile, e quest’anno non si potrà seminare, sia perchè i campi sono percorsi dai carri armati, sia perchè gli uomini sono impegnati in guerra. In Egitto, il più grande Paese importatore di grano al mondo, sono molto preoccupati perchè non sapranno cosa dare da mangiare a decine di milioni di egiziani. E insieme all’Egitto anche altri Paesi si trovano in questa situazione». 

C’è mai stato nella storia recente un periodo così drammaticamente di svolta?

«Io credo di no. Ho vissuto la seconda guerra mondiale, che per me e un ricordo indelebile nella memoria, nel mio modo di pensare, nelle mie aspirazioni, nelle mie priorità. E’ evidente che, anche dal punto di vista emotivo, fa effetto rivedere i bombardamenti, che ho subito nel novembre del 1942 da parte dei cacciabombardieri inglesi a Torino, e vedere la gente sfollata.

Quella e stata l’esperienza più importante che ho vissuto e che ha coinvolto non solo me, direi quasi l’intera umanità. Ma noi in questo momento stiamo assistendo alla decadenza e alla ritirata degli Stati Uniti. Che e un fatto drammaticamente epocale». 

Ed e per questo che nel conflitto in Ucraina che ridisegnerà gli equilibri mondiali gli Usa, forse più di tutti gli altri Paesi coinvolti, hanno moltissimo da perdere?

«In questa specifica occasione dell’Ucraina, noi vediamo gli Usa fare una guerra che non li tocca per nulla, ed e una guerra quasi fatta per procura. Chiaramente l’America sta traendo solo dei benefici da questa guerra.

Pensa di indebolire Putin – cosa molto discutibile – carica tutto il peso migratorio (e i costi relativi) sull’Europa, vende a noi il gas liquido con un enorme guadagno – un grande affare a cui noi non possiamo rinunciare per ovvi motivi, ma che noi certamente andiamo a pagare caro.

E poi, soprattutto, c’è un fatto rivoluzionario: gli Stati Uniti hanno perso il Medio Oriente. La contropartita che la Cina da' all’Arabia Saudita per il petrolio che compra in renmimbi e la garanzia di tenere un occhio sull’Iran».

Quindi?

«La conseguenza principale e che i vuoti si riempiono: basti pensare a come Pechino ha conquistato la parte orientale dell’Africa: senza arroganza. I cinesi hanno per loro natura un approccio che non è imperialista. Deriva dalla priorità del commercio. E poi la Cina ha sempre sostenuto – e devo dire mantenuto – l’impegno a non invadere Paesi con la loro storia e la loro indipendenza».

Il realismo che prevale sull’idealismo occidentale...

«Noi siamo figli del colonialismo, come Europa non ci salviamo. Prendiamo il caso dell’approccio all’Africa. L’America si e tenuta fuori, ma l’Europa ha avuto un approccio di stampo colonialista, mentre la Cina ha avuto un approccio utilitaristico e commerciale, dando anche molto. 

Faccio un esempio: la Cina ha il controllo di alcuni giacimenti in Mozambico, ha realizzato una ferrovia di 2mila chilometri nel Paese, che unisce la costa alla Capitale. Questa ferrovia e stata realizzata in tempi record dai detenuti nelle carceri cinesi. A costo zero, con velocita, e soprattutto riconoscenza da parte del Mozambico».

Questo vuol dire anche che il nostro modello politico, la liberal-democrazia, va riconsiderata?

«Questo e quello che sostengono nei loro scritti, nei loro discorsi e proclami sia Xi, che forse è il più grande leader al mondo, sia Putin. Io constato che una delle conseguenze macro-politiche della guerra e che si schierano da una parte i Paesi che considerano la democrazia un sistema di governo obsoleto, e dall’altra quelli che pensano che l’unico modo di gestire grandi masse e rapporti geopolitici siano gli autoritarismi.

Questi hanno anche una loro giustificazione che chiamerei quasi tecnica: la velocità. Il mondo ha preso velocita in tutto, favorita dall’informatica, dal web, dall’elettronica, insomma dal 2.0. E questa velocita di eventi mette in crisi la democrazia, perchè essa richiede dei tempi: le proposte devono essere porta- te e discusse in Parlamento, trasformate in legge e poi applicate».

Dunque democrazia e progresso tecnologico non vanno a braccetto?

«Be il processo stesso dei funzionamenti di una democrazia e inevitabilmente e saggiamente lungo, che era l’ideale in società a velocita ridotta, come quelle in cui abbiamo vissuto nell’Ottocento e nel Novecento, o a velocita limitatissima, come all’epoca della Rivoluzione Francese.

Adesso sia la popolazione sia la competizione tra Stati richiede una velocita tra un’idea e la sua realizzazione che certamente trova la democrazia più lenta. Sia chiaro, con questo non intendo dire che sostengo l’autocrazia al posto della democrazia, pero e un dato di fatto. 

Noi Occidente abbiamo fatto dei passi colossali, impensabili, verso la modernizzazione delle nostre società, verso la diminuzione – e quasi l’annullamento – dello sforzo fisico dei lavoratori, nella qualità della vita in termini molto materiali. Siamo stati bravissimi. Ma a ciò e corrisposto sul piano politico una oppressione del mondo».

Dovremo rivedere il modo in cui applichiamo la democrazia?

«La scienza non può essere fermata. La velocita di trasformazione della scienza in tecnologia, e della tecnologia in riduzione del tempo, e una conquista dell’umanità, non un handicap. Il problema e che bisogna – e credo che questo non sia ancora stato fatto e non ho idea di quando e come potrà essere fatto – adattare i nostri sistemi politici ai progressi che la scienza ha portato nella nostra vita». 

Quindi si può dire che la democrazia così com’e, constatato tutto quello cui siamo di fronte, non basta più?

«Si, ha dei seri problemi».

A lei pare normale che sulla guerra in Ucraina il dibattito italiano venga iper-semplificato e che chiunque abbia qualcosa da obiettare venga immediatamente tacciato come filo-putiniano?

«E' la destra a farlo. Noi siamo il Paese che ha avuto la massima quantità e qualità di artigiani diventati artisti. Raffaello, Michelangelo, Leonardo, erano artigiani sublimi. Noi siamo quella cosa li. 

Poi c’era chi gli commissionava di fare quelle opere e chi le guardava. Non voglio ridurre questo a una sintesi dell’Italia, ma questa e la nostra origine e il nostro Dna. Siamo stati internazionalisti l’ultima volta con i romani. 

Abbiamo conquistato il mondo che allora si conosceva. Confrontando la cartina del mondo all’epoca conosciuto e quella dell’Impero romano, si nota che quello era il più grande impero relativamente riconosciuto che sia mai esistito. 

E poi ci siamo persi nel nostro caratteristico individualismo, nella nostra soggezione al dominio straniero. Siamo stati succubi, abbiamo accettato la supremazia politica e sociale del regno austro-ungarico – per saltare a tempi molto più recenti – non avendo altro da imparare da loro se non la disciplina. Ma siccome noi la disciplina la rifiutiamo, non l’abbiamo neanche imparata. Siamo un Paese fondamentalmente provinciale».

E oggi?

«Oggi abbiamo un presidente del Consiglio che e l’esempio di quello che l’Italia non è: una persona straordinaria, che ha fatto un percorso professionale straordinario, e che e stato esposto anche a decisioni straordinarie nella gestione di ciò che gli e stato affidato. 

E, infatti, a questo Parlamento non e passato neanche per la testa di mandarlo al Quirinale. E questo è, se lei vuole, un dettaglio ma e la dimostrazione che noi rifiutiamo le eccellenze, perchè queste ci dimostrano la nostra ignoranza. Il nostro e un Paese che non vuole essere fiero di sè, lo e in modo molto provinciale».

Ritiene che la guerra in Ucraina sia stata un pretesto per riarmare l’intero continente europeo?

«Secondo me cosi come è stato programmato, cioè che le nazioni singolarmente si riarmino, e molto discutibile. Personalmente sono contrario. Mentre sarei molto favorevole a una semplificazione e unificazione delle nostre forze di Difesa e – perchè no – anche di controllo del nostro territorio, attraverso quello che chiamiamo esercito europeo. Questo significa prima di tutto unificazione delle tecnologie.

Abbiamo quattro tipi di carri armati in Europa, potremmo investire molto meno se investissimo in maniera razionale. Un’unica forza europea vuol dire minori costi, ma non abbiamo sistemi d’arma compatibili, non è solo una mancanza di volontà politica». 

Questo e il simbolo del fallimento dell’Europa?

«L’Europa si può guardare da molti punti di vista. Il progetto finanziario dell’Europa ha funzionato, come anche il progetto di europeizzazione delle nazioni, in termini di movimento di persone e di merci. Quando ero giovane comprare una macchina tedesca era una novità, invece io stesso ho comprato ultimamente un’auto coreana.

Abbiamo per fortuna perso delle caratteristiche provinciali, nazionaliste, e abbiamo acquisito una certa mentalità per cui dei discorsi che oggi si fanno in chiave europea sarebbe stato impossibile immaginarli 50 anni fa. Quindi su questo l’Europa e avanzata fortemente. 

Il punto chiave e sempre il potere: abbiamo creato dei nuovi poteri, ma non sostitutivi di quelli che esistevano. La presidente della Commissione europea e il presidente del Consiglio europeo sono delle autorità, ma non e che i presidenti del Consiglio dei singoli Paesi abbiano mollato un centimetro dei loro poteri. Per cui e una sovrapposizione.

Se fossimo in America si direbbe che abbiamo steso un layer europeo sopra l’Europa, ma sotto ci sono le nazioni». 

Nato si o Nato no?

«La Nato e stata istituita durante la guerra fredda e aveva una ragione validissima di nascere. Oggi penso che l’alleanza atlantica dovrebbe essere sostituita dall’esercito europeo. 

La Nato non dovrebbe includere gli Stati Uniti, perchè questo e un retaggio della Seconda Guerra Mondiale e della guerra fredda. Per quale motivo gli Stati Uniti devono comandare sulle decisioni dell’unica arma comune che abbiamo con molti Paesi europei, cioè la Nato? Mi sembra che faccia parte del passato». 

Le Big tech oggi hanno accumulato troppo potere?

 «Certamente sono state lasciate crescere al punto che non potevano più essere controllate, e un dato di fatto. Ci sono degli aspetti per cui è un bene. Amazon ha creato probabilmente più posti di lavoro nel mondo di quanti ne abbia distrutti. Ha ridotto il prezzo al consumatore di quasi tutto». 

Non ha anche ucciso le piccole imprese?

«Il problema è vedere se le piccole imprese che sono morte erano un patrimonio dell’umanità o se invece erano un costo per l’umanità. C’è anche molto silenzio sul fatto che Amazon da molto lavoro alle piccole imprese. 

Poi lei mi potrà dire che il padrone e sempre padrone del cliente, e il padrone del cliente e Amazon, e non la piccola impresa. Pero li ha fatti lavorare». 

Io, nelle Big Tech, ci vedo quasi unicamente un problema di monopolio.

«In questo ha ragione, ma tenga presente che erano cose in qualche modo mutuabili. Alibaba era esattamente l’Amazon cinese. 

L’Europa, per esempio, che è stata forte negli anni Settanta e Ottanta per la grande distribuzione, avrebbe avuto la possibilità di creare, come hanno fatto i cinesi, l’Alibaba. Non l’abbiamo fatto, punto». 

Oggi lavoriamo troppo secondo lei?

«Vedo i giovani privilegiare il tempo libero piuttosto che il tempo occupato». 

Fanno bene?

«Secondo me sì. Dico una banalità: la vita e una sola, viverla totalmente immersi in un’unica ossessione, cioè il lavoro, e limitativo. Potremmo avere imparato altre cose se avessimo avuto più tempo, interesse, voglia, forse anche un po’ più di benessere. Perchè il tempo libero è una cosa per la quale bisogna anche stare economicamente bene».

Lei si è mai pentito di aver lavorato troppo?

«Ognuno ha vissuto la vita che le circostanze, le caratteristiche e la famiglia lo hanno portato ad avere. Io non ho nessun rimpianto. Ovviamente ho rimpianti di singole cose, ma si riferiscono sempre molto a fatti di lavoro, tanta è la mia ossessione del lavoro». 

Un esempio che le ha lasciato l’amaro in bocca?

«Sicuramente le decisioni di Roberto Colaninno di comprare Telecom anzichè sviluppare Omnitel».

Cosa pensa della vendita de L’Espresso?

«Il mio pensiero lo conoscete tutti. Non c’è bisogno che io lo esprima. E chiaro che e associato a un grande dispiacere, legato alla storia del nostro Paese del dopoguerra. L’Espresso ha raccontato l’Italia repubblicana, quindi e un grande patrimonio del Paese. 

L’ha raccontato con colori vivaci, talvolta anche un po’ urticanti, pero se uno guardasse l’archivio dell’Espresso ci troverebbe la storia degli ultimi 70 anni».

Ritiene che oggi il rapporto tra media e potere sia malato?

«Sul fatto che oggi non esistano, o esistano rari esempi di stampa libera, mi pare evidente, non lo metterei neanche in discussione. Forse il gruppo editoriale più indipendente è quello tedesco di Axel Springer. 

Vedo che in Francia si sta creando una concentrazione intorno a Bollorè. Credo che la nascita di iniziative come la sua – lei e stato un antesignano in questo – e come Domani, siano delle mosche bianche, diciamoci la verità».

Bene, e grazie, ma quindi?

«Quindi diamoci dentro, facciamo tutto il possibile per far sì che volino». 

Chiaro, ma da editore con grande esperienza non ritiene che oggi nella società che viviamo esista un serio problema di rapporto tra media e affari?

«Per me c’è, bisognerebbe che non fosse consentito di fare l’editore a chi ha dei prevalenti interessi economici in altri settori. E tutto lì». 

In passato, quando era editore del gruppo Espresso, lei aveva anche altri interessi al di fuori dell’informazione.

«Io sono stato un editore con prevalenti interessi in altri campi, non c’è dubbio. La mia è stata una scelta individuale: quella di rispettare il giornale. Infatti questo viene riconosciuto da quelli che hanno lavorato in quel giornale. Ma sulla carta la collusione c’era».

Lei sente qualche responsabilità personale per quanto accaduto all’Espresso? «Assolutamente no». 

Rizzo, Rampini e molti altri sono stati allontanati da Gedi dall’oggi al domani

«Rampini non avrebbe mai lasciato Repubblica, se fossi stato io il presidente. Non ci avrebbe neanche pensato...». 

E Rizzo?

«Non lo so, non lo conosco». 

Estratto dell’articolo di Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 27 febbraio 2023.

[…] Carlo De Benedetti ha 88 anni. «Da ragazzino, figlio della lupa, partecipavo alle adunate fasciste. Poi sono arrivate le leggi razziali, la guerra nei cieli d’Italia, i bombardamenti alleati che nel novembre del 1942 distrussero la casa della mia famiglia a Torino.

 Posso dire di essere vivo per miracolo: nella notte in cui fuggimmo in Svizzera avevamo appena passato l’ultima recinzione, infilandoci in un buco nella rete di confine, quando sopraggiunse una ronda tedesca dall’altra parte. La differenza tra la vita e la morte fu questione di minuti, un tiro di dadi del destino. Dopo questa fuga rocambolesca, ho vissuto con mio padre, mia madre e mio fratello in una pensione di Lucerna, dove campavamo vendendo i brillanti che mia madre prima di partire aveva cucito nel busto.

Li centellinavamo, poco alla volta, perché non sapevamo quando sarebbe arrivata la pace; non tornammo in Italia fino all’agosto del 1945. Ricordo però in quei lunghi mesi la fiducia incrollabile di mio padre: “Quanto durerà la guerra non lo so, ma vinceranno gli americani”. “E noi cosa faremo?”. “Se i comunisti si fermano a Trieste noi torneremo a Torino, se i comunisti arriveranno a Torino noi andremo in America”. I comunisti non sono arrivati a Torino ed è lì che ho vissuto la ricostruzione e il miracolo italiano».

 Per capire Carlo De Benedetti bisogna partire dal dato autobiografico, che riaffiora sempre nei suoi libri. […] l’infanzia drammatica, la consapevolezza di essere vivo per miracolo […]

Quel che pensa del nostro Paese Cdb lo condensa in 140 pagine, in uscita da Solferino. Titolo: Radicalità. Il cambiamento che serve all’Italia. Partenza: l’Italia è in declino. […] Manca il «venture capital», gli investitori disposti a finanziare non il debito pubblico, non un capannone, ma un’idea; come lo stesso De Benedetti confessa di non essere stato in grado di fare, quando in un garage di Cupertino uno Steve Jobs ventenne e capellone gli propose l’affare della vita, 600 mila dollari per comprare il 20% dell’azienda che sarebbe diventata Apple.

Ma all’Italia manca soprattutto la politica. […] il Pd? «Una compagine che dopo decenni di politica conservatrice è difficile considerare ancora come progressista, da cui la generale disaffezione dei suoi elettori […]». E ancora: il Pd è «un partito che considero irriformabile, dilaniato e avvitato nei propri psicodrammi interni anziché proiettato nella soluzione di problemi reali. L’equivalente di una seduta psicoanalitica sul ponte della nave che affonda, senza neanche l’orchestrina».

L’unica soluzione per l’autore è la radicalità. In senso etimologico: cambiamento alla radice. Un «nuovo socialismo» che affronti i due grandi temi della modernità: le crescenti disuguaglianze e il disastro ambientale. Il capitalismo non funziona più. «Ha tradito la sua promessa fondamentale: il maggior benessere possibile per il maggior numero di persone possibile. Oggi produce invece enormi ricchezze destinate a pochi, a spese non solo della larga maggioranza, ma del pianeta stesso».

Da una parte, le disuguaglianze mostruose: mentre l’umanità soffriva al tempo del Covid, i dieci uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato il loro patrimonio, che ora ammonta a sei volte quello del 40% più povero.

 […] tre miliardi di esseri umani non arrivano alla metà della ricchezza dei dieci uomini più ricchi. […] De Benedetti chiede al riguardo una patrimoniale per tutti, precisando di averla pagata per decenni, sia pure in Svizzera (ecco un altro passo del libro che farà discutere). […] Alcune tra le pagine più impressionanti di Radicalità sono dedicate al conflitto prossimo venturo tra America e Cina, che l’autore considera inevitabile.

 «Ce lo dice la storia. Quando una potenza dominante vede emergere uno sfidante, la contrapposizione prima o poi sfocia in aperto conflitto […] Le avvisaglie si vedono già: il rimpatrio delle tecnologie; la dislocazione delle sedi orientali delle grandi multinazionali Usa in altri Paesi, come nel caso della Apple che sposta una parte significativa della sua produzione in Vietnam; la “guerra dei chip”, con l’America che blocca la vendita di semiconduttori alla Cina. In una nota privata del generale dell’aeronautica Mike Minihan si legge: “Spero di sbagliarmi. Ma l’istinto mi dice che combatteremo nel 2025”». […]

L’ora di un nuovo socialismo. ALDO CAZZULLO su Il Corriere della Sera il 26 Febbraio 2023.

In un volume Solferino in uscita il 28 febbraio, Carlo De Benedetti invita ad un approccio diverso, chiaro fin dal titolo: «Radicalità». Per l’autore serve ripartire da ecologia e lotta alla disuguaglianza

Scatto da «The World of Banksy» alla Stazione Centrale, Milano, 2021. Nell’opera, la scritta: «Tieniti le tue monete. Voglio il cambiamento» (Ansa)

«Anche se alla mia età si dovrebbe cercare la quiete, io sono convinto che questo sia il momento della tempesta».

La copertina del libro di Carlo De Benedetti «Radicalità. Il cambiamento che serve all’Italia» (Solferino, pp. 144, euro 14) in libreria dal 28 febbraio

Carlo De Benedetti ha 88 anni. «Da ragazzino, figlio della lupa, partecipavo alle adunate fasciste. Poi sono arrivate le leggi razziali, la guerra nei cieli d’Italia, i bombardamenti alleati che nel novembre del 1942 distrussero la casa della mia famiglia a Torino. Posso dire di essere vivo per miracolo: nella notte in cui fuggimmo in Svizzera avevamo appena passato l’ultima recinzione, infilandoci in un buco nella rete di confine, quando sopraggiunse una ronda tedesca dall’altra parte. La differenza tra la vita e la morte fu questione di minuti, un tiro di dadi del destino. Dopo questa fuga rocambolesca, ho vissuto con mio padre, mia madre e mio fratello in una pensione di Lucerna, dove campavamo vendendo i brillanti che mia madre prima di partire aveva cucito nel busto. Li centellinavamo, poco alla volta, perché non sapevamo quando sarebbe arrivata la pace; non tornammo in Italia fino all’agosto del 1945. Ricordo però in quei lunghi mesi la fiducia incrollabile di mio padre: “Quanto durerà la guerra non lo so, ma vinceranno gli americani”. “E noi cosa faremo?”. “Se i comunisti si fermano a Trieste noi torneremo a Torino, se i comunisti arriveranno a Torino noi andremo in America”. I comunisti non sono arrivati a Torino ed è lì che ho vissuto la ricostruzione e il miracolo italiano».

Per capire Carlo De Benedetti bisogna partire dal dato autobiografico, che riaffiora sempre nei suoi libri. La sua conversazione, come la sua scrittura, ha quel tratto franco ai limiti della spavalderia che lo rende amato e odiato ma mai irrilevante, e non si comprende senza l’infanzia drammatica, la consapevolezza di essere vivo per miracolo, la voglia di prendersi l’unico lusso che i miliardari italiani quasi sempre si negano: dire quello che davvero pensano.

Quel che pensa del nostro Paese Cdb lo condensa in 140 pagine, in uscita da Solferino. Titolo: Radicalità. Il cambiamento che serve all’Italia. Partenza: l’Italia è in declino. «Si trova in una stagnazione che prelude alla decadenza». Non mancano né i cervelli, né l’università per formarli: quella di Bologna che è la più antica del mondo, la Bocconi, i Politecnici di Milano e Torino. Manca il «venture capital», gli investitori disposti a finanziare non il debito pubblico, non un capannone, ma un’idea; come lo stesso De Benedetti confessa di non essere stato in grado di fare, quando in un garage di Cupertino uno Steve Jobs ventenne e capellone gli propose l’affare della vita, 600 mila dollari per comprare il 20% dell’azienda che sarebbe diventata Apple.

Ma all’Italia manca soprattutto la politica. Che l’autore non apprezzi Berlusconi, Salvini, Meloni non rappresenta una notizia. E il Pd? «Una compagine che dopo decenni di politica conservatrice è difficile considerare ancora come progressista, da cui la generale disaffezione dei suoi elettori. Non diversamente da me, ritengo si sentano come coniugi traditi, che hanno stretto un patto e non lo hanno visto rispettato». E ancora: il Pd è «un partito che considero irriformabile, dilaniato e avvitato nei propri psicodrammi interni anziché proiettato nella soluzione di problemi reali. L’equivalente di una seduta psicoanalitica sul ponte della nave che affonda, senza neanche l’orchestrina».

L’unica soluzione per l’autore è la radicalità. In senso etimologico: cambiamento alla radice. Un «nuovo socialismo» che affronti i due grandi temi della modernità: le crescenti disuguaglianze e il disastro ambientale.

Il capitalismo non funziona più. «Ha tradito la sua promessa fondamentale: il maggior benessere possibile per il maggior numero di persone possibile. Oggi produce invece enormi ricchezze destinate a pochi, a spese non solo della larga maggioranza, ma del pianeta stesso». Da una parte, le disuguaglianze mostruose: mentre l’umanità soffriva al tempo del Covid, i dieci uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato il loro patrimonio, che ora ammonta a sei volte quello del 40% più povero. È un dato tanto impressionante che si fatica a capirlo: tre miliardi di esseri umani non arrivano alla metà della ricchezza dei dieci uomini più ricchi. Nel frattempo si è riaccesa l’inflazione, che colpisce soprattutto i poveri e il ceto medio, e sono ripartiti i tassi, che fanno aumentare sia i costi per lo Stato sia quelli dei mutui per le famiglie. De Benedetti chiede al riguardo una patrimoniale per tutti, precisando di averla pagata per decenni, sia pure in Svizzera (ecco un altro passo del libro che farà discutere). Dall’altra parte, siccità, scioglimento dei ghiacciai, alluvioni mettono a rischio il futuro dell’umanità, senza che la politica se ne occupi. Anzi, proprio quando servirebbe un governo globale, sul mondo torna lo spettro della guerra.

Alcune tra le pagine più impressionanti di Radicalità sono dedicate al conflitto prossimo venturo tra America e Cina, che l’autore considera inevitabile. «Ce lo dice la storia. Quando una potenza dominante vede emergere uno sfidante, la contrapposizione prima o poi sfocia in aperto conflitto. È successo con Atene e Sparta, succederà con Stati Uniti e Cina. Le avvisaglie si vedono già: il rimpatrio delle tecnologie; la dislocazione delle sedi orientali delle grandi multinazionali Usa in altri Paesi, come nel caso della Apple che sposta una parte significativa della sua produzione in Vietnam; la “guerra dei chip”, con l’America che blocca la vendita di semiconduttori alla Cina. In una nota privata del generale dell’aeronautica Mike Minihan si legge: “Spero di sbagliarmi. Ma l’istinto mi dice che combatteremo nel 2025”».

Il lettore a questo punto si domanderà: dov’è la speranza? Cosa può fare l’Italia in tutto questo? In campo geopolitico, molto poco, risponde De Benedetti. Eppure il capitolo conclusivo è dedicato a un possibile «Rinascimento europeo». Il primato dell’Europa, sostiene l’autore, deve essere ecologico. «Siamo ricchi, siamo vecchi, siamo belli. Dalla Valle della Loira alla Valle dei Templi e dalla Valle del Reno alla Valle del Jerte, dai fiordi allo Stretto di Messina, l’Europa è stupenda. Questa bellezza, che significa anche stili di vita e valori, possiamo coltivarla, valorizzarla e anche esportarla». L’Italia può fare la sua parte: puntando sull’ambiente, le energie rinnovabili, la formazione dei giovani, le nuove tecnologie, e anche una nuova finanza capace di investire sulle idee. E una nuova sinistra, ancora tutta da costruire.

La presentazione l’8 marzo

«Radicalità» verrà presentato da Carlo De Benedetti mercoledì 8 marzo, in dialogo con Ferruccio de Bortoli, in un incontro a Milano organizzato dalla Fondazione Corriere della Sera. L’evento si terrà presso la Sala Buzzati (via Balzan 3) alle ore 18.

Da liberoquotidiano.it l'11 giugno 2023.  

Carlo Rossella torna ad attaccare Giorgia Meloni. Nella sua rubrica su Il Foglio, "Alta società", il giornalista scrive queste poche righe che però dicono tutto: "Weekend a Washington. Alcuni giornali americani, i più importanti, non sono certo in attesa della visita della nostra premier come scrivono certi quotidiani italiani. I nostri, assomigliano molto alla Pravda ai tempi di Leonid Breznev".

Tre settimane fa, scriveva sempre su Il Foglio Carlo Rossella, che "i giornali stranieri chiamano la Meloni: 'The post-fascist premier of Italy'. Non è certo un complimento", dimenticando però gli elogi arrivati dall'estero e tutti indirizzati al premier. Come il Times, dove si leggeva: "Definita un pericolo, ora Giorgia Meloni è la leader più popolare dell'Ue". E ancora, il giornale inglese non ci era andato affatto per il sottile attaccando i critici che "speculavano su quanto a lungo una leader con poca esperienza di governo potesse tenere insieme una coalizione tripartitica che include due dei suoi più grandi rivali a destra".

In una successiva intervista a La Stampa, Carlo Rossella aveva parlato della Rai come "Tele Meloni", che "è un regime, lo slogan è disporre e imporre". E lui che è stato un direttore della Rai aveva aggiunto: "La lottizzazione c’è sempre stata, ma non in modo così selvaggio. Ora vedo il tentativo di trasformare il servizio pubblico in un servizio privato". 

Estratto dell’articolo di Paolo Festuccia per “la Stampa” l'11 giugno 2023.  

La cifra della destra meloniana? «Disporre e imporre». Per Carlo Rossella giornalista, già direttore del Tg1, del Tg5 e molto altro ancora, con «questo governo non si può lavorare, meglio lasciare e andarsene, anche io lo avrei fatto, mi sarei dimesso». 

Scusi Rossella, quindi hanno fatto bene Fabio Fazio ad andarsene e Lucia Annunziata a sbattere la porta dicendo che così «non ci sono più le condizioni per lavorare»...

«Si certo, questo è un regime, come fai a lavorare con un regime...». 

Come regime, è un governo votato dai cittadini e anche nel passato il centrodestra ha governato?

«Ma questo è un governo di destra-destra. La Rai di Meloni non è paragonabile a quella del passato, e bene hanno fatto Fazio e Annunziata ad andarsene. Quel tipo di lavoro si può fare con un governo di centro-sinistra dove c'è libertà, non con loro. Lo dice uno che l'ha fatto con il centrosinistra e sa di cosa parlo, con Letizia Moratti presidente e con Romano Prodi presidente del Consiglio». 

Sarà anche diverso ma la lottizzazione è parte integrante della storia della Rai...

«Sì, ma il motto di questa destra è quello di disporre e imporre. E in un contesto così non si può lavorare, ha ragione Lucia Annunziata non ci sono le condizioni». 

Ma l'ex ministro della Difesa di Forza Italia, Cesare Previti diceva «se vinciamo non faremo prigionieri», eppoi mica si può dimenticare l'editto bulgaro di Berlusconi...

«[…] Quell'editto bulgaro rispetto a quello che succede ora è acqua di rose. E poi, quali prigionieri di Previti, Silvio Berlusconi semmai voleva spalancarle le carceri...» 

Vuole dire che c'è una differenza tra lottizzazione e lottizzati? Che quelli di oggi sono diversi da quelli di ieri, ma pur sempre lottizzati erano o non è così?

«Ma questa è una lottizzazione selvaggia, che non ha eguali. La Rai è vero che è da sempre la patria dei lottizzati ma nel passato la qualità era migliore, era una lottizzazione più benevola, ma così come la vediamo in queste settimane io non l'avevo mai vista e spero di non vederla più. Quando dirigevo il Tg1 avevo una squadra di super professionisti: da Massimo De Strobel a Lilli Gruber, contraltari alla direzione ma di grande qualità con i quali si discuteva e si trovava sempre una sintesi editoriale autorevole».

[…] «[…] Io non voglio che con i soldi del mio canone la Rai finanzi le campagne elettorali di Giorgia Meloni e della destra e risponda solo a una parte». […] «[…] da queste prime nomine si evince che si sta cercando di trasformare il servizio pubblico in un servizio privato. […]». […] «[…] Siamo già oltre la deriva sovranista e purtroppo una Rai in mano a un regime come quello della Meloni è davvero messa male». […]

 Estratto dell’articolo di Luca Bottura per “La Stampa” l'11 giugno 2023.  

[...] Intervistato dal Fatto, Carlo Rossella si è lamentato di Giorgia Meloni e della sua deriva fascista. 

Avendo collaborato con Rai quando Carlo Rossella fu nominato direttore del Tg1 (anche) per la sua equivicinanza a Forza Italia, tanto da guadagnargli il soprannome di "Rosella 2000", posso assicurargli che anche ai suoi tempi non è che ci fosse tutta'sta libertà.

Non solo un programma di cui ero autore fu cancellato non appena insediato il nuovo direttore di rete – un tizio che faceva il vicepresidente della Provincia di Varese, quota Lega, al posto di Antonio Marano, un leghista che invece ne sapeva e che quel programma poi ripristinò – ma ci bruciarono pure le scenografie per essere sicuri che non si rifacesse. 

Ma è normale che Rossella non ricordi: è successo ormai un Ventennio fa. 

Estratto dell’articolo di Antonello Caporale per “il Fatto quotidiano” l'11 giugno 2023.

Ci vorrebbe un miracolo di San Gennaro per togliere dal corpo di Carlo Rossella il veleno di questa intossicazione.

E solo Silvio Berlusconi potrebbe, ma temo che viva già in un altro tempo, in un’altra condizione. 

Rossella, lei era intimo di Arcore e può felicemente perorare la causa anti-Meloni.

Dico e qui confermo che Meloni sta intossicando l’Italia. Questa donna è pericolosissima. 

Usa parole arroventate nei confronti della presidente del Consiglio lei che è noto per il suo aplomb.

Meloni non è la mia tazza di thè. 

Perché è indigeribile?

Giuliano Ferrara la chiama ducia. È una ducia, ha dentro di sé il seme della tirannia naturalmente aggiornato alle consuetudini di questa nostra fiacca modernità. Il suo obiettivo è sottomettere, il suo cerchio magico è la famiglia e non va oltre i confini del piccolo lembo familista, il suo traguardo è fare un uso monocratico della delega popolare. Io sono sinceramente impaurito. 

Lei amava Silvio ma è terrorizzato da quella che è stata pur sempre una sua alleata.

Silvio è di un altro pianeta, di un altro spessore e un’altra fede democratica. 

Ha mai conosciuto Giorgia Meloni?

Mai mai. E rifuggo dal proposito, non voglio. È fascista dentro, ma la vede come sta stendendo la stampa, come sta ammutolendo le voci critiche?

Sta occupando le postazioni di potere, come sempre, e purtroppo come quasi tutti i predecessori.

No, c’è una regressione, una facinorosità sconosciuta, un arraffa arraffa che avanza nel silenzio conformista e in questo tempo cloroformizzato. 

È una donna che non regala tempo al tempo.

Ha visto come ha cacciato i presidenti di Inps e Inail? Vedrà quel che farà alla Rai. 

(...)

Ah, se ci fosse Silvio!

Ecco, direi proprio così. Se oggi lui vegliasse sulla nostra democrazia. 

Lei teme che Meloni chiuderà a chiave palazzo Chigi.

Penso che fino alle elezioni europee tutto filerà liscio. Poi punto sugli italiani. Sulla loro capacità di ridurre ogni innamoramento a un colpo di tosse. 

Dopo le europee, quindi.

Forse, ho detto forse. 

Ma lei ci spera.

Temo per l’Italia. 1922 Mussolini, 2022 Meloni. La destra dispotica si riconosce dal carattere, dal linguaggio, dalle movenze, dalla fame di potere. 

Vede nero. Però non ricorda che il ventennio berlusconiano incatenò l’Italia ai capricci del leader.

Incommensurabile la distanza che separa Berlusconi da Meloni (e in tutta sincerità non credo che a lui questa leadership femminile garbi tanto). 

Ripropongo la domanda: invoca l’intervento del suo amico Silvio?

Non gliene frega più niente ormai. 

E allora amen.

Però c’è la carta di riserva: gli italiani si stufano presto di ogni novità.

Carmen Lasorella, il retroscena su Lilli Gruber: "Sempre ignorata serenamente". Libero Quotidiano il 15 giugno 2023

Carmen Lasorella, insieme a Lilli Gruber, è stata un volto storico tra le giornaliste televisive della Rai. All'epoca, Antonio Ghirelli, che era il direttore del Tg2, le disse: "Si’ ‘na bella guagliona e hai stoffa". E ora Lasorella, in una intervista a il Corriere della Sera, spiega: "So bene che il mio aspetto fisico mi ha aiutato. Però riflettiamo: erano gli Anni Ottanta, in tv pochissime erano le donne viste come 'firme' e non piuttosto come intrattenitrici. Io, Lilli Gruber, Tiziana Ferrario e le altre cominciammo ad affermarci allora". E Ghirelli, prosegue Lasorella, "vide le donne come protagoniste dell’informazione, fu un passo avanti. E poi io avevo una tattica, giocavo col cognome per ottenere interviste. Chiamavo la segreteria di un ministro e dicevo: 'Mi passa il dottor Tal dei Tali? Sono la sorella'. Ci cascavano quasi tutti. Solo il più furbo non la bevve, ma non dirò chi era".

Quindi Carmen Lasorella parla del suo rapporto con Lilli Gruber con la quale non è mai stata amica: "Ci siamo sempre ignorate serenamente", afferma tranchant. Del resto, erano e sono due giornaliste molto diverse. "Parlo per me: io avevo questo pallino della politica internazionale", chiarisce l'ex volto del Tg della Rai. "Studiavo, mi preparavo su aree specifiche del mondo, non mi truccavo, vestivo casual, puntavo molto sulla specializzazione. Finché, alla fine degli anni Ottanta, arrivò la grande occasione".

Estratto dell'articolo di Roberta Scorranese per il Corriere della Sera il 15 Giugno 2023.

Carmen Lasorella, lei è stata una delle più famose giornaliste televisive. Ma è vero che da ragazza tutto voleva fare tranne che la tv?

«Volevo scrivere. Oddio, i miei mi avrebbero voluto avvocato. Nata a Matera da una famiglia senza potere né blasone, la televisione è davvero arrivata per caso. Mi ero appena laureata in Legge quando la sede regionale lucana mi chiamò per presentare un premio letterario. È iniziato lì e non è stato facile». 

Otto anni di precariato in Rai.

«Però otto anni belli. Senza l’esclusiva potevo fare altri lavori, ho fatto anche il procuratore legale. E comunque sono stata la prima giornalista in Rai ad andare in conduzione pur essendo precaria». 

Antonio Ghirelli, il direttore del Tg2 dell’epoca, le disse: «Si’ ‘na bella guagliona e hai stoffa».

«So bene che il mio aspetto fisico mi ha aiutato. Però riflettiamo: erano gli Anni Ottanta, in tv pochissime erano le donne viste come “firme” e non piuttosto come intrattenitrici. Io, Lilli Gruber, Tiziana Ferrario e le altre cominciammo ad affermarci allora. Ghirelli vide le donne come protagoniste dell’informazione, fu un passo avanti. E poi io avevo una tattica, giocavo col cognome per ottenere interviste. Chiamavo la segreteria di un ministro e dicevo: “Mi passa il dottor Tal dei Tali? Sono la sorella. ” Ci cascavano quasi tutti. Solo il più furbo non la bevve, ma non dirò chi era». 

Con Lilli Gruber eravate amiche?

«Ci siamo sempre ignorate serenamente». 

(...)

Cominciava l’operazione «Golfo 1», in cui i cacciamine italiani avrebbero partecipato allo sminamento delle acque tra l’Iran e l’Iraq. E in pieno agosto chi c’era in redazione?

«Solo io. Ok, mi dissero, parti tu». 

Diciamola bene: oggi che una giornalista sia inviata in fronti caldi internazionali è normale, ma allora no.

«No, anzi. In quel caso per la prima volta una giornalista della Rai si affacciava su un teatro di crisi. Com’è comprensibile, gli ascolti del Tg2 si impennarono e lì avvenne una delle cose più spiacevoli della mia carriera. Giorgio Bocca, su Prima Comunicazione, scrisse un articolo intitolato “La tv dei cretini”, dicendo in sostanza che la gente guardava quel tg solo perché c’era una “con le poppe al vento”, testualmente. Fu un’offesa che non potevo ignorare e querelai il giornale». 

Le scuse di Bocca furono una toppa peggio del buco, vero?

«Sì, perché mi scrisse un biglietto che recitava così: “Mia moglie e mia figlia mi dicono che ho esagerato. Credo che abbiano ragione”. Gli dissi che servivano scuse pubbliche e il mese dopo Prima Comunicazione uscì con un ampio pezzo dal titolo “Pubbliche scuse”. Con Bocca ci siamo anche rivisti e abbiamo sorriso di questo fatto, però vede, se in Italia alle soglie degli Anni 90 eravamo a questo livello, capisce quanto sia stato importante per me rompere quel soffitto di cristallo e fare, nel mio piccolo, qualcosa per le altre donne?». 

Anche perché lei è stata un’inviata che ha fatto corrispondenze in sessanta paesi e che è riuscita a fare interviste importanti, per esempio con Siad Barre.

«Ho vissuto l’epilogo della Somalia di Siad Barre, documentando la fine di quel regime durato più di vent’anni. L’ho incontrato in una intervista rocambolesca, che avrebbe dovuto avere luogo alle 16 a Nairobi. Non si presentò nessuno. Alle quattro del mattino mi chiamarono al telefono e mi dissero di andare con la troupe in aeroporto. Lì ci aspettava un Cessna con un piano di volo fasullo che ci depositò nel cuore della savana.

Quando finalmente arrivammo nella casamatta dove ci aspettava il dittatore mi accorsi che mancavano le luci giuste. Ah no, dissi, io così l’intervista non la faccio. Mi guardarono come si guarda una folle. Ma lo convinsi a posare all’esterno, con il suo trono e circondato dai suoi fedelissimi. Il giornalismo è ruvido». 

A volte pericoloso. Lei è scampata a un attentato a Mogadiscio.

«Il fuoco incrociato degli assalitori ci ha tenuti per mezz’ora in ostaggio dentro una Land Cruiser non lontano dall’aeroporto, il 9 febbraio del 1995. L’operatore Marcello Palmisano morì sotto i miei occhi. Fu uno choc». 

Lei lasciò allora il Tg2, fece altri programmi. Ma arrivò la chiamata di Berlusconi. Mentana stava rimpolpando il suo giovane Tg5.

«In Via dell’Anima eravamo io, Gianni Letta e il Cavaliere. Quando arrivò, Berlusconi mi disse: “Allora dottoressa è fatta, è dei nostri?”. Io risposi che avrei voluto più dettagli sul progetto e su che tipo di ruolo aspettarmi. Il Cavaliere rispose subito: “Va bene, ma le offro di più di quello che le hanno detto”. Alla fine poi non se ne fece nulla». 

In seguito il suo rapporto con la Rai è stato complicato: cause per demansionamento, reintegri difficili. Lei è via dal 2019.

«Sì ma sono anche stata la prima presidente di RaiNet, corrispondente da Berlino e direttrice della sede di San Marino. Ho fatto tanto, diciamo che non sono “sparita”, come molti pensano, ma ho deciso di fare altro. Di prendermi il mio tempo, di pensare agli affetti, come mia madre che ha più di cento anni». 

Il 30 giugno esce «Vera», romanzo edito da Marietti 1820.

«Una storia di sentimenti e di diritti nell’era informatica che ha per protagonista una donna, un’attivista. E tante altre donne. Si parla di migrazioni, visto che oggi quello che sta succedendo nel mondo è una vergogna, penso che spostarsi sia un diritto.  

(...)

Cesara Bonamici, il Tg5 da più di 30 anni, l’amore e le nozze con Joshua Kalman, il Grande fratello. Storia di Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 25 settembre 2023. 

Opinionista al «Grande fratello» La donna del cambiamento ha un nome e un cognome: Cesara Buonamici. Pier Silvio Berlusconi ha voluto la storica giornalista di Mediaset, conduttrice del Tg5, come opinionista al «Grande Fratello». Niente più trash, sobrietà, commenti oculati. E così Cesara, piano piano sta entrando nel clima del reality, mantenendo il suo aplomb. Toscana Cesara Buonamici è nata a Fiesole, il 2 gennaio 1957 e fin da giovane aveva ben chiara la voglia di diventare giornalista. Ha iniziato la carriera durante gli studi universitari (si è laureata in farmacia) presso Tele Libera Firenze, un’emittente del capoluogo toscano, alla fine degli anni settanta, conducendo il telegiornale, alcuni quiz e un antenato dei moderni talk show (Quattro chiacchiere con Cesara). Ha esordito con diverse rubriche giornalistiche per le reti Fininvest, divenendo poi uno dei volti simbolo del TG5, per il quale lavora fin dal lancio avvenuto il 13 gennaio 1992. E’ legatissima alla sua proprietà nelle campagne toscane. La nascita del Tg5Bonamici insieme a Emilio Fede ha lanciato il notiziario di Italia 1, Studio Aperto. Poi è stata tra i fondatori, assieme ad Enrico Mentana, Lamberto Sposini, Cristina Parodi, Emilio Carelli e Clemente Mimun, del TG5 che conduce ancora fin dalla sua nascita, avvenuta il 13 gennaio 1992. Ha condotto per anni l’edizione delle 13 in coppia con Emilio Carelli fino al 2000, ora conduce l’edizione delle 20. Il matrimonio Il 14 maggio del 2022 Cesara Buonamici si è sposata con Joshua Kalman, medico israeliano, dopo 24 anni di fidanzamento. Il rito civile si è svolto nella città d’origine di lei: Fiesole, in Toscana. «Il posto giusto per il nostro matrimonio» ha detto la giornalista poco dopo le nozze. A officiare il rito, sabato 14 maggio in una delle sale del palazzo comunale, è stata Anna Ravoni, sindaco di Fiesole nonché amica della coppia. Presenti al matrimonio - a cui hanno partecipato pochi intimi - anche l’allenatore Cesare Prandelli e il principe Emanuele Filiberto di Savoia. Pochi giorni dopo gli sposi hanno festeggiato a Roma, con cento invitati, alla Terrazza Borromini.

Il lungo amore tra Cesare e Joshua Cesare e Joshua, si sono conosciuti a Roma nel 1998. Bonamici, ospite di Silvia Toffanin, ha dichiarato: «Lui mi ha resa una donna migliore. Mi ha aperto un mondo, per la vita che ha fatto e anche per la sua religione: mi ha arricchito molto. C’è stato uno scambio prezioso tra noi, anche se ognuno ha mantenuto la propria fede». A «Verissimo», Cesara ha anche confessato che Joshua è un compagno molto gentile e premuroso: «Mi porta ancora il caffè ogni mattina. A volte io sono pesante, ma anche lui lo è e glielo dico spesso. Siamo allegri, a volte un po’ arrabbiati, ma abbiamo una buona sintonia. Ci piace molto viaggiare». La coppia non ha figli, non per scelta: «Purtroppo non sono mai arrivati. Ma abbiamo metabolizzato anche questo».

L’amicizia con Cristina Parodi Cristina Parodi? «L’amica di sempre, anche quando allora c’erano voci di rivalità tra noi due. Nulla di più falso. Noi ci siamo sempre aiutate, sempre volute bene, io sono stata la sua testimone di nozze. Non ci siamo mai perse. Ora lei è felice con la sua linea di moda, Crida, fa cose bellissime e non ha ripianti. Ed io sono felice per la sua nuova avventura. Certo la nostra galoppata al Tg5 è stata meravigliosa». Un legame molto forte La fedeltà verso Mediaset Dal 1992 è al Tg5. Una fedeltà assolta. Ha raccontato: «Negli anni ho avuto offerte dal mondo Rai e dalla vecchia La7, ma io sono sempre stata fedele, non ho mai avuto dubbi, perché io con Mediaset mi sono sempre trovata benissimo. Il senso di libertà che si respira a Mediaset non credo ci sia ovunque, almeno stando al racconto di alcuni colleghi della Rai. La Rai è una grande azienda, ma in alcuni momenti non deve essere facile. Io sono molto felice e molto grata a Mediaset fin dal giorno in cui Fedele Confalonieri mi scelse per entrare nell’allora Fininvest. E poi ho avuto la grande fortuna di avere grandi direttori: Arrigo Levi, Enrico Mentana, Carlo Rossella, Clemente Mimun».

La malattia «Ho avuto un tumore al seno, che però per fortuna è stato preso molto in tempo e quindi ho fatto l’intervento e le cure che dovevo fare, ho trovato sulla mia strada persone straordinarie, a cominciare dal nostro Luciano Onder (giornalista Mediaset che si occupa di salute, ndr) che mi ha subito indirizzato al Policlinico Gemelli, dalla professoressa Daniela Terribile che mi ha curato. Tutto è avvenuto molto rapidamente e grazie a Dio è andato tutto bene». Lo ha rivelato Cesara Buonamici, poche settimane fa ospite a Verissimo insieme con Alfonso Signorini, alla vigilia del debutto della nuova edizione del Grande Fratello. E ha concluso: «Io mi sono salvata con la prevenzione, facendo controlli ravvicinati che danno risultati meravigliosi, perché ti cambiano la vita».

Estratto dell'articolo di Malcom Pagani per “D - la Repubblica” lunedì 14 agosto 2023

Prima regola d’ingaggio: «Per ottenere il risultato serve tempo. In cinque minuti, non c’è dubbio, viene fuori un’intervista di merda». Claudio Sabelli Fioretti sostiene che per realizzare le sue impiegasse una settimana e che a un certo punto, dopo averne scritte a centinaia, poté più la perdita di senso che il digiuno: «Mi ritrovai a inseguire il ministro Bellanova, la renziana che da ragazza aveva lavorato come bracciante agricola, per più di un anno. “Domani, tra una settimana, tra un mese”. Mi feci delle domande e mi risposi che qualcosa non andava più per il verso giusto. Era forse passata l’idea che fossi una carogna? Uno di cui aver paura? Un sicario? Un imbroglione? Mi ero impegnato tutta la vita perché non succedesse. 

Avevo sempre offerto la rilettura della conversazione ai miei interlocutori. Ero stato con loro, e dalla loro parte, fino a un minuto prima che il giornale andasse in stampa. Mi meritavo quell’orribile sospetto? No, non me lo meritavo. In pochi giorni mi passò il desiderio di colloquiare con Bellanova e anche la voglia di fare interviste in assoluto».

A una prima occhiata superficiale, il più valente confessore degli ultimi decenni vive benissimo lo stesso. Mesi a Salina, dove Nanni Moretti palleggiava su un campo di pozzolana lanciando il pallone ai limiti del cielo, mesi a Lavarone dove il cielo fa rima con la solitudine e restituisce a domande e risposte il peso e l’altezza del bilancio definitivo. «Mi sono divertito a fare il mio mestiere? A volte moltissimo».  

Che mestiere è stato? 

«Non c’è volta in cui non abbia finito un’intervista e non mi sia sentito un miserabile. Sa quando si porta a casa l’articolo perfetto? Quando sul volto di chi stai salutando si dipinge un’espressione inequivocabile». 

Quale? 

«“Ma chi è questo coglione che mi hanno mandato?” Per avere risposte accettabili bisogna porre domande banali. Quelle che molti miei colleghi con l’ansia di apparire intelligenti non fanno».  

Si è mai vergognato di porne una? 

«Mai. Il mestiere di giornalista ha una natura impudica, indiscreta e anche un po’ morbosa. Ma l’intervistatore ha un ruolo diverso. Viene da te, ti guarda negli occhi, ti ascolta. E se ha una curiosità legittima non può censurarsi. Se con la mia parte femminile, che valuto a spanne circa al quaranta per cento, vado da Domenico Dolce e Stefano Gabbana e non gli domando cosa significhi essere gay, non ho reso un buon servizio né a loro, né ai lettori, né a me».  

Glielo chiese?  

«Glielo chiesi. Poi Stefano mi rivelò con enfasi che considerava il peto a letto con un compagno come un atto d’amore e virai altrove». 

Se ne andò? 

«Mi gettai a capofitto nel tema. Avendo aperto lui quell’orrendo argomento ritrarmi mi sarebbe parso scortese. Sono a modo, io, che crede?».  

Oltre al tempo, cosa serve a un bravo intervistatore? 

«Almeno un paio di registratori. Uno può sempre abbandonarti e non puoi permetterti di non imprimere la voce di chi intervisti. Una buona intervista è fatta di sospiri, silenzi, atmosfere, parolacce».  

[…] 

Il luogo in cui fare l’intervista perfetta è importante? 

«Molto. Mai in un bar, in un ristorante, in una hall. L’intervistato deve sentirsi sempre un po’ a disagio, lontano dalle sicurezze e dalla vie di fuga. Il colpo di genio sarebbe stato farli venire a casa mia, ma non mi è mai riuscito. All’epoca dell’intervista con Battista, per dire, una casa non ce l’avevo nemmeno».  

Lei passa per essere venale. 

«È una menzogna e sono pronto a querelare. La verità è che ho sempre preteso troppo da me stesso e che, anche per presunzione, non riuscivo a sopportare l’idea di scrivere una brutta intervista. A volte le rileggo e mi dico: “cazzo, ma quanto ero bravo?”».  

I soldi, dicevamo.  

«Ero bravo e quindi ho cercato sempre di farmi pagare il giusto e anche l’ingiusto. Lavoravo come un pazzo, mi rendevo conto di non avere un solo giorno libero per me e mi feci sentire con i miei direttori per guadagnare ciò che mi sembrava corretto. Almeno quanto un grande inviato del Corriere». 

Le diedero retta? 

«A volte sì, altre meno. Con Paolo Mieli esagerai».  

Dialogo con Mieli? 

«“Paolo, ascoltami: voglio il doppio di quello che mi paghi adesso e voglio anche lavorare la metà”. “Sei pazzo”. “Allora basta, smetto”. Effettivamente smisi, ma dopo un paio di mesi Mieli mi richiamò: “Ci ho riflettuto. Ti do il doppio e ti faccio lavorare un po’ di meno”. “Eh Paolo mio, ora è un problema: ormai mi sono abituato all’ozio. Voglio quattro volte tanto”. Mi mandò a fare in culo e fece bene». 

 […]

Lei scialava? 

«Come un sultano. Una volta, da direttore di Panorama Mese, mandai in giro per un mese Toni Capuozzo a bordo dei treni regionali per raccontare l’Italia minore. Oggi un qualsiasi editore mi farebbe interdire».  

Parliamo degli editori? 

«Nel declino della carta stampata hanno grandi responsabilità. Hanno scoperto che al pubblico italiano non frega un cazzo di un giornale fatto bene e hanno agito di conseguenza. Prima hanno chiuso le sedi all’estero, poi hanno eliminato gli inviati, infine hanno falcidiato le grandi firme. Di risparmio in risparmio il giornale è diventato brutto. Diciamocelo: i giornali fanno schifo». 

Ieri? 

«C’erano aspettative enormi, quasi dickensiane. Essere intervistati da un grande giornale aveva una sua sacralità, vendere copie non era una chimera, contare qualcosa non suonava eretico. Sa perché Formenton fece morire Panorama Mese? Perché vendeva solo centomila copie». 

Direttori di talento? 

«Il più bravo di tutti era Lamberto Sechi. Chiedeva cose impossibili. Un po’ come Carlo Rognoni e Giulio Anselmi, persone di una certa ruvidezza, non si accontentava della cornice, delle parole eleganti, degli aggettivi, ma voleva le notizie. Mirava al sodo. Anche e soprattutto nelle interviste. Poi era un po’ fanatico, anche».  

Fanatico? 

«Mi mandò a parlare con Panatta, Barazzutti e con tutta quella squadra magica che a Santiago del Cile, nel 1976, aveva conquistato la Coppa Davis nel paese di Pinochet. Consegnai il pezzo e lui me lo rimise nelle mani: “Non va bene, riscrivilo”. Così per quattordici volte. Alla quattordicesima decise di non pubblicarlo. Andavano così le cose, un tempo».  

E andavano meglio? 

«Sechi ci insegnò che se insisti e non ti arrendi riesci a carpire qualsiasi particolare. Un insegnamento che ho fatto mio». 

Con qualcuno ha fallito? 

«Con Filippo Facci restai per mezza giornata. Aveva un linguaggio così involuto e contorto che era impossibile capire cose volesse dire davvero. Alla quinta ora finsi un malore. Dopo trecento minuti, anche per l’intervistatore più fiducioso nel genere umano, l’eventualità della morte non è così peregrina».  

D’Alema, Totti, Fiorello. Qualcuno non si è voluto far intervistare. 

«Per fortuna, in extremis, ho recuperato Berlusconi. Con Giorgio Lauro – gliel’ho detto che sono presuntuoso, no? – gli abbiamo fatto la migliore intervista che abbia ricevuto in vita sua. Berlusconi era quello che mandava le cassette registrate alle tv, una cosa ripugnante, per non ricevere domande scomode. Con noi, in radio, fu spiritoso, spiazzante, bravissimo. Era estasiato dall’idea di essere finalmente intervistato da due che gliele cantavano. Lauro gli chiedeva se poteva mettergli le manette, io gli toccavo i capelli per sapere se erano veri e domandavo lumi sulla sua identità sessuale. Berlusconi si è divertito». 

Meloni si sarebbe divertita? 

«Con Giorgia sono arrabbiato. Da lei mi divide tutto, ma abbiamo ottimi rapporti. Quando è diventata primo ministro le ho scritto subito. Le ho detto “Giorgia è arrivato il momento in cui dai l’intervista con la I maiuscola, non ti mettere nelle mani di quei cialtroni che vengono a farti i salamelecchi, fatti intervistare da uno che non ha riverenze”. Mi ha risposto con una battuta, non ha voluto».  

Ce l’ha con lei per questo? 

«Ce l’ho con lei perché non è voluta passare alla storia facendo vedere che la destra può anche essere meglio della sinistra. Avrebbe potuto prendere la Rai e rivoluzionarla e invece ha fatto come avrebbe fatto chiunque altro. Chi sta in alto teme il confronto, ma è un errore. Se il tuo intervistatore non è genuflesso, ti fa un piacere. Tu ci guadagni. Dovrebbero pagarti e invece, di sottoporsi a una vera intervista, non ne vogliono sapere. La stampa è il nemico. Lei mi ha ricordato che D’Alema non si volle mai far intervistare da me, ma forse ha dimenticato cosa diceva D’Alema: “Lasciate vuote le edicole. Non comprate i giornali”. Una cosa mostruosa». 

[…] 

Chi è davvero l’intervistatore? 

«La persona più schietta che esista al mondo».  

Le interviste più belle? 

«Senza ordine d’importanza né sovrapposizioni: ai cialtroni e ai mascalzoni senza pudore, alle donne, a quelli di destra, agli antipatici, ai nemici».  

Agli amici? 

«Mai intervistare un amico. All’amico vuoi bene, se dà una risposta sbagliata tendi a correggerla. Con chi non conosci è diverso: se cadi in errore ti prendi le tue responsabilità».  

È stato onesto? 

«L’accezione è troppo ampia. Quando mi sedevo di fronte a qualcuno, in principio ero molto disonesto. Mi immedesimavo con lui: che fosse magliaro, mafioso o assassino e gli facevo credere di essere da sempre il suo migliore amico. Era una truffa, una truffa riuscitissima. Il mezzo usato aiutava. Se intervisti la Mussolini in tv non puoi dirle che sei fascista, ma se ti trovi in una stanza con lei puoi farle credere di essere un po’ di destra anche tu». 

Le chiedevano di non scrivere certe cose e lei le rimetteva regolarmente in pagina. 

«“Non le scrivere, per carità”. Io scrivevo la raccomandazione, la mia rassicurazione “figurati se lo scrivo” e poi la frase incriminata. Loro rileggendola si divertivano e poggiando su questo espediente patetico, quasi una piccola sindrome di Stoccolma, non c’era verità che non finisse in pagina».  

 È passata già un’ora e mezza. Altre tre ore e seguendo il suo schema celebriamo le esequie. 

«Non è il caso, sono anche scaramantico».

«L’ictus? Mi salvò Berlusconi. Io e Vasco insieme in clinica. E niente pensione, resto al Tg5».  Paolo Conti su Il Corriere della Sera mercoledì 9 agosto 2023.

Clemente Mimun, 70 anni compiuti oggi 9 agosto 2023. Tempo di bilanci.

«Sì, 70 anni sono tanti ma non ho avuto tempo di accorgermene. Sono riuscito a diventare giornalista e all’inizio era quasi impossibile. È il lavoro che volevo fare e che ho fatto per sedici anni prima di diventare un “capo” con più prestigio e più soldi, lo ammetto. Ma anche con più responsabilità per un tipo come me che sa fare le cose solo seriamente».

Lei totalizza 29 anni di direzioni tra Tg1, Tg2, Testata Servizi Parlamentari Rai e dal 2007 al Tg5. Un record che può pesare.

«Della longevità non mi importa assolutamente niente. Perché non me l’ha regalata nessuno. Ho sempre portato a tutti gli editori risultati, risparmi nei bilanci, innovazione e qualità».

La sua vita professionale registra anche molte critiche, anche politiche…

«Sono stato al centro di molte critiche. E ho fatto male a prendermela. Vista la provenienza…».

Nel 2011 arrivò l’ictus con conseguenze molto pesanti. Però non ha lasciato la direzione del Tg5…

«Mi salvò letteralmente Silvio Berlusconi che in quel momento era presidente del Consiglio. Venne a trovarmi al Santa Lucia, l’ottimo centro specializzato a Roma nella riabilitazione neurologica. Gli chiesi di sostituirmi: avevo la parte sinistra del corpo paralizzata, la bocca storta, non riuscivo a parlare. Lui parlò con i neurologi e i fisioterapisti, fece una telefonata. Arrivò un computer abilitato alle video-riunioni. Mi disse: “Guarirai lavorando, ti chiedo qualità del tg e buoni ascolti”. Devo a lui se sono tornato in buona forma. Non posso più andare in moto… ma non voglio e non devo lamentarmi».

La Rai è un importante capitolo della sua vita professionale. Come la vede, oggi?

«Della Rai non so più nulla. Ci ho lavorato vent’anni, ho diretto tre testate, sono molto affezionato al personale che è sempre stato di grande qualità. Non ho ricordi memorabili dei vertici aziendali che si sono avvicendati».

Lei non ha mai nascosto di essere vicino al centrodestra.

«Alla Rai sono stato a lungo il panda non di centrosinistra, una specie di foglia di fico nelle nomine. Ho visto cose, come diceva il protagonista di “Blade Runner”, che voi umani non potete nemmeno immaginare. Prepotenze e nepotismi. Una legge non scritta della Rai prevede che qualsiasi cosa faccia il centrosinistra è giusta ma se a spostare una fioriera è il centrodestra, allora è una barbarie. Francamente stucchevole».

Ora si parla di Rai «melonizzata» con tutte nomine gradite al governo. Un palinsesto senza Fabio Fazio, Bianca Berlinguer, Lucia Annunziata.

«Più che Rai melonizzata a me sembra che i vertici cerchino di trovare la difficile quadra del riequilibrio. Si è gridato allo scandalo per chi ha preso altre strade, senza neppure aspettare la scelta dei palinsesti. Alcuni hanno scelto l’avventura, i nuovi stimoli professionali, o quei soldi che la Rai non può dare. Comunque, visto che si parla molto di Rai melonizzata, avrei molte storie da raccontare. Proprio dalla mia condizione di “panda” del centrodestra».

Per esempio?

«Ricordo una riunione con i vertici assolutamente assurda a viale Mazzini. Finì, me ne andai per tornare a Saxa Rubra. Mi accorsi di aver lasciato gli occhiali. Tornai indietro e trovai i vertici Rai e gli altri direttori dell’area giusta ancora riuniti ma senza il “panda” di centrodestra. Finalmente parlavano liberamente…. E un programma di Michele Santoro su Rai2, in tempo di campagna elettorale, che non venne ricondotto sotto la responsabilità del direttore del Tg della rete, cioè il mio».

La Rai è anche grande intrattenimento.

«Ho una autentica adorazione per Renzo Arbore che conosco dai tempi di “Bandiera Gialla”. Bravissimo, per bene, gentile. Ad avercene… Ho una infinita riconoscenza per Pippo Baudo che mi convinse a resistere nei momenti più duri, quando ero attaccato dalla politica e da dentro la Rai. Mi prese per la collottola e mi disse che solo un pavido e un vigliacco avrebbe mollato. E non mollai di un millimetro».

Impossibile parlare di Rai senza arrivare a Fiorello.

«Ci incrociamo in vacanza, ci mandavamo messaggi via telefono, avevamo due cani border collie “parenti”, siamo amici da sempre. È bravo, intelligente, intellettualmente onesto. E poi Vasco Rossi. L’ho conosciuto nel 1991 in una clinica per dimagrire. Da allora non ci siamo mai persi di vista. Siamo stati anche molto male nello stesso periodo. Ma, come canta lui, “siamo vivi anche grazie agli interruttori”. Un artista e uomo straordinario».

E l’universo Mediaset?

«Ho sempre lavorato e lavoro in assoluta libertà editoriale. Aggiungerei anche che il Tg5 ha ottimi risultati. Ci chiedono qualità, ascolti, completezza e creatività. Il Tg5 compie benissimo questa missione dal 1992: abbiamo un terzo dei giornalisti del nostro concorrente, il Tg1, mezzi assai minori e ogni giorno lo talloniamo».

Come vede Mediaset dopo Silvio Berlusconi?

«Pier Silvio Berlusconi è molto attento anche all’informazione. Vuole qualità e ascolti. Evidentemente è un “vizio” che si tramanda nelle generazioni. Sono certo che sarà accanto e valorizzerà sempre il Tg5 che considera uno dei suoi gioielli di famiglia».

Lei condivide quasi il record di longevità da direttore con Enrico Mentana, che alle spalle di anni di direzione ne ha 32.

«Ci conosciamo da quarant’anni. Abbiamo lavorato a lungo insieme. Ricordo che da giovani ci incontravamo di notte davanti alla mitica edicola di piazza Colonna a Roma dove compravamo le primissime edizioni dei giornali e ci facevamo belle chiacchierate. Poi ci siamo ritrovati al Tg1. Quando mi ha scelto come vice e socio fondatore del Tg5 nel 1992 ha dato un impulso decisivo alla mia carriera. Siamo soprattutto amici, siamo stati presenti alle nascite dei rispettivi primogeniti, ne abbiamo passate di cotte e di crude. Io gli voglio molto bene e penso che anche lui ne voglia a me».

Ma non ha voglia di smettere?

«Chiuderò bottega quando mi si chiuderanno gli occhi. Non concepisco l’idea dei giardinetti. E nemmeno quella di pontificare nei salotti chic o in quelli televisivi». 

Estratto dell’articolo di Paolo Graldi per “il Messaggero” mercoledì 9 agosto 2023.

Clemente Mimun compie oggi settant'anni e li festeggia con i due figli Simone e Claudio, dopo una breve vacanza a Capri, ospite da un amico.

[…]

La tua carriera in quattro cifre?

«52 anni di lavoro, 29 anni di direzioni, 3 anni di ferie non godute, 80 assunzioni».

[…]

L'esperienza più ricca e quella più controversa?

«Il Tg5 è anche figlio mio, quindi il più amato, il Tg1 dimenticabile».

[…]

Il tuo editore, Silvio Berlusconi, quanto ti ha mai condizionato?

«Berlusconi, che mi manca umanamente moltissimo, è stato un grande editore liberale. Ed escludo che Mediaset con Pier Silvio cambi strada». 

Ci hai mai litigato?

«Era impossibile litigarci. E quando si discuteva una questione era attento alle osservazioni altrui».

Che cosa chiedeva in particolare che facessi e che fossi?

«Mi ha chiesto sempre e solo autorevolezza, qualità e ascolti. Missione che il Tg5 compie dal 1992». 

Il potere logora chi ce l'ha o chi non ce l'ha?

«Restando a quel che è accaduto a Renzi, Salvini e Di Maio, passati da boom elettorali a forti ridimensionamenti, logora di più chi ce l'ha».

[…]

Come scandisce la tua giornata per tranche?

«Mi sveglio verso le 5,30. Leggo i giornali sul web, guardo tg internazionali. Alle 8,30 al Tg5. Alle 9,30 riunione di sommario, con break di un'ora e mezzo a pranzo dove generalmente facciamo riunioni. Alle 16 riunione per il tg della sera. Resto fino alle 18,30-19 poi 15 minuti di break e da casa ultima aggiustatina alla scaletta». 

Un direttore lavora sette giorni su sette, non va mai in ferie e ha sempre il telefono a portata di orecchio. Sei ormai stanco di questa vita?

«Che tutti i direttori facciano una vita di sacrifici è una leggenda. Molti sono salottieri, alcuni stanno più in tv che in redazione, io sono tg e casa perché mi piace, non faccio alcuno sforzo e sarà così ancora per qualche anno almeno». 

[…]

La malattia ti ha messo a dura prova e hai vinto tu: come ci sei riuscito?

«Non ho vinto l'ictus, convivo con una pesante serie di disagi e devo fare a meno di 2 cose che amo: le lunghe passeggiate e le corse in moto. Oltre al fatto che prendo 10 pasticche al giorno e faccio fisioterapia 3 volte a settimana. Altro che vinto».

[…]

La notizia che non avresti mai voluto dare?

«Sono troppe: guerre, stragi di migranti e così via. Personalmente, le morti di Berlusconi, Pannella e Craxi». 

Pensi di aver cresciuto qualche allievo con risultati apprezzabili? Con quali regole e valori?

«[…] i giovani che oggi sognano il giornalismo sono preparatissimi». 

[…] Gli amori, gli amici, i colleghi: una parola per ciascuno.

«Amori no comment. Ho 3-4 amici e sono fortunatissimo. Tra i colleghi Mentana e Mollica su tutti, ne abbiamo fatte di ogni». 

A proposito di colleghi, cosa pensi di Cesara Bonamici dal Tg5 al "Grande Fratello"? «Quando Pier Silvio me ne ha parlato ho pienamente condiviso la sua idea. Sarà un ottimo spariglio televisivo». 

[…]Hai paura della morte?

«No. Quando sarà lo si saprà dopo un mese, saluterò con una mia pagina sui giornali. Wikipedia non avrà l'ultima parola». 

Un gesto che non rifaresti ?

«Non me la prenderei per gli attacchi politici che ho subito e non mi tratterrei da qualche calcio in culo a chi li meritava».

[...]

Non riusciamo a leggere parole come quelle da te scritte e passarci sopra. Cara Concita De Gregorio sono il papà di una ragazza autistica: quei decerebrati assoluti abitano sotto il nostro stesso tetto. Davide Faraone su Il riformista il 9 Agosto 2023 

Cara Concita ti chiedo scusa, probabilmente ho reagito male alle tue parole perché sono papà di una ragazza autistica. Probabilmente prima di prendere coscienza della disabilità di mia figlia, avrei letto compiaciuto le tue parole e le avrei considerate anche efficaci. Probabilmente è stato così per tanti di quelli che ti hanno letta quella mattina. Hanno giustamente focalizzato la loro attenzione sul gesto dei ragazzi che inopinatamente e rovinosamente hanno danneggiato la statua ottocentesca di Enrico Butti, per farsi un selfie e hanno pensato di riversargli addosso i peggiori insulti che potessero passargli per la testa e i tuoi addirittura possono essere apparsi insufficienti.

Il danneggiamento della statua, la totale incultura, la mancanza di rispetto di un’opera d’arte, meritava tutte le contumelie possibili. Io torno a chiederti scusa, perché sarà probabilmente una nostra esagerazione, penso di rappresentare in questo il pensiero delle mamme e dei papà delle persone con disabilità, una sensibilità spiccata su determinati argomenti, ma non riusciamo proprio a passarci sopra. Non riusciamo a leggere parole come quelle da te scritte e passarci sopra, perché i decerebrati assoluti abitano sotto il nostro stesso tetto e dobbiamo curarli e crescerli spesso in assoluta solitudine, perché facciamo sacrifici enormi per portarli a scuola ogni mattina e non ci siamo mai rassegnati alle scuole differenziali.

Preghiamo tocchi loro un insegnante di sostegno formato, una classe solidale, con compagni che abbiano voglia di crescere con i nostri figli, che li invitino ai compleanni, che non li considerino un peso in gita scolastica. Perché ci siamo umiliati e abbiamo chiesto tante volte ai dirigenti scolastici delle scuole dei nostri figli di bocciarli, fargli ripetere l’anno, perché comunque la scuola è accogliente rispetto a tutto quello che li aspetta dopo. E poi perché abbiamo sillabato con loro, abbiamo gioito quando hanno imparato ad allacciarsi le scarpe, a mangiare da soli, perché non era così scontato che accadesse. Perché non abbiamo mai smesso di pulirgli la bocca, anche da adulti, anche quando hanno messo da parte il bavaglino, perché sarà sempre così, perché saranno in molti casi sempre i nostri “bambini”, non soltanto i nostri figli, per tutta la vita.

E nonostante è così, nonostante le difficoltà, potrà apparire strano, ma non scambieremmo mai i nostri figli per nessun altro figlio al mondo. Perché siamo persone felici, semplicemente siamo la dimostrazione vivente che la felicità è un sentimento soggettivo, non ne esiste una soltanto. Quello che hai espresso come il massimo dell’insulto, quelli che hai apostrofato con le espressioni più crude possibili per aver fatto la cosa peggiore al mondo, è la nostra quotidianità, la nostra vita reale. 

Come ti ha fatto benissimo notare anche la mia grande amica Lisa Noja, non c’entra nulla il concetto che hai espresso “del linguaggio politicamente corretto e del comportamento che ne consegue che stanno paralizzando il pensiero e l’azione, specie a sinistra”. Il ragionamento è semplice e tu sei una persona che ho sempre apprezzato per l’intelligenza e non puoi non rendertene conto: rappresentare una condizione di vita reale come un insulto è irrispettoso e fa soffrire chi quella condizione la vive. E anche se chi è decerebrato può non comprendere un’offesa, può non percepire la violenza fisica o verbale, stai tranquilla che ci sarà chi incasserà per conto suo, chi si sarà sentito umiliato leggendo il tuo pezzo: tutti coloro che conoscono i loro volti ed i loro sentimenti, che li sanno riconoscere e sanno essere riconosciuti perché non li considerano tutti uguali, tutti disabili. Ed infine permettimi di dirti un’altra cosa, tutto questo con la “sinistra” non c’entra nulla.

Ci siamo dovuti difendere da soli dalle tue parole, nessuno di quelli “di sinistra”, nessuno di quelli che di mestiere fa il droghiere dei vocaboli, ti ha manifestato il proprio disappunto, nessuno ti ha fatto notare che probabilmente avevi commesso una leggerezza nell’usare quel linguaggio. Lo stesso comitato di redazione del giornale per cui scrivi, La Repubblica, che qualche giorno prima si era riunito per stigmatizzare le parole di Elkann sui giovani lanzichenecchi, non ha proferito una sola parola di presa di distanze dalle tue espressioni quantomeno forti. Perché “a sinistra”, cara Concita, “l’uso del linguaggio politicamente corretto”, usa una doppia unità di misura, doppia come è spesso doppia la morale, come un droghiere che trucca la bilancia. Tu per certa “sinistra” quelle cose puoi dirle, ti sono abbonate, per qualcun altro si sarebbe scatenato il finimondo. Saremo una società realmente matura, con una forte coscienza civica, quando non dovranno essere le persone coinvolte in qualche modo con la disabilità a ribellarsi, a dover far notare una leggerezza, ma quando nessuno si sognerà di scrivere quelle cose e se anche qualcuno dovesse farlo saranno in tanti a farglielo notare. Davide Faraone

Dagospia l'8 agosto 2023. SONO ORE CONCITATE ALL’ORDINE DEI GIORNALISTI – IL CONSIGLIO NAZIONALE DELL’ODG HA DECISO DI SEGNALARE AL CONSIGLIO DI DISCIPILINA DELL’ORDINE DEL LAZIO CONCITA DE GREGORIO – LA RAGIONE? GLI ARTICOLI “ABILISTI” DEL 4 E 5 AGOSTO PUBBLICATI DA “REPUBBLICA”, IN CUI CONCITA, PARLANDO DEGLI INFLUENCER, LI PARAGONAVA A “DEFICIENTI, DECEREBRATI ASSOLUTI CHE IN UN TEMPO NON COSÌ REMOTO SAREBBERO STATI ALLE DIFFERENZIALI”

"La frase più atroce", chi fa arrabbiare De Gregorio: insulti e doppia morale. Il Tempo l'08 agosto 2023

Si muove l'Ordine dei giornalisti per l'articolo pubblicato su Repubblica a firma di Concita De Gregorio che criticava gli influencer tedeschi che avevano distrutto una statua pregiata per fare un video in una villa di Viggiù. A sollevare aspre polemiche erano state le frasi della giornalista, ex direttrice dell'Unità e conduttrice di La7, che descrivevano gli influencer come "decerebrati" e persone con deficit cognitivo, che in altre epoche sarebbero finiti nelle scuole differenziali e invece oggi sono celebrati da milioni di follower. Secondo quanto riporta Dagospia, il Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti "ha deciso di segnalare al Consiglio di disciplina" dell'Odg del Lazio Concita De Gregorio, si legge sul sito di Roberto D'Agostino, "per gli articoli 'abilisti' del 4 e 5 agosto pubblicati da Repubblica". 

Ma cosa aveva scritto, nel dettaglio, la giornalista? “Allora dunque ci sono questi cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca. Ecco ci sono questi deficienti, nel senso che letteralmente hanno un deficit cognitivo – non è mica colpa loro, ce l’hanno –  e che però pur essendo idioti hanno probabilmente centinaia o migliaia di followers, non ho controllato ma non importa, è assolutamente possibile che siano idoli della comunità”. Frasi che hanno indignato associazioni e famiglie con persone con deficit cognitivi che hanno protestato con veemenza per l'uso, a mo' di insulto, del disagio mentale. 

Tra le critiche più argomentate c'è stata quella di Gianluca Nicoletti, giornalista e conduttore radiofonico, nonché padre di un ragazzo autistico: "L’immagine di un insegnante che dice al ragazzo con deficit psichico 'sillabiamo però pulisciti prima la bocca' è veramente atroce. I nostri ragazzi possono anche sbavare, possono avere difficoltà nel parlare, nel leggere, queste sono le conseguenze dei loro cervelli fuori standard. E allora? Bavoso si può dire, cicciona guai?", ha scritto sul sito dell'associazione Per Noi Autistici sottolineando come certe regole del politicamente corretto, seguite in modo ossessivo da molti commentatori, non valgano per alcune categorie. 

Il momento in cui la statua viene danneggiata per il selfie. Concita De Gregorio su La Repubblica il 4 agosto 2023. 

Allora dunque ci sono questi cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca. Ecco ci sono questi deficienti, nel senso che letteralmente hanno un deficit cognitivo – non è mica colpa loro, ce l’hanno –  e che però pur essendo idioti hanno probabilmente centinaia o migliaia di followers, non ho controllato ma non importa, è assolutamente possibile che siano idoli della comunità. 

Sono influencer, leggo nelle cronache. Insomma ci sono questi influencer, gente che influenza e orienta i comportamenti di altra gente, che per farsi un selfie nel Varesotto, a Viggiù, hanno distrutto una statua ottocentesca. Ma non importano l’epoca né il valore commerciale: poteva essere un Michelangelo, uno Jago. Hanno distrutto un’opera d’arte perché dovevano farsi una foto da postare sui social. C’è il video, prova suprema. Ridono. Probabilmente non succederà niente: i genitori premurosi ripagheranno il danno, o i nonni. 

Editorialisti, vi prego. Direttori di giornali e di reti tv, vi supplico. Commissionate alle migliori menti del nostro tempo, filosofi scienziati celebrità pensanti, piccoli monologhi da frazionare su TikTok che spieghino che esistiamo anche se non ci fotografiamo. Come si fa a riavvolgere il nastro di questo delirio: questo sì che è un tema epocale, altro che Pnrr. Genitori: puniteli. Toglietegli le chiavi di casa, negategli la ricarica della prepagata e se guadagnano più di voi e per questo vi intimidiscono, suscitano il vostro rispetto: riprendetevi, toglietegli il sorriso. Io non lo so come si fa, ma si deve.

CHI SONO 

A Repubblica dal 1990 al 2008, poi direttore de L’Unità dal 2008 al 2011, è rientrata a Repubblica come editorialista. Laureata in Scienze Politiche all’Università di Pisa, Concita De Gregorio è autrice di numerosi libri tra cui "Non lavate questo sangue" (Laterza, 2001), "Una madre lo sa" (Mondadori, 2006), "Così è la vita"(Einaudi, 2011), "Io vi maledico" (Einaudi, 2013). Nel 2015 ha pubblicato “Mi sa che fuori è primavera” (Feltrinelli), mentre nel 2016 sono usciti “Cosa pensano le ragazze” (Einaudi), legato al progetto omonimo apparso su Repubblica.it, e "Non chiedermi quando. Romanzo per Dacia" (Rizzoli). Per tre anni ha condotto su Rai Tre la trasmissione televisiva "Pane quotidiano" dedicata ai libri. Poi, sempre su Rai Tre, ha fatto "Fuori Roma" e “Da Venezia è tutto” programmi da lei ideati. Per due anni ha condotto “Cactus, basta poca acqua” su Radio Capital. Dopo il romanzo “Nella notte” (Feltrinelli) è uscito "In tempo di guerra" (Einaudi). Con Sandra Toffolatti ha realizzato il progetto ConDominio - L'Arte riparte. In libreria c'è il suo libro "Un'ultima cosa" (Feltrinelli), con i testi di uno spettacolo che sta portando in tourné con Erica Mou. Conduce su La7, con Davide Parenzo, "InOnda" ogni sabato e domenica. Da marzo 2023 ha assunto la direzione della rivista The Hollywood Reporter Roma

Botta e risposta della giornalista con Lisa Noja e Davide Faraone. Quell’articolo abilista di Concita De Gregorio che fa discutere e le sue scuse che peggiorano la situazione. Redazione su Il Riformista il 5 Agosto 2023 

La vicenda è nota. Tre giorni fa, il due agosto, nel Varesotto un gruppo di sei ragazzi ha danneggiato una scultura di Enrico Butti mentre era intento a girare un filmato all’interno di Villa Alceo a Viggiù. Un danno di circa 200 mila euro. “I ragazzi – ha raccontato il custode – non hanno rispettato il divieto di entrare nella fontana e sono stati ripresi dalle telecamere mentre due di loro si abbracciavano alla statua facendola cadere e distruggendola, mentre quattro loro compagni giravano video con i telefonini”. La vicenda è stata raccontata e filmata sul sito locale Varesenews.

La nota giornalista e scrittrice Concita De Gregorio ha commentato così la vicenda su Repubblica, con parole durissime: “Allora dunque ci sono questi cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca. Ecco ci sono questi deficienti, nel senso che letteralmente hanno un deficit cognitivo, non è mica colpa loro, ce l’hanno”.

Tra le prime, insieme a molte associazioni del settore, a criticare con asprezza Concita De Gregorio è stata Lisa Noja, consigliera regionale lombarda di Italia Viva, nota per le sue battaglie di civiltà a favore delle persone non normodotate: “Ho riletto tre volte l’apertura dell’editoriale di oggi di Concita De Gregorio. Raramente in questi ultimi anni ho trovato in poche righe pubblicate su un quotidiano nazionale un concentrato di abilismo così terribile. La disabilità utilizzata come strumento di offesa: persona con disabilità cognitiva = idiota = incivile e maleducata da emarginare. Con la aggravante che la De Gregorio sembra quasi rammaricarsi del fatto che oggi non ci siano più le scuole differenziate ed esista invece l’obbligo di una scuola inclusiva. Sono parole che grondano pregiudizi discriminatori e che feriscono la dignità delle persone con disabilità. Scritte proprio da una giornalista che spesso si professa paladina dei diritti civili”.

Sul quotidiano di sabato è la stessa Concita De Gregorio a replicare, apparentemente chiedendo scusa: “Cerebrolesi non è un insulto ma una condizione, mi hanno scritto. Completamente d’accordo. Chiedo sommessamente scusa”. Ed ancora: “I normodotati che distruggono statue per postare una foto su Instagram non hanno nessun danno.” Ma poi è la stessa giornalista che incalza, peggiorando semmai la situazione: “A margine penso che sia comunque la morte del contesto. Autorevolissimi pensatori e filosofi, financo semplici scrittori lo hanno spiegato prima e meglio di me. Mi limito a confermare. Il linguaggio politicamente corretto e il comportamento che ne consegue stanno paralizzando il pensiero e l’azione – specie a sinistra”.

Quindi secondo la nota giornalista paragonare dei ragazzetti che distruggono senza alcun senso una statua a dei “celebralesi” che “in un tempo non remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca” è sì una cosa censurabile, una cosa di cui chiedere scusa, ma che dimostra come il linguaggio politicamente corretto stia paralizzando il pensiero e l’azione. Perché il contesto, evidentemente, la scuserebbe.

A rispondere a Concita De Gregorio è nuovamente Lisa Noja, poche ore dopo la pubblicazione del suo articolo su Repubblica: “il contesto e l’abuso del politicamente corretto non c’entrano proprio nulla. Ieri hai scritto un orribile articolo abilista. Punto. Certe volte bisogna semplicemente chiedere scusa. E fermarsi lì”.

Ancora più netto il deputato di Italia Viva Davide Faraone, anche lui in prima fila su questi temi: “A Concita De Gregorio mi piacerebbe offrire soltanto un consiglio: provi a pulire la bocca ad un disabile che sbava e vedrà che non le farà poi così tanto schifo. Le servirà semmai a rispettarlo, a conoscerlo, ad abituarsi alla sua presenza nella società, a mostrare la stessa attenzione che mostra giustamente per la statua ottocentesca distrutta da un influencer senza coscienza. Provi a sillabare con lui così come fanno tanti volontari nel nostro Paese, tanti valorosissimi insegnanti di sostegno, assistenti alla comunicazione, provi a passare un po’ di tempo con loro, così come dedica del tempo ad ammirare un quadro, una statua, un monumento e vedrà che le verrà naturale rispettarli, indignarsi se qualcuno osasse offenderli così come si indigna opportunamente a difesa di un’opera d’arte. Capirà che così come i manicomi, anche le scuole differenziali nel nostro Paese, per fortuna, ce le siamo lasciate alle spalle, proprio per costruire percorsi di inclusione, di scambio tra i ragazzi, che vivono naturalmente la convivenza e mai si sognerebbero di insultare qualcuno paragonandolo al proprio compagno di classe. Le suggerirei anche di frequentare un po’ di mamme e papà di persone con disabilità, la aiuterà a comprendere che “il deficit cognitivo” può portarti a non comprendere un’offesa, “il decerebrato assoluto” può non percepire la violenza fisica o verbale, ma ci sarà chi incasserà per conto loro, chi si sarà sentito umiliato leggendo il suo pezzo”.

CONCITA CHIAMALI PURE STRONZI MA SE PUOI LASCIA FUORI QUELLI CON DEFICIT COGNITIVO COME TOMMY. Estratto dell’articolo di Gianluca Nicoletti per pernoiautistici.com sabato 5 agosto 2023.

E’  stata una fitta al cuore per, come per ogni altro genitore di un figlio con un serio deficit cognitivo,  leggere […], nell’incipit della  rubrica “Invece Concita” , che lo stato che accomuna i nostri ragazzi è usato con disprezzo e scherno per definire i giovani influencer tedeschi, sicuramente maleducati e  viziati, che per farsi un selfie nella fontana di una villa a Viggiù hanno rotto una statua. I ragazzi come Tommy possono essere turbolenti o svampiti ma non sono vandali.

Per un attimo ho stentato a credere possibile che una mia collega gentile e sensibile, da sempre testimone di tutte le possibili battaglie a difesa di ogni fragilità e diritto civile, possa essere sfuggita  una frase del genere. Sembra piuttosto scritta da uno di quei bei tipi che ogni tanto attaccano sui social, lo fanno per cose che si scrivono o dicono non in linea con i loro punti di vista, prendendo però  la disabilità psichica  come esempio di una  probabile incapacità a esprimere pensiero. 

La frase che mi ha addolorato la riporto qui integralmente: “Allora dunque ci sono questi cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca. Ecco ci sono questi deficienti, nel senso che letteralmente hanno un deficit cognitivo – non è mica colpa loro, ce l’hanno –  e che però pur essendo idioti hanno probabilmente centinaia o migliaia di followers, non ho controllato ma non importa, è assolutamente possibile che siano idoli della comunità.” 

Lo so che tra le tante maniere di esprimere oggi un pensiero civilmente arretrato, la lotta alla  discriminazione “abilista” sia quella meno gratificante per essere presa come proprio specifico terreno di militanza. Non posso farci nulla e mi dispiace di dare l’impressione di voler alimentare una di quelle tristissime dispute pubbliche tra giornalisti (tra l’altro  Concita e io lavoriamo per lo stesso gruppo). Però siccome non ho mai fatto passare leggerezze simili ad alcun collega, non posso per onestà verso mio figlio Tommy e i tanti come lui fare finta di non aver letto. Anche perché altri genitori me l’hanno fatto notare da parecchie ore.

Volevo solo se possibile far riflettere Concita sul fatto che, grazie a battaglie che qualcuno ha fatto prima di noi, le scuole differenziali in Italia non ci sono più dal 1977 quando furono abolite dalla legge 517, con l’introduzione, un paio di anni dopo, della figura dell’insegnante di sostegno. Le due realtà quindi non sono mai coesistite. 

Quella che veniva indicata come luogo dell’emarginazione e dello stigma […] venne sostituita con il principio dell’inclusione scolastica. E’ una legge che rappresenta per l’Italia un motivo di grande orgoglio […] ma è un diritto sancito che ci pone all’avanguardia rispetto molti altri Paesi.

Un ultimo particolare, forse quello meno gradevole in assoluto. L’immagine di un insegnante che dice al ragazzo con deficit psichico “sillabiamo però pulisciti prima la bocca” è veramente atroce. I nostri ragazzi possono anche sbavare, possono avere difficoltà nel parlare, nel leggere, queste sono le conseguenze dei loro cervelli fuori standard. E allora? Bavoso si può dire, cicciona guai? 

Nessuno però dovrebbe permettersi di riassumere  il loro disagio nel vivere una vita difficile per formulare un insulto,  soprattutto se per definire persone che sarebbe molto più semplice chiamare “poveri stronzi” senza il rischio di ferire la nostra sensibilità di cervelli ribelli.

Estratto dell’articolo di Concita De Gregorio per “la Repubblica” – 4 agosto 2023 

Allora dunque ci sono questi cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca. Ecco ci sono questi deficienti, nel senso che letteralmente hanno un deficit cognitivo — non è mica colpa loro, ce l’hanno — e che però pur essendo idioti hanno probabilmente centinaia o migliaia di follower, non ho controllato ma non importa, è assolutamente possibile che siano idoli della comunità.

[…] Insomma ci sono questi influencer […] che per farsi un selfie nel Varesotto, a Viggiù, hanno distrutto una statua ottocentesca. Ma non importano l’epoca né il valore commerciale: poteva essere un Michelangelo, uno Jago. Hanno distrutto un’opera d’arte perché dovevano farsi una foto da postare sui social. […]  […] Direttori di giornali e di reti tv, vi supplico. Commissionate alle migliori menti del nostro tempo […]  piccoli monologhi da frazionare su TikTok che spieghino che esistiamo anche se non ci fotografiamo. […] Genitori: puniteli. […]. Io non lo so come si fa, ma si deve.

Estratto dell’articolo di Concita De Gregorio per “la Repubblica” – 5 agosto 2023 

Ieri, nell’indicare il comportamento di un gruppo di idioti che tali fisiologicamente non sono, anzi: sono persone popolari (influencer) che hanno distrutto una statua per farsi un selfie, li ho definiti deficienti, cerebrolesi. 

Alcuni lettori — soprattutto familiari di persone con handicap e anche associazioni — si sono sentiti offesi. Hanno ragione. Cerebrolesi non è un insulto ma una condizione, mi hanno scritto. Completamente d’accordo. Chiedo sommessamente scusa.

[...] Chiedo dunque scusa, sinceramente, e convengo: i cerebrolesi sono persone meravigliose afflitte da un danno. 

I normodotati che distruggono statue per postare una foto su Instagram non hanno nessun danno, invece. Chiamiamoli Ugo. A margine penso che sia comunque la morte del contesto. 

[…] Il linguaggio politicamente corretto e il comportamento che ne consegue stanno paralizzando il pensiero e l’azione — specie a sinistra.  […] Dipende dal contesto. Qui era molto scivoloso.

Dagospia il 14 marzo 2023. Concita De Gregorio si racconta con grande sincerità a Belve, parlando per la prima volta della sua malattia.

 “Cosa ha pensato quando hanno scritto che si è fatta lo stesso taglio di capelli di Giorgia Meloni?” le chiede la Fagnani. Una domanda alla quale la giornalista risponde svelando: “Sono stata sul punto di chiamare il direttore, perché io preferirei avere i miei capelli, ma adesso porto una parrucca. ho avuto un anno impegnativo: ho avuto un cancro, mi sono operata ad agosto; ora faccio terapia tutti i giorni. ora ne parlo al passato perché ho tolto tutto, ma non si può mai parlare completamente al passato. diciamo però che siamo sulla buona strada”. E sulle ragioni del suo silenzio confessa: “Volevo evitare che tutti si rivolgessero a me con aria dolente chiedendomi come stai, perché quello è solo un pezzo della tua vita, non è tutta la tua vita”.

La Fagnani le chiede qual è stato il momento più brutto. E la De Gregorio racconta: “E’ stato capire come dirlo al più piccolo dei miei figli, che vive in Australia. Io volevo farlo di persona. ma a quel tempo facevo una terapia molto fitta. Ho convinto i medici che mi avrebbe fatto meglio vedere mio figlio che fare la terapia senza vederlo”.

 Comunicato

 Torna Belve, il programma ideato e condotto da Francesca Fagnani, finalmente in prima serata il martedì su Rai2. Un ciclo di puntate dedicate a donne (e uomini) indomabili, ambiziosi, forti, non necessariamente da amare, ma che non si potrà fare a meno di ascoltare.

Concita De Gregorio si racconta a Francesca Fagnani senza filtri, su lavoro e vita privata. Sugli anni alla direzione dell’Unità, la Fagnani ricorda che, in quanto direttrice, si è trovata a dover risarcire i danni per articoli firmati dai suoi giornalisti e giudicati diffamatori dalla magistratura. La Fagnani chiede quanto abbia pagato, e la De Gregorio: “Ho pagato moltissimo, sto ancora finendo”. La Fagnani insiste: Quanto? E la giornalista: “Ho sborsato, di tasca mia con il mio lavoro in questi dieci anni, più di due milioni di euro”.

Sul diverbio con il giornalista Alessandro Sallusti, reo di averla chiamata per nome e non per cognome come faceva con gli altri colleghi, la Fagnani le fa notare che lei ha una rubrica che si chiama Invece Concita… E la giornalista spiega: “E’ una questione di contesto e di consenso: io con i miei lettori stabilisco un rapporto confidenziale e dispongo del mio nome, perché voglio farlo. Però se non ti do il permesso di chiamarmi per nome…”. E continua: “E’ un metodo: con le donne usano soltanto il nome e mai il cognome; questa falsa confidenza ha un sotto testo, il non detto è derubricarti a una persona intima e non conferirti autorevolezza”.

Sulla sua vita privata e il rapporto di coppia, Concita De Gregorio spiega: “Io sarei per la libertà assoluta, se tutti fossero consapevoli che non esiste il possesso dell’altro sarebbe più semplice”. La Fagnani chiede se abbia vissuto in una coppia aperta e la giornalista risponde: “Noi siamo una coppia solidale, sono trent’anni che siamo insieme, ci vogliamo molto bene. In trent’anni le cose cambiano e tante cose succedono, ma io non posso governare il desiderio e il pensiero dell’altro”.

Belve è prodotto da Rai-Direzione Intrattenimento Prime Time in collaborazione con Fremantle Italia. Ideato e condotto da Francesca Fagnani, e scritto da Fabio Pastrello, Antonio Pascale e Gabriele Paglino, per la regia di Duccio Forzano.

 L’appuntamento con Belve è dal 21 febbraio tutti i martedì in prima serata su Rai2 per cinque puntate; sempre disponile on demand su RaiPlay.

Estratto dell'articolo di Annalisa Cuzzocrea per “La Stampa” il 15 marzo 2023.

Dovete immaginare un giardino d'estate, una telefonata e un'amica - la più brava, l'infallibile, l'inarrestabile - che ti chiede: «Mi controlli tu il pezzo, lo guardi bene?». E poi ti dice: «L'ho scritto da sdraiata». Concita De Gregorio ha avuto un cancro, lo ha detto parlando con Francesca Fagnani, a Belve, su Raidue.

 Non sapeva se lo avrebbe detto lì, ma poi è arrivata quella domanda: «Cos'ha pensato quando hanno scritto che si è fatta lo stesso taglio di Giorgia Meloni?». E la risposta: «Stavo per chiamare il direttore perché io preferirei avere i miei capelli.

Questa è una parrucca».

[…]

Non sapeva se l'avrebbe detto lì, Concita, ma sapeva che a un certo punto del viaggio lo avrebbe fatto. E non per sé. «Mi sono curata per un anno in una struttura pubblica, al Policlinico Gemelli a Roma. Il percorso in day hospital, la chemioterapia in day hospital: uno stanzone in cui non sei mai solo. Poi il reparto Terapie integrate che è un posto meraviglioso dove si prendono cura di te con il supporto psicologico, la fisioterapia, l'agopuntura, il nutrizionista. Anche questo è servizio pubblico. Vorrei dirlo perché abbiamo un grande problema con la sanità italiana, ma ci sono luoghi di eccellenza dove la persona viene prima del malato».

L'ha operata Riccardo Masetti, l'ideatore di Race for the cure. «Ho conosciuto solo persone che hanno avuto una cura straordinaria, ma non per me. Io ero in fila con il mio numero. L'hanno avuta nello stesso identico modo per chi era in fila prima di me e per chi stava dopo. Ho capito, ho saputo, che le donne che patiscono questo tipo di cancro sono una su quattro. E quindi, facendo i conti con la mia vita, ho pensato che moltissime persone che conosco o che noi conosciamo attraversano questo percorso in silenzio e in solitudine, senza dirlo. Magari perché in quel momento si vergognano di essere più deboli, meno attraenti, più fragili, meno competitive: lo stigma della malattia» […]

«Io ho preferito aspettare che la parte più complicata fosse alle spalle, prima di tutto per proteggere la mia famiglia e in particolare i miei figli. Il minore vive agli antipodi, a dieci ore di fuso orario da qui, e un conto è dirlo a qualcuno che ti guarda negli occhi, un altro è farlo a distanza».

 […] «E poi avevo il desiderio di sentirmi dritta». Non voleva raccontare la fatica a fatica in corso. Non voleva uno sguardo di ritorno che le comunicasse comprensione, compassione, paura. Perché altrimenti non ci sarebbe stato più un minuto salvo delle sue giornate. E invece ci sono stati il teatro, il podcast nuovo, la tournée, il progetto di un nuovo giornale, In Onda tutte le settimane. «Se non avessi avuto la forza di farlo non lo avrei fatto, ma tutto questo mi ha sostenuta […]».

 A un certo punto, è anche partita. «Per andare in tournée con lo spettacolo e per andare a trovare Bernardo ho rimandato la chemioterapia di tre giorni. Sono andata dai medici e ho detto loro: la chemio di sicuro mi fa bene, ma sono sicura che mi farà non so se altrettanto bene, ma di certo molto bene, vedere mio figlio.

E quindi troviamo un compromesso tra la fede cieca nella medicina e quello che mi dice il cuore: parlare con il mio bambino, mettere in scena questo spettacolo che amo e che mi fa sentire viva. Tornerò ad affrontare quel che devo, con più forza».

[…]

 Della sua malattia, di quel male di cui ha detto ora e poi basta, perché «Non è che deve diventare una stagione, un "dicci meglio, dicci di più"», Concita dice: «La porto come un altro porta la morte di un genitore, l'abbandono di un amore, un figlio che ha un problema. La porto come si porta la vita». Che continua, non si ferma. «Poi certo io ci penso tutto il tempo, ma se anche gli altri fossero stati lì a pensarci tutto il tempo, poi di tempo non me ne sarebbe rimasto più» […]

Dicono i medici che negli anni in cui il mondo è stato investito dall'emergenza Covid sono saltati moltissimi esami di screening. Dicono le senologhe che moltissime donne erano convinte di aver fatto la mammografia annuale nel 2020 e invece - senza rendersene conto - l'avevano saltata. È successo a Concita e non solo a lei.

«La prevenzione ti salva la vita, questo lo sappiamo. Lo ripeto però per chi dice: non voglio controllare perché ho paura di trovare qualcosa». Invece si deve, perché quel qualcosa, se c'è, non diventi tanto forte da travolgerti. Concita De Gregorio ha lasciato che a sapere fossero solo le persone più vicine, le persone a cui vuole bene, finché si è sentita fragile. «Adesso mi sento di nuovo forte. A chi mi chiede come stai dico: sto molto bene. Davvero molto bene».

Concita De Gregorio a «Belve» rivela: «Ho avuto un cancro, ora porto la parrucca». Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2023.

Ospite della trasmissione condotta da Francesca Fagnani, la giornalista e volto noto de La7 ha parlato per la prima volta della malattia

Hanno scritto che si era fatta lo stesso taglio di capelli di Giorgia Meloni, senza sapere il dramma personale vissuto da Concita De Gregorio nell’ultimo anno. Perché quei capelli sono in realtà una parrucca, che la giornalista porta a causa della terapia che fa ogni giorno. «Sono stata sul punto di chiamare il direttore, perché io avrei preferito avere i miei capelli, ma adesso porto una parrucca», ha raccontato De Gregorio, ospite della quarta puntata di «Belve», parlando per la prima volta della malattia che l’ha colpita. «Ho avuto un anno impegnativo - ha continuato la giornalista - ho avuto un cancro, mi sono operata ad agosto. Ora faccio terapia tutti i giorni, ne parlo al passato, perché ho tolto tutto, ma non si può mai parlare completamente al passato. Diciamo però che siamo sulla buona strada».

Volto noto di La7, dove conduce la trasmissione «In Onda», De Gregorio ha tenuto il segreto sulle sue condizioni fino a ora. «Volevo evitare che tutti si rivolgessero a me con aria dolente, chiedendomi “come stai?”, perché quello è solo un pezzo della tua vita, non è tutta la tua vita. Il momento più brutto è stato capire come dirlo al più piccolo dei miei figli, che vive in Australia. Io volevo farlo di persona, ma a quel tempo facevo una terapia molto fitta. Ho convinto i medici che mi avrebbe fatto meglio vedere mio figlio che fare la terapia senza vederlo».

Quando Francesca Fagnani le ha chiesto del famoso diverbio con il direttore di «Libero», Alessandro Sallusti, che la chiamò per nome e non per cognome, facendole notare che la sua rubrica su un quotidiano si intitola «Invece Concita», la direttrice di «The Hollywood Reporter Roma» ha voluto precisare il motivo della sua arrabbiatura. «È una questione di contesto e di consenso: io con i miei lettori stabilisco un rapporto confidenziale e dispongo del mio nome, perché voglio farlo. Però se non ti do il permesso di chiamarmi per nome… È un metodo con le donne usano soltanto il nome e mai il cognome. Questa falsa confidenza ha un sotto testo, il non detto è derubricarti a una persona intima e non conferirti autorevolezza».

Sposata da trent’anni con il collega Alessandro Cecioni e madre di quattro figli, la De Gregorio ha anche rivelato di aver dovuto sborsare di tasca propria una cifra ingente come risarcimento danni, per le cause di diffamazione intentate ai suoi giornalisti, quando era direttore responsabile dell’Unità (la fine della sua direzione risale al 2011). «Ho pagato moltissimo, sto ancora finendo. Ho sborsato di tasca mia, con il mio lavoro, in questi 10 anni, più di 2 milioni di euro».

Per la prima volta la giornalista parla della malattia. Concita De Gregorio, la confessione a Belve: “Ho avuto un cancro e porto la parrucca. Per l’Unità ho sborsato 2 milioni di euro…” Redazione su Il Riformista il 14 Marzo 2023

Un articolo di Libero lo scorso gennaio ironizzava su di lei e altre “signore in rosso”, che copiavano il taglio di capelli della premier Giorgia Meloni. Dietro quelle parole utilizzate con faciloneria del quotidiano di destra si nascondeva invece il dramma personale di una di quelle “signore”, la giornalista Concita De Gregorio.

Il ‘taglio’ della penna di Repubblica, ex direttrice de L’Unità, sono in realtà una parrucca che indossa a causa della terapia quotidiana contro il cancro. Lo ha confessato la stessa giornalista a ‘Belve’, il programma di Rai2 condotto da Francesca Fagnani.

Lì De Gregorio si è raccontata senza filtri su lavoro e vita privata, parlando per la prima volta della sua malattia. “Cosa ha pensato quando hanno scritto che si è fatta lo stesso taglio di capelli di Giorgia Meloni?“, le chiede la Fagnani. Una domanda alla quale la giornalista risponde svelando: “Sono stata sul punto di chiamare il direttore, perché io preferirei avere i miei capelli, ma adesso porto una parrucca. Ho avuto un anno impegnativo: ho avuto un cancro, mi sono operata ad agosto; ora faccio terapia tutti i giorni. Ora ne parlo al passato perché ho tolto tutto, ma non si può mai parlare completamente al passato. Diciamo però che siamo sulla buona strada”.

Quanto alle ragioni del suo silenzio, l’ex direttrice de L’Unità spiega di voler “evitare che tutti si rivolgessero a me con aria dolente chiedendomi come stai, perché quello è solo un pezzo della tua vita, non è tutta la tua vita”. Una battaglia difficile, fatta di momenti complicati: il peggiore “è stato capire come dirlo al più piccolo dei miei figli, che vive in Australia. Io volevo farlo di persona. Ma a quel tempo facevo una terapia molto fitta. Ho convinto i medici che mi avrebbe fatto meglio vedere mio figlio che fare la terapia senza vederlo”.

Dalla vita privata a quella lavorativa. Concita De Gregorio, oggi editorialista di Repubblica, è stata nel triennio 2008-2011 direttrice de L’Unità. Periodo molto complicato e segnato da un lungo strascico giudiziario a causa del fallimento della società editrice del quotidiano fondato da Antonio Gramsci e fino al 1991 organo ufficiale del Partito Comunista. Come direttore responsabile del quotidiano era stata ritenuta l’unico soggetto chiamato a rispondere delle cause per diffamazione mosse in sede civile contro la testata (pur non essendo stata l’autrice degli scritti), subendo per questo il pignoramento di conti bancari e altri beni nell’ambito di varie azioni giudiziarie.

Ho pagato moltissimo, sto ancora finendo”, spiega De Gregorio, che poi aggiunge anche una cifra: “Ho sborsato, di tasca mia con il mio lavoro in questi dieci anni, più di due milioni di euro”. E a proposito di lavoro e colleghi, nella trasmissione si torna anche su un ‘celebre’ diverbio avvenuto in tv con Alessandro Sallusti, reo di averla chiamata per nome e non per cognome come faceva con gli altri colleghi. La Fagnani le fa notare che lei ha una rubrica su Repubblica che si chiama “Invece Concita…”. Ma De Gregorio spiega: “E’ una questione di contesto e di consenso: io con i miei lettori stabilisco un rapporto confidenziale e dispongo del mio nome, perché voglio farlo. Però se non ti do il permesso di chiamarmi per nome…”. E aggiunge: “E’ un metodo: con le donne usano soltanto il nome e mai il cognome; questa falsa confidenza ha un sottotesto, il non detto è derubricarti a una persona intima e non conferirti autorevolezza”.

Belve dattilografe. Concita De Gregorio e l’imbarazzo pubblico di incarnare il proprio cancro. Guia Soncini su L’Inkiesta il 15 Marzo 2023

Abbiamo letto articoli lucidissimi di chi notava che la giornalista di Repubblica aveva copiato il taglio di capelli della Meloni, e invece era una parrucca. Ora meglio telefonarle e parlarle, anziché della malattia, di “Cunk on Earth” e di quel genio che ha inviato la lettera mussoliniana

È l’inverno del 2016, e il mio amico F., che sa che non guardo mai i siti italiani, mi manda delle istantanee di articoli a margine d’una conferenza stampa. La conferenza stampa è stata convocata per presentare Daria Bignardi come nuova direttrice di Rai 3. Gli articoli sono sulla scelta – sbarazzina e spregiudicata e sarcazzo – della Bignardi di tenere i capelli corti e grigi.

Il mio amico F., il cui mestiere è far quadrare i conti delle aziende e non osservare i dettagli e pensare a cosa scrivere, mi manda quei titoli e quelle foto chiedendomi: ma ha un cancro? Quella è una ricrescita da chemio, no?

Poiché sono sempre quella del dito e mai quella della luna, non penso: povera Daria. Penso: porelli, pensa come si vergogneranno di aver scritto queste stronzate quando verrà fuori la verità.

Ma poi invece no, perché gli esseri umani sono programmati per trovare scuse per sé stessi, sì vabbè avrà pure avuto il cancro ma io come facevo a saperlo, se non voleva commentassimo i suoi capelli poteva mettersi una parrucca, io commento quello che vedo. Eh, ma anche F. aveva commentato quello che vedeva. Dipende da quanti livelli vedi del linguaggio che hai di fronte, temo.

L’altro giorno mi sono arrivate delle note a un libro che sto scrivendo, e una di esse rimandava a un articolo di Concita De Gregorio. Alla sua rubrica su D, in cui aveva raccontato che non riesce a parlare dei libri perché non riesce a ricordarli, e che per non mi ricordo più che libro era uscita dalle coperte a cercare qualcosa con cui sottolinearlo per non perderne il ricordo.

Mi ha fatto molto ridere che mi segnalassero quella rubrica, avendola presa alla lettera, perché io leggendola avevo pensato: che paracula, ha fatto la rubrica per dire a tutti noi che elemosiniamo recensioni che ci recensirebbe tanto volentieri, ma purtroppo non riesce a ricordare quel che legge, trascende il suo controllo, mannaggia e mannaggetta.

La prima persona di cui mi sono preoccupata, quando Concita mi ha detto di avere un cancro, sono stata io. Ma come sarebbe agosto, ma come sarebbe ti sei operata, e io dov’ero, perché non mi hai detto niente. Non l’ho detto – persino il mio egocentrismo sa quando tacere – ma, mentre ancora eravamo al telefono, sono andata indietro nei messaggi, ho trovato quelli di agosto, ed erano pieni di indizi, pienissimi, e io non ne avevo colto neanche uno, non avevo schiacciato neanche una delle palle che mi aveva alzato. Ero stolida come quelli che facevano gli articoli sul look sbarazzino della Bignardi. Con tutto quello che hanno speso per farmi studiare.

(Lo so, dovrei dire «la signora De Gregorio», invece di fare quella che si prende confidenza sulla pubblica piazza. Abbiate pazienza: «Concita» è più corto, e poi ci conosciamo pure da quando avevamo l’età degli amorazzi e non quella delle cartelle cliniche, e insomma farebbe un po’ ridere se facessi la distaccata).

È l’autunno del 2017, Ronan Farrow sta intervistando le attrici che hanno storie di violenza e dintorni da raccontare a proposito di Weinstein. Mi colpisce l’intervista di Annabella Sciorra, che in tv era stata l’amante di Tony Soprano. A domanda sul perché non abbia parlato prima della violenza di Weinstein, dice: «Adesso, quando entrerò in un ristorante o a una festa, la gente saprà che mi è successa questa cosa. Mi guarderanno e sapranno. Sono una persona intensamente riservata, e questa è la cosa meno riservata che si possa fare».

Vorresti mai essere ridotta a incarnare il tuo stupro? Vorresti mai essere ridotta a incarnare il tuo cancro? Vorresti mai rischiare che, se autoscatti la chemio, poi per i lettori non sarai quello che scrivi ma quello che soffri?

Ieri mattina, quando sono uscite le anticipazioni della puntata di ieri sera di Belve, il posto scelto da Concita per dire al mondo che no, non ha copiato il taglio di capelli della Meloni come hanno scritto giornaliste lucidissime, ma ha una parrucca perché, insomma, le è capitato questo inconveniente, ieri una mia amica che conosce Concita ma non così bene mi ha raccontato il proprio imbarazzo.

Voleva scriverle un messaggio ma non sapeva se le facesse piacere, voleva dirle: sarai sommersa di messaggi – ma a che titolo il suo sarebbe dovuto essere non uno dei quattromila messaggi che la sommergevano. Ho pensato a tutti quelli che in questi mesi mi hanno chiesto: ma è vero che Concita sta male?, e neanche si sono offesi quando ho risposto «Fatti i cazzi tuoi», perché un altro ricatto della malattia è che persino i peggio pettegoli accettano di non sapere i dettagli morbosi.

Tra di loro, ho pensato in particolare a un comune amico che, dopo il primo «Fatti i cazzi tuoi», mi aveva ritelefonato dicendo che gli avevano fatto notare un dettaglio e aveva capito che era vero. Ammazza, ghepardo, hai notato che è una parrucca, dovrebbero farti scrivere di costume sulle prime pagine dei quotidiani.

Ho pensato che questa disattenzione per il secondo livello di lettura riguarda tutti: arrivi in uno studio televisivo senza tette, senza capelli – veramente pensiamo che nessun truccatore o parrucchiere o microfonista se ne accorga, o stanno solo zitti per pudore, per educazione, per non ridurti al tuo cancro?

Poi ho pensato che dovevo chiamare Concita. Per chiederle cosa pensasse della lettera mussoliniana di quel genio del purissimo presente, per dirle che avevo saputo che Tizia scopa con Caio, per ingiungerle di guardare Cunk on Earth. Certo non per essere così banali da parlare del cancro – ne parlano già tutti, che noia.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 9 settembre 2021. Ho provato a immaginare una realtà parallela in cui la coppia Concita De Gregorio/David Parenzo alla conduzione di In Onda sia la stessa, ma a sessi invertiti. David è una donna, Concita un uomo. Ecco, non saremmo arrivati alla terza puntata senza le barricate delle femministe (me compresa) fuori dagli studi, visto non tanto l’evidente disequilibrio negli spazi concessi ai due nel programma (Parenzo parla meno della Lagerback da Fazio) ma per i modi con cui lei si rivolge a lui. Sbrigativi, sprezzanti, conditi da sorrisini nervosi attraverso i quali mostra forzatamente i denti (che nel linguaggio non verbale significano una cosa ben precisa: ti vorrei addentare la giugulare) e con una frequente espressione che copre tutte le scale di colori comprese tra il disprezzo e il compatimento. Davvero, se Concita De Gregorio fosse un uomo, non staremmo neppure più qui a parlarne. Avrebbe preso un unico, gigantesco cazziatone agli esordi e si sarebbe ravveduta. E invece ne parliamo perché ieri sera si è raggiunta la vetta più alta della sua arroganza. Ospite il ministro Luigi Di Maio, lo stesso Di Maio ha respirato quell’imbarazzo che si respira a cena, di fronte a una coppia di amici con lui che tratta di merda la moglie o viceversa e tu balbetti qualcosa per sdrammatizzare, ma vorresti infilare la testa nell’insalatiera per l’imbarazzo. Tra l’altro, duole dirlo, ma modi a parte, sul tema virus e Green Pass la De Gregorio era di un’impreparazione tale che Parenzo e Di Maio al confronto parevano Fauci e Burioni. A partire dalla sua sconcertante premessa, ovvero: “Il Green Pass da solo non serve a niente, è solo una certificazione che significa che sei tamponato o vaccinato per entrare nei posti”. Che voglio dire, certo che da solo non serve a niente, infatti non è l’unica misura di contenimento del paese. E no, non è “solo una certificazione”, ma, appunto, una misura di contenimento del virus e di protezione per i cittadini. A quel punto il ministro Di Maio spiega con chiarezza che “il Green Pass serve a entrare nei locali, luoghi insomma in cui c’è la più alta probabilità di trasmettere il virus. Non sarà certo meglio tornare al coprifuoco…”. La De Gregorio scatta come se Di Maio avesse urlato “sieg heil!” in piedi sulla scrivania. E lo interrompe con una supercazzola devastante, avvitandosi su se stessa come spesso le succede: “Il Green Pass è uno strumento di controllo, non di cura! Il vaccino cura o comunque previene cioè “cura” è inesatto, diciamo che PREVIENE DALLA malattia, mentre il Green Pass controlla se ti sei vaccinato. Quindi il governo si deve prendere la responsabilità eventuale”. In pratica, a un anno e mezzo dalla pandemia, la De Gregorio non ha ancora capito le basi dell’epidemiologia, e questo sarebbe pure un peccato grave ma accettabile, ma su quelle dell’educazione ero convinta andasse più forte. E invece riesce pure a rimproverare gli altri interlocutori del problema che la affligge in quel momento: la confusione.  “Introducendo il Green Pass abbassiamo la curva dei contagi!”, dice Di Maio, provando a semplificare il concetto. E lei, nervosa: “No, non è che abbassiamo la curva, col Green Pass non facciamo entrare le persone non vaccinate e tamponate, è questa la questione sennò facciamo confusione!”. In pratica, secondo la conduttrice, il Green Pass è una specie di tessera magnetica dell’hotel, serve solo a entrare in camera. Probabilmente lei accede ai tavolini al chiuso nei bar con la scheda della camera 107 dell’Hilton. Non ha capito quello che hanno capito anche i lampioni: se nei luoghi al chiuso entrano solo persone o vaccinate (quindi protette e meno contagiose se infette) o tamponate (quindi probabilmente non infette e in contatto con persone che se infette contagiano meno gli altri, perché vaccinate) il virus si contiene di più. E i primi ad essere protetti dal Green Pass sono proprio i non vaccinati. Che non sono discriminati, ma tutelati. Parenzo, che ha capito, aggiunge incauto: “Non voglio dar ragione a Di Maio, ma il Green Pass è incentivante!”. Ha dato ragione a un grillino. A UN GRILLINO. Lei mostra le gengive fingendo di sorridere e lì si capisce che butta male, tipo il gatto quando muove la coda. Sono segnali della natura che non si possono ignorare. E insiste, improvvisandosi portavoce “delle persone” che non si sa chi siano, se quelle che incontra lei al bar o quelle che al casello autostradale pagano contanti, boh: “Le persone non vogliono il Green Pass perché il Green Pass stabilisce che ci sia una differenza tra vaccinati e non vaccinati!”. Parenzo prova a proferire parola e lei: “Non sto parlando con te, sto parlando con LUI!”. Cioè, Parenzo non è un suo interlocutore titolato ad intervenire e il ministro è un “Lui generico”. Una specie di schwa, ma un po’ meno. L’invasione della Polonia è stato un momento di maggiore modestia, nella storia. Mentre Di Maio assiste allibito alla tensione tra i due conduttori, lei va avanti: “Molta gente dice ‘se ci dobbiamo vaccinare vi dovete prendere voi la responsabilità, perché io devo firmare? Dovete imporre voi l’obbligo’, oggi una signora mi ha scritto questo!”. Persone, gente, una signora. Deve essere la nuova sinistra che vuole dimostrare di ascoltare la gente. Ma soprattutto la nuova sinistra che non ha mai sentito parlare di “consenso informato” in tema di sanità. Un concetto nuovo, inedito, per la conduttrice. Di Maio dice un altro paio di cose insolitamente lucide e Parenzo, che ormai ha deciso di morire come quei delfini che si spiaggiano da soli e non sai perché, sussurra: “Io non sono d’accordo con Concita!”. I denti. Le gengive. “IO faccio un mestiere che è quello del giornalista e il giornalista fa domande!”, sibila lei. IO. Come a dire “tu invece sei un metalmeccanico” e “tu invece annuisci e basta”. Il problema è che le sue non erano quasi mai domande, ma affermazioni. Dovrebbe rivedersi la puntata, la De Gregorio, e scoprirebbe che oltre all’assenza di educazione, di equilibrio, di preparazione, ieri c’era anche quella dei punti interrogativi. I grandi latitanti, nella sua vita televisiva. E non solo.

L'intellettual"a" in sandali e Zan passata da Gramsci a Parenzo. Luigi Mascheroni il 18 Luglio 2021 su Il Giornale. Già direttore dell'Unità poi prima firma, e primadonna, di Repubblica, Concita De Gregorio è conduttrice perfetta. Se ti facesse parlare...o, non è vero. Spazziamo via subito antipatiche insinuazioni che nulla, peraltro, hanno a che fare con il giudizio sul suo ruolo di giornalista. Non è vero che Concita De Gregorio è diventata famosa per i suoi sandali di Sergio Rossi da millecento euro al paio!

Perché nel giornalismo è fondamentale essere precisi.

Precisa – a parte quella volta che le agenzie riportarono la notizia della lussuosa villa fattasi costruire dal leader turco Erdogan, e lei presa da furore anti-sovranista lesse Orbán e scrisse un articolo durissimo contro il presidente ungherese e i suoi amici sovranisti europei, un granchio clamoroso (ottimo però nell’insalata con mango, avocado e un filo d’olio…) - professionale (o professorina?), composta (forse un po’ rigida, ecco), elegante (al di là degli occhiali da Lady Gaga), sottile analista politica – resta imperituro il suo: «Grillo e Conte avranno trovato l’accordo grazie anche alla vittoria di calcio nell’Europeo, sappiamo che le coincidenze non esistono...» - e poi spigliata, brillante, impostata, voce da educatrice dell’Istituto delle Suore Mantellate di Livorno e scrittura da laurea in Scienze politiche, Concita De Gregorio – da Pisa, dove pendere tutta da una parte è un attimo – è incontestabilmente un’ottima giornalista. E conduttrice. Che poi: non è neanche l’interrompere continuamente e parlare sopra agli ospiti che infastidisce... È quella cantilena irritante... Però l’intervista a Matteo Renzi era perfetta: incalzante, pungente, decisa. Come quando lo ha inchiodato alle sue responsabilità chiedendogli: «Per Lei, Fedez è un intellettuale?». Per essere intellettuale, Concita De Gregorio è una riconosciuta intellettuale - «Abbia pazienza: Intellettuala, intellettuala… le desinenze sono importanti: basta con questi maschilismi linguistici discriminatori. Le donne devono riappropriarsi anche grammaticalmente del proprio ruolo nella società e poi del resto...» - Scusi, Concita: posso interromperla? «Mi chiami col cognome per favore».

De Gregorio - spiace per i detrattori - è un cognome entrato nella storia del giornalismo. Il curriculum, a pensarci, è da vero maître-à-penser: civetteria, storytelling e il corpo delle donne. Lontane origini catalane (quindi sovraniste), inizi radiosi, come il sol dell’avvenire, nelle radio e televisioni locali - Toscana: terra di facili ire e di grandi penne: Montanelli, Fallaci, De Gregorio... - arrivo al Tirreno nel 1985, quindi nel 1998 l’approdo a Repubblica, dove si occupa di cronaca nera e politica rossa. Poi il grande salto. Nel 2008, a sorpresa - soprattutto dei giornalisti della redazione - la nomina a direttore (direttora? direttrice? direttoria? direttissima?) dell’Unità, prima donna (scritto staccato) a guidare la storica testata. Da Antonio Gramsci a «Concha»: egemonica culturale, intellettuali organici, i Quaderni dal carcere, celle e filo di perle. È il Pd che traccia la linea, ma è l’Unità che la difende. Credere, ubbidire e combattere. Timone a sinistra, e avanti tutta.

Tre anni di caipirinha e sangue, fra editoriali ed editti, battaglie giornalistiche nel momento del peggior antiberlusconismo che il Paese abbia conosciuto, finanziamenti pubblici, il non del tutto azzeccato formato tabloid, la campagna pubblicitaria di Oliviero Toscani con il culo di una ragazza in minigonna e in tasca una copia del giornale che se la vedono oggi le prefiche del «Se non ora quando?», del #MeToo, della 27esimaora e anche della 28esima, delMansplaining e del Transfemminismo, ti imbrattano di vernice rosa anche la raccolta di videocassette di Walter Veltroni rimasta in archivio... E poi tensioni con la redazione, la svolta «pop», le copie perse, ma non la speranza, e alla fine uno strascico di spese da pagare per le cause civili legate agli anni della sua direzione. Un milione di euro, diffamazione più, danni di immagine meno. È il 2011, anno peraltro del suo bestseller Einaudi (cioè Berlusconi, strano...) Così è la vita. Imparare a dirsi addio. Appunto. Addio compagni e ritorno a Repubblica.

Bentornata, Madame. Prima firma e sempre l’ultima a consegnare il pezzo, Concita De Gregorio piace molto ai lettori, e soprattutto a se stessa. Scrive di tutto, sempre, comunque, ma soprattutto: «Perché?». Cronaca e costume, femminismo e bikini, etica e epica, retroscena politici, retroscena e basta, Esteri – del resto alTirreno iniziò nelle redazioni di Piombino, Livorno, Lucca e Pistoia, che sono il nostro Midwest – economia, cultura, spettacoli, hobby&sport. Contenuti dei pezzi di Concita: retorica mainstream della correttezza, irrisione della parte sbagliata - «Che non è mai la mia» - una fastidiosa sufficienza esplicitata in qualsiasi modo nei confronti di qualunque interlocutore, le battaglie giuste che impongono la libertà con l’arroganza, il vittimismo femminista, il pippone del DdlZan - che pazienza zen...- «Vi dico io i libri che salvano la vita!» (yawwwwn! che noia...), gli intollerabili spiegoni di tolleranza, le stucchevoli lezioni di morale. Ciuffo ribelle e quieto conformismo.

Te amamos fuerte, Concita. Fenomenologia dei pezzi di Concita: Concita a una lettura pubblica, Concita a un evento con Roberto Saviano, Concita al festival del giornalismo, Concita accanto a Benigni, Concita con gli occhiali da giorno, Concita con gli occhiali da sole, Concita senza occhiali, Concita a una festa, Concita con Lucrezia Lante della Rovere, Concita a un’altra festa, Concita a una manifestazione, Concita pensierosa, Concita tra i libri, Concita da Floris, Concita aChetempochefa, Concita con Elisabetta Gregoraci, Concita alla radio, Concita in tv, Concita con un bel sorriso. Siamo In onda!

Non lo so.... Una volta - ha fatto notare qualcuno - c’erano giornalisti di sinistra che almeno nell’atteggiamento avevano una parvenza di «comunismo», quantomeno pseudo comunismo. Adesso si sono tutti così imborghesiti...

Precariato, green economy, look sbarazzino e scarpe firmate Roger Vivier.

A proposito, Concita. «Dónde está el límite entre información y propaganda?».

Comunque, dài: come conduttrice, non si può dire niente, a parte il fatto che assomiglia sempre più a Mara Venier. Brava, è brava. «Cosa dici? Concita è una Gruber che non ce la fa? Chi l’ha detto? Che coooosaaa? È peggio persino di Myrta Merlino?!». Mi dissocio.

Socievole,highsociety, socialista (come disse appena fatta fuori dall’Unità: «Mai stata del Pd!»), Concita De Gregorio in tv è bravissima. E ogni tanto fa anche la giornalista. Certo, poi avere tutti insieme In onda lei, Veltroni, il famoso Da Milano, Ezio Mauro e Giannini non è facile da sopportare. E insomma: chiedere in diretta a Enrico Letta il suo albero genealogico per scoprire che sfiora Gramsci... persino il valletto David Parenzo era imbarazzato). «Torna a casa Lilli!!!».

Dall’Unità a La7: dall’organo del vecchio Partito comunista a quello del #DdlZan. Domanda: ma Concita De Gregorio continuerà a invitare il deputato Zan fino a quando, almeno lui, non saprà spiegare la sua legge?

Dura lex, sed omosex. 

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li l…

 Selvaggia Lucarelli dà della "gatta morta" a Concita De Gregorio: "Non ha colpito a caso", sospetto sulla vera motivazione. Simona Bertuzzi su Libero Quotidiano il 04 luglio 2021. Alla voce "solidarietà femminile" ho trovato in rete 8 milioni di articoli. Questione di sfumature, ma la domanda era più o meno la stessa: esiste la solidarietà femminile? No, che non esiste. Tuttavia, non ci stanchiamo di cercarla nei pertugi del quotidiano e di ascoltare delle femministe petulanti che infarciscono litanie sull'argomento mentre gli uomini - tutti - si divertono a coglierci in castagna. Per esempio, questo pezzo dovrebbe essere la dimostrazione plastica di quanto siamo stronze noi donne con le donne. Affidato non a caso a una donna. Partendo dal presupposto che di uomini str*** ne ho incontrati parecchi ma di donne stronze molte di più e a partire dalla terza elementare, proverò a spiegarvi la questione. Insomma il 2 luglio è andata In onda una puntata divertente dello sfanc***o femmil-progressista di cui sono capaci certe primedonne - attenzione, non ho detto solo donne - del panorama politico e giornalistico attuale.

GATTA MORTA?. Selvaggia Lucarelli, penna assai brillante del Fatto quotidiano e maestra nello sminuzzare l'avversario fino a farne una macchietta da fumetto, ha preso di mira la rossa (ideologicamente parlando) Concita De Gregorio al suo esordio accanto a Parenzo nella trasmissione "In onda" de La 7. E poiché De Gregorio (non dico Concita perché preferisce il cognome) aveva ospite Salvini, Lucarelli è partita leggera leggera come sa far lei ogni volta che si imbatte nel leader della Lega: «Con Salvini ospite non abbiamo visto una gatta più morta di lei (De Gregorio, ndr) neanche dopo un giro di polpette avvelenate in una colonia felina». Due righe sotto delucida il concetto: «L'unica quota che rappresenta la De Gregorio è televisivamente parlando la quota Palombelli. Sguardo fisso in camera che sembra però mirare un punto indefinito nello spazio e nel tempo o, in alternativa, un Poltergeist». Leggerissima, dicevamo, al punto che, mentre leggevamo, immaginavamo l'editorialista di Repubblica nei panni della Carol Anne del celebre horror (bionda anche lei) che parlava a una televisione accesa senza segnale e gridava "sono arrivati!". Credete, il ritratto che Lucarelli fa della collega è a tratti esilarante. Cito a casaccio qualche perla: «Flemma alla Palombelli... sguardo con dentro tutto, dal brodo primordiale all'energia nucleare... parole lente trascinate come note vocali». Ma è così sprezzante il tono che vorresti quasi entrare nel pezzo e prendere le difese della De Gregorio. Se non fosse che poi rivedi l'ex direttrice dell'Unità col ditino alzato e la flemma di cui sopra mentre demolisce l'avversario di destra ma non risparmia l'amico Zingaretti (definendolo «ologramma») e ti mordi le mani. Comunque sia chiaro: Lucarelli non colpisce a casaccio ma solo dove c'è da puntare alto, ovvero a Salvini. Che evidentemente era l'unico ospite di una trasmissione in cui la De Gregorio si ostinerebbe a "invitare solo uomini!". Salvini parla - «è bello confrontarsi in modo civile»... «il reddito di cittadinanza è un ostacolo al lavoro»... «con me i bambini morti annegati nel Mediterraneo si erano dimezzati perché non partivano» - e Concita resta immobile, secondo Selvaggia. Un ologramma appunto. Al pari di Zingaretti e fa piacere che si prestino le definizioni. Non capite più niente, comprendiamo. Succede sempre quando noi donne alziamo i toni. Scivoliamo in quel parlarci sopra - anche se qui è un parlarsi a distanza - e accappigliarci vicendevole che taluni uomini chiamano starnazzamento in nome di un maschilismo becero. E che invece è quasi sempre un sano confronto dialettico. A favore (e per il godimento) degli uomini va però detto che un filo di livore primordiale si evince dal modo in cui Lucarelli scende a valanga sulla collega. Entrambe giornaliste di talento. Entrambe stimate. Entrambe ricercate. Primedonne appunto, che è diverso da donne. Penne. Opinioniste. Capacissime di demolire l'avversario senza fare un plissé.

LUCI DELLA RIBALTA. Lucarelli ha lasciato al tappeto - ridotti peggio di ologrammi - l'universo mondo femminile e maschile e non è stata colpita da rimorso. De Gregorio ha indossato la flemma di cui sopra e fatto altrettanto. Una conduce «In onda». L'altra è il giudice temutissimo di «Ballando sotto le stelle» che alza la paletta e stronca ballerini incapaci. Normale annusarsi di traverso. E mettere i puntini sulle "i" delle luci della ribalta dell'altra. Detto questo vi confido un fatto: mentre una donna, la sottoscritta, registra la lite di due donne (che poi per essere lite servirebbe la replica dell'imputata) qualche giornale racconta sommessamente il parallelo scazzo Concita-Parenzo, colui che finora è rimasto incomprensibilmente in ombra. La trasmissione è la stessa. Ospite del duo Parenzo-De Gregorio è stavolta Antonio Bassolino. Parenzo evoca PCI e DC usando parole ironiche: «Un partito del Novecento, dove c'erano statuto, congressi. Tutti che fumavano, le mozioni, Cossutta, Ingrao...». De Gregorio prima sbuffa poi si incazza e zittisce il collega: «Porta rispetto e lascia parlare il sindaco». Tutto questo alla prima settimana di co-conduzione. Ma fa molto più clamore e portineria la lite tra donne. Ps. Resta solo un dubbio. Che c'entra in tutto questo la flemma della Palombelli? 

Da “Libero quotidiano” il 20 giugno 2021. Selvaggia Lucarelli contro Giorgia Meloni e Matteo Salvini presenti ai funerali di Michele Merlo, il giovane cantante morto di leucemia. La verità è che la penna del Fatto ignora i rapporti di amicizia tra Francesca Verdini, fidanzata di Salvini, e lo sfortunato 28enne e non sa che il padre di Michele, Domenico, è stato scelto per guidare il circolo Fdi di Rosà. Francesca Verdini ha replicato duramente alla Lucarelli: «Meschina e vuota. Si vergogni».

Corrado Augias: «Dopo 63 anni lascio la Rai per La7. Da Kennedy agli hippy, vi racconto i miei amori». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera lunedì 6 novembre 2023.

L’infanzia nel deserto, il teatro insieme al giovane Proietti, i tre mesi in un kibbutz con un amico

Corrado Augias, lei ha scritto: «La Rai è la mia vita, è la mia casa. Non la lascerò mai». Invece...

«Invece passo alla 7. Da lunedì 4 dicembre. Ho ceduto dopo anni al corteggiamento di Urbano Cairo e poi anche del direttore Andrea Salerno. Per il gusto della sfida».

Quale trasmissione farà?

«Un programma settimanale in prima serata: La torre di Babele. Un’ora di tv, dopo Lilli Gruber. Ci sarà uno spirito-guida, un ospite ad alto livello, a cominciare da Alessandro Barbero, e alla fine un personaggio a sorpresa, per tirare le somme».

In Rai lei faceva Babele, e parlava di libri.

«Sulla 7 parlerò di cultura. Sa cosa fece Fabiano Fabiani, quando Bernabei lo mandò via dalla direzione del telegiornale perché troppo di sinistra? Si fece nominare alla direzione centrale dei programmi culturali, che neppure esisteva. Fabiano, gli dissero, lì non c’è niente. E lui: “C’è tutto, perché tutto è cultura”».

Lei perché lascia la Rai?

«Nessuno mi ha cacciato, ma nessuno mi ha trattenuto. A 88 anni e mezzo devo lavorare in posti e con persone che mi piacciono; e questa Rai non mi piace».

Perché?

«Perché non amo l’improvvisazione. E in Rai oggi vedo troppa improvvisazione, oltre a troppi favoritismi. La tv è un medium delicatissimo. Deve suscitare simpatia, nel senso alto dell’espressione».

Chi sapeva farla?

«Ad esempio Stefano Coletta. Grande uomo di prodotto, che rilanciò Rai3. L’hanno messo in un angolo».

In Rai lei entrò 63 anni fa, nel 1960.

«Con il concorso: quinto su 110. La Rai era una delle eccellenze dell’Italia del boom».

Qual è il suo primo ricordo?

«Il deserto della Libia. Salgo su un cammello, e resto terrorizzato quando si alza sulle gambe posteriori, rischiando di gettarmi a terra».

Cosa ci faceva in Libia da bambino?

«Mio padre Carlo era ufficiale dell’aeronautica. Quando entrammo in guerra, mia madre Emma mi portò in Italia con l’ultimo piroscafo che lasciò Tripoli. Papà era agli ordini di Italo Balbo, e assistette al suo abbattimento nel cielo di Tobruk».

Che idea se ne fece? Ordine del Duce o incidente?

«Mio padre ha sempre detto incidente. C’era stata una tempesta di ghibli, Balbo non avvertì che il suo aereo stava arrivando, fu scambiato per un inglese, le mitragliatrici aprirono il fuoco».

Anche suo suocero, Nino Pasti, padre di sua moglie Daniela, era un ufficiale.

«Pilotava aerosiluranti: scendeva in picchiata verso la nave nemica, lasciava partire due siluri e si risollevava per evitare le mitragliatrici. Quasi un kamikaze. Fu abbattuto, salvato, chiuso in un campo di prigionia in Kenya».

Lei che ricordo ha della guerra?

«Orribile. La fame era tremenda, nel pane trovavi pezzi di legno. Mamma mi lasciava in capo al letto quattro stracci per rivestirmi in caso di allarme aereo, ma a volte scappavo direttamente in pigiama. I rifugi a Roma erano teatri. C’erano quelli che pregavano davanti a un’immagine sacra. C’erano quelli che dormivano. E c’era lo spavaldo, che usciva a fumare proclamando: meglio morire da uomo che da topo».

E suo padre?

«Fu ferito da uno Spitfire inglese a una gamba, rischiava la cancrena, venne rimpatriato. Lo rividi all’ospedale del Celio, tutto nero per il sole e la malattia, magro come un chiodo: quasi non lo riconobbi».

Poi a Roma arrivarono i tedeschi.

«E mio padre si unì alla Resistenza, nel gruppo del colonnello Montezemolo. I nazisti vennero a cercarlo a casa, ma lui non c’era quasi mai: ogni tanto sbucava la notte, passando dal terrazzo sul tetto, ne ho un ricordo sinistro. Fu bellissimo invece quando mi portò a vedere l’ingresso degli americani».

Era il 4 giugno 1944.

«Da Porta Latina, dove abitavamo, andammo sull’Appia Antica. Non dimenticherò mai i carristi neri che tiravano caramelle e gomme da masticare, e i miserabili, che eravamo noi, che le raccattavano. Un giorno di gioia assoluta. Eppure dalla guerra non ci siamo liberati mai».

Perché?

«I nostri giocattoli erano i residuati bellici. Sistemavamo i bossoli sulle rotaie, quando passava il tram in discesa li faceva esplodere come una raffica di mitra, una volta il tramviere ci inseguì con una sbarra di ferro in mano. Oppure prendevamo proiettili di artiglieria più alti di noi, toglievamo la palla, tiravamo fuori la balistite, una sorta di spaghetti neri cui davamo fuoco… Avevamo i botti di Capodanno tutti i giorni».

Pericolosissimo.

«Un mio amico perse l’avambraccio destro per una bomba a mano».

Lei ha radici ebraiche?

«Mia nonna, Antea Anticoli, era ebrea, ma l’ho scoperto tardi, a trent’anni. Per amore si fece cristiana, e divenne ferventissima, per ascoltare Pio XII alla radio si inginocchiava. La sua stanza pareva una tomba, tutta buia, con i lumini e le immaginette. Morì molto anziana, nel sonno. Anche mia madre era cattolica, e mi fece battezzare».

Lei però è ateo.

«Non credente. Anche se si può coltivare una spiritualità intensa senza appartenere ad alcuna religione».

La sua «Inchiesta su Gesù», scritta con Mauro Pesce, ha venduto un milione di copie.

«Tolta dall’assurda mitologia in cui è stata immersa, la figura di Gesù diventa ancora più grande e più bella. Perché la sua doppia sfida, al potere romano e ai sommi sacerdoti, non è più un destino obbligato per redimere con la sua morte il peccato originale; diventa una scelta».

È vero che lei ha fatto il militare con Cesare Previti?

«Sì. Era già un filone: sarcastico, cinico. Con una decina di commilitoni non volevamo andare a messa, e allora ci facevano marciare inquadrati, avanti marsc, sotto il sole. Previti ci guardava dal sagrato sogghignando: “Ecco il plotone Giordano Bruno…”».

La Rai nel 1964 la mandò a New York.

«Il responsabile dei rapporti con l’estero era Gianfranco Zaffrani, un omosessuale alla Gide. Dovevamo organizzare il Premio Italia, lui sapeva che mi interessavo di musica, mi chiese consiglio per il concerto da offrire agli ospiti stranieri. Proposi la fantasia di Schubert a quattro mani. Rispose: “No, siamo a Napoli, facciamo il Pulcinella di Stravinsky, variazioni su musiche di Pergolesi”. Con tutto il rispetto: lei si immagina un dirigente della Rai di oggi dare una risposta così?».

Dicevamo di New York.

«La Rai aveva l’intero piano di un grattacielo sulla Sesta Avenue, il direttore era un ebreo fuggito dalle leggi razziali, George Padovano. Arrivai in nave: otto giorni da Napoli a Manhattan, con mia moglie e nostra figlia Natalia, che aveva un anno e mezzo. I mobili furono imbarcati su un bastimento che finì in balia di una tempesta: li recuperammo a pezzi. Così comprammo un po’ di arredo usato all’Esercito della Salvezza, e un paio di mobili ce li fece un giovane artista che amava il legno: Mario Ceroli».

Si favoleggia di una sua esperienza con i figli dei fiori: tutti nudi.

«Loro erano nudi, cosa dovevo fare? Mi spogliai anch’io. Per intervistarli però, come vede da questa foto, indossai calzoni e bretelle. Giravo l’America, scrivevo per l’Espresso. Raccontai le rivolte nei penitenziari. E scoprii gli hippy».

Com’erano?

«Poveri ragazzi, ingenui, sbandati. Sognavano una parodia di Arcadia, con le caprette e le chitarre. L’odore di marijuana era fortissimo».

Lei l’ha provata?

«Una volta, senza grandi effetti. Un’altra volta ho provato un po’ di cocaina: effetti zero. Forse l’ho inalata male».

E l’amore omosessuale l’ha mai provato?

«L’atto no, la tentazione sì. Amitiés amoureuses».

Amicizie amorose.

«Nelle quali senti che l’altro ti completa».

È vero che seguì la campagna di Bob Kennedy?

«I politici allora erano avvicinabili: una volta a Omaha, Nebraska, presi l’ascensore con lui. Rientrai a New York, Andrea Barbato lo seguì a Los Angeles, e vide il suo assassinio».

Lei tornò in America come corrispondente di Repubblica.

«Nel novembre 1975, prima ancora che uscisse il giornale. Dovevo aprire l’ufficio. Avevo il contratto numero 2».

Com’era Scalfari?

«Un maestro, con due straordinarie qualità. Il talento affabulatorio: teneva l’intera redazione appesa, a bocca spalancata, al racconto di quello che aveva fatto la sera prima. La sintesi: di una situazione ingarbugliata trovava subito il bandolo».

E i difetti?

«A volte, concentrato su se stesso, non capiva gli uomini, sbagliava a valutarli».

Gigi Proietti?

«Abbiamo lavorato insieme da ragazzi. Un superattore. Come Gassman, un tragico in cui quel genio di Monicelli vide il comico. Anche Proietti sapeva fare tutto, da Shakespeare alla chitarra. Il che non è sempre positivo: un attore deve avere il suo profilo, deve essere preciso».

Moravia?

«Sulfureo, irruento, bruscamente affettuoso. Ti scuoteva la spalla, sembrava cercare il figlio che non aveva avuto. Oggi nessuno lo ricorda perché a differenza di Pasolini ha avuto una morte borghese: in bagno, cadendo davanti al lavandino, mentre si faceva la barba».

Lei ha paura della morte?

«No. Ho paura del morire; che è diverso. Non voglio perdere coscienza di me stesso, essere nutrito con una sonda come un vegetale».

È favorevole all’eutanasia?

«Sì. Chi mi ama sa quel che deve fare».

Lei appare così razionale, elegante. Eppure nei suoi libri e nelle sue trasmissioni tv a volte traspare il gusto per il Grand Guignol. Il circo, il sangue, l’horror. Perché?

«Per il motivo che dicevo prima: la guerra dentro di noi non è mai finita. Quando tiravano fuori i morti, bianchi di calce come pupazzi, ne ero spaventato e insieme affascinato, attratto. Avevo uno zio cieco di guerra, intossicato dai gas nelle trincee: non potendo vedermi, mi tastava, “un po’ troppo stretto questo torace!”. Temevo e nello stesso tempo desideravo il momento in cui si sarebbe finalmente tolto gli occhialoni neri, per svelare orbite vuote o pupille sfracellate…».

Cos’aveva lo zio sotto gli occhialoni neri?

«Non lo so. Non se li è mai tolti».

Lei fu tra i fondatori di RaiTre.

«Mi chiamò Angelo Guglielmi, con la sua vocina: “Non abbiamo soldi per fare gli sceneggiati, ma ti darò una trasmissione che sarà il nostro sceneggiato”. (Augias imita perfettamente Guglielmi). L’idea era di Lio Beghin, padovano geniale: contaminare la tv con il telefono. Nacquero così Telefono giallo e Linea rovente, affidata a Giuliano Ferrara».

In tv e nei libri lei ha raccontato tutte le grandi città. Com’è oggi Roma?

«Condannata a un declino irrimediabile. Amministratori impotenti, popolazione riottosa, incivile, indisciplinata. Come si diceva una volta? L’unica città mediorientale senza il quartiere europeo».

Lo diceva Scarfoglio di Napoli.

«Napoli è rinata. Dopo lo scandalo della monnezza ha avuto uno scatto».

Milano?

«L’unica vera metropoli che abbiamo».

Torino?

«Nobilmente decaduta. Mi ricorda il libro Cuore».

Venezia?

«Mi ricorda invece Morte a Venezia di Thomas Mann. Una città senza bambini è destinata a decadere».

Bologna?

«Fosca di portici, torri, guglie. La città più medievale d’Italia. La adoro».

Palermo?

«In Sicilia sento forte il senso della morte».

Londra?

«Mi piace, anche perché ormai è la città dei miei affetti, dove si sono formati i miei nipoti».

Ne ha tre.

«David, 31 anni, è criminologo. Insegna a Oxford, si occupa dei migranti, è andato a piedi dalla Siria a Trieste, ora è tornato a Damasco. Poi ci sono i gemelli: Micol, che segue un corso di specializzazione in management a Parigi, e Marco, che a Londra fa il cuoco».

New York?

«Troppo convulsa e violenta».

Parigi?

«La mia seconda patria. Anche se invecchiando amo di più la nostra Italia. Ho visto il film con Favino, Comandante, e mi ha commosso. Che errore ha commesso la sinistra regalando la patria ai fascisti!».

Gerusalemme?

«Con Roma, l’unica città del mondo antico che non è mai morta».

È vero che ha vissuto in un kibbutz?

«Per tre mesi, con un amico, a Ma’agan Michael, presso Haifa: frutteti, datteri, aranci in riva al mare. Un paradiso terrestre».

Cos’è per lei Israele?

«Il confine tra ebreo e israeliano, tra la comunità ebraica e Israele, è così sfumato, da creare un pericolo enorme. Se qualcuno vuole discutere sugli errori di Israele, sono pronto. Ma se qualcuno vuole discutere sull’esistenza di Israele, non sono interessato; perché per me è sacra».

Due popoli due Stati?

«Oggi purtroppo è quasi un’utopia, a causa dei 700 mila coloni insediati in Cisgiordania per volontà di Netanyahu».

L’hanno accusata di aver lavorato per i servizi cecoslovacchi, nome in codice Donat.

«Una millanteria di un agente che voleva restare a Roma. Usciti dalla Rai di via del Babuino, andavamo da Rosati a bere qualcosa. C’era questo cecoslovacco molto simpatico, che mi invitò due volte a pranzo e mi chiedeva della politica italiana. L’infido traditore fece credere di avere una fonte dentro la Rai».

L’hanno accusata anche di plagio.

«Commisi, per la prima e ultima volta, l’errore di chiedere a un giovane ricercatore un po’ di materiale per un libro. Quello copiò otto righe di un volume Adelphi appena uscito. Erano talmente belle che le riportai integralmente. Una macchia sulla camicia bianca, che fu sfruttata politicamente dai miei detrattori».

Come trova la Meloni?

«Intelligente e prigioniera».

Di chi?

«Del suo passato. Credo che lei vorrebbe davvero costruire un partito conservatore, ma non le riesce, per colpa dei camerati che la bloccano con cento impacci. Per Giorgia non ho simpatia politica, ma ho simpatia umana. Ha un cattivo carattere, che l’ha aiutata ad arrivare fin lì, ma ora rischia di perderla. Dovrebbe reprimerlo».

La Schlein?

«Non vorrei parlare della sinistra. Che fine ha fatto quella forza che l’ha animata per mezzo secolo? Sembra evaporata».

Craxi?

«All’inizio fu un sollievo. Mi piaceva il suo disegno politico, distinguersi tra le due chiese democristiana e comunista. Poi divenne Craxi e non mi piacque più. Come Renzi: all’inizio mi persuase la sua idea di superare il bicameralismo; poi l’egolatria lo ha perduto».

Berlinguer?

«Mi piaceva, anche fisicamente. Lo trovavo bello, simpatico. E, lui sì, parlava di patria».

Berlusconi?

«L’ho detestato. L’Italia non aveva certo bisogno del suo cattivo esempio. Ricordo una sua visita alla scuola della guardia di finanza. Raccontò una barzelletta: “Bussano alla porta, chi è? Rapinatori! Meno male, temevo fossero i finanzieri”. E i futuri finanzieri risero».

Andreotti?

«Diabolus. Intelligenza mefistofelica. Affascinante nel male».

Nella Prima Repubblica lei cosa votava?

«Quand’ero all’università sono stato iscritto al partito socialista, fui pure segretario della sezione teatro, quando da Milano a Roma, da Paolo Grassi a Vito Pandolfi, tutti i grandi teatri italiani erano guidati da socialisti».

Esistono gli italiani?

«La nostra identità nazionale è molto fragile. Siamo un Paese troppo lungo, come diceva Giorgio Ruffolo, con una frontiera interna, gli Appennini. Non solo Nord e Sud; anche solo Firenze e Bologna, che distano appena cento chilometri, sono troppo diverse per capirsi».

Lei ha una memoria prodigiosa, non ha perso un capello…

«…Mangio e bevo poco, sono stato in palestra stamattina…».

Qual è il segreto della longevità? (Corrado Augias tocca il tavolino di legno e accenna un altro gesto apotropaico).

«La serenità. Conosco colleghi bravissimi ma invecchiati male, rancorosi, in credito con il mondo. Io sono una persona serena. Non invidio, non desidero. Prendo quello che viene, non rimpiango quello che non è venuto e non verrà».

Non ci credo che lei, come Jones il suonatore, non abbia neppure un rimpianto.

«Uno c’è. E riguarda appunto la musica. Avrei voluto essere un grande pianista. Ma non ci sono riuscito».

Corrado Augias: “Che delusione, le parole del dg della Rai sono volgari”. Corrado Augias su La Repubblica l'8 Novembre 2023

La replica del giornalista a Giampaolo Rossi che alla commissione Cultura della Camera aveva detto: “Il nostro obiettivo non è salvaguardare lo stipendio di Augias ma occuparci di 12mila dipendenti. Siamo sopravvisuti all’addio di Baudo, andremo avanti”

Confesso di essere rimasto sorpreso, anzi deluso. Le parole con le quali il Direttore generale della Rai Giampaolo Rossi ha commentato la mia uscita dall’azienda sono così improprie da suonare come smarrite, gravate per di più da un’ombra di volgarità. Peccato, quando l’ho incontrato ho avuto l’impressione di un bel signore, molto curato nell’aspetto, il bell’ovale del volto esaltato da una corta barba impeccabile. Un bell’uomo capace nella conversazione di citare a giusto titolo un paio di libri e qualche toccante precedente familiare di cui ovviamente taccio. Forse era solo apparato, recita.

Di fronte alla commissione Cultura della Camera ha detto: “Il nostro obiettivo non è salvaguardare lo stipendio di Augias, ma occuparci di 12 mila dipendenti”. Santo cielo, chi ha mai parlato di soldi in questa malinconica faccenda? Lanciare in aria un pugno di monete è sempre stato un espediente piuttosto diffuso da che mondo è mondo. Ma che c’entrano, qui, i soldi? Tanto più se si mette a confronto lo stipendio di uno contro il benessere di 12 mila famiglie? Ci sono delle regole dialettiche che dovrebbero essere rispettate, la prima è di fronteggiarsi con argomenti che siano proporzionati. Uno contro 12 mila è decisamente troppo. Non basta, il Direttore generale ha voluto assestarmi un ulteriore colpo di scudiscio aggiungendo: “La Rai è sopravvissuta all’addio di Baudo, sopravvivrà anche all’addio di Augias”. Pippo Baudo è un geniale entertainer che ha diretto programmi di enorme ascolto per decenni. Più modestamente io sono un autore di programmi di libri e di musica sinfonica mi accomuna a Baudo solo la stima e la simpatia personale che ho per lui. Metterci direttamente a confronto aveva il solo scopo di umiliarmi.

Dico la verità, è un peccato che quel bel signore che avevo incontrato si è rivelato un antagonista maldestro. Mi chiedo se non sia qui la ragione dei numerosi inciampi che la nuova programmazione ha incontrato in questi mesi. Non metto in ballo i miei numerosi difetti e nemmeno quelli del dottor Rossi, ognuno ha la vita e le preferenze che ha. Discuto però il metodo, un alto dirigente dovrebbe trovare il modo di polemizzare — anche in modo sbrigativo, intendiamoci — senza però lasciarsi andare all’ingiuria. Rispondere nel merito non è impossibile se si ha netta coscienza del proprio operato e delle proprie scelte culturali. Che cosa ha impedito al Direttore generale Rossi di esprimersi con maggiore proprietà? Esempio: “Lei sbaglia, Augias. Noi stiamo cercando di equilibrare il tono di fondo della ‘narrazione’ che per anni è stata fatta sugli schermi della Rai, convenga con noi che una parte, ora maggioritaria e comunque consistente, del Paese è stata a lungo sottorappresentata. Questo non è giusto, non è democratico noi dobbiamo porvi rimedio; lei è libero di andarsene ma non di obiettare alle nostre scelte”.

Dal garbo si può sviluppare un vigore polemico, dialettico se si preferisce, maggiore che da alcuni sgangherati vituperi. Nell’uscita odierna del Direttore generale c’è un solo aspetto positivo che qui tengo a sottolineare: mi ha aiutato a capire ancora meglio perché era giusto uscire. Senza rancore, unicuique suum.

Dagospia mercoledì 8 novembre 2023. Lettera di Antonello Piroso a Dagospia

Il direttore generale della Rai Giampaolo Rossi sarà stato pure volgare, così lascia intendere Corrado Augias, a parlare di soldi intervenendo sulla di lui dipartita verso i lidi dell'accogliente La7. Resta da capire perché parlare di soldi sia volgare solo quando in ballo ci sono i nostri compensi (una forma mentis cui mi è parso non sfuggire il peraltro sempre commestibile Michele Serra - godibile almeno fin quando non scrive pro domo sua). 

Allora riporto qui quanto da me scritto tre anni fa quando ne ho fatto un ritratto un po' pepato, (sennò che gusto c'è? il giornalismo non può essere sempre e solo inchini, tè e pasticcini) partendo da uno spunto ispiratomi da voi, cioè dalla lettura di questo vostro disgraziato sito.

Ecco il passaggio pertinente: "Concita De Gregorio l'anno scorso ha scritto su Repubblica: "In Rai quando ho preso il posto e poi l'ho di nuovo ceduto a chi mi ha preceduta e seguita nel medesimo orario, sulla medesima rete, nel medesimo compito ho avuto un ingaggio inferiore della quarta parte di quello del mio omologo. La metà della metà". Ohibò. Di chi stava parlando? Massì, proprio di Augias, suo vicino di rubrica, anche se l'outing l'ha fatto ancora una volta il sito Dagospia: "Lei il nome di Corradone non lo fa, ma per fortuna ci siamo noi". 

Però, scusate: è colpa sua se viene pagato così? No. Quando nel febbraio 2019 il M5S sollevò la questione del suo "cachet stellare", 370.000 euro annui lordi pagati dalla Rai (cui si aggiungono il compenso di Repubblica e la probabile pensione, dato che è entrato in Rai - per concorso - nel 1960), il Nostro ai microfoni di RadioRadio, l'audio è in rete, replicò piccato: "Non vedo perché dovrei tagliarmi lo stipendio. Vado in onda tutti i giorni, il programma va bene, è un compenso forse addirittura sottodimensionato". Forse.

Si potrebbe obiettare che mille euro -lordi- al giorno per un programma (peraltro d'estate trasmesso in replica), e sempre che il contratto sia ancora in essere, non sono proprio bruscolini. Ma perché immiserire il ritratto parlando di denaro, lo sterco del diavolo?".

Tout se tient, come dicono i francesi. Tutto si tiene.

Grazie dell'ospitalità.

Antonello Piroso

La fake news del "martire" Augias. "Vado a La7, la Rai non mi piace". L'azienda: "Mai messo in discussione, ha fatto tutto da solo". Paolo Bracalini il 7 Novembre 2023 su Il Giornale.

Largo ai giovani a La7, arriva Corrado Augias (foto), 88 anni e mezzo, da 63 in Rai. Quando ci è entrato, a Palazzo Chigi c'era Amintore Fanfani, lo stipendio medio era di 47mila lire e l'attuale ad di Viale Mazzini, Roberto Sergio, era un neonato in culla. Ma Augias in Rai sarebbe rimasto ancora altri anni, se non fosse arrivato il governo Meloni che gli ha creato un ambiente che non gli garba proprio. Augias è fatto così, se sta bene può lavorare a oltranza, senza limiti di età, ma bisogna che sia a suo agio, con «gente simpatica in un ambiente cordiale», sennò trova altre opportunità lavorative riservate agli under 90. «Devo lavorare in posti e con persone che mi piacciono; e questa Rai non mi piace» dice al Corriere, gruppo Cairo, stesso editore della 7 dove andrà a condurre l'ennesimo suo programma culturale.

La Rai che gli ha garantito programmi a vita e ricchi compensi (si parla di 300mila euro l'anno), non è abbastanza cordiale e simpatica per Augias. Il cambio era nell'aria da tempo, dopo le uscite di Fazio, Annunziata, Berlinguer e altri volti di area sinistra, lui stesso si era candidato all'auto-martirio dando inequivocabili segnali di essere pronto a valutare altre offerte («Meloni vuole mettere le mani dappertutto, preoccupante l'occupazione della Rai» diceva già mesi fa). Anche lui, come gli altri protomartiri, si è quindi mosso autonomamente per contrattare un altro ingaggio a tanti zeri, non a Discovery ma a La7, altro approdo naturale tra tanti colleghi più affini politicamente a lui. Un'altra dimissione volontaria travestita da lotta al regime. «Nessuno mi ha cacciato» ammette lui stesso. Ma aggiunge una nota fantastica: «Nessuno mi ha trattenuto», si lamenta. Cioè, la Rai non ha nemmeno siliconato il suo ufficio per impedirgli di andare via, e quindi giustamente se ne va. Non lo sfiora neppure l'idea che per un conduttore nato nel 1935 possa anche essere arrivata l'ora di ritirarsi e lasciare spazio ad altri, se non proprio ad un giovane anche solo ad un baldo settantenne. I vertici dell'azienda «non hanno mai messo in discussione il suo programma, ha deciso tutto da solo», fanno sapere ambienti Rai. Era già in cantiere la terza edizione del suo programma sulla musica classica, tanto per capire che ambiente ostile avesse intorno Augias. Ha bisogno di lavorare ancora, ma altrove. Per passione, non per soldi, visto che può contare su due pensioni. La prima è quella da professionista, con tanti contributi previdenziali alle spalle. La seconda pensione, minore per entità ma che già farebbe invidia a tanti millenials che manco la vedranno con il binocolo, è quella che gli entra dal Parlamento Europeo, dove è stato deputato eletto con il Pds di D'Alema nel 1994. Poi nel 1999 si è pure ricandidato, sempre con i Ds, sempre al Parlamento Ue, ma non è stato rieletto. Ed è tornato da mamma Rai, come giornalista «indipendente» dalla politica e dai partiti. Sempre ben pagato.

Ospite di Daria Bignardi raccontò di prendere 2200 euro al mese come vitalizio da ex europarlamentare, che lui ne farebbe anche a meno ma non c'è modo di rinunciare, gli tocca prenderli. Un vitalizio era a suo modo anche la Rai, conduzione per diritto acquisito. Poi ha percepito la volontà del governo di «cambiare la narrazione di fondo che ha retto la Repubblica dal 1948» (così dice lui), anche in Rai, e non poteva rimanerci. Da sinistra rilanciano il grande gesto: «Così i cittadini perdono la fiducia e si fa un favore alle tv private» dichiara la consigliera di amministrazione Rai, Francesca Bria, in quota Pd. La Rai «colpisce la qualità con l'ansia di una programmazione politicamente in linea con l'esecutivo» sostiene Vinicio Peluffo, Pd, Vigilanza Rai. Anhce se veramente è Augias che se n'è andato. Ma forse non del tutto. «Lascio in sospeso la terza possibile edizione del programma La gioia della musica (su RaiTre, ndr). Vedremo» dice Augias a Repubblica. Dopo le due pensioni, anche due programmi in contemporanea su due reti concorrenti, a 89 anni, sarebbe il top.

Da davidemaggio.it il 27 gennaio 2023.

E’ un Corrado Formigli decisamente inedito quello che si racconta sabato 28 gennaio, in seconda serata su Rai 1, a Ciao Maschio. Ospite di Nunzia De Girolamo, il conduttore di Piazzapulita si lascia andare a confessioni anche intime. DavideMaggio.it ve le mostra in anteprima, a cominciare dall’ammissione di aver fatto uso di oppio.

 “Una volta sono andato a Teheran con un mio carissimo amico e una sera lui mi ha portato dentro questa casa e m’ha fatto provare l’oppio. Io ho vomitato per tutta Teheran“

 afferma il giornalista, che però grazie a questo fattaccio – aggiunge – ha scoperto di avere al suo fianco un vero amico:

 “Ho scoperto la vera amicizia perché il mio amico, che si era fatto l’oppio pure lui, quando siamo arrivati a casa a dormire, lui invece che andare a dormire ha passato tutta la notte con lo specchietto sopra la mia bocca per vedere se respirassi ancora“.

 Una bravata che si aggiunge a quella di Londra, dove all’aeroporto – dichiara – “ho quasi rischiato l’arresto, ho fatto scattare l’antiterrorismo“. In questa occasione, però, per una giusta causa: difendere e rincuorare la figlia. A Ciao Maschio racconta:

 “Lei aveva una boccettina con un suo liquido prezioso, una cosa a cui teneva molto (…) Molto brutalmente gli portano via questa boccetta e gliela buttano via. A quel punto a me si è chiusa proprio la vena, ho iniziato a urlare”.

 Quando la sicurezza gli prende lo zaino per vedere cosa ci fosse all’interno, Formigli esclama: “Cosa volete che ci sia, una bomba?!”. Da qui è scattato il protocollo dell’antiterrorismo, con tanto di minaccia di arresto.

Formigli: «Avevo dieci emicranie al mese, la peggiore in diretta da Kobane». Margherita De Bac su Il Corriere della Sera il 10 ottobre 2023.

Il conduttore di Piazzapulita racconta la convivenza con la sua “compagna di vita”: «I dolori iniziarono da adolescente. Mi curo con gli anticorpi monoclonali». 

«Ero in farmacia a comprare alcun medicine, non ho fatto in tempo a rispondere», si giustifica Corrado Formigli, conduttore di Piazzapulita, il giovedì sera su La7. «Non ho più bisogno di questo medicinale, ma se non l’ho con me non mi sento tranquillo. È stato per tanti anni un salvagente perché mi serviva a cercare di contrastare il dolore degli attacchi». 

E adesso come cura l’emicrania senza aura, cioè senza annebbiamento della vista, di cui soffre da quando era bambino?

«La svolta è stata una nuova terapia a base di anticorpi monoclonali, iniezioni che ho fatto per tutto il 2022 e il cui effetto sta perdurando. Sono riuscito a entrare nel protocollo di cura grazie alla gravità della malattia. Avevo fino a 10 crisi al mese. Niente faceva effetto. Una sofferenza indicibile». 

Com’é la convivenza con l’emicrania che lei chiama compagna di vita?

«Non è vita. Te ne godi solo un pezzo. Sei un invalido, specie quando ti svegli al mattino con le tempie che pulsano, svuotato. E magari è il giorno in cui devi sostenere quattro ore di diretta».

Riusciva ad andare in onda?

«L’emicrania è crudele e allo stesso tempo pietosa, almeno con me. Il giovedì mi saliva l’adrenalina ed era come se contrastasse le crisi. Poi il venerdì crollavo. Certe volte sono andato in onda dopo aver tentato di tutto per avere sollievo. Mi imbottivo di farmaci di ogni genere fino al punto di intossicarmi. Niente. Un incubo» 

Quando è cominciata?

«Avevo 12 anni. Mamma capì al volo che qualcosa non andava. Come scusa per saltare la scuola utilizzavo altri sistemi, tipo il termometro a mercurio poggiato sul termosifone. Allora abitavamo a Firenze e il professore bravissimo che mi visitò mi spiegò che l’emicrania non ha un’unica causa. È una reazione agli stimoli dell’ambiente». 

Che tipo di emicrania ha?

«Quella senza aura. Ho crisi lancinanti che, pur non dando annebbiamento della vista, impediscono di fare qualsiasi cosa. Da giovane ero capace di restare in camera al buio per una intera giornata. Da adulto ho imparato a conviverci».

Il ricordo peggiore?

«Dicembre 2014, sono il primo cronista europeo a entrare a Kobane, in Siria, passando per la Turchia. Scordo lo zainetto con i farmaci nell’auto di un contrabbandiere. Disperato, devastato, vado in diretta. Il caschetto in testa acuisce il dolore. È stato il servizio più importante della mia professione e il peggiore momento della mia vita». 

Il pubblico si accorge del suo stato?

«Forse sì. Quando sto male tengo la mano sulla fronte come per bloccare le fitte e appaio più stanco». 

Quali sono i fattori ambientali che scatenano le crisi?

«Ognuno reagisce a modo suo. A me dà fastidio il vento, freddo o caldo. E poi il whisky. Quando ne bevevo un po’, il mattino successivo mi svegliavo con le fiamme in testa». 

Precedenti in famiglia?

«Papà mi descriveva il suo mal di testa atroce, che aveva però una causa specifica, la nevralgia del trigemino».

Usi una metafora per descrivere le crisi.

«Solo, circondato da acqua».

Cristina Parodi: «Quando vidi Giorgio Gori pensai: sembra un bambino però è carino». Francesca Angeleri su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2023 

«Berlusconi mi disse: per il tg mai gioielli vistosi. Nella moda mi sono ispirata a donna Marella Agnelli. Ora mi ritrovo quindi immersa in questa esperienza della moda, ma non dimentico il giornalismo» 

«Credo fermamente che nella vita di oggi sia molto raro iniziare un lavoro e continuare con quello fino alla fine. Mi ritrovo quindi immersa in questa esperienza della moda che è stata sempre una mia grande passione e che nel tempo è cresciuta sempre più. Ma non dimentico il giornalismo, che rimane tra le mie priorità». Crida è la nuova creatura di Cristina Parodi e unisce i nomi delle due fondatrici ovvero lei e la sua amica (e in qualche modo musa ispiratrice) Daniela Palazzi. Un’avventura scattata un secondo prima della pandemia e che le due manager hanno saputo, con determinazione, tenere in piedi fino a farne un brand oggi in espansione, distribuito in 90 negozi in Italia ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Poco tempo fa, lo hanno presentato in esclusiva alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo ospiti della presidente Patrizia.

Come si sta lontani dalla tv dopo aver così contribuito a farla?

«È stata un’esperienza bellissima e molto arricchente che è durata trent’anni. Ci sono stati tanti successi e ricordi ma tutto è molto cambiato dalla fine degli anni 80 e 90, dalle sfide del Tg5 all’intrattenimento pomeridiano con Verissimo. Oggi non mi ci riconoscerei più, è tutto un po’ appiattito dalle chiacchiere».

Berlusconi sta male. Lei cosa ricorda di lui come editore e presidente? Costanzo diceva, nonostante le diverse visioni, di essere sempre stato libero.

«È stato un momento entusiasmante, quello. Costanzo aveva ragione. Berlusconi era un capo che trasmetteva una grande energia. Lo vedevamo solo a Natale quando passava a Roma, al Palatino, per il cocktail degli auguri. Era notevole. Aveva una simpatia e un’amabilità intrinseche che trasmetteva a tutti, anche a quelli meno attratti da lui. Controllava ogni cosa. Agli inizi del Tg5 chiamò me e Cesara (Buonamici) per spiegarci come vestirci e truccarci. Ci disse che era meglio non mettere gioielli troppo vistosi che avrebbero distratto i telespettatori. Aveva una passione straordinaria per la comunicazione, ha cambiato la televisione italiana».

Tra tutte le avventure: la più indimenticabile?

«13 gennaio 1992: prima puntata del Tg5. Lo studio era pieno di giornalisti. Un momento epocale. Per la prima volta nasceva un telegiornale che si metteva in concorrenza con la Rai. Io indossavo un tailleur giallo canarino».

Come andò che Mentana scelse lei?

«Io lavoravo già nella redazione sportiva ma erano le news più che lo sport a interessarmi. Andai da lui e gli dissi: “Mi piacerebbe fare parte della squadra”. Alle spalle avevo già tanta gavetta e avevo condotto dei programmi, forse mi scelse anche per questa familiarità con la macchina da presa. E mi diede questa grande opportunità».

Quella redazione è stata anche il luogo dove ha incontrato suo marito Giorgio Gori. Come è nato il vostro amore?

«Tutto è accaduto a Mediaset. Lavoravo per l’appunto nella redazione sportiva e un giorno Marino Bartoletti mi dice: “Vieni che ti faccio conoscere Giorgio Gori”. In quegli anni era sulla bocca di tutti, era considerato un enfant prodige, aveva si e no 35 anni e dirigeva varie reti importanti. Entrai nel suo ufficio e mi presentai. Sembrava un diciottenne, lui ha questa caratteristica di dimostrare sempre almeno dieci anni in meno. Pensai: “Sembra un bambino. Però è carino”. Ci conoscemmo meglio durante il periodo del Tg5, lui era il direttore di Canale 5 e ovviamente veniva a Roma per le riunioni. Alle quali io raramente partecipavo. Avevamo turni massacranti, quando finivo a mezzanotte, c’eravamo solo io e il regista. E spesso iniziai a trovarmelo lì a quell’ora, tardi, a leggere i giornali del giorno prima…».

È una storia lunga la vostra. Sempre bella?

«È stata una lunga e bellissima camminata insieme, con momenti stupendi e altri meno scintillanti. Come tutte le coppie. Il collante è riconoscere, ognuno dei due, che non c’è nessun’altra persona al mondo con cui si potrebbe stare bene come con l’altro. E noi stiamo bene, ci piacciono le stesse cose».

Lei e la sua socia vivete entrambe a Bergamo. Lei però è nata ad Alessandria. Sua sorella Benedetta parla spesso della sua città. Lei meno.

«Benedetta è più legata ad Alessandria. Ha ancora molte amiche e anche suo marito ha creato dei legami lì. Io ho scelto Bergamo, non solo per Giorgio, ma volevo che i miei figli crescessero liberi, lontani dai pericoli di Milano o Roma. Bergamo è un po’ come Alessandria, una bella città di provincia. Anche bergamaschi e alessandrini sono simili: grandi lavoratori, un po’ chiusi all’apparenza ma poi ti danno tutto».

Ma un po’ è scappata lei dalla sua provincia?

«Volevo fare un salto, vedere il mondo, cambiare. Scelsi la Cattolica e poi ho iniziato subito a lavorare, in tv, nella moda…».

Lei ha tre figli. Come è stato per lei coniugare carriera e famiglia e come le sembra il ruolo della madre lavoratrice nella società di oggi?

«Più che mai è un tema delicato. Ai miei tempi c’era più ottimismo. Ho fatto esattamente ciò che mi diceva mia madre: studia, renditi indipendente, diventa mamma. Anche se era un momento cruciale per la mia carriera, non vi ho rinunciato. Sono stata sempre di corsa e spesso assente, ho avuto molti sensi di colpa e anche molte amiche, tra cui Daniela, che mi hanno aiutato. Odiavo quelle recite cui arrivavo sempre trafelata. Alla fine sono cresciuti bene, anche meglio di altri che hanno avuto mamme iper presenti. Hanno recepito di avere due genitori per cui ogni attimo libero era per loro, che avevano un impegno di lavoro sano, bello. Oggi per le mamme è molto difficile, il lavoro è molto cambiato, non ci sono opportunità. In Italia si guadagna veramente troppo poco».

Come mai la prossima collezione autunno/inverno è ispirata a Marella Agnelli?

«Finora avevamo preso come ispirazione delle singole regioni italiane. Quando è toccato al Piemonte, facendo delle ricerche, non potevamo non imbatterci in lei. È stata l’ispirazione per raccontare lo stile da vecchia aristocrazia di Torino, sobria ma elegantissima. È stata un personaggio molto interessante, non solo la moglie di Gianni ma anche mecenate, musa di artisti come Avedon, arredatrice, appassionata di giardinaggio e di moda. Tutto questo ci ha molto colpite».

David Parenzo: «Mio nonno fu fascista e massone. Cruciani? La prima volta mi dissi: questo è matto. Ho pensato di lasciare la Zanzara». Giovanni Viafora su Il Corriere della Sera il 4 Luglio 2023

Il giornalista: «Con Nathania ci chiamiamo marito e moglie anche se non siamo sposati e con la mia ex i rapporti sono ottimi: siamo praticamente una famiglia allargata. Il venerdì registro la Zanzara per rispettare lo Shabbat»

David Parenzo

L’ultimo messaggio arriva alle 2.53 del mattino: «Perfetto domani al Corriere». Firmato: David. E alle 13, eccolo, infatti, in via Solferino. 

Parenzo, ma era l’alba!

«Ho portato al teatro Parenti il mio spettacolo “Ebreo”. Tutto esaurito. Farò 40 date, in 40 destinazioni in tutta Italia. In platea vengono i ventenni: pensano di assistere alla Zanzara...». 

E invece?

«Invece parlo di pane azzimo e delle mie radici. Dallo spettacolo ne è uscito un libro: Ebreo giudeo naso adunco (Baldini+Castoldi)». 

Che poi Schlein direbbe «etrusco»...

«Non so perché l’abbia definito così, io non l’avrei fatto: per me l’identità è quella». 

Ed è stata mai un problema?

«Da piccolo soltanto. Alle elementari durante l’ora di religione non dicevo le preghiere, una maestra chiamò i miei genitori: “Vostro figlio si spaccia per ebreo”. Mi cambiarono di istituto. Al liceo invece ogni tanto qualche battuta antisemita: tornavo a casa un po’ ferito». 

A Padova il cognome «Parenzo» è sui banchi della sinagoga.

«Andavo tutte le domeniche dal rabbino, avevo imparato a leggere l’ebraico. Ho respirato molto dal papà, avvocato, che è anche uno studioso. E dai nonni. Emanuele Parenzo, anche lui avvocato, venne espulso dallo studio dopo le leggi razziali: scappò in Svizzera con la nonna, che rimase muta per due giorni di fila. Poi c’era nonna Margherita, detta Greta: finì a Bergen Belsen con il padre e la sorella, si salvò solo lei perché parlava tedesco e capiva i comandi». 

Non parla mai del nonno materno, invece.

«Era fascista». 

Fascista?

«Si chiamava Sebastiano Caracciolo. Figlio di socialisti di Catania, giovanissimo era partito volontario in guerra a Sarajevo e lì aveva conosciuto mia nonna Greta, di cui si era subito innamorato. Il conflitto divise i loro destini: lei deportata; lui catturato dagli inglesi e spedito a Casablanca. Dopo la guerra lui la fece cercare tramite la Croce Rossa e tornarono insieme». 

L’ha conosciuto?

«Certo. Fece carriera in polizia, finendo come questore a Cremona. Morì di cancro nel 2013, senza mai rinnegare la propria fede. Non le dico a casa le discussioni: mi ricordo da piccolo, a tavola, con l’altro nonno, quello paterno, che era di sinistra, un po’ radicale, un po’ del Pci... Però, ecco, a questo punto forse è meglio che chiami mia madre. La faccenda è delicata...». 

Squilla il cellulare.

Mamma Parenzo : «Pronto?»

David : «Mamma scusami, il Corriere mi fa un’intervista, anche personale. Lo posso raccontare del nonno, lo dico, va bene?».

Mamma Parenzo : «Tuo bisnonno Cellino era contrarissimo che lui partisse volontario!»

Parenzo : «Ma non te l’ho mai chiesto: dopo la guerra, il fatto che la nonna avesse fatto il campo di concentramento e lui avesse combattuto per Mussolini... non era un problema?»

Mamma Parenzo : «Era un grande dolore... Ma nonno Sebastiano non aveva niente contro gli ebrei. Era di quel fascismo idealista, nazionale, nel senso della romanità, dannunziano».

Parenzo : «Quelle cazzate! Ma posso dire anche è stato il fondatore di quella branca della massoneria, del rito...?». 

Come, anche massone?

Mamma Parenzo : «Sì, rito scozzese, antico e accettato!».

Parenzo : «Adesso alla Zanzara diranno: ecco, anche tu hai un nonno fascista e pure massone! Ma la situazione era più complessa. Non c’era nulla dell’affarismo di oggi e il fascismo ad un certo punto mise pure al bando la massoneria, c’era in lui quindi questa doppia contraddizione. Questo anche per dire della complessità della famiglia in cui sono nato e in cui sin da piccolo si è parlato di politica». ( fine della telefonata con la madre, intanto ) 

Parenzo, all’inizio comunque lei ha cominciato proprio facendo politica...

«Responsabile esteri della sinistra giovanile. Nel 1996 mi mandarono in missione a Belgrado: incontrai i leader dell’opposizione a Milosevic. Ricordo qualcuno nel partito che mi disse: “Attento perché sono pagati da Soros per conto degli americani”. Già all’epoca, capito? Parlai davanti agli studenti di Filosofia, fu straordinario». 

Come finì a fare il giornalista?

«Organizzavo i dibattiti alla Festa dell’Unità, mi notò Sandro Curzi, che aveva fondato Liberazione. Mi disse: “Senti, ti va di fare qualcosa?”. Risposi: “Guarda che nel partito mi considerano già un filo-americano”. Ribatté: “Fai quello che vuoi”. Mi inventai una rubrica che si chiamava “Hamburger e polenta, storie dal mitico Nordest”». 

Richiama la madre: «Mi raccomando con quelle notizie di famiglia, soft...». «Sì, sì». 

Per anni ha condotto «Iceberg» su Telelombardia: tv locale, ma i leader venivano tutti.

«Una volta venne Pannella, gli feci uno scherzo tremendo assieme a Ignazio La Russa, che era mio complice. Lo chiudemmo in camerino, facendogli credere che la trasmissione fosse già iniziata. La Russa in studio diceva: “Pannella non si presenta, teme il confronto”. Quello impazzì! Poi pretese 20 minuti per uno dei suoi pipponi... In realtà a Marco dobbiamo tanto. La Zanzara viene dall’idea dei microfoni aperti di Radio Radicale». 

Cruciani come l’ha conosciuto?

«Dopo una puntata di Tetris di Telese». 

Che impressione le fece la prima volta?

«Ho pensato: questo è matto. Ora c’è un’amicizia vera che dura da dieci anni». 

Di lui è mai stato geloso?

«No, tutt’altro. Puoi esserlo delle persone che ti sono più simili. Invece io non invidio nulla di quello che lui fa e viceversa». 

Litigate?

«Momenti di scazzo ce ne sono di continuo: sul Covid ci siamo scontrati per davvero. Non accettavo il negazionismo». 

Ma ha mai pensato di lasciare la «Zanzara»?

«(ride) Sì! Una volta durante lo Yom Kippur non volevo andare in onda. Cruciani era sbigottito: “Ancora con le tue cose religiose!”. Spensi il telefono per 48 ore. Mi cercò pure Telese. Comunque ancora oggi il venerdì sera stacco completamente: infatti l’ultima mezzora della trasmissione è registrata». 

Oddio, registrata?

«( ride ancora ) Sì, non l’ho mai svelato. Perché alle 8 devo essere a tavola con tutti i bambini per lo Shabbat: mia moglie accende le candele e ceniamo insieme. Una tradizione». 

Cruciani ha detto: «Parenzo è l’uomo più insultato d’Italia»

«Ma dal vivo sono circondato sempre da un grandissimo affetto. Si fanno tutti i selfie con me, mi urlano “tigre”».

 Tigre?

«Perché un giorno postai una mia foto in palestra, mentre mi allenavo. Una situazione come si capirà abbastanza inverosimile: “Ecco il tigre che si prepara alla battaglia della sera”». 

Però qualche volta ha querelato...

Quando mi hanno toccato come ebreo. Ho usato la legge Mancino. Erano radioascoltatori che chiamavano, oppure alcuni che mi minacciavano al telefono. Ogni mese ricevo ancora decine di messaggi di questo tenore». 

Per tornare ai figli: ne ha 4. La ascoltano?

«Margherita, 16 anni, la più grande, avuta dalla mia ex moglie (una ragazza conosciuta ad un campo ebraico , sposata a 26 anni) , ogni tanto mi inoltra pezzi di trasmissione che le mandano gli amici. Mi scrive: “Papà, ma davvero dici queste cose?”. Si diverte. Non ho mai avuto coraggio di chiederle però se ascolti proprio tutto...». 

Gli altri? Ovvero quelli avuti dalla sua attuale compagna, Nathania Zevi...

«Nathan, 10 anni, grande talento teatrale, si guarda già tutti i Tg di Mentana. Poi c’è Gabri, 7, molto riflessivo e Noa Tullia, 2, che è un mix».

Con Nathania, giornalista Rai, come è andata? L’ha conquistata lei?

«Diciamo che ho insistito io abbastanza. Non è che mi presentassi con tutte le credenziali in ordine: era più giovane, mi ero appena separato, avevo già una figlia... Ma abbiamo costruito insieme affetti solidi. Ci chiamiamo marito e moglie anche se non siamo sposati e con la mia ex i rapporti sono ottimi: siamo praticamente una famiglia allargata. Poi Nathania lenisce il mio egocentrismo: quando torno a casa, gasato per una bella intervista, mi fa: “Ok, ora butta la spazzatura”». 

Qualche tempo fa comunque è intervenuta su Twitter per difenderla da un attacco di Feltri, che l’aveva definita un «falso ebreo».

«Ma Vittorio non è assolutamente antisemita. È solo che ogni tanto gli parte la ciabatta». 

Con chi non andrebbe a cena?

«Con Orsini, non mi divertirei. Ha pure minacciato di querelarmi». 

Qualcuno si è mai arrabbiato per le sue imitazioni: Freccero, l’avvocato Taormina...?

«Taormina. Non risponde più al telefono». 

Si ispira a qualcuno per la conduzione?

«Vespa è un’istituzione, con Santoro sono cresciuto». 

E Lerner?

«Non credo che siamo amici. Gad è del fronte a cui non piace la Zanzara. Ma all’epoca volevo fare il giornalista perché c’era il suo Pinocchio». 

Di cosa ha paura?

«Con la morte non riesco a farci i conti. L’idea della perdita definitiva. E ho paura di perdere Nathania». 

L’ultima volta che ha pianto?

«Quando è morta nonna Margherita. E mi commuovo ancora quando penso ad un episodio che la riguarda: avevo 8 anni, lei mi portò al cinema. Di rientro la vidi scossa. Ho scoperto solo quando morì cosa fosse successo: le avevano rubato il portafoglio con dentro la stella gialla affibbiatale a Bergen Belsen. Era il suo legame con il papà, che dal quel campo non uscì». 

Cosa farà da grande?

«Sogno qualcosa che metta insieme le mie due anime, quella della radio e quella seria della tv. Vorrei essere un Alberto Angela pop».

La signora Chi l’ha visto? Umanità e artigli di Raffai che scelse di sparire. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 05 Febbraio 2023.

Con lei e Angelo Guglielmi Rai3 inventò la televisione del dolore. Durò dieci anni, poi Donatella fuggì per non guastarne la magia

Chi l’ha vista? Donatella Raffai era sparita, forse in Francia: c’era chi diceva fosse a Nizza, chi in Bretagna, di sicuro aveva cambiato il numero di telefono e non si trovava più. Un paradosso per una star mediatica che aveva raggiunto picchi di notorietà con una trasmissione, Chi l’ha visto?, fiore all’occhiello della Terza Rete Rai intelligente dell’innovativo Angelo Guglielmi. Andando a caccia delle persone che per scelta, obbligo o solo per capriccio avevano scelto la via di fuga dal mondo, Chi l’ha visto? nei primissimi Anni 90 raggiungeva 8 milioni di spettatori e Donatella Raffai, la sua conduttrice, si aggiudicava nel 1990, anno del debutto, due Telegatti. Mentre sulle tv irrompeva un esercito di mitomani e aspiranti investigatori che telefonavano alla trasmissione nella convinta speranza di risolvere i casi, Raffai accoglieva le chiamate con un «mix di compassione e di durezza» (copyright Guglielmi), sorriso distaccato e voce suadente allenata dalla radio.

Commozione, unghie rosse e critiche

È nata con lei la Tv del dolore, quella che ha dato voce all’Italia e ha creato secondo Guglielmi un nuovo romanzo popolare, ma ha anche dato fiato alle critiche, per quell’indulgere impietoso sulla commozione più facile. Con una dose di cinismo mediatico che «emanava una grande umanità da tutti gli artigli» come da definizione attribuita ad Antonio Ricci, con riferimento alle unghie accuratamente laccate di rosso smagliante di Raffai. «Era il meraviglioso prototipo della grande superjena televisiva che fino allora esisteva solo nei film Usa» ha scritto nel necrologio per Dagospia Marco Giusti, inventore, con Guglielmi ed Enrico Ghezzi, di un altro programma cult, Blob. E di sicuro Raffai è stata il modello di tutte le conduttrici di assertivo successo venute dopo. Ma allora, a inizio 2000, la realtà si era ribaltata e la ricercata era lei. Persino Guglielmi faticava a rintracciarla per un evento a cui voleva invitarla.

La ‘cacciatrice’ in fuga dal mondo

«Riuscii non so come a trovare il recapito. Ci parlammo affettuosamente, mi disse che non era tanto intenzionata a tornare in Italia ma che mi avrebbe dato una risposta dopo qualche giorno. Non l’ho mai più sentita». Un altro paradosso, quello di Raffai in fuga dal mondo. Perché la fama non era mai andata stretta alla figlia di un ammiraglio severissimo e di una nobildonna campana, che aveva debuttato al cinema diretta da Lattuada nei Dolci inganni, poi era passata alle pubbliche relazioni Rca, dove ha curato l’immagine di Nada e Baglioni e infine in Rai, prima a Telefono Giallo con Augias e poi a «Chi l’ha visto?». Si sentiva ostaggio di quel successo e dell’amore del suo pubblico, e chiese una conduzione politica. Le caselle Rai erano però occupate. Con gesto definitivo e consapevole sceglie il suo contrappasso, la sparizione in vita: con il terzo compagno, Silvio Maestranzi, regista tv, vivono una pensione appartata, fra Francia e Roma, dove Donatella muore l’8 febbraio 2022. «Apprezzai la sua signorilità. Andare via così, senza parlare, recriminare» ha detto Guglielmi in un’intervista a Michela Tamburrino su La Stampa. «Aveva una sua poesia. Lei lontano per non interrompere la magia che aveva creato».

Enrico Mentana: «Così conobbi Francesca Fagnani. I miei amori? Durati 10 anni. Mio papà era comunista, io anarchico». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 12 Marzo 2023

Intervista al direttore del Tg di La7: «Mio nonno era un figlio illegittimo; mia mamma, ebrea, fu espulsa da scuola. Io sono battezzato». La politica: «Craxi un innovatore, Dell’Utri il vero demiurgo di Berlusconi. La sinistra? Antipatica»

Enrico Mentana, qual è il suo primo ricordo?

«La memoria è la mia maledizione. Mi ricordo tutto».

Dell’Olimpiade di Roma 1960 cosa le resta?

«Il volo di colombe sulla curva di Berruti. Ma mi viene il dubbio che sia una memoria costruita sulla cronaca; mio padre Franco era un giornalista sportivo. Nel gennaio 1960, qualche giorno prima che compissi cinque anni, era morto Fausto Coppi: la caccia grossa in Africa, il chinino; una tragedia epica, salgariana. Oggi la morte è raccontata in modo del tutto diverso».

Che cosa intende?

«Ripenso alla morte di Kennedy e del Papa buono, la Rai che in segno di lutto sospende le trasmissioni. La morte dei Grandi aveva un tono sacrale. Chiedeva e otteneva rispetto».

Ricorda anche la formazione della Grande Inter?

«Sarti-Burgnich-Facchetti è troppo facile: la sanno tutti. Ricordo il 1964: l’Inter vince al Prater la sua prima Coppa dei Campioni, e vengono inaugurate la metropolitana di Milano e l’Autostrada del Sole. È l’anno in cui in Italia nascono più bambini nella storia».

E nel 1965 l’Inter rivince la Coppa a San Siro, su papera del portiere del Benfica.

«Nei quarti avevamo giocato a Glasgow, la città di Sean Connery, e in semifinale a Liverpool, la città dei Beatles. La mia generazione ha avuto un’adolescenza meravigliosa. Ha visto cambiare il mondo. Nell’estate del 1969 ci fu la conquista della luna, il sogno dell’umanità dai tempi dei classici greci. L’anno dopo battemmo la Germania 4-3, entrò in vigore lo Statuto dei Lavoratori, fu approvata la legge sul divorzio. E con governi a guida democristiana».

Nel Sessantotto lei entrava al liceo Manzoni di Milano.

«Mio padre mi chiese: ma per che cosa manifestate? Anch’io avevo abboccato. Facevamo casino per strada così come le generazioni precedenti avevano giocato a biliardo o corteggiato le ragazze».

Suo padre era di destra?

«Mio padre era comunista. Mio nonno Enrico era un figlio illegittimo, nato in Calabria nell’anno della battaglia di Mentana, cui dovette il suo cognome. Conservo la copia anastatica del registro di Ellis Island del 1905, in cui gli Stati Uniti d’America respingono la richiesta di ingresso di Enrico Mentana».

E poi dicono che i razzisti siamo noi italiani.

«Noi italiani siamo placidamente razzisti. Abbiamo quasi ripristinato la schiavitù: se ordino una pizza o una lavatrice non viene mai un italiano a consegnarmela».

Luca Ricolfi l’ha definita la «società signorile di massa».

«Ci dividiamo tra razzisti buoni che lasciano la mancia e razzisti cattivi che ringhiano: torna a casa tua».

Che storia ha la famiglia di sua madre?

«Mio nonno materno, Ettore Cingoli, ebreo marchigiano, conobbe a Torino la sua futura moglie Ada, ebrea genovese. Mia mamma Lella era del 1930, come Liliana Segre: solo un mese fa ho scoperto che venne espulsa lo stesso giorno dalla stessa scuola di Milano. Fu più fortunata: quando arrivarono i nazisti, i suoi la portarono a nascondersi sui monti delle Marche. L’8 settembre mio padre aveva vent’anni: si unì alla Resistenza, evitò per un soffio il plotone d’esecuzione anche se non se ne vantava mai, e dopo il 25 aprile andò a lavorare all’Unità, in cronaca. Il suo capo era Giorgio Cingoli, comandante partigiano e cugino di mia mamma. Fu lui a farli incontrare».

Suo padre non era un giornalista sportivo?

«Uscì dal Pci nel 1956, dopo l’invasione dell’Ungheria. E passò alla Gazzetta dello Sport».

Anche lei era comunista?

«Io ero anarchico. Diverso dagli anarco-insurrezionalisti di oggi. Con due compagni di scuola, Michele Serra, il bravissimo giornalista, e Guido Salvini, il magistrato che ha ottenuto una sentenza definitiva su Piazza Fontana, militavo in un piccolo gruppo che si chiamava Movimento socialista libertario. A Milano eravamo minoranza: il movimento studentesco era stalinista, e Stalin gli anarchici li faceva fucilare. Ma era anche la Milano di Pinelli e Valpreda. Avevamo una passione per la sinistra antiautoritaria, un’utopia romantica sconfitta dalla storia».

Che idea si è fatto dell’assassinio di Calabresi?

«Che gli esecutori materiali siano davvero Bompressi e Marino. Altra cosa è che Sofri, dopo il comizio in morte dell’anarchico Serantini, abbia davvero detto “vai e uccidi”. Era un tempo terribile, e lo sperimentammo anche noi».

In che modo?

«Al Manzoni c’era anche Mario Ferrandi, detto Coniglio. Ricorda la foto-simbolo degli Anni ’70, l’incappucciato che a Milano si china a sparare con la P38? Quel giorno venne ucciso l’agente Custra, e a lungo si pensò che l’assassino fosse appunto l’incappucciato. Il giudice Salvini recuperò altre foto. Scoprì il vero colpevole. Convocò il nostro vecchio compagno di scuola, Coniglio, che non sapeva di essere stato lui a uccidere. E lo fece condannare».

Quando comincia per lei il giornalismo?

«Subito. Mi chiudevo nello sgabuzzino con un piccolo televisore per fare le telecronache. Era la modernità, era il futuro. Fossi bambino oggi farei lo youtuber o il tiktoker. Per me era una pazzia divorante. Ogni volta che conoscevo un giornalista mi emozionavo».

Chi la emozionava di più?

«Montanelli, anche se il suo finale di partita è stato mesto: l’Italia antiberlusconiana lo applaudiva, ma lui non poteva essere ridotto a quello. E poi Biagi e Pansa. Il mio preferito però era Giorgio Bocca. Scarno, secco, anticonformista. Né retorica, né birignao».

A 27 anni lei era già un volto del Tg1, in quota Psi.

«Divenni vicedirettore del Tg2, ma dovetti lasciare. Non ero adatto a fare il portabandiera».

Com’era Craxi?

«Un grande innovatore, senza la pazienza e l’istinto collegiale che deve avere un leader di sinistra».

Martelli?

«Il Robin di Batman».

Berlinguer?

«Un uomo del suo tempo, che ebbe lo zenith con i tre articoli su Rinascita sul compromesso storico e il nadir quando dichiarò guerra a Craxi sulla scala mobile. Fece in tempo a morire prima della sconfitta definitiva».

Quando incontrò per la prima volta Berlusconi?

«Quando nel 1991 mi propose di fondare il Tg5. Aveva appena litigato con Craxi, per il referendum sulla preferenza unica, e gridava: “Io stavolta a baciare la pantofola ad Hammamet non ci vado!”. Avevo 36 anni e dovevo inventare tutto: nome, sigla, studio, logo, redazione. Un sogno. Per prima cosa reclutai Lamberto Sposini e Clemente Mimun».

È vero che la prima sera lanciò tre servizi e non ne partì nessuno?

«È vero. Ma battemmo il Tg1».

Quasi subito Berlusconi scese in campo.

«Andai a cena ad Arcore con Confalonieri, Letta e Gori, che era direttore di Canale5, a scongiurarlo di cambiare idea. Noi quattro eravamo tutti contrari. Ma lui aveva già deciso».

Chi è il demiurgo di Berlusconi? Confalonieri o Dell’Utri?

«Dell’Utri. La mente politica del gruppo è sempre stata lui».

E Confalonieri chi è?

«L’angelo custode che ti evita gli errori più gravi».

Gianni Letta?

«L’unico essere vivente che legge tutti i giorni la Gazzetta Ufficiale. Mai visto nella stessa persona tanto senso del potere e tanto senso dello Stato».

Antonio Ricci?

«Il grande beffardo, da cui accetti anche un calcio nei coglioni perché sai che è un calcio democratico: prima o poi arriverà pure agli altri».

E Maurizio Costanzo chi era?

«Un grande uomo della Prima Repubblica, con i suoi limiti e la sua carica inesauribile».

Lei arbitrò il duello del 1994 tra Berlusconi e Occhetto.

«Che non cambiò nulla. La verità è che la maggioranza della società italiana aveva fatto blocco contro la sinistra. Come sempre».

Nel 2004 la mandarono via.

«Dopo tredici anni capita, anzi è persino giusto».

Al suo posto andò Carlo Rossella. Michela Rocco di Torrepadula, allora sua moglie, commentò: bell’amico.

«Non ne ho mai voluto a Carlo. Era più affidabile di me».

Lei ha avuto una vita sentimentale da divo di Hollywood.

«Ho avuto una vita sentimentale da laico. E ho avuto Stefano dalla prima compagna, Alice dalla seconda, Giulio e Vittoria dalla mia ex moglie».

Ha lasciato o è stato lasciato?

«Era finita. Ma sono sempre stati amori decennali. Compreso quello in corso».

Come ha conosciuto Francesca Fagnani?

«Venne a intervistarmi per una rivista d’arte. Mi incuriosì, e non solo per la bellezza. Era determinata, non arrivista. Una secchiona capace di studiare due notti di fila per far bene una cosa».

Lei fondò Matrix, e la mandarono via pure da lì. Per il caso Eluana.

«Ero convinto che non si potesse trasmettere il Grande Fratello Vip al posto di una storia come quella. Ma sarebbe accaduto comunque, magari il mese dopo. Non ho nessun sentimento negativo. Ora La7 è il mio posto ideale».

Lei cosa vota?

«Ho votato socialista dal 1975 al 1992; poi non ho più votato. Ma conservo gli ideali di progresso, di diritti civili, di giustizia sociale della mia giovinezza».

Eppure si ha la sensazione che la sinistra le stia più antipatica della destra.

«La sinistra non mi sta antipatica; la sinistra è antipatica. Anche questo lo sanno tutti, come la formazione della Grande Inter. È aristocratica, elitaria, convinta di essere la parte migliore, vocata a governare anche quando (quasi sempre) perde. È come la vecchia Y10: piace alla gente che piace; e dispiace a tutti gli altri. Ma la destra mi è estranea, e quella dei decreti rave e migranti ancor di più».

Renzi non le stava così antipatico.

«Nel 2014 Renzi era il fidanzato d’Italia. Ma si è preoccupato di vincere, non di seminare. E poi a vincere le Europee son buoni tutti, pure Salvini».

Giorgia Meloni ha vinto le politiche.

«E adesso, più che da Elly Schlein, deve guardarsi dalla componente maschile della sua maggioranza».

Salvini e Berlusconi faranno cadere il governo?

«Dovranno distinguersi di continuo, per garantire la propria sopravvivenza».

E il centro?

«Il centro non esiste».

Lei crede in Dio?

«Sì. Anche se non potrei mai scegliere tra il Dio di mio padre e il Dio di mia madre. Non ci può essere un Dio giusto e un Dio sbagliato».

Lei è cattolico o ebreo?

«Tecnicamente sono cattolico, in quanto battezzato. Da ragazzo dicevo sorridendo che avevo la doppia tessera».

Come immagina l’Aldilà?

«Come Massimo Ammaniti: il Paradiso è là dove ritroverò i miei cani. E tutte le creature cui ho voluto bene. A cominciare dalle due che mi hanno messo al mondo».

Valentina Lupia e Giulia Moretti per repubblica.it - Estratti giovedì 16 novembre 2023

“Ci parlava di liti frequenti, tre volte è stata cacciata da casa, fino all’aggressione. E anche dopo lui passava sotto casa sua”. L’iter giudiziario che coinvolge l’ex vice direttore di Rai Sport Enrico Varriale, accusato di aver picchiato e perseguitato l’ex compagna e di aver alzato le mani, successivamente, anche un un’altra donna, prosegue con le testimonianze in aula. 

Sono i racconti di chi ha aiutato la prima vittima e adesso spiega le conseguenze di quelle aggressioni: “Mostrava uno stato emotivo provato, aveva paura ed era ansiosa”. Era arrivata addirittura a cambiare le proprie abitudini: “Non usava mai il garage”, tanta era la paura di ritrovarselo lì. Anche Varriale oggi era atteso in aula. Avrebbe dovuto raccontare la sua verità, difendersi dalle accuse che ha sempre respinto, ma non si è presentato poiché malato. 

Le testimonianze

Sono però state ascoltate, come testimonianze di parte civile, le psicologhe dell’associazione Differenza Donna e del centro antiviolenza al quale la vittima si era rivolta dopo le aggressioni denunciate. “Veniva al Cav con cadenza settimanale e la supportavamo telefonicamente fino alla misura di non avvicinamento, poi gli incontri si sono diradati ma è continuata a venire al centro per essere sostenuta nelle fasi del processo”, dice la direttrice del Centro. Che aggiunge: “Ha raccontato di liti frequenti e tre volte è stata cacciata da casa”. Poi “c'è stata una escalation fino all'aggressione fisica”. Infine, “dopo la fine della relazione, Varriale ha continuato a mandarle messaggi e far telefonate intimidatorie”. Ma non si sarebbe limitato a questo: “Lui passava sotto casa e lei lo vedeva dalla finestra”, ha detto in aula la testimone raccontando una circostanza che l’ex direttore di Rai Sport ha sempre smentito. 

È stata ascoltata anche la psicologa del centro che ha supportato la donna. “Mostrava uno stato emotivo provato. Aveva paura ed era ansiosa dati dai continui messaggi e telefonate di Varriale. Dormiva poco e male, faceva fatica a seguire la sua routine, prima di uscire controllava dalla finestra” se Varriale fosse lì. E “al rientro non usava mai il garage”. Secondo la testimone, la vittima preferiva parcheggiare in strada, dove in caso di aggressione qualcuno forse avrebbe potuto aiutarla. “L’ansia e il senso di pericolo” si sono accentuati quando” la donna è stata “contattata dalla nuova compagna di Varriale, che in quel momento era in ospedale dopo un’aggressione”. 

(...) 

L’aggressione

I "gravosi impegni del giornalista", "la sostituzione nelle telecronache della partita", "il procedimento disciplinare" dettato dal mancato rispetto della quarantena durante gli Europei di calcio "e infine la mancata conferma come vicedirettore della testata giornalistica Rai Sport", vengono ricordati negli atti come i elementi che descrivono un momento difficile per il giornalista, ma che non giustificano quanto, secondo la procura, è accaduto l'estate scorsa.

Un crescendo di tensione degenerato il 6 agosto: "Durante un alterco per motivi di gelosia, la sbatteva violentemente al muro - si legge nel decreto che dispone il giudizio immediato - scuotendole e percuotendole le braccia, sferrandole violentemente dei calci". La donna avrebbe cercato di rientrare in possesso del suo cellulare, ma Varriale "la afferrava al collo con una mano", aveva scritto il giudice Monica Ciancio. Causandole lesioni al braccio, alla mano, al gomito, al ginocchio e al collo. Ferite giudicate guaribili in 5 giorni. Fin troppo pochi rispetto a quelli necessari per superare il trauma che Varriale ha sempre minimizzato, spiegando che i fatti denunciati sono stati amplificati. 

Lo stalking

Dopo l'aggressione, la vittima ha deciso di troncare la relazione. Ma il giornalista avrebbe cercato "ossessivamente di entrare in contatto" con lei chiamandola, inviandole messaggi e citofonandole. Il tutto contornato da insulti sessisti e minacce di far perdere alla donna una collaborazione giornalistica. Agli appostamenti di Varriale, corrispondevano gli attacchi di panico della vittima. Tutte accuse che l’imputato ha sempre negato. Oggi il giornalista, che aveva anche ricevuto dal gip di Roma il divieto di avvicinamento a meno di 300 metri dalla vittima e che era stato sospeso dalla Rai, avrebbe potuto dire la sua. Ma l’esame dell’imputato è stato rimandato a causa delle sue condizioni di salute.

Estratto dell'articolo di Val.Err. per “il Messaggero – Cronaca di Roma” il 16 maggio 2023.

«Quello è pazzo. Bisogna fermarlo prima che ammazzi qualcuna». Si scambiavano messaggi tra loro le due presunte vittime Enrico Varriale, parti offese nei processi che vedono il giornalista sportivo imputato per stalking e lesioni. 

Ieri […] in aula ha testimoniato la seconda donna che avrebbe subito violenze a pochi mesi dai fatti denunciati dalla prima, parte civile nel procedimento. E ha smentito quanto sostenuto dall'imputato in un'intervista: ossia che con la ex aveva avuto una pesante lite, che gli era costata un occhio nero: «Non aveva lividi, stava benissimo», ha detto la testimone, che aveva visto Varriale due giorni dopo i fatti denunciati dalla ex.

Ma gli avvocati Fabio Lattanzi ed Ester Molinaro hanno contestato le dichiarazioni della testimone e depositato una perizia sui messaggi che Varriale e la donna si erano scambiati durante la relazione, tra i quali proprio una foto dove l'imputato ha un'ecchimosi sul viso. E ora, i legali, valutano se denunciarla per dichiarazioni false rese in aula. 

«L'udienza di oggi ha fatto - scrivono in una nota gli avvocati - emergere che Enrico Varriale è oggetto di false accuse. La testimone ha affermato che Varriale non ha subito alcun trauma all'occhio. La circostanza è documentalmente smentita da una foto che Varriale ha inviato alla testimone». Ma la teste dice di non avere mai ricevuto quell'immagine.

[…] «Io ho appreso la notizia delle accuse dell'ex compagna di Varriale solo dai giornali», ha raccontato la testimone in aula, che ha riferito come solo due giorni dopo i presunti abusi sulla donna, il giornalista che aveva due relazioni parallele, sia arrivato da lei in Puglia. Era l'8 agosto del 2021. «Stava benissimo, ha anche fatto il bagno a mare senza occhiali da sole. Per difendersi ha dichiarato che in realtà con la sua ex aveva avuto una colluttazione e che aveva un occhio nero. Ma è falso». 

Non solo, la donna ha aggiunto anche che, a posteriori, Varriale avrebbe tentato di convincerla a chiamare un medico che lei conosceva per ottenere un certificato falso che attestasse il suo stato.

[…] durante l'udienza di ieri è emerso anche che la seconda vittima, dopo essere stata picchiata, nel dicembre 2021, aveva contattato la prima. Raccontandole di essere al pronto soccorso del Gemelli: «Ha aggredito anche me, come un pazzo», le scriveva il 9 dicembre del 2021. [...] «Ha detto che se lo denuncio mi ammazza», aggiungeva ancora la donna e la prima presunta vittima le manifestava la sua commozione, ma anche la sua paura: «Sei al sicuro?» 

[…] Nel settembre 2021, Varriale era stato sottoposto alla misura del divieto di avvicinamento a meno di 300 metri dall'ex compagna. Nell'ordinanza il gip sottolineava: «le condotte danno conto di una personalità aggressiva e prevaricatoria, evidentemente incapace di autocontrollo». Secondo la ricostruzione del pm Daniela Cento, il 6 agosto 2021, il giornalista avrebbe sottratto il cellulare alla donna, avrebbe sbattuto la donna contro il muro, l'avrebbe presa a calci e le avrebbe anche afferrata per il collo. La lite […]sarebbe proseguita sul pianerottolo.

Dopo pochi mesi la scena si sarebbe ripetuta con la seconda donna [...]. L'imputato avrebbe aggredito la vittima in casa sua l'8 dicembre dello stesso anno. La donna avrebbe perso i sensi e dopo essersi ripresa aveva chiamato il 112. A quel punto il giornalista sportivo l'avrebbe minacciata. Dopo questi fatti, Varriale avrebbe continuato a perseguitarla fino a febbraio, «con telefonate continue e appostamenti[...], cercando di carpire notizie su di lei dai profili social e contattando i figli di lei» come scrive il pm Cento che ha chiuso le indagini.

Varriale, la testimone in aula: «Venne da me dopo aver picchiato l'altra. Poi mi chiese un falso certificato». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 15 Maggio 2023.

Nel primo dei due processi per stalking e lesioni a carico del giornalista Rai parla la sua seconda presunta vittima. Gli sms con la donna picchiata: «Ha aggredito anche me». «Proteggiti, prima o poi ammazza qualcuno». 

L'8 agosto 2021, il giorno dopo aver aggredito la sua prima presunta vittima, Enrico Varriale raggiunge in Puglia l’altra donna con la quale aveva una relazione in quel periodo e che ora testimonia contro di lui a sostegno della ex (ignara) rivale in amore: «Insisteva tanto per raggiungermi e quando arrivò era sereno e sorridente, me lo ricordo bene», dice la seconda donna, aggiungendo un particolare assai rilevante. «Ricordo che non aveva nessun segno sul volto, fece anche il bagno senza gli occhiali e lo avrei notato». Il dettaglio è importante perché quando questo primo caso di lesioni e stalking finisce sui giornali, Varriale sostiene in una intervista che non si trattò di una sua aggressione alla donna ma di una lite in cui lui e la vittima si scambiarono colpi reciproci, tanto che lui stesso riportò un occhio nero. 

La testimonianza al processo contro Enrico Varriale

Ma la seconda donna, che mesi dopo l'ha denunciato per gli stessi reati e oggi testimonia a sostegno dell'altra, va oltre e spiega: «Venni a sapere dai giornali che aveva picchiato una donna e mi allontanai da lui. Poi, quando ci riappacificammo, lui chiese di contattare un mio amico medico che era in Puglia con noi per farsi scrivere un falso certificato in cui doveva risultare che in quei giorni lui aveva una ferita a un occhio». Una circostanza smentita dai legali di Varriale, Fabio Lattanzi ed Ester Molinaro, che sostengono di avere una foto, inviata alla donna, in cui il giornalista le mostra il suo occhio gonfio, tanto da valutare ora una denuncia per falsa testimonianza. «Ha usato il mio telefono senza che me ne accorgessi», controbatte lei.

La donna protetta da un pannello

La testimone parla nell'ottava aula del tribunale monocratico dietro la protezione di un pannello per nascondersi alla vista dell'ex vice direttore di Raisport, perché questo le mette ancora agitazione. Le due presunte vittime sono assistite entrambe dall'avvocato Teresa Manente di Associazione donna che si è costituita parte civile e deposita al giudice Paolo Emilio De Simone anche i messaggi in una chat sui social che si scambiarono le sue due assistite dopo che, nel dicembre di quello stesso 2021, anche la seconda denunciò Varriale. «Mi aveva cominciato a seguire sui social dopo che Varriale mi chiese di pubblicare una nostra foto assieme, che poi ho capito essere un modo per farla ingelosire. Dopo che lui mi diede lo schiaffo che mi fece finire in ospedale mi sentii istintivamente vicina a lei, capii cosa aveva provato e le scrissi mentre ero in ambulanza». 

«Quello è pazzo, bisogna fermarlo prima che ammazzi qualcuno»

Ecco un estratto di quello scambio: «Ciao, sono al pronto soccorso, Varriale ha aggredito anche me», scrive lei. E la prima vittima: «Oddio, dimmi che non è vero, ti prego!!». La prima donna le spiega di essere al Gemelli e l'altra cerca di esserle vicina: «Ho paura per te. Che ti ha fatto? Sei al sicuro? Oddio, sto male, sto tremando». Tra le due scatta una solidarietà al femminile. La seconda vittima spiega che andrà in commissariato a denunciarlo e l'altra si raccomanda: «Chiama qualcuno che ti stia vicina adesso. Non stare da sola». E ancora la prima conclude: «Ho saputo quello che ti era successo dai giornali. Quello è pazzo, bisogna fermarlo prima che ammazzi qualcuno».

Estratto da La Stampa il 30 aprile 2023.

Minacce di morte partite dai telefoni della Rai. Addirittura con la voce camuffata, nel tentativo di non farsi riconoscere. Ci sarebbe da ridere, se non fosse tutto agli atti della seconda inchiesta a carico di Enrico Varriale. Chiusa dalla procura di Roma, che accusa il giornalista sportivo di aver minacciato una donna con cui aveva una relazione. 

Iniziata dopo la fine della storia con la precedente compagna, che lo aveva denunciato per stalking: la prossima udienza del processo è prevista tra un paio di settimane. Questa ulteriore indagine, conclusa lo scorso novembre, parte invece da quanto sarebbe avvenuto l'8 dicembre 2021, stando al racconto della vittima: una lite per motivi di gelosia, terminata con uno schiaffo al volto della donna, che avrebbe sbattuto la testa a terra e perso i sensi. 

«Trauma cranico non commotivo», recita il referto del Policlinico Gemelli. In seguito, mentre lei cercava di chiamare il 112, lui l'avrebbe minacciata: «Se mi denunci, ti ammazzo».

Nei giorni successivi, l'ex vicedirettore di RaiSport sarebbe passato sotto «l'abitazione della vittima al fine di incontrarla», si legge negli atti. E avrebbe anche tentato di contattarla chiamando da numeri anonimi, provando a cercare perfino i figli della vittima. L'episodio più singolare è, però, quello del 19 dicembre del 2021, quando Varriale, secondo i pm, ha chiamato la donna «utilizzando l'utenza della Rai radio televisione, suo luogo di lavoro, oscurando il numero chiamante, sia alle ore 12,55 che alle ore 13,27, pronunciando con voce contraffatta nel corso della seconda telefonata una frase del tipo "morirai"». 

Un comportamento che, secondo gli avvocati della vittima, le avrebbe causato gravi problemi: da quel giorno ha paura di rispondere al telefono e spesso tiene le luci di casa spente per paura di essere controllata.

Varriale sul punto è già stato interrogato: «Ho spiegato tutto, sono state raccontate tante falsità, ad esempio c'è stata solo una telefonata, durata tre secondi, e nessuna minaccia – spiega a La Stampa -. A mia volta ho denunciato la signora, che ha distrutto casa mia, ora aspettiamo di conoscere le valutazioni del giudice. Mi sorprende tutta questa attenzione mediatica, senza alcun fatto nuovo e orientata solo su una fonte». 

Presto, comunque, il giornalista potrebbe ritrovarsi di nuovo di fronte alla donna, chiamata a testimoniare al processo nato dalla prima inchiesta, cioè dalle presunte minacce e molestie all'ex compagna. 

(...)

Estratto da open.online il 29 aprile 2023.

Il giornalista Rai Enrico Varriale deve fronteggiare un’altra accusa di stalking. Dopo il caso che coinvolge l’ex compagna un’altra donna si è presentata a denunciarlo. Parlando di urla e insulti sempre più pesanti, liti culminate in minacce di morte e uno scontro. Con lei che finisce a terra e perde i sensi. E lui che le avrebbe detto «se mi denunci ti ammazzo». A parlare della vicenda è oggi Il Messaggero, che dice che la procura di Roma ha chiuso le indagini. Presto potrebbe decidere sul rinvio a giudizio. Il conduttore intanto ha portato in giudizio viale Mazzini: vuole tornare in video. La vicenda sotto l’esame della pm Daniela Cento va dal settembre 2021 al febbraio 2022. Ovvero è successiva al caso dell’ex compagna. Per il quale intanto è cominciato il processo. 

La vicenda

La vicenda della seconda donna che accusa Varriale di stalking era nota dal dicembre 2021. All’epoca sempre Il Messaggero raccontò di un episodio accaduto a Ponte Milvio. Ovvero uno schiaffo che avrebbe fatto perdere i sensi alla donna. La quale dopo il rinvenimento si sarebbe recata al pronto soccorso. All’epoca, scriveva il quotidiano, anche il giornalista aveva chiesto l’intervento delle forze dell’ordine. Perché a suo dire la donna durante la lite avvenuta per motivi di gelosia avrebbe iniziato a distruggere l’appartamento. 

Quando è arrivata la polizia però in casa non c’era nessuno. Secondo il racconto odierno proprio nell’occasione il giornalista l’avrebbe minacciata, intimandole di non sporgere denuncia. Sempre secondo l’accusa da quest’episodio fino al febbraio 2021 Varriale l’avrebbe contattata al telefono e tramite i social network. E, scrive la pubblica ministera, avrebbe provato a parlare anche con i figli di lei.

La telefonata

C’è poi il caso di una telefonata arrivata sull’utenza della donna il 19 dicembre 2021. Secondo lei viene dall’utenza della Rai. Nel corso della comunicazione delle 13.27 qualcuno con voce camuffata avrebbe detto alla donna «morirai». 

(...) La versione di Varriale

All’epoca Varriale diede la sua versione dei fatti: «Non ho mai stalkerizzato nessuno e chi afferma questo ne risponderà in tutte le sedi. È una dolorosa vicenda personale che avrei preferito rimanesse tale. Purtroppo però mi sono state rivolte, e rese pubbliche, accuse del tutto false. Sono sicuro che riuscirò a dimostrare la loro infondatezza facilmente e in tempi brevi».

Enrico Varriale, un'altra donna lo accusa. E spuntano le telefonate. Il Tempo il 29 aprile 2023

Nuove accuse per Enrico Varriale, ex vice direttore di Rai Sport e popolare giornalista sportivo già alle prese con l'inchiesta per stalking e lesioni nei confronti della ex compagna. Come riporta il Corriere della sera un'altra donna lo accusa sempre di stalking e violenza, anche sulla scorta di due telefonate che sarebbero partire da telefoni Rai usando una voce camuffata, con la minaccia choc: "Morirai".

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Le telefonate risalirebbero al 19 dicembre 2021. La donna, che all'epoca aveva una relazione con Varriale, denuncia di aver subito una violenta aggressione fisica: uno schiaffo l'avrebbe fatta cadere sul pavimento sbattendo la testa e perdendo i sensi, provocandole un "trauma cranico commotivo" refertato in ospedale. La donna afferma inoltre di essere stata minacciata mentre cercava di chiamare il 112: "Se mi denunci, ti ammazzo".

Come spiega il Corriere, questi elementi sono contenuti nell'avviso di chiusura indagini notificato dal pm Daniela Cento a Varriale che rischia un altro giudizio oltre a quello per lesioni e stalking alla compagna. Secondo quanto riportato, il giornalista avrebbe iniziato la relazione con la donna che lo accusa oggi dopo la fine del rapporto con la ex compagna. Varriale, assistito dall'avvocato Fabio Lattanzi, è stato già sentito dal pm e avrebbe fornito elementi in sua difesa. 

Varriale, nuovo processo alle porte per stalking e lesioni alla fidanzata: «Mi ha fatta svenire con uno schiaffo». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2023 

Chiuse le indagini sul giornalista Rai, accusato di aver perseguitato e picchiato una donna con la quale aveva una relazione. Il 63enne è già a giudizio per una vicenda analoga ai danni della ex compagna 

La voce era contraffatta ma riconoscibile dalla vittima: «Morirai», le diceva quell’uomo al telefono in due telefonate del 19 dicembre 2021 a distanza di mezz’ora una dall’altra a cavallo delle 13. L’autore delle minacce sarebbe il giornalista Rai Enrico Varriale, col quale lei aveva una relazione e che dieci giorni prima l’avrebbe aggredita fisicamente, sferrandole uno schiaffo tanto violento da farle sbattere la testa sul pavimento e perdere i sensi (è stata refertata al Gemelli con quattro giorni di prognosi per “trauma cranico con commotivo”). Poi mentre lei cercava di chiamare il Numero unico delle emergenze, l’avrebbe minacciata in modo esplicito: «Se mi denunci, ti ammazzo».

Tutti questi episodi sono contenuti nell’avviso di chiusura indagini notificato dal pm Daniela Cento al 63enne conduttore di trasmissioni sportive, che rischia ora di finire a giudizio per atti persecutori e lesioni aggravate. Sarebbe il secondo processo per lui a distanza di pochi mesi, tanto che nella analoga vicenda per la quale è già imputato con l’analoga accusa di lesioni e stalking sulla ex compagna (insultata, minacciata, picchiata fino a trovarsi le sue mani strette al collo, secondo l’imputazione), proprio questa seconda presunta vittima testimonierà nell’udienza fissata fra due settimane. Quasi a confermare che certe esplosioni di violenza non sarebbero per l’anchorman gesti estemporanei ed isolati. Anzi, sarebbero almeno idealmente legati, perché la seconda vittima ha cominciato la relazione col giornalista dopo la fine di quella con la prima denunciante e la sera dello schiaffo si era a casa di Varriale per una crisi di gelosia, non riuscendo a contattarlo.

«Quando mi sono riprese avevo gli occhi arrossati e c’era una strana puzza d’aceto. Ho provato ad andarmene ma la porta di casa era chiusa a chiave». Nei giorni seguenti Varriale avrebbe provato a chiamare ripetutamente la donna da numeri anonimi o tramite whatsapp, ma anche contattando i suoi figli e spiandone i movimenti sui social. «Vivevo con le luci spente e non rispondevo al citofono per paura che lui mi controllasse», ha raccontato lei alla polizia. Varriale è stato già sentito dal pm e, assistito dall’avvocato Fabio Lattanzi, avrebbe fornito elementi in grado di smontare in gran parte le accuse. 

Estratto dell'articolo di Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - edizione Roma” il 15 marzo 2023.

Enrico Varriale contro la Rai. […]  dopo mesi di tira e molla, si è rivolto al giudice del lavoro: il presentatore chiede di essere reintegrato a tutti gli effetti. Traduzione: vuole condurre di nuovo una trasmissione.

 Varriale è stato sospeso 6 mesi fa. Una misura presa in accordo con i vertici di viale Mazzini, e adottata in via precauzionale. Nessuna decisione messa nero su bianco che imponesse di parcheggiare il giornalista in attesa della sentenza - è accusato di atti persecutori nei confronti dell’ex - bensì una sorta di stretta di mano. Un accordo tra galantuomini.

 […] Intanto, però, il processo che lo vede imputato per stalking galoppa e il verdetto finale è atteso, nella peggiore delle ipotesi, in autunno, a ottobre. Ma Varriale morde il freno. D’altro canto, nessuno è colpevole fino al terzo grado di giudizio. Ed effettivamente non si è arrivati ancora al primo.

Eppure, per molti suoi colleghi, la vicenda è complessa anche perché le parole, queste sì, vergate nero su bianco da parte del giudice nei confronti dell’ex vicedirettore pesano come macigni. Il gip Monica Ciancio, che aveva disposto il «divieto di avvicinamento a meno di 300 metri dai luoghi frequentati dalla persona offesa » e di «non comunicare con lei neppure per interposta persona » , ha sottolineato come « le condotte poste in essere dal Varriale diano conto di una personalità aggressiva e prevaricatoria, evidentemente incapace di autocontrollo » .

 Dal canto suo a settembre Varriale aveva dichiarato alle agenzie: «Le false accuse che mi sono state mosse troveranno smentita nei fatti che ho potuto illustrare. Ho fiducia nella giustizia». Ed è questo il punto, perché in viale Mazzini alcuni vorrebbero aspettare che la giustizia si esprima. […]

Nel frattempo, però, Varriale ha deciso di dettare le sue condizioni ai vertici di Rai Sport: conduzione in diretta e collegamenti esterni. Il programma dovrebbe mettere assieme tifosi e presidenti delle società di calcio di serie A. Un’idea di trasmissione, nessun progetto definitivo è stato messo a terra da parte del giornalista.

 […] A breve ci sarà una nuova udienza del giudice del lavoro. La domanda è se arriverà prima la sua sentenza oppure quella del tribunale penale. Nel frattempo nella redazione di Rai Sport la tensione è ai massimi livelli.

Telenorba, il record del direttore Enzo Magistà: «Per andare in tv mi alzo alle 4 dal 1986». Ha compiuto 70 anni il fondatore e direttore del telegiornale leader di Puglia e del Sud. Vito Fatiguso su Il Corriere della Sera il 14 Febbraio 2023.

«Non ho mai pensato di abbandonare la mia Conversano. Anzi, per me è sempre stato un motivo d’orgoglio professionale. Ho dimostrato a tutti che, anche da una città di provincia, si possono fare grandi cose: garantire informazione di qualità, formare generazioni di giornalisti e soprattutto aiutare il Sud nelle battaglie per la crescita economico-sociale. L’esperienza più bella e allo stesso tempo controversa? L’inchiesta sull’omicidio di Meredith Kercher». Enzo Magistà ha compiuto ieri 70 anni. Giornalista dal 1978 è il fondatore della testata d’informazione di Telenorba, l’emittente locale più importante d’Italia. Da 45 anni, senza interruzioni, è il direttore del telegiornale leader di Puglia e del Sud. Un record per un comparto, quello dell’informazione, che ha dimostrato in passato di saper “divorare” professionalità in tempi molto brevi. Eppure, dalle sue parole non filtra stanchezza; sprizza, invece, l’entusiasmo dei primi giorni che spesso condensa nell’editoriale mattutino (Il Fatto) piattaforma di confronto politico, economico e sociale nell’arco della giornata.

Direttore Magistà, 45 anni di gestione della testata è un primato. Tanta strada, ma forse una fatica piacevole per chi ha sempre lavorato con passione. È così?

«Amo questa professione e la chiave del successo sta nella cura del prodotto, nell’organizzazione della redazione e nella curiosità che non deve mai mancare. Ecco perché non sono affatto stanco».

L’avvio dell’attuale TgNorba combacia con un settore che era in movimento. Qual è stata l’intuizione?

«Erano i tempi delle dirette telefoniche, come quella per l’omicidio di Benedetto Petrone fatta a Bari da una cabina di corso Vittorio Emanuele, o delle cronache del terremoto dell’80 in Basilicata quando con le auto organizzavamo staffette per portare a Conversano le videocassette con le immagini. Ma ciò che ha segnato la svolta è l’aver stretto un forte legame con gli spettatori».

In che senso?

«Il 1986 è l’anno del lancio dell’edizione della mattina, alle 7.30, ed è stata una delle chiavi del successo. Ancora oggi incontro gente, anche all’estero, che mi riconosce. Magari è un professionista affermato o un imprenditore. Mi racconta: io facevo colazione con lei perché mia madre e mio padre ascoltavano il telegiornale prima di portarmi a scuola. Sei stato il mio accompagnatore mattutino».

Trasmettere un telegiornale alle 7.30 significa svegliarsi ore prima.

«Mi alzo ogni giorno alle 4 e dopo un’ora sono puntualmente in redazione per restare lì almeno dodici ore. Da sempre è questo il ritmo della mia vita. Ma le assicuro: non rinuncio a niente e la sera posso fare anche tardi. Lavoriamo molto sui contenuti, non ci affidiamo al semplice lancio d’agenzia. Bisogna scavare nei temi perché lo spettatore ha fame di notizie ben fatte».

A proposito di qualità. Sono tanti i giornalisti che si sono formati nella sua redazione?

«Centinaia. Molti di loro ora lavorano in altre testate televisive nazionali come Rai, Mediaset, Sky. E anche nei quotidiani nazionali. Esempi? Il primo fu Daniele Rotondo, passato alla condizione del Tg2, ma anche Antonio Bartolomucci, commentatore sport di Mediaset. Dico di più: la gran parte della redazione del Tg3 della Puglia ha mosso i primi passi da noi».

È sul campo la migliore palestra per chi vuole diventare giornalista?

«Alla fine l’Ordine si concentra sul rispetto delle regole e delle forme. Ma chi scommette sulle reali competenze di chi esercita questa professione? Senza adeguata preparazione è logico vivere nel tempo delle fake news. Fare il giornalista oramai è come essere impiegato: è un lavoro da scrivania. Per me, invece, vale sempre la regola: chi fa questo mestiere non ha orari, studia e deve saper far discutere».

Qual è stato il momento centrale, nel bene e nel male, della sua carriera?

«L’omicidio di Meredith Kercher. Sono stato sospeso dalla professione per sei mesi, ma alla fine i fatti mi hanno dato ragione perché ho sostenuto, dal primo momento, che non c’erano le prove né per arrestare né per condannare Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Ho fatto una battaglia che mi è costata tanto e, infine, i giudici dell’ultimo grado hanno riconosciuto che c’erano stati errori macroscopici nella condizione delle indagini».

Chi le è stato più vicino nell’esperienza professionale?

«Ho avuto la fortuna di lavorare con un editore, Luca Montrone, che mi ha sempre rispettato e non ha mai fatto pressioni per modificare la linea editoriale».

Che invece risponde?

«All’esclusivo interesse dell’economia del Sud. È stata questa la strada imboccata: se c’è da difendere il territorio Telenorba fa la sua parte. D’altronde la Puglia ha potenzialità inespresse».

Parla da politico. Anche per questo Enzo Magistà è il candidato ideale in ogni tornata elettorale?

«Non ho mai nascosto la volontà di concludere l’esperienza lavorativa con una carica pubblica. Mi sono venuti a cercare da tutte le parti e da tutti gli schieramenti per elezioni europee, nazionali o regionali. Ma alla fine l’amore per il giornalismo è ancora vivo. Resto il direttore e alle 7.30 saluto gli spettatori».

Il Bestiario, il Fazigno. Giovanni Zola il 18 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il Fazigno è un leggendario animale che per quarant’anni ha occupato la tv di stato inventandosi il buonismo televisivo 

Il Fazigno è un leggendario animale che per quarant’anni ha occupato la tv di stato inventandosi il buonismo televisivo.

Il Fazigno è un essere mitologico conosciuto anche come The King of the Buonism. Il Fazigno è il massimo sostenitore dell’atteggiamento che si basa sull’essere buoni, tolleranti e comprensivi a discapito del realismo e dell’uso corretto della ragione. E’ quell’atteggiamento che passa per essere peculiare degli intellettuali, ma che in realtà nasconde un provincialismo disarmante, che tende a relativizzare i problemi sociali e morali. Il buonismo, in realtà, è solo un atteggiamento di facciata che nasconde ben altri intenti.

Il buonismo televisivo del Fazigno è sempre contro. Non è un valore assoluto, è una ideologia che nascostamente, dietro un sorrisetto e una battutina, si scaglia contro chi la pensa diversamente. Il Fazigno ha l’abilità di non metterci mai la faccia, perché lui deve apparire veramente buono e paziente, e fa fare il lavoro sporco ai suoi gregari, comici, virologi, attori e capitani di vascello, che finge di tenere a freno nel grande gioco delle parti. Così i suoi alter ego si possono permettere di dire la qualsiasi contro il nemico arrivando anche all’insulto personale perché non c’è peggior violento di un buonista.

Il Fazigno finge di essere un libero pensatore, ma non lo è per nulla. Esso ripete pari pari il copione scritto dal potere del pensiero dominante, anch’esso buonista e corretto. Il Fazigno è infatti assolutamente prevedibile, i suoi argomenti ricalcano la scaletta di un qualsiasi telegiornale. Il paradosso del Fazigno è che gioca a fare la vittima al potere. Tutto il mondo è contro di lui e dei suoi compari che si consolano con guadagni milionari.

Per mantenere la sua posizione che è durata ben quaranta anni, come la vituperata Democrazia Cristiana, il Fazigno ha leccato con abbondante saliva coloro che gli hanno consentito di mantenere il suo ruolo di mattatore più pacato della televisione di stato. Ma non era pacatezza era noia. I suoi fan lo difendono per essere stato l’inventore di un format televisivo culturale, dimenticando che un conduttore che intervista ospiti e comici sta solo copiando il Letterman Show e che la vera cultura appartiene a tutti altrimenti si chiama propaganda ideologica di parte.

Il Fazigno migrerà con i suoi compagni verso altri lidi continuando a seminare buonismo televisivo al fine di ingrassare il suo portafoglio di povero compagno di sinistra vittima di coloro contro i quali si è scagliato impunemente.

Anticipazione da “OGGI” mercoledì 11 ottobre 2023.

Alla vigilia del debutto sul Nove, dopo 40 anni di televisione e 20 di “Che tempo che fa” Fabio Fazio dice a OGGI, in edicola domani, che cosa tiene e che cosa butta: «Tengo il programma perché è la mia creatura. La vera sfida non saranno solo gli ascolti: c’è tutto da costruire, una rete da fare. Non sarà semplice riconquistare il pubblico e contaminare il canale con i nostri contenuti. Cosa butto? Ogni tipo di rancore e non perché sia buono: è un fardello che inquina». 

Fazio torna sulla ricostruzione proposta dalla Rai e da alcuni giornali dei motivi del “divorzio”: «Ci sono giornali e trasmissioni fatti per menare. Io li ignoro. La verità è molto semplice: a maggio non si era ancora fatto vivo nessuno per il mio rinnovo e so bene che cosa significa nel codice aziendale. Il mio contratto in Rai non è stato confermato, è arrivata una proposta da Discovery- tra l’altro esposta su tutti i giornali - ma nessuno di viale Mazzini si è fatto vivo».

Intervistato anche sui suoi 40 anni di televisione racconta trasmissioni, puntate, interviste che ha più nel cuore, i «no» più difficili da digerire («Quello di Vasco Rossi, più volte. Mi dispiace, credo che abbia un mondo incredibile da raccontare»), qualche errore («Nell’ultimo Sanremo peccai di presunzione e di pigrizia, lo feci uguale a quello che avevo presentato l’anno prima e non andò bene. Lezione imparata») e molti aneddoti. Per esempio su Silvio Berlusconi: «La sua assistente mi chiamò il giorno stesso dell’intervista: “Il presidente le vuole parlare in privato”… Corro da lui che fa uscire tutti dal camerino, mi prende la mano e mi dice: “Posso darti un consiglio? Tagliati la barba. Ciao”».

Fabio Fazio: «La Carrà il primo turbamento. Non mi sento un martire. I soldi? Ora sono fatti miei». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera l'8 ottobre 2023.  

«La Rai sta passando dal servizio pubblico a quello governativo. Se fossi davvero organico al Pd sarei ancora lì»

Fabio Fazio, domenica prossima si ricomincia.

«Ricomincio da Nove».

Quanti anni di Rai?

«Quaranta».

Esordio?

«Imitatore a Pronto Raffaella: 10 ottobre 1983. Non avevo ancora compiuto 19 anni, l’età di mio figlio adesso».

Chi imitava?

«Grillo, Troisi, Benigni, Corrado, Enzo Tortora. E poi quelli che non faceva nessuno».

Chi?

«Gli eroi del Mundial: Paolo Rossi, Antognoni, Bearzot. Più avanti, Gianni Minà».

Come arrivò da Raffaella?

«Dopo due provini. La Rai aveva lanciato il concorso “un volto nuovo per gli anni 80”. Era la risposta alle tv commerciali: loro ci portano via i personaggi, e noi li costruiamo. Il primo provino si fece a Genova, il secondo a Roma. Mi accompagnò mio papà, perché ero troppo ragazzino per andare a Roma da solo. Era la prima volta in vita mia».

Non era mai stato a Roma?

«No. Solo a Parigi, col dopolavoro ferroviario di Savona, con 300 mila lire risparmiate con fatica. Era il maggio 1983, la Roma aveva vinto lo scudetto. Andai a San Pietro e al Colosseo: c’era Venditti al pianoforte bianco che registrava il video di Grazie Roma. La giornata era fatta».

Cosa faceva suo papà?

«Il ragioniere. Impiegato alla provincia».

Chi la esaminò?

«Bruno Voglino e Guido Sacerdote, il più grande produttore della Rai, che con Falqui aveva firmato tutti i grandi varietà tv, mutuati dal teatro: un’autorità morale. Mi chiese cos’avessi di nuovo rispetto al provino di Genova».

Cos’aveva di nuovo?

«Niente: non pensavo che mi avrebbero chiamato. Facevo l’ultimo anno di liceo. Sarebbe come se adesso mi chiamassero per fare il corazziere al Quirinale».

Raffaella com’era?

«Me la trovai davanti in ascensore, mi salutò con un cenno del capo. Stavo salendo dagli autori, che erano Magalli e Boncompagni, e non sapevo se mi aveva riconosciuto o se dovevo presentarmi come il nuovo ragazzo delle imitazioni. Pensai con stupore che Raffaella era a colori. L’avevo sempre vista in bianco e nero».

Il tuca-tuca.

«Il primo turbamento, insieme con Lola Falana, che era bellissima, e Sylvie Vartan».

Ci sono ancora le immagini del suo esordio.

«Avevo un vestito di colore cangiante tra il grigio e l’azzurro, una sorta di reato, ero andato a comprarlo con mia mamma nel corso principale di Savona. Cravattina blu, piccolissima e strettissima, capelli a cespuglio tipo Napo orso capo… un’ingenuità incredibile. Finii a fare il programma della Carrà per cinque giorni, di cui uno di sciopero, e pensavo che questo esaurisse l’obbligo della Rai nei miei confronti. Invece la storia è andata avanti. Più di due terzi della mia vita».

Perché ha lasciato la Rai?

«È come se uno ti dicesse che non ti rinnova l’affitto di casa: o dormi per strada; o vai a cercare un’altra casa. Non me ne sono andato di nascosto. Ho avuto un’offerta importante ed entusiasmante per un ricominciamento. Da Warner Bros Discovery, un gruppo che mi cercava da sei anni».

Sì, ma con la Rai cos’è successo?

«A marzo l’amministratore delegato mi disse che non sarebbe rimasto e non poteva rinnovare il contratto. A quel punto cominciò la trattativa con Discovery. Lo scrissero i giornali, in Rai lo sapevano tutti: non sono scappato di nascosto col favore dell’oscurità. Semplicemente non si è fatto vivo nessuno e dunque ho capito che la storia finiva lì. A quel punto sono andato felicemente verso quella che considero una seconda vita. Penso sia la cosa giusta. È bello sentirsi voluti. Sono molto contento, e sono enormemente grato a Discovery con cui ho inizio una nuova avventura entusiasmante. Non dirò mai nulla contro la Rai, dopo tanto tempo passato non a mangiare nel piatto ma a cucinare quel piatto. È chiaro che questo lavoro si fa se si è voluti, e se si è utili».

«Belli ciao» vi ha salutati Salvini.

«Ha firmato l’uscita».

È vero che ha contato gli attacchi di Salvini contro di lei?

«Ero arrivato a 124. Poi ho perso il conto».

E il Pd?

«Se fossi organico al Pd o a chiunque altro sicuramente sarei ancora in Rai. Non sono mai stato difeso, con buona pace degli illustri colleghi secondo cui ero tornato su Rai3 grazie al Pd. Non ho mai avuto nessun tipo di aiuto, e non mi sognerei di chiederlo».

Perché?

«Perché se chiedi aiuto hai finito di fare il tuo lavoro. La libertà è una sorta di solitudine. Non vivo a Roma ma a Milano, con la mia famiglia. Non frequento quasi nessuno. Se avessi avuto qualcuno dietro, i miei anni sarebbero stati diversi, sarei ancora su Rai1 dove ero arrivato nel 2017. Guardo avanti senza rimpianti. Le cose fatte sono fatte, e hanno costruito quel che siamo. Oggi quel che siamo lo mettiamo al servizio del futuro. Comincio una nuova avventura, abbiamo quattro anni di tempo in cui possiamo finalmente provare a fare cose diverse e nuove. Sono molto sereno».

Qualcuno ha detto: Fazio fa il martire e va a guadagnare di più.

«Mi trovi una sola affermazione in cui faccio il martire. Ho detto che vado in un’azienda in cui mi sento benvoluto, a fare un lavoro ben pagato. E ho semplicemente raccontato come sono andate le cose».

Ben pagato quanto?

«L’aspetto meraviglioso di lavorare nel privato è poter rispondere a questa domanda: fatti miei. Mi hanno sempre chiesto quanto guadagnavo in Rai; non mi hanno mai chiesto quanto ho fatto guadagnare alla Rai. “Che tempo che fa” portava alla media di Rai3 oltre un punto di share. E un punto di share vale alcuni milioni di euro. Per 20 anni».

Avrete avuto anche dei costi.

«Mi fermo qui. Dico solo che se non avessimo avuto un valore, non ci avrebbero preso gli altri e non avremmo avuto mercato».

Su Rai3 lei andava in doppia cifra. A quale share punta adesso?

«Il paragone è impossibile. Discovery la domenica sera è attorno al 2. Mi piacerebbe raddoppiare».

Come funzionerà la trasmissione?

«Comincia alle 19.30, con un prologo tra me e Nino Frassica. Accanto a Luciana Littizzetto ci sarà Ornella Vanoni: una farà l’editoriale e l’altra il commento… Ci voleva qualcuno fuori dalle righe, del tutto libero, e abbiamo pensato a Ornella».

Lei Fazio senza la Littizzetto ormai non vive.

«Non credo ci siano altri casi al mondo di un comico, tra l’altro donna, che fa un pezzo di mezz’ora in tv ogni settimana da 15 anni».

Altre novità?

«Ubaldo Pantani fisso. Poi faremo qualche test, e vediamo come va».

Ospiti della prima puntata?

«Patrick Zaki, e spero un’altra meravigliosa sorpresa. L’importante è che i nostri telespettatori ritrovino il programma».

In Rai è davvero cambiato qualcosa con la destra?

«In Rai, ma onestamente più in generale nel Paese, si ha l’impressione che si sia abdicato all’idea di ciò che sempre è stato considerato pubblico, trasformandolo in governativo. Non è spoils system; è come se, quando cambia il sindaco, cambiasse il tragitto dell’autobus. E questa è una grande perdita. Perché sono sempre di meno i valori acquisiti, a prescindere dalle maggioranze che si alternano».

In Rai si è sempre fatto così.

«Non lo so, ma so che la tv si è sempre fatta aggiungendo, mai togliendo. È proprio l’idea in generale di servizio pubblico che trovo molto trasformata, e non vale solo per la tv. È come se ci fosse un premierato di fatto. Tutti considerano normale che pure la scuola o la sanità debbano rispondere al governo. Invece esistono valori che dovrebbero essere acquisiti. I vaccini, ad esempio: non è che sono utili o inutili a seconda di chi vince».

Come trova la Meloni?

«Nulla di peggio dei conduttori tv che parlano di politica…».

Insisto: come trova la Meloni?

«Ha fatto quello che pensavo facesse. Non potendo fare granché, sta dedicando molta attenzione a battaglie identitarie, nessuna delle quali mi sembra accettabile».

La Schlein?

«Ci sta provando, in una situazione complicata. Temo che la strada sia molto lunga e irta di difficoltà».

Salvini?

«Mi ha colpito quando ha detto che i migranti arrivano con il telefonino e le scarpe. Passi il telefonino. Ma le scarpe sono una cosa che definisce la nostra umanità. Gli animali non hanno le scarpe; gli esseri umani sì. L’ho trovata una frase di una violenza definitiva, senza ritorno».

Come ha fatto ad avere ospite il Papa?

«Frequento la comunità Nuovi Orizzonti di Chiara Amirante e don Davide Banzato. Incontrai il Papa anni fa, e gli dissi del mio banale desiderio. Qualche volta ci siamo scritti o salutati per interposta persona. Poi ho sentito che fosse il momento opportuno per invitarlo, e lui mi ha fatto rispondere: il Papa ha detto che quando sarà il momento lo sentirà. Un mercoledì pomeriggio ricevo una telefonata da un numero privato, pensavo fosse il commercialista. Era lui».

Cos’ha risposto?

«O mamma mia! E lui: no, Papa mio».

E Macron?

«Si era nel pieno della crisi dei Gilet Gialli. Lui fu affettuoso con il pubblico italiano, con Mattarella, ma in Rai non furono entusiasti. Eppure avevo intervistato il presidente della Repubblica francese, non il capo dell’Isis…».

Cosa succede a Mediaset?

«Mi sembra che Pier Silvio Berlusconi abbia avviato un nuovo corso. Ogni novità è divertente, muove il mercato, muove lo statu quo».

Tra quarant’anni avremo ancora la tv?

«Di sicuro non ci sarò più io…».

Dico sul serio.

«Già ora la tv è fatta di frammenti, la vocazione generalista è sempre meno forte. L’importante sono i contenuti, che i giovani seguono su varie piattaforme o sui social. Tra quarant’anni ci sarà ancora la visione a distanza, ci sarà sempre il modo di comunicare; ma che l’intrattenimento passi dalla tv mi pare difficile».

Lei è della Samp, Vialli e Mancini erano i suoi idoli oltre che suoi coetanei. Come ha preso l’addio del ct della Nazionale?

«Auguro ogni bene a Roberto, ma penso che l’uscita non sia stata felice. Avrebbe dovuto spiegare meglio i motivi».

I soldi.

«Mi pare ingeneroso e superficiale: non credo ne avesse bisogno. Sarebbe interessante conoscere le circostanze che l’hanno portato a prendere una decisione raccontata male».

Rai, Enrico Mentana: "Chi lascia l'azienda non deve fare il martire. Non esiste il diritto a essere sempre in onda". La Repubblica il 03 Giugno 2023.

I casi di Fabio Fazio e Lucia Annunziata e l'intervento del direttore del Tg di La7 al festival di Dogliani. "Se accetti di lavorare in Rai sai che ci sono i partiti. Ogni volta ci sarà qualcuno che tenta di mettere i suoi uomini o le sue donne ma non c'è mai lesione della democrazia: c'è lo spoil system"

Chi lascia la Rai farebbe bene a evitare di voler passare da "martire" perché non esiste alcun "diritto inalienabile a dover essere sempre in onda". Da giornalista, con un'esperienza in tutte le grandi tv generaliste italiane, Enrico Mentana interviene, dal Festival di Dogliani, sui casi recenti di giornalisti che hanno deciso di lasciare la tv di Stato, come Fabio Fazio e Lucia Annunziata.

"Io credo che non ci sia niente di meglio che interrompere un rapporto senza fare scene madre o i martiri di Belfiore, senza lasciar intendere che con te o senza di te la libertà e la democrazia cessino di esistere. Nessuno di noi è insostituibile" dice il direttore del Tg de la7, "nessuno è nato con la missione divina di fare giornali o trasmissioni: un po' ce li siamo conquistati, un po' siamo scesi a patti. Ma non esiste  il diritto di restare né di epurare", ha aggiunto il giornalista, per poi continuare: "Se accetti di lavorare in Rai sai che ci sono i partiti. Ogni volta ci sarà qualcuno che tenta di mettere i suoi uomini o le sue donne ma non c'è mai lesione della democrazia: c'è lo spoil system. Basterebbe una riforma di una riga, quella per sottrarre la Rai al controllo dei partiti".

Secondo Mentana "è molto semplice e gratificante fare il ruolo di chi è martire ma sarebbe più semplice fare delle scelte, motivarle ed avere fair play. È evidente e chiarissimo di cosa parliamo: non esiste un Maradona, tutti siamo onesti lavoratori. Nessuno ha il diritto inalienabile di essere sempre in onda".

Poi, certo, ci sono le differenze: per un Fabio Fazio, il cui "contratto di certo si fa in tre mesi non in tre giorni" ci sono altre situazioni come quella di Lucia Annunziata. Lei "a differenza di Fazio non ha un'altra tv in cui andare: se ne è andata dignitosamente dicendo però che non accetta questo governo. Ma non puoi lavorare nel servizio pubblico e dire di non accettare chi governa. Chi governa deve stare sotto il controllo dell'opinione pubblica e dell'informazione: a maggior ragione se non sei d'accordo devi stare lì".

Estratto dell’articolo di Paolo Festuccia per “la Stampa” il 28 maggio 2023.

“Ma quale Tele-Kabul o TeleMeloni Meloni d'Italia. Ti pare, «uno con la mia storia, democristiano da una vita che conosce come pochi altri il ventre e la pancia di quest'azienda si mette a epurare qualcuno…”. 

Roberto Sergio ex grande capo della Radio pubblica è da solo pochi giorni (meno di dieci) al timone della Rai ma di fatti ne sono già accaduti tanti. È successo che Fabio Fazio dopo una vita lascia la Rai per Discovery, che Lucia Annunziata sbatte la porta e si dimette, che qualche altro big si dice pronto a fare le valige, che le nuove nomine e le decisioni importanti sono arrivate a minoranza come accadeva ai tempi di Baldassarre con il cda smart, e che per Rainews24 si accendono i riflettori della Commissione di Vigilanza.

[…] Del resto, la nuova geografia del potere a trazione meloniana chiede spazio per la sua narrativa sovranista e ha bisogno di interpreti e protagonisti originali per rappresentarla sul palcoscenico mediatico: nei talk, nelle reti ma anche e soprattutto (e qui li ha già avuti) nelle testate. 

Di certo assicura Roberto Sergio, «nessuno di noi ha voluto cancellare o ridimensionare qualcuno», spiega. «Il mio primo atto in cda è stato quello di confermare tutti i programmi: a cominciare da Cartabianca, Mezz'Ora in più e Report», spiega. 

Anzi, «con Fazio ci conosciamo dai tempi del Gioco del Lotto, una vita, dagli anni novanta, siamo amici e l'ho ringraziato». Non a caso, aggiunge, «ha annunciato la sua partenza il giorno prima che mi insediassi». 

Un segno di «attenzione» secondo lei… «Un modo per dire che questa gestione non c'entra nulla». Già, e in verità, il contratto di Fazio è stato a lungo fermo - raccontano fonti ben informate - al settimo piano sulla scrivania dell'ex Ad Carlo Fuortes. Per questo dopo critiche e accuse, più volte lo stesso Roberto Sergio sfogandosi con i suoi diceva «ma cosa c'entro io, cosa c'entriamo noi…».

[…]  Naturalmente, la commissione di Vigilanza poi valuterà la correttezza di Rainews24 per il comizio in diretta del centrodestra da Catania ma di certo, pare puntualizzare il capo azienda di viale Mazzini, «nel mio compito non c'è l'indicazione, né la richiesta di censurare qualcosa o qualcuno». Massima collegialità, insomma, pluralismo. 

[…]  Chi sostituirà Fazio, chi condurrà "In Mezz'ora" al posto di Lucia Annunziata? «Presto, ancora troppo presto per conferme o smentire ma siamo al lavoro». «Per mia fortuna – spiega Roberto Sergio – conosco perfettamente l'azienda e conosco anche tutti i molteplici aspetti che la contraddistinguono, così come conosco pregi e difetti dei professionisti che ci lavorano […]».

Un segnale questo a professionisti interni come Manuela Moreno o Annalisa Bruchi, che non esclude però l'arrivo di nuovi innesti esterni con il ritorno (ma non subito) forse da gennaio di Massimo Giletti orfano ormai di una rete e di un programma. Per queste ragioni, ma non solo, assicura Roberto Sergio: «Faccio ripartire il comitato editoriale […] composto da me, il direttore generale e tutti i direttori di genere in questa azienda era sparito, ora torna la collegialità». […]

«[…] Ora, non posso preoccuparmi anche per quelli che nessuno pensava di rimuovere ma che hanno scelto di lasciare l'azienda perché dicono di sentirsi minacciati, ma da chi…Il mio obiettivo sono rilancio dell'azienda, ascolti, mercato. Non sono qui per togliere ma aggiungere». […]

Il livore di Santoro contro Lucia Annunziata mette grande tristezza. Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023

Ospite di Floris su La7, Michele Santoro, pieno di livore contro Fazio e Lucia Annunziata. Mosso dalla rabbia e dal rancore. Come se ci fosse qualcosa di personale. Forse è solo la rabbia di chi è fuori dai giochi e nessuno lo chiama a condurre un programma tv.

Santoro e la Annunziata sono entrambi di Salerno, ma il loro cammino è stato molto diverso. Forse ci sono antichi rancori fra i due, ma quel livore ha messo una grande tristezza. (Aldo Grasso)

Santoro non li sopporta. Massimo Gramellini su Il Correre della Sera l'1 giugno 2023 

Ha ragione Aldo Grasso: il Michele Santoro che a «Di martedì» sprizzava livore da tutti i pori contro Fazio e Annunziata mette una certa tristezza. E spiega una delle ragioni per cui in Italia la destra è più solida della sinistra. Immagino che nemmeno Vittorio Feltri, Belpietro e Sallusti si amino alla follia, però non li sentirete mai parlare male l’uno dell’altro in tv. E Matteo Salvini sopporta la Meloni ancor meno della Littizzetto, ma si guarda bene dallo spernacchiarla in uno dei suoi tweet adolescenziali. 

La sinistra, politica e giornalistica, si divide invece tra massimalisti e riformisti, con i primi che considerano i secondi i veri nemici da abbattere. Conte e i suoi suggeritori mediatici detestano molto più il Pd di Fratelli d’Italia. E neppure il particolare che Fazio e Annunziata siano nel mirino polemico della stampa di destra induce quelli come Santoro a sospendere per un attimo le ostilità ed esprimere un minimo di solidarietà nei loro confronti. Anzi, sembrano quasi seccati, i massimalisti, che qualcuno osi scippare loro la palma di unici martiri autorizzati di qualunque regime filoamericano e capitalista.

I Santoro sono la cuccagna della destra, che li usa per dividere lo schieramento avversario e batterlo separatamente. È una storia che si ripete immutabile nei secoli: chi si sente in missione per conto della Rivoluzione finisce sempre per aiutare la conservazione e talvolta per propiziare la reazione.

Estratto da open.online il 31 maggio 2023.

Per la Rai gli addii di Fabio Fazio prima e Lucia Annunziata dopo sono stati certamente una perdita «perché sono professionisti validi» dice Michele Santoro che però a DiMartedì su La7 taglia corto sui due: «Io non sopporto nessuno dei due». 

Al giornalista con una lunga e travagliata esperienza in Rai commenta con la solita schiettezza le polemiche sui due personaggi, contestando quel racconto il racconto vittimista al limite del martirio che accompagna le vicende di Fazio e Annunziata: «Le narrazioni che fanno sono sempre un po’ farlocche – dice Santoro – Non è vero che Fazio è stato 40 anni ininterrotti in Rai, è andato via a lavorare a La7 quando era di Telecom, non ha fatto nemmeno una puntata…», a proposito di quel progetto detto “TeleSogno” che non è mai decollato, come ricorda l’AdnKronos. 

«Fazio uscì da quell’avventura devastato, era molto più ricco di prima ma la gente lo guardava storto. Io non rientrai in Rai. Lui, invece, sì. Non è rientrato solo per i buoni uffici del suo agente, è rientrato anche perché la politica ha voluto che lui tornasse…».

L’Annunziata e “l’editto bulgaro”

Non è certamente più morbido Santoro quando passa a parlare di Annunziata: «Quando lasci la Rai dicendo che non sei d’accordo con questo governo, uno si deve ricordare che è stata il presidente di garanzia quando a governare era Silvio Berlusconi. Lucia Annunziata è subentrata a Paolo Mieli, che si dimise dopo aver posto come condizione il rientro di Enzo Biagi, Daniele Luttazzi e Michele Santoro.

Lucia Annunziata è subentrata. Questi due colleghi sono stati il perno attorno a cui è ruotata una politica culturale in Rai fatta di esclusioni». Santoro torna a ribadire che «l’azienda avrebbe fatto bene a tenerseli. Ma io non sono l’azienda e non sono un servizio pubblico che tiene fuori un pensiero diverso, che era fuori anche prima, quando loro erano al centro del babà…».

Estratto dell'articolo di Andrea Malaguti per “la Stampa” il 31 maggio 2023.

Me lo ridica, per favore. «91». Non è vero. «È vero. Sono i miei anni. Come è vero che questo governo ha sulla Rai una incomprensibile voglia di vendetta». 

Pensa a Fazio? «Anche». Quasi umiliante parlare con Bruno Voglino. Ha fatto tutto in tv. E se ricominciasse da capo lo rifarebbe di nuovo meglio di chiunque altro. Non c'è controprova. 

Ma è ovviamente così. Vincitore indiscusso del Gran Premio Creazioni Autoriali (da Non Stop a Quelli che il calcio), leader mondiale nella scoperta di talenti. Cervello instancabile. Ha inventato Fazio. Ma prima Villaggio. E poi, alla rinfusa, e per difetto, Verdone, Troisi, Chiambretti, I Giancattivi (ci tiene molto ai Giancattivi). E ha fatto volare la tv delle ragazze. Nessuno meglio di lui per capire "Che tempo che fa" (affermazione banale, lui non l'avrebbe fatta). 

Bruno Voglino, dopo 40 anni Fabio Fazio lascia la Rai.

«Non voglio esagerare. Ma c'è qualcosa di drammatico e di molto malato nel fatto che un professionista di quel calibro sia costretto ad andare altrove».  

[...] L'addio era inevitabile?

«Sì. Era una questione che si trascinava da troppo tempo. [...]  negli ultimi anni Fabio è stato isolato». 

Che cosa significa?

«Che l'alto management aziendale l'ha ignorato del tutto, negandogli un rapporto chiaro e sincero. Sembra una cosa incredibile, considerando gli ascolti che ha fatto e il prestigio che ha portato alla Rai con i suoi programmi. Eppure è andata così: l'hanno trattato da ospite sgradito (...) Purtroppo questo governo è convinto che vincere le elezioni voglia dire decidere in solitudine. Ma in democrazia non funziona così». 

In realtà chi vince le elezioni fa sempre così.

«Qui è peggio. Penso a un ministro che si chiama Salvini e si aggira di qua e di là dotato di mannaia cercando di colpire tutti i cittadini che non la pensano come lui».

(...) Questo governo ha un'incomprensibile voglia di vendetta». [...] 

I maligni dicono: di che si lamenta, 40 anni pagati a peso d'oro.

«Pagati, banalmente, quel che meritava. A parte che il suo contratto prevedeva centinaia di puntate, se ti danno i soldi tu li prendi. E nella differenza tra il costo delle puntate e gli incassi dell'azienda, la Rai ci ha sempre guadagnato». 

Salutando il pubblico Fazio ha detto: senza Voglino non sarei mai esistito. È stata la mia mamma televisiva.

«Bé, è stato molto carino, come sempre. È una delle poche persone che nell'ambiente si ricordano chi è stato determinante per loro. Spesso chi fa fortuna (anche meritatamente) tende a dimenticare chi li ha trasformati da bruco in farfalla». 

(...)

Cosa la colpì di Fazio, 40 anni fa?

«Se ci ripenso ora mi viene da ridere. Per anni mi hanno perseguitato con gli sfottò.

Mi dicevano: ma quanto rompi con questo Fazio. E io: è intelligente, capace e vi stupirà. Solo Raffaella Carrà si accorse subito del suo valore». 

Gli altri quanto ci misero?

«Parecchio. La svolta arrivò con Quelli che il calcio. Feci una litigata storica con Angelo Guglielmi per imporlo alla guida del programma». 

Chi voleva Guglielmi?

«Dario Fo. Gridammo a tal punto che mezza Rai si affacciò nei corridoi. Gli dissi: la trasmissione l'ho ideata io e decido io. Molti anni dopo Guglielmi, che era un uomo serio, spiritoso e leale, mi ringraziò. Ora capisce perché Fazio mi considera la sua mamma televisiva?». 

Meglio Fazio o Chiambretti?

«Chiambretti è stato un genio della televisione». 

Però?

«Aveva un limite. Era straordinario, rapido, afferrava tutto al volo. L'ho amato e ammirato molto. Lo ammiro ancora, in effetti. Ma era un distruttore di cattedrali. Le buttava giù senza sapere come ricostruirle. E negli anni, continuando a fare ottima tv, ha perso un po' di quella eccezionalità». 

(...)

Voglino, anche Lucia Annunziata lascia.

«La stimo molto. Mi dispiace davvero. Ma conoscendo il suo orgoglio professionale, la sua determinazione e il suo carattere, capisco che non poteva rimanere». 

Gli ascolti della tv pubblica sono destinati a precipitare o è solo una paturnia della sinistra?

«Questa è una domanda impertinente, ma, certo, il rischio c'è. Non sente anche lei tutti questi dibattiti sugli intellettuali di destra?». 

Sì, ma che c'entra?

«C'entra. La destra italiana è da anni una specie di rifugio degli sconfitti della Repubblica di Salò». 

Durissimo. Per non dire ingiusto.

«Dice? Quelli bravi a destra sono pochi. E i mediocri molti. I veri intellettuali a destra si contano sulle dita di una mano. Massimo due” (…) 

Nomi?

«Mi guardo ben dal farli. Non vorrei che diventassero dei suggerimenti. Questo governo non ha bisogno del mio aiuto per le sue malefatte». 

Lei la guarda Discovery?

«Io guardo poca televisione, ormai. I Tg e il Toro. L'unica cosa che nessuno deve mettere in dubbio è la mia fede granata». 

(...)

"Fazio e Annunziata? Se ne sono andati perché "hanno mercato..." Claudio Velardi, spin doctor ed ex braccio destro di Massimo D'Alema, commenta le recenti polemiche che hanno investito la Rai. Francesco Curridori il 28 Maggio 2023 su Il Giornale.

"È tutto normale e giusto perché penso che il mercato sia il miglior regolatore delle vicende umane". Claudio Velardi, spin doctor e braccio destro di Massimo D'Alema per la seconda metà degli anni '90, commenta così le polemiche sorte dopo l'addio di Fabio Fazio e Lucia Annunziata dalla tivù pubblica.

Fazio e la Annunziata, quindi, hanno fatto solo una scelta professionale?

“Il caso di Fazio è nato semplicemente perché ‘ha mercato’, nel senso che lui ha avuto da Discovery un’offerta che gli è piaciuta e ha deciso di accettare. Fine. Anche le dimissioni dell’Annunziata, al di là degli aspetti politici che secondo me sono secondari, riguardano il fatto che lei è una professionista che ritiene di poter far bene anche altrove. Non credo che lei non sia attenzionata. Anzi, è una professionista sufficientemente brava e capace da conquistarsi uno spazio nel mercato dell’informazione. Le dichiarazioni che hanno fatto sono quelle che devono dare, ma se entrambi pensassero di restare disoccupati, non le avrebbero fatte. Il vero problema è la Rai, carrozzone vecchio e in crisi di bilanci e ascolti, che non riesce a trattenere quelli bravi”.

Per quanto riguarda le nomine, invece, si è parlato di lottizzazione e di occupazione della Rai da parte della destra…

“Ma la Rai è lottizzata per definizione perché è un servizio pubblico che dipende dai partiti e dagli equilibri politici. È un ente para-statale in cui i partiti pensano di poter occupare delle caselle, ma sono solo illusioni perché i giornalisti che oggi si piazzano delle pecette sostenendo di appartenere, di volta in volta, ai Cinquestelle oppure a Fratelli d’Italia, se ne infischiano delle appartenenze e delle ideologie. Sono giornalisti che vogliono far carriera e si appiccicano un’etichetta, ma lo hanno già fatto altre 10 volte in passato con partiti di diverso orientamento. I poveracci che devono essere appaltati ai partiti sono dei giornalisti un po’ di serie B. Quelli che, invece, possono consentirsi di non essere appaltati a nessuno sono coloro che hanno un mercato. Tutto dipende da questo: chi ha mercato e chi no”.

PD e M5S hanno chiesto al direttore di Rainews di venire a riferire in commissione di Vigilanza Rai dopo che è stato trasmesso un comizio della Meloni. Ma con Draghi e Conte non vi era situazione analoga?

“Sì, queste cose, grosso modo, sono sempre successe. Non c’è nulla di nuovo. Il punto di fondo è che la commissione di vigilanza andrebbe sciolta. Su cosa vigila? Su quanto è presente un partito dentro la Rai? È un meccanismo grottesco che dipende dal fatto che la Rai è emanazione dei partiti”.

Il centrosinistra ha chiesto che Luca Barbareschi non vada in onda col suo programma per le sue frasi sessiste. Non si tratta di un caso di censura?

“Barbareschi è sempre abituato a queste uscite sopra le righe. Il suo pensiero non è omologabile. Se fa un’uscita del genere e, poi, viene imbeccato da qualcuno, essendo uomo di spettacolo e comunicazione, lui rincara la dose perché sa che, in questo modo, tutto fa più notizia”.

Anche Miss Italia è stata presa di mira in quanto sessista…

“Il concorso di bellezza mi pare un fenomeno molto vecchio e provinciale. Il principio però è un altro: se questi programmi fanno ascolti e la Rai acquisisce pubblicità con la quale pagare un po’ dell’enorme debito che ha accumulato e che paghiamo noi cittadini non c’è problema. Se è così, teniamoci pure il concorso di bellezza tanto io non lo guardo… La Rai trasmette tanti programmi solo per fare soldi oppure pensiamo ancora veramente che debba svolgere un ruolo pedagogico ed educativo?”

La faziosità di Fazio che non sta in piedi nella vicenda Rai. Fazio era esattamente quello che serviva al governo in carica, molto di più di quanto non sia servito a quelli precedenti. Giampiero Casoni su Notizie.it il 22 Maggio 2023

Ci sono due linee di pensiero nella vicenda Fazio-Rai che ancora “peppia” nel calderone delle cose che dividono: da un lato gli analisti pelosi che spiegano come il conduttore abbia “mollato” su input del governo di destra-centro, governo che proprio in questi giorni ha piazzato un suo “pasdaràn” storico come Giampaolo Rossi come Dg. Dall’altro quelli più talebani che credono, fermamente credono, che Fazio sia stato “cacciato” senza se e senza ma “dal governo” medesimo, ma senza il maquillage di protocolli sfumati perché oggi il governo Meloni delle prove di forza bruta è campione mondiale. Ed all’interno di queste due categorie, a voler flaggare ancora, ve ne sono altre due, le solite italiane, quelle polarizzate e in dicotomia sdrucciola.

Ci sono cioè quelli che sull’abbandono di Fazio della Rai ci hanno stappato la sciampagna e gli altri che ci vedono un nuovo diktat sul modello di quello berlusconiano contro Biagi, Santoro e Luttazzi illo tempore. Sbagliano entrambi ma pare tutto molto definito, netto ed incasellato alla perfezione in una serie di categorie che da sempre sono il rovello atavico degli italiani che di studiare un sistema complesso ed individuare uno scenario intermedio non ne hanno mai voluto sapere dai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini.

I numeri monstre di un programma “sgradito”

Il dato cardine su cui poi poggerebbe l’intera faccenda sarebbe rappresentato dalla presunta “faziosità” del conduttore, che in virtù della stessa (e di numeri monstre per la rete pubblica) è rimasto saldamente in postazione fin quando a Palazzo Chigi ci sono state particolari tipologie di governo. Si, ma quali? Ovvio, almeno secondo il mainstream italiota: o di centrosinistra, quindi a Fazio graditi e in gradimento di Fazio, o di centro destra ma soft, quindi rispettosi in maniera sorniona di una pluralità che era la migliore bandiera della loro necessità di non essere troppo di destra. Il berlusconismo maturo infatti non avrebbe mai permesso, a differenza della sua primissima versione “bulgara”, che un programma come Che Tempo che Fa diventasse totem degli avversari. Insomma, come la si leggeva leggeva il dato di un “faziofazioso” sembrava essere inattaccabile, e da lì erano discesi gli attacchi di chi in quella linea ci vedeva un baluardo e di chi ci scorgeva una quinta colonna da abbattere.

Cosa è successo con l’arrivo del governo Meloni

Nel frattempo a Palazzo Chigi infatti è arrivato un governo non più di centro-destra, ma di destra-centro, ed è evidente che il distinguo non è quello formale della sequenza di collocazione ideologica, ma quello sostanziale di una nuova rotta che concede molti meno sconti o deroghe a certe posizioni prog. Attenzione perché è nelle prerogative di qualunque governo dare la rotta alla televisione pubblica, a meno che non la si rifondi sul modello della BBC britannica, del tutto scollegata cioè dalla politica attiva. Quello capitanato da Giorgia Meloni e da Matteo Salvini con Silvio Berlusconi gregario (fra anagrafe tiranna e problemi di salute) è un esecutivo molto più manicheo nella proposizione brutale dei suoi valori fondanti. Lo è perché è un gruppo che non fa più perno su forze politiche a loro volta reduci da esperienze di governo, ma che ha la sua polpa, numerica e di prestigio, in un partito che ha conosciuto solo l’opposizione.

Un partito che, tranne che con l’Europa dove per questioni di danè deve fare di necessità virtù, vive ancora di polarizzazioni intense quanto scevre da compromessi. Ma Fabio Fazio è veramente così fazioso? E soprattutto, la sua presunta appartenenza ad una scuola di pensiero non certo di centro destra è stata davvero motivo sufficiente e condizione necessaria affinché lo si spedisse a far guadagnare Discovery al posto di Mamma Rai? No, assolutamente no, Fazio è andato via perché a Discovery gli hanno offerto di più e lui le skill per fare pesare sul tavolo la sua massa mainstream le ha e le usa. Legittimamente.

La faziosità spinta di Fazio che non sta in piedi

Che non dovesse essere lasciato scappare poi è un altro discorso. Basterebbe cambiare approccio e renderlo meno sanguigno per capire che Fazio era esattamente quello che serviva al governo in carica, molto di più di quanto non sia servito a quelli precedenti. Perché? Perché il conduttore ha sempre avuto posizioni nette ma morbide, ha assunto toni sempre concilianti e non ha mai fatto tracimare la sua creatura nel settarismo, piuttosto in una legittima collocazione d’area che sarebbe stata sponda perfetta per un universo politico in cerca di una patente di credibilità. E la riprova che la faziosità c’entra poco e quando c’entrasse è stata usata malissimo sta nel fatto che programmi come Report e Mezz’ora in più sono stati confermati in palinsesto, mentre un programma che richiedeva 450mila euro a puntata ma ne faceva un milione con step pubblicitari da 40mila euro a passaggio è stato resettato brevi manu e senza appello.

Il che significa una sola cosa: che il problema non era e non è tanto la faziosità di Fazio o le pulsioni epurative del governo, ma la leggerezza tecnica di chi non ha saputo fare strategia su un valore aggiunto solo perché valore eccentrico rispetto al nuovo pensiero dominante. Valore caro ma capace di ripagarsi e lasciare una robusta mancia.

Estratto dell'articolo di Daniele Luttazzi per “il Fatto quotidiano” il 23 maggio 2023.

Com’era prevedibile, la dipartita di Fabiofazio dalla Rai è stata lamentata dalle prefiche pidine come le Coefore la morte di Agamennone: “Un nuovo editto bulgaro!”. Al che il de cuius ha umilmente dichiarato: “Nessun vittimismo e nessun martirologio: detesto entrambe le forme di autocommiserazione”. Implicando però che ne avesse motivo (ancora non si sapeva cos’era successo). 

Che detesti il vittimismo, peraltro, fa sbellicare. Il giorno dopo l’editto bulgaro (il giorno dopo!) usò Repubblica per infilarsi fra le vittime della Rai berlusconiana: “Non sono gradito”. Occhiello: “Il conduttore attacca: ‘C’è stato un veto sul mio nome’”.

Fiorello l’aveva invitato a Stasera pago io (Rai1), ma la partecipazione era saltata. “Scelte tecniche”, spiegò Giampiero Solari, capo-autori del programma. “La nostra è stata una scelta libera e soltanto artistica. Non c’è alcuna connessione tra le parole di Berlusconi sulla Rai e l’esclusione di Fazio. La puntata era già definita, tutto qui”. Fabiofazio: “Probabilmente non sono una presenza gradita in questo momento. Avrei espresso la mia assoluta solidarietà a Biagi, Santoro e Luttazzi”.

Fabiofazio era fuori dalla Rai, essendo andato a cercare fortuna a La7. E l’aveva trovata: il suo show era stato cancellato a tre giorni dalla messa in onda e lui aveva intascato 28 miliardi di lire tra penali e buonuscite. Pare che il programma costasse troppo. Ammazza, più di 28 miliardi di lire? Chi faceva gli stacchetti, i Rolling Stones? Saccà, direttore generale della Rai, gli diede dell’ingrato: “Fazio deve tanto a Mamma Rai. Anche grazie a noi è diventato famoso e molto ricco. Aveva 19 anni quando lo abbiamo lanciato a Pronto Raffaella?, e, a tappe forzate, quindici anni dopo, gli abbiamo consegnato il massimo, il Festival di Sanremo. E ora?”.

Repubblica: “Ora Fazio è furioso perché gli avete negato perfino una comparsata al programma di Fiorello”. Saccà: “La Rai avrebbe avuto tutto il diritto di chiudere la porta a Fabio. Voglio dire: non siamo mica il Grand Hotel, dove si entra e si esce a piacimento. Un giorno lui se ne è andato a La7, con tanto di messaggino di addio sul cellulare del presidente dell’epoca. E noi siamo rimasti in brache di tela” (Ops, la narrazione dei “40 anni in Rai” scricchiola). 

[…] 

All’epoca del programma abortito, Fabiofazio se n’era uscito con un’altra chiosa vittimistica, sempre su Repubblica: “C’è una curiosa coincidenza per cui il talk show è un genere che in Italia non si riesce a fare su nessuna rete” (Avevano appena chiuso Satyricon).

Nel 2003 portò quindi in Rai un programma basato sul meteo (Che tempo che fa); ma non funzionava, così l’anno dopo ne cambiò la formula, adottando quella di Satyricon, che tanto non c’era più; e poté continuare, beato lui, per 20 anni, ricevendo pure l’encomio di un ospite eccellente, Berlusconi: “Complimenti per la trasmissione. Le auguro di restare in video per qualche decennio ancora” (La volta prima, al suo elogio di Dell’Utri, Fabiofazio non aveva fiatato). E siccome Salvini lo stava criticando (ma era stata la Rai presieduta da Foa, con Salvini al governo, a rinnovargli il contratto), Fabiofazio, che detesta i vittimismi, replicò: “Insomma, ho qualche dubbio, ma comunque grazie infinite”.

Estratto dell’articolo di Daniele Luttazzi per “il Fatto quotidiano” il 24 maggio 2023.

Riassunto della puntata precedente: Fabiofazio, annunciando il suo addio alla Rai, ha detto e scritto di detestare vittimismi e martirologi, implicando che ne avesse motivo. In realtà sul vittimismo ci ha marciato parecchio. 

Abbiamo visto come, grazie alla sponda amica di Repubblica, il giorno dopo l’editto bulgaro provò a infilarsi fra gli epurati […] 

Sulle sue tattiche da chiagnefotte è illuminante l’intervista concessa al Fatto nel 2020 (bit.ly/41YkPPg), quando il Cda Rai approvò una norma sacrosanta contro i conduttori-produttori, lo strapotere dei manager di spettacolo, e i compensi stratosferici.

Fabiofazio: “Adesso basta. Trovo ogni limite superato. Qui entriamo nel campo dell’inaccettabile: da tempo mi viene riservato un trattamento che non ha eguali né precedenti. Tre anni fa, quand’ero già serenamente avviato altrove e la Rai mi chiese di restare, mi scappò detto che la politica non doveva più entrare nella tv. Da allora iniziò la guerra, perché quella mia frase fu letta come una questione personale. Uno stillicidio continuo, un linciaggio senza eguali né giustificazioni.”

Fq: “Aveva un accordo con Discovery”. “Non voglio specificare, per policy con la controparte”. “Lo diciamo noi”. “(Sorride) Quando sono rimasto, l’intento dell’azienda era di portarmi su Rai1. Su Rai1 abbiamo coperto dalle 20.30 a mezzanotte per un costo a puntata di 300 mila euro per la mia società, più 100 mila di costi generali Rai”. “400 mila complessivi…” “Sì, ma di solito in quella fascia va una fiction di due ore, a una media di 750 mila euro l’ora”.

Questa classica fuffa vittimistica di Fabiofazio viene utilizzata tuttora dai giornalisti amici che lo difendono, sicché mi tocca riprendere un mio vecchio discorso: Fabiofazio finge di non sapere che le fiction Rai fanno guadagnare molto di più del suo show perché fanno quasi il doppio del suo share e perché, a differenza del suo show, vengono vendute nel resto del mondo. 

Fabiofazio: “Prima del mio arrivo, Rai1 faceva in media il 15,19%: con me il 16,3 il primo anno e il 15,49 il secondo”. Altra fuffa vittimistica: si riferisce al dato medio, invece che al dato del prime time, la sua fascia oraria; così evita di dire che lo share atteso per il suo programma era del 18%, in linea con lo share del prime time di Rai1, che era del 18,9% (bit.ly/42KHU9r).

Fabiofazio: “Poi la Corte dei conti ha dimostrato che il programma costa meno della metà di qualunque altro varietà della stessa fascia oraria”. Altra fuffa vittimistica. La Corte dei conti scrisse che il costo-puntata del suo programma era “meno della metà della media dei programmi di intrattenimento del servizio pubblico”. Ma la Rai, da cui la Corte dei conti aveva attinto le informazioni, considera intrattenimento anche le fiction: hanno costi notevolmente superiori a un talk-show, che in paragone sembra regalato.

[…]  Innanzitutto, finché la Rai non pubblicherà dati ufficiali sui costi del programma di Fabiofazio, ogni discussione in merito è campata in aria; e dunque anche ogni difesa. Soprattutto: è vero che il programma si ripagava con la pubblicità, come “gli dicevano”?

Estratto dell'articolo di Daniele Luttazzi per “il Fatto quotidiano” il 25 maggio 2023.

Riassunto delle puntate precedenti: negli anni, Fabiofazio ha infarcito di balle vittimistiche il racconto del suo rapporto lavorativo con la Rai […]. 

Annunciato il passaggio alla Nove, i giornalisti amici (pidini e/o scuderia Caschetto e/o gruppo Gedi e/o ex collaboratori di Fabiofazio) hanno subito strumentalizzato la vicenda per fare propaganda anti-governativa, evocando a sproposito l’editto bulgaro; e per sminuire le critiche al programma costosissimo hanno ripetuto in coro che si ripagava con la pubblicità.

Ma è vero? Chi lo dice? Al Fatto, nel 2020, Fabiofazio affermò: “Mi dicono che il mio programma è interamente coperto dalla pubblicità”. Questo “mi dicono” è un capolavoro di fuffa (fa pendant con quello escogitato dal Corriere della Sera la settimana scorsa: “Chi sa di conti assicura che a fronte di una spesa di 450mila euro gli incassi arrivano al milione”. Chi sa di conti chi? Dove sta scritto?).

Fra quanti hanno riportato per l’ennesima volta lo schemino paraculo di Fabiofazio (che nell’ultima versione è: “Il programma costa 450mila euro, 15 secondi di pubblicità costano 40mila euro. Considerando 16 minuti di pubblicità, si fa presto a comprendere costi e ricavi”), solo Francesca Petrucci ha avuto l’onestà intellettuale di puntualizzare che “a onor del vero, tuttavia, bisogna aggiungere che non si hanno dati precisi dai bilanci Rai. 

L’azienda, infatti, non comunica gli introiti dei singoli programmi. Quello che fa è rendere noto un conto unico – dove fa rientrare tutti i guadagni – che fa capo alla voce ‘Rai Pubblicità’. Pertanto è impossibile fare un’analisi dettagliata e precisa” (bit.ly/3MIWHff). Affrontiamo dunque la nebbia. 

Michele Anzaldi, da segretario della Commissione di Vigilanza Rai, spiegò: “La Corte dei conti parla di un costo a puntata di 409.700 e un incasso stimato di 615.000 con uno share del 18-20%”.

Ora: Che tempo che fa su Rai1 aveva uno share medio del 15%, su Rai2 del 9%, su Rai3 dell’11,8%. Anzaldi: “Ma i costi sono rimasti gli stessi. Se la Corte dei Conti si pronunciasse oggi, come potrebbe sostenere che il programma non sia in perdita?”. E c’è un altro elemento da considerare […] 

Lo chiarì Business Insider: “A differenza delle televisioni commerciali, la Rai ha per legge un doppio limite all’affollamento pubblicitario: uno orario, fissato al 12%; e un altro settimanale al 4%, per il quale però si devono considerare Rai1, Rai2 e Rai3 nel loro insieme. In sostanza la media settimanale delle tre reti non può superare i 144 secondi l’ora. Supponendo che la concessionaria della tv di Stato faccia il pienone per le tre ore di programmazione domenicale di Che tempo che fa, bisognerebbe di fatto azzerare le inserzioni pubblicitarie per altre 9 ore: per andare in pareggio, quindi, la raccolta di Fazio dovrebbe coprire almeno i costi di 12 ore di trasmissione.  Un utile di 165mila euro (615-450) andrà spalmato su altre nove ore”.

[…]

Riferendosi all’edizione 2017 (Rai3) di Che termpo che fa, la Rai svelò che il costo del programma di Fabiofazio era coperto dalla pubblicità solo per il 54%. 

 Il Fatto Quotidiano scrisse (cifre mai smentite) che col contratto 2017-2021 i costi del programma di Fabiofazio lievitavano a 73 milioni di euro. Per un programma di interviste! (E oggi nessuno ricorda la spesa a fondo perduto che la Rai sostenne nel 2017 per il nuovo studio faraonico del programma: 1,8 milioni di euro dei contribuenti. “Per sistemare un capannone preso in affitto”, specificò Anzaldi).

Estratto dell'articolo di Daniele Luttazzi per “il Fatto Quotidiano” il 26 maggio 2023.

Riassunto delle puntate precedenti: da vent’anni Fabiofazio infarcisce di balle vittimistiche il racconto del suo rapporto con la Rai, dove peraltro ha continuato a lavorare bello paciarotto tutto il tempo. Resta da glossare lo storytelling capzioso con cui i suoi amici giornalisti (pidini e/o scuderia Caschetto e/o gruppo Gedi e/o ex collaboratori di Fabiofazio) hanno strumentalizzato il suo passaggio alla Nove evocando a sproposito l’editto bulgaro per fare propaganda anti-governativa. 

(Consegniamo agli annali del giornalismo italiano anche l’altra anomalia: nessuno dei giornalisti tv che si sono occupati del caso – Gruber, Formigli, Floris, Gramellini, Saviano – ha avvisato l’uditorio di far parte dell’agenzia di Beppe Caschetto, la stessa di Fabiofazio. 

E qui, oltre al conflitto di interessi, andrebbe segnalata una stortura di cui nessuno pare accorgersi: ci sono giornalisti che fanno parte di agenzie di spettacolo. Questa prassi dovrebbe essere vietata, per evitare che artisti e giornalisti della stessa agenzia finiscano ospiti, in via privilegiata, in programmi tv di artisti e giornalisti della stessa agenzia, a scapito di chi non ne fa parte: è una forma di concorrenza sleale.

Questo dumping è anche pubblicità ai privilegiati: alla lunga rende campioni televisivi pure le scartine, e solo perché l’agente potentone può piazzare, dove e quando vuole, chi vuole; in Rai, come se non bastasse, tutto a spese dei contribuenti. Sono anni che lo dico, ma è come parlare al vento: adesso capisco come si sentono quelli di Report). 

A Piazzapulita, Formigli (Caschetto) ha chiesto l’opinione di Michele Serra (pidino, Gedi, ex autore e monologhista di Che tempo che fa, e amico di Fabiofazio), dopo un montaggio di frasi salviniane anti-Fazio a corroborare la narrazione falsa del martirio politico.

Serra dice: “[...]Possono piacere o non piacere, ma questo sono: questo era Biagi, questo era Luttazzi, questo era Santoro, questo è Fazio. Si sono messi lì da soli, nessuno li ha messi lì per nomina partitica. Ci sono state due onde anomale nella storia del servizio pubblico. La prima è quella del famoso editto bulgaro di Berlusconi, che non aveva molte simpatie per le persone che ha fatto tacere; e la seconda è questa ondata. Le due ondate sono state in coincidenza di governi molto di destra”. 

Ma questo paragone è forzato: nessuno ha fatto tacere Fabiofazio. Peccato che Formigli non gli abbia obiettato: “Fabiofazio aveva dalla sua il Pd e Berlusconi e Conte e Renzi, oltre a Repubblica, Stampa, Corriere della Sera ed Espresso: quali condizioni non c’erano più per lavorare serenamente in Rai? Il nuovo governo Meloni? A Pajetta che se ne andava da una Tribuna politica perché ‘qui c’è Almirante, che è un nemico’, questi replicò: ‘E lei di fronte ai nemici scappa?’”.

Formigli avrebbe sollevato un tema importante: Fabiofazio ha detto che se ne andava perché non è “un uomo da tutte le stagioni”; dunque se ne va proprio adesso che la Rai avrà più bisogno di voci alternative alla destra? Questo vale anche per le dimissioni di Lucia Annunziata (pidina, agenzia Caschetto, ex Gedi, pure lei “non ci sono le condizioni”).

Legittimo che Fabiofazio se ne vada in una tv privata dove potrà fare il conduttore-produttore senza i paletti della tv pubblica, ma in tal caso la sua uscita dalla Rai non è quella, sofferta, dell’epurato politico, come lui e i suoi amici giornalisti hanno insinuato per giorni. [...]

Estratto dell’articolo di Daniele Luttazzi per il Fatto Quotidiano il 27 maggio 2023. 

(...)

Né va dimenticata l’importanza degli appoggi politici per RESTARE in tv, una volta che ci arrivi col tuo lavoro: c’è chi viene epurato da Berlusconi e da quel momento trova ostacoli ovunque; e chi, non inviso a Berlusconi e al Pd, può restare in Rai per decenni, e a ogni scadenza di contratto giocare pure al rialzo, minacciando altrimenti di andare altrove, lui che può farlo: finché a un certo punto, dopo essersi goduto i contratti stratosferici dell’emittente pubblica, se ne va, firmando con una rete privata un contratto ancor più stratosferico, col contratto Rai a fare da vantaggioso precedente. 

(...)

Ma Fabiofazio se n’è andato un mese prima della scadenza contrattuale, e prima che s’insediasse il nuovo ad Rai; e la bozza del nuovo contratto che questi avrebbe presentato in Cda il 25 maggio prevedeva un rilancio del programma su Rai1; né va dimenticato che, per contratti come quello con la Nove, servono mesi di trattative, e che, per sua stessa ammissione, Fabiofazio si stava avviando “serenamente” verso Discovery già anni fa, prima dell’ultimo rinnovo di contratto.

Appena Fabiofazio ha lasciato la Rai per fare più soldi altrove (come lasciò l’Ordine dei giornalisti per fare la pubblicità Tim), la stampa amica si è prodigata a elevarne il gesto agitando i turiboli del fumus persecutionis (con Fabiofazio a inzigare: “La politica tutta si sente legittimata dal risultato elettorale a comportarsi da proprietaria nei confronti della cosa pubblica con pochi riguardi per il bene comune e con una strabordante ingordigia”); ma la Rai del democristiano Roberto Sergio ha rinnovato Report e la Annunziata, dunque l’accusa di epurazione politica non regge proprio. A parte che Fabiofazio conosce benissimo Sergio, fondatore e dirigente di Lottomatica: per 5 anni il savonese si batté nobilmente contro la ludopatia facendo pubblicità al Lotto

Estratto dell'articolo di Daniele Luttazzi per “il Fatto quotidiano” il 30 maggio 2023.

Riassunto delle puntate precedenti: il programma di Fabiofazio non si ripagava con la pubblicità, tanto meno coi nuovi limiti per l’affollamento pubblicitario in vigore dal 2022 . Passato alla Nove, i giornalisti amici (pidini e/o scuderia Caschetto e/o gruppo Gedi e/o ex collaboratori di Fabiofazio) hanno strumentalizzato la vicenda con lo storytelling capzioso dell’epurazione politica; domenica pure la Littizzetto (Caschetto): “A mezzanotte scatta lo sfratto definitivo”’.

Lo strano sfratto di chi se ne va da sé. Floris (Caschetto) a Dimartedì: “Che poi non è il caso di una persona, no?, la questione Fabio Fazio. Anche se guardiamo come l’avevano, diciamo, preannunciato nei mesi scorsi, l’approccio nei confronti di un conduttore della Rai, Meloni e Salvini”.

I due filmati, ovviamente, non “preannunciano” nulla: come potevano sapere, Meloni e Salvini, che Fabiofazio avrebbe deciso di andarsene alla Nove? (La Nove gli ha offerto un contratto più stratosferico di quello Rai, pur sapendo che da loro anche un campione come Crozza fa uno share medio del 5,6%. Scrivere, come ha fatto Open, che Fabiofazio “porta in dote” alla Nove 2,4 milioni di spettatori e uno share dell’11,8%, è una stupidaggine: come ricorda Francesco Siliato, analista di Studio Frasi, “il trasferimento di un conduttore non comporta un automatico trasferimento di pubblici da un canale all’altro”). 

Poi Floris mostra un tweet di Salvini e dice: “E quando non si trova l’accordo, o meglio, Fabio Fazio trova l’accordo con la rete concorrente e esce dalla Rai, Matteo Salvini rivendica, dice: ‘Belli ciao’. Ciao, andatevene”. Ma “ciao, andatevene” è un’aggiunta tendenziosa di Floris, a suggerire la cacciata. […]

Sta succedendo che si vuole avvalorare l’idea di un’epurazione politica che non c’è stata. Bersani: “Mah, succede un’idea – sommiamo questa vicenda ad altre vicende che sono incommentabili, nelle ultime settimane: di queste trattative che hanno messo assieme la Rai, le società di Stato e, udite udite, per la prima volta che io ricordi, i corpi dello Stato: polizia e guardia di finanza. Nell’immaginario, questo vuol trasmettere un’idea: il comando”. 

Ma queste trattative non c’entrano nulla con Fabiofazio, che se n’è andato sua sponte per soldi. Su Twitter anche Saviano (Caschetto, Gedi, ed ex collaboratore di Fabiofazio) accredita la falsa tesi del killeraggio politico (bit.ly/431LPi8). L’incipit è tutto un programma: “‘Fabio Fazio lascia la Rai’, scrivono. Non è così: Fabio Fazio viene cacciato dalla Rai. Questa è la verità”. No, questa è la balla.

[…]  Ma che Fabiofazio sia stato cacciato non è un punto di vista da sposare: è una balla. Quanto ai “racconti” di Saviano, ricordo quello su Israele “sogno di libertà e di accoglienza”, e la replica di Vittorio Arrigoni: “Nelson Mandela sono anni che denuncia il razzismo di Israele contro gli arabi israeliani e contro le minoranze etniche”. Vittorio “Vik” Arrigoni (bit.ly/43irCFf), un pacifista dell’International Solidarity Movement, raccontava sul manifesto cosa accadeva a Gaza: “Caro Saviano, sto parlando di Nelson Mandela, non di Fabio Fazio”. 

Fabiofazio che, nel suo programma, invitava i Saviano, non gli Arrigoni. Sfido la Rai a prendere me al posto di Fabiofazio. Il programma lo conosco. Vengo gratis. Poi invito il papa. 

Estratto dell'articolo di Daniele Luttazzi per “il Fatto quotidiano” l'1 giugno 2023.

Abbiamo già detto dello storytelling capzioso con cui i giornalisti amici di Fabiofazio (pidini e/o scuderia Caschetto e/o gruppo Gedi e/o ex collaboratori di Fabiofazio) hanno strumentalizzato il suo passaggio alla Nove evocando a sproposito l’editto bulgaro per fare propaganda anti-governativa. 

Mi tocca tornarci su perché l’altra sera, a Dimartedì, Floris (Caschetto) ci ha riprovato. Stavolta però aveva di fronte Marco Travaglio e Michele Santoro, che l’hanno suonato a dovere. Prima Travaglio.

FLORIS: “In un mercato che s’è sviluppato rispetto a quando fu epurato Michele Santoro, rispetto a quando fu cancellata la trasmissione di Biagi, quando tu fosti fatto fuori dalla Rai, il mercato è cambiato, no?” (Col cazzo che Floris fa il mio nome, dopo il mio lisciobusso). 

TRAVAGLIO: “A me non mi hanno fatto fuori dalla Rai perché io non c’ero. Ero andato ospite una volta da Luttazzi a parlare di un tabù: i rapporti fra Berlusconi e la mafia. Quelle erano epurazioni. Perché? Perché non volevano che si parlasse di certi temi. E fatti fuori Luttazzi, Santoro e Biagi, di quei temi non si parlò più. I casi di cui stiamo parlando adesso non c’entrano niente”. 

FLORIS: “Questo giustifica il cancellare due trasmissioni che fanno più del 10%? Arriviamo al dunque industriale”. 

TRAVAGLIO: “Non le ha cancellate nessuno”. 

FLORIS: “Allora nel non rinnovare i contratti a due professionisti che fanno più del 10%. Arriviamo al nodo industriale e riportiamolo a quello che sta succedendo al resto del Paese”. 

TRAVAGLIO: “Ma l’Annunziata mi risulta che era rinnovata. Fazio non gliel’ha rinnovato quello di prima, non ha avuto neanche il tempo di parlare con Sergio, il nuovo Ad...” 

[…]

Floris, cercando ripetutamente di sostenere la balla che qualcuno ha epurato Fabiofazio, costringe Travaglio a continue correzioni. Aveva già tentato la sterzata. 

FLORIS: “Il mercato è cambiato, no? Quindi la Rai che non vuole più una trasmissione basta che lasci fare il mercato, no? Basta che non ti chiama. Ti sta scadendo il contratto, passa una settimana alla scadenza del contratto, tu lo capisci che aria c’è. Non è che per quello ti devi immolare e smettere di lavorare. Se trovi un’altra trasmissione... Il punto diventa: alla Rai conviene o no che siano andati via Fazio e Annunziata?”

Qui Floris fa lo gnorri. Davvero non sa che MANCAVA UN MESE alla scadenza del contratto di Fabiofazio? Che contratti come quello con Discovery NON SI FANNO IN UNA SETTIMANA? Che il programma di Fabiofazio non si ripagava affatto con la pubblicità, cioè COSTAVA TROPPO? Forse usando le maiuscole si capisce meglio il “nodo industriale”.

Subito dopo, Santoro gli spiegava che nella Rai dell’editto bulgaro Fabiofazio poté rientrare, a differenza di lui, perché “la politica ha voluto che tornasse”.

FLORIS: “Ma che cambia?” 

SANTORO: “Cambia molto. E qui ritorna il discorso su Lucia Annunziata”. 

FLORIS: “Ma no, così diventa un gossip fra conduttori”. 

SANTORO: “No, non è un gossip”. E gli ricorda che l’Annunziata, quando a governare era Silvio Berlusconi, fu presidente di garanzia Rai al posto di Paolo Mieli, che nominato presidente Rai aveva detto: “Accetto se posso riportare in Rai Biagi, Santoro e Luttazzi”. E dopo 24 ore era dimissionario.

FLORIS: “E che cambia? Stai parlando con acrimonia dei tuoi colleghi”. 

SANTORO: “Che cambia? Che c’era l’editto bulgaro. Non c’entra l’acrimonia. C’entra che Fazio e Annunziata sono stati il perno intorno al quale è ruotata una politica culturale in Rai fatta di esclusione degli altri, fatta di ammazzamento del pluralismo e della diversità” (applausi del pubblico. E miei).

Estratto dell’articolo di Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” l'1 giugno 2023.

Martedì sera Giovanni Floris ha scelto di puntare sull’usato sicuro, su un genere televisivo e letterario a se stante: lo sfogone di Michele Santoro. Contro la Rai e l’intero circuito mediatico che ha deciso di fare a meno del suo genio, contro colleghi intenti a scippargli indebitamente l’inverosimile scettro di martire catodico e contro ex (presunti) amici, contro la destra postfascista e la sinistra postsantoriana nonché, sorpresa, persino contro... l’Inps e il Fisco!

[…] Michelone ci risparmia l’amarcord romantico dei suoi esordi maoisti per Servire il Popolo, e va più prosaicamente a quantificare: «Lo sai qual è il mio lordo di pensione? Sono 1970 euro». Seconda domanda retorica: «Sai quanto prendo io? No-ve-cen-to euro», con parola chiave scandita da consumato professionista. 

«Dall’Inps però, poi avrai Inpgi, Enpals...» si permette di insinuare Floris […]. «No no, poi prendo l’Inpgi, però te - e il romanesco è il segno linguistico che la misura è colma, ndr - sto spiegando un’altra cosa, se vuoi capire quello che sto dicendo...».

[…] «È che con una pensione di 1970 euro lo Stato in varie forme si becca la maggioranza!». E qui rimbalza una prima notizia, un Santoro quasi neoliberista e nemico del Leviatano che tracima nel (suo) portafoglio, come del resto avviene per tutti gli intellò di tradizione comunista: la redistribuzione è sacra finché non redistribuisce i loro quattrini. 

La seconda sarebbe quella di un Santoro nei fatti governativo, visto che dà ragione alla madre di tutte le battaglie della Melonomics: il taglio del cuneo fiscale […]. […] 

Amenità a parte, Santoro non vede l’ora di far deflagrare la guerra fratricida tra epurati immaginari, l’altro lo sa e gli butta là i casi di Fabio Fazio e Lucia Annunziata. «Sono convinto che la Rai abbia avuto una perdita perché sono due professionisti molto validi». 

[…] parte il cannoneggiamento, intinto soggettivamente nel livore, ma con ragioni oggettive. «Non sopporto nessuno dei due. Le narrazioni che fanno sono sempre un po’ farlocche» (e detto da uno specialista...). Ad esempio, «Fazio non è vero che è stato 40 anni ininterrotti in Rai, lavorò per La7 quando era di proprietà di Telecom, non fece nemmeno una puntata, quell’esperienza si concluse e andò via con una paccata di miliardi» (detto con l’invidia strozzata del pensionato sottopagato).

[…] Ma […] «il vero problema è come è rientrato in Rai». «Ci è rientrato non solo per i buoni uffici del suo agente, che poi è anche il tuo- Beppe Caschetto, e qui l’allievo impallidisce visibilmente ndr-, ma ci è rientrato perché la politica l’ha voluto». È un montante mica male, ma ce n’è anche, forse di più, per Lucia Annunziata: «Nel momento in cui lasci la Rai dicendo che non sei assolutamente d’accordo con questo governo, uno si deve ricordare che lei è stata il presidente quando a governare era Silvio Berlusconi». 

Ovvero, quando «c’era l’editto bulgaro, caro mio!». «Stai parlando con acrimonia di due colleghi», nota eufemisticamente Floris. «Non c’entra l’acrimonia, c’entra il fatto che questi due colleghi sono stati il perno attorno al quale è ruotata una politica culturale in Rai, fatta di esclusione degli altri, fatta di ammazzamento del pluralismo e della diversità».

E qui […] proviamo un moto d’empatia per Michelone. Che se come pensionato indigente è assai improbabile, come smascheratore dell’ipocrisia altrui funziona. Fazio e Annunziata sono perseguitati ancora più “farlocchi” di lui, per dire.

Dagospia il 30 maggio 2023. MICHELE SERRA HA PROBLEMI CON LA MEMORIA O È SOLO "FAZIOSO"? – L’EDITORIALISTA DI “REPUBBLICA”, AUTORE DI “CHE TEMPO CHE FA”, SOSTIENE CHE FAZIO “HA SEMPRE LAVORATO IN AUTONOMIA E NON HA DEBITI POLITICI DA SALDARE”. MA BASTA FARE UN BREVE RIPASSINO DELLA CARRIERA DI FABIOLO, DA SEMPRE ORGANICO AL PD, PER DIMOSTRARE IL CONTRARIO - L’APOTEOSI DEL 2001, QUANDO, AL COMIZIO FINALE DELLA CAMPAGNA ELETTORALE DI D'ALEMA, A GALLIPOLI, FAZIO SI RIVOLSE AL LIDER MAXIMO COSÌ: “SONO LA TUA IVA ZANICCHI”; “MI DISPIACE NON POTERTI VOTARE PERCHÉ NON SONO DI QUESTO COLLEGIO, MA…”

MICHELE SERRA. "LA DESTRA È AGGRESSIVA, HA UN COMPLESSO DI INFERIORITÀ. IN RAI VUOLE LA SUA PROPAGANDA". Estratto da huffingtonpost.it il 30 maggio 2023. 

Michele Serra intervistato dalla Stampa, ancora sull'addio di Fabio Fazio alla Rai, prende un argomento sin qui lasciato nelle retrovie dell'analisi sul centrodestra-padrone.

"Se un gruppo di potere decide che la televisione pubblica deve diventare la fabbrica della sua "narrazione" - dice Serra-  che è un modo elegante per dire propaganda, uno come Fazio è inservibile. Bene che vada, può essere tollerato. Ma per lavorare bene non ci si può sentire "tollerati", ci si deve sentire sostenuti dal proprio editore. Ha fatto benissimo ad andarsene". Michele Serra, tra gli altri autore per molti anni della trasmissione Che Tempo Che Fa rivendica il professionismo di Fabio Fazio: "Fazio ha sempre lavorato in totale autonomia e non ha debiti politici da saldare. Deve tutto quello che ha solo al proprio lavoro, dunque a se stesso. Ho lavorato con lui per molti anni, fino al 2015, non ha amici politici e non frequenta la politica. Nel mondo partitico/romano che si contende da sempre la Rai, sono qualità controproducenti". […]

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per liberoquotidiano.it – 23 febbraio 2014

Nell'ultimo anno e mezzo il presidente del consiglio in pectore Matteo Renzi ha incontrato più volte Fabio Fazio nella sua trasmissione «Che tempo che fa» che non la moglie Agnese Landini. L'astro nascente della sinistra, dai tempi eroici della Leopolda ai giorni nostri, è stato un ospite quasi fisso del «bravo presentatore» da 1,8 milioni di euro l'anno (Sanremo escluso). 

Per rendersene conto basta digitare insieme su Youtube i loro due nomi. Imperdibile il siparietto del 9 marzo 2013, quando Matteo va a commentare il deludente risultato elettorale del suo partito. Fazio esordisce così, giusto per mettere in difficoltà l'interlocutore: «Dicono tutti in questi giorni difficili e anche incerti: con Renzi sarebbe stato diverso». Sorrisetto sornione e affondo: «Visto che lei conosce Renzi che cosa ne pensa di questa frase?».

L'allora sindaco di Firenze, indossa i panni dello statista, e replica da par suo: «Se mia nonna aveva le ruote era un carretto». Tra novembre e dicembre 2013 Renzi è il mattatore di tre puntate quasi consecutive e il forzista Renato Brunetta definisce Fazio «nuovo responsabile della comunicazione del Pd». 

In realtà non rammenta che già ai tempi di Walter Veltroni, il presentatore era considerato un intellettuale organico e il leader Pd gradito ospite del suo salottino televisivo. 

[…] alla fine degli anni '90 suscita qualche polemica la sua partecipazione a uno spot elettorale per il diessino savonese Roberto Decia. […] diventa apoteosi l'8 maggio del 2001, quando conduce in terra di Gallipoli (Lecce) la serata finale della campagna elettorale di Massimo D'Alema.

Di quella performance qualcuno ha cercato di cancellare le prove, facendo sparire dalla Rete il video della serata, in quanto «privato». Sopravvive, però, per feticisti e posteri, sul sito dei Radicali, la testimonianza audio della kermesse. Quella notte Fazio non si tiene: «Sono la tua Iva Zanicchi» gorgheggia quando appare il lìder Maximo, subito ribattezzato «il nostro candidato». 

«Questa luna la dobbiamo a lui» cinguetta. Davanti a un pubblico in deliquio Fazio paragona D'Alema a Silvio Berlusconi: «Guardatelo che bello, ha tutti i capelli veri, non sono disegnati, complimenti (…) la voce è bella con ogni microfono e non ha nemmeno il trucco sulla faccia, ogni ruga è sua». Un trasporto che appare eccessivo allo stesso Fazio: «Spero di non fare dei danni. Io mi lascio un po' prendere dall'entusiasmo, sai che nella mia vita al primo posto c'è Roberto Mancini al secondo ci sei tu».

Dopo le battute di rito su Berlusconi, Mediaset e Bruno Vespa, chiede l'applauso per il candidato diessino: «Esageriamo. Evviva le esagerazioni. Rivendico il diritto di cittadino di essere qui con grande piacere, è un dovere civile». 

Quindi per chi non lo avesse capito aggiunge: «Mi dispiace non poterti votare perché non sono di questo collegio, ma è come se lo fossi». Il 13 maggio il Cavaliere vince le elezioni e Fazio capisce che l'aria in Rai non è più respirabile dopo cotanto coming out. E trasloca alla neonata La7, ovvero la rete della Telecom, al cui vertice c'è Roberto Colaninno, uno degli «imprenditori coraggiosi» sponsorizzati dall'allora premier D'Alema nella scalata alla compagnia telefonica.

Non passano neanche tre mesi e la proprietà cambia. Arriva Marco Tronchetti Provera e a tre giorni dall'esordio il Fab show di Fazio viene improvvisamente annullato. «Il mio spettacolo non era gradito» spiega Fabiolo. In cambio, narrano le cronache, incassa, senza essere mai andato in onda, 28 miliardi di lire, tra penali e buonuscita. 

[…] il ruolo del martire non è nelle sue corde e nel 2003, in piena epoca berlusconiana, pianta nuovamente le tende nella tv pubblica per lanciare il suo nuovo programma «Che tempo che fa».  Uno spettacolo realizzato dalla Endemol, una società di produzione che sino al 2012 ha avuto tra i suoi soci (con il 33 per cento) la sbeffeggiata Mediaset. Fazio sarà anche fazioso, ma sa fare di conto. 

Estratto dell’articolo di Roberto Tortora per liberoquotidiano.it il 19 maggio 2023.

Ormai si parla solo dell’addio di Fabio Fazio alla Rai con il suo programma Che Tempo Che Fa che sbarca su Discovery dopo tanti anni di servizio pubblico. A Piazzapulita, Corrado Formigli mostra un video in cui Matteo Salvini spara a zero contro il conduttore appena silurato dalla tv di Stato e poi chiede il parere a Michele Serra, amico e autore storico del programma non più amico del governo in carica.

Queste le sue parole: “La prima condizione per un professionista, per lavorare bene, è poter lavorare serenamente e lui non era più nelle condizioni di farlo. Una cosa che non si dice abbastanza è che ci sono persone che non sono state collocate dai partiti nella tv pubblica, che hanno fatto il loro percorso, carriera, storia nella televisione per meriti professionali, perché hanno fatto il loro lavoro e questo può piacere o non piacere, ma questo sono. Questo era Biagi, questo era Luttazzi, questo era Santoro, questo era Fazio – prosegue Serra - si sono messi lì da soli, nessuno li ha messi per nomina partitica".

Michele Serra, poi, ritiene che spesso le decisioni sul prodotto vengano prese da chi non ne ha le competenze: “Tutti gli altri che parlano di tv e, ahimè, che decidono gli organigrammi della tv pubblica sono invece di nomina partitica. 

È come se uno che non sa niente di falegnameria entrasse lì e dicesse di avere il mandato per spiegare come si fanno i tavoli e come si fanno le sedie. Questo è profondamente irritante e controproducente, perché poi la falegnameria funziona peggio”. 

Un affare di destra? No, per Michele Serra tutti i partiti sono colpevoli: “Ciò, va detto, è sempre stato uguale per tutti i partiti che si sono comportati in modo predatorio nei confronti della Rai. [...]

Estratto dell’articolo di Nanni Delbecchi per “il Fatto quotidiano” il 19 maggio 2023.

[…] Fazio non è affatto un artista “di sinistra”; è un artista Ztl (anche la sinistra italiana lo è, arroccata nel proprio senso di appartenenza e superiorità; ma questo è un altro discorso); a parte qualche politico a cui non si può dire di no (appunto), nulla si muove fuori dalla sua circonvallazione magica, fatta di amici, compagni di area, colleghi di scuderia, che difende con il filo spinato.

Più che buonismo è familismo, ma se lo può permettere. Come conduttore è il migliore su piazza, non ha rivali per garbo, senso della misura, brillantezza. Con gli amici è splendido; tutti gli altri, semplicemente, non li riceve. 

È un pezzo unico: metà intrattenitore leggero e metà conduttore serio, ma senza essere né bravo presentatore né giornalista avvelenato, un ircocervo dell’infotainment che ormai fa scuola (il duetto tra Bianca Berlinguer e Mauro Corona è chiaramente ispirato alla coppia Fazio-Littizzetto).

Dunque, […] un Fabio Fazio non è sostituibile, sebbene come autore abbia rinunciato a inventare qualcosa di nuovo da vent’anni a questa parte […]. Che tempo che fa è un immutabile rito turibolante, dove il confessore è anche il chierichetto, che teoricamente può andare avanti all’infinito. Ma oltre al testo, c’è il contesto. Se Fazio traslocherà in blocco la sua Ztl in forma di talk show nella nuova emittente, il rischio è doppio: in Rai lascerà un vuoto più grande dello spazio che occupava, a Discovery sarà una balena fuor d’acqua. […]

Ville, terreni e aziende: il "tesoretto" milionario di Fazio. Marco Leardi su Il Giornale il 18 Maggio 2023

Il conduttore ligure, secondo quanto si apprende, è proprietario di diversi immobili in Liguria e a Milano. Inoltre possiede una dozzina di terreni e alcuni garage. Non ditelo alla sinistra che vorrebbe la patrimoniale

Fabio Fazio, come noto, traslocherà dalla Rai a Discovery. Già ce lo vediamo a fare scatoloni e imballaggi: da una parte metterà tutti i suoi copioni, dall'altra gli abiti di scena. Sempre sul filo del sarcasmo, qualcuno fa notare che il presentatore non avrà troppa difficoltà a effettuare il cambio televisivo di casa, essendo egli un esperto di abitazioni. Sì, di quelle in mattoni e cemento. Grazie ai lauti guadagni legittimamente ottenuti nella sua carriera, svolta per molti anni in Rai, il presentatore è infatti riuscito ad accumulare un interessante "tesoretto" fatto di immobili e di terreni. Che tempo che fa? Bellissimo, supponiamo, con tutti quei metri quadri a disposizione.

Secondo quanto riporta Affari Italiani, da una visura catastale aggiornata, risulta infatti come Fazio abbia effettuato investimenti immobiliari in particolare nella sua amata Liguria. Tra mare e vigneti. Il conduttore - riporta la testata economica - a Celle Ligure risulta proprietario di due garage per 100 metri quadri, ma soprattutto di una villa di 13 stanze. E, sempre a quanto si legge, nelle proprietà del presentatore Rai pronto al trasloco ci sarebbero anche due case con cinque vani, cui si aggiungono due garage e altre due abitazioni nella vicina Varazze. Bontà sua, Fabio negli anni ha fatturato guadagni importanti derivanti dalla sua professione, dunque si è potuto togliere più di qualche sfizio.

Sempre a Celle Ligure il conduttore Che tempo che fa risulta in possesso di alcuni terreni: 12 - secondo quanto riporta Affari Italiani - di cui 10 adibiti ad uliveto, che occuperebbero una superficie complessiva di 7mila metri quadri. Ma per il popolare presentatore gli investimenti immobiliari non sono finiti: il nostro, infatti, a Milano è proprietario di due abitazioni signorili di 20 stanze e 2 garage, il tutto detenuto per metà. Zitti, però: non ditelo a Elly Schlein e a quelli del Pd, che vorrebbero una bella patrimoniale per "colpire" innanzitutto i più ricchi. Per il povero (si fa per dire) Fazio sarebbe un salasso.

Il conduttore - si apprende dagli organi di stampa - si sarebbe peraltro da poco lanciato in una nuova iniziativa imprenditoriale col 5% e la presidenza della "Dolcezze di Riviera srl", di cui la moglie Gioia Selis ha il 45%. "È l'azienda che ha rilevato la storica fabbrica di cioccolato 'Lavoratti 1938' e che ha chiuso il bilancio 2021 (ultimo disponibile) con soli 76mila euro di ricavi e una perdita di 231mila euro", spiega Affari Italiani. Come noto, il presentatore è poi proprietario al 50% de "L'Officina srl", la società con cui realizza e produce i suoi programmi televisivi.

L'addio di Fazio e le mosse del super manager: chi c'è dietro lo strappo. Fare, disfare e consigliare è il suo lavoro. E lo fa molto bene. Beppe Caschetto è l'influente manager dello spettacolo che segue Fazio e Littizzetto. Ma anche Saviano, Floris, Formigli, Gruber e Crozza. Marco Leardi il 17 Maggio 2023 su Il Giornale.

Dietro al passaggio di Fabio Fazio a Discovery c'è lui. Anche stavolta. Fare, disfare, indirizzare e consigliare è infatti il suo lavoro. E lo fa molto bene, scegliendo di starsene lontano dai riflettori, dietro le quinte. Beppe Caschetto è l'influente agente televisivo che segue gli interessi artistici di molti personaggi noti dello spettacolo e del giornalismo. Tutti o quasi con simpatie progressiste. Tra di essi spicca in particolare il conduttore di Che tempo che fa, balzato ora al centro delle cronache per il suo addio alla Rai raccontato da molti come una cacciata, come un'epurazione perpetrata dai nuovi cattivissimi vertici di Viale Mazzini o addirittura dal governo. Macché: il cambio di casacca è stato piuttosto l'ennesimo colpo messo a segno dal presentatore con il supporto dell'abile manager modenese.

Tra gli addetti ai lavori televisivi in molti parafrasano: nei palinsesti non si muove foglia che Beppe Caschetto non voglia. E questo perché l'autorevole agente dei vip ha a disposizione una scuderia di personaggi tale da poter decretare (più o meno direttamente) il successo di una trasmissione o di uno spazio televisivo. Dell'agenzia Itc2000, gestita per l'appunto dal manager modenese assieme alla moglie e alla figlia, fanno parte - oltre al già citato Fazio - anche la talentuosa Virginia Raffaele, Sabrina Ferilli, Stefano De Martino, Andrea Delogu, Caterina Balivo, Geppi Cucciari, il duo comico Luca e Paolo, Maurizio Crozza. E poi Enrico Brignano, Maurizio Lastrico, Pif, Neri Marcorè, Enrico Bertolino, Brenda Lodigiani, Fabio Volo, Pif, Stefano Bollani e Alessia Marcuzzi. Un lungo elenco di volti di nomi che consente a Caschetto di vedere i propri assistiti in quasi tutte le fasce dei palinsesti. Specialmente le più prestigiose.

Qualcuno avrà poi notato che alcuni degli artisti sopra citati erano spesso ospiti di Fabio Fazio e Luciana Littizzetto (anche quest'ultima seguita dalla Itc2000): nulla di cui stupirsi, in tv - piaccia o meno - funziona così. Nel 2020 l'allora Ad Rai Fabrizio Salini aveva promulgato delle norme proprio per regolamentare lo strapotere degli agenti televisivi, stabilendo che questi ultimi non potessero rappresentare più del 30% degli artisti ricompresi un una produzione televisiva. Pare che quelle linee guida non abbiano avuto grande seguito. Tornando invece a Caschetto, va aggiunto che il manager segue anche gli interessi televisivi di diversi giornalisti, anche in questo caso non propriamente di destra: Lucia Annunziata, Giovanni Floris, Lilli Gruber, Corrado Formigli, Massimo Gramellini, Daria Bignardi, Luca Telese.

E nella medesima scuderia di artisti c'è anche Roberto Saviano, che proprio nei giorni scorsi si era stracciato le vesti per la "cacciata" di Fabio Fazio dalla Rai. Ma, oltre al fatto che quella del "martirio" faziesco è una balla, riteniamo invece che quella effettuata dal conduttore ligure sia stata piuttosto un'operazione televisiva come tante ce ne sono, non priva di legittimi interessi personali (sarebbe stato strano il contrario). Su Discovery, infatti, il presentatore avrà un'adeguata remunerazione e non troverà certo un ambiente ostile, grazie anche al supporto del proprio attento manager. Sul Nove (rete del medesimo gruppo televisivo) ad esempio c'è già Maurizio Crozza e chissà che in futuro non arrivi qualche altro nome di peso. Sembra infatti che il tele-mercato estivo possa riservare altre sorprese.

Peraltro, secondo indiscrezioni, Discovery starebbe sondando il terreno per una possibile fusione con La7, rete che attualmente ospita molti personaggi gestiti da Caschetto: per il broadcaster americano, che già vanta un ampio ventaglio di canali, sarebbe un colpo significativo. Ma - eventualmente - tempo al tempo. Intanto anche gli influenti agenti della tv stanno a guardare con particolare interesse.

Estratto dell’articolo di Camillo Langone per ilfoglio.it il 17 maggio 2023.

Vorrei fare […] un bagno di umiltà. […] Alle ultime elezioni (come pure alle penultime, alle terzultime…) non ho votato. […] non ho ritenuto di partecipare ai ludi cartacei. Oggi tuttavia festeggio la liberazione dall’immensa volgarità di Luciana Littizzetto, l’emancipazione da un dominio di bassezze e malignità il cui pedaggio mi veniva estorto con la bolletta della luce, e sento di dover ringraziare chi quella domenica si è presentato ai seggi per votare Fratelli d’Italia. Vorrei ringraziarli uno a uno quegli elettori. (No, non credo alla motivazione esclusivamente economica del passaggio a Discovery, non sono marxista, i soldi spiegano tanto ma non spiegano mai tutto).

In rai ne restano tanti altri peggio di lui. Via un Fazio se ne farà un altro: non dovrà fare domanda per il reddito di cittadinanza. Francesco Storace su Il Riformista il 17 Maggio 2023 

Fabio Fazio non dovrà fare domanda per il reddito di cittadinanza. Grazie alla Rai è già ricco di suo e accrescerà notevolmente il suo conto in banca con il succulento contratto che si è assicurato con Discovery assieme a quella simpaticona di Luciana Littizzetto. Entrambi sono il classico buon partito senza bisogno di voti. Pantalone potrà dire che abbiamo già dato e senza rimpianti, né rimorsi.

Gli ululati dei giorni scorsi all’indirizzo della Rai non hanno alcuna ragion d’essere. Si è strillato alla censura. Stiamo ai fatti: se ne va con le sue gambe l’amministratore delegato Carlo Fuortes; fa altrettanto la coppia di “Che tempo che fa”. Non era più “tempo” di restare, tutto qui. Certo, c’era la determinazione quotidianamente manifestata da un centrodestra stufo di subire linciaggi a mezzo tv.

Ma lo stesso Fazio ha dovuto onestamente ammetterlo: è da quarant’anni “che sto in Rai”. Una specie di senatore a vita del servizio pubblico radiotelevisivo. Più di Pierferdinando Casini alla Camera, il doppio di Benito Mussolini, due Ventenni. Decisamente tanto. Forse troppo. A quanti strepitano per “il danno” all’azienda e all’Italia (l’incredibile Enrico Letta…) facciamo notare che sarebbe davvero poca cosa che un’azienda che campa anzitutto col canone versato dagli italiani dovesse fallire perché una trasmissione non sta più in palinsesto. E che sarà mai. Dobbiamo fare l’elenco di quanti programmi applauditi da valanghe di telespettatori hanno poi conosciuto l’oblio?

Anche Massimo Giletti era campione di ascolti, ma la Rai non esitò a farlo fuori. Ed ora che è accaduto anche a La7 sarà più facile che a rimetterci sia proprio quest’ultima che non viale Mazzini. La corazza del servizio pubblico resiste a tutto. La differenza è che allora – con Giletti – non ci fu la ridicola sommossa delle ultime ore. Non si gridò al regime, alla libertà perduta. Solo un silenzio ipocrita.

Anziché singhiozzare come vedove, quelli del Pd, che hanno lottizzato negli anni dal capo azienda fino all’ultimo usciere, dovrebbero riflettere sugli errori commessi. E magari riflettere su una frase che ci è tanto cara, trovata su un libro del “cattocomunista” Federico Scianò. L’autore, purtroppo scomparso, scrisse nel momento in cui passava dall’Avvenire alla Rai, che si era chiesto se dovesse rinunciare alle proprie idee. E la risposta fu che semplicemente doveva tener conto anche dell’esistenza di quelle altrui. Perché la ragione stessa del servizio pubblico sta proprio nella comprensione del pluralismo.

Se Fazio avesse fatto buona memoria di quella pubblicazione dedicata a “sorella tv” magari non avrebbe provocato polemiche in ogni puntata del suo programma. Invece, troppo spesso nelle trasmissioni Rai prevale uno spirito fazio-so che non fa bene al servizio pubblico, che dovrebbe rappresentare l’Italia reale rispetto a quella paludata del Palazzo.

Fazio non si è sottratto alla moda prevalente in azienda, per cui sono da santificare i Roberto Saviano come i Mimmo Lucano da Riace. Il Paese reale non li eleva a propri rappresentanti, perché è stanco di una televisione sempre più lontana dall’opinione comune. E ci sarà un motivo se ogni giovedì sera – nel derby fra televisioni private – Paolo Del Debbio stramazza al suolo con gli ascolti quel Fazio 2 che risponde al nome di Corrado Formigli su La7.

Il pluralismo non può corrispondere all’opinione di uno solo, né di un partito o di uno schieramento. Per carità, il commento del giornalista è sacro, ma semplicemente non può essere usato per nascondere la notizia. Un caso, quello di Cutro. Si è gettata la croce addosso al governo Meloni, nessuno ha mai domandato perché il governo greco non avesse fatto la sua parte per salvare quei poveri disgraziati morti in mare. Neppure Fazio, perché per lui erano più importanti le polemiche casalinghe contro la destra. Ha amicizie importanti in tutto il mondo, mai il tempo di sfogliare l’agendina sui numeri telefonici importanti ad Atene…

Auguri a chi c’è ora a viale Mazzini. Ci sarà da lavorare per riequilibrare l’azienda. Non c’è più Fazio, ne restano tanti altri peggio di lui. Francesco Storace

Estratto dell'articolo di Andrea Giacobino per affaritaliani.it il 17 maggio 2023.

Fabio Fazio oltre che dall’approdo in Discovery ha di che consolarsi dall’uscita dalla Rai grazie al flusso di affitti che gli arrivano in tasca dal suo piccolo impero di mattoni. 

Da una visura catastale aggiornata, infatti, si scopre che il conduttore di origini savonesi ha puntato molto sul mattone e sui terreni in Liguria perché a Celle risulta proprietario di due garage per 100 mq, di una villa di 13 stanze e di 2 case con 5 vani cui si aggiungono 2 garage e altre 2 abitazioni nella vicina Varazze. 

Sempre a Celle il conduttore possiede molti terreni, per l’esattezza 12 di cui 10 adibiti ad uliveto che occupano una superficie complessiva di 7mila mq, Fazio ha un piede nel mattone anche a Milano con due abitazioni signorili di 20 stanze e 2 garage, il tutto detenuto per metà.

Diverso il discorso di Fazio appena diventato imprenditore col 5% e presidente della Dolcezze di Riviera srl di cui la moglie Gioia Selis ha il 45%. E’ l’azienda che ha rilevato la storica fabbrica di cioccolato “Lavoratti 1938” [...]

Fabio Fazio? "Sapete che i suoi figli...": altra bomba nel giorno dell'addio in Rai. Libero Quotidiano il 14 maggio 2023

Con la notizia dell'addio alla Rai, Fabio Fazio è sulla bocca di tutti. Ed ecco che in molti spulciano nella sua vita privata. Sposato da tempo con Gioia Selis, figlia di Giovanni Selis, noto medico della località ligure, la coppia ha due figli: Michele, nato nel 2004 e Caterina, nata nel 2009. Proprio su di loro si è soffermato tempo fa il conduttore: "La loro esistenza è la ragione della mia" aveva confidato prima di spiegare il rapporto che vanta con entrambi.

"Con mio figlio, che va in moto, abbiamo un appuntamento solo nostro: un giorno alla settimana lo porto in un circuito che c'è sopra Genova". Per quanto riguarda Caterina, invece, la ragazza "va al liceo scientifico, faccio assistenza compiti". Entrambi però non guardano la tv, neanche i programmi del padre. La tv - aveva detto - "è la mia vita, non la loro".

E pensare che in 58 anni di vita, ben 39 Fazio li ha passati in tv. Oggi però per lui si apre un nuovo capitolo. Fazio, dopo aver salutato la Rai, passa a Warner Bros. Discovery con un accordo quadriennale. Ad ufficializzarlo è stata una nota della società che annuncia che il conduttore sarà protagonista sul canale Nove dove debutterà già dal prossimo autunno. 

Fazio e Littizzetto lasciano la Rai e arrivano a Discovery: accordo per 4 anni. Salvini: «Belli ciao». Antonella Baccaro su Il Corriere della Sera il 14 maggio 2024.

Fabio Fazio e Luciana Littizzetto sbarcano sul Nove, lasciando la Rai. Il contratto di Fazio scade il 30 giugno, ma non era stata avviata la trattativa per il rinnovo. Al conduttore non sarebbe arrivata alcuna proposta che prevedesse la sua permanenza in Rai o anche un suo ridimensionamento. 

Fabio Fazio lascia la Rai e approda su la Nove, già dal prossimo autunno, con un contratto di quattro anni. 

Lo comunica la Warner Bros. Discovery in una nota in cui annuncia «un clamoroso arrivo per la prossima stagione televisiva: Fabio Fazio, uno dei volti più popolari della televisione italiana, sarà protagonista sul canale Nove». 

Nelle prossime settimane saranno annunciati i progetti che vedranno coinvolto il conduttore di «Che tempo che fa» e il ruolo che avrà. 

Del progetto, viene comunicato, farà parte anche Luciana Littizzetto, protagonista insieme a Fazio di uno binomio artistico consolidatosi negli anni.

La carriera di Fazio, dagli inizi da imitatore a Che tempo che fa

«Belli ciao» è il commento ironico rivolto su Twitter dal leader della Lega e ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, ai due volti della Rai, neanche provando a nascondere la ruggine nei loro rapporti. Sarcastico anche il pensiero rivolto dal vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri (Forza Italia): «Propongo alla Rai di lasciare vuoto lo spazio televisivo mettendo un’immagine fissa al posto di Fazio. Come si può immaginare una televisione pubblica senza Fazio e senza i suoi dibattiti notoriamente equilibrati e privi di accenti polemici? Se Fazio se ne va, Rai 3 lo sostituisca con qualche ora di silenzio senza trasmissioni, nessuno è pari a Fazio, nessuno potrebbe sostituirlo. Tanto nomini nullum par elogium». 

Esprimono rammarico invece Enrico Letta, ex segretario del Pd («Che tempo che fa di Fazio è stato uno dei migliori prodotti culturali della tv italiana. La destra al potere sceglie di privarsene e fa un danno alla tv, alla cultura e all'Italia») e Francesca Bria, consigliera Rai (quota Pd): «L’uscita di Fabio Fazio dalla Rai è un danno all’azienda in termini di identità, qualità culturale e ascolti. Una brutta notizia per il paese. Negli anni tante belle pagine di servizio pubblico, fra tutte il Memoriale della Shoah con la Segre. Scelta scellerata mai portata in CdA». 

E sono in molti a criticare Salvini per il suo tweet, da Calenda («Se questo è un ministro») a Peppe Provenzano, responsabile Esteri del Pd («L'arroganza, l'ottusità e il rancore possono far parlare così. Ma un Ministro non può parlare così»), mentre di «avvio di epurazione» parla l'Anpi. 

«Siamo entusiasti di accogliere un fuoriclasse come Fabio Fazio – commenta Alessandro Araimo, GM Italy & Iberia di Warner Bros. Discovery - e orgogliosi che uno dei volti più rilevanti e influenti della televisione italiana abbia scelto Warner Bros. Discovery e il canale Nove per proseguire la sua straordinaria carriera. Il nostro impegno è da sempre quello di attrarre i migliori talenti e l’arrivo di Fabio e Luciana nel nostro gruppo è la miglior conferma possibile. Per questo siamo impazienti di iniziare a lavorare insieme, certi che questa sinergia possa far crescere ulteriormente il nostro ricco portfolio di canali TV e ancor più in generale il gruppo Warner Bros. Discovery in Italia». 

L’annuncio del nuovo sodalizio precede il consiglio di amministrazione della Rai di domani, nel quale dovrebbe essere ratificata la nomina del neoamministratore delegato Roberto Sergio . 

La scelta dei tempi dell’addio del conduttore non sembra casuale. Il suo contratto biennale era scadenza il 30 giugno e in questi giorni, in cui la nuova gestione della Rai ha cominciato sotto traccia a muovere i primi passi, si sono fatti molti nomi di personaggi dello spettacolo e dell’informazione che stavano trovando una nuova collocazione o una conferma. 

Nell’ultimo consiglio dell’amministratore delegato Carlo Fuortes, questi ha fatto presente l’urgenza di prendere una decisione circa il futuro del conduttore ma la sollecitazione non ha avuto seguito. A Fazio non sarebbe arrivata alcuna proposta che prevedesse la sua permanenza in Rai o anche un suo ridimensionamento. 

A questo punto si vedrà se il nuovo programma di Fazio su la Nove avrà la stessa struttura e in che misura coinvolgerà lo stesso conduttore nella sua produzione. In Rai Fazio era stato costretto, da una norma interna dell’emittente pubblica che non ammette sovrapposizioni di ruoli, a cedere la propria quota del 50% in Officine, la società che produceva il programma.

Fabio Fazio e la sua carriera in Rai, da «Quelli che il calcio» a «Anima mia» passando per Sanremo. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 14 maggio 2024.

Dopo gli esordi come imitatore, il conduttore ha tenuto a battesimo molte trasmissioni di successo in Rai, tra cui anche «Vieni via con me» con Saviano e «Binario 21». 

Sì, c’erano stati gli anni come imitatore, quelli in cui in pochi avrebbero ipotizzato la carriera che da lì in poi Fabio Fazio si sarebbe costruito. L’esordio in tv, era stato — fatalità — al fianco di due donne: Raffaella Carrà, in «Pronto Raffaella» e Loretta Goggi in «Loretta Goggi in quiz». Era il 1983. 

Quarant’anni dopo, il conduttore saluta la Rai. 

Quarant’anni in cui è diventato sempre più un pilastro delle televisione pubblica, con «Che tempo che fa»,che con evoluzioni e spin-off vari conduce dal 2003. Una trasmissione che è diventata sinonimo di uno spazio autorevole, non a caso scelta anche dal Papa per la sua prima intervista in tv. Prima di allora, a decretare il grande successo del conduttore era stato un altro format destinato a diventare un cult televisivo: «Quelli che il calcio». Dal 1993, Fazio lo ha tenuto a battesimo, mostrando come si potesse unire l’intrattenimento al commento della giornata calcistica, visto che la trasmissione seguiva il campionato di calcio di serie A. 

«Quelli che il calcio»

Erano anni gioiosi e leggeri, in cui lo «stile Fazio» stava prendendo piede: pacato, composto ma sempre predisposto all’ironia e alla satira. Un comico che si trasformava in un conduttore capace di rendersi perfetta spalla all’occorrenza — e il sodalizio con Luciana Littizzetto non è che una prova —, il primo a divertirsi nei suoi programmi, con i suoi ospiti. 

«Anima mia»

Con quello stesso spirito, nel 1997 era stata la volta di «Anima mia», una trasmissione nata per raccontare gli anni Settanta, scherzandoci su, condotta con un inedito Claudio Baglioni. Fu un successo, che confermò la capacità di Fazio di plasmare il suo immaginario e di renderlo un contenuto televisivo.

Sanremo

Sulla scorta di quel successo, arrivò anche il grande passo rappresentato dal Festival di Sanremo: quattro edizioni: 1999, 2000, 2013 e 2014. Furono edizioni di clamoroso successo, epocali anche per gli ospiti: dalla co-conduzione di Renato Dulbecco alla partecipazione di Michail Gorbacëv come ospite. 

«Vieni via con me» e «Quello che (non) ho»

Il 2010, invece, è l’anno degli elenchi e del sodalizio con Roberto Saviano. In altre parole, l’anno di «Vieni via con me». Anche in questo caso, il gradimento e il sostegno del pubblico non si era fatto attendere, registrando picchi del 32% di share. Un successo replicato con una trasmissione che era una sorta di evoluzione di questo format, «Quello che (non) ho», in onda su La7. 

«Rischiatutto»

Da anni, uno dei desideri di Fazio era rendere omaggio a Mike Bongiorno riproponendo il suo storico quiz, «Rischiatutto». Nel 2016 era dunque riuscito a riproporlo in tv, ricalcandone i basilari come scenografia e jingle. Lo scorso gennaio è andato invece in onda «Binario 21», trasmissione applauditissima in cui il conduttore ha ripercorso al fianco di Liliana Segre la sua esistenza, per non dimenticare.

Se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato. L’addio alla Rai di Fabio Fazio conviene alla destra, alla sinistra e pure a lui. Guia Soncini su L'Inkiesta il 15 Maggio 2023

Breve storia recente della tv italiana attraverso la carriera del conduttore costretto a traslocare a Discovery, a cura di una pinoinsegnista della prima ora.

Se la storia della tv italiana non è la materia a piacere che portereste agli esami di riparazione, è il caso di spiegare chi sia il protagonista delle polemiche della settimana che va a principiare: Fabio Fazio, conduttore televisivo in un Paese che da che ho memoria ama cianciare di mancato ricambio generazionale e di giovani oppressi dalle generazioni precedenti.

Fazio ha meno di ventinove anni quando scompiglia l’idea di cosa debba essere la domenica pomeriggio con Quelli che il calcio; trentadue quando con Anima mia fonda il secolo successivo e i di esso difetti inventando la nostalgia come carattere generazionale; trentaquattro quando dice all’ufficio contratti Rai che, ad affiancarlo a Sanremo, vuole un tizio che ha vinto il Nobel per la medicina, Renato Dulbecco.

Non c’entra, ma c’entra: la carriera di Fabio Fazio non sarebbe esistita se non fosse esistito Bruno Voglino, che era un funzionario Rai quando i funzionari Rai erano intellettuali con una visione del mondo e il coraggio di scommettere sul talento, e non gente che aspetta solo che sia mezzogiorno meno un quarto per prendere il borsellino e andare a mensa.

Non c’entra, ma c’entra: nel 1999 l’ineffabile ufficio contratti Rai offre al professor Dulbecco trecentomila lire per cocondurre Sanremo, con una frase che chiunque abbia avuto a che fare con la Rai conosce, «Non ha un precedente»; frase che forse serve a capire quanto sia disutile trattare un rinnovo contrattuale Rai come fosse una questione che attiene al mercato.

Mai, nella storia di quel perpetuo pasticcio decisionale che è l’esistenza d’una televisione pubblica, s’era visto un esito che convenisse a tutti. Mai, fino al congedo di Che tempo che fa, che ancora per due settimane dovrebbe essere su Rai 3, ma sabato Beppe Caschetto (agente di Fazio da sempre, e personaggio che sta alla tv italiana come Enrico Cuccia stava alle banche) ha chiuso il nuovo contratto, e ieri è arrivato il comunicato di Discovery: da settembre Fazio farà lì il suo il programma, e altro di non ancora specificato.

Fazio che va via dalla Rai conviene a tutti. Conviene alla sinistra, che può dire alla destra ma non vi vergognate, un programma colto, un programma elegante, un programma prestigioso, un programma con ospiti il Papa e Obama, Tom Hanks e Carrère, Fanny Ardant ed Erin Doom, e voi volete metterci Pino Insegno, ce lo vedo Labatut che viene a farsi intervistare da Insegno (conto che dicano «c’avete solo Pino Insegno» col tono con cui i romani dicono ai milanesi «c’avete solo la nebbia»).

Conviene alla destra, che potrà dire al proprio elettorato che, coi-vostri-soldi, non abbiamo rinnovato quella lussuosa produzione, che essendo esterna se viene ospite Beyoncé neppure la manda a dormire nei tre stelle convenzionati Rai, è uno scandalo, è una vergogna, le mani nelle tasche degli italiani, l’hanno mandata al Four Seasons che oltretutto non ha un precedente.

Conviene a Fazio, che ha una carta-martirio e risulta subito elegantissimo non giocandosela (ieri sera in onda ha detto che lui e i suoi non hanno «nessuna vocazione a essere vittime o martiri: siamo persone fortunatissime», subito dopo aver spiegato che non parlerebbe mai male della Rai avendoci lavorato quarant’anni: come gli ex mariti migliori, quelli che non spettegolano e non recriminano); ma va a farsi dare da Discovery come minimo gli stessi soldi che prendeva finora, che sono più soldi di quanti gliene darebbe ora la Rai (che domani, col nuovo amministratore delegato, avrebbe offerto a Fazio un contratto alla metà di quel che prendeva, da cui l’annuncio domenicale che grazie, non sei tu sono io, restiamo amici).

D’altra parte è il paradosso della tv pubblica: gente alla quale il mercato darebbe dieci volte tanto si sente rinfacciare d’essere pagata coi-nostri-soldi, invece che ringraziata perché lavora per un decimo di quel che potrebbe ottenere altrove. 

L’unico cui non conviene è Maurizio Crozza, che finora era l’unica star di Discovery, l’unico per cui si ammazzavano vitelli grassi per il prestigio culturale in una rete in cui la carretta viene tirata da programmazione sofisticatissima con titoli quali Cash or Trash? e Il contadino cerca moglie. Il trauma di passare da figlio unico a non più reuccio di casa può essere pesante, ma meno di quel che sarà per Fazio passare dall’ospitare Amadeus che racconta il prossimo Sanremo all’ospitare Conticini che promuove la versione postmoderna di Ok, il prezzo è giusto.

L’ultima volta che Fabio Fazio e il suo gruppo di lavoro avevano lasciato la Rai c’era la lira, i cellulari non facevano le foto, e il più recente Sanremo l’aveva condotto Raffaella Carrà. Telecom aveva comprato Tmc, per trasformarla in La7 e fare di Fazio e del suo programma di seconda serata – era quando non volevano ancora tutti fare Fallon, ma qualcuno voleva fare Letterman – il gioiello della rete.

Poi qualcosa era andato storto, non è interessante ricostruire qui le versioni dei fatti rispetto alla chiusura d’un programma che neanche aveva ancora cominciato ad andare in onda (chiusura peraltro piuttosto remunerativa: Caschetto sa fare i contratti). È interessante un dettaglio che dimostra come la realtà fosse già allora una sceneggiatrice così formidabile da permettersi lussi d’inverosimiglianza per i quali un altro sceneggiatore verrebbe protestato dalla produzione.

Il giorno del 2001 in cui viene comunicato al gruppo di lavoro che spiacenti, abbiamo scherzato, sì abbiamo presentato i palinsesti, sì è tutto pronto per cominciare, sì il terzo polo (il terzo polo televisivo aveva grandi speranze e grandi delusioni da prima di quello politico) – ma, ecco, come non detto, amici come prima, lasciamoci senza rancore – quel giorno lì ovviamente viene stilato un comunicato.

Un comunicato indignato, vibrante, che parla dell’impossibilità di fare tv in un Paese dalle continue ingerenze politiche, dell’invadenza nelle scelte culturali di partiti che dovrebbero pensare a ben altro, di rava, di fava. Mentre lo si sta stilando, qualcuno butta un occhio alla tv senza volume, e chiede cosa sia mai quella stranezza. È un aereo che entra in un grattacielo. Poco dopo un altro.

Come va a finire lo sapete tutti, anche se la storia della tv non è un vostro pallino. La notizia del mancato inizio del Fazio di seconda serata non ha, sui giornali, lo spazio che avrebbe avuto in un’altra settimana.

Questa settimana qui per fortuna non sono previsti attentati, Salvini ha già cominciato coi tweet da seconda media, e insomma dovremmo poterci intrattenere e trascorrere qualche lieto pomeriggio a dirci che sì, comunque era un programma che costava troppo, e poi non mi hanno neanche mai invitato a presentare lì il mio libro, e insomma quel Fazio se l’è cercata, e poi sai che c’è, Pino Insegno m’è sempre piaciuto.

Anticipazione da “Oggi” il 15 maggio 2023.

«La politica tutta si sente legittimata dal risultato elettorale a comportarsi da proprietaria nei confronti della cosa pubblica con pochi riguardi per il bene comune e con una strabordante ingordigia. E non solo per quel che riguarda la televisione». 

Il settimanale OGGI, in edicola giovedì 18 maggio, anticipa alcuni estratti dalla consueta rubrica settimanale di Fabio Fazio «Senza impegno», che il conduttore, in procinto di lasciare la Rai, apre con queste parole: «Nessun vittimismo e nessun martirologio: detesto entrambe le forme di autocommiserazione. Non è proprio il caso. Semplicemente è andata così: continuerò il mio lavoro altrove e come ogni inizio sarà un’opportunità per inventare cose nuove e nel tempo tentare nuove strade.

Come si sa è cambiata la narrazione. Ma la narrazione un professionista se la scrive da solo, col proprio lavoro e con il proprio curriculum. Non si può far parte di una narrazione altrui, tanto più se per altrui si intende la politica di chi ha vinto in quel momento». 

Fazio spiega: «Negli anni scorsi ho sperimentato sulla mia pelle che cosa vuol dire essere adoperato come terreno di scontro senza alcuna possibilità di difesa se non quella dei risultati del proprio lavoro. Anche se servono a poco o a niente, soverchiati come sono dalla potenza di fuoco che ti viene scaricata addosso. La sensazione di essere merce pericolosa e non una risorsa della propria azienda non è gradevole». 

E aggiunge: «Il mio lavoro consiste nel fare televisione e non nel cercare un faticoso equilibrio con questo o quell’esponente politico a cui chiedere aiuto. Per fortuna non frequento nessuno e incontro Ministri ed esponenti di partito esclusivamente nello spazio pubblico della trasmissione che conduco. L’essere un irriducibile provinciale è sempre stata una salvezza». In conclusione, una certezza: «Non sentirete mai una mia parola scortese nei confronti della Rai che è parte integrante della mia vita». 

Da ansa.it il 15 maggio 2023.

   "C'è una libera scelta di un libero conduttore che ha accettato liberamente un'offerta, che spero per lui sia consistente, di un'emittente televisiva privata". 

Lo ha detto Matteo Salvini, vicepremier e ministro delle Infrastrutture, riguardo al passaggio di Fabio Fazio a Discovery. 

"Penso che la Rai, così come l'intero Paese possa contare su tante donne e tanti uomini altrettanto in gamba, senza che nessuno ne faccia una questione di Stato", ha aggiunto. 

    "Siamo in democrazia, auguri e buon lavoro", ha commentato Salvini, parlando a margine dell'evento di avvio dei lavori del passante Av di Firenze. "Ho tanti cantieri su cui lavorare - ha detto -, che l'ultima cosa che mi interessa fare sono i palinsesti televisivi...". 

"La politica dovrebbe stare il più possibile fuori dalle scelte editoriali perché sono qualcosa di molto delicato, ma soprattutto devono riguardare l'intrattenimento e l'informazione dei cittadini. In ultima analisi sono i cittadini a scegliere". Lo ha detto il governatore della Liguria Giovanni Toti a margine di un impegno istituzionale commentando l'addio di Fabio Fazio alla Rai dopo il mancato rinnovo del contratto. 

E anche la rassegna stampa mattutina di Fiorello a Viva Rai2! ha parlato di Fabio Fazio, all'indomani dell'annuncio dell'addio del conduttore alla Rai per passare a Discovery.

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 15 maggio 2023.

«Comunista!». Anzi «comunista col Rolex». «Milionario a carico degli italiani». «Guadagna in un mese quanto me in un anno». Per Matteo Salvini era diventato qualcosa che assomigliava a un’ossessione, il bersaglio di ogni sua inquietudine e rivalsa: Fabio Fazio. Per anni ne ha parlato ovunque, persino nei comizi […] «Cresciamo nonostante i giornali, Fazio e Gruber», s’inorgogliva nelle valli bergamasche. Soprattutto si vantava di non andarci: «Fazio mi sta sulle palle!». 

Poi faceva capolino anche un umano dispiacere, a stento represso, per il fatto di non essere stato chiamato, «invita la qualunque, manca solo Cetto, io non sono offeso se non mi invita, la vita vera significa sezioni e gazebo anche sotto la neve, non lo dico per non fare il piagnina». 

Più volte, in passato, anche Giorgia Meloni si era lamentata dei mancati inviti («mai uno di destra»). Perché Fazio era ambito, faceva imbattibili ascolti (e vedremo se chi lo sostituirà saprà fare meglio) e le sue interviste, non esattamente urticanti, facevano comodo. […] Con Fazio salta il personaggio che più di tutti, a destra, catalizzava l’acredine buonista, l’odio verso il politicamente corretto e il mainstream, verso quel mondo che il prossimo direttore generale della Rai […] Giampaolo Rossi, ha riassunto nella formula dei «fighetti radical-chic, elitari liberal, bamboccioni antifascisti».

Rossi definì Roberto Saviano […] «un vermilinguo», «il puntuale riempitivo dei salottini televisivi di Fazio da 11 milioni di euro (con i soldi vostri)». E quindi ora siamo al repulisti sognato per anni dai vari Maurizio Gasparri («il contratto di Fazio va stracciato!»), Daniela Santanché («Non tradisce la radice del suo cognome e si conferma Fazio- so»), […] 

[…] Fazio, che deve essere un tipo che non dimentica, ha contato ben 123 attacchi. Tuttavia il ministro è stato l’interprete di una corrente di pensiero più ampia, che include anche i giornali d’area […] Quando Fazio intervistò Macron la leader di Fratelli d’Italia, allora all’opposizione, arrivò a dire: «Si faccia pagare lo stipendio dall’Eliseo!». Per lei Fazio era uno che «tutte le settimane ci spiega come dovrebbe funzionare il mondo. Italiani ribellatevi: non guardate Che tempo che fa!».

E non va dimenticato che Fazio è stato per anni nel mirino anche dei grillini anti casta […] Il contratto di Fazio fu oggetto di una campagna violentissima.  Forse l’avrà dimenticato ma anche Roberto Fico lo definì «un comunista col portafogli a destra». […] Questa storia conferma che la tv, in un paese anziano come il nostro, modella ancora il senso comune. […]

Estratto dell'articolo di Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 18 maggio 2023.

C’era una gara tra di noi (se non eravamo in qualche guerra nel mondo), come giornalisti ci piaceva molto una cosa del tutto scomparsa, la cosiddetta arguzia (credo se la siano dimenticati anche i vocabolari) e di qualsiasi cosa parlassimo ci mettevamo un minimo di spiritosaggine. Ma allora, come poteva piacerci Fabio Fazio, uno che era nato buonistissimo e sorrideva sempre, e mai ci avrebbe messo di buonumore con un po’ di gentile cattiveria? Anche i nostri cari presi in giro, alla fine, ridevano non noi, e mai si offendevano, e si offendevano solo i gran musoni.

Eravamo un popolo felice e non lo sapevamo. A noi il Fazio ci disturbava col suo essere sempre contento, per non parlare della Littizzetto che non ci faceva ridere parlando di cacca e altro. Ebbene confesso, dopo le prime puntate (avevamo altro da fare) ho smesso di vedere Che tempo che fa e per 20 anni non ne ho saputo nulla.  

(...) 

Adesso che Fazio deve lasciare la Rai e tutti i suoi buoni propositi, ecco che mi trovo a indignarmi per prima; sono totalmente, sicuramente, dalla sua parte davvero, e vorrei mettermi a capo di un corteo con bandiere e striscioni, più il bastone per sostenermi, per attraversare la città. Perché, cosa ha fatto Fazio di peccaminoso? Ha parlato male di qualche destro? Ha offeso qualche ministro in carica? Ha sputtanato qualcuno molto su, ha dileggiato il Papa?

No, lui ha continuato a parlare bene di tutti e infatti io continuavo a non vederlo, sino a quando deve aver fatto qualcosa di tremendissimo, un assassinio, un feroce assalto tipo baionetta, una bischerata? Io non ho visto la puntata che lo ha reso acerrimo nemico di chi è al potere, che oggi, a questo punto, dovrebbe fottersene tanto pare chiaro che starà lì per un bel po’. Ma deve averne fatta una imperdonabile, un insulto che solo col sangue può essere lavato. Infatti! Ha offeso un ministro, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, il Vicepresidente del Consiglio dei Ministri! Ha offeso il Matteo Salvini! 

Deve essere stata una cosa tremendissima, un’offesa da duello, povero Fazio: alla bella trasmissione di Repubblica, Metropolis, l’altra sera han fatto vedere una serie infinita di sgridate contro Fazio, tenute con brillanti microfonate dal Salvini. Ecco finalmente ciò di cui la destra è ghiotta: La Vendetta! Un uomo che non perdona, uno che se la prende con un soave cherubino che, ricevendo Papa Francesco oppure Obama, li mandava a casa in visibilio. E Meloni ci pensa su e ci mette un Pino Insegno al posto del Fazio e voglio vedere se qualcuno osa. V come vendetta, (2005), che povera vittoria. E per esempio, Vendetta n. 2.

Non si capisce perché Luigi Mascheroni, cattedra di Teoria e tecniche dell’informazione culturale alla Cattolica di Milano, se la prenda in maniera ferocissima con uno, immagino, a lui ignoto signore, di cui andava alla Prima del 7 dicembre alla famosa Scala. 

Sull’apposito Il Giornale si lancia con una crudeltà riservata di solito ai Brutti e Cattivi, contro Stéphane Lissner, attualmente sovrintendente del San Carlo di Napoli. Cosa ha fatto il cattivone? Ha compiuto 70 anni! Il Mascheroni lo distrugge come se avesse fatto chissà quale imbroglio, per aver fatto, prima del San Carlo e per 10 anni il sovrintendente alla Scala, facendo, mi scusi giovanotto, un bel lavoro che risanava il bilancio. Ma è francese! È francese di origini russe!  

(...)

Promuovendomi, quale onore!, a Simone de Beauvoir (forse una dama, ahinoi un po’ comunista che probabilmente insisteva nel corteggiare un ignoto direttore d’orchestra al posto di Nelson Algren), ha scritto un articolo così pieno di livore assurdo. Ma che gli ha fatto al dottor Mascheroni? Gli ha rubato la moglie? Era un ricatto del direttore del giornale? Era il semplice odio per chi non è nato qui e certo ne sa più di un povero professore sul proprio mestiere? Perché è straniero come pareva normale un paio d’anni fa? Perché si sente europeo e non ahimè, italiano, con tutte le maiuscole malgrado la mafia? Perché l’Italia non è acqua? Però dottore Mascheroni, un po’ di minor invidia, un odio meno delirante: e poi, perché?

Giampiero Mughini per Dagospia il 15 maggio 2023.

Caro Dago, e adesso che Fabio Fazio e i suoi reparti scelti emigrano dalla Rai a un canale televisivo privato chi ci rimetterà di più, la Rai o Fazio? La risposta è facilissima. Fazio continuerà a fare una televisione ben strutturata, accorta nel suonare i vari tasti del pianoforte, attraente per un pubblico “riflessivo”. 

La Rai se lo sogna di fare alcunché di garbato ed elegante che sul canale 3 alle ore 20 radunava la bellezza di oltre due milioni di spettatori a botta. E’ semplicissimo. La Rai perde un protagonista, Fabio continuerà invece a fare il mestiere cui si dedica anima e corpo da oltre trent’anni e che lui indossa con la stessa naturalezza con cui uno di noi indossa un abito che s’è scelto e ha voluto a tutti i costi.

E siccome sono un uomo elegante, non farò alcun commento sulle parole ingiuriose che a Fazio ha rivolto Matteo Salvini. Detto questo nessun dramma. Nella vita tutto scorre e tutto passa. Figuriamoci in tv, dove del doman c’è solo la più assoluta incertezza. 

Fabio e io ci conosciamo e ci frequentiamo professionalmente da oltre trent’anni. Nei primissimi anni Novanta facevamo combutta in una purtroppo sbagliatissima trasmissione mattutina alla domenica di Rai Tre, una trasmissione che il pubblico punì inesorabilmente. Inviso com’era ad Angelo Guglielmi, l’allora patron del canale 3 della Rai, Fabio venne cancellato dal palinsesto televisivo della Rai.

Ricominciò da zero su un canale privato. E ricordo di essere stato invitato a una puntata di quella sua trasmissione e che a farmi da tassista per andare in studio fu nientemeno che Pupi Avati, il quale assieme al fratello ne era il produttore. Più tardi Fabio traslocò, per volere di Marino Bartoletti, alla conduzione della fortunatissima trasmissione televisiva “Quelli che il calcio” dove fece anche lì benissimo e dove una volta che mi ci aveva invitato mi riferirono che Guglielmi (il quale non voleva bene neppure a me) rimproverò gli autori per avere invitato un tale “cretino” quale il sottoscritto. Così è in televisione, tutto dipende dal fatto che sì o no stai simpatico a qualcuno che può. Nonché dal fatto che azzecchi il comparto di pubblico cui rivolgerti.

Fabio si inventò tutto di “Che tempo che fa” nel settembre 2003 per poi guidarla sapientemente al guinzaglio attraverso tutti e tre i canali Rai, sempre con un gran consenso di pubblico e beninteso di quel determinato pubblico che predilige l’offerta di qualcosa “di sinistra”. Ci trovate qualcosa di strano? Ma nemmeno per idea, se per mestiere fai la comunicazione ti devi pur scegliere una fisionomia e quella fisionomia devi far valere, con il permesso di Salvini. Di quella fisionomia Fabio ha fatto per vent’anni il suo cavallo di battaglia professionale, una televisione comunque di serie A e non è che ce ne siano tantissime. 

Ne parlo come uno che in quella trasmissione è stato chiamato talvolta a parlare delle prime edizioni dei libri di un Dino Campana o di un Giuseppe Ungaretti, le faccende per me le più importanti di tutte, e ancora ne sono grato a Fabio. Detto questo tutto scorre e tutto passa e tutto cambia. A cominciare dai nostri capelli, ogni giorno più bianchi, e dalle nostre gambe, ogni giorno più deboli. In bocca al lupo, Fabio.

Giampiero Mughini per Dagospia il 16 maggio 2023.

Caro Dago,

leggo da qualche parte un post in cui Vittorio Feltri lamenta che su dieci libri da lui pubblicati in questi ultimi anni mai una volta Fabio Fazio lo ha invitato a sederglisi accanto, e che perciò lui continuerà a “non vederlo” quale che sia il canale dove lui andrà. 

Voglio bene a Vittorio per cento motivi che non sto qui a elencare per filo e per segno, e voglio spiegare perché questa volta non sono d’accordo con lui.

Il fatto è d’una semplicità elementare. Fabio, al quale voglio bene per cento e differentissimi motivi che non sto qui a elencare, nella sua professione di comunicatore s’è scelto un pubblico all’opposto di quello che s’è scelto Vittorio da trent’anni a questa parte, un pubblico che  avrebbe spento il televisore ove vi fosse apparso Vittorio. E’ di una semplicità elementare. 

Da quanto il mio indimenticato maestro e padre Indro Montanelli s’è messo a fare a pugni con Silvio Berlusconi (auguri, presidente!), Vittorio ne ha preso il posto nel rivolgersi a un pubblico che dirò “conservatore”, a un pubblico fieramente anticomunista (ne aveva ben donde), a un pubblico cui diceva che loro non erano affatto dei pezzi di merda come pronunziava 24 ore al giorno l’artiglieria da campo del “politicamente corretto”.

Beninteso, che Vittorio si rivolgesse a quel pubblico era pienamente nel suo diritto. Un pubblico cui mi sono rivolto anch’io, le volte che Vittorio mi ha chiesto di collaborare ai giornali da lui diretti. Non era il mio pubblico più naturale, ma io lo rispettavo moltissimo. E non una sola virgola di quello che ho scritto sui giornali di Vittorio faceva a pugni con la mia anima. 

Di uno che se ne strafotte di tutto e di tutti ma che rispetta sino all’ultima particella tutto e tutti. Perché tutto e tutti fanno parte della scena umana in cui viviamo.

Ora succede che Fabio alle ore 20 della sera sul canale Tre si rivolge a un altro pubblico. Non c’è da scherzare in materia, perché sono in ballo spettatori a milioni e euri a milioni. Tra Feltri senior e Michele Serra, Fazio non ha da esitare. 

Il suo pubblico adora Serra (che è un ragazzo in gambissima e al quale io perdono agevolmente di avermi insultato trent’anni fa), e invece odia da cima a fondo Feltri.

Fazio ha il diritto di scegliersi il pubblico cui rivolgersi e di essere lui stesso affine a quel pubblico? Ma certo che sì. Feltri ha il diritto di rivolgersi a quel tutt’altro pubblico e di essere diventato il giornalista italiano meglio pagato degli ultimi vent’anni? Ma certo che sì. E allora dov’è il problema? E’ la vita in tutte le sue infinite sfumature, nient’altro che questo. 

Ne sta parlando, lo ripeto, uno che non è mosso dal benché minimo odio verso l’uno o l‘altro pubblico, uno che se ne strafotte di tutto e di tutti e che proprio per questo prende il suo bene ogni volta ora a sinistra, ora a destra, ora al centro. Lo prendo da chiunque con il quale vorrei passare una serata a discutere del più e del meno, talvolta in accordo talvolta in disaccordo. Di certo con gente come Vittorio e Fabio.

Vittorio Feltri: "Ho lavorato con Fabio Fazio, ecco cosa dicono di lui". Libero Quotidiano il 17 maggio 2023

La sinistra piange calde lacrime perché due suoi beniamini, cioè Fabio Fazio e Luciana Littizzetto, sono sul punto di sloggiare dalla Rai, dopo anni e anni di militanza professionale e politica. La cosa può sicuramente dispiacere al pubblico progressista, però non si tratta di una tragedia dovuta a una censura da parte del governo. Lo sanno anche i morti che quando cambia la musica a Roma, cambiano anche i suonatori. In pratica la destra applica le stesse regole che hanno consentito al Pd e soci di dominare sugli schermi del monopolio per lungo tempo. Se le norme hanno avuto valore e sono state applicate per lustri allorché gli ex comunisti (ex si fa per dire) vincevano le elezioni, non vi è alcun motivo che Fdi, la Lega e Forza Italia non possano controllare l’antenna di Stato. Non mi sembra un ragionamento campato in aria. Chi ha ottenuto più suffragi rispetto ai concorrenti ovvio che comandi. Chi altrimenti?

e non provo alcuna antipatia per Fazio con il quale in tempi lontani ho lavorato per mandare in onda un programma intitolato Forza Italia, logo di cui poi si impossessò Silvio Berlusconi mettendolo in testa al suo partito ancora in vita. Fabio faceva delle imitazioni decenti, io scrivevo i testi. Poi ci siamo persi di vista, lui piantando le tende in Tv e io in vari giornali, di cui ho perso il conto. Egli con la sua trasmissione “secolare” ha avuto un notevole successo e credo pure uno stipendio stellare. Non che il mio sia stato rasoterra, anzi, ma il suo a quel che si dice pare inarrivabile per una persona normale. La specialità del nostro eroe è sempre stata quella di invitare a Che tempo che fa i suoi amici e gli amici degli amici, ovviamente tutti rigorosamente mancini nell’anima. La cosa non mi ha mai sorpreso. Quando un suo sodale scrive un libro, egli lo invita prontamente affinché pubblicizzi l’opera diciamo così letteraria.

Si è guardato bene di ospitare me vicino al suo scranno benché di libri ne abbia scritti circa dieci. Perché? Non sono mai stato rosso neppure di vergogna. Non si stupisca quindi il celebre conduttore se adesso, avendo rotto le scatole da ubbidiente, Fazio fazioso sia stato scaricato. Non sarà comunque in miseria come non lo sono io. Vada in pace in un’altra emittente dove comunque continuerò a non vederlo, non per antipatia ma per stanchezza. A ciascuno di noi capita di fare il proprio tempo, è capitato anche a lui a cui auguriamo tuttavia di consolidare la propria abilità di leccare i potenti, ammesso che siano ancora tali. Senza rancore. 

DAGONOTA il 16 maggio 2023.

Che allocchi quei sinistrelli convinti che Fabio Fazio sia stato giubilato dalla Rai dal randello catodico dei cattivoni fascisti. Non sanno, i fessacchiotti, che il conduttore ligure non solo non è un martire della libertà d’informazione, ma è talmente abile a far di conto che ha badato solo alle sue tasche.

Il suo contratto con la Rai, in scadenza il 30 giugno 2023, prevedeva un accordo biennale da 3 milioni e 330mila euro (più di 1,6 milioni l’anno). 

Fabiolo non ha neanche aspettato l’insediamento dei nuovi vertici Rai e ha annunciato il nuovo accordo con il gruppo Discovery, per l’approdo al canale Nove. Lui e il suo scaltrissimo agente, Beppe Caschetto, porteranno a casa un quadriennale da 2,5 milioni l’anno (quasi 900mila euro in più ogni 12 mesi rispetto a quanto garantito da Viale Mazzini).

Una mossa che dimostra quanta poca voglia avesse Fazio di mettersi a trattare il rinnovo del contratto. Come scrive Maurizio Caverzan sulla “Verità”: “Aspettare avrebbe voluto dire valutare un’offerta verosimilmente al ribasso che lo avrebbe posto di fronte al bivio: i danè o la Rai? Meglio rompere prima gli indugi e non farsi scappare l’allettante offerta di Warner Bros”.

Non solo c’era un ampio margine di tempo (oltre un mese e mezzo) per un eventuale rinnovo, ma Fazio avrebbe incontrato la disponibilità del nuovo amministratore delegato, il super democristiano Roberto Sergio, che si è affrettato a confermare la messa in onda del ben più urticante “Report”, non così amato a destra, e “Mezz’ora in più”, la striscia settimanale della sinistratissima Lucia Annunziata.

Quel che fa sorridere è che la zampata del tandem Fazio-Caschetto, che ha puntato dritto alla pecunia impipandosene di tutto il resto, viene raccontata dai giornali d’area (Pd) come un colpo di mano dei censori di destra. Lo stesso Fazio racconta il suo addio alla Rai in modo ambiguo: prima ha minimizzato sostenendo di non avere “alcuna vocazione a sentirsi vittima”, e poi, nella sua rubrica su “Oggi”, ha tirato la bordata (“la politica si sente legittimata a comportarsi con una strabordante ingordigia”; “Negli anni scorsi ho sperimentato sulla mia pelle che cosa vuol dire essere adoperato come terreno di scontro”). Ma alla fine cosa resta? Che Fazio andrà a guadagnare una barca di soldi che la Rai non gli avrebbe mai potuto garantire. E lo fa passando pure per “vittima” del governo Meloni. Fesso chi ci casca ma a lui…chapeau.

Estratto dell’articolo di Maurizio Caverzan per “la Verità” il 16 maggio 2023. 

A seguire il flusso dei soldi non si sbaglia. Soprattutto se il beneficiario è Fabio Fazio, nativo di Savona. Nessun martirio, nessuna censura. Ci mancherebbe. L’addio alla Rai «dopo quarant’anni di onorata carriera», tra folle di vedove inconsolabili e sodali de sinistra in servizio permanente, è una faccenda di mercato editoriale. Una questione di danè. Altro che vittime della democrazia. […]

Nella nuova casa della Warner Bros Discovery Italia, Fazio guadagnerà 2,5 milioni all’anno che, moltiplicati per quattro, fanno 10 milioni tondi tondi. […] Rispetto al milione e 900.000 percepito in Rai con l’ultimo contratto […] Il miglioramento è ancora più ragguardevole considerando la durata del nuovo accordo che la Rai di sicuro non avrebbe potuto garantirgli. 

[…] senza contare quanto incasserà Officina, la società fondata nel 2017 e di cui ora è socio al 50% con Banijay. Nell’ultimo biennio, per la produzione delle trenta puntate del talk show di Rai 3, l’incasso è stato di 10,6 milioni. Se la percentuale d’incremento fosse la stessa, si sfiorerebbe la cifra di 14 milioni, sempre all’anno. Ma questa è solo un’ipotesi […]

[…] «Io e Luciana (Littizzetto ndr) non abbiamo nessuna vocazione a sentirci vittime né martiri», ha assicurato, bontà sua, tentando poco convintamente di sedare i piagnistei della tifoseria desiderosa di buttarla in politica. «Siamo persone fortunatissime e avremo occasione di continuare altrove il nostro lavoro», ha ribadito. […] Ieri, con il solito gioco di prestigio tra narrazione e fatti reali, i giornaloni fiancheggiatori hanno dato il meglio per pilotare sul conto del governo di Giorgia Meloni il clamoroso divorzio. […] 

[…] Fazio non ha voluto aspettare che, giusto ieri, la nuova governance s’insediasse in Viale Mazzini e Roberto Sergio, amministratore delegato, e Giampaolo Rossi, direttore generale, prendessero possesso degli uffici, firmando il giorno prima con Discovery. Anche in questo caso la tempistica è rivelatrice. Aspettare avrebbe voluto dire valutare un’offerta verosimilmente al ribasso che lo avrebbe posto di fronte al bivio: i danè o la Rai?

Meglio rompere prima gli indugi e non farsi scappare l’allettante offerta di Warner Bros. 

L’unica rimasta sul tavolo dopo che anche Urbano Cairo, patron di La7 con la quale il conduttore aveva già flirtato, si è defilato quando Fazio ha chiesto di contrattualizzare anche la squadra di autori e il gruppo di Officina. […] Ma per i bilanci controllatissimi del parsimonioso Cairo arruolare tutti avrebbe potuto essere un colpo mortale. Come quello che, nel 2001, portò alla fine precoce del tentativo di creare dall’ex Telemontecarlo di Vittorio Cecchi Gori ceduta a Roberto Colaninno l’agognato terzo polo tv. Anche allora c’erano Fabio Fazio e Luciana Littizzetto tra i volti della nuova emittente. Ma i debiti accumulati e il nuovo cambio di proprietà fecero abortire il progetto in poche settimane.

Che, tuttavia, valsero a Fazio una liquidazione di 28 miliardi di vecchie lire, utili per prestigiosi investimenti immobiliari. Ci vollero due anni prima che il conduttore di Savona tornasse nella tv pubblica, nel 2003, ricominciando da Che tempo che fa. […]

Antonello Piroso per “la Verità” - ARTICOLO DEL 29 SETTEMBRE 2020

Io odio Fabio Fazio. Come - si parva licet - Antonio Gramsci odiava le persone «cosiddette serie, che cercano - abusando di questo loro carattere da commedia - di truffare la nostra buona fede». Come odia, in realtà, lo stesso Fazio. Arcano svelato da Nino Frassica, presenza gradita nella sua trasmissione: «È un uomo che ama e odia in maniera netta: se gli piaci è per sempre, altrimenti con lui scatta il "mai". Niente grigi». 

Fazio, insomma, non è un santo. Semmai un santino della sinistra da salotto televisivo, memori del giudizio che ammiccava a un certo qual suo conformismo di convenienza, emesso da Antonio Ricci, che non lo ama: «Noi siamo diventati di sinistra perché avevamo professori di destra. Fazio è diventato di sinistra perché aveva professori di sinistra».

Per tacere dello scomparso Edmondo Berselli (direttore della rivista Il Mulino ed editorialista di Repubblica e Espresso, quindi non certo un populista-sovranista rancoroso e con la bava alla bocca) che prese posizione «contro il conformismo pensoso di Fazio, contro le modeste volgarità della madamìn Luciana Littizzetto, contro tutti gli idola tribus - gli idoli della tribù - che riempiono continuamente di applausi lo studio di Che tempo che fa, santuario e cenacolo dei ceti medi riflessivi». 

Fazio è umano, proprio come tutti noi (solo, sia detto con somma invidia, pagato decisamente un po' meglio). E se almeno dietro le telecamere non è sempre buono, davanti alla luce rossa, invece, o nelle interviste ai giornali, Fazio è un uomo a una dimensione, marcusianamente parlando: quella buonista.

È successo ancora una volta sabato scorso, nell' intervista alla Stampa per il suo ritorno in video (e sarà stato poi un caso ma, domenica sera al debutto, il quotidiano torinese è stato ampiamente inquadrato durante l' intervista a Luigi Di Maio - proprio lui, quello che nel dicembre 2018 sentenziava: «Esiste un caso Fazio in Rai», il che conferma la nota coerenza di Di Maio, ma si sa, come si canta a Napoli e dintorni: «Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato»; il tutto per 2.280.000 telespettatori nella prima parte, un milione in meno nella seconda).

Prima c'è stata una timida domanda sui suoi compensi, che ha consentito a Fazio di vestire i panni del martire, dopo aver scritto in passato su Twitter addirittura di «anni di linciaggio»: «C' è stata una campagna diffamatoria, frutto del populismo » (e te pareva), per poi aggiungere: «La Corte dei Conti ha sentenziato che Che tempo che fa costa la metà di qualunque altro varietà». 

E qui si potrebbe opinare che «programmi d' intrattenimento» tipo la fiction Il commissario Montalbano o tipo Ballando con le stelle sono più replicabili e più vendibili all' estero di un talk show, tanto più se gli ospiti sono autoctoni, vedi alla voce Gigi Marzullo e Orietta Berti, e non personaggi internazionali (che peraltro da Fazio non vanno sempre e solo perché sta loro simpatico: il campione del mondo di Formula Uno Lewis Hamilton avrebbe raggranellato 150.000 euro per 25 minuti, cifra mai rettificata). 

Tornando alla conversazione con La Stampa, è stato il passaggio successiva a innescare la mia idiosincrasia. Perché esso disvelava, a parer mio, la solita pulsione all'esibizionismo etico - stante la definizione di buonismo della Treccani: «L'ostentazione di buoni sentimenti, tolleranza e benevolenza».

Per Fazio, infatti, mala tempora currunt: «Il populismo non mi sembra, né da noi né all'estero, un fenomeno destinato a un rapido fallimento» (e qui io avrei gentilmente interloquito: «D'accordo, ma non sarà che oggi abbiamo questi qua perché prima c'erano quelli là? E visto che celebriamo i 18 anni del programma, in tutto questo tempo lei non s'era accorto di nulla? E come incalzava i suoi ospiti, magari di sinistra, a fare di più e meglio per scongiurare l'arrivo dei barbari?").

Non basta: «Manca completamente la capacità di analisi, manca il pensiero, l'unica cosa che facciamo è consumare. Ha prevalso ancora una volta l'egoismo e la bulimia».

E qui il Franti che è in me ha avuto un sobbalzo. Perché è davvero cosa buona e giusta preoccuparsi di come il mondo sia un luogo brutto, sporco e cattivo, non meritocratico, tracimante di aberranti sperequazioni e virus generati dalla nostra incontinenza, magari invocando la «decrescita felice», ma com'è che ce ne accorgiamo tutti non prima o durante, ma sempre dopo, quando cioè grazie alle rapaci leggi di mercato siamo diventati economicamente più ricchi?

In fondo è quello che deve ritenere intimamente lo stesso Fazio, se parlando con Di Maio della proposta di «tagliare» gli emolumenti dei parlamentari, se n'è uscito così: «Una cosa sono gli sprechi, una cosa sono i costi, e in una società di mercato il denaro misura il valore delle persone». Et voilà. Forse intendeva «la competenza», ma in ogni caso l'assioma dice tutto (siamo dalle parti del «profitto come segno della grazia divina», evocando Max Weber e il suo L' etica protestante e lo spirito del capitalismo; sì: l'etica e la cotica).

Ergo: se è riuscito a strappare un accordo quadriennale per un programma che costa complessivamente 18 milioni e rotti all' anno (cifre del Sole24Ore nel 2019: 2.240.000 a lui, 10.644.000 alla società che produce il talk e di cui lui detiene il 50%, il resto sono costi industriali), è perché è bravo. Il più bravo. 

Di certo a farsi strapagare, beato lui. Da chi? Dalla tv pubblica, appunto. Dove fu trattenuto grazie al renziano - almeno all'epoca - direttore generale Mario Orfeo, e al presidente Monica Maggioni che chiosò (titolo di Repubblica): «Non so se la Rai avrebbe retto senza Fazio. Possibile impatto sistemico, occupazione a rischio». Nientemeno. E perché il pericolo di un trasloco in un'altra azienda fu scampato? Da chi era stata messa in forse la firma? Da Fazio stesso. E perché?

Perché nel 2017 aveva scoperto che, toh, la Rai - dove aveva debuttato nel 1982 alla radio - era lottizzata, lui da sempre indicato come un Walter Veltroni boy, e «colpita al cuore» dalla partitocrazia: «Intrusioni senza precedenti, vulnus forse insuperabile». Forse, appunto. Visto che poi è intervenuto il sontuoso rinnovo. Che poi i partiti a qualcosa sono pure serviti, nella storia della Repubblica e anche in quella sua personale.

Almeno a dar retta a Daniele Luttazzi, che nel 2007 tirò fuori la confidenza che Fazio gli fece nel 1992, quando lavoravano insieme a Tmc: aver evitato il servizio militare grazie a una raccomandazione di Bettino Craxi. 

Apriti cielo! Tuoni, fulmini e saette, smentite che non smentivano, il Tapiro di Striscia la notizia, Luttazzi che giustificava il tardivo resoconto con il fatto che qualcuno doveva pur affrontare la «paraculaggine infinita» di Fazio (nonché, andrebbe aggiunto, il fatto che Luttazzi non stima Fazio perché «non si fece scrupolo di approfittare della mia defenestrazione politica per rubarmi l' idea del mio talk in blocco», delizioso cortocircuito in cui uno accusato successivamente di plagio accusa un altro di furto intellettuale).

Quanto poi all' attaccamento alla maglia di viale Mazzini, anche qui si potrebbe inzigare. Fazio ha sostenuto che in Finivest (dal 1993 Mediaset) gli offrirono ponti d' oro per ingaggiarlo, ma la cosa non si fece per il suo no. Ottimo. 

Peccato che a incrinare l' oleografico amarcord sia arrivato quel guastafeste di Roberto D'Agostino, che su Dagospia scrisse: «Sotto raccomandazione del Psi, Fazio incontrò Silvio Berlusconi in via Rovani a Milano. Il Berlusca gli propose di entrare a far parte del cast di Premiatissima, show della rete ammiraglia del gruppo. Si racconta che Fazio - forte della sua «copertura» - pretendeva però di avere addirittura la conduzione, ma dopo averlo sperimentato ad una soirée di Capodanno tenutasi a Campione d' Italia, il progetto fu abbandonato».

Per non tirarla troppo in lungo, accantoniamo i rilievi sullo stile avanzati anche da chi da Fazio è andato e pure ritornato. Come Nanni Moretti, che davanti al conduttore in piena estasi adorante, «Tu sei il mio mito», lo ha canzonato: «Lo dici a tutti quelli che vengono qui, sei volte a settimana». 

Come Ornella Vanoni, che richiesta di confermare i gossip sul suo incontro con Gino Paoli, ha sospirato rassegnata: «Di nuovo? È la 500esima volta che lo racconto, lo faccio giusto perché mi stai simpatico», e chissà cosa le sarebbe uscito di bocca se il Nostro le fosse stato sugli zebedei. 

Come Francesco Vezzoli, artista cui Vanity Fair ha deciso di affidare la direzione di un numero del settimanale e che invece a Che tempo che fa non è mai andato (né mai ci andrà, se ha ragione Frassica): «Si è mai alzato qualcuno per andarsene da Fazio? No. Ed è un peccato. Magari venisse fuori un alito di vita, uno scazzo, una contrapposizione. La vita, l'editoria e il giornalismo non dovrebbero essere soltanto inchini e bomboniere».

Tornando a Gramsci, che ai sepolcri imbiancati preferiva «l'impudenza sfacciata, la monelleria più scrosciante di allegria, anche l'abiezione che non ha vergogna di sé stessa e si mostra trionfante alla luce del sole», devo ai lettori una confessione finale. 

Non odio Fazio. Diciamo che non lo amo. Perché il mio cuore televisivo batte per Maria De Filippi. Che una volta, a chi la sfruculiava ancora sugli aspetti disdicevoli dei suoi programmi fatti con la gente comune, ritenendoli offensivi per il pubblico, confessò quello che per me è un pregio: «Ho rispetto per i telespettatori perché non mi ritengo migliore di loro».

Fabio Fazio, lo schiaffo di Travaglio: "Le epurazioni bisogna meritarsele". Libero Quotidiano il 16 maggio 2023

Il caso-Fabio Fazio non ha nulla a che vedere con il cosiddetto "Editto bulgaro". Così la pensa Marco Travaglio, che si definisce "una causa scatenante" di quell'editto di Silvio Berlusconi, che nel lontano 2002 chiese "ai vertici Rai di cacciare Biagi, Santoro e Luttazzi, rei di avermi ospitato per parlare dei rapporti fra B. e la mafia". Eppure, "gli epurati non trovarono un’altra tv, malgrado l’enorme seguito". Diverso discorso per Fabio Fazio che, assieme a Luciana Littizzetto, ha deciso di uscire dalla porta della Rai per entrare in quella di Discovery.

"Quella di oggi - tiene a precisare sulle colonne del Fatto Quotidiano - è tutt’altra storia, anche se Salvini rivendica una cacciata di Fazio che non c’è stata". Il motivo? "Fazio sa di piacere solo al Pd, di cui condivide per indole la visione conformista e mainstream, e di stare sulle palle alle destre; ha capito che gli avrebbero messo i bastoni fra le ruote; e ha prevenuto l’attacco firmando col Nove". Insomma, la scelta di lasciare Viale Mazzini ha solo un nome e cognome, quello del conduttore.

"In una qualunque azienda - osserva Travaglio - chi si lascia sfuggire una star di quel calibro verrebbe licenziato con richieste di danni dagli azionisti. Ma la Rai non è un’azienda, è un lupanare (bastava assistere, sabato, al vomitevole 'tank sho' degli scendiletto di Zelensky). Chi s’è lasciato sfuggire Fazio non è il nuovo ad Sergio, ancora in pectore: è quello vecchio, Fuortes, di area Pd messo lì da Draghi, che ha tenuto nel cassetto il rinnovo del contratto per compiacere i nuovi padroni". Ed ecco che è arrivata la notizia: Fazio ha firmato un contratto di quattro anni con Disvovery. "Nessun editto", dunque, "le epurazioni bisogna meritarsele e di Biagi, Santoro e Luttazzi non se ne vedono". Una frase, quest'ultima, con cui Travaglio sembra quasi dare del "pavido" a Fabio Fazio: secondo il direttore del Fatto, gente come Santoro, Biagi e Luttazzi erano di tutt'altra stoffa.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 16 maggio 2023.

In Rai serve un presidente indipendente da tutti i partiti (Massimo D'Alema, 2002); ci vuole una Rai più autonoma dai partiti (Piero Fassino, 2003); la Rai deve essere fuori dalle logiche di lottizzazione (Gianni Alemanno, 2006); la Rai non è e non deve diventare proprietà privata di un governo, se no è regime (Guido Crosetto, 2006); 

la Rai deve essere la casa di tutti e non di chi ha vinto le elezioni, la politica faccia un passo indietro (Dario Franceschini, 2006); bisogna eliminare la lottizzazione in Rai (Clemente Mastella, 2007); bisogna andare nella direzione della fuoriuscita dei partiti dalla Rai (Walter Veltroni, 2008); cambiamo le regole, basta con la Rai occupata dai politici (Antonio Di Pietro, 2008); 

(...)

evitiamo di mettere i partiti dentro la Rai (Matteo Renzi, 2015); per cambiare le cose in Rai bisogna cacciare i partiti (Luigi Di Maio, 2015); la politica resti fuori dalla Rai (Roberto Fico, 2018); per la Rai cerchiamo persone sganciate dalle logiche di partito (Matteo Salvini, 2018); questo è il momento giusto per riformare la Rai e sottrarla alle ingerenze della politica (Giuseppe Conte, 2021); abbiamo la sistematica occupazione della Rai (Giorgia Meloni, 2016). Che magnifica armonia!

Estratto dell'articolo di Fabio Martini per “La Stampa” il 16 maggio 2023. 

Certo, da decenni la più grande emittente di emozioni nazional-popolari del Paese chiamata Rai alimenta gli appetiti della politica e tuttavia ci sono state stagioni nelle quali i partiti hanno avuto l'intelligenza di indicare alcuni tra i migliori professionisti su piazza. Per i ruoli da manager. Per le direzioni di Rete. Per quelle dei Tg.

Ma anche promuovendo giornalisti e personaggi dello spettacolo che sul campo avevano dimostrato le loro qualità. 

(...)

Il 3 gennaio 1954, quando iniziarono le trasmissioni tv, la Rai era conservatrice e codina e tuttavia coltivava un'idea di grande azienda, tanto è vero che vi entrarono, attraverso il concorso, personalità antitetiche al clericalismo: personalità come Umberto Eco, Furio Colombo, Gianni Vattimo, Fabiano Fabiani. 

Qualche anno dopo, era il 1961, il vecchio Pietro Nenni accostò Amintore Fanfani: «Avrei piacere che venisse in Rai Enzo Biagi…». Fanfani annui e per la prima volta si ruppe in Rai il "monocolore dc": quel Tg fu così innovativo e scapigliato che si arrivò a parlarne in Consiglio dei ministri. Durò poco, Biagi si dimise ma il dado era tratto. Sotto la direzione energica di Ettore Bernabei si susseguono gli esperimenti di grande tv, a cominciare da Tv 7 di Sergio Zavoli. 

Ma la svolta che allarga ancora di più il campo matura nel 1975: viene approvata una riforma della Rai che fa passare il controllo dell'azienda dal governo al Parlamento, con l'istituzione della Commissione di vigilanza. Sembrava il viatico legislativo verso la più larga delle spartizioni e invece ebbe inizio un quindicennio di grande tv perché i principali partiti, Dc, Psi e Pci, è vero che lottizzarono, ma lo fecero, mandando i loro migliori professionisti.

Con programmi che hanno fatto epoca su tutte e tre le reti. Tocca anche al Pci giocare le sue carte e dal 1987 lo fa, contribuendo a produrre cultura nazional-popolare di alto livello. Col Tg3 guidato da Alessandro Curzi e con Rai3, dove un intellettuale «colto» anche di tv come Angelo Guglielmi incoraggiò la nascita di trasmissioni apripista come Samarcanda, Chi l'ha visto?, Telefono giallo di Corrado Augias. Ha spiegato anni dopo Enrico Menduni, allora nel Cda per il Pci: «Noi - e anche gli altri - allora sceglievamo i professionisti migliori perché tutti sapevano di dover agire in un ambiente competitivo. E la spartizione divenne, a suo modo, un fatto virtuoso».

Marco Follini, nella seconda metà degli anni Ottanta membro del Cda per la Dc, ricorda: «La lottizzazione era una scienza esatta ma la politica attraeva le energie migliori. La Piovra era una fiction anti-Dc o il massimo sforzo civico nel quale potevano riconoscersi gli elettori-spettatori dc più avvertiti?». 

Negli anni della Seconda Repubblica e sino ai giorni nostri l'altalena tra lottizzazione "virtuosa" e "predatoria" ha seguito alti e bassi, ma da qualche giorno i rumors del toto-nomine sembrano indicare un paradosso: la difesa di alcune delle testate premiate dagli ascolti (Tg3 e Radio3 in primis) non sono opera della maggioranza ma del Pd, mentre il resto dell'azienda sembra prepararsi ad una lottizzazione con le parvenze dell'"occupazione". —

 Che tempo che faceva: gli ospiti più faziosi di Fazio. Marco Leardi il 17 Maggio 2023 su Il Giornale.

Politici, artisti, attivisti, intellettuali, maître à penser dai discutibili pensieri. Nel programma di Fabio Fazio di ospiti ne sono passati tanti: tutti (o quasi) con simpatie a sinistra

Amici degli amici, compagni di merende e compagni veri e propri. Che tempo che faceva! Ormai dobbiamo declinarlo al passato. Con il suo passaggio a Discovery, Fabio Fazio ha infatti chiuso un'era di cui è stato l'assoluto protagonista in Rai. Per lunghi anni il conduttore ligure ha fatto da cerimoniere a una liturgia consolidatasi poi nel tempo e nelle abitudini del pubblico, grazie anche a un'impostazione piuttosto semplice nella sua struttura. Alla scrivania dell'occhialuto presentatore si sono susseguiti ospiti di vario genere e di varia provenienza. Personaggi politici e dello spettacolo, scrittori, intellettuali, attori, maître à penser dai discutibili pensieri. Tutti (o quasi) accomunati in maggioranza da simpatie orientate a sinistra.

Le ospitate fatte con il bilancino della par condicio certo non ci piacciono, ma nemmeno ci entusiasmano quelle contrassegnate da differenti criteri di parte. Negli anni, difatti, in molti hanno accusato Fazio di invitare con maggior frequenza i soliti amici della parrocchia, ovvero quelli più inclini alla sua sensibilità progressista. Leggenda narra che alcuni personaggi e artisti non di sinistra siano ancora in attesa di un invito da parte sua: campa cavallo. Non avranno soddisfazioni, almeno per quanto riguarda l'esperienza in Rai del conduttore, ormai alle battute finali. Al contrario, ci sono personalità che nei programmi fazieschi sono state degli habitué. Prendete Walter Veltroni. Solo negli ultimi anni, l'intellettuale ed ex leader della sinistra è stato ospite di Fazio sei volte. La più recente, il 19 marzo scorso assieme all'attore Neri Marcorè (altro volto particolarmente simpatico al padrone di casa).

I due presentavano il nuovo film Quando, rispetto al quale Fazio non ha fatto mancare i propri apprezzamenti. Quando c'era un libro, un disco, un programma o un film da presentare, del resto, il conduttore ligure non ha mai negato un'ospitata agli artisti a lui più graditi. Tornando però agli ospiti politici, come non ricordare gli interventi di Paolo Gentiloni, di Pier Luigi Bersani o di Elly Schlein, neo-incoronata alla guida del Pd. In passato il conduttore ospitò anche Pietro Grasso, che nell'occasione mostrò alle telecamere il simbolo della lista elettorale di Liberi e Uguali. I dem (allora renziani) si arrabbiarono: accidenti che cortocircuito. In compenso, le ospitate dei politici di centrodestra si possono enumerare con più facilità, per quanto più sporadiche e circostanziate.

Tra gli ospiti ricorrenti di Fazio, anche l'amico Roberto Saviano sempre foriero di frecciatine a chi non la pensa come lui. Da quegli studi è passato pure Fedez assieme a tanti colleghi cantanti, prontamente omaggiati con salamelecchi e applausi del pubblico in studio. E Michele Serra (che è stato pure autore di Che tempo che fa) non ce lo metti? Avanti, avanti: c'è posto per tutti. Al buon Fazio bisogna altresì riconoscere il merito di aver portato sulla tv italiana alcuni ospiti internazionali di grande richiamo. Peccato che, anche in questo caso, non siano mancati nomi di sinistra: uno tra tutti - forse il più importante - Barack Obama. Ma anche Greta Thunberg è approdata nella trasmissione faziesca per esporre le proprie teorie sul clima. Come non citare poi i riferimenti al tema migranti, con la scelta piuttosto emblematica di ospitare Carola Rackete e le attiviste di altre Ong.

Che tempo che faceva. Ora si chiude però lo Zibaldone degli ospiti progressisti. Fabio Fazio continuerà a scriverlo altrove.

Quanto guadagnerà Fabio Fazio per andare in onda su Discovery. Renato Franco su Il Corriere della Sera il 16 Maggio 2023

Il passaggio dalla Rai al gruppo Discovery porterà al conduttore un contratto da 2,5 milioni di euro l’anno (a Viale Mazzini ne guadagnava 2,2)

L’ultima puntata di Che tempo che fa, la prima da ex di Fabio Fazio, è stata vista da 2,5 milioni di spettatori. Un numero simbolico, che coincide con la cifra, in milioni di euro, che il conduttore prenderà per il suo passaggio a Discovery. Contratto quadriennale, quindi i conti sono semplici, il totale fa 10 milioni di euro. Numeri che fanno impallidire noi comuni mortali, ma numeri in linea con il mercato televisivo. In Rai Fazio prendeva 2,2 milioni di euro ed è normale — nel mondo in cui il lavoro viene considerato uno strumento per aumentare i profitti — che nel passaggio da un gruppo editoriale a un altro ci sia stato un upgrade di stipendio. Viale Mazzini tra l’altro è «tirchia» con i suoi conduttori (Fazio era il più pagato) perché a Mediaset si viaggia su cifre che a parità di profilo professionale sono doppie. Solo per fare un esempio Alessia Marcuzzi quando conduceva L’isola dei famosi prendeva 200 mila euro a puntata, 2,4 milioni di euro per 12 puntate.

Per il Nove — il canale di proprietà della multinazionale americana Warner Bros. Discovery — l’arrivo di Fazio accende una nuova luce, calamita su di sé centinaia di migliaia d potenziali spettatori, è il modo per provare a crescere. Fino ad oggi molto è stato nelle mani di Crozza, che con i suoi Fratelli di ha un milione e 100mila fedeli seguaci (5,6% di share). Ma non c’è solo lui, il canale sta vivendo la sua annata migliore, con una media in prima serata del 2,1% share anche grazie a titoli come Don’t forget the lyrics, il quiz condotto da Gabriele Corsi (2,7%).

Il mancato rinnovo del contratto di Fabio Fazio si porta dietro uno strascico di polemiche interne alla Rai, con lo scontro tra la presidente Marinella Soldi e l’ormai ex amministratore delegato Carlo Fuortes. Lui ha fatto sapere che, già nella seduta del 3 marzo, il cda aveva «limitato l’approvazione dei piani di produzione e trasmissione solo fino al 31 agosto 2023», non consentendogli quindi di «procedere alla stipula di contratti e approvazioni di schede relative ai Piani autunnali». La presidente Soldi e il cda hanno respinto però le accuse al mittente: «Fermo restando che nella seduta del 3 marzo i piani di produzione e trasmissione sono stati approvati a maggioranza fino al 31 agosto, ciò è avvenuto su proposta dell’amministratore delegato stesso». Approvazione che peraltro «ha valenza procedurale e non limita le responsabilità e possibilità dell’ad nella cura dell’attività di gestione di programmi delle stagioni a venire. Nessuna proposta su contratti di programmi di rilevanza strategica o di particolare valore — come quello di Fabio Fazio — è stata portata all’attenzione del cda in questi ultimi mesi». Comunque sia andata, il risultato è stato uno stallo evidente, tutti si sono palleggiati le responsabilità, per mesi Fazio è rimasto in attesa, mentre il suo agente Beppe Caschetto — lo stesso di Crozza — ha iniziato a guardarsi in giro per trovare un’offerta adeguata. E pure migliore.

Estratto dell’articolo di Marco Liconti per “il Giornale” il 16 maggio 2023.

Una ristrutturazione dolorosissima, decine di programmi e produzioni cancellati, un kolossal ormai quasi completato come «Batgirl», con un budget da 90 milioni di dollari, rimesso nel cassetto, un indebitamento complessivo di oltre 50 miliardi di dollari, titolo in caduta libera. Soprattutto, migliaia di licenziamenti. 

Discovery, la proprietaria di Nove, è reduce da un 2022 «brutale» […]. È improbabile, quindi, che la notizia dell’approdo di Fabio Fazio […] possa fare breccia sulle pagine dei media Usa e risollevare il morale di chi ha perso il lavoro.

Meno che mai, può interessare la coda polemica dell’uscita dalla Rai del presentatore di «Che tempo che fa». Al centro dell’impero (mediatico) hanno ben altro a cui pensare. Non solo un 2022 di lacrime e sangue […]. 

Il gigante nato nell’aprile del 2022 dall’acquisizione da parte di Discovery Inc. di Warner Media, ceduta dal gigante della telefonia AT&T al costo di 43 miliardi di dollari, si è scontrato da subito con un mercato difficile, nel quale la corsa all’accumulo di programmi e produzioni tv per costruire un magazzino in grado di competere con gli altri giganti dello streaming, come Netflix, ha portato ad un enorme indebitamento.

La scure dei top manager di Warner Bros. Discovery non ha risparmiato nemmeno la Cnn, il «gioiello della corona» dell’informazione tv, ereditata con l’acquisizione di Warner Media. CNN+, il servizio streaming appena lanciato dalla precedente gestione, è stato cancellato. Del resto, la rete all news ultra liberal è alle prese con una grave crisi di ascolti e arranca dietro alla rivale di segno politico opposto, Fox News.

Al punto che, per recuperare terreno nella fascia serale, la più ricca dal punto di vista pubblicitario, dove la fa da padrona l’emittente di Rupert Murdoch, la scorsa settimana è stata costretta a ospitare l’«odiato» Donald Trump. Operazione riuscita, con 3 milioni di spettatori (rispetto agli abituali 500mila), che è però costata alla Cnn una serie di accuse e polemiche.

Discovery si trova anche a fare i conti con lo sciopero degli sceneggiatori Usa.  La serrata […] rischia di paralizzare le nuove serie tv e produzioni cinematografiche, con inevitabili ricadute anche per gli spettatori europei. Tutto questo, non ha però impedito ai proprietari statunitensi di Nove di accordare lo scorso anno al chief executive officer David Zaslav un compenso di 250 milioni di dollari, di cui tre quarti in stock option […]. E tuttavia, per il 2023, dopo il «brutale» 2022, Zaslav porterà a casa, oltre al suo salario e agli altri benefit, almeno altri 12 milioni di dollari di bonus.

Le cinque balle sul "martirio" di Fabio Fazio. Andrea Indini il 15 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il martirio, la cacciata, la censura, i 40 anni in Rai e i guadagni: ecco tutte le fandonie usate dalla sinistra per attaccare la Meloni e il governo

Tabella dei contenuti

 Il martirio di Fazio

 La cacciata dalla Rai

 40 anni a viale Mazzini

 Che tempo che fa censurato

 Il valore (economico) di Fazio

Rai a destra, Fazio lascia. E poi: La vergogna della Rai. Eccoli lì, i titoli d'apertura dei giornali. Fabio Fazio cacciato. Fabio Fazio censurato. Fabio Fazio martire. È partita la gran cassa. In testa, oltre alle schiere di politici, troviamo i soliti. Roberto Saviano, per esempio. "Fazio viene cacciato dalla Rai perché del suo spazio questa destra xenofoba ha bisogno", ha twittato. "Non per imporre la propria egemonia culturale, ma per imporre la propria egemonia. Di culturale - ha continuato - questa destra non ha proprio nulla". Ma la verità è diversa: Fazio non è un martire perché non è stato cacciato né censurato, in passato se ne era già andato dalla Rai e, a proposito dei lauti contratti siglati grazie a lui, molto ci sarebbe da scrivere. Ma andiamo con ordine.

Il martirio di Fazio

Sgombriamo subito il campo dalla prima balla. No, Fazio non è un martire. Epperò sia a lui sia alla sinistra fa tanto comodo giocarsi questa carta contro il governo Meloni. Sebbene ieri sera, durante la trasmissione, ci abbia tenuto a sottolineare che né lui né Luciana Littizzetto hanno alcuna "vocazione a sentirsi vittime né martiri" e che si sentono persone "fortunatissime" perché avranno "occasione di continuare altrove il nostro lavoro", la narrazione che ha preso piede nei Palazzi romani, tra i corridoi di viale Mazzini e su una certa stampa è (guarda un po') proprio quella del personaggio scomodo fatto fuori dal nuovo corso sovranista della Rai. "È una gravissima perdita per il servizio pubblico e un grande errore editoriale", lamentava a Che tempo che fa Ferruccio De Bortoli. E Fazio subito pronto a sferrare il colpo basso: "Non si può essere adatti a tutte le stagioni. Io non credo di esserlo". E così ha deciso di far calare il sipario al momento giusto. E non tanto in concomitanza dell'imminente finale di stagione della trasmissione, che avrebbe avuto tutto il tempo per ricomparire nei palinsesti autunnali, quanto piuttosto in concomitanza del via libera del cda alla nomina di Roberto Sergio ad amministratore delegato. Un tempismo che, a pensar male, sembra stato scelto proprio per far scoppiare il bubbone.

La cacciata dalla Rai

Fazio non è un martire perché nessuno lo ha cacciato. Eppure c'è chi come Rula Jebreal ha parlato di "neo maccartismo, post verità e post vergogna". Niente di più lontano dalla verità. Partiamo da un dato incontrovertibile: chi avrebbe dovuto lavorare al rinnovo del contratto per tempo, non lo ha fatto. Perché? Non certo perché rispondeva a un diktat della Meloni o di uno dei partiti di maggioranza. Sempre la Jebreal ha puntato il dito contro Matteo Salvini quale mandante dell'"attentato". Alla giornalista e a tutta la sinistra non è andato giù il tweet del leader leghista "Belli ciao". Che con Fazio non corresse buon sangue non era certo un mistero, ma da qui allo scrivere che l'ha fatto fuori lui ce ne passa. Anche da viale Mazzini, d'altra parte, hanno fatto notare che il dossier non era ancora stato affrontato. "Nessuna proposta su contratti di programmi di rilevanza strategica o di particolare valore - come quello di Fabio Fazio - è stata portata all'attenzione del cda in questi ultimi mesi", ha precisato ieri sera, in una nota, lo stesso cda rimarcando che i piani autunnali di produzione e trasmissione erano stati appunto rinviati su proposta dell'ad (uscente) Carlo Fuortes.

40 anni a viale Mazzini

Per rafforzare l'idea del martirio la narrazione di queste ore ha posto, in modo particolare, l'accento sul fatto che Fazio viene cacciato via dalla Rai dopo quarant'anni di onorato servizio. Anche in questo caso la verità è un'altra. E ce la ricorda Nicola Porro sul suo sito ritirando fuori quando nel 2000 il presentatore lasciò viale Mazzini per approdare su Telemontecarlo insieme a Gad Lerner. Un trasloco da 13 miliardi di lire, mica noccioline. Un maxi ingaggio che fece strabuzzare gli occhi persino a Marco Tronchetti Provera quando, rilevando l'emittente, vide i conti in rosso e gli venne uno stranguglione. Spending review immediata e ritorno altrettanto immediato di Fazio da mamma Rai. Con una buonuscita non di poco conto versata sul suo conto corrente in banca. Oggi, come vent'anni fa, ha fatto la sua scelta: ha strappato un'offerta più vantaggiosa (o quantomeno alla pari) e un contratto blindato per quattro anni. In Rai, invece, avrebbe dovuto ricontrattare di anno in anno.

Che tempo che fa censurato

Una scelta, dunque. Nessuna censura. Ma a Repubblica, tanto per fare un esempio, fa comodo venderla in questo modo. E così ecco Michele Serra rivangare, per l'occasione, il momento in cui fu servita sul piatto di Silvio Berlusconi "la testa di Enzo Biagi, con il contorno di quelle di Santoro e Luttazzi". Il famoso "editto bulgaro", altro classico della vulgata progressista. "In un Paese con gli occhi aperti di quello avrebbe dovuto occuparsi la magistratura, altro che cene eleganti". La verità, come abbiamo visto, è un'altra. Nel bel mezzo del cambio dell'amministratore delegato Fazio ha colto l'occasione per passare sulla Nove. Lì continuerà a fare quello che faceva in Rai. Nessuna censura. Quella la lasciamo a Paesi per cui, troppo spesso, la sinistra va in visibilio.

Il valore (economico) di Fazio

E veniamo all'ultima grande balla: Fazio costava tanto ma faceva anche guadagnare tanto. Senza scendere in tecnicismi inutili, già in passato, sono stati molti a confutare questa narrazione. Ancora oggi il Codacons ci ha tenuto a ricordare che "il contratto è sempre stato coperto dal massimo riserbo, anche a causa delle somme esorbitanti riconosciute dall'azienda al conduttore che, secondo le indiscrezioni e le cifre circolate, avrebbe ricevuto per anni un doppio compenso al punto che Che tempo che fa potrebbe aver raggiunto in cinque anni il costo record di 100 milioni di euro". Una cifra esorbitante che difficilmente può essere parametrata ai ricavi pubblicitari incassati nello stesso arco di tempo.

Il Codacons sul caso Fazio: "Quanto ci è costato". La cifra monstre. Compensi stellari e ingiustificati finiti più volte all’attenzione della Corte dei Conti. Per l’associazione dei consumatori è un bene che il conduttore abbia lasciato la televisione di Stato. Ignazio Riccio il 15 Maggio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 I “conti” del Codacons

 L’esposto alla Corte dei Conti

 Una trasmissione di parte

L’addio del conduttore televisivo Fabio Fazio alla Rai e il suo passaggio a Discovery hanno creato una serie di polemiche tra il centrodestra e il centrosinistra. Diversi gli esponenti politici e gli opinionisti che sono intervenuti sul passaggio di rete del presentatore ligure. C’è chi si lamenta dell’epurazione, che sarebbe stata effettuata in maniera chirurgica dal governo Meloni, e c’è chi parla di una libera scelta di Fazio, che andrà a percepire un lauto compenso nel nuovo canale televisivo. In pochi, però, hanno analizzato in profondità gli anni di permanenza in Rai di uno degli artisti più pagati dalla televisione di Stato. Lo ha fatto il Codacons che si è preoccupato di capire quanto siano costate le sue trasmissioni.

Chi è Fabio Fazio e perché ha lasciato la Rai

I “conti” del Codacons

“Per le tasche dei cittadini italiani che finanziano la Rai attraverso il canone – hanno spiegato i vertici del Codacons – l'addio di Fabio Fazio è sicuramente una buona notizia”. L’associazione a tutela dei consumatori ha fatto i "i conti" su quanto il conduttore e la sua casa di produzione siano costati agli utenti negli ultimi anni.“Il contratto che legava Fabio Fazio alla Rai è sempre stato coperto dal massimo riserbo – hanno aggiunto – anche a causa delle somme esorbitanti riconosciute dall'azienda al conduttore che, secondo le indiscrezioni e le cifre circolate, avrebbe ricevuto per anni un doppio compenso al punto che la trasmissione ‘Che tempo che fa’ potrebbe aver raggiunto in cinque anni il costo record di 100 milioni di euro”.

L’esposto alla Corte dei Conti

Il Codacons, proprio per vederci chiaro, ha presentato non molto tempo fa un esposto alla Corte dei Conti, nel quale ha elencato una serie di criticità su cui non sono mai state fornite spiegazioni. “Fazio – hanno evidenziato i rappresentanti dell’associazione di categoria – avrebbe percepito 2,2 milioni di euro all'anno a titolo di cachet personale e 10,6 milioni di euro tra costi di produzione e diritti sul format 'Che tempo che fa’ pagati dalla Rai alla società 'Officina Srl', di cui Fazio era proprietario al 50%”. In più, ci sarebbero i costi di rete, scenografia e redazione, per altri 2,8 milioni di euro, e infine 2,6 milioni di euro per costumi, trucco, riprese interne e collegamenti esterni che avrebbero portato la spesa totale per la trasmissione a 18,3 milioni di euro all'anno”.

Il finto buono che trasforma tutto in soldi e ideologia

Una trasmissione di parte

Il presidente di Codacons Carlo Rienzi si è soffermato infine sull’aspetto politico delle trasmissioni di Fazio. “Per anni – ha dichiarato – il conduttore ha dettato legge in Rai, imponendo le due condizioni alla rete e conducendo una trasmissione faziosa e di parte, dove si dava spazio solo agli ospiti graditi a Fazio, con presenze fisse controverse e contestate, contrarie ai principi del servizio pubblico, come quella del virologo Roberto Burioni”. Rienzi ha concluso: “Ma sono proprio i costi eccessivi di 'Che tempo che fa’ e i maxi-compensi riconosciuti negli anni a Fazio a rendere una buona notizia l'addio del conduttore alla Rai, che potrà ora utilizzare meglio le risorse raccolte presso i cittadini attraverso il canone”.

Saviano difende Fazio e attacca il governo: "Siete il peggio". Il conduttore ligure dice addio alla Rai e Saviano sferra l'ennesimo attacco al governo: "Destra xenoofoba vuole imporre la propria egemonia". Nel suo mirino anche Salvini: "Deve elaborare traumi personali..." Marco Leardi il 15 Maggio 2023 su Il Giornale.

"Cacciato dalla Rai". Roberto Saviano ha emesso la propria sentenza: il trasloco televisivo di Fabio Fazio è colpa alla destra. Sai che novità. Sull'addio del conduttore al servizio pubblico, lo scrittore campano non poteva far mancare la propria filippica, arrivata a 24 ore esatte dall'annuncio del discusso trasferimento televisivo. In un lungo post pubblicato sui social, l'autore di Gomorra ha sostenuto che il presentatore ligure non avrebbe lasciato la Rai ma sarebbe stato rimosso dal governo. Mancano le prove, ma chissenefrega. "Fabio Fazio viene cacciato dalla Rai. Questa è la verità", ha denunciato Saviano. Una tesi in realtà diversa rispetto alle parole pronunciate ieri dallo stesso volto noto del piccolo schermo.

Caso Fazio, l'ultimo attacco di Saviano

"Non tutti i protagonisti sono adatti per tutte le narrazioni. Me ne sono reso conto...", aveva affermato il presentatore, lasciando intendere di aver fatto valutazioni in tal senso. Nessuna allusione però ad alcuna "cacciata". Ben più drastica invece la ricostruzione proposta da Saviano. "Fabio Fazio in Rai ha sempre svolto il suo lavoro come pochissimi professionisti avrebbero saputo fare. Viene cacciato dalla Rai perché del suo spazio questa destra xenofoba ha bisogno. Non per imporre la propria egemonia culturale, ma per imporre la propria egemonia", ha tuonato lo scrittore, facendo partire un siluro contro l'invisa maggioranza di centrodestra. "Di culturale questa destra xenofoba non ha proprio nulla. Evidentemente sono state troppe le promesse fatte in campagna elettorale e ora vanno mantenute", ha aggiunto Roberto.

“Fabio Fazio lascia la Rai”, scrivono. Non è così: Fabio #Fazio viene cacciato dalla #Rai. Questa è la verità. Fabio Fazio in Rai ha sempre svolto il suo lavoro come pochissimi professionisti avrebbero saputo fare. Fabio Fazio viene cacciato dalla Rai perché del suo spazio questa… pic.twitter.com/06kOtHACfv

— Roberto Saviano (@robertosaviano) May 15, 2023

Nel suo intervento in favore del conduttore, Saviano ha poi ringraziato quest'ultimo per lo spazio concessogli nei propri programmi. "Ringrazio Fabio che mi ha consentito di parlare di infiltrazioni criminali nel tessuto imprenditoriale del Nord, che mi ha permesso di disambiguare la comunicazione che alcuni quotidiani campani (premiati ad Atreju da Giorgia Meloni) fanno, come quando hanno insinuato che Don Peppe Diana fosse stato ucciso perché nascondeva armi mentre decantavano le doti amatorie di Nunzio De Falco, il mandante dell’omicidio di Don Diana. Questo è il giornalismo che piace al governo Meloni", ha scritto l'autore campano. Anche quei suoi interventi televisivi, in realtà, erano stati motivi di polemica. Nel 2010, ad esempio, nel programma Vieni via con me Saviano disse che "al nord la 'ndrangheta interloquisce con la Lega", provocando le prevedibili ire del centrodestra.

Le accuse al governo e gli insulti a Salvini

"È da Fabio che, per la prima volta, ho raccontato di Anna Politkovskaja, è a Che tempo che fa che ho avuto la possibilità di portare 'I racconti della Kolima' di Šalamov. A Vieni via con me abbiamo raccontato la storia d’amore tra Mina e Piero Welby, affrontando il tabù dell’eutanasia. Miracoli che solo la televisione che adempie alla sua missione può fare", ha proseguito Saviano nel suo post. Poi l'ulteriore attacco all'esecutivo: "Siamo fatti delle parole che utilizziamo, siamo fatti dei racconti che facciamo, siamo i punti di vista che sposiamo. E questo governo è il peggio che ci potesse capitare". E l'insulto a Matteo Salvini: "Non è che, perché uno parla di libri, deve starle per forza antipatico. I traumi personali ognuno deve elaborarli da solo".

Nell'ideale climax ascendente del proprio messaggio, lo scrittore campano non poteva che riservare l'ultimo graffio al leader leghista. "Non immagina nemmeno quante persone 'Bella ciao' aspettano di poterla cantare quando presto - per le vostre stesse scelte d'incompetenza - cadrete", ha inveito Saviano, concludendo la propria difesa a spada tratta dell'amico conduttore.

Selvaggia Lucarelli: "Fabio Fazio non è un martire". Selvaggia Lucarelli si sfila dal piagnesteo della sinistra per il passaggio di Fabio Fazio dalla Rai a Discovery, ma non perde occasione di attaccare "la peggiore destra di sempre". Francesco Curridori il 15 Maggio 2023 su Il Giornale.

"Leggo una partecipazione commossa per l’arrivederci di Fabio Fazio alla Rai, una partecipazione così addolorata che per un attimo, aperto twitter, ho pensato che Fazio ci avesse lasciati ed ero addolorata pure io. Poi per fortuna ho scoperto che va tutto bene, ha chiuso un contratto milionario con Discovery". L'invettiva arriva dalla persone più insospettabile, Selvaggia Lucarelli, che su Instagram ha pubblicato una lunga dissertazione sulla Rai.

"Attenzione, non sto ridimensionando nulla, sto solo cercando di non partecipare a funerali di gente che è, per fortuna, in buona salute, e che scappa da dove in definitiva rischiava una pallottola", continua la Lucarelli che respinge l'idea che Fabio Fazio sia stato "cacciato", ma che se ne sia voluto andare dopo aver capito "che tirava una brutta aria". Secondo l'opinionista del Fatto Quotidiano, in Rai, non sta accadendo nulla di diverso rispetto al passato, ossia che chi governa detta le regole. "Sta succedendo più o meno quello che succede da sempre: amici, pedine o soldatini piazzati nelle roccaforti dei tg, dell’informazione e dell’intrattenimento, scambi di favori e qualche bilanciamento per accontentare pure gli altri, nulla di nuovo sotto il sole", sentenzia la Lucarelli che, poi, ritorna a parlare del conduttore di Che tempo che fa precisando che lui non rientra affatto nella categoria dei raccomandati o dei mediocri.

"Fazio è sicuramente un fuoriclasse sotto molti aspetti, ma di fatto, con la sua tv ha sempre fatto politica, almeno su alcuni temi, immigrazione su tutto", ammette la Lucarelli che aggiunge: "Ha scelto ospiti, spesso politici e intellettuali, vicini alla sua idea di mondo civile e ne ha chirurgicamente evitati altri, ha fatto una tv gentile e onesta, mai rivoluzionaria, sotto alcuni aspetti perfino reazionaria". Insomma, Fazio si è circondato"amici e appartenenti alla scuderia del suo potentissimo agente" e, in definitiva, ha fatto "politica". Ma sottolinea: "Per me ha fatto bene, sia inteso". La Lucarelli invita a "non fare di Fazio un martire, perché non lo è", dal momento che lo attende il contratto con Discovery "lo renderà ricco" e visto che molto probabilmente il suo pubblico gli resterà fedele. Ma non solo. Il vero problema è che "la politica in Rai ha sempre tagliato teste, a destra e a sinistra", ma gli altri sono stati epurati "senza funerali". Secondo l'opinionista, il governo Meloni sta "presidiando con convinzione tutti gli spazi della cultura".

Ammesso pure che questo corrisponda al vero (ma non è così) è alquanto discutibile quanto sostiene subito dopo, ossia che la sinistra abbia ceduto "spazi a gente di destra che si spacciava per gente di sinistra". Non poteva, poi, mancare l'attacco a Matteo Salvini per il suo tweet "da bulletto del liceo" e agli esponenti di centrodestra descritti come "orrendi e ben determinati a rimpiazzare quella che loro credono sia una pericolosa egemonia della sinistra". Insomma, secondo la Lucarelli, il centrodestra manca di "eleganza" perché, in realtà, "non c’era alcuna egemonia" e, in fondo, i leader sono stati accolti bene da quella parte di sinistra "che - scrive parafrasando la citazione fatta da Elly Schlein - li ha visti arrivare (cit.)" e che anziché lasciare le "proprie poltrone" ha preferito cambiare "il colore della tappezzeria". In conclusione, le critiche più feroci la Lucarelli le riserva "per chi resta al suo posto fingendo di presidiare qualcosa, mentre strizza l’occhio alla peggiore destra di sempre".

Sciarelli: “Aiutare le famiglie degli scomparsi è servizio pubblico. E anche una vera passione”. Redazione su L’Identità il 30 Marzo 2023

di LORENZA SEBASTIANI

«Di lasciare Chi l’ha visto? al momento non se ne parla». La giornalista Federica Sciarelli mantiene il timone dal 2004 di uno dei cavalli di battaglia di Rai3. Lo fa con impegno e passione. «Pure troppo», ammette, «a volte mi scaglio in diretta, forse dovrei usare toni più compassati». In questi anni il programma è cambiato con lei (e lei con il programma).

Ma Chi l’ha visto? non è solo un programma. È la storia d’Italia, attraverso quei punti interrogativi che hanno toccato la vita di alcune famiglie e di riflesso quella di un intero paese. Non è un format come un altro, è servizio pubblico. La Sciarelli ci è arrivata dopo una corposa esperienza nel giornalismo politico.

Prima ancora, a vent’anni lavora all’Ufficio informazioni parlamentari, poi approda nello storico TG3 di Sandro Curzi, diventando una delle prime donne nella redazione politica di un tg, dove rimarrà per 15 anni. «Quel telegiornale mi ha dato un approccio più concreto. All’epoca il direttore Antonio Di Bella disse all’allora direttore di rete Paolo Ruffini ‘lei non accetterà mai di condurre un programma di cronaca’. Invece ho accettato, per mettermi in gioco, pensando di rimanerci al massimo per uno o due anni».

Oggi cosa le dà la conduzione di Chi l’ha visto?

Mi appassiona la possibilità di aiutare un sacco di persone. Settimana scorsa una signora ci ha mandato un audio di un tentativo di truffa agli anziani. L’abbiamo mandato in onda, in tanti ci hanno scritto ‘grazie, faremo attenzione ai nostri genitori’. Ecco, questo ci dà forza.

Il caso a cui si sente più legata?

Lo sono a tutti. Il primo di cui mi sono occupata è stato quello di Denise Pipitone. Appena scomparsa tutti pensavano sarebbe tornata a casa di lì a poco. Poi ho conosciuto Gildo Claps, fratello di Elisa Claps, è venuto in studio da me. Mi sono resa conto nel tempo che queste famiglie si appoggiano a noi. Dare loro una mano diventa una sorta di missione per noi, anche personale.

Intrattiene rapporti con i familiari degli scomparsi?

Certo. Queste famiglie le ho viste crescere, siamo invecchiati insieme. Vedere Marisa (ndr madre di Cristina Golinucci, scomparsa a Cesena nel ’92) che, per sedersi al nostro tavolo ormai si accompagna con una stampella, mi colpisce profondamente. L’ultima volta durante la pubblicità mi ha stretto un braccio e mi ha detto ‘Federica, ma stavolta ce la faremo?’. Oppure penso al padre di Daniele Potenzoni, il ragazzo autistico scomparso in metro nel 2015. Mi ha chiesto di aiutarlo a scrivere un libro sul figlio. Ci sono alcuni familiari, poi, che si ricordano persino il mio compleanno…

Difficile rimanere estranei ai casi trattati.

La scomparsa è peggio di un lutto, non sapere dove sia finito un figlio rende più difficile elaborare. Per aiutare queste famiglie è importante mantenersi lucidi. Quando sono arrivata a Chi l’ha Visto? ho fatto un’operazione. Più di una, a dire il vero.

Ci racconti.

A molte famiglie ho detto ‘Perché parliamo di scomparsa? Parliamo piuttosto di omicidio con occultamento di cadavere’. La famiglia Claps accettò, sapevano benissimo che era stato Danilo Restivo a uccidere Elisa. In certi casi se si parla di ‘scomparsa’ arrivano segnalazioni a volte inutili e depistanti, anche per gli inquirenti. Ma altri genitori non la pensano così, dicono “finché mio figlio non lo vedo morto, per me è vivo’. Piera Maggio, ad esempio, mi ha sempre detto “non dovete mai parlare di una Denise morta, se no non me la cerca più nessuno”.

Insomma, serve sensibilità per capire come impostare gli appelli, se definirli casi di scomparsa o di omicidio.

Fondamentale. Per esempio, prendiamo uno degli ultimi casi che abbiamo trattato, l’accumulatore seriale di Foggia, Raffaele Lioce. Non ritirava la pensione da tempo, dentro casa c’erano le sue stampelle, forse era il caso di cercare meglio nell’abitazione. Ho mandato un inviato e l’ho lasciato là, finché non è stato fatto lo sgombero. E infatti, il corpo era dentro casa.

Ogni tanto, ciclicamente, si parla del suo possibile addio al programma.

Sono pronta a lasciare il mio posto quando vogliono, non sono attaccata alla poltrona. Ma vi racconto com’è nata questa voce. Un anno con gli amici ho fatto il giro della Sicilia in bici. Sono partita da Palermo, pensando ‘qui è scomparso Tizio’, poi sono passata da Isole delle Femmine e ho pensato ‘qui è scomparso Caio’. Sono andata un po’ più in là, a Casteldaccia, e ho pensato ‘qui sono scomparsi due ragazzini’. Mi sono resa conto che per me l’Italia era diventata una sorta di grande cimitero. Ho capito che per la mia salute avrei dovuto disintossicarmi da tutto quel dolore. Al ritorno ho chiesto di poter cambiare programma, però mi è stato detto di no, perché andava troppo bene. E allora sono rimasta, con soddisfazione e la stessa passione di sempre.

In passato si è parlato anche di un programma politico per lei.

In epoca Covid il direttore Franco Di Mare mi parlò di Titolo V, che avrebbe approfondito un tema allora molto vivo, quello delle autonomie regionali. Era un’idea interessante, mi disse che sarei stata indicatissima. Ma se uno ti dice ‘saresti portata per questo programma’, non significa che lo condurrai. Il punto era anche trovare una possibile sostituzione per Chi l’ha visto?. Insomma se ne dicono di cose. Un tempo scrissero persino che di lì a poco avrei diretto il TG1. E qualcuno cominciava già a raccomandarsi…

Molti dicono che con lei Chi l’ha visto? si sia trasformato.

Al mio arrivo ho strutturato la redazione in modo che ci fosse sempre un turnista, sabato e domenica compresi. È diventato una sorta di presidio permanente. Inizialmente andava in onda di lunedì. Sabato e domenica la redazione era chiusa e mi feci dare le chiavi. Insomma, oltre a ciò che vedete, oggi c’è una macchina che lavora sette giorni su sette. Abbiamo un archivio di trent’anni che contiene persino foto dei tatuaggi degli scomparsi. Ci capita a volte di sapere prima degli inquirenti ciò che sta succedendo…

Cosa fa quando non lavora?

Non si direbbe, ma guai a chi mi toglie le mie sedute di palestra settimanali, i miei momenti in bici, le lezioni di rollerblade. Un tempo facevo pattinaggio sul ghiaccio, atletica, hockey sul prato, danza moderna. Lo sport mi permette di staccare.

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per la Verità sabato 14 ottobre 2023.

Per molti giornali il caso è già chiarito. E per arrivare alla conclusione hanno preso spunto dalle parole del politico Ferruccio Sansa. Ma per il giornalista d’inchiesta Ferruccio Sansa il caso non sarebbe chiarito per niente.

Anche perché per l’indagata la pm Eugenia Menichetti aveva chiesto gli arresti domiciliari, ottenendo solo l’interdizione dall’attività professionale e il sequestro del conto corrente. (...) 

Stiamo parlando dell’inchiesta per circonvenzione d’incapace che ha coinvolto la moglie di Sansa, l’avvocato Maria Valeria Valerio e l’ottantenne frate Achille Boccia, ex missionario in Africa, i quali hanno assistito negli ultimi anni della sua vita una facoltosa signora milanese, molto legata al mondo della Chiesa. Alla fine Boccia è diventato beneficiario e co-beneficiario di tre polizze vita per un importo totale di 1.035.000 euro e, a sua volta, il 29 maggio 2023, ne ha donati 129.000 alla Valerio. Utilizzati in parte (100.000 euro) due giorni dopo per l’acquisto di una casa intestata al figlio minore. Soldi «inaspettati» di cui non sappiamo se Ferruccio abbia controllato la provenienza.

Di sicuro, al catasto, l’acquisto risulta solo se si va alla ricerca dei beni immobili intestati al minorenne e non ai genitori, mentre nel rogito la provenienza dei fondi resta indefinita (si fa riferimento a degli assegni circolari). Quanto alla donazione, un atto pubblico, il notaio Alberto Giletta, che lavora nello stesso edificio dell’avvocato Valerio, non ha risposto alla nostra istanza di visionare l’atto. Tutte circostanze che avrebbero fatto insospettire il cronista Sansa.

Ma non il politico Sansa. Che anzi ha ringraziato i numerosi Ferruccini che sui social hanno coperto di insulti irripetibili il nostro giornale che ha avuto la sola colpa di dare una notizia.

Uno shitstorm di cui da giornalista era stato a sua volta vittima, ma che adesso indirizza verso altri bersagli.

Sua moglie ha dichiarato in conferenza stampa: «È vero: ho preso 129.000 euro dall’eredità di Mariangela. L’ho fatto perché frate Achille mi ha pregato di accettare quei soldi perché tra le ultime volontà della donna c’era proprio quella che avessi quel denaro. Che fine hanno fatto quei soldi? Li ho messi all’interno di un acquisto di una casa in centro che abbiamo deciso di comprare in famiglia. Ferruccio ha pagato la sua parte con l’eredità della madre, io ho usato i soldi che mi ha girato il religioso. L’ho fatto per non accendere un mutuo ma mi sono ripromessa di devolvere questa cifra alla missione in Zambia a cui in questi anni ho donato i miei risparmi. Perché non li ho donati subito? Perché si tratta di una piccola associazione che gestisce le donazioni e temevo non fossero in grado di gestire una cifra così alta».

Verrebbe da chiedersi con quali soldi intendesse fare beneficenza se il denaro della donazione è stato già investito nel mattone, ma dalla sua difesa spiegano che il ricco obolo potrebbe essere versato non in un’unica soluzione, bensì in comode rate. Tutto ruota intorno al patrimonio di Mariangela Toncini, facoltosa signora di origini milanesi morta a gennaio all’età di 95 anni, suora laica benedettina e prima donna ministro straordinario della sacra comunione della Diocesi milanese a cui ha lasciato gran parte della sua eredità. I giri di soldi di questa pia donna, ex funzionaria del Banco ambrosiano ed ex assistente dell’imprenditore filantropo Marcello Candia, avevano già destato l’attenzione delle banche presso cui aveva aperto i conti. 

(…) Ferruccio, ieri, da scaltro politico, ha continuato la sua campagna di distrazione contro il nostro giornale, che a suo dire avrebbe usato il metodo Boffo contro di lui. Ma Dino Boffo era finito nel tritacarne per una velina giudiziaria farlocca, mentre la sua consorte è stata sottoposta a «misure cautelari personali e reali» e il conto sequestrato è anche di Sansa. 

Però per il politico, la storia della moglie avvocato, indagata, sospesa dalla professione e con il conto sequestrato non è una notizia, ma un linciaggio contro la sua famiglia per conto terzi, in questo caso il governatore ligure Giovanni Toti.

Sansa non si rende conto di rasentare il ridicolo e nemmeno i suoi ultrà. Frigna e fa la vittima. E il metodo Boffo lo usa contro di noi, nascondendo la realtà e cioè che abbiamo pubblicato una notizia. Che proprio non gli va giù. 

«La notizia più importante del giorno nel mondo? Che la moglie di un qualunque consigliere regionale ligure è indagata» ha scritto su Facebook. 

«Sì, basta guardare la prima pagina di ieri del quotidiano La Verità. Che mia moglie sia indagata è più importante della guerra in Israele. Più di Zelensky. Più della politica italiana. Più di tutto (falso, ndr). E oggi giù con un'altra paginata. Ecco cosa succede a chi attacca Toti e il suo sistema di potere: linciaggio. A lui e alla sua famiglia». Il piagnisteo non è finito: «Provo amarezza nel vedere mia moglie e la sua storia fatta a brandelli per colpire me». Dove è finito il coriaceo cronista che pubblicava i nomi di tutti gli indagati che gli capitavano a tiro, a partire dai politici e dai loro congiunti? Lo ricordiamo bene mentre, in compagnia di chi scrive, seguiva le tracce di Tiziano Renzi e Laura Bovoli. Sembra passata un’eternità. «L'unica cosa che non posso accettare è che sia linciata la mia famiglia per punire me. Dopo il metodo Boffo arriva il metodo Sansa» è la sua conclusione. Un finale degno di un Matteo Renzi, non di un ex cronista del Fatto quotidiano.

Bocconi amari. Caso MPS, Sansa e Tidei: un tris di delusioni e il flop dei giustizialisti. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 13 Ottobre 2023 

La settimana che sta terminando è stata molto avara di soddisfazioni per i giustizialisti in servizio permanente effettivo di casa nostra. Il primo boccone amaro che hanno dovuto ingoiare è stata l’assoluzione definitiva dei vertici di banca Monte Paschi di Siena, fra cui l’ex presidente Giuseppe Mussari e l’ex dg Antonio Vigni. I due manager, insieme ad altri dirigenti della banca toscana, di Nomura e di Deutsche Bank, erano stati condannati in primo grado a pene fino a quasi 8 anni per l’accusa di irregolarità contabili in operazioni effettuate circa i fondi Alexandria e Santorini. Gli illeciti, in particolare, sarebbero stati commessi tra il 2008 ed il 2012 per coprire le perdite causate l’anno prima con l’acquisizione di banca Antonveneta. Le indagini, inizialmente condotte dalla Procura Siena, erano poi proseguite a Milano dove il fascicolo era state spacchettato in diversi filoni. Nel 2019, dunque, il tribunale di Milano aveva condannato tutti gli imputati. Nel 2022, però, la Corte d’appello aveva annullato la sentenza e, questa settimana, è arrivata la conferma da parte della Cassazione. La Procura generale di piazza Cavour aveva chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso ritenendo che non si potesse affermare che i fondi Alexandria e Santorini fossero stati architettati con l’unico scopo di “ottenere un illecito vantaggio contabile”. Il procedimento Mps aveva occupato per anni le prime pagine dei giornali che avevano sposato, come accade spesso, senza se e senza ma le tesi della Procura.

Ieri, invece, quattro persone sono state rinviate a giudizio dal gup di Civitavecchia in relazione al procedimento per corruzione da cui è nato poi il caso di revenge porn che vede vittima il sindaco di Santa Marinella Pietro Tidei. L’inchiesta per corruzione, avviata proprio dopo la denuncia di Tidei, ha portato al rinvio a giudizio di Fabio Quartieri, Giuseppe Salomone, Fabrizio Fronti e Roberto Angeletti all’epoca dei fatti consigliere comunale. ‘’Tutti rinviati a giudizio. La giustizia è lenta ma arriva sempre’’, ha commentato ieri Tidei su Facebook aggiungendo che ‘’il Comune di Santa Marinella si è costituito parte civile contro gli imputati Quartieri, Angeletti, Fronti e Salomone accusati di corruzione. Il giudice ha valutato che gli elementi acquisiti durante le indagini consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna, ed ha pertanto disposto il rinvio a giudizio di tutti gli imputati. La denuncia presentata dal sindaco Tidei volta a smascherare un tentativo illecito e corruttivo di condizionare la vita amministrativa del Comune ha trovato quindi risconto. Si attende fiduciosi il dibattimento”. Anche Tidei in queste settimane era stato oggetto di una violentissima campagna mediatica.

Il ‘contrappasso’ giustizialista, invece, ha colpito Ferruccio Sansa, ex giornalista del Fatto, il giornale manettaro per antonomasia. Sansa, trombato alle elezioni per la presidente della Regione Liguria, l’altro giorno invocava le dimissioni per il vicepresidente Alessandro Piana, trascinato a sua insaputa in una indagine per droga e prostituzione. Bene, Sansa è rimasto coinvolto in queste settimane in storia quanto mai torbida di cui ha dato ieri notizia La Verità.

La moglie, l’avvocata Maria Valeria Valerio, sarebbe indagata con la pesante accusa di circonvenzione d’incapace ai danni di una anziana perpetua che aveva la disponibilità di diversi immobili. Tramite delle scritture private si sarebbe inserita nella gestione dei beni dell’anziana, poi deceduta, divenendo beneficiaria di alcune polizze vita. Un giro vorticoso di soldi che non è sfuggito alla Procura che ha deciso di bloccargli i conti. L’Ordine degli avvocati del capoluogo ligure ne ha quindi disposto la sospensione cautelare dall’esercizio della professione fino al prossimo mese di febbraio. Ovviamente nessuno chiederà a Sansa di dimettersi, ci mancherebbe altro, però un po’ di prudenza non guasterebbe. Paolo Pandolfini

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” mercoledì 18 ottobre 2023.

Ma quale metodo Boffo. Ferruccio Sansa, dopo che avevamo dato la notizia del sequestro del conto condiviso con la moglie, Maria Valeria Valerio, dell’iscrizione sul registro degli indagati della signora con l’accusa di circonvenzione d’incapace e della controversa donazione da 129.000 euro utilizzata per acquistare la casa al figlio, aveva piagnucolato: «L’unica cosa che non posso accettare è che sia linciata la mia famiglia per punire me. Dopo il metodo Boffo arriva il metodo Sansa». […] 

In realtà la donna, a precisa domanda del notaio genovese Alberto Giletta, davanti al quale, il 26 maggio scorso, è stata stipulata la «donazione di denaro» da parte del sacerdote Achille Boccia alla professionista, ha specificato di non essere una quisque de populo, ma di «essere persona politicamente esposta quale coniuge di persona politicamente esposta». 

Un’informazione fondamentale per l’Antiriciclaggio che monitora i passaggi di denaro e in particolar modo le donazioni ai politici o a persone ad essi legate. Quindi la notizia c’era tutta e non solo perché ad agosto la Procura di Genova aveva chiesto l’arresto dell’avvocato Valerio e ne aveva ottenuto l’interdizione dall’attività professionale sino al febbraio del 2024 oltre che il sequestro del conto corrente.

Ma come nasce la donazione? La Valerio il 7 luglio 2022 e il suo munifico donatore, padre Achille Boccia, coindagato con lei, avevano accompagnato la novantacinquenne Mariangela Toncini, facoltosa e pia donna milanese, nella filiale di Sestri Ponte della Bnl per far sottoscrivere all’anziana due polizze vita da 265.000 euro l’una a loro favore, «una per ciascuno degli indagati», «senza riuscire a ottenere l’intestazione a causa della mancata approvazione del giudice tutelare». 

Boccia, però, sarebbe diventato beneficiario e co-beneficiario di tre polizze vita per un valore complessivo di 1.035.000 euro. E il 26 maggio 2023, come detto, ha donato alla Valerio 129.000 euro. Considerando l’imposta sulla donazione di circa 10.000 euro, la cifra sembra esattamente la metà dei 265.000 euro che l’avvocato aveva provato a farsi lasciare dalla Toncini.

I soldi sono stati versati con un bonifico bancario inviato il 25 maggio da Boccia sul conto dei Sansa aperto presso la Banca popolare etica e sono stati, poi, utilizzati il 31 maggio per pagare parte di un appartamento da 270.000 euro destinato al figlio minore della coppia. 

L’avvocatessa aveva spiegato in conferenza stampa, dopo la pubblicazione del nostro scoop: «È vero: ho preso 129.000 euro dall’eredità di Mariangela. L’ho fatto perché frate Achille mi ha pregato di accettare quei soldi perché tra le ultime volontà della donna c’era proprio quella che avessi quel denaro. Che fine hanno fatto quei soldi? Li ho messi all’interno di un acquisto di una casa in centro che abbiamo deciso di comprare in famiglia. Ferruccio ha pagato la sua parte con l’eredità della madre, io ho usato i soldi che mi ha girato il religioso.

L’ho fatto per non accendere un mutuo, ma mi sono ripromessa di devolvere questa cifra alla missione in Zambia a cui in questi anni ho donato i miei risparmi. Perché non li ho donati subito? Perché si tratta di una piccola associazione che gestisce le donazioni e temevo non fossero in grado di gestire una cifra così alta». 

Per la verità nell’atto non si parla proprio di beneficenza, se non a favore della Valerio. Leggiamo: «Il signor Boccia dichiara di donare, come dona, per puro spirito di liberalità, alla signora Maria Valeria Valerio, che con animo grato e riconoscente accetta la somma di 129.000 euro». 

Un ex missionario che regala decine di migliaia di euro alla moglie di un politico è un po’ come l’uomo che morde il cane. Ma sul vero motivo di quella donazione, per lo meno quello citato dalla Valerio in conferenza stampa, nulla si dice nell’atto. La Toncini non viene proprio nominata. 

Si legge solo che «la parte donante dichiara che i fondi impiegati provengono da lascito successorio». Nell’atto si fa riferimento anche alle norme antiriciclaggio […] 

Ma la donazione è avvenuta per volontà di Boccia o era stata la Toncini a far destinare alla Valerio quella piccola fortuna? Tutte domande alle quali certamente daranno risposta le indagini in corso presso la Procura di Genova. Sansa ha difeso l’operazione con queste parole: «Mia moglie ha voluto che ogni passaggio fosse autorizzato dalla magistratura e, dopo la morte della donna, che ci fosse un atto pubblico. Pubblico. Proprio perché non aveva niente da nascondere. Anzi». 

Il giornalista-politico non dice o non sa che non c’era altra strada alla donazione pubblica per come previsto dal codice civile e dalle norme sulle imposte di successione e donazione.

Ricordiamo, infine, che la Toncini era già stata segnalata all’Antiriciclaggio per alcune operazioni sospette quando era la perpetua di don Pasquale A. a Genova Pegli. Finirono sotto osservazione passaggi di denaro da un conto a un altro con triangolazioni considerate non giustificate (per esempio 152.000 euro del parroco passarono sul rapporto bancario della signora e tornarono al sacerdote dopo poco), numerosi prelievi di soldi in contanti e la sottoscrizione di cinque polizze vita, la specialità della casa, del valore complessivo di 250.000 euro. In questo caso il contraente era il don e la beneficiaria era proprio la Toncini. Una storia, quella delle polizze, che adesso sembra un film già visto.

  Estratto da corriere.it il 17 luglio 2023.

Nessuna telefonata dalla Rai, che gli preannunciasse la cancellazione del suo programma, “I Facci vostri”, striscia quotidiana di attualità che avrebbe dovuto debuttare a settembre, prima del Tg2 dell’una. 

Anche se la decisione era nell’aria da giorni, il giornalista - stando a quanto appreso dal Corriere - non è stato preavvertito. La decisione dell’ad Rai Roberto Sergio è stata poi annunciata lunedì mattina.

Del resto, la collaborazione fra l’azienda e l’editorialista di Libero non si era ancora formalizzata in un contratto. 

E’ stato proprio un contestatissimo fondo pubblicato su Libero sul caso La Russa jr a causare la cancellazione preventiva. Tuttavia, da qualche parte si sostiene che Facci potrebbe rientrare in palinsesto, magari più avanti, con un programma diverso, a tema, magari registrato e non in diretta. 

Qualche giorno fa, in un’intervista al Corriere , aveva chiarito che le parole sulla vicenda di La Russa jr («La ragazza era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache») erano state «[…] un errore stilistico, un fallimento professionale […]» [...]

Rai, censura è fatta: cancellato il programma di Filippo Facci. La Rai non manderà in onda la striscia quotidiana "I facci vostri". Ecco perché è un gravissimo errore. Andrea Indini il 17 Luglio 2023 su Il Giornale.

Cala il sipario. Censura è fatta. Oggi l'amministratore delegato della Rai, Roberto Sergio, ha deciso di cancellare la striscia quotidiana affidata a Filippo Facci, I Facci vostri, inizialmente annunciata per settembre e poi finita nel tritacarne mediatico per un articolo del giornalista considerato eccessivo dai censori rossi. Si chiude così la telenovela estiva dei palinsesti di viale Mazzini. Una soap indigesta, segnata dallo starnazzare delle opposizioni che prima hanno gridato all'occupazione della tv pubblica da parte degli uomini della Meloni e poi hanno finito per pretendere la testa di Facci.

Ma Facci può essere epurato per una frase di troppo? È bastato davvero così poco? O ha pesato di più la campagna dei soliti progressisti alla Selvaggia Lucarelli su quanto scritto (su Libero e sui social) in passato? Perché nel primo caso una frase di troppo può scappare a tutti. E Facci se ne è scusato subito. Nel secondo caso, invece, tutti gli articoli, i post e i commenti erano già lì da leggere e valutare prima che in Rai decidessero di affidargli una striscia quotidiana. Se non è per quelle quattro parole indigeste sul caso La Russa jr ma per il suo cv, basta dunque che i censori rossi facciano partire una campagna contro qualcuno che non la pensa come loro, perché questo finisca sul patibolo? Basta qualche indice puntato per farsi dettare la linea editoriale?

Se, poi, stiamo a guardare il passato dei giornalisti, allora i palinsesti rischierebbero di finire svuotati. Perché dovremmo "sbianchettare" anche altri nomi. Prendiamo un esempio su tutti, uno di quelli che la sinistra venera: Roberto Saviano. Chi più duro di lui? Serve per caso ricordare gli insulti con cui ha ricoperto il centrodestra? Per esempio che andava in giro a dire (e a scrivere) che la Meloni è una "bastarda" e Salvini "il ministro della malavita"? Solo il fatto che i leader di Fratelli d'Italia e Lega lo avessero querelato, era bastato alla sinistra per gridare alla censura. Ricordate Michela Murgia? Lo scorso ottobre scriveva questo: "Il primo gesto di Meloni da presidente del Consiglio potrebbe dunque essere quello di portare alla sbarra un intellettuale di fama internazionale che le ha espresso dissenso. A quell'udienza ci sarò anche io. Voglio vederla in faccia questa destra che appena sente la parola cultura mette mano alla querela". Bene. A distanza di un anno Saviano avrà il suo programma, Insider, mentre Facci no. Dove sta, dunque, la censura?

Intanto nel Pd già esultano. In prima linea (tutto tronfio) Sandro Ruotolo, l'ex inviato di Michele Santoro oggi responsabile Informazione di Elly Schlein. "La Rai è l'industria culturale e informativa più importante del nostro Paese - ha pontificato - è un bene di tutti". Ma la sinistra, che oggi stappa lo spumante per l'epurazione di Facci, è la stessa che non più di un mese fa urlava all'occupazione della Rai da parte delle destre, usava il dimissionario d'oro Fabio Fazio per attaccare il governo e preparava, cavalcando l'addio di Lucia Annunziata, l'ennesimo assalto alla diligenza. Ecco, ora guardate i palinsesti, scorrete i nomi (Roberto Saviano, Marco Damilano, Sigfrido Ranucci, Geppi Cucciari e così via...) e chiedetevi un po': ma dov'è la TeleMeloni tanto odiata dai censori rossi?

(AGI il 12 luglio 2023) - "La sanzione della sospensione di due mesi dello stipendio per un articolo sull'Islam è stato poi derubricata in censura nell''appello, cioè in sostanza in niente". 

Filippo FACCI spiega all'AGI il 'seguito', finora non noto "perché non gli ho dato pubblicità'", della vicenda che portò' il Consiglio di disciplina dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia a infliggergli due mesi di stop della busta paga il 13 giugno del 2017 in relazione al pezzo pubblicato il 18 luglio 2016 sul quotidiano 'Libero' dal titolo 'Perché' l'Islam mi sta sul gozzo'. 

"L'incolpato è colpevole di avere esagerato nel suo linguaggio" si legge nella decisione del Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che accolse parzialmente il ricorso il 13 giugno del 2018 facendo cadere i due mesi di stop dello stipendio, tuttavia "l'obbiettivo dell'invettiva non è il razzismo ma è l'espressione di un punto di vista che può essere condivisibile o no ma deve poter essere espresso

Estratto dell’articolo di Anna Gandolfi per corriere.it il 12 luglio 2023.

«Soffro d’insonnia, è mattina, i miei neuroni non so dove siano. Lei mi chiama a metà del primo caffè e mi vuole intervistare: capisce che mi sento vittima». 

Parte ironico.

«Ho preso talmente tante pesciate in faccia, di recente e in passato, che non mi creo grandi problemi. Rivendico la mia coerenza e rifarei tutto quello che ho fatto o detto». 

Filippo Facci non si sottrae, «anche se, oltre alla situazione di disagio sopra descritta, mi trova nel mezzo di un trasloco. Passo da Milano 2 a Milano 2, convivo con la donna per cui ho lasciato la madre dei miei figli. 

A lei, quest’ultima, devo il più recente dei polveroni che mi hanno investito sui giornali (la notizia di una battaglia legale che lo vede ammonito per stalking, ndr). Sono però felicissimo per questo spostamento, sentimentalmente e — cinico — perché la nuova soluzione implica un risparmio: non ho soldi e il contratto in Rai mi servirebbe parecchio.

Poi non me lo faranno? Pazienza. Niente che non mi sia già successo: nel 1995 l’allora presidente Letizia Moratti strappò un ingaggio da 66 milioni di lire perché erano uscite intercettazioni che hanno fatto dire che ero craxiano. Apriti cielo! Adesso ci risiamo...». 

Il giornalista […] è un fiume in piena. Finito al centro delle polemiche prima di tutto per le frasi sul caso di Leonardo La Russa […]. «Cercavano l’incidente e alla fine l’hanno trovato». 

[…] Però le parole sulla vicenda di La Russa jr («La ragazza era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache») le ha scritte lei. 

«Quello è stato un errore stilistico, un fallimento professionale: il mio compito da giornalista è farmi capire, non fare battute […] Io non giudico o colpevolizzo. Ho scritto ciò che hanno scritto tutti ed è cronaca: la giovane ha assunto droga e poi è stata con lui».

Ha aggiunto che «ogni racconto di lei sarà reso equivoco dalla polvere prima di entrare in discoteca». Per la legge è violenza anche cercare un rapporto con una persona non presente a sé stessa.

«Qualche conoscenza di farmacologia ce l’ho. La cocaina, di cui si parla in questa vicenda, ha tra gli effetti l’aumento della lucidità e non il contrario». 

[…] «[…] Comunque l’articolo (pubblicato su Libero l’8 luglio) era ineccepibile, tranne che per quel passaggio. […] è stato usato per attaccarmi. Ma avrebbero trovato altro. Adesso c’è un processo che io non accetto, tantomeno da politici che strumentalizzano o da un Cda con cui nemmeno ho firmato un contratto per una frase su un giornale che con la Rai non c’entra. Perché?». 

Perché è in gioco c’è uno spazio sulla televisione pubblica e fa tutto curriculum, nel bene o nel male?

«Allora guardiamolo, il curriculum. È appena stato ripubblicato un mio libro sui misteri della musica classica, ho scritto di storia, ho avuto rubriche (molto apprezzate) su periodici femminili, ho lavorato per L’Unità, Repubblica, come per L’Avanti, per Il Giornale, Il Foglio.

Questo per dimostrare che so perfettamente padroneggiare registri diversi. Se si parla di me per la Rai, dovrò essere giudicato per ciò che farò in Rai. Non vedo la stessa attenzione preventiva, che ne so, su Saviano e sul fatto che magari va in onda e insulta la presidente del Consiglio...». 

Facci, è un periodo parecchio agitato.

«L’altro giorno ho chiamato la mia avvocata, Annamaria Bernardini de Pace: sono su tutte le prime pagine. Lei non ha commentato. Sa che mi assiste gratuitamente? Credo di essere l’unico caso […]. Mi segue nella vicenda con la mia ex. Una storia allucinante su cui vorrei fare delle precisazioni». 

Dica.

«Ho letto che sarei stato ammonito dal questore anche per un episodio che si è svolto fuori dalla scuola di mio figlio, che io avrei dato calci allo scooter di lei e le avrei alzato con un colpo la visiera del casco. Tutto impreciso. 

Io ero arrabbiato perché avevamo avuto una discussione legata a divergenze sui metodi educativi, non ho dato calci con l’intento di far male ma solo uno, per stizza, al cavalletto. Ero appena stato operato alla gamba quindi si figuri la potenza. 

La visiera? L’ho abbassata con un dito, era un segno di commiato. Ho raccontato all’avvocata l’accaduto e lei mi ha consigliato: denuncia subito sennò lo farà la tua ex. E io l’ho fatto. I fatti riportati da molti giornali sono contenuti in una controdenuncia, la sua: a essere stata denunciata per prima è lei».

[…] Si parla di insulti, mail ingiuriose.

«Vediamo anche come siamo arrivati a questa situazione. Io ero e sono esasperato. La ex è stata lasciata e non ha accettato la cosa, forse perché la mia compagna è più giovane e ciò le ha dato fastidio, a mio parere la stalker è lei. Ha continue richieste economiche per il mantenimento dei nostri due figli (14 e 6 anni). 

Dovrei versarle più di quanto percepisco mensilmente. In generale, oggi, tra i due affitti (mio e suo, per la casa dove sta con i ragazzi) e le spese, le uscite sono superiori alle entrate. 

Per sanare un debito con il fisco ho fatto la cessione del quinto dello stipendio, per starci dentro l’anno scorso ho chiesto una liquidazione anticipata al Fondo pensionistico giornalisti: senza ciò sarei in strada. Se salta il contratto con la Rai saltano pure le basi per le pretese che accampa la mia ex». 

È un giornalista noto. Come è arrivato a questa situazione economica?

«Facile. Mi sono costruito una casa in zona Lambrate che venivano anche dall’estero a vedere: un loft con piscina sul tetto. Passo più lungo della gamba. Mi è costata e ho fatto il mutuo. Nel frattempo le mie entrate sono scese, gli spot per cui usavo la casa sono venuti meno, denunciavo il reddito ma non riuscivo a pagarci sopra le tasse e quindi è arrivato il fisco. Per farla breve, ho svenduto la casa a un milione di euro, per sanare tutto se ne sono andati subito 900 mila euro, da lì per far mantenere alla mia ex il tenore di vita richiesto devo togliere le spese di mantenimento mie, sue, dei figli».

Lei lavora con le parole eppure è sempre lì che si crea il problema.

«E allora facciamo un’altra precisazione, dopo quello che ho letto ancora su di me. Sarei stato radiato dall’Albo dei giornalisti: falso. C’è stata una censura per una mia presa di posizione sull’Islam, cosa che mi è pure valsa una querela da parte di un signore islamico che nemmeno conosco. Ho parlato dell’Islam, non degli islamici. Problemi con le parole io non ne ho: non sono mai stato un bamboccione, ho perso mia madre da piccolo e mio padre non c’era, mi sono fatto da solo e mi assumo le responsabilità delle cose che dico».

Mai un pentimento?

«Mai. Sono così. E non sono razzista, non sono fascista, non sono sessista e non sono un vittimizzatore. Semmai, in questo caso, vittima. Adesso se permette vado a finire di bere il caffè».

Selvaggia Lucarelli schiera l'avvocato. "Frase scurrile e misogina": chi infilza. Il Tempo il 12 luglio 2023

Selvaggia Lucarelli, nei giorni scorsi, si è inserita nel caso Filippo Facci, il giornalista in procinto di sbarcare in Rai con un programma e finito al centro delle polemiche per un passaggio di un articolo su Leonardo Apache La Russa. La giornalista è finita, a sua volta, nel mirino di una collega. Guia Soncini, sul sito Linkiesta, ha pubblicato un articolo sull'indignazione social nei confronti di Facci, schierandosi proprio contro Lucarelli. Ora è Dagospia, il sito curato da Roberto D'Agostino a riportare la lettera inviata dal legale dell'opinionista.  

Sul suo profilo Twitter Selvaggia Lucarelli ha scritto: "Ho dato mandato al mio legale di querelare chi sta tentando di screditare il mio lavoro con volgari (e anche false) insinuazioni sulla mia presunta vita sessuale. Sempre le stesse dinamiche, ovvero provare a zittire e togliere credibilità alle donne e alla loro professione alludendo a sesso e 'sc****e'". Dopo l'annuncio, è Dagospia a ripubblicare la lettera inviata al sito stesso dell'avvocato dell'opinionista. "Il vostro articolo non si limita a riportare nel corpo del testo l’estratto dell’articolo originale scritto dalla giornalista Guia Soncini e pubblicato oggi sul sito 'Linkiesta': la vostra pubblicazione riporta nel titolo a caratteri cubitali la parte dell’articolo originario gravemente falsa e diffamatoria per la parte che rappresento", ha esordito così il legale.

Poi l'avvocato ha riportato la parte incriminata della pubblicazione in cui Guia Soncini faceva riferimento alle presunte relazioni di Lucarelli con Morgan e lo stesso Facci. "Mi preme evidenziare e segnalare la portata gravemente diffamatoria (e falsa) dell’articolo integralmente ripubblicato sulla vostra testata: Selvaggia Lucarelli viene con spregio indicata con l’epiteto “la signora” che (riferito a Filippo Facci e Morgan) “se li è sc***ti entrambi”, ha continuato il legale.

Quindi l'affondo: "Tutto questo non è alcun modo accettabile per modi, toni e contenuto dell’affermazione che non solo è assolutamente scurrile e misogina ma, altresì, completamente falsa. Se è pur vero (noto alle cronache) che Selvaggia Lucarelli ha avuto una breve relazione sentimentale con il cantante Morgan è assolutamente falsa l’affermazione circa una relazione con il giornalista Filippo Facci". "Vi intimo di rimuovere immediatamente l’articolo in parola e, in ogni modo, di rettificare quanto falsamente indicato", ha chiosato l'avvocato di Lucarelli.

La lettera dell’avvocato di Selvaggia Lucarelli a Dagospia il 12 luglio 2023.  

Egregio Direttore, 

scrivo la presente in nome e per conto della signora Selvaggia Lucarelli che mi ha conferito mandato in relazione all’articolo di cui all’oggetto pubblicato in data odierna sul Vostro sito. 

Il vostro articolo non si limita a riportare nel corpo del testo (come viene indicato) l’estratto dell’articolo originale scritto dalla giornalista Guia Soncini e pubblicato oggi sul sito “Linkiesta”: la vostra pubblicazione riporta nel titolo a caratteri cubitali (e con scritta in rosso, così da aumentane la visibilità) la parte dell’articolo originario gravemente falsa e diffamatoria per la parte che rappresento:

“Osservavo, nei giorni di questo scandale du jour, l’indignazione social verso Facci d’una signora, una che stigmatizzava la destra che dà spazio a coloro che compiono reati contro le donne, lo stalker Facci e lo stalker Morgan, e pensavo: sì cara, ma tu te li sei scopati entrambi, cosa ci dice questo di te?” 

Mi preme evidenziare e segnalare la portata gravemente diffamatoria (e falsa) dell’articolo integralmente ripubblicato sulla vostra testata: Selvaggia Lucarelli viene con spregio indicata con l’epiteto “la signora” che (riferito a Filippo Facci e Morgan) “se li è scopati entrambi”.

Tutto questo non è alcun modo accettabile per modi, toni e contenuto dell’affermazione che non solo è assolutamente scurrile e misogina ma, altresì, completamente falsa. Se è pur vero (noto alle cronache) che Selvaggia Lucarelli ha avuto una breve relazione sentimentale con il cantante Morgan è assolutamente falsa l’affermazione circa una relazione con il giornalista Filippo Facci. 

Ma ancora, e di più: l’articolo originario de Linkiesta non riportava affatto l’identità (seppur malcelata) di Selvaggia Lucarelli mentre il Vostro articolo pubblicamente indica “Guia Soncini ha acceso la micia contro Selvaggia Lucarelli”: il tutto con ulteriore aggravio del danno che la mia assistita sta subendo a seguito del gratuito attacco ricevuto come donna e come professionista.

Per quanto sopra, atteso che l’articolo pubblicato dalla giornalista Guia Soncini e da Voi integralmente riportato è non solo falso ma gravemente diffamatorio (ho già provveduto ad inviare diffida in tal senso a “Linkiesta”) e il titolo da Voi proposto non fa che aggravare i danni all’onore e al decoro della parte che assisto, Vi intimo di rimuovere immediatamente l’articolo in parola e, in ogni modo, di rettificare quanto falsamente indicato.

La presente richiesta vale anche con riferimento al diritto di rettifica di cui al GDPR (art. 16) i sensi del quale l'interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la rettifica dei dati personali inesatti che lo riguardano senza ingiustificato ritardo: atteso il fatto che i fatti riportati nel vostro articolo sono contrari a verità, stante l’oggettiva difformità dell’informazione diffusa rispetto al vero, si chiede l’immediata rettifica e la comunicazione dell’avvenuta correzione.

Il pesce piccolo. Quant’è facile prendersela con Filippo Facci, unica testa ottenibile dall’opposizione. Guia Soncini su L'Inkiesta il 12 Luglio 2023

Il capro espiatorio della settimana è l’autore di una battuta brutta, uno che è così d’altri tempi da meravigliarsi se ci s’indigna per la frase fotografata senza, ma guarda un po’, approfondire l’intero articolo 

Apro il file che Pages chiama «Untitled 222» e che a un certo punto salverò chiamandolo «Filippo Facci» dopo due giorni in cui ripasso le due liste: quelli che mi toglieranno il saluto, quelli che mi quereleranno; dopo due giorni in cui mi chiedo come mi venga in mente di scrivere della ridicola vicenda che parte dal figlio di La Russa che forse stupra una, passa da Filippo Facci che sicuramente ci scrive uno dei suoi articoli, e arriva a: il problema dell’Italia è un programma televisivo che neppure ancora esiste.

Come tutti, conosco Filippo Facci da una vita. Quella frase che non si sa bene chi abbia detto per primo, quella sulla rivoluzione che in Italia non si può fare perché ci conosciamo tutti, non è mai stata così vera. Osservavo, nei giorni di questo scandale du jour, l’indignazione social verso Facci d’una signora, una che stigmatizzava la destra che dà spazio a coloro che compiono reati contro le donne, lo stalker Facci e lo stalker Morgan, e pensavo: sì cara, ma tu te li sei scopati entrambi, cosa ci dice questo di te? (Che volgarità, sembro un articolo di Facci).

Quando, il giorno della presentazione dei palinsesti Rai, è stata annunciata una striscia di Facci all’ora di pranzo, quelli più pratici d’indignazione hanno pensato a Enzo Biagi, quelli più pratici di televisione hanno pensato a Vittorio Sgarbi, e io ho pensato: questa destra è proprio alla frutta, poverini.

Non perché pensi che Facci non sia in grado di commentare qualcosa in tv (un ruolo che non mi pare richieda chissà quali qualità: chi pensa che la tv richieda gravitas non ha capito che la tv la gravitas te la dà – persino quando sembra ti dia il contrario); perché, se fossi una persona di potere, a uno come Facci – sciamannato, discontinuo, infantile, inaffidabile – non assegnerei mai una delle caselle disponibili. A meno che non fossi una persona di potere della destra di oggi, così priva di personale potabile che se trovate una chiamata non risposta probabilmente è qualcuno che vuole affidarvi una prima serata, e pazienza se non di tv vi occupate ma d’idraulica o di cucina molecolare.

Ma non vorrei tardare a far cancellare il mio numero da alcuni telefoni e a farmi dire «come hai osato accostarmi a quello, ti querelo», e quindi devo qui dire che non esiste un «caso Facci». Esiste un caso «cinquantenni narcisi che tengono in ostaggio la comunicazione italiana», una grande chiesa che va da Diego Bianchi a Giuseppe Cruciani, da Andrea Scanzi a Roberto Saviano, da Corrado Formigli a Filippo Facci. Sono fintamente divisi tra sinistra e destra, ma davvero accomunati da ciò per cui li riconosci.

Certo: li riconosci perché per la battuta si farebbero ammazzare; certo: li riconosci perché si piacciono moltissimo; ma soprattutto: li riconosci perché hanno gli anelli d’argento. Hanno madri e mogli che, smaniose di percepirsi moderne, non dicono loro «tu conciato così non esci», ed eccoci qui. Ai sedicenni senili con gli anelli da Sandokan, alcuni addirittura con gli anelli al pollice, e senza neanche avere la scusa di dovere nell’anello tenere il veleno se mai li catturasse il nemico.

Se non avete seguito i fatti (beati voi), ve li riassumo brevemente per arrivare a dire la cosa per cui Facci mi querelerà. Accade dunque che Facci scriva un articolo sul caso La Russa, sul presunto stupro perpetrato da Leonardo Apache (Ignazio La Russa incarna la compattezza del pensiero di governo: ha chiamato il figlio con un nome da animale domestico, ma anche con un nome da cristiano). E in quell’articolo scrive il mezzo rigo «fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache», che è la frase per cui da due giorni i giornali sono pieni di questo scandalo.

Ora. Chiunque sappia leggere pensa, di fronte a quella frase, solo una cosa: i danni che ha fatto Marco Travaglio alla prosa degli elzeviristi italiani, non c’è risarcimento che basti, ci vorrebbe una class action.

Io, che vorrei il 41 bis per i giochi di parole, a Facci quella frase l’avrei tagliata non perché sessista ma perché lesiva d’un qualsivoglia gusto delle parole. Poiché nei giornali nessuno passa più niente («passare» è il termine giornalistico per un lavoro estinto: leggere il pezzo che qualcuno ha scritto, e trasformarlo nel pezzo che andrà in pagina), questa travagliata viene pubblicata.

Poiché Facci contiene in sé un abisso che separa come si percepisce (un raffinato prosatore e un serio studioso) e come è (uno che scrive pezzi pieni di sciatterie, refusi, imprecisioni), quella travagliata l’ha scritta, e neanche si è reso conto di cosa sarebbe successo.

Filippo Facci ha pensato di poter scrivere nei suoi soliti toni essendo nel frattempo divenuto uno che era indicato sui giornali come conduttore d’una nuova striscia informativa sulla Rai. Ha pensato che scrivere su un impresentabile giornale di destra, ed essere uno di cui si può luogocomunare «è alla Rai, pagato coi nostri soldi», avessero sul mercato dell’indignazione lo stesso impatto.

Non ha deciso di fare quella imbarazzante battuta comunque perché è un autore tutto d’un pezzo e non dà una regolata ai propri toni per ragioni d’opportunità, no: stolidamente, non ha pensato fosse cambiato qualcosa. Ha pensato di poter scrivere come venti giorni fa, ma anche come vent’anni fa.

È, questo, un dettaglio su cui do testate al muro ogni giorno da anni: c’è gente – beata lei, in un certo senso – che non ha capito in che secolo vive. Che pensa davvero di poter scrivere «fatta da» senza che insorgano i cani di Pavlov dell’indignazione. E, quando essi insorgono, di poter allora davvero pigolare che è una sconfitta che nessuno abbia letto l’articolo per intero e tutti se la prendano per mezza frase. C’è gente che aspetta il luglio 2023, e di venire messa in mezzo personalmente, per rendersi conto di vivere nell’epoca dello screenshot e non delle letture approfondite. Un po’ la invidio, un po’ mi fa pensare che si merita d’inguaiarsi.

La sconfitta dell’articolo non letto per intero sta in una delle numerose interviste date da Facci in questi giorni, ovviamente tutte sbagliate nonché tutte inutili. D’altra parte, fosse uno che sa strategicamente scegliere cosa dire e cosa no, non staremmo parlando d’una vicenda che non sarebbe mai accaduta. A un certo punto, in una di queste insensate interviste, fa un elenco di reati dei quali sarebbe stato accusato e dice che lo difende Annamaria Bernardini De Pace. Poco dopo su Repubblica compare un articolo di Alessandro Simeone – ex socio della Bernardini, e avvocato di Ilary Blasi contrapposto a lei avvocato di Francesco Totti – che gli passa tardivamente il pezzo, elencando imprecisioni e precisando che quelli cui si riferisce non sono reati. È tutt’un regolamento di conti sulla sua testa, povero Facci.

Poi c’è, rimossa da questa mia ricostruzione ma che forse meriterebbe un capitolo a sé, l’unica entità più disperata della destra italiana: la sinistra italiana. Alla quale non è parso vero di potersi gettare sul pesce piccolo e chiedere con vibrante indignazione la testa di Facci, ché magari si finisce con meno pive nel sacco di quando si chiede quella del più attrezzato Vittorio Sgarbi.

Hanno tirato fuori il loro bravo catalogo di screenshot e ricordato che questo Facci è riprovevole in molti modi, ha irriso una vittima di manata sul culo, ha detto che gli fa schifo l’Islam, il catalogo delle gravità è ampio. Ma non abbastanza ampio e rilevante, il catalogo delle nefandezze, da tirarlo fuori nei giorni prima del gioco di parole.

Che ti faccia schifo l’Islam diventa grave solo dopo che hai fatto un gioco di parole che non faceva ridere. Solo quando possiamo tirar fuori persino i tuoi bisticci con l’ex moglie, i tuoi debiti, i tuoi vizi, giacché sei divenuto capro espiatorio e non hai più nulla d’umano; ma ora non è che si possa pensare che i partecipanti a questo gioco di società – da Laura Boldrini a Sandro Ruotolo giù fino a Filippo Facci – conoscano la letteratura e i modi in cui queste dinamiche sono state codificate, che abbiano letto Girard o Agamben o anche solo Soncini.

Diversamente dagli indignati, leggo spesso i giornali italiani. E quindi vorrei rendermi utile segnalando la pericolosità del precedente. Non è che essi giornali siano zeppi di Michele Serra e Mattia Feltri. Non è che lo standard sia umorismo raffinato, prosa invidiabile, precisione lessicale chirurgica. Se iniziate a chiedere la testa di tutti quelli che fanno battute brutte, non ne rimane praticamente nessuno.

(AGI il 10 luglio 2023) - La Divisione Anticrimine della Questura di Milano ha inviato nei giorni scorsi un provvedimento di 'ammonimento' per stalking al giornalista Filippo Facci sulla base delle dichiarazioni della ex moglie. Lo apprende l'AGI da fonti qualificate. 

L'ammonimento è un provvedimento amministrativo previsto dalla legge a tutela di una presunta vittima di stalking con natura preventiva e dissuasiva per evitare danni piu' gravi alla persona che riferisce di aver subito atti persecutori.

Estratto da open.online il 10 luglio 2023.

Dalle accuse di sessismo per la frase nel suo articolo sul caso di Leonardo La Russa, fino alla denuncia per stalking da parte dell’ex compagna, per Filippo Facci sono giorni sulla graticola. In tutta questa tempesta di accuse e polemiche, però, il giornalista di Libero assicura in un’intervista a Repubblica di Matteo Pucciarelli: «Se sto perdendo il sonno è sicuramente per altro, non per tutta questa storia». 

L’ultima faccenda che colpisce Facci è la rivelazione da parte dell’agenzia Agi di un ammonimento notificatogli dal questore di Milano dopo le accuse di stalking da parte della sua ex compagna. […] 

A proposito dell’ammonimento di cui si è saputo solo oggi 10 luglio, ma che risalirebbe a metà giugno, Facci dice che si tratta una «questione di pochissimo conto, parliamo di una persona che ho lasciato nel 2019, non è la mia ex moglie ma la madre dei miei figli. Lo stalking non è di chi lascia, no? E l’ho lasciata per un’altra donna con cui andrò a convivere.

Comunque si tratta di uno scambio di mail e basta – spiega – tra l’altro questa persona l’ho anche denunciata io perché mi ha messo le mani addosso davanti ad altre persone». Una vicenda complessa ed evidentemente personale, che inevitabilmente ha riacceso le polemiche contro di lui: «Tra un po’ diranno che all’asilo ho guardato male una bambina. Da giorni si cercava un incidente, eccolo servito». 

[…] Tutti questi attacchi secondo Facci sono solo strumentali per colpire palazzo Chigi. «Sono il pretesto per cannoneggiare il governo. Qualsiasi giornalista in questa fase si trova a vivere una specie di ricatto». È ancora sicuro che il suo programma in Rai non sia davvero a rischio: «La Rai non paga così tanto, ma sono soldi che mi servirebbero a campare. […]

La guerra tra Facci e l’ex compagna: litigi in strada, insulti e «ammonimenti». I temporeggiamenti della Rai. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera l'11 Luglio 2023

Il giornalista, pronto a sbarcare in Rai, è stato ammonito dal questore di Milano per stalking nei confronti della madre dei suoi due figli. Elenco di mail e sms carichi di insulti (spesso reciproci) lungo e in gran parte irripetibile

Sullo sfondo di questa storia ci sono due vittime innocenti. Sono i due figli di 13 anni, il grande, e di 6, la piccola. Sono loro ad aver subito in questi quattro anni le conseguenze più pesanti, come tutti i figli di coppie entrate nel girone infernale di una separazione conflittuale, tra cause, avvocati, richieste di pagamenti, accuse e ripicche. 

Nello specifico quella tra il giornalista di Libero Filippo Facci, 56 anni, in predicato di sbarcare in Rai tra le polemiche, e la compagna 49enne avvocata, inizia nel 2019. E dopo una sentenza civile, che ha stabilito accordi e oneri della separazione, l’epilogo è stato l’ammonimento del questore di Milano Giuseppe Petronzi nei confronti del giornalista per stalking verso la donna.

Un provvedimento notificato dalla Divisione anticrimine il 5 maggio con la «comunicazione di avvio del procedimento amministrativo» richiesto dalla compagna quasi un mese prima, il 19 aprile. Poi era stata la volta delle «memorie difensive» che il legale del giornalista, Luca Procaccini, aveva inoltrato alla polizia. Difesa che però «pur avendo meglio lumeggiato l’intera vicenda e meglio inquadrato l’accesa e persistente conflittualità in essere tra i due ex compagni, specialmente per ciò che concerne la gestione logistica ed economica dei due figli minori, non hanno sostanzialmente smentito i fatti, come riferiti e documentati».

Così s’è arrivati alla convocazione di Facci in Questura il 21 giugno e alla conseguente notifica dell’ammonimento. Ora i legali di Facci — la causa di separazione era stata seguita da Annamaria Bernardini De Pace — dicono di essere pronti ad agire di conseguenza presentando medesima richiesta d’ammonire la ex. Ma su questo si vedrà nei prossimi mesi. Pendente è ancora un altro episodio, quando il 17 maggio i due si affrontano fuori dalla scuola del figlio. La ex si presenta per un colloquio con i professori, poi incontra il giornalista che — secondo la ricostruzione degli investigatori — ha «sferrato dei calci allo scooter» della donna «e le aveva abbassato con un colpo la visiera del casco». Lei, come ha ricostruito Repubblica, gli tira uno schiaffo e chiama il 112, lui si allontana prima dell’arrivo dei poliziotti: «Salutameli!». 

Gli inquirenti però trovano conferma di tutto nel racconto di molti testimoni che riconoscono il volto del «noto giornalista e opinionista televisivo Facci Filippo». Ora, ricostruisce la Questura, tutto «sarà valutato nelle sedi competenti, pur nelle diverse prospettazioni» ma «appare concordemente essere scaturito da uno scatto d’ira di Facci».

Poi ci sono le rimostranze della ex compagna quando il giornalista decide di «togliere l’autorizzazione all’espatrio dei figli minori» con lo scopo di «impedire alla sola madre di trascorrere tempo di qualità con i figli». Ma l’elenco di mail e sms carichi di insulti (spesso reciprochi) è lungo e in gran parte irripetibile: «Idiota maleducata»; «Sei ignorante e stupida»; «Brindisina sgraziatamente parvenu». Compresi quelli verso la ex suocera.

Dopo le frasi sessiste sul caso La Russa, ieri il cda Rai ha scelto di rinviare la decisione sul futuro programma di Facci . «Non è mia abitudine decidere sulla base di campagne politiche strumentali e emozionali. Non mi faccio trascinare da nessuno», le parole dell’ad Rai Roberto Sergio.

Estratto dell’articolo di Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” l'11 luglio 2023.

Il questore di Milano ha presentato un provvedimento amministrativo d’ammonimento nei confronti del collega di Libero Filippo Facci per stalking verso l’ex compagna. 

Parliamo con gli avvocati di Facci, Annamaria Bernardini de Pace, tra i massimi esperti di diritto della Famiglia e della Persona, e Luca Procaccini, che lo difende penalmente. […] 

Avvocato Bernardini de Pace: cosa comporta questa misura?

«Guardi, in trent’anni di carriera non avevo mai visto un questore muoversi per un semplice litigio tra genitori, per uno scambio di mail dove entrambi […] se ne sono detti di tutti i colori. E a scrivere per prima a Facci è sempre stata l’ex compagna, e sempre per questioni che riguardavano i figli. 

Ho assistito mariti sbattuti fuori di casa in mutande, che sono rimasti senza vestiti, senza macchina. Violenze fisiche e psicologiche, calci e minacce, ma non è mai stato emanato alcun ammonimento per stalking. Mi pare un po’ strano che stavolta sia stato fatto, anche perché secondo questa logica i questori dovrebbero emanare lo stesso provvedimento a tutte le coppie che litigano».

E perché stavolta il questore si è mosso?

«Questo non glielo so dire: mi viene da pensare che l’ex compagna di Facci, essendo un avvocato penalista, sia stata particolarmente abile a costruire la denuncia e a convincerlo». 

Ma nel concreto l’ammonimento cosa significa?

Interviene l’avvocato Procaccini.

«In sostanza “finitela qui sennò la cosa finisce in giudizio”». 

Procaccini, veniamo alla denuncia. Qual è il contenuto delle mail?

«In una ad esempio l’allora compagna dice a Facci di tenere i figli e lui risponde che in quei giorni non può perché si è rotto la mano. Se uno ha la mano rotta come fa a badare al bambino? […] Lei risponde che sono fatti suoi, che o lo tiene oppure presenta una denuncia alla polizia per abbandono di minore. La signora nella corrispondenza usa spesso toni aggressivi, ricattatori facendo leva sull’abuso della tutela di diritti presunti».

Cosa viene contestato a Facci?

«Di aver usato toni aggressivi e discriminatori, ma li ha usati anche la signora, che ad esempio definiva “babysitter” l’attuale compagna di Facci, la offendeva solo perché è molto più giovane di lei». 

[…] Si tratta solo di violenza verbale?

«No, perché Facci ha preso uno schiaffo, e l’ha denunciato». […] Era fuori dalla scuola dei figli, c’era anche l’allora compagna. Lui è stato citato per aver tirato un calcio al suo motorino e per averle abbassato la visiera. Lei gli ha tirato uno schiaffo».

[…] Interviene Bernardini de Pace.

«Sì però Luca, solo se si va contro gli uomini...contro le donne non va mai nessuno. Come mai? Recentemente ho osservato i casi di due donne violentissime, una che ha perseguitato un uomo a cui ha spaccato la porta di casa, gli ha urlato di tutto, ha fatto qualsiasi cosa e il pm ha detto “bisticci tra innamorati” e non gli ha dato neanche l’ordine di protezione. 

Secondo, come dicevo prima: ho visto un signore chiuso fuori da casa, in mutande, la signora gli aveva rubato qualsiasi cosa, è stato chiesto l’ammonimento al questore e non le è stato dato». 

[…] Scusi Procaccini, ma l’ingiuria non è stata depenalizzata? Qui si parla sostanzialmente di ingiurie, se abbiamo capito bene.

«È vero, ma in virtù dell’introduzione del reato di atti persecutori vanno a integrare questa fattispecie. Ma qui è fondamentale evidenziare un aspetto».

Dica.

«Nel tempo la signora ha messo in atto un’altra forma di atto persecutorio subdolo, quella di tempestare di richieste tramite avvocati e atti di giustizia un uomo che era ed è in oggettiva difficoltà economica». 

Continue richieste di soldi?

«Mettiamola così: tutto nasce dalla crisi del loro rapporto. Facci […] doveva far fronte a una serie di pendenze economiche. La signora dice: “O ci lasciamo alle condizioni che dico io, oppure chiedo l’assegnazione della casa famigliare”, che doveva essere venduta per appianare una pendenza economica. E qui nasce nei confronti del nostro assistito il primo atto che potrebbe configurarsi come persecutorio. 

Poi, approfittando dell’impossibilità di Facci di far fronte alle richieste, è stato un profluvio di pretese. Uno stillicidio. Facci in una prima fase ha tenuto botta. Poi non è stato più possibile, e l’avvocato Bernardini de Pace può confermarlo: noi assistiamo Facci gratuitamente perché lo conosciamo da tanti anni, ma un povero cristiano qualsiasi che non ha conoscenze verrebbe travolto dalle spese, sarebbe morto sotto la mole delle azioni di giustizia». 

Avvocato Bernardini de Pace: il collega Procaccini ha parlato di «gogna mediatica». Concorda?

«Non c’è dubbio, e poi chi è che ha passato certe informazioni ai giornalisti?  hiediamocelo». 

Interviene Procaccini.

«E anche questo è uno strumento per angosciare un uomo già provato dal caos che è stato sollevato dopo l’articolo sul figlio di La Russa e la presunta vittima». 

Ancora Bernardini de Pace.

«È l’ennesimo atto persecutorio contro Facci».  […] «Domandiamoci chi è stato: lo sapevano la signora e Filippo Facci. Facci non è stato, e quindi chi è stato?».

Dagospia l'11 luglio 2023. LO SCAZZO DEI FELTRI – MATTIA DIFENDE FACCI E IL SUO QUASI OMONIMO STEFANO, EX DIRETTORE DEL "DOMANI", LO INFILZA: “SE IN TRENT'ANNI DI AMICIZIA SONO QUESTI GLI ANEDDOTI PIÙ SIGNIFICATIVI, MATTIA AVREBBE FATTO UN SERVIZIO MIGLIORE ALLA (SUA) CAUSA EVITANDO PROPRIO DI SCRIVERE...” – MAURIZIO CRIPPA, VICEDIRETTORE DEL FOGLIO, IN TACKLE: “SE IL TUO INTELLIGENTE COMMENTO NON È IN GRADO DI COGLIERE I MOLTI E SOTTILI SOTTOTESTI DI UN GENERE GIORNALISTICO CHE SI CHIAMA CORSIVO, TE NE PUOI ANDARE A ZAPPARE”

Mattia Feltri per “la Stampa” l'11 luglio 2023.

Conosco Filippo Facci da quasi trent'anni e un paio di aneddoti di quand'eravamo ragazzi mi pare traccino qualcosa della sua biografia. Un giorno al Foglio gli chiesi di fare il birillo per me: gli lanciai dall'altro capo del corridoio una palla da calcio come fosse da bowling e lui, colpito, proprio come un birillo cadde giù. 

Una sera, al fischio d'inizio di una sfida a calcio contro il Borghese, settimanale di destra, partì pallone al piede al grido «morte ai fascisti!». Chissà: sarà forse questo secondo aneddoto, più facilmente, a fargli saltare il programma in Rai. Ma se tre cose so di Filippo è che nella vita è abituato a cadere come i birilli, i fascisti gli piacciono poco e ha sempre amato vivere in uno spettacolo dell'assurdo.

Invece, a causa di una sua molto infelice frase contenuta in un articolo di sabato, il Pd ha lanciato un'operazione militare speciale, con moltitudini digitali al seguito, per liberare l'Italia da un fascio e non solo, pure razzista e sessista. È la tragedia buffa dei nostri tempi. 

Così dopo trent'anni mi si dice di avere lavorato e stretto amicizia con una canaglia di tale calibro: tutta un'esistenza ignorata, superflua, sepolta. Il Filippo sodale di Marco Pannella e Bettino Craxi, il Filippo un po' radicale e un po' socialista, il Filippo libertario, nemico di ogni proibizionismo, sostenitore di ogni diritto purché non declinato in pigrizia mentale e lessicale, avversario dei giustizialisti e dei manettari, dei linciaggi giudiziari o mediatici, dei complottismi, l'ostinato anticonformista ai limiti dell'autolesionismo non esiste più. Mai esistito. Bella partita che vi state giocando.

Estratto dell’articolo di Massimo Pisa per “la Repubblica” l'11 luglio 2023. 

Alle tre e mezza del pomeriggio dello scorso 17 marzo, la volante Monforte della Questura parcheggia all’esterno di una scuola media del quartiere Città Studi. Ad attenderla […] c’è una nota avvocatessa. Non c’è invece il suo ex compagno Filippo Facci, che prima dell’arrivo dei poliziotti se n’è andato con un secco: «Salutameli!». 

Agli agenti la donna spiega che, al termine di un colloquio con i professori del figlio maggiore, tra i due si è acceso l’ennesimo battibecco, con scambio di battute sui rispettivi genitori (Facci ha perso la madre da bambino). Racconta ancora […] che quando è salita sullo scooter il giornalista ha assestato due calci al carburatore e una manata al casco. Al che l’avvocatessa reagiva con uno schiaffo a Facci, prima che i presenti li dividessero e intimassero al giornalista di chiedere scusa. Invano.

Non era […] che l’ultimo episodio di un conflitto cominciato con la separazione dei due ex compagni, sancita nel giugno 2019 da un decreto della nona sezione del Tribunale civile di Milano che stabiliva l’affido congiunto dei due figli della coppia — oggi il grande ha 13 anni, la figlia ne ha 6 — oltre ai giorni di visita, le ferie, gli assegni.

I rapporti […] si erano progressivamente guastati fino a venire, appunto, alle mani. Ed era stato questo episodio a convincere l’avvocatessa a fare istanza di ammonimento al Questore di Milano, Giuseppe Petronzi, nei confronti dell’ex compagno. Un lungo esposto con allegati sms e mail pieni di insulti, rivolti in un paio di casi (e minacciosamente) alla madre dell’avvocatessa, a condimento di croniche divergenze sull’educazione e sui periodi da trascorrere insieme ai figli. Tanto che lo scorso 28 febbraio Facci aveva presentato la revoca dell’assenso all’espatrio dei due piccoli, alla vigilia di una vacanza della donna con il nuovo compagno. Annullata. 

Derivano da qui l’istruttoria della Divisione Anticrimine della Questura milanese, che ha raccolto la memoria difensiva del giornalista e interrogato i genitori dell’avvocatessa, e l’ammonimento firmato il 21 giugno dal questore Giuseppe Petronzi a carico di Facci per le “reiterate molestie […] espressioni dal contenuto gravemente ingiurioso, lesive della dignità della sua persona, delle sue capacità professionali, della sua origine territoriale”.

Un bouquet, cogliendo fior da fiore, che va da “idiota maleducata” a “put... parassita”, da “sei ignorante e stupida” a “sei una str...”, fino a uno “sgraziatamente parvenu” a corredo della provenienza geografica dell’ex compagna e a una tetra allusione “alla morte dei tuoi genitori”. 

Compresa la madre cui aveva promesso “di andare a prenderla a schiaffi”. Non manca, nelle motivazioni del questore, la “molesta interferenza nella vita privata e di relazione della richiedente”, ovvero i pesanti riferimenti al nuovo compagno e alla vita affettiva della ex.

E tra i comportamenti che “hanno determinato” […] “un perdurante stato di ansia” nella vittima c’è quel diniego all’espatrio come ripicca: “il Facci ammette in memoria che lo scopo era quello di impedire alla sola madre di trascorrere tempo di qualità con (i figli, ndr), non essendovi quindi da parte di Facci alcuna reale motivazione legata al superiore interesse dei minori”. Le tesi difensive del giornalista […] “non hanno sostanzialmente smentito i fatti come riferiti e documentati dalla parte istante”. Ecco dunque l’ammonimento, che “non può che fondarsi sulle condotte integranti gli elementi costitutivi degli atti persecutori”. Un primo step, che farebbe da aggravante in caso di recidiva, accompagnato da un invito “ad intraprendere un percorso trattamentale” per non ricascarci ancora.

Dagospia l'11 luglio 2023. LA PRECISAZIONE DI ROBERTO SERGIO, AD RAI

[…] ci tengo a ribadire che non è mia abitudine decidere sulla base di campagne politiche strumentali e emozionali. Non mi faccio trascinare da nessuno, motivo per il quale comunicherò la decisione presa quando avrò tutti gli elementi di valutazione, assumendomene la piena responsabilità, e comunque in tempi brevi.

Estratto dell'articolo di Francesca Fagnani per “La Stampa” l'11 luglio 2023. 

Filippo Facci dopo essere finito al centro delle polemiche per l'articolo di commento alla vicenda che ha coinvolto il figlio del presidente del Senato La Russa, pubblicato su Libero lo scorso sabato, si dice sbalordito, attonito, allibito dal cretinismo bipolare e arrabbiatissimo (lui non ha detto proprio così) perché "usato come pretesto per attaccare il governo". E come se non bastasse sta anche traslocando, ci dice, per ragioni economiche.

[...] La bufera però è scoppiata su un passaggio in particolare, non sull'intero contenuto dell'articolo, quello in cui scrivi: "Risulterà che una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa". Difendi il resto dell'articolo, ma di questa frase senti la necessità di scusarti? 

«Non è nemmeno il mio stile, non so cosa c...o mi è preso. Ma comunque non chiederei scusa di nulla, non è stata capita la frase, è stata usata come pretesto. È come una barzelletta che non fa ridere. Se c'è bisogno di attaccarsi ad una frasetta per attribuirmi, come ha fatto Sandro Ruotolo, quattro reati come sessismo, razzismo, apologia del fascismo e vittimizzazione secondaria interroghiamoci sul sistema non su uno svarione stilistico».

Sicuro che sia solo uno svarione e non il tuo stile?

«Quale stile? Ma quale stile? Vai in libreria, dove è in vendita un mio libro (La guerra dei trent'anni. 1992-2022) che farà letteralmente storia, altro che è il mio stile l'inciampo di una frasetta del c...o, inconsistente, in cui semplicemente si sostiene che una persona ha preso cocaina e un'altra ci è andata a letto». 

Però se una persona non è cosciente perché ha assunto droghe nessuno ne può abusare, secondo legge e coscienza.

«Ma chi l'ha detto che non era cosciente, dalle analisi risulta che ha preso quattro sostanze ma non il Ghb, la droga dello stupro e nemmeno il Rivotril. Si era fatta due piste di cocaina, che è la droga di chi lavora, non di chi deve astrarsi dalla realtà e sballarsi, la usano gli atleti, i piloti. Ha preso droghe che danno sostegno e brio, che amplificano la volontà, non il contrario.

Aveva anche assunto lo Xanax che si usa anche per placare l'ansia e il batticuore provocato dalla cocaina. Questo le si ritorcerà contro nel processo, è una questione ovvia. Ripeto, sono droghe che aumentano l'attenzione e lo stato di eccitazione, ti fanno fare quello che vuoi tipo baciare Leonardo Apache prima di smettere di ricordarsi quello che è successo». 

Non c'eravamo né io né te, ma la ragazza racconta di non ricordare nulla, come scrive nelle chat all'amica il giorno dopo.

«Ah vabbè, torniamo ad Adamo e Eva allora, parli come una che non ha mai provato la cocaina».

Tu invece ne hai fatto uso in passato come hai già raccontato…

«Conosco bene Milano e 15 anni fa ho assunto droghe per fare un'esperienza, così come ho scalato il Monte Bianco, ho fatto bungee jumping e tante altre cose. Ma che intervista stiamo facendo? L'ho presa per un po', poi ho smesso, non sono mai stato dipendente e conosco gli effetti del rivotril perché l'ho preso come antidolorifico dopo un'operazione alla schiena». 

In tutto ciò il tuo nuovo programma in Rai rischia di saltare adesso, si è fatto sentire qualcuno?

«Ho ricevuto una telefonata che non è servita a niente, volevano sapere che aria tirava». 

E non avrebbero dovuto dirlo loro a te?

«Ma che ne so. In Rai adesso rispetto a questa storia si trovano in un doppio vicolo cieco: non possono cedere per una cretinata del genere, ma allo stesso momento le donne della Rai sono tutte contro di me».

Ti dispiacerebbe se saltasse?

«Quel lavoro mi farebbe comodo dal punto di vista alimentare, altrimenti ti assicuro che avrei fatto un passo indietro da solo, non voglio stare lì a difendere la mia rubrichina. Mantengo diverse persone. Molti pensano all'egemonia culturale, ma per me vale solo quella del rosso in banca, per questo sto traslocando. Vada come vada. Mi ritrovo cornuto e mazziato». 

[…] Il fatto che abbiano tirato in ballo la tua vita privata con la denuncia per stalking della tua ex moglie?

«L'ho lasciata nel 2019, era una no-vax e per le sue idee ha fatto prendere il Covid ai miei figli, ho reagito a questo e solo via mail. Dov'è lo stalking, dove?». 

Qual è la cosa che ti è dispiaciuta di più?

«Essere associato alla ministra Roccella, persona di cui ho scritto le peggiori cose, io che sono radicale, proprio perché non si fanno distinzioni nel bipolarismo del cretinismo».

Filippo Facci. Da Perfidieinterviste.it.

(…) Chi era tuo padre?

Mio padre, come mia madre, era di origine trentina e austroungarica. Un ingegnere, un uomo quadrato ma con slanci di goliardia e di pazzia come capita tipicamente ai trentini. Come padre, un uomo assente, ma senza dolo, non ne era consapevole. Ma, in un certo senso, è stata la persona che mi ha dato la possibilità di non uccidermi finché lui fosse stato vivo. 

In che senso?

Il suicidio è una tentazione per molti, saltuariamente, anche se poi, per fortuna, pochi ne hanno il coraggio. Io, un po’ come il personaggio di Harry Haller in un romanzo di Herman Hesse, romanticamente mi diedi una scadenza: non l’avrei mai fatto sinché mio padre fosse stato vivo, mi dissi. E’ morto nel 2009, ma un mese dopo è nato mio figlio, e nuova scadenza.   

(...)

Come hai agganciato Craxi? 

Non l’ho agganciato, gli ho telefonato e me lo passarono. Ero stato giornalista giudiziario per l’Avanti quando scoppiò Mani Pulite, e peggio di Mani pulite c’è solo essere nato al paesello tuo, San Giovanni Rotondo. Da cronista avevo scoperto molte anomalie nelle inchieste che non venivano raccontate e pubblicate, perché tutti, o quasi, erano schierati con la Procura di Milano. 

A un certo punto pensai di rivolgermi direttamente a Craxi per raccontargliele. Lui comunque sapeva della mia esistenza, e mi diede appuntamento al Raphael assieme a due amici. Cominciammo così. Entrammo in confidenza velocemente, ricordo un certo fastidio per la mia impudenza da parte del codazzo residuo che ancora lo attorniava. Avevo 25 anni, in effetti ero un ragazzino.  

Che informazioni gli davi?

Gliene davo su Mani pulite e soprattutto su Antonio Di Pietro. Le ragioni che lo spinsero a dimettersi da magistrato sono molte: ma parecchie, anche in sede giudiziaria, a Brescia, nacquero da spunti che raccolsi e disciplinai io. Anche qui: non da solo, ma credendoci, e in piena buona fede. E mi capitò di tutto. Anche che entrarono a casa mia in mia assenza e che me la misero a soqquadro casa, alla ricerca di chissà che cosa.  

(...) 

Da “craxiano ad personam”, come ti sei autoproclamato, non pensi di essere stato ossessionato da chi non amava Craxi? 

(...) Giuliano Amato, uno che non meriterebbe neppure di essere citato, un professorino senza dignità né spina dorsale. Per tanto tempo ho detestato anche Claudio Martelli perché aveva incarnato il ruolo del parricida, del traditore del padre che l’aveva creato dal nulla; dopo anni però l’ho rivalutato: anzitutto perché sono convinto che si sia pentito, ma soprattutto perché per giudicarlo non esiste solo il parametro Craxi. Oggi penso, senza temere smentite, che sia stato il più grande ministro della Giustizia che abbiamo mai avuto: in anni pericolosi e incredibili inventò Giovanni Falcone al Ministero e quindi la Superprocura, favorì la prima e necessaria legislazione antimafia dopo le stragi, un lavoro svolto peraltro nel totale torpore del Parlamento. 

So che eri molto amico di Luca Josi… Cosa gli hai combinato per rovinare la vostra amicizia?

Era il mio migliore ma non voglio parlarne. 

Perché hai odiato Vittorio Feltri? Cosa ti ha fatto?

Feltri negli anni Novanta ha introdotto una visione molto mercatistica del giornalismo, basata sul mero numero di copie vendute: se i lettori vogliono questo, io glielo do. Quando scoppiò Mani Pulite, trasformò l’Indipendente nel giornale più forcaiolo e cinico di tutti i tempi – vendendo anche tante copie – e quindi la mia opposizione fu naturale. Credo che il vertice lo toccammo però molti anni dopo, quando, fondato Libero, dal Giornale allora diretto da Belpietro, pubblicai una pagina con delle intercettazioni telefoniche tra lui e Renato Farina, imbarazzanti per quest’ultimo.  

Eri sul suo libro nero. 

Per forza. Poi, quando tornò a Libero, tutti in redazione dicevano: Facci ha chiuso. In effetti, per un bel periodo, chiese la mia testa. Poi le cose cambiarono nel tempo. Ci conoscemmo parlando più che altro di cose non giornalistiche, e scoprimmo un’affinità naturale. Cominciammo anche a uscire a cena.  E’ stato una cosa piacevole, nell’insieme. Poteva facilmente non capitare. 

Sei stato diretto da Feltri, Sallusti, Belpietro, Ferrara: chi, dei quattro, è il meno talentuoso? E perché?

Belpietro è il meno direttore e il più vicedirettore, resta naturalmente un uomo-macchina alla vecchia maniera, un cosiddetto culo di pietra, ma umanamente è arido, chiuso, iper difeso, e questo alla distanza conta. Devo a lui, anche se ora non siamo più amici, il mio arrivo a Libero: da kamikaze com’ero, nel 2009 lasciai un posto sicuro a Mediaset per seguirlo a Libero, che tutti davano per morto perché orfano del fondatore Feltri. 

Perché non siete più amici tu e Belpietro?

Sono fatti personali, anche se credo che lui non si sia posto neppure il problema. È sparito e basta. Come dicevo, umanamente è un po’ desolante.  

(…)

Anni fa, in una intervista, hai detto peste e corna di Giampiero Mughini… Perché ce l’avevi con il “rompicazzi”? 

Essenzialmente perché non lo conoscevo. Lui, sul Foglio o in tv, fu tra i primi a mischiare il serio e il faceto, era un intellettuale di tutto rispetto che mischiava temi alti a commenti sulla Juventus. Era una tendenza un po’ nuova che non mi piaceva, e che oggi è regola, normalità. Rivedendomi oggi, ero ridicolo. 

E per questo banale motivo ti stava sul cazzo?

Sì, lo presi a simbolo senza neanche conoscerlo. Ci fu una piccola querelle sul Foglio. 

E poi? Cosa vi ha fatto avvicinare?

La conoscenza, come detto. Una volta ero a casa mia, nel loft che possedevo e che era stato pubblicato per pagine intere anche su un inserto del Corriere, e suonò il campanello: era lui, Mughini, inaspettatamente. Voleva vedere il loft. Poi non ricordo in che occasione, ma ammisi pubblicamente che nei suoi confronti mi ero clamorosamente sbagliato: mi piacque farlo perché non lo facevo mai. 

Quand’è che farai pace con Travaglio? Come mai lo detesti così tanto?

Non so se lo detesto. Ogni volta che l’ho incontrato ho sentito un moto spontaneo di simpatia. C’è una fisiologica e opposta visione sulla giustizia e su Mani pulite, ma in realtà, a pensarci, non abbiamo mai recuperato dopo che una volta aveva sfottuto vari personaggi per i loro difetti fisici, tipo «donna cannone, donna barbuta» a Giuliano Ferrara, volgarmente «accucciata» parlando di Ritanna Armeni, «la vocina del padrone» a Mario Giordano, roba così. Di me si è sempre inventato che mi tingevo i capelli, meglio, che avevo le mèche. In queste cose è un po’ un fascistello da oratorio.  

E Riccardo Muti, scusa, non è ancora un grande?

Nel senso di potere, lo era. Muti è stato il mio Di Pietro musicale. Finché è stato alla Scala, era intoccabile come pochi altri casi che abbia mai conosciuto. 

Perché? Cosa faceva quando lo criticavi?

Non si poteva proprio criticarlo. Era molto più facile parlar male di un politico che di Muti. Al Corriere della Sera, a far da guardiani, aveva Paolo Isotta e altre vestali, al Giornale c’era Fedele Confalonieri, che di Muti era pazzo… 

Era permaloso?

Una sera uscii a cena con parte dei suoi orchestrali scaligeri e lo raccontai sul Giornale. Belpietro, che era direttore, diceva sempre che nessun mio articolo sarebbe mai uscito senza che lui prima lo controllasse: ma quella volta, scrivendo di musica, evidentemente mi trascurò. Ma i miei articoli, essendo anche un po’ tecnici, passavano sempre il vaglio. Quella volta, probabilmente, sorvolò. Avrà pensato: Facci scrive di musica, almeno su questo non farà danni. Sbagliava. La piena libertà poi me lo potei concedere solo sul Foglio, quando il giornale di Ferrara era il vertice del pensiero politico e culturale italiano, dove scrivevano veri fenomeni. Nei fatti diedi il colpo di Grazia alle dimissioni di Muti dalla Scala.  

Rinfrescaci la memoria. Cosa avevi scoperto?

Nel marzo 2005 Ferrara mi diede il via libera per pubblicare sul Foglio un mega-ritratto di Muti destinato a cozzare clamorosamente contro l’apparato che lo proteggeva. Il giorno della pubblicazione era un sabato: Muti lesse l’articolo, telefonò a Fedele Confalonieri e gli comunicò le proprie dimissioni dal Teatro alla Scala, dov’era stato direttore di ogni cosa per quasi vent’anni: si sentiva tradito politicamente – dopo esserlo stato clamorosamente dai suoi stessi orchestrali – dopodiché Confalonieri, imbufalito, telefonò a Ferrara, che infine telefonò a me: «Hai fatto il botto», mi disse. 

Nei giorni successivi ricevetti le telefonate più impensabili: mi contattarono persino due celeberrime bacchette straniere (oggi scomparse) che misero a dura prova il mio inglese incespicante, e mi chiamò anche Franco Zeffirelli, che non conoscevo ma che mi voleva assolutamente a pranzo nella sua villa: rifiutai per timidezza. Conservo ancora i bigliettini autografi del più grande dei critici musicali, Paolo Isotta: veleno puro.  

Chi fu il direttore che bloccò l’intervista che avevi fatto a Previti? 

Belpietro, che però fece bene. Previti era intrattabile. Aveva sfanculato non so quanti colleghi del Giornale che avevano provato a intervistarlo. Belpietro allora mi chiamò e mi disse: provaci tu, fai un’intervista vera. Ma Previti aveva già pronte le risposte senza aver visto le domande. Fu un calvario. Prima della pubblicazione, Previti chiese di vedere l’intervista: mi opposi. Dopo vari tira e molla – con lui che chiamava sempre Berlusconi perché intervenisse – acconsentii a mandargli solo virgolettato delle sue risposte. Ma neanche bastò. Voleva leggere l’inizio dell’intervista, «l’attacco«, poi il titolo, persino vedere le fotografie.  

Belpietro ricevette delle pressioni?

Sì, e anch’io. Berlusconi chiamò un sacco di volte: vi prego, accontentatelo, diceva, non ne posso più.

(…) 

Quante volte sei stato cornificato?

E chi può dirlo? È capitato, e lo so, ma chissà quante non le so. In generale però ho avuto fidanzamenti intensi e senza tregua che non davano molto motivo di cercare altro. 

In che senso senza tregua?

Beh, se hai rapporti tutti i giorni, o quasi, è più difficile che una donna ti tradisca.  

Scopi ancora?

Sarebbe preoccupante il contrario, ma la tua domanda ha un senso perché qualche anno fa, precisamente sei, ripresi a farlo dopo un lungo periodo di astinenza: mi ero proprio stufato della dittatura del sesso, di questa cosa per cui, a leggere in giro, sembra sempre che tutti scopino continuamente per tutto il giorno con tutti. Che non è vero: credo, anzi, che sia il periodo storico in cui lo si faccia meno. Nel 2017 stavo accordandomi con Rizzoli per fare un libro che si titolasse «Per farla finita con il sesso», dove sostenere che era onnipresente e sopravvalutato, ma culturalmente, come dire, una retroguardia, una cosa dimostrativa da neri o da portoricani. Cazzate. Non mi vergogno a confessare che il vero sesso l’ho scoperto dal 2017 in poi.

Perché l’hai scoperto così tardi? Raccontami.

Son cose mie, ma posso metterla così: una persona mi ha fatto capire – e non ci avrei scommesso un euro – che l’antinomia tra la madonna e la prostituta (una delle due prima o poi vince sull’altra) possono incredibilmente farle coesistere. E anche a lungo.  

Quante volte ti è capitato di andare a mignotte? Ti eccita pagare?

Ma per carità. E comunque mignotte lo dite voi terroni. Ci ho provato una volta sola, credo nel 1995, perché mi dicevo che almeno una volta nella vita bisognava provare, era un’esperienza, se non altro anche letteraria. Beh, fu la cosa più sfigata di tutti i tempi.

Cioè?

Abitavo a Milano in viale dei Mille. Lei si chiamava Maria, una spagnola, e stava proprio sotto l’ingresso di casa mia, la vedevo dal balcone. Dopo averci pensato tremila volte, una sera, la invitai a salire da me. Si prese centomila lire anticipate ma solo per un rapporto – le dissi – orale, perché non ero pratico, preferivo un approccio soft, diciamo. Le mostrai la casa e mi sdraiai sul letto, imbarazzato.

Mi ricordo una massa di capelli biondi tinti e mi accorsi che peraltro mi aveva infilato un preservativo. Neanche mi funzionò. Lei ogni tanto alzava gli occhi e diceva «nada, nada… », e io non ricordo che cosa le risposi, ma il senso era «vabbè, provvedi, è il tuo lavoro». Ma niente da fare. La cosa più umiliante fu che si congedò in fretta e prima di accomiatarsi mi disse, materna: tu avevi solo bisogno di un po’ di compagnia. Quindi umiliato, emarginato sociale e con centomila lire in meno.  

(...) 

Perché, per anni, ti sei fatto di cocaina?

Messa così sembra che fossi un cocainomane da ricovero. Dal 2003 a circa il 2008 ho avuto quell’approccio anche modaiolo che milioni di persone avevano con una cosa associata a modelli vincenti, insomma non so chi non la prendeva All’inizio, diciamo entro i primi trenta tiri, pare la cosa migliore del mondo, probabilmente perché lo è: non ti astrae dal mondo, te lo fa vivere appieno ma privandoti di quel sottofondo di latente infelicità che è dell’essere umano, questa scimmia antropomorfa per la quale alla natura è un po’ sfuggita la mano. 

La cocaina è perfetta ma ha un solo difetto: dopo un po’ t’ammazza, e la assumi solo perché senza stai peggio. Iniziai perché mi fu fatale un Capodanno che organizzai con una bella ragazza, che conoscevo appena, e che accolsi a casa mia in uno scenario in cui sembravo Tony Montana in Scarface. Ma non divenne mai un rito socializzante, come è per quasi tutti: la prendevo da solo, a casa mia, magari ascoltando Wagner. Che è anche più pericoloso. Oggi, comunque, le cose sono cambiate perché è cambiata – è evidente – l’utenza, non è più una roba da benestanti, ma anche da ragazzini, immagino sia più una schifezza da microdosi con tantissimi che la prendono per lavorare e tirare sera, dalla maestra al tramviere.  

Riuscivi a scopare in quel periodo? O facevi figuracce?

Sei un po’ un maniaco sessuale. Il sesso è notoriamente l’ultimo pensiero di chi prende cocaina, a meno di assumerla apposta associandola a viagra e simili, perché ti inibisce l’erezione. Nel mio caso è impossibile: ci rimarrei secco, visto che sono iperteso e le due cose insieme alzerebbero – anche – la pressione. 

(...)

Estratto dell’articolo di Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 13 febbraio 2023.

Non bastavano gli intellettuali di sinistra che spiegano alla destra cosa dovrebbe fare per essere la destra che piace a loro. Ci volevano anche i giornalisti che dottoreggiano su quanto sarebbe seria la destra se a destra ci fossero ancora loro. […] Ottimo esempio di giornalista-intellettuale che addolcendo il proprio passato di destra viene accolta con trionfale complicità a sinistra […] Flavia Perina gode ultimamente di una rilevanza di commentatore politico che non ha mai avuto prima. Dicendo cose che non ha mai detto prima. Pensando cose che non ha mai pensato prima.

[…] Physique du rôle della camerata dura e pura che in metà di un Ventennio ha cambiato tutto – partiti, ricordi, amici, idee in un ribaltamento tanto reiterato quanto autoassolutorio- Flavia Perina, fascino della Virago e fascismo di risulta, più che incarnare una metamorfosi rappresenta una sineddoche (è una figura retorica, ndr). La parte per il tutto.

 La Perina […] è la facciata della grande casa della sinistra inclusiva subaffittata ai transfughi della destra già impresentabile. Dove convivono: fuoriusciti dell’An che fu, transfughi di Futuro e Libertà, berlusconiane di ferro per un quarto di secolo e poi, beccate in carfagna, riallineatesi dalla parte delle «cause giuste» secondo i giusti […]

Del resto, a un certo punto, iniziarono a chiamare «compagno» anche Gianfranco Fini. E l’Unità esaltò Flavia Perina «gramsciana di destra»... […] più bassamente, a un uso strategico di opinionisti di destra da parte dei media di sinistra.  Dal passo dell’oca al laghetto delle papere chez Lilli Gruber: è la lunga traversata nel deserto della superiorità antropologica. […]

Autentica biografia noir, famiglia missina doc – papà Marcello, già volontario nella Rsi, mamma Wilma, dirigente del Partito, e tre fratelli in tutto, i cui nomi sono scritti a caratteri runici nel grande libro della destra romana – Flavia Perina è cresciuta sulle ginocchia di Pino Rauti, era militante nell’Msi già a 13 anni, Giovinezza, giovinezza, Ordine nuovo e vecchi motti- «Ex Oriente lux, ex occidente Dux», e lei di Roma Nord, la Balduina degli anni ’70 come il ridotto della Valtellina– liceo classico Gaetano De Sanctis, come “prof” Paolo Signorelli, ideologo della destra radicale, e come amica Francesca Mambro, neofascista dei Nar, e la facoltà di Architettura piantata a metà: poster di Pound, ascia bipenne, Tolkien, Nouvelle droite e Campi Hobbit.

La giovane Perina non è una testa pensante, e neanche una leader. Ma sa di grafica. Striscioni, tazebao, «Gandalf è vivo e lotta insieme a noi». Ma sulla mitica rivista Eowyn, femminista ma da destra, così tanto rivendicata ex post, la Perina scrive sì e no un paio di pezzi. […]  la carriera di Donna Flavia è una inarrestabile marcia su Roma: parte dal Secolo d’Italia negli anni ’80, epoca Almirante, passa dal Sabato, ciellina per necessità, sotto la direzione di Paolo Liguori, poi di nuovo al Secolo, dal 1990 caporedattore, dal 2000 direttore, in Parlamento dal 2006 al 2013, prima nel gruppo di AN, poi con il PdL, quindi con Futuro e Libertà, dalla sponda Gasparri-La Russa passando per quota Matteoli ad ultra finiana, «Fini, Fini/ il nuovo Mussolini», e poi direttora politica nella parabola che porta il Secolo dagli articoli apologetici su Berlusconi alle bordate anti-Cav, dai pezzi contro l’icona femminista Frida Kahlo alle battaglie per i diritti delle donne, da Patria, Tradizione, Identità a una destra multiculturalista, giustizialista, progressista.

 E l’Amazzone Nera si trasformò nel camaleonte arcobaleno. La pretoriana di Vigna Clara segue Fini anche dopo lo strappo con il Signore di Arcore, gli crede quando in lacrime le dice che sulla casa di Montecarlo lui non sapeva niente […] nel 2011, ormai completamente fuori linea, viene invitata a lasciare il Secolo dai vecchi colonnelli. […] Ma per i finiani immaginari c’è sempre una seconda vita […] Per Flavia Perina […] c’è un posticino all’AdnKronos e poi […] una collaborazione col Fatto Quotidiano, Linus, il Post e ora la Stampa, che è il dorso della sinistra radicale di Repubblica.

Dove, alternando ospitate a La7, riversa astio e disprezzo sulla destra italiana in tutte le sue sfumature: nazionalista, populista, sovranista e soprattutto meloniana. Solo le donne sanno odiare così tanto una donna […] Perina l’apostata. […] Da Rauti alla Gruber, va bene […] Oggi Flavia Perina ha 64 anni, è amica di Paola Concia, si definisce «femminista», ideologicamente molto fluida, «La 194 non si tocca!» - sì giusto, ma tu negli anni ’80 scrivevi articoli contro l’aborto […]

Certo che passare dai Wandervogel, Julius Evola, Cioran, Berto e Eliade a Ignazio Marino, Benedetto Della Vedova, la Carfagna, Berizzi e Roberto Giachetti (se vinceva, lei diventava portavoce), non è bello. Cosa vuoi? il veltronismo colpisce tutti. […] La verità è che quella destra non ha mai smaltito la sindrome della subalternità culturale alla sinistra, un’attrazione così fatale da esserne risucchiata.

È la destra plagiata dalla grande stampa che spingeva alla rottura col Cavaliere, quelli che divennero eroi della Patria per un giorno, poi ributtati nella pattumiera della Storia, quelli che la legittimazione intellettuale è solo a sinistra […] Domanda: ma come si può passare dalla militanza rautiana alle pagine dei commenti di Massimo Giannini? Meglio non pensarci e metterci una croce sopra. Celtica.

Dagospia il 16 giugno 2023. Da “I Lunatici” – Rai Radio2

Franca Leosini è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in onda dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'1.20 e le 2.30 circa. 

La popolare giornalista ha parlato di Napoli: "In questo momento sono a Napoli, faccio avanti e indietro tra Napoli e Roma. A Napoli siamo tutti contenti, felici, lo scudetto è un orgoglio per la città e per chi ci investe tanto. 

È stato un successo accolto con grande entusiasmo, ma non ho riscontrato eccessi e questo mi ha positivamente colpito. Da bambina qualche volta andavo allo stadio con mio padre. Lo scudetto una rivincita sociale? No, quelle arrivano su altre fronti e su altre questioni". 

Sul momento delle donne: "La parità di genere deve esistere. Non voglio fare la femminista a oltranza, ma ognuno deve valere per quel che riesce a produrre, che poi indossi una gonna o un pantalone è indifferente. La parità di genere non dovrebbe essere discussa. Che ancora se ne discuta mi sembra di fare un salto indietro di secoli.

Tante volte purtroppo alle donne non è consentito l'accesso, qualche volta magari non per discriminazioni ma per mancanza del concorso giusto. Io non mi sono mai sentita discriminata, il maschilismo è sempre presente ma le donne si sono fatte valere abbastanza, non stiamo sempre a piangerci addosso. Ci sono delle situazioni nelle quali l'accesso per le donne è più complesso, ma ora non vedo una discriminazione così profonda, nel mio lavoro non ho mai avuto problemi di discriminazione". 

Sulla sua vita privata: "Ne parlo poco. L'amore più grande della mia vita è quello per mio marito, che continua a vivere felicemente. Ma guai da ragazzina a non aver avuto amori, flirt, fidanzatini. Poi è arrivato l'uomo giusto e l'ho sposato. Ho avuto sempre la fortuna di essere molto corteggiata. C'era un uomo che mi mandava ogni giorno i fiori. A noi donne piace essere corteggiate, chi dice il contrario secondo me mente. Non mi sono fatta mancare niente". 

Sul suo format 'Storie maledette': "Me lo sono inventato io. Mi è nato perché ho cominciato ad andare nelle carceri a fare delle interviste e da lì mi è venuto in mente. 'Storie maledette' è sempre presente nella memoria della gente. Al di là dei cancelli scopri una umanità che certe volte è migliore di quella che trovi al di quà dei cancelli. Probabilmente rifarò 'Storie maledette' su Rai 3. Per ora ho raccontato 98 storie maledette.

Parlo di crimine privato, non mi sono mai occupato di criminalità organizzata. Ho vinto 41 premi solo con 'Storie maledette'. Nessuno di noi si permette di assolvere o condannare, per quello c'è il tribunale. La prima intervista? A Immacolata Cutolo, la moglie di Raffaele Cutolo. Non aveva mai parlato con nessuno. Lo dico con orgoglio: le persone che parlano con me, non avevano mai parlato prima. 

I miei interlocutori non sanno le domande, li vado a incontrare una sola volta prima dell'intervista, per conoscerli, per stabilire un rapporto umano. Mai ho anticipato una domanda, una volta una persona mi ha chiesto di avere le domande prima, ma ho rinunciato all'intervista. Il programma tornerà, ce n'è una grande richiesta". 

Sulla società post covid: "Vedo una società ammaccata, con tanti lividi sull'anima. Non siamo ancora usciti dalla psicologia del covid, i giovanissimi e i ragazzi hanno pagato un prezzo altissimo. E' stato un periodo molto difficile e ne paghiamo ancora le conseguenze sul piano psicologico".

Sui social: "Non li uso, tolgono troppo tempo, io di tempo non ne ho. Vieni coinvolto in un girone dantesco, evito di usarli perché ho tanto da fare, da studiare, da leggere, che non posso permettermi il lusso di usare i social".

Francesca Barra: «Il mio anno sabbatico con quattro figli. Claudio Santamaria? L’ho sposato per il suo modo di mangiare». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera sabato 30 settembre 2023.

La giornalista: «Sognavo la lirica e cantavo nei pianobar. La mattina porto a scuola tre bambine e due cani: la gente ci vede passare e sorride, non so se per compassione o per simpatia» 

Quello che Francesca Barra chiama il suo «quartier generale» sta tutto in una stanza: la cucina. Lei fa il pane, dà la pappa ad Atena, l’ultima arrivata, di 18 mesi, e controlla la prima copia del suo dodicesimo libro uscito in questi giorni; gli altri tre figli, dai 7 ai 17 anni, stanno tutti attorno a un enorme tavolo, chi fa i compiti, chi ascolta musica, chi chiacchiera con Remon, il ragazzo egiziano «venuto dalle onde» e che ora vive con loro a Milano, dove studia per la laurea specialistica; i due cani giocano e fanno baccano (Francesca: «Luce è una trovatella a cui i cacciatori hanno ucciso la mamma, la portò Michela Brambilla in trasmissione da Piero Chiambretti, mi alzai e dissi: la voglio. Zeus è un labrador malato di cuore, sofferente ma molto dolce. M’immagini la mattina che porto a scuola tre bambine e due cani: la gente ci vede passare, sorride, non so se per compassione o simpatia; sempre in cucina, il marito Claudio Santamaria suona la tromba. Francesca: «La studia in modo maniacale: una volta, in viaggio, ha voluto che guidassi io perché era ora di suonare la tromba». Se Claudio è su un copione, può andare peggio. Sempre lei: «Quando preparava l’Odissea di Uberto Pasolini, si vestiva da antico greco e camminava così per casa. Non sa la faccia delle bambine... Ma lui diceva: quando girerò, devo essere a mio agio nel costume. E il film è in inglese, Ulisse lo fa Ralph Fiennes, per cui, di notte, Claudio parlava nel sonno, in inglese». Scene quotidiane da una famiglia allargata. I primi tre figli di Francesca arrivano dal primo matrimonio, Atena da questo in corso. Le chiedo che cos’è l’amore, lei risponde: «Quando Emma, la piccola, ha conosciuto Claudio, ha detto: ora, mamma, capisco. E io: che cosa? Ora, ridi sempre».

Giornalista di mafia, blogger di cucina, presentatrice tv, madre, scrittrice di romanzi e di storie vere... Non è troppo di tutto?

«La vita è una: troppo poco per essere una sola cosa. Io, per attitudine e formazione familiare sono stata educata a dover fare tutto. Mia madre mi ha sempre detto “te la devi cavare in ogni campo”. I miei modelli erano lei e nonna, che ci hanno nutrito e hanno lavorato. Non ho mai pensato che esistessero alternative. E penso che, se la mamma è felice, i figli sono felici».

Cedimenti mai?

«Un po’ di fatica emotiva nell’ultimo anno: Atena aveva lo svezzamento; mio figlio Renato era nel pieno dell’adolescenza; Greta iniziava la prima elementare; Emma finiva le elementari e tutti e tre i grandi uscivano da un lockdown di domande, smarrimenti, ricerca di sicurezza. Quest’anno, tutti hanno avuto bisogno di me in modo diverso. Claudio si è preso i primi tre mesi di vita di Atena per starci accanto ma, dopo, è andato sul set in Grecia e io sono rimasta sola con figli e cani, senza un aiuto fisso, le famiglie lontane, la piccola che si svegliava di notte».

Come ne è uscita, se ne è uscita?

«Ho preso una sorta di anno sabbatico dal lavoro che ha fatto benissimo a tutti e ho trovato un modo nuovo di incontrarci. Immagini quattro figli in stanze diverse: salti da una parte all’altra, stare dietro a tutti è impossibile. Allora, ho creato questa cucina enorme che è il nostro raduno, il “quartier generale”’: qui, mentre i ragazzi studiano, quando la piccola dorme, ho anche scritto il nuovo libro, scrivere è l’unica cosa di lavoro a cui, in quest’anno, non ho rinunciato».

Il libro che esce per Rizzoli, s’intitola «Food Porn – Il rapporto fra i cibi e i cinque sensi» e parla appunto di cibo, con tanto di ricette.

«“Nutrire” è da sempre il primo verbo che mi viene in mente. Se, oggi, mi chiede in sintesi che cosa sono, rispondo: una donna che nutre. Nutro la mia famiglia, nutro una comunità di donne grintose con il mio blog sul cibo, A occhio e quanto basta, nutro i lettori coi libri di cucina e di attualità, con articoli su mafie o migranti...».

Sui social, #foodporn indica le foto dei piatti più attraenti. Per lei, il food porn cos’è?

«Un modo di presentare il cibo e un modo di mangiarlo con piacere. Io ho scoperto l’uomo della vita al ristorante, quando l’ho visto mangiare, e poiché, dopo, in tutte le altre cose, era uguale a come mangiava, l’ho sposato di corsa: io e Claudio siamo accomunati dalla fame di vita e dalla ricerca del piacere in tutto quello che facciamo. E lui mi ha accompagnato nei viaggi di questo libro alla ricerca di sapori e storie di cucina, come quello sulle tracce di Salvador Dalì».

Come è entrato nel suo vocabolario il verbo «nutrire»?

«Mamma e nonna non mi hanno mai detto “ti amo”. Io ai miei figli lo dico, ma ai tempi, non era così facile tradurre in parole i propri sentimenti. Io, però, l’amore l’ho sempre sentito attraverso la loro liturgia di preparazione del cibo. Ancora oggi, mamma non ha smesso di chiedermi tutti i giorni: cosa hai mangiato e cosa hai preparato ai bambini? Attraverso il cibo, dici a chi ami che ti stai prendendo cura di lui: non a caso, quando mio figlio era nell’età in cui tutti i ragazzi mugugnano, lui, invece, uscendo da scuola, chiamava per chiedere: cosa hai preparato oggi a pranzo? Io ho recuperato anche tante ricette della mia infanzia, della natia Basilicata».

Che lavoro facevano la mamma e la nonna?

«Mamma gestiva ristoranti e aiutava papà, che è commercialista. Nonna viene da una famiglia di orafi. Durante la guerra, il nonno aveva una gioielleria ad Addis Abeba, ma fu fatto prigioniero, lei scappò, nascondendo una croce di brillanti fra i capelli e con quella riuscì ad assicurare un futuro a suo figlio. Sono cresciuta fra storie di donne combattenti nella quotidianità. Sono state il mio modello, anche se con mamma ci scontriamo sui temi di attualità politica».

Lei fu candidata alle Politiche 2018 col Pd.

«E papà è stato deputato di Alleanza Nazionale. Ma a casa mia il dibattito politico si portava avanti rispettando le opinioni altrui. Quando mi sono candidata, papà mi ha detto: sono con te, perché sei la persona giusta. Io sapevo che sarei andata a sfracellarmi, ma ho girato 68 comuni lucani, ho fatto del mio meglio e non vincere è stata dura lo stesso. Quando mio padre mi ha sentito dire a mio figlio “ho fallito”, ha sbattuto i pugni sul tavolo e ha detto: non lo dire mai più, se hai lottato per una motivazione nobile, non hai mai fallito».

L’abbandono alla politica è definitivo?

«In questa politica che divide il mondo in giusto e sbagliato, buoni e cattivi, sono un pesce fuor d’acqua. Io preferirei convincere gli altri delle mie idee senza dire: sei un cretino».

Come è entrato Remon nella sua vita?

«Ero andata a parlare al liceo Ruiz di Augusta. Quando ho chiesto chi aveva dei sogni per il futuro, uno solo ha alzato la mano. Era Remon, arrivato in Italia su un barcone, da solo, a 14 anni, perché da cristiano copto, in Egitto, era perseguitato. Il suo sogno era poter studiare. Dopo aver vagato per comunità di accoglienza, era stato affidato a una coppia di Augusta, Marilena e Carmelo, due persone straordinarie. Ho subito legato con lui e la sua storia è diventata un libro, Il mare racconta le stelle – Storia vera di Remon, il ragazzo venuto dalle onde. Poi, Remon si è laureato e quando è stato preso a Milano per uno stage all’Unicef, è venuto a stare da noi. Io sento spesso la sua mamma biologica e Marilena, ci scambiamo le ricette, la nostra è una rete di maternità nell’accezione più ampia».

Lei che cosa voleva fare da grande?

«Volevo essere Jo March di Piccole donne. La prima storia s’intitolava Il desiderio di Lorin: faceva piangere, era una storia drammatica. Quando lo finii, lo lessi ai miei genitori e mi misi a piangere. Mamma mi dice: cambia il finale, se ti fa piangere. E io: non posso, se fa piangere, vuol dire che funziona. Ma sognavo anche di fare la cantante lirica, studiavo canto e piano. Il giorno in cui avevo l’audizione per il Conservatorio, però, mi preparai, ma i miei mi lasciarono in attesa sulle scale e non mi ci portarono. Quando mamma tornò, disse: canterai finiti gli studi».

Suona come un momento crudele.

«Per mamma ha sempre contato più la parte intellettuale che artistica, ma era in buona fede e riteneva un dovere instradarmi verso una professione sicura. Io mi sfogai cantando di nascosto nei pianobar. Quando raccontai quell’episodio a Claudio, però, ne restò impressionato. Così, il giorno in cui compivo 39 anni, rispondo al citofono e vedo un uomo in papillon. Ero in pigiama, apro. Lui entra e mi dice: vengo dal conservatorio, la aspettavamo per l’esame di canto, se la sente di farlo oggi?».

E lei l’ha fatto?

«Non cantavo un’aria da quando avevo 17 anni, mi vergognavo, ho guardato mio marito e volevo ammazzarlo. Ma i miei figli erano eccitatissimi e ho dovuto fare l’esame in salotto. Da che mi vergognavo, mi sono liberata ed è stata la realizzazione dell’unico sogno che non avevo ancora realizzato. Dopo, Claudio voleva che studiassi, più volte ha cercato di farmi fare la corista e, fosse per lui, dovrei andare a Sanremo fra le nuove proposte. Ma gliel’ho detto: ormai è tardi».

Che aria cantò?

«Nel cor più non mi sento: un duetto dalla Molinara di cui ho cantato entrambe la parti».

A Sanremo, è andata comunque: per ballare con suo marito a un’esibizione di Achille Lauro, come ci siete arrivati?

«Io arrivavo da un periodo un po’ complesso, dalla ricerca di un figlio con Claudio, dalla perdita del bimbo a gravidanza inoltrata. Era stata una batosta, più di quanto fossi riuscita ad ammettere con me stessa. Quando ci è stato chiesto di girare il suo video e andare al festival, ero titubante, ma non ho voluto fare l’errore di mia madre: credere che, se ballo, perdo valore come persona o professionista. Alla fine, prepararmi per quel ballo è stato terapeutico».

Com’è Achille Lauro visto da vicino?

«Un signore di altri tempi. Educatissimo. Un vero professionista e un ragazzo dolcissimo che ha colpito i miei bambini per la gentilezza».

Con la prova di canto i sogni da realizzare sono finiti?

«Da quando le bimbe me lo chiedono, voglio aprire un piccolo ristorante con tutta la tribù».

Estratto dell’articolo di Silvia Fumarola per “la Repubblica” domenica 24 settembre 2023.

[…] Francesca Fagnani torna col suo programma, Belve (su Rai 2 dal 26). […] Belve è virale: trionfa sui social, pillole dei video ovunque, pubblico trasversale. È diventata una star di TikTok con 299,5 milioni di visualizzazioni. 

[…] «[…] Mi gratifica quando i ragazzini mi fermano. […]  Parlando di una tv più moderna bisognerebbe anche pensare al pubblico giovane: lo abbiamo intercettato. […]». 

Artigli e quadernetto, chiede qualunque cosa sorridendo.

«Laura Ravetto mi ha detto: “Ma l’hanno mai brevettato questo sorrisetto da stronza”?».

E lei com’è rimasta?

«Mi ha divertito molto». 

[…] Esiste l’ospite ideale?

«È la mia dannazione, quando viene fuori un’intervista forte entro in crisi: “Non ce ne sarà mai un’altra così”». 

Meglio i reticenti o chi si apre?

«Col reticente — che arriva in studio chiuso, timoroso — è interessante vedere l’evoluzione. Chi si sbottona è perfetto. E a volte va fermato». 

[…] «[…] se mostri un aspetto meno noto hai vinto. Andare in tv in modalità autopromozionale non è simpatizzante. Mostrarsi in parte per come si è […] lo è. Pensi a Rocco Casalino e alla gaffe su Madame Bovary, una poesia di Baudelaire. Lo facevano arrogante, invece…». 

Invece, forse, era solo ignorante?

«Ma no. Chi fa gaffe piace più dei perfettini, per questo andrei a Belve . Stesso motivo per cui non mi sono più preoccupata per le scale a Sanremo: se cado starò più simpatica». 

[…] Cosa ha pensato dell’addio alla Rai di Fabio Fazio dopo 40 anni?

«Che è stata una sua scelta, legittima e comprensibile». 

Come le è sembrata Bianca Berlinguer su Rete 4?

«Mi ha divertito il cambiamento, lo trovo coraggioso, mi sembra più psicologico che ideologico. Con il suo programma già parlava a un pubblico simile a quello a cui si rivolge oggi. Fa impressione che non lavori più in Rai ma non esistono matrimoni eterni». 

[…] Ha fatto tanta gavetta: si è mai sentita un po’ underdog, sfavorita, televisivamente parlando?

«No, sono partita con i più grandi: Santoro e Minoli. Avere un maestro che ti mette nelle mani un mestiere è un privilegio». 

Nel 2018 ha intervistato Giorgia Meloni a “Belve” sul Nove. Parlò di tutto con autoironia, pure di La Russa che la redarguiva perché essendo piccola non poteva mettere le ballerine. Oggi cosa le chiederebbe?

«La inviterei subito, è una donna che si è affermata in un settore molto maschilista. Cosa le chiederei? Così al volo non lo so. Era ironica, oggi molto meno. Sono subentrate le responsabilità». 

Gli intervistati da lei hanno raccontato anche le dipendenze, la malattia. È rimasta sorpresa?

«È un cambiamento culturale, prima la parola cancro non veniva neanche nominata. […]». 

A Sanremo ha parlato di carcere minorile: che pensa delle polemiche di alcuni magistrati su “Mare fuori”?

«Per quello che visto a Nisida, ho trovato la serie abbastanza aderente alla verità di questi ragazzi che hanno gli stessi impulsi e ambizioni di quelli dei Parioli: ma se nasci in un contesto dove la vita è già segnata, è difficile parlare di libero arbitrio. Mare fuori non è Gomorra . Ho seguito le polemiche su Caivano, dove non si può prescindere dalla repressione, ma se manca l’intervento sociale — non ci si può affidare alla buona volontà del singolo — è tutto inutile». 

Un rimpianto?

«Mi dispiace non aver condiviso con mia madre, che non c’è più, il successo. Ma mi dispiace di più non averle dimostrato l’affetto che provavo. Non c’era conflittualità, ma ero più affettuosa con papà. Siamo materia materna, il vero cordone ombelicale non si taglia quando nasci, ma dopo, quando perdi una madre».

Francesca Fagnani: «La libertà non te la dà nessuno, sei tu che devi sapertela prendere». Sì a Sanremo, ma mai in un reality show. Il giornalismo, la televisione, la lottizzazione, la politica, i propri pregi e difetti. La giornalista si racconta senza reticenze. Beatrice Dondi su L'Espresso il 7 giugno 2023.

La prima cosa che pensi quando ti ritrovi di fronte a Francesca Fagnani, 46 anni (o 44 a seconda della pagina di Wikipedia che consulti,) giornalista senza figli, due cani e un solido mestiere sopra le spalle, è come debba sentirsi davanti al ribaltamento di campo.

Lei che ha rinforzato la sua immagine a colpi di domande, la belva che intervista le Belve nel programma creato scritto voluto e interpretato dal 2018 a oggi («In realtà io l’avrei voluto chiamare Iene ma c’era già, mannaggia, poi il titolo è venuto a Irene Ghergo e l’ho trovato perfetto»), il personaggio televisivo dall’ironia pungente, che usa gli incisi e i sorrisi, che china il capo e guarda i suoi ospiti dal basso verso l’alto per colpire e affondare, che quando si ritrova in uno studio non suo viene fatta esibire come una cantante, dai Francesca, facci un’intervista, insomma la regina più amata dai social che arrampicata su uno sgabello mette a nudo a colpi di unghiate la sua interlocutrice, ecco, per una volta si trova dall’altra parte della barricata. Ed è una bella soddisfazione.

«Però non sono un personaggio, io sono solo me stessa, anzi direi che sono quello che faccio. Negli anni ho solo perfezionato il mio metodo. Ho capito per esempio che non ci devono essere barriere tra me e l’ospite. Niente tavolo, lo devo guardare negli occhi». E già qui partiamo male, in netto svantaggio. Un tavolo che ci separa c’è, e anche due bicchieri di vino, scelti con cura, perché Fagnani controlla tutto, esplora, si incuriosisce e sperimenta. Anche il vermentino.

«Non parliamo di vita privata, però. Non mi piace, si chiama privata mica a caso. D’altronde anche volendo avrei poco da raccontare: niente vita mondana, niente feste romane. La televisione la guardo, soprattutto i programmi di informazione, ovvio, ma faccio zapping sennò mi annoio. La maratona Mentana? Eh quella per forza, ma non tutta, sei matta? E poi le serie tv, crime soprattutto. A dire il vero se potessi vorrei essere Lolita Lobosco, ma non la Ranieri, proprio il personaggio!»

Romana di nascita e di dizione, («Amo questa città ma la sua bellezza naturale l’ha impigrita e ora è stanca. Si merita davvero un Prefetto che la governi»), Fagnani lavora da quando ha deciso di rinunciare al percorso universitario, dopo una tesi sul “Comico nel Paradiso” e un dottorato di ricerca in filologia dantesca, per buttarsi nelle discese ardite dei reportage e delle inchieste.

«Sono passata da Dante a Giovanni Minoli e poi a Michele Santoro, un bel salto direi. Ho sempre amato lo studio, ma i tempi della carriera accademica non facevano per me perché l’Italia ha delle lentezze che non corrispondono letteralmente al mio ritmo biologico. Non sopporto l’idea di stare ferma, la mia vacanza ideale è la montagna». Niente lettino in spiaggia dunque. «No per carità! Amo la salita, per arrivare alla conquista della discesa. Sono sempre sull’attenti, ho l’horror vacui. E soprattutto so che le cose gratis non arrivano mai, men che meno nel lavoro».

Quindi tutto da costruire, un passo alla volta. «Però nella fortuna credo. Ero a New York l’11 settembre e mi sono precipitata a Rai Corporation per chiedere di dare una mano, qualsiasi cosa. Ho capito che poteva essere un inizio. E così è stato. Gli stage in Rai con Minoli appunto, poi Tv Talk fino alla Storia siamo noi. Ed è lì che ho cominciato a lavorare sui temi di mafia. Ancora ricordo l’adrenalina per l’intervista ad Agnese Borsellino. Ero talmente emozionata che quella notte ho dormito abbracciata al Beta».

Intraprendente lo è sempre stata Fagnani. «Per diventare giornalista ho aperto direttamente un giornale, Quartiere c’è. Ero direttore editoriale, non c’era una lira e scrivevo 18 pezzi da sola, soprattutto sulle periferie della Capitale e diciamo che da allora non ho mai smesso». E questo suo chiodo fisso lo riassume sfoderando il sorriso d’ordinanza: «Una volta un magistrato mi ha chiesto “perché lei ha un’attrazione fatale verso le periferie?” Perché ho un Io antisociale fortissimo rovinato da un’educazione borghese. E la criminalità organizzata? Semplice, mi piace perché è organizzata».

Secchiona, attenta alle virgole («Vengo dalla scuola di Santoro che aveva una ricerca maniacale della perfezione»), quando prepara le sue interviste se le cuce addosso come una stilista e passare dalle inchieste al pop non le costa fatica. «Non è straniante come potrebbe sembrare. Il cervello non lo stacchi mai. Io continuo a fare il lavoro da cronista, sempre e me lo porto dentro “Belve” perché il metodo è lo stesso. Mi interessano le storie e se sono mafiosi o soubrette poco importa. Raccontare i criminali e andare nelle periferie mi ha insegnato un approccio non giudicante. Io non giudico, ti voglio solo conoscere. Insomma, cerco un rapporto paritario con l’ospite». Che si sceglie con cura, e cuoce a fuoco lento: «Niente promozioni, film o libri in uscita, niente slogan, nessuna imposizione. E soprattutto assoluta libertà. La mia di chiedere, la tua di non rispondere. Ingerenza politiche? Adesso sempre meno perché chi viene da me sa bene che non può chiedermi di tagliare questa o quella domanda. All’inizio non era così, l’abitudine era troppo forte. Solo che io non ho mai mollato e alla fine li abitui. Abbiamo delle responsabilità. La libertà non te la da nessuno, te la dai tu. Te la devi prendere. Ed è più facile di quello che sembra».

Che bella parola, libertà. Fagnani la usa spesso, con cura e rispetto («Libera satira certo, ma anche libera indignazione». E ancora «Rivendico la libertà»). E la vive, in prima persona, scegliendo di muoversi su una scacchiera disegnata solo da lei stessa. Per questo non direbbe mai sì a un reality. «Mi danno sempre come partecipante papabile a “Ballando con le stelle” ma per carità, a me piace quello che faccio. E poi penso che se ti occupi di certi temi poi perdi di credibilità. Non potrei andare in carcere o in procura dopo aver litigato per un valzer lento. Insomma, è proprio un’altra cosa, un’altra scelta» dice. E parte la zampata: «Puoi vivere quel tipo di esperienza solo quando ti rendi conto di avere un grande futuro alle spalle».

Però in tv ci va, come ospite, ma solo sui temi che le appartengono. «Nei talk show non parlo di cose a caso, anche se ormai i giornalisti vengono invitati in base all’area di appartenenza, neanche fosse la Camera, e questo mi fa una certa impressione. La stampa dovrebbe solo fare domande, di destra o di sinistra non importa. Siamo noi i cani da guardia del potere».

E a proposito di potere, che succede con la destra al governo? «Quello che succede sempre, cambia il governo e cambiano i dirigenti. Finché la Rai sarà espressione della politica, funzionerà così. L’auspicio è che contenuti e conduttori vengano scelti nell’interesse del pubblico e non dei partiti. Vedremo. Anche perché alla fine l’esigenza di tutti è fare ascolti e garantirsi gli inserzionisti pubblicitari, oltre ovviamente a fornire contenuti giusti per il servizio pubblico. Guarda Sanremo, come al solito ci sono state le polemiche di rito ma Amadeus ha fatto dei numeri tali che non potrà certo essere contestato».

E sul palco più famoso d’Italia Fagnani c’è salita, per parlare in abito da sera dei ragazzini rinchiusi nel carcere di Nisida. «Mi sono divertita da pazzi. Ho sentito un’energia mai provata prima e sono molto contenta che mi sia successa adesso e non dieci anni fa. E sinceramente, il monologo delle donne che sono messe lì in quota non mi ha dato nessun fastidio, il vero cliché è pensare che le donne all’Ariston non siano protagoniste. Condurre Sanremo è una macchina infernale, e Amadeus è il più bravo di tutti. Poteva essere una donna? Certo, un’Amadea, quando ce ne sarà una all’altezza».

A questo punto il vino è finito, l’atmosfera e morbida e la tentazione di porle le stesse domande che lei usa come bisturi è a dir poco irresistibile. «Il mio pregio? Beh, so’ simpatica», dice e darle torto costa una certa fatica. Ma questa è facile.

Il difetto invece è più spinoso, generalmente in pochi rispondono con lealtà: «Quando chiedo un difetto vorrei una risposta sincera, invece ci cascano tutti, è sparano cose come “Sono poco puntuale” o peggio “Sono troppo sensibile”». E quindi? Dai Francesca, non ci deludere. «Il mio difetto è vero: sono prepotente, ma tanto, anche nella vita privata, ma questo non dovrei dirlo. E la cosa incredibile è che se c’è una cosa che detesto negli altri è proprio la prepotenza». A questo punto ne manca una sola, quella a cui in genere si sottrae con più facilità perché è un po’ il suo scettro del comando. Ma impossibile non provarci. «Francesca Faganani, che belva si sente?» E lei non scappa. «Il Minollo» risponde ridendo, pensando all’animale dello sketch di Massimo Troisi. E se partisse la sigla della Vanoni ci starebbe benissimo.

Estratto da tgcom24.mediaset.it il 17 maggio 2023.

Francesca Fagnani posa per la copertina di Vanity Fair insieme ai suoi cagnolini Nina e Bice, due esemplari di Cavalier King che condivide con il compagno Enrico Mentana. Con il giornalista fa coppia da 10 anni e sull'inizio della loro storia rivela che è stato lui a darle il primo bacio: "In ascensore. Salutandomi. Fu inaspettato". 

Francesca Fagnani, 46 anni, ed Enrico Mentana, 68, fanno coppia da un decennio. Era il 2013 quando le loro strade si sono incrociate e da allora vivono una storia d'amore il più possibile lontana dai riflettori, anche se di tanto in tanto vengono intercettati dai paparazzi. 

[…] Sulle questioni private sono riservati ma a Vanity Fair la Fagnani si è lasciata andare a qualche confessione. 

[…]  "L'amore è come il Giro d'Italia, si vince a tappe", ha detto Francesca Fagnani che ammette di essere caduta a volte: "E non è niente male. Perché io faccio fatica a credere nell’amore per sempre. Come si fa a desiderare la stessa persona negli anni, addirittura per sempre? Quando l’amore va bene cade, si trasforma. Quando va male ci si lascia subito o ci si lascia dopo", ha spiegato. […]

Anticipazione da “Vanity Fair” il 17 maggio 2023. 

Francesca Fagnani, protagonista di Belve, lo show rivelazione della Rai, si racconta a Vanity Fair senza schermi: il rapporto con la madre, i suoi inizi, l’ipocondria, il carcere, il suo successo e l’amore «che non è mai per sempre». 

E in copertina posa con i suoi due cani, Bice e Nina: «Nina ha 4 anni, Bice 3. Le ho volute entrambe femmine: e ho fatto un grande errore, perché si affezionano al maschio». 

La conduttrice dell’anno commenta anche l’addio di Fabio Fazio alla Rai, e sul privato, lei che è abituata a fare domande, racconta qualcosa in più su di sé: dai consulti medici a cena con Verdone alle sue paure più grandi: la malattia. E la noia: «Perché è la noia a spaventarmi. Le donne di solito dicono: cerco qualcuno che mi faccia ridere. Io, invece, qualcuno che capisca le mie battute. Se non le capisci, hai ucciso l’eros. È la fine». 

Dell’addio alla Rai di Fabio Fazio dopo 40 anni che cosa ne pensa?

«È una perdita per la Rai ma non per i telespettatori, per fortuna, che lo troveranno su un’altra rete. C’è ormai tanta offerta: chi sa lavorare non resterà mai fuori». 

Forse bisognerebbe cambiare la testa di chi decide i programmi e di chi taglia teste che funzionano in Rai…

«In televisione c’è poco coraggio. E non dipende dai conduttori ma dai dirigenti che dovrebbero investire su volti nuovi e premiare più il merito delle parrocchie. 

Con che cosa ha a che fare il suo successo?

«Col coraggio. Vede, a differenza della vita privata, è nella vita professionale che sono coraggiosa. La prima serata in tv per Belve mi venne offerta un mese e mezzo prima della messa in onda. La verità è che nessuno ci voleva andare in quello spazio perché c’erano, nell’ordine, la Champions, tre programmi d’informazione, una fiction e a un certo punto pure Le Iene. Mancava solo l’Apocalisse. Io credo che nella vita te la devi giocare: l’ho fatto con un programma di sole parole senza servizi, senza foto, senza balletti. È andata bene».

Sua madre diceva che da bambina somigliava a un delinquente.

«Mia madre mi chiamava “Faccia d’angelo” perché riconosceva la mia furbizia. E perché la mia immagine era il contrario del mio carattere». 

Le somiglia?

«Mi impressiona perché tante delle cose che non sopportavo di mia madre oggi le ritrovo tutte identiche in me». 

Un esempio?

«La cosa più sciocca? Non la reggevo quando si ostinava a prendere il caffè solo se c’era anche il piattino. Oggi se mi fanno prendere il caffè senza piattino faccio una scenata. E poi ci sono cose più serie: ha vissuto fatti personali molto forti e ha avuto la capacità di reagire».

Ne vuole parlare?

«Ma come si fa? Mi sembrerebbe un tradimento perché lei non c’è più. Però di una cosa voglio parlare: dopo la separazione da mio padre, episodio che la fece molto soffrire, lei si ammalò gravemente e lui tornò a vivere con lei, per assisterla, 24 ore su 24 fino alla fine». 

Di cosa soffriva sua madre?

«Tumore ai polmoni. Mio padre era tornato ad assisterla e curarla». 

Com’era vederli di nuovo insieme?

«Commovente, perché lei cercava solo lui. Dalla stanza da letto, chiamava solo lui. Avevo dieci anni quando si separarono e a scuola mi vergognavo un po’ dell’accaduto. Ma lei, con la sua generosità, riuscì a stabilire un rapporto con lui tale che non c’erano problemi di weekend, di chi stava con chi o per quanto tempo. Ho sempre sperato che mi lasciasse in eredità quella forza di carattere». 

Michela Murgia, Concita De Gregorio… Molte donne oggi parlano apertamente e con una saggezza disarmante del proprio tumore.

«Ammiro la loro forza e la lucidità che hanno di pensare parole così giuste, così profonde per descrivere quello che stanno attraversando. Ma la malattia è la mia paura più grande. Io non riesco nemmeno a pensarmi in quella condizione. È la cosa che mi spaventa di più al mondo». 

E che cosa pensa di una certa classe politica che usa l’odio per creare consenso?

«Penso il peggio. Ma più che l’odio, che riguarda una minoranza rumorosa, anche sui social, mi spaventa il linguaggio della paura. La paura è un sentimento potente che accompagna tutti. E chi fa leva sulla paura è inaccettabile. Hanno vinto le elezioni facendo leva sulla paura. La paura del diverso, del nuovo. Non puoi pensare che siano gli immigrati a togliere il lavoro. Non puoi dirlo. Non puoi creare la guerra tra poveri».

Dice di essere amante della montagna perché abbassa l’ego delle persone.

«Hai voglia. A partire dal mio». 

Come si abbassa l’ego delle persone?

«Per esempio, non facendoli sentire delle rockstar quando tornano a casa». 

Poiché è lei a parlare di Enrico, le faccio una domanda: chi ha dato il primo bacio?

«Lui. In ascensore. Salutandomi. Fu inaspettato». 

Parole sue: «L’amore è come il Giro d’Italia, si vince a tappe». È mai caduta?

«Sì. E non è niente male. Perché io faccio fatica a credere nell’amore per sempre. Come si fa a desiderare la stessa persona negli anni, addirittura per sempre? Quando l’amore va bene cade, si trasforma. Quando va male ci si lascia subito o ci si lascia dopo».

Dagospia il 30 marzo 2023. “'BELVE' È UN PROGRAMMA IN CUI DI DAVVERO FEROCE C’È SOPRATTUTTO L’AMBIZIONE DI CHI LO CONDUCE” – SELVAGGIA LUCARELLI AFFONDA LA TRASMISSIONE DI RAI2 E DÀ UNA STILETTATA A FRANCESCA FAGNANI: “QUELLO CHE LE STA A CUORE È CHE I SUOI OSPITI DICANO QUALCOSA CHE POI SARÀ RILANCIATO DA SITI, SOCIAL E GIORNALI. L’INTERVISTATO È L’ELEMENTO MENO VALORIZZATO. C’È SOPRATTUTTO L’URGENZA EVIDENTE DELLA CONDUTTRICE DI STRAPPARE UNA FRASE A EFFETTO…”  VIDEO

Dal profilo Instagram di “Donna Pop” il 30 marzo 2023.

Selvaggia Lucarelli ha atteso l'ultima puntata di “Belve”, il programma di Francesca Fagnani, per dire la sua a proposito della trasmissione. Nel suo podcast “Il Sottosopra”, la giornalista ha spiegato perché la trasmissione non le piaccia.

 Ecco le parole di Lucarelli: «Ho aspettato il termine di questa edizione per commentarlo perché, per dirla in maniera semplice, volevo capire dove andasse a parare.

A leggere i social e i siti, Belve è il più grande caso televisivo della storia dell’umanità. Il giorno prima della messa in onda io ho la timeline invasa da dichiarazioni shock fatte a Belve, da gente che dichiara a Francesca Fagnani di essere stata aggredita, abusata, di gente che dice che le piace troppo il pisello (...) Belve non è un programma, è una cosa a metà tra una seduta di ipnosi regressiva in cui la gente improvvisamente tira fuori ciò che aveva rimosso o occultato e la copertina di Chi».

E poi ancora: «Possiamo dire che Belve è un programma di interviste in cui di davvero feroce c’è soprattutto l’ambizione di chi lo conduce. Fagnani fa la giornalista e quello che le sta a cuore non è tanto che il programma sia godibile nella sua interezza ma che sia ‘notiziabile’, ovvero che i suoi ospiti dicano qualcosa che poi sarà rilanciato da siti, social e giornali.

L’intervistato è l’elemento meno valorizzato, paradossalmente: non interessa la sua storia nel complesso, non viene fuori un ritratto inedito. C’è soprattutto l’urgenza evidente della conduttrice di strappare una frase ad effetto. Belve insomma è un programma pensato per valorizzare la personalità dell’intervistatrice: lì si va per far vincere la conduttrice»

Rocco Casalino, i carabinieri, Ultimo: i 5 momenti peggiori di Belve. L'ultima stagione di Belve è giunta al termine e dietro di sé lascia diversi momenti trash tra i quali la gaffe di Rocco Casalino su Baudelaire, le parole di Heather Parisi sulla figlia e Ultimo. Novella Toloni il 30 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Rocco Casalino, la gaffe su Baudelaire

 Wanda Nara, modello per tutte le donne

 Anna Oxa, le risposte criptiche

 Heather Parisi, le parole sulla figlia e Ultimo

 Giacomo Urtis, la paghetta e i "regali"

La quarta stagione di Belve è giunta al termine ma se c'è una cosa che i telespettatori non dimenticheranno sono i momenti peggiori andati in onda. Dagli scivoloni culturali di Rocco Casalino alla reticenza di Heather Parisi a rispondere alle domande della Fagnani, fino alle criptiche parole di Anna Oxa. Momenti trash e poco edificanti che hanno costellato l'ultima edizione del programma di Rai Due, che quest'anno si è guadagnato la prima serata ma non è stato premiato dall'auditel.

Rocco Casalino, la gaffe su Baudelaire

L'intervista di Rocco Casalino, andata in onda nelle prime puntate di stagione, è stata uno dei momenti peggiori di Belve 2023. L'ex portavoce di Giuseppe Conte ha raccontato della difficile infanzia e, già nel rispondere, si era fatto cogliere in fallo sui congiuntivi. Ma è parlando della letteratura straniera che è scivolato nella gaffe più clamorosa. "Baudelaire è uno dei miei scrittori preferiti. Una sua opera? Madame Bovary", aveva risposto l'ex gieffino, scatenando la reazione ironica della Fagnani: "Ma come 'Madame Bovary'? Guardi, sta peggiorando la sua situazione. Io farei finta di niente". La conduttrice ha glissato sul vero autore dell'opera (Gustave Flaubert) ma il video della gaffe di Casalino è diventato virale sui social, unico indelebile ricordo della sua ospitata a Belve.

Wanda Nara, modello per tutte le donne

È stata Wanda Nara ad aprire la nuova stagione di Belve e il pubblico ancora ricorda una delle dichiarazioni rilasciate dall'argentina durante l'intervista. Parlando dei social e della sua popolarità, la moglie di Mauro Icardi (che era nel backstage per testimoniare la reunion) ha detto di sentirsi una "role model", cioè un modello, un esempio da seguire per gli altri. "Sono più amata che odiata, soprattutto dalle donne", ha affermato Wanda Nara, la quale ha proseguito auto celebrandosi: "Sono un modello per tutte le donne. Vedono in me ciò che vogliono essere". Una dichiarazione che ha scatenato le critiche soprattutto da parte dei suoi follower.

"A Belve vince solo la conduttrice". Selvaggia Lucarelli punge la Fagnani

Anna Oxa, le risposte criptiche

Francesca Fagnani l'ha definita una "intervista impossibile" per quei "ragionamenti un po' diversi" e in effetti la puntata dedicata a Anna Oxa diversa lo è stata davvero. In più di una occasione il pubblico ha fatto fatica a capire le risposte date dalla cantante alle domande fatte dalla conduttrice. Parole da interpretare, frasi criptiche e risposte evasive anche e soprattutto sul suo ultimo festival di Sanremo dove, prima per Madame e poi per Fedez, la Oxa è finita al centro delle polemiche. Senza considerare l'esorbitante cachet che Anna Oxa avrebbe chiesto per rilasciare l'intervista.

Heather Parisi, le parole sulla figlia e Ultimo

Tra i momenti peggiori dell'ultima stagione di Belve, c'è anche l'intervista di Heather Parisi e non solo perché la chiacchierata si è conclusa con l'intervento dell'ufficiale giudiziario, intervenuto in studio per esigere un pagamento dovuto dalla ballerina a Lucio Presta. Durante l'intervista Heather Parisi ha evitato di rispondere a più di un quesito, trincerandosi dietro al fatto di non volere dare adito ai pettegolezzi. Tra un "no comment" e uno "non saprei", la showgirl ha fatto indispettire anche la figlia Jacqueline Luna, facendo finta di non conoscere il suo fidanzato, il cantante Ultimo ("Ultimo non so chi sia"), quando la Fagnani le ha chiesto come si sentisse a essere sua suocera.

Giacomo Urtis, la paghetta e i "regali"

L'intervista di Giacomo Urtis, chirurgo estetico dei vip, è stata sicuramente il momento più trash di Belve 2023. Dalle dichiarazioni ambigue sulla sua sessualità ("Mi sento un minotauro, metà uomo metà donna") fino al rapporto con Corona ("Il nostro è un rapporto ibrido. Può essere ci sia stata dell’intimità ma cose nostre"), Urtis ha dato un'immagine di sè molto grottesca soprattutto quando ha parlato del suo patrimonio ("Vivo di regali") e della paghetta che il padre - che amministra le sue entrate - gli passa settimanalmente.

Francesca Fagnani: «I politici contro Rosa Chemical? Dovrebbero occuparsi di bollette. Io e Mentana? Una lotta continua». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 4 Febbraio 2023.

Aria angelica ma tempra da killer («Un mio difetto? Una certa prepotenza»), quella che mette nelle sue interviste senza sconti, da belva, come il titolo del suo programma tv. Un format che ha acceso su di lei l’attenzione che ora la porta al Festival (nella serata di mercoledì).

Che belva vedremo a Sanremo?

«Cara grazia se riesco a non gattonare su quelle scale».

Canto e ballo?

«Sono cintura nera... scherzo, non me la cavo, mi fermo alla doccia».

Cosa la spaventa del palco dell’Ariston?

«Quelle scale abbinate al tacco 12, è il combo che uccide».

Ha fatto prove?

«Un amico mi ha consigliato di farle all’Ara Coeli».

Ci ha provato?

«No, non mi pareva il caso».

Ha chiesto qualche consiglio in giro sul Festival?

«Drusilla Foer mi ha detto una cosa molto bella: quando sei su quel palco pensa che lo stai facendo per qualcuno a casa che ti sta guardando e ti vuole bene. Questa immagine mi ha commosso e mi è entrata dentro».

A chi penserà?

«Il pensiero a casa andrà a mio papà; nel cuore e ovunque a mia mamma che non c’è più».

Cosa le ha insegnato suo padre?

«A essere una persona perbene».

Sa che una domanda almeno le tocca?

«No, la prego».

Lui verrà a Sanremo?

«Lui. Ormai è un’entità».

Enrico Mentana, il suo compagno, la seguirà dalla platea o dal divano di casa?

«Durante la settimana conduce quel programma minore che si chiama tg».

Per una volta potrebbe saltare l’appuntamento, no?

«No, è giusto che resti a fare il telegiornale».

In casa chi di voi due ha più ego?

«È lotta continua».

Il suo Sanremo da spettatrice?

«A casa mia il Festival è sempre stato una sorta di Natale televisivo. È pensabile non fare la cena del 24 dicembre? No, e per Sanremo vale la stessa cosa. L’abbiamo sempre visto in famiglia tutti insieme, poi da quando sono uscita di casa lo seguo con gli amici. Ancora adesso. La finale andrò a vederla a casa di un’amica con un gruppo d’ascolto».

Laurea in Letteratura italiana e dottorato di ricerca in filologia dantesca: lei è sempre stata secchiona, come studia per Sanremo?

«Ho capito che non faremo tante prove, credo che la spontaneità sia la chiave di Amadeus, mi affido a lui».

Cosa la colpisce di Amadeus?

«La grande gentilezza d’animo. Non è banale al giorno d’oggi. Ecco, a proposito di ego: lui si mette molto all’ascolto dell’altro».

A Sanremo le tocca il monologo...

«Sono felice di affrontare un tema che sento molto, ma non posso anticipare niente».

Proviamo lateralmente. Si è occupata anche di criminalità organizzata, di carceri, quali sono i temi che la appassionano?

«No davvero, non posso dire nulla. È una cosa in cui credo molto e sono molto felice di avere questa opportunità».

Il già famigerato video di Zelensky: si o no? A favore o contro?

«Se io e le altre amiche che saliamo sul palco abbiamo l’opportunità di portare un tema che ci è caro e che sicuramente non sarà legato alla leggerezza delle canzoni — per altro non tutte affrontano temi leggeri — perché mai non dovrebbe parlare il leader di un Paese in guerra che noi sosteniamo? Mi sembra una polemica lunare».

La deputata di Fratelli d’Italia Maddalena Morgante si è detta preoccupata per la piega, a suo dire, gender fluid che ha preso Sanremo.

«Io sono per l’allargamento e mai per la compressione di tutti i diritti; trovo che chiunque voglia portare nelle proprie canzoni il modo di vivere la sua sessualità non dovrebbe spaventare nessuno. Detto questo, bisognerebbe che i politici, soprattutto quelli importanti di questo governo, si occupassero magari delle bollette e non dei testi delle canzoni».

Il caso Madame, il presunto falso green pass: la Rai doveva escluderla?

Ride: «E io che pensavo a qualche domanda facile facile sul Festival... Vuole anche chiudermi del caso Donzelli? Così poi mi cacciano prima di arrivare sul palco... Mi pare che Montesano abbia partecipato a un programma importante della Rai ma le polemiche sono nate dopo. Penso che la questione sia legata al Festival: Sanremo è un detonatore mondiale di polemiche, è un amplificatore assoluto».

Le vengo incontro. Ora mi parli di un argomento a piacere...

«Mi sento in un frullatore, l’ansia c’è anche solo per la letteratura che aleggia su Sanremo da secoli, solo l’idea di arrivare lì mette ansia, inutile dire che sono tranquilla. No. Ma sono anche molto felice, è una bella emozione».

Il dito e la luna. L’indigeribile contraddittorietà dei gay paladini delle crociate anti-Lgbt. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 27 Aprile 2023

Non tutti gli outing sono uguali: c’è una lunga tradizione politica che giustifica chi critica la conciliabilità tra l’essere omosessuale e dire certe cose

La rivelazione dell’omosessualità di Francesco Borgonovo da parte di Massimiliano Parente ha sollevato soprattutto a destra un coro d’indignazione contro l’atto «squallido» (La Russa dixit) e il suo autore. Lo scrittore, che collabora con Il Giornale, è stato così investito da una tempesta d’improperi e aprioristicamente accusato di mera denigrazione per un non meglio precisato regolamento di conti. Il vicedirettore de La Verità, che collabora, fra l’altro, anche con la testata di CasaPound Il Primato nazionale, ha incassato numerosi attestati di vicinanza a partire da quelli del già menzionato presidente del Senato e dei vari Daniele Capezzone, Mario Giordano, Alessandro Orsini. 

Negli scorsi giorni gli stessi quotidiani sono stati pressoché unanimi nel solidarizzare con Borgonovo e attaccare Parente. Riprova, invero, d’una di una diffusa quanto distorta mentalità che, ben dura a morire, confonde orientamento sessuale con vita sessuale e inveisce non già contro chi predica in un modo e razzola in un altro, ma contro chi tale ipocrisia mette in luce. Perché, alla fin dei conti, Massimiliano Parente, facendo outing – rendendone cioè pubblico l’orientamento sessuale – a Francesco Borgonovo, ha semplicemente portato alla pubblica attenzione l’indigeribile contraddittorietà di chi è omosessuale e, al contempo, paladino di crociate anti-Lgbt+. Null’altro. E ha ben ragione lo scrittore quando osserva su Twitter come «la solidarietà a Borgonovo» dimostri «l’omofobia di chi, oltre a togliere i diritti alle famiglie gay, ritiene che dire di qualcuno che è omosessuale sia infamante. Come se avessi detto che è pedofilo». 

A Linkiesta il giurista e avvocato Antonio Rotelli rileva come «non tutti gli outing siano uguali. Dal punto di vista giuridico non c’è d’altra parte offensività in sé nel dire di qualcuno che è omosessuale: si sta infatti parlando di una caratteristica personale, non già della sua vita sessuale. Se la rivelazione fosse stata invece fatta con un intento diffamatorio od offensivo, allora lì si potrebbero individuare alcune fattispecie di reato». È in questo caso che essa sarebbe diffamazione. 

«Dalla lettura del tweet di Parente – continua lo studioso –  si evince che la finalità di quello che scrive non è far sapere al mondo che Borgonovo è omosessuale. Quest’aspetto è presente ma secondario rispetto al ragionamento che viene sviluppato: la sua è una critica alla conciliabilità tra l’essere omosessuale e il dire determinate cose». Rotelli ricorda inoltre come in più sentenze la Suprema Corte si sia occupata dell’utilizzo della parola omosessuale o lesbica, l’una e l’altra dalla valenza neutra e non già direttamente offensiva come, ad esempio, frocio: «Quello che la Cassazione fa sempre è valutare il contesto. Ad, esempio nella sentenza 30545 del 2021 a una donna viene dato della lesbica e della puttana. Il procedimento  non è per diffamazione ma per atti persecutori: nel confermare la relativa condanna viene fatta un’enumerazione di tali atti, tra i quali l’aver voluto i rei volutamente e sprezzantemente fatto riferimento a una persona come lesbica e puttana». 

A contare dunque è il quadro complessivo che le menzionate parole neutre disegnano: «È necessario sottolineare come nella sentenza 50659 del 2016, che è la più citata al riguardo, la Cassazione dica che la parola omosessuale non è atta a ledere la reputazione di una persona».

D’altra parte, il giornalista statunitense Michelangelo Signorile, che è considerato l’ideatore dell’outing come capillare strategia politica di difesa contro gli attacchi alle persone Lgbt+, rilevava già nel ’97 che un tale atto «non ha nulla a che fare con la privacy bensì con l’omofobia» e, più in generale, con «il rifiuto di presentare l’omosessuale in una luce favorevole (come nel caso di un personaggio celebre)». E nel caso di Borgonovo un tale rigetto non si limita unicamente a ciò che attiene alle famiglie omogenitoriali, ma s’estende, ad esempio, alla negazione di un effettivo problema di discriminazione e violenza verso le persone Lgbt+ e all’ossessive affermazioni su un disegno omosessualista mondiale per imporre in maniera autoritaria «il regime del gender» (titolo, questo, d’un libro scritto a quattro mani con Maurizio Belpietro ed edito nel 2021).

Franco Grillini, che ha conosciuto negli anni ’90 al Cassero di Bologna Michelangelo Signorile, ricorda a Linkiesta come il giornalista e attivista d’Oltreoceano avesse precisato il significato dell’outing quale «metodo di lotta politica» e determinatone i criteri ben determinati, in «quanto si fa verso persone omosessuali omofobe in posizione di potere. Le quali fanno carriera proprio grazie all’omofobia: succede nelle gerarchie ecclesiastiche, in politica e anche nel giornalismo». 

Aecondo l’ex parlamentare e leader storico del movimento Lgbt+ italiano,  «nel caso di Borgonovo siamo di fronte a una totale sproporzione tra la sua ossessione sulla presunta ideologia gender e la possibilità di replica della nostra collettività, presa di mira soprattutto per ciò che riguarda i diritti in campo legislativo». Un’ossessione che oggi, dopo le dichiarazioni di Massimiliano Parente, possiamo però comprendere un po’ di più e meglio valutare.

Estratto dell’articolo di Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 25 Aprile 2023. 

[…] Sentite questa storia. Uno scrittorucolo che veste come un pagliaccio e che si atteggia a genialoide, un cosiddetto provocatore che non ha mai provocato niente, ha scritto su un social che il vicedirettore di un quotidiano sarebbe omosessuale. 

E già qui: che ce ne frega? Lo scrittorucolo poi ha aggiunto che l'orientamento sessuale del vicedirettore stride col giornale per cui scrive, che ha una linea cattolico-integralista e antiscientifica, antigay, no vax e altre schifezze. Da capo: ma saranno fatti suoi, o loro?

Il vicedirettore peraltro se n’è fregato. Il problema però è stato questo: lo spiffero di portineria […] è soffiato proprio in questo ponte festivo in cui i giornali avevano poche notizie da pubblicare, e […] questa l’hanno ripresa tutti […]. 

Insomma: dare dell’omosessuale a qualcuno, in Italia, crea ancora scandalo e viene interpretato come un danno infamante. Mentre se avessero dato del formidabile coglione allo scrittorucolo, beh, sono sicuro: nessuno avrebbe avuto da ridire. Non è giusto.

Giampiero Mughini per Dagospia il 25 Aprile 2023

Caro Dago, prendo le mosse dall’uscita di Massimiliano Parente in cui ha accusato Francesco Borgonovo di darsi una doppia e contrastante identità, di essere una cosa nella sua vita personale e tutt’altra cosa nella sua vita professionale, dov’è un cantore della famiglia tradizionale. 

Succede che Massimiliano Parente sia da tempo un mio caro amico e una sorta di fratello minore e che Francesco Borgonovo sia stato un mio intelligente e leale interlocutore ai tempi in cui collaboravo con il quotidiano Libero e dove scrivevo quello che volevo, virgole ivi comprese. 

Straovvio che i fatti i personali di Francesco siano fattacci suoi, punto e basta. E difatti io che non lo sentivo da tempo gli ho subito mandato un messaggio con su scritto “Un caro saluto”. Mi sembra ieri ed era invece una decina d’anni fa la sera che lui e Paolo Nori (oggi forse il miglior specialista di letteratura russa che ci sia in Italia) vennero a cena a casa mia. Subito dopo avremmo dovuto andare in una libreria romana al quartiere San Lorenzo dove un gruppuscolo di sinistroidi romani intendeva mettere sotto processo chi come me e Nori collaborava a un giornale orrido e fascistaccio com’era ai loro occhi Libero. A dire il vero loro intendevano processare Nori, forse perché speravano di portarlo sulla via del ravvedimento. Il caso mio era ai loro occhi disperato e insanabile, e difatti non ero stato invitato: mi ero per così dire imbucato.

Naturalmente presi la parola per spiegare che non vedevo di che cosa dovessi difendermi, scrivevo su Libero esattamente quello che pensavo e che avrei scritto su qualsiasi altro giornale al mondo, righe di cui di cui potevo render conto a Dio e ai santi. Una cosa era la fisionomia politico/ideale del giornale nel suo complesso, una cosa era quella del collaboratore Mughini. Erano stati questi i patti, e fin dal primo momento, tra me e Vittorio Feltri quando mi aveva telefonato invitandomi a collaborare al quotidiano che  dirigeva. Mai una volta Borgonovo o chiunque altro aveva contestato una mia virgola. Io che pure sono uno specialista mondiale in fatto di valutazione di idioti e di idiozie, raramente mi ero trovato di fronte degli idioti come alcuni di quelli della libreria romana di San Lorenzo. Spiccava di luce propria una donna che avevo conosciuto ragazza durante i mesi da me trascorsi nella redazione del Manifesto quotidiano. Era come se il suo cervello si fosse immobilizzato a com’era stato quarant’anni prima. Faceva impressione. Ad un certo punto la razione di idiozie divenne tale che recuperai il mio impermeabile e me ne andai, laddove Nori e Borgonovo tollerarono sino alla fine. Dei martiri.

Con Massimiliano è tutt’altro discorso, a cominciare dal fatto che è pazzo in senso tecnico, che non perde occasione per farsi del male, che i social li usa alla maniera di una droga che accenda ed esalti ciascuna sua uscita, che per lui lo scrivere significa scrivere fluviale. Non lo sento un paio di mesi ed ecco che in quei due mesi ha scritto un paio di libri. Ho qui sul tavolo il suo fluvialissimo Volevo essere Freddie Mercury, scritto a quattro mani con Giulia Bignami e pubblicato da Elisabetta Sgarbi, che ha un’aria sugosissima. 

Ne parlo come uno che si porta la responsabilità di avere scoperto Parente quando lui aveva poco più di vent’anni. In una sala del Palazzo delle Esposizioni, qualcosa come più di trent’anni fa, fummo in tre a far da padrini di un libro che mi pare fosse il suo debutto. Gli eravamo seduti accanto Giordano Bruno Guerri, Vittorio Sgarbi e il sottoscritto. Una squadretta mica male, ne converrete. Avevamo fatto benissimo a farlo. Più tardi sarebbe stato Vittorio Feltri a diventare un compagno d’arme di Massimiliano e a scrivere con lui dei libri. E ha fatto benissimo, perché Massimiliano non è uno “scrittoruncolo” (Filippo Facci dixit) e bensì un intellettuale originale, tutto fuorché banale, immerso come pochi nel suo tempo e nella sua sciagurata generazione, sciagurata intendo da quanto porta a fatica i suoi cinquant’anni.

Anziché fare il nome di Borgonovo, nella sua recente uscita Massimiliano avesse scritto “un giornalista italiano”, la sua uscita sarebbe stata sacrosanta. Certo che i fattacci personali sono personali e basta. Ma è altrettanto vero che la questione delle doppie e triple identità - il famoso predicar bene e razzolar male - è una questione di gran rilievo nella nostra vita pubblica e in quella culturale. Per quello che mi riguarda l’averne una sola di identità e per 24 ore al giorno è l’unico mio vanto personale, quello per cui ho pagato un prezzo assai alto. E che continuerò a pagare.

MANGANELLO OUTING. Tommaso Cerno si L'Identità il 24 Aprile 2023 

Il manganello dei tempi moderni si chiama outing. Significa che qualche benpensante, pieno di valori a parole, magari di sinistra, rivela, pensando di stupire, l’orientamento sessuale di qualcuno che nella vita ha posizioni politiche diverse dalle sue. Si tratta di una pratica antica. Che anche le associazioni gay di cui io, che sono omosessuale da quando Dio mi ha mandato su questa terra, conosco ogni dettaglio, usavano negli anni in cui la contrapposizione tra libertà e omologazione dipendeva dalla destra. Voleva dire che se tu passavi la vita a contestare gli omosessuali, a rendere il loro quotidiano impossibile, a dire ogni nefandezza su di loro e poi, come capita sempre più spesso, si scopriva che anche tu eri uno di loro, esisteva una sorta di libertà per cui dire che uno è gay sembrava una punizione. Questa pratica sconfessata dalla storia, vecchia come il cucco, è la forma più simile al fascismo e al manganello che oggi nella società dove queste cose non importano a nessuno, e lo dice soprattutto la sinistra, scopri esiste ancora. L’ultimo caso di cronaca riguarda un collega giornalista, il suo nome è Francesco Borgonovo, è una persona molto nota per il suo lavoro e per le sue qualità intellettuali, che naviga, per citare Fabrizio De André, in direzione ostinata e contraria rispetto alle grandi scelte della democrazia italiana degli ultimi tre anni, in particolare riguardo al Covid e alla guerra in Ucraina. Bene, da omosessuale che non ha mai chiesto di esserlo ma che si è divertito un sacco a vedere la faccia che la gente ha fatto in questi ultimi trent’anni, facce che sono cambiate con il tempo, dico a questi signori che nel nome della libertà pensano di stupirci con rivelazioni che nemmeno cento anni fa avrebbero spostato un capello, che l’unico effetto che fa a noi liberali veri è renderci conto che oggi il manganello, la violenza, l’intimidazione stanno benissimo nella sinistra. Proprio quella che accusa il governo italiano che ha vinto le elezioni con le regole della Costituzione, che loro professano essere la testimonianza di tempi in cui si viveva di odio e di intimidazioni. L’interesse che può avere oggi un italiano democratico nei confronti della vita privata di un cittadino è proporzionale solo all’invadenza culturale che un pensiero politico mette davanti alla semplice e sacrosanta libertà di esprimere il proprio pensiero, qualunque esso sia, senza avere droni o idioti che entrano in casa tua a dirti cosa devi fare dopo le nove, con chi intendi farlo e per quale ragione. Fortunatamente fra poche ore sarà il 25 aprile e ci aspettiamo, noi liberali, che questa pratica violenta per zittire gli altri o per fare loro ingerire il ricino della propria sicumera culturale sia cancellata dallo spirito originario della Liberazione italiana, a cui hanno partecipato cervelli diversi, idee politiche opposte, unite solo dall’idea che non potevamo essere una dittatura. Cioè un luogo dove arriva un pirla qualunque a spiegare a tutti cosa devono dire e cosa devono fare, nel nome di un’etica pubblica che si è inventato in qualche sottoscala culturale perché ritiene essere la verità. Perché se al contrario comincerà a venire da quella parte del Paese che ha speso gli ultimi decenni a chiedere a tutti di fare un passo indietro nel nome della libertà individuale e della possibilità di ognuno di esprimere se stesso come individuo nel modo in cui ritiene la censura sui comportamenti di ognuno di noi, significherà che davvero la festa del 25 aprile non sarà più una festa ma sarà qualcosa di simile all’inversione dei poli per cui toccherà a ognuno di noi ricominciare a conquistare la propria libertà ogni mattina al risveglio.

La polemica social. Francesco Borgonovo, l’outing ‘forzato’ dall’ex collega Parente: “Io gay? Fatti miei”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 23 Aprile 2023 

Vittima di un outing forzato, visto che la presunta omosessualità è stata spiattellata al pubblico da un ex collega. È la storia che vede protagonista Francesco Borgonovo, giornalista e vicedirettore del quotidiano ‘La Verità’.

Vicenda che nasce da un tweet dello scrittore Massimiliano Parente. Nel post racconta che, quando i due lavoravano assieme a ‘Libero’, circa 15 anni, Borgonovo avrebbe rivelato la sua omosessualità.

Voglio raccontarvi una storiella. Si intitola ‘Salvate il soldato Borgonovo’. Inizia quindici anni fa circa, quando collaboravo con Libero. Tra i redattori della cultura c’era Francesco Borgonovo. Diventammo amici, uscivamo a bere, finché non mi confidò la sua omosessualità, e anche la felicità trovata con un compagno di cui si sentiva la mogliettina, cucinando e facendo le pulizie – scrive Parente su Twitter – Facevamo battaglie libertarie, io come scrittore, di cui Borgonovo ammirava le opere (non era scemo), per esempio combattendo il moralismo di sinistra che attaccava Berlusconi e le olgettine (all’epoca a destra non c’era l’ossessione della famiglia tradizionale)“.

Quindi  le critiche al giornalista per le sue idee, cambiate nel tempo e col passaggio ad un diverso quotidiano. “Passò a La Verità, e nel tempo ha sposato ogni tesi antiscientifica, antioccidentale, filoputiniana, no vax, contro le famiglie gay, contro ogni liberalismo individuale. A vederlo oggi, prezzemolo reazionario e accigliato dei talk show, mi fa tristezza, mi sembra un mix tra un impresario delle pompe funebri e un impiegato del Terzo Reich. La domanda è: cosa gli ha fatto Belpietro? Cosa ti fanno a La Verità? La verità, vi prego, sull’amore, e ridateci Borgaynovo, era così intelligente e simpatico”, continua Parente.

Un tweet che ha attirato un mare di critiche feroci, oltre a solidarietà nei confronti di Borgonovo. Il vicedirettore de ‘La Verità’ all’AdnKronos ha rotto il silenzio sulla questione e, premettendo che “ci sono questioni molto più importanti di quel che avrei fatto o farei nel mio tinello”, spiega che “le mie opinioni sono pubbliche, e chi non le condivide si può misurare su quelle. Il mio privato è, appunto, affar mio”.

Le mie opinioni, in ogni caso, restano sempre le stesse, non vedo perché dovrebbero cambiare o venire inficiate. E non sono né razziste né naziste né omofobe: chiunque si prenda il disturbo di esaminarle può facilmente constatarlo. Questo è quanto“, chiosa all’Adnkronos Borgonovo.

E in suo aiuto arrivano le parole della seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Ignazio La Russa, a sua volta al centro di feroci polemiche sul 25 Aprile e la Costituzione antifascista. “Mi interessa zero il tentativo squallido di colpire Francesco Borgonovo che non deve rendere conto a nessuno della sua vita. A lui il mio fraterno abbraccio e la mia sincera stima”, ha scritto su Twitter il presidente del Senato.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Estratto dell’articolo di Claudio Bozza per corriere.it il 23 Aprile 2023 

«Voglio raccontarvi una storiella. Si intitola “Salvate il soldato Borgonovo”. Inizia quindici anni fa circa, quando collaboravo con Libero. Tra i redattori della cultura c’era Francesco Borgonovo. Diventammo amici, uscivamo a bere, finché non mi confidò la sua omosessualità, e anche la felicità trovata con un compagno». 

Lo scrittore Massimiliano Parente, via social, svela con queste parole quale sarebbe l’orientamento sessuale del giornalista. E rincara: «Poi passò a La Verità, e nel tempo ha sposato ogni tesi antiscientifica, antioccidentale, filoputiniana, no vax, contro le famiglie gay, contro ogni liberalismo individuale». 

Non è la prima volta che lo scrittore fa outing riguardo il vicedirettore del quotidiano diretto da Maurizio Belpietro. Parente, in passato, aveva fatto ulteriori post, che però non avevano suscitato grande clamore.

Stavolta però è andata diversamente: e a difesa di Borgonovo è intervenuto direttamente il presidente del Senato: «Mi interessa zero il tentativo squallido di colpire Francesco Borgonovo che non deve rendere conto a nessuno della sua vita — scrive su Twitter Ignazio La Russa —. A lui il mio fraterno abbraccio e la mia sincera stima». 

Il vicedirettore de La Verità, contattato dal Corriere, non nasconde il suo dispiacere per questa vicenda e preferisce toni bassi: «Io sono abituato a confrontarmi sul giornalismo e sulle idee, non delle questioni personali — spiega —. Non credo ci sia da dare ulteriore pubblicità a una cosa che non la merita. Non credo fosse proprio necessario. Sono affari miei, e miei restano». E poi: «Se sporgo denuncia? Vorrei passare oltre».

Ciò che ha fatto Parente, secondo la Cassazione, potrebbe anche configurarsi come reato. La Suprema Corte, con la sentenza n. 30369 del 24 Luglio 2012, aveva già condannato un giornalista che in un articolo svelò l’orientamento sessuale di una persona senza il consenso della medesima e «in assenza di interesse pubblico della notizia». 

Parente, dopo il tweet del presidente del Senato, torna però all’attacco: «La solidarietà a Borgonovo dimostra l’omofobia di chi, oltre a togliere i diritti alle famiglie gay, ritiene che dire di qualcuno che è omosessuale sia infamante. Come se avessi detto che è pedofilo».

Estratto dell'articolo di Pasquale Caputi per corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 27 maggio 2023.

Secondo moltissimi addetti ai lavori, è il Messi dei radiocronisti. Senza esagerazioni. Francesco Repice, voce dei più importanti match italiani, europei e mondiali sulle frequenze di Radio Rai, ieri ha compiuto 60 anni. Nel suo percorso, ricco di aneddoti, ci sono anche molti momenti e personaggi pugliesi. Li ricorda con piacere e la solita passione. Soprattutto, con il sorriso sulle labbra. 

(...)

Bari non è una tappa banale del suo percorso. Praticamente il San Nicola segnò il suo “debutto” con la nazionale

«Ricordo Italia-Scozia (nel 2007, ndr). Fu una partita difficilissima, anche perché a pranzo avevo esagerato con i frutti di mare in un ristorante di Polignano e questo mi creò non pochi problemi gastrointestinali prima del match. Per fortuna tutto andò bene. E dico anche di più: consiglio a tutti di esagerare con i vostri frutti di mare. Sono una cosa meravigliosa».

Il Bari e il Napoli di De Laurentiis stanno facendo cose eccellenti.

«Penso che i risultati parlino per loro. Sono abituato a giudicare solo in base ai dati di fatto, e i De Laurentiis sono primi in A con il Napoli e sono in alto in B con il Bari. Sanno fare bene il loro mestiere e c’è poco da dire».

Qual è la partita più bella che ha commentato?

«Una delle partite più belle è stata sicuramente Manchester United-Barcellona, finale di Champions League del 2011. Fu la partita del ritorno di Abidal, per intenderci. Anche la finale del mondiale in Qatar è stata emozionante». 

Il gol più coinvolgente che si porta dentro?

«Risposta difficile. Dico il gol del 2-0 segnato da Angel Di Maria con la Francia al Mondiale. È stato una delle emozioni più forti degli ultimi anni».

Il giocatore che l’ha fatta impazzire?

«Sicuramente Francesco Totti. L’ho amato più di tutti in assoluto, senza alcun paragone».

Quando pensa alla coppia Totti-Cassano, cosa le resta in testa?

«Ho fatto delle radiocronache dei due insieme. Le parole venivano fuori da sole grazie alle loro magie. Uno spettacolo per gli occhi e per l’anima. Quando si passavano la palla era magia totale».

A quando risale la sua prima radiocronaca?

«Fine anni ’90. Roma-Bologna 2-1, una partita particolare e una radiocronaca anche pericolosa perché veniva dopo uno Juventus-Roma contestatissimo». 

(...)

Chi è il suo modello di radiocronista?

«Victor Hugo Morales, uruguaiano, il cantore delle gesta di Maradona. Ha raccontato il gol più bello del mondo in maniera irripetibile. Come italiani, Sandro Ciotti ed Enrico Ameri sono stati i più grandi. Ma non dimentico neanche Riccardo Cucchi e Bruno Gentili».

Oggi invece è diventato lei un punto di riferimento.

«Trovo questa cosa bislacca. Non vedo come possano ispirarsi a uno che vive le partite in modo così incontrollabile. Non lo faccio apposto, mi viene così. Non riesco ad astrarmi. Ogni volta che concludo una radiocronaca, soprattutto della Nazionale, sono sfinito».

Estratto dell'articolo di Paolo Tomaselli per corriere.it il 5 marzo 2023.

Furio Focolari, 76 anni, ex cronista della Rai

Sempre col microfono davanti: Furio Focolari, classe 1947, è stato la voce Rai dei trionfi di Alberto Tomba, oggi è direttore di Radio Radio.

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«Sono l’unico giornalista al mondo ad essere arrivato sul cadavere di Aldo Moro e ho fatto le dirette su Radio 3».

 Come ci riuscì?

«Per aggirare il cordone di via Caetani sono entrato nella chiesa su via delle Botteghe Oscure, mi sono buttato nel cortile dietro alla sagrestia, ho scavalcato un muro e sono entrato in un portone, poi nell’abitazione di un tassista che mi ha aperto in canottiera, con il fiasco sul tavolo. La finestra era a otto metri dalla macchina, però il telefono era dall’altra parte della stanza e facevo delle finte dirette, andando avanti e indietro. Ho visto gli artificieri che aprivano il bagagliaio, il corpo dell’onorevole in posizione fetale. Ho descritto tutto. Una cosa così l’avrei mandata su tutte le reti Rai, non solo sul Gr3».

 (...)

Sulla neve come ci è finito?

«Per caso, anche se ero sciatore da sempre: serviva una seconda voce per il grande Alfredo Pigna e nessuno sapeva di sci. Non è che ne sapessi tantissimo a livello tecnico, però ero un grande appassionato e ho avuto una fortuna pazzesca: la prima telecronaca al parterre fu quella della prima vittoria di Tomba al Sestriere in Coppa del mondo. Poi le ho fatte tutte».

 Il rapporto con Albertone?

«Strettissimo, soprattutto con Paletta, il suo pigmalione. Alla vigilia della prima gara mi dissero che avrebbe vinto, abbiamo anche scommesso una cena, perché sembrava impossibile: partiva con il pettorale 25 e non aveva mai vinto. Appena trionfò, mi disse: ‘Te l’avevo detto e domani replico’. Partì col 24 e conquistò pure il gigante».

La vittoria più emozionante da raccontare?

«Il Mondiale a Sierra Nevada 1996: era sesto dopo la prima manche e nella seconda aveva sciato così bene che Paolo De Chiesa mi disse ‘non lo batte nessuno’. Cominciammo a fare i gufi: uscirono Girardelli, Von Gruningen e altri. Il giorno dopo fece il bis».

 Chissà dietro le quinte.

«A Garmisch la gara è alle 10, Tomba parte per primo, ma nessuno sa dov’è. Alle 9.50 arriva, ma deve ancora prendere la seggiovia, provare gli sci e andare al cancelletto. Ha una faccia pallida, gli occhi arrossati. ‘Ma che hai fatto?’ gli dico. ‘Sono stato fino adesso con una ragazza’ risponde. Comincio la telecronaca così: ‘Non facciamoci troppe illusioni, purtroppo Alberto ha avuto disturbi intestinali’».

E come finì?

«Diede 1’’2 al secondo e feci brutta figura. La Gialappa’s si divertì a prendermi in giro».

Come viveva le critiche?

«Quando sei convinto di non meritarle, le critiche fanno male. Magari sono anche giuste ma non sei così obiettivo da pensarlo. La satira l’ho sempre accettata. E la Gialappa’s dal punto di vista della notorietà mi ha dato tanto».

Con la Rai è finita male.

«Sì, ero diventato vice direttore vicario e avevo in mano la spedizione di Atlanta ’96. Mentre ero lì qualcuno covava alle mie spalle: mi hanno fatto cose immonde».

Cosa le contestavano?

«Una fattura da 240 milioni in uscita per la sponsorizzazione dell’abbigliamento di tutta la spedizione all’Olimpiade. Ma ce n’era di conseguenza anche una in entrata del medesimo valore per la Rai, che cedeva i titoli di coda: era un’operazione a zero e comunque non avrei potuto firmare io quel contratto, non spettava a me. Non ho fatto nulla, ma non avevo partiti alle spalle e non fui difeso da nessuno. La batosta fu grande, per un mese non uscii di casa. Ancora oggi non ho piacere a parlarne, anche se ci tengo a sottolineare che contro la Rai non ho mai detto nulla in tutti questi anni».

Vinse su tutta la linea.

«Sì, ho vinto tutte le cause e ho ricostruito la mia vita».

Come?

«Dopo la cacciata, mi arriva una telefonata del presidente tedesco della Puma, che mi chiede di fare dei contratti importanti per buttarsi nel calcio. Divento direttore delle relazioni esterne e dico: ‘Facciamo la Lazio di Cragnotti’. Vinciamo il campionato e nove coppe. Non solo: con la Puma prendiamo la Nazionale nel 2002 e vinciamo il Mondiale. Penso di essere un uomo fortunato, innanzitutto per la mia famiglia fantastica. Poi per l’incontro con Tomba e per il modo in cui sono risorto dalle ceneri dopo l’addio burrascoso alla Rai».

 (...)

Estratto dell’articolo di Carmelo Caruso per “Il Foglio” il 23 luglio 2023.

Voleva somigliare a Benedetto Croce, ma si è convinto che Benedetto Croce somigli a lui. Da quando è ministro del governo Meloni, si presenta così: “Gennaro Sangiuliano, ministro della Cultura come Giovanni Spadolini e Alberto Ronchey”. Subito dopo: “Già direttore, scrittore, giornalista, docente universitario. Grazie”. 

[…] Quando un giornalista gli chiede un’intervista la sua risposta è: “Io non rilascio interviste, ma scrivo editoriali, il cui posto è in prima pagina. Un palchetto, grazie”. Le ultime scivolate, il ministro direbbe incomprensioni, non restituiscono pienamente l’originalità, la complessità del “federale” di Soccavo, il Brancaleone vien Napoli, con l’occhiale stringinaso, il pince-nez e la fotografia di Giuseppe Prezzolini dentro al portafogli.

Se gli capitate a tiro vi lancia gavettoni di Croce-Soffici-Papini-Marinetti-Longanesi. Plaf! Clinicamente siete spacciati. C’è una frase che annuncia l’apertura delle ostilità: “Come dice …”. Ogni volta che il cronista con la penna si imbatte in Sangiuliano, armato di microfono, il cronista soffoca. E’ il gas Sangiuliano, solfuro nebuloso, molecole sprigionate dal suo spazzolone acchiappa polvere. E’ polvere da biblioteca, polvere della Sangiuliano Library. 

Lo chiamano Genny, all’americana, perché ha scritto una biografia su Reagan, oltre ad aver fatto lo “spallone” del conservatorismo, lo ha dichiarato sul Corriere (“in Italia, il conservatorismo di Bush l’ho importato io”) e dato alle stampe la fondamentale biografia su Trump (altra dichiarazione) “a cui un giorno consegneranno il Premio Nobel”. Le profezie di Sangiulianus.

Per gli amici è affettuosamente “Genny ‘o miracol(ato)”, “Genny cinque partiti”, “Genny ‘a Croce”, “Genny’ ‘o pavone”, mentre per gli ex colleghi, i cronisti che hanno lavorato con lui all’Opinione del Mezzogiorno (giornale liberale) Il Roma, L’Indipendente, Libero, e poi in Rai, è solo “l’intellettuale che ha scritto più libri di quanti ne ha potuti leggere”. 

Se gli chiedete quanti libri possiede è come chiedere a un bambino di dieci anni: “La vuoi una bicicletta nuova?”. Mai farlo. Afferma di possedere quindicimila volumi e ne ha scritti diciotto, come diciotto sono i premi che ha ricevuto, e sono solo esercizi per arrivare al capolavoro che ha in cantiere: “Sangiuliano, una vita”, edito dalla Sangiuliano editore, distribuito in tutti i musei italiani, dove un giorno non ci potrà che essere una fotografia di Sangiuliano all’ingresso.

[…]  In pochi mesi, da ministro della Cultura, ha demolito la critica dantesca con la frase: “Dante è di destra”. Ha mandato in cortocircuito gli economisti affermando, prima, che i musei devono essere a pagamento, dopo, che è necessario aggiungere altre tre giornate di musei gratis. Ai francesi ha chiesto di restituire sette opere e si attende anche la Gioconda che appenderà, personalmente, a Palazzo Chigi, nello studio di Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario che non ama la Francia. 

Su Twitter, sul profilo, ha postato una intervista al Corriere di Bologna, e, sotto, si è auto-complimentato: Sangiuliano piace a Sangiuliano. La sua idea, “voglio in Rai una fiction su Fallaci”, era così buona che era già venuta a qualcun altro. Infaticabile. 

Si è inventato anche il treno veloce Roma-Pompei che partiva però una volta al mese. Per pubblicizzare l’iniziativa ha fatto salire in carrozza la premier, rinchiuso i giornalisti nel vagone “banditi”. I giornalisti come i lazzari. Stava per scoppiare un’insurrezione. Il caldo ha fatto il resto. […] La buona notizia è un’altra: il treno, anziché partire una volta al mese, dopo questo Quarantotto, partirà una volta a settimana, perché, come spiegherebbe il ministro Sangiuliano, “questa è un’iniziativa di sistema”.

Il problema, nel caso di Sangiuliano, è l’iniziativa. Per dimostrare che Borges, rispetto al ministro, era solo un magazziniere di Buenos Aires, ha dichiarato, in diretta, nel corso della finale del Premio Strega, che “ho ascoltato le storie espresse nei libri finalisti e sono tutte storie che ti prendono e che ti fanno riflettere. Proverò a leggerli”. Quando Geppy Cucciari, che conduceva l’evento, ha chiesto: “Ah, dunque non li ha letti?”, da ministro, Sangiuliano, ha proseguito: “Sì, li ho letti, perché ho votato, ma voglio, come dire, approfondire”. 

[…] Manca di ironia, la famosa sostanza che, per il ministro, è la forza del conservatore, la patente che esibisce a ogni conferenza: “Io sono un conservatore”. L’ironia la accetta quando a praticarla è lui, ma quando la subisce vi manda la polizia regia e gli avvocati: “Un milione di euro di risarcimento”. […] 

 Maurizio Crozza ha trovato in Sangiuliano un’altra maschera italiana. Come spiegherebbe Sangiuliano questo non è altro che il risultato di una “cultura egemonizzata” e di un “giornalismo obnubilato” dal pensiero unico. [..]

Da giornalista ha amato i giornali che, altra intervista, “lo stato ha il dovere di sostenere. Come dico ai miei studenti (è professore di Storia dell’Economia alla Luiss Guido Carli) e dunque il mio consiglio è comprate ogni mattina un giornale e leggetelo bene”. 

Ora che i giornali non li scrive, i giornali li maltratta. Dice che “i giornali sono già vecchi al mattino”, tranne se ospitano un suo fondo. Per giustificare questo suo giudizio si arrampica su Heidegger, Omero, la Scuola di Francoforte. Dalla Francia in su è tutto esotico e si può citare senza essere smentiti, tanto chi ha il tempo di andarsi a riprendere le opere di Heidegger custodite nella Sangiuliano Library? Le sue locuzioni sono appunto “Ricordo”; “Come dice …”. A volte, ricorda male.

Sangiuliano è il ministro “a memoria” e, infatti, da piccolo, a sette anni, ha raccontato al Mattino, “mi regalarono un libro sul Risorgimento e lo imparai quasi a memoria”. A memoria ricicla sempre lo stesso discorso sul Futurismo e su Croce che è il suo stuzzicadenti. 

Indossa abiti di sartoria, scarpe cucite a mano, cravatte impeccabili, poi però inforca gli occhiali da sole, tutti neri, e pure i bambini si chiedono: “Mamma, mamma, ma chi è?”. Un fotografo: “A me ricorda Totò, quello de La Patente”. Un altro: “Sembra il monaceddhu”. Essendo un conservatore non potrà che comprendere l’ironia di questo passaggio.

Essendo nato a Napoli, nel 1962, dove la scaramanzia è un impasto con la fede, non potrà che perdonare. E’ cattolico. Possiede una collezione di statuette di San Gennaro. La madre Adele è di origine molisana, di Agnone, il paese delle campane, e della Fonderia Marinelli. Da ministro, Sangiuliano è andato, naturalmente, ad Agnone, il 10 dicembre 2022, garantendo che il Molise “entrerà nel grande circuito turistico nazionale”. 

Appena si è insediato al ministero ha messo le cose in chiaro con i commessi: “Ho venduto più libri io che Dario Franceschini”. E’ l’ex ministro della Cultura, del Pd, a cui ogni mattina Sangiuliano fa i conti: “Anche oggi, secondo le classifiche, ho venduto più libri di Franceschini. Cominciamo”. 

Ha chiamato come suo segretario generale Mario Turetta che però, cronache dal ministero, vorrebbe già scappare via, come è già scappata via Marina Nalesso, portavoce ed ex giornalista del Tg2 che è tornata al Tg2 con i suoi rosarioni al collo.

Sangiuliano tende alla “denastasizzazione”, un processo di allontanamento di tutti i dirigenti del Mic, che ritiene vicini all’ex capo di gabinetto Salvo Nastasi, la sua malabestia, lo spirito che, secondo Sangiuliano, si aggira ancora in quelle stanze: “Dov’è? Io so che c’è? Lo sentite?”. 

Per stare il meno possibile in questo ministero, abitato da diavoli, Sangiuliano torna alle origini, a casa, a Napoli. Quasi tutte le sue missioni hanno come luogo d’arrivo la Campania, e ultimamente erano così numerose che al ministero, un giorno, si sono accorti di aver esaurito il budget per le uscite. Il treno Sangiuliano express, quello, sì, che parte ogni giorno e percorre la tratta Roma-Napoli, sua città, suo riferimento dove sogna di candidarsi presidente della regione se non fosse che il viceministro Edmondo Cirielli ha già prenotato quella casella. Si dice che, alla fine, si presenterà alle Europee per FdI come vuole Meloni, e anche sua moglie, la giornalista Rai, Federica Corsini.

Sangiuliano è al suo secondo matrimonio. La sua prima moglie è di San Severino Marche, paese caro a Vittorio Sgarbi, il sottosegretario alla Cultura, già richiamato all’ordine dal ministro dopo la serata Maxxi, in tutti i sensi, al museo di Roma: “Il ministro prende le distanze da Sgarbi”. Turpiloquio, sgarbismi, e lui, Sangiuliano, si è perfino indignato, “non va bene”, come se non fossero tutti compagni di banco.

Nello stesso edificio ci stanno Sangiuliano, Sgarbi, il cantautore Morgan, il sottosegretario Mazzi, sparring partner di Giletti, e prima ancora c’era Francesco Giubilei, come consigliere del ministro. Ma consigliere è pure la bacchetta musicale, Beatrice Venezi. Stanno a Sangiuliano come la coda sta al pavone. Il Moulin Rouge è un convento se equiparato a questo ministero. Se organizzano eventi è sold out. Tutti gli spostati d’Italia chiederebbero l’iscrizione al club. 

La prima tessera, di partito, Sangiuliano l’ha presa a Soccavo, presso la sezione dell’Msi. Con la famiglia si sposta poi al Vomero, l’Arenella, scuola a salita Stella, dietro via Foria. Ha un fratello, Massimo, di cui non parla, al contrario di come fa del cugino Riccardo Sangiuliano, il Gigi Rizzi dei nostri anni, secondo Genny. Rizzi è l’italiano che aveva avuto un flirt con Brigitte Bardot, ma Riccardo è stato marito di Nathalie Caldonazzo, ha baciato Emma Winter, ex moglie di Andrea Agnelli, e oggi viene paparazzato con l’attrice Claudia Gerini.

“Mio cugino Riccardo” vale un capitolo di “Sangiuliano, una vita”. Per anni, agli intimi, Genny raccontava, orgoglioso, le ultime avventure di mio “cugino Riccardo”, il Sangiuliano al rovescio. Giornalista è Genny, mentre manager, nei fondi d’investimento, è Riccardo. Il fratello Massimo è nell’ombra. 

Genny e Massimo. Li cresce entrambi, da sola, mamma Adele, sarta, governante a casa del senatore dell’Msi, Francesco Pontone. Sangiuliano perde il padre da bambino. Frequenta il liceo Pansini, succursale del Sannazzaro, va a scuola con Antonio Martusciello, l’uomo forte di Forza Italia in Campania. Genny voleva fare il notaio, ma anche il medico, infine ha scelto la professione di giornalista […]

Il mestiere da giornalista lo ha appreso nientemeno che da Raffaele La Capria, così garantisce. E qui c’è da restare Ferito a Morte, come nel celebre libro di La Capria. Questa è la versione ufficiale di Sangiuliano. Ora l’altra. Milita nel Fuan, diventa segretario della giovanile a Napoli. Si accorge presto che l’Msi è troppo piccino per i suoi sogni. 

Passa con i liberali. Si avvicina all’ex ministro della Sanità, Francesco De Lorenzo, e va a lavorare in quota liberale a Canale 8, piccola emittente locale dei vicerè napoletani. Quando De Lorenzo viene travolto dalle indagini, processi, tangenti, Sangiuliano collabora già all’Indipendente. Gli amici di Alleanza Nazionale, Italo Bocchino, Ignazio La Russa, Maurizio Gasparri, tutta una famiglia, dimentica la sbandata liberale e lo abbraccia nuovamente. 

Viene chiamato a Il Roma, ma mentre è a Il Roma, grazie ad An, si apparta con Forza Italia e riesce a farsi candidare nel 2001, nel miglior collegio di Napoli, Chiaia-Vomero-Posillipo. Viene battuto dall’avvocato Vincenzo Siniscalchi, candidato con la sinistra. I suoi amici di destra non sapevano nulla della candidatura.

Lo scoprono e rimangono senza parole. Era già Genny Verne: ventimila leghe sotto il Tirreno. Sconfitto alle elezioni torna a collaborare a Il Roma, perché, a Napoli, un editoriale non si nega a nessuno, nonostante il secondo tradimento a destra. Prende in mano la redazione romana di Libero, grazie all’aiuto di Gasparri. Non gli basta. Vuole andare in Rai. E ci riesce, ma grazie a Forza Italia (ancora) che intercede con Flavio Cattaneo, allora dg Rai e oggi attuale ad di Enel. 

Per irrobustire il cv, e preparare il salto in Rai, Sangiuliano viene promosso vicedirettore di Libero. La vicedirezione gli permette di essere assunto come inviato Rai del Tgr, ma su Napoli, dove garantisce, sempre a Forza Italia, di rimanere per difendere le ragioni del partito. […]

Transita dal Tgr al Tg1, caposervizio, caporedattore, ma questa volta lo fa in quota An. Ne diventa perfino vicedirettore: “Ho avuto la stanza di David Sassoli”. Ha composto inni pure per Gianfranco Fini tanto che Fini gli diceva: “Gennaro, anche meno”. Ogni promozione di Sangiuliano corrisponde a un partito scaricato e un altro afferrato. Tarzan, al confronto, era un pensionato. 

Con servizi su misura, l’arte del soffietto, riesce a fare dimenticare la sua candidatura sciagurata. Il suo nome gira come possibile candidato per la regione Lazio, Campania tanto che nel 2021, baldanzoso, riconosce: “E’ vero. Mi hanno candidato ovunque ma io resto fedele alla mia passione, il giornalismo”. 

Si inventa all’interno dell’Usigrai, il politburo dei giornalisti Rai, la corrente anti Usigrai, Pluralismo e Libertà, insieme a Paolo Corsini e Giuseppe Malara. Sangiuliano è stato anche allievo del giurista Guido Alpa. Ha dato esami di diritto con Giuseppe Conte, il leader del M5s, che alla Camera ora prende sotto braccio. 

Nel 2018 viene nominato direttore del Tg2, ma lo diventa, e siamo a quattro partiti, in quota Lega. Seduce Matteo Salvini con la sua biografia su Putin, biografia che dice Sangiuliano, “ha venduto centomila copie”, e che gli ha permesso di acquistare il box auto rinominato anche il “box Putin”. E’ il suo vanto. Il box. Il Tg2 viene definito Tele Visegrad. Gaffe, servizi sballati, ma la fede, in quel momento è salda. In realtà non era fede. Erano solo i sondaggi che dicevano: meglio buttarsi sulla Lega. Nasce il governo gialloverde e per Sangiuliano il direttore di

[…] Non appena FdI vola nei sondaggi, Sangiuliano riscopre l’antico amore. E’ alla convention di FdI del maggio scorso. La partecipazione gli costa una lettera di richiamo dalla Rai. Il 24 settembre, da direttore del Tg2, intervista Meloni e le fa la domanda: “Lei potrebbe essere il primo presidente donna della storia repubblicana. E’ un riscatto per tutte le donne italiane?”. 

A Meloni alcuni amici hanno chiesto: “Ma perché tra tutti i possibili ministri della Cultura, hai scelto proprio Sangiuliano?”. La sua risposta: “Ha una qualità unica. E’ il solo intellettuale di destra che non vuole piacere alla sinistra. Sangiuliano non ha bisogno di essere qualcos’altro. Sangiuliano vuole essere solo Sangiuliano”. E Sangiuliano infatti si trattiene.

Dietro quel viso morbido nasconde la sua vera natura, come si nasconde dietro ai libri, come gli inquisitori spagnoli si nascondevano dietro al crocifisso. Dietro c’è il fondamentalismo. Il suo ministero lo intende come il Santo Uffizio. Non brucia libri, ma brucia di vanità. […]

Fiumi di ironia scorrono sulle imprese del Ministro della Cultura. De Luca definitivo sulle gaffe di Sangiuliano: “Invitatelo a feste e battesimi”. Dalla D’Urso, alla Fallaci: ecco gli scivoloni del ministro. Redazione su Il Riformista il 23 Luglio 2023 

Era un temperato pomeriggio di novembre quando il Ministro della cultura Sangiuliano inciampa e scivola sulla Fallaci. In un’intervista rilasciata a Il Giornale, Gennaro tuona “Basta con i fondi dati solo ai film di sinistra.” E deciso a dare del filo da torcere continua: “Chiederò alla Rai di fare una fiction sulla vita di Indro Montanelli e su quella di Oriana Fallaci”. Non l’avesse mai detto. Le parole rimbalzano subito sui social ed ecco che la frittata è fatta. La miniserie dedicata alla giornalista e scrittrice fiorentina c’è già.  “L’Oriana” è stata trasmessa su Rai1 nel 2015, il 16 e 17 febbraio.

Va bhé, ma ha detto pure Montanelli. C’è anche lui e il tutto prodotto proprio da mamma Rai. Protagonista Vittoria Puccini, alla regia Marco Turco. Prodotto disponibile ancora su RaiPlay, dove sono si trovano con facilità numerosi contenuti anche su Indro Montanelli.

Si può chiudere un occhio, era il 2015. Una svista insomma. Il Ministro della cultura si sarà pure sbagliato ma come si dice Solo chi non lavora non sbaglia mai e lui in effetti è sempre al lavoro come testimoniano anche i suoi social. Sempre a novembre infatti, mese piovoso a rischio scivoloni, ecco che Gennaro spunta in una foto  nel suo ufficio insieme ai sottosegretari Vittorio Sgarbi e Gianmarco Mazzi, nonché un collaboratore.

Tutto ok se non fosse per un dettaglio. Alle spalle dei lavoratori il televisore è sintonizzato su Pomeriggio Cinque di Barbara D’Urso, la ex primadonna dell’intrattenimento pomeridiano di Mediaset. Bufera sul web ma ringraziamenti da gote rosse da parte della conduttrice che si dice orgogliosa di essere presente anche lei in qualche modo dentro i Ministeri.

L’autunno avanza, le pozzanghere si asciugano e si trasformano in ghiaccio. Ed ecco che Sangiuliano ci ricasca. In un’intervista al Messaggero decide di difendere la sacrosanta lingua italiana dicendosi pienamente d’accordo con Giorgia Meloni che già in passato ha criticato l’utilizzo di anglicismi. Ma nel giro di poche parole utilizza parole straniere per criticare chi utilizza parole straniere: “Credo che un certo abuso dei termini anglofoni appartenga a un certo snobismo, molto radical chic, che spesso nasce dalla scarsa consapevolezza del valore globale della cultura italiana. E anche della sua lingua, che invece è ricca di vocaboli e di sfumature diverse”.

Ma il meglio arriva sempre in fondo e nella rassegna del percorso di inciampi del Ministro della Cultura non si può non citare la più epica. La madre di tutte le gaffe: stiamo parlando ovviamente del Premio Strega. Dove Gennaro decide di dichiarare candidamente alla maestra conduttrice Beppi Cucciari di non aver letto i libri che ha votato tra i cinque finalisti. Gelo. Lui tenta di raddrizzare il tiro dicendo di essere stato frainteso perché intende provare ad approfondire i tomi. Niente da fare, la rete impazzisce tra ironia e indignazione creando meme clamorosi, da “Io sono leggendo” all’ “Insostenibile pesantezza del leggere” tutti con protagonista il nostro fantastico Ministro della Cultura.

Oggi però qualcuno proprio non si è trattenuto e si è scagliato contro il ministro. Il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, nel consueto videomessaggio del venerdì, se l’è presa col ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, definito “ministro delle cerimonie”. De Luca racconta quella che, secondo lui, è stata una “inutile e ridicola” inaugurazione della linea Roma-Pompei. “Fate un’opera di carità, invitatelo a feste e battesimi, e lui verrà”.

5 stelle al Sud: la ribellione e le radici della protesta. Un’ondata di rancore attesa e temuta. E destinata ad abbattersi sulla nave ammiraglia e sul timoniere della flotta che a novembre governava ancora non solo a Roma ma in tutte le Regioni del Sud: dalla Puglia alla Sardegna, dalla Calabria al Molise, dalla Basilicata alla Sicilia, scrive Gian Antonio Stella il 5 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". «Avimmo ‘a sfucà tutt’ ‘o tuosseco ca tenimmo ncuorpo»: ecco l’aria che annusavi al Sud. Una collera tossica per l’impoverimento, la disoccupazione, i bambini (uno su sei) afflitti dalla miseria assoluta, il degrado delle periferie, stava lì lì per sfogarsi. Unico dubbio: chi avrebbe premiato? La risposta, salvo sorprese, si è profilata nella notte. Successo dei grillini. Trascinati dal Masaniello in giacchetta e cravattina. E più cresceva l’impressione di uno sfondamento della destra al Nord, più aumentava la probabilità parallela, se non proprio la certezza, di un analogo sfondamento del M5S nel Sud. Segno appunto di quello «sfogo» atteso nella scia di un malessere economico, sociale, sanitario sempre più diffuso. Lo aveva spiegato a novembre il rapporto Svimez: «L’occupazione è ripartita, con ritmi anche superiori al resto del Paese, ma mentre il Centro-Nord ha già superato i livelli pre crisi, il Mezzogiorno che pure torna sopra la soglia “simbolica” dei 6 milioni di occupati, resta di circa 380 mila sotto il livello del 2008, con un tasso di occupazione che è il peggiore d’Europa (di quasi 35 punti percentuali inferiore alla media UE a 28)». Lo aveva ribadito poco dopo il Censis ricordando che sì, l’Italia va meglio ma dopo il «vero tracollo» delle aree metropolitane meridionali «non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore». Un’ondata di rancore attesa e temuta. E destinata ad abbattersi sulla nave ammiraglia e sul timoniere della flotta che a novembre governava ancora non solo a Roma ma in tutte le Regioni del Sud: dalla Puglia alla Sardegna, dalla Calabria al Molise, dalla Basilicata alla Sicilia. Perduta male, ma proprio male, da un Matteo Renzi che alle Europee aveva preso il 35% e in tutta la campagna per le regionali si è fatto vedere solo di sfuggita, «’na’ffacciata, currennu currennu»…Dice tutto un sondaggio del dossier Eurispes 2018. Alla domanda «quali di questi elementi rappresentano un vero pericolo per la vita quotidiana sua personale e della sua famiglia?» le risposte degli italiani erano centrate (più che sull’immigrazione!) su tre temi legati (soprattutto) al Mezzogiorno: la mafia, la corruzione e «i politici incompetenti». Colpevoli di aver buttato via per decenni decine e decine di miliardi di fondi europei. Pochi dati: usando meglio quei soldi sprecati in regalie clientelari a pioggia (alla macelleria Ileana di Tortorici, alla trattoria «Don Ciccio» a Bagheria…) tutte le regioni della Repubblica Ceca hanno oggi un Pil pro capite superiore a tutto il nostro Sud e così l’intera Slovenia e l’intera Slovacchia. La regione bulgara Yugozapaden, poi, ci umilia: nel 2000 aveva un Pil al 37% della media europea e in tre lustri di rincorsa ha sorpassato tutto il Mezzogiorno, arretrato fino a un disperato 60% della Calabria, mangiando 50 punti alla Campania, 56 alla Sicilia, 64 alla Sardegna. Insomma, han fatto di tutto le classi dirigenti del Sud, per guadagnarsi (salvo eccezioni, ovvio) la disistima se non il disprezzo dei cittadini. Aggravando la crisi. Destra e sinistra, sia chiaro: dal 2008 al 2014 il Mezzogiorno, accusa un’inchiesta del Mattino, ha perso 47,7 miliardi di Pil, 32 mila imprese e 600 mila posti lavoro. E tra il 2010 e il 2013 la classifica del European Regional Competitiveness Index ha visto ruzzolare di 26 posti la Campania, 29 la Puglia, 30 la Sicilia. Al punto che il divario Nord-Sud si è ancor più allargato. Sinceramente: cosa ha fatto la politica per scrollarsi di dosso la mala-reputazione? Manco il tempo d’insediarsi all’Ars e Gianfranco Micciché si tira addosso le ire dei vescovi siciliani dicendosi «assolutamente contrario al taglio degli stipendi alti» che quando passano i 350.000 euro valgono 24 volte quello di un agrigentino. Manco il tempo di aprire la campagna elettorale e nelle liste, da Marsala al Volturno, spuntano impresentabili, figli di papà e (sintesi) figli di papà impresentabili. Per non dire della scelta di candidare qua e là notabili dal passato fallimentare legato alla clientela. C’era poi da stupirsi se nella pancia del Mezzogiorno, quella da cui erano già uscita tra le altre la sommossa dei forconi, covava un sentimento di rivolta? Quanti errori hanno fatto, i partiti tradizionali dell’una e dell’altra parte, per accendere un simile falò?

Il solito velato razzismo ed approssimazione. Estratto dell’articolo di Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” sabato 29 luglio 2023

Mandereste vostro figlio a fare la maturità in una scuola tanto al chilo? Eppure così appaiono certi istituti paritari denunciati in un dossier di Tuttoscuola. Una rete di diplomifici che sfornano ogni anno migliaia di «titoli» buoni per i concorsi pubblici e si vantano online di «rilasciare certificati in media in un giorno» e di «irradiarsi in tutta la penisola con centri di ascolto» e di scansare perfino l’obbligo più ovvio: quello di frequentare almeno una parte delle lezioni. Alla faccia del «merito».

[…] E il direttore Giovanni Vinciguerra si rifiuta di puntare l’indice su questo o su quell’istituto: «È il sistema con le sue regole a consentire storture indecenti». Incrociando i dati e le «promesse» contrattuali offerte sul mercato agli aspiranti diplomandi, però, sul web si trova di tutto. Compresi indirizzi che si sdoppiano e si moltiplicano e rimandano nelle «street view» di Google map a sgarrupate periferie metropolitane, orrendi «bassi» popolari e talora vere e proprie catapecchie: muri scrostati, grondaie arrugginite, mattonelle divelte, spiazzi ingombri di sterpaglie.

Guai a fare d’ogni erba un fascio: la larga maggioranza delle «paritarie» italiane, quattro quinti, è estranea allo spaccio di attestati. I diplomifici, però, ci sono. Al punto di dar vita addirittura a fenomeni di «turismo diplomante». E sono riconoscibili per una caratteristica: hanno pochi o pochissimi studenti iscritti fino alla vigilia della prova finale per il pezzo di carta utile per i concorsi pubblici e poi iscritti che miracolosamente si moltiplicano tra il quarto e il quinto anno.

Un’impennata che nell’ultimo anno scolastico è arrivata a uno stratosferico +166%.

Con punte paradossali.

Un esempio? Quello di un istituto «passato da 11 iscritti in quarta a 296 l’anno dopo in quinta»: ventisette volte di più. Tutto «normale»? «Un altro istituto ha complessivamente avuto negli ultimi sei anni soltanto 31 studenti iscritti al quarto anno, diventati in tutto 1.083 al quinto con un incremento di 1.052 iscritti nel sessennio (+3.194%)». Un altro ancora partito da 138 è salito nello stesso periodo, sempre per il 5° anno, a 1.388: «Ipotizzando una retta media di 5 mila euro, i ricavi di questo istituto solo per le iscrizioni al 5° anno sfiorerebbero in sei anni i 7 milioni».

 […] queste scuole accuratamente scelte per ottenere la benedetta pergamena sono 92. 

Una quota minore (il 6,5%) delle 1.423 «paritarie» che portano gli studenti all’esame di maturità. Ma concentrata in una roccaforte: «Il 90,5% dei 10.941 nuovi iscritti sono in istituti paritari della Campania. Il 6,3% in istituti del Lazio. Il 3,2% in istituti della Sicilia. Stop: nessuno è localizzato in altre regioni d’Italia».  […] 

Una progressione inarrestabile: dal 2015/16 fino a questo anno scolastico «l’incremento di iscritti a livello nazionale nelle paritarie tra il quarto e il quinto anno delle superiori è stato di 166.314».

Oltre 105 mila in Campania, gli altri in tutte le altre regioni messe insieme. Un caso? Dice il Dpr 122/2009 che «ai fini della validità degli anni scolastici, compreso l’ultimo anno di corso (…) è richiesta la frequenza di almeno tre quarti dell’orario annuale». Ma in realtà «in base a quanto risulta da contratti per l’iscrizione nella scuola visionati da «Tuttoscuola», in molti casi sono esplicitamente previste nel corso dell’anno scolastico trasferte di 48-72 ore presso l’istituto dove si svolgerà l’esame finale per un numero di visite che si conta sulle dita di una mano». 

Un weekend ogni tanto… «La violazione di legge sulla frequenza per almeno tre quarti dei giorni di lezione messa in atto quasi sempre dagli istituti in odore di diplomificio è la loro carta vincente verso la clientela». Pronta a pagare, stando ai tariffari on-line, «una cifra compresa tra i 1.500 e i 3.000 euro, più una tassa d’iscrizione che va da 300 a 500 euro.

Per gli esami di idoneità, il prezzo varia tra i 1.500 e i 3.000 Euro. Per il diploma di maturità la retta media è 2.500-4.500 Euro. Ma ci sono casi in cui si arriva a 8.000 o addirittura a 10.000...» E lo Stato che fa? Boh...«Sembra abbia rinunciato alla lotta contro i diplomi facili, azzerando o quasi i controlli». Due numeri: negli anni 90 gli ispettori che facevano le verifiche «erano 696. Ne sono rimasti in servizio solo 24. Alcuni prossimi alla pensione. Ai quali si aggiungono 59 dirigenti tecnici con incarichi triennali che dovrebbero vigilare su circa 8 mila istituzioni scolastiche statali e circa 12 mila paritarie. Ottantatré ispettori per 20 mila scuole… Nel Regno Unito gli ispettori sono circa 2 mila (inclusi quelli part-time), in Francia circa 3 mila».  

Auguri... Perché non ne assumono? Una parola: «Il penultimo concorso è stato nel 1989; il successivo iniziato nel 2005 si è concluso nel 2014. Infine il nuovo concorso ha mosso i primi passi nel 2019 e ad oggi non è stato ancora bandito». Due concorsi in 34 anni. […]

La prof pugliese con il record di 100 e lodi: «Noi del Sud siamo più accoglienti, non faciloni». Valentina Santarpia su Il Corriere della Sera lunedì 31 luglio 2023.

La docente di latino e greco del Flacco di Bari: 4 lodi e otto cento nella sua classe. «Non siamo faciloni, ma riconosciamo gli sforzi. E le splendide carriere universitarie dei nostri studenti ci danno ragione. I ragazzi vanno valorizzati, non castigati» 

«Non capisco cosa c'è di strano: abbiamo un ministero che ha cambiato nome apposta, si chiama dell'Istruzione e del merito proprio perché vuole valorizzarlo. Noi lo facciamo e veniamo criticati? ». Patrizia Grima, 59 anni, insegnante di latino e greco dall’89, vanta nella sua classe, al liceo classico Flacco di Bari, 4 lodi e otto cento all'indirizzo internazionale quadriennale. Come certificato dai dati del ministero dell'Istruzione e del merito qualche giorno fa, la sua classe è una di quelle da record, che alla maturità ha fatto incetta di voti alti, portando proprio la Puglia in cima alla classifica con più «cento» e «lodi» di tutta Italia, in buona compagnia con altre regioni del Sud. Voti che sembrano cozzare con i risultati Invalsi, che invece vedono anche quest'anno gli studenti meridionali indietro rispetto a quelli del Nord.

«E di cosa ci stupiamo? - sorride Grima- Il modo in cui noi accogliamo i ragazzi, li curiamo, e come si comportano i prof del Nord, riflette la stessa differenza che c'è tra le città: se pensiamo a come possono essere accoglienti una città come Napoli o altre del Sud nei confronti di tutti, anche quelli che sono tra virgolette diversi, e quelle del Nord che senz’altro sono più respingenti. Noi professori del Sud siamo più accoglienti di quelli del Nord».

Vi rimproverano di essere meno severi.

«Ma non è così: quest'anno poi l'esame è tornato ad essere rigoroso, con le prove scritte e una commissione esterna. Nessun sospetto di “aiutini”. Piuttosto, siamo pronti a riconoscere il merito, come ci prescrive il ministero, e a riconoscere un percorso di studi. Abbiamo un modo diverso di valutare e di considerare i punti forti e deboli di uno studente. Non dobbiamo avere il braccino corto, e vedere cosa non manca, ma vedere cosa è stato fatto sulla strada della maturità».

Al Nord non ne tengono conto?

«Non so, credo che al Nord tengano conto più degli standard che di una didattica concentrata sullo studente, come succede qui al Sud. I docenti hanno un modo diverso di vedere i passi in avanti dei ragazzi e riconoscere i loro passi avanti».

Però i dati Invalsi sembrano dargli ragione...

«Non possiamo paragonare i dati sic et simpliciter alla maturità, quei test li fanno gli studenti di diverse classi. E quelli che si preparano alla maturità hanno la capacità di prepararsi all'esame di Stato e contemporaneamente di fare i test per l'università. Ci tengono, e dimostrano fino all'ultimo il loro impegno anche se hanno già in tasca un posto in qualche ateneo prestigioso. E noi li premiamo per questo».

Non rischiate di essere troppo generosi?

«No, io sono sicura che siamo sulla strada giusta. Dobbiamo stare attenti a curare il percorso dei ragazzi, a seguirli lungo la strada della maturazione, che è lenta. Spesso all’inizio arrancano e poi fanno un exploit, se andiamo a cercare ogni cavillo non abbiamo capito niente di didattica».

Ma questo metodo non falsa la percezione dei voti?

«Ma no. I ragazzi non pensano ai crediti quando sono al terzo anno, iniziano a pensarci solo all’ultimo anno quando ormai parte dei giochi sono fatti. E allora dobbiamo pensarci noi, individuare quegli studenti che hanno delle potenzialità e valorizzarli: dobbiamo essere lungimiranti, riconoscere le potenzialità e i risultati effettivi. Non solo considerando le loro performance alle interrogazioni e alle verifiche. Uno studente bravo non è solo quello che mi traduce alla perfezione».

E cosa bisogna considerare?

«La capacità di partecipazione ai progetti curricolari, di lavorare su più discipline, di partecipare alle gare di matematica, latino, greco, filosofia. Questo è un modo di vivere la scuola corretto: la scuola fa parte della vita».

Quelli del Nord non lo fanno?

«Non voglio fare confronti, ma credo che noi docenti non dobbiamo fare i castigamatti, ma fare didattica formativa. Non possiamo essere controllori col bastone, tutti gli sforzi vanno sostenuti e valorizzati, altrimenti i ragazzi si scoraggiano. Un cento e lode in più non ci fa essere meno attenti, né ci può far apparire faciloni, siamo solo capaci di considerare la qualità degli sforzi. E le carriere dei nostri ragazzi ci dimostrano che abbiamo ragione».

In che senso?

«Tutti i nostri studenti premiati da voti alti fanno carriere universitarie splendide, abbiamo riscontri pazzeschi. Alla fine il riconoscimento delle università, non solo baresi, sia chiaro, ma italiane e straniere, sono incredibili».

Inviterebbe i docenti del Nord a fare un po’ di scuola al Sud?

«Si, sarebbe bello fare degli scambi. Abbiamo tutti da imparare».

L’80 per cento dei nuovi prof del Sud. Perché trasferirli non è un complotto. I dati di «Tuttoscuola»: nel Meridione c’è soltanto un terzo delle cattedre disponibili. Non potendo muovere scuole e studenti sono i docenti a doversi spostare al Nord, scrive Gian Antonio Stella il 10 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Allora: spostiamo gli studenti al Sud? A leggere certi strilli sulla «deportazione» dei docenti meridionali al Nord cadono le braccia. Certo, è possibile che il famigerato «algoritmo» che ha smistato maestri e professori abbia commesso errori. E vanno corretti. Ma i numeri sono implacabili: 8 insegnanti su 10 sono del Mezzogiorno però lì c’è solo un terzo delle cattedre disponibili. Non per un oscuro complotto anti meridionalista: perché gli alunni delle «primarie» e delle scuole di I° grado sono oggi mezzo milione in meno di vent’anni fa. Lo studio capillare che spazza via certi slogan urlati in questi giorni è di Tuttoscuola. Che grazie a un monitoraggio capillare, nome per nome, regione per regione, dimostra: «Solo il 37% degli studenti italiani risiede al Sud, Isole incluse (18 anni fa era il 47%); mentre ben il 78% dei docenti coinvolti in questa tornata di trasferimenti è nato nel Meridione». Risultato: la scuola italiana è come una «grande nave con un carico molto più pesante a prua (il Nord del Paese), che fa scivolare gradualmente verso quella prua una quota crescente del personale, collocato in misura preponderante a poppa (al Sud)». E non c’è algoritmo che, quella nave, possa raddrizzarla. Almeno in tempi brevi. Il guaio è che, prima ancora della frana 2013/2015, con più morti che nascite come non accadeva dalla influenza spagnola del 1918, il Sud subisce da tempo un’emorragia demografica. Conseguenza: «Meno studenti, meno classi attivate, meno personale docente. Confrontando i dati degli alunni iscritti nelle scuole del primo ciclo nel 1997-98 con quelli degli anni successivi, risulta una flessione costante». Nel ‘97-‘98, ad esempio, gli iscritti meridionali alle materne, alle elementari e alle medie erano 2.032.338 cioè il 46,6% del totale nazionale. Quest’anno 1.586.589, pari al 37,5%. Quasi mezzo milione, come dicevamo, in meno. Contro un aumento parallelo di 320.809 alunni al Nord. Di qua +14%, di là -22%. Va da sé che l’equilibrio domanda e offerta ne è uscito stravolto. E questo «squilibrio», prevede la rivista diretta da Giovanni Vinciguerra, sarà registrato «per altre migliaia di professori della secondaria di II grado». È la conferma che «il Mezzogiorno, da decenni avaro di posti di lavoro, privilegia come valvola di sfogo occupazionale l’insegnamento, mentre i giovani delle altre aree territoriali sembrano non prioritariamente interessati a questa professione, grazie forse a più favorevoli offerte di lavoro locali». Problema: non c’è bicchiere capace di contenere un litro d’acqua. I docenti meridionali sono 30.692 ma i posti a disposizione al Sud sono 14.192: «Come possono 14.192 sedi accogliere 30.692 insegnanti? Neanche Einstein avrebbe potuto inventare un algoritmo in grado di risolvere un’equazione simile». Maestri e professori «in eccedenza» nel Mezzogiorno sono complessivamente 16.500, quelli che mancano al Centro-Nord 17.628. Di qua quasi il 67% in meno, di là quasi il 54% di troppo. Con addirittura un picco del 64,3% di insegnanti in eccesso in Sicilia. La quale copre da sola oltre un terzo dei docenti costretti ad andarsene dalla propria regione. Capiamoci: come dicevamo, e come sono stati costretti ad ammettere la stessa Stefania Giannini o Davide Faraone, l’algoritmo usato per distribuir le cattedre in base a vari parametri (anzianità di servizio, titoli, specifiche esigenze familiari...) «incrociati» con l’ordine delle province preferite (ogni docente poteva metterne in fila cento, dalla propria a quella più lontana o più scomoda da raggiungere) può aver commesso errori. Anzi, vere e proprie ingiustizie che hanno premiato qualcuno a danni di altri. E quelle ingiustizie, come dicevamo, vanno riparate. Partendo dalla massima trasparenza chiesta a gran voce da chi contesta le graduatorie. Mediamente, spiega Tuttoscuola, «soltanto il 38% di docenti meridionali ha trovato sede nella propria regione, mentre il 62% è rimasto fuori. Al contrario, il 74% dei docenti nati nel Centro-Nord è rimasto nella propria regione». Colpa di quella nave sbilanciata a prua. Ma se un pugliese finisce in Sicilia e un siciliano in Puglia, dato che non pesava il merito professionale ma solo l’algoritmo, poteva probabilmente esser fatto di meglio. Ed è vero che, in cambio del posto fisso, viene chiesto a molte persone non più giovani, dopo anni di supplenza, con figli e famiglie radicate, un sacrificio pesante. A volte pesantissimo. Detto questo, le urla contro «la deportazione coatta», i lamenti per «una misura indecente e inaccettabile», le denunce degli «esiti nefasti della mobilità nella scuola», gli appelli contro «l’esodo biblico», sono esasperazioni che si rifiutano di tener conto di un dato di fatto: non potendo spostare scuole e studenti, devono spostarsi i docenti. Come accettò di andare a insegnare in un liceo dell’allora lontanissima Matera Giovanni Pascoli. O dell’ancor più lontana Nuoro Sestilio Montanelli, che si portò dietro tutta la famiglia, a partire dal nostro Indro. E centinaia di migliaia di altri docenti. Consapevole oggi dei disagi, dei problemi, dei drammi familiari, però, il governo potrebbe cogliere l’occasione, come invita Tuttoscuola, per dare una svolta alla scuola meridionale, marcata dall’altissima dispersione e da «scadenti risultati nei test Invalsi e Pisa». Alla larga dall’assistenzialismo, ma vale davvero la pena di tener aperte le scuole meridionali, incentivare il tempo pieno, puntare sull’istruzione. Soprattutto nelle aree a rischio.

Le «due scuole italiane» e la forbice del divario che si allarga. Il Sud trabocca di 100 e lode ma i dati internazionali dipingono un panorama del tutto diverso: che i prof meridionali siano di manica più larga? Afferma Gian Antonio Stella l'11 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera”. Gian Antonio Stella (Asolo, 15 marzo 1953) è un giornalista e scrittore italiano. È nato ad Asolo (TV), dove il padre insegnava, da una famiglia originaria di Asiago. Ha vissuto a Vicenza dove ha frequentato il Liceo ginnasio Antonio Pigafetta. «Questa è una scuola particolare: non c’è né voti, né pagelle, né rischio di bocciare o di ripetere. Con le molte ore e i molti giorni di scuola che facciamo, gli esami ci restano piuttosto facili per cui possiamo permetterci di passare quasi tutto l’anno senza pensarci...». Basterebbero queste poche righe scritte dagli alunni di Don Milani a spiegare quanto i voti possano essere, in una scuola ideale che formi davvero giovani preparati, colti e consapevoli, quasi secondari. Purché, appunto, i ragazzi così la vedano: una scuola «senza paure, più profonda e più ricca». Al punto che «dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi». Ma è così la scuola italiana che esce dagli ultimi dossier? Mah... I numeri pubblicati ieri raccontano di un Mezzogiorno che trabocca di giovani diplomati con 100 e lode, con la Puglia che gode di una quota di geni proporzionalmente tripla rispetto al Piemonte o al Veneto, quadrupla rispetto al Trentino, quintupla rispetto alla Lombardia. Bastonata pure dalla Calabria: solo un fuoriclasse ogni quattro sfornati da Catanzaro, Cosenza o Crotone. Evviva. Ma come la mettiamo, se i dati del P.i.s.a. (Programme for International Student Assessment) dell’Ocse o i test Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo) dipingono un panorama del tutto diverso? Prendiamo la Sicilia, che oggi vanta proporzionalmente il doppio abbondante di «100 e lode» della Lombardia. Dieci anni fa il P.i.s.a. diceva che nessuno arrancava quanto i quindicenni siciliani. La più sconfortante era la tabella sulle fasce di preparazione. Fatta una scala da sei (i più bravi) a uno (i più scarsi) i ragazzi isolani sul gradino più basso o addirittura sotto erano il doppio della media Ocse. Il quadruplo dei coetanei dell’Azerbaigian. Poteva essere lo sprone per una rimonta. Non c’è stata. Lo certifica il rapporto Invalsi 2015: «Il quadro generale delineato dai risultati delle rilevazioni, che non è particolarmente preoccupante a livello di scuola primaria, cambia in III secondaria di primo grado, assumendo le caratteristiche ben note anche dalle indagini internazionali (...): il Nordovest e il Nordest conseguono risultati significativamente superiori alla media nazionale, il Centro risultati intorno alla media e il Sud e le Isole risultati al di sotto di essa». Peggio: «Lo scarto rispetto alla media nazionale del punteggio delle due macro-aree meridionali e insulari, piccolo in II primaria, va progressivamente aumentando via via che si procede nell’itinerario scolastico». Cioè alle superiori. La tabella Invalsi che pubblichiamo in questa pagina dice tutto: dal 2010 al 2015 tutto il Centronord stava sopra la media, tutto il Sud (Isole comprese) stava sotto. Molto sotto. E l’ultimo rapporto Invalsi 2016 non segnala progressi. Allora, come la mettiamo? Come possono i monitoraggi nazionali e internazionali sui ragazzi fino a quindici anni segnalare nel Mezzogiorno una scuola in grave affanno e i voti alla maturità una scuola ricca di spropositate eccellenze? È plausibile che nei due anni finali i giovani meridionali diano tutti una portentosa sgommata alla Valentino Rossi? Mah... Nel 2013 Tuttoscuola di Giovanni Vinciguerra mise a confronto la classifica delle province con più diplomati col massimo dei voti e quella uscita dal capillare monitoraggio Invalsi. I risultati, come forse i lettori ricorderanno, furono clamorosi: Crotone, primissima per il boom di studenti «centosucento», era 101ª nella Hit Parade che più contava e cioè quella della preparazione accertata con i test internazionali. Agrigento, seconda per «geni», era 99ª, Vibo Valentia quinta e centesima. A parti rovesciate, stessa cosa: Sondrio che era prima nella classifica Invalsi era solo 88ª per studenti premiati col voto più alto, Udine seconda e 100ª, Lecco terza e 89ª, Pordenone quarta e 59ª…Assurdo. E le classifiche regionali? Uguali. Un caso per tutti: la Calabria, ultima nei test Invalsi, prima per fuoriclasse. Sinceramente: è possibile un ribaltamento del genere? O è più probabile la tesi che i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po’ più larga? Un punto, comunque, appare fuori discussione. Non solo esistono due Italie e due scuole italiane, due universi di studenti e due di professori. Ma il divario, anziché ridursi, si va sempre più allargando. E ciò meriterebbe da parte di tutti, non solo del governo, un po’ di allarmata attenzione in più.

Il Corriere anche quest'anno rilancia la polemica sui "diplomifici", sostenendo che le scuole del sud Italia sgancino più facilmente votoni agli studenti, con la conseguenza che i maturandi meridionali ad aver preso 100 sono stati il doppio di quelli del Nord. Verità o bugia?

Gli opinionisti “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto equivalente a “Terrone” da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla solita tiritera: ogni qualvolta che il meridione d'Italia eccelle, lì c'è la truffa.

"Il Sud trabocca di 100 e lode ma i dati internazionali dipingono un panorama del tutto diverso: che i prof meridionali siano di manica più larga?", asserisce Gian Antonio Stella, opinionista del nordico “Il Corriere della Sera”. Lui, il buon veneto Gian Antonio Stella, spiega che: «Allora, come la mettiamo? Come possono i monitoraggi nazionali e internazionali sui ragazzi fino a quindici anni segnalare nel Mezzogiorno una scuola in grave affanno e i voti alla maturità una scuola ricca di spropositate eccellenze? Assurdo. Un caso per tutti: la Calabria, ultima nei test Invalsi, prima per fuoriclasse. Sinceramente: è possibile un ribaltamento del genere? O è più probabile la tesi che i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po’ più larga? Un punto, comunque, appare fuori discussione. Non solo esistono due Italie e due scuole italiane, due universi di studenti e due di professori. Ma il divario, anziché ridursi, si va sempre più allargando. E ciò meriterebbe da parte di tutti, non solo del governo, un po’ di allarmata attenzione in più.»

Come si fa da un dato (i monitoraggi nazionali ed internazionali sui ragazzi fino a quindici anni) estrapolare l’assunto del broglio riguardanti i voti della maturità data ai ragazzi di tre o quattro anni più vecchi? E cosa ancora più grave, in considerazione della stima che si ha per un bravo giornalista, come si può mettere sullo stesso piano il dato oggettivo dei monitoraggi nazionali ed internazionali riguardanti il totale del corpo studenti di una data zona rispetto al voto soggettivo di eccellenza profuso in capo al singolo studente meritevole? E se fossero stati premiati apposta per il fatto che si siano elevati rispetto alla massa di mediocrità?

«I più danneggiati da questa fiera diplomistica sono i bravi studenti di quelle regioni troppo generose messi alla pari di loro compagni, bravini forse, ma promossi generali sul campo con rito sommario - rincara Mario Margiocco nato a Genova nel 1945, giornalista dal ’71.- Un preside di Brindisi sembra non rendersene conto e, come altri in passato, taglia corto: “I nostri studenti sono davvero bravi”. Anzi bravissimi, eccezionali. Tutti 100 e lode strameritati? Troppa grazia.». Chiosa in chiusura con evidente sarcasmo il ligure.

Cari signori dal giudizio (razzista) facile. Vi rammento una cosa.

Io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come? 

A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.

A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità statale (non privata) assieme ai giovincelli.

A Milano mi iscrivo all’Università Statale alla Facoltà di Giurisprudenza. Da quelle parti son convinti che al Sud Italia i diplomi si comprano. E nel mio caso appariva a loro ancora più evidente. Bene!

A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza, dopo sosta forzata per attendere il termine legale previsto per gli studenti ordinari.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).

Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense con compiti corretti in altra sede. Così come volle il leghista Roberto Castelli. Perché anche lui convinto degli esami farsa al sud.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università, o dalle sedi di esame di abilitazione o nei concorsi pubblici ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare. Una cultura socio mafiosa agevolata anche da quel tipo di stampa omologata e partigiana che guarda sempre la pagliuzza e mai la trave. Che guarda il dito che indica la luna e non guarda mai la luna.

Alla fine si è sfigati comunque e sempre, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Essere del nord o del sud di questa Italia. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate, e forse, anche perché in Italia nessuno può dirsi immacolato. Per una volta, però, cari giornalisti abilitati (ergo: omologati) guardiamo la luna e non sto cazzo di dito.

Da marche.istruzione.it. Gian Antonio Stella: scheda bibliografica Gian Antonio Stella, 49 anni, vicentino, fa l'editorialista e l'inviato di politica, economia e costume al "Corriere della Sera", giornale in cui, dopo gli anni della gavetta giovanile e l'assunzione al pomeridiano "Corriere d'Informazione", Ë praticamente cresciuto. Sposato, un figlio, cuoco dilettante di un certo talento e chitarrista di appassionata mediocrit‡, vive un po' a Roma, un po' vicino a Venezia, un po' in giro. Vincitore di alcuni premi giornalistici (dall'"E'" assegnato da Montanelli, Biagi e Bocca al "Barzini", dall'"Ischia" al "Saint Vincent" per la saggistica) ha scritto vari libri. Tra i pi˘ noti "Schei", un reportage sul mitico Nordest, "Dio Po / gli uomini che fecero la Padania", un velenoso pamphlet sulla Lega, "Lo spreco", un'inchiesta su come l'Italia ha buttato via almeno due milioni di miliardi di vecchie lire, "Chic", un viaggio ironico e feroce tra gli italiani che hanno fatto i soldi; "Trib˘", uno spassoso e spietato ritratto della classe politica di destra salita al potere nel 2001, e infine ìLíorda, quando gli albanesi eravamo noiî (Rizzoli, 2002; edizione tascabile BUR, 2003), dedicato alla xenofobia e al razzismo anti-italiani che i nostri emigrati vissero sulla loro pelle.

Gian Antonio Stella e quando il Veneto rinunciava ai funerali. «Un aneddoto vissuto in prima persona sulla cultura imprenditoriale dei veneti? Se vuoi ti racconto quello che mi è capitato anni fa. È emblematico, credimi. Un giorno mi telefona a casa Antonio Albanese. Io non lo conoscevo, poi siamo diventati amici. Lui sapeva che avevo scritto parecchia roba sui veneti, sugli schei, sul loro attaccamento […] BRUNO PERINI isu nformazionesenzafiltro.it

«Un aneddoto vissuto in prima persona sulla cultura imprenditoriale dei veneti? Se vuoi ti racconto quello che mi è capitato anni fa. È emblematico, credimi. Un giorno mi telefona a casa Antonio Albanese. Io non lo conoscevo, poi siamo diventati amici. Lui sapeva che avevo scritto parecchia roba sui veneti, sugli schei, sul loro attaccamento all’azienda, così mi parla di un suo progetto. Voleva raccontare una storia di fantasia, la storia di un industriale veneto che rinuncia ai funerali di suo padre perché deve fare una consegna importante per la sua azienda. “Ti sembra una storia assurda”, mi chiede Albanese. Assurda? Ti posso assicurare che è una storia vera. È realmente accaduto. Mi è capitato di conoscere un industriale veneto, di cui non farò il nome, che ha rinunciato ai funerali di suo padre perché doveva fare una consegna per la sua fabbrica. E quando io gli ho chiesto perché aveva rinunciato a partecipare ai funerali di suo padre lui mi ha risposto: “Papà mi avrebbe capito”. Questo aneddoto la dice lunga sullo spirito dei veneti».

Quando riesco a rintracciarlo attraverso la segreteria di redazione del Corriere della Sera, Gian Antonio Stella accetta volentieri di parlare del “suo” Veneto e di tutti i volti, le luci e le ombre che caratterizzano il Nord Est d’Italia. Lui quelle terre le conosce bene, le ha vissute da ragazzo, le ha guardate con l’occhio dell’inviato del Corsera e le ha studiate da diverse angolazioni, da sempre. 65 anni, nativo di Asolo, un borgo di poco più di novemila abitanti in provincia di Treviso, inviato ed editorialista del quotidiano di via Solferino, autore di numerosi libri di grande successo come La Casta, scritto assieme a Sergio Rizzo, L’Orda, quando gli albanesi eravamo noi, sulla xenofobia e il razzismo contro gli emigrati italiani, Schei, un’indagine ante litteram sulla patria dei Benetton, dei Marzotto, di Leonardo Del Vecchio, deus ex machina di Luxottica, e di migliaia di piccole e medie imprese che costituiscono la fitta rete del territorio industriale più ricco d’Italia. E ancora La Deriva e poi Negri, froci, giudei & co. L’eterna guerra contro l’altro; un libro sul razzismo di grande attualità definito da Claudio Magris “un potente, ferocemente ilare e doloroso dizionario o prontuario universale di tutte le ingiurie, odi e pregiudizi nei confronti del diverso d’ogni genere”. 

Torniamo indietro negli anni. Schei è un libro di 22 anni fa e racconta come il denaro sia uno degli elementi cruciali per capire il Nord Est. Che cosa è cambiato da allora?

Ovviamente è cambiato tutto. C’era una regione che usciva dal dominio della Democrazia Cristiana ed entrava in una nuova era. A mio parere non è stato neppure un passaggio troppo traumatico: la Lega, anche se il 1996 fu l’anno della dichiarazione d’indipendenza a Venezia (parole, parole, parole…) si rivelò sul territorio assai meno guerresca, subentrando quasi senza traumi, qua e là, alla vecchia dc dorotea.

Dunque la politica ha svolto un ruolo importante nei mutamenti degli ultimi 20 anni.

Direi di no. I cambiamenti sono passati per altre vie. Anzi, sai cosa penso? Che nella politica italiana il Veneto ha sempre contato ben poco. Poi ci torniamo, su questa questione. C’era una battuta: la politica andava lasciata al mona de’a fameja. C’era l’idea che il bravo imprenditore non aveva il tempo di occuparsi di politica, tutto il suo tempo doveva essere dedicato a fare impresa. L’orgoglio più grande in quelle zone è l’azienda di famiglia, non la politica. Luca Zaia è stato coraggioso a ricordare, dopo la tragedia genovese, che fino a due mesi fa i Benetton erano l’orgoglio del Veneto. Poi è crollato il ponte e tutto è cambiato. È giusto indagare sulle responsabilità di quella tragedia e chi ha sbagliato deve pagare, ma nei confronti dei Benetton ci sono stati online anche insulti e volgarità infami. La famiglia Benetton non è solo la Società Autostrade. Fino al ponte di Genova (ripeto: chi ha sbagliato paghi) c’erano stati reportage e polemiche per le immense tenute comprate in Sudamerica, per i rapporti con imprenditori dai modi spicci come Briatore, per qualche operaio troppo giovane assunto in qualche fabbrica delocalizzata. Cosa, com’è noto, sempre negata. Ma in ogni caso nessuno aveva messo in dubbio la loro storia di imprenditori venuti dal nulla: anche loro, nel Veneto di allora, hanno cominciato a lavorare da ragazzi. Giuliana cominciò a 11 anni, a 14 era caporeparto che faceva due turni per portare a casa due stipendi. Gilberto diceva di essere quello dei fratelli che aveva studiato di più: fino a 14 anni. Luciano lo stesso. Semmai si è discusso sull’autosfruttamento, molto diffuso tra gli imprenditori veneti, non solo tra i Benetton.

Una storia simile a quella di Leonardo Del Vecchio, che partendo dallo sfruttamento del lavoro a domicilio nelle case di Agordo è riuscito a costruire un impero come Luxottica. Un’accumulazione di capitale piuttosto dura, fondata spesso sul lavoro dei minori, che ricorda quella dell’Inghilterra del 1700.

C’era anche questo aspetto. È vero. Ma parliamo di aree svuotate da decenni di povertà ed emigrazione: quella era l’alternativa. In ogni caso anche per Leonardo del Vecchio vale il discorso dell’autosfruttamento: la sua vita era pazzesca. Partiva alla mattina prima dell’alba per Milano con la sua Fiat 1100, consegnava gli occhiali, tornava subito ad Agordo (e non c’era l’autostrada di oggi), lavorava fino a notte e la mattina dopo tornava a Milano. Così ogni giorno. In ufficio, dietro la sua scrivania ad Agordo, paesotto di quattromila abitanti dove venne fondata la Luxottica nel 1961, Leonardo Del Vecchio teneva attaccata alla parete la cambiale del primo prestito.

Mi stai dicendo che questi due esempi, Benetton e Leonardo Del Vecchio, rappresentano lo spirito imprenditoriale del Veneto?

Non solo loro. Ci sono tanti casi simili. Penso ad esempio a Ivano Beggio, il fondatore di Aprilia (poi passata alla Piaggio) morto nel marzo di quest’anno. Il giovane Beggio si costruisce il primo “cinquantino” da solo, nel negozio di bombole, ferramenta e biciclette del papà. Quando gli subentra comincia a fabbricare motorini e vent’anni dopo, battendo la Honda, vince il primo di 56 titoli mondiali e comincia ad assumere, lui con la terza media, decine e decine di ingegneri.

Oggi il Nordest che ho conosciuto e che ho provato ad analizzare e capire è molto diverso. Il passaggio generazionale non sempre ha funzionato come era nelle speranze dei “condottieri” degli anni d’oro. Si pensi, ad esempio, al caso di Pietro Marzotto, che era un gigante, ma…

Che cosa invece non è cambiato a tuo parere?

Il rapporto con la politica. Ne parlavamo all’inizio della nostra conversazione. Nonostante il Veneto, dagli anni ‘60 in poi sia stato uno dei motori più potenti dell’economia italiana, non ha mai avuto un peso né nella politica né in Confindustria. Pietro Marzotto è stato per anni vicepresidente di Confindustria ma non è mai arrivato alla presidenza. E quando gli chiedevano perché non si candidava a guidare la Confindustria lui rispondeva: «Mi son un industrial, no un presidente». Lo stesso vale per la politica. Dopo il democristiano Mariano Rumor (unica eccezione con Luigi Luzzatti in 150 anni di storia!), citami un politico veneto che abbia avuto un peso vero a livello nazionale. Gui? Tremonti, forse. Ma è solo di origine veneta. Sì per un certo periodo, negli anni Ottanta ci sono stati uomini politici come Gianni De Michelis e Carlo Bernini. Ma è poca roba se si pensa al peso che il Veneto ha avuto nella crescita economica dell’Italia.

E la Lega di Matteo Salvini ce la siamo dimenticata? Lo sanno tutti che il Nord Est è la base elettorale della Lega.

Direi che anche in questo caso non cambia niente. Anzi: si tratta di una conferma della regola. Bossi, Maroni, Salvini: ma un veneto, gli altri sono lombardi. I contrasti sono noti e comunque non credo che gli imprenditori del Nord Est si identifichino totalmente con la Lega che oggi governa. Certo, i voti vengono anche da quel bacino, ma ad esempio sul tema dell’immigrazione e dell’integrazione ci sono modi diversi di gestire il fenomeno.

Questo è vero. Un imprenditore del Nord Est mi raccontava che, se gli portassero via la manodopera straniera, per le loro aziende sarebbe un tragedia. È così?

Certo che è così. Poco tempo fa sul Corriere della Sera ho raccontato una storia che è significativa a proposito dell’immigrazione.

Racconta.

Bepi Covre, proprietario a Oderzo, nella grassa provincia trevisana, di un’azienda metalmeccanica che fa componenti per l’arredamento e di un’altra che fa tavole e sedie (soprattutto per Mondo Convenienza, «roba buona perché alla prima “carega” che si rompe, nel nostro settore, hai chiuso»), mi ha raccontato di avere cercato a lungo personale da assumere. «Ne abbiamo 250, ce ne servivano quaranta. Non sono poche, quaranta assunzioni a tempo indeterminato. Con uno stipendio di partenza intorno ai 1.300 o addirittura 1.500 euro. Niente da fare. Alla fine, dopo il “decreto dignità” di Di Maio ne ho presi una decina qui della zona e una trentina di varia provenienza. Rumeni, moldavi, indiani, bosniaci, africani; residenti in Italia, magari nati in Italia, scolarizzati in Italia. Gente che non fa problemi a spostarsi e andare a lavorare dove c’è il lavoro. Gli diamo anche una mano a trovar casa».

Meridionali niente? Zero, mi ha risposto l’imprenditore: «Solo uno, Piero, viene da Norcia, dove aveva perso il lavoro a causa del terremoto. L’ho assunto e son contento. Come è contento lui». Il punto è che qui sì, il lavoro c’è. Ma, dispiace dirlo, non troviamo giovani meridionali disposti a venir su. Non solo io, anche tanti colleghi. C’è un mio amico, importante fornitore di Ikea, oltre 1.200 dipendenti, che ha incaricato le agenzie interinali di fare scouting al Sud per cercare lavoratori disposti a trasferirsi in provincia di Pordenone. Non per lavori in miniera: soprattutto periti, tecnici, operai specializzati. Niente da fare. Pensi che siamo arrivati a “prenotare” ragazzi che vanno ancora a scuola», mi ha detto l’imprenditore in quell’intervista che ti ho citato. La realtà è che in Veneto molti immigrati si sono integrati meglio che in altre regioni. E quando c’è stato un problema è stato gestito e risolto. Guarda il caso di via Anelli a Padova. Via Anelli era il simbolo italiano del degrado, della violenza, dello spaccio. Simile (in peggio) a quello che oggi è il quartiere di San Lorenzo a Roma. Lo hanno risolto. Ora quel problema non c’è più. Ma non l’hanno risolto con le ruspe. Hanno sparpagliato la gente, hanno trovato appartamenti e lavoro a chi ne aveva bisogno. Hanno risolto in modo semplice un problema complicato. È un po’ questa la natura dei veneti.

Alla fine di questa conversazione vorrei farti una domanda su un tema assai delicato. Come mai il livello dei suicidi è stato così alto in Veneto negli anni della grande crisi?

Se il lavoro è tutto, se pensi solo a quello, se tutto il resto passa in secondo piano (la famiglia, gli amici, il tempo da spartire con gli altri, la fede religiosa stessa), se lavori anche di notte e poi anche il sabato e poi anche la domenica, se rinunci ai funerali di tuo padre per una consegna urgente… Alla fine, se le cose vanno male, ti spari. Perché ti manca tutto. Il centro di gravità. L’ossigeno. La crisi? È stata come una giungla, è sopravvissuto chi è riuscito a non farsi schiacciare dalle difficoltà. Oggi in Veneto la disoccupazione è bassissima. Di recente il Sole 24 ore ha pubblicato un servizio nel quale si dimostrava che il manifatturiero italiano (Veneto in testa) è cresciuto negli ultimi tre anni più che in Germania, in Gran Bretagna o Francia.

Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 18/11/2010, 18 novembre 2010  

«Siamo avvezzi ad attacchi interessati» scrisse Totò Cuffaro in una lettera aperta ai direttori dei giornali dopo la pubblicazione di un’inchiesta del settimanale inglese «Economist» che aveva definito la Sicilia «il terzo mondo dell’Unione Europea». (...) Dopo di che aveva buttato lì il solito sospetto: «Mi chiedo quali interessi ci siano dietro a queste analisi, giunte proprio in un momento nel quale per una convergenza di diversi fattori, non ultimo quello di una nuova stabilità politica, qualificati investitori internazionali guardano alla Sicilia come concreto orizzonte della loro espansione. A chi interessa accreditare l’immagine di un’isola alla deriva?». (...) Sempre così va a finire, quando i giornali o i servizi televisivi stranieri o «del Nord» si occupano di quello che non va in Sicilia. Con le reazioni stizzite, le lagne vittimiste, le ipotesi di un complotto. Raffaele Lombardo, come è noto, è diventato col tempo, dopo essere stato un suo alleato, un nemico mortale di Cuffaro. Al punto di scherzare su un gallo che, ai bei tempi, aveva regalato «all’amico Totò». Gallo usurpatore che s’era presto impadronito del pollaio ammazzando il gallo cuffariano. Eppure, davanti a un nuovo intervento dello stesso «Economist», che nella primavera 2010 aveva proposto ironicamente di ridisegnare i confini dell’Europa e [...]

Francesca Salamino il 25 Aprile 2014 su labalenabianca.com. Se muore il sud – copertina. Cosa vuol dire morire? Affondare negli scandali e nelle illegalità? Tramontare all’ombra di un Nord, forse, più potente ma altrettanto corrotto e coinvolto? Essere dimenticato dal resto del Paese e dalla stessa Europa?

« Tornate a bordo, cazzo! » Questo viene voglia di urlare, a tutti quelli che sembrano avere abbandonato il Mezzogiorno al suo destino. Ditelo: ci avete rinunciato, al Sud? avete deciso che non vale la pena salvarlo? avete immaginato che tanto vale lasciarlo andare alla deriva verso un futuro sempre più violento, marginale, miserabile? Vi siete rassegnati all’impossibilità di strapparlo alle mafie, alle clientele, alla malapolitica? Ditelo, almeno. Abbiate il fegato di ammetterlo. Perché il Mezzogiorno sta andando al disastro. E non serve a niente, giorno dopo giorno, voltarsi dall’altra parte. (p. 7)

Risulta difficile apprezzare la metafora della Concordia applicata al Sud, visto che già mezza Europa l’ha utilizzata per dare un’immagine dell’Italia intera. E, se già in quel paragone si avvertiva qualche nota stonata, non si capisce perché risuonare la stessa melodia. Se questo libro ha un merito, però, è quello di aver messo in luce il problema che sta alla base di un Sud sempre più confinato nel dimenticatoio: la contrapposizione costante tra due atteggiamenti mentali, ovvero il suo stesso vittimismo e il distacco del Nord. Da un lato, quindi, l’incapacità di dare vita a progetti ambiziosi e soprattutto realizzati, di autocritica, di seguire le regole; dall’altro, la mancanza di fiducia in un pezzo del proprio stesso territorio e la tendenza a considerarsi separatamente ma solo nella cattiva sorte.

Se è vero che in ogni Paese e in ogni regione si contrappongono differenze geografiche e culturali, in Italia tutto questo supera ogni logica. La ragione è che queste differenze, anziché essere sfruttate come serbatoio di ricchezza, sono vissute come ostacoli. Appare illogico perché basterebbe voltarsi dall’altra parte per scoprire che le differenze non sono a senso unico, e ciò che il Nord critica al Sud il mondo lo critica all’Italia intera, come ha sintetizzato Ivano Russo sul Sole 24 Ore:

Il Nord non è quell’avamposto europeo di sviluppo economico che spesso ci viene raccontato, così come il Sud non è la palla al piede che farebbe affondare un paese altrimenti prospero. (p. 201)

Ciò è vero a tal punto che anche un fenomeno come la Lega Nord, nel libro La razza maledetta di Vito Teti, viene descritto come il figlio naturale dello stesso atteggiamento vittimista che solitamente si imputa al Sud:

Il Nord si scopriva improvvisamente ‘sfruttato’, con strutture e servizi inadeguati, vittima dei meridionali e dei partiti che avevano curato solo i loro interessi. Naturalmente, i gruppi politici meridionali, con le loro pratiche clientelari, con i mille sprechi che non avevano comunque inciso sui problemi del Sud, e anche con le collusioni con gruppi criminali e mafiosi, avevano contribuito ad alimentare il sentimento antimeridionale della gente del Nord. Ma è anche vero che la Lega riusciva in un’operazione di ribaltamento della verità storica e si presentava, in maniera paradossale, col vittimismo e la lamentazione che tradizionalmente avevano caratterizzato gli uomini politici e gli amministratori del Sud. (p. 62)

L’aggravante è che quanto descritto non è affatto recente ma risale a tempi ormai antichi, eppure ognuno continua ancora oggi a difendere il proprio giardino e a curarci un orto che non dà più grandi frutti. Gaetano Salvemini, « un meridionalista che non faceva sconti al Meridione », diceva già molti decenni fa:

Qualunque gruppo di uomini onesti di qualsiasi partito avesse voluto mettere un po’ di freno alla iniquità di una sola fra le clientele che facevano capo a un deputato meridionale, era sicuro di trovarsi contro tutta la marmaglia compatta. Il nostro sistema politico e amministrativo si fondava sull’asservimento della piccola borghesia intellettuale e dei suoi rappresentanti parlamentari ai gruppi politici prevalenti nell’Italia Settentrionale e sul consenso sistematico dei gruppi politici prevalenti nell’Italia settentrionale alla malvagità bestiale delle clientele meridionali. (p. 16)

Stella e Rizzo hanno condotto un’inchiesta approfondita, seria, puntuale e mai eccessivamente « giornalistica ». Nel libro si passano in rassegna tutti i problemi che avviliscono il nostro Mezzogiorno. Si parla, dunque, dei finanziamenti mancati e di quelli sprecati; della mafia che da tempo « abita anche a Milano » e non più solamente al caldo della Sicilia; dei soldi statali utilizzati a scopi personali; degli affari condotti sui terremoti e sulle calamità naturali; della mancanza di lungimiranza nei confronti del turismo e dei beni culturali; dei tagli europei al Sud; dei trasporti che non funzionano; della lobby dei medici in politica; delle infrastrutture mai terminate. Si potrebbero portare innumerevoli esempi per ognuna di queste note dolenti: la gran quantità di nomi e numeri è infatti ciò che riempie le 300 pagine del libro e questa è forse l’unica aporia che gli si può rimproverare. Alla lunga, l’accostamento di un tono colloquiale (ricco di « uffa! » e di considerazioni a carattere personale, basti la quarta di copertina) con dati su dati, risulta stancante.

Conta molto di più, infatti, la capacità degli autori di aver sottolineato la causa culturale che sta alla base dei problemi del Mezzogiorno, ovvero quello scontro tremendo di due mentalità cieche e parallele. Perché del Sud si parla molto ma anche questo argomento si avvicina sempre più ai molti altri cliché che riguardano l’Italia. Esattamente com’è accaduto per « La legge elettorale non può più aspettare » oppure per « bisogna assolutamente fare qualcosa per i giovani di questo paese », le affermazioni sul Meridione, ripetute così tante volte, stanno andando incontro all’inesorabile destino dello svuotamento di significato e quindi della mancanza di azioni concrete. Allora sì che il Sud rischia davvero la morte. Una morte reale a cui poi bisognerà fare fronte:

Lo Svimez (associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, ndr) è preoccupatissimo: il Sud è ormai ‘a forte rischio di desertificazione industriale, con la conseguenza che l’assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente’. (p. 44).

Torna alla mente la scena del film I cento passi dove, alla frase del padre : « Ma non lo capisci che se continui cosi quelli ti ammazzano? », Peppino risponde : « E se quelli mi ammazzano tu che cosa fai? ».

E se muore il Sud, voi che cosa fate?

S. Rizzo, G.A. Stella, Se muore il sud, Milano, Feltrinelli, 320 pp., 19 €.

GIAN ANTONIO STELLA: UN GIORNALISTA ANTIRAZZISTA MERITEVOLE DI PLAUSO OPPURE…… un generico piratello di brandelli di ricerche altrui? Salvatore Palidda il 14 Aprile 2019

Si legga qua di seguito l’ultimo articolo di Stella e si capirà. Non è la prima volta che dà prova di questa sua abitudine che, come si sa, è comune a tanti suoi colleghi più o meno illustri … salvo che gli editori preferiscono pubblicare e pompare quasi come best sellers i Stella anziché i ricercatori. Peraltro, non è dato sapere se poi i signori Stella o Saviano o Camilleri e altri almeno donano qualche borsa di laurea o di master o di dottorato per i giovani che spesso sono costretti ad andare a cercarla all’estero. Ciò che è ancor più deplorevole è che i giornalisti avvezzi a questo genere di articoli non si curano neanche minimamente di approfondire qualche aspetto essenziale né di citare le fonti. Per esempio, a proposito di questo celebre linciaggio degli italiani a New Orleans perché Stella non cita il film-documentario Pane Amaro dell’italo-americano Gianfranco Norelli che per realizzarlo fece ricerche per 10 anni . In Pane Amaro si mostra non solo l’eccidio di New Orleans, ma anche il fatto che dopo i neri gli italiani sono stati i più numerosi fra le vittime del Klu Klux Klan. Inoltre, secondo il documentario di Olla il capo della polizia pare fosse stato assassinato per un regolamento di conti con la criminalità di cui era complice. E ancora, i casi di razzismo e linciaggio di italiani in diversi paesi di immigrazione sono stati molteplici (fra altri quello di Aigues Mortes in Francia nel 1893). Infine Stella non dice nulla su quanto scrissero Lombroso e i suoi discepoli a proposito dei meridionali (che cominciavano sotto il 45° parallelo cioè sotto il Po): la “razza maledetta” – che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il Mezzogiorno d’Italia, ch’è tanto affine per la sua criminalità, per le origini e per i suoi caratteri antropologici alla prima – dovrebbe essere ugualmente trattata col ferro e col fuoco e dannata alla morte co-me le razze inferiori dell’Africa, dell’Australia ecc. [citato da VITO TETI in La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale (1993) manifestolibri].Insomma il razzismo assassino è sempre stato tipico dei Paesi di immigrazione e istigato fra la popolazione autoctona a sostegno dell’inferiorizzazione degli immigrati. Negli Stati Uniti come altrove si volevano gli italiani solo come neo-schiavi (in alcuni casi erano pagati meno degli stessi neri). E come si dice alla fine del film Pane Amaro, la storia si ripete: oggi negli Usa la razzializzazione colpisce ancora i neri ma anche gli ispanici, così come in Italia nei feudi leghisti e non solo colpisce gli immigrati a cui si vuole negare ogni diritto (vedi Mobilità umane, 2008). 

Vendetta, libro di Richard Gambino sugli italiani linciati a New Orleans.  Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 10 aprile 2019 Il libro “Vendetta” del docente americano Richard Gambino che ricostruisce il linciaggio del 14 marzo 1891 a New Orleans, dove la prigione della contea fu presa d’assalto da migliaia di “bravi cittadini” decisi a uccidere 11 italiani, compreso un disabile mentale di nome Emmanuele Polizzi, che erano stati assolti al processo per l’omicidio di un poliziotto, David Hennessy, racconta dettagli agghiaccianti sulla cieca ferocia degli assassini.Gli organizzatori del linciaggio “fecero disporre in fila alcuni dei cadaveri in una vasta stanza, per consentire alla gente di sfilarvi davanti. Migliaia di individui, tra i quali si stimò ci fossero circa 2500 fra donne e bambini, continuarono ad affluire per cinque ore. (…) Alcune delle donne inzupparono i propri fazzoletti di pizzo nel sangue dei morti per ricordo”.

Quanto odio occorre accumulare per arrivare a tanto? Quanto? Il libro “Vendetta” del docente americano Richard Gambino che ricostruisce il linciaggio del 14 marzo 1891 a New Orleans, dove la prigione della contea fu presa d’assalto da migliaia di “bravi cittadini” decisi a uccidere 11 italiani, compreso un disabile mentale di nome Emmanuele Polizzi, che erano stati assolti al processo per l’omicidio di un poliziotto, David Hennessy, racconta dettagli agghiaccianti sulla cieca ferocia degli assassini. Ed è una consolazione sapere che il sindaco della città della Louisiana, come scriveva giorni fa il nostro Paolo Di Stefano, chiederà scusa giovedì alla comunità italiana per quell’eccidio che il “Republic” di St. Louis bollò subito come razzista spiegando che i nostri erano stati linciati “in forza dell’unica prova disponibile, quella di essere dagoes”. Uno dei nomignoli sprezzanti con cui erano definiti.

Ma come fu gonfiata, giorno dopo giorno, quella bolla di odio contro i nostri nonni? Dice tutto una vignetta pubblicata dalla rivista “The Mascot” edita a New Orleans il 7 settembre 1883. Sotto il titolo “Regarding the italian population” (a proposito della popolazione italiana) c’erano cinque vignette con le relative didascalie. La prima mostrava immigrati italiani che bivaccavano in mezzo alla strada: “Un fastidio per i pedoni”.

La seconda italiani accatastati l’uno sull’altro: “Gli appartamenti in cui dormono”. La terza italiani che si accapigliavano a coltellate: “Un piacevole passatempo pomeridiano”. La quarta italiani ammassati dentro una gabbia calata con una carrucola in mare: “Come sbarazzarsi di loro”. La quinta italiani rabbiosi portati via dal carro dell’accalappiacani: “Come arrestarli”.

Così vedevano i nostri immigrati in America, allora. Lo stesso il sindaco di New Orleans, Joseph Shakespeare, dopo l’omicidio del poliziotto, sfogò i suoi peggiori pregiudizi accusando i siciliani d’essere gli “individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistano tra noi”. Brutta storia il razzismo. Peccato che molti se ne accorgano solo quando lo subiscono loro…

NOTA DELLA BOTTEGA

Vale segnalare che sul linciaggio di New Orleans, il quotidiano il manifesto ha pubblicato (il 12 aprile) un’aggiornata ricostruzione di Giuseppe Galzerano; nel sommario – nel testo no – c’è un errore: si parla del 14 aprile 1891 invece che del 14 marzo. Le immagini sono riprese dalla rete.

Storia di Gian Marco Chiocci, un John Wayne al Tg1. Cronista d'assalto, l'ossessione per lo scoop, l'amicizia con la premier, il giornalismo come artigianato di famiglia:: storia di un giornalista "contro" (che proprio per questo potrebbe avere qualche problemino a viale Mazzini...) 

Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 30 maggio 2023

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Aveva l’anca asimmetrica di un John Wayne, l’occhio di un lupo digiuno di notizie, l’allure di un patrizio umbro fuori sede.

Quando anni fa assunse Gian Marco Chiocci, Vittorio Feltri inciampò in un clamoroso errore di valutazione: «Lo presi in redazione fidandomi del padre Francobaldo, penna raffinatissima. Però il figlio mi sembrava un cowboy, anzi un pistola. Dopo un po’ mi resi conto di che era tutt’altro che un pistola. Si dimostrò un segugio efferato con un formidabile senso dell’inchiesta. Oserei dire un giornalista d’altri tempi…». Oserei confermare.

Finalmente per la sua parte politica, i suoi lettori e ora gli italiani tutti, Chiocci è direttore del Tg1. Classe ’64, figlio d’arte, l’aria macerata del cronista di frontiera, eugubino di nobili natali, quattro figli di varie età di cui tre avuti con la moglie Alessandra Frigo autrice de La7, una passione per la Lazio che lo spinge a commenti e meme funambolici sui social: Chiocci si arrampica oggi, con mano ferma, sulla tolda del più grande telegiornale d’Italia. Fortemente voluto sì da Giorgia Meloni e suggerito dai grandi influencer della destra che conta –Feltri su tutti- Gian Marco per la prima volta connoterà il Tg1 molto più di quanto il Tg1 potrà connotare lui. Il che suppongo sia una novità per il servizio pubblico visto da destra. 

IL DIVANO BLU Certo, Gian non potrà più usare il divanetto blu del Tempo di cui era direttore (e dove s’appisolava il viandante Claudio Lotito) come pensatoio per i titoli o le vignette più cazzone dell’anno. Ricordo, per esempio, l’apertura del quotidiano romano sull’allora sindaca di Roma Raggi che in siccità invitava a non usare il bagno: «Calma e cesso», titolò il direttore. O una copertina nel dicembre 2017 su "Mussolini uomo dell'anno" corredato da un pezzo coltissimo di Marcello Veneziani che denunciava i fantasmi dell’antifascismo facendo saltare le coronarie a sinistra. O tutte le vignette di Federico Palmaroli in arte Osho gettate in pasto a un pubblico mai abituato a ridere troppo. 

Due righe di cronaca per chi non lo conoscesse. Chiocci è più di un «cronista d’assalto»; è letteralmente divorato dall’ossessione per l’inchiesta. Per capirci: è lui quello che, a colpi di scoop e reportage, ha tenuto su quasi da solo l’inchiesta di “Affittopoli” che costrinse Massimo D’Alema a cambiare casa; e la politica a cambiare postura, inginocchiandosi per la vergogna dinnanzi ai propri elettori. Stesso copione, anni dopo, con la famosa inchiesta sulla «casa di Montecarlo» del Tulliani cognato di Gianfranco Fini: è lui il conduttore della mitica «macchina del fango» in grado di stroncare la carriera del leader di Futuro e Libertà e che, in prospettiva, insufflò nella destra sperduta il germe meloniano di Fratelli d’Italia.

Tornando alla carriera del nostro: Chiocci inizia la inizia molto giovane scrivendo sulla Gazzetta di Prato e Firenze; poi passa a Il Tempo sezione d’Abruzzo, poi a Latina e a seguire a Roma, occupandosi prevalentemente di cronaca giudiziaria. Dopo una breve parentesi a L’Informazione nel 1994 diventa, appunto, giornalista del Giornale diretto da Feltri. Nel 2013 eccolo direttore de Il Tempo degli Angelucci, dove il pallino per la giudiziaria gli resta sottopelle («Dopo il cazzeggio, rimaneva ore e ore a studiarsi le carte e gli atti giudiziari, specie delle inchieste che da cronista aveva cominciato lui», ricorda il suo ex vicedirettore Marco Gorra).

 Dal 2018 Chiocci è direttore dell’agenzia Adnkronos, prima di ottenere la direzione del Tg1. Sull’abilità investigativa e sul guizzo giornalistico del nostro nessuno, specie tra gli avversari, è in grado di imbastire critiche sensate.

I CINQUANT’ANNI Era stato indagato per favoreggiamento per aver rivelato all’ex terrorista Nar Salvatore Buzzi, con il quale intratteneva rapporti come cronista-fonte, di un’indagine a carico di Massimo Carminati. Chiocci, che ha sempre escluso di aver avvertito Buzzi, è stato poi assolto: la storia era sempre stata relegata a una paginetta delle migliaia dell’inchiesta Mafia Capitale. Ma, non sussistendo il fatto, lui s’è sempre scosso, con gesto lieve tutto il fango che hanno cercato di scaricargli addosso. Rispettato incredibilmente anche a sinistra e pubblicamente lodato da Giuseppe Conte («è proprio uno bravo») del quale ha  seguito le gesta, Chiocci ha dimostrato la propria trasversalità –raccontano le cronache- alla festa dei 50 anni. 

Laddove, in un allegro casino da baccanale, «in una chiesa sconsacrata di proprietà di famiglia in via dei Coronari, c'era mezza Roma, anche Aldo Biscardi» scrive Concetto Vecchio di Repubblica. Il quale, pur apostrofandolo come «il cronsista dei misteri» non nasconde per Gianma una malcelata invidia. 

Chiocci è l’unica novità di questa tornata di nomine Rai fatte da Roberto Sergio con acume assai meloniano ma in guaina democristiana. Ed è anche l’unico direttore di tiggì scelto dall’esterno grazie a un patto d’acciaio tra Meloni (Chiocci è davvero l’unico per cui la premier s’è spesa), Salvini e Tajani. Ciononostante, l’unico problema sarà il carattere “controcorrente” del nostro costretto nell’iperistituzionalità del Tg1. Non mi stupirei se lì cominciasse a stracciare le scalette e a scuotere le notizie come faceva, da collega senza mordacchia, con le coscienze…

Giù le mani da Chiocci. Gli attacchi infami dei compagnucci di Repubblica. Davide Vecchi su Il Tempo il 14 maggio 2023

Da ormai otto mesi, da quando il centrodestra ha vinto le elezioni, non solo le scelte ma persino le intenzioni del Governo vengono sottoposte al giudizio del tribunale delle presunzioni (più che delle inquisizioni) di sinistra. Il bollettino delle sentenze si può trovare principalmente su La Repubblica. Non c’è nomina delle quasi mille fatte – da quelle dei ministri sino a quelle degli uscieri – che non sia stata criticata (solitamente sulla base del nulla assoluto) con supponente veemenza. Ciascuno scrive e pubblica ciò che vuole ma ieri questo metodo da macelleria mediatica Repubblica lo ha usato per screditare in maniera infame un bravo collega: Gian Marco Chiocci.

Il nome di Chiocci è da mesi sbattuto sui giornali come possibile prossimo direttore del Tg1 voluto da Giorgia Meloni. E nessuno ha mai trovato né può trovare nulla di fondato per criticare Chiocci, così Repubblica ha tentato di sollevare dubbi sulla sua figura perché da giornalista aveva incontrato Massimo Carminati e per questo era finito in una paginetta delle migliaia dell’inchiesta Mafia Capitale. Peccato che Chiocci non solo è stato completamente prosciolto ma è stato prosciolto perché il fatto non sussiste: faceva solo il suo mestiere, quello di giornalista. Non è mai stato neppure rinviato a giudizio: zero.

Ora che a Repubblica le sentenze (e la giustizia) siano rispettate solo se condivise non è una novità, ma che si screditino gratuitamente dei colleghi solo per colpire un governo è oltre l’antigiornalismo. È proprio infamia. Ma non basta. Perché – non avendo nulla di concreto su cui attaccare Chiocci – vengono messi in mezzo pure il padre 92enne (Francobaldo Chiocci, giornalista raro, con la G enorme non maiuscola), la moglie (altra autorevole e seria collega) e pure i figli. Minorenni. Tutti buttati lì, così.

Io sono un signor nessuno, venuto dal nulla ma cresciuto giornalisticamente con dei valori, primo dei quali il rispetto della verità e delle persone. Non ho problemi a sostenere che a Repubblica ci sono giornalisti bravissimi. Ce ne sono ovunque. Come ovunque ci sono giornalisti cani. E non ho problemi a bollare l’attacco a Chiocci come infame. Lo ripeto. E lui sì, lo difendo. Voglio difenderlo. Non per amicizia. Né solo per stima professionale. Ma rendendogli il merito del suo lavoro: da giornalista è stato uno dei cronisti giudiziari e d’inchiesta più bravi degli ultimi decenni – ma essendo fedele alle sue idee senza vendersi a nessuno è rimasto incastrato nell’universo del centrodestra in cui l’egemonia (presuntuosa e spocchiosa) di sinistra l’ha da sempre relegato (lui come molti altri). Lo difendo riconoscendogli il merito del suo lavoro, dicevo, ma non solo.

Da direttore si è dimostrato anche un uomo altruista (cosa parecchio rara) e capace di difendere una squadra di colleghi: è merito principalmente suo (e degli editori) se questo nostro giornale, Il Tempo, è ancora in vita. Chiocci, infatti, è riuscito a traghettarlo nei difficili e complessi mesi nel passaggio di proprietà avvenuto ormai sei anni fa, salvandolo dal fallimento. Prima di essere un bravo giornalista, Chiocci è un uomo. Che non ha bisogno di nessuna difesa. E al quale queste parole sicuramente non servono, non cambiano nulla. Ma è fastidioso lo stillicidio gratuito nei confronti di ogni singola persona che gravita attorno a questo esecutivo. Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani hanno il sacrosanto diritto di governare, scegliersi uomini e donne di fiducia, nominarle nelle società controllate, in Rai, nei ministeri, ovunque ritengano necessario esattamente come hanno fatto tutti i loro predecessori negli ultimi decenni. Ed è un diritto conquistato nelle urne, con il voto democratico espresso dagli italiani. Così come Chiocci ha conquistato per meriti i suoi incarichi attuali e meriterà i futuri. Qualunque essi siano. A me stesso, a tutti i colleghi, compresi quelli di Repubblica, auguro di poter avere un percorso altrettanto immacolato e meritorio come quello di Gian Marco Chiocci. Al quale invece auguro di avere sempre la forza e l’ironia necessarie per ignorare anche le più infami delle infamità.

Estratto dell'articolo di Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 25 Aprile 2023

A un certo punto, metà anni ’90, alla Stampa inizia a girare voce di un cambio di direzione: via Ezio Mauro, arriverebbe Gianni Riotta. Una mattina nata male - uno sfondone sul giornale in edicola –, alla riunione di redazione Mauro si lancia in un’intemerata contro vicedirettori e capiredattori. «Ma non vi vergognate a fare uscire pagine così?!» chiede schifato. «Vi meritate Riotta...». 

Gianni Rotta ce lo siamo meritato. Volevamo un giornalismo all’americana, indipendente, obiettivo, al servizio del lettore? Abbiamo avuto il peggior giornalismo naturalizzato americano, più liberal che libero, obamiano già prima di Obama (...): Who, What, Where, When, Why... Wi-fi, Weekend, Wa-Wanagà, Web e «Wuè, come stai?». 

Sicilianissimo di origini e Amerikano con la K, da Palermo, quartiere Zone Nuove, a Nova Jorca- i fratelli Catalano, il tabacchino Tantillo, il carnezziere Sampino -, Johnny “stelle-e-strisce” Riotta, conosce le cose ’miricane così all’italiana che quando Kerry e Bush si contendono la Casa Bianca lui anticipa in tv il successo democrat, mai arrivato, e all’ultimo dibattito fra Trump e la Clinton scrive: «Hillary vincerà, Trump è stata una grande distrazione». Si pronuncia Paliemmu, si scrive Lamerica.

Figlio d’arte, il padre Totò era una firma del Giornale di Sicilia, e fratellastro della nobile schiatta dei giornalisti siciliani di penna e di talento – Paolo Valentino, Merlo, Buttafuoco, Sebastiano Messina, Sorgi, Mughini... – Gianni Riottino già da picciotteddo, sognando Tom Wolfe, lino bianco e granita al caffè, è collaboratore della terza pagina del Giornale di Sicilia e corrispondente del manifesto dal Bar del Viale. Poi, la redazione romana.

Ricorderà Rina Gagliardi, che fu direttrice del quotidiano comunista: «Appare questo bel figurino, tutto impettito. Capii subito che il ragazzo puntava in alto, che avrebbe fatto strada». 

(...)

Siciliano, spigoloso, sospettoso, garbato, con un narcisismo patologico sopra la media già alta dei giornalisti, telefonista compulsivo e inarrivabile camminatore di corridoi, Riotta è la più perfetta rappresentazione in formato tabloid del principio secondo cui nel giornalismo le promozioni sono inversamente proporzionali ai successi. Più sfasci una testata, prima te ne danno un’altra. 

Cronista di grande estro, ottimo narratore e ancora migliore sceneggiatore, dove non arriva l’occhio arriva l’immaginazione (i reportage da Ground Zero e dintorni sono wonderful, niente da dire: «Good job, Johnny»), Riotta non è mai stato un grande direttore-conduttore. Le sue trasmissioni tv (su Rai3, strano...) non si ricordano. Il suo potere come spalla di Sorgi e Mieli era zero. E la direzione del Tg1 (nomina avvenuta col governo Prodi, quando a dare retta ai maligni faceva fare le inquadrature storte per riempire i comizi del premier) è passata alle cronache per qualche mezza fake news. E poi, via Emma Marcegaglia, l’amatissima Emma, la presidente di Conf-collant Emma Marcegaglia, il Sole24Ore. Che s’illude di trasformare nel Wall Street Journal e che dopo due anni lascia con 54mila copie in meno in edicola e una riduzione degli abbonamenti del 30%: il più grave crollo delle vendite nella storia del quotidiano. Da cui “Gianni Bancariotta”.

Aneddotica del giornalismo.

Ai tempi, anni Duemila, un appuntamento elegante erano i pranzi milanesi a casa di Fiorella Minervino, una bella Signora della Brera bene, non sappiamo se migliore per la sua ospitalità o per i suoi pezzi, dove si radunava la crème della stampa d’establishment e di pettegolezzo. Mieli, Feltri, Sorgi, Gianluigi Gabetti... Riotta rifiutava sempre, ma con raro senso dell’opportunità accettò proprio nei giorni in cui si parlava della sua imminente cacciata dal pomposo Headquarters di cristallo di Renzo Piano. A un certo punto Feltri, con la sua nota perfidia, gli chiede: «Ma cos’è questa storia, Gianni... ma è mica vero che ti mandano via dal Sole?». «Ma no - risponde Riotta – ieri sono stato con Emma sul suo aereo privato, siamo andati a Pescara per un evento... Anzi, abbiamo parlato dei nuovi progetti. Era felice». Il giorno dopo Riotta fu chiamato dall’amministratore delegato del Sole. «Direttore, firma Lei la lettera di dimissioni o firmiamo noi quella di licenziamento?». 

Dismesso da Sole, Riotta sbarca alla Luiss “Guido Carli” di Roma – l’ateneo privato di Confindustria: stessa famiglia - e nel 2018 diventa direttore della Scuola di giornalismo. Dove, col senso del pluralismo che gli è proprio, chiama come condirettore Alberto Flores d’Arcais, firma di Repubblica, e come visiting professors Ernesto Assante, caporedattore di Repubblica; Carlo Bonini e Francesco Bei, vicedirettori di Repubblica; Mario Calabresi, già direttore di Repubblica; Roberto Saviano, editorialista di Repubblica; Francesco Franchi, art director di Repubblica; Federica Angeli, cronista di Repubblica; e Maurizio Molinari, il direttore di Repubblica.

Maestrino di giornalismo (famosa la sua rassegna stampa su Radio3 quando metteva i voti ai colleghi come se fosse a scuola; famigerata invece la lista dei putiniani d’Italia dove infilò nomi a caso, guadagnandosi la risposta gnoseologica di Massimo Cacciari «Riotta è un coglione») e con scarso senso dell’umorismo (quando sul Foglio prese piede un colonnino pietrangiolesco sulle disavventure di Johnny Riotto, fece le fotocopie di tutta la rubrica e le portò a Paolo Fresco, potentissimo presidente Fiat, paventando un complotto contro di lui orchestrato da qualcuno dentro la Stampa, e l’Avvocato Agnelli si fece una risata...), Gianni Riotta ora scrive per Repubblica- può capitare... - e spinto dal suo turbo-atlantismo è diventato il pensatore di riferimento di Guido Crosetto, che lo ha messo nel Comitato per la valorizzazione della cultura della Difesa. Solo i siciliani sanno essere così amici dei propri nemici.

Trinacria, due figli, una moglie che è il vero caporedattore della famiglia (Marila, scienziata tosta e sicula), 69 anni, cinque romanzi (il vero giornalismo in fondo è letteratura), internauta e interista, Gianni è il perfetto bravo ragazzo. «Johnny Ricotta», cannoli e la volta che mise in apertura di un giornale finanziario un’apologia del film Baarìa.

(...)

Estratto dell’articolo di Elvira Serra per il Corriere della Sera il 24 luglio 2023. 

Gigi Marzullo, domani compie 70 anni. Auguri! Come festeggerà?

«Aspetterò la mezzanotte stasera alle Terme di Caracalla, con mia moglie e altri amici, al concerto di Massimo Ranieri. Anche se sono nato alle 9 del mattino».

(…)

Con Antonella De Iuliis si è sposato solo nel 2018, dopo 20 anni di fidanzamento.

«Sapevo che lei ci teneva, anche se era già stata sposata. Ha fatto tutto Ciriaco De Mita, che teorizzava come l’alternativa al matrimonio fosse peggio del matrimonio stesso. Una sera al Premio Agnes eravamo tutti a tavola e ritirò fuori l’argomento. Io allora dissi: ma se ci sposiamo chi paga? E lui: me ne occupo io, facciamo a casa nostra. E così avvenne. Così ci sposò a Nusco, di cui era sindaco. I miei testimoni erano Adriano Galliani e Flavio Cattaneo». 

Che rapporto avevate?

«Di affetto, non politico. Mio padre faceva politica con lui, ma io lo conobbi perché lavoravo in una radio irpina e a Tele Avellino. Parlandoci, capii che era una persona intelligente, di valore: ho imparato moltissimo da lui». 

La aiutò a entrare in Rai?

«No, neanche lo conoscevo quando ho cominciato a fare l’annunciatore. Dopo, sono diventato consulente, programmista e regista. Percorso regolare. Poi gli avranno chiesto se gli ero simpatico. Però non sono mai andato a un telegiornale. Ho aperto la notte di Rai 1 senza rubare o togliere niente a nessuno».

A quale programma è più affezionato?

«A Mezzanotte e dintorni e Sottovoce. Ora si parla molto della vita privata, ma io ho cominciato a fare domande personali a Gianni Letta e a Paolo Rossi, il calciatore, quando non le faceva nessuno».

(…) 

Parliamo delle sue interviste: chi le ha dato più soddisfazione?

«Più l’intervistato si apre, più regala ricchezza e io cerco di essere all’altezza. Carlo Freccero diceva che ero più bravo con le donne che con i maschi. Non è vero. Da poco mi ha colpito Giorgio Parisi, per la semplicità e umiltà».

Chi l’ha commossa?

«Glenn Ford: disse che il mio vero lavoro era quello di psichiatra». 

Chi l’ha sorpresa?

«Richard Gere. Gli rimasi talmente impresso per le domande che la sera, alla presentazione del suo film, quando mi vide si mise a giocare con me con la sua sciarpa: mi fece fare un figurone davanti a tutti». 

Chi vorrebbe intervistare?

«Obama. Quando Fazio c’è riuscito ero invidiosissimo!».

Chi le sarebbe piaciuto?

«Papa Luciani. Quando seppi che era morto piansi».

Di chi è diventato amico?

«Di Pavarotti. Mi raccontò il suo amore per Nicoletta».

Cos’ha imparato da tutti?

«Che è molto più difficile rispondere alle domande, come sto facendo io adesso, che farle. E che più le persone sono grandi e più sono umili». 

E non è vero che ha imparato dov’è il punto G da Isabel Allende? (Per la cronaca: è nell’orecchio. Disse: «Le donne ascoltano gli uomini solo quando sussurrano»).

«Vero. Fu una bella intervista. Come tante altre. Fanny Ardant la convinsi per sfinimento. Alda Merini, invece, era gelosa dei miei sguardi alle donne più giovani!» 

Ha il rimpianto di un figlio?

«Forse sì. Ma c’è Ludovico, il figlio di Antonella: per me è come se fosse un amico giovane. Con le altre ci sono andato vicino solo una volta».

Con Delphine Forrest?

«È l’unico amore nato da un’intervista. Dopo l’incontro andai a trovarla a Parigi, poi venne lei a Roma. Quando le mandai la cassetta con la registrazione le feci una sorta di dichiarazione d’amore: meno male che i genitori non capivano l’italiano e non se ne accorsero, quando la videro».

Ci sa fare con le donne!

«Sì, mi viene dalla provincia. Ad Avellino c’era una tale competizione: di belle ragazze ce n’erano trenta, di spasimanti tremila».

Pensa mai alla morte?

«Trovo che sia una grande ingiustizia. Quando succederà, voglio farlo sapere un mese dopo. Comunque, mi auguro di morire lavorando».

La chiusa le spetta di diritto: si faccia una domanda e si dia la risposta.

«Nella vita ho fatto tanto, anche a mia insaputa: quanto può durare? Spero il più a lungo possibile. Io di sicuro ce la metterò tutta».

Dagospia il 25 Gennaio 2023. Da “Un giorno da Pecora – Radio1”

 Il giornalista a Un Giorno da Pecora: io presidente della Rai? Ma neanche per sogno e non sono neanche sicuro che mi piacerebbe

 Giovanni Minoli e il giornalismo. Ospite di Un Giorno da Pecora, su Radio1, il giornalista e conduttore ha dato il suo parere su alcuni dei volti più noti dell’informazione televisiva e cartacea. “Bruno Vespa? Non gli ho mai sentito fare una domanda. Parla, dialoga, discute amorevolmente”.

 Le piace invece Marco Damilano?” Non l’ho mai visto”. E la Gruber? “La vedo quasi sempre perché sono un po’ masochista ma non mi piace tanto, è molto faziosa”. Lucia Annunziata? “Bravissima, appena riesce a fare una domanda invece di un editoriale”.

Che giudizio dà del conduttore di Piazzapulita Corrado Formigli? “Bravissimo, ha capito la differenza tra radio e tv, usa bene le immagini, fa documentari. Chi fa i talk show sempre con la stessa compagnia di giro facesse la radio che costa meno”.

 E quali giornalisti apprezza nel mondo della carta stampata? “Tra i giovani mi piace Cerasa, il direttore del Foglio e mi piace molto anche Francesco Merlo”, ha detto Minoli a Un Giorno da Pecora.

Quanto c’è di vero nei rumors che la vorrebbero alla presidenza della Rai? “Ma neanche per sogno. Io vado benissimo come candidato, da 40 anni mi danno come candidato di qualcuno, ma quando poi arriva il nome non sono mai io”. Le piacerebbe farlo? ”Non lo so, non sono neanche sicuro, dipende da chi fa l’amministratore delegato, se si lavora bene in tandem, magari, ma non decido io”.

Giovanni Minoli: «Con il mio “Mixer”, nei faccia a faccia la storia italiana». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 10 Gennaio 2023.

Il giornalista torna con «Mixer - Vent’anni di televisione» dal 12 gennaio su Rai3 in seconda serata e dal 18 gennaio il mercoledì su Rai Storia alle 21,15

«Quando andai a intervistare il presidente Ortega appena nominato, grazie alla complicità di una sua fidanzata clandestina, ho avuto paura della rivoluzione che stava accadendo in quel momento e mi sono chiesto: perché devo morire in Nicaragua?». Giovanni Minoli torna con Mixer - Vent’anni di televisione, da domani su Rai3 in seconda serata e dal 18 gennaio anche il mercoledì alle 21,15 su Rai Storia. A distanza di oltre quarant’anni, gli storici «faccia a faccia» del giornalista con i maggiori protagonisti di vicende politiche e culturali, ripercorrono quell’avventura televisiva dagli anni Ottanta a fine anni Novanta, raccontando il percorso che ha modificato il nostro Paese, e non solo.

«Non si tratta di un’operazione nostalgia - sottolinea Silvia Calandrelli, direttrice di Rai Cultura - piuttosto una rielaborazione editoriale, nell’interpretazione del presente, per capire la contemporaneità». Aggiunge Minoli: «Il linguaggio di “Mixer” è modernissimo, ha precorso i tempi. Comunque, un popolo che non ha memoria non ha futuro e devo dire che, dovendo tirare fuori 20 puntate dalle 500 che erano, ho dovuto compiere delle scelte dolorose. È stato infatti difficile decidere cosa sacrificare per ragioni di spazio e di tempo, ma ne è venuto fuori non solo qualcosa da conservare, ma soprattutto da offrire ai giovani: è un modo di aiutarli a comprendere ciò che siamo stati e che possiamo essere».

Quale il personaggio più complicato da intervistare? «Enrico Berlinguer: la trattativa è durata quattro mesi, perché i comunisti non volevano che me la rilasciasse e inoltre non voleva rispondere a domande private. È stato grazie all’aiuto della figlia Maria che sono riuscito a realizzarla... uno scoop assoluto». Perché la scelta di comparire in video nella penombra? «È come guardare dal buco della serratura».

Gianluca Roselli per “il Fatto quotidiano” l’11 gennaio 2023.

Cornuta e mazziata. Questo si può arrivare a pensare di mamma Rai di fronte a Giovanni Minoli, che sta per tornare sullo schermo con una summa del suo programma più famoso: da domani su Rai3 alle 23.25, andrà in onda Mixer - 20 anni di televisione e, dal 18 gennaio, anche il mercoledì alle 21.15 su Rai Storia.

 Venti puntate dove saranno riproposti gli spezzoni, le inchieste e i famosi faccia a faccia di un programma che ha segnato la storia della tv, scelti proprio da Minoli, che ieri ha presentato l'iniziativa a Roma. Ma già si parla di altre 20 puntate: "Vedremo se la collocazione del giovedì sarà stata la scelta migliore: in quella fascia Rai3 fa il 3%, tutto quello che faremo in più sarà una vittoria", ha sottolineato il giornalista. Che ha rimesso piede in Viale Mazzini già da un paio d'anni con Mix 23, in onda tutti i giorni alle 23 su Radio1.

Il problema, però, è che Minoli ritorna nonostante abbia un contenzioso aperto con l'azienda sui diritti di un'altra sua trasmissione: La storia siamo noi, in onda dall'ottobre 2002 al giugno 2013, oltre mille puntate. Quindi in teoria, a fronte del contenzioso, non potrebbe lavorare per la Rai.

 Andò così: nel 2011 l'allora dg Mauro Masi, per risparmiare su un contratto a Minoli per gli speciali per i 150 anni dell'Unità d'Italia (il compenso fu di 800 mila euro), gli cedette tutto il materiale de La storia siamo noi a partire dal 2021, secondo una clausola per cui, se in 10 anni la questione non fosse stata rinegoziata, nel 2021 i diritti sarebbero andati a Minoli. E così è andata.

Uno scherzetto che, secondo il valore al minuto, sarebbe costato alla Rai circa 60 milioni, anche se poi il valore reale sarebbe la metà: 30 milioni. Il contenzioso, come ha ammesso ieri lo stesso Minoli, è ancora aperto.

 "È una questione di soldi, non ci mettiamo d'accordo sulla cifra. Facciamo fatica a trovare un accordo perché sembra che la Rai abbia difficoltà a leggere i contratti", ha spiegato, velenoso, il giornalista. "Ho altre offerte, ma vorrei che tutto questo materiale restasse patrimonio del servizio pubblico", ha aggiunto.

Secondo Viale Mazzini, Minoli può vantare diritti solo come autore di quei contenuti, mentre il giornalista si ritiene proprietario tout court. E chiaramente la cifra cambia.

 Da un paio d'anni è stallo, le parti sono lontane e nessuno si decide a fare la prima mossa. Ma, secondo alcuni, aver rimesso sotto contratto il giornalista potrebbe facilitare la ripresa della trattativa e sbloccare la situazione.

Mixer” torna in tv: venti puntate con il meglio di vent’anni di interviste di Giovanni Minoli: da Bettino Craxi a Monica Vitti. Redazione CdG 1947 e Alessandra Monti su Il Corriere del Giorno il 12 Gennaio 2023.

Il programma trasmesso da RAITRE si chiamerà "Mixer - 20 anni di televisione", un nero e proprio viaggio di Giovanni Minoli nel suo programma più innovativo (che andò in onda dal 1980 al 1998), con una prima stagione di 20 puntate dedicate al meglio degli anni '80. La seconda stagione proporrà il meglio degli anni '90, al via da oggi 12 gennaio, ogni giovedì in seconda serata e dal 18 gennaio anche il mercoledì alle 21.15 su Rai Storia

Torna in tv la famosa trasmissione “Mixer“, ideata e condotta da Giovanni Minoli che ha fatto la storia del giornalismo televisivo in Italia. Un format famoso perché ha saputo trattare e approfondire con totale indipendenza professionale decine di protagonisti del panorama politica, culturale e sociale del nostro Paese e del resto del mondo, intervistando da Enrico Berlinguer a Henry Kissinger, da Monica Vitti a Josè Luis Borges, da Bettino Craxi al Dalai Lama, passando fra gli altri per David Bowie, Marisa Bellisario, Pietro Valpreda, lo stilista Valentino Garavani, ma anche, fra gli altri, gli interventi comici di Paolo Villaggio nei panni della sindacalista Gemma Pontini, ispirata a Nilde Iotti.

Quale il personaggio più complicato da intervistare? “Enrico Berlinguer: la trattativa è durata quattro mesi, perché i comunisti non volevano che me la rilasciasse e inoltre non voleva rispondere a domande private. È stato grazie all’aiuto della figlia Maria che sono riuscito a realizzarla… uno scoop assoluto”. Perché la scelta di comparire in video nella penombra? “È come guardare dal buco della serratura“. E l’intervista più pericolosa ? “Quando andai a intervistare il presidente Ortega appena nominato, grazie alla complicità di una sua fidanzata clandestina, ho avuto paura della rivoluzione che stava accadendo in quel momento e mi sono chiesto: perché devo morire in Nicaragua?“.

Abbiamo fatto in 20 anni 500 puntate di Mixer“, ha detto Minoli aggiungendo che “per tirarne fuori 20te puntate ho dovuto sacrificare molto“. Il filo seguito è quello dei vari anni: si parte con il 1980 e i faccia a faccia fra gli altri con Paolo Rossi e Bruno Giordano (che era nel pieno lo scandalo del calcioscommesse); Marco Pannella; Umberto Terracini, “padre” della Costituente, e Giovanni Torrisi, allora capo di Stato Maggiore della difesa che poi si scoprì essere fra i membri della P2. Ma anche, fra gli altri, un’inchiesta su Islam e burka; le interviste di Leo Benvenuti a Monica Vitti, Alberto Sordi e Ugo Tognazzi; quelle di Gianni Minà a Adriano Celentano, Lucio Dalla, Gianni Morandi, Francesco De Gregori e Pino Daniele.

Il programma trasmesso da RAITRE si chiamerà  “Mixer – 20 anni di televisione“, un nero e proprio viaggio di Giovanni Minoli nel suo programma più innovativo (che andò in onda dal 1980 al 1998), con una prima stagione di 20 puntate dedicate al meglio degli anni ’80. La seconda stagione proporrà il meglio degli anni ’90, al via da oggi 12 gennaio,  ogni giovedì in seconda serata e dal 18 gennaio anche il mercoledì alle 21.15 su Rai Storia.

La forza di Mixer è stata quella di raccontare sempre la verità – ha detto Minoli nella conferenza stampa di presentazione – su un’Italia che era diventata una delle maggiori potenze industriali e culturali del mondo“. Secondo il giornalista un Paese “che non ha memoria non ha futuro“, basti pensare che “questo materiale stava chiuso da 45 anni nelle cineteche. Si tira fuori solo qualche faccia a faccia quando muore un personaggio“. Minoli invece lo ha voluto restituire al pubblico televisivo nella sua anima ed identità di rotocalco televisivo: “È un programma che riflette il senso che do al servizio pubblico, al fare tv. Per me vuol dire stare dalla parte del cittadino, non considerandolo solo un consumatore”.

Secondo Giovanni Minoli oggi “la stupidità è diventata vincente. Invece la Rai nella quale abbiamo lavorato noi era pluralista aveva il gusto delle opinioni diverse“. Minoli ripropone il suo “Mixer” con un nuovo sguardo “dedicato soprattutto al pubblico più giovane di cui ci dobbiamo prenderci più cura” non ha voluto aggiungere nessun commento, in quanto mostrando semplicemente “i documenti e le persone, ognuno si farà la propria idea“. Mixer spiega Minoli “ha innovato molto dal punto di vista del linguaggio e tecnologico . Ho avuto fortuna, sono incappato in un momento in cui nascevano il telecomando e le tv private. Io ho pensato allora di integrare il telecomando nel racconto, e per quanto riguarda le tv private, dove loro mettevano la pubblicità noi mettevamo il pezzo migliore”.

Questa “non è un’operazione nostalgia – ha sottolineato Silvia Calandrelli, direttrice di Rai Cultura, che produce il programma con collaborazione con Radio Rai -. “Minoli ci ha offerto di ritrovare la contemporaneità e straordinarietà di Mixer con nuovi intrecci narrativi”. Ogni faccia a faccia “ha dietro una storia” ha commentato l’ex direttore di Rai 3. 

Da quello con il capo della Cia Stansfield Turner – ha raccontato Giovanni Minoli – che interruppe l’intervista per poi essere convinto a tornare, al politico israeliano Yitzhak Shamir che tirò addosso a Minoli l’auricolare dopo una domanda particolarmente dura“.”  Il personaggio più deludente? “Ted Kennedy. Quando mi disse di non voler parlare dei fatti di Chappaquiddick che gli costarono la corsa alla presidenza, me ne sono andato“. Mentre tra le interviste che più l’hanno colpito sicuramente”quella con Marguerite Yourcenar“.

Minoli amerebbe riproporre anche un altro dei suoi programmi simbolo, “La storia siamo noi”, ma spiega che è’è una discussione che non si sblocca per una questione di soldi: “La Rai non mi ha fatto ancora una proposta per acquisire i miei diritti. Io sono molto premuto delle offerte di altri network, ma proprio per il mio legame con il servizio pubblico, vorrei che restasse in Rai”. Redazione CdG 1947

Hoara Borselli: scrivo di Elodie, mi massacrano per i miei nudi? Che tristezza. Hoara Borselli su Libero Quotidiano il 27 settembre 2023

Oh Santocielo! Dicono che non posso scrivere articoli sul nudo di donna perché da ragazza mi sono spogliata! Nella mia vita ne ho ricevute tante di critiche, e ho subito parecchi lanci di veleno. Sono mitridatizzata, tranquilli. Sorrido. Ma, francamente, una polemica così cretina non mi era mai capitata. Riassumo la questione. 

Ieri ho scritto su Libero un articolo, credo molto gentile, per dire ad Elodie che secondo me spogliarsi è un gesto bello e legittimo, se è un atto di gioia, ma non è di per se stesso una prova di libertà. E soprattutto non è un atto di libertà se serve alla promozione di un disco. La libertà, scrivevo, viene dalla testa. Si può essere liberi con le tette di fuori ma anche col cappotto. Così come si può non essere liberi anche se ci si fa fotografare, per vendere di più una certa merce, coperta solo dai propri capelli. Puoi farlo, penso io, niente da ridire. Solo non dirmi che il tuo è un gesto di libertà, come è stato da Elodie, in varie occasioni, affermato. È un gesto commerciale, legittimissimo, intelligente, forse, ma di diverso valore.

COLLEGHI FURIOSI

Non so se ho ragione. Credo di sì, ma ogni discussione è possibile. E invece la mattina dopo mi trovo una piccola schiera di colleghi, furiosi, che per dimostrare la mia clamorosa incoerenza pubblicano delle mie fotografie da ragazza - parliamo di una trentina di anni fa- nelle quale apparivo seminuda.

Scusate, ma che polemica è? Chiedo: chi ha deciso (forse per farsi un po’ di pubblicità) di sfruttare il mio corpo pubblicando le foto che feci, da ragazza, lo ha letto l’articolo col quale polemizza? Chiaramente non lo ha letto. Anche perché l’articolo finiva con queste parole chiarissime, inequivocabili: «Spogliati, Elodie, spogliati quanto vuoi, ma non farci la morale». Potevo essere più chiara? Non mi sono mai sognata di contestare la “nudità” contesto la ideologizzazione, la presunta alta moralità del gesto, il valore di messaggio moderno. Io non ci credo. Un nudo è un nudo, è un nudo, direbbe Gertrude Stein. Lei lo diceva della rosa, ma non c’è nessuna differenza.

CRESCENTE SFIDUCIA

Vi ho raccontato queste cose per una ragione molto semplice. Segnalarvi la mia crescente sfiducia in un bel pezzo del mondo del giornalismo. Purtroppo esiste una fetta molto grande ed influente del giornalismo italiano che funziona così. Parla, scrive, critica, sempre a vanvera, senza sapere, senza aver letto. Se a loro piace lavorare in questo modo, vadano avanti per la loro strada. Io continuo per la mia. Provo a ragionare, a vivere la vita senza parapetti, se mi va mi spoglio, sennò resto vestita. E in nessun caso pretendo che il mio star nuda o no, o che il mio corpo, si possano trasformare in un testo filosofico o in una prova di coraggio, o in una dote. Volete pubblicare le mie foto senza vestiti di quando era ragazzina? Fate pure, ognuno gode come può.

Vittorio Feltri, il primo incontro con Montanelli: "Testa di ca***". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 20 luglio 2023

Sabato è l’anniversario della morte di Indro Montanelli, deceduto a Milano il 22 luglio 2001, a 92 anni. Questo èil ricordo di Vittorio Feltri.

Era il 1984 e avevo da poco lasciato il «Corriere» per dirigere «Bergamo Oggi», quando ebbi a che fare per la prima volta con Indro Montanelli. Mi telefonò un caro amico, con cui avevo lavorato alla «Notte», Salvatore Scarpino, originario di Cosenza. «Vittorio, qui al “Giornale” stanno cercando un inviato. Se ti interessa ti segnalo» mi disse. «Certo che mi interessa» risposi con decisione: volevo tornare nella metropoli e alla stampa nazionale, mi ero già stufato di stare piantonato nella mia città natale, mi sentivo quasi tagliato fuori, quasi recluso. La pratica andò avanti e Montanelli, visionati i miei articoli e il mio curriculum, decise: «Questo mi piace! Lo prendo». A cambiare le carte al tavolo della vita mandando in fumo il mio passaggio al quotidiano diretto da Indro fu una questione sentimentale, non mia: il corrispondente da Parigi del «Giornale», Gabriele Canè, litigò con la compagna e abbandonò dalla sera alla mattina la capitale francese rientrando nel Bel Paese e assumendo il ruolo che sarebbe dovuto toccare a me. Sfumata questa occasione, ebbi modo di tornare al «Corriere» nel corso dello stesso anno, quando Piero Ostellino fu nominato direttore.

L’ostilità tra il quotidiano di via Solferino e quello di via Negri era ai massimi livelli. Nessuno dei miei colleghi coltivava buoni rapporti con Indro. Io fui l’unico ad avvicinarmi a lui grazie all’intermediazione del suo fidato Scarpino, il quale riuscì anche a farmi ottenere un’intervista. Montanelli non voleva parlare con quelli del «Corriere», eppure accettò di incontrare me. Il fatidico giorno mi recai in via Negri. Una volta giunto, la segretaria del direttore mi fece accomodare in una sala d’aspetto. L’attesa durò soltanto qualche minuto, non sarebbe stato nello stile di Montanelli usare scortesia nei confronti dei suoi ospiti. Mene stavo lì seduto dando un’occhiata ai giornali, quando udii una voce maschile che si rivolgeva a me con epiteti tutt’altro che garbati: «Testa di c**zo», «Faccia di m**da», «Ma vattene af***lo». Trasalii. «Iniziamo bene» pensai tra me e me. Mi guardai intorno per capire da chi provenissero quelle amene parole e mi accorsi della presenza tanto discreta quanto indelicata di un merlo indiano. Era stato lui a insultarmi, standosene beatamente appollaiato dentro la sua gabbia. Nessuno più di un uccello riesce a offendere con tanta nonchalance. Tirai un sospiro di sollievo e scoppiai in una risata.

Proprio in quel momento Montanelli aprì l’uscio del suo ufficio e ci guardammo negli occhi per la prima volta, in una situazione quasi comica. A ristabilire un clima di sobrietà fu Indro. «Vieni, accomodati» mi disse con un sorriso. Ci misi davvero grande cura e l’intervista venne proprio bene. Stabilimmo un minimo di feeling, così, ogni volta che quelli del «Corriere» volevano l’opinione del direttore del «Giornale», si rivolgevano a Feltri. Il rapporto tra me e Indro diventò più intenso quando questi in un articolo, scagliandosi contro Luigi Ciriaco De Mita, con il quale io avevo un buon rapporto, gli diede del padrino. Ciriaco lo querelò seduta stante e si andò in tribunale. In qualità di inviato del «Corriere» fui spedito a Monza per seguire la bagarre. Tenevo bordone a Montanelli. Anzi, direi che persino il pubblico ministero faceva il tifo per l’imputato. Montanelli, dal canto suo, era entusiasta del sostegno manifestatogli dal «Corriere».

INTERESSE SINCERO

Conclusosi il processo con una condanna simbolica a Indro, questi mi telefonò per ringraziarmi e invitarmi a pranzo. Ci incontrammo da soli alla Tavernetta, da Elio, in via Fatebenefratelli. Fui sommerso dalle domande, in pratica fu lui a intervistare me stavolta. Restai colpito dal sincero interessamento nei miei confronti. Indro aveva fame di sapere di me, della mia vita, della mia famiglia, di come avevo intrapreso la carriera giornalistica. Ero emozionato e felice. Ci furono altri pranzi, a cadenza regolare Indro mi chiamava e ci si vedeva.

Mangiava due fagioli alla toscana, due spaghetti. Le sue porzioni erano pediatriche. Mandava giù tutto con un paio di bicchieri di vino, rigorosamente Chianti, servito in un fiasco che teneva poggiato sul pavimento e non sul tavolo. Montanelli non era per nulla altezzoso, il suo spirito era semplice. Ed era un interlocutore divertente, diretto, delizioso, capace di mettere chiunque a proprio agio. All’inizio del 1990 assunsi la direzione del settimanale «L’Europeo». Volevo prendere come vice Scarpino, ma non avrei potuto portarlo via al «Giornale» senza confrontarmi con il suo direttore. Allora incontrai Indro, manifestandogli questo mio desiderio. Montanelli acconsentì e il giornalista cosentino, tanto stimato da Indro, passò all’«Europeo». Già dopo due anni iniziai ad avvertire il desiderio di cambiare, fui preso dalla mia frenesia. Avevo portato il settimanale da 78.000 a 130.000 copie, ora volevo nuove sfide. Puntualissima arrivò la proposta di dirigere «L’Indipendente», che versava in una grave crisi. Nel 1992 lo presi e lo rivoltai del tutto.

All’«Europeo» rimase Scarpino, che dopo qualche mese andò a lavorare come caporedattore al Tg4 con Emilio Fede. In quel periodo continuavo a sentire e a vedere ogni tanto Indro. Ricordo la sua Lancia Thema blu, con la quale dopo il nostro pranzo mi faceva accompagnare dall’autista ovunque avessi bisogno di recarmi. Non era una macchina di lusso, e appariva anche un po’ consumata. Montanelli non era uno che badava alle frivolezze. Tuttavia, curava con precisione il suo aspetto, era sempre vestito bene, un po’ britannico, indossava camicie a quadri, dolcevita, e zoppicava perché era stato colpito dalle Brigate Rosse alle gambe. La sua gentilezza era addirittura estrema. Ma io non sono gentile e con «L’Indipendente», che diventò in brevissimo tempo da malato terminale a quotidiano di successo, gli andai nel culo: da 15.000 copie lo portai oltre le 120.000, creando serie difficoltà alla concorrenza. Superai «il Giornale». Montanelli se ne infischiava delle vendite, ma stava attento. Nell’aprile ’93 ricevetti la chiamata di Silvio Berlusconi. Ancora non si parlava del lancio in politica e Forza Italia non esisteva. Dirigeva allora l’ufficio stampa dell’imprenditore un giornalista con cui avevo lavorato al «Corriere», Giovanni Belingardi, amico mio carissimo. Fu lui a contattarmi informandomi che Berlusconi desiderava incontrarmi. Non avevo motivo di rifiutare l’invito. Giovanni venne a prendermi in ufficio per portarmi ad Arcore. Mi lasciò davanti al cancello e andò via. «Il signore in questo momento si trova in giardino, sta accompagnando Gianni Agnelli all’elicottero. Se si incammina per questo vialetto, vi incrocerete» mi comunicò il maggiordomo appena varcata la soglia della residenza. E fu proprio lì che ci vedemmo per la prima volta, su quel vialetto. 

LA CORTE DI SILVIO

L’imprenditore mi venne incontro e mi salutò in modo cordiale, quasi affettuoso. Era giovane, gentilissimo ed energico. Avevo davanti a me un uomo semplice. Non provavo soggezione. Non ho avuto alcuna palpitazione. Mi interessava capire soltanto cosa volesse dame. Durante il pranzo piovvero le proposte. Berlusconi mi chiese innanzitutto cosa ne pensassi di un mio passaggio al «Giornale» in qualità di direttore. Non nascosi di essere attratto da questa ipotesi, sostituire Montanelli mi attizzava. Ma aggiunsi anche che io stavo alla grande lì dove mi trovavo. «L’Indipendente» andava molto bene e le mie entrate erano soddisfacenti. Sottolineai, infine, che fintanto che Montanelli fosse stato alla guida del «Giornale» io non avrei mai osato scavalcarlo e che solo nel caso in cui Indro avesse deciso di abbandonare il timone per motivi suoi, io sarei stato interessato a un mio passaggio al quotidiano di via Negri. Berlusconi la prese bene. Non è un tipo che si scompone. Dopo il nostro primo incontro il futuro leader di Forza Italia mi chiamava spesso per farmi i complimenti per i miei titoli o i miei pezzi, mi diceva che il mio giornale gli piaceva molto. In occasione del Ferragosto di quello stesso anno, il ’93, fui invitato da Silvio a pranzo, sempre ad Arcore. «Mi trattengo a Milano per lavoro e sono da solo, porti anche sua moglie e i suoi figli», mi pregò l’imprenditore. Mi presentai lì non accompagnato. A tavola questa volta Berlusconi si fece più insistente.

«Venga da me, le affido la direzione di Canale 5», mi disse. Io non avevo mai fatto televisione, avevo alle spalle solamente qualche piccola esperienza in codesto ambito, sono un giornalista della carta.

Berlusconi mi fornì il nome e il numero di un suo amministratore, un certo ingegner Spingardi, augurandosi che potessimo raggiungere un accordo fissando un compenso. Insomma, l’uomo mi voleva a tutti i costi. Incontrai Spingardi, più per farlo contento che per negoziare, infatti la trattativa non andò in porto. Influì sull’esito infausto anche la reciproca antipatia tra me e questo amministratore. Nei mesi successivi la stampa ci diede dentro con la diatriba infocata tra Montanelli e Berlusconi. Il primo non accettava che il secondo avesse fondato un partito. Indro era incazzato nero, poiché aveva capito che il suo giornale sarebbe diventato un organo di partito. Si mormorava che Montanelli avesse intenzione di mollare la presa. Agli inizi di dicembre di quello stesso anno, Berlusconi mi telefonò per chiedermi un consiglio. «Non so a chi affidare il partito, che ne pensa di Mariotto Segni?» mi domandò. «Mi sembra flaccido» osservai. «E Mino Martinazzoli come lo vede?» proseguì. «Anche peggio. Mino, lumino cimiteriale, è una specie di agente mortuario» risposi. Berlusconi rideva e mi ascoltava.

NASCE FORZA ITALIA

A un certo punto incalzò: «Insomma, Feltri, lei chi metterebbe a capo di Forza Italia?». «Metterei Silvio Berlusconi. Perché, quando ero direttore dell’“Europeo” feci fare un sondaggio al fine di sapere quale fosse il cittadino più ammirato d’Italia e al primo posto risultò lei. Se decide di entrare in politica, il partito deve dirigerlo lei, altrimenti lasci perdere» conclusi. Sospetto di avere fornito a Forza Italia non solo il leader, ma persino il nome. Negli anni Ottanta io, Walter Zenga e Nicola Forcignanò conducevamo un programma televisivo che si chiamava «Forza Italia», trasmesso sull’emittente di Calisto Tanzi, Odeon TV. Berlusconi premeva e mi chiedeva in modo sempre più incalzante di andare al «Giornale». Ci fu un altro incontro, ancora una volta ad Arcore. «Ok, vengo al “Giornale”» dichiarai dopo estenuanti tentativi di convincimento. Le condizioni erano cambiate rispetto ai mesi precedenti. Montanelli stava andando via. Era deciso. «Quando Indro toglierà le tende, ammesso che ciò accada effettivamente, io accetterò di prenderne il posto. Di sicuro non verrò lì a dargli una gomitata» specificai.

E, in effetti, Montanelli, sicuramente messo a dura prova da un Berlusconi che voleva scaricarlo, abbandonò il quotidiano da lui stesso fondato. Dopo le sue dimissioni, il posto per pochi giorni restò vacante. Nel mentre prese avvio la trattativa riguardante la mia assunzione. All’«Indipendente» guadagnavo mezzo miliardo l’anno, ecco perché mi misi a ridere allorché i dirigenti del «Giornale», nel corso di un colloquio, mi offrirono 600 milioni. Li mandai a quel paese senza esitazioni. Già non ero molto eccitato al pensiero di lasciare un quotidiano che vendeva molte copie, inoltre mi veniva proposto di farlo per 100 milioni in più. «Se vi serve un cretino, ce ne sono in giro tanti. Se avete bisogno di un direttore, io sono ancora per poco disponibile» dissi rivolgendomi a tutti i presenti, incluso Paolo Berlusconi. Poi lasciai la stanza. Davanti all’ascensore fui recuperato e riportato dentro.

A quel punto mi offrirono 800 milioni e, per convincermi ad accettare, mi proposero un compenso anche per le copie vendute. Insomma, più avrei recuperato lettori più avrei incrementato i miei guadagni. Una bella sfida, che colsi al volo. Già dopo pochi giorni vendevo 30.000 copie in più. I pranzi con Montanelli si interruppero. Non sentivo di averlo usurpato. Non appena presi la direzione del «Giornale» uscì il mio primo articolo, quello di saluto ai lettori. Il giorno successivo, tra le 10.30 e le 11, ricevetti la telefonata di Indro. Parlava in modo pacato e sicuro, come sempre. Nella sua intonazione nessun accenno di rancore o di rabbia: «Vittorio, ti faccio gli auguri ora che sei diventato il mio successore, ho letto il tuo articolo di fondo e devo dire che mi è molto piaciuto. Mi secca solo di non averlo firmato io». Restai sbalordito ancora una volta dalla sua gentilezza. Montanelli era un vero signore. Nelle sue parole percepivo affetto. Forse voleva togliermi dall’imbarazzo. Quanta delicatezza! «Il Giornale» andava abbastanza bene quando esordì il nuovo quotidiano fondato da Montanelli, «la Voce», che vendette da subito la bellezza di 500.000 copie. Tuttavia, io ero tranquillo. Avevo studiato bene quel giornale e lo vedevo brutto. Non avevo nessun timore. Sapevo che «la Voce» sarebbe stata una meteora. Scintillante all’inizio e dalla vita breve. Infatti, durò solamente un anno. Da 115.000 copie a gennaio ’94, «il Giornale» superò le 200.000 a fine luglio. Indro mi portò via una cinquantina di giornalisti, tra cui Beppe Severgnini - sebbene di lui mi dicesse «Beppe è soltanto cipria»-, Marco Travaglio, Mario Cervi e tanti altri.

Dopo un anno dalla sua uscita, «la Voce» vendeva 30 o 40.000 copie. Il giorno in cui chiuse io mi trovavo a Santa Margherita Ligure. Appresa la notizia, feci fare 10 righe sulla prima pagina, una colonna, per rispetto, al fine di informare i lettori che il giornale di Indro aveva terminato le pubblicazioni. Neanche una parola di commento. Non avrebbe avuto senso infierire. 

«UN FIGLIO DROGATO»

Rientrato a Milano, il giorno seguente, mi chiamò Montanelli per chiedermi di vederci. Ci incontrammo in un ristorante di corso Venezia, Santini. Mi appariva quasi stanco, ma sereno. «Ho dovuto chiudere il giornale. Aiutami, vorrei che tu riprendessi con te queste persone», e mi fece il nome di alcuni giornalisti. «Se posso, Indro, lo faccio più che volentieri» risposi. E, in effetti, ne feci assumere qualcuno. Mi segnalò Cervi, che reintegrai subito. Iniziò così una nuova fase di frequentazione tra me e Montanelli, che tornò al «Corriere» come editorialista.

Non seppi mai cosa Indro pensasse di me dalle sue labbra. Lo appresi leggendo «Panorama», dove io peraltro in quel periodo curavo una rubrica di opinione e rispondevo ai lettori. Intervistato dal settimanale, al fondatore del giornale che io dirigevo fu chiesto se fosse vero ciò che si diceva, ossia che io fossi un suo allievo. «Questo non lo posso dire, ma da come scrive sento che è un mio parente» fu la sua risposta. E poi: «Del “Giornale” cosa ne pensa?». «È come avere un figlio drogato» dichiarò gelido e ironico Indro. Montanelli mi accusò di cavalcare il peggio della borghesia italiana, cosa che aveva fatto pure lui. Ciò che gli era sfuggito era semplicemente il fatto che era la borghesia a essere cambiata.

Io l’avevo seguita.

Lasciato «il Giornale», fui invitato a cena a casa sua. «Avevi ragione tu, Indro, quando te ne andasti da via Negri. Sono stato lì quattro anni e mi sono davvero rotto i coglioni» gli confessai. Montanelli scoppiò a ridere. «Perché hai mollato?» mi domandò. «Ero stufo e, siccome avevo una cospicua liquidazione da riscuotere, ho sloggiato più volentieri» spiegai. Ridevamo come matti. Lo divertiva il fatto che avessi strappato una bella vagonata di soldi, lui non era bravo a trattare con il denaro. Io, invece, quando c’è da riscuotere divento ancora più tignoso e incazzato. Dopo qualche mese, cominciai a pensare di fondare «Libero» e la notizia venne diffusa. Mi trovavo a pranzo con Renato Farina al ristorante Il Porto quando nel tavolo in fondo alla sala vidi Montanelli, il quale si alzò e mi raggiunse. «Noto che non fai più parte del mio club, quello dei magri, hai messo su qualche chilo, caro Vittorio», poi aggiunse: «Tu, a differenza mia, sai fare bene i conti, ce la farai con il tuo “Libero”».

E poi la rottura. In diretta tv. Durante una trasmissione condotta da Michele Santoro, «il Raggio Verde», in onda su Raidue, ci fu un’accesa discussione tra me e Indro.

Era presente anche Travaglio. Era il marzo 2001. Non ci chiarimmo mai più. Indro morì. Mi dispiace non averci parlato, ma, in fondo, non c’era nulla da chiarire. Avevo ragione io. Indro era andato via incazzato dal «Giornale» perché Berlusconi si era gettato a capofitto nell’agone politico, io comprendevo le sue paure e ragioni, tuttavia il modo che utilizzava per criticarlo era ingiusto. Sosteneva che il leader di FI fosse un fascista, un despota, un pericolo per la democrazia, un manganellatore. «Caro Indro, per vent’anni hai sempre affermato che Berlusconi fosse il migliore editore che tu avessi mai potuto immaginare di avere, perché non ha rotto mai le palle. A un certo punto, da un giorno all’altro, hai capovolto la tua opinione, dipingendo l’uomo come una sorta di mostro» gli dicevo. Il punto è che Indro era convinto che Berlusconi fosse il proprietario del suo giornale e lui il padrone assoluto. Ma il proprietario, se non gli vai più a genio, ti caccia. È una realtà schifosa, ma questa è. Siamo tutti liberi, certo. I giornalisti italiani sono i più liberi di attaccare l’asino dove vuole il padrone. Indro però non aveva torto, non sopportava che arrivasse qualcuno, quantunque fosse colui che mette il grano, a dettare legge imponendogli una certa linea, che magari avrebbe seguito di sua spontanea volontà se non fosse stata l’unica strada permessa. Devo ammettere che io andai via dal «Giornale» poiché mi ero rotto le scatole delle pressioni ricevute non da Berlusconi ma dagli ominicchi del suo partito, che davano per scontato che il quotidiano che io dirigevo fosse al loro servizio.

LE QUATTRO ESSE E LA M...

Di Montanelli restano gli insegnamenti. Mi sembra ancora di sentirlo e non c’è mattina in cui io, giunto in redazione, non ripensi a queste parole: «Caro Vittorio, quando fai un giornale, devi sempre tenere presente che alla gente non interessano molto gli spiccioli della politica, per cui devi fare due articoli di fondo alternati, di cui uno contro un personaggio politico importante, e il titolo deve essere “testa di cazzo”. Se invece fai un pezzo sull’Italia, il titolo deve essere “Paese di merda”. Questa è la tecnica migliore». E come un’eco si aggiunge Gaetano Afeltra: «Vittorio, ricordati sempre la regola delle quattro “s”, soldi, salute, sesso e sangue. E, infine, uno schizzo di merda qua e uno là». Certe persone restano per sempre, persino quando non ci sono più. 

Alessandro Sallusti smaschera Marco Travaglio, da che cosa si traveste. Il Tempo il 22 luglio 2023

Alessandro Sallusti a tutto tondo sul palco di Palazzo Paleologo a Trino per l'ottava edizione del Festival delle Città Identitarie ideato e diretto da Edoardo Sylos Labini per riscoprire i simboli culturali, storici e artistici delle città di provincia italiane. Sul palco il direttore di "Libero" ha parlato anche di Marco Travaglio. "Un attore. Fa quello di sinistra ma in realtà è di estrema destra - ha detto Sallusti - Siccome il personaggio funziona, lui recita quello. E in teatro è ancora meglio che al giornale - ironizza Sallusti - nella sua recita c'è anche l'essere stato il braccio destro di Montanelli: è una balla clamorosa, negli anni Ottanta lavoravo con Montanelli e Travaglio era il vice corrispondente dello sport da Torino. Montanelli non sapeva nemmeno che esisteva".

Gli ecoattivisti se la prendono con Montanelli l’ambientalista. Storia di Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera sabato 22 luglio 2023. 

Zero carbonella. Ecco cosa sanno di Indro Montanelli i sedicenti guardiani del pianeta di «Extinction Rebellion» che a Milano hanno avvolto col nastro giallo e nero la statua del grande giornalista come «simbolo di un passato, ma anche di un presente, costruito sul mito della crescita infinita, dello sfruttamento di territori, persone, risorse». Ma sanno di cosa parlano?

Dice tutto l’articolo di fondo pubblicato sotto il titolo «Una nuova minaccia nell’Italia dei veleni», sul Corriere del 9 gennaio 1973, prima che Frank Sherwood Rowland scrivesse su Nature del buco dell’ozono e che scoppiasse la crisi petrolifera.

Eccolo, quell’articolo: «Di tutti i Paesi europei, l’Italia è il più ricco di raffinerie. (...) Perché l’Italia è l’unica nazione che non si contenta di raffinare per il proprio fabbisogno. Lo fa anche per conto di terzi. E infatti una buona metà della sua produzione viene esportata un po’ dovunque, perfino negli Stati Uniti. Non è necessario appartenere alla cerchia degli “iniziati” per capire i motivi di questo primato. Gli altri Paesi ce lo lasciano volentieri perché, come sta scritto nelle dichiarazioni dei responsabili, prima di tutto non vogliono morire avvelenati dal petrolio, il più inquinante di tutti gl’ingredienti; secondo non considerano questa attività redditizia per l’altissimo costo degl’impianti di depurazione richiesti dalla legge. Il segreto della raffinomania italiana è tutto qui. Solo in Italia questa industria assicura facili e sostanziosi utili perché è affrancata da ogni pedaggio alla pubblica salute. Essa gode di licenza di uccidere».

Parole pesantissime. Firmate dal più grande giornalista italiano sulla prima pagina del più grande giornale italiano contro le più grandi imprese avvelenatrici italiane nella più ottusa e complice ignavia della politica che non aveva la minima coscienza del degrado ambientale allora in corso. E non si trattava dell’impennata estemporanea d’un toscano bizzoso. Ma di uno dei tanti «missili», per dirla con Beppe Gualazzini, che Montanelli sparò per anni in difesa del nostro patrimonio paesaggistico, ambientale, artistico.

Contro i palazzinari: «L’Italia sarà, come dicono, la “culla dell’arte”. Ma in questa culla sgambettano i più biechi assassini del paesaggio. Sempre per quella smania di star tutti attruppati, il cemento travolge l’erba e sommerge le più belle valli e i più pittoreschi litorali».

Contro la «modernizzazione» di Venezia a partire dalla demolizione di un vecchio muro a piazzale Roma prima ancora che nascesse Italia Nostra: «Qualunque colpo di piccone in questa città, anche quando è necessario, rappresenta un lutto nazionale. Si può subirlo con rassegnazione, come la morte di una persona cara. Ma celebrarlo come una festa no, non è permesso». Contro la «rapallizzazione» della Liguria: «Gli anni del boom passeranno alla storia come quelli della sistematica distruzione dell’ex giardino di Europa, perché i miliardi in mano agl’italiani sono più pericolosi delle bombe atomiche in mano ai bantu».

Contro l’egoismo familista: «Ogni italiano difende con accanimento le proprie cose. Ma nessuno di loro o quasi nessuno, difende le cose degli italiani, cioè quel patrimonio collettivo di cui nessun altro popolo al mondo possiede l’eguale. Noi ne siamo fieri solo a parole. Ed è proprio questa stupida, tronfia, vuota e retorica verbosità che mi dà noia nel patriottismo italiano». Contro l’apologia della libertà privata: «Non c’è mai stato nulla che sia riuscito a farmi dubitare della necessità di salvaguardare la proprietà e l’iniziativa private. Nulla, meno l’urbanistica delle nostre città. La loro espansione a ondate concentriche, che accumula a casaccio quartieri su quartieri, con strade ridotte a crepacci fra strapiombi di cemento, testimonia la cecità degl’interessi privati di proprietari e costruttori, il loro sadico rifiuto di ogni criterio di decenza edilizia, e scuote la nostra fede».

E ancora contro il forsennato sviluppismo «spontaneo» nel Veneto più nobile e prezioso: «Ma cosa verranno a visitare, i visitatori, quando Asolo sarà stata sommersa da un bel formicaio di grattacieli, quando le sue colline saranno irte di ciminiere, quando la sua aria sarà resa irrespirabile dai fumi delle medesime? Perché il tecnico o l’operaio di Sesto San Giovanni dovrebbero scomodarsi a venire fino ad Asolo per ritrovarvi le stesse colate di cemento, lo stesso frastuono, gli stessi puzzi, la stessa nuvolaglia di gas? Ecco a dove conduce la demagogia di certi pianificatori». E via così...

Non c’entrava un fico secco, Indro Montanelli, col «mito della crescita infinita, dello sfruttamento di territori, persone, risorse» citato oggi così, a casaccio. Da analfabeti dell’ambientalismo. E se col senno di poi è facile esprimere oggi ripulsa per il «matrimonio etiope» dell’allora ventiseienne Indro con una dodicenne (al di là del contesto storico del tutto ignorato l’ha già scritto Beppe Severgnini: «Se un episodio isolato fosse sufficiente per squalificare una vita, non resterebbe in piedi una sola statua. Solo quelle dei santi, e neppure tutte») è indecente ignorare il resto.

E cioè la strenua difesa del territorio rimasto integro («Ogni filare di viti o di ulivi è la biografia di un nonno o un bisnonno») e decine di battaglie, spesso profetiche e non di rado indigeste allo stesso mondo destrorso montanelliano, che anticiparono di decenni moltissimi dei temi oggi cari a chi invoca una svolta radicale dopo gli errori del passato.

Non capirlo ancora una volta, quando mai come oggi sarebbe invece indispensabile che certe battaglie fossero condivise, come invocò Alex Langer, al di là degli schemini politici o peggio ancora partitici, è peggio che una cretinata offensiva contro un bersaglio sbagliato. È un imperdonabile errore.

Quel gran rifiuto di Montanelli alla proposta “indecente” di Scalfari. Poco prima che Il Giornale vedesse la luce, il fondatore di Repubblica lo andò a trovare personalmente a Milano, portando in dote un’idea azzardata: lavorare insieme, ma con ruoli diversi. Paolo Lazzari il 9 Aprile 2023 su Il Giornale.

Milano è già un gatto che si stiracchia. Risuona, in lontananza, il tramestio delle prime auto che divorano il nastro d’asfalto. Teiere e moka fischiano. Quel tipo dall’aria distinta percorre il marciapiede per poi incunearsi nel reticolo di case circostanti. Indossa un cappotto di foggia nobile e sotto un abito in pregiato cachemere. Porta anche il mento perennemente alto, tipico di chi sa sfoderare pensate ambiziose senza cercare risposte tra gli interstizi del cemento. E un cappello a tesa larga, che adesso si toglie per entrare nell'androne.

Al campanello, comunque, non c’è scritto “Montanelli”. Indro è ospite di una signora. Vive giorni convulsi, Montanelli. Ha rotto con il Corriere della Sera quando la proprietà, correva il 1972, ha deciso di licenziare in tronco il direttore Giuseppe Spadolini per rimpiazzarlo con Piero Ottone. Quella è stata, a dire il vero, la prima di una serie di incrinature evidenti. E la prima occasione, anche, per estrarre la baionetta: “Non si caccia via un direttore come un domestico ladro”, dichiara in una lunga intervista a L’Espresso. La stigmatizzazione prosegue, sempre rivolgendosi alla famiglia Crespi. Indro critica il modo “autoritario, prepotente e guatemalteco che hanno scelto per imporre la loro decisione”.

Sale la tromba delle scale, intanto, Eugenio Scalfari. Sfregandosi i polpastrelli, s’intende, perché il progetto che coltiva in mente è tanto spericolato quanto potenzialmente deflagrante. Se Indro dicesse di sì – se il duellante per eccellenza di innumerevoli singolar tenzoni capitolasse – allora si potrebbe scrivere una pagina inedita non tanto di un giornale, ma della stessa storia italiana.

C’è una circostanza, a dire il vero alquanto rilevante, che tuttavia Scalfari – interprete arguto del suo tempo come pochi – deve senz’altro aver messo in conto. Montanelli è ambizioso almeno quanto lui. Com’era quella storiella sui due galli nel pollaio?

Il tempismo poi, nella vita, è praticamente tutto. Indro vive giornate conflittuali. Rimugina intensamente, contorce i pensieri per estrarre risposte limpide, ma in cuor suo sa esattemente quello che deve fare. Certo, quando il telefono ha trillato e dall’altro capo del cavo agganciato nel sottosuolo che collega Torino a Milano si è propagata la seducente flemma dell’avvocato Gianni Agnelli, gli ha fatto piacere. Alla Stampa, la terra di mezzo tra il Corriere e la vita che ancora deve succedere, lui si trova pure bene. Però le passioni mica puoi spegnerle mai. Specie quando bussano ogni mattina, salendo dalle viscere. Montanelli è un giornalista, mica un pompiere.

Tambureggia con le dita Scalfari, presentandosi alla porta. La donna apre, introducendolo a un salottino dove Indro lo attende impaziente. Qualche salamelecco di circostanza, un caffè o una spremuta d’arancia offerti, poi il padiglione auricolare si tende per ascoltare, conoscendo già la risposta.

Anche perché se l’erano già detto tempo fa. “Te lo immagini noi due insieme?”. Una suggestione che pareva solleticare maggiormente gli appetiti di Eugenio che quelli di Indro. Troppo distanti, i loro mondi. Gli approcci, i contenuti, il pensiero. L’idea stessa di giornalismo come veicolo di idee per plasmare una società in qualche misura migliore. “Lui era interprete del senso comune, io del buon senso, che sono due cose diverse”, scriverà Scalfari in seguito. Appunto. In comune, semmai, c’è il solo fatto che in quel salotto stanno appollaiati due giganti del mestiere.

Si viene in fretta al dunque. Gli amici–nemici si scrutano, alla ricerca di un qualche impercettibile movimento delle palpebre o delle labbra, che tradisca un’emozione, una sensazione. Poi Scalfari spara le sue cartucce: “Senti, vorrei creare un nuovo giornale. E ti vorrei come direttore”. Segue un silenzio stentoreo. Poi la replica di Indro, intrisa di ribalderia toscana: “No, grazie. Io voglio scrivere articoli, non fare il direttore”. Eugenio se lo aspettava e infatti prova a rassicurarlo: “Guarda, mi basta che tu faccia i tuoi editoriali da direttore. Per il resto penso a tutto io”.

Montanelli solleva quei due grandi bottoni azzurri fin sotto le palpebre, mostrando perplessità. Ma la signorilità, tratto che li contraddistingue entrambi, gli impedisce di divelgere i sogni altrui senza almeno simulare un minimo di interesse. Congeda Scalfari dicendogli che si prenderà un paio di giorni per pensarci, ma che la risposta sarà con ogni probabilità “no”. Quando lo accompagna all’ingresso e richiude la porta, quell'idea che gli rimbalza in testa da un pezzo è ancora più esuberante. Lui un giornale vuole fondarlo. Mica dirigere quello di qualcun altro.

Lo sa anche Scalfari, che deve sorridere amaro mentre discende la scalinata. Due giorni dopo incasserà un inevitabile rifiuto. Poco più tardi emetteranno i primi vagiti Il Giornale e La Repubblica. Manifestazioni evidenti di caratteri antitetici e debordanti, impossibili da tenere appiccicati. E, in fondo, è stato meglio così. Quel gran rifiuto di Montanelli a una proposta allettante ha difeso la vita altrimenti gracile del pluralismo italiano.

Da “A casa Sallusti” - liberoquotidiano.it il 5 gennaio 2023.

«Montanelli è stato un mio maestro ma come sempre quando si tratta di miti è meglio non conoscerli, non viverli da vicino. Magari scopri che si infilano le dita nel naso o che sono degli str...i...».

La terza puntata di "A casa Sallusti" non è meno scoppiettante delle prime due. Nel format che trovate su liberoquotidiano.it/piulibero, il notissimo direttore di Libero, intervistato da Klaus Davi, racconta in esclusiva aspetti privati della propria vita.

Ecco cosa ci dice Sallusti in questa puntata dedicata a Indro Montanelli: «Conobbi Indro perché nel mio girovagare di giornale in giornale, a un certo punto approdai al Giornale di Montanelli. Mi ci porta Paolo Granzotto, che allora era vicedirettore e che conobbi da inviato in Libano nell'83/84, e io mi presento davanti a questo monumento: ne percepisco subito tutto il carisma, era fisicamente affascinante Montanelli, emanava carisma.

E lui mi assume. Tra l'altro abbiamo anche un buon rapporto personale perché mi mette all'ufficio centrale, quello dove ci sono i capiredattori che lavorano a stretto collegamento col Direttore, quindi sono quotidianamente in contatto con lui.

 E questa non è stata una bella cosa perché uno non dovrebbe mai conoscere i suoi miti: se tu conosci nella quotidianità il tuo mito ti rendi conto che, certo, è un gigante, però è anche un grandissimo str...o, si mette le dita del naso, fa delle cose umane nel bene e nel male e io avrei preferito non conoscerlo, cioè che fosse rimasto un'entità astratta, ideale.

 Lui in realtà Il Giornale non lo faceva, si occupava del suo fondo, aveva un eccellente rapporto con i lettori, nel senso che curava personalmente la pagina delle lettere: le leggeva tutte, le sceglieva, rispondeva e poi scriveva il suo magnifico fondo. Del giornale si occupava pochissimo. 

Quando veniva alle riunioni di redazione del mattino per impostare il giornale, era come andare al cinema senza pagare il biglietto: arrivavano Montanelli e inviati storici come Egisto Corradi, Enzo Bettiza, insomma delle grandi firme, e allora succedeva che magari si diceva "Oggi agli esteri cosa c'è?" e allora uno rispondeva "In Polonia sta succedendo Solidarnosc", e allora Corradi per esempio diceva "Ti ricordi Indro in Polonia nel 1952...?" e partiva questa aneddotica e io ero lì che ascoltavo appunto come se fossi al cinema a vedere un bel film.

Ma il problema era che non si faceva il giornale perché si iniziava a parlare del '52, del '54, "Ti ricordi quella fidanzata che tu mollasti...", bellissimo, ma il giornale non usciva mai... Insomma, quel Giornale era un giornale di grandi senatori, di grandissima qualità ovviamente, in quel Giornale ci lavorava gente come Prezzolini, ci lavorava il gotha della cultura italiana e non solo italiana, però era davvero un posto abbastanza surreale.

Poi ho rincontrato Montanelli quando io arrivo al Corriere della Sera nel '90: Montanelli fa la sua tragica esperienza de La Voce, fallisce e Paolo Mieli lo riporta al Corriere».

Italo Cucci commissario straordinario: la nomina del governo. Libero Quotidiano il 19 agosto 2023

Dalla redazione a Pantelleria: Italo Cucci, decano del giornalismo sportivo italiano, è stato nominato dal governo commissario straordinario dell'Ente Parco nazionale di Pantelleria, istituito nel 2016 e vasto 600 ettari. Il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, che ha firmato il decreto lo scorso primo agosto, ha motivato la scelta dell'ex storico direttore del Guerin Sportivo, Corriere dello Sport e Quotidiano nazionale in quanto idoneo per "qualificata esperienza in campo ambientale".

Cucci, 84 anni, a Telesud Trapani ha confessato di non essersi mai occupato dal punto di vista pratico di tutta la burocrazia legata alla gestione di un parco, tra procedure, regolamenti e concessioni: "Non sono molto avvezzo alle cose burocratiche, sto imparando dal vivo qual è il mio ruolo”. Incappando in un minimo di contraddizione quando poi afferma che Pantelleria, “che è casa mia”, “è un paradiso che ha bisogno di assistenza burocratica”. Dal governo, sottolinea il giornalista con immagine suggestiva, "si sono premurati di conoscere le caratteristiche territoriali della persona”.

"In termini più prosaici - commenta velenosamente Repubblica, riportando la notizia -, al ministero sapevano che conosceva bene Pantelleria". Questo perché Italo Cucci "ha iniziato a frequentare dammusi, muretti e vitigni eroici tipici dell’isola figlia del vento dal lontano 1989, ne è diventato cittadino onorario nel 2019, e alla locale chiesa della Madonna della Margana ha donato persino una tela del ‘700". Ovviamente, suggerisce il quotidiano diretto da Maurizio Molinari, tutto dipenderebbe dalla vicinanza politica di Cucci e le sue simpatie meloniane.

Estratto dell’articolo di Stefano Baldolini per repubblica.it sabato 19 agosto 2023.

Nel cuore dell’estate, tra una lacrima e l’altra per l’ecoansia della giovane Giorgia, il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin ha trovato il modo di indicare al parco nazionale di Pantelleria il noto giornalista sportivo Italo Cucci, classe 1939. 

Con decreto ministeriale dello scorso primo agosto, l’ex direttore del Guerin Sportivo, del Corriere dello Sport e del Quotidiano nazionale, è stato nominato commissario straordinario dell’ente Parco – 600 ettari, istituito nel 2016 - perché ritenuto idoneo per “qualificata esperienza in campo ambientale”. 

Peccato che negli oltre sessant’anni di onorata carriera […], di ambiente e parchi non si sia propriamente occupato. Tantomeno di procedure, regolamenti e concessioni che l’incarico governativo della durata di sei mesi (nelle more di diventare presidente) sembra prefigurare. È Cucci stesso, in una recente intervista a Telesud Trapani, a confessare che non è quello il suo campo.

[…] “Non sono molto avvezzo alle cose burocratiche – dichiara – sto imparando dal vivo qual è il mio ruolo”. Incappando in un minimo di contraddizione quando poi afferma che Pantelleria, “che è casa mia”, “è un paradiso che ha bisogno di assistenza burocratica”. 

Italo Cucci […] ha poi spiegato la ratio della scelta del governo: “Si sono premurati di conoscere le caratteristiche territoriali della persona”. In termini più prosaici, al ministero sapevano che conosceva bene Pantelleria.

In effetti, Cucci ha iniziato a frequentare dammusi, muretti e vitigni eroici tipici dell’isola “figlia del vento” dal lontano 1989, ne è diventato cittadino onorario nel 2019, e alla locale chiesa della Madonna della Margana ha donato persino una tela del ‘700. 

[…] Tuttavia, secondo i detrattori, sono altri i fattori ‘ambientali’ che sembrano essere entrati in gioco nella sua nomina. […] Il direttore “operario” che si definisce un “anarchico di destra”, ma più pragmaticamente oggi è su posizioni meloniane, e dal 1998 è direttore del “Primato”, periodico dell’Asi (Associazioni sportive italiane”), la potente organizzazione nata nel 1994 in quel di Latina, che si definisce “un laboratorio di pensiero e proposta sulla politica sportiva, messo a servizio di un soggetto politico che di lì a poco sarebbe nato come evoluzione storica del Movimento Sociale Italiano, ovvero Alleanza Nazionale”.

Nell’Asi - che nel 2009 organizzerà la corsa futurista al Circo Massimo per celebrare il centenario del manifesto marinettiano – negli anni ‘90 Italo Cucci partecipa a convegni con esponenti aennini di spicco come Maurizio Gasparri, Giulio Maceratini, Francesco Storace. 

Nel 2004 la stessa organizzazione sarà riconosciuta come Associazione di Protezione Ambientale dal ministero dell’Ambiente e Tutela del Territorio. Al dicastero sedeva l’ex missino, poi An, Altero Matteoli.  […]

Ivan Zazzaroni: 65 anni fra calcio, tv e ballo. Marco Vigarani su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

Il giornalista bolognese: la giovinezza in Brasile, la vita privata e il pasticcio con Mihajlovic

Giornalista e commentatore poliedrico

Compie oggi 65 anni Ivan Zazzaroni, un grande protagonista del mondo dell'informazione e dello spettacolo. Dai quotidiani alla televisione passando per la radio, dal calcio al ballo passando per i motori: sono molteplici i campi d'azione e di interesse del giornalista bolognese che è diventato sicuramente uno dei volti più noti dal grande pubblico italiano, capace di superare i limiti del giornalismo per entrare nello showbusiness

Gli anni in Brasile e l'intervista a Socrates

Nato a Bologna il 26 gennaio 1958, Zazzaroni si appassiona sin da bambino al calcio prima come atleta poi con il sogno di diventare giornalista. Diplomato al liceo linguistico, si trasferisce in Brasile dove si allena per qualche tempo con il Botafogo e lì intervista il campione verdeoro Socrates: è il primo articolo della sua carriera. La sua ascesa è rapida: da Stadio alla Gazzetta dello Sport, da Autosprint al Guerin Sportivo (con il maestro Italo Cucci) diventandone vicedirettore già nel 1991.

Radio Deejay e «Ballando con le stelle»

Dopo un decennio vissuto sulla cresta dell'onda come affermato giornalista e coordinatore di quotidiani e periodici, nel 2004 approda a Radio Deejay e nello stesso periodo inizia a collaborare frequentemente con diversi programmi televisivi. Dal 2006 diventa un protagonista del sabato sera di Rai 1 partecipando prima come concorrente e poi come giudice al noto show «Ballando con le stelle» condotto da Milly Carlucci. Apprezzato per lo stile eccentrico e personale, curiosamente non si siede mai durante la trasmissione.

I libri e il ricordo di Pantani

Fra tanti impegni e coltivando anche la passione per la vita all'aria aperta, Ivan trova pure il tempo per scrivere tre libri su alcuni grandi protagonisti del mondo dello sport. Il primo nel 2005 è dedicato al ricordo di Marco Pantani ed è realizzato insieme a Davide Cassani, il secondo nel 2011 è dedicato a Nello Governato ed infine il più recente risalente a pochi mesi fa ripercorre la carriera di Josè Mourinho. Nel 2021 Zazzaroni ha ricevuto il Leone D'Oro per meriti professionali dal Comitato del Gran Premio Internazionale di Venezia.

La vita privata

Volto noto al grande pubblico, svela da sempre pochissimi aspetti della sua vita privata: fra questi il suo tifo per il Bologna, non lesinando negli anni critiche alla gestione tecnica e imprenditoriale della società. A lungo è stato legato a Cristina Canali con cui ha avuto un figlio nel 1990 ma il loro matrimonio successivamente è naufragato e dal 2007 Zazzaroni ha iniziato una relazione con Monica Gasparini, giornalista della redazione di Studio Aperto e vedova del collega Alberto D'Aguanno.

Il pasticcio con Sinisa

Tra le pagine più difficili della recente carriera professionale di Zazzaroni c'è quella legata alla scelta di anticipare la conferenza stampa in cui l'amico Sinisa Mihajlovic ha annunciato di avere la leucemia. «Qualcuno ha rovinato un'amicizia che durava da vent’anni per vendere duecento copie in più» è stata l'accusa del serbo. Sui social il giornalista ha replicato scusandosi: «Ho fatto il giornalista e non l'amico, oggi non lo rifarei».

Gli incontri epocali dell'inviato Gawronski con i grandi del mondo. L'intervista a Wojtyla che valse "tre encicliche", l'ironia di Castro e la fermezza della Thatcher. Francesco Perfetti il 14 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Non mi è mai capitato di incrociare Jas Gawronski, ma ho avuto il piacere (e la fortuna) di conoscere, intervistare e frequentare, sia pure episodicamente, la madre. Si trattava di Luciana Frassati, figlia del mitico fondatore e direttore del quotidiano torinese La Stampa. Ebbi modo di incontrarla nel 1978 in occasione della pubblicazione del primo tomo della sua ponderosa opera dedicata al padre. Ne conservo il ricordo di una donna eccezionale, di grande vivacità intellettuale e fascino umano. Aveva conosciuto tante importanti personalità culturali - da Franz Werfel ad Alma Mahler, da Wilhelm Furtwängler ad Arturo Toscanini e via dicendo - e, moglie di un diplomatico polacco, si era impegnata per salvare, da nazisti e bolscevichi, tante vite. Avevo letto un suo libro di memorie, Il destino passa per Varsavia, che racconta dei suoi incontri con Mussolini e che, oltre ad essere coinvolgente, è anche storicamente importante, tant'è che Renzo De Felice, anni dopo, volle farlo ripubblicare.

All'epoca di quell'incontro, Jas Gawronski, il più noto dei suoi figli, era già un personaggio di successo: un grande giornalista, inviato speciale in tanti Paesi e poi corrispondente della Rai a New York e Parigi. Quel che colpiva, nei suoi servizi, era la capacità di raccontare gli avvenimenti e soprattutto di spiegarli attraverso i loro stessi protagonisti. Non si era ancora convertito alla politica che lo avrebbe visto più volte parlamentare e per qualche tempo portavoce di Silvio Berlusconi. Il giornalismo, insomma, era la sua vita. E, credo di poter dire, le sue doti di analista politico e di ritrattista erano il retaggio di una tradizione familiare.

Un suo bel libro appena uscito per i tipi di Aragno, dal titolo Da Giovanni Paolo II a Giovanni Agnelli. Dialoghi del '900 (pagg. 198, euro 18), testimonia la passione di Gawronski per il giornalismo. Vi sono raccolte interviste a uomini e donne che in qualche misura hanno lasciato una traccia nella storia, profili di uomini politici e non solo, nonché reportage da territori lontani e poco conosciuti, ovvero da zone particolarmente calde. Un piccolo campionario, insomma, dell'attività (e delle «avventure») di un cronista di razza, scrupoloso e attento.

Gawronski appartiene, come precisa lui stesso, a quella schiera di giornalisti i quali, più che descrivere i fatti, si dedicano ai personaggi, perché «in fondo sono gli individui che determinano gli avvenimenti» e il «ricercare ed esplorare i protagonisti della storia è un po' come andare alla fonte delle vicende umane, piuttosto che analizzarne l'evoluzione». L'esempio più conosciuto, e certo più clamoroso, del suo modo di fare giornalismo è una celeberrima intervista a Giovanni Paolo II pubblicata in contemporanea da molti giornali in tutto il mondo. Fu davvero uno scoop perché mai prima di allora un pontefice aveva rilasciato un'intervista su temi politici a un giornalista.

A rileggerlo, oggi, quel colloquio risalente alla prima metà degli anni Novanta, ha non solo un valore di testimonianza storica, ma contiene anche chiarimenti sulla posizione della Chiesa di fronte alla guerra e sull'idea della possibilità di una «guerra giusta». Sotto questo profilo, appare di sorprendente attualità in un momento nel quale il mondo è percorso dai venti di guerra provocati dall'aggressione russa all'Ucraina. Giovanni Paolo II, riferendosi alla guerra di Bosnia, disse che «in caso di aggressione bisogna togliere all'aggressore la possibilità di nuocere» e precisò che «secondo la dottrina tradizionale della Chiesa la guerra giusta è solamente quella di difesa» perché «ogni popolo deve avere il diritto di difendersi». Il colloquio tra Gawronski e Giovanni Paolo II toccò tanti altri temi: dall'analisi della crisi del sistema comunista al parallelismo fra Stalin e Hitler, dalla situazione dei Balcani alla decadenza del mondo occidentale, dal giudizio su Gorbacev al confronto fra comunismo e capitalismo con una celebre battuta sul «nocciolo di verità» presente nel marxismo e via dicendo. Una intervista a tutto campo, insomma che, come disse un illustre prelato vaticano, valeva «tre encicliche».

Dell'intervista a Giovanni Paolo II si trovano echi in colloqui che Gawronski ebbe con altre figure importanti del Novecento. Quando, per esempio, incontrò Fidel Castro, con quella sua faccia «mimica, espressiva» e la voce «leggermente stridula, quasi felliniana» che stonava con il «corpo possente» dal quale ci si sarebbero attese «note da basso», Gawronski si sentì rispondere, alla domanda sul perché indossasse sempre l'uniforme da guerrigliero, con questa battuta: «Lei, al Papa, glielo ha chiesto perché porta sempre quel vestito bianco?». Tutt'altro che spiritosa fu la risposta che Gawronski ebbe da Margaret Thatcher alla domanda se anche lei, come Giovanni Paolo II, scorgesse qualche «seme di verità» nel comunismo: «non riesco a trovare aspetti positivi in un'ideologia che ha come obiettivo di privare la gente della libertà e non concede né dignità umana né prosperità. Il comunismo è semplicemente il credo di pseudo-intellettuali, per il potere di pseudo-intellettuali che si credono al di sopra del popolo. Una delle più grandi tragedie che sia capitata al mondo». Parole che spiegano il carattere della Lady di ferro.

Nel volume di Gawronski ci sono altre interviste - al filosofo marxista György Lukács, per esempio, allo scienziato Albert Sabin o allo storico Arthur Schlesinger, forse la più celebre delle cosiddette «teste d'uovo» di John Fitzgerald Kennedy - ma anche ritratti come quelli del reverendo Malcom X, paladino islamico degli afro-americani, o del generalissimo Chiang Kai-shek o, infine, di Giovanni Agnelli, l'avvocato che non avrebbe mai voluto investire nell'auto. E non mancano corrispondenze dalla Corea del Nord, dal Kazakistan, dal Laos e via dicendo, tutte scritte con un linguaggio scarno ma coinvolgente e dettate da quello scrupolo per la ricerca della verità che contraddistingue il vero giornalista. Quale è Jas Gawronski.

Dagospia il 21 dicembre 2022. Riceviamo e pubblichiamo: 

Gentile Dago,

In merito al titolo I ventriloqui di Giorgia, vengo definita "l'ex showgirl Laura Tecce". Ti segnalo che non sono nè ex nè showgirl. Sono giornalista professionista dal 2007 e mi sono sempre e solo occupata di politica nei giornali e in tv. Mi accontento della definizione "giornalista e conduttrice" come correttamente riportato nell'articolo de La Stampa di oggi. E questo lo dico con tutto il rispetto per una professione, quella di showgirl, che non è mai stata, non è e mai la sarà la mia. Cordiali saluti, Laura Tecce

Dago-risposta

Prendiamo atto del lavoro di giornalista professionista di Laura Tecce, non essendocene accorti prima. 

E’ possibile, a questo punto, che ci sia stato uno scambio di persona. Nella scombiccherata redazione di Dagospia avevamo memoria di una certa Laura Tecce affiancata ad Amadeus come “spalla” nel game show “Cuore di mamma”. 

Correva l’anno 2010 e la trasmissione (che vinse persino il prestigioso TeleRatto come peggior game show dell’anno) era, come annunciato dal comunicato stampa, “Un lungo viaggio lungo 70 puntate attraverso l’amore e i rapporti di coppia dove protagonista indiscussa sarà la tanto amata suocera”. Non esattamente l’impegno di chi “si è sempre occupata di politica”.

La traballante memoria ci ha evocato una certa Laura Tecce impegnata anche alla conduzione di “Italia sul 2 Estate”, in onda su Raidue nel 2006, dove insieme a due note croniste d’assalto come Sabina Stilo e Luana Ravegnini si conducevano puntute inchieste su “trucchi e consigli per sconfiggere la cellulite”. Potremmo davvero essere incappati in un clamoroso scambio di persona. 

O magari è un inciampo della memoria. Bisogna solo capire se la carenza di fosforo è nostra o della signorina Tecce.

Dagospia il 21 dicembre 2022. I VENTRILOQUI DI GIORGIA - ECCO GLI OPINIONISTI D’AREA INDICATI DALLA MELONI PER I TALK DELLA RAI: FRANCESCO BORGONOVO, VICEDIRETTORE DE “LA VERITÀ”; L’ATTORE EDOARDO SYLOS LABINI; FRANCESCO GIUBILEI, CONSIGLIERE DEL MINISTRO SANGIULIANO; L’EX SHOWGIRL LAURA TECCE; IL GIORNALISTA ANTONIO RAPISARDA, IL SOCIOLOGO GUERINO NUCCIO BOVALINO - IL GIORNALISTA MARCO ANTONELLIS, L'EX DIRETTORE DEL TG2 MAURO MAZZA, IL DIRETTORE DE “IL TEMPO" DAVIDE VECCHI, IL PROF DI FILOSOFIA BENEDETTO IPPOLITO - CI SAREBBE ANCHE MARCO GERVASONI FINITO PERO’ IN DISGRAZIA DOPO GLI INSULTI A MATTARELLA

Ilario Lombardo Francesco Olivo per “la Stampa” il 21 dicembre 2022.

La lista di Giorgia. Tutti ne parlano in Rai. Nomi e cognomi di giornalisti e opinionisti graditi alla premier e agli uomini di Fratelli d'Italia. Nuovo vento, nuovo corso. In realtà non è una novità delle ultime settimane, perché di queste liste, vergate e supervisionate da Meloni, e poi inviate ai direttori, e quindi girate ad autori e conduttori, si sapeva già dalla primavera, quando FdI era ancora un partito di opposizione, ma in crescita. 

Ora, però, è al governo, e Meloni guida la regia dei programmi Rai direttamente da Palazzo Chigi. Questa sera, per dire, alla presidente del Consiglio sarà dedicato uno spazio speciale, dopo il Tg1 delle 20, con un'intervista di Bruno Vespa, a cui potrebbe andare la striscia quotidiana che fu di Enzo Biagi. Appena tre anni fa, come ricorda l'ex segretario della Vigilanza Rai Michele Anzaldi, il partito della premier si scagliò contro «la scandalosa intervista» di Giuseppe Conte andata in onda nello stesso orario, e per la quale furono stravolti i palinsesti: «E oggi l'amministratore delegato Carlo Fuortes fa lo stesso con Meloni».

Il manager è accerchiato. In generale, La pressione di FdI si è fatta maggiore, così come la disponibilità dei dirigenti e l'imbarazzo di chi nei talk show riceve l'elenco degli ospiti. C'è un precedente, noto a chiunque lavori in tv. Anche Matteo Renzi, quando guidava il Pd e, insieme, il governo, faceva preparare liste con giornalisti di area perché, dicevano nel suo staff, «servono a riequilibrare le trasmissioni», non solo in Rai, ma anche a La7 e a Mediaset. Argomenti identici a quelli usati dai collaboratori di Meloni. 

Corsi e ricorsi della politica italiana e dei partiti che, a turno, sono ansiosi di mettere le mani sulla televisione pubblica. L'elenco caro alla premier è stato aggiornato nel passaggio dall'opposizione al governo.

La short list piovuta in primavera riporta nomi più o meno noti e volti ormai incastonati nei talk: Francesco Borgonovo, vicedirettore de La Verità; Edoardo Sylos Labini, attore e presidente dell'Associazione Cultura e Identità; il pupillo della destra sovranista Francesco Giubilei, consigliere del ministro della Cultura, ed ex direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano; Laura Tecce, promossa a conduttrice; il giornalista Antonio Rapisarda, il sociologo Guerino Nuccio Bovalino, e Marco Gervasoni, professore e polemista su La Voce del patriota, cantore dei conservatori contro «l'ingannocrazia delle sinistre». 

Qualcuno è un po' finito in ombra, anche per qualche esagerazione di troppo, che ha persuaso i meloniani a prenderne le distanze. Gervasoni, per esempio, è stato indagato per gli insulti rivolti al presidente Sergio Mattarella.

Dunque, meglio tenerlo lontano dal piccolo schermo. Anche se lui, come altri, erano stati utili ai tempi più duri della pandemia per veicolare le posizioni di FdI contro l'obbligo dei vaccini. Nella lista aggiornata dopo la vittoria elettorale, ci sono figure che appaiono meno abrasive. C'è il giornalista Marco Antonellis, l'ex direttore del Tg2 Mauro Mazza, il direttore del quotidiano Il Tempo Davide Vecchi, il professore di filosofia Benedetto Ippolito, grande frequentatore dei salotti tv. Si mescolano nomi che un tempo sarebbero stati considerati in quota Lega o Forza Italia. Ma così è, quando passa il carro del vincitore. 

Bastava comunque dare un'occhiata a chi c'era sopra o intorno al palco della festa per i dieci anni di FdI a Piazza del Popolo, a Roma, per capire la voglia di Rai che c'è nel partito di Meloni. Sylos Labini che chiedeva di portare La pioggia nel pineto di Gabriele D'Annunzio a Sanremo 2023 e che ieri ha rincarato la dose contro «la trap un po' fluid». 

Gennaro Sangiuliano, costipato e collegato da casa, che evocava un'egemonia nazionale identitaria non esterofila e contro il politicamente corretto. Lo stesso Sangiuliano che, a detta di due fonti interne al Tg2, nelle settimane subito successive alla nomina a ministro, nella vacatio che ha preceduto l'indicazione di Nicola Rao alla direzione, ha continuato a chiamare i suoi vecchi collaboratori e a interessarsi dei servizi del telegiornale.

Sul palco di FdI c'era anche Paolo Petrecca, l'uomo che, nel giro della lottizzazione gestita da Palazzo Chigi ai tempi di Mario Draghi, è stato piazzato da Meloni alla testa di Rainews24. Interrogato sul futuro dell'istruzione, il direttore della testata all news (della quale spiega di aver «stravolto una prerogativa culturale moderatamente di sinistra») chiede a gran voce «un nuovo progetto culturale», per evitare quello che è capitato a suo figlio «che alle scuole medie veniva educato all'antifascismo, alla cultura che nel dopoguerra parla solo dei partigiani e non di foibe». Un direttore della tv di una Repubblica fondata su una Costituzione antifascista che ne stigmatizza la radici educative e culturali? Applausi scroscianti dal pubblico. 

L'intervento si chiude con un appello ai suoi ospiti: «Noi dobbiamo fare una rivoluzione culturale e spero che voi al governo la facciate presto». Parole che hanno scatenato la reazione giornalisti, al punto che la sua redazione e l'Usigrai, il sindacato interno della Rai, hanno rivolto una domanda a Fuortes e al Cda: «Tutto questo è accettabile da parte di un direttore del servizio pubblico?».

Fuortes non si è espresso pubblicamente. L'ad continua a nicchiare e mandare segnali al nuovo governo. Il suo mandato scade nel 2024. Meloni non si fida. È noto che vorrebbe affiancargli Giampaolo Rossi, l'uomo Rai per conto di FdI, già consigliere di amministrazione, estromesso all'ultimo cambio del Cda. La questione investe anche il Parlamento. 

A oltre due mesi dall'inizio della legislatura, i membri della Vigilanza Rai ancora non sono stati nominati. Per prassi, la presidenza andrebbe all'opposizione, e il candidato più probabile resta l'ex ministro Stefano Patuanelli del M5S. FdI, però, blocca tutto. La logica del partito di Meloni è questa: finché il Cda resta di fatto in mano alla sinistra, viene meno il principio di dare alle opposizioni una commissione di garanzia. Detto in altre maniere: finché Fuortes resta al suo posto, o comunque non accetta di essere commissariato, difficilmente si sbloccherà la questione.

Proprio lui che finì sui giornali per lo stesso motivo. Che noia...Lirio Abbate, Carminati e le pagelle di presentabilità per frenare Chiocci al Tg1 e Colosimo all’Antimafia. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 19 Maggio 2023 

Triste storiella di ipocrisia italiana. Ieri su Repubblica, Lirio Abbate, ex direttore dell’Espresso, titolava, per la seconda volta in tre giorni “L’ombra di Carminati su nomine e scalata dei suoi commensali” (il titolo precedente recava: “Quei legami pericolosi”). Obiettivo non dichiarato: complicare (?) l’elezione di Chiara Colosimo, deputata di Fratelli d’Italia, a Presidente della Commissione Antimafia, e la nomina di Gianmarco Chiocci, direttore di Adnkronos, al Tg1, per la quale manca ancora una maggioranza granitica in Cda.

Segue citazione di un vecchio incontro tra Chiocci e Carminati, e della presunta amicizia tra Colosimo e Ciavardini, terrorista nero condannato per strage. Roba incompatibile con certi ruoli, suggerisce Abbate. E come dargli torto? Poi però gratti, e sotto il titolo e l’attacco roboante, si svela la solita storia dell’impeccabile che dispensa pagelle antimafia e di presentabilità. Una noia, insomma. Se non fosse che, al solito, c’è da valutare se Abbate abbia titolo adeguato ad alludere certe appartenenze, amicizie, e a decretare altrui presentabilità. E anche qui, pare di no. Con un rammarico in più: proprio lui, finito a suo tempo ingiustamente sui giornali, secondo un metodo sbagliato, dovrebbe capire che questo non va proposto per altri. Invece…

Lirio Abbate finì sui giornali proprio per alcuni suoi legami, fatti di “ottimi rapporti” (parole del Gip) con Antonello Montante, ex Presidente di Sicindustria, ex paladino antimafia condannato due volte per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo a sistemi informatici, in quel che la cronaca ha bollato come “Sistema Montante”. Per noi Montante è innocente (manca la pronuncia definitiva della Cassazione), ma se qui si utilizzasse il metro proposto da Abbate per (mal) giudicare gli altri, egli sarebbe messo maluccio.

Lo ha ricordato Nicola Porro nella sua “Zuppa” sui social, l’altro ieri. Porro ricordava che, avendo Abbate scritto che Chiocci era stato indagato qualche anno fa per aver favorito Massimo Carminati (condannato nel processo “Mondo di Mezzo”) rivelandogli l’esistenza dell’inchiesta, per Chiocci arrivò subito il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste (tradotto: ma di cosa parliamo? Di niente), ma che questo Abbate non lo sottolineava, se non menzionandolo solo di striscio, ed evidenziava invece la tesi di un Pm che era stata sonoramente bocciata dal giudice. Alludere, affrescare, utilizzando argomenti di qualche Pm bocciati dai giudici (dunque irrilevanti), che sport è? Giornalismo? Antipatia a mezzo stampa? O ius sputtanandi? Un metodo, questo, visto e rivisto, che se però – questa l’obiezione – Abbate applicasse a sé stesso, non lo risparmierebbe.

Eppure, dicevamo, dovrebbe egli stesso conoscere e rigettare un metodo simile, proprio lui che finì ingiustamente (perché nemmeno indagato) accostato a Montante in un’ordinanza di custodia cautelare in carcere del 2018 a firma del Gip Maria Carmela Giannazzo. In cui si parla dei continui rapporti tra Montante e Abbate. “Emerge la sussistenza di ottimi rapporti tra Montante e il giornalista Lirio Abbate, risalenti già al 2008”, scrive il Gip. Ottimi rapporti con uno condannato due volte per associazione a delinquere? “Wow…. e di che ottimi rapporti parliamo?”, si indignerebbe Abbate, se scrivesse di altri. Quelli di Abbate con Montante li mette nero su bianco appunto il Gip: colazioni a Cefalù, pranzi a Palermo, cene a Roma (a proposito di “commensali”), incontri all’hotel Bernini, gite in barca. A volte anche due appuntamenti al giorno. “Con un bi-condannato per associazione a delinquere? Ma che volgarità…” direbbe di altri Abbate, dimentico che un giudice parli invece di lui.

Tanto che persino Attilio Bolzoni, collega di Abbate, ebbe a dire, a ottobre 2019, in un’audizione alla Commissione parlamentare Antimafia: “Su di lui mi mettete in imbarazzo perché’ lo conosco da sempre… ma glielo dissi: “Secondo me hai avuto promiscuità eccessive con quello là (Montante, ndr)”. Seguì rissa di repliche e controrepliche tra i due (non bastò nemmeno che Bolzoni avesse riconosciuto al collega, in quella stessa audizione, di aver smesso di frequentare Montante, una volta quest’ultimo indagato): “Mai fatto favori a Montante né ricevuti -si piccò Abbate -. Anche Bolzoni lo incontrava ma a differenza sua io mai gli chiesi di acquistare copie di libri o finanziare film”, aggiunse. “Cito solo documenti giudiziari”, fu la replica di Bolzoni: cioè “il rapporto della Squadra mobile di Caltanissetta, in cui i nomi dei due colleghi erano inseriti in una lista di favori di Montante (e dove il sottoscritto non è nemmeno menzionato): nomi, quelli di Abbate e Ceravolo, presenti anche nell’ordinanza di custodia cautelare a firma del Gip Giannazzo del 2 maggio 2018. “Non so cosa vogliano lui e i suoi avvocati, prosegue Bolzoni: è lui a essere citato nel rapporto di 169 pagine di favori, nell’informativa di 61 pagine sui rapporti tra Montante e giornalisti, e nella richiesta di custodia cautelare che parla dei suoi ottimi rapporti con Montante. Io mai”, chiude Bolzoni, che ricorda infine come una sola volta Montante fece il suo nome, e che il sostituto procuratore di Caltanissetta, Massimo Trifirò, lo indagò per diffamazione nei suoi confronti.

Insomma, ad Abbate non è bastato nemmeno aver provato sulla sua pelle l’ingiustizia del metodo che oggi propone per altri. E siamo alle solite: a colpi di citazione di fatti decontestualizzati (e nel caso di Chiocci anche bocciati da un giudice che ha detto: “Lasciatelo stare, parliamo del nulla”) buttati lì per affrescare e alludere, si induce chi legge a pensare a torbide amicizie che colorano carriere altrui. Poi vai a vedere se chi punta il ditino ne abbia titolo, e osservi che chi dà lezioni si ritrova invece un Giudice che peraltro mette nero su bianco i suoi legami con il suo “commensale” Montante, ex paladino antimafia condannato due volte per associazione a delinquere. Per chi scrive Montante è innocente, Abbate non doveva essere tirato in mezzo, e – di più – non c’è niente di male ad avere amici che poi, autonomamente, commettano errori che eventualmente sono solo loro. Ma a usare il metro di Abbate, che qui rigettiamo in toto, i suoi rapporti sono più meno pericolosi di quelli di Chiocci e Colosimo? La solita storia: inflessibili solo con le vite altrui, assai indulgenti con sé stessi. Che noia. Andrea Ruggieri

Estratto dell'articolo di Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 27 giugno 2023. 

Si finisce sempre per rimpiangere quello che non c’è più, come se il presente non fosse mai all’altezza del passato. Seguendo i programmi televisivi, pare sia così.

Domenica, Lucia Annunziata si è accomiatata dal suo pubblico 

(...) 

Non è un mistero che non abbia mai amato la tv di Annunziata: troppo ideologica, troppo indisponente. Con alcuni ospiti si mostrava arcigna, con altri mammola. Non mi piace il suo stile di scrittura e di esposizione (ma è solo una questione di gusto, colpa mia), non mi piace quel suo essere costantemente di «lotta e di governo», dalla militanza «scatenata» (è un suo aggettivo) ai giornali più importanti, dalla direzione del Tg3 alla presidenza della Rai (dunque conosceva le logiche dello spoils system). Dopo la presidenza, è rimasta in Rai con un programma «Mezz’ora in più» e non mi è parsa una cosa molto elegante (stessa strada sarà poi seguita da Monica Maggioni). 

È direttrice responsabile di «Aspenia», la rivista di Aspen Institute Italia e per un certo periodo, ha anche diretto «Oil», una rivista dell’Eni, e l’«Huffington Post Italia» (poi ribattezzato «HuffPost Italia»). 

Ha litigato ferocemente con Silvio Berlusconi, con Michele Santoro (con il vecchio sodale ha sempre avuto ragione lei), con Renato Brunetta, con Romano Prodi. Segno di carattere, in un momento in cui molti conduttori tv (maschile sovraesteso) dimostrano di averne poco. Le avevano rinnovato il programma ma non se l’è sentita di essere una «giornalista per tutte le stagioni», e questo le fa onore. 

Per squallidi motivi di audience e per accontentare tutti, ci sono conduttori che invitano presunti analisti, portatori di tesi aberranti ma buoni per la rissa televisiva e per dibattiti incomprensibili. Lei non l’ha mai fatto. Sugli argomenti affrontati ha sempre dimostrato preparazione. Finirà che dovrò umilmente rimpiangere Lucia Annunziata.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 2 giugno 2023. 

[…] Su Fazio non c’è nulla da aggiungere ai ricordi di Santoro e a quelli di Luttazzi sul Fatto. Sull’Annunziata qualcosa c’è. Nel 1996 Prodi vince le elezioni e lei […] sale sul palco di piazza Santi Apostoli per festeggiare coi leader dell’Ulivo: tre mesi dopo è direttrice del Tg3 con la benedizione degli amici Prodi e Fini. 

Nel ’98 se ne va sbattendo la porta: “Il Tg3 è l’unica isola di socialismo reale”. Nel 2001 B. torna al potere e nel ’02 si prende la Rai, facendone cacciare Biagi, Luttazzi e Santoro. Il 7 marzo ’03 i presidenti delle Camere, Casini e Pera, nominano presidente “di garanzia” della Rai Paolo Mieli […].

Mieli pone alcune condizioni, soprattutto una: riportare in video Biagi e Santoro […]. La Casa delle Libertà risponde con una raffica di attacchi e insulti […] . Il 12 marzo Mieli rinuncia Ufficialmente il centrosinistra si chiama fuori. Ma poi, in segreto, Fassino vede Casini e gli fa il nome dell’Annunziata che, dopo una variopinta carriera dal manifesto a Repubblica al Foglio, è editorialista e “garante” del Riformista di Polito, giornale di area Ds che piace a destra. 

B. approva, FI e An plaudono. Il 13 marzo, appena Fassino, Casini e Pera la chiamano, Annunziata accetta senza neppure le minime pregiudiziali poste da Mieli […]. “Ci ho pensato un attimo – racconterà – forse meno di un attimo. Poi ho risposto: perché no?”.

Dura meno di 14 mesi, la “bresitende ti caranzìa”, senza riuscire a garantire alcunché, a parte le epurazioni permanenti (Biagi, Luttazzi e Santoro) e quelle nuove (Sabina Guzzanti, Paolo Rossi, Massimo Fini): una contro quattro quando vota contro, quinta dei cinque quando si associa a decisioni sconcertanti delle destre, come la “sospensione” (così chiama la chiusura definitiva) di RaiOt della Guzzanti e l’ispezione contro il Tg3 che ha osato riprendere e trasmettere la contestazione di Piero Ricca a B. in tribunale. Se Grasso e Gramellini hanno qualcosa da smentire, si facciano avanti. Altrimenti abbiano il buon gusto di tacere.

Estratto dell’articolo di Paolo Festuccia per “la Stampa” il 28 maggio 2023.

“Ma quale Tele-Kabul o TeleMeloni Meloni d'Italia. Ti pare, «uno con la mia storia, democristiano da una vita che conosce come pochi altri il ventre e la pancia di quest'azienda si mette a epurare qualcuno…”. 

Roberto Sergio ex grande capo della Radio pubblica è da solo pochi giorni (meno di dieci) al timone della Rai ma di fatti ne sono già accaduti tanti. È successo che Fabio Fazio dopo una vita lascia la Rai per Discovery, che Lucia Annunziata sbatte la porta e si dimette, che qualche altro big si dice pronto a fare le valige, che le nuove nomine e le decisioni importanti sono arrivate a minoranza come accadeva ai tempi di Baldassarre con il cda smart, e che per Rainews24 si accendono i riflettori della Commissione di Vigilanza.

[…] Del resto, la nuova geografia del potere a trazione meloniana chiede spazio per la sua narrativa sovranista e ha bisogno di interpreti e protagonisti originali per rappresentarla sul palcoscenico mediatico: nei talk, nelle reti ma anche e soprattutto (e qui li ha già avuti) nelle testate. 

Di certo assicura Roberto Sergio, «nessuno di noi ha voluto cancellare o ridimensionare qualcuno», spiega. «Il mio primo atto in cda è stato quello di confermare tutti i programmi: a cominciare da Cartabianca, Mezz'Ora in più e Report», spiega. 

Anzi, «con Fazio ci conosciamo dai tempi del Gioco del Lotto, una vita, dagli anni novanta, siamo amici e l'ho ringraziato». Non a caso, aggiunge, «ha annunciato la sua partenza il giorno prima che mi insediassi». 

Un segno di «attenzione» secondo lei… «Un modo per dire che questa gestione non c'entra nulla». Già, e in verità, il contratto di Fazio è stato a lungo fermo - raccontano fonti ben informate - al settimo piano sulla scrivania dell'ex Ad Carlo Fuortes. Per questo dopo critiche e accuse, più volte lo stesso Roberto Sergio sfogandosi con i suoi diceva «ma cosa c'entro io, cosa c'entriamo noi…».

[…]  Naturalmente, la commissione di Vigilanza poi valuterà la correttezza di Rainews24 per il comizio in diretta del centrodestra da Catania ma di certo, pare puntualizzare il capo azienda di viale Mazzini, «nel mio compito non c'è l'indicazione, né la richiesta di censurare qualcosa o qualcuno». Massima collegialità, insomma, pluralismo. 

[…]  Chi sostituirà Fazio, chi condurrà "In Mezz'ora" al posto di Lucia Annunziata? «Presto, ancora troppo presto per conferme o smentire ma siamo al lavoro». «Per mia fortuna – spiega Roberto Sergio – conosco perfettamente l'azienda e conosco anche tutti i molteplici aspetti che la contraddistinguono, così come conosco pregi e difetti dei professionisti che ci lavorano […]».

Un segnale questo a professionisti interni come Manuela Moreno o Annalisa Bruchi, che non esclude però l'arrivo di nuovi innesti esterni con il ritorno (ma non subito) forse da gennaio di Massimo Giletti orfano ormai di una rete e di un programma. Per queste ragioni, ma non solo, assicura Roberto Sergio: «Faccio ripartire il comitato editoriale […] composto da me, il direttore generale e tutti i direttori di genere in questa azienda era sparito, ora torna la collegialità». […]

«[…] Ora, non posso preoccuparmi anche per quelli che nessuno pensava di rimuovere ma che hanno scelto di lasciare l'azienda perché dicono di sentirsi minacciati, ma da chi…Il mio obiettivo sono rilancio dell'azienda, ascolti, mercato. Non sono qui per togliere ma aggiungere». […]

"Fazio e Annunziata? Se ne sono andati perché "hanno mercato..." Claudio Velardi, spin doctor ed ex braccio destro di Massimo D'Alema, commenta le recenti polemiche che hanno investito la Rai. Francesco Curridori il 28 Maggio 2023 su Il Giornale.

"È tutto normale e giusto perché penso che il mercato sia il miglior regolatore delle vicende umane". Claudio Velardi, spin doctor e braccio destro di Massimo D'Alema per la seconda metà degli anni '90, commenta così le polemiche sorte dopo l'addio di Fabio Fazio e Lucia Annunziata dalla tivù pubblica.

Fazio e la Annunziata, quindi, hanno fatto solo una scelta professionale?

“Il caso di Fazio è nato semplicemente perché ‘ha mercato’, nel senso che lui ha avuto da Discovery un’offerta che gli è piaciuta e ha deciso di accettare. Fine. Anche le dimissioni dell’Annunziata, al di là degli aspetti politici che secondo me sono secondari, riguardano il fatto che lei è una professionista che ritiene di poter far bene anche altrove. Non credo che lei non sia attenzionata. Anzi, è una professionista sufficientemente brava e capace da conquistarsi uno spazio nel mercato dell’informazione. Le dichiarazioni che hanno fatto sono quelle che devono dare, ma se entrambi pensassero di restare disoccupati, non le avrebbero fatte. Il vero problema è la Rai, carrozzone vecchio e in crisi di bilanci e ascolti, che non riesce a trattenere quelli bravi”.

Per quanto riguarda le nomine, invece, si è parlato di lottizzazione e di occupazione della Rai da parte della destra…

“Ma la Rai è lottizzata per definizione perché è un servizio pubblico che dipende dai partiti e dagli equilibri politici. È un ente para-statale in cui i partiti pensano di poter occupare delle caselle, ma sono solo illusioni perché i giornalisti che oggi si piazzano delle pecette sostenendo di appartenere, di volta in volta, ai Cinquestelle oppure a Fratelli d’Italia, se ne infischiano delle appartenenze e delle ideologie. Sono giornalisti che vogliono far carriera e si appiccicano un’etichetta, ma lo hanno già fatto altre 10 volte in passato con partiti di diverso orientamento. I poveracci che devono essere appaltati ai partiti sono dei giornalisti un po’ di serie B. Quelli che, invece, possono consentirsi di non essere appaltati a nessuno sono coloro che hanno un mercato. Tutto dipende da questo: chi ha mercato e chi no”.

PD e M5S hanno chiesto al direttore di Rainews di venire a riferire in commissione di Vigilanza Rai dopo che è stato trasmesso un comizio della Meloni. Ma con Draghi e Conte non vi era situazione analoga?

“Sì, queste cose, grosso modo, sono sempre successe. Non c’è nulla di nuovo. Il punto di fondo è che la commissione di vigilanza andrebbe sciolta. Su cosa vigila? Su quanto è presente un partito dentro la Rai? È un meccanismo grottesco che dipende dal fatto che la Rai è emanazione dei partiti”.

Il centrosinistra ha chiesto che Luca Barbareschi non vada in onda col suo programma per le sue frasi sessiste. Non si tratta di un caso di censura?

“Barbareschi è sempre abituato a queste uscite sopra le righe. Il suo pensiero non è omologabile. Se fa un’uscita del genere e, poi, viene imbeccato da qualcuno, essendo uomo di spettacolo e comunicazione, lui rincara la dose perché sa che, in questo modo, tutto fa più notizia”.

Anche Miss Italia è stata presa di mira in quanto sessista…

“Il concorso di bellezza mi pare un fenomeno molto vecchio e provinciale. Il principio però è un altro: se questi programmi fanno ascolti e la Rai acquisisce pubblicità con la quale pagare un po’ dell’enorme debito che ha accumulato e che paghiamo noi cittadini non c’è problema. Se è così, teniamoci pure il concorso di bellezza tanto io non lo guardo… La Rai trasmette tanti programmi solo per fare soldi oppure pensiamo ancora veramente che debba svolgere un ruolo pedagogico ed educativo?”

Dagonews il 28 maggio 2023.

Lucia Annunziata, durante il suo intervento a “Libri Come” a Roma lo scorso marzo, prova a spiegare perché l’editore di riferimento di viale Mazzini resta sempre il governo di turno. “La Rai è la voce dello Stato (almeno questa è l’illusione che hanno tutti) e un modo molto economico di costruire una propria narrativa. Invece di metterti nelle mani di una società americana che ti dice come vestire e parlare, hai un’azienda che se riesci a controllare con i tuoi uomini e donne può aiutarti da Palazzo Chigi a costruire un rapporto con il Paese…”

La giornalista, che nel suo intervento non aveva escluso l'addio a Viale Mazzini, aggiunge: “Io non sono mai stata assunta, anche quando sono stata Presidente della Rai avevo un contratto ‘co co pro’. Quando ho fatto il direttore del Tg3 ho avuto un contratto a termine di 3 anni.”

Estratto dell’articolo di Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 26 maggio 2023.

L’aveva detto (a pochi amici). Lo ha fatto (in pochi minuti). Lucia Annunziata concede il bis, lasciando un’altra volta la Rai: dimissioni irrevocabili. Un gesto che […] è un pugno nello stomaco della nuova gestione. Una gestione di cui la giornalista mette in discussione metodi e contenuti, a partire dalle «modalità d’intervento». 

E qui bisogna capirsi. Il nuovo corso meloniano in pochi giorni ha prodotto, come si è detto, un vero e proprio ribaltone. Le maggiori direzioni di genere e le testate più importanti sono passate all’alleanza di governo. Ad Annunziata, già presidente della Rai e direttrice del Tg3, sembra sufficiente per considerare irrespirabile il nuovo clima […]. Dopodiché nelle parole con cui si congeda c’è traccia di qualcosa in più: «Non intendo avviarmi sulla strada di una permanente conflittualità interna sul lavoro».

Da giorni Annunziata andava ripetendo ai propri collaboratori: «Non sono donna per tutte le stagioni. Se non ci sono le condizioni, me ne vado». Un allarme che era apparso ingiustificato quando lo scorso cda aveva confermato il programma anche per l’autunno. Ma la conduttrice non si sentiva più sicura, preconizzava possibili cambi della squadra autorale imposti dall’alto, immaginava tagli alla redazione, temeva spacchettamenti del programma che avrebbe dovuto condividere con qualche new entry.

[…] La giornalista negli ultimi giorni appariva insofferente: «Non sopporto gli attacchi personali, le campagne mediatiche, i killeraggi a mezzo stampa - si lamentava -: non hanno nemmeno il coraggio di affrontarmi direttamente». 

La notizia circolata pochi giorni fa di una sua candidatura alle Europee del 2024, per scelta della segretaria del Pd Elly Schlein, l’aveva fatta infuriare: «Se così fosse mi converrebbe restare qui in Rai e farmi una bella campagna elettorale fino al 2024, no? E invece io voglio andarmene», argomentava indignata.

Perché poi, alla base delle decisioni di Annunziata, c’è sempre “il fattore Annunziata”: un riflesso condizionato che si attiva di fronte a certi passaggi stretti e produce gesti clamorosi, rotture, furori, porte sbattute, risposte a muso duro. Salvo ripensamenti. Così la giornalista non è nuova agli addii rumorosi, che sono stati periodici: nel ‘96 si dimette (per sette ore) dalla direzione del TgTre, nel 2004 dalla presidenza della Rai, nel 2011 dalla conduzione di “In mezz’ora” (dimissioni ritirate).

[…] Che succede adesso? La trasmissione dovrebbe andare in onda fino a fine giugno, e Annunziata rispetterà l’impegno. Poi c’è la ripresa in autunno: il programma è stato confermato. Per sostituirla si fanno già i nomi di Serena Bortone e Luisella Costamagna. Sempre che non si cambi genere di programma. Quanto al futuro di Annunziata, al momento non prevederebbe altri impegni: «Se vado, lo faccio senza rete» ha sempre assicurato. Ma questa è un’altra storia.

(ANSA il 25 maggio 2023) - "Arrivo a questa scelta senza nessuna lamentela personale: giudicherete voi, ora che ne avete la responsabilità, il lavoro che ho fatto in questi anni". 

Lo scrive Lucia Annunziata nella lettera inviata ai vertici della Rai, in cui annuncia le "dimissioni irrevocabili". 

"Vi arrivo perché non condivido nulla dell'operato dell'attuale governo, né sui contenuti, né sui metodi - aggiunge -. In particolare non condivido le modalità dell'intervento sulla Rai. Riconoscere questa distanza è da parte mia un atto di serietà nei confronti dell'azienda che vi apprestare a governare. Non ci sono le condizioni per una collaborazione dunque".

Estratto da repubblica.it il 25 maggio 2023. 

Lucia Annunziata si è dimessa dalla Rai e lascia quindi la conduzione della trasmissione Mezz'ora in più, che occupa la striscia pomeridiana della domenica su Rai3. La notizia arriva nel giorno in cui il cda si è spaccato ma ha approvato a maggioranza le nuove nomine per le testate e i generi. [...] 

Annunziata, che ha 72 anni, nel 2005 ha lanciato su Rai3 la trasmissione In mezz'ora, che poi nel 2021 si è trasformata in Mezz'ora in più. 

Secondo quanto trapelato, nei piani del nuovo amministratore delegato Roberto Sergio la trasmissione è comunque confermata anche per il prossimo autunno. A questo punto, a meno che la decisione di Annunziata non cambi lo scenario, ci sarà da individuare una nuova conduzione.

La giornalista, dopo le dimissioni dalla Rai, è a Trento per il Festival dell'Economia. Nino Luca, inviato a Trento CorriereTv su Il Corriere della Sera il 25 Maggio 2023

La conduttrice di «Mezz’Ora in più» Lucia Annunziata ha comunicato il 25 marzo le «dimissioni irrevocabili» con una mail all’ad Roberto Sergio, esplicitando il disagio nella nuova Rai «meloniana» e lasciando trapelare il timore di incursioni sul suo programma sia in termini di autori e redazione, sia in termini di spostamento nel palinsesto. Il ministro della Difesa Guido Crosetto: «Mi spiace che lasci, non sapevo fosse una dipendente della Rai»

Lucia Annunziata e le dimissioni dalla Rai: la riunione di redazione annullata, poi l'annuncio. Antonella Baccaro su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2023

Al suo posto spuntano le ipotesi di Luisella Costamagna e Serena Bortone. «L'ho già fatto, lo rifarò», diceva ai collaboratori facendo riferimento alle sue precedenti dimissioni negli anni passati 

L’aveva detto (a pochi amici). Lo ha fatto (in pochi minuti). Lucia Annunziata concede il bis, lasciando un’altra volta la Rai: dimissioni irrevocabili. Un gesto che, nel giorno delle nomine che rivoluzionano gli equilibri politici dell’azienda, è un pugno nello stomaco della nuova gestione. Una gestione di cui la giornalista mette in discussione metodi e contenuti, a partire dalle «modalità d’intervento». E qui bisogna capirsi. Il nuovo corso meloniano in pochi giorni ha prodotto, come si è detto, un vero e proprio ribaltone. Le maggiori direzioni di genere e le testate più importanti sono passate all’alleanza di governo.

Ad Annunziata, già presidente della Rai e direttrice del Tg3, sembra sufficiente per considerare irrespirabile il nuovo clima: «Riconoscere questa distanza - dice - è da parte mia un atto di serietà». Tradotto: «Non sarò la vostra foglia di fico».

Dopodiché nelle parole con cui si congeda c’è traccia di qualcosa in più: «Non intendo avviarmi sulla strada di una permanente conflittualità interna sul lavoro». Da giorni Annunziata andava ripetendo ai propri collaboratori: «Non sono donna per tutte le stagioni. Se non ci sono le condizioni, me ne vado». Un allarme che era apparso ingiustificato quando lo scorso cda aveva confermato il programma anche per l’autunno. Ma la conduttrice non si sentiva più sicura, preconizzava possibili cambi della squadra autorale imposti dall’alto, immaginava tagli alla redazione, temeva spacchettamenti del programma che avrebbe dovuto condividere con qualche new entry.

Che Annunziata avesse solo sentore di qualcosa che stava per arrivare o ne avesse elementi, non è possibile saperlo. Certo il clima nelle redazioni in queste settimane è cambiato e l’attesa di capire cosa succederà ai palinsesti autunnali, che saranno presentati il 7 luglio, è lunga e genera ogni giorno fantasmi, soprattutto nei tanti contrattualizzati a termine che spesso costituiscono l’ossatura delle redazioni.

La giornalista negli ultimi giorni appariva insofferente: «Non sopporto gli attacchi personali, le campagne mediatiche, i killeraggi a mezzo stampa - si lamentava -:  non hanno nemmeno il coraggio di affrontarmi direttamente». La notizia circolata pochi giorni fa di una sua candidatura alle Europee del 2024, per scelta della segretaria del Pd Elly Schlein, l’aveva fatta infuriare: «Se così fosse mi converrebbe restare qui in Rai e farmi una bella campagna elettorale fino al 2024, no? E invece io voglio andarmene», argomentava indignata.

Perché poi, alla base delle decisioni di Annunziata, c’è sempre “il fattore Annunziata”: un riflesso condizionato che si attiva di fronte a certi passaggi stretti e produce gesti clamorosi, rotture, furori, porte sbattute, risposte a muso duro. Salvo ripensamenti. Così la giornalista non è nuova agli addii rumorosi, che sono stati periodici: nel ‘96 si dimette (per sette ore) dalla direzione del TgTre, nel 2004 dalla presidenza della Rai, nel 2011 dalla conduzione di “In mezz’ora” (dimissioni ritirate). «L’ho già fatto, lo rifarò», diceva ai collaboratori in questi giorni con una certa aria di sfida. Gli stessi collaboratori che ieri mattina si sono visti disdire la riunione del mattino all’improvviso, poco prima dell’annuncio delle dimissioni.

Che succede adesso? La trasmissione dovrebbe andare in onda fino a fine giugno, e Annunziata rispetterà l’impegno. Poi c’è la ripresa in autunno: il programma è stato confermato. Per sostituirla si fanno già i nomi di Serena Bortone e Luisella Costamagna. Sempre che non si cambi genere di programma. Quanto al futuro di Annunziata, al momento non prevederebbe altri impegni: «Se vado, lo faccio senza rete» ha sempre assicurato. Ma questa è un’altra storia.

Non condivido nulla dell’operato del nuovo Governo”. Lucia Annunziata lascia la Rai. La giornalista di Mezz'ora in più volto storico del servizio pubblico lascia in contrasto con “le modalità dell'intervento sulla Rai. Il mio è un atto di serietà". Simone Alliva su La Repubblica il 25 Maggio 2023

Un rumorio di voci e malumori, infine il colpo a sorpresa: Lucia Annunziata se ne va. La più popolare delle giornaliste televisive lascia la Rai: «Vi scrivo per comunicare le mie dimissioni. Dimissioni irrevocabili». Comincia così la lettera, anticipata dall’Ansa e inviata ai vertici Rai dalla conduttrice di Mezz’ora in più. 

«Arrivo a questa scelta senza nessuna lamentela personale - prosegue -: giudicherete voi, ora che ne avete la responsabilità, il lavoro che ho fatto in questi anni. Vi arrivo perché non condivido nulla dell'operato dell'attuale governo, né sui contenuti, né sui metodi - aggiunge -. In particolare non condivido le modalità dell'intervento sulla Rai. Riconoscere questa distanza è da parte mia un atto di serietà nei confronti dell'azienda che vi apprestate a governare. Non ci sono le condizioni per una collaborazione dunque. E d'altra parte non intendo avviarmi sulla strada di una permanente conflittualità interna sul lavoro. Spero che queste righe vengano accolte con la stessa serietà da parte vostra. In attesa di indicazioni su se e come concludere la stagione in corso (sul calendario è fine giugno), vi auguro buon lavoro».

Un addio, quello dell’ex Presidente Rai, che non lascia indifferenti i telespettatori e il mondo politico. Il primo commento arriva dal capogruppo del Partito Democratico in commissione di Vigilanza Rai, Stefano Graziano.

«L’arrivo della destra al governo ha prodotto lo smantellamento di Rai 3. Questo è il frutto di una modalità di gestione del potere che vive con l’ossessione di occupare ogni spazio disponibile e che non si pone il problema del futuro del servizio pubblico televisivo. La Rai, dopo gli addii di due professionisti del calibro di Fabio Fazio e Lucia Annunziata, è un prodotto culturale ancora più debole e politicamente più allineato». Segue il dem Gianni Cuperlo: 

«Adesso il governo e i nuovi potenti del servizio pubblico radiotelevisivo avranno di che rallegrarsi: una poltrona in più a loro disposizione. Resta solo da capire se questo sia un governo degno della qualifica e cosa rimanga (pro tempore) del servizio pubblico radiotelevisivo».

L’annuncio di Lucia Annunziata, arriva poco dopo il via libera del Consiglio di amministrazione della Rai, con un voto a maggioranza, del 'pacchetto' di nomine a direzioni di testate e generi proposto dall'amministratore delegato, Roberto Sergio. A Gian Marco Chiocci la direzione del Tg1, ad Antonio Preziosi al Tg2, a Francesco Pionati al Gr e Jacopo Volpi a Rai Sport. Confermato Mario Orfeo alla guida del Tg3. I voti favorevoli, sufficienti per il via libera, sono stati dunque, oltre a quello dello stesso Sergio, quelli di Simona Agnes e di Igor De Biasio. A votare contro invece, il presidente, Marinella Soldi, con i consiglieri Francesca Bria e Riccardo Laganà, rappresentante eletto dai dipendenti. Si è astenuto Alessandro Di Majo.

Rai, Lucia Annunziata gioca a fare la martire. Anziché fare la sceneggiata, avrebbe potuto tenersi la trasmissione e continuare a dire la sua, come ha sempre fatto. Invece ha preferito fare la martire. Come Fazio. Andrea Indini il 25 Maggio 2023 su il Giornale.

Della serie: mi si nota di più se continuo a fare il mio lavoro oppure se sbatto i pugni sul tavolo e me ne vado via urlando e sbraitando? O peggio ancora: incasso di più se rimango nell'azienda che mi dà da campare dal 1995 oppure se faccio la martire gettando fango su un governo che, tra parentesi, non mi ha fatto mai nulla di male? In Rai, di questi tempi, il dubbio "morettiano" non si pone nemmeno. Fabio Fazio glielo ha insegnato. Meglio calare l'asso delle dimissioni. Per il resto, poi, ci pensa la sinistra a far partire il processo di beatificazione. E così anche Lucia Annunziata ha fatto gli scatoloni e se ne è andata. "Dimissioni irrevocabili", ha scritto nella lettera inviata all'ad Roberto Sergio. "Vi arrivo perché non condivido nulla dell'operato dell'attuale governo, né sui contenuti né sui metodi - ha spiegato - in particolare non condivido le modalità dell'intervento della Rai".

Che esista lo spoil system è noto dalla notte dei tempi. È così ovunque, in tutti i vertici delle aziende statali. Figuriamoci a viale Mazzini dove direttori, amministratori delegati e presidenti cambiano a seconda delle lune della politica. Piaccia o no, è sempre stato così e così sarà per sempre. La Annunziata lo sa benissimo. E non solo perché quei corridoi li conosce da ventotto anni (ventotto!) ma anche perché, proprio grazie a quest'alternanza, riuscì a ottenere in passato una di quelle nomine che oggi la infastidiscono tanto. Era l'8 agosto 1996, al potere era salito (da pochi mesi) il primo governo guidato da Romano Prodi, e lei otteneva lo scranno più alto del Tg3. In tutti questi anni è sempre stata libera di dire (e fare) tutto quello che voleva, anche quando a Palazzo Chigi sedevano presidenti del Consiglio che le facevano storcere il naso. Anzi, fu proprio mentre uno di questi era premier, che arrivò alla presidenza della Rai. Era il 13 marzo 2003 e a capitanare l'esecutivo c'era Silvio Berlusconi.

Difficile credere, dunque, alle parole che oggi leggiamo nella lettera che ha inviato a Sergio. "Non ci sono le condizioni per una collaborazione", ha scritto. "Non intendo avviarmi sulla strada di una permanente conflittualità interna sul lavoro". E così se ne è andata. Con un tempismo perfetto. Esattamente come Fazio ha deciso di annunciare il proprio addio mentre venivano stabiliti i nuovi vertici dell'azienda, la Annunziata ha fatto le valigie subito dopo la nomina dei nuovi direttori di rete. Manco i due si fossero messi d'accordo. Di lui si è subito saputo il futuro, alla Nove con un contratto quadriennale molto più remunerativo. Di lei, invece, nulla è dato sapere. Anche se i maligni, viste anche le indiscrezioni degli ultimi giorni, la danno in pole position per una candidatura alle prossime elezioni europee. Ovviamente con la benedizione di Elly Schlein.

Ma non fantastichiamo. Restiamo ai fatti. E i fatti sono che, anziché fare la sceneggiata madre, la Annunziata avrebbe potuto benissimo tenersi Mezz'ora in più e continuare a dire la sua come ha sempre fatto. E invece ha preferito giocare a fare la martire (esattamente come Fazio) con la benedizione del Partito democratico e di tutta la sinistra chic ormai a corto di santi a cui votarsi.

Rai, Gasparri sorpreso da Annunziata: ora attendiamo un altro ritorno e le terze dimissioni. Il Tempo il 25 maggio 2023

Maurizio Gasparri usa l’ironia per commentare le dimissioni irrevocabili di Lucia Annunziata dalla Rai. Il senatore di Forza Italia, che è anche componente della Commissione di Vigilanza Rai, ha manifestato tutto il proprio stupore per la decisione della conduttrice di Mezz’ora in Più: “Mi sorprende questa decisione di Lucia Annunziata. Del resto si era già dimessa molti anni fa da presidente della Rai e poi è tornata in azienda. Siamo quindi alle seconde dimissioni. Frutto di sua autonoma scelta. Quindi attendiamo il suo secondo ritorno e poi casomai le terze dimissioni. Non c'è due senza tre. E comunque Annunziata, fiera militante della sinistra, ricorderà quello che disse Togliatti quando Elio Vittorini, importante intellettuale, lasciò il PCI. L'allora leader dei comunisti disse ‘Vittorini se n'è ghiuto, e soli ci ha lasciato’. Usò un'espressione in dialetto per dire che il mondo va avanti. E quindi varrà anche in questa occasione il detto di Togliatti. Se citiamo Togliatti - chiede ironicamente Gasparri - siamo nel politicamente corretto, no?”.

Due, tre, cento badesse Lucia Annunziata.  Giuliano Ferrara su Panorama il 25 Maggio 2023

Come Eravamo Nel giorno delle dimissioni di Lucia Annunziata che abbandona Viale Mazzini in pieno contrasto con il governo Meloni, riproponiamo un'analisi a firma di Giuliano Ferrara

Da Panorama del 12 febbraio 2004. Onore a Lucia Annunziata, la Badessa della Rai di garanzia. La presidente inquieta, insieme inciuciona e militante, è un personaggio assai simpatico. Non è come il professor Nicola Tranfaglia, che si lamenta per mancate recensioni di un suo libro e molla irosamente il partito che ha dolcemente cullato finora le sue ambizioni. Non è come il professor Gianni Vattimo, che cambia lista come si cambiano le mutandine perché si sente votato al seggio, e fortissimamente lo vuole, e dice che se uno vuole vincere le elezioni deve andare con Silvio Berlusconi, ché lui a sinistra ci sta per perderle (citazione letterale di una intervista a Maria Latella del Corriere della sera). Non è come Michele Santoro, che fu allontanato dalla Rai dell'Ulivo e, invece di protestare per la censura, chiese ospitalità (a pagamento) alla Mediaset, dove si comportò da bravo ragazzo, si fece coccolare e coccolò il nuovo padroncino per un paio d'anni, aspettando il ritorno in Rai per ridiventare un angelo sterminatore di avversari politici in campagna elettorale. Ora Santoro definisce questa deliziosa Lucy uscita dai Peanuts come una «figurante», e la denuncia al tribunale dei girotondi, ma lui sa bene che cosa sia il ruolo di figurante: lo testimoniano due memorabili trasmissioni in ginocchio, alla Mediaset, con ospiti d'onore Dell'Utri e Previti. Meglio perfino un Gilligan, per ricordare il giornalista investigativo che voleva sbugiardare Tony Blair ed è finito sbugiardato.

La Badessa è di un'altra pasta. Lucia Annunziata ha fatto e disfatto la sua vita professionale più volte, è una giornalista che entra ed esce dai giornali (Manifesto, Repubblica, Corriere), che conosce le dimissioni quando al Tg3 i compagni della parrocchia sindacale le impediscono di lavorare, è una che fa politica all'aria aperta, ama il mondo ed è sempre in virtuale o effettiva partenza per uno scenario di guerra, ha la sfrontatezza e il gusto avventuroso della militanza, dunque conosce il fair play, e addirittura sa mescolare affidabilità inciuciona (quella che le è servita per diventare presidente di garanzia su indicazione del regime berlusconiano) e orgoglio da figlia di ferroviere Cgil, da figlia del Sud cariato della piana di Sarno e della sua sublime retorica. Naturalmente fa un po' ridere denunciare la presunta telefonata di Berlusconi, che non è proprio un periodo ipotetico della surrealtà ma nemmeno un documento d'accusa, per condizionare il consiglio d'amministrazione della Rai. Ma fa niente. La Badessa è una trascinatrice nata, cerca il martirio politico, ma quello degli altri, e se ne sta attaccata alla presidenza di garanzia, dimenandosi come una Erinni e mettendosi contro tutto e tutti, poi giocando maliziosamente con tutti, finché Maurizio Gasparri e la sua legge non soccombano. Nella noiosa politica italiana, date retta, bisogna cercare i caratteri, non le coerenze istituzionali, che non esistono. E il carattere di Lucia la porta a essere invisa alla compagnia di giro dei censurati e dei rovinati da Berlusconi, i mestieranti grigi e avidi della lotta contro la Grande Figurante; la Rai per lei è una fabbrica in cui si lotta alla vecchia maniera dei buoni sindacalisti e dei capipopolo meridionali. Prima di tutto ci si fa alzare lo stipendio. Poi si conoscono i propri diritti e li si fa valere. Poi li si esercita con cautela ma non senza coraggio, anche in solitario se necessario. Lucia è furba, furbissima. Qualche volta inciampa sulla sua furbizia, come quando ha scritto un libro per dire no alla guerra in Iraq, puro esercizio di posizionamento nella sinistra pacifista, essendo lei da sempre convinta, da brava filoamericana, che quella guerra s'aveva da fare. Ma tutto è perdonabile in Lucia Annunziata, appunto per via del carattere. E la destra di governo, per quel che ne resta, farebbe malissimo a prenderla per le corna, perché la signora Badessa ha le corna infrangibili, e sa usarle contro i picadores che la molestano. La presidente di garanzia è la dimostrazione vivente del fatto che il regime è di burro, che ha una sua mitezza non giacobina, che è una nomenclatura aperta mascherata da autocrazia mediatica, e per questo i veri nemici della presidentissima stanno a sinistra, e la destra se è furba anche lei questo dovrebbe saperlo. Lucia, come tutti i militanti seri della politica, ha due linguaggi: urla e strepita, ma poi negozia, e più urla più negozia. Non riporta Santoro al suo ruolo di pm televisivo, così male esercitato in passato, sebbene questo le costi in termini di immagine nella sua constituency, nel suo amato pubblico antiberlusconiano, ma lei dell'immagine se ne impipa. Non blocca la Rai, non fa battaglie che non siano ad alto rendimento, e concilia la tutela dell'azienda, per quel che resta da tutelare, con l'incalzante opposizione di garanzia. Due, tre, cento Badesse: questo dovrebbero augurarsi gli amministratori del regime mediatico buonanima. E tutti noi dobbiamo stare tranquilli, perché l'unica alternativa al caos in Rai è una finta presa di potere del regime compensata, come è sempre avvenuto dai tempi della fondazione di Raitre e della sua cessione in eterno comodato alla sinistra, dalla tangibile egemonia della tv «de sinistra».

Annunziata sbotta con Roccella: «Avete la responsabilità di fare queste leggi, c...o». Poi le scuse in diretta

Il Corriere della Sera il 19 marzo 2023

La conduttrice di 'Mezz'ora in più' perde la calma discutendo con la ministra. Poi si scusa. CorriereTv

(LaPresse) «La politica serve anche a costruire un modello per il futuro, allora si tratta di decidere se la maternità e la paternità sono una questione di mercato. Abbiamo delle soluzioni, ma il problema è se accettiamo o no il mercato dei bambini».

Così la ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia, Eugenia Roccella, ospite a Mezz'Ora in Più su Rai3. Sul tema legato alla maternità surrogata, e alla chiusura da parte del governo alla trascrizione dei figli delle famiglie omosessuali, la conduttrice Lucia Annunziata ha poi perso per un attimo la calma rivolgendosi così alla ministra in studio: «Voi avete la responsabilità di farle queste leggi, ca...».

Subito dopo la giornalista si è scusata, anche con gli spettatori, "per questo sgarro linguistico", mentre Roccella ha concluso: «Noi adesso faremo una legge, perché l'utero in affitto non è realmente perseguito nel nostro Paese». 

"E fatele queste leggi, c...o". Annunziata senza freni e la parolaccia in diretta. La conduttrice di "Mezz'ora in più" va su tutte le furie quando il ministro Roccella parla di "umanesimo" nel contesto del dibattito sulla maternità surrogata. Lorenzo Grossi il 19 Marzo 2023 su Il Giornale.

"Assumetevi la responsabilità di fare queste leggi", poi l'aggiunta di un'esclamazione colorita. Lucia Annunziata non è proprio riuscita a controllarsi nel finale dell'intervista a Eugenia Roccella, ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità nel governo Meloni. Il contesto del botta e risposta, dal quale è poi scaturita la frase infelice della conduttrice, era la discussione sul tema della maternità surrogata e la chiusura da parte del governo alla trascrizione dei figli delle famiglie omosessuali. Un argomento che ha riguardato tutta la prima parte della trasmissione "Mezz'ora in più", su Rai3.

Annunziata si fa prendere dal dibattito

Già all'inizio dei trenta minuti circa di faccia a faccia tra l'Annunziata e la Roccella si intuisce che il clima in studio rischia di diventare parecchio incandescente. La giornalista tv tenta più volte di mettere in difficoltà il ministro sul recente provvedimento in Parlamento che ha visto il divieto di trascrizione dei figli delle famiglie omosessuali. Roccella, tuttavia, non si scompone sottolinea come il punto da affrontare, rispetto alle coppie gay, sia quello della maternità surrogata.

"Gruppettara di destra...". L'attacco della Annunziata alla Meloni

"La Cassazione ha spietato che c'è un percorso per il riconoscimento dei figli". Come quello "dell'adozione, che viene utilizzato normalmente da una madre single, che si sposa e deve comunque – se vuole che il compagno riconosca il figlio - passare da questo percorso, quindi non è qualcosa contro gli omosessuali". Quando l'intervista sembra ormai volgere verso la conclusione, un rapido botta e risposta tra le due fa andare su tutte le furie l'Annunziata: "Il tempo spiegherà la politica meglio di lei e me", sostiene quest'ultima. Roccella replica: "Io spero che il tempo manterrà queste caratteristiche di umanità e umanesimo".

Apriti cielo. "Perché chi sgarra dall'idea che la famiglia non è composta da una mamma e un papà non fa parte dell'umanità e dell'umanesimo?", è la domanda stizzita della presentatrice. Il ministro spiega: "Io intendo l'umanesimo nel senso proprio dell'esperienza umana che tutti abbiamo vissuto e che va conservata". E qua si arriva al culmine del confronto. Lucia Annunziata sbotta infatti definitivamente: "Questo si può fare - perché è un grande dibattito - senza necessariamente e surrettiziamente chiudere in commissione politiche europee del Senato una cosa per arrivare alla proibizione della trascrizione dei certificati di nascita esteri di bambini già nati e vietare la maternità surrogata. Prendete la responsabilità di fare queste leggi, cazzo!". In un nanosecondo la conduttrice si rende perfettamente conto di avere premuto troppo sull'acceleratore e chiede immediatamente scusa per il turpiloquio: sia al ministro sia ai telespettatori. Ma ormai la frittata è fatta.

Parolacce, gaffe e insulti: ecco tutti gli scivoloni dell'Annunziata. La conduttrice di Rai3 ha spesso dimostrato un'insofferenza con diversi suoi interlocutori (che non sono mai stati, guarda caso, di sinistra), cascando nel corso degli anni in molte figuracce. Lorenzo Grossi il 20 Marzo 2023 su Il Giornale.

Non ha fatto esattamente una bella figura Lucia Annunziata nell'intervista al ministro Eugenia Roccella. Quella sua parolaccia arrivata al culmine di un'accesa discussone avvenuta durante l'ultima puntata della trasmissione "Mezz'ora in più", in onda su Rai3 sul tema della maternità surrogata. La giornalista Rai ha dimostrato tutta la propria arroganza sferrando ripetuti colpi nei confronti del ministro della Famiglia, della Natalità e delle Pari opportunità, che stava semplicemente esponendo le proprie posizioni riguardo a quali politiche adottare sui figli delle coppie omosessuali. Perché, al di là dell'uso del turpiloquio ("Fatele queste leggi, cazzo!"), è soprattutto la tracotanza ad avere fatto sì che l'Annunziata collezionasse una serie di gaffe inenarrabili nel corso degli anni: nessuna di queste però, guarda caso, ha mai coinvolto un solo politico di sinistra. Con quella di ieri pomeriggio si possono contare almeno dieci suoi importanti scivoloni in tv.

Il 'maglioncino' di Salvini

"Sono state scritte parole e parole sul fatto che lei ha cambiato look, ci spiega perché si è messo un coglioncino… ehm… un maglioncino a collo alto prima di andare via?". Il lapsus di Lucia Annunziata nel corso dell'intervista con Matteo Salvini non passò di certo inosservato dicembre 2019. La giornalista si soffermò infatti sul maglioncino nero del leader della Lega scivolando però linguisticamente in maniera clamorosa. Lo stesso Salvini cercò, ai tempi, di stemperare subito le polemiche con un tweet: "Di fronte al coglioncino di Lucia Annunziata (può capitare!) ho cercato di rimanere impassibile! Comunque orgoglioso del mio...... maglioncino".

Renzi diventa "coso"

"La prossima domenica avremo l'ultima puntata degli speciali elettorali. Dovrebbero venire il Pd, Forza Italia e poi c'è la terza lista, che è la lista del centro, di Calenda e... coso", affermò Lucia Annunziata nel settembre 2022, senza nemmeno sforzarsi di ricordare quel nome così difficile (a quanto pare) da tenere a mente. Eppure il soggetto dimenticato dalla giornalista era Matteo Renzi, che era stato "solamente" presidente del Consiglio e segretario del Partito Democratico. Il dettaglio spiazzante è che la conduttrice salernitana non si fosse successivamente ingegnata per ricordare quel nome o comunque per utilizzare un'espressione meno imprecisa.

Il fuorionda sulle donne ucraine

Nel primo giorno della guerra in Ucraina (24 febbraio 2022) l'allora segretario del Pd, Enrico Letta, partecipò a un presidio organizzato all'esterno dell'ambasciata russa a Roma e dichiara:"Qui in Italia in questo momento il pensiero va alla comunità ucraina fatta di centinaia di migliaia di persone che si sono integrate nel nostro Paese". A questo punto, ospite in studio per uno speciale del Tg3, Annunziata si lasciò andare a delle parole che lasciarono sgomenti, convinta di non essere sentita. Termini che coprirono parzialmente il discorso del segretario dem: "Eh sì, tutte badanti, camerieri e amanti".

La famiglia del vicesindaco di Mariupol

A proposito di guerra in Ucraina, non fu da meno la gaffe con Sergey Orlov, vicesindaco di Mariupol, un mese e mezzo dopo quella sulle donne ucraine. "Abbiamo scoperto che la sua famiglia si è rifugiata in Italia, Lei ha due figlie e una moglie, no?", chiede l'Annunziata durante una puntata del suo programma. "No, non riguarda me" - ha risposto il vicesindaco con un po' di imbarazzo - "mia moglie e i miei figli sono in Ucraina, mentre i miei genitori non hanno dato informazioni, ma so che sono vivi e che sono anche loro in Ucraina". "Va bene, abbiamo avuto un'informazione sbagliata", ha chiosato la Annunziata. La quale poi – non contenta – al momento dei saluti, incappò in un'espressione abbastanza infelice: "Sindaco, grazie moltissime e buona continuazione".

"E fatele queste leggi, c...o". Annunziata senza freni e la parolaccia in diretta

Brunetta fa parte delle "razze"… inferiori

Nel tentativo di rincuorare un Renato Brunetta appena reduce dalla caduta del governo Draghi e dalla fuoriuscita da Forza Italia, nel luglio 2022, quello che doveva rivelarsi come un complimento della conduttrice televisiva nei confronti dell’ex ministro della Pubblica Amministrazione non fu esattamente ben riuscito: "Però ha gli occhi azzurri, Lei. Una cosa ce l'ha... delle razze superiori". A quell'insolito commento Brunetta rispose con un laconico "grazie". Per quanto, tuttavia, la frase incriminata non sfuggì a molti telespettatori e presto rimbalzò sul web.

"Ma l'Italia non gioca ai Mondiali?"

"Anche l'Italia deve avere il coraggio di scendere in campo a favore dei diritti umani". Nel novembre 2022 si stava discutendo del fatto che, come auspicato da Marco Tardelli, le nazionali di calcio più blasonate giocassero ai Mondiali con la fascia One Love. Peccato che la Nazionale azzurra non si fosse qualificata agli ultimi Campionati del Mondo, tenuti in Qatar a fine autunno scorso. "Ah, non c'è. Si capisce che non capisco di calcio. Ridono anche i miei della redazione su questa cosa. Come vedete non si imparano mai le cose che non si studiano bene"

L'insulto a Giuliano Ferrara

Novembre 2012. Enrico Mentana segue, con la sua tradizionale "Maratona" televisiva, la sfida elettorale americana tra Barack Obama (poi riconfermato presidente Usa) e il repubblicano Mitt Romney. In seguito ad alcuni commenti sarcastici da parte di Giuliano Ferrara sui primi risultati che arrivavano dalla Florida - stato in bilico tra i due candidati alle presidenziali - e sulle considerazioni che aveva fatto l'Annunziata, quest'ultima non si trattenne e andò diretta contro l'allora direttore del Foglio: "Giuliano, sei un perfetto cretino". Anche il direttore del TgLa7 non si trattenne da un'ulteriore battutaccia: "Ma perché dici 'perfetto'?.

Il centrodestra "impresentabile"

Il marzo 2013 fu un periodo abbastanza incandescente per la politica italiana. Dopo le elezioni politiche del febbraio precedente, che non avevano sancito alcuna maggioranza parlamentare, bisognava pensare sia a nominare il futuro presidente del Consiglio sia il nuovo Capo dello Stato. L'allora segretario del Pdl, Angelino Alfano, si chiedeva retoricamente perché il centrodestra non avesse potuto rappresentare il Presidente della Repubblica con un proprio esponente: "Forse perché siete impresentabili", replicò la giornalista. La reazione di Alfano fu immediata: "Con quale autorità si permette di dire questo a chi ha ottenuto così tanti voti dagli italiani?".

Annunziata non regge il confronto

Una delle scene televisive in assoluto che restano scalfite nella carriera di Lucia Annunziata fu l'intervista a dir poco polemica a Silvio Berlusconi. Nella puntata andata in onda nel marzo del 2006, un mese prima dell'importantissimo voto che doveva stabilire chi si sarebbe preso Palazzo Chigi tra lo stesso Cavaliere e Romano Prodi, la giornalista Rai interruppe in continuazione il leader della Casa delle Libertà, che dopo 20 minuti decise di abbandonare lo studio: "Lei ha illustrato bene come si comporta una persona che ha pregiudizi e che è di sinistra". L'Annunziata lo accusò di non reggere il confronto. Ma il destino volle che – tre anni dopo – fu proprio lei ad alzarsi e ad andarsene, come ospite del programma di Michele Santoro, perché considerava la puntata troppo filo-palestinese nel contesto del dramma contro Israele. Insomma: dimostrò che - in generale - chi non è mai stata abituata al confronto con quelli che la pensano diversamente, è stata proprio lei.

Estratto dell’articolo di Valentina Santarpia per corriere.it il 20 marzo 2023.

«È davvero inaccettabile quanto avvenuto ieri durante la trasmissione In mezz'ora»: partono all'attacco i componenti di Fratelli d'Italia della commissione di Vigilanza Rai dopo l'episodio in cui Lucia Annunziata, conduttrice della trasmissione su Rai Tre, è sbottata con una parolaccia, scusandosi poi subito con l'ospite e i telespettatori.  La reazione era legata alla possibilità da parte degli organi politici di legiferare sui figli delle coppie omogenitoriali, dopo lo stop alle registrazioni.

 «La conduttrice ha più volte interrotto il ministro Eugenia Roccella impedendole di parlare, fino a scivolare nella volgarità. Che senso ha invitare un esponente politico, peraltro ministro, ad un'intervista e poi impedirgli di parlare perché non si condividono le sue tesi? Faziosità e ideologia si pongono agli antipodi rispetto al servizio pubblico, Lucia Annunziata si è resa protagonista di una pessima pagina del giornalismo e dell'emittente pubblica. È arrivato il momento di cambiare pagina, il rispetto dei contribuenti che pagano il canone Rai non può più venire meno», scrivono in una nota i componenti di FdI.

Cosa è successo? A «Mezz'ora in più», in diretta su Rai 3, il tema di ieri era quello del riconoscimento dei figli delle coppie omogenitoriali, ma il confronto è diventato aspro quando si è spostato sul terreno della maternità surrogata. […] La ministra teneva il punto […] «Si tratta di decidere, e abbiamo delle soluzioni: il problema è se accettiamo o non accettiamo il mercato della maternità e della paternità».

 E qui Annunziata è sbottata, richiamando il parere sul certificato di filiazione europea espresso dalla maggioranza in commissione politiche europee al Senato. «Prendetevi la responsabilità di farle queste leggi». Quindi, la parolaccia. […] Annunziata si è portata le mani sulla bocca. «Oddio», e si è scusata per due volte. Chiedendo «perdono» a ministra e telespettatori. Ma non è bastato a frenare il coro di critiche […] i componenti della Lega in commissione di Vigilanza Rai […]: «Atteggiamento intollerabile, troppi giornalisti del servizio pubblico credono di essere al Nazareno». […]

Estratto dell'articolo di Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 20 marzo 2023.

Le mani giunte che si agitano su e giù come quelle della professora che sta redarguendo gli alunni, il tono altrettanto dottorale «qui forse non ci siamo capiti», poi quel «voi avete la responsabilità di farla questa legge caz..». Sì, Lucia Annunziata ha detto proprio così, caz.., rimproverando durante la sua trasmissione “Mezz’ora in più” niente di meno che un ministro della repubblica, la ministra della Famiglia, della Natalità e delle Pari opportunità Eugenia Maria Roccella che con un sorriso le ha replicato: «Vedo che lei si coinvolge».

 Già, è proprio così, abbiamo i conduttori del servizio pubblico pagati, nel caso assai bene, non per fare domande ma per «essere coinvolti» nel dibattito politico, in questo caso la discussione in corso sui modi del riconoscimento anagrafico dei figli di coppie omosessuali, tema delicato perché se non maneggiato con cura può diventare il grimaldello per il riconoscimento di fatto della pratica dell’utero in affitto, pratica fortemente osteggiata dalla maggioranza di Centrodestra in quanto disumana e umiliante per le donne ridotte a incubatrici di figli altrui.

(...)Che poi il problema non è la parolaccia in sé ma il tono inquisitorio e l’arroganza culturale che Lucia Annunziata ben rappresenta, come se il ministro non andasse interpellato bensì inquisito e rieducato. Propaganda, non c’è altro termine per definire questo tipo di informazione fatta di giudizi e pregiudizi. 

(...)

L'inquilina inamovibile di Rai3 dove "mezz'ora" dura vent'anni. Tende a confondere il servizio pubblico con le battaglie private e il giornalismo con la politica. Ama la tv, ma adora il potere. Luigi Mascheroni su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

Domanda. Il ruolo di conduttrice in una trasmissione del servizio pubblico televisivo, è compatibile con quello di portavoce di Gianfranco Fini? «Io sono stata bresidende della Rai, e garandisgo ghe si può. E comunque gui si fa gome digo io...».

Dicono che faccia sempre quello che dice lei. Autoritaria, incomprensibile, intrattabile, incazzosa. Quando stava per prendersi la striscia di informazione fra il Tg1 e il prime time poi andò male - risuonò stentoreo nei corridoi Rai: «Je spacco er culo a Lilli!».

Sangue caldo meridionale e vocetta perennemente raffreddata, partita primula rossa e arrivata a resuscitare mediaticamente l'ex leader di An l'irrilevanza dei fondatori e l'ostinazione delle inamovibili - Lucia Annunziata, cronista di razza campana e pasionaria di ascendenze comuniste, flirta da sempre col giornalismo e con la politica. Convinta che il primo serva a rafforzare la seconda, la seconda a proteggere il primo.

Primadonna, e non solo in ordine alfabetico, delle Nostre Signore dei Talk Show Annunziata, Berlinguer, Gruber, Palombelli che castrando la mascolinità catodica ed esagerando con le quote rosa tracciano la rotta della telepolitica italiana, Lucia la sciantosa (ragazza carinissima, ai tempi del Manifesto faceva girare tutti i colleghi, da cui il soprannome «la svolta di Salerno») è da trent'anni in Rai e da quasi venti, minuto più minuto meno, accompagna la controra domenicale degli italiani, in una mezz'ora annunziatesca che ormai si dilunga oltre l'ora, le opere, i giorni, le settimane, le stagioni, gli anni...

La Santissima Annunziata. Chi buttiamo giù dalla torre Annunziata? Nuntio vobis... Santa Lucia protettrice degli occhi e della vista. Lucky Lucia. Renzi e Lucia. Lucy in the Sky with Rai...

Cronaca di una cronista Annunziata. Figlia di un ferroviere comunista e partorita dall'Agro Nocerino Sarnese, terra di Osci, di Sanniti e di baroni, narra la leggenda - che è un racconto solo un po' meno affidabile del giornalismo che da piccolissima, già scampata a un fulmine che le lesionò un occhio, il papà la portasse tutte le mattine all'asilo, in treno, affidandola a un collega in quel di Avellino Scalo. Un giorno nevicava. E per non farle bagnare le scarpine, Lucia fu deposta su un giornale. E la sera si scoprì che sapeva leggere: aveva imparato da sola. Tanti anni dopo, rievocando quelle antiche storie di folgori e miracoli, Enzo Siciliano, prefigurazione della presidenza Rai, la chiamò «la maga di Sarno».

Poi il mito diventa Storia. Da Salerno ai grandi reportage nel mondo, dopo la laurea in Filosofia e un esilio da insegnante in Sardegna, fra Gramsci e li beltj, li boi e li peguri, Lucia Annunziata, cresciuta nel ventre ideologico romano e militante scatenata nel '68, comincia a collaborare col Manifesto, pezzi lunghi e gonne corte, e poi con Repubblica, corrispondente dagli Stati Uniti, quando le malelingue dicono che le riscrivessero i pezzi perché scritti in un italiano stentato... La rivoluzione in Nicaragua in sandali e Sandinisti, la guerra civile salvadoregna, l'invasione di Grenada... Poi corrispondente dal Medioriente, con base a Gerusalemme, già molto filo-israeliana. Poi il Corriere della sera e di nuovo negli Usa, Paese cui Lucia l'Amerikana resterà sempre legata per motivi professionali e sentimentali (il marito è un giornalista del Washington Post), dalla sinistra operaista e radicale al mainstream globalista e transnazionale Aspen Institute, Eni, Fondazione Italianieuropei... - e quindi negli anni '90 il ritorno in Italia, da papà e da Mamma Rai. Scarpe rasoterra e autostima altissima, cuore rosso e tailleur total black, Lucia Annunziata - citizen journalism, servizio pubblico e battaglie private conduce Linea tre, poi dirige il Tg3, quindi l'agenzia di stampa APBiscom e infine, nel 2003, Governo Berlusconi, quando la Rai veniva spacchettata tra maggioranza (che esprimeva il direttore generale, all'epoca Flavio Cattaneo) e opposizione (cui spettava la Presidenza), Lucia Annunziata diventa la seconda donna presidente della Rai, dopo Letizia Moratti. Con l'auspicio di tutti che «Peggio di quell'altra non potrà fare».

In sella al Cavallo di viale Mazzini Lucia, l'amazzone - «Femmina alfa» che si veste e pensa da uomo dura il tempo direttamente proporzionale al suo potere decisionale: pochissimo. Lo spazio di una raffica di crudeli parodie di Sabina Guzzanti, che la Presidente non digerisce, e se ne va sbattendo la Porta a Porta (l'Annunziata e Bruno Vespa non si possono vedere, ndr).

Si cambia poltrona ma non Azienda: lascia quella di Presidente di garanzia e si garantisce quella di conduttrice di un nuovo programma, In mezz'ora, che va in onda in prime afternoon della domenica, ed è fatto apposta per chi odia la televisione. Era il 2005. Ed è ancora in onda. Il format è elementare: 1) Lucia Annunziata fa una domanda all'ospite; 2) l'ospite inizia a rispondere; 3) Lucia Annunziata lo interrompe. Ma il programma, al netto degli incontenibili monologhi spacciati per domande, retaggio della cultura assembleare della sinistra extraparlamentare, va benissimo. Lei, e lo scriviamo seriamente, è brava. Dalla trasmissione esce sempre un titolo per i giornali del lunedì. E la cosa durerà anni. Purtroppo.

Settantatré anni, due matrimoni, una vita sacrificata alla carriera e al potere, in ordine inverso; lucida, ruvida, tagliente, sorta di Repubblica autonoma dentro la Sinistra, personale editore di riferimento: Massimo D'Alema, un'amicizia con la Berlinguer, la zarina rossa e la zarina Bianca, ottime capacità relazionali è amica di tutti e frequenta i potenti, anche quelli che da giovane si dovevano evitare Lucia Annunziata, passata indenne dalle mareggiate dell'Ulivo, berlusconiane, leghiste, di Draghi e dei sovranismi, galleggia ancora benissimo. «Ponciorno». Ci rivediamo domenica prossima.

Sempre convintamente a favore della preminenza della politica sullo spettacolo, se Lucia fosse una show girl sarebbe Concita De Gregorio. Se fosse uomo, Mara Venier.

Comunque, ce la ricorderemo. E non solo per la faziosità.

Cose da ricordare (ma anche no) di Lucia Annunziata. L'ossessiva rivalità con il conterraneo Michele Santoro, stessa etnia ma molto più popolare di lei. La ricerca a tutti i costi della ribalta, come quando - marzo 2006 - attaccò stizzita il premier Silvio Berlusconi, spingendolo ad abbandonare lo studio, ed entrambi sapevano che sarebbe finita così. Quando, anno di scarsa grazia 1977, nelle manifestazioni di piazza tirava i sampietrini a Luciano Lama (non è vero: è pura mitizzazione). Quando voleva «prendere per il collo» quelli che rifiutavano il vaccino, e qualcuno le diede pure ragione. La volta che, prima di partire per il weekend nella sua bella casa di Anacapri, mentre Enrico Letta esprimeva la «solidarietà alla comunità ucraina in Italia fatta di centinaia di migliaia di persone», lei commentò «di cameriere e badanti» (e amanti, no?)

Ah. Il nuovo libro di Lucia Annunziata s'intitola L'inquilino (sottinteso: di Palazzo Chigi). Una storia della perversa inclinazione degli italiani per i potenti, partendo dalla constatazione che negli ultimi 11 anni si sono succeduti sette governi e sei premier. Uno scandalo rispetto alla stabilità di un'azienda pubblica come la Rai, in cui per vent'anni una giornalista può tenersi la stessa trasmissione. Senza neanche una tornata elettorale. Titolo: L'occupazione. A sinistra, più che un bestseller, è un classico.

Maria Corbi per “la Stampa” il 30 dicembre 2022.

La simpatia non è mai stata la sua dote migliore. E nemmeno la leggerezza, almeno quella caratteriale. Sarà anche per questo che quando si è saputo che Luisella Costamagna avrebbe partecipato a Ballando con le stelle in molti erano certi che su quel palco sarebbe durata come una gatta in tangenziale. Invece ha vinto, mostrando un'altra sè, senza dare il fianco alle mille polemiche. Adesso è pronta per tornare alla sua vecchia «pista», quella del giornalismo.

Rimane la domanda. Come le è venuto in mente di dire «sì» a Milly Carlucci?

«Ho deciso di farlo come rehab per respirare fuori dal mio ambiente». 

Liberatorio?

«Ho lasciato andare delle corde che c'erano. Volevo ballare Bob Fosse, mettere le paillettes, le parrucche. Capisco di aver dato un'immagine lontana da quella che si aveva da me, algida, rigorosa. Questo ha spiazzato anche le persone che mi conoscevano». 

L'abbiamo vista sorridere.

«Finalmente mi sono lasciata andare. Non è che in un talk dove si parla di politica o di guerra io possa permettermi di essere così». 

Qualcuno l'ha sconsigliata?

«Non ho molti consiglieri, sono pochissime le persone che ascolto. Avevo già deciso e mi sono consultata solo con il mio fidanzato e con mio figlio, il più perplesso. Si chiedeva come e se poi potessi tornare indietro». 

Può?

«Mi posso portare nell'informazione qualche gancio da tango, qualche piede a martello, qualche sorriso». 

Anche diversi attacchi...

«Sull'Espresso una giornalista ha scritto che mettevo a rischio la credibilità dell'informazione. Io faccio tante cose nella vita diverse dal mio lavoro, anche immersioni, e questo non intacca certo la mia credibilità». 

Poi ci sono state le frecciate di Selvaggia Lucarelli. Due critiche, due donne.

«Un giorno bisognerà raccontare anche i difetti delle donne. Non fanno mai squadra. Io comunque non cerco adesioni di genere, ma di merito. Donne e uomini che mi apprezzano per quello che faccio».

La Lucarelli ha ritirato fuori la storia della intervista con la Carfagna dove anche lei non si è mostrata solidale con l'allora giovane ministra a cui domandò del suo passato da soubrette...

«La tirano fuori sempre quando mi vogliono attaccare, è un'intervista di 10 anni fa. La rivendico e bisognerebbe contestualizzarla e rivederla senza tagli ad hoc. Era il marzo 2012, c'era il rigoroso governo Monti e parlavo con una ministra delle competenze della nostra classe dirigente. Le stavo chiedendo della sua tesi di laurea che non si ricordava». 

Allora la Carfagna contrattaccò ricordando che anche lei aveva un punto di riferimento maschile in tv, Michele Santoro. Lo ha sentito in occasione di Ballando?

«Non gli ho chiesto consiglio. I miei punti di riferimento non appartengono al mondo del giornalismo». 

Un punto fermo è l'uomo che dopo 33 anni chiama ancora fidanzato, lo scrittore Dario Buzzolan.

«Ho passato più vita con lui che da sola». 

Il segreto?

«I rapporti lunghi sono molto gratificanti ma faticosi, occorre impegnarsi l'uno per l'altro. Dario lo ho incontrato nel '90 all'Università, l'anno della Pantera. È il mio punto di riferimento, io sono molto anarchica e lui è stato la mia bilancia, uno scoglio».

Romantico, anche. Le ha mandato un messaggio d'amore durante la trasmissione di Serena Bortone da cui era ospite. Una carrambata?

«È stato un regalo bellissimo, ha citato la coreografa Pina Bausch, dicendo che l'incanto tra noi c'era già stato». 

Oggi la Rai la festeggia, ma solo qualche mese fa le ha tolto la trasmissione Agorà senza tanti complimenti.

«Non amo fare polemica, men che meno su un programma di cui vado orgogliosa. Due anni ottimi, con ascolti eccellenti, ma Mario Orfeo, all'epoca direttore approfondimento, mi disse "si accomodi". Ci stava anche che non facessi una terza stagione, ma mi sarei aspettata un'alternativa. È stato un po' ingeneroso. Ma guardo all'oggi. Adesso tornerò come opinionista e non solo di politica. Ho sempre pensato che la politica fosse tutto, ma in realtà è il tutto che è politica. Sono stata costretta a reinventarmi ma in fondo è stata anche una scelta». 

Torniamo alla "vecchia" lei. Che mi dice di Giorgia Meloni?

«Secondo me è un po' presto per dare un giudizio, anche se il buongiorno non mi sembra radioso. Sul dato femminile, invece, lo dissi prima delle elezioni citando Hillary Clinton, che avere per la prima volta un Presidente del Consiglio donna sarebbe stata una cosa positiva. Ora bisognerà valutarla sui fatti. E io tonerò a commentarli».

In molti accusano la Meloni di sessismo.

«Mi sembra che il problema sia comune a tutte le forze politiche. Oggi c'è tutto un dibattito che si basa sulla forma, sulla declinazione dei nomi. Mi interessa poco. Le quote non le ho mai difese, però in un Paese così indietro sono un male necessario. La cultura la cambi anche con un'immagine, e una donna a palazzo Chigi è una bella immagine. E dispiace dirlo, ma la sinistra sulla questione di genere è molto indietro, fa fatica a scegliere donne. Vedremo adesso alle primarie del Pd cosa succede». 

Che tipo di mamma è?

«Come dice il mio fidanzato, lui ha due figli. Una sono io. Con Davide, che ha 16 anni, siamo amici. Sicuramente ho avuto delle mancanze nel quotidiano anche per il mio lavoro fagocitante. Ad esempio è il padre a interagire con la chat "delle mamme" di scuola. Ma abbiamo un rapporto di grande sintonia e di grande amore».

E come è messa ad amiche?

«Più amici uomini che donne, sono sempre stata un po' commilitone, terzogenita con due fratelli maschi. I miei amici li conto su una mano, poi ho molti conoscenti. Ho amato il lockdown, mai stata una mondana. Sto molto bene con me stessa e con la mia famiglia, i miei cani, il mio mondo. L'unica volta che ho fatto una vacanza in un gruppone di amici, ci siamo separati all'aeroporto». 

Allora quali "conoscenti" le rimarranno di questa esperienza a Ballando?

«Certamente il mio maestro Pasquale La Rocca. Ma ho grande affetto per Gabriel Garko ed Eva Stoccolma, un essere speciale, un misto di ironia, dolcezza e forza. Ma mi sono trovata bene anche con Marta Flavi, Iva Zanicchi, Paola Barale, Giampiero Mughini. Il lato umano di questa esperienza è stato molto positivo».

Francesco Melchionda per perfideinterviste.it venerdì 28 luglio 2023.

(…) Ci vediamo una sera, dalle parti dei Parioli. Chi si aspettava Malcom Pagani dirottato al Pigneto, all’Esquilino o al Testaccio, o ancora alla Garbatella – quartieri romani bohémiens – resterà deluso. Pagani, pur dichiarandosi de sinistra, come si dice a Roma, è un uomo profondamente borghese, e fieramente di Roma Nord.

(…)

A 14 anni pesavo 125 kg. Agli occhi delle ragazze ero quello simpatico, ma inadatto all’amore.

(…)

A che età ha scoperto il primo piacere femminile?

Ho fatto l’amore per la prima volta negli anni del liceo, con una ragazza svedese.

(…)

Giancarlo Dotto ha scritto, più volte, che a Roma, negli anni d’oro del Pupone, c’erano più tottiani che romanisti… Aveva ragione, secondo lei?

Giancarlo è uno dei più bravi giornalisti italiani, ha tutto: cultura, scrittura, genio. Ma, nei confronti di Totti, soprattutto nella fase discendente, c’è stato accanimento: è una specialità italiana. 

Deifichiamo e abbattiamo le icone alla stessa velocità, ma quando le icone imbiancano siamo spietati. Molti miei amici romanisti pensano che Totti abbia fatto il male della squadra, che sia stato un padre-padrone, che abbia pensato solo a sé stesso, che non abbia saputo dire basta.

Ma è falso, cercava solo un addio più dolce. È stato trattato alla stregua di un abusivo e non lo meritava. Totti regalava bellezza e felicità. Ho sperato vivamente che continuasse a giocare. Mi è sempre piaciuto, Totti. Mi sarebbe piaciuto ovunque fosse andato. 

Che sentimenti le ha suscitato Spalletti in quegli anni? Odio, fastidio, apprezzamento? Alla fine, fare scelte impopolari non solo è necessario, ma è anche sacrosanto.

Ma sacrosanto per chi? Per cosa? Per affermare il proprio piccolo potere? Per dare l’esempio? Per mostrarsi più forti e severi? Per disprezzare il sentimento popolare? Non è triste la severità quando somiglia a un manifesto programmatico? 

Spalletti non l’ho capito né ammirato. Avrebbe potuto accompagnare Totti alla porta con dolcezza, come la Juventus seppe fare con Altafini, e invece ha scelto lo scontro mancandogli di rispetto. È stato grottesco. Per chi osservava, per Totti, ma anche per Spalletti. 

Come ha vissuto la separazione dei tuoi genitori? Ne ha sofferto? Se n’è beato perché non li sopportava più?

Prima di risponderle nei dettagli, le dico che a casa nostra, con grande volgarità, si irridevano gli analisti o chi andava dallo psicologo. Quindi se ho sofferto non l’ho detto a nessuno né nessuno mi ha spiegato perché. Di queste cose non parlavamo. Accadevano. Accadevano e basta. Per certi versi, sono stato molto contento che si lasciassero. Dopo anni molto lieti erano arrivate le urla, i rinfacci, la cupezza.

Dopo la separazione mia madre passò un periodo di furia creativa e sofferenza. I miei genitori hanno avuto una grande storia d’amore che, come spesso avviene, finisce. 

Gli anni felici li vide mia sorella, di dieci anni più grande di me. Mio padre – così mi raccontò durante un viaggio in macchina verso Venezia – lasciò mia madre perché si innamorò di una ragazza molto bella e più giovane di mia madre.

Con quella ragazza elegante andò ad abitare e sparì dalle nostre vite. Pensavo fosse andata così, ma qualche anno fa, in uno dei rari viaggi fatti con mia madre, le chiesi come fossero andate realmente le cose. E lei mi raccontò tutta un’altra storia. 

Racconti. 

Mi disse che mio padre guardò, folgorato, un’altra ragazza a bordo piscina, mentre erano in vacanza in India. Mia madre, con fervida immaginazione, in quello sguardo, proiettò il futuro della loro storia. SI vide perduta e rapida e decisa, tagliò la corda da un momento all’altro. 

È come in Rashomon: ognuno ha il proprio punto di vista su un delitto. Ma i bambini di quel delitto vedono solo le conseguenze e le ragioni in fondo sono poco interessanti. I bambini comunque cercano solo la felicità altrui: tra mio padre e la donna che scalzò mia madre la storia sembrava perfetta e così mi ritrovai a guardarla con benevolenza.

(…)

Sua madre Barbara è sempre stata una donna libera e aperta… Come ha reagito quando si innamorò addirittura di una donna?

Questa storia l’ho sempre sentita raccontare. Conoscendo mia madre, mi è sempre sembrata una cosa possibile. I bambini, che sono ferocissimi, soprattutto quando sono a scuola, dicevano: “oh, questo (cioè, io) c’ha la mamma lesbica”.

Era vero? Era falso? Non me ne è mai fregato niente. Siccome a casa c’era sempre molto pudore e riservatezza, non le saprei rispondere con certezza, anche perché non ne abbiamo mai discusso né prima né dopo. Ricordo perfettamente, invece, lo choc che ho avuto quando la beccai a letto con un altro uomo, che sapevo essere il suo fidanzato. Avevo otto anni. Trovarmelo davanti agli occhi fu un piccolo trauma. È una fotografia molto nitida ancor oggi.

E lei, ha mai avuto pulsioni omosessuali?

Mai. Ma ho amato degli amici e l’idea dell’amicizia soffrendo come si soffre per amore: quando ti tradisce un amico soffri allo stesso modo. 

(…)

Alessandra Fiori, Mia Ceran, Caterina Franceschini, e Ilaria Visconti di Modrone sono state, o sono tuttora, donne che hanno fatto parte della sua vita amorosa: domanda: a quando una donna non famosa o non altolocata?

Mi sembra una domanda demenziale. Non ho mai chiesto i documenti a nessuno. Mi innamoro di un volto, non di un cognome. Non sono Bel Ami, non lo sono mai stato: anche per quello ci vuole talento. Dell’amore comunque non si parla. Si ricorda William Blake? “Non cercare mai di dire il tuo amore, l’amore che mai può essere detto”.

Sua madre mi ha raccontato che quando conobbe Vittorio Sgarbi, per tre anni passava solo a cambiare gli abiti… Eravate disperati a casa?

Ma si figuri se eravamo disperati. Ma chi si è mai visto a casa mia? Non eravamo certo una di quelle famiglie che si riunivano a pranzo o a cena. Mia madre è sempre stata una donna libera: non l’abbiamo mai giudicata per le sue passioni improvvise, per i suoi viaggi, per le sue infatuazioni letterarie.

Ricordo che Vittorio passava a prenderla di sera, e la portava a vedere una cattedrale, a Mantova, alle 4 del mattino. Il loro rapporto era così… Sgarbi a casa l’ho visto solo una volta. 

Tanti anni dopo mi capita di fargli un’intervista telefonica. Non avevo con me il registratore e prendo appunti a penna. Sai cosa fa lui? La smentisce totalmente! Purtroppo, non avendo registrato, non posso giurare che non avesse ragione.

Cos’è che non apprezza o non sopporta di sua madre?

A volte trovo l’enfasi insopportabile. Non vede le sfumature. Per lei, è tutto bianco o tutto nero. 

Perché la faceva soffrire il fatto che andasse al Maurizio Costanzo Show?

Perché fino ad una certa fase della mia vita, è stato molto rilevante quello che dicevano gli altri. E gli altri dicevano sempre che mia madre, quando andava in tivù, era una matta che urlava, e che faceva casino. 

(…)

Cosa ha pensato quando scelse di partecipare al Grande Fratello? Io, ad esempio, dissi: abbiamo perso anche Barbara…

Non ho pensato niente, ma non ne ho visto un solo minuto. So che avrei sofferto e me lo sono risparmiato. Lei si è divertita, questo lo so.

(…)

Per anni ha vagato tra un giornale e l’altro, come se la sua vita, in realtà, fosse sempre altro e altrove… Da dove nasce tutta questa sua volubilità? Se l’è mai chiesto?

Che io sia volubile, è sicuramente vero. Me ne sono sempre andato dai posti di lavoro perché a un certo punto ho sempre amato cambiare. Al Fatto ho avuto un’esperienza molto formativa e bella; Travaglio e Padellaro mi concedevano delle libertà pazzesche. Una volta intervistai Pennacchi, un grande anzi un grandissimo scrittore che amava il turpiloquio. Mi disse cose tremende di Travaglio: la cosa più tenera era bugiardo. Andai da Marco per dirgli che Pennacchi, nell’intervista, l’aveva preso di mira. Lui non batté ciglio: pubblicammo tutto integralmente. 

Quanto guadagnava?

Guadagnavo esattamente millecento euro al mese, passando 10-11 ore in redazione. Quando mi capitava di andare a cena con Padellaro, un uomo simpaticissimo, gli dicevo: Antonio, io non voglio morire al giornale, non ce la faccio a stare così tanto tempo chiuso in redazione. 

Di lì a breve, passai all’Espresso accolto alla grande da Bruno Manfellotto; lavoravo molto meno, lunghi tempi morti, e grandi amicizie – Fittipaldi, Turano, Abbate ed altri – con uno stipendio più ricco. 

Pensa di essere stato un traditore?

Assolutamente sì, perché la mia vera ambizione non è stata mai quella di scalare i giornali né quella economica, seppur importante, ma di vita. Volevo avere la possibilità di vivere e godermi mia figlia. 

Cosa non le piaceva di Travaglio, quando era il suo direttore?

In termini assoluti, non me ne fregava niente della linea politica che assumeva il giornale. Spesso non ero d’accordo, ma non ha mai rappresentato un problema. Al Fatto sono stato molto libero. Marco poteva disprezzare i suoi nemici perché si occupava di cose serie e di suo non ama le mediazioni. Io scrivevo di spettacoli, un’altra cosa. 

Quanti ruffiani c’erano al giornale?

Perché ci sia un ruffiano, ci deve sempre essere uno a cui piace essere blandito. E se c’era un modo per disgustare Travaglio, era ungerlo. Certo, esistevano i suoi preferiti: Silvia Truzzi, Beatrice Borromeo, Marco Lillo, Antonio Massari. Allo stesso tempo c’erano molti che non l’amavano, e lui se ne fregava: Marco non ha mai cercato il consenso. Mai visto nessuno più indifferente al giudizio altrui. 

Come reagì quando ha lasciato il Fatto?

La prima volta non disse nulla, capì e basta. La seconda volta lasciai, probabilmente, anche perché non mi bastavano i soldi che guadagnavo. Impostai una trattativa con Il Messaggero, all’epoca diretto da Cusenza, e riuscii ad ottenere ciò che volevo. A Marco dispiacque, ma siamo rimasti amici. 

Qual è stato il direttore che le ha creato più rogne?

Ho discusso con tutti, ma non ricordo litigi. 

In pompa magna l’annunciano al Messaggero, ma, dopo soli quattro mesi, lascia la storica sede di via del Tritone. Cos’era successo? L’hanno cacciato?

No, cacciato no. Era un giornale ben strutturato e pieno di umanità, attraversato da qualche tensione perché, ricordiamolo, il proprietario era, ed è tuttora, Caltagirone, e questo ha un suo peso. Per fortuna, facevo delle pagine abbastanza innocue, anche se, a volte, scrivendo di ministeri e di Rai, un paio di richiami, non certo dall’editore, li ho ricevuti anche io. Me ne sono andato perché mi chiamò Daniela Hamaui, per propormi la vicedirezione di Vanity Fair. 

Un settimanale. Una botta di culo pazzesca perché dopo anni di articolo 2, nella libertà di scrivere fuori dalla redazione, il Messaggero era come la leva. Un grande giornale, con una grande tradizione, in competizione con gli altri grandi giornali.

La riunione, il buco da non prendere, le ribattute, le pagine da titolare, la cronaca di Roma, gli orari massacranti. Entravo alle 9, uscivo alle 23 e non di rado, appena aperta la porta di casa, mi toccava rientrare al giornale e ribattere le pagine perché, magari, era morto un attore, uno stilista, un cantante. 

E con Cusenza com’è andata? Non le stava simpatico?

Quando ho dato le dimissioni, si arrabbiò molto, perché mi aveva voluto e considerò l’addio una mancanza di rispetto. Non siamo stati amici, ma non posso di certo lamentarmi della sua direzione. Azzurra Caltagirone mi propose addirittura di collaborare e continuare a fare le interviste domenicali. Ma con Vanity andavo a fare il vicedirettore, avevo l’esclusiva, e dovetti dire di no.

Vanity Fair le fa un contratto da vicedirettore, ma la costringe a vivere a Milano. Cosa succede lì? Troppo romano, troppo terrone, troppo provinciale, per stare in una città del nord? Alla fine, scappa anche da lì…

A me Milano non è mai piaciuta. I primi sei mesi furono terribili, ero veramente turbato; poi, lentamente, mi sono abituato, l’ho accettata, apprezzata e rispettata pur non amandola per niente. 

Chi sono i giornalisti che l’annoiano quando scrivono?

Tutti quelli che parlano di loro stessi. 

A proposito di Roberto D’Agostino, ha scritto: “… Negli ultimi dodici mesi per un’incomprensione silenziosa, senza neanche il sollievo di un salvifico e liberatorio vaffanculo, non ci siamo più visti. Ci penso spesso. Spessissimo. Accidenti quanto mi secca ammettere che avevo torto io. Ma ce l’avevo e glielo dico adesso. Prima che passi un altro anno”. Cosa ha combinato, Malcom?

Roberto è stato, per me, un vero punto di riferimento, e senza che io gli chiedessi nulla. Con una incredibile costanza, aveva ripreso tutte le interviste che avevo scritto per il Fatto, l’Espresso e il Messaggero, e, questo, ovviamente, mi aiutò moltissimo. 

Considero Dagospia il più bel giornale d’Italia. Tutta la sua redazione, a partire da Riccardo Panzetta (e poi Francesco Persili, Alessandro Berrettoni, Federica Macagnone, Luca D'Ammando, Ascanio Moccia e Gregorio Manni), dalla mattina alla sera, fa un lavoro pazzesco.

Anche se non tutti lo sanno, Roberto è una persona sentimentale e affettuosa. Ma non voglio evitare la sua domanda. Succede questo: lo invito alla prima del primo film che produco (un documentario sulla Vanoni, diretto da Elisa Fuksas) e, per la penna di Marco Giusti, il film viene stroncato. Prendo il cellulare e mando un messaggio violentissimo a Marco. Con il senno del poi, mi sento di chiedere scusa anche a lui. Dovevo semplicemente accettare le critiche e passare oltre. 

Da giornalista a censore, il suo passo è stato brevissimo, Malcom…

Sono stato stupido. Succede. Litigare non è un dramma.

Anche lei, per anni, ha fatto lunghe interviste… Chi è che, per motivi i più diversi, l’ha deluso o amareggiato?

Mi ha detto recentemente Sabelli Fioretti: tutte le volte che qualcuno ti delude, è perché magari non ti sei preparato abbastanza. Con Sergio Rubini litigai dopo un’intervista perché io volevo pubblicare tutte le parolacce che aveva detto, mentre lui mi intimava di cassarle tutte. 

Un’altra volta con Gianna Nannini: lei negava di aver detto la parola frocio in una intervista mentre io continuavo a dirle: guarda, se non ci credi, ti mando la registrazione di quello che hai detto… Più che delusioni, direi dialettica. 

Negli anni delle sue scorribande giornalistiche, ha avuto modo di conoscere, frequentare, attori, registi, produttori… Chi sono quelli che, frequentandoli, le hanno fatto dire: tutto qua?

Con Matteo Garrone litigai a Cannes. Ma di Garrone non si può dire tutto qui. È un regista straordinario. 

Perché litigaste?

Mi accusò, in pratica, di scrivere per un giornale di merda, che, all’epoca, era il Fatto Quotidiano. Fu inutilmente aggressivo.

Quante marchette, per ingraziarseli ed entrare nel loro giro, ha dovuto fare da giornalista?

È successo sicuramente, tantissime volte, magari in maniera inconsapevole. Mi sono fatto guidare molto dalla simpatia. 

Si è mai vergognato della sua scrittura?

Assolutamente sì! Quand’ero al Fatto, per evitare di cadere in certe trappole, smisi, ad un certo punto, di fare lunghi cappelli introduttivi, e di essere essenziale nell’aggettivazione e nei ghirigori. Ho fatto mia la lezione di Dino Risi che, parlando di Moretti, gli disse: spostati, fammi vedere il film.

Lascia, per dirla con Balzac, i bordelli del pensiero, vale a dire i giornali, e si tuffa in uno dei mondi più finti, quello del cinema… Chi gliel’ha fatto fare? Voleva guadagnare di più? È sicuro che sia finto? E che sia più finto di altri? 

Il punto chiave era lasciare Milano e tornare a Roma. Conosco Moreno Zani, un importante e bravo imprenditore che lavora con la finanza. Un giorno mi dice: sto cercando un direttore editoriale per la mia casa di produzione. Mi dai una mano? Io, con faccia di bronzo, ribatto: Moreno, quella persona sono io!

Raggiungo l’accordo, rifaccio i bagagli e torno finalmente a Roma. Sono molto felice perché faccio un lavoro che mi piace, e che mi permette, tra l’altro, di essere anche molto libero. 

Ha intervistato, anni fa, il sommo Arbasino. A proposito degli intellettuali suscettibili, le disse: “Chi osa mettersi contro da oggi in poi non è credibile”, “Chi non capisce è sciocco”, “Chi non si spella le mani è un buzzurro”. Ora che è dall’altra parte della barricata, in veste di produttore, quanto è suscettibile e permaloso? Mi dica la verità!

Come insegna la storia con Marco Giusti, sono molto permaloso. Gestisco soldi che non sono miei, e, quindi, non voglio sbagliare film, progetti, ma fare solo delle cose in cui credo e che permettano a chi ha creduto in me di continuare a crederci. Essere suscettibili ha a che fare con il rispetto nei confronti di chi investe. 

Nel dualismo Garrone-Sorrentino, a chi si sente più vicino? E perché?

A Paolo, senz’altro. Perché mi piace di più il suo cinema e perché è un mio amico. Riconosco la bravura pazzesca del Garrone regista. 

Quale film, dei due registi, butterebbe nel dimenticatoio?

Mai piaciuto il gioco della torre. Se devo citarne proprio uno dico “l’Amico di famiglia” e “Gomorra”. 

Quali sono le attrici italiane miracolate dai produttori?

Penso che se dai ad un attore o un’attrice tanti copioni, se fai recitare sempre le stesse facce, se non hai fantasia nella scelta degli interpreti, è inevitabile che il risultato non arrivi sempre. 

Capisco cosa vuol dire, ma la sua risposta è da paraculo, tipica di chi non vuole esporsi…

È la sua domanda ad essere inutilmente offensiva. Cosa significa essere miracolati? Non sarebbe meglio guardare a noi stessi invece di pensare sempre a quelli che ce l’hanno fatta con velato rancore? L’invidia è la religione nazionale. Esistono le occasioni. Se poi non le meriti nasconderlo è difficile. 

In un articolo che ha scritto per Repubblica, si è lasciato andare ad uno sperticato elogio di Nanni Moretti. Da sempre, i suoi film sono ombelicali. Quando penso a Nanni, mi sovviene sempre Arbasino che, nei suoi Ritratti italiani, così scrive del regista: “Magari, non trascurare quel primo accorgimento basico: mai frequentare le persone che ripetono troppi io, io, io, come ho detto io, come io ho predetto, io ridico, io sostengo. Sono i veri nemici della conversazione, oltre che della buona educazione… E il Noi, allora?”. Non è d’accordo anche lei?

La correggo: era tutto fuorché uno sperticato elogio di Nanni; nell’articolo dicevo: noi adolescenti molto conformisti, e fieramente sinistrorsi, amavamo Nanni Moretti. Fino a “Caro Diario”, Nanni ha mostrato a tutti noi la sua bravura, non ha sbagliato un colpo. Il “Sol dell’Avvenire”, film che ho visto due volte, e che non mi è piaciuto, era però il film che sembrava rivelasse finalmente la debolezza e le fragilità di Moretti; Nanni diceva, in pratica: forse ho sbagliato tutto, forse sono stato un grandissimo rompicoglioni, forse non è più il mio tempo, forse sono antipatico. Detto questo, Arbasino aveva perfettamente ragione…

Quali sono stati i film più brutti che suo padre Amedeo ha prodotto? Sia cattivo…

“Aspetta fino a primavera, Bandini”, tratto da un libro bellissimo di John Fante, e, poi, “Il frullo del passero”, con Ornella Muti protagonista. 

Nella sua esistenza, ha mai avvertito un senso d’inadeguatezza o smarrimento?

Moltissime volte. Come si fa a non sentirsi inadeguati rispetto alle cose che ci vengono chieste quotidianamente? Sentirsi un po’ smarriti, dubbiosi, penso serva. Diffido delle persone che si sentono troppo sicure di sé… Bisogna fare pace con sé stessi se non si è Céline… 

Racconti un gesto indegno della tua vita e di cui poi, almeno spero, si è pentito…

Riguarda proprio Nanni Moretti. Appena arrivato all’Espresso, mi passano la sceneggiatura di “Habemus Papam”. Per ambizione, do il film al giornale, che ne fa la copertina con Moretti travestito da Papa. Moretti s’incazzò come una belva. 

Ricordo che mi chiamò il suo produttore, Procacci, facendomi un culo così, tipo “per me, da oggi, non esisti più…”; lo stesso Moretti, con il quale non ho parlato per più di dieci anni, credo che la cosa non se la sia per niente dimenticata. A ripensarci, feci una cosa ignobile, una vera porcata. 

(...)

Estratto dell’articolo di Giovanna Cavalli per il Corriere della Sera il 18 maggio 2023.

«Pronto, Adriano? Posso raccontare ancora qualcosa di noi? Sì? Perfetto, ciao ciao». Resa la cortesia, Manuela Moreno, 56 anni, giornalista tv e star indiscussa del Tg2 Post, riaggancia. «Che altro voleva sapere di questa storia vecchia come il cucco?». 

Torniamo a quel flirt del 1999 rievocato da Galliani nell’intervista ad Aldo Cazzullo sul «Corriere». Come l’ha conosciuto?

«Il Tg2 mi aveva mandato a Montecarlo per la presentazione del libro di Emilio Fede. Alla cena di gala allo Sporting, noiosissima, sono capitata seduta vicino a lui. Abbiamo riso per tutta la sera. E ha cominciato a corteggiarmi, più o meno sarà durata un anno». 

Fin dove si è spinto per amor suo?

«Si è messo a dieta, è dimagrito di 14 chili, da 90 a 76».

La portava allo stadio?

«Qualche volta, per Milan-Roma, io tifavo giallorosso. In quel periodo frequentavamo spesso Naomi Campbell, che stava con Briatore. Ci siamo confidate. Ricordo una festa per il suo compleanno. Mi scrisse un biglietto: “Grazie per essermi stata vicina, sei una vera amica”». 

L’ha mollato dall’oggi al domani, ma giura che non fu per un tradimento.

«L’ho visto in tv con una persona che non avrebbe dovuto essere con lui. Non gliel’ho perdonata e l’ho mandato a quel paese. Per tre mesi mi chiamava ogni sera, cantandomi Renato Zero. Io lo ascoltavo e ce lo rimandavo». 

Da allora ha avuto qualche altro fidanzato famoso?

«Mah.. spero che adesso non si faccia vivo, sennò diventa una serie per Netflix».

(…)

Quell’abito bordeaux che pareva di latex fetish, nel 2016?

«Ecopelle, ma sotto le luci faceva quell’effetto. Sui social scrissero: “Rientrato l’allarme al Tg2: le bombe sotto il vestito erano della giornalista».

Provoca?

«Ma no, posso mettermi quello che voglio, anche una camicia accollata, le forme ci sono e si vedono. Fortuna che ho una vena ironica». 

E infatti l’ha arruolata Fiorello nel suo «Viva Rai2»...

«Faccio finte inchieste con tono serissimo. E coinvolgo personaggi famosi. Renzi che si dichiara terrapiattista, Debora Serracchiani con i baffi finti, Calenda e l’App che ti riporta sempre al centro, Vespa barricato nello studio». 

Di lei si parla come conduttrice di «Agorà», Rai3.

«Non ho ricevuto nessuna chiamata, ma sono pronta, anche se sono felice dove sto. Il mio ex direttore Gennaro Sangiuliano non voleva perdermi: “La Moreno adda murì a Post”». 

Il centrodestra sta occupando la Rai, dicono.

«Forse l’occupazione c’era prima, in 31 anni non ho mai avuto un programma, ora scoprono che sono brava». 

Fabio Fazio se n’è andato.

«Lo seguirò con molto interesse su Nove, è una perdita, ma si vive anche senza di lui. Lo conosco da quando lavoravo alle tv private e lui faceva l’imitatore, magari avrà budget più interessanti».

I due tweet non graditi. La satira vale solo per Travaglio: lo scontro in tribunale con Minzolini per la “faccia da cerbiatto”. Il direttore del Fatto Quotidiano ha trascinato in tribunale Minzolini. Paolo Pandolfini su Il Riformista l'1 Dicembre 2023

Il direttore del Fatto Quotidiano, dimenticandosi forse di ciò che quotidianamente scrive, ha trascinato in tribunale l’ex direttore del Giornale Augusto Minzolini per due tweet ritenuti ‘diffamatori’ e risalenti al 2020 e al 2021. Ieri la prima udienza a piazzale Clodio. In un tweet Minzolini definiva Travaglio “faccia di c”, precisando però che la frase andava intesa come “faccia di cerbiatto”. Nel secondo, invece, scriveva che “il travagliato percorrendo il triste viale del tramonto, se la prende con chi parla della fine del giustizialismo con i soliti epiteti senza fantasia (Minzolingua). Ma uno che ha ancora la “faccia di culo” di narrare le gesta di Conte, non dovrebbe imporsi un dignitoso silenzio?”.

Nulla di sconvolgente conoscendo, come detto, la prosa abituale del direttore del Fatto Quotidiano.

L’ultimo tweet, in particolare, venne pubblicato dopo che Travaglio in un pezzo alla voce “Minzolingua” aveva inizialmente riportato un pezzo in cui Minzolini scriveva: “Simbolo di cambio di stagione, si dissolve nell’opinione pubblica il grillismo, malattia infantile del giustizialismo, e quei magistrati che ne sono stati gli eroi finiscono sul banco degli imputati. Piercamillo Davigo e Fabio De Pasquale”. E quindi aveva aggiunto: “Poi ci sono i pregiudicati per peculato continuato: cioè i Minzolini”.

Travaglio per anni aveva costantemente attaccato Minzolini con decine e decine di articoli, ritenendo di essere sempre nel giusto.

In tema di diffamazione la giurisprudenza è ormai granitica: “Ricorre l’esimete del diritto di critica e satira politica – scrive la Cassazione – quando le espressioni utilizzate esplicitino le ragioni di un giudizio negativo collegato agli specifici fatti riferiti e, pur se veicolate nella forma scherzosa e ironica propria della satira, non si risolvano in una aggressione gratuita alla sfera morale altrui o nel dileggio o disprezzo personale”.

Concetto quanto mai chiaro che Travaglio vorrebbe però che valesse sono per la sua persona, un novello Marchese del Grillo della carta stampata.

Minzolini, difeso dall’avvocato romano Fabio Viglione, verrà ascoltato nella prossima udienza, prevista per il 25 marzo. Paolo Pandolfini

Travaglio rivendica il diritto di offendere. Anna Maria Greco l'1 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Il direttore del "Fatto" chiede il risarcimento a Minzolini: "Lui mi ha insultato, la mia è satira"

La «lezione» di Marco Travaglio (nel tondo), davanti al giudice monocratico di Roma, somiglia un po' a quella del Marchese del Grillo al popolino romano: «Io so' io e voi nun siete un c» ( forse era meglio non scriverla, per non rischiare una querela, come Augusto Minzolini).

Il direttore del Fatto quotidiano, nell'aula 27 del tribunale di piazzale Clodio a Roma ha spiegato garbatamente dal suo piedistallo che lui è un maestro nell'invettiva, sa fare satira senza cadere nell'insulto, sa criticare in modo graffiante senza offendere, sa anche dire e scrivere le cose più turpi rimanendo sempre nel lecito. Tipo quel «Minzolingua», appioppato appunto a Minzolini qualche anno fa, per il quale però l'autore è stato assolto. Diritto di satira, il suo.

Quando invece nel 2020 è stato l'altro a dargli del «faccia di c» su Twitter, lo ha querelato, puntando il dito accusatorio e chiedendo un risarcimento di 30mila euro. «Mi sono sentito offeso, aggredito in modo gratuito, questa critica non è, satira neppure», ha detto al pm onorario che gli chiedeva di ricostruire la vicenda.

L'ex direttore del Tg1 e del Giornale ha avuto un bel dire che quella «c» stava per «cerbiatto», animale dai tratti sottili molto somiglianti a quelli di Travaglio, che il senso al più era «faccia di bronzo», alludendo a sfrontataggine e mancanza di coerenza, niente di eccessivo, che insomma era satira anche la sua... Tutto inutile, lui l'ha trascinato in tribunale e ora vuole soldi e condanna.

Succede al culmine di un aspro duello di parole e fioretto tra i due giornalisti che da anni si provocano e confrontano. Quest'ultima faida si risolverà in tribunale, come è già successo in passato a parti inverse. Di complimenti non se ne sono mai fatti, ultimamente uno sul Fatto definiva l'altro «il peggiore successore di Indro Montanelli alla direzione del Giornale» e l'altro dalla prima pagina del nostro quotidiano rispondeva con una frase proprio del fondatore: «Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante».

L'imputato Augusto spiegherà le sue ragioni a marzo, cercherà di inserire la frase nel suo giusto contesto, di spiegare i suoi commenti agli articoli dell'altro, nel crescendo che anche la tribuna social impone, quando i commenti dei «tifosi» di uno o l'altro in causa fanno salire il livello di scontro e incitano come nell'arena. Ma intanto, il querelante Travaglio, epigono della critica dura e sprezzante per non dire altro, che i social non li ama e preferisce gli articoli, si fa vittima e insiste molto sul suo stato sfortunato.

Di fronte al piccolo pubblico dell'udienza, a giudice e pm onorari e ai due avvocati, Fabio Viglione per Minzolini e Angela De Rosa (in sostituzione di Caterina Malavenda) per Travaglio, si sente un po' come in uno dei suoi spettacoli teatrali, in cui rivela a ingenui e miopi cittadini come stanno davvero le cose in questo Paese. Stavolta, che cosa è satira, quella buona che alimenta e nutre le coscienze e che cosa è diffamazione, offesa al buon nome. Lo fa senza eccessi, con un tono piano e paziente, quello del maestro abituato a spiegare cose che conosce bene e da tanto tempo.

La rappresentazione stavolta dura circa mezz'ora, neppure si paga il biglietto. Peccato per i tanti che non ne erano informati.

Ottavio Cappellani per mowmag.com sabato 14 ottobre 2023. 

Marco Travaglio: “Il giornalismo oggi è una merda”. Baby Gang (citato da Dago): “La vita è una merda ma io sono il primo che caga”. Larga vida alla mierda!

Dire che il giornalismo oggi è una merda, come ha fatto Marco Travaglio durante l’intervista doppia con Peter Gomez, non è una affermazione di poco conto, soprattutto se ci troviamo in larga parte d’accordo.  

Però è una affermazione stavo per dire incolta ma mi correggo, imprecisa. Karl Kraus nato nel 1874) massacrava il giornalismo a giornate alterne (una volta i giorni pari e l’altra i giorni dispari): “Il giornalista è uno che dopo sapeva già tutto prima”, e come si notava è ben strano che nel mondo accadano esattamente i fatti che rientrano nelle dimensioni di un quotidiano.

O forse Travaglio intendeva dire che il giornalismo, non oggi, ma sempre è stato una merda fino all’apparizione del Travaglio medesimo? Questo sembra un po’ messianico e cristologico e anche un po’ boh! Ma un ho visto Travaglio fumare le sigarette tenendole tra il medio e l’anulare (ma forse è una cosa che ha fatto solo quel giorno, magari si era infortunato l’indice a furia di puntarlo, oppure anche può darsi che l’indice lo voglia tenere apposta libero per poterlo puntare a piacimento tipo spada lasera di Star Wars. Non saprei, ma forse questo potrebbe essere un sintomo di messianesimo e cristologia giudicante travagliesco. 

Manlio Sgalambro sosteneva che i quotidiani dovessero occuparsi soltanto di asteroidi che stanno per impattare la terra, della morte del sole, della seconda legge della termodinamica, della fisica teorica (e sono d’accordo, ma cago anche io).

La mia personale opinione è che “Il Fatto Quotidiano”, vedendo che esisteva una forza politica formata in gran parte da un pugno di scappati di casa, in mano a una persona che politicamente aveva le idee confuse, tra il new-age e la farsa messianica (riciccia il messianesimo, anche Beppe Grillo, mi pare, si prenda meno sul serio di Travaglio), si sia voluto mettere alla guida dei Cinquestelle per dettarne la linea. 

In questo il giornalismo di Travaglio, più che a Indro Montanelli, mi sembra più simile a quello di Eugenio Scalfari, che inventandosi il “retroscenismo” tenne a lungo in mano la politica raggiungendo e addirittura superando il Corsera che invece ci mise un po’ di tempo a spaludarsi. 

Ecco, La Repubblica, mi sembra, sia stato ab origine un giornale che voleva, in qualche modo detenere un potere. E mi sembra anche che il Fatto, per la sua partigianeria politica (che non si riferisce, poi, in realtà ad alcun partito, ma a se stesso in quanto Marco Travaglio – Conte è un po’, al momento, il suo apostolo prediletto) sia un giornale orientato al Potere.  

In questo, Il Fatto, è ancora più puro di Rep., che in qualche maniera aveva un editore impuro. La battuta finale dell’intervista doppia – Gomez che dice a Travaglio: “Dai Marco facciamo il culo a Repubblica” – appare diretta proprio contro il proprio avversario principe: è con Rep. che Il Fatto combatte; non si mette in armi contro, che ne so, Il Giornale o Libero; è nel recinto del “suo” potere che Travaglio vuole il “campo largo”, altrimenti meglio stretto, strettissimo, come la cruna dll’ago, che ci passi solo lui. E’ il mondo di Rep. che il Fatto vuole attaccare, non il mondo della Destra.

Si dirà: ma ci sono quotidiani che fanno di tutto tranne che informare, al servizio dei loro editori a loro volta vicini a una parte politica per semplice affarismo. Vero, verissimo! Ma tra un giornalismo che fa “affari” e un giornalismo che mira al Potere chi preferite? (tutti coloro che mirano al “potere” parlano sempre di libertà, le anime anarchiche – in senso puramente spirituale ed eremitico – se ne stracatafottono del Potere).

Ecco: il giornalismo affaristico è facile da ripugnare, ma credo sia meno pernicioso - se si tratta di pensiero e opinioni - del giornalismo di “potere” che inneggia alla libertà ed è meno facile da smascherare. La voglia di potere “puro” (e puoi averlo soltanto essendo editori di se stessi) che usa la parola “libertà” mi sembra più ipocrita.  

A meno che, e allora lo dica, Marco Travaglio non pensi di detenere in mano un concetto così complesso come quello di “verità”. Perché allora è giusto che ci si inchini a Travaglio-Cristo, ma allora si vesta da Papa (ce lo vedo) e ci perdoni se inchinandoci, poi, ci scappa una puzzetta, preludio della cacchina. Perché noi caghiamo!

La sentenza di Firenze. Perché Travaglio è stato condannato a risarcire Renzi: 80mila euro per la sua “campagna diffamatoria”. Redazione su L'Unità il 6 Ottobre 2023

Dal tribunale di Firenze arriva una brutta notizia per Marco Travaglio. Il direttore de Il Fatto Quotidiano è stato infatti condannato assieme al suo giornale al pagamento di 80mila euro di risarcimento, più spese legali e interessi, per aver ripetutamente diffamato Matteo Renzi.

A comunicarlo è stato lo stesso ex presidente del Consiglio e leader di Italia Viva . “Per anni ho subito in silenzio, sbagliando. La condanna di oggi non azzera le sofferenze per il passato ma pone una domanda agli addetti ai lavori della comunicazione: come può un diffamatore seriale che ha una collezione record di condanne continuare a fare la morale agli altri tutti i giorni in TV? Mistero. Intanto un pensiero alla mia famiglia che ha dovuto subire il peso di tutte le infamie e a tutti gli amici che non ci hanno mai abbandonato”, le parole di Renzi per commentare la vicenda processuale.

Travaglio paga in sostanza 51 articoli diffamanti e lesivi della reputazione del leader di Italia Viva, in gran parte a firma dello stesso direttore del ‘Fatto’. Nella sentenza, di cui dà conto Il Riformista, quotidiano di cui Renzi è direttore editoriale, si legge che “alla luce delle modalità stesse dell’illecito (ripetizione delle condotte ed univocità delle stesse), possa ravvisarsi in capo al direttore responsabile Marco Travaglio la sussistenza dell’elemento dolo, che sotto il profilo soggettivo va a connotare l’offesa all’onore ed all’identità personale di Matteo Renzi”.

Nelle disposizioni del giudice della seconda sezione civile del tribunale di Firenze Donnarumma si legge che ancora che “può ritenersi provata la perpetrazione di una campagna diffamatoria contro Matteo Renzi da parte de Il Fatto Quotidiano, poiché la grande mole di articoli e prime pagine in cui il suo nome viene accostato ad indagini, inchieste e a fatti illeciti relativi alle cinque vicende giudiziarie sopra menzionate, considerati complessivamente, esprimono una preordinazione complessiva a denigrare la persona di Matteo Renzi e non già a criticare la sua attività di politico”.

Da qui dunque la decisione di accogliere la domanda risarcitoria presenta da Renzi, condannando al pagamento di 80mila euro “in solido tra loro” Marco Travaglio e la Società editoriale il Fatto S.p.A. L’ex presidente del Consiglio aveva chiesto un risarcimento pari a 2 milioni di euro.

Dispositivo della sentenza che dovrà essere pubblicato per una sola volta sul Corriere della Sera, Repubblica e La Stampa, “a caratteri doppi rispetto a quelli normali”, e per una sola volta ma per almeno tre giorni sul cartaceo de Il Fatto Quotidiano e sul sito dello stesso giornale entro il termine di 60 giorni dalla pubblicazione della sentenza. Redazione - 6 Ottobre 2023

"Campagna diffamatoria sistematica". Travaglio condannato, dovrà risarcire Renzi. Lorenzo Grossi il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Il direttore del Fatto Quotidiano dovrà versare 80mila euro al leader di Italia Viva per una serie di articoli diffamatori pubblicati sul suo giornale. Il leader di Italia Viva: "La condanna di oggi non azzera le sofferenze per il passato"

Matteo Renzi vince una causa giudiziaria contro Marco Travaglio. Il direttore del Fatto Quotidiano sarà costretto a versare 80mila euro di risarcimento a causa di ben 51 articoli diffamanti e lesivi della reputazione del leader di Italia Viva pubblicati sul giornale, come si legge nella sentenza del Tribunale di Firenze. L'ex presidente del Consiglio aveva sporto querela nei confronti del Fatto per una serie di contenuti pubblicati tra il luglio 2018 e il giugno 2020 quasi tutti a firma di Travaglio, eccetto due rispettivamente di Carlo Tecce e Wanda Marra. La sentenza parla chiarissimo.

Le motivazioni contro Travaglio

Alla luce delle modalità stesse dell'illecito, il giudice ha ravvisato "in capo al direttore responsabile Marco Travaglio la sussistenza dell'elemento dolo, che sotto il profilo soggettivo va a connotare l'offesa all'onore ed all’identità personale di Matteo Renzi". E ancora: "Può ritenersi provata la perpetrazione di una campagna diffamatoria contro Matteo Renzi da parte de Il Fatto Quotidiano". Nel dispositivo si parla espressamente di un "ricorso costante ad epiteti ed appellativi offensivi riferiti all'attore, quali 'Bullo', 'Ducetto', 'Cazzaro', 'Mollusco', 'Disperato', 'Caso umano', 'Mitomane', 'Stalker', 'Cozza', 'Criminale'". Sarà poi il primo termine a essere considerato un "nomignolo dispregiativo sovrapposto all'immagine ed all'identità di Matteo Renzi", in quanto "veicola nella pubblica opinione le connotazioni negative dell’arroganza, della prepotenza e della spavalderia".

"La differenza tra noi è che...". Così Renzi annienta Travaglio

Per quanto riguarda la campagna di stampa nel corso degli anni, il Tribunale di Firenze la ritiene "diffamatoria", poiché "la grande mole di articoli e prime pagine in cui il suo nome viene accostato ad indagini, inchieste e a fatti illeciti relativi alle cinque vicende giudiziarie [...], considerati complessivamente, esprimono una preordinazione complessiva a denigrare la persona di Matteo Renzi e non già a criticare la sua attività di politico". Tutto questo perché "attraverso le titolazioni, gli accostamenti ambigui e le immagini si induce il lettore a ritenere che vi sia comunque un coinvolgimento" di Matteo Renzi.

La reiterazione degli illeciti nell'ambito di una campagna denigratoria espressiva di un dolo di preordinazione finalizzato all'attacco alla persona, il ruolo istituzionale ricoperto dal diffamato e la risonanza mediatica delle pubblicazioni del Fatto Quotidiano hanno fatto sì che venisse reputato equo e congruo una liquidazione complessiva di 80mila euro da parte di Marco Travaglio e della Società editoriale il Fatto S.p.A. in solido tra loro. La pubblicazione del dispositivo della sentenza dovrà avvenire "per una sola volta, su Il Corriere della Sera, La Repubblica e La Stampa, a caratteri doppi rispetto a quelli normali, e, per una sola volta ma per almeno tre giorni, sul periodico cartaceo Il Fatto Quotidiano e sul periodico digitale Il Fatto Quotidiano.it, entro il termine di 60 giorni".

Il commento di Renzi

Il senatore di Italia Viva ha commentato la notizia sul proprio profilo Facebook: "Per anni ho subito in silenzio, sbagliando. La condanna di oggi non azzera le sofferenze per il passato - sottolinea - ma pone una domanda agli addetti ai lavori della comunicazione: come può un diffamatore seriale che ha una collezione record di condanne continuare a fare la morale agli altri tutti i giorni in tv? Mistero. Intanto un pensiero alla mia famiglia che ha dovuto subire il peso di tutte le infamie e a tutti gli amici che non ci hanno mai abbandonato".

Pubblicata la sentenza del Tribunale di Firenze. Marco Travaglio e il Fatto Quotidiano condannati per diffamazione, risarcimento di 80.000 euro a Matteo Renzi. Redazione su Il Riformista il 6 Ottobre 2023 

La notizia è di poco fa e farà scalpore. A darla lo stesso Matteo Renzi, che aveva fatto querela nei confronti di Marco Travaglio, con un post Facebook: “Stamani Marco Travaglio e Il Fatto Quotidiano sono stati condannati a risarcirmi ottantamila euro più le spese e gli interessi per avermi ripetutamente diffamato. Per anni ho subito in silenzio, sbagliando. La condanna di oggi non azzera le sofferenze per il passato ma pone una domanda agli addetti ai lavori della comunicazione: come può un diffamatore seriale che ha una collezione record di condanne continuare a fare la morale agli altri tutti i giorni in TV? Mistero. Intanto un pensiero alla mia famiglia che ha dovuto subire il peso di tutte le infamie e a tutti gli amici che non ci hanno mai abbandonato.”

Ben 51 articoli diffamanti e lesivi della reputazione del leader di Italia Viva a firma quasi esclusivamente di Marco Travaglio, si legge nella sentenza che “alla luce delle modalità stesse dell’illecito (ripetizione delle condotte ed univocità delle stesse), possa ravvisarsi in capo al direttore responsabile Marco Travaglio la sussistenza dell’elemento dolo, che sotto il profilo soggettivo va a connotare l’offesa all’onore ed all’identità personale di Matteo Renzi.”

E ancora “può ritenersi provata la perpetrazione di una campagna diffamatoria contro Matteo Renzi da parte de Il Fatto Quotidiano, poiché la grande mole di articoli e prime pagine in cui il suo nome viene accostato ad indagini, inchieste e a fatti illeciti relativi alle cinque vicende giudiziarie sopra menzionate, considerati complessivamente, esprimono una preordinazione complessiva a denigrare la persona di Matteo Renzi e non già a criticare la sua attività di politico.”

Pertanto alla luce di queste considerazioni si legge nelle disposizioni del giudice Donnarumma del tribunale di Firenze l’accoglimento della “domanda risarcitoria e, per l’effetto, condanna i convenuti Marco Travaglio e la Società editoriale il Fatto S.p.A. in solido tra loro, al pagamento in favore dell’attore della complessiva somma di 80.000,00″ e accoglie la domanda di pubblicazione della sentenza e per l’effetto “condanna i convenuti Marco Travaglio e la Società editoriale il Fatto S.p.A, in solido ed a loro cura e spese, alla pubblicazione del dispositivo della presente sentenza, per una sola volta, su “Il Corriere della Sera”, “La Repubblica” e “La Stampa”, a caratteri doppi rispetto a quelli normali, e, per una sola volta ma per almeno tre giorni, sul periodico cartaceo “Il Fatto Quotidiano” e sul periodico digitale “Il Fatto Quotidiano.it”, entro il termine di 60 giorni dalla pubblicazione della presente sentenza”.

Ma continua a fare la morale in tv. Travaglio il diffamatore, il disegno ‘criminale’ contro Renzi: tutte le condanne del direttore del Fatto. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 7 Ottobre 2023 

Marco Travaglio pianificò e realizzò una campagna diffamatoria contro Matteo Renzi. Lo ha stabilito il tribunale di Firenze che ieri lo ha condannato ad 80mila euro di risarcimento, oltre al pagamento delle spese processuali e alla pubblicazione della sentenza su tre quotidiani nazionali. Il direttore del Fatto Quotidiano, scrive il giudice Massimo Donnarumma, iniziò il suo “progetto denigratorio” nel 2015, pubblicando una “grande mole di articoli e prime pagine” in cui il nome di Renzi veniva puntualmente accostato ad “indagini, inchieste e a fatti illeciti”.

La campagna denigratoria nei confronti di Renzi durò cinque anni, con la pubblicazione di più di cinquanta articoli che avevano un solo scopo: insinuare nel lettore, tramite titolazioni, accostamenti ambigui ed immagini, il sospetto di un coinvolgimento di Renzi nelle vicende giudiziarie riguardanti suoi parenti o amici. Un disegno ‘criminale’, pianificato a tavolino, che Travaglio ha portato avanti con un linguaggio volgare e scurrile. Fra gli appellativi utilizzati: “Cazzaro”, “Ducetto”, “l’Innominabile”, “Mollusco”, “Disperato”, “Caso umano”, “Mitomane”, “Stalker”, “Cozza”, “Criminale”. Non contento, Travaglio aveva poi iniziato a chiamare Renzi “Bullo”, anche a prescindere dal fatto narrato, superando tutti i limiti esterni del diritto, sia di critica che di satira politica. Il numero delle volte in cui Renzi è stato identificato con tale appellativo, ricorda il giudice, “è così imponente ed attraversa un arco di tempo così vasto (dal 2014 al 2020) che si può ritenere che Il Fatto Quotidiano, nell’ambito della sua strategia comunicativa, abbia deliberatamente attribuito a Renzi il soprannome o nomignolo di “Bullo””. Una condotta che ha leso specificamente i diritti all’onore ed all’identità personale di Renzi, protetti, quali diritti in violabili della personalità, dall’articolo 2 della Costituzione. Improbabile la difesa di Travaglio che ha tentato di convincere il tribunale della bontà del suo operando, affermando che fino al 2014 il Fatto Quotidiano aveva difeso e condiviso la linea politica di Renzi. Il cambio di passo, squisitamente politi- co ed attinente al “merito delle sue scelte”, sarebbe iniziato a seguito della presentazione dei progetti di riforma della Costituzione e della legge elettorale.

Fra i provvedimenti del tutto contrari alla linea editoriale del Fatto, “il Jobs Act, l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, la Buona Scuola, l’innalzamento delle soglie di non punibilità per molti reati di evasione e di frode fiscale, l’innalzamento della so glia minima, consentita per i pagamenti in contanti”. “Scelte che si sarebbero rivelate sbagliate, come la personalizzazione del referendum costituzionale, fino all’impegno solenne (poi tradito) di abbandonare la vita politica, in caso di sconfitta, evidenziandosi le contraddizioni rispetto ai programmi annunciati e alle promesse fatte”, aveva scritto Travaglio nella memoria difensiva. Nell’ambito della campagna denigratoria, il giudice cita un articolo in particolare: “Vacanze ad Hammamet” del 2019. Un articolo pieno di falsità dove Travaglio attribuiva a Renzi gravi fatti di rilievo penale. Più nel dettaglio, si ipotizzava che vari imprenditori e la madre di uno di essi avessero effettuato versamenti in denaro alla Fondazione Open, diretta da Renzi, nonché direttamente allo stesso, ricevendone in cam bio favori.

Si trattava di “insinuazioni pesanti che vanno al di là dell’esercizio del diritto di cronaca giornalistica”. Travaglio, infatti, non si era limitato ad esporre il contenuto degli atti di indagine della Procura fiorentina, ma “ha indossato i panni del Pm”, elaborando una propria ricostruzione dei fatti in un momento in cui Renzi non risultava nemmeno indagato. C’è da chiedersi come il Direttore del Fatto Quotidiano possa andare ancora in tv a fare la morale agli altri. Paolo Pandolfini

Il Bestiario, lo Sciacalligno. Lo Sciacalligno è un animale leggendario che sopravvive nutrendosi dell’odio per i propri nemici. Giovanni Zola il 15 Giugno 2023 su Il Giornale.

Lo Sciacalligno è un animale leggendario che sopravvive nutrendosi dell’odio per i propri nemici.

Lo Sciacalligno è un essere mitologico che finge di non comprendere la differenza tra “avversario” e “nemico”. L’avversario lo si combatte all’interno del campo da gioco, con la forza delle idee e della dialettica nell’ambito di un dibattito democratico. L’esempio plastico è quello di Don Camillo e Peppone. Un confronto accesissimo dove venivano tirati anche colpi bassi, ma che non travalicava mai il bene per l’essere umano, per la persona. Il nemico si odia, lo si combatte utilizzando ogni mezzo machiavellico per sopprimerlo, annientarlo, e infine dannare la sua memoria. Questo non può avvenire in uno Stato democratico, questo avviene nelle peggiori guerre dove non si fanno prigionieri. Lo Sciacalligno non è cristiano, cioè non ama l’uomo in quanto uomo. Ed è paradossale in quanto lo Sciacalligno afferma di amare il diverso, ma lo ama in quanto diverso, non in quanto uomo.

Lo Sciacalligno è persuaso di essere il custode della verità, è un moralista che guarda alla pagliuzza nell’occhio dell’altro, ma in realtà maschera dietro a questo atteggiamento, accompagnato da un odioso sorriso beffardo che denota la sua superiorità, un interesse politico ed economico. Non lo dice, ma vuole il potere. E solo Dio sa quanto voleva il potere nel 1994, quando la strada sembrava spianata per conquistare l’Italia. Per questo lo Sciacalligno impazzisce quando il nemico non è controllabile, quando non appartiene ai “poteri forti” (brutta parola astratta, ma che dà l’idea), quando ha idee discordanti dal pensiero dominante, quando afferma che il “realismo” è meglio del “buonismo” (non a caso Silvio e Donald hanno avuto lo stesso trattamento). Lo Sciacalligno va giù di testa soprattutto quando scopre che il nemico ha un popolo che lo segue e per questo odia il popolo, perché il popolo è libero (malgrado il Green Pass).

“E’ un uomo. E ora incontra Dio”, ha detto il vescovo di Milano. Lo Sciacalligno non lo può tollerare, perché non può essere la misericordia di Dio a giudicare, troppo facile. E’ lo Sciacalligno stesso che può e deve dire l’ultima parola e non sarà certo una parola di pace. Lo Sciacalligno non lo sa, ma anche lui vorrebbe essere ricordato con parole di salvezza per la sua anima che non è bianca come quella di tutti. C’è ancora una sedia nello studio dismesso del programma “Servizio pubblico”, che pur essendo stata pulita per bene con un fazzoletto bianco, è rimasta sporca dell’odio dello Sciacalligno.

Alessandro Sallusti smaschera Marco Travaglio, da che cosa si traveste. Il Tempo il 22 luglio 2023

Alessandro Sallusti a tutto tondo sul palco di Palazzo Paleologo a Trino per l'ottava edizione del Festival delle Città Identitarie ideato e diretto da Edoardo Sylos Labini per riscoprire i simboli culturali, storici e artistici delle città di provincia italiane. Sul palco il direttore di "Libero" ha parlato anche di Marco Travaglio. "Un attore. Fa quello di sinistra ma in realtà è di estrema destra - ha detto Sallusti - Siccome il personaggio funziona, lui recita quello. E in teatro è ancora meglio che al giornale - ironizza Sallusti - nella sua recita c'è anche l'essere stato il braccio destro di Montanelli: è una balla clamorosa, negli anni Ottanta lavoravo con Montanelli e Travaglio era il vice corrispondente dello sport da Torino. Montanelli non sapeva nemmeno che esisteva".

Il direttore onnipresente. Travaglio conquista La7, Otto e Mezzo (Fatto): tutte le presenza in tv con Scanzi e Padellaro. Riccardo Puglisi su Il Riformista il 9 Giugno 2023 

Nel panorama televisivo italiano La7 è un caso piuttosto eclatante per la sua posizione politica particolarmente netta, così come emerge dai suoi talk show. Grazie ai dati raccolti con Tommaso Anastasia e Nicola Chelotti, posso qui fornirmi dei numeri più precisi, alla faccia del postmoderno disprezzo per l’analisi quantitativa.

Mi soffermo su Otto e Mezzo di Lilli Gruber e su DiMartedì, presentato da Giovanni Floris. Il modo più semplice per analizzare la posizione politica di un talk show consiste nel verificare la percentuale di ospiti politici che appartengono ai diversi partiti. Bisogna però tenere altresì conto del fatto che anche i giornalisti –invitati in massa nei talk show italiani – hanno una connotazione politica che di certo non si nasconde profondamente, e che lo stesso vale – anche se in misura minore – per gli esperti.

Nel 2016 il 62 per cento degli ospiti politici da Lilli Gruber (sessantadue percento) apparteneva al Partito democratico, mentre nel 2021 si raggiunge il massimo del 66. Anni strani? Mica tanto, perché la percentuale minima di ospiti del Pd viene raggiunta nel 2018 (al tempo del governo Conte I) con un robusto 39.4 per cento, a cui aggiungere il 7.6 degli ospiti appartenenti ad Articolo Uno (formazione capitanata da Bersani e Speranza).

Nello stesso periodo gli ospiti grillini oscillano intorno al 12 per cento, con percentuali simili per Lega e Forza Italia solo nel 2018 e 2019. Nel caso di DiMartedì c’è invece un’interessante discesa della percentuale degli ospiti del Pd, che vanno da un’eclatante 53.4 per cento nel 2016 al 19.9 del 2021. Gli ospiti grillini di Floris oscillano intorno al 17 per cento, con una punta del 29 nel 2017. Si tenga anche presente che nel 2020 il 19 per cento degli ospiti di Floris appartenevano ad Articolo Uno, per la precisione l’allora ministro della salute Roberto Speranza 21 volte e Pierluigi Bersani 9 volte. Le puntate di DiMartedì nel 2020? 38.

E i giornalisti? Nel periodo 2016-2019 ci sono state 1215 ospitate di giornalisti da Floris: qui spiccano le 191 ospitate per giornalisti di Repubblica, seguite dalle 177 per il Corriere, le 133 per Libero e le 104 per il Fatto Quotidiano. Il quadro diventa galvanizzante nel caso di Otto e Mezzo: 2252 ospitate, di cui 682 per giornalisti del Fatto Quotidiano (cioè il 30 per cento delle ospitate totali), a cui possiamo confrontare le 278 ospitate (cioè il 12 per cento circa del totale) per i giornalisti del Corriere, che peraltro giocherebbero in casa a motivo di Urbano Cairo editore in comune. E chi ci ritroviamo tra i giornalisti del Fatto? Un aitante terzetto domina la scena ai limiti della co-conduzione, ovvero Antonio Padellaro con 151 presenze, Andrea Scanzi con 171 presenze e soprattutto Marco Travaglio, con 248 presenze: l’11 per cento delle ospitate totali di giornalisti, poco meno delle ospitate di tutti i giornalisti del Corriere. Quindi non si può concludere che con un fragoroso, nonparcondicioso: Travaglio c’è! Riccardo Puglisi

Altro che presunzione d'innocenza. Renzi risponde a Travaglio: “Io imputato, lui pregiudicato: lo disistimo non per questo, ma per l’odio…” Redazione su Il Riformista il 13 Maggio 2023 

“Il Riformista ha un direttore imputato, il Fatto Quotidiano ha un direttore condannato: orgogliosi di essere diversi, anche in questo”. Matteo Renzi risponde così a Marco Travaglio che “oggi scrive un editoriale per dire che il direttore del Riformista, cioè il sottoscritto, è imputato. Vero: come noto sono davanti al giudice dell’udienza preliminare per Open. Il Fatto Quotidiano invece è guidato da un direttore pregiudicato che si chiama Marco Travaglio” sottolinea l’ex premier.

“In altre parole lui è stato condannato penalmente in via definitiva, cosa che io non sarò mai. Ma non è per questo che lo disistimo” spiega Renzi che chiarisce: “Lo disistimo per il suo carico di odio che tutte le sere esprime in TV contro chi non la pensa come lui”.

Altro che presunzione d’innocenza, Travaglio nel suo editoriale si è scagliato, per l’ennesima volta, sia contro l’editore del Riformista, l’avvocato e imprenditore Alfredo Romeo, che contro l’attuale direttore editoriale Matteo Renzi. La loro colpa? Essere imputati (e non condannati, attenzione).

Nel mirino del pregiudicato Travaglio l’editoriale di Renzi sul processo Open. Editoriale dove spiegava ai lettori che “anche oggi mi presenterò in Tribunale, a Firenze, nell’ambito del “processo Open” per poi aggiungere che “debbo ai lettori una spiegazione sul perché Il Riformista non seguirà questa udienza preliminare, né questo processo”.

“Questo giornale non è il luogo della mia difesa. Mi difendo da solo” ha aggiunto Renzi. Parole che hanno fatto scattare l’ennesima caccia alle streghe di Travaglio.

Tecnicamente un pregiudicato...Tutte le condanne di Marco Travaglio, il prezzemolino della tv che istiga all’odio social. Annarita Digiorgio su Il Riformista il 16 Maggio 2023

Marco Travaglio è un pregiudicato. Quindi secondo il suo metro di giudizio, forcaiolo e giustizialista, che etichetta le persone sull’altare dei brogliacci delle Procure, non degno di dirigere un giornale. E neppure di essere ospite fisso in tv, come dimostra il grafico che abbiamo elaborato sulle sue presenze a La7. Nel 2000 Travaglio è stato condannato in sede civile a risarcire con 79 milioni di lire Cesare Previti a causa di un articolo in cui lo definiva “futuro cliente di Procure e tribunali”.

Nel gennaio 2010 la Corte d’Appello penale di Roma ha condannato Travaglio per il reato di diffamazione aggravato dall’uso del mezzo della stampa, ai danni di Cesare Previti per l’articolo pubblicato su L’Espresso dal titolo “Patto scellerato tra mafia e Forza Italia”. Travaglio presentò ricorso in Cassazione, che lo dichiarò inammissibile. Non contento il direttore del Fatto Quotidiano ha presentato ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo sostenendo che fosse stata lesa la sua libertà di parola. La Cedu ha dichiarato inammissibile il ricorso. Secondo i giudici di Strasburgo i tribunali italiani hanno ben bilanciato i diritti delle parti in causa, da un lato quello di Travaglio alla libertà d’espressione e dall’altro quello di Cesare Previti al rispetto della vita privata.

I togati hanno dato ragione ai colleghi italiani che hanno condannato Travaglio per aver pubblicato solo una parte della dichiarazione del colonnello dei Carabinieri Michele Riccio “generando così nel lettore – si legge nella decisione della Corte – l’impressione che Previti fosse presente e coinvolto negli incontri riportati nell’articolo”. La Corte ha osservato “che, come stabilito dai tribunali nazionali, tale allusione era essenzialmente fuorviante e confutata dal resto della dichiarazione non inclusa dal ricorrente nell’articolo”.

Travaglio insieme a Peter Gomez ha dovuto risarcire con 15 mila euro l’allora deputato di Forza Italia Giuseppe Fallica per aver scritto nel libro “La Repubblica delle banane”, che era condannato per false fatture. Il 5 aprile 2005 Travaglio è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile, assieme all’allora direttore de l’Unità, Furio Colombo, al risarcimento a Fedele Confalonieri di 12mila euro più 4mila di spese processuali per averne associato il nome ad alcune indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era risultato inquisito. 

Sempre a Fedele Confalonieri, Travaglio ha dovuto risarcire duemila, per un articolo pubblicato nella rubrica Uliwood Party su L’Unità.

Il 21 ottobre 2009 è stato condannato in Cassazione al risarcimento di 5mila euro nei confronti del giudice Filippo Verde che il giornalista aveva definito «più volte inquisito e condannato». Travaglio si giustificherà dicendo “avevo scritto “più volte condannato” nel senso del primo e del secondo grado, mentre il giudice ha inteso due volte condannato in via definitiva”, omettendo la sentenza di prescrizione.

Il 22 ottobre 2018, il tribunale civile di Firenze ha condannato Travaglio (in solido con la giornalista Gaia Scacciavillani e con la Società Editoriale Il Fatto) al pagamento di una somma di 95mila euro a titolo di risarcimento per diffamazione verso Tiziano Renzi. Il 16 novembre 2018, in un procedimento relativo alle parole pronunciate nel corso di un’ospitata nella trasmissione “Otto e mezzo”, dove Travaglio è ospite fisso, è stato condannato dal Tribunale di Firenze al pagamento di 50000 euro per diffamazione nei confronti di Tiziano Renzi.

Travaglio disse che “Il padre del capo del governo si mette in affari o s’interessa di affari che riguardano aziende controllate dal governo”, i giudici hanno condannato lui.

Anche se Travaglio, per ognuna di queste sentenze, ha la sua giustificazione e la sua versione dei fatti. Insomma anche se condannato al risarcimento, ha sempre ragione lui. Travaglio è stato anche condannato in primo grado per diffamazione in tre diversi processi contro Giuliano Amato, Beppe Sala, e Maria Elisabetta Casellati.

Pregiudicato, si. Tecnicamente un pregiudicato…

Annarita Digiorgio 

Un elenco (in)completo. Travaglio perde ancora: dovrà pagare 15.000 euro a Beppe Sala. Le cause perse del “Diffamatore”. Dal 2000 ad oggi, tra le tante, sono 14 le cause perse da Marco Travaglio, dal 2018 al 2023 il Direttore del Fatto è costato 223mila euro. Paolo Pandolfini su Il Riformista l'1 Luglio 2023

Da 5mila a 15mila euro di danni. È stato triplicato questa settimana il risarcimento che Marco Travaglio dovrà versare al sindaco Beppe Sala. I fatti risalgono al giugno del 2018. Esploso lo scandalo dello stadio della Roma, il direttore del Fatto, dagli studi della trasmissione Otto e mezzo su La7, di cui è uno degli ospiti fissi al punto che potrebbe fare tranquillamente il co-conduttore, si era lanciato in una accorata difesa dei grillini che all’epoca amministravano (male) la Capitale.

Nel mirino era finito il costruttore Luca Parnasi, arrestato con l’accusa di aver dato mazzette a politici e dirigenti di punta del M5s per costruire il nuovo impianto sportivo. «Anche se nessun giornale lo ha scritto, il nome di Sala è nelle carte», si era allora infervorato Travaglio, sparando anche la cifra che sarebbe stata sganciata dal costruttore: 50mila euro.

La ‘doppia conforme’ nei confronti di Sala è solo una delle ultime condanne per diffamazione riportate da Travaglio la cui storia giudiziaria parte da molto lontano. Una premessa è d’obbligo: l’elenco delle condanne riportate da Travaglio è molto lungo e ci sarebbe bisogno di almeno un paio di pagine per elencarle tutte. Queste, comunque, quelle maggiormente degne di nota. Nel 2000, quando c’era ancora la lira, ecco arrivare la prima condanna in sede civile a risarcire l’ex ministro della Difesa Cesare Previti a causa di un articolo in cui lo aveva definito «futuro cliente di procure e tribunali». Con Previti ci fu anche un procedimento penale e nel gennaio 2010 la Corte d’Appello di Roma condannò Travaglio a 1000 euro di multa per il reato di diffamazione aggravato dall’uso del mezzo della stampa. A febbraio 2011 tale condanna, confermata in appello, diventerà definitiva in ragione dell’inammissibilità del ricorso in Cassazione. Sostenendo che fosse stata lesa la sua libertà di parola, Travaglio presentò ricorso alla Cedu, che, nel 2017, confermò però il carattere diffamatorio dell’articolo. 

Nel 2004 nuova condanna sempre in sede civile per aver scritto nel libro La Repubblica delle banane, quando invece non era vero, che il deputato di Forza Italia Giuseppe Fallica era stato imputato per false fatture. Nel 2005 altra condanna, sempre in sede civile, per aver accostato falsamente il nome di Fedele Confalonieri ad alcune indagini per ricettazione e riciclaggio. Sempre nel 2008, a giugno, ecco la condanna per aver diffamato la giornalista del TG1 Susanna Petruni, descritta come personaggio servile verso il potere e parziale nei suoi resoconti politici. L’anno successivo, nel 2009, altra condanna per aver diffamato nel libro Il manuale del perfetto inquisito il giudice Filippo Verde, definito più volte «inquisito e condannato». Nel 2010 a denunciare Travaglio ci penso l’allora presidente del Senato Renato Schifani. Passa l’estate e ad ottobre 2010 arriva la condanna in sede civile per aver dato del «figlioccio di un boss» all’assessore regionale siciliano David Costa.

Qualche anno di relax e nel 2017 ancora una condanna, questa volta nei confronti di Giuliano Amato. E si arriva, quindi, alle condanne ‘top’, quelle che rischiano di far collassare i conti del Fatto per i risarcimenti. A gennaio 2018 è stato condannato dal Tribunale di Roma in merito ad un editoriale contro tre magistrati siciliani, riguardo alla latitanza di Bernardo Provenzano; la provvisionale disposta ammontò a 150mila euro. Ad ottobre 2018, il tribunale civile di Firenze lo ha condannato al pagamento di una somma di 9omila euro a titolo di risarcimento per diffamazione nei confronti di Tiziano Renzi. Era stato citato in giudizio per due editoriali riguardanti un processo penale per bancarotta che aveva visto invece Tiziano Renzi assolto con formula piena. Il 30 giugno 2022 la sentenza è stata confermata in appello.

A novembre 2018, in un procedimento relativo alle parole pronunciate nel corso della solita ospitata ad Otto e mezzo, Travaglio è stato condannato la seconda volta dal Tribunale di Firenze al pagamento di 30mila euro per diffamazione nei confronti di Tiziano Renzi. A febbraio 2022, come detto, condanna a 3000 euro per aver insinuato che il finanziamento del costruttore romano Parnasi per la campagna del sindaco di Milano Sala non fosse trasparente. Condanna triplicata questa settimana in appello. A giugno 2022, ultima condanna in ordine di tempo: 25mila euro di risarcimento alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati.

Paolo Pandolfini

Le accuse a Renzi e l'articolo 27 della Costituzione. Il talento di Marco Travaglio, critica, satira e… cantonate: caro Marco, meglio cantare a squarciagola. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 16 Maggio 2023

Confesso: anche io sono indagato. Per aver espresso sdegno all’indomani della rivelazione, su questo stesso giornale, della confessione che il giudice Franco, relatore del collegio di Cassazione, fece a Silvio Berlusconi: “Ti abbiamo fatto una porcata politica, condannandoti”. Ma non credo di non poter esprimere opinione, né mai censurerei quella di alcuno perché indagato.

Riconosco volentieri a Marco Travaglio un talento: inventò un genere, caustico, tra paradosso, critica e satira (che invoca a sua difesa, un po’ codardamente se mi è consentito, non essendo né comico né satiro), con cui prese belle cantonate (inchieste decantate e finite in nulla, che hanno travolto reputazioni e vite altrui, e soldi degli italiani). Ma se autonomamente sceglie, come terreno di critica, l’altrui status di indagato (verso il direttore di questo giornale), mi chiedo: ne hai titolo? Sei immacolato? No. Anzi.

Qui, il suo curriculum giudiziario, che usando il suo metro di giudizio, che non è affatto il mio, qualcuno dei suoi definirebbe criminale e cioè “colpevole di delitti nei confronti di singoli o della collettività”. Colpevole perché egli è stato più volte condannato. Renzi no. Usando il suo metro, non il mio, ha più o meno diritto di parola di Renzi? Forse, tutti insieme, anche se di diverse opinioni, potremmo riconoscere che essere indagati è condizione neutra, né buona né cattiva: stanno vagliando, si spera senza pregiudizio, la tua condotta. Tutto qui.

E che se si è indagati, o peggio imputati e poi assolti, non è male ricevere scuse: un cittadino di cui si è ingiustamente dubitato, viene risarcito almeno moralmente. Critichiamo le idee delle persone, non lo status. Senza, magari, quell’apparente livore preconcetto che persone intelligenti come Travaglio possono scansare e di cui sembrano intridere una pur ottima penna. Io preferisco il Marco che canta a squarciagola in un ottimo ristorante romano fottendosene del divieto di fumo. Sia più rispettoso dell’art. 27 della Costituzione (o la invochiamo solo per il sedere altrui?). Ne guadagnerebbe chi ci legge, e prende sul serio.

Andrea Ruggieri

QUALCUNO PENSAVA IO FOSSI DI SINISTRA. MENTRE COLLABORAVO CON LA PADANIA” – L’IMPERDIBILE FINTO ARTICOLO DI TRAVAGLIO APPARSO SUL “GIORNALONE”, L’INSERTO SATIRICO DELLA “STAMPA”:

Estratto del finto articolo di Marco Travaglio – da “il Giornalone – La Stampa” il 20 marzo 2023.

Caro lettore, cara lettrice, poche righe solo per dirti grazie. Quando Enzo Biagi concesse a questo giornale il nome della sua striscia tv censurata da Berlusconi, mai avrei immaginato di essere qui dopo tanto tempo a conteggiare una serie inarrestabile di trionfi. Pacato, autorevole, rigoroso, equanime, sono solo alcuni degli aggettivi che fecero grande Biagi e che, lo so bene, ho usato negli anni come presidio igienico per le pudenda. Specie in televisione. dove faccio esplodere gli ascolti perché sono efficace come un coltello nel burro a patto che il mio avversario non mi si appropinqui, come successe con Renzusconi, in due occasioni.

Ma non è colpa mia: è colpa tua. Perché se è vero che avere un padrone è orribile, averne troppi è ingovernabile. Finisce che ti esplode un ego grande come il Wisconsin e, come tutti, hai sempre bisogno di un applauso in più, di un like in più, di asfaltare qualcuno. blastarlo, travolgerlo. E non ti basta il consenso: vuoi l'unanimità. E chi non te la concede è un venduto, in malafede, o un venduto in malafede. Diventi una rockstar, cioè permaloso come Ligabue.

 Ti senti assediato, come un Berlusconi con appena meno trucco. Precisi, bastoni, ti vendichi: come manco Renzi E soprattutto, per mantenere il livello ché il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista, cerchi di compiacere chi ti legge proprio come un politico. Alzi l'asticella: vogliono qualcosa contro i migranti? Daje coi taxi del mare, senno leggono libero.

Qualche spunto novax? Meglio di sì, sennò leggono Belpietro. Tratti gli amici in un modo e i nemici in un altro, proprio come i giornaloni, ma fai credere al tuo pubblico di essere diverso. Vanno il governo i tuoi, e fai opposizione solo agli alleati. Bastoni i reprobi. Fai un giornale di partito, e ci mancherebbe che non potessi, ma attribuisci partiti a chiunque. E quando la sbagli, ché la sbagliano tutti, sostieni di fare satira.

Ora, io lo so: ho il senso dell'umorismo di una retata. So ridere più che ridere. Per scrivere, uso l'inchiostro delle impronte digitali. Sto al Male, il celebre settimanale satirico che ho ripubblicato l'altro giorno per dire che in fondo siamo la stessa cosa, come un etto di culatello sta a un Mullah. Quindi, davvero, grazie. Però, ora, dà retta a quel ciccione fallito che s'è inventato ‘sta pagina: salvami dal culto di me stesso. Voglio tornare a quando ero un giovane cronista con l'archivio che ora tutti temono e qualcuno pensava io fossi di sinistra. Mentre collaboravo con la Padania. In fondo, davvero, ho fatto anche cose buone. Aiuto.

Estratto dell’articolo di Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 27 febbraio 2023.

Anche se rispolvera il vecchio Enzo Jannacci di Quelli che… Marco Travaglio è un sorcino doc e proprio come il suo idolo Renato Zero non si risparmia sul palco, parlando tre ore filate senza interruzioni nell’ultimo spettacolo I migliori danni della nostra vita che fin dal titolo cita Renatone nostro.

 La forma è quella ibrida già collaudata in altri “live”, giornalismo di inchiesta adattato a format per il teatro. Chi sceglie tale strada ha un nume tutelare, Giorgio Gaber, scomparso vent’anni. Con una differenza, Gaber metteva l’ironia, il sarcasmo, la cattiveria soprattutto verso se stesso, era capace di vedere il male del mondo senza mai dimenticare le proprie aberrazioni quotidiane. Per Travaglio invece sono tutti colpevoli tranne se medesimo e quei pochi (ma sono davvero pochi) destinati a salvarsi dal mare di palta che ci sta sommergendo.

Torinese, salesiano, primo della classe, Travaglio ha un’irresistibile dote per i suoi concittadini: è anti-empatico, nel senso che non ha nessuna intenzione di mettersi nei panni degli altri.

 […] Il Travaglio di oggi è un uomo innamorato. Di se stesso certo, e di Giuseppe Conte, il solo politico destinato a salvarsi in questi ultimi vent’anni: onesto, giusto, retto, visionario, capace, preparato, ecologista, l’unico a reggere il destino della sinistra, quella vera non il Pd che il nostro ha in uggia più della destra. Sul perché di tale passione ci sarebbe da indagare nella psiche e non basti considerare l’ex presidente del consiglio come emanazione diretta di Beppe Grillo, ormai eclissatosi dalla disamina travagliesca.

 Il direttore de Il Fatto Quotidiano è fermamente convinto che se nel 2013 Grillo e Bersani, ovvero M5S e Pd, si fossero messi d’accordo per governare, l’Italia sarebbe andata naturalmente a sinistra. Nella sua visione il Conte 2 aveva raccolto il fallimento di quell’esperienza con politiche autenticamente di sinistra, a cominciare dal famigerato reddito di cittadinanza. Strano sentirlo così schierato, lui che fondamentalmente ha un curriculum tendenzialmente destrorso.

Travaglio conosce bene le regole del giornalismo e dello spettacolo, dunque sa che qualsiasi frase, scritta o pronunciata, se estrapolata dal contesto può assumere significati del tutto diversi. È la tecnica del blob inventata da Ghezzi e Giusti e ora praticata dai meme: fa ridere ma non è poi così legittima e lui la pratica con insistenza andando a cercare tutto ciò che gli serve sui giornali e in tv (un lavoro mostruoso) per avvalorare le sue tesi.

 […] La parte centrale dello spettacolo flette parecchio dopo un incipit spumeggiante, la lunga tirata sulla guerra in Ucraina francamente noiosa

 […] Dove proprio non convince è nell’uso della seguente espressione, “il pilota automatico”. Travaglio è convinto che tutti i politici italiani, tranne ovviamente l’amato Conte, si muovano di conserva, eterodiretti dall’America e dalla diplomazia internazionale (leggi, non contiamo una cippa), compresa Giorgia Meloni che invece è da annoverarsi tra le eccezioni, e lo dimostra la sua salita al potere nonostante gli osservatori fossero convinti che gli italiani apprezzassero Draghi e i governi contronatura “dentro tutti”.

Ecco, I migliori danni della nostra vita doveva durare 90 minuti, non di più, ma chi glielo dice a uno come lui di tagliare e accorciare, che il pezzo efficace non è mai troppo lungo?

 Mi incuriosisce, infine, l’identikit del pubblico travagliano. Dubito che le persone che hanno gremito sabato sera il Teatro Alessandrino di Alessandria siano tutti elettori del M5S o vedove di Giuseppe Conte. Travaglio “becca” un’audience prevalentemente di sinistra che però non si identifica né con il salotto buono né con i radical chic. Probabile siano elettori del Pd, del terzo polo, di qualche altro piccolo partito e non capisco il loro masochismo nel sentirsi idioti per tre ore, eppure continuare ad applaudire con convinzione.

Bocchino inchioda Travaglio: "Mi hai chiamato per farti togliere le cause". Libero Quotidiano il 19 gennaio 2023

Scontro su Giuseppe Valentino, candidato di Fratelli d'Italia al Csm (candidatura poi ritirata), tra Italo Bocchino e Marco Travaglio da Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7, nell'ultima puntata del 18 gennaio. "Quando candidi al Csm come vicepresidente cioè come capo uno che è indagato per 'ndrangheta... Per me è un presunto innocente ma a me preoccupa la sua biografia. È un signore che risulta in contatti strettissimi con un certo Paolo Romeo, che non c'entra niente con l'amico di Bocchino, quello dello scandalo Consip". "Anche amico tuo...", ribatte Bocchino.

"Mai stato. Non l'ho mai conosciuto", precisa il direttore de Il Fatto quotidiano. "Qualche frequentazione l'hai avuta... Gli hai fatto un'intervista fatta da te", lo incalza Bocchino. "Non sono stato né intercettato né rinviato a giudizio per traffico di influenze come te e Romeo", attacca Travaglio. Quindi Bocchino lo inchioda: "Sono lo stesso che chiamasti per chiedermi la cortesia di farti togliere le cause che ti aveva fatto Romeo e che ti sarebbero costate molto. Ho ancora i tuoi messaggi di ringraziamento, Marco". "Ho pubblicato le sue precisazioni perché siamo giornalisti corretti". Comunque, taglia corto Travaglio, "è un neo fascista, reo confesso di aver ospitato Franco Freda durante la latitanza. Come fa il partito del presidente del Consiglio a proporre alla vicepresidenza del Csm uno che ha queste frequentazioni? È una questione di opportunità politica".

Il caso Consip. Barbarie contro Alfredo Romeo, l’abbaglio di Travaglio e soci. Davide Faraone su Il Riformista il 13 Gennaio 2023

Prima arrivano il fango, gli editoriali apocalittici, le prime pagine definitive. Poi però arrivano i processi, quelli nei tribunali, e infine, molto spesso, arrivano le assoluzioni. Quello che ho appena descritto è un copione fin troppo abusato. È il modus operandi tipico di un certo giornalismo giustizialista che insegue lo scandalo, spesso lo crea dal nulla, sbatte il mostro in prima pagina, calpesta interessi, storie e vite senza curarsi di aspettare la verità. E quando la verità arriva, sotto forma di sentenza, semplicemente fa finta di non vederla. Niente prime pagine, niente articoli e soprattutto niente scuse.

L’ultimo caso del genere riguarda la vicenda dell’imprenditore Alfredo Romeo e i “Trentamila euro al mese promessi al babbo di Renzi”. Ieri, dopo cinque anni di processo, per Romeo è arrivata l’assoluzione. La corruzione per “il più grande appalto d’Europa” altro non era che una balla. Anche questa volta, come decine di altre in passato, Travaglio e soci hanno preso un abbaglio. Ma ovviamente non troverete traccia di questa notizia sul Fatto. Perché purtroppo, per alcuni giornalisti, ciò che conta non sarà mai la verità, ma semplicemente fomentare l’opinione pubblica contro fantomatici “colpevoli” additati come tali senza aspettare i verdetti dei tribunali. Chiamatela pure retorica colpevolista della giustizia mediatica, se preferite. Per quanto mi riguarda la parola più esatta per definirla sarà sempre barbarie. Davide Faraone

"Via le denunce, facciamo intervista". Travaglio e il giornalismo “corretto”, il caso Consip e la richiesta a Bocchino per mediare con Romeo. Paolo Liguori su Il Riformista il 19 Gennaio 2023

Giornalisti corretti, siamo tutti giornalisti corretti. Allora sono io scorretto perché non capisco questa correttezza dov’è. Alfredo Romeo è stato assolto dopo un processo Consip, che doveva essere l’asta truccata del secolo, e invece è stato ‘assolto perché il fatto non sussiste’ e il Fatto Quotidiano – giornalisti corretti – ha pubblicato un trafiletto piccolo così che la Gruber non ha neppure letto, perché se l’avesse letto non direbbe “non ne fate un fatto personale” (tra Bocchino e Travaglio), perché non è un fatto personale, è un fatto preciso di giornalismo.

Travaglio aveva delle denunce da parte di Romeo che riteneva eccessive le ‘centodiecimila’ pagine del Fatto Quotidiano su una sua presunta violazione della legge. Presunta perché poi si è dimostrata falsa, e Travaglio ha chiesto a Bocchino: “Per piacere, puoi dire ad Alfredo Romeo di levare queste denunce? In cambio faremo un’intervista”, ma non perché ‘siamo giornalisti corretti’, perché temeva quello che c’è stato adesso, dopo l’assoluzione. Se fossero rimaste quelle cause e non fossero state serenamente tolte, sarebbe certamente sottoposto a dei danni.

Questo giornalismo corretto, a cui fa capo Travaglio, è un giornalismo di silenzio, di omertà. Non è solo Travaglio, non è un fatto personale – ha ragione la Gruber – è anche il Corriere della Sera, è anche Libero, sono tutti i giornali italiani, La Stampa, Repubblica. Tranne il Giornale che ha pubblicato un trafiletto in cui spiegava dell’assoluzione. La cosa incredibile è che tra giornalisti corretti c’è stato uno scambio di accuse sanguinose: il Corriere della Sera ha pubblicato i conti dell’editore di Libero (che potrebbe essere in futuro l’editore del Giornale, Angelucci), perché potrebbe diventare un suo concorrente.

Correttezza? Mi sembra un colpo alle gambe! E cos’è successo il giorno dopo su Libero? Che Sallusti ha detto: “Ah! Ci avete azzoppato. Volevate dare i nostri conti? Ora vi do io i vostri, quelli di Cairo”. Un’altra raffica, un’altra bordata in prima pagina. Quale giornalismo corretto, notizie in prima pagina di reati gravissimi. Vengono tutti assolti e nessuno pubblica più nulla. Non solo, ma si scopre che Travaglio se la prende con Bocchino perché Bocchino è colpevole di essersi fatto intermediario per chiedere ‘per piacere’ ad Alfredo Romeo di levare delle denunce sacrosante a Travaglio. Fatto personale? Giornalismo corretto? Mi sento molto scorretto. Paolo Liguori

Le pietre miliari del giornalismo mi sa che Montanelli mica te le ha insegnate tanto bene. Caso Consip, caro Marco Travaglio sei un giustizialista a mille carati ma le regole del giornalismo vanno rispettate. Piero Sansonetti su Il Riformista il 23 Gennaio 2023

No, Marco (Travaglio). Non te la devi prendere, Paolo (Liguori) è sempre così aggressivo. Ma sai, io lo conosco da ragazzo è sempre stato uno aggressivo. Invece ragioniamo. Ragioniamo noi, con calma. Io volevo dirti due, tre cosine. Facili eh, sul giornalismo. Non ti offendere ma è importante saperle perché tu fai bene, sei un bravo polemista. Ma insomma, sul giornalismo inciampi Marco, diciamo la verità. Le pietre miliari del giornalismo mi sa che Montanelli mica te le ha insegnate tanto bene. Perché poi quello era un maestro ma magari tu eri molto giovane, non lo so.

Qual è la notizia? Lo decide il direttore. Stabilisce: questo è un fatto non mi interessa, questo è un fatto mi interessa. Tu hai preso Consip e hai detto che era l’ira di Dio, ti ricordi? Aperture “Hanno arrestato Romeo”, “Il delitto”, “Prendetelo”, “L’appalto”, Il superappalto”, “I due miliardi e sette”, “L’hanno truccato”. Cento pagine gli hai dedicato, Marco.

Allora io adesso te lo dico sottovoce, in modo che non sentano in troppi, ma non è che poi quando si scopre che non era vero niente tu puoi far finta di nulla. Cento pagine non si nascondono, cento pagine di giornale tutte sul caso Consip con l’appalto truccato che non era vero. Quando il tribunale dice che non era vero. Marco, la notizia bisogna darla non c’è niente da fare. Così come ho sentito che tu hai detto: “No, io non ho mai avuto la prescrizione”. Io e te lo sappiamo, tu non hai mai avuto la prescrizione perché la Cassazione ti ha detto che non te la meritavi. Ricordi? Tu l’hai chiesta la prescrizione, no? No, perché “il ricorso è pretestuoso”. Una figuraccia. Non dire poi in televisione che non hai mai ricevuto la prescrizione, devi dire però che l’hai chiesta.

Queste sono tutte cose piccole, io non è che voglia darti la colpa di chissà che. Per fare bene il giornalismo bisogna cercare di avvicinarsi alla verità e alla realtà. Tu fai bene a fare polemiche e dire: “Ci sono due Stati, non hanno voluto prendere Messina Denaro”, chi è che non ha voluto prendere Messina Denaro? La procura di Palermo probabilmente, Scarpinato, Ingroia, Di Matteo, erano quelli che lo dovevano prendere.

Oggi per esempio ho visto Libero che fa un titolo “Arreestata la contabile del Pd”. Non hanno arrestato la contabile del Pd, hanno arrestato la commercialista di alcuni parlamentari che peraltro non sono del Pd. Bisogna secondo me tornare a quel vecchio giornalismo che faceva le polemiche però aveva un certo rispetto per la verità. E te lo dico amichevolmente perché poi tu mi stai simpatico, magari non ci credi ma mi stai simpatico. Lo sai perché? Perché sei l’unico giustizialista vero che fa il giustizialista sempre: c’è un piccolo spacciatore, uno che fa un furtarello, c’è un presidente del Consiglio, tu li vuoi mettere sempre tutti in prigione, di destra, di sinistra, non ti importa. Invece ci sono quelli che fanno i garantisti con gli amici loro e i travaglini con quelli che gli stanno antipatici. Io preferisco te, un giustizialista a mille carati. Però un minimo le regole del giornalismo vanno rispettate, sennò si fanno figuracce. Ciao Marco.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Estratto dell'articolo di Tommaso Rodano per "il Fatto quotidiano" il 9 marzo 2023.

Grande, immenso, infinito Mario Sechi. Il nuovo capo ufficio stampa di Giorgia Meloni si è congedato dalla direzione dell’Agi, l’agenzia di stampa di Eni, con un discorso leggendario, cinematografico, epico. Quarantacinque minuti di “io”, inaugurati con un “sarò breve”.

 Qualche redattore, forse poco commosso dalla sua dipartita, ha registrato e fatto circolare. Forse per malanimo o magari perché il rosario di perle che Sechi ha regalato agli ex sottoposti – la definizione, vedrete, è pertinente – meritava di essere trascritta e mai dimenticata.

Era il 1º luglio 2019, ero vestito più o meno così, faceva caldo, avevo accettato l’offerta dell’Eni, grandissimo editore, di venire a lavorare in agenzia”, esordisce il dimissionario. “Accettai per salvare un pezzo di giornalismo: questa era la missione”. Non di meno. “La sfida era mettere a posto una macchina che perdeva benzina, olio e viaggiava a bassa velocità”.

 Per uso del passato remoto, ricchezza dell’immaginario e rotondità dell’ego, Sechi ricorda Manuel Fantoni di Borotalco, mentre sgrana le sue storie immaginifiche a un perplesso Verdone (“Mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana...”).

[…] La vita del direttore, racconta, “è fatta di enormi sacrifici e di infinita solitudine”. Poi gli si affaccia un pensiero: è inutile condividerlo con voi, cari ex sottoposti, tanto non lo saprete mai. “La solitudine del comando è una cosa che non sperimenterà mai nessuno finché non ce l’ha. Quanti di voi hanno fatto il direttore responsabile di una baracca con 70 giornalisti, 150 collaboratori e 22 milioni di fatturato?”.

 […] “[…] Non sono Mario Sechi perché sono venuto all’Agi. Ero già Mario Sechi e lo sarò anche dopo”. Qui siamo al Marchese del Grillo. “Ho lavorato solo per voi, è stato un impegno fisico e psichico enorme, non potete neanche immaginare”.

Sechi si vanta di aver quasi raddoppiato il lavoro (da 600 a mille lanci in media) e di aver mantenuto l’organico […]. In pratica ha raddoppiato il lavoro a parità di salario, ma non smette di torturare gli ex sottoposti nemmeno ai saluti: “Dovete studiare. Io ho 55 anni, 30 di lavoro, un curriculum, direi, che non è facile trovarne molti altri così vari. Continuo a studiare, a investire, a chiedere corsi. Tutti lo dovete fare, è il vostro lavoro, non è il mio”.

 […]Il suo ego gigante è ora al servizio di Meloni. Pardon, della Patria: “Se l’istituzione chiama, e sei un patriota, e sei un italiano, rispondi. L’istituzione ha chiamato e io ho risposto. Se avessi pensato ai miei piccoli interessi, non avrei accettato. È un sacrificio, prima di tutto economico, enorme: nessuno di voi avrebbe accettato”. Ma – ça va sans dire – nessuno di voi è Mario Sechi.

Chi è Mario Sechi, il nuovo portavoce della premier Giorgia Meloni. di Redazione Openonline l’1 marzo 2023

Il giornalista guiderà la comunicazione di Palazzo Chigi a partire dal 6 marzo. Ecco il suo profilo

Ora è ufficiale. La premier Giorgia Meloni avrà un portavoce istituzionale dall’inizio della prossima settimana: sarà il giornalista Mario Sechi, attuale direttore dell’agenzia di stampa Agi. Lo ha comunicato oggi ufficialmente Palazzo Chigi, confermando una voce circolata con insistenza crescente negli ultimi giorni. Sechi assumerà l’incarico il prossimo 6 marzo. 55 anni, originario di Cabras in Sardegna, Sechi ha lavorato e diretto molti giornali e riviste italiane, ed è noto anche al pubblico televisivo per le sue numerose apparizioni in programmi di approfondimento e talk show.

La carriera del nuovo portavoce

Dopo aver studiato giornalismo alla Luiss di Roma, Sechi ha intrapreso la carriera giornalistica nel 1992 all’Indipendente. Ha lavorato poi per molti anni al Giornale, diventandone in breve caporedattore e poi, dal 2001, vicedirettore. Nel mezzo, la sua prima direzione nella “sua” Sardegna, all’Unione Sarda. Dal 2007 al 2009 è stato vicedirettore di Panorama, quindi di Libero. Nel 2010 ha assunto quindi la direzione del quotidiano romano Il Tempo. Dal 2013 al 2017 ha scritto per Il Foglio e per Prima Comunicazione, prima di dedicarsi alla fondazione del progetto editoriale List. Dal 2017 ha assunto la direzione di WE – World Energy, trimestrale del gruppo Eni dedicato alla geopolitica dell’energia. Il 1° luglio 2019 era iniziata infine la sua ultima avventura professionale prima della chiamata al fianco di Giorgia Meloni, con la direzione dell’Agi. Sechi ha all’attivo anche una breve (tentata) parentesi politica: nel 2013 si candidò infatti al Senato nella lista del movimento politico lanciato allora dal premier uscente Mario Monti: ma il mancato raggiungimento della soglia di sbarramento in Sardegna da parte della lista ne pregiudicò l’approdo in Parlamento.

Estratto dell’articolo di Carmelo Caruso per “il Foglio” il 7 marzo 2023.

 Martin Scorsese, dove sei? State per leggere la sceneggiatura del prossimo capolavoro del regista de “Il Lupo di Wall Street”. L’attore è Mario Sechi, da ieri capo ufficio stampa del governo Meloni. Per capire chi sia, come lavorerà, abbiamo in anteprima il copione. E’ il suo discorso di addio (è autentico!) da ex direttore dell’Agi e lo ha tenuto di fronte alla sua redazione, venerdì 3 marzo.

E’ una magnifica fusione, una via di mezzo, tra il discorso motivazionale di Leonardo DiCaprio ai suoi broker, lo Zarathustra di Nietzsche e l’onorevole Trombetta di Totò: “Ma mi faccia il piacere”. Iniziamo dalla frase totemica: “Io non sono Mario Sechi perché sono venuto all’Agi. Io ero già Mario Sechi. E lo sarò anche dopo. L’Agi resta mia, io non mi sento un esule, non vado al confine”.

E infatti va solo a Palazzo Chigi! (sul telefono di Palazzo ha inserito il titolo “portavoce Sechi”). Coloro che erano presenti, i privilegiati colleghi che hanno ascoltato quelle parole, da allora camminano sulle acque. Un essere divino, un superuomo, Sechi, quattro anni fa, entrò in una redazione, quella di Agi, per “salvare un pezzo di giornalismo”.

[…] Sechi, per quaranta minuti, (“sarò breve”) si è traslato ed elevato ne “il sottoscritto”. […] nei suoi quattro anni da direttore, ha ottenuto “170 ore di visibilità in televisione, di cui 150, sempre del sottoscritto. E poi passaggi streaming, ancora del sottoscritto. Quattro mesi estremamente profittevoli, e lo ripeto, estremamente profittevoli, e chi li ha fatti?”. […] Il “sottoscritto” ha un maestro ed è Giampaolo Pansa (prima era Vittorio Feltri, ma diciamo che ultimamente è stato poco tenero). Un giorno Sechi ha incontrato Pansa e Pansa gli ha rivelato il quarto segreto di Cabras […] “Caro Mario, noi giornalisti non siamo di nessuno e Sechi non è di nessuno”.

 […] Sechi un uomo che ha vissuto “la solitudine del comando”, uno che non aveva bisogno di fare il direttore di Agi perché, così ha precisato, “ero molto felice, guadagnavo benissimo e facevo una vita migliore”. Si è sacrificato, “non so se è chiaro?”. […] Il “sottoscritto”, dal 2013 (“Sono un manager Eni da allora”) ha lavorato con ben due amministratori delegati. L’ultimo, l’attuale, è Claudio Descalzi (secondo Carlo De Benedetti il vero premier del governo Meloni) un ad che è “fuori da qualsiasi classificazione. Un gigante”. Ma Sechi ha avuto al suo fianco anche “Claudio Granata, top manager Eni”. […]

E’ una grande stupidaggine quella che si racconta ovvero che conta la squadra e non l’allenatore. Spiega Sechi: “Si dice che contano solo i campioni che fanno gol, peccato però che poi c’è chi li mette in campo”. E chi lo ha fatto? Forza, in coro: “Il sottoscritto!”. […]  “Curriculum come il mio non è facile trovarne in giro. Dopo di me non ci sarà un’altra persona che reggerà questa pressione, non ci sarà perché bisogna farsi concavi e convessi. Vedrete e direte, Mario aveva ragione. Domani è un altro mondo perché io me ne vado. E sia chiaro, me ne vado io”. […]

Perché il sottoscritto lascia? Tre motivi. “Se l’istituzione chiama, e sei un patriota, e sei un italiano, le persone serie rispondono. L’istituzione ha chiamato e io ho risposto”. […] “C’è un’istituzione che è la più grande azienda del paese, l’Eni, e c’è l’altra istituzione, che è ancora più importante, ed è il governo. E poi ci sono io”. […] “Per me è un sacrificio economico enorme, nessuno di voi avrebbe accettato”. Ma c’è un terzo motivo: “Conosco personalmente Meloni e ho intenzione di restituire qualcosa a questo paese”.

Il giornalismo non deve tuttavia dolersene perché Sechi non è detto che farà il “capo ufficio stampa per sempre. Io resto fino all’ultimo lembo, fino all’ultimo atomo, un giornalista”. […] “Tornerò un giorno dall’altra parte della barricata, sono certo che le occasioni non mi mancheranno”. […]

Estratto dell'articolo di Vittorio Feltri per Libero Quotidiano il 21 febbraio 2023.

La notizia non è clamorosa ma voglio commentarla lo stesso perché mi sembra interessante a livello di costume. Giorgia Meloni ha nominato un giornalista quale portavoce suo e ovviamente di Palazzo Chigi. Costui si chiama Mario Sechi la cui biografia è degna di essere raccontata nei dettagli.

 Primo dato curioso. Mario nasce e cresce in Sardegna, e fin qui nulla di notevole. Gli uomini vengono al mondo dove capita e nelle famiglie assegnate dal destino. L’aspetto curioso consiste nel fatto che il padre del futuro cronista era un pastore. Si occupava di pecore.

 (...)

 Quando ero direttore dell’Indipendente, un quotidiano di successo che perì quando lo abbandonai per sostituire Montanelli in bega con Berlusconi, ricevetti una telefonata dal suddetto Martinelli, il quale mi raccomandò Sechi dicendomi che questi meritava un impiego fisso. Poiché mi fidavo ciecamente del mio vecchio collega, accolsi favorevolmente la sua segnalazione e convocai il segnalato nel mio ufficio milanese. Quando si presentò davanti a me aveva l’aria di un profugo, indossava abiti raccapriccianti, ma il suo aspetto, benché poco rassicurante, mi lasciò indifferente. Lo interrogai per una dozzina di minuti, non mi parve stupido, e lo assunsi come abusivo, cioè in prova illegale. Egli si inserì perfettamente in redazione mostrando una volontà si ferro. Allorché venni a conoscenza di un particolare strappalacrime mi decisi a inquadrarlo in pianta stabile.

Appresi dai miei redattori che il povero Mario, non avendo una casa né i mezzi per affittarla, era costretto a dormire su uno dei treni fermi la notte alla Stazione Centrale. Il dettaglio mi commosse e lo feci iscrivere a libro paga. Non ebbi modo di pentirmene perché il ragazzo era valido. Cosicché quando mi trasferii con Maurizio Belpietro, altra canaglia di talento, al Giornale di via Negri, lo portai con me affidandogli ruoli importanti nonostante il suo abbigliamento continuasse ad essere imbarazzante. Lo mandai a Genova a guidare la filiale ligure e successivamente lo promossi capocronista a Milano. Si rivelò un ottimo professionista. Rimase a lungo al foglio fondato da Indro e del quale io raddoppiai le vendite, e quando Belpietro fu nominato direttore di Libero, se lo prese come vice. La prima dichiarazione pubblica che fece fu questa: finalmente riusciremo a mandare Feltri in pensione.

Però, gentile con chi lo aveva fatto trasferire dal treno in una abitazione decente. Ma la cosa non mi offese. Semplicemente ebbi l’opportunità di verificare che in effetti la gratitudine è il sentimento della vigilia. Ci si dimentica del primo amore, figurati se ti ricordi di uno che ti ha salvato le terga. Sechi ha poi gironzolato da una impresa editoriale all’altra. E prima di approdare alla direzione dell’Agi (Agenzia giornalistica) tentò di percorrere la strada politica candidandosi nella lista di Mario Monti, ma si bloccò subito: alle elezioni venne bocciato. Succede. Oggi la fortuna lo ha nuovamente agganciato portandolo addirittura nei palazzi del governo, portavoce di Giorgia Meloni, un ruolo di prestigio che si è meritato. Partire dall’ovile e giungere a Palazzo Chigi non è una operazione che riesce a tutti.

Massimo Fini: «Sono ormai cieco, ero già veggente. Bocca e Tobagi i miei amici». Giorgio Terruzzi su il Corriere della Sera il 19 novembre 2023

Il giornalista domenica compirà 80 anni: «Il glaucoma ha cambiato tutto, l’unica cosa buona è che non posso più guardare il mio volto e non mi accorgo della vecchiaia». «Mi sento sempre più russo, come mia madre: nei loro romanzi c’è il germe della follia»

Massimo Fini, nato a Cremeno (Lecco) il 19 novembre 1943, il 19 novembre compie 80 anni. Divorziato, ha un figlio, Matteo (43 anni)

Questa intervista è stata pubblicata su 7 nel numero in edicola il 17 dicembre. La proponiamo online per i lettori di Corriere.it in occasione del compleanno del giornalista

Massimo Fini compie 80 anni. Cremeno, Lecco, 19 novembre 1943. Padre pisano, Benso, madre russa, Zinaide. Scrive da sempre. Esordio sull’Avanti!, 1970. Giornalista, scrittore, saggista. Polemista. Anticonformista. Libertà di pensiero professata, estremizzata al limite, oltre il limite dell’autolesionismo. Un uomo al fronte, su più fronti. Illuminante, contraddittorio, criticabile, criticato. Presente. Lo sguardo da vecchio ragazzo, ancora pronto a giocare, con l’ideologia, con le parole. Un glaucoma gli ha tolto la vista. Titolo dell’ultimo libro: Cieco (Marsilio). La prima notizia che appare sul suo sito massimofini.it è un annuncio: «Cercasi assistente ambosessi».

Sembra una resa. È una finta?

«L’assistente in questo caso non è un badante, è un segretario, mi aiuta a lavorare. Significa che voglio continuare. Ogni tanto mi viene addosso una grande stanchezza perché non posso più raccontare ciò che si osserva viaggiando. Scrivere commenti o editoriali comporta leggere i giornali. Per me, una seccatura. Quando racconti ciò che vedi è più interessante. L’ho fatto per anni ma questa malattia ha cambiato tutto».

Perdere la vista cosa le ha dato?

«Si dice che il cieco è un veggente perché guarda oltre. Ma non so se è vero, perché io riuscivo a guardare avanti anche quando ci vedevo benissimo. Piuttosto, dato che non posso guardare il mio volto, penso di avere sempre l’aspetto di un tempo. Non mi accorgo della vecchiaia che avanza».

Ha scritto: «Il futuro non è davanti a noi ma dietro di noi». La frase indica una opportunità senza tempo?

«Un modello basato sulle crescite esponenziali che esistono in matematica, ma non in natura, prima o poi collassa. Eppure sembra questa la direzione. Una volta pensavo che il pericolo fosse lontano, adesso ben meno. La velocità cresce, si diventa obsoleti a 40 anni. Depressione, angoscia, sono malesseri prodotti dalla modernità. Disturbi che non esistevano nell’era pre-industriale».

Ragazzo, Una vita, Confesso che ho vissuto… molti libri per una lunga autobiografia. Cercare dentro sé stessi è il metodo più utile per comprendere ciò che sta attorno, fuori?

«Credo di sì. La ricerca interiore è pregiudiziale alla comprensione degli altri, di ogni situazione. Poi, dipende dalle persone. C’è chi non cambia mai, chi pensa di essere nel giusto sempre e comunque».

Dall’Avanti! al Fatto Quotidiano passando dall’Europeo e dal Giorno, dall’Indipendente al Gazzettino. Un nomadismo alla ricerca dell’isola felice. Mai trovata?

«La trovai all’Indipendente diretto da Vittorio Feltri, era una stagione particolare, esaltante, la stagione di “Mani Pulite”, c’era una grande libertà e poi avevo una fidanzata importante. All’Europeo ero troppo giovane per capire e agire al meglio, mi trovai benissimo al Giorno di Zucconi e Magnaschi, dove potevo scrivere ciò che mi pareva».

«Un anarcoide russo mezzo pazzo» disse di lei Giorgio Bocca. La definizione vale ancora?

«Vale ancora. Anche perché più invecchio più mi sento russo. Il germe della follia compare nel grandi romanzi di quel Paese. La definizione è perfetta anche perché Bocca mi aveva compreso a fondo, fu uno dei pochissimi giornalisti amici. Lui e Walter Tobagi che persi troppo presto, fatto fuori da due ragazzi maleducati, diciamo così».

«Vorrei essere un talebano, un kamikaze, un afghano, un boat people, un affamato del Darfur, un ebreo torturato dai suoi aguzzini, un bolscevico, un fascista, un nazista. Perché più dell’orrore mi fa orrore il nulla». C’è un nodo esistenziale alla base del suo fare?

«Ma certo, credo che il tema abbia riguardato l’intera mia generazione. Non abbiamo avuto a che fare con eventi traumatici veri e propri mentre cambiava tutto, non ci siamo mai trovati di fronte ad alternative secche come era accaduto per i nostri padri. Abbiamo assistito all’incremento della tecnologia, subendo un completo cambiamento dei nostri costumi».

La distanza dall’orrore è decisiva. Chi vive in Ucraina, a Gaza o in Iran potrebbe trovare assurda quella frase…

«Beh, vero, posso permettermi un atteggiamento del genere perché dall’orrore sono lontano. Del resto non posso sapere come reagirei se vivessi a Gaza o a Kiev ma credo che anche gli eventi più traumatici portino qualcosa di buono. Penso alla solidarietà, alla fratellanza che segnarono il nostro dopoguerra».

Molti nemici. Troppi? C’è qualcuno da perdonare facendo autocritica?

«Guardi, negli ultimi anni ho fatto pace con parecchi compagni di viaggio. Possiamo aver avuto o avere ancora visioni diverse ma abbiamo attraversato lo stesso tempo e i fondamentali restano comuni. Molte inimicizie, molte contrapposizioni sono svanite».

A proposito di nemici. Berlusconi al Famedio, che pensieri agita?

«Come ha detto il sindaco di Milano, Sala, penso che il passaggio di Berlusconi a Milano non sia stato irrilevante. Però non è accettabile ciò che ha detto il fratello, Paolo, descrivendo un uomo buono e generoso. Sulla bontà di Berlusconi ci sarebbe da eccepire. Cinismo più che bontà, pur riconoscendo che ha fatto molto come imprenditore. Se i Cavalieri del Lavoro lo cacciarono dalla Federazione, significa che la sua attività tanto limpida non era».

Tifa per il Torino. Una fede precoce o una scelta, anche questa, controcorrente?

«Mia sorella teneva alla Juve, dovevo fare una scelta opposta. In aggiunta il Torino ha una storia tragica, da Superga a Gigi Meroni. Una squadra perdente nella quale mi identifico. Giovanni Minoli mi definì un perdente di successo ed è vero che tendo a schierarmi con chi perde».

Un figlio, Matteo, colto e combattivo. Sino a che punto, per fortuna, le somiglia e in cosa, per fortuna, non le somiglia affatto?

«Non mi somiglia se penso al suo senso pratico, al fatto che mi pare una persona con la testa sulle spalle. Mi somiglia in quanto a prontezza di riflessi, e, in negativo, in una malinconia di fondo che ho sempre percepito e che, da padre, riconosco in lui».

Nel 2015 tentò di pubblicare sul Corriere della Sera un necrologio per il mullah Mohammed Omar. Fu un atto sincero o una provocazione all’eccesso?

«Un atto sincero, avevo seguito la storia di quest’uomo che combatte, giovanissimo, contro l’invasore sovietico, poi contro i signori della guerra che avevano trasformato l’Afghanistan in un sistema mafioso feudale e poi lotta contro l’Occidente. Integerrimo, rigoroso e coerente. Portatore di valori tradizionali fondamentali. È questa mentalità che mi piace, ha a che fare con il senso profondo dell’amicizia. Poi, ovviamente, nulla a che vedere con quella ideologia».

Cosa c’è di moderno nel Manifesto dell’Antimodernità che ha scritto e sostiene?

«Beh, è sempre più moderno. Verrà il giorno, non molto lontano, in cui la parola modernità sarà vista come una parolaccia, qualcosa che ci porta indietro nel sociale, nei valori che ho appena citato e che abbiamo perduto, anche a causa di Berlusconi. Integrità, senso morale, legalità. La borghesia così come il mondo contadino, il proletariato, tutelavano un’etica propria, preziosa. La stretta di mano aveva un valore indiscutibile».

Nino Nutrizio, celebre direttore de La Notte disse che il giornalismo si fa prima con i piedi e poi con la testa. È un consiglio buono ancora oggi per i giovani che vogliono fare questo mestiere?

«Non più. Chi è giovane e vuole fare il giornalista manca di fiuto, non può svilupparlo. È un mestiere che sta morendo. Quel modo di lavorare indicato da Nutrizio era meraviglioso allora. Adesso siamo all’intermediazione da social, sull’intermediazione da social. Molto diverso e molto meno affascinante».

Orgoglio? Rimpianti? Cosa trova nel suo bilancio da ottantenne?

«Ugo Intini disse che ciò che avevo ottenuto nella mia carriera l’avevo ottenuto solo in forza del mio lavoro. Orgoglio, certo, pagato a caro prezzo. Ma è bello per me incontrare persone con le quali ho lavorato che conservano una gratitudine o un rispetto, così come quando capita che un lettore riconosce nel mio lavoro qualcosa di importante. Piccoli attestati che mi convincono ad andare avanti».

Penultimo desiderio?

«Regalarmi una lunga vacanza in Corsica, la prossima primavera, ammesso di arrivarci».

Massimo Fini, le confessioni: "Fallaci? L'unico modo per trattarla era prenderla a schiaffi". Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 18 novembre 2023

«Hai portato il taccuino, o una di quelle diavolerie...?». «Registratore», Massimo, si chiama «registratore». E comunque, no, ho portato il taccuino, da cronista antico. È una questione di cautela. Massimo Fini vive in un eterno falò di antimodernismo, perennemente acceso come il mozzicone di sigaretta che gli s’incolla al labbro come per magia. Intervistarlo con registratore sarebbe stato una provocazione, una diretta Facebook probabilmente l’avrebbe ucciso. Fini domani compie ottant’anni nel suo antro milanese, nella fragranza della carta, del tabacco e delle buone letture. Intorno al suo sancta sanctorum orbitano amici in pellegrinaggio; e domestiche sudamericane in slalom tra cataste di giornali disseminate a terra; e giovani aspiranti segretari pronti a trascriverne, sotto dettatura, gli articoli feroci e lievi come falene. La sua Lettera 32 olivettiana giace sul tavolo. Il tavolo è sormontato da una vignetta. In cui Massimo è circondato da Nerone, Nietzsche e il Mullah Omar, dei quali il giornalista è stato biografo di successo. Di fronte alla vignetta squilla il telefono, con impudenza. Fini resta piantato al centro delle sua biblioteca d’invincibili stratificazioni storico -letterarie. I divani sono ricoperti da maglie di centravanti, alcuni polacchi. Scorrono vita e ricordi. Sembra di essere in quel libro di Xavier De Maistre, Viaggio intorno alla mia camera.

Caro Massimo, dal tuo microcosmo perfetto osservi una vita imperfetta. È vero che prima di fare l’inviato per il mondo hai lavorato come copyrwriter, bookmaker e giocatore di poker?

«Certo. Ma anche come impiegato alla Pirelli. E mi licenziai mandando una lettera insolente al capufficio che giudicava i dipendenti dalla qualità delle cravatte, e io non le portavo. Il suo superiore mi convocò in direzione con la domanda: “Cosa posso offrirle, caffè o bourbon?” risposi “Bourbon”, mi licenziò ma dicendo che avevo un grande futuro. Altrove. Ero, invece bravissimo col poker vero, dicono il migliore giocatore di Milano, la notte pelavo i borghesi ricchi al tavolo verde».

Nel giornalismo entrasti all’Avanti nel ’70. Perché accadde solo dopo la morte di tuo padre, direttore del Corriere Lombardo (ne indica con finta indifferenza l’ultimo editoriale affisso alla parete, anno 1966, ndr) e la laurea in giurisprudenza?

«Per certi versi fu un bene perché non mi potevano accusare di familismo - che odio- e perché mi resi conto che non potevo più fare il cazzaro a vita. L’Avanti è un ricordo bellissimo. La redazione era fatta di socialisti li bertari, il vicedirettore era un comunistaccio di ferro, il dimafonista uno del Movimento Sociale. Il direttore Ugo Intini, l’uomo che mi in ventò editorialista dopo an nidi nera e consigli comunali. Era il mio ambienta naturale. Poi passai al Giorno di Zucconi, e all’Europeo e all’Indipendente. Grandi in chieste, grandi viaggi in giro per il mondo...».

...E grandi reportage dall’Unione Sovietica.

«Quelli soprattutto alla Domenica del Corriere, libero di raccontare la mai troppo rimpianta Urss. Sono russo da parte di madre e mi ci sento nella misura in cui gli italiani hanno perso il senso di solidarietà e l’innocenza».

Poi arrivarono i grandi processi come quello a Enzo Tortora.

«Fui il primo a sostenerne l’innocenza. Poi mi seguirono Feltri e Biagi. E dopo tutto questo mi ritrovai col culo per terra».

Be’, nel mezzo non partecipasti alla fondazione di Repubblica? Non riesco a immaginarti lì, sotto la barba di Scalfari.

«Eppure c’ero. Scrissi tra pezzi, ben accolto. Ma l’ambiente era di una sinistrissima fatta di salotti romani radical chic. Io non ce la potevo fare. Scalfari mi disse: “Come credi di campare, di rendita?”. Tornai all’Europeo e poi ci fu L’Indipendente; e là mi divertii moltissimo, sempre con Vittorio Feltri. Il quale, inventandosi il collante del “feltrismo” faceva scrivere tutti, da destra a sinistra; di tutto si può dire di Vittorio tranne che non abbia il senso del giornalismo».

Leggenda vuole che rompesti con Feltri quando an dò al Giornale sedotto dal Berlusca nel ’94, però poi ti convinse ad arruolarti in via Negri. E tu non firmasti un contratto già pronto per questioni calcistiche. Confermi?

«Non è leggenda. Al Giornale, al momento di firmare il contratto, chiesi all’amministratore delegato Crespi per quale squadra tifasse, “parliamo di cose serie”. Mi disse “sono sempre stato juventino, ma ora mi piace il bel gioco e tifo Milan”. Non firmai più. Chi si piega a cambiare la propria squadra è capace di tutto...».

Con Feltri è odio-amore, Da una vita vi azzannate e fate pace. L’ultima volta gli hai scritto “di te, Vittorio, non rimarrà che polvere”. Non è carino.

«Con Feltri è così, alti e bassi. Quando siamo in buona si trova sempre qualche motivo per litigare; spesso, lo innesco io. Non so dirti perché. Ma, comunque Vittorio resta il miglior direttore delle sua generazione e probabilmente anche delle due precedenti. È un uomo molto generoso, forse ostacolato da tutto il denaro che ha guadagnato. E mi ricordo che gli piaceva un sacco valorizzare i giovani talenti, fottendosene delle pressioni politiche, valutando solo i pezzi. In questo è come Marco Travaglio, che pubblica i miei pez zi sul Fatto Quotidiano, an che se magari non sono nella sua linea. Per certi versi sono entrambi figli di Montanelli».

Di solito, i giornalisti so no una razza antisociale, si frequentano e si riproducono fra loro. Tu hai cono sciuto leggende del nostro mestiere ma non le frequentavi preferendo il poker. Perché?

«Mai frequentati giornali sti a parte Giorgio Bocca. E Walter Tobagi che, con le sue capacità di equilibrio, studiava per diventare il direttore del Corriere della se ra ma l’ammazzarono trop po presto, a 30 anni. Ovviamente ci conoscevamo tutti, era una grande generazione».

Non ti è mai piaciuta Oriana Fallaci.

«Di persona era insopportabile; se avesse dato agli altri un milionesimo dell’attenzione che pretende va per sé, sarebbe stata completa. Ma sul lavoro era eccelsa; specie nei suoi primi anni, con le interviste ai gran di. Negli ultimi anni, da editorialista, ha cannato il giudizio della Storia eppoi si inventava le cose...».

Be’, quello, all’epoca lo facevano anche Malaparte e Montanelli. Predicavano il “correlativo oggettivo” di Eliot, il verosimile più affascinante del vero. Per quale motivo dare la colpa proprio e solo alla Fallaci?

«Dai, Montanelli e Malaparte lo sapevano fare. Da Malaparte Oriana aveva rubato la prosa barocca, che con lei diventava rococò: leggerla nei pezzi era intenso, nei libri pesantissimo. E dire che io lei l’ho conosciuta in un momento di tranquillità, stava con Panagulis, il leader greco; mi ricordo una sera a cena con Alekos che le prendeva a ceffoni ché era l’unico modo per trattare Oriana».

Hai conosciuto bene anche Montanelli?

«Con Indro c’era molta stima. Nella sua prefazione al mio libro Il conformista scrisse che sarei affondato in una coltre di silenzio. La cosa si realizzò anni dopo. È da tempo che hanno smesso di invitarmi nei talk. Per non dire dei programmi televisivi che avrei dovuto fare io direttamente». Be’ ammetterai di essere sempre stato un rompicoglioni di talento. «Indubitalmente».

Ci fu in effetti un momento in cui dovevi fare un talk, Cyrano, su Raidue. Che sparì dai palinsesti.

«Ti ricordi? I dirigenti chiesero al mio produttore Eduardo Fiorillo di farlo ma senza di me, ché non ero gradito. Era, quella, la Rai berlusconiana; e con me Berlusconi - come dice Marco Travaglio- aveva una “censura antropologica”. E poi c’era l’allora vicedirettore di rete, Antonio Socci, che spinse direttamente per eliminare un “antiberlusconiano doc” come me. Il direttore di rete Antonio Marano, mi incontrò per strada: “Non la prenda sul personale, è un ordine dall’alto”. Ma andò bene lo stesso: portammo Cyrano in giro per i teatri d’Italia, con una pattuglia di giovani che recitavano il Fini-pensiero. Da lì nacque una formazione insofferente, antimodernista, piena di giovani, Movimento Zero, s’iscrisse anche Gianfranco Funari. Si tentò di farne qualcosa di politico, ma non ci riuscì».

Però molto di quel pensiero è finito nel Movimento Cinque Stelle, che tu frequentasti sin dagli esordi.

«Partecipai a tutte le riunioni con Beppe Grillo. Poi i grillini si sono persi dopo la morte di Casaleggio, che aveva la visione (anche troppo). Beppe è un grande frontman ma non un organizzatore, credo che oggi la sua decisione di allontanarsi dal Movimento sia dovuta alla moglie iraniana che gli ha fatto notare che forse era il tempo di godersi i suoi sei figli...».

A proposto di politica. Famosa fu la tua lettera d’attacco a Claudio Martelli, roba che anticipava la fine del Psi. Ma lui non era un tuo amico carissimo?

«Siamo stati compagni di banco al liceo. Molto amici, fino a quando capii che la sua amicizia era strumentale. Claudio si mise di traverso anche per la mia carriera, bloccò la mia nomina a vicedirettore del Giorno, ma col senno di poi fu un bene, io non ho esattamente le doti di mediatore del ruolo. Con alcuni direttori non mi sono mai preso, come con Francesco D’Amato al Giorno che si dissociava da quel che scrivevo. Ad altri ho fatto da ghost-writer come con Maurizio Belpietro, che poi ha imparato a scrivere e si è ritagliato un bello spazio con La Verità».

Dopodiché, un giorno, da cronista, ti sei scoperto scrittore e intellettuale contro la modernità (attraverso la terna di long seller La Ragione aveva Torto?, Elogio della guerra e Il conformista, Marsilio e Mondadori). Nel mezzo c’è stata la rivista Pagina.

«Pagina fu un’esperienza culturale, la faceva Aldo Canale. Lì Pigi Battista era il ragazzo di bottega, Della Loggia solo un giovane docente, Mieli era già all’Espresso ma non se lo filava nessuno. Erano degli eretici che si sono normalizzati e mi odiavano perché ero migliore di loro. C’era anche Giuliano Ferrara che, come tutti i ciccioni, ha un certo bisogno d’affetto e ne dà, anche se politicamente siamo agli antipodi».

Sempre una parola buona per tutti...

«Mica vero. Io stesso, come diceva Giovanni Minoli, sono un “perdente di successo”. E, comunque ci sono incontri che mi hanno affascinato. Umberto Bossi, per esempio, l’unico politico con cui andavo a mangiare la pizza assieme a Daniele Vimercati: grande intuito (geniale quello delle macro-regioni, se ci pensi), passione e poche letture ma usate benissimo. Quando gli chiesi se era di destra o di sinistra mi disse: “di sinistra, ma se lo scrivi ti faccio un culo così”. Lo scrissi. Un altro dal fascino incredibile era Nureyev...».

Rudolph Nureyev, il ballerino?

«Sì. La prima volta lo vidi in un bar con un pigiamone e la tazza calda di caffellatte in mano, la seconda a una festa di - come si diceva una volta- invertiti del jet set. Seguii la sua seduzione da manuale di un giovanotto che finì con lui in camera da letto. Siamo uomini di mondo. Io stesso sono stato accusato di essere misogino, omosessuale e tombeur de femmes. Non è vera nessuna delle tre cose, anche se possiedo un fondo di tutte e tre. Le mie amiche carine - non le femministe cesse - apprezzano il mio Dizionario erotico, manuale contro la donna a favore della femmina. È una specie di test di ammissione...».

E qui saranno contente le femministe.

«Cosa vuoi che mi freghi? Io mi sono fatto tre depressioni, La prima dopo la morte di mio padre di cui pensavo non mi interessasse nulla, l’ultima quando, dopo aver sbagliato fidanzata, cominciai a bere. Montanelli, di depressioni, se fece sette. Era insuperabile anche in questo».

Ora hai il glaucoma agli occhi, progressiva rarefazione della vita, come Sergio Staino. Vedo che metti annunci di ricerca di segretari a cui dettare i tuoi pezzi. Come ti sei organizzato col lavoro?

«Detto e rileggiamo tre volte il pezzo, virgole comprese. Ci metto il triplo del tempo. D’altronde se Travaglio nel 2006 non mi avesse convinto attraverso i miei amici Ermanno Olmi e Renzo Arbore, oggi sarei in ritiro definitivo. D’altronde si sta squagliando tutto, è una fagìa di denaro, una perdita di valori. Il giornalismo stesso è come il calcio, senza poesia, decaduto dopo la sentenza Bosman, dove c’è il Var e si è diventati tutti fighetti; invece io ricordo Terry Butcher, quel centrale inglese che giocò un’intera partita insanguinato dalla testa ai calzoncini...».

Parliamo della guerra di Gaza. «Io sto con Hamas». Eccolo qua. Sapevo che l’avesti detto, da biografo del Mullah Omar e altri racconti.

«Gaza è da sempre un lager a cielo aperto. E lo dico essendo ebreo da parte di madre, cosa che ho sempre rifiutato. Gli ebrei sono un popolo intelligentissimo, bada bene. Ma Cristo - nonostante la vulgata- non lo fece fuori Pilato, e ci sarà un motivo se i romani gli unici problemi li hanno avuti in Giudea. Quando Paolo venne fulminato sulla via di Damasco, una volta arrestato ottenne di essere processato a Roma, dove riuscì anche a predicare liberamente. Se fosse rimasto in Giudea se lo scordava».

Qui Massimo, non ti seguo. Ma siccome siamo in una democrazia come quella israeliana e non sotto la censura di Hamas, fedelmente ti riporto. Oltre alla tua opera hai lasciato al mondo un figlio Matteo, che insegna anche ai grandi manager. In che rapporti sei con l’erede?

«Con Matteo ho un rapporto ottimo. Ha trovato da solo la sua strada, lavora col fratello di J-Ax, guadagna molto più di me. L’unico problema è che non mi ha mai dato problemi. Da me non ha preso nulla, tranne che i riflessi fisici e una malinconia di fondo. È una bella eredità...».

Estratto dell'articolo di Massimo Fini per “il Fatto quotidiano” il 4 aprile 2023.

Oggi parlerò di me. Oh bella, dirà il lettore, ma se è tutta la vita che non fai che parlare di te. Vero. Ho scritto un’autobiografia, diciamo così, ufficiale (Una vita) due surrettizie (Ragazzo e Di(zion)ario Erotico) e anche nella mia opera di pensatore non ho fatto altro che parlar di me se è vero, come scrive Nietzsche (chi era costui?) che “ogni filosofia è un’autobiografia”. E allora di che ti lamenti? Del fatto che io non esisto per la congrega dei miei colleghi.

 È uscito un bel libro di Gaia Tortora, la figlia di Enzo, che racconta il dolore della famiglia Tortora per il modo in cui fu trattato il padre non solo da pm incapaci, ma anche, e direi soprattutto, dai media: il meschino piacere delle Televisioni pubbliche e private di immortalare il presentatore in manette per fargli pagare in un sol colpo la sua popolarità, il suo successo.

 In occasione dell’uscita del libro di Gaia Tortora alcuni quotidiani hanno ricordato che ci furono dei giornalisti coraggiosi che presero le difese di Tortora: Biagi, Montanelli, Bocca, Feltri. Ora, il primo a difendere Tortora sono stato io una settimana dopo il suo arresto (“Io vado a sedermi accanto a Tortora”, Il Giorno, 25 giugno 1983, cioè una settimana dopo il suo arresto).

Quando rievocano quella vicenda i giornali ricordano Montanelli, Bocca, Feltri, ma non me che pur scrivevo su uno dei più importanti quotidiani nazionali e mi ero battuto contro la legge sul “condono ai pentiti” perché diventava evidente che un mascalzone, purché mascalzone, poteva mandare in galera una persona perbene, come avvenne per Tortora e per tanti altri ignorati dalla stampa. Un paio di settimane fa Paolo Mieli ha recensito sul Corriere, il 6 marzo, un recente libro di Luciano Canfora, Catilina.

Una rivoluzione mancata. Mica che Mieli abbia ricordato, anche solo di sfriso, che su Catilina io ho scritto una biografia (Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta) che precede di un quarto di secolo, anche se con tesi diverse, il libro di Canfora?

Io non esisto.

 Qualche anno fa, allo Smeraldo, Grillo inaugurava la sua stagione di politico. C’erano molti importanti personaggi, tra cui Celentano che ebbe una standing ovation. Ma c’ero anche io che ebbi una standing maggiore di quella di Adriano.

 Il giorno dopo lessi sul Corriere una cronaca che ricordava tutti i personaggi presenti, me escluso. Mandai un biglietto risentito a De Bortoli, direttore del Corriere. Ferruccio, che è una persona perbene, a differenza del “bonzo”, mi rispose dolendosi per l’accaduto. Ma per l’intanto ero scomparso da quella cronaca. Io non esisto.

(...)

È da vent’anni che non sono più invitato da alcun network. Mi consola però il fatto che alcuni importanti personaggi mi abbiano citato: Guido Ceronetti su La Stampa, due volte, Bocca, una volta, Montanelli. L’osservazione più profonda l’ha fatta il vecchio Indro che nella prefazione al mio Conformista scrive: “Gliela faranno pagare calando su di lui una coltre di silenzio: da quando i roghi non usano più, è la sorte che attende i conformisti che non si conformano”. E così è stato.

Le donne, le lacrime e Battiato: lezioni d'amore da Massimo Fini. Matteo Carnieletto il 29 Marzo 2023 su Il Giornale.

Il Fini pensiero sulle donne: "Mentono anche quando piangono, perché sanno che le lacrime sono un'arma di seduzione"

Le pile di libri e giornali appoggiate sul tavolino di fronte al divano rosso, consumato dal tempo e dai culi più o meno noti che sono passati da lì, sembrano sempre le stesse. Ma sono sempre diverse. Ci sono ritagli nuovi, Topolini nati da due papà. L'ultimo trofeo scientifico è una minaccia genetica, e un post-it, che non avevo mai notato, all’interno di un libro: “Paesaggi”, si legge. Quelli che Massimo Fini non può più vedere (anche se a questa storia che è diventato cieco faccio fatica a crederci davvero perché le belle ragazze, complice forse il terzo occhio che continua a vederci benissimo, Massimo le nota ancora). A quanto pare, l’essenziale è davvero invisibile agli occhi.

Dalla Marlboro rossa che Fini si accende sale un filo di fumo azzurro e grigio che, poco alla volta, riempie tutta la stanza. Ciclicamente, alcuni squarci di luce riescono a penetrare le impalcature e i teli che circondano la facciata, illuminando la stanza. Per un momento, forse anche a causa delle macchine da scrivere appoggiate per terra, il salotto del giornalista sembra diventare una vecchia redazione dove si beveva (in questo caso Chianti), si fumava (oggi Marlboro rosse e Winston blu), si imprecava per una notizia bucata e, soprattutto, ci si confrontava (“I giornali nascono sempre attorno a un tavolo”).

L’incipit è sempre lo stesso: “Matteo, come stai rovinando la nostra professione oggi?”. No, niente giornalismo per ora. Tanto la mia categoria posso continuare a rovinarla anche da solo. Oggi si cambia argomento.

Massimo, ma perché continuiamo a correre dietro alle donne nonostante ci tirino scemi?”. Fini, che di donne ne ha conosciute e continua a conoscerne tante, sorride e chiude gli occhi solo per un attimo, come se si dovesse concentrare. “Beh, perché sono il nostro opposto. Le donne sono le maestre del sottinteso. Ti dicono: ‘Vorrei tanto andare a Roma’ e, quando sei lì, vogliono essere a Firenze. E quando tu fai notare loro che le hai portate esattamente dove ti avevano chiesto, ecco che ti rispondono che tu non sei stato in grado di comprendere i loro veri desideri. Anche quando piangono veramente, le donne sono insincere perché sanno che anche le lacrime sono un’arma di seduzione”. Silenzio. La mano riempie il bicchiere: “Ma se vuoi davvero capirci qualcosa - dice Fini - ascoltiamo due canzoni. Ehi, Google, metti I vecchi amanti di Battiato (che poi è di Jacques Brel, ma Battiato la canta meglio)”. Piano e archi cominciano a fare il loro mestiere. “Certo ci fu qualche tempesta, anni d’amore alla follia. Mille volte tu dicesti basta, mille volte io me ne andai via…”. Fini non c’è più. È lì, davanti a me, ma ha gli occhi chiusi. Non so a cosa o a chi stia pensando. E in quale luogo sia con l’immaginazione. “Ma dimmi c'é peggior insidia, che amarsi con monotonia. Adesso piangi molto dopo, io mi dispero con ritardo (...) Je t’aime, encore, je t’aime”. Non appena terminano le parole, Massimo passa alla seconda: La canzone dell’amore perduto. “Ricordi, sbocciavan le viole, con le nostre parole: non ci lasceremo mai, mai, e poi mai”. Mentre le note proseguono, Fini dice: “Per me, De André non era un cantante: era un aedo che metteva in musica delle poesie”. E l’aedo continua: “E quando ti troverai in mano quei fiori appassiti al sole d’un aprile ormai lontano li rimpiangerai. Ma sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato, per un amore nuovo…”. E ancora: “E sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato, per un amore nuovo…”.

Tu, Matteo, sei qui. Sei alla prima che incontri per strada per un amore nuovo. Per un amore che ti strappi i capelli. A me è capitato una volta: sono stati nove anni bellissimi, nove anni in cui facevo l’amore tutti i giorni e la mattina, quando rivedevo la mia ragazza, sapevo che dovevo riconquistarla. Ma un amore così non può durare. Perché è un amore che brucia troppo in fretta e non lascia la brace. Gli amanti non possono avere figli”.

Silenzio. Forse, ora è meglio parlare di giornalismo. O, almeno, continuare a rovinare la professione.

Dalle tenebre della malattia il "Cieco" svela l'invisibile. Massimo Fini racconta il suo glaucoma: la perdita dei riferimenti, la chiusura in se stesso, la paura. Alessandro Gnocchi il 10 Marzo 2023 su Il Giornale.

«Questa è la storia di un uomo che perde lentamente, gradualmente, inesorabilmente la vista. Quell'uomo sono io». Con questa «Introduzione brevissima» inizia Cieco (Marsilio, pagg. 84, euro 12) di Massimo Fini. Come viene insegnato a ogni giornalista, la distanza è fondamentale per scrivere un ottimo pezzo. Sappiate, cari lettori, che questa regola non sarà rispettata in questa pagina, e speriamo che il pezzo risulti almeno buono.

Sarà il caso di iniziare col dire che Massimo Fini ha una bibliografia destinata a sopravvivergli e superare la sua attività giornalistica, che di certo non è indifferente per mole e per importanza, anzi. Non è un fatto comune: in questo Fini è un caso (quasi) unico. Cieco appartiene al meglio di questa produzione letteraria e saggistica, quindi è imperdibile. È un libro bellissimo, toccante ma dotato di un eccellente sense of humour e lo scriviamo in inglese, per non confondere l'umorismo di Fini con l'umorismo di cui sentiamo parlare spesso a sproposito, consistente in realtà in battute da terza media quando va bene e spaventose barzellette sui politici quando va male, cioè quasi sempre. Fini invece scherza col fuoco della sua debolezza e della sua crescente solitudine. È un modo di interpretare la vita, un modo antico, che ricorda, più che la letteratura contemporanea, quella latina. Cieco ricorda più Seneca di Alessandro Baricco o Paolo Giordano, meno male.

Fini racconta, in modo astutamente leggero, una lotta inutile contro una malattia nota purtroppo a molti: il glaucoma. In parole semplici, a causa di una elevata pressione oculare, il campo visivo si restringe progressivamente. Alla fine si vedono solo macchie di colore, a volte neppure quelle. Si può rallentarne l'avanzata, con colliri, laser e operazioni chirurgiche, ma non si può vincere.

Fini racconta, dicevamo, e raccontando finisce col toccare una infinità di temi che, a dire il vero, interessano anche chi ha una vista perfetta.

Prima di tutto. Siete sicuri di guardare davvero cosa vi sta attorno? Domanda banale ma risposta complessa. È quando si teme di perdere la vista che si inizia a guardare sul serio. Forse è ovvio che sia così. Addirittura scontato. Ma se crediamo di sapere che le cose stanno in questo modo, perché continuiamo a osservare male quando siamo sani? E qui la risposta, che forse sarà diversa per ciascuno di noi, non è affatto ovvia e scontata.

Poi c'è la paura della malattia. Meglio non andare dal dottore, una visita di controllo è già mezza condanna, per chi è scaramantico. Una volta fatta la diagnosi, si entra in un altro campionato, dove si gioca sempre contro la stessa squadra, nettamente più forte e alla quale possiamo strappare al massimo qualche pareggio. Scusate la metafora calcistica, ma d'altronde Fini è un tifoso. La malattia, inesorabilmente, rischia di diventare l'unico orizzonte della vita, con largo anticipo.

Un altro tema, e problema, è la solitudine. Mano a mano che il mondo scompare, ci si trova imprigionati dentro se stessi. Certo, con un po' di fortuna e di impegno, avremo accanto le persone, poche o tante, che ci vogliono bene. Ma la solitudine resta: non si può prendere l'automobile e andare a trovare un amico lontano. Dipendere da qualcuno è due volte pesante, a volte pericoloso perché c'è sempre il rischio di trascinare nel gorgo della depressione (e del risentimento e del deperimento fisico) anche chi ci sta accanto. Ma non solo. Dice la ex moglie a Fini: «Massimo, io potrei accompagnarti in giro e dirti ciò che vedo e tu magari scriverne. Ma quello che vedo io non è quello che vedresti tu». L'esperienza del mondo è un fatto personale, sempre difficile da comunicare, a volte impossibile.

Di fronte alle tenebre, il pensiero, inevitabilmente, corre alla morte. Ma prima della morte c'è il perdersi a cinquanta metri da casa o sulla spiaggia versiliana, il non riuscire a riconoscere ciò che ci è famigliare, il nuotare al largo e non trovare più la costa. Tutte esperienze raccontate con esemplare ironia da Fini.

Il libro non si esaurisce qui, anche se sarebbe comunque già tantissimo. C'è spazio per divertenti avventure con le ragazze, nonostante l'autore fosse già da adolescente un «quattrocchi»; fughe in macchina spericolate; puntate, solo immaginate, nei casinò di tutta Europa, gli unici luoghi dove Fini porta la cravatta; ricordi di vita in redazione; donne (tante); il rimpianto per un bel whisky; un amore sconfinato, come la vista, per il mare e la Liguria in particolare.

Un qualsiasi «professionista della scrittura» avrebbe tirato fuori da questa storia un romanzone da minimo quattrocento pagine, con penose digressioni filosofiche e lungaggini sentimentali. Fini, che è uno scrittore e non un «professionista della scrittura», tira fuori 84 pagine lucide, profonde e perfino divertenti.

Dagospia l’1 aprile 2023. Da “Giornale Radio, L’Attimo Fuggente” - Luca Telese e Giuliano Guida Bardi intervistano Massimo Giletti

Hai raccontato a Non è l’Arena di aver ricevuto una lettera di minacce dalla mafia. Perché? È perché hai già dedicato dieci puntate a Messina Denaro? Sei controcorrente, testardo o anacronistico? Ha ancora senso l’antimafia giornalistica?

 Ricordo di aver avuto uno scontro durissimo, quando lavoravo alla Rai. Mi domandai come mai potesse essere rilasciato dagli arresti uno degli uomini più potenti della mafia: il dottor Aiello. Sui suoi conti correnti erano stati trovati ben 1500 miliardi di lire. Lo ripeto perché non si pensi che sia un lapsus: ben 1500 miliardi di lire liquide.

Aiello era un uomo di mafia, di un livello importante. Venne rilasciato, scoprii, perché nel carcere dove si trovava si mangiavano fave e piselli che lui non poteva assumere. Lo Stato italiano lo mise ai domiciliari. Io dimostrai che in quel carcere, in realtà, fave e piselli si mangiavano solo il mercoledì sera. Nonostante questo, venne mandato a casa.

 Non solo: trovai anche l'elenco dei beni di cui questo signore, stranamente, poteva disporre pur essendo in carcere.  Era detenuto in regime di massima sicurezza ma, ogni giorno, ripeto ogni santo giorno, riceveva il pesce fresco da Palermo. Questo passaggio racconta esattamente perché lotto e continuo a lottare contro la mafia.

Questo Paese può aver anche catturato Matteo Messina Denaro, ma non ha certamente arrestato tutto quello che gli era intorno e che ha creato quella corruzione, che è un punto cardine, purtroppo in negativo, dell'Italia. Tutto questo non è accettabile e credo che noi giornalisti dobbiamo accendere delle luci su ciò che è devastante:  ci sono uomini dello Stato collusi con il sistema. E’ gravissimo. E, quel che è più grave, noi facciamo finta di niente. [...]

 Poi sei andato in Sicilia a realizzare una trasmissione in diretta, con la gente che ti contestava in piazza, a Mezzojuso nel paese delle sorelle Napoli.

Avvenne dopo, quando ero a La7, non più alla Rai. Qualcuno mi disse “Tu dai molto fastidio in Parlamento, a un certo mondo”. A distanza di anni, forse, il procuratore di Caltanissetta del tempo - che era uno che parlava abbastanza poco - aveva ragione.

Tu fai questa battaglia ma tanti altri, che pur si sono appuntati la medaglia dell'antimafia sul petto, oggi non la fanno più. Perché?

Bisogna chiederlo a loro. Io non ho mai esitato ad andare oltre, anche con quando ero alla Rai. Anzi, ricordo che mi sorprese il procuratore di Caltanissetta, Lari. Quando io venni costretto ad andar via dalla Rai, fece un’Ansa dicendo “Io credo che Massimo Giletti sia stato allontanato dalla Rai perché faceva ascoltare a quattro milioni di spettatori, problemi della mafia, alle due di pomeriggio, nel giorno più importante della settimana, la domenica! Allora non credevo che questo fosse vero, oggi, forse, sì.

 Che il procuratore di Caltanissetta abbia detto una cosa di questo genere sembra clamoroso.

Lui diede questa lettura in un lancio Ansa, non me lo sto certo inventando. Ripeto: non ci diedi peso ma oggi ho capito. Mi ero occupato di tante cose, e forse qualcuno ha dimenticato che da solo feci uno speciale sulla morte di Don Puglisi, un sabato sera, su Rai Uno, portando il pentito che uccise Don Puglisi a Brancaccio.. Quella sera avevo intorno una marea di uomini con fucili sui tetti. Non posso dimenticare quella notte.

 [...]

 Cosa dici del birignao dei colleghi che dicono “Ma cosa vuole fare Giletti? Ma l’antimafia è una roba per iniziati, per professionisti, per studiosi dei codici…” La senti tu questa freddezza?

Sono abituato a lavorare in questo ambiente. La freddezza l'ho sentita in tanti modi, tante volte, nella mia vita. Ma questo lavoro lo devi fare per quello in cui credi. Sono stato in Ucraina e sono stato criticato. Sono stato in Russia e sono stato criticato. Ma sono uno che va, che si muove, non ho problemi. Ti anticipo che sono stato questa settimana a Palermo. Domani ho un grosso scoop.

 Vogliamo un’anticipazione…

Riguarda i festini. Forse qualcuno ricorderà, tempo fa, il consigliere regionale Ismaele La Vardera che è stato un giornalista de Le Iene. La Vardera aveva raccontato dell'esistenza di un testimone che diceva che in una villa si tenevano dei festini a cui partecipavano politici, imprenditori, il gotha palermitano. E c'era ogni tanto anche Matteo Messina Denaro. Il testimone di cui parleremmo l'aveva riconosciuto, ovviamente dopo che venne pubblicata la fotografia dell'arresto. Su questo abbiamo una cosa interessante, molto interessante. Vedrete domani, domenica, a Non è l’Arena. [...]

Sei stato molto gentile con i tuoi colleghi e non hai risposto: perché nelle altre trasmissioni tutto questo non appare? Hanno paura? Sono conformisti? Ritengono che tu stia facendo una battaglia sbagliata?

Quando sono stato messo sotto scorta ho detto che mi sono sentito solo, ma non perché non mi è arrivato un sms dai giornalisti di La7, che fanno tanti programmi importanti e dai quali mi aspettavo obiettivamente un messaggio, da Porro, Mario Giordano, Maurizio Costanzo… Costanzo fu il primo a chiamarmi quella mattina, si preoccupò molto.

 Cosa ti disse?

Era molto preoccupato. Con Maurizio avevo un rapporto stretto, da tanti anni. Ci fu una telefonata un po’ complessa, perché era venuto a sapere delle cose anche lui. Addirittura chiamò una personalità importante delle forze dell'ordine.

 Era molto preoccupato. Mi disse che bisognava smettere di parlare, perché lui aveva pagato un dazio altissimo e mi diceva “non puoi continuare, stai toccando temi pericolosi, pensaci, pensaci, la vita, non vale la pena…”.

 Cercava di dissuadermi, perché anche lui aveva saputo cose delicate. Quindi non è quello, non è la mancanza di un sms. E’ che sei isolato nel momento in cui sei l’unico che, per esempio, quella volta aveva fatto quella battaglia per la scarcerazione dei mafiosi.

Ma ricordiamoci di Zagaria, uno dei numeri uno della camorra, era tornato a casa e noi avevamo raccontato esattamente le inefficienze del DAP, che forse qualche responsabilità ce l'aveva. Quel senso di solitudine lì, purtroppo lo continuo a sentire anche adesso.

 Insomma, la lista dei buoni e dei cattivi alla lavagna non ce la fai.

Ma è inutile, ognuno risponde alla propria coscienza. Dico solo che non è stare con Giletti o no, è cercare di raccontare quello che succede invece di fare le solite analisi ipocrite, superficiali.

 Per la stagione 2024 sarai alla Rai?

Non ho ancora deciso il mio futuro, questo lo posso dire. Dovrò decidere tra un mesetto. Adesso sono concentrato a fare un prodotto, a lavorare. Dopodiché io sto con un editore che in questi anni mi ha garantito la libertà; un editore che mi son trovato accanto quando è morto mio padre con le mani sulle spalle all'improvviso. Vicino.

 La Rai non ha mandato neanche un telegramma, neppure una telefonata, dopo trent'anni di lavoro. Sono cose di cui terrò conto nelle mie valutazioni definitive. Però la Rai è il luogo in cui son nato, ho un rapporto forte con la Rai, con quello che rappresenta quel cavallo, di fronte al quale cui ogni giorno passo. Ecco, per me è qualcosa di importante.

 Parliamo della tua squadra. Anche loro condividono fino in fondo la tua battaglia?

A me piace stare vicino ai ragazzi, crescerli, perché io non dimentico che sono arrivato senza sapere come fare questo mestiere. Creare una squadra, lavorare insieme, è il massimo che si possa ottenere. Sono convinto che vedendomi, anima e core, come direbbe qualcuno, tutti i giorni in trincea per fare questo bel lavoro, anche loro traggano le forze per andare avanti, andare oltre e dare il massimo. Questo per me conta.

Massimo Gramellini, addio Rai per soldi: quanto prenderà a La7. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 02 giugno 2023

«Ecco, la musica è finita/Gli amici se ne vanno/Che inutile serata...». Ci vorrebbero le parole di Franco Califano per commentare la fine de Le parole su Raitre; e per nascondere «la malinconia sotto l’ombra di un sorriso» al suo conduttore Massimo Gramellini già malinconico di suo - che si sarebbe autoepurato da una Rai evidentemente nazifascista.

Massimo, grande penna e grande cuore, il cui contratto era scaduto, avrebbe comunicato ai vertici Rai il suo addio alle armi aziendale. A dire il vero, s’era già portato avanti col lavoro nell’ultima puntata del suo programma sabato scorso, salutando il suo pubblico e analizzando proprio la parola «pubblico». «Pubblico significa anche servizio pubblico. Consentitemi di ringraziare la tanto bistrattata Rai», comunicava il Max «al di là e al di sopra degli appetiti di potere dei quali è oggetto dal giorno della nascita, questa azienda è piena di lavoratori, tecnici, dirigenti straordinari». E aggiungeva ancora: «Un grande dirigente della Rai del passato mi disse che servizio pubblico non consiste nell’avere tutti i racconti della realtà dentro lo stesso programma, mala possibilità di scegliere più programmi che raccontino la realtà in modo diverso». Oddio, al di là dell’accorato tono alla Paul Auster, non è che io abbia capito bene il senso del commiato.

L’ESEGESI DEL CALIFFO

Ma se applicassimo l’esegesi del Califfo al testo gramelliano lo si potrebbe leggere come: «Siete troppo autoritari e normalizzatori (come dice il Romano Prodi su La Stampa), e vi mollo pure io dopo Fazio e l’Annunziata». Più o meno, questo il senso. Ovviamente, alla notizia dell’abbandono del Gramlin, l’ad Roberto Sergio e il direttore generale Giampaolo Rossi, erano visibilmente spiazzati. Vestiti in camicia nera e fez, impegnatissimi l’uno nella traversata nel cerchio di fuoco piazzato sulle scrivanie del settimo piano e l’altro nell’ordinare due cisterne di olio di ricino in cambio merci (giusto per non rimanere senza) assieme al contratto di servizio, i due gerarchi meloniani in realtà, avevano già pronto il rinnovo della stagione prossima per il programma di Gramellini. Certo, magari Max avrebbe dovuto dare del “voi” agli ospiti; e condurre le interviste vestito come Ugo Tognazzi nel Federale; e mettere al pianoforte, d’accompagnamento, un delizioso Fabio Rampelli che suona il Trio Lescano. Ma son pinzillacchere. Per il resto, ça va sans dire, massima libertà di scaletta. 

Però, nella nuova Rai troppo littoria non ci sarebbe spazio per un liberal sabaudo come il vicedirettore del Corriere della sera. Sicché ecco il primo motivo della scelta del suo presunto abbandono: «Ogni spettatore, pagando il canone, finanzia non solo la propria libertà di scelta, ma anche quella degli altri», rammentava lui. Cioè, come ammonivano Lucia e Fabio, dopo aver preferito l’esilio volontario alla riconferma del contratto: qui non è questione di accordi scritti, ma di «clima che s’è venuto a creare». Roba liberticida a prescindere, tipo «libro & moschetto fascista perfetto». Ci sarebbe stato imbarazzo, insomma, nel continuare ad andare in video in Rai perché «non si condivide nulla di questo governo» (Annunziata dixit). Poi c’è anche un secondo motivo per lasciare la vecchia nave che prende la nuova rotta: un nuovo contratto.

MOLTE OFFERTE

Parrebbe infatti, - secondo l’informatissimo Giuseppe Candela su Dagospia- che Gramellini sia destinato a La7 dove Urbano Cairo, suo poliedrico editore al Corriere della sera, lo assumerebbe per il sabato sera. Tra l’altro, Nicola Porro, naturale sostituto di Fazio rimarrebbe a Mediaset «la mia famiglia», nonostante la mezza offerta Rai di fargli perfino co-produrre il proprio talk trasferito a viale Mazzini.

Per il resto confermati Monica Maggioni e Antonio Di Bella, che se non son fasci son collaborazionisti. Dunque alla tv di Stato tornata ai tempi dell’Eiar resisterebbe soltanto il templare del gramscismo Corrado Augias; il quale si macera certo in un’ossessione auto-sacrificale. E, beccato in un ristorante romano da Carmelo Caruso del Foglio, pare abbia dichiarato con un accenno di pugno chiuso: «Io la Rai non la lascio!». Tutto ciò nonostante Giorgia Meloni così bionda e così tetragona, be’, per Augias, sotto sotto, assomigli tanto alle donne-tuono fotografate da Leni Riefenstahl. «Amore mio/ Ho aspettato tanto per vederti/ Ma non è servito a niente». Lo cantava il Califfo, ma sembra Gramellini nell’anticamera sorda e grigia del Roberto Sergio...

Estratto dell’articolo di Giovanna Vitale per “il Venerdì di Repubblica” il 23 luglio 2023.

“Lineanotte, il racconto della giornata”. Per quindici anni, intorno a mezzanotte, oltre mezzo milione di persone hanno scelto di affidarsi alla voce rassicurante, ai toni morbidi, ai commenti sul filo dell'ironia di Maurizio Mannoni, volto storico del Tg3 che a fine giugno – dopo aver promesso a Giovanna Botteri che avrebbe messo al sicuro il gong – ha salutato il pubblico con un messaggio a metà fra il commosso e il commiato:

«Io e Patrizia (Senatore, ndr) ce ne andiamo in… vacanza, diciamo. Dopodiché vediamo, non lo so… Magari qualcosa succederà, o forse nulla. In ogni caso è stato bello percorrere questa lunga strada». Parole che hanno messo in allarme gli aficionados e scatenato i giornali, che hanno subito titolato sul suo addio alla Rai. Ma è davvero così? […] 

Allora è vero? Non ti rivedremo più in video?

«Io farei molto volentieri un'ultima stagione prima di andare in pensione, l'anno prossimo; però ho un problema di ferie arretrate che ho chiesto all'azienda di poter risolvere. Ho parlato con l'ad Roberto Sergio, mi ha detto che ci proverà».

Altrimenti?

«Altrimenti dovrò inventarmi un'altra LineaNotte da qualche altra parte, magari sui social. La passione per il giornalismo è ancora forte e non ritengo maturo il tempo del riposo». […] 

Maurizio Crozza su Nove ne ha però fatto una parodia, alludendo al tuo ritmo soporifero. Ti ha chiamato "Mannoioni". Offeso?

«Macché, mi ha fatto ridere, ma anche colpito perché lui ha la capacità di tirar fuori il ridicolo che c'è in noi. Vedere tutti i miei tic mi ha impressionato. Comunque io e Giovanna (Botteri, ndr) ci siamo molto divertiti». […]

Una serata speciale a reti unificate con Canale5, era il 1991, ascolti record e polemiche feroci. Poi però accade qualcosa.

«Sei mesi dopo uccisero Salvo Lima e noi mettemmo in piedi un collegamento fra mille difficoltà perché tentarono di farci terra bruciata intorno. Alla fine trovammo un posto sul lungomare, vennero tanti ragazzi palermitani che in sostanza ci dissero: "Condanniamo l'omicidio, ma non potete chiederci di piangere Lima". Tanto bastò a far chiudere Samarcanda». 

Infine, l'avventura di LineaNotte.

«Nel 2008 si decise di accorpare il Tg3 Mezzasera con Primo piano e di aprire uno spazio di approfondimento in seconda serata che prima non c'era: il direttore di allora, Nino Rizzo Nervo, mi chiese se fossi disponibile. È un format che ci siamo dovuti inventare: per quanto incredibile, allora quella fascia oraria era occupata soltanto da Vespa, che però faceva una roba diversa, un talk tutto politico, spesso registrato».

E invece voi?

«Il nostro non è un talk, lo considero un telegiornale raccontato da commentatori, giornalisti, esperti, con un linguaggio differente dai Tg, più tranquillo, confidenziale». 

Per la verità quando a condurre era Bianca Berlinguer, in alternanza con te, i politici c'erano.

«Lei li voleva, ma noi non c'entravamo niente con quella formula lì, fare l'ennesima trasmissione con esponenti di partito non aveva senso. E infatti, quando se n'è andata, non li abbiamo più invitati». 

Con Bianca Berlinguer non sei mai stato tenero, memorabili le tue sfuriate contro gli sforamenti di Cartabianca.

«Un programma che comincia a mezzanotte deve avere un orario preciso: già quella fascia è difficile, se poi inizia pure con dieci o anche venti minuti di ritardo la gente si stufa e spegne la tv. A parti invertite, lei avrebbe messo sottosopra Saxa Rubra, altro che le mie battutine!».

Hai mai temuto qualcosa nella tua lunga carriera?

«Una volta sola, quando un politico chiese il mio licenziamento, ma è stato l'unico». Fuori il nome. «Fausto Bertinotti. Il giorno in cui fece cadere il governo Prodi io conducevo il Tg3 e parlai di "crisi assurda". Lui si arrabbiò e arrivai vicino a farmi cacciare». 

Si è parlato di Mannoni come possibile direttore del Tg3. Rimpiangi di non esserlo mai diventato?

«Un po' sì, anche se ho sempre pensato che non fosse il mio mestiere. Sono stato "candidato" molte volte, ma non ho mai fatto la mossa necessaria». […]

Mia Ceran: «Mi fermo dopo il parto perché non riesco a fare tutto. Se ho paura di sparire? Certo, ma ho coraggio». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2023.

La giornalista chiude in anticipo il programma su Rai 2: «Ho sorpreso tutti, forse non avevo dato i segnali giusti. Le altre mamme? C’è troppa pressione sociale»

La giornalista Mia Ceran , 36 anni, ha annunciato su Instagram che dopo il parto si prenderà una pausa fino all’autunno. In un post ha spiegato che non riesce più «a fare la giocoliera tra un programma televisivo quotidiano, un podcast 6/7, un figlio di un anno e un altro in arrivo». La conduttrice del programma di Rai 2 Nei tuoi panni, ha indossato abiti soltanto suoi — di professionista, di mamma e di compagna — prima di scegliere di fermarsi. E la sua decisione, sul social network, è piaciuta a oltre 27 mila persone; quasi 800 l’hanno commentata pubblicamente, altre le hanno scritto in privato.

Mia, si aspettava tutto questo consenso?

«No, anzi. Subito dopo aver pubblicato il post ho pensato: “Sembrerà il lamento di una privilegiata”. Invece ho capito che era un tema grosso, sentito da tutte. Se riguarda una donna come la premier neozelandese Jacinda Ardern, che ha uno staff di 50 persone, e chi come me ha il privilegio assoluto di potersi fermare, posso solo immaginare chi non ha aiuti, ha un lavoro meno gratificante e meno retribuito».

Chi le ha scritto, dopo il post?

«Quasi interamente donne che si sono scoperte il più severo giudice di sé stesse. Ho chiesto se qualcuno fosse rimasto deluso dalla loro scelta di fermarsi e la risposta è stata quasi sempre la stessa: “Io per prima”. La rivoluzione deve partire da noi».

Lei lavorerà fino all’inizio del nono mese, poi si prende la pausa.

«Sono mesi che mi divido tra redazione, camerino e casa, dove torno un’ora e mezzo prima che mio figlio vada a letto. Poi, continuo con il podcast (The Essential, ndr), molto tardi la sera. Vorrei precisare che i lavori usuranti sono altri, però era diventato tutto molto faticoso per me».

Dopo il parto sospenderà anche il podcast?

«No, lì mi fermerò soltanto per due settimane, come era già successo con la nascita di Bruno. Il podcast è quasi una “dieta” per me, è la parte piu giornalistica del mio lavoro, che amo tantissimo, è la mia ginnastica mentale, ne ho bisogno».

C’è una pressione sociale sulle mamme?

«Poiché l’algoritmo sa sempre in che fase della vita sei, a me appena apro Instagram arrivano post della mamma montessoriana o di quella che allatta il figlio fino ai 5 anni. C’è tutta un’iconografia falsata: esattamente con lo stesso spirito con cui guardiamo corpi di donne che non esistono in natura, così vediamo madri che ti fanno sentire manchevole, inadatta. Poi magari qualcuna ce la fa davvero a fare la call con il capo mentre allatta... Io, che pure faccio trucco e parrucco, che ho le sarte che mi vestono, che ho una serie di agevolazioni, ho avuto dei momenti in cui ho chiuso la porta del camerino, spento le luci, e fatto 8 minuti di pennica sul divano tra una registrazione e l’altra».

Qualche settimana fa ha fatto il giro del mondo la foto della corrispondente di guerra della Cnn, Clarissa Ward, in Ucraina con il pancione al quinto mese. Esiste un modello «giusto» o «sbagliato»?

«Io sono per il massimo rispetto per le scelte di ciascuna, ma rivendico anche che ciascuna non debba sentirsi obbligata a dimostrare qualcosa, ma arrivi fino a dove si sente di arrivare».

Nel suo caso, quando ha maturato la consapevolezza di volersi fermare?

«Non saprei dire con esattezza. Però a un certo punto ho sentito che c’era una discrepanza tra quello che pensavo di dover fare e dimostrare agli altri e quello che ero realmente in grado di fare. Il giorno che ne ho preso consapevolezza è stato un buon giorno. Il mio limite era quello, ma l’inviata che parte per l’Ucuaina ne ha un altro, a patto che non sia schiava di un’idea che si è fatta di sé stessa. Ci sono donne che rimangono vittime di depressione post partum perché sono chiamate a stare a casa più di quanto vorrebbero. Ecco, io rivendico la capacità di riconosce il proprio limite, che è diverso per ciascuna».

La spaventa l’idea di stare lontana dal teleschermo per tanti mesi?

«Certo che mi spaventa. Chiunque faccia il mio mestiere ha paura di sparire e di non essere richiamato. Chi dice il contrario, o non ci tiene abbastanza o mente. Il mio è un precariato di lusso, ma quando il lavoro c’è mi rende felice ed è ben remunerato. Infatti c’è voluto coraggio da parte mia per prendere questa decisione».

Quali sono state le reazioni in casa?

«Quando sono riuscita a verbalizzarlo, l’ho detto in cucina parlando con mia madre e lei mi ha guardato sorpresa. Ho capito che se perfino una persona come lei, che è sempre stata in ascolto ed è stata una mamma lavoratrice, non aveva letto alcun segnale, avevo sbagliato io qualcosa».

Suo figlio Bruno si è reso conto che tra poco arriverà qualcuno a spodestarlo dal trono delle attenzioni?

«Bruno ha l’ingenuità dei 17 mesi. Ha un concetto di altri bambini, ma non di fratelli. Anche lì sarà una bella scoperta: abbiamo davanti tutti nuove consapevolezze da maturare».

Il suo compagno, Federico Ferrari, cosa le ha detto?

«Anche lui era tra gli stupiti e questa cosa mi ha fatto pensare a quanto devo avere sbagliato io la comunicazione del fatto che ero molto, molto stanca. Chiaramente è stato un errore mio, perché dopo tutti mi sono stati accanto».

Da fanpage.it il 10 luglio 2023.

Michele Cucuzza si racconta in una lunga intervista rilasciata a La Repubblica. Il giornalista, da circa un anno, è tornato nella sua Catania dove conduce il telegiornale dell'emittente privata Antenna Sicilia. Dalla passione per l'informazione fin da adolescente, all'esperienza a Radio Popolare a Milano, poi il TG2, i 10 anni a La Vita in diretta e anche i reality, con la partecipazione al Grande Fratello Vip. 

L'infanzia e la formazione di Michele Cucuzza

Cresciuto nella Catania degli Anni 70, con padre vulcanologo e madre casalinga, Michele Cucuzza ha sempre avuto la passione per le notizie e per quanto accadeva nel mondo. "Ero informato su tutto. Pensi che avevo un quaderno a quadretti che avevo trasformato in una specie di giornalino con fotografie, ritagli, titoli. Si chiamava Michelino Varietà", ha raccontato. Dopo aver studiato per due anni Lettere in Sicilia, parte per Milano per continuare con gli studi: "Mi iscrivo al terzo anno alla Statale e mi si apre davvero un altro mondo. Ho avuto subito la sensazione di essere dentro a un film". 

L'esperienza a Radio Popolare e l'intervista a Sandro Pertini

Proprio a Milano arriva la proposta di collaborazione con la nascente Radio Popolare: "In quel momento è cambiata la mia vita. Un’esperienza irripetibile dove ho imparato tutto del mestiere". E l'occasione di intervistare il presidente Sandro Pertini, in città per celebrare la Resistenza. "Dentro di me dico ‘Lo devo intervistare', ma era quasi una missione impossibile", racconta Cucuzza. Poi la scoperta del percorso dell'auto presidenziale e l'arrivo nello stesso garage: Gli ho spiegato chi ero e che mi sarebbe piaciuto fargli un’intervista. La risposta è stata questa: “Solo se mi dai del tu come fanno tutti i ragazzini che mi vengono a trovare al Quirinale”. Con le gambe che mi tremavano ho iniziato a fargli qualche domanda. Il giorno dopo Radio Popolare ha tappezzato di manifesti Milano dove c’era la mia foto con Pertini e con su scritto: “La radio che dà del tu al presidente”.

Il passaggio in Rai con il Tg e La Vita in Diretta

Michele Cucuzza passa poi in Rai, dove per 10 anni ha condotto le varie edizioni del TG2. Un periodo che, per il giornalista, è stato una vera e propria scuola: "I primi due anni ho fatto il tg della notte. Quando uscivo spesso c’era il caporedattore che non aveva remore a dirti “bella schifezza che hai fatto oggi eh”, capito? Ti insegnavano tutto".  

Per altri 10 anni, invece, ha condotto il programma La Vita in Diretta, dal 1998 al 2008:  "Io non sapevo fare assolutamente nulla, figuriamoci un programma con il pubblico. Però ho accettato, poi per dieci anni sono andato avanti con un successo di pubblico strepitoso". Poi però, il mancato rinnovo con l'azienda di Viale Mazzini lo porta a prendere strade diverse: Dovevo cominciare il quarto anno di Uno Mattina e ho detto al direttore di allora che forse non ce la facevo a fare di nuovo tutte quelle levatacce. Lui mi ha detto che però non sapeva dove inserirmi e ci doveva pensare. Forse si saranno dimenticati.

La persecuzione. Michele Santoro dissente, e gli amici antimafia spariscono. Carmine Fotia su L'Unità il  9 Agosto 2023

Michele Santoro ha ragione. Il presidente della repubblica, cui era rivolta la lettera pubblicata sull’Unità, saprà cosa fare e non mi permetto di dare consigli. Credo però che la vera e propria persecuzione giudiziaria di cui sono stati vittime Santoro e Guido Rutolo, per il semplice fatto di aver scritto un libro-intervista a un mafioso pentito che contestava la teoria dei mandanti esterni delle stragi mafiose, cara a qualche procura, a qualche esponente politico, a qualche giornale, meriterebbe l’attenzione dell’opinione pubblica, delle forze politiche, dei media.

I fatti li ha riassunti già Michele: lui e Guido Ruotolo raccolgono la testimonianza di un collaboratore di giustizia, Maurizio Avola, legato alla mafia catanese, che confessa di aver partecipato alla strage di via d’Amelio confezionando l’esplosivo, svela la partecipazione della famiglia Santapaola all’attentato contro il giudice Borsellino e smentisce l’affermazione del pentito Spatuzza secondo il quale, nel commando di via d’Amelio vi fosse una persona a lui sconosciuta , un “estraneo” a cosa nostra, che, secondo gli inquirenti nisseni apparteneva ai servizi segreti. I due giornalisti fanno le loro verifiche, si convincono che quel racconto meriti di essere conosciuto.

Tuttavia invitano il pentito a rivolgersi ai giudici di Caltanissetta cui spetta la competenza per la strage, e aspettano che lo faccia prima di pubblicare il libro, “Nient’altro che la verità”. I pm nisseni, però, prima che il libro sia pubblicato e a indagini in corso, rilasciano un comunicato in cui ipotizzano un depistaggio e accusano i giornalisti e l’avvocato difensore del pentito, Ugo Colonna, di esserne complici.

Nel frattempo, uno dei boss tirati in causa da Avola, Aldo Ercolano, della famiglia Santapaola, condannato all’ergastolo ostativo, querela per calunnia Santoro e il pentito, contestazione che i pm estendono anche all’avvocato del pentito. Santoro viene iscritto nel registro degli indagati e Ruotolo no, ma entrambi i giornalisti vengono intercettati con il trojan, spiati, pedinati: “Ricostruendo come reato la pubblicazione di un libro, prendendo spunto dalla querela di un boss della mafia, sono stato spiato nella mia attività professionale, nei rapporti con le mie fonti e nella vita privata, perfino quando ero a colloquio con il mio difensore, Lorenzo Borrè”, racconta Santoro che denuncia un’altra grave violazione delle regole processuali perché sia lui che Ruotolo vengono chiamati come testimoni nel procedimento scaturito dalle dichiarazioni di Avola, pur essendo indagati o indagabili in un procedimento connesso, nato in seguito alla querela del boss catanese Ercolano. La differenza sta nel fatto che il testimone non può avvalersi né di un avvocato difensore, né delle garanzie processuali di un indagato. Alla fine delle loro indagini i pm nisseni chiedono l’archiviazione per le accuse contenute nella testimonianza di Avola, ma il Gup non l’accoglie e fissa l’udienza a ottobre per approfondire.

Questa la vicenda giudiziaria che avrà il suo corso, ma le questioni poste da Michele travalicano l’ambito giudiziario e toccano questioni delicatissime che riguardano il diritto alla privacy, il diritto a fare informazione libera, la reputazione di due giornalisti, l’origine e l’obiettivo delle stragi mafiose.

Intanto, vorrei offrire una testimonianza personale. Conosco Guido Ruotolo e Michele Santoro da decenni (Guido credo più o meno da cinquant’anni) e respingo l’idea che possano essere stati complici consapevoli di un depistaggio mafioso. Accusarli di complottare con la mafia è ridicolo, prim’ancora che ingiusto. Le trasmissioni di Santoro sono sempre state una sfida aperta alla mafia: da quelle con Libero Grassi alla maratona antimafia in comune con Maurizio Costanzo, per il quale il conduttore di Mediaset subì un attentato mentre Santoro, che ha sempre rifiutato la scorta, compariva in una lista di obiettivi da eliminare. E le inchieste di Guido Ruotolo parlano per lui.

Vedranno i giudici se il racconto del pentito sia fondato, ma i due giornalisti hanno fatto semplicemente il loro dovere facendo le verifiche possibili, incrociando fonti diverse, consultando esperti e pubblicando il libro solo dopo che il pentito aveva rilasciato le sue dichiarazioni all’autorità giudiziaria. Quello cui assistiamo oggi è dunque un mascariamento (dal siciliano mascariare che vuole dire sporcare) della immagine pubblica e dunque della credibilità di due giornalisti liberi e coraggiosi. Dove sono le “scorte mediatiche” dei miei cari amici di Articolo 21? Dov’è la mobilitazione dell’indignato permanente collettivo? E gli intellettuali pronti a firmare qualsiasi appello dove sono adesso?

C’è poi la denuncia di Michele che chiederebbe quanto meno un approfondimento del Csm sul modo in cui i due giornalisti sono stati spiati, subendo un’intrusione devastante nelle loro vite private e professionali, fino all’aberrazione della registrazione dei colloqui con il proprio avvocato difensore.

Infine, c’è la madre di tutte le questioni: il teorema della trattativa stato-mafia e dei mandanti esterni delle stragi mafiose, smentito da una quantità ormai copiosa di sentenze passate in giudicato, ma pronto a rinascere ogni volta dalle sue ceneri, come una sorta di araba fenice .

Il primo a essere mascariato come regista dell’operazione fu l’ex-democristiano Calogero Mannino (assolto definitivamente dopo una lunga carcerazione e anni di processi), poi tocco al generale Mario Mori (assolto), l’uomo che catturò Totò Riina, in seguito ai ministri del governo Ciampi, Nicola Mancino (assolto), ministro dell’interno della sinistra dc (quella che in Sicilia, con l’assassinio di Piersanti Mattarella, pagò il prezzo più alto nella lotta alla mafia) e Giovanni Conso (deceduto prima della sentenza) e si arrivò persino a coinvolgere l’allora capo dello stato Giorgio Napolitano. Caduti miseramente questi cartelli di carta ora se ne vuole erigere un altro che vede in Silvio Berlusconi, tramite Marcello Dell’Utri, il mandante esterno delle stragi. Dunque, sarebbe esistito un complotto che coinvolge centro, destra e sinistra per trattare con i mafiosi e nascondere l’esistenza di una regia occulta, esterna alla cupola mafiosa.

Un teorema non sorretto da alcuna prova, che si fonda su una lettura errata del pensiero di Giovanni Falcone che per primo parlò di un “terzo livello” nella gerarchia mafiosa ma, come egli stesso e i suoi più stretti collaboratori hanno chiarito, non pensava affatto che esistesse qualcuno che dall’esterno ordinasse alla mafia cosa fare. Voleva dire, come fu poi acclarato, che la mafia non era fatta solo di killer ma che comprendeva anche uomini politici e grandi uomini d’affari (I Lima, i Salvo, i Ciancimino) e che questi avevano complicità nelle istituzioni, compresa la magistratura e i servizi segreti. Era un sistema di potere consolidato che nel corso degli anni ’80, con l’ascesa dei corleonesi, ha inaugurato lo stragismo con l’attentato al giudice Rocco Chinnici e ha decapitato le istituzioni siciliane assassinando giudici e poliziotti scomodi, politici nemici della mafia e servitori dello stato. Una mafia che non cerca più l’accomodamento con il potere politico ma vuole dominare e per questo, in un delirio di onnipotenza, decide le stragi del ’92-93, che determineranno la risposta forte dello stato e la loro sconfitta.

Questa è la verità sancita da innumerevoli processi. Ed è anche la verità storica. Esiste invece un’antimafia lisergica che sostiene tutt’altro. Si riunisce attorno a riviste come Antimafia2000, diretta da un signore che si chiama Maurizio Bongiovanni e che sostiene di avere le stimmate, di parlare con gli alieni e di aver ricevuto da Gesù in persona l’incarico di sconfiggere la mafia. Insomma, come i Blues Brother, è un “inviato per conto di Dio”. C’è di più: uno dei più autorevoli esponenti della procura di Palermo, Roberto Scarpinato, ora senatore del M5S, collaboratore della succitata rivista, sostiene l’esistenza di una sorta di Spectre fatta di pezzi di istituzioni, servizi segreti, logge massoniche, formazioni neofasciste e personalità politiche, che stava sopra le Cupola mafiosa e che avrebbe orchestrato tutte le stragi italiane dal 1969 al 1993. Secondo questo ennesimo teorema non sappiamo nulla di quanto realmente accaduto: dopo le stragi del 1992, come in una distopia alla Philip K. Dick, non vinse lo stato ma la mafia e pertanto siamo stati governati per decenni da una consorteria che ordinava alla mafia cosa fare e che quindi se di tale gigantesco complotto non si trova traccia è perché essendo stati governati (ed essendo tuttora governati) da tale Associazione Segreta, le prove sono nascoste, occultate, manipolate. Una visione che dunque affida a un manipolo di Pm dai poteri debordanti il compito di liberare l’Italia.

È questo l’humus nel quale nasce la persecuzione contro Michele Santoro e Guido Ruotolo. E non è solo in difesa di due valorosi colleghi che occorrerebbe parlare, ma anche per demolire l’idea di una mafia invincibile, di un paese governato dai poteri occulti, di una democrazia che può rinascere solo sotto il controllo totalitario di un gruppo di illuminati. Solo che così non si combatte la mafia, si uccidono la democrazia e la speranza. La mafia ha avuto complicità anche nelle istituzioni, ma la rivolta civile dopo le stragi del 1992 le ha travolte, messe in luce, ha costretto lo stato a reagire con una forza mai vista prima e ha consentito all’Italia di risollevarsi e alla sua democrazia di crescere pur tra limiti, imperfezioni e gravi ineguaglianze. Correggerle è compito della società e della politica, non dei tanti aspiranti Angeli Vendicatori dei quali faremmo volentieri a meno.

Carmine Fotia 9 Agosto 2023

Estratto dell’articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 21 gennaio 2023.

[…] Il ritorno dell’ Unità in edicola, previsto per gennaio, è slittato a fine febbraio. Il direttore responsabile dell’Unità di carta sarà sempre Sansonetti, [...] diventato anche un opinionista dei talk di Rete4, dove è spesso l’antagonista di sinistra di Daniele Capezzone, non necessariamente su posizioni contrapposte.

Ma a chi affidare la direzione della parte digitale, ormai decisiva in qualunque progetto editoriale? Romeo punta in alto: Michele Santoro. Un’offerta al conduttore di Samarcanda e Annozero è già stata recapitata. Santoro conferma, ma per ora la risposta è no: «A 72 anni non ho voglia di finire sotto un editore», dice Santoro.

 Che però non chiude la porta a Romeo: «Sono contento che riporti in vita l ’Unità , è un fatto positivo se aumentano i luoghi dove è possibile tornare a dare voce a chi non ce l’ha. Ma è questo l’obiettivo? Non lo so, perché nessuno mi ha chiesto cosa farei io. Quello che posso escludere è fare il direttore di un progetto non mio».

Anche perché Santoro, nel frattempo, un progetto suo ce l’ha, sempre legato all’idea di dare rappresentanza politica alla sinistra senza partito: uno spazio digitale a cavallo tra un sito di informazione e una piattaforma di scambio di opinioni, proposte e iniziative.

 Li vogliamo chiamare i meet up di Santoro, come quelli alle origini del Movimento 5 Stelle? «Ci sarà più informazione e più tecnologia », spiega Santoro, che negli ultimi mesi è tornato spesso ospite in tv a parlare di guerra in Ucraina. Lui la chiama “la guerra di Biden”. E questo è un titolo di giornale che, Unità o no, Belpietro certamente non cambierebbe.

Il livore di Santoro contro Lucia Annunziata mette grande tristezza. Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023

Ospite di Floris su La7, Michele Santoro, pieno di livore contro Fazio e Lucia Annunziata. Mosso dalla rabbia e dal rancore. Come se ci fosse qualcosa di personale. Forse è solo la rabbia di chi è fuori dai giochi e nessuno lo chiama a condurre un programma tv.

Santoro e la Annunziata sono entrambi di Salerno, ma il loro cammino è stato molto diverso. Forse ci sono antichi rancori fra i due, ma quel livore ha messo una grande tristezza. (Aldo Grasso)

Santoro non li sopporta. Massimo Gramellini su Il Correre della Sera l'1 giugno 2023 

Ha ragione Aldo Grasso: il Michele Santoro che a «Di martedì» sprizzava livore da tutti i pori contro Fazio e Annunziata mette una certa tristezza. E spiega una delle ragioni per cui in Italia la destra è più solida della sinistra. Immagino che nemmeno Vittorio Feltri, Belpietro e Sallusti si amino alla follia, però non li sentirete mai parlare male l’uno dell’altro in tv. E Matteo Salvini sopporta la Meloni ancor meno della Littizzetto, ma si guarda bene dallo spernacchiarla in uno dei suoi tweet adolescenziali. 

La sinistra, politica e giornalistica, si divide invece tra massimalisti e riformisti, con i primi che considerano i secondi i veri nemici da abbattere. Conte e i suoi suggeritori mediatici detestano molto più il Pd di Fratelli d’Italia. E neppure il particolare che Fazio e Annunziata siano nel mirino polemico della stampa di destra induce quelli come Santoro a sospendere per un attimo le ostilità ed esprimere un minimo di solidarietà nei loro confronti. Anzi, sembrano quasi seccati, i massimalisti, che qualcuno osi scippare loro la palma di unici martiri autorizzati di qualunque regime filoamericano e capitalista.

I Santoro sono la cuccagna della destra, che li usa per dividere lo schieramento avversario e batterlo separatamente. È una storia che si ripete immutabile nei secoli: chi si sente in missione per conto della Rivoluzione finisce sempre per aiutare la conservazione e talvolta per propiziare la reazione.

Estratto da open.online il 31 maggio 2023.

Per la Rai gli addii di Fabio Fazio prima e Lucia Annunziata dopo sono stati certamente una perdita «perché sono professionisti validi» dice Michele Santoro che però a DiMartedì su La7 taglia corto sui due: «Io non sopporto nessuno dei due». 

Al giornalista con una lunga e travagliata esperienza in Rai commenta con la solita schiettezza le polemiche sui due personaggi, contestando quel racconto il racconto vittimista al limite del martirio che accompagna le vicende di Fazio e Annunziata: «Le narrazioni che fanno sono sempre un po’ farlocche – dice Santoro – Non è vero che Fazio è stato 40 anni ininterrotti in Rai, è andato via a lavorare a La7 quando era di Telecom, non ha fatto nemmeno una puntata…», a proposito di quel progetto detto “TeleSogno” che non è mai decollato, come ricorda l’AdnKronos. 

«Fazio uscì da quell’avventura devastato, era molto più ricco di prima ma la gente lo guardava storto. Io non rientrai in Rai. Lui, invece, sì. Non è rientrato solo per i buoni uffici del suo agente, è rientrato anche perché la politica ha voluto che lui tornasse…».

L’Annunziata e “l’editto bulgaro”

Non è certamente più morbido Santoro quando passa a parlare di Annunziata: «Quando lasci la Rai dicendo che non sei d’accordo con questo governo, uno si deve ricordare che è stata il presidente di garanzia quando a governare era Silvio Berlusconi. Lucia Annunziata è subentrata a Paolo Mieli, che si dimise dopo aver posto come condizione il rientro di Enzo Biagi, Daniele Luttazzi e Michele Santoro.

Lucia Annunziata è subentrata. Questi due colleghi sono stati il perno attorno a cui è ruotata una politica culturale in Rai fatta di esclusioni». Santoro torna a ribadire che «l’azienda avrebbe fatto bene a tenerseli. Ma io non sono l’azienda e non sono un servizio pubblico che tiene fuori un pensiero diverso, che era fuori anche prima, quando loro erano al centro del babà…».

Estratto dell’articolo di Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” l'1 giugno 2023.

Martedì sera Giovanni Floris ha scelto di puntare sull’usato sicuro, su un genere televisivo e letterario a se stante: lo sfogone di Michele Santoro. Contro la Rai e l’intero circuito mediatico che ha deciso di fare a meno del suo genio, contro colleghi intenti a scippargli indebitamente l’inverosimile scettro di martire catodico e contro ex (presunti) amici, contro la destra postfascista e la sinistra postsantoriana nonché, sorpresa, persino contro... l’Inps e il Fisco!

[…] Michelone ci risparmia l’amarcord romantico dei suoi esordi maoisti per Servire il Popolo, e va più prosaicamente a quantificare: «Lo sai qual è il mio lordo di pensione? Sono 1970 euro». Seconda domanda retorica: «Sai quanto prendo io? No-ve-cen-to euro», con parola chiave scandita da consumato professionista. 

«Dall’Inps però, poi avrai Inpgi, Enpals...» si permette di insinuare Floris […]. «No no, poi prendo l’Inpgi, però te - e il romanesco è il segno linguistico che la misura è colma, ndr - sto spiegando un’altra cosa, se vuoi capire quello che sto dicendo...».

[…] «È che con una pensione di 1970 euro lo Stato in varie forme si becca la maggioranza!». E qui rimbalza una prima notizia, un Santoro quasi neoliberista e nemico del Leviatano che tracima nel (suo) portafoglio, come del resto avviene per tutti gli intellò di tradizione comunista: la redistribuzione è sacra finché non redistribuisce i loro quattrini. 

La seconda sarebbe quella di un Santoro nei fatti governativo, visto che dà ragione alla madre di tutte le battaglie della Melonomics: il taglio del cuneo fiscale […]. […] 

Amenità a parte, Santoro non vede l’ora di far deflagrare la guerra fratricida tra epurati immaginari, l’altro lo sa e gli butta là i casi di Fabio Fazio e Lucia Annunziata. «Sono convinto che la Rai abbia avuto una perdita perché sono due professionisti molto validi». 

[…] parte il cannoneggiamento, intinto soggettivamente nel livore, ma con ragioni oggettive. «Non sopporto nessuno dei due. Le narrazioni che fanno sono sempre un po’ farlocche» (e detto da uno specialista...). Ad esempio, «Fazio non è vero che è stato 40 anni ininterrotti in Rai, lavorò per La7 quando era di proprietà di Telecom, non fece nemmeno una puntata, quell’esperienza si concluse e andò via con una paccata di miliardi» (detto con l’invidia strozzata del pensionato sottopagato).

[…] Ma […] «il vero problema è come è rientrato in Rai». «Ci è rientrato non solo per i buoni uffici del suo agente, che poi è anche il tuo- Beppe Caschetto, e qui l’allievo impallidisce visibilmente ndr-, ma ci è rientrato perché la politica l’ha voluto». È un montante mica male, ma ce n’è anche, forse di più, per Lucia Annunziata: «Nel momento in cui lasci la Rai dicendo che non sei assolutamente d’accordo con questo governo, uno si deve ricordare che lei è stata il presidente quando a governare era Silvio Berlusconi». 

Ovvero, quando «c’era l’editto bulgaro, caro mio!». «Stai parlando con acrimonia di due colleghi», nota eufemisticamente Floris. «Non c’entra l’acrimonia, c’entra il fatto che questi due colleghi sono stati il perno attorno al quale è ruotata una politica culturale in Rai, fatta di esclusione degli altri, fatta di ammazzamento del pluralismo e della diversità».

E qui […] proviamo un moto d’empatia per Michelone. Che se come pensionato indigente è assai improbabile, come smascheratore dell’ipocrisia altrui funziona. Fazio e Annunziata sono perseguitati ancora più “farlocchi” di lui, per dire.

Estratto dell’articolo di Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” domenica 6 agosto 2023. 

Venerdì mattina ci siamo svegliati con lo sfogone di un garantista a ventiquattro carati, una versione millennial di Cesare Beccaria, un emulo di Tortora, persecuzione compresa. Il piatto forte l’ha servito L’Unità sotto forma di una lenzuolata interminabile, due paginate che non costituivano esattamente un invito alla lettura. Quel che conta, del resto, era il format: nientemeno che un appello al presidente della Repubblica. E la firma: Michele Santoro.

Proprio così, Michele Santoro. Colui che ha costruito la propria carriera sul giustizialismo televisivo e fin sacerdotale, colui che ha menato le danze del circo mediatico-giudiziario come nessun altro, colui che ha avallato in diretta qualunque patacca accusatoria contro l’avversario politico (do you remember Massimo Ciancimino eretto a star catodica?), improvvisamente si accorge di una serie di quisquilie della civiltà del diritto italica. 

I magistrati, a volte, diffondono atti coperti da segreto. I magistrati, a volte, imbastiscono campagne che attengono più all’organo politico che a quello giudiziario […] Perfino, udite udite, i magistrati a volte s’innamorano dei propri teoremi. 

[…] Strabiliante. Santoro demolisce il santorismo, in pratica, creatura ibrida giornalistico-partitica che in questo Paese ha spesso fatto le veci della sinistra ufficiale. E a cosa è dovuta, cotanta presa di coscienza lievissimamente fuori tempo massimo? Ma al fatto che a Michelone è toccato di subire le storture del “sistema” in toga sulla propria pellaccia, è ovvio.

Come successo di recente a Piercamillo Davigo, che ha scoperto il garantismo a settant’anni in quanto oggetto di una condanna per rivelazione di segreto d’ufficio, gli idoli giustizialisti cadono solo quando sono colpiti dalla loro stessa furia. 

Nella fattispecie, Santoro si lamenta con il senso della misura che gli è proprio, quindi scrivendo a Mattarella, delle indagini che la procura di Caltanissetta ha condotto sul pentito di mafia Maurizio Avola, fonte principale del libro Nient’altro che la verità, che il giornalista ha scritto con Guido Ruotolo. I due, Santoro e Ruotolo, hanno finito quindi per essere concretamente coinvolti in quanto “raccoglitori” delle confidenze di Avola, secondo i pm finalizzate a innescare un depistaggio sull’attentato a Paolo Borsellino.

[…]  «Prima ancora che Nient’altro che la verità venisse distribuito nelle librerie», stigmatizza Santoro nella lettera-appello «la stessa Procura, a indagini ancora aperte, in maniera del tutto irrituale e certamente non conforme ai principi codificati, aveva emesso un comunicato che si spingeva a ipotizzare un depistaggio a cui il collaboratore di giustizia aveva partecipato con la complicità dei giornalisti». 

Mentre, è storia patria, i magistrati a cui Santoro ha offerto negli anni pulpiti in serie per distribuire, ad esempio, patenti di mafiosità a Silvio Berlusconi, da Antonino Ingroia a Luigi De Magistris, agivano sempre sobriamente e in maniera “conforme ai principi codificati”.

Continua il nostro: «Negli atti d’indagine, finalmente a mia disposizione, sono venuto a conoscenza di attività investigative estremamente invasive, quali l’uso del trojan nei miei confronti». Povero Michele, i cattivoni delle procure gli hanno messo il trojan. Quando però si trasformavano in guardoni compulsivi, radiografando quel che accadeva durante libere cene tra liberi adulti consenzienti in quel di Arcore, […] lui ci montava sopra trasmissioni intere. In ogni caso, nella sua vicenda «si ricava la sensazione che tutto sia stato generato per confermare un teorema». Notevole, l’inventore del teorema come manganello tivù […] che disconosce l’invenzione. […] Uno scandalo a cui deve porre rimedio il Colle più alto. Michele, va bene tutto, benvenuto nel club, ma non eccedere, non prenderci sempre e comunque per fessi.

Milena Gabanelli: «Io e quel film maledetto che ha causato la morte di due persone e mi ha fatto diventare giornalista». Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 19 marzo 2023

«La maman et la putain»,  il film scandalo scomparso per oltre quarant'anni, arriva al cinema Arlecchino di Milano. La  giornalista, all'epoca studentessa del Dams, racconta l'incontro con il regista, Jean Eustache, che si sarebbe suicidato pochi mesi dopo con un colpo di pistola al cuore

C’è un film che mi ha in qualche modo cambiato la vita e io non l’ho mai visto. Non tutto, almeno. Solo il finale. Se sono diventata una giornalista televisiva, gran parte del merito è di una vecchia pellicola del 1973. E soprattutto del suo regista, Jean Eustache. «La maman et la putain», si chiamava il film, «La mamma e la puttana». Durava tre ore e mezza, pochi dialoghi. Avanguardia. Un capolavoro per la critica e chi ha potuto ammirarlo dall’inizio alla fine. E sono in pochi, perché questo film, che già dal titolo picconava sensibilità e costumi della Francia post sessantottina (molto sesso, turpiloquio, aborto e persino qualche accenno di ménage à trois), non lo ha visto quasi nessuno. Introvabile. Sparito, per 50 anni. 

L’autore, Jean Eustache (foto), era uno dei grandi esponenti della «nouvelle vague». Un uomo complesso, tormentato, emarginato dall’establishment e che, come tutti gli artisti maledetti, molto spesso diluiva il suo genio nell’alcool. Un uomo dalla sensibilità autodistruttiva, che decise di ritirare dal mercato le bobine del suo più grande film «…perché la mia compagna dopo averlo visto si è suicidata…», mi confidò. Alla fine si suicidò anche lui, a soli 42 anni. Ho raccontato raramente questa storia, per pudore, o anche un senso di colpa, perché la mia carriera televisiva inizia con la sua disgrazia.

Bologna, aprile 1980. Avevo 25 anni, mi ero da poco laureata al Dams e mi mantenevo lavorando in un’agenzia viaggi. Con amici cinefili (fra cui la nota critica cinematografica Emanuela Martini) avevamo fondato una cooperativa che organizzava rassegne cinematografiche con fondi comunali. Quell’anno avevamo messo in piedi una rassegna sul «cinema differente» francese, invitando autori come Marguerite Duras, Chantal Akerman e, appunto, Jean Eustache. Li avevo incontrati a Parigi, durante la preparazione della mia tesi su Alain Resnais. Il vero «colpo» era quello di riuscire a portare a Bologna proprio quel film, «La maman et la putain», osannato dalla critica avanguardista e acclamato dai cinefili, ma sparito dalle sale. Ne esistevano due copie, che Eustache custodiva fisicamente in casa. «Questo film non deve vederlo più nessuno» dichiarava nelle interviste. In molti mi avevano sconsigliato di perdere tempo. Io lo chiamai, mi diede appuntamento in un bar, gli raccontai cosa volevo fare, e lui mi disse «va bene». 

Le bobine arrivarono alla Cineteca di Bologna (dove si svolgeva la rassegna) tramite valigia diplomatica. Anche lui venne a Bologna, e per i tre giorni della rassegna ho dovuto badare a lui come fosse un bambino. Inutile tenerlo lontano dai bar, aveva la bottiglia nella tasca del trench. Un po' faticoso, ma l’entusiasmo era enorme. Arriva il grande giorno: sala piena, applausi del pubblico, partono i titoli di testa. Eustache, che sotto l’effetto di molti, troppi bicchieri, aveva cominciato a dar di matto già dal pomeriggio, si fiondò dal proiezionista e lo fece sbobinare. Il pubblico era ammutolito, io disperata. Il giorno dopo, con gli occhi gonfi di una notte passata a piangere, andai da lui in albergo furiosa: gli dissi che il suo c... di film poteva tenerselo se non voleva che venisse visto, che avevo lavorato tanto per niente, ed ero stata pure derisa. E lui, a mente sobria, capì. 

Quella sera (ultimo giorno di rassegna) acconsentì alla proiezione, ma a condizione di fargli compagnia fuori dalla sala. Lo portai a cena, mi raccontò aneddoti divertenti sui cineasti francesi. Dopo un’ora e mezza mi alzai: «Adesso vado a vedermi almeno la fine del film, tu fai quello che vuoi». Mi seguì, si andò a sedere in fondo alla sala, e cominciò a singhiozzare, mentre scorrevano le immagini di quel triangolo amoroso. Lui stesso infatti aveva lasciato la sua compagna per frequentare l’attrice Françoise Lebrune, la musa che in quel dramma onirico interpretava Veronika, oggetto del desiderio e pietra dello scandalo. E lei, l’ex compagna, per quel film si era uccisa. Fu così straziante che del film non ricordo nulla.

A novembre dell’anno dopo si sparò al cuore. La notizia non mi sorprese, ma mi sentivo in dovere di rendergli omaggio. Da quella rassegna si era avanzato un piccolo credito, credo 500 mila lire, e con la cooperativa decidemmo di produrre un cortometraggio in bianco e nero di un quarto d’ora, in 16 millimetri. «A Jean Eustache», si chiamava. Un filmato che era generoso definire «ermetico», in cui provavo a fare la regista d’avanguardia senza averne il talento. Una messa in fila di immagini lentissime dei luoghi dove era transitato durante il suo soggiorno a Bologna: casa mia, una strada, un bar, la copertina di un disco di Edith Piaf. Unica colonna sonora, un suo monologo su «la morte del cinema» che avevo registrato durante il convegno che concludeva quella piccola rassegna. 

Nella mia infinita presunzione lo proposi pure al Festival di Venezia, ma per la selezione serviva una versione in videocassetta. Era agosto, il laboratorio di telecinema a Cinecittà era chiuso. Mi restava una possibilità: la sede Rai di Bologna. Dopo un martellamento di telefonate, il direttore di allora, Fulvio Ottaiano, mi rispose così: «Noi siamo un’azienda pubblica, non possiamo fare una lavorazione per un privato, a meno che non sia interessante per noi acquistare i diritti: a quel punto possiamo fare il telecinema e prestarti la cassetta. Organizzami una visione». Detto fatto. Il film gli piacque (sono certa di averlo impietosito) e decise di comprarlo per 30 mila lire. A Venezia (1982) passò la selezione e fu proiettato nella sezione Officina. La sala rimase ammutolita: tutti (pure io) si chiedevano dove andasse a parare quella cosa. Ma «quella cosa» era l’ultimo intervento pubblico di Jean Eustache, e il suo era un nome che per i francesi significava qualcosa. Il giorno dopo Le Monde mi dedicò 20 righe. Andai a sventolare quel trafiletto al direttore Ottaiano in segno di riconoscimento per l’aiuto che mi aveva dato. E lui solare: «Perché non ci proponi qualcosa per Rai3 Regione?» Erano almeno tre anni che provavo a farlo. Ma quella porta non si era mai aperta. Iniziò così la mia storia televisiva.

Nel 2005 vidi al cinema un bel dramma di Jim Jarmusch con Bill Murray e Sharon Stone, Broken Flowers. Si apriva con una dedica: «A Jean Eustache». Ero probabilmente l’unica in sala a sapere chi fosse. È in quel momento che ho pensato «senza la sua disgrazia chissà come sarebbero andate le cose…forse nello stesso modo... o forse no».

Dove vederlo

La maman et la putain, di Jean Eustache (Francia, 1973, 218 minuti) sarà trasmesso al Cinema Arlecchino di Milano domenica 19 marzo alle 16.30, in versione originale con sottotitoli in italiano.

Myrta Merlino: «Ho partorito da sola mentre il mio primo marito era in coma». Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera sabato 9 settembre 2023.

Myrta Merlino parla a Verissimo. E la nuova conduttrice di Pomeriggio Cinque ha svelato un particolare inedito del suo passato: «Sono rimasta incinta molto presto, non volevo. Al settimo mese di gravidanza il mio primo marito ebbe un incidente molto grave in motocicletta. Restò in coma per 3 mesi. Io ho partorito da sola in ospedale. Ero una ragazzina molto giovane, anche viziata: quello è stato un punto di svolta della mia vita. È stato come un treno in faccia». Vita cambiata

E così la vita della giornalista cambiò: «La sua riabilitazione è stata molto lunga, mentre i miei due gemelli avevano bisogno di molte cure. Poi faccio una scelta da matta: io lavoravo al Mattino, il giornale di Napoli, e decido di accettare l’offerta di Giovanni Minoli a “Mixer”. Così mi trasferisco con due bambini al seguito. Li ho cresciuti senza una figura paterna, poi mi sono risposata, ho avuto un’altra figlia».

Myrta Merlino: «Racconto l’Italia partendo dalla cronaca, anche nera». Storia di Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera l'1 Settembre 2023

«La vita ha più fantasia di noi». Con questa sintesi, Myrta Merlino commenta il suo arrivo a Pomeriggio Cinque. La giornalista non pensava proprio di ritrovarsi alla guida del programma di Canale 5. «Non era il mio progetto di vita, dopo tanti anni di quotidiano a La7, con L’aria che tira — conferma —. Avevo ricevuto un’offerta dalla Rai e una da Mediaset che mi aveva convinta: avrei dovuto condurre una prima serata su Rete4. Poi, a fine giugno, a sorpresa è arrivata questa proposta».

E lunedì (alle 16.55) si parte. Stato d’animo?

«Sono emozionata, dopo aver superato alcuni momenti di panico puramente esistenziali. Mi hanno proposto una sfida impegnativa e appassionante: rivoluzionare un pezzo di televisione generalista che parla a tantissimi italiani. Chi fa questo mestiere ha l’ambizione di raggiungere un pubblico più ampio possibile e io vorrei provarci raccontando l’Italia come è, partendo dalla vita delle persone. Ci sarà molta cronaca, anche nera, che affronterò nel modo più rigoroso possibile. La politica, da sempre il mio pane, non resterà fuori dal racconto, ma mi interessa parlare di quello che dovrebbe fare, cioè risolvere i problemi dei cittadini. Un tema a me caro, che questa estate ci suggerisce caldamente di trattare, è quello dei femminicidi e della violenza sulle donne. Sarà una mia battaglia, nella quale voglio coinvolgere gli uomini per primi».

Ha parlato dei contenuti, ma un programma pomeridiano si basa molto sul conduttore, sul suo stile. Non crede?

«Credo sia alla base della scelta di Mediaset. Io avevo un background specifico: a La7 ho avuto modo di fare per anni un tv bellissima. Certo, era un mondo più piccolo ma molto omogeno e informato, cresciuto nel tempo anche grazie all’empatia, che ritengo sia un mio tratto caratteristico. Sono una persona sincera: come sono in video resto a telecamere spente. Questo mi ha fatto diventare per tante persone una sorta di amica informata. Se mi riuscisse una cosa simile anche ora, se passasse l’idea che accendi la tv e sei a casa di Myrta, ecco io credo sarebbe un obiettivo raggiunto».

A giugno Barbara D’Urso ha salutato il pubblico del programma dando un arrivederci a settembre. Come la fa sentire questo aspetto?

«Umanamente non può che dispiacermi per lei. Conosco Barbara, è super vitale e simpatica oltre che capace. È stata una decisione aziendale quella di dare un cambiamento di rotta, e io sono solo l’interprete di questo cambiamento. Non sono un’antagonista e nemmeno una scelta migliore o peggiore».

Si confronterà con «La vita in diretta» di Alberto Matano.

«Siamo veramente amici. Quando sono uscite le indiscrezioni sul mio nome il primo a scrivermi è stato lui. Penso si possa essere concorrenti anche rispettandosi e volendosi bene»

Ansia per gli ascolti?

«Per fortuna mi hanno molto rassicurata: ci sono dei margini di rischio ma io sono una formichina e se mi danno tempo sento che posso fare bene. Gli ascolti sono perfidi ma meritocratici: è la gente che decide».

Esprima un desiderio: chi vorrebbe intervistare?

«Giorgia Meloni. Mi incuriosisce non solo la politica ma sapere come vive davvero, concretamente, una donna al comando».

Dagospia venerdì 1 dicembre 2023. TRASCRIZIONE DELL'INTERVISTA A NATALIA ASPESI 

Cara Natalia intanto siamo qui per chiederti cosa hai pensato davanti a 500.000 donne in piazza a Roma più tutte le altre in tutta Italia.

Beh, è stato una bellissima cosa. Poi io sai, c'ho anche un animo cattivo, per cui ho sempre pensato a tutte queste ragazze che urlano, gridano e ce l'hanno col patriarcato. Vorrei chiedere loro che cos'è il patriarcato? Riscoprirlo adesso, dopo quello che abbiamo avuto negli anni 70, di divorzio, di aborto, di nuovo diritto di famiglia? Mi sembra ingiusto.

Perché gli uomini uccidono le donne sono?

Sono uomini infelici, uomini che hanno trovato nella ragazza  o in quella che dopo si stufa e se ne va, una ragione per esistere. E ammazzandola e ammazzandosi vogliono morire anche loro, cioè non esistono senza quella donna, perché nessuno ha insegnato a loro la capacità di resistere. 

Noi donne, ce ne ha fatte di ogni colore. Siamo in grado di sopportare la sofferenza. Anzi, io mi ricordo che quando volevo buttarmi giù dalla finestra perché i miei fidanzati mi tradivano e io andavo alla Rinascente, compravo due camicette ed ero contentissima.

C'è una malattia, perché tutta questa gente è, come dire, non so, è perduta, è per quello che si attaccano a una donna, perché è lei che gli deve portare la bellezza e se lei non li vuole più, ha le sue ragioni che sono, diciamo, vuoi uno che la picchia, vuoi uno che non losi sopporta più, vuoi uno che non ne puoi più, vuoi il fatto che la donna decide anche di vivere senza un uomo?

L'amore si spegne e non puoi continuare a pretenderlo. Le donne hanno un mestiere, possono mantenersi e possono non avere in casa un rompiballe. Ho avuto un amore bellissimo. Mi è spiaciuto perché ha sofferto, che è morto? Puoi stare solo è meglio. Non penso a me.

Su questo, tu, Natalia, giochi sempre, hai sempre voglia di scherzare. Giochi sull'età, giochi sui tuoi anni, giochi sul tuo futuro? Adesso a quest'ora del tramonto su questo tuo terrazzo meraviglioso. Davvero, ma tu come guardi al futuro?

Per me dura 5 minuti, non l'ho più lungo, cioè io sono qua, ma so che fra un minuto posso essere morta. Non mi fa né qua né là, non me ne importa minimamente. 

Davvero riesci a vivere così?

Io, così come sono, potrei morire adesso. E ti faccio un ultimo sorriso. Non me ne importa nulla. 

Non hai paura?

No.

E questo lo dici, tra l'altro, dopo avere superato un momento molto brutto in cui tu hai creduto di perdere la tua vita o no?

Cos’è un anno fa, no, due anni fa? Ero a letto. E stavo parlando con un'amica e per due settimane io sono stata fuori, quando mi sono svegliata credevo di essere lì da mezz'ora, invece ero lì da due settimane. È ovvio che cosa mi è rimasto? Io non riesco più ad usare il computer. 

Io sono contenta lo stesso, davvero non so perché. Forse perché ho vissuto tanto e se penso alla mia vita è stata molto bella. Anche nella parte meno bella, quando ero in guerra, quando morivo di fame, quando andavo a rubare nelle case dei miei amici, sai che mi chiamavano Fernandel, era un attore francese che faceva molto ridere, bruttino e mi chiamavano Fernandel, perché era magrissimo. Io ero sempre affamata, poi sai, la guerra è lunga.

Oggi non ti dici, magari avessi avuto una figlia, un figlio ti è mai venuto questo pensiero?

No, non ho mai desiderato una figlia, cioè non mi è venuto in mente, ma guarda che io sono una persona gelida, eh In realtà perché a me dei sentimenti di un certo tipo, la gente che muore per avere un figlio, ma a me non me ne frega un cazzo, no, scusa. 

Ma lo dico perché in Italia spesso no, cioè tante donne si sentono giudicate quando dicono questo tu te ne sei sempre fregata, non l'hai mai sentito questo giudizio?

Secondo me però le donne che vogliono un figlio lo desiderano perché lo vuole l'uomo, cioè anche loro lo vogliono, perché lo vuole anche lui, sennò non ne farebbero. Al solo pensiero di occuparmi di un bambino piccolo, lo butto dalla finestra. 

Da video.repubblica.it venerdì 1 dicembre 2023.

Natalia Aspesi scrive di femminicidi da quando aveva vent'anni e oggi ne ha 94. Da decenni risponde sul Venerdì alla rubrica di lettere "Questioni (non solo) di cuore". Siamo andati a casa sua, nel cuore di Milano, a chiederle come vede quest'orrore senza fine. Fuori dal coro come sempre, più che sul "patriarcato" preferisce riflettere su maschi ai quali è rimasta solo la forza fisica, ma non la capacità di affrontare il dolore di una donna che li lascia.

"Bisogna imparare a stare da soli - riflette -. Non esistiamo perché amati, l'amore può finire, anzi l'amore prima o poi finisce sempre. Io per esempio oggi da sola ci sto benissimo". Un incontro in cui ci ha regalato col sorriso, accarezzando la gatta Miranda, i ricordi della sua infanzia poverissima durante la guerra, dei suoi amori e tradimenti, dei suoi amici gay ("per gli etero una donna molto vecchia è come una morta, non mi vedono"). Uno sguardo unico sulla vita e sulla morte senza l'ombra di un rimpianto, compreso quello per i figli che non ha mai desiderato.

Estratto dell’articolo di Carlo Antonelli per repubblica.it lunedì 14 agosto 2023

«Quest’intervista non è per la mia morte?». 

No.

«Ma guarda, anche se fosse, non me ne…». 

No, te l’avrei detto prima.

«Tu sei sempre carino d’aspetto, come mai?». 

Ma non mi pare, sono uno straccio.

«Oh no, insomma. Sai che cosa? Forse perché sei giovane».

Ho sessant’anni, Natalia. La gioventù mi sembra un’altra storia. 

[…] Bella la casa. La senti come un vestito su misura?

«Non ci ho mai pensato. Come faccio a pensare alla casa, al vestito... Sono molto gelida nella mia vita».

A volte, nelle interviste che ho trovato, hai parlato di una sorta di tua insensibilità… Queste cose su di te che ogni tanto dici…

«Mah, non so di cosa parli. Insensibile? No, è vero, forse lo sono diventata. A me commuovono solo le cose vere. Ma guarda, sono molto cambiata, ho 94 anni e fra sei ne avrò 100. Eh, amore, pensa che quando hai un’età, tutti ti dicono al compleanno “Cento di questi giorni!”. Ti rendi conto?». 

Sei nel posto giusto, uno dei pochi con più anziani al mondo. Lo sai, no?

«[…] è un periodo in cui sono molto disperata per la politica, perché stiamo andando incontro a una vita mostruosa. Guarda il governo, scusa, se tu pensi che abbiamo un governo civile. Non ce l’abbiamo. Abbiamo quel La Russa, della gente mostruosa! Che io non la voglio neanche vedere! Guarda com’è carina, che me l’han portata...».

Mi mostra una piccola statuetta con la figura caricaturale di Giorgia Meloni, col culo di fuori.

«Questo è un “caganer”.  E son fatte tutte così dal Quattrocento, questa è la Giorgia. Viene dalla Spagna». 

[…] «Qui siamo in Italia. In tempi disperati. E siccome, appunto, c’è l’incertezza, voti a destra. Perché più va avanti il tempo, più la Meloni aumenta i voti, hai notato? Cioè, più lei fa delle cazzate tremende, più la gente la vota. Vuol dire che l’Italia non è più fascista, son stupidaggini quelle, ma ormai siamo in un altro mondo, dove conta l’influencer, quello che diventa ricco inventando una macchinetta. Anche volere il salario minimo, che sarebbe minimamente giusto, non conta nulla. I giovani, che adesso non riescono a ottenere un lavoro qualificato, non sognano il posto in banca. Sognano di inventarsi, che so, una cosa per cui vanno su Marte in poco tempo, ecco, queste cose qua. È per quello che, secondo me, il Pd è fallito. E non c’è un sostituto. Per il semplice fatto che promettono cose vecchie. Se io avessi 20 anni, io vorrei delle cose banali, orrende, ma giuste». 

[…] «La memoria? Purtroppo ho avuto l’ictus. Vuol dire che tutto ciò che è avvenuto prima non me lo ricordo. Non mi ricordo più nulla». 

Sei nuova, quindi?

«Sì, in questo senso sono nuova. Lavoro, nonostante tutto, ma faccio una fatica... Alla fine di un pezzo devo andare a letto, immediatamente. Però lo voglio fare e mi obbligo a farlo». 

Da qualche parte hai detto: alla fin fine io camminavo in mezzo alle bombe. Pensi che questa cosa in qualche modo ti abbia rafforzato?

«Indubbiamente la vita che si faceva allora era una vita povera. Io non avevo il papà, che era morto giovane, in ospedale. Avevo la mamma, faceva la maestra e tirava su me e mia sorella, che ogni tanto morivamo di fame, ma senza lamentarci. Vivevamo, eravamo contente. E io non mi ricordo un attimo di paura, di tristezza, si viveva così, con le bombe o senza bombe». 

 Tutto sommato tu hai sempre vissuto così.

«Sì, ho sempre vissuto oserei dire leggiadramente[…]. Non mi ricordo l’orrore, perché la guerra è finita che avevo quasi 15 anni, ma in quel periodo a me interessava solo trovare dei giovanotti. E basta».

Era facile per te?

«No, era molto difficile, perché eravamo molto poveri. Quindi soffrivo del fatto che non potevo essere come gli altri». 

[…] «[…] sono una che anche adesso, col piede nella tomba, son contenta». […] «Mi alzo e sono contenta. Poi comincio a pensare al coso, lì, come si chiama, a quello del Senato, e allora mi incazzo. Mi fa troppo orrore questa gente ignorante, come si chiama il ministro della Cultura che ha detto: “beh, i libri…”, ma insomma! Non si può».

Bisogna essere sinceri, però: si sono viste comunque grosse mediocrità, magari meno orripilanti, e da molto tempo.

«Non è vero, c’è una differenza gravissima. Perché noi avevamo sì anche degli stronzi tremendi, però c’era sempre il rispetto di qualcosa. Adesso non c’è più rispetto di nulla». 

[…] «[…] ho tutti amici, sì, come te, persone carine che ancora mi frequentano, fra i quali tutti i gay».

[…] In America si dice fag hag, cioè quelle donne che sono circondate da persone non binarie.

«La questione è che, dopo i 50, puoi anche travestirti, morire, puoi fare quello che vuoi, ma se sei una donna non ci sei più. Se sei una signora – anche se si rifà le bocche, le rughe, le cose – non ci sei. Ci sono solo degli uomini invece – giovani, meno giovani, di tutte le età – che sono contenti di stare con te: i gay. Perché per loro sei una persona con cui, per dire, è facile parlare di varie cose e io lo sono per tutti i miei amici. Gli altri, come ci vedono, scappano. Ma perché dai, diciamocelo, le donne – tutte, belle e brutte – non trovano nessuno che fa loro dei divertimenti, andiamo».

Ma che vuol dire?

«Parlo di 70 anni fa, eh, non adesso, ma quando incontri un uomo che ti fa impazzire… Il più delle volte invece sono una roba che dici “ma, insomma, noioso”. Siamo sempre lì. Le donne cadranno sempre con l’uomo, scusa, che le fa godere. Siccome l’uomo sa fare di tutto tranne quella roba lì, quando trovi uno che finalmente ti fa godere… vai fuori di testa. Ma non puoi!». 

Tu non hai mai avuto esperienze omosessuali?

«Nooo. Però c’era una ragazza che mi piaceva molto, e avevo pensato che forse avrei provato, poi non sono stata capace. Continuavo a dirmi: beh, magari la prossima volta. E non l’ho mai fatto. No, mi piacevano gli uomini». 

Quando hai deciso di darla via?

«Tardi! Tardissimo, perché noi eravamo educati al fatto che darla via voleva dire essere preclusa per sempre al matrimonio. Anche perché la mia mamma aveva sottomano figli di impiegati, ragionieri, orrendi, che non voleva nessuno! Io ho sempre rifiutato, zitella, perché mi presentavano degli uomini mostruosi». 

Ok, quando hai deciso infine di perdere la verginità? A 25 anni?

«No, un po’ prima. Però è stata… non mi son neanche accorta. È la verità».

Non ti ricordi chi fu?

«No. Io ero continuamente pazza d’amore. Ma incontravo delle persone che non valevano nulla. Mi sono svegliata verso i 28-29 anni quando ho cominciato a fare la giornalista. Per me è stato il lavoro che ha cambiato tutto».  

Perché eri finalmente felice.

«Sì, ero contenta. Sapevo chi ero, mi stavo liberando di tutte le cose che mi terrorizzavano». 

[…] Cosa significava stare in una redazione nella quale tutti cercavano di dare il meglio?

«Era normale. Ma, sai, ho vissuto un’epoca nella quale, nei giornali, se non eri bravissimo in una cosa, non ti prendevano. Forse siamo stati l’ultima generazione di autentici veri giornalisti, che andavano sul fatto. Sì, è stata tutta una bella avventura…». […] «[…] devo proprio dire che il lavoro mi ha risvegliato ogni possibilità, gli devo tutto». […]

Estratto da “il Venerdì di Repubblica” – “Questioni (non solo) di cuore” di Natalia Aspesi il 3 marzo 2023.

[…]

Me ne scuso subito, ma per una volta non vorrei rispondere direttamente a queste tre belle lettere. Per una volta scriverei – addirittura! – di me.

 Non so, non so, non so. C’è un giovanotto grandioso in divisa vistosa che vuole portarmi con sé, ma a me non sembra una persona degna di questo compito. Prima di me ce ne sono altre, prima di me ce ne sono altre, mi dico…. Sono passati dieci giorni – o forse un po’ di più – e a me non parevano, forse uno, forse due, ma dieci giorni... scomparsi... per sempre...

Lo sapevi che era un ictus? Lo sapevi che si chiamava ictus? Beh, poi non sei più quella di prima e quando te lo raccontano allora sì che non è più come prima. Tutti a dirti che brava, come ti stai riprendendo... ma quello che penso è che non sarà mai più come prima. Mai più come prima. Mai più. Lo penso, e nello stesso tempo mi dico che non è così.

 Perché io so che ci sto mettendo tutta la mia forza, e mi sforzerò di superare questa cosa. Leggo le vostre lettere, le lettere sono sfumate, non sono mie, mi appartengono e non sono mie, le vivo su di me e non sono d’altri, i progetti si scolorano e perdono senso. Ma sono qui alla mia scrivania, e qui voglio sforzarmi, un giorno dopo l’altro e spero, con accanimento, di trovare la via facile, come per il passato.

Estratto dell’articolo di Roberta Scorranese per il Corriere della Sera il 5 marzo 2023.

Se non fosse poco «aspesiano», ci si potrebbe addirittura lasciar abbracciare da un velo di ottimismo: Natalia Aspesi è tornata. Con la sobrietà di poche righe affidate in chiusura dell’ultima sua posta del cuore sul «Venerdì» di Repubblica , la giornalista 93enne ha dato un nome al silenzio (intermittente) della sua rubrica nelle ultime settimane. «Lo sapevi che era un ictus? Lo sapevi che si chiamava ictus?», ha scritto.

 Aspesi ha deciso di raccontare quello che è successo.

 A modo suo, rievocando con ironia l’arrivo dei soccorritori: «C’è un giovanotto grandioso in divisa vistosa che vuole portarmi con sé, ma a me non sembra una persona degna di questo compito. Prima di me ce ne sono altre, prima di me ce ne sono altre, mi dico...». Quindi il racconto della nebbia, del non ricordo: «Sono passati dieci giorni — o forse un po’ di più — e a me non parevano, forse uno, forse due, ma dieci giorni... scomparsi... per sempre...».

La diagnosi, per quella che è stata tra i fondatori di Repubblica , è stata ictus. Aspesi si trovava nella sua abitazione di Milano quando si è sentita male. La corsa in ospedale, quindi il ricovero. Ora si trova a casa, parla normalmente con amici e colleghi al telefono e si sta riprendendo.

 Nella rubrica, dopo il cenno al coma, ecco il risveglio e la consapevolezza, perché, come annota la firma di costume e cultura: «Poi non sei più quella di prima e quando te lo raccontano allora sì che non è più come prima». Famosa per le sue risposte affilate e per la sottile perfidia che mette quando interviene nelle faccende sentimentali, la giornalista qui però ha voluto concedersi un’autentica questione di cuore, accennando alla propria fragilità e a quella che attecchisce nelle persone colpite da un male: «Tutti a dirti che brava, come ti stai riprendendo... ma quello che penso è che non sarà mai più come prima. Mai più come prima.

Mai più. Lo penso, e nello stesso tempo mi dico che non è così. Perché io so che ci sto mettendo tutta la mia forza, e mi sforzerò di superare questa cosa».

E in questa rara incursione nei sentimenti personali, la scrittrice che tante volte nei suoi libri ha indagato con distacco i cambiamenti sociali, le controversie culturali del nostro tempo, ha voluto concedersi una promessa, forse addirittura una speranza: «Leggo le vostre lettere, le lettere sono sfumate, non sono mie, mi appartengono e non sono mie, le vivo su di me e non sono d’altri, i progetti si scolorano e perdono senso. Ma sono qui alla mia scrivania, e qui voglio sforzarmi, un giorno dopo l’altro spero, con accanimento, di trovare la via facile, come per il passato». E per una donna nata nel 1929 è una questione non solo di cuore, ma anche e soprattutto di fibra.

Da ilfattoquotidiano.it il 28 giugno 2023.

Nicola Porro, punta di diamante del giornalismo televisivo Mediaset, è stato condannato per diffamazione nei confronti del critico televisivo del Fatto Nanni Delbecchi, che lo aveva citato in giudizio al termine dell’ennesimo attacco personale avvenuto sui canali social dal conduttore di Quarta Repubblica. 

La sentenza della dottoressa Valentina Boroni della sezione Prima Civile del Tribunale di Milano ha stabilito il titolo risarcitorio in 16mila euro, ritenendo che i ripetuti interventi del giornalista sul suo blog Zuppa di Porro siano sistematicamente trasmodati “in un gratuito attacco personale lesivo alla dignità professionale, finalizzato all’unico scopo di aggredire la sfera morale e reputazionale.” Un fatto in teoria sorprendente se si pensa che le rubriche di Delbecchi erano centrate esclusivamente sui contenuti dei programmi, senza alcun riferimento personale al conduttore. Ma questo è lo stile Porro: aggredire, irridere, infiammare gli animi: non è così che si aumentano i follower?

Nicola Porro, il conduttore che guarda a destra senza essere fanatico. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 06 giugno 2023

Ricordo una frase di Carlo Freccero: «È bello, intelligente, con un’agenda ottima. Appartiene alla categoria di quelli che vanno in vacanza a Saint Tropez e che non sentono dal profondo la pulsione animale». 

Nicola Porro ha detto di no alla Rai, ha giurato fedeltà a Mediaset e, in cambio, ha avuto ospite in studio il presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Sto scherzando, ovviamente, non c’è alcun nesso di causalità fra le due cose. È pura casualità. Però Porro avrebbe fatto molto comodo alla Rai: a parte il peso di Daniele Capezzone (che lui usa come un provocatore), è il conduttore che a Viale Mazzini non c’è: di destra ma non fanatico. In questi anni, poi, ha migliorato non poco il suo modo di condurre. Ricordo una frase di Carlo Freccero, quando Porro conduceva «Virus» su Rai2: «È bello, intelligente, con un’agenda ottima. Appartiene alla categoria di quelli che vanno in vacanza a Saint Tropez e che non sentono dal profondo la pulsione animale».

La «pulsione animale» deve essere quella cosa che nel mondo del calcio si chiama «fame»: la determinazione di chi vuol risalire la china. Adesso è più risoluto, tanto da sdoppiarsi in un altro da sé (in «Zuppa di Porro» sembra la versione liberal di Mario Giordano). A «Quarta repubblica» (Rete4), con il presidente del Consiglio dimostrava una certa familiarità, tanto che a un certo punto Meloni l’ha chiamato per nome «Vedi, Nicola…». Forse adesso usa così, nei negozi ti danno del tu. È stato anche molto abile nel porre domande «alzando la palla», come si dice in gergo, in modo che Meloni potesse schiacciare a rete (la pallavolo è solo una metafora). Esempio: Porro non dice «siete un po’ autoritari», dice «la sinistra vi accusa di essere autoritari». Facile la risposta «La sinistra dice che sei autoritario per qualsiasi cosa: se Fazio decide di lasciare la Rai, se alla parata del 2 giugno i militari alzano la mano per salutare la tribuna, se ti lamenti che qualcuno abbia impedito al ministro Roccella di presentare al Salone del Libro un libro sulla sua famiglia». Sempre a parte Capezzone, non capisco come Porro possa avere una certa sintonia con Ginevra Bompiani (immagino che la inviti solo per scopi utilitaristici, per accendere il dibattito). Sull’invasione russa, Bompiani è la versione colta e snob di Giulietto Chiesa, quelli che «Zelensky è un criminale».

Andrea Scarpa per il Messaggero domenica 15 ottobre 2023.

Più la buttano giù e più si tira su. Non è come il caffè che pubblicizzava Nino Manfredi negli Anni Ottanta, ma poco ci manca. A 63 anni Paola Ferrari resiste a tutto. Le tolgono programmi e incarichi e lei - non proprio zitta zitta - più o meno si riprende tutto. L'anno scorso l'avevano estromessa dai Mondiali del Qatar, quest'anno si è ripresa la conduzione dello storico 90esimo minuto su Rai2. 

(...)

Lei è stata la prima giornalista a condurre in Rai storici programmi sportivi, quindi in qualche modo ha aperto una strada: com'è che spesso se la prende proprio con le donne? Diletta Leotta, Belen Rodriguez, Sabrina Gandolfi...

«Perché non faccio distinzioni, non credo a steccati e quote, e se devo dire la mia, lo faccio. Se mi attaccano, reagisco. Con Sabrina ci siamo chiarite, però». 

Con Diletta Leotta?

«Non mi piace il modello femminile che porta avanti. Atteggiamenti così vistosi non fanno per me. Comunque a Rai Sport vado d'accordo con tante donne». 

(...)

Ci rimasi malissimo, invece, quando una come Serena Dandini, anni fa, disse che le facevo schifo. Cos'è una critica, questa?

A me poi, che mi sono fatta strada in un mondo così chiuso e maschilista. Ma dai...». 

Cosa deve scontare?

«Non sono simpatica a tutti, credo per le mie idee politiche, e perché ho una famiglia dal nome importante, anche se la mia carriera l'ho fatta senza aiuti».

Magari da suo marito.

«Facevo questo lavoro prima di incontrarlo. È solo invidia».

Il mondo del calcio è ancora sessista?

«Anche se tante cose sono cambiate, sì. Prenda l'età. A me dà fastidio quando la sottolineano perché si lascia intendere che in certi posti, come la tv, le donne debbano essere accettate solo se giovani e belle. Con gli uomini si fa altrettanto? No. Tutti lavorano fino alla pensione senza problemi. Nessuno si sogna di dire quello è vecchio, quello ha la pancia o la barba bianca».

Tutto questo però in qualche modo lo subisce: le luci abbaglianti, i trucchi, i ritocchi...

«Le luci le usano tutti, questa storia fa ridere. Sono attacchi miserabili. Comunque sono corazzata: resisto a tutto e me ne frego».

Lei nel 2019 ha avuto un tumore al viso: come ha risolto?

«Bene. Ho avuto paura che mi portassero via mezza faccia, mi hanno messo 25 punti, e in futuro non escludo di intervenire. Ognuno fa quello che vuole, non giudico. Io di sicuro non mi rifarei il seno, per esempio».

Ho letto che ha la quinta.

«Per me è importante che le donne facciano tutto per se stesse non per diventare un oggetto sessuale che piaccia agli uomini. Questo è sbagliatissimo. Se una giovane pensa di trasformarsi per diventare come Diletta Leotta deve sapere che solo a una-due va bene. Meglio studiare». 

In passato ha detto di non saper perdonare, vero?

«Ho sviluppato meccanismi di autodifesa che non lasciano tanto spazio a queste cose. Ho avuto un'infanzia difficilissima. Mia madre era una donna molto violenta».

Ha dichiarato che da piccola sua madre provò a ucciderla più di una volta, vero?

«Sì. Aveva problemi di vario tipo, un po' recuperammo ma non l'ho mai perdonata. Non riesco a pensare a lei con amore».

Daniela Santanchè l'ha perdonata.

«È diverso. Siamo sempre state amiche, poi per anni ce ne siamo dette di tutti i colori, e poi ci siamo riavvicinate. La scorsa estate, quando sono stata maltrattata dalla direttrice di Rai Sport, lei ha preso pubblicamente le mie difese e mi ha toccato il cuore».

E lei ha rilanciato investendo 200 mila euro nella sua Visibilia Concessionaria, salvandola dal fallimento.

«Non parlo di soldi, ma credo che quella società possa rimettersi in sesto».

Quando nel 2014 con Santanchè provò con Visibilia a comprare L'Unità cosa avevate in mente?

«Era in crisi, l'avrei rilanciata. Ma era anche una provocazione». 

(...)

Lei che nel 2008 si candidò per La Destra, senza essere eletta, l'anno scorso non ha pensato di riprovarci con Fratelli d'Italia?

«Non ci ho pensato». 

E Giorgia Meloni?

«Neanche lei. Ma va bene così: ho il mio lavoro, che amo». 

E da settembre 2022 a oggi, a lei che in passato è stata in due Commissioni parlamentari con il ministro Prestigiacomo, non è arrivata neanche una proposta?

«Ho parlato a lungo con alcuni esponenti del partito su un'eventuale candidatura alle prossime Europee, ma adesso sto benissimo in Rai». 

Quindi per Bruxelles c'è tempo?

«Sì. Intanto seguo tutto». 

È socia di Lucisano Media Group e si occupa di documentari: con Andrea Purgatori ne voleva produrre uno, giusto?

«Sì. Sul Mostro di Firenze. Per il giornalismo italiano la sua morte è una perdita enorme». 

Ma lei nel 1997 si è sposata in comunione dei beni...

«Ahahaha... Ma quella si esercita quando ci si separa, e si chiama comunione de residuo, cioè la spartizione alla pari di quello che si ha nel momento in cui ci si lascia. Cosa che al momento non è assolutamente prevista (ride, ndr). E poi sfatiamo questa storia del marito milionario: io e lui abbiamo sempre vissuto con i soldi dei nostri lavori. Da suo padre (Carlo De Benedetti, ndr) non abbiamo mai avuto nulla». 

Ha anche aggiunto che il sesso non è più come gli inizi: voleva dire che per lei è una partita che sta quasi per finire?

«Figuriamoci (ride, ndr). Io sono una donna passionale. Il sesso è molto importante per me». 

Perché spesso sembra arrabbiata?

«Mi innervosiscono le cose ingiuste e brutte, ma sono serena. Sto lavorando molto su me stessa».

Va dall'analista?

«No, mai andata. Leggo tanti libri».

(...)

Estratto dell’articolo di Matteo Milanesi per nicolaporro.it il 25 giugno 2023.

Paola Ferrari, partirei dalle sue origini: la difficile adolescenza, l’abbandono della casa a soli 15 anni, le violenze della madre. Quanto hanno inciso questi eventi nella sua vita professionale?

Hanno avuto un impatto fortissimo nella mia vita emozionale e nella mia crescita emotiva, ma dal punto di vista professionale è stato quasi un bene perché ho imparato fin da piccola a cavarmela da sola. Essendo una bambina ai tempi molto sensibile, ho imparato a difendermi e lottare per le cose importanti della vita.

[…] Gli uomini hanno cercato sicuramente di bloccarla, ma lei ha parlato anche di donne.

Esatto, io sono una femminista di destra. Non sono per le quote rosa, anche se ho partecipato a due gruppi parlamentari con il ministro Prestigiacomo delle Pari Opportunità, ma allora c’era una situazione in cui la presenza femminile in Parlamento era al 7,8 per cento: bisognava smuovere le acque. 

Un altro tema caldo è la rivoluzione in corso alla Rai, Repubblica parlava di lottizzazione da parte della destra.

Io sono in Rai da 33 anni, quindi ho visto cambi di ogni tipo. Io vengo da una televisione pubblica in cui il primo canale era della Dc, RaiDue del Partito Socialista e RaiTre di quello Comunista. Adesso, in realtà, vedo una pluralità. 

E invece cosa ne pensa del “caso” Fazio?

Secondo me, la trasmissione era un circolo di radical-chic di sinistra, dove si vedevano sempre le stesse facce. Sicuramente, non mi sento di definire sfortunato o bistrattato uno che guadagna 2 o 3 milioni di euro all’anno, dove potrà esprimersi da un’altra parte. […] Su Fazio non verso molte lacrime: ha cercato di portare avanti un’egemonia di pensiero di sinistra in Rai. E l’ho vissuto sulla mia pelle. 

Cosa nello specifico?

Questa egemonia l’ho vissuta già dai tempi della diatriba con Ilaria D’Amico. Lei era di sinistra e improvvisamente tutto il centrosinistra creò un personaggio D’Amico, mentre io ero quella brutta di destra. Me ne hanno fatte di tutti i colori: per anni, ho dovuto sopportare body shaming contro di me, solo con l’obiettivo di screditarmi perché di centrodestra. 

Cosa ne pensa invece degli addii di Gramellini e Annunziata?

Gli spazi di opinione ci devono essere a 360 gradi e questa dirigenza Rai lo sta facendo. Sinceramente, mi dava più fastidio Fazio. Se vado dall’Annunziata e mi provoca, io posso rispondere, anche litigarci con un dibattito spigoloso. Non mi piace, invece, quando c’è il senso di sufficienza e superiorità che hanno le persone radical-chic. Gramellini e Annunziata sono più persone d’attacco: mi piace molto di più confrontarmi con loro. 

Lei si è detta entusiasta per il cambio di guardia avvenuto alla direzione di RaiSport, dove Jacopo Volpi ha preso il posto della dimissionaria Alessandra De Stefano. Non le piaceva la De Stefano?

Preferisco non esprimermi sulla signora De Stefano, anche perché è una giornalista Rai e giustamente bisogna mantenere un comportamento etico. I fatti parlano da soli, ma non sta a me sottolinearli. 

Sono contenta per Volpi perché è un giornalista di razza e una persona di grande dignità, riportando grande armonia. Questa direzione aziendale pensa allo sport come asset determinante per il servizio pubblico. […]

Estratto dell’articolo di Carlo Cambi per la Verità il 17 aprile 2023.

È una che si è fatta da sola, animata da una passione che ne ha orientato la determinazione fino a farla diventare una professione. Paola Ferrari, coniugata De Benedetti (con la D maiuscola, che per chi se ne intende vuol dire assenza di lignaggio aristocratico: il cognome era tutto attaccato e lo «zio» Franco tale lo ha mantenuto), milanese, voleva fare la giornalista ed è diventata la signora del calcio in tv. Sta alla Nazionale come la Cibele turrita sta all’Italia. Ha lavorato con i grandi e ha cominciato con un’icona: Enzo Tortora. 

«Mi diceva», racconta con la voce che s’incrina, «Paola, il primo comandamento per un giornalista è la schiena dritta: mai piegarsi al compromesso, mai rinunciare alla propria dignità». 

Per aver rimproverato il suocero, Carlo De Benedetti, di aver usato toni e parole disgustose contro Giorgia Meloni, a cui ha dato della demente, è tornata a far parlare di sé.

«Non voglio esacerbare i toni. Da tempo non ci parliamo con la famiglia di mio marito, confermo che ho trovato disgustoso ciò che è stato detto. Ma voglio evitare ai miei figli altri attriti col quello che comunque è il loro nonno. Lo strappo col padre di mio marito c’è stato anni fa quando mi sono candidata con la Destra. Non me l’hanno perdonata. 

Quando l’ingegner De Benedetti ha dato della demente a Giorgia Meloni l’ho trovato inelegante. Credo che tutto nasca da un pregiudizio e da un nervo scoperto della sinistra. Per anni mi sono battuta perché alle donne fossero riconosciute pari dignità e pari opportunità. L’ho fatto in Rai e nelle associazioni, ho insistito sulle quote rosa ai tempi in cui nelle assemblee legislative c’era meno dell’8% di donne. 

Oggi non credo che dobbiamo stare nel recinto dorato. Giorgia Meloni è la donna che ha cambiato questa prospettiva e ha dimostrato che col merito si arriva al traguardo. Per la sinistra che si è riempita della retorica della parità lei rappresenta l’evidenza di un fallimento. Da lì credo nascano le offese e quando vedo che si offende una donna non reggo. Sono fatta così: non riesco a stare zitta, non sto alle regole e davanti all’offesa non rispetto le gerarchie».

(...)

Lei è buona amica di Giorgia Meloni?

«Ho avuto la fortuna di conoscerla quando fece la campagna per diventare sindaco di Roma. È una donna che mi ha colpito moltissimo per la dignità, la forza, la determinazione e l’abnegazione». 

Affinità elettive ed elettorali?

«Abbiamo un buon rapporto di stima, mi onoro di dire, reciproca. Sì, c’è anche un rapporto di affettività, ma ora non mi permetto di disturbarla. In campagna elettorale avrei voluto aiutarla, dire qualcosa, ma come giornalista del servizio pubblico, al contrario di altri, mi sono doverosamente astenuta. Cerco di comportarmi bene rispettando le regole dell’azienda. 

Non nascondo però che ho una forte simpatia per Giorgia Meloni ed è un orgoglio avere una donna leader. Che ha dato molto fastidio alla sinistra convinta che la destra sia maschilista. Credo che per loro sia stata una bella botta. La scelta degli italiani di mandare al potere Giorgia, una donna, è una scelta molto importante al di là del dato politico. È stato un grande passo avanti per il Paese».

C’è un’altra donna di governo con cui però ha avuto rapporti burrascosi: Daniela Santanché ministro se l’aspettava?

«Ma io e Daniela siamo tornate amicissime! Sono stata io a dirle cinque ore prima che le arrivasse la nomina: vedrai che ti fanno ministro. Anche lei è della stessa pasta: determinazione, abnegazione, lavoro. Ci siamo volute molto bene e abbiamo litigato molto, ma in me c’era un buco. Lei lo ha colmato facendo una cosa di cui le sono grata. Sono stata esiliata in Rai per un anno, mi hanno allontanata dai mondiali e lei che stava in commissione di vigilanza insieme ad altri onorevoli ha fatto interpellanze su interpellanze per capire cosa stava succedendo».

Senza la Ferrari in formazione l’Italia zoppica?

«Assurdità per assurdità se fosse servito a conquistare i mondiali mi sarei annullata! Per me non veder vincere la Nazionale è un dolore! Sono stata felicissima di aver condotto gli Europei che abbiamo vinto». 

Lei ha pagato molto in Rai per alcune scelte?

«Non voglio parlare di Rai in rapporto a me. Alessandra De Stefano, l’ex direttrice di Rai Sport, ora è a Parigi a fare la corrispondente, era lì che voleva andare. Auguri! Spero che la nuova Rai farà emergere i valori dello sport che sono la sana competizione, l’allenamento, il sacrificio, l’accettazione anche della sconfitta, il rispetto di sé e degli avversari che non sono mai nemici! Sono i valori che servono ai ragazzi. Ho sempre avuto l’ambizione di portare 90° minuto nei territori. 

Costerebbe molto, ma sarebbe una grande operazione raccontare lo sport dal basso. Ho lavorato con i più grandi: Tosatti, Brera, Galeazzi, Mario Sconcerti, Gianni Mura: tutti hanno narrato lo sport partendo da valori profondi. Quando si dice che il calcio è la metafora della vita ci si riferisce al calcio che è confronto di forza e d’intelletto. Non allo show. Ho ancora in me l’emozione della medaglia olimpica di Jury Cechi; è stato un immenso privilegio poter raccontare un’impresa che è insieme gesto tecnico e pezzo di vita, che diventa valore universale. Spero che la nuova Rai racconti questo sport».

(…)

Paola Egonu  ha accusato apertamente l’Italia di razzismo…

«Ha sbagliato e gliel’ho pure detto. Gli atleti sono sotto stress, spesso ci sono condizioni personali che generano percezioni distorte, che provocano anche dolori che vanno rispettati. L’Italia sta schierando molti oriundi, l’integrazione è possibile e bisogna dare allo sport la funzione formativa che ha. Il ministro per lo Sport Andrea Abodi ha in cima alla sua agenda questo impegno». 

(...)

Lei ha rivelato che è stata colpita da un tumore. È un messaggio?

«Sì e lo ripeto ancora una volta: ragazze fatevi vedere, fate prevenzione, abbiate cura di voi. E affidatevi alla sanità italiana che è all’avanguardia. Ho avuto un carcinoma maligno al viso: ho avuto paura anche per il mio lavoro. Ho rischiato che mi portassero via mezzo viso. Sono stati bravissimi nel curarmi. Un mese e mezzo fa ho avuto la stessa paura. Per fortuna anche stavolta lo abbiamo preso in tempo. Ho usato questa esperienza come aiuto per le altre donne, per esortarle a fare prevenzione». 

(...)

Un’ultima curiosità: ha occhi bellissimi perché si trucca così tanto? È una maschera? «Nessuna maschera. A me il trucco piace. È una forma di espressione».

Dagospia il 4 maggio 2023. Da I Lunatici

Paolo Brosio è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche sul canale 202 del digitale terrestre e su Rai 2 (tra l'una e un quarto e le due e trenta circa). 

Il giornalista ha parlato della morte della sua mamma, Anna, scomparsa lo scorso aprile a 102 anni: "Era una mamma speciale, unica, ringrazio Dio di aver potuto avere la mamma per 66 anni. E' sempre stata presente nella mia vita, sono anche figlio unico, era unica, inimitabile, eclettica, intelligente, colta, preparata, divorava libri. L'ho vista esalare l'ultimo respiro da una telecamerina su whatsapp. Ero a Brescia, non potevo essere in ospedale quella mattina.

Dopo dieci minuti che la mamma è ispirata è arrivata l'autorizzazione per aprire un cantiere in Erzegovina e fare un pronto soccorso per tutte le etnie e le religioni cui da cinque anni sto lavorando. Quando la mamma è volata in cielo ha subito tirato per la giacca la Madonna e si è adoperata per far partire il cantiere. Il giorno dopo c'erano 19 operai che lavoravano e abbiamo iniziato la più grande opera di Medjugorje. Parliamo di un'opera molto grande. Aiuterà 90.000 persone di tutte le etnie e religioni". 

Ancora Brosio: "La mia mamma è andata in paradiso e mi ha fatto partire il cantiere. C'è già la prima soletta di cemento armato. E' una soddisfazione. Mi aiuterà con la provvidenza divina. Mia madre ha pregato sempre per me, mi ha lasciato un decalogo di comportamenti da seguire, dalla mia sofferenza deve nascere un fiore bellissimo, quello del mio impegno per i più deboli. Non ho mai pregato fino a 55 anni, poi sono stato illuminato.

Mia mamma ha pregato 37 anni per me, affinché mi convertissi. Sono andato a Medjugorje quando mi è caduto il mondo addosso. Prima non pregavo, avevo le donne in testa, il calcio, lo sport, il tennis, il divertimento, il lavoro. Poi quando mi è caduto il mondo addosso ho iniziato a piegare le ginocchia. Mi sono avvicinato alla fede attraverso il dolore. La morte di mio padre, la separazione dalla mia prima moglie, non ho mai rispettato le mie due moglie, ho fatto saltare per aria due matrimoni, mi sono messo nei guai da solo, sono finito nelle mani del male": Ancora sulla mamma Anna: "Nei primi giorni dopo la sua morte ho provato un dolore devastante. Mi sentivo vuoto. Non pensavo di provare un dolore così grande. Ma se quando hai un problema ti affidi alla fede, lei ti aiuta subito. Ti porta consolazione. La preghiera è un balsamo. Qualche notte mi sono alzato di scatto perché la sentivo come se camminasse in casa. Mi alzavo di scatto andavo in camera sua e trovavo il letto vuoto. Poi tornavo in camera e mangiavo un bacio verso il cielo e mi sparavo una bella 'Ave Maria".


 

Giampiero Mughini per Dagospia venerdì 22 settembre 2023.

Caro Dago, e siccome appartengo all'ultima generazione europea convinta che le riviste di cultura fossero il migliore di tutti gli strumenti possibili di mobilitazione intellettuale ho letto con dolore che Paolo Flores d'Arcais, un fraterno amico dei miei vent'anni di cui non mi dimentico, ha annunciato che MicroMega, la rivista che lui dirige da poco meno di quarant'anni, è giunta al capolinea. Non ci sono più soldi, le 700-800 copie vendute a botta non bastano a sopportare i costi. 

Dovrebbero riuscire a venderne tre volte tante, il che per una rivista di carta ad alto contenuto intellettuale è del tutto illusorio. Per quanto mi riguarda, io avevo detto stop a Giovane critica nel 1973. Le avevo dedicato il meglio dei miei vent'anni, ora non era più il tempo. Paolo ha insistito allo stremo, e finché la Gedi non gli ha tolto il suo padrinato editoriale. Nel frattempo i nostri rapporti si sono purtroppo chiusi. 

Lui continua a volere raddrizzare le gambe al mondo, raccomandandogli le strade da percorrere per diventare se non perfetto quasi. Io penso che il mondo una schifezza è e una schifezza resterà. L'importante per quanto mi riguarda è starci in pace con la propria coscienza, e che sia una coscienza ben desta, lontana dalla semplificazioni ideologiche.

Da quando io e Paolo siamo divenuti lontani, mai una volta la sua rivista ha pronunziato il titolo di uno dei 35 o 36 libri che ho scritto in questi anni. Niente male. Una volta Paolo mi chiamò a parlare di Calciopoli. Fosse stato un altro, avrei detto di no, che era offensivo che l'unica volta che lui mi si rivolgesse lo facesse a proposito dello sport più amato dagli italiani. 

Ciò nonostante gli dissi di sì, feci quello che mi chiese, rifiutai di essere pagato e ci mancava altro. Le amicizie che sono state sacre nei miei vent'anni, tali sono restate per me. Un abbraccio, Paolo

Estratto dell’articolo di Giampiero De Chiara per Libero Quotidiano il 5 febbraio 2023.

Riccardo Iacona lascia, raddoppia e ci guadagna un bel gruzzolo. Beato lui che se lo può permettere.

È Dagospia a svelare che il conduttore di Presa Diretta, da domani sera di nuovo in prima serata su Rai Tre, ha anticipato la pensione a fine gennaio rivolgendosi poi a Beppe Caschetto (agente di molti artisti della tivù) per rientrare in azienda con un contratto da “artista”. Le cifre sono notevoli e vanno aggiunte alla pensione che Iacona percepirà come giornalista Rai, maturata fin dai tempi della Samarcanda di Michele Santoro.

Il sito di Roberto D’Agostino parla di un accordo, valido dal 2023 al 2026, per 660mila euro che potrebbero salire fino a 800mila.

 “STRANEZZE” Un bel colpo per il conduttore Rai. Ed è curioso che proprio nella prima puntata dell’anno del suo programma si parlerà di: «Evasione fiscale, dello scandalo del lavoro nero e della povertà che aumenta», come recita lo stesso Iacona in un video pubblicato sulla pagina Facebook della trasmissione. Nasce così spontanea la battuta che se in Italia, secondo Presa Diretta, cresce la povertà (“stranamente” proprio mentre alla guida c’è un premier di centrodestra) non accadrà certo a casa Iacona.

 (...)

Dagonews il 2 febbraio 2023.

Riccardo Iacona ha anticipato la pensione. Il giornalista Rai ha lasciato Viale Mazzini a fine gennaio ma non intende andare ai giardinetti: si è già rivolto all'onnipresente manager Beppe Caschetto (tutti i giornalisti-tv sono suoi) per rientrare in Rai dalla finestra con un contratto da “artista” dal 2023 al 2026 per 660 mila euro complessivi, che potranno diventare 800 mila in caso di ulteriori progetti (e poi si divertono a infilzare il contratto di Bruno Vespa).

 Iacona vuole portare con sé la giornalista del Tg3 Cecilia Carpio, moglie di Luca Di Bonaventura, già portavoce di Maria Elena Boschi.

Alessandro Ferrucci per “il Fatto quotidiano” domenica 26 novembre 2023.

“Mi hanno censurato!” è il grido di battaglia. Non c’è buongiorno, come va, mannaggia che vento, non c’è più la mezza stagione ad attenuare la verve di Roberto D’Agostino. 

Chi è stato?

Piazzapulita. 

Com’è possibile?

In un’intervista ho spiegato: “Come diceva è meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine...”. A quel punto la giornalista mi ha domandato “chi?”.E lei, D’Agostino...Ho risposto: “... ‘sto cazzo”.

(Roberto D’Agostino è un mix incredibile di alto e basso, di alto e magari bassissimo. Ma il punto è un altro: è lui a decidere cos’è alto e cosa è basso o bassissimo, e con l’autorevolezza di rendere credibile il basso e ridicolo l’alto. Questo è Roberto “Dago” D’Agostino e questo è il docufilm che ha presentato all’ultima Festa del CinemaRoma, Santa e Dannata– girato insieme a Marco Giusti, regia di Daniele Ciprì –, dove in un’ora e mezza riesce a dare un filo logico a Vaticano e pornostar; politica e localini equivoci; storici protagonisti della notte capitolina e la stanza accanto alla Cappella Sistina “dove c’è la più grossa collezione di piselli”).

Per una battuta non si fanno prigionieri.

La migliore era quella di Elsa Morante a Natalia Ginzburg, durante un appuntamento allo Spazio Cultura: “Meglio un culo gelato che un gelato nel culo”; (pausa) lì era bello il contesto, tra capoccioni molto seri come Alberto Moravia, Ruggero Guarini, Angelo Guglielmi e Corrado Augias; ridevano come scemi. 

È soddisfatto del suo documentario...

Sono stanco morto, sono pronto ad annamene a letto (sono le 11 del mattino); il problema è che ho girato di notte anche perché di giorno ho Dagospia, devo lavorare, così siamo usciti dalle nove di sera in poi.

Divertito?

Sì, però il divertimento è quello teorico; cambia tutto quando entri nel lato pratico. 

Ma è soddisfatto?

Poteva venire meglio; il problema è che non sono mai soddisfatto di niente: mi capita da sempre e da sempre cerco di essere onesto con me stesso; (resta in silenzio) il primo libro l’ho pubblicato nel 1985 e se lo riprendo tra le mani e leggo, poi penso: “Questo va picchiato”. 

Come è nato Roma, Santa e Dannata?

Avevo visto un documentario molto bello di Martin Scorsese su Fran Lebowitz e New York; allora Alessandra Mammì, moglie di Marco Giusti, disse “l’unico che può cucinare Roma è Dago”. Ne parliamo durante una cena a casa di Paolo Sorrentino, come il rovescio de La grande bellezza e pensiamo che il film di Paolo finisce sul Tevere e proprio dal Tevere dovevamo ripartire. 

Con quali paletti?

Che fosse un documentario basato su racconti di alcuni protagonisti, evitando pippe sull’Impero Romano; alla fine la cultura occidentale si basa su due libri: Le mille e una notte e il Decamerone; tutta la formazione dell’essere umano è fondata sui racconti e Roma non è mai stata una metropoli, ma un paesone dove ognuno è pronto a pettegolare. Roma è una portineria.

Il portiere è un collante.

Una sorta di bollettino del palazzo e non solo del palazzo. 

Qual è lo spirito di Roma?

È nella domanda iniziale: perché Dio, con tutto quello che aveva da fare, si è inventato  una Città Santa con il Diavolo accanto? Roma ha Gerusalemme e Babele, la città di Dio e quella degli uomini: Caput Mundie, come sosteneva Gioacchino Belli, chiavica der monno; (pausa) per chi non lo sapesse il Belli era un funzionario del Vaticano. 

Roma non si domina.

Dai tempi di Cesare siamo sempre in attesa dell’arrivo dei Barbari, ma siamo pure tranquilli perché certi di un dato: una volta qui, si attovagliano in uno dei classici ristoranti del centro o vanno in qualche locale come il Jackie O’. E a quel punto non ci vorrà nulla per corromperli, non ci vorrà nulla a tramutarli in un’altra manica de stronzi romani. 

Il celebre generone.

A Roma chi arriva e non si romanizza poco dopo è costretto a fare la valigia e tornare a casa, come è successo a Carlo De Benedetti, Gianni Agnelli o a Tronchetti Provera. 

A Berlusconi, no.

È l’unico. Nel primo governo, senza Gianni Letta, è crollato dopo pochi mesi; il secondo esecutivo, con dentro Gianni Letta e soprattutto con al fianco un’altra persona fondamentale, colui che collegava Palazzo Chigi con il potere invisibile, quello vero, composto da Corte dei Conti, Quirinale, Consulta, Servizi segreti, Ragioneria dello Stato. Ecco il secondo esecutivo è durato molto più a lungo. 

Chi era questa persona?

Franco Frattini. 

A Roma contano più il potere o i soldi?

Chi vuole uno sposalizio tra potere e soldi o potere e fica è destinato a finire nella pattumiera: il potere non accetta questo binomio. Berlusconi ha capito e ha metabolizzato il primo comandamento di Andreotti: il nemico non si combatte, ma si compra; perché i nemici, una volta coalizzati, poi ti fanno il culo. 

I segreti sono potere?

No, il potere è una patata: quando vai nei campi e la sradichi scopri che quel tubero ha radici lunghissime; quei filamenti rappresentano la vera forza del potere. In Italia democristiani e comunisti hanno impiegato decenni per costruire i loro filamenti. Chi è arrivato dopo, da Renzi a Salvini a Conte, non aveva radici del genere. Il Pd le ha ed è questa la sua forza.

Nel documentario definisce i funerali come un momento fondamentale...

Non c’è niente di più vivo; a Roma davanti al caro estinto si riunisce quella sorta di filiera, di nomenclatura, di loggia massonica, di amici che rinsaldano il loro legame. Esattamente in quel momento si fissano appuntamenti o cene. 

Il funerale di maggior impatto?

Sono tre: Giulio Andreotti, Mario D’Urso e Angelo Rizzoli. A me ha sempre colpito un aspetto: se nelle grandi città esistono due o tre circoli, a Roma ce ne sono venti. Ed è pure difficilissimo iscriversi; quando entri, sei parte di una sorta di loggia massonica dove il primo comandamento è sempre lo stesso: “È affidabile?”. 

Nel documentario racconta di una collezione formidabile di peni. L’ha vista?

Negli anni 80 sono stato dei mesi appresso a Federico Zeri; un giorno mi chiama: “Vieni con me alla Cappella Sistina”. La Cappella era appena stata restaurata ed era tutta per noi e con noi c’erano anche Ernst Gombrich e Corrado Augias. Zevi la conosceva alla perfezione: era stato cinque anni chiuso in Vaticano per studiare il suo patrimonio artistico. Una volta dentro non ci indica il soffitto, Il giudizio universale, ma il pavimento. A quel punto si rivolge a Gombrich: “Sa perché la Cappella è stata edificata così lontano dal corpo delle altre chiese di San Pietro? E perché si entra da viale Vaticano?”

Risposta?

Resta in silenzio per alcuni secondi e poi con una voce grave risponde: “Perché qui c’è Satana”. Ancora zitto. E poi: “Venite con me”. Si alza, raggiunge il centro della Cappella e spiega: “Qui c’è un tombino e qui sotto c’è il Diavolo. Perché quando edificarono questo edificio, assegnato alla parte amministrativa, scoprirono il più grande tempio pagano, quello dedicato a Mitra”.

 Insomma, ma questi peni?

In una stanza vicina alla Cappella sono stati piazzati i cazzi asportati nei secoli da tutte le statue, sostituiti dalle foglie di fico; parcheggiati lì, dentro a contenitori in legno con sopra tanto di targhetta. 

Nel doc rivela di essere l’autore del celebre libro di Moana Pozzi dove lei dà i voti ai suoi amati celebri...

Quel libro in origine assegnava giudizi completamente diversi, come nel caso di Bettino Craxi: lui ricevette un bel 7 e nonostante ci sia stata solo masturbazione...

In realtà?

Con i voti bassi non lo avrebbe pubblicato nessuno, per questo li abbiamo gonfiati; (sorride) all’epoca lavoravo all’Espresso e scrivevo i primi pezzi sui locali scambisti, i locali di Schicchi, su Cicciolina in Parlamento, caso unico... 

E...?

L’Italia ha anticipato di vent’anni il resto del mondo; (sorride) il primo locale per le feste del Muccassassina era della Chiesa.

Casualmente?

Quel posto era pieno di preti e poliziotti, tutti sapevano tutto, ma era come L’abbraccio del Bernini: la Chiesa accoglie e perdona chiunque . 

Ha avuto una storia con Moana?

Mai e l’ho conosciuta prima della sua carriera nell’hard, quando era la fidanzata di Luciano De Crescenzo, quando ancora non si era rifatta il culo, il naso, la mascella e pure i gomiti. 

Rifatta, ma bella.

Per me non aveva un grammo di sensualità; stava spesso a casa mia, per ore, era perspicace, leggeva, ma per lei il sesso era una questione meccanica; (pausa) secondo me ha ragione la madre di Moana quando indica in Schicchi il responsabile della sua morte.

In che modo?

C’è una questione di tempi: alla fine degli anni 80 lo stallone per eccellenza, John Holmes (morto nel 1988), diventa sieropositivo e ovviamente crollano le sue quotazioni nel mondo dell’hard statunitense; Schicchi che fa? Lo porta a Roma, costava poco, e lo ingaggia per dei film, pure con Moana... 

Di tutto quello che ha raccontato nel documentario, cosa le manca maggiormente?

Dado Ruspoli, uomo con una vita grandiosa. 

Ce la racconti.

A Roma c’erano due rockstar: una era lui, l’altra era Mario Schifano. Venivano da New York o da Londra per incontrarli, e mi riferisco a big come Mick Jagger o Keith Richards. (pausa) La Dolce Vita nasce dai rampolli dell’aristocrazia capitolina, erano gli unici nel dopoguerra ad avere dei mezzi: loro hanno portato coca, oppio, qualsiasi sostanza. Dopo di loro si è accodato il cinema. E tra di loro Dado è stato il protagonista. Con i suoi segreti, il suo potere, le sue stanze.

Roma le ha mai suscitato paura?

(Si ripete la domanda) No, ma l’ho sempre rispettata; anzi le ho portato rispetto. 

Sembra una logica mafiosa.

Se dico che passiamo ore e ore attovagliati, lì siamo alle prese con il lavoro più importante: tessere rapporti; sono i “ponti” che quando arriva il momento della caduta, e arriva per tutti, trovi una rete per salvarti. Questo è fondamentale, e se ripeto il concetto di “portare rispetto”, intendo non tradire, non comportarsi da arrivista, da paraculo, da chi se ne approfitta.

Comunque non ha mai avuto paura...

(Cambia tono della voce) Solo di mia moglie e di mio figlio quando vado in televisione: ho paura di dire cazzate, di esagerare e di deluderli.

Maria Elena Barnabi per “Gente” venerdì 24 novembre 2023.

Roberto D’Agostino sta girando l’Italia presenziando alle proiezioni speciali del suo film Roma, santa e dannata, un bel documentario scritto con il critico Marco Giusti che racconta l’amore per la sua Roma e che tra qualche settimana approderà sulla Rai. 

Dago, come lo chiamano tutti, è calato come un alieno anche su Milano e al suo cospetto sono arrivati tutti, dal sindaco Beppe Sala a un inaspettato Antonio Ricci, a tributargli gli onori come vate e cantore del “cafonal” – il guazzabuglio ricco e coatto che mette insieme monsignori e ballerine – e soprattutto come fonte ineludibile delle notizie che contano. 

Infatti, il suo sito Dagospia, fondato nel 2000, oggi è diventato un vero e proprio giornale con una redazione strutturata (il vicedirettore Riccardo Panzetta e poi Francesco Persili, Alessandro Berrettoni, Federica Macagnone, Luca D’Ammando, Ascanio Moccia e Gregorio Manni) ed è una miniera irrinunciabile di retroscena politici e gossip. E se nel documentario D’Agostino racconta Roma, noi di Gente gli abbiamo chiesto di parlare di Milano.

La differenza fondamentale tra Milano e Roma?

«Roma è inclusiva, Milano è divisiva». 

Alla faccia di Milano città “arcobaleno”…

«A Roma c’è quel “mix and match” (miscuglio, ndr) che mette insieme appassionatamente il giornalista, il malvivente, la puttana, il prete, l’intellettuale e l’imprenditore. L’ammucchiatona romana». 

Milano funziona per caste?

«Per censo, per professione: tutti stanno con i propri simili. Gli architetti con gli architetti, i poliziotti con i poliziotti e così via».

Esiste il “cafonal” fuori Roma?

«Ormai è nazionalizzato: anche a Milano non c’è più quella sobrietà per cui se eri ricco non dovevi dirlo a nessuno». 

Chi ha dato l’avvio?

«I paninari del Burghy di Piazza San Babila negli Anni 80 con le loro Timberland e il Moncler: se non erano “cafonal” loro... E poi a un certo punto è arrivato Berlusconi, che sorvolava Milano con il suo elicottero personale». 

Nel suo documentario dice che Silvio Berlusconi è il politico milanese che più si è romanizzato.

«Sposò appieno la filosofia romana della “caciara sul letto”. Perché avere una sola amante? L’amante è problematica, crea storie, chiede una casa, dopo due mesi è come essere sposati di nuovo. Una cosa così borghese... Meglio avere un ricambio continuo di ragazze e un’ape regina che gestisce il tutto».

A Berlusconi lei affibbiò mille soprannomi.

«All’epoca del “Bunga Bunga” con Silvio ho dato il meglio di me. Un giorno mi chiese di parlare da soli. Mi aspettavo la solita incazzatura, invece mi chiese se ero tatuato anche sul “pisello”, così disse lui. Dei miei soprannomi non gliene fregava assolutamente nulla». 

Com’era?

«Voleva conquistare tutti, sedurre tutti, essere amato da tutti». 

E ci riusciva?

«Ovviamente sì. Capì subito che una delle chiavi di conquista era il calcio. Così comprò il Milan, lui che era sempre stato interista».

Berlusconi è la vera essenza di Milano?

«No, è solo una delle mille facce di questa città. Poi c’è quella di Mediobanca e di Cuccia, quella dell’editoria, quella della cultura, quella di Prada e Armani...Ora poi ci sono gli eredi di Silvio». 

Sono più austeri?

«No, sono solo brianzoli». 

Un’altra differenza tra Roma e Milano?

«Roma ti abbraccia, ti accoglie, ti fagocita. Guardi Bossi e i suoi della Lega: arrivarono da noi al grido di “Roma ladrona”, ma poco dopo, dopo qualche cena al Bolognese e una serata al Jackie O’ (due locali storici della magica vita notturna di Roma, ndr), erano già tranquilli con qualche ragazzetta a gambe all’aria. È da qualche millennio che aspettiamo i barbari».

A Roma avete anche il Vaticano.

«Qui il bene va a braccetto con il male, sono due facce della stessa medaglia. È piena di locali con la “dark room”. Siamo tutti peccatori». 

Anche a Milano ci sono i locali per scambisti e per il sesso veloce tra gay.

«Perbacco se ci sono! Ma a Milano si fa e non si dice, o si fa finta che non esista. A Roma invece dal dopoguerra in poi hanno cominciato venire tutti i gay del mondo: Gore Vidal, Marlon Brando, Orson Welles. Vuole sapere perché?».

Me lo dica.

«Perché a Roma si scopa. È volgare, lo so. Ma quello che puoi fare a Roma, non lo puoi fare né a New York né a Parigi né a Milano». 

A Milano però abbiamo visto una cosa incredibile: lei tra il sindaco Beppe Sala e Antonio Ricci alla presentazione del suo film, il diavolo e l’acqua santa.

«Per Milano l’apparizione di Ricci è stata un oggetto misterioso, molto più rilevante di quella di Beppe Sala e di Urbano Cairo, che pure sono importanti».

Chi è Antonio Ricci per lei?

«Ricci è un maestro, ma mica solo per me: per tutti quanti. Con la velocità di Drive in e di Striscia la notizia ha cambiato per sempre la grammatica della televisione in Mediaset, così come Arbore l’ha fatto in Rai. Ciascuno ha proposto un racconto televisivo diverso».

Nel film ha chiamato maestro Francesco Cossiga…

«Quando aprii il mio sito Dagospia, il presidente emerito venne da me perché voleva pubblicare degli articoli che non venivano accettati dai giornali. Cominciò a collaborare con Dagospia e io cominciai ad andare da lui e ad avere delle lezioni di politica». 

L’insegnamento più importante di Cossiga?

«Il potere non è visibile, non è delle persone che votano in Parlamento. Non è una corona che ti metti in testa. E non sono né le donne né i soldi».

 Che cosa è il potere vero?

«Sta sotto quello visibile. È avere una tua filiera, una tua nomenclatura, un tuo gruppo. È una sorta di clan che ti sostiene. Da solo non vai da nessuna parte». 

 Lei quanto potere ha?

«Io? Figurarsi. Non ho neppure il potere di andare a dormire quando voglio».

Claudio Plazzotta per “Italia Oggi” sabato 18 novembre 2023.

Roberto D’Agostino si gode il successo del suo atto di amore verso la città che adora, il documentario «Roma santa e dannata» distribuito in vari cinema italiani e che, tra qualche settimana, verrà trasmesso pure dalla Rai. «È una cosa bella e malinconica», dice D’Agostino a ItaliaOggi, «senza coatteria. Un racconto dolente sulla nostra città. Perché ovunque andassimo, a Londra, Parigi, New York, Los Angeles, poi però volevamo tornare sempre a Roma, a casa».

Una vita di eccessi, di tatuaggi, di «volevo essere Keith Richards», e poi il contrappasso pure per D’Agostino: il figlio Rocco, 28 anni, laureato in ingegneria civile alla Brunel University di Londra. Tra il 2016 e il 2017 master all'Imperial college sempre di Londra. Un esperto di scienze dei materiali, senza neanche un tatuaggio, che, dopo un'esperienza in Finmeccanica, dal febbraio 2018 vive e lavora a Milano in Pirelli. Niente Roma, quindi, e niente Dagospia, nonostante Rocco sia padrone al 100% del sito di news lanciato da D’Agostino nel 2000.

«Certo, Rocco è uno scienziato, ama quel lavoro e di Dagospia non gli frega assolutamente nulla. È padrone al 100%, deciderà lui il da farsi». Perché Roberto D’Agostino, nonostante la camicia sbottonata d’ordinanza che se lo fa un quarantenne prende la bronchite all’istante, ha compiuto 75 anni, ed è tempo per porsi qualche domanda. Del tipo: una società, come quella di Dago, che nel 2021 ha avuto ricavi per 2,9 milioni di euro con 778 mila euro di utili, e che nel 2022 ha chiuso con 2,6 milioni di ricavi per 680 mila euro di utili, con un rapporto utili/ricavi del 26%, potrebbe essere molto appetibile per tanti investitori.

Vale la pena vendere? «Però», risponde D’Agostino, «il sito l’ho fatto a 52 anni perché fino ad allora lavoravo con capi che mi chiedevano pezzi ma io ne sapevo sempre più di loro. Internet non costava niente, e ho aperto un mio blog perché il contratto che avevo con l’Espresso, all’epoca, non prevedeva esclusive per Internet. Ho lanciato Dagospia perché ero infelice, amareggiato. Non l’ho fatto per i soldi e non intendo venderlo. Ho sempre creduto che la felicità sia fare la cosa che ci piace, e che il lavoro sia la dignità dell’uomo. Io faccio quello che mi piace. Ho una redazione meravigliosa, con il mio vice Riccardo Panzetta, e andranno avanti anche dopo di me. Io morirò davanti al computer scrivendo su Dagospia».

Domanda. Ma è vero che alla prima stesura il documentario si doveva chiamare «Roma santa e puttana»?

Risposta. Sì. Ma poi Google non accetta le parolacce, di questi tempi si deve tenere conto dell’algoritmo. E allora… 

D. Nel documentario lei racconta soprattutto la Roma degli anni 60, 70, 80, 90. Quale ha preferito?

R. Di sicuro non ho amato la Roma degli anni 70, degli scontri politici, del terrorismo, della paura, del coprifuoco. Sono stati anni tumultuosi, e oggi i ragazzi si godono libertà che a noi sono costate botte e fughe da casa. Quando uscivo con la pelliccia di mia madre mi sentivo dire di tutto da mio padre. Ma lo capisco, era un uomo che aveva i valori della fine dell’800. Mi piace comunque ricordare sempre che le grandi rivoluzioni non le ha mai fatte la ideologia, ma la farmacia: prima con la pillola anticoncezionale, poi col viagra. Per noi, fino ai primi anni 70, non esisteva un rapporto sessuale tranquillo, c’era il terrore di mettere incinta le ragazze e i profilattici erano una specie di cinturato Pirelli, sensibilità zero.

D. Gli anni 60, invece?

R. A Roma c’è il Vaticano, c’è Dio, c’è Gerusalemme ma c’è pure Babele. A quei tempi tutti i gay stavano a Roma, Gore Vidal, Tennessee Williams, Marlon Brando, tutti a Roma perché qui si scopava. Non c’era il castigo della carne, non c’era il moralismo, tutti facevano la Dolce vita. Pensiamo a Pier Paolo Pasolini che stava coi ragazzini di 14 anni: oggi se accadesse qualcosa del genere ti arrestano. Roma è sempre stata un bordello.

D. Poi, negli anni 80, è arrivato il craxismo, l’edonismo reaganiano…

R. Io ho lavorato con l’assessore Renato Nicolini alla Estate romana. La popolazione romana era divisa, scontri per bande, coprifuoco. E serviva riconciliare tutti, con l’effimero. La cultura dell’Estate romana ha reso possibile la riconciliazione, con i film al cinema Massenzio, io che mettevo la musica a Villa Ada. E non la musica rock anni 70, divisiva. Ma quella dell’età dell’oro, degli anni 60. 

D. Lei ama ripetere che i romani sono sempre stati capaci di distinguere bene la storia dalla cronaca. Con un disincanto massimo verso qualsiasi personaggio o fenomeno. Così, però, non si rischia di rimanere fermi, ancorati al passato?

R. Obama era cronaca, Kennedy era cronaca, nessuno se li ricorda più. A Roma svanisce tutto, in testa alla classifica ci sono sempre Cristo, il Vaticano e Roma. Per noi la storia è tutto. Per noi il passato è il nostro percorso, la forza del passato ci rende ancora più forti. Quando arriva una coatta a Palazzo Chigi, il romano si mette sulle sponde del Tevere e aspetta che passi il suo cadavere.

Così come è accaduto per Bossi, Renzi, Salvini o Conte. Roma è una città capitale d’Italia ma detesta l’unità di Italia. È una capitale decisa da Cavour che a Roma non ci era mai stato. Nel mio quartiere comandava il prete, a Roma comandano ancora i preti. E molti romani non hanno metabolizzato la breccia di Porta Pia, non hanno accettato la fine dello stato Pontificio. D’altronde, il più grande poeta di Roma, Gioacchino Belli, lavorava al Vaticano. 

D. Meravigliosi, poi, i passaggi nei quali ricorda che i romani che si attovagliano per ore e ore al Moro o al Bolognese non sono parassiti fancazzisti. Sono romani che stanno portando a termine un lavoro, il lavoro più importante: tessere relazioni, allacciare conoscenze, creare rapporti…

R. A Roma il primo grande lavoro è avere relazioni, stare a tavola, avere una propria nomenclatura. Moravia aveva la sua corte, la Morante la sua, il gruppo 63 di Angelo Guglielmi la sua, serve avere una filiera, una rete che ti protegga, perché se stai da solo vai a sbattere. Non è un caso che a Roma ci siano molti circoli, dove è difficile entrare, dall’Aniene a quello della Caccia, degli Scacchi o del Tiro a volo. Sono logge, centri di potere. A Roma non esiste la solidarietà, ma solo la complicità, e tutti stanno zitti. 

D. Roma abbraccia tutti, romanizza tutti?

R. Ricordo bene Franco Tatò, che conoscevo perché aveva lavorato alla Mondadori. Quando divenne capo dell’Enel arrivò a Roma. Una sera, a cena, lui iniziò a pontificare su Roma ladrona, una latrina da bonificare, con sua moglie che annuiva. Io ridevo. Dopo tre mesi lo beccai in giro mano nella mano con Sonia Raule. A Roma finisce sempre così.

D. Prima parlava di una coatta a palazzo Chigi. Che ne pensa del governo Meloni? Che fine farà?

R. Se non scoppiava la guerra in Israele le agenzie di rating e pure Bruxelles l’avrebbero già massacrata. Ora, però, non possono farlo, non è consigliabile creare instabilità in un paese al centro del Mediterraneo. Lei, però, si è messa contro tutti, ha perso spagnoli, polacchi, Ursula von der Leyen, ma dove va? Al governo ci sono tre partiti uno contro l’altro, diversissimi. Chiusa la guerra in Israele, secondo me salta. E all’Italia serve una cura greca, con la troika (Commissione europea, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale, ndr), perché ormai è un legno troppo storto e va spezzato.

Claudio Plazzotta per “Italia Oggi” domenica 5 novembre 2023.

Roma santa e dannata è un bel documentario, nostalgico e dolente, nel quale Roberto D'Agostino prova a spiegare Roma e i romani ai barbari che vivono alla periferia dell'impero. Lui, nelle vesti di Virgilio, con Marco Giusti in quelle di Dante che partono, ma di notte, proprio dove il film La Grande bellezza di Paolo Sorrentino (produttore creativo del documentario) era finito, ovvero in battello sul Tevere. 

E poi approdano sulla terrazza dell'hotel Raphael, il simbolo di quell'Italia craxiana, dell'edonismo reaganiano che rese celebre lo stesso D'Agostino. In realtà, come anticipa subito Dago, «capire Roma non è impossibile, è inutile». 

Però, comunque, un paio di dritte le cala sul tavolo. Innanzitutto, «i romani che si attovagliano per ore e ore al Moro o al Bolognese non sono parassiti fancazzisti. Sono romani che stanno portando a termine un lavoro, il lavoro più importante: tessere relazioni, allacciare conoscenze, cercare rapporti.

Perché a Palazzo Chigi non c'è la stanza dei bottoni. Il vero potere sta nella Corte dei conti, nel Consiglio di stato, in Cassazione, nei servizi segreti. E per controllare quel potere devi avere radici profonde, rapporti, mafia, massoneria. E la rete dei rapporti che governa tutto». 

In secondo luogo, «Roma, a differenza di altre città, ha avuto la fortuna di non avere imperatori, generali, dittatori che hanno spianato tutto e ricostruito. Qui, nello spazio di pochi metri, ci sono ancora l'antica Roma, il Medioevo, il Rinascimento, il Settecento, l'Ottocento, il Fascismo. 

E tutti i monumenti di Roma sono il segno della caducità delle cose terrene. Stanno lì a ricordarci che tutto è finito e che tutto è poi ricominciato. Da qui deriva anche la classica evanescenza del successo a Roma, il disincanto. I romani, proprio per questo, da sempre sanno separare la Storia dalla cronaca».

Come chiosa Carlo Verdone: «Roma ammazza tutti, non esistono i miti perché prima o poi parte la pernacchia». Ogni tanto il documentario pecca di un certo qual reducismo di vecchi compagni di bisboccia che evocano i bei tempi, quelli della Roma godona, col Number One, il Kinky, lo Scarabocchio, il Piper, il Jackie O', 1 Gilda, l'Alien, tentando di attribuire a Roma, ai romani, alla romanità tutta una serie di peculiarità su movimenti e fenomeni culturali che in realtà, negli anni 60-70 e 80, caratterizzavano quasi ogni metropoli occidentale.

Però il lavoro di D'Agostino, prodotto da Rai cinema, Kavac film e The Apartment pictures, per la regia di Daniele Ciprì, ha il pregio di fare emergere quella parte più oscura e poco raccontata della vita notturna della Capitale. 

La santità e la dannazione di Roma, ad esempio, sono ben simbolizzate dal cinema Mercury: una sala di proprietà del Vaticano, che negli anni 70 proiettava film porno, che poi negli anni 80 ospita le serate trasgressive del Muccassassina di Vladimir Luxuria («con la musica frocia della Carrà e degli Abba che ci faceva ancheggiare come capitoni») e che poi viene ristrutturata a fine anni 90 per diventare la sede dell'ufficio stampa per il Giubileo del 2000 («ah, quei muri hanno visto proprio di tutto», commenta Luxuria).

Ma, come detto, la parte probabilmente più interessante del documentario è proprio quella dedicata alla tribù che non vuole andare a dormire, che «la serata non è mai finita. Io non accettavo la fine della notte», confessa Vera Gemma, figlia dell'attore Giuliano Gemma, «perché con la fine della notte sarebbe ripresa la vita normale». 

E allora ecco le dark room del Degrado, «un locale brutale sulla Casilina», dell'Easy Going dove il re era Carmelo Di Ianni che faceva la selezione all'ingresso «e non entrava nessuno coi calzini bianchi», del Notorious, del Frutta e Verdura, un posto buio che apriva alle 7 della mattina e la cui depravazione Massimo Ceccherini racconta come meglio non si potrebbe.

Ci sono i potenti che a Roma non si sono mai trovati realmente a loro agio, come Gianni Agnelli, Carlo De Benedetti, Marco Tronchetti Provera, lo stesso Bettino Craxi (lo confessa Sandra Milo, sua amante per anni), e chi, invece, come Silvio Berlusconi, si è romanizzato all'istante. 

«Berlusconi, grazie al lettismo di Gianni Letta, ha capito subito che i nemici non si combattono: si seducono o si comprano. Inoltre», chiude D'Agostino, «ha applicato con sapienza la teoria della caciara nel letto. Ovvero, non mi faccio l'amante a Roma, perché l'amante dopo due mesi diventa una seconda moglie, ingaggia un'ape regina che metta su una compagnia di giro di allegre signorine».

Dagospia giovedì 2 novembre 2023. Flavio Natalia e Barbara Castiello per "Ciak". 

«Mi faccia rientrare in Vaticano, sono il nuovo Papa». «E io sono Giuseppe Garibaldi». «Dico sul serio, mi hanno eletto qualche giorno fa!». «Ma se è il Papa, come è che non ha le chiavi? Ma che Papa sei?!». 

Questo dialogo, ai limiti della surrealtà, si è realmente svolto una sera di fine anni '70 a pochi passi da Piazza San Pietro, a Roma, nei primi giorni del Pontificato di Papa Wojtyla, Giovanni Paolo II, «quando il neo Pontefice - racconta Roberto D'Agostino - stordito dal clamore per la sua elezione, sentì il bisogno di fuggire da riti, prelati e cardinali per godersi con il suo segretario polacco qualche ora di libertà e una pizza in giro per Roma, la città che aveva conosciuto e amato da ragazzo. 

Solo che al ritorno trovò il portone chiuso». L'incredibile aneddoto è uno dei tanti che "Dago" racconta all'amico Marco Giusti in Roma, santa e dannata, un originalissimo documentario sui mille volti notturni della Capitale, rivissuti girando per vicoli e piazzette o discendendo lentamente il Tevere su un barcone davanti alla cinepresa di Daniele Cipri.

Il doc, uno dei titoli più sorprendenti della Festa del Cinema di Roma, è realizzato da The Apartment e Kavac Film con Rai Cinema, con la produzione artistica di Paolo Sorrentino. E atteso anche da una uscita evento in sala.

«Raccontiamo un luogo unico e infernale, disincantato e folle, capace di tutto e dove accade di tutto», racconta a Ciak D'Agostino. «Per descriverlo, uso l'esempio della sedia elettrica: che è anche una sedia, certo. Ma se ti ci siedi, ci 'rimani'. Proprio come Roma, per chi non ne conosce l'anima, è solo una città piena di ruderi e monnezza». 

Di quelle notti, «che raccontano ciò che sta succedendo alle nostre vite meglio di qualsiasi saggio sociologico», e di quell' "anima", l'ex lookologo di Quelli della notte, teorico del kitch, coltissimo collezionista d'arte contemporanea e fondatore di Dagospia, il sito d'informazione alternativo da 23 anni lettissimo da tutti e temuto dai potenti del Paese, è stato un instancabile, carismatico animatore, capace a un tempo di vivere quelle atmosfere e di raccontarne gli eccessi proprio sul suo sito nella celebre rubrica Cafonal, che ha prodotto due libri per la Mondadori.

In Roma, santa e dannata, D'Agostino e Giusti viaggiano di notte «come Dante e Virgilio» o «Tomas Milian e Bombolo» in questa Urbe dove la santità e la dannazione vanno a braccetto («Ci credete? Per anni, le feste promiscue e 'arcobaleno' di Muccassassina si sono svolte in locali di proprietà del Vaticano. Si andò avanti tranquilli fino a quando quegli spazi servirono per il Giubileo del 2000»). 

Incontrano testimoni di quelle notti e ricordano con loro fatti, aneddoti, controsensi, protagonisti: da Giorgio Assumma, l'avvocato delle star, a Massimo Ceccherini, da Vera Gemma a Vladimir Luxuria, da Sandra Milo a Enrico Vanzina e Carlo Verdone.

«Con lui, ispiratissimo, parliamo del mitico Festival dei poeti che si svolse nel 1979 sulla spiaggia di Castelporziano», una sorta di Woodstock all'amatriciana della poesia e della libertà di vivere in cui gli spettatori presero il controllo dei contenuti e fecero collassare il palco. 

E c'è spazio per luoghi infernali come il Degrado, un locale in cui ci si incontrava e si amava al buio, «e poi i funerali, che a Roma diventano una festa, in cui ci si ritrova e si prendono accordi per andare a cena. Mostriamo anche qualche video che avevo girato per i Cafonal, come alle esequie di Andreotti e alle feste di Marisela Federici». 

Man mano che il viaggio si compie, e la collezione di storie si completa, "emerge anche l'unicità di Roma; un luogo socievole, che accoglie e fa sentire immediatamente romano chiunque ci si perda, salvo dimenticarlo la mattina dopo». Proprio questa per D'Agostino è una delle differenze con altre grandi città italiane: «A Milano gli avvocati fan festa tra avvocati, gli architetti tra architetti. Chi arriva a Torino resta milanese, o genovese. A Roma invece, città del cinismo e del disincanto, tutto si mescola, con l'obiettivo di tirar mattina, e se accanto ti ritrovi Moravia, o una star del cinema, non ci fai caso».

L'idea di Roma, santa e dannata, Dago l'ha avuta «guardando 'Succede solo a New York', il doc che Scorsese ha realizzato con Fran Lebowitz. Fu Alessandra Mammi, la moglie di Marco Giusti, a dirmi che solo io potevo raccontare Roma. Non che i grandi non ci abbiano provato: Fellini con La dolce vita e Roma, Sorrentino con La grande bellezza. 

Ma in fondo - e il volto di Dago si apre a quel sorriso disincantato che sa di beffa, profondamente 'romano' - non erano sguardi di romani, venivano da fuori. Qui da noi li chiamerebbero 'burini. Poi, proprio a cena da Sorrentino abbiamo deciso di mettere in scena 'l'altra faccia della vestaglia'. Ed è nato Roma, santa e dannata». 

Il doc non poteva che essere notturno, «perché è di notte che s'impone il racconto di segreti e misteri, fatti e fattacci, tra battutacce feroci e cinismo cialtrone. Raccontiamo la sensualità, la follia, la leggerezza e in fondo l'amoralità di un luogo che poi al mattino si fa il segno della croce». E a Roma, dice Dago, «è sempre stato così.

Gioacchino Belli la defini 'Città eterna e chiavica der monno'. Non a caso ha attirato grandi artisti: Tennessee Williams, Gore Vidal, Orson Welles ci hanno vissuto per anni». 

Uno degli obiettivi di Roma, santa e dannata era "evitare i pipponi sulla Città Eterna e scodellare invece storie, aneddoti, racconti». Cosi ecco «Enrico Vanzina che racconta di quando portò Gianni Agnelli a mangiare al Matriciano, Massimo Ceccherini che arriva a Roma da Scandicci, pieno di soldi dopo Il Ciclone di Pieraccioni, e si trova come Pinocchio nel paese dei balocchi. 

O quella volta, correva l'anno 1968, che gli attori del Living Theatre annunciarono un'esibizione davanti alla facoltà di Legge della Sapienza, covo della destra. Noi di Lettere eravamo li, pronti a difenderli. Ma quando i fasci' hanno visto i 20 attori recitare nudi, altro che contestazione: tutti fermi a guardare culi e tette! La 'figa' aveva messo tutto a posto, fascisti e comunisti». In Roma, santa e dannata è lunga (e intrigante) anche la lista dei locali notturni: «Si iniziava la serata all'Easy Going o al Jackie O, e poi Isteria, Much More, Degrado, Frutta e verdura. I locali più trasgressivi erano proprio in centro. E poi feste, controfeste, "caciare sul letto"... La città di Dio è anche la città del piacere più effimero, dove convivono l'intellettuale, il coatto, la zoccola, il prete, il politico. 

Senza farsi problemi. Non a caso, il cinismo romano predica: 'se non esiste soluzione, non esiste il problema» Per D'Agostino, il documentario non è la prima realizzazione con il linguaggio dell'audiovisivo. Anni fa realizzò per il grande schermo l'irriverente Mutande pazze, e tra il 2016 e il 2020 ha raccontato il cambiamento innescato nelle nostre vite dalla rivoluzione digitale nelle tre stagioni dell'innovativo (e coinvolgente) Dago in the Sky, per Sky Arte: «Mi tolgo uno sfizio ogni tanto. Non amo raccontarmi, finisce che uno si sbrodola: "io, io, io.". La voglia di parlare di sé è la cosa più atroce tra quelle in cui mi imbatto ogni giorno. Che poi a Roma la pernacchia è sempre in agguato: ti mettono a posto con il classico 'mecojoni». 

È solo per questo? «La verità è che mi piace lavorare da solo, non sopporto il lavoro collettivo. Se scrivo un articolo, me lo scrivo e me lo posto in pace. Quando sei lì in tanti, finisce che non ti diverti. Non ho mai avuto la smania di fare Tv. Anche perché non la vedo. La sera preferivo andare in giro a divertirmi». 

D'Agostino non entra nel dibattito su come (e se) si divertono i giovani oggi («affari loro, ogni epoca ha il suo contesto»), ma la sua ultima considerazione diventa un consiglio: «Posso dirgli di non dimenticare una cosa: per divertirsi davvero, ci vuole cultura. Devi aver letto, visto musei, viaggiato. Il divertimento è un lavoro della mente. Che richiede delle basi. Per paradosso, la cultura può non servire nel lavoro. Ma per divertirsi, è fondamentale».

Gabriele Niola per badtaste.it mercoledì 1 novembre 2023.

Senza nessuna velleità di linguaggio cinematografico, senza nessuna idea di cinema che non sia quella del documentario illustrativo classico (e di una fotografia notturna di grande magnificenza senza bisogno di sfarzo, il regista è Daniele Ciprì), Roma santa e dannata è una delle operazioni filmiche di scavo, racconto e illustrazione di un punto di vista su un tema, più chiare, interessanti e appassionanti degli ultimi anni. 

Il tema è il più abusato in assoluto dal cinema, il più tartassato e raccontato, cioè la natura complessa della città di Roma, la contiguità tra potere politico, presenza vaticana e una naturale tendenza al vizio e all’esagerazione. Roberto D’Agostino, che con Marco Giusti, è l’autore del documentario, lo chiama il “mistero Roma”.

L’assunto di base è l’opposto di quello che si racconta di solito, cioè che Roma (e per esteso l’Italia) sia una città pagana. Viene enunciato subito, all’inizio, e il resto del documentario cercherà di dimostrarlo attraverso una serie di resoconti, racconti e opinioni sulla vita notturna romana tra la fine degli anni ‘70 e la fine dei 2000. 

È inevitabilmente il punto di vista di Roberto D’Agostino anche se lui insieme a Giusti è l’intervistatore (e solo in pochi casi intervistato) ed è impossibile alla fine di tutto non concordare con quell’idea, anche se è ugualmente evidente che chi vive o ha vissuto la notte in quella maniera non può che avere quella prospettiva.

La maniera in cui il documentario lavori di interviste (spesso sorprendenti), un po’ di materiale d’epoca, di ambientazioni (il luogo in cui avvengono le interviste viene svelato solo a un certo punto) e di rievocazione ha sicuramente molto di nostalgico, come è inevitabile dal momento che a parlare sono persone che hanno vissuto quel periodo. 

Tuttavia la sua asciuttezza e la propensione a mettere in fila aneddoti e fatti per spiegare un intreccio di relazioni gli danno una chiarezza rara. Nel parlare di caos Roma santa e dannata è straordinariamente lineare.

Aneddoti e storie note si intrecciano a quelle meno note, e al contrario di film o serie che hanno provato a raccontare quest’aspetto di Roma, il documentario ha una quantità di esempi concreti, di momenti, personaggi e figure accettate o sputate dalla città di Roma, che riesce più di ogni teoria o assunto a rendere bene l’intreccio tra la tavola e la trasgressione, tra la vita notturna e una forma di potere così diffusa da essere insormontabile per qualunque singolo. E nel presentare questi racconti la partecipazione e il disincanto sono tali che, nonostante sia impossibile capire fino a che punto sono reali o no, è anche difficile non innamorarsi di qualcosa di così infernale, respingente e deprecabile, eppure anche inevitabilmente così vivo.

Teresa Marchesi per "Domani" martedì 31 ottobre 2023.

Nel documentario di Roberto D’Agostino e Marco Giusti, con la regia di Daniele Ciprì, l’Urbe è “santa e dannata”. Un Decamerone opulento per raccontare una città «che è una città come una sedia elettrica è una sedia»

La più grande collezione di falli al mondo è sotto chiave in una stanza del Vaticano, vicino alla Cappella Sistina. Sono i peni di pietra scalpellati per decenza dalle statue nel corso dei secoli. «Belli in fila col loro bravo cartellino, farebbero la gioia di tutti i gay». La strage dei piselli ad opera del Vaticano è solo un tassello del monumento pagano all’Urbe che Roberto D’Agostino, Sire di Dagospia, ha affidato allo schermo.

La tesi è che amare Roma è facile, capirla è più che impossibile, è inutile. Giusto per contraddirsi, ha compilato in coppia con Marco Giusti il Decamerone opulento di una città «che è una città come una sedia elettrica è una sedia». Regia e fotografia sono di Daniele Ciprì, una certezza. 

Roma, santa e dannata, che è minimalista definire documentario, è stato presentato alla Festa del cinema di Roma. È più che altro la peregrinazione irriverente di una coppia che fa da cerniera tra Dante – Virgilio e Tomas “Monnezza” Milian – Bombolo. Così la vede Marco Giusti.

Insisto sul Decamerone per analogia: è un flusso di personaggi  portatori di novelle, aneddoti, risvolti pagani sconosciuti ai più, patrimonio però privato di Dago (R D’A per intero è obsoleto). Manca la peste, ma Boccaccio “ci sta”. E dopotutto – acconsente Dago – Le Mille e Una Notte e il Decamerone sono la base culturale di oriente e occidente.

A monte c’è Belli: «Roma caput mundi e chiavica del mondo». Ci sono Flaiano e Fellini: «Un immenso cimitero brulicante di vita». C’è la dolce vita declinata a ripetizione dal cinema e c’è La Grande Bellezza. Il primo progetto del film, nato in piena pandemia, prevedeva Paolo Sorrentino regista (è rimasto, ma da produttore). 

Se non puoi risolvere con un film l’“enigma Roma” puoi spiegare la sua unicità: è il solo posto in cui la città di Dio e la città degli uomini vanno a braccetto, sacro e profano si fondono. «La sua capacità di andare oltre i limiti della morale, con leggerezza e con mignottaggine, non ha uguali nel mondo», sostiene Dago in veste dantesca.

E dato che «la via diritta è un labirinto» (come ammoniva la scritta su un antico sarcofago) la coppia di viaggiatori urbani scivola nel labirinto, rigorosamente al calar delle tenebre, armata di dissonante sapienza, battutacce feroci e cinismo cialtrone.

Il dionisiaco è più stuzzicante se in promiscuità con l’acqua santa. La prima tappa del tour è quindi il Muccassassina, inquilino del Vaticano, alla sua nascita, nei locali che avevano già ospitato un cinema a luci rosse e si sarebbero riconvertiti in ufficio stampa del Giubileo. Il disinvolto affitto bipartisan sembra una barzelletta, ma è tutto vero.

L’antesignano dei templi gay furoreggiava a cento metri dal Cupolone. Con l’epopea notturna delle prime drag queen, dei «travestiti  part-time» degli «eteroflessibili» e della «musica frocia che ci faceva sbattere come capitoni», è Vladimir Luxuria a rievocare anche l’ipocrisia di illustri frequentatori abituali: «Quanti ne ho visti che di giorno esaltano i valori della famiglia e di notte li vedi calati a 90 gradi in un parco, e non per raccogliere margherite».

Le scorribande notturne di Carlo Verdone in quegli anni Ottanta, a rimorchio dell’insonne compagno di banco Christian De Sica, sono meno trasgressive e più Roma-bene. Marco Giusti, che come me è un “burino”(termine che Dago riserva a chiunque sia arrivato nell’Urbe da fuori), come me non ha memoria di locali come il Number One, il Kinky, lo Scarabocchi, e degli exploit offerti su un piatto d’argento a paparazzi e avventori. 

Dobbiamo fidarci della colorita prosa verdoniana per immaginare Helmut Berger che balla nudo sul tavolo tirando noccioline e una giovanissima Monica Guerritore che rimorchia a freddo Alain Delon piantando in asso come merluzzi i suoi chaperon, Carlo e Christian. È mondanità ingiallita, roba del secolo scorso, sul filo della nostalgia. I troppo nostalgici magari sognano che il film rivanghi l’epica sigla di Quelli della Notte, starring un giovane Dago, ma no. Troppo frivola.

La scappatella del papa polacco resocontata da un altro guest, Giorgio Assumma, è più castigata, ma non sfigura tra gli aneddoti da leggenda. È la storia del novizio del soglio, arzillo e ansioso di libertà nei suoi verdi 58 anni, che se la svigna alla chetichella col suo segretario di Cracovia per godersi in incognito una sana mangiata e bevuta a Trastevere. Al ritorno però le guardie svizzere bloccano il sacerdote ignoto privo di documenti. 

Il lato comico sta meno nel giro delle sette chiese (mai locuzione fu più appropriata) dei due ribelli inguaiati che nello spiritaccio romano profuso dal piantone del commissariato, risorsa estrema: «Scusa ma se sei il papa possibile che non hai le chiavi di casa?».

«La forza che ha sempre avuto questa città è la chiacchiera», sostiene Dago, da Pereira romano, «il vero lavoro è tessere relazioni, combinare incontri: l’attovagliamento». C’è un nesso logico tra le chiacchiere che sono il nerbo del film e l’essenza ultima del Potere romano. Fa legge la “teoria della patata”. Come la patata, il Potere romano «ha radici sotterranee, invisibili, ma profonde e tenaci: Corte dei conti, Consiglio di stato, Consulta, Cassazione, Servizi segreti, militari, quella sorta di logge, di mafia».

La morale è che questa ragnatela d’acciaio resiste a qualsiasi barbaro in trasferta nella città eterna. «Qualsiasi burattino arrivi a palazzo Chigi sappiamo benissimo che appena diventa inaffidabile zac! lo mandiamo a casa». Perché allora andare a votare? Francesco Cossiga docet, secondo Dago (mi perdoni Tabucchi per l’iterazione): «Il voto serve ma non apparecchia», diceva.

La vitalità del Potere ha la sua apoteosi nei funerali. Tra le pochissime coperture di repertorio usate nel film spiccano i minuetti delle esequie eccellenti, con la pattuglia dei presenzialisti ostinati. Nel montaggio, Fausto Bertinotti e signora, Gianni Letta e Bruno Vespa sono i più assidui. «È una comunità che si riconosce perché va ai funerali comunque, anche senza aver conosciuto il defunto: è un’occasione imperdibile per convertire un evento tragico in party».

Quando si affronta il capitolo Silvio Berlusconi ( «l’unico milanese che si è veramente romanizzato, non solo politicamente»), Enrico Vanzina sale sul banco dei testimoni col suo fardello di aneddoti. La tesi è che il Cavaliere ha assorbito il primo comandamento di Andreotti: i nemici non si combattono, o li seduci o li compri. In più, «a livello privato scopre la caciara sul letto, quella filosofia de noantri che Roma pratica da sempre».

Niente amanti, costano troppo. Meglio incaricare un’ape regina – «cioè una pappona» – che mette insieme un giro di donzellette in grado di soddisfare tutti. La natura delle rimembranze in materia è grossière, e per contiguità chiama in causa i fiaschi galanti di Gianni Agnelli e il “socialismo afrodisiaco” di Craxi. Sandra Milo, Vera Gemma, Massimo Ceccherini: la polifonia è sfaccettata e riabilita i “sovversivi” Maurizio Arena, Ilona Staller onorevole, Moana Pozzi. Chi è stato il ghostwriter del libro di Moana? Indovinate.

Le storie-clou dell’opera, le più care al cuore di Dago, sono però  legate a un trionfo e a un naufragio epocali della controcultura. Trionfale fu la performance del Living Theatre nel 1968 davanti all’ultra-destra facoltà di Legge, con quei magnifici venti attori nudi che paralizzarono, magicamente, i picchiatori abituali, proclamando libertà eretiche. 

Comicamente rovinoso – nella cronaca di Verdone – il Festival dei Poeti di Castelporziano, che nel 1979 seppellì un’epoca nella pasta e fagioli. Bilancio finale? Un’onda anomala di ghiotti, spudorati, inediti e stimolanti pettegolezzi.

«Perché il pettegolezzo», sempre secondo Dago, «è la vera informazione e la vera letteratura». Cos’hanno fatto i quotidiani autorevoli sul caso Giambruno, se non Dagospia? «Quando lo facevo io, lo chiamavano trash».

Pierluigi Gaudio per “Novella 2000” lunedì 30 ottobre 2023.

Giornalista, intellettuale, uomo di spettacolo, imprenditore, trovare la giusta definizione per Roberto D’Agostino è complesso, perché densa è stata la sua vita e intenso è stato il suo modo di viverla.  Un surfista della vita in grado di seguire l’onda, in grado di comprendere il cambiamento e per questo sempre in prima linea. 

Parlare con lui, in occasione del docu-film che D’Agostino e il critico cinematografico Marco Giusti presentano alla Festa del Cinema di Roma, è un piacere. Roberto è un fiume in piena che cita il romanziere Proust, il poeta romano Giovenale e il filosofo Vattimo con la stessa facilità con la quale parla delle notti romane nel suo lavoro. Dentro c’è tutto, dal Vaticano alla politica passando per il celebre locale Muccassassina e Bernini, Michelangelo e Caravaggio.

Si chiama Roma Santa e Dannata, ma si doveva chiamare Roma Santa e Puttana, il titolo è stato cambiato perché Google censura determinate parole. E qui si percepisce tutta la modernità di D’Agostino, uomo colto che guarda al passato, si nutre di libri e percepisce il futuro. 

Nato nel quartiere romano di San Lorenzo, uno dei più martoriati dalla Seconda Guerra Mondiale, D’Agostino sarà al Roma Film Fest a presentare la sua opera, che ha la regia e la fotografia di Daniele Ciprì ed è prodotto da The Apartment. 

Roberto, hai fatto tante cose nella tua vita. Erano i sogni del bambino nato a San Lorenzo?

«Non pensavo di fare quello che ho fatto. La vita è un’eterogenesi nella quale pensi di andare verso A e finisci a Z. Credo che tutti i tuoi sogni e i tuoi desideri vengano trasformati, così come le pretese, che ci creano infelicità. Le pretese e le attese ci rendono infelici, perché magari non sono compatibili con il proprio talento. Ognuno, alla fine deve fare i conti con quello che è. Io sono stato sempre molto curioso, ho sempre letto, nutrendomi di libri, e mi sono sempre informato moltissimo».

Quali sono stati i tuoi maestri?

«Mi sono nutrito di tanti libri, dalla beat generation, ad Arbasino, Zeri, ho sempre amato studiare in diversi campi. Ogni giorno devi leggere e studiare, confrontarti perché la verità è un punto di vista. Ognuno ti racconta la sua versione. È un po’ come il film Rashomon di Akira Kurosawa, dove alcune persone vengono convocate per testimoniare su un omicidio e ognuno racconta una sua versione, diversa dalle altre». 

Per questo hai iniziato come giornalista?

«Il mio lavoro mi ha portato a lavorare per l’Europeo, Panorama, L’Espresso, ma io sono consapevole che ogni giorno finisce la sera e poi si ricomincia una nuova vita e non sai qual è il copione che ti aspetta. Io sono felice perché so di avere sempre una sorpresa che mi aspetta. Per esempio, non avrei mai pensato di creare Dagospia o all’avvento di Internet, ma se stai a ruota con i tempi e con l’attualità le cose che hai in testa cambiano. Io non ho mai capito quelli che hanno davanti un comandamento.

Ho capito che la mia vita e quella di stare su una tavola da surf e seguire l’onda, non opporsi, cercando di arrivare alla riva. Il pensiero debole di Vattimo in questo può esserci d’aiuto, ovviamente in senso positivo. L’Ideologia è qualcosa che ti fa andare a sbattere. Marx, per esempio, non lo puoi applicare a qualsiasi epoca. Ci vuole flessibilità». 

Anche in amore è così?

«In amore è una questione di testa. Ci vuole complicità, essere in grado di capirsi. Devi riuscire ad avere lo stesso binario, andare nella stessa direzione. Per me è importante costruire una buona comunicazione con il partner e giocare insieme per Vivere i tempi uniti, complici. L’attrazione e il resto cambia sempre, per questo le cose importanti sono altre».

Venendo alla pellicola che presenterete a Roma, le recensioni parlano di un concentrato delle notti romane.

«In un’ora e mezza non puoi mettere una città come Roma. Io ho peccato di “Hybris” (arroganza in greco, ndr) nel solo pensare di confrontarmi con la maestosità di una città che più di altre ha condizionato la storia. Per questo ho dato un taglio più dedicato alla notte, momento nel quale si impone il cambiamento dei costumi sociali, soprattutto qui a Roma: città di Dio, con il Vaticano, ma anche città dei romani. Il paganesimo va a braccetto con il cattolicesimo, dove politica, religione e vita notturna si incontrano e vivono una vita ignota a chi vive di giorno». 

Dove poi nascevano i paparazzi e, in passato, è nata La Dolce Vita.

«Roma è fatta di salotti, di incontri nei ristoranti e nei bar che molto spesso sono più interessanti e divertenti di un teatro, qui nasce il gossip, così come nasceva nei racconti degli antichi romani Giovenale o di Marziale, perché a Roma il gossip nasce dal piacere della conversazione. 

Sui tavoli di Via Veneto c’erano solo chiacchiere, battute, Roma è un grande teatro dove si recita a soggetto. Anche i pettegolezzi nascono, ovviamente, così. Lo stesso Dagospia è una portineria».

In questo periodo Fabrizio Corona sta dominando il gossip relativo alle scommesse di calciatori di prima fascia.

«Non so con il suo passato come possa essere considerato autorevole». 

Cosa ti rimane dopo aver concluso il film su Roma?

«La mia città è, come diceva Federico Fellini, un immenso cimitero brulicante di vita e ogni monumento che vediamo ha in sé molta più vita di quanto potremo mai averne noi. Roma ti avvolge, un torinese, un milanese, fatte salve alcune eccezioni, viene a Roma e dopo tre giorni è già romano.

Questa città ha un lato avvolgente, che fa anche contrasto con la sua storica comicità, a volte, anzi spesso, carica di cinismo, come quella di Alberto Sordi o di Anna Magnani». 

Proprio a lei, ad Annarella, è dedicata il Roma Film Fest, un doppio omaggio alla romanità.

Estratto dell'articolo di Arianna Finos per repubblica.it sabato 28 ottobre 2023. 

“Roma, santa e dannata”  [...] è un viaggio nella notte romana in cui Roberto D'Agostino racconta all'amico Marco Giusti un pezzo di storia della capitale, un flusso di memoria che scorre come il barcone sul Tevere in cui [...] si raccontano,  ripresi dal regista Daniele Ciprì. 

“Enigma perfetto da degradare a metafora: è un binario morto, una polpetta avvelenata, un bordello del pensiero, un pascolo di mostri, un imbuto enorme di demenza collettiva”, dice D’Agostino. 

Ad aiutarli nel compito un gruppo di amici testimoni [...]: Carlo Verdone, Vladimir Luxuria, Sandra Milo, Giorgio Assumma, Enrico Vanzina, Massimo Ceccherini, Vera Gemma, Carmelo di Ianni.  Il documentario, che vede Paolo Sorrentino come produttore creativo, è  prodotto da The apartment e Kavac con Rai cinema, sarà in sala il 6,7,8 novembre con Altre storie. 

Dagospia sabato 28 ottobre 2023. Dal profilo Facebook di Marco Molendini 

La Roma di Dago e Giusti è una Roma che vive nel buio più buio. Il luogo del  ‘ndo cojo cojo, dove trasgressione e culto si incrociano, dove l’eternità è breve come un respiro che non si conclude. Non era facile raccontare la città raccontata da Fellini, Flaiano e Sorrentino. 

Ma Roberto D’Agostino parte da una posizione diversa: è romano fino al midollo, ha l’ironia vissuta di quel signore che, quando vede Alberto Sordi ottantenne inciampare sulle scale del Campidoglio, nel giorno in cui accetta di fare il sindaco ad honorem, lo fissa senza muovere un muscolo e, col sorriso impertinente, gli fa: “Albè, se semo invecchiati…”.

Lo sguardo di Dago su Roma ha il disincanto dell’ “amo visto tutto”, conta sulla spudoratezza del suo Dagospia, diario quotidiano di fatti e nefandezze, sul gusto del Cafonal capace lucidamente di leggere piccole virtù e grandi vizi, di conoscere la debolezza dell’animo, e soprattutto del corpo umano, di chi sbarca nella città per raddrizzarla e viene messo a novanta gradi: divertentissimo, il racconto di Vladimir Luxuria su Muccassassina, brand della trasgressione gay sfrenata, che si muoveva sottotraccia nella Roma di notte facendo sosta in una vecchia sala parrocchiale.

Sul Tevere, scivolando in battello, Dago e Marco Giusti vedono Roma da sotto i ponti (davvero bella la fotografia del film), hanno alle spalle il Cupolone,  lasciano sulle sponde  quello che si vede e che si è visto, esplorano i sotterranei nell’oscurità delle notti infinite dove l’unica paura è che la notte finisca (come andare in un locale che si chiama Degrado che apre alle sette di mattina per continuare a fare quello che si è fatto fino ad allora: perdersi nelle dark room).

È la Roma che ha paura di essere svegliata dal suo lungo sonno. È la Roma essenzialmente degli anni 80 ( e 70 e un po’ 90) del godi e rigodi che neanche la New York dello Studio 54 e del Limelight. Una Roma poco raccontata perché avvolta, appunto, dal buio e capace di tutto e di niente.

La Roma che ti abbraccia e ti fa sprofondare negli inferi (la confessione di Massimo Ceccherini: “bevande e polverine”) che trasforma un festival dei poeti in un assalto alla pasta e fagioli (raccontato da un Verdone magistrale), Berlusconi in un premier assatanato, De Michelis in un Travolta travolto dall’ebbrezza, il marziano in un rompicoglioni. 

Roma santa e dannata è un film al quale abbandonarsi, una dichiarazione di passione, un diario pagano, racconto unico di una città che si riscatta nel suo perenne affondare nella sabbia mobile. E chi, come me, teme che si sia toccato il fondo (delle sabbie mobili) non può  che sperare di avere torto e seguire il consiglio di Roberto: “A Roma non bisogna muoversi né agitarsi”. 

Ieri c’è stata un’anteprima affollatissima e applauditissima alla Festa del cinema, il 6,7,8 novembre il film, diretto da Daniele Ciprì, sarà distribuito in sala.

 Estratto dell’articolo di Gloria Satta per “il Messaggero” sabato 28 ottobre 2023.

Tre anni fa, quando Roberto D'Agostino e Marco Giusti ebbero l'idea di raccontare Roma sullo schermo, doveva essere Paolo Sorrentino a realizzare un film o addirittura una serie in 8 o 9 puntate sulla Capitale, «una città misteriosa come la formula della Coca Cola». 

Ma poi, preso da altri impegni, il regista premio Oscar si è ritagliato il ruolo di produttore creativo del progetto che, intitolato Roma, santa e dannata, è diventato il sorprendente documentario deflagrato in anteprima alla Festa di Roma (sarà in sala dal 6 al 9 novembre, l'anno prossimo si vedrà su una rete Rai).

Ripresi da Daniele Ciprì, D'Agostino, fondatore e direttore del sito Dagospia, e il critico Giusti, attraversano di notte lungo il Tevere la Città Eterna per incontrare i personaggi più adatti a raccontare i ribollenti anni '70, '80 e '90 vissuti tra night club (Jackie 'O, Number One, Easy Going) locali trasgressivi (il Degrado che ospitava orge), eventi irripetibili come il Festival dei Poeti di Castelporziano, le serate folli di Muccassassina, lo "scandaloso" Living Theatre con i suoi attori nudi, l'edonismo dell'era craxiana: Carlo Verdone, Vladimir Luxuria, Massimo Ceccherini, Vera Gemma, Sandra Milo, Giorgio Assumma, Enrico Vanzina, Carmelo Di Ianni.

D'Agostino, in questo viaggio cosa ha scoperto di Roma?

«Che è un enigma impossibile da decifrare. Voler capire questa città sarebbe un atto di arroganza. Io ho solo provato a descriverla». 

E qual è la sua peculiarità?

«Da millenni tiene insieme tutto, Vaticano e peccati. Dio ha inventato una città mettendole Satana accanto. [...] Roma conquista tutti. Chi ci mette piede, dai politici agli artisti, finisce per romanizzarsi». 

Che intende?

 «Tutti vengono attratti dal nostro modo di vivere leggero e disincantato, la cosiddetta Dolce Vita che porta a sdrammatizzare ogni cosa. [...]».

È facile avere successo a Roma?

 «La Capitale è capace di inventare dei personaggi per poi dimenticarsene presto. Qui si creano i miti, ma subito dopo parte la pernacchia. Solo Roma ha saputo fare di Berlusconi un premier, di De Michelis un ballerino, di Renzi uno statista e di Valeria Marini un'attrice. Molti vengono, vivono il loro quarto d'ora di potere e poi svaniscono. Mentre noi romani restiamo. Senza stupirci di nulla». 

[...] Com'è la Capitale vista dall'estero, secondo lei?

«Stando ai media stranieri, a Roma esistono solo il Papa, il vero divo della città, e la Dolce Vita che non fu inventata dai cinematografari ma dagli aristocratici come Dado Ruspoli: purtroppo è morto prima che potessi scrivere un libro con lui proprio su quel periodo». 

Il potere a Roma è diverso che altrove?

«Si crea nei salotti e al ristorante: quando i romani si "attovagliano" non lo fanno per mangiare bensì per realizzare affari, tessere rapporti. A Roma la gestione del potere è tutt'altro che ideologica». 

[...] Ha racconto molto materiale nel suo viaggio con Giusti?

«Abbiamo girato 4 ore e tante cose non sono entrate nel film». 

Vuole farne una serie?

«Non credo, il sito Dagospia mi impegna già abbastanza. Intanto vediamo come va il film. In futuro chissà». 

Dagospia sabato 28 ottobre 2023.Dal profilo Facebook di Goffredo Bettini 

Ieri sera con grande piacere sono tornato nello splendido Auditorium di Renzo Piano. Mi ha preso un po' di nostalgia. I ricordi della costruzione e dei primi anni di avvio della gestione mi sono tornati in mente come una delle esperienze più intense della mia vita. 

Poi, ho incontrato Carlo Fuortes. E abbiamo fatto un tratto di strada insieme, fino alla Sala Sinopoli; per assistere al film "Roma, santa e dannata" di Roberto D'Agostino e Marco Giusti. Un tuffo in un certo spirito della città, intelligente e spregiudicato, ma autentico e irresistibile quando Carlo Verdone racconta le sue storie.

Carlo Fuortes è stato un compagno di viaggio straordinariamente bravo, con il quale non mi sono mai perso. Insomma, una gran bella serata. Una pausa, dentro lo scorrere dei momenti terribili che ci stanno di fronte.(Adnkronos/Cinematografo.it venerdì 27 ottobre 2023) - "Capire Roma non solo è impossibile, ma è inutile". Su un battello notturno che procede sul Tevere, Roberto D'Agostino e Marco Giusti ci accompagnano ('come Dante e Virgilio', o 'come Tomas Milian e Bombolo') attraverso le contraddizioni e le trasgressioni della città eterna. 

Sono gli autori e i 'protagonisti di Roma, santa e dannata , documentario prodotto da The Apartment e Kavac Film, con Rai Cinema (e con Paolo Sorrentino produttore creativo), diretto da Daniele Ciprì, anche direttore della fotografia, oggi in Special Screening alla XVIII Festa di Roma e in sala per tre giorni, il 6-7-8 novembre distribuito da Altre Storie.

"Il progetto nasce durante la pandemia, ricordo che chiesi a mia moglie chi avrebbe potuto raccontare Roma. E lei mi ha subito risposto 'Dago!'. Allora ho chiamato Roberto, che ha chiamato Sorrentino e che inizialmente avrebbe dovuto dirigere quella che sarebbe dovuta una serie di 8-9 episodi. Poi ha dovuto far fronte ad altri impegni e con Lorenzo Mieli e Simone Gattoni (i produttori di The Apartment e Kavac Film, ndr) abbiamo pensato di coinvolgere Ciprì alla regia", racconta Marco Giusti. 

"Dove finisce La grande bellezza di Sorrentino? Sul fiume. E dove inizia il nostro film? Sul fiume. È come se fosse l'altra faccia della vestaglia della Grande bellezz", aggiunge D'Agostino, che nel 2000 diede alla luce Dagospia, definito da lui stesso 'una portineria elettronica'.

"Tacito faceva i pettegolezzi dalla mattina alla sera, non ci siamo inventati nulla con Dagospia. Non è mai diventata metropoli questa città, questo è un paesone. Se fai uno starnuto qua a Roma dopo due minuti ti chiamano e ti dicono 'hai fatto 'no starnuto, eh?', non si scappa. Ricordo una volta che Alberto Arbasino, nativo di Voghera, mi confessò che arrivato qui a Roma smise di andare sia a teatro che al cinema, perché diceva che gli bastava andare al ristorante, che ascoltava tante di quelle storie, tante di quelle battute che andare a teatro o al cinema non aveva più senso''.

Politici, imprenditori, intellettuali, gente di spettacolo, nessuno rimane esente dall'abbraccio unico e infernale di Roma, città capace di tutto, ''anche di trasformare Berlusconi in un premier, De Michelis in un ballerino, Renzi in uno statista, Valeria Marini in un'attrice''. 

Gironzolando per le strade di Borgo Pio, incontrando personaggi e fantasmi, Dago & Giusti raccontano una città ''più misteriosa della formula della Coca Cola''. Enigma perfetto da degradare a metafora: è un binario morto, una polpetta avvelenata, un bordello del pensiero, un pascolo di mostri, un imbuto enorme di demenza collettiva.

Questo viaggio notturno inizia dalla storia di un cinema di Porta Castello, il Mercury, a cento metri dal Cupolone, di proprietà del Vaticano ma con programmazione a luci rosse. 

Qualche tempo dopo divenne la sede del locale più trasgressivo dell'Urbe, quello che ospitava le prime serate del ''Muccassassina'' (e poi divenne la sede dell'ufficio stampa per il Giubileo). 

Tra i promotori c'era Vladimir Luxuria, che torna a quei giorni di metà anni '80, prima ancora che ''l'evento'' da trasgressivo si tramutò in fenomeno di costume: ''Le prime volte la gente famosa chiedeva impaurita se ci fossero i fotografi, poi invece speravano che i fotografi ci fossero''.

 Ed è questa la sintesi forse migliore per provare a dare il via ad un fiume di aneddotica che vedrà alternarsi sullo schermo i racconti di Carlo Verdone (''Quella volta che con Christian De Sica accompagnammo una giovanissima Monica Guerritore vestita da calciatrice della Roma al Jackie 'O e lei ci mollò dopo cinque secondi perché ad un tavolo c'era Alain Delon…''), di Massimo Ceccherini (esplosivo e irresistibile come di consueto, di una sincerità disarmante quando ritorna a quei giorni di soldi, ma tanti, sperperati ogni sera per locali, ''bevande e polverina'', prostitute e quant'altro: ''Ho rischiato di morire più volte''), di Sandra Milo e la sua liaison con Bettino Craxi, di Enrico Vanzina (che fotografa la capacità che aveva Berlusconi di incassare rimostranze e un attimo dopo di portarti dalla sua parte con un potere seduttivo unico), o di Vera Gemma, che riporta a galla le sue esperienze notturne in locali capitolini come il Degrado. '

'Al Degrado ci venivano da tutta Europa, era un locale che anziché avere le dark room era un unico ambiente totalmente dark room, al buio totale, dove accadeva di tutto. Era la fine degli anni '90 ma al di fuori di lì nessuno sapeva niente'', ricorda ancora D'Agostino, che spiega: ''A Roma c'è una regola, quando si dà un nome ad un fenomeno trasgressivo quel fenomeno è morto. Quando Fellini - che definiva Roma 'un cimitero brulicante di vita' - uscì con 'La dolce vita' diede il nome e quel fenomeno era già finito. 

Anche se di fatto quel concetto è vivo ancora oggi: si intende quella leggerezza che tende a sdrammatizzare ogni cosa, la capacità che ha Roma di accogliere chiunque. Se un milanese, un bolognese, un torinese venissero a Roma dopo tre giorni si sono già romanizzati. È come se avvenisse una seconda nascita''.

Articolo di Alessandra Magliaro per ansa.it venerdì 27 ottobre 2023.

Raccontare Roma, "è un atto di presunzione. Amare questa città è facile, capirla non solo è impossibile ma inutile". Roberto D'Agostino, il fondatore di Dagospia, conoscitore di inciuci, retroscena, attovagliamenti di potere, tradimenti sessuali, penna arguta e temuta da decenni, vuota il sacco. Con il suo savoir faire noto, esprime lo spirito romanesco del sordiano 'io so io e voi non siete un cazzo' per raccontare con consapevole scandalosità la Roma magica, che tutto attrae, tutto nasconde, tutto dimentica pronta a ricominciare perché con 2mila anni di storia cosa vuoi che cambi.

Roma Santa e Dannata è il documentario di D'Agostino con Marco Giusti, presentato oggi in anteprima alla Festa del cinema di Roma. Il premio Oscar Paolo Sorrentino "dai racconti voleva farne un film nel 2021, ne abbiamo parlato per anni, era diventata una serie a puntate poi non se ne è fatto più nulla" e figura comunque nei credits come produttore creativo del film poi diretto e fotografato da Daniele Ciprì. E' una produzione The Apartment, società del gruppo Fremantle, e Kavac film con Rai Cinema, in sala con Altre Storie il 6, 7 e 8 novembre. 

Regia a parte, il plot è rimasto lo stesso: il racconto, con nomi e cognomi, della notte romana da fine anni '60 in poi, passando per gli anni '80, un affresco con testimonianze (Carlo Verdone, Enrico Vanzina, Sandra Milo, Massimo Ceccherini e altri) di una scena trasgressiva unica, "capace di attirare e trasformare tutti, fare di Berlusconi un premier, di De Michelis un ballerino, di Renzi uno statista e di Valeria Marini un'attrice". Dago & Giusti, "come Virgilio e Dante, Ric e Gian, Thomas Milian e Bombolo" da un barcone sul Tevere ("lì dove finiva La Grande Bellezza comincia L'altra faccia della vestaglia", ha scherzato D'Agostino) partono a raccontare la notte e soprattutto l'indolenza romana, il menefreghismo come religione, il divertimento sfrenato, "sapendo che - dice all'ANSA D'Agostino - qua tutto passa, tutto rinasce, a Roma si è visto tutto in 2mila anni, figurati se ci si ferma all'ultimo potente di turno". Ma come si fa dopo aver visto di tutto in questi anni a vivere con la Roma di oggi? "Ogni mattina mi sveglio - risponde - e ringrazio di essere a Roma". 

Tra le tantissime storie del film quelle di Vladimir Luxuria che racconta i bei tempi di Mucca Assassina nel ex cinema Mercury a luci rosse di proprietà del Vaticano, le orge al Degrado (con un irresistibile Ceccherini a raccontare le dark room e quella volta che a cena da Vittorio Sgarbi passò la serata a vedere lui impegnato a fare sesso con una brasiliana). 

E poi ancora il rivoluzionario Living Theatre che nel '68 con i suoi ballerini nudi conquistò "gli studenti fascisti di legge alla Sapienza", e poi Bossi "che proclama Roma ladrona e dopo 3 giorni - racconta D'Agostino - va al Gilda dove c'è una donna nuda con la panna sopra. Il senatore Agnelli che vuole conquistare Marina Ripa di Meana e la trova a letto con altri due, esempi fra i tanti, perchè a Roma scivolano tutti, macchiette per una sera. Aspettiamo i barbari da millenni, poi li portiamo Al bolognese con quattro zoccole vicine e diventano stronzi come noi".

Estratto da blitzquotidiano.it giovedì 26 ottobre 2023.

Roma santa e dannata verrà presentato alla Festa del Cinema venerdì 27 ottobre. Si tratta di un docu-film realizzato in cui Roberto D’Agostino racconterà a Marco Giusti Roma, città unica e infernale. 

Ripresi da Daniele Ciprì, Dago e Marco Giusti intraprendono il viaggio di notte. Al calar delle tenebre, […] veleggiano sul Tevere, ciondolano tra vicoli e rovine, incontrano personaggi e fantasmi (Verdone, Luxuria, Sandra Milo, Giorgio Assumma, Enrico Vanzina, Massimo Ceccherini, Vera Gemma, Carmelo di Ianni). Perché è di notte che s’impone il racconto di segreti e misteri, fatti e fattacci, tra battutacce feroci e cinismo cialtrone. 

[…] Dago ha raccontato il suo docu-film in una lunga intervista a “Chi”. “Io sono Virgilio e lui è Dante” dice Dago. “O siamo Tomas Milian e Bombolo” replica invece Marco Giusti facendo riferimento a certo cinema che ama tanto.

E spiega la scelta della notte: “Per i romani la cosa più bella del giorno è la notte, che è stata quella che ha attirato Tennesse Williams e Gore Vidal. A Roma un giorno arriva la coreografa Pina Bausch e chiede di vedere una Roma vera. Con Matteo Garrone, che per l’occasione mette il montgomery, la portiamo al Degrado”. 

[…] Dago racconta Roma attraverso il codice romano: “Questo è il codice romano e da due millenni regge a tutte le scosse. Ogni volta c’è l’annuncio: ‘Arrivano i barbari’. Poi scopri che questi barbari ci mettono il tempo di una cena al Bolognese, il tempo di una festa in discoteca… Saranno presto corrotti… Tranquilli, che tutto svanisce. Sì, noi lo sappiamo”.

[…]  D’Agostino racconta poi l’aneddoto di Renato Zero che, dopo un incidente con la 500 […] entra nelle vetrine delle pompe funebri. Il cantante non ancora noto al grande pubblico verrà ricoverato nel reparto femminile dell’ospedale: “Renato indossava una tutina di lurex che io chiamavo luridex, quante botte ha preso… Ma il 1965 era un altro mondo. In quel periodo entra un nuovo soggetto sociale che è il giovane.

Per dire, nel 1967 vedo Brian Jones con la pelliccia di lupo e le babbucce rosa e penso che è fantastico, così dico al mio amico Paolo Zaccagnini: ‘Andiamo al Piper con la pelliccia’. E lui arriva con il visone di sua madre e io prendo il cappotto di vermi, l’astrakan di mamma, che mi faceva pure schifo. Io mi ricordo un caldo a ballà con quello, torno alle tre di notte con la circolare rossa e trovo mio padre che fa a mia madre: ‘C’avemo il figlio frocio'”.

Prosegue D’Agostino: “Vede, i romani non sono eterni e lo sanno, perché davanti a Michelangelo capisci subito che la Cappella Sistina è più viva di te. Sa che diceva Chateaubriand? ‘Roma è bella per dimenticare tutto, Roma è bella per disprezzare tutto, Roma è bella per morire'”. 

Ma per Dago cos’è Roma? “So che paragonarla a una città è come paragonare una sedia elettrica a una sedia”. Quello che ci attende è un racconto della Città Eterna che vale forse più di decine di saggi sociologici.

Pierluigi Panza per fattoadarte.corriere.it mercoledì 25 ottobre 2023.

Roma, di notte, terrazza o tolda del battello sul Tevere: mettete al posto di Toni Servillo Roberto D’Agostino e avrete il passaggio dalla Roma recitata da un attore alla Roma raccontata direttamente dal protagonista. 

Con il film “Roma, santa e dannata”, che passerà alla Festa del Cinema il 27 ottobre (regia e fotografia di Daniele Ciprì) Roberto D’Agostino, con Marco Giusti, si è fatto l’autobiografia, autobiografia sua e della Roma anni Settanta-Ottanta, quella dopo l’ideologia, senza i comunisti, debole di pensiero e di carne, con Vladimir Luxuria versione cuoca davanti al menù di “Muccassassina”: ditalini, piselli, cazzetti…

La Roma santa e puttana di Dago è solo la versione più vicino a noi della Roma santa e puttana di sempre. 

Nella Roma di Leone X, il cardinal Bibbiena organizzava feste con cortigiane e guest star Raffaello, che era cameriere segreto del papa. Presenze fisse le cortigiane più ambite come Vannozza e Lucrezia con la figlia. 

In scena la “Calandria”, commedia scritta dal Bibbiena. Trama: Calandro, per amare Santilla si deve travestire da donna: “Non sappiam noi, che le donne sono si degne, che oggi non è alcuno, / che non le vada imitando, e che volentieri con l’animo, e col corpo femmina non diventi?” scrive il n.2 del Vaticano? È il gender fluid del cardinale, siamo nel 1513.

Se ci spostiamo di un secolo, non cambia nulla, Roma è sempre santa e puttana. Fuori Raffaello e il cardinal Bibbiena dentro Caravaggio e il cardinal Del Monte con il suo chitarrino. 

Lasciati i rigori ambrosiani presso monsignor insalata (perché mangiava sempre insalata) Caravaggio arriva a Roma e gli cambia la vita: dalla canestra di frutta (allusione a Cristo) alle prostitute ritratte nei quadri. 

La Lena e tutte quelle degli ortacci, le fiammette, che si chiamavano così perché il rapporto nel retro dell’osteria deve durare il tempo di una candela che si smorza. Caravaggio si definisce un “valent’uomo di Roma”, cioè un assassino che non salda i debiti e, naturalmente, bisex perché, come ricorda Dago… ovviamente lì erano già froci quando i lombardi erano sulle palafitte.

Pure dopo i lanzichenecchi, e comunque prima del passaggio del treno con Alain Elkann, la storia è la stessa con i Barberini e i Colonna… e così si arriva a Helmut Berger bello e ubriaco che balla su un tavolo al Number One, si arriva a Renato Zero incidentato e ricoverato al reparto femminile. 

Quando Cicciolina sfila per Roma non c’è niente di nuovo, in fondo, la Vannozza comandava mezza Roma, faceva sfilare le ragazze, il banchiere Chigi sposò una prostituta, Francesca Ordeaschi e fece affrescare per lei la Villa Farnesina con la Galatea seminuda che esce dalle acque: ed il volto è quello di una cortigiana. 

Il socialismo by night di De Michelis è un’apparizione educata nel grande teatro che fluisce dai tempi di Adriano con il suo Antinoo.

Per capire quanto felici e demenziali furono quegli anni “formidabili” bisogna seguire la rievocazione del “Festival dei poeti” che si svolse nell’estate del 1979 sulla spiaggia libera di Castelporziano rievocata da Carlo Verdone. 

Siamo alla follia: Dario Bellezza che legge, gli urlano “’a frocio!” e s’incazza; una ragazzina mezza svestita vuol parlare anche lei “cioè, cioè, cioé”, arriva uno e la ferma mentre un tipino alla Andy Luotto si spoglia e mostra il pacco (allora non c’erano le suffragette anti Giambruno). 

Poi arriva il minestrone… e manco fossimo nella striscia di Gaza tutti spingono verso il palco per averne un mestolo. Il palco cede. Un minestrone è l’immagine psicodrammatica e psichedelica di Roma di ogni tempo: la via dritta è un labirinto, come riporta l’epigrafe su un sarcofago

Dagospia martedì 24 ottobre 2023. Da "Non è un paese per Giovani" 

Roberto D'Agostino a NPG su Radio2: "A Roma le anime santa e dannata vanno a braccetto, ci sono il diavolo e l'acqua santa ma non sono l'uno contro l'altro, sono alleati. L'evento più vivo in città è il funerale, momento in cui si parla, si prendono appuntamenti, si rinsaldano i rapporti. Chiunque prova a mettersi da solo al comando finisce in una pattumiera, il vero potere è invisibile, vediamo solo i burattini". 

Roberto D'Agostino è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del programma "Non è un Paese per Giovani", condotto da Tommaso Labate e Massimo Cercelli, in onda dal lunedì al venerdì dalle 12 alle 13.30.

Il creatore di Dagospia ha parlato del suo viaggio notturno per le vie di Roma nel docu-film 'Roma santa e dannata': "Questa città è come una sedia elettrica, non è possibile metterla in mano a gente che viene da Rimini o da Napoli. E' molto difficile trovare l'essenza di Roma. La particolarità di questa città è che le sue anime santa e dannata vanno a braccetto. A Roma c'è il diavolo e l'acqua santa e non sono uno contro l'altro, sono alleati. La parte più bella del giorno a Roma è la notte. Quando arrivano le tenebre si inizia a vivere un'altra città". 

Ancora D'Agostino: "A Roma l'evento più vivo è il funerale. Un momento in cui tutti i vari gruppi, le varie consorterie, le varie logge, tra virgolette, rendono omaggio al caduto, al caro estinto, ma allo stesso tempo è un momento in cui si rinsaldano i rapporti. La gente va al funerale perché deve parlare, prendere appuntamento, anche questo aspetto dimostra come è fatta questa città. Chiunque prova a mettersi da solo al comando finisce in una pattumiera. Roma ha più di venti circoli, non esiste una realtà simile in nessuna città del mondo.

Ogni circolo è una sorta di gruppo che si connette, ha rapporti, affari. Ognuno può contare sull'altro. Il potere è a Roma, sul potere mi dilungo un po', perché capire il potere rimane un qualcosa di indecifrabile per tutti quelli che arrivano da fuori. Il vero potere non è quello visibile sui giornali o nei talk televisivi, il potere è sotto. Quelli che vedi sono i burattini, poi ci sono i burattinai. Quando i burattini vengono accecati dalla sete del potere, a quel punto zac, si tagliano, scompaiono. Il conflitto con la città è continuo, non riescono a comprendere qual è lo spirito della città".

D'Agostino ha parlato anche della vita notturna di Roma: "Attraverso Ceccherini racconto un provinciale che colpito dal successo arriva a Roma pieno di soldi e si trova stritolato, talmente a pezzi che alla fine gli tocca rivolgersi a un analista, che dopo la seduta gli chiede di poter andare con lui nei locali. Roma è ben rappresentata dall'opera maestosa del Bernini, quella sorta di abbraccio. Accetta tutti, chiunque viene, sa digerire e metabolizzare chiunque".

Luigi Mascheroni per Il Giornale.it martedì 24 ottobre 2023.

In qualche modo il film comincia là dove finiva ‘’la Grande bellezza’’. Sul Tevere. E Paolo Sorrentino è persino uno dei produttori. 

Il Tevere: anticamente si chiamava Albula, in riferimento al colore chiaro delle sue acque. E oggi, scherza ma non tanto Roberto D’Agostino, se vuoi attraversare Roma è ormai l’unica via percorribile senza buche e senza monnezza. Parafrasando Apocalypse Now, “Andavamo nel posto peggiore del mondo, e ancora non lo sapevamo, su per un fiume che serpeggiava attraverso la Storia come un cavo elettrico con il terminale inserito direttamente dentro...”. Già, dove termina il Tevere? 

Incipit. S’intitola “Roma, santa e dannata”, passerà alla Festa del Cinema il 27 ottobre, ed è il film – un po’ doc, un po’ pop, un po’ choc – di Roberto D’Agostino e Marco Giusti, una nuova folle cinematografica impresa fra antichi re, imperatori, Papi, eroi, politici, ladri, santi, registi, puttane, dame e Cavaliere.

Atto d’amore e di passione nei confronti di Roma, viaggio notturno nella più notturna delle città, vagabondaggio lungo gli anni migliori delle loro vite, il film - regia e fotografia di Daniele Ciprì - mette in scena Roberto D’Agostino e Marco Giusti che si raccontano tra loro, e narrano a noi, i furori e le antitesi (che datano soprattutto gli anni Settanta e Ottanta) di un’Urbe eterna che è insieme una Sede Santa e una Capitale dannata.

Roma. “Rumon”. “Ruma”, che in etrusco significa “mammella”, che tutti suggono. “Romolo e Remolo” come disse una volta Berlusconi. “Città forte” come si dice in greco. Roma come sublimazione e contrario di Amor.

Bene, e di cosa parla “Roma, santa e dannata”? Parla di Roberto D’Agostino e di Marco Giusti, i quali a loro volta parlano di Roma: della sua Storia di ieri e della cronaca di oggi. Salpano su un battello che solca il Tevere e finiscono, come sempre accade a Roma, attovagliati su una qualche terrazza, sempre con qualche loro amico, a bere e chiacchierare.

C’è Carlo Verdone che si lancia in una strabiliante rievocazione del “Festival dei poeti” che si svolse nell’estate del 1979 sulla spiaggia libera di Castelporziano: una follia, un rito, uno psicodramma, l’epica stracciona della cultura underground romana, fra versi, contestazioni, minestroni e l’assessore Renato Nicolini.

C’è Vladimir Luxuria che rievoca le mirabolanti notti al “Muccassassina” e al “Degrado”, il meglio dei peggiori pub di una Roma grassa e puttana: Helmut Berger bello e ubriaco, musica frocia, la Carrà e gli Abba, i preti, le orge, la trasgressione, le dark room e poi si esce a riveder la luce. Su un sarcofago trovato al Palatino è iscritta la frase “Ho imparato che la via diritta è il labirinto”. Fuori dalle notti romane invece: “La fregna regna”.

Ancora. C’è Ceccherini che confessa i peccati cui ti costringe Roma, golosa di denaro, alcol, sesso e solitudini disperate. E c’è Carmelo Di Ianni, ex poliziotto, poi buttafuori, assurto ad arbiter elegantiarum delle notti romani. E poi ci sono, evocati o sfumati in filmati d’archivio, Cicciolina “Mon amour”, la prima pornostar a entrare in Parlamento e che prima di Geta Thunberg lanciò il Partito verde del Sole; 

c’è Bettino Craxi che si ripara alla pioggia di monetine fuori dall’Hotel Raphael, perché a Roma si compra e si vende di tutto e di tutti; c’è il socialismo by night di De Michelis; c’è Gianni Letta che insegnò a romanizzarsi al milanese Silvio Berlusconi (il quale una volta chiese a D’Agostino se fosse tatuato anche “sul pisello”);

c’è Papa Giovanni Paolo II che al secondo giorno del suo pontificato ha voglia di una serata normale, esce dal Vaticano e va a farsi una pizza a Trastevere, e al suo ritorno non viene riconosciuto dalle guardie che non lo fanno rientrare. C’è il Sacro, il Profano, il Cafonal e Capital. 

Cos’è davvero la Capitale? Citazione: “Amare Roma è facile ma capirla non solo è impossibile: è inutile”. E poi, sotto sotto – tutto a Roma è sotto: catacombe, cloache, metropolitana, tunnel, cunicoli, sottopotere, sotterranei, sottotraccia, sottobosco – ci sono anche l’eterno Ennio Flaiano (“Roma è una città eterna non per le sue glorie, ma per la capacità di subire le barbarie dei suoi invasori, di cancellarle col tempo, di farne rovine”),

l’eterno Trilussa (“Cosa hai fatto oggi?” gli chiese un giorno il figlio, “Ho toccato i muri di Roma: così ho fatto il pieno di Storia”, gli rispose), l’eterno mistero di un enorme teatro in cui la cosa più viva sono i funerali, l’eterno cinismo di una città che tutto inghiotte e tutto livella, e gli eterni monumenti di Roma. “Ma a cosa serve il Colosseo?”. “A fare battere il cuore”. 

Girato col cuore, scritto d’istinto, interpretato da due vecchi amici che ti portano a zonzo tra lupe, Pantheon e vestali, “Roma, santa e dannata” è un film insieme storico, peplum, d’avventura, grottesco, comico e tragico. E un grandissimo atto d’amore. Che ti spiega perché “Dio si è inventato una città santa con il diavolo accanto” e ti insegna come sopravvivere, filosoficamente, a Roma. Primum vivere, deinde dagospiare.

Roberto D'Agostino: «Renato Zero? Dopo un incidente lo portarono al reparto femminile. Moana? Bellissima, ma senza sensualità». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera sabato 14 ottobre 2023. 

Il padre di Dagospia Roberto D’Agostino e il suo viaggio notturno nella Capitale, nel docu-film «Roma santa e dannata»: «Berlusconi? L’unico pendolare milanese che si è romanizzato, al contrario di Agnelli. Emanuela Orlandi? Il Vaticano non c’entra»

La scena si apre sul Cupolone di notte. «Roma, da sempre, ha una sola certezza, unica e irremovibile, un potere granitico, eterno come la città che lo contiene: il Vaticano — sostiene Roberto D’Agostino —. Non a caso La dolce vita di Fellini comincia con la statua del Cristo in volo sull’elicottero verso piazza San Pietro. Dalla politica arrivano a Dagospia soffiate di ogni tipo, e nessuno ha mai scoperto la fonte. Ma quando un alto prelato cominciò a tenere sul mio sito una rubrica sui segreti vaticani, i suoi lo beccarono dopo una settimana». E il caso di Emanuela Orlandi? «No, lì il Vaticano non c’entra nulla. È un delitto che semmai è stato usato per colpire il Vaticano».

Burini e marziani

«Roma è una città come la sedia elettrica è una sedia» è la sintesi del docu-film che D’Agostino e il critico cinematografico Marco Giusti porteranno alla Festa del Cinema di Roma. «Doveva intitolarsi “Roma santa e puttana”, ma non si può, perché p oi Google censura a colpi di asterisco quella che considera una parolaccia — racconta D’Agostino —. Allora sarà “Roma santa e dannata”. Ma a me sarebbe piaciuto anche “Quando a Roma eravamo già froci”. Per dire che qui è già successo di tutto e di più, compresa la conquista della libertà sessuale quando altrove si viveva ancora sugli alberi. Tempo fa, è stata ritrovata nel sottosuolo del Palatino un’iscrizione greca che chiarisce l’inutilità di scoprire l’enigma della città di Totti e Andreotti: “Ho imparato che la via diritta è il labirinto”. E Fellini aggiungeva: “L’Urbe è un immenso cimitero brulicante di vita”. Per gli altri, i cosiddetti “burini”, è duro capire che gli abitanti dell’Urbe non sono i romani ma Raffaello, Caravaggio, Michelangelo, Bernini, Borromini, un Papa di qua, un Papa di là. Città Eterna che seppellisce tutti con una pernacchia, come aveva intuito Flaiano, con la metafora del marziano che atterra a Villa Borghese e dopo una settimana è già dimenticato».

Tra Virgilioe Bombolo

Il filo conduttore del film è un viaggio notturno sul Tevere. A bordo del barcone, D’Agostino e Giusti, «come Romolo e Remo, Dante e Virgilio, o come Tomas Milian e Bombolo». In mezzo i racconti dei protagonisti delle notti romane. Vladimir Luxuria svela i retroscena di “Muccassassina": «Quando entrai in Parlamento più di un onorevole mi avvicinò per sussurrarmi: ti prego, non dire che venivo nel vostro locale. Io lo tranquillizzavo: ma chi ti ha visto, stavi sempre nella dark room», la stanza scura dei peccati inconfessabili. Carlo Verdone rievoca un’avventura giovanile sulla Bentley decappottabile del suo amico — e futuro cognato — Christian De Sica: «Andammo a prendere una stupenda ragazza di 19 anni, vestita come un calciatore della Roma, con gli scarpini, i pantaloncini bianchi, la maglia giallorossa: era Monica Guerritore. La portammo al Number One. Ma lì lei trovò Alain Delon, e andò via con lui, senza dirci neppure ciao. E noi restammo lì, con Gigi Rizzi, Gianfranco Piacentini, e un ragazzo nudo che ballava ebbro su un tavolino, e ci gettava addosso noccioline e cubetti di ghiaccio: era Helmut Berger. Se è per questo — conclude Verdone — una volta, appena entrato al Kinky, mi arrivò in fronte un bicchiere, lanciato dal principe Alessandro Borghese che stava litigando con qualcuno. Dissi solo: riportateme a casa».

Number One, Kinky, Scarabocchio, Jackie O’, Notorious, Easy Going sono i locali degli anni 70 e 80, oltre ovviamente al Piper, dove il giovane D’Agostino incontra Loredana Bertè, Patty Pravo e Renato Zero, di cui il film rievoca una disavventura notturna: «Il post-discoteca consisteva nel salire nella 500 di un amico, dotata di mangiadischi, e girare senza meta per il centro di Roma. Scombussolata dal ritmo di “Satisfaction”, l’auto non rispettò l’incrocio di via Sicilia, alle spalle di via Veneto. Il crash fu pauroso, ancor di più il posto dove fu sbattuta la 500: in mezzo alle bare delle pompe funebri Scifoni, negozio dotato di ampie vetrate che andarono in frantumi. Con la testa rotta, il volto bucherellato di vetri, io e Renato fummo portati al Policlinico Umberto I. Io al reparto maschile, lui a quello femminile. Cominciai ad urlare che Renato aveva il pisello ma gli infermieri non potevano credere che quella creatura bellissima, magrissima, capelli lunghissimi e addobbata di una tutina di lurex fosse un ragazzo».

Un Papa in birreria

L’avvocato Giorgio Assumma rivela la fuga dalla Santa Sede del neo pontefice Karol Wojtyla, nostalgico di un boccale di birra, in compagnia del suo segretario polacco, ambedue in borghese: «La zingarata papale si complicò quando al ritorno le guardie svizzere non riconobbero il nuovo Papa — racconta Dago —. Mortificati, i due si recarono al Commissariato di Borgo, dove il segretario poteva vantare qualche amicizia. Al racconto, l’agente rimase perplesso e sfoderò l’eterno spirito romano: “Se sei tu il Papa, non hai le chiavi di casa? Ma che Papa sei?!?».

L’attrice Vera Gemma, figlia di Giuliano, racconta la scoperta di un sex club chiamato programmaticamente «Degrado». Massimo Ceccherini confessa le sue notti romane segnate dalla dissipazione, con una visita notturna nel salotto di Vittorio Sgarbi, tra quadri di commovente bellezza e invitate brasiliane. Ma il racconto più esilarante è quello del primo — e ultimo — Festival internazionale dei poeti di Castelporziano, cui Carlo Verdone accompagna un amico, aspirante scrittore.

È un happening straordinario che chiude l’Estate Romana di Renato Nicolini, l’Effimero che cambiò la capitale, in cui le parole di Verdone si mescolano ai filmati dell’epoca, un tourbillon di alto e basso, di Allen Ginsberg e poetastri, che termina con un assalto finale al palco per una distribuzione di pasta e fagioli: il palco crolla, metafora della fine di un’era, gli anni ‘70 della politica e dell’impegno, e dell’inizio degli anni ‘80. Un cambio di stagione che D’Agostino all’epoca colse in un libro intitolato non a caso «Come vivere — e bene — senza i comunisti». Meno noto è che lo stesso Dago sia stato il ghost writer di Moana Pozzi e del suo libro «La filosofia di Moana», quello in cui vengono assegnati i voti ai suoi tanti amanti (Grillo, De Crescenzo, Benigni, Arbore) compreso un generoso 7 e mezzo all’allora premier Bettino Craxi: «Moana era bellissima, ma del tutto priva di sensualità. Una statua».

Poi nella Roma del cinema e nella tv irrompe Silvio Berlusconi. Nel film il racconto è affidato a Carlo Vanzina: «Era il 1989, il Cavaliere aveva prodotto una serie, “Amori”, che coinvolgeva i più grandi sceneggiatori e registi. Per festeggiare li invitò a Palazzo Sacchetti, in via Giulia. Si alza Suso Cecchi D’Amico e dice: “Sia ben chiaro però che noi siamo contrari alle interruzioni pubblicitarie dei film”. Tutti quanti, Lina Wertmuller, Ugo Pirro, Nanni Loy, Mario Monicelli, Dino Risi, Luigi Magni annuiscono. Nel salone scende il gelo. Come è finita? Dopo due ore e molto champagne, Berlusconi gorgheggiava canzoni francesi, Confalonieri lo accompagnava al pianoforte, e dietro di loro Ugo Pirro e Lina Wertmuller e Nanni Loy cantavano agitando le manine. Come al piano-bar del Jackie ‘O...».

Dice D’Agostino che «a differenza dei vari potenti atterrati a Roma, Silvio Berlusconi è l’unico pendolare milanese che si è davvero romanizzato. L’unico a capire la logica del potere capitolino incarnato dal primo comandamento dell’andreottismo: i nemici non si combattono; si seducono, o si comprano. Gianni Agnelli si trovò meno a suo agio: quando accettò l’invito galante di Marina Ripa di Meana nella sua villa sull’Appia Antica, restò basito trovandola a letto con due artisti, Eliseo Mattiacci e Gino De Dominicis, e rinunciò: “Beh, siamo già in troppi”».

Funeral party

Il film mostra immagini di funerali illustri: Giulio Andreotti, Mario D’Urso, Angelo Rizzoli. «A Roma non c’è niente di più vivo di un funerale — racconta D’Agostino —. Un’occasione imperdibile per trasformare un evento tragico in un party. Al pari di un matrimonio, “er mortorio” diventa così un evento che rinsalda una élite di happy few, quei pochi fortunati che davanti a una bara si riconoscono parte di una rappresentazione che tiene tutti insieme: amici, nemici e tipi intermedi che vanno alle esequie anche senza aver mai conosciuto il caro estinto. Alla fine, commento generale: “Che funerale! Meglio di una festa...”».

«Sono arrivato alla conclusione che Dio si è inventato una città con il diavolo accanto. Una città ambivalente e capace di tutto, anche di trasformare Berlusconi in un premier, De Michelis in un ballerino, Renzi in uno statista, Valeria Marini in un’attrice — sorride D’Agostino —. Una città santa e dannata dove la più grande collezione di falli è custodita in Vaticano». Cioè? «A due passi dalla Cappella Sistina c’è una stanza che raccoglie in appositi schedari tutti quelli amputati a scopo di decenza alle statue di Roma antica, in un’ansia moralizzatrice che, riconosciamolo, non ha dato grandi risultati. Ma la vera perversione è il potere. Qui non esistono la destra e la sinistra; esiste solo il centrotavola».

Alberto Anile per “la Repubblica” giovedì 19 ottobre 2023

«Stavo vedendo la magnifica serie su Fran Lebowitz. Martin Scorsese le chiedeva perché tutti perdevano la testa per vivere in una città infernale come New York: “Perché solo qui i gay possono scopare liberamente”. 

Cosa che è successa anche a Roma. Tanti, da Tennessee Williams a Gore Vidal, hanno vissuto qui pur avendo Hollywood o Manhattan. Anche secoli prima: Goethe, Stendhal, Freud, Gogol…Perché è davvero una città puttana, amorale, incivile, che ha visto tutto e se ne frega di tutti.
Un luogo da degradare a luogo comune: è un binario morto, un bel paio di manette, una polpetta avvelenata, un bordello del pensiero, un pascolo di mostri, un imbuto di demenza collettiva. Chateaubriand scrisse: “È bella Roma per dimenticare tutto, disprezzare tutto, e morire”». 

Roberto D’Agostino racconta com’è venuta l’idea di un film sulla sua città. Girato da Daniele Ciprì con la complicità di Marco Giusti, Roma santa e dannata debutta il 27 alla Festa di Roma e poi in sala il 5 novembre.
«In quel titolo c’è il recupero dello spirito dissacrante dell’immenso Gioacchino Belli», spiega. «Nei suoi sonetti il poeta, che come funzionario del Vaticano la sapeva lunga, commisurava senza pietà la distanza siderale tra i princìpi della Città di Dio e la pratica della Città dell’Uomo: “Caput mundi e chiavica der monno”».
Lei e Giusti apparite come Virgilio e Dante, in giro di notte tra i ruderi dell’Urbe.
«Roma è una “selva oscura” che, vista dal buco della serratura, si è indecisi se chiamare i carabinieri o gli infermieri. Manca una sola cosa, mettere all’ingresso del Grande Raccordo Anulare l’iscrizione che Dante mette sulle porte dell’Inferno: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”. 

Malgrado monnezza e traffico, ciarle e ciarlatani, alla fine anche i non-romani ricadono nel peccato: Roma è un vizio. Però la nostra idea non era di fare teorie sull’enigma capitolino ma solo di raccontare. 

E ho chiamato un po’ di amici amanti della conversazione: Verdone, Ceccherini, Vladimir Luxuria, Enrico Vanzina, Carmelo Di Ianni, Vera Gemma, Giorgio Assumma. Ognuno racconta un pezzo di Roma...».
Cosa non ha potuto inserire?

«Dado Ruspoli, che non c’è più. Mi raccontò la vera dolce vita fatta non dalle star del cinema ma dall’aristocrazia nera, papalina. E qui rientra il Vaticano. 

Roma era e resta la Città di Dio ancora più che la Capitale d’Italia. Il colonnato del Bernini a piazza San Pietro sono due braccia aperte che accolgono le pecorelle smarrite.

L’unico divo di Roma rimane il Papa, tutti gli altri finiscono a pernacchie. Karol Wojtyla fu uno shock, teologicamente conservatore ma mediaticamente modernissimo: Ursus di. Quo vadis? più la televisione. 

Una sera uscì in clergyman con il segretario polacco: famose ’na pizza e ’na birra a Trastevere. Tornando le guardie svizzere non lo riconobbero. Brillo, cercò aiuto al commissariato di Borgo Pio, dove un piantone gli fa: “Ma come, sei il Papa e nun c’hai manco le chiavi de casa? Ahò, ma che Papa sei!”». 

Puro Alberto Sordi.

«Sordi ha incarnato in maniera naturale lo stesso disincanto di Plauto, Petronio, Giovenale e Marziale. Il suo racconto della cena acasa Gianni Agnelli è irresistibile. 

Ma la frase più formidabile la disse la Magnani al Jackie O’: “È finito tutto, sono andata al cesso e ci ho trovato la regina d’Egitto!”». 

Nel film gli accenni autobiografici sono pochi.

«La protagonista è Roma, io e Giusti siamo solo conduttori di storie. E che storie. I celebrati salotti degli anni Ottanta erano luoghi di tortura. 

Dario Bellezza cominciava a parlare di un libro inesistente come di un capolavoro, citando una sublime pagina sulla sodomizzazione del protagonista, poi Moravia, con quella bocca che sembrava la fessura di un bancomat, diceva al nuovo arrivato: “E lei che ne pensa?”, e il malcapitato si sentiva costretto a balbettare che si trattava di un libro pazzesco, divino, post-proustiano.... E giù, a ridere. Era uno sberleffo continuo». 

Le altre esperienze al cinema?

«All’inizio degli anni Ottanta ho lavorato molto col produttore Augusto Caminito, sulle sceneggiature di tanti film di cassetta per Fininvest. Ho diretto Mutande pazze ,ma per caso. 

Mi chiesero di scrivere un soggetto per far lavorare tutte le amanti del giro di Berlusconi e Cecchi Gori, dopodiché non riuscivano a trovare un regista che si mettesse a dirigere il “canile”. 

Mi offrirono una cifra esagerata ma accettai solo quando mi misero accanto un professionista, che fu addirittura Alfio Contini, il direttore della fotografia di Antonioni. Tra l’altro, con quel titolo ammiccante, il film andò pure bene». 

E “Dagospia” come arriva?

«All’inizio doveva essere una sorta di diario digitale che raccontava il costume di casa, tra pettegolezzi e maldicenze, con Fruttero & Lucentini numi tutelari: “Tagliare i panni addosso agli altri è forse l’ultima trincea del libero pensiero”. 

Frequentavo i salotti e i ristoranti romani e mi chiedevo perché quelle storie pazzesche non arrivassero sui giornali. Così ho detto: adesso mi diverto io, raccontiamo un po’».

Roma città eterna: un altro luogo comune?

«No, quello è vero. Roma è eterna perché davanti alla Fornarina di Raffaello, al Mosè di Michelangelo o alla cupola del Pantheon, senti che quelli sono molto più vivi di te. 

Quando noi saremo polvere, i quadri del Caravaggio a S. Luigi dei Francesi o la Cappella Sistina saranno sempre contemporanei. Una volta a Stendhal chiesero a che serve il Colosseo, lui rispose: a far battere il cuore. È la migliore spiegazione di cosa sia l’arte».

Azzurra Della Penna per “Chi” il 18 ottobre 2023

Cartoline da Roma? Monica Guerritore vestita da centravanti della Lupa che lascia il Number One con Alain Delon (era arrivata con Christian De Sica), mentre Helmut Berger, nudo, in piedi su un tavolino, balla lanciando noccioline. Giovanni Paolo II resta fuori dal Vaticano perché non ha i documenti da mostrare alla guardia svizzera. E il piantone in questura gli dice: “Ma come? Sei il Papa e non c’hai le chiavi di casa?”. 

Le trans del Muccassassina che si ritrovano, chi con la parrucca storta, chi con il tacco rotto, mano nella mano: “Facevamo come nel quadro di Matisse, ballavamo il sirtaki”, rivela Vladimir Luxuria. Le cartoline le firma Roberto D’Agostino, che scrive e descrive la (sua) capitale nel documentario che presenterà alla Festa del Cinema di Roma. A fargli da sparring partner in queste notti di fuochi e di artifici, Marco Giusti. «Io sono Virgilio e lui è Dante», dice Dago. «O siamo Tomas Milian e Bombolo», arriva l’eco sorniona di Giusti. Dietro la macchina da presa c’è Daniele Ciprì, davanti c’è lei, tutta intera, Roma santa e dannata.

Domanda. Lei dice che Roma sa distinguere la cronaca dalla Storia con la S maiuscola. Visti Gesù e Giulio Cesare…

Risposta. «Questo è il codice romano e da due millenni regge a tutte le scosse. Ogni volta c’è l’annuncio: “Arrivano i barbari”. Poi scopri che questi barbari ci mettono il tempo di una cena al Bolognese, il tempo di una festa in discoteca... Saranno presto corrotti... Tranquilli, che tutto svanisce. Sì, noi lo sappiamo». 

D. Ma se non è in politica, se non è nel successo o nel denaro, dove alberga il potere?

R. «Ah, ma qui arrivano i politici, tutti, e si mettono al volante, chi lo gira a destra, chi a sinistra, ma la macchina non va, perché? Perché il motore sta sotto. Il potere sta sotto: Consulta, magistratura, servizi, Quirinale...».

D. E allora il voto a che serve? 

R. «Cossiga diceva: “Il voto serve. Ma non apparecchia”. Qui c’è la rete, quando vedi la gente al ristorante, ma quelli mica mangiano, sono al lavoro. E poi c’è il disincanto romano: sai che quello che oggi è tragedia, domani sarà farsa. Nel documentario c’è Sordi che racconta la sua cena-digiuno con Agnelli, è eccezionale». 

D. E poi viene “ammazzato” da un autista che gli dice: “Albé, ce semo invecchiati”».

R. «Ma a Roma la pernacchia è sempre pronta, Roma è il posto meno adatto per le celebrità». 

D. Momento cult è il racconto del funerale romano.

R. «Ma quanto è importante il necrologio per capire il peso dell’uomo? Così il funerale diventa incontro, chiacchiera, pranzo, cena, il funerale è l’apoteosi, in tutto il mondo è dramma a Roma è... Sembra cinismo, ma la verità è che morto uno dei nostri, lo celebriamo. E alla fine senti sempre questa frase: “Che bel funerale, mejo de na festa”».

D. Lei insiste sul paganesimo e tutti, comprese Luxuria e Vera Gemma, parlano di una Roma, in qualche modo, salvifica.

R. «Ma il cattolicesimo è rappresentato in maniera solida dall’abbraccio di piazza San Pietro del Bernini, quell’architettura è accogliente, è il perdono, è l’assoluzione. Non fa niente chi sei, sei una pecorella di Dio». 

D. Non tutto è così luminoso e semplice, suvvia.

R. «Infatti per i romani la cosa più bella del giorno è la notte, che è stata quella che ha attirato Tennesse Williams e Gore Vidal. A Roma un giorno arriva la coreografa Pina Bausch e chiede di vedere una Roma vera. Con Matteo Garrone, che per l’occasione mette il montgomery, la portiamo al Degrado».

D. Non so se vogliamo sapere questa storia di... Degrado.

R. «Ma il Degrado non è altro... È un locale che tolta di mezzo l’ipocrisia delle dark room è tutta una dark room. Il sesso nel buio è libero, ti piace, non ti piace? Nessuno ti chiederà mai: “Ti è piaciuto?”». 

D. Del Degrado parla Vera Gemma, di via Veneto Ceccherini, del Matriciano Vanzina, di un lisergico sabba di poeti, Verdone, di Craxi parla Sandra Milo…

R. «Che mi ha fatto girare perché negava l’esistenza dell’harem del Garofano, maddai».

D. Vabbè. Come li ha scelti?

R. «È tutta gente che si è messa in gioco, da loro non volevo un’opinione, volevo un racconto, la nostra formazione, la nostra vita è fatta di racconti: la cultura occidentale e la cultura orientale ruotano intorno a due testi che sono traboccanti di racconti, Le mille e una notte con Sherazade e il Decameron di Boccaccio». 

D. Racconto boccaccesco è quello che riguarda Renato Zero, che, dopo un incidente con la 500 che entra nelle vetrine delle pompe funebri, verrà ricoverato nel reparto femminile dell’ospedale.

R. «Renato indossava una tutina di lurex che io chiamavo luridex, quante botte ha preso... Ma il 1965 era un altro mondo. In quel periodo entra un nuovo soggetto sociale che è il giovane. Per dire, nel 1967 vedo Brian Jones con la pelliccia di lupo e le babbucce rosa e penso che è fantastico, così dico al mio amico Paolo Zaccagnini: “Andiamo al Piper con la pelliccia”. E lui arriva con il visone di sua madre e io prendo il cappotto di vermi, l’astrakan di mamma, che mi faceva pure schifo». 

D. Ma poi l’astrakan l’ha fatto pure Prada.

R. «Io mi ricordo un caldo a ballà con quello, torno alle tre di notte con la circolare rossa e trovo mio padre che fa a mia madre: “C’avemo il figlio frocio”». 

D. Vladimir Luxuria dice che lei è un etero un po’ utero.
R. «Ma tutta la mia cultura è gay, dalla vita in su sono gay, dalla vita in giù sono etero». 

D. Uh, la domanda più importante: ma l’avete detto a Monica Guerritore che con Delon...?

R. «Macchissene... Vede, i romani non sono eterni e lo sanno, perché davanti a Michelangelo capisci subito che la Cappella Sistina è più viva di te. Sa che diceva Chateaubriand? “Roma è bella per dimenticare tutto, Roma è bella per disprezzare tutto, Roma è bella per morire”».

D. E per lei Roma?

R. «So che paragonarla a una città è come paragonare una sedia elettrica a una sedia».

Dagospia venerdì 7 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

Roberto D’Agostino 75 anni di genialità giornalistica e artistica. Non amo i panegirici: non amo i Premi Strega postumi ma quelli, pochi negli ultimi anni, ai posteri. Il “New York Times” l’ha definito il Re del Gossip” ma il “New York Times” è lo stesso che sino agli ultimi giorni delle Presidenziali Americane dava per vincente la Clinton su Trump. Tanto per dire:  raro che i giornalisti si muovano per andare nel Midwest. 

Dagospia è oltre, è il quotidiano on Line più culturale in Italia. Innanzi tutto perché Dagospia ha compreso come le immagini dei protagonisti che racconta sono essenziali:  un volto o un atteggiamento possono raccontare molto. Gli altri, mettono le foto coi credits, come fossero rimasti alla Settimana INCOM.

Quando poi si leggono, ad esempio articoli presi dai giornali, a Dagospia sono geniali nel fare editing. Articoli che anche sulla carta sono lunghissimi e quindi noiosi perché non fanno più approfondimento ma infotainment. 

La redazione di Dagospia lavora sui testi riportati rendendoli leggibili. È la miglior scuola di scrittura in Italia: altro che la ‘Holden” del tavor cartaceo per casalinghe stressate Alessandro Baricco. 

Quest’anno va bene, ma il prossimo votiamo Dagospia per il Premio Strega come miglior romanzo. Perché un altro segreto è che  trova il suo senso - come Blob- nel susseguirsi di notizie che diventano un feuilleton. 

 Non è un caso che tutti i giornalisti di cultura lèggano ogni giorno Dagospia.

Perché se Dagospia riprende un articolo quel pezzo di cultura lo leggono tutti: ho incontrato amanti del gossip congratularsi per articoli su Proust. Quindi, 2024 Premio Strega a Roberto D’Agostino. 

Buon compleanno Roberto e buon compleanno Dagospia: se fossimo negli Stati Uniti sareste stati già premiato con il Pulitzer. 

E per cortesia non mettetemi sempre in mutande… 

Gian Paolo Serino

Luca Beatrice per mowmag.com venerdì 7 luglio 2023.

Roberto D’Agostino compie 75 anni, poche settimane dopo il ventitreesimo compleanno della sua creatura Dagospia, il magazine on line che ha cambiato la storia del giornalismo italiano e a cui tutti dobbiamo qualcosa, a cominciare dallo stile di scrittura veloce, trasversale, pungente, caustico. 

Oggi però festeggiamo l’autore, non la sua creatura, celebriamo il dottor Frankenstein dell’informazione in rete e non il mostro (anzi i mostri) inconsapevolmente prodotto.

All’inizio è un nome e non ancora un volto che comincia a girare per radio e sulle riviste in qualità di critico musicale. È questo un dato non trascurabile, perché tanti della generazione precedente la mia hanno suonato da dj e hanno scritto di pop e rock, portandosi dietro la passione e la competenza per un linguaggio che, negli anni 70, ti permetteva di capire tante sfumature del mondo.

Leggevo i suoi articoli su “Popster”, una rivista che sarà anche stata mainstream ma intanto ci scriveva Pier Vittorio Tondelli, e seguivo i suoi primi servizi tv su Mister Fantasy dell’indispensabile Carlo Massarini. 

Il grande pubblico della tv ha conosciuto Dago tra gli ospiti fissi dell’allegra compagnia di Renzo Arbore. Un ragazzo altissimo e magro, vestito di abiti colorati - gli anni 80 ci liberarono dalla tirannia del grigio e del blu così come spazzarono via il minimalismo dal design dando spazio al kitsch più estremo e alla creatività senza limiti- che si autodefiniva tuttologo, ovvero uno che ha (o si costruisce) un’opinione su qualsiasi argomento, la espone con presunta competenza e altrettanto bluff e gli altri ci credono.

Anche questa tendenza va interpretata sulla scia dell’estetica nel decennio più meraviglioso del secondo novecento: la specializzazione non è più un valore, molto meglio improvvisare, cambiare l’ordine delle cose e allora un critico d’arte parli pure di politica e un politico scriva un libro sulle discoteche, uno psichiatra può intrattenersi sulla vita di coppia e un filosofo indossare i panni meno impegnativi del divulgatore.

Gli anni 80 mettono alla berlina gli intellettualismi che ci avevano ammorbati nel post Sessantotto. Nel salotto di Quelli della notte, Dago cita insistentemente L’insostenibile leggerezza dell’essere, il romanzo di Milan Kundera numero uno del catalogo Adelphi nel 1985. 

Roberto sceglie uno scrittore poco popolare e lo eleva a simbolo del postmoderno, in anticipo rispetto alla fine delle ideologie, così come postmoderne saranno le operazioni editoriali - più o meno incisive - che seguono agli anni del successo in tv: Come vivere bene e senza i comunisti (1986, definitiva spaccatura a sinistra, dopo la morte di Enrico Berlinguer, il nuovo è rappresentato dal PSI di Bettino Craxi e sappiamo quanto l’abbiamo pagata la mancata terza via), Il meglio di Novella 2000 (ovvero l’archetipo del rotocalco scandalistico), Sbucciando piselli scritto nel 1990 con Federico Zeri, in antitesi all’antipatia per Vittorio Sgarbi dopo gli storici ceffoni in tv.

Quando, trentenne, negli anni 90 vado a vivere a Roma spesso incontro Roberto D’Agostino alle inaugurazioni delle mostre, in giro per il centro, seduto al Caffè della Pace. Dagospia non è ancora nato e lui sta compiendo un’ulteriore mutazione genetica che invade di tatuaggi il suo corpo sempre più magro, decorato di anelli, monili, orecchini, il pizzetto si allunga, i capelli seppur radi raccolti in un codino. 

Il postmoderno ha lasciato spazio al dark, al new gothic, veste sempre di nero accompagnato talora da giacchette animalier, ci vuole un fisico bestiale e tanto, troppo, coraggio. Come un consumato performer, Roberto D’Agostino porta in giro sé stesso in qualità di opera d’arte dinamica e mutevole.

Non ricordo quando di preciso Roberto e io cominciammo a frequentarci con una certa irregolarità, anche se non vivo più a Roma. Entrare a casa sua, una delle più belle della Capitale, in cui dai terrazzi c’è una vista mozzafiato che non esiste in natura, significa entrare nell’universo di Dago, il collezionista di opere d’arte e il raccoglitore di paccottiglia kitsch mescolate le une alle altre senza gerarchia né ordine di importanza, in fondo un Damien Hirst vale una statua di Mao da mercatino cinese, una foto di La Chapelle un manifesto pubblicitario e un Helmut Newton un sex toy di modesto design: siamo noi a stabilirne l’importanza attraverso il nostro grado di affettività.

Dago dice di rompersi le scatole ad andare alle feste - sostiene lo invitino poco per colpa di Dagospia, ma non ci credo - però quando le organizzano loro, lui e la moglie Anna, la contraddizione viene elevata a principio di natura poetica. 

Quando Brian Eno esordì a Roma da artista visivo, Dago diede in suo onore un gran party con gente da tutta Italia e il guru del minimalismo, felice e meravigliato, sembrava persino fuori posto tra tanto eccesso visivo e sonoro, culminato con le canzoni napoletane di Maria Nazionale, che è un po’ come proporre Gigi D’Alessio a Bob Dylan. 

Dago mi ha invitato spesso nei suoi programmi, soprattutto la recente serie Dago in the Sky su Sky Arte. Si è sempre preoccupato di anticipare il presente, intuire i cambiamenti, sperimentare i linguaggi prima che diventino merce comune. Personalmente evito di incontrare e conoscere i miei miti con la certezza che ne rimarrei deluso.

Ho scritto la biografia di Renato Zero senza scambiare mai due parole con lui, non mi interessa andare a cena con i calciatori della Juventus anche se (a stadio aperto) impazzisco per loro. 

Roberto, invece, l’ho inseguito pensando, e mi auguro che ciò non suoni presuntuoso da parte mia, di far parte bene o male della stessa tribù, ex ragazzi degli anni 80 mai usciti di là eppure protagonisti dell’ultima rivoluzione culturale del Paese. Senza nostalgia, si prende ciò che serve, lo si rielabora e si affronta un’altra sfida. Per oggi Dagospia la lasciamo in disparte e festeggiamo Roberto, cui auguro un mondo di bene.

Paolo Zaccagnini per mowmag.com venerdì 7 luglio 2023.

Roberto, il mio fraterno amico Roberto D'Agostino, è "il re del gossip"? Non diciamo stupidaggini. Offensivo e riduttivo. È un giornalista di razza. Di quelli di una volta. 

Colto, divertente, fino alle lacrime, ironico, intelligente - andò a finire sulle pagine della defunta La Domenica del Corriere nella rubrica "I dieci più bravi" perchè conseguì tutti 10 - popolare, assai preparato - pochi sanno di musica come lui, e sanno far ballare come lui - gli anni del Titan Club di via della Meloria lo insegna, quando scendeva nel locale accompagnato dalla prima moglie Tina e il sottoscritto, con spolverino grigio leggero, occhiali neri e una valigia di dischi da dove lui avrebbe scelto quelli della serata, i presenti capivano subito che dopo poco come si dice ne Il gladiatore, "si scatenava l'inferno", ballando, pogando e scatenandosi - visto che, come me, e' nato col rythm'n'blues, soul, funky e rock'nd'roll.

Episodi? Una vita. Tante vite. La volta che, con me, trascinò la bella e paciosa sorella Carla - stessi occhi di ghiaccio - a Fiumicino a prendere il cantante Geno Washington, gli innumerevoli concerti vissuti insieme - a Parma, a vedere Human League e Iggy Pop dal tanto ballare quasi gli venne una sincope - e le scarrozzate in macchina per Roma sulla sua 500 blu, la stessa con la quale guidavamo migliaia di tifosi scalmanati prima della finale mondiale Italia - Brasile - sul cofano grande poster di Gigi Riva - le trasmissioni radiofoniche, l'amico - Renato Fiacchini, in arte Zero - che voleva cantare a tutti i costi - se c'è riuscito ditelo voi - e la tv, i libri, quello gonfiabile per Mondadori...

Non è facile riassumere 60 anni di amicizia profonda - io lo considero il fratello che non ho avuto - ma, si, vi lascio con un'immagine da Toto' e Peppino, io e lui al concerto dello Spencer Davis Group al Piper Club. 

Lui di San Lorenzo, io del Trionfale decidiamo di sbaragliare i pariolini. Lui si mette una pesante pelliccia della madre, santa madre, e io lo seguo con un pelliccia bianca e nera che era stata di Elizabeth Taylor mentre girava "Cleopatra" e che poi aveva fregalato a mia cugina Jane che poi l'aveva donata a mia madre, santa madre. 

Poi, spinto da Roberto, avevo indossato stivali, acquistati in Inghilterra poche settimane prima. “Così famo cena. Nun te preocupa', 'ntanto te reggo io e il sottoscritto zompettava reggendosi a lui”. Bei tempi. Indimenticabili.

Un giorno in 50 arriviamo a piazzale Flaminio quando un signore ci fa cenno di fermarci. La sua Simca ha una gomma a terra. Roberto non se lo fa dire due volte. Il signore era Enzo Siciliano, critico e scrittore finissimo nonché, in seguito, presidente Rai, e in macchina si sperticarono di ringraziamenti Alberto Moravia e Pierpaolo Pasolini scrittori e poeta, e Laura Betti. 

Che dire? Auguri Robè per i suoi 75, attorniato dalla dolce Anna e dal figlio, l'ingegner Rocco - non come Siffredi - e dall'Italia tutta di Dagospia, il sito che ha seppellito il “giornalismo italiano”. Auguri da “tuo fratello Paolo”. Si, er barbone.

Maria Berlinguer per “Specchio – La Stampa” il 23 aprile 2023.

«Non volevo fare un sito di gossip. Ho sempre pensato che la letteratura è un settore molto fortunato del gossip. La diceria, l'arte della diceria non è un genere letterario ma la letteratura è un settore di gossip. Da mille portinaie nasce un Proust e non viceversa. Omero cosa racconta? E Svetonio, Tacito, chi erano questi? Erano dei pettegoli che raccontavano quello che gli umanisti non raccoglievano, cose da serve. Io ho capito che la finestra sul "porcile" è il vero core business della letteratura, della storia, e della vita». 

Roberto D'Agostino da più di vent'anni è il re del gossip con il suo sito Dagospia, il più citato anche dai giornaloni quando si tratta di riprendere notizie piccanti. Ma filosofeggia.

«I pettegolezzi di Tacito sull'antica Roma poi sono diventati miti, quando si sono invecchiati. Ma per me la svolta arriva quando esce Fratelli d'Italia, non in modalità Crosetto-Meloni ma in modalità Arbasino, rimango senza parole».

In che senso?

«Se vuoi conoscere l'Italia del dopoguerra devi leggere Arbasino. Un capolavoro assoluto. Arbasino cambiando i nomi racconta un'Italia ripiena di soldi del piano Marshall e di come stava cambiando il costume e il linguaggio. Arbasino stava nel giro dei salotti italiani. Negli anni ottanta capitavano delle cose fantastiche, ma non venivano mai messe in risalto.

Solo adesso troviamo i racconti di Craxi, De Michelis, di Gronchi e delle avventure del capo dello Stato. Se all'epoca ci fosse stato Dagospia e internet, qualcosa che non fosse alle dipendenze economiche di un editore... Allora c'era solo il ciclostile, oggi il ciclostile è diventato elettronico: adesso se tu scopi un altro io lo scrivo. Internet ha tantissimi lati negativi, le fake news, i leoni da tastiera, ma ha permesso a tutti di scrivere la qualunque e in quella qualunque c'è sempre del gossip».  

Come si fa a distinguere una fake da una notizia?

«È una bugia? Sì, ma è una bugia che dice la verità. Alla fine, in quello che gira c'è sempre qualcosa di vero. Il problema è distinguere la polpetta avvelenata. Quando c'erano i giornali cosiddetti autorevoli non c'era il retroscena, il retroscena non esisteva. Oggi il retroscena lo fa l'Ansa. È cambiato il mondo. 

Non ci sarebbero state le rivoluzioni senza i pettegolezzi e le indiscrezioni. Guerre e battaglie sono state perdute perché qualcuno aveva litigato con la moglie. L'Iliade e l'Odissea cosa sono? Il racconto dei Proci, di Penelope. Poi in un paese latino che ha al centro la piazza del paese dove tutti si guardano e si parlano addosso... Beh oggi è questo il libero pensiero». 

Quante amicizie hai rotto con i tuoi scoop?

«Io se ho tre amici vado al Divino Amore, il resto sono conoscenti. Rompo un rapporto con un conoscente? Sti cazzi. Quanta gente conosciamo? Migliaia, io non conosco neanche mia moglie». 

Quante querele hai avuto in questi anni?

«Possono fare tutte quelle che vogliono. Ho aperto Dagospia nel 2000 e dopo un mese - e non c'era ancora Google - avevo beccato già cinque querele. C'hanno provato a farmi chiudere, ma sono 23 anni che ci sono».

Come comincia un pettegolezzo e quando finisce? Per esempio la rottura Ilary-Totti...

«Il mondo pallonaro non sapeva che la storia di Totti era giunta alla fine. Scrivere a Roma male di Totti significa perdere ventimila copie. Totti è l'ottavo re di Roma. Lo so io quello che mi è successo quando ne ho scritto. Non potevi scrivere che Totti è cornuto, poi quando dà l'intervista a Cazzullo in cui ammette di avere le corna tutto cambia. Il problema è che di Totti e Ilary non si sapeva, poi loro sono andati a un parco giochi a Castelgandolfo e durante la gita fanno una litigata bestiale. Mi viene raccontato e io a quel punto capisco che sono arrivati alla frutta. In un mondo con un giornalismo vero e capace Dagospia non esisterebbe. La storia di Ilary e Totti l'avrebbero scritta i grandi quotidiani e invece hanno aspettato e poi ne hanno scritto citando me. Infatti io per Ilary sono un pezzo di merda».

C'è qualche scoop di cui ti sei pentito?

«Sì ma non posso dirti i nomi. Ho raccontato di una signora della televisione e di una sua relazione in Costa Smeralda con uno, ma non avevo lo stato di famiglia di questa signora e non sapevo che avesse un marito e una figlia. Il marito dopo che ha letto Dagospia mi porta in tribunale per scippare la patria potestà della bambina. Lì mi sono pentito». 

Come vedi la nuova classe politica?

«I nuovi barbari che sono arrivati non hanno la cultura del potere. Un po' come erano i socialisti e i leghisti, che consideravano Roma una latrina. Poi sono arrivati nella capitale e hanno scoperto la fica. Roma maciulla tutti e a Roma hanno la cultura del potere.

La gente non accetta che hai il potere e poi anche il piacere. I democristiani sapevano perfettamente che potevano fare le operazione politiche più avventate, ma la famiglia non si tocca. Non andavano come i socialisti la sera al Tartarughino o al Gilda come i leghisti. Le nuove classi politiche sono state tutte fregate dal sesso e dalla fica. Tutti abbiamo un lato scoperto basta cercarlo».

Alberto Dandolo per Dagospia il 21 gennaio 2023.

Roberto Poletti, giornalista e conduttore televisivo, nonché biografo di Matteo Salvini, è convolato a giuste nozze. O meglio a "giusta unione civile".

 L'ex conduttore di Uno Mattina si è unito infatti civilmente lo scorso 8 ottobre al suo storico compagno e convivente Francesco Naccari.

 Lui è un giovane dirigente delle FMN Group a Milano di origini calabresi e, a differenza del neo marito, è pubblicamente un sostenitore delle battaglie a favore dei riconoscimenti dei diritti della comunità Lgbtq e qualcos'altro.

 Poletti invece in passato si è espresso quantomeno criticamente nei confronti degli stessi temi, a partire dal Ddl Zan contro l’omotransfobia. Ma in amore, si sa, gli opposti si attraggono.  Dopo il rito civile gli sposini hanno invitato a pranzo un ristrettissimo gruppo di amici e familiari. Si sono attovagliati al ristorante Olio di Origgio (Varese) con l'obbligo di non scattare e postare foto (viva la verità!).

Ma la fede al dito di Poletti in tv racconta di una verità firmata in un registro comunale. E vale più di mille foto postate. Perché, in fondo, la verità non è mai una ipotesi.

 Ma chi è, chi non è e chi si crede di essere Roberto Poletti?

 È intanto un ex parlamentare. È stato eletto come deputato indipendente nel 2006 con i Verdi.  Era così tanto Verde che alla fine ha preferito la Lega, ed è approdato a Radio Padania e Telelombardia.

 Poletti è stato poi nominato direttore di ‘Milano 2015’,  il canale sul digitale terrestre sostenuto dall’associazione ‘Milano Fuori dal Comune’ (onlus vicina alla Moratti nata per la campagna elettorale).

Poi c’è il Poletti consulente di Davide Boni (ex presidente del Consiglio Regionale in Lombardia), il posto in ATM (azienda dei trasporti milanese) con un emolumento, dicono, di tutto rispetto.  E nel 2015 il grande il best-seller: “Salvini&Salvini – Il Matteo-Pensiero dall’A alla Z”.

 Per Poletti il successo è arrivato da inviato e opinionista in Mediaset per i programmi para-sovranisti di Rete 4, e poi il grande salto in Rai come conduttore di Uno Mattina estate e Uno mattina versione invernale, con una ultima parentesi come inviato e opinionista alla Vita in Diretta di Alberto Matano.

Oggi è tornato in Mediaset come opinionista di Pomeriggio cinque condotto da Barbara D'Urso.

DAGOREPORT il 15 maggio 2023. 

Si chiama Fondazione Guido Carli, così intitolata in memoria del governatore della Banca d’Italia, e vuole apparire come un’istituzione che al confronto l’Onu è una bocciofila di quart’ordine. E fondata e guidata da Romana Liuzzo, la nipote predi-Letta, nel senso di Gianni Letta, nume tutelare della Festa de’ Noantri che viene apparecchiata ogni anno nel nome dell’incolpevole economista che fu caro al cuore di Suni Agnelli e ai sollazzi dell’Avvocato. 

Ma chi è la 57enne Liuzzo? Nei salotti romani la definiscono la figlia della figlia, e quindi la nipote, di Carli. Fin da piccola la sua famiglia, evocano le amiche più care, si sgretolò, con il padre ingegnere abbandonato dalla moglie, fuggita lontano con un nuovo amore. Così la crescita della piccola Romana è avvenuta con i nonni Guido e Maria.  

La moglie di Carli, Maria Pugliese, gorgheggiando nel tempo libero le canzoni di Tony Renis, creava gioielli e dipingeva: si ricordano le mostre allestite nella galleria Editalia di Lidio Bozzini, frequentata da tutti gli amici di Giulio Andreotti, pronti ad acquistare gli ori creati dalla fantasia della consorte del governatore della Banca d’Italia.  

Gli anni passano, e in punto di morte Carli affida al suo amico Gianni Letta la giovane Romana, chiedendogli di occuparsi del suo futuro. Detto, fatto. Gianni a questo punto diventa il riferimento di tutte le attività di casa Liuzzo. E viene dato il via alle celebrazioni.

“Venghino signori, venghino!”, tra trombette e falpalà, tra una benedizione del Papa e un saluto di Mattarella, anche quest’anno lo spettacolo per “premiare le eccellenze italiane” è arrivato: ultimo scenario il Teatro dell’Opera di Roma, dopo che per anni era stato utilizzato l’Auditorium Parco della Musica, luogo però ritenuto troppo lontano per poter accogliere il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che dal Viminale ha fatto solo due passi per recarsi al Teatro Costanzi.  

In collegamento video sbuca il ministro Fitto, sul palco si agita la presentatrice Veronica Gentili, in platea di tutto: da Descalzi a Cairo, da Ferraris a Starace, dalla Boschi alla Carfagna, da Malagò alla Goggia, da Favino a Facchinetti, fino ad arrivare a Antonio Ricci, premiato da Confalonieri e protagonista di un intervento irridente verso il suo bersaglio fisso Claudio Baglioni, fino ad arrivare a Massimo Ferrero, detto Viperetta. 

Ma la Liuzzo ha lasciato tutti a bocca aperta quando ha scodellato la presenza in sala di Francois Henri Pinault, tra gli imprenditori più ricchi del mondo, a capo del colosso del lusso Kering, che si è precipitato a Roma per applaudire la premiata Francesca Bellettini, ceo di Yves Saint-Laurent. 

Buffet ricchissimo gentilmente donato da Prandini della Coldiretti, per la gioia di giornalisti e fotografi, e quindi per gli illustri donatori e premiati una cena privatissima, nascosta, in un luogo segreto. Ma noi sappiamo dove si è svolta: nella Coffee House di Palazzo Colonna, proprio sopra al Museo delle Cere (e non deve essere un caso). E mettiamoci pure il catering di Natalizi e i fiori di Maria Luisa Rocchi. 

Wikipedia ricorda che il padre di Guido, Filippo Carli era stato un “membro di primo piano del Partito Nazionale Fascista sin dalle origini, e autore, tra l’altro, di un allora famoso saggio sulle basi teoriche dello stato fascista”. E pure il figlio Guido scrisse su alcune riviste fasciste. Ma se le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, figuriamoci sulle nipoti: il problema nasce quando il parente viene utilizzato per costruire un caravanserraglio dove l’ego del discendente supera di gran lunga la memoria dell’antenato, di cui oggi importa poco o niente a nessuno.

Con l’attiva partecipazione di Gianni Letta nel delicato compito di attirare doviziosi sponsor tra le aziende di Stato, Liuzzo si sbatte tutto l’anno per innalzare monumenti mediatici per nonno Carli ma al centro della scena c’è sempre lei che troneggia con la sua silhouette  sempre patinata per un servizietto fotografico, un ritratto a beneficio di un settimanale, uno spot ripetuto ossessivamente sulle reti amiche, ovvero Mediaset, dove appare tra scrivanie presidenziali e bandiere italiane ed europee, manco fosse il capo dello Stato, e nemmeno Silvio Berlusconi. 

A proposito, alle spalle c’è sempre un’immagine di un tizio con i capelli bianchi, dicono che sta al Quirinale, ma rispetto alla Liuzzo sembra una comparsa. Occuparsi di lei deve essere una tragedia, per coloro che hanno l’impegno di esaltarne la figura: esigenze da star, articoli che escono contemporaneamente sul Messaggero e sul Corriere della Sera, con Francesco Gaetano Caltagirone e Urbano Cairo che fanno a gara nel dare sempre più spazio al premio (poi qualcuno ancora si chiede perché i giornali nessuno li compra più) e molto altro ancora, quotidiani puntualmente ringraziati sui social dalla beneficiata. 

Anche se l’interessata non sa che alcuni direttori, quando arriva la richiesta di ospitare l’ennesimo pippone firmato dalla Liuzzo, smoccolano come neanche Nicola Porro nella sua “Zuppa”. Ovviamente l’unico direttore che non riceve il cartoncino d’invito della Liuzzo si chiama Alessandro Sallusti, ed adesso scopriremo perché... 

Giornalista, Romana Liuzzo. 

Lei evoca sempre “con emozione” l’esperienza a La Repubblica, nelle pagine romane, dove il capo era Massimo Dell’Omo, che la impalmò. Nel classico quotidiano “de sinistra” era stata incaricata di seguire Enrico Gasbarra, che ha “regnato” sia come vicesindaco di Roma che come presidente della Provincia, a Palazzo Valentini.  

Ecco pezzi perfetti, che illustravano le meravigliose iniziative gasbarriane, tra eventi e sfilate di moda, con l’efficientissimo ufficio stampa del piddino che sfornava senza sosta i testi da far pubblicare alla stampa amica. I giornalisti di Repubblica ricordano bene che quando il giornale fondato da Eugenio Scalfari dovette trasferirsi da piazza Indipendenza a largo Fochetti “la signora” (così la chiamavano, ma non davanti a lei) montò su tutte le furie. 

Già, mica poteva lasciare il centro, con la redazione a due passi dalla stazione Termini, per andare a lavorare sulla Cristoforo Colombo, praticamente downtown. E così che succede? La leggenda narra di una telefonata tra la nipotissima di Carli e sua eminenza azzurrina Gianni Letta, al termine della quale Liuzzo venne assunta a “Panorama”. Che aveva una redazione a via Sicilia, a due passi da via Veneto: te la dò io downtown!  

Nel regno berlusconiano “la signora” si trova bene, molto meno il direttore di Panorama, Giorgio Mulè, il quale a un certo punto, non si sa per quale motivo, l’accompagna alla porta. Tranquilli, la Liuzzo non lascia ma raddoppia. Un imbarazzato Paolo Berlusconi chiama nel suo studio il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, seduto su una poltrona troneggia l’avvocatissimo di Berlusconi, Cesare Previti. 

A Sallusti vien consegnato da Previti un bigliettino che recita sostanzialmente quanto segue: contratto di Romana Liuzzo, qualifica vicedirettore, compenso 400 mila, sede Roma, obbligo di presenza: no. Sallusti sbianca, chiama Arcore e precisa: i soldi sono i vostri e fate come vi pare ma preferisco rassegnare le dimissioni piuttosto che nominare Liuzzo vicedirettore, la redazione esploderebbe. Berlusca capisce e si adegua, niente vice direzione e compenso dimezzato.

Per chi ama il duro lavoro del cronista di guerra, la carica professionale di Liuzzo diventa “inviata”. La rubrica si chiamava “Chiacchiere da Camera” e lei stessa si definiva “croce e delizia dei parlamentari”. Parere diverso da parte di deputati e senatori che liquidavano la rubrica simpaticamente come “la colonna infame”. 

Infatti Liuzzo vergava cronache indimenticabili, come questa del dicembre del 2018: “Aria frizzante alla Camera in queste giornate pre-natalizie. Sono sempre le signore del M5s le più vivaci. Sarà la loro giovane età con relativa esuberanza, ed ecco che dopo la grillina colta in flagrante con un leghista nel bagno, adesso tocca ad un’altra giovane compagna di partito ad essere scoperta nello scambio di dolci effusioni. Lui? Stavolta è un azzurro. L’amore vince”. 

Il fattaccio era avvenuto nella “ritirata” del quarto piano, come poi scoperto da Franco Bechis, scrivendo che “chi li ha pizzicati in bagno avrebbe girato un filmato con un telefonino nascosto nella toilette: i due non l’avevano notato”, e su NextQuotidiano apparve questo testo: “Sorge il sospetto che Romana Liuzzo si nasconda negli anfratti di Montecitorio vicini alla toilette tutto il giorno per poter carpire informazioni. Oppure c’è una telecamera nascosta che registra tutto”. 

Un altro esempio da premio Pulitzer? “Victoria Malan, tre anni, figlia del senatore azzurro Lucio e della bella moglie Maria, nella sua letterina a Babbo Natale aveva espresso due desideri: avere uno xilofono per poter suonare mentre il papà canta (desiderio esaudito); l’altro, che «tutti i bimbi del mondo possano essere felici accanto a una mamma e un papà». Su questo, cara Victoria, Babbo Natale dovrà lavorarci un po’…”. La rubrica durò poco.

Un’altra ciambella che non riuscì col buco fu la sua ambizione di entrare in Parlamento: Liuzzo “accettò” di candidarsi con Forza Italia ma venne trombata. Che poi è la definizione tecnica per chi non ottiene i voti necessari per essere eletto.

Una corte la supporta nella sua missione, oltre a Cesare Previti e Gianni Letta, presentissimo nel ricercare amici e sostenitori del premio: ecco quelli che Liuzzo chiama “i miei consiglieri”, ovvero “il notaio Alfredo Becchetti, il medico veterinario Federico Coccìa, il manager Cristiana Falcone, il vaticanista Ignazio Ingrao, l’imprenditrice Debora Paglieri…”.  

Non a caso nel giorno che ha preceduto il premio è stato emesso un francobollo dedicato a Felce Azzurra Paglieri, e non sarà un caso ma nel Ministero dello Sviluppo economico la Consulta filatelica vanta come dominus proprio Letta, che programma l’emissione dei nuovi bolli. 

A proposito, i giurati cambiano, e infatti viene indicato accanto l’anno, in ogni edizione: solo chi è al potere ne fa parte. Dispiace dirlo a Francesco Starace, che ha perso il posto all’Enel e quindi subirà uno sfratto dal premio: bisogna fare spazio a Flavio Cattaneo. A proposito, tra gli “amici della fondazione” c’è sempre Mauro Moretti. 

Ps. Le fondazioni pubblicano sempre, sul loro sito, il bilancio indicando chi contribuisce, e con quanti soldi, alle attività. Sul sito fondazioneguidocarli.it non c’è nulla, solo foto della Liuzzo, come quella che la vede al banco del governo al posto del presidente del Consiglio. 

Tra l’altro la fondazione ha sede a viale Pola, dentro l’università Luiss. A proposito, ci sono fatture relative agli spot trasmessi sulle reti Mediaset? Ed è vera o falsa la storia che gli “altri parenti Carli” sarebbero stati liquidati, anni fa, per non utilizzare il nome del congiunto? Tranne Federico Carli, che con l’Associazione Guido Carli ha dato vita al Premio Bancor, con il patrocinio di Banca Ifis, presieduta da Ernesto Fürstenberg Fassio. Il quale è da poco socio del Circolo Canottieri Aniene, caro a quel Giovanni Malagò che però fa parte degli amici della Liuzzo. Ma questa è un’altra storia…

Estratto dell'articolo di Roberta Scorranese per il "Corriere della Sera" domenica 9 luglio 2023.

Rula, ma quanto sono belli i cinquant’anni?

«Meravigliosi. Li compio il 25 aprile, giorno della Liberazione, una data perfetta perché a cinquant’anni ci si libera definitivamente di tante cose». 

Per esempio?

«Della paura del giudizio degli altri, degli attacchi senza senso, dei complessi fisici». 

Complessi? Lei è bellissima.

«Ma sono cresciuta (nella parte est di Gerusalemme, ndr) in un Paese dove la mia non era considerata bellezza. Troppo scura di pelle, troppo magra. D’altra parte, nell’orfanotrofio dove ho trascorso la mia infanzia il cibo era pessimo e dunque non mangiavo anche per quello. Ricordo che ebbi per la prima volta la percezione di essere bella quando arrivai in Italia». 

Racconti.

«Avevo diciassette anni, presi un aereo che mi avrebbe portato a Bologna facendo scalo a Fiumicino. Stanca morta mi sedetti ad aspettare, quando un ragazzo passò e mi strizzò l’occhio. Io mi voltai, convinta che stesse ammiccando a qualcun’altra. No, no, indicava proprio me!». 

Bologna. Città vivace e intelligente. Come si è trovata?

«Benissimo, ho ancora tanti amici lì. E sono felice che la nuova segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, sia di Bologna. Ricordo che una volta, anni fa, la sentii parlare in pubblico e mi entusiasmai così tanto che le andai vicino e le dissi: “Ma tu devi andare a guidare il partito!”. Lei mi guardò stupita […]»

Torniamo agli anni bolognesi. Romano Prodi lo ha conosciuto?

«Certamente, una persona molto intelligente e gentile. Ma ho incontrato anche Lucio Dalla: la famiglia che mi ospitava lo conosceva e così scoprii che ogni Natale lui invitava al Diana, un ristorante di sua fiducia, decine di senza casa, per farli mangiare. […]Una volta venne a cena da noi: era timidissimo, sembrava non rendersi conto del suo talento e del suo successo».

Dunque, Bologna e gli studi prima in fisioterapia e poi in giornalismo. Com’è arrivata in televisione?

«Grazie ad Afef». 

Afef Jnifen, l’ex moglie di Marco Tronchetti Provera?

«Proprio lei. Io avevo scritto un articolo per Il Resto del Carlino sulla Seconda Intifada palestinese del 2000, quando in tv Ferrara e Lerner conducevano una bella trasmissione, “Diario di Guerra”. Io telefonai a La7 chiedendo perché in quel programma non si invitavano mai le donne. Afef allora mi chiamò e mi disse che cercavano un profilo come il mio. Ci incontrammo a Milano e ottenni così il primo contratto in tv».

E un lavoro con Giuliano Ferrara, non proprio uno in linea con le sue idee politiche.

«No, ma io lo rispetto moltissimo. È onesto intellettualmente, non fa attacchi gratuiti e anche se nel suo studio abbiamo avuto scontri pesanti sulle idee in fatto di conflitto israelo-palestinese, io sono ancora amica sua e di sua moglie […]». 

E i suoi amori, Rula?

«No, dai, che poi Miral mi sgrida». 

Mi parli almeno del flirt con Roger Waters: non capita tutti i giorni di essere amate dall’autore di «The Dark Side of the Moon». Ci faccia sognare.

«No, per carità. Quella storia non è mai stata confermata! Non scriva nulla». 

La storia con Julian Schnabel però sì.

«L’ho incontrato a una mostra d’arte a Roma. Si avvicinò e mi disse quello che mi dice la maggior parte degli uomini quando mi vede per la prima volta». 

Il solito languido «Sei bellissima»?

«No, mi dicono sempre “Sei indiana?”». 

Miral la sgrida per gli amori?

«No, mi prende in giro, è diverso. […]» 

[…]

A proposito di Obama: lo ha incontrato?

«Eccome. Anzi, ora le racconto uno degli aneddoti che tanto le piacciono. Era il 2017 e l’ex presidente venne in Italia. Io venni scelta per intervistarlo in pubblico a Milano. Quando lo vidi arrivare, sbiancai: era sudato, con la camicia stropicciata, la cravatta storta. Quella se non ricordo male era la sua prima uscita pubblica da ex presidente degli Stati Uniti, tutto il mondo ci avrebbe guardato. Allora corsi dal suo portavoce e gli dissi “Bisogna asciugare il sudore al presidente”. Lui mi rispose “Diglielo tu, io non ho il coraggio”. Mi avvicinai a Obama e gli feci presente che avrebbe dovuto tamponarsi almeno la faccia e le sopracciglia. Lui si mise a ridere e disse: “Aveva ragione Michelle, sei assertiva”».

E come andò a finire?

«Che presi un fazzoletto e gli tamponai la faccia. Con quelli dei servizi segreti che mi guardano incerti tra il mettersi a ridere o arrestarmi». 

E Hillary Clinton l’ha mai incontrata?

«Certo, nel 2019 al Forum Ambrosetti di Cernobbio ho moderato un dibattito tra lei e il repubblicano Lindsey Graham. Quest’ultimo era chiaramente alterato, forse ubriaco, ma Hillary si rifiutò di rimarcare la cosa, dimostrando grandissima correttezza».

[…]

E a cinquant’anni, poi, una si può anche permette il lusso di mandare tutti a fare una passeggiata.

«Proprio così! Nel mio caso direi una biciclettata, visto che io pratico la bici. In particolare, una disciplina abbastanza dura, Soul Cycle».

[…]

E lei, Rula? Si vede ancora come quella ragazza di diciassette anni che arrivò in Italia con i jeans e la camicetta bianca?

«Oggi ho una carriera avviata come giornalista qui in America e come scrittrice, mi occupo di temi che mi interessano e ho una figlia che per me è tutto. Ho tanti amici, sia qui che in Italia e sono riuscita a costruire una certa credibilità, cosa che desideravo. Sono più forte e vorrei che tutte le donne acquisissero consapevolezza e senso del proprio essere. E pensi che a cinquant’anni ho anche messo su qualche chilo. Come dire, finalmente anche io ho le curve!».

Estratto dell’articolo di Andrea Greco per OGGI il 7 marzo 2023.

[…] Rula Jebreal […]

 […] «Giorgia Meloni in Europa incontra difficoltà proprio perche i suoi alleati sembrano guardare altrove. Ha fatto benissimo ad andare a Kiev, ma le dichiarazioni di Silvio Berlusconi l’hanno messa in difficolta.

 Invece di perdere tempo portando in tribunale Roberto Saviano dovrebbe mettere un po’ di ordine nel centrodestra. Lei deve temere Matteo Salvini e Silvio Berlusconi: Zelensky aveva ricevuto Draghi con tutti gli onori, ed e stato imbarazzante che invece a Giorgia Meloni abbia subito fatto notare la posizione pro Putin di Berlusconi».

Un’altra donna che paga le colpe di un uomo?

«È stata lei che li ha scelti come alleati. Adesso deve riuscire a far cantare a tutti la sua canzone, altrimenti all’estero saranno pochi quelli disposti a darle fiducia». […]

 «C’è una cosa che trovo scioccante: in Italia tante di quelle che sostengono la ribellione in Iran, o le donne afgane e palestinesi, poi parteggiano anche per Putin.

 Non capisco come si possano sostenere, assieme, da una parte i diritti delle donne e dall’altra un dittatore sanguinario. È una distorsione che si ritrova anche in tv o sui giornali»

In che senso?

«In Italia molti talk show giornalistici in realtà sono semplici programmi di intrattenimento, gli “esperti” spesso non sanno nulla degli argomenti sui quali intervengono, e nessuno li interrompe quando dicono delle falsità.

 C’è il professor Orsini che propone tesi filorusse, smentite dai fatti, e viene invitato di continuo. Ognuno ha diritto alle proprie opinioni, ma nessuno ha diritto ad avere dei “propri” fatti».

Crede che la disinformazione sia un problema solo italiano?

«No, ma in Italia è particolarmente grave. In tv il presidente del Senato dice frasi sessiste sulle “donne grasse e brutte”, e parole omofobe, e la reazione dell’intervistatrice e solo una espressione del viso.

 Dove regna la disinformazione la destra vince, e alla lunga viene messa in discussione la stessa tenuta democratica del Paese».

 […] Elly Schlein e la nuova segretaria del Pd. Lei chi avrebbe votato?

«Elly Schlein: sposo la sua idea di un partito più inclusivo. Basta con questo branco di uomini egocentrici che occupano tutte le posizioni».

Se la politica fosse in mano alle donne ci sarebbero dei cambiamenti?

«Sarebbe tutto diverso. Basta pensare alle premier di Nuova Zelanda e Scozia che si ritirano: quale uomo ne sarebbe capace?».

Salvo Sottile: «Da bambino ero timidissimo, mi bullizzavano. Sposini è stato come un padre. Agli inizi dormivo a casa sua». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera giovedì 24 agosto 2023.

Ha vissuto in una stazione, Salvo Sottile. «Mio nonno faceva il capostazione, a Cefalù: abitava lì con mia nonna. Per quasi un anno, da bambino, ho abitato da loro, perché i miei lavoravano. Dopo tanti trenini, finalmente, avevo la possibilità di giocare con dei treni veri, tanto che da grande sognavo di guidarli. Li osservavo per ore, li vedevo sparire dentro la galleria che c’era poco distante dalla stazione. E ricordo mio nonno che mi diceva: al di là, c’è l’Italia».

Anche suo papà era un giornalista.

«Lavorava al Giornale di Sicilia e per via del suo mestiere non c’era praticamente mai: si occupava di cronaca nera. Io non ho mai voluto lavorare per la carta stampata proprio perché, di fatto, mi aveva portato via mio padre. Però ho realizzato presto che mi piaceva raccontare storie, anche se per immagini».

Come ha iniziato?

«Mentre studiavo lavoravo anche in una libreria, mi davano 150 mila lire al mese. Con quei soldi mi sono comprato una delle prime telecamerine, usata. E ho iniziato a riprendere le cose che più mi colpivano della mia città, Palermo. In poco tempo mi ero fatto un mio giro: il poliziotto che mi raccontava cosa succedeva, il medico del pronto soccorso... e a 16 anni ho iniziato a propormi ad alcune tv locali».

Intraprendente.

«In realtà da bambino ero timidissimo, sono stato pure bullizzato: a scuola i miei compagni mi prendevano in giro perché ero sovrappeso e non mi permettevano di giocare assieme a loro. Ricordo un pomeriggio in cui sono rimasto solo tutto il tempo con una palla in mano: non trovavo nessuno che volesse giocare con me. La strada poi, per fortuna, mi ha svegliato».

Ha iniziato a fare il giornalista da giovanissimo.

«Una delle tv locali per cui lavoravo mandava le immagini anche a Mediaset. Un giorno mi chiamarono per chiedermi se potessi andare a Roma per un colloquio. Cercavano un informatore dalla Sicilia: stava per nascere il Tg5».

Ci andò di corsa?

«In realtà all’inizio risposi che non potevo partire. Per arrotondare avevo iniziato a fare anche i filmini dei matrimoni e quella settimana ne avevo tre. Era un introito importante per me. Poi però mi decisi e andai: in ascensore, in quella che un tempo era stata la famosa villa di Pippo Baudo poi diventata un palazzo di Mediaset, beccai Mentana e Lamberto Sposini. Mentana mi disse: “Ma sei il ragazzetto che sta a Palermo? Sei troppo piccolo per fare questo lavoro”. Sposini invece, che era il buono della coppia, fu più clemente: “Vediamo dai, se succede qualcosa tu avvisaci”. Ecco, quell’anno accadde di tutto: l’eruzione dell’Etna, l’omicidio Lima, la strage di Capaci, la strage di via D’Amelio. In pochi mesi capitò in Sicilia quello che non era mai successo in dieci anni».

E lei era lì.

«Ma non avevo mai fatto collegamenti in diretta. Quando chiamai Mentana per digli della strage di Capaci, dopo che mi aveva avvisato un poliziotto, mi disse: dobbiamo fare una diretta, raccogli tutto il materiale che puoi e mando un inviato: prende un aereo e tra 2 ore è lì. In realtà non mandò nessuno e mi disse all’ultimo, per non farmi montare l’ansia, di mettermi davanti alla telecamera. Panico totale. Ma iniziammo a fare questa diretta infinita. Avevo 18 anni».

Cominciò così a fare il corrispondente dalla Sicilia per il Tg5.

«La Rai aveva venti persone a Palermo e venti a Catania. Io ero solo per tutta la regione, ogni tanto dovevo coprire anche la Calabria».

Ci sono mai stati episodi spiacevoli?

«Non l’ho mai detto, nemmeno a Mentana, se no mi avrebbe tirato via di lì. Ma dopo quattro o cinque anni che stavo a Palermo e seguivo la cronaca nera e la mafia, una sera tornai a casa e notai che c’era una cosa diversa dal solito: un lampione era spento. Il tempo di mettere la chiave nella serratura e mi sono sentito prendere da dietro da due persone che mi hanno poi menato come fabbri. Non ho fatto denuncia perché avevo paura che mi levassero tutto».

Resta un rammarico?

«Per me era troppo importante continuare a fare quello che stavo facendo. Non ero l’inviato che arrivava, faceva un servizio e se ne andava via. Io vivevo lì. Pressioni ne avevo subite. Ricordo anche la gente che mi fermava e mi diceva: ma perché non parli del turismo? Io non credevo a quel tipo di mentalità. Poi però Mentana mi trasferì a Roma. E per fortuna».

La sua voce ha avuto un ruolo nel renderla famoso?

«È una voce che odi o ami, però è riconoscibile, senza dubbio. Era il mio modo naturale di parlare, non c’era nulla di costruito quando ho iniziato. Senza contare che all’epoca ero un ragazzo che cercava di sembrare più grande della sua età: mi confrontavo con gente che aveva anche 30, 40 anni più di me, non mi prendevano sul serio. Quella diffidenza, comunque, l’ho spesso sperimentata nel corso degli anni».

In che senso?

«Quando sono andato via da Mediaset, ho avvertito che c’era un pregiudizio su di me, perché aver lavorato per Berlusconi significava per molti essergli amico».

Era così?

«L’avevo conosciuto al mio primo anno al Tg5, mi diede il suo numero e mi disse di chiamare se ne avessi avuto bisogno. Ovviamente non l’ho mai fatto. Era un uomo pieno di charme, cercava sempre di fare spogliatoio. Faceva sentire tutti importanti: dall’ultimo ragazzino di Palermo, che ero io, al direttore. In generale non rinnego gli anni di Mediaset, sono stati assolutamente formativi».

Ci potrebbe tornare?

«Con il progetto giusto perché no?».

Il grande successo arrivò con «Quarto grado», vero?

«Un programma incredibile. Prima conducevo il Tg5 ma a un certo punto Clemente Mimun decise di levare tutti gli uomini dalla conduzione delle 13. Quindi mi chiesero se volessi fare questo programma sperimentale, su Rete 4. Prima la cronaca era solo appannaggio di Federica Sciarelli, così io mi sono vestito il programma addosso: era una sorta di rappresentazione con una serie di parti in commedia. Di certo, era un modo diverso di fare cronaca. Sembrava dovessero chiudere il programma dopo tre puntate perché non andava benissimo, ma poi iniziò a crescere fino a fare il 17 per cento su Rete 4. Tuttora, per strada, le signore mi chiedono quando tornerò a condurlo».

Era però anche uno stile molto discusso, che indugiava sui crimini più efferati.

«È il motivo per cui a un certo punto ho detto basta: non volevo essere associato solo a dei delitti, non volevo essere “quello che parla di cronaca nera”. Così ho deciso di lasciare e fare altro, prendendomi dei rischi».

Stando ai palinsesti Rai, è stato premiato.

«In ogni progetto voglio portare il mio modo di raccontare storie, però. Nel tempo sono stato un severissimo giudice di me stesso, ma con le lezioni che mi ha dato la vita, ho imparato a non compatirmi più di tanto, a fare i miei sbagli e non rimproverarmi».

È in aperto contrasto con Franco Di Mare, da anni.

«Daria Bignardi mi aveva proposto di fare Mi manda Rai3 ed ero rimasto lì cinque anni, fino a quando non è arrivato lui alla direzione. Ci sta che un direttore di rete voglia cambiare, ma non mi tieni un conduttore a bagno maria fino all’ultimo giorno, quando sai che non potrà più trovare altro da fare. Con lui mi sono ritrovato senza un lavoro. E dire che insieme avevamo fatto l’Afghanistan, in ottimi rapporti. Poi, chissà perché, ha deciso di dichiararmi guerra, come fosse una sua ossessione. Pretendeva anche che non andassi ospite da nessuno, chiamava tutti dicendo di non invitarmi. L’unico a non farsi intimidire fu Guardì».

E arrivò il capitolo dei «Fatti Vostri».

«Un programma difficile da condurre, con molti registri, che insieme abbiamo cercato di modernizzare, penso riuscendoci. Devo moltissimo a Guardì. Tutto sommato, alla fine, Di Mare mi ha fatto un favore».

Altre persone a cui dire grazie?

«Mentana. E Sposini, che è stato per me una sorta di padre: i primi tempi, quando ero a Roma, andavo a dormire a casa sua. Mi aveva preso sotto la sua ala. Mentana era più il preside, ti interrogava. Prima di mandarmi in Afghanistan, dove sono stato poi per due mesi, mi chiese di dirgli i confini. Lui per me resta il più bravo in assoluto: ammiravo la sua capacità di non stancarsi e la sua velocità di pensiero, fuori dal comune. Mi ha dato un’opportunità quando non lo avrebbe fatto nessuno. Negli anni abbiamo anche discusso, ma ogni volta che lo vedo rimane in me una sorta di soggezione, anche oggi».

Con Sciarelli vi siete poi parlati?

«Quando sono arrivato in Rai ero quello della concorrenza. All’inizio, quindi, c’era grande freddezza. Poi le ho mandato una pianta e lei mi ha detto grazie: abbiamo siglato questa pace botanica. Comunque la trovo bravissima».

Sogni per il futuro?

«Il mio sogno era tornare a fare un programma con un racconto diverso, alternativo sul mondo che ci circonda. La nuova Rai mi permette di farlo e ne sono grato. In futuro mi piacerebbe anche esplorare la divulgazione: c’è tanta voglia di conoscere e informarsi».

Si sente bello?

«Con il mio corpo ho sempre avuto un rapporto conflittuale. Non mi piace rivedermi. Però credo sia un bene, la normalità è un valore».

Quali sono i suoi obiettivi?

«Sono diventato papà abbastanza giovane, poi mi sono separato e con Sarah (Varetto, ndr) siamo in ottimi rapporti. Oggi per me, quello che conta, è esserci sempre per i miei figli».

Grazia Sambruna per mowmag.com il 28 maggio 2023.

Non si finisce mai di litigare. Selvaggia Lucarelli e Lorenzo Biagiarelli stanno insieme dal 2015 e ora sbucano anche in libreria con il loro primo romanzo che è l'autobiografia della loro love story suddivisa in sette discussioni per futili motivi, una per capitolo. 

Gli altri litigano per gelosia è il titolo dell'opera che immaginiamo voglia ambire a trovare un posto sotto gli italici ombrelloni in vista dell'estate. I racconti coinvolgono anche gli animali domestici dei due, in primis il loro timido micio Bruno che, inconsapevolmente, ha spesso il ruolo di paciere tra i belligeranti innamorati di lungo corso. 

"I panni sporchi si lavano in casa. Editrice, in questo caso". Così si chiude il comunicato stampa di lancio del volume lasciando assaporare il tono sfizioso che andrà a permearlo: al netto di grida e sfuriate, i due protagonisti, sillaba dopo sillaba, si affannano a sottolinear d'essere, prima di tutto, molto simpatici, divertenti, arguti. Sì, del resto è proprio questa l'impressione che danno di se stessi tra social e tv, no? Ecco, no. 

"Perché nei tuoi racconti sono sempre la pazza che urla?", chiede Selvaggia al poro Biagiarelli perfino quando questi tenta di scrivere la caption per il lancio su Instagram del libro. O, almeno, così riporta lui, comunque divertito. Classe 1990, il nostro è belloccio, musicista ma soprattutto chef. Nel corso dell'ultima stagione televisiva, lo abbiamo visto anche tra i concorrenti di Ballando con le Stelle, scoprendo così che, oggettivamente, almeno una cosa che non gli riesce proprio c'è: ballare. 

Lo stesso valeva anche per altri personaggi in gara ma lui, partito con "l'handicap" di aver la fidanzata in giuria e quindi considerato a prescindere mezzo raccomandato, non ha nemmeno tentato di prendere la propria inettitudine con autoironia. Ogni puntata, è stata una Sparta di supponenza e recriminazioni. Finché è durato.

Senza soffermarci sulla differenza d'età che intercorre tra i due - non ci sembra un dato poi così rilevante - non stupisce sapere che, almeno per narrazione, passino il tempo a scannarsi come in un film di Muccino (anche se non "per gelosia", gelosia mai). Leggenda narra, e realtà fattuale tende a confermare, che non ci sia personaggio noto con cui lei non abbia discusso in pubblica piazza social, accrescendo così, fin dai primordi, la propria fama da Grimilde filibustiera. 

A nessuno ha mai accarezzato il dubbio che potesse essere una posa, anzi, forse il più grande trick di Lucarelli è stato quello di rendere remunerativa... se stessa, la sua personalità, ogni spigolo del prisma di insofferenza che la compone. E onore al merito, in questo senso. 

Certo, poi, pensare di svegliarsi ogni mattino al fianco di un tale vulcano di indisponenza è da eroi del masochismo. Biagiarelli ha lottato per farlo. E ci è pure riuscito. Grazie alle sue apparizioni tv, eccezion fatta per quelle a È sempre mezzogiorno (Rai 1) dove si limita a mantecare e sricettare, abbiamo pressoché compreso come mai: pure lui è insopportabile.

Risulta quasi consolante, quindi, sapere che queste due personalità da villain Disney si siano incontrate e, inevitabilmente, innamorate. Creando così un microcosmo perennemente guerrafondaio. Ma fratricida, senza andare a impattare sulle vite, private almeno, di terzi. Gaudio e giubilo nel (resto del) regno! Tale dato di fatto, però, ha mai generato alcun tipo di viscerale simpatia nei confronti della coppia? La risposta è... non proprio. 

I due sono seguitissimi sui social e, non dubitiamo che, fatta la tara di chi ha piazzato il follow per ingurgitare la propria dose di indignazione quotidiana o scoprire qualche ingrediente segreto per l'uovo alla coque, a qualcuno interessino pure nei meandri del loro privato. La favoletta sull'estrema simpatia degli innamorati membri di questa coppia, però, non se la berrebbe nemmeno un cinquenne che scalpita per trascinare i genitori a vedere La Sirenetta in live action.

Eppure, ogni litigio narrato nel libro, è costantemente permeato da un tasso di ironia tagliente, da un sarcasmo che forse manco gli Dei. La fantastica signora Lucarelli e compagno, sulla carta, sono uno spasso. Specie quando non si comprendono e danno fuoco alle polveri. Ovverosia, sempre. Ci fidiamo? 

Onestamente, non troppo. Anche perché, proprio in questo periodo, siamo vittime di un altro storytelling improbabile: quello della serie The Ferragnez che, per la seconda stagione, ci impone nuovamente Chiara e Fedez come due di noi. Almeno questi, però, non ci provano nemmeno a proclamarsi, tra le righe o direttamente, gran mostri di simpatia.

I libri, oramai, li scrivono tutti. Non c'è influencer o "insegnante di corsivo" presso se stessa che, un bel mattino, non si ritrovi tra le richieste di messaggi Instagram la notifica dell'editor di una casa editrice. Se non altro, Gli altri litigano per gelosia, è stato messo insieme da chi una metaforica penna la sa pur tenere in mano. Se vorrete tuffarvi nella lettura della guerra dei "Rellis", potreste anche rischiare di non riemergerne avvolti da una nuvoletta di imbarazzo. Con buona pace dell'operazione simpatia di Biagia a Luca, però. Quella, purtroppo o per fortuna, non ce la berremo (né ve la berrete) mai. Balle editoriali.

Selvaggia Lucarelli e Lorenzo Biagiarelli: «Avevo paura per i 15 anni di differenza. Il matrimonio? Lui ha detto no». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 16 Maggio 2023

I due raccontano a tutto tondo il loro grande amore in Gli altri litigano per gelosia, noi per gatti, fiori, foto e ristoranti» (Cairo editore), in uscita oggi

«Stiamo insieme da quasi 8 anni... ma quello che tiene il conto, in effetti, è lui», ammette Selvaggia Lucarelli. «La mia password è il nostro anniversario — rincara Lorenzo Biagiarelli —. Anni fa l’ho impostata anche a lei, solo che qualche giorno dopo mi ha chiamato dicendomi: “Amore scusa ma era 25 o 26 settembre?”». Hanno l’affiatamento che regalano gli anni insieme e i tempi comici di chi insieme ci sta anche bene, Lucarelli e Biagiarelli. Ascoltarli è divertente, almeno quanto leggere il libro che hanno scritto a quattro mani, «Gli altri litigano per gelosia, noi per gatti, fiori, foto e ristoranti» (Cairo editore), in uscita oggi. «Tornando alle date — riprende Lucarelli — secondo me è anche un tema generazionale. Abbiamo 15 anni di differenza, sono tanti. Magari quindici anni fa ci tenevo anche io, oggi bado alla sostanza. E sono convinta che se Lorenzo mi avesse conosciuta prima non avremmo mai trovato la strada del compromesso, ero una rompico... assoluta». Niente, l’ha alzata. «Pensa come doveva essere...», schiaccia Biagiarelli prima di iniziare a ridere (insieme a lei, va detto).

Nel libro raccontate di quando, prima di una diretta tv nell’era Covid, e quindi senza truccatori, Biagiarelli si offre di andare a comprare il fondotinta per la sua compagna.

Biagiarelli: «La ragione lì sta solo da una parte: la mia. La sua frase prima che uscissi resta scolpita: “Nel dubbio prendilo più scuro” e così ho fatto».

Lucarelli: «Si ma di mezzo tono. Ho scambiato quel tubetto per una crema spalmabile al cioccolato fondente, invece. Ad ogni modo, rispetto a quel capitolo mi sento in difficoltà: è chiaro che avevo fatto una scena gigantesca per una piccolezza, però ho un’attenuante: Lorenzo è una persona gentilissima ma la sua è una gentilezza molesta. Insiste. Quindi cedi, anche quando sai che non ce la farà».

B: «La prima cosa che ho acquistato per lei per procura era una giacca per un saggio di suo figlio Leon. Stavamo insieme da 5 o 6 mesi e quando le ho chiesto che taglia servisse, mi ha risposto: la sua. Leon in quella giacca ci è cresciuto dentro. Ma era molto carino con quelle maniche abbondanti».

Come sono stati i vostri inizi?

B: «Facevo il cantante e degli amici comuni avevano chiesto a Selvaggia di pubblicare il mio videoclip. Lei per farlo aveva aggiunto una battuta, del tipo: qualcuno ha il numero del cantante? Solo che non l’avevo presa come una battuta e glie l’ho fatto avere. Ma lei non ha mai chiamato».

L: «Tempo dopo, sotto il post di una olgettina che mi attaccava, dicendo, tra le altre cose: “Ti ruberò ogni fidanzato”, leggo Lorenzo che scrive: “Tranquilla Selvaggia, non mi avrà mai”. Così abbiamo iniziato a sentirci, ma ero in un periodo di totale scoramento in cui credevo che la persona giusta per me non esistesse proprio».

E invece?

B: «Eh, i primi tempi non sono stati facili, lei dopo poco non voleva più uscire con me».

L: «Perché uscire con una persona che ha 15 anni meno di me mi sembrava una grandissima perdita di tempo».

Perfino una donna emancipata come lei era caduta nel pregiudizio?

L: «C’è da dire che io avevo 40 anni e lui 25, quindi veramente pochi. Però sì, evidentemente ero intrisa di stereotipi. Avevo sempre visto in queste donne che si accompagnavano con uomini più giovani il tentativo disperato di congelare la propria giovinezza, ma è una grande falsità: stare con un uomo più giovane ti fa sentire più vecchia. E ti fa fare sempre i conti: quando lui avrà 70 anni io ne avrò 85... insomma, senti che il tempo è un tema. Inoltre ci si deve sedere spesso al tavolo delle trattative»

Ad esempio?

L: «Quando l’ho conosciuto avrei voluto un altro figlio, ma per lui non era il momento».

Eppure si è trovato a vivere da subito con il suo, di figlio.

B: «Sì, ma intanto ha un papà. Poi tra me e Leon c’è una differenza anagrafica tale da non creare una barriera generazionale: lui a undici anni giocava con i Pokemon e anche io. Se l’ho educato è stato con l’esempio e per me il fatto che lei avesse un figlio non è mai stata una questione».

L: «Tra loro c’è stata molta sintonia da subito: hanno la stessa differenza d’età che c’è tra me e Lorenzo, che quindi rappresenta una sorta di ponte per noi».

Ha raccontato nel suo libro «Crepacuore», di essere stata in una relazione tossica.

L: «Per fortuna erano passati quattro anni quando poi ho incontrato Lorenzo, l’avevo smaltita. Ma mi colpiva di lui che fosse una persona che non aveva paura di investire sulla nostra relazione, di spendersi. Se non funzionava qualcosa tra noi, mi diceva: non esiste che ci lasciamo. Ma lo faceva con una risolutezza che mi stupiva, forse anche perché io invece venivo spesso frenata dal mio orgoglio nelle relazioni. Lui è stato da subito molto spontaneo e lo ammiro per questo. Mi ha aiutata a liberarmi, lasciarmi andare... comunque stiamo tirando fuori cose che non abbiamo mai detto, sembra l’inizio dei Ferragnez...».

Che ruolo ha l’ironia tra voi?

L: «Sdrammatizzare aiuta, dopodiché alcuni temi che raccontiamo nel libro esistono. Tipo l’ordine».

B: «Beh se vivi in 120 metri quadri e compri 45 tappeti uzbeki durante il lockdown, poi si crea un problema di spazio, si. Inoltre la moda attuale dice che sul pavimento ci puoi mettere un sacco di cose, dal letto ai quadri».

L: «Si ma non i calzini o i telecomandi. Ad ogni modo, siccome sono molto disordinata mentalmente, ho bisogno di avere ordine attorno a me per scrivere, se no non riesco a raccogliere le idee».

Nel libro Biagiarelli dice anche che Lucarelli è volubile.

B: «Lo è. Però non con tutti, solo con me: penso di avere una funzione in questo senso, un compito importante nella società. Io catalizzo i suoi sfoghi e va bene, ho imparato che è una sua caratteristica: ha bisogno di farlo».

L: «Io nel tempo ho imparato a farmela passare in fretta, non a non farmela arrivare. E ho anche imparato a riconoscere l’eccesso di reazione. Adesso non esiste più che se litighiamo ci parliamo dopo tre giorni: spengo il fuoco e per tutti e due finisce lì».

B: «All’inizio facevo anche io le tragedie quando succedeva, ma ho capito nel tempo che lei parte sempre da ragioni legittime: è il fenomeno che ne segue che a volte non è proporzionato. Come quella volta di cui parliamo nel libro, dove se l’è presa quando a Bangkok l’ho portata in un ristorante lontanissimo che in realtà non esisteva... ecco io magari l’avrei chiusa con una risata: ah, ah, il ristorante in realtà non esiste».

Invece...

L: «In realtà succede anche a casa: mi sveglio molto presto, resto a letto ma è il momento in cui posso controllare i social. A volte mi capita di leggere migliaia di messaggi d’odio nei miei confronti, poi lui si sveglia, mi dice buon giorno ma io sono già di cattivo umore. Mi disturba non avere mai a che fare con un interlocutore: è sempre qualcosa di virtuale. Ma io quella frustrazione in qualche modo devo farla uscire. Vengo da una famiglia conflittuale, quindi non potrei mai farla ricadere su mio figlio perché so che esiti devastanti avrebbe... quindi tocca a Lorenzo».

B: «Macché, piuttosto io mi chiedo come faccia. Ho sperimentato in parte a Ballando quella ferocia ed è stata veramente dura. Però ho anche capito che il suo modo è quello giusto per affrontare qualsiasi cosa e mi ispiro a lei: alla maniera frontale che ha di esporsi, che non contempla i giri di parole, al suo non cedere alla falsità per convenienza o per partito o per amicizia. Lei fa il suo lavoro con una onestà che dà qualità a tutto quello che fa».

Non capita mai, Selvaggia, che pensi: no, in questa polemica non mi ci butto?

L: «Non si direbbe, ma capita tante volte. Mi freno. Intanto perché non penso sia un bene dire proprio tutto quello che si pensa e poi perché anche per me esistono dei compromessi, degli affetti: se non mi piace il film di una persona di cui sono amica, evito di parlarne, per dire. Non sono una che sbatte sempre la tovaglia e butta tutto per terra. Ma quello che non faccio è chiedermi che conseguenze lavorative possa avere su di me una cosa che dico. Ecco, per me quello non esiste».

Domanda potenzialmente odiosa: avete mai pensato di sposarvi?

L: «Io glielo avevo proposto anni fa e lui mi ha detto no, poi non ci siamo più tornati. Prego, a te la parola».

B: «Quando questa cosa è successa stavamo insieme da otto mesi...».

L: «Stai balbettando...».

B: «Magari succederà, ma cosa cambierebbe».

L: «Appunto, allora perché non farlo... comunque hai visto come hai perso la verve?».

B: «Mi piace pensare che noi...».

L: «Oddio, sei uno di quelli che “ci scegliamo tutti i giorni”?!»

B: «Ok, prossima domanda?».

Meglio. La sorpresa che reciprocamente vi è piaciuta di più?

L: «Torniamo ai primi tempi, quando gli avevo detto basta. Sono tornata a casa dalla radio e l’ho visto con un mazzo di fiori in una mano e un cartello con scritto “stai con me” nell’altra».

B: «Sempre durante il primo anno, avevamo litigato furiosamente, tanto che avremmo dovuto partire per Atene con Leon e non lo abbiamo fatto. Sono stati i tre giorni più brutti della nostra storia. La settimana dopo però mi ha detto: “Ho ricomprato i biglietti per Atene”. Quel suo tendere la mano mi ha colpito tanto».

La qualità che amate di più nell’altro?

B: «Lei si dedica anima e corpo in tutto ciò che fa, compresa la nostra storia. Ha investito davvero tanto su di noi».

L: «Di lui mi piace l’entusiasmo, il suo desiderio di buttarsi in tutto quello che gli viene proposto e poi la sua intelligenza, che vedo in tutto, perfino quando dà tutte le risposte esatte all’Eredità. Mio padre lo guarda basito: era convinto che fosse la figlia l’intelligente della famiglia ma dopo una settimana di convivenza con noi ha iniziato a reputarmi quella scema. Lorenzo per lui era diventato Troisi e io Benigni in Non ci resta che piangere. Era tutto un “grazie Mario”».

B: «Ah, c’è un’altra cosa che amo di lei: trovo che abbia sempre l’opionione più giusta su tutto. Espone i suoi pensieri con una lucidità tale che non riesco più a vedere le cose come le vedevo prima».

L: «Tranne sul matrimonio».

B: «Va bene, abbiamo finito vero?».

Selvaggia Lucarelli, addio: ecco perché non è più una giornalista. Libero Quotidiano il 14 maggio 2023

"Lascio l'Ordine dei giornalisti". È questo l'annuncio di Selvaggia Lucarelli che in un post su Instagram si sfoga. Tutto è iniziato dalla convocazione di Mario Natangelo. Il motivo? Una vignetta uscita sul Fatto Quotidiano che ritraeva la moglie del ministro Lollobrigida - nonché sorella di Giorgia Meloni - a letto con un uomo di colore "per incentivare la natalità". "Il 9 maggio - scrive la giornalista sui social - esce la notizia della convocazione di Natangelo presso l'ordine dei giornalisti. Quello stesso giorno critico l'ordine dei giornalisti in due tweet. Il giorno dopo, 10 maggio, il consiglio si riunisce e decide di aprire un procedimento per due esposti del 2020 contro di me. Ieri mi arriva la convocazione per il 4 luglio, con invito a preparare una difesa". 

"Romantiche coincidenze" le definisce la giornalista, che prosegue senza pietà: "È la mia prima volta. Il fatto è bizzarro non solo per il tempismo, ma perché ad oggi i sette esposti contro di me erano stati archiviati e in un preciso ordine cronologico, dal 2020 al 2022, l'ultimo un esposto dell'ottobre 2022. Improvvisamente salta fuori una roba di tre anni fa. Ah, pensate le curiose coincidenze. Quell'esposto era di Elisabetta Franchi, perché avevo scritto su Instagram che la sua raccolta fondi in tempo di Covid era stata opaca. Per giunta riprendendo un articolo per cui Franchi aveva già fatto querela, archiviata definitivamente. Quante romantiche coincidenze, dopo aver difeso Natangelo". 

La Lucarelli ha detto di difendersi e di non essere preoccupata, però "ho fatto subito domanda di cancellazione dall'ordine, continuerò a scrivere da libera cittadina come del resto ho fatto a lungo, visto che l'articolo 21 della costituzione me lo consente". 

Dagospia il 27 aprile 2023. Lettera di Selvaggia Lucarelli a Dagospia

Rispetto la sentenza ma naturalmente ricordo che è un primo grado e che ricorrerò in appello. Mi sembra però importante far notare che si tratta di un precedente credo preoccupante e senza eguali, visto che un giudice non togato ha considerato il danno generato da un commento su Facebook da liquidarsi con una cifra più alta di quella che viene spesso liquidata per violenza sessuale. Un commento, per giunta, in risposta a un’offesa della signora Amurri. 

Estratto da leggo.it il 27 aprile 2023.

Selvaggia Lucarelli è stata condannata per diffamazione nei confronti della giornalista Sandra Amurri. La Lucarelli l'aveva attaccata sui social definendola «licenziata nervosa», riguardo al suo presunto allontanamento da "Il Fatto Quotidiano". 

«Mentre lei, a seguito della chiusura di “Non è l’arena” ha twittato la falsa informazione che nelle redazioni si rincorre la notizia che ci sarebbero state le forze dell'ordine in casa di Massimo Giletti, nonché in alcuni uffici amministrativi - scrive Sandra Amurri - Io posso dire che la notizia che la riguarda è vera: è stata condannata per avermi diffamata sui social definendomi “licenziata livorosa, una che è stata zitta finché pagata” e divenuta coraggiosa solo dopo essere stata "mandata via"».

Il processo si è tenuto in tribunale a Fermo e un anno fa aveva conquistato la ribalta mediatica per la sfilata di vip al palazzo di giustizia, come la stessa Lucarelli e il giornalista Marco Travaglio. 

[…] Lucarelli dovrà versare una cifra a titolo di risarcimento dei danni. Il caso risale a 3 anni fa, con la lite dopo che la giornalista fermana aveva commentato lo scoop di Lucarelli sulla relazione tra Turci e Pascale: la controreplica […] era stata considerata offensiva da parte della giornalista fermana, […] che aveva deciso quindi di sporgere querela.

Estratto dell'articolo di Grazia Sambruna per mowmag.com il 2 aprile 2023.

Ahia. Dagospia ha riportato una accurata trascrizione di una puntata del podcast quotidiano di Selvaggia Lucarelli, Il Sottosopra, in cui la giudice di Ballando con le Stelle si scaglia ferocemente contro Francesca Fagnani. Al netto del titolo quasi democristiano di questi undici minuti al cordial vetriolo, "Perché non mi piace Belve. E perché sì", i contenuti vorrebbero essere deflagranti. Anche se, va detto, falliscono nell'impresa.

 Se l'ultima edizione del talk che ha esordito nella prima serata di Rai 2 era criticabilissima da più punti di vista (ne abbiamo scritto qui), le parole scelte da Lucarelli per recensire negativamente il programma lasciano intendere che, forse forse, il vero problema che la nostra ha nei confronti dello show sia squisitamente personale: avrebbe voluto farlo lei.

Nella stilettata, Selvaggia sciorina qualche dato interessante: ogni puntata di Belve, con produzione esterna alla Rai, arriverebbe a costare la bellezza di 300mila euro. Uno sforzo oneroso, considerati i risultati Auditel del talk, partito fiacco, ma in media di rete, con i primi due appuntamenti nel primetime e ripresosi con gli ultimi tre, senza mai però poter far davvero gridare al miracolo. È quando la nostra si lancia nella critica alla conduttrice, però, che salta fuori una buona dose di livore gratuito.

Lucarelli sostiene: "Possiamo dire che Belve è un programma di interviste in cui di davvero feroce c’è soprattutto l’ambizione di chi lo conduce. Fagnani fa la giornalista e quello che le sta a cuore non è tanto che il programma sia godibile nella sua interezza ma che sia ‘notiziabile’, ovvero che i suoi ospiti dicano qualcosa che poi sarà rilanciato da siti, social e giornali. L’intervistato è l’elemento meno valorizzato, paradossalmente: non interessa la sua storia nel complesso, non viene fuori un ritratto inedito".

 Nei fatti, la prima parte della critica è del tutto pretestuosa. La seconda, invece, semplicemente non corrisponde al vero. Vediamo perché.

Presupposto: qualunque programma tv, soprattutto di primetime ma non solo, nasce, cresce e corre in onda nella speranza che qualcuno già la sera stessa o l'indomani ne parli. Nel bene, nel male, è indifferente. Ciò da ben prima dell'avvento dei social e a prescindere dalla natura del format: che sia un dating show, un reality o uno di quei pochi scampoli di varietà ancora superstiti, è indubbio che alcuni siparietti vengano studiati ad hoc a tal fine.

 Non si spiegherebbero, altrimenti, le performance di Annalisa Minetti nuova Jill Cooper a BellaMà, come le intemperanze dello stesso conduttore del programma, Pierluigi Diaco. Qualcuno ha mai visto altro al di fuori di quelle o saprebbe dire, con cognizione di causa, di che parli il format?

 […] Ignorare che ogni show brami alla propria parte di notiziabilità per creare hype è davvero fin troppo naif per una critica d'esperienza e professione come Selvaggia. Non risulta credibile che lo pensi. Perché non lo è.

Affermare, inoltre, che i personaggi intervistati a Belve siano messi in secondo piano e che, alla fin fine, una volta conclusa l'intervista, il telespettatore di loro sappia quanto prima, è dalle parti della pura eresia.

Per quanto alcuni temi, è vero, fossero stati già affrontati dal diretto interessato, pensiamo per esempio al passato da "zecca" della top model Bianca Balti, il racconto di media si fa sempre più approfondito. […]

 Il confronto con Le Invasioni Barbariche, di cui Belve vorrebbe essere in effetti erede mediatico, sta in piedi. Ma dire che il "nuovo nato" non ne sia all'altezza per eccesso di spocchia rispetto al predecessore è fuori da ogni logica. Al massimo, si può parlare del medesimo campionato e di un numero maggiore o minore di goal messi a segno in tal senso.

 Di nuovo, comunque, anche questa non è una critica. Ogni programma ha la propria personalità che, molto spesso, anzi, ad andar bene, si permeata sulla personalità di chi ne è al timone. Pensiamo ai successi di Paolo Bonolis, tanto per fare un salto sull'Olimpo. E tornarcene indietro.

Non è la prima volta che Lucarelli si scaglia contro Belve e soprattutto all'indirizzo di Fagnani. Durante il Festival di Sanremo, Selvaggia è stata l'unica a trincerarsi dietro a una cortina di silenzio nei confronti dell'apprezzatissima perfomance della giornalista sul palco dell'Ariston.

 Alla fine, sostiene che "nessuno la abbia mai criticata perché lei ha molti amici tra colleghi e social". Al di là dei meme, di critiche, invece, se ne sono lette per questa ultima edizione. Anche qui su MOW. Per quanto il sentiment generale, è vero, fosse positivo. E lo è stato perché, in fin dei conti, Belve non è un brutto programma. Al netto di qualche sbandata nell'adattamento tra la seconda e la prima serata, funziona. Come mai, allora, il livore di Lucarelli, pronta anche a negare l'evidenza pur di attaccarlo? Di cosa stiamo parlando veramente?

 Selvaggia Lucarelli ha costruito il proprio personaggio, sia a livello mediatico che giornalistico, in tanti anni di pervicace gavetta, quasi sempre sotto ai riflettori, fino ad arrivare dove è oggi. E lo ha fatto nel ruolo di "cattivista", detonando critiche e polemiche feroci contro tutte e tutti. Inizialmente concentrata sul gossip e Belenrodriguezologa, poi ha scelto, sempre con relativo successo, di fare il salto e giungere a criticare qualsiasi aspetto dello scibile umano dalla politica all'attualità, passando per moda, costume e raccolte fondi truffaldine.

Tutto ciò per guadagnarsi un posto ad alzar palette nella giuria di Ballando con le Stelle, suo più grande e continuativo impegno tv finora, per quanto contrastato dai colleghi, specie nell'ultima edizione. Sono otto anni che milita nello show, come quei giurati di X Factor che stanno lì a sperare che, dopo tanto patimento, la rete, o qualsiasi rete, regali loro un programma per parlare di "musica vera". È successo a Manuel Agnelli o allo stesso Elio, per citarne due. A Selvaggia Lucarelli, invece, no.

 Anzi, quando si è pensato a un programma di interviste "feroci", non è ne è stata chiamata alla conduzione. Hanno scelto un'altra. Basterebbe per far rosicare anche il più puro di cuore. Figuriamoci la nostra. Contando, poi, tutte le persone con cui ha accumulato controversie, anche a livello legale, negli anni, si sarebbe ritrovata a intervistare a turno forse Morgan, di sicuro Scanzi, Cruciani e, alla meglio, Gene Gnocchi o Max Giusti. Forse non se la sarebbe nemmeno cavata così male nel ruolo. Non è quello che siamo qui a sostenere.

Di certo, però, sotto la sua guida, il format sarebbe diventato meno virale sul web. O difficilmente avrebbe raggiunto lo stesso "percepito" (che, come si sa, è tutto) positivo e trionfalistico. Fagnani, al netto del curriculum giornalisticamente strepitoso, non aveva una reputazione che la precedeva a livello social, di certo non forte quanto quella della "rivale" che sarebbe stata, invece, ostacolata e criticata da moltissimi fin dal minuto zero, pure a priori.

 Probabilmente, si sarà tenuto conto anche di questo, ai tempi del "casting". In definitiva, sovviene un unico pensiero che sembra difficile, a questo punto, confutare: a Selvaggia Lucarelli non piace Belve, e va dicendo da anni di aver rifiutato inviti in trasmissione, per una ragione molto semplice: non è capitato a lei.

Estratto dell’articolo di S.S. per “La Stampa” il 20 Gennaio 2023.

Selvaggia Lucarelli […]

 Lucarelli, i social ci hanno resi migliori? Peggiori? Sempre uguali?

«Per me i social sono come il successo: non è che trasformino la gente, la smascherano. Hai più libertà di azione, più potere, più strumenti per rivelare più o meno maldestramente forza e debolezze e alla fine quello che sei in potenza viene fuori. Io ero una discreta contestatrice al liceo, sui social sono una palla demolitrice, dicono».

 A lei che effetto hanno fatto?

«Sono peggiorata perché mi rendo conto che ho rinunciato a parte della socialità, quella delle banali uscite a cena con gli amici. Sono migliorata perché essendo i social la nostra memoria storica, vedo quante volte ho cambiato idea sulle cose e tendo ad assolvere con più facilità l’incoerenza altrui».

«[…] i grandi dibattiti sull’odio online? La mia netta sensazione è che si stia metabolizzando un fatto, e cioè che abbiamo accettato l’idea che una certa quantità d’odio sopravviverà a qualunque censura […]». «[…] abbiamo questa idea nostalgica dell’uso migliore che in altre epoche facevamo del tempo […] ma la verità è che se siamo scemi, senza social rimaniamo degli scemi con più tempo a disposizione». 

È poi così certo che usare i social sia solo una perdita di tempo?

«No. Io imparo un sacco di cose sull’umanità, ci sono riflessioni di altri che mi spalancano porte, discussioni che ridimensionano il mio ego, scopro storie incredibili. E poi credo che il narcisismo incanalato nei social faccia meno danni che altrove. […].

Concita De Gregorio ha scritto su La Stampa: «La costruzione di una reputazione a uso del popolo del web là fuori […] ha fagocitato l’identità. La popolarità e il consenso hanno preso il posto della competenza, della fatica che serve». Che ne pensa?

«Credo che il mito della fatica come valore assoluto sia nocivo. Ci sono meriti che imboccano strade veloci e fortunate e non per questo bisogna diffidarne perché non hanno masticato la polvere di redazioni. Detto ciò, è vero che è pieno di giornalisti che ormai aggiustano il tiro delle loro opinioni per accontentare il popolino, ma c’erano moltissime firme note, e parlo anche di editorialisti strapagati, che cercavano il consenso partorendo banalità anche prima dei social. E sono ancora lì. […]».

 Perché non siamo stati capaci di regolamentare gli scambi online?

«Non si potranno mai regolamentare. Si può migliorare qualcosa ma il grosso sfugge e quello che sfugge è il classico bug della democrazia».

 […] Il New York Times ha scritto che, senza social, Internet tornerà ad essere «un bel posto in cui stare». Lo è stato mai?

«Io sui blog mettevo le mie foto, ero più egoriferita di oggi, nei commenti c’erano gli hater che però non si chiamavano hater ma cazzoni avariati e leggevo blog altrui in cui si cazzeggiava parecchio. Solo una cosa era diversa: si potevano fare battute pessime senza venire crocifissi dalla prima Selvaggia Lucarelli che passa».

Abbiamo smarrito la differenza tra curiosità e morbosità?

«Io vedo più morbosità in tv che sui social. Una cosa buona dei social è che su certi temi, per esempio la cronaca nera, ci sono sentinelle implacabili. In tv ci sono ancora il dettaglio morboso, il servizio splatter, il talk sule mutande macchiate di sangue».

 Chi sono i peggiori tra i suoi hater?

«I giornalisti». […]

Estratto dell'articolo di Francesco Canino per ilfattoquotidiano.it il 23 Dicembre 2022.

Se farò Ballando con le stelle nel 2023? Ora c’è il furore della delusione, non so cosa farò, so che per loro sono riconfermata perché lo hanno comunicato al mio agente, io credo si debba ragionare sull’accaduto”. Piaccia o meno, Selvaggia Lucarelli è stata ancora una volta una delle protagoniste assolute del talent di Rai1: dalla partecipazione del compagno Lorenzo Biagiarelli agli scontri con Iva Zanicchi, dal “caso” Montesano agli screzi con Luisella Costamagna, tutto si è intrecciato con lei. Il risultato? Un “tutti contro Selvaggia” che ha attirato critiche e discussioni. Alla vigilia della finalissima di venerdì 23 dicembre, la giornalista e opinionista ne parla a FqMagazine, tracciando un bilancio del suo 2022. Ma non solo.

(…)

Da Radio Capital è andata via in maniera pacifica?

Sì, senza frizioni. Linus è uno di quelli che lascia grande libertà editoriale. Le pressioni, quando ci sono state, sono arrivate dai piani alti del gruppo Gedi. 

Pressioni di che tipo?

Quando ci sono stati degli articoli di Repubblica che non mi sono piaciuti l’ho detto e a quel punto dal direttore di Repubblica mi è stato chiesto di rispettare il buon vicinato. Mi disse che avrei dovuto confrontarmi preventivamente. Cosa che non ho fatto, è un atteggiamento che non mi appartiene.

Professionalmente il momento meno bello dell’anno?

Questa edizione di Ballando con le stelle, che considero catastrofica da un punto di vista umano. Dunque, perfettamente in linea con il mio 2022, un annus horribilis con dentro un mese horribilis, maggio, in cui ho subito la perquisizione dell’Antiterrorismo per mio figlio Leon, ho preso il Covid ed è morto il mio cane Godzilla. Sommando il tutto, ho dovuto rinunciare alla conduzione di un programma in Rai.

Si trattava de Imperfetti sconosciuti, un programma di Rai3 poi affidato a Cesare Bocci.

Esatto. Un programma pulito, che sentivo nelle mie corde. Mi è dispiaciuto rinunciare ma in quel periodo mio papà si è trasferito a vivere con noi e ho preferito concentrami sulla vita privata. Per indole, sono capace a pesare le rinunce, a vivere la privazione come stimolo. 

Capitolo Ballando con le stelle: con che stato d’animo arriva alla finale?

Di liberazione. L’edizione più difficile, per me, è coincisa anche con quella più lunga.

La considera un’edizione di passaggio o la sua ultima edizione?

Sono abituata a non ragionare a mente calda. Ci sono state altre due o tre edizioni in cui ho pensato “questo è l’ultimo anno, si è esaurita la vena”. Poi però si rielabora, si ridimensionano le cose anche perché è un gioco, sebbene si intrecci con la vita privata e la propria dignità professionale, non poco. Ora c’è il furore della delusione, non so cosa farò, anche perché con la produzione dovremo confrontarci sull’accaduto. In ogni caso, è meglio non lanciarsi in sentenze definitive perché si finisce come quei politici che annunciano il ritiro in caso di sconfitta alle elezioni e invece non si ritirano mai.

(…) 

Nemmeno Milly Carlucci ha mai preso posizione, almeno pubblicamente. Solo poche ore fa al Corriere della Sera ha detto: “In questo gioco io sono terza, non tocca a me fare la reprimenda, sono bravi a vedersela tra loro”. Un po’ ponziopilatesca come posizione, non pensa?

Una nota regola della comunicazione è “non prendere una posizione è prendere una posizione”. Penso che sia giusto dire che siamo adulti e ce la vediamo tra di noi per gli aspetti umani della vicenda, ma quello che accade in trasmissione riguarda più la produzione che me e gli altri del cast. Detto questo l’unica cosa che mi sento di smentire fortemente è che a Ballando siamo tutti amici. O, come sento spesso dire “siamo una famiglia”, a meno che per famiglia non si intenda una famiglia con i suoi tratti disfunzionali. 

In generale, si è sentita isolata?

Sì. E devo dire che l’uscita dal cast di Roberta Bruzzone ha acuito l’isolamento, perché eravamo solidali, la pensavamo spesso allo stesso modo. Andata via lei, non ho trovato la stessa complicità con nessuno. Anzi, era pronto un plotone contro di me.

(…) 

Chi l’ha delusa di più?

L’unico morbido è stato Ivan Zazzaroni, con cui c’è un rapporto più sincero. Mi hanno deluso tutti perché non hanno capito quando andavano abbassati i toni. Dopo due settimane di shitstorm contro Lorenzo, non ho ricevuto una telefonata, sono stati tutti duri e freddi: Lorenzo è stato il mezzo per colpire me.

(…)

Constato semplicemente che il ballo non è più centrale e che il programma è diventato un reality in cui si balla. Capisco che riempire quattro ore di diretta sia complicato, ma si è persa l’idea della sfida, la gara è diluita a tal punto che in dieci puntate sono uscite cinque coppie. Quando la Zanicchi arriva in finale, c’è qualcosa che non va. 

Chi vincerà?

Forse la Costamagna. E mi sembra che sia un’assurdità visto che si è infortunata alla prima puntata, ha ballato seduta per tre settimane, si è ritirata alla quinta per poi rientrare in semifinale. In pratica ha ballato tre puntate su 11. Meriterebbe la vittoria chiunque abbia ballato sin dall’inizio. 

(…)

Quando gli insulti sul web diventano cori o striscioni durante una manifestazione cosa accade?

Quando l’odio viene da un gruppo, che siano i taxisti o i no vax, mi spavento. Il capopopolo o il narcisista malato o fomentato pronto a passare all’azione c’è sempre. Infatti, la testata al Circo Massimo me la sono presa. 

Quando ha avuto paura?

Ho percepito il pericolo quando ancora non c’era sensibilità e attenzione sull’odio in rete e ho avuto ragione. Quando feci chiudere il gruppo Sesso droga e pastorizia ricevetti migliaia di minacce di morte ma mi spaventai davvero solo quando una persona scrisse pubblicamente qual era la scuola di mio figlio: non l’ho mai detto, ma cambiai subito scuola a Leon. 

Un’altra volta, una guardia giurata di un centro commerciale scrisse in tono minatorio che era andato a fare un sopralluogo nel posto dove Lorenzo avrebbe tenuto un corso di cucina: fu mandata via, ma chi ci dice che non tornerà?

Da leggo.it il 23 Dicembre 2022.

Selvaggia Lucarelli si toglie l'ultimo (forse) sassolino dalla scarpa in questa difficile edizione di Ballando con le Stelle per lei. Come aveva anticipato, ha deciso di mostrare quello che è successo, non solo a lei, ma al suo compagno Lorenzo Biagiarelli che in questa edizione del programma ha partecipato come concorrente. Selvaggia ha sostenuto più volte che Lorenzo sarebbe stato penalizzato perché giudicato per il suo legame con lei e non come ballerino, tesi smentita più volte dalla giuria ma che lei ha voluto dimostrare fino in fondo. 

La giornalista mostra un lungo video che commenta in un altrettanto lungo post in cui ha puntato il dito contro i colleghi giudici, accusandoli di aver capovolto la verità in maniera meschina, per addossare su di lei la colpa dell’uscita di Lorenzo Biagiarelli. «Domani finisce Ballando, ho detto no a tutti gli inviti in tv per parlare dell’esperienza, così come Lorenzo (esclusa Bortone). Non ci interessava parlarci addosso oltre il programma né sovraesporci, oltretutto insieme. 

Bastava Ballando. E mi sarei risparmiata di fare il riassunto di questa meravigliosa (!) esperienza per Lorenzo se sabato, per l’ennesima volta in trasmissione non si fosse tentato, meschinamente, di capovolgere la verità, ovvero di dare la colpa A ME per come è andata per Lorenzo a Ballando. E cioè, in parole semplici, in un modo che definirei mortificante», esordisce. 

Poi continua: «Tentativi di giocare (sul serio) sul rapporto con la ballerina, rimproveri a caso su quanto la trattasse male perché pensate, non la portava fuori dopo tre ore di prove al giorno (pensate a un mondo in cui una donna è obbligata a uscire col capo o un collega, che bello), poi fatto passare per succube mio che non balla perché lo guardo, poi senza emozioni che deve imparare da altri concorrenti. È così alla fine (che strano) non lo vota più manco mia zia, esce, non lo salvano mandando la Zanicchi in finale al posto suo tra tesoretti e card e danno la colpa a me se è uscito».

Poi nella conclusione l'attacco alla giuria è chiaro, come si percepisce anche la sua delusione: «A me che francamente sulle spalle quest’anno ne ho avute già tante. Ora, va bene tutto, però basta con questo giochino auto-assolutorio “tu sei antipatica, qualsiasi cosa accada a Ballando te lo meriti. Te lo cerchi. Te lo chiami. È colpa tua”. E se è colpa di qualcun altro scherzava. Mi spiace solo non aver avuto la lucidità, mesi fa, di dire “Non è un pensiero gentile, né l’inizio di una storia divertente”. Peccato».

Selvaggia Lucarelli: «Le suore mi hanno insegnato a essere inflessibile. Gli hater? Ho rischiato di più nei corridoi di Ballando». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

La giornalista e giurata del programma condotto da Milly Carlucci si è detta delusa da Mariotto e da Canino. «È stata un’edizione catastrofica dal punto di vista umano. Lorenzo concorrente? Un errore»

Inflessibile con gli altri. E con se stessa?

«Il mio è un metodo critico e autocritico, anche nei miei confronti alzo sempre la paletta».

Da dove viene quest’inflessibilità?

«Dai nove anni passati dalle suore, dall’asilo alla terza media, l’età della formazione. Lì respiravo sempre questo atteggiamento molto giudicante, così io stessa sono sempre lì a chiedermi se sto peccando o se sto facendo del bene, se sarò punita o se mi meriterò la beatitudine eterna... È una severità che imparato in una scuola molto rigida, si chiamava Istituto del Preziosissimo Sangue, e già dal nome prometteva bene».

E la ricerca della giustizia?

«Credo dai miei genitori; erano dei Radicali convinti, militanti, che manifestavano con Pannella, mia madre faceva i digiuni. Mi hanno insegnato a perseguire ideali, a combattere, a lottare, a non indietreggiare. Credo di aver respirato l’aria di Radio Radicale e dei microfoni aperti 24 su 24, facevano da sfondo ai miei compiti al liceo». Selvaggia Lucarelli è una che non passa inosservata, il mondo del giornalismo e dei social la ama o la detesta, divisiva a prescindere, anche per partito preso. L’edizione di Ballando con le stelle che si è appena conclusa si è polarizzata intorno al suo nome.

Ha definito questa stagione «catastrofica da un punto di vista umano». La top 3 di chi l’ha delusa?

«Mariotto perché — pur nella sua non linearità e nella sua eccentricità — ci siamo sempre rispettati forse in quanto anime indipendenti nel programma. Quest’anno l’ho trovato invece sgarbato e allineato. Mi ha deluso Fabio (Canino) perché ci conosciamo da anni, in qualche momento mi aspettavo più solidarietà. E poi l’impianto generale del programma: tutti molto generosi anche con concorrenti poco dotati nel ballo e inspiegabilmente ostili solo con me e Lorenzo (Biagiarelli, il suo fidanzato che era in gara, ma ci arriveremo, ndr)».

La cosa che l’ha amareggiata di più?

«A Ballando ci sono sempre state idee diverse, anche fazioni, a tratti. Quest’anno dalla giuria, da chi era seduto ai tavoli di fronte, dalla gente in sala guidata dallo scalda pubblico (che è a sua volta «scaldato» da qualcuno), sembrava che tutti dovessero zittirmi, insultarmi, mortificarmi. Direttamente e indirettamente tramite Lorenzo. Sono riusciti nel difficile risultato di farmi voler bene dal pubblico».

Milly Carlucci se ne è lavata le mani («In questo gioco io sono terza, non tocca a me fare la reprimenda, sono bravi a vedersela tra loro»): si aspettava un supporto, una tutela da parte sua?

«No. Dopo un po’ che lavoravo a Ballando ho capito che lì sono considerata un utile errore nella matrice, ma non parte del cast da proteggere. Mi dispiace perché io invece ho sempre giocato dalla parte del programma, mi spendo molto e non ho paura di inimicarmi il pubblico, cosa di cui chi fa tv nazionalpopolare ha il terrore».

Le frizioni in giuria, come dice Mariotto, fanno parte della «narrativa del programma»? È solo intrattenimento o è cambiato qualcosa rispetto agli anni scorsi?

«Mariotto mi ha suggerito cosa avrei dovuto fare per rendere simpatico Lorenzo e si è svelato: secondo lui quindi bisogna scrivere un copione. Io non sono così, secondo me anche per questo sono diventata un elemento forte all’interno del programma e questo ha iniziato a infastidire un po’ tutti, o quasi. Mi sembra che sia cambiata la modalità con cui ci si confronta con me: all’inizio era sulle idee ed era divertente, ora si va sull’offesa o l’attacco gratuito, con persone che hanno un preciso ruolo in commedia (prima Mussolini, poi Erra, Di Vaira), addestrate per venirmi addosso qualsiasi cosa dica. Quando vedo la premeditazione tra l’altro io ignoro, non mi diverte».

«Si fa come dico io e solo io ho ragione»: si riconosce in questo giudizio che ha dato di lei Mariotto.

«No, io non ho mai un atteggiamento autoritario con le persone, porto avanti le mie ragioni con passione, con grinta, ma non mi impongo mai. E infatti sono un battitore libero, non un capitano».

Perché Carolyn Smith ce l’ha con lei? È sempre stato così?

«Forse perché è salviniana? No dai, lo è, ma non penso sia un problema politico. Prima che arrivassi a Ballando era una donna tra quattro uomini, regina incontrastata del programma. Arrivo io e mi prendo il mio spazio, non l’ha mai accettato. Il primo anno lei mi sorrideva, poi andavo su Twitter e vedevo tutti i suoi like ai peggiori insulti nei miei confronti. Gliel’ho detto, ha smesso, ma poi ogni volta nel programma non ha mai mancato di ricordare, solo a me, che io non so niente di danza. Poi vabbè, quest’anno l’odio era tale che si rifiutava di guardarmi mentre le parlavo e anche di rispondermi, una cosa anormale».

Zazzaroni ha detto che lei si è inacidita...

«Ivan mi ha chiesto scusa, almeno con lui vorrei mantenere un buon rapporto, gli sono affezionata, anche se è un clamoroso democristiano».

Iva Zanicchi le ha dato della «tr...» in diretta. Come siete rimaste?

«Con Iva fuori dal programma i rapporti erano cordiali, mi diceva che le era simpatico Lorenzo e che le spiaceva fosse uscito. Forse era una delle sue barzellette anche questa».

Veniamo al suo fidanzato. Non pensa che sia stato un errore la partecipazione di Lorenzo?

«Sì, lo è stato. Gli amici che si occupano di tv mi avevano sconsigliata, mi dicevano che era una trappola, che era un modo per indebolirmi e attaccarmi. Sono stata ingenua, mi sono fidata. E comunque era difficile prevedere quel livore: l’ex ballerina al tavolo che gli urlava “vatti a prendere un caffè con Anastasia”; chi lo chiamava “ragazzotto”; Carolyn che “guardami negli occhi quando ti parlo” come la preside cattiva allo scolaretto. Contavano credo su mie reazioni patetiche, ma li ho lasciati fare. Si sono raccontati loro, non hanno raccontato Lorenzo».

Sia sincera. Se ci fosse stato il marito di Carolyn Smith come concorrente o un qualunque altro «conflitto di interessi» simile, lei sarebbe stata cattivissima. O no?

«No, mai. Siamo stati più volte a cena anche con lui, mi è simpatico... Guardi, c’erano due concorrenti che avevano legami di amicizia con persone a cui voglio bene quest’anno. Sono stata onesta, ho sempre detto loro quando non mi piacevano, ma ho usato qualche gentilezza in più nel farlo. Non riuscivo a non tenerne conto».

C’era un complotto per far vincere Luisella Costamagna?

«Non posso usare la parola complotto, ma c’era un orientamento generale in quella direzione, notavo un entusiasmo spropositato per le sue performance, non adeguato al livello dei suoi balli».

Costamagna è più brava come giornalista o come showgirl?

Ride: «Sono la prima che deve tacere, certo non posso sfotterla sul fatto che da giornalista si improvvisi ballerina, visto che io mi improvviso giudice di un programma di ballo. Su questo mi sento di essere clemente. Credo che abbia ragione Luisella quando dice che non si è delegittimati nel ritagliarsi dei momenti di intrattenimento. Agli uomini nessuno chiede conto delle loro “evasioni”. Quanti vanno nei programmi di calcio? Mentana non è più giornalista se commenta l’Inter?».

L’anno prossimo ci sarà?

«Non lo so. Siamo rimasti d’accordo che ci sentiremo a gennaio. E comunque io non ho mai avuto contratti vincolanti per più di un anno a Ballando, rinnovati talvolta alla vigilia del debutto. Per vigilia intendo il giorno prima».

Pensa di aver commesso qualche errore?

«L’invenzione che Lorenzo sarebbe stato sgarbato con la ballerina gli ha riversato addosso un odio feroce del pubblico con migliaia di insulti. Ecco, in quel caso forse avrei dovuto chiamare tutti, dalla produzione ai giurati, e pretendere più verità e più rispetto. Invece ho questa stupida fissazione per le cose giuste e mi sembrava poco corretto nei confronti degli altri concorrenti, così li ho lasciati fare. Sbagliando».

Non ha paura che la sua vena da polemista possa far passare anche in secondo piano alcune delle battaglie — sacrosante — che conduce?

«Non so cosa sia la vena da polemista, “polemica” è una parola che sottintende qualcosa di pretestuoso. Forse non ho sempre modi simpatici, ma io amo la verità e la verità non si può sempre infiocchettare. Cerco di interpretare i fatti nella maniera più analitica possibile, di rendere esplicito il tacito, che non è entrare in polemica, è offrire la propria lettura delle cose».

I social danno visibilità e popolarità, ma sono una macchina che esaurisce?

«Consumano, impegnano, sicuramente ho momenti di grande stanchezza, ma so mollare per giorni, so godermi le vacanze, so quando è il momento di staccare, non ho l’ansia del contenuto. Non sono una fan della condivisione, ma del racconto».

Quand’è l’ultima volta che hai detto: ho sbagliato.

«L’ho già fatto per ben due volte in questa intervista!».

Come chiederebbe Francesca Fagnani: un difetto, ma vero, in cui si riconosce?

Silenzio, il rumore del pensiero. «Non è che sto pensando perché non me ne viene in mente nemmeno uno eh... Lorenzo dimmi un difetto vero, poi ti continuo a parlare... Dice che prende sul serio tutto. Ogni tanto in effetti dovrei avere un po’ di leggerezza in più».

Ci si abitua agli hater?

«No, ma ai miei livelli ormai c’è un forte margine di accettazione. Il singolo individuo insultante per me ormai non merita più un’attenzione particolare, mi preoccupa di più l’odio organizzato, alimentato da capipopolo squilibrati, come le chat dei no vax».

Ha paura fisica a volte?

«Alla presentazione del libro a Roma lo scorso anno avevo la polizia a vigilare per le minacce dei no vax. Sotto casa mi guardo intorno, sto attenta a chi mi passa accanto. Detto ciò, mi sa che ho rischiato di più nei corridoi di Ballando quest’anno».

Serena Bortone: «Conobbi Lady D a 14 anni. Damato mi disse: trova un pitone e non mi guardare così. E io lo trovai». Maria Volpe su il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2023.

La conduttrice di «Oggi è un altro giorno» si racconta a tutto tondo. Dal 18 marzo sarà «giurata-investigatrice» nel programma del sabato sera di Rai1, «Il cantante mascherato» con Milly Carlucci

Il suo psicanalista l’aveva soprannominata «infermiera brillante» e mai soprannome fu più azzeccato. Se conosci Serena Bortone, giornalista, conduttrice, romana, 52 anni, capisci subito che, al di là delle sue capacità professionali, ha due attitudini che la disegnano perfettamente: «infermiera» perché è totalmente dedita agli altri, attenta a chi soffre, vicina a chiunque abbia un problema da risolvere; «brillante» perché ha un’esuberanza contagiosa, un’allegria e una positività fuori dal comune. Che traspare chiaramente anche nella conduzione di «Oggi è un altro giorno», dal lunedì al venerdì, su Rai1 alle 14. Una conduzione che ha portato il programma ad ottimi ascolti, ma soprattutto ad essere un perfetto equilibrio tra giornalismo (merito dei lunghi anni ad «Agorà») e intrattenimento.

Bravo il suo psicanalista...

«Sì bravo e simpatico, ogni tanto vado a trovarlo. Mi diceva di smettere di fare “l’infermiera brillante”».

E lei ha smesso?

«Nooo. È proprio nella mia natura. Dove c’è un problema mi ci butto».

Infanzia felice?

«Sì, molto. Una bambina precoce: a 5 anni già a scuola. E conducevo spettacolini con raccolta fondi per una missione in Zaire. Una volta tra il pubblico c’era anche Andreotti e rimase sorpreso dalla mia spigliatezza».

Una fotografia da bambina che le piace ricordare?

«Io vestita da suora a Carnevale, a 4 anni. Arrivando alla festa, dissi: “pace e bene”. Vinsi il primo premio. E una dove suono il pianoforte».

Ma lei è molto cattolica?

«Sì, sono cattolica democratica di formazione. La mia famiglia è profondamente cattolica e si riconosce nei valori dell’inclusione, nella solidarietà, nel rispetto degli altri. Questo mi hanno insegnato. Mamma era catechista, papà aveva studiato in seminario, è stato sindaco democristiano del suo paese».

Famiglia di sani principi e di valori.

«Ho imparato che si può sempre decidere da che parte stare nella vita».

Figlia unica?

«No, ho un fratello più piccolo che si chiama Pierpaolo e fa il Gip. E anche mia cognata fa il giudice».

Orgogliosa del suo essere single, vero?

«Sono una persona molto libera e la libertà comporta l’impossibilità di fare compromessi. Nella sfera sentimentale in particolare non sono mai stata capace di farlo. Non so se sia un bene o un male, ma io sono fatta così».

Storie importanti?

«Sì, sono stata felice in coppia. Ho avuto due importanti convivenze. Io sono una donna accogliente. Il mio amico Stefano Coletta (direttore delle prime serate di Rai1, Rai2, Rai3, ndr) dice che io sono “modalità tutti nel lettone”. Io cerco sempre di mettere insieme i mondi, di fare da connettore; la mia porta è sempre aperta».

Insomma, non ha mai sognato nè il principe azzurro, nè l’abito bianco, par di capire... Sembra più interessata alla libertà, all’amicizia, al sociale.

«Non ho mai sognato l’abito bianco e certamente non ho mai pensato che la mia vita si potesse realizzare attraverso il matrimonio. Mia madre mi ha sempre insegnato a essere indipendente. La molla della mia vita è sempre stata il lavoro. Quando andavo ai matrimoni, da ragazza, sentivo un senso di soffocamento... me lo ricordo bene. Detto ciò, non mi sono mai pentita di aver amato. E se arriva qualcuno sul cavallo bianco, ci salgo».

E la maternità?

«La mia identità non dipende dall’essere madre. Non mi è mai capitato, non l’ho cercato un figlio, non l’ho inseguito. È andata cosi».

Rimpianti?

«Nessuno, mai».

Mesi fa fu paparazzata con Lorenzo Viotti, 31enne direttore d’orchestra, che aveva ospitato nel suo programma. Si parlò di love story.

«Ma va là!».

Aveva 18 anni quando ha cominciato a lavorare al fianco del giornalista Mino Damato, nel programma «Alla ricerca dell’Arca».

«Avevo quasi il fiocco in testa. Ero entusiasta e curiosa, ho iniziato come assistente al programma. Era la Rai3 di Angelo Guglielmi, c’era tanto fermento. Ho respirato l’aria dell’etica del servizio pubblico, la voglia di sperimentare, l’idea di tv contaminante. Alto e basso. Grazie a quel programma ho conosciuto Burt Lancaster, la regina di Giordania, Nureyev. Ricordo una sera dopo il programma siamo andati tutti a cena a Trastevere insieme a Carolina di Monaco con Casiraghi; Ben Kingsley, Sting... Una bella tavolata».

C’è una sua foto giovanissima, con Lady Diana. Come mai?

«Da ragazzina andavo spesso con la mia famiglia a fare volontariato alla “Città dei ragazzi” che ospitava giovani che venivano da famiglie difficili. Il fondatore era britannico e vennero in visita gli allora Principi di Galles, Carlo e Diana. Io consegnai alla principessa un mazzo di fiori e mi colpì per la sua carnagione bianchissima e per quel modo speciale di guardare gli altri da sotto in giù. Uno sguardo accogliente che ti faceva sentire importante.. io avevo solo 14 anni».

Certo che ha fatto proprio una bella gavetta, un passato intenso.

«Sì, una palestra formidabile. Una volta Mino Damato mi disse: “Trova un pitone per La Toya Jackson”. Pausa. “Non mi guardare così. Trovalo!”. E io l’ho fatto. Una scuola che mi ha aiutato molto. Oggi dico sempre ai miei collaboratori “Proviamoci, al limite ci dicono di no”».

Lei sembra così forte, sicura di sé. Quelle che qualunque cosa facciano, riescono bene. Capaci di dare sempre il massimo.

«Sono stata una figlia “performante” sì. Spinta a dare sempre il meglio di me, con l’idea di dimostrare a me stessa e agli altri che ero brava e capace. Poi piano piano ho cominciato ad accettare i miei limiti e a non inseguire la perfezione, perché i nostri limiti sono parte del nostro essere e ci aiutano. Grazie alle amiche e alla psicanalisi capisci che ti devi perdonare: ciò che conta è coltivare solo la tua autenticità».

Un momento buio l’hai mai dovuto affrontare?

«Certo, attraversare dolore e tristezza, vivere dei fallimenti , ti fa capire che non ti devi affezionare al dolore. Alle volte il dolore diventa la tua identità, invece ho capito che non dovevo lasciarmi andare ai momenti bui, ma trovare energie per cambiare quello che non mi piaceva. La vita è breve, complicata e faticosa , bisogna succhiare il sapore della quotidianità, imparare ad accontentarsi quando non puoi cambiare le cose. Poi io detesto i piagnistei».

E i drammi d’amore... mai avuti?

«Sì certo. Ma c’è una frase di Dostoevskij che dice “L’inferno è la sofferenza di non essere capaci di amare” e dunque sono contenta di aver sofferto per amore perché se no, non avrei mai amato».

Ora conduce «Oggi è un altro giorno», ma in molti la ricordano per «Agorà»: giornalista seriosa e rigorosa...

«La politica mi ha sempre appassionato: è un grandissimo romanzo dove entra la storia. E penso che in un programma politico occorra essere sentinella del potere: la confidenza con la politica non funziona. Da giornalista politica sono severa, anche se non lo sono nella vita. Ad “Agorà” sentivo che quello era il mio ruolo».

Chi ha capito che dietro quel volto severo c’era anche una donna e una professionista con una dimensione di leggerezza?

«Stefano Coletta. Ci conosciamo da più di 20 anni, facevamo gli inviati insieme a “Mi manda Lubrano”. Dopo che se n’è andata Caterina Balivo, lui mi ha proposto di andare in onda in quella fascia oraria, dopo il Tg1 del pranzo».

E lei ha accettato. Magari non erano in tanti a pensare che avrebbe funzionato...

«Beh dovevo dimostrare di essere all’altezza di questa sfida. Lui conosceva la mia natura curiosa, “psicanalitica”, la mia voglia di unire vari mondi. Io ci ho provato anche inserendo in un contenitore popolare elementi di cultura. Ha funzionato e ne sono molto felice».

Il programma funziona sia con temi «seri», sia con temi leggeri come durante la settimana di Sanremo. Significa che?

«Che il pubblico, se tu consegni dei contenuti, ti segue».

Da sabato 18 marzo sarà giurata -investigatrice nel programma del sabato sera di Rai1, «Il cantante mascherato» condotto da Milly Carlucci. Ci sta prendendo gusto con l’intrattenimento?

«Chissà mai nella vita... No la verità è che se Milly chiama non si può dirle di no».

Esiste qualcosa che ha cambiato la sua esistenza? Le sue sliding doors?

«Le mie sliding doors sono state le letture di don Milani, il libro di Simone de Beauvoir “Il Secondo Sesso”, e “Guerra e pace”. Musicalmente il “Don Giovanni” di Mozart. E le mie estati a Londra dove ho capito cos’era la libertà».

Ha amici tra le star della tv?

«Alcuni amici, ma più che altro molte conoscenze nel mondo dello spettacolo e del giornalismo. Ho incontrato tanto affetto: Mara Venier, Milly Carlucci, Antonella Clerici. Le regine della Rai, e anche Sabrina Ferilli, sono state molto affettuose con me, quando sono arrivata all’intrattenimento di Rai1. E non lo dimentico: non era dovuto. È stata una cosa carina e inaspettata».

Sul caso Memo Remigi ha altro da aggiungere?

«No, è stata una questione dolorosa per me e per il mio gruppo di lavoro».

Le sue battaglie più forti?

«In questo periodo mi sto dedicando tanto alla situazione iraniana, è doveroso informare su quel che è successo. E tutti noi abbiamo il dovere di stare al fianco alle donne in Iran. In generale mi indignano discriminazioni, intolleranza e ingiustizie».

Lei insiste anche molto sulla memoria.

Lei insiste anche molto sulla memoria.

«Non sono nostalgica, ma se non sappiamo da dove veniamo, non possiamo guardare l’orizzonte. Io poi sono una inguaribile ottimista. Da piccola imparai a memoria il passo di Anna Frank che dice “Continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo”».

Dagospia lunedì 6 novembre 2023. Da "Radio2 Social Club"

Sigfrido Ranucci è stato ospite di Radio2 Social Club, il programma di Rai Radio2 condotto da Luca Barbarossa e Andrea Perroni, in onda dal lunedì al venerdì dalle 10.35 alle 12. 

Il conduttore di Report ha esordito dichiarando: "Sono felice di venirvi a trovare, mi strappate dalle acque avvelenate, è complicato continuare a fare questo mestiere in un contesto del genere. L'offerta della domenica sera? Complicata, ma ci stiamo difendendo. Alcuni mettono in paragone Report con Che Tempo Che Fa, ma sono due cose diverse, con budget diversi.

La puntata di ieri sera ha fatto un ottimo risultato, è stata comunque la prima trasmissione di approfondimento giornalistico del prime time, abbiamo parlato dell'infiltrazione della mafia in Veneto, una delle Regioni più ricche d'Italia, motore dell'economia". 

Ranucci ha raccontato: "Una volta stavo indossando una telecamera nascosta per entrare in un locale dove c'erano degli 'ndranghetisti che avevano ucciso tre persone. Indossavo la telecamera nascosta, mi arrivò la telefonata di mia madre che mi disse 'mi raccomando stai attento, non fare i nomi', io le risposi di non preoccuparsi.

Questa cosa è rimasta registrata nella telecamera nascosta. Il record di querele in una puntata? Era una puntata su un'inchiesta della 'ndrangheta a Verona, ci hanno fatto diciannove querele per trentasei minuti di programma, con richieste di risarcimento per circa dieci milioni di euro. Tutte archiviate".

Estratto dell’articolo di Marco Grasso per “il Fatto quotidiano” martedì 31 ottobre 2023.

“L’informazione è sotto attacco. Ci troviamo di fronte a una classe politica insofferente alle domande, che vorrebbe un giornalismo vetrina e non tollera quando invece diventa una finestra aperta sul potere, come diceva Kennedy. Un tempo ai giornalisti scomodi si sparava. Oggi si tenta di delegittimarli. Con il ricorso a querele, attaccando le loro fonti, preparando dossier”. 

Sigfrido Ranucci rimette in fila gli ultimi assalti subiti da Report: da Matteo Renzi che si scaglia contro le spese legali del programma pagate dai contribuenti alla vigilanza Rai che chiede conto della puntata sull’eredità di Silvio Berlusconi, passando alle varie azioni legali subite. 

[…]

Ranucci, a che casi si riferisce?

Posso parlare di quelli che conosco e cioè quelli subiti da Report. Dopo un servizio su Renzi si sono inventati che avevamo pagato una fonte in Lussemburgo con fondi neri della Rai. Tutto falso. L’ex sindaco di Flavio Tosi ci accusò di costruire falsi dossier su di lui, ma è stato condannato per diffamazione e un risarcimento di 15mila euro. 

[…]

Si attaccano i giornalisti per non rispondere?

Queste strategie sono armi di distrazioni di massa. Ma quando non si risponde a un giornalista, non si risponde a tutta l’opinione pubblica. Pochi giorni fa il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro si è rifiutato di rispondere a domande sulla strage di Mestre, sulla base del fatto che non voleva parlare con Report. 

In che stato di salute è l’informazione?

Non è un bel momento per la libertà di stampa in Italia. Ma non è un fenomeno cominciato con il governo Meloni, va avanti così da anni. Si è persa la figura dell’editore puro, gli imprenditori che possiedono testate spesso hanno saldi legami con la politica. La fragilità economica indebolisce i cronisti, li espone alla minaccia di azioni giudiziarie.

Nell’ultimo anno siamo stati denunciati da Giorgetti, da Fontana, da Urso, dai figli di La Russa. Non è così normale e non è rassicurante la solerzia con cui le Procure danno corso a questo tipo di querele, mentre sembrano paralizzate sul fronte del contrasto alla corruzione e ai reati contro la pubblica amministrazione. Ma c’è un altro grande fronte di questa offensiva... 

Quale?

L’attacco alle fonti e ai whistleblower. Report denunciò la truffa delle banche sui diamanti. Il risultato è stato che Bankitalia ha licenziato il funzionario che aveva denunciato anomalie, Carlo Bertini. Un altro caso è l’iniziativa giudiziaria di Matteo Renzi contro la professoressa che filmò l’incontro in autogrill con l’allora dirigente dell’intelligence Marco Mancini.

Matteo Renzi, poche ore prima che andasse in onda la vostra puntata in cui si parlava dei suoi rapporti con i sauditi, ha attaccato: “Fango da Report, peccato che la Rai paghi le spese legali a questi signori”.

Il senatore Renzi può dire quello che vuole, ma non che siamo inaffidabili. Dice di non essersi mai interessato della vendita della Fiorentina, ma il dg della Fiorentina Joe Barone conferma il messaggio che abbiamo rivelato. E se poi la preoccupazione di Renzi sono le nostre spese legali, sappia che non abbiamo mai perso una querela. 

Le azioni legali sono un’arma per silenziare i giornalisti?

Il tasso di querele a cui siamo abituati è un’anomalia tutta italiana. Andrebbe introdotta una legge in proposito. Chi presenta un’azione che viene giudicata temeraria dovrebbe poi pagare il 30% di quello che aveva richiesto. Sono sicuro che le querele crollerebbero. […]

Estratto dell’articolo di Dea Verna per “Oggi” venerdì 27 ottobre 2023.

«Quando Milena Gabanelli se n’è andata, mi ha detto: “Ti lascio Report e l’insonnia”. In effetti dormo tre-quattro ore a notte». Sigfrido Ranucci, che dal 2017 conduce il programma d’inchiesta più famoso d’Italia, ora affronta la sfida della domenica sera: un’arena che vede Report contrapporsi non solo a fiction, quiz e partite, ma anche a In onda su La7 e all’ex gioiellino di Rai 3, Che tempo che fa di Fabio Fazio, traslocato sul Nove. 

Chi ha voluto lo spostamento di Report dal lunedì alla domenica?

«La Rai aveva un problema dopo l’addio di Fazio. E ha pensato che la carta migliore per occupare quello spazio fosse Report. Su questo mi sento anche gratificato. È stata la soluzione migliore per noi? Forse stavamo bene anche dove eravamo prima. Ma non abbiamo perso spettatori. E, anche se nessuno se n’è accorto, facciamo 40 minuti in più. Non di fiction, non di chiacchiere, ma di inchieste».

Questa nuova collocazione vi penalizza o no?

«[…]Fare il paragone con Fazio non ha senso, lui fa infotainment, noi inchieste, abbiamo budget diversi. Sarebbe come metterci in competizione con Sanremo. A me spiace che uno bravo come lui abbia abbandonato l’azienda. Gli faccio i complimenti perché non era facile ottenere questi risultati. Spero li faccia anche lui a me». 

Come si trova nella Rai meloniana?

«I rapporti con i dirigenti sono buoni, improntati al rispetto. Se con questa domanda si riferisce alla libertà, continuiamo a mantenerla». 

Non teme di essere una foglia di fico?

«Una foglia di fico con le spine, nel caso». 

Ha mai ricevuto offerte da altre reti?

«Sì, e sarebbero state anche interessanti dal punto di vista economico. Ma amo la Rai, sono nato lì dentro, apprezzo che mi abbia fatto sentire libero: per un giornalista d’inchiesta non ha prezzo. Non ci sono molti editori disponibili a mandare in onda Ranucci per poi farsi togliere per un’inchiesta 6 o 7 milioni di pubblicità.

La Rai può permetterselo perché ha il canone. Ora lo vogliono tagliare. Ma attenzione, questo è il modello che ha disgregato il sistema sanitario nazionale. Tagli, tagli, tagli e poi ti rivolgi al privato. Nel nostro campo è pericoloso, infili il virus della disinformazione e della mancanza di approfondimento». 

Quante querele avete ricevuto?

«Stiamo sulle 176-177. Ogni settimana in media ne arrivano due. Ma il sottoscritto e la redazione di Report non hanno mai perso una querela per calunnia o diffamazione. Questo lo dico a Ignazio La Russa e ai colleghi giornalisti che lo hanno ospitato senza contraddittorio dopo la nostra puntata». […]

Perché lei ha la scorta?

«A causa di un progetto di omicidio. È stato individuato un soggetto in carcere che aveva preso contatti con dei killer stranieri per uccidermi. Stiamo parlando di un narcotrafficante, con legami con l'estrema destra e la 'ndrangheta». 

Per lei, è peggio fare un'inchiesta e avere grane, oppure vedere che il giorno dopo cade nel vuoto, non accade niente?

«Lo scopo di un'inchiesta è quello di illuminare le zone d'ombra. Non è vero che dopo le nostre inchieste non accade nulla. Certo, c'è un senso di frustrazione nel vedere sempre gli stessi personaggi che ruotano, gli stessi meccanismi. Però continuo a credere che si possano migliorare le cose, altrimenti non sopporterei le pesanti ricadute di questo lavoro che resta il più bello del mondo».

Ha rapporti con i politici?

«Nascono perché scatta la sindrome di Stoccolma. Qualcuno che hai toccato in passato, poi sente la necessità di comunicare con te. Ho sempre cercato di ascoltare, di capire». 

C'è una parte politica a cui si sente affine?

«Qualcuno scambia la politica con l'astuzia, per la capacità di galleggiare. Per me la politica è amore per il bene comune. Ho incontrato anche persone che prima di entrare in politica erano animate da questi sentimenti. Poi sono usciti diversi, c'è qualcosa là dentro che non funziona». 

Mi faccia qualche nome.

«No, poco importa il nome, conta la trasformazione». 

Dicono che siete faziosi.

«Non esiste una trasmissione che ha fatto inchieste su tutti, come noi. Dicono che siamo vicini ai 5 Stelle, ma abbiamo fatto puntate su Casaleggio, sulle mascherine che riguardavano il Presidente Conte. Abbiamo fatto inchieste che riguardavano la sinistra, ho avuto una denuncia da Vincenzo De Luca». […] 

Com'è stata la sua gavetta?

«[…] Da giovane avevo provato a entrare nei corsi di giornalismo della Luiss. Mi bocciarono, dissero che non ero adatto a fare il giornalista».

Tanto da procurarsi un foglio di via per tre anni del questore di Ascoli Piceno. […] Nel corso della perquisizione di ieri, poi, nella sede della etichetta discografica sono state sequestrate una pistola giocattolo, armi soft air e due machete.

Estratto dell’articolo di Nic.Car. per “la Stampa” martedì 24 ottobre 2023.

Dopo aver fatto infuriare Fratelli d'Italia per le inchieste sugli affari di Daniela Santanché e Ignazio La Russa, stavolta la trasmissione di Rai3 suscita la reazione rabbiosa di Forza Italia, per la puntata dell'altro ieri, dedicata a Silvio Berlusconi: in particolare gettando ombre sul suo testamento, sui soldi dati a Marcello Dell'Utri e sul ruolo politico della quasi moglie Marta Fascina, che ne avrebbe condizionato le scelte, compresa quella di far cadere il governo Draghi. […] domenica sera, sulle agenzie già fioccavano dichiarazioni di fuoco di vari esponenti di Forza Italia, che sono continuate durante tutta la giornata di ieri.

Il capogruppo alla Camera, Paolo Barelli, anticipa la richiesta di un'audizione in commissione di Vigilanza «di tutti i dirigenti responsabili e anche di chi fa questo uso politico del servizio pubblico televisivo». Il punto, secondo Barelli, è che «il "metodo Report" è oramai noto: diffusioni di non notizie da fonti non attendibili e ricerca di scoop inesistenti per indebolire l'immagine di qualcuno». 

E intanto, l'imprenditore piemontese Marco Di Nunzio, che sostiene di essere tra gli eredi di Silvio Berlusconi per via di un testamento non olografo e sottoscritto in Colombia poco più di due anni fa, è indagato dalla Procura di Milano […] per falsità in testamento (art. 491 codice penale) in seguito a una segnalazione delle autorità diplomatiche colombiane.

[…] Maurizio Gasparri prende di mira i vertici Rai: «Che cosa dicono di fronte a questa denigrazione basata su notizie palesemente false? È uno sconcio e un'assoluta vergogna». Dal fronte opposto ci si muove in difesa di Report e del giornalismo d'inchiesta. 

«Non è accettabile che Forza Italia intervenga a gamba tesa contro un programma di approfondimento giornalistico – dichiara Sandro Ruotolo, responsabile Informazione della segreteria Pd –. È una minaccia al giornalismo indipendente. Nessuna censura». […]

Estratto dell’articolo di Niccolò Carratelli per “la Stampa” martedì 24 ottobre 2023.  

Sigfrido Ranucci […] Secondo i dirigenti di Forza Italia avete creato «scoop inesistenti» e usato «fonti non attendibili»…

«Le nostre fonti sono tutte interne a Forza Italia, compreso un parlamentare (anonimo, ndr) e il tesoriere. Ci siamo basati su fatti, su cose scritte sui bilanci, come i 90 milioni di debiti del partito che Berlusconi si è accollato. Quanto ai lasciti, a Fascina e a Dell'Utri, è tutto nelle carte giudiziarie. E per la prima volta un ex dirigente Fininvest e tesoriere di Forza Italia, Alfredo Messina, ammette che il ruolo di Mangano ad Arcore non era quello di semplice stalliere». 

E la storia del testamento colombiano di Berlusconi? Gasparri dice che lei ha finto di prendere le distanze.

«Ora si mette anche a fare un processo alle intenzioni […]. Ho detto chiaramente in studio che noi non crediamo a quella storia, anzi abbiamo fornito elementi utili a mostrarne la non attendibilità, a cominciare dal fatto che Di Nunzio (il presunto erede, ndr) è al centro di un'indagine. In realtà, Gasparri e la famiglia Berlusconi dovrebbero ringraziarci per aver sventato un tentativo di truffa».

Invece Gasparri e Forza Italia vi vogliono in audizione in commissione di Vigilanza Rai: andrete a rispondere?

«Se ci convocano andremo, per rispetto dell'istituzione. Certo, nessuna trasmissione ha mai avuto più attenzioni da parte della commissione di Vigilanza. Cosa dovremmo andare a spiegare? Non è compito loro giudicare la qualità di un'inchiesta giornalistica, […] ci sono altri organi preposti a farlo. Cosa ci contestano? Quali regole avremmo violato?».

Secondo qualcuno c'è un tema di par condicio, visto che siete andati in onda a urne ancora aperte, proprio per le suppletive nel seggio che fu di Berlusconi.

«Non esiste un problema di questo tipo, visto che siamo una trasmissione nazionale e non abbiamo fatto alcun accenno ai candidati a Monza. Tra l'altro, mi pare che abbiamo anche portato bene, visto che Galliani ha vinto».

[…]  con questa maggioranza di destra vi state scatenando: Santanché, Urso, La Russa, ora Berlusconi…

«Ma Report è sempre stato così, abbiamo sempre fatto inchieste su chi è al governo, senza guardare al colore politico. In epoca Covid, ad esempio, con il governo giallorosso, abbiamo fatto varie inchieste sulla gestione della pandemia, toccando esponenti di centrosinistra, come l'allora ministro della Salute o il presidente della Campania». 

 Con questa destra al potere lo scontro è aumentato o no?

«Guardi, noi siamo abituati alle pressioni e alle polemiche, non ci spaventano. Ma io in Rai, anche adesso, mi sento libero di fare il mio lavoro, senza condizionamenti». 

Non è vero che hanno provato a impedire la messa in onda dell'inchiesta?

«Non lo so, nessuno me ne ha parlato. Da parte della Rai ci sono state le normali verifiche, come per tutte le nostre puntate, ma nulla di più. L'aggressività della politica la percepiamo in altri modi».

Quali?

«Abbiamo già ricevuto la richiesta di risarcimento danni dei figli di La Russa, la querela del ministro Urso, una diffida del sottosegretario Sgarbi e un'altra querela dall'ex compagno e socio della ministra Santanché. Ditemi voi in quale altro Paese succede una cosa del genere».

I 5 partecipanti e gli argomenti misteriosi. La cena-confessionale tra Lavitola, Ranucci e il sacerdote vicino al Segretario di papa Francesco. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 24 Maggio 2023 

Il caso della misteriosa cena di domenica scorsa al ristorante romano Cefalù, di proprietà di Walter Lavitola, si ammanta di giallo. E non è zafferano. Il riso c’era, a tavola. Ma nero: d’altronde è a base di nero di seppia che hanno pasteggiato i cinque commensali riparati in una tavolata d’angolo, in disparte.

Lavitola, Sigfrido Ranucci, un sacerdote importante, un giovane e una donna. Tra loro, un clima di familiarità e di confidenza, quasi di complicità. Il proprietario, Walter Lavitola, è noto alle cronache giudiziarie. Per le condanne riportate ha pagato il suo debito con la giustizia. È uscito dalla casa circondariale di Secondigliano anni fa. Per i processi ancora in piedi, parleranno gli atti. Noi siamo garantisti.

Ma sappiamo che atteso a Bari come testimone nel processo ‘Escort’ che vede imputato Silvio Berlusconi (per “induzione a mentire”), in quell’aula Lavitola non si è fatto vedere, facendo recapitare un certificato medico. “Circostanza verificatasi già nelle altre tre occasioni in cui era chiamato a testimoniare”, ci dicono dal tribunale pugliese. L’udienza è aggiornata al 30 giugno prossimo.

Curioso che mentre i giudici di Bari non riescono ad ottenere la deposizione del teste in aula, lo possa incontrare tanto agevolmente e così a lungo Sigfrido Ranucci. Non un giornalista come gli altri, come sa bene chi conosce viale Mazzini. Il successore di Milena Gabbanelli viene indicato da molti come il più battagliero dei giornalisti d’inchiesta. Tanto da essere stato scelto nel giugno 2020 da Franco Di Mare, direttore di Rai 3, come suo vice. E lì, aggrappato allo scoglio di una trasmissione finita più volte nell’occhio del ciclone, tra i marosi di ripetute polemiche – il caso degli sms di minacce inviati ad alcuni parlamentari è ancora aperto – è rimasto fino a oggi.

Passando indenne anche il redde rationem del centrodestra che ha travolto, tanto per fare un nome, Fabio Fazio. Vedremo come si regoleranno Roberto Sergio e Giampaolo Rossi. Ma prima che siano loro a chiederglielo, lo facciamo noi: cosa ci faceva Sigfrido Ranucci, maestro di inchieste e di rivelazioni bomba, a tavola con Walter Lavitola? È ammessa ogni ipotesi: lo stava filmando di nascosto, facendogli raccontare l’inconfessabile? Lo stava usando come fonte per una inchiesta? Se sì, lo apprenderemo presto.

I video, in televisione, si vedono. E forse allora vedremo una serie di scoop, su Report. Perché parrebbe che Sigfrido Ranucci da Lavitola vada a cenare con una certa frequenza. Con cadenza abbastanza regolare. Quasi come se il ristorante Cefalù fosse una sorta di club non solo di amici ma di sodali. Un refugium peccatorum. Un confessionale. Al punto che l’ultimo degli ospiti illustri al tavolo di Lavitola e Ranucci è stata quella figura di primissimo piano della gerarchia di Oltretevere che risponde al nome di Don Gianni Fusco. L’autorevole presidente dell’Unione apostolica del clero è il più fidato consigliere di Pietro Parolin – Segretario di Stato della Santa Sede – per i rapporti con le istituzioni politiche italiane.

Ed è avvocato rotale del processo sul palazzo di Londra versus Angelo Becciu. Il procedimento giudiziario in Vaticano è ancora in corso e anche qui le ipotesi sono tante: la cena serviva a far avere a Ranucci delle indiscrezioni, degli off the records? Difficile pensarlo, data la tradizionale prudenza della fonte. E invece chi ha visto e documentato la cena del nero di seppia – un professore di liceo che passava per caso – testimonia di un incontro lungo e cordiale, una chiacchierata tra amici che scherzano e bevono insieme. In alto i calici: erano ben tre le bottiglie di vino bianco scolate dai cinque. Una spensieratezza che avrebbe potuto dare libero corso a voci di ogni tipo.

La presunta malattia del Papa, con tanto di dimissioni anzitempo? In Vaticano si parla di una cosa grave, ma vai a distinguere tra spifferi e veleni. La trattativa di pace con la Russia? Gli sviluppi del caso Emanuela Orlandi, appena riaperto? Solo i partecipanti a quella cena lo sanno e lo possono dire. Lavitola, l’anfitrionico e controverso padrone di casa. Ranucci, l’uomo delle inchieste blindate dal Segreto di Stato. Don Fusco, il braccio destro della Segreteria di Stato del Vaticano. Ecco serviti, a quel tavolo, tutti gli ingredienti e i personaggi di un romanzo di John Le Carré. Inclusa la donna misteriosa e protettiva che fa da spalla a Ranucci. Sorveglia la strada dietro alla vetrata, squadra gli ospiti del ristorante, interpella i camerieri. Ma chi è? Bionda e sorridente, sembrerebbe essere anche lei di casa, da Lavitola. Ne sapremo di più, su di lei? Forse sì. Nelle ore in cui è rimasto bloccato lì davanti al ristorante, il professore che ci ha contattati sembra aver realizzato anche un filmato. Un po’ di luce sul nero di seppia.

NOTA – Al momento di andare in stampa l’articolo di ieri sulla cena Lavitola-Ranucci risulta tra i più letti di sempre sui social network e sul sito del Riformista.it, l’interesse quindi sembra esserci ma curiosamente la notizia non è stata ripresa da nessuna rassegna stampa, né dalle agenzie e dai siti di informazione. Distrazione o vera e propria congiura del silenzio per non parlarne?

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Il conduttore di Report e il bavaglio. Ranucci, la cena da Lavitola, i 22 sms a Renzi e gli insulti al giornalista del Riformista: “I miei lo hanno identificato, è uno scemo”. Matteo Renzi e Aldo Torchiaro su Il Riformista il 25 Maggio 2023 

La storia che stiamo per raccontare è molto strana. E persino divertente per tante ragioni. Il protagonista si chiama Sigrido Ranucci che un simpaticone, diciamola tutta, non sembra.

Magari ha doti nascoste di irresistibile humor ma diciamo la verità: visto in TV e letto nei messaggi che invia, tutto sembra tranne che un comico in erba. Domenica sera Ranucci va a cena in un locale chiamato Cefalù.

A capo tavola siede il discusso Valter Lavitola, personaggio noto alle cronache di una decina di anni fa. Alla sua destra monsignor Gianni Fusco, alto prelato e collaboratore del Segretario di Stato Parolin. Alla sua sinistra, appunto, il conduttore di Report.

Fare il processo alle intenzioni per gli incontri è un’attività che non riguarda il giornalismo di inchiesta, ma il gossip di basso livello. Quello per intendersi che spesso fa Report nei confronti degli altri. La notizia è semplice: una controversa figura, un monsignore non notissimo e un giornalista famoso condividono in allegria lo stesso tavolo. La pubblichiamo con un taglio basso.

Quando capiamo chi è l’alto prelato ci torniamo sopra perché sapere che Lavitola e Ranucci non solo si “attovagliano” (Dagospia dixit) insieme, ma addirittura ospitano un autorevole esponente del clero, merita attenzione. Il file del Riformista inizia a girare dalle 21. Quando il giornale arriva a Ranucci parte un film che è contemporaneamente spassoso e antipatico.

Alle 22.45 infatti squilla il mio telefonino. Solo che io sono già a letto a leggere e non me ne accorgo. Vedo la chiamata un’ora dopo. E scopro con stupore che mi sta cercando nientepopodimeno che Sigfrido. Non mi scriveva dall’11 giugno 2021, pieno caos “Autogrill”. Allora mi avevano garantito che avrei potuto rispondere in diretta alle accuse legate alla famosa vicenda dell’incontro di Fiano Romano ma poi Ranucci mi aveva personalmente comunicato che “la diretta non è possibile. Per fattori anche indipendenti dalla nostra volontà”

Alle 23.44 scrivo a Ranucci. “Mi ha cercato?” e lì partono 22 – ventidue – messaggi di Sigfrido. Mi spiega di essere sotto scorta per “un progetto di omicidio”, mi scrive che “i miei della sicurezza hanno identificato chi ha scattato la foto” (chissà se hanno rispettato le procedure necessarie per prendere le immagini) girandomi dei video di telecamere di cui lui è in possesso e che “è bene che lei sappia che il suo emissario ha fatto un’intercettazione abusiva”. Il mio emissario? Una intercettazione? Mi verrebbe voglia di dire “A Sigfrì, ma che stai a dì?”.

E poi “i suoi” della sicurezza che accedono a telecamere e diffondono immagini teoricamente coperte da riservatezza, violando la libertà e la privacy del giornalista? Tutte tesi interessanti specie se spiegate da chi su vicende analoghe diceva il contrario: come non ricordare l’Autogrill e tutte le polemiche collegate sul diritto della libera stampa di fotografare persone pubbliche?

Ci sono delle curiosità ovviamente. Come mai nessun quotidiano – con la lodevole eccezione dei colleghi, bravissimi, de “Il Foglio” – riprende questa notizia? Come mai nessuna associazione si scandalizza per chi vorrebbe mettere il bavaglio al bravo Aldo Torchiaro o ai colleghi de “Il Riformista” come di altre testate. Cioè: la solidarietà viene data a Ranucci che si fa tutte le trasmissioni Rai (e La7) per dire che no, lui non accetterà mai il bavaglio, e poi tutti zitti quando è Ranucci a voler mettere il bavaglio a Torchiaro?

E come mai Ranucci si preoccupa che nessuno pubblichi sue foto con altre persone sostenendo che essendo lui sotto scorta mette a repentaglio la vita dei suoi commensali? La stessa attenzione viene riservata ai membri delle nostre famiglie quando vengono fatti oggetto delle amorose cure di Report?

Cioè la domanda è: ma ci crede davvero o pensa che siamo tutti improvvisamente rimbambiti? Noi sappiamo bene che cosa è e come funziona la trasmissione Report di Sigfrido Ranucci. Che è cambiata rispetto ai tempi della Gabanelli. Conosciamo la rete di amicizie, spesso istituzionali, che Ranucci vanta. E che non fa mistero di richiamare ovunque. Sappiamo che Ranucci è considerato per molti un intoccabile dalla Rai al punto che ha minacciato due membri della commissione di vigilanza (il controllato minaccia il controllore?) e anziché una reprimenda ha ricevuto un buffetto. Prendiamo atto.

Ma c’è una cosa che non possiamo accettare: gli insulti. Ranucci mi scrive che la foto è stata scattata da “quello scemo di Torchiaro”. Mi indigno e replico: “Aldo Torchiaro è un signor professionista, un giornalista e non è uno scemo. La invito a rispettare i suoi colleghi. Noi rispetteremo ogni regola deontologica. Buonanotte”. E lui risponde alle 23.52: “è scemo”. Se l’ordine dei giornalisti avesse una qualche dignità domani mattina aprirebbe un procedimento contro Ranucci. Se i colleghi che hanno difeso Ranucci sull’Autogrill avessero una qualche coerenza domani mattina chiederebbero conto di questa aggressione verbale.

Se la nuova dirigenza Rai avesse una qualche volontà di novità, prenderebbe informazioni su questa vicenda. Non accadrà. E allora del metodo Sigfrido ci occuperemo noi, nei prossimi giorni. Lo faremo rispettando le regole della deontologia professionale. Quelle che Ranucci evidentemente non ricorda più. Perché insultare un collega perché fa il suo lavoro è il punto più basso per un giornalista professionista. Detto questo: se qualcuno insulta un giornalista de Il Riformista, insulta tutta la redazione. E allora questo articolo esce a doppia firma per dire che tutti noi stiamo dalla parte di Aldo Torchiaro con l’orgoglio di chi non si fa insultare, minacciare, ricattare.

Matteo Renzi e Aldo Torchiaro

La libertà di stampa e le "intercettazioni abusive" per il conduttore di Report. Ranucci e la cena con Lavitola, attacchi e intimidazioni al Riformista: La Verità ‘scopre’ il mestiere del giornalista. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 26 Maggio 2023 

Aver rivelato la cena tra Sigfrido Ranucci e Valter Lavitola – portata alla luce da questo giornale con un breve resoconto e qualche foto – ha mandato di traverso il boccone agli interessati. E di brutto. È bastato scattare una foto passando sul marciapiede a una bella vetrina trasparente per far saltare i nervi al conduttore di Report e vicedirettore di Rai Tre.

Sarebbe stato richiesto – non si sa a quale titolo – addirittura l’intervento delle forze dell’ordine e poi sollecitato, come è evidente, una serialità di dichiarazioni copiaincollate a cura dello sponsor politico più vicino a Ranucci, il Movimento Cinque Stelle. Ma riepiloghiamo con ordine: domenica sera nel ristorante Cefalù, a Roma, il conduttore di Report si incontra con quattro commensali nel ristorante del controverso imprenditore Lavitola, più volte condannato per vari reati, tra i quali associazione a delinquere e truffa aggravata sui fondi per l’editoria.

Lavitola fa il maestro cerimoniere e siede a capotavola. Con loro c’è monsignor Fusco, il braccio destro del segretario di Stato Vaticano. La cena si tiene in una tavolata d’angolo che si affaccia su un’ampia vetrata fronte strada. Il passaggio su strada è frequentato da numerosi passanti: siamo sul suolo pubblico dell’animata via dei Quattro Venti. Così siamo diventati facili testimoni di questo inedito convivio. Appena ne scriviamo, parte una sequela di messaggi incandescenti. Fanno capire subito che è stato pestato il piede sbagliato.

Quando esce l’articolo che racconta la cena ecco Lavitola che si lamenta: “Mi hai fatto stare con la Polizia qui un sacco di tempo, hanno acquisito video e fatto foto”. Quasi parlassimo della scena di un crimine. Che ci fanno le forze dell’ordine su un marciapiede, davanti a quel vetro che fa bella mostra dei clienti del ristorante? Qui la constatazione cede il passo a una narrazione surreale. “La destrezza con la quale sono state fatte le foto è preoccupante”, dettaglia Lavitola.

Un banale telefonino è invece bastato a fissare quell’immagine che evidentemente non doveva essere ripresa. E non perché unica: anzi. Perché parte di una serie di incontri – come è stato possibile ricostruire – tenutisi nel medesimo ristorante. E perché dimostrano che mentre la Procura di Bari sta faticando, negli ultimi tempi, a parlare con Lavitola, Ranucci ci riesce spesso e volentieri. Apriti cielo: le immagini delle telecamere di sicurezza del ristorante vengono acquisite (da chi?) e messe nella disponibilità del quotidiano La Verità, diretto da Maurizio Belpietro, che inavvertitamente le pubblica. Foto sin troppo banali: il giornalista che si ferma a fare una foto dal marciapiede, fa il suo mestiere.

Il suo emissario ha fatto una intercettazione abusiva”, sibila invece Ranucci a Renzi. Uno scatto con l’iPhone nello spazio pubblico diventa “intercettazione abusiva”, dunque, quando riguarda Ranucci. Le riprese con telecamera nascosta messe in onda da Report sono invece un inno alla libera informazione e al diritto di cronaca. Aver ironizzato sulle immagini fornite da un professore di passaggio (il riferimento, sin troppo evidente, è all’opaca vicenda Autogrill-Report) non sembra aver incontrato il sense of humor di Ranucci e Lavitola. Il conduttore Rai inonda Matteo Renzi di messaggi di insulti per chi scrive, inanellando a ripetizione quella che il legale ci prefigura come “lesione della dignità”. Le registrazioni private delle telecamere su strada possono invece essere acquisite e diffuse solo su esplicita disposizione dell’autorità giudiziaria.

E non ci risulta alcun atto in tal senso. Il tentativo, parliamoci chiaro, è quello di intimorirci. Farci capire che si sta parlando di intoccabili. Sui quali interviene l’applauso in batteria, con riflesso pavloviano, dei grillini. Il vicepresidente M5S Riccardo Ricciardi. La deputata Dolores Bevilacqua. Infine Dario Carotenuto e Anna Laura Orrico, entrambi in commissione di vigilanza Rai: “Un giornalista avrebbe di fatto spiato il conduttore di Report Sigfrido Ranucci, inviso a Renzi per la famosa inchiesta sul suo incontro in Autogrill con un esponente dei Servizi Segreti, nel corso di una cena. Ma c’è di più: lo stesso giornalista ipotizza i contenuti dei discorsi fatti a tavola da Ranucci, e sarebbe interessante sapere in che modo arrivi a fare determinate supposizioni”. Stiamo ai fatti. Ad oggi non c’è nessuna richiesta di precisazione e nessuna dichiarazione. Bocche cucite. Se si crede nella libertà di stampa si mettano da parte le intimidazioni e si faccia chiarezza sulla natura di quelle cenette.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Estratto dell’articolo di Nicola Sellitti per mowmag.com il 13 aprile 2023.

 È complicata a volte la vita da inviato delle tv - in questo caso Sportitalia - che per catturare consensi cerca il dettaglio in più, puntando sull’aspetto più goliardico intorno al calcio che quasi mai sa prendersi in giro da solo. Stavolta Tancredi Palmeri, inviato di Sportitalia, 15 anni di carriera in giro per il mondo, collaborazioni con beIN Sports, Cnn, Gazzetta dello Sport, davvero non ha potuto credere ai suoi occhi.

Quella bustina di cocaina mostrata da un sudamericano dinanzi alla telecamera, mentre il giornalista di Sportitalia si aggirava tra i tifosi prima di Benfica-Inter l’ha mandato davvero su tutte le furie: “Ha voluto fare il simpatico nell'euforia sventolando quella bustina”, racconta l’inviato di Sportitalia. (…)

Tancredi ci racconta che nel corso delle sue dirette ha dovuto anche affrontare di peggio. Tipo i servizi governativi iraniani a Doha, per i Mondiali di calcio in Qatar: “Dopo Iran-Stati Uniti mi sono preparato come al solito per il collegamento con la tv con cui lavoro e noto tre persone che indossavano magliette nere con i volti rigati da lacrime di sangue. Sono tre iraniani che vivono in Svezia. Li fermo, chiedo se vogliono andare in onda, ci spostiamo di cinque metri, poi si sono tutti accorti di loro, tra cui una cellula iraniana, in tunica, bandiera con simbolo islamico bianco, spedita da governo iraniano per soffocare eventuali proteste. Quando parte la diretta”, continua Palmeri, “uno dei ragazzi da intervistare tira fuori lo smartphone per un selfie e in quel momento ecco la cellula in azione, aggrediscono e soffiano il cellulare, sino all’intervento delle autorità che li porta al sicuro. Poi abbiamo denunciato l’accaduto alla Fifa e nei giorni successivi uno dei tre ragazzi si è messo in contatto con me per informare che erano tornati in Svezia, sani e salvi”.

E se tra i pericoli per Tancredi c’è stato anche il salvataggio in extremis di un amico produttore della Cnn da un manipolo di supporter inglesi un po’ alticci a Wembley che “mi avevano preso di mira dopo Inghilterra-Danimarca di Euro 2020”, la “gloria” per il giornalista di Sportitalia è arrivata per essersi messo alla guida dei tifosi azzurri su cori e balli di gioia dopo Italia-Spagna, semifinale di quella edizione degli Europei: prima l’inno nazionale, poi l’omaggio a Raffaella Carrà.

Invece la palpata al sedere ricevuta in diretta da una hostess neozelandese è stata una delle storie mediatiche della Coppa del Mondo in Qatar: “Devo raccontare un aneddoto, ero in relax sulla spiaggia di Doha, ore prima del collegamento con Sportitalia, ho avvertito una fitta al gluteo sinistro, mi giro e vedo questa ragazza che sorride, così le ho detto: ora lo fai in onda e l’ha fatto! I neozelandesi sono goliardici, sanno stare allo scherzo e così è stato con quella scenetta”, ricorda divertito l’inviato di Sportitalia.

Ma il suo ricordo professionale più intenso è un altro: “Per BeIn Sports ho lavorato a Euro 2020, oltre un’ora dopo Polonia-Portogallo mi aggiro, in solitudine, nello stadio e vedo la nazionale portoghese sul prato di gioco a fare un pic-nic con i familiari. Ho immortalato quel momento, il giorno dopo l’Uefa ha protestato, anche se avevo il pass per aggirarmi nell’impianto. È un ricordo che porto con me, qualcosa di diverso dalle interviste in zona mix o all’esterno degli stadi”.

Estratto da open.online il 12 aprile 2023.

 Nel bel mezzo della diretta per Benfica-Inter è spuntata una bustina con un contenuto bianco davanti alla telecamera. Pochi attimi sufficienti per far imbestialire il giornalista di Sportitalia Tancredi Palmeri, che ha subito allontanato la mano dello «spacciatore del luogo» facendogli poi notare la gravità del suo gesto.

«Mamma mia, questo è un imbecille totale proprio. Tu sei un imbecille te lo dico, sei un pirla patentato. Te lo meriti proprio, te lo meriti proprio, pirla patentato», dice rivolgendosi direttamente a chi si è intromesso nella diretta da Lisbona, dove stasera il Benfica sfida l’Inter nell’andata dei quarti di Champions League.

 Dopo aver notato che si tratta di una sudamericano, Palmeri suggerisce anche alla regia di tagliare il video, «così lo inviamo alle autorità portoghesi, che male non fa». 

 (...)

Fabrizio Piccolo per sport.virgilio.it il 13 aprile 2023.

Che fosse una gara ad alta tensione, e non per motivi calcistici, lo si sapeva: Iran-Usa ai Mondiali in Qatar era una potenziale bomba ad orologeria per le implicazioni politiche tra i due paesi. Alla fine poteva andare peggio ma non sono mancati episodi da dimenticare. Un tifoso Usa con la fascia arcobaleno, ad esempio, è stato cacciato dallo stadio. Prima della gara i giocatori dell’Iran, alcuni non molto convinti, hanno cantato l’inno, a differenza della prima giornata quando rimasero tutti muti. Secondo la stampa Usa le famiglie dei giocatori sarebbero state minacciate se non lo avessero fatto. Tanti i fischi dagli spalti ma i problemi più gravi ci sono stati dopo l’incontro.

Una violenta rissa è scoppiata infatti dopo la partita. A denunciare l’accaduto è Michele Criscitiello che con un tweet riporta il video in cui c’è parte dell’aggressione, in cui è rimasto coinvolto anche l’inviato di Sportitalia Tancredi Palmeri insieme ad altri tifosi iraniani.

Il cronista è stato aggredito e fermato dagli steward che lo hanno minacciato, intimandogli di non registrare alcun filmato: ad alcuni tifosi hanno obbligato di nascondere bandiere e magliette, ad una donna hanno requisito il cellulare. Tre ragazzi iraniani residenti in Svezia che indossavano la maglietta “Woman, Life, Freedom” sono stati circondati da una trentina di addetti alla sicurezza filo-iraniani e aggrediti.

Ecco il suo racconto: “All’uscita dallo stadio escono questi tre ragazzi. Avevano una maglietta sui diritti sulle donne e avevano il volto truccato con lacrime di sangue. Li fermo, li noto, era una cosa grossissima. Gli ho chiesto – ‘Vi va bene venire in diretta?’ – uno dei tre che parla in italiano ha accettato. Preparo tutto per la diretta, ma poi si raggruppa un gruppo di 20-30 tifosi iraniani con tuniche e simboli islamici”.

 “Pochi secondi dopo la ragazza caccia il telefono per fare un selfie e uno dei tifosi la colpisce. Il telefono vola, loro accerchiano i ragazzi e mi allontano per salvare la videocamera. Mentre i ragazzi provano a recuperare il telefono si crea un principio di rissa. La polizia interviene e porta con sé i ragazzi, chiudendosi nella struttura dello stadio e non ci hanno permesso di accedere. Ho comunicato poi con uno dei ragazzi che ha ammesso di avere paura di uscire ma anche di rimanere lì con i poliziotti”.

Dagospia 8 dicembre 2022. VIDEO-FLASH! – LA DURA VITA DEGLI INVIATI IN QATAR: TANCREDI PALMERI, GIORNALISTA DI “SPORTITALIA”, VIENE PALPEGGIATO IN DIRETTA DA UNA RAGAZZA IN BIKINI. LUI NON SI SCOMPONE, ANZI, GONGOLA E COGLIE L’OCCASIONE PER FARE IL PROVOLONE E ABBRACCIARE LA BELLA FIGLIOLA E UN’ALTRA “TIFOSA” INGLESE. PRESTO: FATE VEDERE QUESTE IMMAGINI A TUTTI QUELLI CHE SI INDIGNARONO PER LA PACCA SUL CULO A GRETA BECCAGLIA. PARLERANNO DI MOLESTIE ANCHE IN QUESTO CASO?

Silvia Fumarola - Estratto da repubblica.it giovedì 20 luglio 2023.

Le battute alla Alberto Sordi, le doti da imitatore, il cinismo romano stemperato nella malinconia quando parla dell’infanzia e dei genitori, la consapevolezza di essere fortunato «perché trasformare in lavoro la propria passione non succede a tutti», e al tempo stesso di non aver raggiunto tutti gli obiettivi. Tiberio Timperi conduce Unomattina estate e da settembre approda alla piazza dei Fatti vostri, in coppia con Anna Falchi, su Rai 2. Dagli inizi alla radio, ragazzino, una lunga carriera: Telemontecarlo, il Tg4, la Rai.

Giornalista, conduttore, attore doppiatore: «Sono spurio» dice ridendo. A 58 anni, tra alti e bassi privati e professionali, dopo aver detto a Pierluigi Diaco che «era pronto per la pensione», è uno dei protagonisti della stagione tv. 

Allora, addio rimandato.

«I pianeti si sono allineati. Quando a Salvo Sottile hanno affidato un programma in prima serata su Rai 3, mi hanno chiamato per I fatti vostri».

(...)

È più cinico o disincantato?

«Il cinismo mi ha aiutato a sopravvivere. Dal 1991 al 1996 ho lavorato alla Fininvest, a Milano, cinque anni fondamentali. Grande scuola il Tg4, potevi non votare Berlusconi, nessuno mi ha mai limitato. Emilio Fede era epico nelle sue sfuriate, ma ho imparato tanto».

Aveva un modello?

«Baudo, Corrado, Enzo Tortora che era affilato. Baudo faceva spettacolo con l’incidente, di Corrado amavo la familiarità».

Ha lavorato con Mike Bongiorno e Raffaella Carrà: un ricordo?

«Con Mike presentai il Festival italiano, una sorta di anti Sanremo, era un signore. Con Raffaella preparavamo Navigator, con Sergio Japino a Cinecittà. Non capivo il programma. Japino mi disse: “Io sono la televisione”, replicai: “E io il frigorifero”. Poi Raffaella fu distaccata con me». 

L’aspetto fisico nel suo caso ha contato: fotoromanzi, fiction e film.

«Ha contato. E forse è stato un po’ penalizzante, alla fine “bello e un po’ stupido”, no? Quando ho fatto la radio non c’era la telecamera, e l’avvenenza non contava. All’inizio ero cicciotello e con i brufoli». 

(...)

Se dovesse descriversi?

«Non sono incline al compromesso, non sono mondano, sono pignolo. Non mi tengo un cecio in bocca, dico la verità e voglio sentirmela dire».

Ha rimpianti?

«A Los Angeles nel 2001 mi fermò un tizio della Philip Morris, grande agenzia di modelli e attori, con un biglietto: “Compliments you are scouted”. Ero in vacanza con la mia fidanzata, non ho compilato i moduli. La curiosità di vedere cosa sarebbe potuto accadere è restata. Ma mi accontento. Se penso da dove sono partito: la casa senza termosifoni, ho patito tanto di quel freddo da bambino. Non esiste solo la tv ma anche la vita. Oggi vorrei innamorarmi di nuovo».

Dagospia l'11 giugno 2023. Comunicato Stampa

Sul caso della lite tra Tiberio Timperi e Gianni Ippoliti scoppiata nel corso della puntata odierna di Unomattina interviene il Codacons, che annuncia un esposto all'Agcom e alla Commissione di vigilanza Rai e parla senza mezzi termini di minacce e bullismo da parte del conduttore. 

"Da Timperi è arrivato oggi un esempio di cattiva televisione, un episodio che si aggiunge al caso della bestemmia pronunciata anni fa dal giornalista dagli schermi Rai e che portò , dopo una denuncia del Codacons, ad una sanzione da 25mila euro  nei confronti della rete - afferma il presidente Carlo Rienzi - L'atteggiamento odierno di Timperi, condito da minacce e frasi violente come "Parliamo dopo, facciamo i conti dopo", sembra non solo una recidiva di comportamenti già in passato sanzionati dall'Autorità,  ma una vera e propria forma di bullismo e prevaricazione, peraltro in piena fascia protetta, che viola tutte le norme e i regolamenti di settore".

"Per tale motivo abbiamo deciso di presentare un nuovo esposto contro Tiberio Timperi chiedendo l'intervento di AGCOM e Commissione di vigilanza Rai, affinché sospendano il conduttore da Unomattina e adottino i dovuti provvedimenti sanzionatori" - conclude Rienzi.

Da fanpage.it l'11 giugno 2023.

Gianni Ippoliti ha abbandonato in malo modo lo studio di Uno Mattina in Famiglia dopo aver sentito Tiberio Timperi sbuffare al suo fianco. Aveva appena iniziato a fare la sua rassegna del mattino con un primo articolo sulla separazione tra Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli, quando la reazione del collega lo ha indispettito.

"Tiberio dimmi, vedo che sbuffi", chiede Gianni Ippoliti appena sente che il collega Timperi ha appena sbuffato mentre gli sedeva accanto. "No no, niente, parliamo dopo…facciamo i conti dopo", gli risponde quasi seccato il conduttore, mentre cerca di dissimulare un quale fastidio provato poco prima. Niente da fare però, Ippoliti sembra essere intenzionato ad andare a fondo: "Parliamone subito, dai dimmi, siamo in diretta, è bello così…".  Trovando di nuovo muro, il giornalista parla esplicitamente: "Stavolta non mi muovo caro Tiberio, ti faccio un bel massaggio e mi dici cosa volevi dire", al che la chiusura netta con un "ma non ci penso proprio" che ha scatenato l'abbandono dello studio di Uno Mattina in Famiglia.

"E allora finisce qua la rassegna stampa, grazie e arrivederci", sentenzia Gianni Ippoliti. "E adesso che dobbiamo fare?", chiede Timperi, noncurante della reazione brusca del collega, che a sua volta, prima di portare via giornali e leggio, si congeda con questa frase: "Sbuffate, continuate a sbuffare".

Lo stacco dal bancone dove le imbarazzatissime Monica Setta e Ingrid Muccitelli stavano cercando di ristabilire un minimo di armonia, con accenni di risate mal riuscite, si ritiene necessario e la regia fa partire la musica di Stranger Things per passare la linea al momento degli esperimenti con il colonnello Francesco Laurenzi. Il quale, video alla mano, sembra tramortito dalla scena alla quale ha assistito e riprende goffamente le redini del della situazione, cercando di improvvisare un intervento. Non è la prima volta che Uno Mattina sembra più una riunione di condominio che una Famiglia, visti anche i precedenti tra Timperi e Monica Setta.

(Adnkronos l'11 giugno 2023.) - ''Sono anni che si verificano questi episodi: ogni volta che io parlo sbuffa, mi chiede 'ma dobbiamo proprio parlarne?', guarda l'orologio. Ma perché? Io vorrei solo essere messo nella condizione di poter fare il mio lavoro, non è possibile lavorare in queste condizioni''. A spiegare le sue ragioni all'Adnkronos è Gianni Ippoliti, protagonista stamane di un momento televisivo di imbarazzo e tensione in diretta con Tiberio Timperi nel corso della sua rassegna stampa inserita nel programma 'Unomattina', al termine della quale il conduttore e umorista ha lasciato lo studio.

Nel corso della rassegna, Ippoliti ha citato la notizia di ''una persona che si presta ad aiutare le donne quando gli ex violenti dicono vediamoci per parlare. Lui le accompagna all'ultimo appuntamento, c'è da fare un applauso. Ce ne fossero di persone che, come gli angels, fanno servizio sociale'', ha detto Ippoliti. Ma probabilmente la messa in rassegna di una notizia su un tema delicato e caldissimo come la violenza sulle donne non è stata accolta bene da Timperi, che non ha spiegato sul momento a Ippoliti il motivo -pronunciando solo un laconico ''Poi facciamo i conti dopo''- ma nelle sue stories di Instagram ha poi ripubblicato il video della rassegna con l'eloquente commento di un utente che dice ''In uno spazio di cronaca rosa non può averlo detto!''.

''Io parlo spesso di notizie serie, e mi piace dare notizie positive, sociali -si difende IPPOLITI- Oggi ho detto che questa persona merita un plauso, ce ne fossero. Qual è il problema? Io ho chiesto spiegazioni di fronte alla reazione di sufficienza di Timperi, con calma e col sorriso, ho cercato in tutte le maniere di capire ma quando mi accorgo che una persona accanto a me comincia a sbuffare, ad alzare gli occhi, me ne vado''.

Una reazione, quella di Timperi, che Ippoliti non sa spiegare: ''Io non so perché ci sia stata questa reazione, i momenti della mia rassegna fanno picchi di ascolti, faccio tutto da solo, non ho il gobbo, creo da solo la mia scaletta -dice- Vorrei solo continuare a farla al meglio, ma per farlo devo avere vicino qualcuno che mi supporta''. 

E assicura di aver ricevuto decine di telefonate e messaggi ''bipartisan, da ex capi ufficio stampa Rai, produttori esecutivi, uffici stampa, gente comune. Tutti mi chiedono perché ogni volta ci sia in studio questa reazione di insofferenza, questo atteggiamento di sufficienza. Ecco, faccio un appello: qualcuno sa qual è il problema? Se mi da una spiegazione mi fa un favore, perché io veramente sono senza parole'', chiosa Ippoliti.

Tiziano Crudeli, gli 80 anni del telecronista-tifoso del Milan: «Ma Berlusconi si innamorò di Pellegatti. Mia moglie non mi guarda in tv: si vergogna». Stefano Landi su Il Corriere della Sera l'8 Maggio 2023

L'opinionista di 7 Gold che «impazzisce» ad ogni gol dei rossoneri: «Tifo di pancia, non ho mai recitato. I pomeriggi li passo alla bocciofila, a scopa d’assi mi battono in pochi» 

Tiziano Crudeli il 24 giugno compie 80 anni. Un derby di coppa in semifinale di Champions è un bel regalo, di quelli che se va bene capitano una volta ogni 20 anni. Ed è capitato. 

«Adesso vediamo come finisce. La vigilia è lunga…».

Il volto paonazzo, il baffo come si usava una volta, le vene del collo come una sinfonia di Beethoven. Mi dica la verità, è bello essere riconosciuti per strada? 

«Per uno che mi chiede l’autografo o un selfie, ce n’è almeno uno che mi dice milanista di m…a».

La statistica è il risultato inevitabile di aver passato una vita tra radiocronache e partite raccontate in tv con l’elmetto rossonero. I maligni però dicono che lei recita… 

«Guardi, sono romagnolo, origini contadine, tifo di pancia da molto prima di finire in tv. Grido uguale sul divano di casa».

Piccolo salto all’indietro. Tiziano Crudeli nasce a Forlì nel 1943. Un dopoguerra difficile: perde entrambi i genitori e a 12 anni fa le valigie per Milano. Oggi fa l’opinionista a 7 Gold. Ma è anche vicedirettore della rivista Sprint e sport e vicepresidente del Cimiano calcio, storica società milanese che sforna giovani dai piedi buoni.

«La passione per il calcio è totale, sarei disposto a pagare per fare quello che faccio. Il lavoro per il Cimiano è importante: aiutare a coltivare il talento dei giovani ti insegna molto. Seguire i loro metodi di allenamento arricchisce le mie competenze. Vivo di calcio 7 giorni su 7».

Sarà contenta sua moglie… 

«Un po’ si vergogna, per cui si rifiuta di guardarmi quando sono in tv».

È una di quelle donne che non ha ancora imparato la regola del fuorigioco? «Peggio: una volta l’ho portata in tribuna a San Siro per una partita importante di campionato. A un certo punto mi giro e aveva gli occhi chiusi. È stato un colpo al cuore, ci sono rimasto male davvero».

Come vi siete conosciuti? 

«Per via del tennis. Ero ufficio stampa della Federazione, anche lei lavorava lì». 

I suoi due figli almeno sono dalla sua parte? 

«Mia figlia abbastanza. Andrea è un grande rossonero. Ha 32 anni, da ragazzo giocava forte nelle giovanili del Milan. Ha pagato il fatto di essere figlio di Tiziano Crudeli. Una raccomandazione al contrario. A un certo punto ha mollato, si è laureato in Filosofia e ora gioca solo a calcetto con gli amici».

Anche lei non era male da ragazzo con il pallone? 

«Un terzinaccio alla Burgnich, molto meno tecnico dei terzini di oggi. Nell’anno del militare nelle Marche ho sfiorato la serie C. Sono passato anche dalla Primavera del Milan: giocammo una partita prima di Milan-Santos. Ricordo ancora di essere rimasto folgorato dallo sguardo di Pelè».

Vedo che si commuove ancora. Un altro ricordo da lacrimuccia? 

«L’amicizia con George Weah: una volta che mio figlio stava male lo chiamò per dedicargli un gol. E poi dopo lo scudetto a Perugia nel 1999 mi fecero fare il giro di campo con la squadra».

Da ragazzino andava allo stadio? 

«Ho perso i genitori presto, sono cresciuto con zia e nonna materna. Mi portava mio fratello, che oggi non c’è più. È stato un mito, mi ha aperto tante porte».

È cambiato il modo di tifare oggi? 

«Una volta per vedere le partite dovevi andare allo stadio, oggi molti si accontentano delle tv, che inevitabilmente abbassano la soglia di partecipazione». 

C’è del romanticismo in chi preferisce seguire i vostri racconti sulle tv locali che guardare le dirette? 

«Proviamo a trasmettere emozioni. E sapere che la cronaca di un gol del Milan raccontato dal sottoscritto ha raggiunto un milione e 200 mila visualizzazioni mi commuove».

Ha mai sofferto il derby di chi è più tifoso con Carlo Pellegatti? 

«È un amico fraterno, ricordo quella maledetta Milan-Cavese in B al suo fianco per una radiocronaca. Un gigante per come ha costruito un modo di raccontare il calcio. Berlusconi se ne innamorò e lo portò a Mediaset».

Ha mai rischiato la pelle per via del volume del suo tifo? 

«Una volta a Bergamo, in quell’Atalanta-Milan in cui non buttammo la palla fuori con un giocatore a terra e poi arrivò il gol, mi aspettarono fuori dallo stadio per darmele. Ma sono fatto così, istintivo come tutti i romagnoli. Anche quando mi arrabbio in studio poi si cerca di rimediare». 

Su YouTube c’è un’epopea di video di ring con il nerazzurro Elio Corno… 

«È uno dei miei migliori amici. Non capisco l’odio nel calcio». 

Quando toglie il mantello da telecronista tifoso oggi cosa fa? 

«I pomeriggi li passo alla bocciofila di via Airaghi, in zona Mac Mahon. A scopa d’assi mi battono in pochi. Qui volevano pure intitolarmi un Milan Club, ma, sa come è, resto un personaggio divisivo».

Anticipazione da “La Confessione – Nove” il 21 luglio 2023.

Nuova puntata del programma di interviste cult condotto da Peter Gomez sul Nove: venerdì 21 luglio alle 22:45 “LA CONFESSIONE” ospita il direttore de L’identità ed ex senatore del PD Tommaso Cerno. 

Tommaso Cerno è tornato a raccontare nello studio del direttore de Ilfattoquotidiano.it della tremenda esperienza avuta da ragazzo:

"Ho avuto un rapporto molto strano con i cattolici, nel senso gerarchico del termine, perché ho fatto tutte le cose che i bambini poveri fanno da piccoli per sentirsi normali: il boy scout, il chierichetto, il cantante del coro, quello che raccoglie le elemosine… - ha spiegato l'ex senatore - Quindi ho conosciuto sia il mondo meraviglioso dell'associazionismo cattolico, ma anche quello che ogni tanto leggiamo sui giornali, ed ero particolarmente carino da ragazzino evidentemente, perché questi signori, soprattutto sacerdoti, avevano una passione assoluta per me".

Poi il giornalista ha raccontato che "a una certa età, molto bassa, ma non così bassa, come quando queste molestie cominciarono, in qualche modo mi sentivo di ricambiare questa attenzione". 

Inoltre, l'opinionista televisivo si è detto "molto colpito" dai casi di violenza sui minori "perché presentano drammi: basta soltanto che tu abbia superato quel limite per distruggere per sempre una coscienza, una vita, un sorriso".

"Ha mai pensato in tempi più recenti di denunciare, come hanno fatto altri?", ha domandato Gomez. "No, non l'ho mai pensato, ma non perché non lo ritenga giusto, anzi, invito le persone a farlo, ma perché in qualche modo è stata una parte della mia educazione, anche delle mie frustrazioni. - ha spiegato l'ex senatore - Però mi ha spinto a dire a tutti chi fossi, forse perché io dissi di essere gay molto giovane, ero ancora alle scuole superiori – adesso è normale, all'epoca non lo era – perché pensavo che dicendolo questo tipo di persone si sarebbero tenute lontane, cioè io l'ho detto perché pensavo che questa onta pubblica, che oggi non è più considerata un'onta anche grazie alle manifestazioni che io stesso per molti anni ho fatto, servisse a dire a chi lo faceva in maniera nascosta, subdola, cattiva, 'Non venite da me perché io parlo'", ha concluso Cerno. 

LA CONFESSIONE (11 eps. x 60’) è prodotto da Loft Produzioni per Warner Bros. Discovery ed è disponibile in live streaming e successivamente on demand sulla piattaforma discovery+. NOVE è visibile al canale 9 del Digitale Terrestre, su Sky Canale 149 e tivùsat Canale 9.

Valentina Tomirotti: «Ho un corpo non conforme. Ma non mi sento diversa dagli altri». Giornalista, attivista in sedia a rotelle, è nota per il suo blog. In cui racconta la vita di una persona con disabilità per smontare i pregiudizi. A partire da quelli sul sesso. Francesca Barra su L'espresso il 19 luglio 2023.

«Quando sono nata, nel 1982, non avevano detto ai miei genitori che sarei nata con qualcosa che non andava. Il medico non ha riconosciuto le mie disabilità molto apparenti: gli arti corti, la statura, la conformazione. Oggi penso: evviva, ci sono ugualmente! Però è come se non avessero dato ai miei genitori una scelta e ho questo interrogativo costante». Qualche mese dopo hanno avuto la diagnosi a Genova, in un altro centro: vostra figlia ha la displasia diastrofica.

«Forse i miei non avrebbero messo in discussione il mio arrivo nel mondo, ma non si sono nemmeno potuti preparare. Tante famiglie si disintegrano per questo motivo. Non tutti nascono con le palle d’acciaio. Non si devono trattare le famiglie come supereroi a cui è capitato un problema con cui devono fare i conti da soli».

Valentina Tomirotti è una giornalista mantovana, un’attivista in sedia a rotelle con la quale gira in lungo e in largo per raccontare la sua sfida contro i pregiudizi sulla disabilità. Conosciuta da anni grazie al suo blog “Pepitosa”, una pietra preziosa come sa di essere, ha raccontato il suo mondo senza stereotipi: dal sesso al corpo, fino alla denuncia di difficoltà strutturali ed emotive.

«Non tutelano la famiglia. Mia madre l’hanno abbandonata in una stanza di ospedale, addirittura veniva ignorata con il suo stupore, i suoi interrogativi: dai più banali a quelli inconfessabili. Avevano una grande incognita sul mio destino. Ho una malattia genetica non degenerativa, ma loro non sapevano come affrontarmi. Per fortuna i miei sono una coppia molto affiatata, hanno fatto scudo, ma non è stato facile e non si deve dare per scontato che sia per tutti possibile. Nel mio asilo non mi volevano se non con la maestra di sostegno, ma io non ne avevo bisogno e ho cambiato paese per frequentarlo. È stato difficile fare capire che il corpo e la testa non sono connessi: la mia testa funziona benissimo».

La disabilità non rende meno uguali, speciali o eroi e questa sarebbe la vera conquista comunicativa. «La cosa più difficile è dimostrare di non subire l’etichetta che mi porto addosso. So di essere una persona disabile, ma sono una persona e il mio valore, ciò che mi determina, è il lavoro, la mia affettività, la mia vita. Non sono migliore o peggiore di altri perché sono su una sedia a rotelle. Nella rappresentazione mediatica veniamo raccontati per un caso di cronaca o, al contrario, il racconto è viziato dall’eccessiva ricerca di un’eccellenza. Manca una normalizzazione delle nostre vite. L’immagine del disabile fa paura, non veniamo inseriti nel quotidiano. Esiste, ad esempio, un conduttore televisivo seduto in carrozzina? O un articolo che non inizi con l’espressione «nonostante tutto»?

Cinque anni fa Valentina si fece fotografare in lingerie e divenne un manifesto di libertà: «Sono proprietaria di un corpo non conforme. E quindi?». «Avevo trentacinque anni e ambivo a un dialogo sulla sessualità che ho e che vivo serenamente. Oggi sono innamorata, ho una persona accanto, fra alti e bassi come chiunque. Anche se è complicato a livello pratico, non lo è nella coppia: il mio partner non è il mio badante. Luglio è il mese del Disability Pride: divulghiamo, dialoghiamo come merita. Invito le aziende e i media a farsi carico del tema, a mettersi al nostro fianco per darci valore ed eco di cultura».

Veronica Gentili, al posto di Belén alle «Iene»: «Mi ha voluto Piersilvio Berlusconi. Il bacio tra me e Travaglio? Siamo amici da molto tempo». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 3 ottobre 2023.

La giornalista debutta alla conduzione del programma di Italia 1: «La tv è anche recitazione. La cattiveria però non fa in nessun modo parte delle mie qualità» 

La tv è recitazione?

«Senza dubbio, la tv è tecnica, devi pensare a come restituisci ai telespettatori il contenuto che vuoi veicolare, non puoi non valutare ritmo e tempi, non puoi non pensare a come tieni lì i telespettatori, per me è stato fondamentale quello che ho imparato negli anni in cui ho fatto l’attrice».

Veronica Gentili è il nuovo volto delle Iene (ogni martedì in prima serata su Italia 1). Diploma all’Accademia nazionale d’arte drammatica Silvio D’Amico, poi la carriera del giornalismo con qualche contraddizione apparente, firma del Fatto Quotidiano, ma anche conduttrice (di Controcorrente) su Rete 4, due mondi che non si toccano. «Credo che ci sarebbe stata contraddizione se una cosa avesse inficiato l’altra, se fossi stata costretta a portare un approccio stile Fatto all’interno di una conduzione di Rete4; quello sarebbe stato distonico. Ci sono contesti in cui posso tirare fuori il mio punto di vista e altri in cui devo solo fare da ponte a contenuti altrui. Se non si pone il problema l’editore, non vedo perché me lo devo porre io».

Non ha rischiato di essere una foglia di fico in un mondo che non le è affine?

«Non mi sono mai sentita un’utile idiota. Conta come conduci il programma, come costruisci la trasmissione, mi fregio di aver portato un mondo plurale in tutti questi anni, di non aver mai preso ospiti per fare il gioco di qualcuno. Sarei stata una foglia di fico se avessi snaturato me stessa, prestandomi a fare da megafono a idee non mie: ma non è stato così».

L’idea del suo approdo alle «Iene» è stata di Pier Silvio Berlusconi.

Sorride con autoironia: «Capiremo presto se è stata un’intuizione geniale o una svista colossale».

La prima reazione?

«Ma che, siete matti? Sono rimasta esterrefatta, stupita e perplessa, è stata una proposta inaspettata. Però si tratta di una grande opportunità di crescita in termini di visibilità e di un grosso cambiamento rispetto a quello che stavo facendo».

Non ha paura di diventare meno credibile?

«È una domanda sacrosanta che infatti mi sono posta subito. Ma non credo, rimango convinta che i compartimenti stagni e i muri non esistono. In mezzo a questo profluvio di media e di sollecitazioni non credo all’ortodossia in cui non ti contamini con niente».

Le «Iene» hanno una formula ibrida che mescola intrattenimento e informazione, è il primo passo per dedicarsi al solo intrattenimento?

«No, resto profondamente legata al giornalismo e porterò alle Iene contenuti in questo senso, facendo anche servizi in esterna. Quindi non lo vedo come un ponte verso l’intrattenimento; ci sono però trasmissioni di infotainment in cui si può fare anche un lavoro di informazione significativo. Nel mio percorso ibrido faccio valutazioni anche in questo senso».

In cosa l’ha aiutata aver fatto l’attrice?

«È stata un’esperienza molto funzionale alla conduzione tv perché mi ha aiutato a gestire il controllo dell’emozione, a evitare gaffe che nel mondo dei social diventano gigantesche».

Occhio alla «transumanza»...

«Bisogna sempre contare fino a 10, solo che in diretta non hai 10 secondi. Devi allenare i 10 secondi interni, quelli che ti consentono di valutare una frase 7 volte senza che il resto del mondo se ne accorga».

Bisogna essere iene per affermarsi in tv?

«Tutti credono di sì e probabilmente è vero, ma io sono quanto di più lontano esista dalla iena; la cattiveria non fa in nessun modo parte delle mie qualità».

Quest’estate sono uscite delle foto in cui sembrava baciare Marco Travaglio.

«Ne abbiamo riso. Marco è un caro amico che frequento abitualmente con amici in comune. La prima volta in cui uscirono foto che ipotizzavano una liaison tra me e lui risalgono a un sacco di anni fa. Ormai dovremmo essere prossimi alle nozze d’oro...».

Anticipazione stampa da OGGI mercoledì 27 settembre 2023.

La nuova conduttrice delle «Iene» Veronica Gentili prende l’eredità di Belén Rodriguez e ne parla in un’intervista a OGGI, in edicola domani: «Lei è una donna bellissima, dalla sensualità ultraterrena: sotto alcuni punti di vista, il confronto mi turba, perché c’è un piano su cui è impossibile gareggiare. Ma abbiamo due storie e due professionalità talmente diverse che sarebbe come mettere in competizione una fiorentina e la pasta al pomodoro». E chiarisce: «Chi si aspetta di vedermi vestita di latex, rimarrà deluso. Certo, mi riapproprierò di un’età, e di un corpo, che nel talk politico ho dovuto “schermare”». 

Poi racconta un aneddoto del suo passato da attrice: «Sono stata fidanzata con Roberto Pappalardo (attore di cinema e teatro, ndr). Ricordo che una volta mettemmo in scena I tre moschettieri. Facevo la mamma di Riccardo Scamarcio, che era D’Artagnan. Durante una scena Riccardo si è avvicinato troppo e Pappalardo, che interpretava Rochefort, arrivò urlando: “Scama’, liev e mani a cuoll” (toglile le mani di dosso). E io: “Stiamo calmi prima che degeneri nel sangue”».

E sui baci a Marco Travaglio, divulgati da foto paparazzate, dice: «Il mio compagno Massimo Galimberti (produttore creativo e docente universitario, ndr) si è fatto delle grasse risate. Con Travaglio, se fosse vero, saremmo ormai alle nozze d’oro».

Estratto da corriere.it il 18 luglio 2023.

Lei gli cinge il collo con un braccio e lo bacia a occhi chiusi. Lei è Veronica Gentili, 41 anni, conduttrice di «Controcorrente» su Rete4 - ma in autunno debutterà a «Le Iene» al posto di Belèn Rodriguez -; lui invece è Marco Travaglio, 58 anni, il direttore de «Il Fatto Quotidiano». 

I due sono stati fotografati al termine di una cena in compagnia in queste sere d’estate, a Roma. E «Diva e donna», il settimanale di Cairo Editore, diretto da Angelo Ascoli, in edicola mercoledì 19 luglio, mostra in esclusiva le immagini.

Al termine della serata con amici, i due si salutano con un bacio. Del resto, proprio per «Il Fatto» Veronica Gentili ha iniziato a scrivere sette anni fa, mettendo in stand by la carriera da attrice (a 17 anni ha debuttato diretta da Gabriele Muccino) per dedicarsi al giornalismo.

Estratto dell’articolo di Massimo Galanto per tvblog.it l'8 giugno 2023.  

[…] l’ipotesi Veronica Gentili alla conduzione de Le Iene – anticipata ieri dal nostro Massimo Falcioni – rischia di trasformarsi in un caso. […] la manovra che potrebbe portare a Le Iene la giornalista attualmente alla guida di Controcorrente e di Stasera Italia Weekend ha provocato tensioni tra Mediaset e Davide Parenti, il capo de Le Iene.

[…] due stagioni fa dopo gli addii di Alessia Marcuzzi prima e di Nicola Savino poi, Mediaset avrebbe voluto Federica Panicucci come conduttrice per il programma simbolo di Italia 1. Un’idea che sarebbe stata bocciata sonoramente da Parenti (che, a quanto ci risulta, ha un rapporto diretto con l’amministratore delegato Pier Silvio Berlusconi) e dai suoi più fidati collaboratori. 

A quel punto sarebbe nata una sorta di trattativa […] culminata con la scelta di Belen Rodriguez. Un nome che inizialmente non sarebbe stato accolto da entusiasmi esagerati lato Parenti, ma che sarebbe stato ‘digerito’ senza troppi problemi, a maggior ragione se affiancato a quello di Teo Mammuccari, la cui carriera è legata a Le Iene.

Passano i mesi, arriva la nota rottura tra Parenti e Mammuccari e spunta un nuovo nome suggerito da Mediaset. Trattasi di Enrico Papi, altro volto sul quale il Biscione sembra voler puntare molto. Anche in questo caso la soluzione indicata dall’azienda di Cologno Monzese non avrebbe generato euforia […] Alla fine arriva l’intesa, con la Rodriguez promossa a conduttrice unica, con accanto tre comici poco noti al grande pubblico, Max Angioni, Eleazaro Rossi e Nathan Kiboba.

Questo è tutto quello che sarebbe accaduto prima che emergesse l’ipotesi Veronica Gentili, molto stimata dal direttore generale dell’informazione Mediaset Mauro Crippa. I punti deboli della giornalista, a detta dell’ambiente Iene […] sarebbero rappresentati da una scarsa riconoscibilità da parte del pubblico, dal fatto di essere fuori target rispetto alla trasmissione e di non essere riuscita a imporsi – anche in termini di ascolti – nei programmi di news che nelle scorse stagioni ha condotto su Rete 4 e Italia 1. […] 

Silvia Fumarola per “la Repubblica” - Estratti giovedì 30 novembre 2023.

Girare con lui per Sanremo era un’impresa: “C’è Mollica!!!”, e vai con saluti, baci e abbracci. 

Rockstar formato famiglia.

«Vabbè, sono stato in tv per una vita, l’affetto è reciproco». Per gli amici è “il presidente”, soprannome che lo fa ancora ridere. Vincenzo Mollica è entrato a far parte della redazione del Tg 1 nel 1980, gavetta agli Esteri con Enrico Mentana («assunti a due giorni di distanza») poi cronista agli Spettacoli: amico di Fellini, Benigni, Fiorello, Celentano, un legame speciale con Sophia Loren e Marcello Mastroianni.

Appassionato di fumetti, su Topolino è diventato Vincenzo Paperica: «È la cosa di cui vado più orgoglioso». Settanta anni, nato a Formigine in provincia di Modena, cresciuto in Canada, porterà in scena una vita ricca di incontri con lo spettacolo L’arte di non vedere , l’11 gennaio a Roma all’Auditorium Parco della Musica e il 15 a Milano, all’Arcimboldi. 

Vincenzo, perché questo titolo?

«Perché da un po’ mi accompagnano tre delinquenti: la cecità, il diabete e il Parkinson. “Omerico non lo sarò mai per le poesie ma per mancanza di diottrie”, “mi fido ciecamente” ormai lo posso dire finalmente. Che dice?». 

Che la sua arma è l’ironia?

«Sempre. Quando ho perso la vista, Andrea Camilleri, che ha avuto lo stesso guaio, mi incoraggiava: “Vincenzino, non perdere la memoria dei colori, ricordati il rosso, il bianco, il giallo. Sognali. Tutto sarà a più fuoco”. Ricordo l’ultimo incontro a casa sua: “Ti voglio abbracciare”. Non vedevo io e non vedeva lui. Valentina Alferj, la sua assistente, ci fece toccare con le mani. Me lo porto sempre in tasca quell’abbraccio, quando le giornate si fanno più scure. Ma ignoro cosa sia la depressione» .

Nel suo saluto in sala stampa a Sanremo, nel 2020, quando è andato in pensione, ha citato Fellini: “Non sbagliare mai il tempo di un addio o di un vaffanculo. Se lo sbagli di un solo secondo ti si potrebbe ritorcere contro”. 

Ha seguito la massima?

«Permanentemente. Un’altra è mia e gliela consegno: al saluto al Tg 1 ho ringraziato i colleghi e i figli di mignotta. Si ricordi, avendo preso la strada opposta, che vanno ringraziati anche quelli». 

Sarà fatto. Che combina nello spettacolo?

«Qualche editore sconsiderato mi ha proposto di fare un libro ma non sono il tipo da autobiografia. Racconterò un po’ di cose, vado in scena prima che mi dimentichi tutto. Ci sono io, una sorpresa, ospiti, i filmati che hanno accompagnato la mia vita e quello che mi manderà nella testa il Padreterno. Da quando la vista mi ha salutato, ho capito quanto contano la memoria e gli altri sensi. Aiutano a vedere, perché quello che non vedi, lo immagini. Fellini diceva: “Nulla si sa, tutto si immagina”, entri in un’altra dimensione».

La intimorisce il pubblico?

«Sono fortunato, ho un rapporto bellissimo con il pubblico. Sono andato in pensione da tre anni, è come se non ci fossi mai andato.Mi hanno adottato». 

Anche tanti amici famosi.

«Benigni è un poeta, quello che tocca diventa luce e emozione, Fiorello “fiorellizza”, con l’ironia fa fiorire i prati. È un regalo della vita. Ti sveglia ogni mattina col sorriso, ti fa vedere quello che è sotto gli occhi e non vedi. È una fortuna avere amici così, come è stato fondamentale per me Celentano». 

Con Mentana siete entrati insieme al Tg 1. Vi sentite ancora?

«Siamo rimasti amici con lui, Clemente Mimun e Lamberto Sposini. Ho una stima infinita per Enrico, abbiamo vissuto nove anni al Tg 1, andavamo tutte le sere a mensa con due tecnici con cui facevamo la notte, uno era cattolico e uno ateo. È il più grande telegiornalista, furetto della memoria». 

La Rai, che è stata la sua casa, non sta vivendo una stagione brillante.

«Per me il servizio pubblico, dal primo giorno che sono entrato, è stata la mia bandiera, la mia guida, la mia verità e a questo mi sono sempre attenuto. La Rai deve fare servizio pubblico».

Le dispiace quando dicevano: “Mollica buono come il pane”?

«Ho fatto il cronista, non il critico, e come tale mi identifico ancora oggi. Ho saputo ascoltare chi avevo davanti. E rispetto le opinioni degli altri, le critiche sono utili. 

(…)

Vincenzo Mollica: «Festeggio i 70 anni con Fiorello. Non vedo più, ma so immaginare». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2023.

Il compleanno del giornalista, gli amici, la malattia: «Vivo felice. I miei rimpianti? Bob Dylan e Mina». La festa: «Con mia moglie Rosemarie e mia figlia Caterina». Instagram: «Ora le recensioni le faccio sui social. Al Tg1 incontravo solo artisti che mi piacevano»

Vincenzo Mollica nel suo ex ufficio in Rai, dove lavorava al Tg1: è andato in pensione tre anni fa

Vincenzo Mollica, buon compleanno: oggi sono 70!

«Grazie! Fino ai 60 si contano le decine, dai 70 in su si contano per unità. Quindi oggi compio 7 anni e a questa età si torna a vedere le cose da un’altra prospettiva, più giocosa e festosa».

Intanto su Topolino in edicola indossa di nuovo i panni di Paperica, il suo alter ego pennuto che dà la caccia a mille Vip assieme a Paperino e Paperoga.

«È un regalo di Giorgio Cavazzano, il Raffaello dei disegnatori disneyani, e di Roberto Gagnor, che lo ha sceneggiato. E naturalmente di tutta la famiglia di Topolino. Sa che ho pubblicato lì il mio primo disegno a 7 anni?».

Davvero?

«Vivevo in Calabria. Avevo mandato Qui, Quo, Qua dentro una carrozzina, portati a spasso da Paperetta Yè-Yè, che cantava allegramente».

Musica e disegno, le passioni della sua vita. Cui dobbiamo aggiungere il cinema. Quante interviste ha fatto?

«Non le ho mai contate. Però nel 1980, quando sono entrato in Rai, ho fatto 50 servizi, l’anno dopo 150 e poi circa 250 l’anno. Rai Teche e RaiPlay trasmetteranno un’antologia delle più belle in 40 anni di Tg1: Molliche: le interviste di Vincenzo. Mi piace molto, anche perché il Tg1 per me non è mai stato un posto di lavoro, ma un sentimento: passione, curiosità e fatica. Mi ha regalato la possibilità di incontrare persone speciali che non potrò mai dimenticare».

Ogni tanto ripensa a questi incontri straordinari?

«Adesso che non ci vedo più, sono i ricordi che si fanno vivi. Quando hai il buio negli occhi, cerchi pensieri che possano illuminarlo, cerchi di vedere quello che non vedi nella maniera più festosa. Si sarà capito che io sono quello del bicchiere mezzo pieno...».

Che effetto le faceva stare vicino ai grandi personaggi?

«Ricordo con particolare amore gli incontri con Federico Fellini, con Sophia Loren, Roberto Benigni, Massimo Troisi, Adriano Celentano, Vasco Rossi... Le interviste sono belle quando le persone con cui parli ti regalano qualcosa che sveglia qualcos’altro che hai dentro di te. Andrea Camilleri, Hugo Pratt, Andrea Pazienza, Guido Crepax. Per non dire di Leonard Cohen, Alda Merini, Paolo Conte... Tutte le volte sono uscito da questi incontri sentendomi una persona migliore. Con alcuni sono nate delle belle amicizie, legami veri».

Come va con «gli amici non graditi», come li definì lei: il Parkinson, il diabete e il glaucoma?

«Continuano a essere non graditi, ma cerco di andarci d’accordo ogni giorno, faccio del mio meglio, mettendo sempre davanti a me quella cosa fantastica che si chiama speranza, ironia, che ti fa vedere anche ciò che non vedi».

Quali canzoni le risuonano di più, adesso?

«Ci sono dei versi che ascolto con emozione particolare. Uno è di Guccini, nella canzone Incontro, quando dice: “Siamo qualcosa che non resta/ Frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno”. E poi l’inizio di Santa Lucia, di De Gregori: “Per tutti quelli che hanno occhi/ E un cuore che non basta agli occhi”. Sento che mi somigliano. Come quando Paolo Conte canta: “E caso mai possiamo farci anche un bel giro con quelle due, ma ci vedi tu fin là”: un’espressione bellissima».

Chi le sarebbe piaciuto intervistare e non ci è riuscito?

«Solo due persone: Bob Dylan e Mina, per i quali nutro un’ammirazione sconfinata. Ma ho avuto la possibilità di incontrarli e di scambiare qualche parola con loro».

Qualcuno la criticava perché parlava sempre bene degli artisti che intervistava.

«Ma io in 40 anni di Tg1 ho incontrato solo chi mi piaceva. E se c’era qualcuno che non mi piaceva cercavo di raccontarlo usando l’arma dell’ironia, avvicinandomi comunque con rispetto».

Ora le sue recensioni le fa su Instagram.

«Cerco di mettere due versi in rima dei pensieri che mi stanno a cuore, ricordando e segnalando quello che mi piace. I video li fa mia moglie Rosemarie: sta diventando una cineasta di primo livello».

Come festeggerà oggi?

«Al mattino con Fiorello, in diretta: è una persona speciale, vorrei che i miei 70 anni fossero allegri come i suoi programmi. E poi in famiglia, con Rosemarie e mia figlia Caterina, che sono la festa migliore che mi potesse capitare».

Ha un desiderio da esprimere soffiando la candelina?

«Ormai sono entrato nell’età in cui quello che stai vivendo ti basta e sei felice. Sono stato per tre anni apprendista pensionato. Adesso sto concludendo un nuovo apprendistato: quello per trasformare l’arte di non vedere in qualcosa che si può immaginare».

Feltri: «Basta balle, parliamo come mangiamo». Giorgio Gandola su Panorama il 5 Novembre 2023

Sulfureo, anticonformista come sempre, allergico alla retorica. La nuova battaglia del giornalista più amato (e più odiato) è in difesa delle parole quotidiane, ormai «pastorizzate» da una falsa uguaglianza. Ne scrive in un libro e dice a Panorama: «Mi piace chiamare le cose con il loro nome». «Con le parole si può giocare ma non si scherza». Vittorio Feltri osserva l’orizzonte e, come il duca d’Auge ne I fiori blu di Raymond Queneau, lo trova poco chiaro. Perché la lingua è cosa seria e noi la stiamo distruggendo a colpi di politicamente corretto. «Uno dei primi segni di un potere totalitario e liberticida è il controllo del linguaggio», spiega il prestigioso giornalista, oggi direttore editoriale de Il Giornale. Vedendo edulcorare o sciogliere nell’acido dal perbenismo conformista termini come «zingaro», «bidella», «frocio» e perfino «vecchio», ha deciso di dare l’allarme. E ha scritto il libro Fascisti della parola (Rizzoli) per denunciare l’aggressione più insulsa della nostra storia: quella al dizionario.

Direttore, c’è la tendenza a mettere il burqa alle parole. Perché è necessario ribellarsi?

L’imposizione della censura di alcuni termini è assurda, in questo modo stiamo distruggendo la lingua. Già l’italiano è un latino sbagliato, così creiamo i presupposti per un impoverimento culturale. A me piace chiamare le cose con il loro nome. Del resto, si diceva parla come mangi.

Chi sono i fascisti del linguaggio?

La sinistra moralista, vittima delle mode, ha smarrito morale ed etica ma si concentra sull’uso dei vocaboli e dei suffissi facendone una malattia. Se aggiungi l’astina alla vocale «o», se declini tutto al femminile, se anziché dire «ministro» dici «ministra» - sebbene questo ci rimandi subito alla «minestra» -, allora sei una bella persona. Altrimenti vieni etichettato quale maschilista tossico e pure farabutto.

Quali sono le parole proibite?

«Negro» è la più proibita di tutte. Ne sa qualcosa Fausto Leali, espulso dal Grande Fratello Vip per aver messo nella stessa frase «negro» e «razza». Per fortuna il fiume Niger non lo sa e scorre senza scandalizzarsi.

Ma dov’è l’offesa?

La mia generazione ha sempre usato la frase «lavorare come un negro» per indicare un’attività particolarmente faticosa, con riferimento al lavoro nelle piantagioni ai tempi dello schiavismo in America. Trattasi di Storia, non di manifestazione di disprezzo. Lei dice omosessuale o gay? Evito, non so più come definirli. Non sono omofobo, non mi interessa ciò che succede fra le lenzuola degli altri, faccio già fatica a occuparmi delle mie. Ma sono in imbarazzo. Ricordo che quel genio di Paolo Isotta, a chi lo apostrofava come gay, rispondeva con orgoglio: «Io non sono gay, sono ricchione».

Da dove deriva la passione per la parola anodina, senza sapore?

Dal conformismo dell’Occidente omologato e appiattito. Perfino Vladimir Putin l’ha capito ci ha provato, non chiamando l’invasione dell’Ucraina «guerra» ma «operazione militare speciale».

Però ha sparato ugualmente. Perché lei è così sensibile all’uso del dizionario?

Perché l’ho frequentato fin da piccolo. Allora ero un capoccione e non volevo andare all’asilo. Così mia mamma, che doveva lavorare perché il papà era morto, mi affidava a sua sorella, la zia Tina. Lei aveva l’abitudine di leggere il giornale ed io, sentendomi escluso, protestavo. Così mi sedevo su uno sgabellino e le chiedevo: questo cosa vuol dire?

Dopo sei mesi leggevo, dopo altri sei scrivevo. La vocazione del giornalista mi è venuta allora. Invece che andare all’asilo ho fatto il praticantato con la zia Tina. Oggi le zie sembrano salve, ma «papà» e «mamma» sono considerati fuori moda. Non si possono più pronunciare, va per la maggiore il genitore unico. Se pronunci o scrivi mamma e papà invece di genitore uno e due sono cavoli amari. Tuttavia non posso fare a meno di rilevare che è semmai discriminante la distinzione tra un genitore numero uno e un altro numero due.

Chi dei due sarà il numero uno?

Numerare le persone è un modo subdolo di annullare le identità. Ma per me c’è qualcosa di più intimo.

Ce lo rivela?

Sono orfano di padre da quando avevo sei anni. Sono cresciuto con gli insegnamenti della mamma e sono fortemente convinto che l’educazione vera avvenga in famiglia, non a scuola. Negli anni quell’educazione ha perso valore perché le famiglie sono meno coese. Un tempo a pranzo o a cena si stava insieme e a tavola si parlava di tutto. Adesso il papà sta davanti alla Tv, la mamma «sminestra» e i figli sono attaccati allo smartphone.

Dove vuoi andare?

Feltri ci parla dall’ospedale dove sta facendo dei controlli. Improvvisamente entra qualcuno nella stanza. «È arrivato a trovarmi Mario Draghi, che piacere.

Possiamo risentirci fra una mezz’ora?

Grazie»... Poi Feltri richiama, si riparte. Direttore, ma lo sa che nel libro cita 12 volte Laura Boldrini? Per forza, è una delle principesse delle fesserie di genere. Ma un giudice è un giudice, non una giudicia. La lotta al vocabolario è anche velleitaria. Ricordo il Festival di Sanremo, che un tempo era il festival della canzone italiana mentre oggi è il festival delle polemiche all’italiana, del 2021. Una protagonista finita nell’occhio del ciclone femminista fu Beatrice Venezi, che si definì «direttore d’orchestra» anziché «direttrice». Capirete che dramma, ma la signora fu massacrata. Per il buon progressista è disdicevole pronunciare le parole «patria» e «patriota».

Ami la patria?

Benissimo, sei un criminale. Eppure il senso di patria ci è stato insegnato da bambini. Un sinonimo è nazione, ma adesso facciamo la guerra anche ai sinonimi. Distorcere il linguaggio è un segno di ignoranza abissale; «populista» è diventato un vocabolo ingiurioso. «Popolo» dovrebbe essere una parolaccia, eppure la Costituzione dice che è «sovrano» in democrazia. E per favore non si azzardi a dire «terrone», ogni tanto le scappa. Mai stato un insulto, deriva da terra. Noi bergamaschi siamo polentoni ma quando ce lo dicono nessuno osa offendersi. Ci piace la polenta, la cuciniamo, la mangiamo.

Che problema c’è?

Se qualcuno vive male una parola, è per una concezione errata dell’interpretazione. Mi hanno anche accusato di aver offeso Andrea Camilleri. Oltre al politicamente corretto, chi è responsabile dell’imbarbarimento della lingua?

La Chiesa, che ha abolito il latino dalle preghiere, provocando un tonfo nella lingua italiana che dal latino deriva. Quando devo smascherare un finto studioso gli chiedo la consecutio temporum, che non è una conseguenza dei tempi... Anche in molti giornali il politicamente corretto è una religione. Forse non c’è più l’eskimo in redazione, per citare quel libro, ma la mentalità è sempre quella. Intanto nello scandalo del Calcioscommesse siamo stati bruciati da Fabrizio Corona. Per lui è stato facile, frequenta un mondo di poche luci e molte ombre che non è il nostro. Quella vicenda è la dimostrazione della stupidità umana. Non credo alla ludopatia, malattia sociale molto seria; mi sembra più l’incapacità morale di tenere la rotta da parte di ragazzotti arricchiti.

Che giudizio dà del governo di Giorgia Meloni?

Estremamente positivo su di lei, ma ho parecchie riserve sulle persone che la circondano. La pensa così anche Draghi. Io sono consigliere regionale in Lombardia e non immaginavo che il livello culturale dei politici fosse così basso. C’è un’altra donna sotto i riflettori, Elly Schlein.

Il nuovo corso è utile al Pd?

Sì, per mandarlo in malora. Non riconosco più la sinistra, una volta si occupava di battaglie anche di civiltà. Oggi si compatta sul salario minimo, una fregnaccia. Del salario minimo dovrebbero occuparsi i sindacati, che a loro volta non fanno più il loro mestiere. Eppure il nostro Paese ha un’immagine positiva all’estero. Gli altri ci valutano per la classicità, che comincia dalle parole, dal rispetto della lingua. Partendo dall’impero romano e da inventori come Guglielmo Marconi, che non era laureato, possiamo ribadire che noi italiani non siamo proprio delle schifezze. Abbiamo grandi personaggi ai quali ispirarci, invece siamo solo capaci di dire «Piove, governo ladro» sui social. Mi sembra un tantino riduttivo. Però parlo così perché sono vecchio. Altro termine dal quale girare alla larga. Vero. Ci si scandalizza per il razzismo, ma il più evidente è nei confronti dei vecchi che secondo intellettuali economisti e nipoti fanno schifo e devono morire. Facciano solo il piacere di lasciare in eredità la pensione.

Caro Vittorio, niente scherzi e basta lamenti: il tuo posto è qui. Un tweet di Vittorio Feltri mi ha fatto raggelare il sangue. Alessandro Sallusti l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Un tweet di Vittorio Feltri mi ha fatto raggelare il sangue. Dice: «Dio bono si fa fatica anche a morire. Non ce la faccio». L'ho chiamato, era a casa reduce da un veloce ricovero e voglio tranquillizzare i lettori (i parenti lo sono già): Vittorio Feltri non sta morendo, come potete constatare anche oggi leggendo l'articolo di fondo di questo giornale, è sul pezzo, un po' acciaccato ma assolutamente sul pezzo.

È che a Vittorio, quando si parla di salute, piace metterla giù più dura di quel che è, in sintesi gli girano gli zebedei, come direbbe lui, per avere ottant'anni e gli inevitabili conseguenti problemi che capisco possano costituire una scocciatura. Quindi, caro Vittorio, basta fare il moribondo narcisista sui social perché qui c'è bisogno di te come prima e più di prima. Se pensi di defilarti dall'impresa con questi mezzucci ti sbagli di grosso e non te lo permetteremo.

Se proprio vuoi crepare, crepa; ma fino a che avrai un alito di vita ricordati che il tuo posto è qui in redazione a capotavola per fare quello che hai sempre fatto: scrivere, mugugnare per tutto quello che non funziona, rompere gli zebedei a tutti noi. Perché a morire si farà anche fatica, ma molta meno di quella che serve per fare tutti i giorni un bel giornale e tu lo sai.

Quindi rimboccati come hai sempre fatto le maniche e non rompere.

Con affetto, Alessandro e la tua redazione.

Estratto dell’articolo di Cesare Zapperi per corriere.it l'1 ottobre 2023.

Direttore, ha allarmato tutti con il suo tweet di un paio di giorni fa: «Dio bono, si fa fatica anche a morire. Non ce la faccio».

«Ma io scrivo in italiano — sbotta Vittorio Feltri — cos’è che non si capisce?» 

Uno potrebbe capire che sta morendo.

«Ma no... È una costatazione che faccio da quando sono al mondo. A volte si fa fatica anche a morire. Ma io voglio tutt’altro. Io rinuncio a morire. Mi sembra chiaro. Col c... che voglio andare all’altro mondo». 

Tiriamo un sospiro di sollievo. Ma allora cosa le è successo?

«Un paio di settimane fa sono stato sottoposto ad un piccolo intervento chirurgico. In sè nulla di grave, ma la ripresa è un calvario per chi come me ha 80 anni. Ho perso le forze, devo recuperare le energie e i tempi di recupero sono lenti. Ma io mica mollo».

L’intervento era legato a qualche problema del passato (Feltri è stato operato per un «insolito» tumore al seno)?

«L’anno scorso ho avuto un versamento polmonare. Nella zona del polmone sinistro mi è rimasto un grumo che mi procurava qualche problema. Mi sono affidato ancora una volta alle cure di Giulia Veronesi […]». 

È dura la convalescenza in ospedale?

«La degenza, rimanere bloccati a letto, avvertire la mancanza di forze. Non riuscire a stare in piedi non è una bella sensazione. A quest’età, poi, i cattivi pensieri vengono spontanei...». 

Nessuno si è accorto di nulla, però. Ha continuato a scrivere editoriali e a curare la posta dei lettori del Giornale.

«Sì, non sono in condizioni di andare al giornale ma ho scritto tutti i giorni (ieri compreso per l’editoriale di oggi in prima pagina, ndr). Non ne posso fare a meno. Questa è la mia vita». 

Il direttore Alessandro Sallusti le ha scritto una lettera aperta in prima pagina per invitarla a smetterla di «fare il moribondo narcisista sui social perché qui c’è bisogno di te come prima e più di prima».

«È stato molto affettuoso, lo ringrazio. Mi ha commosso». 

Quando tornerà in redazione?

«Per ora non ce la faccio (la voce è affaticata, ndr). Ho ancora un’autonomia limitata. Ma tra una settimana, al massimo una decina di giorni, torno alla mia scrivania. Io senza giornale non so stare». 

Quel tweet ha evocato la morte. Lei ci pensa o rimuove il pensiero?

«A 80 anni ci pensi, eccome. Ma in me […] scatta un senso di rivalsa. Una voglia di stare bene, fosse anche per una sola settimana in più, che mi rimette in pista». 

Gli anni pesano?

«Certo. Quando ho compiuto 80 anni […] ho avuto un vero colpo al cuore. Quand’ero ragazzino 80 anni mi sembravano un traguardo irraggiungibile. Ora che ci sono arrivato mi rendo conto che le aspettative si accorciano di giorno in giorno...». 

Ma è già pronto a ripartire.

«E ci mancherebbe altro. Comincio a stare meglio e l’umore è già cambiato. Mi dovranno sopportare ancora per un po’».

Vittorio Feltri: «Ho fatto un intervento e la ripresa è un calvario: ma mica mollo. Io rinuncio a morire». Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera l'1 ottobre 2023.

Il direttore tranquillizza dopo le preoccupazioni sorte per un messaggio sui social («Si fa fatica a morire»): «Ho subito un piccolo intervento ma continuo a scrivere» 

Direttore, ha allarmato tutti con il suo tweet di un paio di giorni fa: «Dio bono, si fa fatica anche a morire. Non ce la faccio».

«Ma io scrivo in italiano — sbotta Vittorio Feltri — cos’è che non si capisce?»

Uno potrebbe capire che sta morendo.

«Ma no... È una costatazione che faccio da quando sono al mondo. A volte si fa fatica anche a morire. Ma io voglio tutt’altro. Io rinuncio a morire. Mi sembra chiaro. Col c... che voglio andare all’altro mondo».

Tiriamo un sospiro di sollievo. Ma allora cosa le è successo?

«Un paio di settimane fa sono stato sottoposto ad un piccolo intervento chirurgico. In sè nulla di grave, ma la ripresa è un calvario per chi come me ha 80 anni. Ho perso le forze, devo recuperare le energie e i tempi di recupero sono lenti. Ma io mica mollo».

L’intervento era legato a qualche problema del passato (Feltri è stato operato per un «insolito» tumore al seno)?

«L’anno scorso ho avuto un versamento polmonare. Nella zona del polmone sinistro mi è rimasto un grumo che mi procurava qualche problema. Mi sono affidato ancora una volta alle cure di Giulia Veronesi (la figlia di Umberto, ndr). Mi ha operato con un robot. In sala operatoria non mi sono accorto di nulla. È stato subito dopo che ho avvertito il peso dell’operazione».

È dura la convalescenza in ospedale?

«La degenza, rimanere bloccati a letto, avvertire la mancanza di forze. Non riuscire a stare in piedi non è una bella sensazione. A quest’età, poi, i cattivi pensieri vengono spontanei...».

Nessuno si è accorto di nulla, però. Ha continuato a scrivere editoriali e a curare la posta dei lettori del Giornale.

«Sì, non sono in condizioni di andare al giornale ma ho scritto tutti i giorni (ieri compreso per l’editoriale di oggi in prima pagina, ndr). Non ne posso fare a meno. Questa è la mia vita».

Il direttore Alessandro Sallusti le ha scritto una lettera aperta in prima pagina per invitarla a smetterla di «fare il moribondo narcisista sui social perché qui c’è bisogno di te come prima e più di prima».

«È stato molto affettuoso, lo ringrazio. Mi ha commosso».

Quando tornerà in redazione?

«Per ora non ce la faccio (la voce è affaticata, ndr). Ho ancora un’autonomia limitata. Ma tra una settimana, al massimo una decina di giorni, torno alla mia scrivania. Io senza giornale non so stare».

Quel tweet ha evocato la morte. Lei ci pensa o rimuove il pensiero?

«A 80 anni ci pensi, eccome. Ma in me, anche o soprattutto di fronte alle malattie, scatta un senso di rivalsa. Una voglia di stare bene, fosse anche per una sola settimana in più, che mi rimette in pista».

Gli anni pesano?

«Certo. Quando ho compiuto 80 anni, per quanto non fosse cambiato nulla rispetto al giorno prima quando ne avevo ancora 79, ho avuto un vero colpo al cuore. Quand’ero ragazzino 80 anni mi sembravano un traguardo irraggiungibile. Ora che ci sono arrivato mi rendo conto che le aspettative si accorciano di giorno in giorno...».

Ma è già pronto a ripartire.

«E ci mancherebbe altro. Comincio a stare meglio e l’umore è già cambiato. Mi dovranno sopportare ancora per un po’».

Feltri: «Pugliesi sfaticati» e da S. Ferdinando parte la battaglia giudiziaria contro «Libero». Il prossimo 12 settembre sarà celebrata davanti al gip l’udienza di opposizione alla richiesta di archiviazione nei confronti del cronista Andrea Morigi, indagato per diffamazione in seguito ad una denuncia presentata dal docente. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 3 settembre 2023.

È finita davanti al Tribunale di Milano la battaglia giudiziaria fra un giornalista del quotidiano «Libero» e il professor Luigi Cassio Telesforo Dipace, originario di San Ferdinando, presidente nazionale dell'associazione «I cittadini contro le mafie e la corruzione». Il prossimo 12 settembre sarà celebrata davanti al gip l’udienza di opposizione alla richiesta di archiviazione nei confronti del cronista Andrea Morigi, indagato per diffamazione in seguito ad una denuncia presentata dal docente.

La vicenda trae spunto da un altro procedimento giudiziario, nato da una querela che sempre lo stesso Dipace aveva presentato contro l’ex direttore Vittorio Feltri, la cui posizione è stata archiviata. Feltri, ospite nel 2018 di una trasmissione su Retequattro aveva detto: «In una regione come la Puglia, ad alto tasso di disoccupazione, i pugliesi invece di stare a grattarsi le palle a casa, andassero a raccogliere le olive e a lavorare la terra». Una considerazione che aveva indotto Dipace a trascinare Feltri in Tribunale per tutelare l’onorabilità di tutti i pugliesi. Ma i giudici hanno ritenuto insussistente la diffamazione. Morigi, a sua volta, è stato denunciato per aver riferito di una richiesta di risarcimento a dire di Dipace mai avanzata. 

Feltri contro i pugliesi: «Andate a raccogliere le olive invece di grattarvi». Le affermazioni shockanti del direttore di Libero ospite su Rete 4 in diretta con il governatore della Puglia Michele Emiliano, hanno acceso la miccia sui social. GRAZIANA CAPURSO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 luglio 2018.

«La Puglia ha un alto tasso di disoccupazione. Allora dico ai disoccupati pugliesi: invece di stare a casa a grattarsi le palle vadano a raccogliere le olive, vadano a lavorare la terra, senza aver bisogno che arrivino dei negri a lavorare per conto loro». Con queste durissime parole Vittorio Feltri in diretta ieri sera a 'Stasera Italia' su Rete 4 ha attaccato i pugliesi. Il direttore di Libero, ospite in diretta con il governatore della Puglia Michele Emiliano, ha letteralmente insultato gli abitanti della nostra regione in attesa di un'occupazione.

«E' una cosa indecente! Non abbiamo lavoro? Lavoriamo la terra. Ma che male c'è - ha continuato - mica è una vergogna lavorare. Fate lavorare i pugliesi, i campani...lavorino tutti invece di chiamare i poveracci che arrivano dall'Africa!».

Affermazioni che fanno male e che sono state ribadite da Feltri anche su Facebook con un post sulla sua pagina ufficiale.  

Un post che ha creato tanta indignazione, scatenando una vera e propria pioggia di insulti sui social. Tra un «Vai a schiacciare i ricci col c...» e un «Sei un trim...» c'è anche chi esige delle scuse: «Lei non si deve permettere - scrivono - chieda scusa a chi ha lavorato anche nei campi, sottopagato e sfruttato e si è stancato di esserlo». «Se ci riesce per una volta, si vergogni - commentano - perché lei, dall'alto della sua poltrona da direttore non ha nemmeno idea di cosa voglia dire lavorare dieci ore sotto al sole cocente per 20 euro al giorno». 

Estratto dell’articolo di Vincenzo Bisbiglia per il Fatto Quotidiano il 25 giugno 2023.

La “patata bollente” alla fine costa cara a Vittorio Feltri e Pietro Senaldi, rispettivamente editorialista e direttore responsabile del quotidiano Libero. La Corte d’Appello di Catania ieri ha confermato la sentenza di primo grado che condannava Feltri (attuale consigliere comunale di Fratelli d’Italia a Milano) a 11mila euro di multa e Senaldi a 5mila euro di multa per aver diffamato a mezzo stampa l’allora sindaca di Roma, Virginia Raggi. 

Oggetto del contendere, la prima pagina del quotidiano milanese del 10 febbraio 2017, su cui campeggiavano a caratteri cubitali, appunto, la scritta “Patata bollente” e la foto dell’allora prima cittadina capitolina. La Corte d’Appello ha confermato il diritto al risarcimento danni, da definire in sede civile. In riforma della sentenza di primo grado a Senaldi è stata anche revocata la sospensione della pena. I giornalisti si sono sempre difesi parlando di una “metafora” che richiamava una “situazione di forte difficoltà” in cui ci si rischia di bruciarsi.

Ma il mal riuscito gioco di parole in prima pagina era un’evidente allusione alle polemiche che in quel periodo avevano investito l’allora neo sindaca Raggi: i guai giudiziari di alcuni componenti dello staff e della giunta, alcune nomine “infelici”, la foto scattata sul tetto del Campidoglio mentre parlava con un suo collaboratore e soprattutto a un certo chiacchiericcio becero su cui lucrava l’opposizione. 

(...)

Insomma, per il giudice l’iniziativa del quotidiano andò ben oltre le pure feroci critiche che venivano rivolte alla sindaca in quel periodo. Tanto che presero le distanze anche i presidenti di Camera e Senato dell’epoca, Laura Boldrini e Pietro Grasso. “Quel vergognoso titolo non ha offeso solo me ma tutte le donne: mi auguro che questo episodio serva come monito” ha commentato Raggi, assistita dall’avvocato Alessandro Mancori.

Estratto dell’articolo di Massimo Fini per il Fatto Quotidiano il 25 giugno 2023.

Estate 1993. Vittorio Feltri dirige l’Indipendente da un anno e mezzo e l’ha portato dalle 19mila copie cui l’aveva lasciato l’ameba similanglosassone Ricardo Franco Levi a 120mila, un exploit unico nella storia dei quotidiani italiani del dopoguerra.Tutto sembra andar bene. Se Montanelli lascia il Giornale, come deve fare perché Berlusconi è diventato un uomo politico, ci arriverebbero senza colpo ferire altre 40 o 50mila copie e l’Indipendente potrebbe diventare Repubblica degli anni Novanta e del Duemila e oltre. In agosto Vittorio mi invita a cena, in una normale pizzeria perché allora non amava i locali eleganti che predilige oggi e non cercava di vestirsi “all’inglese” (nel Cyrano lo prenderò bonariamente in giro: “Nessun inglese si è mai vestito all’inglese”).

Feltri mi fa questa terrificante domanda: “Se vado al Giornale vieni con me?”. E io a cercare di spiegargli che è un errore, professionale, politico e anche, a parer mio, personale. Finita la cena, entrambi un po’ brilli, alziamo i calici di vino e Vittorio dice: “In culo al Berlusca, restiamo all’Indi”. Questa scena si sarà ripetuta almeno quattro volte. L’ultima “in culo al Berlusca, restiamo all’Indi”, il giorno dopo passa al Giornale. E lì da forcaiolo che era (“il cinghialone” appioppato a Craxi trasformando così le legittime inchieste di Mani Pulite in una sorta di caccia sadica, Carra in manette sbattuto in prima pagina, accanimento sui figli di Craxi, Stefania e Bobo che toccò a me difendere) iniziò a bombardare Mani Pulite e a difendere i tangentari. Io gli diedi del “traditore”, del “voltagabbana” ma lui, che pur come ogni prima donna è permalosissimo, me la lasciò passare.

Feltri si portò via tutta la struttura dell’Indipendente e tutti gli editorialisti. Io rifiutai. Il giovane editore Zanussi ebbe la dabbenaggine di chiedere proprio a Feltri di indicargli un direttore per l’Indi e Vittorio scelse ovviamente “il peggio fico del bigoncio”, Pia Luisa Bianco. Avrei potuto farmi avanti e certamente la direzione me l’avrebbero data perché, dopo Feltri, ero la prima firma del giornale. 

Ma non lo feci perché non mi sentivo in grado di dirigere un giornale e comunque con Vittorio dall’altra parte non ci sarebbe stata partita (una volta Vittorio mi confidò: “Tu scrivi meglio di me”; “Può darsi – risposi – ma io non sono in grado di dirigere un giornale visto che non sono capace di dirigere nemmeno me stesso”).

Senza Feltri, la struttura che aveva creato e gli editorialisti che si era scelto, l’Indi capitombolò. Feltri più volte mi aveva fatto offerte perché andassi con lui al Giornale e alla fine, visto che la situazione precipitava, decisi di accettare. Combinammo i termini della collaborazione. Dovevo solo parlare con l’amministratore Roberto Crespi per formalizzare il contratto. Crespi mi parlò per mezz’ora, in termini quasi militari, delle strategie e delle tattiche del Giornale, cose che a me interessano nulla. Per interrompere quell’insopportabile arringa gli chiesi a che squadra tenesse. Disse: “Tenevo alla Juventus, ma adesso tengo al Milan perché mi piace il bel gioco”. Tornai da Feltri: “Non vengo più”. Se non si poteva nemmeno tenere alla squadra del cuore, era chiaro che, nonostante tutte le assicurazioni che mi aveva dato Vittorio, non avrei potuto scrivere liberamente.

Il miracolo dell’Indipendente fu dovuto anche al fatto che Vittorio vi faceva scrivere tutti, di destra, di sinistra, di centro e pure estremisti di ogni sorta, ma il giornale conservava un’unità e un’identità ed era proprio lui a dargliela. Si era inventato il “feltrismo”. Dopo che era passato al Giornale lo accompagnai a Bergamo, la sua città. 

Il pubblico, tutto leghista, rumoreggiava contro di lui. Dissi: ”Non potete insultare così un uomo che vi ha sostenuto per anni”. Sotto il banco Vittorio mi strinse la mano. È l’unico contatto fisico che ho avuto con lui, ma ciò che davvero ci unisce è una forte malinconia di fondo.Un altro exploit Feltri lo aveva fatto con l’Europeo diretto da Lanfranco Vaccari: lo portò da 80mila a 120mila copie. Dell’insuccesso dell’Europeo di Vaccari io ero in buona parte responsabile. Il giovane Vaccari mi aveva assunto perché oltre alle solite inchieste ed editoriali, gli facessi anche un po’ da ‘consigliori’. Io, ispirandomi all’Europeo di Tommaso Giglio, volli un giornale molto rigoroso, quasi khomeinista. Ma non funzionò, altri tempi, di sbraco direi, stavano venendo avanti.

Di fronte al fenomeno Lega, Feltri si comportò come sempre dovrebbe comportarsi un giornalista: non lo demonizzò, come tutti gli altri giornali, ma cercò di osservarlo e capirlo e, poiché io questa posizione l’avevo assunta almeno un anno prima di lui, ciò spiega il successo del suo Europeo: la Lega di Bossi al Nord prendeva quasi il 50 per cento.Anche quando eravamo in freddo, come è stato spesso nella nostra altalenante amicizia, Feltri mi pubblicava pezzi che nessun altro giornale avrebbe osato pubblicare. Uno, “Cerco Ideali. E sono disposto a tutto”, iniziava così: “Vorrei essere un talebano, avere valori fortissimi che santificano il sacrificio della vita, propria e altrui. Vorrei essere, per lo stesso motivo, un kamikaze islamico. Vorrei essere un afghano, un iracheno, un ceceno che si batte per la libertà del proprio Paese dall’occupante, arrogante e stupido. 

Avrei voluto essere un bolscevico, un fascista, un nazista che credeva in quello che faceva. O un ebreo che, nel lager, lottava con tutte le sue forze interiori per rimanere un uomo. Vorrei far parte dei ‘boat people’ che vengono ad approdare e spesso a morire sulle nostre coste. Perché sono spinti almeno da una speranza. Vorrei essere ed essere stato tutto, tranne quello che sono e sono stato per 60 anni e passa: un uomo che ha vissuto nella democrazia italiana”.

Tutto si può rimproverare a Feltri tranne che gli manchi il fiuto del giornalista. Mi venne in soccorso anche in un’altra occasione. In un giugno canicolare e patibolare la Rizzoli mi aveva liquidato, con altri giornalisti un po’ stupiti di vedermi lì, nell’agenzia del lavoro di via Lepetit 8 senza farmi ricevere neppure dall’ultimo dei manager. Io rimuginai l’amarezza per un mese, poi telefonai a Vittorio con cui all’epoca ero ai ferri corti: “Vuoi sapere cosa succede realmente al glorioso gruppo Rizzoli-Corriere della Sera?”. Lui pubblicò due mie colonne in prima pagina e due pagine interne. Ogni frase era da querela, se non fosse stata vera. Ma i dirigenti del Gruppo Rcs non alzarono orecchia...

(...)

Estratto dell’articolo di Elvira Serra per il Corriere della Sera il 27 giugno 2023. 

Enoe Bonfanti è una signora di 85 anni dalla dolcezza struggente e la tempra d’acciaio. Riservata per carattere e scelta, da 55 è la moglie di Vittorio Feltri.

Cosa gli ha regalato per gli 80 anni?

«Niente, sono io il suo regalo. E lui lo sa».

 (...)

Il suo difetto più grande?

«È un gran borbottone. E se non ha tutte le sue cose a posto tira qualche bestemmia». 

Il pregio?

«È diretto e non porta rancore, dopo una lite si ricomincia da capo. Ed è generoso». 

Mi faccia qualche esempio.

«Beh, ha ricomprato le campane di Guardialfiera, in Molise, dove andava con gli zii durante l’infanzia. Durante il Covid ha aiutato economicamente una prostituta del quartiere che aveva dovuto smettere, perché la sua bambina era tornata a casa dal collegio: alla fine le ha anche trovato lavoro in una biblioteca».

(«Precisiamo che non sono mai andato con una prostituta», tuona il patriarca). 

Lui dice che non l’ha mai tradita: ha «diversificato».

«Le sue diversificazioni sono state molto fastidiose e non mi sono mai piaciute.

Giurava di non farlo più, ma giurava il falso. Diceva che erano sciocchezze: si giustificava come quelli che fanno le corna e minimizzano».

(Lui: «Che brutta parola le corna!». Lei: «Sì, ma è brutto anche farle!»). 

Si è scoperto dov’era finito quando sparì per tre giorni?

«Avevo chiamato il suo amico Botti per sapere dove fosse. “Sarà in qualche bisca a giocare a carte”, rispose. Però deve averlo avvisato perché quella sera tornò. Abbiamo provato a chiarire, ma non c’era niente da chiarire...». 

Perché non lo ha lasciato?

«Non ero indipendente economicamente, dove andavo? Mia madre era morta e mio padre viveva in Val Seriana, lì c’erano appena le elementari, che futuro avrei garantito ai nostri figli? E poi non avrei mai voluto che crescessero lontani da lui».

Ricominciò a lavorare.

«Dopo 10 anni dalla nascita dei figli andai a Rete 4. Facevamo le scalette dei programmi. Un giorno venne Berlusconi e chiese al direttore di conoscere la moglie di Feltri. E quello: “Ma non lavora qui”. Lo scoprirono così». 

Liti memorabili?

«Normali. Lui tende ad alzare un po’ la voce e siccome sono permalosa gli tengo il muso. Ma tanti anni fa mi sono imposta di fare subito la pace e così è più contento». 

(...)

Vita mondana con Vittorio?

«Mai fatta. Quando ha preso il Premio Ischia mi ha chiesto di accompagnarlo, e io sono rimasta in albergo a pulire i gerani del terrazzo della stanza: mi sono divertita». 

(...)

È maschilista?

«No, sono sicura di no perché considera le persone come persone, maschi o femmine che siano. Non giudica quello che uno fa, dice che sono cavoli suoi. L’ho visto anche con i figli: Mattia si rifaceva il letto, aiutava ad apparecchiare e sparecchiare come le sorelle. E quando loro dicevano di voler fare le principesse, replicava che dovevano studiare, scegliere una professione ed essere indipendenti». 

Quando si è ammalato si è spaventata?

«Molto. Qualche volta mi disperavo e poi mi facevo coraggio. Diventa difficile, dopo tanti anni, immaginare di non poter più stare insieme». 

Come vi chiamate?

«Io lo chiamo Babbo e lui mi chiama Bonfanti». 

Un vostro rito domestico?

«Guarda sempre la partita in questa stanza. Quando l’Atalanta segna mi chiama al telefono al piano di sopra. Se non sento nulla ha perso». 

Una carineria?

«La domenica usciamo per prendere i giornali e andiamo al Bar Basso per il caffè e l’aperitivo, tenendoci per mano».

Cosa l’aveva colpita quando vi siete conosciuti?

«Intanto mi ero affezionata alle gemelle, che portava nel brefotrofio di Bergamo dove ero puericultrice. Parlava diversamente dagli altri, mi piaceva ascoltarlo. Avevo 30 anni, prima di lui uscivo con un altro, benestante, mentre Vittorio era povero in canna, lavorava alla Provincia. Mia mamma non era molto d’accordo. Diceva: è brutto avere la matrigna ed è brutto fare la matrigna. Poi è andata così».

(…)

Vittorio Feltri compie 80 anni. Gli auguri all'ultimo sculacciatore anarchico. Luigi Bisignani su Il Tempo il 25 giugno 2023

Caro direttore, il suo canto libero. Vittorio Feltri oggi doppia le 40 primavere. È l’ultimo «sculacciatore» anarchico in circolazione, senza padroni né padrini. Una vita libera e libertina, nell’accezione illuminista del termine. Un solo Dio, per lui che è senza Dio: la sua coscienza ed il denaro. Ne guadagna, ma molto di più ne fa guadagnare, portando in dote un «bene» sempre più raro, i lettori. In questo è equiparabile solo ad altri due giganti del giornalismo: Indro Montanelli, che però, da bravo toscanaccio capriccioso, a differenza di Vittorio, per ripicca a Silvio Berlusconi ad un certo punto ha inserito la freccia a sinistra, ed Eugenio Scalfari, che della sinistra era il maître à penser, sempre innamorato di sé stesso e pronto a pontificare con i potenti di turno, salvo poi dar loro il bacio della morte. Feltri è l’ultimo «highlander» della carta stampata. 80 anni senza sentirli, Vittorio conserva, insieme all’esperienza, tutta la sua incosciente freschezza che mette al servizio del contro tutto e tutti, prendendosi fendenti che annichilirebbero un qualunque spavaldo giovanotto. Ma non lui. E l’età lo rende ancora più «libero» - come il nome del giornale che ha fondato - di dire ciò che pensa, senza mezzi termini, di emozionarsi in pubblico quando un argomento lo tocca davvero e soprattutto di divertirsi. Finge di non avere un cuore, invece ce l’ha e grande. Ed è generoso e inclusivo, la sua magnanimità però non la ostenta. Nel paesino in Molise dove da piccolo faceva le vacanze, e dove ha imparato ad amare i cavalli, ancora ricordano che, quando qualche anno fa si ruppe la campana della Chiesa, fu lui a mandare i soldi per ripararla. Così come, dopo tanti anni, non smette di essere riconoscente a sua moglie che lo salvò, quando, ancora giovane, rimase vedovo con due gemelle. Non appena ha potuto, ha adottato il quinto figlio, Paolo, dopo Laura, Saba, Fiorenza e Mattia. Paolo che, come lui, era rimasto orfano troppo piccolo. E chissà che non siano state proprio le vicissitudini della vita a dargli quella forza d’animo e quel filo diretto con la gente comune, la cosiddetta «pancia» del Paese, che oggi nessuno ha. È l’esatto contrario di quello di cui lo accusa chi lo vuole colpire. Altresì lui non è mai sfiorato dall’intenzione di colpire qualcuno, è un habitus che proprio non gli appartiene. Semmai scopre talenti e li valorizza come peraltro faceva a «La Notte» il suo maestro Nino Nutrizio, dal quale ha imparato come si gestisce una redazione, perché il merito va riconosciuto. Vittorio conserva ancora la penna con cui Nutrizio scriveva i suoi fondi, che la vedova dello storico direttore del quotidiano milanese gli regalò.

E qui veniamo alla riconoscenza, che per Giulio Andreotti era spesso il sentimento della vigilia, ma che invece Feltri nutre verso tutti quelli che lo hanno aiutato nella vita e nella carriera, da Angelo Meli, priore bergamasco che lo raccomandò per scrivere i suoi primi articoli di giornale, dopo avergli trasmesso cultura e vivacità di pensiero, a Berlusconi o agli Angelucci che, a carriera già avviata, lo hanno riempito non solo di gloria. E nonostante sia cresciuto con i preti al punto di fare il finto seminarista per poter partecipare ai tornei di calcio, gioco in cui era molto bravo in gioventù, non crede in Dio né nell’Aldilà. Una fortuna per chi lo incontra sulla propria strada, proprio perché ricambia le opportunità che lui stesso ha ricevuto da persone conosciute, per caso o per disegno del destino. Nel corso dei suoi ruggenti 80 anni, lui, la vita, l’ha cambiata a molti colleghi che oggi fingono di non ricordarselo. Celebri i titoli fulminanti dei suoi giornali, dei veri «acchiappa-copie», che ha imparato a creare quando faceva il vetrinista in un negozio di vestiti della sua città, per attirare i clienti. Emblematica, infine e per ricordarne solo una delle tante, la difesa di Enzo Tortora portata avanti in un giornale come il Corriere della Sera che in quel momento aveva iniziato la deriva giustizialista al servizio della Procura di Milano, come poi ha confessato, dopo anni di silenzio, un professionista di razza come Paolo Mieli. Quel mondo manettaro e radical chic Feltri l’ha sempre combattuto, andando controcorrente e lanciando ciambelle di salvataggio a primedonne della politica che aveva osteggiato quando erano in auge e poi difeso quando cadute in disgrazia. Dissacrante e dissacratore, il politically correct gli fa un baffo. Uno dei suoi più recenti tweet, che ha scatenato l’ira funesta di sinistroidi, grillini e Lgbtq+, è dedicato ai fluidi: «Cari amici gay lo volete capire che il culo è un’uscita di sicurezza e non una entrata secondaria?». Un esercizio di ironia che pochi hanno colto, c’è ancora molto da imparare dal genio. A Vittorio che ama, ricambiato, le donne, che adora i cavalli e il suo micio grigiotto Ciccio che lo sente arrivare a Bergamo quando è ancora in autostrada, che è un nonno e un padre presente ma non mieloso da imitare e che ha una straordinaria collezione di spille alla cravatta e di gemelli: slàinte mhath!. Ora che hai doppiato i 40, raddoppia pure i 50. Auguri e facciamoci un whiskyno, Lagavulin, naturalmente, il tuo preferito.

Estratto dell'articolo di Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera il 24 giugno 2023. 

Buon compleanno, direttore.

«Lascia stare, dammi retta».

Però ottant’anni sono un bel traguardo.

«Partiamo da un concetto: invecchiare è l’unico modo per non morire giovani. Detto questo: quando ero ragazzo io, i vecchi erano rispettati e, in qualche caso, venerati. Oggi siamo considerati dei rompiscatole, occupatori abusivi di spazio pubblico, e così, nei nostri confronti, si è sviluppata una forma di autentico razzismo. I più gentili, leggendo il pezzo che stai per scrivere, mi compatiranno. I più spietati, e alla moda, sbufferanno». 

Vittorio Feltri è tra i giganti del nostro giornalismo. Può piacere moltissimo, o poco. È divisivo? Certo che lo è. E tanto. Ma bisognerebbe sempre diffidare di chi scrive per piacere a tutti, di quelli che puntano al pareggio dalla prima all’ultima riga. Lui sai sempre da che parte sta. E comunque, per capirci: è uno che ancora sposta copie, ha un suo pubblico, gente che va in edicola a versare l’obolo solo per leggere lui. 

Grande scrittura, grande «inviato speciale» (memorabili le stagioni in cui si esibì qui, al Corriere), ma che avesse lo straordinario dono di intuire le aspettative dei suoi lettori si capì nel 1989, quando assunse la guida del settimanale L’Europeo, assai malconcio: in due anni lo portò da 78 mila a 130 mila copie e così, da allora, dirigere giornali è diventato il suo mestiere («Ne avrò diretti sette oppure otto, ho perso il conto»), di certo ha diretto l’Indipendente e il Giornale, per fondare poi, nel 2000, Libero.

Che stai per lasciare, se ho capito bene.

«Sì, sto per tornare al Giornale, che sarà diretto da Alessandro Sallusti. A me hanno proposto di tenere l’omelia della domenica, e di gestire una “stanza”, tipo quella di Montanelli».

Per spostarti hai chiesto un aumento agli Angelucci, i nuovi proprietari?

«No. Ma ho preteso lo stesso stipendio. Che è già molto alto. I soldi mi interessano».

Prosegui.

«La libertà di un giornalista si misura dalla busta paga. Dalla possibilità che hai di andare da un sarto e farti fare un buon abito su misura».

Sai che ci sarà dibattito, su questa affermazione.

«Non me ne frega niente». 

(...)

L’anno scorso hai festeggiato 55 anni di nozze.

«Non l’ho mai tradita. Certo, talvolta, ho diversificato».

So che hai corteggiato anche una dottoressa in sala operatoria.

«Quando capisci che sei ancora vivo, un po’ ti ringalluzzisci».

Fammi capire.

«Con il sesso ho chiuso. Fatica tanta, piacere poco, senza considerare che in certe posizioni, alla mia età, ti senti ridicolo. Poi, sai: organizzare un diversivo, portarla a cena, trovare il posto, richiede tempo. Preferisco leggere un giornale». 

Il primo che apri?

«Il Corriere. I giornalisti italiani si dividono in due categorie: quelli che ci lavorano, e quelli che vorrebbero lavorarci».

Parlami dei migliori che hai conosciuto.

«Montanelli, il numero uno. La Fallaci, intrattabile e geniale, mi travolse. Biagi, un po’ tracagnotto, era una forza della natura… Ricordo Bocca, anche se litigioso, e Pansa. Di Giampaolo mi piaceva molto lo stile. Sai, a me delle notizie non importa un fico secco, le so già. A me interessa come le racconti». 

Tra i viventi?

«Cazzullo, bravissimo. Poi, boh. La De Gregorio è notevole, anche se mi scuote il sistema nervoso. Di Travaglio non condivido niente, però mi piace come lo scrive. Ci sarebbe pure mio figlio Mattia. Ma eviterei di citarlo, per buon gusto».

Vai ancora a cavallo?

«Ho smesso a 70 anni. La paura di cadere prevaleva sul piacere di montare. Gli animali sono la mia passione. Sai che i piccioni di Brera mi adorano? Quando sto lì a prendere l’aperitivo, dicono: oh, c’è Vittorio, scendiamo… Bada bene: gira voce che beva troppo. Invece: un bicchiere a pranzo, uno a cena. E un dito di whisky la sera. Per il resto: mangio poco, meno del mio gatto Ciccio». 

O gni tanto ti scappa qualche tweet ruvido.

«Provoco, soprattutto, i gay. Quelli abboccano, e io mi diverto».

Rifaresti il titolo «Patata bollente» su Virginia Raggi?

«Se apri qualsiasi vocabolario, trovi il vero significato: “Questione scottante”». 

Credi in Dio?

«No».

Come ti immagini l’aldilà?

«Non esiste. Finisci sotto due metri di terra, e buonanotte».

Come festeggerai, domani?

«Ceno con sette parenti stretti».

Faremo un’altra intervista per i 90 anni.

«Nel frattempo scrivete, scrivi più che puoi: scrivere è come vivere due volte».

Vittorio Feltri, 80 anni dalle stalle alle stelle: "Quella sua impresa disperata". Renato Farina su Libero Quotidiano il 24 giugno 2023

Vittorio Feltri compie domani 80 anni. Auguri, a nome dei tantissimi che ti vogliono bene, e a dispetto di chi per invidia ti vuol male – ma come si fa? -, ad multos annos! La biografia del fondatore di Libero è arcinota. Mi appresto a sciupargliela io. Il problema è che l’ha raccontata lui, scrivendola o dettandola in interviste. Ne è risultata ogni volta come una sonata al pianoforte, per tutte le età della sua vita, colorata di ogni umore, sfumatura, in semplicità totale, bambino, e in fondo rimanendo ancora bambino, ogni volta come una favola dei Fratelli Grimm. Perciò filare questa seta con altre mani ingarbuglia la matassa, spezza l’incantesimo, perché farla trasmigrare in un’altra prosa la fa parere una favola esagerata. Ho verificato, e quello che ha scritto e detto è stato tutto banalmente vero. Il fatto è che qualunque storia dai diciotto anni in su Vittorio Feltri abbia toccato con la sua penna (non ho letto i pensierini delle elementari) le ha fatto crescere le ali, verso il cielo o verso gli abissi. Neppure la sua è sfuggita a questo destino, con un’aggiunta di ironia malinconica. Del resto nessun grande pittore è sfuggito all’obbligo di ritrarre sé stesso con il proprio pennello, da Giorgione a van Gogh a Picasso (magari nascondendolo, come Leonardo, sotto il sorriso della Gioconda).

Ogni volta che ripercorre la sua infanzia al freddo, nella scuola con i vetri gelati e rotti, e la stufa senza legna (Feltri più della fame ancora oggi non sopporta il freddo, per questo, anche se non crede nell’aldilà, se mai ci fosse preferirebbe l’inferno, non solo perché come disse un noto teologo è vuoto, ma soprattutto per il clima); le lezioni di latino dell’amatissimo monsignor Angelo Meli; la morte della prima moglie con lui che torna dall’ospedale e fruga nervosamente nel frigorifero senza sapere cosa fa, sperduto (è la prima cosa che mi ha raccontato di sé, la prima volta che mi offrì lavoro nel ristorante da Roberto in corso Sempione, nel 1992, a un altro tavolo c’era Gianni Brera); la disperazione di trovarsi solo con due gemelle, la paura di perdersi, l’incontro con Enoe Bonfanti che gli salvò la vita, e il suo dividere con lei tutto, nell’imperfezione di ogni amore perfetto; la prima busta paga; Berlusconi in ginocchio che gli chiede di non abbandonarlo; le discussioni su Dio. Non è vero che si ripete.

Cambia punti di vista, gli anni filtrano i ricordi, mettono a fuoco l’essenziale. Ho paragonato gli articoli degli anni ’80 che mi parevano insuperabili e il Feltri racconta Feltri con Luciana Baldrighi del 1997, spiritoso e tagliente anche con sé stesso; ma i volumi di incontri degli ultimi anni – acquarelli leggeri e sculture bronzee -, e le interviste con Stefano Lorenzetto e Aldo Cazzullo hanno un’altra forza. Si cresce sempre, altro che 80 anni! Il talento certo non si merita, c’era anche da ragazzo, è un dono. Poi però va innaffiato con il sudore dell’esercizio, e la fatica di alzarsi prima dell’alba, andando alla scuola serale da vetrinista, e poi riempire pagine senza alzare la testa dal foglio e dalla macchina per scrivere. La sua forza è che fa credere di essere pigro.

LEGGENDE

Pigro Vittorio? È una delle leggende che il Grande Orobico ha diffuso su di sé per far crescere l’invidia. Mi ricordo i sabati pomeriggio, tutti i sabati pomeriggio di tutta la sua dannatissima vita, con quel ticchettare della sua Olivetti, e poi negli ultimi decenni, ancora ieri il frinire lieve dell’IPad, e lo immagino a cent’anni come il suo maestro incognito Prezzolini, a rifiutare di farsi scrivere gli articoli dall’Intelligenza Artificiale, dato che gli basterà la sua Stupidità Naturale per essere sempre e comunque infinitamente superiore alle sue stesse stupidaggini, figuriamoci a quelle degli altri. Pigro, Feltri? Ha diffuso un’altra immagine di sé, con lo stesso desiderio di farsi detestare, ma senza riuscirci, dalle persone buone che si specchiano nelle sue ribellioni al paraculescamente corretto. Ci tiene ai soldi. Ci tiene un sacco. Ma è un sacco bucato per i poveri, quelli che nessuno sa che esistono, ma lui sì. Nel buio precoce dell’inverno, e poi nella penombra della sua solita estate senza vacanze e senza neppure i week-end, me lo ricordo bene i primi sabati passati con lui a Il Giornale e poi a Libero.

Quando davano morti i giornali, e morto lui, con lo Champagne in ghiacciaia da stappare per salutare spanciati dal ridere il suo primo insuccesso che non arriva mai. Lo faceva per sé, ovvio, per la tigna di attraversare e sopravvivere e vincere, ma preoccupato per chi aveva portato con sé in avventure controvento, certo comunque che sarebbero balzati, dopo aver fatto bottino con lui, su navi piratesche di passaggio, sicuro dell’ingratitudine, e pronto a ridare un’altra occasione, incapace di rancore. So che questo è un altro Feltri rispetto a quello che viene insultato dalla vulgata dei cretini, pseudo antifascisti immaginari e comunisti autentici.

INTUIZIONI

Ha creduto nelle cause perse, facendole vincere. Ad esempio in quella del centrodestra, da lui preconizzato all’Indipendente quando chiese a Gianfranco Fini di togliersi la camicia nera e indossare quelle di non so più quale marca newyorchese (non mi intendo) e di allearsi con Bossi, cui aveva dato sostegno primo tra tutti sin da quando diresse l’Europeo, poi passando a Il Giornale a sostenere Berlusconi nell’impossibile combattimento berlusconiano dei ragazzi della via Paal contro la gioiosa macchina da guerra dei progressisti con i baffi di ferro, abbastanza arrugginiti. Senza però mai odiare né Occhetto né D’Alema cui ha portato ancora dieci giorni fa non richiesta solidarietà, perché? Perché è fatto così, Feltri. Il Giornale vedovo di Montanelli, che lo aveva abbandonato con le vele flosce a 110mila copie, pareva destinato alla chiusura, surclassato dalla Voce del medesimo Indro, veleggiante a mezzo milione di copie e con la crème intellettuale e finanziaria a riempirlo di lusinghe e di miliardi comunisti. Sentivo il campanello che segnalava l’a-capo, un’altra riga, e pensavo altre mille copie in più, diecimila, centomila in più.

Quindi Libero, impresa disperatissima, considerato non un naviglio, ma la Zattera della Medusa, senza viveri e con equipaggio scarso. Ed ecco che Montanelli benedice, unico profeta di un buon approdo. Che dire? Siamo qui. Siete qui. Con chi? Ma certo, con Vittorio. Insisto nello sciupare la sua biografia. Nato a Bergamo il 25 giugno 1943, presto orfano di padre, emigrato da bambino con il tutore in Molise, lì ha imparato a convivere con i cavalli, in fondo le sole persone che stima e con cui si confida; tornato nella città natale è stato istruito da un prete magro con le calzette rosse; lavorava di giorno, studiava di sera; quel monsignore gli ha insegnato il latino, ha coltivato in quel chiodo testardo la virtù dell’ironia, infine l’ha raccomandato per scrivere su un giornale di proprietà di preti e diretto da un altro prete, da lui ricambiati con un sentito ateismo, l’otto per mille, e un affetto profumato di nostalgia e di tabacco.

Ho dimenticato qualcosa?

Direi tutto. In ordine sparso e casuale: Gaber, Gimondi, Giovanni XXIII, Meloni, Angelucci, don Mansueto, il Pinot nero, Oriana Fallaci, Muti, Di Pietro, il pittore Donizetti, Colleoni, il ds del ciclismo Stanga. Don Spada e Nutrizio, Biagi e Bocca. Belpietro e Sallusti. Isotta! Summertime suonato durante la consacrazione con il prete che si finge furioso e ride; la volta che fece il chierichetto a Pechino, dove fu travolto dal fiume di migliaia di biciclette, e dal corteo di cinesi con la gabbietta e il canarino da passeggio; Lunardi e il miracolo della Valtellina salvata dalle acque, i gatti, il topolino nutrito amorevolmente nella sua casa in affitto con Enoe e i bambini ad Arcere, nella campagna bergamasca. Il manicomio. Il brefotrofio. Aborto mai. Quante persone, cose, inezie preziose. Le sue ire. Il tacere le sue pene. Ci sono essenze che se provi a stringerle, sfuggono. Lui è così. Le grandi anime sono così. Preferiscono sembrare stronze, per non pesare e non indurre riconoscenza. Ad multos annos!

P.S. Caro Vittorio! Per ragioni di legittima difesa ho cercato di dissuadere il direttore Alessandro Sallusti dal porgerti omaggio. Gli ho spiegato, ma lo sa bene anche lui, che fuggi come la peste le celebrazioni, i panegirici, i sermoni, i compleanni e i funerali propri e altrui. E poi perché io? Niente da fare. Ha scelto me come agnello pelato, bianco, grasso, perciò perfetto per i sacrifici rituali. A proposito di una vecchia questione tra noi, che tu hai voluto mettere in piazza. Ribadisco: Dio c’è, e tu gli stai pure sui coglioni. Mi sa pertanto che sono io ad aver bisogno di auguri. Comunque, tanto per perfezionare il mio suicidio, buon genetliaco! 

Vittorio Feltri senza filtri: "Mia moglie, il sesso e il mio preferito, vi dico tutto". Libero Quotidiano il 24 giugno 2023

Vittorio Feltri compirà 80 anni domani, domenica 25 giugno. Per l’occasione ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui si è raccontato senza filtri, come sempre, tra vita privata, passioni e lavoro. A proposito di numeri, l’anno scorso Feltri ha festeggiato 55 anni di nozze con Enoe Bonfanti: “Non l’ho mai tradita. Certo, talvolta ho diversificato. Con il sesso ho chiuso”. 

“Fatica tanta - ha spiegato - piacere poco, senza considerare che in certe posizioni, alla mia età, ti senti ridicolo. Poi, sai: organizzare un diversivo, portarla a cena, trovare il posto, richiede tempo. Preferisco leggere un giornale”. A proposito del lavoro, Feltri ha parlato dei migliori colleghi che ha conosciuto: “Montanelli, il numero uno. La Fallaci, intrattabile e geniale, mi travolse. Biagi, un po’ tracagnotto, era una forza della natura… Ricordo Bocca, anche se litigioso, e Pansa. Di Giampaolo mi piaceva molto lo stile. Sai, a me delle notizie non importa un fico secco, le so già. A me interessa come le racconti”. 

Tra i viventi invece il preferito è Aldo Cazzullo: “Bravissimo. Poi la De Gregorio è notevole, anche se mi scuote il sistema nervoso. Di Travaglio non condivido niente, però mi piace come lo scrive. Ci sarebbe pure mio figlio Mattia. Ma eviterei di citarlo, per buon gusto”. Infine sulla sua principale passione, quella per gli animali: “I piccioni di Brera mi adorano. Quando sto lì a prendere l’aperitivo, dicono: oh, c’è Vittorio, scendiamo…”. 

 Vittorio Feltri, Sallusti intervista Mattia: "Babbo, ti ho capito". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 24 giugno 2023

Domani Vittorio Feltri, tra le tante cose anche fondatore di questo giornale, compie 80 anni. Per noi di Libero oggi questa è la notizia più importante, del resto banalmente se non ci fosse stato lui oggi non saremmo qui. Detto che lui detestai compleanni, come i matrimoni e i funerali, detto che non sa di questa prima pagina che non è detto gradirà, detto insomma che con Vittorio Feltri non c’è mai da dare nulla per scontato e che su di lui si potrebbe scrivere una enciclopedia, il figlio Mattia Feltri collega di chiara fama, editorialista de La Stampa e direttore dell’Huffingtonpost Italia - ha accettato di condividere rischi e onori di questa vigilia dialogando con noi su suo papà Vittorio.

Ottant’anni e ancora sul pezzo da mattina a sera. Tanta roba.

«Comunque la metti a ottant’anni, come direbbe lui, è sempre meglio arrivarci che no. Quindi tanti auguri e complimenti».

Non basta, vogliamo sapere di più. 

«Vittorio mi ha avuto nel 1969 che aveva ventisei anni. Io ho compiuto gli anni ieri, lui domani. Una volta, tanti anni fa, mi disse: mi stai sulle palle perché per tutta la vita avrai ventisei anni meno di me. Oggi lui ottanta, io 54. Diciamo che fu una profezia azzeccata».

Il primo ricordo insieme? 

«Non so precisamente quale è il primo ricordo, ma ho dei primi ricordi. In particolare la prima volta che mi portò allo stadio, si giocava Atalanta-Torino. Io ero un piccolo tifoso dei granata e continuavo a correre per le gradinate in modo da stare il più vicino possibile al pallone e lui passò novanta minuti a inseguirmi, diciamo un pomeriggio non molto rilassante. Fu una giornata veramente magica, andare allo stadio da bambini con il padre a vedere la squadra del cuore è una cosa meravigliosa. Fini zero a zero ma a me non importò nulla, mi è bastato esserci».

Altro ricordo.

«Da bambino mi sono ammalato di streptococco beta-emolitico di gruppo A, la stessa malattia che ha ucciso il povero Massimo Troisi. Io per fortuna ne sono guarito e ho il ricordo di Vittorio che mi porta in braccio in classe agli esamini di seconda elementare che allora c’erano».

Un padre affettuoso.

«Lui era un padre molto attento nonostante fosse già impegnato sul lavoro, quando ero bambino prima a La Notte e poi al Corriere di Informazione. Io ero a casa malato e lui, nonostante gli orari folli dei giornali di allora, faceva in modo di rientrare in tempo per trovarmi sveglio e portarmi i libri di Jules Verne, i miei preferiti. Insomma ho ricordi di una presenza magari non quantitativa ma sicuramente qualitativa e accudente: amavo il calcio e mi portava allo stadio, amavo i libri di avventura e non me li faceva mancare. Sono cose che poi io non ho più dimenticato negli anni, cose che legano».

Negli anni è cambiato il rapporto? 

«Bè, quando si cresce cambiano tante cose ma questa cosa qui non è mai venuta meno, lui ha la grande capacità di esserci nei momenti veramente importanti o quando capisce che qualcuno è in difficoltà e ha bisogno di aiuto».

Ti ha aiutato anche a fare il giornalista? 

«Ho voluto fare io il giornalista o è lui che mi ha spinto? Diciamo che è successo, in modo molto naturale. Io andavo all’università e come tutti i ragazzi per guadagnare qualche soldo mi inventavo qualche lavoretto tipo dare una mano nella birreria di un amico. Lui non è che fosse preoccupato, certo era tutto un po’ disordinato sia dal punto di vista del rispetto delle leggi sul lavoro che per gli orari. A un certo punto mi dice: mi fa piacere che tu voglia guadagnare qualche soldo ma allora vai a collaborare a Bergamo Oggi, uno dei due quotidiani di Bergamo di cui lui fu anche direttore».

E tu? 

«Ci sono andato ma con lo stesso spirito e predisposizione con cui andavo in birreria: lavorare per guadagnare, non avevo nessunissima intenzione di fare il giornalista. Dopo di che ho iniziato ad amare questo mestiere, per la verità più che il mestiere in sé tutto ciò che lo circonda: la vita di redazione, le cose interessanti di cui ti occupi, il poter scrivere e quindi il dover leggere che è la mia vera passione. Morale: a 23 anni presi il tesserino di praticanti giornalista ed eccomi qui».

Pubblicamente Vittorio parla poco di te, e quando lo fa a volte lancia frecciatine. Ma privatamente è molto orgoglioso dei tuoi risultati. Con te quale registro tiene? 

«Raramente mi ha elogiato apertamente però la cosa traspare, fa in modo che io possa intuire il suo apprezzamento per quello che mi è successo nella vita professionale. Quindi sì, lui ha questo modo di essere burbero, ma come succede nei burberi anche lui ha le zone facilmente esplorabili, non così nascoste come potrebbe sembrare».

Diciamo che non è il prototipo del padre compagnone. 

«Cerca sempre di mantenere un certo distacco. Io mi ricordo un episodio, siamo agli inizi degli anni Duemila e vado a lavorare a Roma al quotidiano La Stampa. Dopo un paio di mesi torno per la prima volta a casa nostra a Bergamo e lui mi accoglie dandomi la mano, come se fossi un sottosegretario o il suo commercialista. Però lo sguardo lo tradiva, era quello con cui un padre guarda il figlio. Lui ha sempre questo doppio registro: io so che è contento della vita che ho fatto e sono pure contento che non me lo dica, in fondo certe cose non è neppure necessario dirsele, quantomeno non è indispensabile».

Veniamo al Feltrismo, genere giornalistico amato e contestato. 

«Tutto nasce agli inizi degli anni Novanta quando sulla scena appaiono due nuovi generi di giornalismo che tutt’ora sopravvivono e che non sono più stati innovati. Uno è il Feltrismo, che nasce all’Europeo e poi deflagra all’Indipendente sull’onda di quel “Taches al tram” di Umberto Bossi, cioè il giornalismo di ribellione all’ossequio paludato verso la politica che si esprime con una titolazione e un uso delle fotografie spiazzante. L’altro genere è quello chiamato dell’alto-basso, noiosità autorevole mixata alla leggerezza».

Il Mielismo.

«Esatto, Paolo Mieli lo mette a punto in quegli anni a La Stampa, poi lo perfeziona al Corriere della Sera. La sua definizione migliore la diede l’Avvocato Agnelli: “Mieli – disse divertito - ha messo la minigonna a una vecchia signora”. Se ci pensi i cosiddetti giornaloni, termine che non amo ma così vengono chiamati, seguono ancora quel modello lì di Paolo Mieli e tutti gli altri, non solo quelli di area, ma per esempio anche il Fatto Quotidiano, sono tutti figli del Feltrismo».

Tu non sei mai stato arruolato nel Feltrismo.

«Io sono stato molto appassionato al Feltrismo, quello della prima ora all’Indipendente mi ha esaltato, ma penso che sia venuto il momento per tutti quanti di provare a inventarsi dopo trent’anni qualche cosa di nuovo perché sia l’uno che altro dei modelli – il Feltrismo e il Mielismo – mostrano un po’ i segni del tempo oltre che corrono il rischio, imitazione dopo imitazione, di diventare un po’ caricaturali. Ciò detto va dato atto che il passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica è avvenuto anche grazie a questo nuovo modo di raccontare la politica».

Che mi dici di Crozza che imita Feltri? 

«Lo fa veramente bene. Al di là della voce, è perfetto nel ricostruire il suo modo di parlare e i suoi tic. Certo, in quello che dice è paradossale, ma nel replicarlo è quasi perfetto. Sì, mi diverte anche se devo ammettere che non ne ho visti molti, a dire la verità Crozza, tecnicamente bravissimo, non è tra i miei preferiti».

Qui a Libero siamo stati testimoni di un fatto epocale: Vittorio Feltri che molla la sua macchina da scrivere e passa al tablet. Quale è il suo vero rapporto con la modernità, intendo, ci crede o è un conservatore che si è dovuto arrendere all’evidenza? 

«Vittorio è un uomo che tende ad annoiarsi, in verità credo che tutto lo annoi, non sopporta la ripetizione di riti, lo stare nello stesso posto, fare le stesse cose, si annoia a stare a casa e va al giornale poi dopo poco si annoia di essere al giornale e torna a casa. Perché dico questo? Perché non è il ritratto di un conservatore bensì di un uomo in fermento sempre in cerca di un motivo per vivere e questa è certamente la sua forza. A me non ha stupito vederlo scrivere sul tablet. I suoi giornali del resto sono stati tentativi riusciti di cercare qualche cosa di nuovo, diverso, qualcosa che cerca di capire che cosa succede nella società. No, Vittorio non è un anti moderno, ha sempre cercato di stare al passo con i tempi e il primo telefonino che ho visto nella mia vita fu quello che portò lui a casa».

Però alcune sue uscite, per esempio quelle sui gay, apparentemente non coincidono con questo ritratto.

«Ti racconto questa. Quando avevo sei anni, cioè nel periodo della mia vita in cui ero un po’ malconcio, andai al mare per la prima volta e ci andai insieme a una coppia di carissimi amici dei miei genitori, ma attenzione, parliamo di una coppia di omosessuali. Oggi sarebbe del tutto normale, ma nel 1975 ti assicuro che non lo era, dappertutto ma non in casa di Vittorio Feltri, uomo che come dimostra questo aneddoto non è mai stato né reazionario né conservatore. Lo sembra? Sì, ma bisogna intenderci».

Intendiamoci.

«Mio padre se non ha casini attorno non è contento. Io mi diverto a leggere quello che scrive ogni giorno su Twitter, cose a volte veramente pesanti e a volte scioccanti. Ma io sono stracerto che lui lo fa per il gusto di leggere sotto il suo post tutti quelli che lo insultano. Alcune delle cose che scrive sono inaccettabili, ma è irrilevante quanto ci creda o no, lui lo fa per osservare divertito la reazione di questa umanità social mediamente piccolina e spesso rimbambita. Capita che quando esagera qualcuno scriva anche a me e mi chieda di intervenire per fermarlo, il che dimostra la stupidità di chi pensa che io possa o debba interferire con quello che fa Vittorio Feltri. Le vere vittime di quello che scrive mio padre non sono i soggetti dei tweet, sono quelli che ci cascano».

C’è qualche cosa di Vittorio Feltri che noi colleghi e lettori non conosciamo?   

«Sì, e per questo motivo non te lo posso dire. Lui ha una vita privata che non rende nota e non lo fa perché non vuole che sia nota. E questo credo che gli faccia onore».

Ci sarà una terza generazione di Feltri giornalisti? 

«Chi lo sa. Mia figlia più grande ha 17 anni, il piccolo 14, come me alla loro età non sanno ancora che faranno nella vita. Certo io non mi opporrò alle loro scelte qualsiasi esse saranno».

E Vittorio nonno? 

«Mio padre riesce a vedere i suoi nipoti abbastanza di rado vivendo noi a Roma e lui a Milano. Quando capita ha un modo tutto suo di rapportarsi. Un paio di anni fa ci siamo trovati e c’era anche il figlio di una mia sorella. Lui chiede: chi di voi va peggio a scuola? Silenzio imbarazzato. E lui: peccato, a quello che va peggio avrei regalato cinquanta euro. Si è scatenata una specie di rissa su chi era meno bravo che è finita con premi di consolazione per gli sconfitti. Ecco, questo suo modo di fare, di sdrammatizzare, è per dire che nella vita tutto è rimediabile. C’è una frase che recita: bisogna prendere tutto sul serio tranne se stessi. In questa massima c’è tanto Vittorio Feltri e la cosa incredibile è che dopo tanti anni ancora non è stato capito che lui è così. Lui crea scandalo anche tra i nipoti premiando il meno bravo ma in realtà vuole dire: non siate fessi da pensare che io sia fesso, la vita bisogna viverla comunque».

Per gli ottant’anni che regalo gli farai?

«Babbo è abbastanza allergico ai regali, poi c’è il problema che non ha grandi pretese e per le poche che ha è economicamente autonomo. Per anni, da ragazzi, noi fratelli si arrivava con la pipa – una sua passione – ma poi quelle che si comperava lui erano sempre più belle e pregiate e allora ci rimanevamo male. Però un regalo voglio farglielo lo stesso».

Quale?

«Su tante cose io e lui la pensiamo in maniera differente, ci è capitato di litigare e a volte è successo con qualche tono che è andato oltre il necessario. Sono convinto che le persone non vadano giudicate ma capite, e sono convinto che capire è il più grande atto di amore che si possa fare nei confronti di una persona. Quindi il mio regalo è dirgli in verità: babbo, guarda che io ti ho capito, capito fino in fondo».

Dagonews il 3 maggio 2023.

Il 79enne Vittorio Feltri, in un’intervista al podcast “Zero tituli” di “The Journalai”, racconta le sue trombate: “Ho cuccato dappertutto, anche in Messico quando sono andato a seguire i mondiali. Anche con una cinese. In Kenya con una negra, a dimostrazione che non sono razzista”. A quel punto l’intervistatore interviene: “Si ma non ha fatto come Montanelli...” (che si sposò una 12enne in Abissinia). Feltri ribatte sfacciato: “Se per scopare devo organizzare un matrimonio ogni volta avrei 150 mogli!”.

Come faceva Feltri a conquistare le ragazze? Il suo racconto: “La cinese ha iniziato a scrivere degli articoli per me, l’ho invitata a pranzo e poi si sa come vanno queste cose. La più figa di tutte è stata una napoletana”. Tra le donne del direttore editoriale di “Libero” anche un’austriaca, “una stagista che veniva da Vienna. Frequentala oggi, frequentala domani, poi se tra uomo e donna succede una scopata non è mica una tragedia!”

Vittorio Feltri: «Contro gli anziani c’è del razzismo. Io lavoro ancora tutti i giorni: sono solo più sfacciato». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 28 Aprile 2023.

Feltri ha appoggiato, su Libero, la scelta di Biden di ricandidarsi, nonostante l’età: «Mi sta antipatico, ma il cervello non invecchia, se non colpito da una malattia. L’unica attività che a noi anziani richiede una forza che non abbiamo è il sesso, ma neanche ci penso più» 

Vittorio Feltri, addirittura saremmo razzisti verso gli anziani come ha scritto giovedì su «Libero»?

«Quando ero ragazzo io, i vecchi erano ascoltati, quasi venerati. Ma oggi c’è il giovanilismo, tutti vogliono essere più giovani e, automaticamente, si è diventati razzisti verso i vecchi, considerati rompiscatole, occupatori di spazio. Me ne rendo conto anche a casa mia: i miei figli mi fanno lezione su come comportarmi, su cosa fare e non fare. Nel mio giornale, i giovani mi rispettano, ma sento anche che mi sopportano. Perciò, quando ho letto la vicenda di Joe Biden, ho voluto scrivere che avversare i vecchi è una stupidaggine: noi ottantenni non siamo né rimbambiti né catorci umani né persone da emarginare sperando che moriamo presto lasciando l’eredità». 

Dunque Biden, classe 1942, non sarà troppo vecchio per ricandidarsi nel 2024, come hanno scritto il «New York Times» e altri, sottolineando che perde colpi, si stanca nei viaggi, che sul gobbo ha letto anche la frase «fine intervento»?

«Ma io dei viaggi mi stancavo pure quando ero giovanissimo, che c’entra? Quand’ero inviato del “Corriere”, ho girato mezzo mondo, mi stancavo, ma il cervello funzionava. A me, intendiamoci… Biden sta antipatico. Ma San Giovanni ha scritto il suo vangelo a più di 80 anni. La mia amica Melania Rizzoli, medico, mi ha mostrato uno studio scientifico che dice che il cervello è l’unico organo del nostro corpo a non invecchiare, sempre che non sia colpito da una malattia».

E quanto è ancora giovane il suo cervello?

«Io lavoro tutti i giorni, da lunedì a domenica compresa. Non faccio ferie da 40 anni. Tant’è che ogni giorno esce un mio articolo». 

Non le è mai venuta voglia di riposare?

«Perché dovrei? Non sono stanco. Semmai, mi manca la direzione vera e propria di un quotidiano». 

Quanti giornali legge la mattina?

«Ne guardo sette o otto e leggo sette o otto articoli di firme di cui mi fido. Per lo più, ormai, i giornali mi annoiano, ma li leggo perché sono un termometro della società, anche se i vecchi, forse, guardano di più la televisione: stanno a casa, non hanno voglia di andare in palestra o in discoteca a fare i cretini. Io non vado al cinema da 40 anni: il cinema mi annoiava anche da giovane. Gli ultimi film che valeva la pena vedere li hanno fatti negli anni ‘60». 

Va ancora a cavallo?

«Fino ai 72 anni, montavo volentieri. Poi, la preoccupazione di cadere e fracassarmi le ossa diventate più fragili superava il piacere di cavalcare. Ovviamente, sto accorto nel mantenere la salute, che al momento è ancora solida. Il tumore al seno è stato una piccola cosa, quello che mi ha sorpreso è che non ho niente di femminile, eppure, il cancro mi è venuto al seno. Comunque, dopo l’operazione, mi sono rivestito e sono andato al giornale a scrivere un pezzo». 

E quindi come sta attento alla salute?

«Mangio poco, ho meno appetito». 

Beve anche meno?

«Bevo uguale: da sempre mezzo bicchiere di vino bianco prima di pranzo e cena; a cena, massimo un bicchiere e mezzo di rosso e, la sera, un dito di whisky. Ho la stessa taglia di sempre, peso 65 chili, come da ragazzo. E, come disse Giuseppe Prezzolini quando lo intervistai centenario: sono arrivato così a questa età perché non ho mai fatto ginnastica». 

Quanto dorme?

«Da anziano di più: undici ore. Vado a letto alle dieci e mi alzo alla nove. Senza sonniferi, gocce, niente. Poi vado in ufficio e mi metto a scrivere. Invecchiando, sono diventato più veloce: per un articolo, impiego al massimo 40 minuti. Il pensiero è fluido, il linguaggio mi viene dietro». 

In che altro ha guadagnato, invecchiando?

«Ho accentuato la sfacciataggine. L’ho sempre avuta, ma ora di più. Quello che mi viene in mente dico». 

Anche per questo, lei è celebre in tempi di politicamente corretto.

«Sto scrivendo il libro “Parole indiavolate” proprio su questo: col politicamente corretto si fa la guerra al dizionario anziché occuparsi di cose serie». 

La memoria come va?

«Quella a breve termine si è un po’ offuscata. Se mi chiede che ho mangiato ieri, non mi ricordo, il resto regge bene. E se ho un dubbio, so controllare in fretta su libri e enciclopedia». 

Non su Google?

«Non so neanche che sia. Fino a pochi anni fa, scrivevo sulla Olivetti 22. Ora, uso l’iPad. Però scrivo “e” congiunzione e lui scrive “è” verbo. Modifica le parole e io bestemmio come un carrettiere. L’iPad inganna, ma è lui l’asino, non io. Io ricordo ancora perfettamente anche il latino». 

Non sta esagerando?

«No. Ho studiato da privatista con un monsignore, perché papà morì che avevo sei anni e dovetti andare a lavorare. Poi, risparmiai dei soldi e dopo i 18 anni mi misi a studiare. Monsignor Angelo Meli mi parlava solo in bergamasco, che capivo, e in latino, che imparai. All’esame per la licenza liceale, presi ottimi voti nelle materie letterarie, ma quando arrivai a Fisica e Chimica, confessai subito, ai due giovani professori, che non sapevo niente e chiesi che mi rimandassero a ottobre. Loro insistettero per farmi qualche domanda, ma non sapevo neppure quelle facili facili. Dopo quattro giorni, vado a vedere i risultati e leggo: Feltri Vittorio - Maturo. Ne sono ancora commosso. Non ho mai rivisto quei due giovani professori, ma se li ritrovassi, li ringrazierei ancora per la pietà avuta nei miei confronti». 

Tornando a Biden, i leader di oggi sono più vicini ai 40 anni, da Emmanuel Macron a Volodymyr Zelensky, da Giorgia Meloni a Elly Schlein e Matteo Salvini. Siamo di fronte a una generazione politica di talento?

«Tutti questi non mi sembrano migliori dei vecchi. Tra Schlein e Churchill c’è differenza». 

Silvio Berlusconi, a 86 anni, non è troppo anziano per guidare un partito?

«Non è troppo vecchio, è troppo malato, un po’ provato. Ma gli ho parlato prima che lo ricoverassero e mi è sembrato stralucido». 

In tutto ciò, lei 80 anni non li ha ancora compiuti.

«Li faccio il 25 giugno e non festeggerò, come al solito. Se posso aggiungere una cosa: non ho paura della morte, ma del metodo con cui la morte ti acchiappa. Mi darebbe fastidio arrivarci dolorante. Preferirei un colpo secco». 

Che cosa, da anziano, non riesce proprio più a fare?

«L’unica attività che a noi anziani richiede una forza che non abbiamo credo sia il sesso. Io ho molte amiche anche giovani, ma il problema del sesso non si pone più: non lo faccio, ma neanche ci penso, non ho stimoli». 

Le donne, però, le piacciono ancora?

«Sì, ma non mi ricordo perché».

Estratto dell'articolo di Carmelo Caruso per “Il Foglio” il 30 gennaio 2023.

Direttore, è vero che tornerai a dirigere il Giornale?

Tutto può essere”.

 Ti piace ancora che si dica Vittorio Feltri, direttore del Giornale?

Di giornali ne ho diretti sette, forse otto. Ho perso il conto”.

 […]

 Vuoi dare in anteprima la notizia dell’acquisto da parte degli Angelucci de il Giornale, il quotidiano della famiglia Berlusconi?

Da quanto ho capito il passaggio si formalizzerà a marzo”.

Si dice che gli Angelucci, gli editori del tuo Libero, dove ancora scrivi, vogliano acquistare pure la Verità per assemblare la “Fox Meloni news”. A cosa serve costruire un polo editoriale schierato a favore della premier?

Fare un unico giornale di destra sarebbe una stronzata”.

 E non correte il rischio di farla?

I giornali muoiono quando hanno tutti una stessa linea. Basta guardare Corriere e Repubblica. Il giornale unificato non funziona. Servono giornali con linee diverse. Gli Angelucci non faranno un giornale unico. Non commetteranno questo errore”.

[…]

 Qual è il primo giornale che leggi?

E’ sempre il Corriere della Sera. Ho lavorato per tanti anni al Corriere nel momento più bello della mia vita”.

 Ti hanno mai chiesto di fare ritorno?

Me lo hanno chiesto”.

E perché hai rifiutato?

Ovvio! Mi hanno offerto poco. La libertà del giornalista si misura dallo stipendio. Più alto è, più libero sei. Il buon giornalista è il giornalista ben pagato. La libertà di stampa inizia dalla libertà del giornalista di andare a mangiare in trattoria, comperare un abito decente. La compensazione del giornalista passa dalla firma e dal denaro”.

 E però al Corriere ci vuoi tornare…

Certo che ci vorrei tornare per concludere la mia carriera”.

 […]

 E se fossi editore di Repubblica?

Chiamerei a dirigerlo mio figlio Mattia Feltri e non perché è mio figlio ma perché è il più bravo. Avrebbe un senso anche Concita De Gregorio. E’ capace di fare polemica”.

 Ti piace Concita De Gregorio?

In generale mi piacciono le giornaliste. Scrivono meglio degli uomini. Hanno un vocabolario più ampio”.

 […]

 Hai scelto di fare politica e candidarti alla regionali lombarde con Giorgia Meloni, ti sei pentito?

Al contrario, sono felicissimo e la continuo a ritenere la leader più abile. Io non vedo altri. Attilio Fontana sarà il presidente, ma il Consiglio regionale sarà dominato da FdI. Salvini ormai è come un cavallo che non galoppa, ma che trotta. Della sinistra preferisco non parlarne”.

 Il Pd?

Mi sembra un partito di drogati. Voglio intendere che mi sembrano storditi, confusi. […]

[…]

Il feltrismo cos’è?

Non l’ho capito neppure io. I giornali non si pensano, si scrivono. E’ come l’amore, bisogna farlo, solo dopo si può comprendere se è stato tenero”.

 Montanelli aveva lasciato il suo articolo da postumo. E Feltri?

Una sola frase. Vittorio Feltri, cretino sul serio. Credeva nelle stupidate che scriveva”.

Dagospia il 26 gennaio 2023. Da “La Zanzara – Radio 24”

Il capolista di Fratelli d’Italia Vittorio Feltri scatenato a La Zanzara su Radio 24. Ecco il Feltri pensiero: “Nelle moschee si diffonde la cultura islamica schifosa e il loro pensiero aberrante. Dove farli pregare? Se ne vadano a fanculo i musulmani. Evitiamo che ne arrivino altri, ne abbiamo già abbastanza a rompere i coglioni”. “Ultima Generazione? Se ne trovo uno sdraiato, faccio finta di non vederlo e procedo con la macchina”.

 “Sono contento che la benzina costi cara, i poveri non rompano i coglioni con le loro utilitarie. Sono anni 20 anni che non faccio benzina, non so quanto costa e non me ne frega nulla”.  E sui 30 all’ora a Milano: “Sala non capisce un cazzo, se vuoi creare intasamenti non puoi che rallentare il traffico”. “Stretto di Messina? Che cazzo ce ne frega, in Sicilia vado in aereo”. “San Siro? Non deve essere abbattuto, ha ragione Sgarbi. Salvini? Un uomo confuso che ha distrutto la Lega”

Il direttore editoriale di Libero e capolista a Milano per Fratelli d’Italia alle prossime regionali in Lombardia, Vittorio Feltri, parla a La Zanzara su Radio 24: “Sappiamo che c’è libertà di culto, ma non c’è libertà di applicare teorie islamiche alla vita civile. Non si può rompere i coglioni a chi ti ospita. Il culto non è violenza, non è ammazzare le figlie”. “E’ nelle moschee - continua Feltri - che si diffonde la cultura islamica schifosa, è lì che si diffonde il pensiero aberrante dei musulmani. Dove mandarli a pregare? Devo andare a fare in culo. Dobbiamo evitare che ne arrivino altri, ne abbiamo già abbastanza a rompere i coglioni”. Poi attacca i giovani di Ultima Generazione.

 “Se ne trovassi uno sdraiato sulla mia strada farei finta di non vederlo e procederei con la macchina. Accidenti, non ho visto questo ragazzo che protesta per il clima! A me del clima non me ne frega niente. D’inverno fa freddo e d’estate un caldo boia”. Sul costo della benzina Feltri commenta: “Sono contento che costi cara, almeno i ricchi possono andare in giro e i poveri non rompano i coglioni con le loro utilitarie. E’ da 20 anni che non faccio la benzina, non ho neanche la macchina, non ne conosco il prezzo. Non mi spavento davanti ai 2 Euro al litro, non me ne frega del cittadino medio”.

Poi attacca il sindaco di Milano: “Sala non capisce un cazzo, lo abbiamo visto negli ultimi anni. Il limite a 30 all’ora in città è giusto se vuoi creare intasamenti e incazzature nei milanesi. Questo è il miglior sistema per farlo”. E sempre su temi milanesi attacca il Ministro Matteo Salvini sul futuro di San Siro: “Io sono appiattito sulla posizione di Sgarbi, io lo terrei che è bellissimo. A me sembra che Salvini abbia dimostrato di avere le idee confuse recentemente, non Sgarbi, tanto da distruggere la Lega. Lui vuole il Ponte 

Vittorio Feltri, feroce sospetto su Antonella Viola: "Pur sputt*** il vino..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 22 gennaio 2023

Sta prepotentemente diventando di moda il proibizionismo più becero. Il ministro della Salute (si fa per dire) Schillaci si sta impegnando per impedire a noi poveri, anzi ricchi, viziosi di fumare in santa pace per strada, e persino nei ristoranti dotati di tavoli all’esterno sarà vietato accendersi una sigaretta e di godersela col rituale caffè. Non bastasse la lotta al tabacco, ora si tende a fare la guerra al vino, dopo che l’Irlanda, Paese ad alto tasso alcolico, va dicendo che fa male, provoca cancri in ogni parte del corpo, in una parola uccide. Io, nonostante l’età, ho deciso di suicidarmi sia con il tabacco sia con il nettare degli dei, ma confesso di avere molte difficoltà bevendo e aspirando a farmi secco e finire al cimitero.

La lotta all’alcol in Italia è stata promossa da una gentile signora, Antonella Viola, biologa e docente all’Università di Padova. La studiosa concorda con il Paese nordico sulla nocività del vino, equiparabile a quella della nuvolette azzurre aspirate per puro godimento. Ella dice senza remore che l’alcol è incluso delle sostanze cancerogene di tipo 1, come amianto e benzene, che non so che roba sia non avendola mai ingerita. Inoltre la scienziata afferma disinvoltamente che le donne le quali bevono un paio di bicchieri al giorno hanno il rischio aumentato del 27 per cento di sviluppare il cancro alla mammella. In sostanza, la famosa biologa equipara il Valpolicella, di cui faccio uso anche se non smodato, a un colpo di pistola che ci manda all’altro mondo abbastanza in fretta. Significa che per lei l’80 per cento dei nostri connazionali si candida a un decesso precoce, posto che trincare è una consuetudine in ogni famiglia perbene.

Io stento a crederle. Sbevazzo da 60 anni, pur senza esagerare, e ora che mi avvicino prepotentemente agli 80 la prima cosa che faccio non appena rientro la sera in casa è quella di assaporarmi un elegante spritz, che mi fa scordare tutte le grane vissute in giornata. Il vino buono non è un veleno ma un toccasana, come dimostra il fatto che molti centenari italiani sorseggiano gai un po’ di bianco e un po’ di rosso senza dare retta alla menagramo docente all’Ateneo di Padova dove, per altro, chi non beve peste lo colga. La scienziata, nel suo attacco al Refosco e similari, aggiunge che berne qualche calice danneggia il cervello. Mi viene così il sospetto che la cara Antonella Viola, pur sputtanando il vino, non se ne sia privata in dosaggi abbondanti. Non è una accusa, questa, ma una semplice ipotesi.

A proposito di sigarette, sigari e pipa, vorrei concludere il mio pistolotto con una osservazione statistica. Allora, negli ultimi anni i fumatori sono diminuiti nel Belpaese di oltre il 10 per cento, ma i malati di cancro sono aumentati nel frattempo del 12 per cento. Vuol dire che il tumore se ne fotte delle Marlboro e ammazza chi gli capita a tiro, senza distinguere se il suo bersaglio fuma o no. Chi non è d’accordo con me mi spieghi perché. Lo stesso discorso vale per l’alcol. Già la vita è difficile e non sempre lieta, se poi dobbiamo seguire gli insegnamenti della cara Viola e dei suoi colleghi ci conviene morire subito, ma sani. 

Da maridacaterini.it il 25 settembre 2018.

Ecco alcuni “fuori onda”. Si punta l’attenzione sul linguaggio colorito di Vittorio Feltri, direttore del quotidiano Libero. Feltri era intervenuto in collegamento a Stasera Italia week end e le sue esternazioni avevano suscitato i commenti stupefatti della conduttrice Veronica Gentili: “era proprio ubriaco, ma che si è bevuto?”. Dallo studio il collega: “Feltri è astemio, è proprio questo il suo carattere”.

FELTRI: Macron non ha perso la testa perché non l’ha mai avuta. Va a letto con la nonna da 20 anni, non gli darei molto credito. I flussi migratori? Non capisco perché noi italiani ci dobbiamo far carico dei problemi dell’Africa. Anche perché 10-15 anni fa gli africani non stavano meglio di oggi eppure non venivano qui a rompere i coglioni.

 FUORIONDA DI VERONICA GENTILI: Io non ce la faccio (risate), no ragazzi non potete farci questo e dai, vi rendete conto? E’ talmente ubriaco che non riesce a parlare un po’ di politica. Cioè…Dice delle cose…tipo da libro sussidiario con il delirio. Che spettacolo, che spettacolo, ragazzi. Queste sono le cose che veramente ti mettono di buon umore hai capito? Ma quanto s’è ‘mbriacato’ Che s’è bevuto? Ma cosa cazzo si è bevuto? Hai visto quanto sta ‘mbriaco? Guarda, guarda, cioccatelo: tutto rosso che fuma la sigaretta. Che spettacolo, ragazzi