Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2023

LA CULTURA

ED I MEDIA

SESTA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE
 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Covid: sembrava scienza, invece era un…calesse.

L’Umanità.

I Benefattori dell’Umanità.

Le Invenzioni.

La Matematica.

L’Intelligenza Artificiale.

La Digitalizzazione.

Il PC.

I Giochi elettronici.

I Robot.

I Chip.

La telefonia.

Le Mail.

I crimini sul web.

Al di là della Terra.

Gli Ufo.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Da Freud all’MKUltra.

I Geni.

I Neuroni.

La Forza della Mente.

Le Fobie.

L’Inconscio.

Le Coincidenze.

La Solitudine.

Il Blocco Psicologico.

La Malattia.

La Depressione.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scrittura.

La Meritocrazia.

Le Scuole al Sud.

Le Scuole Private.

Il Privatista.

Ignoranti e Disoccupati.

Ignoranti e Laureati.

Decenza e Decoro a Scuola.

L’aggiotaggio scolastico.

La Scuola Alternativa.

La scuola comunista.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’onestà e l’onore.  

Il Galateo.

Il Destino.

La Tenacia.

La Fragilità.

Body positivity. Essere o apparire?

Il Progresso.

Le Generazioni.

I Baby Boomer.

Gioventù del cazzo.

Il Linguaggio.

I Bugiardi.

L’Ipocrisia.

I Social.

Influencer.

Le Classifiche.

L’Amicizia.

Il fastidio.

L’Invidia.

L’Odio.

Il Mostro.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Moda.

Le Auto.

I Fumetti.

I Giochi da Tavolo.

L’Architettura e l’Ingegneria.

Il Restauro.

Il Podcast.

L’Artista.

La Poesia.

La Letteratura.

Il Teatro.

Le Autobiografie.

L’Ortografia.

Intrecci artistici.

La Fotografia.

Il Collezionismo.

I Francobolli.

La Pittura.

I Tatuaggi.

Le Caricature.

I Writer.

La Musica.

La Radio.

Le Scoperte.

Markalada, l'America prima di Colombo.

La Storia.

La P2 culturale.

Ladri di cultura.

I vandali dell'arte.

Il Kitsch.

Gli Intellettuali.

La sindrome di Stendhal.

Gli Snob.

I radical chic.

La Pubblicità.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Alberto Asor Rosa.

Alberto Moravia.

Aldo Nove.

Alessandro Manzoni.

Alessia Lanza.

Aleksandr Isaevic Solzhenicyn.

Andy Warhol.

Andrea Camilleri.

Andrea Pazienza.

Anna Premoli.

Annie Duchesne Ernaux.

Anselm Kiefer.

Antonio Delfini.

Antonio Riello.

Artemisia Gentileschi.

Benedetta Cappa.

Barbara Alberti.

Beethoven.

Banksy.

Camillo Langone.

Caravaggio.

Carlo Emilio Gadda.

Chiara Gamberale.

Cristina Campo.

Curzio Malaparte.

Dacia Maraini.

Dante Alighieri.

Dante Ferretti.

Dario Fo.

Dino Buzzati.

Domenico "Ico" Parisi.

Eduardo De Filippo.

Elena Ferrante.

Eleonora Duse.

Emanuel Carnevali.

Emmanuel Carrère.

Émile Zola.

Emilio Isgrò.

Ennio Morricone.

Enrico "Erri" De Luca.

Erin Doom.

Eugenio Montale.

Eve Babitz.

Ezra Pound.

Fabio Volo.

Federico Fellini.

Federico Palmaroli: Osho.

Friedrich Nietzsche.

Filippo Tommaso Marinetti.

Francesco Alberoni.

Francesco Piranesi jr.

Franco Cordelli.

Franco Ferrarotti.

Franz Kafka.

Fulvio Abbate.

Gabriele D'Annunzio.

Gaetano Bonoris.

Gaetano Salvemini.

George Orwell.

Georges Simenon.

Giacomo Leopardi.

Giacomo Puccini.

Giampiero Mughini.

Gianfranco Salis.

Gianni Vattimo.

Gianrico Carofiglio.

Gioachino Rossini.

Giordano Bruno Guerri. 

Giorgio Manganelli.

Giovanni Testori.

Giovanni Verga.

Giovannino Guareschi.

Giuseppe Prezzolini.

Giuseppe Verdi.

Hanif Kureishi.

Italo Calvino.

Jago sta per Jacopo Cardillo.

Jacques Maritain.

Jean Cocteau.

Jean-Jacques Rousseau.

John Ronald Reuel Tolkien.

Johann Wolfgang von Goethe.

J. K. Rowling.

Jorge Luis Borges.

Julius Evola.

Lara Cardella.

Laura Ingalls Wilder.

Lee Miller.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lina Sotis.

Luigi Illica.

Luigi Vanvitelli.

Luis Sepúlveda.

Louis-Ferdinand Céline.

Ludovica Ripa di Meana.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Marcello Marchesi.

Marcello Veneziani.

Marina Cvetaeva.

Mario Vargas Llosa.

Mark Twain.

Martin Scorsese. 

Massimo Rao.

Matilde Serao.

Maurizio Cattelan.

Mauro Corona.

Michel Houellebecq.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarroti.

Michelangelo Pistoletto.

Michele Mirabella.

Michele Rech: Zerocalcare.

Milo Manara.

Oliviero Toscani.

Oriana Fallaci.

Pablo Neruda.

Pablo Picasso.

Paul Verlaine.

Pier Paolo Pasolini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Pietro Cavallini.

Pietro Citati.

Primo Levi.

Robert Capa.

Roberto Ruffilli.

Roberto Saviano.

Salman Rushdie.

Sergio Leone.

Sergio Pautasso.

Sibilla Aleramo.

Stefania Auci.

Susan Sontag.

Suzanne Valadon.

Sveva Casati Modignani.

Tim Page.

Truman Capote.

Tullio Pericoli.

Umberto Eco.

Umberto Pizzi.

Wolfang Amadeus Mozart.

Vasco Pratolini.

Veronica Tomassini.

Virginia Woolf.

Vitaliano Trevisan.

Vittorio ed Elisabetta Sgarbi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

Controinformazione e contraddittorio.

Lo ha detto la Televisione…

L’Opinionismo.

L’Infocrazia.

Rai: Il pizzo e l’educatrice di Stato.

Mediaset: la manipolazione commerciale.

Sky Italia.

La 7.

Sportitalia.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le fake news.

I Censori.

Il Diritto d’Autore e le furbizie di Amazon.

La Privacy.

L’Oblio.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

Wikipedia, l’enciclopedia censoria.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Se questi son giornalisti!

Gli Uffici Stampa.

Il Corriere della Sera.

Avanti!

Il Fatto Quotidiano.

La Gedi.

L’Espresso.

Il Domani.

Il Giornale.

Panorama.

La Verità.

L’Indipendente.

L’Unità.

Il Manifesto.

Il Riformista.

I più noti.

Alberto Dandolo.

Alberto Matano.

Alda D’Eusanio.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Amedeo Goria.

Andrea Scanzi.

Angela Buttiglione.

Angelo Guglielmi.

Annalisa Chirico.

Antonello Piroso.

Antonio Caprarica.

Antonio Di Bella.

Augusto Minzolini.

Attilio Bolzoni.

Barbara Costa.

Barbara Palombelli.

Bruno Vespa.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carmen Lasorella.

Cesara Bonamici.

Claudio Sabelli Fioretti.

Clemente Mimun.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Corrado Formigli.

Cristina Parodi.

David Parenzo.

Donatella Raffai.

Enrico Mentana.

Enrico Varriale.

Enzo Magistà.

Fabio Fazio.

Federica Sciarelli.

Ferruccio Sansa.

Filippo Facci.

Flavia Perina.

Franca Leosini.

Francesca Barra.

Francesca Fagnani.

Francesco Borgonovo.

Francesco Repice.

Furio Focolari.

Gennaro Sangiuliano.

Gian Antonio Stella.

Gian Marco Chiocci.

Gianni Riotta.

Gigi Marzullo.

Giovanni Minoli.

Hoara Borselli.

Indro Montanelli.

Italo Cucci.

Ivan Zazzaroni.

Jas Gawronski.

Laura Tecce.

Lirio Abbate.

Lucia Annunziata.

Luisella Costamagna.

Malcom Pagani.

Manuela Moreno.

Marco Travaglio.

Mario Sechi.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Massimo Gramellini.

Maurizio Mannoni.

Mia Ceran.

Michele Cucuzza.

Michele Santoro.

Milena Gabanelli.

Myrta Merlino.

Natalia Aspesi.

Nicola Porro.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Flores d'Arcais.

Riccardo Iacona.

Roberto D’Agostino.

Roberto Poletti.

Romana Liuzzo.

Rula Jebreal.

Salvo Sottile.

Selvaggia Lucarelli.

Serena Bortone.

Sigrido Ranucci.

Tancredi Palmeri.

Tiberio Timperi.

Tiziano Crudeli.

Tommaso Cerno.

Valentina Tomirotti.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.


 

LA CULTURA ED I MEDIA

SESTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Estratto dell’articolo di Alberto Anile per “Robinson - la Repubblica” il 18 aprile 2023.

Pare che Marcello Marchesi (1912 - 1978) abbia scritto quattromila caroselli. Di certo, è l’autore dimenticato di frasi che tutti ricordano, molte delle quali legate proprio alla pubblicità: slogan come «Basta la parola!», «Il signore sì che se ne intende», «Con quella bocca può dire ciò che vuole», «Il brandy che crea un’atmosfera». Ma sono centinaia, migliaia, milioni le sue battute disseminate fra commedie, riviste, film, canzoni, fumetti, programmi radio e tv. 

Marchesi ha scritto il testo di Bellezze in bicicletta, tradotto i primi Asterix e Obelix (suo l’acronimo reinventato Sono Pazzi Questi Romani), fornito nuova linfa a Canzonissima e L’amico del giaguaro. Battute di Totò come «Ogni limite ha una pazienza» oppure «Volere è potere, volare è potare» denunciano l’impronta del suo estro paradossale. Il titolo del best seller di Gino & Michele, Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano, è tolto da uno dei suoi libri.

[…]

Milanese, ultimo di sei figli, nato da una scappatella extramatrimoniale, viene spedito a Roma da uno zio. Milano e Roma diventano così le sue due patrie, presto conciliate in un umorismo freddo e citazionista e insieme popolare e sarcastico. Ha fatto la guerra, si è innamorato molte volte, si è sposato e ha divorziato. 

È stato lo sceneggiatore di tanti filmetti cotti e mangiati scritti a furia di simpamina con il collega e amico Vittorio Metz, con il quale ha fatto pure sette pellicole da regista (in due anni!). In una vita intellettuale rutilante, che lo ha portato a scrivere testi praticamente per tutto lo spettacolo italiano (da Vianello a Pozzetto, da Macario a Villaggio, da Sordi a Tognazzi, da Corrado a Gianni Morandi), è pure diventato noto come personaggio televisivo (il signore di mezza età, baffi occhiali cappello e ombrello), e poi padre strafelice a sessantacinque anni.

Finale improvviso e paradossale in Sardegna, dove l’aveva portato il suo ultimo amore: una banale ondata lo sbatte sugli scogli durante una placida nuotata di luglio. Fra i telegrammi alla vedova ne arriva anche uno, lungo e commosso, di Pertini. 

[…]  I suoi “ritratti” di famosi sono strepitosi: Marcello Mastroianni «Marlon Blando», Gina Lollobrigida «il petto atlantico», Aldo Moro «il dottor Divago», Luchino Visconti «l’ape regìa», Moravia «un autore di pubico interesse», Giulio Andreotti «obtorto collo» ma anche «chi non muore si risiede». 

Uno che ha quella penna può scrivere ciò che vuole, come Pazienza con i pennarelli, o Bollani al pianoforte. […] Il Vangelo è un luogo comune: «È sbagliato giudicare un uomo dalle persone che frequenta; Giuda, per esempio, aveva degli amici irreprensibili». Il sedere basso? «Errata còccige».

Diceva che in Italia «umoristico» è un aggettivo squalificativo ma la definizione di battutista gli garbava, sconcertando gli intervistatori che capivano di trovarsi di fronte a un grande talento, e ci rimanevano un po’ male a vederlo sminuirsi. I suoi giochi di parole fanno danzare insieme Carducci e Mike Bongiorno, in un gioco di alto e basso in cui l’aulico diventa commestibile e il popolare diventa filosofico, perché «i colti sono pochi / i paracolti / molti» (da Ballata della cultura e della paracultura). 

[…] 

 Per Ennio Flaiano, che in certe cose gli somiglia, Marchesi era un moralista. Lui di certo non si sopravvalutava, chi lo ha conosciuto diceva che era un umile e un generoso. Il protagonista del Malloppo, morendo soffocato dalle sue stesse battute, sognava così la sua lapide: «Tenendo presente tutti gli sketch che ho scritto in vita mia, metteteci sopra una bella “A SKETCHESPEARE”. Mi basta».

Attenzione: Marchesi era un integrato ma anche un apocalittico. Solo uno che ha fatto tanta televisione e tanta pubblicità può conoscerne i lati oscuri, le persuasioni occulte, il morbo del conformismo. 

A Guido Clericetti, che lo frequentò a lungo, diceva: «Se uno potesse apparire in video tutte le sere alla stessa ora a dire “Mangiate un cucchiaio di merda, che fa bene” dopo un mese tutti la mangeremmo». 

E allora oggi le cose più sorprendenti di Marchesi sono certi affondi scorretti: «Dio, dammi un assegno della tua presenza». Oppure questi versi, un tipico slogan pubblicitario da leggersi con sussiego ungarettiano: «Questi / sono / i / biscotti / proprio / come / li / faceva / mia / mamma. / Schifosi». O quest’altro claim, nerissimo, pescato nel flusso di coscienza del Malloppo: «Non sprecate il vostro suicidio, ammazzate prima qualcuno che vi è odioso».

Ha osato scherzare perfino sull’Olocausto, con un pugno di parole intitolate Matti a Mauthausen: «Per errore / restò chiuso / quella volta / nella nostra camera a gas / uno delle SS. / Morimmo ridendo». Un genio.

Estratto dell’articolo di Mirella Serri per “la Stampa” il 5 aprile 2023.

«Non mi pare proprio che attualmente la destra stia rubando il concetto di tradizione alla sinistra. Se c'è un fondamento della destra è la tradizione, come l'idea del progresso è alle origini della sinistra. […]». Non ha dubbi Marcello Veneziani, il più noto maître à penser della destra italiana […]

 «L'atto preliminare per entrambe è riprendere un rapporto attivo con la storia, non fermandosi a […] fascismo e l'antifascismo, il comunismo e l'anticomunismo. Ma devono rifare i conti con la memoria storica e con le nostre origini», osserva ancora Veneziani che da poco ha pubblicato Scontenti (Marsilio), un'appassionata riflessione sulla nostra epoca e sulle "passioni tristi" dell'Occidente, come avrebbe detto Spinoza.

Però la destra, Veneziani, è sempre pronta a incalzare i suoi oppositori con la revisione: non si sta esagerando, per esempio, con la difesa ridicola della lingua italiana?

«La salvaguardia della lingua italiana è un bene che appartiene alla sensibilità nazionale della destra, ma che dovrebbe essere patrimonio culturale e popolare di tutti i cittadini della Penisola. E andrebbe difesa tanto dall'uso gratuito e inutile di parole straniere, quanto dai linguaggi prefabbricati dall'ideologia e dal lessico politically correct, tipo asterischi, schwa e altre grottesche forzature (fustigate pure dall'Accademia della Crusca). […]».

 Abissali, invece, sono le divergenze per le adozioni gay, il riconoscimento di figli di coppie omogenitoriali e la gestazione per altri. È così?

«Dobbiamo tutti accettare l'idea che su questi temi vi sono due linee divergenti, una fondata sulla difesa della natura, della comunità e della famiglia tradizionale e una sui diritti individuali, i desideri fluidi e il liberismo sessuale. È una contesa che va ricondotta nel perimetro della civiltà, non demonizzando l'altrui posizione ma impegnandosi entrambi a portare a rigore le proprie scelte e rispettare quelle degli altri, pur contrastandole, come prevede un paese libero, maturo e democratico.

 Le opzioni di ciascuno devono essere garantite nella sfera privata, ma non possono ricadere su terzi (madri con uteri in affitto, figli voluti o rigettati). Nella sfera privata ciascuno è libero ma nella sfera pubblica deve essere tutelata e promossa la famiglia, la maternità e i figli».

[…] Bobbio, a cui lei ha dedicato un saggio, sosteneva che i «diritti umani sono i principali indicatori del progresso storico». È ancora attuale?

«Nella nostra epoca i diritti sono stati separati dai doveri e sono stati coniugati, e perfino risolti, nei desideri. Non mi sembra un passo avanti. E poi dove devono fermarsi i diritti umani, esistono anche i diritti dei nascituri, i diritti delle famiglie, i diritti identitari dei popoli? E chi stabilisce cosa sono e cosa non sono diritti umani, una cupola ideologica di supervisori?

Bisogna rendersi conto che la vita degli uomini è più varia e complessa dei diritti umani come vengono indicati attualmente. C'è pure il diritto umano contro lo sradicamento universale, per la difesa della natura (non solo dell'ambiente, ma dell'ordo naturalis che comprende anche la natura umana), per la difesa delle tradizioni. Quante volte la lotta è a rovescio rispetto a quella descritta: ovvero i diritti di sempre contro i poteri nuovi».

Da sei mesi abbiamo un governo di destra: cambierebbe in positivo il titolo del suo ultimo libro, Scontenti. Perché non ci piace il mondo in cui viviamo?

«No, lo scontento è il sottofondo della nostra epoca e non muta certo con un governo. Sul piano politico il partito degli scontenti si divide in due rami: chi non va a votare e chi vota contro, premiando chi è all'opposizione (dai grillini ai meloniani). Aggiunga che chi governa non può discostarsi dalle linee sovranazionali in tema di Alleanza atlantica, Ue, Bce. La Meloni fa quel che fece Draghi e quel che farebbe il Pd. […]».

Cosa ne pensa delle esternazioni di Meloni e La Russa sulle vicende delle Fosse Ardeatine e di via Rasella?

«Suggerisco loro di lasciare agli storici la parola. […]». […]

Da “il Fatto quotidiano” il 20 dicembre 2022.

Anticipiamo alcuni degli "Aforismi" di Marina Cvetaeva (1892-1941), tratti dai suoi quaderni "Inediti" (1913 -1939), pubblicati per la prima volta in Italia da Aragno, a cura di Lucio Coco e in libreria da oggi.

Ogni volta, quando vengo a sapere, che un uomo mi ama, mi meraviglio; se non mi ama, mi meraviglio, ma più di tutto mi meraviglio quando un uomo rimane indifferente verso di me. 

- Cosa volete? È così giovane! - Cosa volete? È già così vecchio? Evidentemente si esige solo dai quarantenni! 

Il peggior nemico di Cristo non è il pagano ma il ben pensante. 

Perché i musicisti si rifiutano sempre di suonare, i cantanti di cantare, i poeti di dire versi? E perché essi, musicisti, cantanti, poeti non si rifiutano mai di dire sciocchezze? 

Tutta la famigerata "fantasia" dei poeti, altro non è se non la precisione dell'osservazione e della restituzione. Tutto esiste dalla notte dei tempi, ma non tutto, come tale, è stato nominato. Compito del poeta: battezzare di nuovo il mondo.

Né nazionalità, amico, né ceto sociale. Ci sono due razze: quella divina e quella bestiale. I primi ascoltano sempre la musica, i secondi mai. I primi sono amici, i secondi nemici. Ve n'è inoltre anche una terza: quelli che ascoltano la musica una volta la settimana. Sono "i conoscenti". 

Il poeta è uno che affoga, provvisto dalla natura da un magnifico salvagente. Egli lo sa ma tuttavia crede che affogherà. 

L'Occidente: questo disperato amore della Russia. 

La passione sessuale è soprattutto un incendio dell'anima.

 "E sappiate: Dio ama gli imprevisti!". 

Alcuni si relazionano al mondo esteriore con una certa pignoleria (figli, presbiti, scrittori tipo Cechov e A.N. Tolstoj). Costoro mi risultano faticosi e noiosi.

Signori! Voi pensate troppo alla vostra vita! Non avete tempo per pensare alla mia - ma ne varrebbe la pena! 

Amare è vedere un uomo come se lo avesse concepito Dio e non l'avessero generato i genitori. Non amare è vedere un uomo come se l'avessero generato i suoi genitori. Disamorarsi è vedere, invece di lui, un tavolo, una sedia. 

La piazza è un deserto di gente.

Ci sono donne che, in tutta onestà, non hanno avuto né amici né amanti: gli amici troppo presto sono diventati amanti, e gli amanti troppo presto sono diventati amici. 

Tre generi di donna: le rilucenti, le brillanti, le ardenti. Le prime le odio, le terze non le capisco, amo solo le seconde: me stessa.

Io vorrei mettermi in ginocchio e dire: "Io non so se sono peccatrice o non peccatrice, ma so che sono infelice. Tu mi hai fatto così. Cosa volevi con questo?". 

Ho un'anima da re, un corpo da servo. 

Eroismo dell'anima è vivere, eroismo del corpo è morire. 

Il grado successivo della ragazza è la madre. Il grado successivo della ragazzina è la donna. 

Dire di un attore che è un artista è volgare.

Giaccio nel letto come in una bara. E ogni mattino - realmente - è una resurrezione dai morti. 

A vincere la vecchiaia, come adesso la gioventù, mi aiuterà l'Ironia. 

Un uomo! Che fastidio a casa! Forse peggio di un lattante! 

Nelle mie vene non scorre sangue, ma anima. 

In amore ha ragione chi è più colpevole. 

Nei soldati mi disturba la guerra, nei marinai il mare, nei preti Dio, negli amanti l'amore. 

I miei versi sono come i miei panni che sono belli in una camera buia. Alla chiara luce del sole sono pieni di macchie e di buchi (di bruciature). 

"Poeta in amore". No, sii poeta nel fango, sì. 

Il mio amore forse ti farà bene. Sicuramente mi farà male. 

Dotata di salute fisica, ho concentrato tutta la mia forza per soffrire mentalmente. 

Letto d'amore, letto di morte. (Possibile che nessun poeta francese l'abbia mai detto?). 

Quando guardo i miei dizionari e i miei taccuini mi viene voglia di istallarmi in questo mondo ancora per cento anni e più. Amen.

Estratto dell’articolo di Nuccio Ordine per “La Lettura – Corriere della Sera” il 13 marzo 2023.

«Mi preoccupa la stupidità umana che, lasciandosi sfuggire meravigliose opportunità di condurre una battaglia vittoriosa contro la fame, la povertà o la discriminazione a favore della convivenza, della pace e della cultura, continua a praticare il fanatismo, l’intolleranza e il razzismo e tutte le altre fonti di infelicità»: Mario Vargas Llosa, Nobel per la Letteratura nel 2010, è un fiume in piena. I suoi 87 anni — li compirà il 28 marzo — non sembrano sminuire l’entusiasmo per la cultura e la politica.

 Da poco l’editore Mimesis ha pubblicato la traduzione italiana delle interviste che il celebre scrittore peruviano ha concesso, in oltre trent’anni, al giornalista spagnolo Juan Cruz ( Davanti allo specchio. Conversazioni con Juan Cruz Ruiz ). In collegamento da Madrid, Vargas Llosa risponde alle domande de «la Lettura».

Lei ha scritto che la letteratura possiede una forza morale in grado di contribuire a migliorare la società...

«È così. Il romanzo è il genere che agisce in modo più immediato sul pubblico. […] Ho l’impressione che un buon romanzo possa essere più incisivo per agitare le coscienze».

 Come sarebbe il mondo senza letteratura?

«Terribile, privo di desideri e di ideali. Ecco perché è pericolosa la censura: perché, di fatto, uccide la letteratura, impoverendo l’arte e la società. […]».

Dopo avere perduto nel 1990 le presidenziali in Perù, ha dichiarato: «I peruviani mi hanno restituito alla letteratura». Cos’ha imparato da quell’avventura elettorale?

«È stata un’esperienza molto intensa. Avevo già lottato nel passato contro il progetto del presidente Alan García di nazionalizzare le banche. Questo disegno politico, proprio in Perù, avrebbe dato al governo […] un’autorità straordinaria per usare i media in modo arbitrario. Questo è stato il motivo della mia candidatura. […] non ho accettato la sfida elettorale con molta convinzione […] È per questo che la sconfitta non ha avuto un grande peso. […]».

 Dalla caduta del Muro di Berlino il neoliberismo domina incontrastato: questo pensiero economico contribuisce a superare le disuguaglianze o può renderle ancora più drammatiche?

«Io sono un liberale. Non sono affatto favorevole al socialismo. Penso che il socialismo porti solo povertà e abbia limitato il futuro dell’America Latina. Penso che i Paesi debbano attrarre capitali, soprattutto se sono necessari per lo sviluppo. […] Allontanare gli investimenti significa correre verso il suicidio. Il caso del Venezuela è eloquente. […] Il suo drammatico impoverimento ha scatenato un enorme flusso migratorio […] la deplorevole miseria dell’America Latina, frutto delle riforme della sinistra e della cosiddetta rivoluzione socialista».

Lei ha elogiato grandi pensatori liberali come Isaiah Berlin e Karl Popper. Come considererebbero adesso questi autori l’operato di tante multinazionali che stanno distruggendo il nostro pianeta con l’obiettivo di fare molti soldi nel minore tempo possibile? E cosa c’entra il neoliberismo di oggi con le idee di Berlin e Popper?

«All’America Latina servono capitali, soprattutto capitali da investire. Perché c’è una ricchezza che non si alimenta da sola, ma ha bisogno di massicce iniezioni di denaro. […] aprire agli investimenti di denaro non significa rinunciare a difendere i propri interessi nazionali […]».

[…] Qual è il ricordo più importante della generazione del boom?

«La generazione del boom ha permesso di fare scoprire l’America Latina. Per i peruviani, che vivevano molto isolati, leggere improvvisamente scrittori cileni, colombiani, messicani ha prodotto qualcosa di splendido, di meraviglioso. […] Ora però l’America Latina sta un po’ regredendo rispetto alla vivacità intellettuale e letteraria […] degli anni Cinquanta e Sessanta. […] Stiamo vivendo […] un provincialismo che è in gran parte figlio delle politiche culturali della sinistra, con la sua ostinazione a considerare i Paesi in modo isolato e non l’intero continente. […]».

 […] Non crede che le vicende di Macondo raccontate in «Cent’anni di solitudine» rappresentino un «locale» che, magistralmente, finisce per esprimere anche l’«universale»?

«Ma certo, la letteratura è sempre universale […] Il romanzo apre sempre le frontiere. E Cent’anni di solitudine , anche se ambientato in una periferia della Colombia, avrebbe potuto raccontare, nello stesso tempo, il Perù o il Messico o altre realtà più distanti […]».

[…] Il conferimento del premio Nobel ha cambiato la sua vita e il suo modo di scrivere?

«Ha rivoluzionato la mia vita almeno per un anno! Il Nobel prevede un’agenda piena di impegni: conferenze nelle università, interventi nelle fiere del libro, discorsi e incontri... Senza contare le interviste. Certo: tutto ciò implica una grande notorietà e una diffusione ancora più massiccia delle proprie opere […]».

 […] Quali sono gli autori italiani che hanno attirato la sua attenzione?

«Ho sempre ammirato Claudio Magris, scrittore straordinario. Da molti anni mi batto per fargli concedere il Nobel. Finora la giuria non mi ha ascoltato, ma continuerò la battaglia per sostenerlo».

 Cosa può dire ai giovani per incoraggiarli a leggere i classici?

«Shakespeare e Molière e Dante e Cervantes sono autori di opere vive. Senza i classici è difficile immaginare una classe dirigente in grado di innovare e affrontare i problemi dell’umanità».

Stralci dell’intervista di Rudyard Kipling a Mark Twain (1890), contenuta nella raccolta di inediti “Parla Mark Twain” (ed. Lorenzo de’ Medici Press), pubblicati dal “Fatto quotidiano” sabato 8 luglio 2023.

La prima cosa che mi colpì fu che si trattava di un uomo anziano, ma, dopo aver riflettuto un minuto, mi accorsi che non era così, e in capo a cinque minuti, mentre i suoi occhi mi guardavano, capii che la capigliatura grigia non era che un dettaglio del tutto insignificante. 

In realtà era molto giovane. Gli avevo stretto la mano. Stavo fumando il suo sigaro e lo sentivo parlare – quest’uomo che avevo imparato ad amare e ammirare da quattordicimila miglia di distanza. Leggendo i suoi libri mi ero sforzato di farmi un’idea della sua personalità e tutte le mie opinioni precostituite erano errate e al di sotto della realtà. 

È fortunato colui che non resta deluso quando viene faccia a faccia con un ammirato scrittore. Era un momento da non dimenticare, la cattura di un salmone di dodici libbre non era nulla in confronto.

Avevo preso all’amo Mark Twain e lui mi stava trattando come se, in certe circostanze, potessi stargli alla pari... La conversazione passò dai libri in generale ai suoi in particolare. Facendomi coraggio e con la sicurezza di rappresentare alcune centinaia di migliaia di persone, gli chiesi se Tom Sawyer sposò la figlia del giudice Thatcher e se avremmo mai avuto notizia di Tom Sawyer da adulto.

“Non ho ancora deciso”, disse Mark Twain alzandosi, riempiendosi la pipa e camminando su e giù per la stanza in ciabatte. “Ho avuto l’idea di scrivere il seguito di Tom Sawyer in due maniere diverse. Nel primo caso l’avrei fatto ascendere ai più alti onori e fatto arrivare al Congresso, nel secondo l’avrei fatto finire sulla forca. Allora tanto gli amici come i nemici del libro avrebbero potuto scegliere”. 

A questo punto perdetti ogni riguardo e protestai contro qualsiasi teoria di quel tipo, perché, per me almeno, Tom Sawyer era una persona reale. “Oh, lo è”, disse Mark Twain. “È tutti i ragazzi che ho incontrato o che ricordo; ma quello sarebbe un buon modo di concludere il libro”...“Sì, ma non dategli due scosse e non mostratecene il risultato, perché Tom non è più vostra proprietà. Appartiene a tutti noi”. 

A questo punto rise – una forte, franca risata...“Avete intenzione di scrivere un’autobiografia prima o poi?”.“ Sì; sarà come quelle scritte da altri – col più sincero desiderio di presentarmi come un uomo migliore in ogni piccola faccenda a mio discredito e, come gli altri, non riuscirò a far sì che il lettore creda ad altro che alla verità”... 

“Non leggo mai romanzi di mia iniziativa”, disse. “Lo faccio solo quando sono costretto dalla pubblica persecuzione – quando la gente mi tormenta per conoscere il mio parere sull’ultimo libro che tutti leggono”. “E che effetto ha avuto su di voi l’ultima persecuzione?”. “Robert (Robert Elsmere di Humphry Ward, ndr)?” disse interrogativamente. Accennai di sì. “L’ho letto, naturalmente, per la sua fattura...”. 

Che fare quando si è totalmente in disaccordo con un grande? Il mio compito era stare in silenzio e ascoltare. E tuttavia Mark – Mark Twain, un uomo che conosceva gli uomini – grande capo, grandissimo capo, tremendamente potente grande capo – signore delle lacrime e del riso, provetto nella conoscenza dell’interiorità delle cose, s’inchinava alla ricercata mercanzia delle scuole, dove la gente si comporta in obbedienza ai libri che legge e tiene la coscienza sotto spirito di vino fatto in casa.

Diceva che c’era finezza di stile, perciò doveva esserci finezza di stile. Ma forse mi stava prendendo in giro. “Vedete”, continuò, “ognuno ha la propria opinione personale su un libro. Se fossi vissuto all’inizio dei tempi mi sarei guardato intorno tra i cittadini per capire il parere dell’opinione pubblica sull’assassino di Abele prima di condannare apertamente Caino. Naturalmente avrei avuto la mia opinione personale, ma non l’avrei espressa prima di aver capito come andavano le cose. Non so bene quali siano le mie opinioni pubbliche. Non sconvolgeranno la terra”...

“Personalmente non mi interessano la narrativa e i libri di racconti. Quello di cui mi piace leggere sono fatti e statistiche di ogni tipo. Mi interessano anche se sono fatti riguardanti la coltivazione dei ravanelli. Proprio adesso, per esempio, prima che arrivaste”, – indicò un’enciclopedia sugli scaffali – “stavo leggendo un articolo di matematica perfettamente pura. Le mie conoscenze matematiche si arrestano a ‘dodici per dodici’, ma ho letto l’articolo con immenso piacere. Non ne ho capito neanche una parola, ma i fatti o quello che si pensa siano fatti sono sempre dilettevoli. Per prima cosa raccogliete i vostri fatti”, e la voce si abbassò fin quasi a un ronzio impercettibile, “poi potete distorcerli come volete”.

«Vidi Scorsese sul set abbracciare DiCaprio e capii il suo segreto». Donato Carrisi su Il Corriere della Sera il 12 Febbraio 2023

Il ritratto d’autore di Donato Carrisi che racconta il regista: «Lui era a Cinecittà, mi ero imbucato». Durante le riprese «si voltava verso le retrovie, scrutava i presenti: stava già studiando il pubblico»

C’è un’inquadratura in Gangs of New York che riassume perfettamente l’idea di cinema come «artigianato», propria di Martin Scorsese. La durata è di appena pochi secondi — tre, per l’esattezza — ma sono considerabili alla stregua di un codice estetico e di una rivoluzione. La scena in questione è quella dello scontro iniziale fra le due fazioni capitanate da Daniel Day-Lewis e Liam Neeson. Scorsese vuole far letteralmente «precipitare» la macchina da presa all’interno del combattimento. Nella sua testa, la ripresa deve partire dall’alto, con un’ampia inquadratura che comprenda il campo di battaglia e i due schieramenti, per poi scendere improvvisamente al livello del suolo, tra il fragore delle lame, le urla, lo spezzarsi delle ossa e lo squarciarsi delle carni. Ma non gli basta. Vuole trasmettere allo spettatore la forza d’urto che si sprigiona quando i due eserciti entrano in contatto e, contemporaneamente, fissare l’istante in cui le vite sono ancora intatte, i corpi ancora integri e il vigore dei guerrieri non è provato dalla fatica. Perciò la partenza del movimento dall’alto verso il basso della macchina da presa deve necessariamente coincidere con l’inizio dell’attacco e questa deve toccare terra nell’istante esatto dell’impatto fra gli schieramenti.

I tempi perfetti

Impossibile. Troppe variabili devono coincidere alla perfezione. Troppe azioni devono avvenire a intervalli di tempo così precisi, ma anche così brevi, che è folle pensare di accordarle fra loro e, soprattutto, con la macchina da presa. Oggi si risolverebbe tutto con un computer. Ma anche oggi, Scorsese difficilmente delegherebbe un’impresa simile a dei microchip. Però, siccome l’inquadratura impossibile esiste e non è frutto di effetti digitali, abbiamo il dovere di chiederci come sia stato compiuto un simile prodigio. A questo punto, siccome ci troviamo a Cinecittà, il mito prende il posto della sterile cronaca. E la leggenda narra che i macchinisti italiani impiegati sul set abbiano chiesto a Scorsese una notte di tempo per creare un braccio meccanico capace di realizzare quel movimento inverosimile della macchina da presa.

Tramezzini

Mentre tutto questo avveniva, io c’ero. Giovane sceneggiatore squattrinato, appena trasferitosi a Roma, avevo trovato il modo di intrufolarmi su quel set per vedere all’opera uno fra i geni che con la sua arte mi aveva spinto a rinunciare a una sicura carriera d’avvocato. Grazie a uomini come lui, i tramezzini tonno e pomodoro con cui cenavo praticamente da settimane avevano il sapore dolcissimo della speranza. Avevo intenzione di vederlo all’opera ma in realtà, siccome ogni set risponde a una rigida divisione per cerchi, ciascuno occupato da una precisa casta professionale, dalle retrovie in cui ero confinato di Martin Scorsese avrei visto soprattutto la nuca. Però, anche da laggiù, potevo coglierne i gesti. Gli storyboard fra le sue mani, molti dei quali disegnati da lui stesso, in cui aveva momentaneamente appuntato la forma delle immagini che di lì a poco avrebbe evocato davanti all’obiettivo. Il modo di approcciarsi agli attori in scena. Per esempio afferrando il polso di Daniel Day-Lewis ogni volta che voleva dargli indicazioni, usando sempre un tono stentoreo per cui non si capiva esattamente se stesse parlando realmente con lui oppure con il personaggio di Bill il Macellaio. L’attenzione riservata a Cameron Diaz o il braccio sulla spalla di DiCaprio, creando un contatto intimo ed esclusivo con entrambi. In quegli approcci c’era il regista che dice all’attrice o all’attore «sono qui per te».

Rinascere

Più lo osservavo, più mi domandavo dove fossero celati il misticismo di Taxi Driver, l’epica naif dei Goodfellas, l’istinto profetico di The King of Comedy . E come potessero convivere in un solo artista così tante visioni. Perché il Martin Scorsese che mi trovavo davanti era lontano anni luce dai suoi film precedenti, tanto da sembrare un altro regista. Le sembianze erano identiche, ma era come se la sua anima si fosse rinnovata. E allora ho compreso che questo avveniva ad ogni nuovo copione. Per un regista, fare un film è come rinascere ogni volta. Ma non è immortalità. Perché, quando tutto è compiuto, quando l’opera approda sul grande schermo, è necessario morire per dare inizio a un nuovo ciclo. Nascere e morire. Morire e nascere. Il destino tragico e insieme la ricompensa di un regista. Altro aspetto su cui mi sono interrogato a lungo era perché Scorsese avesse deciso di venire a Roma per girare un film che omaggiava le origini della sua città, New York. Non era abbastanza convincente il motivo per cui di quell’antichissima Manhattan dominata dalle bande non esistessero più testimonianze architettoniche, tranne che nei dipinti di Catlin, e che pertanto il film poteva essere realizzato anche lontano da lì. Ma allora perché non a Hollywood? Qualcuno sosteneva anche che, il regista che aveva avuto il merito di portare l’Italia in America, adesso restituiva il favore portando l’America in Italia. La ragione della scelta, invece, è custodita in quei tre preziosissimi secondi di cinema. Scorsese lo sapeva dall’inizio. Solo a Cinecittà — con le sue maestranze, con l’energia viva del suo passato — le imprese impossibili diventano possibili. Quel miracolo di tecnica e di fantasia poteva avvenire solo in quel tempo e solo in quel posto. Provate a immaginarvi Dante Ferretti che, con un gesto magico, disegna per aria con un dito il miglio di una Manhattan ottocentesca che poi, grazie a carpentieri, pittori, arredatori, attrezzisti, diventerà la scenografia del film.

Lo sguardo

E poi c’è un altro aspetto, ascetico, da non trascurare. Lo avrei capito molti anni dopo, vedendo entrare Dustin Hoffman sul set de L’uomo del Labirinto, al Teatro 8. Lui che non aveva mai recitato a Cinecittà e che aveva rifiutato, pentendosi, un film con Fellini, si muoveva come fosse in chiesa, guardandosi intorno con rispetto e devozione. E in seguito mi confidò che, proprio lui, un famoso perfezionista, sentiva una sorta di responsabilità ulteriore a recitare in quei luoghi. Una specie di dovere morale nei confronti di tutto il cinema che era passato da lì e di tutti i colleghi che l’avevano preceduto. A Cinecittà gli attori sono spinti a dare il meglio di sé. Anche questo era chiaro a Scorsese. In quei giorni da intruso su quel set, ogni tanto vidi il regista ripetere un gesto spiazzante. Nel bel mezzo delle riprese, si disinteressava alla scena per voltarsi verso le retrovie. Scrutava per qualche istante le facce dei presenti, poi tornava a dedicarsi ai suoi attori. Il film non era ancora finito, ma Scorsese stava già studiando il pubblico.

Rao, il visionario che amava la luna. Il ritratto del pittore beneventano con passaggio a nord dotato di una tecnica veloce. VITTORIO SGARBI su Il Quotidiano del Sud l’11 Dicembre 2022. 

Se ne è andato presto Massimo Rao, pittore visionario che era nato a San Salvatore Telesino vicino a Benevento nel 1950, e aveva trascorso una parte della sua operosa giovinezza, tra il 1976 e il 1981, a Bolzano. Il passaggio al nord fu per Rao un’apertura di orizzonte sull’arte tedesca che gli consentì una singolare miscela con la grande pittura italiana, rinascimentale barocca. Ne è testimonianza esemplare l’ invenzione di un dipinto come “E venne un angelo”, che rivela la sua colta fonte nel Seicento fiorentino e nella esperienza anacronistica di Fabrizio Clerici, Riccardo Tommasi Ferroni, Mario Donizetti.

Il suo è un vero e proprio sogno della pittura, che non ha tempo e non si misura con il presente. Il dipinto di Rovereto è lo studio preparatorio per una più ampia composizione nella quale l’angelo emerge da uno scudo lunare e da un frammento di gusto classico. I riferimenti sono alla pittura di Sebastiano Mazzoni e di Alessandro Rosi ma anche a Johann Liss, pittore tedesco che maturò a Venezia.

La pittura neobarocca di Rao è fatta di queste contaminazioni. Le sue curiosità e la ricchezza delle sue conoscenze gli hanno consentito una produzione ricca e variegata nella concentrazione del suo rifugio vicino a Terni, dove si era ritirato negli anni precoci della sua maturità, a Pornello San Venanzio, un piccolo paese fuori da tutti i mondi possibili, lontano da qualunque altro luogo, dove Rao in uno studio molto rarefatto, con pochi oggetti, con un ordine straordinario, disegnava, disegnava, disegnava prima ancora che dipingere, e disegnava con l’urgenza di sa di avere poco tempo.

La tecnica di Rao è veloce, la definizione del disegno sicura. L’artista ama i panneggi, gli ampi drappi, i turbanti, tutto ciò che è suscettibile di piega. Egli è rinascimentale, barocco, neoclassico e romantico, indifferentemente e sempre con talento, ma è soprattutto il pittore della luna. La luna che domina i suoi quadri in modo ossessiva, conturbante. La luna – a dirlo con Rossana Bossaglia – come altro volto delle figure, cioè come maschera; e maschera anche di sé, dal momento che l’altra faccia della luna ci è ignota; luna come interlocutrice dolce ed infida dei solitari personaggi, sorridente nel suo inespugnabile silenzio. Rao ha la necessità di sperimentare, di creare, di percorrere e – come egli stesso affermava – di ricercare con emozionata voluttà le strade d’accesso alle cose che oltrepassano la realtà ed è per questo che le figure che dipinge non fanno quasi mai nulla di preciso e di riconoscibile, loro semplicemente sono e, stanno soltanto rappresentando e portandosi dietro e addosso, come tutti indistintamente facciamo, la loro vita, così com’è, sotto gli occhi di tutti.

«Rao è pittore difficile», scrive Ferdinando Creta, «acritico nella sua fedeltà all’immagine e alla tecnica tradizionale, pittore che richiede un avvicinamento lento, progressivo per un piacere sottile, intellettuale, eppure non d’élite. Con il suo lavoro, evidentemente insieme con altri come Clerici, Annigoni, Ferroni, Donizzetti, De Stefano, ha riaffermato, già in tempi non sospetti, il ritorno alla pittura» Le sue invenzioni lo rendono uno degli artisti più originali della sua generazione.

Maledetta questa gonna!”. La vita "poco femminista" di Matilde Serao. Libri, riviste, quotidiani, fogli di carta sono stati per Matilde Serao l’epicentro della sua esistenza. La straordinarietà della sua impresa è stato approfittare di questo dono per essere ricordata come la prima donna a fondare un giornale. Laura Lipari il 25 Gennaio 2023 su Il Giornale.

La storia di Matilde Serao racchiude al suo interno un iniziale paradosso che le servirà in un secondo momento a comprendere realmente le sue capacità e sfruttarle. Nasce nel 1856 a Patrasso, in Grecia, nella terra della madre, Paolina Borrelly, una nobile decaduta che s’innamora di un avvocato e giornalista napoletano, Francesco Saverio Serao, in esilio in quanto, essendo un convinto antiborbonico, rischia la forca. Entrambi diventano due modelli da seguire per la piccola Matilde. Nel 1860 la famiglia torna in patria grazie alla caduta di Francesco II che permette al padre di trovare alloggio nei pressi di Caserta e poi a Napoli.

Nonostante l’ambiente familiare intriso di cultura e le intere giornate passate con il padre in redazione, Matilde rimane analfabeta fino all’età adolescenziale. Solo all’età di 15 anni la giovane si presenta all’istituto magistrale per poter iniziare gli studi che finisce grazie al conferimento del diploma da maestra. Il bisogno di sapere dipende non solo da una condizione economica familiare instabile, ma soprattutto da un’esigenza personale.

Ancora molto giovane trova lavoro come ausiliaria ai Telegrafi di Stato, che la impegneranno per tre anni e nel frattempo comincia a scrivere piccoli articoli da pubblicare. La letteratura diventa un rifugio e così comincia a sperimentare con la stesura di breve novelle con lo pseudonimo di “Tuffolina”. Dopo la sua prima novella completa Opale, uscita nel 1878, il suo nome d’arte, con il quale firma sia la cronaca che la critica, diviene “Ciquita”.

Il trasferimento a Roma le dà l’opportunità di iniziare a frequentare i salotti mondani, famosi per essere luoghi di ritrovo per gli artisti dell’epoca. La sua risata fragorosa e i suoi movimenti poco raffinati, però, non mettono in evidenza il suo intelletto, anzi viene subito giudicata grossolana e sgraziata soprattutto dalle altre donne. Lei se ne accorge presto ma non le importa. “Quelle damine eleganti non sanno che io le conosco da cima a fondo – scriverà in seguito la giovane Matilde - che le metterò nelle mie opere; esse non hanno coscienza del mio valore, della mia potenza”. I modi garbati impartiti dalla madre in tenera età, infatti, non avevano fatto breccia nella scrittrice. Al contrario aveva sviluppato altre qualità come lo spirito d’osservazione, da questo momento infatti comincia a essere definita da alcuni come un’eroina borghese ma con occhio attento nei confronti degli ultimi, ruolo che spesso non viene ben visto dalla società che la circonda.

La critica e poi l’amore

Nel 1883 viene pubblicato il suo libro più famoso, Fantasia, per il quale si accende un dibattito tra il poeta e critico Edoardo Scarfoglio e la scrittrice. Lui le contesta: “… si può dire che essa sia come una materia inorganica, come una minestra fatta di tutti gli avanzi di un banchetto copioso, nella quale certi pigmenti troppo forti tentano invano di saporire la scipitaggine dell'insieme – con un linguaggio che – vi si dissolve sotto le mani per l'inesattezza, per l'inopportunità, per la miscela dei vocaboli dialettali italiani e francesi”. Matilde risponde dando la colpa ai pochi anni di studio da autodidatta ma senza rinnegare la sua originalità: “Vi confesso che se per un caso imparassi a farlo, non lo farei. Io credo, con la vivacità di quel linguaggio incerto e di quello stile rotto, d'infondere nelle opere mie il calore, e il calore non solo vivifica i corpi ma li preserva da ogni corruzione del tempo”.

Questo botta e risposta sarà il pretesto dell’incontro fortunato tra i due che determinò il loro sfarzoso matrimonio nel 1885, da cui nacquero i loro quattro figli. Tra una gravidanza e l’altra Serao continua a non dare limite alla sua creatività e in quegli anni pubblica altri romanzi come Pagina Azzurra, All'erta!, Sentinella, La conquista di Roma, Piccole anime, Il ventre di Napoli, Il romanzo della fanciulla.

Nonostante le convenzioni di quell’epoca, che dipingevano la donna come colei che doveva occuparsi della casa e della prole, la famiglia Scarfoglio-Serao rappresenta una rottura completa degli schemi. È proprio il critico infatti a convincere la moglie a fondare un giornale tutto loro e nel 1885 inaugurano il Corriere di Roma. Il suo decollo però avviene in modo nebuloso e a tratti interrotto da un vero gigante dell’editoria di quei tempi, La tribuna, che gode di un vasto pubblico e firme prestigiose. Il Corriere di Roma invece rimane di nicchia e non riuscirà mai a stare al passo con le altre testate. Per questo motivo i profitti cominciano a essere meno dei debiti, demoralizzando gli animi.

Lo scoraggiamento iniziale tuttavia è spazzato via da un incontro casuale a Napoli con il banchiere Matteo Schilizzi e proprietario del quotidiano Corriere del Mattino. La conversazione tra i tre si trasforma in un accordo: il banchiere si sarebbe accollato i debiti e in cambio la coppia avrebbe preso in mano le redini del giornale. Nel 1887 il Corriere di Roma cessa quindi le sue pubblicazioni e si fonde con il Corriere del Mattino dando via al Corriere di Napoli, con sede nella città partenopea.

Dopo varie vicissitudini Scarfoglio e Serao decideranno di cedere la loro parte della proprietà e lanciarsi nuovamente nella fondazione di un nuovo giornale, sperando di trovare più fortuna della prima volta. Il 16 marzo 1892 esce il primo numero de Il Mattino dove anche Matilde scriverà alcuni articoli sotto pseudonimo di “Gibus”.

Il tradimento, lo sparo e la separazione

L’insieme di cambiamenti, emozioni, sofferenze, affaticamenti destabilizzano presto la salute di Matilde per cui, sotto suggerimento, cerca di evadere dalla routine e rifugiarsi per un periodo di riposo in Valle d’Aosta. La situazione a casa senza la colonna portante però crolla vertiginosamente senza un punto di non ritorno. Il marito conosce una cantante di teatro, Gabrielle Bessard, con la quale inizia una storia extraconiugale. Al ritorno della moglie è costretto a rivelare il tradimento e dopo una prima incertezza Scarfoglio decide di rimanere con Matilde lasciando definitivamente l’amante. Quest’ultima, che aveva dato alla luce il frutto dell’adulterio, un giorno si presenta alla porta della loro casa e, lasciando la bambina tra le braccia della Serao, si spara un colpo di pistola al cuore. Accanto al suo corpo esanime gli agenti trovano un biglietto: "Perdonami se vengo a uccidermi sulla tua porta come un cane fedele. Ti amo sempre".

Questo gesto segnerà per sempre Matilde e il marito. Nonostante l’insabbiamento iniziale, la notizia inizia a dilagare tra le varie testate giornalistiche, ormai tutti sono a conoscenza del fatto. Il nome della famiglia è infangato e c’è persino chi la compatisce. Lei però è una che tiene testa alta soprattutto nelle difficoltà e senza neanche pensarci troppo adotta la piccola orfana alla quale dà il nome di sua madre, Paolina. La storia del tradimento non è una novità. Scarfoglio la ama davvero ma per lui non è l’unica donna della sua vita. I due finiscono così per separarsi definitivamente.

Le accuse e la rinascita

Il periodo nero è solo all’inizio. Le voci sulla cattiva condotta e le polemiche su una vicenda di corruzione diventano sia per il critico e sia per la Serao motivo di grande diffamazione. Entrambi vengono accusati di aver fatto favori in cambio di denaro durante la conduzione dei loro quotidiani. Dalle voci si passa ai fatti quando entrambi vengono allontanati gradualmente dal settore giornalistico facendo svanire i loro cognomi dai vari articoli.

Rimasta sola e con pochi spiccioli, la Serao non si fa abbattere e continua con quello che sa fare meglio: scrivere. Non solo, grazie alle strategie comunicative delle quali conosceva ogni segreto, riesce ad anticipare i tempi, per esempio con la proposta di abbonamenti ai lettori in cambio di sconti e gadget.

La sua rinascita è merito soprattutto di una rubrica “Api, mosconi e vespe”, con la quale tratta di temi di vita quotidiana, indagando sugli usi e costumi sia nei contesti borghesi che in quelli più umili. I rapporti con l’ex marito, però, diventano sempre più tesi fino a quando Matilde decide di lasciare Il Mattino e si mette in proprio.

La stessa rubrica, ma dal nome “Mosconi” verrà pubblicata nel giornale fondato nel 1904 dalla Serao, prima donna nella storia del giornalismo italiano, Il Giorno che divenne ufficialmente la concorrenza del Il Mattino di Scarfoglio. Nel 1911 il nome di Serao già nuovamente noto ai lettori, appare nel settimanale simile a una rivista “La moda del giorno”, edito da Antonio Quattrini, di cui assume la direzione.

Il suo concetto di femminismo

Il femminismo della Serao è un attivismo implicito nelle sue battaglie personali molto distante da quello che si intende oggi. Durante un’intervista nel 1904 dirà infatti: “Femminista? Non mi sono mai occupata della questione. Ma crede lei che abbia ragione d’essere una questione femminista? Il femminismo non esiste. Esistono solo delle questioni economiche e morali che si scioglieranno o si miglioreranno quando saranno migliorate le condizioni generali della donna: assicurare alla donna il sacrosanto diritto di vivere”. Matilde Serao è una donna pratica nella vita di tutti i giorni e lo è anche nei suoi ragionamenti. “Maledetta questa mia gonna!”, scriverà riguardo al rammarico che aveva provato sapendo di non poter accedere alle case chiuse per raccontare la storia di prostituzione dentro quelle mura.

Un’altra inchiesta forte è quella dal titolo “Le vie dolorose delle maestre”. Fatta l’Italia infatti si dovevano formare gli italiani: dunque il collante doveva essere innanzitutto la lingua parlata, unica per tutti. Lo Stato decide quindi di mandare le maestrine in tutto il Paese per insegnare alla gente a leggere e scrivere. Il viaggio di queste ragazzine simili a delle soldatesse, in missione non verso una terra bellica ma verso destinazioni incognite e spesso in realtà molto diverse da quella natale, era motivo di grande sofferenza. Giovani donne completamente sole, mal pagate, esposte e spesso in balia di tragici destini che la scrittrice trasformerà in protagoniste nei racconti della sua rubrica, donne che altrimenti sarebbero cadute nell’oblio della memoria.

Gli ultimi anni

La vita sentimentale della giornalista si riaccende quando conosce un giovane giornalista dal nome Giuseppe Natale con il quale concepisce una bambina dal nome Eleonora, in onore della storica amica Eleonora Duse. I due si sposano alla morte di Scarfoglio, ma dopo qualche anno anche Giuseppe Natale muore lasciando un vuoto incolmabile nella vita della donna.

Nel 1926 un altro evento grandioso segna la sua esistenza: la candidatura al Premio Nobel per la letteratura. Ma - nonostante il repertorio di 26 romanzi e 160 novelle e collaborazioni con più di 100 testate italiane e straniere - le sue idee, segno di un’indipendenza intellettuale, non le permettono di aggiudicarsi l’ambito premio che quello stesso anno vincerà un’altra donna, Grazia Deledda.

La fine dell’esistenza di Matilde Serao è memorabile come la sua vita. La morte infatti la coglierà con la penna in mano nel 1927, proprio mentre era intenta a scrivere un articolo per allietare il suo pubblico e la sua anima.

L'artista. Maurizio Cattelan: “Chissà se sarà ricordato come l’imbecille della banana, i milanesi vanno rinfrescati”. "Rimani impresso più per le gag che per le cose serie che hai tentato di fare o dire. È un grande dilemma, perché sei sempre tentato di compiacere più persone possibili, ma al tempo stesso senza svalutare il contenuto di quello che dici". Redazione Web su L'Unità il 16 Giugno 2023 

Maurizio Cattelan e la sua banana. Quella di Comedian certo, l’opera d’arte sempre a rischio, sempre minacciata da qualcuno che la stacchi e la mangi – com’è successo d’altronde il mese scorso a Seul, per esempio. L’artista italiano di più estesa fama internazionale non lo esclude, che resterà noto, sarà ricordato più per la banana che per altri lavori più profondi e impegnativi. “È un rischio che si corre sempre quando passi da un registro all’altro: rimani impresso più per le gag che per le cose serie che hai tentato di fare o dire. È un grande dilemma, perché sei sempre tentato di compiacere più persone possibili, ma al tempo stesso senza svalutare il contenuto di quello che dici”.

Cattelan si descrive come un timido. Classe 1960, è nato a Padova. Prima di darsi all’arte aveva lavorato come infermiere in ospedale. I suoi primi lavori erano tra design e arte. Ha debuttato come artista con le sue opere alla galleria Neon e alla GAM di Bologna nel 1990. Il Guggenheim di New York gli ha dedicato una personale nel 2011. Ha scatenato – per l’ennesima volta – una piccola polemica a Cremona, dove nel Battistero, in occasione dell’Art Week, ha appeso un coccodrillo al Battistero dell’1167.

Ci sono moltissimi animali nei luoghi sacri, sono sempre stati dei simboli, specialmente i rettili – ha raccontato l’artista alla rivista Sette de Il Corriere della Sera – nella cultura cristiana e cattolica serpenti, draghi e coccodrilli sono considerati personificazioni terrene del diavolo. Conoscevo il coccodrillo di Curtatone, lo visitai vent’anni fa, ma non sapevo ce ne fossero altri. Chissà come sono arrivati in Italia, se in seguito alle crociate o come specie alloctone, come i pappagallini verdi che infestano gli alberi di Milano in certi momenti dell’anno!”. L’ha chiamato EGO, come quello molto sviluppato di artisti, sportivi, musicisti e giornalisti.

Non è la prima volta che appende una sua opera. “Essere appeso ti rende innocuo, priva il corpo della capacità di muoversi e di reagire. Un corpo sospeso, a cui viene tolta la terra sotto i piedi, è un corpo impotente, privato della propria capacità di influire sul proprio destino. È un gesto molto violento, e rivolgerlo contro il mio stesso lavoro è stato anche terapeutico”. Per il settimanale del quotidiano Cattelan si è fatto ritrarre in un servizio fotografico all’interno della Scala, ha rivelato il suo amore per l’Opera pur senza escludere la musica dei rave. “I milanesi vanno ogni tanto rinfrescati aprendo le finestre, come nelle case. Ci sono tantissimi giovani che vanno a vedere la lirica, l’opera e la danza. Il merito è di produzioni molto fresche, capaci di trasmettere contenuti antichi riaggiornandoli e renderli così approcciabili”.

C’è spazio anche per una riflessione sul rapporto tra il mondo dell’arte e la Chiesa – “L’arte e gli artisti hanno bisogno di mecenati, un tempo era la Chiesa, oggi è la moda, o i grandi collezionisti… Se la Chiesa tornasse a interessarsi a un ruolo da committente sono sicuro che ci sarebbe il modo per creare un dialogo proficuo. In fondo la chiesa è uno dei più grandi serbatoi di simbolismo del nostro panorama culturale, detiene spazi incredibili in cui gli artisti sarebbero felicissimi di lavorare” – e per un’altra sui femminicidi, a partire dalla sua opera Untitled del 2007. “Il problema è che siamo ancora immersi in una società dominata dagli uomini, dove, a partire dai titoli dei giornali, le vittime vengono raccontate come se avessero una colpa e gli assassini come persone malate prese da un raptus. Solo cambiando questa narrazione possiamo sperare di iniziare ad invertire la rotta”.

Redazione Web 16 Giugno 2023

Maurizio Cattelan, artista globale: «Magari passero alla storia come l’imbecille della banana». Francesca Pini, foto di Alberto Zanetti su Corriere della Sera il 16 giugno 2023. 

Il più acclamato artista italiano al mondo, reduce dal successo e dalla polemica del suo intervento nel Battistero di Cremona, .si è fatto ritrarre alla Scala di Milano. Rivelando il suo grande amore per l’opera, ma che non esclude la musica rave. 

Maurizio Cattelan, 62 anni, nato a Padova, artista irriverente e imprevedibile: la sua opera L.O.V.E, il dito davanti alla Borsa, è parte del paesaggio milanese. Qui è ritratto nel foyer del Teatro alla Scala, a Milano (foto Alberto Zanetti)

Preparatevi, per tempo, a un’eccezionale “prima” della Scala a Sant’Ambrogio, il 7 dicembre, a Milano. In cartellone Maurizio Cattelan con soprano, mezzosoprano, tenore, baritono e basso. E quando accadrà - se mai accadrà - la standing ovation è garantita. Per ora sono le fauci spalancate del coccodrillo appeso nel Battistero di Cremona (del 1167) a tenere banco, fino al 1 novembre. E se ancora l’anno scorso erano il Museo del violino con gli Stradivari e le visite guidate sulle tracce del grande attore cremonese Ugo Tognazzi ad attirare persone in città, l’Art Week, con i suoi 70 interventi e il colpo gobbo di Cattelan, ha mobiltato 15mila persone in una settimana. Benché con Cattelan si gridi sempre allo scandalo, il rapporto con la Diocesi, con i sacerdoti, è stato inaspettatamente molto aperto.

IL COCCODRILLO SI CHIAMA EGO COME QUELLO DEGLI ARTISTI. IL MIO È COME IL DOWN JONES VA SÚ E GIÚ A SECONDA DELLE GIORNATE

«La curatrice della Art Week di Cremona, Rossella Farinotti, ha avuto l’importante ruolo di preparare il terreno, rendere possibile il dialogo tra gli artisti e gli spazi in cui le loro opere sarebbero state installate, e con tutte le persone che questi spazi li abitano quotidianamente. Specialmente se, come in questo caso, di solito non sono deputati all’arte contemporanea, anzi», commenta l’artista. «Il Battistero è un luogo speciale, diverso da una chiesa, più sacro che religioso. Rossella, che conosco da molti anni, ha intrapreso una conversazione con don Gaiardi e da lì siamo partiti a immaginare l’intervento».

C’è stato un frangente dove lei e don Gaiardi vi siete “scambiati” il colletto del clergyman e la sua famosa banana: questa può essere l’immagine iconica di un’inversione di ruoli. Che cosa la affascina nella figura di un sacerdote? Poter confessare? Il filo diretto con Dio? Battezzare, celebrare matrimoni, funerali?

«Mai mi sono spacciato per un prete, ma sono stato per lungo tempo un chierichetto. I sacerdoti hanno ovviamente avuto un ruolo nella mia educazione, sono figure che rispetto: mi chiedo se considerino oggi il loro lavoro di utilità sociale, alla pari di un medico o di un infermiere».

È un artista da grandi musei, ma la piccola Cremona nella sua dimensione provinciale...

«Il pregio è che lì il tempo si allunga, e ciò aiuta a migliorare i rapporti fra le persone. Ciò che a volte manca nelle grandi città, che però hanno la possibilità di offrire molta diversità. È difficile trovare un equilibrio tra questi due poli».

Qui ha lavorato in mezzo ad artisti di un’altra generazione, Nicole Colombo, Ettore Favini, Invernomuto, Giovanni Ozzola, Alice Ronchi.. quali complicità artistiche tra di voi?

«Le mostre sono uno strumento di conoscenza e approfondimento, una sorta di percorso di consapevolezza. Quelle collettive in particolare sono un momento importante per un artista: sono l’occasione per entrare in contatto coi tuoi simili e, a prescindere dall’età e dall’esperienza, c’è sempre qualcosa da imparare da questo confronto. E anche nel rapporto con chi cura la mostra. Benché in alcuni casi - ma non in questo - può essere più conflittuale di quello che hai con un altro artista con cui condividi la stanza».

Il coccodrillo (sulla terra da 90 milioni di anni) qui nel Battistero sembrerebbe quasi un ex voto di uno scampato pericolo, o di chi invece è in cerca di redenzione... Forse lei?

«Del coccodrillo ciò che mi affascina è che tutti lo temono ma nessuno l’ha mai visto. Anche per Capitan Uncino, se ci pensa, basta il ticchettio della sveglia che il coccodrillo ha ingoiato per andare nel panico, senza che neanche si vedano gli occhi sopra la superficie dell’acqua. E proprio il fatto che è la nemesi e il terrore dell’antagonista di Peter Pan dimostra che il coccodrillo rappresenta da sempre le nostre paure più profonde, quelle che ci fanno tornare nella condizione di preda».

SE LA CHIESA TORNASSE AD ESSERE UN COMMITTENTE SI RISTABILIREBBE UN DIALOGO PROFICUO TRA LEI E GLI ARTISTI

Un luogo sacro come questo è solo un bell’ambiente antico e monumentale, oppure induce anche a una propria analisi interiore?

«Entrare in un luogo sacro ha sempre un impatto, anche quando non è consacrato a quello in cui credi. Non conoscevo il Battistero di Cremona, ma quando l’ho visitato la prima volta mi ha colpito soprattutto perché è incredibilmente semplice: all’interno la cupola è gigantesca e tutta di mattoni, senza decorazioni. Sembra quasi una architettura disegnata da Carlo Scarpa, invece è di epoca medievale. C’è stato un momento in cui religione e architettura sono riuscite a incontrarsi per rappresentare l’assoluto, che in quel caso era religioso, ma è un’armonia che percepisce chiunque lo visiti, anche se non ha fede. È questa la cosa più incredibile dell’architettura sacra. Mi interessa l’architettura simbolica, quella sociale e l’architettura libera da architetti egocentrici. Che crea delle possibilità di incontro, non invasiva, più orizzontale e connettiva che verticale e dimostrativa».

Bibbia e Vangeli spesso fanno riferimento ad animali simbolici. Sapeva che nel Santuario delle Grazie di Curtatone c’era un coccodrillo appeso nella navata? E che ve ne sono altri in altre chiese, come nel Santuario delle Vergini a Macerata e in quello delle Lacrime a Ponte Nossa, in provincia di Bergamo?

«Ci sono moltissimi animali nei luoghi sacri, sono sempre stati dei simboli, specialmente i rettili: nella cultura cristiana e cattolica serpenti, draghi e coccodrilli sono considerati personificazioni terrene del diavolo. Conoscevo il coccodrillo di Curtatone, lo visitai vent’anni fa, ma non sapevo ce ne fossero altri. Chissà come sono arrivati in Italia, se in seguito alle crociate o come specie alloctone, come i pappagallini verdi che infestano gli alberi di Milano in certi momenti dell’anno! ».

E questo l’ha chiamato EGO. Che negli artisti è molto sviluppato. Il suo a che livello è?

«Non solo negli artisti, anche nei calciatori, nei musicisti, nei giornalisti... Il mio è un po’ come l’indice del Dow Jones: va su e giù a seconda delle giornate».

Perché questa idea di appendere un animale ricorre spesso nella sua visione artistica?

«Ho fatto di peggio, ho appeso tutto il mio lavoro per la mostra al Guggenheim di New York nel 2011. Essere appeso ti rende innocuo, priva il corpo della capacità di muoversi e di reagire. Un corpo sospeso, a cui viene tolta la terra sotto i piedi, è un corpo impotente, privato della propria capacità di influire sul proprio destino. È un gesto molto violento, e rivolgerlo contro il mio stesso lavoro è stato anche terapeutico».

NON SONO ABBASTANZA BRAVO PER FARE UNA SCENOGRAFIA. SEMMAI UN SET DESIGN PER UN’OPERA DAL TITOLO MADAME MOLOTOV

Dai concerti alla Scala al rave party, per lei tutto “fa musica”...

«È il bello delle grandi città, in una serata puoi passare dalla musica classica, a quella contemporanea colta a un rave. Crei la tua playlist di musica dal vivo».

I milanesi amano ancora la Scala come un tempo? È sempre elitaria?

«I milanesi vanno ogni tanto rinfrescati aprendo le finestre, come nelle case. Ci sono tantissimi giovani che vanno a vedere la lirica, l’opera e la danza. Il merito è di produzioni molto fresche, capaci di trasmettere contenuti antichi riaggiornandoli e renderli così approcciabili. Ovvio, il prezzo del biglietto non è quello del cinema, ed è dovuto al costo materiale di mettere in piedi uno spettacolo dal vivo, in cui devi spostare cose e persone, e non solo il file di un film».

Nel suo smoking lei è perfetto per una prima del 7 dicembre.

«No è terribile, e non mi interessa usarlo: preferisco di gran lunga le seconde recite alle prime».

Se le chiedessero una scenografia?

«Mi piacerebbe fare tutto, ma non sono bravo abbastanza. Potrei al massimo pensare al set design di un’opera intitolata Madame Molotov ».

Il mito Callas e il suo canto divino, inarrivabile...

«La Callas è tutt’oggi da brividi e continua ad essere unica e inimitabile. Ma ci sono anche delle grandi personalità letteralmente da pelle d’oca. Ad esempio, il soprano lituano Asmik Grigorian, bellissima e intensissima. Sentita e vista l’anno scorso alla Scala nella Dama di picche di Ciaikovskij e nel meraviglioso recital con musiche di Rachmaninov. Magnifica!»

Bohème , Tosca e La traviata , quale le fa scappare la lacrimuccia?

«Nessuno e tutti, dipende dalle interpretazioni... Meraviglioso rivedere il Tristan und Isolde di Wagner diretto da Daniel Barenboim con la stupenda regia di Patrice Chéreau, che inaugurò la stagione della Scala nel 2009. Dove Isolde era una sublime Waltraud Meier che veramente faceva versare fiumi di lacrime».

Certo è finzione, ma nell’opera morire cantando è quasi una cattelanata...

«Se La Nona Ora fosse una performance probabilmente fischietterebbe».

Nel 1999 quel lavoro fece scandalo. Eppure è intriso di grande religiosità, e allo stesso tempo è profetico annunciando i più grandi tormenti che la Chiesa avrebbe dovuto affrontare. Oggi che Papa Francesco ha raccolto quell’afflizione rendendola pubblica, chiedendo perdono a persone offese, a minoranze, a chi ha subìto violenze, questa Chiesa è ancora quella abbattuta dal meteorite?

«I processi di cambiamento che investono una istituzione secolare come la chiesa sono quasi altrettanto lunghi, è come essere davanti a una pianta che cresce: a occhio nudo non possiamo intuirne il movimento. La Chiesa di Francesco è sicuramente più aperta a mettersi in discussione, ma prima che questo moto abbia degli effetti concreti sulla vita delle persone che la abitano ci vorrà molto tempo».

Oggi l’arte è più sacra del sacro?

«Non mi piacciono gli altari né gli altarini, non credo che nessuna arte sia mai stata sacra. Può aver trattato soggetti sacri e religiosi, ma non è un buon punto di partenza cercare la sacralità negli oggetti».

Per secoli la Chiesa è stato il più grande mecenate delle arti e dell’architettura. Poi nel XX secolo c’è stato un brutto divorzio tra la Chiesa e l’arte, crede si possa riprendere un dialogo tra artisti e Chiesa? E su quali basi? O non ci può essere più intesa?

«L’arte e gli artisti hanno bisogno di mecenati, un tempo era la Chiesa, oggi è la moda, o i grandi collezionisti... Se la Chiesa tornasse a interessarsi a un ruolo da committente sono sicuro che ci sarebbe il modo per creare un dialogo proficuo. In fondo la chiesa è uno dei più grandi serbatoi di simbolismo del nostro panorama culturale, detiene spazi incredibili in cui gli artisti sarebbero felicissimi di lavorare».

Dopo Warhol nel 1967, lei ha riportato in auge la banana con Comedian . Che quando viene esposta è sempre un’opera a rischio. Anche recentemente un ragazzo coreano se l’è mangiata adducendo la scusa che “aveva fame”. È perseguibile legalmente chi strappa o mangia la sua banana?

«Solo se la prossima volta non si mangia anche la buccia e il nastro adesivo!».

La “supercazzola” del conte Mascetti in Amici miei , celebre film con Tognazzi, equivale alla sua banana? (lei mi diceva: tanto lavoro, tanto scervellarsi e poi passerò alla storia come quell’imbecille della banana...).

«È un rischio che si corre sempre quando passi da un registro all’altro: rimani impresso più per le gag che per le cose serie che hai tentato di fare o dire. È un grande dilemma, perché sei sempre tentato di compiacere più persone possibili, ma al tempo stesso senza svalutare il contenuto di quello che dici».

Trentennale delle stragi di via dei Georgofili e dell’attentato al Pac. Uno dei suoi lavori ingloba appunto le macerie del Pac. E oggi che si fa memoria di quegli eventi, queste macerie possono diventare anche quelle dell’Ucraina?

«Avevo visto i detriti del Pac in asta, e mi era sembrato assurdo che non potessero ritornare a Milano: ho deciso di comperarli e farne un monumento in memoria della ferita della città. Tanti sono i modi per fare memoria: la scorsa estate, per commemorare l’anniversario dell’esplosione, abbiamo organizzato un concerto: il Requiem di Mozart al Monumentale. Sono sicuro che altri artisti si faranno carico della guerra russa in Ucraina, creando monumenti e memoria intorno a questa terribile tragedia».

Mi rifaccio a un’altra sua opera Untitled , del 2007, la donna inchiodata di spalle su un letto. Tante le interpretazioni, fors’anche quella dei femminicidi sempre in crescita. I maschi che uccidono sono anch’essi nati da donne, ma è come se ci fosse una duplice negazione del femminile, sia quello materno che quello legato alla sessualità. Cosa deve cambiare nella cultura maschile per arginare questo fenomeno?

«Qualche settimana fa L’Espresso ha ripubblicato una sua copertina del 1978, con una donna incinta crocefissa: 45 anni fa il numero fu sequestrato per “vilipendio alla religione” e il direttore dell’epoca venne denunciato. Benché sia passato quasi mezzo secolo, viviamo ancora in una società in cui i diritti delle donne vengono calpestati ogni giorno, i femminicidi sono solo la punta dell’iceberg. Non credo che sia un problema di rinnegare il femminile, né si tratta di un “fenomeno”: è una lettura troppo legata alla psicologia e al singolo evento. Invece è una questione sociale e culturale. Il problema è che siamo ancora immersi in una società dominata dagli uomini, dove, a partire dai titoli dei giornali, le vittime vengono raccontate come se avessero una colpa e gli assassini come persone malate prese da un raptus. Solo cambiando questa narrazione possiamo sperare di iniziare ad invertire la rotta».

È in corso la Biennale Architettura di Venezia.E si discute se sia giusto che il Padiglione Italia ai Giardini torni ad essere la sede espositiva per l’arte italiana alla Biennale.

«Ritengo importante che il Padiglione centrale rimanga dedicato alla mostra internazionale: lì le artiste e gli artisti italiani possono confrontarsi con i loro colleghi internazionali. Ci sono altri modi per dare visibilità all’arte italiana, ad esempio costruirne uno nuovo ai Giardini, più centrale di quello in fondo al complesso dell’Arsenale».

Adesso, sulla scena internazionale, è scoccata l’ora degli artisti africani. Pensa sia una moda oppure qualcosa di più strutturale?

«Spero davvero sia un cambiamento strutturale. È importante che tutti riconoscano i propri privilegi e facciano un passo indietro, per lasciare posto a chi non ha avuto le stesse possibilità. Purtroppo buona parte del sistema è basato sulle possibilità economiche. Speriamo che nonostante questo si creino spazio e opportunità per tutti: più diversità equivale a maggiore crescita».

Quanto è timido e quanto sfacciato?

«Sono di base molto timido, fino a quando la timidezza non mi fa diventare sfacciato».

Che cos’è l’arte spiegata a un bambino? E invece a uno che fa finanza?

«È molto più difficile spiegare l’arte a uno che fa finanza che spiegarla a un bambino: nel primo caso saresti costretto a focalizzarti sul valore economico, che non ha molto a che vedere con l’arte».

Ha molto senso estetico. Come ha guardato al primo capello bianco?

«Hanno iniziato a cambiare colore quando ho cominciato a fare questo mestiere. Il primo bianco è uscito con la prima collettiva molti anni fa... ».

Va spesso a Pantelleria, il regno estivo di Armani. Com’è Giorgio visto da Cattelan?

«Armani è stato capace, come Mina, di trasformare la propria immagine in una icona immortale: Giorgio avrà per sempre quarant’anni, è riuscito a fermare il tempo. Ha inventato e vestito una donna che non esisteva prima; che non ha bisogno di fronzoli e decorazioni, grazie alla giusta combinazione di “fifty shades of grey”».

Quando a un party si dice (con suspense): «viene anche Cattelan», è sinonimo di una festa da non mancare. Lei è come un brand...

«Non credo che sia vero, io stesso non andrei a una festa etichettata così...».

Che pazzia ha fatto per una donna?

«Le pazzie e i grandi gesti in una relazione non mi interessano, servono solo per alimentare il proprio ego. Se proprio devo pensare a qualcosa di folle, farei qualche pazzia per il sociale, andare a fare il volontario da qualche parte. Mi piacerebbe rendermi utile, senza pubblicizzarlo».

Anticipazione da Oggi – oggi.it mercoledì 29 novembre 2023. 

La violenza del padre, l’abbandono della madre, la morte misteriosa del fratello, la convivenza con l’alcol, la malattia dei figli... Mauro Corona si confida in un’intervista al settimanale OGGI, in edicola domani, che ha anche convinto lo scrittore a farsi fotografare, eccezionalmente, in camicia e giacca. 

Corona rivela un grave rammarico. «Dovevo perdonare i miei genitori. Ma non l’ho fatto e anche per questo morirò di sentimenti avvelenati. Io avrei dovuto mettere non una pietra, ma una montagna su quello che era stata la nostra vita. Invece ho conservato la ferita dei non amati. Me la porterò nella tomba. È stata la sottrazione dell’infanzia a pesare sul resto della vita».

Sulla morte del fratello Felice, avvenuta a 17 anni, in Germania, Corona dice: «Voglio rivolgermi a Chi l’ha visto? per capire come è morto in un giorno di giugno del 1968. Aveva accettato di andare a fare il gelataio in Germania. Partì a marzo, fu ritrovato a Paderborn, nella piscina di una villa, con la testa rotta».

Racconta anche di un amore che lo ha reso migliore. Non parla certo per Bianchina-Bianca Berlinguer, di cui è ospite fisso su Rete 4: «Recitiamo. Siamo un duo comico». Ma di una donna «grazie alla quale sono migliorato. Mi sono innamorato da vecchio. Ho conosciuto l’eros venerando. Senza più quell’aggressività della passione di un camoscio a novembre».

Il dirigente in questione non ha risposto alla richiesta di contatto tramite LinkedIn, ma subito dopo le immagini filo-palestinesi e i post non correlati dell'ultimo anno e mezzo sono stati cancellati dalla sua pagina. In precedenza lo 007 ha supervisionato la produzione del materiale altamente classificato per il briefing quotidiano del presidente. Il vicedirettore per le analisi della Cia e i suoi due collaboratori sono anche responsabili dell'approvazione di tutte le analisi diffuse all'interno dell'agenzia.

Mauro Corona: «Io, sopravvissuto al Vajont. Il rumore di quella notte fu irripetibile: in mezzo minuto non fummo più nessuno». Storia di Daniela Monti su Il Corriere della Sera sabato 2 settembre 2023.

Fu una sera come le altre. Via vai, osterie fumose, qualche canto. Anche la notte come le altre. Fino a un certo punto. L’ora e il giorno si possono omettere. Il rumore no. La montagna non si reggeva in piedi, ubriaca di uomini sapienti. Un misto di cinismo e interessi, di prepotenza e cemento. Cemento davanti, vite umane dietro. Il torrente sprofondato nella sua stessa acqua non cantava più. Piovve terra sulla terra, terra nell’acqua, terra su duemila fosse aperte. C’era luna piena, sereno, vento sottile. Quel vento porta ancora le voci scomparse», scrive Mauro Corona ne Le altalene , il nuovo romanzo (nella foto sotto, la copertina) che è un’autobiografia, storia di un bambino che diventa grande avendo tutto contro: il disastro del Vajont che lo obbliga alla fuga e allo sradicamento, un padre capace di gesti «non da genitore, ma da assassino», un’infanzia «cancellata, negata, maltrattata, uccisa ancora nel grembo di una madre che prendeva botte ogni giorno» e che alla fine decide di andarsene, abbandonando tre bambini. Il dolore per la morte del fratello, l’alcolismo, i primi successi letterari, poi i figli, la maturità di oggi, la vecchiaia.

Dall’archivio del Corriere, 10 ottobre 1964 - Dino Buzzati un anno dopo la tragedia: «Una bambola rubata e il fantasma della bambina, la tragedia del Vajont in una casa milanese»

«Mi fa molto paura questo libro», dice ora Corona seduto nella sua casa-studio di Erto, un gattino in grembo che si addormenta al suono delle sue parole, «perché mi rendo conto che, inconsciamente, ho scritto il mio testamento. Ora sono pronto ad andarmene». Le altalene è soprattutto memoria, a cominciare dal Vajont. «Quella notte la montagna inciampò negli ingegneri. Nei geologi, nei tecnici, nei poteri. Le fecero lo sgambetto. Non ci volle molto a cancellare vite, pascoli, boschi e culture. Morti sopra, morti sotto, superstiti fuggiti e silenzio. La luna piena guardava attonita. Quella notte si fece coprire da una nuvola. Non è più venuta da queste parti. L’ha sostituita una luna nuova, diversa. La vecchia luna non vuole più saperne».

Professione superstite

Scalcia, Corona, come un mulo che non vuole farsi riportare nel recinto, se il recinto è quella notte di sessant’anni fa, 9 ottobre 1963. «È già stato raccontato tutto», dice, basta, è stanco, «il superstite del Vajont è ormai diventata una professione», lui stesso ne ha già scritto tanto, in Asproe dolce per esempio, in Vajont: quelli del dopo . Però poi ammette di aver voluto ancora una volta ricordare quei morti «perché, come diceva Iosif Brodskij, se c’è qualcosa che può sostituire l’amore questa è la memoria». Gente sepolta viva dentro fosse che un giorno furono cucine, stanze, tinelli. Ne Le altalene scrive: «Di solito si parte uno alla volta. O due, tre, quattro o di più. Dipende dal caso. Lassù nelle terre desolate partirono in duemila. Il viaggio non era programmato, nemmeno ciao con la mano. Sono passati sessant’anni. Agli autori del massacro il silenzio del disprezzo».

La diga del Vajont, sopra Longarone, in una foto scattata nel luglio 1962, 15 mesi prima che una frana dal monte Toc facesse precipitare nel bacino 300 milioni dimetri cubi di terra e roccia, provocando un’onda che sommerse l’intera valle

Il ricordo più forte

«Il rumore quella notte fu irripetibile», racconta ora che ha 73 anni e che al primo libro Il volo della martora — che il padre buttò dalla finestra quando lui, «emozionato e fiero» glielo mise in mano — ne ha fatti seguire tanti altri, un autore da 3 milioni di copie dice il suo editore, Mondadori. «Come assistere a un camion che scarica 300 milioni di metri cubi di ghiaia. Poi le voci, le grida. La Terra, intesa come il globo intero, mi sembrava si stesse spaccando. Era la fine. Non era un rumore di tragedia: era proprio il disfacimento del pianeta. Ricordo gli amici: Lucia, Pierino, Wanda, tutti del 1950, erano almeno una decina, abitavano in località Le Spesse, furono spazzati via. Andavamo a scuola scalzi, come i coleotteri non ci serviva tanto. Il Vajont è stata l’altalena che, nel suo eterno dondolio, si è portata via la nostra vita semplice ma ricca di natura, di emozioni, di fieno, sostituendola con qualcosa che nessuno aveva mai visto, né immaginato: la morte e, soprattutto, il cambiamento totale. Tutte le civiltà sono state annientate dal progresso, ma ci hanno messo anni, decenni. Noi in mezzo minuto non eravamo più una gente, né un paese, non c’era più niente e per farci sopravvivere sono avanzate cose sconosciute. Una volta, tornando con il pensiero al mio mondo sparito, provavo il sentimento della perdita del paradiso terrestre. Oggi lo sento come una memoria dolce, non mi fa più male, però lo devo ricordare. I libri salvano le culture».

Soldati scavano a Longarone, nei giorni successivi al disastro del Vajont. Cinque paesi vennero completamente distrutti, i morti furono duemila e altre migliaia di persone furono sfollate

Come un assassino che si confessa

L’altalena che dà il titolo al romanzo è una metafora dell’andare e venire su e giù nel tempo: l’amore che finisce e lascia il posto a un altro amore, i desideri che si avvicinano, credi di poterli afferrare, «poi l’altalena si allontana di nuovo, e a te resta solo quello che sei riuscito a pescare al volo, dal seggiolino». Un libro scritto veloce, tre mesi appena di lavoro, «mi è venuta a cercare l’infanzia, la resa dei conti, mi ha preso una specie di malinchetudine, che è un misto fra malinconia e solitudine», racconta Corona. «Non mi piacevo più, il testo è andato giù in fretta. Come diceva Carver: ho vuotato il sacco subito, poi c’è stato il tempo di correggere». Un romanzo-monologo dal linguaggio sorprendentemente poetico. «Per svegliare il mondo letterario e fare in modo che si occupasse anche di me, ho usato a volte delle esagerazioni: trame e linguaggio forti, come in Storia di neve o Nel muro. In quei romanzi c’è il mio lato oscuro. A 73 ho capito però che è ora di smetterla con la recita: io non sono quello », dice.

IL RAPPORTO MAI RISOLTO COL PADRE VIOLENTO: «...DAL BASSO DELLA MIA INTELLIGENZA DI IMBECILLE ASTIOSO, QUANDO, LUI VECCHIO E IO MATURO, È ARRIVATO IL MOMENTO DI BERCI UNA BOTTIGLIA INSIEME E GUARDARCI IN FACCIA, NON L’HO FATTO. VOLEVO VENDICARMI»

«Oltre il mio lato oscuro, c’è del buono»

«Sono anche quello, ma prevale il buono in me, una dolcezza che ho dovuto affondare per non essere affondato. Gettando la maschera, però, mi sono scoperto fragile, impaurito, ma contento di questo spogliamento. Quando ho finito di scrivere Le altalene ho provato la pace, come un vecchio assassino mai scoperto che è andato a confessarsi e ha detto al prete: adesso vai fuori e racconti a tutti quello che ho combinato». Il padre torna più e più volte nel libro. «Non lo assolve il fatto che bevesse», dice Corona, «se fosse ancora vivo avrebbe 100 anni e se anche gli sbattessi in faccia tutti i miei libri continuerebbe a dire che sono un fallito. Eravamo sempre in competizione. Così dal basso della mia intelligenza di imbecille astioso, quando, lui vecchio e io maturo, è arrivato il momento di berci una bottiglia insieme e guardarci in faccia, non l’ho fatto. Volevo vendicarmi. Con mia mamma lo stesso. Ora che sto per raggiungerli, avrei però il desiderio di abbracciarli e dire: non ci siamo capiti. Sono stati errori di orgoglio, di ignoranza. Ringrazio mio padre perché il suo esempio brutale ha fatto sì che non lo applicassi con i miei figli. La sua lezione è servita a migliorare me».

IL PROBLEMA DEL BERE: «...MI COSTA SACRIFICIO BERE ACQUA PERCHÉ, NELLA MIA IDIOZIA, SENTO CHE MI VERREBBE A MANCARE L’ALONE DI ’MACHO’. QUESTE SONO FRAGILITÀ CHE MI HANNO MANDATO ALLA ROVINA. L’ALCOL PER ME È UNA DIPENDENZA DA MITO»

La malattia della figlia

La malattia della figlia — un tumore al colon che Marianna Corona ha raccontato nel libro Fiorire fra le rocce — ha aperto un nuovo capitolo nella vita dello scrittore. «Verso i settanta tutto scivolò in basso» scrive ne Le altalene . «Un padre viene abbattuto come un albero morto quando scopre i figli aggrediti da malattie che solo a pronunciarne il nome tremano le vene ai polsi». «Pensavo si ammalassero sempre i figli degli altri», dice adesso, «quando è successo ai miei mi sono raggelato. Non ho più cuore. Il terrore di poter perdere un figlio mi ha reso insensibile al dolore, come un bambino che, spaventato da un mostro, prima cerca di sottrarsi, poi per la disperazione gli si butta addosso». Com’è cambiata la sua scrittura nel tempo? «Ho acquisito uno stile più quieto», risponde, «che mi appartiene, ma rifiutavo perché avrei mancato alla mia figura di duro. È come con l’alcol: mi costa sacrificio bere acqua perché, nella mia idiozia, sento che mi verrebbe a mancare l’alone di macho . Queste sono fragilità che mi hanno mandato alla rovina. L’alcol per me è una dipendenza da mito. Ora però questo libro mi ha tranquillizzato».

Aggirare l’ostacolo

La vecchiaia «ha dei segnali beffardi. Oggi sto ancora cercando montagne per conoscerle, ma prima quando correvo su un sentiero e vedevo un sasso lo saltavo. Ora penso che mi si potrebbe incrinare un ginocchio e, con cautela intelligente, lo aggiro. Quando aggiri l’ostacolo, sei vecchio. Mio padre è stato un grandissimo camminatore. Prima della morte, ha cominciato a sedersi. A me dispiaceva non fare più le gite con il vecchio, anche se ci odiavamo. Un giorno gli ho detto: “Andiamo a fare un giro fin sul Borgà”, 1.400 metri di dislivello. Aveva 87 anni. Mi ha guardato con i suoi occhi scuri che erano pallottole, avevano il male dentro, e mi ha risposto: “Se voglio pian piano ci arrivo. E dopo? Cosa cambia, dopo?”. Mi stava dicendo che la vecchiaia ormai era lì, andare sul Borgà non risolveva nulla. Così ho capito».

Qualcuno ha scritto che c’è potenza nelle infanzie umiliate, una spinta a cambiare che nessun altro evento nella vita riuscirà mai a dare con la stessa forza... «Quanti al mio posto avrebbero reagito come ho reagito io?», rilancia Corona. «Mio fratello Felice era alto 1.94. Annientato dal padre picchiatore e dalla miseria, è partito per la Germania, è morto in una piscina. Io gli dicevo: dai, facciamogliela vedere... Ma niente, lui piangeva sempre. L’altro mio fratello, Richetto, ha reagito con il silenzio. Quando gli dico: ti ricordi quello... Lui risponde sempre: ma lascia perdere... Il Dna combina scherzi. A me ha dato la ribellione, ad altri la resa».

Mauro Corona: «Ho detto di nuovo “gallina” a Berlinguer, ma era tutta una montatura. Pochi mesi fa ho rischiato la vita in montagna». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 31 Gennaio 2023.

Lo scrittore si racconta: la carriera, le amicizie, le montagne e Bianca Berlinguer

Mauro Corona, come sta?

«Sobrio da cinque anni».

Sobrio del tutto?

«No. Cinque anni fa ho smesso con l’alcol pesante, però poi qualche mese fa mi sono detto: ho 72 anni, perché devo morire infelice? Allora ho ricominciato a bere, ma con moderazione. Per essere precisi: con moderazione esagerata».

Ancora oggi lei arrampica, scala le montagne. Perché pensa alla morte?

«Perché ne ho paura, anzi, ho paura della vita che piano piano scivola nella morte e allora sono sempre sveglio, sempre all’erta. Non dormo quasi mai, la notte scolpisco e poi scrivo. Dormo qualche ora al mattino».

In lei c’è un’insonnia quasi futurista.

«Ha ragione, perché io sembro un arrogante, un attaccabrighe presuntuoso, ma è solo il puntiglio a fare le cose migliori. Da bambino mi hanno insegnato a fare da solo e a essere bravo. Dovevo essere bravo nel trasportare un carico di legna, sennò alla sera si stava al freddo».

Nato nel 1950 a Baselga di Piné, Trento, cresciuto a Erto, come dice lei «un pugno di case incassato nella valle del torrente Vajont».

«E dove vivo adesso. Ma io la fame vera l’ho conosciuta, mica come quelli che oggi scrivono di montagna solo dopo averci fatto due passi. Io lo so che cosa significa spaccare la legna, pascolare le capre. A tredici anni facevo questo e forse la fatica era meglio del dolore che c’era in casa».

Sua madre se ne andò dopo la nascita del terzo figlio.

«E quando tornò, anni dopo, fu anche peggio. Con mio padre litigavano tutti i giorni, bevevano e un giorno si addormentarono ubriachi per non svegliarsi mai più. Lo vede questo taglio sulla mano? Non è stata la montagna, è stato mio padre con un coltello. Dio l’abbia in gloria».

Lo ha perdonato?

«Sì ma non ho dimenticato. Non si deve dimenticare nulla, dimenticare significa cancellare. Come è stata cancellata la mia valle del Vajont. Con il crollo della diga, ormai sessant’anni fa, tutto quello che avevo è andato perduto. Gli alberi, l’odore della pioggia, i vecchi. I vecchi rimasti li misero in un ospizio, la chiamavano “la casa della morte”, perché non si capiva bene se là dentro erano vivi o morti».

Voi bambini siete cresciuti con i nonni.

«Alla Befana nonna ci portava il carbone. Noi bestemmiavamo perché non riuscivamo a capire che cosa avessimo fatto di male. Solo pochi anni fa ho capito: lei non aveva soldi per i regali e il carbone era la cosa più facile da procurarsi. Quanto l’ho maledetta, mia nonna. Ma se oggi fosse qui le direi: “Vieni a sederti qui, vieni a bere un goccio di grappa con me”. La abbraccerei. Mio nonno diceva solo due parole al giorno. Ma mi mise in mano un coltellino. Cominciai a scolpire nasi, occhi, teste nel legno. Lui mi guardava e non diceva niente. Per me allora scolpire diventò come parlare. Ero un bambino povero, ma sapevo fare cose belle. Poi scoprii i libri».

E come?

«Mia madre se n’era andata ma ci aveva lasciato una libreria piena di romanzi come Don Chisciotte o I Miserabili. Cominciai a leggere: mi sembrava, così, di averla ancora con me. Quando poi ci mandarono in collegio, a me e al Felice (uno dei fratelli di Corona, ndr) a Pordenone, al Don Bosco, ci chiamavano i selvatici, perché non avevamo mai visto una città. Sotto ai tavoli ci rifugiavamo. Ma io sapevo leggere, i preti lo capirono subito. Mi passavano romanzi, mi incoraggiavano a scrivere. Mi sono fatto da solo. E anche oggi lo sa qual è la cosa che ancora mi ferisce fino a farmi sanguinare? Quando qualcuno insinua che i miei romanzi non li scrivo io».

Come accadeva a Faletti.

«Proprio così. Ma io i parrucconi della letteratura me li mangio, perché io ho letto migliaia di libri. Vogliamo parlare di Francisco Coloane? O di Nicolás Gómez Dávila? O di Jack London? Accomodatevi, signori. Una volta al Salone del Libro di Torino ho steso pure Asor Rosa sulla letteratura russa. Mia madre mi ha lasciato solo questo, l’amore per i libri. L’unica fotografia in lei cui ride è quella che sta al cimitero. Ma fino all’ultimo quella donna ha speso qualcosa come 400 euro al mese in libri, quotidiani e riviste».

E suo padre come prese questa sua inclinazione?

«Una volta mi spedì all’Enel per lavorare. Arrivai, il capo mi disse che mi sarei dovuto abituare a stare sotto terra perché quello sarebbe stato il mio destino fino ai 60 anni. Me ne andai subito. Quel posto di lavoro durò sedici minuti. Gli dissi: “Papà, io voglio fare lo scrittore”. Gli portai una copia de Il volo della martora, il mio primo libro importante. Lo gettò nel fuoco: “Va’ a lavurar, cretino”, mi disse. Un milione e mezzo di copie, fece quel libro. Ma per lui era niente».

Per citare il suo amato Gómez Dávila, «La forma sublime del disprezzo è il perdono».

«Oggi ho tutto: fama, soldi, quattro figli bravi, un rifugio che mi accoglie. Ma sul mio libretto di lavoro c’è scritto “scalpellino”. Io ho lavorato in una cava di marmo, so che cos’è la polvere. Non riesco a essere felice. E nemmeno a godermi quei soldi che guadagno. Perché non so che farmene. Chi viene dalla miseria non ha nemmeno la giusta immaginazione su come spendere il denaro. Vado in giro con una Panda scassata, vedete anche voi come mi vesto e dove vivo. Chi ha conosciuto la miseria fa di tutto per tornarci. Quando cominciammo a guadagnare i primi soldi con i romanzi, mettemmo il telefono in casa. Quello con i fili e con il disco dei numeri. Mia moglie mi disse: “Ma non staremo esagerando con il lusso?”».

Nel suo ultimo romanzo, «Quattro stagioni per vivere», c’è un uomo che finisce per fondersi con la natura e con il bosco. Ma Osvaldo, il protagonista, è anche un uomo braccato.

«È così. La montagna non ha niente di idilliaco, e forse è anche per questo che non abbiamo mai avuto un “Omero della montagna”, un grande scrittore che l’ha raccontata bene. Perché la maggior parte dei libri su questo argomento sono libri che riportano imprese di conquista. Bonatti, per dire. Mario Rigoni Stern l’ha raccontata divinamente ma c’era sempre, sullo sfondo, la storia. Con lui abbiamo camminato tanto. Una settimana prima di morire mi scrisse una lettera in cui diceva: “Non so se io vedrò la prossima primavera, ma tu vai in montagna anche per me”. Caro, il Mario. Con noi veniva anche Primo Levi, era un omino sottile con le braghe alla zuava, sembrava una matita vestita. Sono andato per i boschi con Rumiz, un altro amico».

Quanta vanità c’è nella letteratura degli alpinisti?

«Uh, sapesse. Una volta volevo fare un libro con le migliori bugie degli alpinisti, ne ho interpellati a decine ma nessuno ha voluto cominciare. Poi, però, ci sono i grandi uomini. Prendiamo Erri De Luca: insieme abbiamo scalato tanto, anche il Campanile di Val Montanaia, una guglia sottile che si allunga fino al cielo. Erri ha un rispetto sacro per la montagna, pensi che non usa nemmeno la farina per le mani per non sporcare la roccia, non pianta i chiodi. Un pazzo, ma io sono più matto di lui, mi creda».

Quante strade ha aperto?

«Ho aperto oltre trecento vie d’arrampicata nelle Dolomiti friulane. La prima a diciotto anni, sul monte Palazza, in Val Zemola. Lo racconto nel libro uscito per Solferino, Arrampicare. Vede che anche io comincio a vantarmi? No, non deve essere così. Per me arrampicare è come scrivere, è toccare un territorio nuovo, provare ogni volta a riprendermi un pezzo d’infanzia. E si torna lì. Si ritorna a quando io e mio fratello, a tredici anni, venimmo mandati a fare i pastori. Non si scappa, così come non si sfugge alla scrittura. Storia di Neve è nato da undici mesi di sbornie notturne. Maledetto alcol. Ma io bevevo per strappare via le brutture della vita trascorsa».

Quando è stata l’ultima volta che ha rischiato la vita in montagna?

«Pochi mesi fa. Non ho messo il chiodo e sono andato giù per cinquanta metri. Meno male che c’era mio figlio Matteo».

Tutti i suoi figli arrampicano?

«Sì, ma sono più prudenti. Io ne ho fatte di tutti i colori: sono finito in una valanga sul monte Lódina, un’altra volta sono scivolato su una cascata ghiacciata con tre balzi verticali».

Comunque l’abbiamo vista in tv con il gesso al braccio.

«Cara la Bianchina (Bianca Berlinguer, conduttrice di Cartabianca, dove Corona è ospite, ndr.). Le voglio bene».

Sì ma in tv lei le ha detto «stai zitta gallina», prima di essere sospeso dal programma.

«Rivelo qui per la prima volta una cosa: quando mi hanno riammesso, gliel’ho detto di nuovo ma nessuno se n’è accorto, perché in diretta dissi “passata è la tempesta, odo augelli far festa”. Lei lo sa come continua? Fa così: “...e la gallina, tornata in su la via...”. Non continuai con la poesia leopardiana ma nessuno colse la citazione. Questo per dire che mai avrei offeso una donna, io sono un ubriacone attaccabrighe e in tv faccio questo, d’altra parte se mi chiamano un motivo ci sarà. E comunque quella storia è stata tutta una montatura, ma non contro di me, contro la Berlinguer. Una scusa per attaccare lei».

Resta il fatto che «stai zitta gallina» è pesante, anche per un eccentrico come lei, Mauro.

«Avevo bevuto un po’, quella sera. Questa è la verità. Dovevo delle scuse pubbliche a un albergatore e lei non mi faceva parlare. Ho sbagliato, ho chiesto scusa. Non ci sto, però, a passare come uno che disprezza le donne».

Anche perché lei ha tre figlie femmine...

«Marianna, Melissa e Martina. L’ultimo anno è stato il più bello della mia vita e sa perché? Perché le mie ragazze hanno affrontato e superato alcuni problemi. E poi ho imparato a vivere per sottrazione. Cerco di togliere il superfluo per apprezzare la vita. Circondarsi di orpelli e oggetti inutili crea dipendenza e schiavitù. E cerco di valorizzare i giovani. È la lezione di Cechov: non siate egoisti, aprite la strada agli altri».

Mauro Corona, il nuovo libro: la sincerità della montagna. CARLO BARONI su Il Corriere della Sera il 3 Gennaio 2023.

L’autore e alpinista rivive in «Arrampicare», Solferino, le sue scalate. Dalle vette vicine fino in Groenlandia e California

La salita fa pensare alla fatica. Arrampicarsi è un mettersi d’accordo con la sofferenza. Accettarla, farla propria. È vero, ma è anche lo stereotipo di un alpinismo che si compiace ancora della sua unicità. Quasi del suo dolore. Per Mauro Corona la montagna è altro. E oltre. È il dipanarsi di qualcosa di inevitabile, forse persino inesorabile. È Una storia di rocce, di sfide e d’amore come recita il sottotitolo del suo nuovo libro Arrampicare, edito da Solferino. Se cresci a Erto (e già il nome dice tanto) le montagne ce le hai dentro. Cercare la cima prima che una sfida è una necessità. Quasi un desiderio fisico. Non è solo per arrivare in alto. Che per alcuni è persino superbia. Giusto per sfuggire al «terra a terra» che ti vuole schiacciare, quasi che non ci fossero più indicazioni per trovare il tuo sentiero.

Mauro Corona racconta il suo cammino verso le vette. Un percorso tortuoso. Che quando cominci, però, non ti puoi più voltare. La paura c’entra fino a un certo punto. È la voglia di vedere oltre. Di provare nuovi cieli e vedere se resti lo stesso. I piccoli passi che allora diventano naturali. Mai frenetici, sempre pensati anche quando sono improvvisati. E dietro magari c’è la storia di una famiglia disgregata e di una nonna che da sola tira su i nipoti. La montagna è anche il luogo per elevarsi, senza cedere alla tentazione di guardare tutti dall’alto. C’è il rispetto per quei sassi trovati su una vetta che nessuno aveva mai toccato prima. Ci sono le amicizie che nascono in una notte passata avvinghiati a una parete. E i sogni turbolenti dormendo in un’amaca piazzata a duemila metri. La scalata che è un mettersi alla prova, mai una spacconata anche andata bene.

Mauro Corona le sue montagne le ha accarezzate con gli occhi, prima di metterci i chiodi che non era per ferirle ma per cingerle in un abbraccio. Perché le pareti devi imparare a «stringerle», come quando si saluta un amico che non si vede da tempo. L’abbraccio sincero che è un ritrovarsi, un sapere che ci sei ancora. La montagna che non dà confidenza, ti permette però di avvicinarla. Con il garbo e il rispetto per chi c’era prima di te e resterà anche quando tu sarai un ricordo sbiadito nel tempo. Ci cammini sopra a passo sicuro, perché lei non si fa calpestare nemmeno con dolcezza. Con la montagna ti deve intendere con gli occhi prima di parlarci col cuore.

Per scalare, per salire hai la necessità di essere «solo». Una solitudine immersa negli altri. Perché l’ascesa ha bisogno di compagni. Di condivisioni. Di aiuto reciproco. Una contraddizione solo apparente. La solitudine della scalata è la consapevolezza che ogni tuo gesto, ogni scelta ti appartiene. È unica. Come un artista che crea da solo eppure è circondato dal mondo. E quello che fai inonda anche gli altri. E Mauro Corona accanto alla montagna ci mette anche la scultura. Quella imparata da un maestro: Augusto Murer. Carpita con il cuore e il silenzio prima ancora che replicata con le mani. Lo scalpello che è come la mano che cerca un appiglio sulla roccia, la forma che prende vita da un desiderio nascosto che puoi vedere solo con gli occhi della fatica. Ma per arrivare a Murer serviva il prestito generoso del postino del paese, Cipriano Cappa. Generoso non per le diecimila lire, senza certezza che venissero restituite, ma perché il «grazie» era una speranza labile e leggera come le foglie d’autunno. «La gratitudine è come la neve — scrive Corona — si scioglie con il primo sole». Cipriano è uno dei tanti personaggi che abitano il libro. Gente con nomi antichi, tramandati chissà da quanto. Nomi di montagna, di scultura. Che restano impressi e fanno di quella donna e di quell’uomo una storia da raccontare. Perché non saranno mai anonimi nonostante la Storia si sia dimenticata di segnarseli. Gente silenziosa che per ascoltarla devi cambiare il passo. Né più veloce, né più lento. Solo un altro passo.

Corona scrive delle montagne della sua terra ma anche di quelle lontane, lontanissime. L’avventura in Groenlandia. Passando da Milano per la prima volta, ed era già il 1984. Il Nord Europa libero di tutto, anche troppo, e l’alcool come guardiano sociale per tenere a bada il dissenso. E poi l’America, meglio la California, San Francisco e una beat generation che non è proprio come nei libri. Ci sono ranger, manganellate e multe alle tre di notte se parcheggi due centimetri fuori le righe. E l’amicizia con Manolo. La scalate nel parco di Yosemite, un mondo che si presenta diverso. E lo raccontano avanti decenni, invece è solo più veloce. La frenesia che tanti scambiano per dinamismo. Ma le montagne sono le stesse e la fatica anche. Parlano un’unica lingua. E ci vuole solo cuore per capirla.

«Arrampicare. Una storia di rocce, di sfide e d’amore» di Mauro Corona (pp. 162, euro 16) è edito da Solferino. orona e la montagna sono anche al centro di un podcast che si chiama come il libro, «Arrampicare», disponibile su Corriere.it e sull’app Corriere.it, oltre che su tutte le principali piattaforme di podcast. Con lo scrittore-alpinista e la sua voce, un racconto delle esperienze e dei viaggi fino alla Groenlandia e agli Stati Uniti al tempo della beat generation, dell’amicizia con il grande scalatore Manolo, delle sfide poste dalla roccia, delle storie di alpinismo, della filosofia della montagna. Il podcast «Arrampicare», prodotto da Solferino, ripercorre momenti cardine della storia dell’arrampicata sportiva, esperienze uniche di scalate e gli aneddoti di una singolare «autobiografia verticale». Sei puntate per cercare di capire il gusto e il desiderio della sfida.

Estratto dell’articolo di Crocifisso Dentello per “il Fatto Quotidiano” il 31 maggio 2023.

“Non mi restava che una cosa da fare, l’unica che sappia fare. Iniziai a scrivere questo racconto la notte del 31 marzo”. Come mai Michel Houellebecq – tra i più celebrati autori viventi – ha avvertito la necessità di scrivere in un paio di settimane (la data del 16 aprile compare in calce) un centinaio di pagine e pubblicarle con l’urgenza di un instant book? 

“Perché era da escludersi che mi venisse concessa la parola”. Lui, la rockstar della letteratura francese, costretto a dirottare la sua verità in un libro? Sì, perché il suo punto di vista “non interessava più a nessuno”. Ecco allora Qualche mese della mia vita, che esce oggi per La nave di Teseo a pochi giorni dall’edizione francese. Un volumetto che sembra precipitare come un corpo estraneo nella bibliografia sempre irriverente e provocatoria dell’autore. 

Sono pagine che trasudano paranoia, per di più minate da un orgoglio ferito spesso sconfinante nel piagnisteo (“il solito branco di idioti dei media che si accaniscono contro di me”). Sembra voglia mettere un po’ di sordina alla sua reputazione, immolarsi a vittima per annacquare il suo proverbiale maledettismo. 

Non tanto e non solo per i suoi “perpetui battibecchi con i musulmani” ma per essersi ritrovato, con l’inganno, protagonista di una pellicola porno. A chi gli suggerisce di eclissarsi, di ignorare lo scandalo appellandosi alla sua immagine punk, Houellebecq replica con involontaria parodia: “Non sono mai stato un punk, ho sempre preferito i Pink Floyd ai Sex Pistols”. […]

Quanto alla vicenda del “porno di Houellebecq” (lui stesso adotta sarcastico la semplificazione mediatica) è utile una premessa. L’autore, convinto che un porno amatoriale sia eccitante per la vita di coppia, confessa: “Desideravo realizzare video pornografici con mia moglie a scopo privato”. Ecco perché abbocca all’esca del regista olandese Stefan Ruitenbeek che gli prospetta un incontro a luci rosse con una studentessa di filosofia ammiratrice dei suoi libri.

L’incontro ha luogo il 1° novembre 2022 a Parigi. La studentessa chiede che sia Ruitenbeek a immortalare l’amplesso per poi caricarlo sul suo OnlyFans. Houellebecq non ha nulla in contrario, vi scorge persino “qualcosa di ammirevole per via dell’assoluta indifferenza alle norme sociali”. Si spinge addirittura più in là: “Pensavo di avere a che fare con un’onesta esibizionista, e cioè con una forza positiva nell’economia del mondo”. Houellebecq – incredibile a dirsi – ignora che l’accesso a OnlyFans sia a pagamento. Ha “grandissima stima” delle prostitute ma autentica ripugnanza per “le prostitute virtuali”. 

In questo resoconto a posteriori, gonfio di rancore, lo scrittore battezza come “lo Scarafaggio” il regista e come “la Troia” la studentessa, “pompinara ben più che mediocre”. Houellebecq – incredibile a dirsi – pur deluso dal raggiro, accetta un successivo invito licenzioso a metà dicembre 2022 nella Capitale olandese. 

Lo Scarafaggio gli fa firmare un contratto con una clausola che prevede l’utilizzo retroattivo delle scene girate a Parigi. Lo scrittore prende coscienza della sua ingenuità di ritorno da Amsterdam dove si è fatto riprendere ancora una volta mentre si scambia effusioni a torso nudo con un’attricetta che definisce “l’Oca” (sono proprio le scene del trailer che ha dato il via all’affaire).

Mentre infuria una battaglia legale ancora in corso per bloccare l’uscita del film, Houellebecq vive frangenti drammatici: “Mi capita di raggomitolarmi, trafitto dalla vergogna”. Non può sopportare l’idea che l’unica traccia della sua vita sessuale capace di sopravvivergli possa essere “un coito mediocre con una troia inerte”.  Si sente violato nella sua dignità. Al punto che il suo delirio vittimistico – consapevole di buttare un altro cerino nel pagliaio delle femministe – prende il volo: “Al pensiero che quelle immagini potessero essere diffuse contro la mia volontà, provavo per la prima volta qualcosa che mi sembrava simile a quanto descritto dalle donne vittime di stupro”. […]

Michel Houellebecq: «Mi sono sbagliato sull’Islam. E sul porno mi hanno fregato». Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 20 maggio 2023. 

Intervista con Michel Houellebecq, lo scrittore francese a pochi giorni dall’uscita del nuovo libro rivede le posizioni spavalde del passato. «I musulmani? Non sono un pericolo»

Lo Scarafaggio, l’Oca, la Troia, la Vipera sono i co-protagonisti del nuovo libro di Michel Houellebecq. La copertina italiana è rosso sangue, quella francese nera «perché il libro è funebre», dice lo scrittore rockstar, subito riconosciuto da un fan e avvicinato per un selfie ai tavolini di un ristorante cinese del XIII arrondissement, all’inizio della Chinatown parigina.

La settimana prossima esce in Francia e in ItaliaQualche mese nella mia vita (La Nave di Teseo), e il 67enne autore di tanti romanzi che hanno fatto epoca, da Estensione del dominio della lotta a Particelle elementari , daSottomissione all’ultimo Annientare, incontra il Corriere per parlare di queste 105 pagine autobiografiche e dei «mesi sinistri» vissuti dall’ottobre 2022 al marzo 2023. Prima la denuncia, poi ritirata, della Grande Moschea di Parigi per le frasi sui musulmani pronunciate in un lungo colloquio per la rivista Front Populaire di Michel Onfray. Poi, peggio, la battaglia legale ancora in corso contro Stefan Ruitenbeek, lo Scarafaggio come lo chiama Houellebecq, leader del collettivo artistico olandese Kirac che ha coinvolto lo scrittore e la moglie Lysis in un film porno «senza mai, ripeto mai avere avuto il mio consenso». «Per la prima volta nella mia vita mi sono sentito trattato come l’oggetto di un documentario sugli animali», scrive lo scrittore francese vivente più celebre al mondo.

Che cosa è successo? Abbiamo conosciuto un Houellebecq più spavaldo, un simbolo della ribellione contro il politicamente corretto. Il suo libro, di rara sincerità, la rivela tormentato, pronto a chiedere scusa, pentito delle frasi sui musulmani e pieno di vergogna per le scene porno, pur estorte con l’inganno. Si sente cambiato rispetto al passato?

«Sì. Quanto ai musulmani, sono stato stupido a non rileggere con maggiore attenzione quel testo. Era molto lungo, è vero, ma visto i precedenti avrei dovuto fare più attenzione».

Ha riscritto le frasi contestate, ha fatto marcia indietro. Come mai?

«Perché non volevo offendere i musulmani, ma mettere in guardia contro il pericolo che una piccola minoranza di loro, gli islamisti jihadisti, potessero provocare una reazione violenta, attentati in stile Bataclan al contrario, che davvero non mi auguro, portando la Francia alla guerra civile».

E ha cambiato idea?

«Sui musulmani in generale, sì. Diciamo che ho preso coscienza che certe cose sono dettagli. Non me ne importa nulla che le donne indossino il burkini in spiaggia, o che ci siano le macellerie halal, basta con questa ossessione dell’assimilazione forzata, basta con il modello ripetuto allo sfinimento degli “italiani e polacchi che hanno saputo diventare francesi”. Non sono più d’accordo con certe idee dei miei amici di destra».

L’assimilazione non è più importante?

«I cinesi per tanto tempo non si sono assimilati e non c’è stato alcun problema, io ho abitato in un palazzo qui accanto e i vicini di casa, i vecchi cinesi, non parlavano francese, non è grave. I giovani poi lo hanno imparato per poter lavorare. Nelle banlieue il problema è la delinquenza, non l’Islam. Resta il pericolo che una piccola minoranza provochi una guerra civile. In passato è già successo, con le rivoluzioni francese e russa».

In questi mesi l’insurrezio ne si è sfiorata non sull’Islam ma sulla riforma delle pensioni. Che cosa ha pensato delle manifestazioni contro Emmanuel Macron?

«Mi interessano ma non le capisco. Ho dei buchi nella comprensione della società. Per esempio, non ho mai capito veramente chi siano i black bloc. Mi vengono in mente i nichilisti russi, la distruzione per la distruzione. In ogni caso dubito che il punto sia il passaggio dell’età della pensione da 62 a 64 anni. È una protesta più ampia contro la società. Tendo a interpretarla come una manifestazione del desiderio di suicidio occidentale».

Domanda fuori tema: che cosa pensa Michel Houellebecq dell’intelligenza artificiale?

«Non mi fa paura. Non condivido gli allarmismi. Da grande appassionato di fantascienza mi affascina l’idea di potere parlare un giorno con gli extraterrestri e adesso con l’intelligenza artificiale. L’opera da citare in questo ambito è il classico Ciclo dei Robot di Isaac Asimov. Non mi fa paura neanche che l’intelligenza artificiale sia più intelligente dell’uomo. Perdevo a scacchi già con mio padre, posso perdere pure con il computer».

Per tornare al libro, perché soffre così tanto per il film porno degli olandesi? Da lei ci si aspetterebbe una scrollata di spalle.

«Una scrollata di spalle sarebbe stato un atteggiamento punk. Ma io non sono mai stato punk. Ho sempre amato i Pink Floyd, non i Sex Pistols. Gli anni Settanta sono stati un grande periodo in Francia, tutto andava bene… Non abbiamo avuto gli Anni di piombo come voi in Italia. Ogni tanto mi riguardo i Pink Floyd a Pompei, magnifico».

Sì, ma a parte i Pink Floyd, com’è andata davvero con questo film porno? Si è prestato a girare le scene e poi si è pentito?

«Non volevo partecipare al film porno di Kirac, anche se non ho niente contro la pornografia».

E allora che è successo?

«Io e mia moglie abbiamo girato alcune scene con Jini van Rooijen, la ragazza amica dello Scarafaggio. Erano destinate al suo account Onlyfans, che credevo fosse una cosa privata. Quando ho capito che era pubblico e a pagamento, ho negato l’assenso».

Com’è finita una scena nel film porno che il collettivo Kirac vuole diffondere online e al cinema?

«Lo Scarafaggio poi ci ha invitato a Amsterdam attirandomi con un evento sul mio amato Lovecraft, e in albergo mi ha fatto firmare in fretta e furia una specie di liberatoria. Ho scoperto solo in seguito, con stupore, che era retroattiva, e comprendeva quindi una scena privata girata a Parigi. Sono stato ingannato. Appena sceso alla stazione ferroviaria di Amsterdam poi c’era stato un cameraman che ha cominciato a filmarmi senza neanche dirmi buongiorno. Davanti alla cinepresa ho dato qualche bacio a Isa, che nel libro chiamo l’Oca, sono le immagini finite nel trailer senza il mio permesso. Quei giorni ad Amsterdam sono stati spaventosi, mi sono fidato di gente senza scrupoli. Di questo mi vergogno, ho abbassato la guardia. Mi sono fatto turlupinare».

Che cosa rappresenta per lei la pornografia, nonostante questa disavventura?

«È l’unico modo per fissare nel tempo momenti molto belli. Non sono esibizionista, anche se apprezzo la generosità di chi si esibisce. Mi interessa filmare alcuni miei incontri sessuali, perché non vadano perduti istanti in cui sento di avere davvero vissuto. Non trovo niente di malsano nella pornografia, e non capisco la crociata degli ambienti conservatori. Io e una ex una volta ci siamo registrati, ogni tanto guardo quel video con piacere. Un’altra ragazza mi fece scoprire i Nirvana e YouPorn. I vantaggi di avere fidanzate più giovani».

Non teme di essere accusato di sessismo per l’epiteto che riserva alla ragazza del collettivo Kirac?

«No, per niente. È un soprannome meritato, così come lo sono gli altri. A mia volta io ho ricevuto i loro insulti in molte interviste. Sono persone malvagie, che agiscono per soldi e per pubblicità. Il problema non è la pornografia ma l’inganno. Mi vergogno di essermi lasciato coinvolgere da questi personaggi».

Non le sarebbe convenuto lasciare perdere e non dare pubblicità a questa vicenda?

«No. È quello che mi consigliavano molti amici, ma credo di avere fatto bene a reagire, anche con questo libro. Non è vero che una notizia scaccia la notizia precedente. Il tempo non è più lineare, su Internet tutto accade allo stesso tempo. Vengo avvicinato da persone che mi dicono “l’ho appena vista in tv” quando sono anni che non vado in televisione, ma magari mi hanno visto su YouTube in una trasmissione di dieci anni fa. È stato il mio amico Gérard Depardieu a consigliarmi di battermi, fino in fondo, perché non sono famoso come lui ma comunque abbastanza da dovermi difendere».

In questi giorni Depardieu è accusato di aggressioni sessuali.

«Lo so, ma lui si proclama innocente e io gli credo. Un seduttore non può essere un violentatore. E Depardieu punta tutto sulla seduzione».

Come sta andando la causa contro Kirac?

«Meglio del previsto. Un giudice olandese mi ha riconosciuto il diritto di visionare il film quattro settimane prima della diffusione, e oppormi alla distribuzione se non mi piace. Ma potrebbe bastarmi una scritta iniziale, nella quale comunico che mi dissocio dal film e chiedo ai miei lettori di non guardarlo».

L’amicizia sembra contare molto per lei. Nel libro parla della rottura con Onfray, che non ha voluto riportare le sue correzioni al colloquio sull’Islam, ed esprime riconoscenza a Bernard-Henri Lévy, che ha preso subito le sue difese.

«Bernard è stato generoso e leale, a tanti anni dal libro che abbiamo scritto insieme, Nemici pubblici. Non abbiamo le stesse idee, per esempio sull’Europa unita, alla quale io continuo a non credere. Ma in passato mi sono lasciato sedurre troppo dalle idee, che certe volte mi hanno fatto sbagliare. Sono cambiato. Non credo alle idee; credo alle persone».

Estratto dell’articolo di Anais Ginori per “la Repubblica” il 27 marzo 2023.

«Mio marito è depresso, gli farebbe bene girare un porno». È novembre quando Qianyum Lysis Li scrive al regista olandese Stefan Ruitenbeek. La giovane moglie cinese di Michel Houellebecq comincia a discutere di un progetto «artistico, di finzione, documentaristico, performativo, saggistico, erotico e pornografico».

È l’inizio di una storia torbida che coinvolge il più famoso scrittore francese vivente e il collettivo Kirac, (Keeping It Real Art Critics), fondato da Ruitenbeek e sua moglie Kate Sinha. Il duo di artisti olandesi è già stato coinvolto in controversie, anche legali, ma questo non sembra aver spaventato la coppia Houellebecq fino a metà gennaio, quando appare in linea il trailer di Kirac27 , nel qualche l’autore di Sottomissione fa sesso con diverse donne. Kirac27 è ora al centro di una battaglia giudiziaria.

Dopo che la corte di Parigi si è dichiarata “parzialmente incompetente” sulla richiesta di bloccare la diffusione del film, l’ultima chance dello scrittore è nelle mani dei magistrati olandesi. Il tribunale di Amsterdam renderà nota la sentenza domani. L’avvocata Jacqueline Schaap sottolinea la condizione di “vulnerabilità” di Houellebecq. «Era sotto l’effetto di alcol e droghe quando ha firmato la liberatoria. Ha ceduto i suoi diritti senza rendersi conto delle conseguenze. Questo contratto è ingiusto e irragionevole».

(...)

Nel carteggio portato dalla difesa di Ruitenbeek appare chiaro che la moglie dello scrittore fosse consapevole di quello che andavano a fare.

«Voglio metterlo in un film porno» spiegava a novembre Li al regista olandese. «Voglio che smetta di essere depresso. E voglio che abbia di nuovo speranza. Anche se solo per una volta». «Il porno è sempre una buona idea» prosegue la giovane sposa. «Go hard» conclude Li, invitando Ruitenbeek ad avanzare sul progetto. E quando Houellebecq rifiuta la diffusione del primo film sul Only-Fans, la moglie non rinuncia al progetto con Ruitenbeek: «Non arrabbiarti, siamo strategici. Portiamo pazienza e in futuro cerchiamo di preparare bene le carte prima delle riprese, che ne pensi?».

Il soggiorno ad Amsterdam nel periodo natalizio non va come previsto. Secondo Ruitenbeek, Houellebecq cerca di allontanare la troupe e vuole fare sesso con le “fan” senza la telecamera.

«Per me è interessante darvi amanti e ragazze solo se possiamo filmare» risponde alla coppia il regista olandese che ora non vuole essere visto come un volgare pornografo ricattatore. Non capisce la reazione dello scrittore. «Di solito le persone che si uniscono a noi sono nel nostro labirinto. Ora siamo noi nel labirinto di Houellebecq» commenta Ruitenbeek che si sente forte di un “regolare contratto”, della sua libertà artistica e di precedenti decisioni di tribunale che in passato hanno dato ragione a Kirac. L’uscita dal labirinto sembra difficile da trovare.

(ANSA il 26 gennaio 2023) - Nuova sfida per Michel Houellebecq, il popolare scrittore francese autore de "Le particelle elementari", "Sottomissione" e dell'ultimo "Annientare", che si cimenta in un cortometraggio dalle inquadrature a luci rosse per un collettivo olandese, 'Kirac'. Il cortometraggio sarà presentato l'11 marzo ad Amsterdam ma il suo trailer è già disponibile on line.

Vi si narra - con la voce off a riepilogare la storia - che "la moglie di Houellebecq aveva impiegato un mese per organizzare in anticipo un giro di prostitute", così come da desiderio dello scrittore, per la loro luna di miele in Marocco. Ma che "tutto è andato a monte" per la decisione di rinunciare al viaggio per motivi di sicurezza: lo scrittore e la moglie avrebbero potuto essere bersaglio di gruppi islamici.

Il progetto originario del cortometraggio, dunque, è cambiato, per iniziativa del collettivo: "ho detto all'autore - continua la voce narrante - che conoscevo molte ragazze ad Amsterdam che sarebbero andate a letto con il celebre scrittore per curiosità". Il video mostra una donna bionda circa ventenne che bacia appassionatamente sulla bocca Houellebecq, nudo a letto. Il collettivo all'origine dell'iniziativa, Kirac, è stato creato nel 2016 ed è formato da un gruppo di registi specializzati in video "controversi". Quello di marzo sarà il 27/o della serie.

Houellebecq attore porno ad Amsterdam con il collettivo di amici artisti: l’ultima provocazione dello scrittore. Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2023.

Michel Houellebecq con il collettivo Kirac ha realizzato un film tra l’avanguardia e il porno. Esce l’11 marzo e mostra lo scrittore che fa sesso in una camera d’albergo

Nella vita delle persone capitano momenti difficili. Per esempio nasce un secondo figlio, e oltretutto è Natale: se ne lamenta il regista Stefan Ruitenbeek, capo del collettivo di artisti olandese Kirac. Oppure le minacce dei terroristi islamici che costringono Michel Houellebecq e la moglie Lysis ad annullare il favoloso viaggio di nozze in Marocco lungamente preparato, con prostitute già ingaggiate.

Ruitenbeek e Houellebecq allora si inventano un premio di consolazione: affittare una camera d’albergo ad Amsterdam, e riprendere Michel Houellebecq e amiche in azione sul letto. Kirac 27 promette di essere un film tra l’avanguardia e il porno, e il dosaggio dei due elementi lo scopriremo l’11 marzo, quando l’opera verrà presentata al centro culturale Betty Asfalt di Amsterdam e in contemporanea su Internet.

Il trailer suggerisce un tono divertito e cinico come lo sono molte provocazioni di Kirac (Keeping It Real Art Critics), il collettivo artistico fondato da Ruitenbeek nel 2016. Si comincia con l’immagine del ventre nudo di una donna incinta, che poi vomita per strada, e infine partorisce in ospedale davanti agli occhi più disgustati che inteneriti di Ruitenbeek. È sua la voce fuori campo che racconta: «La fine dell’anno era vicina, e come sempre temevo i giorni di vacanza che incombevano. Soprattutto perché avrebbero segnato la nascita del mio secondo figlio, e io non sono fatto per il ruolo tradizionale del padre entusiasta».

Stacco della videocamera: dalla madre stremata e sorridente e dal neonato ancora insanguinato, al volto di Houellebecq che spettinato fissa l’obiettivo. «L’unica persona ancora meno felice del Natale era il celebre scrittore Michel Houellebecq», dice il regista.

I due sono in contatto per email e si confidano le reciproche disgrazie: la giovane moglie di Houellebecq, Qianyum Lysis Li, ha dovuto cancellare il viaggio in Marocco perché si teme che il marito venga rapito da estremisti musulmani. Immagine di Lysys in auto che guarda fuori dal finestrino, rattristata: «Sua moglie aveva passato un mese per prendere appuntamento con le prostitute in anticipo — precisa la voce fuoricampo — e tutto è crollato».

Un Natale più triste del solito. Ruitenbeek allora dice a Houellebecq che molte ragazze ad Amsterdam sarebbero pronte «per curiosità» a fare sesso con il celebre scrittore, e si offre di trovare anche l’hotel, ma a una condizione: filmare tutto.

Ed eccoci in camera: seduti sul letto Michel Houellebecq in pigiama blu con i bottoni, accanto a una ragazza dai capelli lunghi, tatuaggi sulle braccia e sottoveste. Un primo bacio appassionato, poi il trailer finisce dando appuntamento all’11 marzo sul sito Kirac.nl.

La passione per il sesso e la grande considerazione che Houellebecq riserva alle sue professioniste sono note, così come la voglia di provocare del collettivo Kirac, che stavolta, giunto al filmato numero 27, sembra essere passato a un livello superiore, almeno quanto a risonanza mediatica.

Scorrendo i video precedenti si coglie un’atmosfera che ricorda certi registi scandinavi, da Lars von Trier a Thomas Vinterberg a Ruben Östlund. L’azione più discussa compiuta da Kirac finora è stata Honey Pot, una specie di trappola tesa all’intellettuale di estrema destra olandese Sid Lukkassen, 34 anni, autore di saggi misogini e vicini all’ideologia «incel» (gli uomini single non per scelta).

Una ragazza del collettivo, Jini van Rooijen, ha messo un annuncio online promettendo sesso a un uomo di destra disposto a farsi filmare «per superare la polarizzazione destra/sinistra grazie al porno». Lukkassen si è fatto avanti, i due si sono incontrati in una casa sul mare a Zandvoort e hanno cominciato a spogliarsi, poi l’imbarazzo di Lukkassen ha preso il sopravvento e si è fermato. Ha ritirato il permesso di mostrare le immagini, ma Kirac ha mostrato comunque il video, organizzando una grande serata con un ospite speciale: Julian Andeweg, artista sotto inchiesta per stalking e violenze sessuali dopo la denuncia di una ventina di donne.

Il collettivo lotta contro il movimento MeToo e la cultura woke , si definisce ostile al politicamente corretto — evidente terreno di intesa con Houellebecq — e alla superficialità del mondo dell’arte contemporanea, ma più in generale sembra amare la provocazione in quanto tale.

«Kirac è alla ricerca dell’amore, sotto forma di verità — si legge nel loro manifesto online —. Utilizza il feticcio illuminista più sincero e impossibile: la dialettica. In altre parole, la convinzione che ogni avversario sia in realtà un alleato in questa ricerca prioritaria della verità». Tutti i mezzi sono buoni, anche i baci di Michel Houellebecq.

(ANSA il 9 gennaio 2023) Il segretario del Rassemblement National (Rn), Jordan Bardella, prende le distanze dalle parole "eccessive" dello scrittore Michel Houellebecq sui musulmani di Francia. "Quello che ha detto equivale più o meno a fare di tutta l'erba un fascio", ha commentato il leader del partito sovranista, interrogato sulle dichiarazioni dell'autore best-seller in diretta su BFM-TV.

 "In Francia abbiamo un problema con dei francesi nati sul territorio francese che sono di qui ma la cui anima è altrove. Gente che si comporta come se fosse straniera: in questo caso, abbiamo un problema", ha proseguito Bardella, aggiungendo tuttavia che "ci sono francesi di confessione musulmana, provenienti dall'immigrazione, che rispettano le nostre leggi e i nostri costumi e che devono poter continuare a vivere in Francia".

Il capo del RN, proveniente a sua volta da una famiglia di immigrati italiani, ha deplorato una "generalizzazione" che "non è il caso di fare". Dopo giorni di polemiche, il rettore della Grande Moschea di Parigi ha confermato venerdì di "rinunciare al procedimento giudiziario" contro Houellebecq, per le sue parole "violente" ed "estremamente gravi" contro i musulmani di Francia.

 In un'intervista fiume alla rivista Front Populaire, quest'ultimo presentava i musulmani come una minaccia per la sicurezza dei francesi non musulmani, salvo poi fare una parziale retromarcia. "L'auspicio della popolazione di ceppo francese, come si dice, non è che i musulmani si assimilino, ma che smettano di rubare o aggredire. Altrmenti, un'altra soluzione, che se ne vadano", diceva l'autore di successi come 'Sottomissione', spingendosi fino a prevedere futuri "Bataclan all'incontrario", contro la popolazione islamica.

Houellebecq, ritirata la denuncia per islamofobia: ma ora Le Pen lo scarica. Storia di Roberto Vivaldelli su Il Giornale il 9 gennaio 2023.

Ancora polemiche sulle parole di Michel Houellebecq sui musulmani di Francia. Lo scrittore, dall'inconfondibile stile corrosivo e senza fronzoli, è nella bufera per la lunga intervista con Michel Onfray pubblicata all'inizio di dicembre sulla rivista Front Populaire, dove il filosofo e lo scrittore hanno duramente criticato l'avanzata dell'islam nelle società occidentali. Per il partito di Marine Le Pen Houellebecq è autore di "generalizzazioni" eccessive e sbagliate nei confronti delle persone di fede islamica. Secondo il segretario del Rassemblement National (Rn), Jordan Bardella, le parole dello scrittore sono "eccessive". "Quello che ha detto equivale più o meno a fare di tutta l'erba un fascio", ha commentato il leader del partito di destra, interrogato sulle dichiarazioni dell'autore best-seller in diretta Tv, secondo quanto riportato dall'Agi. "In Francia abbiamo un problema con dei francesi nati sul territorio francese che sono di qui ma la cui anima è altrove. Gente che si comporta come se fosse straniera: in questo caso, abbiamo un problema", ha proseguito Bardella, aggiungendo tuttavia che "ci sono francesi di confessione musulmana, provenienti dall'immigrazione, che rispettano le nostre leggi e i nostri costumi e che devono poter continuare a vivere in Francia". Nel frattempo, però, il peggio sembra essere passato, dopo che il celebre scrittore ha incontrato personalmente il capo della Grande Moschea di Parigi.

La mediazione del Rabbino capo

Fondamentale in tal senso è stata la mediazione voluta dal rabbino capo di Parigi, che dalle colonne di Le Figaro ha proposto una mediazione tra il rettore della Grande Moschea e Michel Houellebecq. I tre si sono incontrati lo scorso giovedì mattina. L'incontro avrebbe dovuto svolgersi all'Institut de France, ma i vincoli di agenda dello scrittore, che sta iniziando le riprese di un film di Guillaume Nicloux in Guadalupa, hanno affrettato le cose. Alle 9 del mattino i due capi religiosi e lo scrittore francese più letto al mondo si sono incontrati davanti a un caffè. Incontro prolifico, che ha prodotto un chiarimento che ha portato la Grande Moschea a ritirare la denuncia di incitamento all'odio nei confronti dell'intellettuale.

La polemica sorta dalle dichiarazioni di Houellebecq sull'islam aveva addirittura spinto il governo a intervenire sul tema. Dire che i musulmani non sono francesi come gli altri, ha detto il ministro della Giustizia, Éric Dupond-Moretti, "è insopportabile. Tutto questo genera odio, ed è contrario a tutti i valori che sono i miei", secondo quanto riferisce Le Figaro. "Ho impiegato molto tempo per reagire" , ha osservato il ministro. "Come mai? Perché abbiamo banalizzato questo tipo di osservazioni. 15 anni fa saremmo andati tutti in prima linea a denunciarlo, ci siamo abituati".

Le "profezia" dello scrittore

"La gente si sta armando. Prendono pistole, prendono lezioni nei poligoni di tiro. E queste non sono teste calde" aveva spiegato Michel Houellebecq nell'intervista che tanto ha fatto discutere. "Quando gli interi territori saranno sotto il controllo islamico, penso che ci saranno atti di resistenza. Ci saranno attentati e sparatorie nelle moschee, nei caffé frequentati da musulmani, insomma Bataclan alla rovescia”. Come già riportato dal Giornale.it, la Grande Moschea di Parigi aveva annunciato dai suoi canali social che avrebbe sporto denuncia contro lo scrittore Houellebecq per le "gravi osservazioni" contro i musulmani di Francia che l'intellettuale aveva pronunciato. Denuncia ritirata dopo l'incontro sopra menzionato che, tuttavia, non ha del tutto placato le polemiche in Francia sulla figura e sulle idee dell'intellettuale circa la convivenza con l'islam.

Estratto dell’articolo di Anais Ginori per “la Repubblica” il 18 Dicembre 2022.  

L'abolizione della pena di morte? "Non sono sicuro che sia un progresso". L'integrazione dei musulmani in Francia? "La maggior parte della gente vuole solo che smettano di rubare e aggredire, o che se ne vadano". Così parla Michel Houellebecq, uno degli scrittori francesi più tradotti nel mondo, in un dialogo con il filosofo Michel Onfray. I due intellettuali si sono incontrati per oltre sei ore, spaziando dall'eutanasia all'Unione europea, dalla religione all'ecologica. La loro conversazione è stata raccolta in un numero speciale di Front Populaire, la rivista fondata da Onfray.

[…] Entrambi pensano che l'Ue sia una rovina, non perdono occasione di attaccare gli Stati Uniti, sono più teneri con la Russia ("Putin ha fatto il passo più lungo della gamba" nota Houellebecq a proposito della guerra in Ucraina) e condividono una visione apocalittica sul declino dell'Occidente. […]

Houellebecq […] appoggia la teoria del Grand Remplacement, la grande sostituzione, elaborata dall'intellettuale Renaud Camus e diventata manifesto dei suprematisti di destra. "Il cambiamento della composizione etnico religiosa della popolazione europea" osserva Houellebecq non è una teoria. "È un dato statistico". Lo scrittore prende le distanze solo dall'idea che ci sia dietro un "complotto", come scrive Camus, e riflette su soluzioni possibili. "Sarebbe necessario un controllo delle nascite e l'Occidente non può controllare le nascite africane, né i paesi africani". "L'Europa - conclude - sarà spazzata via da questo cataclisma".

Sui musulmani, l'autore di Sottomissione, si abbandona ai cliché più retrogradi. "Credo che il desiderio della popolazione autoctona, come si dice, non è che i musulmani siano integrati ma che smettano di rubare e aggredire, in breve che la loro violenza diminuisca, che rispettino la legge e le persone. Oppure, altra buona soluzione, che se ne vadano". 

Houellebecq profetizza una guerra civile, dei "Bataclan al contrario", con francesi che si armano e prendono di mira moschee e "caffè frequentati da musulmani". Ricorda gli stupri avvenuti a Colonia e la cattiva coscienza di una sinistra che, secondo lui, non riesce a risolvere la contraddizione tra femminismo e islamismo. "Le femministe occidentali non sono così pericolose, sono vigliacche quanto gli uomini occidentali, altrettanto pronte a sottomettersi".

A proposito della maternità surrogata dice: "Se venisse legalizzata in Francia, scriverei testi violenti, e proprio insultanti, avrei piacere a trascinare nel fango quegli stronzi maschi o donne che ne fanno uso". Come Onfray, Houellebecq critica il movimento "woke" in difesa delle minoranze, diffuso nelle università americane e ora francesi, e rilancia: "La nostra unica possibilità di sopravvivenza è che il suprematismo bianco diventi trendy negli Stati Uniti".

È sulla pena di morte che lo scrittore perde qualsiasi freno inibitorio. "L'abolizione è un progresso?" si domanda e Onfray gli chiede: "Sta difendendo la pena di morte?" "Non lo so" risponde lo scrittore. "Quando guardo i programmi su diversi canali con tutti quei crimini atroci, mi faccio domande. Le famiglie delle vittime chiedono vendetta, è una reazione normale". "La giustizia non è vendetta" obietta Onfray. "Sì, certo - prosegue Houellebecq - ma la nostra società si basa, tra l'altro, sul fatto che accettiamo di rinunciare alla vendetta individuale. È un grande sforzo. Lo Stato non dovrebbe vendicarci un po'?". […]

Gli Interventi di Houellebecq per far luce sul mondo contemporaneo. Interventi, l'ultimo libro di Houellebecq edito in Italia dalla Nave di Teseo, è un raccoglitore di alcuni tra i più interessanti scritti del noto scrittore francese. Federico Giuliani il 23 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Dalle digressioni sull'arte contemporanea all'invettiva contro il poeta e sceneggiatore francese Jacques Prévert, "uno di cui s'imparano le poesie a scuola" ma che viene definito "imbecille". Dall'elogio a Donald Trump, "un buon presidente", al rimedio contro la "spossatezza d'essere", passando attraverso un'analisi del cinema novecentesco. E ancora, i "colloqui" con molteplici personaggi e il riferimento a Emmanuel Carrere e Neil Young. A prima vista può sembrare un insieme di riflessioni scoordinate tra loro e riunite alla rinfusa. Interventi, l'ultimo libro di Michel Houellebecq, edito in Italia da La Nave di Teseo, è invece un raccoglitore di alcuni tra i più interessanti scritti del noto scrittore francese. Interventi, appunto, che spaziano attraverso svariati temi ma che sono uniti da un minimo comune denominatore: l'attenzione – sia pur in modo corrosivo, controcorrente e dissacrante, tipica di Houellebecq – al mondo in cui viviamo. Un mondo, quello odierno, dove la vita delle persone è scandita da tecnologia e conformismo. 

Gli "Interventi" di Houellebecq

"Anche se non voglio essere un "artista impegnato", ho cercato in questi testi di persuadere i miei lettori della validità dei miei punti di vista, qualche volta sul piano politico, ma più spesso su diversi "temi sociali" e sul dibattito letterario", ha spiegato Houellebecq. L'autore ha quindi sottolineato che con questo libro non promette assolutamente di "smetterla di pensare" ma "almeno di smetterla di comunicare i miei pensieri e le mie opinioni, tranne in eventuali casi di grave emergenza morale".

Il volume, uscito in Italia lo scorso 5 ottobre, conta 480 pagine. Si apre con il testo "Jacques Prévert è un imbecille" e si chiude con "Il caso Vincent Lambert non sarebbe dovuto accadere". "Ho cercato di classificare questi "interventi" in ordine cronologico, per quanto ricordassi delle date. L’esistenza almeno apparente del tempo è sempre stata una grande fonte di fastidio per me; ma ci siamo abituati a vedere le cose in questi termini. Per questa volta, quindi, mi adatto", ha aggiunto Houellebecq.

I temi trattati da Houllebecq

Nel libro si parla di "Emmanuel Carrère e il problema del bene", di "Donald Trump è un buon presidente", in uno scritto apparso su Harper's Magazine nel gennaio 2019, e di Neil Young con le sue magnifiche canzoni e il suo percorso musicale che ha qualcosa di maniaco-depressivo. Tra i colloqui spicca quello con lo scrittore e giornalista francese Christian Authier. Troviamo inoltre anche un elogio del cinema muto, "La questione pedofilia" e "Un rimedio alla spossatezza dell'essere". Mentre in "Ho letto per tutta la vita" Houellebecq rivela che a dieci anni si è ritrovato a leggere "Graziella" di Alphonse de Lamartine, e in "Sono normale. Scrittore normale" ricorda la sua prima raccolta di poesie "La ricerca della felicità" e il premio Tristan Tzara.

Curiosità personali sull'autore, dunque, ma anche commenti e analisi a tutto tondo sul presente. Usciti su riviste e giornali francesi, gli interventi stiamo parlando di testi e colloqui inediti in Italia. L'autore de "Le particelle elementari", di "Sottomissione" e di "Annientare" ci racconta, come ha sempre fatto nei suoi libri, il mondo in cui viviamo, ci parla delle letture e visioni che lo raccontano. Con il suo sguardo di osservatore implacabile, lo scrittore e poeta riesce a mettere in moto pensieri che riguardano tutti noi anche attraverso le occasioni più imprevedibili, contingenti e personali.

"Contrariamente alla maggioranza delle persone, non temo la morte, anzi, invecchiando riscopro la mia giovinezza, a lungo dimenticata, e ogni tanto, quando le cose vanno male, mi rifugio comodamente nel mio lavoro. I miei libri mi garantiscono già una forma d’immortalità", ha dichiarato Houllebecq. I lettori, con "Interventi", potranno invece scoprire uno dei lati più nascosti dell'autore francese.

Noi, illusi di essere dèi saremo solo cloni senza più l'ombelico. Michel Houellebecq delinea il nostro futuro: ci resta soltanto una "Consolazione tecnica". Michel Houellebecq il 5 ottobre 2022 su Il Giornale.

Io non mi piaccio. Provo per me solo un briciolo di simpatia, e ancor meno stima; di più, la mia persona non m'interessa molto. Conosco da tempo le mie principali caratteristiche, e ho finito per provarne disgusto. Da adolescente, ancora giovane uomo, parlavo di me, pensavo a me, ero come ricolmo della mia stessa persona; ora non è più così. Mi sono estraniato dai miei pensieri, e la sola prospettiva di dover raccontare un episodio personale mi fa sprofondare in una noia vicina alla catalessi. Qualora vi sia assolutamente obbligato, mento.

Eppure, paradossalmente, non mi sono mai pentito di essermi riprodotto. Si può anche dire che amo mio figlio, e che lo amo ancora di più ogni volta che riconosco in lui una traccia dei miei medesimi difetti. Li vedo manifestarsi nel corso del tempo con un implacabile determinismo, e ne sono felice. Godo senza il minimo pudore nel vedere ripetersi, e di conseguenza perpetuarsi, caratteristiche personali che non hanno assolutamente nulla di apprezzabile, caratteristiche che risultano abbastanza spregevoli; e che, in realtà, non hanno altro merito se non quello di essere le mie. Peraltro, non sono esattamente le mie; di alcune mi rendo conto che sono ricalcate tali e quali sulla personalità di mio padre, quello stronzo fatto e finito; cosa che, stranamente, non toglie nulla alla mia gioia. La quale è qualcosa di più dell'egoismo; qualcosa di più profondo e indiscutibile. Come un volume è qualcosa di più della sua proiezione su una superficie piana; o come un corpo vivente è qualcosa di più della sua ombra.

Ciò che al contrario mi rattrista, in mio figlio, è il fatto di vederlo mettere in risalto (influsso della madre? cambiamento dei tempi? puro individualismo?) i tratti di una personalità autonoma, nella quale io non mi riconosco affatto, che mi rimane estranea. Lungi dal meravigliarmene, mi rendo conto che lascerò soltanto un'immagine incompleta e indebolita di me stesso; nel giro di pochi secondi, avverto più nettamente l'odore della morte. E posso confermarlo: la morte puzza.

La filosofia occidentale favorisce poco la manifestazione di sentimenti del genere; sono sentimenti che non lasciano il minimo spazio al progresso, alla libertà, all'individuazione, al divenire; che s'indirizzano unicamente all'eterna, imbecille ripetizione dell'uguale. Per giunta, non hanno nulla di originale; sono condivisi dalla quasi totalità dell'umanità, nonché dalla maggior parte del regno animale; non sono nient'altro che la memoria sempre attiva di un istinto biologico dominante. La filosofia occidentale è un lento, paziente e crudele dispositivo di ammaestramento volto a convincerci di alcune idee del tutto false. La prima è che dobbiamo rispettare gli altri perché sono differenti da noi; la seconda è che abbiamo qualcosa da guadagnare dalla morte.

Oggi, per effetto della tecnologia occidentale, questa vernice di convenienze si sta rapidamente scrostando. Naturalmente, io mi farò clonare appena possibile; naturalmente, tutti si faranno clonare appena possibile. Andrò alle Bahamas, in Nuova Zelanda o alle Isole Cayman; pagherò il prezzo necessario (né gli imperativi etici né gli imperativi finanziari hanno mai pesato molto, in confronto a quelli della riproduzione). Avrò probabilmente due o tre cloni, come si hanno due o tre figli; tra le cui nascite rispetterò un adeguato intervallo (né troppo vicini né troppo lontani); uomo ormai maturo, mi comporterò da padre responsabile. Assicurerò ai miei cloni una buona educazione; e alla fine morirò. Morirò senza piacere, poiché non desidero morire. Tuttavia, fino a prova contraria, vi sono obbligato. Tramite i miei cloni, avrò raggiunto una certa forma di sopravvivenza per nulla sufficiente, ma comunque superiore a quella che mi avrebbero garantito dei figli. È il massimo che la tecnologia occidentale possa offrirmi, sino a oggi.

Nel momento in cui scrivo queste righe, mi è impossibile prevedere se i miei cloni nasceranno fuori dal grembo della madre. Ciò che al profano sembra tecnicamente semplice (gli scambi nutritivi attraverso la placenta comportano a priori un minor mistero rispetto all'atto della fecondazione) si rivela in realtà l'elemento più difficile da riprodurre. Nel caso in cui la tecnica risultasse abbastanza progredita, i miei futuri figli, i miei cloni, vivranno l'inizio della loro esistenza dentro un barattolo di vetro; e questo mi rattrista un po'. Mi piace la fica delle donne, sono felice quando penetro nel loro ventre, nella morbidezza elastica della loro vagina. Capisco le ragioni della sicurezza, gli imperativi tecnici; capisco le ragioni che condurranno progressivamente a una gestazione in vitro; mi concedo, in merito, solo una leggera manifestazione di nostalgia. I miei piccoli cari, concepiti così lontano da lei, sentiranno ancora il gusto della fica? Lo spero per loro, lo spero con tutto il cuore. Esistono molte gioie a questo mondo, ma pochi piaceri e pochissimi che non procurino alcun male. Fine della parentesi umanista.

Se devono svilupparsi dentro un barattolo, i miei cloni nasceranno naturalmente senza ombelico. Non so chi abbia usato per la prima volta in senso spregiativo l'espressione littérature nombriliste, ma so che questo banale cliché non mi è mai piaciuto. Quale sarebbe l'interesse di una letteratura che pretendesse di parlare dell'umanità escludendo ogni considerazione personale? Eh? Gli esseri umani sono molto più simili tra loro di quanto si pensi, nelle loro comiche pretese di essere dei se stessi singoli; è molto più facile pensare di raggiungere l'universale parlando di sé. E qui scatta un secondo paradosso: parlare di sé è un'attività fastidiosa, persino ripugnante; scrivere di sé è, in letteratura, la sola cosa che valga, a tal punto che classicamente e correttamente si commisura il valore dei libri alla capacità di coinvolgimento personale del loro autore. È grottesco, se si vuole, è anche di un'impudenza folle, ma è così.

Scrivendo queste righe, sto effettivamente, e concretamente, contemplando il mio ombelico. Di solito ci penso di rado, ed è molto meglio. Questa rientranza della carne reca in sé, con tutta evidenza, il segno di un taglio, di un nodo effettuato in modo frettoloso; è il ricordo di un colpo di forbici attraverso il quale sono stato, senza indugio, proiettato nel mondo; ed esortato a sbrigarmela da solo. E, proprio come me, nemmeno voi sfuggirete a questo ricordo; da vecchi, anche molto vecchi, conserverete intatta in mezzo al ventre la traccia di quel taglio. Da quel buco mal chiuso, i vostri organi più interni potranno in ogni momento fuoriuscire e andare a marcire nell'atmosfera. Potrete in ogni momento svuotarvi delle vostre budella, sotto il sole; e crepare come un pesce finito da un colpo di stivale in piena spina dorsale. Non sarete né il primo né il più illustre. Ricordate le parole del poeta: come un pesce morto / finito a pedate.

Farete presto la stessa fine, figli senza importanza. Sarete come dèi e non sarà affatto sufficiente. I vostri cloni non avranno ombelico, ma avranno una littérature nombriliste. Anche voi sarete nombrilistes; sarete mortali. Il vostro ombelico si coprirà di grasso, e sarà detto tutto. Dopodiché vi si getterà della terra in faccia. Traduzione di Sergio Arecco. 2022 La nave di Teseo editore, Milano

Secondo Michel Houellebecq gli edifici di oggi sono corsie dell’ipermercato sociale. MICHEL HOUELLEBECQ su Il Domani il 04 ottobre 2022

L’architettura contemporanea si basa sulla formula: «Ciò che è funzionale è necessariamente bello». Partito preso sorprendente, in quanto lo spettacolo della natura contraddice di continuo quel postulato

Dovendo consentire una circolazione rapida degli individui e delle merci, tende a ridurre lo spazio alla sua dimensione puramente geometrica

L’architettura contemporanea tende dunque a dotarsi di un programma semplice, così riassumibile: costruire le corsie dell’ipermercato sociale

Momenti di trascurabile poesia. Michel houellebecq il 4 ottobre 2022 su La Repubblica.

Il poliziotto con lo scudo su cui è disegnato il marchio “ss”, manifesto simbolo del ’68 francese 

Pubblichiamo un estratto dalla nuova raccolta di saggi dello scrittore francese. Un ragionamento sul tempo sospeso, dal Sessantotto alla tecnologia

Nel maggio 1968, avevo dieci anni. Giocavo alle biglie, leggevo Pif le Chien; la bella vita. Degli "avvenimenti del '68" serbo un unico ricordo, anche se abbastanza vivo. Mio cugino Jean-Pierre frequentava all'epoca la prima liceo a Le Raincy. Il liceo mi dava l'idea, allora (l'esperienza che ne ebbi in seguito confermò peraltro quella mia prima intuizione, con l'aggiunta, ahimè, di una dolorosa dimensione sessuale), di un posto vasto e terribile dove ragazzi più avanti di me in età studiavano con accanimento materie difficili, onde assicurarsi un futuro professionale.

Dear Prudence. Houellebecq è tornato ed è diventato buono. Dario Ronzoni su L'Inkiesta il 5 Gennaio 2022.

Nonostante il cinismo che innerva tutte le sue opere, “Annientare” (che uscirà per la Nave di Teseo) lascia un filo di speranza e ammorbidisce i toni (certo, senza rinunciare alla diagnosi della morte imminente dell’Occidente) 

C’è qualcosa che funziona nell’universo di Michel Houellebecq. In “Annientare”, il suo ultimo romanzo, che sarà pubblicato da La Nave di Teseo in contemporanea con l’uscita francese per Flammarion, a dispetto del titolo emerge una speranza. C’è una luce, anche se fioca, che ammorbidisce la cupezza del romanzo, ed – attenzione – l’amore, in una sua forma disperata, certo. Rassegnata, anche.

Il libro è ambientato nella Francia del 2026. Il mondo è scosso da una serie di attentati misteriosi e sofisticatissimi, con obiettivi enigmatici e svolti usando tecnologie iper-avanzate. Nel frattempo Paul, un funzionario del ministero dell’Economia, stringe amicizia con Bruno, il ministro (alter ego, forse, di Bruno Le Maire, amico dello scrittore) e si preparano alle elezioni, dove il candidato sarà un personaggio proveniente dal mondo dello spettacolo, un certo Sarfati. Il presidente, che richiama Emmanuel Macron, ha da tempo cambiato politica economica, investendo nell’industria e nel rapporto con la Germania. L’Unione Europea è debole, l’America ha già perso la sua gara contro la Cina e tutto l’Occidente scivola nel declino – questo sì tema amato da Houellebecq: «a Paul sembrava evidente che l’intero sistema sarebbe andato incontro a un gigantesco collasso, di cui per ora non era ancora possibile prevedere la data, né le modalità». 

Il resto del romanzo è il racconto delle vicende private di Paul. Sia quelle con la moglie Prudence, donna che aveva amato e che da tempo era diventata poco più di una coinquilina, un crollo dovuto a varie ragioni – dal veganesimo di lei al nuovo appartamento: «un miglioramento delle condizioni di vita va spesso di pari passo con un deterioramento delle ragioni di vita, e in particolare della vita di coppia» – sia quelle con la famiglia di origine. Il padre, un ex agente segreto, finisce in coma e questo lo obbliga a riprendere i contatti con la sorella Cécile, cattolica e destrorsa e il debole fratello Aurélien, sposato a una gretta giornalista che, per umiliarlo, aveva deciso di fare un figlio con inseminazione artificiale, scegliendo un donatore nero.

Da qui si snoda il racconto della degenza in un istituto della campagna francese, che diventa occasione di riflessioni e pensieri sullo stato della società, sulla salute degli anziani, insieme a sferzate sul ruolo degli intellettuali, ormai schiavi del consenso della folla e su un mondo che si è consegnato a un’ideologia di nichilismo radicale. È, si direbbe, il solito Houellebecq. Solo che rispetto a “Sottomissione” nemmeno l’Islam presenta una forza vitale sufficiente per reggere la società e, a sorpresa, di fronte alla cupezza depressa di “Serotonina” stavolta una risposta esiste, per quanto modesta e fragile e forse illusoria. Nell’affrontare le disgrazie private gli incubi che lo accompagnano Paul ritrova un’alleata nella moglie Prudence (cui del resto è dedicata la copertina), attraverso un disgelo lento e progressivo, seguito da un risveglio dei corpi. È lo spirito femminile, che si ritrova in Madeleine, la compagna del padre in coma e poi immobilizzato, e nella sorella Cécile.

Il punto di vista del romanzo è maschile, i protagonisti sono uomini, ma a essere decisive sono le donne, di cui Houellebecq sottolinea ed elogia di continuo la propensione alla cura, il coraggio, la tempestività, la capacità di cogliere segni invisibili agli altri, a sapere cosa fare nei momenti di difficoltà. Con la preghiera o la compagnia o il sesso ognuna di loro – e Prudence soprattutto, nel finale – procede alla sua opera di salvazione, improntata a formule antichissime, pre-cristiane. Costituiscono per Houellebecq, insomma, un momento di respiro, una forma di consolazione sufficiente di fronte alla morte e alla fine.

Fabrizio Sinisi su Il Domani il 05 gennaio 2022. L’ultimo romanzo dell’autore segna uno scarto sostanziale rispetto ai precedenti: al centro del racconto ci sono le convenzioni di una famiglia borghese, non più il desiderio. Annientare è una lunga meditazione sul finire, nostro e del mondo.

Annientare è, rispetto ai precedenti di Houellebecq, un libro molto più affabile, più cordiale, per certi versi più ingenuo. Al centro del suo racconto c’è una famiglia tradizionale.

Se però Annientare segna uno scarto sostanziale nella meditazione di Houellebecq, non è (soltanto) perché decide qui di dedicarsi alle convenzioni del romanzo borghese e dell’epopea familiare: piuttosto perché Annientare è il primo libro di Houellebecq che non parli di Desiderio.

La società parla ora un linguaggio incomprensibile. Il mondo procede in un discorso inaccessibile, rimbalza ogni tentativo di decifrarlo. La modernità ha compiuto un salto di specie, e ha bruciato i ponti.

FABRIZIO SINISI. Drammaturgo. Drammaturgo, poeta e scrittore. Dal 2010 è dramaturgo stabile della Compagnia Lombardi-Tiezzi di Firenze e docente presso il Teatro Laboratorio della Toscana. Dal 2017 è drammaturgo presso il Teatro Stabile di Brescia. Collabora con i maggiori teatri italiani.

Annientare”, un estratto dal nuovo romanzo di Michel Houellebecq. Il Domani il 06 gennaio 2022.

A livello razionale, Paul sa di essere nei locali del ministero, perché ha appena lasciato l’ufficio di Bruno; eppure non riconosce le pareti dell’ascensore. Sono di un metallo opaco e consumato, e quando schiaccia il tasto 0 cominciano a vibrare leggermente.

Poi l’ascensore si blocca al livello 0 e le porte si spalancano. Paul è salvo, o almeno così crede, ma quando esce dalla cabina si rende conto che si trova in un luogo sconosciuto.

Il messaggio era di Madeleine, la compagna di suo padre. Gli aveva telefonato alle nove del mattino, adesso erano da poco passate le undici. La registrazione era a tratti incomprensibile. Paul riuscì comunque ad afferrare che suo padre era in coma.

Il profeta prestigiatore. Il nuovo libro di Houellebecq è la radiografia della paura del nostro tempo. Stefano Pistolini su L'Inkiesta il 3 Gennaio 2022.

Il romanzo Annientare viene presentato come distopico, ma sembra una cronaca del giorno dopo, ambientata in una Francia del 2027 somiglia assai a quella del 2022. I personaggi sono disorientati, come noi, e cercano tutti una quiete sempre più difficile da raggiungere.

Uscito dagli effetti delle pillole di sostegno che fanno di “Serotonina” un notevole trattato pseudoscientifico sulla depressione, Michel Houellebecq sorprende nuovamente il mercato e la platea dei lettori con un romanzo torrenziale, “Annientare” (La Nave di Teseo, 743 pagine, 23 euro, in libreria dal 7 gennaio), che ha il vezzo di volerci far credere che potrebbe essere il suo canto del cigno – ma di questo possiamo tranquillamente dubitare. 

L’intero procedimento di promozione di “Annientare” è una commedia trash sul come oggi l’industria culturale si rappresenti, attraverso interviste negate (ma poi qualcuna concessa), severi embarghi ai recensori, anticipazioni micragnose (70 pagine spedite qua e là per stuzzicare la curiosità), fino all’irruzione della perfida Rete, dove copie-pirata in pdf del romanzo hanno preso a circolare vorticosamente, provocando le ire dell’editore Flammarion e lo scatenamento dei suoi legali – o qualcosa del genere, perché intanto il talk of the town attorno al libro cresceva esponenzialmente e c’è da scommettere che gli effetti provocheranno dei gran brindisi con ottimi champagne. 

Dunque Houellebecq si conferma un fuoriclasse del pop e delle sue regole, sebbene si affanni a ricordarci quanto la cosa l’affatichi e lo costringa a sottoporsi al martirio promozionale che segue il processo creativo. Ma niente di tutto questo conta granché, perché in realtà lui gioca come il gatto col topo (la curiosità dei media, l’ingenuità del pubblico) e vende a iosa la sua merce che d’altronde, come sempre, è di valore.

Perché se è nel suo stile interpretare il disincantato narratore mercenario, il poeta dei compromessi e l’orchestratore di tematiche che tirano, “Annientare” è una lettura potente, di grande intrattenimento e i suoi acquirenti faranno a gara nello scoprire come finisce una vicenda da più parti presentata come distopica, ma che sembra piuttosto una cronaca del giorno dopo, ambientata in una Francia del 2027 che somiglia assai a quella del 2022. Unica differenza è che certe cose si sono sottilmente estremizzate e che si capisce che il mondo in generale, ma l’Occidente in particolare e Parigi ancor di più, stiano tutti continuando a marciare su sentieri pericolosi. E che le minacce siano più subdole del previsto, acquattate appena sotto la superficie del concetto di progresso. 

In ogni caso, i personaggi di “Annientare” sono piacevoli, ben disegnati, capaci d’intercettare la nostra simpatia e interesse, in quanto figure vivaci, intelligenti, positive e umane (pochissimi i mostri, nelle ultime pagine di Houellebecq – altra inattesa novità). 

Dunque ecco Paul Raison, consulente del ministro dell’Economia francese, uomo d’ingegno professionale e di incertezze personali; sua moglie Prudence (battezzata dalla canzone di Lennon) e anche lei funzionaria governativa di rango, ma anche sposa infelice, rapita da tentazioni misticheggianti. Bruno Juge, appunto il ministro, capo e confidente di Paul – ricalcato sulla silhouette autentica di Bruno Le Maire, amico intimo di Houellebecq – uomo colto, di talento, raziocinio ed etica, eppure a un palmo dal punto di rottura, mentre si avvicina il momento di scendere in campo niente meno che per le presidenziali. E poi la complicata famiglia di Paul, una sorella fanatica religiosa, un misterioso padre, ex-dirigente dei Servizi Segreti, folgorato nelle prime pagine da un terribile ictus e assistito da una seconda moglie tremebonda. 

Una rappresentazione che passa di continuo dal privato al pubblico, dal personale al politico, dai sentimenti ai doveri fino alle mire dell’ambizione. Perché in parallelo alla corsa delle elezioni e all’irresistibile crescita di prestigio di una nazione francese eccitata dalla dimensione della propria forza, si sviluppa un’altra linea narrativa, stavolta nera, che descrive la mutazione delle forze del male per come le percepisce l’autore, il loro trasloco nei crismi del contemporaneo fino ad annidarsi nella Rete, trasformandola in strumento di terrore e in minaccia non solo al progresso, ma addirittura alla sopravvivenza degli uomini. 

Non andiamo oltre nel delineare gli sviluppi della storia, avvincente al punto da non meritare riassunti sommari. E diamo invece un’occhiata all’aria che tira in generale nelle pagine del più famoso scrittore francese del XXI secolo e alle idee che s’è fatto del mondo che racconta. Che stavolta è una rappresentazione a due facce, priva degli estremismi che un tempo eccitavano Houellebecq, più complessa, a tratti in apparenza ingannevole. Perché i suoi personaggi sono competenti e onesti tecnocrati di una post-democrazia, ambiziosi ma giudiziosi nelle scelte e timorosi nelle relazioni. Forse più insicuri del necessario, come del resto stiamo diventando tutti, perché a giocare c’è molto da perdere, la nostra civiltà ha costruito tanto ma ha prodotto un’infinità di scorie e la sensazione di pericolo globale si accentua giorno dopo giorno. 

Una grande minaccia ci sovrasta, ma non sappiamo definirla, i suoi contorni appaiono mutevoli, anche se la parola “Covid” non ricorre nel romanzo, e nemmeno “pandemia” – ma la paura sì, c’è in tutte le pagine, è palpabile, e la ricerca di requie, il tentativo di trovare un po’ di pace gronda da tutta la parabola di “Annientare”, senza nemmeno il coraggio di incasellarlo alla voce “amore” o “felicità”. 

Ma non è il caso di fare i catastrofisti: l’umanità ha realizzato un capolavoro imperfetto, disseminato di debolezze, di vergogne, ingiustizie e perciò di rabbia, odio, vendetta. Ci risiamo con gli angeli e i diavoli, non se n’esce, ma Houellebecq stavolta si schiera dalla parte dei buoni, sebbene col sadismo di chi lascia intendere che non è questione di schieramenti, quanto, come dicevano gli antichi saggi, di karma. 

La modernità produce il male come residuo del progresso e questo supplizio è insanabile, un destino malevolo, un errore di calcolo. Sesso e sete di potere sono le più efficaci pillole di sostegno collettive, ma sono solo terapie di sostegno, non soluzioni del problema. Il mondo non sarà mai perfetto, la famiglia non sarà un paradiso, la coppia non sarà eterna e il nostro corpo continuerà a disfarsi, a dispetto della scienza della salute.

Houellebecq ha sadicamente presentato “Annientare” come “un libro deprimente”, espressione di un’umanità delusa da se stessa, indebolita dai traumi, sconvolta dalla paura della morte. Ma c’è una nuova compostezza nelle sue pagine, che fa pensare alla dichiarazione dell’allenatore di una squadra coraggiosa, sbaragliata al termine della partita troppo difficile: abbiamo fatto il possibile, abbiamo gettato il cuore oltre l’ostacolo, abbiamo sbagliato molto, ma più di così non si poteva fare. 

Il senso di tragedia che aleggia nel libro va in risonanza con la percezione di caducità a cui ci stiamo abituando di questi tempi. Houellebecq è un prestigiatore delle profezie, sente le temperature e ha la disinvoltura di trasformarle in racconto. Se ci mettete il contributo offerto da una degnissima drammatizzazione, troverete motivi per restituire a un romanzo quella capacità di rappresentazione del presente che oggi si è sempre più restii ad accordargli.

Michel Houellebecq, lo scrittore che ha previsto il futuro. Francesco Boezi l'11 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il filosofo francese ha anticipato tanti fenomeni sociali dei nostri tempi. L'ultimo libro, Annientare (La Nave di Teseo), è l'ennesima sconvolgente lettura del mondo per come sarà.  

Se l'Europa ha qualche disturbo latente, le opere di Michel Houellebecq sono in grado, senza disdegnare un certo grado di crudezza narrativa e linguistica e soprattutto senza aver bisogno di giustificazioni, di palesare quel "guasto".

Sullo scrittore transalpino si è detto (e scritto) moltissimo, comprese durante questi primissimi giorni di gennaio a ridosso della pubblicazione di Annientare, l'ultimo (attesissimo) romanzo edito, come sempre in Italia, da La Nave di Teseo. Il coro d'interpretazioni è soltanto la più classica delle conseguenze: ogni volta che Michel Houllebecq chiude l'ultimo capitolo di un libro, inizia la corsa a rintracciare le profezie nascoste tra le righe del testo.

Anticipatore ed interprete del contemporaneo

Del resto, il romanziere francese ci ha abituato bene: la "maledizione" che lo accompagna - simile a quella che ha interessato Louis Ferdinand Celine ma anche altri giganti della letteratura mondiale - non gli ha impedito di guadagnarsi la fama di "profeta". Di sicuro, Houellebecq è considerato un interprete assoluto della contemporaneità e delle sue distorsioni antropologiche.

Il Vecchio continente, grazie ai romanzi dello scrittore d'Oltralpe, è soggetto ad una continua diagnosi che immortala un pessimo stato di salute. Dal nichilismo pervasivo agli aspetti psicologici dell'uomo moderno, passando per la fenomenologia sociale e per gli elementi politologici: la definizione più in voga, tra quelle inflazionate dalla critica, fa di Houellebecq un anticipatore.

In ogni libro, viene percepita una dose consistente d'esistenzialismo che deriva dalle esperienze personali dell'autore e dalla sua capacità d'osservazione sul mondo ma, il romanziere, non invade mai il campo con toni narcisistici: quelli di Houellebecq non sono scritti personalistici ma disamine capaci di produrre un effetto specchio in chi legge. Forse è questa la principale capacità che viene riconosciuta all'umanista: trarre dalle particolarità di una storia dei paradigmi validi per l' insieme dell'odierna condizione umana.

Anche l'ultimo romanzo - quello di cui IlGiornale ha pubblicato un estratto - è destinato senza dubbio alcuno a far discutere. Annientare è candidato a disegnare l'ennesima mappatura della condizione vissuta dall'uomo durante i tempi moderni, con la politica cui è stato attribuito uno spazio, per quanto di sfondo, forse maggiore rispetto alla maggior parte dei libri precedenti. Houllebecq non è un moralista e non fornisce antidoti: semplicemente racconta. E forse è anche per questa sua mancata volontà di distribuire formule e soluzioni salvifiche che il transalpino gode della fama di realista. 

Il caso Sottomissione

Houellebecq non è soltanto Sottomissione ma quel romanzo ha avuto un significato mediatico superiore alle aspettative. A giocare un ruolo decisivio affinché di Sottomissione si parlasse in tutta Europa per anni consecutivi (se ne discute ancora e se ne discuterà in futuro) è stato il momento in cui il romanzo è stato pubblicato: a poche settimane dall'attentato di Charlie Hebdo. Nell'opera, Houellebecq immagina una Francia islamizzata e del tutto slegata dalla sua cultura originaria. I cosiddetti sovranisti hanno fatto di Sottomissione un testo guida per comprendere - dicono loro - a quale direzione è destinato il concetto di Stato nazione, salvo interventi capaci di mitigare il multiculturalismo e la gestione aperturista dei fenomeni migratori.

Sottomissione è insomma la cartella clinica della Francia immersa in un avvenire che ha dimenticato la cristianità e che si è arresa, senza colpo ferire, ad altre tradizioni e ad un'altra confessione religiosa. Lo scrittore francese, non solo per questo romanzo ma anche per altre prese di posizione, è stato spesso etichettato come un intollerante anti-islamico, oltre che come un simpatizzante dell'estrema destra o dell'emisfero ultra-conservatore. Tra gli aforismi riassuntivi che forse l'umanità continuerà a conoscere ed a tramandare, con ogni probabilità, c'è anche questo: "È la sottomissione, l'idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta".

Le altre profezie

Sottomissione è un caso eclatante ma non è l'unico. Serotonina, il penultimo romanzo (quest'anno ridato alle stampe sempre dalla Nave di Teseo), è un viaggio all'interno della depressione, che è il grande convitato di pietra della contemporaneità. Ma Serotonina è anche una fotografia precisissima dell'abbandono subito dalla Francia rurale, quella periferica che, poco tempo dopo l'uscita del romanzo, ha contribuito a dare vita ai gilet gialli. E poi c'è quella dipendenza, un altro tratto segnante della fase storica in cui siamo catapultati, che ci rende sempre schiavi di qualcosa che non riusciamo davvero ad afferrare. Un grande spazio - in "Serotonina" come in quasi tutti gli altri romanzi - è riservato all'involuzione delle relazioni amorose ed amicali nel mondo moderno. ,

La coppia composta da un uomo ed una donna, comunque sia, come chi leggerà Annientare avrà modo di approfondire, costituisce per Houellebecq quasi una sentinella in grado di contrastare l'avanzata della dissoluzione del mondo tradizionale: "Una coppia è un mondo, un mondo autonomo e compatto che si sposta all’interno di un mondo più vasto, senza esserne realmente toccato; da solo, invece, ero attraversato da faglie". Quest'ultima è una frase che non è contenuta in Annientare, bensì in un libro precedente, ma che spiega bene quale sia il valore che lo scrittore d'Oltralpe attribuisce allo stare insieme.

Elencare tutte le previsioni e le tematiche contenute negli altri testi sarebbe complesso. Se "Estensione del dominio della lotta" - il primo romanzo - è una critica a certe distorsioni del capitalismo e del mondo lavorativo costruito su basi economicistiche, "Le particelle elementari" - che molti considerano il manifesto ed il capolavoro di Houellebecq - spazia tra la suggestione della clonazione degli esseri umani all'incontro-scontro tra un protagonista capace d'incarnare l'apollineo ed un altro profondamente dionisiaco. 

Houellebecq e la pandemia

L'evento che ha scosso la storia - la notizia del secolo, almeno sino a questo momento - è la pandemia, che Michel Houellebecq ha interpretato, per al di fuori delle sue opere, alla sua maniera, in specie durante i primi lockdown continentali. La diffusione del Covid19 è, per l'intellettuale d'Oltralpe, un acceleratore di cambiamenti tanto radicali quanto tragici già in programma. Tra queste, anche il definitivo tramonto delle relazioni umani per come le abbiamo conosciute.

Nella lettera pubblicata sul sito di France Inter, lo scrittore francese esprime il consueto punto di vista sprezzante: "Ammettiamolo: la maggior parte delle e-mail che ci siamo scambiati nelle ultime settimane aveva come primo obiettivo quello di verificare che l'interlocutore non fosse morto, né sul punto di esserlo. Ma dopo questa verifica, abbiamo provato a dire delle cose interessanti, cosa non facile, perché questa epidemia riusciva nella prodezza di essere allo stesso tempo angosciante e noiosa". E questa è una postilla anche su come l'umanità odierna si rapporti con la morte. Più in generale, Houellebecq pensa che non avverà una trasformazione maieutica "grazie" alla diffusione del Covid19: ci sarà - ritiene piuttosto - un abbrutimento generalizzato ma già telefonato dall'andazzo del mondo.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Houellebecq, Onfray, Zemmour: dalla nuova “rive droite” i sovranisti chic soffiano sul fuoco. Da sinistra alla reazione. E dalle élite al populismo. È il percorso che unisce in Francia un gruppo di intellettuali à la page. Vittimisti, vanesi e retorici, nemici dell’Europa e dell’Islam, irrompono nella campagna per le presidenziali del 2022. E vogliono sconfinare. Anna Bonalume su L'Espresso il 03 agosto 2021. «Alcuni intellettuali francesi, in particolare Alain Finkielkraut e Michel Onfray, hanno abbandonato il campo delle élite per avvicinarsi al campo del popolo. Immediatamente sono stati osteggiati da tutti i media, si sono uniti al campo dei populisti abietti, dove c’era già Éric Zemmour e dove io andavo a fare un giro di tanto in tanto». In questa dichiarazione di Michel Houellebecq, durante una conferenza a Buenos Aires nel 2017, si ritrovano i termini del mutato paesaggio intellettuale e politico francese di oggi, nell’anno chiave che porta alle elezioni presidenziali del 2022. Avanzano in Francia, fanno proseliti in Europa, anche in Italia. Hanno un nemico comune: le élite progressiste, gli apostoli del progressismo e della “religione dei diritti umani” che disprezzano e ostacolano il campo formato dal popolo e dagli “spiriti liberi” che parteggiano per il popolo. Predicano la provocazione, l’amore per il politicamente scorretto e soprattutto il culto del proprio status di vittime di élite e media: Eric Zemmour, Alain Finkielkraut, Michel Onfray e Michel Houellebecq sorridono alla politica populista. Mentre Zemmour è sempre stato di estrema destra, la conversione degli altri tre è piuttosto recente. Houellebecq comunica solo con i suoi libri. Profeta moderno per alcuni, islamofobo e misogino per altri, lo scrittore oggi è diventato l’idolo della destra sfrenata e infastidisce l’intellighenzia di sinistra. Nel 2019 il presidente gli ha conferito la Legione d’Onore: «Visceralmente antieuropeo», ha concesso Emmanuel Macron, è impossibile non riconoscere a questo scrittore «romantico perso in un mondo diventato materialista» il merito di aver «reinventato il romanzo francese». Il suo ultimo libro è una raccolta di testi dal titolo “Interventions 2020” edito da Flammarion. Vi spicca l’articolo “Donald Trump è un buon presidente”, pubblicato da Harper’s Magazine nel 2019. Houellebecq sosteneva la diplomazia non convenzionale dell’ex presidente americano, il suo atteggiamento conciliante verso il presidente russo Vladimir Putin, la sua sfiducia nel libero scambio e nella costruzione europea. Allo stesso modo, elogia la libertà di pensiero di Eric Zemmour, definito il «più interessante avatar contemporaneo» dei «cattolici non cristiani» che ammirano la Chiesa senza credere in Dio. Il “libero pensatore” Eric Zemmour è un giornalista politico vicino a Marion Maréchal. Ex deputata, la nipote di Marine Le Pen si è ufficialmente ritirata dalla vita politica: ora si occupa a tempo pieno della scuola di scienze politiche fondata a Lione, dove ama intervenire Zemmour, che ha anche presenziato all’apertura della “convention della destra” da lei organizzata a Parigi nel 2019. In questa occasione, la sua retorica violenta contro l’Islam e l’immigrazione gli è valsa una condanna e una multa di 10.000 euro per insulto e incitamento all’odio. Sanzioni che hanno avuto l’effetto di aumentare la sua popolarità. Il giornalista si è fatto conoscere come ospite fisso del programma “Face à l’info” in onda in access prime time sul canale d’informazione CNews, passato nelle mani del gruppo Bolloré, proprietario di numerose aziende di media e pubblicità. Zemmour potrebbe essere interessato alle elezioni presidenziali del 2022, anche se non ci sono conferme ufficiali da parte sua. Il suo editore Albin Michel ha cessato il contratto con lui in vista delle elezioni. «Abbiamo avuto uno scambio molto franco con Zemmour che aveva confermato la sua intenzione di partecipare alle elezioni presidenziali e di fare del suo prossimo libro un elemento chiave della sua candidatura», ha spiegato Gilles Haéri, capo di Albin Michel. Tra gli intellettuali francesi citati da Houellebecq, c’è Michel Onfray, uno dei filosofi francesi contemporanei più prolifici. Autore di più di cento opere, ha appena pubblicato in Francia “La nave dei folli”, nel quale condanna il delirio dell’Occidente, e “L’arte di essere francese”, in cui denuncia l’inevitabile apocalisse del mondo contemporaneo. «La civiltà sta crollando, i valori vengono rovesciati, la cultura si sta riducendo come una pietra, i libri contano meno degli schermi, le scuole non insegnano più a pensare ma a obbedire al politicamente corretto, e la famiglia esplosa, scomposta e ricomposta è spesso formata da persone egocentriche e narcisiste», tuona la quarta di copertina. Il filosofo lamenta di essere stato marcato a fuoco dai responsabili di questa catastrofe culturale, ovvero le élite europeiste e la «fasciosfera di sinistra» che, lui dice, lo spacciano per «un fascista, un antisemita, un islamofobo, un reazionario». Eppure questo non gli impedisce di continuare ad occupare ampiamente le vetrine delle librerie e gli studi televisivi, dove si destreggia tra una feroce invettiva e l’altra, e le espressioni provocatorie sono la sua principale modalità di esistenza. Per il filosofo le elezioni americane sono state un fallimento, come racconta all’Espresso: «La vittoria di Biden è quella di un uomo più malleabile di Trump: quest’uomo impulsivo e brutale, irascibile e aggressivo, volgare e maleducato, sembrava impossibile da pilotare! Biden è un uomo vecchio, stanco, una vecchia volpe della politica, in secondo piano da quarant’anni, messo in primo piano grazie all’aiuto del suo romanzo di famiglia ben sfruttato. È l’uomo del politicamente corretto, il cliente ideale dei Gafam, mentre l’account di Trump è sospeso dagli stessi capi dei Gafam», dove Gafam è l’acronimo che indica le cinque maggiori multinazionali dell’intelliggenza artificiale: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft. Sul futuro dell’ex presidente americano, Onfray ha una visione chiara: «Trump potrebbe trasformare questo fallimento elettorale in una vittoria politica nazionale. Assumerebbe quindi la guida di un movimento più ampio rispetto alla limitata presidenza degli Stati Uniti». In Europa, invece, il vero nemico è l’Unione Europea, «un club di banchieri che per un quarto di secolo hanno nascosto i loro interessi dietro la propaganda ideologica; per loro l’Europa sarebbe la fine della disoccupazione, la piena occupazione, il senso della Storia, l’amicizia tra i popoli, la fine di tutte le guerre, la fine del razzismo». Per Onfray invece queste conquiste sono fandonie: «Dopo un quarto di secolo questa politica ha generato esattamente il contrario!». Per divulgare queste idee, che lui definisce di tipo «socialista proudhiano», ha fondato la rivista sovranista “Front populaire”, un progetto nato per «costituire un Fronte Popolare in opposizione al Fronte del Populicidio costituito da Macron e dai suoi (la classe politica Maastrichiana di destra e di sinistra) il cui progetto consiste nell’estromettere il popolo dalla politica». L’obiettivo finale del filosofo e dei suoi alleati è chiaro: «Noi vogliamo la sovranità, che è l’arte di riprendere in mano il controllo politico del Paese per realizzare ciò che definisce la democrazia: il governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo. Perché, da questo punto di vista, non siamo più in una democrazia, ma in una aristocrazia del capitalismo». Accanto al “populicidio”, c’è la minaccia dell’Islam, che per Onfray «porta avanti una guerra di civiltà contro la giudeo-cristianità». La difesa della civiltà occidentale dagli attacchi dell’Islam accomuna Onfray, Zemmour, Finkielkraut ed è la provocazione sulla quale si basa il romanzo di Houellebecq “Sottomissione”. Sulla difesa della cultura e dell’Identità della civiltà occidentale, non si sottrae il filosofo Alain Finkelkraut. Recentemente ha confessato le proprie angosce a Vanity Fair: «Siamo entrati in una crisi dalla quale non sono sicuro potremo rimetterci. La Francia si trova di fronte a un’immigrazione incontrollata e sta subendo un mutamento demografico senza precedenti nella nostra storia». Di fronte a questo cambiamento cosa fanno le elite? Sono impegnate in «un’autoflagellazione sistematica e delirante». A dare voce a queste posizioni, una nuova costellazione di media di più o meno recente creazione, orientati a destra ed estrema destra. Tra questi ci sono il canale televisivo CNews, il settimanale Valeurs Actuelles, il magazine L’incorrect, il sito internet Boulevard Voltaire, la rivista Front Populaire, il nuovo media online Livre Noir. L’ultima battaglia è sui vaccini, il grande tema politico di inizio campagna elettorale per le presidenziali. I riferimenti intellettuali degli antivax sono il medico Didier Raoult, noto medico difensore del controverso trattamento per il covid-19 a base di idrossiclorochina, e Zemmour che due settimane ha dichiarato su CNEWS : «Macron ci impedisce di vivere senza vaccinazione, quindi siamo obbligati a vaccinarci. Non ha il coraggio di obbligarci perché aveva detto il contrario». Anche Zemmour si era contraddetto esaltando qualche mese prima la campagna vaccinale di Boris Johnson, ma non importa. Provocazioni e contraddizioni peseranno nella prossima campagna elettorale, le elezioni presidenziali del 2022. 

Emanuela Minucci per "La Stampa" il 18 ottobre 2021. Michel Houellebecq è arrivato a Torino nel tardo pomeriggio di sabato. E, spiazzante come al solito, pur essendo la vera stella supernova di questo Salone del Libro, non ha preteso né suite a 5 stelle né tantomeno un cachet. Una condizione però l'ha posta: «Una camera dove si possa fumare, meglio se con un balcone, altrimenti non prenotate neppure l'aereo». Accontentato. All'hotel vicino alla stazione di Porta Nuova, dove gli abbiamo offerto una birra, si è presentato chiuso nello stesso Barbour da «intellettuale un filo nichilista» (definizione di una lettrice che dichiara di aver letto Serotonina tutto in una notte) che indossava anche ieri, fra i velluti rossi dell'Auditorium del Lingotto. Qui ha ritirato dalle mani del «giudice monocratico» Marco Missiroli, il 47° premio Mondello. Davanti a Elisabetta Sgarbi, l'editrice della Nave di Teseo che pubblica i suoi romanzi, e al direttore del Salone Nicola Lagioia che non esita a definire l'evento «un incontro che dal punto di vista letterario passerà alla storia», l'autore delle Particelle elementari annuncia di avere finito un nuovo libro, senza scendere in troppi dettagli: «Sarà una storia deprimente, mi manca ancora il personaggio femminile ma lo troverò». L'Auditorium è stracolmo e silenzioso come una cattedrale. E qui comincia il dialogo tra Marco Missiroli e il suo ruvidissimo mito letterario: Michel Houllebecq che trova meraviglioso il fatto di essere non solo tradotto in italiano, ma anche nella lingua dei segni.

Chi era Houellebecq prima dell'Estensione del dominio della lotta?

«È lunga da spiegare, sono vecchio. Ho cominciato leggendo poesie in pubblico e poi le ho pubblicate. Ero uno scrittore promettente, non avevo ancora un grande successo e non ero troppo polemico, perché per essere molto polemici bisogna avere un grande successo. Poi è arrivato tutto insieme con Le particelle elementari. Mi sono reso conto che sapevo scrivere romanzi, ma non sarei in grado di scrivere un saggio».

Come si trova un uomo tranquillo come lei alla ribalta del demonio?

«Chi è violento nella scrittura è molto dolce nella vita, perché la scrittura è liberatoria e viceversa. Diffidate di chi scrive cose dolci, è gente pericolosa».

 C'è sempre un principio amoroso alla base dei suoi libri, magari fa un giro più lungo, in questo lei mi ricorda Conrad, nei suoi dissidenti c'è sempre stato un amore tenebroso, nero…

«L'amore nei libri ha lo stesso ruolo che può avere Dio: anche se si può avere dubbi sulla sua esistenza e anche se Cristo si sbagliasse è sempre preferibile stare con Cristo. È tanto tempo che non parlo di Schopenhauer, magari ne approfitto adesso». 

Prego.

«Intanto c'è un suo passaggio che trovo magnifico in cui dice che l'amore esiste, diversamente che per tanti altri filosofi, e in cui prende in giro Kant dicendo che su questo argomento non capisce nulla. Schopenhauer dice anche che l'amore è di origine sessuale e che la sessualità è importante perché serve per avere figli e che la domanda "chi mi succederà" è più importante di tutto il resto». 

Nei suoi libri l'amore è sessuale?

«Questa è una cosa strana. Si dice che c'è tanto sesso nei miei libri, ma è qualcosa che faccio fatica a capire».

Forse perché la sessualità nella sua letteratura è trattata come le relazioni umane e quelle di lavoro. Ciò che noi chiamiamo eros per lei è chimica, biologia, particelle è sociologia.

«Le Particelle è un libro scientifico, in altri libri l'approccio è più sociologico, culturale, e questo irrita molti perché la gente non vuole essere ridotta a una categoria sociologica, preferisce essere ricondotta a qualcosa di chimico. Ma sarebbe un errore». 

È vero che lei scrive a notte fonda?

«Sì, perché di notte il nostro spirito è libero. E poi bisogna approfittare dei sogni che si ricordano e scrivere prima di cominciare a parlare».

Ci spieghi le sue tre cattedrali: supermercati, automobili e l'aeroporto Charles De Gaulle.

«Il supermercato è quanto di più vicino al paradiso abbia costruito l'uomo. Dell'automobile è affascinante il linguaggio. Io amo le auto, Mercedes e Bmw. E l'aeroporto è il simbolo del concentrazionismo. Lì si vende di tutto, ma non c'è nulla che serve».

Quanto l'appassiona la politica?

«Della politica mi interessano le strategie, le alleanze, il non detto, i giochi di guerra. Ma nel retroscena nelle trame politiche i maestri siete voi italiani, con Machiavelli». 

Però nella politica contemporanea sono i francesi ad avere prodotto le più grandi sorprese.

«Le elezioni del 2017 sono state più affascinanti di qualsiasi trama di film». 

E stavolta chi vincerà?

«Al secondo turno vincerà Macron e si batterà contro il candidato della destra e non è detto che sarà Le Pen o Zemmour».

Lei scrive: io mi sento irresponsabile, sempre.

«Irresponsabile nel senso che non mi sento un guru e non cerco discepoli».

Alla fine, suo malgrado, lei è una star della letteratura mondiale. Come ci si sente?

«Non male. Diciamo che è una condizione positiva, necessaria, ma non difficile».

Standing ovation.

Houellebecq racconta "l'autunno delle idee" e incanta con Baudelaire. Alessandro Gnocchi il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. Timido e istrionico, il grande scrittore francese ha recitato le poesie più belle dei "Fiori del male". Il carisma si manifesta sul palco della Milanesiana, a Parma, martedì sera verso le 21 e 30, al Parco della musica, sotto un albero secolare. Lo scrittore francese Michel Houellebecq sale sul palco, si accomoda su una seggiola rossa, ignora il leggio e inizia la sua lectio magistralis su Baudelaire. Pronuncia poche parole (come nel resto della giornata) di introduzione. In Francia, nessuno ha ricordato il bicentenario di Charles Baudelaire. Come mai? «I rapporti tra Baudelaire e la Francia non sono mai stati facili. Nella cultura francese, e in particolare nella letteratura francese, prevale una certa visione restrittiva, nella quale Baudelaire fatica a entrare». Grandi festeggiamenti invece per i quattrocento anni dalla nascita di Jean de La Fontaine. Prosegue Houellebecq: «Montaigne, La Fontaine, Voltaire Esiste una linea. Scettica, ironica, misurata, satirica, leggermente cinica». In seguito, a partire da Victor Hugo, prevale «una specie di ottimismo umanistico» che ci conduce ai nostri giorni. Baudelaire non rientra in queste categorie dello «spirito francese». Il pubblico, a questo punto, si aspetta una conferenza vera e propria. Invece Houellebecq si alza e recita in francese, mentre la traduzione corre sullo schermo alle sue spalle, venticinque minuti di poesie scelte dai Fiori del male. In prevalenza va a braccio, si aiuta appena con gli appunti. Si muove lentissimo da una parte all'altra del palco, ogni tanto si riposa, beve un po' d'acqua, si siede, si alza, riprende. Quando sbaglia (due volte) chiede scusa: «Non sono più abituato». Houellebecq sceglie poesie famose, «non è che lo siano per caso» commenta sornione, che un lettore sensibile alla poesia si porta con sé tutta la vita. Un altro si spezzerebbe le ossa, alle prese con versi scolpiti nella memoria collettiva. Invece, grazie a Houellebecq, è come scoprirli per la prima volta e accorgersi che c'era qualcosa di diverso. L'incipit è subito da knock out. Il nemico: «La mia giovinezza non fu che una oscura tempesta, traversata qua e là da soli risplendenti; tuono e pioggia l'hanno talmente devastata che non rimane nel mio giardino altro che qualche fiore vermiglio. / Ecco, ho toccato ormai l'autunno delle idee». Reversibilità: «Angelo pieno di bellezza, conosci tu le rughe, e la paura d'invecchiare e il tormento orribile di leggere l'orrore segreto della devozione negli occhi ove a lungo bevvero i nostri avidi occhi? Angelo pieno di bellezza, conosci tu le rughe?». Poi gli «ultimi ardori» della Morte degli amanti, la morte come consolazione della Morte dei poveri, gli oppiacei sogni di felicità di Invito al viaggio e Raccoglimento Un pugno in faccia, assestato con somma grazia, ma un pugno in faccia. Baudelaire, e Houellebecq attraverso Baudelaire, dicono parole che raramente si ascoltano volentieri: la senescenza è la nostra condizione; nostra, personale; nostra, della società in cui viviamo. È l'autunno del corpo ma anche delle idee. L'Occidente confonde lo sviluppo col progresso (proprio il «Progresso» è il tema della Milanesiana 2021). Insegue il feticcio della tecnologia ma si è dimenticata l'umano e il divino. Sembra andare sempre più veloce ma è immobile. Georges Bernanos diceva: i vermi che spolpano il cadavere sono convinti di compiere un'opera dalle magnifiche sorti e progressive. Il cadavere? Siamo noi, è la nostra Europa. Le particelle elementari (La nave di Teseo, 1999), il romanzo che ha rivelato al mondo il talento di Houellebecq, finisce con la frase: «Questo libro è dedicato all'uomo». L'ultimo, Serotonina (La nave di Teseo, 2019), si chiude così: «E oggi capisco il punto di vista del Cristo, il suo ripetuto irritarsi di fronte all'insensibilità dei cuori: hanno tutti i segni, e non ne tengono conto. È proprio necessario, per giunta, che dia la mia vita per quei miserabili? È proprio necessario essere così esplicito? Parrebbe di sì». Non c'è da stupirsi che Houellebecq sia un punto di riferimento per chi scommette sull'umano (e sul divino). La lettura è finita. Resta il tempo di una impressione sullo scrittore. Riceve il premio alla memoria dei grandi editori francesi Jean-Claude e Nicky Fasquelle. Imbarazzatissimo. Timidissimo. Silenziosissimo. Stretta di mano vigorosa, però. Giubbotto del tipo parka, camicia blu scura a mezze maniche, pantaloni color kaki scuro. Si colloca al di sotto dell'understatement. La moglie Lysis sembra volerlo proteggere. Alla consegna della Rosa, simbolo della manifestazione, sulle note degli Extraliscio, chiacchiera con Laura Morante, tra gli ospiti della serata, accenna un passo di danza, poi si mette a giocherellare con i bottoni della camicia. Niente di strano. È come te lo aspetti. Del resto, la timidezza e il sentirsi al posto sbagliato sono programmatici. Nella prosa lirica che apre la sua prima raccolta poetica, Restare vivi (1991, ora Bompiani 2016), Houellebecq scrive: «La timidezza non è da disdegnare la timidezza è un eccellente punto di partenza per un poeta». Ancora: «Talvolta, è vero, la vita vi apparirà niente più che un'esperienza fuori luogo. Ma il risentimento dovrà sempre restare vicino, a portata di mano, anche se scegliete di non esprimerlo. E tornate sempre alla fonte, che è la sofferenza». Infine: «Quando susciterete negli altri un misto di pietà spaventata e di disprezzo, saprete di essere sulla buona strada. Potrete cominciare a scrivere». In mezzo alla ritrosia e al pudore, spicca ancora di più, monumentale, la parola poetica che Houellebecq ha portato magistralmente sul palco. Il carisma, vocabolario alla mano, è dono divino e autorevolezza tutta umana. Per un grande scrittore come Houllebecq potremmo definire il carisma in questo modo: lasciare la parola alla parola scritta e dimostrarne la profondità abissale. Alessandro Gnocchi

"Ecco la mia Francia nelle mani dell'Islam" Parla lo scrittore Michel Houellebecq. I musulmani prendono il potere. E opprimono le donne. Lo scrittore più provocatorio d’Oltralpe qui racconta “Sottomissione”, il suo nuovo romanzo. E dice: «Il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono cattivi musulmani». Sylvain Bourmeau su L'Espresso il 07 gennaio 2015. Siamo nel 2022. La Francia ha paura. Il Paese è da tempo in preda a disordini misteriosi. E le elezioni presidenziali hanno un risultato clamoroso: il leader del giovane partito della Fraternità musulmana, Mohammed Ben Abbes, batte nettamente Marine Le Pen al ballottaggio. Dall’oggi al domani la Francia cambia. Le donne indossano lunghe bluse su pantaloni larghi e lasciano in massa il lavoro, le università diventano islamiche: chi non è musulmano è obbligato alla pensione o alla “Sottomissione”. È questo il titolo del nuovo romanzo di Michel Houellebecq, pubblicato in Francia da Flammarion il 7 gennaio tra le polemiche (in Italia esce il 15 per Bompiani). Nel suo sesto romanzo, l’autore di “Le particelle elementari” si mette improvvisamente e atrocemente a somigliare a quegli editorialisti politici di serie B -  Eric Zemmour, Alain Finkielkraut, Renaud Camus... - che nei loro bestseller preelettorali hanno agitato lo spauracchio dell’invasione dell’Islam. E lo fa con quello che si deve decisamente definire un vero suicidio letterario. Perché l’abiezione politica e la debolezza letteraria sono in questo libro strettamente legate. Un romanzo arido e triste, approssimativo, mal documentato, senza dialoghi e senza poesia: “Sottomissione” suona falso da cima a fondo e non è certamente degno di apparire nella bibliografia di quello che rimane comunque uno dei più importanti scrittori contemporanei di lingua francese. Parola mia, cioè del critico che negli ultimi vent’anni ha più spesso intervistato Houellebecq: per questo l’autore aveva deciso di dare a me la prima intervista su “Sottomissione”. Ci siamo incontrati il 19 dicembre nell’ufficio di Flammarion. 

Houellebecq, perché questo libro?

«Per molti motivi, penso. Non amo usare questa parola, ma ho la sensazione che questo sia il mio ‘mestiere’. Ho vissuto a lungo in Irlanda e quando sono tornato in Francia ho riscontrato grandi cambiamenti, cambiamenti che non sono specificatamente francesi, del resto, ma dell’Occidente in generale. In effetti, da espatriati non ci si interessa granché a nulla, né alla società dalla quale si proviene, né a quella nella quale si vive, e in più l’Irlanda costituisce un caso un po’ particolare. Secondo motivo, forse il mio ateismo non ha veramente resistito alla serie di perdite che ho subito. Le ho trovate insopportabili, in realtà». 

Allude alla morte del suo cane e dei suoi genitori?

«Sì, a questo. Sono state molte perdite in un arco di tempo ristretto. Il tutto forse è stato aggravato dal fatto che, contrariamente a ciò che credevo, non ero veramente ateo, ma veramente agnostico. In generale, dire così serve a crearsi un paravento nei confronti dell’ateismo, ma nel mio caso non credo. Riesaminando alla luce di ciò che so la faccenda dell’esistenza di un creatore, di un ordine cosmico, di una cosa del genere, mi sono reso conto che non mi sentivo in grado di rispondere né sì né no». 

Mentre in precedenza aveva la sensazione…

«Avevo la sensazione di essere ateo, proprio così. A questo punto, non so dire di più. Ecco, io credo che siano state queste due motivazioni a indurmi a scrivere, e la seconda probabilmente è stata più forte della prima». 

Come definirebbe questo libro?

«La definizione di ‘fantapolitica’ non è male. Non mi sembra di averne letta molta, ma un po’ sicuramente sì, più nella letteratura inglese che francese”. 

A che cosa si riferisce?

«Ad alcuni libri di Conrad, per esempio, e anche di John Buchan. E poi a libri più recenti, meno belli, più imparentati al thriller. Il thriller può fiorire benissimo in un contesto di fantapolitica, non essendo obbligatoriamente vincolato al mondo degli affari. In verità, c’è un terzo motivo per il quale ho scritto questo libro, ed è che l’inizio mi è piaciuto moltissimo. In pratica, in una volta sola, di getto, ho scritto tutta la prima parte fino alla pagina 26. E l’ho trovata molto convincente… Perché me lo vedo che uno studente possa scegliersi come amico Huysmans  e dedicargli la propria vita. A me una cosa simile non è capitata: ho letto Huysmans molto più tardi, intorno ai 35 anni, credo, ma una cosa del genere mi sarebbe molto piaciuta: la mia stanza non era malaccio, e nemmeno la mensa universitaria era terribile e mi sono immaginato che cosa egli avrebbe potuto voler dire rispetto a tutto ciò. Penso che avrebbe potuto essere un amico vero per me. Insomma, dopo aver scritto la prima parte, per un po’ di tempo non ho scritto altro. Era il gennaio 2013, e ho dovuto riprendere in mano il testo nell’estate di quell’anno. In realtà, il mio progetto originario era molto diverso. Non doveva intitolarsi “Soumission” (Sottomissione). Il primo titolo che gli avevo dato era “La conversion” (La conversione). E inizialmente, nei miei piani, il narratore si convertiva sì, ma al cattolicesimo. Vale a dire che a un secolo di distanza seguiva il medesimo percorso di Huysmans, partendo dal naturalismo e approdando al cattolicesimo. Poi però non ci sono riuscito». 

Perché?

«Perché non funzionava. Secondo me, la scena clou del libro è quella nella quale egli guarda per l’ultima volta la Madonna nera di Rocamadour e si sente investito da una forza spirituale, come una serie di onde, che a un tratto si allontana e lui scende verso il parcheggio. Solo e disperato». 

Definirebbe satirico questo romanzo?

«No. Al massimo, ma solo molto parzialmente, è una satira del giornalismo politico. Della classe politica, forse, un po’ di più. Ma i personaggi principali non sono una satira». 

Come le è venuto in mente di inventare un ballottaggio per le elezioni della presidenza del 2022, con Marine Le Pen in competizione con il presidente di un partito musulmano?

«Beh, per Marine Le Pen mi pare del tutto verosimile nel 2022 – mi sembra verosimile che ci si arrivi già nel 2017… Quanto al partito musulmano, qui siamo al nocciolo della questione. Ho cercato di calarmi nei panni di un musulmano e mi sono reso conto che i musulmani in verità vivono in una situazione del tutto alienata. A livello globale infatti non si interessano molto di questioni economiche, dato che a loro stanno maggiormente a cuore quelli che nella nostra epoca definiamo temi sociali. È evidente che sono molto lontani dalla sinistra, e ancor più dagli ecologisti a proposito di queste tematiche. Basti pensare al matrimonio tra omosessuali per rendersene conto. Del resto, ovunque è così. Per di più, non si capisce proprio per quale motivo dovrebbero votare per la destra, e ancor meno per l’estrema destra che li rifiuta con tutte le sue forze. Che cosa può fare quindi un musulmano che vuole votare? Si trova in una situazione impossibile, perché non è rappresentato. Sarebbe ingannevole affermare che la religione musulmana non ha conseguenze politiche, perché ne ha, proprio come il cattolicesimo del resto, anche se i cattolici sono stati rimessi al loro posto. Di conseguenza, secondo me, l’idea del partito musulmano è plausibile». 

Ma da qui a immaginare che un partito del genere tra sette anni possa trovarsi nella condizione di vincere un’elezione presidenziale…

«Sono d’accordo, questo è poco plausibile. Per due ragioni principali. La prima è la più difficile da concepire: per i musulmani sarebbe necessario riuscire a mettersi d’accordo tra di loro. Sarebbe necessario che trovassero una persona estremamente intelligente e di un talento politico eccezionale, qualità che io ho dato al mio personaggio Ben Abbes. Un talento così superiore, però, è per sua stessa definizione poco probabile. Supponiamo, in ogni caso, che esista: questo partito potrebbe dunque compiere passi avanti, ma servirebbe più tempo. Se si considera il metodo utilizzato dai Fratelli Musulmani, notiamo una rete sul territorio fatta di associazioni di beneficienza, di luoghi di aggregazione culturale, di centri di preghiera, di vacanza, di cura… Un po’ l’equivalente di quello che aveva fatto il Partito Comunista. Sono del parere che in un paese nel quale la miseria dilaga tutto ciò potrebbe effettivamente convincere anche più dei musulmani ‘normali’ – se così posso dire –, perché oltretutto non ci sono soltanto i musulmani ‘normali’, ma anche i convertiti, persone che non sono di origine maghrebina… Un tale processo, in ogni caso, richiederebbe parecchie decine di anni. In realtà, a questo proposito il sensazionalismo mediatico riveste un ruolo negativo. Alludo, per esempio, a come è stata accolta la storia vera della conversione di un tizio che abitava in un piccolo villaggio della Normandia, francese al cento per cento, e che per di più non aveva alle spalle una famiglia disgregata. Beh, si è convertito ed è partito per combattere la jihad in Siria. In effetti, è ragionevole suppore che per uno così ci siano svariate decine di persone che si convertono senza partire per combattere la jihad in Siria. La jihad in Siria non è divertente. In fin dei conti, quindi, fa presa soltanto su individui fortemente motivati dalla violenza. Ovvero, una minoranza». 

Si potrebbe anche dire che ciò che interessa a queste persone più che altro è partire per la Siria, non convertirsi…

«Non credo. Io credo che esista un bisogno reale di Dio, e che il ritorno del sentimento religioso non sia uno slogan, ma una realtà. Anzi, questo processo ha ormai raggiunto una velocità addirittura maggiore». 

Questa ipotesi è fondamentale per il suo romanzo, ma è risaputo che in realtà è smentita da tempo da numerosi studiosi che hanno dimostrato che stiamo assistendo a una fase di graduale laicizzazione dell’Islam, e che violenza ed estremismo devono essere considerate alla stregua di ultimi sussulti. Questa è la tesi di Olivier Roy, di Gilles Kepel e di molti altri che studiano queste questioni da oltre vent’anni.

«Non è quello che ho constatato io. Del resto non è solo l’Islam a giovarsi di questo ritorno della spiritualità: in America del Nord e del Sud sono gli evangelisti a giovarsene. Non si tratta di un fenomeno francese, ma di un fenomeno globale che interessa quasi tutto il mondo. Così accade in Asia, anche se non sono molto informato in proposito, e così accade in Africa, dove questo fenomeno è interessante perché si vanno affermando sempre più due grandi forze religiose: l’evangelismo e l’Islam. In buona parte sono rimasto kantiano e non credo che una società senza religione possa durare». 

Ma perché ha deciso di “drammatizzare” le cose, tenuto conto che proprio lei afferma che è inverosimile che nel 2022 possa essere eletto un presidente musulmano?

«Beh, qui forse è entrata in gioco la parte di me che adora far presa sul grande pubblico con il thriller». 

Non sarai stato invece influenzato in parte da Eric Zemmour?

«Non lo so, non ho letto il suo libro. Che cosa dice, di preciso?» 

Al pari di un certo numero di altre persone, al di là delle naturali differenze, Zemmour delinea un ritratto della Francia contemporanea che mi pare decisamente di fantasia, nel quale una delle caratteristiche fondamentali è la minaccia di un Islam che influisce moltissimo sulla società francese. Drammatizzando questo stesso tema, come ha fatto lei nella sua fiction, si ha l’impressione che lei accetti come punto di partenza la descrizione della Francia contemporanea che riscontriamo oggi nelle opinioni di  intellettuali come Zemmour.

«Non saprei… Conosco soltanto il titolo del suo libro "Il suicidio della Francia", e questa non è l’impressione che ne ho io. A me non sembra di assistere a un suicidio della Francia. Ho la sensazione opposta, invece: l’Europa si sta suicidando mentre, proprio al suo centro, la Francia si batte con tutta sé stessa e perdutamente per sopravvivere. In pratica, è l’unico paese a battersi per la propria sopravvivenza. La Francia non si suicida affatto. Del resto, per gli esseri umani convertirsi è un gesto di speranza, non una minaccia. Aspirano a un modello diverso di società. Anche se, per quanto mi riguarda, non credo che ci si converta per motivazioni sociali. Ci si converte per ragioni più profonde. E anche se su questo punto il mio libro si contraddice un po’, Huysmans è il caso tipico di chi si converte per ragioni puramente estetiche. Le tematiche che agitano Pascal lo lasciano del tutto freddo, non ne parla mai. Faccio quasi fatica a immaginare un esteta a questo punto. Per lui la bellezza, invece, è rivelazione. La bellezza della poesia, della pittura, della musica attesta l’esistenza di Dio». 

Ciò ci riporta alla questione del suicidio, tenuto conto che Baudelaire diceva che gli restava solo la scelta tra il suicidio o la conversione…

«No, è Barbey d’Aurevilly ad aver fatto questa osservazione, del resto proprio dopo aver letto "Controcorrente". Me lo sono riletto tutto, nei dettagli, e alla fine è veramente cristiano. È sbalorditivo». 

Torniamo alla drammatizzazione di cui parlavo: nel libro essa assume per esempio la forma di descrizioni molto scorrevoli e vaghe di avvenimenti che accadono senza che si capisca chiaramente di che cosa si tratta. Siamo nell’ambito delle apparenze? Della politica della paura?

«Forse sì. Sì, un po’ di paura c’è. Io sfrutto il fatto di incutere paura». 

Quindi lei sfrutta coscientemente il fatto di incutere paura parlando di un Islam che conquista la maggioranza nel paese?

«In realtà, non si sa bene di che cosa si ha paura, se delle identità o dei musulmani. Tutto resta nell’ombra». 

Si è chiesto quali conseguenze può avere un romanzo che contiene un’ipotesi simile?

«Nessuna conseguenza. Nessuna». 

Non crede che ciò contribuisca a rafforzare le immagini della Francia che citavo prima, per le quali l’Islam incombe come una spada di Damocle, come la cosa più terrificante?

«In ogni caso, già ora questo è più o meno l’unico argomento di cui si occupano i media, che non potrebbero farlo in misura maggiore. È impossibile parlarne più di quanto già facciano oggi, quindi il mio libro non avrà nessuna conseguenza». 

Questa costatazione non le fa venire voglia di scrivere altro? Di non inserirsi nel flusso del conformismo?

«No, oggettivamente fa parte del mio lavoro parlare di ciò di cui parla la gente. Io vivo nella mia epoca». 

In questo romanzo lei sottolinea che gli intellettuali francesi hanno una propensione particolare a non sentirsi mai responsabili. Ma lei si è posto il problema della sua responsabilità di scrittore?

«Ma io non sono un intellettuale. Non mi schiero, non difendo alcun regime. Respingo ogni responsabilità, rivendico l’irresponsabilità, senza mezzi termini. A eccezione di quando nei miei romanzi parlo di letteratura, nel qual caso mi assumo la responsabilità del critico letterario. In verità, sono le opere di saggistica a cambiare il mondo». 

Non i romanzi?

«Forse sì. Tuttavia, ho l’impressione che quello di Zemmour sia grosso, troppo grosso. Ho la sensazione che il “Capitale” fosse troppo grosso, e a essere letto e ad aver cambiato il mondo sia stato invece il “Manifesto del Partito Comunista”. Rousseau ha cambiato il mondo, sapeva essere convincente al momento giusto. È semplice, se si ha intenzione di cambiare il mondo bisogna dire chiaramente: “Ecco, il mondo è così e questo è quanto va fatto”, senza perdersi in considerazioni romanzesche. Perché non serve a niente». 

Non sarà sicuramente a lei che insegnerò quanto il romanzo sia uno strumento epistemologico… Del resto, questo era il tema centrale del suo libro “La carta e il territorio”. A questo proposito, ho la sensazione che lei si assuma la responsabilità delle categorie descrittive, delle contrapposizioni più discutibili, quelle categorie con le quali funzionano la redazione di “Causeur”, Alain Finkielkraut, Eric Zemmour, sicuramente Renaud Camus. Per esempio, opporre l’antirazzismo e la laicità.

«È innegabile l’esistenza di una contraddizione». 

Io non la percepisco. Al contrario, ci sono persone che spesso sono a uno stesso tempo militanti antirazzisti e ferventi difensori della laicità, e le loro radici risalgono alla filosofia dei Lumi.

«Beh, sulla filosofia dei Lumi possiamo anche tracciare una croce: fine. Vuoi un esempio calzante? La candidata col velo nella lista Besancenot (candidata politica dell’estrema sinistra, NdR) è un vero esempio di contraddizione. Non sono soltanto i musulmani a trovarsi in una situazione di alienazione di questo tipo, in ogni caso: a livello di quelli che di norma si chiamano valori, le persone di estrema destra hanno più cose in comune con i musulmani che con la sinistra. Tra un musulmano e un ateo laico c’è più opposizione innata che tra un musulmano e un cattolico. Mi sembra evidente». 

Ma io non capisco il collegamento col razzismo nel caso specifico…

«Effettivamente, non c’è. Oggettivamente, non c’è. Quando sono stato prosciolto, in occasione del processo che mi hanno intentato una decina di anni fa per razzismo, il procuratore mi ha fatto giustamente notare che la religione musulmana non è appartenenza razziale. Oggi ciò è diventato ancora più evidente. Si è esteso l’ambito del razzismo, quindi, inventando il reato di islamofobia». 

Il termine forse è scelto male, ma esistono forme di stigmatizzazione di gruppi o di categorie di persone che sono forme di razzismo…

«Ah no, l’islamofobia non è razzismo. Se esiste un espediente che ormai è chiaro a tutti è proprio questo». 

L’islamofobia serve da paravento a un razzismo che non è più enunciabile perché punibile a termini di legge.

«Credo che sia completamente sbagliato. Non sono d’accordo». 

Altro abbinamento opinabile al quale lei fai ricorso è la contrapposizione tra antisemitismo e razzismo… Al contrario, si potrebbe osservare quanto nel corso della storia antisemitismo e razzismo siano andati di pari passo.

«Io credo che l’antisemitismo non abbia niente a che vedere col razzismo. Ho impiegato molto tempo a comprendere l’antisemitismo, in realtà. Il primo pensiero è quello di assimilarlo al razzismo, ma che tipo di razzismo è quello per il quale nessuno può dire se l’altro è ebreo o non ebreo, in quanto non lo si ‘vede’? Il razzismo è più elementare di questo, è un colore diverso di pelle…». 

No, perché da molto tempo esistono razzismi culturali…

«Ma in questo caso si utilizzano le parole ben oltre il loro significato. Razzismo è semplicemente detestare qualcuno perché appartiene a un’altra razza, perché non ha il medesimo colore della pelle, la stessa fisionomia. Non si deve dare a questo termine un significato più ampio». 

Tenuto conto però che da un punto di vista strettamente biologico le razze non esistono, per forza di cose il razzismo è culturale.

«Ma ciò vale, a quanto pare, in ogni caso. Chiaramente, vale a partire dal momento in cui col meticciato si crea un incrocio di razze. Su Sylvain! Lo sa bene che razzista è colui che detesta un altro perché ha la pelle nera o perché ha la bocca da arabo. Questo è razzismo!». 

O perché ha usanze o una cultura…

«No, si tratta di un altro problema, mi dispiace!». 

… O perché è poligamo, per esempio…

«Ah, questa poi… Si può essere sconvolti dalla poligamia senza essere neanche un briciolo razzisti. È il caso di molte persone che non sono neanche un briciolo razziste. Ma ritorniamo all’antisemitismo, perché si è trascurato questo punto. Visto e considerato che nessuno ha mai potuto dedurre se una persona è ebrea soltanto dal suo aspetto o dal suo stile di vita, giacché pochi ebrei avevano uno stile di vita ebraico quando si è sviluppato l’antisemitismo, di che cosa si può trattare? Questo non è razzismo. E sufficiente leggere ciò che è stato scritto per rendersi conto che si tratta semplicemente di una teoria del complotto: ci sono alcune persone, nascoste, responsabili di tutti i guai del mondo, che complottano contro di noi, pronte a invaderci… Il mondo va a rotoli ed è colpa degli ebrei, della finanza ebraica… È solo una teoria del complotto». 

In “Sottomissione” non c’è forse una teoria del complotto, l’idea che sia in atto la “grande sostituzione”, come la chiama Renaud Camus, e che i musulmani si impossesseranno del potere?

«Conosco male la tesi della grande sostituzione, ma a quanto pare è una questione alquanto razziale. Ebbene, in questo caso non si parla proprio di immigrazione. Non è questo il tema centrale». 

Non è necessariamente una questione razziale, può essere religiosa. Nel caso specifico, la religione cattolica è sostituita dall’Islam.

«No. È in atto un processo di distruzione della filosofia nata dal secolo dei Lumi, che non ha più senso per nessuno, o lo ha per pochissime persone. Quanto al cattolicesimo, si mantiene in forma piuttosto discreta. Io sostengo effettivamente che un’intesa tra cattolici e musulmani è possibile. Lo abbiamo già visto. E può ripetersi». 

Lei, che è diventato agnostico, vede di buon occhio questa distruzione della filosofia nata dall’Illuminismo?

«Sì. Doveva succedere e tanto vale che succeda adesso. Su questo punto torno a essere kantiano. Eravamo in quella che egli chiamava la fase metafisica, iniziata nel Medio Evo e che aveva come unico scopo la disintegrazione della fase precedente. Di per sé, essa non può produrre nulla, se non il nulla e il dolore. Quindi sì, sono contrario a questa filosofia nata dall’Illuminismo, occorre dirlo chiaramente, senza mezzi termini». 

Perché ha scelto di ambientare il romanzo nel mondo accademico? Proprio perché incarna questo secolo dei Lumi?

«Posso rispondere che non lo so? In fondo credo proprio che questa sia la realtà… In verità, volevo che ci fosse un rapporto molto lungo con Huysmans, e da qui è venuta l’idea di farne un accademico». 

Il fatto di scrivere un romanzo in prima persona è stato immediato?

«O forse è nato dal fatto che era un gioco con Huysmans. È così, fin dalle prime frasi». 

Vi è una dimensione di autoritratto, ancora una volta, in questo personaggio. Non completamente ma… C’è la morte dei genitori, per esempio.

« Sì, utilizzo qualcosa, anche se nei dettagli tutto in verità è diverso. Non si tratta mai di autoritratti, ma sempre di proiezioni. Per esempio, se avessi letto Huysmans da giovane, se avessi fatto studi umanistici e fossi diventato professore universitario... Mi immagino dentro vite che non ho vissuto». 

Lasciando però che alcuni eventi della vita reale si introducano in queste vite fittizie.

«Ricorro a episodi che mi colpiscono nella vita reale, questo sì. Ma ho la tendenza a inserirne sempre di più. In questo caso ciò che resta della realtà è proprio l’elemento astratto ‘morte del padre’, ma in realtà ogni cosa è diversa. Mio padre era molto differente da questo tipo, e la sua morte non è avvenuta così. Di fatto, è la vita a mettermi davanti gli argomenti». 

Scrivendo questo romanzo lei si è calato fino in fondo nei panni di una Cassandra, nel vero senso della parola, dato che nel romanzo fornisce anche una spiegazione precisa di ciò che è una Cassandra…

«Non è possibile etichettare questo libro come un presagio pessimista. In fin dei conti, non è così negativo». 

Non così negativo per gli uomini. Per le donne, invece, è un po’…

«Ah, quello è un altro problema. Ma ritengo che il progetto di ricostituzione dell’Impero romano non sia una stronzata… Ricentrare l’Europa sul sud, potrebbe dare un senso a tutto ciò che per il momento non ne ha. Politicamente, si può parlare di forte accettazione. Non si tratta di una catastrofe». 

Ciò non toglie che il libro è incredibilmente triste.

«Sì, vi è una tristezza molto intensa che lo percorre integralmente sotto sotto. Secondo me l’ambiguità culmina nell’ultima frase: "Non avrei avuto nulla da rimpiangere». In realtà, se ne deduce esattamente il contrario. Ha due cose da rimpiangere: Myriam e la vergine nera. Diciamo che non è andata proprio così. A rendere triste il libro è una specie di clima di rassegnazione». 

Come pensa che si collochi questo romanzo rispetto ai suoi libri precedenti?

«Diciamo che ho fatto ricorso a qualche espediente, come volevo fare da molto tempo e non avevo mai fatto. Per esempio, creare un personaggio molto importante ma che non compare mai, nello specifico Ben Abbes. Penso anche che in questo romanzo ci sia la fine più demoralizzante di un rapporto amoroso che io abbia mai scritto, perché è la più banale: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. C’erano dei sentimenti. In generale, c’è una sensazione di entropia ancora più forte rispetto agli altri miei libri. C’è un lato crepuscolare malinconico che dà a questo libro un accento alquanto triste. Per esempio, se il cattolicesimo non funziona, è perché è già servito, sembra appartenere al passato. L’Islam ha un’immagine in divenire. Perché la nazione non va bene? Perché si è troppo abusato di lei». 

Non vi è più la benché minima traccia di romanticismo, per non parlare della poesia. Si è passati al decadentismo.

«È vero, il fatto di partire da Huysmans ha sicuramente avuto un ruolo in tutto ciò. Huysmans non poteva più tornare al romanticismo, ma poteva ancora convertirsi al cattolicesimo. Il punto più evidente in comune con i miei altri romanzi è l’idea dell’indispensabilità della religione, una religione qualsiasi. Questo concetto è presente in molti miei libri. E anche in questo caso, l’unica differenza è che si tratta di una religione che esiste». 

Fino a questo punto si poteva pensare ancora a una religione nel senso che intendeva Auguste Comte?

«Comte ha cercato invano di crearne una e, in effetti, nei miei libri ho parlato più volte della creazione delle religioni. La differenza è che in questo caso essa esiste sul serio» 

Che posto occupa l’umorismo nel libro?

«C’è qualche personaggio divertente, qua e là. Ho la sensazione che l’umorismo occupi la stessa posizione di sempre. Ci sono personaggi comici come ce ne sono sempre stati». 

Si parla poco di donne… Si attirerà ancora critiche da questo punto di vista.

«Di sicuro, una femminista non potrà che essere depressa da questo libro. Ma non posso farci niente». 

Tuttavia era rimasto scioccato dal fatto che “Estensione del dominio della lotta” potesse essere considerato un libro misogino. Adesso però aggrava la sua posizione…

«Non mi ritengo affatto misogino, in verità. E direi che al limite non è nemmeno la cosa più grave. Dove peggioro veramente la mia posizione è enunciando che il femminismo è demograficamente condannato. Da qui l’idea implicita, e che può non piacere, che infine l’ideologia non abbia un peso rilevante in rapporto alla demografia». 

Non è una provocazione questo libro?

«Io eseguo un’accelerazione della storia, ma no, non posso dire che sia una provocazione, nella misura in cui non dico cose che ritengo essere incredibilmente false soltanto per provocare. In questo libro condenso un’evoluzione a mio avviso verosimile». 

E ha anticipato reazioni alla pubblicazione, scrivendolo o rileggendolo?

«Non faccio mai previsioni, davvero». 

Ci si potrebbe stupire del fatto che lei abbia deciso di andare in questa direzione, quando il romanzo precedente era quello del trionfo e i critici se ne erano rimasti in silenzio.

«La vera risposta è che francamente non ho deciso niente. All’inizio quella che si doveva verificare era una conversione al cattolicesimo». 

Non c’è qualcosa di disperato in questa azione che non è stata veramente decisa?

«La disperazione è l’addio di una civiltà in ogni caso antica. In fondo però il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono dei cattivi musulmani. Evidentemente, come in ogni altro testo religioso, ci sono vari margini di interpretazione, ma leggendolo sinceramente si giunge alla conclusione che la guerra santa di aggressione non è permessa per principio, e che solo la predicazione è valida. Dunque si può dire che ho cambiato un po’ opinione. È per questo che non ho l’impressione di essere nella situazione di dover avere paura. Piuttosto, ho l’impressione che ci si possa mettere d’accordo. Le femministe, loro, non riusciranno a essere veramente sincere. Ma io e parecchia altra gente sì». 

Si possono sostituire le femministe con le donne, no?

«No, non si può sostituire le femministe con le donne. Non si può proprio, no. Anzi, faccio presente che oltre tutto ci sono anche delle conversioni femminili all'Islam». 

Traduzione di Anna Bissanti

Adriano Scianca per “La Verità” il 3 ottobre 2022.

Noto per lo più come romanziere nichilista, Michel Houellebecq è anche un raffinato elzevirista, un freddo analista del tramonto dell'Occidente che sa tagliare le coscienze con editoriali e commenti non meno che con i suoi affreschi narrativi. Alcune di queste incursioni, sparse in un arco di tempo che va dal 1992 al 2020, sono state raccolte nel volume intitolato, in modo volutamente anodino, Interventi, in uscita martedì per La nave di Teseo. 

Vi ritroviamo lo Houellebecq che conosciamo bene: una sorta di Céline più stanco e meno attaccabrighe, più disgustato che incollerito. E, disseminate qua e là, delle vere perle.

Come quando trova la formula più sintetica ed efficace per descrivere le femministe: «Delle amabili stronze» (il testo è del 1998, forse qualcosa nel frattempo è cambiato, soprattutto sul fronte dell'amabilità).

Lo scrittore si diverte a raccontare l'ingenuità di un movimento di protesta che pensava di far dispetto ai maschi propugnando l'amore lesbico, le cui manifestazioni sono notoriamente apprezzate proprio dai più impenitenti dei maschi eterosessuali, oppure ostentando «un incomprensibile appetito verso il mondo professionale e la vita d'impresa; mentre gli uomini, sapendo da tempo che cosa significavano la "libertà" e la "realizzazione" offerte dal lavoro, sogghignavano bonariamente». 

Per Houellebecq, «l'obiettivo delle femministe (entrare in quanto membri "liberi e uguali" nella società maschile, salvo sacrificare, nel farlo, una parte dei valori femminili) a ogni modo è stato raggiunto, quantomeno in Occidente». Ciò che permane, di queste battaglie, ha visibilmente a che fare con altro, non certo con i diritti delle donne.

Paradossalmente, ma non troppo, alla fine il francese dimostra di avere più in simpatia il delirio androfobico e criminogeno dello Scum Manifesto di Valerie Solanas, che non il femminismo più raffinato e che oggi apparirebbe quasi moderato di una Simone de Beauvoir. 

Se la seconda, con la sua tesi per cui «donna non si nasce, si diventa», mostra «soltanto una crassa ignoranza dei dati biologici più elementari», le sparate terroristiche della Solanas sull'uomo come criminale innato sembrano in particolare sintonia con l'antropologia negativa di Houellebecq (che, beninteso, non manca di evidenziare gli aspetti insostenibili di quel vero e proprio manifesto contro il maschio).

Lo scrittore si sorprende quando i commentatori insistono sulla centralità del sesso nella sua opera, centralità che egli nega. Eppure, anche in Interventi, spesso è proprio lì che si va a parare. Ma non è mai un sesso dionisiaco, luminoso. Non è, a ben vedere, neanche un sesso oscuro, perverso. È semplicemente un diversivo dall'inutilità della vita. Peraltro fallace. 

La vita, per Houellebecq, è una festa, sì, ma fallita, noiosa, quasi insopportabile. Uno di quei matrimoni di qualche cugino di quarto grado in cui parte il trenino in mezzo al ristorante. Se Philippe Muray, autore peraltro amato da Houellebecq, aveva già descritto il moderno come l'homo festivus, per l'autore di Annientare questa tendenza alla festa è un tentativo di esorcizzare l'angoscia, peraltro sempre più insostenibile.

«Lo scopo della festa», scrive, «è di farci dimenticare che siamo solitari, miserabili e destinati a morire. In altre parole, di trasformarci in animali. Per cui il primitivo ha un senso della festa molto sviluppato. Una bella fiammata di piante allucinogene, tre tamburelli ed ecco fatto: un niente lo diverte. Invece, l'occidentale medio arriva a un'estasi insufficiente solo alla fine di raves interminabili da cui esce sordo e drogato: non ha affatto il senso della festa. Profondamente consapevole di se stesso, radicalmente estraneo agli altri, terrorizzato dall'idea della morte, è del tutto incapace di accedere a una qualsiasi fusione. Tuttavia, si ostina».

Perché il sesso, allora? Per uscire vivi dall'imbarazzo della festa non riuscita: «In questo genere di circostanze (locali notturni, balli popolari, festini), che non hanno visibilmente nulla di divertente, un'unica soluzione: rimorchiare». Ma non per reale trasporto della libido, quanto per ingannare la noia. Una sessualità simbolica e quasi virtuale, che funziona come elemento d'ordine e di sublimazione, molto più che come sfogo reale. 

Lo sguardo disincantato dello scrittore non ha del resto paura di misurarsi con alcun argomento, per quanto scabroso esso sia. Lo vediamo quindi, con olimpica tranquillità, discettare del più disturbante dei temi, la pedofilia. Houellebecq taglia subito di netto ogni ambiguità, gettando nel cassonetto lo pseudo argomento dei giustificatori: «Le pulsioni sessuali dell'infanzia, in realtà, non esistono; è un'invenzione pura e semplice. In tutti i casi riportati dai media con tanto compiacimento, il bambino è assolutamente e totalmente una vittima».

E tuttavia, non può non aggiungere che «il pedofilo mi pare il capro espiatorio ideale di una società che organizza l'esacerbazione del desiderio senza fornire i mezzi per soddisfarlo». Non si tratta, meglio specificarlo subito, di attribuire le colpe individuali alla società, ma di denunciare la dimensione alienante e innaturale della proliferazione di un desiderio che non potrà comunque mai essere esaudito. Un retrobottega sordido e maleodorante della grande festa perenne.

 Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore.

A Parigi, in un indeterminato ma prossimo futuro, vive François, studioso di Huysmans, che ha scelto di dedicarsi alla carriera universitaria. Perso ormai qualsiasi entusiasmo verso l’insegnamento, la sua vita procede diligente, tranquilla e impermeabile ai grandi drammi della storia, infiammata solo da fugaci avventure con alcune studentesse, che hanno sovente la durata di un corso di studi. Ma qualcosa sta cambiando. La Francia è in piena campagna elettorale, le presidenziali vivono il loro momento cruciale. I tradizionali equilibri mutano. Nuove forze entrano in gioco, spaccano il sistema consolidato e lo fanno crollare. È un’implosione improvvisa ma senza scosse, che cresce e si sviluppa come un incubo che travolge anche François. Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore che, come il protagonista, François, vedrà il mondo intorno a sé, improvvisamente e inesorabilmente, stravolgersi.

La Parigi "sottomessa" di Houellebecq divide i politici francesi. Il romanzo sull'islam fa discutere. Hollande: "Non si deve cedere a paura e angoscia". Le Pen: "E' fiction ma potrebbe diventare realtà", scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Questa sera Michel Houellebecq si difenderà dalle accuse scatenate dalle anticipazioni del suo nuovo romanzo Sottomissione (da domani in Francia, in Italia dal 15 gennaio per Bompiani). Lo farà sul canale televisivo France2, intervistato da David Pujadas. Ma lo scrittore ha già rivendicato il diritto, sulla Paris Review , di trattare temi d'attualità, anche scomodi. Respinte le accuse di razzismo e islamofobia, ha osservato la crisi dei valori dell'Illuminismo, il rifiuto crescente della modernità, il ritorno delle religioni, il suicidio dell'Europa e la lotta dei francesi per restare in vita. Il libro entra in pieno nel dibattito in corso da tempo in Francia sull'identità nazionale e sul corretto rapporto con l'immigrazione, specie quella di matrice religiosa musulmana. In Sottomissione , le elezioni presidenziali del 2022 sono vinte dal candidato del neonato partito musulmano, che batte la destra di Marine Le Pen grazie all'appoggio sia dei socialisti sia dei repubblicani. Parigi accetta di buon grado l'islamizzazione morbida propugnata dal nuovo governo. La Francia, forse l'intera Europa, rinuncia alla libertà avvertita come un inutile fardello, il retaggio di un passato ormai finito. La sfiduciata cultura occidentale non può non cedere di fronte alle forti rivendicazioni identitarie dei musulmani. Il protagonista di Sottomissione , un professore esperto di Joris Karl Huysmans, accetta senza opporsi l'islamizzazione dell'università, e in questo segue a suo modo le orme dell'oggetto dei suoi studi. Huysmans, l'autore di A ritroso , passò infatti dal Naturalismo al Cattolicesimo («lo fece per ragioni estetiche, restando freddo di fronte alle grandi domande di Pascal», precisa Houellebecq nella citata intervista alla Paris Review ). Fantapolitica? Dipende dai punti di vista. Dopo critici, filosofi e opinionisti, sono intervenuti i pesi massimi della politica francese. Il presidente della Repubblica, il socialista François Hollande, ha detto che leggerà Sottomissione non appena possibile. Nel frattempo osserva che la tentazione di denunciare «la decadenza, il declino, di esternare pessimismo e dubitare di se stessi» è una costante di molta letteratura, non solo di questo secolo. «Ciascun autore è libero di esprimere quello in cui crede. Il mio compito, invece, è invitare i francesi a non cedere alla paura, all'angoscia». Perché nel Paese ci sono «forze positive» capaci di porre rimedio alle situazioni incerte e di migliorare le condizioni generali. Del resto, pochi giorni prima di Natale, Hollande aveva dichiarato che gli immigrati servono, e il resto è demagogia. Di parere radicalmente opposto la leader del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, tra i personaggi del romanzo stesso: « Sottomissione è un libro interessante. È fiction ma potrebbe diventare realtà. Il patto pro islam tra socialisti e repubblicani, in opposizione alla nostro destra, si può già osservare a livello comunale o regionale».

Houellebecq, l’ultimo “Charlie Hebdo” dedicato al suo nuovo libro. Il romanziere sotto scorta ora piange l’amico morto. Disse: «Non sento una responsabilità particolare per quello che scrivo. Un romanzo non cambia la storia», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Michel Houellebecq è scoppiato in singhiozzi, ieri, quando ha saputo che tra i morti c’era il suo amico Bernard Maris, economista alla Banca di Francia ed editorialista a “Charlie Hebdo”. Sul numero della rivista uscito poche ore prima della strage, Maris conclude con queste parole quello che sarà l’ultimo articolo della sua vita: «Ancora un romanzo magnifico. Ancora un colpo da maestro». Si riferisce a “Sottomissione”, il libro di Houellebecq che negli stessi momenti cominciava finalmente a essere venduto nelle librerie, dopo settimane di indiscrezioni, distribuzioni illegali su Internet e polemiche che, come solo in Francia può accadere, passano rapidamente dalla letteratura alla politica. È stata una giornata spaventosa per tutti. Michel Houellebecq non ha potuto che viverla in modo ancora più drammatico, per le persone colpite a lui vicine e perché quella, fino alle 11 e 30 era la «sua» giornata, quella dell’uscita del libro più atteso dell’anno, da giorni sulle prime pagine di tutti i giornali. Una giornata preceduta la sera prima da un suo intervento al tg delle 20 sul canale pubblico France 2, in cui lo scrittore di tanti romanzi tra analisi della società e profezia aveva risposto con la consueta flemma alle domande del conduttore David Pujadas. «Non sente di avere una responsabilità particolare, lei che è uno scrittore così importante e seguito?», chiedeva Pujadas. «No - aveva risposto Houellebecq -, forse un saggio può cambiare la storia, non un romanzo». Il giornalista alludeva a una voglia di provocazione - tante volte negata - di Houellebecq, che in “Sottomissione” mette in scena il fantasma più angosciante per la società francese di questi giorni: un Islam trionfante, che ha ragione per vie democratiche di una civiltà giudaico-cristiana ormai estenuata, spossata dall’Illuminismo e dal fardello di libertà che pesa su ogni essere umano. Meglio la sottomissione, allora, suggerisce François, il protagonista del romanzo: delle donne all’uomo (la poligamia viene incoraggiata, più mogli smettono di lavorare e restano a casa ad accudire un unico marito), e di tutta la società a Dio. Anzi, ad Allah. Per questo, Houellebecq è stato accusato di soffiare sul fuoco, di usare la paura per vendere libri. Ma Houellebecq è uno scrittore, di sicuro il più celebre e forse il migliore scrittore francese contemporaneo, non un opinionista né tantomeno un uomo politico. Ha il diritto di descrivere la realtà, e anche di offrirci la sua idea di quel che la realtà potrà diventare tra qualche anno, «esagerando e velocizzando», come dice lui stesso. Da quando in autunno si è saputo che il suo prossimo romanzo avrebbe dipinto questa Francia del 2022 in mano all’Islam, l’Islam per certi versi rassicurante (donne a parte) del nuovo presidente della Repubblica Mohammed Ben Abbes, il dibattito culturale - e politico - francese ha cominciato a incentrarsi su Sottomissione , fino a esserne completamente monopolizzato. L’azione militare dei terroristi è stata talmente efficace da essere probabilmente pianificata da mesi, dicono le fonti di polizia: l’uscita di Sottomissione e l’ultimo numero della rivista non c’entrano nulla. I piani si sovrappongono perché c’è la coincidenza dell’uscita nelle librerie, e perché l’ultimo Charlie Hebdo esibisce in copertina una splendida vignetta firmata Luz, almeno lui per fortuna scampato al massacro, che dipinge Houellebecq con l’eterna sigaretta e un ridicolo cappello con stelle e pianeti. Titolo: «Le predizioni del mago Houellebecq», e lo scrittore che dice «Nel 2015 perdo i denti...» (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e «Nel 2022, faccio il Ramadan!». Nell’ultima pagina di Charlie Hebdo , come sempre, «le copertine alle quali siete scampati»: e riecco Michel Houellebecq in braccio a una Marine Le Pen sognante che canta «Sarai il mio Malraux», disegnato da Cabu, morto nell’attentato; Houellebecq in ginocchio che sniffa una pista di cocaina stesa per strada e il titolo «Houellebecq convertito all’Islam?», disegnato da Coco, alias Corinne Rey, la donna che sotto la minaccia delle armi ha aperto la porta della redazione ai terroristi; infine, ecco un ritratto poco avvenente di Houellebecq, lo strillo «Scandalo!» e il titolo «Allah ha creato Houellebecq a sua immagine!». La firma è di Charb, il direttore, l’uomo che più di tutti gli assassini volevano uccidere. Michel Houellebecq è ovviamente sotto la protezione della polizia, come lo sono le redazioni di tutti i giornali e i locali della casa editrice Flammarion, che ieri sono rimasti chiusi. Nel romanzo, gli islamici prendono il potere vincendo le elezioni grazie a un’alleanza con gli esangui partiti di centrosinistra e di centrodestra. Prima che l’ordine coranico regni sovrano sulla Francia e l’Europa, in base al sogno di Ben Abbes di rifondare un impero romano con l’Islam al posto del Cristianesimo, in Sottomissione (uscirà in Italia il 15 gennaio per Bompiani) ci sono scontri, un timido debutto di guerra civile. E la guerra civile, il caos, sono evocati nelle dichiarazioni di mesi fa di Éric Zemmour, l’opinionista che con il bestseller Le suicide français ha generato furiose polemiche su razzismo e islamofobia, con la sua accusa rivolta ai musulmani di Francia di essere «un popolo nel popolo».

Negli ultimi giorni i migliori intellettuali e scrittori francesi, da Michel Onfray a Emmanuel Carrère, si sono pronunciati sulla polemica Houellebecq. Charlie Hebdo, Michel Houellebecq sospende la promozione di Sottomissione, scrive Angela Iannone. L'attentato di matrice terroristica al settimanale satirico francese coincide con la pubblicazione del romanzo di Michel Houellebecq, "Sottomissione". Michel Houellebecq ha deciso di "sospendere la promozione" del suo libro "Sottomissione" perché "profondamente turbato dalla morte del suo amico Bernard Maris, ucciso nell'attacco terrorista al settimanale Charlie Hebdo, nel quale sono state uccise altre undici persone". Lo ha annunciato il suo agente Francois Samuelson, secondo quanto riportato dai media francesi. Lo scrittore, che è sotto scorta, lascerà Parigi, come ha precisato il suo editore Flammarion. L'attentato terroristico alla redazione di "Charlie Hebdo", il settimanale satirico attaccato da un commando armato stamattina, coincide con due pubblicazioni. La prima è la copertina del settimanale stesso, che aveva proprio oggi come protagonista Michel Houellebecq, lo scrittore francese che nel suo ultimo romanzo "Sottomissione", immagina una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani e lancia un allarme sulla progressiva islamizzazione del Paese. La seconda è proprio la pubblicazione di "Sottomissione", che è in uscita oggi nelle librerie francesi. Charlie Hebdo riportava oggi la caricatura dello scrittore travestito da mago, il cui titolo era "Le previsioni del mago Houellebecq" con lo scrittore francese che dice "Nel 2015 perdo i miei denti" e poi "Nel 2022 faccio il Ramadan". Sottomissione è un romanzo fantapolitico che ipotizza una Francia futura nelle mani dell'integralismo islamico. Un Paese in cui un leader musulmano impone l'islamizzazione forzata a tutti  gli abitanti. Circa 300 pagine con una tiratura di 150mila copie diffuse illegalmente già prima della pubblicazione ufficiale, suscitando non poche polemiche tra l'opinione pubblica francese, che si è divisa commentando il titolo come "sublime" o "irresponsabile". Intervistato dalla radio France-Inter, Houellebecq ha minimizzato lo scandalo, ritenendo che non è sia quello il vero senso del libro e che "la parte del romanzo che fa paura  è piuttosto precedente all'arrivo dei musulmani al potere. (...) Si può dire che quello è terrificante, questo regime". "Nel mio libro -continua - l'Islam non è per nulla radicale, al contrario, è una delle religioni più pacifiche che si possano immaginare. Non penso che il mio libro dipinga un Islam minaccioso".

Charlie Hebdo, Houellebecq e Sottomissione, il libro fatale. La strage nel giorno dell'uscita di Sottomissione, scrive “L’Ansa”. Gli assalitori che hanno sparato e ucciso nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo non hanno scelto un giorno a caso: oggi, 7 gennaio 2015, esce in Francia l'ultimo libro di Michel Houellebecq, Sottomissione (traduzione letterale della parola Islam), che in Italia arriverà il 15 gennaio. Proprio a questo libro del controverso autore di Le particelle elementari, Piattaforma, La possibilità di un'isola, il numero di Charlie Hebdo aveva dedicato un articolo e la copertina con una vignetta che ritrae lo scrittore vestito da mago e il titolo: Le previsioni del mago Houellebecq; le profezie dello scrittore sono: Nel 2015 perderò i denti, nel 2022 farò il ramadan. Perché Sottomissione proprio di questo parla: di una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani, che riescono ad andare al governo grazie ad una (poco) incredibile alleanza con quel resta di centristi e sinistra alleate al musulmano moderato  Mohammed Ben Abbes, leader di Fraternité musulmane, contro lo strapotere di Marine Le Pen.  Non è solo l'ennesimo allarme di Houellebecq contro la progressiva islamizzazione del Paese. Come ha scritto Emmanuelle Carriere, Houellebecq ha il merito di essere l'unico a parlare di un problema che esiste ma che molti intellettuali sembrano ignorare. Non solo: per Carriere quella di Houllebecq è una posizione politicamente e sociologicamente ragionevole. L'Occudente si arrende per così dire dolcemente all'Islam, sfinito da secoli di razionalità e illuminismo eccessivamente responsabilizzanti. Nell'acceso dibattito intellettuale francese sul libro e sullo scrittore, non è l'unica recensione positiva incassata da Houellebecq: un altro intellettuale 'scorretto', Michel Onfray , noto per il suo trattato di ateologia e per le sue posizioni anti-cristiane e favorevole al libertinismo, ha parlato di Europa come Continente morto che volontieri si consegna all'Islam dopo averlo fatto con i mercati. E dunque, per Sottomissione, di uno scenario assolutamente plausibile. Proprio ieri, Houllebecq aveva parlato al canale francese France 2 per rivendicare il suo diritto di trattare temi di attualità e soprattutto di sottolineare la crisi dei valori dell'illuminismo e della modernità.

"Ecco la mia Francia nelle mani dell'Islam". Parla lo scrittore Michel Houellebecq. I musulmani prendono il potere. E opprimono le donne. Lo scrittore più provocatorio d’Oltralpe qui racconta “Sottomissione” il suo nuovo romanzo. E dice: «Il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono cattivi musulmani», scrive Sylvain Bourmeau su “L’Espresso”. Michel Houellebecq, lo scrittore più controverso di Francia, non ama parlare con i giornalisti. Per il lancio del suo nuovo romanzo, “Sottomissione”, ha dato una sola  intervista al critico Sylvain Bourmeau, che in vent'anni lo ha incontrato decine di volte e che, malgrado le critiche sincere che gli riserva anche in questa occasione, si è guadagnato la sua fiducia. “L'Espresso” pubblica in esclusiva per l'Italia il lungo colloquio che parte dalla trama del nuovo romanzo, ancora più provocatorio dei precedenti. Il libro è uscito in Francia proprio nel giorno dell'attentato a Charlie Hebdo (in Italia esce il 15 per Bompiani). E lo scrittore, che dopo aver subito un processo per islamofobia non vive più in Francia ma è a Parigi per il lancio del libro, è stato posto sotto scorta. Al centro di “Sottomissione” c'è una Francia trasformata in uno stato islamico dopo la vittoria alle presidenziali del leader di un partito  musulmano. Un'ipotesi irrealistica? Non secondo Houellebecq, che ipotizza un ballottaggio con la leader della destra xenofoba Marine Le Pen. «Per la Le Pen mi pare del tutto verosimile che arrivi al ballottaggio già alle elezioni del 2017», spiega lo scrittore. «Quanto al partito musulmano, mi sono reso conto che i musulmani vivono in una situazione del tutto alienata. Sono molto lontani dalla sinistra e ancor di più dagli ecologisti. E non si vede perché dovrebbero votare per la destra, che li rifiuta. Quindi l'idea di un partito musulmano mi sembra plausibile». Il nuovo romanzo sfrutta la paura dell'Islam che serpeggia per la Francia, ammette Houellebecq. Che però è convinto che «non si può definire  “Sottomissione” una predizione pessimista». Anche perché, dichiara a sorpresa, «il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono dei cattivi musulmani. La guerra santa di aggressione non è permessa per principio, e  solo la predicazione è valida. Dunque si può dire che ho cambiato un po’ opinione. È per questo che non ho l’impressione di essere nella situazione di dover avere paura. Ho l’impressione che ci si possa mettere d’accordo». 

«La civiltà dell’Europa è sfinita». Onfray promuove Houellebecq. «È un continente morto, oggi in mano ai mercati. Domani forse all’islam», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Il nuovo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione , immagina una Francia del 2022 governata da un presidente musulmano e un nuovo ordine sociale che prevede poligamia e donne che restano a casa a occuparsi di mariti e figli in omaggio a una religione - l’islam - che ha trionfato sulla civiltà dell’Illuminismo. Prima ancora dell’uscita (il 7 gennaio in Francia per Flammarion e il 15 gennaio in Italia per Bompiani) il libro scatena polemiche e discussioni, tra riconoscimento del valore letterario e critiche a una presunta voglia di provocazione. Il «Corriere» ha sollecitato l’opinione di Michel Onfray, uno dei più noti intellettuali francesi, autore di decine di opere tra le quali il celebre Trattato di ateologia e una Controstoria della filosofia (Ponte alle Grazie); un pensatore ateo che ha letto - e amato - il romanzo del momento.

Visto che «Sottomissione» è un romanzo e non un saggio, è possibile separare il valore letterario dal contenuto profetico?

«È un esercizio di stile, una fiction politica ma anche metafisica: un romanzo sull’ignavia delle persone, degli universitari in particolare. Un romanzo molto anarchico di destra. Un libro sulla collaborazione, vecchia passione... francese! Come un universitario specialista di Huysmans può convertirsi all’islam? Ne scopriamo le ragioni poco alla volta: la promozione sociale in seno all’istituzione riccamente finanziata dai Paesi arabi, gli stipendi mirabolanti dei convertiti, la possibilità della poligamia, una ragazza per il sesso, un’altra meno giovane per la cucina, una terza se si vuole, il tutto continuando a bere alcool... Questo libro è meno un romanzo sull’islam che un libro sulla collaborazione, la fiacchezza, il cinismo, l’opportunismo degli uomini...».

La parte più scioccante è forse il destino riservato alle donne. Qual è la sua opinione? È concepibile nella nostra società un’evoluzione simile?

«La nostra epoca è schizofrenica: bracca il minimo peccato contro le donne e, per fare questo, milita per la femminilizzazione dell’ortografia delle funzioni, la parità nelle assemblee, la teoria di genere, il colore dei giocattoli nelle bancarelle di Natale; la nostra epoca prevede che ci si arrabbi se si continua a rifiutare auteure o professeure (femminili di autore e professore ), ma fa dell’islam una religione di pace, di tolleranza e di amore, quando invece il Corano è un libro misogino quanto può esserlo la Bibbia o il Talmud. Se si vuole continuare a essere misogini con la benedizione dei sostenitori del politicamente corretto, l’islam alla Houellebecq è la soluzione!».

In una sua prima intervista alla «Paris Review», Houellebecq decreta la fine dell’Illuminismo e il grande ritorno della religione (l’islam, ma non solo). In quanto pensatore ateo, qual è la sua reazione?

«Credo che abbia ragione. I suoi romanzi colgono quel che fa l’attualità del nostro tempo: il nichilismo consustanziale alla nostra fine di civiltà, la prospettiva millenarista delle biotecnologie, l’arte contemporanea fabbricata dai mercati, le previsioni fantasticate della clonazione, il turismo sessuale di massa, i corpi ridotti a cose, la loro mercificazione, la tirannia democratica, la sessualità fine a se stessa, l’obbligo di un corpo performante, il consumismo sessuale, eccetera. Quindi, utilizzare i progressi incontestabilmente compiuti dall’islam in terra d’Europa per farne una fiction sull’avvenire della Francia è un buon modo per pensare a quel che è già».

Houellebecq descrive una società francese ed europea stanca, affaticata dalla perdita di valori tradizionali. Cosa pensa? L’Europa è condannata, come dicevano i neocon americani?

«Houellebecq continua a dipingere il ritratto di una Francia post-68. E ha ragione di vedervi un esaurimento, meno in rapporto con il breve termine del Maggio 68 che con il lungo periodo della civiltà giudaico-cristiana che crolla. Questa civiltà è nata con la conversione di Costantino all’inizio del IV secolo, il Rinascimento intacca la sua vitalità, la Rivoluzione francese abolisce la teocrazia, il Maggio 68 si accontenta di registrarne lo sfinimento. Siamo in questo stato mentale, fisico, ontologico, storico. Houellebecq è il ritrattista terribile di questo Basso Impero che è diventata l’Europa dei pieni poteri consegnati ai mercati. L’Europa è morta, ecco perché i politici vogliono farla!».

La mia impressione, leggendo il libro, è che si finisca per credere alla profezia. In questo sta l’abilità di scrittore di Houellebecq? O la sua previsione è davvero plausibile?

«È in effetti uno dei talenti di questo libro: il racconto è estremamente filosofico perché è estremamente credibile... Sottomissione rivaleggia con 1984 di Orwell, Fahrenheit 451 di Bradbury, Il mondo nuovo di Huxley. Per me è il migliore libro di Houellebecq, e di gran lunga. La sottomissione di cui diamo prova nei confronti di ciò che ci sottomette è attualmente sbalorditiva. È un altro sintomo del nichilismo nel quale ci troviamo».

Evocando l’islam, Houellebecq agita un fantasma molto presente nella Francia di oggi, come dimostrano i libri di Alain Finkielkraut e Éric Zemmour. È giustificata, questa preoccupazione dell’identità?

«Ricorrere alla parola fantasma è già un modo di prendere una posizione ideologica. Esiste una realtà che non è un fantasma e che coloro che ci governano nascondono: divieto di statistiche etniche sotto pena di farsi trattare da razzisti ancor prima di avere detto alcunché su queste cifre, divieto di rendere note le percentuali di musulmani in carcere sotto pena di farsi trattare da islamofobi al di fuori di qualsiasi interpretazione di queste famose cifre, eccetera. Non appena si nasconde qualcosa, si attira l’attenzione su quel che è nascosto: se non esiste che un fantasma, allora che si diano le cifre, saranno loro a parlare...».

La Morte e la Santificazione.

La Vita.

La Morte e la Santificazione.

Da Il Corriere della Sera.

Da la Repubblica.

Da Avvenire.

Da Il Tempo.

Da Leggo.

Da Notizie.it.

Da L’Espresso.

Da Il Domani.

Da Il Riformista.

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Da L’Inkiesta.

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Da Il Giornale.

Da Libero Quotidiano.

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Da Affari Italiani.

Da TvBlog.

Da 4live.

Da lospecialegiornale.

Da Dagospia.

Da lanuovabq.it.

Da Il Corriere della Sera.

Michela Murgia morta, i messaggi di cordoglio. Meloni: «Combatteva per le sue idee, diverse dalle mie». Saviano: «Ma l’amor mio non muore». Paolo Foschi e Redazione Online su Il Corriere della Sera venerdì 11 agosto 2023.

Tantissime le testimonianze di affetto e i messaggi per salutare la scrittrice. I funerali domani (sabato 12 agosto) a Roma alla Chiesa degli Artisti 

La scrittrice Michela Murgia è morta nella serata del 10 agosto. Aveva 51 anni e a maggio aveva rivelato la malattia: un carcinoma ai reni al quarto stadio, incurabile. 

• L’ultima intervista al Corriere: «Ho un tumore al quarto stadio, spero di morire quando Meloni non sarà più premier».

• Si è sposata con rito civile: «Entro ed esco dall’ospedale, non diamo più niente per scontato».

• Il ricordo di Teresa Ciabatti. Era giovinezza il tempo che abbiamo vissuto.

• Il ricordo di Cazzullo: «Quando Murgia mi disse che stava morendo. Un dialogo duro, ci siamo commossi».

• Il funerale alla Chiesa degli Artisti di Roma sabato 12 agosto alle 15.30

• Meloni: «Era una donna che combatteva per difendere le sue idee»

Michela Murgia morta, i messaggi di cordoglio. Saviano: «Ma l’amor mio non muore». Paolo Foschi su Il Corriere della Sera l'11 Agosto 2023

Tantissime le testimonianze di affetto e i messaggi per salutare la scrittrice

La scrittrice Michela Murgia è morta nella serata del 10 agosto. Aveva 51 anni e a maggio aveva rivelato la malattia: un carcinoma ai reni al quarto stadio, incurabile.

Ore 00:22 - Laura Boldrini: «Le saremo sempre grati

«Michela Murgia ci ha lasciato. Sapevamo che questo momento sarebbe arrivato presto, perché lei stessa ci aveva informato del suo stato di salute, senza nascondere niente. Ciò nonostante, sentiamo già un grande vuoto perché Michela Murgia è stata una donna unica nel panorama italiano: una scrittrice, un’intellettuale, un’artista, una voce libera, una femminista con un occhio dissacrante verso le convenzioni e le ipocrisie. Una persona interessante che amava le provocazioni e la sfida a viso aperto». A dirlo sui social è Laura Boldrini. «Ha vissuto a modo proprio, Michela, con la sua famiglia queer, circondata da affetto. Con le scelte radicali della sua vita e anche con la sua morte, ha dimostrato intelligenza e impegno politico. Di questo e di molto altro le saremo sempre grati», conclude la deputata Pd.

Ore 00:32 - Roberto Saviano: «Ma l’amor mio non muore»

«Ma l’amor mio non muore»: con queste parole Roberto Saviano, citando il titolo del film del 1913 di Mario Cesarini, ha ricordato sui social Michela Murgia, postando una foto della scrittrice sorridente.

Ore 00:40 - Matteo Salvini: «Una preghiera»

«Una preghiera»: è questo invece il tweet di Matteo Salvini, che in passato ha spesso avuto vivaci scontri versabili sui social (e non solo) con Michela Murgia.

 Ore 00:50 - Geppi Cucciari: «Quel tuo ultimo sorriso lo porterò sempre con me»

«Quel tuo ultimo sorriso, donna luminosa, lo porterò sempre con me. #michelamurgia» ha scritto Geppi Cucciari.

 Ore 00:52 - Carlo Calenda: «Perdiamo una voce potente nel dibattito pubblico»

«Perdiamo una voce potente nel dibattito pubblico, creativa nella scrittura e una persona libera e coraggiosa. Riposa in pace Michela Murgia»: così Carlo Calenda, leader di Azione, su Twitter.

Ore 00:55 - Alessandro Zan: «Lotteremo insieme sempre e vinceremo noi»

«Lotteremo insieme sempre, perché ci sarai sempre e vinceremo noi»: è il deputato Pd Alessandro Zan a ricordare così, su Twitter, Michela Murgia.

Ore 01:01 - Alessandra Todde: «Ci lascia una grande donna, una grande Sarda»

«Grande l'emozione leggendo l'intervista in cui parlavi del cancro, della cura, di fede, sogni, amore, di famiglia, di passato, presente e futuro. Ci lascia una grande donna, una grande Sarda. Grazie per tutto ciò che hai voluto condividere. Michela, che la terra ti sia lieve» ha scritto su Twitter la vicepresidente del M5S Alessandra Todde.

Ore 01:04 - Maurizio Lupi: «Ci mancherà...»

«Molte cose ci dividevano da Michela Murgia, ma ora è il momento del dolore per la sua scomparsa e del rispetto per una donna che ha reso la sua malattia un incitamento alla pienezza della vita. Le sue argute provocazioni, anche al mondo cattolico, hanno saputo stimolare riflessioni politiche e sociali profonde. La diversità di pensiero è una ricchezza e riteniamo che persone come Michela Murgia abbiano contribuito ad elevare il livello del nostro dibattito pubblico. Ci mancherà». Lo afferma il capo politico di Noi Moderati, Maurizio Lupi.

Ore 01:10 - Gianfranco Rotondi: «Contraddirsi per ritrovarsi, nel rispetto e nel dolore»

«Addio a Michela Murgia, ci ha contraddetto finché ha potuto perché la vita è questa: contraddirsi per ritrovarsi, come ora, nel rispetto e nel dolore»: così Gianfranco Rotondi, presidente di `Verde è popolare´ e deputato iscritto al gruppo di Fratelli d'Italia.

Ore 01:13 - Nichi Vendola: «Ciao Michela, piango per te che voli via e per noi che restiamo»

« Addio Michela. L’avevi annunciato al mondo che la fine era incombente. Eppure è così difficile pensarti immersa nel silenzio, per ora e per sempre, tu che eri una sacerdotessa della parola. Cara Michela, piango per te che voli via e per noi che restiamo»: questo lo struggente ricordo di Nichi Vendola.

Addio Michela.

L’avevi annunciato al mondo che la fine era incombente. Eppure è così difficile pensarti immersa nel silenzio, per ora e per sempre, tu che eri una sacerdotessa della parola. Cara Michela, piango per te che voli via e per noi che restiamo.

Ore 01:15 - Mauro Berruto: «Grazie per tutto, grazie per sempre»

« Grazie per tutto, grazie per sempre. E almeno per una sera, una sera, rispetto e silenzio»: così su Twitter Mauro Berruto, ex ct della nazionale di volley e deputato del Pd.

Ore 01:17 - Daniela Santanché: «La pensavamo in modo diverso, spero tu possa ora trovare la pace»

«Buon viaggio Michela, la pensavamo in modo diverso, ma spero tu possa ora trovare la pace»: così Daniela Santanché ha ricordato Michela Murgia sui social.

Ore 01:19 - Nicola Fratoianni: «Ti ho voluto bene. Grazie di tutto»

«Ciao Michela. Ti ho voluto bene. Grazie di tutto. Che la terra ti sia lieve»: queste le parole di Nicola Fratoianni, di Sinistra Italiana.

Ore 01:21 - Anpi: «Bella, Ciao»

«Bella, Ciao»: due sole - ma particolarmente significative ed evocative - le parole scelte dall'Anpi, l'Associazione dei partigiani, per ricordare sui social Michela Murgia.

Ore 01:39 - Luciana Littizzetto: «Non so come faremo a stare senza di te...»

«Non so come faremo a stare senza di te. Ci hai insegnato come vivere e anche come morire»: così Luciana Littizzetto ha reso omaggio a Michela Murgia.

Ore 03:19 - Paolo Borrometi: «Nella notte delle stelle, va via una stella»

« Nella notte delle stelle, va via una stella. Libera fino all’ultimo: addio Michela»: questo il tweet del giornalista Paolo Borrometi.

Ore 06:28 - Dino Giarrusso: «Ciao Michela, grazie di tutto»

« Ciao Michela, grazie di tutto» il saluto dell’europarlamentare Dino Giarrusso.

Ore 06:41 - Vladimir Luxuria: «Ci mancherà il tuo pensiero lucido e mai banale»

«Ci eravamo messaggiate da poco e non potevo immaginare che tutto precipitasse così velocemente: un grande dolore e una immensa e troppo precoce perdita. Ci mancherà il tuo pensiero lucido e mai banale»: queste le parole di Vladimir Luxuria.

Ore 06:29 - Corrado Formigli: «La tua battaglia per i diritti non muore»

«Ci mancherai enormemente. Ma la tua battaglia per i diritti non muore» ha scritto su Twitter il giornalista Corrado Formigli.

Ore 06:31 - Ambasciata di Francia: «Profondo cordoglio, grande scrittrice»

«Profondo cordoglio per la scomparsa di Michela #Murgia, grande scrittrice, così amata in Francia dove era stata insignita Chevalier des Arts et des Lettres. Tutti i nostri pensieri alla sua famiglia e ai suoi cari»: questo il messaggio su Twitter dal profilo dell’Ambasciata di Francia a Roma.

Ore 06:43 - Rete Antifascista: «Addio Michela, non ti dimenticheremo mai»

«Siamo veramente tristi, Michela Murgia ci ha lasciati. Ha combattuto fino alla fine contro il male che la stava uccidendo, ma purtroppo ora è partita per l’ultimo viaggio. Addio Michela, non ti dimenticheremo mai»: questo il saluto della Rete Italiana Antifascista .

Ore 06:48 - Simona Ventura: «Buon viaggio a una donna speciale, padrona delle sue idee»

«Buon viaggio a una donna speciale, padrona delle sue idee»: è il tweet di Simona Ventura.

Ore 07:33 - Noury: «Corrosiva perché sapeva intaccare i poteri

«Le persone come Michela Murgia sono corrosive. Perché, appunto, corrodono, intaccano i poteri, non ne sono comode stampelle. Indicano una direzione, un cammino da intraprendere. Raccontano di diritti e di libertà». Così il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury ricorda la scrittrice sarda.

Ore 08:12 - Lupi: «Ha saputo stimolare riflessioni politiche e sociali profonde»

«Molte cose ci dividevano da Michela Murgia, ma ora è il momento del dolore per la sua scomparsa e del rispetto per una donna che ha reso la sua malattia un incitamento alla pienezza della vita. Le sue argute provocazioni, anche al mondo cattolico, hanno saputo stimolare riflessioni politiche e sociali profonde». A dirlo è il capo politico di Noi Moderati, Maurizio Lupi. «La diversità di pensiero è una ricchezza e riteniamo che persone come Michela Murgia abbiano contribuito ad elevare il livello del nostro dibattito pubblico. Ci mancherà», aggiunge.

Ore 08:49 - Calenda: «Perdiamo una voce potente del dibattito pubblico»

«Perdiamo una voce potente nel dibattito pubblico, creativa nella scrittura e una persona libera e coraggiosa. Riposa in pace Michela Murgia». Così, il segretario di Azione, Carlo Calenda.

Perdiamo una voce potente nel dibattito pubblico, creativa nella scrittura e una persona libera e coraggiosa. Riposa in pace Michela Murgia.

Ore 09:14 - Boldrini: «Una persona che amava le provocazioni e la sfida a viso aperto»

«Sentiamo già un grande vuoto perché Michela Murgia è stata una donna unica nel panorama italiano: una scrittrice, un’intellettuale, un’artista, una voce libera, una femminista con un occhio dissacrante verso le convenzioni e le ipocrisie. Una persona interessante che amava le provocazioni e la sfida a viso aperto». Così su Twitter la deputata Laura Boldrini.

Michela Murgia ci ha lasciato.

 Sapevamo che questo momento sarebbe arrivato presto, perché lei stessa ci aveva informato del suo stato di salute, senza nascondere niente. Ciò nonostante, sentiamo già un grande vuoto perché Michela Murgia è stata una donna unica nel panorama?

Ore 09:23 - L'amica e scrittrice Tagliaferri: «Si alza il vento, bisogna tentare di vivere»

«Con Michela», scrive su Facebook la scrittrice Chiara Tagliaferri, in un post dedicato alla collega e amica scomparsa.

Ore 09:29 - Valeria Parrella cita in un tweet l'Accabadora di Murgia

«Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell'anima». Così, con una citazione di uno dei libri più noti di Murgia, la giornalista e scrittrice Valeria Parrella ha ricordato su Twitter la sua collega.

"Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell'anima" 

Ore 09:52 - Moretti: «Murgia è stata una leonessa, di grande ispirazione per tutte»

«Ci lascia Michela Murgia. Di lei rimarranno forti le idee, le battaglie e gli ideali. Continueremo a portare avanti il suo pensiero cercando di avere quella forza da leonessa che mi ha sempre ispirata. Grazie per quello che sei stata». Così sui social l'eurodeputata del Pd Alessandra Moretti.

Ci lascia #MichelaMurgia. Di lei rimarranno forti le idee, le battaglie e gli ideali. Continueremo a portare avanti il suo pensiero cercando di avere quella forza da leonessa che mi ha sempre ispirata. Grazie per quello che sei stata. 

Ore 09:57 - Michele Pais: «Una grande perdita per la Sardegna»

Il Consiglio regionale della Sardegna esprime profondo cordoglio per la scomparsa della scrittrice Michela Murgia. «E' una grande perdita per la nostra terra», ha affermato il presidente Michele Pais. «La sua vivacità intellettuale ha arricchito la democrazia».

Ore 10:05 - Calderoli: «Da lei un messaggio importante per tutti i malati»

Roberto Calderoli si dice addolorato per la prematura scomparsa della scrittrice Michela Murgia. «Ho tifato per lei, come ho tifato negli scorsi mesi per Mihajlovic, per Vialli, per amici come Frattini o Maroni o per tanti altri che non sono noti all'opinione pubblica», dice il ministro leghista, che aggiunge: «Michela Murgia ha mandato fino all'ultimo un messaggio importante per tutti i malati, quello di continuare a vivere, a lavorare, anche a polemizzare nel suo caso, anche in uno stato sempre più avanzato della malattia».

Ore 10:12 - Giuseppe Conte: «Una voce libera fino alla fine»

«Michela Murgia è stata una voce libera fino alla fine, un esempio di coraggio anche nella malattia. Il nostro cordoglio a tutti coloro che l'hanno amata». Così, sui social, il leader M5s, Giuseppe Conte.

Michela Murgia è stata una voce libera fino alla fine, un esempio di coraggio anche nella malattia. Il nostro cordoglio a tutti coloro che l’hanno amata. Ore 10:35 - Gad Lerner: «Una spericolata rivoluzionaria»

«Era una formidabile, talentuosa, spericolata rivoluzionaria contemporanea, #MichelaMurgia. Mi proibisco l'esibizione dei ricordi personali e piango insieme a voi questa donna sarda che ci ha lasciati con il sorriso sulle labbra». Così Gad Lerner commenta su Twitter la scomparsa della scrittrice Michela Murgia.

Era una formidabile, talentuosa, spericolata rivoluzionaria contemporanea, #MichelaMurgia.

Mi proibisco l'esibizione dei ricordi personali e piango insieme a voi questa donna sarda che ci ha lasciati con il sorriso sulle labbra pic.twitter.com/6pumiSyMdH

Ore 10:16 - Nicola Lagioia: «Ciao Michela»

«Molto veloce, in un paese lentissimo. Ciao Michela». È il messaggio che Nicola Lagioia, scrittore, ex direttore del Salone del Libro di Torino, ha lasciato su twitter in merito a Michela Murgia.

Ore 10:35 - Marina Berlusconi: «Michela Murgia, una donna coraggiosa e coerente»

«Non è necessario condividere le idee di Michela Murgia per considerarla una donna coraggiosa, appassionata, coerente oltre che un'autrice originale e di grande talento. La sua scomparsa, anche se purtroppo annunciata, mi colpisce profondamente». Lo afferma Marina Berlusconi, presidente del gruppo Mondadori, con il quale la scrittrice sarda ha pubblicato le sue opere.

Molto veloce, in un paese lentissimo.

Ore 10:40 - Chiara Tagliaferri: «Con Michela»

«Si alza il vento, bisogna tentare di vivere». Con questa frase postata sul proprio account Instagram, Chiara Tagliaferri, che con Michela Murgia è autrice dei libri e del podcast Morgana, ha reso omaggio alla scrittrice scomparsa ieri all'età di 51 anni. «Con Michela» ha poi aggiunto Tagliaferri nel post.

Ore 10:37 - Il saluto del marito Lorenzo Terenzi e dei "figli dell'anima": «Ora andremo in cerca di nuovi orizzonti»

(Redazione Online) (...) La scrittrice, con Terenzi e i suoi «figli dell'anima», ha raccontato sui social i momenti privati, celebrando la sua famiglia queer ma anche continuando le sue battaglie da attivista per i diritti. Le nozze suggellate nel giardino della nuova casa romana di Murgia, condivisa dalla scrittrice sui suoi profili social.

Murgia aveva spesso raccontato che della sua cerchia familiare facevano parte anche i suoi quattro «figli dell'anima», ragazzi che ha accompagnato nel loro percorso verso l’età adulta. Raphael Luis, Francesco Leone, Michele Anghileri e Alessandro Giammei hanno scritto. (...)

Ore 10:43 - Affidati a Cathy La Torre il testamento e la lettera con le ultime volontà

L'avvocata bolognese Cathy La Torre è la curatrice del testamento di Michela Murgia. La Torre, impegnata al momento nell'organizzazione del funerale, era amica intima della scrittrice ed era stata scelta da Michela Murgia per far parte di quella che ha definito la sua «famiglia queer». La Torre è da diversi anni fortemente impegnata sul fronte delle discriminazioni basate sull'orientamento sessuale e l'identità di genere, oltre che sulla tutela dei diritti della comunità Lgbtqia+

Ore 10:46 - I funerali domani alla Chiesa degli Artisti a Roma

Il funerale di Michela Murgia sarà alla Basilica di Santa Maria in Montesanto, la Chiesa degli Artisti, alle 15.30 di sabato 12 agosto. Lo si apprende dalla famiglia della scrittrice.

Ore 10:47 - Meloni: «Combatteva per le sue idee diverse dalle mie»

«Voglio esprimere sincere condoglianze alla famiglia e agli amici della scrittrice Michela Murgia. Era una donna che combatteva per difendere le sue idee, seppur notoriamente diverse dalle mie, e di questo ho grande rispetto», così la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sulla scomparsa della scrittrice.

Ore 10:54 - Luana Zanella: «Ha sorriso anche alla morte»

«Ha sorriso anche alla morte e se ne è andata come una regina, con dignità, coerenza e creatività». Così Luana Zanella, presidente di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera, nel suo «addio a Michela Murgia a nome delle deputate e dei deputati di AVS».

Ore 10:59 - La Russa: «Ha affrontato la malattia con determinazione e coraggio»

«Si è spenta Michela Murgia che con determinazione, coraggio e il sorriso ha affrontato le paure e le sofferenze di una malattia terribile. Ai suoi cari giungano le mie sincere condoglianze». Così il presidente del Senato, Ignazio La Russa.

Ore 11:07 - Landini: «Ci ha ispirato con il suo coraggio nella difesa dei diritti fondamentali»

«Le donne e gli uomini della Cgil piangono la scomparsa di Michela Murgia. Con la morte di Michela è venuta a mancare una delle voci più belle del nostro Paese. Non solo grande scrittrice, ma donna che ha ispirato col suo coraggio tante e tanti di noi nel nostro impegno a difesa dei diritti fondamentali e nella lotta per trasformare la società». Lo afferma il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini. «La sua idea di libertà che ha manifestato fino agli ultimi giorni ribellandosi ad ogni ingiustizia, compreso il negare l'acqua ai migranti a Ventimiglia, continuerà essere da insegnamento per noi e per le future generazioni», conclude Landini.

Ore 11:14 - Sangiuliano: «Si è battuta per le sue idee»

«Michela Murgia si è battuta per le sue idee e lo ha fatto attraverso la parola e la scrittura. Condoglianze ai suoi cari». Lo scrive su Twitter il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano.

Michela Murgia si è battuta per le sue idee e lo ha fatto attraverso la parola e la scrittura. Condoglianze ai suoi cari.

Ore 11:28 - Chiara Valerio: «Ciao Murgi»

«Ciao Murgi». Così Chiara Valerio, scrittrice, curatrice editoriale, direttrice artistica e conduttrice radiofonica, nel ricordare su Twitter Michela Murgia, scomparsa ieri allì'età di 51 anni. Postando una foto che ritrae l'artista sarda sorridente e la scritta "La zarina di tutte le Russie".

La zarina di tutte le Russie a Lo Scoglio di Scauri.

Ore 11:36 - Cathy La Torre: «Porteremo avanti la sua battaglia»

«Con Michela abbiamo lavorato mesi per una battaglia che è quanto mai urgente: tutelare ogni tipo di famiglia o relazione non tradizionale. Quella che noi chiamiamo "famiglia queer" e che lo Stato non riconosce in alcun modo». Così all'Agi, l'avvocata bolognese Cathy La Torre, amica intima di Michela Murgia, la scrittrice appena scomparsa. La Torre era stata scelta da Michela Murgia per far parte di quella che l'intellettuale aveva definito la sua «famiglia queer».

«La sua volontà - prosegue La Torre - era politica perché su questo tema si scuotessero le coscienze della politica. Quello che posso affermare con certezza è che si sono scosse milioni di coscienze e che noi continueremo a portare avanti, ognuno con le proprie capacità, il suo lascito». «La mia capacità - conclude - è e sarà il diritto, il diritto a scegliere con chi passare gli ultimi giorni della propria vita e come tutelare i legami non strettamente tradizionali. Questo abbiamo provato a fare, vivere la nostra queerness e renderla una realtà anche innanzi allo Stato e alle leggi».

Ore 11:49 - Vinicio Capossela: «Solo chi non ha paura della fine riesce a vivere la vita con pienezza»

«Nella notte delle stelle cadenti e dei desideri espressi in segreto, apprendere della morte di Michela Murgia che i desideri ha sempre avuto il coraggio di guardarli in faccia senza annacquarli con la paura». Scrive su Facebook il cantautore Vinicio Capossela, nel ricordare la scrittrice Michela Murgia.

«Il cuore ritorna al suo magnifico discorso sul sapere dare una fine alle cose pronunciato al banchetto funebre di Trenodia, in cui ci ricordò che solo chi non ha paura della fine riesce a vivere con pienezza la vita. E poi una interminabile chiacchierata fino all'alba in un hotel di Cabras in cui aveva lavorato come portiera di notte nel 2005. E tutte le lezioni di disciplina della libertà che ci ha impartito in questi anni con l'esempio, fino alla fine. Nonostante questa scia luminosa, il cielo è inevitabilmente più nero stanotte. Michela Murgia ricorda a tutti noi quel che abbiamo mancato in viltà, ipocrisia e menzogna», ha concluso.

Ore 11:56 - Vendola: «Sei stata ispirazione radicale»

(di Rosanna Scardi) Nichi Vendola ricorda Michela Murgia, la scrittrice sarda scomparsa il 10 agosto, tre mesi dopo aver svelato in un’intervista ad Aldo Cazzullo di essere affetta da un carcinoma ai reni al quarto stadio. «L’avevi annunciato al mondo che la fine era incombente — scrive Vendola in un lungo post sulle sue pagine social — . A me lo avevi detto passeggiando per Trastevere, in un pomeriggio in cui ci siamo fatti mille confidenze. L’avevi detto che andavi via da questo mondo. Eppure è così difficile pensarti immersa nel silenzio, per ora e per sempre, tu che eri una sacerdotessa della parola. Ed è così triste concepire la tua morte, cioè l’assenza del tuo corpo e dei tuoi occhi, la perdita della tua voce, dei tuoi pensieri e delle tue invenzioni: perché tu hai riempito di bellezza e di intelligenza la tua e la nostra vita». (...)

Ore 12:21 - Lorenzo Fontana: «Ha affrontato la malattia con coraggio»

«La scrittrice Michela Murgia ha affrontato la malattia con dignità e coraggio. Giungano ai suoi familiari le mie condoglianze». Così in una nota il presidente della Camera, Lorenzo Fontana.

Ore 12:22 - Michela Murgia, il testamento: «Il guardaroba va a Chiara Tagliaferri, gioielli e bigiotteria a Patrizia»

(di Federica Nannetti) (...) Del suo testamento ha parlato nell’intervista rilasciata il giugno scorso al direttore di Vanity Fair, Simone Marchetti, un testamento redatto appunto insieme a Cathy La Torre e alla presenza di Claudia, mamma di uno dei suoi figli dell’anima, Raphael, proprio per «decidere insieme anche le cose dei ragazzi», ha dichiarato allora Murgia. Divertente per le cose affettive, si diceva, delle quali si sono occupati dopo aver «risolto la questione immobili – ha detto la scrittrice – che nel nostro caso era facile, perché non siamo dei palazzinari». «Tutto il mio armadio va in capo a Chiara Tagliaferri, che lo distribuirà a seconda delle sue scelte – ha poi continuato Murgia –. Patrizia avrà il patrimonio di gioielli e bigiotteria». (...)

Ore 12:32 - Saviano: «Michela ha immaginato il suo funerale come un atto politico»

Roberto Saviano su Instagram: «Michela ha immaginato il suo funerale come atto politico, un incontro di tutti coloro che l'hanno letta, le hanno voluto bene, sostenuta. Una celebrazione della strada percorsa insieme. Per questo invito coloro che hanno condiviso il sentire di Michela a venire domani 12 agosto alla Basilica di Santa Maria in Montesanto alle ore 15.30. Questo funerale non ha nulla di privato, per tutti è stato il suo scrivere, per tutti è stato il suo dire, per tutti il suo lottare e per tutti sarà questo saluto».

Ore 12:39 - Vittorio Feltri: «Sapevo fosse malata, ma non pensavo fosse tanto grave»

«Sapevo che la Murgia fosse malata, ma non credevo fosse tanto grave. La sua morte mi addolora», così Vittorio Feltri, direttore di Libero, su Twitter.

Sapevo che la Murgia fosse malata, ma non credevo fosse tanto grave. La sua morte mi addolora.

Ore 12:47 - Barbara Alberti: «Morta l'unica possibile leader della sinistra»

«È morta l'unica vera possibile leader della sinistra». È lapidario il giudizio di Barbara Alberti, scrittrice, giornalista e sceneggiatrice, ricordando Michela Murgia, scomparsa ieri a 51 anni. «E aggiungo - spiega all'Agi - Michela è morta "vivissima" e lo sarà sempre. Ha dato battaglia su tutto, ha pensato al dopo di lei senza egoismo, come ha fatto con il suo matrimonio. La sinistra, per me, ha perso l'unico vero leader possibile. Aveva un magnetismo unico con il pubblico, formidabile. Ed è per questo che è stata perseguitata da leader politici in modo orrendo». Michela Murgia, sottolinea Barbara Alberti, «ha fatto capire che la politica la fanno anche gli intellettuali. A suo modo, ha avuto una funzione politica».

Ore 12:48 - Dacia Maraini: «Ha inventato un nuovo tipo di famiglia basato sulle affinità e la scelta»

«Michela era una donna straordinaria per coraggio, determinazione e intelligenza. Mai fanatica, mai dottrinaria. Era sempre sorridente e questo dimostra un buon atteggiamento verso la vita anche quando ci si trova al passaggio con la morte».

Lo dice all'Agi Dacia Maraini, ricordando la scrittrice scomparsa. «La nostra coraggiosa Michela - sottolinea - ha inventato un nuovo tipo di famiglia non basato sul sangue ma sulle affinità e la scelta. Ci ha lanciato una grande sfida. Dovremo discutere di questa sua gioiosa proposta». Michela Murgia era tante cose, scrittrice, attivista, drammaturga, femminista... «Certo che era femminista - aggiunge ancora Maraini - e di femminismo ci sarebbe bisogno ancora. Ma soprattutto, mi preme tornare a sottolineare l'importanza di questa sua ultima sfida, quella sulla famiglia. Abbiamo assistito in queste ultime ore, al caso di un matrimonio fatto saltare per un presunto tradimento, davanti agli invitati, con tanto di filmato poi distribuito attraverso i canali social in modo che la vicenda fosse resa pubblica. Assistiamo a continui omicidi di donne in famiglia, e non solo di donne. Ecco, allora è evidente che qualcosa va rivisto. E Michela Murgia ha lanciato la sua proposta. E condivisibile o meno, è comunque un segnale che invita alla riflettere. Quale sia la soluzione contro la violenza che circonda la famiglia non lo so, ma è vero che il tema ci riguarda tutti».

Ore 13:14 - Claudia Mori: «Rimarrai incancellabile»

«Nel nostro straordinario incontro professionale, ho imparato tanto da te... anche a non essere interessata a piacere a tutti. Ma è inevitabile Michela, tu rimarrai... incancellabile». Così Claudia Mori ricorda su Instagram Michela Murgia, postando sul profilo di Adriano Celentano una foto che la ritrae sorridente accanto alla scrittrice.

Ore 13:45 - De Giovanni: «Non sai quanto ci mancherai, o forse sì»

«Hai scelto la notte di San Lorenzo, ma lo sai che tu non sei una stella che cade. Tu brilli sempre, e sempre. Ciao, amica mia. Non sai quanto mi mancherai. O forse sì». Così, su Facebook, Maurizio De Giovanni ricorda la scrittrice sarda.

Ore 13:51 - Emma Dante: «Ci mancherai Michela. Ci mancherai moltissimo!»

«Ci mancherai Michela. Ci mancherai moltissimo!». Lo ha scritto in un post sulla sua pagina Facebook la regista e attrice palermitana Emma Dante, salutando la scrittrice.

Ore 14:00 - Mariastella Gelmini: «Sua determinazione un insegnamento per tutti»

«Non ho mai conosciuto Michela Murgia personalmente. Non sempre ho condiviso le sue idee, ma sono certa che la determinazione che metteva in ogni battaglia, il suo coraggio e quei messaggi così potenti anche di fronte alla malattia sono e saranno un insegnamento per tutti». Lo scrive sui social Mariastella Gelmini, senatrice e portavoce di Azione.

Ore 14:22 - Solinas: «Continuo impegno culturale, civile e politico»

Il Presidente della Regione Autonoma della Sardegna Christian Solinas, anche a nome della Giunta regionale esprime i sensi del più profondo cordoglio istituzionale e personale ai parenti e familiari tutti della scrittrice, della quale ricorda l'intenso impegno culturale, civile e politico.

Ore 14:47 - Il cordoglio e l'affetto della comunità di Cabras

La comunità di Cabras si stringe intorno alla madre, al fratello e alla zia che ancora vivono nel paese in provincia di Oristano. Un legame, quello tra Michele Murgia e le sue radici, che non si è mai spezzato anche dopo il successo e il trasferimento nella penisola.

«Michela non c'è più. Sentiremo subito la sua assenza, una grande perdita per tutti - scrive il sindaco Andrea Abis sui social - Michela era mia coetanea, stessa scuola, stessi ambienti, figli dello stesso tempo storico. Michela era una mente fervida, una intelligenza spiccata, colta, di forte personalità, schietta, coraggiosa, sempre schierata in modo chiaro, avvolgente, anticonformista. Una grande donna che lascerà un segno nella società del nostro tempo».

Ore 15:26 - Alberto Angela: al timone della sua vita fino all’ultimo

«Incontrai Michela Murgia per caso in un ristorante, pochi mesi fa. Era al pc, immersa nella scrittura. Parlammo di tutto, dell’importanza di avere degli obiettivi. Mi colpì la sua forza e la capacità di rimanere al timone della sua vita, fino all’ultimo. Mi piace ricordarla così». Lo scrive sui social Alberto Angela.

Ore 15:27 - Bertè: eri straordinaria, la tua eredità non andrà persa

«Ho accolto con molta tristezza la notizia della scomparsa di Michela Murgia. Era una scrittrice forte, una donna straordinaria, decisa e combattiva. Ma la sua eredità non andrà persa: Michela ti ricorderemo durante ogni battaglia per rendere il mondo un posto migliore». Lo scrive sui social Loredana Bertè.

Ore 15:49 - Magi: intellettuale sempre a favore libertà e diritti civili

«Addio da tutta Più Europa a Michela Murgia, una intellettuale che ha vissuto la sua vita con coraggio e dignità fino alla fine. Una persona che ha sfidato sempre la corrente schierandosi senza compromessi a favore delle libertà individuali, dei diritti civili e delle minoranze. Ciao Michela, riposa in pace». Lo scrive su Twitter il segretario di Più Europa Riccardo Magi, ricordando la scrittrice scomparsa ieri, all’età di 51 anni, dopo una lunga malattia.

Ore 15:50 - Teologa su Osservatore: per Murgia relazioni espressione di Dio

L’Osservatore Romano ricorda Michela Murgia con un ricordo della teologa e amica della scrittrice Marinella Perroni. «Per lei le relazioni erano espressione di Dio: non avrebbe certo potuto scrivere in `God Save the Queer´ quelle pagine davvero magiche di teologia trinitaria se non avesse fatto questa esperienza di Dio e degli umani», scrive Perroni sul giornale vaticano. «Una Trinità che si espande a dismisura in tutto ciò che uomini e donne fanno per rendere il mondo degno di loro, ma anche di Dio». «Poi è venuta Accabadora , la sorpresa di Ave Mary in risposta a una mia richiesta - scrive ancora la teologa - che pensavo ormai archiviata dato il suo prorompente e incalzante successo. Mai però in lei il successo ha avuto il sopravvento sulle relazioni». «Michela cara, per me sarà sempre metafora quel piatto di spaghetti con mazzancolle e zucchine che hai imbandito per me il sabato di Pasqua di quest’anno e che ci siamo gustate, sedute nella mia cucina a parlare di morte e risurrezione. Metafora della vita, della fede, dell’amicizia. Ma anche del dolore e del mistero», si legge a conclusione del ricordo.

Ore 16:18 - Padre Fortunato: ora siamo più poveri

«Siamo più poveri. Perdiamo una voce che è stata capace di suscitare confronto e dialettica in un mondo di fotocopie». Così padre Enzo Fortunato, saggista e scrittore francescano, ricorda Michela Murgia.

Ore 16:27 - Giammei: a breve un inedito di Murgia sulla genitorialità

«Michela ha scritto fino all’ultimo giorno della sua vita. Aveva un libro da consegnare e lo ha consegnato prima di morire. Un libro toccante, sulla famiglia. Doveva essere solo sulla Gpa (gestazione per altri, ndr) ed è diventato un libro più profondo sul senso della genitorialità e parentela. Credo che uscirà a breve per Rizzoli». Lo dice Alessandro Giammei, curatore dell’opera di Michela Murgia e membro della famiglia. «C’è anche un ricco patrimonio di file scritti in molti anni, molti racconti dispersi e pagine inedite», aggiunge Giammei.

Ore 16:31 - Il testamento di Michela Murgia e la volontà di rifiutare l’accanimento terapeutico

Michela Murgia ha per mesi minuziosamente deciso che la tutela della sua queerness e delle sue relazioni familiari dovesse essere piena e totale, racconta l’avvocata Cathy La Torre. E così «abbiamo usato tutti gli strumenti che il diritto oggi consente adattandoli alla nostra realtà- spiega l’attivista che ha curato il testamento della scrittrice scomparsa ieri - un testamento , una dichiarazione anticipata di trattamento ( i cosiddetti Dat, comunemente detti «testamento biologico»ndr) e infine il principio che una persona può rifiutare un accanimento terapeutico».

Ore 16:35 - Marina Berlusconi: «Donna coraggiosa e appassionata»

«Non è necessario condividere le idee di Michela Murgia per considerarla una donna coraggiosa, appassionata, coerente oltre che un’autrice originale e di grande talento. La sua scomparsa, anche se purtroppo annunciata, mi colpisce profondamente». Lo afferma Marina Berlusconi, presidente del Gruppo Mondadori con il quale la scrittrice sarda ha pubblicato le sue opere.

Ore 16:55 - Loewenthal: enfatizzò il rifiuto della morte

«Michela Murgia non è mai stata un personaggio semplice, per cui non è così facile parlare di lei, ha vissuto molto intensamente e negli ultimi tempi ha enfatizzato il rifiuto della morte, cosa che si può condividere o meno, e che può anche lasciare spiazzati. Stamattina, quando ho aperto i siti, praticamente tutti parlavano di lei, mi chiedo se avrebbe voluto questo, lei che la morte la prendeva in giro». Così oggi Elena Loewenthal, scrittrice e direttrice del Circolo dei Lettori di Torino, ha commentato la morte della scrittrice sarda.

«Ha affrontato la malattia in modo eccezionale, ovvero in figura di eccezione, come fosse uno slancio di vita - aggiunge Loewenthal - ma la malattia non è solo uno slancio di vita, è anche molto altro, mi permetto di dirlo anche in base alla mia esperienza personale. Lei ha scelto di viverla così, e anche in modo pubblico. D’altronde era una donna lei stessa d’eccezione, capace di scegliere in maniera chiara e forte. E così ha fatto quando, dopo un capolavoro come Accabadora, di fatto, ha scelto di diventare più che una scrittrice, una intellettuale militante, un personaggio politico. Nel nostro paese non ce ne sono tanti di personaggi come lei».

Ore 16:58 - Schlein: le tue parole continueranno a cambiare vite

«L’amore dentro l’amicizia. L’intreccio delle lotte contro i sistemi oppressivi. I legami che hai intessuto vivono, anche per capire insieme come essere, dopo di te. Ma comunque, sempre, con te. Continueranno le tue parole a cambiare vite. La tua voce a essere cura. Avere cura. E graffio irriverente, contro ogni ipocrisia e discriminazione. #Murgia». Così su Instagram la segretaria del Pd, Elly Schlein, ricorda la scrittrice scomparsa.

Ore 17:19 - Gambarotta: «una testimone laica del nostro tempo»

«Michela Murgia, a mio avviso, è stata un grande testimone laica del nostro tempo, una donna più che coraggiosa. La sua non paura della morte, così gridata a gran voce, riporta al pensiero degli antichi, della società romana che si beffava della morte. Credo che parleremo ancora a lungo di lei e del suo stile di vita, del suo personificare il senso della sfida estrema». Così lo scrittore Bruno Gambarotta ricorda la scrittrice sarda scomparsa ieri a 51 anni.

Ore 17:30 - Circolo Mario Mieli: ha lottato per i diritti di tutti

«Ci lascia una grande intellettuale, una meravigliosa scrittrice, un’amica sincera della comunità lgbtqia+, una voce originale che non ha smesso per un singolo istante di pretendere di essere ascoltata, senza mai chiedere scusa. Con i suoi libri, con i suoi interventi e con la sua vita, Michela Murgia è stata in grado di portare il discorso femminista a un’opinione pubblica come quella italiana, pigra e conservatrice». Così il Circolo Mario Mieli ricorda Michela Murgia, la scrittrice scomparsa ieri a 51 anni dopo una malattia.

«Ci mancheranno la sua onestà intellettuale, la veemenza delle sue parole, e il coraggio con cui si è spesa lottando per i diritti di tutti. Ma ci mancherà soprattutto la sincerità con cui ha affrontato gli ultimi mesi, facendoci conoscere la sua famiglia queer allargata, ultima testimonianza che un altro mondo è possibile, quel mondo per cui non ha mai smesso di lottare», si legge ancora nella nota. «Con la potenza della sua parola, scritta e parlata, Michela Murgia ha raccontato una società possibile, tutta da costruire, scegliendo di rendere la sua stessa vita una lotta politica - ha affermato Mario Colamarino, presidente del Circolo - Michela non se ne andrà mai perché vivrà nelle battaglie che ha intrapreso e che spetterà a ciascuno di noi far continuare a vivere. Ciao Michela, grazie di tutto».

Ore 17:53 - Chiara Tagliaferri: al dio della morte dico «Not today»

Cita la saga Game of thrones il post di Chiara Tagliaferri dedicato a Murgia: «Rara foto di Michi che odia i fiori con dei fiori tra le mani (anche se in realtà è un ramo di pesco, dunque è diverso), scattata da Lorenzo in un pomeriggio luminoso di Roma. È la foto di Michi che preferisco perché ha il sorriso di una bambina che le veniva fuori in certi momenti, quando pensava a qualcosa di molto divertente che stava per accadere (che lei faceva accadere). In questo lungo tempo, lei che amava moltissimo Arya Stark di GoT, chiudeva le nostre telefonate dicendomi “Not today”. “Cosa diciamo al Dio della Morte?,” domanda Melisandre sulle mura di Winterfell a questa bambina progettuale, che la notte si addormenta ripetendosi i nomi delle persone che vuole eliminare per vendicare la sua famiglia. E Arya risponde: “Not today”. Oggi al Dio della Morte sono io a dire “Not today”, perché Michela Murgia continuerà a vivere nei legami che ha creato, rendendoci tutte e tutti più forti».

Ore 17:58 - Osservatore Romano: «La vita, la teologia e le polpette»

L’Osservatore Romano ricorda Michela Murgia, spenta la scorsa notte a 51 anni, con un ricordo personale della teologa Marinella Perroni, dal titolo “La vita, la teologia e le polpette”. «L’ultimo suo post su Instagram - scrive - è stata una piccola ode alle polpette. Ho scaricato Instagram negli ultimi mesi solo per seguire lei, perché mi aveva detto che era quello il modo che aveva scelto per restare in contatto con tutti coloro che le volevano bene, le erano cari, la seguivano. E io mi sono sempre sentita soltanto una dei tanti, innumerevoli, suoi amici. Per me, però, averla conosciuta è stata anche una sorta di ‘grazia di stato’».

«Sì, dato che la passione per la riflessione teologica - sottolinea la teologa sul quotidiano vaticano - è sempre stato uno dei fili portanti delle nostre, purtroppo rare, ma lunghissime conversazioni. Perché per Michela fede e teologia non potevano che convergere, l’una a sostegno e garanzia dell’altra, ma anche l’una in grado di far deflagrare l’altra». Michela Murgia, aveva una «capacità davvero unica di esprimere in parole acute e taglienti, scevre da qualsiasi preziosismo, la sua intelligenza delle cose, del mondo e delle persone. Una intelligenza limpida - scrive Perroni - che andava alla velocità della luce, che mai si piegava al male della banalità, che sempre intravvedeva la ricaduta politica di ciò che siamo e facciamo». La «sua forza» era questa: «Esserci con tutta la potenza della sua vitalità, sapendo che nessuna lontananza può mai dividere ciò che Dio ha unito. Perché per lei le relazioni erano espressione di Dio: non avrebbe certo potuto scrivere in God Save the Queer quelle pagine davvero magiche di teologia trinitaria se non avesse fatto questa esperienza di Dio e degli umani. Una Trinità che si espande a dismisura in tutto ciò che uomini e donne fanno per rendere il mondo degno di loro, ma anche di Dio». Le polpette erano «metafora del queer», così «le chiama in quell’ultimo saluto con cui si è congedata dalla vita. Perché tra le tante cose che Michela ha insegnato ai suoi figli c‘è anche l’arte del cucinare. Michela cara, anche per me sarà sempre metafora quel piatto di spaghetti con mazzancolle e zucchine che hai imbandito per me il sabato di Pasqua di quest’anno e che ci siamo gustate, sedute nella mia cucina a parlare di morte e risurrezione. Metafora della vita, della fede, dell’amicizia. Ma anche del dolore e del mistero».

Ore 18:20 - I funerali saranno presieduti da don Walter Insero

Sarà don Walter Insero, Professore associato alla Pontificia università gregoriana e Cappellano presso la Rai dal 2004,a celebrare i funerali di Michela Murgia, domani pomeriggio presso la Chiesa degli Artisti di Roma. Il sacerdote ha recentemente celebrato anche i funerali di Gina Lollobrigida, Gigi Proietti, Andrea Purgatori, Maurizio Costanzo e, più in passato, anche di Fabrizio Frizzi.

Ore 18:34 - Satta: «Ha sempre avuto nel cuore la Sardegna»

«Michela Murgia ha sempre avuto nel cuore la Sardegna, la tutela delle aree più deboli del Paese, dei soggetti più fragili. Una donna, un’artista che portava la sua fede nella sua vita di tutti i giorni». Lo afferma il segretario del movimento Unione Popolare Cristiana (Upc), Antonio Satta.

Ore 18:49 - Luca Beatrice: Murgia ossessionata dal fascismo

«Michela Murgia è stata una scrittrice immaginifica, intelligentissima, potente, molto colta, ricordo anche un suo messaggio davvero affettuoso quando ho lasciato la direzione del Circolo dei Lettori di Torino, ma non posso nascondere di non aver apprezzato la sua deriva quando ha scelto di fare l’opinionista invece della scrittrice. E poi non capisco questa sua ossessione per la parola `fascista´, e per la sua accusa alla destra tutta di fascismo. Io sono un uomo di destra, ma certo non sono fascista». Lo afferma Luca Beatrice, intellettuale e critico, dopo la morte della scrittrice.

Ore 19:01 - Comune Cabras: ci hai onorato di te

L’amministrazione comunale di Cabras esprime il profondo cordoglio di tutta la comunità per la scomparsa di Michela Murgia, figlia di Cabras, cittadina del mondo. Ciao Michela, ci hai onorato di te». Questo il saluto dell’amministrazione comunale di Cabras, nell’oristanese, paese di origine di Michela Murgia, scomparsa ieri a 51 anni. A Cabras vivono ancora la madre e il fratello della scrittrice.

È morta Michela Murgia, la scrittrice aveva 51 anni. Storia di Ida Bozzi su Il Corriere della Sera giovedì 10 agosto 2023.

È morta giovedì 10 agosto la scrittrice Michela Murgia. Aveva 51 anni. Aveva rivelato la sua malattia, un carcinoma ai reni al quarto stadio, in un’intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo lo scorso maggio («Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono», disse in quell’occasione al Corriere). L’11 giugno, Murgia aveva annunciato il ritiro dagli incontri pubblici. A metà luglio aveva sposato «in articulo mortis» Lorenzo Terenzi (1988), attore, regista e musicista. Con il suo romanzo più noto, «Accabadora» (Einaudi, 2009), aveva vinto il premio Campiello. Il suo ultimo libro, «Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi» (Mondadori, 2023), è entrato subito in vetta alle classifiche dei volumi più venduti.

Sapeva passare dalla riflessione sulla spiritualità alle analisi sociali e politiche, anche vivacemente polemiche, sulle tentazioni moderne del fascismo. Praticava con naturalezza ostinata l’impegno per la parità di genere, era fiera della sua «famiglia queer» riunita in una casa con quattro figli «d’anima», come li chiamava, e portava alta anche la bandiera della sua Sardegna e delle civiltà sarde, dei matriarcati ricchi di tradizione e misconosciuti, ai quali aveva dato voce con il suo romanzo più noto, Accabadora (Einaudi, 2009), con cui aveva vinto il premio Campiello 2010.

Si è spenta la scrittrice Michela Murgia, a causa del tumore che l’aveva già messa alla prova alcuni anni fa: era una delle voci più nuove e influenti della letteratura italiana contemporanea. Era stato importante, quel suo Accabadora, perché aveva aperto la strada alla riscoperta contemporanea delle culture femminili, soltanto in seguito percorsa anche da altre scrittrici e altri scrittori delle nuove generazioni.

Video correlato: Michela Murgia e il "pensiero afono" delle donne (RaiNews multimedia)

Appena pochi mesi fa, poi, il 6 maggio 2023, aveva rivelato la sua malattia ad Aldo Cazzullo, durante un’intervista al «Corriere della Sera»: un carcinoma ai reni al quarto stadio che le lasciava poco tempo. Lo aveva annunciato in modo più indiretto anche nell’ultimo libro, Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi (Mondadori, 2023), entrato subito in vetta alle classifiche librarie e tuttora ai primi posti, un romanzo di racconti in cui aveva affrontato le crepe improvvise che stravolgono le esistenze, lutti, dolori, amori spezzati: nella prima di quelle storie aveva narrato proprio lo choc della scoperta della malattia.

Nelle ultime settimane, il rapido peggioramento: l’11 giugno aveva annunciato il ritiro dagli incontri pubblici, e a metà luglio aveva sposato «in articulo mortis» Lorenzo Terenzi, «per avere diritti che non c’era altro modo di ottenere così rapidamente». Sui social aveva pubblicato le immagini delle nozze, chiedendo ai lettori: «Niente auguri, perché il rito che avremmo voluto ancora non esiste. Ma esisterà e vogliamo contribuire a farlo nascere».

Nata a Cabras, in provincia di Oristano, il 3 giugno 1972, dopo gli studi religiosi e l’attività all’interno dell’Azione cattolica, Murgia è stata a lungo insegnante di religione, ma ha svolto diversi lavori «precari» che le hanno fornito ispirazione per un blog, poi diventato un libro-denuncia, ironico e drammatico insieme, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria (Isbn, 2008; poi Einaudi, 2017), sul mondo del telemarketing, divenuto nel 2008 un film di Paolo Virzì con il titolo Tutta la vita davanti. Una delle prime voci a denunciare la discriminazione del precariato, e del precariato femminile in particolare. Einaudi le ha pubblicato nel 2008 una guida letteraria ai luoghi della Sardegna, Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede, ma è con il romanzo maggiore, del 2009, che Murgia traccia il ritratto della Sardegna davvero invisibile e sconosciuta ai più: siamo nel territorio della letteratura, quello percorso da Elsa Morante che raccontava l’Italia e la guerra, e le sue donne e madri, nelle vite segrete e quotidiane nel suo La storia, o da Dacia Maraini ne La lunga vita di Marianna Ucrìa.

Accabadora è la storia di un’anziana donna che in un villaggio sardo dà di nascosto la morte ai malati gravissimi che gliela chiedono, e di una bambina che la donna adotta e che scopre a poco a poco il vero scopo delle uscite notturne della madre adottiva. Il romanzo, che oltre al Premio Campiello, ha ottenuto il Dessì e il SuperMondello, porta alla ribalta la scrittrice. E i motivi sono numerosi: è un romanzo di atmosfere e di rarefazioni, che mette in luce uno stile narrativo vicino al realismo magico; è una scoperta letteraria ma anche etnoantropologica, di ricerca nelle tradizioni della civiltà paesana e sarda, che rivela i saperi femminili più antichi e irregolari, vicini alla scienza e alla medicina, ancorché non riconosciuti; ed è un libro che sa affrontare, parlando degli anni Cinquanta nella Sardegna più nascosta, un tema attuale ancora oggi, e universale, quello dell’eutanasia.

Molti gli epigoni di Murgia, dopo quel romanzo, che ha in qualche modo svelato quanto le culture arcaiche raccontino le radici del mondo contemporaneo, e quanto nei piccoli mondi dell’immensa provincia italiana le donne abbiano saputo ritagliarsi un ruolo autorevole, misteriosamente misconosciuto dalla modernità. Non stupisce se, dopo il romanzo, Murgia è diventata una delle voci femminili più note e più ascoltate, e anche attaccate, sui media più diversi, in televisione o sui social come opinionista, con polemiche che hanno fatto rumore: una sul suo uso della schwa, la vocale neutra che include tutti i generi. Un’altra, in occasione del matrimonio, nel tweet dell’ex senatore leghista Simone Pillon: «Michela Murgia ha deciso di sposarsi definendo il matrimonio “patriarcale e limitato”. Michela, di alternative ne avevi molte, ma hai scelto il matrimonio. Forse perché sai che è la forma più alta per riconoscere l’amore tra un uomo e una donna». O ancora sabato 5 agosto, quando ha polemizzato con il sindaco di Ventimiglia per l’utilizzo del servizio di vigilanza per impedire ai migranti di usare bagni e fontane al cimitero di Ventimiglia, parlando di «regime fascista».

Forse per questo i suoi libri si sono fatti sempre più impegnati, ostinati, per perfezionare l’opera di racconto del femminile e la costruzione di una società di rapporti più liberi, come liberi erano quelli all’interno della sua famiglia queer: la voce ferma di Murgia sembra preferire a lungo il testo saggistico, che consente alla scrittrice di raccontare il tempo moderno e di diventare propositivo, impegnato, quello di un’attivista. Come in Ave Mary. E la chiesa inventò la donna (Einaudi, 2011), in cui da credente e studiosa di teologia l’autrice conduce un’indagine puntigliosa sul femminile nel Vangelo, ma anche nel pop contemporaneo della pubblicità e dei rotocalchi, alla ricerca dei luoghi comuni e delle deformazioni dell’immagine della donna. O come L’ho uccisa perché l’amavo (falso!) (con Loredana Lipperini, Laterza, 2013), in cui prende la parola intorno al cosiddetto «amore tossico», quello dei maltrattamenti, delle violenze e delle morti delle donne, per spiegare che anche a partire dalle parole si cambia il mondo.

L’attenzione al linguaggio era centrale per Murgia, e non solo a proposito di schwa, anche nelle ultime settimane, in cui i suoi messaggi sui social proseguivano con la stessa lucida e serena fermezza di sempre. Sempre parole precise, scelte con cura, come aveva spiegato nell’intervista di maggio a Cazzullo, quando raccontava di non amare concetti come «lotta alla malattia», o «combattere il tumore»: «Non mi riconosco nel registro bellico». Bisognava cambiare le parole perché dalle parole vengono i fatti, come ha dimostrato anche in Stai Zitta, e altre nove frasi che non vogliamo sentire più (Einaudi, 2021): la serenità e la forza con cui ha affrontato gli ultimi mesi di sofferenze vengono anche da queste scelte.

Tra le questioni affrontate più spesso da Murgia, la coesistenza di elementi all’apparenza inconciliabili, come fede e libertà sessuale (e temi come femminismo, eutanasia, aborto...), cui ha offerto la sua risposta in God save the Queer. Catechismo femminista (Einaudi Stile libero, 2022): è un’altra chiave della sua esperienza, che condivide nel saggio, cioè la queerness, intesa non come diversità o stranezza come dicono i vocabolari, ma come «soglia» e apertura. Lo aveva sostenuto anche a luglio, in occasione delle nozze, come un lascito: «Il nostro vissuto personale oggi è più politico che mai, e se potessi lasciare un’eredità simbolica, vorrei fosse questa: un altro modello di relazione».

Numerose le presenze in antologie e raccolte editoriali; una per tutte, in Sei per la Sardegna (Einaudi, 2014) con il racconto L’eredità. E numerose ancora le prove narrative, come il «corto» L’incontro (Corriere della Sera, 2011; poi Einaudi, 2012), il romanzo Chirú (Einaudi, 2015) e Noi siamo tempesta (Salani, 2019).

Ma lo sguardo alle «soglie», alle storie di libertà delle donne (ma non solo per le donne), era tornato anche nel recente Morgana. Storie di ragazze che tua madre non approverebbe (con Chiara Tagliaferri, Mondadori, 2019) in cui Michela Murgia aveva dato voce a dieci donne fuori dagli schemi, Moana Pozzi come Marina Abramovic o Vivienne Westwood. Più un’altra voce, la sua, che alla letteratura mancherà.

La mamma di Michela Murgia: «Divenni secondaria, ma era giusto così, ha seguito i suoi sogni». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 12 agosto 2023.

Costanza Marongiu: «L’ultimo abbraccio l’anno scorso a Cagliari». La notizia: «Mi ha avvisato la sua amica Claudia, poi la televisione: è stato un colpo». L’infanzia: «Era vispissima, se a scuola prendeva 7 anziché 8 si preoccupava»

La voce è ruvida, ma cortese. Assenza di orpelli e fermezza sono i tratti che più ricordano la figlia, per quel che si può intuire da una telefonata in un giorno come questo. Costanza Marongiu è la mamma di Michela Murgia. Oggi non potrà partecipare ai suoi funerali a Roma: «Le mie gambe sono quelle che sono». Ci sarà l’altro figlio, Cristiano, con la moglie Ida.

Signora, chi l’ha avvisata?

«Claudia, un’amica di Michela: mi ha chiamato lei nella notte. E poi stamattina la televisione. È stato un colpo».

Se l’aspettava?

«Michela era malata da un anno e mezzo, ma aspettarmelo no, perché fino al giorno prima mi ha nascosto la verità. Mi diceva: sto migliorando. E io ci credevo. Poi una settimana fa ha smesso di rispondermi al telefono e ho capito che stava male. Ieri (giovedì 10, ndr) è stata lei a chiamare Cristiano e a dirgli che se ne stava andando e che voleva solo che mi dicesse di stare tranquilla e di non piangere. Io non ho pianto, però così è anche peggio, perché mi sento un groppo al cuore che mi sta uccidendo».

La seguiva sui social?

«Sì, su Instagram».

Nelle ultime settimane si è spesa molto per la famiglia queer.

«Era la volontà di Michela e andava bene anche a me, non posso dire o aggiungere niente. Io rispettavo le sue scelte, tutte. In effetti la famiglia queer era il suo sogno, ha sempre voluto tanta gente intorno, voleva molti amici e cosa si può chiedere di più?».

Non ha mai nascosto un padre violento. A «Vanity Fair» ha raccontato della notte del 26 dicembre 1990, quando lei la portò con il fratello da sua sorella Annetta, una seconda madre per Michela.

«Fu necessario. Michela poi non è più voluta tornare a casa con noi. C’è tornata quando mi sono separata dal padre. Lui è mancato cinque anni fa: era instabile, era molto difficile instaurarci un rapporto; oggi buono, domani una belva».

L’ha sorpresa il successo straordinario di sua figlia?

«Non mi ha meravigliato nemmeno un po’, Michela assomigliava anche a me. Era una forza della natura. Qualunque strada avesse intrapreso, sapevo che sarebbe riuscita. Raggiungeva tutti gli obiettivi che si metteva in testa: era forte, coraggiosa, puntualmente critica anche con sé stessa. Se sbagliava lo ammetteva, era importante».

Scelga un’immagine.

«In questo momento lei sta presentando un libro a Cagliari e cinque minuti dopo abbraccia me e il fratello: è successo l’anno scorso, verso settembre. È l’ultima volta che l’ho vista. Ormai non posso più camminare, aspettavo che venisse di nuovo lei. Ma ha seguito i suoi sogni: voleva l’Orient Express e lo ha avuto, voleva andare in America e lo ha avuto. Per certi versi ero diventata secondaria: lei aveva fretta di fare le cose che non era mai riuscita a fare prima».

Le è dispiaciuto?

«No, era giusto così. I figli nascono con le ali e poi volano via, nessuna mamma ha il diritto di fermarli».

Ha conosciuto Lorenzo Terenzi, l’uomo che ha sposato a luglio «in articulo mortis»?

«No, non lo conosco, non ci siamo ancora sentiti. Ci sentiremo, ormai di tempo ce n’è tanto».

Che effetto le ha fatto l’intervista di Aldo Cazzullo sul «Corriere», quando ha ammesso che le restavano mesi?

«Mi tremavano le gambe, anche se della malattia lo sapevo già. Ma sono una mamma. Prima che la madre della scrittrice e della donna famosa, sono la mamma di mia figlia. Mi avvisava sempre delle interviste. Per Vanity Fair mi mandò in anteprima le foto».

Un ricordo di lei bambina?

«Vispissima, intelligentissima. A scuola era la prima della classe e si lamentava quando perdeva un colpo: se non era 8 e diventava 7, già si preoccupava. Non le ho mai dovuto dire: apri il libro, mettiti a studiare. È stato tutto molto facile, da quel punto di vista, e molto piacevole seguirla nei suoi progressi».

Di cosa è più orgogliosa?

«Di tutti i suoi libri, perché in ognuno c’è il suo pensiero, la sua scelta di vita. E in qualche maniera ha parlato anche di me. Io le dicevo: non mi ci mettere in mezzo, sono schiva. E lei: mamma, non hai capito?, se devo scrivere della mia vita tu ne fai parte».

Le dedicò «Accabadora»: «A mia madre. Tutt’e due». Dunque anche a zia Annetta.

«Sì. Io però ai romanzi preferivo i saggi. Il più bello per me è Viaggio in Sardegna, perché di libri sulla Sardegna ne ho letti tanti, anche scritti da persone importanti che girano il mondo. Ma lei è riuscita ad approfondire ogni aspetto. E poi mi è piaciuto tanto Ave Mary, anche perché ha fatto incavolare i vescovi, quindi va benissimo».

Fino a poco fa ha gestito un ristorante sul mare. Qual era il piatto preferito di Michela?

«Gli spaghetti con le arselle di Mistras».

Se posso chiederlo, di cosa avete parlato l’ultima volta?

«È stato una settimana fa. Mi ha detto che stava bene, che era serena. E che preferiva spostarsi a casa sua, morire a casa e non all’ospedale. E perché mi dici questo?, ho chiesto. E lei: mamma lo sai, può capitare in qualsiasi momento. Ecco, per me Michela non è andata via: lei è ancora qui».

«Il guardaroba va a Chiara Tagliaferri, gioielli e bigiotteria a Patrizia», il testamento di Michela Murgia. Federica Nannetti su Il Corriere della Sera venerdì 11 agosto 2023.

Il testamento è stato scritto insieme all'avvocata bolognese Cathy La Torre che era membro della sua famiglia queer 

La sua è sempre stata una voce libera, quella di una donna che ha fatto della scrittura e della scelta delle parole un modo di vivere, molto spesso politico. Così anche nel momento in cui ha parlato del suo testamento, scritto e affidato all’avvocato bolognese d’adozione Cathy La Torre, membro anche della sua famiglia queer e attivista per i diritti civili: l’ha definito «divertente», specie «per le cose affettive» e la loro suddivisione. Si è spenta giovedì 10 agosto a 51 anni Michela Murgia, colpita da un tumore ai reni al quarto stadio; una malattia rivelata per la prima volta nel corso di un’intervista al Corriere della Sera: un dialogo duro quanto commovente, al quale non si è mai sottratta fino all’ultimo giorno.

Del suo testamento ha parlato nell’intervista rilasciata il giugno scorso al direttore di Vanity Fair, Simone Marchetti, un testamento redatto appunto insieme a Cathy La Torre e alla presenza di Claudia, mamma di uno dei suoi figli dell’anima, Raphael, proprio per «decidere insieme anche le cose dei ragazzi», ha dichiarato allora Murgia. Divertente per le cose affettive, si diceva, delle quali si sono occupati dopo aver «risolto la questione immobili – ha detto la scrittrice – che nel nostro caso era facile, perché non siamo dei palazzinari». «Tutto il mio armadio va in capo a Chiara Tagliaferri, che lo distribuirà a seconda delle sue scelte – ha poi continuato Murgia –. Patrizia avrà il patrimonio di gioielli e bigiotteria».

Le cianfrusaglie

Eppure Michela Murgia non è mai stata una particolare amante dell’oro e dell’argento, ma «tutte le cianfrusaglie accumulate – come le ha definite lei stessa – peseranno circa trenta chili». «La cosa buffa è stata la richiesta di Alessandro – ha poi aggiunto nel corso dell’intervista –. Un elenco in cui mi ha detto: voglio i tuoi computer, le password dei tuoi account, il titolo di cavalierato francese e la pennetta usb con tutte le giocate nella community. Chiara Valerio invece non ne vuole sapere niente, lei è nella fase rifiuto, dice: “Io voglio trattarti da viva fino all’ultimo giorno, io voglio far finta che questi preparativi verso la morte non esistano”. È il suo modo di proteggersi dal pensiero della perdita».

LE altre volontà

È dunque questo uno stralcio della volontà della scrittrice, che solo a metà luglio si è sposata, in articulo mortis, con l’attore e regista Lorenzo Terenzi. Un uomo che poteva essere una donna, come più volte ha ripetuto, un’unione «controvoglia» perché, se avessero «avuto un altro modo per garantirsi i diritti a vicenda» non sarebbero «mai ricorsi a uno strumento così patriarcale e limitato». «Niente auguri, quindi – ha poi aggiunto Murgia in un post social – perché il rito che avremmo voluto ancora non esiste».

Ciò che invece per lei esistevano, e tuttora esistono, sono le persone e i legami reciproci: nella sua famiglia queer e tra i suoi affetti più stretti c’è sempre stata tanta Bologna. Oltre a Cathy La Torre, per esempio, anche Marcello Fois (scrittore da tempo sotto le Due Torri). «Tu sempre e ovunque, Michela – ha scritto Cathy La Torre –. Riemergere da sé stessi è tanto difficile quanto più si è profondi».

Il testamento di Michela Murgia e la volontà di rifiutare l’accanimento terapeutico. Storia di Cathy La Torre, Avvocata, attivista, esperta di diritti civili e curatrice del testamento di Michela Murgia, su Il Corriere della Sera venerdì 11 agosto 2023.

Quando scrivevo un atto giuridico che la riguardava, Michela Murgia non solo pretendeva di leggerlo, ma anche di correggerlo. Perché cuciva continuamente politica, diritto, parole e relazioni.

Dunque quando ha iniziato a raccontare la famiglia queer, come la intendiamo noi, che è come la può intendere chiunque viva fuori dal sistema dato della tradizione come copyright di stato, abbiamo sentito l’esigenza che questa famiglia avesse dignità anche innanzi allo Stato, alla Legge, e ai diritti successori.

Michela ha per mesi minuziosamente deciso che la tutela della sua queerness e delle sue relazioni familiari dovesse essere piena e totale. E così abbiamo usato tutti gli strumenti che il diritto oggi consente adattandoli alla nostra realtà: un , una dichiarazione anticipata di trattamento ( i cosìddetti Dat, comunemente detti «testamento biologico»ndr) e infine il principio che una persona può rifiutare un accanimento terapeutico. Quello che lei ha fatto è aprire la strada per migliaia di altre famiglie che non si riconoscono nella definizione «famiglia tradizionale», una strada fatta di parole, racconti e anche atti concretissimi per tutelare i suoi figli d’anima

Il marito Lorenzo Terenzi e i figli «dell'anima» salutano Michela Murgia. La mamma di Raphael: «L’ha scelta lui a nove anni». Redazione Online su Il Corriere della Sera venerdì 11 agosto 2023.

L'affetto dell'attore e regista sui social, il ricordo affettuoso dei quattro ragazzi che lei considerava figli adottivi. «Bentornata a casa. Continueremo a prenderci cura delle persone che amiamo» 

Michela Murgia avvolta in un vaporoso abito rosso corallo, il turbante in tinta sulla testa, colta in un gesto come di danza: con questa foto, senza aggiungere nulla di scritto, le dice addio su Instagram Lorenzo Terenzi, l'attore, regista, autore e anche musicista, conosciuto nel 2017 grazie a uno spettacolo teatrale in cui lei era la protagonista e lui lavorava alla regia, che la scrittrice aveva sposato a luglio in articulo mortis, subito dopo aver annunciato pubblicamente la sua malattia in un'intervista con il Corriere .

Le reazioni e il cordoglio sui social per la scomparsa della scrittrice

La scrittrice, con Terenzi e i suoi «figli dell'anima», ha raccontato sui social i momenti privati, celebrando la sua famiglia queer ma anche continuando le sue battaglie da attivista per i diritti. Le nozze suggellate nel giardino della nuova casa romana di Murgia, condivisa dalla scrittrice sui suoi profili social.

Ma chi sono i quattro «ragazzi» della scrittrice? «Il più grande ha 35 anni, il più piccolo venti». Pochi altri cenni. Ma niente di più. In questo Michela Murgia è stata una donna molto riservata. Allo scopo di tutelarli, parlava pochissimo dei suoi quattro figli, che lei amava e che loro amavano moltissimo: Raphael Luis, Francesco Leone, Michele Anghileri e Alessandro Giammei. Figli d’anima, perché Murgia non aveva figli naturali. Figli che facevano parte della sua famiglia queer, come lei l’avrebbe definita: aperta, fatta di persone legate tra loro non necessariamente da legami di sangue ma di amore. Sulla libera scelta di farne parte. Sugli incontri. Come è stato per Lorenzo Terenzi, attore e regista, ma anche musicista e autore che Michela Murgia ha sposato il 15 luglio 2023 con un rito civile “in articulo mortis”, considerate le sue precarie condizioni di salute. Come è stato per i quattro figli d’anima (sempre sua definizione) entrati nella sua vita in momenti molto diversi.

Il più noto forse è Raphael, ma solo perché su di lui, rispetto agli altri, ha lasciato più tracce (c’è anche in uno dei suoi ultimi post: in cucina mentre prepara una carbonara). È stato con Raphael che è diventata madre per la prima. Come avrebbe raccontato: «A nove anni, prendendomi la mano nella stessa sera in cui l’ho visto per la prima volta e dicendo: non voglio che te ne vai più. Non c’era ragione per dargli retta, a me i bimbi nemmeno piacciono. Ma ho vacillato, ho guardato Claudia. La decisione presa è arrivata in quello scambio di sguardi». «Mio figlio Raphael aveva 9 anni quando ha scelto Michela» conferma Claudia Fausone, la mamma di Raphael. «Lei non aveva grande dimestichezza coi bambini, avendo solo figli grandi. Lui è stato molto determinato. La prima a chiederci spiegazioni su Michela è stata mia madre. “Non ho capito il ruolo di questa donna nelle nostre vite” ha detto un’estate. È stato Raphael a definirlo: “Michela è mia madre. Mamma è mamma”, ha detto».

Francesco Leone, nato a Cagliari, è invece un cantante lirico, che Murgia ha conosciuto quando aveva 18 anni. C’è poi Alessandro Michele Anghileri , un giovanissimo attivista, un cooperante, uno che se ne va in giro per il mondo dove c’è bisogno di aiuto umanitario. Infine c’è Alessandro Giammei, docente all’università americana di Yale nonché autore di numerose pubblicazioni. Quando Murgia l’ha conosciuto Alessandro aveva 16 anni ed era uno studente liceale. Avrebbe raccontato: «Ci siamo conosciuti online su una community di gioco di ruolo. Elfi, nani, un po’ tolkieniana. Si giocava con le parole, nelle chat. Non c’erano avatar. Scrivevamo e basta. È stata la mia scuola di scrittura. E anche la sua. Abbiamo giocato insieme per molti mesi e non sapevo chi c’era dall’altra parte. Io mi aspettavo un adulto molto colto. Quando ho scoperto che c’era un ragazzino, mi sono detta: se fa tali ragionamenti a 16 anni, che margini di crescita ci sono? Io devo vedere questa aurora!».

Murgia aveva un figlio prediletto? Forse. Il professore di Yale ne suggerisce il nome. Come ha scritto nel ricordo che di recente ha fatto di uno degli ultimi raduni familiari nella casa che Murgia aveva acquistato e che era ancora da completare: «Ecco che arriva il figlio prediletto (Francesco), pieno di capelli e sinuoso come un gatto: il baritono di ritorno da recite a Tokyo e a Pesaro, che una volta Michela mi mandò ventenne a Pisa perché prendessi con lui un caffè con la panna».

«Le persone, prima di tutto. Il resto sono chiacchiere» aveva detto la scrittrice presentando tutti durante la festa in giardino lo scordo luglio dove, vestiti di bianco e con un simbolico anello al dito, avevano celebrato a modo proprio il loro legame, quello che aveva definito «la nostra idea di celebrazione della famiglia queer».

Il legame dei figli con Michela Murgia era forte, come ha dimostrato il post di addio di Francesco Leone e di Alessandro Giammei. Francesco ha pubblicato una foto per ricordare la mamma e ha scritto: «Camminiamo verso altre notti insonni a raccontarci i segreti, a immaginare nuovi orizzonti, a prenderci cura delle persone che amiamo. Benvenuta nella nostra nuova vita. Bentornata a casa, Shalafi amin», mentre Alesssandro Giammei scrive un semplice «Ciao bella», con una foto che li immortala in un momento felice.

Il post sta raccogliendo i commenti commossi e le testimonianze di affetto di amici e fan della scrittrice. Nata nel 1972 a Cabras, piccolo comune in provincia di Oristano in Sardegna, Michela Murgia è stata un'intellettuale, scrittrice, drammaturga e opinionista, che ha percorso un'importante carriera letteraria segnata da romanzi, racconti, saggi e articoli.

Il ricordo di Cazzullo: «Quando Murgia mi disse che stava morendo. Un dialogo duro, ci siamo commossi». Storia di Aldo Cazzullo Corriere della Sera giovedì 10 agosto 2023.

Michela Murgia è morta giovedì 10 agosto, aveva 51 anni

Qualcuno sostenne che non era poi così grave e si poteva salvare. Qualcuno le augurò di morire presto. Lei si arrabbiò di più con i primi che con i secondi. Preferiva essere odiata che compatita. Non che l’odio non le pesasse: raccontò di aver vomitato per mesi, non per le cure ma come reazione appunto all’odio che avvertiva su di sé. Però non si sarebbe perdonata il silenzio, il restare zitta e indifferente davanti a quelle che considerava ingiustizie. Molti, dopo aver letto la sua intervista, piansero, le scrissero, cercarono di contattarla sui social. Certo, il riserbo che una volta circondava le malattie è stato infranto da tempo. Ma chi racconta la propria malattia di solito confida: sono malato, e sto lottando. Oppure rivela: ero malato, e sono guarito. Nessuno dice: sono malato, e sto morendo. Quando lessi le bozze dell’ultimo libro di Michela Murgia, Tre ciotole, vidi che parlava di un male all’ultimo stadio. Inevitabilmente cominciai l’intervista chiedendole se ci fosse qualcosa di autobiografico. Rispose asciutta: «È pedissequo. È il racconto di quello che mi sta succedendo. Diagnosi compresa». Fu una conversazione molto dura, in cui accadde a entrambi di commuoversi. Eppure nel sorriso di Michela Murgia sul dolore prevalevano la gioia e la rabbia. Gioia per il legame fortissimo con le persone care: la sua famiglia, che definiva «queer», unita da legami non predefiniti; e poi i vari anelli, i cerchi man mano più grandi che la circondavano, e non l’hanno abbandonata sino alla fine. Rabbia perché quella di Michela Murgia fu un’intervista politica, per almeno tre motivi. Il primo motivo era la Sardegna. La scrittrice era convinta che la sua fosse una terra colonizzata dagli italiani. Si era anche candidata alla presidenza della Regione: il programma era l’indipendenza, e aveva preso il 10% contro tutti i partiti. La ribellione contro le servitù militari imposte ai sardi era una delle cause della sua celebre polemica contro il generale Figliuolo, l’idea che affidare la campagna di vaccinazione a un militare rappresentasse una violazione delle libertà. Il secondo motivo era Giorgia Meloni. «Spero solo di morire quando non sarà più presidente del Consiglio», disse. Meloni rispose: «Spero davvero che lei riesca a vedere il giorno in cui non sarò più presidente del Consiglio, perché io punto a rimanere a fare il mio lavoro ancora per molto tempo. Forza Michela». Il terzo motivo erano i diritti. Michela Murgia detestava l’espressione «utero in affitto», mentre rivendicava l’espressione «utero in affido». La maternità per lei non era un fatto biologico ma affettivo. Chiedeva più diritti per l’amore, e più diritti per la morte. Disse che aveva deciso di sposarsi, e solo per caso la scelta era caduta su un uomo anziché su una donna: lo Stato non si accontenta di una relazione, chiede un ruolo, e Michela Murgia aveva voluto un marito perché qualcuno potesse attuare le sue volontà, evitare accanimenti terapeutici, stabilire il momento giusto per andarsene: «Posso sopportare molto dolore, non posso sopportare di non essere presente a me stessa». Detestava la retorica della lotta contro il male, della guerriera, della battaglia: «Il cancro fa parte di me; non è qualcosa che ho, è qualcosa che sono».

È stata di parola. È accaduto tutto quello che Michela Murgia aveva detto che sarebbe accaduto. Si è sposata. Ed è morta, sempre con un sorriso di sfida sulle labbra: «Si è creata una certa aspettativa, se non schiatto in breve tempo sembra maleducazione…». Ha avuto il tempo per fare quello che desiderava, abituare se stessa e le persone a lei vicine al transito; «un tempo per pensare come salutare chi ami, e come vorresti che ti salutasse». Diceva di non avere rimpianti, di aver vissuto una vita non lunga ma intensa. Aveva lavorato in un call-center, ispirando il film di Virzì con Sabrina Ferilli, Tutta la vita davanti. Aveva consegnato cartelle esattoriali, insegnato religione – era molto credente —, diretto il reparto amministrativo di una centrale termoelettrica, portato piatti in tavola, venduto multiproprietà, fatto la portiera notturna all’hotel Perego, agli antipodi dalla sua Cabras: in cima allo Stelvio, l’unico ghiacciaio dove si scia pure d’estate. Ora quelli che sostenevano che non fosse poi così grave si guarderanno bene dal chiedere scusa. Qualcuno di quelli che le auguravano la morte diranno che la sfida l’ha vinta la Meloni. Coloro che le volevano bene avranno apprezzato il suo coraggio di morire in pubblico, esercitando sino all’ultimo la sua forma di potere, quello sulle anime, senza rinunciare alle sue asperità, sempre preferendo essere odiata che compatita.

Michela Murgia, era giovinezza il tempo che abbiamo vissuto. Storia di TERESA CIABATTI su Il Corriere della Sera giovedì 10 agosto 2023.

È morta oggi la scrittrice Michela Murgia. Aveva 51 anni. Aveva rivelato la sua malattia, un carcinoma ai reni al quarto stadio, in un’intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo lo scorso maggio («Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono», disse in quell’occasione al Corriere). L’11 giugno, Murgia aveva annunciato il ritiro dagli incontri pubblici. A metà luglio aveva sposato «in articulo mortis» Lorenzo Terenzi (1988), attore, regista e musicista. Con il suo romanzo più noto, «Accabadora» (Einaudi, 2009), aveva vinto il premio Campiello. Il suo ultimo libro, «Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi» (Mondadori, 2023), è entrato subito in vetta alle classifiche dei volumi più venduti.

In questo ricordo del tutto personale e perciò inutile, questo ricordo che ha la forma dell’esibizione di intimità, c’è tuttavia un sentimento universale che sul momento non è stato riconosciuto: il tempo che stavamo vivendo era giovinezza.

Quella sera d’estate che mia figlia undicenne sopraggiunge e dice: non spaventatevi ragazzi, nell’orto ci sono gli ufo. Quella sera di due anni fa, prima che le cose cambiassero per la maggioranza delle persone presenti in casa, adulti e bambini, quando qualcuno si è ammalato, qualcuno è invecchiato.

Con un salto temporale la mia mente oggi passa alla casa nuova di M. A maggio ha detto che i lavori erano quasi finiti. «Sono stati velocissimi — ho commentato — noi veniamo ogni sera, ti avviso». Noi siamo gli amici che nella malattia le sono stati vicini — chi più, chi meno; tra i meno io.

«Mi commuove l’idea di entrare a breve», ha detto M. E poi: «L’unico dispiacere è lo scivolo. Volevo lo scivolo al posto delle scale, metti che arrivi qualcuno in sedia a rotelle». Quella volta dimenticò di avermi già detto, un mese prima, che voleva lo scivolo per quando lei sarebbe stata in sedia a rotelle. Aveva riparlato con l’oncologo. In poche settimane nell’orizzonte dei suoi progetti la persona in sedia a rotelle non era più lei.

Video correlato: Michela Murgia e il "pensiero afono" delle donne (RaiNews multimedia)

Nella stanza con gli addobbi natalizi — il Natale come termine ci pareva un tempo possibile — mi sono offerta di decorare l’albero. Ora puoi aprire gli occhi — avrei detto a M. come dico a mia figlia, Natale dopo Natale, facendola entrare in salotto. Aprendo gli occhi, M. avrebbe visto le luci, le palle di vetro con le montagne dentro.

Dall’immaginazione collettiva del Natale dunque M. si è tolta. Al suo posto una persona generica in sedia a rotelle — dopo la sua morte lei vuole che la casa sia piena di gente. Ma la persona in sedia a rotelle che non è lei non potrà scendere in giardino — niente scivolo, servirà qualcuno forte che la prenda in braccio e la porti giù per le scale andando a depositarla sulla poltrona sotto il pergolato. M. ha fatto costruire un pergolato. Ha detto: «Passerò molto tempo qui sotto».

Ora che il tempo sotto il pergolato è il tempo mancato, si sovrappone ai ricordi. Il vissuto è diventato anche ciò che abbiamo immaginato insieme, tanto che possiamo tornare persino laggiù, nella casa dell’estate. Non ci siamo mai mossi da lì. Sopraggiunge mia figlia, capelli sciolti: ci sono gli ufo nell’orto. E qualcuno di noi, poco conta chi, si volta a guardare.

Lorenzo Terenzi, il marito di Michela Murgia: «Mi chiese di sposarla quest’anno a Pasqua. Tra noi intima amicizia: la baciavo sulla fronte». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 13 agosto 2023.

L’attore e regista: «Ci divertivamo tantissimo, abbiamo riso e abbiamo pianto». La famiglia: «I miei genitori hanno capito». L’affetto: «Sembravamo una coppia di ottantenni felici, ai quali basta uno sguardo per capirsi» 

Michela Murgia con Lorenzo Terenzi alla festa delle nozze, il 22 luglio. Si erano sposati l’11 luglio

Lorenzo Terenzi è il marito di Michela Murgia. Attore e regista, il 19 agosto compie 35 anni.

Quando vi siete conosciuti?

«Nel 2017 in Sardegna. Lei stava lavorando a Quasi Grazia, uno spettacolo teatrale tratto dal libro di Marcello Fois. Io ero stato chiamato all’ultimo come aiuto regista».

La intimidì?

«No. Era la prima volta che Michela faceva teatro professionale e io mi occupavo tanto del training, gli esercizi che si fanno prima. Per fare bene il mestiere dell’attore devi entrare in contatto con parti molto profonde di te. Questo ci ha fatto legare. È stata generosissima fin dall’inizio. Siamo diventati subito amici, poi confidenti, e negli anni “migliori amici”, come diceva». 

Che relazione avevate?

«Più che una relazione, era un’amicizia che ha continuato a fiorire nel tempo: siamo fioriti uno accanto all’altra. Ma non c’è mai stato niente di sessuale, era un’amicizia evoluta all’ennesima potenza. Poi lei ha avuto bisogno di me e mi ha chiesto di fare questa cosa che altrimenti non avrei mai fatto, perché non eravamo mai stati fidanzati, non c’era mai stato niente oltre all’essere fratello e sorella, due esseri umani che si erano incontrati in maniera profonda. Abbiamo riso di cose stupide e pianto di cose difficili».

Quando, le ha chiesto di fare «questa cosa»?

«Più o meno verso Pasqua. “Probabilmente ho un’aspettativa di vita di quattro anni”, mi disse. “Se tra qualche anno sei libero ti va di sposarmi? Così potrò avere vicino una persona di cui mi fido per farla decidere al posto mio”».

E lei?

«Ho detto subito di sì. Poi il quadro clinico è cambiato e mi ha detto che dovevamo anticipare. Le ho chiesto se voleva fare solo una cosa burocratica da tenere tra di noi o se voleva raccontarla agli altri. Rispose che era meglio se lo raccontavamo noi, perché era un personaggio pubblico e bisognava tenere il polso della narrazione. L’ho toccato poi con mano: ogni suo post veniva decontestualizzato e privato del significato originario».

Il fatto che l’abbia scelta, cosa le ha fatto provare?

«Grandi sentimenti, però era anche la naturale prosecuzione di un’amicizia. Magari non mi ero accorto di essere arrivato a quel livello di intimità, ma invece c’ero già e ho capito che potevo farlo».

I suoi come l’hanno presa?

«Molto bene. Hanno capito subito, non si sono fatti condizionare da vocine esterne».

Hanno incontrato Michela?

«Sì, pure mia sorella, che mi ha dato una mano quando è entrata nella casa nuova».

Venerdì dove avete allestito la camera ardente?

«In camera sua, gli amici stretti erano tutti qua. Indossava un kimono fantasia e sotto aveva un vestito verde. Aveva deciso tutto: è riuscita a fare le cose che voleva, come voleva. È impressionante questo controllo lucido fino all’ultimo: il motore è l’amore. Gli ultimi giorni ha salutato tutti, ha perfino dettato un libro».

A chi lo ha dettato?

«A Riccardo Turrisi, uno dei suoi figli d’anima: faceva parte della comunità del gioco di ruolo Lot, si erano conosciuti tanti anni fa. È uno scienziato dei materiali, molto veloce a trascrivere tutto».

In questi mesi Michela non è stata risparmiata dalle critiche. L’hanno fatta soffrire?

«Le potevano dar fastidio le critiche su di lei, ma le dava più fastidio non poter lavorare a battaglie importanti, come la gestazione per altri, i diritti delle donne trascurate, i migranti. Ci pensava anche quando stava male».

Non l’hanno mai intimorita le sue asperità?

«Lei era dura sulle cose a cui teneva, come dovremmo essere tutti con ciò che conta. Ogni artista è scomodo. L’ho sempre trovata una donna molto centrata. E simpaticissima: io sono toscano, eravamo un mix letale di cavolate».

Momenti felici quotidiani?

«Prepararle la colazione e chiacchierare, trovare un modo dolce o carino di darle le medicine. Non si è mai sentita in un ospedale: a volte, anzi, ci riprendeva perché non eravamo pronti subito!».

La vostra festa di nozze?

«Di quei giorni ricordo la follia. Stavamo finendo di sistemare casa, io mi svegliavo presto, montavo mobili, facevo le prove, pulivo. Quando la sera del 22 luglio ho visto in giardino le luci accese con i divanetti, le piante, ho detto agli altri: datemi un pizzicotto. Hanno tutti dato il massimo: avevamo fatto il possibile e l’impossibile».

Litigavate?

«Litigavamo in modo scherzoso. Per esempio: le avevano regalato un fischietto e pretendeva di usarlo come richiamo. Così quando fischiò le risposi con una parolaccia. Poi, scoppiammo a ridere».

Come se n’è andata?

«Serena, a casa, alle 22.50 di giovedì. Intorno a lei le persone che le volevano bene. Dopo, siamo stati travolti da una valanga d’affetto. Sarebbe stata contenta».

Vi siete detti qualcosa?

«Sembravamo una coppia di ottantenni felici, ai quali basta uno sguardo per capirsi. Nel suo ultimo sguardo, mi ha detto tante cose e nessuna».

Un gesto che le mancherà?

«Il bacino che le davo sulla fronte ogni volta che uscivo dalla sua stanza».

Perché al funerale ha chiuso la preghiera degli artisti incrociando pollice e indice?

«È il gesto del cuore in coreano. Michi lo adorava: lo faceva controtempo, quando non te lo aspettavi. Mi è sembrato bello farle salutare così tutte le persone che hanno riempito la chiesa d’amore».

Michela Murgia e quella profonda passione per la cucina. Il cibo? Un modo per nutrire di sé gli altri. Storia di Chiara Amati su Il Corriere della Sera domenica 13 agosto 2023.

Da qui in avanti, almeno per noi, gli spaghetti con le arselle avranno un gusto più intenso, di quelli che lasciano dentro il sapore dell’anima. Perché gli spaghetti con le arselle — ogni volta che tornava nella sua Sardegna — erano il piatto preferito di Michela Murgia, pensatrice libera ancor prima che scrittrice, drammaturga, opinionista e critica letteraria; mancata il 10 agosto scorso per un carcinoma renale al quarto stadio da cui, sapeva benissimo, non sarebbe mai tornata indietro.

Classe 1972, figlia di ristoratori, Michela non amava la cucina: di più, ne era semplicemente ossessionata. Tutti ciò che gravitava intorno alla tavola aveva fatto parte della sua vita in maniera dominante e dannatamente autentica. Era sarda, lei. E della sua terra conservava, tra gli altri, i riti legati al cibo, con uno sguardo attento alla valorizzazione del territorio e alle produzioni agricole. Riti spesso compromessi dalla frenesia di un periodo storico tanto fugace, quanto a tratti superficiale. «Non c’è più tempo a sufficienza — aveva detto nel corso di una intervista lei che, al tempo, si aggrappava con tutta la vita che le rimaneva —. Non c’è più relazione intorno alla tavola». E no, non era una questione di gusto. «Il primo maestro nutrizionista — diceva — è il corpo che, se ascoltato, dà segni chiari». Il gusto arriva poi «e va educato affinché obbedisca al corpo e non viceversa. Il resto è pura suggestione». Poi sosteneva che l’educazione alimentare dovesse entrare di diritto nei programmi scolastici non soltanto come percorso di consapevolezza salutare, ma come forma di educazione civica. Si batteva (anche) per questo, ripetendo spesso che «realizzare un piatto significa progettare comportamenti». Nell’affermarlo non mancava di ribadire che ignorare questa consequenzialità «è una delle forme di irresponsabilità più gravi di sempre».

Michela Murgia, Virzi': "Una ragazza sarda indomabile dal talento puro"

Il cibo come atto alimentare, insomma. Con quell’aura di sacralità propria dell’eucaristia. Di formazione cattolica, una laurea in teologia tra le mani, Murgia conosceva molto bene la portata del mistero cristiano. «Questo pane è il mio corpo, questo vino è il mio sangue» è una delle citazioni che più la affascinava perché intrisa del valore simbolico del mangiare e del farsi mangiare. Al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci lei dava una seconda interpretazione. Così, mentre dal pulpito ancora oggi ci viene ricordato che sono gli apostoli a dover sfamare la gente, lei spiegava quel «date loro voi stessi da mangiare» con un «datevi in cibo, nutriteli di voi». Murgia ci ha nutrito di lei. Lo ha fatto con eleganza in ogni momento della sua vita, in ogni modo le fosse consentito. A partire dai suoi libri — «Accabadora» e «Ave Mary » su tutti — dove la preparazione del cibo è vissuta come culto. E dove quello stesso cibo resta «una delle cose più sensuali che si possano fare al mondo». Anche quando si tratta di realizzare un piatto di spaghetti alle arselle. Semplice, mai banale perché nutrimento per anima e corpo. Eh no, non importa come lo prepareremo. Probabilmente lei — fautrice del «ricordatemi come vi pare» — avrebbe detto: «Siate liberi di scegliere la ricetta che più vi piace». Ma le arselle… no. Michela amava quelle della laguna Mistras, lungo la costa orientale del Sinis di Cabras, poco distante da Oristano. In quella Sardegna che le ha dato i natali cinquantuno anni fa. E che, per unicità, carattere e autenticità, non assomiglia ad altro che a sé stessa. Proprio come lei…

Estratto dell’articolo di Elvira Serra per il “Corriere della Sera” lunedì 14 agosto 2023

Cristiano Murgia ha 50 anni, tredici mesi in meno di sua sorella Michela. […] Ce ne parla da San Giovanni di Sinis, nell’Oristanese, dove è già tornato e dove gestisce il ristorante di famiglia. […] 

Cosa le resta dell’ultimo saluto pubblico a sua sorella?

«È stato una festa. Del resto era da lei, aggiungere ricchezza. […] E poi la macchia mediterranea in chiesa e i carciofi, che per la mia famiglia hanno un significato particolare». 

Quale?

«Nostra madre, donna fortissima, faceva sempre la battuta: “Quando capiterà a me, non spendete soldi in grandi cose, mi mettete dentro una cassettina di carciofi e io sono a posto”. Così quando ho visto quei carciofi mi è venuto un po’ da ridere».

Il suo primo ricordo con Michela?

«Quando da Cabras ci siamo trasferiti qui, dove nostra madre aveva aperto un negozio di artigianato: io avevo 9 anni e Michela 10. San Giovanni era una borgata marina che viveva solo d’estate, d’inverno ci abitavano giusto quattro famiglie: una era la nostra. C’era un pullmino che ci portava a scuola e lei già allora era la leader del gruppo, ma lei è proprio nata leader». 

Faccia un esempio.

«Organizzava escursioni alla scoperta di un mondo diverso dal paese dove eravamo cresciuti. Giocavamo agli esploratori. Andavamo in giro per Tharros, il sito archeologico che ai tempi era a libero accesso. Ci eravamo fatti una cultura sui libri che vendeva nostra madre in negozio e ci piaceva andare lì e immaginare com’era la città di allora». 

[…] Una cosa che ha imparato grazie a sua sorella?

«Mi ha insegnato lei a nuotare, non solo nel mare di San Giovanni, ma nel mare della vita. Mi ha tenuto per mano per tante cose, era il mio punto di riferimento. Dove andava lei andavo io, mi portava sempre appresso». 

Aveva compreso di avere una sorella speciale?

«Io onestamente ancora adesso, e più che mai dopo queste settimane, mi chiedo se sono riuscito a capire chi fosse, perché per me era soprattutto la mia compagna di giochi. Era peggio di mia madre: quando avevo le fidanzatine non andavano mai bene.

Ecco, nemmeno quando vinse il Campiello realizzai che aveva fatto qualcosa di eccezionale: per me era normale che lo vincesse, era il frutto del suo lavoro». 

La vedeva scrivere?

«Sì, certo. Io mi alzavo presto per andare a lavorare, alle 5, e lei era ancora sveglia e la trovavo a scrivere i suoi libri. Cominciava la sera dopo cena e non smetteva fino alle 6 del mattino, quando poi andava a dormire. Diceva che di notte le riusciva meglio». 

[…] Quando l’ha sentita l’ultima volta?

«Giovedì mattina, il giorno della morte, ha chiamato lei alle 11.14. È stata l’ultima telefonata che ha fatto, mi ha detto Roberto Saviano. Era sofferente perché i dolori erano veramente fortissimi e non riusciva più a controllarli, ma l’ho trovata consapevole, aveva la voce stanca ma serena, e questa cosa è stata molto importante quando poi sono andato da mia madre. Ci ha dato forza, ancora una volta lei a noi, pure in un momento in cui era così debole».

È vero che le ha assegnato il compito di disperdere le ceneri in Corea del Sud?

«So che è Lorenzo (Terenzi, il marito, ndr ) ad avere in mano le volontà di Michela. Se così sarà, sarò orgoglioso e felice di farlo». 

È stato difficile separarsi da lei nel 1990, quando vostra madre vi portò da zia Annetta dopo l’ennesima lite con vostro padre?

«Dire che mio padre fosse difficile non rende l’idea: ha messo davvero alla prova la nostra capacità di stare insieme e di essere forti. Vivere con lui è stato un vero incubo. Quando Michela ha deciso di restare da zia, io ho scelto di tornare indietro per non lasciare mia madre da sola con quella persona. Ma ero contento che Michela ne stesse lontana».

Un regalo speciale?

«Una volta mi ha mandato a casa con un pony un biglietto aereo per andare a Londra a vedere i Dire Straits alla Royal Albert Hall, con un badge per la vip experience […]». […]

Il medico di Michela Murgia: «Mi chiamò e mi disse: ora posso andare. Tra noi c’era un patto». Redazione Online su Il Corriere della Sera martedì 15 agosto 2023.

Fabio Calabrò, direttore di oncologia medica all’Istituto nazionale dei tumori del Regina Elena di Roma, è stato il medico di Michela Murgia: «Quella chiamata giovedì mattina, e il nostro patto per rinunciare alla cura»

Giovedì mattina, poche ore prima di morire nella sua casa di Roma, Michela Murgia ha chiesto di poter parlare al telefono con il suo medico. 

«Era molto presto, non l’aveva mai fatto a quell’ora», ricorda — in una intervista a Repubblica , il professor Fabio Calabrò. «Era riuscita a dettare l’ultimo capitolo del libro sulla gestazione per altri, un lavoro al quale teneva particolarmente. Voleva che lo sapessi, che ce l’aveva fatta. “Dottore, ora posso andare”, ha sussurrato. E qualche ora dopo se n’è andata. Anche se è difficile per noi che l’abbiamo conosciuta pensare che lei non ci sia davvero più». 

Calabrò, che è direttore di oncologia medica all’Istituto nazionale dei tumori del Regina Elena di Roma, ha seguito la scrittrice e intellettuale durante il decorso della malattia che l’aveva colpita — un tumore ai reni al quarto stadio, come aveva raccontato la stessa autrice in questa intervista al Corriere , anticipando il suo libro, «Tre ciotole». 

«Da quella notte di Capodanno del 2021, quando ha rischiato seriamente di morire, Michela ha continuato a fare quello che ha sempre fatto. Cioè è rimasta una donna libera. Di scrivere, certo, di amare, di riempire l’esistenza di chi ha avuto la fortuna di starle accanto», spiega ora Calabrò. 

Il ricordo del professore, nel corso dell’intervista, prende le mosse proprio dalla prima volta in cui i due si incontrarono, «al San Camillo. Furono alcuni suoi amici a portarla in ospedale perché durante una tournée aveva mostrato segni di affaticamento. Non respirava bene, era molto stanca. Mi aspettavo una donna scontrosa, polemica, forse addirittura incattivita da quello che le stava succedendo. Percepii in lei, invece, uno sguardo e una accoglienza che non mi sarei mai aspettato. Mi colpì con la sua dolcezza». 

Murgia domandò subito al dottore: «Quanto mi resta?». E gli chiese di stipulare quello che definisce «un patto»: «Che sarebbe stata libera di rinunciare alla cura nel momento in cui le medicine le avrebbero impedito di essere quella che era sempre stata. Io penso che quando si dà una comunicazione corretta a un paziente le si regala la libertà. Forse per questo ha detto che per lei sono stato un buon medico. Le ho garantito la libertà fino all’ultimo giorno. Ed era tutto quello che lei desiderava». 

«Nelle ultime settimane», continua il professore, «non riusciva più a muoversi, ma ha continuato a dettare pagine e pagine con una lucidità incredibile. Ed è stata libera anche quando ha accettato la radioterapia, il taglio dei capelli che ha condiviso in pubblico. Aveva bisogno di conquistarsi giorni, settimane. Sapeva che a un certo punto avrebbe dovuto dire basta. Ed è andata proprio così. Quella telefonata, poche ora prima di morire, è stato il suo modo di affermare ancora una volta la sua libertà: ora ho finito, posso andare».

Lettera di Alessandro Giammei, Francesco Leone, Lorenzo Terenzi, Raphael Luis Truchet, Riccardo Turrisi al “Corriere della Sera” mercoledì 16 agosto 2023.

Roberto Saviano ha accudito Michela Murgia nelle ultime, difficilissime ore della sua vita con la devozione, il coraggio e la generosità di un fratello. Lo ha fatto con un rispetto e una dignità tali che al suo capezzale, al cospetto della malattia e della morte, nel riscaldamento globale che incendia quest’estate infernale, non si è mai tolto la giacca. Non si è tolto quella giacca durante la straziante veglia in casa, né durante il lungo e caldissimo giorno del funerale. In un dolore che ha scomposto chiunque, anche chi non aveva mai incontrato Michela, Roberto non ha trasgredito a questa regola di rispetto e umiltà d’altri tempi. voluto fisicamente nella stanza con sé solo Roberto. È lui che le ha tenuto il telefono vicino alla bocca perché potesse sussurrare, in sardo, le ultime parole alla sua famiglia di origine a Cabras. È lui che ha carezzato e vegliato Michela quando molti suoi familiari d’anima, come chi scrive queste righe a nome di tutte, erano su aerei, treni, automobili, addirittura aliscafi per tornare da lei. È a lui che Michela ha chiesto un ultimo bacio di conforto: il bacio che tutte e tutti speravamo di darle, e che lui per ognuno le ha trasmesso, come un farmaco. L’ultimo possibile farmaco. Il più benefico.

Che Roberto Saviano per Michela fosse più di un amico, più di un compagno di lotte e di un’ispirazione letteraria, più di un fratello, non c’è bisogno di dirlo noi. Lo ha detto lei, con la chiarezza esplicita e straordinaria di cui era capace come forse nessun altro in lingua italiana. Lo hanno registrato telecamere e radio, carte, profili social, piazze e memorie. È dunque una verità condivisa e innegabile. 

Quel che possiamo aggiungere, non per l’interesse di nessuno ma per l’onore del vero, è che parlando al suo funerale Roberto ha esaudito un desiderio fortissimo di Michela, addirittura un mandato. Che lo ha fatto dunque per generosità, per rispetto di una volontà, a spese della sua fatica emotiva e fisica in un frangente devastante. E che lo ha fatto con le parole esatte che Michela Murgia avrebbe scritto se, come certo avrebbe desiderato, avesse potuto pronunciare lei stessa un discorso al proprio funerale.

La gratitudine che proviamo nei confronti di questo gesto ci comanda di chiedere a chiunque ami, o anche solo rispetti, l’eredità straordinaria di Michela Murgia di amare, o almeno rispettare, quel che ha fatto per lei e per noi Roberto Saviano il 12 agosto del 2023. 

Siamo offesi a morte da chi, invece di ricevere il discorso di Roberto come il dono lucido, intelligente, sincero e necessario che è, sta cercando di gettarvi un’ombra estranea con metodi e retoriche fasciste. Da anni Michela ci esprimeva la preoccupazione per la solitudine in cui questo formidabile intellettuale è abbandonato, come tante volte è stata abbandonata lei, quando dice quel che è necessario sia detto.

Non denunciare con disgusto questa infamia sarebbe come uccidere Michela di nuovo. Siamo pronti a denunciare le altre infamie che verranno. E, con il coraggio che Michela ci ha insegnato, ci auguriamo che molte e molti siano con noi e con Roberto. Anche solo pensare, malignamente, che Roberto Saviano abbia tenuto un suo «comizio» al funerale, è irricevibile. 

La buona creanza vorrebbe che si ignorassero simili interessate, volgari infamie all’indomani di una liturgia e di un commiato miracolosamente specchiati, corrispondenti allo spirito e alla volontà di una donna che ci è stata madre, sorella e sposa, una che gesti (non comizi) orgogliosamente politici li desiderava per il suo funerale e continua a sollecitarli con la memoria imperitura. Tuttavia Michela impone, col suo esempio, di anteporre la verità e l’amore alla buona creanza. E dunque desideriamo stabilire alcune cose vere, anche quelle che con eleganza sarebbe stato bello tacere.

Estratto dell’articolo di Elisa Messina per corriere.it giovedì 17 agosto 2023.

Se si potesse misurare l’odio di cui Michela Murgia è stata bersaglio negli anni in metri cubi, quanto sarebbe grande? Almeno tanto quanto entra in un armadio. Che esiste: è nello studio legale di Cathy La Torre, avvocata, attivista, curatrice testamentaria e amica della scrittrice scomparsa il 10 agosto per un tumore. 

Vi sono accatastate tutti fascicoli giudiziari delle cause intentate nell’arco degli ultimi quattro anni a chi la insultava gratuitamente sui social: decine di cause vinte e di cause in corso. Metri cubi di fogli che raccontano le ondate di insulti che la investivano dopo una posizione espressa in tv, o sui social e spesso lasciati visibili sulle bacheche pubbliche di personalità politiche o di testate giornalistiche. […]

[…] insulti alla persona con epiteti violenti, frasi sessiste, attacchi all’orientamento sessuale (“scrofa”, “ti dovrebbero stuprare”, “cessa schifosa”, “più larga che alta”). Parole che mai entravano nel merito delle idee espresse ma prendevano la scorciatoia dell’insulto ignobile. […] 

[…] «Poi nel 2019 - racconta La Torre - decidemmo, insieme, che non potevamo più ingoiare e basta. Bisognava rispondere in sede giudiziaria. Non con querele penali, bensì per via civile. Perché Michela ed io eravamo convinte che il reato di diffamazione sarebbe da depenalizzare e non dovrebbe intasare i tribunali penali che si occupano di reati più gravi.

Meglio agire per via civile con forme di giustizia riparativa ovvero attraverso richiesta di risarcimento danni e richiesta di scuse. «Così, insieme, io per le mie offese, lei per le sue abbiamo avviato una sorta di esperimento giuridico». Esperimento che è anche una battaglia culturale e politica perché insieme, avvocata e scrittrice affiancarono alle cause la campagna «Odiare ti costa»: «È una questione di educazione digitale - spiega l’avvocata - perché non siamo consapevoli del male che fanno le parole che usiamo troppo disinvoltamente sui social». 

Così, dopo le indagini […] per profilare gli haters, sono partite le prime lettere con richiesta di mediazione civile. «In quella sede si può trovare un accordo: per esempio con una lettera di scuse e una donazione in denaro a un’associazione decisa da Michela. L’80 per cento dei casi si sono risolti così. Michela ha partecipato a molte mediazioni e ogni volta si stupiva di come i tentativi di giustificazione fossero sempre gli stessi: “non avevo capito… non volevo offendere…”. Abbiamo decine di lettere di scuse in cui odiatori e odiatrici si pentivano, ma solo quando si trattava di dover mettere mano al portafoglio». 

Si potrebbe tracciare anche un profilo medio dell’odiatore di Murgia: over 50, maschio o femmina in egual misura, politicamente orientato a destra anche se non sono mancati quelli di estrema sinistra. E quando capita che l’odiatore non si presenta alla mediazione, oppure si presenta ma rivendica quello che ha scritto, allora si valuta se procedere con la causa civile per il risarcimento del danno subito: «Vinte tutte. E con risarcimenti altissimi per cause di questo tipo: fino a 25mila euro. Non è semplice quantificare un danno intangibile, non c’è un braccio rotto, o un’auto fracassata, bisogna fare una valutazione sulla reputazione della persona offesa, il suo peso professionale e intellettuale, il suo seguito... Le ultime sentenze erano bellissime in questo senso, ma Michela non ha fatto in tempo a vederle».

In effetti sono sentenze esemplari nella loro formulazione: In una delle ultime, pronunciandosi in seguito a un insulto «razzista e sessista» ancora leggibile sulla bacheca Facebook di Matteo Salvini, il giudice parla di «mero e deliberato attacco all’onore e alla reputazione della sig.ra Murgia» e motiva la condanna precisando che «la volgarità del commento in questione è portatrice di una valenza obiettivamente denigratoria, che non può in alcun modo risultare coperta dall’ombrello del diritto di critica». 

[…] In certi periodi la scrittrice era letteralmente sommersa dall’odio. Racconta La Torre: «[…] Il 2021 fu terribile. Fu insultata per aver criticato la scelta di nominare il generale Figliuolo alla guida della campagna vaccinale, addirittura per le opinioni su Battiato. Le conseguenze sullo stato d’animo della scrittrice erano forti. «Ricordo che nel 2021 aveva iniziato a perdere peso, quando andavamo a cena non mangiava e vomitava spesso. Le dicevo di continuo: “devi farti visitare” e lei mi rispondeva: “è psicosomatico!” Riconduceva il malessere, il vomitare, l’inappetenza all’odio e agli attacchi social». E lo ha voluto narrarlo quel malessere, spiega Giammei: «Il racconto sul vomito nell’ultimo libro, “Tre ciotole” nasce lì: è ispirato proprio dalle reazioni fisiche che le provocavano i commenti di odio e il bullismo di cui era vittima».

Ma come scoprì poco dopo c’entrava anche un tumore. «Eravamo nel periodo della pandemia e Michela non ebbe veloce accesso ai controlli medici» racconta La Torre. Ma quel profondo malessere che gli attacchi le provocavano da mesi era reale, tangibile da tempo. E adesso? L’armadio della vergogna resta aperto. «Porteremo avanti le cause rimaste in sospeso e ne inizieremo altre per le quali Michela ci aveva dato già l’ok […]»

Da La Repubblica.

Estratto dell’articolo di Alessandra Carbonini per genova.repubblica.it giovedì 17 agosto 2023.

“Le battaglie che Michela Murgia ha portato avanti sono state legate a sue convinzioni personali e ad esperienze di vita, ma i contenuti del suo contributo culturale in moltissimi casi sono stati apertamente in contrasto con l’insegnamento della Chiesa e della dottrina cattolica. In modo particolare per quanto concerne la concezione della famiglia e altri argomenti molto importanti come l’aborto, l’eutanasia e altre situazioni del genere” tuona in video il Vescovo della diocesi di Ventimiglia - Sanremo.

“Invito il Vescovo alla riflessione e a fare un tuffo nel 21esimo secolo, e così potrà anche finalmente perdonare la cristiana Giorgia Meloni per aver dato alla luce un bimbo fuori dal matrimonio. Suvvia, cosa vuole che sia” replica dallo schermo Marco Antei, voce autorevole del movimento Arcigay imperiese. Teatro del ‘botta e risposta’, la celebre piattaforma web YouTube.

Protagonisti, Monsignor Antonio Suetta, Vescovo di Ventimiglia – Sanremo, e Marco Antei, Presidente di Mi.a. Arcigay Imperia. Al centro, la scrittrice, drammaturga e opinionista Michela Murgia, la cui scomparsa, come prevedibile, ha portato con sé una scia di commenti positivi e solidali, ma anche prese di posizione di segno opposto, nate da differenti vedute. 

E’ la vigilia di ferragosto quando Monsignor Suetta posta su YouTube un video, un suo commento su Murgia e, in particolare, sullo svolgimento delle sue esequie, pare disattivando poi i commenti, forse prevedendo il maremoto che avrebbe provocato. “Non intendo parlare della persona Michela Murgia – puntualizza subito il Vescovo – desidero soltanto dire una parola in risposta a molte persone che mi hanno contattato esprimendomi delle perplessità e degli interrogativi”. 

[…]

Ma nel mirino del Vescovo di Ventimiglia - Sanremo c’è pure il funerale della Murgia, in riferimento al quale parla di “una serie di applausi quasi come un tifo da stadio, un atteggiamento di festa che mi pare davvero improprio”. Tanto è bastato per provocare la risposta al vetriolo, sempre su YouTube di Marco Antei, Presidente di M.i.a. Arcigay Imperia. 

Il quale, senza peli sulla lingua, ricorda subito in video che “stiamo parlando dello stesso Vescovo che definì la vittoria della Meloni alle ultime elezioni come la vittoria dell’Umanesimo cristiano, giusto per ricordare il contesto”. 

“Vorrei per prima cosa concentrarmi sull’avversione ossessiva del Vescovo per la concezione di famiglia di Michela Murgia – prosegue Antei - Io voglio difendere questa concezione di famiglia queer, nel senso di famiglia scelta, che può essere composta da un uomo, una donna e dei figli, oppure da una donna single o due donne con o senza figli, oppure come nel mio caso, da due uomini e un cane grosso e peloso”.

Nel video, reperibile anche sulle pagine Facebook e Instagram del movimento Arcigay, Antei replica anche a Monsignor Suetta per la critica al ‘coro pressochè unanime di approvazione verso le convinzioni della scrittrice scomparsa. “Ma di cosa stiamo parlando? - così Antei -. Di una religione cristiana e cattolica che domina da un paio di millenni milioni di persone, della conversione forzata nei secoli degli eretici, dei non credenti e dei diversamente credenti, oppure del desiderio di due persone che si amano di potersi sposare e del consenso che questo desiderio suscita?”. […]

Dal “Venerdì di Repubblica” venerdì 25 agosto 2023.  

Premetto che Michela Murgia mi piaceva. Mi piaceva come scrittrice, che per me era la sua qualità migliore, e condivido molte delle opinioni dichiarate in diverse occasioni pubbliche. Quello che non mi piace è questa enfasi collettiva nel celebrare un personaggio e alcune posizioni che per me, vecchia femminista degli anni 70 (il decennio in cui era nata Michela) sono tutt'altro che nuove, anzi perfino ovvie.

So bene che niente è conquistato e guadagnato per sempre, l'impegno va rinnovato. Dopo la mutazione antropologica degli anni 80 e via via a salire fino al nuovo millennio, sembra che tutto sia stato cancellato, soprattutto la necessità di comportamenti rivoluzionari. Però le famiglie non tradizionali e non di sangue esistono da almeno cinquant'anni e le hanno formate e volute persone semplici e meno semplici, famose e meno famose, intellettuali e operaie, gente come me che ha vissuto in una comune o in case occupate, con una schiera di compagni, amiche, figli, dividendo lavori impegni e affetti senza tanto clamore.

E la libertà di dire e fare quello che si pensava e si voleva in coppia l'avevano già sostenuta Simone de Beauvoir e Sartre, il rispetto per ogni tipo di amore, una vita votata alla militanza civile e politica erano stati già inventati e praticati da persone come Hannah Arendt, Bertolt Brecht, Pasolini, da tutte le nostre compagne e compagni.

Dunque, perché tutta questa enfasi? 

Quest'epoca è così povera che per affermare ciò che non è nuovo (ma sempre giusto) è necessario urlare, essere sempre molto visibili, quando basterebbe riscoprire e studiare la storia. Certamente è un mio limite, dato che, da vecchia quale sono, mi tengo stretta alle categorie del secolo scorso e fatico a capire quelle attuali, ma tutto questo conformismo celebrativo post-mortem mi è quanto mai fastidioso, è una musica stonata, specie se a suonarla sono persone della mia età o anche poco più giovani che la storia dovrebbero averla vissuta o perlomeno conoscerla. Non conoscendo MM, non so se le avrebbe gradite, ma se era davvero così poco compiaciuta e compiacente, temo, anzi spero, di no.

Federica Ricci Garotti

Risposta di Natalia Aspesi: 

Michela Murgia mi faceva venire il nervoso, mi pareva che il suo sorriso, la sua foga, e soprattutto quel che diceva, fossero storie, come pensa lei, vecchie, che arrivavano con grande ritardo rispetto a quel che avevamo vissuto negli anni importanti della nostra ribellione, e da lì non riuscivamo più a muoverci, sempre a ripeterci quel che ci eravamo già detti negli anni belli, i 70, gli 80, e chi la pensava così era vivo, giovane, e tutto portato al futuro. 

Oggi è come se non fosse successo nulla, i giovani protetti e abbacinati dal web, e con i genitori in colpa per chissà che, scoprono adesso ciò che abbiamo vissuto noi, come se fossero passati centinaia di anni e non al massimo quaranta. 

Semmai forse c'è una cosa nuova e orribile, si sta affermando il diritto, dico proprio il diritto, di far fuori le donne, tanto che quelle ammazzate dagli ex partner non vanno più neppure in prima pagina. Come se fosse un po' noioso ricordarlo. 

Adesso non mi sgridi perché in questo la penso in modo diverso da lei. Ciò che invece mi ha davvero colpito è stata la fine di Michela Murgia, la sua morte gridata e accolta sempre sino all'ultimo con le sue serene risate, e fra i tanti lacrimosi articoli sulla sua fine quello che mi è sembrato il più bello è l'intervista di Repubblica al dottore che l'aveva in cura. Quando lei ha annunciato la sua morte non ci ho creduto, quando si è fatta rasare i capelli non ci ho creduto, quando si è sposata non ci ho creduto.

E poi da un giorno all'altro, a 50 anni, è morta. Lei ha ragione, forse l'apoteosi è stata davvero un eccesso, ma perché? Perché credo che la gente abbia sentito che quella era una voce libera come non ce ne sono più, che lei aveva deciso di morire per dare coraggio alla paura degli altri. È stato forse l'ultimo grido prima che il silenzio cadesse tra noi. Poi tutto è scomparso, sepolto da se stesso. Adesso siamo qui, vergognandoci, a lottare per il cosiddetto salario minimo, una vergogna, come l'ultima speranza.

Murgia era la favola che sapeva raccontare l'ultima spiaggia: poi forse con lei si è spenta la nostra capacità di resistere.

Da Il Venerdì- La Repubblica venerdì 8 settembre 2023.

A proposito dell'articolo su Michela Murgia su il Venerdì del 25 agosto immagino che lei riceverà numerose risposte. Sarò quindi breve, per non rubarle il tempo di sentirsi, come spesso capita, una incompresa. Innanzi tutto il titolo davvero infelice. Spero capirà. Murgia è deceduta... Non le può rispondere né replicare!!!! Quindi lei compie una vera azione umiliante. 

Dice pure che non le ha creduto quando ha annunciato la sua morte!!!! Beh, forse morire a 50 anni non è stata la sua esperienza, mi pare... forse per questo non ci credeva? In secondo luogo l'inizio della sua risposta: «Michela Murgia mi faceva venire il nervoso...» non capisco perché lei paragoni l'impegno di Murgia alle sue arciripetute e ritrite battaglie vissute negli anni... Murgia era di un'altra generazione, due meno della sua!!!!

Non è che lei, signora Aspesi, ha visto e fatto tutto... Ha parlato di figli d'anima, di famiglie queer... si è battuta in prima linea per battaglie per i diritti che qualcuno ricordi? Ha letto tutti i libri di Murgia? Hai vista a teatro? L'ha seguita alla radio? Ha la stessa storia? È nata in Sardegna in povertà? È laureata in teologia? Io capisco cosa di Murgia non le piaccia. La modernità. La capacità di toccare il cuore e di mettere il dito sulla piaga. Le consiglio di leggere Vespa, o Fabio Volo... anni fa. Cosa ci si poteva aspettare? Io mi aspettavo che sapesse cosa è il rispetto.

Ma che barba signora, possibile che anche lei faccia parte della noiosissima schiera che legge e non capisce quel che legge perché al primo ostacolare perde la testa e scopre quel che lei vorrebbe, per poterne poi parlare male? Di capire, come immagino lei pensi, Roma per Toma? Credo di aver scritto, lontano da ogni lirismo, le parole giuste: anche io sono rimasta colpita perché la signora Murgia stava davvero morendo, senza perdere mai il sorriso, e io, come tanti, non ci ho creduto: è la verità che la infastidisce, è la ragione per cui la folla l'ha così celebrata, è stata la sua sfrontatezza verso la morte?

Quando lei ha annunciato che moriva, noi, abituati alle vostre frasi finte, perché avremmo dovuto crederci? Le ricordo solo, delle mie "arciripetute e ritrite battaglie", che noi vecchi abbiamo ottenuto ciò che compatibile, dal divorzio al diritto di famiglia, che forse lei non conosce ed è quello che ci consente di avere sui figli gli stessi diritti del padre. 

Lei, per darsi delle arie, mi chiede di leggere i libri meno invitanti, mentre come può immaginare io leggo libri che mi piacciono, diciamo a un livello più su. Quanto ai libri della anche premiata, io non ne ho mai letto uno, trovandoli magari belli ma molto semplici, né l'ho mai seguita a teatro perché ciò che piace a me è molto diverso. Poi ha visto come siamo noi: la Murgia lottava per i queer, agli altri la cosa non piaceva, e la sinistra è stata largamente sconfitta. E al potere, chissà per quanto, abbiamo la destra-destra che di queer non ne vuol sentire parlare.

DAGOREPORT sabato 9 settembre 2023.

Casa dolce casa… no, meglio, facciamo Benjamin: “La casa, la patria”. Dico: uno come se la immagina una casa queer? Come minimo senza porte, senza serrature. Partiamo da queer: “Termine utilizzato per indicare coloro che non sono eterosessuali e/o non cisgender, che nella lingua inglese significava eccentrico, insolito, connesso al tedesco quer ovvero di traverso, diagonalmente. Ecco mi immagino una casa in diagonale, un po’ stile Buontalenti a Bomarzo, un pizzico di Gaudì e un quarto di Zaha Hadid.

La casa queer me la immagino, anzitutto, senza pareti verticali, inequivocabili simboli eretti, fallocentrici e patriarcali. Me la immagino, forse, senza un tetto, simbolo di chiusura ed esclusione verso l’esterno e la Natura. Me la immagino come una architettura rispondente alle indicazioni del filosofo Derrida, il cui pensiero in America ha fondato le French Theories reimportate in Europa nella declinazione mainstrem del politically-correct, cancel-culture, gender fluid, queer… insomma, tutte le declinazioni al contrario direbbe Vannnacci. L’architettura, scriveva Derrida, deve essere senza finalità, mettere in crisi il concetto di arché, l’idea che debba servire a qualcosa, che si fondi sul linguaggio classico e instaurativo di utilità, bellezza (firmitas, utilitas e venustas di Vitruvio), deve essere una architettura che sia “chance”, scriveva Derrida. La casa queer me la immaginavo così.

Ed ecco, allora, quale stupore ci coglie entrando oggi, grazie al pezzo di Sara Scarafia (come Scaraffia ma senza una f) su “Repubblica”, entrando nella “Casa queer di Michela Murgia”! Quale senso di tranquillità, quale déjà vu. Anzitutto siamo colpiti dalla grande poltrona a dondolo sulla quale siede il marito in articulo mortis Lorenzo: è una superba immagine patriarcale, dell’Ottocento, penso. Ma Scarafia senza una f subito ci mette in guardia: (la) Murgia, che non era un fuscello qualunqueer (ma questo è bodyshaming!), ci ricorda che “Lei”, quando sedeva sulla sedia a dondolo, “era elastica e aveva un rapporto col suo corpo stupendo”.

Vabbé, se non sul dondolo come una Virginia Woolf, per sedersi (ma sedersi non è un atto poco queer? Poco movimentista?) nella casa queer ci sono divani a L, in grigio chiaro e “le sedie di velluto attorno al tavolo rettangolare” e il parquet di legno chiaro, proprio come a casa di mia sorella, mi viene in mente, che però non è queer e fa il medico di base. La candela profumata sta in una lampada alla turca, uguale a quella che le signore radical-chic della Milano anni Novanta compravano nel costoso negozio di roba esotica chiamato, per paradosso, High-tech.

La libreria della casa queer è a ripiani, razionalista, montabile con su tre libri, le foto e una targa, come dalla mia vicina di casa. Però, attenzione: l’ha montata lo Sgomorrato! Sì, Scarafia senza una f ci informa che “Roberto ha preso il trapano in mano”. E chi non vorrebbe avere una libreria Ikea, antimuffa e antimafia, montata con il Black&Decker da Saviano? Mica l’immigrato pagato in nero!

Ed eccoci nel tempio della casa queer: la cucina. Noooo, quando dici che le donne devono stare in cucina e ti senti il massimo dello stronzo patriarcale… Io credevo che nella casa queer la cucina non ci fosse. Invece “Lei” adorava stare ai fornelli come una sora Fabrizi: “Cucinava il risotto” (“riso e rane trionfo meneghino”, poetava quel minore di Montale).

Nella cabina armadio (urca) ci stanno ancora “gli abiti queer usati per la festa di matrimonio”, quelli bianchi firmati da Dior (accipicchia) indossati pure dallo Sgomoratto, dal cannibale Repetti e dalle pseudo scrittrici amiche sue. Ciò contrasta, in parte, con un articolo del “Corriere” che alcuni giorni fa ci informava che “il guardaroba di Murgia” sarebbe andato a “Chiara Tagliaferri” (caspita, che notizia!): ma la taglia, mi chiedo, andrà bene o si deve passare dalla sarta cinese? 

Sono “momenti di non trascurabile felicità”, scrive la giornalista citando il titolo di un libro molto di moda (eh… i libretti degli pseudo scrittori li sfogliamo anche noi ignorantoni, cara Scarafia senza una f) “quando Lorenzo entra in camera da letto”: ma come, la casa queer c’ha pure ‘na normale camera da letto, letto matrimoniale a due piazze, epitome del matrimonio cattolico e borghese? Manco a tre? Manco il lettone di Putin? Per fortuna, ogni tanto in camera arriva Patrizia (che è? La domestica?) con la “biancheria lavata e stirata, perché la lavatrice nella casa dell’anima non c’è ancora”. Hai capito: pure la lavatrice voleva, l’elettrodomestico massima aspirazione delle sciurette aspiranti cittadine del Dopoguerra!

Nella camera ci sono letto matrimoniale e lettino, come per la famiglia Rossi quando va a fare le vacanze alla Pensione Marisa sull’Adriatico. Ma, attenzione: “Nel comodino che era di Michela – specifica Scarafia senza una f -, ora c’è il quarto volume della Recherche che Terenzi (ndr Lorenzo Terenzi, il marito) sta leggendo”. E qui siamo presi da un sussulto: ma nella casa queer sarà finito lo stesso volume che Alain Elkan stava leggendo su quel maledetto treno per Foggia? Forse è “Repubblica” che dà la copia in prestito?

Da Avvenire.

Michela Murgia, le sue idee, il dibattito: legittimo discutere e farsi domande. Storia di Maurizio Patriciello su Avvenire mercoledì 16 agosto 2023.

Non accenna a scemare il dibattito scaturito all’indomani dei funerali di Michela Murgia. È un bene, se lo si fa con carità, nella verità. Dunque, Murgia che si è sempre detta cattolica ha voluto e ottenuto i funerali in chiesa. Il rito funebre per i cattolici è un momento delicato e importante per la persona scomparsa, per coloro che le volevano bene, per chi partecipa. La Chiesa prega perché il Signore perdoni i peccati che chi riposa nella bara ha commesso per la fragilità della condizione umana e doni conforto a chi è prostrato dal dolore. La morte è una cosa seria, non va banalizzata in alcun modo. C’è chi al suo passaggio sbanda nel rapporto con Dio e chi, al contrario, si fa più pensoso, pone domande, cerca risposte, interroga.

Dio nessuno l’ha mai visto, Gesù di Nazareth ce lo ha rivelato. Da quei giorni, però, ci separano – per adesso – 2000 anni: questo “grande fossato” potrà mai essere calmato? Se sì, quale ponte possiamo attraversare senza il rischio di precipitare nel torrente sottostante? I cattolici dicono: la Chiesa, che procedendo a ritroso affonda le radici in quel tempo, in quei luoghi. Sarà tutto vero? È vero, per esempio, che Maria fu assunta in cielo? La Chiesa ce lo conferma, il dogma è questo. Siamo, naturalmente, nell’ambito della fede cristiana e cattolica. La sorella Michela, di questa Chiesa, come me, come tanti, si è detta figlia. Come me e ogni essere umano ha avuto pregi e difetti. Nessuno si arroghi il diritto di giudicare le sue azioni. I peccati i cattolici – dal Papa all’ultimo dei miserabili – li confessano nel segreto del tanto bistrattato e incompreso confessionale. 

Michela non è stata una donna qualsiasi, ma un’intellettuale schierata politicamente, con idee ben chiare sui temi più scottanti che tengono acceso il dibattito culturale, religioso, politico. Dibattito in cui la Chiesa non poteva, e non può, fare a meno di scendere in campo, se non vuole peccare di omissione e di codardia. La guerra russo-ucraina vede papa Francesco, con le armi che ha a disposizione: la preghiera, la diplomazia vaticana, e l’autorità morale che lo accompagna, intervenire a favore della pace. L’operato del Papa e della Chiesa viene salutato da tutti, capi di Stato, intellettuali, politici di ogni schieramento, gente semplice, con grande rispetto e riconoscenza. Che la Chiesa abbia a cuore la vita umana – sant’Ireneo: l’uomo vivente è la gloria di Dio – dal concepimento alla morte naturale è risaputo. Il perché è sotto i nostri occhi: tutti, anche chi è favorevole all’aborto è stato un piccolo puntino nel grembo della mamma. È una cosa seria, in ballo c’è la vita umana. La donna esercita diritti sul suo corpo, è vero, ma è altrettanto vero che c’è un essere umano che è troppo piccolo per potersi difendere. Qualcuno, magari un avvocato d’ ufficio, può tentare di dare voce alla sua flebile voce? Può chiedere di prendere in considerazione, oltre ai sacrosanti diritti della donna incinta, anche quelli del bambino non ancora nato? Ci siamo arricchiti o impoveriti? Quanti ragazzi, oggi, salvati dalla fogna all’ultimo momento, sono felici di vivere? È possibile perseguire questo et-et senza farci inutilmente male? Sì? Facciamolo. L’utero in affitto, per chi scrive, è un obbrobrio, per altri no. Alle donne povere dei Paesi poveri prima abbiamo rubato le braccia, poi il loro corpo per la nostra insana libidine, infine i loro figli che facciamo nascere, a pagamento, su commissione.

La Murgia nel suo capolavoro “Accabadora” parla dell’adozione da parte di Bonaria Urrai di una bambina di pochi anni, quarta figlia di una vedova povera. Maria sarà per lei una “figlia d’anima”. I genitori di mio padre, pur avendo messo al mondo diversi figli, accolsero in casa due “ figli della Madonna”, come venivano chiamati i bambini abbandonati presso il brefotrofio di Napoli. Questi miei zii, fino alla morte, andarono alla ricerca delle loro mamme, delle loro storie. Altra cosa è l’utero in affitto. La Chiesa ha preso posizione, come per la guerra, come per l’aborto.

Michela ha combattuto su posizioni opposte a quelle della “sua” Chiesa. Così ha ritenuto di fare, era suo diritto, ha fatto le “sue” battaglie. Per questo motivo è stata osannata da chi la pensa come lei e avversata da chi si trova sul fronte opposto, è normale. Così come è normale che da un punto di vista della fede cristiana cattolica qualche domanda la gente se la ponga. E non credo inadeguatamente. Rientra nei loro diritti di cittadini liberi e di credenti. Le idee sono fatte per essere discusse, accolte, confutate, rigettate. Le idee non muoiono con noi. Riposa in pace, Michela.

Da Il Tempo.

Michela Murgia è morta a 51 anni. A maggio aveva rivelato la sua malattia. Il Tempo l'11 agosto 2023

È morta Michela Murgia. La scrittrice aveva 51 anni ed era malata da tempo di un carcinoma al quarto stadio, del quale aveva parlato pubblicamente in una intervista al Corriere della Sera a maggio. Nata nel 1972 a Cabras, in provincia di Oristano, aveva esordito nel 2006 con ’Il mondo deve sapere'. Tra le sue opere più note ’Accabadora', ’Tre ciotole' e ’Istruzioni per diventare fascisti'.

La scrittrice aveva rivelato nella lunga intervista al Corriere della sera di avere un tumore in uno stadio avanzato, al punto che «l’obiettivo non è sradicare il male, ma guadagnare tempo». Aveva raccontato la convivenza con la malattia che le aveva colpito i reni, per poi estendersi ad altri organi. Due mesi fa aveva sospeso le uscite pubbliche, affermando nelle stories di Instagram di star tornando a casa «da quella che era l’ultima uscita pubblica che conto di fare per i prossimi sei mesi». Aveva poi ringraziato le persone che la invitavano, dovendo però rifiutarli: «Non ho le forze né il tempo per accettarli, il mio prossimo tempo è per chi amo». «Non farò neanche presentazioni di Tre Ciotole», aveva poi detto a proposito della sua ultima opera. L’editore Einaudi l’ha ricordata in un tweet, citando l’incipit del suo libro ’God Save the Queer’: «Dio mi ama come sono e vorrò essere, oppure rimarrò un disordine oggettivo nell’ordine della creazione, un’anomalia di programmazione destinata a stare ai margini, a essere guardata con sospetto, un peccato ambulante per il solo fatto di esistere così come sono?». 

Murgia è stata sposata dal 2010 al 2014 con Manuel Persico, informatico bergamasco di dodici anni più giovane. In seconde nozze ha sposato l’attore e regista Lorenzo Terenzi, di sedici anni più giovane. Matrimonio avvenuto qualche settimana fa non senza polemiche in quanto la scrittrice ha sottolineato la necessità di contrarre le nozze per vedere garantiti i diritti al compagno e a quella che lei definiva la ’famiglia queer’. Infatti a seguire la scrittrice - una volta trasferitasi nella nuova casa con giardino - ha organizzato una grande festa per festeggiare e celebrare l’unione del gruppo e la condivisione. Alla festa ha partecipato anche Roberto Saviano, considerato facente parte del gruppo. I partecipanti erano tutti vestiti di bianco, come se fossero tutti sposi. 

Michela Murgia è morta a 51 anni. A maggio aveva rivelato la sua la malattia. Il Tempo l'11 agosto 2023

È morta Michela Murgia. La scrittrice aveva 51 anni ed era malata da tempo di un carcinoma al quarto stadio, del quale aveva parlato pubblicamente in una intervista al Corriere della Sera a maggio. Nata nel 1972 a Cabras, in provincia di Oristano, aveva esordito nel 2006 con ’Il mondo deve sapere'. Tra le sue opere più note ’Accabadora', ’Tre ciotole' e ’Istruzioni per diventare fascisti'.

La scrittrice aveva rivelato nella lunga intervista al Corriere della sera di avere un tumore in uno stadio avanzato, al punto che «l’obiettivo non è sradicare il male, ma guadagnare tempo». Aveva raccontato la convivenza con la malattia che le aveva colpito i reni, per poi estendersi ad altri organi. Due mesi fa aveva sospeso le uscite pubbliche, affermando nelle stories di Instagram di star tornando a casa «da quella che era l’ultima uscita pubblica che conto di fare per i prossimi sei mesi». Aveva poi ringraziato le persone che la invitavano, dovendo però rifiutarli: «Non ho le forze né il tempo per accettarli, il mio prossimo tempo è per chi amo». «Non farò neanche presentazioni di Tre Ciotole», aveva poi detto a proposito della sua ultima opera. L’editore Einaudi l’ha ricordata in un tweet, citando l’incipit del suo libro ’God Save the Queer’: «Dio mi ama come sono e vorrò essere, oppure rimarrò un disordine oggettivo nell’ordine della creazione, un’anomalia di programmazione destinata a stare ai margini, a essere guardata con sospetto, un peccato ambulante per il solo fatto di esistere così come sono?». 

Murgia è stata sposata dal 2010 al 2014 con Manuel Persico, informatico bergamasco di dodici anni più giovane. In seconde nozze ha sposato l’attore e regista Lorenzo Terenzi, di sedici anni più giovane. Matrimonio avvenuto qualche settimana fa non senza polemiche in quanto la scrittrice ha sottolineato la necessità di contrarre le nozze per vedere garantiti i diritti al compagno e a quella che lei definiva la ’famiglia queer’. Infatti a seguire la scrittrice - una volta trasferitasi nella nuova casa con giardino - ha organizzato una grande festa per festeggiare e celebrare l’unione del gruppo e la condivisione. Alla festa ha partecipato anche Roberto Saviano, considerato facente parte del gruppo. I partecipanti erano tutti vestiti di bianco, come se fossero tutti sposi.  

Michela Murgia, tensione ai funerali a Roma: "Comunisti di m...". Il Tempo il 12 agosto 2023

Una piazza del Popolo piena per l'ultimo saluto a Michela Murgia nonostante il caldo. I funerali nella Chiesa degli Artisti sono celebrati da don Walter Insero, tra la folla anche la segretaria del Pd, Elly Schlein, e una folta rappresentanza di famiglie Arcobaleno. Sotto le arcate della Chiesa trovano riparo alcuni rappresentanti dell’Anpi, con foulard e bandiere tricolori. Palloncini raffiguranti coloratissimi cavallucci marini si elevano nell’aria, mentre un signore orgoglioso sfoggia un cartoncino con la scritta ’Grazie Michela'. Tra i volti noti, Concita De Gregorio, la coppia formata da Francesca Pascale e Paola Turci, Ritanna Armeni, Roberto Saviano e tutta la famiglia "queer", come la definiva Murgia. 

 In chiesa non ci sono fiori, secondo quanto disposto dalla stessa scrittrice scomparsa a 51 anni per una grave malattia, tanto che è stata rimandata indietro anche la corona di fiori del Comune di Roma. Secondo quanto appreso da LaPresse da fonti della famiglia, Murgia non voleva fiori recisi in chiesa. Tutti i cuscini di fiori mandati da diverse autorità, dal sindaco al Comune, sono rimasti fuori sul sagrato.

Non è mancato un momento di tensione, quando un uomo di circa 50 anni ha gridato alla folla sul sagrato: "Comunisti di m***a. Viva la Meloni". La folla ha cominciato rumoreggiare e dirigendosi da dove era arrivata quella voce, poi la situazione torna tranquilla. L’uomo è stato poi avvicinato dagli agenti della Polizia locale. 

Da Leggo.

Morte Michela Murgia: le reazioni dei politici, vip e personaggi della televisione. Sono stati tantissimi i messaggi di cordoglio per la morte di Michela Murgia: da Calenda a Salvini, passando per Geppi Cucciari e Roberto Saviano. Jacopo Romeo su Notizie.it il Pubblicato il 11 Agosto 2023

Michela Murgia è morta ieri all’età di 51 anni: la scrittrice e attivista era afflitta da un carcinoma al quarto stadio e per tanto tempo aveva raccontato la terribile esperienza della sua malattia. Tutta Italia si è stretta nel dolore e non sono mancati i messaggi di cordoglio da parte dei personaggi pubblici. Dal mondo della politica a quello della televisione: in molti hanno voluto mandare un ultimo pensiero alla Murgia.

Michela Murgia è morta: le reazioni dei politici

Uno dei primi politici a far sentire la sua voce è stato Carlo Calenda, intervenuto così su Twitter: “Perdiamo una voce potente nel dibattito pubblico, creativa nella scrittura e una persona libera e coraggiosa. Riposa in pace Michela Murgia.”

Gli fa eco anche il parlamentare Alessandro Zan: “Lotteremo insieme sempre, perché ci sarai sempre e vinceremo noi”. La Boldrini definisce Michela Murgia una femminista, Maurizio Lupi le dedica un bel saluto: “Molte cose ci dividevano da Michela Murgia, ma ora è il momento del dolore per la sua scomparsa e del rispetto per una donna che ha reso la sua malattia un incitamento alla pienezza della vita. Le sue argute provocazioni hanno saputo stimolare riflessioni profonde. Ci mancherà.”

Simile anche il messaggio di Nicola Fratoianni: “Ciao Michela. Ti ho voluto bene. Grazie di tutto. Che la terra ti sia lieve”, mentre Matteo Salvini le dedica una preghiera.

Le reazioni alla morte di Michela Murgia dei vip e dei personaggi televisivi

Non solo i politici hanno reagito alla scomparsa di Michela Murgia. Sono arrivati anche tanti messaggi da parte di vip e personaggi televisivi come Geppi Cucciari: “Quel tuo ultimo sorriso, donna luminosa, lo porterò sempre con me.”

Intervengono poi anche Roberto Saviano: “Ma l’amor mio non muore”, Luciana Litizzetto: “Non so come faremo a stare senza di te. Ci hai insegnato come vivere e anche come morire” e Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia: “Le persone come Michela Murgia sono corrosive. Perché, appunto, corrodono, intaccano i poteri, non ne sono comode stampelle. Indicano una direzione, un cammino da intraprendere. Raccontano di diritti e di libertà.” 

Estratto da leggo.it sabato 12 agosto 2023.

Vittorio Sgarbi non ha risparmiato il suo pensiero nei confronti di Michela Murgia neanche nel giorno dopo la sua morte causata da un tumore all'età di 51 anni. Il sindaco di Arpino, in gesto di "omaggio" senza ipocrisia ha ricordato alcune delle affermazioni che non ha mai condiviso della scrittrice e di come anche lei, secondo il suo parere, dicesse delle sciocchezze tanto quelle che Michela Murgia criticava ad altri. 

Ecco le dichiarazioni di Vittorio Sgarbi. «Non sono un ipocrita, e nel rispetto che si deve a chi non c’è più, e ancor più a chi le ha voluto bene, devo dire che della Murgia donna di cultura conservo un pessimo ricordo - ha scritto Vittorio Sgarbi su Facebook -. Quando, per esempio, disse di Battiato: “Scriveva delle minchiate”. Mi sarei aspettato argomentazioni più profonde invece che una battuta cosi triviale. 

Ricordo anche quando, per puro pregiudizio politico e faziosità, trasformò un saluto militare in un saluto romano. O quando, pochi giorni fa, polemizzando con l’amministrazione di Ventimiglia, ha evocato addirittura “il regime fascista”. Ma la Murgia credo che appartenesse a quella schiera di mitizzati intellettuali di sinistra a cui tutto è concesso, anche insultare uno dei più grandi autori e compositori della musica italiana con il compiacimento dei moralisti alla bisogna, pronti invece a scagliarsi contro i sovvertitori del politicamente corretto: penso a giornali militanti come “Il Fatto” o “La Repubblica”.

Grande rispetto per la sofferenza di questa donna e per la sua morte, ma vedo e leggo messaggi e parole di circostanza che rivelano incoerenza e ipocrisia. Anche la Murgia, quando interveniva nel dibattito politico, diceva un sacco di “minchiate”. Ricordarlo oggi che non c’è più significa renderle onore con franchezza e lealtà». […]

Da Notizie.it.

Cos’è il carcinoma renale, la malattia che aveva colpito Michela Murgia. Notizie.it il Pubblicato il 11 Agosto 2023 

La scrittrice e attivista Michela Murgia si è spenta ieri a causa della terribile malattia che l’aveva colpita qualche tempo fa. Il carcinoma renale della Murgia era arrivato al IV stadio e “Da qui non si torna più indietro” – aveva dichiarato lei lo scorso mese di maggio. Non sempre, però, va in questo modo: gli esperti sostengono che un tumore al rene, anche così avanzato, può non essere una condanna definitiva.

Cos’è il carcinoma renale, il tumore che ha colpito Michela Murgia

“Il dato positivo è che i tumori vengano molto spesso individuati quando si trovano ancora confinati all’interno del rene, cioè in fase precoce: in stadio I (inferiore ai 7 cm) o in stadio II (superiore ai 7 cm)” – ricorda Sergio Bracarda, il Direttore della struttura complessa di Oncologia medica e traslazionale e del dipartimento di Oncologia presso l’Azienda Ospedaliera Santa Maria di Terni e Presidente della Società Italiana di Uro-Oncologia. La Murgia, però, era afflitta da un carcinoma arrivato al IV stadio: un tumore che arriva a colpire anche organi distanti. Nonostante questo, però, il cancro può essere operabile: “Fino a non molto tempo fa la malattia al IV stadio veniva definita non operabile, mentre oggi questo assunto viene messo in discussione quando ci si trova di fronte a pazienti oligometastatici, ossia con poche metastasi.” Anche se in fase metastatica, dunque, in alcuni casi la malattia può essere asportata attraverso pratiche di chirurgia e radioterapia, ma non sempre si può ricorrere all’operazione. Quando ci si trova di fronte ad un carcinoma renale al IV stadio non operabile si procede con la somministrazione di farmaci che possono limitare l’azione del tumore. “Fino a 10 anni fa la sopravvivenza a 5 anni era del 5% circa, mentre oggi si attesta intorno al 40%” – spiega Barcarda, raccontando di numeri più che quintiplicati in pochissimi anni grazie alla ricerca scientifica.

I numeri e i sintomi del tumore renale in Italia

Il carcinoma renale non è uno dei tumori più frequenti: tra tutti i tumori solidi che colpiscono gli adulti rappresenta solo il 3% con 12.600 mila casi nel 2022 (7.800 negli uomini e 4.800 nelle donne).Il problema legato a questo tipo di tumore è che spesso i suoi sintomi vengono scambiati per quelli di un semplice caso di calcoli renali. Per questo, molto spesso la diagnosi viene fatta in ritardo o scoperta per caso, quando il paziente non se lo aspetta. In generale, segnali più frequenti sono la presenza di sangue nelle urine e un forte dolore al fianco. Il fumo di sigaretta, come per tanti altri tumori, incide come fattore di rischio, così come l’obesità e l’ipertensione arteriosa.

Funerali Michela Murgia: perché c'erano dei carciofi sul feretro? Niente fiori in chiesa ma, per i funerali di Michela Murgia, sul feretro c’erano dei carciofi: perché? I dettagli sulla decisione. Ilaria Minucci su Notizie.it Pubblicato il 12 Agosto 2023

FUNERALE

Ai funerali di Michela Murgia, è stata imposta la regola “niente fiori in chiesa” ma sul feretro c’erano dei carciofi: perché? A prendere la singolare decisione, è stata proprio la scrittrice prima lasciare questo modo. Cosa si cela dietro la scelta dell’autrice di Accabadora?

Funerali Michela Murgia, niente fiori in chiesa: perché c’erano carciofi sul feretro?

Niente fiori in chiesa per le esequie di Michela Murgia. Anche la corona inviata dal comune di Roma è stata rimandata indietro mentre tutte le composizioni e i cuscini floreali arrivate in piazza del Popolo sono stati “rifiutati” e lasciati all’esterno della Basilica in cui si sono svolti i funerali, nel rispetto delle ultime volontà della scrittrice.

Non stupisce, quindi, che il feretro arrivato nella chiesa degli Artisti non fosse ricoperto da fiori. A stupire, invece, è il fatto che sia stato decorato con dei carciofi.

Chiara Valerio: “Michela non amava i fiori recisi. I carciofi sì”

A fare chiarezza sulla singolarità della “decorazione” che ha accompagnato la bara della scrittrice è stata l’amica e collega Chiara Valerio. “Non è mai riuscita a far crescere una pianta, neanche grassa, e, ciò nonostante, non amava i fiori recisi. I carciofi sì”, ha detto Valerio.

Oltre ai carciofi, in chiesa sono state ammesse esclusivamente composizioni vegetali realizzate con mirto, limone e peperoncini.

Funerali di Michela Murgia a Roma, il feretro lascia piazza del Popolo con il coro "Bella Ciao".

Si sono tenuti a partire dalle ore 15:30 di sabato 12 agosto i funerali di Michela Murgia: il feretro, arrivato in piazza del Popolo, è stato accolto con applausi. Ilaria Minucci su Notizie.it Pubblicato il 12 Agosto 2023

ARGOMENTI TRATTATI

Funerali Michela Murgia: il feretro arriva in piazza del Popolo tra gli applausi

L’omelia: “Siamo qui per ringraziarla. Questo addio è un arrivederci”

Il feretro lascia piazza del Popolo, ancora applausi per Murgia: la folla canta Bella Ciao

I funerali di Michela Murgia, scrittrice scomparsa il 10 agosto all’età di 51 anni, sono stati celebrati nella Basilica di Santa Maria in Montesanto (o Basilica degli Artisti) in piazza del Popolo a Roma da don Walter Insero. Il parroco ha celebrato anche i funerali di Gina Lollobrigida e Maurizio Costanzo.

Funerali Michela Murgia: il feretro arriva in piazza del Popolo tra gli applausi

Le esequie hanno avuto inizio alle 15:30 di sabato 12 agosto ma non sono state trasmesse in diretta televisiva. Poco prima delle ore 15:00, il feretro della Murgia ha raggiunto piazza del Popolo ed è stato accolto con ovazioni e applausi dalle persone che si sono recate nella capitale per dare l’ultimo saluto all’autrice di Accabadora. Nella piazza romana, si sono radunati amici, lettori, colleghi e la famiglia queer dell’attivista.

In prima fila, erano presenti Roberto Saviano (che ha descritto le esequie come un “funerale politico”), Teresa Ciabattie Chiara Valerio. Poi, il marito della scrittrice, Lorenzo Terenzi, e i figli d’anima Raphael Luis (con la madre Claudia), Francesco Leone, Michele Anghileri e Alessandro Giammei.

Tra coloro che si sono radunati in piazza per salutare Murgia, c’erano anche le amiche Francesca Pascale con la moglie Paola Turci, la scrittrice Chiara Tagliaferri e la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein

L’omelia: “Siamo qui per ringraziarla. Questo addio è un arrivederci”

Aprendo la funzione funebre, don Walter Insero ha cominciato l’omelia in memoria di Michela Murgia nella Chiesa degli Artisti con parole precise. “Michela ha pensato questo, voleva che la salutassimo qui e l’accompagnassimo con la nostra preghiera”, ha detto. “Siamo qui per renderle il nostro affetto, per ringraziarla, ma soprattutto siamo qui per accompagnarla in questo viaggio verso la casa del padre. Le diremo oggi addio, affidandola alla misericordia di dio, sapendo che questo addio ha il significato di un arrivederci”.

Secondo quanto appreso da La Presse, la scrittrice aveva espresso il desiderio che all’interno della chiesa non fossero presenti fiori recisi. I cuscini di fiori, quindi, sono stati lasciati all’esterno della struttura religiosa.

Il feretro lascia piazza del Popolo, ancora applausi per Murgia: la folla canta Bella Ciao

Concluse le esequie, le migliaia di persone che si sono radunate all’esterno della Basilica di Santa Maria in Montesanto hanno cantato Bella Ciao, dando vita a un commovente coro. I presenti, inoltre, hanno nuovamente scelto di salutare la scrittrice con un lungo applauso mentre gridavano il suo nome, “Michela”.

In occasione dei funera, anche l’Anpi ha nuovamente voluto salutare l’autrice di Accabadora. “È stata una partigiana, sempre e comunque libera. Anche l’ultimo periodo più doloroso lo ha reso politico, condividendo con la comunità e lottando, fino all’ultimo”, hanno dichiarato all’Adnkronos i membri della delegazione dell’Anpi che hanno partecipato al funerale.

Michela Murgia, il discorso emozionante di Chiara Valerio al funerale: "Parlerò di lei solo al futuro". Tra le persone che hanno salutato Michela Murgia, c'era anche l'amica e scrittrice Chiara Valerio. Il discorso ha "rubato" una risata ai presenti. Valentina Mericio su Notizie.it Pubblicato il 12 Agosto 2023

LETTERATURA

Ai funerali di Michela Murgia che sono stati celebrati nel pomeriggio di sabato 12 agosto hanno preso parte le persone più care alla scrittrice: dalla sua famiglia allargata, allo scrittore Roberto Saviano che, proprio con i familiari ha portato il feretro. Tra i presenti c’era anche l’amica, nonché scrittrice Chiara Valerio. Il discorso pronunciato da quest’ultima ha emozionato tutti, facendo al contempo smuovere le risa: “È difficile adesso parlare di lei al passato, così ne parlerò al futuro”, sono state le sue parole d’esordio.

Michela Murgia, il discorso Chiara Valerio emoziona i presenti

Chiara Valerio è partita parlando dei piccoli momenti fatti di quotidianità, degli aneddoti che sono riusciti a scaldare il cuore di chi era presente: “È riuscita a far diventare appassionante la parola ‘queer’ quanto resilienza. Michela Murgia non sgrasserà ancora una volta il brodo di carne, così che il giorno dopo nessuno di noi lo avrà digerito”. Ha poi proseguito osservando: “Mi dirà che la cucina è politica, le donne sono politica, i sanpietrini sono politica, ridere è politica, scrivere è politica, parlare è politica”.

La scrittrice ha infine continuato nella sua riflessione, provando anche ad immaginare cosa direbbe l’amica: “Mi dirà che questo posto è troppo piccolo: ‘Ci hanno sottovalutato e sabotato ancora una volta’. Mi aspetto da lei altre maschere, metamorfosi e soprese; le dirò che è riuscita a far diventare appassionante la parola ‘queer’ quanto ‘resilienza’. Gli inglesi hanno tre parole per dire ‘tempo’, cioè time, weather e tense. Siccome lei andrà via prima del tempo, perché non c’è tempo… siccome siamo stati tutti bambini e sappiamo che è difficile coniugare il verbo ‘tense’, diremo che domani ‘pioverà Michela Murgia’, c’è tanto ‘weather’ per tutti noi. Vabbè, Miche’, tutti, tutte e tuttu”.

Saviano ai funerali di Michela Murgia: “Le parole più difficili. Voleva che questa giornata fosse per tutti”. Roberto Saviano ha voluto ricordare Michela Murgia al suo funerale: le parole dello scrittore dedicate all’amica. Ilaria Minucci su Notizie.it Pubblicato il 12 Agosto 2023

Il primo a prendere parola per ricordare Michela Murgia durante il funerale dell’autrice di Accabadora è stato l’amico e scrittore Roberto Saviano. “Sono le parole più difficili della mia vita”, ha ammesso, raggiungendo il presbiterio.

Funerale Michela Murgia, il ricordo di Saviano: “Le parole più difficili”

“Michela voleva che questa giornata fosse per tutti, tutti coloro che avevano percorso la sua strada”. A dirlo è stato l’autore di Gomorra in occasione del suo discorso pronunciato nella Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo, a Roma, per ricordare l’amica e scrittrice Michela Murgia, deceduta giovedì 10 agosto per un cancro renale a quarto stadio.

“Mettere il segno, sapere chi erano tutti coloro che hanno avuto il suo sentire, mi aveva detto: ‘Cosa mi perderò immagina che gran casino’. Michela aveva un talento che permetteva di ribaltare le cose, questo la rendeva pericolosa ai potenti”, ha raccontato Saviano. “La scrittura era una grande fatica anche se mangiava la tastiera, però odiava scrivere perché la lasciava troppo tempo da sola. Forse è per questo che scriveva nei bar”.

“Per anni, è stata bersaglio”

“Per Michela era la condivisione il tutto, ma spesso per ottenerla devi passare per la solitudine”, ha continuato il conduttore. “La vita di Michela è la prova finale che si sceglie di essere differenti, e Michela per anni è stata bersaglio e ha nascosto questo dolore dentro di sé”, ha aggiunto con commozione.

Saviano, poi, ha voluto condividere con i presenti alcuni frammenti di conversazioni avuti con la scrittrice. “Nei momenti difficili, Michela c’era. E, quando mi attaccavano, diceva: ‘Non sei contento?’, ‘Ma in che senso?’, ‘Siamo in due, ci vengono dietro’”. E ha continuato: “Diceva ‘Abbi fiducia in chi ci legge’. Chi ha fatto davvero del male a Michela sono i pavidi per interesse, quelli che spacciano opportunismo per moderazione con la loro mancanza di orizzonte, ad aver reso la vita di Michi difficilissima”, ha tuonato in chiusura lo scrittore.

La famiglia della scrittrice. Chi sono i “figli adottivi” di Michela Murgia, la famiglia queer della scrittrice scomparsa per la malattia. Redazione su L'Unità l'11 Agosto 2023 

Li ha chiamati “figli d’anima”, definizione che la scrittrice aveva coniato anni fa, quando scriveva il suo romanzo più noto, quel “Accabadora” che nel 2009 le fece vincere numerosi premi.

Sono i quattro ragazzi che Michela Murgia, la scrittrice scomparsa giovedì 10 agosto all’età di 51 anni per un carcinoma renale al quarto stadio, aveva contribuito ad accompagnare nel loro percorso verso l’età adulta.

Raphael Luis, Francesco Leone, Michele Anghileri e Alessandro Giammei facevano parte della grande famiglia della scrittrice sarda: una famiglia che Murgia negli ultimi anni aveva definito “queer”, una famiglia aperta composta da persone non obbligatoriamente unite da legami di sangue.

Quei quattro ragazzi e il marito Lorenzo Terenzi, l’attore e regista conosciuto nel 2017 grazie a uno spettacolo teatrale in cui Murgia era la protagonista e lui lavorava alla regia, e quindi sposato il 15 luglio scorso “in articulo mortis”, oggi piangono la scomparsa di Michela.

Terenzi l’ha voluta ricordare pubblicando una foto in un cui Michela indossa un abito rosso corallo, la testa avvolta in un turbante mentre balla una danza sufi; “Ciao bella“, le parole di Alessandro Giammei postando una foto di loro due ad un tavolino di un bar; “Camminiamo verso altre notti insonni a raccontarci i segreti, a immaginare nuovi orizzonti, a prenderci cura delle persone che amiamo. Benvenuta nella nostra nuova vita. Bentornata a casa, Shalafi amin“, scrive invece Francesco Leone sui social pubblicando una foto di loro due che camminano per strada, ripresi di spalle.

Per passare con loro il poco tempo che le rimaneva, ricorda Repubblica, Murgia alcuni mesi aveva comprato una casa alle porte di Roma dotata di un grande giardino: lì dentro aveva vissuto con Lorenzo Terenzi, con Claudia, la donna con la quale ha condiviso la maternità di Raphael Luis, con Marco, che di Raphael è il padre, oltre a tutti gli amici che in questi mesi di volta in volta sono andati a trovarla. Redazione - 11 Agosto 2023

Da la Stampa.

Estratto Pasquale Quaranta per lastampa.it sabato 12 agosto 2023.

Un applauso commosso durato dieci minuti ha accompagnato l’arrivo del feretro di Michela Murgia e l’ingresso all’interno della Chiesa degli Artisti per l’ultimo saluto alla scrittrice sarda, scomparsa a 51 anni. 

Sul feretro una composizione di macchia mediterranea sarda. A officiare il rito don Walter Insero, cappellano alla Rai dal 2004. Per le esequie sono state scelte le musiche dell’Azione cattolica, di cui Michela Murgia ha fatto parte. Un migliaio di persone in chiesa, nessun membro del governo presente. In prima fila i figli d’anima con il marito Lorenzo Terenzi: Raphaël Luis Truchet, Alessio Giammei, Riccardo Turrisi. 

La celebrazione funebre termina sulle note di “A Diosa” (più conosciuta come “No potho reposare”), canzone scritta nel 1920 dal compositore Giuseppe Rachel e ritenuta la più bella canzone d’amore sarda. Mentre il feretro usciva dalla chiesa, il pubblico ha intonato spontaneamente “Bella Ciao”, un canto di resistenza e di speranza. A portare la bara i familiari e Roberto Saviano.

«Michela è nell'oltre, la sua anima è in questo viaggio verso il Padre non verso il nulla». Così don Walter Insero, rettore della Basilica Santa Maria in Montesanto, durante l'omelia per Michela Murgia. «Michela - ha detto il celebrante - ha fatto tante battaglie, lo sappiamo. Vi invito ad accogliere la testimonianza di fede che ha rappresentato nel momento della prova, nella malattia, nella sofferenza dura che ha vissuto. Michela ha portato avanti la buona battaglia, ha conservato la fede, direbbe San Paolo. Lei ci ha lasciato questa testimonianza: è possibile amare nel dolore, è possibile salutare tutti e riconciliarsi con tutti»

«Siamo qui per salutare Michela Murgia e testimoniare l'impegno che ha avuto: è stata una partigiana, sempre e comunque libera. Anche l'ultimo periodo più doloroso lo ha reso politico, condividendo con la comunità e lottando, fino all'ultimo'». Lo dicono all'Adnkronos i membri della delegazione dell'Anpi presenti al funerale di Michela Murgia. L’ironia di Lella Costa sul pulpito: «Era una persona così intelligente che tutta questa intelligenza in una sola persona è proprio un’ingiustizia distributiva»

«Sono le parole più difficili della mia vita - ha detto Saviano - Michela voleva che questa giornata fosse per tutti, tutti coloro che avevano percorso la sua strada. Mettere il segno, sapere chi erano tutti coloro che hanno avuto il suo sentire», ha aggiunto. «Michela aveva talento che permetteva di ribaltare le cose, questo la rendeva pericolosa ai potenti - ha spiegato poi - la scrittura era una grande fatica anche se mangiava la tastiera, pero' odiava scrivere perchè la lasciava troppo tempo da sola, forse è per questo che scriveva nei bar.

Per Michela era la condivisione il tutto, ma spesso per ottenerla devi passare per la solitudine. Gli ultimi giorni di Michela sono stati difficilissimi, nei momenti più atroci Michela non ci ha fatto pesare il suo dolore. Quando le cose non andavano lei ti diceva: 'Non stare solo, vieni qui'. Le scelte di Michela possono essere sintetizzate in: non essere soli, non lasciare soli. Michela ha protetto tutti fino alla fine, anche nei momenti dolorosissimi della fine»

  (ANSA sabato 12 agosto 2023) - Niente fiori in chiesa per i funerali di Michela Murgia, nella Chiesa degli Artisti a Roma: solo composizioni vegetali, con mirto, carciofi, peperoncini, limone, secondo le sue volontà. Per questo - spiegano dal suo entourage - è stata rimandata indietro una corona inviata dal Comune. 

Estratto dell’articolo di Massimo Giannini per “la Stampa” sabato 12 agosto 2023.

[…] Murgia mancherà a questo Paese, che non l'ha mai amata e capita abbastanza.

Almeno, non come avrebbe meritato. E lei ne ha sofferto, in cuor suo, perché aveva fragilità nascoste che solo chi la frequentava poteva conoscere. Donna totalmente e irriducibilmente libera, prendeva posizione su tutto, da Meloni al Pd, dalla Bibbia all'opera lirica, senza mai arretrare e senza mai fermarsi di fronte alle critiche o ai conformismi. Ma l'odio social che spesso le si riversava contro le procurava un dolore persino fisico. 

Capitava che le chiedessimo di scrivere commenti per il nostro giornale, di cui inevitabilmente era diventata subito una grande firma, e lei rispondeva: «Scusami, non ce la faccio, troppa cattiveria, mi manca il respiro da settimane, sono arrivata al punto di vomitare più e più volte al giorno, per il male che mi fanno». 

Questo la gente non lo sa e non lo immagina. Neanche i miserabili che in politica e nel giornalismo avevano fatto di lei una vittima sacrificale, da esibire ogni volta sull'altare dell'intolleranza ideologica e del risentimento sociale. Ma poi alla fine il suo impegno civile, la sua smodata passione per la vita in tutte le sue declinazioni, pubbliche e private, vinceva su tutto. 

E la sua curiosità inesauribile per il nuovo, la sua convinzione lucidissima e ferrea di poter incidere sulla realtà, per cambiarla senza subirla, avevano la meglio sulla stanchezza e la durezza della battaglia quotidiana. Che andava combattuta sul Web, perché quello ormai era il terreno dello scontro che Michela aveva scelto […] 

[…] Ha fatto della sua vita, e poi anche della sua morte, una testimonianza continua e inesausta. I diritti sono stati il suo pane quotidiano. Tutti quelli che sappiamo, e che l'hanno resa paladina degli ultimi, dei deboli, dei discriminati. Si è nutrita di tutto ciò che non è estraneo all'umano. 

Tutto. E di questa fede, che per lei era anche in Dio ma poi era soprattutto nelle persone, ha nutrito anche noi. Finché ha potuto. Non era convinta di guarire: tutt'altro. Ma forse neanche di morire. Almeno non fino a qualche mese fa. Era solo sicura di voler vivere anche la malattia come aveva vissuto tutto il resto: come una parte di sé, da affrontare come tale. […]

Da “la Stampa” domenica 13 agosto 2023. 

Pubblichiamo, per gentile concessione di Raiplay, la trascrizione di una parte della

lectio di Michela Murgia per “5 scrittori e la paura”, una performance teatrale trasmessa dalla Rai nel 2021(tuttora disponibile sulla piattaforma online di Raiplay)

Parlare di paure è dissacrante, perché le paure sono l'altro nome delle debolezze. E parlare delle proprie debolezze non piace a nessuno, tranne che agli scrittori. Se uno non ha paura, non ha inquietudine, non ha assenze da gestire, fa un altro mestiere: questo lavoro si fa col disagio. Fra tutti i luoghi dell'immaginario, quello dove abitano le paure è il più politico. Se metti in una stanza 20 persone a cui chiedi quale idea politica abbiano, verranno fuori 21 idee diverse. Ma se metti 21 persone in una stanza e chiedi loro di dirti le loro paure, almeno una in comune ce la abbiamo tutti.

 Grazie a quella paura in comune è possibile superare le differenze ideologiche e innestare su di essa un discorso politico. Naturalmente, un discorso politico che si regge sulla paura non vuole risolvere la paura: vuole nutrirla. Lo abbiamo visto succedere molte volte in questi anni: consensi politici sono stati costruiti, a destra e sinistra indistintamente, cercando che cosa temevamo e provando poi a organizzare quei timori secondo sistemi simbolici che non erano mai risposte, perché una paura risolta è un consenso a cui non si può più fare appello.

Quando ho cominciato a interessarmi di paure, l'ho fatto con un approccio del tutto politico. Siamo orientati a pensare che le paure siano uguali per tutti, che il genere umano ha paura della stessa cosa. Io non ci credo. Ci sono paure che sono di tutti e altre solo di alcuni e quelle che sono di alcuni, sono impenetrabili per chi non ha quella paura. L'incomprensione che si genera dall'incontro di due paure diverse è veramente incolmabile perché sulle idee tu ti puoi confrontare, ma sulle paure no. 

Ho cominciato a pensare a questa cosa quando sono venuta a vivere a Roma. Vengo da un paese piccolo, dove ci conoscevamo tutti a sufficienza da far sì che i male intenzionati non potessero palesare le loro intenzioni perché si sapeva di chi erano figli: la mappatura del sangue inchiodava alle responsabilità. Quindi io mi sono abituata a vestirmi in un certo modo.

Ho un corpo procace e amo le scollature, mi sono sempre piaciute. A Roma, mi vestivo all'inizio come a Cabras e tutte le volte che lo facevo provavo un fortissimo disagio perché mi succedeva di essere apostrofata in strada con quello che adesso ha un nome, si chiama catcalling, cioè chiamare i gattini - ehi bona che tette che cosa ti farei! -, una roba che al mio paese non sarebbe mai potuta succedere perché mi sarei girata e avrei detto: ah, ma tu non sei il cugino di quello. E sarebbe finita lì.

Invece a Roma degli uomini in strada potevano impunemente dire tutto quello che gli veniva in mente di fare con il mio corpo, e nel momento in cui veniva pronunciato io me lo sentivo fatto. Mi rendevo conto che in quelle parole, in quelle intenzioni, non c'era un complimento: c'era una minaccia, almeno io la percepivo così. Potrei raccontare quel primo anno e mezzo a Roma attraverso il modo in cui è cambiato il mio armadio: sono arrivata che mi vestivo come Jessica Rabbit, e l'ultimo mese mi vestivo come un pescatore del baltico a maggio. Prendevo tutta una serie di accorgimenti che mi facevano sentire più al sicuro ma anche a disagio: mi guardavo e non mi ritrovavo. Io ero i miei vestiti colorati e le scollature la voglia di impormi al mondo nella mia tridimensionalità: volevo che si vedesse tutto il mio spessore. E invece non potevo più farlo.

Un giorno a Trastevere leggo un invito a partecipare a un campo lesbico dove c'era tra le attività un laboratorio di drag king, cioè sedute di donne che lavorano per sembrare dei maschi: non super maschi pompati e virilissimi, ma dei maschi realistici, normali. Mi incuriosisco, sull'annuncio era scritto: sperimenta il sentirti sicura. Mi iscrivo, vado, il laboratorio è pazzesco. Ci fanno un trucco di quelli cinematografici. Mi comprimono il seno, arriviamo da una sesta a una terza e mi attaccano una barba pelo per pelo, la vestizione dura sei ore. 

E poi la postura: mi dicono come muovermi, come stare, agire, fermarmi. Alla fine mi dicono di andare in un posto dove normalmente non andrei o dove non mi sento mai al sicuro. Vado nel sottopassaggio della stazione di Piramide. E passare lì sotto vestita come un maschio e sembrando un maschio e nella sostanza proiettando un'identità maschile, mi fa scoprire il super potere dell'invisibilità. Cammino e gli altri maschi non mi guardano. Non mi vedono.

Quella specie di invisibilità protettiva mi apre gli occhi in modo drammatico: mi dico che anche i miei amici meglio intenzionati non possono capire quando racconto loro che a Roma ho paura, perché se hanno vissuto in questa invisibilità è chiaro che non potrò mai trasferirgli la mia sensazione. Loro entrando qui dentro possono avere al massimo paura di venire derubati. Come si fa a far capire che quella paura che abbiamo è vera, a persone che ci vogliono bene ma tutto questo non lo vivono? 

Su TikTok qualche settimana fa parte un trend: le donne devono rispondere alla domanda "Cosa faresti se per 24 ore gli uomini sparissero"? Ho salvato alcune risposte: "Vado a fare una passeggiata di notte"; "Me ne andrei a ballare per le strade alle 3 del mattino senza aver paura di morire"; "Correrei ascoltando musica con tutte e due le cuffiette".

Non credo che gli uomini abbiano la percezione che esista una paura così radicata nei loro confronti. Se un uomo si vestisse da donna e facesse la stessa cosa che ho fatto io nel tunnel, non vivrebbe la stessa esperienza. Perché chi è cresciuto in sicurezza tutta la vita si può travestire da quello che vuole. Passare da un rango di privilegio a un rango di assenza (simulata) di privilegio non ti fa perdere la sicurezza originaria: ti fa magari notare che qualcuno ti guarda. Come si fa a risolvere questa cosa?

È molto difficile cambiare comportamenti radicati, ci vuole una volontà ferrea, soprattutto se quel comportamento è un vantaggio per te: perché dovresti rinunciare a una condizione che ti porta dei benefici? Perché dovresti diventare quello che ha paura anziché quello che la incute? Se quel giorno lì, in quel tunnel, fosse passata una donna e mi avesse guardato e avesse visto in me l'uomo che non ero e mentre la fissavo avesse letto nel mio sguardo una potenziale minaccia, se io mi fossi accorta che quella donna aveva paura di me perché vedeva un uomo, chissà che cosa mi sarebbe scattato dentro. 

Magari l'avrei seguita, per vedere quanta paura puoi fare quando sei tu quello forte. Quanto forte puoi diventare se l'altro corre più veloce perché è debole? La scrittrice Naomi Alderman in Ragazze elettriche si è fatta questa domanda ed ha immaginato un mondo in cui le donne in pubertà sviluppano un super potere: dare la scossa. Tutto semplice: ti tocco e ti fulmino, e decido io il voltaggio. Alderman mette in scena donne potenti, che hanno finalmente uno strumento che le rende più forti: e si comportano esattamente come i maschi hanno sempre fatto.

E questo non significa che non bisogna ribaltare i rapporti di forza: significa che non è la quantità di forza l'elemento su cui riflettere, ma è il modello di potere che, se passa semplicemente di mano, non cambia niente, semplicemente inverte il rapporto vittima carnefice, ma non ne discute profondamente l'ossatura. Cosa può succedere se il posto della paura si inverte? 

Non ho la risposta e non la ha neanche Alderman in quel libro perché la letteratura è uno spazio in cui le domande possono sopravvivere, e ci sono domande che non meritano di essere uccise da una risposta: la loro complessità è tale che la risposta può e deve cambiare, e dev'essere continuamente ricercata generazione dopo generazione. Quindi il libro di Alderman resterà a porre quella domanda alle ragazzine e alle loro madri dovunque lo leggano.

A noi rimane la strada di Roma su cui dobbiamo continuare a camminare. Rimangono i nostri compagni. E agli uomini che vogliano capire questo meccanismo, rimane la possibilità di ascoltare esperienze che possono spostarli da quella privilegiata in cui si sono formati. 

Non so come finisce questa strana lectio, so soltanto che se di questa paura non si parla, se questa paura non viene rivelata e tematizzata, tratta come un dato collettivo e anche un bene collettivo - perché le paure di un gruppo umano sono il modo in cui quel gruppo ti sta dicendo devi prenderti la responsabilità di farmi giustizia, oppure me la farò da me – se continuiamo a trattare la paura che le donne hanno del maschile come un problema di ogni singola donna che non ha fatto pace con la sua femminilità e la sua radice femminile, non la risolveremo mai.

Estratto dell'articolo di Lorenzo Rapini per lastampa.it lunedì 14 agosto 2023

No al “tifo da stadio” ai funerali, ricordarsi che le posizioni espresse su temi importanti come eutanasia e aborto sono assolutamente personali, attenzione al momento di celebrazione che deve essere incentrato sulla morte e non sulla vita. 

Il vescovo di Ventimiglia Sanremo, monsignor Antonio Suetta, ha postato questa mattina su Youtube un video di commento, duro e fermo, ai funerali della scrittrice Michela Murgia. E ha anche disattivato i commenti, probabilmente ipotizzando il polverone che avrebbe suscitato. 

«Molte persone mi hanno comunicato la loro sofferenza a cui unisco anche la mia, nel vedere che in chiesa, conclusa la celebrazione delle esequie e ancora in un contesto liturgico e di un luogo sacro, è stata data la parola a persone che esprimono convinzioni e pensieri difformi dalla dottrina cattolica e lo hanno fatto in modo anche, a mio parere, un poco sguaiato, suscitando una serie di applausi quasi come tifo da stadio e atteggiamento da festa, che mi pare davvero improprio sia nella circostanza delle esequie che soprattutto nel contesto di un luogo sacro», dice Suetta.

 «Non intendo parlare della persona, che ha vissuto un'esperienza drammatica e faticosa in relazione alla malattia e che ora ha compiuto il passaggio della morte ed è nel giudizio di Dio. A lei il rispetto che si deve a ogni persona - afferma il prelato -. Desidero soltanto fissare l'attenzione sull'aspetto pubblico di Michela Murgia, come scrittrice e soprattutto in relazione ai contenuti del suo contributo culturale. Mi limito a definirla una scrittrice, in quanto considerarla una teologa mi sembra eccessivo. 

Le battaglie, così è stato detto, che Michela Murgia ha portato avanti erano legate a sue convinzioni personali e a esperienze di vita, ma il suo contributo culturale in moltissimi casi è stato apertamente in contrasto con l'insegnamento di chiesa e dottrina cattolica, in particolare per la concezione della famiglia e altri argomenti molto importanti come aborto ed eutanasia. Rimane per ogni persona libertà di pensiero e espressione e anzi questa libertà può essere contributo a un dialogo. Diverso è accodarsi a un coro pressoché unanime di approvazione, perché le sue esternazioni e convinzioni corrispondono al pensiero oggi dominante e questo non è corretto farlo anche dal punto di vista cristiano, perché la fede cristiana e la dottrina cattolica su questi argomenti hanno visioni differente».

[…]  La scrittrice Chiara Valerio lo ha detto esplicitamente: «Di lei si parlerà solo al futuro». Invece no, per il vescovo Suetta, in un funerale bisogna celebrare il «mistero della morte», non certo la vita.

Suetta è lo stesso vescovo che più volte ha parlato di teoria del gender, che si è espresso in modo fermo contro il ddl Zan sui diritti degli omosessuali, che ha detto stop ai padrini e alle madrine alle cresime nella sua diocesi […]

Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per “la Stampa” lunedì 14 agosto 2023 

Cristiano Murgia ha compiuto 50 anni a luglio. […] 

[…] Adesso che cosa accadrà? Secondo le volontà di Michela Murgia sarà lei a spargere le sue ceneri in Corea del Sud e a disperderle nel mare davanti alla spiaggia di Busan.

«Sono sicuro che il pensiero di Michela non andrà perso ma di questo si occupa il marito. Anche sulle ceneri non so nulla. Michela ha affidato a Lorenzo l'incarico di eseguire la sua volontà, sarà lui a dirmi quello che Michela desiderava».

Quando è stata l'ultima volta che l'ha sentita?

«Alle undici e un quarto del giorno prima di morire. Come in tutte le telefonate importanti, abbiamo parlato in sardo. Mi ha detto che era stanca e che ormai sentiva che stava arrivando il momento e voleva salutarmi. Era stanca ma era fortissima.

Nonostante il momentaccio che stava attraversando è stata lei a consolare me, a dirmi di non rattristarmi. La voce era affaticata ma tranquilla, sembrava che stesse raccontando una favola. So che fisicamente aveva dei dolori molto forti ma mi ha ripetuto che era serena e che aveva fatto tutto quello che aveva deciso di fare. Conosco dalla nascita mia sorella ma, a volte, mi chiedo se la conoscevo davvero». 

[…] Con il tempo le cose si sono complicate. Come siete riusciti a mantenere saldo il vostro rapporto?

«Abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto anche se, da un certo momento in poi, i tempi erano diversi. Il ristorante richiedeva molte ore di lavoro, lei era nell'Azione Cattolica. Andavo a trovarla da mia zia non appena potevo. Per fortuna sono arrivati i telefonini, la patente e le cose sono tornate come prima. Lei mi chiamava per i raduni diocesani o per fare da accompagnatore a un ballo in cui erano dispari. […]». 

Spesso veniva anche a mangiare nel suo ristorante. Che cosa le preparava?

«Le piacevano gli spaghetti alle arselle, le cozze alla catalana, la carne, i nostri dolci di pasta di mandorle, le seadas. Poi ha avuto una parentesi vegana. Arrivava con il tofu e mi diceva che faceva benissimo. E io le rispondevo: quanto pensi che duri qui? Infatti le è bastato sentire il profumo del porceddu grigliato, il momento vegano è scomparso».

[…]

Estratto dell’articolo di Mirella Serri per “La Stampa” giovedì 17 agosto 2023.

Michela Murgia non c'è più, ma è ancora con noi. Michela Murgia, scrittrice e intellettuale militante, se ne è andata dopo un lungo addio ma suscita ancora polemiche e accesi dibattiti.

Da dove nasce questo interesse di continuare a discutere e sviscerare l'opera e la personalità della narratrice sarda, una delle artiste contemporanee tra le più ferocemente osteggiate? 

Azzardiamo un'ipotesi. Michela, con i suoi interventi provocatori e la sua animosità, che ne fossimo più o meno consapevoli anche quando era in vita, ha risvegliato in noi la memoria dell'ultimo grande scrittore che è stato tra i maggiori sostenitori dell'antifascismo nel Novecento: Pier Paolo Pasolini.

[…] la romanziera è oggi per noi quello che in passato è stato Pasolini dagli anni Sessanta fino alla sua morte nel 1975, cioè l'ultimo narratore e polemista, nonché poeta, capace di accendere gli animi coniugando esperienza letteraria e comunicazione di forte impatto. Paradossalmente capiamo solo ora l'importanza della radicale sfida di Murgia, che è stata praticata non solo con gli scritti ma anche e soprattutto con il proprio corpo e con il proprio vissuto. 

Murgia e Pasolini sono loro le icone della protesta intellettuale Novecentesca e post novecentesca, sono i personaggi più scomodi e unici, psicologicamente molto forti e anche molto deboli, a volte dotati di una forte carica di empatia e a volte odiosi, irritanti e scostanti.

[…] MM, come PPP, è stata la scrittrice più amata e detestata soprattutto per la carica antifascista dei suoi scritti. Contro di lei si è scatenata la violenza dei social e si sono attivati i bombardamenti e le umiliazioni che hanno provato a infliggerle gli avversari politici; contro di lui c'è stato per anni l'odio della stampa più retriva e gli agguati dei neofascisti che inondavano di fango e di liquami i cinema che osavano proiettare i suoi film. Ma entrambi hanno compiuto gesti coraggiosi e hanno reso la propria vita un vessillo contro il conservatorismo borghese.

[…] Murgia e Pasolini sono accomunati intanto dalla critica nei confronti dell'istituzione da loro ritenuta il principale ostacolo a ogni cambiamento: la famiglia borghese. Con la sua dichiarata omosessualità e con lo stile di vita che lo mise in feroce contrasto con il padre, Pasolini evidenziò tutti i difetti del patriarcato, sia pure rivisto e modernizzato. In Teorema ha dimostrato, con un linguaggio secco, forte e drammatico, che la vita borghese è ricca di falsità e di ambiguità, che è governata da un orizzonte morale sterile. 

Ma anche per Murgia la protesta più veemente matura nell'humus familiare: la sua denuncia dei limiti della famiglia cresce per via del tossico rapporto con il padre, evolve tramite l'odio per la società patriarcale, per quel luogo infetto e malsano dove si coltivano gli stereotipi pronti a devastare il genere femminile, l'essere donna e qualsiasi forma di diversità e di autenticità. 

Negli anni Murgia ha demolito gli aggregati parentali "normali" con la sua teorizzazione della queer family e ha elaborato un suo concetto di famiglia come una cerchia di persone che si scelgono, al di là dei legami di sangue. Ha sostenuto la bellezza di «una famiglia ibrida, fondata sullo ius voluntatis, sul diritto della volontà» e si è interrogata sul perché la volontà debba contare meno del sangue. 

Ecco dunque Murgia e Pasolini ancora protagonisti della nostra scena culturale, dileggiati e messi sotto accusa in quanto artisti assai lucidi nel cercare di smascherare la pervasività dei nuovi poteri. Pasolini li vedeva radicalizzarsi nelle forme più inquietanti del consumismo, nella mutazione "antropologica" che aveva distrutto i vecchi modelli contadini favorendo la diffusione dell'egoismo, del narcisismo, del disprezzo per il prossimo e la distruzione di ogni tipo di solidarietà. 

Per Michela il nuovo fascismo nasce e conosce il pieno rigoglio a metà anni Novanta, con la discesa in campo di Silvio Berlusconi e con l'affermarsi della Lega, «un partito razzista, antimeridionale, maschilista e separatista per ragioni economiche e fiscali». Il nuovo autoritarismo maschilista, Murgia lo vede evolversi e svilupparsi dal 2001 e dal «G8 di Genova quando si è verificato… un punto di non ritorno... con la violenza di Stato contro gli indifesi» perché «il nuovo fascismo si serve dei percorsi democratici, prima di arrivare a forzarli». 

[…] 

«Ogni epoca ha il suo fascismo», sosteneva Primo Levi con un'affermazione condivisa da Murgia e da Pasolini. Quest'ultimo raccontava a sua volta la devastazione delle periferie urbane e la fine delle tradizioni secolari mentre in maniera utopistica sognava la salvaguardia del Terzo Mondo dalla contaminazione occidentale e borghese. Michela e Pier Paolo, da veri artisti, credevano infine nella forza del linguaggio e nell'importanza della parola ribelle (così Murgia teorizzava l'uso della schwa) e Pasolini sperimentava nei suoi film nuovi stili narrativi.

Infine il tragico commiato di questi due autori dalla vita ha portato alla ribalta in entrambi i casi messaggi politici e antiborghesi. Michela ha programmato la sua scomparsa accompagnandola con podcast, messaggi instagram, nozze in articulo mortis come atto di denuncia delle carenze legislative italiane sulle coppie di fatto. 

Pasolini ha anticipato e prefigurato la sua fine violenta in opere come Salò e le 120 giornate di Sodoma. Entrambi hanno usato «la propria libertà per liberare gli altri», come diceva Toni Morrison con una battuta in cui Murgia si riconosceva pienamente.

Tornando dunque all'interrogativo iniziale, come mai la scomparsa di Murgia ci ha coinvolto in un inaspettato tourbillon collettivo? Ci ha colpito così fortemente perché ritroviamo in lei l'espressione di un messaggio politico trasmesso non solo con le parole ma veramente con il corpo. Come quello di Pier Paolo Pasolini, ultimo scrittore del secolo passato ad aver praticato e a essersi immolato sull'altare del rapporto arte e vita.

Estratto dell’articolo di Paolo Di Paolo per “la Stampa” il 18 agosto 2023.

Impalpabile, inarrestabile l'eredità di pensieri e parole di Michela Murgia viaggia su Telegram. Si muove aerea nelle forme e nelle piattaforme degli anni Venti del Ventunesimo secolo. Sul canale "Purple Square" oltre seimila iscritti tengono vive le sue parole e il suo pensiero [...]

Una matrice è il profilo Instagram la_batt_woman, che raduna giocosamente le autoproclamate bimb* di Murgy e di Slater (la scrittrice Chiara Valerio), quasi undicimila iscritti, fermo però da qualche mese. 

Così il frammento, l'aforisma, il video, il meme perpetuano un'esperienza di condivisione emotiva e intellettuale insieme. [...]

"Purple Square" si incarica di presidiare l'area, di tenerla viva, mentre in luoghi paralleli della rete #michelamurgia ispira iniziative (la petizione partita su Change.org per intitolarle una casa dello studente a Cagliari), dibattiti incandescenti e cortocircuiti ferragostani. Cagnare incattivite, disquisizioni prolisse e volatili sul social degli over 40, Facebook. 

Riassunto grossolano: «In Italia non ci sono più gli intellettuali!», dice il critico. «Ci mancano Sciascia e Pasolini», aggiunge il nostalgico per partito preso. Qualcuno fa notare che Murgia è stata fra i pochi ad avere smosso un qualche dibattito negli ultimi anni. Il critico più critico reagisce: «Ma Murgia non era un'intellettuale, era una influencer». Vabbè.

Non per insistere sul parallelo con Pasolini proposto ieri sulla Stampa da Mirella Serri, suggestivo ma a ogni modo incongruo per troppe ragioni, c'è da considerare che lo stesso rimpianto poeta manifestava una certa stanchezza per le forme tradizionali dell'impegno intellettuale. Insoddisfatto della scrittura, aveva cercato il cinema. Insoddisfatto del romanzo, aveva cercato i giornali (o i giornali avevano cercato lui, ma è lo stesso). Insoddisfatto del cinema, si affaccia - disperato - oltre.

[...] E d'altra parte, il tale che si arrabbia per il parallelo Murgia-Pasolini («Fate vomitare!»), se ne conoscesse davvero pensieri parole opere e qualche omissione, smetterebbe all'istante di difenderlo. C'è un Pasolini addomesticato, rimpianto ogni giorno da cittadini italiani che resterebbero sconvolti se incappassero in certe sue invettive antifemministe o antiabortiste, se si trovassero davanti certe paginate di Petrolio, in cui si parla di merda mangiata e di fellatio a ripetizione. La nostalgia di Pasolini è una retorica patetica: frutto della distanza e dell'ignoranza che ci impediscono di cogliere la potenza (sgradevole, quasi insopportabile) della provocazione di cui era capace.

Detto altrimenti: era uno che si impegnava a fare in modo che la gente NON fosse d'accordo con lui. E il rischio di ridurre Murgia a un'icona-guru non è diverso da quello che corre da decenni il Pasolini effigiato sulle t-shirt e nei locali del Pigneto, quartiere intellettuale e multiculturale di Roma. 

[...] Dopo un post di Loredana Lipperini, perplesso sugli interventi che «con vari gradi di acrimonia parlano del nullo valore letterario dell'opera di Michela», si sono scatenati ulteriormente i critici. Uno di professione, Matteo Marchesini, ha rivendicato la legittima libertà di scandalizzare i fan dei «chierici-influencer». Aggiunge che Murgia sparava a zero a costo zero (non mi pare), e che era una donna di potere.

Non lo era forse, a suo modo, pure l'isolato Pasolini? Sarebbe interessante capire come dovrebbe essere fatto questo/a benedetto/a intellettuale che manca all'Italia (lo chiedo senza dimenticare di avere io stesso polemizzato con Murgia). Quale non-messia aspettiamo? Quale figura di invisibile outsider? Dateci un indirizzo! Astenersi perditempo. [...]

Estratto dell’articolo di Iacopo Scaramuzzi per “la Stampa” il 18 agosto 2023.

[...] Le battaglie per i diritti civili, le incursioni nella teologia e nelle sacre scritture hanno suscitato plausi e critiche, curiosità e prudenze nel mondo, tutt’altro che monolitico, della Chiesa cattolica.

Avvenire l’ha ricordata con articoli elogiativi, non tutti i lettori sono stati d’accordo. Il cardinale Matteo Zuppi ha inviato un messaggio ai funerali presieduti da don Walter Insero: «Anche quando non eravamo d’accordo Michela con la sua ricerca appassionata ci aiutava a trovare i veri motivi e a non essere scontati né supponenti». Per il gesuita Antonio Spadaro, che ha concelebrato, la fede «è la casa degli uomini e delle donne inquiete».

Nei settori conservatori si sono levate voci di protesta. Secondo il vescovo di Ventimiglia e Sanremo, Antonio Suetta, da sempre su posizioni arroccate, la scrittrice non va definita «teologa», poiché «apertamente in contrasto con l’insegnamento di Chiesa e dottrina cattolica ». Sui social un’influencer neocatecumenale, Costanza Miriano, ha messo in dubbio, senza incertezze, la sua fede: «Magari l’ha riacquistata nell’ultimo momento, ma perderla l’aveva persa». Marinella Perroni, a lungo docente di Nuovo Testamento al Sant’Anselmo, non si scompone. 

«Se dobbiamo fare il teatrino facciamolo: ognuno ha il suo copione, Costanza Miriano recita il suo...», sospira la teologa. «Michela non aveva un diploma in teologia ma la sua capacità di elaborazione teologica valeva ben più di un baccalaureato qualsiasi». [...]

Chissà se le reazioni sarebbero così surriscaldate se la Chiesa non stesse attraversando un’epoca di crisi, se non fosse in corso un sinodo che discute dei temi cari a Michela Murgia, se non ci fosse un Papa di nome Francesco. Di certo in una delle sue ultime apparizioni pubbliche, a fine giugno, la scrittrice ha regalato a Bergoglio, che riceveva gli artisti e gli intellettuali nella cappella Sistina, il numero speciale di Vanity fair sulla “famiglia queer”: «Mi aveva detto che avrebbe incontrato il Papa», ricorda Marinella Perroni, «e le ho detto: mi raccomando, portaglielo!». Cosa si siano detti il Papa e la scrittrice lo sanno solo loro.

Perroni non vede contraddizione alcuna tra la fede cristiana e la scelta di Michela Murgia di avere una famiglia “queer”: «Le ho detto: se qualcuno ti accusa di avere dei “figli d’anima”, ricordagli che san Paolo chiama fratelli quelli che non si sono mai visti tra loro. Andare oltre i legami di sangue non è se l’è inventato Michela Murgia. E sputare su di lei dicendo che non è evangelico rivela quale ignoranza dello spirito del Vangelo ha questa gente», dice la biblista.

Poi, certo, «siccome la parola queer evoca torsi nudi di gay palestrati che stanno sul carro del gay pride qualcuno si scoccia... ma il punto è che Dio non sta dentro i parametri in cui lo rinchiudiamo e da cui poi lui si libera, diverge, si discosta. Pensiamo alla parabola del samaritano: più queer di così!», esclama la biblista [...]

E non ci si può stupire che Michela Murgia si sentisse a casa, nella Chiesa, nonostante tutto. Ha voluto funerali religiosi, tra i canti quelli dell’Azione cattolica che la scrittrice cantava negli ultimi giorni di vita, finché aveva fiato, con i “figli d’anima”. Ha scritto il suo “catechismo femminista”, God save the queer (Einaudi), perché, ricorda la biblista, «mi diceva: non puoi immaginare quanta gente, soprattutto giovani donne, mi scrivono per chiedermi come riesco a combinare la mia fede con le mie scelte politiche: glielo devo».

[...]

Da L’Espresso.

Addio Michela Murgia, indomabile Antitaliana. Diritti civili, femminismo, empowerment delle minoranze. Grandi libri e grandissime storie. Le sue battaglie e il suo amore per la vita. Durato sino alla morte. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso l'11 Agosto 2023

Per i lettori de L’Espresso Michela Murgia è e sarà sempre “L’Antitaliana”. L’abbiamo seguita per mesi passare da questo a quell’argomento con la stessa grazia appuntita, che parlasse di una qualsiasi malefatta del governo o della sua passione per i serial televisivi coreani. Non era una sfida facile prendere il testimone da Roberto Saviano che “era uscito dal gruppo”, e che a sua volta lo aveva ripreso direttamente dalla famosissima rubrica di Giorgio Bocca. Murgia però è stata assolutamente all’altezza, – oggi ci sembra ovvio, ma non lo era nel gennaio del 2021 – ed è stato davvero un peccato perderla, nell’estate dello scorso anno, quando già si erano fatte sentire le prime avvisaglie della malattia che l’ha portata via e decise di interrompere la collaborazione.

Prima di diventare l’antitaliana però Murgia era già nota: alle spalle della polemista c’era una grande scrittrice. E questo è purtroppo il momento per prendere o riprendere in mano i suoi libri. Il grande pubblico l’ha scoperta con “L’accabadora” (Einaudi, come quasi tutti i suoi libri), romanzo dark che dava vita nella Sardegna contemporanea a un personaggio del folklore locale, la donna che dava il colpo di grazia a chi stentava a morire.

Ma se quello è un grande romanzo, ci voleva davvero una penna geniale per trasformare in una parodia epica la vita nei call-center, come ha fatto nel romanzo autobiografico “Il mondo deve sapere”, suo debutto nel 2006 per le edizioni Isbn. O a raccontare una storia d’amore sghemba come quella di “Chirù”. O i racconti indomiti di “Tre ciotole”, ispirati dal suo rapporto con la sua malattia che non è stata una battaglia, e Murgia ci ha tenuto molto a sottolinearlo: è stato un confronto alla pari.

Tra i suoi saggi che resteranno negli anni a venire c’è “Istruzioni per diventare fascisti”, uno dei più direttamente politici in una carriera che la politica l’ha sempre fatta guardando alle cose e non alle ideologie: l’eutanasia dell’Accabadora e gli altri diritti civili, certo, ma soprattutto l’identità di genere, il femminismo, l’empowerment delle minoranze.

Il mio preferito resta “Ave Mary”, requisitoria divertita ma mai benevola sul ruolo delle donne in una società patriarciala fondata sulla religione cattolica: ex attivista dell’Azione Cattolica, dava prova di una fede solida ma senza sconti, della fede dei grandi eretici, quelli che non hanno paura di scontrarsi non dico con il Papa ma nemmeno con il Creatore: il Dio di Murgia esisteva, per questo lei poteva prenderlo a sberle.

Era una persona forte, vivace, combattiva, aveva un’energia che lasciava un segno in chiunque la incrociasse anche per pochi minuti, come è successo a me. Avevo scritto per l’Espresso una recensione dell’”Accabadora”, e lei mi disse che ero stata l’unica, fino a quel momento, a rendermi conto che il vero punto centrale di quel libro non era la storia horror della vecchietta col mazzuolo, ma il suo rapporto affettuoso e tormentato con Maria, la sua “filla de anima”, nata da un’adozione “di fatto” che non era riconosciuta dalla legge. Il grumo della famiglia queer che tanto ha fatto parlare negli ultimi mesi era già nelle pagine di quel libro. Perché come allora, anche in questo momento l’accento Michela Murgia non lo mette sulla morte ma sulla vita, non su chi va via ma su chi rimane.

«Michela Murgia lottava per la dignità di tutte le persone escluse dai diritti». Helena Janeczek, Evelina Santangelo, Rosella Postorino, Alessandra Sarchi. Nelle parole delle scrittrici il ricordo dell’autrice che ha scalfito la contemporaneità fino alla fine. Chiara Sgreccia su L'Espresso l'11 Agosto 2023

La letteratura, certo, che le valse il premio Campiello. Ma anche e soprattutto le battaglie civili, condotte con ogni mezzo, l’hanno imposta all’attenzione del grande pubblico, anche di chi non legge. Così le scrittrici celebrano Michela Murgia, autrice e icona dei diritti, che senza timore ha portato avanti le lotte di tutti. Controcorrente, libera dalle cautele reverenziali nei confronti del potere.

«Michela Murgia era una donna forte della sua fede - inseparabilmente - politica e religiosa. Una combinazione rara e preziosissima, come afferma la dissidente turca Ece Temelkuran nel suo ultimo libro, dove l'inglese “fede” viene reso nel titolo con “la fiducia e la dignità”.», scrive Helena Janeczek: «Michela lottava per la dignità delle donne, delle persone queer, di tutti gli esclusi dai diritti. E sino all’ultimo ha voluto conservare la propria dignità, perché il suo vivere e morire potesse servire e infondere coraggio negli altr3. In questa sua fede militante si portava dietro delle esperienze di lunga data: le canzoni intonante da ragazza dell'Azione Cattolica, la velocità con cui in un dimenticabile pub della provincia lombarda sapeva procacciare gli stuzzichini dell’aperitivo per sfamare tutti i commensali. Anche se era lei l’ospite, la star del festival letterario. Viveva di parole, Michela, ma sapeva che per cambiare le nostre relazioni le parole non bastano».

«Tutto quello che c'era da dire lo ha detto lei fino all'ultimo giorno pubblicamente e privatamente. Tutto quello che c'era da fare lo ha fatto lei sino alle ultime ore», aggiunge Evelina Santangelo. Per la scrittrice siciliana, Michela Murgia «è riuscita a stare accanto a chi desiderava fino all'ultimo momento. Perché Michi sapeva come stare accanto. In tutti i suoi gesti e le sue parole era come se dicesse: Non lasciatevi sopraffare da niente e da nessuno».

«Una volta dovevo fare una cosa per me molto difficile, ma che volevo fare perché era giusta e necessaria, e implicava una presa di consapevolezza e pure il fatto di comunicarla con convinzione», ricorda Rosella Postorino: «La mia terapeuta mi suggerì: immagini di essere una persona che secondo lei questa cosa saprebbe farla, una persona che lei stima tantissimo. Ho pensato a Michela. La persona più forte e più intelligente che abbia conosciuto. Di una velocità, di una vitalità: un’intelligenza onnicomprensiva che mi ha sempre sbalordita, da lontano e ancor più da vicino, quando mi è capitato di lavorare con lei. A Michela ovviamente non l’ho mai detto. Ieri notte non riuscivo a fare nulla dopo aver appreso della sua morte, ero ammutolita; sono andata a rileggere su whatsapp il nostro scambio legato a God Save the Queer. In mezzo alle discussioni sul libro compaiono un sacco di altri discorsi, perché per lei tutto era collegato, tutto era politico, semplicemente perché era umano. Michela era una che ti chiamava principessa, palombella, aveva con le donne una dolcezza che mi verrebbe da definire materna e invece era appunto umana. Una sera, a una cena abbastanza raccolta, dopo che aveva fatto una battuta tagliente a Chiara Valerio, una battuta che faceva molto ridere, l’ho vista in piedi dietro di lei, rimasta seduta: le accarezzava distratta i capelli mentre chiacchierava con noi altri, con una dolcezza, con una naturalezza con cui potrebbe farlo mia madre con me, e ho pensato a come ogni suo gesto fosse sempre pieno, sempre capace di stupirmi.

Racconto questo perché la sua allegria, la sua assertività, la sua preveggenza, il suo acume, la sua velocità, la meraviglia di come abbia trasformato gli ultimi mesi della sua vita in una battaglia politica per gli altri, per coloro che sarebbero rimasti vivi, questa sua enorme lucidissima generosità, sono sotto gli occhi di tutti. Ma forse la sua dolcezza no. Una volta Michela disse, durante un’intervista, che il tipo di amicizia di chi ti è stato testimone quando ancora potevi diventare tutto non si ripete. Mi commosse. Lei è diventata davvero moltissime cose, conteneva troppe vite per una sola e tutte le ha messe al servizio di un’idea sempre eteroriferita del mondo. Ho spesso pensato a quella ragazzina che a 18 anni sceglie una casa diversa in cui crescere, in cui essere vista, in cui modificare i rapporti di potere, a quella ragazzina che si commuove davanti alla Trinità di Rublëv, che abbraccia la contraddizione fra il Dio cattolico in cui crede e la libertà che vuole per sé e per tutti, che studia per capirla, per tentare di risolverla. Sapeva che sarebbe diventata così grande? Immensa. È stata questo, per me, immensa. Mi sento più piccola, ora, e sento che il mondo è più piccolo, più solo, senza di lei. Come se il mondo intero fosse il suo fill’e anima e adesso dovesse sopportare questa assurda orfanità».

«Di Michela voglio ricordare una cosa che mi disse, davanti a un tazza di caffè al Mambo di Bologna, una delle prima volte che ci incontravamo», racconta Alessandra Sarchi. «Stavamo commentando non so più quale fatto di politica sul quale lei si era esposta pubblicamente e le dissi che ammiravo la sua capacità di sopportare gli attacchi dei singoli e dei giornali, e di non farsi abbattere e sostenere le proprie idee. Mi guardò con i suoi occhi sornioni e sorridendo disse: sono una ragazza di provincia abituata a battagliare per esistere. Questa frase mi colpì perché anch'io ero, e sono, una ragazza di provincia e sebbene il conflitto non fosse mai stato il terreno in cui mi muovevo con agio, capii benissimo cosa intendesse: far valer le idee in cui si crede in un luogo che verte per sua natura all’omologazione e alla marginalizzazione della diversità è difficile, richiede coraggio e forza, un dispendio di energie costante. Ripensandoci ora, l'Italia ha sempre avuto bisogno di ragazzi/e di provincia che ne scuotessero la lenta e ipocrita coscienza, lo scollamento fra la realtà e la sua rappresentazione, forse proprio perché il nostro Paese è, fuor di retorica, un’estesa e inconsapevole provincia. Michela Murgia ha occupato questo spazio e sia che si fosse d’accordo con le sue posizioni sia che le si avversasse, ha obbligato tutti a fare i conti con la propria visione del mondo».

Da Il Domani.

Michela Murgia, così nel suo ultimo libro aveva raccontato la malattia. MICHELA MURGIA su Il Domani il 07 maggio 2023

«Lei ha una nuova formazione di cellule sul rene». Il medico parlava con tono così lieve che per un istante lei pensò che l’annuncio fosse qualcosa di cui rallegrarsi. A causa della mascherina bianca, di quell’uomo gentile sulla sessantina vedeva solo metà del volto e nei primi minuti della visita aveva creduto che fosse la metà giusta. Ora non ne era più così sicura.

Oltre il paravento di plexiglas che sulla scrivania offriva a entrambi ulteriore protezione dal virus onnipresente, gli occhi del dottore la sfuggivano al punto che non riusciva a dirne con certezza il colore. Per ripicca cercò a sua volta di rendere il viso illeggibile.

Dalle finestre ampie dell’ospedale di Monteverde entrava una luce galvanica che nel pieno del giorno splende con quella forza solo su Roma. Era convinta che a emanarla fossero le braci segrete dell’impero, quello vero, ancora covanti sotto alle rovine di tre civiltà troppo più deboli per spegnerle del tutto. In quella luce si sorrisero cauti e il medico, forse illuso di essere stato capito, continuò.

«In termini tecnici si chiama neoplasia perché vuol dire proprio “nuova formazione di cellule”».

Il gruppo sillabico si illuminò nella mente di lei come un lampo e il sorriso perse smalto. Non conosceva l’etimologia, ma cos’era una neoplasia lo sapeva persino in coreano.

Si sistemò nervosamente intorno al corpo le pieghe del cappotto di couture, in un istintivo gesto di protezione. Per quella visita si era vestita in modo progettuale, solo stilisti di prima fascia, ma sobria, non come a un appuntamento galante, piuttosto come andasse a impressionare una donna ricca da tre generazioni, a negoziare un contratto prestigioso dando a intendere che non ne avesse bisogno, a farsi rispettare.

Aveva un armadio costruito per quello scopo, un deposito di armi di buon taglio e firma evidente, una per ogni guerra da cui non si sarebbe potuta permettere di uscire perdente. Qualunque cosa avesse quest’uomo in camice da dirle, voleva che fosse consapevole sin da subito che lei non era una persona qualunque e dunque quella neoplasia non poteva essere routine nemmeno per lui, perché non era sorta su un corpo a caso.

L’oncologo non sembrava però molto impressionato. Pur avendo davanti la sua cartella clinica, non accennò ad aprirla. Si avvicinò invece al petto un blocco note che aveva in un angolo il logo di un colosso farmaceutico, ne strappò un foglio e lo voltò. Con una penna disegnò un groviglio e da lì fece diramare delle linee ondulate che confluivano tutte nella stessa direzione, qualche centimetro più in là.

Continuava a parlare con lentezza, senza staccare gli occhi dal foglio, misurando ogni parola sul tracciato della penna. Lei ebbe l’impressione che non fosse la prima volta che faceva quello schema e le sue ambizioni di essere una paziente speciale si disfecero. Quanti altri corpi erano stati quelle linee? Quante esistenze quel groviglio?

«Come tutte le cose vive nascenti, la sua formazione nuova ha bisogno di risorse e se le è andate a cercare nel polmone sinistro. Noi le chiamiamo metastasi, ma lei se le deve immaginare come pozzi di petrolio in Iraq».

“Noi le chiamiamo”, aveva detto. Noi chi, pensò lei, immaginandosi un’assemblea permanente di saggi che da qualche parte nel Grande Castello dell’Oncologia stabiliva la nomenclatura dei disastri che succedevano nel corpo degli esseri umani di tutto il mondo.

ESSERI COMPLESSI

Il medico fermò la traccia dell’ultima linea all’altezza delle altre e le cauterizzò tutte con un piccolo asterisco. Il gesto le fece un male quasi fisico, ma cercò di non darlo a vedere.

Per qualche ragione che le sfuggiva, avvertiva l’istinto di dover essere lei a rassicurare lui. Una breve risata nervosa le sembrò adatta a incoraggiare la sua spiegazione geopolitica. La mano dell’oncologo, cinta da un polsino di buon cotone azzurro che sbucava dal candore del camice, era pallida ma ferma dall’altro lato del plexiglas.

Durante la prima parte della visita l’aveva sentita calda a contatto della pelle e così le sembrava che fosse ancora sulla penna, mentre la vedeva tracciare sulla carta i segni a cornice del bozzetto rudimentale dei suoi organi interni compromessi.

«Il primo dei farmaci che prenderà è quotidiano, due compresse mattina e sera, e serve a chiudere questi pozzi: senza risorse si diventa deboli... lei capisce».

Il medico staccò lo sguardo dalla carta e stavolta la guardò dritta negli occhi. Lei capiva.

«Il secondo farmaco è una flebo endovena che dovrà fare ogni ventun giorni e che ha la funzione di risvegliare il suo sistema immunitario affinché reagisca verso le cellule della nuova formazione, impedendo che continuino a svilupparsi».

«È una chemio?».

«Non perderà i capelli, se è quello che la preoccupa».

No, non era quello che la preoccupava. La sillaba e il suo suono – AM – continuavano a pulsarle nella mente come l’insegna al neon di un kebabbaro.

«Lei farà un’immunoterapia a base di biofarmaci. Come le ho mostrato, non è direttamente rivolta alla neoplasia. Serve a suscitare la risposta naturale del suo organismo. Se il rene non ci dà noia, non c’è ragione di dargliene noi».

Noi chi, pensò di nuovo lei, immaginando stavolta loro due a condividere la stessa neoplasia, asserragliati in quella stanza mentre tutte le linee di quel groviglio disegnato sul foglio cercavano di farsi strada tentacolari sotto la porta e nelle fessure degli infissi per raggiungerli e succhiare le loro risorse.

Suo malgrado, l’immagine la fece sorridere, ma l’effetto dovette essere quello di un animale che mostra i denti a un avversario, perché il medico non ricambiò. Gli fece la domanda più ovvia, quella stupida.

«Dove ho sbagliato?».

Era vegetariana. Non fumava, esclusa l’erba in rara compagnia. Beveva roba talmente selezionata che il signor Bernabei la salutava giulivo dalla soglia dell’enoteca anche quando non entrava.

I vizi che aveva erano parecchi, ma nessuno nel corpo, facilmente bonificabile con la privazione. La colpa si nascondeva da qualche altra parte, se non nelle opere almeno in pensieri, parole e omissioni.

Il medico rimase silenzioso per qualche secondo, spiazzato da quella richiesta di giudizio. Quando posò la penna lei scambiò il gesto per una resa.

«Siamo esseri complessi, signora... non credo si possa definire la questione in termini di sbagli suoi. Gli organismi sofisticati sono più soggetti a fare errori. È il sistema che ogni tanto si ingarbuglia, la volontà non c’entra».

Lei chiuse gli occhi. Non voleva che le leggesse in faccia il bisogno di dar la colpa a sé stessa o a qualcosa, a qualcuno, a un comportamento estremo, un cibo spazzatura, una brutta abitudine durata troppo a lungo, un trauma irrisolto, l’inquinamento da traffico della città, un’industria vicina, la maledizione di un nemico, tutto e tutti tranne l’ipotesi insopportabile dell’incidente statistico. In qualche modo però il medico sembrò capirlo.

«Mi ha detto che scrive romanzi, un bellissimo lavoro, ma è molto complicato. Nessuna specie in natura lo sa fare, solo gli esseri umani. Conosce altre lingue oltre l’italiano?».

«L’inglese, il francese, più o meno lo spagnolo... Sto studiando il coreano».

«Preferirebbe non saper fare nessuna di queste cose a patto di non ammalarsi mai? Gli organismi unicellulari non sviluppano neoplasie, ma non imparano lingue. Le amebe non scrivono romanzi».

Si guardarono per un tempo che a entrambi parve lunghissimo, durante il quale lei ebbe la certezza che, al contrario del Risiko iniziale fatto di nuove colonie avide di pozzi iracheni, quelle specifiche parole l’oncologo le avesse trovate solo per lei.

Fino a pochi minuti prima aveva avuto mille domande. Questioni su quanto sarebbe stato lungo il combattimento che stava per affrontare. Se aveva qualche possibilità di vincerlo.

Quanto tempo aveva per lottare. Voleva gli estremi dello scontro, il piano militare. Ma l’inadeguatezza del registro bellico, quello con cui aveva sempre sentito definire il rapporto con una malattia mortale, ora la ammutoliva.

Era colpa del medico, ovviamente. Le parole che quell’uomo aveva usato cambiavano lo scenario simbolico e la costringevano a muoversi verso un obiettivo che non le era familiare: il patto di non belligeranza. Quello che doveva essere un avversario da distruggere le era appena stato dipinto come un complice della sua complessità, una parte disorientata del suo corpo sofisticato, un cortocircuito del sistema in evoluzione, niente di più di un compagno che sbagliava.

Non era abituata a perdere a parole. Qualunque battaglia avesse immaginato di fare alla malattia, ora suonava come un progetto autolesionista. Di far guerra a sé stessa non aveva voglia né forze.

«Non l’avevo mai vista in quest’ottica, in effetti. Immagino che se l’alternativa fosse la vita dell’ameba, non mi interesserebbe far cambio. Mi dica quindi: cosa devo fare per correggere questo errore di sistema».

Esitò un attimo, poi aggiunse: «Se si può».

EFFETTI COLLATERALI

Gli occhi del medico si accesero a quel cambio di registro e il suo corpo apparve più rilassato. Si appoggiò alla sedia. Probabilmente credeva di aver superato il passaggio più problematico del colloquio.

«Le preparerò l’ordine dei farmaci e dovrà ritirarli alla farmacia ospedaliera, ma intanto deve firmare questa liberatoria con cui accetta di iniziare la cura e conferma di essere consapevole dei rischi degli effetti collaterali».

«Ne sono consapevole?».

«Sono in questo foglio, ma non la invito a leggerli: van-no dallo starnuto alla morte tra mille sofferenze, esattamente come nei bugiardini dell’aspirina. Manderebbero in panico chiunque. La probabilità che si verifichi uno solo di questi effetti è talmente remota che non ha senso spaventarsi preventivamente. Si fidi di me, se succede qualcosa ce ne accorgeremo subito e sospenderemo».

«Non l’avrei letto comunque. Mi fido».

DALL’ALTRA PARTE DEL MONDO

Era una mezza verità. Aveva sbirciato il foglio sul tavolo e la dicitura della diagnosi era in alto, lapidaria, qualcosa che solo dieci anni prima sarebbe stata una sentenza di morte veloce. Carcinoma renale al quarto stadio.

AM. Un lampo.

AM. Un altro lampo.

AM. Ancora uno.

Mentre firmava i fogli e lui compilava la ricetta, la sillaba continuava a lampeggiarle in testa e d’improvviso prese coscienza del fatto che il medico non aveva mai nominato la malattia.

«Fuori da qui c’è mia sorella, dottore, e ho altre persone care. Quando mi chiederanno cosa ho, come lo devo chiamare? Quello che c’è sul foglio non riesco a dirlo».

Si fissarono. Il medico sospirò, poi rilassò le spalle, appoggiandole allo schienale.

Dietro alla barriera di plastica trasparente il suo corpo sembrava non avere spessori, come le foto pressate nelle cornici a giorno. Quando parlò, l’illusione della bidimensionalità svanì.

«Lei che nome vorrebbe dargli?».

Era una richiesta strana quella di battezzare un tumore. Le risuonarono in testa tutte le parole che conosceva già. Brutto male. Male incurabile. Il maledetto. Il bastardo. Quella cosa.

Non gliene piacque neanche una e d’impulso disse: «In coreano quella parola si dice “am”. Crede che potrei usare quella?» Era stata così precipitosa nel rispondergli che nel momento stesso in cui aveva finito di fare la richiesta se la sarebbe voluta rimangiare.

Si sentì infantile ad ammettere di aver bisogno di una parola che non fosse mai stata in bocca a nessuno che conosceva.

Usare un termine che veniva dall’altra parte del mondo poneva una distanza tra sé e la diagnosi che le parve l’unica sostenibile in quel momento.

Si aspettava che il medico ridesse, ma lui invece sembrò ponderare la proposta, pensandoci qualche secondo. Poi annuì serio porgendole le prescrizioni nel pertugio del plexiglas.

«Mi scuserà, non so nulla di coreano, ma in inglese am è la prima persona singolare del verbo essere, quindi credo che sia una parola abbastanza giusta», sorrise.

«Potrà rispondere I am, come se dicesse “quello che ho è qualcosa che sono”, e non sarebbe niente di impreciso».

I AM

Seguì un silenzio denso, nel quale emozione e imbarazzo galleggiavano mischiati sulla linea dello sguardo di entrambi. Non riuscendo più a sopportare la barriera di plastica trasparente, lei si alzò in piedi goffa, ma il vantaggio di guardarlo dall’alto in basso durò poco, perché lui fece lo stesso.

«Allora grazie. Prenderò le pastiglie come mi ha detto, due al giorno».

«Mattina e sera. Non le salti e non le butti, una scatola costa quasi settemila euro al servizio sanitario nazionale. Glielo dico perché ogni tanto qualcuno lo fa, finge di prenderle e invece le getta, non so perché, la gente è strana».

Anch’io sono strana, dottore, pensò senza dirlo. Essere sospettabile di spreco in un contesto dove stava perdendo tutto le sembrò surreale.

Mentre si stringevano la mano gli sorrise inutilmente dietro la mascherina, pensando che dopotutto nemmeno lui vedeva il suo viso per intero. Se si fossero incontrati fuori da lì a volto scoperto era probabile che non si sarebbero riconosciuti.

Immaginò la scena al supermercato.

“Sbaglio o lei è...?”

Yes, dottore. I am. 

MICHELA MURGIA.  Scrittrice, blogger, drammaturga, critica letteraria e opinionista televisiva italiana, autrice dell'opera Accabadora e vincitrice dei premi Campiello, Dessì e SuperMondello.

Michela Murgia, il ricordo dopo la morte: «Ci mancherà il tuo pensiero». Il Domani l'11 agosto 2023

La scrittrice è morta giovedì sera, ma le reazioni alla sua scomparsa dimostrano che il suo ricordo resterà

Michela Murgia è morta giovedì sera dopo una grave malattia. Tra i suoi libri più famosi, Accabadora e Il mondo deve sapere, ma le tante reazioni che hanno subito seguito la sua scomparsa mostrano come le sue posizioni radicali non passeranno. 

Il dispiacere è tanto nel mondo di riferimento di Murgia, che ha seguito da vicino la malattia della scrittrice, che aveva reso pubblica diversi mesi fa. Non manca per esempio il post del Cinema America.

Oltre ai post del mondo della sinistra, come quello di Nicola Fratoianni, Nichi Vendola e Vladimir Luxuria, anche la destra ha parlato di lei. Laura Boldrini racconta di sentire «un grande vuoto».  

L’Anpi le dedica un «Bella, ciao».  

Geppi Cucciari ricorda il suo «sorriso di donna luminosa». 

«Molto veloce» la definisce lo scrittore e ormai ex direttore del Salone del libro Nicola Lagioia.

«Ma l’amor mio non muore», scrive Roberto Saviano.

LA DESTRA

Perfino l’ex senatore leghista Simone Pillon, che l’aveva spesso criticata, ha scritto di lei. «Non condividevo nulla del tuo pensiero ma avrei voluto continuare a confrontarmi con te, come abbiamo fatto tante volte».

Matteo Salvini, ministro dell’Interno e sempre pronto a discutere con Murgia, la saluta con «una preghiera». In passato l’aveva definita con disprezzo «radical chic» o «intellettuale spocchiosa».

Una notte in bianco, in ricordo di Michela Murgia. ALESSANDRO GIAMMEI su Il Domani il 10 agosto 2023

Era un’eretica intellettuale gramsciana che faceva su Instagram ciò che Pasolini faceva sul Corriere. Questo è il ricordo di una notte passata a casa sua

Da Il Riformista.

Addio a Michela Murgia, la scrittrice morta a 51 anni: il racconto della malattia “gentile” e il matrimonio poche settimane fa. Redazione su Il Riformista il 10 Agosto 2023. 

Addio a Michela Murgia, la scrittrice è morta a Roma all’età di 51 anni. Era malata da tempo e nei mesi scorsi aveva spiegato di essere affetta da un carcinoma renale al quarto stadio e che le rimanevano pochi mesi di vita. Aveva scelto di vivere pubblicamente il periodo della sua malattia, continuando a raccontarsi attraverso i suoi canali social ma anche facendo della “sopravvivenza emotiva” il tema dell’ultimo libro, Tre ciotole.

A inizio luglio il matrimonio. “Qualche giorno fa io e Lorenzo ci siamo sposati civilmente. Lo abbiamo fatto “in articulo mortis” perché ogni giorno c’è una complicazione fisica diversa, entro ed esco dall’ospedale e ormai non diamo più niente per scontato”. Con questa parole Michela Murgia aveva annunciato sui social il suo matrimonio civile, pubblicando su Instagram il video delle firme con in sottofondo il brano Nobody’s Wife di Anouk.

Murgia, in una lunga intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo sulle pagine del Corriere della Sera, aveva spiegato che “il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere. In particolare sul rene, un organo che ha tanto spazio attorno. Il cancro -sottolineava– non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue”.

“Mi sto curando con un’immunoterapia a base di biofarmaci. Non attacca la malattia; stimola la risposta del sistema immunitario. L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti”.  Sottoporsi a un intervento chirurgico “non avrebbe senso. Le metastasi sono già ai polmoni, alle ossa, al cervello“.

Michela Murgia è una scrittrice e giornalista italiana nata il 3 luglio 1972 a Cabras, in Sardegna. Conosciuta per le sue opere letterarie e il suo impegno sociale, ha guadagnato una notevole popolarità sia in Italia che a livello internazionale.

Dopo essersi laureata in Lettere moderne all’Università degli Studi di Cagliari, Michela Murgia ha lavorato come insegnante di educazione civica nelle scuole superiori, un’esperienza che ha influenzato il suo impegno sociale e politico.

Murgia è divenuta famosa nel 2006 con il romanzo d’esordio “Accabadora”, che ha vinto il Premio Campiello Opera Prima. Il libro esplora temi come la morte, l’identità e la tradizione, attraverso la storia di una donna che svolgeva il ruolo di “accabadora”, colei che assisteva i moribondi nella Sardegna rurale.

Successivamente, ha scritto romanzi di successo come “Chirú”, “L’incontro” e “Tempo di imparare”. Le sue opere affrontano spesso questioni sociali, culturali e politiche, e sono caratterizzate da uno stile di scrittura diretto ed evocativo.

Oltre alla sua carriera letteraria, Michela Murgia è stata una voce influente nella sfera pubblica italiana. Ha scritto articoli per diversi giornali e riviste, partecipato a dibattiti televisivi e promosso il dialogo sulla politica, la cultura e i diritti sociali.

La sua versatilità come scrittrice e il suo coinvolgimento attivo nel panorama sociale le hanno guadagnato un posto di rilievo nella letteratura contemporanea italiana.

I funerali nella Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo. Chi sono i quattro “figli d’anima” di Michela Murgia: la famiglia “queer”, il testamento e i libri pubblicati post mortem. Redazione su Il Riformista l'11 Agosto 2023 

Raphael Luis, Francesco Leone, Michele Anghileri e Alessandro Giammei sono i quattro “figli d’anima” di Michela Murgia, la scrittrice scomparsa nella serata di giovedì 10 agosto all’età di 51 anni stroncata da un carcinoma renale al quarto stadio che, come anticipato a inizio maggio, le aveva lasciato pochi mesi di vita. Figli d’anima, definizione lanciata nel romanzo “Accabadora” nel 2009, della sua “Queer family”, quel nido d’amore senza legami di sangue “in cui le relazioni contano più dei ruoli” e dove i rapporti “superano la performance dei titoli legali e limitano le dinamiche di possesso”.

I quattro ragazzi hanno condiviso la vita con Murgia per vent’anni, incluso il più giovane, Raphael. Con la madre di quest’ultimo, Claudia, la scrittrice sarda ha costruito una famiglia omogenitoriale fondata sull’affetto e la cura. Una famiglia queer completata dal marito Lorenzo Terenzi (sposato lo scorso 15 luglio “in articulo mortis”), attore e regista conosciuto nel 2017 grazie a uno spettacolo teatrale in cui Murgia era la protagonista.

In queste ore il ricordo dei suoi cari non è mancato sui social, dove Murgia era seguitissima. Il marito Terenzi l’ha voluta ricordare pubblicando una foto in un cui Michela indossa un abito rosso corallo, la testa avvolta in un turbante mentre balla una danza sufi. “Ciao bella” invece il ricordo di Alessandro Giammei che ha postato una foto di loro due ad un tavolino di un bar. L’altro “figlio d’anima” Francesco Leone pubblica una foto di loro due che, di spalle, camminano per strada con questa frase: “Camminiamo verso altre notti insonni a raccontarci i segreti, a immaginare nuovi orizzonti, a prenderci cura delle persone che amiamo. Benvenuta nella nostra nuova vita. Bentornata a casa, Shalafi amin“.

Repubblica scrive che per trascorrere gli ultimi mesi con la “Queer family”, è stata comprata una casa alle porte di Roma con un grande giardino: qui Michela Murgia ha vissuto le ultime settimane in compagnia del marito e di Claudia, la mamma di Raphael Luis, di Marco (papà di quest’ultimo) e insieme ai tanti amici che in questi mesi sono andati a trovarla.

I funerali nella chiesa degli Artisti

Intanto i funerali della scrittrice sono in programma domani, 12 agosto, nella chiesa degli Artisti in piazza del Popolo a Roma. Una celebrazione religiosa, scelta in linea con la fede che l’ha sempre contraddistinta: laureata in Teologia, fra le varie esperienze lavorative svolte prima di dedicarsi all’attività di scrittrice rientrano quella di insegnante di religione nelle scuole, per sei anni.

“Come papa Francesco non si stanca mai di ripetere a proposito della sua idea di Chiesa. Un’idea di fondo che, pur con accenti diversi, anche Michela Murgia sosteneva: con inquietudine, ma anche con grande trasparenza”. Con queste parole Avvenire ricorda Michela Murgia, scomparsa a 51 anni nelle scorse ore. Il giornale dei vescovi analizza in particolare il penultimo libro della scrittrice, ‘God Save the Queer’, il cui contenuto è definito come “il vero testamento, morale e spirituale, di Michela Murgia”. Avvenire rimarca anche “l’idea sottintesa al romanzo, cioè quella della dimensione ‘pietosa’ e ‘umana’ dell’eutanasia”.

Il testamento di Michela Murgia

Sarà l’avvocata e amica bolognese Cathy La Torre la curatrice del testamento di Michela Murgia che ha assistito nella sua stesura. La Torre, impegnata al momento nell’organizzazione del funerale, era amica intima della scrittrice ed era stata scelta da Michela Murgia per far parte di quella che ha definito la sua “famiglia queer”. La Torre è da diversi anni fortemente impegnata sul fronte delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, oltre che sulla tutela dei diritti della comunità Lgbtqia+. “Ha scelto di fare testamento e da mesi abbiamo lavorato per tutelare la sua famiglia queer – spiega La Torre – lo abbiamo fatto insieme e sempre pubblicamente come battaglia politica. Michela ci ha mostrato che tutelare le forme relazionali non tradizionali ma che sono comunque famiglie è oggi una battaglia politica urgente e aggiungo, dal canto mio, anche una battaglia giuridica fondamentale. Ha fatto testamento e predisposto tutto per tutelare una famiglia che lo Stato non tutela”.

“Non posso entrare nei dettagli del suo testamento – spiega La Torre – posso però dire che mesi fa Michela ha iniziato una lotta politica perché ogni tipo di famiglia, anche quella che non è esattamente riconducibile all’eteronormatività e alla tradizione, cioè che non prevede legami di sangue tra i suoi componenti, potesse avere un riconoscimento, prima di tutto di linguaggio. Quindi lei per la prima volta ha parlato di famiglia queer e mostrato che esistono altri modelli di famiglia. E questo è stato un gesto politico incredibile, perché centinaia di migliaia di persone si sono interrogate su che cosa è una famiglia queer”.

La Torre spiega poi che il secondo passo “è stato di dare concretezza a tutto questo di fronte alla legge e allo Stato, visto che lo Stato non riconosce alcun tipo di famiglia che non sia quella tradizionale, o le convivenze di fatto che siano registrate di fronte a un Comune di residenza. Quindi quello che abbiamo fatto è stato non solo dare dignità politica a questa forma di famiglia e relazioni, ma anche dargli una dignità di fronte alla legge, e lo abbiamo fatto attraverso un testamento articolato, attraverso una cosa che spesso la gente non fa perché pensa che costi molti soldi, invece in realtà scrivere un testamento di proprio pugno, olografo, non ha alcun costo e in qualche modo è uno dei primi passi che si può fare in questo senso. Così come un testamento biologico, che è una dichiarazione anticipata di volontà o anche nominare un esecutore o una esecutrice testamentaria che possano seguire in qualche modo l’applicazione di quel testamento”, ha sottolineato infine l’avvocata La Torre.

In particolare la scrittrice ha lasciato la casa con giardino, acquistata recentemente a Roma per trascorrere assieme alla sua “famiglia queer” gli ultimi mesi di vita, ai figli elettivi Raphael Luis, Francesco Leone, Riccardo Turrisi e Alessandro Giammei. Quest’ultimo inoltre dovrà occuparsi della cura e della pubblicazione degli scritti a cui ha lavorato in questi mesi e che saranno pubblicati, probabilmente, nel giro di un anno. Gli abiti della Murgia andranno invece alla scrittrice e amica Chiara Tagliaferri, con cui ha ideato il podcast e l’omonimo libro “Morgana”. A Patrizia Renzi, invece, il patrimonio di gioielli e bigiotteria.

 La sua mancanza impoverisce la nostra società. La scomparsa di Michela Murgia ci ricorda che le idee diverse vanno contrastate con civiltà. Andrea Ruggieri su Il Riformista l'11 Agosto 2023 

Voglio dedicare un pensiero non ipocrita a una donna di cui non ho condiviso mezza idea ma che oggi se ne va giovanissima, e questo è un dramma. Lascia la sua comunità personale, familiare e anche chi credeva in quelle idee che io non condivido assolutamente ma che hanno il diritto di esistere. Se una donna come Michela Murgia se ne va così giovane è una tragedia, è un peccato, la sua mancanza impoverisce la nostra società. La sua scomparsa ci deve ricordare che si devono avere idee diverse ma che si può essere molto determinati pur rimanendo civili. Oggi è il giorno del dolore per la nostra connazionale che se ne va e si porta via delle idee, che magari ad alcuni di noi non piacevano e contrastavano, cercando sempre di rimanere civili a prescindere dal nostro pensiero. Andrea Ruggieri

Da L’Unità.

L'ultimo saluto. Michela Murgia, i funerali tra lacrime e ‘Bella ciao’ della folla per la scrittrice: “Ha protetto tutti fino alla fine, anche nei momenti dolorosissimi”. Redazione su L'Unità il 12 Agosto 2023

Quando il feretro arriva intorno alle 15 alla Basilica di Santa Maria in Montesanto, la Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo a Roma, ci sono già centinaia di persone in attesa. Una vera e propria folla era presente per i funerali di Michela Murgia, l’ultimo saluto alla scrittrice sarda, morta giovedì sera a 51 anni un tumore al quarto stadio al rene.

Una celebrazione religiosa, scelta in linea con la fede che l’ha sempre contraddistinta: laureata in Teologia, fra le varie esperienze lavorative svolte prima di dedicarsi all’attività di scrittrice rientrano quella di insegnante di religione nelle scuole, per sei anni.

I funerali, celebrati da don Walter Insero, hanno visto la partecipazione e gli interventi di diversi personaggi che l’hanno ricordata: da Roberto Saviano a Lella Costa e Chiara Valerio, ma nella piccola chiesa c’erano anche la segretaria del Pd Elly Schlein, Francesca Pascale e la moglie Paola Turci, oltre ovviamente a tutta la “famiglia queer” della scrittrice, come la stessa Murgia la definiva.

Fuori dalla Chiesa degli Artisti chi è rimasto in attesa sotto al sole cocente, ci sono stati anche alcune persone colte da malore e svenute, per salutare la scrittrice e attivista ha intonato “Bella Ciao”, seguendo la funzione sugli smartphone tramite le diverse dirette social e web.

In chiesa invece non ci sono fiori, secondo quanto disposto dalla stessa scrittrice, tanto che è stato rimandato indietro anche la corona di fiori del Comune di Roma

Le parole di don Insero

“Michela è nell’oltre, la sua anima è in questo viaggio verso il Padre non verso il nulla”, sono state le parole durante l’omelia di don Walter Insero, rettore della Basilica Santa Maria in Montesanto. Cappellano presso la Rai dal 2004, il sacerdote aveva già officiato i funerali di Maurizio Costanzo, Gigi Proietti e Fabrizio Frizzi.

“Michela – ha detto il celebrante – ha fatto tante battaglie, lo sappiamo. Vi invito ad accogliere la testimonianza di fede che ha rappresentato nel momento della prova, nella malattia, nella sofferenza dura che ha vissuto. Michela ha portato avanti la buona battaglia, ha conservato la fede, direbbe San Paolo. Lei ci ha lasciato questa testimonianza: è possibile amare nel dolore, è possibile salutare tutti e riconciliarsi con tutti. Chi ha avuto il regalo dalla Provvidenza di poter condividere gli ultimi momenti ha visto una donna affidarsi a Dio, una donna che non ha mai avuto timore di manifestare la sua fede“.

Il discorso di Saviano

A conclusione della celebrazione alcuni amici hanno voluto testimoniare un ricordo. Le parole più forti sono arrivate da Roberto Saviano: “Michela – ricorda Saviano – voleva che questa giornata fosse per tutti. Sembrava suonasse quanso batteva sui tasti. Per Michela la condivisione era il senso di tutto. Quano le cose non andavano lei ti diceva: ‘non stare solo, vieni qui’. Le scelte di Michela possono essere sintetizzate in: non essere soli, non lasciare soli. Michela ha protetto tutti fino alla fine, anche nei momenti dolorosissimi della fine“.

“Lei è stata abile a non far sentire il dolore delle sue scelte di lotta – sottolinea Saviano – ci siamo conosciuti e uniti non per quello che abbiamo fatto, ma per quello che ci hanno fatto. In questo paese è stato possibile che si considerasse una scrittrice, intellettuale attivista come una nemica politica. Michela ha voluto stare accanto a me nei processi che mi hanno riguardato. Voglio darle tutta la mia gratitudine: durante la notte e i pomeriggi difficili, Michela c’era. ‘Abbi fiducia in chi ci legge e capisce’, diceva. Quelli che hanno fatto davvero del male a Michela sono quelli che avevano un piede qui e un piede lì, quelli che stavano a metà per convenienza. – attacca Saviano – Sono loro ad aver reso la sua vita difficilissima. Michela sceglieva, perché il silenzio di fronte all’orrore l’avrebbe resa infelice. Scegliere è l’unica cosa che la faceva sentire in asse con sé stessa“. Redazione - 12 Agosto 2023

Chi era Michela Murgia, militante e intellettuale oltre che scrittrice. La lingua autentica della Sardegna. Fu un’intuizione felice di Michela Murgia. Chissà che tutte le sue parole di questi mesi non fossero un modo per proteggersi prima della morte. Filippo La Porta su L'Unità il 12 Agosto 2023 

Michela Murgia è stata una intellettuale “militante” oltre e forse più che una scrittrice. Paladina dei diritti, figura pubblica legata a battaglie civili, quasi icona pop, conosciuta ben oltre l’ambito letterario. Più Oriana Fallaci che Elsa Morante, e anche se ovviamente i “contenuti” del loro impegno pubblico siano quasi opposti. Una intellettuale capace di mettere in scena le idee, le proprie (contraddittorie) passioni e i propri drammi personali: opinion leader e agguerrita polemista, moralista libertaria, credente iperlaica, fine teologa sfrontatamente in conflitto con la Dottrina.

Una straordinaria drammaturga dell’autobiografia, dal suo libro d’esordio – Il mondo deve sapere (2006) – inchiesta romanzesca sul mondo delle telefoniste precarie, prima blog e poi film di Virzì – fino a Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi (2023) – meditazione zen in forma narrativa su diversi modi di rispondere a un rivolgimento traumatico dell’esistenza. La decisione di rendere pubblica la sua malattia, il 6 maggio scorso – un tumore al rene al quarto stadio, con aspettativa di vita di pochi mesi – ha suscitato un acceso dibattito nei social, dai toni perlopiù imbarazzanti (anche Fallaci volle pubblicizzare il suo cancro, dichiarando di combattere con la testa, ancora integra, un “mucchio di cellule impazzite”: mens sana in corpore infirmo). Personalmente ritengo una colpa anche solo l’aver commentato quella decisione, sia in senso positivo che negativo. Non siamo mica obbligati a commentare ogni cosa.

Possibile che non ci si senta più in dovere di fermarsi ogni tanto – per una forma di rispetto – di non far sapere la nostra opinione su un argomento? Accabadora (2010) è certamente il suo romanzo più ambizioso. Una riflessione in forma poetico-narrativa sull’ambiguo intreccio di bene e male nelle cose umane, conseguenza – per un credente – del peccato originale, almeno fino a quando l’Angelo Sterminatore, alla fine della Storia, tornerà a separare il bene dal male…. Gli indizi li troviamo dalla prima pagina: la piccola Maria nel “sole violento di luglio” impasta una torta di fango con le formiche vive: “il dolce le cresceva in mano, bello come lo sono a volte le cose cattive”. Mentre Nicola Bastìu va ad appiccare il fuoco alla tenuta dei Porresu per vendicare un sopruso: “Per un uomo che aspiri al rispetto degli altri le cose buone possono anche essere gratuite, ma quelle cattive devono sempre essere necessarie”. Due i temi affrontati: adozione ed eutanasia. Da un lato una percezione della maternità ben oltre i suoi confini biologici: la “accabadora”(colei che finisce) adotta una bambina, perciò detta una “figlia dell’anima”.

Ricordo per inciso come nei Promessi sposi, nella scena del lazzaretto anche Manzoni ci mostra come il legami elettivi sono più importanti di quelli di sangue, con tutte le madri che allattano f gli di altre (secondo una preziosa notazione della manzoniana Eleonora Mazzoni). Dall’altra la “buona morte” che nel paesino sardo di Soresu la sarta, un po’ strega e un po’ maga, somministra di notte ai sofferenti. Il romanzo, non sempre sorretto da una lingua adeguata (l’autrice censura un po’ la propria vena comico-grottesca), disegna però un bel personaggio, Maria, saggia e impertinente, testimone muta come il cane Mosè. E poi ci introduce all’atmosfera arcaica, magico-fiabesca della Sardegna degli anni ‘50, senza cadute nel bozzettismo. In God save the queer (2022) Murgia celebra l’ideologia queer scagliandosi contro le religioni monoteistiche e maschiliste, e suggerendo una lettura, appunto in chiave queer, della Trinità, rinvenuta in una icona di Andrej Rublev (dove le tre figure non hanno un sesso definito).

Sul considerare non solo il genere ma anche il sesso biologico, il corpo sessuato, una costruzione culturale, dunque storicamente modificabile, ho qualche dubbio. Come se in questa oltranza teorica (che si rifà a Judith Butler) si celasse la insofferenza verso ogni limite naturale, un segreto disprezzo (gnostico) del corpo vissuto come gabbia, come ostacolo alla nostra libertà (che invece dovrebbe essere, chissà perché assoluta!). Ma soprattutto, rivolgendomi alla teologa: se uno può essere tutto come farà a incontrare Dio (domanda posta da Nicola Mirenzi)?. Se sono tutto, divento io Dio, occupo tutto il campo. Qui arriviamo probabilmente all’aspetto più delicato dell’intera questione. Su cui azzarderò una ipotesi.

Murgia rifiuta qualsiasi identità monologica, univoca, e anzi dichiara il proprio disagio nel solo nominare il numero “1”, poiché oggi più che mai i corpi singoli convivono con la molteplicità delle identità digitali: siamo tutti indefinibili, da una parte e contemporaneamente dall’altra. Il numero “1”, ribadisce, ci rende soli. Vero. Ma è anche vero che, indubitabilmente, si muore da soli. La morte è una esperienza strettamente individuale, che possiamo socializzare e condividere fino a un certo punto. Può riempire il nostro cuore sapere che, se lo vogliamo, siamo tutti al tempo stesso uomini e donne, vecchi e giovani, dentro e fuori…Però non riusciremo mai ad essere al contempo vivi e morti. Anche se tra i vivi e i morti può esserci un dialogo continuo, sotterraneo, come ci ha mostrato un grande scrittore corregionale di Murgia, Salvatore Satta, con il suo romanzo nuorese – epico e negromantico – Il giorno del giudizio.

Una volta Murgia ha osservato con una intuizione felice che la lingua autentica della Sardegna, che non coincide con nessuno dei suoi dialetti, è il silenzio (come emerge dai migliori narratori dell’isola, da Satta ad Atzeni). Ripenso ad Accabadora: le pagine più belle del romanzo, paradossalmente, sono quelle meno “scritte” e meno elaborate, lì dove riesce a farci sentire quell’impenetrabile silenzio, di cui lei ha esperienza, dentro gli stessi dialoghi. E allora mi viene da pensare che tutte le parole che ci ha detto in questi mesi – con la sua sapienza retorica e inesauribile verve teatrale (i suoi travestimenti da maga, da donna col turbante di Vermeer) – non siano altro che un modo per custodire e preservare quel silenzio, un dispositivo che protegge le poche, uniche parole che ognuno dice a se stesso prima del grande silenzio.

Filippo La Porta 12 Agosto 2023

Quali sono i libri di Michela Murgia, da “Accabadora” agli scritti postumi (già annunciati). Redazione su L'Unità l'11 Agosto 2023 

Se l’esordio arriva nel 2006 con “Il mondo deve sapere“, un libro denuncia sul mondo del telemarketing, nato dalla sua esperienza personale di lavoratrice precaria e dal quale Paolo Virzì aveva tratto il film “Tutta la vita davanti”, per Michela Murgia il grande successo, di pubblico e di critica, arriverà tre anni dopo.

È nel 2009 che la scrittrice sarda, morta giovedì 10 agosto all’età di 51 anni per il cancro ai reni al quarto stadio che l’aveva colpita da tempo e di cui aveva parlato pubblicamente in una intervista concessa al Corriere della Sera solo tre mesi fa, farà “il botto”.

Se infatti per anni è stata considerata una intellettuale capace di coinvolgere (e dividere) per le sue opinioni sul femminismo e sul mondo Lgbt lo si deve a “Accabadora”, il suo romanzo di maggiore successo pubblicato da Einaudi: vinse il premio Campiello, uno dei più importanti riconoscimenti letterari italiani, e nel tempo ha venduto centinaia di migliaia di copie.

In “Accabadora” Murgia aveva dato voce ai matriarcati sardi tanto ricchi di tradizione quanto misconosciuti: il romanzo parlava del rapporto tra Bonaria Urrai, l’accabadora del titolo, ovvero colui che le persone agonizzanti come chiesto da loro stesse o dai parenti (di fatto una espressione sarda che rappresenta l’eutanasia) e la protagonista del romanzo, Maria Listru, una sorta di figlia adottiva della donna che all’inizio del libro le viene ceduta dalla madre biologica, una vedova troppo povera per mantenerla.

Il tema della “fillus de anima” è fondamentale per Murgia, influenzando anche il suo concetto di “famiglia queer”: dai figli elettivi Raphael Luis, Francesco Leone, Riccardo Turrisi e Alessandro Giammei a Lorenzo Terenzi, l’attore sposato lo scorso luglio “in articulo mortis”.

Nel 2011 Murgia fa uscire il saggio “Ave Mary”, opera in cui sintetizza la sua formazione cattolica (laureata in Teologia, ha insegnato per sei anni religione a scuola) col femminismo, reinterpretando la figura della madre di Gesù. Temi su cui tornerà in “God save the queer”, uscito lo scorso anno.

Torna al romanzo nel 2011 con “L’incontro” e nel 2015 con”Chirù”, il più autobiografico dei suoi scritti. L’ultimo romanzo di Murgia è figlio della sua diagnosi di tumore ai reni allo stadio avanzato, “Tre ciotole. Rituale per un anno di crisi”, dove più personaggi sono uniti dalla perdita: di un amore, di una sicurezza, di una persona o di un lavoro.

Michela Murgia ha lavorato fino agli ultimi giorni: al “figlio” Alessandro Giammei ha lasciato l’incarico di occuparsi della cura e della pubblicazione degli scritti a cui ha lavorato in questi mesi, che usciranno dunque postumi. “Michela ha scritto fino all’ultimo giorno della sua vita. Aveva un libro da consegnare e lo ha consegnato prima di morire. Un libro toccante, sulla famiglia. Doveva essere solo sulla Gpa (gestazione per altri, ndr) ed è diventato un libro più profondo sul senso della genitorialità e parentela. Credo che uscirà a breve per Rizzoli“, ha confermato all’Ansa Giammei, aggiungendo che “c’è anche un ricco patrimonio di file scritti in molti anni, molti racconti dispersi e pagine inedite“. Redazione - 11 Agosto 2023

L'addio alla scrittrice. Michela Murgia, dai libri alla malattia “non era una signora”. Aveva deciso di raccontare le donne capaci di sognare la propria vita per non vivere nel sogno di qualcun altro. Donne libere anche dentro una prigione. Lucrezia Ercoli su L’Unità il 15 Agosto 2023.

Il 2 luglio 2020 inaugurammo l’edizione più complessa dei dodici anni di Popsophia. Eravamo il primo festival culturale in Italia a riaprire con il pubblico dal vivo dopo il lockdown pandemico, con decine di ospiti provenienti da tutta Italia. Brancolavamo nel buio in un ginepraio kafkiano di regole per la sicurezza, senza modelli o termini di paragone: eventi simili al nostro erano stati rimandati o si svolgevano soltanto online. Eppure, sentivamo il bisogno di tornare a stare insieme, di tornare a respirare lo stesso ossigeno, di elaborare il trauma collettivo senza precedenti che aveva minato la salute dei nostri corpi e delle nostre anime.

Il tema che avevamo scelto era “realismo visionario”, ispirato al centenario felliniano. Dopo l’annus horribilis in cui l’orizzonte del possibile era stato schiacciato sui drammatici bollettini sanitari e sul linguaggio bellico dell’emergenza, ci era sembrato urgente trovare un modo per aprire lo spazio dell’immaginazione, per riattivare il potere creativo e generativo del linguaggio della narrazione.Per l’inaugurazione in Piazza del Popolo a Pesaro era necessario uno sguardo potente e visionario. Uno sguardo in grado di trovare parole magiche capaci di aprire le menti in un tempo di chiusura fisica e mentale. Al tempo stesso, dotate della forza carismatica necessaria per parlare di fronte a una piazza piena e disunita, con persone diffidenti e impaurite, ancora costrette a sedersi lontane, a due posti di distanza uno dall’altro.

Chiedemmo di farlo a Michela Murgia. Fin dai primi mesi della pandemia si era dimostrata punto di riferimento di una comunità virtuale di donne e uomini alla ricerca di parole per guardare lontano, in un momento in cui l’orizzonte si era ristretto; sui suoi social aveva costruito un diario eccentrico di un tempo sospeso che – ogni giorno – faceva divertire, indignare, gioire e incazzare. Aveva deciso di partire dalle storie delle sue “visionarie”, delle sue “morgane” capaci di sognare la propria vita per non vivere nel sogno di qualcun altro. Donne capaci di essere libere dentro una prigione, rompendo dall’interno gli schemi imposti da una società pensata e creata dagli uomini. Le visionarie non sono semplicemente donne “di successo”, quelle che “ce l’hanno fatta”; le più intelligenti e le più brave, in grado di fare più e meglio degli uomini. Le visionarie sono tutte quelle che hanno avuto vite tortuose e complesse, ma che dai margini sono state in grado di mettere in discussione il modello stesso, per tutte e per tutti.

Non necessariamente delle “femministe”, secondo i canoni rigidi dell’ortodossia che lo stesso femminismo ha stilato; sono donne che hanno saputo abitare la propria incompatibilità, rivendicandola con orgoglio. Nell’ultimo video-messaggio che Murgia ha rivolto al suo pubblico – con la voce e il volto provati dalla malattia – parla di questa apertura alla pluralità dei femminismi, invita a non perdere tempo a levare patenti e a fare processi a chi “non è abbastanza femminista”. Fa un appello alle rigide sorveglianti del comportamento altrui: “siate la porta e non la portinaia”. Se torno a quel 2 luglio 2020, ricordo che prima della serata le avevo preannunciato – un po’ titubante – la presenza della Factory, la band musicale di Popsophia, che avrebbe eseguito, per introdurre la sua lectio, una canzone manifesto del femminismo rock in salsa italica: Non sono una signora di Loredana Bertè.

Murgia sul momento non aveva detto nulla, ma sul palco, di fronte al pubblico, aveva esordito così: “Alcune potrebbero offendersi per una simile presentazione. Non io. Io mi ci riconosco appieno. Non sono una signora, è vero. Perché quando ti dicono ‘comportati da signora’ intendono dire: ti rispetterò se rimani all’interno del perimetro che abbiamo pensato per te”. Non a caso, quando nel 1982 Loredana Bertè, con la sua voce roca e malinconica, vince il Festivalbar con questa canzone, per ritirare il premio sale sul palco dell’Arena di Verona con un vestito da sposa bianco, con tanto di velo e coroncina. Ma mentre fa per andarsene dopo l’applauso del pubblico, inciampa sullo strascico e cade rovinosamente. Si rialza subito, prende il microfono e dice fiera: “Ve l’avevo detto che non sono una signora e questo vestito non lo so portare”.

Le visionarie raccontate da Murgia non sono signore “con tutte stelle nella vita”, ma donne le cui vite sono fatte di inciampi e di risalite, donne per le quali “la guerra non è mai finita” perché sono impegnate a rovesciare il canone di una femminilità educata e rispettosa nel quale si sentono strette. Donne che fanno un percorso tortuoso per avere “una stanza tutta per sé e uno stipendio tutto per sé”, come scriveva Virginia Woolf alla fine degli anni ’20, perché solo così possono permettersi di non cedere sul proprio desiderio. Donne che non vogliono vivere nella “casa di bambola” che hanno costruito per loro; che non ammutoliscono di fronte allo “stai zitta!” del maschio di turno. Come aveva intimato alla stessa Michela Murgia un noto psicologo televisivo. “Ci dicono sempre ‘questo è il modo in cui devi essere te stessa’, cioè puoi essere tutto quello che puoi, ma non tutto quello che vuoi”.

Murgia non cercava esempi edificanti per ribadire una presunta radice univoca della femminilità, ma un’apertura plurale all’autodeterminazione, incarnata da storie diverse, accomunate soltanto dal desiderio di far saltare convenzioni e confini. Le visionarie “se ne sbattono di piacere agli altri, vogliono piacersi” diceva Murgia. Le storie che raccontava sembravano più autentiche perché lei – così mi è sembrato in quella fugace conoscenza pesarese –incarnava l’asperità di chi non vuole compiacere nessuno né perdersi nei convenevoli affettati, di chi si era liberata dal senso di colpa di non voler “dispiacere” agli altri. Perché le Morgane, come le aveva definite, sono “strane, pericolose, esagerate, stronze e a modo loro tutte diverse e difficili da collocare”.

Murgia era consapevole che la rivoluzione del secondo sesso, come lo chiama Simone De Beauvoir, passa anche e soprattutto tramite l’immaginario della cultura pop. La rivoluzione non avviene solo con le manifestazioni in piazza, ma anche sulle passerelle delle sfilate di moda, sulle copertine delle riviste, sui palchi degli stadi, sullo schermo televisivo, sulle piattaforme dei social. E in questa scia si inserisce la narrazione social – rivoluzionaria e difficile – della sua malattia e della sua morte, che le aveva dato la possibilità di farsi esempio incarnato dello slogan femminista “il personale è politico”.

Ma anche di usare la narrazione per il suo scopo ultimo: rendere sopportabile il dolore inserendo un evento casuale in un destino più ampio, in un ordine di senso collettivo. Come ha scritto Hannah Arendt a proposito di Karen Blixen: “il racconto rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi”. Lucrezia Ercoli 15 Agosto 2023

Da L’Inkiesta.

Mentre morivo. L’energia sovrumana di Michela Murgia e l’inadeguatezza di noi che stavamo a guardare. Guia Soncini su L'Inkiesta il 12 Agosto 2023

La scrittrice ha fatto della sua esistenza una militanza politica, e del suo ultimo anno un’agonia piena di vita. Chissà come faceva ad avere tutta quella voglia di esserci, con tutta quella sofferenza addosso 

Una cosa che non avevo mai immaginato, fino al Natale del 2021, era che ci fossero persone convinte che, se non sei d’accordo con qualcuno, allora ne desidererai la morte, o comunque ne gioirai.

Sì, certo che anche prima di allora mi ero accorta che i social erano pieni di gente che si augurava – meglio: dichiarava di farlo – la morte mia o di altra gente che, senza mai averla incrociata, riteneva fosse il più grave problema del mondo. Ma che il mondo sia pieno di scemi non mi pare una notizia.

La questione cui mi riferisco non attiene a Brocco81 che dichiara di sperare che Tizio di cui ha letto un articolo con cui non è d’accordo muoia tra atroci sofferenze. La questione cui mi riferisco riguarda Giorgia Meloni, per dire, e una sua dichiarazione ovvia e garbata sulla morte di Michela Murgia; riguarda lei, e tutti quelli che ieri si sono precipitati sui social a dirle che schifo, come potete parlare di cordoglio dopo averla attaccata.

Michela Murgia ha fatto della sua vita una militanza e quindi è – inevitabilmente, e direi persino con una certa voluttà – entrata in collisione con chi avesse idee diverse dalle sue. L’ha fatto da che ha avuto una voce pubblica, l’ha fatto come scelta identitaria. Se ogni tanto ricordava Skunk Anansie non era perché, per il cancro, si era rasata a zero: era per quel titolo di canzone del quale sembrava aver fatto un manifesto di vita. “Yes it’s fucking political”.

Sì può non trovare sconvolgente e ingiusto che una persona muoia a cinquantun anni? Veramente la polemica politica significa, secondo coloro che ieri si indignavano vai a sapere se a scopo di cuoricini o per autentica stolidità, desiderare la morte dell’avversario, o comunque essere contenti quando avviene?

Tutto ciò che osserviamo e valutiamo non riguarda – non serve uno specialista viennese per capirlo – l’oggetto dell’osservazione, ma noi. Quando pensi che chi non apprezza il lavoro di qualcuno ne desideri la morte, mi stai svelando che così succede a te: tutto ciò che pensiamo dice qualcosa di noi. Anche quando abbiamo il pudore di non scrivere coccodrilli che raccontino quanto il morto ci stimasse, la morte degli altri riguarda noi.

Durante le vacanze di Natale del 2021 Michela Murgia è stata ricoverata con non so quanti litri d’acqua nei polmoni, ed era una recidiva d’un tumore precedente, una recidiva i cui sintomi aveva da un anno senza andare a farsi vedere, ed è stato subito chiaro a chiunque che sarebbe morta, perché un cancro che lasci prosperare per un anno o più poi mica riesci più a curarlo.

Non riguardava certo lei, il mio sconvolgimento della sera in cui mi raccontarono questa vicenda. Non riguardava certo una scrittrice che non conoscevo privatamente e con le cui posizioni pubbliche non ero praticamente mai d’accordo.

Riguardava me che detesto andare dai medici; riguardava me che ero nata quattro mesi dopo di lei e la vita mi stava dicendo che era un’età buona come un’altra per morire; riguardava – soprattutto – il guaio d’essere la migliore.

Nell’ampio campo intellettuale di coloro le cui idee non mi convincono, Michela Murgia era evidentemente l’unica in grado di argomentare un pensiero. E quindi, inevitabilmente, circondata di emule goffe, di ancelle volenterose, di allieve che ripetono a memoria la poesia di Natale ma cui manca il guizzo.

Quando mi avevano raccontato che l’avevano ricoverata perché l’acqua nei polmoni era così tanta che non respirava più, ma che prima di allora era un anno che vomitava e dimagriva e insomma aveva sintomi evidenti, la prima cosa che avevo chiesto era stata: ma a cosa servite voi amiche, se non l’avete portata in ceppi da un medico pure se non ci voleva andare? Mi era stato risposto: eh, ma ci aveva detto che era andata.

Il rapporto di Michela Murgia con chi la circondava è stata, qualche mese fa, la stessa Michela Murgia a svelarlo, nell’intervista ad Aldo Cazzullo, in un passaggio che nessuno ha notato, impegnati com’erano tutti i lettori a concentrarsi sulle cose più da card di Instagram, il fascismo della Meloni e altre titolabilità.

Cazzullo le chiede di Cossiga, Murgia risponde così: «Mi è sempre stato simpatico. Ricordo un faccia a faccia con Minoli, che gli chiese: ma lei è massone? Cossiga rispose: no. Minoli lo incalzò. E lui: “Erano massoni mio padre, mio zio, mio cugino, i miei amici… Non avevo alcun bisogno di essere massone pure io”. È un po’ come me con il Premio Strega. Ho rifiutato il voto da giurata, ma Chiara Valerio mi sfotte sempre: “Michela non ha un singolo voto, ne ha diciassette…”».

Non sarà stata né la prima né l’ultima donna di potere, né la prima né l’ultima ape regina che ha con i propri affetti un rapporto non paritario; ma mi sembrò molto interessante che lo rivendicasse pubblicamente: non è una cosa che facciamo, noialtre abituate alla mistica della femminilità e al potere esercitato di nascosto e con sotterfugi seduttivi. E invece: ci sono diciassette persone che allo Strega votano quello che dico io, figuriamoci se mi contraddicono quando non voglio andare dal medico.

Quella sera d’un anno e mezzo fa, ho iniziato a chiedermi a cosa serva, e non ho più smesso. A cosa serve essere carismatiche, se poi quel che te ne viene è che nessuno di quelli che ti stanno intorno osa contraddirti, neanche quando si tratta di salvarti la vita? A cosa serve essere di successo, se le classifiche di vendita non possono renderti immortale? A cosa serve essere perentorie, se poi ti lasci morire per incuria?

Nell’anno e mezzo trascorso tra quel ricovero d’urgenza e la sua morte, giovedì sera, Michela Murgia tutto ha fatto tranne che lasciarsi morire. È stata un’agonia piena di vita, come se avesse voluto rendere più denso il tempo che le restava, per compensare quello di cui si era distrattamente privata (scusate, metto subito via il kit della psicanalista dilettante).

È andata alle sfilate e alle fiere letterarie, ha instagrammato la chemioterapia e le canzoni coreane, ha scritto quattro libri – due già usciti, l’ultimo consegnato mercoledì sera – e non so quanti podcast, dato interviste, fatto servizi fotografici vestita in haute couture. Non si è mai dimenticata di vivere, e io la osservavo senza capire.

Come fa ad avere così voglia di esserci, con tutta quella sofferenza? Come fa a cercare così disperatamente di dare un’immagine di forza, quando sa che la fine è nota? Non sono mai passati più di tre giorni senza che parlassi di lei, di una scrittrice che non leggevo e non mi stava simpatica e di cui non m’ero mai interessata prima che s’ammalasse, e di quello che mi sembrava svelasse di me, di noi, di quell’inaccettabile ingiustizia che è la morte.

Michela è contenta di questo anno e mezzo, mi giuravano le persone che le volevano bene, ha fatto tante cose, e io non riuscivo a venirne a capo: io che chiedo la morfina se ho un giradito, e lei che aspetta di chiudere l’ultimo libro prima di farsi sedare, lei che ha ancora voglia di baccagliare con la Meloni, con Figliuolo, con le lingue romanze, mentre è in chemioterapia.

Com’è possibile, chiedevo a chiunque fosse disposto ad ascoltarmi, che abbia questa voglia, questa forza, questa energia sovrumana, mentre sta morendo. Una volta una sua amica mi ha risposto «ma stiamo tutti morendo», e ho pensato che brutta fatica dovesse essere, essere l’ape regina in mezzo a gente che si esprime per frasi fatte e banalità trite. O è una forma di allenamento, se sei circondata da gente intellettualmente non all’altezza ti alleni anche a saper parlare al grande pubblico?

Una cosa che ha creato, Michela Murgia con quella vetrina sulla sua malattia tenuta spesso accesa, è stata la moltiplicazione dei funerali da viva. Ogni giorno c’era qualcuno che la criticava o la difendeva, ma che comunque riteneva di dire cosa pensasse delle sue feste in bianco e delle sue idee sulla famiglia.

Giorni fa ho visto un video di uno degli indignati da cordoglio degli antipatizzanti, uno di quelli che hanno passato l’ultimo anno a dire «come vi permettete di piangere la morte di una le cui parole vi dispiacevano da viva, ipocriti». Era un video involontariamente esilarante, in cui questo tizio spiegava che lui e la Murgia non si stavano simpatici da quando lei aveva stroncato un libro di lui, e lui aveva risposto con un articolo stronzo. Già rispondere a una stroncatura sarebbe imbarazzante, ma l’autoritratto poi peggiorava.

Questo interessante incrocio di ego ipertrofico e mancanza assoluta di senso del ridicolo spiegava d’essere a un certo punto stato in collegamento con un programma nel cui studio era presente lei, e d’aver percepito dai di lei sguardi che, ebbene sì, la Murgia stava dalla sua parte rispetto a una qualche polemichetta minore.

In seguito a questo sguardo (che non si era affatto immaginato, cosa andate a pensare), egli non era dunque oggi come questi ipocriti, nel fare il suo bravo elogio funebre alla Murgia ancora viva; era invece, il guardato, uno legittimato a dispiacersi dell’imminente decesso, e persino pentito d’una frase scritta nell’articolo dell’epoca. Frase che ben pensava di svelarci, per farsi stimare vieppiù: «La falsa magra Michela Murgia». Che brutta fatica, con detrattori il cui equipaggiamento dialettico è questo qui.

L’altro giorno, su Instagram, Michela Murgia aveva citato, rispondendo a chi le chiedeva se le cure stessero funzionando, una frase che non conoscevo di Cesare De Michelis. Faceva così: posso stare meglio, ma non posso più stare bene.

È stata l’ultima volta in cui mi sono straziata osservando quell’oblò sulla sua vita che aveva tenuto aperto in questo anno e mezzo, l’ultima volta in cui mi sono chiesta a cosa servisse tutto quanto, e in cui non mi sono saputa rispondere.

Addio, Morgana. È morta la scrittrice Michela Murgia. L'Inkiesta l'11 Agosto 2023

Aveva cinquantuno anni, era una delle voci femministe più ascoltate. Aveva raccontato la malattia, ora viene ricordata anche dalla politica che l’ha sempre combattuta

È morta a Roma Michela Murgia, la scrittrice aveva cinquantuno anni. A maggio, aveva rivelato in un’intervista al Corriere della Sera di soffrire di un cancro al quarto stadio. «L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti», aveva detto in quell’occasione. «Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono», sullo spirito con cui aveva affrontato la malattia.

A metà luglio, si era sposata con l’attore e regista Lorenzo Terenzi; sul velo, nel giardino di casa, svettava: «God save the Queer». Nata a Cabras, in Sardegna, nel 1972, Murgia ha esordito con il romanzo “Il mondo deve sapere” (2006), che ha ispirato un film e uno spettacolo teatrale. Con “Accabadora” (la storia di un’anziana donna che in un villaggio sardo dà di nascosto la morte ai malati che gliela chiedono) due anni dopo ha vinto il premio Campiello.

A giugno si era ritirata dalla vita pubblica. Ex insegnante di religione, ha denunciato il precariato lavorativo, a cui ha dedicato un blog da cui è nato il primo libro, e di quello femminile in particolare. Era una delle voci femministe più ascoltate, e attaccate, in tv, sui social. Tra le sue battaglie, che hanno innescato anche polemiche, quella per l’uso dello schwa.

Della «sopravvivenza emotiva» parla l’ultimo volume, uscito quest’anno per Mondadori. Tra i suoi testi più impegnati “Istruzioni per diventare fascisti” e “Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più”, tema affine al podcast “Morgana” diventato a sua volta libro, con le storie di dieci donne «controcorrente, strane, pericolose, esagerate» in grado di «smontare il pregiudizio della natura gentile e sacrificale del femminile». Come un po’ era lei.

In queste ore, l’ha ricordata anche la politica di destra con cui tante volte si è scontrata. Il ministro dell’Interno le ha rivolto «una preghiera», seguito dal rammarico del senatore leghista Simone Pillon («Avrei voluto continuare a confrontarmi con te»), agli antipodi di Murgia sui diritti civili, sovente sabotati in aula dalle stesse forze politiche che ora le rendono omaggio.

La scrittrice Valeria Parella l’ha salutata con una frase di “Accabadora”: «Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell’anima».

God Save the Queer. Il complesso rapporto di Michela Murgia con la Chiesa cattolica (e la fede). Francesco Lepore su L'Inkiesta il 14 Agosto 2023.

La scrittrice e intellettuale sarda ha sempre partecipato a discussioni teologiche, cercando di conciliare le sue convinzioni con la liberazione delle donne

Funerale politico. Ma prima e più ancora che tale quello di Michela Murgia è stato un funerale religioso. E lo è stato per sua stessa volontà. Sabato pomeriggio, infatti, nella basilica romana di Santa Maria in Montesanto sono state celebrate le esequie cristiane di chi si è sempre professata credente e, pur critica verso una Chiesa «strutturalmente patriarcale», se ne è sentita parte integrante fino alla fine. Era convinta Michela, e questa consapevolezza s’era rafforzata nel tempo, che si dovesse restare nella Chiesa per operare dall’interno il cambiamento, non già sparare a zero contro di essa dalla facile posizione di fuoriuscita. 

Ecco perché sono sembrati una stonatura i tre discorsi di Roberto Saviano, Lella Costa – la migliore, in ogni caso, e la meno citata sui media –, Chiara Valerio davanti all’altare e dopo il rito del valedictio, laddove avrebbero assunto pieno significato e potenza ascoltati all’esterno da tutte e tutti. Ecco perché, in ultima analisi, è sembrata fin troppo scontata l’esecuzione di Bella ciao, che una piazza commossa ha intonato all’uscita del feretro della scrittrice orgogliosamente antifascista, laddove i canti della liturgia funebre e, in particolare, il settecentesco inno devozionale in logudorese Deus ti salvet Maria sono stati invece capaci d’evocare un diverso vissuto inedito ai più: quello dell’antica responsabile di Azione cattolica in Sardegna, della femminista cattolica controcorrente, della mendicante dell’Infinito nel buio della fede. 

Una fede, quella di Michela Murgia, mai andata in crisi, perché, come lei stessa aveva spiegato più volte, nutrita dalla lettura delle Scritture e dalla preghiera. «Il mio rapporto con Dio – così poco più di due anni fa – non è conflittuale. E questo è merito di alcune teologhe che mi hanno mostrato, scritture alla mano, un volto di Dio che non discrimina le donne». 

Di queste teologhe una in particolare ha così segnato il percorso di vita della scrittrice da esserne espressamente indicata, insieme con don Antonio Pinna, quale seconda dei suoi «maestri» nell’ambito degli «studi teologici»: Marinella Perroni Cofondatrice del Coordinamento Teologhe Italiane, di cui Murgia era socia honoris causa, e docente emerita di Nuovo Testamento al Pontificio Ateneo S. Anselmo, la biblista romana ha partecipato sabato alle esequie dell’amica “discepola”, leggendo fra l’altro il salmo interlezionale.

In una lunga conversazione telefonica, in cui le riflessioni biblico-teologiche si sono alternate a ricordi personali e a gustose uscite valutative, Marinella Perroni ha osservato come in «Michela fede e teologia fossero assolutamente coincidenti, nel senso che non poteva esistere una fede che non si ponesse domande e una teologia che non fosse frutto anche di una ricerca continua della fede. La domanda era per lei il cuore della fede: significava curiosità, investigazione, ricerca dubbio». Ma non solo: sia la teologia sia la fede di Murgia erano in un rapporto di reciproca deflagrazione: «la domanda doveva mettere in discussione una fede troppo ingenua – una fede o troppo devota o troppo rigida –, la fede doveva accompagnare la domanda perché non fosse fine a sé stessa e mossa unicamente da curiosità». 

Aspetti, questi, che in pochi avevano compreso anche all’indomani dell’uscita nel 2011 del pamphlet socio-teologico Ave Mary. E la Chiesa inventò la donna per i tipi Einaudi. Il libro suscitò grande interesse e clamore, svelando al grande pubblico, ignaro delle nuove prospettive della ricerca mariologica dal secondo ’900 in poi, che Maria era stata una donna libera e coraggiosa, pienamente protagonista delle sue scelte, non già un soggetto disincarnato dalla docilità passiva. Ma non andò esente da numerose critiche per un approccio storico in più punti deficitario e una visione teologica giudicata unilaterale, tanto da ripresentare, sia pur con indubbia vivacità narrativa, un’accolta di stereotipi su donne e Chiesa, già da tempo messi in discussione da un’ampia letteratura internazionale.

Ave Mary è un libro che la stessa Marinella Perroni non hai mai amato. Ma per motivi altri rispetto a quelli indicati. E li spiega così: «Dopo il nostro primo incontro, avvenuto poco prima dell’uscita di Accabadora, le avevo chiesto un testo di narrativa con un retroterra teologico. Quando ci rivedemmo e, tra il reciproco imbarazzo, mi confidò: Non ho il coraggio di dirti che Einaudi non mi molla. Ma il libro è fatto: è su Maria, a me mancò quasi la terra sotto i piedi. Se c’è un tema per noi controverso, è proprio quello della Madonna. Il peso dell’icona mariana sulla vita delle donne è stato molto forte». Michela Murgia, al contrario, era e sarebbe rimasta molto attaccata a un tema, che la portava a riconsiderare la sua esperienza personale di credente, formata inizialmente dalla nonna e dalla zia, e ad analizzare il rapporto tra «donne, fede, Maria» nell’ottica di una «liberazione delle donne, che passa attraverso la messa in discussione di quello che le immagine mariane hanno significato da un punto di vista di precipitato sulla vita di noi stesse».

Ma, proprio grazie all’amicizia e ai lunghi colloqui con la biblista, l’autrice di Ave Mary avrebbe affinato negli anni le proprie capacità teologiche, fino ad arrivare al suo capolavoro in tale ambito: God Save the Queer. Catechismo femminista (Einaudi 2022). Di quel saggio, nato da una sua conversazione con Michela Murgia al Festival InQuiete presso il Cinema romano Avorio (13 ottobre 2019), Marinella Perroni ha scritto la postfazione e ne è, in un certo senso, l’ispiratrice. «Per me – commenta – è il suo libro teologico per eccellenza: esso ha pagine magistrali di teologia trinitaria, scritte nella contemplazione della celebre icona di Andrej Rublëv».

A partire dal suo vissuto Michela Murgia è approdata in God Save the Queer a una matura riflessione di Dio, che è innanzitutto relazione, e, in quanto tale, archetipo di tutte le relazioni umane. Relazioni umane, che non si esauriscono in quelle fondate sul sangue ma si estendono, inglobandole, ai rapporti d’elezione. È la dimensione queer, maturata dalla scrittrice – dopo la raggiunta consapevolezza che si può essere insieme donna e credente, donna e femminista, donna femminista e credente – attraverso la sua famiglia e i suoi quattro «figli d’anima».

Quel queer che, al di là della recenziorità terminologica, è contenutisticamente antico quanto il messaggio cristiano. «La Famiglia di Nazareth – si chiede e chiede provocatoriamente Marinella Perroni per invitare alla riflessione – non era forse queer? La comunità dei discepoli non era queer? L’ultima volta che abbiamo parlato di questo con Michela, è stato in giugno, il giorno prima dell’incontro di Papa Francesco con gli artisti e le artiste. Le dissi: Portagli Vanity Fair e, se dovesse redarguirti, rispondigli che il queer l’hanno inventato i conventi. Il queer è tipico della tradizione cristiana. Si pensi ai rapporti di rottura del gruppo dei discepoli di Gesù coi ruoli convenzionali, sulla base delle parole dello stesso Cristo: Chi è mia madre, e chi sono i miei fratelli?. Si pensi a Paolo, che applica il lessico familiare alla comunità cristiana. Insomma, non c’è nulla d’inventato in quello che ha detto Michela. Con la sua famiglia queer, che cosa ha fatto di diverso rispetto al Chi è mia madre, e chi sono i miei fratelli?».

Senza utilizzare un tale termine nel messaggio letto all’inizio della messa esequiale, il cardinale Matteo Maria Zuppi, che non ha dimenticato di rilevare come non sempre ci fosse stata consonanza di vedute tra lui e la scrittrice, ha però parlato di Gesù che visita Marta e Maria, sorelle di Lazzaro, «non come ospite ma come familiare, fratello d’anima che ci fa credere ai legami d’anima, perché siamo generati non dal sangue ma dallo Spirito. E per questo la Chiesa è famiglia di Dio, con i legami di amore che Lui per primo viene a creare, pensandosi in relazione con noi e chiedendoci di viverli tra di noi e con il prossimo, cioè l’altro». È, a ben vedere, la sintesi della riflessione teologica di Michela Murgia. Ma anche dell’ultimo tratto di vita, in cui la scrittrice, in modalità che hanno stupito i più, ha vissuto la malattia e si è preparata cristianamente alla morte.

«In questi ultimi mesi Michela Murgia – commenta a Linkiesta Emma Fattorini, storica contemporaneista alla Sapienza – ha direttamente testimoniato, direi più che nei suoi libri sulle questioni religiosi, una spiritualità profondamente incarnata sul senso della vita e della morte. Senza alcun cedimento a forme di autocommiserazione e di dolorismo, ma neppure di martirio eroico. Il cancro “non è un nemico da distruggere” ma è parte di noi, come la morte che ci accompagna è parte integrante del vissuto di ogni persona. Ecco perché trovo bellissimo che Murgia, consapevole di come la storia “sarebbe andata a finire”, abbia fatto quello che aveva sempre desiderato di fare nell’ultimo anno e mezzo di vita: dalla partecipazione alle sfilate al viaggio sull’Orient Express».

Ma insieme, come ha ricordato il cardinale Zuppi, «ha conservato fino all’ultimo la passione per gli altri, per chi soffre in guerra. E ha cercato la vicinanza dei suoi “affetti di anima”, la loro presenza». Secondo il parere della studiosa, Michela Murgia, che non ha mai nascosto la paura del dolore, è riuscita in ciò grazie a un percorso mai rinnegato di fede in Cristo: «Mi ha colpito che alle sue esequie si sia letto il brano evangelico, peraltro da lei accuratamente scelto, di Gesù simboleggiato dalla porta, attraversando la quale si entra e si esce con la sicurezza di trovare pascolo. Brano, che, guarda caso, è integralmente riportato e commentato in God Save the Queer. La porta è fortemente evocativa di quella morte che per una donna credente come Michela non è stata la fine di tutto ma il passaggio dal non ancora al già».

Il caso Murgia. I social, l’irrilevanza dei libri e il futuro del mercato degli intellettuali. Guia Soncini su L'Inkiesta il 19 Agosto 2023

Dopo la morte, la scrittrice e militante sta vendendo molto, ma sempre meno di quando l’editoria era un’attività importante (e meno di quanti la seguivano su Instagram). Ora la letteratura serve solo a tenere compagnia, come se l’obiettivo fosse mitigare solitudine e disperazione

In una prefazione a un’edizione americana di “Amori ridicoli”, negli anni Settanta, Philip Roth parla del realismo socialista scansato da Kundera dandone la definizione che aveva sentito da «un critico di Praga»: «Il realismo socialista consiste nello scrivere degli elogi al governo e al partito in modo tale che persino loro possano capirli».

Esiste oggi, nel realismo cuoricinista, la possibilità d’essere Milan Kundera e non Pasolini, Canetti e non Calvino, d’essere un intellettuale ritenuto rilevante senza essere scomponibile in comodi bocconcini predigeriti, senza fornire slogan da maglietta, senza esprimersi in forma riducibile a una card di Instagram, io so ma non ho le prove, e laleggerezzacalviniana che ormai è tutt’una parola?

Ora che persino Umberto Eco è diventato troppo sofisticato, troppo complesso, di troppo faticosa digestione per farne quel finger food culturale che è l’unico ormai tollerato dal delicato stomaco d’un grande pubblico che è intollerante al lattosio, al glutine, alle contraddizioni e alle parole non confermative.

Lo spiegava piuttosto bene il miglior articolo scritto in morte di Michela Murgia, da Michele Serra su Repubblica. «Murgia si è spavaldamente, a tratti perfino allegramente esposta come leader di un “tutto e subito”, e di un radicalismo anche linguistico, che potevano irritare o appassionare. Sicuramente molto spendibili in chiave social, laddove la dialettica è stritolata nella tenaglia degli amici e dei nemici, della ragione tutta da una parte o tutta da quell’altra. Logica binaria anch’essa, vale constatarlo. È molto probabile che la sintesi, l’“andare oltre”, il superamento di quella furente disputa di genere, e sui generi, per lei fosse la letteratura; non perché nei libri “parlasse d’altro”, ma perché ne parlava diversamente, meno condizionata dall’ansia di prestazione che costruisce buona parte del pathos social».

Solo che c’è un problema, che Serra non sottolinea un po’ perché è più beneducato di me, un po’ perché è uno di noi del Novecento, che non vogliamo rassegnarci a quanto siano residuali i settori che ci hanno allevati e nei quali ci ostiniamo a muoverci: i libri sono ormai un prodotto di nicchia non dico quanto le carrozze a cavalli, ma quasi. I libri non contano niente. I libri non li legge nessuno.

(Questo è il punto in cui quelli dell’industria editoriale mi spiegano che è fiorente, che fattura tantissimo, che i fumetti e i libri di ricette vanno fortissimo e li candidiamo pure allo Strega).

I libri non contano niente. È un’iperbole, ma non del tutto: per dare l’esame universitario su “Essere e tempo” non puoi leggerne più di tre capitoli, altrimenti sfori il punteggio. Chissà se a quel punto il vecchio Martin lo annoti tra gli autori amati sulle app di lettori forti, chissà tra quanti anni ci si potrà laureare in filosofia portando come bibliografia un podcast su Wittgenstein e delle slide su De Crescenzo (ufficialmente, dico; ufficiosamente, probabilmente già adesso).

Persino nei casi di grandi successi, quali sono stati i libri di Michela Murgia, i numeri sono quelli che vent’anni fa (per non dire cinquanta) avrebbero caratterizzato un insuccesso. Fino alla prima settimana di agosto, a qualche giorno prima della morte dell’autrice, “Tre ciotole”, il libro che era stato annunciato da un’intervista in cui Michela Murgia aveva detto d’avere poco da vivere, e che era stato primo in classifica per parecchie settimane, e poi era comunque rimasto tra i libri più venduti d’Italia, nei suoi primi tre mesi in commercio di quel libro lì erano state comprate novantamila copie.

Molta più gente ha visto un concerto di Ultimo (chiunque egli sia) nella sola Roma nel luglio 2023 di quanta in tutta Italia abbia comprato il libro col più potente lancio promozionale che autrice italiana abbia mandato sul mercato negli ultimi anni. E molta più gente seguiva Michela Murgia su Instagram di quanta ne comprasse i libri.

Michela Murgia è stata coerente fino all’ultimo con la propria identità di rompicoglioni. È morta ad agosto costringendo i suoi cari a tornare precipitosamente da posti mal collegati, ma soprattutto è morta nella settimana in cui Gfk, che si occupa dei rilevamenti delle vendite di libri, è inderogabilmente in ferie, non dando modo agli osservatori di quantificare il valore del decesso per le vendite. I numeri di quel che hanno venduto i libri della Murgia dopo la sua morte li avremo solo lunedì, ma non ci vuole una sacerdotessa di Apollo per immaginarli. 

Lasciati senza Gfk, i poveri editori in settimana dovevano affidarsi all’impressionismo della classifica Amazon, dove un militare che si autopubblica i suoi penzierini, oggetto d’un quarto d’ora di scandalo per aver detto che mica è normale essere busoni, era primo, rendendo vieppiù cogente quella domanda che si faceva Enrico Vanzina secoli fa: come mai i bestseller non sono mai letti dai best reader? 

Ma soprattutto costringendo noi tutti ad ammettere che quello editoriale è un mercato così minuscolo che un quarto d’ora di polemicuzza basta a portarti in cima alla classifica, sopra l’autrice più discussa dell’anno.

Inciampo del generale-vero-maschio a parte, dopo la morte dell’autrice tutti i libri di Michela Murgia saranno stati i più venduti di questo paese di lettori deboli, e nello scorso weekend “Tre ciotole” avrà superato le centomila copie. Che sono comunque meno della metà di quelli che per tre sere hanno riempito uno stadio romano per Ultimo, chiunque egli sia. 

E un quinto di quelli che la seguivano nel posto che, se vuoi avere un pubblico in questo secolo, è ragionevole presidiare: il posto che illude il pubblico che non sia necessario esso s’affatichi, che non sia mica quello il punto d’avere un[’]intellettuale di riferimento. Insomma: Instagram.

Ogni volta che si parla di libri su un social, il posto dove dice la sua la gente che non sa esprimersi e non ha intenzione d’imparare, c’è sempre qualcuno che protesta: insomma, i libri sono troppo cari. Possono spendere ottanta euro per un concerto ma non venti per un libro? Certo che no: il verbo non è «potere» ma «volere».

Non vogliono essere costretti a fare la brutta fatica di concentrarsi su una pagina. Non vogliono buttare soldi per un’esperienza che non potranno instagrammare (ci siamo fatti distrarre da «resilienza», e abbiamo lasciato che quella gramigna lessicale e posturale che è «esperienza» attecchisse).

Non vogliono perdere tempo con duecento pagine quando basta e avanza l’intervista a Vanity Fair, di cui oltretutto c’è la versione video che si condivide molto più comodamente (e piace molto di più all’algoritmo) della foto alla pagina di giornale (quella sì residuale come e più dei libri).

Chi fa le pagine culturali, e avendo la smania di non sembrare fuori dal tempo pubblica anche gente con forte presenza social, racconta che quegli articoli sono caratterizzati da un’interessante schizofrenia: un pieno di cuoricini sulla card che promuove l’articolo sull’account social del giornale, epperò pochissimi lettori che si prendano il disturbo di cliccare per aprire l’articolo (aprirlo: «leggerlo» mi pare invero un’ipotesi impegnativa).

Grande consenso per la frasetta, pochissimo interesse per il ragionamento. D’altra parte, oltre a «esperienza», il concetto più in voga in questo disgraziato secolo è «empatia», e se promuoviamo il primato delle emozioni poi non possiamo pretendere che le opere d’ingegno vengano selezionate con un criterio diverso da quel «col cuore» che rende intercambiabili Barbara D’Urso e il premio Strega.

Molto si è parlato, privatamente e pubblicamente, del funerale di Michela Murgia. Del rito di massa e quindi inevitabilmente cafone in cui le orazioni funebri venivano interrotte da applausi come raccordi narrativi d’un qualunque concerto di Ultimo; di tizie che non si erano mai viste che si chiamavano l’un l’altra «sorella» e piangevano insieme per una che pure non avevano mai conosciuto; di Elly Schlein che cantava “Bella ciao” abbracciata a Francesca Pascale; di Roberto Saviano che diceva la sua orazione con una mano infilata nella cinta dei pantaloni.

A colpire me è stato un dettaglio del dopo. Il cameraman del sito di Repubblica era rimasto fuori dalla chiesa a inquadrare il niente, e a un certo punto gli si è piazzata davanti una tizia del Tg1 col mandato più difficile della giornata. Fermava le ragazze che uscivano dalla chiesa chiedendo «c’è qualcuna che è qui perché era una lettrice di Michela Murgia, perché leggeva i suoi libri?». Quelle la guardavano come fosse di trasparenza medusiaca: era uno spettacolo straziante.

Dopo un po’ Saviano è andato via, e sia il cameraman di Repubblica sia l’inviata del Tg1, che ha capito che le conveniva ripiegare su un obiettivo più semplice, l’hanno seguito fino alla macchina. Lei gli ha chiesto «un ricordo personale di Michela per il Tg1», e lui ha ottemperato: «I suoi libri non mi hanno mai fatto sentire solo, ed è questo che deve fare la letteratura».

Mi sono ricordata della pandemia, all’inizio, quanto eravamo chiusi in casa e tutte le persone famose facevano dirette su Instagram perché avevano deciso che era proprio quello il loro compito: non far sentir soli noialtri normali.

Ma quindi è davvero questo il compito della letteratura, o è quello di quell’ormai sinonimo della letteratura che è la celebrità? È il ruolo di Instagram e in subordine dei libri? Tenere compagnia alle nostre vite di silenziosa disperazione con parole talmente semplici che persino noialtri, noi abbastanza inattrezzati da applaudire in chiesa, possiamo capirle e sentirci accuditi? È questo il futuro del mercato dell’intelletto, se l’intelletto ha un futuro?

Da La Verità.

Estratto dell'articolo di Giuliano Guzzo per “La Verità” lunedì 21 agosto 2023.

Se una parte del mondo cattolico segue con trasporto la canonizzazione che la cultura laica sta facendo a Michela Murgia, la scrittrice sarda da poco scomparsa - e che, pur professandosi cattolica, da tempo sposava istanze lontane dalle posizioni della Chiesa -, ci sono ancora pastori che non solo non ci stanno, ma mettono in guardia i fedeli da insidiose tendenze ideologiche. 

Fra costoro, c’è monsignor Antonio Suetta, 60 anni, vescovo di Ventimiglia-Sanremo, il quale sul sito della sua diocesi nei giorni scorsi ha condiviso un videomessaggio proprio per smarcarsi da quanto sta avvenendo a seguito della morte della Murgia […] 

Eccellenza, che cosa ne pensa della beatificazione laica che la cultura mainstream sta facendo di Michela Murgia?

«Credo che questo sia coerente con l’andazzo del nostro tempo e con questa mentalità, come dire, scristianizzata, pervasiva e dilagante […]». 

Forse anche i funerali religiosi della scrittrice avrebbero potuti essere più sobri?

«Certo. […] il funerale deve essere sempre sobrio perché, se noi non vogliamo cedere ad una mentalità mondana, dobbiamo ricordare che il rito delle esequie non è un atto commemorativo del defunto, ma è un momento di preghiera in suo suffragio. Dunque anche l’intervento omiletico deve riguardare i contenuti della fede circa quelle che sono le realtà definitive, quelle che il Catechismo chiama i “Novissimi”. Capisco poi, quando le circostanze lo consentono, che si possa dire anche una parola sul defunto». 

In che modo?

«Raccogliendo una qualche testimonianza di vita che sia o esemplare o che offra lo spunto per una riflessione. Ma trasformare la celebrazione liturgica in un atto commemorativo del defunto, dal punto di vista liturgico è semplicemente fuori luogo. 

Peggio ancora, dal mio punto di vista – ma non soltanto il mio punto di vista, bensì secondo quelle che sono le norme liturgiche della Chiesa Cattolica – peggio ancora, dicevo, è permettere, nel contesto di una celebrazione liturgica, o comunque in un contesto di prossimità, perché nello stesso luogo sacro, commemorazioni a persone che non hanno la dovuta preparazione, tale da consentire una parola che sia una espressione della fede stessa. 

E quindi a me è parso che gli interventi che si sono succeduti non soltanto fossero inadeguati da questo punto di vista, ma fossero anche espressamente promotori di visioni della vita inconciliabili con la Parola di Dio, che in chiesa viene proclamata, e con la dottrina della Chiesa cattolica».

A proposito di visioni della vita care alla scrittrice sarda, come rispondere, da cattolici, alla tesi pro famiglie queer?

«Per dare una risposta autenticamente cattolica, è sufficiente guardare al Catechismo della Chiesa cattolica – e quindi alla formulazione della famiglia della dottrina cristiana. Poi, in altri contesti, si può anche accettare di dialogare su determinati temi, perché da una parte il dialogo consente di comprendere meglio l’evoluzione del pensiero nelle sue origini e anche nei suoi effetti che ricadono sulla società, e, dall’altra, consente di illuminare l’interlocutore. 

[…]

Ma certamente non è la liturgia il luogo dove fare questo dialogo o, peggio ancora, dei comizi. La liturgia è il contesto in cui si celebra il dialogo con Dio. È il luogo dove si riceve la grazia di Dio, che trasforma la vita; ed è da questi due aspetti, chiamiamoli verticali, che deriva la comunione spirituale tra i credenti, che poi anche nella vita quotidiana può manifestarsi in molti modi, come appunto il dialogo». […]

Da Il Giornale.

Oggi l'addio a Murgia, mentre il funerale diventa evento social. Le esequie a Roma come testimonianza e un libro postumo. Su Twitter è rissa. Matteo Sacchi il 12 Agosto 2023 su Il Giornale.

Una morte annunciata e, in un certo, senso usata come pamphlet, se non proprio come opera d'arte. Così si è chiusa l'esistenza di Michela Murgia che lo scorso maggio rivelò, in un'intervista per il Corriere della Sera, di essere affetta da un tumore al quarto stadio, con metastasi «nei polmoni, nelle ossa, e al cervello». Da quel momento, la scrittrice ha raccontato pubblicamente, utilizzando molto anche i social (a partire da Instagram) i suoi ultimi mesi di vita. Un racconto dove il privato tocca continuamente il politico - a partire dalle seconde nozze in articulo mortis per garantire alla sua «famiglia queer» quello che la «legge non garantisce» - che ovviamente contribuisce ora a produrre un profluvio di testimonianze e prese di posizione.

Convinta combattente per le sue idee - non le piaceva però le metafore guerresche sulla malattia: «Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere» - ha organizzato il suo incontro con la morte in modo che tutto fosse strutturato come messaggio. A partire dal funerale che si svolgerà oggi a Roma alla Basilica di Santa Maria in Montesanto, la Chiesa degli Artisti, alle 15 e 30. A spiegarne il senso in questo caso è stato Roberto Saviano che a Murgia era molto legato. «Ha immaginato il suo funerale - ha detto lo scrittore - come un atto politico, un incontro di tutti coloro che l'hanno letta, voluta bene, difesa, sostenuta. Una celebrazione della strada percorsa insieme». E ancora: «Questo funerale non ha nulla di privato, per tutti è stato il suo scrivere, per tutti è stato il suo dire, per tutti il suo lottare e per tutti sarà questo saluto».

Ha lasciato anche una serie di testi di cui è praticamente certa la pubblicazione. «Michela ha scritto fino all'ultimo giorno della sua vita. Aveva un libro da consegnare e lo ha consegnato prima di morire. Un libro toccante, sulla famiglia. Doveva essere solo sulla Gpa (gestazione per altri, ndr) ed è diventato un libro più profondo sul senso della genitorialità e parentela. Credo che uscirà a breve per Rizzoli». Lo ha spiegato Alessandro Giammei, curatore dell'opera di Michela Murgia e membro della famiglia queer. «C'è anche un ricco patrimonio di file scritti in molti anni, molti racconti dispersi e pagine inedite», aggiunge Giammei. Dell'insieme del lascito spirituale e materiale di Murgia si occuperà l'avvocatessa bolognese Cathy La Torre che è la curatrice del testamento della scrittrice e che ha assistito nella sua stesura. «Con Michela abbiamo lavorato mesi per una battaglia che è quanto mai urgente: tutelare ogni tipo di famiglia o relazione non tradizionale - ha detto - Quello che posso affermare con certezza è che si sono scosse milioni di coscienze e che noi continueremo a portare avanti, ognuno con le proprie capacità, il suo lascito».

Ovviamente moltissime le reazioni nel mondo politico e culturale alla morte della scrittrice, anche tra chi non ne condivideva le idee. Così Marina Berlusconi presidente del Gruppo Mondadori: «Non è necessario condividere le idee di Michela Murgia per considerarla una donna coraggiosa, appassionata, coerente oltre che un'autrice originale e di grande talento. La sua scomparsa, anche se purtroppo annunciata, mi colpisce profondamente». Cordoglio anche da parte della Presidente del consiglio, Giorgia Meloni: «Combatteva per difendere le sue idee, seppur notoriamente diverse dalle mie, e di questo ho grande rispetto». Sulla stessa linea il Presidente del Senato Ignazio La Russa: «Con determinazione, coraggio e il sorriso ha affrontato le paure e le sofferenze di una malattia terribile». Il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, ha ricordato che Murgia «si è battuta per le sue idee e lo ha fatto attraverso la parola e la scrittura», Matteo Salvini: «Una preghiera». Il presidente della Regione Sardegna, Christian Solinas si è soffermato sull'«intenso impegno culturale, civile e politico» di Murgia che alla sua terra era legatissima.

Più politica la segretaria del Pd Elly Schlein: «L'intreccio delle lotte contro i sistemi oppressivi. I legami che hai intessuto vivono, anche per capire insieme come essere, dopo di te». E sempre polemico Nichi Vendola: «Sei stata l'annuncio più vitale e allegro e ribelle della rivoluzione queer e l'oppositrice intransigente del fascismo comunque camuffato».

Sul versante letterario poi c'è il ricordo del Premio Campiello vinto dalla Murgia nel 2010 con Accabadora: «Michela era, e resterà, una delle voci più significative della letteratura italiana contemporanea, e molto di più».

Ovviamente tutto questo si è anche trasformato in battaglia social e inutile violenza verbale. Ma questo è solo il cascame brutto che nulla ha che vedere con Murgia, le sue idee, discutibili come tutte le idee, e il suo coraggio, invece indiscutibile.

Il lutto va oltre le idee (sbagliate). Ci sono anche i fan sfegatati, se non proprio della morte, almeno della maleducazione e della mancanza di cuore. Alessandro Gnocchi il 12 Agosto 2023 su Il Giornale.

Ci sono anche i fan sfegatati, se non proprio della morte, almeno della maleducazione e della mancanza di cuore. Li vedi commentare pieni di astio i post altrui su Facebook o Twitter. Il tono gentile, e sinceramente commosso, con il quale tutti hanno reagito alla morte della scrittrice Michela Murgia non piace allo sciacallo da tastiera, felice di dare dell'ipocrita a qualunque personaggio pubblico non solo manifesti cordoglio ma anche abbia osato, in passato, criticare le posizioni, per altro apertamente provocatorie, della scrittrice. A partire da Giorgia Meloni e a finire con i cattolici più intransigenti. Agli sciacalli, esseri semplici che vivono di opposti: odio-amore, rabbia-gioia, arroganza-servilismo, sfugge che la vita è un dono fragile e che la morte, anche dell'avversario «ideologico», si rispetta. Sì. È possibile essere in totale disaccordo con la Murgia e comunque essere toccati e dispiaciuti. Abbiamo visto una lottatrice, per quanto partigiana e a tratti aggressiva, sconfitta dalla morte. Sappiamo tutti che quel momento arriverà anche per noi ma la rapida fine della Murgia fa impressione lo stesso. Spinge a chiederci come stiamo occupando il nostro tempo e quali sono le battaglie che vogliamo combattere. Davanti alla morte, si impongono la preghiera, la compassione e la riflessione. Anche se il defunto, la Murgia in questo caso, ha militato dalla parte opposta alla nostra su catechismo, femminismo, letteratura, queerness, concezione dei diritti. Neppure abbiamo apprezzato il tentativo riuscito di fare della propria morte un caso politico, al fine di parlare, ancora una volta, di camicie nere e famiglie fluide. La Murgia era la quintessenza delle idee vincenti nel mondo culturale. Le idee giuste, quelle necessarie per restare al centro della scena o almeno sulla scena. Vedeva fascisti ovunque, quasi sempre immaginari. In questa grottesca visione, la democrazia era in costante pericolo. Per non parlare della morale, a suo modo di vedere in mano a un pugno di bigotti che non vogliono saperne di famiglie queer. Nonostante questo, è possibile piangerla. La sua storia tocca tutti. Nessuna morte forse è stata più social di questa, accompagnata da post e fotografie sempre sorridenti. La Murgia ha voluto raccontarcela in questo modo e forse i critici d'avanguardia dovrebbero pensare come, al di là dei libri, la sua eredità sia questa estrema sceneggiatura. Non è ipocrisia, come pensano i suddetti sciacalli. È semplice umanità. Quella cosa che ci siamo scordati per un pugno di like. 

Parlano di lei ma celebrano solo se stessi. Io e Michela, Michela e io, tra vento, stelle cadenti, lezioni piantate nel cuore e selfie. Massimiliano Parente il 12 Agosto 2023 su Il Giornale.

Io e Michela, Michela e io, tra vento, stelle cadenti, lezioni piantate nel cuore e selfie. Sul carro funebre di Michela Murgia salgono tutti i vincitori, tutta la consorteria pseudoletteraria e non solo, anche personaggi dello spettacolo e politici si accodano. Nicola Lagioia, con stile, ha scelto la sintesi: «Molto veloce, in un paese lentissimo. Ciao Michela». Forse perché la moglie, Chiara Tagliaferri, ha scritto libri con Michela strapresentati al Salone del libro diretto da Lagioia, con doppio vento in poppa. Infatti Tagliaferri scrive: «Con Michela. Si alza il vento, bisogna tentare di vivere». Ce la farà la Tagliaferri a vivere senza il vento di Michela?

La femminista Valerio Chiara parla di quanto le ha dato la sua amicizia con la Murgia, non le ha insegnato niente di letteratura ma «che la vita è in sé politica». Sebbene Valerio abbia scritto un pamphlet intitolato: La matematica è politica. È tutto politica, è per questo che poi le opere di questi sono quello che sono.

Comunque sia, vado avanti: Paolo Repetti posta foto in videochat con la Murgia (si vede più il faccione di Repetti che della Murgia), «Addio Miki. Per sempre nel cuore». Daria Bignardi quando l'ha saputo stava guardando le stelle, importante saperlo, «con un mio amico di nove anni che si chiama Leone. Lui ha visto tre stelle cadenti, io nessuna». Presagio mandato dal cielo a Daria che l'ha colto perché è fatta d'aria.

Ma sul carro ci salgono un po' tutti, per ostentare un kitsch di cui non sono consapevoli (altrimenti sarebbe camp) e soprattutto se stessi. Aldo Cazzullo, intervistato, cita le sue interviste alla Murgia, la sua intervista di qua, la sua intervista di là, lui ne ha colto l'essenza, il mistero. Gad Lerner la definisce una rivoluzionaria e «mi proibisco l'esibizione dei ricordi personali», esibendo la proibizione. Emma Marrone, che non ho mai visto con un libro in mano: «Ciao Michela il nostro ultimo abbraccio lo porterò sempre nel cuore. Come le parole che mi hai detto... Sei e resterai sempre un esempio per tutti noi. Baluardo di luce e speranza». Cosa le avrà detto? Il quarto segreto di Fatima?

Caterina Balivo, altra che raramente posta libri e saltuariamente posta romanzi da casalinga di Voghera, ci tiene a far sapere: «Ciao Michela, fu bello parlarti qualche mese fa il tuo racconto del primo anno di liceo lo porterò sempre con me». Il punto è che per tutti è morta una rivoluzionaria, un'attivista, una femminista, citazione dei libri poche. D'altra parte la stessa Murgia diceva che della letteratura non le interessava. Per questo tutti si vantano di averla conosciuta, in effetti leggerla serviva a poco.

Quella "partigiana" tenace da sfidare in punta di penna. Alessandro Gnocchi l'11 Agosto 2023 su Il Giornale.

Gli inizi in Azione Cattolica, poi l catechismo femminista. Le battaglie per l'uso della "schwa", la crociata anti Meloni

Di fronte alla morte, e al suo mistero, cadono come foglie secche le polemiche dettate non dall'ideologia, che sarebbe troppo, ma da visioni profondamente diverse del mondo. La prima reazione è sempre la preghiera, la seconda è cercare di capire come ci interroghi, cosa ci chieda, la morte di una persona che abbiamo conosciuto e non abbiamo conosciuto. Incrociata magari, su una terrazza di un festival letterario, ma conosciuta soprattutto attraverso le sue parole e i suoi libri.

Michela Murgia è morta ieri sera. Era malata da tempo e aveva deciso di rendere una testimonianza attraverso il suo calvario. Dal momento dell'annuncio, aveva esternato il suo dissenso, confinante col disprezzo, per l'Italia, che giudicava in mano a un gruppo di fascisti guidato da Giorgia Meloni. Aveva poi criticato aspramente il concetto tradizionale di famiglia, contrapponendole la «famiglia queer», ovvero una famiglia allargata, fondata sulla scelta di compagni e compagne di strada come Roberto Saviano, Nicola Lagioia, Chiara Valerio e altri. Si era però sposata, alla fine, con l'attore Lorenzo Terenzi. pur non credendo nel valore del matrimonio ma per garantire alla sua famiglia queer allargata' quel che lo Stato ancora non garantisce per legge, definendo le sue nozze «un atto politico». Cristiana a modo suo, aveva anche militato nell'Azione cattolica, per poi pubblicare un «catechismo femminista»; a proposito, era anche femminista a modo suo, intravedeva un profilo maschile nelle donne che non le piacevano, come appunto l'attuale presidente del consiglio; scrittrice a modo suo, aveva combattuto una battaglia per introdurre nella lingua italiana la schwa, un suono neutro, né maschile né femminile, per combattere il patriarcato, il privilegio dell'uomo, anche nelle parole. Come scrittrice aveva esordito con un romanzo, forse il suo migliore, sul precariato, assimilato, con successo, alla semplice schiavitù, e piagato dal ricatto, oltre che dalla povertà: Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria (ISBN, 2006). Conosceva bene il lavoro. Era stata insegnante di religione, poi portiera di notte e venditrice di multiproprietà, consulente fiscale e dirigente in una centrale termoelettrica. Il libro ispirò la sceneggiatura del film Tutta la vita davanti con Sabrina Ferilli, Isabella Ragonese, Elio Germano, Valerio Mastandrea e Massimo Ghini diretti nel 2008 da Paolo Virzì.

La vera notorietà arriva però con il romanzo Accabadora (Einaudi, 2009), una storia ambientata nella sua Sardegna. Il titolo evoca la figura sarda, arcaica o leggendaria, di colei che dà la morte alle persone in fine di vita per una sorta di pietosa proto-eutanasia. Il romanzo fece incetta di premi (Campiello e Mondello in un colpo solo) e rimase a lungo nelle classifiche di vendita. Fortissimo era il legame con la sua terra sarda, al punto che la scrittrice aveva anche aderito a un partito separatista. In queste settimane, nella top ten, c'è invece il memoriale Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi, (Mondadori, 2023), un consistente segnale di come la Murgia avesse ritrovato il pubblico dei lettori.

Tra le sue altre opere un saggio sul femminicidio, L'ho uccisa perché l'amavo. E un saggio sulla deriva a suo dire autoritaria delle istituzioni italiane: Istruzioni per diventare fascisti. Michela Murgia ha incarnato lo spirito dei tempi: politicamente corretta ma anche aggressiva in più di un caso; partigiana a sinistra senza eccezioni; credente orgogliosamente fai-da-te dopo un'istruzione cattolica; bandiera della fluidità sessuale; contro la censura ma capace di chiedere di bandire Massimiliano Parente dall'editoria che conta; antifascista ma non anticomunista con la medesima forza. Sono tutte, o quasi, le idee che ci raggiungono attraverso i libri e i media. Sono le idee della maggioranza degli intellettuali italiani, tra i quali Murgia è stata una figura esemplare. Già sentiamo le voci dei politici rivendicare l'eredità della scrittrice. Ecco, in tutto questo parlare di «diversità» che senz'altro accompagnerà la morte di Murgia, vorremmo capire in cosa consista lo scarto rispetto alla visione largamente maggioritaria nella cultura di sinistra.

Ci piace però ricordare un suo aspetto fuori dagli schemi progressisti: l'attrazione per le radici ancestrali della sua terra e il piglio addirittura indipendentista. Ricordiamo che fu candidata a presidente della Sardegna, ottenendo poco più del 10% dei consensi elettorali alle elezioni regionali del 2014; poi con la Sinistra e la lista formata da Si, Rifondazione comunista e l'Altra Europa che alle elezioni europee non raggiunse il 2% dei voti. Il legame con la Sardegna era stato ribadito anche a teatro: nel 2018 debuttò come attrice interpretando Grazia Deledda in Quasi Grazia. L'ultima battaglia, quella con il cancro, non poteva essere vinta ma è stata combattuta con coraggio e con una forte esposizione sui social media. Michela Murgia aveva soltanto 51 anni. Era nata a Cabras in provincia di Oristano il 3 giugno del 1972. A maggio aveva annunciato di essere malata in fase terminale. Ora si ricongiunge con la sua terra, che le sia lieve.

Murgia, un funerale queer (con comizio di Saviano). Folla alle esequie religiose della scrittrice sarda. Molti ricordi commoventi e un po' di "Bella ciao". Valeria Braghieri il 13 Agosto 2023 su Il Giornale.

Un sole giaguaro a tenere l'aria a trenta gradi e due ore e mezza di funerale. Bottigliette d'acqua e svenimenti con la gente che non cadeva a terra solo perché non c'era spazio per farlo. Ma tutti quelli che c'erano volevano stare lì ad ogni costo. Dieci minuti di applausi all'ingresso del feretro e la folla che non defluiva dalla Chiesa degli artisti nemmeno a funzione conclusa: non volevano lasciarla andare. Ce l'ha fatta ad arrivare viva alla morte Michela Murgia. In tanti sensi e in tanti modi. Il suo funerale queer, il suo funerale politico ne è stata la perfetta dimostrazione.

Con l'amica scrittrice Chiara Valerio a spiegare dal pulpito che di Michela non si può parlare al passato e allora «ne parleremo al futuro», come fanno i bambini; e il cappellano della Rai, don Walter Insero intento a tenere insieme il cattolicesimo della prima Murgia e l'ultima Murgia della famiglia queer. Aiutato, in questo, dal messaggio giunto dal presidente della Cei, Cardinal Zuppi, per ricordare l'intellettuale scomparsa. I cori che intonano «Bella ciao» e i disturbatori a cantare «comunisti di m...» fuori dalla basilica, dove sono stati lasciati i fiori recisi inviati da istituzioni e gente comune (solo composizioni vegetali, con mirto, carciofi, peperoncini, limone, secondo le sue volontà). Le lacrime e l'ironia. I libri sventolati in aria con la foto di Michela sul retro di copertina e i ricordi degli amici. Roberto Saviano e Chiara Tagliaferri e poi Teresa Ciabatti, Paola Turci e Francesca Pascale, Paolo Virzì, Paolo Repetto, Sandro Veronesi, Lella Costa, la segretaria del Pd Elly Schlein che, protettiva, trascina per mano la compagna Paola Belloni. Arriva anche il leader di Sinistra, Nicola Fratoianni, spaesato e in camicia bianca. «È vero che i giornali di destra se la prendono con Murgia e Saviano perché sono loro a coprire un vuoto di rappresentanza di questa parte politica?» prova a chiedergli un cronista. Ma lui si limita a rispondere «non credo» e a parlare della grave perdita per la qualità della democrazia che la morte di Murgia rappresenta, «un'amica e una partigiana».

Il discorso più politico, fuori dalla chiesa, è quello di Saviano che confessa di essere «disperato» per la perdita dell'amica che per lui «c'è sempre stata anche quando gli altri non c'erano». Ma si dice anche preoccupato per la mancanza di un argine, da oggi, a «questi governi che stanno andando verso un buio di scelte autoritarie, lei sapeva che andavano disinnescate democraticamente». E prova rabbia perché «in questo Paese l'hanno considerata nemica politica».

Fa piangere e sorridere il discorso di Lella Costa dal pulpito, con quell'inconfondibile voce che le si arrampica su per le corde vocali: «Ho sentito di poter usare queste parole per Michela, perché come dice Romain Gary l'ironia è una dimostrazione di dignità». E poi Virzì che ricorda il loro primo incontro «come un combattimento, ma dal quale ne uscì un film (Tutta la vita davanti, ndr) di cui vado molto fiero».

E poi una folla di donne, un funerale al femminile. Uno strano funerale duro ma ironico, come la Murgia e come gli isolani tutti. Ed è dall'isola che è arrivato anche il fratello della scrittrice, Cristiano, assieme alla moglie e al resto della famiglia di sangue. A unirsi ai «figli dell'anima» e al marito di Michela, Lorenzo Terenzi, sposato in «articulo mortis» lo scorso 18 luglio, «altrimenti non lo avrebbero nemmeno lasciato entrare in ospedale per stare con me» spiegava amareggiata la scrittrice facendo riferimento alle sue battaglie civili. Aveva voluto tutti vestiti di bianco quel giorno. Ieri era vestita di bianco Elly Schlein che a fine funzione, ritrascinandosi dietro la compagna, ha schivato i microfoni «non parlo, grazie». Però mandava baci alla folla. E dalla folla è partito anche qualche «Grazie». Grazie sì. Ma a Elly?

Corrado Ocone per nicolaporro.it domenica 13 agosto 2023.

Il vero rispetto che si deve ai morti, oltre la pietà, è la verità. E la verità è che Michela Murgia era tante cose, che rappresentava in maniera esemplare, ma tutte queste cose avevano poco a che vedere con la letteratura. Come scrittrice non rimarrà certo negli annali della nostra storia letteraria, sarà presto dimenticata. 

Murgia era una attivista che faceva politica con l’abito della scrittrice, ben consapevole che nessuno o quasi avrebbe letto i suoi dimenticabili libri in futuro. Ed è stata un’attivista politica fino all’ultimo, fino alla messinscena del matrimonio queer e da ultimo del funerale. Il quale è sembrato essere stato costruito sotto una perfetta regia, come lo erano un po’ tutte le sue uscite pubbliche. Assolutamente murgiano. 

Attorno alla bara, per l’estremo saluto si è raccolto tutto quel mondo di operai della parola e della scrittura e di “paladini dell’idea” che ama frequentarsi e riconoscersi soprattutto nei salotti romani, spesso dandosi tante di quelle arie (a cominciare da Roberto Saviano e Nicola Lagioia) che Michela per carattere e naturale empatia umana in verità non si dava affatto.

In sostanza, quell’ “amichettismo” di sinistra che domina da non poco tempo il discorso pubblico del Paese (e trova la sua apoteosi in festival, direzioni di enti e fondazioni, case editrici, pagine culturali di giornali, e chi più ne ha più ne metta). La Murgia rappresentava in maniera emblematica la trasformazione di questo mondo, dal vecchio marxismo più o meno ortodosso abbracciato dagli intellettuali “impegnati” di un tempo alla relativistica cultura dei diritti e della fluidità attuale. 

Non ci si venga perciò a parlare di anticonformismo, come pure molti commentatori in queste ore hanno fatto. Michela Murgia era pienamente inserita nel sistema di potere mediatico-culturale dominante. Con il quale si trovava sempre e prevedibilmente in sintonia. 

Questa nuova sinistra ha fra l’altro esasperato il motivo dell’antifascismo, che, pur essendo fondativo della nostra Repubblica, ha via via assunto negli anni quella tonalità illiberale e intollerante che la Murgia aveva fatto propria. Cosa altro era la pur geniale idea del fascistometro se non una sorta di analisi sulla “purezza del sangue” dei buoni democratici?

Forse la parte più interessante della personalità di Michela Murgia era quella relativa al suo cattolicesimo, che non era affatto, come pure si potrebbe credere, un portato del suo fluidismo, ma aveva basi filosofiche abbastanza solide (la Murgia era una teologa) in un’interpretazione o eresia del cattolicesimo ben precisa: quella che espunge ogni elemento “naturale” dalla fede e fa della fluida spiritualità una sorta di assoluto epistemico. 

Una sorta di nietschianesimo di ritorno, seppur di sinistra, in cui la religione di Cristo è fondamento storico e non resistenza al nichilismo trionfante. Siamo fermamente convinti che quella della Murgia non è stata “vera gloria”, ma in ogni caso, come il Manzoni del 5 maggio, lasciamo “ai posteri l’ardua sentenza”. Riparliamone fra qualche anno.

Le liste di proscrizione degli eredi della Murgia. Saviano, i giornali amici, la "famiglia queer": tutti a caccia di chi osava criticare la scrittrice. Andrea Indini il 15 Agosto 2023 su il Giornale.

La caccia è aperta. La caccia ai lupi, così ci chiama oggi la Stampa. I lupi, «vale a dire certi quotidiani della destra». Sabato scorso, durante il suo ultimo addio a Michela Murgia in chiesa, Roberto Saviano aveva usato un altro appellativo, altrettanto violento: «squadristi dell'informazione». «Giornali infami e siti immondi col solo compito, anzi il mandato, di ingannare e insinuare». Noi del Giornale, ovviamente. Ma anche i colleghi di Libero e della Verità. Direttori, vice direttori e semplici redattori additati come bersagli. Le liste di proscrizione, ancora una volta. Compaiono ovunque: sui quotidiani progressisti fioccano articoli con tanto di nomi e cognomi. Si scava nel passato. Qualsiasi articolo, qualsiasi tweet. Tutti sotto processo. «Metodi e retoriche fasciste», l'accusa.

Il primo a puntare il dito è stato appunto l'autore di Gomorra. Durante l'orazione funebre ha parlato di «continui attacchi organizzati, dossieraggio, pressione mediatica, orrore dei populisti che si accanivano» sulla Murgia. L'hanno «attaccata sistematicamente - ha detto dall'altare - con il solo scopo di intimidire chiunque decidesse di esporsi. E hanno fatto credere, spargendo infamia, che fossimo noi a diffondere odio, noi che abbiamo invece deciso di reagire con fermezza a tutto questo». Un vero e proprio comizio, in perfetto stile Saviano. Niente di nuovo. Ma, quando gli facciamo notare che quella, più che un'orazione funebre, ci sembrava l'ennesima invettiva contro le destre, ecco che i «figli d'anima» della Murgia passano all'attacco mostrando i denti ferini. Su Twitter, in primis, dove la scrittrice Chiara Valerio accusa i «giornali di regime» di «temere la piazza dove garrivano bandiere italiane, bandiere arcobaleno e palloncini unicorno». E poi nella lettera pubblicata ieri sul Corriere della Sera in cui, insieme al marito Lorenzo Terenzi, la «famiglia queer» si dice offesa perché certa stampa ha osato ledere la maestà di Saviano. «Non denunciare con disgusto questa infamia sarebbe come uccidere Michela di nuovo», hanno scritto. «E siamo pronti a denunciare le altre infamie che verranno. E, con il coraggio che Michela ci ha insegnato, ci auguriamo che molte e molti siano con noi e con Roberto». Più che una promessa, suona come una minaccia.

E, infatti, sono già fioccate le prime liste di proscrizione. Qualche nome l'ha fatto la Stampa, sentendosi in dovere di mettere all'indice quei direttori e quegli «opinionisti populsovranisti» che, «per ragioni al medesimo tempo ideologiche e di lucrativo marketing-editoriale», fanno male al Paese gettandolo in «un clima di opinione sempre più estremo e radicalizzato». La lista più completa, però, si trova sul Domani. Articoli e post, c'è un po' di tutto. Dal 2013 ad oggi. Tra i vari capi d'accusa che il quotidiano dell'Ingegnere inchioda addosso a noi del Giornale c'è persino l'aver criticato la Murgia quando, in difesa di Saviano, aveva detto che dare della bastarda a Giorgia Meloni era fare cultura. Ecco dunque che, ancora una volta, si svela la malsana idea di democrazia di Saviano e degli eredi della Murgia (che poi era la stessa idea della scrittrice): schiacciare il nemico, l'avversario o, più semplicemente, chi la pensa diversamente o anche solo non fa parte della cricca. La cricca dei «figli d'anima», come li aveva appunto battezzati lei e che ora sono pronti a sostituirla nel dare la caccia a noi lupi, a noi «squadristi dell'informazione». Andrea Indini

Murgia nuova santa teologa? Era lei che sfidava la Chiesa. Per i progressisti la scrittrice "perdonava". il Vaticano: In realtà nella sua militanza non c'era traccia di fede. Camillo Langone il 19 Agosto 2023 su Il Giornale.

Il Pontificio Ateneo di Repubblica ha conferito ieri il baccalaureato in teologia a Michela Murgia. A pagina 20 con un lungo articolo firmato da Iacopo Scaramuzzi ma scritto praticamente a quattro mani con Marinella Perroni, amica della defunta e teologhessa ufficiale visto che insegna Nuovo Testamento al Pontificio Ateneo Sant'Anselmo. Nulla di sorprendente per chi come me segue da troppi anni la fatiscenza ecclesiastica: «A Sant'Anselmo è giunta la lebbra» scrisse l'amata mistica Cristina Campo nel 1965, riferendosi allo sfascio liturgico post-conciliare appena constatato nella chiesa in cima all'Aventino. Figuriamoci quale può essere oggi lo stato dell'infezione nell'annesso super-conciliare ateneo.

Baccalaureato postumo però nemmeno troppo: la neoteologa è morta ma lotta insieme a loro, vivo è il suo insegnamento, numerosi i suoi discepoli. Ho fatto bene nei giorni scorsi a definirla «eresiarca». Eretico, precisa la Treccani, è «chi, essendo membro della Chiesa cattolica, nega pertinacemente o anche soltanto mette in dubbio qualcuna delle verità rivelate o dei dogmi di fede». L'eresiarca è di più, è il capo di un movimento ereticale: è un eretico che ha avuto successo, il Lutero della situazione. E il successo editoriale dell'attivista sarda non lo può mettere in dubbio nessuno. Oggi in classifica la Murgia è superata dal libro del generale-kamikaze Vannacci ma niente paura, fra pochi giorni l'incidente sarà risolto, il conformismo sarà nuovamente sovrano, le librerie ridiventeranno gineceo. Torneranno a primeggiare titoli come «Accabadora» (celebrante la figura di quella vecchie sarde che finivano i malati a martellate, tanto per rimanere in zona eresia: l'eutanasia è dalla Chiesa espressamente proibita) e «God Save the Queer. Catechismo femminista», il cui sottotitolo rappresenta l'utoesclusione dell'autrice dal cristianesimo. Il femminismo è ideologia, irreligione, divisione, non si può essere femministe e cattoliche come non si può servire a Dio e a Mammona. A parte l'inattualità della rivendicazione. Ora «se c'è qualcuno a essere sotto scacco sono gli uomini, indotti dalla pressione sociale e dalla ideologia unica e monocorde, quella del gender, a diventare più femminili». Sono parole di Costanza Miriano che nell'articolo di Repubblica è l'anti-Murgia, una specie di babau. Scaramuzzi la definisce «influencer neocatecumenale», come a sminuirla due volte. Peccato che neocatecumenale non lo sia per nulla, la brillante apologeta. La sua colpa è avere usato parole nette dopo gli scandalosi funerali, un po' beatificazione e molto comizio, alla Chiesa degli Artisti: «Rappresentava i non valori dominanti, quindi tutto meno che coraggiosa, perché totalmente a favore di vento».

La neoteologa era quanto di più allineato. Per questo dirigeva riviste di moda, accatastava premi, conduceva programmi, concionava alla prima della Scala... Non era ribellione: era istituzione. Scaramuzzi lo ricorda involontariamente, riportando le sue parole sulla Chiesa, criticata «per un limite palese di adeguamento allo stare nel tempo presente». Come tanti eretici modernisti prima di lei, voleva che la Chiesa si adeguasse al mondo. Insisteva a dirsi cattolica ma non ascoltava Gesù: «Voi siete il sale della terra; ma, se il sale diventa insipido, con che lo si salerà?» (Matteo 5,13). Era sale insipido, la povera Michela Murgia.

Da Libero Quotidiano.

Michela Murgia, insegnante di religione e call center: chi era la scrittrice. Libero Quotidiano l'11 agosto 2023

Michele Murgia ha perso la sua battaglia contro il cancro. La scrittrice è morta all'età di 51 anni. A maggio aveva rivelato durante un'intervista di soffrire di un carcinoma ai reni al quarto stadio. La Mondadori, casa editrice per cui aveva pubblicato il suo ultimo libro "Tre Ciotole", la ricorda su Twitter con un "ciao Michela" accompagnato da un cuore, insieme a una grande foto che la ritrae sorridente. 

Sarda doc, nata a Cabras il 3 giugno 1972, la Murgia ha svolto diversi lavori prima di dedicarsi alla scrittura, Tra questi l'insegnante di religione, la vendita telefonica raccontata nel suo primo libro, "Il mondo deve sapere" (2006). Questo, una sorta di blog sul mondo dei call center e delle multinazionali, che ha ispirato l'opera teatrale omonima e il film "Tutta la vita davanti". Successivamente, nel 2008, pubblica per Einaudi "Viaggio in Sardegna", una guida letteraria ai luoghi meno noti dell'isola. Due anni più tardi esce, sempre per Einaudi, "Accabadora", romanzo che intreccia nell'isola degli anni Cinquanta i temi dell'eutanasia e dell'adozione. Un libro che la porta a vincere prima il Premio Dessì e poi il SuperMondello e il Campiello. Nel 2011 pubblica "Ave Mary", riflessione sul ruolo della donna e la Chiesa. 

Tra le opere successive si ricordano il romanzo "L'incontro" (2012), che analizza i temi della condivisione e delle affinità; il saggio breve sul femminicidio "L'ho uccisa perché l'amavo. Falso!" (con Loredana Lipperini, 2013); il romanzo "Chirù" (2015) e "Futuro interiore" (2016). Per la Murgia c'è anche una breve parentesi politica, quella delle regionali sarde. Nel 2014, infatti, si presenta con la coalizione Sardegna possibile, che però non supera lo sbarramento previsto dalla legge. Nel 2018 debutta come attrice interpretando Grazia Deledda nello spettacolo teatrale "Quasi Grazia". Tra le opere più recenti: "L'inferno è una buona memoria" e il saggio "Istruzioni per diventare fascisti". Ma anche "Noi siamo tempesta. Storie senza eroe che hanno cambiato il mondo"; "Stai zitta"; "God save the queer. Catechismo femminista" e appunto "Tre ciotole". 

Due i mariti avuti. La scrittrice è stata sposata dal 2010 al 2014 con Manuel Persico, informatico bergamasco di dodici anni più giovane. In seconde nozze ha poi sposato l'attore e regista Lorenzo Terenzi, di sedici anni più giovane. Matrimonio avvenuto qualche settimana fa non senza polemiche in quanto la scrittrice ha sottolineato la necessità di contrarre le nozze per vedere garantiti i diritti al compagno e a quella che lei definiva la "famiglia queer".

Claudio Borghi, affondo e polemica: "Murgia sì, Maglie no. Che tristezza". Libero Quotidiano l'11 agosto 2023

Michela Murgia non ha vinto la sua battaglia contro il cancro e - nella notte di giovedì - si è spenta all'età di 51 anni. A ricordarla i tanti amici, da Roberto Saviano a Gad Lerner, ma anche chi le sue idee non le ha mai condivise. Ed è proprio uno di questi, Claudio Borghi, che ha pubblicato un tweet dal tono polemico. "Se confronto lo spazio che i media hanno dato alla morte (dopo cento giorni di agonia) di Mariagiovanna Maglie con quello che stanno dando per Michela Murgia, mi viene una grande tristezza. Mariagiovanna mi spiace, meritavi di più. Siamo un paese culturalmente occupato. Cambierà". 

Un cinguettio non passato inosservato. E così c'è chi scrive: "Dai, non era il caso Borghi. Bassissimo livello (e non sono di sinistra). Evitiamo di fare politica anche sulla morte", "Brutto tweet, mi spiace", "Che tweet orrendo". Ma non finisce qui.

Ecco che si legge ancora: "Ha capito di aver dato il colpo di grazia alla sua amica Maglie con questo suo scritto? Lei ha appena certificato che la Murgia raccoglieva una gran quantità di consensi e che la Maglie aveva ben poche persone che la apprezzavano. Se voleva mostrare quanto ampia sia stata la forbice tra le due, c’è riuscito in pieno. Non dovrei più sorprendermi quando leggo qualche sua scivolata, ma Lei va oltre la più fervida immaginazione. Ora lasciamo entrambe al loro riposo". Insomma, le critiche a Borghi non sono mancate. 

Michela Murgia, i funerali: respinta la corona di fiori. Urla fuori dalla chiesa. su Libero Quotidiano il 12 agosto 2023

Momento di alta tensione ai funerali di Michela Murgia. Fuori dalla chiesa degli Artisti a Roma qualcuno grida "comunisti di m***. Viva la Meloni". Si tratta di un uomo di circa 50 anni poi avvicinato dagli agenti della Polizia locale. Intanto, la scrittrice, scomparsa giovedì a soli 51 anni, ha optato per un'insolita scelta. L'attivista infatti non avrebbe mai voluto fiori recisi al suo funerale. Non a caso alla chiesa non ci sono fiori. Una disposizione dettata dalla stessa scrittrice, tanto che è stato rimandato indietro anche la corona di fiori del Comune di Roma.

Secondo quanto appreso da LaPresse da fonti della famiglia, Murgia non voleva fiori recisi in chiesa. Tutti i cuscini di fiori mandati da diverse autorità, dal sindaco al Comune, sono rimasti fuori sul sagrato. La chiesa è piena mentre sul sagrato sono affollate centinaia di persone. Alle esequie è presente tutta la famiglia 'queer', come la definiva Murgia, e tra gli altri, l'amico Roberto Saviano, la segretaria dem Elly Schlein, Francesca Pascale con la compagna Paola Turci.

Ma non solo, perché in tanti hanno deciso di sfidare questo caldo torrido per darle l'ultimo saluto, tra amici, follower, turisti curiosi, ma anche molti che l'hanno amata (o odiata) per le sue posizioni spesso dure e nette su temi sociali spesso delicati e divisivi. Il suo è, come ha detto Saviano, un "funerale politico" visto che in prima fila a darle l'estremo saluto c’è la sua famiglia allargata, eterodossa, basata su legami d'affetto e d'amore piuttosto che di sangue.

Saviano, macabro show al funerale della Murgia: insulta i giornali di destra. Francesco Capozza su Libero Quotidiano il 13 agosto 2023

Niente corone di fiori. Non sull’altare, tanto meno sul proprio feretro. Era stata dettagliata e precisa Michela Murgia nel predisporre le sue esequie, esattamente come aveva organizzato con estrema attenzione la successione dei propri beni, dettando le ultime volontà all’avvocato Cathy La Torre, amica carissima.

C’è però una simbolica, seppur piccola, pianta di ulivo posta sull’altare. Forse un memento politico in quest’ora di triste commiato o magari un’idea ben precisa di ciò che dovrebbe tornare ad essere la sinistra, chissà. Probabilmente solo casualità botanica. Ai funerali di Michela Murgia, svoltisi ieri pomeriggio nella cosiddetta “Chiesa degli artisti”, cioè la basilica di Santa Maria in Montesanto di Piazza del Popolo a Roma, si respirava certamente un clima molto affine alla sinistra. Più volte cittadini comuni e fan rimasti fuori dalla Basilica (tutto sommato angusta) hanno intonato “Bella Ciao”. È accaduto subito dopo l’allocuzione di don Walter Insero, come pure all’uscita del feretro.

LA PLATEA

Certo, a ben osservare la platea stipata tra i banchi del sacro tempio qualche purista del buon costume avrà pure provato sgomento rilevando l’enorme quantità di canottiere, shorts e capelli colorati presenti, ma per quest’occasione - un funerale “queer”, seppur cattolico - si è potuto chiudere un occhio.

Ad inizio funzione don Walter legge una lettera inviata dall’arcivescovo di Bologna e Presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, che molti interpretano come un messaggio di papa Francesco in persona per tramite di uno dei suoi più fidati collaboratori.

«Il libro della sua vita non è finito, ed è un libro che Michela ha scritto con tutta la sua passione fino all’ultimo», scrive il porporato, e queste sono probabilmente le parole più belle pronunciate nell’intera funzione. Una funzione che qualcuno aveva immaginato come un messaggio dichiaratamente politico per l’avvenire, pur privo di Michela. D’altronde lo stesso Roberto Saviano, nell’annunciare la sua presenza al rito invitando tutti gli estimatori di Murgia a fare lo stesso, aveva pensato a questo evento come tutto fuorché privato. Tra la folla accaldata stipata nella centralissima Basilica romana ci sono tuttavia pochi volti noti, soprattutto tra i politici. C’è la segretaria del Partito democratico Elly Schlein con la compagna, ma dal quartier generale del Nazareno nessun altro tra i dirigenti.

Facendosi poi largo con lo sguardo tra i ventagli delle signore accaldate, ecco un’altra coppia famosa di donne sposate: Francesca Pascale, ex compagna di Silvio Berlusconi, con la “moglie”, la cantante Paola Turci, quest’ultima visibilmente commossa. Non ci sono gonfaloni, corone o simboli delle istituzioni. Anzi, quando poco prima dell’inizio della cerimonia alcuni inservienti del Campidoglio hanno fatto capolino portando corone da parte del sindaco e dell’amministrazione capitolina sono stati gentilmente invitati a lasciale fuori dalla chiesa. A fine funzione, parla l’attrice e umorista Lella Costa e poi ecco Saviano, che ovviamente s’è preso la scena dimenticando di non essere su un palco per uno dei suoi spettacoli, ma su un altare di una chiesa per un commiato. Quasi uno show, quello del padre di Gomorra.

L’inizio è quasi drammatico, tra le lacrime, forse un po' troppo teatrale a voler essere pignoli. Senza nemmeno asciugare le gote irrorate, ecco dunque il tanto atteso comizio “tutt’altro che privato” dello scrittore. Perle come «con Michela ci ha unito indissolubilmente il prezzo altissimo pagato per le sofferenze subite dai giornali populisti, dagli squadristi dell’informazione”, oppure “nei miei processi del tutto politicizzati, mi è stata sempre di supporto e sostegno». Come a dire: la pensavamo e la pensiamo esattamente allo stesso modo. Tra i pochissimi leader presenti c’è Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, che ha parole commosse per quella che ai microfoni dei cronisti definisce «una carissima amica».

S’intravede Angelo Bonelli, alleato dello stesso Fratoianni con i suoi Verdi, infagottato nella giacca di lino sgualcita d’ordinanza. Per il resto, della sinistra parlamentare neanche l’ombra sotto la canicola romana di Piazza del Popolo.

Stesso dicasi per i grillini, nessuno dei vertici ha deciso d’interrompere le proprie ferie per presenziare. Infine, il commiato vero, quello del celebrante don Insero, incentrato sulla preghiera e con le parole tratte dal Vangelo di Giovanni in cui si parla della soglia attraverso la quale passare per raggiungere la pace eterna: «La soglia per Michela era qualcosa da superare, ma ora è nel viaggio verso il Padre, non verso il nulla». D’altronde Michela avrebbe voluto soprattutto essere ricordata come una cristiana. Una donna che dialogava, come amava ricordare egli stessa, «quotidianamente con Dio». Così vogliamo ricordarla anche noi.

Michela Murgia "faziosa, violenta e dalla parte del potere": chi la stronca così. Libero Quotidiano il 16 agosto 2023

"Siccome l'Italia è un paese pagano ottima è la profanazione della Basilica di Santa Maria in Montesanto (vulgo Chiesa degli Artisti) con i funerali di una eresiarca". L'eresiarca di cui scrive Camillo Langone, sul Foglio, è Michela Murgia. Una provocazione intellettuale, quella dello scrittore, per sostenere che poi l'idea di ospitare al Colosseo la sfida Zuckerberg-Musk, in questa contraddittoria Italia, non appare così balzana. Ma non è solo Langone ad andare controcorrente e uscire dal circuito della "beatificazione" della scrittrice e attivista sarda, scomparsa la scorsa settimana stroncata da un tumore, annunciato pochi mesi prima. 

Assai dure anche le righe vergate da Mario Iannaccone per La nuova bussola quotidiana: "La celebrazione pressoché unanime della Murgia da parte del mondo della cultura, della politica e dello spettacolo - esordisce -, ci fa comprendere che era investita di un ruolo importante nel comunicare la mentalità contemporanea di cui i principali media si fanno megafono".

Non nega, ovviamente, il "coraggio e dignità" dimostrati nelle sue ultime settimane di vita, ma nondimeno rinnega il suo giudizio sostanzialmente negativo sul lato pubblico della intellettuale: "Se viene celebrata come una grande intellettuale, addirittura «indispensabile», una «lottatrice» per i diritti degli ultimi, «attivista», «teologa», «filosofa», «innovatrice», «grande scrittrice» o «grande cattolica» allora è giusto esprimersi e ricordare gli elementi della sua vicenda che risultano critici a chi abbia una visione differente da quella propagandata dalla scrittrice sarda".

Tanto per cominciare, chi definisce la Murgia "scrittrice cattolica" (Repubblica) può farlo forse solo perché "l'identità cattolica è in crisi". O ancora, sottolinearne il ruolo di "antagonista contro il patriarcato" (come il Sole 24 Ore) equivale a dimenticare "che non siamo negli anni Sessanta e il patriarcato è smantellato da tempo e la Murgia ne combatteva il fantasma eliminando le vocali finali delle parole". La stessa autrice di Accabadora si vantava di essere "scomoda" ma è stata ricordata da tutti, a destra come a sinistra, addirittura con Rai 3 che ha allestito una programmazione a lei dedicata lo scorso 11 agosto.

Questo perché, prosegue Iannaccone, "Michela Murgia, in fondo, aveva scelto di stare dalla parte del potere anche se lo negava con sdegno; quel potere che, attraverso le lotte che lei appoggiava, sta rimodellando le nostre vite abolendo confini fra sessi, nazioni, proprietà. Quel potere che, attraverso istituzioni comunitarie, favorisce il traffico di uomini attraverso le Ong e i loro complici scafisti". Non solo: "Esprimeva un pensiero fazioso e violento, irridente e blasfemo, persino feroce. Però era chiara: definiva amici e nemici con chiarezza" e per questo "non avrebbe gradito riabilitazioni da chi disprezzava". Un esempio del suo essere dalla parte "comoda", conclude Iannaccone, è il matrimonio queer celebrato poco prima di morire. "Il fatto che il suo vestito da cerimonia sia stato impreziosito dalla scritta ricamata God Save the Queer della stilista di Dior, Maria Grazia Chiuri, avrà un significato. Il marchio del lusso Dior, come tutti i marchi importanti, appoggia le idee che sono maggioritarie come la grande finanza, le multinazionali dei media, le grandi istituzioni appoggiano le medesime lotte care alla Murgia".

Da Affari Italiani.

Addio a Michela Murgia, che ha sdoganato l'antipatia di professione. Murgia ha scritto cose interessanti, ma la sua attività frenetica e social l’ha trasferita nell’alveo dei piccoli miti portatili di una confusa quotidianità. Maurizio De Caro Sabato 12 agosto 2023 su Affari Italiani.

Michela Murgia è scomparsa l’altra notte a Roma. La sua parabola umana e intellettuale non ha avuto derive, fino all’ultimo ha mantenuto una rigidità concettuale e una tale alta opinione di sé che, in questa tragica circostanza, ce l’hanno fatta apprezzare. Facciamo fatica a non vedere gli sforzi fatti in tutta la sua breve esistenza per essere sempre “diversa” ma sempre attiva nell’abito di uno sbiadito politicamente corretto che ha sempre avuto bisogno di alzare asticella e tiro.

Ma oggi voglio parlare della sua antipatia, voluta, ricercata, fotografata, mai negata, esibita come un trofeo contro il mondo, e verso avversari che l’hanno sempre ritenuta frutto di una sapiente opera di marketing contemporaneo. Il suo femminismo di facciata, la sua “famigliona in bianco” che assomigliava pericolosamente ad una setta californiana, il suo uso reiterato di una retorica al contrario sui temi del gender, del matrimonio, della croce e di tutto quello che era molto banale trasformare in facili battaglie per gli pseudo-diritti di una nicchia marginale di privilegiati.

Da TvBlog.

Morte Michela Murgia, una carriera anche tv: i programmi a cui ha partecipato. Di Paolo Sutera su TvBlog venerdì 11 agosto 2023

Michela Murgia è morta: tra le sue mille vite anche quella televisiva, da La 7 a Sky (passando per Raitre) Da Le Invasioni Barbariche a Chakra, passando per Ghost Hotel e Quante Storie, con la stroncatura del libro di Fabio Volo diventata virale sul web 

Sky Arte ha deciso di ricordare Michela Murgia proponendo questa sera, venerdì 11 agosto 2023, dalle 22:15, tutti gli episodi di Ghost Hotel, il programma che ha condotto nel 2022, anche in streaming su NOW.

La notizia della morte di Michela Murgia, avvenuta nella serata di giovedì 10 agosto 2023, all’età di 51 anni, ha subito fatto il giro di social e siti di informazione. Scrittrice, critica letteraria ed attivista, con coraggio nei mesi scorsi, nella sua ultima intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera, aveva annunciato di essere malata di un tumore e di avere ancora poco da vivere. Continua a leggere dopo la pubblicità In questi mesi, Murgia è stata al centro delle cronache non solo per la notizia della sua malattia, ma anche per la pubblicazione del suo libro “Tre ciotole” (Mondadori) e per la decisione di sposarsi con l’attore e regista Lorenzo Terenzi, senza però chiedere auguri e festeggiamenti, ma ammettendo di aver preso questa decisione solo per tutelare la sua famiglia queer. Noi, però, vogliamo ricordarla facendo un passo indietro e guardando la carriera di Michela Murgia dal punto di vista televisivo. Perché dopo il successo del suo secondo libro “Accabadora” (Premio Campiello), Murgia è pian piano diventata anche personaggio televisivo a tutti gli effetti. E non solo con delle semplici ospitate, ma come componente del cast fisso di alcuni programmi dalla forte impronta culturale e con grande attenzione verso la società. È il caso de Le Invasioni Barbariche, il programma de La 7 condotto da Daria Bignardi, che ha affidato a Murgia la rubrica “Barbarica-mente”, in cui la scrittrice commentava i fatti più importanti della settimana.

Nel 2017 Murgia diventa anche conduttrice di un programma tutto suo, Chakra, andato in onda per sei settimane nel sabato pomeriggio di Raitre: dei “duelli” in cui l’autrice si confrontava con ospiti differenti su vari tempi di puntata in puntata. Continua a leggere dopo la pubblicità Il suo ultimo impegno televisivo da protagonista è stato però Ghost Hotel su Sky Arte, in cui Murgia ha ripreso le vesti di una portiera d’albergo (mestiere realmente svolto dalla scrittrice prima del successo letterario), entrando in una stanza diversa di un immaginario hotel, in cerca delle tracce lasciate da sei personaggi chiave del Novecento.

Non abbiamo tralasciato l’esperienza di Quante Storie, quella più intensa per Murgia, almeno per la sua durata. La scrittrice è stata infatti ospite del programma di Corrado Augias prima e di Giorgio Zanchini poi, nei panni di critica letteraria. Numerosissimi i libri che ha consigliato o sconsigliato al pubblico, ma una sua recensione è particolarmente rimasta nella memoria degli appassionati tv. Continua a leggere dopo la pubblicità Era il 21 dicembre 2016 e, con un’edizione straordinarie delle sue stroncature settimanali, Murgia critica duramente (ma con grande ironica) l’ultimo libro di Fabio Volo. La sua frase di chiusura, “Gli alberi si vendicheranno”, è entrata nella storia del programma.

Michela Murgia è, insomma, diventata nel tempo anche un personaggio televisivo, forse senza che lei stesse volesse diventarlo. Ma la televisione, oggi, sa anche inglobare al suo interno personaggi apparentemente lontani da essa, e Michela Murgia non ha mai partecipato a nessun programma cambiando il suo pensiero o il suo modo di esporlo. Che piacesse o no, è riuscita a parlare di notizie, di libri e di temi sulla bocca di tutti offrendo sempre un punto di vista da cui avviare un confronto. E non è poco. Continua a leggere dopo la pubblicità Tornando a Murgia personaggio tv, a dimostrazione di quanto abbia lasciato il segno anche il fatto di aver ottenuto un’imitazione, niente meno che da Virginia Raffaele, che ne propose una sua ironica versione nel suo programma Facciamo che io ero.

Da 4live.

Presto Santa Michela Murgia? Scritto da Franco D'Emilio il 13/08/2023 su 4live.it.

Ho seguito con attenzione, ma pure tanta sorpresa, in parte anche indignazione e disapprovazione il funerale di Michela Murgia, recentemente scomparsa: figura iconica, per questo dissacrante e divisiva, del nuovo intellettualismo di un’avanguardia di sinistra, critica e saccente contro tutti e tutto, innanzitutto la destra, poi la stessa sinistra ufficiale, quindi, estesamente, contro chiunque la pensi diversamente. Dissacrante e divisiva fino all’ultimo, persino nel suo funerale, anche se qualcuno subito obietta quanto la triste cerimonia trascorsa abbia confermato la coerenza della scomparsa e, naturalmente, dei suoi, più o meno dichiarati, accoliti. Funerale happening, dentro e fuori la Chiesa degli Artisti a Roma, quello di ieri per l’estremo saluto alla Murgia: la liturgia politica, irriverente, tanto pervasa di faziosa acredine, ha prevalso su quella rituale, religiosa, l’unica ammissibile in un luogo di culto, ma ieri travolta, quasi soppiantata, pure per la responsabilità complice di un’autorità ecclesiastica arrendevole, spero non interessata.                                               

La scomparsa aveva reclamato un funerale politico, quindi è stata accontentata con uno degli sproloqui, sempre più obsoleti, di Roberto Saviano, e un intervento nonsense, senza capo né coda, dell’amica Chiara Valerio. Infine, tocco impeccabile in tanto esibizionismo del profano sul sacro, pur se fuori dalla chiesa, un cartello inneggiante alla “famiglia queer”, fortemente sostenuta dalla stessa Murgia, ed un patetico coretto di Bella ciao, occasione troppo ghiotta per non farcire tutto con tanta nostalgia partigiana e resistenziale. Pure il sagrato di una chiesa è consacrato, quindi ieri in uno spazio sacro è stato offensivo quel drappo bianco inneggiante alla famiglia queer, il termine inglese significa, pensate un po’, bizzarro, stravagante; s’inneggiava, allora, alla famiglia dove nessuno dei componenti si riconosce eterosessuale, perlomeno si identifica biologicamente maschio o femmina, dunque tutto è lecito contro la chiesa e la sua dottrina in nome del libero orientamento sessuale: eppure, ieri, alla Murgia, alfiere della famiglia queer, sono giunte parole di saluto, anche se a titolo personale, dell’arcivescovo Matteo Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, opportuno?                                               

Per volontà della scomparsa, sempre nel segno del suo anticonformismo, pochi fiori, appena una corona, solo applausi, caciara e disordinata, sciatta partecipazione al funerale: nelle foto e nei filmati persone addirittura sedute in terra, altre contro le pareti, qualcuno pigramente appoggiato ad un confessionale, insomma tutto mi rievocava lontane assemblee studentesche universitarie dello scalcagnato ’68 italiano, quando tanti partecipavano per compiacente, interessata adesione a vantaggio dei pochi che gestivano, manovravano il tutto. Che pena! In generale e pure personale, come cittadino e credente! Ieri, nella Chiesa degli Artisti a Roma, si è svolta una inaccettabile commistione, alquanto ruffiana ed eretica, tra sacro e profano, tutto quasi per un ulteriore imprimatur alla figura, all’opera dell’estinta: dunque, a quando, perché a questo punto inevitabile, la santificazione della Murgia? Michela Murgia, adesso, è solo un’eroina della nuova sinistra, come qualcuno ha scritto, ma la nuova élite della sinistra, immemore della battuta di Brecht “sfortunato quel popolo che ha bisogno di eroi”, vuole addirittura la santa, la donna Murgia oggetto di una venerazione, religiosamente sentita. In conclusione, grande, indimenticabile funerale happening, persino un’occasione ghiotta per una rinnovata visibilità di quei soliti miracolati della sinistra, ora disoccupati, senza più un proprio salottino fisso in televisione, non faccio nomi solo perché l’elenco sarebbe estesamente lungo.                                                        

Michela Murgia non è stata affatto protagonista di alcuna battaglia civile poiché una vera battaglia civile presuppone sempre l’apertura agli altri in termini di confronto ed accoglienza e non quella dimensione, chiusura faziosa, settaria con la quale la scomparsa intendeva imporsi. Solo fondatrice di una vera e propria setta di accoliti che dovevano accettare un credo assurdo, divisivo, tanto presuntuoso; una donna che si diceva credente, ma si è rivelata immemore delle parole di Sant’Agostino “E’ stato l’orgoglio che ha trasformato gli angeli in diavoli; è l’umiltà che rende gli uomini uguali agli angeli.”

Franco D'Emilio. Storico, narratore, una lunga carriera da funzionario tecnico scientifico nell'Amministrazione del Ministero per i beni e le attività culturali

Da lospecialegiornale.

Michela Murgia è già “santa” antifascista. Aldo Di Lello venerdì, 11 Agosto 2023 su lospecialegiornale.it.

Michela Murgia alla fine si è arresa alla malattia. E da ieri i media sono inondati dal suo faccione tondo e dal suo sorriso tagliente. Giusto tributo a una protagonista del dibattito pubblico, un personaggio certo rumoroso e fin troppo polemico, ma comunque, dal suo punto di vista, coerente e trasparente. Tant’è che tutti, anche i suoi avversari e antipatizzanti (che certo non sono stati pochi) hanno speso per lei parole di apprezzamento e rispetto.

Ad allentare l’atmosfera elettrica intorno alla sua figura ha indubbiamente contribuito, negli ultimi mesi, la rivelazione pubblica della sua malattia. Tanti le si sono stretti intorno e tanti altri hanno rinunciato a replicare agli attacchi polemici che la Murgia ha lanciato fino alla fine. L’ultima sua polemica è di qualche giorno fa contro il sindaco di Ventimiglia, accusato da Michela di voler instaurare un “regime fascista” dopo la decisione (più che doverosa) di istituire un servizio di vigilanza intorno al cimitero per impedire che i migranti vi facessero (fuori e dentro il muro di cinta) i loro bisogni.

Ecco, diciamo che una delle grandi ossessioni di Michela Murgia, oltre al patriarcato, era proprio il fascismo, una sorta di Moloch che la scrittrice richiamava frequentemente in tanti suoi discorsi. Era tale l’ossessione antifascista della Murgia da spingerla a ispirarsi all’Ur-fascismo (il “fascismo eterno”) di Umberto Eco con il “fascistometro”, termine contenuto in un pamphlet pubblicato qualche anno fa da Michela: “Istruzioni per diventare fascisti”. Una lettura decisamente deludente. Se per Eco il fascismo era un archetipo, per la Murgia era «un herpes che può resistere per interi decenni nel midollo della democrazia». Furono in molti, anche tra i “fascisti” (o presunti tali), a rimpiangere il pur faziosissimo Umberto.

A suscitare una simpatia trasversale intorno alla Murgia è stata comunque, nelle ultime settimane, la notizia del suo matrimonio “in articulo mortis” con Lorenzo Terenzi. Era impossibile non sentire il cuore stringersi nel vedere Michela, rimasta calva per la chemioterapia, firmare i documenti davanti all’ufficiale di stato civile ed avere ancora la forza di sorridere.

Detto questo, quello che stona un po’ nelle celebrazioni odierne della Murgia è questa conformistica ripetizione dello stesso refrain: Michela era una scrittrice “libera”. I criteri di questa immediata “santificazione” laica li ha stabiliti il “Corriere della Sera” definendo la Murgia nel titolo di prima pagina “una voce libera”. E tutti nei commenti a ribadire: “una voce libera”.

Che vuol dire? Perché riassumere la scrittrice scomparsa nel termine della “libertà”? Forse che in Italia vige una dittatura ed è quindi libero solo l’intellettuale che ostenta orgogliosamente (e spesso a sproposito) il suo antifascismo? Forse che gli altri scrittori, segnatamente quelli di destra, non sono liberi? Di più: Michela Murgia era una donna libera perché viveva in una “famiglia” queer , che non si sa bene che cosa sia ma che comunque deve avere a che fare con l’indistinzione di ruoli, generi e componenti? Di conseguenza: non sono libere le persone che scelgono la famiglia tradizionale? E ancora: sono libere solo le femministe che hanno come ossessione la lotta al “patriarcato”? Tante sono le domande cui vorremmo che i grandi artefici della comunicazione pubblica ci rispondessero. Ma è una speranza vana. La lotta contro il conformismo è spesso una lotta inane. Oggi più che mai. E forse neanche la Murgia sarebbe d’accordo con questa sua prematura santificazione.

Da Dagospia.

Giampiero Mughini per Dagospia domenica 13 agosto 2023.

Caro Dago, ci mancherebbe altro che io non pianga la vita spezzata di Michela Murgia, contando niente che le sue idee fossero così diverse dalle mie. Mi pare sia stato Roberto Saviano a commemorarla vantandone il fatto che lei era una che "prendeva posizione", ossia che sceglieva una parte e la sosteneva col dare addosso alla parte o alle parti avverse. E a dar loro addosso coi controfiocchi, ossia menando duro e in pieno volto.

Ebbene pur appartenendo a una generazione che fin dagli anni Sessanta è fiorita menando colpi all'impazzata _ e su quegli anni non c'è nessuno che abbia a dirmi qualcosa che non so _, oggi non è più questa la latitudine cui mi colloco. Anche perché quelli che sostengono la primazia del "prender posizione" in realtà vogliono dire che la posizione che va presa è la loro, e guai a prendere una posizione diversa. Di certo è il caso di Saviano, al quale peraltro auguro ogni bene.

Io invece sono oggi uno che non ha una "parte", e che quando affronta un personaggio pubblico o un problema di rilievo o quello che volete voi, sa come inizierà il ragionamento ma non come lo finirà. Perché a me non interessa "prendere una posizione" e tatuarmi in fronte che razza di posizione è. A me interessa mettere a nudo tutti i lati della questione, la sua possibile ambiguità. A me non interessa arrivare a una sentenza e pronunciarla a voce alta mentre deambulo nella rete fognaria che ha nome "social", a pronunciarla a voce alta in uno scritto di poche righe eruttato in cinque o dieci minuti. Di tutte queste "prese di posizione" me ne strafotto altissimamente. 

Essere antifascista? E' una tale ovvietà che mi vergognerei persino a pronunciarla. Resta il fatto che se c'è uno che con la storia del fascismo ha un rapporto diverso dal mio, io non cerco a tutta prima di azzannarlo, di dirgliene di tutti i colori, di ricordargli la morte di Matteotti e la cella di Gramsci. Cerco di capire che cosa lui intende col dirsi fascista, a quali valori esattamente fa riferimento, che cosa intende fare di reale nella società italiana del terzo millennio. Ne sto parlando in una casa romana sita a poche decine di metri dall'indirizzo di viale Trastevere dove i nazi bussarono alla mattina presto del 16 ottobre 1943 per poi asportarne un'intera e numerosa famiglia ebrea, ivi compresi due adolescenti, nessuno dei quali tornò vivo.

Ecco una cosa è sicura, che noi non siamo al 16 ottobre 1943 ma in tutt'altro anno e in tutt'altro millennio e che nessuna famiglia ebrea che abitasse a viale Trastevere avrebbe di che temere se qualcuno bussasse alla loro porta. Né mi pare che ci sia qualcuno che se lo augura di andare a bussare con intenti malevoli alla porta delle case dove abitano famiglie ebree E' semplice, no?

E' semplice che i nostri problemi oggi sono tutt'altri e richiedono dunque tutt'altre denominazioni e tutt'altre etimologie che non siano quelle adattabili ai fatti del secolo scorso. Tutt'altre "posizioni" che quelle prese durante la guerra civile tra italiani. O no?

A me sembra molto semplice. E poi c'è un altro fatto immane, e cioè che alla vita democratica sono necessarissimi quelli che prendono una posizione diversa dalla tua. Per me è un fatto acclarato che in Ucraina abbiano cominciato i russi a invadere e uccidere, però mi è necessarissima la posizione di quanti reputano che non è a forza di armi usate da una parte e dall'altra che si porrà fine alla tragedia, che bisogna trovare i termini di un compromesso che sia accettabile da entrambe le parti. Assolutamente bisogna trovarli. E perciò leggo con attenzione spasmodica quelli che "prendono posizione" sulle pagine del Fatto, un giornale di cui non condivido molte "posizioni" ma che mi mancherebbe molto se alla mattina non lo trovassi all'edicola. Tutto qui.

Ps. mi metto i guanti bianchi prima di "prendere posizione" su chi davvero ha messo la bomba alla stazione. Non ne ho letto a sufficienza, due o tre libri dei dieci o quindici che dovrei conoscere. C'è che io sono persuaso che Valerio e Francesca quella bomba non l'abbiano messa loro, e questo perché non sta né in cielo né in terra con tutto quello che loro sono stati, le loro follie omicide ivi comprese. Follie che erano inscritte nel loro dna di ventenni. La bomba di Bologna no, quella non era inscritta affatto. Se prendo "posizione"? C'è che fra un paio di giorni verranno a cena da me, loro due e una giornalista radicale loro amica. Mi sembra una "posizione" del tutto pertinente.

Da lanuovabq.it.

Estratto dell'articolo di Mario Iannaccone per lanuovabq.it martedì 15 agosto 2023.

Michela Murgia «ricorda Sant’Agostino: l’esperienza personale diventa simbolo universale» declama, spericolatamente, Dacia Maraini su Huffington Post. Una fra le tante uscite ispirate dalla morte della scrittrice. La celebrazione pressoché unanime della Murgia da parte del mondo della cultura, della politica e dello spettacolo, ci fa comprendere che era investita di un ruolo importante nel comunicare la mentalità contemporanea di cui i principali media si fanno megafono. 

Di fronte alla morte di una persona ancora giovane – spirata il 10 agosto, a 51 anni, pochi mesi dopo aver annunciato un tumore –, che ha mostrato coraggio e dignità di fronte alla propria morte, è difficile scrivere, soprattutto quando si va in direzione contraria al coro di lodi unanimi. 

Si teme di apparire inopportuni, stonati. Tuttavia, la Murgia era un personaggio pubblico e se viene celebrata come una grande intellettuale, addirittura «indispensabile», una «lottatrice» per i diritti degli ultimi, «attivista», «teologa», «filosofa», «innovatrice», «grande scrittrice» o «grande cattolica» allora è giusto esprimersi e ricordare gli elementi della sua vicenda che risultano critici a chi abbia una visione differente da quella propagandata dalla scrittrice sarda.

Su Repubblica Giulia Santerini definisce la Murgia una scrittrice «cattolica». Se si può scrivere tanto è perché l’identità cattolica è in crisi, attaccata anche dall’interno della Chiesa. Nessuno può dare patenti di cattolicità perché è la dottrina che definisce e lei non può essere definita, per le dottrine che propagandava, cattolica, se ha ancora un senso la parola. 

Il Sole 24 Ore la ricorda come scrittrice «antagonista contro il patriarcato», dimenticando che non siamo negli anni Sessanta e il patriarcato è smantellato da tempo e la Murgia ne combatteva il fantasma eliminando le vocali finali delle parole.

Diceva di essere scomoda ma l’11 agosto Rai 3 ha presentato in prima serata una programmazione a lei dedicata, un onore mai concesso agli scrittori scomodi. I palinsesti di ogni media si sono riempiti di sue riapparizioni, celebrazioni, letture, lodi senza contraddittorio. Persino Giorgia Meloni, con tutto il governo schierato, ha fatto il suo dovere istituzionale delle condoglianze che si presentano alle grandi personalità. 

Michela Murgia, in fondo, aveva scelto di stare dalla parte del potere anche se lo negava con sdegno; quel potere che, attraverso le lotte che lei appoggiava, sta rimodellando le nostre vite abolendo confini fra sessi, nazioni, proprietà. Quel potere che, attraverso istituzioni comunitarie, favorisce il traffico di uomini attraverso le Ong e i loro complici scafisti. […]

La scrittrice sarda esprimeva un pensiero fazioso e violento, irridente e blasfemo, persino feroce. Però era chiara: definiva amici e nemici con chiarezza. Dunque, riabilitarla, portarla dalla propria parte anche da quella “destra” – vera o sedicente – che lei individuava nei cattolici lontani dalle innovazioni creative degli ultimi anni o in mentalità politiche da lei vituperate, o lontane dalla sinistra neoliberista prodotto del marxismo culturale, non ne rispetta la volontà. 

Le va dato atto di non essere stata ipocrita: ha sempre attaccato, morto o vivo che fosse, chiunque andasse contro le sue idee. Non avrebbe gradito riabilitazioni da chi disprezzava.

Sino alla fine ha “combattuto” con segni e rituali forti, come il matrimonio “queer” della famiglia allargata. Ma se i segni hanno un valore, allora il fatto che il suo vestito da cerimonia sia stato impreziosito dalla scritta ricamata God Save the Queer della stilista di Dior, Maria Grazia Chiuri, avrà un significato. Il marchio del lusso Dior, come tutti i marchi importanti, appoggia le idee che sono maggioritarie come la grande finanza, le multinazionali dei media, le grandi istituzioni appoggiano le medesime lotte care alla Murgia.

Quello del 15 luglio fu «matrimonio» fatto «pur non credendo nel matrimonio», aveva chiarito. Le teorie radical-femministe, “intersezionali”, della Murgia sono una vecchia conoscenza della cultura europea che demolisce il bello e il passato; ma lei era riuscita, partecipando a trasmissioni televisive e usando il suo talento comunicativo, a farle tornare novità. Il suo odio per un fascismo più immaginario che reale e contro una Chiesa “vecchia” era implacabile. 

La teologa Marinella Perroni sull’Osservatore Romano ne loda l’amicizia e l’umanità: «Non avrebbe certo potuto scrivere in God Save the Queer le pagine davvero magiche di teologia trinitaria, se non avesse fatto questa esperienza di Dio e degli umani».

Su Avvenire – che ha dedicato molti articoli alla Murgia in poche ore – Roberto Carnero insiste soprattutto sull’«inclusività» della sua teologia delle «periferie», perché il cattolicesimo è religione dell’«et-et», non dell’«aut-aut». Vero, ma ci sono dei limiti: in un’intervista su Repubblica definiva la Trinità «due uomini e un uccello», «patriarcato tossico» e meglio sarebbe una Trinità di «tre donne». Sono concetti «illuminanti» di teologia trinitaria? È l’applicazione dell’et-et? Lo lasciamo giudicare al lettore. 

[…]

La scrittrice sarda verrà ricordata soprattutto per i suoi pamphlet polemici Stai zitta, Morgana o Ave Mary, testi brevi, rapsodici, taglienti che ritagliava fra le sue collaborazioni giornalistiche, le rubriche sulle riviste femminili. Come diventare fascisti polemizzava contro un fascismo parodistico, felliniano. Della sua opera letteraria si può ricordare Accabadora (2009) che ha grazia di scrittura, il romanzo breve L’incontro (2014) e Tre ciotole (2023), racconti ispirati alla malattia. Probabilmente, Michela Murgia più che scrittrice era donna di spettacolo, attivista moderna, spesso in televisione, spessissimo alla radio e nei teatri.

Da lanuovabq.it mercoledì 16 agosto 2023. 

Nella notte di San Lorenzo è morta l’attivista Michela Murgia, vera paladina delle rivendicazioni LGBT. Il 15 luglio scorso, in seconde nozze, si è sposata civilmente con l’attore Lorenzo Terenzi. Ma aveva anche una compagna, di nome Claudia Fausone, con cui condivideva un figlio. Come se non bastasse si era inventa quella che lei chiamava “famiglia queer”, ossia più banalmente un poliamore, dove non c’erano ruoli, barriere, né vincoli di relazioni affettive e sessuali.

Dieci persone che condividevano tutto, pare anche il letto. «Un’esperienza – ha spiegato la scrittrice – dove il numero 2 è il contrario di quello che siamo, […] dove le relazioni contano più dei ruoli, superano la performance dei titoli legali e limitano le dinamiche di possesso». Si era inventata anche un rito pagano per celebrare queste “nozze”: tutti vestiti di bianco e al dito anelli chevalier di resina con impresso l’immagine di una raganella, perché animale anfibio e dunque, secondo il gusto della Murgia, ambiguo.

L’attivista politica ha predicato la fluidità, la confusione e l’anarchia nei costumi anche sessuali non solo sui libri e sui social ma anche nella vita. Dicono che abbia vissuto come ha voluto. Noi ci domandiamo: ma ha vissuto come ha voluto Dio? Una preghiera per la sua anima.

Estratto dell'articolo di Mario Iannaccone per lanuovabq.it mercoledì 16 agosto 2023.

Michela Murgia «ricorda Sant’Agostino: l’esperienza personale diventa simbolo universale» declama, spericolatamente, Dacia Maraini su Huffington Post. Una fra le tante uscite ispirate dalla morte della scrittrice. La celebrazione pressoché unanime della Murgia da parte del mondo della cultura, della politica e dello spettacolo, ci fa comprendere che era investita di un ruolo importante nel comunicare la mentalità contemporanea di cui i principali media si fanno megafono. 

Di fronte alla morte di una persona ancora giovane – spirata il 10 agosto, a 51 anni, pochi mesi dopo aver annunciato un tumore –, che ha mostrato coraggio e dignità di fronte alla propria morte, è difficile scrivere, soprattutto quando si va in direzione contraria al coro di lodi unanimi. 

Si teme di apparire inopportuni, stonati. Tuttavia, la Murgia era un personaggio pubblico e se viene celebrata come una grande intellettuale, addirittura «indispensabile», una «lottatrice» per i diritti degli ultimi, «attivista», «teologa», «filosofa», «innovatrice», «grande scrittrice» o «grande cattolica» allora è giusto esprimersi e ricordare gli elementi della sua vicenda che risultano critici a chi abbia una visione differente da quella propagandata dalla scrittrice sarda.

Su Repubblica Giulia Santerini definisce la Murgia una scrittrice «cattolica». Se si può scrivere tanto è perché l’identità cattolica è in crisi, attaccata anche dall’interno della Chiesa. Nessuno può dare patenti di cattolicità perché è la dottrina che definisce e lei non può essere definita, per le dottrine che propagandava, cattolica, se ha ancora un senso la parola. 

Il Sole 24 Ore la ricorda come scrittrice «antagonista contro il patriarcato», dimenticando che non siamo negli anni Sessanta e il patriarcato è smantellato da tempo e la Murgia ne combatteva il fantasma eliminando le vocali finali delle parole.

Diceva di essere scomoda ma l’11 agosto Rai 3 ha presentato in prima serata una programmazione a lei dedicata, un onore mai concesso agli scrittori scomodi. I palinsesti di ogni media si sono riempiti di sue riapparizioni, celebrazioni, letture, lodi senza contraddittorio. Persino Giorgia Meloni, con tutto il governo schierato, ha fatto il suo dovere istituzionale delle condoglianze che si presentano alle grandi personalità. 

Michela Murgia, in fondo, aveva scelto di stare dalla parte del potere anche se lo negava con sdegno; quel potere che, attraverso le lotte che lei appoggiava, sta rimodellando le nostre vite abolendo confini fra sessi, nazioni, proprietà. Quel potere che, attraverso istituzioni comunitarie, favorisce il traffico di uomini attraverso le Ong e i loro complici scafisti. […]

La scrittrice sarda esprimeva un pensiero fazioso e violento, irridente e blasfemo, persino feroce. Però era chiara: definiva amici e nemici con chiarezza. Dunque, riabilitarla, portarla dalla propria parte anche da quella “destra” – vera o sedicente – che lei individuava nei cattolici lontani dalle innovazioni creative degli ultimi anni o in mentalità politiche da lei vituperate, o lontane dalla sinistra neoliberista prodotto del marxismo culturale, non ne rispetta la volontà. 

Le va dato atto di non essere stata ipocrita: ha sempre attaccato, morto o vivo che fosse, chiunque andasse contro le sue idee. Non avrebbe gradito riabilitazioni da chi disprezzava.

Sino alla fine ha “combattuto” con segni e rituali forti, come il matrimonio “queer” della famiglia allargata. Ma se i segni hanno un valore, allora il fatto che il suo vestito da cerimonia sia stato impreziosito dalla scritta ricamata God Save the Queer della stilista di Dior, Maria Grazia Chiuri, avrà un significato. Il marchio del lusso Dior, come tutti i marchi importanti, appoggia le idee che sono maggioritarie come la grande finanza, le multinazionali dei media, le grandi istituzioni appoggiano le medesime lotte care alla Murgia.

Quello del 15 luglio fu «matrimonio» fatto «pur non credendo nel matrimonio», aveva chiarito. Le teorie radical-femministe, “intersezionali”, della Murgia sono una vecchia conoscenza della cultura europea che demolisce il bello e il passato; ma lei era riuscita, partecipando a trasmissioni televisive e usando il suo talento comunicativo, a farle tornare novità. Il suo odio per un fascismo più immaginario che reale e contro una Chiesa “vecchia” era implacabile. 

La teologa Marinella Perroni sull’Osservatore Romano ne loda l’amicizia e l’umanità: «Non avrebbe certo potuto scrivere in God Save the Queer le pagine davvero magiche di teologia trinitaria, se non avesse fatto questa esperienza di Dio e degli umani».

Su Avvenire – che ha dedicato molti articoli alla Murgia in poche ore – Roberto Carnero insiste soprattutto sull’«inclusività» della sua teologia delle «periferie», perché il cattolicesimo è religione dell’«et-et», non dell’«aut-aut». Vero, ma ci sono dei limiti: in un’intervista su Repubblica definiva la Trinità «due uomini e un uccello», «patriarcato tossico» e meglio sarebbe una Trinità di «tre donne». Sono concetti «illuminanti» di teologia trinitaria? È l’applicazione dell’et-et? Lo lasciamo giudicare al lettore. 

[…]

La scrittrice sarda verrà ricordata soprattutto per i suoi pamphlet polemici Stai zitta, Morgana o Ave Mary, testi brevi, rapsodici, taglienti che ritagliava fra le sue collaborazioni giornalistiche, le rubriche sulle riviste femminili. Come diventare fascisti polemizzava contro un fascismo parodistico, felliniano. Della sua opera letteraria si può ricordare Accabadora (2009) che ha grazia di scrittura, il romanzo breve L’incontro (2014) e Tre ciotole (2023), racconti ispirati alla malattia. Probabilmente, Michela Murgia più che scrittrice era donna di spettacolo, attivista moderna, spesso in televisione, spessissimo alla radio e nei teatri.

La Vita. 

"Viva Elkann, abbasso la Murgia! Vi spiego il perché". Il post di Fulvio Abbate. Lo scrittore siciliano prende le difese del giornalista che aveva parlato di "lanzichenecchi" a proposito di alcuni ragazzi incontrati sul treno. Lorenzo Grossi il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Ha fatto particolarmente discutere l’articolo pubblicato nella giornata di ieri su Repubblica a firma di Alain Elkann. Il giornalista e scrittore, padre di John, ha voluto descrivere un suo viaggio in treno da Roma a Foggia in compagnia di giovani ragazzi, definiti lanzichenecchi dall'ex conduttore televisivo, che erano intenti a parlare di vacanze, donne e calcio mentre lui era concentrato a leggere La Recherche di Marcel Proust. Il comitato di redazione del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari aveva immediatamente preso le distanze dal racconto del reportage in quanto distante da un giornale che s’identifica "vicino ai diritti dei più deboli", e che quindi si dissocia "dai contenuti classisti contenuti nello scritto".

Il tweet di Abbate su Elkann

Inevitabili sono state le reazioni sui social network, che non hanno mancato di sbizzarrirsi davanti all'articolo vergato da Elkann padre, nonché di criticare profondamente il senso del suo messaggio messo nero su bianco nelle pagine di Repubblica. Tuttavia, nel panorama vasto di Twitter, esiste una mosca bianca che ha voluto prendere strenuamente le difese dell'autore dell'articolo: Fulvio Abbate. Lo scrittore siciliano ha pubblicato sul proprio profilo un vecchio selfie fatto con lo stesso Alain Elkann, a cui ha voluto dedicare il seguente post: "Lo struggente spaesamento esistenziale di Alain Elkann scambiato per classismo, il convento pervasivo catto-femminista della Murgia invece osannato. Viva Proust! Viva Elkann. Viva il lusso. Contro ogni retorica".

Il confronto con Michela Murgia

Abbate ha così voluto contrapporre il racconto di Michela Murgia del suo matrimonio queer: "Un contratto in articulo mortis” (in punto di morte) che era stato definito dalla stessa scrittrice come un atto politico. Una celebrazione andata in scena lo scorso 22 luglio che si era manifestata anche nella scelta degli abiti che ha disegnato Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior, per festeggiare il "non-matrimonio". Con quel suo tweet Fulvio Abbate ha quindi, da un lato, voluto difendere un suo amico di vecchia data, confutando l'accusa di classismo mossa al genero dell'avvocato Giovanni Agnelli e puntando tutto invece più sulla difficoltà espressa da uomo con uno stile ancora "all'antica" a vivere nel mondo contemporaneo. Dall'altro, ha desiderato svelare l'ipocrisia e il doppiopesismo di una certa sinistra di magnificare un rito che riguarda una cerchia ristrettissima di persone e che pochissime altre avrebbero la possibilità di organizzarlo per loro stessi. Il tutto consumando appena trenta parole scarse sui suoi social.

DAGOREPORT il 24 luglio 2023.

Roberto, i' vorrei che tu Lorenzo ed io fossimo presi per incantamento, come accadde a Mary Shelley, Byron e Polidori a Villa Diodati, Cologny, nella freddissima estate 1816. Loro scrissero “Frankstein, il mostro” e diedero vita al Romanticismo. 

Ecco, i’ vorrei che noi, in questa estate bucata dall’ozono, nel mio giardino green, di alberi fluidi e vestiti Chiuri & chiari, di canzoni correct, di pose preraffaellite …, i’ vorrei che tu, Lorenzo, Chiara (Valerio), Nicola (Lagioia), Claudia (Durastanti), Paolo (Repetti, Einaudi oh!, cannibale ohhh!), compagnia bella ed io celebrassimo “Queer, il nuovo mostro”. 

Come Frankestein, Queer è creato ma non generato dalla stessa sostanza della madre, è un mostro politico che procrea senza accoppiarsi “animalescamente”, che sta “sulla soglia” (de che? Della camera da letto?), che slitta, surfa, fluidifica. 

Queer il mostro non vuole figli di sangue “perché sanguinari”, non li vuole naturali, quindi innaturali. Il mostro Queer è cambiamento strutturale (ma la struttura, insegnava l’amichetto Foucault, non è “qualcosa che non cambia”?): “Se uno non cambia moglie o marito nasconde al suo interno strumenti di oppressione, è un sanguinario”, dice Queer. Rigettare la fedeltà è “una cosa bellissima”. 

Queer è il mostro eracliteo, il profeta del “tutto passa”, del non devi dire mai “per sempre” perché ciò è “condannarsi alla infelicità”. Tutto è mutabile con Queer (oggi queer, domani là) perché “il rapporto non-queer nasconde al suo interno l’oppressione dell’altr*a/o”.  

Queer “è generazione di volontà”, alla Nietzsche, ovvero “capacità non di ri-prodursi (col trattino, come Heidegger e Cacciari) “banalmente animalesca”. Queer è il mostro non animalesco, perché la violazione della fedeltà “è l’alibi delle violenze domestiche”. 

Queer il mostro esce dai territori della produzione e riproduzione “per formare alleanze estranee alla logica del sangue e della somiglianza, alla genealogia e all’ereditarietà, basate su forme di cura e genitorialità surrogata”. Guai a voi se andate a trovare i vostri parenti in ospedale: è una opprimente fedeltà che vi guida. 

E se andate sulla tomba dei genitori altro non siete che testimoni perversi della genealogia. E poiché “la politica identitaria è la politica del sesso riproduttivo”, non accoppiatevi mai più e non sarete giudicati, cambiate moglie/marito e sarete salvati e beati voi quando smetterete di educare i figli (ma ci aveva già pensato Rousseau e non andò benissimo), li scambierete e cesserete di essere voi stessi per essere altro da sé, cambierete nome, genere, specie e diventerete dei non umani.

E’ il mostro Queer che vi parla. Su, mettetevi in fila per ricevere dagli amichetti scrittori l’anello Queer di appartenenza, una rana bianca: baciate la rana, il rospo. Chi vi invita è Loredana Lipperini dalle pagine di “la Stampa”, il giornale della borghesia piemontese, il giornale detto “la bugiarda”: questo sì che è molto queer.

Estratto dell'articolo di Loredana Lipperini per “La Stampa” il 24 luglio 2023. 

Come molte e molti, ho aspettato che su Instagram uscissero le storie che raccontano la festa nel giardino di Michela Murgia, che è un giardino cercato e desiderato con amore: del resto, la storia di Michela e della sua famiglia queer questo è, una storia d'amore. 

Che possiamo solo immaginare nelle foto, guardandola mentre sorride fra Alessandro Giammei e Chiara Valerio o mentre posa con la sua famiglia in salotto. Però abbiamo potuto seguire nel tempo come si è sviluppata l'idea stessa di queer: nei fatti, Michela ha sempre scritto di questo, in Accabadora, in Chirù e infine, in forma compiuta, in God Save the Queer, dove tutti coloro che continuano a chiedere "ma che vuol dire famiglia queer?" potrebbero trovare le risposte, a volerle cercare.

Poi ho guardato i video e le foto (incluse quelle, inedite, pubblicate qui) e ho pensato che quella a cui assistevo non vista era una festa e anche un rito, perché hanno la bellezza del rito gli abiti bianchi dei partecipanti, ampi e candidi e intercambiabili, in modo che si potessero ricombinare come si desidera, gonne, pantalone, camicette, disegnati da Maria Grazia Chiuri di Dior. 

Però non era un rito nuziale. Come si sa, Michela Murgia e Lorenzo Terenzi si sono sposati qualche giorno fa «per avere diritti che non c'era altro modo per ottenere così rapidamente». 

(...) quando Michela scrive di rigettare la fedeltà in favore dell'affidabilità, dice una cosa bellissima, ovvero che quel che conta è poter rifondare la propria scelta ogni volta («la mia responsabilità è direttamente proporzionale alla libertà con cui posso agirla»).

Quando scrive che venerare l'immutabilità («non ti lascerò mai») significa condannarsi alla sofferenza, perché nessuno è immutabile, dice che è il cambiamento che ci salva: «La queerness, che è una pratica della soglia, accoglie il cambiamento come strutturale. Se non cambia, anzi, se pretende di non cambiare, il rapporto non è queer e nasconde al suo interno strumenti di oppressione dell'altr?.  

(...) «la politica identitaria è la politica del sesso riproduttivo, ma ciò di cui abbiamo bisogno è la rigenerazione, non la riproduzione. I legami di sangue sono sanguinosi, e la pace si potrà raggiungere solo quando l'umanità si formerà al di sotto o al di là dei legami di parentela "naturale". 

Uscire dai territori della produzione e della riproduzione significa formare alleanze non familistiche e non speciste estranee alla logica del sangue e della somiglianza, alla genealogia e all'ereditarietà, e invece basate su forme di cura e genitorialità "surrogata"».

È una rivoluzione? È una possibilità, mi viene da dire. La stessa che dà a se stesso il protagonista de Il passeggero di Cormac McCarthy: in un mondo dove tutto può essere simulato, conserva per sé la possibilità di portare bellezza nelle tenebre. Che è forse quel che di più grande possiamo desiderare.

Roberta Scorranese per “il Corriere della Sera” il 23 luglio 2023.

Quando Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior, le ha detto «Voglio disegnarti l’abito da sposa», Michela Murgia sapeva benissimo che non si sarebbe vista arrivare veli, strascichi e romantici pizzi. Chiuri è una capace di trasformare le parole di Chimamanda Ngozi Adichie («Dovremmo essere tutti femministi») in una collezione glamour. E così i bozzetti che ha disegnato per le nozze queer della scrittrice con Lorenzo Terenzi sono un vero e proprio manifesto politico. 

Come politico è il matrimonio di Murgia: non c’è un legame tradizionale con Lorenzo, ma «lo abbiamo fatto – ha detto – in articulo mortis perché ogni giorno c’è una complicazione fisica diversa, entro ed esco dall’ospedale e ormai non diamo più niente per scontato. Lo abbiamo fatto controvoglia: se avessimo avuto un altro modo per garantirci i diritti a vicenda non saremmo mai ricorsi a uno strumento così patriarcale e limitato».

Il punto, ripete da mesi Murgia, è che qui non c’è un semplice matrimonio tra due persone, ma un rito che ufficializza una diversa idea di famiglia: la famiglia queer, dove convivono i figli dell’anima (quei ragazzi e quelle ragazze che la scrittrice ha sostenuto e quasi allevato), i legami spirituali con altre scrittrici come Chiara Valerio, Teresa Ciabatti e Chiara Tagliaferri, la convivenza con uomini e donne che a volte possono esserci e altre no. 

Insomma, «un altro modo per stare insieme, un modo che il governo vorrebbe ridurre a stranezza sociale da perseguitare e invece è già la vita normale di tante persone», dice Murgia in una serie di post su Instagram. 

Ed è per questo che «l’abito da sposa» di Chiuri è la perfetta tessitura di questo manifesto di vita e d’amore: non c’è una sola sposa, non c’è un solo sposo, non c’è un abito fatto su misura per quella che nelle nozze tradizionali è la regina della festa, la futura moglie. È una mini-collezione familiare, che include uomini, donne, no-gender.

Tutto è bianco, dunque con questa idea si rompe la sacralità dell’abito da sposa classico, la purezza celebrata dalla letteratura di tutti i tempi e di tutti i paesi si allarga a tutti e a tutte. Ogni pezzo - i pantaloni o la blusa - è intercambiabile, in uno stile fluido che sta bene a lui e a lei, come a ribadire che in queste nozze il vestito nuziale possono indossarlo tutti i membri della famiglia queer. 

Che, per inciso, possiedono tutti un anello matrimoniale, indossato all’anulare sinistro, assieme a un altro anello che riproduce la rana. «Il primo – precisa la scrittrice – non va spiegato: tutt3 sappiamo che una fede nuziale rappresenta il vincolo e le sue promesse. Il secondo esprime invece la queerness della nostra esperienza familiare allargata.

La rana è un animale transizionale, che nella sua vita cambia stato molte volte, da uovo a girino per svariati stadi prima di raggiungere la maturità, ed esiste dentro a un continuo processo di mutamento». […]

Estratto da fanpage.it sabato 15 luglio 2023.

Michela Murgia si è sposata con Lorenzo, come aveva dichiarato nelle scorse settimane, a partire dall'intervista al Corriere della Sera con cui aveva annunciato di avere un tumore, un carcinoma renale al quarto stadio, che non era più curabile. La scrittrice […] e attivista ha quindi portato a termine questa scelta anche se controvoglia, come spiega in un lungo post su Instagram, dove ha postato il video delle firme con in sottofondo la canzone di Anouk "Nobody's Wife", canzone che non è stata scelta a caso […]. Murgia, infatti, ha voluto attivarsi subito perché, ha spiegato, le condizioni fisiche peggiorano, e in questi giorni è costretta a entrare e uscire dall'ospedale, per questo ormai è pronta a tutto. 

"Qualche giorno fa io e Lorenzo ci siamo sposat3 civilmente. Lo abbiamo fatto “in articulo mortis” perché ogni giorno c’è una complicazione fisica diversa, entro ed esco dall’ospedale e ormai non diamo più niente per scontato" ha scritto Murgia che ha spiegato anche che lo ha fatto perché era l'unico modo per poter garantire i diritti a Lorenzo e alla sua famiglia Queer.

"Lo abbiamo fatto controvoglia: se avessimo avuto un altro modo per garantirci i diritti a vicenda non saremmo mai ricorsi a uno strumento così patriarcale e limitato, che ci costringe a ridurre alla rappresentazione della coppia un’esperienza molto più ricca e forte, dove il numero 2 è il contrario di quello che siamo". 

[…] La scrittrice […] ha chiesto di non farle gli auguri "perché il rito che avremmo voluto ancora non esiste. Ma esisterà e vogliamo contribuire a farlo nascere. Tra qualche giorno nel giardino della casa ancora in trasloco daremo vita alla nostra idea di celebrazione della famiglia queer – continua la scrittrice -. Le nostre promesse non saranno quelle che siamo stat3 costrett3 a fare l’altro giorno. 

Vogliamo condividerlo a modo nostro e lo faremo da questo profilo, senza giornalist3 o media vari. Il nostro vissuto personale, come quello di tutt3, oggi è più politico che mai e se potessi lasciare un’eredità simbolica, vorrei fosse questa: un altro modello di relazione, uno in più per chi nella vita ha dovuto combattere sentendosi sempre qualcosa in meno". […]

Michela Murgia, Pillon alla scrittrice: "Avevi molte alternative, ma hai scelto il matrimonio". Attraverso un Tweet, Simone Pillon ha replicato alla scrittrice Murgia dopo che quest'ultima si era sposata in articulo mortis. Valentina Mericio su Notizie.it. Pubblicato il 16 Luglio 2023

Nelle scorse ore la scrittrice Michela Murgia si è sposata con il compagno, Lorenzo Terenzi con la formula di rito civile “in articulo mortis”. Anche l’ex senatore leghista, Simone Pillon ha commentato l’evento, attraverso un tweet. Le parole dell’ex senatore stanno già facendo discutere in rete.

Michela Murgia, la replica di Simone Pillon: “Di alternative ne avevi molte”

L’ex senatore nel commentare il matrimonio tra Michela Murgia e Lorenzo Terenzi ha dichiarato: “Michela Murgia ha deciso di sposarsi definendo il matrimonio ‘patriarcale e limitato’. Michela, di alternative ne avevi molte, ma hai scelto il matrimonio. Forse perché sai che è la forma più alta per riconoscere l’amore tra un uomo e una donna. Auguri, e guarisci presto!”.

Nel frattempo non sono mancate le critiche più o meno accese al tweet di Pillon: “Uno che non ha il senso della vergogna”. E ancora: “Altro che pro vita, nemmeno di fronte ad una persona che sta per morire si evita di dire ca***te. Non c’è fine al peggio…”. Infine il co-portavoce e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Angelo Bonelli ha dichiarato: “Poteva stare in silenzio, ha deciso di scivolare dritto nella vergogna di chi non è stato educato al rispetto e conosce solo il disprezzo. Che ignominia”. 

Il dramma si è consumato nel vicentino, a Cavazzale di Monticello Conte Otto. Un bambino è morto a soli due anni dopo essere caduto in una piscina situata nella villetta del nonno materno. Ogni sforzo per salvarlo è stato purtroppo vano.

Diritti, patriarcato e liturgia: perché la Murgia sbaglia sul matrimonio. La scrittrice sceglie il rito civile (con passaggio sui social) per convolare a notte con Lorenzo Terenzi. Eppure la Murgia manca il punto su quale sia il valore del matrimonio e cosa sia davvero un "Sì, lo voglio". Matteo Carnieletto il 16 Luglio 2023 su Il Giornale.

Michela Murgia alla fine si è sposata. Rito civile, ovviamente. E in articulo mortis perché le condizioni di salute della giornalista sarda si stanno aggravando. Entra ed esce dall’ospedale e ogni giorno rischia di essere l’ultimo. Quando la fine si avvicina, si desidera fare chiarezza. Si desidera mettere ordine nella propria vita. E gli affetti sono uno dei campi più delicati.

"Controvoglia...": il matrimonio polemico della Murgia (sui social)

Così ha deciso di sposare Lorenzo Terenzi e di annunciare il matrimonio su Instagram: “Lo abbiamo fatto controvoglia: se avessimo avuto un altro modo per garantirci i diritti a vicenda non saremmo mai ricorsi a uno strumento così patriarcale e limitato, che ci costringe a ridurre alla rappresentazione della coppia un’esperienza molto più ricca e forte, dove il numero 2 è il contrario di quello che siamo”, ha scritto la Murgia. Come ci si possa sposare controvoglia non è dato sapere visto che, alla base di questa decisione, c’è un verbo: “Lo voglio”. Che suona un po’ come quando i cadetti, e la Murgia ci scuserà per il paragone militarista, urlano: “Lo giuro!”. Lo voglio, lo giuro. Che significa stare al proprio posto anche quando vorresti andare via. Anche quando ti chiedi “ma chi me lo ha fatto fare?”. Anche quando ti sembra di aver sbagliato.

Perché alla base del matrimonio non c’è (solo) un sentimento, ma un’azione: il volere. Come poi possano essere patriarcali le nozze non è dato sapere. L’uomo e la donna si prendono allo stesso modo. Hanno stessi diritti e doveri. Il matrimonio è dunque la cosa più democratica e antisessista (cosa ci tocca dire) di questo mondo. Scrive Alberto Frigerio in Morale coniugale (Cantagalli): “Intendere l’amore in termini meramente pulsionali o sentimentali è infatti decisamente riduttivo, tanto nei confronti dell’amante quanto nei confronti dell’amato. Per quanto concerne l’amante, va rilevato che il corredo pulsionale e la sfera emozionale non vanno isolati dall’essere personale a cui appartengono, e dunque non sono interpretabile in termini meramente biologici e psichici, ma vanno integrati con la dimensione razionale e volitiva. Per quanto concerne l’amato, va rilevato che non può essere usato come mezzo al pari delle cose, ma va riconosciuto nella sua unicità come bene fondamentale e dunque trattato sempre anche come fine, secondo quanto espresso dalla norma personalista, d’ispirazione kantiana. L’inadeguatezza di una concezione pulsionale o sentimentale dell’amore umano, è bene precisarlo, non conduce a squalificare la pulsione e il sentimento, ma chiede piuttosto di porli e leggerli in una visione integrata della persona”.

La Murgia ha detto: “Sposo un uomo, ma poteva essere anche una donna”. Eppure ha scelto Lorenzo al posto di Lorenza. E un motivo ci dovrà pur essere. Non solo per una questione estetica o fisica, ma anche di qualità (e difetti) che una donna vede nel maschile. Perché non c’è teoria del gender che tenga: alla fine cerchiamo sempre ciò che ci manca e ci completa. Ne abbiamo bisogno più dell’aria.

E ancora: “Il rito che avremmo voluto ancora non c’è”. Ed è per questo che la Murgia ne sta pensando uno che verrà poi visto, su Instagram ovviamente, da tutti i suoi fan. È la spettacolarizzazione di tutto. Della malattia e della gioia. Ma così si perde l’intimità, il condividere con coloro che realmente conosci e a cui vuoi bene la felicità e la sofferenza che ti vengono incontro. La Murgia teologa, che ha provato (senza riuscirci) a spiegarci che Dio è queer, ora si scopre anche liturgista. Vedremo come sarà. Tra tante incertezze, un’unica sicurezza: non ci sarà alcuno slancio verso l’alto. Nessun tentativo di cercare un Altro. E, così, di dare un senso alla nostra vita.

Estratto dell’articolo di Mirella Serri per “la Stampa” il 29 maggio 2023.

Trent'anni di politica italiana raccontati su Instagram. Michela Murgia ha scelto il social più gettonato per lanciare il suo grido di allarme: «L'arrivo di questo nuovo fascismo era prevedibile… non siamo arrivati a questo punto di colpo». Quali sono i sintomi che la scrittrice sarda ritiene di aver colto negli ultimi decenni […]? […] il ricordo di un libro-reportage di Gad Lerner che s'intitolava Operai. 

[…] «gli operai di fabbrica, strutturalmente votanti a sinistra, avessero gradualmente cominciato a dare consensi alla Lega Nord». […] è il segnale di una prima virata. Ma non nella direzione interpretata da Massimo D'Alema, allora leader del Pds, secondo cui i leghisti erano una costola della sinistra. […] sostiene Murgia: «La lega in quegli anni era un partito apertamente razzista, antimeridionale, maschilista e separatista per ragioni economiche e fiscali».

[…] Una manciata di anni più tardi, ricorda sempre Michela, arriva il G8 di Genova, con le sue tremende violenze poliziesche e soprattutto con gli insabbiamenti e le connivenze statuali: «Genova ha spezzato per sempre la mia fiducia nello Stato democratico […]». 

Il governo del tempo, a guida di Silvio Berlusconi era allora di centrodestra […] Per Murgia era solo una mimetizzazione, la realtà era già di destra tout court. […] poi arriva un nuovo provvedimento sull'immigrazione targato Bossi-Fini e «madre di tutti i respingimenti», e un paio d'anni più tardi la legge Biagi che […] era un ulteriore […] allargamento […] del precariato.

Si trattava di una norma che colpiva al cuore la composizione di classe, la coscienza collettiva dei lavoratori, segmentandone gli interessi. […] È come un fiume in piena, Murgia. Il suo decalogo sulla resistibile ascesa del neofascismo italico continua a cumulare […] indizi su indizi […] Nel 2007 la destra realizza un abbraccio mortale con «le peggiori formazioni del cattolicesimo conservatore».

L'occasione è il Family day che prende di petto la libertà riproduttiva delle donne e i diritti Lgbtq+. Sempre nel campo dei diritti, scoppia il "caso Englaro", quello della giovane Eluana, da anni in persistente stato vegetativo dopo un incidente. Una lunga vicenda giudiziaria sfocia nell'autorizzazione all'interruzione della terapia di sostegno vitale alla ragazza. Una decisione contestata da un vasto fronte di destra […] 

Arrivando all'oggi, Murgia s'inalbera per il contrasto della destra al riconoscimento dell'omogenitorialità. Anche questo sarebbe un esempio del nuovo fascismo in marcia.

«Se non lo vediamo arrivare è perché lo abbiamo sempre visto partire da monarchie e da instabilità più o meno dittatoriali». Questa volta, invece, arriverebbe dalla democrazia malata.

Complice […] di questo fascismo arrembante, secondo Michela, c'è Matteo Renzi che la narratrice definisce «un democratore», un politico che […] mette in atto un «regime […] ispirato nei comportamenti a un autoritarismo sostanziale». Commenta Murgia: «Per fortuna il referendum costituzionale lo perse». Il leader del terzo polo ha tra i suoi demeriti anche quello di […] far propria «la retorica del merito e dell'eccellenza».

E l'ex presidente del Consiglio fiorentino ha anche la grande colpa di aver «orientato il decreto di criminalizzazione del salvataggio in mare che renderà difficile l'azione delle Ong». Conclusione inevitabile del ragionamento, quando finalmente arriva Giorgia Meloni: «Non arriva all'improvviso, dalla fogna […]. Arriva quando può finalmente arrivare, senza che la massa lo trovi strano o pericoloso. Perché le crepe nelle tubature dei liquami sono partite molto prima». 

[…] Michela Murgia […] ci descrive leader politici e ministri che parlano di razze e di etnie, che cercano di controllare i corpi delle donne, che vogliono togliere diritti alle minoranze, che vogliono edificare una nuova egemonia culturale che sa tanto di vecchio. […]

Se il caso Murgia rivela cos'è la cultura italiana. Opere "contingenti" come estensione della lotta politica e infinito scambio di favori. Massimiliano Parente il 25 Maggio 2023 su il Giornale.

«Dopo aver parlato della mia malattia, i miei nemici mi rendono un tributo con slancio e entusiasmo che io frenerei, non mi sento di associarmi! Pregheranno che io non abbia un giorno in più, perché ho intenzione di usare tutti i giorni che mi restano per fare quello che ho sempre fatto: rompere le scatole» ha detto la femminista Michela Murgia alla femminista Daria Bignardi. Di fatto, al momento dell'annuncio, è vero che tutti i suoi «nemici» le hanno dedicato un necrologio in vita pelosissimo, apotropaico, quasi esorcistico, insomma una dice di avere un tumore al quarto stadio e il detrattore si sente in colpa, e il senso di colpa gli fa pensare: oh, non è che ora viene anche a me?

Io, come scrittore, l'ho sempre stroncata, lei in compenso ha organizzato una raccolta firme per boicottare la pubblicazione dei miei libri (che non ha mai letto, troppo difficili) e La Nave di Teseo e Mondadori sono state sommerse di lettere di femministe invasate che hanno risposto all'appello del mullah Murgia. A me non verrebbe mai in mente di boicottare nessuno, casomai se fosse in mio potere organizzerei un appello per boicottarle il tumore, ma a lei come a tutte le persone malate, a lei non meno che alle altre.

Nel suo ultimo libro, Tre ciotole, edito da Mondadori, Murgia mette molto dentro della sua malattia, direttamente o in senso traslato, sulla precarietà delle nostre vite, con dodici storie in cui la vita dei protagonisti è sconvolta da un evento improvviso, come un tumore appunto, ma anche un licenziamento, un amore che finisce e che dilania. Infilandoci dentro un sacco di rituali, perché è sarda, dice.

È un libro che viene definito «romanzo» ma la stessa Murgia non sa cosa sia un romanzo, però è sicuramente un libro di raccontini intrecciati come un uncinetto di una nonna sarda, e tutti, all'unisono, si sono precipitati a scrivere che è bellissimo. Per la Bignardi, che si crede una scrittrice anche lei, ne è uscito un «lavoro letterario» (rispetto ai romanzi della Bignardi sicuramente), ma la Murgia dichiara una cosa interessante: «Io sono refrattaria alla scrittura letteraria perché mi considero una persona troppo politica e quindi legata al contingente». Questo spiega molte cose: perché non abbia mai fatto letteratura, perché abbia lanciato una fatwa contro di me, perché centinaia di invasate le siano andate dietro. Ha sempre fatto politica, si è sempre occupata del contingente, il che letterariamente significa che niente resterà.

Tuttavia lasciatemi dire: «Il tumore è una malattia molto gentile», un cazzo. «È un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale», anche qui un cazzo. Lo dico per tutte le persone malate, lo dico per tutti coloro che hanno perso una persona che amavano, come io mio padre, assistendole in atroci sofferenze.

L'idea, alla Murgia, gliel'ha data il suo oncologo, spiegandole che agli organismi unicellulari non vengono i tumori, «ma un'ameba non può scrivere i suoi libri», per cui si è resa conto di essere qualcosa di complesso, pur non avendo mai scritto niente di complesso. Oltretutto cosa c'entrano le amebe, anche a uno scimpanzé, a un cane, a una giraffa, a una balena vengono i tumori, e non scrivono libri.

Per cui la cosa interessante del libro è tutta extradiegetica, come direbbe un critico se esistesse ancora la critica: parlare del cancro per lanciare messaggi politici. Raparsi i capelli in diretta Instagram, andare al Salone del libro con copricapi alla Amelié Nothomb, con l'inseparabile Valerio Chiara. Sperando, ha detto, di morire dopo aver visto la caduta del governo Meloni. In questo la invidio: ti restano mesi di vita e pensi alla Meloni. Intorno al cancro della Murgia si sono aperte le danze di tutto il giro amichettistico e presenzialistico del mainstream culturale per casalinghe di Voghera: Valerio, appunto, e la suddetta Bignardi, e la gioiosa Tagliaferri moglie di Lagioia. A proposito di Lagioia, l'altro giorno mi ha detto: «Mi è piaciuto molto quello che hai scritto su Twitter a proposito della Murgia, sei stato l'unico non ipocrita». «Ma dai, e perché non hai commentato o ritwittato?». «Vabbè te lo sto dicendo adesso».

È questo l'amichettismo, è questo il tumore del mondo della culturina italiana che vive presentandosi i libri a vicenda e succhia le cellule di un tumore vero per preservare le proprie carriere politiche mancate. Una volta ho chiamato la Murgia, lei ha detto «Chi parla?», io «Massimiliano Parente», lei «Cosa? Per carità» e clic. Un'altra volta ho chiamato la Valerio, e lei «Cosa? Per carità», e clic. Devono avere un protocollo comune, i contingenti di chi esiste nel contingente. Le malignità le dicono in privato, non sia mai prendere una posizione scomoda, meglio tenersi il posto nel salotto comodo. Ma la Murgia, che spero viva altri cinquant'anni e sopravviva anche a me che tanto ho le mie opere per sopravvivere dopo di lei, ha comunque svelato questa cosa importante: sono tutti impegnati nel contingente. Proprio come le amebe, che però sono meno rumorose e no, fanno il loro lavoro e hanno anche il buon senso di non scrivere libri.

Michela Murgia e la sua famiglia queer: «Raccontarla è una necessità sempre più politica». Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 12 maggio 2023.

Dopo aver parlato del carcinoma al quarto stadio, in un lungo post su Instagram la scrittrice Michela Murgia racconta: «Con un governo fascista che per le famiglie non riconosce altro modello che il suo» usare «categorie del linguaggio alternative permette inclusione, limita dinamiche di possesso, moltiplica le energie amorose» 

«La queerness familiare è una cosa che esiste e raccontarla è una necessità sempre più politica, con un governo fascista che per le famiglie non riconosce altro modello che il suo». Lo scrive su Instagram Michela Murgia in un post in cui mette un altro tassello al diario social di questi giorni, parlando della sua malattia — un tumore al quarto stadio — e del modo di affrontarla con il sostegno della sua «queer family». Oggi — aggiunge — «la parola più queer che esista in sardo è “sa sposa/su sposu”, per parlare di rapporti che con il fidanzamento non hanno nulla a che fare, così come con il genere o con l’età. 

«Nella queer family che vivo non c’è nessuno che non si sia sentito rivolgere il termine sposo/sposa in questi anni. Dopo lo sconcerto dei non sardi, ha vinto l’evidenza: l’elezione amorosa va mantenuta primaria, perché nella famiglia cosiddetta tradizionale i sentimenti sono vincolati ai ruoli, mentre nella queer family è esattamente il contrario: i ruoli sono maschere che i sentimenti indossano quando e se servono, altrimenti meglio mai». Insomma, sostiene la scrittrice, «usare categorie del linguaggio alternative permette inclusione, supera la performance dei titoli legali, limita dinamiche di possesso, moltiplica le energie amorose e le fa fluire». 

Della famiglia di Murgia, come si vede nelle fotografie postate, fanno — quindi — parte l’attore e regista Lorenzo Terenzi (fidanzato e futuro marito di Murgia); il cantante lirico Francesco Leone; l’attivista Michele Anghileri e tante donne a lei molto legate, quali le scrittrici Chiara Valerio (qui il video che le vede insieme al Teatro Carcano di Milano) e Chiara Tagliaferri; e ancora Teresa Ciabatti e Patrizia Renzi. Alcuni vivono con lei, altri andranno ad abitare nella casa con dieci letti acquistata dalla scrittrice, alcuni hanno condiviso un pezzo di strada con lei, altri arriveranno, raccontava nell'intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere. Tutti sono «Fillus de anima», figli dell'anima come scriveva nel suo romanzo più famoso, Accabadora.

Estratto dell'articolo di today.it il 16 maggio 2023.

Michela Murgia torna a raccontare le dinamiche della sua famiglia queer in un post che spiega il legame profondo tra lei, Claudia e il loro figlio Raphael. Poco più di una settimana fa la scrittrice ha parlato del tumore giunto al quarto stadio, dell'intenzione di sposarsi e anche dei legami profondi che la legano alle persone più importanti della sua vita. Tra loro anche Claudia […] 

"La famiglia è un posto dove si gestisce in modo strutturale il passaggio tra le generazioni. Come questo passaggio avvenga è però molto definito dalla legge e di certo non comprende il modo in cui lo facciamo noi" esordisce Michela Murgia a corredo degli scatti che la mostrano con Claudia e Raphael, il figlio di cui entrambe hanno deciso di prendersi cura.

"Nella nostra famiglia queer, io e Claudia siamo l’unica coppia omogenitoriale, perché da dodici anni condividiamo un figlio, Raphael. È la prima volta che mi riferisco a noi due come “coppia omogenitoriale”: famiglia ci bastava. Come è successo che siamo diventate madri insieme? Lo ha fatto succedere Raphael a nove anni, prendendomi la mano nella stessa sera in cui l’ho visto per la prima volta e dicendo: non voglio che te ne vai mai più.

Non c’era alcuna ragione per dargli retta, a me i bambini nemmeno piacciono, ma ho vacillato e ho guardato Claudia, anche lei conosciuta la sera stessa. La decisione presa in quello scambio di sguardi non l’ho mai rimpianta". 

"Nei successivi dodici anni io ho divorziato, lei si è sposata, abbiamo vissuto tante cose insieme, ma una cosa non è mai cambiata: siamo rimaste le madri di Raphael. È stato facile? Sì e no" prosegue: "La parte facile l’ha fatta lui, che ha un’intelligenza emotiva che noi neanche dopo una vita di analisi. La parte difficile l’hanno fatta gli altri. Parentado biologico diffidente, quando non ostile. Compagni giudicanti. Conoscenti morbosi. Mille spiegazioni. Silenzi di protezione. 

La paura che a una dogana qualcuno ti chieda perché viaggi all’estero con un minorenne che non è tuo figlio. La certezza che non puoi andarlo a prendere a scuola, perché non sei nessuno. La preoccupazione che a lei succeda qualcosa e tu non possa dire: ci sono anche io. O che succeda qualcosa a te e lui non possa dire: era mia madre. Ci siamo nascoste per anni, madri in casa, amiche fuori, per far stare tranquillo il mondo. Poi un anno e mezzo fa mi sono ammalata ed è cambiato tutto". […]

 Michela Murgia racconta la sua maternità: «Io e Claudia coppia omogenitoriale, condividiamo un figlio da 12 anni». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 15 Maggio 2023.

In una serie di post su Instagram, la scrittrice racconta la sua famiglia queer. Toccando anche il tasto dei figli, o «figli dell’anima» come li chiama. Ne esce un potente romanzo interattivo sulla famiglia come scelta. «Del sangue non ce n’è importato più niente» 

In una serie di post sul suo profilo Instagram, Michela Murgia continua a parlare della sua queer family, famiglia-non-tradizionale, come l’ha definita nell’intervista a Aldo Cazzullo (intervista nella quale ha raccontato di avere un tumore al rene al quarto stadio). 

Ma lo fa da scrittrice e da intellettuale pubblica, con lo stesso profilo con cui ha affrontato tante battaglie civili e culturali. E così quei post non sono più solo dei post, ma se messi in fila sono un romanzo interattivo, multimediale e sempre in costruzione su un unico, fortissimo, tema: la famiglia come scelta.

La maternità

Nell’ultimo post, per esempio, ha spiegato come lei e Claudia (una architetta) hanno condiviso la maternità di Raphael, un ragazzo che appare spesso nelle foto con Murgia. «Nella nostra famiglia queer, io e Claudia siamo l’unica coppia omogenitoriale, perché da dodici anni condividiamo un figlio, Raphael», scrive Murgia, spiegando che è stato lo stesso ragazzo, quando aveva nove anni, a prenderle la mano e a dirle: «Non voglio che te ne vai mai più». Sia la madre di Raphael che lui stesso abitano nella casa di Murgia. 

Nel frattempo la scrittrice ha divorziato, Claudia si è sposata ma questa idea di maternità condivisa è rimasta come una forma di legame fortissimo. Non tradizionale, non canonico, non riconosciuto dalle leggi. Ma forte e fertile. Nonostante le difficoltà. «È stato facile? Sì e no — annota la scrittrice —. La parte facile l’ha fatta lui, che ha un’intelligenza emotiva che noi neanche dopo una vita di analisi. La parte difficile l’hanno fatta gli altri. Parentado biologico diffidente, quando non ostile. Compagni giudicanti. Conoscenti morbosi. Mille spiegazioni».

L’idea di famiglia ieri e oggi

Già. Paradossalmente, viviamo un tempo in cui la famiglia è al centro di un acceso dibattito — giuridico, sociale, culturale —, ma sembra che le forme «alternative» siano difficili da accettare. Se da una parte c’è la possibilità delle unioni civili, dall’altra fa notizia se una scrittrice sceglie di vivere con amici e amiche considerandoli veri e propri «familiari», addirittura condividendo la maternità. 

Ma se facciamo un passo indietro nella carriera di Murgia, troviamo che il romanzo che l’ha definitivamente consacrata è Accabadora, una storia di «figli dell’anima», cioè figli nati non da un legame di sangue ma da scelte precise. Cento anni fa — o anche di meno — nella provincia italiana non era inusuale trovarsi di fronte a «famiglie queer»: lo stesso romanzo di Donatella Di Pietrantonio, L’arminuta, è una storia simile, cioè quella di una bambina abruzzese di tredici anni che si ritrova a tornare nella famiglia d’origine, quella «di sangue», lasciando quella che l’ha cresciuta. 

Queste famiglie-non-tradizionali erano molto diffuse nell’Italia del secondo dopoguerra, specie nelle zone rurali. Sono diventate romanzi, film, ricostruzioni sociologiche. Non erano «queer» per i piccoli paesi dell’entroterra, anzi. Semplicemente, la famiglia allargata era di volta in volta una necessità, una scelta, una cosa che si faceva e basta.

Un atto politico

Ecco perché Murgia scrittrice sta creando, in fondo, una forma letteraria: ha raccontato le famiglie delle origini e adesso, con una specie di capriola narrativa libera, racconta la sua scelta di nucleo familiare che si estende fino a diventare un atto politico: la scelta di sposare uno dei suoi componenti, il regista Lorenzo Terenzi, non solo per suggellare un legame autentico, ma anche come gesto di protesta davanti a una forma di Stato che riconosce giuridicamente solo il matrimonio o le unioni civili. Così è come se Michela non sposasse solo Lorenzo, ma anche Chiara, Francesco, Teresa, Patrizia, Michele e tutti gli altri. 

Uniti non dal sangue, bensì, come abbiamo ricostruito sul Corriere, piuttosto dal concetto di «cura» l’uno dell’altra. Come scelta di vivere insieme e condividere non solo le spese ma una quotidianità fluida. Persino una maternità. Difficile da portare avanti, come lei stessa scrive: «La paura che a una dogana qualcuno ti chieda perché viaggi all’estero con un minorenne che non è tuo figlio. La certezza che non puoi andarlo a prendere a scuola, perché non sei nessuno. La preoccupazione che a lei succeda qualcosa e tu non possa dire: ci sono anche io. O che succeda qualcosa a te e lui non possa dire: era mia madre. Ci siamo nascoste per anni, madri in casa, amiche fuori, per far stare tranquillo il mondo».

Michela Murgia:"Per 12 anni ho condiviso un figlio con Claudia. Dopo la malattia non ci siamo nascoste più". Pietro Forti su La Repubblica il 15 Maggio 2023. 

La scrittrice prosegue il racconto della sua famiglia queer: "Abbiamo vissuto tante cose insieme, ma una cosa non è mai cambiata: siamo rimaste le madri di nostro figlio"

Michela Murgia sta presentando la sua vita familiare queer su Instagram. Con il terzo post su Instagram di questa "rubrica" la scrittrice continua a mettere a nudo alcuni dei particolari più sofferti, e per questo più importanti, della relazione che ha avuto con Claudia e del rapporto con suo figlio Raphael.

"La famiglia è un posto dove si gestisce in modo strutturale il passaggio tra le generazioni", scrive Murgia. "Come questo passaggio avvenga è però molto definito dalla legge e di certo non comprende il modo in cui lo facciamo noi. Nella nostra famiglia queer, io e Claudia siamo l'unica coppia omogenitoriale, perché da dodici anni condividiamo un figlio, Raphael".

"È la prima volta che mi riferisco a noi due come "coppia omogenitoriale": famiglia ci bastava", continua la scrittrice, spiegando dell'adozione del figlio quando aveva nove anni. "Come è successo che siamo diventate madri insieme? Lo ha fatto succedere Raphael a nove anni, prendendomi la mano nella stessa sera in cui l'ho visto per la prima volta e dicendo: non voglio che te ne vai mai più".

Ma la vita della coppia e della famiglia queer di Murgia non è stata rosa e fiori. "Nei successivi dodici anni io ho divorziato, lei si è sposata, abbiamo vissuto tante cose insieme, ma una cosa non è mai cambiata: siamo rimaste le madri di Raphael". I pregiudizi e gli impedimenti legali si sono spesso messi di mezzo. "Parentado biologico diffidente, quando non ostile. Compagni giudicanti. Conoscenti morbosi. Mille spiegazioni. Silenzi di protezione. La paura che a una dogana qualcuno ti chieda perché viaggi all'estero con un minorenne che non è tuo figlio. La certezza che non puoi andarlo a prendere a scuola, perché non sei nessuno. La preoccupazione che a lei succeda qualcosa e tu non possa dire: ci sono anche io. O che succeda qualcosa a te e lui non possa dire: era mia madre".

Michela Murgia è affetta da un carcinoma renale al quarto stadio. L'evento più difficile da affrontare, però, ha avuto un effetto positivo sulla vita familiare: "Poi un anno e mezzo fa mi sono ammalata ed è cambiato tutto.  Michi, devi venire. Che succede? Ho aperto per caso la cronologia del pc e ho trovato questo: "si può dare un rene a qualcuno che non ha il tuo sangue?"

Da lì in poi, del sangue non ce n'è importato più niente".

Michela Murgia preferisce essere odiata che compatita, risponde Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 12 Maggio 2023

Caro Aldo,

la Murgia si impegna molto per apparire fuori del coro, fa affermazioni volutamente estreme, si compiace di scandalizzare con l’arroganza tipica del ruolo controcorrente che pratica. Ho trovato inaccettabile parlare del cancro come di «una malattia molto gentile». E sono solidale con i malati di cancro che avranno letto quest’affermazione, ridicola e provocatoria. Andrea Mengo, Venezia 

Mi permetto di criticare quanto detto da Murgia per due motivi: non sono d’accordo sulla pubblicità della malattia; il fatto di resistere oltre il governo Meloni è un illogico risentimento verso un governo liberamente eletto. Guido Ragni, Milano

Cari lettori,

Moltissimi di voi hanno scritto per commentare l’intervista a Michela Murgia. Qualcuno, sulla scia del professor Burioni, sostiene che il suo male possa ancora regredire. Uno mi ha mandato un resoconto dettagliatissimo di una guarigione miracolosa a Lourdes. Molti mi chiedono notizie su come si è svolto il dialogo: certo non è stato facile, a tratti ci siamo commossi entrambi; ma ho sempre provato fastidio nel leggere come e quando le interviste si svolgono, togliendo spazio alle parole dell’intervistato, le uniche che contano. La maggior parte dei lettori esprime ammirazione per il rigore asciutto con cui Michela Murgia ha dato la notizia. Qualcuno non le perdona di aver criticato Giorgia Meloni, che mi pare abbia risposto in modo efficace. Come ha commentato Guia Soncini, la cosa migliore che si possa fare per una persona che sta morendo è continuare a trattarla come da viva. Michela non vuole essere compatita; e non ha escluso la possibilità di essere odiata, oltre che amata. È una donna forte, ha la durezza e la dolcezza della sua Sardegna. Se fosse vissuta due secoli fa nel Dakota, sarebbe stata il capo di una tribù irriducibile, di quelle che preferivano lanciarsi a cavallo contro il Settimo cavalleria piuttosto che farsi chiudere nelle riserve. Il suo libro, «Tre ciotole», esce solo martedì, ma da una settimana è il più ordinato su Amazon. È un libro importante, che resterà. Non c’è nulla di esibizionista nella scelta dell’autrice. Tutto è letteratura. E politica. Nel nostro tempo, spesso la malattia è stata celata come una vergogna. La morte è stata esorcizzata, nascosta. Non è più una morte pubblica, come un tempo; quando una persona illustre scompare si accenna appena a una «lunga malattia» o a una «breve malattia». Ma dopo il Covid è più difficile. Perché la morte è entrata nella vita, e non possiamo più ostinarci a negarlo.

Dimmi come vuoi morire Michela Murgia, la mia coda di paglia e le assurde polemiche sulle malattie altrui. Guia Soncini su L'Inkiesta l'11 maggio 2023.

La scrittrice è una delle poche che sappiano argomentare cose su cui non sono d’accordo, ma la cosa migliore che si possa fare per chi sta morendo è continuare a trattarla come se fosse viva: quindi posso dire di essere molto invidiosa di quanto sta vendendo il suo nuovo libro

Ognuno muore come gli pare, se ci riesce, e già la vita è spesso carogna e non ci permette spesso di morire come vogliamo, figuriamoci se dobbiamo metterci a sindacare, tra gli ancora vivi, perché il come-mi-pare di qualcun altro non somiglia al nostro.

Sabato mattina, quando mi è arrivato un messaggio che mi diceva dell’intervista data da Michela Murgia ad Aldo Cazzullo, erano undici ore che non parlavo di lei. So esattamente che ora era, la sera prima, perché ero nella platea d’un teatro, e stavo parlando a un’amica di qualche scemenza ideologica, e ho detto una frase che non dicevo per la prima volta.

La frase più o meno faceva così: il problema è che la Murgia, di tutte queste con cui non sarò mai d’accordo, è l’unica in grado di costruire un pensiero, le altre derelitte ripetono male cose orecchiate senza capirle, e io non posso pensare di dover essere in disaccordo con delle scarse.

L’amica mi stava ascoltando distrattamente, e quindi non mi ha chiesto di cosa stessi parlando e perché temessi di restare sola con dibattenti non all’altezza, e io mi sono accorta troppo tardi che non poteva capire: era una delle poche a non sapere del disastro clinico di Michela Murgia, e quindi della mia preoccupazione egoista di restare senza una degna controparte.

La sera dopo ero a Verona, a vedere lo spettacolo di Checco Zalone, al principio del quale, come ormai accade spesso a teatro, viene chiesto di non fare riprese coi cellulari fino a nuovo ordine. Il nuovo ordine è quando, verso la fine, Zalone dice che adesso lo si può fotografare, ma poco, perché lui lo sa cosa ci facciamo con le foto: aspettiamo che muoia per postarle sui social come testimonianza della nostra vicinanza al cadavere del giorno.

Mentre ridevo, l’intervista del giorno era uscita da dodici ore, e in giro per l’Italia c’erano gli smaniosi della vicinanza all’ancora viva ma prossimamente morta del giorno: la Murgia aveva detto a Cazzullo delle sue metastasi e dei suoi pochi mesi di vita, e tutti avevano una foto, un ricordo, una luce di riflesso da esibire per dirsi sensibili e in tendenza.

In “Conversazioni dopo un funerale”, la prima pièce di Yasmina Reza, un personaggio dice «Tu, appena frequenti qualcuno, vai per forza al suo funerale! Povera te, non farai altro che andare ai funerali!», ed è un po’ quella roba lì; non credo che la Murgia non lo sapesse, e forse l’intervista l’ha data per quello: per assistere agli elogi funebri da viva.

La domenica mattina, Pierluigi Battista ha scritto un tweet che faceva così: «Sono “malato oncologico”, ma purtroppo non ho alcun messaggio edificante da regalare al mondo dei vivi nel quale, tutto sommato, non mi trovo malaccio. Forza a tutte e a tutti e viva la scienza che ci salva». Ho risposto che gli volevo bene e, poiché difficilmente le dinamiche social mi stupiscono, ho messo in conto che il come-mi-pare di Pigi era diverso da quello della Murgia, e quindi il mio affetto sarebbe stato preso come una polemica contro la Murgia (bisogna fare le curve di stadio pure su questo, il quasi morto mio contro il quasi morto tuo: come diavolo siamo messi, santa pace).

Ma l’ho scritto lo stesso, perché il giorno in cui sarò troppo vile e preoccupata della mia reputazione per rispondere pubblicamente a un amico che parla del suo cancro, e che dice come gli pare a lui di vivere e di morire, quel giorno spero che qualcuno mi finisca con un colpo alla nuca.

Che ognuno muoia come gli pare non mi pare una convinzione diffusa; quel che è strano è che anche il concetto di lasciar vivere gli altri come vogliono non mi pare implementato presso coloro che invece si dicono attenti alle libertà e all’arbitrio altrui. In questi giorni ho letto obiezioni a tutto: alla Murgia che pur di fare pubblicità al suo libro parla del suo cancro; a Cazzullo che osa obiettare che secondo lui la Meloni non è fascista; alla Murgia che mentre parla del suo cancro ciancia di fascismo; alla Meloni che se una che sta morendo le dà della fascista risponde qualcosa tipo «tu continua a vivere, ché io continuo a governare». L’unica cosa cui non ha obiettato nessuno è il Valentino che la Murgia indossava nel video in cui si rasava i capelli, e meno male: con l’etica siamo messi maluccio, ma esistono ancora baluardi estetici inviolabili.

Il fatto è che ha ragione Nanni Moretti: la gente cambia solo al cinema, mica nella vita. Nella vita restiamo tutti pieni di sbagliatezze o comunque di cose che qualcuno disapproverà, che abbiamo davanti trent’anni di vita o trenta giorni. Non è che perché Michela Murgia sta morendo le sue idee improvvisamente mi convincano, ma solo uno psicopatico non trova straziante che una persona muoia d’una morte così orrenda e prematura e da stronza.

Dice Yasmina Reza che i morti, quegli stronzi, non fanno nulla per aiutarci, nonostante lei si ostini a sgridarli o a chieder loro favori. I morti, quegli stronzi, sono morti. Lo so, state pensando a Monicelli, «muoiono solo gli stronzi»; solo che Monicelli poi si è buttato dalla finestra, e mi pare sempre un po’ assurdo citare come fosse gente che sì aveva capito la vita qualcuno che s’è ammazzato. Ecco, lo sto facendo anch’io: sto negando a Monicelli il diritto di morire come gli pareva.

Loredana Lipperini ha elencato sulla Stampa le categorie di coloro che hanno in questi giorni scritto della Murgia, tra le quali «qualche odiatore pentito che vuole essere perdonato, qualcuno che invece insiste». Leggendo, sono stata lieta che queste righe alle quali pensavo senza parlarne non fossero ancora state scritte o pubblicate: il fienile che ho in luogo del culo – altrimenti detto: coda di paglia – mi avrebbe altrimenti fatto credere d’essere inclusa nel novero.

Poi, ieri, ho deciso che la cosa migliore che si possa fare per una persona che sta morendo è continuare a trattarla come se fosse viva. Quindi sono andata su Amazon, e ho controllato come andassero le prenotazioni del libro di Michela Murgia che esce la settimana prossima. Era quinto in classifica. Ho pensato «che invidia», e ho sorriso con la stizza che si riserva ai vivi. 

Estratto dell’articolo di Selvaggia Lucarelli per il “Fatto quotidiano” il 10 maggio 2023. 

Michela Murgia è viva. Mi sembra la prima notizia da dare in questi giorni strani di coccodrilli prematuri, illuminazioni tardive e revisionismi patetici che ci tocca leggere un po’ dappertutto, in una gara piena di atleti della compassione che fino a ieri nessuno aveva mai  visto sulla pista.

Ha appena trascorso un giorno e una notte sull’Orient Express, sta per uscire il suo libro, abbraccia gli amici nel suo bar preferito, si rasa i capelli con il rossetto rosso e un abito di Valentino. É più viva di molti di quelli che pensano di essere vivi e sono morti di ipocrisia da un bel po’, un’ipocrisia che sfoggiano con particolare coraggio proprio quando sarebbe il momento di un po’ di sana vigliaccheria. Proprio quando sarebbe l’ora di tacere dopo aver tanto parlato, offeso, dileggiato. Dopo avere destinato alla solitudine chi, come Michela Murgia, si è sempre esposto.

Parlo soprattutto di colleghi giornalisti che hanno sempre considerato Michela Murgia una specie di erinni divoratrice di maschi, di pedante perditempo che va dietro a idiozie come la schwa, che hanno ridicolizzato le sue battaglie femministe descrivendola costantemente come una talebana delle desinenze o una fomentatrice d’odio di sinistra, che hanno attaccato il suo corpo, le sue idee, le sue parole. 

Che l’hanno sempre trattata come una psicotica che vede misoginia immaginaria e dovrebbe stare un po’ zitta. Che l’hanno investita di odio politico quando ha osato dire che un commissario con la divisa (il generale Figliuolo) la spaventava. Ora che però Michela Murgia ha raccontato di avere un tumore e poco da vivere in una bella intervista, c’è una corsa affannata a rivalutarla in quanto esempio smagliante di donna piena di virtù.

Questa improvvisa umanità di fronte a una sentenza di morte è davvero una delle cose più pietose a cui dobbiamo assistere […] Leggo Nicola Porro che “sia lode al suo coraggio”, lo stesso Nicola Porro che sul suo blog ha sempre scritto e ospitato articoli feroci e volgari contro la scrittrice […] Abbiamo Giuliano Ferrara che si duole improvvisamente di “essersela persa” prima di quell’intervista e in effetti serviva un tumore per accorgersi di Michela Murgia, di una delle poche, vere intellettuali del nostro tempo […] 

Poi vabbè, abbiamo la giornalista di Libero che l’ha sempre dileggiata chiamandola “paladina delle donne” e che ora le dedica video e tweet motivazionali della serie “forza vincerai tu!”, dimostrando di non aver neppure capito mezza parola di Murgia, visto che nella sua intervista smontava con cura il cliché del malato- guerriero che combatte una guerra.

Ma non manca neppure il giornalista a sua volta malato di cancro che scrive il suo tweet di dileggio ben camuffato, senza citarla: “purtroppo non ho alcun messaggio edificante da regalare al mondo…” e “non voglio morire prima di un’altra Champions” con gli applausi di numerosi hater storici di Michela Murgia. Il vero capolavoro però è quello di Giorgia Meloni che risponde a quel passaggio dell’intervista “Spero solo di morire quando Giorgia Meloni non sarà più presidente del Consiglio, perché il suo è un governo fascista”, con un post passivo aggressivo, della serie “…spero davvero che lei riesca a vedere il giorno in cui non sarò più Presidente del Consiglio, come auspica, perché io punto a rimanere a fare il mio lavoro ancora per molto tempo. Forza Michela!”.

[…] E anche Salvini le manda il suo augurio di lunga vita, lo stesso Salvini che le ha reso difficile la vita istigando continuamente odio nei suoi confronti, impedendole di partecipare al dibattito, in questo paese, senza sentirsi aggredita e spaventata. Un’ operazione politica di “compassion-washing”, quella di Meloni e Salvini, a dir poco disgustosa. Per cui ecco, non credo che Murgia abbia tempo ed energie da dedicare a questa vomitevole esibizione di ipocrisia, ma noi altri che l’abbiamo sempre stimata e la stimiamo purtroppo vediamo tutto. 

Vediamo le lacrime asciutte di quelli che hanno pubblicato sempre la sua foto più brutta, una foto in cui potesse somigliare il più possibile alla megera cattiva, di quelli che sono stati zitti mentre veniva aggredita per le sue idee […] mentre i titolasti facevano il lavoro sporco di alterare e involgarire il suo pensiero. […] le vostre parole oggi sono solo viscido paternalismo di chi pensa che una persona che sta per morire sia debole, sia il condannato che va verso il patibolo a cui puoi concedere un ultimo pasto con tre portate.

Spero di vivere abbastanza per vedere queste persone finire ingoiate dallo loro stessa ipocrisia.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 9 maggio 2023.

Mia madre morì di tumore nel 1976 e non ebbe il tempo di lottare. Mio padre morì di tumore nel 2009 e lottò nel tempo che gli rimase. Daria Bignardi nel 2018 raccontò che aveva avuto un tumore (e una parrucca per via della chemioterapia) e disse che non ne aveva mai parlato perché ogni ammalato considera la propria malattia il centro del mondo. 

Poco tempo prima la giornalista Nadia Toffa aveva rovesciato il ragionamento e aveva detto in tv che aveva battuto il tumore in due mesi, e che «chi lotta contro il cancro è un figo pazzesco». Morì un anno e mezzo dopo. Concita De Gregorio di recente ha rivelato più discretamente che ha un tumore e che ci lotta ogni giorno.

Nel marzo 2019 Alex Trebek, famoso conduttore Usa di quiz, annunciò che aveva un cancro, ma che avrebbe lottato e l’avrebbe sconfitto: sui social, però, migliaia di parenti di morti per tumore lo accusarono di aver detto che i loro cari non avevano lottato abbastanza per vivere; Trebek morì l’anno dopo.

L’altro giorno la scrittrice Michela Murgia ha detto che un tumore terminale l’ucciderà in pochi mesi, ma non vuol sentir parlare di «lotta» perché il cancro «è una malattia molto gentile e non un nemico da distruggere». Ieri si è fatta rasare i capelli in diretta social. 

Lo scrivente pensa rozzamente che i tumori siano una merda, e che, se non avessimo lottato tutti, anche quando ogni cosa sembrava perduta, saremmo ancora nelle caverne.

Serena Tropea per dire.it il 9 maggio 2023.

“La sardità dei miei capelli ha ceduto ed è caduto il primo ciuffo. Con l’ultimo barlume del taglio abbiamo girato i lanci social di Tre ciotole. Poi abbiamo fatto questo. Sembra una festa, lo so, ma con gli amici, mio figlio e il sole di fuori, che cos’altro poteva essere?“. Michela Murgia con un video su Instagram mostra il suo ‘nuovo’ taglio di capelli all’indomani dell’intervista in cui la scrittrice ha annunciato la sua malattia. 

Nella lunga intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo, Michela Murgia ha parlato anche del suo nuovo libro ‘Tre ciotole’, che si apre con l’annuncio del male incurabile: “È il racconto di quello che mi sta succedendo. Diagnosi compresa”. Una diagnosi che lascia senza fiato i suoi numerosi lettori: “Ho un carcinoma renale al quarto stadio”, un tumore dal quale “non si torna indietro” già diffuso “nei polmoni, nelle ossa, al cervello. Mi restano mesi di vita”.

Nel post, che ha ricevuto più di centomila visualizzazioni, si leggono anche i commenti di tutti i suoi fan e anche dei fan più vip che le mandano parole di incoraggiamento: da Chiara Ferragni a Luciana Littizzetto, poi Alessia Marcuzzi, Francesca Pascale e Paola Turci, Arisa, Carolina Crescentini, fino a Vasco Rossi che le scrive: “Sei fantastica”.

 Estratto dell'articolo di corriere.it il 9 maggio 2023.

«Vorrei dire che non so se comportarmi come postuma o ricordarmi che le voci sulla mia morte sono grandemente esagerate. È il diciottesimo “coccodrillo” che leggo di gente che comunque in vita mi ha anche molto odiato e sono turbata, non so come comportarmi. Se non schiatto entro un mese è maleducazione perché si è creata una tale aspettativa...». 

Così la scrittrice Michela Murgia scherza al teatro Carcano di Milano dove l’8 maggio sera si è esibita, insieme alla collega Chiara Valerio, nello spettacolo «Chiara Valerio & Michela Murgia. Istruzioni per l’uso». Murgia ha parlato della sua malattia in un’intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, dove ha spiegato di avere un tumore al rene al quarto stadio. […] 

Da “Posta e Risposta – la Repubblica” il 9 maggio 2023.

Caro Merlo, mi ha commosso Michela Murgia, che vorrei anch’io abbracciare per darle e riceverne coraggio. Ma vorrei anche, solo con un accenno, rendere onore a mia sorella che, con un grandissimo amore per la vita, se n’è andata senza dire niente, se non a quei pochi che, tra i tantissimi che aveva aiutato a vivere, in silenzio l’aiutarono a staccare la spina.

L.C. 

Risposta di Francesco Merlo:

Michela Murgia sa trovare le parole più facili per dire le cose più difficili. Ricorda Gianni Rodari? “Fa’ la punta alla matita / corri a scrivere la tua vita. / Scrivi parole diritte e chiare: / amare, lottare, lavorare”. Ma il silenzio di sua sorella non è nascondiglio, è carezza delle cose, degli uomini, della stessa morte: anche la civiltà del silenzio è un’amara saggezza personale.

Michela Murgia, chi è Lorenzo Terenzi: l'uomo che sposerà. Libero Quotidiano il 09 maggio 2023

Michela Murgia nell'intervista al Corriere in cui ha confessato di avere un tumore al quarto stadio ha annunciato che presto si sposerà con un uomo "ma poteva anche essere una donna".  Il matrimonio si rende necessario perché, come ha spiegato la scrittrice sarda, "lo Stato alla fine vorrà un nome legale che prenda le decisioni". E in questo tempo che le resta da vivere, ha detto ancora la scrittrice sarda, ha comprato anche una casa con dieci letti per poter stare insieme alla sua "famiglia queer".

Estratto dell'articolo di Sabrina Camonchia per repubblica.it l'8 maggio 2023.

C'è anche Bologna nella grande "famiglia queer", come l'ha definita lei stessa, di Michela Murgia, una rete di affetti non familiari, che nulla hanno a che vedere coi legami di sangue, ma ugualmente saldi e solidi. […] 

Bologna è sempre stata nel suo cuore, lo testimoniano le tante relazioni che la scrittrice ha con la città. Dall'amicizia con Elly Schlein fin dai tempi della campagna elettorale per la lista Coraggiosa alle elezioni regionali del 2020 […] Marcello Fois, in primis, col quale divide le origini sarde, oltre che il lavoro teatrale di qualche anno fa intitolato "Quasi grazia" […]

Poi ci sono le amiche scrittrici, quelle con cui chattare, nel gruppo chiamato giocosamente "Patapi” […] C'è Caterina Bonvicini, c'è Alessandra Sarchi che condivide il pensiero dell'amica: "Sono d'accordo con Michela quando parla di legami non convenzionali, modelli alternativi di famiglia non necessariamente basati su legami consanguinei". 

C'è molta commozione, gli amici e le amiche non entrano nella vicenda privatissima che Murgia ha deciso di rendere pubblica. La segue da vicino anche Cathy LaTorre, attivista specializzata nella tutela dei diritti della comunità Lgtbq+ […]

Rapporti umani e rapporti lavorativi, come quelli valorizzati durante il covid per il festival letterario digitale Decameron, da un'idea della stessa Murgia che chiamò a raccolta, fra le altre, Chiara Tagliaferri, Teresa Ciabatti, Chiara Valerio, Valeria Parrella. Una comunità che, commossa e rispettosa, aiuta da vicino la scrittrice. Ci sono anche Roberto Saviano e Mario Desiati.

E il basso Francesco Leone, che presto sarà Bartolo ne "Le nozze di Figaro" in scena al Teatro Comunale di Bologna, anche lui membro elettivo della famiglia queer di Michela Murgia. Cui sono arrivati anche migliaia di abbracci virtuali, sotto un suo post su Instagram fatto sabato scorso, da Chiara Ferragni a Paola Turci, da Geppi Cucciari a Nicola Lagioia.

Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per “il Foglio” l'8 maggio 2023.

Michela Murgia me l’ero persa. Persa in una lontananza estrema, estranea, culturale politica e ideologica. Da come sta mettendo in scena la propria morte, con la scrittura di un libro di racconti e l’oralità della comunicazione ai giornali, la distanza si accorcia e ne viene un vivo interesse umano che ha più dell’ammirazione che della compassione. 

Cura un cancro renale al quarto stadio metastatico ma non è in assetto di combattimento, non lotta, dice, non lo esorcizza come un alieno, lo accetta come parte del proprio corpo e complemento di una vita che le si annuncia breve ma ricorda felice […]

Sarda fin nel profondo, è severa. Giudica e manda senza complessi. La coppia tradizionale, il matrimonio di coppia al quale ora si piega per mere ragioni legali, è fomite di menzogna e tradimento. In Italia […] c’è il fascismo, e lei spera di morire a fascismo tramontato. […] Nel momento in cui l’esistenza si spencola su un burrone […] assume […] senza retorica un punto di vista sapiente, rassegnato e per quanto possibile “sereno”.

Le questioni della morte, della sua ritualità raccontata nel suo romanzo di esordio sulle misteriose pratiche eutanasiche delle comunità sarde, Accabadora, ritornano in un grido cattolico e cardarelliano, “morire sì / non essere aggrediti dalla morte”. Vuole avere il tempo per distribuire a sé stessa e agli altri i pani e i pesci del miracolo della vita umana. E’ un atteggiamento raro e prezioso.    

[…] le sue opinioni di contrarian sono la materia prima corrente in una sfera di riluttanti e ribelli che ha caratteristiche di massa e tratti conformisti, ma con una sua cocciutaggine e autenticità capace di spiazzare. Ora che una scrittrice e ideologa […] annuncia il suo progresso cristiano verso una morte che fa rivivere la comunione degli esseri, […] mi spiace pensare che in una vita e in una professione di invadenza e curiosità verso gli altri, quel carattere, quel tipo, me l’ero perso.

Michela Murgia: «Ho un tumore al quarto stadio, mi rimangono mesi di vita: ho deciso di sposarmi». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 6 maggio 2023.  

La scrittrice parla della malattia, un tumore al rene: «Ho comprato una casa con dieci letti dove la mia famiglia queer può vivere insieme». La scelta: «Posso sopportare il dolore, non di non essere presente a me stessa. Ho trascurato i controlli per il Covid. Chi mi vuol bene sa cosa deve fare. Sono sempre stata vicina a Marco Cappato»

Michela Murgia, il suo nuovo, splendido libro, «Tre ciotole», si apre con la diagnosi di un male incurabile. C’è qualcosa di autobiografico?

«È pedissequo. È il racconto di quello che mi sta succedendo. Diagnosi compresa».

Lei scrive: «Carcinoma renale al quarto stadio». Non ci sono speranze?

«Dal quarto stadio non si torna indietro».

Il personaggio del suo libro però non vuol sentir parlare di «lotta» contro il male. Perché?

«Perché non mi riconosco nel registro bellico. Mi sto curando con un’immunoterapia a base di biofarmaci. Non attacca la malattia; stimola la risposta del sistema immunitario. L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti».

Cosa intende per registro bellico?

«Parole come lotta, guerra, trincea... Il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere. In particolare sul rene, un organo che ha tanto spazio attorno».

Non può operarsi?

«Non avrebbe senso. Le metastasi sono già ai polmoni, alle ossa, al cervello».

Michela, lei sta dicendo una cosa terribile con una serenità che mi impressiona.

«Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue, un genio. Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno».

L’alieno lo chiamava Oriana Fallaci.

«Ognuno reagisce alla sua maniera e io rispetto tutti. Ma definirlo così sarebbe come sentirsi posseduta da un demone. E allora non servirebbe una cura, ma un esorcismo. Meglio accettare che quello che mi sta succedendo faccia parte di me. La guerra presuppone sconfitti e vincitori; io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente. La guerra vera è quella in Ucraina. Non posso avere Putin e Zelensky dentro di me. Non avrei mai trovato le energie per scrivere questo libro in tre mesi».

La morte non le pare un’ingiustizia?

«No. Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose che non sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi».

Una delle sue altre vite la conosciamo: operatrice in un call center. Ne ha tratto un libro, «Il mondo deve sapere», che ha ispirato il film di Virzì con Sabrina Ferilli «Tutta la vita davanti». Le altre vite quali sono?

«Ho consegnato cartelle esattoriali. Ho insegnato per sei anni religione. Ho diretto il reparto amministrativo di una centrale termoelettrica. Ho portato piatti in tavola. Ho venduto multiproprietà. Ho fatto la portiera notturna in un hotel...».

In Sardegna?

«Nel posto più lontano e diverso dal mio paese, Cabras, che potessi trovare: l’hotel Perego al passo dello Stelvio, sull’unico ghiacciaio dove si scia pure d’estate. Ero la sola italiana, con Aisha, marocchina, Mohamed, berbero, Cheik, dell’Africa nera, e Mikhail, serbo. A tavola recitavamo la preghiera cattolica, quella musulmana e quella ortodossa. Il piatto più richiesto dai clienti era lo stinco di maiale e ogni volta era una scommessa: in cucina c’erano Mohamed e Cheik, che non ne hanno mai assaggiato uno...».

Ora sta studiando il coreano? Come mai?

«Da due anni. Volevo anche andare in Corea, ma le mie condizioni per ora non lo consentono. Tutto nasce da una passione per il k-pop e per i Bts, una musica e un gruppo che mi danno grandissima gioia. Ho iniziato a studiare il coreano per capire i testi. Poi mi sono resa conto che la vera ragione era un’altra».

Quale?

«Me l’ha spiegata Jhumpa Lahiri. Gli scrittori postcoloniali, che hanno avuto successo non nella loro lingua originaria ma in quella dominante del colonizzatore, tendono a cercare un terzo spazio, una terza patria. Per Jhumpa, che ha origini indiane e scrive in inglese, è l’Italia. Per me, che sono sarda e scrivo in italiano, è la Corea. Forse ci andrò quando disperderanno le mie ceneri nell’oceano, a Busan. Nel coreano cerco parole che nessuno ha mai usato contro di me, e che io non ho mai usato contro nessuno».

Lei pensa e sogna in sardo?

«Certo. Non soltanto: penso in sardo e traduco in italiano; sono due Michele diverse, una sarda e una italiana. Alla stessa domanda se penso in italiano do una risposta, se penso in sardo un’altra. L’Italia e la Sardegna sono due cose diverse. Per voi la Sardegna è l’isola delle vacanze. Non vi rendete conto che c’è una base militare ogni 150 chilometri, perché d’estate interrompono i tiri per non disturbare i turisti. L’altro giorno ero all’orto botanico, qui a Trastevere. La persona che era con me è trasalita per il botto del cannone del Gianicolo. Io no. Noi sardi siamo abituati ai rumori di guerra».

Però la Sardegna non è una colonia. È Italia. Uno dei personaggi del suo libro è la donna di servizio di un colonnello, che ha lavorato in un poligono in Sardegna, e dice che non è vero che le morti per tumore in quella zona siano legate alle armi...

«Mi riferisco al poligono di Perdasdefogu, che viene affittato alle potenze alleate: arrivano, pagano, sperimentano armi e tecnologie, se ne vanno, e lasciano la loro scia di morte. Un magistrato coraggioso, il procuratore Fiordalisi, ha fatto riesumare le salme del cimitero e ha portato la Difesa e i vertici militari alla sbarra a rispondere di salute pubblica. Ma la comunità vive di cose non dette. La base dà da mangiare a tutti, ma non consente a nessuno di mangiare in modo diverso».

Eppure lei affida al suo personaggio, la donna di servizio, il ragionamento contrario. Anche a proposito della sua critica al generale Figliuolo: «Una tipa in televisione ha detto che la divisa del Generale le faceva paura. Centinaia di morti per il virus e questa pazza...».

«La letteratura serve a ribaltare lo sguardo e in quel racconto la pazza sono io. Lo rivendico. Il codice militare applicato a un’emergenza civile è un rischio potente per una democrazia. Nel momento più drammatico abbiamo affidato il governo a Draghi, un tecnico, e la vaccinazione a Figliuolo, un militare. La politica in quel momento si è arresa e ha ceduto il suo ruolo. La facilità con cui abbiamo sospeso le libertà dovrebbe atterrirci».

Nel suo libro lei cita per nome un solo personaggio, oltre al cantante coreano Jimin: l’ex presidente Cossiga.

«Mi è sempre stato simpatico. Ricordo un faccia a faccia con Minoli, che gli chiese: ma lei è massone? Cossiga rispose: no. Minoli lo incalzò. E lui: “Erano massoni mio padre, mio zio, mio cugino, i miei amici... Non avevo alcun bisogno di essere massone pure io”. È un po’ come me con il Premio Strega. Ho rifiutato il voto da giurata, ma Chiara Valerio mi sfotte sempre: “Michela non ha un singolo voto, ne ha diciassette...” (Michela Murgia sorride)».

Lei non scriveva un romanzo da otto anni.

«E anche questo libro sarebbe dovuto essere un pamphlet. Invano Marcello Fois mi ripeteva che la letteratura cambia la vita più dei saggi, che Proust ha cambiato il mondo più di Baumann. A me sembrava che un saggio mi consentisse di scrivere più cose autentiche. Poi mi sono resa conto che la letteratura mi permette di dire cose meno assertive; anche cose contrarie a quelle che penso. La donna di servizio giustifica la decisione del Colonnello di sottoporre il figlio malato di cancro a un intervento chirurgico non necessario. Il bisturi come soluzione militare. Radicale. E sbagliata».

Lei aveva già avuto il cancro.

«A un polmone. Tossivo. Feci un controllo. Era a uno stadio precocissimo, lo riconoscemmo subito. Una botta di culo. Però ero in campagna elettorale».

Si era candidata alla presidenza della Sardegna contro tutti i partiti, prese il 10 per cento.

«Quella volta non potei dire che ero malata. Gli avversari mi avrebbero accusata di speculare sul dolore; i sostenitori non avrebbero visto in me la forza che cercavano. Dovetti nascondere il male, farmi operare altrove».

Questa volta come se n’è accorta?

«Non respiravo più. Mi hanno tolto cinque litri d’acqua dal polmone. Stavolta il cancro era partito dal rene. Ma a causa del Covid avevo trascurato i controlli».

Le tre ciotole che danno il titolo al libro sono quelle in cui lei mangia, rigorosamente da sola, un pugno di riso, qualche pezzetto di pesce o di pollo e qualche verdura. Soltanto così ha smesso di vomitare. Un vomito che lei non collega alla malattia, bensì a un abbandono. A una sofferenza d’amore. Anche questa è autobiografia?

«La donna di quel racconto è poco autobiografica. Non sono mai stata lasciata. Sono stata fortunata: ho sempre avuto amori felici, e persone che si sono rivelate in gamba anche quando le ho lasciate. Il vomito l’ho vissuto, ma legato alla mia ostensione pubblica, all’essere diventata un bersaglio. Era la reazione per l’odio che ho avvertito nei miei confronti. È cominciato quando ho visto per la prima volta il mio nome sui muri, quando mi hanno insultata in coda al supermercato. È finito quando ho capito che non dovevo lasciar entrare quell’odio dentro di me».

Come lo spiega, quell’odio?

«Prima dell’arrivo di Elly Schlein mi sono trovata, con pochi altri scrittori come Roberto Saviano, a supplire all’assenza della sinistra, a difendere i diritti e le libertà nel dibattito pubblico».

Anche gli esponenti della destra sono odiati.

«Sì. Ma fa parte del mestiere di un leader politico. Salvini e Meloni hanno dietro di sé un sistema di potere. Una macchina. Organi di stampa. Persone che lavorano per loro. Muovono denaro, fanno nomine, decidono carriere. Io nella discussione dovrei essere criticamente terza; invece sono diventata controparte. Ed ero sola, con la forza della mia voce. Mi dicevano: voi... Ma voi chi? “Voi del Pd”. Ma io non ho mai votato Pd in vita mia».

In un altro capitolo lei racconta di tre ragazzi che uccidono un topo.

«Tre ragazzi che non erano mai stati picchiati dal padre; eppure sanno benissimo come si fa. Io ho avuto un padre violento, come si fa del male lo impari anche quando lo fanno a te».

Nel libro, il personaggio femminile seppellisce il topo, ma il suo corpo spunta ancora fuori, e lei deve saltarci sopra per pareggiare il terreno.

«Certe cose riaffiorano. Puoi occultarle, superarle, ma mai del tutto».

Nel capitolo finale la protagonista è già morta, e la sorella appende alle querce da sughero i suoi vestiti, affinché ogni persona cara possa portarne via uno...

«Quella scena c’è stata: nel giugno scorso ho compiuto cinquant’anni e ho appeso alle querce cinquanta vestiti. In questo tempo ho avuto modo di preparare tutto. Scrivere un alfabeto dell’addio. Predisporre un percorso collettivo. Tanti dicono di voler morire all’improvviso, nel sonno, senza accorgersene. Ora ho capito perché mia nonna da piccola mi faceva recitare una preghiera contro la morte improvvisa».

Perché?

«Il dolore non si può cancellare; il trauma sì. Si può gestire. Hai bisogno di tempo per abituare te stessa e le persone a te vicine al transito. Un tempo per pensare come salutare chi ami, e come vorresti che ti salutasse. Io non sono sola. Ho dieci persone. La mia queer family».

Come tradurrebbe queer family?

«Un nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli. Parole come compagno, figlio, fratello non bastano a spiegarla. Non ho mai creduto nella coppia, l’ho sempre considerata una relazione insufficiente. Lasciai un uomo dopo che mi disse che sognava di invecchiare con me in Svizzera in una villa sul lago. Una prospettiva tremenda».

Milioni di persone hanno creduto nella coppia, ci credono, ci crederanno.

«Ma finiscono per vivere di tradimenti e di bugie. Che diventano il loro segreto, e la loro vergogna».

Diceva che ha predisposto tutto.

«Ho comprato casa, con dieci posti letto, dove stare tutti insieme; mi è spiaciuto solo che mi abbiano negato il mutuo in quanto malata. Ho fatto tutto quello che volevo. E ora mi sposo».

Si sposa?

«Lo Stato alla fine vorrà un nome legale che prenda le decisioni, ma non mi sto sposando solo per consentire a una persona di decidere per me. Amo e sono amata, i ruoli sono maschere che si assumono quando servono».

Sposa un uomo o una donna?

«Un uomo, ma poteva essere una donna. Nel prenderci cura gli uni degli altri non abbiamo mai fatto questione di genere».

Il suo capolavoro, «Accabadora», è una storia di eutanasia. Però il più grande medico del Novecento, Umberto Veronesi, mi ha detto: «Ho assistito migliaia di malati terminali, e nessuno mi ha chiesto di morire. Tutti mi chiedevano di guarire».

«Posso sopportare molto dolore, ma non di non essere presente a me stessa. Chi mi vuole bene sa cosa deve fare. Sono sempre stata vicina ai radicali, a Marco Cappato».

Non le manca un figlio?

«Ma io ho quattro figli!».

Nel libro scrive che odia i bambini.

«È vero. I bambini rompono i coglioni. Tutti i bambini. Non è vero quel che dicono, che i figli sono maleducati per colpa dei genitori; prima o poi un bambino anche educatissimo piangerà, si lamenterà, disturberà, sconvolgerà il vagone del treno su cui viaggio, prenderà a calci il sedile su cui sono seduta in aereo... Non amo i bambini, ma sono predisposta ad accompagnare gli adolescenti».

E ha quattro figli.

«Sono figli d’anima. Il più grande ha 35 anni, il più piccolo venti. Tutti maschi, ma è un caso. Uno fa il cantante lirico, uno studia economia anche se speravamo facesse lettere, uno insegna a Yale, l’altro lavora in un grande gruppo della moda».

Cosa vuol dire madre d’anima?

«La filiazione d’anima in Sardegna esiste da sempre, anch’io ho avuto due madri e due padri di fatto. È insensato dire che di madre ce n’è una sola, una condanna per la donna e anche per chi le è figlio. La maternità ha tante forme».

Un altro capitolo del libro si intitola «Utero in affido».

«È la storia di una donna che mette al mondo un bambino e lo affida a una coppia che lo desiderava. Odio sentir parlare di “utero in affitto”, di “maternità surrogata”. Odio la retorica della maternità biologica; meno figli si fanno, più si misticizza la maternità. Forse un giorno nasceremo tutti da un utero artificiale. Quelli che parlano di maternità rubata sono gli stessi che hanno in casa badanti che hanno lasciato i loro figli in Paesi lontani per occuparsi dei nostri bambini e vecchi».

C’è anche una scena di sesso, molto ben scritta.

«L’ho fatta leggere a Missiroli, Desiati, Saviano. Abbiamo sorriso, l’hanno trovata molto eccitante; ma nessuno si è accorto che lei non viene. Gliel’ho detto: neanche per iscritto vi accorgete che una finge... Vuol dire che funziona».

Lei ha avuto una formazione cattolica. Crede ancora in Dio?

«Certo».

L’ha pregato in questi mesi?

«L’ho pregato e lo prego di far accettare alle persone che mi amano quello che accadrà».

Come immagina l’Aldilà?

«Non un luogo, ma uno stato sentimentale. Dio è una relazione. Non penso che la vita dopo la morte sia tanto diversa. Vivrò relazioni non molto differenti da quelle che vivo qui, dove la comunione è fortissima. Nell’Aldilà sarà una comunione continua, senza intervalli».

Con gli altri o con Dio?

«È uguale. Sarà il passaggio dal “non ancora” al “già”».

Quindi non ha paura della morte?

«No. Spero solo di morire quando Giorgia Meloni non sarà più presidente del Consiglio».

Perché?

«Perché il suo è un governo fascista».

Il mio giudizio sul fascismo è severo quanto il suo. Proprio per questo non sono d’accordo: il governo Meloni non è fascista.

«Qual è il confine del fascismo? La violenza? La bastonata? Imporre con una circolare che il figlio di due madri sia di una madre sola non è forse violenza? Crede che a una famiglia faccia meno male di una bastonata?».

Come vorrebbe essere ricordata?

«Ricordatemi come vi pare. Non ho mai pensato di mostrarmi diversa da come sono per compiacere qualcuno. Anche a quelli che mi odiano credo di essere stata utile, per autodefinirsi. Me ne andrò piena di ricordi. Mi ritengo molto fortunata. Ho incontrato un sacco di persone meravigliose. Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai. Quando avevo vent’anni ci chiedevamo se saremmo morti democristiani. Non importa se non avrò più molto tempo: l’importante per me ora è non morire fascista».

Ottavio Cappellani per mowmag.com il 2 marzo 2023.

Io non lo so: come si può non amare alla follia Michela Murgia. Un* uberletterat* che ha attraversato ogni piega dello scibile umano tanto da poter dire: “Giorgia Meloni è la donna sbagliata per noi nel partito giusto per lei, mentre Elly Schlein (posso chiamarla Schwlein?) è la donna giusta per noi nel partito sbagliato per lei”. E chi se ne frega se la Schwlein si è candidata, vincendo, per la segreteria del Pd, invece, che ne so, per Sinistra Italiana o Alleanza Verdi, e che nelle fila del Pd, per quanto indipendente (più o meno) abbia voluto e deciso di fare carriera (o anticarriera, vallo a sapere) politica.

Non si capisce bene cosa voglia la Murgia dalla Schwlein, forse un’epurazione di quasi metà del Pd, oppure che si dimetta non appena eletta. In ogni caso è nel posto sbagliato, alla Murgia ‘sta cosa della Schwlein segretaria del Pd non le va giù, forse addirittura meno che la Meloni come premier.

Ma come fai a non amarla, la Murgia, quando la Schwlein – racconta la Murgia – le dice, in privato, che vuole candidarsi “il peggio che può capitarmi è perdere” e la Murgia risponde: “No, il peggio che può capitarti è vincere”. Come fai a non amare una donna tanto sicura di sé da decidere non solo cosa deve fare lei, ma anche cosa devono fare gli altri. Voglio un busto della Murgia da tenere sulla scrivania. E se mia sorella lo vuole, col cavolo che glielo dò. Michela Murgia è l’unica a essere quella giusta nel posto giusto, mentre tutti gli altri, in qualcosa, non possono fare a meno di sbagliare, mannaggia.

Io, che mi sento sempre sbagliato nel posto sbagliato, voglio ispirarmi alla Murgia ogni santa mattina in cui mi sveglio, lucidare il suo busto (nel senso della testa) ancora prima di farmi il caffè, proprio passargli le nocche nella capa perché brilli e mi guidi e mi dica dove sbaglio, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.

 Come fa la Schwlein a non accorgersi che (come invece la Murgia si è accorta, altroché se se n’è accorta, mica è ingenua come la Schwlein) adesso verrà “idrovorizzata” (“il Pd è un’idrovora”) sia da quelli che la contrastavano sia da quelli che la sostenevano e che adesso se ne intesteranno la vittoria cercando di risucchiarne pezzettini di potere: ma come si fa a non amare Michela Murgia che ha capito queste cose segretissime e inedite della politica. Ci vorrebbe il modello Stalin, o Mussolini, o Putin, o che ne so: “Sei contro di me, ti epuro. Sei con me, ti epuro lo stesso, non si può mai sapere”.

Sono invidiosissimo della Schwlein, perché la Murgia vorrebbe un Pd fatto solo di lei e della neosegretaria, loro due e basta, contro il mondo, con un Pd fatto da due persone, senza elettori, senza pericoli, senza agguati, senza contrasti.

 Una diarchia. (Anche se, secondo il detto “il lupo della malacoscienza come agisce pensa”, la Murgia ci metterebbe due secondi a epurare la Schwlein, o, sostenendola e intestandosi la diarchia, potrebbe anche vedersi essa stessa come una minaccia al neosegretario e quindi decidere di epurarsi da sola lasciando la Schwlein sola, al comando di se stessa, a casa sua).

Come si fa a non amarla, la Murgia. E’ la mia donna ideale. Io la corteggerei tantissimo, solo che non mi piacciono i suoi piedi. Non è body shaming (non piacciono “a me” non sto dicendo che sono brutti, e non è neanche feticismo, il feticcio è la sostituzione dell’oggetto col soggetto – scarpe, abiti, lingerie – mentre il piede è una parte integrante, costitutiva, del soggetto). Purtroppo per me la Murgia è la donna perfetta nel piede sbagliato.

Estratto dell’articolo di Chiara Valerio per “la Repubblica” il 2 gennaio 2023.

(…) Ci sono diverse osservazioni da fare sulla frase di ieri. Prima tra tutte, cominciare dichiarando Michela Murgia scrittrice per poi concludere con una notazione sull'aspetto fisico. Come il contenuto degli scritti di qualcuno sia collegato o correlato alle fattezze, mi sfugge, ma sarei curiosa di conoscere il percorso. La seconda, e piuttosto divertente notazione riguarda l'orco che è divoratore di esseri umani, e quindi non siamo mai usciti, pur avendo perso in ironia, dai comunisti che mangiano i bambini.

(…) Il tweet di Vittorio Feltri, giornalista, è il sintomo di un clima culturale a cui io do il nome di squadrismo e che, sulla carta stampata e sui mezzi di informazione nei quali devono essere inclusi, per quantità, qualità e frequentazione, i social, si mostra con la pratica culturale, per me, più fascista che esista: lo scherno. Lo scherno è un metodo ed è un metodo fascista. Lo scherno non è satira e non è divertente. Lo scherno confonde i contesti minando quello che è la base di una democrazia rappresentativa e cioè che chi ha un ruolo pubblico non può e non deve parlare come tra le mura di casa propria. Motivo per cui non ho difficoltà ad ammettere che in passato la sinistra italiana ha ceduto a schernire e ha avuto e ha movimenti da conventicola laddove la destra mostra oggi azioni e intenzioni squadriste.

La mentalità della cricca è una delle cose peggiori che possa capitare ai sistemi culturali. La cricca non ha niente a che fare con la cultura. Di qualsiasi natura la cultura sia. La cultura, qualsiasi natura essa abbia, è un esercizio a riconoscere il contesto e dunque protegge dal dire cose sbagliate, l'ideologia e la morale assai meno. E questo è il motivo per cui il gruppo di Bloomsbury (Virginia Woolf, Maynard Keynes per citarne due) non era una cricca ma un luogo di pensiero, ma si potrebbero fare altri esempi. Dunque, il tweet dice poco di Feltri (è già successo) e niente di Michela Murgia (il cui lavoro consiste nello scrivere), ma molto del punto in cui siamo.

Feltri vs Murgia. “Murgia brutta come l’orco”. Bufera su Feltri (che risponde). Il direttore Vittorio Feltri è al centro di numerose polemiche dopo un durissimo tweet contro Michela Murgia. Redazione nicolaporro.it il 2 Gennaio 2023.

Il 2023 sembra essere iniziato col botto. Subito al centro delle polemiche c’è il direttore editoriale di Libero, Vittorio Feltri, quando pochi giorni fa ha pubblicato un tweet al vetriolo, definendo Michela Murgia “brutta come un orco”. Frase che ha sollevato un putiferio, fino ad arrivare alla durissima risposta di Chiara Valerio dalle colonne de La Repubblica.

Il tweet di Vittorio Feltri, giornalista – si legge su Rep – è il sintomo di un clima culturale a cui io do il nome di squadrismo e che, sulla carta stampata e sui mezzi di informazione nei quali devono essere inclusi, per quantità, qualità e frequentazione, i social, si mostra con la pratica culturale, per me, più fascista che esista: lo scherno“. Scherno che, ricorda Valerio, era già avvenuto da parte dell’ex direttore lo scorso primo dicembre, quando definì Murgia “una strega”.

E la giornalista prosegue: “Lo scherno è un metodo ed è un metodo fascista. Lo scherno non è satira e non è divertente. Lo scherno confonde i contesti minando quello che è la base di una democrazia rappresentativa e cioè che chi ha un ruolo pubblico non può e non deve parlare come tra le mura di casa propria. Motivo per cui non ho difficoltà ad ammettere che in passato la sinistra italiana ha ceduto a schernire e ha avuto e ha movimenti da conventicola laddove la destra mostra oggi azioni e intenzioni squadriste“.

Ma la risposta di Feltri, anche contro Chiara Valerio, non si è fatta attendere. Anche questa volta con un nuovo tweet sul suo profilo social: “Chiara Valerio sulla Repubblica mi critica ferocemente perché ho scritto che la Murgia é brutta. Allora mi correggo: la Murgia è una strafiga. Poi la Valerio cita la frase storica: i comunisti mangiano i bambini. Non è vero: li sodomizzano”.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 3 Gennaio 2023.

Chiara Valerio è una donna molto intelligente e preparata, come si evince dal suo curriculum, ma, come quasi tutti gli esseri umani, ogni tanto sbanda. Si fa prendere da una sorta di isteria che la induce a scrivere, in modo un po' confuso, qualche fregnaccia. Ieri, tanto per menzionarne una, su Repubblica, storico quotidiano maneggevole, ha firmato un articolo addirittura dedicato a me. Che onore!

 Una colonna in cui mi rimprovera per aver detto che Michela Murgia è brutta e che pertanto non mi piace. In pratica, mi sono limitato ad esprimere un concetto evidente a chiunque non soffra di disturbi alla vista, infatti non sono io ad affermare che Murgia - poveretta - è bruttarella, trattasi della realtà. Una realtà verificabile guardando la foto che la ritrae.

Valerio, invece, a giudicare dalla sua immagine riportata da Internet, è abbastanza carina, diciamo passabile. Da lei mi sarei aspettato un rimprovero più consono: per esempio, che non è gentile nei confronti di una donna definirla un orco. Avrebbe potuto sottolineare che ho peccato, che sono stato maleducato.

 Avrei capito se me ne avesse rivolte di tutti i colori tranne che sono squadrista. I casi sono due: o ella non sa cosa significhi squadrista, ipotesi probabile, oppure, non avendo a disposizione un argomento meno idiota, come fa quasi sempre la sinistra, si è buttata per denigrarmi sul fascismo, attribuendomi una malcelata simpatia per il duce e i suoi manipoli.

Valerio ignora che io l'infausto Ventennio non l'ho vissuto neanche di striscio, come anche la mia pur trascurabile biografia testifica, altrimenti saprebbe che sono stato iscritto al Psi di Nenni, poi sono stato un cantore di Mani pulite, ho diretto nove quotidiani italiani senza mai indossare la camicia nera. Non ritengo a questo punto che la squadrista sia Chiara Valerio, tuttavia verifico che questa, quando scrive di me, senza nemmeno conoscermi, adopera gli squallidi metodi tipici dello squadrismo.

Constato, ancora una volta, che la gente di sinistra, non disponendo di argomenti per contrastare i presunti avversari, li accusa di fascismo pur essendo impreparata su Mussolini e i suoi seguaci, i quali erano una moltitudine di cui ero estraneo, quantomeno poiché ancora in fasce.

 L'ignoranza notoriamente è molto diffusa tra i cretini, eppure non sospettavo che una ragazza che passa per colta come Chiara potesse vergare tante corbellerie che stanno a cuore alla cricca cosiddetta progressista. Poi ci si stupisce che il Pd, così come i generi affini, perda voti. Il problema è che ha perduto la testa che forse non ha mai avuto.

P.S.: Cara Valerio, il tuo direttore Maurizio Molinari è stato un mio apprezzato giornalista all'Indipendente, chiedi a lui se sono uno squadrista e ti chiarirà le idee.

La banalità di Michela Murgia. Francesco Giubilei su Il Giornale il 28 Dicembre 2022.

Provo un certo stupore non tanto per le tesi volutamente provocatorie quanto per la banalità con cui scrive e il livello davvero scarso del ragionamento complessivo

Negli ultimi anni i cristiani si sono abituati a subire attacchi di tutti i generi in ogni ambito della società. Dalla famiglia ai temi etici, dal rispetto delle tradizioni alla difesa dell'identità. Un tentativo di delegittimare la religione cristiana avvenuto a più livelli e con varie sfumature che vanno dai crescenti episodi di cristianofobia alla volontà di cancellare le radici cristiane dell'Europa fino alla delegittimazione dei simboli cristiani. Tale delegittimazione colpisce in ogni momento il crocifisso e, nel periodo natalizio, si rivolge al presepe e alla rappresentazione della natività. Si cerca così di ridurre il Natale a una generica “festività” privandolo di ogni valore e riferimento cristiano. Ultima in ordine di tempo è stata la scrittrice Michela Murgia, non nuova ad articoli o prese di posizione fuori luogo e radicali. Il giorno della vigilia di Natale, l'autrice sarda ha pubblicato su “La Stampa” un articolo dal titolo emblematico I cattolici amano un Dio bambino perché rifiutano la complessità aggiungendo nel sommario: “la Sacra Famiglia è una storia di migranti, schiavi, povertà, ma è stata semplificata Non potremo mai assomigliare alla divinità. È umano soffrire, sbagliare, perdere”. Un testo che, oltre ad essere errato nel merito, lo è anche nei tempi, essendo stato pubblicato il 24 dicembre.

La Murgia afferma che il cattolicesimo sia “l'unica tra le confessioni cristiane a infantilizzare il suo Dio” sostenendo che “nelle altre chiese di derivazione evangelica la devozione per Gesù neonato - o per Maria bambina, di sponda - è praticamente inesistente”. Già dalle premesse emerge un'affermazione falsa poiché nell'iconografia ortodossa il bambino Gesù viene raffigurato con grande frequenza tra le braccia della Madonna. Ma il suo articolo è un crescendo di banalità davver sconcertanti come il passaggio in cui scrive “nelle Scritture il racconto della nascita di Gesù somiglia infatti più alla trama di un film drammatico, sebbene cominci da un innesco piuttosto banale, di quelli in cui potremmo presto o tardi incappare tutti: si parte da un viaggio scomodo intrapreso per obbligo burocratico imposto dal governo”.

Confesso di non aver mai letto un libro della Murgia (è peccato?) e l'articolo in questione è uno dei pochi in cui mi sono imbattuto dovendolo leggere per lavoro e non certo per piacere poiché in passato titoli come God save the queer. Catechismo femminista non avevano attirato la mia attenzione. Terminata la lettura ho provato un certo stupore, non tanto per le tesi volutamente provocatorie quanto per la banalità con cui è scritto e il livello davvero scarso del ragionamento complessivo. Esistono altre figure del mondo culturale di sinistra che, pur nella fallacia delle loro tesi, espongono però ragionamenti di alto profilo ma questo articolo di Michela Murgia mi ha colpito in negativo. Come può una figura che esprime concetti del genere “per secoli abbiamo giudicato torvamente gli albergatori di Betlemme, ma alla fine la loro sola colpa, se tale la vogliamo considerare, era di essere sold out”, aver acquisito spazi, visibilità, posizioni nel mondo culturale?

Eppure sarebbe errato derubricare articoli di questo genere come una semplice provocazione poiché è qualcosa di più profondo, ovvero il tentativo di banalizzare e ridicolizzare la religione cristiana raccontando la natività come fosse una storiella.

Don Angelo Citati, in un illuminante articolo sulla vicenda, scrive: “la disamina della Murgia diventa contestabile quando si spinge fino a dire che è l’idea stessa di rivolgere la propria devozione a Gesù bambino ad essere un segno di immaturità, di «rifiuto della complessità». Un Dio che si fa bambino le sembra una cosa semplice? Nella sua storia plurisecolare, la cultura occidentale non ha affatto recepito il mistero dell’incarnazione del Verbo in questo modo, come qualcosa di semplice”.

Lecito chiedersi in conclusione a cosa serva la teologia, leggere Sant'Agostino, San Tommaso d'Aquino, approfondire secoli di studi teologici, se c'è Michela Murgia che può spiegarci il senso del Natale con analisi così profonde e complesse?

Estratto di “Roma vista controvento”, di Fulvio Abbate (ed. Bompiani)

Travestiti michelangioleschi giungono, così secondo leggenda, unicamente da un cantone della Svizzera. Sono tutti maschi procaci in costume e alabarda, nonostante la smentita che sia stato il Buonarroti a disegnarne le divise, come un allievo delle sorelle

Fontana o di Valentino ante litteram. Si vocifera siano molto ricercati a livello internazionale presso il più famelico mondo gay, come imperdibili prelibatezze erotiche. 

Tornando all'autore della Cappella Sistina, narrava un celebre pittore italiano continuatore della grande opera dei classici, Carlo Maria Mariani - tra i più apprezzati perfino da Andy Warhol nonostante i personaggi cinti d'alloro e assediati dai cigni di Leda - che negli archivi del Vaticano si troverebbe un antico documento su un arresto del Buonarroti per "condotta immorale" redatto proprio dagli svizzeri con queste esatte parole: "Trovato co' lo cazzo ne lo culo de uno giovane".

Docilmente si prestano a posare accanto al soggetto che abbia voglia di farsi fotografare con loro come Pinocchio tra i carabinieri.

Estratto dell'articolo di Giulia Zonca per “La Stampa” il 19 Giugno 2023.

Novant’anni non sembrano poi così tanti se hai sempre vissuto d’anticipo. Michelangelo Pistoletto li compie il 25 giugno e prepara una festa alla Città dell’arte di Biella. Lui da giovane si è allenato con la pubblicità senza il timore di perdere la vena artistica, ha anticipato i selfie di più di 40 anni, ha trovato l’icona perfetta per nostra signora dell’ecologia decenni prima che venisse riconosciuto il riscaldamento globale. 

Oggi teorizza la pace preventiva e ha strizzato un infinito in tre cerchi per darle un segno universale. E da quasi 60 anni sta con la stessa donna, Maria Pioppi, convinto che senza fedeltà l’amore non abbia proprio il tempo di esprimersi. Forse proprio per questo i suoi 90 anni li vive benissimo.

Esposto in ogni museo del mondo, ha in corso una mostra italiana, a Roma, al Chiostro del Bramante, in attesa dell’appuntamento di novembre, al Castello di Rivoli. 

Famoso soprattutto per i quadri a specchio che hanno invitato lo spettatore a entrare nell’opera e, prima di diventare divertiti autoscatti negli ultimi lavori, sono stati vera rivoluzione all’inizio dei Sessanta, gli anni in cui si è fatto un nome e lasciato un’eredità, una forza d’attrazione. 

Quale è stato il momento creativo che ha segnato al sua carriera?

«Quando ho realizzato il primo quadro nero specchiante e ho visto che la rappresentazione della realtà non era più fissa, statica, ma dinamica, esattamente come tutto quello che cerchiamo nella modernità. Con ogni scoperta: il cinema, internet, vogliamo andare oltre la fissità dell’immagine». 

Ricorda il momento in cui ha avuto l’intuizione?

«È successo in un attimo, lo spazio e il tempo sono entrati dentro l’opera. C’era l’infinito, ma fatto dell’esistente, di esseri umani. Persone reali. La concretezza mi ha travolto». 

Arte povera, un movimento in cui ancora si riconosce?

«L’ho iniziato io, come potrebbe essere altrimenti? L’etichetta critica Arte povera è del 1967, i quadri specchianti sono arrivati prima. È una corrente che ha la qualità di dialogare con la scienza, per questo è durata e con un lascito importante». 

I quadri specchianti sono davvero antenati del selfie?

«Sì, certo, non mi dà affatto fastidio che siano definiti così: lo spettatore diventa protagonista, entra in scena».

Non siamo diventati troppo protagonisti?

«Non si entra mai abbastanza al centro dell’azione, sarebbe meraviglioso se tutte le persone volessero entrare in uno specchio invece di stare in un angolo, siamo parte integrante dell’universo, dobbiamo partecipare, metterci in relazione». 

Più che altro la tendenza è mettersi in primo piano, non le sembra?

«Può darsi, ma l’uomo ha il potere di creazione. Può pensare e fare meraviglie, magari il primo istinto è vedersi riflessi, però da lì si può andare oltre, l’arte può insegnare a farlo almeno è quello che ci proponiamo di fare alla Città dell’arte che abbiamo creato a Biella, dove nel 1991 ho acquisito un lanificio dismesso e da un sistema industriale abbandonato è nata nuova attività.

Oggi rigenerare è nostro compito, per questo ho inventato il simbolo del terzo paradiso, che è poi un infinito fatto di tre cerchi: alle estremità ci sono i due elementi uno opposto all’altro e al centro si devono mescolare. Lo possono fare in armonia o in modo distruttivo, sta a noi». 

[…] 

A 90 anni l’intelligenza artificiale che effetto fa?

«Rispecchia l’intelligenza umana, con possibilità moltiplicate, è una straordinaria accumulatrice di memoria. È una tecnologia, sta a noi capire come usarla».

Non c’è il rischio che prenda il sopravvento?

«Noi siamo da sempre dio e diavolo, non lo scopriamo con l’intelligenza artificiale. Non diamole colpe che non ha». 

La Venere degli stracci è del 1967, oggi è un’icona ecologica. Anche lei la guarda diversamente?

«Io l’ho sempre guardata così: la Venere sta lì a far risplendere il degrado, rivitalizza i panni smessi e oggi l’unica cosa che possiamo fare è riabilitare ciò che abbiamo danneggiato. È il momento di passare al setaccio il processo produttivo e ricreare un rapporto con la natura». 

Lo stiamo facendo davvero?

«Eh, io ci ho messo una Venere, un elemento divino. Per aiutarci, guidarci. Alla fine degli Anni Sessanta eravamo lontani dal concetto di inquinamento acquisito oggi, adesso la mia Venere è la fotografia di una montagna africana trasformata in discarica di abiti usati dall’Occidente, ma allora aveva la stessa potenza e uguale scopo, anche se il contesto era meno evidente». 

È questo il compito dell’arte, anticipare?

«Intuire, sì. E capire se l’intuizione si traduce in possibile azione. Ancora un’affinità con la scienza che spesso nell’errore trova la formula». 

Dove stava l’errore nella Venere?

«Per difetto, interpretava un problema, anticipava una paura, ma è andata molto oltre: è l’immagine della contemporaneità». 

Ha ritratto come una Venere anche sua moglie Maria. In uno specchio ovviamente. Sposata nel 2017, a Cuba, dopo un fidanzamento lungo più di 50 anni. L’ha venerata?

«Siamo una dualità essenziale, non potrei mai vivere solo. Tra due persone le possibilità di intesa sono infinite e noi le abbiamo vissute sempre al massimo grado».

Sempre?

«Sì. Se ci fosse solo il lato bianco non sarebbe vita, però abbiamo abitato i contrasti con le discussioni. C’è il bianco, il nero e tanti colori in mezzo: se appena cambia gradazione uno scappa allora non è intesa». 

[…] 

Nato a Biella nel 1933, vissuto a Torino, tornato alla città di origine nel 1991. Non ha mai avuto voglia di vivere altrove?

«Non ne ho mai trovato la ragione ma ho frequentato altri luoghi. Non mi sono mai mosso da turista, è la mia opera che mi ha portato per il mondo, a suo modo ogni volta un trasloco e un legame. New York, Parigi, Pechino, l’estremo Sud delle Americhe. Oggi la Città dell’arte ha 240 ambasciate sparse».

Quale è il luogo che l’ha sorpresa di più?

«Lo stupore lo trovi ovunque, è l’essenza dell’amore: sorprendersi ogni giorno in due».

Michelangelo Pistoletto: «Io guardo al futuro. I miei Quadri specchianti hanno anticipato i selfie». La ricerca della pace. L’attenzione a una natura fragile. E la tentazione di riflettercisi dentro, metafora del tempo e dello spazio che ha precorso gli autoscatti digitali diffusi sui social. Da Roma a Milano, è l’anno del grande artista, alla soglia dei 90 anni. di Giuseppe Fantasia e Sabina Minardi su L’Espresso il 4 Aprile 2023

Sull’infinito presente riflette almeno sin da quando, riutilizzando vecchi stracci, comprati a chili per ripulire i suoi inconfondibili quadri specchianti, ha affidato a una Venere, simbolo di memoria, il compito di rigenerare ciò che è sul punto di consumarsi. E oggi che il Dart/Chiostro del Bramante di Roma gli dedica una “paradossale collettiva di un solo artista”, “impersonale” di un maestro del contemporaneo, che insegna a “moltiplicarsi nella diversità”, come scandiscono le parole del curatore Danilo Eccher, “Infinity” è il titolo più naturale che si potesse immaginare.

Michelangelo Pistoletto über alles: nella Capitale, a Milano, nei prossimi mesi a Torino, l’invito è a scoprire e a riscoprire la sua arte povera e quelle grandi installazioni che parlano dei temi più importanti del presente: l’ambiente devastato, la pace che non c’è. Il tempo: la sua urgenza più forte, oggi, alle soglie dei 90 anni: la fretta di agire, di predicare bellezza, far germogliare la pace come in una delle sue opere in mostra a “Infinity”: Mediterraneo, Labirinto, L’Etrusco, Love Difference e Autoritratto di stelle, solo per citare qualcuno dei lavori esposti.

Espressioni di un’infinità di modi di fare arte, di vedere e di cambiare prospettiva, leggendo la realtà con le stesse lenti, però: quelle di un artista unico, capace di trasformarsi, mettersi in gioco, raccontare. «Nella diversità, io mi sono moltiplicato», dice nel corso del nostro incontro, in occasione della mostra (che resterà aperta fino al 15 ottobre). Un’esposizione che inizia con un grande specchio dal quale la voce imperiosa dell'artista ammonisce: «Allontanati». Invito, al contrario, a entrare fino in fondo in un percorso di luci e di colori, seguendo un labirinto «che conduce sempre a qualcosa». In un ambiente fluido e dinamico che rispecchia il senso stesso della sua arte, «al centro di una trasformazione responsabile della società»: missione che la sua fondazione, Cittadellarte, attiva a Biella sin dagli anni Novanta, persegue. «Un cambiamento è ancora possibile. Ma solo attraverso una reale pratica della democrazia, che coinvolga i cittadini e le loro organizzazioni».

Questa mostra si intitola “Infinito”. Cos’è per lei, infinito, oggi?

«È l’attimo presente. È l’istante che catturo nei miei Quadri specchianti, ad esempio. Il presente è lo spettatore che si guarda dentro al quadro, ma il momento in cui si vede è diverso dal prima e anche dal dopo, perché l’immagine riflessa non c’era prima né c’è più subito dopo: esiste solo in quell’attimo preciso. E quello spazio del presente è l’infinito, un’immagine che si rinnova sempre, non finisce mai, perfettamente espressa dal simbolo matematico della linea che incrocia sé stessa. Quell’attimo dell'incrocio è l’attimo del presente, in cui esattamente da una parte e dall’altra c’è il passato, e c’è il futuro che diventa a sua volta passato. Mentre il passato diventa futuro».

I suoi quadri specchianti si completano con l’interazione dello spettatore. Alla figura umana, anzi, affida la dimensione del tempo. Quello specchiarsi riflette un’ossessione contemporanea che non poteva prevedere: col selfie tutti ci specchiamo e rimandiamo l’immagine sui social.

«Sì, è proprio così. Nel Quadro specchiante tutti gli spettatori diventano partecipi, nessuno è escluso. Appena tu passi davanti all’opera, entri e ne sei subito parte. È una sorta di selfie continuo, tu sei presente e lo sei assieme agli altri. Chiunque può entrare a far parte dell’immagine che io fisso, e dietro ci sono sconosciuti, c’è la società, l’umanità intera. Come nel selfie, che non resta nel tuo cellulare ma viene immesso nella Rete. Lo specchio è la Rete».

Solo che il selfie è tendenzialmente sottoposto a filtri, a miglioramenti e manipolazioni. Nei suoi specchi entriamo così come siamo.

«In ogni caso ciò che accade con quel gesto è una ricerca d’identità. Che vogliamo far sopravvivere rimandando la nostra immagine al mondo. In gioco c’è un’idea di immortalità, perché l’infinito è immortale. E la memoria va avanti nel tempo e nello spazio».

Nel tempo e nello spazio c’è la fusione tra il primo e il secondo paradiso da lei evocati. E dà origine al Terzo Paradiso, “la terza fase dell’umanità”, connessione tra artificio e natura e garanzia di sopravvivenza. A che punto siamo?

«La terza fase non c’è ancora, ma stiamo tentando di realizzarla. Nella prima fase gli esseri umani erano totalmente integrati nella natura. Con la nascita dell’artificio, e con l’immaginazione umana che si trasforma in tecnica, si è sviluppato un mondo artificiale. Quest’ultimo ha creato un progresso incredibile che ha condotto alla scienza di oggi, capace di imprese impossibili prima: prolungare la vita attraverso la chirurgia, viaggiare a velocità inimmaginabile, e così via. In egual misura, stiamo distruggendo il pianeta, anzi lo stiamo “degradando”: perché il pianeta ha il suo percorso, una durata, ma noi ne stiamo accelerando lo spegnimento».

La natura intanto dispiega la sua potenza.

«Enorme, distruttiva. Ma attenzione: quando avvengono deflagrazioni pazzesche, da quegli stessi fenomeni estremi nascono elementi che ricombinandosi su questo pianeta fanno nascere e producono meraviglie. Noi stessi siamo fatti di elementi che nascono dalle disintegrazioni. È come la scissione dell’atomo: l’abbiamo scoperta, usata in modo sbagliato ci distrugge».

In mostra c’è un grande tavolo di vetro. È una delle sue opere più note e più potenti: “Love difference – Mar Mediterraneo”. L’ha realizzata nel 2003 e ci riporta a un’idea di mare comune, il “mare nostrum” attorno al quale i popoli siedono con la loro ricchezza. Vent’anni dopo quel mare è diventato un cimitero, un mare di lutto: oggi realizzerebbe l’opera diversamente?

«No, il Mediterraneo è lo stesso. E l’esigenza di dialogare ancora più forte. Ci sarebbero sempre le sedie intorno, perché i vari Paesi affacciati sul mare lavorino a una comunione di rapporti. Certo, quando l’opera è nata, lo spirito era diverso: intellettuali, artisti, molti di noi si sono ritrovati a Strasburgo per creare il Parlamento culturale del Mediterraneo. C’erano attivatori culturali che creavano rapporti importantissimi oltre le frontiere del Nord Africa, dell’Est, dell’Ovest e per tutta Europa. Ci auguravamo risultati concreti in termini di pace e di benessere, poi tra guerre e Covid i rapporti si sono interrotti. Io sono un sostenitore della Pace preventiva: non si può ricercare la pace una volta che la guerra è scoppiata».

La Pace preventiva, simboleggiata dal labirinto, che evoca il viaggio e la trasformazione, come si persegue?

«Attraverso l’arte e la cultura, capaci di creare un vaccino. Se questa società non ha in sé la cura, sarà sempre la guerra a vincere. Il vaccino culturale deve cominciare dalle scuole, dall'educazione e i giovani devono acquistare la consapevolezza di essere produttori di una cultura vaccinale. Il vaccino è composto delle stesse proprietà della guerra, ma va usato come antidoto all’avidità e alla distruttività della guerra».

Serve un vaccino, dunque. E un dialogo, come suggeriscono le sedie intorno al tavolo. L’importanza della parola è centrale nel suo lavoro, pensiamo all’opera L’Arringatore e alla Grande sfera di giornali. Ha ancora fiducia nelle parole?

«Non possiamo farne a meno. Quando parliamo, ciò che diciamo è frutto di pensiero, di elaborazione e di esperienza. La parola è risultato di una combinazione di cose. Anche quando si mettono insieme due banalità non se ne crea solo una terza, dalla loro unione può nascere il contrario o un equilibrio. È un fatto musicale, una danza, la connessione di elementi che ne producono uno nuovo. Il terzo elemento è quello che unisce e crea l’armonia. L’umanità è un’orchestra e deve trovare la coralità nei rapporti, imparare a gestirla, altrimenti si finisce nel contrasto e si precipita nella guerra. Noi uomini siamo capaci di creare sia i mostri sia la virtù. L’umano ha bisogno di regole, che però devono essere dinamiche e mai definitive: devono ricercare l’equilibro, aggiornarsi e non cristallizzarsi. Io la chiamo “Formula della Creazione”. Ogni atto deve rispondere a questa capacità di abbinare gli opposti in modo armonico».

Lei parla d’amore e ammonisce ad amare le differenze. Lo ha sempre sostenuto, anche quando la società non era così pronta.

«L’amore risiede nell’amare la differenza. Siamo tutti diversi e la bellezza è questo. Purtroppo la nostra è una cultura egocentrica, che tende ad escludere gli altri e quelli che non ci somigliano».

È la direzione che società e politiche nazionalistiche stanno prendendo: polarizzare le differenze, contrapporsi agli altri.

«Per sentirsi coesi. Si creano dei nemici per rafforzare le appartenenze. Basta guardare alla Storia e, appunto, al presente».

Cosa la infastidisce del presente?

«Io non mi riconosco in questa umanità. Se questa è l’umanità, mi infastidisce essere chiamato essere umano. Anzi, ne ho vergogna».

Che momento è questo per lei?

«Vedo in effetti moltissima attenzione verso quello che faccio. Ed è un tempo in cui serve investire sul nuovo».

Il nuovo oggi è molto di ciò che lei ha raccontato in questi anni: la necessità di essere essenziali, il rispetto della natura, il valore del dialogo. Che effetto le fa essere stato un anticipatore?

«Perché parlare al passato? Io guardo al futuro. Dei ragazzi mi hanno chiesto se si può cambiare il mondo con l’arte e se ciò mi rende felice. Io sono felice. Perché non so se riuscirò a cambiare il mondo con l’arte, ma mentre la sto facendo sto già molto meglio».

Il «teatrino della politica»? Lo spettacolo è una cosa seria. Michele Mirabella su la Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Febbraio 2023.

Da giovane il “Cut” di Bari, ora i grandi palcoscenici. «Quando avvertii la mia famiglia che volevo fare quel mestiere calò un sipario di silenzio imbarazzato»

Quando vogliono disprezzarsi a vicenda i praticoni della politica, anche di rango eminente, usano la parola «teatro» con le varianti di «teatrino», «commedia», «operetta». Intimo a tutti i politicanti a vario titolo di astenersene. E, con un ricordo personale, tento di spiegarne la ragione.

Quando avvertii la mia famiglia che volevo fare il mestiere del teatro calò un sipario di silenzio imbarazzato. Buon segno, se non altro non si sarebbe data battaglia, pensai. Era, in realtà, la forma di rispetto che si porta agli inconsapevoli segnati da Dio che meritano la taciturna e rassegnata comprensione di affini e famigliari che pensarono: se è capitata questa disgrazia, l’affronteremo con serenità. Dissuadermi, lo capirono subito, sarebbe stato inutile, contrastarmi pericoloso, entusiasmarsi inopportuno.

Fui assecondato, come si fa con gli squilibrati. Ma non per indifferenza alle Muse! In casa mia il teatro era amato. S’ascoltavano le commedie alla radio con passione e diligenza. Mia madre ci riuniva intorno all’apparecchio, in tinello, come in una minuscola platea che, silenziosa, s’immergeva nei velluti e nelle quinte dell’etere per immaginare la scena e gli attori.

I miei genitori si assicuravano il palco al Teatro Piccinni per la stagione di prosa e rivista e al Petruzzelli per la lirica. Mamma prediligeva la “Lucia di Lammermoor” e mio padre “Tosca”. Insomma, in casa mia gli illetterati renitenti all’arte avevano vita grama. Ma non v’era chi, tra le mura domestiche, non intravedesse le minacce connesse alla vocazione istrionica. Mia madre già m’immaginò trascinarmi tra i saltimbanchi ad elemosinare una maschera e un tozzo di pane: quando imparavo i versi di Quasimodo dedicati alla madre (versi che ora non posso più leggere, pena uno stranguglione di pianto), m’immaginavo con quel “mantello corto e quel pugno di versi in tasca” abbandonare nottetempo non le “foci dell’Imera”, ma l’Ateneo di Bari dov’era la mia bella Facoltà di Lettere.

E fu quell’Ateneo a scongiurare le ansie famigliari per il rischio del vagabondaggio appresso a traballanti carri di Tespi e, tra quella gente studiosa di cercare alternative culturali, covai con un manipolo di “sconsiderati” la vocazione teatrale e questa fiorì alla faccia delle accidie provinciali. Era il Cut, il Centro Universitario Teatrale di Bari che Egidio Pani aveva inventato in un fatidico scantinato della Casa dello Studente. Fu la stagione più bella non solo della mia vita, ma, anche, di quella di tanti amici che, come me, avevano affrontato scettici deschi domestici per riaffermare il diritto minimo e sacrosanto di scalare il Parnaso, anche se si ergeva in una ex barberia della Casa dello Studente. Furono gli anni dello studio e della ricerca, dei successi e degli errori, errori di una madornale bellezza e successi dolcissimi.

Mio padre veniva, di nascosto, a vedere le prove degli spettacoli per convincersi non solo della veracità della vocazione, ma, anche, opportunamente, della sua plausibilità. Una notte, dopo la prima del mio “Romeo e Giulietta e la peste”, mi lasciò in cucina un biglietto di consenso burbero e pieno d’amore che diceva che ero, sì, matto, ma, anche geniale. Mia madre aveva chiosato con l’avvertimento che le mozzarelle erano in frigorifero e i calzini puliti sul termosifone. Era il viatico. La mia vera carriera cominciò quella notte.

Mi visitano, questi ricordi, nei giorni in cui mi accingo alla regia al Teatro Bellini di Catania delle “Nozze di Figaro” di Mozart: opera cruciale che vede la collaborazione fatidica e geniale del salisburghese (nato a pochi passi da Mirabellplatz, guarda un po’) con Da Ponte, italiano di Ceneda (Vittorio Veneto) alle prese con la parte seconda della trilogia di Beaumarchais.

Ho avuto la gioia di inscenare la prima parte, “Il barbiere di Siviglia” di Rossini, in un teatro che cominciava la sua nuova vita, al Petruzzelli. La famigliarità con Beaumarchais cominciò: questo inventore del teatro moderno e precursore sornione e inerme della Rivoluzione Francese, trova in Mozart, Paisiello e Rossini i realizzatori musicali della letteratura tanto temuta dai reali di tutta Europa e dall’aristocrazia al tramonto.

Tutto questo, immaginazione e realizzazione del racconto di Beaumarchais, amore sconfinato per Rossini, incontro emozionato con Mozart, tavole del palcoscenico, musica sublime, cantanti e artisti che aspettano la guida, si realizza grazie a qualche severa rinuncia giovanile e al sogno di quello che fu il “Cut Bari”.

A quelle scorrerie di emozioni giovanili ripenso passeggiando in via Sparàno, a Bari, dove capii che il teatro è un sogno serio. Dunque, intimo agli sconsiderati ignoranti che se ne servono per insultarsi di cercare altrove le loro contumelie: non hanno che l’imbarazzo della scelta.

A proposito: ho dato appuntamento ad oggi ai lettori curiosi di sapere chi sia stato Sparàno da Bari. Fu insigne nella politica del suo tempo, nel XIII secolo, tale Sergius Sparari, Catapano di Bari, prendendo in appalto le finanze locali e bene deve aver operato se la “Treccani” usa spazio per lui, se a Bari il bravo scrittore Giovine gli dedica un bel libro. Se, infine, la toponomastica moderna gli ha dedicato la strada bella di Bari. Noi del Cut ci andavamo a discutere. Anche di politica e di teatro.

Estratto dell'articolo di Luigi Mascheroni per “il Giornale” lunedì 3 luglio 2023.  

Sì sì, giusto. La cultura di destra non esiste. Vero. Ma quella di sinistra? Oggi le sono rimaste due pagliacciate buonistico-lgbtarie, diffuse ossessioni giornalistiche fascio-compulsive, il ridotto torinese del Salone del libro, gli editoriali di Massimo Giannini e le strisce centrosocialare di Zerocalcare. Marx and stripes.

Come titolò con rara mancanza del senso del ridicolo il settimanale l’Espresso (per cui collabora): «Zerocalcare l’ultimo intellettuale d’Italia». Il penultimo era Tommaso Zanello detto Er Piotta. Mejo così... 

Il meglio del peggio dei giovani di sinistra frignoni, felpa griffata e bermuda engagé, quarant’anni e lamentarsi ancora che la colpa è der sistema, Zerocalcare e un milione di fumetti venduti è l’apologia in timeline del nichilismo acquiescente di una generazione triste. So’ di Centocelle, so’ povero, vivevo di traduzioni, siamo sfigati... Er Secco, Tor sta Ceppa, stop motion, piangersi addosso, pija male, i migranti che nessuno se vole accollà e l’armadillo de ’sto ca**o. Stacce.

 Vabbè, ma chi è ’sto Zerocalcare?

Un fumettista, un vignettaro, un anticonformista conforme al pensiero pop, un genio, un grande, «Mio padre, mio fratello, mio cugino», un guru, ’No sturacess’, un idolo, un depresso, un communista de mmmerda, un maestro di vita. Post tipo del fan-calcare: «Ho finito ora la nuova serie di Zerocalcare e già mi manca». Col cuoricino.

Cuore a sinistra della sinistra e la destra codificata soltanto come un raduno di nazisti di Colle Oppio, Zerocalcare, “Zero” per gli amici, Michele Rech per l’anagrafe, nome ripudiato per la fastidiosa assonanza col noto Reich «Ein Volk, ein Rech, ein Führer» incidentalmente nato ad Arezzo ma romano, romanesco e romantic punk di Rebibbia-Ponte Mammolo, è il più grande fenomeno cultural-editoriale degli anni Duemila, ben al di là del mondo del fumetto. Giù il cappuccio. 

Nessuno vende come lui, pochi hanno così tanti ammiratori e i suoi sono i più lunghi firmacopie della storia dei firmacopie, cui si sottopone con generosità esemplare. Un business e una passione. 

Da quando nel 2011 pubblicò il suo primo albo a fumetti, La profezia dell’armadillo, ha conosciuto solo ristampe e successi, fino ai trionfi delle due serie animate scritte e dirette per Netflix Strappare lungo i bordi e Questo mondo non mi renderà cattivo, anche se a noi rende invidiosi. Zero per i suoi fanzinari è un Unto della graphic novel: inimitabile, inarrivabile, intoccabile. 

Hanno fede in lui anime e corpo. Per dire: in rete gira un video di un’intervista dove una tipa gli chiede una cosa, lui risponde «Io che cazzo ne so» e parte un’ovazione di sei minuti. Per i detrattori, invece, pochi e tutti fasci («Dàgli ai naziiii!»), Zerocalcare, linee deboli e temi forti, è piuttosto un enigma, «Va bene, Rebibbia Quarantine era figa, male due serie Netflix sono decisamente noiose», l’ennesimo esempio di come la mediocrità al servizio del sistema venga osannata in quanto mediocre. 

«Se abbassi l’asticella il risultato è che uno come Zerocacare viene fatto passare per Miyazaki».

Alla faccia dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo.

Comunque, per dovere di cronista, abbiamo guardato con entusiasmo la prima puntata di Questo mondo non mi renderà cattivo. Dura 30 minuti. Plot: Zero e il suo amico Secco che parlano sempre strascicato, poi strappano manifesti de merda sulla sostituzione etnica, si ironizza sui maschi, bianchi, etero e cis, si denuncia la chiusura dei centri di accoglienza, colpa dei nazi («Cerca de’ capì: fascista è troppo poco»), si spiega con la metafora dei pacchi (wow!) che chi sbarca dalla Libia è un essere umano come noi, easter eggs targati Netflix e messaggi subliminali sulle Lettere dal carcere di Gramsci e il gelato alle visciole. Bellissimo. 

Davvero. Ma prima di passare al secondo episodio abbiamo scaricato illegalmente Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl.

Trionfo del buonismo prêt-à-penser, sensi di colpa (domanda: ma per cosa?), fragilità emotive da studentesse di psicologia fuori corso, elogio della vita straight edge - No fumo, No alcol, No droghe, No Tav, No War e No logo (ma Netflix e Nike sì) Zerocalcare, ragazzo semplice, altruista e gentile, è entrato perfettamente nella parte del resistente.

Ha scelto orgogliosamente di rimanere là dove è partito, Rebibbia, oltre la suburbia romana, fra via Bartolo Longo e ponte Mammolo, presidio fieramente antifascista e racconti murali militanti, i martiri dei Nap, i manifesti di Franca Salerno, la casa circondariale e quella di Pasolini «Ah, giorni di Rebibbia/ che io credevo persi in una luce/ di necessità, e che ora so così liberi» facendo del romanesco, con stucchevole snobismo, una raffinata koinè gggiovane e antagonista, un esperanto politico nazional-televisivo con cui teatralizzare le ubbie, le speranze, le rivendicazioni di quel mondo lì, fra sogni di convivenza, di emancipazione, di integrazione e l’incubo costante dell’ascesa neofascista. Indolenza, conflitti sociali e fancazzismo. E adesso Annamo a pijà er gelato. 

La dote di Zerocalcare non è il disegno, e il paragone artistico con Paz è irriguardoso (per Paz). Mala sua capacità narrativa è indubbia. È bravissimo con un pugno di pennarelli Staedtler a raccontare una generazione che non sta bene nel mondo, che ha perso speranze, diritti, desideri e parole, sostituite da emoji e asterischi. Ma il titolo «Giù le mani dal romanesco di Zerocalcare: lo dice Gadda» era demenziale. E farne il maître à penser della nuova sinistra è un errore politico. 

Battaglie politiche di Zerocalcare: contro il 41 bis e per Alfredo Cospito; per il mutualismo contro ogni individualismo; a favore dei diritti delle donne curde del Rojava e contro lo sgombero delle case occupate; per la panna gratis sul gelato (perché non stamo a Milano) e contro Alain De Benoist, «faro dai neonazisti europei». 

Angeli custodi del chittesencula Zerocalcare: il “Prof” Christian Raimo. Capossela e Sabina Guzzanti. Makkox (Zero a Zoro).

Lo studente che ha usato la schwa nel tema della Maturità. Vabbè, quelli che hanno comprato la t-shirt di Mattarella stile Metallica. Elly Schlein (che lo legge sempre). Repubblica che lo intervista ogni cinque-sei giorni. Le bimbe di Zerocalcare su Twitter: «Ce piace perché ce fà sape che la vita fa schifo». E Valerio Mastandrea, simpaticissimo e politicamente attiguo a quella dimensione lì. Una volta si è anche preso la colpa per una scritta «antifa» sulle mura di San Lorenzo. Tout se tient.

Alla fine Zerocalcare tiene dentro tutto, ed è il segreto del suo successo. Un tratto di conformismo, una campitura di sentimentalismo, un’ombreggiatura di furbizia, poi si colora tutto con photoshop e buoni sentimenti, e una rifinitura di militanza. E così Zero di nome e milioni di fan, Michele Rech piace ai ragazzi, alle mamme, ai fumettari, ai Saviano e ai Veltroni, alla scena punk hardcore romana, alle professoresse democratiche dei festivàl, alla tv generalista di lotta e di Propaganda e ai colossi della tv in streaming come Netflix. Share: 100%. 

Ma forse – come ci permettiamo di criticare Zero?! - ha ragione lui: «Solo chi ha veramente titolo per parlare può aprire la bocca».

Ma soprattutto ha ragione il suo amico Secco: «Quando uno me sta sul cazzo, me sta sul cazzo per minimo duecento anni».

Estratto dell’articolo di Antonio Bozzo per “Panorama”, pubblicato da “La Verità” il 7 marzo 2023

«Quando ho voglia di rilassarmi leggo un saggio di Engels, se invece desidero impegnarmi leggo Corto Maltese». Così la pensava Umberto Eco, che sdoganò i comics presso gli intellettuali con pagine su Steve Canyon, parte del Diario minimo, uscito nel 1963. Nulla di strano dunque se Il nome della rosa, suo bestseller mondiale, è finito in fumetto, disegnato da Milo Manara - 77 anni, nome d’oro delle «nuvole parlanti» -, in libreria con il marchio Oblomov - La Nave di Teseo. 

Primo volume, presto arriverà il secondo. Manara, conosceva Eco?

«Di sfuggita, era amico di Hugo Pratt. Tra me e Eco ci fu un curioso incidente». 

Ovvero?

«Fulvia Serra, direttrice del Linus di allora, mi chiese un disegno per la figlia di Umberto. A Carlotta piaceva un mio personaggio, Giuseppe Bergman. Feci il disegno, che aveva qualcosa di erotico, nel mio stile. Tempo dopo mi imbattei in Eco, per caso. E lui, fulminandomi con gli occhi, disse in tono di rimprovero: ecco chi ha fatto quel disegno per Carlotta. Stupidamente non avevo chiesto quanti anni avesse la ragazza».

Nulla in confronto alla censura dell’editrice americana Marvel.

«Tutta colpa della Donna Ragno. Mi piaceva esplorare il mondo dei loro supereroi. Lo aveva fatto il grande Jean Giraud, pseudonimo di Moebius, con Silver Surfer. Disegnai per una copertina Spider Woman praticamente nuda, ma dipinta di rosso, come fosse in calzamaglia, secondo gli usi della casa: un modo ipocrita per salvare il pudore. Aveva una posa tipica di Spider Man, che esaltava al massimo la sua femminilità anatomica. Marvel mi chiuse le porte. Per solidarietà, i disegnatori della scuderia, in testa Frank Cho, si ispirarono a me per altre copertine. Marvel non poteva cacciarli tutti».

Quando iniziò a disegnare fumetti?

«A casa mia, in Alto Adige, erano proibiti. Mia mamma, maestra, era convinta che fossero deleteri e con tutte quelle figure allontanassero dalla lettura. I fumetti non hanno fatto parte del mio corredo evolutivo. Leggevo di straforo quelli a casa di amici, per esempio le tavole di Franco Caprioli per Il Vittorioso. Solo dopo anni ho scoperto il nome dell’autore. Credevo che i fumetti nascessero spontaneamente, come le foglie». 

[…] Non le manca l’aria al giorno d’oggi?

«Oggi c’è un bacchettonismo eccessivo, da destra e sinistra, di impostazione americana e politicamente corretta. Viene anche dal movimento femminista. Dimenticano che l’espressione artistica è anarchica». 

Si vanta di avere in copertina il nome più grande che quello del personaggio. È così?

«Vero, è stata una fortuna non essere legato a un solo personaggio, anche se ho fatto qualche serialità: la giornalista Miele e il mio alter ego Giuseppe Bergman, per esempio. Chi legge Tex o Diabolik è interessato ai personaggi, passa in secondo piano chi li scrive e disegna, almeno presso il grande pubblico. Con me è diverso». 

Nella vita contano gli incontri. Hugo Pratt?

«Seppi di lui leggendo Sgt. Kirk, rivista su cui Pratt esordì con storie del periodo argentino, su testi di Héctor Oesterheld, l’autore dell’Eternauta, desaperecido e forse buttato in fondo all’oceano dagli squadroni della giunta militare. Sulla stessa rivista lessi La ballata del mare salato, prima storia di Corto Maltese. Feci l’impossibile per rintracciare il Maestro e lo beccai a Lucca, al Festival del fumetto. Mi inginocchiai davanti a lui».

Addirittura?

«Sì, Pratt si mise a ridere e si divertì perché parlavamo con la stessa inflessione: le nostre origini non sono distanti. Lasciammo Lucca sul mio camper. Hugo ne aveva bisogno per caricarci libri e portarli dalla casa di Milano a Parigi. Poi abbiamo girato insieme mezza Europa e realizzato di concerto due storie. Ce ne sarebbero state altre, tra cui la storia di un gladiatore, un prigioniero celta portato a Roma. Pratt era interessato al confronto tra civiltà. Purtroppo è mancato prima. Non l’ho mai chiamato per nome, solo Maestro, la nostra era un’amicizia asimmetrica. Aveva vent’anni più di me, ma più che un padre era un fratello scapestrato.[…]». 

Altro incontro: Federico Fellini.

«Ogni volta che ne parlo mi viene in mente la branda che fece mettere in anticamera a Chianciano, dove passava le acque con Giulietta Masina. Ero lì anch’io, per disegnare storie tratte da suoi testi: Viaggio a Tulum e Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet, quest’ultimo un film sempre immaginato e mai fatto. Non c’era un buco libero, negli alberghi. Fellini fece portare una brandina e mi trovai a dormire lì, ai piedi del lettone dove ronfavano Federico e Giulietta. Sono stato loro figlio per una notte […]». 

Autori italiani di oggi che la convincono?

«Paolo Bacilieri: da ragazzino i suoi genitori lo portarono da me. Ora è un nome importante. Poi Zerocalcare, bravissimo, ma gli interessa poco il valore del disegno, guarda più alla parte espressiva. Alcuni lo paragonano a Pazienza, ma Andrea è riuscito a mostrare nel disegno persino se un personaggio ha freddo». 

Una figura femminile che le piacerebbe disegnare?

«La cantante Elodie. Mi aveva fatto cercare, può darsi che si faccia. È bella, con atteggiamento libero».

Oliviero Toscani: un uomo chiamato insulto. Lorenzo Grossi l’8 Aprile 2023 su Il giornale.

Donne, fedeli, veneti, siciliani e (soprattutto) esponenti ed elettori del centrodestra: tantissimi sono finiti nel mirino delle offese del fotografo 81enne

Ma Oliviero Toscani non sa fare altro che insultare pesantemente tutti quelli che non la pensano come lui? Stando evidentemente agli ultimi anni, la risposta è indirizzata senza alcun dubbio verso il "sì". Ormai si fa infatti estremamente fatica a tenere il conto delle numerose durissime offese che il fotografo - una volta che non è stato più in auge con le provocazioni delle sue istantanee per le campagne pubblicitarie - ha rivolto a politici, giornalisti, commentatori e cittadini in generale. Ecco una rassegna (incompleta) di tutte le sue ingiurie.

La folle sinistra anticlericale: "Padre Pio come Isis e Hitler"

L'inizio della sua intera deriva offensiva iniziò nel 2013, con un attacco frontale contro le donne, le quale "devono essere più sobrie, dare importanza all'essere più che al sembrare, solo così si possono evitare altri casi di femminicidio. Non si devono truccare, mettersi il rossetto, devono volersi bene per quello che sono". Tre anni dopo, stuzzicato al telefono dalla Zanzara di Cruciani e Parenzo, definì tutti i veneti come "un popolo di ubriaconi ed alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri". Una signora di Padova, sentita offesa dalle sue parole, lo citò in giudizio; tuttavia un giudice lo assolse con queste motivazioni "non essendo individuabili in termini di affidabile certezza riferimenti inequivoci a circostanze e fatti di notoria conoscenza attribuibili ad un determinato individuo". A proposito proprio di Padova, Toscani non fu da meno con l'allora sindaco Massimo Bitonci. "Ma voi dite che il nuovo sindaco di Padova appartiene alla mia razza? No, mi vergognerei... Quelli sono subumani". E ancora: "Non ce l'ho con i cittadini padovani, ce l’ho con i subumani che hanno votato Bitonci... Non si può votare uno che dice quelle cose là". E Gasparri? "Un ritardato mentale".

I pazzeschi insulti contro i fedeli di Padre Pio

Nel 2016 la salma di Padre Pio viene trasportata a Roma per il Giubileo della Misericordia, su ordine di Papa Francesco. Enormi folle accorrono da ogni parte del globo per venerare i resti mortali del santo frate di Pietrelcina. In quella circostanza Toscani pensò bene di bollare Padre Pio come un "uomo marketing della religione", i cui resti mortali sono "una mummia che fa esteticamente schifo". Non pago, rincarò la dose tracciando un paragone tra i fedeli di San Pio e i seguaci del nazismo: "È uguale, preciso, identico", spiegò. Due anni prima, sulla Chiesa in generale, per lui era "un club sadomaso". E poi su Giovanni Paolo II: "Fanno santo Wojtyla che era contro il preservativo in Africa, un assassino". Sui giovani italiani: "Sono dei cagasotto, delle seghe. Cosa possiamo fare per i giovani? Ma cazzo, io sto aspettando che i giovani facciano qualcosa per me!", seguito da una bestemmia contro la Madonna.

"Chi vota Meloni ignorante, serve l'obbligo vaccinale"

Poi, si arriva al 2018 con i primi di una lunghissima serie insulti agli esponenti di centrodestra. Sempre alla Zanzara, Toscani bersagliò in un colpo solo sia Meloni sia Salvini. Sull'attuale presidente del Consiglio disse esplicitamente: "Giorgia Meloni? Poveretta, lei è una ritardata. È brutta e volgare, mi dà fastidio la sua estetica. È proprio fastidiosa e quindi tutto ne risente, anche l'estetica". Sull'allora ministro dell'Interno fu altrettanto netto: "Non credo nella sua politica, credo sia un imbecille e lo dico ad alta voce. Salvini è un imbecille totale. E non vorrei insultare gli imbecilli". In merito agli insulti razzisti rivolti a Mario Balotelli dagli ultrà del Verona, Toscani tornerà ad attaccare il leader della Lega: "Salvini è stato eletto dalla maggioranza dei coglioni di gente che non ha più una sensibilità umana. Il suo rappresentante si esprime in un modo disumano. L'Italia si è volgarizzata, ma questa gente qui cosa vuole, i campi di concentramento?".

"In Italia tanti cogli...". Ora Toscani insulta pure gli elettori

Subito dopo la foto del febbraio 2020 delle Sardine con Luciano Benetton - che suscitò molteplici polemiche in quanto famiglia era tra i principali azionisti di Autostrade - il fotografo commentò così la tragedia del Morandi: "A chi volete che interessi se casca un ponte?". Immediata fu l'inevitabile reazione sdegnata dei familiari delle vittime. Si arriva al post elezioni Regionali in Toscana e Oliviero Toscani è in brodo di giuggiole per la sconfitta della candidata leghista Susanna Ceccardi: "Era una barbara, dalla Toscana è venuto un segnale fantastico. La Toscana è un posto civile e dove c'è civiltà la Lega non va, mentre dove c'è barbarie funziona". Ma poi ecco un ulteriore "memorabile" insulto a tutto il genere femminile: "Il cervello delle donne è inversamente proporzionale alla lunghezza dei loro tacchi. Tu guardi tacchi, più alti sono e più bassa è la quantità del cervello. È la misura perfetta". Per poi aggiungere: "La donna più è rifatta, più è cogliona".

Odio a valanga su Berlusconi e Meloni. L'intervista choc di Toscani

Anno nuovo, insulti beceri nuovi. I siciliani di oggi "non hanno alcun merito per la bellezza che abbonda in Sicilia. Si ritrovano in mezzo a un tesoro inestimabile che davvero non meritano". Anzi: "La Sicilia è la più grossa discarica di intelligenze che esista al mondo". Poi, l'attacco agli elettori di Fratelli d'Italia: "Come definisco chi vota per la Meloni? Poco istruiti e ignoranti". Dopo le elezioni politiche del settembre 2022, il "fiume in piena" Toscani esonda completamente contro tutti i sostenitori del centrodestra. "Gli italiani che hanno votato sono dei deficienti"; "Io penso che in Italia ci siano tanti coglioni. Ci sono quelli che non capiscono tanto...". E guai a ricordargli che la democrazia, piaccia o meno, funziona così. "Hanno scelto anche Mussolini ai tempi. È chiaro che si sceglie, ma scelgono delle cagate", ha incalzato Toscani.

Nuovo vergognoso capitolo contro la Meloni

Nuovamente sgradevoli i suoi commenti estetici intrisi di disprezzo nei confronti della Meloni. "Non sapevo se era Wanna Marchi o lei. Non trovate che ha lo stesso stile? Urla, strabuzza gli occhi, le unghie rosse, è abbastanza volgare. Non ha uno stile". E poi ancora: "Mi dà fastidio come parla, strabuzzando gli occhi, come posseduta. È tutta sbagliata, la regina di coattonia". Berlusconi? "Ha rovinato l'Italia, bruciato la decenza che bene o male noi avevamo. Lui è stato la vera rovina dell'Italia, peggio di Mussolini". Ma le ingiurie non terminano certamente là: "Lo lasciano esporsi in quella maniera impresentabile. Quei capelli, la faccia, i denti, le liste: è un mostro impresentabile, mi imbarazzo per lui, poveretto".

L'ultimo insulto di Toscani: "Meloni? Ritardata mentale"

Si arriva infine al 2023. Dopo Nicola Porro, definito un "imbecille con i polsini slacciati", ritornano altri insulti contro il governo presieduto da Giorgia Meloni. "È un governo di ritardati mentali, compresa la Meloni che proponeva il blocco navale". Sul presidente del Senato: "Povero La Russa, la gente di destra è deficiente. Quando hai poco cervello sei di destra: è naturale! Sono deficitari di cultura vera. È fascista? Poverino, penso però che sia più fascista la Roccella di lui". E ancora: "Bisogna ridere quando parla. Non dovrebbe essere là, ma a fare il fascista nelle fiere di paese". Sulla Roccella, poi, "è l'esempio più infimo di fascismo moderno". Dopo tutti questi insulti il fotografo milanese non si è mai scusato, anzi: si è sempre detto orgogliosissimo delle sue affermazioni. Ormai l'81enne polemista non si rende minimamente conto delle enormità da lui pronunciate con imbarazzante disinvoltura. Il suo modo di giudicare le persone che lo circondano è lo stesso con cui per anni ha utilizzato la macchina fotografica: peccato che dallo shockvertising delle sue opere artistiche al bullismo dei suoi vergognosi insulti, il passo è stato piuttosto breve.

Toscani senza freni: dalle Iene alla Gruber e dalla Parietti a Porro Tutti i bocciati in tv. Nicola Santini su L’Identità il 2 Febbraio 2023.

Il fotografo Oliviero Toscani è indignato per la “spettacolarizzazione di tutto” della contemporanea Società dell’Informazione e si lamenta dei più noti volti della TV italiana. Parlando senza freni si è fatto portavoce di un sentore un po’ diffuso ma che spesso resta timidamente celato dietro parole più soft o si limita a commenti sui social.

In un’intervista pubblicata oggi dal magazine MOW (mowmag.com) il noto fotografo commenta gli ultimi fatti d’attualità, tra cui la comunicazione che si cela dentro alla partecipazione del capo del governo ucraino, Zelensky, la settimana prossima durante l’evento nazionale trasmesso da Rai1: “Italia fondata sul Festival di Sanremo”.

La faccenda Zelensky in effetti ha spaccato in due il pubblico. Chi lo vede estremamente fuori luogo, chi lo vede come parte di quel circo mediatico che è ormai la tv generalista, dove tutto è incluso nel tutto e dove a un festival che dovrebbe trasmettere leggerezza e concentrarsi sulle canzoni e sugli artisti in gara, si va ad inserire un tema già ampiamente diffuso nel resto della tv.

Sul magazine lifestyle del gruppo AM Network, il noto fotografo esprime anche un lapidario giudizio nei confronti della TV italiana e dei principali conduttori delle trasmissioni nazionali, partendo da un ricordo personale: “mio padre lavorava al Corriere, sono nato in mezzo all’informazione e mi danno fastidio questi che si fanno chiamare giornalisti in televisione. Non sono mica giornalisti. Come si chiama quell’imbecille su Rete 4 con i polsini slacciati? Porro. Mica è un giornalista! Ragazzi, ma anche voi giornalisti non vi incazzate? Questi sono dei ballerini dell’avanspettacolo, è vergognoso. Anche Striscia la Notizia è vergognosa.”

Nell’intervista su MOW, e in cui il magazine si dissocia dalle crude dichiarazione del fotografo, Oliviero Toscani affronta anche una propria recente diatriba circa alcune vecchie fotografie degli anni 90, con l’insistente trasmissione “Le Iene” di Mediaset: “Non ho voglia di parlare con Le Iene. Li odio. Non sopporto la spettacolarizzazione dell’informazione”, aggiungendo un proprio commento anche sulle altre emittenti dell’informazione televisiva italiana: “In televisione non conosco nessuno di interessante. E tutte queste Barbie Doll che danno le notizie, dalla Gruber in poi… Parlano di cose serie, e c’è sempre una Parietti che deve dire la sua. Se non c’è la figa di mezzo, ragazzi…”

Da liberoquotidiano.it il 2 Febbraio 2023.

Oliviero Toscani indignato. Il fotografo se la prende con la "spettacolarizzazione di tutto". E più in particolare con la tv italiana. "Mio padre lavorava al Corriere, sono nato in mezzo all’informazione e mi danno fastidio questi che si fanno chiamare giornalisti in televisione", esordisce in un'intervista al magazine Mow prima di lasciarsi andare a offese personali. Vittima? Nicola Porro.

 "Non sono mica giornalisti. Come si chiama quell’imbecille su Rete 4 con i polsini slacciati? Porro. Mica è un giornalista! Ragazzi, ma anche voi giornalisti non vi incazzate? Questi sono dei ballerini dell’avanspettacolo, è vergognoso. Anche Striscia la Notizia è vergognosa".

Il suo atteggiamento nei confronti di Mediaset non è nuovo. Qualche giorno fa a Le Iene, programma di Italia 1, è stato trasmesso un servizio che lo mette in serio imbarazzo. Il motivo? Il famoso scatto simbolo di una nave carica di migranti che cercava di lasciare Durazzo in Albania per raggiungere Bari non sarebbe sua. A scattarla un fotografo albanese, Gani Xhengo, all'oscuro di tutto.

E dopo aver urlato contro le telecamere della trasmissione, Toscani rincara la dose: "Non ho voglia di parlare con Le Iene. Li odio. Non sopporto la spettacolarizzazione dell’informazione". Per lui "in televisione non conosco nessuno di interessante. E tutte queste Barbie Doll che danno le notizie, dalla Gruber in poi… Parlano di cose serie, e c’è sempre una Parietti che deve dire la sua. Se non c’è la f**a di mezzo, ragazzi...".

Da iene.mediaset.it l’1 Febbraio 2023.

Ricordate il famoso scatto simbolo di una nave carica di migranti che cercava di lasciare Durazzo in Albania per raggiungere Bari? È sempre rimasto legato alle campagne Benetton e al nome di Oliviero Toscani. Sarebbe opera però di un fotografo albanese, Gani Xhengo, all'oscuro di tutto. Antonino Monteleone lo incontra per noi e lui parte dai suoi negativi del 1991. Toscani invece non ci accoglie benissimo

I segreti di Oriana Fallaci: l'autobiografia inedita, il racconto partigiano, le versioni alternative di romanzi e saggi. Domani a Firenze si inaugura l'archivio della giornalista. Sarà consultabile, così come la sua biblioteca privata. È ora di studiare le opere della Signora per il loro valore letterario. Alessandro Gnocchi su Il Giornale il 19 Settembre 2023

Quando esplode il problema dell'immigrazione, il pensiero della Fallaci torna di attualità. È stata la sua ultima battaglia prima di morire, nel 2006. È stata anche la sua stagione più fraintesa. La Rabbia e l'Orgoglio è una predica e va immaginata come se fosse pronunciata ad alta voce davanti a un pubblico. Quel pubblico siamo noi, altro che razzismo, la Fallaci se la prendeva con l'Occidente incapace di amarsi, disposto a rinnegare il meglio di se stesso, la libertà conquistata a fatica, la democrazia conquistata a fatica, in nome dell'accoglienza.

Troppo spesso si dimentica chi sia stata la Fallaci per tutta la sua vita anteriore al successo clamoroso della Trilogia post 11 settembre 2001. La sua lapide, al cimitero, reca un'incisione: «Scrittore» (al maschile, lei che non aveva bisogno di essere femminista e che si era fatta strada da sola in un mondo, il giornalismo, all'epoca quasi totalmente maschile).

Ormai è tempo di studiare la Fallaci collocandola accanto ai suoi maestri: Curzio Malaparte e Giuseppe Prezzolini, ad esempio. La Fallaci aveva una vasta cultura letteraria (da autodidatta) e un orecchio eccellente per la lingua: quando leggeva Kaputt, capiva perfettamente l'altezza alla quale giungeva il «toscano» di Malaparte.

Da domani, qualsiasi ricerca sulla Fallaci, in particolari la Fallaci «scrittore», dovrà partire obbligatoriamente dall'Archivio storico del Consiglio regionale della Toscana e dalla Sala Oriana Fallaci della Biblioteca Pietro Leopoldo. La Fallaci torna così nella sua amata città, Firenze, che poco le ha dato quando era in vita. È una riconciliazione postuma ma bella e importante. Il Fondo Fallaci proviene dalla abitazione della giornalista a Casole, località di Greve in Chianti. L'apertura del Fondo è accompagnata da un eccellente volume gratuito che funge, insieme, da catalogo e guida: Il cuore in Toscana: il Fondo Oriana Fallaci del Consiglio regionale della Toscana. Inventario archivistico e catalogo bibliografico, a cura di Katia Ferri, Elena Michelagnoli e Monica Valentini. Inventario archivistico di Margherita Cricchio e Agnese Lorenzini.

La parte archivistica del Fondo è di straordinario interesse. Include, tra le altre cose: la documentazione raccolta dalla Fallaci per le sue interviste e i suoi articoli; i nastri originali dei colloqui con i grandi personaggi della Storia; dossier tematici per approfondire temi come il Vietnam, la politica italiana e mondiale, le missioni aerospaziali; appunti e bozze di quasi tutte le opere letterarie con correzioni autografe. Ci fermiamo un attimo: quest'ultima è la parte in assoluto più rilevante perché consente agli studiosi di entrare nella officina della Fallaci, e quindi di capirne meglio lo stile e il modus operandi.

Non mancano: una serie di documenti e oggetti musicali, tra cui non pochi dischi di musica latinoamericana; un nastro la Fallaci stessa canta su una base musicale; la macchina per scrivere; una copia del Corano, un ampio ventaglio di documenti legati al poeta Alekos Panagulis e alla stesura del romanzo Un uomo, la storia dell'amore tra la Fallaci e il poeta greco perseguitato (e poi probabilmente ucciso) dal regime dei colonnelli; una corposa corrispondenza, anche privata, datata 1959-2006, che è il secondo motivo per cui il Fondo è una miniera insostituibile per il critico e il biografo.

La biblioteca privata è divisa in tre sezioni: opere dello «scrittore» Fallaci in tutte le lingue, dal norvegese al persiano; enciclopedie; i libri conservati a Casole, di valore notevole perché permette di curiosare tra gli interessi ma anche tra le relazioni professionali. Altro aspetto da considerare con attenzione: spesso i libri sono accompagnati da glosse e commenti.

Siamo abituati a pensare alla Fallaci dalla tempra leggendaria, capace di sfidare Khomeini o Kissinger o Arafat. I nastri ci fanno sentire una Fallaci rispettosa e amabile con Antonio De Curtis, in arte Totò o Anna Magnani o Anna Mazzini detta Mina.

Il materiale relativo alle opere della Fallaci rende l'idea di quanto fosse minuziosa e maniacale. Per ciascuna opera, disponiamo di diverse stesure, rielaborate in bozze o su fotocopie di bozze, con ritocchi a mano e, in casi estremi, con estese rielaborazioni realizzate con la macchina per scrivere. Manca, a giudicare da una prima visione della enorme mole dell'Archivio, il passaggio-chiave: la lettura ad alta voce, irrinunciabile. Quando la Fallaci era pronta a licenziare un testo, lo sottoponeva a una lettura ad alta voce, talvolta alla presenza di amici o collaboratori, per essere totalmente sicura dell'effetto prodotto. Il redattore della Fallaci viveva il momento col cuore in gola. Se la lettura era soddisfacente, si andava in stampa. In caso contrario si ricominciava da capo, cioè letteralmente dalla prima bozza. In questo gruppo di carte, c'è una sezione di inediti. Nella maggior parte, sono scritti autobiografici in forma di autointervista. Questo modo di raccontarsi era congeniale alla Fallaci, infatti sarà scelto per l'ultimo capitolo della Trilogia, Oriana Fallaci intervista se stessa - L'Apocalisse. Ci sono anche una autobiografia ragionata, un racconto, strutturato in capitoli, che narra le vicende della Formazione partigiana Lupi Neri guidata da Lanciotto Ballerini.

Gli oggetti personali svelano alcuni aspetti noti solo agli amici e conoscenti, ad esempio la passione per la cucina: la Fallaci era un'ottima cuoca e beveva l'immancabile champagne Veuve Clicquot, che ordinava a casse. Oriana poi si rilassava con il ricamo, con tanti saluti allo stereotipo della giornalista aggressiva.

Ricca di documenti intimi e privati, solo in parte utilizzati per il romanzo Un uomo, è la parte d'archivio riservato a Panagulis. Scopriamo così il titolo di lavorazione, completamente diverso: Fratello mio, compagno del deserto. Fratello mio, compagno della solitudine. Due autointerviste dattiloscritte celebrano Panagulis a un anno dalla morte e l'imminente pubblicazione di Un uomo.

Il romanzo dalla lavorazione più tormentata è Insciallah, uscito, come quasi tutti i libri della Fallaci, da Rizzoli nel 1990. Ci sono bozze, fotocopie di bozze, post it con appunti, correzioni di ogni tipo e un inserto di pagine annotate da integrare nel testo ma non è chiaro in quale punto del libro.

Le bozze di Lettera a un bambino mai nato sono accompagnate da un intervento sull'uso degli anticoncezionali. Nella sezione delle interviste, inoltre, si incontrano numerosi pareri di medici sulla coscienza del feto, la fecondazione in vitro, le malformazioni.

La Rabbia e l'Orgoglio, il battagliero articolo sui fatti dell'11 settembre, spaccò il pubblico in due. Presto, la predica diede vita al primo dibattito nazionale sui temi del politicamente corretto. La Fallaci si infuriò con il Corriere della Sera che fece marcia indietro ospitando articoli critici di Tiziano Terzani e Dacia Maraini. Lo ritenne un grave sgarbo. Nella corrispondenza, però, troviamo le lettere di chi volle complimentarsi con Oriana: Giovanni Sartori, Giuliano Zincone, Antonio Perazzi, Raf ed Elena Vallone, Liliana Cavani e tantissimi altri.

Credo di poter spiegare l'origine di alcune revisioni della Forza della Ragione databili dopo il 2004: potrebbero essere, viste le date, le carte preparate per la pubblicazione sul quotidiano Libero, allora diretto da Vittorio Feltri. Per aggirare le grane con Rizzoli, editore ufficiale della Fallaci, Libero, con l'assenso ovviamente dell'autrice, pubblicava finti estratti a mia cura. Si partiva dal testo a stampa ma poi la Fallaci riscriveva quasi tutto. Sono, a mio avviso, testi da valutare come inediti, inclusa una lunghissima intervista attribuita a un prete polacco. In realtà la Fallaci scrisse sia le domande sia le risposte: era un altro escamotage per evitare grane col copyright. Credo che la Rizzoli fosse al corrente della cosa ma non importa, la Fallaci voleva mantenere, per quanto possibile, la segretezza della sua collaborazione attiva con Libero.

Le autointerviste biografiche rispondono a necessità diverse, ad esempio, offrire dati corretti agli studenti con tesi di laurea sulla Fallaci. C'è però la prima stesura di una autobiografia, e sono 116 carte, con una attenzione privilegiata per la propria formazione culturale e la carriera giornalistica. Il progetto doveva essere consistente: esiste infatti anche un secondo faldone di 109 carte. Perché l'autobiografia non andò mai in porto? Si può ipotizzare che venisse assorbita dal romanzo che tenne impegnata la Fallaci per oltre un decennio, Un cappello pieno di ciliege. Uscì postumo nel 2008 ed è una storia leggendaria della propria famiglia, a partire dal 1773. Il libro era incompleto. In teoria, la conclusione doveva essere ambientata durante la Resistenza (e qui viene in mente l'altro inedito, il racconto sui partigiani).

Oriana Fallaci, Vittorio Feltri: "Intrattabile e geniale. Come ha travolto la mia vita". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 22 giugno 2023

Tra le tracce proposte per il tema di maturità, a sorpresa, una era dedicata a Oriana Fallaci: ai 536mila candidati è stato chiesto di commentare un brano tratto dal suo libro «Intervista con la storia». Anche Vittorio Feltri, amico per molti anni della scrittrice, si è messo nei panni degli studenti per raccontare la sua Oriana Fallaci

Oriana la vidi, più che la conobbi, per la prima volta all’inizio degli anni Ottanta, quando scriveva le sue interviste colossali e interminabili, che erano quasi dei romanzi, a personaggi come Khomeyni, capo spirituale e politico iraniano dal 1979 al 1989, Gheddafi, leader assoluto della Libia, e gentaglia simile. Fallaci, non essendo una giornalista ordinaria, non è che vergasse la dannata intervista e la mandasse attraverso gli stenografi o il fax. Il suo dattiloscritto non viaggiava mai da solo. Giungeva in redazione insieme alla sua autrice, che si fermava in via Solferino fintanto che il suo articolo non fosse stato impaginato con il titolo che decideva lei, nel modo in cui voleva lei, quando lo stabiliva lei. E noialtri tutti zitti e mosca. 

A un dato momento compariva al primo piano di via Solferino, dove si creava una confusione da manicomio. «Oddio, c’è la Fallaci», si udiva riecheggiare nei corridoi «si salvi chi può». Arrivava come una dea e una tiranna e metteva a soqquadro il quotidiano. Si scatenava la guerra una volta che Oriana varcava la soglia dello stanzone albertiniano, una copia di quello del Times, dove c’erano le postazioni dei giornalisti, alcuni dei quali dovevano dedicarsi esclusivamente a lei. Uno di questi era il malcapitato Sandrino Rizzi, caposervizio degli esteri, la vittima prediletta di Oriana, la quale, forse non ricordandone mai il nome, gli aveva affibbiato un nomignolo alquanto mortificante, soprattutto per un uomo: «Cosino».

Rizzi, da parte sua, non osava ribellarsi o protestare. Non appena udiva la mitica sospirare: «Cosino, vieni qui», Sandrino trottava, si precipitava, accorreva, al fine di soddisfare qualsiasi capriccio di Oriana, che se la prendeva anche con le virgole. Dalla mia scrivania, muto, osservavo le grandi manovre fallaciane e queste scene un po’ divertito e un po’ sconvolto. «Questa donna è una calamità» pensavo. Lo spettacolo si protraeva fino alle 23. A un certo punto sembrava arrivare la tregua quando l’articolo era ormai impaginato. Macché. Era tutta una diabolica finta.

Mentre si rileggevano in religioso silenzio i bozzoni delle pagine umidi e odoranti d’inchiostro, all’improvviso si udiva un improperio. Era Oriana, che era riuscita a ravvisare persino in questa fase qualcosa fuori posto, da rifare, da sistemare, da correggere seduta stante, mandando tutti in crisi psicomotoria. Alle due del mattino, cascasse il mondo, il giornale si chiudeva. Oriana Fallaci saltellante e vispa come un grillo, lanciata un’occhiata di commiserazione a noi poveri amanuensi, raccattava cappotto e borsetta, scendeva a passo svelto lungo lo scalone e, inghiottita da un’automobile, svaniva nella notte insieme ai nostri incubi.

L’INCONTRO

L’indomani il Corrierone con la perla di Oriana in apertura di prima pagina era preso d’assalto in edicola. Oltre un milione di copie vendute. La stampa di mezzo mondo che riprendeva la prosa della matta e ne faceva oggetto di dibattiti che duravano settimane. Allora i giornalisti, orgogliosi di avere partecipato alla costruzione del capolavoro di successo, e godendo di riflesso della gloria di Oriana, si davano di gomito: «Però, la matta ha colpito ancora». Fu durante una di quelle notti infernali che Fallaci entrò nella mia vita.

Nel 1981, o’82, una sera, saranno state circa le 22, dunque ancora nella viva fase di elaborazione di un suo articolo, mentre Oriana era indaffarata, intenta a cambiare un aggettivo, a togliere una virgola, a metterne un’altra, fumando come una ciminiera, a un certo punto si accorse di avere finito le sigarette. Sul suo viso lessi per un istante un lampo di disperazione. Ma non si perse d’animo e, dopo essersi guardata intorno con una rapida occhiata per scorgere qualcuno che fumasse, come un falco pose i suoi occhi su di me, che avevo un pacchetto di Muratti sulla scrivania, poggiato accanto alla Olivetti portatile. E in un soffio me la ritrovai dinnanzi alla postazione di lavoro a me riservata: «O te, bel giovane, mi offriresti una sigaretta?». «Prego» risposi, porgendo un intero pacchetto che avevo estratto dal mio cassetto appositamente per lei.

Oriana, risollevata, anzi contentissima come una bimba, tornò al suo meticoloso lavoro di cesello sul suo pezzo. Sennonché, fumando una cicca dietro l’altra, dopo un’ora e mezza aveva già prosciugato le ultime riserve che le avevo procurato. Era un fumo nevrotico il suo. Rieccola lì, parata davanti alla mia scrivania. «Ne hai altre?» mi chiese. «Non ho più pacchetti, ma te ne do alcune delle mie.» Ne estrassi tre o quattro per me e le lasciai il resto. Afferrò il tutto e, prima di girare i tacchi, commentò: «Le Muratti non sono buone, pizzicano in gola». «Cambierò marca» replicai. «Bravo, vedo che le idee intelligenti non ti mancano».

Alcuni anni dopo passai dal Corriere della Sera alla direzione dell’Europeo, il settimanale che aveva lanciato Oriana. Chiamò in redazione chiedendo del direttore. Risposi. Fallaci mi salutò cordialmente, dicendo che le avrebbe fatto piacere incontrarmi per conoscermi di persona. Combinammo l’appuntamento presso il bar di un albergo, a Milano. Non appena mi vide nel luogo convenuto, Fallaci si alzò dalla poltrona e scoppiò a ridere. «Ma tu sei il bel giovane delle Muratti!». «Sì, sono io. Ma adesso fumo Philip Morris». «Sei peggiorato».

Da quel giorno la nostra tribolata amicizia si intrecciò con il lavoro. Erano più numerose le liti delle conversazioni. Ogni due o tre mesi rientrava in Italia e voleva vedermi. Fallaci si sentiva quasi esiliata, ma desiderava vivere negli Stati Uniti, nel centro di New York aveva una stupenda casa in stile liberty. Insomma, il suo era un esilio volontario e dorato. Però comprendo che in patria si sentisse avversata. Oriana era amata dai lettori ma non dai colleghi, che la invidiavano per i suoi successi e non la tolleravano per la sua arroganza e il suo caratteraccio. Solo con me la brillante giornalista non manifestava atteggiamenti di presunzione, era molto carina. Mi riempiva di regali, camicie stupende, sculture per la casa.

LA PELLICCIA

Un giorno concordammo una cena in via Statuto, da Alfio. Alle 21 ero seduto al tavolo. Di lì a poco arrivò lei trafelata, con un borsone gigantesco. «È per te, Vittorio!» esclamò con entusiasmo. Ne estrasse una pelliccia di visone tra lo stupore degli avventori, che saranno stati una cinquantina, tutti attratti dalla Fallaci e soprattutto dalla pelliccia di foggia maschile. Dissimulai l’imbarazzo e cercai di manifestare gioia e qualcosa di più. Ma ero terrorizzato all’idea che, al prossimo rendez-vous, sarei stato obbligato a indossare quel capo per non offenderla. Oriana, vivendo gran parte dell’anno negli Stati Uniti, era diventata americana pure nei gusti, almeno a riguardo dell’abbigliamento da uomo. Mangiava come un uccellino: quattro granellini di riso insaporiti da una strisciolina di tartufo, tre o quattro acciughe salate, che prendeva con le dita per portarle alla bocca poiché diceva che in tale maniera le gustava di più. E beveva un vino dolce emiliano, Malvasia. Raccontava storie recitando con piglio da attrice teatrale, mimica formidabile, gusto per i dettagli, inserendo motteggi popolari e battute sferzanti. Una sera con lei di buonumore era più spassosa e sapida che al cabaret.

Spigolosa e generosa, piena di slanci, si rabbuiava per un’inezia. E non apriva più bocca se non per dire: «O te, s’è fatto tardi, portami via da qui». Durante la guerra del Golfo Oriana si era recata sul terreno dei conflitti per conto del Corriere e mi propose di essere intervistata da me per L’Europeo. Non appena rientrò in Italia, ci incontrammo a Roma. Tuttavia, forse per la nostalgia di casa che le aveva messo addosso l’atmosfera bellica, Oriana aveva fretta di rientrare a Firenze. Così dalla capitale ci spostammo nel capoluogo toscano in macchina. Ci mettemmo immediatamente all’opera. Facevo le domande, lei rispondeva, poi si pentiva. Dopo qualche ora mi ero rotto i coglioni e mi ero procurato un mal di testa pazzesco. Erano circa le 20.30 quando le venne appetito. «Oh, si mangia qualcosa?» propose Oriana. Aprì il frigo e non trovò un cazzo. Mai frigorifero fu più triste di quello. L’unico elemento che alleggeriva un minimo tanta desolazione era costituito da un barattolo da mezzo chilo di caviale. Afferrate due posate, ci nutrimmo di cucchiaiate di caviale come fosse una minestra, rimettendoci subito al lavoro.

L’intervista fu un successo. Arrivato l’inverno, Oriana invitò me e mia moglie, Enoe, a trascorrere l’ultimo giorno dell’anno in corso e il primo di quello nuovo con lei, a Greve in Chianti, località in cui la giornalista aveva una casetta bellissima. Era presente una delle due sorelle di Fallaci, Paola, con la quale Oriana litigò tutto il tempo, persino durante la cena, per motivi futili. A tavola consumammo una zuppa deliziosa. Io mi complimentai con le sorelle per la bontà di quel piatto. Non lo avessi mai fatto: Oriana si incazzò poiché non era stata lei a cucinare, bensì Paola. Tornò a essere indiscussa e indiscutibile protagonista allorché iniziò a narrarci le vicende della guerra. Fallaci non si limitava a fare il suo racconto, si levava in piedi e sceneggiava il tutto come una diva.

«TU MI EVITI!»

Dopo quel capodanno continuammo a vederci, poi nel ’92 i nostri incontri si fecero più sporadici. Io avevo assunto la direzione dell’Indipendente e per gli impegni reciproci ci perdemmo un po’ di vista. Oriana mi cercò qualche volta, io la scansai. Poi un giorno mi chiamò da New York e mi disse: «Vittorio, tu non mi vuoi più vedere perché ci ho i cancri». La rassicurai. Non era questo il motivo. Mi sembrava improbabile che avesse il cancro. Per chiunque Oriana era invincibile, una forza della Natura, indistruttibile: non poteva mica ammalarsi. Non la vidi mai piangere. «Ti voglio bene come sempre» le risposi. Oriana, però, si ammalò sul serio.

Nel ’94, quando assunsi la direzione del Giornale, Fallaci mi telefonò per congratularsi. Tra lei e Montanelli non correva buon sangue, quindi la notizia che io fossi alla guida del quotidiano da lui fondato al posto suo la allettava alquanto. Indro e Oriana discutevano spesso, del resto, con lei era facile litigare. Nel periodo in cui fondai Libero il mio rapporto con Oriana divenne più intenso di prima e lei si attaccò morbosamente a me. Allora non stava affatto bene. Penso che mostrasse la sua vulnerabilità soltanto a me, eppure la dissimulava, la travestiva, perché non c’era cosa che la inorridiva di più del fare pena. Mi chiedeva consigli, alcuni dei quali non ero in grado di darle: sui rapporti con gli editori, sui diritti d’autore, in generale, sui suoi affari. Spesso, la sera tardi, il mio cellulare suonava e difficilmente rispondevo. Ciononostante se sul display scorgevo il suo nome, pigiavo il tasto «ok» senza esitazione. Nel fine settimana, conoscendo le mie abitudini e sapendo quindi che rientravo a Bergamo, mi chiamava direttamente a casa. Non appena affondavo la forchetta negli spaghetti, con una puntualità sconcertante, l’apparecchio squillava. «Pronto, sei te, Vittorio?» domandava con tono profondo. Minimo minimo mi toccavano trenta minuti buoni di monologo, infiorato di coloratissimi toscanismi, tra cui invettive variamente distribuite a Tizio e a Caio. Mi metteva in guardia dal pericolo costituito dall’islam radicale. Mi parlava molto male di alcuni colleghi. I suoi giudizi erano folgoranti. Le sue critiche ai politici italiani, feroci. Le sue previsioni nazionali e internazionali, pessimistiche. Con me si sfogava. A un tratto, però, mi faceva intendere che si era rotta le scatole di parlare e bruscamente si congedava. «Ora mi sono stufata, me ne vado a dormire, ci ho i cancri, vaffanculo, ciao!».

Tra il 2003 e il 2004 Oriana cominciò a scrivere per Libero e nel 2005 mi consegnò un pezzo meraviglioso, si trattava di un’intervista che aveva eccezionalmente concesso a un prete polacco. Era estate e per la prima volta il quotidiano da me fondato superò le 100mila copie. Un giorno mi attaccò con un pretesto che non ricordo, probabilmente sempre per qualcosa inerente a uno dei suoi articoli, non le andava mai a genio niente. Da New York mi mandò una lettera carica di insulti tramite fax. Fu una lite furibonda. Io feci ciò che forse non si sarebbe aspettata: le risposi a tono, dicendogliene di tutti i colori. Il fatto che l’avessi mandata al diavolo invece di allontanarla, chissà perché, l’avvicinò ancora di più a me. Non avevo reagito con odio, ma le avevo tenuto testa. Una mattina mi chiamò come se non fosse successo nulla. Presa dal desiderio di sistemare i conti, mi propose ancora una volta un acquisto immobiliare. Stavolta si trattava della sua casa di New York. «Oriana, come ti salta in mente? Io non parlo l’inglese, non prendo l’aereo, non mi muovo da Milano, cosa devo farci con un appartamento negli Stati Uniti?» le risposi. E lei rise di gusto. 

A MILANO

Gli ultimi suoi dodici mesi furono duri. Stava sempre peggio. Le telefonate dall’America erano brevi ma frequenti. «Ci ho tre o quattro cancri, Vittorio, non li conto nemmeno più». Si stancava presto, aveva il fiato corto e troncava la comunicazione: «Ora ciao ché devo morire». Che idiota ero: pensavo scherzasse e non la pigliavo sul serio. A giugno 2006 squillò il cellulare. Era lei. Mi pose un problema. «Vittorio, ho bisogno del tuo aiuto. Rientro in Italia poiché voglio morire a Firenze. Prima però faccio un salto, anzi mi trascino a Milano. E lì non so dove appoggiarmi. Non ho casa e in albergo non scendo. Mostrarmi in pubblico conciata in questo modo, con i cancri che mi divorano, non mi garba. Dimmi te, che si fa?». Non esitai a proporle la mia abitazione milanese. Accettò. Mi recai a riceverla e le feci visitare l’appartamento, che trovò di suo gradimento. Dissi a Oriana che l’avrei affidata alle cure della mia governante. «Non la voglio tra i coglioni» mi rispose serafica. Andava la sua segretaria a farle qualche lavoretto o commissione. E io stesso mi recavo a trovarla ogni pomeriggio.

Suonavo il campanello e, per aprire la porta, Oriana armeggiava dieci minuti. Entravo nella mia abitazione imbarazzato e camminavo in punta di piedi perché mi sentivo invadente. Tutto era in disordine. Mozziconi ovunque. Il 29 giugno, giorno del suo compleanno, le portai una bottiglia di Dom Pérignon, il suo champagne preferito. Oriana sembrava felice come una pasqua. Ne bevemmo un goccio, giusto per festeggiare la ricorrenza noi due soli. Intanto lei non aveva perso il vizio: continuava a fumare una sigaretta dietro l’altra, come oltre vent’anni prima faceva al Corriere, e la spegneva sul bracciolo del mio divano con una nonchalance disarmante, lasciandoci dei buchi.

Il giorno seguente mi disse: «In questo palazzo abita la signora Trussardi? Mi piacerebbe conoscerla, perché, quando mi trovavo in Medio Oriente, mi concedevo un unico vezzo: qualche goccia di profumo del suo marchio». Luisa, mia cara amica dai tempi delle scuole elementari, organizzò un magnifico pranzo per Fallaci, la quale si vestì e si agghindò per l’occasione come una regina. Era elegantissima. Indossava un abito meraviglioso, stupendi gioielli, i tacchi, in un attimo sembrava quasi avesse cancellato e dimenticato i segni dell’odiosa malattia. Come era solita fare, Oriana non mangiò quasi nulla, ma era gioiosa.

Si trattenne a Milano circa una settimana. Sbrigò le sue faccende e partì alla volta di Firenze con un’auto e un autista che le procurai io su sua richiesta. Fu un viaggio stancante persino per me che non lo feci. Durante il tragitto Oriana mi chiamò più volte lamentandosi del fatto che in macchina facesse troppo caldo e che la colpa fosse di colui che guidava, poi del fatto che facesse troppo freddo. Dopo qualche mese mi ammalai di una prostatite acuta, rischiai addirittura la vita e venni ricoverato d’urgenza in ospedale per una decina di giorni, durante i quali Oriana provò a contattarmi poiché desiderava parlarmi di qualcosa. Chiamò anche a casa mia, a Bergamo. «Ho bisogno di sentire Vittorio, Enoe, devo dirgli delle cose. Come si fa? Io ci ho pure da morire ora» sospirò affranta a mia moglie.

Non seppi mai cosa volesse annunciarmi Oriana. Ho cercato in questi anni di sciogliere questo dubbio che mi pesa dentro e mi sono convinto che forse mi volesse raccomandare di continuare la battaglia contro l’estremismo islamico.

UN SOGNO, UN SACCHETTO

Erano trascorsi tre o quattro mesi dalla scomparsa della mia amata amica, quando un mattino, verso le 4, feci un sogno. Mi trovavo in un ascensore di legno lucido, bello ed elegante. Arrivato al piano che dovevo raggiungere, si spalancò la porta e mi ritrovai in un’ampia stanza. C’era solo una piscina. Uscendo dal locale sentii una voce che cantava meravigliosamente. Era Oriana, che mi veniva incontro sorridente. Era giovane. Fresca. «Oriana, ma come canti bene, per quale motivo non mi hai mai svelato questa tua dote?» le chiesi sorpreso. In quel momento mi svegliai. Ancora disorientato ed emozionato, mi misi seduto sul mio letto, poggiando le spalle sulla testiera. E all’improvviso udii nitida una voce, era rauca come quella di Oriana: «Vittorio, Vittorio, ti devo parlare». Sì, era proprio lei. E continuava a ripetere il mio nome. «Oriana, vattene, ho paura» urlai disperato. E fu silenzio.

Di lì a qualche tempo presenziai a un convegno sudi lei. C’era anche monsignor Rino Fisichella, che le era stato vicino negli ultimi dolorosi giorni. Il prelato mi consegnò un sacchetto di plastica: «Oriana mi ha raccomandato tanto di restituirti questa roba». Il sacchetto conteneva un bicchiere e un cucchiaino, che la giornalista aveva prelevato dalla mia credenza prima di raggiungere Firenze. Le erano serviti per assumere un medicinale antidolorifico durante il viaggio. Monsignor Fisichella mi precisò che Fallaci era preoccupatissima di non farcela a restituirmeli. Così aveva incaricato lui. Nulla doveva restare in sospeso. Questa è la mia Oriana.

Oriana Fallaci: «Addio Saigon, qui ho imparato il miracolo di essere nata». Oriana Fallaci su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2023

La giornalista e scrittrice dal 1967 all’anno successivo fece tre viaggi in Vietnam come inviata. Pubblicò sul settimanale L’Europeo una serie di reportage nel 1968. Questo è l’ultimo. Questa esperienza fu raccontata nel saggio «Niente e così sia», scritto nel ‘69

Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese, sul quotidiano come su magazine storici quale fu «L’Europeo». Dal numero di «7» in edicola il 19 maggio, vi proponiamo questo pezzo firmato da Oriana Fallaci che apparve sull’Europeo nel giugno 1968. Buona lettura

GIUGNO 1968

«Ieri l’altro hanno ammazzato il deputato Bui Quang Sang, leader quarantacinquenne del partito Kuomingtang. Lo hanno ammazzato in casa, mentre scriveva una lettera seduto alla sua scrivania. Sono entrati due uomini e gli hanno sparato nel collo e nel petto, uccidendolo sul colpo, poi hanno ingiunto alla moglie di non muoversi dalla cucina e sono usciti lasciando sulla scrivania una sentenza di morte. La sentenza era scritta a macchina, firmata dal Fronte nazionale di liberazione, e diceva che Bui Quang Sang era stato riconosciuto colpevole di crimini contro il popolo, inoltre d’aver permesso a suo figlio di lavorare con la Cia. Il corpo di Bui Quang Sang è stato portato all’Assemblea nazionale, che è di fronte al mio albergo. La camera ardente è stata allestita nel salone delle conferenze, che è di fronte alla mia stanza. Le sue finestre sono proprio dinanzi alle mie, solo un piano più in basso. Così ovunque mi muova continuo a vedere il catafalco di Bui Quang Sang, il suo cadavere illuminato dai ceri».

«Ho provato a chiudere le persiane: ma il bagliore dei ceri si riflette lo stesso nei vetri. Ho provato a tirare le tende: ma il puzzo dei ceri mi raggiunge lo stesso, insieme a un altro che annuncia la decomposizione. La camera ardente resterà lì due giorni. La faccenda è particolarmente sgradevole da quando un alto ufficiale governativo mi ha confidato che Bui Quang Sang non è stato ucciso dai vietcong: la sentenza di morte è falsa e la menzogna provata. È stato ucciso su incarico di una fazione avversa alla sua poiché egli era un sostenitore della necessità di prender contatti con l’Fln per intavolare discussioni di pace. Però si dice che lo scorso agosto, durante un attacco a Quang Nam, sua città natale, i vietcong gli hanno ucciso sette membri della sua famiglia. Fra i morti, quattro dei suoi bambini. Si dice».

«Lungo il canale dondolano le san-pan dei poveri. Le sanpan sono barche dove non c’è un letto né una tavola né qualcosa che assomigli a un bagno, e i poveri ne scendono solo per fare i loro bisogni o per cercare il cibo. Da un san-pan che cade a pezzi si affacciano un vecchio, una vecchia e una bambina sui tredici anni. «Possiamo salire?», chiede il mio interprete. Il vecchio si stringe dentro le spalle, accenna un sorriso nel volto di cuoio. Ha 76 anni, si chiama Nguyen Van Hop, questa è sua moglie e questa è sua nipote Huong che vuol dire Rosa di Maggio. Fuggirono dal Nord nel 1954, dopo la Convenzione di Ginevra. Dice il vecchio: “Tornavo da pescare e sulla strada del villaggio c’è il prete che strilla: evacuare, evacuare! Perché?, dico io. E non voglio in quanto si sta bene al mio villaggio, c’è riso e pesce per tutti. Ma lui strilla evacuare e ci mette sul camion. Senza roba, senza i miei due figli, quello falegname e quello pescatore. Con noi c’è solo mia figlia che è sposata a un soldato ed è incinta di nove mesi. Dopo tre giorni le prendono le doglie e fa Rosa di Maggio, sul camion. Dopo altri tre giorni muore e ci lascia Rosa di Maggio, che non sappiamo dove trovarle il latte. Perché? Tu hai capito perché ci fece partire così? Sono 14 anni che me lo chiedo”. Poi allarga le braccia rinsecchite, affamate».

«“Sul camion lui ripeteva: siamo cattolici, non possiamo stare con loro, i vietcong sono cattivi. E si arrabbiava perché io rispondevo: a me non hanno fatto mai nulla, sono uomini come noi, non bisogna averne paura. Poi si arrivò a Saigon. Non mi piace Saigon, c’è la guerra”. La vecchia annuisce in silenzio. Prepara una radice che contiene non so quale droga, poi la fascia dentro una foglia, la ficca in bocca e la mastica: dalle labbra le cola un liquido rosso che sembra sangue. “Poi tre mesi fa viene un tale e dice: devi votare. Rispondo: per chi? Lui dice: Van Thieu. Io chi sia questo Van Thieu non lo so, però sembra che sia obbligatorio votarlo e così l’ho votato. Mia moglie voleva votare O Ci-min. Al villaggio lo chiamavano zio O Ci-min e dicevano che è un uomo buono. Però non gliel’hanno fatto votare. Perché? Non capisco. Capisco solo che la vita è stata cattiva con me, che il Vietnam è diviso e io sono di qua, i miei figli sono di là. E mia figlia è morta e quando sarò morto anch’io, morta mia moglie, Rosa di Maggio cosa farà? L’altro giorno è venuta una donna, dipinta. Ha guardato Rosa di Maggio e ha detto che non dimostra tredici anni ma sette, va ingrassata e lavata, ma se gliela do mi regala 6mila piastre. Gliela devo dare?”. “No, Nguyen Van Hop, non gliela devi dare”».

«”È quello che penso anch’io. Hai sentito, moglie? Come dicevo io”. Rosa di Maggio si arrampica sulla san-pan e ride. La vecchia mastica la sua radice e il liquido rosso le cola giù per il mento, imbrattandolo come un’emottisi. Mi ha dato appuntamento alle sette del mattino, dinanzi a casa sua. Non posso dire chi è, quale mestiere fa, dove sta: è un uomo senza volto, senza età, senza indirizzo, ogni indicazione servirebbe alla polizia per rintracciarlo e arrestarlo. È già stato arrestato, questo posso dirlo perché le circostanze in cui lo presero sono identiche a quelle di altre migliaia di uomini come lui. Un compagno aveva gettato una bomba in un bar. Circondarono il quartiere e arrestarono un parente, che non c’entrava per nulla. Poi si misero a interrogare i vicini, la domanda era sempre la stessa. “Conosci quel tipo?”. Credendo di poterlo aiutare, lui rispose sì. Gli saltarono addosso e lo portarono via. Rimase venti giorni in prigione, praticamente dimenticato. Accade spesso quando c’è una retata. Magari si ricordano di te dopo un mese, due mesi, così ti fanno un’indagine molto sommaria e ti mandano via. “Però fu orrendo lo stesso. Giorno e notte li udivo urlare sotto le torture. Giorno e notte. Che urli. Hai una reazione egoista: non soffri per loro, soffri per te stesso. Pensi: ora fa il mio nome. Nessuno fece il mio nome ed eccomi qui. Però vivo nell’incubo che mi arrestino ancora, si accorgano di aver commesso un errore”».

«”Nel Fronte di liberazione nazionale io ci sono da 22 anni, da quando si faceva la guerra ai francesi. A quel tempo l’ordine era: non collaborare coi colonialisti, lasciare le città e ritirarsi nelle campagne. Io andai nelle risaie, ma non avevamo fucili né munizioni, così dopo un anno tornai in città. Fino al 1958 la vita in città non fu brutta. Diem non era poi tremendo e noi dell’Fln si faceva poco. La gente ci chiamava ‘quelli del cosiddetto Fronte’ e poi il Fronte non era nelle mani dei comunisti. Per lo più eravamo nazionalisti, liberali, socialisti. Del resto anche oggi il capo non è un comunista, è un nazionalista. L’avvocato Nguyen Hun Tho. Poi madame Nhu cominciò a darci noia, i buddisti a fare le dimostrazioni. Ci parve un’occasione buona e ci mischiammo a loro. Ma gli americani sciuparono tutto, appoggiando i militari. Per questo odiamo gli americani. E poi li odiamo perché ci chiamano barbari, lenti, cretini, e perché sono prepotenti. E le evacuazioni? Se un villaggio è in zona vietcong, senta un po’ che cosa fanno. Mandano una compagnia di coreani, che sono i più spietati, i più crudeli, poi annunciano con l’altoparlante: ‘Fra 45 minuti daremo fuoco al villaggio. Allinearsi per i camion’. In 45 minuti che fai? Gli abitanti cercano di raccogliere le masserizie ma i coreani non gliene danno il tempo. Li spingono coi calci dei fucili, con le pedate, mentre le donne piangono, i bambini strillano. E poi c’è un’altra cosa. Nei villaggi il culto dei morti è profondo: lasciare il tempio consacrato ai morti senza neanche accendere una candela è gran sacrilegio. Spesso, prima che il camion si muova, qualcuno corre ad accendere la candela. Ma i coreani non vogliono e mentre corre lo stendono con una raffica”».

«Quando le fiamme si alzano sopra il villaggio c’è sempre qualche morto che giace, crivellato di colpi». [...] Oggi siamo stati con Barry Zorthian, il direttore del Juspao, nel delta del Mekong: a vedere i villaggi dove sono raccolti i disertori vietcong. È stata una giornata molto istruttiva, soprattutto sul signor Zorthian che è un cinquantenne di origine armena, piccolo e grasso, ciecamente convinto che gli americani possano e debbano «insegnare la civiltà a questi poveracci che non hanno mai sentito parlare di democrazia e di progresso tecnologico». Il signor Zorthian cammina come un imperatore e sorride come un papà affettuoso, indulgente. [...] I disertori erano chiusi dentro questi villaggi, che si chiamano hamlets, con le loro famiglie. Gli hamlets sono baracche circondate da filo spinato al di là del quale non si può né andare né venire. A colpo d’occhio sembrano campi di concentramento. Ho detto al signor Zorthian che mi sembravano campi di concentramento e il signor Zorthian ha risposto ma no, il filo spinato c’è per frenare i vietcong che organizzano spedizioni punitive. Ho chiesto al signor Zorthian quanto a lungo essi potranno viver così, come bestie recinte dal filo spinato, guardate a vista dagli americani, minacciate giorno e notte dai vietcong, e il signor Zorthian è tornato a parlare di democrazia, eccetera. I suoi funzionari erano meno ottimisti».

«Sono attaccati in continuazione dai vietcong e le strade su cui si spostano sono sempre minate. Il fatto è che il delta è una regione di vietcong, in alcune zone essi raggiungono il 95 per cento della popolazione, per sotterrare le mine non aspettano neanche la notte e... Un funzionario stava dicendo così quando la jeep su cui viaggiavamo ha fatto una brusca frenata e l’autista s’è messo a gridare che quella terra rimossa, cinque metri più in là, era una mina. Lo era per davvero e siamo tornati indietro facendo bene attenzione a ripercorrere l’esatto tragitto di prima, con le ruote sulle strisce delle ruote. Sì, una giornata molto istruttiva. Una cosa ancora più istruttiva però io l’ho vista mentre col nostro aeroplanino a sei posti andavamo dalla provincia di Quang Nqai alla provincia di An Xuyen. D’un tratto nel cielo sono apparsi, neri come pipistrelli, due caccia americani. Si son gettati in picchiata su un bosco e hanno sganciato non so quante bombe. Ho chiesto chi bombardassero e il signor Zorthian ha spiegato che certo bombardavano una carovana vietcong in cerca di riso. La raccolta del riso in Vietnam incomincia a dicembre e continua fino a gennaio, è in questo periodo che i vietcong del nord invadono il delta per prendere il riso. Per loro il riso è più importante delle armi perché le armi gliele manda Hanoi attraverso la Cambogia, il riso no: il riso è tutto qui, nel delta».

«I vietcong addetti alla ricerca del riso sono 20mila. Viaggiano senza scorte e senza fucili, hanno solo le sacche da riempire di riso, e se ne vanno a piedi: per i sentieri nascosti e per i boschi. La loro marcia inizia a settembre, si conclude a marzo, si chiama battaglia del riso. È una battaglia in apparenza poetica, in sostanza condotta con criteri scientifici. Infatti i vietcong con le sacche vuote non vanno elemosinando quel riso: lo esigono dai contadini come una tassa. Ogni contadino del delta deve dare ai vietcong una percentuale di riso che oscilla fra il 30 e il 60 per cento dell’intero raccolto: in cambio i vietcong danno loro un foglio stampato dal Fronte nazionale di liberazione col quale, finita la guerra, “potranno domandare il rimborso”. Capita a volte che non tutto il riso possa essere preso. Allora i vietcong esigono il pagamento della tassa in denaro: 18mila piastre ogni quintale di riso. Non v’è contadino, nel delta, che si rifiuti. Chi non obbedisce ai vietcong per simpatia o per patriottismo, lo fa per paura: “Ho una testa sola e voglio tenermela”. Il fatto più tragico è che non solo i vietcong, anche il governo sudvietnamita requisisce il riso: per il venti o il trenta per cento. E così in certe regioni un contadino si vede spogliare dagli uni e dagli altri, a volte non gli resta nemmeno il riso necessario per sé e la sua famiglia. [...] » 

«Siamo tornati a Saigon verso sera. A Saigon abbiamo saputo che nel pomeriggio, dentro una di quelle foreste senza più foglie, c’era stato un combattimento tra una compagnia della 25esima Divisione fanteria e le pattuglie vietcong che proteggevano il ritorno al nord delle carovane col riso. Diciassette ragazzi americani eran morti, 48 eran rimasti feriti. I vietcong avevan lasciato fra i tronchi degli alberi ben 50 cadaveri. La metà di loro giaceva coperta sotto tumuli di riso. “Per capire Saigon devi metterti in testa che a Saigon, prima della guerra contro i francesi, vivevano 100mila persone; ora ne vivono 2 milioni e mezzo. Di questi, il 95 per cento son profughi: gente che ha perduto le sue radici e non ne ha trovate di nuove. Controllare i profughi è impossibile, spesso non hanno neppure i documenti. Ciò spiega perché il punto focale dei vietcong è in sostanza Saigon. A Saigon come puoi identificare con certezza un vietcong? Chiunque può esserlo: potrei esserlo io, potresti esserlo tu. È assolutamente vero che il generale Loan ha fatto cessare gli attentati a Saigon, ma c’è una cosa contro cui neppure Loan può far nulla: lo scontento che a Saigon viene alimentato dai vietcong. Hanno un terreno facile: al tempo di Diem potevi mangiare un pasto completo per cinque piastre e la prostituzione non esisteva. Oggi Saigon è un gigantesco bordello e per mangiare un pasto completo non bastano 2mila piastre”».

«”Incominciò tutto nel settembre del 1965, quando l’annuncio scosse la città: Arrivano gli americani!. Fino a quel giorno c’erano solo 10mila americani nel Vietnam. Ma all’improvviso furono 75mila e poi 100mila e poi 200mila e ora sono più di 500mila. V’erano tra loro molti civili e naturalmente gli servivano case. Si presero le case migliori pagandole 500 piastre al mese, e poi 50mila. Insieme alle case requisirono la verdura: ce l’hanno con la verdura. Fecero un contratto esclusivo col Sindacato legumi di Dalat e presto non avemmo quasi più legumi a Saigon. Ma il peggio sono le fragole. Sembra che gli americani non possano vivere senza le fragole e così non trovi più una fragola a Saigon fuorché al mercato nero. Costano quanto i gioielli: anche 500 piastre ogni mezza dozzina. Di’ la parola fragole, a Saigon, e scateni un’insurrezione”».

«L’uomo che mi parla è il direttore del SaigonPost . Ha studiato Lettere e Filosofia all’università di Firenze, sa parlare l’italiano quasi come me. Il suo giornale è governativo e non puoi certo accusarlo di sinistrismo. Continua: “Psicologicamente, culturalmente, economicamente, l’arrivo degli americani è stato un disastro. I prezzi sono saliti in modo vertiginoso: non trovi più una segretaria a Saigon. Vanno tutte con loro perché loro pagano 15mila piastre al mese. L’intera economia è sovvertita: un risciò a lambretta guadagna anche 40mila piastre al mese. Se pensi che un medico chiede 120 piastre per visita. Ieri un risciò è andato a farsi visitare dal mio dottore. Al momento di andarsene gli ha dato 200 piastre: ‘Il resto è per la mancia’. Una prostituta guadagna anche 100mila piastre al mese, il mercato nero è ormai il mercato normale. Gli antibiotici non li compri più in farmacia, li compri al Mercato dei Ladri, dove compri anche le uniformi americane, gli zaini americani, le coperte americane, le rivoltelle americane. Gli antibiotici costano un occhio e lo sai perché? Perché i vietcong ne hanno un bisogno disperato e li pagano bene. Guarda, potrei continuare all’infinito. Lo sai perché Saigon è sporca? Perché gli spazzini municipali guadagnano poco e nessuno vuol far lo spazzino. No, non ci risolleveremo mai più da questo caos. Riusciremo soltanto ad espanderlo, come una macchia d’olio, per tutta l’Asia”».

«[...] Domani lasciamo il Vietnam. Ci sembra quasi assurdo rientrare in un mondo dove si piange per un morto solo e non si sente sparare i cannoni. In un certo senso ci sembra di fuggire, disertare. Proviamo come una colpa, un rimpianto. Comprendiamo coloro che son qui da mesi, da anni, a rischiare la pelle: c’è qualcosa di magico in questo Paese, in questa città. Forse la stessa tragedia: lo spettacolo della morte ti fa sentir così vivo quando sei vivo. Dinanzi alla morte, ogni momento, ogni oggetto, ogni gesto diventano preziosi. E il cibo è più buono, l’amicizia più profonda, l’allegria più allegra. Dalla terrazza del mio albergo guardo Saigon. Così brutta, così affascinante. Le venditrici di acqua che corrono a piccoli passi sotto i cappelli a pagoda, bilanciando la merce sui piatti a stadera che pendono da una canna di bambù. I risciò che si tuffano come bambini ciechi nel traffico folle, esponendoti ai camion, al terrore. Le jeep degli americani che passano con la mitragliera spianata. Le splendide donne dai corpi sottili e dai capelli lunghi che dondolano dietro le spalle come veli neri. Le fortificazioni coi sacchi di sabbia dai quali si affaccia sempre un soldato impaurito, pronto a spararti. Gli accattoni ciechi sui marciapiedi. Le palme verdi dentro i giardini. I taxi luridi che cadono a pezzi. Gli ananassi freschi sul tavolo. Il caldo pesante che ti addormenta in un misterioso languore. Il sospetto continuo che ti sveglia i sensi e il cervello. Infine, una certa saggezza che hai conquistato. Sembra che in questi giorni, nel resto del mondo, la polemica bruci sui trapianti del cuore. La gente, nel resto del mondo, si chiede se sia lecito togliere il cuore a un moribondo cui restano dieci minuti di vita. Qui ci si chiede se sia lecito, con una bomba o un plotone di esecuzione, rubare una intera vita a un uomo che è sano. Qualcosa hai imparato in questo Paese, in questa città, in questa guerra: ad amare il miracolo d’essere nato.

Per gentile concessione di Rizzoli Proprietà letteraria riservata 2010 RCS Libri S.p.A., Milano (c) 2016 Rizzoli Libri S.p.A. / BUR Rizzoli (c) 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano / BUR Rizzoli 

LA CARRIERA DI ORIANA

Giornalista, scrittrice, prima donna inviata speciale su un fronte di guerra, Oriana Fallaci nacque nel 1929 a Firenze e nel capoluogo toscano è morta nel 2006, a 77 anni dopo una lunga battaglia contro il cancro. Fu giovanissima staffetta partigiana nelle brigate di Giustizia e libertà. Debuttò a Epoca, poi nel 1951, a 22 anni, arrivò all’Europeo dove rimase fino al 1977. Sul Corriere scrisse con regolarità dal 1979. I suoi 12 libri hanno venduto nel mondo circa 20 milioni di copie

Tommaso Labate per Corriere della Sera – Estratti mercoledì 15 novembre 2023.

«Sono in Italia per raccontare la verità sull’uccisione di mio zio Pablo Neruda perché in Cile questa verità non è apprezzata. Anche noi familiari, per quasi quarant’anni, avevamo creduto alla versione ufficiale sulla morte naturale; ma le evidenze emerse negli ultimi dodici danno ragione alla frase che mi disse mia mamma quella notte del 23 settembre 1973, quando la Radio Cooperativa diede la notizia della sua scomparsa, alla Clinica Santa Maria di Santiago del Cile. 

Lo disse d’istinto: “A tuo zio lo mataron, l’hanno ammazzato”». L’avvocato Rodolfo Reyes parla mentre cammina per quelle stesse vie dell’Isola di Capri che lo zio Pablo, fratello del padre, aveva conosciuto nel 1952. Con lui ci sono la collega (e compagna nella vita) Elisabeth Flores e lo scrittore Roberto Ippolito, autore di un libro-inchiesta (Delitto Neruda, Chiarelettere) in cui le prove a carico della tesi dell’omicidio del Premio Nobel sono anticipate una per una, che rivela «ogni dettaglio della morte del poeta e dimostra la falsità della versione ufficiale che la attribuisce al cancro».

Avvocato Reyes, lei quanti anni aveva quando morì suo zio?

«Ventiquattro. Eravamo in pieno colpo di Stato, il Cile era nel caos, Pinochet aveva preso il potere. Dodici giorni prima avevano ucciso Salvador Allende e poi il cantante Victor Jara. Rimaneva una sola grande icona internazionale da far tacere per sempre: Pablo Neruda».

Quando l’aveva visto l’ultima volta?

«Qualche mese prima, l’ultimo sabato del marzo 1973, eravamo andati con mio papà e mio fratello a trovarlo nella casa di Isla Negra. Gli avevamo portato una fotografia che risaliva alla campagna delle presidenziali di tre anni prima. La moglie, Matilde, guardando quello scatto gli aveva detto: “Pablo, è l’unica foto in cui sei uscito bene”. Lui prese la foto e scrisse: “Isla Negra, marzo 1973: A los nuevos Reyes, un viejo Reyes” (“Ai nuovi Reyes, da un vecchio Reyes”, il suo cognome all’anagrafe, ndr)».

Era malato terminale di cancro alla prostata, come scritto poi sul certificato di morte?

«No, stava bene. Era un po’ lento nel parlare e nel camminare ma secondo i medici avrebbe potuto sopravvivere altri sei anni».

A marzo suo zio temeva il golpe?

«Mi aveva regalato una copia del libro che aveva appena finito, Incitación al Nixonicidio y alabanza de la revolución chilena, contro Nixon e in lode alla rivoluzione. Certo, si era in piena campagna per le elezioni politiche, il boicottaggio della destra era molto forte e aveva il sostegno della Cia, di Kissinger, della Casa Bianca; ma di un colpo di Stato forse no, non riusciva a capacitarsi. Consideri che Pablo e Allende erano legatissimi: nel 1970 mio zio era stato proposto per la presidenza del Cile dal Partito comunista ma era stato felicissimo di fare un passo indietro quando il nome di Allende, socialista, aveva reso possibile la coalizione dell’Unidad popular, che poi avrebbe vinto le elezioni». 

(…)

23 settembre 1973: la radio dà la notizia della morte di Neruda. Che cosa succede dopo?

«Mio padre Rodolfo, che stava male, mi disse di andare nella Clinica Santa Maria tenendo gli occhi molto aperti, soprattutto per dare sostegno alla zia Laura (l’altra sorella di Pablo e Rodolfo senior, ndr) e a Matilde. Il corpo era appena stato frettolosamente portato via e poi abbandonato in un corridoio fuori dalla cappella; lo avrebbero recuperato la mattina dopo grazie all’insistenza di Matilde, che pretendeva di portarlo a casa, alla Chascona. Seduta su una panca, disse: “Voglio portarlo a casa, voglio che il mondo sappia!”. Alla fine riuscì a farselo consegnare». 

Lei vide il corpo di suo zio Pablo?

«La mattina dopo, quando arrivai alla Clinica, poco prima che lo portassero via. La bara era aperta ma si vedeva solo la testa. Quando arrivammo alla Chascona, trovammo la casa totalmente devastata, i quadri sfregiati, i materassi tagliati». 

Erano stati gli uomini di Pinochet?

«Sì. Era tutto allagato. Per far entrare la bara in casa fummo costretti a usare delle assi di legno e a passare dal garage».  

L’inchiesta sull’omicidio di Pablo Neruda si apre grazie a una querela del Partito comunista, nel 2011, e alle rivelazioni del suo autista, Manuel Araya.

«Quando venne ucciso mio zio Pablo stava per andare in Messico con un aereo messo a disposizione dal presidente Luis Echeverria, che aveva pianificato il viaggio dopo il golpe di Pinochet. Sabato 22 settembre il volo era pronto sulla pista dell’aeroporto di Santiago. Fu mio zio a dire di voler rimanere in Cile anche la domenica 23 per poi partire per Città del Messico lunedì 24.

Il giorno prima aveva mandato Matilde e l’autista Manuel Araya a Isla Negra a prendere delle cose che avrebbe dovuto portare con sé. Poi fece dalla clinica la telefonata rimasta segreta per molti anni e rivelata da Manuel, in cui disse che gli avevano fatto un’iniezione nella pancia e che si sentiva improvvisamente molto, molto male. Dopo aver esaminato tutte le carte, come rappresentante legale dei familiari mi sono unito alla causa». 

Perché Neruda aveva deciso di ricoverarsi alla Clinica Santa Maria?

«Probabilmente faceva parte di un piano per arrivare sano e salvo all’aeroporto, che si trovava molto vicino».

Che senso aveva ucciderlo dopo che il golpe aveva avuto successo?

«Ucciso Allende, ucciso Jara, l’unica leggenda vivente del Cile conosciuta in tutto il mondo rimaneva Pablo Neruda. Che dal Messico avrebbe potuto riunire le forze democratiche per rovesciare Pinochet».

Che cosa lo uccise, secondo lei?

«Quell’iniezione nello stomaco, confermata dal buco rosso all’altezza della pancia. Sappiamo che nel corpo, riesumato a seguito della querela del 2011, all’altezza di un molare è stato trovato un batterio la cui tossina è considerata la seconda arma più letale al mondo. E adesso sappiamo anche che il clostidrium botulinum non poteva essere arrivato là con una cura dentistica, visto che quel molare non era mai stato curato; né che poteva essere presente nel terreno in cui lo zio Pablo era sepolto».

(...)

E poi che cosa cambiò?

«Tutto, a cominciare dal giorno in cui finalmente vidi il certificato di morte. C’era scritto “cachessia cancerosa cancro prostatico”. Quindi indebolimento del corpo a causa del cancro, come se fosse scheletrico. Ecco: quando morì, Pablo Neruda pesava novanta chili!».

E adesso?

«Racconto in Italia quella verità a cui il Cile non sembra interessato, sperando che il rumore arrivi fino a lì. È ormai tutto chiaro: mio zio Pablo è stato ucciso ma in troppi, a cinquant’anni esatti dalla morte, non vogliono ancora che una sentenza lo certifichi».

50 anni senza Pablo Neruda: le 5 poesie più belle. Voce degli umili e dei perseguitati, Neruda ha scardinato la poesia elitaria e raffinata e vi ha messo la vita vera. Massimo Balsamo il 23 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Ode al giorno felice

 Qui ti amo

 Sonetto LXIV

 Il figlio

 Se saprai starmi vicino

Una delle figure più importanti della letteratura latino-americana, attivo politicamente - con tanto di iscrizione al Partito Comunista dopo l’assassinio di Federico Garcia Lorca - perseguitato dal regime di González Videla e infine premiato con il Nobel per la letteratura. Pablo Neruda è stato uno dei grandi protagonisti del Novecento e ha tracciato un solco grazie alla sua capacità di scardinare la poesia elitaria e raffinata per mettervi dentro la vita vera, quotidiana. Opere umane e ideologiche, che ricavano bellezza dalle cose semplici. La voce degli umili, di pescatori e contadini, ma anche ferrovieri e minatori: Neruda ha lasciato il segno, a prescindere da tutto. A cinquant'anni dalla sua scomparsa, andiamo a riscoprire le sue cinque poesie più amate.

Ode al giorno felice

Questa volta lasciate che sia felice,

non è successo nulla a nessuno,

non sono da nessuna parte,

succede solo che sono felice

fino all’ultimo profondo angolino del cuore.

Camminando, dormendo o scrivendo,

che posso farci, sono felice.

sono più sterminato dell’erba nelle praterie,

sento la pelle come un albero raggrinzito,

e l’acqua sotto, gli uccelli in cima,

il mare come un anello intorno alla mia vita,

fatta di pane e pietra la terra

l’aria canta come una chitarra.

Qui ti amo

Negli oscuri pini si districa il vento.

Brilla la luna sulle acque erranti.

Trascorrono giorni uguali che s’inseguono.

La nebbia si scioglie in figure danzanti.

Un gabbiano d’argento si stacca dal tramonto.

A volte una vela. Alte, alte stelle.

O la croce nera di una nave.

Solo.

A volte albeggio, ed è umida persino la mia anima.

Suona, risuona il mare lontano.

Questo è un porto.

Qui ti amo.

Qui ti amo e invano l’orizzonte ti nasconde.

Ti sto amando anche tra queste fredde cose.

A volte i miei baci vanno su quelle navi gravi,

che corrono per il mare verso dove non giungono.

Mi vedo già dimenticato come queste vecchie àncore.

I moli sono più tristi quando attracca la sera.

La mia vita s’affatica invano affamata.

Amo ciò che non ho. Tu sei cosi distante.

La mia noia combatte con i lenti crepuscoli.

Ma la notte giunge e incomincia a cantarmi.

La luna fa girare la sua pellicola di sogno.

Le stelle più grandi mi guardano con i tuoi occhi.

E poiché io ti amo, i pini nel vento

vogliono cantare il tuo nome con le loro foglie di filo metallico.

Sonetto LXIV

E lì dalle tenebre mi sollevai al tuo petto,

senz'essere e senza sapere andai alla torre del frumento,

sorsi per vivere tra le tue mani,

mi sollevai dal mare alla tua gioia.

Il figlio

Così venisti al mondo.

Da tanti luoghi vieni,

dall'acqua e dalla terra,

dal fuoco e dalla neve,

da così lungi cammini verso noi due,

dall'amore che ci ha incatenati,

che vogliamo sapere come sei,

che ci dici,

perché tu sai di più del mondo che ti demmo.

Come una gran tempesta noi scuotemmo l'albero della vita

fino alle più occulte fibre delle radici

ed ora appari cantando nel fogliame,

sul più alto ramo che con te raggiungemmo.

Se saprai starmi vicino

Se saprai starmi vicino,

e potremo essere diversi,

se il sole illuminerà entrambi

senza che le nostre ombre si sovrappongano,

se riusciremo ad essere “noi” in mezzo al mondo

e insieme al mondo, piangere, ridere, vivere.

Se ogni giorno sarà scoprire quello che siamo

e non il ricordo di come eravamo,

se sapremo darci l’un l’altro

senza sapere chi sarà il primo e chi l’ultimo

se il tuo corpo canterà con il mio perchè insieme è gioia…

Allora sarà amore

e non sarà stato vano aspettarsi tanto.

Massimo Balsamo

Pablo Neruda, morto l'autista che denunciò l'omicidio da parte di Pinochet. Scomparso per i postumi di un ictus, Manuel Araya, l'autista del premio Nobel Pablo Neruda che denunciò il suo assassinio per avvelenamento da parte dalla polizia segreta di Pinochet, riuscendo ad aprire un'inchiesta ancora in corso. Roberta Damiata il 23 Giugno 2023 su Il Giornale.

È morto martedì per i postumi di un ictus all'età di 77 anni Manuel Araya, l'autista del premio Nobel cileno Pablo Neruda. Si trovava nella clinica di porto San Antonio, la cittadina dove risiedeva da tempo, a 100 km a nord di Santiago. Legatissimo al maestro, grazie a lui si aprì un'indagine sulla morte di Neruda per avvelenamento, e non per cause naturali come era stato detto. Purtroppo non saprà mai se la sua denuncia andrà a buon fine, ma grazie alle sue parole si è aperto uno spiraglio di verità che vede indagati agenti della dittatura di Augusto Pinochet.

A darne notizia solo oggi l'Ansa per voce di Elizabeth Flores, il suo avvocato di parte civile nell'inchiesta per l'omicidio di Neruda, che ha anche ricordato che è solo grazie al contributo di Araya si sono avviate le indagini sulla sospetta morte del poeta.

La misteriosa scomparsa del poeta

Per Neruda Araya rappresentava molto di più di un semplice autista, i due da sempre erano legati da una profonda amicizia e stima e fu proprio dopo la morte dello scrittore che Manuel raccontò l'incredibile vicenda che aprì poi la porta all'inchiesta ancora in corso. Quando venne colpito da un malore Neruda decise di lasciare la sua casa di Isla Negra, nella costa di Valparaiso, per ricoverarsi alla Clinica Santa Maria di Santiago e riuscire poi a spostarsiin esilio in Messico lasciando il Cile. Arrivato in ospedale, Neruda chiese all'autista di tornare alla casa di Isla Negra per recuperare documenti importanti.

Quando Araya tornò, trovò Neruda in fin di vita e il poeta gli rivelò che in sua assensa gli era stato iniettato qualcosa nella zona dell'addome. In quel momento i medici fecero uscire dalla stanza l'autista con una scusa e questo venne prelevato dalla polizia e messo agli arresti nel campo di concentramento allestito presso lo stadio Nacional.

Dopo essere stato liberato, Araya raccontò i fatti ai quali aveva assistito ma nessuno gli credette fino a quando non venne pubblicata un'intervista sulla rivista messicana Proceso, nel 2011. Fu proprio quella testimonianza a spingere il Partito comunista cileno e la famiglia a presentare una denuncia formale alla giustizia. Il corpo del poeta venne quindi riesumato e in un molare furono rinvenute tracce di veleno. "L'inchiesta è quasi conclusa con i risultati delle perizie presentate a febbraio che dimostrano in modo inconfutabile che Pablo Neruda è morto avvelenato con un'iniezione di Clostridium botulinum del tipo Alaska E43 riscontrato in un molare", ha ricordato l'avvocata Flores.

"Lui era molto orgoglioso di aver collaborato a iniziare la causa, ed era sempre presente in tutte le fasi in quanto lo sentiva come un dovere di lealtà verso Neruda - ha aggiunto- senza dubbio è frustrante che ci abbia lasciato prima che si conosca la sentenza che è avanzata lentamente nonostante tutti i nostri sforzi".

Estratto dell'articolo di Cristiano Sanna Martini per spettacoli.tiscali.it il 14 febbraio 2023.

Non si parla d'altro da mesi, […] una serie tv horror-survival considerata un capolavoro. Pedro Pascal è al centro di tutto questo, lo avevamo già visto in Narcos, nel Trono di Spade e in The Mandalorian. […] viene da una famiglia cilena di sinistra, apertamente attivista in politica a favore del presidente Salvador Allende deposto e morto nel golpe del 1973, e quindi apertamente contro la dittatura di Pinochet. Sua madre è cugina di Andrés Pascal Allende, a sua volta nipote del presidente finito suicida.

A causa di questa opposizione alla dittatura, quando Pedro aveva nove mesi, la famiglia dovette scappare dal Cile per sfuggire dalla persecuzione politica nascondendosi nell'ambasciata venezuelana e poi riparando in Danimarca. Solo in seguito riuscirono a trasferirsi negli Stati Uniti. Pedro aveva otto anni. Da lì comincia la sua nuova vita, prima come giovane atleta del nuoto, poi come studente di recitazione. Nel mezzo, il nuovo dramma: uno scandalo sanitario in cui è stato coinvolto suo padre, e il suicidio di sua madre.

[…] Oggi è un attivista per i diritti Lgbtq+, e principale sostenitore e amico di Lux Pascal, sua sorella transgender che un tempo si chiamava Lucas Balmaceda. Del fratello Pedro, Lux dice: "Nella mia transizione lui è stato un supporto fondamentale. Mi ha aiutata a trovare la mia vera identità". Oggi Lux studia recitazione alla Julliard School, una delle più selettive scuole artistiche degli Usa, e sogna di conquistare il suo spazio nello spettacolo.

Estratto dell'articolo di Sara Gandolfi per corriere.it il 14 febbraio 2023.

Le ulteriori analisi effettuate da un pool internazionale di esperti sui resti del poeta cileno Pablo Neruda hanno confermato la presenza di una tossina che ne avrebbe causato la morte il 23 settembre 1973.

 Ad affermarlo, in un’intervista rilanciata oggi dalla stampa locale, è la stessa famiglia del premio Nobel per la Letteratura, anticipando in questo modo la diffusione pubblica dei risultati ufficiali delle analisi […]

 «Adesso sappiamo che il clostridium botulinum non avrebbe dovuto essere presente nelle ossa di Neruda e che è stato assassinato nel 1973 da agenti dello Stato cileno», ha detto il nipote, Rodolfo Reyes. Il batterio era stato individuato per la prima volta nel 2017 da un gruppo di esperti che avevano avanzato l’ipotesi di un avvelenamento ed avevano messo in dubbio la versione ufficiale che parlava di un decesso derivato da un inesorabile cancro alla prostata.

 Una morte, quella di Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto (il vero nome di Neruda), avvenuta dopo appena 12 giorni dal golpe del generale Augusto Pinochet che mise fine in Cile all’esperienza democratica del presidente Salvador Allende. […]

Lunedì scorso, però, è venuta a galla la vera motivazione del nuovo rinvio al prossimo 15 febbraio (cioè a domani). Gli esperti che stanno analizzando il possibile avvelenamento — da tempo denunciato dall’autista di Neruda — sono in disaccordo. Devono stabilire se il batterio trovato nell’organismo del poeta nel 2017 è tossico, e quindi provare o smentire il suo omicidio per ragioni politiche. […]

"Neruda fu avvelenato. Ucciso dal regime cileno". Il nipote del premio Nobel rivela i risultati delle analisi: "Letale un'iniezione di botulino". Paolo Manzo il 15 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Pablo Neruda è stato ucciso. La clamorosa notizia sarà ufficializzata solo oggi dagli esperti della canadese McMaster University, dell'Università di Copenaghen e da alcuni luminari cileni che da tempo lavorano sulle spoglie del poeta ma i famigliari del Nobel della letteratura, da Madrid, la hanno già anticipata. In realtà un batterio, responsabile del botulismo, era già stato trovato nel 2017 in un molare e nelle ossa di Neruda dallo steso gruppo di esperti, smentendo la versione sempre sostenuta dalla dittatura di Pinochet del cancro alla prostata come causa della sua morte. Ora il gruppo di esperti internazionali conferma invece che i batteri trovati nei resti di Pablo Neruda «erano nel suo corpo al momento della morte», il che dimostra che è stato «avvelenato» dodici giorni dopo il colpo di stato militare dell'11 settembre di 50 anni fa.

«Finalmente sappiamo che il clostridium botulinum non avrebbe dovuto essere nello scheletro di Neruda. Cosa significa? Che Neruda è stato assassinato e che ci fu un intervento nel 1973 da parte di agenti dello stato cileno», ha detto ieri all'Associated Press Rodolfo Reyes, il nipote del poeta che, in qualità di avvocato nel caso giudiziario per la morte di suo zio, ha avuto accesso in anteprima al rapporto forense: «I test indicano la presenza di una grande quantità di botulino, incompatibile con la vita umana». Il clostridium botulinum è un bacillo che si trova nel suolo, ma il team di esperti canadesi, danesi e cileni ha concluso che «non è penetrato nel cadavere di Neruda dall'interno o dall'intorno della sua bara, ma che lo aveva già nel corpo prima di morire». La tossina può causare la paralisi del sistema nervoso e, a stretto giro di posta, il decesso. Resta ancora oggi ignoto invece come e chi abbia introdotto il botulino nel poeta. «Il proiettile fatale di Neruda è stato finalmente trovato e lui lo aveva nel suo corpo. Chi lo ha sparato? Lo si vedrà presto ma non c'è dubbio che sia stato ucciso con un intervento diretto da parte di terzi», ha dichiarato il nipote.

Gran parte della famiglia di Neruda sostiene da oltre un decennio la versione di Manuel Araya, l'ex autista del poeta, secondo il quale il Nobel fu avvelenato da un'iniezione nell'addome da parte di un agente segreto del regime che si spacciava per medico della Clinica Santa María di Santiago del Cile. Araya ha detto il mese scorso ad Associated Press che pensa ancora che se Neruda «non fosse stato lasciato solo nella clinica, non lo avrebbero mai ucciso», ricordando che, su indicazione dello stesso poeta, domenica 23 settembre sua moglie, Matilde Urrutia, era con lui alla villa per ritirare le valigie che sarebbero state poi portate in Messico il giorno dopo. A metà pomeriggio Neruda chiese loro di tornare presto ma poi morì quella stessa notte. «Non era gravemente malato, aveva solo un cancro. Certo, camminava con difficoltà, aveva dolori, ma non era ancora pronto per morire», ha detto Elizabeth Flores, l'avvocato della famiglia, parte civile nel caso iniziato nel 2011 dal Partito Comunista cileno, di cui Neruda era membro. Da parte sua, il nipote Rodolfo Reyes ha confermato il racconto di Araya: Neruda aveva programmato di trasferirsi in Messico perché dall'esilio nel paese del tequila sarebbe diventato il «grande oppositore» di Pinochet. Questo era il suo progetto ma anche il grande timore della dittatura che, per evitarlo, lo ha avvelenato. Ne è certo anche l'ambasciatore messicano in Cile all'epoca del golpe, Gonzalo Martínez Corbalá, che aveva detto ad AP di aver visto Neruda il giorno prima della sua morte, «pesava 100 chili e stava bene».

Ulteriori analisi hanno confermato la presenza di una tossina nel corpo. “Pablo Neruda è stato avvelenato da agenti dello Stato cileno”, la verità della famiglia del poeta premio Nobel. Elena Del Mastro su Il Riformista il 14 Febbraio 2023

Pablo Neruda, poeta cileno premio Nobel, morì il 23 settembre 1973 nella clinica Santa Maria di Santiago, 12 giorni dopo il colpo di Stato del generale Augusto Pinochet che rovesciò il presidente Salvador Allende. Per 40 anni, la causa ufficiale della sua morte è stato un cancro alla prostata metastatico, sino a quando il suo ex autista non ha dichiarato che era stato avvelenato, testimonianza che è stata alla base della causa intentata dal Partito comunista del Cile. E così che la sua famiglia è andata alla ricerca della verità e ha fatto una scoperta: il poeta sarebbe stato avvelenato attraverso l’iniezione del batterio clostridium botulinum. Morto dunque per avvelenamento.

A sostenerlo è il nipote del poeta, Rodolfo Reyes, in una intervista con il quotidiano “El Pais” sulla base di un’indagine condotta da un gruppo di esperti internazionali che ha analizzato il batterio trovato nel suo corpo nel 2017. “Adesso sappiamo che il clostridium botulinum non avrebbe dovuto essere presente nelle ossa di Neruda e che è stato assassinato nel 1973 da agenti dello Stato cileno”, ha detto il nipote Rodolfo anticipando la diffusione pubblica dei risultati delle analisi annunciata inizialmente per il 3 febbraio. Poi il primo rinvio che, secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, è stato giustificato dai gravi incendi che hanno colpito il Cile e mandato in tilt la connessione internet con cui il “panel di esperti” stava comunicando da remoto.

Poi è venuto fuori che in realtà la vera motivazione del nuovo rinvio al prossimo 15 febbraio. Il nipote di Neruda ha anticipato di 24 ore la diffusione della nuova verità nelle mani della famiglia. In realtà, a quanto risulta, gli esperti che stanno analizzando il possibile avvelenamento sono in disaccordo. Devono stabilire se il batterio trovato nell’organismo del poeta nel 2017 è tossico, e quindi provare o smentire il suo omicidio per ragioni politiche.

La morte del poeta sin da subito destò sospetti. Celebre la frase che pronunciò durante una perquisizione da parte dei militari: “Guardatevi in giro, c’è una sola forma di pericolo per voi qui: la poesia”. Quaranta anni doo la sua morte fu riesumata la salma del poeta dalla sua tomba sulla spiaggia di Isla Negra per consentire nuove indagini scientifiche e quattro anni dopo è stato trovato il batterio in un molare.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Geniale, sperimentatore, controverso: qual è la vera importanza di Picasso. Ha inventato linguaggi, stili, è figura dibattuta e fondamentale insieme. Ripensare all’artista spagnolo, a cinquant’anni dalla morte, significa riflettere sul senso che l’arte ha oggi.  Riccardo Falcinelli su L'Espresso il 20 ottobre 2023.

Ci serve ancora Picasso? Il quesito non suoni irriverente: ogni epoca e ogni cultura elegge i propri riferimenti e, in tempi di stravolgimenti valoriali, proprio chi è stato un pilastro intoccabile ha bisogno di essere messo in discussione. Come ha detto qualcuno: ogni tempo si inventa il suo Omero, vale a dire: ogni tempo sceglie come leggerlo, da quale angolazione. Ma è pur vero che ogni tempo decide pure se Omero vuole continuare a leggerlo o se preferisce buttarlo giù dalla torre.

Ma perché Picasso? Ricorre in questi mesi il cinquantennale della morte dell’artista spagnolo ed è il momento giusto per ripensare alla sua opera e soprattutto al suo ruolo. Picasso ha infatti incarnato, per quasi un secolo, l’antonomasia dell’arte: più di qualsiasi altro pittore o scultore è stato il sinonimo di chi, senza sosta, inventa nuovi linguaggi figurativi con una vena apparentemente inesauribile. Tuttavia è stato anche una figura controversa: maschilista, prepotente, alcuni pettegolezzi lo hanno descritto come un violento; si innamora tante volte eppure le donne sembrano strumentali e anche la sua vita genitoriale è quella di un patriarca di un mondo premoderno. Non è lì che troveremo, oggi, una risonanza. Ma allora dove? Certo, si dirà: non bisogna confondere l’uomo con l’opera. L’uomo non ci serve. Eppure, per molti, questa contiguità è fondamentale per affezionarsi alle opere. Ma allora, in un tempo come il nostro, in cui si cerca forsennatamente un rispecchiamento, in cui si accetta solo l’arte edificante, che ce ne facciamo di Picasso? Perché magari scopriamo che non ci serve più. E, in ogni caso, se anche il profano ne conosce il nome, l’unica domanda da farsi è: perché mai Picasso è ancora importante?

A soccorrerci esce in questi giorni per i tipi di Einaudi un sontuoso volume che ne ripercorre la vita e la carriera, scritto da Pepe Karmel, storico dell’arte alla New York University, nonché curatore per il MoMa. Il titolo è già un indizio: “Pablo Picasso”. Col nome e cognome per esteso e non solo “Picasso” come si firmava nei quadri. L’usanza di omettere il cognome è un tipico vezzo novecentesco coltivato soprattutto dai surrealisti. Karmel è come se volesse riportarlo tra gli umani: se il cognome isolato trasforma la persona in un’entità sovrastorica, in una firma, in un brand; il nome lo riporta nei confini di una precisa biografia: quella di Pablo Picasso nato a Malaga il 25 ottobre del 1881.

In realtà, a fronte di una fama tanto ampia, i meriti reali sono forse opachi al vasto pubblico. Anche il suo capolavoro, Les Demoiselles d’Avignon, indiscussa pietra miliare del cubismo è stato oggetto di numerose discussioni e riletture polemiche. Da una parte è stato subito evidente il debito nei confronti dell’arte non europea: è Alfred Barr, primo direttore del MoMa, a suggerire una derivazione di quei volti scomposti dalle maschere africane; dall’altra, a partire dagli anni Novanta, una scelta simile è stata sentita come una forma di appropriazione culturale. Ma Picasso è impossibile seguirlo senza metterlo sul fondale della storia.

Ha un talento per il disegno precoce e brillantissimo, ma capisce che deve metterlo in discussione: intuisce che potrebbe diventare una secca e così riparte da zero, reinventa il modo stesso di disegnare. Picasso vuole dipingere come un bambino, vuole arrivare alla fonte primigenia della creatività. Il grande malinteso è che sia un eclettico: Picasso rosa, Picasso blu, Picasso cubista o surrealista. Questo costante cambio di registro ha fatto credere a tanti che il suo merito fosse la versatilità stilistica. Non è così. Lo stile è il mezzo, mai il fine.

Nella nostra società dominata dal marketing, si diventa celebri se si ha uno stile riconoscibile: che si tratti di un illustratore, di un attore, di uno scrittore o perfino di un influencer che fa video su TikTok, viene premiato chi fa sempre la stessa cosa, rendendosi immediatamente riconoscibile. Picasso, invece, non è mai riconoscibile (a meno che non si studi a fondo la sua opera). C’è sempre un disegno in cui stupisce, perché non sembra opera sua. «Io non cerco, trovo», diceva. Sì, ma cosa? Cosa trova Picasso? La sua è una battuta, ovvio. Una presa in giro rivolta agli artisti engagé tanto amati nel ventesimo secolo; eppure è una battuta che dimostra, su quasi novanta anni di carriera, che i mutamenti di stile sono la prova di una lotta per cogliere tramite il disegno un senso più alto, esistenziale. Picasso non ha mai smesso di disegnare, fino all’ultimo. La domanda può essere allora riformulata: ci interessa ancora disegnare? E, in questo, Picasso ha qualcosa da insegnarci?

Per chi crede nei valori dell’umanesimo disegnare si configura come un necessario strumento conoscitivo: disegnare il mondo è un modo per comprenderlo. Mentre disegni qualcosa, la fai, la pensi, la mediti, la capisci. La generazione di Picasso, rileggendo il romanticismo, si convince infatti che l’arte sia il mezzo ideale per arrivare alla conoscenza di sé. E allora Picasso ci pone la domanda più radicale di tutte: nel 2023 ci serve ancora l’arte? E non mi riferisco alle pratiche mondane di andare alle mostre. Questa è solo una scusa. Aver bisogno dell’arte è qualcosa di più difficile e che ci inchioda: abbiamo ancora voglia di fare lo sforzo di conoscerci davvero? E abbiamo voglia di farlo tramite delle immagini pitturate? Parrebbe di no.

Indagini recenti rivelano infatti che il pubblico delle mostre passa circa cinque secondi davanti a ogni quadro e poi si sposta sul successivo. Cinque secondi. Che cosa si vede in cinque secondi? Che cosa si capisce? Niente. La maggior parte di chi frequenta mostre, musei e vernissage sembrerebbe farlo per dovere mondano o turistico, ma non sta chiedendo all’arte nulla di importante. L’apparente eclettismo picassiano ci impone invece di fermarci: sul quadro, ma pure su di noi. La generazione di Picasso era anche convinta che la cultura fosse uno strumento fondamentale di relazione col mondo. La vita simulata nei romanzi, nei dipinti, nei colori può farsi strumento di catarsi. Ecco, forse Picasso è stato davvero l’antonomasia di un certo tipo di arte. Non si può capire Picasso in cinque secondi. Nessuno artista lo si capisce in un tempo così breve. Tranne quelli dallo stile sempre uguale. La ragione per cui tanto pubblico ama Klimt o Van Gogh è perchè hanno uno stile riconoscibile e in una società in cui si va di corsa, questi artisti danno l’illusione di essere comprensibili in cinque secondi. In verità non li si sta capendo, ma solo riconoscendo. Come si riconosce un vip in mezzo alla strada. Ma forse c’è ancora un margine di intervento. Serve però il desiderio che la cultura sia davvero un tramite di conoscenza e non solo un aspetto del tempo libero. Chiedersi a cosa serve Picasso, significa anche chiedersi cosa vogliamo tenerci del Novecento. Sempre che se ne abbia il tempo.

Estratto dell’articolo di Emanuela Minucci per lastampa.it l'8 giugno 2023.

La pittrice Françoise Gilot, nota per essere stata la musa di Picasso, è morta a New York all’età di 101 anni. Chi conosce bene la sua storia può dire che è arrivata a questa veneranda età in salute perché ha avuto la saggezza di lasciare per prima il genio spagnolo che aveva 40 anni più di lei. 

Tra le innumerevoli donne che ha avuto Picasso (che hanno avuto crolli mentali o sono morte suicide), Françoise Gilot è stata l’unica a trovare la forza di dirgli addio prima che lui la trascinasse nel solito gorgo di cui sono rimaste vittima tutte le sue compagne. 

«Pablo è stato il più grande amore della mia vita, ma dovevi prendere provvedimenti per proteggerti. L’ho fatto, me ne sono andata prima di essere distrutta- aveva dichiarato a Janet Hawley nel libro del 2021 «Artists and Conversation» – Le altre si sono aggrappate al potente Minotauro e hanno pagato un prezzo alto».

Probabilmente si riferiva alle storie delle quattro altre famose amanti del gigante dell’arte moderna: la prima moglie di Picasso, la ballerina Olga Khokhlova, caduta in depressione dopo che lui l’aveva lasciata per Marie-Therese Walter, la sua ex amante giovanissima, morta impiccata; la sua seconda moglie Jacqueline Roque che si è sparata e l’artista Dora Maar, che ha avuto un esaurimento nervoso. 

Nata il 26 novembre 1921 a Neuilly-sur-Seine, a ovest di Parigi, da una famiglia benestante, ha seguito le orme della madre iniziando come acquarellista, prima di passare al disegno e alla pittura. I suoi genitori volevano che diventasse avvocato, ma abbandona gli studi all’età di 19 anni. 

A 21 anni era già una delle artiste più rispettate della nascente Scuola di Parigi, che raggruppava artisti francesi ed emigrati nella capitale durante la prima metà del XX secolo. Nel corso della sua carriera ha firmato almeno 1.600 tele e 3.600 opere su carta.

Françoise Gilot conosce Picasso in un ristorante a Parigi nel 1943, quando lei aveva solo 21 anni e lui 61. Amanti per 10 anni, non si sono mai sposati e hanno avuto due figli, Claude e Paloma nati nel 1947 e nel 1949. Picasso ha dipinto Francoise Gilot spesso, tra i più noti ritratti si ricorda «Femme assise» del 1949, venduto all’asta a Londra nel 2012 per 8,5 milioni di sterline. Ma forse più famosa e iconica è la fotografia scattata alla coppia nel 1948 da Robert Capa, che cattura i due su una spiaggia. Gilot ha lasciato Picasso nel 1953 e da lì in poi riprendere a dipingere, con non poche difficoltà. 

Nel 1964 pubblica il libro «La mia vita con Picasso» dove lo ritrae come un tiranno. L’artista ha fatto di tutto per impedirne la pubblicazione: le fa causa tre volte, perdendo ogni volta ma dopo l’ultima sconfitta in tribunale […] la chiamò per complimentarsi: «Congratulazioni, hai vinto. Sai che a me piacciono i vincitori». […]

Nel 1991 Françoise Gilot scrisse un libro anche sul complicato rapporto di amore-odio di Picasso con l’altro gigante dell’arte moderna, Matisse, di cui era amica. 

Gli altri due uomini della sua vita sono stati il pittore Luc Simon, dal quale ha avuto una figlia Aurelia, e il virologo americano Jonas Salk, inventore del primo vaccino antipolio, che ha sposato nel 1970 e con cui ha vissuto in California fino alla sua morte nel 1995. Gilot ha trascorso gli ultimi anni della sua vita a New York […]

Estratto dell'articolo di Emanuela Minucci per lastampa.it il 12 aprile 2023.

A lanciare la prima pietra è stato il Guardian, ritrovandosi a criticare le celebrazioni per il cinquantenario della morte di Pablo Picasso così sovrabbondanti di adulazione. E se il genio spagnolo – spirato l'8 aprile del 1973, a Mougins, in Costa Azzurra – fosse appunto un artista da stigmatizzare più che celebrare? […]   L’accusa non resta sul generico, il Guardian li elenca: un mostruoso misogino, notoriamente crudele, usurpatore culturale, «vampiro, sociopatico, narcisista che si è lasciato dietro tradimenti e suicidi». A denunciare questi giganteschi difetti è il critico del quotidiano inglese, Adrian Searle.

Quindi apre ufficialmente il dibattito che certamente non resterà confinato oltre Manica. Chiedendo a esperti, critici e altri artisti: l'indicibile trattamento che PIcasso riservava alle donne possono oscurare capolavori come la Guernica? […] no solo gli zerbini e le dee».  […] «Morirò senza avere mai amato», dichiarò un furioso Picasso a Françoise Gilot, l’unica donna che si sottrasse al massacro psicologico a cui l’artista sottopose tutte le sue conquiste femminili. Donne che furono fonte di ispirazione, legate, ognuna, ai successivi cambiamenti di stile, come rimarcò anche il mercante Kahnweiler: «Non ho mai visto un’arte così fanaticamente autobiografica. Non c’è figura femminile che non sia il ritratto dell’amata di quel momento».

Tutte le sue donne, tutte bistrattate

Pablo Picasso nacque nel 1881 a Malaga e a 19 anni si trasferì a Parigi, dove il suo talento iniziò a sbocciare. In questo contesto conobbe la sua prima musa, Fernande Olivier. […] l’incubo della gelosia di Pablo venne subito a galla obbligando Fernande a posare in esclusiva per lui. Lei accettò e divenne ispirazione, lo segui per ben otto anni, attraversando il periodo rosa e cubista, oltre ad aiutarlo ad uscire dalla depressione del periodo blu. Fernande venne abbandonata nel 1912, senza scuse: in quegli anni si affacciava il successo e la vita di Picasso iniziava a cambiare. Fernande invece morì in totale povertà nel 1966 […]

[…]  La seconda donna importante della sua vita arrivò nello stesso anno in cui lasciò Fernande, Marcelle Humbert, ribattezzata dal pittore Eva. […]  In quel periodo i suoi quadri parlano di un eros forte e con colori vivaci. Ma anche questa volta la storia finisce in modo tragico. La giovane Eva muore nel 1915 di tubercolosi. Pablo accusa il colpo e, nonostante tutto, durante la malattia di Eva si accompagna con altre donne.

[…]  nel 1917 […] ebbe occasione di conoscere una ballerina russa, Olga Khokhlova, Pablo decise di ributtarsi in un rapporto complesso a due anni dalla scomparsa di Eva. L’anno successivo decise di sposarla e nel 1921 arrivò il primo figlio, Paulo.

 La Khokhlova fu la donna che introdusse Picasso nell’alta società parigina, ma proprio questo fu motivo spesso di discussioni feroci […] Nel 1944 il pittore conobbe l’unica donna in grado di lasciarlo durante tutta la sua vita, si tratta di Francoise Gilot. Una giovane allieva ventiduenne quando lui ne aveva già sessantatré. Per Picasso sarà ancora una volta la sorgente per un nuovo impulso artistico. Da lei ebbe due figli, Claude nel 1947 e Paloma nel 1949. Anche con lei Picasso non mancò comportamenti crudeli e spesso distruttivi.

Durante le gravidanze l’artista adorava e viziava la donna e poi appena dopo il parto era solito rifiutarla. Oltretutto pretendeva che si vestisse in modo castissimo per via della sua sconfinata gelosia, mentre lui amava intrattenersi con altre donne. Nel 1953 la giovane trovò finalmente il coraggio di lasciare il grande artista, e sarà l’unica a farlo, tanto da suscitare in lui una rabbia così accecante da renderlo capace di gesti impensabili come spegnergli una sigaretta sul volto.

Oggi sono 50 anni dalla morte di Picasso: 10 curiosità sul maestro spagnolo. Carismatico ed egocentrico, il maestro spagnolo ha tracciato un solco nell'arte novecentesca grazie ad un linguaggio rivoluzionario. Massimo Balsamo l’8 Aprile 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Un nome infinito

 La prima mostra

 La tragedia

 L'arresto per il furto della "Gioconda"

 "L'orrore? Opera vostra, nazisti"

 Picasso professione poeta

 La peniafobia

 Corrida y flamenco

 Un artista donnaiolo

 Aste da record

Un genio carismatico, impegnato politicamente, testardo ed egocentrico. Pablo Picasso è stato uno dei più grandi artisti del Novecento, se non il più grande, ancora oggi punto di riferimento per tanti, tantissimi giovani. La sua arte audace e trasgressiva ha tracciato un solco tra la tradizione ottocentesca e l'arte contemporanea: uno spirito poliedrico e un linguaggio pittorico rivoluzionario che gli ha permesso di diventare il massimo rappresentante del cubismo.

Nato a Malaga il 25 ottobre 1881 e scomparso a Mougins l'8 aprile 1973, Picasso è conosciuto dai più per il suo capolavoro più iconico: "Guernica" è un'opera senza tempo, fatta di volti deformi, corpi sfatti e cavalli moribondi per riflettere l'insensatezza della guerra e la sua distruzione. Ma non è tutto, basti pensare che lo spagnolo è nei Gunness dei Primati come pittore più prolifico con oltre 13 mila tra dipinti e disegni e oltre 100 mila tra incisioni e litografie, senza dimenticare le 300 sculture. Ma ci sono alcuni aspetti della sua vita che non tutti conoscono: ecco 10 curiosità sul maestro andaluso.

Un nome infinito

A fine Ottocento è consuetudine battezzare i neonati con il nome dei nonni e del santo del giorno. I genitori di Pablo Picasso - don Josè Ruiz Blasco e Maria Picasso y Lopez - vanno oltre, con un nome chilometrico: Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Mártir Patricio Clito Ruiz y Picasso.

La prima mostra

Pablo Picasso firma il suo primo dipinto - "El picador amarillo" - ad appena 9 anni, evidenziando una grande padronanza della composizione e del colore. La prima mostra, invece, risale al 1895: all'età di 13 anni espone le sue realizzazioni in uno stabilmento di calle Real de Coruña.

La tragedia

Uno degli eventi che hanno segnato la vita di Pablo Picasso risale al 1901: il suicidio dell'amico pittore Carlos Casagemas, al suo fianco prima a Barcellona e poi a Parigi. Una delusione d'amore terminata in tragedia, un duro colpo per l'artista di Malaga. Da qui il periodo "blu", con opere cupe e temi oscuri come prostituzione e povertà.

L'arresto per il furto della "Gioconda"

Il 21 agosto del 1911, come per magia, la "Gioconda" di Leonardo scompare dal Louvre. Tra gli arrestati anche Picasso e l'amico scrittore Guillaume Apollinaire. Qualche anno prima, i due si erano limitati a comprare dei manufatti di arte iberica, sottratti al museo dalle mani svelte di Joseph Géry Pieret. Dopo un processo farsa, nessuna conseguenza: rilasciati con poco più di una ramanzina.

"L'orrore? Opera vostra, nazisti"

Nel 1937 gli aerei tedeschi radono al suolo con un bombardamento la cittadina basca di Guernica. Da qui il grande capolavoro di Picasso, già noto per aver dato rifugio a tanti antifascisti. Poco tempo dopo, il pittore incontra a Parigi l'ambasciatore tedesco e alcuni soldati nazisti. "Avete fatto voi questo orrore, maestro?", la loro domanda. La risposta è perentoria: "No, è opera vostra".

Picasso professione poeta

Pittore, scultore, ma anche poeta e drammaturgo. Sono infatti conservate più di 300 poesie e due opere teatrali firmate Picasso: "El deseo cogado por el Rabo" del 1941 e "Las cuatro niñas" del 1948. L'amore per la poesia sboccia a metà degli anni Trenta: "Penso che il mio lavoro come scrittore sia ampio quanto quello di pittore. Materialmente ho dedicato lo stesso tempo ad entrambe le attività", racconterà scherzosamente all'amico fotografo Roberto Otero.

La peniafobia

Un genio senza eguali, una grande personalità ma anche qualche lato oscuro come la peniafobia, ovvero la paura persistente, anormale e ingiustificata della povertà.

Corrida y flamenco

Tra le tante passioni di Picasso, l'amore per la corrida e per il flamenco. Emblematica la festa per i suoi 80 anni, del 1961: prima un tributo alla corrida con Luis Miguel Dominguín, poi un ballo scatenato nella sua casa di Mougins. Presenti tra gli altri Antonio Gades, Lucía Bosé, allora moglie di Dominguín, Paco Rabal, il pittore Manuel Ángeles Ortiz e Antonio Olano.

Un artista donnaiolo

Due matrimoni, quattro figli da tre donne diverse, decine di amanti spesso più giovani di lui: un bilancio corposo. Tra le tante innamorate, anche Françoise Gilot, una delle sue muse: passione travolgente nonostante i quarant'anni di differenza.

Aste da record

Nel 2015 la sua opera "Les femmes d'Alger" del 1955 viene venduta dalla prestigiosa casa Christie's di New York per la super cifra di 179 milioni di dollari, diventando una delle più costose al mondo. Il record verrà superato due anni più tardi dall'enigmatico dipinto "Salvador mundi" attribuito a Leonardo, acquistato per più di 450 milioni di dollari.

Picasso si elevò al cubo e gli altri pittori sparirono. Talento precocissimo e genio irrefrenabile, lo spagnolo ha segnato la cultura del Novecento. Angelo Crespi l’8 Aprile 2023 su Il Giornale.

Giusto cinquanta anni fa, l'8 aprile del 1973, nella casa di Mougins in Costa Azzurra moriva Pablo Picasso. A novantadue anni il suo corpo si era rinsecchito, ritornando esile come nell'adolescenza. Esile e affamato, lo ricorda Patrick O'Brian, autore della biografia forse più importante sul pittore spagnolo, pubblicata nel 1989, un grande classico, e oggi per l'anniversario riproposta da Longanesi (Picasso, pagg. 574, euro 13,90).

Si fa fatica a immaginare Picasso esile, certo lo si sa di non alta statura, ma non mingherlino; il suo corpaccione, spesso esibito virilmente, il petto nudo, il cranio precocemente netto, gli occhi tondi e strabuzzanti, le grosse mani quasi da contadino... è stato una presenza ingombrante nell'arte del Novecento. Non solo Picasso, per carisma e vitalità, ha spazzato via gli amici che provarono a sminuirne l'egoitca corpulenza (Soutine e Derain per esempio scherzavano sulla sue manie da nouveau riche), ma ha annichilito perfino chi tentò di cambiare il campo di gioco per non trovarselo di fronte. Pensiamo a Duchamp, inizialmente buon pittore (ma non confrontabile al fuoriclasse di Malaga) che si inventò l'arte concettuale presagendo l'impossibilità di superarlo. Solo l'altrettanto tarchiato e scattante Boccioni avrebbe potuto, se non fosse morto presto, rivaleggiare, Boccioni che Marinetti si trascinava nelle risse futuriste confidando nella sua forza fisica, oltre che pittorica e scultorea, Boccioni che di nascosto raggiungeva Parigi per sbirciare dalle vetrine i quadri di Picasso e capirne i segreti, Boccioni che con tutta probabilità avrebbe inciso con la stessa forza nel secolo Ventesimo: i pochi confronti possibili danno ragione all'artista italiano, si pensi a Materia, alla forza e all'accelerazione di linee e colori con cui dipinge la madre seduta, le mani in grembo, e il più modesto ritratto cubista del gallerista Ambroise Vollard, simile per postura, raffigurato negli stessi anni da Picasso. Gli altri pittori, invece, pur geniali, l'introverso Modigliani, l'eccentrico Dalì, il raffinato De Chirico, e poi Balthus, Bacon... tutta la schiatta degli altri cede, via via, il passo a Picasso, alla sua politropa essenza, al suo estro, alla sua capacità metamorfica, alla sua prolifica attività, quasi quarantamila opere, al suo vigore di torero mancato. Ne rimarrà uno solo.

Il corpo di Picasso, il talento assoluto e precoce, giganteggia e lo esalta O'Brian che ne segue la vita passo dopo passo, facendo un affresco della cultura novecentesca in 500 pagine fitte e di bella scrittura, insistendo sui primi anni di formazione, quelli tra il 1894, cioè dell'infanzia nella madre patria - memorabile la leggenda sul suo ingresso all'accademia di Barcellona appena tredicenne, quando sorprese gli esaminatori con due disegni compiuti in appena un'ora - e il primo viaggio a Parigi nel 1900. E poi l'exploit tra Madrid e di nuovo Parigi, e quindi l'acclamazione a partire dall'invenzione del cubismo tra il 1909 e il 1910, i vari periodi, rosa e blu, gli arlecchini, i saltimbanchi, la nature morte, i tori, la bohème e l'impegno politico, e poi le infinite opere, il capolavoro Les demoiselles d'Avignon, un vero manifesto programmatico, l'apoteosi di Guernica, simbolo della tragedia della guerra civile di Spagna, ma per traslato simbolo eterno dell'orrore di tutte le guerre precedenti e di quelle che in futuro accadranno, e con la stessa intensità lirica i quadri per dire minori, Le due sorelle, sorta di cliché che ripete l'iconografia cristiana della visitazione di Maria ad Elisabetta, in cui raffigura una madre che visita la figlia carcerata, una delle due con un bimbo in grembo, o ancora Les femme d'Alger che nel 2015 è stato battuto da Christie's per la cifra record di 179 milioni di dollari.

Ecco l'artista, poi c'è il Picasso privato: una specie di vampiro con le donne, così lo stigmatizza Alessandra Redaelli in un libro che ne narra le prodezze amorose (Forse non tutti sanno che l'arte... Vizi segreti, geniali sregolatezze e inconfessabili misfatti degli artisti più influenti di sempre, Newton Compton, 2022), violento e manipolatore, narcisista, colleziona e spreme e torce le amanti, da Olga Chochlova, la prima moglie, a Marie-Thérèse Walter che si impiccherà, da Dora Maar che impazzirà, passando per Françoise Gilot che lo descriverà nel 1964 in una sprezzante autobiografia (Life with Picasso), fino a Jacqueline Roque che si ucciderà nel 1986. A proposito, per stare in tema, Carl Gustav Jung paragonerà le opere di Picasso a quelle degli schizofrenici, in cui predominano il carattere della frattura, con linee spezzate, figure orride e grottesche.

A cinquanta anni dalla morte, resta in ogni caso, al di là della biografia, splendida e incontestabile, l'opera che in questi mesi viene celebrata in varie mostre nel mondo, a New York, Parigi, Madrid, Basilea, Bilbao: per i cultori l'occasione, a Venezia, è di vedere a Palazzo Venier dei Leoni tutte le opere di Picasso acquistate da Peggy Guggenheim (Il poeta del 1911 è l'indimenticabile quadro cubista), oppure a Milano, dove la galleria Building dal 14 aprile inaugura una piccola retrospettiva con 15 disegni compresi tra il 1905 e il 1970 che ne mostrano, forse ancora più delle tele, il percorso straordinario.

Picasso, comunista

DALL'ARCHIVIO STORICO. A cinquant'anni dalla morte di Pablo Picasso riproponiamo il ricordo scritto da Rossana Rossanda e pubblicato sul manifesto del 10 aprile 1973

Rossana Rossanda

A cinquant’anni dalla morte di Pablo Picasso (morì l’8 aprile 1973 a Mougins, in Francia) riproponiamo il ricordo scritto da Rossana Rossanda e pubblicato sul manifesto del 10 aprile 1973

Ha ragione il partito comunista di protestare che radio, televisione e giornali abbiano passato sotto silenzio l’appartenenza politica di Pablo Picasso. I fatti sono lì, e parlano chiaro: Picasso ha aderito al Pcf nel 1944 e non lo avrebbe più lasciato fino alla morte.

Aveva dichiarato allora a Pol Gaillard: «Iscrivermi al partito comunista è il logico approdo di tutta la mia vita… Questi anni di oppressione terribile mi hanno provato che occorre battersi non solo con la propria arte, ma con tutti noi stessi… Sono sempre stato un esiliato, ora ho smesso di esserlo. Finché la Spagna non potrà accogliermi, il partito comunista francese mi spalanca le braccia. Vi ho ritrovato coloro che stimo di più, i più grandi scienziati, i più grandi poeti, i bei volti dei parigini in arme che ho incontrato nelle giornate d’agosto. Sono fratelli».

Questo impegno non lo avrebbe smentito più. Anche dopo la sola esplicita protesta — nel 1956, contro l’invasione ungherese — a un giornalista americano che cercava dì tirargli fuori qualcosa di più avrebbe risposto: «Mi stia a sentire, io non sono un uomo politico. Tecnicamente, di politica non me ne intendo. Ma il comunismo difende il mio stesso ideale, e io credo che lavori per realizzarlo».

Una grande fedeltà, dunque. E tuttavia una fedeltà paradossalmente salvata da una grande presa di distanza; così grande, che il silenzio della stampa non è forse, tutto, malizioso.

Picasso entrava nel Pcf con la grande ondata al momento della liberazione di Parigi, dove aveva continuato a lavorare sotto l’occupazione, già troppo celebre perché i nazisti osassero toccarlo. Assieme a lui entravano — come sottolineava orgogliosamente l’Humanité – Federic Joliot Curie, Paul Langevin, altri.

«II nostro partito, scriveva Garaudy, ambisce a diventare l’animatore della resistenza intellettuale e morale della Francia».

Era il coronamento, del resto, d’un già lungo sodalizio con gli intellettuali comunisti, assieme ai quali aveva fondato nel marzo del 1934 il Comité de Vigilance des Intellectuels Antifascistes, il primo schieramento frontista. Vi aveva portato un nome già prestigioso: dopo che Vollard, nel 1906, gli aveva comperati i primi quadri, era iniziato un prodigioso periodo di creatività e scambio intellettuale a cavallo della guerra.

Alla fine degli anni ’20, Picasso era fra i grandi, e il nuovo impegno militante degli intellettuali non poteva non coinvolgerlo. Tanto più che col precipitare della guerra di Spagna era direttamente investito e travolto. E in quella occasione, darà come artista il massimo: la guerra antifascista e la sua Guernica sono diventati, per la nostra generazione, una identità.

E’ l’incontro più vero fra politica e cultura; davvero l’una, in quel momento, illumina l’altra. In Guernica Picasso esprimerà non solo la atrocità d’un bombardamento, ma tutto l’orrore del nostro secolo: questa identità non la ritroverà più, neppure quando parrà ancora più politicamente impegnato nei grandi affreschi sul massacro in Corea, la pace e la guerra.

E’ perché il rapporto fra il suo essere pittore ed essere antifascista è integro, completo. Dopo la Liberazione, il rapporto fra essere pittore ed essere militante fila via meno liscio. Via via anche in Francia s’affaccia il «realismo socialista», l’affare Picasso si complica.

Finiti i bei giorni in cui Garaudy poteva cavarsela dicendo: «II primo dovere d’un ingegnere comunista è di essere un buon tecnico, il primo dovere di un artista comunista è di essere un grande artista», (quello che, scherzosamente, uno storico inglese avrebbe chiamato «il secondo principio di utilità» nel rapporto fra intellettuali e partiti comunisti, il primo consistendo nell’ossequio allo sviluppo della linea).

Occorre dipingere per le masse e farsi capire da loro: Picasso può permettersi di non impicciarsi troppo nella fastidiosa querela. Quando Fadeiev gli chiederà perché si serve di forme che il popolo non capisce, ribatterà: «Ma lei è nato sapendo leggere?». «No, me lo hanno insegnato a scuola». «Ebbene fin che non insegneranno a leggere la pittura a scuola, il popolo non capirà». E assieme a Fernand Léger propugnerà la tesi, cara al Pcf, della promozione culturale delle masse attraverso l’educazione.

E’ un punto d’incontro fragile, ma lo mette al riparo da peggiori tempeste.

Man mano che il «realismo socialista» prospera, si fa più fragile la barriera che l’accorto Aragon aveva cercato di creare attorno alla cultura con Les Lettres Françaises: il Pcf costruisce un suo pittore, il disgraziato Fougeron, e chi osa attaccarlo è cacciato fuori. Non scherziamo, affermerà Lau rent Casanova, più tardi noto come liberale, «chi attacca Fougeron, attacca il partito».

Dall’Urss tuonerà contro Picasso l’incredibile Gerassimov (è l’epoca in cui Zdanov definisce Sartre «iena dattilografa»). Ma ad andarci di mezzo sarà solo Aragon, quando Lettres Françaises pubblica, in morte di Stalin, un ritratto di Picasso: uno Stalin giovanissimo, una forza naturale gaia e contadina, un baldo ragazzetto che poco ha a che fare col grande maresciallo. Picasso ha veduto in Stalin la sua speranza, i burocrati giustamente non vi si riconoscono, la segreteria del Pcf obbliga Aragon a pubblicare un feroce comunicato dì censura e piogge di lettere che esprimono «orrore e disgusto».

Solo un mese dopo Thorez, allora malato a Mosca, s’accorge che ci stanno andando troppo forte, a rischio di perdere la gloria nazionale. E l’ufficio politico fa marcia indietro.

Il fatto è che Picasso è troppo grande e troppo utile. Durante la guerra fredda ha percorso fedelmente i Congressi per la pace: «Sono per la pace contro la guerra, per la vita contro la morte». Nel 1949 regalerà al movimento comunista il suo nuovo simbolo, l’anti-Guernica, la colomba bianca della pace, soffice, dolcissima, leggermente mangereccia, che ritroveremo su piatti e foulard, manifesti e centrini da tavola.

Dietro le sue candide piume c’è tutto quel che il movimento comunista della guerra fredda è stato: una disperata resistenza, se non contro la guerra calda, contro la propria distruzione in Europa e in Asia. E la repressione nelle democrazie popolari: quella colomba, anche Slanski e Rajk l’avevano davanti agli occhi.

Il manifesto del 1949 con la colomba disegnata da Picasso per il Pcf. Il pittore tornerà a disegnare la colomba per tutta la vita, sempre più stilizzata

Picasso, forse, non saprà. Da tempo è chiuso nel sud della Francia; un tacito patto di non ingerenza intercorre fra lui e il partito. Quando, nel novembre 1956, sarà il primo firmatario d’una lettera che chiede un congresso straordinario per rimediare «al profondo disagio causato dall’infinita povertà di informazioni che l’Humanité dà sull’Ungheria», «al velo di silenzio, alle sconcertanti ambiguità, alle offese all’onestà rivoluzionaria», altri firmatari se la vedranno brutta. Non lui, che non aveva l’abitudine né di andare né di farsi chiamare a rendiconti politici. Lui sarà lasciato in pace.

Così, paradossalmente, la condizione per restare «fra le braccia della grande famiglia» è non vedersi più troppo davvicino.

Curioso comunista, dunque. Ma — avrebbe obbiettato — era colpa sua se la storicità dei partiti comunisti era altra cosa dal suo ideale, da quel comunismo principio di vita che egli insegue con le sue mani prodigiose in tutte le forme felici, dolorose, sconvolte del nostro mondo?

Questo rapporto con l’utopia comunista, Picasso lo trova da sé, nel suo essere, come nessun altro artista forse mai è stato, un ricostruttore, distruttore, stravolgitore della natura e delle cose, che fra le sue mani spremono vita e morte.

Tutti questi nostri terribili anni gli sono passati fra le mani, e sono diventati materia, e con loro la povertà, la guerra, Henri Martin come Duclos o i visi dei Rosemberg.

Che c’è di comune con altri, e pur grandi pittori, che ci hanno tradotto il mondo secondo un loro spesso affascinante registro?

In Picasso, sono le cose e gli eventi che rompono forme e registri, uomini e natura e storia, rombando di gioia, ironìa, dolore. Visitando ora è qualche anno, la sua grande mostra a Parigi — non un’esposizione, ma una vita, un mondo — «si parve che niente fosse più vicino al bisogno che avrebbe espresso il 1968, niente di più simile all’onnilateralità della produzione «comunista» intravvista da Marx.

E tuttavia, a prezzo di quale contraddizione. Comunista perché solo, perché diverso, perché infinitamente ricco. Il grido che si levava dal maggio, la richiesta di «negarsi» nella milizia, poteva forse concernerlo? E che significava quel suo prodigioso mondo di forme per la nostra lotta immediata? Tutto, perché c’eravamo tutti, con la nostra storia; niente, perché niente può oggi colmare la distanza fra le masse e questa cultura, dopo la spaccatura avvenuta il secolo scorso fra il «vedere» del proletariato e l’espressione figurativa, ennesima parcellizzazione e divisione indotte dalla civiltà del capitale.

Né basterà una rivoluzione a colmare questo abisso.

Picasso è morto solo, dipingendo, esiliato, miliardario, comunista. Quando nell’età del comunismo, qualcuno farà la storia del nostro secolo, in lui vedrà la testimonianza forse più straordinaria, certo la più potente, d’un mondo, il nostro, che ha smarrito ogni principio di unità.

Pubblicato da Il Manifesto l’8 aprile 2023

Essere come Pablo Picasso facendo un testamento solidale. L'8 aprile di cinquant'anni fa moriva il grande pittore spagnolo che lasciò un'eredità di oltre 40.000 opere andate allo Stato francese, un testamento solidale che tutti possono realizzare

DI CHIARA PIZZIMENTI l’8 Aprile 2023 su Vanity Fair 

Pablo Picasso è morto l'8 aprile del 1973, cinquant'anni fa, a Mougins, all'età di 91 anni, senza scrivere alcun testamento. Ha lasciato oltre 40mila opere d'arte, talmente tante che secondo chi fece l'inventario sarebbero state riunibili tutte insieme solo affittando l'intero Empire State Building.

Queste opere, negli anni, sono state oggetto donazioni allo Stato francese, realizzate da Maya, la figlia prediletta, interpretando il desiderio di immortalità dell'arte paterna. Pur senza averlo scritto Pablo Picasso, con la sua volontà, ha fatto un testamento solidale.

«L'anniversario della morte di Picasso ci ricorda quanto sia importante lasciare a chi resta una traccia dei propri valori, quando non ci saremo più. Non dobbiamo però credere che un lascito solidale sia appannaggio solo di persone note o particolarmente abbienti», spiega Rossano Bartoli, Portavoce del Comitato Testamento Solidale e Presidente della Lega del Filo d'Oro, «Quello che con il Comitato Testamento Solidale raccontiamo e spieghiamo ormai da 10 anni è proprio questo: basta anche un piccolo gesto per fare una grande differenza nella vita di tante persone e di intere comunità».

Chi sceglie il testamento solidale?

«Da una ricerca condotta nel 2022 da Walden Lab per il Comitato Testamento Solidale, è emerso come la notorietà del lascito testamentario sia di anno in anno sempre più in crescita. È salita infatti al 26% la percentuale di quanti hanno fatto un lascito testamentario o sono propensi a farlo, 4 punti in più rispetto al 2021 (22%) e 6 punti rispetto al 2020 (20%).In generale, c’è maggiore propensione al testamento solidale presso chi fa volontariato (36% vs 14% di chi non lo fa), frequenta riti religiosi (29% vs 18% di chi non frequenta), è un donatore (26% vs 16% di chi non dona), ha un titolo di studio alto (24% vs 17%). Potremmo dire che il profilo del “donatore tipo” emerso dalla ricerca condotta, sia quello di un ottimista consapevole, con una grande fiducia nel ruolo del Terzo Settore e il desiderio di “rimboccarsi le maniche” e non arrendersi alle previsioni pessimistiche che si prospettano all’orizzonte».

Qual è la motivazione della scelta?

«Sembrerebbe che gli eventi drammatici degli ultimi anni, in primis la pandemia e lo scoppio di una guerra a noi vicina, abbiano fatto crescere il senso di preoccupazione negli Italiani conducendo a una riflessione su ciò che è davvero importante nella vita: la salute, la famiglia, gli affetti, le cose semplici. L’aspetto interessante però è che l’ansia del futuro non ci ha resi più individualisti, anzi: rispetto agli anni scorsi, tra gli over 50 è in crescita la conoscenza del lascito solidale e la propensione a farlo. Si tratta di una scelta che non lede in alcun modo i diritti degli eredi e che può davvero tradursi in un gesto concreto per lasciare una traccia, un senso di responsabilità verso il prossimo. È anche un gesto di fiducia verso le organizzazioni del Terzo Settore che, con il loro operato, garantiscono in trasparenza che le ultime volontà di un donatore si trasformino in progetti concreti laddove ce n’è più bisogno».

Cosa serve per rendere questa possibilità più nota?

«Il Comitato Testamento Solidale è nato nel 2013, ormai 10 anni fa, proprio con lo scopo di diffondere la cultura dei lasciti solidali in Italia e offrire informazioni chiare e autorevoli a quanti decidono di intraprendere la strada della generosità post mortem. Penso che, in questi dieci anni, l’azione del Comitato e delle Organizzazioni abbia effettivamente inciso nella consapevolezza e nell’attitudine degli italiani verso il lascito solidale, lo dimostrano i dati che accennavo sopra. Nonostante questo, abbiamo di fronte ancora tanta strada affinché sia uno strumento sempre più diffuso e conosciuto».

Cosa può fare lo Stato per aiutare?

«Credo sia necessario proseguire in una direzione di generale semplificazione; quando le organizzazioni ricevono un lascito solidale, in particolare nel caso di patrimoni immobiliari, affrontano questioni spesso molto lunghe, articolate e complesse. È necessario che lo Stato favorisca lo strumento del lascito solidale, proprio trovando semplificazioni utili affinché il patrimonio oggetto del lascito sia immediatamente disponibile alle organizzazioni beneficiarie e soprattutto che a queste sia possibile alienare i beni ereditati in tempi più brevi rispetto alla situazione attuale».

Pablo Picasso e le origini del mito. Carlo Franza il 2 aprile 2023 su Il Giornale.

La mostra alla Fortezza Firmafede di Sarzana nel cinquantesimo della morte

Nel Cinquantesimo anniversario della morte di Pablo Picasso (Malaga, 25 ottobre 1881 – Mougins, 8 aprile 1973), il Comune di Sarzana con l’organizzazione di Paloma, un progetto di Comediarting, e in collaborazione con il ‘Museo Casa Natal Picasso de Málaga’, dedicano una mostra a uno dei più grandi geni del XX secolo dal titolo Pablo Picasso, le origini del mito.

L’esposizione, che si apre proprio l’8 aprile, a cinquant’anni dalla morte del Maestro, si unisce alle commemorazioni delle più importanti istituzioni e musei di Europa e degli Stati Uniti, ed è uno dei pochi progetti culturali organizzati in Italia. “La famiglia di Picasso era ligure ed è quindi una mostra che acquista anche per questo un significato ancora più profondo, si tratta di un ritorno alle origini – spiega la curatrice della mostra Lola Durán Úcar – Se c’è qualcosa che possa arrivare a spiegare la complessa personalità di Picasso è la sua passione, la sua curiosità, il suo immenso affanno di conoscere e sperimentare. Picasso utilizza un marcato e inconfondibile linguaggio pittorico, pieno di genialità, che ha rivoluzionato il ventesimo secolo, e lo ha fatto diventare un mito”.

La mostra, alla Fortezza Firmafede di Sarzana in Liguria dall’8 aprile al 16 luglio 2023, è un racconto completo del percorso artistico di Picasso. In esposizione 18 fotografie alcune realizzate da Juan Gyenes, provenienti dall’Archivio Gyenes e altre da Robert Capa oltre a litografie, acquetinte, acqueforti, puntesecche, ceramiche e il famoso dipinto Tête de femme.

L’opera grafica ripercorre l’intero percorso artistico del maestro, dalle prime opere, realizzate a Parigi, intorno ai primi del Novecento, quando cercava di farsi strada come artista fino a quelle realizzate al termine della sua vita, quando si ritirò nella villa a La Californie in Costa Azzurra e ritrasse la giovane moglie Jacqueline Roque e al contempo indagò il tema della terra e del fuoco, creando alcuni bellissimi pezzi di ceramica, molti dei quali qui esposti.

A cinquant’anni dalla scomparsa di uno dei più grandi geni del nostro tempo – dichiara Cristina Ponzanelli Sindaco di Sarzana – Sarzana omaggia Picasso con una grande mostra che l’affianca alle grandi città e ai musei d’arte contemporanea più importanti al mondo. Siamo orgogliosi di ospitare un evento come questo, che è la celebrazione di un percorso cominciato quattro anni fa e che vede Sarzana sempre più protagonista tra le città d’arte a livello nazionale e non solo. Questa proposta, che accoglierà opere e contributi straordinari, è rivolta sia ai sarzanesi che ai turisti, sempre più presenti da ogni parte del mondo, che possano riconoscere Sarzana come una gemma sempre più preziosa. L’a cultura è sempre il miglior linguaggio per raccontare una Città, e aprire la Fortezza Firmafede alla contemporaneità è la testimonianza più forte che la nostra Sarzana non si barrica nelle trincee del passato, ma recepisce e rilancia gli stimoli che l’arte è in grado di produrre. Complimenti alla curatrice e a chi ha lavorato per rendere possibile questo grande evento”.

La mostra è composta da un insieme d’incisioni appartenenti alle serie più importanti, la Barcelona Suite e la Suite des Saltimbanques, la Tauromaquia o arte de torear e Dans l’Atelier, da una selezione di ceramiche e da un meraviglioso olio Tête de femme, l’opera ispirata a una delle sue muse amanti, Dora Maar. L’allestimento è arricchito da alcune fotografie di Robert Capa e altre di Juan Gyenes, che raccontano la quotidianità del grande maestro.

Le opere grafiche. L’attività di incisore di Picasso è una delle più importanti della sua carriera. Il lavoro grafico rispecchia tutte le fasi creative dell’artista ed è proprio lì che si apprezza al meglio il suo talento tenace e appassionato. Con le serie della Barcelona Suite e la Suite des Saltimbanques, il visitatore si avvicinerà ai primi anni di creazione di Picasso, la Parigi bohémien di Montmartre, il malinconico periodo blu o il ben più dolce periodo rosa. Camminerà tra i ritratti di giovani donne, ammirerà le scene del circo e si ritroverà davanti la figura dell’Arlecchino, ripreso dalla commedia dell’arte. La tauromaquia o arte de torear, rappresentano, invece, il tema della corrida, una delle grandi passioni di Picasso. La corrida era un luogo per lui legato sia all’infanzia, quando l’artista si recava all’arena con suo padre a Malaga, che alla nostalgia per il suo Paese di origine, la Spagna. Nella prima di queste serie Picasso rende omaggio anche a Francisco de Goya, pittore che alcuni secoli prima aveva illustrato il destino di Pepe Hillo. Un’altra serie presente in mostra è Dans l’Atelier, un insieme di litografie e riproduzioni litografiche pubblicate nel 1957 a La Californie, la casa-studio che acquistò nel 1955 sedotto dal suo isolamento e dalla splendida vista sulla baia di Cannes e che ha condiviso con Jacqueline Roque. Qui arte e vita si incrociano: a La Californie Picasso studia, lavora e incontra amici e visitatori. In Dans l’Atelier vari temi concorrono e dialogano tra loro; è il caso delle nature morte, il genere più importante nella pittura di Picasso dopo la rappresentazione della figura.

La ceramica. Il carattere curioso e irrequieto porta Picasso, già uomo maturo, a cimentarsi nel campo della ceramica. Picasso si dedicò all’arte della ceramica con la passione di un bambino e l’abilità dell’artista. L’argilla come materia prima e la sua trasformazione come metodo di lavoro lo portarono alla scoperta di un nuovo linguaggio. Picasso reinventò la forma e affrontò la decorazione di vasi, piatti o mattonelle, nello stesso modo nel quale aveva potuto reinventare l’incisione o la pittura Le sue ceramiche riprendono temi già rappresentati su tela e carta. Emerge così un universo popolato di fauni, colombe, volti femminili, minotauri o corride, che abitano piatti, brocche e vasi. Senza dubbio il tema taurino, come nel resto della sua opera, finirà per essere uno dei più importanti all’interno della sua produzione ceramica.

Tête de femme. Nel corso della sua vita, Picasso sviluppò un ampio corpus di opere strettamente legate alla sua vita personale in cui le donne giocarono un ruolo decisivo. Ecco perché la presenza femminile è così frequente nella produzione artistica di Picasso, che si tratti di ritratti, nudi o idealizzazioni. Si tratta di donne identificabili, reali, che diventano muse o modelle dell’artista nel corso della relazione sentimentale. Questo ritratto raffigura Dora Maar (Henriette Theodora Markovitch), pittrice e fotografa che fu sua compagna tra il 1936 e il 1943. I biografi la descrivono come una donna indipendente, politicamente impegnata, intellettuale ed enigmatica. I due artisti condivisero un periodo di grande passione e intesa intellettuale, non privo però di forti turbolenze. Il periodo di convivenza coincide infatti con un periodo particolarmente tragico: la guerra civile spagnola e la Seconda Guerra Mondiale sono momenti di angoscia e paura, momenti convulsi che si riflettono nella pittura di Picasso. L’artista a volte la ritrae serenamente, ma altre volte ne distorce il volto, come nel caso Tête de femme che è l’ultimo di una serie di quattro ritratti realizzati il 3 giugno 1943 esposti in mostra.

  Picasso e Robert Capa. La mostra presenta una selezione di nove fotografie scattate da Robert Capa (Budapest, Ungheria, 22 ottobre 1913 – Thái Binh,Vietnam, 25 maggio 1954) alla famiglia Picasso in vacanza a Golfe Juan, in Francia, nell’agosto del 1948. Capa, che aveva conosciuto Françoise Gilot anni prima a Parigi, cattura il lato più intimo dell’artista, con la sua amata e il figlio Claude, il primo figlio della coppia. Giocano sulla spiaggia davanti alle acque calme della Costa Azzurra, passeggiano e si divertono, in istantanee che ci trasportano nei momenti più personali di Picasso, fuori dal suo studio e dal suo universo creativo.

 L’Archivio Gyenes. L’allestimento presenta una selezione di nove fotografie di Pablo Picasso provenienti dal lascito Gyenes del Museo Casa Natal Picasso di Malaga. Juan Gyenes (21 ottobre 1912 – 18 maggio 1995) fu un fotografo di origine ungherese, considerato un maestro della luce, un classico dell’arte fotografica spagnola. In questa mostra sono state selezionate alcune istantanee che corrispondono a tre incontri tra Picasso e Gyenes. Carlo Franza

Estratto dell'articolo di Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera” il 31 marzo 2023.

Picasso (Malaga, 25 ottobre 1881) aveva sette nomi poiché era credenza popolare che questo numero proteggesse il neonato. Fu battezzato come Pablo, Diego, José, Francisco de Paula, Juan Nepomuceno, María de los Remedios, Crispiniano y de la Santísima Trinidad. Pablo era il nome dello zio sacerdote morto due anni prima, gli altri erano i nomi dei nonni o dei santi patroni. Quanto al cognome, Picasso era quello della madre, di origine ligure: il suo era Ruiz.

 Era figlio del pittore José Ruiz y Blasco, insegnante alle accademie d’arte a Malaga, La Coruña e Barcellona, era quindi un figlio d’arte e ricevette una formazione classica.

Il suo primo dipinto, El picador amarillo , fu realizzato a 9 anni e mostra una perfetta padronanza della composizione. Picasso era un amante dell’Andalusia e delle sue tradizioni, tra le quali la corrida.

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Del suo rapporto da maschio alfa-alfa in canotta a righe con le donne si sono scritti interi volumi (speriamo che questo non comporti, tra poco, la rimozione dei suoi quadri dai musei): una delle sue relazioni più burrascose fu quella con la fotografa Dora Maar. Il catalogo non è breve, inutile l’elenco. Certo, pur brutto, straziò il cuore e le vite di molte: Olga morì sfrattata, Marie Thérèse si impiccò, Jacqueline si suicidò con una pistola alla testa e Dora non riuscì a superare la depressione.

Parve una insaziabile vendetta da Minotauro-Picasso per quello che aveva subito il suo amico Carlos (sebbene finì a letto pure con la Gargallo, ovviamente). Non a caso disegnò la copertina del primo numero di «Minotaure », la rivista stampata dall’editore svizzero-francese Albert Skira dal 1933.

 Fuggito dalla Spagna nel 1936, sostenne la Repubblica spagnola e nel 1937 espose a Parigi Guernica , un gesto brutale diventato icona realizzato alla notizia dello sterminio della popolazione della città rasa al suolo dal bombardamento nazista. Fu in Francia durante la Seconda guerra mondiale, partecipò alla Resistenza francese e nel dopoguerra fu fervente comunista: ricevette anche il Premio Stalin per la Pace nel 1950, sebbene questo premio oggi appaia un ossimoro. Visitò molte città in Italia quali Milano, Roma, Firenze e Napoli.

Picasso è stato uno dei pittori più prolifici di tutti i tempi. Si stima che abbia realizzato più di tredicimila dipinti, 100 mila stampe, 34 mila illustrazioni, 300 sculture e pezzi in ceramica. È stato anche poeta e drammaturgo: si conservano 300 poesie e due opere teatrali ( El deseo cogido por el rabo e Las cuatro niñas ). Nel 2015, il suo Les femmes d’Alger (versione «O», la meglio riuscita) fu battuto da Christie’s, a New York, per 179 milioni di dollari: era uno dei maggiori prezzi del mondo prima di essere più che doppiato dal Salvator Mundi attribuito a Leonardo.

In fondo è l’ultimo quadro (ce ne sono varie versioni, più o meno cubiste) di pittura orientalista fuori tempo massimo (1954-55) ispirato a Delacroix quando eravamo ormai in fase di decolonizzazione. La festa per i suoi ottant’anni, nel 1961, fu raccontata da María Teresa León in Memoria de la melancolia : forse la ribellione alla malinconia fu la sua forma di vita. Morì a Mougins, in Provenza, l’8 aprile del 1973, alla veneranda età di 91 anni: vari gli eredi e complessa la divisione dell’eredità. Per lui possiamo realmente dire che l’arte sia stata il proseguimento della vita con altri mezzi.

Estratto dell'articolo di Davide Brullo per “il Giornale” martedì 15 agosto 2023.

Leggere le lettere private di uno scrittore è un tradimento. Vuol dire colpirlo alle spalle, svelare la nudità di un dio, far svanire il mistero. […] 

In pochi hanno eletto la lettera privata a genere proprio: gli agonisti dell’egotismo - Lev Tolstoj, Gustave Flaubert, Boris Pasternak, Rainer Maria Rilke, ad esempio -, che scrivono, in fondo, sempre a se stessi e di se stessi, con il profilo rivolto ai posteri - o i santi isterici, i puri ispirati - William Blake, Emily Dickinson, Antonin Artaud, Marina Cvetaeva, per dire - che scrivono dal fondo del loro cuore, raschiando l’anima, rischiando tutto, già morti al mondo. 

[…]

Paul Verlaine non si sottrae al grigiore che regge genericamente il genere. La sua Corrispondenza - curata in due tomi da Vito Sorbello per Aragno, pagg. LIX+1145, euro 60, sarà certamente necessaria per gli studiosi che vogliano ricostruire la storia dell’uomo: al lettore dà ben poca gioia. 

Di Verlaine saggiamo la propensione servile, l’ossessione per il lavoro sicuro («Vengo a sollecitare dalla vostra alta bontà il mio reintegro negli uffici della Prefettura della Senna», scrive il poeta al prefetto, nell’agosto del 1882), le costanti insicurezze, la necessità di farsi sempre perdonare qualcosa, soprattutto dalla moglie, Mathilde Mauté, bambolina - la conosce diciassettenne, dieci anni più giovane di lui, per sposarla poco dopo - che si rivelerà bulldozer. 

Come scrive a Ernest Delahaye da Stickney, UK, «non ho assolutamente niente di interessante e di nuovo da dirti... la mia vita è follemente calma... ho atrocemente bisogno di calma».

[…] c’è poca pappa per il romanzo: Verlaine resta un uomo rasoterra. Poeta dall’orecchio musicale straordinario, capace di trarre indimenticabili tintinnii dall’ordinario, «primo poeta del Novecento, certamente quello che più degli altri apre il Moderno» (così Cesare Viviani, autore di una partecipe traduzione di Feste galanti per Guanda, 1979, poi Mondadori, 1988 e diverse edizioni Se), Verlaine è modesto quando scrive in prosa. […] 

Il vero invitato a nozze dell’epistolario, comunque, è Arthur Rimbaud. La corrispondenza, per squarci, permette di seguire l’amore vampiro del ragazzo delle Ardenne per il poeta manomesso dal giogo delle virtù borghesi. «Questa vita violenta e tutta scenate... non poteva andarmi fottutamente più», scrive Verlaine al suo ebbro amante; nel very urgent che sigilla la busta registriamo l’urgenza, piuttosto, di vivere una vita vera, verificata dai bassifondi, innocentemente abietta. «Ti amavo immensamente», sussurra, soggiogato, Verlaine.

Rovinato dall’amore per Rimbaud, abbandonato dalla moglie, Verlaine compie un ennesimo, patetico, tentativo di uccidersi. Dichiara il suicidio alla madre - «Madre mia, ho deciso di uccidermi», scrive da Bruxelles, il 4 luglio del 1873 - per essere bacchettato, a stretto giro, dalla madre di Rimbaud: «Uccidervi, sciagurato? Uccidersi quando si è oppressi è una vigliaccheria», fa lei, «uccidersi quando si ha una santa e tenera madre che darebbe la vita per voi... è un’infamia». 

Dopo avergli dato, in sostanza, del senzapalle, Mamma Rimbaud, nata Marie Cuif, procede con la cruda morale - «fate come me, caro signore, siate forte e coraggioso contro tutte le afflizioni» - e un invito che sa di crudeltà, «spero di incontrarvi un giorno». Naturalmente, Verlaine non si farà mai vivo.

Il seguito è noto. Il 10 luglio del 1873, dopo l’ennesima litigata, con una pistola acquistata la mattina stessa, Verlaine spara due colpi contro Rimbaud, ferendolo al polso. È il punto di non ritorno. Mentre Rimbaud termina Una stagione all’inferno, Verlaine è incarcerato ai Petit-Carmes, processato e condannato a due anni di reclusione, da scontare a Mons. 

Un tribunale sancisce la separazione tra Paul - socialmente demonizzato - e la moglie; divorzieranno nel 1885. L’anno dopo, Mathilde si unirà a Bienvenu Auguste Delporte, cupo ingegnere belga. 

Aveva ragione Ardengo Soffici: «l’entrata di Arturo Rimbaud in casa e nella vita di Paolo Verlaine fu come un pizzico di dinamite in una scodella di minestra». Nel saggio agiografico su Arthur Rimbaud, pubblicato nel 1911 per i «Quaderni della Voce», Soffici, con alato cinismo, stigmatizza Mathilde, moglie smaliziata, capace di afflosciare l’estro di Verlaine: «In pochi mesi era riuscita a pettinarlo, a lisciarlo, a infiocchettarlo come un agnello pasquale, a castrarlo come un gatto soriano».

[…] 

La corrispondenza si ferma al 1885. L’anno prima, per Léon Vanier, Verlaine aveva pubblicato lo studio su Les Poètes Maudits, o meglio, «i Poeti assoluti». Calcificò il mito messianico di Rimbaud, fanciullo «dal volto perfettamente ovale d’angelo in esilio... E occhi di un azzurro pallido inquietante», in una formula, il “maledettismo”, fortunatissima, indossata con lo stesso agio da Paul Valéry e da Mick Jagger, da Michel Houellebecq e da Jim Morrison, da Dario Bellezza come da Jenis Joplin. […] 

Scavato dall’alcol e dagli stenti, a tratti in carcere, spesso in ospedale, menomato da un io disfatto, Verlaine fu obbligato a farsi maledetto. Subì la maledizione della poesia. 

La morte di Pasolini rimane un mistero. Ecco perché vanno riaperte le indagini. GIOVANNI GIOVANNETTI su Il Domani il 02 novembre 2023

Il 2 novembre 1975 moriva Pier Paolo Pasolini. La verità giudiziaria rimane ferma all’appello e alla sentenza del 4 dicembre 1976, che indicava un unico colpevole. Nel frattempo le nuove rivelazioni indicano una strada diversa, su cui ora dovrebbe esprimersi anche la procura

Nonostante alcune eclatanti novità, la verità giudiziaria sulla morte violenta di Pier Paolo Pasolini – 48 anni fa, il 2 novembre 1975 – rimane ferma alla sentenza d’appello stilata il 4 dicembre 1976: unico responsabile Pino Pelosi, un “marchettaro” diciassettenne, scrivono i giudici, rimorchiato da Pasolini due ore prima del delitto.

Dal secondo grado di giudizio scompariva quindi l’inquietante “concorso con ignoti” della prima sentenza, pronunciata dal Tribunale dei minori di Roma il 26 aprile 1976. Pur dichiarando inattendibile Pelosi e sicura la partecipazione di altri al massacro, il Tribunale dei minori condannava il finto “reo confesso” alla pena di nove anni, sette mesi e dieci giorni di carcerazione per omicidio volontario significativamente «in concorso con altre persone rimaste ignote», oltre a una multa di 30mila lire per atti osceni.

«Assai più logica», hanno scritto i giudici del primo grado, «appare invece l’ipotesi che il Pasolini mentre stava fuggendo venne raggiunto da più persone che, dopo averlo fermato per i capelli, iniziarono a colpirlo tanto con il bastone che con la tavoletta (e probabilmente anche con altri mezzi contundenti)». Un passo, questo, che reclamava altre indagini, col rischio di vedere emergere chissà quale indigesta verità.

AMMISSIONE DI DISCOLPA

Quarantotto anni dopo è ormai acclarato che la notte del 1° novembre 1975 all’idroscalo di Ostia Pelosi non era solo: ora lo affermano i tre profili ematici «di ignoti» rilevati dal Reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri sugli abiti indossati quella notte da Pasolini e sopra a un plantare né dello scrittore né di Pelosi ma di “G.M.” (Giuseppe Mastini?). Alla “prova scientifica” si affiancano le testimonianze di coloro che, dalle baracche lì intorno, quella notte hanno potuto sentire e, per quanto possibile, vedere. Buon ultimo, che erano in tanti lo ha tardivamente ammesso lo stesso Pelosi.

Altro che “lezione al frocio”: fu un omicidio premeditato. Secondo una informativa del Nucleo investigativo dei carabinieri (5 giugno 2011) «gli aggressori» si osservi l’uso del plurale «hanno voluto uccidere deliberatamente Pier Paolo Pasolini poiché le tracce dell’automobile rilevate sul terreno evidenziano inequivocabilmente che il conducente ha puntato il corpo del regista agonizzante a terra accelerando fin dall’inizio della corsa come a voler impattare il corpo dell’uomo al massimo della velocità e della potenza».

Arrotare qualcuno dopo averlo ridotto in fin di vita a pugni e bastonate è un deliberato segno di spregio e qualche volta persino una “firma”. Maurizio Abbatino (della banda della Magliana) racconta che quando nel 1978 i maglianesi massacrarono Franco Nicolini detto Franchino il criminale, uno di loro, Renzo Danesi, «passò sul corpo di Nicolini con la sua auto» (a Raffaella Fanelli nel libro intervista La verità del Freddo).

Ma c’è dell’altro: non è vero che Pelosi e Pasolini si erano incontrati la prima volta solo qualche ora prima del delitto, come recitano le sentenze del 1976. I due si frequentavano da mesi e molti amici e parenti di entrambi lo sapevano: lo sapeva suo cugino Nico Naldini, che addirittura glielo presenta (Pasolini a Dario Bellezza: «è amico di Nico»); lo sapeva l’amico Ninetto Davoli (Davoli a Pelosi nell’agosto 1975: «a’ Pi’, ’o sai che chi frequenti è un personaggio grosso... mi raccomando, comportate bene»); lo sapeva la madre di Pelosi, a cui Pasolini si era rivolto per lavori di cucito; e lo sapeva Laura Betti, che qualche tempo prima del delitto una testimone ricorda seduta al tavolo di un ristorante con Pasolini e... Pelosi.

Pasolini venne attirato all’Idroscalo di Ostia promettendogli la restituzione dei negativi del film Salò, nove bobine sottratte qualche mese prima dai laboratori della Technicolor di Roma, materiale che lo scrittore e regista voleva assolutamente recuperare. Il furto fu compiuto nell’agosto 1975 da un manipolo di intrepidi ragazzi che presto diverranno figure di rilievo della malavita romana: è la banda della Magliana. C’è anche Maurizio Abbatino, ma i committenti sono altri.

Più che a scopo di ricatto, negli ambienti della destra fascista questo furto assume un ben più profondo significato simbolico. Salò, ambientato ai tempi della Repubblica sociale italiana. Salò, metafora del potere d’oggi «che manipola i corpi in modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o da Hitler», come ha detto Pasolini in una intervista nel 1975: «Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori che sono dei valori alienanti e falsi, i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio di culture viventi, reali, precedenti».

Per il mondo dei Delle Chiaie, dei Di Luia e dei Concutelli (e cioè della destra eversiva di quegli anni) tutto ha un limite e con Salò “Paola”, come in questi ambienti chiamano Pasolini, quel limite lo ha ampiamente superato. E poi i fascisti non dimenticano l’onta dell’intrepido camerata Serafino Di Luia inseguito e picchiato da “Paola” fin sopra un autobus, in risposta all’aggressione fascista la sera del 22 settembre 1962, dopo la “prima” di Mamma Roma. Insomma, se a Pasolini fosse capitata una qualche disgrazia molti tra questi non avrebbero avuto lacrime da spendere.

L’AUTO

Diventato collaboratore di giustizia, Abbatino ha più volte ammesso d’aver partecipato al furto di quei negativi e ne indica il mandante in Franco Conte, un ricettatore amico dei fascisti, il gestore di una bisca clandestina. È lo stesso locale in cui si tenevano le riunioni dei membri della nascente banda della Magliana, quel gruppo criminale che, stando al suo fondatore, «c’era fin dai primi anni Settanta e nell’ambiente era già chiamato così».

Sempre a detta di Abbatino, «Conte conosceva Pasolini in quanto questi, occasionalmente, aveva frequentato il suo locale» per negoziare, si ritiene, la restituzione dei negativi rubati di Salò.

L’ex criminale ha detto di aver visto l’Alfa Romeo GT 2000 dello scrittore parcheggiata di fronte alla sua bisca: un ricordo vivido, perché lui stesso ne possedeva una, sia pure di cilindrata inferiore e lì per lì manifesta interesse, si capisce quale, per quell’auto ben foderata e accessoriata. «Mi piaceva, anzi mi ero domandato di chi fosse questa macchina, per poterla rubare e montarmi i pezzi sulla mia...», ma «mi dissero “no, no, questa macchina nun se po’ toccà...”».

Dunque Abbatino conosce l’auto di Pasolini, possiede un’Alfa GT 1750 uguale a quella dello scrittore, conosce i feroci fratelli Franco e Giuseppe Borsellino (due dei sicari di Pasolini all’Idroscalo di Ostia; con Abbatino sono tra gli autori del furto dei negativi che poi verranno usati come esca), conosce Giuseppe Mastini alias Johhny lo zingaro e forse conosce Pino Pelosi, il finto “reo confesso” dell’omicidio di Pasolini (Pelosi: «mi volevano con loro al furto delle pellicole, ma io dissi di no»). E sarà Pelosi a segnalare – a Franca Leosini che lo intervista nel maggio 2005 – l’arrivo all’Idroscalo di una seconda auto «uguale a quella di Pasolini».

Abbatino viene anche riconosciuto in una fotografia scattata all’idroscalo di Ostia la mattina dopo il delitto: sarebbe tra i curiosi che si accalcano attorno al corpo straziato di Pasolini. La somiglianza è impressionante, e a indicarlo concorre fra gli altri la sua fidanzata di allora. Abbatino nega, e mostra un tabulato del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) che lo conferma in carcere, si legge, dal 23 maggio al 23 novembre 1975. Prova tombale. Discorso chiuso. Con buona pace di chi lo riterrebbe in qualche modo partecipe dell’omicidio dello scrittore, avvenuto il 2 novembre.

Che ci faceva allora Abbatino non in galera ma tra coloro che, nell’agosto del 1975, prendono parte al furto delle pizze con i negativi di Salò alla Technicolor di Roma, come lui stesso ha più volte ammesso?

Delle due l’una: o il memorandum del Dap è un falso, oppure dal carcere romano di Rebibbia si poteva uscire e magari rientrare senza particolari difficoltà. Con buona pace di chi lo ha creduto in galera e non a rubare film dalle parti della Tiburtina. O in posa per il fotografo all’idroscalo di Ostia.

È da ritenere che a uccidere Pasolini sia stato un commando “misto” di criminalità politica e criminalità comune. Di certo non il solo Pelosi, come lui stesso ha detto nel 2005 senza però fare i nomi dei suoi complici (ammise solo la presenza dei fratelli Borsellino, morti nel frattempo) e limitandosi a descrivere spannometricamente uno di loro: chi era quello «alto, grosso, con la barba» che lo teneva fermo mentre altri due massacravano lo scrittore?

Pelosi non lo dice, ma nell’ambiente della vecchia mala romana e in quello dell’eversione nera sono nomi che si sanno e si fanno, e alcuni componenti del commando assassino sarebbero ancora in vita. Se non Pelosi (morto nel 2017) certamente li conosceva Antonio Pinna detto Nino il meccanico, il fascistissimo autista dei “Marsigliesi” che poche ore dopo il delitto provvede a far riparare l’auto con cui arrotano l’agonizzante Pasolini.

E Pinna era anche uno degli informatori “dal basso” di Pasolini, un criminale a cui incautamente lo scrittore può aver rivolto domande che forse era meglio non fare.

In linea con i propositi del criminologo Aldo Semerari (il teorico dell’alleanza tattica e strategica tra destra eversiva e criminalità organizzata, colui che nel 1962 in una “perizia a distanza” aveva definito Pasolini «persona socialmente pericolosa» e i suoi comportamenti «espressione di infermità mentale»), nei primi anni Settanta Pinna partecipa a diverse rapine assieme al “secondo livello”, quello militare, di Avanguardia nazionale romana.

In un documento di polizia del 24 giugno 1974 il suo nome figura infatti accanto a quelli dei fratelli Serafino e Bruno Di Luia (Avanguardia nazionale) e di criminali come il trafficante d’armi Pietro Selli, Raffaele Pernasetti detto er Palletta (banda della Magliana), Albert Bergamelli (clan dei Marsigliesi), Mariano Castellani detto er Bavosetto, Tony Mattei detto er Paciocco e altri ancora: Lamberto Cello, Paolo Provenzano, Sergio Pernasetti, Giuseppe Colecchia e Gianfranco Di Rienzo. Tutti arrestati – scrive il questore di Roma al capo della polizia – a seguito di «reati», si legge, compiuti per «finanziare le attività della destra extraparlamentare». 

UOMINI CHIAVE

Semerari, si diceva. Testimoniando a Roma il 4 marzo 1996, Alessandro D’Ortenzi detto Zanzarone (era l’uomo di collegamento tra la banda della Magliana e la destra eversiva) dirà che proprio lui, su mandato del criminologo, ebbe l’incarico di «reclutare uomini all’interno della malavita romana» per organizzare «gruppi misti tra estremisti di destra, della nostra organizzazione politica, e componenti della malavita romana che avessero una certa esperienza in rapine o assalti a furgoni postali o trasportatori di soldi». E Semerari vedeva in Pasolini non un avversario ma un personale nemico.

Pinna “scompare” nel febbraio 1976, tre mesi dopo il massacro di Pasolini (sarebbe morto a Bahia in Brasile nel 2020). Stando a una “fonte” romana che vuole rimanere anonima, a condurlo all’estero provvede il colonnello dei carabinieri (e dei Servizi) Michele Santoro, una figura che ricorre nella filigrana degli anni bui delle bombe di Stato.

Santoro è infatti noto agli ambienti giudiziari per aver procurato l’esplosivo al gruppo eversivo nazifascista della Fenice, che lo ha usato per alcuni attentati sui treni nell’aprile 1973 (indagine Salvini); quel Santoro suo malgrado a giudizio per i depistaggi volti a nascondere gli autori della strage di Peteano (indagine Casson; tre carabinieri uccisi il 31 maggio 1972 da un’auto esplosiva. La bomba era fascista); quel Santoro indicato tra i fautori della mancata strage di studenti davanti al Tribunale di Trento il 19 gennaio 1971. Per la bomba di Trento, nel 1977 andrà a processo assieme al vicequestore Saverio Molino e al colonnello dei Servizi Angelo Pignatelli: tutti assolti.

Dal “libretto di servizio” di Santoro si ricava poi che nel 1975-’76 questo amico dei fascisti, dei golpisti e dei piduisti è di stanza proprio a Roma, senza compiti particolari, presso la Sesta brigata carabinieri. A proposito: le periodiche e parecchio lusinghiere schede valutative su di lui che si leggono nel libretto sono a firma, fra gli altri, di personaggi di peso come i generali Franco Picchiotti, Giuseppe Siracusano, il comandante alla Pastrengo Giovan Battista Palumbo e il futuro capo del Sisde (i riformati Servizi segreti civili) Giulio Grassini: tutti della P2.

RIAPRIRE LE INDAGINI

Secondo la nostra “fonte” romana (un ex dei Nar) sia lui sia altri del suo gruppo sono stati più volte «tolti dagli impicci» proprio dal nostro colonnello. Ben di peggio, stando all’autore della strage di Peteano Vincenzo Vinciguerra, Santoro apparteneva a «una vera e propria struttura occulta capace di porsi come direzione strategica degli attentati e non» (motivazioni sentenza strage di Bologna, p. 332). Al dunque, il defilato Santoro sarebbe stato tra coloro che in quegli anni governarono in qualche modo la strategia della tensione. 

A proposito di P2, ricorderemo infine che il 10 dicembre 1975 Pelosi si affida all’avvocato Rocco Mangia. Ai famigliari lo aveva indicato il giornalista del “Tempo” Franco Salomone (tessera P2 n. 1911), un fiduciario di Licio Gelli e di Aldo Semerari. Nessun problema per l’onorario, giacché «ci avrebbe pensato qualcuno molto in alto». Quanto in «alto»?

A saldare il dovuto – Mangia lo ha ammesso – provvede la corrente andreottiana della Democrazia cristiana: 50 milioni, e sono soldi “ben spesi”: stando a Pelosi, Mangia «mi suggerì di accollarmi l’omicidio e di mantenere questa linea, sostenendo a spada tratta che sul luogo del delitto ci fossi solamente io». E poi «mi disse che c’erano alcune foto fatte dalla Scientifica relative al sormontamento del corpo da far sparire ma che a questo ci avrebbe pensato qualcun altro». 

Quanto basta a sostenere la richiesta di apertura di nuove indagini. Ed è ciò che ho inteso fare con David Grieco e all’avvocato Stefano Maccioni. Nei mesi scorsi Maccioni ha lanciato in rete una raccolta di firme per chiedere la riapertura del caso (obbiettivo dell’appello, era toccare le cinquecento adesioni; ne sono arrivate più di 1.100). Firme che sono ora tra le carte e sostegno della nuova istanza per la riapertura delle indagini, per dare finalmente un volto ai responsabili materiali e ai possibili mandanti di questo oscuro delitto. Perché – lo si legge nella petizione – «verità e giustizia non sono una concessione, ma un diritto. Senza scadenza».

GIOVANNI GIOVANNETTI. Giornalista, editore e fotografo, nel 1988 ha fondato l'agenzia fotografica Effigie, divenuta poi anche casa editrice.

La lezione del maestro Pasolini. Alessandro Gnocchi il 3 Novembre 2023 su Il Giornale. Escono lettere e opere di Tonuti Spagnol, il migliore fra gli allievi dello scrittore in Friuli

«Quando nell'aprile del '45 fondammo la nostra Academiuta di lenga furlana intorno a noi c'erano altri giovanissimi (Tonuti Spagnol addirittura un ragazzo) i quali cominciavano a scrivere i loro primi versi. Erano tutti miei allievi (durante la guerra gli studenti di Casarsa non potevano frequentare regolarmente la scuola), ed accettarono dunque da me con la necessaria suggestione i suggerimenti e le pressioni estetiche come se fossero essenzialmente indubitabili: insomma trovarono lì la loro tradizione». Scusate la lunga introduzione, tratta da Poesia d'oggi di Pier Paolo Pasolini. Questo brano consente di fissare qualche paletto cronologico e di introdurre i due protagonisti della storia.

Casarsa, provincia di Pordenone, era il paese natale della madre di Pasolini. Era ed è tuttora un importante snodo ferroviario, motivo per cui fu pesantemente bombardata durante la Seconda guerra mondiale. I ragazzini non potevano certo salire sul treno per andare a scuola. Per questo, frequentavano le lezioni di un giovane maestro, Pier Paolo Pasolini.

Chi era Pasolini nel 1945? Cresciuto al magistero di Roberto Longhi, a Bologna, si era laureato con una tesi su Giovanni Pascoli, con il professor Carlo Calcaterra. Il padre, militare di professione, era partito per il conflitto in Africa, catturato a Gondar, spedito in un campo per prigionieri. Il fratello Guido, appena più giovane, si era unito ai partigiani bianchi, ed era stato brutalmente assassinato dai partigiani rossi in seguito alla strage di Porzus. Pier Paolo e la madre Susanna si erano rifugiati a Casarsa. Per campare avevano aperto una piccola scuola privata. Pier Paolo teneva lezione in un casotto per gli attrezzi in mezzo ai campi. Un posto incredibilmente umile, come gli altri trasfigurati dalla poesia. Pasolini aveva pubblicato versi in un dialetto friulano reinventato alla luce del Medioevo. Pubblicava, insieme con gli amici, una rivista chiamata Stroligut. Aveva fondato l'Academiuta, una istituzione che aveva come scopo la difesa e la diffusione del friulano. All'epoca, Pasolini era la stella nascente dell'autonomismo friulano. Susciterà scalpore, a Casarsa, la successiva adesione al Partito comunista.

Tra gli alunni di maggior talento, specie nella composizione di poesie, c'era Antonio Spagnol (da qui in avanti lo chiameremo Tonuti, come faceva Pasolini). Tonuti è una figura importante: resterà a lungo in contatto epistolare con Pasolini e si dimostrerà il migliore dei giovani poeti dell'Academiuta.

A fare piena luce su Tonuti Spagnol è ora Rienzo Pellegrini, grande e generoso maestro, curatore di Tonuti Spagnol, Dai giorni della Academiuta agli anni estremi. Il Dialogo con Pier Paolo Pasolini tra lettere e poesie (edito dal Centro studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della delizia).

Un volume tanto accurato quanto prezioso, e non solo perché permette, tra lettere e poesie, di comprendere appieno la figura di Spagnol e il suo rapporto con Pasolini. Questione di completezza ma non solo. Pellegrini mostra infatti quale errore sia considerare Tonuti come una semplice «appendice» di Pasolini. La raffinatezza e l'eleganza sottile di Tonuti non devono per forza essere derivate da Pasolini. Pellegrini: «È questa la mia impressione: il mondo di Tonuti ha una sua autosufficienza e una sua spontaneità, ed è vissuto dall'interno». Questo nulla toglie al lavoro di lima comunque realizzato da Pasolini, testimoniato dai manoscritti.

La parte più sorprendente è l'ultima. Qui il curatore pubblica uno dei quaderni di Tonuti allievo di Pasolini. Possiamo comunque vedere cosa insegnasse il poeta. Ne esce una antologia della poesia italiana dal Cantico delle creature al Novecento. Grandissimo spazio è riservato a Giovanni Pascoli. C'è poco Alessandro Manzoni, il campione ottocentesco è Giacomo Leopardi. Ci sono Montale e Ungaretti, come ci si aspetta, ma ci sono anche scelte originali. Chi si aspetterebbe infatti di trovare versi di Filippo De Pisis? E diversi componimenti di Sandro Penna? Leonardo Sinisgalli? Carlo Betocchi? Diego Valeri? Emilio Cecchi con relativa apertura alla prosa d'arte? Cinquecento e Seicento sono sacrificati: e questo può essere un assecondare il luogo comune della critica. Ma anticonformista è la scelta di Tommaso Campanella.

Pasolini costruisce, tassello dopo tassello, una vera e propria antologia, fedele al suo gusto di allora. Il fatto che sia problematico trovare eventuali fonti d'ispirazione testimonia, una volta di più, l'originalità della selezione. Che straordinario maestro deve essere stato Pasolini…

"Potrei essere Gesù". Quella storia mai raccontata nel documentario su Pier Paolo Pasolini. In onda su Sky il doc “Capelli quasi biondi, occhi quasi azzurri. 78 lettere a Pier Paolo Pasolini” che racconta i candidati al ruolo di Cristo nel film "Il Vangelo secondo Matteo". Fornendo un ritratto generazionale unico dei ragazzi degli anni 60. Redazione su L'espresso il 31 ottobre 2023.

È il dicembre 1963, Pier Paolo Pasolini sta pensando al suo nuovo film, “Il Vangelo secondo Matteo” e in un’intervista dichiara di essere in cerca di un interprete per la parte del Cristo, e descrive le caratteristiche fisiche richieste. La parte fu affidata allo studente spagnolo Enrique Irazoqui, doppiato poi da Enrico Maria Salerno. 

La parte di questa vicenda che non è mai stata raccontata è: chi rispose a quella richiesta di Pasolini per candidarsi a interpretare Gesù Cristo? Con quali aspirazioni, convinzioni, paure? 

La loro storia è raccontata nel documentario “Capelli quasi biondi, occhi quasi azzurri. 78 lettere a Pier Paolo Pasolini” che andrà in onda su Sky alle 21.15 giovedì 2 novembre in occasione dell’anniversario della morte del poeta. 

Le lettere a Pasolini sono state recuperate da Mimmo Frassineti, autore del soggetto insieme a Valentina Presti Danisi. La sceneggiatura del documentario, selezionato per i Nastri D'Argento, è di Donata Scalfari, la regia di Simona Risi. 

Lettere che rivelano molto di quei giovani che scrivevano a Pasolini. «Un manuale antropologico della mascolinità degli anni Sessanta», le definisce lo psicanalista Vittorio Lingiardi, uno dei tanti intervistati che interviene nel documentario. I testi delle lettere si intrecciano al racconto della genesi del film, nato alla Pro Civitate Christiana ad Assisi «un luogo dove Pasolini si sentiva accolto e protetto», svela Monsignor Matteo Zuppi. Sono state anche rintracciate le comparse che furono scelte da Pasolini a Matera, dove fu girato il “Vangelo Secondo Matteo”. «Sono volti antichi, scavati, volti non borghesi, come era d'altronde lo stesso Pasolini», racconta il regista Marco Tullio Giordana che guida lo spettatore dietro le quinte della pellicola. «P.P.P. non amava gli attori professionisti, pensava non fossero naturali e un po' è vero», secondo la grande attrice, amica dell’intellettuale, Adriana Asti. 

Molte delle lettere partono dalla "candidatura" a interpretare Gesù per passare poi al racconto delle proprie esperienze, della quotidianità, delle difficoltà e delle speranze, e finiscono così per disegnare un ritratto generazionale dei giovani italiani degli anni Sessanta, in un dialogo ideale con il poeta, romanziere, regista e intellettuale Pier Paolo Pasolini.

Barbara Costa per Dagospia mercoledì 1 novembre 2023.

“La f*ca, spalancata, enorme, su tutto lo schermo: un orrore”. E questo è Pier Paolo Pasolini, nel 1975, a cena con Enzo Siciliano, a cui racconta “di essere stato trascinato”, a Parigi, in un cinema porno, a vederne chissà quale, di certo eterosessuale. Pasolini è mai stato a letto con una donna? Vi sono state e non poche donne innamorate di lui, alcune famose, Laura Betti, Gabriella Ferri, e Oriana Fallaci (che non l’ha mai detto, ok, e dai su, si capisce dai suoi scritti, che n’è gelosa marcia), ma è Sergio Citti che dà credo l’unica testimonianza di PPP con una donna: “Una sera me lo vedo capitare davanti, teso e deluso: era stato con la Franca, una che conoscevamo bene”.

Che Pasolini amasse il sesso mercenario omosessuale è cosa nota, che avesse una casa segreta, a Roma, sulla via Cassia, lo ha stanato pochi mesi fa "La Verità": “Una dimora lussuosa”, non come la "modesta" casa all’Eur (3 camere da letto, doppi servizi, un salone) che Pasolini divideva con la madre, e in cui dormiva in un letto singolo. La villa sulla Cassia serviva a Pasolini per incontrarci i ragazzi a pagamento con cui farci orge sadomaso, con Pier Paolo passivo, “legato a letto, e vari ragazzi nudi con lui”.

Giochi sado di frustate e umiliazioni. Ce lo dice il cugino di Pasolini, Nico Naldini, uno che, Pasolini appena ucciso, dice a "Epoca" del suo “timore di dargli fastidio, con una frase inutile, una osservazione di troppo”, certo, ma poi nella sua autobiografia c’informa che “Pasolini aveva adottato il sadomaso anche con rituali feticistici: le corde per farsi percuotere fino allo svenimento”.

Che Pasolini la notte diventava “un gatto randagio” ce lo prova più di un suo amico: Oriana Fallaci, nel 1966, ospita nella sua casa di New York un Pasolini per la prima volta negli USA, che la notte gira ingordo per i bassifondi di N.Y. in cerca di sesso con sconosciuti. Oriana gli fa scenate, terrorizzata che lui penetri in ghetti “dove non va neppure la polizia: ti farai tagliare la gola, Pier Paolo”.

Risposta di Pasolini: “Non sei mia moglie”. Pasolini e Maria Callas, con Oriana Fallaci e il suo compagno, il giornalista francese François Pelou, vanno in vacanza in Brasile. Negano che PPP e Callas fossero amanti: “A un certo punto del pomeriggio, lui spariva in cerca di ragazzini. Riaccompagnavamo in albergo una Maria abbandonata”. 

Ma che Pasolini andasse a m*gnotti a Roma, alla Stazione Termini, con Gore Vidal e altri vippissimi scrittori, ce lo garantisce Vidal nelle sue memorie, ma pure Enzo Siciliano a cui Pasolini descrive la sua passione per “i ragazzini di Tangeri”, invocati con Gadda “le gentili carognette”, se non le “deliziose creature” quando rivelava a Siciliano dei suoi nuovi fervori verso “gli allievi della scuola di polizia di Nettuno”.

Che Pasolini fosse proprietario di una casa "segreta" sulla Cassia dove scatenarsi a orge e frustini, tra i suoi amici vipponi o non lo sapeva nessuno, o lo sapevano, e guai a parlarne. Delle seconde case "rispettabili" di Pasolini sappiamo da sempre della casa al mare a Sabaudia in comproprietà con Moravia, e della Torre di Chia, a Viterbo, dove PPP si è fatto fotografare nudo. Della PPP febbre feticista sappiamo tanto dai suoi marchettari, non sempre omosessuali, ma etero che si vendevano per soldi. Sono etero ma m*gnotti per necessità i prostituti della Stazione Termini, che, Pasolini assassinato, accusano “l’ha ammazzato? Ha fatto bene, i patti s’hanno da mantenè” a Fabio Galiani, di "Oggi", e che sono questi “patti”?

Eccoli: chi etero si prostituisce omo fa specifiche marchette, non le fa tutte. Se lo fa prendere in bocca ma non lo prende in bocca, lo mette ma non se lo fa mettere. Che Pasolini fosse un habitué dei prostituti romani, è assodato: “Veniva qui in media 2 volte la settimana”, assicurano i m*gnotti di Termini, a "Oggi", “e prendeva chi voleva lui”. Sergio Citti dice di no: “Paolo non cercava chi non conosceva”. E però “è successo qualche volta, che dei ragazzi lo hanno rapinato”.

E mica lo picchiavano, no, lo mettevano a testa in giù, da un ponte, fino a che PPP non dava loro tutto il denaro che aveva con sé. E PPP era affascinato dal pericolo che correva, ogni notte, a ogni caccia. Oriana Fallaci non lo nasconde: “Noi sapevamo dove andava, dopo cena, ogni volta. E, ogni volta, era come vederlo correre a un appuntamento con la morte”.

Secondo Alberto Arbasino, erano cacce sconsiderate per un vippone come Pasolini: “Una paparazzata, in atteggiamento sconveniente, con i pantaloni abbassati, e lo avrebbero distrutto”. Arbasino non ci gira intorno: “Pier Paolo amava i minorenni. Con cui consumare sul posto”. A quanto pare, Pasolini s’è innamorato davvero una volta: di Ninetto Davoli. Lo sa la Fallaci, trascinata a New York “a fare shopping per Ninetto”, lo sa Laura Betti, in vacanza a 3 a Venezia, in cui litiga e tratta male Ninetto, e Pier Paolo Pasolini le dà la colpa.

Con Davoli dura 9 anni, poi Ninetto si sposa, con una donna, ci fa 2 figli. La disperazione di Pasolini: “Dopo 9 anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita”, in più lettere scritte agli amici, e lettere che sono pubbliche. Pier Paolo Pasolini ha mai fatto sesso coi ragazzi dei suoi film? Ancora Arbasino: “Di giorno il "Vangelo", e la notte divertimento straordinario coi giovani che assediavano il set. Sfoghi sbrigativi senza impegno. Al massimo ci scappava una pizza e un pacchetto di sigarette”. 

Pasolini ha girato "Il Vangelo Secondo Matteo" a Matera e anche “in Puglia, tra Trani e Molfetta”. Nel cast, una comparsa, Gennaro Cassano, futuro padre di Antonio: “Pasolini era un tipo strano. Come si dice… sì, masochista. Voleva che lo picchiassi forte”. Intervista datata, ma reperibilissima sul web.

Con Pasolini morto ammazzato, "Gente" spara, a firma di Piero Palumbo, un reportage pazzesco. Folle. Titolo: "Così abbiamo girato il Salò di Pasolini: una abbuffata di sterco". Parlano gli attori sul set: “Durante le riprese ci hanno tagliato orecchie, dita, seni, e ci hanno fatto mangiare feci, ci hanno immersi in liquido escrementizio… il sangue era vero… mi hanno fatto sanguinare, uno schifo totale”.

Estratto dell'articolo di Giuseppe Pollicelli per “La Verità” mercoledì 23 agosto 2023.

È opinione diffusa tra gli studiosi dell’opera e della biografia di Pier Paolo Pasolini che il più grande romanzo prodotto dallo scrittore bolognese, e certamente il più appassionante, sia stata la sua vita (...) 

Di certo l’esistenza del «poeta delle ceneri», a cominciare dal suo tragico e mai del tutto chiarito epilogo, seguita non solo a suscitare l’interesse di tanti in ogni parte del mondo, ma non di rado a riservare sorprese persino sconvolgenti. 

È il caso di una scoperta compiuta in questi giorni da chi scrive e resa possibile dalla recente scomparsa dell’attrice Antonella Lualdi, che conosceva bene Pasolini per aver preso parte, nel 1959, al film di Mauro Bolognini La notte brava, liberamente ispirato ad alcuni momenti del romanzo pasoliniano Ragazzi di vita.

La scoperta è la seguente: Pasolini ha posseduto, non sappiamo se fino alla fine dei suoi giorni ma sicuramente per un periodo non breve, una lussuosa dimora situata in una delle zone più chic di Roma, quella compresa tra Ponte Milvio e l’inizio della via Cassia, nella parte settentrionale della città. 

Torniamo però ad Antonella Lualdi. Dovendo scrivere per La Verità un articolo dedicato alla morte dell’attrice, avvenuta lo scorso 10 agosto, abbiamo recuperato dalla nostra biblioteca un libro a cui fino a quel momento non avevamo riservato la dovuta attenzione. Il libro è l’autobiografia della Lualdi, realizzato in collaborazione con l’attore Diego Verdegiglio e pubblicato nel 2018 dall’editore imolese Manfredi con il titolo Io Antonella, amata da Franco (dove Franco è il marito della Lualdi, Franco Interlenghi, celebre attore a sua volta). 

A pagina 195 di tale volume si può leggere questa dichiarazione riguardante Pasolini, nel pronunciare la quale la Lualdi adopera il plurale perché si riferisce a sé e alla sua famiglia: «Pasolini lo frequentammo moltissimo. Spesso giocava a calcio con Franco (Interlenghi, ndr), Ninetto Davoli, Franco e Sergio Citti e con tutti i suoi giovani attori.

Erano interminabili partite sulla Cassia, dove Pasolini aveva una villa con un grande prato. (…) Io e Franco fummo più volte ospiti a pranzo nella sua casa di Montesacro, dove Pasolini viveva con la madre Susanna. Era una casa modestissima, niente a che vedere con la lussuosa residenza sulla Cassia». 

Ora, se questo brano contiene un marchiano errore (imputabile più a Verdegiglio, che ha materialmente vergato il libro trascrivendo le parole della Lualdi, che non a quest’ultima), ovvero la menzione del quartiere romano di Montesacro al posto di quello di Monteverde (dove Pasolini visse effettivamente con la madre fino al 1963, quando si trasferì all’Eur), è impossibile che Antonella Lualdi abbia inventato di sana pianta questi incontri con Pasolini - databili tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta - e la loro ubicazione. 

(...)

In un bel libro uscito nel 2011 per i tipi del Saggiatore, Quando eravamo froci. Gli omosessuali nell’Italia di una volta, l’autore Andrea Pini, storico militante omosessuale e tra i fondatori del Circolo Mario Mieli, intervista alcuni uomini gay: uno di costoro, tale Mario Chinazzo, nato a Venezia nel 1937 e spentosi a Roma nel 2007, parla anche di Pasolini. Nel modo che segue (citiamo da pagina 198): «Mi è capitato di incontrare Pasolini una volta sola, a casa sua a Ponte Milvio. Ci capitai per caso con un borgataro di San Basilio, che mi aveva rimorchiato. Si chiamava Mario come me e abbiamo fatto amicizia. Una sera mi ha portato a casa di Pasolini e quando siamo arrivati c’era un’orgetta. Ma erano cose che a me non piacevano. 

Pasolini era legato al letto e c’erano vari ragazzi nudi intorno. Erano giochi erotici che a me non interessavano e me ne sono andato. Pasolini non si è neanche accorto».

(...) 

L’episodio riferito da Chinazzo (collocabile temporalmente nella prima metà degli anni Settanta visto che Chinazzo racconta di essere giunto a Roma subito dopo il 1970) acquisisce dunque una piena attendibilità, rafforzata dal fatto che le pratiche di tipo masochistico esperite da Pasolini - con particolare assiduità negli ultimi anni di vita, quelli successivi alla sofferta separazione da Ninetto Davoli, consumatasi definitivamente nel 1971 come attestato da una disperata lettera inviata da PPP all’amico scrittore Paolo Volponi nell’agosto di quell’anno - sono state rivelate da numerosi suoi conoscenti, a cominciare dal succitato cugino e biografo Nico Naldini, che nel memoir Come non ci si difende dai ricordi (Ed. Cargo, 2005) scrive: «Da tempo Pasolini aveva adottato il sadomasochismo anche con rituali feticistici: le corde per farsi legare e, così immobilizzato in una sorta di scena sacrificale, farsi percuotere fino allo svenimento». 

(...)

I giovani comunisti e il poeta. Chi era Pier Paolo Pasolini e perché votava Pci: storia di una amicizia tra il poeta e la Fgci. Cos’era la Fgci? L’organizzazione di noi giovani comunisti. E nel 1974 ci incontrammo con Pierpaolo Pasolini. Fu Gianni Borgna, che era il nostro capo, a decidere che ci interessava. Quel che è clamoroso è che noi interessavamo a lui. Così nacque una breve storia straordinaria. Goffredo Bettini su L'Unità il 28 Luglio 2023 

Il rapporto di Pasolini con il Pci fu complesso, altalenante, dissonante. Ma continuo. Sentimentalmente profondo. Con alcuni dirigenti, tra i quali Antonello Trombadori, di vera amicizia e solidarietà. Pasolini era un marxista, aperto a molteplici rapporti e influenze. In ordine sparso: da Godard a Pound, da Brecht a Chaplin, da Deleuze a Guttuso, da Gramsci a Freud e poi i suoi costanti riferimenti Dante e Marx. Su questo si è scritto tanto.

Voglio raccontare, invece, dell’amicizia che legò il grande poeta, negli ultimi due anni della sua vita, con la Fgci. I giovani comunisti. O meglio, i giovani comunisti romani: un gruppo assortito e curioso. Creativo e intelligente. Capeggiato dall’indimenticabile Gianni Borgna, spedito da Luigi Petroselli nel 1973 a risollevare le sorti della federazione giovanile della capitale. Gianni, allora, era già un giovane uomo. Colto e raffinato. Con un profilo eccentrico, talvolta surreale. Lo scoprii così da subito. La prima volta che lo incontrai, nella lontanissima sezione di Monte Mario di cui era il segretario, mi apparve in piedi su una sedia con un colbacco di visone, mentre svolgeva una lunga relazione (che partiva come di consueto dalla situazione internazionale) a un folto gruppo di disagiati psichici vicino al più grande ospedale psichiatrico di Roma.

Allora avevo un pastore tedesco di nome “Gigi” che mi portavo sempre appresso. Entrando nel locale del Pci, essendo un animale sensibile, si accorse che c’era qualcosa di strano nell’atmosfera. Cominciò ad abbaiare, suscitando un gran subbuglio. A quel punto uno dei presenti lasciò l’assemblea e, guardandomi negli occhi, mi disse un po’ seccato: “Io me ne ritorno al Santa Maria della Pietà perché qui mi sembrano tutti matti”. Da allora questa cifra ad un tempo stravagante e creativa segnò il mio rapporto con Gianni. Che divenne l’amico di una vita. E che ancora mi manca tantissimo. Del giovane gruppo dirigente facevano parte, tra gli altri: Carlo Leoni, Nando Adornato, Walter Veltroni, Giulia Rodano, Franca Chiaromonte, Antonio Semerari, Alessandro Castiglia, Luciano Consoli.

A quell’epoca solo Gianni aveva già grandemente letto e studiato Pasolini. Lo adorava. Lo considerava, al contrario di molti, uno sperimentatore del linguaggio ed un innovatore del pensiero. Era, per lui, nel Pantheon dei grandi: insieme ad Hitchcock, per il cinema; a Carmelo Bene, per il teatro; a Leopardi, per la poesia. Anche io, conoscevo molte cose del poeta. Ma molte di meno del mio caro amico. Nel cinema, arte a me molto cara, ero rimasto colpito da “Accattone” e “Mamma Roma” e dai primi due film della trilogia della vita (“Decameron” e “Il fiore delle mille e una notte”). Mi erano piaciute le poesie in lingua friulana. E poi “Le ceneri di Gramsci”. Così come rimasi influenzato dai suoi articoli sui vari quotidiani e riviste (soprattutto quelli sul “Corriere della Sera”). Poi raccolti negli “Scritti corsari” e nelle “Lettere luterane”. Ma, ripeto, Gianni era l’esperto.

Nel 1974, decise di organizzare, con il suo nuovo gruppo dirigente, la nostra prima “Festa della gioventù”. Scegliemmo per svolgerla “La valletta dei cani” di Villa Borghese. Doveva essere un evento molto di “sinistra”. Grande ruolo ebbero i cantautori del canzoniere italiano. Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli e Ivan Della Mea. Tuttavia, pensammo anche di scrivere e rappresentare uno spettacolo da noi inventato: “Aspettando la meraviglia”. Di cui parlò un gran bene il quotidiano “Il Manifesto”, allora critico con i comunisti italiani. Il momento più intenso della rappresentazione era quando un gruppo di ragazze e ragazzi irrompevano sul palcoscenico, all’improvviso, uscendo da un’installazione (totalmente avvolta in grandi teli bianchi ben tirati), dopo averla lacerata da dentro con dei grandi coltelli affilati. Per noi, voleva significare l’irrompere del ’68. Che tutto cambiò.

L’effetto fu forte. Forse troppo. Perché risultò poco rassicurante per i funzionari della federazione che erano venuti a curiosare. La messa in scena li lasciò altamente perplessi. E da quel momento, pur rimanendo liberi, nella federazione del Pci fummo considerati degli “osservati speciali”. Gianni da tempo insisteva nell’avere, a tutti i costi, Pasolini protagonista della festa: per spiegare le sue ragioni e la sua analisi cruda, e persino disperata, sullo sviluppo italiano e i caratteri antropologici della società di quel momento. Quando Gianni si metteva in testa qualcosa di particolarmente complicato, la vittima sacrificale della “missione impossibile” era quasi sempre il sottoscritto.

Mi misi alla ricerca del poeta. Non avevo il suo numero di telefono. Tramite Bruno Grieco, allora il responsabile della sezione spettacoli di Botteghe Oscure, un uomo stimato e gentile, riuscii ad ottenerlo rapidamente. E così la mia amicizia con Pasolini, iniziò da una telefonata. Nessuno mi presentò prima e naturalmente ero del tutto sconosciuto al mio interlocutore. Mi feci coraggio: “Pronto?”. La voce che mi rispose era educata, calma, disponibile e incuriosita. Gli spiegai in poche parole il desiderio di invitarlo ad un nostro incontro. Voleva capire meglio e mi disse di parlarne a casa sua. Lo andai a trovare il prima possibile. Non ci furono particolari convenevoli e tanto meno slanci di entusiasmo. Ma alla fine Pasolini disse di sì. Mi aveva fatto l’impressione di una personalità magnetica. Semplice e allo stesso tempo profonda. Il mio animo era alle stelle, dopo aver lasciato la sua casa; che ricordo lineare, ordinata ed essenziale, abbastanza in sintonia con le linee architettoniche dell’Eur.

Sentimmo una responsabilità grande nel preparare l’incontro pubblico. Anche Borgna, felicissimo, si accorse della delicatezza politica e organizzativa dell’iniziativa che tanto avevamo sognato. Accanto a Pasolini dovevamo invitare un rappresentante della cultura del partito. Che fosse ad un tempo stesso capace di reggere il livello del discorso, di rappresentare le idee ufficiali del gruppo dirigente comunista, di svolgere un dialogo civile. La scelta cadde sul professor Gabriele Giannantoni. Insigne accademico e impegnato anche direttamente nel lavoro del partito di Roma. Notai subito tra i nostri militanti una divaricazione, sotterranea ma evidente. Alcuni erano conquistati dal fascino dei pensieri del grande poeta. Altri parteggiavano per Giannantoni. Vale a dire per le tesi del Pci. La questione più spinosa riguardava il giudizio netto che Pasolini aveva espresso sulla nostra generazione. Guerra civile tra borghesi.

Perdita della ingenuità, naturalezza e grazia dei ragazzi degli anni ’40, ’50 e ’60. Lo sfascio delle forme interiori e persino corporee, dei figli del consumismo e del benessere. Incattiviti. Potenzialmente violenti. Per certi aspetti indifferenziati, tra quelli di destra e quelli di sinistra. Noi, giovani comunisti, dove eravamo collocati dentro questo generale rammarico e senso di perdita? Al tempo del primo dibattito con Pasolini, non l’avevamo ancora capito bene. Ci vollero alcuni mesi. Via via cogliemmo meglio il giudizio che il nostro nuovo amico aveva su di noi.

Alla festa di Villa Borghese, il confronto fu partecipatissimo. Il giovane pubblico si era messo a sedere per terra in cerchio intorno al piccolo palco. Gli oratori si confrontarono sotto un grande albero, in modo rispettoso, serio; ma anche tagliente. Pasolini era rimasto contento. In seguito, per un po’, tra di noi ci fu silenzio. Comunque, Gianni ed io non mollammo la presa e lui non la fuggì. Lo andai, poi, a trovare altre volte. Parlando soprattutto di cinema, l’argomento dove mi sentivo più forte e preparato. È la forma d’arte che ho sempre amato di più. Rossellini sopra ogni altro. Talvolta toccammo, in modo circospetto e delicato da parte mia, l’argomento circa il Pci e l’omosessualità.

Un misto di moralismo, reticenza e disciplina. Forse anche l’idea di non prestare il fianco alle polemiche bigotte dei nostri avversari. Consideravo tutto ciò inconcepibile. Ho vivo in mente il ricordo di una sera a cena alla “Carbonara” a Campo de’ Fiori, quando Paolo Bufalini, al quale ero affettuosamente legato, mi raccontò le vicende di un brillante giovane dirigente sardo, Renzo Laconi, che aveva sofferto per dei sospetti nei suoi confronti. Laconi era in ascesa perché particolarmente intelligente e preparato. Tra i 75 “redattori” della Costituzione italiana. Apprezzato da Togliatti. Oratore acuto e travolgente. Insieme ad Ingrao, forse il migliore del gruppo dirigente del Dopoguerra. Eppure, pesò nella sua carriera proprio il dubbio circa la sua omosessualità. Peraltro, solo supposta in quanto non aveva famiglia e viveva ancora con la madre.

Il dialogo con Pasolini, dunque, andò avanti. Si approfondì persino. C’è una bella fotografia che ritrae il poeta nella sua abitazione con attorno un gruppo ampio di ragazze e ragazzi comunisti, mentre concede un’intervista, il 15 novembre del 1974, a “Roma giovani”, la nostra rivista diretta in modo “spericolato” da Nando Adornato. Si vedono, con volti attenti e con una viva partecipazione, Lucio Caracciolo, Massimo De Angelis, Alessandro Castiglia, Fabrizio Barca e tanti altri. Senza quasi accorgercene, nel ragionare sulla fase politica e gli orientamenti dell’Italia, per il poeta la nostra presenza diventò gradualmente un elemento importante, forse decisivo. Quello che continuava a colpirmi era il suo pessimismo e il suo tragico “lutto” rispetto ad un passato preindustriale e contadino, in totale controtendenza, in quel momento, con l’espansione elettorale e di egemonia del Partito comunista italiano.

Sentivamo che tutto ciò andava spiegato. Approfondito. Una sera, lasciando casa di Pietro Ingrao, il dirigente che ho amato di più della sinistra italiana, gli chiesi un giudizio su Pasolini. Mi rispose: “Un grande intellettuale, un artista importante”. Ma poi, dopo una pausa, aggiunse: “Goffredo, però è troppo pessimista. Sì, troppo pessimista”. Anche Pietro, l’uomo del dubbio, della ricerca aperta e non ortodossa, curioso della dimensione così impalpabile dello spirito e dell’umano, avvertiva un accento eccessivo di sconfitta e negatività.

Ma di molte cose venimmo a capo quando Pasolini, in privato e poi in pubblico, cominciò a definire il vero contorno del rapporto che ci legava. Non so che avesse trovato davvero di particolare in noi. Forse lo aveva colpito il nostro entusiasmo ingenuo e pulito. La semplicità dei nostri comportamenti e del modo di vestire, del tutto estranei alla moda; oppure la nettezza dei nostri convincimenti di fondo e la radicalità della nostra lotta alla Democrazia cristiana, che era diversa da quella del partito dei “grandi”. Fatto sta, che riferendosi alla marmellata generale di una umanità trasformata dalla mercificazione e dal consumismo, cominciò a pensare ci fosse un’isola nel mare del nonsenso. Quest’isola erano i comunisti.

Anzi, più precisamente, i giovani comunisti. Esternò apertamente e nel modo più sublime questi suoi convincimenti nel giugno del 1975. Quando declamò, perché di una poesia si trattava, la sua dichiarazione di voto al Partito comunista per le allora prossime elezioni regionali. L’occasione ancora una volta fu pensata e realizzata da noi. Prima di questo ulteriore evento, che sapevamo importante, volemmo rassicurarci che il partito l’avrebbe accolto bene e che soprattutto fosse favorevole al rafforzamento del rapporto con il poeta. Borgna ed io chiedemmo un incontro con Giorgio Napolitano, allora responsabile nazionale della cultura del Pci. Egli ci ascoltò con attenzione. Alla fine, con la sua consueta pacatezza, ci disse: “Andate avanti. Andate tranquillamente avanti. Noi ci siamo. Ricordate, Pasolini è una personalità nella storia italiana”.

Ci mettemmo alacremente ad organizzare la manifestazione, nella quale Pasolini avrebbe svolto il suo discorso. Scegliemmo il cinema Jolly, come il luogo più adatto. Allora grande, perché ancora non trasformato in una multisala; tra periferia e centro. Guido Ingrao, il figlio di Pietro, dirigente della Fgci, si caricò il compito di organizzare la partecipazione. In una domenica mattina, in una sala piena, Pasolini pronunciò il suo discorso: una denuncia; una resistenza per combattere; la previsione di una sconfitta di civiltà; una speranza; un atto d’amore: “Voto comunista perché ricordo la primavera del 1945, e poi anche quella del 1946 e del 1947. Voto comunista perché ricordo la primavera del 1965, e anche quella del 1966 e del 1967. Voto comunista , perché nel momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare altro […]. Ricordo e so che nel ’45, ’46, ’47 si poteva vivere la Resistenza. Ricordo e so che nel ’65, ‘66, ’67, quando era ormai ben chiaro che avevamo vissuto la Resistenza ma non la liberazione, si poteva vivere una lotta reale per la pace, per il progresso, per la tolleranza: una Nuova Sinistra in cui confluiva il meglio di tutto. Ricordo e so che, anche quando questa illusione necessaria è andata perduta, siete restati solo voi giovani comunisti”.

E poi, ecco le parole conclusive del poeta: “Ma infine so che in questo paese non nero ma solo orribilmente sporco c’è un altro paese: il paese rosso dei comunisti. In esso è ignorata la corruzione, la volontà d’ignoranza, il servilismo. È un’isola dove le coscienze si sono disperatamente difese e dove quindi il comportamento umano è riuscito ancora a conservare l’antica dignità. La lotta di classe non sembra più contrapporre rivoluzionari e reazionari, ma ormai, quasi uomini appartenenti a razze diverse. Voto comunista perché questi uomini diversi che sono i comunisti continuino a lottare per la dignità del lavoratore oltre che per il suo tenore di vita: riescano cioè a trasformare, come vuole la loro tradizione razionale e scientifica, lo Sviluppo in Progresso”. Goffredo Bettini 28 Luglio 2023

Il poeta e la Fgci. Storia di ‘Salò o le 120 giornate di Sodoma’, l’ultimo film di Pier Paolò Pasolini. Era come se il poeta avesse voluto giustificarsi con noi, mettere le mani avanti, per il timore di deluderci. Questo aveva ulteriormente accresciuto il desiderio di vedere presto la sua ultima opera. E soprattutto di indovinare, e poi averne conferma da lui, la scena a noi dedicata. Goffredo Bettini su L'Unità il 29 Luglio 2023 

Nel settembre del ’75 alla festa della Fgci, questa volta da svolgere sulla splendida terrazza del Pincio, decidemmo di invitare di nuovo Pasolini. L’occasione sarebbe stata una discussione insieme a Luigi Cancrini sulla droga. Ormai il rapporto con il poeta si era sciolto. Vi era fiducia reciproca e rimaneva molto forte in noi la gratitudine per le sue splendide parole, che sentivamo persino esagerate, sulla nostra funzione e sulla nostra realtà. La mia personale relazione con Pasolini si era sviluppata, tuttavia, sempre in incontri “ufficiali”.

Per discutere dei temi più cruciali del momento o per programmare iniziative comuni. Non partecipavo, allora, alla sua vita privata, con quel gruppo straordinario di amiche e di amici che lo ha accompagnato fino alla fine. Tra gli altri, Laura Betti, Alberto Moravia, Franco e Sergio Citti, Ninetto Davoli, Dario Bellezza e Dacia Maraini, autrice del recente “Caro Pier Paolo”; un libro struggente e sincero sul poeta. In vista del programmato dibattito pubblico, lo andai a trovare nella casa dell’Eur. Non fu lunga la parte dell’incontro dedicata alla politica. Piuttosto, ci intrattenemmo su vari aspetti delle sue uscite pubbliche, in particolare sul “Corriere della Sera”. Sul suo comunismo.

Così deluso dall’esperienza dell’Unione Sovietica, della Cina, ed anche, infine, di Cuba. L’orizzonte della rivoluzione gli sembrava definitivamente scomparso. Ripeté un concetto che già aveva precedentemente espresso: a voi tocca ancora sperare. Per me l’idea di società nella quale desideravo e desidero vivere rimane un’utopia. Sarà anche una questione di età. D’altra parte sono diventato comunista, perché sono un conservatore. Anni dopo, ripensando a queste parole, compresi meglio anche la frase così profonda e lapidaria di Enrico Berlinguer: “Dobbiamo essere rivoluzionari e conservatori”.

Vale a dire: conservare il meglio della tradizione a fronte di una innovazione spinta dai processi in atto, funzionale al mantenimento dell’assetto borghese e del capitalismo. Nell’incontro sentii accentuato, in Pasolini, un certo pessimismo. Un orrido fastidio, persino fisico, nei confronti delle mode e delle forme che la società italiana stava rapidamente acquisendo. Quando mi accompagnò alla porta, sostammo sull’uscio. E, all’improvviso, mi volle parlare di “Salò”. Il film che avrebbe girato durante l’estate. Mi disse: “Goffredo, farò un film terribile. Davvero terribile”. Aggiunse: “Sono sicuro che non vi piacerà. Eppure, vi ho dedicato un’immagine, ma non ti dico quale, la dovrete indovinare”. E come se la indovinammo! Ma su questo tornerò.

A settembre la platea di giovani ad ascoltare Pasolini era dieci volte più grande dell’anno precedente. Ancora tutti a sedere, in diecimila, in una sera splendida del settembre romano. Silenzio e partecipazione. Si pesavano le parole. E ognuno era predisposto all’ascolto. Alla fine mi sembravano tutti davvero contenti. Anche le compagne e i compagni che avevano seguito dagli stand allestiti un po’ più lontano, venuti in massa a salutare l’ospite d’onore. Per altro, il moderatore del confronto era stato Antonio Semerari. Oggi grande psichiatra, mio inseparabile amico, con una vita piena di prove dolorose, con una prodigiosa intelligenza. Per tante ragioni, pur volendoci ancora molto bene, me lo sono perso nel corso della vita. Per mia sola responsabilità.

Tornando a Pasolini: di fatto quella fu l’ultima occasione nella quale lo vidi vivo. Fino al 2 novembre, la data della sua morte, non ci furono altri incontri. Ripensavo, intanto, in quelle settimane al discorso che mi aveva fatto sul suo film “Salò”, ormai nella fase finale della lavorazione. Era come se il poeta avesse voluto giustificarsi con noi, mettere le mani avanti, per il timore di deluderci. Questo aveva ulteriormente accresciuto il desiderio di vedere presto la sua ultima opera. E soprattutto di indovinare, e poi averne conferma da lui, la scena a noi dedicata.

Purtroppo, non fu così. La notizia della morte mi arrivò come una fucilata. Mi sembrava impossibile che quell’uomo straordinario, che avevo conosciuto e che ci aveva così influenzato, fosse stato trucidato. In una landa desolata dell’idroscalo di Ostia. Nella solitudine più totale. Aggredito con modalità che sembravano già da subito oscure, e che tali sono rimaste fino ad oggi. La famiglia chiese a noi di organizzare i funerali. A Campo de’ Fiori. Si incaricò la federazione del partito di svolgere questo compito. Mentre il nostro segretario Gianni Borgna fu invitato a parlare. Gianni era emozionantissimo e gratificato. Seppure soffrendo un grande dolore. Come spesso facevamo, andammo a preparare il suo discorso, insieme, a casa di mia madre, dietro il Ministero della Giustizia a via di Santa Maria in Monticelli.

Questa volta, Gianni sentiva dentro con tale chiarezza le cose da dire, che compose in solitudine due cartelle, densissime e ispirate. Scrisse: “Pier Paolo è morto […] che fosse un grande poeta oggi sono costretti a riconoscerlo anche i suoi oppositori più ottusi [..] che fosse un uomo veramente buono, candido e aspro come lo abbiamo ancora davanti agli occhi, è invece giusto qui dirlo […] con noi, giovani comunisti, aveva stabilito un dialogo ininterrotto […]e noi gli abbiamo parlato della crisi profonda, politica ma soprattutto morale […] aveva detto che la rivoluzione non è più che un sentimento, però ne sentiva fortissima l’urgenza […] come nella storia di “Alì dagli occhi azzurri”, con le bandiere rosse che vanno verso l’ovest e il nord”.

Campo de’ Fiori era stracolma di popolo. C’erano tantissimi intellettuali, amici, giornalisti, registi e scrittori. C’era soprattutto il popolo di Roma. Una massa ondeggiante, che accompagnava il feretro verso il palco. Era una scena surreale. In piena sintonia con la presenza di Gianni e del sottoscritto. Ci capitavano spesso, infatti, episodi, anche nella tragedia, grotteschi, fuori contesto, teatrali. Infatti, il servizio d’ordine del Pci che cercava di disciplinare la situazione era guidato da Ughetto; un gigante buono, totalmente miope, fortissimo e coraggioso, popolano nell’animo e nei comportamenti. Ughetto, a un certo punto, si inalberò. Le persone stavano esagerando, pressavano troppo, toglievano il respiro agli anziani e ai bambini.

Ughetto si trasformò: con parole che non ammettevano replica e strattonando qualche intellettuale, urlò: “Non avete capito? Non volete capire? Io la bara la voglio qui!” Indicando un luogo, secondo lui adatto, per poggiare la salma del poeta. Ci fu un attimo di sorpresa e preoccupato silenzio. Irruppe, in un momento di alto cordoglio, che avrebbe dovuto permettere solo manifestazioni di dolore, l’“ordine di partito” (immediatamente eseguito) con l’accento popolare e i modi sfrontati, di quel popolo romano che Pasolini tanto amava.

Ormai sepolto il suo corpo, ci sentimmo davvero orfani. Non lo dico per retorica. Fu questo davvero il sentimento prevalente nella nostra comunità politica.

Finito “Salò”, concordammo con la famiglia e la produzione, di organizzare un’anteprima. Soprattutto per i dirigenti del Pci. Era anche la prima volta che noi stessi lo avremmo potuto vedere per intero. La proiezione, mi pare, si svolse in una sala vicino a Santa Maria Maggiore. Selezionammo gli inviti con cura. Vedere “Salò” fu il completamento di un discorso che Pasolini progressivamente ci aveva voluto trasmettere. Rinnegata ormai la “Trilogia della vita”, che già nell’ultima opera “Il fiore delle mille e una notte” presagiva un sentimento di morte, il regista aveva portato allo stremo le conseguenze del suo rifiuto della società mercificata. In “Salò” i corpi diventavano essi stessi solo merce. Da consumare, torturare e sbrindellare. Il richiamo alla Repubblica sociale, in verità, fu più un espediente che un riferimento storico. Era l’oggi che bruciava. Nel girone della “merda” dell’inferno dantesco-pasoliniano, l’invettiva si presentò in tutta la sua disgustosa verità.

Il consumo, il fanatismo dell’appropriazione degli oggetti, i beni di un mondo falso, artefatto, violento, si impastavano ed erano essi stessi escrementi. Le regole che gli aguzzini imponevano seguivano una geometria astratta e paranoica. Gratuitamente persecutoria. Il potere assoluto, la dittatura su ogni cosa, nell’imprevedibilità delle punizioni, rappresentava la più concentrata forma di anarchia. L’anarchia di una volontà senza limiti. Priva di coscienza e di responsabilità.

Appena riaccese le luci di sala, mi guardai intorno per vedere le reazioni. Difficile dire. Sicuramente contrastanti, ma dette a mezza bocca, con sobrietà e rispetto; anche, con un po’ di reticenza. Andai da Ingrao per chiedere il suo parere. Mi sorprese per la sua nettezza: “È un film importante. Forte e bello”. Ero contento di ritrovarmi d’accordo con lui. “Salò”, secondo me, ha la perfezione di un diamante trasparente. Le scene finali sono viste da un cannocchiale alla rovescia. Per marcare una distanza e attutire l’effetto delle torture. Ma nello stesso tempo c’è un invito a guardare: “Guarda, guarda” dice uno degli aguzzini. Sì: guardare la realtà. Farsene carico, persino con il proprio corpo. Pasolini in un’occasione aveva quasi urlato: “Io il fascismo l’ho vissuto sul mio corpo”.

Subito dopo, con gli amici del gruppo dirigente della Fgci, ci interrogammo sulla scena che il poeta aveva voluto indirizzare a noi. Fu facile concordare: era il momento nel quale la catena delle delazioni da vittima a vittima si interrompe. Si interrompe la corruzione e l’accondiscendenza dei prigionieri. All’irruzione di un gruppo di militi repubblichini, un ragazzo che fa l’amore con una giovane di colore (entrambi completamente nudi), si erge, di fronte alle baionette pronte a sparare, offre il suo corpo al martirio, alzando il pugno chiuso. È la discontinuità nella continuità. È la speranza nel dolore. È l’affermazione della dimensione umana contro il gelido meccanismo degli assassini. Goffredo Bettini 29 Luglio 2023

Il poeta e la Fgci. Quando Pasolini disse: “Spero nei giovani comunisti e radicali”. Toccò a noi leggere il discorso che Pasolini aveva preparato per il congresso del partito radicale. E poi di nuovo Laura Betti ci impose di pronunciare al festival internazionale di Parigi un discorso di presentazione di Salò. I francesi non volevano, ma cedettero. Goffredo Bettini su L'Unità l'1 Agosto 2023 

In quei giorni continuò il nostro impegno per il poeta. Pasolini sarebbe dovuto intervenire al congresso dei radicali. Pannella aveva con lui un rapporto speciale. Il discorso era già stato scritto e si trovava nelle carte del poeta. Ancora una volta la famiglia chiese a noi di partecipare all’evento e di leggere il testo. Con Pannella negli anni successivi costruii un rapporto di grande amicizia e intimità. Ma allora non l’avevo mai incontrato. Anzi, lo avevo visto da lontano nell’emiciclo del Palasport, al congresso nazionale del partito nel ’75, alzarsi dagli spalti più alti nei panni di un grande uccello nero. Una delle sue frequenti provocazioni.

L’assise radicale si svolgeva a Firenze. Andammo lì con la macchina, Borgna, il poeta e scrittore Vincenzo Cerami e io. Ricordo una sala gremita all’inverosimile. Le parole di Pasolini erano molto attese. Non c’è da commentare molto. Eccole: “Prima di tutto devo giustificare la presenza della mia persona qui. Non sono qui come radicale. Non sono qui come socialista. Non sono qui come progressista. Sono qui come marxista che vota per il Partito Comunista Italiano, e spera molto nella nuova generazione di comunisti. Spera nella nuova generazione di comunisti almeno come spera nei radicali. Cioè con quel tanto di volontà e irrazionalità e magari arbitrio che permettono di spiazzare – magari con un occhio a Wittgenstein – la realtà, per ragionarci sopra liberamente. Per esempio: il Pci ufficiale dichiara di accettare ormai, e sine die, la prassi democratica. Allora io non devo aver dubbi: non è certo alla prassi democratica codificata e convenzionalizzata dall’uso di questi tre decenni che il Pci si riferisce. Sarebbe un’autodegradazione sospettare che il Pci si riferisca alla democraticità dei democristiani”.

Ancora una volta Pasolini aveva voluto chiarire da che parte stava. Con i comunisti. Con i giovani comunisti. Aveva mandato un messaggio che io ho sempre inteso così: accompagno con tutte le mie forze voi, sfruttati e poveri, per la conquista dei vostri diritti. Mantenete, tuttavia, la vostra alterità. Non corrompete la vostra grazia. Quella grazia, ormai sfigurata dalle logiche di chi vuole assorbirvi. Nel combattere, non mutuate il linguaggio e le parole dei vostri avversari. Era già la fase nella quale il capitalismo iniziava ad omologare tutte le forme. Non più forme contro altre forme. Non l’alterità. Ma crisi di civiltà. La deformazione di tutte le culture particolari e degli spazi spirituali come la vera missione della nuova borghesia. I rapporti sociali e umani non imposti dall’esterno, come nel passato. Piuttosto incorporati nello sviluppo della tecnica e della comunicazione. Con la maschera dell’innovazione, ritenuta oggettiva e indiscutibile.

L’avversario, sciogliendosi e disaggregandosi, uniforma e comanda. Le varie forme umane: granelli di sabbia. Anche la resistenza e la rivolta: increspature o mulinelli destinati presto a depositarsi, nel deserto, come false illusioni. Senza amicizia e amore perché non disponibili all’altro. L’occhio che “vede” cerca di resistere a questo flusso. Punta i piedi. Per non sparire. Sono isole per risalire a qualche senso dell’esistenza. Inciampi rispetto all’animazione meccanica della vita. In forme diverse: i giovani comunisti e i radicali, dallo scandalo e dalla bestemmia, debbono ricominciare un qualche cammino. Pasolini è stato un profeta; si è detto perfino un po’ decadente ed esteta. Lascio giudicare i lettori. Se profeta (come anche io credo), non dedito ad indovinare il futuro, piuttosto a immergersi nelle viscere del “suo presente” per vedere meglio il nemico arrivare.

***

Qualche settimana dopo, un po’ a nome di tutti, Laura Betti ci chiese di accompagnare “Salò” al festival internazionale di Parigi per la prima mondiale. A Parigi aveva fatto clamore un festival erotico. E questo, probabilmente, non era piaciuto al Presidente Giscard d’Estaing. Per cui quest’ultimo pensò di promuovere nella capitale francese un incontro, persino solenne, del cinema internazionale di qualità. Credo che la manifestazione nel corso del tempo sia scomparsa. Anche perché, alla sua prima edizione, aveva, appunto, un carattere contingente. Laura Betti in quel momento, dopo la morte di Pierpaolo, si sentiva con qualche ragione, la sua legittima vedova.

L’interprete “indiscutibile” del suo pensiero. Era davvero addolorata, scossa emotivamente. Ciò accentuava il suo carattere teatrale, fumantino, misto di dolcezza e improvvisa cattiveria. Con me aveva un rapporto molto buono, speciale. Anche perché le stavo molto appresso, la contraddicevo poco e mi comportavo da ragazzo ubbidiente. Laura aveva deciso, un po’ unilateralmente, che la Fgci di Roma non solo dovesse essere presente alla prima di “Salò”, ma che avrebbe dovuto assolutamente parlare prima della proiezione. Un discorso esplicito, portando a Parigi l’ultimo messaggio politico del poeta. Decidemmo che oltre al sottoscritto, dovesse venire Ferdinando Adornato. Mi faceva piacere, perché ne ero amico e apprezzavo la sua “vis” comica e la sua simpatia. Si decise di partire in treno.

In quel tempo per Parigi c’erano degli ottimi vagoni letto e Laura prenotò due cabine comunicanti. L’attrice era particolarmente ispirata, quasi sempre tutta vestita di nero e con gli occhi infuocati. Ogni tanto entrava nel nostro scompartimento, con un motivo o con un altro, suscitando in noi qualche apprensione e imbarazzo. Nel frattempo, durante il viaggio dovevamo scrivere la presentazione che avremmo dovuto poi leggere sul palco. Ne vennero fuori due paginette, senza particolari picchi di qualità, ma sincere e dirette.

L’arrivo fu per noi un’esperienza indimenticabile. Avevo visitato Parigi già almeno tre o quattro volte. Ma mai accolto in quel modo: una grande Citroen nera, il famoso “ferro da stiro”, ci aspettava nell’atrio della stazione. Il comando delle operazioni era strettamente nelle mani di Laura. Noi seguivamo trotterellando. L’autista si diresse verso la zona dell’Arco di Trionfo. E ci depositò davanti ad uno degli alberghi storici e più belli di Parigi: il Giorgio V. Nando ed io ci guardavamo intorno, contenti e smarriti. La stanza era enorme, lussuosa, ma elegante. Non eravamo mai stati in un albergo di così alto livello. Laura si era accomodata in una stanza vicino, nella quale cominciò subito uno strano traffico di visite di intellettuali e scrittori francesi. La sera ci sarebbe stata la proiezione.

Chiedemmo alla Betti se volesse controllare il nostro intervento e se tutto era stato predisposto in modo pacifico. Avute assicurazioni in questo senso, sempre con la nostra lussuosa autovettura, ci recammo fino alla grande sala nella quale si sarebbe proiettato il film. Dovevamo conoscere il direttore del festival. Non ne ricordo il nome, ma era un francese educato, elegante e molto compenetrato nel suo ruolo. La “pizza” di “Salò” la portavamo sottobraccio noi, su ordine di Laura. Il prezioso oggetto era stato custodito durante tutto il lungo percorso da Roma con religioso rispetto e grande attenzione.

A quel punto l’amica che ci guidava si intrattenne a parlare con gli organizzatori della manifestazione. Credo per la prima volta, al contrario di quello che ci aveva detto, comunicò loro che due giovani dirigenti comunisti, avrebbero parlato prima che iniziasse la proiezione. Il direttore cascò un po’ dalle nuvole. Non capì bene neppure chi fossimo. Se lo fece ripetere. Noi imbarazzati stavamo in disparte. Poi, in modo prudente per non suscitare reazioni, disse che non era possibile. Il festival aveva stabilito delle regole, era stato promosso ufficialmente dalla Presidenza della Repubblica, non erano previsti interventi, tanto più di carattere prettamente politico. Si accese la miccia. Laura strabuzzò gli occhi, lo incenerì con uno sguardo inequivocabile di odio e poi, senza spiegarci nulla, ci ordinò: “Riprendiamoci la pizza! E andiamo immediatamente via! Non hanno capito chi era Pierpaolo!”.

Non avemmo il tempo neppure di pensare e di abbozzare una minima reazione. L’attrice si diresse verso l’uscita alla massima velocità consentita da una certa rotondità del suo corpo. Lasciò i francesi da soli, senza più il film e senza alcuna possibilità di replica. Laura ci infilò di forza nel taxi, sempre con la pizza sotto al braccio, e ordinò all’autista di tornare al Giorgio V. L’incidente procurò qualche scalpore. E soprattutto la disperazione del direttore, che non sapeva più come recuperare. Alla fine furono pazienti. Fummo richiamati in albergo, il direttore capitolò. Laura trionfante ci disse di ricaricarci il film per riportarlo al festival. Poi in modo enigmatico, in auto, ci disse soddisfatta e tagliente: “Con i francesi bisogna fare così!”. Goffredo Bettini

Il poeta e la Fgci. Come è morto Pier Paolo Pasolini: storia dell’amicizia del poeta con la Fgci. Per alcuni importantissimi mesi era stato amico e maestro. Aveva cambiato le nostre menti e le emozioni. Diventò semplicemente il mito. Moravia gridò: è morto un poeta, è morto un poeta! Goffredo Bettini su L'Unità il 2 Agosto 2023

Così quel giorno, al di là di ogni consuetudine, due sconosciuti giovani comunisti romani di fronte ad una platea di mille persone e alla “crema” intellettuale e artistica della capitale francese, presentarono quelle due paginette, stentatamente battute a macchina al “Giorgio V”, che dovevano introdurre “Salò”, perché il film di Pasolini era stato in qualche modo a loro dedicato. Né io né Nando Adornato eravamo in grado di tradurre simultaneamente il testo dall’italiano al francese. Qui ci venne in soccorso Bernardo Bertolucci. Lessi io il testo e, interrompendo di tanto in tanto, il nostro amico regista lo riportava in francese.

Fu una serata molto particolare. La mia vera passione, oltre alla politica, è stata sempre il cinema. Anzi, il cinema è venuto prima. Proprio all’inizio dell’adolescenza. Stare lì, parlare lì, protagonisti, anche noi, dell’avvio del lungo viaggio dell’opera del poeta, lasciò in me un’impronta incancellabile. La sera Bertolucci ci portò tutti in una brasserie vicino alla Bastiglia. Una grande tavolata di amici, artisti e registi francesi. Di fronte a me si era seduto Louis Malle. Un mito. Con il quale cercai di attaccare bottone, in un clima di serena allegria e di chiacchiere intelligenti. Si parlò molto di Pier Paolo.

Il giorno dopo saremmo dovuti partire. Mi svegliai molto presto, come era mio solito. Nando, invece, dormiva profondamente. Scesi piano piano e mi avviai pieno di vitalità, verso gli Champs Elysees. Nel fresco delle prime ore del giorno, con solo qualche bar aperto e i netturbini a pulire i resti della notte precedente, andando incontro all’enorme discesa che porta fino al giardino delle Tuileries, compresi l’euforia che può dare Parigi. La grandezza della sua storia e della sua cultura, i caffè dove sui tavolini traballanti hanno scritto fior fior di letterati e Joseph Roth ha composto i suoi libri su fazzolettini di carta. Parigi, in certi momenti, ti fa attraversare il mondo intero. Lo racchiude. Lo esalta. Ne coglie la grandezza e, a ricordare bene la storia, il suo dolore. Gli Champs Elysees: le manifestazioni del ’68, i cortei del fronte popolare, i momenti gioiosi e gloriosi della repubblica francese. Anche i carri armati nazisti nel momento più triste delle vicende europee. Ti tornano nell’animo e possono darti un senso di onnipotenza; proiettarti in una dimensione di felicità incontenibile, dalla quale vedi tutto dall’alto e ti sembra di volare.

Al ritorno in albergo, con i piedi di nuovo per terra, preparammo le valigie. Era l’ora di tornare. Discutemmo con Adornato come rastrellare tutte le creme, i saponi, gli shampoo, le pantofole, e ogni ben di dio che il “Giorgio V” metteva a disposizione della clientela. Ci fermammo di fronte alle vestaglie e agli ombrelli. Alla fine Nando, avvalendosi del fatto che aveva la sua ragazza, Antonella Prisco, che lo aspettava, ebbe la parte più consistente. Un mio piccolo gesto di generosità, che feci con piacere, per un amico che ho sempre stimato. Nei mesi successivi Pasolini continuò a stare al centro dei nostri pensieri e del nostro lavoro politico. Nel 1976 ripetemmo la festa della gioventù, al Pincio. Borgna era transitato nel gruppo dirigente nazionale della Fgci, con D’Alema segretario. Veltroni lo aveva sostituito, mantenendo l’ispirazione della Fgci che avevamo costruito tutti assieme negli anni passati. Questa volta al poeta scomparso intendemmo dedicare una serata, con la proiezione di un breve film da noi stessi prodotto e girato. Anche in questo caso Laura Betti fu protagonista.

Il lavoro risultò complicatissimo, perché l’attrice continuava ad essere molto umorale. Con qualche ulteriore aggravamento della sua instabilità. All’inizio si impegnò in questo lavoro per la Fgci un compagno intelligentissimo, ironico e molto educato, Paolo Lepri. Oggi importante giornalista del “Corriere della Sera”. Tuttavia Paolo cadde sul campo. Era troppo sensibile per fronteggiare la spinta emotiva di Laura Betti. In corso d’opera Veltroni mi chiese di sostituirlo. Per tre mesi fui impegnato dalla mattina alla sera nel costruire le condizioni per la realizzazione del film. L’idea era di far girare brevi sequenze a tanti diversi registi italiani, in qualche modo coinvolti nella vita di Pier Paolo. Accettarono di collaborare molte personalità del cinema italiano. Bertolucci, Maurizio Ponzi, Carlo Lizzani e tanti altri. Il titolo scelto fu: “Il silenzio è complicità”.

La tesi era chiara: non era stato solo Pelosi ad assassinare il poeta, c’erano più persone, le indagini fin dall’inizio furono omertose. Nel lavoro di elaborazione finale della nostra piccola opera, fu essenziale una persona che ricordo con grande affetto e gratitudine, Kim Arcalli. Il montatore di quasi tutti i film di Bertolucci. Lavorammo con lui in moviola, vicino a Piazza del Popolo, per tanti giorni, ininterrottamente. Tant’è che Arcalli mi propose di trasferirmi a casa sua. Che mi pare fosse a Via di Ripetta. Accettai e mi trovai a convivere con un genio del montaggio, scoprendo il suo carattere umanissimo, disponibile e felice di insegnare. Credo che già allora il suo corpo stesse combattendo l’aggressione di un male incurabile. Che lo portò via qualche tempo dopo.

Il film “Il silenzio è complicità” era un susseguirsi di scene poetiche dedicate a Pasolini, di suoi testi e di interviste ai giovanissimi delle borgate e agli avvocati che sostenevano le ragioni di una morte misteriosa. Non era un granché. Risultava un po’ sconnesso e con alti e bassi. Nonostante i miracoli di Arcalli. Però è una testimonianza incredibilmente importante su Pasolini. Con alcuni pezzi di cinema notevoli: la lunga sequenza girata da Maurizio Ponzi all’idroscalo di Ostia, le riprese alla Torre di Chia, alcuni dialoghi con il popolo su Pasolini. Per tanti anni non ho saputo dove stesse ciò che era rimasto della pellicola. Poi alla fine la ritrovammo alla Cineteca di Bologna. Usurata, ma ancora fruibile.

In verità con le ultime sequenze del nostro omaggio a Pasolini, si concluse definitivamente la fase nella quale sentivamo il poeta ancora vivo, in mezzo a noi, parte del nostro lavoro e del nostro impegno. Poi Pasolini acquistò ai nostri occhi il profilo di un “mito”, ormai definitivamente sepolto. Era stato al centro di una stagione decisiva della nostra vita. Aveva colto forse, in noi, la freschezza di una militanza innocente, persino sognante. Presto le cose sarebbero cambiate, il ’77 avrebbe riportato sulla scena le violenze e gli ideologismi. E da quel momento, il rapporto tra la gioventù e il partito comunista non si recuperò mai più pienamente.

Berlinguer negli anni successivi parlò della nostra “diversità”. Fu preso per un settario. Ma in realtà voleva dire una cosa simile a quella che Pasolini rivolse a noi: siamo un’isola in mezzo ad un mare in tempesta che dobbiamo affrontare. Ci sono momenti alti e quelli di risacca. In quelli di risacca conta non tradire se stessi. E Pasolini ci invitò a farlo con il linguaggio di un poeta. Perché, al di là di tutto, era fondamentalmente un poeta. E, come gridò Alberto Moravia (a mo’ di preghiera) durante i suoi funerali, con voce affranta e spezzata, in una sorta di invocazione rivolta al cielo di Roma: “È morto un poeta! È morto un poeta! E di poeti in un secolo ne nascono pochi!”. Goffredo Bettini 2 Agosto 2023

La dedica al poeta. “La morte der Zor Paolo”, la poesia su Pasolini di Antonello Trombadori. Duccio Trombadori su L'Unità il 3 Agosto 2023

In calce al pensieroso e sintomatico memoriale di Goffredo Bettini sul “poeta e la FGCI”, pubblicato nei giorni scorsi dall’Unità, allego due sonetti di Antonello Trombadori pubblicati in forma di “samizdàt” in 300 esemplari numerati, datati 7.01. e 14.09.1976,e ispirati dalla morte violenta di Pier Paolo Pasolini, e dedicati all’amico Gianni Borgna.

Il “samizdàt” era illustrato da un disegno di Renato Guttuso sul canto XXV del Purgatorio (I “lussuriosi”)e da uno di Mario Moretti. Lo chiudeva una breve nota scritta da P.P.Pasolini intitolata “La mia giornata”, e pubblicata su Paese Sera il 3.12.1961.

La morte der Zor Paolo

Doppo der Belli Pasolini è er forte

Quell’ antri stanno tutti a mezz’ artezza,

Gnisuno ppiù de lui sfidò la sorte

P’ aridà a la parola la chiarezza.

Senza conosce un cazzo debbolezza,

De Roma uprì e sserò tutte le porte

E p’ annà fin’ in fonno a ogni schifezza

Nun s’ arese ar ricatto de la morte.

Chi ppo’ ddì com’ annò quanno che cquello

L’ allessò co’ ‘n carcione ne le palle?!

A mme me sa che s’ arifesce bbello

Come ner firme suo quer partiggiano

Che cquanno lo pijarono a le spalle

S’ arivortò cor pugno chiuso in mano. (*)

(*)In “Salò o le 120 giornate di Sodoma” un giovane contadino reclutato a forza dalle SS come milite delle brigate nere nella villa delle nefandezze, viene scoperto a far l’amore con la serva negra e crivellato di revolverate sul posto

Duccio Trombadori 3 Agosto 2023

Dacia Maraini: «Tra le iene in Africa la Callas mi si avvicinò e disse: voglio sposare Pasolini». Storia di Eugenio Murrali su Corriere della Sera sabato 15 luglio 2023.

All’inizio del 1970 Dacia Maraini e Alberto Moravia raggiungono Pier Paolo Pasolini e Maria Callas a Dakar, in Senegal. Di lì si spostano in Costa d’Avorio e Mali.

Perché l’Africa? «Pasolini rincorreva il sogno di una mitica purezza in un luogo libero da borghesia e industrializzazione. All’inizio aveva identificato questa purezza con i contadini di Casarsa, il suo Friuli, poi, deluso, ha spostato questo sogno sul sottoproletariato romano. Infine, sull’Africa. Cercava inoltre ambienti per i suoi film. E poi eravamo molto amici, ci piaceva viaggiare insieme, vedere mondi straordinari».

In cosa consisteva la straordinarietà? «L’Africa nera è un’esperienza unica. Ci sono zone in cui l’uomo non ha mai coltivato la terra, dove resistono foreste tropicali di mille anni o si distendono dune di sabbia che si ripetono all’infinito. In Europa viviamo in un ambiente assoggettato dall’uomo. In Africa la natura ti sorprende, è dominante. Un poco fa paura con la sua forza, la sua presenza arcaica e misteriosa».

Come vi organizzavate? «Non organizzavamo. È quello il bello. Arrivavamo in aereo. Affittavamo una Land Rover. Poi, accompagnati da un autista africano, andavamo alla ventura, nei luoghi più remoti. Non ci è mai successo niente».

Com’era il Senegal? «Un Paese civile e ordinato in quegli anni. Dopo, l’Africa è cambiata per tre ragioni: il fanatismo religioso, l’AIDS e le guerre, allora non così diffuse».

La prima impressione su Maria Callas? «Ho capito che non era la diva dei palcoscenici. Si è presentata in blue jeans, scarpe da ginnastica, capelli a coda di cavallo, senza trucco. Mi ha fatto simpatia subito. Si è adeguata a tutto».

Si sentiva libera? «Forse. Era come una bambina spaventata, umile, intimidita da Pier Paolo, che considerava un maestro. Taceva, ascoltava. Era abituata a Onassis, uomo brusco, nei suoi racconti».

Cosa aveva trovato in Pier Paolo? «Un essere gentile, rispettoso, che l’ascoltava e aveva con lei una tenerezza straordinaria. Era felice, innamorata e sorpresa della dolcezza di Pier Paolo».

Era ricambiata? «Sul piano dell’affetto sì, ma non fisicamente. Una volta, per dormire, siamo finiti in una casa in cui si potevano affittare due semplici stanze senza bagno né nulla, con due letti ciascuna. Maria disse: “Io vado nella camera con Pier Paolo”. E lui: “No. Le donne con le donne e gli uomini con gli uomini”».

Video correlato: Dacia Maraini - Unomattina Estate - 21/06/2023 (RaiPlay)

Avete condiviso la stanza? «Sì, ma per svestirsi faceva acrobazie. Si vergognava. Ho detto: “Non preoccuparti, esco”. Uscendo, si era vicini alla foresta. Ho sentito un odore tremendo e ho visto una iena. Le iene puzzano perché mangiano i cadaveri. Poi ne è arrivata un’altra. Mi sono spaventata. Sono rientrata precipitosamente. Maria era già a letto. Mi parlò di Pier Paolo».

Cosa disse? «Sperava di poterlo sposare. Io provavo a dirle che mi pareva difficile. Sapeva che era omosessuale, ma pensava di poterlo cambiare. Era dolcissima in questo sogno infantile. Nella vita era candida e ingenua».

Della Costa d’Avorio ha ricordi particolari? «La sensazione di un mondo immobile, uguale da tremila anni. Una percezione che colpisce i sensi e l’immaginazione. Lì l’uomo non ha mai contato niente, forse è passato a piedi, ma senza interferire con la natura. Poi la bellezza lunare. Sì, era come andare sulla luna, tra paesaggi mai visti».

La povertà vi impressionava? «Sì, però non era miseria. Le persone erano povere, ma in armonia con l’ambiente. Il villaggio si sosteneva con un pozzo e piccole coltivazioni di manioca, tapioca, patate. Vivevano come i loro avi, dei frutti della terra: cocco, ananas, avocado, banane. Con il miglio facevano il pane e la birra, buonissima fra l’altro, avevano il mango, tantissimo, anche noi lo mangiavamo continuamente».

E in città? «Lì la miseria era terribile, si sentivano gli effetti della colonizzazione. Ad Abidjan Alberto era impressionato dal nostro albergo, gli sembrava un grattacielo occidentale trasferito in Africa, lo definiva un museo inconsapevole di violenza economica, turistica e culturale. Anche lui poi non considerava gli africani diversi dagli europei, scriveva: “Sfruttando, schiavizzando, opprimendo l’africano, l’europeo ha in realtà sfruttato, schiavizzato, oppresso l’‘altro’ se stesso”».

Lei racconta spesso la diversità di Pasolini e Moravia. «Sì, ma si volevano bene. Per Alberto la ragione era uno strumento di conoscenza, per Pier Paolo no, contavano i sensi. Dico sempre che, tornati da un viaggio in India, Alberto scrisse Una certa idea dell’India, mentre Pier Paolo L’odore dell’India. Si compensavano».

Mai una disavventura? «Una volta ci si è fermata l’automobile nel nulla. Sfreccia all’improvviso una Mercedes da deserto. Dentro c’è un monsignore. Ci porta nella sua missione. Non sapeva chi fossero Moravia, Callas, Pasolini, in compenso conosceva i nomi di tutti i calciatori italiani. Per fortuna se l’è sciroppato Pier Paolo, esperto di calcio».

E lì? «Abbiamo dormito in cellette spoglie. Pensavamo di lasciare 200 dollari. Al mattino una cameriera a piedi nudi porta un biglietto del monsignore: “800 dollari”. Una tariffa da grande albergo. Ci tengo a dire però che altre volte abbiamo conosciuto sacerdoti straordinari, bravi, generosi».

C’è un suo documentario di anni dopo, Ritratti di donne africane. Cosa la colpì? «Parlavo con le donne. Ad Abidjan andai in una fabbrica di scatolette di tonno. È curioso che nelle città le famiglie si rompevano regolarmente ed era pieno di donne sole, le quali, giustamente, con tanti figli e pochi soldi, dividevano la casa con altre donne. Una faceva il pane, una si occupava dei panni, una dei bimbi, un’altra andava a lavorare. Era un modo di vivere solidale».

Gli uomini? «Non so che facessero. Le donne si occupavano di tutto: spazzine, operaie, venditrici. Nei villaggi invece le famiglie tenevano, anche se erano le donne a fare i lavori pesanti: raccoglievano e portavano la legna sulla testa in enormi fascine, facevano chilometri per prendere l’acqua nei marécage, se non c’era il pozzo».

Del Mali ha ricordi precisi? «Io non distinguo molto i Paesi dell’Africa nera nella memoria, perché i loro confini li hanno creati gli europei. Alberto scriveva che il destino degli africani è quello di camminare sempre in quell’Africa nera che appare come “un solo organismo”. Io pure l’ho vista come un insieme, fatto di politeismo e di popoli nomadi. La grande distinzione era tra Africa di mare, di campagna, Africa della foresta, commovente, bellissima. In un altro viaggio, forse in Congo, i pigmei mi hanno fatto piangere».

Perché? «Erano strazianti. Era come se recitassero una parte, sapendo che stavano scomparendo con la loro cultura. Li ricordo piccolissimi, a volte malati, con qualcosa di disperato nello sguardo, che mi ha dato un senso di fine, di dolore, di tristezza».

LA MORTE DEL POETA PIER PAOLO PASOLINI

Gaia Vetrano il 28 Gennaio 2023 su nxwss.com

Sul concetto di verità, Pier Paolo Pasolini una volta disse:

Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario

Nella storia che vi stiamo per raccontare, le bugie hanno le gambe ancora troppo lunghe, e vanno a braccetto con la morte.

Il 2 novembre tutte le strade portano all’Idroscalo di Ostia, nei pressi del cinema Argo. Si sa, persino le anime più profonde hanno bisogno di tempo e di un luogo per riflettere.

Il vento soffia in quello che è ormai considerato un locus amoenus per il poeta Pasolini, ultimo grande fiore del Novecento italiano. L’ex aeroporto per idrovolanti e aerei anfibi civili e militari, bagnato dalle acque del Tevere, è febbricitante di “attualità”. Pasolini, proprio lui, l’artista che, sempre criticato per la sua trasgressività, dava voce alle borgate.

In anni come il 1975 di poeti ne nascono due o tre. Sono sacri.

Pier Paolo, dall’esistenza braccata, sempre nel mirino, per colpa della stessa diversità che lo contraddistingue e per cui in pochi lo osannano, ha proprio bisogno di un luogo dove possa ritrovarsi. Tra i granelli di sabbia, il canto dei gabbiani, e l’odore di salsedine, basta poco per dare un senso ai propri pensieri.

Per molti l’Idroscalo è infatti un luogo rappresentativo della periferia romana, dove ci si reca per passare le giornate più soleggiate. Così le famiglie, come quella di Maria Teresa Lollobrigida, si dirigono lì per fare scampagnate e impiegare il tempo con serenità.

Certo, a novembre c’è senza dubbio un po’ di vento e di freddo. La sabbia rischia di finire negli occhi e non è comodo mangiare tra le lamiere scoperchiate, le case abbandonate, i copertoni negli angoli e qualche cane randagio. È un posto modesto, ma Teresa abita nelle vicinanze, e questo è il luogo più comodo se non si vuole fare troppa strada.

Eppure, è assurdo quando l’inciviltà altrui rovina le spiagge. “Guarda te che maleducati che lasciano la spazzatura”, pensa tra sé e sé Teresa. Incredibile che nessuno dica niente davanti a qualcuno che abbandona un cumulo di rifiuti sulla sabbia. Così ci si avvicina, intenta a pulire al posto degli altri.

Teresa scruta quell’ammasso colorato di rosso. Quella non è spazzatura, ma un tumulo di stracci insanguinati, appartenenti a un cadavere. Le mosche non sono attirate dai resti del cibo avanzato, ma dalla materia grigia che fuoriesce dal cranio martoriato. La canottiera verde è ormai intrisa dal sangue. La donna tira un urlo e chiama le Forze dell’Ordine.

In gioco entra subito un carabiniere. Lo spettacolo è raccapricciante, di certo non adatto a dei bambini. Il cadavere è riverso, con le mani dietro la nuca, colpito da quella che si pensa essere un’arma da taglio. Assieme alla polizia arrivano anche gli abitanti della zona. La spiaggia, fino a quel momento deserta, adesso pullula di gente. Qualcuno è sinceramente preoccupato: raramente così tante volanti si recano in quel luogo disabitato. Altri sono semplicemente dei curiosi ficcanaso. 

Nessuno sa ancora che, coperto dal telone della scientifica, non c’è il corpo di un comune pescatore romano. Bensì quello di Pier Paolo Pasolini. A confermarne l’identità arriva l’attore e amico Ninetto Davoli, che toglie ogni dubbio.

Molti raccontano di aver sentito delle urla provenire da una casa nelle vicinanze quella notte. Qualcuno che parlava in siciliano. Poi dei rombi di moto, infine il silenzio. Gli abitanti della zona non proferirono più alcuna parola durante le indagini.

Lo sapevi, peccare non significa fare il male: non fare il bene, questo significa peccare

Epigramma dedicato da Pasolini a papa Pio XII, Eugenio Pacelli, che fu accusato di non essere intervenuto durante la II guerra mondiale per fermare la persecuzione ebraica

Viene spezzata la voce delle periferie violente, dalle quali le persone per bene si tenevano alla larga. Colui che tanto aveva parlato di corruzione, di povertà, di bassifondi. Il narratore di quella classe sociale meno agiata che tanto lo respinge e lo guarda con sospetto.

Quella notte del 2 novembre non è lui quello che si macchia di un enorme peccato. Cosa ci faceva infatti il diciasettenne Giuseppe Pelosi a bordo dell’auto del regista? Perché Pasolini?

Quello che sembra essere in realtà un film, diventa uno dei casi più misteriosi e complessi della storia del nostro Paese. Sedetevi comodi, perché oggi vi raccontiamo il delitto di Pier Paolo Pasolini. 

Chi era Pasolini?

Su Pier Paolo Pasolini, durante l’orazione funebre in suo onore, Alberto Moravia fa uno degli elogi più importanti della letteratura italiana. 

“Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue file. Abbiamo perso prima di tutto un poeta. […] Tutto questo l’Italia l’ha perduto, ha perduto un uomo prezioso che era nel fiore degli anni.”

Nato a Bologna da una famiglia borghese, la sua voce ha davvero tanto da raccontarci. Parliamo infatti di una figura le cui posizioni da intellettuale comunista e anticlericale lo resero sin da subito un bersaglio per la comunità romana. Mai nessun artista italiano dovette giustificarsi come lui per le sue idee in Tribunale.

La morte del fratello Guido, ucciso da partigiani comunisti filo-jugoslavi, non impedisce al giovane Pasolini di aderire al marxismo, l’ideologia che sente più vicina ai lavoratori e al mondo degli umili. Durante l’adolescenza, in seguito all’arresto del padre, si stabilisce con la madre in Friuli, dove entra in contatto con l’arcaico e primigenio mondo contadino, incontaminato e innocente. Nel 45’ si laurea in lettere e, a ventisette anni, è già un professore stimato a Udine, mentre inizia a pubblicare libri di poesie.

Un’altra scoperta di quegli anni è quella più intima della sua omosessualità. Pier Paolo è attratto dalle persone del suo stesso sesso e confida ciò solo ai suoi amici più stretti. In un piccolo ambiente di provincia può costargli infatti caro.

Eppure, quando si perdono i freni inibitori, è difficile mantenere il controllo. Questo è quello che succede a Pier Paolo una sera durante una sagra di paese a Casarsa. Pasolini ha bevuto fin troppo per rendersi conto dell’età dei giovani consenzienti con cui intrattiene dei rapporti sessuali, che si limitano alla masturbazione. Sono tutti dei minori.

Nei piccoli centri è facile che le voci si diffondano, e che purtroppo arrivino alle orecchie dei Carabinieri che, nonostante gli altri ragazzi coinvolti non fossero intenzionati a porgere denuncia, decidono comunque di aprire delle indagini. Accusano Pasolini di pedofilia e per questo è espulso del Partito Comunista Italiano. Attorno a lui cala un silenzio pieno di vergogna e il poeta medita il suicidio.

Fa le valigie e insieme alla madre Susanna parte per la capitale.

Negli anni 50’ Roma è una città in piena espansione e Pasolini viene accolto dal turbinio di vita di questa. Le cicatrici della guerra sono ancora visibili, ma si cerca di nasconderle, grazie anche alle nuove attività gestite dalle famiglie di immigrati che vengono aperte.

Pier Paolo è avido di nuove esperienze e di assaporare ciò che i bassifondi e le borgate romane possono offrirgli.

Il giovane diventa esploratore di un mondo nuovo e attraversa le strade di giorno come cittadino alla ricerca di un impiego, di notte nella speranza di accontentare nuovamente i suoi desideri carnali.

Pasolini ritrova nei “Ragazzi di Vita” – titolo di un suo romanzo – con cui passa le sue notti l’ispirazione necessaria per la scrittura. Da qui il poeta che non si accontenta della penna e, dinnanzi al boom economico, che determina una mutazione antropologica, sfrutta i nuovi mezzi di comunicazione: il cinema e il giornalismo. 

Con la sua coraggiosa e polemica voce crea scalpore e scandalo, attaccando apertamente gli aspetti marci e corrotti del potere e della vita civile del paese. La degradazione morale e materiale delle borgate sono centrali nelle sue opere. Pasolini risponde così alla sua viscerale necessità di immergersi in questo mondo per scoprire cosa lo renda così impuro. Al tempo stesso ne è affascinato per la carica di vitalità che lo pervade.

Ma la sua battaglia più importante è quella contro il consumismo. Con il boom economico anche la forza primordiale del proletariato viene amalgamata in un tessuto sociale ben omologato, appiattendola e formandola con lo stampino. Nei confronti della società borghese, la stessa da cui lui proviene, Pasolini si accanisce. Di fatto, il consumismo livellatore elimina ogni libertà e fa rimpiangere l’ambiente friulano di contadini e agricoltori.

Il poeta ci lascia senza aver completato il suo disegno narrativo più vasto: quello di “Petrolio”. La sua opera più emblematica contro l’intreccio torbido di politiche e affari occulti che avevano caratterizzato la storia italiana degli anni 60’ e la società neocapitalistica.

Lo stesso intreccio torbido che ne provocherà la morte.

La notte del delitto e l’arresto di Pelosi

La notte del 2 novembre è una sera come le altre.

Pasolini, a bordo della sua Alfa Romeo GT 2000 Veloce, sta vagando per le strade della capitale alla ricerca di qualcuno con cui passare la notte. La sua omosessualità è ormai nota ai quattro venti, e molti lo considerano malato per questa ragione. Per il suo contemporaneo Aldo Semerari, psichiatra, la sua omosessualità, considerata esibizionista, denota una chiara infermità mentale.

Così, vicino alla stazione di Roma Termini, Pasolini incontra alcuni ragazzi. Tra questi Giuseppe detto “Pino” Pelosi, un diciasettenne di Guidonia con precedenti di droga. Degno membro delle borgate, viene chiamato spesso “La Rana”, a causa degli occhi sporgenti. Nonostante la fama del poeta, il cui volto era finito più volte nei giornali a causa delle varie denunce che gli erano state fatte e delle risse in cui era stato coinvolto, Pelosi afferma di non riconoscerlo. Per lui è un uomo qualunque. 

Pier Paolo, in cambio della sua compagnia, gli dice che gli avrebbe fatto un bel regalo, probabilmente del denaro. Pasolini non confida però cosa vorrebbe fare con Giuseppe, gli chiede solo se avesse già cenato. Pelosi accetta e i due si dirigono verso un’osteria. Insieme cenano presso la trattoria Biondo Tevere, vicino alla Basilica di San Paolo, dove Pasolini era cliente abituale. I due chiacchierano amorevolmente, come se fossero amici di lunga data.

Pier Paolo risulta appagato da questi fugaci incontri, che sa non può ottenere frequentando i circoli letterari di Federico Fellini, Alberto Moravia, Elsa Morante o Dacia Maraini. Nella notte il suo è un disperato desiderio di vitalità.

Questa cena non gli è sufficiente.

Poi risalgono in macchina. Pelosi non si fa domande su dove stiano andando mentre Pier Paolo si ferma per un rifornimento al Todal. Dopodiché i due si dirigono verso l’Idroscalo. Pasolini si era già recato lì con altri partner. In fondo era un luogo perfetto: silenzioso e isolato. Dopo un primo rapporto orale, Pino scende dall’auto per guardarsi intorno, ma viene seguito dal regista. Iniziano così a farsi insistenti le avances sessuali del poeta, desideroso di un rapporto sessuale. Pelosi non vuole, si ribella. Da qui scoppia una lite, che diventa sempre più accesa e culmina nella rissa.

I due si riempiono di calci e pugni. Poi Pier Paolo colpisce Pelosi in testa con un bastone, e Giuseppe risponde dandogli un forte calcio nei genitali. Il poeta non si arrende, quindi Pino è costretto a usare un asse di legno. Lo colpisce prima sul capo, poi nel petto. Pasolini è ormai stremato a terra, pieno di sangue. Il giovane deve scappare: prende la sua macchina e sale accidentalmente sopra il corpo dello scrittore. Inferisce così il colpo di grazia.

Pelosi si ferma a una fontanella per ripulirsi dal sangue e poi imbocca il lungomare Dullio di Ostia, dove sfreccia a tutta velocità accanto una volante dei Carabinieri. Inizia l’inseguimento, che termina con l’arresto di Pelosi. In manette, Pino chiede di fumare e lamenta di aver perso un anello americano con due aquile. Sarà proprio questo a incriminarlo davanti agli occhi del commissario Masone.

Il gioiello è proprio accanto il corpo del defunto Pasolini. L’apparente firma del colpevole.

È davvero Pelosi il colpevole dell’omicidio Pasolini?

Trovato il cadavere di Pier Paolo, Pelosi viene messo sotto torchio e confessa di aver ucciso Pasolini. C’è chi però non gli crede. Per qualcuno la sua versione dei fatti, ossia omicidio per legittima difesa, non combacia. Ci sono troppe falle nelle dichiarazioni di Pino. Pasolini gioca a calcio. È atletico, agile e forte.

Non poteva soccombere davanti a quello striminzito di Giuseppe. 

Inoltre, nella macchina del poeta vengono ritrovati i suoi occhiali. Un dettaglio che può risultare fuorviante, se non si considera che, come raccontato dalla stessa madre, Pasolini non se li toglie mai.

Pelosi, grazie alla difesa di Rocco Mangia – avvocato che aveva protetto i violentatori del Circeo – insiste sulla legittima difesa e ingaggia per le perizie proprio lo psichiatra forense Aldo Semerari. Rocco preme infatti affinché il magistrato convenga che il delitto non sia colposo, così che il suo cliente possa restare in carcere il meno possibile.

Vengono richieste delle nuove perizie da parte degli avvocati della famiglia di Pier Paolo Guido Calvi, Nino Marazzita e Stefano Maccioni, che invece sostenevano che Pelosi non potesse essere solo.

Si analizza la macchina, l’Alfa Romeo GT 2000 Veloce, e si iniziano a interrogare sia gli amici di Pino, presenti il giorno dell’incontro, che gli abitanti delle baracche dell’Idroscalo.

Inoltre viene rifatta l’autopsia, da cui si evincono due vaste escoriazioni sul viso, una frattura in più punti sulla mascella, lesioni trasversali a carico del padiglione auricolare sinistro e destro. Anche le falangi della mano sinistra risultano fratturate, così come almeno una decina di costole. A causa delle percosse viene lacerato persino il fegato. Ma la vera causa del decesso è lo scoppio del cuore, provocato dal sormontamento dell’auto.

La procura tralascia fin troppi dettagli. Un’indagine meticolosa si sarebbe preoccupata, ad esempio, di studiare le impronte delle scarpe adiacenti al punto dove è stato ritrovato il cadavere, zona cha avrebbero dovuto recintare.

Appaiono le prime incongruenze: innanzitutto, com’è possibile che sul corpo del Pelosi manchino i segni della colluttazione? L’unico graffio presente sulla sua fronte è un taglio netto, senza ecchimosi o escoriazioni. Decisamente bizzarro, alquanto difficile se provocato da un’arma contundente quale un bastone di legno.

Inoltre, il volante dell’auto non presenta tracce di sangue o di acqua, e Giuseppe non è stato ritrovato con le mani bagnate dalla Polizia (ricordiamo infatti avesse raccontato durante il primo interrogatorio di essersi lavato le mani a una fontanella prima di fuggire).

Com’è possibile che Pino abbia potuto martoriare il corpo di Pasolini in quel modo utilizzando un bastone di legno mezzo fradicio di acqua e marcio per l’umidità, che si sarebbe subito dovuto spezzare, come racconterà Enzo Siciliano, drammaturgo e scrittore italiano, autore di una biografia del poeta. Com’è possibile che gli indumenti del Pelosi presentino giusto un paio di macchioline di sangue?

Chi ha lasciato le tracce di sangue di Pasolini sopra il tettuccio del passeggero se le mani di Pelosi erano pulite?

Giuseppe racconta di essere sceso dalla macchina per “guardarsi intorno”. Eppure, l’illuminazione è inesistente all’Idroscalo. Cosa avrebbe potuto vedere?

I proprietari della trattoria “Biondo Tevere”, interrogati, raccontano di aver visto Pier Paolo in compagnia di un giovane alto almeno 1,70 e forse di più, con capelli lunghi e biondi, pettinati all’indietro. L’opposto di Pino, che vanta una statura di 1,60 m, è tarchiato e ha dei folti capelli neri e ricci.

Gli amici di Pelosi raccontano di essere arrivati quel 2 novembre alla stazione in autobus, mentre Pino aveva dichiarato di averli accompagnati tutti a bordo della sua auto. Infine, nella macchina di Pasolini vengono trovati un golfino e un plantare, che non appartengono né a Pelosi, né a Pier Paolo.

Quella sera i due non erano soli.

Pasolini, Pelosi e…?

C’era davvero qualcuno in auto con i due?

I primi nomi sono quelli di Franco e Giuseppe Borsellino, alias “Braciola” e “Bracioletta”, trafficanti di droga e militanti nel Movimento Sociale Italiano. Un poliziotto infiltrato li aveva sentiti vantarsi di aver ucciso Pasolini. Ma, in assenza di prove, vennero rilasciati.

L’altro possibile complice è Johnny Lo Zingaro, detto il “Biondino”, all’anagrafe Giuseppe Mastini. Questo è un criminale italiano già noto per aver compiuto diverse rapine e furti. Inoltre, è lo stesso ad aver regalato a Pelosi l’anello con le due aquile abbandonato di lato al cadavere di Pasolini. I due sono infatti amici di lunga data. Il plantare ritrovato nel cofano porta le iniziali G.M. È possibile che lo Zingaro, prima di mettersi alla guida per fuggire, si sia tolto una scarpa e, sudato, pure il maglione verde.

La presenza di un terzo porrebbe un punto a molte domande. Gli avvocati ipotizzano infatti che lo scrittore non sia uscito dalla sua macchina di sua spontanea volontà, ma che ne sia stato tirato fuori con estrema violenza. Quella tipica di un agguato. O peggio, di un massacro.

Così ricostruiscono quella fatidica notte. I due, la Rana e Pasolini, si conoscevano già da mesi, e ciò spiegherebbe per quale motivo gli amici di Pelosi avrebbero affermato, durante l’interrogatorio, che l’amico avesse riconosciuto lo scrittore. D’altro canto, lo stesso Pino confermerà questa teoria trent’anni dopo, nel 2005 e nel 2011. Nella sua autobiografia racconterà infatti di aver incontrato Pasolini per la prima volta l’estate precedente.

Dopo che Pelosi è sceso dalla macchina all’Idroscalo, Pasolini ne viene trascinato fuori dai complici e colpito violentemente con il bastone di legno, ma usando anche altre armi, come delle catene. Il poeta è ferito e perde già abbondante sangue, ma ha ancora le forze sufficienti per togliersi la camicia e usarla per tamponare le emorragie. Ma ai suoi aggressori non basta.

Pasolini è capace di alzarsi e incominciare a correre. Ciò non sarebbe stato possibile se, come raccontato da Pelosi, avesse ricevuto un forte calcio ai genitali, che però non trova riscontro con l’autopsia.

Pasolini percorre 70 metri, poi cade a terra. I suoi aguzzini lo seguono con l’automobile e lo investono, provocandone l’arresto cardiaco. Pelosi aveva affermato di non essere salito volontariamente sul corpo del poeta con l’auto. Eppure, proprio dalla seconda autopsia, risultano evidenti i segni di uno pneumatico sulla schiena di Pier Paolo.

Tutto questo sotto gli occhi di Pino Pelosi.

Eppure, l’identità di questo terzo non verrà mai confermata. Rimarrà un ignoto.

Ciò che rimane è la certezza che la voce di Pasolini sia stata mozzata da qualcuno che aveva troppa paura delle sue posizioni.

Io so.

Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe“. Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali, a giovani neofascisti, anzi neonazisti e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome. Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.

Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera, 14 novembre 1974.

La Banda della Magliana è davvero coinvolta?

L’ultimo grande interrogativo riguarda il coinvolgimento della Banda della Magliana, un’organizzazione criminale mafiosa.

Nonostante Pelosi sia stato arrestato e condannato fino a nove anni per omicidio colposo, per l’Antimafia il delitto rimane irrisolto.

Possibile che abbiano invitato il poeta all’Idroscalo per recuperare le pizze del suo ultimo film, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”? Qualcuno le aveva rubate il Ferragosto precedente da un capannone a Cinecittà. Questo come raccontò l’amico e attore del poeta, Sergio Citti, nel 2005 a “La Repubblica”. 

Citti e i ricattatori si incontrarono un paio di volte. In cambio della pellicola chiedevano 2 miliardi di lire.

Grimaldi, il produttore del film, si rifiutò di restituire la quota. Sergio si recò nuovamente nello stesso bar dove lo aveva fermato il contatto la prima volta, luogo che si scoprì frequentato da Pelosi e da altri membri della banda della Magliana. Davanti alla controfferta di Grimaldi di 50 milioni, questi rifiutarono. In cambio, chiesero il numero di Pier Paolo.

Qualche giorno dopo, Pasolini, Citti, Ninetto Davoli e l’ex moglie di Sergio si ritrovano tutti a cenare a Ostia. Il regista racconta di aver ricevuto una telefonata da parte di un giovane che si voleva scusare per il furto delle pellicole e che era intenzionato e restituirgliele. “Domani vado a Stoccolma, quando torno li vedrò, mi hanno detto ‘Ci dispiace’, vogliamo ridarti tutto”” racconta.

Pelosi è stato l’esca giusta, perché a Pier Paolo piaceva quel tipo di ragazzo. Ad Ostia lo hanno portato con l’inganno, perché dovevano ridargli la pellicola.

La sera del 2 novembre Pier Paolo si incontra prima con Pelosi a Roma Termini, dove attende una nuova telefonata. Gli danno appuntamento all’Idroscalo superata la mezzanotte. Poi la strage.

So chi ha ucciso Pasolini, in quale modo e anche perché.

È arrivata l’ora di riaprire l’inchiesta. […] Con la sua morte, ha fatto vivere tanta gente, persone che hanno scritto, filmato e lucrato su di lui. La sua perdita è più grave di quello che sembra: non manca solo a me, manca ai giovani, anche se non lo sanno.

Per questo ho un appello da fare: mi rimane poco da vivere, riaprite il processo, fate presto.

Sergio Citti, La Repubblica

Sergio Citti ci lascia l’11 ottobre 2005. Era gravemente malato e costretto alla sedia rotelle. L’ultimo lume di speranza si spegne.

Gli effetti personali di Pasolini. Le prove, le armi. In uno scatolo ripongono Il golfino, il plantare, le chiavi dell’auto. La Procura romana chiude la verità con del nastro adesivo e la ripone su uno scaffale, data la scelta di non indagare su chi potesse essere il terzo ignoto presente quella notte.

Uscito dal carcere, nel 2005, Pelosi ritratterà nuovamente le sue posizioni intervistato per il programma televisivo Ombre sul Giallo, di Franca Leosini. Quella notte non era solo, ma con lui c’erano tre complici che non aveva mai visto prima. Dei siciliani che li avevano seguiti a bordo di una Fiat 1300 targata Catania di cui riportò le prime quattro cifre. Mai nessuno effettuò una verifica presso il Pubblico Registro Automobilistico.

Nel 2011, nella sua autobiografia, scrive che adesso che i suoi genitori sono morti non ha più paura dei ricatti, e può finalmente parlare. Confessa di aver avuto una relazione con Pasolini durata mesi, e descrive questo come un “gentiluomo”.

Molti ritengono Pasolini fosse coinvolto nelle lotte di potere tra Eni e Montedison, ossia tra Enrico Mattei e Eugenio Cefis. I due furono di grande ispirazione per “Petrolio” e c’è chi ritiene che il poeta sia stato ucciso dalla mafia perchè a conoscenza di chi avesse manomesso l’aereo di Mattei – morto durante un incidente in volo nel 62′ – e di un eventuale coinvolgimento di Cefis.

Si porta la verità nella tomba Pino Pelosi, morto il 20 luglio 2017 a causa di un tumore ai polmoni.

Di Pier Paolo Pasolini rimarrà forte e vivido il suo ricordo tramite la forza prorompente delle sue parole.

Scritto da Gaia Vetrano

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Pasolini? Non imbalsamate lo scrittore nel «luogocomunismo». Corriere della Sera il 16 giugno 2023. 

Vorrei proporre una moratoria sui docufilm e su Pier Paolo Pasolini, benché l’anno che ha sancito il centenario della sua nascita sia alle spalle. Non per antipatia ma, nel primo caso, per ragioni linguistiche e, nel secondo, per non imbalsamare Pasolini nel «luogocomunismo».

Rai3 ha presentato «Le donne di Pasolini», un docufilm diretto da Eugenio Cappuccio e narrato da Giuseppe Battiston. Tecnicamente, il docufilm è un’opera che mescola finzione e «realtà», cioè parti sceneggiate con riprese dal vero (o frammenti di cineteca). Nel caso di Pasolini, poi, il materiale di repertorio televisivo è straripante, nonostante la sua dichiarata avversione per la tv e per i mali che avrebbe arrecato alla nostra società. Ora, un qualsiasi frammento di repertorio, specie se riguarda un personaggio famoso, è sempre superiore alle parti finzionali, che devono fatalmente scontrarsi con ragioni di budget e di interpreti. Se poi al racconto aggiungiamo la presentazione di Battiston, i commenti di Dacia Maraini, Emanuele Trevi, Liliana Cavani e David Grieco, entriamo in un guazzabuglio narrativo da cui è difficile districarsi.

Partendo dai territori friulani in cui è cresciuto e da cui ha tratto ispirazione, le quattro donne ritenute le più importanti della sua vita sarebbero la madre Susanna Colussi, la poetessa Giovanna Bemporad, l’attrice Laura Betti («la moglie non carnale, la sacerdotessa della sua memoria», andiamo bene!), la giornalista Oriana Fallaci e la cantante Maria Callas, l’interprete del suo film Medea. Forse sul rapporto con il soprano Callas si poteva dire qualcosa di più: lei continuava a sperare che lui la sposasse, ma questo non accadde. Pier Paolo Pasolini soffriva perché il suo amato Ninetto Davoli aveva deciso di sposarsi e Maria, nonostante tutto, accettò di fargli da confidente. Un capitolo a sé, e non un accenno, meritava invece Silvana Mauri (giornalista, scrittrice e traduttrice) e il suo amore impossibile per lo scrittore.

Pasolini, parla l’ex boss Abbatino: «Recuperai il film Salò ma del delitto non so nulla». “Il Freddo” della banda Magliana ammette di aver trafugato le pellicole, ma nega la partecipazione all’omicidio dello scrittore-regista. E smentisce la foto che lo colloca all’Idroscalo di Ostia il 2 novembre del 1975. «Ero in carcere. Pronto a collaborare con la magistratura». Il magistrato Otello Lupacchini conferma. Simona Zecchi su L'Espresso il 17 Aprile 2023.  

La notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975 è stato ucciso barbaramente Pier Paolo Pasolini, lo scrittore più scomodo del ’900 italiano. Quante altre persone vi abbiano partecipato, a livello giudiziario, a parte la condanna di Pino Pelosi, non è mai stato stabilito. Di certo c’è solo che Pelosi non fosse solo. A sentire l’ex capo del nostro vecchio controspionaggio (il Sid), Gian Adelio Maletti, lo scrittore, intercettato e seguito nei giorni precedenti al suo assassinio, era visto dal Servizio con «sospetto» per la sua «posizione anti-istituzionale». (Come risulta in uno scambio di mail con chi scrive dell’Aprile 2020).

Se si riavvolgesse il nastro per tornare a quella notte e ripercorrere tutti i passi fatti – spesso falsi - dalle varie inchieste aperte dopo l’unico processo (1976-1979) non basterebbero libri e articoli. Come del resto è stato fatto in questi anni da scrittori, registi, giornalisti e avvocati cercando risposte a quella morte oscura derubricata per molto tempo come un “fattaccio” di torbida violenza sessuale. 

Dopo la chiusura nel 2015 delle ultime indagini preliminari presso la Procura di Roma, tutto - almeno dal punto di vista giudiziario e investigativo - sembrava ormai tornato a sonnecchiare compresa la pista già battuta del furto delle bobine di Salò. Poi nel 2022 la Commissione Antimafia ha voluto aprire uno squarcio su questo silenzio, e approfittando della disponibilità dell’ex boss della Banda della Magliana, Maurizio Abbatino - sentito in quel momento per altre vicende - è riuscita, attraverso un comitato ristretto guidato dalla deputata Stefania Ascari, ad aggiungere qualche tassello in più. La Commissione antimafia ha audito anche altre persone – in seduta segreta - che possono fornire un contributo alla vicenda.

La foto all’Idroscalo e la presenza smentita di Abbatino all’Idroscalo

Il 12 aprile è andato in onda su La 7 l’approfondimento di Andrea Purgatori sul “Caso Pasolini” dove tra le altre cose è stata affrontata la questione della presenza di Abbatino sulla scena del delitto, intorno al corpo martoriato del poeta, la mattina del 2 novembre. È stato affermato che Abbatino fosse presente la sera stessa dell’agguato, secondo l’ipotesi che a condurre il poeta all’Idroscalo sia stata una trappola ben orchestrata. La foto ormai iconica, con l’indicazione della sua presenza, circola dal 2014 e precisamente dall’uscita del romanzo Bolero di Carmine Abbate (edizioni Piemme). Da allora su alcuni media quella presenza è stata indicata con certezza, e anche in trasmissione la cosa è stata ripetuta, pur chiarendo che l’ex boss ha sempre negato di essere lui quel ragazzo riccio ritratto dietro un ex agente con la giacca di pelle.

Abbatino, che ha accettato in esclusiva di parlare con L’Espresso, attraverso il suo avvocato Rosario Scognamiglio, ci invia il tabulato del Dipartimento dell’amministrazione giudiziaria (Dap) nel quale è scritto chiaramente che Abbatino dal 23 maggio al 23 novembre 1975 era in carcere. Il magistrato Otello Lupacchini, che degli atti giudiziari di quella banda conosce l’intera enciclopedia, conferma a L’Espresso che in quel periodo i personaggi che poi assurgeranno alle cronache come componenti della banda della Magliana, operando dalla fine del ’77 sino agli anni 80-90, non avevano ancora né l’organizzazione né il potere che poi avranno per poter disporre di guardie carcerarie, dirigenti sanitari e forze di polizia, entrando e uscendo così dal carcere o dagli ospedali.

Emerge dunque un altro dubbio da sciogliere sul furto delle bobine di Salò sottratte insieme ad altre pellicole (in tutto 74) la settimana dal 14 al 18 agosto del 1975 dagli stabilimenti della Technicolor sulla Tiburtina vicino a Casal Bruciato, una borgata romana. Per la restituzione di quelle “pizze” vennero chiesti 50 milioni delle vecchie lire. Il regista, d’accordo con la società Pea, deciderà alla fine di montare le scene mancanti diversamente e il 16 ottobre di quell’anno la Pea comunicherà alla stampa che il film sarebbe stato montato con altre scene, non aderendo dunque al ricatto dei ladri, i quali ripetendo la richiesta da New York, avevano fatto recapitare a Roma alcuni estratti delle bobine (notizia del 7 ottobre 1975).

Ma che a Pasolini interessasse recuperare il lavoro perduto è un fatto confermato da più fonti anche acquisite dalla Commissione Antimafia. L’organismo d’inchiesta parlamentare ha anche acquisito l’intervista del marzo 2022 rilasciata a chi scrive dall’ex poliziotto Nicola Longo che dichiarò di aver fatto recuperare le bobine tutte (anche quelle dei registi Fellini e Damiani) in seguito all’intermediazione di un boss. 

La Banda tra mito e realtà.

Durante la trasmissione tv Atlantide il regista David Grieco senza accennare alla dichiarazione dell’ex poliziotto, ex agente Sismi ed ex Dea americana, ha dichiarato che ad aver fatto recuperare le bobine è stato l’altro ex boss della Banda, Renatino de Pedis, nome mai pronunciato pubblicamente da Longo. Alla luce della novità, il magistrato Lupacchini riflette: «Spesso il racconto sulla Magliana si confonde tra mito e realtà, allontanandoci così dalla ricerca della verità già complessa». E ancora, a sottolineare quanto da lui appurato sul collaboratore di giustizia: «I fatti riferiti dall’Abbatino trovarono puntuali riscontri nelle risultanze della rivitalizzata attività investigativa e sarebbero stati fondamentali, se correttamente utilizzati, al fine di sciogliere, fra gli altri, molti nodi relativi alla ricostruzione di episodi sulla strategia eversiva dei primi anni Ottanta».

La complicata storia del furto di Salò.

«Era estate, che per me va da maggio a settembre circa; i miei ricordi non sono precisi purtroppo. Il posto è una delle poche cose che però ricordo bene e non era sulla via Tiburtina in sé. Ero con due-tre persone di cui non ricordo il volto e i nomi», dice Abbatino. Durante l’intervista, autorizzata, gli mostriamo anche molte fotografie di personaggi entrati ed usciti da questa storia. Abbatino riconosce soltanto un volto, quello di Giuseppe Mastini che nel ’75 aiutò ad evadere insieme al suo compagno di reati Mauro Giorgi, ma che non individua come la persona presente il giorno del recupero del materiale. Gli chiediamo con insistenza di fare uno sforzo di memoria su quelle immagini, nel caso in cui potesse riconoscere qualcuno che, interno in qualche modo al mondo di Cinecittà, avesse potuto fare da basista. Ma nulla, Abbatino è sicuro che quelle persone non fossero con lui.

«Uscendo dalla Tiburtina c’è una strada che porta a val Melaina (altra borgata a nord-est di Roma, ndr). Sulla destra della strada c’è una rampa sulla cui cima si trovava un edificio rialzato di massimo due piani, simile a una villa, dove noi entrammo al piano terra. Specifico che era tutto bianco, le pareti gli infissi erano tutti bianchi. Sono disposto a portare sul luogo le autorità qualora si riaprissero le indagini». Il luogo non è dunque uno stabilimento o un deposito e non si trova esattamente sulla via Tiburtina, ma il furto delle bobine è l’unico commesso in quell’anno e anche prima non esistono precedenti. È possibile che questa parte di storia si vada a collocare in un’altra fase: quella della dimostrazione del possesso delle bobine da parte dei ladri per recuperare il fantomatico riscatto. Come abbiamo scritto, è una dinamica questa che si è verificata dopo una telefonata giunta da New York alla sede americana della Technicolor ai primi di ottobre. Abbatino, insomma, avrebbe partecipato non tanto al furto materiale delle bobine, ma coinvolto, sia pure all’oscuro della ragione, nel recupero successivo funzionale al ricatto da cui discende la trappola per uccidere Pasolini con il pretesto della restituzione delle bobine.

Da sciogliere resta il periodo della carcerazione di Abbatino che però insiste: «Ero presente all’accesso in quella villa ma non all’Idroscalo, d’altronde se fossi stato io il ragazzo della foto non avrei avuto alcun problema a dichiararlo, visto che con l’omicidio e con l’agguato non ho nulla a che fare».

«Ho visto poi alcune volte Pasolini gravitare nella bisca del ricettatore Franco Conte in Via Pescaglia alla Magliana – continua Abbatino - lo stesso che mi chiese di accompagnare quei ragazzi a compiere il furto (o a questo punto a recuperare le sole bobine di Salò, ndr) e dove li ho poi riportati. Da quel momento non ne ho saputo più nulla. Colloco questa presenza dopo quell’accesso alla villa». E ancora: «Adocchiai la sua Alfa GT veloce simile alla mia, ma Conte mi disse di non toccarla perché “Pasolini è con me”». Tornando poi al furto, Abbatino aggiunge: «Mentre le persone prendevano le bobine, io mi guardavo curioso intorno. C’erano infatti statue, cavalletti e macchine fotografiche. Sapevano esattamente cosa andare a cercare in quel posto al piano terra somigliante a uno studio». Ecco perché all’Antimafia, e a noi, Abbatino dichiara che quell’operazione era stata commissionata, perché le bobine che lui ha visto erano 4 o 5 non 74: qualcuno dopo il furto, molto probabilmente, aveva portato le sole bobine di Salò in un altro posto non lontano dagli stabilimenti, ma certo non alla Technicolor. Ed è questa probabilmente l’operazione precisa orchestrata contro Pasolini di cui Abbatino non era a conoscenza. Ed ecco perché non riconosce nessuno da quelle immagini a lui mostrate che può essere stato coinvolto nel primo vero furto.

«Sono l’unico del sodalizio rimasto a scontare, agli arresti domiciliari, gli anni a me comminati, nonostante il mio apporto come collaboratore – riferisce infine Abbatino – Finirò di scontare la mia pena nel 2032, in tutto 34 anni. Ho notato spesso come nel tempo – non certo per volere del dottor Lupacchini – qualche volta le mie dichiarazioni, non si siano volute affrontare o riscontrare. Spesso non c’è stata la volontà nemmeno di aprire certi argomenti: parliamo di fatti riguardanti alti prelati, uomini politici o funzionari di polizia e capi dei Servizi: «Santovito (ex capo Sismi ed ex P2 ndr) mi mandava a salutare, per dire». Non ho mai negato la mia disponibilità nonostante la protezione mi sia stata tolta durante il processo Mondo di Mezzo. Per l’omicidio Pasolini non sono mai stato sentito né il mio Dna è stato mai estratto , ma visto che risulto in quel periodo in carcere il motivo è presto detto».

Resta ancora però quel punto interrogativo su quello che possiamo definire ormai come l’altro furto di Salò. La disponibilità dell’ex Freddo, a cercare di chiarire questo aspetto, ci ha confermato comunque essere piena.

Pier Paolo Pasolini, l’irregolare. Nella radicalità il dramma della sua vita. Storia di WALTER VELTRONI su Il Corriere della Sera il 15 marzo 2023.

«Se sono indipendente, lo sono con rabbia, dolore e umiliazione: non aprioristicamente, con la calma dei forti, ma per forza. E dunque se mi preparo a lottare, come posso, e con tutta la mia energia, contro ogni forma di terrore, è, in realtà, perché sono solo. Il mio non è qualunquismo né indipendenza: è solitudine. Ed è questo, del resto, che mi garantisce una certa, magari folle e contradittoria, oggettività. Non ho alle spalle nessuno che mi appoggi, e con cui io abbia interessi comuni da difendere».

Pier Paolo Pasolini, «Autoritratto con fiore in bocca» (1947)Eccola, l’indipendenza e la libertà di Pier Paolo Pasolini. Quella che mi sembrerebbe giusto definire la sua «irregolarità». Tanto più difficile e rara perché Pasolini ha vissuto interamente il tempo delle grandi divisioni storiche e, conseguentemente, dei grandi recinti. Quelli fortificati, talvolta elettrificati dalle ideologie maestose del Novecento, che informavano vita e pensiero di milioni di persone in tutto il mondo.

Le ideologie. Sistemi chiusi, apparentemente inossidabili, dai quali liberarsi o anche solo scostarsi era pericoloso. Pericoloso anche per chi, intellettuale, ha scelto di vivere tutta la propria esistenza in ragione del proprio pensiero e della propria ricerca. Pasolini, almeno il saggista, avvertiva il dovere etico di coniugare questa scelta con l’autonomia del proprio itinerario di studio e di scavo della ragione delle cose. Non era un piffero, e neanche un pifferaio; non voleva esserlo. La radicalità della sua scelta, il dichiararsi come farà fino agli ultimi giorni della sua vita, un «comunista», non era per lui, non poteva e non doveva essere, un limite alla sua libertà di dire ciò che il suo pensiero, e solo quello, gli suggeriva. Ho detto «solo quello». Intendendo, con ciò, che in Pasolini ogni cosa era il prodotto della sua ragione e delle speculazioni intellettuali della sua mente meravigliosa. E che ogni cosa nasceva dalla sofferenza di una vita personale che, anch’essa, superava i recinti e le convenzioni. C’è il dramma della sua vita, nella ferocia di queste libertà difese e volute.

Dirà nel 1969: «Io sono completamente solo. E, per di più, nelle mani del primo che voglia colpirmi. Sono vulnerabile, sono ricattabile. Forse, è vero, ho anche qualche solidarietà: ma essa è puramente ideale. Non può essermi di nessun aiuto pratico». Ne parlerà ancora in un articolo in cui dialoga, non senza amarezza, con il suo amico Alberto Moravia a proposito del consumismo. Sono parole che commuovono, anche oggi: «In quanto cittadino, è vero, ne sono toccato come te, e subisco come te una violenza che mi offende (e in questo siamo affratellati, possiamo pensare insieme a un esilio comune): ma come persona (tu lo sai bene) io sono infinitamente più coinvolto di te. Il consumismo consiste infatti in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo. Poiché la mia vita sociale borghese si esaurisce nel lavoro, la mia vita sociale in genere dipende da ciò che è la gente».

E a un altro amico come Italo Calvino, che aveva polemizzato con lui sull’aborto, vedendo nella sua posizione un rimpianto per l’Italietta di un tempo, dice: «Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio. L’ordine in cui elenco questi mondi riguarda l’importanza della mia esperienza personale, non la loro importanza oggettiva… L’Italietta è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi, che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni».

Il rimpianto per la «gente» che ha conosciuto lungo il turbine della sua esistenza diviene così, nelle sue parole, rimpianto tout court per una civiltà, quella preindustriale o, meglio, preconsumistica, fatta di lavoro duro, di legami e valori forti, di tradizioni, anche religiose, di dialetti.

La sua paura, il suo terrore, è l’omologazione che rende tutto indistinguibile, che travolge radici e differenze e prefigura una sorta di homo novus nella figura del consumatore. «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della società dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però è rimasto lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è completa… Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di “un uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane».

Per Pasolini l’omologazione prodotta dal fascismo riguardava esclusivamente la sfera dei coartati orientamenti politici. Quella della società opulenta ha invece un profilo ben più profondo, di tipo antropologico.

È il tema dell’apologo delle lucciole.

«Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta)».

Nove mesi prima di essere ucciso, Pasolini, in una sola frase di questo memorabile articolo, racchiude le ragioni dell’inverno del suo scontento: le lucciole sterminate dallo sviluppo, i giovani che non sono identificabili con l’autore da cucciolo, e neanche la possibilità dei bei rimpianti di una volta.

Le lucciole sono tornate, i giovani è giusto che non siano come i loro antenati e i rimpianti hanno sempre la dolente, meravigliosa lucentezza che meritano. Sembra proprio non aver ragione, Pier Paolo. Lo vedremo.

Ciò che appare è che Pasolini sia dominato dalla nostalgia, dalla convinzione che il progresso stia recando una quantità insopportabile di contraddizioni, di squilibri. Più che vedere il futuro, che gli sembra compromesso — tanto che citerà la solitudine come l’unica forma di lotta restata disponibile — Pasolini spera che sia la denuncia della borghesia come agente corruttore del tempo, una borghesia da processare in perpetuo, a poter scuotere le coscienze. La nostalgia per un tempo perduto, un tempo non va dimenticato di terribili ingiustizie e diseguaglianze, si sposa con il desiderio di affermare idee di progresso, di riscatto degli ultimi. È l’incarnazione, letteraria, dell’apparente ossimoro politico: «conservatore e rivoluzionario».

Pasolini, nella fase finale della sua vita, è immerso nel nero. Tutto gli sembra chiudersi. Ha girato un film, Salò e le 120 giornate di Sodoma, che gronda dolore e disperazione. È un’opera bellissima sul senso della morte di una società e sulla sua morbosa decomposizione. Un film girato poco prima di essere ucciso, che non contiene ovviamente alcun presentimento, ma un presagio di fine collettiva.

Video correlato: Pier Paolo Pasolini - Una visione nuova (Trailer Ufficiale HD) (Dailymotion)

Un po’ come successe a Stanley Kubrick che, con Eyes wide shut, poco prima di essere stroncato da un infarto, aveva vaticinato, con l’attualizzazione del Doppio sogno di Schnitzler, le linee di frattura delle moderne relazioni umane.

Per ambedue il sesso veniva ora usato non per raccontare una gioia libera e beffarda, come nella trilogia della vita di Pasolini, o per indulgere nel mistero sensuale di Lolita di Kubrick, ma veniva utilizzato in una forma di meccanica e crudele carnalità, quasi animalesca. E poi Pier Paolo si era infilato, con tutta la sua infinita passione civile, nella vicenda di Petrolio, un romanzo nero fin dal titolo, che era una specie di quella che oggi si direbbe una «docufiction», qualcosa a metà tra Truman Capote e i moderni racconti di realtà e storia ricostruiti per le piattaforme globali. L’Eni di Cefis era un groviglio di melma, il crocevia di affari e complotti, una zona che sembrava inviolabile, se non dal coraggio di giornalisti e intellettuali. Ma Pasolini, come è noto, non aveva paura. Lo muoveva un fuoco vero, sincero, un desiderio di verità e giustizia. Ne parla nel suo articolo del primo febbraio del 1975 sul «Corriere della Sera», il giornale che aveva il coraggio di ospitare le sue opinioni.

È l’articolo oggi conosciuto con due monosillabi che grondano bisogno di verità: «Io so».

«Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».

«E se l’intellettuale viene meno a questo mandato — puramente morale e ideologico — ecco che egli è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore». Pasolini non voleva essere un traditore di se stesso. E anche per questo non ha mai avuto paura di navigare controcorrente, anche quando il fiume era quello dove lui si sentiva più naturalmente a casa. Ma non nascose mai, però, la sofferenza per le critiche. Il fuoco amico ricevuto.

Come dopo la lettera su Valle Giulia del 1968, quella nella quale — lui che della repressione poliziesca era stato vittima e sempre l’aveva denunciata — ricordava l’origine proletaria dei ragazzi in divisa. Il titolo di un settimanale: «Vi odio, cari studenti», che riduceva, stravolgendola e giustiziandola, la complessità del messaggio sacrosanto contenuto nella poesia «Il Pci ai giovani» pubblicata su «Nuovi Argomenti» produsse un’ondata di facile indignazione. Fu lapidato con pietre fatte di parole e accuse. Si sentì — gli era capitato e gli ricapiterà — messo alla gogna. Ne parlerà più avanti così: «È nata insomma una divisione terroristica tra “giusti” e “reprobi”: che non è soltanto moralistica, e ha quindi perduto ogni rito e fair play. No, verso il “reprobo”, il giusto sente un’antipatia fisica così forte che benché magari suo conoscente da anni (e, fino al giorno prima, appartenente a una stessa generica cerchia sociale con analoghe idee politiche), sente quasi una sorta di ripugnanza; non gli stringe la mano; lo evita; gli gira al largo; gli prepara intorno una specie di clima da linciaggio».

Gli capiterà ancora, per l’articolo pubblicato sul «Corriere» a proposito dell’aborto. In questo caso il titolo corrisponde al contenuto del suo articolo, che dopo poche righe recita: «Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché lo considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano — cosa comune a tutti gli uomini — io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente».

In questo caso Pasolini usa la scimitarra e mena anche colpi a caso. Le parole sembrano travalicare il suo stesso pensiero che poi, leggendo tutte le correzioni successive in replica alle polemiche, è così riassumibile: l’aborto è sempre e comunque un dramma, voluto da una società che criminalizza il coito e la libertà sessuale, ignora e demonizza la contraccezione e affida solo all’interruzione della maternità la regolazione delle nascite.

Ha scritto Pasolini, che in verità mostra di non considerare mai centrale la volontà della donna di decidere del suo corpo: «Il contesto in cui va inserito l’aborto è quello appunto ecologico: è la tragedia demografica, che, in un orizzonte ecologico, si presenta come la più grave minaccia alla sopravvivenza dell’umanità. In tale contesto la figura — etica e legale — dell’aborto cambia natura: e, in un certo senso, può anche esserne giustificata una forma di legalizzazione».

«La ragione di queste cose terribili che dico è chiara: un tempo la “specie” doveva lottare per sopravvivere, deve fare in modo che le nascite non superino le morti. Quindi, ogni figlio che un tempo nasceva, essendo garanzia di vita, era benedetto: ogni figlio che invece nasce oggi, è un contributo all’autodistruzione dell’umanità, e quindi è maledetto».

Ho citato queste frasi, dal più controverso dei suoi temi, per dire che nelle posizioni di Pasolini, anche le più estreme, le più irregolari, anche le meno condivisibili, c’è sempre qualcosa che merita di essere compreso. Dalla vetta del suo pensiero, agito dal suo dolore di uomo perseguitato, il poeta vedeva cose che lo spirito del tempo rimuoveva. Quando diceva che sviluppo e progresso si andavano pericolosamente separando o quando segnalava il rischio di una omologazione culturale e linguistica aveva forse torto, guardando a ciò che è successo dopo la sua ancora inspiegata morte per assassinio?

E non aveva torto neanche quando, discutendo con Calvino che si augurava di non incontrare mai un giovane fascista, diceva: «Augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo fare di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno — quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità — ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È una atroce forma di disperazione e nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso».

Pasolini era un uomo di sinistra, carico di contraddizioni e di amore per le ragioni della sua identità politica e delle sue scelte ideali. Non era, dal punto di vista della pratica delle idee, un «indipendente». Era schierato, eccome.

«Odio — come tante volte ho detto — l’indipendenza politica. La mia è quindi un’indipendenza, diciamo, umana. Un vizio». Ma era, ed è sempre stato, un uomo che ha rifiutato il moralismo, la demagogia, le parole dette per piacere.

Concludo con altre sue parole: «Ma come si è, in questa lontana Italia, implacabili e furenti facendo del moralismo. Dunque, demagogia e moralismo. Il vero contenuto della demagogia è la demagogia. Il vero contenuto del moralismo è il moralismo. Ogni demagogia vale dunque ogni altra demagogia, e ogni moralismo vale ogni altro moralismo».

Pasolini, con il suo doloroso essere irregolare, ha combattuto molti vizi nazionali: l’illegalità, lo stragismo, la corruzione, le discriminazioni sessuali, il conformismo. E poi, sì, ha avversato anche le cure che altro non sono che smaliziate sorelle delle malattie: la demagogia e il moralismo.

Per tutto questo, la sua «irregolarità» non è stato un vezzo pour épater, ma la sostanza di una sofferenza e di una ininterrotta, sincera, ricerca intellettuale.

Una libertà che ci manca.

Roma, all’Accademia dei Lincei. Il convegno sui generi

Un autore che ha attraversato quasi tutti i generi letterari e artistici, e in questo è stato un nel Novecento: appunto a è dedicato il convegno dall’Accademia dei Lincei, oggi e domani, a Palazzo Corsini (anche in streaming su ). I lavori si aprono oggi, ore 10, con i saluti del presidente dei Lincei, Roberto Antonelli, e proseguono analizzando i generi visitati da Pasolini: studiosi e autori parleranno di poesia, cinema, romanzo, ma anche di dramma barocco, ricerca narrativa, rapporto con l’antico. Oggi intervengono Franco Zabagli, Maria Careri, Franco Brevini, Maria Bastianes e Andrès Catalàn, Andrea Cortellessa e il regista Mario Martone, Enrico Medda, Piero Boitani e Riccardo Antonangeli. Domani gli interventi di Silvia Carandini, Anna Dolfi, Marco Belpoliti e Walter Veltroni. ()

Omicidio Pasolini, l'ordine dei giornalisti: «Aveva la tessera da pubblicista, valutiamo se costituirci parte civile». Redazione Roma su Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2023.

Delibera dell'organismo del Lazio per sostenere l'istanza di riapertura dell'inchiesta: «A 48 anni dal delitto all'Idroscalo emersi nuovi indizi»

La tessera da giornalista pubblicista (Ordine del Lazio) di Pier Paolo Pasolini 

«Pier Paolo Pasolini venne barbaramente ucciso il 2 novembre 1975 all'idroscalo di Ostia. Un omicidio dai molti interrogativi ancora irrisolti, sui quali sta lavorando l'avvocato Stefano Maccioni che ha presentato un'istanza di riapertura delle indagini. Pier Paolo Pasolini era anche un giornalista pubblicista, iscritto al nostro Ordine...» A intervenire sulla fine del grande intellettuale, poeta e regista e sui possibili sviluppi giudiziari ventilati nei giorni scorsi è stato il presidente dell'Ordine dei giornalisti del Lazio, Guido D'Ubaldo. «Pasolini al momento dell'assassinio - ha aggiunto - aveva con sé la tessera professionale, che oggi è custodita al museo criminologico. L'Ordine regionale dei Giornalisti del Lazio nella seduta di Consiglio del lunedì 13 marzo ha deliberato all'unanimità di aderire alla proposta presentata dall'avvocato Maccioni, riservandosi di valutare in seguito se costituirsi "parte civile" o, in base agli sviluppi della vicenda, optare per l'assunzione della titolarità di "persona offesa dal reato"». Le circostanze del delitto e la presenza o meno di altre persone (al di là della condanna definitiva di Pino Pelosi, morto nel 2017)  sono ancora incerte . «A quarantotto anni da questa tragica morte - prosegue la nota - essendo emersi nuovi indizi su diverse dinamiche e, forse anche, un possibile nuovo movente, il Consiglio dell'Ordine Regionale dei Giornalisti del Lazio ha ritenuto opportuno sostenere questa iniziativa giudiziaria per dare un contributo ad affermare il principio della verità e della giustizia sulla morte di uno dei più grandi intellettuali italiani del '900».

Estratto dell’articolo di Fausto Carioti per Libero Quotidiano il 9 marzo 2023.

Si può pensare bene o male di Pier Paolo Pasolini, che più passa il tempo e più è amato a destra e meno a sinistra. Più delle parole che dedicò nel 1968 agli scontri di Valle Giulia («Io simpatizzavo coi poliziotti. Perché i poliziotti sono figli di poveri»), citata da tutti e capita da pochi, pesa l’invettiva contro la legalizzazione dell’aborto che il poeta e regista bolognese scrisse nel 1975: «La considero una legalizzazione dell’omicidio».

 ...)

Nulla di strano che su una figura così complessa esca oggi un libro politicamente “corsaro” curato dal compagno Stefano Fassina, ex deputato di Leu, e dal liberal-conservatore Gaetano Quagliariello, a lungo parlamentare e ministro del centrodestra. Il profeta scandaloso (Rubbettino, 10 euro) racchiude il meglio di due incontri dedicati a PPP lo scorso anno, nel centenario della nascita. 

Dacia Maraini, Eugenia Roccella, Ferdinando Adornato e Ascanio Celestini sono gli altri autori che nel volume raccontano il “loro” Pasolini, fuori dall’agiografia e dagli stereotipi. Vale anche per Fassina, che mette il dito sul nervo scoperto dei suoi quando scrive che «la declinazione dei diritti civili all’insegna dell’individualismo proprietario (maternità surrogata) e del transumanesimo (ideologia gender)», interpretata dalle sinistre «con veemenza identitaria, è l’oggetto della disperazione profetica di Pasolini».

A seguire, la testimonianza di Dacia Maraini

Estratto del testo di Dacia Maraini pubblicato da Libero Quotidiano il 9 marzo 2023.

Per tanti anni mi sono rifiutata di scrivere di Pier Paolo, perché si è pubblicato tanto, si è analizzato tanto e mi sembrava inutile. Poi, il direttore della casa editrice di Neri Pozza, Roberto Cotroneo, mi ha detto: «Guarda che ormai le persone che lo hanno conosciuto stanno scomparendo, tu sei rimasta una delle poche. Perché non parli del Pasolini privato, non di quello politico?»

 Pier Paolo e io abbiamo vissuto nella stessa casa, abbiamo fatto un film insieme (la sceneggiatura naturalmente), siamo partiti per tanti viaggi insieme. Insomma ho avuto modo di conoscerlo, anche se solo nell’ultimo periodo della sua vita, da quando aveva 45 anni fino a quando è morto. E quindi mi sono detta: «Forse sì, ha ragione».

Tra l’altro, ho fatto un sogno che mi ha stimolato a raccontare: Pier Paolo, nella casa che condividevamo a Sabaudia, aveva la camera da letto sopra il soggiorno dove io scrivevo. Spesso sentivo i suoi passi sopra la testa. Anche nel sogno ho avvertito i suoi passi, ma questa volta ero nella casa di Roma, dove lui tra l’altro non è mai stato. Così nel sogno sono salita sulla terrazza e l’ho visto.

 (…) IL PROFETA SCANDALOSO Paolo, che era “disperatamente” politico, sì è verissimo: Pier Paolo aveva una disperazione, una lacerazione nella sua vita. E questo lo portava a vivere con un perenne atteggiamento drammatico. Io credo – d’altronde lo ha raccontato anche lui – che ci sia un “nodo” all’inizio della sua vita. Pier Paolo aveva un bellissimo rapporto con il padre fino all’età di 4 anni perché Carlo Alberto che era un militare era anche un uomo molto colto. Leggevano, giocavano insieme, fino a quando questo padre è dovuto partire con l’esercito italiano per l’Africa.

A fine guerra, è stato imprigionato assieme ad altri ufficiali. Quando è rientrato in Italia, e questo lo racconta molto bene Pasolini, era diventato un altro uomo: alcolizzato, nemico di se stesso e degli altri, prende a maltrattare la moglie e i figli. A questo punto Pier Paolo ha rotto ogni rapporto col padre e si è messo a proteggere la madre. Da lì nasce un rapporto tenace, profondo e viscerale con la dolce Susanna che durerà per tutta la vita.

 Credo che questo legame sia stato il nodo fonda mentale di una vita difficile e dolorosa. Il legame con sua madre ha fra l’altro marchiato il suo rapporto con le donne. Perché Pier Paolo ogni tanto si innamorava.

 Silvana Mauri è stata uno dei suoi grandi amori, abbiamo delle bellissime lettere che lo testimoniano. Era un tenero amore platonico, che escludeva il rapporto sessuale. Fare l’amore con una donna, diceva lui, sarebbe stato come fare l’amore con sua madre. Quindi, accoppiarsi sessualmente con una donna diventava per forza un incesto.

(…)

 (...)

Nel rapporto tra piacere e amore, c’era qualcosa in lui che non tornava.

Il suo legame con la Callas per esempio è stato un rapporto altalenante e contraddittorio. Ho partecipato con loro a un viaggio in Africa. Pier Paolo e Maria erano visibilmente innamorati, si tenevano per mano, si abbracciavano amorevolmente, ma di fronte alla completezza di un rapporto amoroso, lui si tirava indietro. E questo addolorava Maria che avrebbe voluto addirittura sposarlo. Ma per lui ogni corpo di donna era un corpo materno di fronte al quale arretrava come se fosse sacro e intoccabile. Il sogno di una società arcaica, una società secondo lui pura e integra, segnata da un rapporto sacrale con il cielo e la terra, in fondo lo si può leggere come una nostalgia del ventre materno che si trasforma nel desiderio del paradiso. Un mondo perfetto, dove non hai bisogno di lavorare e sei curato e protetto da tutti i malanni.

(...) Non tollerava che l’organizzazione della protesta potesse diventare potere a sua volta. Così, come ce l’aveva col femminismo, anche lì abbiamo spesso discusso, ovviamente senza mai venire meno al rispetto reciproco. Anche il Partito per lui era una forma di potere. Io gli dicevo: guarda che il potere è anche libertà: «Poter esprimersi», «Poter viaggiare», «Poter parlare», «Poter pensare».

 L’OMICIDIO Non so no anche questi poteri? Ma lui non cambiava i suoi sospetti nei riguardi di qualsiasi organizzazione che potesse trasformarsi in forza oppressiva. Ricordiamo la famosa poesia rivolta agli studenti del ’68 che protestavano contro l’autorità, che ha fatto scandalo: «Vi odio, cari studenti», e intendeva dire che gli studenti venivano da famiglie che aveva no loro permesso di andare all’università, e domani avrebbero fatto parte della classe dirigente mentre, al contrario, i poliziotti erano dei poveracci che non avevano i soldi per accedere agli studi superiori, facevano una vita magra, rischiosa e non avrebbero mai fatto parte della classe dirigente.

Dal punto di vista sociologico, non è che avesse torto. Dopo la sua morte, si è cominciato a prendere sul serio i suoi aspetti più radicali e più profondi, in qualche modo condivisibili. C’era qualcosa di profetico nelle sue parole su una società che si sta involgarendo e autodistruggendo. Stamattina, mi trovavo in un liceo di Roma, al Tiburtino, e i ragazzi, che pure non conoscono il suo lavoro, erano molto interessati: come se sentissero che c’è qualcosa di vero e di valido in quello che comunica. Ecco, questo credo sia un altro segreto della forza di Pasolini. Le sue idee facevano parte del suo corpo. Non c’era un cervello pensante da una parte e un corpo atletico dall’altra. Era un uomo che si buttava nella mischia con pensiero e corpo fusi insieme e questo lo rendeva fragile ma anche simbolicamente forte. Per farlo tacere, lo hanno massacrato. Nessuno sa niente sulla sua morte.

C’era un reo confesso e quindi il caso è stato chiuso. Ma troppo presto, senza indagare. Lo stesso Pelosi, che ha sempre dichiarato di averlo ucciso, prima di morire ha confessato che non è stato lui. C’erano tre persone, che lo hanno preso a bastonate, ha dichiarato, ma chi erano? Questo è rimasto un segreto, uno dei tanti segreti amari di questo Paese poco portato alla limpidezza e alla sincerità. Ecco, con queste parole spero di aver suscitato interesse per il Pasolini “privato”: un uomo dolcissimo, mite, gentile e delicatissimo. Costretto dal moralismo di una società poco comprensiva e tollerante a trasformarsi in un disperato lottatore.

Estratto da roma.repubblica.it il 3 marzo 2023.

Nuova istanza alla procura di Roma per la riapertura delle indagini sulla morte di Pier Paolo Pasolini, avvenuta all'Idroscalo di Ostia il 2 novembre del 1975. A depositarla l'avvocato Stefano Maccioni, a nome del regista David Grieco e dello sceneggiatore Giovanni Giovannetti: nell'atto si chiede ai pm di piazzale Clodio di approfondire in modo più compiuto la questione legata ai tre Dna individuati dai carabinieri del Ris nel 2010 sulla scena del crimine.

 "Quella notte all'Idroscalo di Ostia, Pino Pelosi (l'unico condannato definitivamente a 9 anni e 7 mesi, ndr) non era solo, ci sono almeno tre tracce, tre 'fotografie' di persone e ciò giustifica il perché, dopo quasi 50 anni, è ancora possibile arrivare ad una verità giudiziaria. Una verità - ha insistito l'avvocato Maccioni - che si baserebbe su dati scientifici, sulla presenza di tre Dna: da qui si deve partire per svolgere le indagini per accertare a chi appartengono"

 (...)

 Per Maccioni, Grieco e Giovannetti, Pier Paolo Pasolini cadde in una trappola e venne picchiato a morte. "Nell'istanza di centinaia di pagine - hanno concluso i tre - forniamo molti elementi, tante tessere che i magistrati devono mettere insieme".

La morte di Pasolini: tre ipotesi, una certezza, e quel che le nuove indagini dovranno accertare. Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.

Si riaprono le indagini sull’assassinio di Pier Paolo Pasolini. Tra le ipotesi su chi l’abbia compiuto materialmente, e la sicurezza che Pino Pelosi non poteva essere solo, quella notte, resta aperto il tema più importante: quello delle ragioni dell’omicidio di uno dei più grandi intellettuali italiani

Un giorno Pino Pelosi, il ragazzo accusato dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini, si palesò alla presentazione di un libro scritto dall’avvocatessa Ruffini, dal suo collega Maccioni e dal giornalista Walter Rizzo sulla notte dell’Idroscalo.

Fu un arrivo a sorpresa, in quella serata di dicembre del 2011, nella libreria Mondadori di via Piave a Roma.

Pelosi, che certamente ha cambiato molte versioni su quei fatti, in sostanza fornì questo racconto, incalzato dalle domande.

Lui e Pasolini quella sera cenarono al ristorante Biondo Tevere. Erano soli.

Poi andarono all’Idroscalo dove, dice, lui e il poeta ebbero un rapporto sessuale.

Dopo che Pelosi scese dalla macchina e nel buio emersero tre uomini che presero Pasolini, lo tirarono fuori dall’abitacolo e cominciarono a picchiarlo selvaggiamente.

Un altro uomo, alto e barbuto, teneva fermo Pelosi e lo picchiava con un palo tanto che gli provocò una frattura del setto nasale e due punti sulla fronte, refertati all’ospedale di Ostia.

Sempre secondo Pelosi fu durante questa colluttazione che l’uomo barbuto gli suggerì la tesi che lui avrebbe dovuto sostenere, accusandosi. Gli raccomandò di farlo altrimenti lui e la sua famiglia avrebbero pagato pesanti conseguenze.

In tutto erano sei persone, con due automobili.

Pelosi racconta di aver visto Pier Paolo inseguito da questi tipi che lo picchiavano mentre lui gridava «Aiuto mamma». Quest’ ultima circostanza coincide, per inciso, con il ricordo di uno degli abitanti dell’Idroscalo.

Alla domanda su chi fossero le persone in questione Pelosi disse di non averle riconosciute e fece, confusamente, i nomi dei fratelli Borsellino salvo poi ritrarsi di fronte ad altre ipotesi. «Ho cambiato tante versioni perché avevo paura. E ho ancora paura. Alcuni sono ancora vivi».

Eravamo nel 2011, allora. Pelosi disse di non sapere la ragione dell’assassinio, che per questo si doveva sentire Ninetto Davoli.

Poi rivelò che il suo avvocato fu indicato alla famiglia da un giornalista del Tempo.

Io credo che l’iniziativa assunta da Maccioni, Grieco e Giovannetti tesa a far riaprire il caso e a esaminare i reperti di Dna trovati, corrisponda non ad una concessione alla dietrologia ma alla convinzione, ormai quasi una certezza, che la storia che il diciassettenne Pelosi raccontò: «Pasolini voleva violentarmi con un palo io non c’ho visto più e l’ho ammazzato» era una balla, anche mal confezionata, solo a voler vedere le cose com’erano.

Fu il primo giudizio del Tribunale dei minori emesso, quello di Alfredo Carlo Moro, fratello di Aldo, a scrivere nero su bianco la convinzione che Pelosi non fosse solo, quella sera. E io sono restato a questa versione.

Se non era solo, come lo stesso Pelosi ammise senza avere tornaconti da riscuotere, allora si aprono varie possibilità.

Una ha a che fare con il furto delle pizze di Salò , e quindi sarebbe uno scenario in cui è in gioco anche la criminalità, un’altra può invece riguardare il lavoro che Pasolini stava facendo attorno alle vicende Eni e che sfociò nel libro Petrolio , pubblicato incompleto.

A questo proposito va ricordata la circostanza, che mi capitò di sollevare in Parlamento, dell’annuncio da parte di Marcello dell’Utri di aver letto 70 pagine sparite del manoscritto che a suo dire, contenevano elementi utili «a fare luce sulla morte di Pasolini, su alcune vicende dell’Eni, sulla morte di Enrico Mattei, su Cefis».

Se così fosse, ma di quelle pagine non risultava neanche alla famiglia l’esistenza, si aprirebbe uno scenario più legato alla melma di quel tempo, quella che Pier Paolo aveva denunciato con il suo «Io so» pubblicato sul nostro giornale.

Questo spiegherebbe tanti depistaggi e tanto interesse della P2 attorno alla vicenda Pasolini.

C’è infine una terza ipotesi che chiama in causa, lo fa Pelosi confusamente, gruppi di picchiatori neofascisti. E non dobbiamo escludere che tra questi tre scenari possano esservi zone di contatto.

Ma nessun essere raziocinante, tantopiù se ha conosciuto Pasolini, può credere che «Pino la Rana» possa averlo ridotto nel modo che le foto pubblicate dall’Europeo impresse nella mente di tutti noi.

Gianni Borgna ed io, molti anni orsono, scrivemmo sempre qui della nostra convinzione che Pasolini fosse stato ucciso da più persone.

Resto di questa idea, anzi di questa certezza. E spero che la magistratura romana, non più quella degli anni Settanta, riesca a chiarire il passaggio successivo.

Il movente per il quale è stato ucciso, da più persone, Pier Paolo Pasolini, uno dei più grandi e liberi intellettuali italiani.

"Verificare tre Dna". Omicidio Pasolini, chiesta la riapertura delle indagini. Tre dna rinvenuti sul luogo del delitto potrebbero riaprire le indagini sulla morte di Pasolini. Presentata un'istanza alla procura di Roma. "Accertare con dati scientifici a chi appartengono quelle tracce". Marco Leardi il 3 marzo 2023 su Il Giornale.

Tre tracce di dna. Tre indizi che potrebbero portare a una nuova verità sulla morte di Pier Paolo Pasolini. L'omicidio del celebre sceneggiatore e regista potrebbe tornare nuovamente all'attenzione dei magistrati. L'avvocato Stefano Maccioni, a nome del regista David Grieco e dello sceneggiatore Giovanni Giovannetti, ha infatti depositato una nuova istanza alla procura di Roma per la riapertura delle indagini sulla scomparsa dell'intellettuale bolognese, avvenuta all'Idroscalo di Ostia il 2 novembre del 1975 in circostanze non del tutto chiarite. Nell'istanza si chiede di verificare a chi appartengano tre Dna individuati dai carabinieri del Ris nel 2010 sulla scena del crimine.

Tre Dna sulla scena del delitto

Quelle tre tracce aprirebbero infatti nuovi scenari su quel delitto che ancora sembra celare diversi enigmi. "Quella notte all'Idroscalo di Ostia, Pino Pelosi (l'unico condannato definitivamente a 9 anni e 7 mesi, ndr) non era solo, ci sono almeno tre tracce, tre 'fotografie' di persone e ciò giustifica il perché, dopo quasi 50 anni, è ancora possibile arrivare ad una verità giudiziaria", ha dichiarato l'avvocato Maccioni, insistendo sul possibile raggiungimento di una verità che si baserebbe "su dati scientifici, sulla presenza di tre dna". Da questi punti - ha aggiunto il legale - "si deve partire per svolgere le indagini per accertare a chi appartengono".

Pasolini e la pellicola rubata

Secondo i sostenitori della nuova istanza di riapertura delle indagini, nella prima inchiesta tali accertamenti vennero eseguiti in modo parziale. "Vennero esaminati circa 30 dna ma oggi è tempo di fare verifiche più diffuse tenendo presenti anche le dichiarazioni di Maurizio Abbatino, esponente della Banda della Magliana, che alla Commissione Antimafia dà una giustificazione sul perché Pasolini si recò all'Idroscalo di Ostia: non era lì per consumare un rapporto sessuale occasionale con Pino Pelosi, con il quale lo scrittore e regista aveva già una relazione, ma per riottenere le pizze del film 'Salo', le 120 giornate di Sodoma' che gli erano state sottratte e a cui teneva tantissimo", ha ricostruito l'avvocato Maccioni.

Le dinamiche della drammatica notte nella quale il regista bolognese perse la vita sono in parte ancora da chiarire. "Non era vero che per Pasolini i negativi che erano stati rubati negli uffici della Technicolor di via Tiburtina non avessero alcun valore. Ci teneva, eccome. E forse, sì: all'Idroscalo di Ostia, in quella terribile notte del 2 novembre 1975, era stato attirato proprio dalla possibilità di rientrarne in possesso", aveva spiegato già nel 2010 il montatore Ugo De Rossi. Una tesi che potrebbe essere avvalorata da eventuali e ulteriori accertamenti, qualora venisse accolta l'istanza di riapertura delle indagini.

"Pasolini cadde in trappola"

Per Maccioni, Grieco e Giovannetti, Pier Paolo Pasolini cadde in una trappola e venne picchiato a morte. "Nell'istanza di centinaia di pagine - hanno concluso i tre - forniamo molti elementi, tante tessere che i magistrati devono mettere insieme".

L'istanza alla procura di Roma. La morte di Pasolini, chiesta la riapertura delle indagini: “Verificare tre Dna, fu attirato in trappola per ottenere le bobine del film Salò”. Redazione su Il Riformista il 3 Marzo 2023

Riaprire il caso PPP, le indagini relative all’omicidio di Pier Paolo Pasolini, avvenuto ad Ostia il 2 novembre del 1975. A chiederlo con una istanza depositata questa mattina preso la Procura di  Roma sono stati il David Grieco e lo sceneggiatore Giovanni Giovannetti, tramite un atto redatto dall’avvocato Stefano Maccioni.

Nell’istanza si chiede di accertare a chi appartengano i tre Dna individuati dai carabinieri del Ris nel 2010 sulla scena del crimine, l’idroscalo di Ostia dove lo scrittore e regista venne brutalmente picchiato e ucciso.

Quella notte all’Idroscalo di Ostia Pino Pelosi (unico condannato definitivamente a 9 anni e 7 mesi per la morte di Pasolini) non era solo – afferma il legale -, ci sono almeno tre tracce, tre ‘fotografie’ di persone e ciò giustifica il perché, dopo quasi 50 anni, è ancora possibile arrivare ad una verità giudiziaria. Una verità che si baserebbe su dati scientifici, sulla presenza di tre Dna: da qui si deve partire per svolgere le indagini per accertare a chi appartengono“.

I presentatori dell’istanza di riapertura del fascicolo aggiungono, riferisce l’Ansa, che “nella prima indagine questo si è fatto in modo parziale, vennero esaminati circa 30 Dna ma oggi è tempo di fare verifiche più diffuse tenendo presenti anche le dichiarazioni di Maurizio Abbatino, esponente della Banda della Magliana, che alla Commissione Antimafia dà una giustificazione sul perché Pasolini si recò all’Idroscalo di Ostia: non era lì per consumare un rapporto sessuale occasionale con Pino Pelosi, con il quale lo scrittore aveva una relazione, ma per riottenere le bobine di ‘Salò, le 120 giornate di Sodoma’ che gli erano state sottratte e a cui teneva tantissimo“.

Per Maccioni, Grieco e Giovannetti Pasolini venne “attratto in una trappola e lì venne aggredito a morte. Nell’istanza di centinaia di pagine forniamo molti elementi, tante tessere che i magistrati devono mettere insieme”.

Nei giorni scorsi sull’omicidio di Pasolini era tornato a parlare Guido Calvi, per tre legislature parlamentare dei Ds e storico ‘avvocato della sinistra’. In un colloquio con Repubblica aveva definito quello di Pasolini “un omicidio politico fatto passare per un delitto comune”.

Secondo Calvi “era chiaro che Pino Pelosi, imputato al processo, non poteva avere agito da solo. E a questa conclusione giunse anche il giudice che lo condannò, Alfredo Carlo Moro, il fratello del presidente Dc”. L’avvocato e voce storica della sinistra accusava della morte di PPP “almeno cinque persone. Sulla sua macchina venne individuato il dna di altrettante persone, ma nemmeno una goccia di sangue di Pelosi venne repertata. Eppure non si volle indagare”.

Quanto al movente, per Calvi è chiaro e politico: “Non doveva parlare più. La sua voce andava spenta. E il libro a cui stava lavorando, Petrolio, sul caso Mattei, non doveva uscire”.

Il Pci e quei pregiudizi contro gli omosessuali. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2023

Democristiani e comunisti, per quanto si facessero guerra su altre cose, erano su certi punti «pudicamente» allineati. L’espulsione di Pier Paolo Pasolini

«Come se seppe ch’era ‘na vittoria / tutta Piazza Navona strillò evviva / mentre sur parco un fregno ciassalìva / volénnose pija tutta ‘a gloria. / Sotto a lui pe’ gonfiàsselo de boria / ‘na manica de gente assai lasciva, / finocchi e vacche ignude alla Godiva / a strillà: solo noi fàmo la storia». La sera del ‘74 in cui Maurizio Ferrara scrisse quel sonetto romanesco sulla festa scatenata dal No al referendum per l’abolizione del divorzio e satireggiò su quel miscuglio di vecchi militanti comunisti e la variopinta folla di pannelliani, femministe, capelloni, spiriti liberi e perfino avanguardie dei movimenti omosessuali, Elly Schlein doveva ancora nascere. Ma se c’è una che oggi ha buon diritto a festeggiare è lei. Perché domenica ha conquistato un partito per un’eternità ostile ai «diversi».

È proprio così che quarantatré anni fa Fabio Giovannini intitolò un libro scomodo che metteva il dito nella piaga: Comunisti e diversi. Il Pci e la questione omosessuale. Un tema ustionante. Da molto tempo. Non solo in Italia, si capisce. «Nei paesi fascisti l’omosessualità, rovina dei giovani, fiorisce impunemente», denunciava ad esempio lo scrittore Maksim Gor’kij, tra i cantori del socialismo reale, «Qui dove il proletariato ha audacemente conquistato il potere, l’omosessualità è stata dichiarata crimine sociale e severamente punita. C’è già un detto in Germania: “Eliminate gli omosessuali e il fascismo scomparirà”».

Non meno ostile sarà nel 1950, anche dopo aver saputo delle spaventose mattanze di «diversi» nei lager nazisti, Palmiro Togliatti. Che con lo pseudonimo di Rodrigo De Castiglia, come ricostruisce Paolo Pedote nella sua Storia dell’omofobia, firmerà una feroce recensione a un libro sul comunismo, Il Dio che è fallito, scritto da Ignazio Silone e altri cinque autori tra cui André Gide: «Al sentire Gide, di fronte al problema dei rapporti tra i partiti e le classi, dare tutto per risolto identificando l’assenza di partiti di opposizione, in una società senza classi, con la tirannide e relativo terrorismo, vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov’è specialista, ma lasciar queste cose...».

Quella era, del resto, la società italiana dell’epoca dove democristiani e comunisti, per quanto si facessero guerra su altre cose, erano su certi punti pudicamente allineati. «Il problema sessuale non è, evidentemente, un problema morale: ma, poiché la piccola borghesia cattolica è abituata, ipocritamente, a considerarlo tale, tale lo considera anche il dirigente medio comunista, come, direi, per inerzia», scriverà Pier Paolo Pasolini nel ‘60 su Vie nuove, «Infatti, la questione non è mai stata impostata a chiare lettere: dato che si tratta di una questione secondaria. Ci son questioni più importanti da risolvere...».

Lui stesso, nel ’49, quando insegnava l’italiano ai ragazzi delle medie in Friuli, era stato espulso dal partito e dalla scuola per atti osceni imputati dagli accusatori a «deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e altrettanto decantati poeti e letterati». La lettera all’amico partigiano Carlino, ripresa da Enrico Oliari nel libro Omosessuali? Compagni che sbagliano, è gonfia di sconforto: «Mia madre ieri mattina è stata per impazzire, mio padre è in condizioni indescrivibili: l’ho sentito piangere e gemere tutta la notte. Io sono senza posto, cioè ridotto all’accattonaggio. Tutto questo semplicemente perché sono comunista. Non mi meraviglio della diabolica perfidia democristiana; mi meraviglio della vostra disumanità; capisci bene che parlare di ideologia è una cretineria. Malgrado voi, resto e resterò comunista».

«Malgrado voi». Lo ripeterà in una delle Lettere Luterane: «Io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono, cioè, un “tollerato”. La tolleranza è solo e sempre nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale. Il fatto che si “tolleri” qualcuno è lo stesso che si “condanni”. La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata. (...) Come cani rabbiosi, tutti si sono gettati su di me non a causa di quello che dicevo, ma a causa di quella “tinta”. Cani rabbiosi, stupidi, ciechi. Tanto più rabbiosi stupidi, ciechi quanto più io chiedevo la loro solidarietà e la loro comprensione. Perché non parlo di fascisti. Parlo di “illuminati”, di “progressisti”. Parlo di persone “tolleranti”».

E lo resterà davvero, a sinistra a modo suo, fino alla notte del novembre 1975 in cui fu ucciso sulla spiaggia di Ostia. Quella morte, anzi, è considerata da Oliari e altri come lo spartiacque, dentro il partito e più in generale la sinistra, tra il «prima» e il «dopo». Perché solo allora, prima volta, un corteo di omosessuali solcò il centro di Roma fino a Botteghe Oscure. Una svolta storica. Una manciata di anni e nell’82, nella Casa del Popolo di via Arduini a Bologna, Franco Grillini, futuro presidente dell’Arcigay, si alzò per spiegare ai compagni li riuniti che non c’erano solo i diritti al lavoro, alla salute, allo sciopero ma anche quello alla propria identità sessuale: «E andavo avanti così sempre più infervorato finché saltò su un vecchio operaio: “Ha ragione il compagno busone!” Scoppiò un applauso e lui: “s’a iel da reder! Cosa c’è da ridere?” Era un uomo semplice e generoso. Magari aveva sbagliato la parola giusta, ma lui aveva capito tutto». Quella Casa del Popolo, oggi, è la sede dei democratici bolognesi. E la rimonta di Elly Schlein e di tanti altri contro i pregiudizi partì anche quella sera di quarant’anni fa.

Quel giorno a Chia. Bernardo e Pier Paolo, la bellezza del non-detto. di Paolo Lepri e Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2023

Estate 1976: le foto inedite, spuntate da una vecchia scatola, delle riprese di Bertolucci per il video-film su Pasolini. L’indagine, l’amicizia, e noi ragazzi di vent’anni. Una lezione oltre il cinema

Sono state ritrovate in una vecchia scatola, nascoste all’amaro trascorrere del tempo, queste immagini che racchiudono il segreto del legame profondo tra due uomini giusti — uno dei quali era assente, perché barbaramente ucciso in una notte di qualche mese prima — provenienti da un mondo in grado di resistere, grazie alla loro testimonianza, alle ondate impietose del dopostoria: Bernardo Bertolucci e Pier Paolo Pasolini.La locandina di «La commare secca»

Raccontano altre cose, queste immagini, rispetto a quello che già sappiamo sulla collaborazione, iniziata all’inizio degli anni sessanta e maturata poi con La commare secca (il primo film di Bertolucci, tratto da un soggetto di Pasolini, vedi locandina a lato), fra quel giovane un po’ timido arrivato a Roma da Parma, poeta figlio di un poeta, e il regista-scrittore-intellettuale friulano che stava scatenando una rivoluzione creativa senza paragoni nella cultura italiana del Novecento.

Raccontano il rispetto della memoria. Raccontano il senso dell’amicizia. Raccontano la bellezza del non-detto.

In un giorno di estate che sembrava primavera, nel 1976, Bertolucci si mise alla ricerca di Pasolini...

In quella casa-torre di Chia, a ridosso dei ruderi del castello di Colle Casale nella campagna tra Viterbo e Orte...

...che era il luogo-simbolo delle lancinanti solitudini di cui aveva bisogno il regista di «Accattone» e dove aveva girato alcune scene de «Il Vangelo secondo Matteo»

Forse anche perché il futuro regista di «Novecento» conosceva bene (come leggiamo in una sua poesia, contenuta nella raccolta «In cerca del mistero») la «disperazione che è furia» di colui che era stato il suo maestro «Era la mia emozione l’unica spia/ dell’umiltà provinciale che riposa/ in me, che scopro fragile poesia», sono altri versi che vale la pena ricordare.

Fu lo stesso Bernardo a suggerire di girare a Chia la sua parte di Il silenzio è complicità, il video-film collettivo che la Federazione giovanile comunista romana aveva proposto ai principali registi italiani per rivolgere un omaggio postumo all’uomo delle Ceneri di Gramsci e per tentare di fare chiarezza sulle oscure circostanze, rimaste tali nel tempo, del suo brutale assassinio.

Ricordiamo quel pomeriggio anche come una magnifica lezione di cinema.

Reduce dal successo mondiale di Ultimo tango a Parigi, Bertolucci — affiancato da un altro amico di Pasolini, Sergio Citti, fratello del protagonista di Accattone, che debuttò dietro la macchina da presa con Ostia —usò i mezzi un po’ improvvisati che gli avevamo messo a disposizione, senza mai lamentarsi, per riprendere se stesso che cercava chi sarebbe mancato per sempre in quell’antico rifugio: un rifugio che ne conservava però l’anima.

Assistemmo, ragazzi di vent’anni, all’autoritratto di un cineasta che indaga, con il suo linguaggio, sull’altro che non c’è più

E che rivede, rielabora, chiede consigli a chi lo accompagna...

...con la dolcezza del ragazzo che non smise mai di essere.

Quel giorno a Chia Bernardo e Pier Paolo, la bellezza del non-detto

di Paolo Lepri e Walter Veltroni

Marco Cicala per il Venerdì-la Repubblica

Nell'Italia del 1975 vennero rapite a scopo estorsivo 62 persone, più le bobine di tre film in stato più o meno avanzato di lavorazione. Erano i negativi dello spaghetti-western di Damiano Damiani Un genio, due compari, un pollo, quelli del Casanova di Federico Fellini e di Salò o le 120 giornate di Sodoma, l'ultimo film di Pier Paolo Pasolini prima che finisse ucciso a Ostia nella notte tra il 1° e il 2 novembre dello stesso anno.

 Il Poeta fu attirato all'Idroscalo con la promessa di riavere indietro quelle pellicole? Recentemente l'ipotesi ha ripreso quota nella relazione dell'uscente (XVIII legislatura) Commissione parlamentare antimafia come plausibile retroscena del delitto. Benché circolasse da tempo, fino ad oggi non era mai stata messa nero su bianco in un documento istituzionale. Anche per questo, sulla base delle audizioni svolte dalla Commissione, l'avvocato Stefano Maccioni, legale del cugino di Pasolini, Guido Mazzon, ha lanciato una petizione on line per la riapertura delle indagini.

 Eppure, quasi cinquant'anni dopo, la pista delle "pizze" rubate scricchiola. Parecchio. Cercheremo di capire perché ripercorrendo la vicenda dall'inizio, attraverso le carte custodite dall'indispensabile Centro Studi e Archivio Pasolini di Bologna, che - fortissimamente voluto dalla tellurica Laura Betti - compie giusto vent'anni in questo 2023.

 (...)

 Caccia allo spezzone

A un certo punto affiorò perfino l'ombra del grande intrigo internazionale. I giornali riferirono che a New York un sedicente avvocato si era presentato negli uffici della Technicolor mostrando frammenti di pellicola del Casanova e chiedendo 150 milioni per la riconsegna del materiale. Dopodiché, stop, anche la pista Usa finì nello sciacquone. Come le foto del rapito con un giornale in mano, gli spezzoni funzionavano da prova dell'esistenza in vita dell'ostaggio-film.

 Nei primi giorni delle indagini si scatenò una caccia al fotogramma tanto convulsa quanto, all'occasione, farsesca. Sia di Salò che del Casanova vennero fatti ritrovare segmenti qua e là. Ma abbondarono pure le patacche. Allertati da chiamate anonime, carabinieri e poliziotti reperivano in cascinali fantasma dell'agro romano o tra le cicorie bordanti le vie consolari ritagli di celluloide che spesso si dimostravano appartenere a filmini casalinghi: scene da un matrimonio, un battesimo, una prima comunione... tavolate, bicchierate, magari qualche stornello.

Ma mentre gli inquirenti brancolavano in quella no man's land tra depistaggio e pernacchia, la macchina-cinema si mobilitava in una corsa contro il tempo. Pur di non cedere al ricatto si diede fondo alle più sofisticate risorse tecnologiche. Risultato: in poche settimane il guaio delle pizze imboscate fu risolto. Come? Ce lo spiega ancora il collaboratore di Pasolini, Enzo Ocone: "Dopo i primi momenti di sconforto, mi si offrì una possibilità di venire a capo del problema senza dover rigirare tutto. Da un paio di mesi la Kodak americana aveva messo sul mercato un tipo di pellicola speciale, chiamata Cri, Color Reversal Intermediate, un supporto che a contatto con una pellicola positiva ne rilasciava al 90 per cento una identica al negativo originale. Fantastico".

Ripristinare i negativi perduti dai positivi con una minima perdita di qualità: la soluzione convinse i registi? "Facemmo delle prove e gli esiti furono lusinghieri. Convocai il direttore della fotografia, Tonino Delli Colli, per approvare l'operazione e ne fu entusiasta. Dopodiché tranquillizzai Grimaldi, che riprese colorito e tornò a sorridere. Pasolini, lui, saltava dalla gioia. Tutti contenti di non subìre ricatti, finimmo il montaggio del film e le operazioni di edizione". Lo stesso procedimento - in gergo tecnico "controtipaggio" - fu impiegato per il Casanova, conferma al Venerdì Gianfranco Angelucci, regista, scrittore e sceneggiatore di Fellini.

 Lo schema Citti

Per quanto riguarda Salò, le scene delle quali non fu possibile realizzare "controtipi" vennero sostituite con "riserve", cioè inquadrature di seconda scelta, "doppi considerati ugualmente buoni da Pasolini" (l'Unità 18 settembre '75). Può sembrare un'arida questione tecnica, ma non lo è. È plausibile infatti che a film ormai montato, editato, chiuso, il Poeta si sia avventurato in una perigliosa ricerca delle pizze mancanti, investigando nel sottosuolo, a lui pure familiare, della malavita romana?

È immaginabile che tenesse a quei negativi non più necessari così tanto da fidarsi del diciassettenne Pelosi (a questo punto non semplice "esca sessuale" ma vero e proprio intermediario nell'affaire) e da farsene abbindolare fino all'Idroscalo? A molti - compresa la Commissione antimafia - sembra uno scenario assolutamente credibile. Ci credeva soprattutto Sergio Citti. Fu lui per primo a collegare furto delle bobine e omicidio.

 Ma perché ne parlò apertamente solo nel 2005, cioè trent'anni dopo il delitto e quasi in punto di morte? Sta di fatto che da allora è sullo "schema-Citti" che sono tornate a innestarsi tutte le ipotesi del movente politico. Ipotesi che, in sostanza, leggono la restituzione dei negativi come espediente per eliminare un Pasolini-detective che sarebbe stato in possesso, vuoi in procinto di divulgare prove, documenti letali sui grandi segreti italiani: la morte di Enrico Mattei, le stragi...

 Interpretazioni che negli ultimi anni hanno trascinato dentro il caso PPP una nuova congerie di personaggi insondabili: futuri esponenti della Banda della Magliana, biscazzieri di borgata, mediatori fantasma, poliziotti infiltrati nel sottobosco criminale... Tutto a partire da quella sporca dozzina di pizze. Pizze che, tra l'altro, sei mesi dopo l'uccisione del Poeta, vennero ritrovate. Ma, come vedremo, in circostanze - se possibile - ancora più misteriose di quelle del furto.

 Nell'aprile del 1976, il diciassettenne Pino Pelosi viene condannato in primo grado a 9 anni e rotti come assassino di Pier Paolo Pasolini. "Omicidio volontario in concorso con ignoti" recita la sentenza, che però sarà presto impugnata dalla Procura generale, confermata, ma alleggerita del "concorso con ignoti". Per la giustizia, Pino "la Rana" ha ucciso da solo. Pestando di botte il poeta e poi schiacciandone il corpo riverso, al volante della di lui automobile. In quel processo Guido Calvi fu, insieme a Nino Marazzita, l'avvocato di parte civile per la famiglia Pasolini. Che all'Idroscalo di Ostia la notte tra l'1 e il 2 novembre 1975 si sia consumato un assassinio di gruppo sembra ormai cosa difficilmente oppugnabile.

Ma che quella notte, raggirato da Pelosi, Pasolini contasse di recuperare a Ostia le bobine del film Salò, rubate mesi prima, è un'ipotesi valida, come oggi sostiene chi vorrebbe far riaprire le indagini? Lo chiediamo a Calvi. "Penso che la storia delle pellicole sia vera" dice. "Pier Paolo aveva saputo che i ladri erano disposti a restituire il materiale". Materiale di cui però lui non aveva più bisogno, i negativi sottratti erano stati sostituiti e il film concluso. "Sì, ma se ti rubano qualcosa e hai l'opportunità di riaverla, che fai, non vai almeno a vedere? Certo, si tratta di verificare se la disponibilità a riconsegnare la refurtiva fosse o meno finalizzata a un agguato".

 Un po' diversa l'opinione di Nino Marazzita: "La pista di Salò non mi ha mai convinto" spiega al Venerdì "l'ho sempre scartata. Non pregiudizialmente, ma per mancanza di elementi solidi. Ciò detto, non possiamo escludere che nonostante quei rulli non fossero più indispensabili, Pasolini volesse comunque scoprire la verità sul furto e i suoi autori. Perché è così che funzionano certe teste geniali: vogliono capire, sempre capire, costi quel che costi".

 Ma quando e da dove spuntò la pista delle "pizze" del film come esca? "Da Sergio Citti. Fin da subito si era disperatamente lanciato alla ricerca della verità" ricorda Marazzita. "Mi telefonava di continuo, veniva in studio. Non si dava pace. A Pasolini doveva tutto". E sia. Ma in trent'anni di indagini private portate avanti fino allo stremo, Citti disse molte cose che non sempre combaciavano. Proviamo a rimetterle brevemente in fila.

 Quelli di San Basilio

In un'intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 10 aprile del '76, ossia durante il processo Pelosi, il regista e sodale di PPP raccontava riguardo all'omicidio: "Certa gente mi ha rivelato certe cose... Quanti erano quella notte io non lo so. Ma so com'è andata. E come tutto è stato organizzato bene... Pier Paolo non sarebbe mai andato là. Che bisogno aveva di andare là? Sì, conosco verità che non posso dire". Per quanto oscuramente, Citti sembrava alludere a un'imboscata in cui Pasolini sarebbe stato attirato "là", a Ostia.

Ancora nessun riferimento esplicito però alla faccenda delle pizze. Che ci risulti, tra i primi a mettere per iscritto l'ipotetica connessione tra furto e omicidio fu nel 1994 il regista Marco Tullio Giordana. Nell'ultimo capitolo del suo libro Pasolini. Un delitto italiano, commentando proprio quell'intervista di Citti, l'autore rievocava la vicenda delle bobine di Salò, trafugate negli studi romani della Technicolor a metà agosto '75 insieme a quelle del Casanova di Fellini e del western di Damiano Damiani Un genio, due compari, un pollo.

 Ma Giordana aggiungeva: "Verso settembre, un emissario della banda avvicinò Sergio Citti perché trattasse con Pasolini la restituzione dei negativi rubati", poi però "l'emissario sparì di colpo nel nulla. Invitato dalla polizia a identificarlo, Citti non riuscì a ritrovarne i connotati nelle segnaletiche. Precisa fu l'impressione che la banda fosse composta da dilettanti alle prime armi, minacciosi e feroci proprio per inesperienza". Quello che all'inizio delle indagini era stato presentato come uno "scasso" da professionisti diventava adesso - e forse più verosimilmente - l'audace colpo di una gang di borgata.

Ma, al di là di chi avesse compiuto l'operazione, da dove saltava fuori la storia dell'emissario scomparso? Probabilmente Citti ne aveva parlato nel suo entourage. Nel libro-inchiesta La macchinazione (2015), il regista e scrittore David Grieco riferisce che le prime rivelazioni circa il furto di Salò gli furono fatte da Citti "alla fine degli anni Settanta". Solo più tardi, tuttavia, l'amico di Pasolini avrebbe dettagliato quanto aveva scoperto. Sempre a Grieco, Citti raccontò che qualche giorno dopo il furto era stato abbordato da un tizio di sua conoscenza, tale S.P. (nel 2011, ancora in vita, l'uomo fu interrogato senza cavarne nulla), che l'aveva portato in un seminterrato del quartiere romano di San Basilio dove era riunita al gran completo la banda dei rapinatori.

 I ladri erano imbelviti perché alla richiesta di un riscatto da due miliardi, il produttore di Salò Alberto Grimaldi aveva risposto che avrebbe sganciato massimo 50 milioni - cifra considerata umiliante. Sennonché, di botto, durante quell'incontro con Citti, l'atteggiamento dei ragazzotti si sarebbe inspiegabilmente ribaltato, addolcito: "Se semo sbajati" avrebbero ammesso buoni buoni, dicendosi pronti a restituire le pizze gratis. Però senza Citti di mezzo: direttamente a Pasolini.

Da due miliardi a zero? Inversione di rotta perlomeno singolare. Ma ce ne sarebbe stata pure una seconda. Appresa da Citti la disponibilità dei sequestratori alla riconsegna, PPP avrebbe inizialmente rifiutato di incontrarli. Per paura della nuova generazione criminale: "Questi sono cambiati, non sono più quelli di prima, questi si drogano, uccidono su commissione, sono capaci di qualsiasi cosa" avrebbe detto. Ma allora perché poi cambiò idea accettando l'appuntamento? Perché "s'è fidato de Pelosi" era la spiegazione di Citti.

 Nel maggio 2005, reagendo alle clamorose, quanto tardive e reticenti dichiarazioni di Pino Pelosi - che in tv aveva detto per la prima volta di non essere l'assassino di Pasolini, addossando l'omicidio a tre figuri di cui si guardò bene dal fare i nomi - Sergio Citti risfoderò in alcune interviste la storia dell'agguato a mezzo pizze, ma sfrondandola di molti particolari e aggiungendone altri. Secondo la sua nuova ricostruzione, nella notte del delitto, sempre inseguendo i famosi negativi, Pasolini avrebbe fatto tappa con Pelosi ad Acilia. Lì sarebbe stato assalito in auto da individui che lo avrebbero portato a Ostia per eliminarlo.

Nel luglio successivo, più laconicamente, un Citti ormai malatissimo (sarebbe morto in ottobre) ripeté quella versione davanti all'avvocato Calvi e a Gianni Borgna, allora assessore alla cultura del Comune di Roma. Lo fece in un video, reperibile su YouTube, commentando un prezioso filmato che aveva girato all'Idroscalo una decina di giorni dopo l'omicidio. Ma quanto erano affidabili i suoi racconti del 2005, cioè a trent'anni di distanza dai fatti?

 Quelli della Magliana

Pochi mesi prima, intervistato da Repubblica, Citti non aveva forse affermato che "Pier Paolo è stato ammazzato sulla Tiburtina e poi portato a Ostia"? E nelle conversazioni con Grieco non aveva forse detto che "quelli di San Basilio" erano la Banda della Magliana, che però all'epoca non era ancora costituita?

 Ma rendiamo onore alle accanite ricerche di Citti, relativizzando le sue contraddizioni come veniali sviste senili. Dopotutto un legame tra l'ubiqua Banda della Magliana e la vicenda dei negativi rubati sembra ormai emerso. L'anno scorso, sentito dalla Commissione antimafia, l'ex boss dei maglianesi Maurizio Abbatino, alias Er Crispino, ha ripetuto di aver partecipato al furto delle pellicole prima che la Banda fosse formata.

Di Pasolini aveva già parlato alla giornalista Raffaella Fanelli in un libro-intervista, La verità del Freddo (2018). Stando a Crispino, ora collaboratore di giustizia, il colpo sarebbe stato organizzato su commissione (di chi?) da un biscazziere della Magliana, certo Franco Conte, ormai ovviamente scomparso. Non solo. Abbatino ricorda anche di aver notato l'auto di Pasolini, un'Alfa Romeo Gt 2000, davanti alla bisca. Bene. Ma ammesso che le reminiscenze del Crispino siano attendibili, bastano a connettere furto/ricatto e omicidio? Allo stato, no.

Per concludere facciamo però un salto indietro. Primavera 1976: il grande colpo alla Technicolor è già dimenticato. Per le bobine non è stato sborsato alcun riscatto. I negativi mancanti sono stati "ricreati" grazie a potenti mezzi tecnici. Usciti indenni dal sequestro, i tre film hanno imboccato ognuno la propria strada: Un genio, due compari... di Damiani è stato campione d'incassi nel Natale '75. Il Casanova di Fellini sbarcherà in sala nel dicembre successivo.

 Quanto a Salò, appena uscito, nel gennaio '76, venne sequestrato dalla censura. La sua damnatio durerà vent'anni. E arriviamo al 3 maggio '76: PPP è morto ammazzato da sei mesi quando i giornali annunciano "Ritrovate le pizze dei film di Fellini, Pasolini e Damiani". Ritrovate dove? Nel teatro 15 di Cinecittà, dentro alcuni scatoloni. Ritrovate quante? Ventiquattro, pare, sulle 74 sottratte. Di quali film? Non è dato sapere. Nei faldoni dell'Archivio Pasolini di Bologna la storia del furto finisce così, senza una fine, in dissolvenza.

Le "pizze" ritrovate

Ma nel marzo 2022 un articolo della giornalista Simona Zecchi pubblicato sul settimanale Oggi riapriva l'affaire. Autrice di due libri approfonditi sul caso Pasolini (Massacro di un poeta, 2015, e L'inchiesta spezzata, 2020), Zecchi riportava la testimonianza dell'ex agente infiltrato Nicola Longo, che per la prima volta le rivelava: "Fui io nel 1976 a recuperare le pizze di quei film attraverso l'aiuto di un pezzo grosso della criminalità ormai deceduto, che per cercare di allentare un po' la mia presa sulla banda, al tempo, mi disse che avrebbero fatto ritrovare le pellicole. Mi portarono il campione di alcune scene sottratte dal Casanova di Fellini... per provarmi che stavano dicendo il vero. Così acconsentii: fecero ritrovare tutta la merce rubata, comprese le pizze di Salò, nell'armadio blindato da dove erano state rubate".

 Ascoltata dalla Commissione antimafia per il lavoro svolto sul delitto Pasolini, Simona Zecchi ci conferma le dichiarazioni a lei rilasciate da Longo che, letto il pezzo, lo ha giudicato corretto, ringraziandola via WhatsApp.

Però, raggiunto telefonicamente dal Venerdì, l'ex poliziotto fornisce una versione diversa di quel ritrovamento: "Con Salò di Pasolini io non c'entro niente. Non ne so nulla. Ho fatto recuperare solo i rulli del Casanova di Fellini". In che modo? "Dati i miei contatti nel giro criminale, mi fu chiesto di mettermi alla ricerca del film. Nel sottobosco romano ormai sapevano che ero un agente e che ero a conoscenza di molte cose... Mi temevano... Così mi offrirono una soffiata su quelle pizze. Dissero: "Vai nei giardinetti vicino al Quirinale. C'è una fontanella, e accanto una mazzacane (una lastra, ndr) di Travertino. Sotto troverai una busta. Quando l'avrai recuperata richiamaci". Andai. Nella busta c'era uno spezzone di film. Verificammo. Apparteneva al Casanova. Richiamai e mi indicarono dove ritrovare il resto delle bobine".

Tutte o solo quelle di Fellini? "A me parlarono solo del Casanova". Partecipò al recupero? "No, mi limitai a comunicare il luogo che mi era stato segnalato e che era quello giusto". Quale? "Un armadio blindato all'Istituto Luce". Armadio blindato? Istituto Luce? La stampa scrisse che le pizze furono rinvenute in uno studio di Cinecittà dentro scatoloni... "È possibile. Vede, una volta recuperate le pellicole, io mi disinteressai di quella storia. E, ripeto, di Salò non mi sono mai occupato".

 In seguito, Nicola Longo conobbe Fellini e divennero amici. Affascinato dalle imprese dell'ex Serpico e dai racconti che aveva pubblicato, il regista riminese meditò perfino di ricavarne un film che però rimase allo stato di progetto. A Longo - che nel frattempo è diventato criminologo e romanziere (il suo Macaone è stato candidato allo Strega 2022) - chiediamo: durante il sodalizio con Fellini rivelò al cineasta di aver contribuito al recupero del Casanova rubato? "No, mai". E perché? "Non volevo ostentare, non volevo vantarmi".

Insomma, su Salò e la "pizza connection" resta parecchio da chiarire. Chi preme per la riapertura delle indagini ritiene che ci sia ancora gente che sa e che potrebbe parlare. Molti altri pensano invece che l'omicidio Pasolini non sia più materia giudiziaria ma da libri di Storia. Libri di Storia, non romanzi fantasy. Evitiamo al Poeta questo ennesimo oltraggio.

Pasolini mangia. La gastronomia come espressione politica e religiosa. Anna Prandoni su L’Inkiesta il 7 Febbraio 2023.

Il tema del cibo è molto presente nelle creazioni cinematografiche pasoliniane, con un trattamento del tutto unico: come sempre con questo straordinario intellettuale, anche questo tema passa da politica, religione e, soprattutto, provocazione

Poeta, romanziere, sceneggiatore, teorico dell’arte e della letteratura, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) non ha mai smesso di produrre cultura per tutta la vita. Parlarne dal punto di vista del cibo potrebbe sembrare insensato, ma invece la sua visione di questo argomento è sorprendente. L’angolo non è certo consueto, ma il tema del cibo, nel senso ampio del termine, è un filo conduttore che aiuta l’artista a portare avanti le sue battaglie ideologiche. Grazie a un’intervista con uno dei massimi specialisti del suo lavoro, Hervé Joubert-Laurencin, pubblicata in Francia, scopriamo che il cibo e il racconto gastronomico è molto presente nelle sue creazioni cinematografiche, trattato ovviamente alla maniera di Pasolini: il cibo è quindi politica, religione e, soprattutto, una provocazione, proprio come nel suo stile.

Nell’intervista al traduttore del cineasta italiano, Hervé Joubert-Laurencin, scopriamo che Pasolini, pur non avendone mai scritto, affronta questi argomenti in quasi tutti i suoi film, il che lo rende, incontestabilmente, un autore attento ai temi del cibo. Amava frequentare qualche ristorante o caffè, soprattutto luoghi dove incontrava intellettuali e amici come Alberto Moravia ed Elsa Morante. Ha anche un ristorante e un tavolo abituali, Al Biondo Tevere, sulla strada per Ostia, lo stesso dove si ferma con Pino Pelosi la sera prima del suo omicidio. Dice Joubert-Laurencin: «Per me ci sono due grandi famiglie tra i cineasti: quelli a cui piace mangiare, come Claude Chabrol, e quelli che lo odiano, come François Truffaut che trangugia il suo pasto in piedi in due minuti. Penso che, indiscutibilmente, Pasolini amasse mangiare e che il cibo gli permettesse di esprimere pienamente le sue idee politiche e religiose».

Pasolini affronta il tema del cibo come tanti altri temi a lui cari: trattandolo in modo estremo e impegnato. Ma il cibo nel suo lavoro è sempre affrontato da un’angolazione drammatica. Si interessa, ad esempio, agli affamati, alle classi più povere che non possono nemmeno permettersi di mangiare. Pensiamo per esempio ad Accattone (1961), suo primo film, nel quale il protagonista non ha più niente da mangiare. Questo permette al regista italiano di mostrare come vediamo il mondo quando abbiamo lo stomaco vuoto per mancanza di soldi. E a chiusura della sua filmografia con Salò (1975) c’è invece la situazione opposta, un pasto totalmente schifoso dove si mangiano escrementi: «C’è la bestemmia e un attacco alla cultura borghese francese del grande ristorante. Tra i due, nel film Porcherie (1969), filma il cannibalismo. Spesso vediamo scene di furto di cibo o di alimentazione forzata umana. In tutto e per tutto, Pasolini espone la dimensione disumana del cibo. Appare lì nei suoi peggiori estremi. In questo è un soggetto pasoliniano, politico, religioso, contestatore» sottolinea lo studioso.

In tutti i lavori la dimensione politica è molto forte: Pasolini ha un odio per la borghesia, e il proletariato e il sottoproletariato sono sempre protagonisti. C’è per esempio in Ricotta (1962), dove il protagonista non avendo niente da mangiare ruberà un cane e lo scambierà con la ricotta di cui si ingozza, provocando lo scherno dei compagni attori. La dimensione religiosa del cibo c’è invece in Le mille e una notte (1974), con la grande festa orientale dove tutti mangiano con le mani e quando uno sconosciuto si serve da un piatto viene arrestato e messo in prigione, senza ulteriori spiegazioni. Conclude lo studioso: «Vi si può vedere anche un riferimento religioso, in particolare a Giuda. C’è innegabilmente una dimensione festosa, con un po’ di dissolutezza, in questo pasto. Ma, ad un certo punto, arriva questo sconosciuto. Penso che Pasolini conoscesse le opere di Rabelais e, più in generale, tutta la cultura medievale a cui era affezionato, e vi si riferisse anche per la visione del cibo».

Se il tema appassiona, due i riferimenti di Hervé Joubert-Laurencin per approfondirlo: Il piacere gastronomico nel cinema, di Vincent Chenille, pubblicato nel 2004 (Ed. Jean-Paul Rocher), che ripercorre la nascita del cinema “gastronomico” e ne analizza il linguaggio molto particolare. E Cheforama – gastronomia al cinema recensita dagli chef, di Ava Cahen, pubblicato nel 2017 (Ed. Nouriturfu). Ricette di film cult (La Grande Bouffe, Pulp Fiction, La Soupe aux choux, Ratatouille, Le Festin de Babette, American Beauty, Peau d’âne, ecc.), aneddoti delle riprese e spiegazione delle scene.

Ecco chi cercò di vendere il capitolo perduto di PPP. A Dell'Utri fu offerto un dattiloscritto delle pagine fantasma di "Petrolio". Ma l'ignoto ora ha un nome: Luigi Castoldi, autore di vari libri su Cefis. Giovanni Giovannetti il 21 Gennaio 2023 su Il Giornale.

In Petrolio di Pier Paolo Pasolini si è più volte ipotizzata la mancanza di un capitolo, l`Appunto 21, che ha per titolo Lampi sull`Eni. La discussione resta aperta tra chi lo ritiene scritto e indebitamente sottratto e chi invece pensa che quel titolo fosse solo un promettente promemoria su cui l`autore sarebbe tornato in seguito. Chi lo dà per scritto, e dunque deliberatamente tolto dal romanzo, ha gioco facile nel rammentare che lo stesso Pasolini proprio in Petrolio scrive: «Per quanto riguarda le imprese antifasciste, ineccepibili e rispettabili, malgrado il misto della formazione partigiana guidata da Bonocore, ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato Lampi sull`Eni, e ad esso rimando chi volesse rinfrescarsi la memoria».

Altri autorevoli studiosi, in punta di filologia, lo ritengono una specie di segnalibro, ma stando al compianto poeta Attilio Bertolucci, quel capitolo Pasolini l`aveva scritto e poi qualcuno assai vicino alla famiglia lo avrebbe sottratto. Bertolucci è mancato nel giugno del 2000 e non può confermare, ma la dimostrata e deliberata espunzione di altre pagine dall`incompiuto romanzo (come i tre discorsi di Cefis e due pagine su Cefis e Mattei dal titolo Per la carriera di Carlo) compiuta proprio da persone vicine alla famiglia, quanto meno genera sconcerto.

Un analogo sentimento lo si avverte nell`apprendere che le tanto anelate pagine di Lampi sull`Eni nel marzo 2010 sarebbero state offerte in vendita al senatore e bibliofilo siciliano Marcello Dell`Utri. Vediamo come. Il 2 marzo in una affollata conferenza stampa, Dell`Utri annuncia che avrebbe esposto un inedito di Pasolini alla Mostra del libro antico di Milano il 12 marzo successivo. Ma alla data stabilita l`inedito non c`era. In una teca di vetro troviamo esposto Questo è Cefis di tale Giorgio Steimetz (un nome di comodo) e, lì accanto, un libro ancora più strano, intitolato L`uragano Cefis. Autore un altrettanto sconosciuto Fabrizio De Masi.

Dell`Utri si giustifica così: il clamore sorto attorno alla notizia avrebbe «spaventato» chi gli aveva mostrato e promesso l`inedito. Il senatore aveva detto che l`inedito era un capitolo «trafugato» di Petrolio, di cui proprio lui era entrato in possesso. Una notizia clamorosa due volte: poiché ci saremmo trovati di fronte a pagine di rilevante interesse storico e letterario; e poiché il senatore stava dando (inconsapevolmente?) una "notizia di reato". «L`ho letto, è inquietante, parla di temi e problemi dell`Eni, parla di Cefis, di Mattei e si lega alla storia del nostro Paese». Presto Dell`Utri si correggerà: «In realtà non l`ho letto... me ne hanno riferito un sunto... sembra che in quelle pagine Pasolini parli dell`Eni... di Cefis... di Mattei...». E a Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 12 marzo 2010), che gli chiede se quei fogli li avesse visti, risponde: «Li ho avuti tra le mani per qualche minuto, sperando di poterli leggere con calma dopo». Che fisionomia avevano? «Una settantina di veline dattiloscritte con qualche appunto a mano». Poi si preciserà che sono esattamente 78 «di un totale di circa duecento».

Potrebbe essere il famoso capitolo mancante, intitolato Lampi sull`Eni? Risposta: «Più esattamente Lampi su Eni». Sentito il 22 aprile 2010 dal sostituto procuratore romano Francesco Minisci, che sta indagando sulla morte dello scrittore, Dell`Utri riferisce che il 1° marzo di quell`anno «mi si è avvicinata una persona di circa 60 anni che io non conoscevo, dicendomi di essere in possesso di importanti documenti relativi a Pier Paolo Pasolini. In particolare mi mostrò un dattiloscritto (con apposte alcune correzioni a penna o a matita) dicendomi che si trattava del capitolo di Petrolio che era stato trafugato, e dunque mai pubblicato. Io ho preso in mano il testo formato da fogli ingialliti di carta velina senza però avere il tempo di leggerne il contenuto. Ed infatti l`ignota persona lo riprese, dicendo che mi avrebbe contattato lui per consegnarmelo».

E sin qui... Ma ora si presti molta attenzione al seguito: dice il senatore che «in quella stessa occasione» l`ignoto «mi consegnò due libri, uno dal titolo Questo è Cefis (pubblicato nel 1972 e fatto immediatamente ritirare dal mercato dallo stesso Cefis) e l`altro dal titolo L`uragano Cefis, mai pubblicato e scritto nel 1975. L`ignoto mi disse che quello che era scritto sul dattiloscritto in gran parte compare nei libri che mi ha consegnato. Io gli chiesi di darmi un recapito per poterlo contattare, ma questa persona mi disse che mi avrebbe contattato lui (ed infatti gli ho dato il mio numero del telefono). Tuttavia da quella data non si è fatto più sentire». Dunque, stando a Dell`Utri, Lampi sull`Eni esiste, lui l`ha visto e terrebbe conto di quanto Giorgio Steimetz (uno dei molti pseudonimi utilizzati dal giornalista e saggista Luigi Castoldi) ha scritto in Questo è Cefis, che Pasolini possedeva in fotocopia.

Andiamo ora a quanto dice Riccardo Antoniani ne L`Italia nel petrolio, scritto con Giuseppe Oddo, ora in libreria per Feltrinelli. Lo studioso incontra Dell`Utri a Roma nel 2012, e il senatore gli rivela «che Castoldi era la stessa persona che gli aveva offerto i due volumi su Cefis». A questo punto l`anonimo latore di Lampi sull`Eni verrebbe ad avere un`identità: quella appunto di Luigi Castoldi, alias Steimetz, l`autore di Questo è Cefis. Chi era Castoldi? Classe 1929, monzese, democristiano, ex dipendente Eni, in ottimi rapporti con la Curia milanese, era stato per anni il segretario generale del Comitato per le nuove chiese, un ente morale fondato e presieduto da Mattei e poi da Cefis. Il tutto sotto l`alto patronato dell`arcivescovo di Milano monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro Papa Paolo VI. Nel 2012 Castoldi era ancora in vita (morirà nel 2021); Antoniani prova allora a sentirlo ma lui preferisce tacere.

Allo studioso non resta che rivolgersi a Giuseppe Volontè, socio in affari del Castoldi, e da Volontè ottiene quanto meno la conferma che era stato Castoldi a consegnare i due volumi a Dell`Utri. Dunque, Dell`Utri ricorda bene e dice il vero. Dunque, potrebbe aver deciso di tacere quel nome ai magistrati romani che indagano sulla morte di Pasolini. Non finisce qui: con il suo vero nome Castoldi ha negli anni pubblicato numerosissime monografie presso Egr, acronimo di Editrice giornalisti riuniti, la casa editrice di L`uragano Cefis, di cui questo nostro autore era stato il fondatore assieme a Volontè. E anzi, il poliedrico Castoldi è l`occulto facitore anche dell`Uragano. A rivelarlo concorre il raffronto con quanto si legge in Santi senza candele (Egr, 1988), un altro libro in cui Castoldi parla di Cefis.

Comunque sia, la stampa de L`uragano Cefis - e marginalmente di Questo è Cefis - più che un messaggio politico si rivela una sporca operazione-ricatto volta a spillar quattrini all`alto timoniere di Montedison, e Cefis proverà in tutti i modi a impedirne la diffusione. Si può ora aggiungere, e lo ipotizza Antoniani, che la stessa Egr, formalmente fondata nel 1975, «potrebbe addirittura essere nata anche proprio con i fondi ricevuti dalla Montedison per interromperne la diffusione». Di certo, questo secondo pamphlet su Cefis viene stampato in pochissimi esemplari («forse una decina», dirà Volontè a Antoniani, quanto era necessario per condurre in porto il ricatto) e dunque Pasolini non lo vedrà.

Quanto a Lampi sull`Eni, non è dato sapere se Castoldi ne fosse entrato in possesso oppure se avesse agito da intermediario. Ma è anche possibile che di quel dattiloscritto, venalmente, Castoldi fosse l`autore: una truffa ai danni di Dell`Utri, un inganno «in gran parte» basato su ciò che «compare nei libri che» lo stesso Castoldi aveva scritto e che al senatore «ha consegnato».

Estratto dell'articolo di Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 19 gennaio 2023.

 (...) Ninetto Davoli, 74 anni, è rimasto quello di sempre, che stregò Pier Paolo Pasolini – e viceversa – sulla collinetta dell’Acqua Santa e che ora mi trovo di fronte con la stessa verve romanesca

(...) Con noi Ninetto ha accettato di parlare, ripercorrendo quell’epoca di difficoltà, ma anche di grande creatività, senza risparmiarsi su nulla: neppure su quella che ha sempre definito «una serata sbagliata». E cioè le tragiche e in parte misteriose ore che portarono alla morte di Pasolini il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia. E ha risposto anche a chi lo accusa di non aver detto la verità e di nascondere un segreto che potrebbe riaprire le indagini. Non solo, ci ha rivelato una frase che Pasolini gli disse a cena prima di morire e ancora lo tormenta: “Ninè, arrivando qui a piedi non avevo il coraggio di guardare in faccia la gente…”.

 (..)

Eri un “ragazzo di vita”?

Ma nooo, non lo ero. Lì mi sono formato e a 16 anni, come succedeva spesso, andavo in giro con gli amici per le borgate. Un giorno arriviamo dove i romani fanno i picnic, all’Acqua Santa. A un certo punto su una montagnola vediamo della gente tutta assieme e andiamo a guardare. Sai chi c’era?

 Pier Paolo Pasolini.

Bravooo! Che girava La ricotta. C’è mancato poco che ci mandassero via, perché eravamo ragazzini e rompevamo i coglioni, come si fa a quell’età. Guarda caso mio fratello costruiva le scenografie del cinema (e anche per quel set) e quando mi vide quasi ci sgridò: “Ma che stai a fa’?”. Ma poi aggiunse: “Vieni che ti presento il regista”. Io manco sapevo chi fosse.

Qual è stato il primo impatto?

Ci presentò così: “A Pasolì, questo è mio fratello Ninetto. A Ninè, questo è Pasolini”. Pier Paolo mi guardò e mi fece subito una carezza in testa, c’avevo tutti i riccetti. Lo guardai intimidito pensando: “Che vuole questo?”. Ma in quell’uomo ho trovato una certa sensazione di sicurezza. Quando mai qualcuno mi aveva detto “Ciao ricciolì”? Nessuno. Mai una carezza in testa a casa mia. I miei genitori erano spicci: “A Nì, è pronta la cena”. E c’era solo una cosa, non si sceglieva. “O te la magni oppure nun magni“. Non erano cattivi, eravamo poverissimi. Così con Pasolini è scattato subito qualcosa di speciale.

Infatti ti chiamò poco dopo per una piccola parte nel Vangelo secondo Matteo.

Nel 1963. Quando me lo propose, sinceramente, gli dissi: “Ma lassa perde, quale cinema?”. Facevo il falegname, lucidavo e restauravo i mobili. Ero imbarazzato di fronte alla telecamera. Però lui mi tranquillizzò, non avrei dovuto dire battute. E così accettai.

Che esperienza ricordi?

Ho scoperto dei modi che mi hanno affascinato: “Anvedi come mi trattano”. Il responsabile della produzione veniva da me per chiedermi: “Ninetto cosa vuoi mangiare? Un primo, un secondo, il dolce…”. Pure er dolce??! Per me era una sorpresa. Poi tornavo a casa la sera e i miei ripetevano: “O la magni o non la magni, fa’ come vuoi”. Non vedevo l’ora di tornare sul set.

Il grande salto arriva poco dopo in Uccellacci uccellini al fianco del grande Totò.

Un anno dopo mi chiamò per quello. Stavolta però dovevo parlare… non volevo ancora, non mi ricordavo quello che avevo mangiato il giorno prima. A un certo punto disse: “Guarda Ninetto che ti pagano”. Me pagano? E che me danno? “Circa 6-700mila Lire”. Allora era una cifra grossa. A casa mio padre per mangiare un mese in sei spendeva cinquemila Lire.

Impossibile rifiutare.

Gli ho detto subito: “Che devo fa’?”. Ma il bello è che ero al fianco di Totò. Andavo già a vederlo al cinema e mi piaceva moltissimo. E in quel momento mi chiedevo come facessero a pagarmi per lavorare con lui. Assurdo. Così abbiamo iniziato a incontrarci per capire qual era il mio ruolo.

 (...)

Il Decameron fu considerato pornografico.

Scoppiò un casino. Quello è uno dei primi film dove si vedevano uomini e donne con delle nudità. È stato bloccato, denunciato, censurato.

Come vivevate con Pasolini tutte quelle accuse, denunce e restrizioni?

Ero talmente attaccato a lui come persona e lo vedevo indifeso che mi incazzavo io per lui. Pier Paolo era uno di parola, mentre io ero di fatto. Se uno gli rompeva il cazzo non è che andavo a chiedergli il perché, mi buttavo direttamente a dargli una pizza in faccia. Mi dava fastidio che lui non reagisse anche fisicamente. Se pensi che nella sua vita ha avuto 32 denunce, tutte assurde.

Come quella per l’accusa di aver compiuto una rapina brandendo una pistola con pallottole d’oro?

Sì, bastava che respirasse e lo denunciavano. Poi sempre assolto, perché non c’era niente di fatto.

Ti è mai capitato di venire alle mani per difenderlo?

Porca miseria, altroché. Sui giornali mi hanno descritto come il “gorilla” di Pasolini. Ero aggressivo, invece Pier Paolo mi diceva di stare calmo. Ma non accettavo che subisse quelle infamie, per cui certe volte non se ne poteva fare a meno. Avrei voluto andare a prenderli tutti sotto casa uno a uno quelli che lo attaccavano. Solo perché era Pasolini le cause andavano avanti anche se erano incredibili. Ma c’ho avuto dei battibecchi anche con lui su queste cose…

Quando?

Quando scrisse quell’articolo in difesa dei poliziotti. Andai subito da lui: “A Pà, ma come se fa a dare ragione a quelli?”. Trattavano in modo feroce gli studenti e io ero incazzato con loro. Per me erano dei fiji de ‘na mignotta. Lui mi placò e disse: “Ma hai capito chi sono? I figli dei più poveri…”. A quel punto non potevo che dargli ragione. Lui vedeva oltre a tutti gli altri, che invece c’avevano le bende sugli occhi. Però i poliziotti non si comportavano bene.

Raccontami un episodio.

Una volta all’Università di Roma siamo andati ad accompagnarlo per una conferenza e, appena arrivato, gli hanno tirato un barattolo di vernice addosso. Pier Paolo è subito corso appresso al ragazzo in fuga, ma non è riuscito a prenderlo perché è entrato in un garage dove c’era un’altra uscita. Noi di solito prendevamo questi ragazzi che lo attaccavano, che erano fascisti, e li davamo alla polizia, che li rilasciava subito. Mio fratello ha preso una sportellata da una macchina, abbiamo dovuto portarlo in ospedale. Nonostante questo, scrisse quell’articolo sui poliziotti.

 (...)

Ho notato che, nei tuoi interventi pubblici, c’è una cosa che ti dà fastidio: chi vuole far passare la tesi che Pasolini in fondo si sia cercato la propria morte.

No, non l’ho mai concepita. Perché era una persona vitale, non è possibile che nel tempo stesso pensasse a cercarsi la morte. Mi sembra una stupidaggine. Avevamo tanti altri progetti futuri.

Tu come vivevi la sua doppia vita, di giorno intellettuale e di notte con i “ragazzi di vita”?

Sapevo tutto di Pier Paolo e sono sempre stato dell’idea che uno nella vita fa quello che vuole e nessuno può permettersi di giudicarlo. Anche a me ne hanno appioppate di cose che avrei fatto con Pier Paolo, ma a me che me ne frega? Niente, perché so io il rapporto che avevamo. La sua seconda vita, se vuoi chiamarla così, è di una persona che aveva i suoi piaceri, i suoi gusti e le sue voglie.

 Ti è mai capitato di metterlo in guardia su certi ambienti?

Sì sì sì, assolutamente. Lo avvertivo spesso di stare in campana.

E lui cosa rispondeva?

Di non preoccuparmi. Era sicuro di se stesso. Non avvertiva il senso del pericolo. Capiva le intenzioni degli altri, quello che volevano da lui, ma purtroppo quella è stata una serata sbagliata… io l’avrei saputo se ci fosse stato qualcosa di strano, sapevo tutto di quello che gli bazzicava intorno. Pensa che quella sera alla trattoria del Pommidoro eravamo io, mia moglie e i miei due figli piccoli, abbiamo cenato con Pier Paolo e parlato di una sceneggiatura. Quando ci siamo salutati mia moglie, me lo ricorderò sempre, mi disse: “A Nì, ma perché nun lo accompagni a Pier Paolo?”. Mi è venuto naturale rispondergli: “A Patrì, ma vuole andare per cazzi suoi…”.

Conoscevi i “ragazzi di vita” che frequentava?

No no, non avevo rapporti con quelli.

Pochi mesi fa il regista David Grieco ti ha indirizzato una lettera pubblica in cui ti invita a parlare, come se avessi nascosto qualcosa: “Su quella notte così buia, aspettiamo tutti da anni un tuo raggio di sole. Vedi di darti un mossa che si è fatto tardi”. Come gli rispondi?

Ma non è vero niente. David Grieco l’ho visto quando ha girato il film su Pier Paolo, La macchinazione con Massimo Ranieri. Diceva che gli raccontavano cose incredibili, ma chi sono quelle persone? Sono tutte parole… anche perché cosa c’è di nuovo nel suo film? Niente!

Dice che Sergio Citti prima di morire gli avrebbe fatto delle rivelazioni.

Ma figurati! Quando è successa la morte di Pier Paolo a Sergio l’ho chiamato io. Non sapeva niente. Cosa poteva sapere?

E allora perché, a quasi cinquant’anni di distanza, ti chiede ancora di dire la verità?

Lo fa tanto per parlare. Sono tutte stupidaggini. David Grieco non sa un cazzo!

Lui sostiene che tu saresti stato avvisato della morte di Pasolini persino prima dei carabinieri.

A me mi ha chiamato la cugina, Graziella. Poi sono andato io dai carabinieri. Come facevo a sapere prima di tutti? La gente parla parla parla, solo che non conosce. Io per i 100 anni di Pier Paolo non ho partecipato a nulla, anche se mi hanno chiamato tutti non ho accettato. Ho le mie ragioni. Non per essere strumentalizzato, non ci riesce nessuno. Perché quello che potrei dire non serve a niente.

 Quindi non c’è nulla di fondamentale per risolvere il mistero intorno alla morte di Pasolini che conosci e non hai ancora detto?

Ho detto tutto quello che dovevo dire. Se poi gli altri vogliono aggiungere che è stato a causa di qualcosa, io lo escludo proprio. È stata una serata sbagliata. Adesso tirano fuori le pellicole rubate, persino la Banda della Magliana. Ma che cazzo dicono? Ma che non lo avrei saputo io?

Eri amico anche di Sergio Citti, con cui hai girato diversi film anche dopo la morte di Pasolini.

Sergio è stata la conoscenza più importante all’inizio per Pier Paolo, fondamentale quando è arrivato a Roma. Gli ha fatto capire tutto ciò che sono le periferie romane. È stato lui a fargli scoprire i segreti, lo ha instradato, poi anche insieme a me, per fargli comprendere i modi di dire, gli atteggiamenti. Con noi si divertiva un sacco, non abbiamo fatto tutti quei film insieme per caso, o no?

 Nonostante tutto, la popolarità non sembra averti cambiato.

Macché, a me nun me cambi. Così come sono con te, sono con tutti. Pier Paolo. Pier Paolo non era un allegrone. Ha avuto una infanzia con sofferenze, ha patito i pregiudizi a Casarsa, le incomprensioni con i genitori, la morte del fratello. Una vita non piacevole, che gli è molto pesata. Allora l’evasione qui a Roma è stata una liberazione per lui. È entrato in un mondo dove poteva esprimersi in pieno e dove non si sentiva giudicato. Ha rappresentato una sorta di terapia.

C’è qualcosa che ti ripeteva spesso?

Sono stati 12 anni tutti fantastici, un gioire continuo. Ma siccome io dico sempre quello che penso, spesso lui mi diceva: “Vedi te se un giorno non trovi qualcuno che te mena“. “Perché?”, chiedevo. “Perché dici tutto quello che ti passa per la testa”.

Fra le tante pellicole a cui hai preso parte ce n’è una che ti ha ridato una enorme visibilità, nonostante avessi una piccola parte: Romanzo criminale.

Guarda, ho fatto un film tanti anni fa che si chiama L’anno prossimo vado a letto alle dieci, dove interpreto un criminale pazzo scatenato che compie gesti efferati. Proprio un trucido. Io non sono così, ma il regista Angelo Orlando era così sicuro di quel ruolo che ho accettato. Ecco, dopo quella pellicola mi chiamano spesso per fare il cattivo.

Come Gerardo il Barbaro in Romanzo criminale.

È stata una bella serie, in fondo si sono attenuti alla storia. E poi è stata vista tantissimo. Ho fatto solo un episodio nella sesta puntata e non sai che successo. C’erano i ragazzini che mi chiamavano per strada: “Ahò, Gerardo er barbaro!”. Li prendevo e gli chiedevo: avete visto solo quello tra i miei film? E loro: “Perché ne hai fatti altri di film?”. Per dire che diffusione ha avuto.

 Ti piace la Roma del 2023?

No, ma non per la città. Per la gente che è cambiata, come ci mise in guardia prima di tutti Pier Paolo. Siamo ormai catturati dal consumismo che ci ha portato all’estremo. In due parole: le persone sono piene di cose superflue e hanno dimenticato il necessario. Vuol dire diventare avidi. Non c’è dialogo, umanità, ognuno di noi ha il suo orticello e del resto non gliene frega niente. Non come prima, che se avevi una minestra la si divideva in tre. Non è più così, purtroppo. Ecco cosa posso aggiungere di ciò che mi disse Pier Paolo quella maledetta sera.

Che cosa?

Mentre eravamo nella trattoria se ne uscì con questa frase: “Sai Ninè, mentre camminavo per venire qui tenevo la testa abbassata perché non avevo il coraggio di guardare in faccia la gente”. Capito? Se tieni conto che sono passati 46 anni…

Pasolini artista del fumetto. Ecco il progetto inedito. Dopo aver disegnato una sceneggiatura molto simile a un graphic novel, propose un volume a Garzanti. Andrea Brusoni il 7 gennaio 2023 su Il Giornale.

Poeta, scrittore, pittore, regista, attore, drammaturgo, giornalista, saggista. Volendo anche fumettista. Sì, Pasolini si è cimentato nel fumetto, realizzando con questa modalità non tanto un semplice storyboard quanto una particolare versione della sceneggiatura del film La Terra vista dalla luna. Nel 1966 Pasolini è al lavoro al citato cortometraggio che diventerà uno degli episodi del film collettivo Le streghe: prende la sceneggiatura e la trasforma in un fumetto a colori, quasi un'opera a se stante, capace di vita propria. Mescolando veloci tratti di biro e pastelli su alcuni fogli da disegno, in 34 tavole dà bidimensionalità alla trama del film prima che questa venga trasposta su pellicola. Si tratta di un unicum tra le opere pasoliniane, il cui originale è oggi conservato a Firenze presso l'Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto Vieusseux.

In realtà il fumetto riguarda solo la prima parte de La Terra vista dalla luna, chiudendosi infatti con la scena del matrimonio tra Assurdina (Silvana Mangano) e Ciancicato (Totò). Di questa porzione di sceneggiatura Pasolini illustra sinteticamente le scene e i dialoghi tra i personaggi, i quali seppur stilizzati sono colti nelle loro peculiari caratteristiche somatiche, caratteriali, espressive. Il foglio, anziché essere suddiviso in due pagine, è usato in orizzontale e per intero, spesso con una gabbia di quattro vignette che enfatizza lo scambio di battute tra i personaggi e permette di indugiare sui primi piani dei volti resi in modo caricaturale. Tuttavia, a seconda della necessità Pasolini modifica questo ritmo. Troviamo fogli con due sole vignette, in verticale o in orizzontale, e addirittura una gabbia di dodici vignette disposte su tre file. I testi sono racchiusi in nuvolette e didascalie, come è d'uso, e presentano un'alternanza tra corsivo e stampatello maiuscolo.

In precedenza, per Accattone e Mamma Roma, aveva realizzato una serie di schizzi con funzione di storyboard: si tratta però di appunti per fissare visivamente la resa delle scene che si apprestava a girare, con i personaggi solo vagamente accennati. Uno strumento di lavoro funzionale alla scelta delle inquadrature, nulla di più, realizzato a biro su fogli volanti o su bloc-notes recuperati, con qualche indicazione dei piani e dei focali. Con La Terra vista dalla luna l'intento dell'autore cambia: Pasolini va oltre lo storyboard, ha la consapevolezza di creare un lavoro che presenta tutte le caratteristiche del medium fumetto, e che si colloca tra la sceneggiatura il testo scritto e l'opera cinematografica il cosiddetto testo filmico. Pura arte sequenziale, ricordandoci della definizione di fumetto coniata dal grande Will Eisner. Infatti, in una lettera del gennaio 1967 al suo editore Livio Garzanti, Pasolini parla soddisfatto del recente esperimento dicendo che gli piacerebbe assemblare in un libro, sotto forma di fumetti, una dozzina di idee per altrettanti episodi comici con protagonisti Totò e Ninetto Davoli, a prescindere da un'eventuale trasposizione cinematografica. Un vero peccato che tale progetto non sia andato a buon fine, chissà cosa ne sarebbe uscito!

Nel 2010 la sceneggiatura a fumetti è stata esposta a Firenze e pubblicata in un volume curato da Graziella Chiarcossi e Antonella Giordano; due anni più tardi, a Rimini, gli originali vengono esibiti nell'ambito di una rassegna che prevedeva anche una mostra delle tavole del graphic novel Pasolini di Davide Toffolo. Un dialogo a distanza, certamente interessante e non peregrino, dato che Toffolo disegna all'interno del suo lavoro proprio dieci pagine della sceneggiatura pasoliniana. Il fumettista, per chi non lo conoscesse, è un artista a tutto tondo, tra i primi a realizzare romanzi grafici in Italia e attivo come musicista con il gruppo Tre Allegri Ragazzi Morti da lui fondato, e di cui ha narrato le avventure in una serie di albi. Nel 2021, indossando l'immancabile maschera da teschio dei T.A.R.M., era sul palco di Sanremo assieme agli Extraliscio per presentare la canzone Bianca luce nera.

Il fumetto è strutturato sotto forma di intervista immaginaria, tant'è che uscì vent'anni fa proprio col titolo Intervista a Pasolini per l'editore pordenonese Biblioteca dell'Immagine. All'epoca, racconta Toffolo, il mercato del graphic novel era molto limitato e non c'erano editori disposti a scommettere su di un testo così difficile. Nel 2005 il volume viene ristampato dalla Coconino di Igort col titolo definitivo, diventando un long seller. Dal fumetto è stato poi tratto lo spettacolo Pasolini. L'incontro sotto forma di concerto disegnato, dove Toffolo, accompagnato musicalmente dagli altri due Allegri Ragazzi Morti Enrico Molteni e Luca Masseroni, ripercorre la biografia e le opere dell'intellettuale fondendo immagini, disegno dal vivo, spezzoni di interviste e di recitazioni poetiche.

La trama di Pasolini è semplice, Toffolo immagina di essere contattato da una persona che dichiara di essere lo scrittore scomparso e di voler rilasciare un'intervista. I faccia a faccia tra i due avvengono in più tappe, in un itinerario che porta il disegnatore in alcuni dei luoghi pasoliniani per eccellenza: dal casello di Versutta nella campagna friulana ai portici di Bologna, dalla Roma di Ragazzi di vita e Accattone all'Appia Antica (il parco della Caffarella) e al lungomare di Ostia, dove si compì il destino; infine alle pendici dell'tna, set di diverse pellicole di PPP. Qui il «sig. Pasolini» non si presenta all'appuntamento ma appare in sogno al fumettista, e si congeda da lui con un dialogo dai toni drammatici e veementi. Le successive pagine del volume ritraggono Toffolo nella laguna di Grado, reduce da un bagno catartico, disteso sull'erba in una placida notte punteggiata dalle lucciole. È anche questa una citazione pasoliniana, a dimostrare come il graphic novel di Toffolo, basato su di una accurata documentazione, sia capace di rievocare nel lettore attento il pensiero di Pasolini in modo originale.

Pasolini è dunque una sorta di diario di viaggio nella poetica di uno dei personaggi più sfaccettati dell'Italia del Novecento. Le parole di Pasolini che leggiamo nei ballons, estrapolate da interviste e scritti d'epoca, ci scuotono dal torpore e risuonano oggi più lucide e attuali che mai; dai disegni in bianco e nero di Toffolo traspaiono la solitudine e lo sguardo malinconico dell'intellettuale scomodo che si considerava «contestazione vivente». L'opera è un sentito omaggio dell'artista a un autore dedito all'anticonformismo e all'arte della parola, a una voce unica che in Uccellacci e uccellini così faceva esprimere il corvo: «I maestri sono fatti per essere mangiati in salsa piccante. Devono essere mangiati e superati, ma se il loro insegnamento ha un valore ci resterà dentro».

Quando alla mostra del cinema di Venezia Pier Paolo Pasolini fece un "sessantotto". Le contraddizioni del regista-scrittore che scandalizzò il Lido con "Teorema". Alice Sforza il 27 Dicembre 2022 su Il Giornale.

È forse l'intellettuale più citato e meno letto d'Italia e, nel centenario della nascita, a Pier Paolo Pasolini sono stati dedicati diversi libri. Tra questi, è interessante l'angolatura scelta da Claudio Siniscalchi, non a caso grande esperto di cinema. Il suo saggio, Teorema sessantottino. Pier Paolo Pasolini alla XXIX Mostra del cinema di Venezia (Ardente Edizioni, con prefazione di Alessandro Gnocchi) racconta molto del Pasolini contraddittorio, attraverso la sua partecipazione, con il film Teorema, alla Mostra del Cinema di Venezia del 1968. Anno che, per ovvi motivi, fa subito venire in mente il «maggio radioso» che, in realtà, come ricorda l'ottimo Siniscalchi, nel 1968, fu un «febbraio radioso». Tutta colpa (o merito?) della settima arte, anche se qui, l'arte era quella del gioco del potere. L'allora ministro della cultura francese, André Malraux, aveva deciso di sollevare, dalla direzione della Cinémathèque, Henri Langlois, pioniere dell'arte del restauro e della conservazione delle pellicole. Malraux, additato come fascista, aveva sottovalutata la forza mediatica dell'avversario e soprattutto la forza dei cinefili. Di solito inerti, come contro la guerra d'Algeria, ma improvvisamente belligeranti per difendere Langlois. Al punto che, il 15 febbraio, la Nouvelle Vague scese in strada per manifestare e non finì bene. A Cannes, un gruppo di registi capitanato da Truffaut e Godard blocca la manifestazione. Ed è in quel clima che Venezia, nell'ultima settimana di agosto, ospita la XXIX edizione della Mostra d'arte cinematografica. A dirigerla era l'ex fascista e ora socialista Luigi Chiarini. Pasolini si presenta con lo scandaloso Teorema. Vorrebbe farsi capo del movimento studentesco, ma lo sconfessa prendendo le difese dei poliziotti che sono figli di poveri. «Figli di papà», contrapposti a «figli del popolo». I giovani gli si rivoltano contro. In un incontro a Ca' Foscari, in compagnia di Zavattini, viene bloccato da una bordata di fischi e urla. Lo invitano ad andarsene: «Vai a casa, vai a chiedere protezione ai poliziotti che hai chiamato figli del popolo». Una débâcle. Eppure, un piccolo trionfo lo ottiene. La giuria dell'OCIC (Office catholique internationale du cinéma) premia Teorema, scambiato, per equivoco, come un manifesto cattolico dei tempi nuovi. Come ricorda Siniscalchi: «Il riconoscimento non deve stupire, giacché Pasolini era stato adottato da un cattolicesimo animato da spirito antiborghese, affiorato dopo la stagione conciliare, e deflagrato con i cattolici del dissenso (perlopiù politicizzatosi a sinistra) e con la contestazione cattolica sessantottina (due realtà storicamente separate e non sovrapponibili)».

Un premio sorprendente che costringe Paolo VI a stigmatizzare film inammissibili, come Teorema, con il sostegno di certi cattolici che hanno paura di essere in ritardo nel momento delle idee. Insomma, un Pasolini che ha sempre diviso. A partire dal comunismo: «I comunisti gli ammazzarono un fratello. I comunisti lo cacciarono dal partito per indegnità morale (leggasi omosessualità). I comunisti guardarono la sua opera con sospetto, per non parlare della sua vita. Eppure, in uno degli ultimi scritti, Pasolini rinnovò il suo sostegno ai comunisti. Ma questo era il Pasolini pubblico. Il Pasolini autentico è lo strenuo difensore dell'identità italiana, cattolica e tradizionalista», ricorda Siniscalchi.

Estratto dell’articolo di Marco Belpoliti per “la Repubblica” il 20 dicembre 2022.

Non sappiamo chi ha ucciso Pier Paolo Pasolini la notte tra il 1° e il 2 novembre 1975. O meglio sappiamo che Pino Pelosi, detto "la Rana", è senza dubbio l'assassino, o forse uno di loro. Di più non si sa, o meglio ci sono sempre nuove ipotesi, dal delitto Mattei ai neofascisti, dal furto delle pellicole di Salò Sade a Cefis. 

Sono almeno una dozzina i libri che cercano i colpevoli, ma non arrivano a nessuna soluzione […] Ora senza fare la lista delle innumerevoli tesi su questo omicidio […] provo a interpretare questa valanga d'ipotesi che comprendono mafiosi, servizi segreti e altri poteri occulti, e che spesso puntano il dito su Petrolio , il romanzo-mostro uscito postumo con un presunto capitolo rubato. […]

Ora la ragione per cui la sinistra italiana cerca un motivo che rimanda al complotto contro il Poeta riguarda […] l’omosessualità di PPP, ovvero la sua attrazione per i "ragazzi di vita", per gli adolescenti. […] Ma Pasolini non era gay, anzi prendeva le distanze dal movimento gay. […] Ci sono le testimonianze di persone a lui vicine come Alberto Arbasino. Senza peli sulla lingua e ironico, a una domanda che gli feci anni fa sulla frequentazione dei "ragazzi di vita", rispose: "Sì. Era pedofilia, ma era anche un termine che allora non esisteva. Non c'era. Si tratta di un termine usato dopo". In quella intervista dice altre cose in dettaglio.

L'omosessualità oggi non fa più un problema […] ma il tema della pedofilia è ancora un tabù e associarla con una icona come PPP è per le persone di sinistra forse troppo. Se ne parla per il mondo greco, ma quella è storia lontana, da grecisti. La sinistra ha un rifiuto, e non certo la destra, che PPP vivo parlava di lui come pederasta e lo metteva all'indice per questo […] 

[…] Si può accettare che una icona come PPP sia stato ucciso nella situazione di un previsto rapporto sessuale con un ragazzo di 17 anni? Ne aveva parlato lo stesso PPP nella lettera aperta a Italo Calvino: sono come il dottor Jekyll e mister Hyde. […] le intuizioni di PPP sulla mutazione antropologica, sulla morte delle lucciole, sul consumismo, e tutto il resto scritto in Scritti corsari e Lettere luterane, gli derivava proprio dal suo amore per i ragazzi; la sua etica si fonda su una estetica: la passione erotica per i ragazzi. 

Il mondo dei sottoproletari era scomparso, o come dice in modo brusco, ma esatto, Arbasino: "I ragazzi non lo davano più, se non a pagamento. Scompare l'Eden trovato a Roma. Pasolini aveva ragione parlando di omologazione". […] Non sappiamo chi ha ucciso PPP, ma con lui quella notte c'era di sicuro un ragazzo di vita. La pedofilia di PPP è lo scandalo di uno scandalo.

"Dietro la morte di Pasolini il furto delle pizze di Salò". Redazione il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

L'omicidio di Pier Paolo Pasolini, ucciso la notte tra l''1 e il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia, potrebbe essere legato al furto delle pellicole originali di alcune scene del suo film Salò e le 120 giornate di Sodoma, che era ancora in produzione: lo scrittore-regista sarebbe andato all'Idroscalo proprio per riuscire a recuperarle. È questa l'ipotesi che emerge dalla relazione finale della Commissione parlamentare Antimafia della scorsa legislatura, resa nota oggi.

In questa ipotesi, aggiunge la Commissione, sarebbero coinvolti nel delitto «gruppi malavitosi di rilievo» come la Banda della Magliana. Nella relazione viene anche precisato che «appaiono ormai del tutto improbabili soluzioni di carattere giudiziario, ma resta utile, in prospettiva storica, che le ricerche sul movente e sulle modalità dell'aggressione che causarono la morte di Pasolini, mai chiarite, siano riprese alla luce dei rilievi emersi dalla attività della Commissione di inchiesta».

«Ho accolto la relazione con grande sorpresa e soddisfazione», ha affermato il legale dei familiari di Pasolini, l'avvocato Stefano Maccioni. «Io feci riaprire le indagini e ho sempre chiesto un approfondimento sul coinvolgimento della banda della Magliana. Il cugino di Pasolini, Nico Naldini, disse che Pasolini non teneva a quelle pizze rubate, ma io rintracciai e ascoltai il montatore e lui mi disse che invece teneva in modo particolare a quelle pizze». L'avvocato è convinto che ci siano elementi che fanno ipotizzare un collegamento e l'ipotesi di «una trappola» per attirare lo scrittore all'Idroscalo. «La procura non ha mai indagato sul movente - sottolinea il legale - e il movente è fondamentale perché fa cadere la versione di Pelosi, tanto più che sul posto sono stati trovati tre dna diversi. E se ci stavano più persone e non solo Pelosi, cade l'omicidio a sfondo sessuale».

Pelosi fu arrestato il 2 novembre e confessò l'omicidio. Nel 1976 fu condannato a 9 anni di carcere ma ne scontò solo 7: nell'82 ottiene la semilibertà e nell'83 la libertà condizionata. Il colpo di scena 30 anni dopo, nel 2005, quando Pelosi cambia clamorosamente versione: «Non fui io ad uccidere Pasolini».

Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “la Stampa” il 17 dicembre 2022.

Era finora una lettura del delitto Pasolini confinata al mondo degli addetti ai lavori: che il poeta, quella maledetta notte del 2 novembre 1975, fosse stato attirato all'Idroscalo di Ostia con il miraggio di fargli riavere indietro pezzi della pellicola di Salò rubati da un capannone di Cinecittà e in fase di montaggio in quei giorni. Sarebbe stata una trappola ideata da chissà chi e gestita dalla malavita romana, alla vigilia di diventare la famigerata Banda della Magliana. 

Ecco, questa ipotesi, che pure è già stata vagliata dalla magistratura ma senza trovare riscontri, ha ora l'autorevole suggello della commissione Antimafia, che ci ha lavorato sopra in fine di legislatura scorsa, e solo da ieri se ne possono leggere gli esiti. […] 

In sintesi: per il delitto Pasolini, l'unico colpevole con condanna definitiva resta Pino Pelosi, un ragazzo di vita, deceduto qualche anno fa. Pelosi era stato arrestato nell'immediatezza e si era addossato tutte le colpe. […] Nel 2005, però, alla riapertura delle indagini, aveva ritrattato, spiegando che si era dovuto accollare l'omicidio per paura di ritorsioni. L'inchiesta dell'Antimafia parte da qui. 

Innanzitutto dalle ricerche della saggista Simona Zecchi, che ha intervistato Nicola Longo, un ex poliziotto ed ex agente segreto che ebbe un gran ruolo nella Roma noir di inizio anni Settanta. Ebbene, Longo racconta di avere recuperato lui le pellicole rubate grazie alla soffiata di un boss della mala. Ed è già una storia nella storia: erano state rubate 70 pizze di celluloide per chiedere un riscatto al produttore Cristaldi (tra le altre cose, c'era tutto il girato del film Casanova di Federico Fellini), ma forse il vero obiettivo erano i pezzi del film di Pasolini. 

Longo recuperò la celluloide un anno dopo l'omicidio Pasolini, troppo tardi per Salò e le 120 giornate di Sodoma, che andò nelle sale utilizzando per il finale scene di scarto. Ricordiamo che il film uscì a dicembre, un mese dopo la morte del regista. L'Antimafia ha poi ascoltato la versione di Maurizio Abbatino […] che sarebbe poi diventato un boss della Banda della Magliana. Abbatino ha confermato […] che il furto fu commissionato da un tale Franco Conte, che gestiva una bisca clandestina alla Magliana.

Scrive l'Antimafia: «A dire di Abbatino, Franco Conte conosceva lo stesso Pasolini in quanto questi, occasionalmente, aveva frequentato il suo locale […]  una "bisca" […]».

Questo, quindi, l'inquietante scenario che ci viene proposto ora dall'Antimafia: ignoti suggeritori usarono alcuni criminali della Magliana, quando ancora non erano diventati quelli che poi Roma avrebbe conosciuto, per attirare Pasolini in un tranello.

[…] Il regista sarebbe andato all'appuntamento con la morte pensando di contrattare per la restituzione della pellicola. Trovò invece i suoi carnefici che lo uccisero di botte. E poi fu costruito a tavolino il colpevole perfetto in Pino Pelosi. […]

Pasolini ucciso da un gruppo che lo attirò in trappola, ma la Banda della Magliana è solo una suggestione. Giancarlo de Cataldo il 17 Dicembre 2022 su La Repubblica.

A quasi 50 anni dalla morte del poeta, la Commissione Antimafia smentisce la versione ufficiale di un solo assassino: Pelosi. E, nell'ipotizzare il tentativo di recupero da parte del regista delle pellicole di "Salò" che gli erano state rubate, tira in ballo la gang di Abbatino e De Pedis. Ma la holding affaristico-criminale si formò due anni dopo il 1975

Per la prima volta, nel quasi mezzo secolo trascorso dall'omicidio di Pier Paolo Pasolini, un documento pubblico - la relazione della Commissione Antimafia della trascorsa legislatura - smentisce la versione ufficiale stabilita in sede giudiziaria: lo scrittore non fu ucciso dal solitario e sbandato Pino "la Rana" Pelosi dopo un incontro mercenario tragicamente degenerato, ma da un gruppo di individui. Lo avevano già affermato i coraggiosi giudici del Tribunale per i minorenni, ma poi Appello e Cassazione avevano ribaltato il verdetto. Era stata sancita una narrazione ben precisa: all'Idroscalo si era consumata quella che, con il linguaggio del tempo, in qualunque altro caso, la cronaca nera avrebbe definito "una squallida vicenda fra omosessuali".

La rabbia di Moravia ai funerali

La notorietà del personaggio aggravava, se possibile, la stigmatizzazione del contesto. Mentre Alberto Moravia, agli affollatissimi funerali, ricordava con veemente commozione che era morto un poeta, e che di poeti non è che nascano poi tanti, e ci faceva capire che, con Pasolini, era morta una parte di noi, tutto un altro pezzo d'Italia, decisamente maggioritario, concludeva che, in fondo, dato il suo stile di vita, se l'era andata a cercare. Aveva buon gioco Stefano Rodotà a commentare con amarezza l'esito processuale: Pasolini era "oscenamente vissuto e oscenamente morto, senza un residuo di dubbio a inquietare le coscienze".

La tesi del libro "Malastoria"

C'è, dunque, nella relazione dell'Antimafia, come un tardivo riconoscimento: abbiamo sbagliato, non sappiamo ancora tutto sulla tua morte. Ma la Commissione va oltre. Ipotizza che fra gli esecutori possano esservi elementi della Banda della Magliana. Ne aveva già scritto Giovanni Giovannetti nel suo Malastoria. Il riferimento alla potente holding affaristico-criminale che imperversò a Roma sino alla fine degli anni Ottanta desta molte perplessità: nel '75 quella banda semplicemente non esisteva. Sarebbe stata costituita due anni dopo, imponendosi sul mercato degli stupefacenti grazie ai soldi del sequestro del duca Grazioli, barbaramente trucidato. Ha un senso, invece, ipotizzare la presenza di elementi in origine legati ai Marsigliesi (erano loro i pezzi da novanta, in quel periodo) poi eventualmente confluiti nella futura Banda della Magliana. Magari elementi legati a quell'ala della Magliana più vicina a quei poteri occulti (dai Servizi deviati alle logge spurie) quanto mai attivi in quegli anni.

Perché una morte così brutale?

Se così stanno le cose, torna centrale la questione del movente. Accantonato quello sessuale, bisogna cercare altrove. Per esempio, nel furto delle "pizze" di Salò: il poeta si sarebbe recato a un appuntamento-trappola per recuperarle. E avrebbe invece incontrato la morte. Ma ammesso che sia andato al fatale incontro con la speranza di recuperare il suo film, perché ucciderlo, e in quel modo così brutale, che sa addirittura di martirio? Le modalità atroci escludono la tesi del pestaggio che degenera. Se era una trappola, era scattata per uccidere.

La lettera a Ninetto Davoli

Qualche giorno fa David Grieco, regista del bel film La macchinazione, ha scritto una vibrante lettera aperta a Ninetto Davoli. Grieco racconta di una relazione sentimentale fra il poeta e Pelosi, che sarebbe stata nota all'entourage di Pasolini, ed esorta Ninetto Davoli a pronunciarsi sulla vicenda. Una conferma sgretolerebbe il movente dell'incontro casuale, e farebbe rivivere le piste alternative, alcune note da tempo. Della presenza, fra i possibili aggressori, di giovani neofascisti, indicati con tanto di nome e cognome, si era parlato persino nel primo processo.

Un commando di neofascisti e borgatari

L'affare delle "pizze" viene rivelato da Sergio Citti nei primi anni Duemila. Pelosi, nel corso di dichiarazioni a formazione progressiva, sino alla morte nel 2017, si proclama innocente e fa anche lui qualche nome. Si è parlato, più volte, di un "commando" omicida misto di neofascisti e borgatari intenzionato a punire un intellettuale scomodo, per di più omosessuale: erano gli anni Settanta, una simile forma di aggressività non sarebbe stata sorprendente. Qualcuno ha voluto liberarsi di un testimone ingombrante: Pasolini stava scrivendo un romanzo, Petrolio, rimasto incompiuto.

Le rivelazioni di "Petrolio"

Doveva essere il grande racconto delle stragi: quelle della prima fase, anticomunista, e della seconda, antifascista, come lui stesso aveva profetizzato. Magari Pasolini non aveva accesso a nessuna carta segreta, ma qualcuno può averlo pensato, agendo di conseguenza.

La Commissione Antimafia è ovviamente scettica sulla possibilità di pervenire a una verità giudiziaria, visto il trascorrere del tempo. Sul piano storico è tutto un altro discorso: la ricerca della verità è un dovere assoluto.

Pasolini ucciso per recuperare la pellicola originale di Salò o le 120 giornate di Sodoma? L’ipotesi della Commissione Antimafia. Ripercorrendo recenti lavori di ricerca, l’Antimafia ricorda "omissioni particolarmente gravi" rispetto agli "accertamenti immediati che si sarebbero dovuti svolgere". Il Fatto Quotidiano il 17 Dicembre 2022.

Il mistero sulla morte violenta dello scrittore, poeta e regista Pier Paolo Pasolini, massacrato la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia, è ancora tutto intero o quasi. A 47 anni dal delitto la verità su chi, come e perché è lontana, ma anche se “appaiono ormai del tutto improbabili soluzioni di carattere giudiziario, resta utile, in prospettiva storica, che le ricerche sul movente e sulle modalità dell’aggressione che causarono la morte, entrambe mai chiarite, siano eventualmente riprese” sottolinea la Commissione parlamentare Antimafia che, sul finire della scorsa legislatura, ha approvato una relazione, ora resa pubblica, nell’anno del centesimo anniversario della nascita. In particolare il lavoro dell’Antimafia si è concentrato sulle “acquisizioni relative al furto della pellicola originale Salò o le 120 giornate di Sodoma e le “possibili connessioni” di quel furto con l’uccisione di Pasolini.

Nella relazione si sottolinea che ci sono state inchieste di giornalismo investigativo che hanno “definitivamente sgretolato l’iniziale ipotesi, purtroppo allora sostenuta dai mezzi di comunicazione e da alcune pronunce giurisdizionali, secondo cui l’assassinio dello scrittore sarebbe stato solo il tragico esito di un incontro sessuale sfociato estemporaneamente in una aggressione da parte di un unico individuo e cioè Pino Pelosi (condannato in via definitiva per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini ndr)”. Ripercorrendo recenti lavori di ricerca, l’Antimafia ricorda “omissioni particolarmente gravi” rispetto agli “accertamenti immediati che si sarebbero dovuti svolgere” come “la mancata audizione dei testimoni che abitavano nelle baracche della zona e che avevano udito quanto avvenuto quella notte e che avrebbero sin dal principio dato conto dell’evidenza che l’aggressione fu condotta da numerose persone” o “la mancanza, dopo l’omesso confinamento della zona ove il delitto era avvenuto, di approfondite perizie sulle gravi ferite riportate da Pasolini e sui mezzi con i quali queste erano state inferte”.

La Commissione ha dunque ritenuto di affrontare tale tema “anche per i suoi evidenti collegamenti con il mondo della criminalità organizzata romana dell’epoca, ma fondamentalmente in ragione di alcune dichiarazioni rese da Maurizio Abbatino (uno dei capi della Banda della Magliana, poi collaboratore di giustizia ndr)” che è stato sentito dalla Commissione di inchiesta in “due distinte occasioni”. Ascoltata durante i lavori anche la ricercatrice e giornalista Simona Zecchi, che si occupò del caso Pasolini. Tra i temi al centro del lavoro della Commissione il furto di alcune ‘pizzr’ di film, avvenuto a Ferragosto del 1975 da un capannone di Cinecittà, tra le quali anche una pellicola originale con scene del film di Pasolini ‘Salò o le 120 giornate di Sodoma’. Secondo alcune ipotesi all’origine dell’incontro all’Idroscalo di Ostia, in cui morì il poeta e regista, ci sarebbe stata proprio l’intenzione di recuperare la pellicola per non perdere irrimediabilmente alcune scene del suo film. Un incontro che, secondo questa ipotesi, sarebbe stato dunque una “trappola” non solo ad opera di Pelosi.

Ci sono tantissimi punti di contatto che scagionano Pino Pelosi – sostiene Alessandro Olivieri, legale dell’uomo condannato – avevamo già segnalato in passato il furto delle pellicole e il fatto che Pelosi si fosse proposto a Pasolini come mediatore, visto che conosceva gli autori del furto, ovvero i due fratelli Franco e Giuseppe Borsellino che abitavano nel suo quartiere (entrambi poi defunti). Pelosi aveva detto che dietro il furto c’era un regista, conoscente lo stesso Pasolini. Tutte queste dichiarazioni lui le aveva rese al magistrato, ma non sappiamo se siano mai state prese in considerazione. Ora si sta andando verso la verità, che comincia a convergere verso quelle dichiarazioni fatte da Pelosi. Invito chi sa a parlare per porre alla vicenda”.

La relazione della Commissione Antimafia. Pier Paolo Pasolini e la banda della Magliana: “Coinvolta nel suo omicidio”. Redazione su Il Riformista il 16 Dicembre 2022

Dietro all’omicidio di Pier Paolo Pasolini, avvenuto quel 2 novembre del 1975, potrebbe esserci il furto di alcune pellicole. Secondo la relazione finale della Commissione parlamentare Antimafia della scorsa legislatura sarebbero state sottratti 70 originali del suo film ‘Salò e le 120 giornate di Sodoma’, allora ancora in produzione e rubate a Ferragosto del ‘75 da un capannone di Cinecittà. Lo scrittore-regista sarebbe andato all’idroscalo di Ostia, dove poi è stato ucciso, proprio per riuscire a recuperarle. In questa ipotesi, aggiunge la Commissione, sarebbero coinvolti nel delitto “gruppi malavitosi di rilievo”.

Nella relazione depositata dalla Commissione viene anche precisato che “appaiono ormai del tutto improbabili soluzioni di carattere giudiziario, ma resta utile, in prospettiva storica, che le ricerche sul movente e sulle modalità dell’aggressione che causarono la morte di Pasolini, entrambe mai chiarite, siano eventualmente riprese alla luce dei pur embrionali rilievi emersi dalla attività della Commissione di inchiesta”.

La Commissione sottolinea che ci sono state inchieste di giornalismo investigativo che hanno “definitivamente sgretolata l’iniziale ipotesi, purtroppo allora sostenuta dai mezzi di comunicazione e da alcune pronunce giurisdizionali, secondo cui l’assassinio dello scrittore sarebbe stato solo il tragico esito di un incontro sessuale sfociato estemporaneamente in una aggressione da parte di un unico individuo e cioè Pino Pelosi”, detto ‘La Rana’, che fu condannato in Cassazione a 9 anni e 7 mesi di carcere nel 1979.

L’antimafia ricorda “omissioni particolarmente gravi” rispetto agli “accertamenti immediati che si sarebbero dovuti svolgere” come “la mancata audizione dei testimoni che abitavano nelle baracche della zona e che avevano udito quanto avvenuto quella notte e che avrebbero sin dal principio dato conto dell’evidenza che l’aggressione fu condotta da numerose persone” o “la mancanza, dopo l’omesso confinamento della zona ove il delitto era avvenuto, di approfondite perizie sulle gravi ferite riportate da Pasolini e sui mezzi con i quali queste erano state inferte”.

La Commissione ha ritenuto di affrontare questo tema “anche per i suoi evidenti collegamenti con il mondo della criminalità organizzata romana dell’epoca, ma fondamentalmente in ragione di alcune dichiarazioni rese da Maurizio Abbatino (uno dei capi della Banda della Magliana, poi collaboratore di giustizia ndr)” che è stato sentito dalla Commissione di inchiesta in “due distinte occasioni”. Ascoltata durante i lavori anche la ricercatrice e giornalista Simona Zecchi, che ha riferito “di aver svolto un colloquio con Nicola Longo“, ex poliziotto, che “avrebbe raccontato alla giornalista di aver avuto un ruolo importante nel recupero del materiale sottratto. Peraltro, tale rinvenimento sarebbe stato possibile solo alcuni mesi dopo la morte dello scrittore”. Longo “era entrato in contatto con un grosso personaggio della malavita prossimo al contesto criminale della banda della Magliana” e “si era reso disponibile a far recuperare gli originali del girato portando, come prova dell’effettivo possesso delle pellicole, un frammento del film”. Operazione andata a buon fine perché l’operazione di recupero aveva poi avuto successo in quanto allo le ‘pizze’ furono ritrovate sotto un tombino.

Il legale di Pelosi commenta così la relazione dell’Antimafia: “Ci sono tantissimi punti di contatto che scagionano Pino Pelosi: avevamo già segnalato in passato il furto delle pellicole e il fatto che Pelosi si fosse proposto a Pasolini come mediatore, visto che conosceva gli autori del furto, ovvero i due fratelli Franco e Giuseppe Borsellino che abitavano nel suo quartiere (entrambi poi defunti). Pelosi aveva detto che dietro il furto c’era un regista, conoscente lo stesso Pasolini. Tutte queste dichiarazioni lui le aveva rese al magistrato, ma non sappiamo se siano mai state prese in considerazione. Ora si sta andando verso la verità, che comincia a convergere verso quelle dichiarazioni fatte da Pelosi. Invito chi sa a parlare per porre alla vicenda“.

Giovanni Berruti per “la Stampa” il 29 novembre 2022.

«Io sono quello che lei cerca». All'inizio degli Anni 60, diversi giovani inviarono le proprie candidature per il ruolo principale ne Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. 

Tutto nacque da un'intervista che lo scrittore e regista rilasciò sul settimanale Le Ore, annunciando l'ambizioso progetto e nello stesso tempo la ricerca di un attore non professionista che interpretasse Cristo. Ovviamente, che non si richiamasse all'immagine oleografica cui si è sempre stati abituati. 

Sceneggiato da Donata Scalfari e diretto da Simona Risi, Capelli quasi biondi, occhi quasi azzurri - 78 lettere a Pier Paolo Pasolini è un docufilm che analizza le missive degli aspiranti attori, spedite tra il 1962 e il 1963 da tutta Italia, ma anche da Germania e Stati Uniti. A far da fil rouge, la voce dell'uomo che ha ritrovato questi documenti nell'archivio paterno: il fotografo Mimmo Frassineti (tra gli autori del soggetto con Valentina Presti Danisi), figlio dello scrittore Augusto. Pasolini era amico di quest' ultimo e all'epoca gli consegnò le lettere ricevute (già aperte, dunque è lecito pensare che le abbia visionate tutte) in quanto esperto di «supplica». 

Più che un making of de Il Vangelo secondo Matteo, l'ultimo progetto targato 3D Produzioni, realizzato con il sostegno di Intesa Sanpaolo e presentato al Torino Film Festival, punta a offrire un ritratto generazionale maschile, a quasi vent' anni dal secondo conflitto mondiale e pochi prima della grande aggregazione politico-culturale che ha dato vita al 68. 

La peculiarità? Gli scritti sono letti e commentati dagli allievi del Piccolo Teatro di Milano, come se si mettessero a confronto con degli alter ego del passato.

C'è disperazione tra i giovani autori che inseguono l'ambitissima parte (oggi sarebbe «scontata»?) e soprattutto l'ingresso nel mondo del cinema. «Ho fatto la guerra, ho bisogno di lavorare», «Ho sedici anni, sono povero e non posso iscrivermi alla scuola di recitazione, lanciatemi voi». C'è l'ansia per il futuro. Ci sono elementi per un'analisi sociolinguistica del paese, con problemi con l'uso del verbo avere al Nord e del verbo essere al Sud. C'è infine, in una buona parte delle lettere, addirittura una sorta di tensione omosessuale che lega mittente e destinatario. 

Diversi gli interventi nel docufilm, da Marco Tullio Giordana ad Adriana Asti, da Monsignor Zuppi a Natalia Aspesi. «È un'Italia ingenua, un po' miracolistica, che spera di venire adottata dal grande regista per fare il suo film. Non lo pretende, come se nella stessa domanda fosse già implicita la rinuncia» spiega Giordana, in questi giorni in scena proprio con uno spettacolo su Pasolini, Pà con Luigi Lo Cascio. «Emerge il desiderio di entrare in un mondo di cultura - afferma la Aspesi - Ma anche un concetto di mascolinità oggi decisamente tossico, figlio del ventennio fascista e della ricostruzione del dopoguerra».

«Sono abbastanza Pasoliniano», scrive un giovane allegando anche una fotografia. Sì, perché il merito di Pasolini è stato di aver preso dalle periferie il proletariato e sottoproletariato per trasformarli in quadri e sculture. Così da canone estetico, «Pasoliniano» finì per diventare un aggettivo assoluto, uno status. Nessuno fu preso. Né come protagonista, trovato nello spagnolo Enrique Irazoqui, all'inizio restio dall'accettare la parte, né come comparsa, di cui la maggior parte furono alla fine scelte a Matera. Intervistate tra l'altro dagli autori proprio nella città che fu trasformata in Gerusalemme. Figure totalmente distanti dall'attore accademico, «che Pier Paolo non amava particolarmente», come raccontato dalla Asti. Ma in quelle lettere c'era anche chi voleva semplicemente farsi leggere. Come Lello, il contadino pugliese che i genitori volevano ingegnere. Colui che trovava la pace solo con il suo trattore. La stessa che probabilmente Pasolini cercava nell'arte.

"Non lascia nulla al banale". Chi era davvero Pier Paolo Pasolini. L'analisi grafologica dello scrittore bolognese rivela una personalità tutta puntata sull'introspezione e un continuo stato creativo. Evi Crotti su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

Dalla firma e dalla scrittura (clicca qui) del poeta e scrittore bolognese emerge una ricca personalità tutta puntata sull’introspezione e sull’analisi affinché nulla in lui venga vissuto ed espresso in modo soggettivo.

Pier Paolo Pasolini è capace di sviscerare ogni cosa senza nulla lasciare all’immaginazione libera: tutto è frutto di mera creatività (grafia minuta con buona distribuzione degli spazi sia tra le lettere sia tra le parole e le righe). Ciò è indice di un pensiero che non lascia nulla al banale.

Possiede inoltre capacità di analisi, prodotto di una mente e di un pensiero filosofici che valutano con questa ottica sia i problemi sociali sia quelli personali: tutto è sotto l’occhio vigile di un discernimento incessante che poco spazio lascia alla critica altrui.

Dalla grafia emerge pure una componente di ossessività volta a ricercare sempre il vero, che appaghi prima di tutto sé stesso e che lo riempia saturando quella sete interiore che lo ha da sempre caratterizzato.

Possiamo senza dubbio di smentita che egli ha lasciato dietro di sé l’immagine di un uomo che, incidendo nella storia letteraria e sociale, ha indubbiamente creato nostalgia di sé. Egli brilla ancora per le sue notevoli capacità in vari settori dove ancora potrebbe dettare legge (vedi forme estetiche, gesti originali, lettere minute, firma uguale al testo e pressione leggera).

La mente di Pasolini è sempre stata in continuo fermento, caratteristica che gli ha permesso di essere in “continuo stato creativo” riuscendo così a vivere e ad essere presente, allora come anche oggi, con la sua complessa personalità fatta di creatività e affettività tormentata, ma soprattutto con la sua naturale e spontanea ingenuità, fuori da ogni schema preordinato.

Quel moralismo della sinistra jr. che legge Pasolini come lady oscar. Fulvio Abbate su L’Identità il 19 Novembre 2022.

La riflessione sull’omosessualità di Pier Paolo Pasolini non può essere spiegata con la citazione tardo-adolescenziale dei manga giapponesi, ovvero Lady Oscar, oggetto d’affezione LGBT. Come rendere banale la verità storica e perfino carnale di uno scrittore. Marx, Gramsci e lo “straccetto rosso” cancellati dai cartoni acetati. Per chi ne ignori l’esistenza nei trascorsi palinsesti pomeridiani, Lady Oscar è una fanciulla bionda in uniforme da spadaccino maschio nel tempo della rivoluzione del 1789, l’ambiguità di genere come significante. La scrittrice Chiara Valerio, ragionando sulla sostanza di PPP, chiama in causa proprio Lady Oscar, ai suoi occhi chiave di lettura del disvelamento omosessuale. Si possono utilizzare ordinari feticci della subcultura pop perfino nella riflessione ontologica, lo ha fatto il filosofo Giulio Giorello con Tex Willer, resta che Chiara Valerio non possiede la sciabola di Giorello, e la sua narrazione di Pasolini mostra modalità da “cosplay”. Come depotenziare l’omosessualità di Pasolini, disincarnarla dal suo prosaico quotidiano esistenziale. Per paradosso, appare più pertinente la gaffe dell’allora presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, che, commemorandolo a Palazzo Madama, lo evocava “Gian Paolo”. Ancora in tema di garbate mistificazioni, tornano le parole di Marco Pannella. Il leader radicale rilevava che i comunisti, per moralismo e ipocrisia, ritenendo indicibile una “morte da frocio” (sic), avevano scelto di declinarne l’epilogo tragico attraverso la tesi edificante del complotto politico fascista, così ignorando il nodo dell’omosessualità stessa. Accostare Pasolini a Lady Oscar con modalità da turismo letterario giovanile corrisponde ancora una volta a omettere la sostanza della sua praxis omosessuale, sebbene lo scrittore l’abbia esplicitata nel suo portato masochistico, nero su bianco. Occorre dare atto a Dacia Maraini d’essere stata tra i pochi a riconoscere che Pasolini amasse “farsi picchiare”. Basterebbe citare “Il pratone della Casilina”, capitolo del romanzo “Petrolio”, dove scorre una sequenza estenuante di coiti orali che assomiglia a una esecuzione per cancellare ogni lettura da educandato. Moralismo edificante della sinistra giovanile perbene sostituisce i boccoli dorati dell’eroina manga ai brufoli e al ghigno di Pino Pelosi e d’ogni altra “marchetta” che accompagna il quotidiano erotico dello scrittore fino alla morte all’Idroscalo di Ostia. Un bel libro di Andrea Pini, pubblicato dal Saggiatore, “Quando eravamo froci, gli omosessuali nell’Italia della dolce vita”, raccoglie, fra l’altro, testimonianze dirette sull’omosessuale Pasolini, lì definito in tutta la sua attitudine fortemente autopunitiva. Fuori da ogni post-verità, si tratta semplicemente di liberare Pasolini da una lettura che impropriamente ne trascende la sostanza, anche la più drammatica e oscena; impronunciabile. Anche il “corpo” citato da Chiara Valerio evocando Simone Weil ignora le pagine de “La condizione operaia” sulla fatica materiale o ancora lei miliziana con gli anarchici della Colonna Durruti in Spagna nel 1936, il filosofo (tale si riteneva Simone, al maschile) viene semmai trasfigurato in poster edificante da attichetto romanzesco. Così come Berlinguer è ormai reificato in Padre Pio della sinistra svanita, Pasolini appare non meno feticcio glamour caravaggesco, spolpato d’ogni rabbia politica; della sua critica alla società più nulla restano sullo sfondo dei cosplayer in costume da Lady Oscar.

Antonio Gnoli per “la Repubblica” – 21 ottobre 2005 

La morte di Pasolini addolorò profondamente Alberto Arbasino. Ma il modo in cui morì gli parve irreale e provocatorio come la scena di un brutto film. «Ogni tanto si torna a parlare della morte di Pier Paolo come di uno dei tanti episodi misteriosi che accadono in Italia. A me è sembrato molto strano che Pasolini si mettesse in situazioni non dico di venire aggredito o ammazzato, ma ripreso, in posizioni compromettenti, magari con i pantaloni abbassati, da quei fotografi che correvano dietro le starlette. Sarebbe bastata una di quelle fotografie che lo cogliessero in atteggiamento sconveniente per compromettere l’ altezza civile e moralistica delle battaglie politiche che allora stava conducendo».

Sostiene che era troppo noto e troppo impegnato per non avvertire il pericolo di finire su qualche giornaletto scandalistico? 

Una qualunque rivistaccia lo avrebbe distrutto. Mi dicevo quindi: possibile che abbia commesso una tale imprudenza? E poi tutta la storia – le inquadrature, le vicende, le foto, i protagonisti – somiglia molto a un filmaccio di terz’ordine, fatto da degli imitatori di Pasolini che hanno scelto un luogo miserabile, tipo Accattone, per ambientarne la scena. 

Il pasolinismo sarebbe servito per confezionare un omicidio?  

Non lo so, ma quello che gli è successo bastava ricavarlo dai suoi film;  perfino il ragazzetto era uguale a Ninetto. In un certo senso la sua morte mi veniva di paragonarla a quella di Giangiacomo Feltrinelli, avvenuta nei presso di un traliccio a Segrate, dove la sua casa editrice stampava i libri. 

Sta cercando significati emblematici? 

No, ma delle coincidenze che sembrano nate da pessimi sceneggiatori. 

Pessima la sceneggiatura, ma di chi era la regia?

Non si può dire che ci fosse una regia, ma lo si può pensare. 

Che peso dà alle coincidenze?

Non si può far altro che osservarle. 

Ma il fatto che questo caso riesploda ora, a distanza di trent’ anni, cosa le suggerisce? 

Vedrei la cosa in una prospettiva più ampia. Da qualche tempo gli scrittori del nostro Novecento vengono rievocati non per i loro libri che, a quanto pare, non interessano a nessuno, ma semplicemente perché hanno fatto una delazione alla polizia, scritto un biglietto al federale o si sono compromessi con l’Unione Sovietica. Siamo al gossip politico.

Quando vi siete conosciuti con Pasolini?

In un’ epoca ormai remota. Mi pare fosse il 1956, io gli avevo mandato dei versi che avrebbe dovuto pubblicare su “Officina”, una rivista fatta da Pasolini e Leonetti dove si pubblicavano in prevalenza cose sperimentali. 

Vi conoscevate di nome? 

PASOLINI

Diciamo che entrambi agli inizi degli anni cinquanta gravitammo attorno alla rivista “Paragone”, fu lì che pubblicai le mie primissime cose. “Paragone”, sotto le ali di Roberto Longhi e Anna Banti, è stata la migliore rivista letteraria italiana. Normalmente vi collaboravano Bassani, Testori, Citati, Garboli, Calvino e naturalmente Pasolini. In seguito accadde un episodio curioso. Avevo mandato a Bassani, presso la redazione di “Botteghe Oscure”, il manoscritto dell’Anonimo lombardo, che più tardi sarebbe uscito con Feltrinelli.

PASOLINI OMICIDIO 22

Bassani perse la lettera che accompagnava il manoscritto e perciò nessuno sapeva chi fosse l’autore di quel manoscritto. Pasolini che non mi conosceva, ma aveva letto il solo mio racconto comparso su “Paragone”; con grandissimo fiuto filologico, me ne attribuì la paternità. E in seguito, come accennavo, mandai i miei versi per “Officina”. E lui, ricordo, mi diede appuntamento, sotto il Ponte Sant’Angelo, ai famosi bagni del Ciriola. 

Strano appuntamento per due intellettuali.

Era un posto che lui amava. Ricordo che mi ricevette in costume da bagno malgrado la stagione non fosse propizia. E con grande ospitalità mi presentò dei piccini bruttissimi. 

E lei come reagì? 

Mi ero provocatoriamente vestito in grisaglie e cravatta regimental, neanche dovessi andare nella redazione del “Mondo” di Pannunzio. Reagii interpretando la parte del vecchio gentleman arrivato dal Nord Europa che a Copenaghen o a Amsterdam ne aveva viste ben altre. Mi sembra che non gradì particolarmente quel gioco vagamente internazionale.

Per uno come lui probabilmente la paradossalità di certe situazioni era vissuta con fastidio.

Direi che in generale era un uomo molto teso e nervoso. Aveva quel tipo di tensione delle persone che sono abbastanza timide e quindi si fanno forza diventando un po’ aggressive.

Era anche un uomo pieno di inquietudini. 

Come tutti in quegli anni. Cercavamo varie forme con cui esprimerci: giornalismo, romanzo, poesia, teatro, cinema. Sperimentavamo a volte con successo, altre con dei flop clamorosi. 

Pasolini era uno che ce l’ aveva fatta. Penso al cinema. 

Era indiscutibilmente più bravo e poi aveva una perseveranza rara. 

Cosa pensa del suo cinema?

A me piacquero moltissimo Accattone e Il Vangelo, poi ho avuto qualche dubbio. Rimasi, per esempio, molto perplesso su Salò-Sade. In fondo tutto quello che c’era da sapere su Sade lo avevo appreso da tempo nelle mie frequentazioni nelle librerie parigine. 

Intende dire che era un film troppo scontato? 

Di cattivo gusto. Il Salò-Sade – che ha entusiasmato certi e sdegnato altri – poteva dare anche una certa angoscia, pensando allo stato mentale di chi lo aveva concepito e messo a punto. 

A quale stato mentale allude? 

Voglio dire che l’ angoscia che quel film mi trasmetteva non era tanto per le immagini che vedevo, quanto perché un amico si era arrovellato su quei fantasmi.

Pasolini amava a volte far fare ad alcuni amici piccole parti nei suoi film. Le ha mai chiesto di lavorare con lui? 

No. 

E se lo avesse fatto? 

Avrei voluto vedere cosa mi offriva. Aveva un modo di coinvolgere gli amici un po’ speciale. Quando girò Il Vangelo c’erano un po’ quasi tutti gli amici. Ricordo che Rodolfo Wilcock fece una piccola interpretazione nel Vangelo. Mi raccontò dell’ entusiasmo per aver passato una settimana in Puglia, dove Pasolini girava fra Trani e Molfetta: il giorno Vangelo e la notte divertimento straordinario con i giovani che assediavano il set. 

Com’era vissuta l’ omosessualità in quegli anni? 

In quegli anni non c’erano termini che designassero omosessualità o pedofilia. Oggi sono espressioni politicamente corrette. Allora non esisteva il nome e dunque non esisteva neppure la cosa. Assenza di pregiudizi. Non c’ erano i film hard, le edicole non traboccavano di riviste porno. I giovani cercavano sfoghi sbrigativi e senza impegno. Al massimo ci scappava una pizza e un pacchetto di sigarette. 

Ha una immagine lievemente idilliaca dell’ omosessualità.

È stato un periodo relativamente breve. In seguito il paesaggio sociale si modificherà. E questo avrà il suo peso su Pasolini. 

In che senso?

I ragazzini non sono più poveri, nascono vere e proprie categorie professionali. Per giunta si approfondisce il divario fra un cinquantenne come Pasolini e un quindicenne.

Nasce la marchetta. 

Si specializza. Spariscono figure come il marinaio in divisa bianca entrato nell’ immaginario erotico di Cocteau e Genet, o di certi scrittori inglesi. In qualunque porto allora si andasse, da Tolone a La Spezia, li trovavi ad attendere. 

Ma non erano i soggetti che Pasolini prediligeva. 

Pier Paolo amava i minorenni, un’inclinazione che oggi sarebbe oggetto di una riprovazione assoluta.

Gli piaceva invadere il mondo del sottoproletariato. 

Ne era attratto. Lui era un signore con macchina vistosa e lì, in quelle borgate, andava per épater. 

Beh, non solo épater, ad alcuni si è legato. I Citti e i Davoli hanno fatto parte della sua vita. 

Ma di Ninetto era innamorato! Ci sono tra l’ altro le lettere che scrisse a Volponi – la persona meno omosessuale che si poteva conoscere – nelle quali parlava di questo amore a volte disperato. 

Disperato?

Quando Ninetto si sposò, Pier Paolo sembrava una vedova inconsolabile. 

Lei accennava a una certa assenza di pregiudizi negli anni Cinquanta. Però Pasolini fu cacciato dal Pci per immoralità.

Fu un fatto di puritanesimo piccolo borghese. Neppure nella Dc, dove c’erano politici che non facevano mistero delle loro avventure notturne, sarebbe potuto accadere.

Vuole dire che era un partito più tollerante? 

Una tolleranza da parrocchia veneta, che accettava i gusti di un campanaro o di un sagrestano. Comunque negli anni Cinquanta un moralismo piccolo borghese veniva fuori, come ostentazione nel proletariato, con quei giovanotti che si incontravano nei cinema, sui bastioni, nei cessi delle stazioni, ai giardinetti, cioè in tutti i luoghi dove si poteva consumare sul posto.

E nelle classi alte? 

Non c’era nessun moralismo. Froci tantissimi. Magari alcuni di loro erano oggetto di discussione ideologica nei partiti, o di pettegolezzo sui giornali piccolo borghesi di sinistra o di destra. Ma certo non si faceva alcun mistero nel raccontare avventure e prodezze. Come del resto facevano Comisso e Palazzeschi che con rimpianto dicevano: “ahhh, non sa cos’è la douceur du vivre chi non ha conosciuto i moschettieri del duce, quei gerarchi maschioni che venivano chiamati Ferruccio di giorno e Maria di notte’’. Ma questo era il vero gossip. (…)

 Altra epoca. 

Inarrivabile. 

L’ultima volta che vide Pasolini? 

Ci incontrammo proprio sul luogo dove si sarebbe svolto il suo funerale: Campo de’ Fiori. Ci incrociammo alla Carbonara, un ristorante dove aveva portato Sandro Penna. Fu l’ultima volta che lo vidi. 

Che impressione le fece? 

Mi parve pentito della buona azione di essersi trascinato Penna a pranzo. Il vecchio poeta era particolarmente lamentoso. Pier Paolo aveva il sorriso stanco. Di lì a poco sarebbe partito per andare a girare Salò-Sade.

Che giudizio dà dello scrittore? 

Il suo libro che ho più amato è Le ceneri di Gramsci. 

E la sua poesia friulana?

Tanto vale parlare dei poeti di Voghera. 

È stato un grande saggista? 

Indubbiamente lo è stato. 

Anche quando parlava di lucciole. 

Ce le siamo portate appresso per lungo tempo. A volte la sua intelligenza si disperdeva nelle polemichette fra “Rinascita” e “Paese Sera”. 

In vita la sinistra non lo ha amato. 

Di quella roba non avevo nessuna impressione. Ma questa era l’Italia. Minima e rissosa. Bastava prendere un aereo e dopo dieci minuti avevi tutto alle spalle.

Pasolini è stato ucciso: l’Italia è sconvolta. Sulla Gazzetta il ricordo di Giorgio Saponaro. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Novembre 2022

«Pasolini ucciso da un “ragazzo di vita”, come in un suo film»: così titola «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 3 novembre 1975. «Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini è stato selvaggiamente assassinato questa notte, dopo una furiosa colluttazione, a colpi di una pesante tavola di legno divelta da un rudimentale cancello. Il suo cadavere, orrendamente sfigurato, è stato scoperto all’alba di stamani all’estrema periferia di Ostia, nei pressi dell’idroscalo, dalla famiglia di un carpentiere che, come tutte le domeniche, si recava nella zona per completare i lavori di una baracca che stava costruendo artigianalmente».

La notizia sconvolge il Paese intero. Pier Paolo Pasolini – scrittore, poeta, autore e regista cinematografico e teatrale – nasce cento anni fa, nel 1922, a Bologna. Segue gli spostamenti continui del padre Carlo, ufficiale di carriera: dopo la laurea in Lettere, Pasolini si trasferisce in Friuli, nel paese natale della madre, dove comincia la sua esperienza letteraria, e poi definitivamente a Roma. La pubblicazione dei due «romanzi romani» – «Ragazzi di vita» nel 1955 e «Una vita violenta» nel 1959 – rappresenta, si legge sulla «Gazzetta», uno dei fatti più interessanti degli anni Cinquanta. «Una ricerca inquieta, appassionata, nel tessuto sociale dei luoghi, delle comunità umane in cui visse, o meglio con cui visse, perché tutta l’opera di Pasolini, e dunque anche la sua vita, è all’insegna della partecipazione, viva, attiva: egli è stato un vero militante, in uno dei periodi più difficili della nostra storia recente».

Lo scrittore barese Giorgio Saponaro così lo ricorda: «Gli occhiali neri, come per difesa contro il mondo che voleva sempre osservarlo, scrutarlo, vivisezionarlo; la voce, dolcissima, suadente come di chi soffre quotidianamente con immenso strazio le cose di cui parla, di cui dice, con le quali intrattiene gli altri. Il corpo magro, i giubbotti neri, e tutto intorno alla sua figura un non so che di rappreso, di tenuto a freno, di gentile e di forte insieme».

Sulla «Gazzetta» si riportano, inoltre, le reazioni a caldo di molte personalità della cultura nazionale. Eduardo De Filippo, che di lì a poco avrebbe dovuto interpretare l’ultimo film di Pasolini, commenta amaro: «Mentre l’uccidevano, povero e caro Pier Paolo, avrà certamente pensato al soggetto cinematografico che aveva ideato per me, nel quale descriveva, in modo allucinante e ricco di particolari, la scena di un martirio che subisce un uomo in mezzo ad una pubblica piazza». «Sono sconvolta e desolata» – dice Lina Wertmüller – «Abbiamo perduto forse l’intelligenza più lucida dell’Italia contemporanea».

Il sogno di Pasolini tra passato e futuro. Un omaggio al Cairo con centinaia di studenti di Italiano. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Novembre 2022

Ritrovare Pasolini oltre i suoi libri e i film, nello scenario del Cairo, metropoli di venticinque-trenta milioni di abitanti dove convivono modernità e arretratezza, quartieri ricchi insieme alla povertà estrema delle baraccopoli. Con una compresenza dei vivi e dei morti che un tempo Carlo Levi attribuiva al nostro Sud e che al Cairo è effettiva, visto che centinaia di migliaia di persone abitano stabilmente nelle tombe, le cappelle e i mausolei di Al-Qarafa, l’antica necropoli musulmana della capitale detta “La città dei morti”. Del resto, il fantasma di Pier Paolo Pasolini aleggia ovunque non sia giunta a compimento l’omologazione piccolo-borghese che egli aborriva, mentre rimpiangeva la civiltà contadina in via di estinzione nell’Italia del boom, della industrializzazione, della televisione livellatrice dei costumi e dei consumi. Con l’ostinazione di «una forza del passato», Pasolini continua a cercare le vestigia del mondo che sentiva profondamente suo: nelle borgate romane dei primi bellissimi film (Accattone, Mamma Roma) o a Matera dove girò Il Vangelo secondo Matteo (1964), fino alle antiche mura di Sana’a nello Yemen, cui dedicò un documentario-manifesto, e poi in India, Marocco, Brasile... Non è solo “nostalgia”, perché Pasolini nel Terzo Mondo intravede gli indizi sociali e linguistici di una possibile/impossibile rivolta contro la occidentalizzazione indiscriminata, arrivando a presagire per certi versi la grande migrazione, di là da venire, dall’Africa o dall’Asia verso i Paesi ricchi (fa testo per esempio Alì dagli occhi azzurri).

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922), in corso di celebrazione un po’ dovunque, con mostre, iniziative, dibattiti a Roma e nelle grandi città, ma anche in piccoli centri, a testimonianza di quanto abbia permeato la società e la cultura italiane. Dopo la morte violenta a 53 anni per mano del “ragazzo di vita” Pino Pelosi nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975, giusto quarantasette anni fa, Pasolini ha subito dapprima una rimozione feroce e in seguito una paradossale edulcorazione: la sua figura di regista, poeta, saggista e polemista sempre controcorrente è stata trasformata in un’icona di massa. Non mancano gli omaggi all’estero. Siamo stati invitati di recente a parlare di Pasolini, appunto al Cairo, per l’inaugurazione della XXII Settimana della Lingua Italiana nel mondo, organizzata dal Ministero degli Affari Esteri in vari Paesi. Nell’auditorium dell’Istituto Italiano di Cultura della capitale egiziana, un elegante villino del quartiere Zamalek nell’isola Gezira sul Nilo, abbiamo dialogato sull’Autore e il suo cinema con lo storico delle idee Davide Scalmani, il quale dirige con passione l’Istituto. Un luogo vivo e assai frequentato, a cominciare dalla splendida biblioteca intitolata a Giuseppe Ungaretti, il grande poeta intervistato da Pasolini in Comizi d’amore (1965). Ungaretti resta il più celebre fra gli italiani d’Egitto, nato ad Alessandria nel 1888 da un padre operaio fra i tanti stranieri impegnati nello scavo del Canale di Suez e da una madre fornaia.

Per conoscere qualcosa in più di Pasolini all’Istituto Italiano del Cairo v’erano in sala centinaia di giovani, soprattutto ragazze con il velo ormai diffusissimo rispetto a pochi decenni fa e non di rado giunte da altre città, quasi tutti studenti della lingua italiana nei licei e nelle università dell’Egitto. Sono oltre centodiecimila, dice Scalmani, ed è in effetti un patrimonio impressionante di interesse e di fascinazione per la nostra cultura. Si rinnovano così i rapporti tra i due Paesi fecondati lungo l’800 e il ‘900 dagli egittologi italiani impegnati negli scavi archeologici, dai grandi architetti che hanno rimodernato Alessandria e Il Cairo (Antonio Lasciac, Giuseppe Mazza, Mario Rossi), dalle relazioni verdiane grazie all’Aida oggi tenacemente coltivate fra gli altri dal direttore d’orchestra Elio Orciuolo, pugliese di casa all’ombra delle Piramidi. Senza dire dei letterati protagonisti di avventurose esperienze tra il Mediterraneo e il Nilo: Enrico Pea, Fausta Cialente, Stefano Terra, oltre al futurista Filippo Tommaso Marinetti ch’era nato ad Alessandria come Ungaretti.

La tragica vicenda di Giulio Regeni, il dottorando italiano dell’Università di Cambridge rapito, torturato e ucciso al Cairo nel 2016, e la lunga detenzione in carcere di Patrick George Zaki, studente egiziano dell’Università di Bologna, hanno creato tensioni diplomatiche tra l’Italia e l’Egitto che solo la necessaria chiarezza sulle responsabilità potrà sciogliere. Eppure i rapporti interculturali continuano: sono una mezza dozzina attualmente i lettori di Lingua italiana nelle università del Cairo, tra i quali la docente barese Rosa Luigia Bottalico. C’è una nuova generazione di italianisti di pregio come la giovane Nadine Wassef, ricercatrice della Ain Shams University, all’opera su autori da riscoprire come Anna Messina (Cronache del Nilo, 1940) e Marisa Milani. Mentre Suzanne Badie Iskandar lavora intorno a Una vita violenta di Pasolini, che in passato è stato occasionalmente tradotto in arabo e talora non dall’italiano, bensì da altre lingue. Non conta solo l’accademia. Il console onorario italiano a Luxor Francis Amin, collezionista e studioso, in perfetto italiano racconta di mostre e iniziative realizzate in varie città del Paese. Il canale YouTube “Egitto Ora”, curato dai volenterosi Ossama Fawzy e El Semary Saleh, esplora temi legati al turismo, la gastronomia, la musica italo-egiziani.

Sempre l’Istituto Italiano di Cultura nei giorni scorsi ha ospitato un concerto tutto pugliese, con il pianista Mario Margiotta, il soprano Serena Grieco e il Quartetto Gershwin, e ha propiziato l’incontro artistico fra il sassofonista jazz romano Simone Alessandrini e il gruppo locale Mazaher & Nass Makan Ensemble. Insieme stasera saranno di nuovo in concerto al “Makan - Egyptian Center for Culture and Arts” animato da un intellettuale cosmopolita qual Ahmed Maghraby, che conosce bene l’Italia e in particolare l’antropologia musicale del Mezzogiorno. Di scena la musica «Zar», un secolare ritmo rituale e onirico utilizzato a mo’ di esorcismo per liberare le donne dagli spiriti malefici: esattamente come la Taranta... Il sogno di una cosa, sì, nel segno di Pasolini.

Pasolini, il cantore identitario contro il globalismo. Alessandro Gnocchi su Culturaidentita.it il 2 Novembre 2022

Oggi moriva PPP, Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Ostia, Roma, 2 novembre 1975): perché venne assassinato? E’ vero che Pino Pelosi fu l’unico responsabile dell’omicidio? E quei tre uomini dall’accento meridionale presenti sul litorale di Ostia? Ed è vero che in quel capitolo “mancante” del suo romanzo uscito postumo, Petrolio, il protagonista interpretato da un personaggio di fantasia era in realtà una persona molto in alto dell’ “apparatchik” economico/politico di allora? La morte di PPP resta comunque uno dei tanti misteri italiani. Ma noi oggi non ci vogliamo soffermare su questo aspetto oscuro: vogliamo invece mostrare un paesaggio luminoso, cioè il suo ultimo libro di poesie intitolato La nuova gioventù, contenente quella poesia scritta in dialetto friulano, Saluto e augurio, che idealmente rappresenta un testamento intellettuale e morale per chi sarebbe venuto dopo, cioè noi oggi (Redazione)

“Non c’è peccato peggiore, nel nostro tempo, che quello di rifiutarsi di capire: perché nel nostro tempo non si può scindere l’amare dal capire. L’invito evangelico che dice «ama il prossimo tuo come te stesso» va integrato con un «capisci il prossimo tuo come te stesso». Altrimenti l’amore è un puro fatto mistico e disumano”. 

Pier Paolo Pasolini è stato forse l’ultimo intellettuale possibile. Quali speranze avrebbe oggi un poeta di emergere con la forza delle sue parole nel mondo dei social media, che consuma le idee come fossero merci? Esistono forse due Pasolini. C’è il personaggio pubblico “Pasolini”, l’intellettuale eretico, fedele ai comunisti ma non al comunismo, il fustigatore della borghesia, l’editorialista sorprendente, il profeta civile. Accanto al marxista, tutto nella storia e nella ragione, c’era ancora il giovane Pier Paolo-Narciso, il poeta friulano, tutto nella ciclica astoricità del mondo contadino e nel sentimento. Il marxista forse nacque anche per mettere un argine a Narciso, per ordinare le idee, per maturare. Chissà cosa sarebbe diventato se non lo avessero ammazzato come un cane nel 1975. Pasolini era a un passo da un grande cambiamento. Era in arrivo qualcosa di peggio delle camicie nere della gioventù: una forma perfetta di regime costruito con l’assenso degli uomini ridotti a consumatori. Il potere diventava globale e usciva dai parlamenti per entrare nei board di un nuovo tipo di Stato, senza confini: l’azienda multinazionale. Il mercato globale ha una sola regola: l’efficienza. I consumatori devono essere uno identico all’altro e desiderare le stesse cose da prodursi in serie, con redditizie economie di scala. In futuro, ogni reale differenza sarà cancellata, in nome e con la scusa della tolleranza. Il cambiamento è veloce e globale. Dunque travolgerà tutto ciò che è lento e locale. Istituzioni come famiglia e Chiesa sono obsolete e saranno abbandonate o svuotate di senso proprio come la politica tradizionale. Anche piccoli imprenditori, partite Iva e commercianti sono un freno a mano tirato. Quindi dovranno sparire.   Pasolini picchiava duro anche a sinistra: il progresso non può consistere nel mettere un televisore in ogni casa. La “contestazione” si è rivelata funzionale al capitalismo. Può aver senso cancellare la morale tradizionale e l’autorità. A patto di inventarsi un nuovo modo di essere tolleranti, illuministi, liberi. Il Sessantotto non ne è stato capace, ha involontariamente rimosso gli ultimi ostacoli all’affermarsi del capitalismo delle grandi concentrazioni.

Quando si apre La meglio gioventù o L’usignolo della Chiesa Cattolica improvvisamente si capisce che esiste un mondo da salvare se vogliamo restare umani, incluso tutto il male e tutte le perversioni di cui siamo capaci. Il male non è meno importante del bene in questo mondo in cui tutti si candidano a essere più buoni attraverso quell’inconcludente (ma non innocente) gioco di parole chiamato politicamente corretto.

Nell’ultimo libro di poesie, La nuova gioventù, un Pasolini ormai disperato affida il suo testamento politico e morale a un giovane fascista, rappresentante di una destra “sublime”. La poesia si intitola Saluto e augurio, è scritta in friulano, questa è la traduzione di Pasolini stesso:

Tradotto: “Per il capo tosato dei tuoi compagni. Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie, abbandonate dal letame. Difendi il prato tra l’ultima casa del paese e la roggia. I casali assomigliano a Chiese: godi di questa idea, tienila nel cuore. La confidenza col sole e con la pioggia, lo sai, è sapienza santa. Difendi, conserva, prega!”. E ancora: “Tu difendi, conserva, prega: ma ama i poveri: ama la loro diversità. Ama la loro voglia di vivere soli nel loro mondo, tra prati e palazzi dove non arrivi la parola del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; ama il loro dialetto inventato ogni mattina, per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria. Ama il sole di città e la miseria dei ladri; ama la carne della mamma nel figlio. Dentro il nostro mondo, dì di non essere borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza ignoranza, o un soldato senza violenza”. Le nuove tavole della Legge in tre comandamenti: difendi, conserva, prega.

Bibliografia essenziale: La meglio gioventù, Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare, Le ceneri di Gramsci, Ragazzi di vita, Scritti corsari, Petrolio, Teatro.

Pier Paolo Pasolini, un caso mai chiuso. Il depistaggio nella ricostruzione del legale che ha riaperto l’indagine. A 47 anni dall’omicidio, il libro di Stefano Maccioni elenca tutti gli elementi irrisolti che convergono a delineare il quadro di una deliberata manomissione della verità sull’omicidio dell’intellettuale, pilastro del pensiero del Novecento. Enrico Bellavia su L'Espresso il 31 ottobre 2022.

Una morte che incarna la traiettoria che avrebbero preso i nostri giorni. Perché la costruzione di misteri è arte in cui l’Italia eccelle nel mondo e genera emuli. E la storia recente ne è piena. Ha molto a che vedere con la genesi della Repubblica sulle ceneri del fascismo e dei suoi apparati: perché è quello il vizio di origine che grava come un fardello sul presente.

La fine di Pier Paolo Pasolini, il 2 novembre 1975, 47 anni fa, all’Idroscalo di Ostia, è il cold case italiano più dibattuto. Tanto longevo quanto controverso, rappresenta l’archetipo dal quale tutti gli apprendisti ingegneri dell’arcano attingono la propria scienza.

Gli atti mancati, le prove distratte, sparite, manipolate. Le domande eluse, le risposte inconcludenti, apparentemente frutto di incomprensibile casualità, tutti elementi che, messi in fila e analizzati, appaiono, al contrario, come tessere necessarie alla manomissione deliberata della verità. E costituiscono un campionario perennemente replicato ogni qual volta, in una ridda di congetture, la nebbia diventa la miscela necessaria a mischiare il falso con l’autentico, il buio con la luce. Perché tutto rimanga nell’indistinto del mistero, appunto.

Per Pasolini, plasticamente, l’eterna tentazione di concentrare il punto di vista dell’indagine sul morto e non sull’assassino è la premessa da cui sembra discendere tutto. È operazione funzionale, serve tutte le volte in cui il contesto di un delitto, l’esatto giorno in cui viene compiuto, il valore preventivo dell’omicidio devono essere sviliti al rango di particolari inessenziali. Con una torsione all’indietro, si volge lo sguardo verso ciò che la vittima aveva fatto, trascurando quel che stava per fare. La confessione servita, quando c’è, e in questo caso, tra mille contraddizioni, c’è, è, per converso, il suggello perfetto a blindare montagne di scartoffie nella cassaforte delle presunte prove incontrovertibili. E consegnare tutto il resto all’oblio dell’indimostrato.

Nell’anniversario della morte, che arriva in fondo all’anno del centenario della nascita (5 marzo 1922), la curva dell’attenzione sulla fine di Pasolini ha conosciuto nuovo vigore. Libri, inchieste, documentari, performance hanno scandagliato e scandagliano ciò che per comodità chiamiamo mistero e potremmo tranquillamente definire, anche in questo caso, depistaggio. Tante sono le analogie con mille altri episodi che punteggiano gli anni del nostro passato (?) prossimo.

Alla versione, l’unica consacrata in sentenza, del delitto d’impeto del ragazzo di vita Pino Pelosi, ribellatosi a un tentativo ulteriore di approccio non sono più molti a credere. Non ci credeva più di tanto neanche Pelosi che pure fece di tutto, sostenuto dall’avvocato Rocco Mangia, per accollarsi l’omicidio in un’altalena di ricostruzioni nelle quali comparivano e sparivano i comprimari. Non ci credeva, e questa è faccenda non secondaria, il tribunale dei minorenni, presieduto da Alfredo Carlo Moro, fratello di Aldo, che condannò l’imputato ma lasciò apertissima la porta del concorso di ignoti che frettolosamente la procura generale si premurò di chiudere.

Da lì è ripartito Stefano Maccioni, avvocato - parte civile nei processi per la morte di Stefano Cucchi, per la strage di Viareggio, in “Mafia capitale”, per il “Sangue infetto” e per l’omicidio del vice brigadiere Mario Cerciello Rega – che, innamorato di casi impossibili, ancora una volta con la leva del diritto e l’esercizio del dubbio ha avuto il merito di far riaprire nel 2010 l’ennesima indagine sulla fine dello scrittore risoltasi però cinque anni dopo nel nulla.

Maccioni però di passi avanti ne ha impressi. Concentrandosi, insieme con la criminologa Simona Ruffini e con il contributo del giornalista Rai Valter Rizzo, su quella che anni di telefilm e fiction ci hanno insegnato a definire la scena del crimine. Lo ha fatto negli atti giudiziari che hanno accompagnato il proprio impegno e in un libro “Pasolini. Un caso mai chiuso” (260 pagine, Round Robin 2022, 14 euro), agile e compatto, in cui sono i fatti incongrui a rivelare la propria fragilità e ad aprire la scena all’ingresso di esami scientifici ed evidenze di laboratorio che gli si sovrappongono, escludendoli per confutarli. Consacrando nuove certezze senza alimentare la roulette del mistero. Perché semplicemente, «i reperti prelevati dalla scena del crimine», fino al 2010 «non erano mai stati sottoposti ad alcuna analisi di laboratorio».

Maccioni, in modo trasparente, sposa la tesi del movente legato alla stesura del romanzo postumo “Petrolio” incentrato sugli affari dell’Eni e sulla mano interna per la morte, il 27 ottobre 1962, del patron della ribellione energetica nazionale al monopolio delle Sette sorelle, Enrico Mattei. Un omicidio, quello, lasciato passare per un incidente aereo fino a quando il pm di Pavia Vincenzo Calia non ha riaperto il fascicolo e smascherato il sabotaggio del velivolo.

In definitiva, per l’avvocato Maccioni, così come per lo stesso giudice Calia, (“Il caso Mattei”, Chiarelettere 2017, scritto con Sabrina Pisu) sono le consapevolezze conquistate da Pasolini sul conto del vice e successore di Mattei, Eugenio Cefis, nel romanzo Aldo Troja, e in «un’informativa del Sismi indicato come il vero fondatore della P2», il cuore della ragione della sua uccisione. E Maccioni lo scrive in premessa: «Secondo me Pelosi non era solo quella notte, Pasolini era sotto ricatto da giorni, e un altissimo papavero italiano stava per essere travolto da Petrolio, il suo romanzo inchiesta il cui argomento aveva già due omicidi sulle spalle. Questo penso, e a questo credo».

Maccioni, quanto al movente, si inserisce nel solco di altri lavori sul punto come quello di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (“Profondo Nero”, Chiarelettere, 2010 o “L' Italia nel petrolio. Mattei, Cefis, Pasolini e il sogno infranto dell'indipendenza energetica” di Giuseppe Oddo e Riccardo Antoniani, Feltrinelli, 2022.

Ma è sull’analisi del fatto che il lavoro dell’avvocato spicca per sforza di sintesi nell’analizzare i mille dettagli trascurati che compongono la ricostruzione sbilenca. Così traballante da apparire rabberciata ad arte nella fretta di concludere come nel più classico dei copioni che in fondo la vittima se l’era cercata.

Perché anche a voler credere, invece, che il movente ultimo della morte di Pasolini, sia prossimo ma diverso, come sostenuto in altre appassionate pubblicazioni, per esempio, i lavori di Simona Zecchi, (“Massacro di un poeta”, 2015 e “L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini, 2020, entrambi per Ponte alle Grazie), sulle trame neofasciste dello stragismo degli esordi nei Settanta, che alimentava il lavoro giornalistico di Pasolini, il punto di vista deve comunque spostarsi a quel che il sangue dell’Idroscalo ha impedito e non a quello che uno dei pilastri del Novecento, aveva già fatto. Frequentazioni dei marchettari della stazione Termini incluse, ovvero il movente omofobo che Maccioni giustamente liquida come funzionale al nascondimento della verità: «Ovvio, comodo, lineare e inevitabile. Anche troppo», scrive.

«Una storia un poco scontata, una storia sbagliata. Storia diversa per gente normale, storia comune per gente speciale», avrebbero sintetizzato Fabrizio De André e Massimo Bubola (1980), prima di quel «Tutto passa, il resto va», di Francesco Di Gregori (A Pà, 1985) e dopo quel «Non può non può, può più parlare», che Giovanna Marini urlò nel 1979 (Lamento per la morte di Pasolini).

Il cuore del lavoro di Maccioni è proprio il luogo del delitto. Gli oggetti recuperati e trascurati, la genesi delle testimonianze che convergono a rafforzare la responsabilità di Pelosi ma descrivono tratti e colori di persone che non gli corrispondono. Che dicono di aver riconosciuto l’assassino sulla base di una foto mostratagli dagli investigatori che incredibilmente era già nelle loro mani a poche ore dal fermo di Pelosi e della quale però non c’è traccia negli incartamenti.

E poi ci sono i particolari, come l’ostinata ricerca di un anello, dono di Johnny lo zingaro, alias Giuseppe Mastini, di cui l’assassino rivendica la proprietà che innesca una forsennata ricerca fino al ritrovamento nei pressi del corpo della vittima. Il sigillo necessario a chiudere il caso. Fino alla sorprendente presenza di Maurizio Abbatino, boss della Magliana, tra i curiosi fotografati nella calca dell’Idroscalo l’indomani dell’omicidio.

Puntigliosamente elencati, sviscerati, messi a confronto con le risultanze di esami indipendenti e perizie del Ris che hanno supportato l’ennesima istruttoria archiviata - in tutto sono quattro –  gli elementi raccolti fanno dire a Maccioni che con Pelosi ci fossero almeno altre cinque persone, per tre delle quali si ha il profilo genetico, e sul conto delle quali non si era mai indagato a fondo, né si indagherà. Nel 2015 l’indagine si è arresa all’esito negativo di trenta confronti del dna con altrettanti potenziali assassini. Vicino ai quali però si arriva per fisionomia, incroci e coincidenze. Come la circostanza di un’auto identica a quella di Pasolini e con tracce di sangue, portata a riparare in tutta fretta all’indomani del delitto.

Il contesto è quello dei giovani della malavita romana legata all’eversione di destra e di origine siciliana. Molto più di una suggestione che sembra tracciare una retta che riconnette Pasolini al molto del grumo di potere che ha ipotecato il Paese. E che ancora una volta riconduce a Mattei e a un altro mistero italiano, la fine del giornalista Mauro De Mauro (16 settembre 1970), impegnato nelle ricerche per la sceneggiatura del film di Francesco Rosi sul presidente Eni. E anche per De Mauro, il movente ipotizzato non è l’unico. L’altro, anche questo prossimo ma non coincidente, porta invece alle rivelazioni impedite sul golpe neofascista (notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970), progettato dal principe nero Junio Valerio Borghese. E da lì si riallaccia a una teoria di altri delitti eccellenti siciliani, da quello del procuratore Pietro Scaglione a quello del giudice Cesare Terranova fino all’omicidio del commissario Boris Giuliano.

Abbastanza per concludere con l’autore che davvero il caso non è affatto chiuso. Perché Pasolini ci parla ancora. E quel corpo martoriato all’Idroscalo allunga ombre su quel che eravamo e su quel che ancora oggi siamo.

Pasolini: «Un massacro firmato da pariolini neofascisti. Ma ora anche i sottoproletari sono criminali». Pier Paolo Pasolini il 18 OTTOBRE 1975 su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

Nell’ultimo articolo pubblicato sul Corriere prima di essere a sua volta barbaramente assassinato (il 2 novembre 1975), lo scrittore analizzava le radici del delitto: «La stampa borghese è felice di poter privilegiare come delinquenti quelli del Circeo» 

Angelo Izzo ride durante l’arresto, poche ore dopo il massacro del 29 settembre 1975. Con lui fu arrestato Gianni Guido; Andrea Ghira si diede alla latitanza

Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. Dall’Archivio storico del Corriere vi proponiamo questo articolo di Pier Paolo Pasolini dell’Ottobre 1975, ripubblicato sul numero di 7 in edicola il 21 ottobre 2022 

«La stampa borghese è felice di poter privilegiare come delinquenti quelli del Circeo: solo i drammi di quella classe sociale hanno valore e interesse. Ormai però anche l’universo popolare delle borgate romane è diventato «odioso» perché quei giovani appartengono totalmente all’universo piccolo borghese che è stato loro imposto definitivamente. La criminalità si vince solo abolendo totalmente la scuola media d’obbligo e la televisione I vari casi di criminalità che riempiono apocalitticamente la cronaca dei giornali e la nostra coscienza abbastanza atterrita, non sono casi: sono, evidentemente, casi estremi di un modo di essere criminale diffuso e profondo: di massa. Infatti i criminali non sono i neo-fascisti».

«SOLO I DRAMMI DI QUELLA CLASSE SOCIALE HANNO VALORE E INTERESSE. ORMAI PERÒ ANCHE L’UNIVERSO POPOLARE DELLE BORGATE ROMANE È DIVENTATO «ODIOSO» PERCHÉ QUEI GIOVANI APPARTENGONO TOTALMENTE ALL’UNIVERSO PICCOLO BORGHESE CHE È STATO LORO IMPOSTO DEFINITIVAMENTE»

«Ultimamente un episodio (il massacro di una ragazza al Circeo) ha improvvisamente alleggerito tutte le coscienze e fatto tirare un grande respiro di sollievo: perché i colpevoli del massacro erano appunto dei pariolini fascisti. Dunque c’era da rallegrarsi per due ragioni: I) per la conferma del fatto che sono solo e sempre i fascisti la colpa di tutto; II) per la conferma del fatto che la colpa è solo e sempre dei borghesi privilegiati e corrotti. La gioia di sentirsi confermati in questo antico sentimento populista - e nella solidità dell’annessa configurazione morale - non è esplosa solo nei giornali comunisti, ma in tutta la stampa (che dopo il 15 giugno ha una gran paura di essere a meno appunto dei comunisti). In realtà la stampa borghese è stata letteralmente felice di poter colpevolizzare i delinquenti dei Parioli, perché, colpevolizzandoli tanto drammaticamente, li privilegiava (solo i drammi borghesi hanno vero valore e interesse) e nel tempo stesso poteva crogiolarsi nella vecchia idea che dei delitti proletari e sottoproletari è inutile occuparsi più che tanto, dato che è aprioristicamente assodato che proletari e sottoproletari sono delinquenti».

«SI PENSI AL DELITTO DEI FRATELLI CARLINO DI TORPIGNATTARA, O ALL’AGGRESSIONE DI CINECITTÀ... LA CRIMINALITÀ SI VINCE SOLO ABOLENDO TOTALMENTE LA SCUOLA MEDIA D’OBBLIGO E LA TELEVISIONE»

« Io penso dunque che anche il massacro del Circeo abbia scatenato in Italia la solita offensiva ondata di stupidità giornalistica. Infatti, ripeto, i criminali non sono affatto solo i neo-fascisti, ma sono anche, allo stesso modo e con la stessa coscienza, i proletari o i sottoproletari, che magari hanno votato comunista il 15 giugno. Si pensi al delitto dei fratelli Carlino di Torpignattara, o all’aggressione di Cinecittà (un ragazzo percosso brutalmente e chiuso dentro il baule della macchina e la ragazza violentata e seviziata da sette giovani della periferia romana). Questi delinquenti «popolari» - e per ora mi riferisco, con precisione documentata, ai soli fratelli Carlino - godevano della stessa identica libertà condizionale che i delinquenti dei Parioli; godevano cioè della stessa impunità. È assurdo dunque accusare i giudici che hanno mandato in giro «a piede libero» i neofascisti se non si accusano nel tempo stesso e con la stessa fermezza i giudici che hanno mandato in giro «a piede libero» i fratelli Carlino (e altre migliaia di giovani delinquenti delle borgate romane)».

QUELLO CHE STATE LEGGENDO (ISPIRATO AL DELITTO DI IZZO, GUIDO E GHIRA), FU L’ULTIMO ARTICOLO DI PIER PAOLO PASOLINI SUL CORRIERE: 15 GIORNI DOPO SAREBBE STATO UCCISO

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«La realtà è la seguente: i casi estremi di criminalità derivano da un ambiente criminaloide di massa. Occorrono migliaia di casi come quelli della festicciola sadica del Circeo o di aggressività brutale per ragioni di traffico, perché si realizzino casi come quelli dei sadici pariolini o dei sadici di Torpignattara. Quanto a me, lo dico ormai da qualche anno, che l’universo popolare romano è un universo «odioso». Lo dico con scandalo dei benpensanti; e soprattutto con scandalo dei benpensanti che non credono di esserlo. E ne ho anche indicato le ragioni (perdita da parte di giovani del popolo dei propri valori morali, cioè della propria cultura particolaristica, coi suoi schemi di comportamento eccetera)».

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«E a proposito, poi, di un universo criminaloide come quello popolare romano bisognerà dire che non valgono le consuete attenuanti populistiche: è necessario munirsi della stessa rigidità puritana e punitiva che siamo soliti sfoggiare contro le manifestazioni criminaloidi dell’infima borghesia neo-fascista. Infatti i giovani proletari e sottoproletari romani appartengono ormai totalmente all’universo piccolo borghese: il modello piccolo borghese è stato loro definitivamente imposto, una volta per sempre. E i loro modelli concreti sono proprio quei piccoli borghesi idioti e feroci che essi, ai bei tempi, hanno tanto e così spiritosamente disprezzato come ridicole e ripugnanti nullità. Non per niente i seviziatori sottoproletari della ragazza di Cinecittà, usando di lei come di una “cosa”, le dicevano: “Bada che ti facciamo quello che hanno fatto a Rosaria Lopez”».

«La mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale - che oppongo ancora una volta all’offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalisti e dei politici che non vivono queste cose - m’insegna che non c’è più alcuna differenza vera nell’atteggiamento verso il reale e nel conseguente comportamento tra i borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate. La stessa enigmatica faccia sorridente e livida indica la loro imponderabilità morale (il loro essere sospesi tra la perdita di vecchi valori e la mancata acquisizione di nuovi: la totale mancanza di ogni opinione sulla propria «funzione»). Un’altra cosa che l’esperienza diretta mi insegna è che questo è un fenomeno totalmente italiano. Fa parte del conformismo, peraltro antiquato, dell’informazione italiana il consolarsi col fatto che anche negli altri paesi esiste il problema della criminalità: esso esiste, è vero: ma si pone in un mondo dove le istituzioni borghesi restano solide e efficienti, e continuano a offrire dunque una contropartita. Che cos’è che ha trasformato i proletari e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in piccolo borghesi, divorati, per di più, dall’ansia economica di esserlo? Che cos’è che ha trasformato le «masse» dei giovani in «masse» di criminaloidi?».

«IL CONSUMISMO HA DISTRUTTO CINICAMENTE UN MONDO ‘REALE’, TRASFORMANDOLO IN UNA TOTALE IRREALTÀ, DOVE NON C’È PIÙ SCELTA POSSIBILE TRA MALE E BENE. DONDE L’AMBIGUITÀ CHE CARATTERIZZA I CRIMINALI: E LA LORO FEROCIA, PRODOTTA DALL’ASSOLUTA MANCANZA DI OGNI TRADIZIONALE CONFLITTO INTERIORE»

«L’ho detto e ripetuto ormai decine di volte: una «seconda» rivoluzione industriale che in realtà in Italia è la «prima»: il consumismo che ha distrutto cinicamente un mondo “reale”, trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c’è più scelta possibile tra male e bene. Donde l’ambiguità che caratterizza i criminali: e la loro ferocia, prodotta dall’assoluta mancanza di ogni tradizionale conflitto interiore. Non c’è stata in loro scelta tra male e bene: ma una scelta tuttavia c’è stata: la scelta dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà. Si lamenta in Italia la mancanza di una moderna efficienza poliziesca contro la delinquenza. Ciò che io soprattutto lamenterei è la mancanza di una coscienza informata di tutto questo, e la sopravvivenza di una retorica progressista che non ha più nulla a che fare con la realtà. Bisogna oggi essere progressisti in un altro modo; inventare una nuova maniera di essere liberi, soprattutto nel giudicare, appunto, chi ha scelto la fine della pietà. Bisogna ammettere una volta per sempre il fallimento della tolleranza. Che è stata, s’intende, una falsa tolleranza ed è stata una delle cause più rilevanti nella degenerazione delle masse dei giovani. Bisogna insomma comportarsi, nel giudicare, di conseguenza e non a priori (l’a priori progressista valido fino a una decina d’anni fa)».

«Quali sono le mie due modeste proposte per eliminare la criminalità? Sono due proposte swiftiane, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di nascondere. 1) Abolire immediatamente la scuola media d’obbligo. 2) Abolire immediatamente la televisione. Quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione possono anche non essere mangiati, come suggerirebbe Swift: ma semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione. La scuola d’obbligo è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori (cioè quando si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell’autogestione, del decentramento ecc.: tutto un imbroglio). Inoltre una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento: imparare un po’ di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica. Altrimenti, le nozioni marciscono: nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero (cioè appartenente a un’altra cultura, che lo lascia vergine a capire eventualmente nuove cose reali, mentre è ben chiaro che chi ha fatto la scuola d’obbligo è prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e si scandalizza di fronte ad ogni novità)».

«Una buona quinta elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio. Illuderlo di un avanzamento che è una degradazione è delittuoso: perché lo rende: primo, presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato); secondo (e spesso contemporaneamente), angosciosamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza. Certo arrivare fino all’ottava classe anziché alla quinta, o meglio, arrivare alla quindicesima classe, sarebbe, per me, come per tutti, l’ optimum, suppongo. Ma poiché oggi in Italia la scuola d’obbligo è esattamente come io l’ho descritta (e mi angoscia letteralmente l’idea che vi venga aggiunta una «educazione sessuale», magari così come la intende lo stesso Paese Sera ), è meglio abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo. (È questo il nodo della questione)».

«Quanto alla televisione non voglio spendere ulteriori parole: ciò che ho detto a proposito della scuola d’obbligo va moltiplicato all’infinito, dato che si tratta non di un insegnamento, ma di un «esempio»: i «modelli» cioè, attraverso la televisione, non vengono parlati, ma rappresentati. E se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? È stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo) concluso l’era della pietà, e iniziato l’era dell’ edonè. Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore). Ora, ogni apertura a sinistra sia della scuola che della televisione non è servita a nulla: la scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo Stato è la nuova produzione (produzione di umanità)».

«Se dunque i progressisti hanno veramente a cuore la condizione antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a pretendere l’immediata cessazione delle lezioni alla scuola d’obbligo e delle trasmissioni televisive. Non sarebbe nulla, ma sarebbe anche molto: un Quarticciolo senza abominevoli scuolette e abbandonato alle sue sere e alle sue notti, forse sarebbe aiutato a ritrovare un proprio modello di vita. Posteriore a quello di una volta, e anteriore rispetto a quello presente. Altrimenti tutto ciò che si dice sul decentramento è scioccamente aprioristico o in pura malafede. Quanto ai collegamenti informativi del Quarticciolo - come di qualsiasi altro «luogo culturale» - col resto del mondo, sarebbero sufficienti a garantirli i giornali murali e l’Unità: e soprattutto il lavoro, che, in un simile contesto, assumerebbe naturalmente un altro senso, tendendo a unificare una buona volta, e per autodecisione, il tenore di vita con la vita».

L’AUTORE. Pier Paolo Pasolini. Nato a Bologna il 5 marzo 1922, figlio di un ufficiale di fanteria bolognese edi una maestra friulana, Pier Paolo Pasolini fu poeta, scrittore, regista di cinema e teatro. Attento osservatore dell’Italia Anni 70, radicale nei giudizi sulla società dei consumi ma anche sulla protesta del ‘68, fu barbaramente ucciso a 53 anni sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia, alle porte di Roma, il 2 novembre 1975. Sul Corriere scrisse dal 7 gennaio 1973 al 18 ottobre 1975: quello pubblicato qui fu il suo ultimo articolo.

Per Pasolini amore diffuso senza scandalo. Paolo Di Stefano su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022 

Molte iniziative nel centenario della nascita, e non solo nelle grandi città. A ciascuno il suo Pasolini

È stata inaugurata mercoledì a Palazzo delle Esposizioni di Roma una grande rassegna su Pier Paolo Pasolini nel centenario della nascita. Titolo: «Il Corpo Poetico». Al netto dell’icona ormai alquanto scontata del Corpo del poeta ucciso, la mostra sembra di notevole ricchezza documentaria e materiale (con oggetti, fotografie, carte, prime edizioni filmati, eccetera). Così come saranno da visitare quelle che seguiranno a Palazzo Barberini e al Maxxi su «Il Corpo Veggente» e «Il Corpo Politico» con le pagine del «corsaro». Tantissime le pubblicazioni, gli studi, le nuove edizioni che si sono riversate in libreria. Per non dire dei convegni, delle mostre, degli spettacoli.

Dunque, un centenario come tanti? Tutt’altro. L’effetto d’insieme non è affatto celebrativo nel senso ordinario e stancante dell’aggettivo. Basta un rapido giro nel web per cogliere nella ricorrenza qualcosa di insolito che, al di là dei distinguo sul valore artistico, avvicina Pasolini forse al solo Dante tra gli scrittori capaci di smuovere un sentimento diffuso di partecipazione e curiosità. Certo, c’è l’eterna suggestione complottistica e/o voyeuristica (il Corpo, appunto), ma si avverte anche altro. E lo dimostra il fatto che Pasolini non viene ricordato esclusivamente (e doverosamente) nelle grandi città (Milano ha offerto al Piccolo La lunga strada di sabbia di Tiezzi-Lombardi, e altro arriverà). Non solo nei «suoi» luoghi, da Udine e Codroipo a Bologna a Matera. Non solo a Firenze, Napoli, Bari... ma a Bolzano, Modena, Lecce, fino ai centri quasi minimi, fuori dalla biografia e dallo scandalo: Ortona, Soriano, Oristano, Ariola, Rho, Racalmuto, dove un convegno fa incontrare in questi giorni il corsaro con Sciascia... A ciascuno il suo Pasolini, ma forse nel piccolo si trovano i segnali d’amore più autentici. Delle tracce d’odio (come i recenti vandalismi al Teatro di Salerno intitolato a PPP), Pasolini avrebbe detto: «Io so i nomi». Idioti è il più sicuro.

 Lettera a Dagospia di Pierluigi Panza il 20 ottobre 2022.

Era l’inizio-metà anni Ottanta, io avevo già pubblicato alcune poesie ma, soprattutto, avevo preso la patente e credo che a lei servisse un autista per Milano e il Nord: per questo iniziò la nostra frequentazione. Alta, magra, poteva avere indifferentemente dai 40 agli 80 anni. Era sempre in un cappottino o in una giacchetta nera strettissima, le scarpe da uomo e il capello nerissimo e cotonato. 

Pasolini, come emerge anche dal catalogo della mostra del Palazzo delle Esposizioni di Roma “Tutto è santo” le voleva bene e lei ne voleva… soprattutto alla madre di Pasolini, Susanna Colussi. Il pudore dei sentimenti, allora, e non l’esaltazione del coming-out, oggi, credo impedisse a questa donna di esprimere un lato lesbico presente in lei, che era sposata con un notabile democristiano, il senatore Giulio Orlando. C’è una foto di lei col vestito da sposa: fa veramente ridere pensandola! Fu questo pudore, e non l’esternazione, a fare di lei una scrittrice.

Veniva da un’alta famiglia della borghesia ebraica ferrarese, il padre avvocato, la madre amante di Giacomo Matteotti: lei era stata arrestata dalle SS ed era scappata dall’università senza laurearsi. Aveva una casa a Bologna, dove si era incontrata con Pasolini prima di andare a Casarsa dove avrebbe voluto vivere con la di lui madre. Lì la Bemporad insegnò alla scuola per bambini messa su da Pasolini. 

Negli anni Ottanta era in declino poiché il Postmodern non era la sua misura, rimaneva, tuttavia, una sorta di prodigio letterario. Mille anni prima (nel 1958), lei ragazzina aveva pubblicato un unico libro di poesie, “Esercizi” - echi di Hölderlin e di Leopardi - che Pasolini le aveva recensito. Era così allampanata e preda della poesia che non ne scrisse più dandosi alla traduzione di Omero. Pubblicò qualche traduzione per la casa editrice “Le Lettere”, ma poiché per ogni verso ci voleva un decennio non fu prolifica! A Roma e anche a Milano, in quegli anni, c’erano ancora abitazioni in cui, di sera, qualche scampolo di demi monde in putrefazione si riuniva per serate letterarie. Si ospitavano strane poetesse dal nom de plume come Vitoria Palazzo o Antonietta Dell’Arte…

La Bemporad era la mattatrice non salottiera di quei salotti perché come sapeva declamare lei la poesia non c’era nessuno, nemmeno Carmelo Bene! Poteva declamare Omero in italiano o in greco indifferentemente, ma si concedeva solo a tarda, tardissima sera per i ritmi milanesi. Al ritorno stava in macchina a discutere per ore di un verso prima di salire a casa, un appartamentino dietro piazza Cinque Giornate. Lì, con il “malcapitato” si sedeva in cucina, dove non aveva niente in frigorifero, e continuava a parlare con voce sempre più maschile e roca, anche per la fatica. Era difficile riuscire a divincolarsi e tornare a casa all’alba. Il giorno, per lei, non era niente: era una da “Quelli della notte”. 

Avrebbe potrebbe essere la Yourcenar italiana se avesse scritto le “Memorie di Omero”, di pura invenzione. Ma era troppo persa nelle sue astrattezze e non aveva il minimo interesse a scrivere per giornali o per andare in tv. Andava a letto più o meno com’era vestita.

Si ritirò negli ultimi anni a Roma e quando morì fu sepolta al cimitero di Fermo. Il marito, che ora le è accanto, mi scrisse una lettera per ringraziarmi di un breve obituaries dove raccontava tutto l’amore che ebbe per lei e quanto lei, che oggi diremmo lesbica, gli fosse sempre stata accanto con inesausto amore. Imparate scrittrici, imparate.

Maria Berlinguer per “la Stampa” il 19 ottobre 2022. 

«Mi ha regalato un anello, dunque mi ama», dice Maria Callas sicura di poter "redimere" Pasolini dall'omosessualità. «Se una persona non è felice non ti interessa», gli scrive Oriana Fallaci, che all'amico rimprovera di essere picchiata per lettera e che dopo il suo brutale assassinio, ancora oscuro, cercherà in tutti i modi di scoprire la verità. E poi ancora l'amatissima mamma Susanna Colussi, la quasi vedova Laura Betti, custode della memoria, e Giovanna Bemporad. 

Sono le cinque protagoniste de Le donne di Pasolini, prodotto da Anele (Gloria Giorgianni) e Rai Documentari (direttore Fabrizio Zappi) che vede la narrazione di Giuseppe Battiston e la regia di Eugenio Cappuccio. Un progetto nato nel centenario della nascita dello scrittore. 

Si tratta di un docufilm di 90 minuti che è una specie di guida in cui Battiston, friulano, ci porta nei luoghi dell'infanzia di Pasolini e insieme un percorso narrativo teatrale di drammaturgia scritto sulla base delle lettere e di tutto il repertorio Rai. Con le testimonianze di Dacia Maraini ed Emanuele Trevi. 

«Volevamo partire dai suoi territori e dal rapporto con la madre, una relazione fondante che ha segnato tutta la sua vita - racconta Giorgianni -. Da lì abbiamo pensato alle donne più importanti che hanno segnato il suo percorso. È la mamma, interpretata da una bravissima Anna Ferruzzo, che incontra e presenta al pubblico le donne di Pier Paolo. L'obiettivo è raccontare la modernità del pensiero di Pasolini, soprattutto perché è l'intellettuale che ha dato voce alle periferie, agli ultimi. Tra questi c'erano senz' altro anche le donne». 

L'idea, prosegue la produttrice, è declinare attraverso la sua relazione con le donne il racconto degli emarginati. Prezioso il contributo di Maraini sulla visita alla mamma di Pier Paolo dopo il suo assassinio, quando la donna apparecchiò per tre lasciando il piatto vuoto per il figlio. «Io non ho avuto il coraggio di dire nulla» ricorda la scrittrice, che per far capire quanto fosse intenso il legame tra i due aggiunge un altro ricordo.

Pasolini telefonava alla madre tutte le sere. Così in una occasione, quando si trovava in Africa con Maraini e Moravia, si è fatto a piedi 50 chilometri per trovare un apparecchio in funzione e siccome la mamma gli aveva detto di avere un forte mal di testa, la mattina seguente aveva rifatto lo stesso percorso per avere sue notizie. «Siamo partiti dall'idea di questo piatto vuoto, una mancanza riempita - commenta Giorgianni -, mi piaceva uscire dal racconto dell'omicidio di Pasolini perché l'atrocità di quel delitto ha negli anni fagocitato il suo pensiero, la sua forza e il suo valore». 

Pasolini ha avuto per queste donne un amore vero.

Certamente ha amato Maria Callas. Per lui c'era anche un rapporto carnale, fisico, che non è mai arrivato al rapporto sessuale forse, come dice Maraini, perché visto il rapporto con la madre l'avrebbe vissuto come un incesto. Ma tutto il resto c'era. Aveva una grande sensibilità e conoscenza del femminile. E aveva un'attenzione costante per chi non ha un posto nel mondo, a volte perché troppo creativo e idealista. «Lui non era un arrabbiato, un rabbioso, lui si difendeva» spiega Maraini.

Il racconto parte dal Friuli perché modernità e radici sono un connubio indissolubile. Ecco allora che si vede un anziano che ha frequentato la scuoletta per analfabeti aperta da Pasolini a Versuta, ecco Casarza e i bellissimi paesaggi, ecco il lago di Grado mitico riferimento di Medea. 

Ed ecco Pasolini che parla attraverso il repertorio Rai. 

«Uno dei nostri obiettivi è sostenere la crescita del settore documentaristico italiano attraverso progetti di rilevanza culturale, caratterizzati da un racconto del reale innovativo e da storie capaci di suscitare un forte interesse», ricorda Fabrizio Zappi, direttore di Rai documentari. 

Nel film, spiega il regista Cappuccio, ci sono «cinque donne diversissime tra loro, che forse proprio per questo erano riuscite a coniugarsi con Pasolini. Il suo rapporto con il femminile, fondamentale per la radice materna, era senza implicazioni sessuali ma arrivava a un livello profondissimo - dice Cappuccio -. Queste donne hanno in comune la profondità e l'anticonformismo in un periodo storico nel quale l'essere donna era anche motivo di battaglia. Pasolini lo conoscevo profondamente a livello accademico - conclude il regista -, mi ha colpito immensamente la sua capacità non solo di qualità dell'opera ma anche di quantità.

È stato impressionante scoprire come sia stato capace di produrre in maniera direi rinascimentale pittura, poesia, romanzo, cinema». Le attrici scelte - Anna Ferruzzo, Carolina D'Alterio, Martina Massaro, Liliana Massari e Sara Mafodda - vengono dal teatro e hanno in alcuni casi una particolare somiglianza con le donne che interpretano.

Pasolini e la Storia: il poeta alla ricerca di radici e identità. Pier Paolo Pasolini e la Storia d'Italia che inevitabilmente innerva tutta la sua letteratura, passando dal dialetto vissuto come prima lingua sino ad arrivare allo sforzo costante di capire il presente passando dal passato. Matteo Sacchi il 19 ottobre 2022 su Il Giornale.  

Pier Paolo Pasolini e l'identità. Pier Paolo Pasolini e la Storia d'Italia che inevitabilmente innerva tutta la sua letteratura, passando dal dialetto vissuto come prima lingua sino ad arrivare allo sforzo costante di capire il presente passando dal passato.

Questi sono i temi che domani saranno discussi alla giornata di studi organizzata a Napoli dall'Università degli Studi Suor Orsola Benincasa con il patrocinio del Comitato Nazionale per il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini e intitolata «Arte cinema e letteratura: storia e identità nazionale in Pier Paolo Pasolini».

Quello attorno al poeta di Casarsa sarà un dialogo multidisciplinare, che partirà alle 10 nella biblioteca Pagliara dell'Università, con relazioni che spazieranno dalla storia (L'abisso tra corpo e storia. Croce, Gramsci e i conti con l'ideologia) alla letteratura (L'anti-grand tour pasoliniano), dalla storia dell'arte (Roberto Longhi e Pasolini: Masaccio, i manieristi, Caravaggio e un'idea dell'Italia) al cinema (L'Italia profonda al cinema: da «Accattone» a «La ricotta»). Al tavolo dei relatori, coordinato da Alfonso Amendola, docente di Sociologia, si alterneranno sino alle 17 lo storico dell'arte Stefano Causa, lo storico del cinema Augusto Sainati, lo storico Eugenio Capozzi, gli italianisti Guido Cappelli, Nunzio Ruggiero, Carlo Vecce e Paola Villani e i giornalisti Alessandro Gnocchi e Antonio Tricomi.

Tra gli interventi segnaliamo l'interessante «La pelle del popolo: Malaparte e Pasolini» di Guido Cappelli. Mostra il legame sotterraneo e poco esplorato tra la poetica di Curzio Malaparte e quella di Pasolini. Per Cappelli sono entrambi: «testimoni/interpreti di quella crisi epocale che sta culminando, qui (in Occidente) e ora (nel tempo della guerra), nel caos biopolitico e postdemocratico, con la terza guerra guarda un po' che incombe. Crisi epocale, non altra è la diagnosi di entrambi. Il primo è figura o prologo del secondo: se l'uno è il testimone/interprete della sconfitta nella guerra mondiale, l'altro lo è della sconfitta nel dopoguerra insieme colgono l'esito culturalmente e moralmente devastante di quelle sconfitte».

Lo storico Eugenio Capozzi nel suo intervento sviscera il complesso rapporto in Pasolini tra la Storia e l'ideologia (marxista): «un poeta interiormente combattuto tra l'impulso a portare il buio seme della storia profonda e della cultura popolare italiana nella luce del riscatto sociale e politico, sotto la guida del nume protettore incarnato dal fondatore e martire del Pci, e la crescente convinzione che si sarebbe trattato di uno sforzo inutile e mal posto, in quanto la ricchezza di quella storia e di quella cultura stavano proprio nella loro diversità irriducibile, nella loro ostinata refrattarietà a essere inseriti organicamente negli schemi di un pensiero razionalista, illuminista, storicista, progressista».

Pier Paolo Pasolini ed i suoi molteplici linguaggi nel cinema. Ne parlano Paolo Mieli e il professor Lucio Villari a Passato e Presente, in onda oggi alle 13.15 su Rai 3 e alle 20.30 su Rai Storia. Redazione Spettacoli su La Gazzetta Del Mezzogiorno il 23 Settembre 2022

Grande sperimentatore di linguaggi, Pier Paolo Pasolini è stato innanzitutto un intellettuale capace di attraversare quasi tutti i generi e le forme espressive. Ne parlano Paolo Mieli e il professor Lucio Villari a Passato e Presente, in onda oggi alle 13.15 su Rai 3 e alle 20.30 su Rai Storia. Quando nel 1950 Pasolini si trasferisce a Roma, ha modo di conoscere i ragazzi che vivono nelle borgate, la loro allegria, la loro vitalità. È questo il mondo che descriverà nei suoi primi romanzi. A partire dal 1960, poi, scopre nel cinema un mezzo espressivo che si rivela adatto alle sue ricerche stilistiche e al suo bisogno di immediata comunicazione visiva, e debutta con Accattone nel 1961, che può essere considerato la trasposizione cinematografica dei suoi precedenti lavori letterari. È un’opera filmica nella quale insegue la sua idea di narrazione epica e tragica.

Ma Pasolini non è solo letteratura e cinema. Nella sua incessante e febbrile produzione abbraccia teatro, pittura, musica. Nel 1975 lavora al film Salò o le 120 giornate di Sodoma. È un film estremo, l’ultimo feroce attacco alla sempre più opprimente società dei consumi. L’idea di base trae ispirazione dal libro del marchese Donatien Alphonse François de Sade Le 120 giornate di Sodoma. Il film inoltre presenta riferimenti incrociati con l’extratesto dell’Inferno di Dante, presenti anche nello stesso de Sade.

Purtroppo Pier Paolo Pasolini non farà in tempo a vederlo uscire nelle sale cinematografiche perché la notte del 2 novembre 1975, nei pressi di Fiumicino (Roma), verrà assassinato.

Giampiero Mughini per Dagospia il 6 settembre 2022.

Caro Dago, oltre che essergli cugino Nico Naldini è stato un esegeta accurato di Pier Paolo Pasolini. Non lo ha mai celebrato, enfatizzato, divinizzato. S’è sempre attenuto ai fatti, alle opere per come erano davvero, ai rapporti tra le persone per come erano andati davvero. Naldini, e tanto per fare l’esempio più cocente, non ha mai avuto dubbi che ad uccidere Pasolini sia stato Pino Pelosi e questo nel contesto di un rapporto omosessuale che si stava sfrenando. Altro che la celebre sentenza emessa da Alberto Moravia, e cioè che Pasolini era stato “assassinato dalla borghesia”, sentenza che mandò su tutte le furie Livio Garzanti, editore del libro che la conteneva.

Ecco perché l’ho presa subito la nuova edizione della biografia che Naldini aveva consacrato a Pasolini alcuni anni fa e che ha pubblicato la Luni editrice, Pasolini, una vita. Beato lui, Naldini ha potuto accedere all’archivio personale di Pasolini, compitare una quantità enorme di lettere private, documenti inediti. Tanto che il suo libro è una sequenza puntualissima di quel che è stato scritto e pensato da gente determinata in quel momento determinato. 

E’ impressionante come sin dai primi momenti del suo arrivo a Roma, quando pure era soltanto un professorino che ci metteva non so quante ore al giorno a raggiungere la scuola dove insegnava, Pasolini trovi amici e interlocutori a profusione. Nell’epoca in cui non esistevano i telefonini e i social, i rapporti erano tra le persone reali o non erano. Anziché andar frugando le une o le altre imbecillità di chi si vuol fare notare su Instagram o su Twitter, Pasolini faceva delle grandi passeggiate a piedi con il poeta genovese Giorgio Caproni che era venuto a Roma e che abitava non lontano da una delle prime case romane abitate da Pasolini.

A un tempo in cui i rapporti tra le persone non erano quelli odierni, quando gente come me viene suppliziata dai messaggi Whatsapp di gente che mostra la copertina di un suo libro in uscita o magari la foto della pietanza che si accinge a divorare o magari la foto di sé stesso a sette anni, a quel tempo intendo gli esseri umani si scrivevano delle lettere. Ho detto delle lettere, non delle letterine buttate giù in fretta e furia. Quando Pasolini pubblica in poche copie i suoi primissimi libri di poesia, non solo Gianfranco Contini ne scrive con insuperata maestria ma poco dopo gli manda una lettera di un tale acume che uno di noi comuni mortali con quel materiale riempirebbe il primo capitolo di un libro.

E così via, per tutta la ricostruzione che Naldini fa della biografia di un Pasolini che si cimenta nella poesia, nella saggistica colta, nel cinema e da regista e da sceneggiatore. Gli scrivono Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda, Giorgio Bassani, Elsa Morante, Franco Fortini. Raccontano, interpretano, ammirano, duellano intellettualmente. Allucinante quando scoppia il caso di quel ragazzo che accusa Pasolini di essergli andato contro armato di pistola e di averlo derubato. A esprimere a Pasolini la sua solidarietà gli scrive nientemeno che Pietro Nenni. Cose d’antan.

Quando una quindicina di anni fa mi cancellarono dall’Albo dei giornalisti del Lazio dopo che io avevo detto loro che non mi rompessero i coglioni per avere io fatto una pubblicità in televisione, non uno dei giornalisti che erano stati miei colleghi nei tanti giornali cui avevo collaborato mi mandò due righe di solidarietà. Due righe. Nemmeno uno.

Pier Paolo Pasolini, assessore Gotor: «Serve una commissione d’inchiesta per risolvere l’omicidio». Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 14 Giugno 2022.

«L’omicidio di Pierpaolo Pasolini è un caso da risolvere. Servirebbe, finalmente, una commissione d’inchiesta». A lanciare l’idea di un’iniziativa parlamentare, affinché venga fatta luce sull’assassinio dello scrittore e regista, ucciso in circostanze ancora non del tutto chiare all’idroscalo di Ostia nel novembre del 1975, è stato l’assessore alla Cultura del Comune, Miguel Gotor, durante la presentazione del libro “Pasolini, un caso mai chiuso” scritto dall’avvocato Stefano Maccioni.

La proposta è emersa nel corso di un intenso dibattito che si è svolto martedì il 13 giugno del 2022 alla libreria Zalib. Il libro è stata l’occasione per discutere di una vicenda ancora disseminata di ombre. Pasolini, come ha stabilito una sentenza definitiva a nove anni e sette mesi di carcere per omicidio volontario, è stato ucciso la notte tra l’1 e il 2 novembre del 1075 da Pino “La Rana”, all’anagrafe Giuseppe Pelosi. Tuttavia diversi sono i lati oscuri ripercorsi nel libro.

Innanzitutto all’epoca si disse che la macchina di Pelosi, una Fiat 850 Coupé, fosse bianca. Nel 2011 è emerso che Pelosi è stato proprietario di questo modello, ma il colore era azzurro, non bianco. Era lui a guidare? Poi, altro mistero: l’anello che Pelosi disse di aver smarrito vicino al corpo dello scrittore ma che non è mai stato ritrovato. Che fine ha fatto quell’anello?

Inoltre, alcuni testimoni non sarebbero mai stati ascoltati. Infine, come sostengono i familiari dello scrittore, dal maglione indossato da Pasolini quella notte sarebbe possibile ricavare il dna della persona da cui fu aggredito e ucciso. Temi trattati in modo documentato nel libro dall’avvocato Maccioni, che da sempre rappresenta i parenti dello scrittore. Spunti che hanno spinto l’assessore a chiedere la formazione di una Commissione d’Inchiesta.

Marco Belpoliti su doppiozero.com articolo postato il 15 settembre 2014.  

Lui c’era. Lo incontrava, gli parlava, in un novero di anni non poi tanto breve. Pasolini era una presenza usuale nelle tavolate dell’epoca, quelle in trattorie e pizzerie romane, che Alberto Arbasino descrive nel suo libro, capolavoro della sua post-maturità, Ritratti italiani (Adelphi).  

Con Moravia, la Morante, gli altri amici romani, si discuteva, si litigava, ci si divertiva parecchio, racconta. Nelle venticinque pagine che Alberto Arbasino dedica al più famoso intellettuale italiano della seconda metà del XX secolo, uno dei più lunghi ritratti, si comincia con un’intervista del 1963, in precedenza pubblicata in Sessanta posizioni, libro uscito nel 1971.

Lì c’è una frase che esprime la situazione di Pasolini all’epoca, frase che suona anni Settanta e non Sessanta, come è datata nei Meridiani, dove è riportata: “L’Italia è un corpo stupendo, ma dovunque lo tocchi o lo guardi, vedi, attorcigliate, le spire viscide e nere di un serpente, l’altra Italia. Come si può fare l’amore con un corpo avvolto da un serpente? Così comincia la castità”. Mancano solo quattro anni alla sua barbara uccisione. Anni cupi per il poeta.

Siamo a Mantova, in un albergo, parlo con Arbasino di Pasolini. A Venezia è stato proiettato il film di Abel Ferrara dedicato a PPP, che ricostruisce l’ultimo giorno di vita dell’autore di Salò-Sade. Non l’abbiamo visto né io né lui. Su “The Observer” è uscito poche settimane fa un articolo di Ed Vulliamy, che da giovane fu a Firenze nel 1973, membro di “Lotta Continua”, dedicato al film di Ferrara. Si parla ancora dell’uccisione di PPP per ragioni politiche: a causa del romanzo che stava scrivendo, Petrolio, per la connessione tra la morte del poeta e l’uccisione di Mattei, con servizi deviati, neofascisti, bombe, oro nero.

Questa estate è uscito sul supplemento culturale de “il Sole-24 Ore” un articolo di Graziella Chiarcossi, la nipote di Pasolini, che spiegava a chiare lettere che non c’è stato nessun furto del manoscritto di Petrolio, una delle prove proposte negli ultimi anni per sostenere la vicenda dell’uccisione politica di PPP. Certo, ci sono ancora molte cose oscure nella vicenda. Pelosi, l’assassino reo confesso, non ha detto tutta la verità, e ha più volte parlato ingarbugliando la storia di quelle ultime ore. Parlo ancora una volta di Pasolini con Arbasino perché nelle sue pagine ci sono due o tre cose che meritano di essere riprese e commentate.

Perché tanto spazio a Pasolini? Non ne dai così tanto neppure a Calvino, molte volte citato nel libro.

Perché Pasolini è stato un’icona. E lo è diventato soprattutto grazie ai film, così visti all’estero, mentre invece per quello che riguarda Ragazzi di vita o Una vita violenta erano considerate delle narrazioni dialettali, romanesche, né più né meno come i racconti milanesi di Testori. Bisogna pensare a cosa faceva Gadda, il nostro indiscusso maestro, che nello stesso giro di frase includeva il sublime e il pecoreccio, il linguaggio tecnico e ingegneresco, demodé o aggiornato. Pasolini e Testori si limitavano a tradurre i loro linguaggi. 

Vuoi dire che ti sembra più riuscito il cinema della narrativa. Non è un giudizio da specialista, da addetto ai lavori? Non lo leggono in tanti?

No, non credo. Mi domando quanti siano oggi i lettori di quei due libri.

Lo scandalo di Ragazzi di vita, il processo lo avevano aiutato molto ad affermarsi come autore.

Certo, ci furono tanti scandali, denunce e processi, un’infinità che hanno accresciuto la sua fama, processi spesso intentati per ragioni pretestuose. 

Quanto ha contato e ancora conta lo scandalo nella costruzione dell’icona?

Moltissimo, uno scandalo che riguardava allo stesso tempo i cattolici, i comunisti e persino i lettori del “Corriere della Sera”. Uno scandalo divulgatissimo. Riusciva a provocare scandalo con i costumi prevalenti, così come lo suscitava con la religione di Stato e con ideologie alla moda. Turbare e scandalizzare i praticanti con le loro stesse pratiche, come ho scritto nel libro.

La frase che riporti nella tua intervista, quel fare l’amore con il corpo dell’Italia, fa pensare ai ragazzi con cui andava Pasolini a Roma…

Beh, allora, negli anni Settanta i ragazzi avevano soldi e automobili, oltre che ragazze. L’arrivo di una Alfa Romeo in una piazzetta o strada non era più un avvenimento, l’offerta di una pizza faceva sorridere. Senza dubbio era disperato. 

Oggi alla presentazione del libro hai detto che Pasolini si sentiva invecchiare…

Certo, invecchiare era un dramma per lui. Non aveva più la prestanza di prima. Non giocava più a calcio con i suoi coetanei, ma con ragazzi che avevano la metà dei suoi anni; il corpo che invecchia era diventato certamente un problema.

Nel libro ricordi che i temi della mutazione antropologica, gli articoli in Scritti corsari, e prima su “il Corriere”, derivano da questa delusione per la perdita di seduzione, dalla perdita dei ragazzi di vita con cui andava nelle sue notti.

Era disperato per questo, ma è anche stato frainteso, perché chi rimpiangeva all’epoca l’Italia frugale del passato sembrava allora un nostalgico del fascismo. Le motivazioni autobiografiche delle sue anacronistiche invettive contro la società dei consumi e del benessere rendono ancora più straziante la tragica fine di Pier Paolo. 

C’è un passo del tuo ritratto che mi ha colpito. Là dove tu parli del vittimismo masochistico genuino e profondo di Pasolini, “ostentato e strumentale per la carriera ma molto autentico, presentandosi insieme come capro espiatorio e agente provocatore – o come capro espiatore, sempre più eretico e martire; e poi aggiungi che tutto questo in ambienti dove il sesso e soprattutto la sodomia venivano vissuti come commedia e non come tragedia”.

Pier Paolo col suo temperamento drammatico e ferito visse la sodomia come tragedia e non come commedia. Non poteva certo fare il capro espiatorio nella letteratura, all’epoca ricca di vecchie zie delicate e velate, in trepida attesa di cose osé. E anche non poteva fungere da vittima o dissacrante scandalizzatore in quei set pieni di elettricisti e macchinisti romaneschi trascinati allora da romantiche figure dietro i cespugli o fra le quinte… 

Da dove nasce questa propensione al vittimismo?

Forse nasce in Friuli, nell’infanzia. Se si pensa che Casarsa è poi diventata Casarsa della Delizia, ed è il luogo dove ha subito il processo per comportamenti lascivi, come si diceva un tempo. 

Nel libro parli degli ultimi tempi della vita di Pasolini, della delusione di questo mondo cambiato.

I ragazzi non lo davano più, se non a pagamento. Scompare l’Eden trovato a Roma. Pasolini aveva ragione parlando di omologazione che metteva insieme al terrorismo, poi il terrorismo passa di moda e l’omologazione si estende e diventa omogeneizzazione. 

Tu hai scritto in un articolo, che qui nel libro non c’è, che nel caso di Pasolini che va coi ragazzi si trattava di pedofilia.

Sì. Era pedofilia, ma era anche un termine che allora non esisteva. Non c’era. Si tratta di un termine usato dopo.

 Tu dici che a prenderlo sul serio erano solo le due chiese, i comunisti e i cattolici: scandalizzati ma anche attirati da lui.

Ma certo. Nel caso dei comunisti soprattutto erano attirati dal suo non conformismo, perché era controcorrente. I comunisti erano affascinati da questo. 

Ma i comunisti erano dei puritani rispetto al sesso.

Certo. 

E i cattolici non erano forse scandalizzati dall’omosessualità di Pasolini, dalla sua pedofilia? In un articolo che ricordo, hai parlato dei preti, dei monsignori in Friuli, pedofili, che facevano lo stesso, ma allora non se ne parlava.

Lo si faceva normalmente nelle canoniche, perché una grande maggioranza dei preti così toccavano il sedere dei bambini.

La personalità masochista di Pasolini faceva vedere tutto questo come tragico, scrivi.

Virava in tragedia quello che era stato commedia nelle chiese e nei seminari. 

Perché diventa una tragedia, ne aveva i motivi per questo?

Questa era la sua personalità. Pasolini, come Testori, erano tesissimi e inquietissimi. Afflitti dal senso del peccato, trasformavano in sfida quello che altri ambienti indulgenti e ironici vivevano la sodomia come divertimento e non come tormento: monsignori mondani, diplomatici sorridenti, signore con villa, grandi borghesi con yacht, letterati in blazer, la società gin-and-tonic. 

In un paio di articoli comparsi in Scritti corsari, e prima in rivista o rotocalco, Pasolini spiega che lui non è gay, anche se non usa quel termine, e non credo neppure avrebbe amato molto i matrimoni omosessuali.

Neanche per sogno. Figurarsi, non avrebbe amato neppure quelli che si chiamavano i giovani mariti che allora si sfogavano prima di andare a casa dalle giovani mogli. Andava solo con i ragazzini, si faceva picchiare dai gruppi di ragazzini. 

Il tema della sua uccisione trattato da film di Abel Ferrara. Si parla della sua morte come un delitto politico. Non ti pare che questo sia un modo per non prendere in considerazione questi aspetti sessuali di Pasolini?

Certo. Il fatto delle mancanza di documenti... Tanti a dire: Io so, io so, io so… Ma allora dillo, allora scrivilo. 

Tu pensi come Nico Naldini che il delitto sia avvenuto in un contesto sessuale?

Allora scrissi un articolo sul “Corriere” poco dopo la morte di Pier Paolo, dopo la disgrazia, dove si diceva che ci sono molti aspetti oscuri nella sua morte, ma forse ha ragione Naldini nel dire che hanno a che fare con quello. 

Non è stato ucciso solo da Pelosi, questo sembra oramai probabile. Ma parlare del complotto politico…

Bisogna vedere se aveva l’abitudine di andare in quei luoghi più o meno spesso, se sono stati seguiti. Su questo si possono fare delle congetture. Non lo so. 

Tu sei stato amico di Pasolini. Era un’amicizia fondata su che cosa?

Su un’affinità letteraria. Come con Parise e Calvino, ad esempio, è stata un’amicizia che non c’entrava nulla con le storie di culo.

Cosa ti manca di Pasolini?

I film, perché avendo visto Salò sono rimasto perplesso. Un film che mi convince poco. 

Oggi Pasolini riuscirebbe a capire qualcosa del gran caos in cui viviamo immersi?

Dubito che riuscirebbe a ricavarne una qualche spiegazione o interpretazione. Tutto è diventato complesso. 

Arbasino è visibilmente stanco. Ne ha ben donde. Ha ottantaquattro anni e oggi ha parlato per quasi un’ora al Festival della Letteratura, poi ancora in radio, e un’altra intervista, prima di sederci qui nella stanzetta dell’albergo a riparlare di Pasolini. Tuttavia le sue risposte su Pasolini sono sempre pungenti e insieme affettuose e tenere, come nelle pagine del libro. Leggetele, troverete davvero un autore che non è solo un grandissimo stilista, come ha scritto, per altro giustamente, qui Giancarlo Leucadi – lo è, per fortuna, perché Arbasino è prima di tutto come lo dice e non quello che dice.

Le pagine sul poeta, sull’autore di Petrolio, sono stupende, come quelle su Gian Giacomo Feltrinelli, altra figura discussa, ma senza dubbio straordinaria della nostra storia recente. Leggete tutto questo libro, perché non solo c’è un’Italia scomparsa, e poi personaggi incredibili, ricordi, tanto gossip acuto e spietato, affascinante e brillante, ma perché questa di Ritratti italiani è l’autobiografia di uno dei nostri maggiori scrittori, e insieme il manuale su cosa deve e non deve fare un intellettuale (l’ha detto un acuto amico la sera stessa con lui). 

Insomma, un libro che è destinato a restare per qualche generazione almeno. Non ultimo il fatto che è uno dei libri più venduti (e probabilmente letti) di Arbasino. Va da Agnelli Gianni a Zeri Federico. Non tutta l’Italia, dal 1960 al 2010, ma molta. Autoritratto italiano.

Walter Siti per Dagospia il 13 maggio 2022 – Siti ha curato i due ultimi Meridiani delle opere complete di Pasolini. Il suo ultimo libro: “Quindici riprese - Cinquant’anni di studi su Pasolini” (Rizzoli)

Credo che La ricotta sia il più bel film di Pasolini nel senso del più perfetto e dominato dalla grazia, da una felicità creativa che vien voglia di definire mozartiana. A questo, certo, contribuisce la sua brevità: non a caso gli altri due miei preferiti sono altri due mediometraggi (Che cosa sono le nuvole ? e La terra vista dalla luna) girati per quei “film a episodi” che erano una specialità italiana degli anni Sessanta. 

Ma la brevità da sola non basterebbe di sicuro, se non fosse accompagnata da una sorta di superiore noncuranza che permette di dire cose serie senza perdere leggerezza e quasi senza accorgersene. E quali sono queste cose serie? 

La prima è uno sguardo finalmente spietato nel giudicarsi da fuori in quanto artista esteta e decadente. All’uscita di Mamma Roma aveva discusso con Arbasino se la morte di Ettore sul letto di contenzione fosse più ispirata a Mantegna o a Caravaggio, aveva chiamato Longhi a testimone che il suo amore per l’antica pittura si doveva considerare “un fatto stilistico interno, non una ricostruzione di quadri!”.

Qui invece Pasolini si mette in scena nella figura del “reggista” che ricostruisce quadri manieristi proprio secondo la lezione di Longhi e di Briganti; si prende per i fondelli con allegria perché si sente tra amici. La voce di Bassani che doppia Orson Welles pronuncia parole che scendono negli anfratti dell’inconscio (“ed io, feto adulto, mi aggiro/ a cercare fratelli che non sono più”), mentre Laura Betti fa la diva che più diva non si può (“tesoro, se non si gira subito io me la batto”).

Fortini lamentava, giustamente e moralisticamente, che Pasolini avesse parlato così tanto di poveracci e pochissimo del mondo del cinema: qui lo fa ma non lo fa pesare nemmeno a se stesso, l’ironia è anche esorcismo. Le contraddizioni svaporano nei piccoli incidenti del set, nella simpatia dei figuranti borgatari; se l’intellettuale sceglie musiche snob (Scarlatti ma non Domenico bensì il padre Alessandro, assai meno conosciuto), i ragazzi della troupe ballano il twist (però non un twist qualunque, l’Eclisse Twist le cui parole erano state scritte da Antonioni); colui che si autodefinisce “una forza del Passato” è attratto dalla passione popolare per la modernità.

Pasolini si mostra nell’atto di creare, e questo (di nuovo senza parere) comincia a risolvere un’impasse che lo aveva bloccato negli anni immediatamente precedenti; come poeta aveva perso la metrica, come intellettuale stava perdendo la fede nel marxismo, come uomo si sentiva travolto dal rancore e dall’aridità.

In alcuni versi scritti mentre girava Mamma Roma comincia a capire che l’exit strategy si può trovare nell’ibridazione tra letteratura e vita, sporcando la forma con l’attesa della forma, in una aurorale intuizione delle possibilità del non-finito. 

La sceneggiatura stessa, se la consideriamo opera d’arte autonoma, è un testo che ha bisogno di essere integrato da quel che è esterno a sé (le immagini); proprio nel testo della Ricotta, come poi lo pubblicherà in Alì dagli occhi azzurri, c’è uno stupendo tour de force longhiano per descrivere il rosso e il verde dei panneggi di Pontormo, una ventina di righe di prosa d’arte per illustrare un oggetto che nel film si vede per pochi secondi.

Il film allora può sentirsi più libero perché la letteratura fa il lavoro sporco, quello della Bellezza, da un’altra parte. E’ questa libertà che incanta nella Ricotta film, anzi filmetto: una rivoluzione formale che celebra qui, ingenuamente, il proprio battesimo.

C’è nel film qualcosa di sfacciato e aggressivo: Pasolini risponde alla sensazione di esser preso di mira come capro espiatorio (sta ancora vivendo le conseguenze dell’assurdo episodio del Circeo) ma questa volta non recita da vittima, anzi assale a sua volta sottolineando le provocazioni (“l’Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa”); tratta da servo il malcapitato giornalista di “Tegliesera”, a cui dà il nome di un magistrato che gli stava sui coglioni.

Ha voglia di ridere e non si sottrae a un comico facile, dalla fame atavica di Pulcinella fino a Charlot o meglio a Ridolini. Le ufficialità della religione franano miseramente sotto gli inconvenienti del set e l’implacabile umorismo romanaccio; il realismo trascolora in parodia e gli frutterà un’accusa di vilipendio alla religione di Stato (con conseguente sequestro del film).

Nessuna atmosfera cupa, però (come per esempio avverrà nel diavolo che caca monaci nei Racconti di Canterbury), anzi un’adesione agli impulsi creaturali; il vero santo è Stracci, è lui dimenticato sulla croce il vero Cristo. Un povero cristo che incarna il Sacro, contrapposto al Religioso. Questa è l’altra cosa seria che ci dice il film, nella sacralità delle inquadrature finali e nel famoso “segno della croce sbagliato” del protagonista Mario Cipriani, che tocca prima la spalla destra poi la sinistra.

Il Pasolini della Ricotta è un quarantenne che non ha paura, che ha assorbito la depressione e sta rilanciando perché si sente forte, il nuovo mezzo espressivo gli apre orizzonti entusiasmanti. Poi si appesantirà, già nel Vangelo sarà un po’ inibito dalla tradizione pittorica e dal bisogno di “rifarsi una onorabilità”. 

Qui, con un soggetto veloce buttato giù alla brava, già offerto a un altro produttore che se n’era spaventato, si sente libero di scherzare anche sulle proprie tare cattoliche e sui propri sensi di colpa; il processo alla Ricotta gli costerà la rinuncia a un film sull’Africa a cui teneva moltissimo, e che Alfredo Bini non sarà più disposto a finanziare.

Ma il rischio (con le conseguenti delusioni e disavventure) è in questo momento un colore in più della vita, ci si può commuovere su Stracci e seguire ridacchiando il Santo platinato e frocio che si infratta con le giovani comparse. Il ritmo mozartiano significa capacità di non escludere nulla di ciò che è umano, con in corpo una gran voglia di innamorarsi: sul set della Ricotta incontra per la prima volta un quattordicenne figlio di calabresi immigrati – si chiama Giovanni Davoli, detto Ninetto.

DAGONOTA il 7 maggio 2022.

Quando a una certa ora della notte il sonno stenta ad accompagnarti in camera da letto e cominci a cercare sulle piattaforme qualcosa di eccitante ma che non sia tale da scavallare la mezzanotte e trovi sulle sempre benedetta Mubi dedicata al cinema d’autore, all’interno di Prime Video, “La Ricotta” di Pasolini, quarto episodio del film RoGoPaG (gli altri tre sono firmati da Godard, Rossellini e Gregoretti), ebbene, davanti a quel capolavoro inatteso, vorresti che il film non finisse mai.

Perché di colpo comprendi che l’opera più travolgente e sconvolgente che squarcia il buio del nostro presente è datata 1963 e ripescandola rappresenta anche il modo migliore di celebrare il centenario di Pasolini, qui autore di un film perfetto e politicamente devastante. 

La voce dello scrittore fa da prefazione al suo film: “Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Coloro che si sentiranno colpiti infatti cercheranno di far credere che l’oggetto della mia polemica sono la storia e quei testi di cui essi ipocritamente si ritengono i difensori. Niente affatto: a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e che i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti”. 

Incuriosito e sorpreso googlo “La ricotta” e mi succhio la trama su Wikipedia: “Nella campagna romana, una troupe è impegnata nelle riprese di una passione di Cristo. Stracci, la comparsa che interpreta il ladrone buono, regala ai propri familiari il cestino del pranzo appena ricevuto dalla produzione. Essendo affamato, si traveste da donna per rimediare un secondo cestino, che viene mangiato dal cagnolino della prima attrice del cast. Sul set giunge intanto un giornalista che intervista il regista; terminata l'intervista, il giornalista trova Stracci che accarezza il cane e glielo compra per mille lire.

Con i soldi, Stracci corre dal "ricottaro" dei dintorni a comprarne tutte le rimanenze per sfamarsi, ma viene chiamato sul set e legato alla croce per la ripresa dei lavori; alla successiva interruzione, corre a mangiare la ricotta e, sorpreso dagli altri attori, viene invitato ad abbuffarsi con i resti del banchetto preparato per l'ultima cena. Al momento di girare la scena della crocifissione, muore di indigestione sulla croce. Il regista, senza ombra di commozione, commenta: "Povero Stracci. Crepare... non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo...". 

Affamato di “Ricotta”, in completa estasi visiva, inizio a vedere il film mentre azzanno sul sito, centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it, il testo di Massimiliano Valente: “Un altro film fuori dagli schemi di una rappresentazione tradizionale e di una iconografia asservita. Un altro lavoro, dopo Accattone e Mamma Roma, nel quale il fine primo dell’autore è quello di trasmettere messaggi politico-sociali; nel quale non sono da sottovalutare tuttavia alcuni elementi che cercherò qui di seguito di mettere in luce.

Vi sono alcuni segni “forti” della grande ricchezza culturale di Pier Paolo Pasolini:

le citazioni figurative (l’accostamento alle pale d’altare di Rosso Fiorentino e del Pontormo);

i richiami filmici che ha inserito nella sua opera (alcune sequenze accelerate sia nelle immagini sia nella musica ricordano il film muto e in particolare il primo Chaplin, amatissimo da Pasolini);

l’utilizzo sempre sapiente della musica: un Dies Irae arcaico, un Sempre libera degg’io dalla Traviata di Verdi – titolo oltremodo significativo se solo si consideri l’effettivo grado di libertà dei figuranti e di Stracci, il protagonista che recita la parte del Ladrone buono (e ancor più significativo se si fa attenzione alla trasformazione subita da quest’ultimo brano: una grottesca, quasi parossistica accelerazione che trascina la musica in un’irrefrenabile accelerazione che si avvita su se stessa…). 

È il terzo film di Pasolini e in esso, ancora una volta, il registra privilegia una storia che fa capo agli strati più umili ed emarginati della società – tutte le comparse, i generici, i figuranti del “film nel film” la cui storia viene narrata (e che rappresenta la Passione di Cristo) sono dei sottoproletari, dei “morti di fame” in senso letterale, come ci dirà lo stesso Pasolini attraverso l'”enorme mangiata” di ricotta rappresentata quasi a conclusione del film e della vita stessa di Stracci. 

Ma compare anche la borghesia, nei panni rozzi e volgari del produttore e del suo entourage (avvistiamo Tomas Milian, Andrea Barbato, Giuliana Calandra, Adele Cambria, Elsa de’ Giorgi, Gaio Fratini, John Francis Lane, Letizia Paolozzi, Enzo Siciliano). E viene anche “messa in scena” l'”integrazione sociale” cui sembra essere pervenuto il regista “marxista” (interpretato da Orson Welles)”. 

Continua Valente: “La pellicola fu sequestrata con l’imputazione di “vilipendio alla religione di Stato” (1963): nelle numerose pagine di questo sito se ne parla molto ampiamente. Ne seguì un processo nel quale, tra l’altro, il Procuratore della Repubblica Di Gennaro presentò ai “cattolici benpensanti” il film come “il cavallo di Troia della rivoluzione proletaria nella città di Dio”.

Sull’onda delle vicissitudini giudiziarie, al film saranno apportati alcuni tagli: le tre ripetizioni de “la corona!”, lo spogliarello della generica che interpreta la Maddalena, la risata dell’attore generico che interpreta Cristo; si sostituisce l’ordine “via i crocefissi!” con “fare l’altra scena!”, l’espressione “cornuti” con “che peccato”, la frase finale “povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” con “povero Stracci! crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo”! 

Soltanto nel maggio 1964 la Corte d’appello di Roma, accogliendo il ricorso di Pasolini, assolverà il regista perché “il fatto non costituisce reato”.

Le critiche e le motivazioni della persecuzione giudiziaria, come Pasolini stesso aveva previsto, erano dettate dalla malafede. Pasolini aveva diretto, in effetti, attraverso questo film, un attacco frontale nei confronti della borghesia e questo era il motivo vero che scatenò ancora una volta la canea nei suoi confronti. 

Il senso di questo attacco è contenuto essenzialmente nelle parole qui sotto riportate, pronunciate dal regista-Orson Welles e dirette al giornalista che gli chiede una intervista: 

Giornalista: “Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?”

Regista: “Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.”

Giornalista: “Che cosa ne pensa della società italiana?”

Regista: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.”

Giornalista: “Che cosa ne pensa della morte?”

Regista: “Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione.” 

Il regista-Orson Welles, tenendo tra le mani il libro “Mamma Roma”, legge una fulminante poesia di Pasolini (Io sono una forza del passato…da ''Poesia in forma di rosa'') 

Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,

dove sono vissuti i fratelli.

Giro per la Tuscolana come un pazzo,

per l’Appia come un cane senza padrone.

O guardo i crepuscoli, le mattine

su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,

come i primi atti della Dopostoria,

cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,

dall’orlo estremo di qualche età

sepolta. Mostruoso è chi è nato

dalle viscere di una donna morta.

E io, feto adulto, mi aggiro

più moderno di ogni moderno

a cercare fratelli che non sono più

Dopodiché, Orson Welles/Pasolini inizia a perculare il giornalista (mentre quest’ultimo idiotamente ride): 

“Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste… Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione… e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale… Addio.” 

In un breve scritto del 1961, Pasolini così si espresse: “Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando [La ricotta] ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di “imitatio Christi”, quell’irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono.  

Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l’esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono il mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene”. (Angela Molteni, pasolini.net). 

Citazioni tratte da AA.VV., Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, a cura di Laura Betti, Garzanti, Milano 1977. Alfredo Bini, produttore del film, deponendo al processo per vilipendio contro la religione dello Stato, intentato dal P.M. Di Gennaro contro Pier Paolo Pasolini, disse: 

‘’La ricotta è una denuncia della decadenza morale dell’uomo contemporaneo. Pasolini si serve di uno dei simboli del cristianesimo, la passione di Cristo, per rappresentare, attraverso l’immoralità della troupe di quel set cinematografico, il vero Cristo: Stracci. Stracci ha una duplice funzione: rappresenta il sottoproletario sacrificato al vuoto borghese, e rappresenta l’incarnazione reale e contemporanea del Cristo. Stracci viene sacrificato, condannato a morte dalla ferocia di un mondo gretto e teso al consumo a tutti i costi.

Dirà Pasolini di questo film: “L’intenzione fondamentale era di rappresentare, accanto alla religiosità dello Stracci, la volgarità ridanciana, ironica, cinica, incredula del mondo contemporaneo. Questo è detto nei versi miei, che vengono letti nell’azione del film […]. Le musiche tendono a creare un’atmosfera di sacralità estetizzante, nei vari momenti in cui gli attori si identificano con i loro personaggi. Momenti interrotti dalla volgarità del mondo circostante. […] 

Col tono volgare, superficiale e sciocco, delle comparse e dei generici, non quando si identificano con i personaggi, ma quando se ne staccano, essi vengono a rappresentare la fondamentale incredulità dell’uomo moderno, con il quale mi indigno. Penso ad una rappresentazione sacra del Trecento, all’atmosfera di sacralità ispirata a chi la rappresentava e a chi vi assisteva. E non posso non pensare con indignazione, con dolore, con nostalgia, agli aspetti così atrocemente diversi che una sì analoga rappresentazione ottiene accadendo nel mondo moderno”.

Pasolini fa largo uso di riferimenti a pittura e letteratura. Le Deposizioni del Rosso Fiorentino e del Pontormo vengono prese a esempi figurali; il Dies Irae accompagna molte scene del film; Orson Welles recita una poesia dello stesso Pasolini. Il film è girato tra la via Appia Nuova e la via Appia Antica presso la sorgente dell’Acqua Santa nell’autunno del 1963. Sullo sfondo le infinite distese dei palazzoni delle borgate romane, le stesse borgate di Ragazzi di vita, di Tommasino, di Accattone, di Mamma Roma, la stessa umanità antropologicamente identificata con i sottoproletari, ma un diverso approccio autobiografico e religioso. Quel set rappresenta per Pasolini il tempio invaso dai mercanti. 

Il testo di Massimiliano Valente, si conclude così: “Il film fu accolto con freddezza dalla critica, e la ragione va ricercata nelle parole di Moravia:

“La chiave del mistero va ricercata, secondo noi, oltre che nell’impreparazione culturale di molti critici, anche nella ingenua mancanza di tatto di Pasolini. 

Diamine: il regista nell’intervista dichiara: ‘L’Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa’, ed ecco che scontenta così i partiti di destra come quelli di sinistra. Poi, peggio ancora, Orson Welles rincara: ‘L’uomo medio è un pericoloso delinquente, un mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista, ed ecco scontentati tutti quanti. L’Italia del passato, infatti era il paese dell’uomo, in tutta la sua umanità; l’Italia di oggi, invece, è soltanto il paese dell’uomo medio”.

Fulvio Abbate per Dagospia l'11 maggio 2022.

Caro Robertino, ti do un dolore: non sei l’unico a ritenere “La ricotta”, lo dico con parole semplici, il più bel film di Pier Paolo Pasolini. Una macchinina poetica perfetta, carburazione elegiaca straordinaria, un aggeggio cinematografico composto, disegnato con il doppio decimetro, con il cacciavite, appunto, della sua poesia.  

Su tutto, la corona di spine destinata alla scena della crocifissione, custodita dagli attrezzisti dentro un cartone di salsamenteria o forse un cestino destinato al pranzo della troupe, marchio “Federici”, lì Roma trova il suo assoluto.

Così come l’intera scrittura del film, perfetta come un componimento mozartiano. A proposito di Mozart, Pasolini ne riteneva la musica segnata da “allegria funebre”. Forse lo stesso sentimento che trovi ne “La ricotta”.   

Certo, noi - io, tu e molti altri - di quel suo lavoro riconosciamo una sincerità espressiva assoluta, che suscita tenerezza, di più, compassione come il bambino del portinaio che, d’inverno, fa i compiti nel buio della guardiola.    

Straordinari i figuranti accampati sul set, e le comparse, gli angeli, cherubini e serafini, che ballano il twist, nel modo più rionale, come fossero davanti ai jukebox di un baretto di allora o piuttosto nei locali della sezione del Partito comunista italiano di Pietralata, in occasione della festa de l’Unità del 1963; Pietralata è il quartiere che vanta la squadra “comunista” dell’Alba rossa. 

Pochi film sanno essere così cristologicamente perfetti come “La ricotta”, molto di più del “Vangelo Secondo Matteo”, sempre suo, con Mario Cipriani, Stracci, il protagonista, faccina da manovale preso, “capato”, direbbero tra i banchi di Porta Portese, dallo smorzo della vita romana.

Per i dettagli filologici, aggiungiamo che Pasolini nel film omaggia ora Rosso Fiorentino ora Pontormo ricostruendone, come in un tableau vivant, la deposizione e la crocifissione. Perfino le forzature, le voci dell’aiuto regista che urla: “Inchiodateli!”, “Schiodateli!” sono lì perfette, assomigliano a loro volta alle fermate della Via Crucis che tra acquasantiere e confessionali di noce scura costellano le pareti delle chiese di borgata, solitamente affidate a modeste mani di artisti che stilizzano tutto come farebbe Bernard Buffet.

Nel film, lo si è detto, c’è un manifesto ideologico pasoliniano o forse si tratta di una semplice constatazione antropologica, affidato a un Orson Welles seduto nella sua sedia da regista, Pasolini gli fa dire infatti cosa pensa dell’Italia: "Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d'Europa." 

Il film è del 1963, anno del varo del primo governo di centro sinistra, nonché di fondazione del movimento letterario omonimo, il Gruppo 63, appunto. I socialisti di Nenni, in quei giorni, sulla tessera del loro partito, accanto a falce martello libro e sole nascente, vollero mettere anche il disegno di un’autostrada, e l’“Avanti!” titolò: “Da oggi ognuno è più libero”.  

Nel 1991, Laura Betti pubblicò un libro dedicato al cinema di Pasolini, “Le regole di un’illusione”, nel capitolo dedicato a “La ricotta”, citando il precedente del “Vangelo”, Pasolini scrive che il film è “una variante della stessa suite come può essere allegro rispetto all’adagio”, e parla di Stracci come di “un santo”, c’è poi il trattamento e il racconto dei processi subiti.

Alfredo Bini, il produttore, racconta di avere preso a pugni Pasolini perché questi, nottetempo, si presentò alla “Fono Roma” in fase di doppiaggio per modificare il cognome del giornalista ottuso che intervista Orson Welles, utilizzando con quello di un giudice che lo aveva denunciato per oscenità, Pedote o Pedoti. Bini racconta che si menarono di brutto.

Con un trenino degli anni Cinquanta messo a disposizione dalle ferrovie, era il 1995, andammo a Ciampino per ricordare Pasolini nel ventennale della morte. Prima di raggiungere la trattoria per festeggiare, appunto, con una ricotta offerta dal Fondo, si svolse una partita di calcio, sempre in ricordo di Pasolini: politici contro magistrati. 

In campo, tra i politici Veltroni e D’Alema, tra i magistrati invece Gherardo Colombo. Quel giorno, le telecamere di “Striscia la notizia” colsero il tic di D’Alema che soffiava sui pugni chiusi, e ne nacque un tormentone televisivo di cui forse qualcuno ha ancora memoria.  

C’erano Franco Citti, Ninetto Davoli e anche Mario Cipriani. Per l’occasione, gli raccontai che il mio amico Mariano l’aveva incontrato davanti a un’autoscuola a Talenti: “Ma lei è Stracci?”. Cipriani e la faccina di sempre, la stessa che mostra lassù sulla croce, un volto bambino vecchio, sorriso mite da borgataro, espressione da gommista malinconico e insieme dolce, arreso a se stesso, alla vita.

Ne “La ricotta” c’è anche Rossana Di Rocco, già l’angelo di “Uccellacci e uccellini” e del “Vangelo”, nel film fa parte della povera famiglia di Stracci, Rossana ha in braccio un bambino, e aspetta, seduta sull’erba tra i ruderi, che arrivi proprio la ricotta. Tra coloro che visitano il set, accanto a Elsa de’ Giorgi, Enzo Siciliano, Adele Cambria e Robertino Ortensi, amico fratello maggiordomo di Mario Schifano.     

A proposito del film, Pasolini scrive: “Martedì 5 marzo 1963 mattina: “Era l’inizio del giorno, pochi istanti fa, una luce vecchia, morente, e ora ecco l’azzurro di un golfo del Meridione, nel gelo della tramontana, un giorno che bastava soltanto a scoprire, era su noi, splendidamente remoto da ogni nostra passione”. Nelle note di regia aggiunge: “Il rutto sulla croce non è un rutto, ma un singhiozzo, il singhiozzo di chi, morto di fame il buon Stracci, si è finalmente rimpinzato.”

In quel 1963, a commento dell’arrivo dei socialisti di Nenni al governo, Pasolini scrisse una poesia, “Vittoria”, dove immagina il ritorno dei Partigiani, eccola in coda a questo mio biglietto per te.

VITTORIA di Pier Paolo Pasolini 

Dove sono le armi? Io non conosco 

che quelle della mia ragione:

e nella mia violenza non c'è posto

NON INTELLETTUALE. Faccio ridere

ora, se, suggerite dal sogno, 

in un grigio mattino che videro

morti, e altri morti vedranno, ma per noi 

non è che un ennesimo mattino, grido 

parole di lotta? Non so poi

che ne sarà di me a mezzogiorno, 

ma il vecchio poeta è «ab joi» 

che parla, come lauzeta o storno

- e come un giovane vorrebbe morire. 

Dove sono le armi? Non ritornano 

i vecchi giorni lo so, ogni aprile 

rosso, di gioventù, è passato.

Solo un sogno, di gioia, può aprire 

una stagione di dolore armato. 

Io che fui un partigiano inerme

- un mistico, imberbe Innominato - 

adesso sento nella vita il germe

orrendamente profumato della Resistenza. 

Nel mattino le foglie sono ferme 

come sul Tagliamento o la Livenza: 

non è un temporale che viene,

né una sera che scende, è l'assenza 

della vita, che si contempla, si tiene 

lontana da sé, intenta a capire

quali terribili, quali serene 

forze ancora la empiano: profumo d'aprile! 

un giovane armato per ogni filo d'erba, 

volontario per voglia di morire!

Bene, mi sveglio per la prima volta in vita mia 

col desiderio d'impugnare un'arma.

Il ridicolo è che lo dico in poesia 

- e a quattro amici di Roma, due di Parma – 

che mi capiranno, in questa nostalgia

idealmente tradotta dal tedesco, in questa calma 

archeologica, che contempla un'Italia solatia 

e spopolata, sede di partigiani barbari,

che scendono Alpi o Appennini, per la Vecchia Via... 

Non è la mia che frenesia dell'alba.

A mezzogiorno sarò coi miei connazionali

alle opere, ai pasti, alla realtà che inalbera 

la bandiera, oggi bianca, dei Destini Generali. 

E voi, comunisti, miei compagni non compagni, 

ombre di compagni, straniati cugini carnali 

persi nei giorni presenti come in lontani, 

non immaginati giorni del futuro, voi, padri 

senza nome, che avete sentito richiami

che io credevo simili ai miei, quelli che ardono 

oggi come dei fuochi abbandonati,

sulle fredde pianure, lungo i margini 

dei fiumi dormienti, sui monti bombardati... 

Prendo tutta su di me la colpa (vecchia 

mia vocazione, inconfessata, facile fatica) 

della disperata nostra debolezza 

per cui milioni di noi, con una vita 

in comune, non furono in grado 

di andare fino in fondo. È finita, 

trallallà, cantiamo, cadono

le ultime foglie della Guerra

e della martire vittoria, sempre più rade, 

distrutte a poco a poco da quella

che sarebbe stata la realtà,

non solo della cara Reazione, ma della bella 

Socialdemocrazia nascente, trallallà.  

Prendo (con piacere) su di me la colpa

di aver lasciato tutto com'era:

della sconfitta, della sfiducia, della sporca 

speranza degli Anni Amari, trallallera. 

E prendo su di me lo straziante

dolore della nostalgia più nera, 

quella che si rappresenta le cose rimpiante 

con tanta verità, che spera

quasi di ricrearle, o ricostruirne le infrante

condizioni che le necessitavano, trallallera...

Dove sono sparite le armi, pacifica 

produttiva Italia che non importi al mondo? 

Nella schiava bonaccia che giustifica 

oggi la ristrettezza come ieri il benessere - dal profondo 

al ridicolo - e nella più perfetta solitudine -

j'accuse! No, calma, non il Governo, o il Latifondo, 

o i Monopoli - ma solo i loro drudi, 

gl'intellettuali italiani, tutti,

anche coloro che giustamente si giudicano 

miei forti amici. Saranno stati questi i più brutti

anni della loro vita: PER AVERE ACCETTATO 

UNA REALTA CHE NON C'ERA. I frutti 

di questa connivenza, di questo ideale peculato, 

sono che la realtà reale ora non ha poeti.

(Io? Io sono inaridito e superato.)

Ora che Togliatti se ne va con gli echi 

degli ultimi scioperi di sangue,

vecchio, nel numero dei profeti 

che, ahi, hanno avuto ragione - sogno nel fango 

armi nascoste, nel fango elegiaco

tra piccoli che giocano, vecchi padri che vangano, 

mentre dalle lapidi cade la malinconia, 

le liste dei nomi si incrinano,

i coperchi delle tombe saltano via, 

e i giovani cadaveri con la spolverina 

che usava in quegli anni, i calzoni

larghi, e sulla chioma partigiana la bustina

militare, scendono lungo i muraglioni 

dove stanno i mercati, giù dai viottoli 

che uniscono i primi orti ai costoni 

delle colline: scendono dai cimiteri. Giovanotti 

con negli occhi qualcos'altro che amore:

una follia segreta, di uomini che lottano 

come chiamati da un destino diverso dal loro. 

Con quel segreto che non è più segreto, 

scendono giù, muti, nel primo sole, 

e, pur così vicino alla morte, il loro è il passo lieto 

di chi ha tanto cammino da fare nel mondo.

Ma essi sono abitanti del monte, del greto 

selvaggio del fiume padano, del fondo

della fredda pianura. Cosa fanno fra noi? 

Tornano, e nessuno li ferma. Non nascondono 

le armi - che stringono senza dolore né gioia -

e nessuno li guarda, come accecato dal pudore 

per quell'osceno brillare di mitra, quel passo d'avvoltoi, 

che scendono al loro oscuro dovere, nella luce del sole.

Vorrei vedere chi ha il coraggio di dirgli 

che l'ideale che arde segreto nei loro occhi

è finito, appartiene ad altro tempo, che i figli 

dei loro fratelli da anni ormai non lottano 

più, e la storia crudelmente nuova,

ha dato altri ideali, li ha quietamente corrotti... 

Toccheranno, rozzi come barbari poveri,

le nuove cose che in questi due decenni l'uomo 

crudele si è dato, cose inette a commuovere 

chi cerca giustizia... 

Ma facciamo festa, prendiamo le bottiglie 

del buon vino della Cooperativa...

A sempre nuove vittorie, e nuove Bastiglie! 

Il Refosco, il Bacò... Evviva, Evviva! 

Salute, vecchio! Forza, compagno! 

E tanti auguri alla bella comitiva! 

Viene da oltre le vigne, da oltre lo stagno 

delle Fonde, il sole: dalle tombe vuote, 

dalle lapidi bianche, dal tempo lontano. 

Ma adesso che violenti, assurdi, con ignote 

voci di emigranti, sono qua,

impiccati a lampioni, straziati da garrote, 

chi, alla nuova lotta, li guiderà? 

Togliatti, lui, è finalmente vecchio 

come per tutta la vita egli ha

voluto, e si tiene allarmato nel petto

come un pontefice, il bene che gli vogliamo, 

sia pur fissato in epico affetto, 

lealtà che accetta anche il più disumano 

frutto di lucidità arsa e tenace come scabbia. 

«Ogni politica è una realpolitica», anima 

guerriera, con la tua delicata rabbia!

Non riconosci un'altra anima, eh? Questa 

dove c'è tutta la prosa dell'uomo abile, 

del rivoluzionario attaccato all'onesta 

media dell'uomo (anche la complicità 

con gli assassinii degli Anni Amari s'innesta

nel classicismo protettore, che fa

il comunista perbene): non riconosci il cuore 

che diventa schiavo del suo nemico, e va 

dove il nemico va, condotto dalla storia 

ch'è storia di tutti due, e li fa, nel profondo, 

stranamente fratelli; non riconosci i timori 

d'una coscienza che, lottando col mondo, 

ne condivide le norme della lotta nei secoli, 

come per un pessimismo in cui affondano, 

per farsi più virili, le speranze. Lieto 

d'una lietezza che non sa retroscena 

è questo esercito - cieco nel cieco

sole - di giovani morti, che viene

ed aspetta. Se il suo padre, il suo capo,

lo lascia solo nei bianchi monti, nelle serene

pianure - assorbito in un misterioso dibattito 

con il Potere, legato alla sua dialettica

che la storia rinnova senza pace - 

piano piano dentro i barbarici petti 

dei figli, l'odio si fa amore per l'odio, 

ardendo solo in essi, i pochi, i benedetti. 

Ah, Disperazione che non conosci codici! 

Ah, Anarchia, libero amore

di Santità, con i tuoi canti prodi! 

Prendo, anche, su di me la colpa del tentare 

tradendo, del lottare arrendendosi, 

dell'accettare il bene come il minor male, 

antinomie simmetriche che io tengo

in pugno come vecchie abitudini...

Tutti i problemi dell'uomo, col loro tremendo 

volerci ambigui (il nodo delle solitudini 

dell'io che si sente morire

e non vuol presentarsi davanti a Dio nudo): 

tutto prendo su me, onde poter capire, 

da dentro, il frutto di quell'ambiguità: 

un uomo adorabile, da cui in questo aprile 

incalcolato, mille giovani scesi dall'Aldilà, 

aspettano fiduciosi un segno che abbia

la forza della fede senza pietà, 

a consacrare la loro umile rabbia.

Struggente, è in lui, Nenni, l'incertezza

con cui ha rimesso in gioco se stesso, e l'abile 

coerenza, l'accettata grandezza.

Con cui ha rinunciato all'epico affetto 

che poteva anche a diritto avere avvezza 

la sua anima: e, uscendo dalla scena di Brecht, 

per ritirarsi nei bui retroscena,

dove impara nuove parole reali l'eroe incerto, 

ha spezzato a sue spese la catena

che lo legava al popolo come un vecchio idolo, 

dando alla sua vecchiezza nuova pena. 

I giovani Cervi, mio fratello Guido,

i ragazzi caduti a Reggio nel Sessanta, 

col loro casto, il loro forte, il loro fido 

occhio, sede della luce santa,

lo guardano, e aspettano le vecchie parole. 

Ma egli, eroe ormai diviso, manca 

ormai della voce che tocca il cuore: 

si rivolge alla ragione non ragione, 

alla sorella triste della ragione, che vuole 

capire la realtà nella realtà, con passione

che rifiuta ogni estremismo, ogni temerità.

Che cosa dirgli? Che la realtà ha una nuova tensione 

che è quella che è, e ormai non ha 

più senso altro che accettarla... 

S'È SENZA MAI VITTORIA... che forse non è tardi

per chi vuol vincere, ma non con la violenza 

delle vecchie, disperate armi...

Che bisogna sacrificare la coerenza 

all'incoerenza della vita, tentare un dialogo 

creatore, anche contro la nostra coscienza. 

Che la realtà, anche di questo piccolo, avaro 

Stato, è più di noi, è sempre un'immensa cosa: 

e bisogna rientrarne, se pure è così amaro... 

Ma che ragione volete che ascolti questa ansiosa 

masnada di uomini, che hanno lasciato - come 

dicono i canti - la casa, la sposa, 

la vita stessa, proprio nel nome della Ragione? 

Ma c'è forse, una parte dell'anima dí Nenni, che vuole 

dire a questi compagni - venuti da laggiù,

con vesti militari, i buchi nelle suole 

delle scarpe borghesi, e la loro gioventù 

innocentemente assetata di sangue –

«Dove sono le armi? Avanti, su, 

prendetele, dalla paglia, dal fango,

non vedete che non è cambiato niente? 

Coloro che piangevano ancora piangono. 

Quelli di voi che hanno cuore puro e innocente 

vadano a parlare in mezzo ai tuguri,

ai caseggiati della povera gente,

che dietro i suoi vicoli e i suoi muri 

nasconde la peste vergognosa, la passività 

di chi si sa tagliato fuori dai giorni futuri. 

Quelli di voi che possiedono un cuore 

votato alla maledetta lucidità,

vadano nei laboratori, nelle scuole, 

a ricordare che nulla in questi anni ha

mutato la qualità del conoscere, eterno pretesto, 

forma utile e dolce del Potere, NON MAI VERITÀ. 

Quelli di voi che obbediscono a un onesto 

vecchio imperativo di religione

vadano tra i figli che crescono 

col cuore vuoto di ogni reale passione,

a ricordare che il loro nuovo male

è SEMPRE, ANCORA la divisione del mondo. Quelli 

infine tra voi a cui una triste nascita casuale

in famiglie senza speranza, ha dato spalle dure, capelli 

ricci di criminale, oscuri zigomi, occhi senza pietà, 

vadano, tanto per cominciare, dai Crespi, dagli Agnelli, 

dai Valletta, dai potenti delle Società

che hanno portato l'Europa sulle rive del Po: 

è giunta per ognuno di loro l'ora che non ha 

proporzione con quanto ebbe e quanto odiò. 

Coloro poi che hanno sottratto al bene comune 

capitale prezioso, e che nessuna legge può 

punire, ebbene, andate, legateli con la fune 

dei massacri. In fondo a Piazzale Loreto 

ci sono ancora, riverniciate, alcune 

pompe di benzina, rosse nel quieto 

solicello della primavera che riviene 

col suo destino: è ora di rifarne un sepolcreto.»

Se ne vanno... Aiuto, ci voltano le schiene, 

le loro schiene sotto le eroiche giacche

di mendicanti, di disertori... Sono così serene 

le montagne verso cui ritornano, batte

così leggero il mitra sul loro fianco, al passo 

ch'è quello di quando cala il sole, sulle intatte

forme della vita - tornata uguale nel basso

e nel profondo! Aiuto, se ne vanno! Tornano ai loro 

silenti giorni di Marzabotto o di Via Tasso... 

Con la testa spaccata, la nostra testa, tesoro

umile della famiglia, grossa testa di secondogenito, 

mio fratello riprende il sanguinoso sonno, solo 

tra le foglie secche, i caldi fieni

di un bosco delle prealpi - nel dolore

e la pace d'una interminabile Domenica...

Eppure, questo è un giorno di vittoria! 

[In Poesia in forma di rosa (1964), Appendice 1964, in Pasolini. Tutte le poesie, Meridiani Mondadori, Milano 2003]

Daniele Di Mario per iltempo.it il 3 maggio 2022.

«Questa è la convention degna del primo partito italiano». Un militante di Fratelli d'Italia ha quasi le lacrime agli occhi guardando il MiCo di Milano stracolmo di delegati, giornalisti, militanti. Vengono da ogni parte d'Italia: Veneto, Lombardia, Sicilia, Campania. Ovunque. 

Adesso i sondaggi danno il partito di Giorgia Meloni al 21%, di poco sopra il Pd. E la conferenza programmatica, con tutto il suo entusiasmo, certifica l'ottimo stato di salute di un movimento che s' appresta a correre per il governo del Paese.

Ma tra padiglioni con dibattiti che s' avvicendano, delegati che parlano, giornalisti che inseguono questo o quel parlamentare per un'intervista, una battuta, un retroscena, c'è anche l'altra faccia del partito. 

Quella che non è mai cambiata. Chi frequenta da anni Atreju, tradizionale kermesse giovanile meloniana, ricorda le provocazioni culturali e le gag. Ecco, la convention di Milano non è luogo per gag. Ma le provocazioni culturali restano.

Così, nel pantehon dei conservatori ci sono Margherita Sarfatti (intellettuale, mecenate dei futuristi e amante di Benito Mussolini, sul quale ebbe una enorme influenza), Giovanni Paolo II, Enzo Ferrari, Ennio Flaiano e persino Pierpaolo Pasolini, il cui totem figura a fianco a quello di Tolkien. 

La musica poi. «L'avvelenata» di Francesco Guccini insieme con «Berta filava» di Rino Gaetano a tutto volume prima dell'inizio dei lavori.

C'è naturalmente la libreria che vende pubblicazioni di area culturale conservatrice. E poi c'è lo stand dei gadget di Fratelli d'Italia, un brand che tira e che viene usato giustamente come forma di autofinanziamento. Si vendono felpe, penne, accendini, braccialetti di gomma. Ma anche felpe e penne. I prezzi? Popolari: dieci euro un berretto da baseball. Molto meno il braccialetto o l'accendino. I militanti e i delegati si fermano, parlano coi ragazzi dello stand. E comprano. Il brand FdI tira eccome.

Estratto dell'articolo di Marcello Veneziani pubblicato a novembre 2009 da il Giornale il 3 maggio 2022.

L’inventore moderno della destra divina è uno scrittore sui generis, con tessera Pci: Pier Paolo Pasolini. La destra divina di Pasolini non era una destra storica ma onirica, perché viveva nella dimensione del sogno. Stupido è dunque cercarla nella realtà. 

Ne parlai anni fa in un mio saggio, ripescando la sua poesia Saluto e Augurio, l’ultima prima di morire che Pasolini scrive quasi presago della sua morte, ed è dedicata a un giovane fascista. In quei versi in friulano Pasolini sciorina la sua destra divina, il suo amore disperato del passato e della tradizione ed esorta il giovane fascista a servire la destra divina attraverso un triplice comandamento: difendi, conserva, prega. La poesia di Pasolini, che si definiva «uno sgraziato reazionario», diventa il viatico del testo di Langone e il triplice imperativo pasoliniano campeggia sotto il titolo del suo libretto.

Ma, informo Camillo, l’inventore storico e mitico della destra divina è addirittura un Re normanno, Ruggero II Altavilla, che nel sud Italia coniò il mirabile motto: Dextera domini fecit virtutem, dextera domini exaltavit me. Traduco anche se è un latino trasparente: la destra del Signore fece la virtù, la destra del Signore mi esaltò. Insomma la destra divina ha quasi nove secoli, quella umana neanche tre, se partiamo dal Parlamento inglese o dalla Rivoluzione francese (…)

Il libro corale curato da Del Monte. Il vero mistero di Pasolini non è la sua morte ma le opere. Susanna Schimperna su Il Riformista il 21 Aprile 2022. 

Undici poesie/canzoni, ventuno interviste e tre testimonianze compongono Puzzle Pasolini, ed. Ensemble, il nuovo libro su Pasolini curato da Andrea Del Monte che ricalca solo il parte quello uscito sette anni fa in occasione del quarantennale della morte (Caro poeta, caro amico). È un libro che regala anche a chi per avventura non dovesse sapere nulla di lui un Pier Paolo davvero alive and kicking, vivo e scalciante in senso non soltanto metaforico. Molto diverse le opinioni sulla morte, a volte inaspettati eppure complementari i vari punti di vista su quanto e come fosse considerato finché in vita, approfonditi i giudizi su lui artista, concordanti le descrizioni su lui persona.

Dalle testimonianze e dalle interviste (firmate Claudio Marrucci, Ignazio Gori, Antonio Veneziani e lo stesso Andrea Del Monte, che ha anche composto le musiche delle canzoni), alcuni tra i passaggi più interessanti. Walter Siti, curatore delle opere complete di Pasolini per I Meridiani di Mondadori: «Le caratteristiche che mi hanno sempre colpito sono tre: l’ingenuità quasi infantile che ha mantenuto fino alla vecchiaia, il coraggio di buttarsi nella mischia intellettuale senza troppo preoccuparsi delle conseguenze, la convinzione che la vita sia incontenibile dalla letteratura. Ognuna di queste caratteristiche (positive) è bilanciata dalla sua ombra negativa: la sciatteria nel documentarsi (come i bambini che credono di sapere già tutto), l’autocompiacimento nel pensare a se stesso come a un capro espiatorio, un vitalismo che finisce per svalutare le propria bravura tecnica». Enrique Irazoqui, attivista antifranchista, insegnante, scacchista di fama mondiale, interprete del ruolo di Cristo nel Vangelo secondo Matteo: «Un uomo dalle idee chiare, nette. I suoi litigi furenti a casa di Laura Betti mi impressionavano. Ma sapeva anche essere spietato. Ricordo che sul set del Vangelo fu capace di ricordare a sua madre della morte di suo figlio Guido, fucilato dai partigiani rossi durante la guerra, “solo” per farla piangere e far sembrare la scena più realistica».

Alessandro Golinelli, scrittore: «Una frase per definire la poetica pasoliniana? L’erotismo dell’innocenza». Citto Maselli, regista: «Quando riuscimmo a farlo eleggere presidente dell’Associazione nazionale degli autori cinematografici accadeva che in occasioni pubbliche e incontri politici (su una nuova legge per il cinema per esempio) lui non resisteva all’impulso di distinguersi e così a volte sosteneva tesi diverse da quelle che eravamo riusciti con fatiche inenarrabili a far accettare ad altre organizzazioni di categoria o sindacali. Con gran tripudio delle nostre controparti ministeriali democristiane… Credo che in realtà quello che lui non sopportava di me erano le mie origini borghesi, la mia parentela con Pirandello, le cene di Capodanno dove da me c’erano da Gadda a Visconti fino alla Magnani e a Paola Masino, Antonioni, Monica Vitti e Cesare Garboli…». Giuseppe Pollicelli, giornalista e regista, primo a occuparsi di Pasolini nel fumetto: «A Pino Pelosi è convenuto, malgrado tutto, non raccontare mai la verità. Il che non significa che dietro la morte di Pasolini vi sia per forza una verità grande, clamorosa. Forse vi è una verità – per così dire – piccola, umile nella sua crudeltà e nella sua infamia».

Ninetto Davoli, che dopo Il Vangelo secondo Matteo è protagonista con Totò di Uccellacci uccellini, sempre di Pier Paolo: «Nel Vangelo facevo il pastorello, poi è venuta, totalmente inaspettata, la proposta di recitare al fianco di Totò. All’inizio ero dubbioso, imbarazzato. Il mio lavoro era quello di lucidatore di mobili, falegname. Non mi vedevo assolutamente nelle vesti di attore. Ma Pasolini ha insistito molto e alla fine mi ha convinto. Nella mia ingenuità non potevo credere che sarei stato pagato per recitare addirittura al fianco di Totò». Renzo Paris, romanziere, poeta, critico, autore di Pasolini. Ragazzo a vita: «Era molto vitale, sia di giorno quando attivava fino all’estremo la sua intelligenza, sia di notte quando attivava il corpo … Molti gli invidiosi per il suo successo». David Grieco, regista e scrittore, autore del libro e del film La macchinazione sugli ultimi mesi di vita di Pasolini: «Pasolini non sarebbe mai riuscito a sopravvivere fino a vedere il mondo come è diventato oggi. E non per una questione di età. Secondo me sarebbe morto comunque cercando, purtroppo inutilmente, di impedire che accadesse ciò che è accaduto».

Federico Bruno, scultore, regista, autore del film Pasolini. La verità nascosta: «Pelosi servì da esca. È stato una pedina-oggetto ed è stato secondo me demonizzato ingiustamente. Non poteva certo sapere quello che sarebbe accaduto… Ma Pasolini si fidava di Pelosi, si fidava di Citti, si fidava soprattutto dei ragazzi delle borgate, li conosceva, conosceva soprattutto il loro modo di ragionare e di vivere, li amava in un modo tutto suo». Lucia Visca, giornalista, la prima cronista ad accorrere a Ostia alla notizia della morte di Pasolini: «Non ho mai avuto l’impressione che Pasolini badasse molto al femminile come specifico di genere… Lo ricordiamo anche per aver scritto: “Il problema non è di essere contro o a favore dell’aborto, ma a favore o no della sua legalizzazione. Ebbene, io mi sono pronunciato contro l’aborto e a favore della sua legalizzazione”. La posizione fece infuriare le femministe… Riletta oggi spiega perfettamente quale fosse l’interesse di Pasolini: la maternità». Fulvio Abbate, scrittore: «Ritengo che sia stato un delitto omosessuale, mi spiace che i perbenisti di sinistra non vogliano accettare la vocazione masochistica, se non autolesionistica, della persona».

Alcide Pierantozzi, romanziere e sceneggiatore: «Pasolini ha fatto cultura, altissima cultura, provocando. Forse il suo grande limite, cioè il tentativo di cambiare il corso di quel grande fiume chiamato realtà, è quello che oggi lo avvicina di più ai ragazzi, alle nuove generazioni. Certo, è stato un fallimento. Ogni tentativo di cambiare il mondo fallisce. Ma Pasolini non era un filosofo, era un poeta. Non poteva comprendere l’inevitabilità di certi moti della storia… È stato grande nella misura in cui sono stati grandi le sue sviste e i suoi errori… Quello che mi interessa di lui non è la denuncia sociale, ma è questo errore cosmico, leopardiano». Giulio Laurenti, romanziere e poeta: «Assassinato brutalmente. / Non solo per quello che era, / ma soprattutto per quello che rappresentava / e ti direi che da ragazzo io / sentivo usare il suo nome come insulto scagliato / ai giovani che non erano conformisti come tutti / essere Pasolini significa essere diverso e contro». Igor Patruno, scrittore: «Era solo, rabbioso, coraggioso, e come un vero poeta, viveva dentro l’apocalisse ed era in grado di giudicarla».

Pino Bertelli, giornalista, fotografo, film maker: «1958. Un poeta (Pasolini) incontra un ragazzo di strada, gli dona una macchina fotografica Rolleiflex e con quel semplice gesto lo salva dalla galera… Il cinema di Pasolini è un cinema che respinge dappertutto l’infelicità e – costi quel che costi – incita a fare della vita di ciascuno un’opera d’arte … Lungi dall’essere un porto, la sua cultura era un brulotto innescato contro tutte le forme di autoritarismo». Giovanna Marini, cantautrice e ricercatrice etnomusicale: «Credo che la lezione più grande che ci ha lasciato Pasolini è il bisogno di pulizia. Pulizia in quanto corrispondenza della parola al pensiero, del gesto alla parola e quindi al pensiero, e dunque di un’intera vita al pensiero, alla parola, al gesto… Un uomo che è riuscito in questa estrema profonda coerenza come Pasolini, se ci unisci anche il genio creativo di cui era pieno diventa un uomo pericoloso per il resto dell’umanità che vive nella nebbia, ma aspira, comunque, al potere».

Tullio de Mauro, linguista: «Due anni dopo l’assassinio consegnammo un documento presentato alla Casa della Cultura in sette: Giovanni Berlinguer, Laura Betti, Giuseppe Branca, Tullio de Mauro, Nino Marazzita, Stefano Rodotà. Accusammo formalmente la Procura Generale della Repubblica anzitutto di aver trascurato colpevolmente la sentenza di condanna che il giudice del Tribunale dei minori Carlo Moro aveva stilato contro il Pelosi stabilendo che con lui (come Pelosi uscito dal carcere aveva ammesso, continuando a tacere i nomi) avevano operato ignoti autori dell’assassinio… Concludevamo accusando la Procura di complicità con gli assassini di Pasolini. Pensavamo che la Procura avrebbe aperto un procedimento a nostro carico e speravamo che questo avrebbe comportato una ripresa delle indagini. Non accadde. Il non-accaduto, gli omissis segnano la nostra storia civile». Emanuele Trevi, critico e romanziere: «Per fare un esempio minimo ma significativo della società in cui è vissuto, mi ricordo che a scuola, dopo l’omicidio, i ragazzini si insultavano chiamandosi “pasolone”, un pittoresco equivalente di frocio. Ovviamente, era qualcosa che proveniva dagli adulti».

Franco Tovo, attore in Mamma Roma: «Le prime volte ci ritrovavamo con gli altri attori in una roulotte, dove ci spogliavamo e indossavamo altri vestiti per girare le scene… A un certo punto, per motivi di budget, decisero di fare a meno della roulotte e iniziammo a usare la macchina di Pasolini per lasciare i nostri vestiti. Era un’Alfa Romeo, che lui lasciava sempre aperta. Una sera scoprimmo che i ladri avevano rubato tutti i nostri panni. Pasolini ci diede subito un assegno a testa per ricomprarci i vestiti. Era una persona generosissima». Silvio Parrello, “Er Pecetto” del romanzo Ragazzi di vita: «Venni chiamato “Er Pecetto” perché pecetto viene da pecione, e mio padre, che faceva il calzolaio, usava la pece per aggiustare le scarpe. Ho incontrato Pier Paolo qui a Monteverde nel ’54, al campetto di calcio di Donna Olimpia, mentre giocava a calcio. Io avevo dodici anni. Era una persona gentilissima, quasi angelica… Per il calcio aveva una passione sfrenata. Una volta addirittura, a Mosca, dove era a girare un documentario, lo chiamarono da Roma dicendogli che a Nettuno c’era una partita di pallone; lui prese immediatamente l’aereo, si fece aspettare da un’auto all’aeroporto di Ciampino che lo portò a Nettuno dove giocò la partita. Fisicamente, era una persona molto forte. Una volta, a via dei Quattro Venti, litigò con quattro persone che l’avevano offeso, e le mise tutte e quattro ko. Era alto un metro e sessantasette e pesava solo cinquantanove chili. Una volta addirittura alzò una mucca dalle zampe anteriori, mettendosela sulle spalle… Era una persona generosissima… Quando veniva qui con la macchina lasciava gli sportelli aperti con delle monete nei tasconi di stoffa dove si riponeva il libretto, perché sapeva che andavano a prenderle i ragazzi meno abbienti».

Giancarlo De Cataldo, magistrato e scrittore: «Mi sono chiesto se PPP sarebbe diventato leghista, per esempio, disgustato dalla mutazione genetica della Sinistra e dalle delizie del politicamente corretto. Se l’ostinata vocazione allo scandalo (nel senso nobile e non ancora mercificato) lo avrebbe condotto a un’ennesima rottura con il passato… Credo che nessuno sia in grado di stabilirlo… Io so… Sapevamo in tanti. L’intera classe dirigente del Pci, all’epoca, sapeva. Oggi sappiamo tutti tanto, forse tutto, di ogni cosa. Ma questo, come accadeva al tempo di Pasolini, non ci ha reso in niente più forti, determinati, capaci di agire contro le ingiustizie e le discriminazioni. E anche il nostro sapere si è fatto mercato». Susanna Schimperna

Pier Paolo Pasolini deriso, offeso, ucciso: il povero Cristo poeta. GIOVANNA STANZIONE su Il Quotidiano del Sud il 10 aprile 2022.

Sappiamo tutti com’è finita. Abbiamo passato gli occhi più volte su quel corpo lungo e secco, abbiamo rimestato nella sabbia sporca di Ostia e formulato le nostre teorie, tesi, congetture. Poche altre morti sono così pubbliche da trascendere il corpo, me ne viene in mente un altro di cui conosciamo a memoria le braccia magre, il costato scheletrico, le gambe piegate. Sulla sua morte facciamo congetture e abbiamo tesi da due millenni. Le morti simboliche, le morti esemplari, è come se ponessero un suggello su chi le subisce. Un suggello che rende eterni i suoi tratti, profetiche le sue parole, emblematica la sua esistenza, appiattisce le complessità, spiana le contraddizioni. Sappiamo tutti com’è finita. Tendiamo a dimenticare chi fosse l’uomo all’inizio.

È il centenario dalla nascita di Pier Paolo Pasolini. È stato detto che solo Pasolini, come D’Annunzio o Pirandello, ha sperimentato tutti i generi artistici della sua epoca: racconti, romanzi, opere teatrali, sceneggiature e regie cinematografiche, saggi politici e di critica letteraria e, ovviamente, la poesia. Conosciamo tutti il suo nome, i tratti scavati del volto. Lo chiamiamo in causa, tutt’ora, per corroborare giudizi sul costume o la decadenza dell’Italia, per benedire il nostro pensiero. O, a seconda del nostro credo, per maledirlo e sbeffeggiarlo ancora, per trionfare su di lui, sul suo stile di vita, sui suoi errori di giudizio. Un ragazzo lo ha percosso una notte a sprangate e poi ci è passato sopra con l’auto, una due tre volte. Così è stato appurato a processo. Sostenuto da alcuni, contestato da altri. Sappiamo tutti com’è finita e nessuno lo sa con certezza.

Ma non conta molto, la morte è quella cosa capace di dare in misura incontestabile coerenza e senso a un’intera vita: “Finché io non sarò morto, nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di potere dare un senso alla mia azione […]. È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita […] è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione[…] Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci.”

Porco, martire, frocio, censore morale, intellettuale, comunista, pedofilo, cattolico, pervertito. Trentatré processi in vita. Corruzione di minore, atti osceni in luogo pubblico, vilipendio della religione di stato, oscenità, rapina a mano armata perfino. Quindici anni ininterrottamente sotto processo pubblico, mentre la sua vita veniva scandagliata, il suo corpo e la sua intimità esposti. Fuori la stampa e la società lo giudicavano, lo deridevano, lo linciavano. “Una figura lo aveva sempre ossessionato: – scrisse Citati alla sua morte – Cristo deriso, sputato, colpito, lapidato, inchiodato, ucciso sulla croce. Facendo film, scrivendo e vivendo, egli cercava soltanto di venire lapidato ed ucciso, come la pietra dello scandalo, la pietra d’inciampo, che viene respinta dalla società umana.”

I gesù cristi in terra non sono santi, quella è prerogativa divina e viene dopo la morte. Non è tanto com’è finita che conta. È la loro vita cui dovremmo guardare bene: “I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. – aveva detto Pasolini nella sua ultima intervista, il giorno prima di morire – Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo”, non di buon senso. Eichman, caro mio, aveva una gran quantità di buon senso. […] Magari avrà anche detto agli amici: a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno, alla televisione. […] Ma non ha mai inceppato la macchina.”

I gesù cristi sono ostinati nel loro essere contrari, inceppano le macchine. Pasolini osservava la società, gli uomini e le loro azioni, faceva connessioni, smascherava le intenzioni senza aver bisogno di prove, preconizzava i nuovi fascismi e le nuove schiavitù, le mutazioni del potere che si impossessava dei corpi in modi nuovi, insinuandosi nei loro desideri. Pasolini divideva la vita con i dannati terreni che altri chiamavano sottoproletari, ma nessuno chiamava per nome: “Voglio dire fuori dai denti, io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi.” Io credo che anche Cristo fosse uno che scendeva all’inferno e che non metteva etichette sulle azioni altrui: “Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere sul delitto la vostra bella etichetta.”

I gesù cristi terreni sono tutti poeti nella misura in cui amano disperatamente la vita con una intensità tale che inevitabilmente ne rimangono bruciati. E amano gli uomini pure perché li vedono allo stesso modo innocenti, allo stesso modo colpevoli: “Ma io dico che in un certo senso tutti sono deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.”

I gesù cristi odiano altrettanto intensamente, percuotono i complici del potere, rovesciano i banchi nei templi. Eppure sono sempre, nell’espressione violenta di quell’odio, “pieni di puntuale amore”. Non importa tanto che siano figli di Dio. Forse, come scrive Kurt Vonnegut in quel suo bellissimo passo di Mattatoio n 5, “Gesù era veramente un uomo qualunque, e una seccatura per un sacco di gente che aveva relazioni più importanti delle sue. E diceva anche lì tutte le cose belle e imbarazzanti che diceva negli altri Vangeli. Così un giorno la gente si divertì a inchiodarlo a una croce e a piantare la croce nel terreno. Non ci sarebbero state ripercussioni, pensavano quelli che l’avevano linciato. […] E poi, un momento prima che questo “nessuno” morisse, i cieli si aprirono e mandarono tuoni e lampi. Dall’alto scese stentorea la voce di Dio. Dio disse alla gente che adottava quel barbone, dandogli i pieni poteri e i privilegi di Figlio del Creatore dell’Universo per tutta l’eternità. Ecco quello che disse: D’ora in poi Egli punirà orribilmente chiunque tormenterà un barbone senza relazioni importanti.” Forse Pasolini non era un gesù cristo, ma sicuramente era un poeta “e – come disse Moravia al suo funerale – di poeti ne nascono tre o quattro in un secolo”.

Alcune copertine dei testi pubblicati da Pier Paolo Pasolini

Da globalist.it il 9 aprile 2022.

Clamoroso scivolone della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Durante le celebrazioni della giornata di “Senato e cultura” dedicato a Pierpaolo Pasolini, Casellati si è rivolta a Dacia Maraini – grandi amica di PPP – sbagliando in maniera piuttosto evidente il nome di battesimo del grande scrittore e poeta. 

Casellati ha poi concluso l’intervento dedicandogli un pensiero.

“Auspico che gli occhiali di Pasolini che sono sempre moderni anche a distanza di tanti decenni ci aiutino a leggere la difficile contemporaneità, dando un equilibrato giudizio critico: perché le domande da lui poste ieri, dall’ambiente alla guerra, sono le stesse domande di oggi”.

Senato, Maria Elisabetta Casellati e la gaffe con il libro di Dacia Maraini: parla e cambia il nome a Pasolini. Il Tempo il 09 aprile 2022.

Pier Paolo Pasolini, anzi no Gian Paolo Pasolini: incredibile gaffe del presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. In un video postato su Twitter (@_sblendorio) si vede la seconda carica dello Stato che, durante le celebrazioni della giornata di “Senato e cultura”, dedicate al grande scrittore, poeta e regista, dice con aria solenne: “Un ringraziamento speciale va a Dacia Maraini che ha dedicato l’ultima sua fatica letteraria all’amico Gian Paolo Pasolini e un ringraziamento…”. 

Casellati non si accorge del lapsus, non si corregge e ribattezza così Pasolini, mentre la presente Maraini, autrice del libro “Caro Pier Paolo” appena uscito, rimane impietrita. Casellati, lunga militanza in Forza Italia, è stata sottosegretario al Ministero della Giustizia e componente del CSM prima di diventare presidente del Senato nel 2018. A fine gennaio è stata candidata da Matteo Salvini, leader della Lega, alla Presidenza della Repubblica prima che tutte le forze politiche convergessero sul bis a Sergio Mattarella.

Verlato, realtà e allegoria nella Passione di Pasolini. Vittorio Sgarbi il 10 Aprile 2022 su Il Giornale.

Fonti letterarie e cinematografiche si sommano alla cronaca in un omaggio al grande intellettuale.

A Roma, alle Terme di Diocleziano, nei vasti spazi dove si agitano, come fantasmi, sculture antiche fra lapidi e sepolcri, Nicola Verlato racconta la morte di Pier Paolo Pasolini in grandi teleri da cui si affacciano, riemergendo dalla memoria, intorno al corpo straziato del poeta, i personaggi che lo hanno accompagnato o ispirato, Ezra Pound, Orson Welles, Anna Magnani, Maria Callas, Totò, Franco Citti, impaginati come i dolenti nel Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio a Siracusa. È questa l'opera che io proposi a Verlato come testo di riferimento e di ispirazione per un d'apres che è la più grande e principale di una serie di quattro tele che propongono, con la resurrezione rovesciata verso il mito del ritorno nel grembo della madre, diverse versioni della morte di Pasolini.

«Finché io non sarò morto, nessuno potrà dire di conoscermi veramente, cioè di poter dare un senso alla mia azione, che dunque, in quanto momento linguistico, è mal decifrabile». La morte accompagna la vita di Pasolini e ne favorisce una interpretazione psicoanalitica che è come il tuffo a ritroso nel mondo dell'infanzia descritto da Verlato. Si tratta di una vera e propria Passione. Diverse sono le fonti di ispirazione, letterarie e cinematografiche. Il pittore Giuseppe Zigaina propose l'interpretazione più radicale e mistica; e fu anche più estremo nel rispondere alle domande di Mary B. Tolusso in una intervista sul senso della morte di Pasolini, pubblicata sul quotidiano Il Piccolo, l'1 novembre 2005:

«Pasolini ha fatto una imitatio Christi, portata fino alla testimonianza ultima, che sarebbe il martirio. Era profondamente religioso, ma aveva un'idea arcaica del sacro, non a caso ha scritto Io sono un cristiano delle origini o uno gnostico moderno, nel senso che era perfettamente cosciente che i primi tre secoli del cristianesimo coincidevano con la grande fase della gnosi, della ricerca, elementi che hanno fondato tutto il suo pensiero: la credenza nella magia, nella santità, ma anche nella celebrazione dell'orgia sacra. Io sono un pittore di professione e sono stato costretto a scrivere sulla morte di Pier Paolo perché lui me lo ha chiesto».

«Come?»

«Tramite messaggi che mi mandava. Per esempio ha bloccato per tre giorni le riprese del Decameron facendomi telefonare da Rossellini, decisamente disorientato perché Pier Paolo stava immobile dicendo: il mondo non mi vuole più e non lo sa. Di questo rifiuto Pasolini era cosciente e volle realizzare il dramma di questo ripudio. Pasolini mi costrinse a interpretare quello che lui faceva, scriveva e ogni suo atteggiamento nei miei confronti. Le faccio un altro esempio. Tra il 5 e il 6 novembre del 1975 io ricevetti tutto il film di Salò, allora non mi rendevo conto del significato di questa azione, sapevo solo che era morto, ma non avevo messo in collegamento i due avvenimenti mentre Pasolini aveva già teorizzato tutto questo in Empirismo eretico in termini espliciti, dicendo che il montaggio cinematografico, che è la conclusione del film, è analogo all'azione esplicitata dalla morte nella vita di uomo. Ora tutto questo che cosa poteva voler dire? Per me il significato è stato: io mi sono fatto uccidere, sono morto».

«Ci sarebbe dunque un messaggio da decifrare negli scritti di Pasolini e che rimanda alla sua morte...».

«Dagli anni '60 tutti i titoli delle sue opere sono in codice, nel senso che hanno un valore assoluto, riassuntivo e logico di tutta la sua opera. Ma di questa morte annunciata le evidenze sono tante, la stessa scelta della data, il 2 novembre del 1975, ha una ragione d'essere che risale al calendario perpetuo. Ma non solo, sono troppi gli elementi d'incastro per parlare di coincidenze. Gli studiosi non danno importanza a queste combinazioni, ma il mio impegno continua nella diffusione dell'altra verità».

Nella seconda tela, allegorica, Verlato evita ogni interpretazione cristologica e sceglie la suggestione della sovrapposizione di Pasolini con un eroe laico della contraddizione come Christopher Marlowe, e la mette in scena con una scelta estrema. Marlowe fu un personaggio controverso e discusso la cui libertà di pensiero fu intesa come ateismo e satanismo, con l'insinuazione di attività politiche segrete, libertinaggio, omosessualità. Trovò morte violenta in una osteria di Deptford durante una rissa. Con questa lettura, Verlato trasferisce l'episodio della morte di Pasolini in una rappresentazione teatrale, con l'ambientazione di una locanda in prossimità dei Docks di Londra di cui sul fondo si vedono gli alberi delle imbarcazioni in porto. Quelle di Marlowe e di Pasolini sono vite parallele, vicende drammatiche in cui letteratura e vita coincidono.

Lo stesso Verlato ha scritto: «Voglio rappresentare il momento in cui le cose si spostano da un piano dell'esistenza ad un altro, quello mitologico (...). Il mio metodo di lavoro consiste nel raccogliere quella massa di dati accumulati dagli individui su un determinato soggetto. Poi li trasformo in un modello, produco cioè una metafisica al contrario: ricavo l'idea di un soggetto a partire dalle sue varie manifestazioni concrete. È una metafisica dell'ovvio perché sono in realtà affascinato dalle stesse cose che interessano a tutti, quelle cioè che disseminano il maggior numero di tracce nei media e nell'immaginario collettivo: James Dean, Fifty Cent o quant'altro sono delle nuvole fenomeniche-mitologiche, cariche di informazioni e pronte per essere organizzate in modelli».

Il secondo telero corrisponde alla ricostruzione, proposta da più parti, di un assassinio politico, dunque di un complotto, non di una vicenda passionale legata ai rapporti sessuali con Pino Pelosi. Il giovane è un'esca, per portare il poeta, pericoloso e minaccioso per le sue denunce, riflesse in Petrolio, nel luogo dell'agguato dove lo attendono con bastoni alcuni aggressori, tra i quali un nero. L'ispirazione viene dalla sceneggiatura del film di David Grieco, La macchinazione, incentrata sull'episodio della richiesta di un riscatto per il furto del negativo del film Saló o le 120 giornate di Sodoma, che sarà una trappola per ucciderlo. Interpretazione suggestiva anche se non dimostrata. Ma Verlato racconta e definisce la situazione del dramma, aldilà della realtà effettuale. Il taglio è ancora una volta cinematografico, con l'atmosfera del notturno accentuata dal dialogo tra la luna e i fari dell'automobile. Torna Raffaello: la diretta ispirazione di Verlato è dalla Liberazione di San Pietro nelle Stanze vaticane. Caravaggio è lontano. Carpaccio nei suoi teleri sostituiva il verbo pinxit con finxit, a dire la sua intenzione di raccontare una storia come «finzione» narrativa. Ciò che oggi si chiama fiction. Non per caso Verlato dipinge nel tempo e con la misura psicologica del cinema, e la sua realtà è cinematografica. Il ciclo su Pasolini è una serie di ipotesi che, da teorie, diventano immagine. Per questo esiste la pittura. Per i concetti, c'è la filosofia.

Se Dacia Maraini inciampa nell'omosessualità di Pasolini. la scrittrice si lascia scappare l'idea della "de-omosessualizzazione" di PPP. E subito lo scivolone (come tutti i suoi) assume quasi una cifra letteraria- Quasi. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il

05 aprile 2022

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Ci sono dei giorni in cui il politicamente corretto e i pensieri arcobaleno di Dacia Maraini si tingono d’imbarazzo. 

Prendete il giorno in cui Rai Cultura inondava i palinsesti di ottime e approfondite analisi su Pier Paolo Pasolini (tra cui segnalo “Visioni. P.P.P. Una vita corsara”, la prima parte di “Museo Pasolini” con Ascanio Celestini e “'Na specie de cadavere lunghissimo”, da godersi tutte su Rai Play); be’ Daria era gradita ospite dei quei pregiato documentari. E, al tempo stesso, la scrittrice si trovava a parlare su Facebook del suo libro su Pasolini. E subito, faceva notare il critico letterario Gian Paolo Serino direttore della rivista letteraria Satisfiction  «Dacia durante una diretta con Roberto Cotroneo di Neri Pozza dice a proposito di Maria Callas che avrebbe voluto sposarlo: “l’idea che l’avrebbe guarito dalla sua omosessualità”…».Chiosava, il Serino: «Guarito? l’omosessualità per la Maraini è ancora una malattia? Meno male che da scrittrice dovrebbe essere più attenta alle parole». Serino aveva ragione.

E ancora meno accorta è stata, più o meno, la risposta che Maraini diede alla Callas che voleva, appunto, de-omosessualizzare PPP: «Cosa vuoi fare Maria, oramai a quell’età...». La qual cosa evoca un po’ quella domanda classica, intimista, logorante, tipica dei genitori anni ’70 nei riguardi del proprio figlio: «Oddio, e se poi questo mi diventa frocio?». Ora, Dacia è del ’36, è figlia del suo tempo virilista e omofobico a tinte forti; e -come spiega bene Walter Siti- ha vissuto anni in cui quel tipo di lessico non era inquadrato certo nel politicamente corretto. Ma il problema di Dacia è la stessa  scrittrice che, ogni settimana, da anni, ci delizia dalle colonne del Corriere della sera con rampogne bombastiche sui diritti delle donne e degli omossessuali, sulla parità di genere e contro le diseguaglianze, sul rispetto del senso stesso delle parole che possono ferire. 

Non è la prima volta che la sussurrata signora inciampa nelle gaffe. E una volta parla degli uomini con la barba “svirilizzati” e “predicatori di odio” (e io un po’ me la sono presa, rovistandomi il pizzetto); e un’altra ecco che suggerisce alla Ue -essendo contraria alla guerra, come tutti-  di non fornire missili agli Ucraini ma fionde come quella di Davide; e un’altra ecco che fa un pippone sull’acqua pubblica, senza conoscere troppo le leggi. Insomma Dacia, inciampa nelle gaffes ma il suo inciampo viene sempre spacciato per licenza poetica e saggezza controcorrente. C’è da dire che le sue, visto quello che c’è in giro, almeno sono gaffes col foulard, elegantissime Simonetta Sciandivasci  per “La Stampa” il 2 aprile 2022.

Di quello che di Pasolini è stato frainteso, trasfigurato e manipolato, s' è detto. E s' è detto anche di quello che ha scritto, interrotto, avrebbe potuto ancora scrivere. Eppure, il discorso su di lui non si conclude e, anzi, s' allarga.

Ora si discute di cosa si decide di dire e non dire, mostrare o non mostrare, e di come (e se) questo abbia a che fare con lo spirito del nostro tempo. Sul Corriere della Sera, Paolo Di Stefano ha ripreso quanto Roberto Carnero, professore e studioso di Pasolini (ha appena pubblicato Pasolini, Morire per le idee, Bompiani), ha fatto notare con preoccupazione su Avvenire: nel volume delle Lettere appena uscito per Garzanti, rispetto all'edizione originale che uscì per Einaudi, ci sono parecchie omissioni, molte delle quali legate all'amore di Pasolini per Ninetto Davoli (che aveva 14 anni quando incontrò il regista la prima volta). 

Nel suo articolo, che principia mettendo sul piatto la cancel culture, Di Stefano scrive, in accordo con Carnero, che la ripulitura sarebbe avvenuta per «sottrarre Pasolini all'accusa di pedofilia». Emanuele Trevi, che del medesimo epistolario ha scritto con entusiasmo, e che su Pasolini ha costruito il suo Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie, 2018), dice alla Stampa: «Non credo abbia senso difendere uno scrittore così esplicito, come era Pasolini, dalla sua vita. Esattamente come Gabriel Matzneff, non ha mai nascosto niente. La bellezza dello scandalo, del resto, sta nell'ipocrisia.

 Mi viene sempre in mente, in casi come questo, Ulisse che va dai Feaci e, dopo aver raccontato le sue storie, si copre, si vela e piange: i Feaci si accorgono del suo pianto proprio perché si nasconde. Ciò detto, Carnero e Di Stefano hanno tutto il diritto di avanzare critiche a una scelta editoriale, così come chi l'ha fatta aveva il diritto di farla: è un nobilissimo braccio di ferro. A me l'epistolario di Garzanti ha entusiasmato, e l'ho scritto». Ma che scelta editoriale è quella che omette un fatto tanto significativo di un autore, specie in un epistolario, che è un documento biografico?

«L'equivoco nasce dalla lettera, che può essere tante cose: un esercizio squisitamente letterario, innanzitutto. All'inizio di questo epistolario, ce n'è una di Pasolini al fratello morto, con tanto di epigrafe. Ma la lettera può essere anche un documento, una confessione non elaborata letterariamente. C'è un'ambiguità nello statuto: che cosa sono le lettere di uno scrittore? 

 L'epistolario di Keats è un trattato di poesia romantica essenziale, ma contiene anche notizie private dell'autore. Le lettere di Pasolini, invece, hanno a che fare con un vissuto elaborato letterariamente: è lui che decide quale immagine di sé riscrivere artisticamente. Credo che, allora, la posta in gioco non sia la trasformazione della vita in opera d'arte: il discrimine vero è tra esperienza e scrittura. E per me non c'è differenza tra una lettera finta e una vera. Evidentemente, i familiari hanno giudicato inopportuno il tono confidenziale di alcune parti: è impossibile giudicare l'operazione, la cancel culture non c'entra»

 Walter Siti per “La Stampa - TuttoLibri” il 4 aprile 2022.

Non ci posso credere. Non posso credere che per cinquant' anni mi sono occupato dello stesso scrittore, che poi non era neanche davvero il mio tipo - certo non è Dante, né Dostoevskij, né Cervantes, né Shakespeare. 

Per cinquant' anni non mi sono occupato di lui a tempo pieno: dopo la tesi ho dovuto disintossicarmene, poi ci sono tornato sopra perché era un argomento che conoscevo e potevo sfruttarlo per la «carriera», poi ho amato e studiato altre cose (forse la vera catena al collo, parecchio più tardi, sono stati i dieci tomi dei Meridiani a cui mi chiamò Renata Colorni grazie alla mediazione di un'amica comune, Giovanna Gronda). 

Però era come la griglia di una gora a cui corrono tutte le acque piovane, Pasolini e il suo desiderio me li trovavo sempre tra i piedi: il suo «ossimoro permanente» era anche per me una scappatoia, condividevo il suo paradosso di un sacro senza religione, la mia omosessualità l'ho cresciuta e difesa anche contro di lui e il suo senso di colpa; quando mi sono trovato a innamorarmi di un borgataro romano, a scrivere di Marcello e del suo ambiente, giuro che non stavo pensando a Pasolini: alla Borgata Fidene mi ci aveva portato la vita.

Ci pensai dopo, a metà scrittura, che poteva sembrare un'imitazione o una sfida ma ormai era fatta; mi venne in mente il paragone con quando ti sforzi di rinnegare tuo padre e poi una mattina facendoti la barba allo specchio t' accorgi che il gesto di tirarti la pelle sullo zigomo è la replica del gesto che faceva lui. 

Ma Pasolini (a costo di giurare di nuovo) non è mai stato un padre per me, come io non sarò un padre per nessuno. Adulti, mai. Eravamo a Cordova o forse a Granada con Laura Betti e altri coscritti, avevano organizzato un incontro-spettacolo su Garcia Lorca e Pasolini: Laura prese la parola e parlando dei due poeti insieme li chiamò «due ragazzi». 

Per Lorca mi tornava, è morto a trentotto anni, ma per Pasolini mi parve un'esagerazione; ora, che potrei avere un figlio dell'età che aveva Pasolini quando è morto, capisco Laura e il suo sentimento. Probabilmente, accademia e critica letteraria a parte, il filo che mi ha tenuto legato a lui per una così incredibile durata è stata proprio la percezione di una comune immaturità.

Non riesco a considerare Pasolini semplicemente un oggetto di studio: per questo ho voluto intitolare Quindici riprese la raccolta dei miei saggi su di lui. «Riprese» vuol dire che ho ripreso il discorso almeno quindici volte, ma il numero quindici è legato al pugilato, che nei suoi anni eroici regolava appunto in quindici round gli incontri validi per i campionati europei o mondiali. 

Quello con lui, per me, è sempre stato un combattimento. (Senza escludere, mi viene in mente ora, l'armonica di senso legata al lessico sartoriale: mia mamma, abile sarta, chiamava «riprese» quelle che faceva agli abiti per adattarli a una persona diversa dal primo proprietario, per esempio accorciare una gonna o stringere in vita un soprabito troppo largo; i vestiti di Pasolini mi stanno larghi addosso, è ovvio). La psiche ha percorsi tortuosi, a meno che io non stia ragionando su tutto ex post, per cercare di dare unità a un itinerario esistenziale e critico che magari invece è stato casuale e sbadato, come tante cose che mi riguardano.

 Il solo merito che mi riconosco, proprio grazie all'andamento carsico del mio coinvolgimento biografico, è di essere rimasto vergine sia dal servo encomio che dal codardo oltraggio. C'è stato un momento, subito dopo la morte, che Pasolini è diventato di moda: a un qualunque incontro in piazza o in libreria, bastava che sul manifesto si parlasse di Pasolini e accorreva il doppio del pubblico che sarebbe accorso per qualunque scrittore anche più bravo di lui. 

Io, che già passavo per essere uno che lo conosceva bene, non ne potevo più di sentirmi chiedere che cosa avrebbe pensato Pasolini dell'edonismo reaganiano o delle Brigate Rosse. Si parlava di lui poco meno che come di un profeta. Viceversa, per reazione, c'era chi sosteneva che lui fosse stato poeta solo quando non scriveva versi, che la sua retorica fosse stata stucchevole, che il suo populismo sentimentale apparisse ormai ideologicamente dannoso e stilisticamente arretrato. 

Lo si dannava in quanto pedofilo; tutti ne rivendicavano politicamente un pezzetto (i comunisti, i fascisti, i radicali, perfino la Lega Nord) e tutti lo biasimavano per ciò che sembrava aver concesso agli avversari; ogni argomento era buono pur di non far la fatica di leggerlo. 

Il suo essere volontariamente o involontariamente scandaloso continuava ad attirarmi, come un rimprovero alla mia pavidità; coraggioso tanto che nei suoi ultimi anni era andato a mani nude contro la corazzata dei media e del perbenismo progressista.

La sua morte aveva fatto scalpore sia per le circostanze poco chiare in cui era avvenuta, con sospetto di depistaggi da parte del potere democristiano e mafioso, sia perché veniva dopo i suoi editoriali sul Corriere della sera e dopo il successo dei film «decamerotici» (di cui lui per altro si era già abbondantemente pentito). 

Ecco, forse la cosa in apparenza più superficiale ma più sostanziosa nel fondo, più delle sue famose «contraddizioni», era per me il suo continuo pentirsi di ciò che aveva scritto prima, le sue costanti «abiure», il suo essere perennemente insoddisfatto della letteratura come gioco verbale, la sua scoperta che la poesia è impotente di fronte alla realtà. Perché Pasolini non ha, non ha mai avuto, una «dignità» da difendere: la dignità è dei padri mentre lui è un eterno figlio infelice e velleitariamente eversore; i figli infelici sono i soli poeti, «Hitler è il deputato dei Rimbaud di provincia». 

 I giovani che ora provano a leggerlo lo trovano un po' artificioso, sfuggente. Eppure nessuno come lui sarebbe adatto a un giovane scrittore: perché non sarà mai un maestro da venerare. Nel panorama suo contemporaneo, denso di avanguardie e sperimentalismi d'ogni genere, Pasolini è stato forse l'unico vero «geneticamente sperimentale»: ha giocato a rimpiattino coi generi letterari e con le altre forme di espressione artistica, contaminando e pretendendo di risalire sempre alle origini.

 Io, che mai sarò padre nemmeno per simbolo, vedo Pasolini come un figlio che si dibatte tra le spire degli elementi primari: il sole, l'acqua, il sesso, il niente prima della nascita, la morte. Invidio la grandezza del suo errore nel voler tradurre in passione civile l'ossessione erotica; non posso che contemplarla dal basso per mancanza di ali. Ammiro come un fenomeno naturale la sua debordante vitalità, la sua inesausta capacità lavorativa; non gli perdono l'annaspare inconsulto, la rimossa sudditanza ai «Padri farisei»; maledico la sua sfortuna (o fortuna, chissà) di essere diventato un bersaglio, triturato da un meccanismo che non gli ha consentito di darci quel che il suo sicuro insaziabile talento avrebbe potuto; compiango il suo esser diventato un mito.

Siti e Pasolini incrociano i guantoni. Gian Paolo Serino il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.

"Quindici riprese" è un grande contributo scientifico ma anche un regolamento di conti.

Non è soltanto una raccolta di saggi su Pasolini ma è un corpo a corpo con la letteratura, con l'idea stessa di letteratura come materia viva. Walter Siti manda in libreria Quindici riprese (Rizzoli, pagg. 412, euro 20) dimostrandosi ancora una volta l'unico scrittore italiano contemporaneo capace di trasformare l'inchiostro in un respiro, le parole in un atto di purezza e infine di generosità. In questi che sono, come recita il sottotitolo «cinquant'anni di studi su Pasolini», Walter Siti si confronta con Pasolini - del quale è massimo studioso: alla sua opera ha dedicato l'opera omnia nei Meridiani Mondadori- e si «libera» dall'oggetto della sua ricerca, un'ossessione che lo ha accompagnato per quasi una vita. Un'ossessione che si avverte ancora nell'ampissimo uso del pronome «lui», la parola che ricorre maggiormente in tutto il libro. Da una parte Siti vuole «smitizzare» Pasolini, affrancandolo dal dramma di essere diventato un «personaggio pop» poco letto ma molto citato persino da «politici corrotti, soubrette televisive e giornalisti buoni per tutte le stagioni»; dall'altra è lui stesso a cercare di liberarsi dal daimon di Pasolini, da quel suo essere «volontariamente o involontariamente scandaloso come fosse un rimprovero alla mia pavidità». È difficile comprendere nella prefazione inedita e nei saggi presentati - già apparsi in riviste, saggi, introduzioni- quando Siti è oggettivo o quando si presenta come una delle tante vittime di Pasolini stesso. Un Pasolini capace di cannibalizzare chiunque perché, come annota lo stesso Siti, «il personaggio più potente che la letteratura di Pasolini abbia mai creato è Pasolini stesso». Un Pasolini che non ha lasciato eredi, se si esclude «Vincenzo Cerami che comunque è sfuggito per la tangente, liberandosi del terribile Salò con l'invenzione di La vita è bella». Neanche Siti si considera un erede perché «contemplo la grandezza del suo errore nel voler tradurre in passione civile l'ossessione erotica; non posso che contemplarla dal basso per mancanza di ali» ma «invidio la fama che il destino gli ha concesso». E aggiunge: «congedando questo libro () getto tardivamente le stampelle, mi dico illudendomi che sia un gesto coraggioso ma forse è solo il senile volermi allontanare da qualcuno che ancora mi rimprovera, che mi sventola in faccia la mia rassegnazione a tacere e dunque è un'ultima prova di viltà». Siti racconta da una parte l'intellettuale Pasolini che del suo essere controcorrente non ha mai voluto fare una corrente (Siti scrive che non ci ha lasciato, ad esempio, un «manifesto letterario») e dall'altra un Pasolini che comprende come la letteratura non possa colmare il vuoto dell'essere umano.

Per Siti «Pasolini non ha previsto praticamente niente del futuro italiano e mondiale» e anche «Montale è stato poeta più grande di lui, Morante e Moravia sono stati romanzieri migliori, Fellini è certo più indiscutibile come regista. Pasolini è stato tutte queste cose insieme e non c'è strada letteraria e culturale in Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta che lui non si sia messo per traverso». Per Pasolini, conclude Siti, la «parola Letteratura ha un valore negativo contrapposta alla poesia». In questo Siti ricorda l'Arthur Rimbaud che nell'opera Divina Mimesis -la rivisitazione in chiave moderna della prima cantica della Divina Commedia - accoglie Pasolini e gli mostra grandissimi scrittori che non hanno paura della letteratura perché «non si ha paura di ciò di cui sei più forte». Forse perché, leggendo i passaggi dove Siti mostra un «Pasolini prefabbricato per mito», «un triangolo tra Artaud, Dom Franzoni e Marilyn», viene in mente l'incipit della poesia Autopsicografia di Fernando Pessoa: «Il poeta è un fingitore./ Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/il dolore che davvero sente».

La grandezza del libro di Walter Siti è che in queste «quindici riprese» il Walter Siti saggista raggiunge vette di certo superiori ai tanti che hanno dedicato centinaia di libri a Pasolini, ma quel che è ancor più interessante è lo scrittore che emerge. Sono saggi, certo, ma è anche il romanzo su un uomo ossessionato dallo stesso mito che cerca di sfatare: se da una parte Siti sembra sconfessare questa idea (come quando sembra troppo esplicitamente prenderne le distanze evidenziando che ha perso due delle tre lettere che Pasolini gli inviò mentre era studente alla Normale di Pisa), dall'altra leggiamo di un artista, Siti stesso, che di Pasolini ha subito tutte le influenze, gli affronti, le arroganze, le violenze del suo «corpus» letterario.

Leggiamo di un artista che influito un altro artista, di un poeta che ha depotenziato un altro poeta (desiderio di Siti che più volte si rammarica di non esserlo). È un match impari, per usare il termine pugilistico del titolo, dove Pasolini ha sempre combattuto (come nella vita) a «mani nude» (concetto che Siti usa più volte) mentre Siti non ha compreso, forse per timidezza forse per arroganza, che se avesse deposto guantoni e caschetto di protezione sarebbe stato tutto un altro incontro. Quindici riprese è uno scontro tra due timidezze: urlata quella di Pasolini, soffocata quella di Siti.

Quindici riprese è senza dubbio il libro definitivo su Pasolini - tantissimi gli aspetti che qui abbiamo tralasciato, impossibili riportarli tutti- ma è al contempo uno dei migliori romanzi di Walter Siti: non perché vi siano invenzioni letterarie ma perché è un libro che commuove per la purezza e generosità. L'ulteriore sensazione è che dopo cinquant'anni di studi pasoliniani sia arrivato alla stessa conclusione che ha recentemente raccontato Mario Elia nel podcast Perché Pasolini?: Elia appena quattordicenne fu adescato da Pasolini tra le borgate romane e oggi sessantenne in dialetto romano si interroga «Ma Pasolini che ha fatto per noi? Che ha fatto per noi borgatari? Niente. È morto senza fà niente, senza un manifesto, senza un aiuto, ma che ha fatto? Scriveva, scriveva, scriveva, ma che si scriveva?».

Pasolini è l’emblema del gran bazar delle commemorazioni. CHRISTIAN RAIMO su Il Domani l'08 marzo 2022

Pasolini è diventato, suo malgrado, il modello dello scrittore come icona, merce, brand. Frasi decontestualizzate possono fare da slogan a campagne pubblicitarie o auguri di compleanno.

Ragionare su questo genere di questioni, senza moralismi o facili soluzioni, a partire dal centenario pasoliniano ha due sensi.

Il primo riguarda l’uso pubblico delle memorie culturali. Il secondo mette in discussione la centralità invadente che hanno assunto gli anniversari anche nel dibattito culturale. 

CHRISTIAN RAIMO. Scrittore e traduttore. Ha collaborato con diverse riviste letterarie (Liberatura, Elliot-narrazioni, Accattone, Il maleppeggio), quotidiani (il manifesto, Liberazione (quotidiano)) e con la casa editrice romana Minimum fax. Con la stessa casa editrice ha pubblicato, nel 2001, la sua raccolta di racconti di esordio, Latte. Il suo primo romanzo, Il peso della grazia, è uscito nel 2012 per Einaudi.

Davide Brullo per mowmag.com il 30 marzo 2022.

Ha la statura di un vincolo, l’implacabile dell’illecito: che del corpo di Pier Paolo Pasolini, dico, si faccia massacro, caustico banchetto, osceno mercimonio. Si sono inghiottiti gli occhi di PPP, la lingua forcuta, scartavetrato la mascella claustrale; funesto mercato si fa del suo cazzo, il cazzo pasoliniano, in irrimediabili copie, calchi di calchi, nudità svenduta a peso d’oro, che schifo. 

Tra i libri immondi che celebrano il secolo di Pasolini, nato a Bologna nel marzo del 1922, scopertosi poeta – e dunque, ovunque, scandalo – a Casarsa della Delizia, in Friuli, intellettuale a Roma, morto all’idroscalo di Ostia nel giorno dei morti del ’75, per lo più apolide, apocrifo al proprio tempo, uomo a parte, il più brutto, il più triste, il più insulso lo ha scritto Massimo Recalcati, s’intitola Pasolini. Il fantasma dell’origine (stampa Feltrinelli). 

Sessanta pagine in formato microscopico, da microonde editoriale, in cui lo psicoanalista telegenico “tra i più noti d’Italia” (così la bio) s’incarica, che infamia, di ‘normalizzare’ Pasolini, di fagocitare “le posizioni francamente reazionarie di Pasolini” in yogurt polemico e buonista – ma Pasolini era innocente, mica giusto; e l’innocenza è feroce, ferina, non risparmia nessuno –, d’altronde, “la sua non è una critica puritana al potere, ma la visione della necessità di un ricambio generazionale che impone si abbia il potere per modificare gli assetti del potere”. Insomma, il Pasolini di Recalcati non è la pietra d’angolo, il poeta lapidario, l’uomo che lapida il potere: è un pio riformatore che lavora per stimolare a “mettersi davvero in gioco per trasformare le istituzioni”. Petting partitico, patetico.

Perso in un fitto fottio di concetti marci, macilenti, anemici – del tipo: “Più in generale, Pasolini coglie con grande lucidità quel processo di dissoluzione della funzione simbolica del padre... che caratterizza il nichilismo della società dei consumi” –, di citazioni ritrite (dall’articolo “dedicato alla scomparsa delle lucciole” a quello Contro i capelli lunghi), Recalcati compila un bigino sfasato, da misero miniatore del proprio ego, sottolineando – che autoinzuccamento del cazzo – che a Pasolini “nel 1979 dedicai la mia tesi di maturità intitolata Popolo e religione nell’opera di Pasolini”. Eccolo, il fine psicoanalista, che infine piscia in bocca al cadavere di Pasolini sbraitando, con anale protervia, esisto anch’io nel centenario pasoliniano, mi unisco anch’io al fiero pasto dei cannibali, dei vili.

Pasolini e Maraini

Piuttosto, i ricordi – retrivi, superficiali, vani – degli amici di PPP ci danno l’idea della sonora solitudine in cui viveva il poeta, schiacciante, agghiacciante, sfrenata – e verrebbe voglia, prima che ci prenda a morsi, di accarezzarlo, il cadavere di PPP, di baciarlo, di renderlo all’amore. Forse, ricorrendo all’elusione e al provocante, Pasolini mirava a essere frainteso. Di certo, non lo ha capito Dacia Maraini, che in Caro Pier Paolo (stampa Neri Pozza) vanta un’amicizia idilliaca con Pasolini, dando di lui l’idea di un mero pupazzo, un miserabile fantoccio, dominato dal destino del desiderio, prono a tutte le interpretazioni, a novanta, adatto al comodino, comodo, accomodante, un Pasolini aggiogato al guinzaglio, addestrato, che dice ciò che vuoi sentirti dire, inutile spettro, inerme, inerte. 

Gente altolocata, passanti chiarificati dalla prestanza di Pasolini, che ora, con esasperata vendetta – inconsapevole? – lo sputtanano. In particolare, il testo della Maraini dimostra chiari segni di demenza stilistica, è scritto male (“Vorrei acchiapparti per un braccio, Pier Paolo, e chiederti: ma tu che corri sempre, dove vai?”), declassato in una nostalgia senza lignaggio, serva. Non è neppure sacrilego (magari lo fosse, ne godremmo per alterigia del grottesco, protervia in bestemmie): è biecamente inerte, beato nella propria fiera inutilità.

Di fatto, la Maraini tritura il cadavere di Pasolini in pappa di caviale, usa il morto per i propri fini, promozionali: l’autrice, figlia di cotanto Fosco, ci rammenta che con Piera degli Esposti ha scritto Storia di Piera (p.22), che a Pasolini piaceva il suo Memorie di una ladra (“L’hai giudicato un ‘romanzo picaresco’”, p. 67), che ha “fatto ricerche su Chiara di Assisi” (da cui, va da sé, è scaturito un libro; p.101), che ha scritto “un testo teatrale su suor Juana Inés de la Cruz (p.197). Ci avvisa, la scaltra Dacia, che “amo molto le case museo. 

Ricordo la casa di Tolstoj che ho visitato a Mosca...” (p.117), e chissenefrega; rivanga l’era femminista fatta di “albergucci economici”, “panino col formaggio” e ribellismo al dettaglio (“Il personale è politico, era la nostra ricetta prediletta”). In effetti, nell’anno in cui muore Pasolini la Maraini licenzia un dramma ad alta densità ideologica, Reparto speciale antiterrorismo, reperto di un’era fa, fasullo, da idolatria sessantottina, dove le forze dell’ordine calzano nomi parlanti (Cane, Muscolo, Furbo, Italo) e latrano frasi di militare idiozia: “Fare domande non è segno di intelligenza... Devi ubbidire e basta... Al lavoro in silenzio, senza fiatare”. Più che un segno di contraddizione, i testi della Maraini rispondono ai comandi dell’egemonia dominante, da lotta di classe in salotto, contenta lei. 

Di Caro Pier Paolo, più che altro, va elogiata la copertina: Pasolini e la giovane Dacia, di apollinea bellezza, assediati dal cielo abbacinante d’Africa. Il breve ricordo di Ezra Pound, “un grande poeta compromesso col nazismo”, capace di poesie “che, a parte quelle deliranti legate al periodo nazista, sono bellissime” (quale sarebbe il “periodo nazista” di Ez?), è acido, stupido, imbarazzante. 

Probabilmente, ex amici, compagni di via, smaliziati esegeti tentano di fare di Pasolini un’icona da talk, una specie di lassativo culturale, appianando aporie, apostasie, eversioni. Sono loro, costoro, incatenati allo show editoriale, che con sarcastica gioia ammazzano Pasolini nella sacrestia delle buone intenzioni, ne fanno pasto, lo sbudellano, lo evirano, felici di sventolarne lo scalpo, bravi, l’avete svaginato. Ancora e ancora e ancora.

Prospettiva Pasolini, profeta scandaloso. Due volumi raccolgono studi e riflessioni sul grande scrittore. Matteo Sacchi il 17 Marzo 2023 su Il Giornale.

Pier Paolo Pasolini e la politica. Nel centenario della nascita del grande scrittore, lo scorso anno, questo è stato uno degli ambiti meno esplorati. Fanno eccezione due incontri dedicati a questo «profeta scandaloso». Il primo è stato promosso dalla Fondazione Magna Carta e si è svolto il 5 aprile 2022. Il secondo, pensato e organizzato dal gruppo di Liberi e Uguali della Camera dei Deputati, ha avuto luogo il 23 maggio.

Perché una fondazione di orientamento liberal-conservatore e un gruppo politico di sinistra, distanti in termini ideologici, sono andati in controtendenza e hanno intersecato i loro interessi nel ritorno a Pasolini? Per il comune assillo per l'emergenza antropologica denunciata profeticamente da Pasolini. Lo scrittore smascherava un sistema basato sul consumo indotto non soltanto dalle merci ma persino da diritti senza doveri: quel «Nuovo Potere» che ha mortificato e mortifica il senso del sacro, distintivo dell'umano, fino a soffocarlo nel desiderio. Questa duplice riflessione ora è stata trasportata su carta nel volume edito da Rubbettino Il Profeta scandaloso (pagg. 82, euro 10). Nel volume sono presenti, tratti dal convegno della Fondazione Magna Carta, l'introduzione di Gaetano Quagliariello e gli interventi di Ferdinando Adornato ed Eugenia Roccella. Dal convegno di Liberi e Uguali l'introduzione di Stefano Fassina e gli interventi di Dacia Maraini e Ascanio Celestini.

Morlacchi Editore propone invece Prospettiva Pasolini (pagg. 234, euro 35) a cura di Simone Casini, Carlo Pulsoni, Roberto Rettori e Francesca Tuscano. Si tratta del catalogo dell'omonima mostra organizzata dal 5 marzo al 30 giugno 2022 a Perugia che ha esposto molti interventi di Pasolini sui giornali, mostrando il contesto in cui sono stati pubblicati. Le immagini dei giornali dell'epoca sono accompagnate da saggi di alto livello che analizzano il rapporto di Pasolini con la sua epoca e la sua immagine pubblica. Come ad esempio quelli che raccontano il rapporto di Pasolini con la morte - La Divina Mimesis di Alessandro Gnocchi - o come la morte dello scrittore venne recepita dal Paese: in questo caso ci sono le bellissime pagine di Giulia Grillenzoni, Lo scricchiolio del corpo fracassato. E ancora: interventi su Pasolini e l'arte, Pasolini e la musica, Pasolini come editorialista. Il quadro di un artista e la sua epoca.

Pasolini, il centenario di carta diventa l’amuleto delle prof della dea sinisteritas. PIETRANGELO BUTTAFUOCO su Il Quotidiano del Sud il 16 marzo 2022.

Ha la faccia di Massimo Ranieri il centenario di letteratura e popolo di PPP. Nel viaggio superficiale dell’affastellare volti, contesti e parole, s’impone l’unicità del canone dove tutto si tiene, quello del luogo comune di pop e fraintendimento, l’avverso destino – insomma – in cui è incappato Pier Paolo Pasolini.

Diventato perfino un intercalare nella programmazione di RaiRadio3, dove – all’improvviso – è sempre un “come direbbe Pasolini”, “come scriverebbe Pasolini”, “come filmerebbe Pasolini”, il più reazionario tra gli intellettuali d’Italia, nella percezione dei saputi, e nel sentimento diffuso, si ritrova a essere una caricatura dell’impegno, una sorta di amuleto per le professoresse col cerchietto devote al dogma del progresso di “dea sinisteritas”. Le bacheche di Facebook, per dirla con Alessandro Gnocchi, straripano dei suoi versi e di sue citazioni.

E invece, tutto il contrario. Un universo, quello di PPP, di miracoli e fiaschi di vino. L’usignolo friulano di “Difendi, conserva, prega”. Ecco chi è. Contro l’estremo slogan del principio nuovo, della parola nuova, per alimentare le masse.

È appunto Ranieri ad assomigliare a Pier Paolo Pasolini, e non viceversa. Il marchio di origine – il proletario in giacca e cravatta – è lui. Lui è il dio nelle fattezze dello straniero, del “diverso” a essere più precisi. Con tutto il rispetto per Dacia Maraini e per il profluvio di carta da centenario, l’unico libro su Pasolini che merita di essere letto, è “PPP, le Piccole Patrie di Pasolini” – un saggio di Alessandro Gnocchi, edito da La Nave di Teseo – dove ci sono tutti i giorni incantati del vivere sconosciuto.

Non conosce speranza, il futuro. Così nel groviglio dell’opera totale di PPP. È un incamminarsi nell’angoscia di massificazione e depauperazione.

Lo si scorge tra le ombre di Matera dove, in cerca di Cristo, gira il suo film più carnale o nel fosso di “Teorema” dove Silvana Mangano vi arriva per far l’amore. Fosse pure nel sottofondo di una litania contro le donne che si pitturano le unghie, quella coralità di popolo dello scrittore corsaro è poetica nel profondo di un romanticismo radicalmente impolitico.

Il suo calcio al pallone ripete – con la stampella di Enrico Toti – lo slancio di vita nel pieno della disfatta esistenziale, tutta di passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Le sue lucciole, infatti, non baluginano tra gli incastri dell’egemonia e nel parlare alla tomba – “Le Ceneri di Gramsci” – nel parlare al capo filosofico del comunismo italiano, dice: “attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta; la sua natura, non la sua / coscienza”.

Il mondo che se ne va, strugge di evidenze. Abbaia la campagna, si sa. Col viatico di Gnocchi – ottimo segnavia in quel romanzo sentimentale che è PPP – il canto tragico del poeta è sì catarsi ma nel chiarore. La speranza che Cristo scenda dalla croce per salvare l’autenticità dell’esistenza è già feconda gioia.

Il ragazzetto in uniforme ritratto in copertina – è la divisa della GIL, Gioventù italiana del Littorio – è lo stesso che nel passare degli anni diventa “l’emerito pervertito” cui un’infinità di carte giudiziarie lo certifica “imputato”.

Trentatré processi come stazioni di un calvario il cui esito, per PPP, è un exitu. Se ne ricavano gli occhi rossi a leggere la pagina 107 del libro di Gnocchi. Trova una chiavetta alla reception della pensione di Casarsa dove ha soggiornato per immergersi nelle Piccole Patrie. Un biglietto – a lui indirizzato, sapendolo in partenza – si raccomanda: “senza divulgarle, per favore”.

Ecco un brano dal libro di Gnocchi: “Ho con me solo un iPad. Dovrò aspettare. Salgo in macchina e arrivo a casa di notte. Infilo subito la chiavetta nel computer. Parte un video artigianale in bianco e nero, senza audio. Difficile dirlo se sia inedito. Non importa: certamente io non l’ho mai visto. È ipnotico. Dura circa quindici minuti. È Casarsa piena di gente, ovunque, per strada, sui balconi, alle finestre, nei portoni. Passa la bara dello scrittore Pier Paolo Pasolini, massacrato selvaggiamente in un campetto di calcio all’Idroscalo di Ostia. Adesso sono io ad avere gli occhi rossi”.

Quindici venti chilometri al più, ecco la misura delle Piccole Patrie.

Un’ora di pedalate a girarci intorno, a prendersi il cielo ad alzare il naso in aria, a avvistare un pallone in strada – o in piazza – e farne epica, come in una ricerca di realtà nell’illusione della verità.

Tanto più reale quanto più eretico, come quando la fede attraverso il dubbio scuote da sé ogni passività e diventa azione, personale reazione.

E dunque: “Difendi, conserva, prega”.

100 anni dalla nascita. Le rivoluzioni di Pier Paolo Pasolini.  Paolo Speranza su La Voce delle Voci il 2 Marzo 2022. Per LA VOCE DELLE VOCI Pier Paolo Pasolini non è, non è mai stato, semplicemente un’icona culturale buona per tutti gli usi, ma un alto riferimento etico, un testimone scomodo e coraggioso, un uomo che oltre alle parole e alle immagini ha messo in campo la propria faccia e il proprio corpo per sfidare il fascismo oscuro che ancora si annida nella società italiana.

Potremmo dire che per noi è stato un (illustre e gradito) compagno di viaggio, che condivide il percorso – difficile e controcorrente, come la sua vita e le sue opere – della nostra testata fin dal 1984. Un percorso che i nostri lettori potranno scoprire a mano a mano, nell’anno del centenario di Pasolini, rileggendo i tanti articoli che hanno provato a ripercorrere e a sottolineare, con l’aiuto di amici e studiosi del poeta-regista, le sue qualità artistiche ma soprattutto il suo impegno politico, il coraggio ideale, il suo essere vicino e partecipe alle ansie e alle lotte del Sud d’Italia e di tutti i Sud del mondo, sempre dalla parte dei poveri, dei deboli, dei dimenticati.

Per questo, oltre ad attingere al vasto archivio pasoliniano (cartaceo e poi online) de LA VOCE DELLE VOCI, ci siamo proposti di proseguire il cammino alla ricerca delle sue tracce, ancora profonde, ancora necessarie a indicarci una strada verso un futuro tutt’altro che facile e pacificato, e tuttavia l’unico possibile per chi vuole ispirare la propria vita alla ricerca della verità e alla pratica della democrazia solidale. Partendo dall’Africa, ieri come oggi l’area più depressa e sfruttata del mondo, che Pasolini (caso rarissimo, se non proprio unico, nell’intellighenzia italiana e occidentale pre-Sessantotto) sentiva come il punto di partenza per la costruzione di un’umanità nuova.

Dall’Africa al Sud Italia, proprio come il suo Alì dagli occhi azzurri, il passo è naturale, inevitabile: un Sud antropologicamente diverso da oggi, il Sud della Matera-Gerusalemme del suo Vangelo secondo Matteo, della Napoli “ultimo villaggio d’Europa” del Decameron, o dell’Irpinia, la provincia all’epoca più povera d’Italia ma capace di sprigionare la vincente utopia del “Laceno d’Oro”.

Quanto è rimasto di quel Sud percorso e amato da Pasolini?

È una riflessione che vogliamo condividere con i nostri lettori, ma qualche risposta ci sentiamo di darla subito. Quando pensiamo alla generosa utopia umanitaria di Riace, alla comunità di Lampedusa che accoglie i profughi del mare, alla gara di solidarietà dei cittadini di Bari per accogliere gli albanesi della nave Vlora che sognavano Lamerica in Italia, ai giudici coraggiosi e ai giovani che in Campania, in Calabria e in Sicilia non si arrendono alle mafie, non si può fare a meno di pensare che Pasolini aveva capito come nessun altro, forse come solo il suo amico Carlo Levi, che il Sud può essere l’estrema riserva di umanità nell’Occidente cinico e vuoto dei Paesi ricchi e “frugali”, a patto di non snaturare la sua antica cultura di semplicità e di accoglienza. 

L’AFRICA di PASOLINI

 “Africa! Unica mia alternativa…”, scrive Pasolini in Frammento alla morte, nella raccolta La religione del mio tempo (1961).

In quello stesso anno il poeta-regista, di ritorno dall’India, compie il suo primo viaggio in Africa, in compagnia di Alberto Moravia ed Elsa Morante, visitando il Kenya e lo Zanzibar. Un’autentica folgorazione: “Sono stato razionale e sono stato / irrazionale: fino in fondo. / E ora…ah, il deserto assordato / dal vento, lo stupendo e immondo /

sole dell’Africa che illumina il mondo”, scrive in Frammento alla morte.

Per Pasolini è la scoperta di un universo antropologico quasi primitivo e ancora intatto, dal quale riprendere il suo viaggio inesausto alle radici del Mito primigenio, ormai definitivamente cancellato in Occidente dalla civiltà industriale: un tema che riprenderà in Poesia in forma di rosa (1964). Nello stesso 1961, invitato dagli Editori Riuniti a firmare la prefazione all’antologia I poeti. Letteratura negra, a cura di Mario De Andrade, Pasolini scopre la vivacità culturale che anima i movimenti di liberazione dei popoli di colore nell’Africa nera e nelle Americhe. Una vera e propria “Resistenza negra”, come scrive nel titolo della sua prefazione, che Pasolini non può fare a meno di comparare con le analoghe speranze di libertà e di giustizia degli “ultimi” d’Italia: “Lo ‘sguardo al futuro’, che era tipico in noi in quei famosi anni quaranta, lo ritroviamo qui, con la stessa quasi impudica freschezza, con la stessa imprecisa ma emozionante irruenza”. Qui Pasolini rivela la sua visione del Terzo Mondo e la sua idea di Sud, più antropologica e culturale che etnica e geografica: “I negri nudi che ballano intorno al fuoco sono come sottoproletari rovigotti intorno al fiasco del vino o cafoni meridionali che suonano la chitarra (p. XXI). È fortemente sintomatico che a lottare per la giustizia sociale siano i popoli più lontani dalla civiltà industriale”.

Questa Africa, al tempo stesso arcaica e in fermento, che Pasolini torna a visitare l’anno successivo, in Egitto e nel Sudan, gli ispira da subito il progetto di un film: Il padre selvaggio, di cui “Film Selezione” pubblicò in esclusiva il soggetto nel numero 12 del luglio-agosto 1962 (le riprese sarebbero iniziate nell’inverno successivo) definendolo “il primo film che affronterà realisticamente e con una precisa impostazione ideologica il dramma e la nascita della nuova Africa”. Per dare concretezza al progetto, Pasolini torna in Africa nel gennaio del ’63, visitando Ghana e Guinea in compagnia di Moravia, Dacia Maraini e del produttore Alfredo Bini. Pasolini e Moravia esplorano il continente nero, annuncia la “Settimana Incom illustrata” del 10 febbraio, e tre giorni prima “Vie Nuove” pubblica un’ampia intervista a Pasolini sui luoghi del film con il titolo Perché in Africa. Perché, spiega il poeta: “L’Africa è l’aspetto di una realtà che riguarda anche l’Italia. (…) Sono andato in Africa per caso due anni fa, tornando da un viaggio in India. E mi ha irrazionalmente e antropologicamente incantato”.

Per il nuovo film, che nell’intervista definisce “la storia di una educazione (educazione reciproca)”, Pasolini effettua i sopralluoghi e le scelte per il cast, individuando gli attori per i due ruoli principali: il professore democratico, giunto nel liceo della capitale di uno Stato che ha appena ottenuto l’indipendenza, e il suo studente più intelligente e sensibile, Davidson, figlio di genitori poveri e analfabeti, con il quale dibatterà dialetticamente sui temi della libertà, della democrazia e del rapporto tra bianchi e neri.

Perché questo “atto d’amore verso i popoli dell’Africa libera”, come lo definì “Vie Nuove”, non si concretizzò? Lo rivela Pasolini nell’introduzione alla sceneggiatura di Il padre selvaggio, pubblicata da “Cinema & Film” nei numeri 3 e 4 del 1967: “E’ stato il processo a La ricotta, per vilipendio alla religione, che mi ha impedito di realizzare Il padre selvaggio. Il dolore che ne ho avuto – e che ho cercato di esprimere negli ingenui versi di E l’Africa? – ancora mi brucia orrendamente. Dedico la sceneggiatura de Il padre selvaggio al pubblico ministero del processo e al giudice che mi ha condannato. Sono cose, queste, che si possono perdonare ma non dimenticare”.

L’anno successivo, da un nuovo viaggio in Uganda e Tanzania, Pasolini realizza tra il dicembre del ’68 e il febbraio del ‘69 Appunti per un’Orestiade africana, documentario di forte impronta etnografico-visiva concepito come preludio ad un progetto cinematografico più ampio, strutturato in cinque film, dal titolo Appunti per un poema sul Terzo Mondo. Presentato a Venezia nel 1973, alle Giornate del cinema italiano, e tre anni dopo al Festival di Cannes, Appunti per un’Orestiade africana fu definito da Alberto Moravia “il film più riuscito di Pasolini”, il quale, con il pretesto di condurre uno studio per un film su Eschilo, ha in realtà affrontato un tema fondamentale della sua vita artistica: il conflitto tra l’antico e il moderno, tra l’arcaico e il contemporaneo, in un percorso culturale che mirava ad unire il mito della tragedia greca con il retaggio arcaico dell’Africa contemporanea, accomunati da un conflitto drammatico sull’idea di giustizia e sulla nascita della democrazia. “Pasolini ‘sente’ l’Africa nera con la stessa simpatia poetica e originale con la quale a suo tempo ha sentito le borgate e il sottoproletariato romano”, commentò Moravia sul numero del 14 febbraio 1971 de “L’Espresso”, che pubblicò la recensione col titolo Oreste a trenta all’ombra.

In questo film, dichiarò nel 2005 a “Quaderni di Cinemasud” il regista Gian Vittorio Baldi, che ne fu il produttore, risaltano le qualità del Pasolini “cineasta totale”, per aver scritto il soggetto e la sceneggiatura, curato le riprese e il montaggio, letto i commenti fuori campo, scelto le musiche di Gato Barbieri e inserito scene di un ballo di fecondazione della terra della tribù Savana Magago Dadono del Tanganica.

(da TuttoPasolini, Gremese, Roma, 2022) 

PASOLINI, REA E IL “LACENO D’ORO”

Cinema e letteratura nel Festival del Neorealismo 

Pasolini e il “Laceno d’Oro”: è stato un flash, ma di quelli che illuminano per sempre la vita di una comunità e restano impressi in maniera indelebile nella sua memoria collettiva.

In una lettera del 30 agosto del ’59 Pier Paolo Pasolini comunica all’amatissima madre Susanna l’imminente partenza per Avellino (piccolo capoluogo dell’Irpinia, una provincia montuosa vicino Napoli), dove giunge il 5 settembre, accolto con grandi onori al Circolo Sociale. L’indomani è a Bagnoli Irpino, all’albergo “Al Lago”, sull’altopiano del Laceno, che da quell’anno ospiterà uno dei festival cinematografici più originali e importanti d’Italia, l’unico al mondo dedicato al Neorealismo, il movimento culturale più importante nella storia del cinema italiano, grazie ai capolavori di registi come Rossellini, De Sica, Visconti.

Accolto con interesse e simpatia, Pasolini firma decine di copie del suo recente successo editoriale Una vita violenta e ritira il primo Premio “Laceno d’Oro” alla regia per conto di Michelangelo Antonioni, vincitore con Il grido.

Pasolini si intrattiene con il sindaco di Bagnoli Irpino Tommaso Aulisa e con i promotori del Festival internazionale del cinema neorealistico, i giornalisti avellinesi Camillo Marino e Giacomo D’Onofrio, per definire la linea culturale e i dettagli organizzativi del Premio.

Lo scrittore friulano è rimasto colpito da un’accorata lettera inviatagli l’anno precedente da questi due giovani intellettuali dell’Italia del Sud e decide di aiutarli a realizzare il loro sogno: dar vita nella provincia di Avellino (all’epoca la più povera d’Italia) ad un premio cinematografico e ad una rivista specializzata.

L’intervento di Pasolini è decisivo: nel ’58 nasce la rivista “Cinemasud” (su cui lo scrittore-regista pubblicherà poesie, saggi e soggetti cinematografici) e nel ’59 il “Laceno d’Oro”.

Il 31 luglio del ’60 Pasolini è di nuovo sul Laceno, per la seconda edizione del Premio, seduto accanto all’attrice Laura Betti, sua amica e musa ispiratrice, nella prima fila di una platea di circa ventimila persone. Fra gli ospiti c’è Domenico Modugno, già diventato una star internazionale con la canzone Volare, che per Pasolini comporrà la stupenda colonna sonora di Che cosa sono le nuvole.

Pasolini chiede a Marino di accompagnarlo al santuario della Madonna di Montevergine, vicino Avellino, e al ritorno registra dalla viva voce di alcuni giovani del posto la versione originale della Canzone di Zeza, un canto popolare del Carnevale, che alcuni anni dopo costituirà la sigla di testa del suo Decameron.

Con Pasolini il “Laceno d’Oro” nasce all’insegna del binomio cinema-letteratura.

I neorealisti di Avellino si richiamano alla lezione del grande critico letterario Francesco De Sanctis, nato in Irpinia, pubblicano su “Cinemasud” racconti e poesie, inseriscono nella giuria del “Laceno d’Oro” Alberto Moravia – all’epoca lo scrittore italiano più famoso – e fra gli amici e sostenitori del Festival spiccano lo scrittore e giornalista siciliano Giuseppe Fava (ucciso nell’83 a Catania dalla mafia) e due autori napoletani: Luigi Incoronato e Domenico Rea, quest’ultimo già famoso anche all’estero, fin dagli anni Cinquanta, per Gesù, fate luce e Spaccanapoli, a cui Marino e d’Onofrio offrono nel ’66 la presidenza del Premio.

Del “Laceno d’Oro” – che proprio quell’anno si trasferì da Bagnoli Irpino ad Avellino – Domenico Rea fu un sostenitore convinto: “Bisogna dire subito – scrive nel ’68 in un’accorata lettera al presidente della Provincia di Avellino – che esso rimane il premio più sganciato, spontaneo, ricco di improvvisazioni e di illuminazioni che nel campo della cinematografia vi sia in Italia”.

La presidenza quinquennale di Rea coincide con l’”età d’oro” del Festival irpino, in una felice simbiosi di “dolce vita” di provincia e di fermenti culturali del ‘68.

Toccò allo scrittore napoletano, nel ’66, consegnare il primo premio alla grande attrice svedese Ingrid Thulin, l’anno successivo ai fratelli Paolo e Vittorio Taviani per I sovversivi, nel ’69 a Ettore Scola (per Il commissario Pepe), nel ’70 al regista di Drop out Tinto Brass e ai protagonisti Franco Nero e Gigi Proietti.

Furono gli anni del “disgelo” verso il cinema dell’Est europeo, dei dibattiti tra autori e pubblico dopo le proiezioni, della “scoperta” di tanti attori e registi: un festival giovane, coraggioso e conosciuto in tutto il mondo fu quello che Rea riconsegnò nel ’70 alla coppia Marino-d’Onofrio e al suo prestigioso successore: Cesare Zavattini, “il poeta del Neorealismo”, scrittore e sceneggiatore dei capolavori di Vittorio De Sica Sciuscià, Ladri di biciclette, Umberto D., Miracolo a Milano.

Su “Cinemasud”, intanto, esordiscono alcuni giovani appassionati di cinema che diventeranno importanti storici e docenti universitari, scrivono critici e giornalisti affermati e nel comitato di redazione figurano registi di fama internazionale: Carlo Lizzani (presidente del “Laceno d’Oro” dal 1978), Lina Wertmuller, Giuliano Montaldo, Luigi Zampa.

La rivista pubblica anche 37 Quaderni tematici e un libro del direttore Camillo Marino, Estetica politica e sociale del Neorealismo, in cui si delineano i valori estetici e ideologici che animano il “Laceno d’Oro”: la difesa del cinema ispirato alla realtà, politicamente impegnato (secondo i princìpi del marxismo e dell’antifascismo), indipendente e d’autore; l’attenzione costante per le cinematografie dell’Est e del Sud del mondo; la visione del cinema come strumento di analisi della realtà, di coscienza critica, di formazione culturale; la valorizzazione di opere, autori, manifestazioni di qualità sottovalutate dal mercato e dalla stampa.

La costante attenzione riservata alle cinematografie dell’Europa dell’Est e del Terzo Mondo diventa una delle caratteristiche peculiari del “Laceno d’Oro”: in tempi di “guerra fredda” e di dominio dello star system di Hollywood il Festival di Avellino e “Cinemasud” riservano ampio spazio al cinema dei paesi in via di sviluppo (India, Cuba, Egitto, Palestina, Vietnam, Bangladesh, Cile democratico e tanti altri) e del mondo socialista, innanzitutto della Jugoslavia (che viene premiata con Targhe d’oro e d’argento, ininterrottamente, dal ’66 all’81) ma anche di Urss, Ungheria, Polonia, Romania, Bulgaria. E Cecoslovacchia, paese in cui Marino era praticamente di casa e per due volte, nel ’72 e nel ’76, è stato membro della giuria internazionale al Festival cinematografico di Karlovy Vary.

Nel mondo del cinema il “Laceno d’Oro” si conquistò anche la fama di “premio portafortuna”, per aver dato i primi riconoscimenti a futuri maestri del cinema mondiale (Antonioni, Pontecorvo, Scola) e ad esordienti di grande avvenire (i registi Paolo Benvenuti, Silvio Soldini, Silvano Agosti, Luigi Faccini, Nino Russo, Franco Piavoli, Cinzia Th.Torrini, Salvatore Maira e gli attori Valeria Moriconi, Franco Citti, Michele Placido, Stefano Satta Flores, Gigi Proietti, Barbara De Rossi, Luca Barbareschi) e soprattutto per aver scoperto, per la prima volta in Italia, il talento di cineasti come l’indiano Mrinal Sen, il francese Paul Vecchiali, il croato Vatroslav Mimica, il serbo Goran Paskaljevic, la norvegese Anja Brijen, il cileno Reinaldo Zambrano, il cubano Humberto Solas e tanti altri.

Il declino comincia dopo il violento terremoto che il 23 novembre ’80 colpisce l’Irpinia, provocando più di 3000 morti e danni ingenti. In quella circostanza drammatica Zavattini scrive una lettera alle popolazioni irpine e nell’81 sarà in prima fila al Cinema Eliseo di Avellino per incoraggiare con la sua presenza i neorealisti del “Laceno d’Oro”.

L’ultima edizione del Festival di Avellino si svolge nel 1988.

L’anno successivo il “Laceno d’Oro” chiude per mancanza di finanziamenti pubblici, paradossalmente proprio quando l’Irpinia – grazie ai contributi per la ricostruzione – vive la sua fase di maggiore ricchezza. Lo stesso anno crollano il Muro di Berlino e le utopie socialiste di cui si era alimentata l’intera esistenza di Camillo Marino, che tuttavia negli ultimi anni prende le distanze dal “socialismo reale” ma resta coerente ai suoi ideali antifascisti ed al rigore morale apprezzati anche dagli avversari politici e dai critici cinematografici che non ne condividono i princìpi estetici.

Dieci anni prima, intanto, il 1 novembre del 1979, nel ventennale del “Laceno d’Oro”, un gruppo di cineasti di tutto il mondo, su invito di Marino e D’Onofrio, in una commovente cerimonia all’albergo “Al Lago”, aveva posto una lapide in memoria di Pier Paolo Pasolini, barbaramente assassinato quattro anni prima. Fu distrutta l’anno dopo dal terremoto e mai più ricostruita.

Oggi la redazione della rivista “Cinemasud” lancia la proposta di intitolare a Pasolini una sala del Nuovo Cinema Eliseo di Avellino, che dal ’66 all’88 ospitò quel “Laceno d’Oro” che forse, senza Pasolini, sarebbe rimasto solo una meravigliosa utopia. 

DOMENICO REA SU PIER PAOLO PASOLINI 

Pasolini – Una vita semplice 

Noi napoletani abbiamo perduto pa­recchio con la morte di Pasolini. Egli amava Napoli, s’intende la Napoli ple­bea, che considerava un unicum profondamente diverso dalle borgate ro­mane.

Alla plebe napoletana egli attribuiva una serie di virtù umane rimaste intat­te, fervide e franche, senza quella macchia di orrori disseminatisi in altri luoghi, oggetto dei suoi interessi di uomo e di artista, derivati dal consumi­smo, dal distacco dalla storia, dalla frenesia di vivere senza uno scopo o un ideale. Nelle sue analisi più recenti, Pasolini nella gioventù di oggi aveva finito per individuare un indistinto mortificante. È rimasta celebre la sua diagnosi della incapacità di separare un giovane di tendenza fascista da uno di tendenza comunista o extraparlamentare. Tutti per Pasolini avevano ormai lo stesso comportamento, lo stesso fanatismo, lo stesso modo cate­chistico di esprimersi e la stessa vio­lenza distruttiva.

Il mondo plebeo napoletano non rien­trava in quest’universo della morte; e non a caso, nel Decameron, i personag­gi di bassa corte si esprimono in dialet­to napoletano. Questo avvenne non sol­tanto perché Pasolini sapeva che il Boccaccio ricevette la sua più grande lezione di vita e lo spirito della commedia proprio dalla fervida Napoli tre­centesca — in anni in cui la nostra città, in tutti i sensi, era la capitale d’ Europa, avanti a Parigi e Londra — ma perché nel dialetto napoletano egli aveva trovato un linguaggio amabile, analogico e in grado di alleggerire i mali dell’uomo e di renderli più accet­tabili.

Su Napoli, del resto, Pasolini proget­tava d’impiantare il suo più importan­te film — il più aperto alla vita e cari­co di speranza —. Memore di un’epigrafe di Paolo VI, che in Napolivede un termine di altissima umanità, egli pensava di stabilire un confronto tra Napoli e il resto del mondo occiden­tale: un mondo cioè che, pur nella sua problematica esistenziale, è rimasto al di fuori del regno del delitto contro se stesso e gli altri. In questo senso me ne parlò a lungo durante le sessioni del processo ai Racconti di Canterbury do­ve io e altri amici napoletani, dietro suo invito, ci recammo più per dargli una mano che per un atto di presenza e di solidarietà.

Ma a parte questa preferenza per Napoli nel suo discorso artistico, sono i diseredati (e i disadattati) di tutta Ita­lia che hanno perduto il loro più valido e ultimo campione. Figlio del neoreali­smo Pier Paolo Pasolini era stato l’uni­co a non venir meno a questa temati­ca, che assume a vertice dell’esistenza la coscienza degli umili a essere il mo­tore della storia. Quasi tutti, se non tutti gli scrittori e i registi provenienti dalla stessa corrente hanno cambiato rotta, si sono buttati a descrivere casi di eccezione o sono precipitati in un mare di banalità. Pasolini, pur cam­biando genere di continuo, o tenendoli tutti in istato di allarme sul tavolo di lavoro, non si era lasciato incantare o deviare o tentare dalle apparenze, anzi era rimasto attentissimo al progressi­vo cammino in bene e in male di una sostanza, quella popolare, legata a lui e alla sua intimità come il suo stesso modo di essere.

Pasolini non ha mai descritto un bor­ghese. Non si è mai attardato nelle sue opere ad approfondire una storia d’amore o una storia interiorizzata. Nel « terzo stato », infatti, l’amore è un problema secondario. Il vivere quoti­diano, come lotta per non lasciarsi schiacciare predomina sul resto e se l’eros vi ha un suo capitolo il suo stile ri­siede nell’avventura, nella gioia, con il preciso significato di una parte del tut­to. Ma ciò che conta, ciò che è da ri­cercare, e che Pasolini cercava, è il sentimento tragico della vita, riscatta­to dalla coralità, che nelle borgate ro­mane come a Napoli è presente come mutuo soccorso, come interesse alle cose del prossimo.

È stato sorprendente per tutti ap­prendere che la sua ultima sera Pasoli­ni la trascorresse in compagnia di un amico semplice, della di lui moglie e dei loro bambini. Col suo nome, col suocenso, molti altri avrebbero da tempo cambiato abitudini, avrebbero tirato al mondano e all’appartato. Ma Pasolini amava la «gentarella». Si sentiva a suo agio solo in sua compagnia. È sta­to uno dei pochissimi artisti della no­stra storia letteraria e cinematografica che si sia sforzato di darci un’immagi­ne articolata e piena del mondo degli umili visti dall’interno fino ad apparirelui stesso un indigeno. La sua rimane un’arte o il più grande esempio di un’ arte popolare non paternalistica. La stessa tragica fine, del resto, è una testimonianza non di una « vita violen­ta », ma semplice.

Domenico Rea

 (“Il Napoletano”, anno II, n. 10, 10 novembre 1975) 

MATERA COME GERUSALEMME

Il Vangelo di Pasolini e la sua idea di Sud 

In pochi film, come nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini, è possibile scorgere in maniera così inequivocabile i segni del Destino.

Quel viaggio ad Assisi, innanzitutto (ricordato in questo volume negli illuminanti saggi di Cetta Brancato, Angelo Fàvaro e Salvatore Ferlita), sui luoghi e tra gli apostoli del messaggio francescano, doveva rivelarsi il contesto ideale non solo per una potente, e presto insopprimibile, spinta creatrice, ma anche per conferire la necessaria profondità di spirito e dottrina ad una religiosità che nell’animo del regista era latente da sempre, e si era manifestata a livello cinematografico – in una forma decisamente originale ed amara ma non del tutto compiuta – appena un anno prima nell’episodio La ricotta del film collettivo Rogopag, introdotto dalla definizione della Passione di Cristo come “la storia più grande che sia accaduta“.

E la “scoperta” dell’interprete del Cristo? Addirittura “drammatica”, l’avrebbe definita più avanti Pasolini. Certo casuale come poche, e decisiva per la vita del giovane protagonista, come lo stesso Irazoqui e lo studioso Giorgio Manacorda qui testimoniano nelle preziose interviste a Cetta Brancato.

“Fatale”, poi, nell’accezione positiva dell’attributo, si sarebbe rivelato il passaggio di Pier Paolo Pasolini a Matera: un seme fecondo di umanità e di cultura, che a più di mezzo secolo – come ben argomenta nella sua ampia testimonianza Domenico Notarangelo – rinnova e amplifica il miracolo di un film e di un’identità antropologica che sono da tempo patrimonio inestimabile della comunità internazionale. 

LA RELIGIONE DEL SUO TEMPO

A merito di Pasolini va attribuita la straordinaria, profetica capacità di saperli interpretare, e indirizzare in senso progressivo, quei segni del Destino. A partire dalla svolta epocale che si stava prefigurando nella Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II. Pochi intellettuali del tempo, soprattutto di orientamento marxista ma anche nello stesso mondo cattolico, dimostrarono di saper cogliere con tanta tempestività, e nella sua immensa portata, l’eredità del pontificato di papa Roncalli. Come non ricordare la commossa dedica iniziale del Vangelo secondo Matteo alla memoria di Giovanni XXIII?

Con la sua scelta di realizzare un film su una tematica religiosa, la più ambiziosa e temibile, il poeta-regista di Casarsa riuscì a spiazzare sia l’intellighenzia di sinistra che il clero italiano, contribuendo ad aprire su entrambi i fronti fertili canali di dialogo e rispetto e vistose crepe nelle granitiche contrapposizioni ideologiche.

Da parte marxista questo sforzo venne sottolineato anche da un critico cinematografico severo come Antonello Trombadori, al quale su “Vie Nuove” del 10 settembre del ’64 preme “porre l’accento su quanto il film di Pasolini porta avanti sul terreno delle idee“. Finalmente, sembra suggerire l’intellettuale comunista, ne è passata di acqua sotto i ponti da quando le autorità religiose, poco più di vent’anni prima, avevano condannato la Crocefissione del suo amico Renato Guttuso come “eretica”, bollando l’artista di Bagheria come “pictor diabolicus”.

Le poche (e becere) riserve nei confronti del film vennero soprattutto dagli ambienti della destra, in Italia, e in Francia dai settori radical chic: in una memorabile proiezione a Notre-Dame, davanti a cinquemila persone, il 16 novembre del ’64, toccò a Jean Paul Sartre difendere Pasolini e il suo film dalla contestazione di una parte del pubblico e dagli attacchi del settimanale “Le Nouvel Observateur”.

Davvero significativa, e di portata storica, fu l’accoglienza riservata al film da parte delle autorità cattoliche: dopo il premio per il Vangelo secondo Matteo alla Mostra del Cinema di Venezia arrivò nello stesso 1964 il premio OCIC per il miglior film dell’anno. Non era passato neppure un anno dalle polemiche che avevano accolto La ricotta. Potenza del genio e della poesia di Pasolini. E del coraggio della nuova Chiesa in cammino, per ritrovare il suo popolo.

Nel cinquantennale del film, lo scorso anno, “L’Osservatore romano” poteva definire con legittima convinzione Il Vangelo secondo Matteo “il più bel film mai girato su Gesù”: le gerarchie e i maggiori intellettuali cattolici, per una volta, lo avevano percepito con immediatezza e senza riserve fin dalla “prima” a Venezia. Non era affatto scontato, come ci ricorda lo storico Guido Crainz, in quell’Italia del ’64. 

LO STUDENTE CHE DIVENTÒ CRISTO

“Avevo diciannove anni. Ai tempi della dittatura franchista ero membro del sindacato clandestino e, siccome sapevo un po’ di italiano, fui inviato in Italia per contattare intellettuali che facessero conferenze nell’isola democratica dell’università spagnola. Non avevo mai sentito parlare di Pasolini quando andai a trovarlo. Appena aperta la porta, come mi raccontò poi Ninetto Davoli, si accorse subito che ero il protagonista del suo Vangelo. “Ho trovato Gesù” – disse“.

Così Enrique Irazoqui, oggi professore di letteratura spagnola, ricorda in questo libro la sua prima e indimenticabile esperienza di attore, sul set del Vangelo di Pasolini.

Dal punto di vista di Pasolini quell’incontro casuale fu altrettanto decisivo. Dalla sua testimonianza, riportata in Le regole di un’illusione, edito nel ’91 dal Fondo Pier Paolo Pasolini, risalta l’enfasi per quel che allora gli parve una sorta di miracolo: “Una scoperta che avvenne in modo quasi drammatico. Avevo rinunciato già a molti attori, avevo visto migliaia di persone, ormai mi ero arreso. Stavo per prendere un attore teatrale tedesco, quando improvvisamente entro in casa e me lo vedo seduto su una poltrona: eccolo lì, Cristo! Enrique Irazoqui: uno studente catalano che aveva scritto delle cose su Ragazzi di vita e voleva conoscermi. Aveva lo stesso volto bello e fiero, umano e distaccato dei Cristi dipinti da El Greco. Severo, perfino duro in certe espressioni“.

Se il Vangelo secondo Matteo rappresentò una svolta per la vita di Irazoqui, l’epifania di Irazoqui a Roma risultò a sua volta determinante per il successo del film.

“Fu un incontro di quelli che soltanto il Destino riesce a combinare – commentò a buon diritto su “l’Unità” David Grieco nel testo dell’edizione in vhs del film. “Perchè Irazoqui, con il suo volto piatto come un’effigie e misterioso come una scultura dell’isola di Pasqua, resta di gran lunga il Cristo più intenso, più magico e più iperrealista che mai si sia visto al cinema. Al confronto, attori pur bravi e sensibili come il Robert Powell del Gesù di Franco Zeffirelli o il Willem Defoe dell’Ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese paiono soltanto dei volgari impostori. A tutt’oggi, la storia del cinema non ha altro Cristo all’infuori di Irazoqui”. 

IL SUD DI PASOLINI

Nel volto di Irazoqui, inoltre, il poeta-regista friulano ritrovava quell’archetipo umano di un mondo arcaico e non corrotto che, nella sua preoccupata e lungimirante visione, era destinato ad una imminente estinzione.

In un’ampia recensione a Scritti corsari e alla raccolta di poesia La nuova gioventù,  pubblicata su “Il Mondo” il 14 agosto del ’75, lo scrittore Enzo Siciliano (che fu tra l’altro – con Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Alfonso Gatto ed altri letterati – una delle “partecipazioni speciali” del Vangelo) collocava il rimpianto pasoliniano per la cultura contadina non in una metafisica età dell’oro, quanto verso una reale “età del pane”, quando “gli uomini erano consumatori di beni estremamente necessari”, evocando in questa recensione il Freud del Disagio della civiltà e il sentimento del limite dell’umanità in La Ginestra di Leopardi.

A sua volta testimonia lo storico Giacomo Scotti, che ha ripercorso le tracce del rapporto di Pasolini con la Jugoslavia, e segnatamente con l’Istria: “Era ossessionato dalla minaccia incombente di un “universo orrendo” del potere e del consumo, nel quale avrebbero finito per estinguersi le “storie particolaristiche” e nazionali, sarebbero state crudelmente represse le “diversità”, liquidati il “sentimento”, l'”avventura”, il “romanzesco”, la bellezza; un mondo di “omologazione” tecnologica e di consumismo che avrebbe scatenato l”aggressività individuale'”.

Il Sud di Pasolini è storico, più che geografico; anzi, per essere più aderenti alla sua Weltanschaung, è un Sud pre-storico, arcaico, con i caratteri e il fascino del mito. E’ ogni terra dove sopravvivono i “popoli perduti”, che resistono alla civiltà ed al potere totalizzante del consumismo e del mercato. Un topos letterario, dunque, che affiora fin dalla raccolta Le ceneri di Gramsci, nel poemetto intitolato L’Appennino, laddove Pasolini sente di ritrovare nelle “meridionali voci” il mondo contadino del Friuli della sua infanzia. Dal Friuli alle borgate romane, al Meridione d’Italia, all’Africa, all’India, fino allo Yemen e all’Iran “si sono susseguite in Pasolini le tappe di un’ininterrotta epifania del Mito, ovvero della ricerca di nuove incarnazioni della mitologia di un’umanità vergine e primitiva: sempre più a sud, sempre più lontano dall’odiata civiltà neocapitalistica e borghese, verso mondi ancora barbari e incontaminati”, rileva Guido Santato in Pasolini: quale eredità? (2005), primo volume della nuova collana dei “Quaderni di Cinemasud” (edizioni Mephite).

Nel Mezzogiorno appenninico Pasolini era riuscito a trovare le ultime tracce di quel mondo contadino, altrimenti scomparso nell’Europa occidentale, come dichiara nella famosa intervista a Oswald Stack: “Bisogna ricordare che l’Italia era, ed è ancora, in una posizione abbastanza insolita nell’Europa occidentale. Mentre il mondo contadino è completamente scomparso nei maggiori paesi industrializzati come la Francia e l’Inghilterra (dove non si può parlare di contadini nel senso classico di questa parola), in Italia, invece, esso ancora sopravvive, sebbene recentemente si sia verificato un suo declino…Il mio rapporto col mondo contadino è molto diretto, come per molti Italiani: quasi tutti noi abbiamo avuto almeno un nonno contadino, nel senso classico di questa parola”.

Ben presto anche l’Italia avrebbe subìto in maniera irreversibile gli effetti dell’omologazione consumistica, e Pasolini mostra di intuirne l’esito fin dai tempi de La ricotta, come rileva nel saggio dello Speciale Pasolini di “Quaderni di Cinemasud” (2005) la giornalista e studiosa di cinema Marika Iannuzziello: “La morte di Stracci sembrerebbe suggerire che il mondo decantato da Pasolini si stesse estinguendo, per lo meno in Italia, tant’è che negli anni successivi l’autore si recherà con sempre più frequenza nei Paesi del Terzo Mondo a ricercare quei volti, quelle facce non ancora segnate dalla nova religione dell’uomo moderno, il consumismo“. 

MATERA COME GERUSALEMME

Chissà se Pasolini era a conoscenza di quel dipinto di Carlo Levi – altro nume tutelare del popolo lucano e dell’identità storica di Matera – risalente agli anni del confino, a sud di Eboli, oltre i confini del mondo civilizzato: Grassano come Gerusalemme.

Certo è che trent’anni dopo, anche se per circostanze in parte fortuite, Pasolini si convinse di ritrovare a Matera – più che nella stessa Palestina – l’atmosfera, i luoghi ed i volti dell’epoca di Cristo. La città dei Sassi, scrive David Grieco, divenne nel film di Pasolini l’epicentro di “un Terzo Mondo quasi extraterrestre che porta i nomi di Matera, Gioia del Colle, Crotone, Orte, Montecavo, Barile, Massafra, Catanzaro e la Valle dell’Etna“.

All’epoca fu soprattutto Trombadori, nella citata recensione su “Vie nuove”, a percepire la contaminazione tra linguaggio cinematografico e dimensione antropologica nel film di Pasolini, in particolare “la sua limpida sintesi di mito e di realtà nel quadro d’una ambientazione della vita di Cristo al livello del nostro Mezzogiorno più contadino e sottoproletario – quello stesso Mezzogiorno che Carlo Levi dipinge nel suo quadro Matera (sic) come Gerusalemme e nel suo libro famoso prima che Cristo, vale a dire la moderna civiltà, avesse varcato i confini di Eboli, e che ancora in tanta parte è rimasta tale”.

Un decennio più tardi, su “Il Mondo”, Siciliano avrebbe indicato anche un’ulteriore e peculiare chiave di lettura del Vangelo di Pasolini: la scelta degli “ultimi” da parte di Cristo prendeva corpo nel film attraverso i volti degli interpreti, dai protagonisti alle comparse: “L’aspetto fisico degli uomini, dei “poveri parlanti in dialetto”, era tutt’uno con la loro coscienza morale: l’aspetto della povertà è l’aspetto della bellezza, e insieme quello di un registro di valori che resisteva da secoli“.

Emblematica in tal senso è in questo volume la testimonianza di Notarangelo, che sul set del film di Pasolini a Matera, nel 1964, fu anche attore, nel ruolo del centurione, ma soprattutto collaboratore all’organizzazione ed al casting. Fu a lui che il regista affidò il delicato compito di reperire attori non professionisti per interpretare i persecutori di Cristo: “Bisognava cercare una cinquantina di volti che potessero svolgere il ruolo dei sacerdoti e dei farisei. Io avevo una mia idea di come dovessero essere quelle facce. Dovevano essere, mi precisò Pasolini, “facce stronze e fasciste”. Appunto come le intendevo anch’io“.

Le facce, i luoghi, il carisma di Pasolini e la sua scelta di veridicità – insieme alla fotografia di Tonino Delli Colli, alle musiche, allo straordinario doppiaggio di Irazoqui con la voce di Enrico Maria Salerno – furono i veri “effetti speciali” di una pellicola realizzata con legittime ambizioni ma risorse relativamente limitate per quei tempi. Quella magica fusione di poesia e realtà rivive oggi nella testimonianza e nel percorso iconografico che Domenico Notarangelo ha ricostruito da anni, attraverso scritti, pubblicazioni – Il Vangelo secondo Matera (Città del Sole, 2008) e Pasolini Matera(Giannatelli, 2013) – mostre, sollecitazioni culturali rivelatesi determinanti per la ricomposizione di quel patrimonio di documenti, memorie, rapporti umani che oggi fanno di Matera un polo della cultura europea.

“Io ricordo e rivedo Pasolini – scrive oggi in questo volume di “Quaderni di Cinemasud – nei giorni in cui dirigeva il film nei Sassi di Matera e sulle rocce brulle della Murgia. Lo vedevo sempre assorto nel lavoro, mai distratto, sempre concentrato. Lo notavo mentre confabulava con Enrique Irazoqui fra una scena e l’altra, in un’atmosfera di massima concentrazione, come se stesse recitando o scrivendo i versi di un poema. Sì, a distanza di tempo riesco a rivivere quell’atmosfera come fosse oggi, tutti noi immersi in una calura spietata e in un silenzio assordante e intorno a noi la storia millenaria di caverne dove fino a pochi anni prima c’era stata la vita, dove una volta si avvertivano i rumori e i ragli degli asini, dove si percepiva l’odore del pane fatto in casa e l’umore forte delle vinacce e il tanfo violento dei letamai e delle muffe, gli strilli dei mocciosi e i lamenti delle nonne. Il popolo dei Sassi portava addosso i panni della miseria, sulle facce della gente erano evidenti i solchi delle rughe e dei patimenti. E c’era la disoccupazione di massa. Quel popolo si offriva alla perfezione a rigenerare le folle che seguivano Gesù nell’osanna e nella passione. A quel popolo Pasolini non concesse benefici economici poiché misero era il compenso, ma diede lustro e identità, mostrandolo agli occhi del mondo nella nudità della sua condizione di vergogna nazionale e di custodi della dignità umana“.

Di quel popolo e di quella storia (davvero – possiamo dire parafrasando La ricotta – una delle più grandi accadute a Matera e nel Sud) e dei protagonisti del film, primo fra tutti Pasolini, le fotografie di Notarangelo ci restituiscono una icastica dimensione di verità e quella corporeità concreta, umana, lontana anni-luce dalla mitografia eppure capace di trasmetterci una sensazione ineffabile di emozione e poesia. La stessa avvertita con intensità dai visitatori della sua mostra sul Vangelo secondo Matteo da Parigi a Bologna, da Roma a San Pietroburgo, da Trieste all’Irpinia che grazie a Pasolini vide nascere il festival del cinema neorealistico “Laceno d’Oro” e che nel suo nome ha ripreso nel cinquantennale del Vangelo il suo nuovo percorso.

La testimonianza in forma di ricordo e di immagini di Domenico Notarangelo, unita in questo volume a cura sua e della poetessa Cetta Brancato ad avvincenti interviste e notevoli saggi, rappresenta un contributo originale e prezioso per far rivivere la magia di quel film straordinario e la realtà di un’epoca consegnata alla Storia. Con una memoria tenace e commossa, intensamente partecipe ma sempre veritiera e concreta, del tutto in sintonia con la sensibilità ed il rigore intellettuale di Pier Paolo Pasolini.

(dall’introduzione a Pasolini. Scatti rubati, “Quaderni di Cinemasud”, 2015)

Dimmi chi ha ucciso Pierpaolo Pasolini. Simona Zecchi, Giornalista e scrittrice, su antimafiaduemila.com il 13 Marzo 2022.

Sul settimanale Oggi, a cento anni dalla nascita, la storia delle bobine sparite del film "Salò"

L’omicidio mai risolto di Pasolini, il cui corpo massacrato è stato rinvenuto la mattina del 2 novembre 1975, trascina con sé da decenni domande senza risposta che continuano a mantenere accesa la richiesta di verità sul movente che ha portato al massacro dello scrittore. E sui reali esecutori. 

Tuttavia sia il processo, che ha visto la condanna del minorenne Giuseppe Pelosi a 9 anni e 7 mesi, sia le quattro riaperture di indagini, culminate tutte in archiviazioni, hanno seminato nel tempo innumerevoli indizi ed elementi che se messi tutti in fila e letti in controluce conducono a un’altra verità rispetto a quella sancita dalla magistratura nelle battute finali del processo dell’aprile del 79.  Una condanna, questa in cassazione, che già a partire dalla sentenza d’appello, non riconoscerà più il “concorso con ignoti” asserito in primo grado. 

Le ultime indagini preliminari aperte nel 2010 hanno raccolto documentazione e lavoro investigativo cospicui: in tutto 7 faldoni. Ma alla fine, nel 2015, il pm Francesco Minisci chiederà l’archiviazione che la GIP confermerà. Centoventi sospettati, diversi esami svolti dal RIS sui reperti e la conseguente estrazione dei DNA per individuarne i profili. Risultato: incerta la datazione dei profili sui reperti e un database del ministero che fa cilecca. E ancora: nuove interrogazioni, diversi approfondimenti costellati da ritrattazioni, omissioni, piste poco approfondite. Oltre alla foto dello scomparso Flavio Carboni su cui gli inquirenti anche si erano focalizzati per i suoi legami emersi nel tempo con esponenti della criminalità organizzata e la destra eversiva. In quei faldoni hanno fatto capolino poi le carte delle inchieste aperte in precedenza dopo il processo. La procura di Roma, infatti, aveva riaperto altre tre volte le indagini tra il 1987 e il 2005. 

In quest’ultimo caso Pelosi, ribaltando le sue precedenti dichiarazioni, rivelò che quella notte con lui c’erano altre persone e che Pasolini non usò mai violenza su di lui. Tanti altri sono gli elementi su fonti aperte che ci consegnano un’altra verità ma è sul versante del movente che i passi fatti risultano nulli. Anche se le testimonianze relative all’espediente utilizzato per condurre lo scrittore all’Idroscalo (il furto delle ultime scene di Salò o le 120 giornate di Sodoma presso lo stabilimento Technicolor) presenti nelle carte dell’ultima inchiesta, uno spiraglio aperto lo lasciano. Ne parliamo con l’ex agente infiltrato della Dea Nicola Longo che a Oggi per la prima volta rivela: «Fui io nel 1976 a recuperare le pizze di quei film attraverso l’aiuto di un pezzo grosso della criminalità ormai deceduto, che per cercare di allentare un po' la mia presa sulla banda, al tempo, mi disse che avrebbero fatto ritrovare le pellicole. Mi portarono il campione di alcune scene sottratte dal Casanova di Fellini (anch’esso tra le bobine rubate nell’agosto del 1975) per provarmi che stavano dicendo il vero. Così acconsentii: fecero ritrovare tutta la merce rubata, comprese le pizze di Salò, nell’armadio blindato da dove erano state rubate». In precedenza, la produzione di Salò aveva deciso non sottostare ad alcun ricatto e di chiudere il film con altre scene di scarto, ma il regista aveva continuato a cercarle con l’aiuto di Pelosi, Sergio Citti e altri fino alla notte del 1° novembre con la sua Alfa GT. L’auto, che ancora tanti dettagli poteva rivelare nelle indagini successive, è stata ritrovata dopo 46 anni: non fu mai demolita come dichiarato invece da familiari e amici. Ormai irriconoscibile e sotto restauro di un privato, è l’ennesima delle verità sottratte a questa storia. 

Di certo, riguardo alle bobine, c’è che il criminale che le fece riconsegnare non chiese nulla in cambio, come ci conferma Longo, l’ex Serpico infiltrato in tante operazioni fuori e dentro l’Italia che risolse la questione su richiesta della società produttrice americana del Casanova. 

Quello che resta fuori da queste infinite code giudiziarie, però, sono le carte sparse tra documenti e lettere che conducono tutte alla pista di Piazza Fontana e della strategia della tensione. Una lettera datata 24 settembre 75 spedita da Pasolini a Giovanni Ventura implicato nella strage e allora in carcere, rivela l’esistenza di un carteggio tra i due pubblicato da chi scrive. In quel carteggio l’ex neofascista indica a Pasolini le correnti politiche della DC dietro le stragi e l’esistenza di un dossier pericoloso.  

Tratto da: Oggi Settimanale, uscito nella settimana del 3-10 marzo (titolo originale "Dimmi chi ha ucciso Pasolini”) 

Nel centenario della nascita, Mattarella ricorda Pasolini: "La sua lezione continua a parlarci". La Repubblica il 5 marzo 2022.  

Il presidente della Repubblica: "La sua voce, che voleva mettere in guardia sulle ambivalenze del progresso e della contemporaneità, che intendeva segnalare i possibili impoverimenti per l'umanità, travestiti da maggiori ricchezze,è tuttora una testimonianza su cui riflettere". 

"La sua voce, che voleva mettere in guardia sulle ambivalenze del progresso e della contemporaneità, che intendeva segnalare i possibili impoverimenti per l'umanità, travestiti da maggiori ricchezze, rappresenta tuttora una testimonianza su cui riflettere". Nel centenario della nascita, il Capo dello Stato Sergio Mattarella ricorda Pier Paolo Pasollini,sottolineando l'attualità del contributo culturale del grande scrittore e poeta che "aveva le sue radici nel Novecento. In quel dopoguerra, in cui si è affermata l'idea di uguaglianza sostanziale, unitamente a quelle di libertà e democrazia. Gli è appartenuta la dimensione dell'impegno civile dell'intellettuale, a servizio della società".

"Pasolini - scrive il presidente della Repubblica in un messaggio - ha impresso un segno importante nella cultura italiana e la sua lezione continua a parlarci con il linguaggio affilato dei suoi scritti e delle sue immagini, con l'assoluta originalità delle sue visioni, con quell'attenzione alle marginalità - cifra distintiva della sua opera - che in lui esprimeva un desiderio di pienezza umana". Secondo Mattarella, siamo di fronte a un "patrimonio di intuizioni e valori che ancora possono aiutarci nel confronto con la modernità, suo rovello, oltre che bersaglio del suo pensiero critico".

"Pochi, come Pasolini - sottolinea Mattarella - si sono conquistati spazi così rilevanti nella letteratura, nel cinema, nel teatro, nella saggistica, nel giornalismo. La poesia è stata forse il tratto espressivo che più lo ha distinto. Il linguaggio e le idee di Pasolini, così come l'intera sua vita, hanno continuamente messo alla prova convenzioni consolidate, provocando polemiche che non di rado gli sono costate emarginazioni ed esclusioni".

I memoir degli amici e il saggio definitivo di Siti. Alessandro Gnocchi il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Paris, Maraini e Ferretti ricordano lo scrittore. Su "Linus" di marzo l'ultima intervista a Pasolini.

Le pubblicazioni e le manifestazioni pasoliniane, in occasione del centenario, sono moltissime. Ecco una piccola scelta, centrata sui libri appena usciti o in uscita. Molto altro si aggiungerà col passare dei mesi. A parte Le lettere e la nuova edizione di Petrolio, i due «eventi» più importanti, l'editore Garzanti ci accompagnerà tutto l'anno con ristampe e altre iniziative. Belle le ristampe anastatiche delle prime edizioni dei romanzi romani, Ragazzi di vita e Una vita violenta. Nell'ambito del memoir ragionato bisogna segnalare i libri di chi ha conosciuto bene Pasolini. E dunque Pasolini personaggio (Interlinea) di Gian Carlo Ferretti, Caro Pier Paolo (Neri Pozza) di Dacia Maraini e Pasolini e Moravia (Einaudi) di Renzo Paris. Quest'ultimo mette a confronto i due scrittori-amici e contiene una interessante, e anche personale, digressione sul rapporto burrascoso tra Pasolini e il movimento studentesco degli anni Settanta. Paris non si nasconde dietro a un dito e ci mostra anche la rivalità tra gli ex amici dello scrittore nel rivendicarne la memoria e le idee. Nella pura saggistica, il primato, come importanza, spetta al Walter Siti di Quindici riprese (in aprile per Rizzoli). Siti raccoglie per la prima volta cinquant'anni di studi pasoliniani, inclusi i saggi «infedeli» al maestro con affondi sul mito di Pasolini. Sono oltre quattrocento pagine. Il tutto confezionato dal curatore dell'opera completa di Pasolini per i «Meridiani» Mondadori. Tra le ristampe, con o senza aggiunte, segnaliamo Morire per le idee (Bompiani) di Roberto Carnero, un long seller che è un ottimo inizio per il neofita, e la biografia di Barth David Schwartz Pasolini Requiem (La nave di Teseo). Carocci prepara nuovi saggi di carattere accademico ma ben leggibili come «Il Decameron» di Pasolini, storia di un sogno di Carlo Vecce, uscito da poco. Gradevole, e adatto non solo ai ragazzi, il divulgativo Pier Paolo Pasolini. Il poeta corsaro (La nuova frontiera): vi troverete ampie e splendide citazioni da Pier Paolo Pasolini. Tra le riviste, il numero di marzo di Linus dedica la copertina a Pasolini. Contiene, tra molte altre cose, una lunga intervista a Walter Siti, l'ultima intervista a Pasolini di Furio Colombo, un poema di Sandro Veronesi e splendide illustrazioni.

Caro Pasolini mi hai insegnato a essere libero. Massimo Recalcati su La Repubblica il 5 Marzo 2022.

Pier Paolo Pasolini con la madre Susanna Colussi 

Cento anni fa nasceva a Bologna uno dei più grandi intellettuali italiani del Novecento. Il ricordo di un “allievo” che lo racconta in un breve saggio appena uscito in libreria.

Ho incontrato il testo di Pasolini dopo aver incontrato da ragazzo il suo corpo morto, ferocemente assassinato. 

Per la mia generazione Pasolini è stato sinonimo di anticonformismo, libertà intellettuale, pensiero critico. Il personaggio pubblico, il divo, l’intellettuale, il poeta, l’omosessuale appariva fuori dagli schemi, introverso e inassimilabile al pensiero dominante. Era sufficiente quello per provocare nelle nuove generazioni simpatia spontanea e ammirazione, che spesso però prescindevano dalla conoscenza della sua opera. 

Cento anni di PPP. Pier Paolo Pasolini, l’ultimo scrittore italiano del ‘900 e il primo dell’epoca nuova. Eraldo Affinati su Il Riformista il 5 Marzo 2022.  

Pier Paolo Pasolini, che compie idealmente cento anni proprio oggi, è stato l’ultimo scrittore italiano del Novecento e il primo dell’epoca nuova: credo sia questa la ragione che spiega il suo persistere e prosperare nell’immaginazione collettiva non solo italiana. Aveva infatti, a partire dalla tesi di laurea su Giovanni Pascoli, profonde radici letterarie, coltivate e bruciate, un’agguerrita formazione culturale e financo filologica; inoltre i nuclei di riferimento da cui pareva avvinto furono sempre quelli dell’intellettuale moderno: la responsabilità sociale, lo sviluppo del senso critico, la tensione partecipativa che lo spingeva oltre la pagina, il palco e la pellicola, lasciandolo infine tramortito e solo.

Allo stesso modo, senza rinunciare alla tradizione da cui discendeva, volle incidere sulla propria carne viva il tema essenziale del nostro tempo: la dissoluzione dell’opera. Prima della rivoluzione digitale, che ha davvero sentenziato la fine dell’aura dell’oggetto unico preconizzata già nel 1936 da Walter Benjamin, frantumando in Rete i talenti e le forme che li rappresentano, Pasolini è fuoriuscito, come sbalzato, con mossa radicale e tragica, dai generi artistici pure praticati: se li è messi alle spalle, un articolo, un libro e un film dopo l’altro, deponendo a terra gli scudi per offrirsi a petto nudo, coi jeans stracciati e la maglietta sporca, al sacrificio supremo. Ostia come Hostia, in un cristianesimo sepolto e trafugato, secondo la suprema intuizione interpretativa di Giuseppe Zigania. Non a caso risultano incongrue per lui le esclusive e soffocanti definizioni di romanziere, poeta e regista. Ragazzi di vita e Una vita violenta, in quanto manufatti artigianali, non hanno retto alla distanza, scoprendo sempre di più la loro matrice artificiale. Anche Amado mio e soprattutto Petrolio, il capolavoro narrativo, non avrebbero la forza che hanno se a comporli fosse stato un altro: valgono perché sono stati scritti col sangue dopo aver passato il coltellino sulla piaga. Quando li leggi ti viene in mente lui. Tutta la vita che c’è dentro ancora pulsa e zampilla alla maniera di un geyser espressivo.

In fondo la stessa cosa potremmo dire per il teatro, per i saggi (Passione e ideologia, Scritti corsari, Lettere luterane, Descrizioni di descrizioni ne fanno il critico-scrittore più importante della sua generazione e soprattutto la poesia, pensando, ad esempio, al Pianto della scavatrice, uno degli innegabili vertici lirici, compreso nelle Ceneri di Gramsci: “Solo l’amare, solo il conoscere /conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto.” Quest’uomo, di cui tanto sentiamo la mancanza, ha saputo timbrare con l’inchiostro rosso, come pochi altri, i luoghi di Roma nei quali è transitato: “ma giù, a viale Marconi, / alla stazione di Trastevere, appare / ancora dolce la sera. Ai loro rioni, / alle loro borgate, tornano su motori / leggeri – in tuta o coi calzoni /di lavoro, ma spinti da un festivo ardore / i giovani, coi compagni sui sellini, / ridenti, sporchi.” E qui c’è tutto. Non dobbiamo aggiungere altro. Dove egli riuscì ad essere integralmente se stesso, come ormai tutti gli riconoscono, è nel cinema, direi specialmente all’inizio e alla fine: ogni volta che rivediamo Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo e quell’indimenticabile gioiellino di Che cosa sono le nuvole? con Modugno, Totò, Silvana Mangano e Ninetto Davoli in stato di grazia, comprendiamo la natura del genio che abbiamo ancora di fronte: come se in questa irripetibile sequenza visiva, nella frontalità folgorante dei visi, dei paesaggi e delle parole, fra la pittura veneta e le macerie dell’Urbe, Pasolini avesse compendiato il carattere italiano, superando – ora si capisce bene – ogni limitante schema sociologico.

Questo è accaduto perché ha saputo fermare per sempre con la telecamera l’energia vitale che ci contraddistingue. In una suprema chiave pedagogica, spirituale e non operativa, l’autore friulano ha coagulato la sua poetica. A ben pensare la corsa affannosa degli apostoli che stanno dietro al Nazareno, sullo sfondo della Palestina ricostruita sui Sassi di Matera, è la stessa dei ragazzi di borgata in giacca e cravatta (la camicia bianca si gonfia come una vela dietro le spalle di Ettore Garofolo, a Guidonia) che passano veloci sotto agli acquedotti imperiali. Prima del testamento finale, lugubre, solenne e ultimativo, di Salò o le 120 giornate di Sodoma, una delle riflessioni più intense sulle logiche di potere che mostrano in azione il male umano universale dentro la dimensione storico-politica del fascismo. Eraldo Affinati

Il dibattito di 44 anni fa. Perché Pier Paolo Pasolini nel’68 era contro gli studenti: lo scontro con Foa e Petruccioli. Redazione su Il Riformista il 4 Marzo 2022.  

Il 1 marzo del 1968 a Valle Giulia, a Roma, a due passi dalla facoltà di Architettura, ci fu uno scontro violentissimo tra gli studenti e la polizia. Nacque quel giorno il movimento studentesco italiano. E nacque il ‘68. Qualche mese dopo Pier Paolo Pasolini scrisse una poesia di critica feroce agli studenti e di difesa dei poliziotti. Il 17 giugno nella redazione dell’Espresso si svolse una tavola rotonda con lo stesso Pasolini, Vittorio Foa, colonna della Cgil, e Claudio Petruccioli, capo dei giovani del Pci. Coordinava il condirettore del settimanale Nello Aiello. Ecco il resoconto quasi integrale della discussione, (e nella pagina accanto la poesia della quale si discuteva). Sono passati 44 anni, ma vedrete che è una lettura interessante.

AIELLO. La poesia di Pasolini chiama in causa il movimento studentesco, la classe operaia e il partito comunista. Il movimento studentesco ha risposto con la citazione dal “Che fare?” di Lenin. Sentiamo ora l’opinione degli altri.

FOA. La poesia non mi piace, la trovo molto brutta. Però essa è anche interessante: non tanto per ciò che dice sugli studenti o sul movimento operaio, ma per ciò che rivela su Pasolini. Pasolini ha una visione immobilistica della lotta di classe e del movimento operaio. Non capisce gli studenti appunto perché non sono oggi gli operai: la classe operaia non è più quella della metà degli anni ’50, è un’altra cosa, completamente diversa. Pasolini parla di operai che non sanno l’inglese e il francese, e al massimo si danno da fare per imparare qualche parola di russo; io vorrei ricordare che oggi, nelle grandi città del Nord, migliaia e migliaia di operai giovani vanno a scuola la sera e imparano le lingue, apprendono le tecniche, studiano le discipline umanistiche. (…)

PETRUCCIOLI. Più che non capire la classe operaia, a mio parere Pasolini la ignora. Nel pensiero di Pasolini la classe operaia non c’è e non c’è mai stata. C’è una divisione dell’umanità in ricchi e poveri, in gente che puzza o non puzza: è sintomatico in questo senso la parte della poesia dedicata ai poliziotti. Gli sfugge un fatto importante, cioè questo: che il ruolo politico degli strati sociali non è legato alla loro “miserabilità” ma alla loro collocazione concreta nel processo produttivo e quindi alla possibilità di acquisire una coscienza rivoluzionaria.

Per lo stesso motivo Pasolini sbaglia il giudizio sugli studenti, i quali non si possono giudicare dal loro status d’origine, dal fatto che sono in gran parte figli di borghesi, ma solo dal ruolo che assumono oggi nella dialettica sociale e dai loro concreti comportamenti. Insomma Pasolini concepisce le classi sociali come entità poetiche contrapposte: i Poveri e i Ricchi. Vede la classe operaia sempre in chiave populista, il che non gli consente di capire neppure gli studenti. È vero, il movimento studentesco è composto di gente che in gran parte è di estrazione sociale borghese, ma ciò dimostra appunto che l’egemonia borghese sulla società attuale è in crisi. A sua volta il movimento operaio organizzato cerca di acquistare un’egemonia su questi strati che abbandonano la borghesia, ma ci riesce solo in parte.

PASOLINI. Tutto quello che avete detto a proposito della mia poesia dipende dal fatto che si tratta d’una poesia brutta, cioè non chiara. Questi brutti versi io li ho scritti su più registri contemporaneamente: e quindi sono tutti “sdoppiati” cioè ironici e autoironici. Tutto è detto come tra virgolette.

AIELLO. Allora, niente di quello che c’è in questa poesia va preso alla lettera, né il pezzo sui poliziotti, né quello sugli operai…

PASOLINI. Il pezzo sui poliziotti è un pezzo di “ars retorica”, che un notaio bolognese impazzito potrebbe definire una “captatio malevolentiae”: le virgolette sono perciò quelle della provocazione. Tra virgolette sono anche, per esempio, i due passi riguardanti i vecchi operai che vanno la sera in cellula a imparare il russo, e l’evoluzione del vecchio, acciaccato Pci. A parte il fatto che questa figura di operaio e di partito comunista corrispondono anche alla realtà, qui in questa mia poesia, sono figure retoriche e paradossali: provocatorie. Foa mi dice che la classe operaia non è più quella che io descrivo. Ma io (provocazioni a parte) credo che anche Foa si sbagli, si fa delle illusioni. La classe operaia è evidentemente cambiata, ma si tratta di piccole minoranze del Nord. Qui a Roma, per quello che mi risulta, non è cambiato quasi nulla rispetto agli anni ’50, né nei luoghi di lavoro né nelle cellule comuniste. Foa mi accusa di immobilismo. Potrebbe darsi che io abbia assunto una specie di fittizio immobilismo come forma, sempre provocatoria, di discussione polemica. Mi spiego meglio: il vero bersaglio della mia collera non sono tanto i giovani, che ho voluto provocare per suscitare con essi un dibattito franco e fraterno; l’oggetto del mio disprezzo sono quegli adulti, quei miei coetanei, che si ricreano una specie di verginità adulando i ragazzi. Pubblico questi brutti versi per significare quanto segue: ho passato la vita a odiare i vecchi borghesi moralisti, e adesso precocemente, devo cominciare a odiare anche i loro figli, non robot ma ribelli, detraendo dal loro numero solo quei pochi che avranno il mio disgraziato destino, e forse un destino ancora peggiore, dato che i loro compagni di vita moltiplicheranno per mille il moralismo dei loro padri…

FOA. La poesia una volta pubblicata, è una cosa che va per conto suo, e chi la legge non sa nulla dei canoni interpretativi del suo autore. La sua poesia, Pasolini, cade in mezzo a una determinata società e in un determinato momento: un momento nel quale i giovani, nonostante le sue illusioni, sono in gravissime difficoltà. Parlo degli studenti e parlo della gioventù operaia: a mio giudizio è in corso un’operazione congiunta per isolare il movimento giovanile. È in atto un grosso sforzo che ricorre a tutti i mezzi: non escluso il tentativo, per fortuna fallito, di mobilitare contro i giovani le organizzazioni operaie e sindacali. È un pogrom, quello che si prepara, non necessariamente di sangue, ma un pogrom. Ebbene, in tutto questo concorso di forze che cerca d’isolare i giovani mancava la voce d’un poeta. E la voce del poeta è venuta, per accusarli di essere in malafede, d’essere dei piccolo-borghesi. Come può sostenere, Pasolini, che Valle Giulia è stato un episodio di lotta di classe rovesciata? Che importanza ha se i poliziotti sono poveri e provengono da tuguri contadini? I soldati del Governo Provvisorio che, nel luglio del 1917, cacciarono in galera i bolscevichi, li bastonarono e li costrinsero ad emigrare, non erano anch’essi dei poveri contadini con la divisa puzzolente in lotta contro i borghesi della direzione bolscevica?

AIELLO. A me pare che la poesia sia perfettamente in linea con la precedente produzione letteraria di Pasolini. Il suo idolo, la sua materia poetica, non è la classe operaia ma il sottoproletariato. Lei, Foa, è d’accordo?

FOA. Ma anche il sottoproletariato cambia, Pasolini dovrebbe saperlo. Quei giovani operai del Nord che vanno a scuola, e che ancor prima degli studenti hanno affrontato la polizia, a Milano, a Torino, a Valdagno, quegli operai che occupano da venti giorni le ferriere di Bari sono in buona parte ex sottoproletari meridionali. Sono coscienti che la loro condizione di sfruttati pone un problema di classe e di potere. I giovani d’oggi hanno sempre presente l’esigenza d’una riforma radicale delle strutture sociali in cui vivono. Sono giovani studenti e sono giovani operai…

PETRUCCIOLI. È in corso una manovra pericolosa: basta guardare i giornali della grande borghesia. Io mi fido dei giornali della grande borghesia: individuano subito qual è il pericolo principale per la classe che rappresentano. E che cosa stanno facendo oggi questi giornali? Fanno di tutto per evitare l’incontro tra il movimento studentesco e le organizzazioni operaie, presentando di volta in volta gli studenti come dei borghesi o come dei cinesi. Perciò la poesia di Pasolini è sbagliata e inopportuna: se l’obiettivo dei nostri avversari è di dividere le nostre forze, allora dobbiamo chiarire subito qual è l’obiettivo nostro: operarla questa saldatura, ottenerlo questo incontro.

AIELLO. Pasolini, lei è stato definito “il poeta del progrom”. Come si difende?

PASOLINI. Che la mia poesia venga fraintesa non m’importa niente. Fraintesa o no, intanto noi siamo qui a parlare, e in termini non canonici. Almeno io, voi non so. Nella mia poesia io dico: voi studenti, siete figli di papà, e vi odio come odio i vostri papà. Ma questo perché lo dico? Ecco: fino alla mia generazione compresa, i giovani avevano davanti a sé la borghesia come un oggetto, come un mondo separato. Potevamo guardare la borghesia, così, oggettivamente ci era offerto dallo sguardo posato su di essa da ciò che non era borghese: operai o contadini. Per un giovane di oggi la cosa si pone diversamente: per lui è molto più difficile guardare alla borghesia oggettivamente attraverso lo sguardo di un’altra classe sociale. Perché? Perché la borghesia sta trionfando, sta rendendo borghesi gli operai da una parte e i contadini dall’altra. Insomma, attraverso il neo-capitalismo la borghesia sta per diventare la società stessa, sta per coincidere con la storia del mondo.

PETRUCCIOLI. Come si fa, oggi, a dire che la borghesia tende a coincidere con la storia del mondo? Guardiamo il Vietnam e i popoli del Terzo mondo, la Francia e la classe operaia europea, i neri d’America, gli studenti. Sono queste le forze che attualmente fanno la storia con le loro idee e le loro lotte: e sono contro la borghesia.

AIELLO. E lei, Foa? Pensa anche lei che il neocapitalismo abbia, come Pasolini, un’enorme capacità di assorbire e neutralizzare le energie e le coscienze?

FOA. Sì, lo penso anch’io, e so che la scuola è uno degli strumenti a disposizione del neocapitalismo, forse il più importante. Ma il movimento studentesco e quello operaio lottano contro questa situazione. È qui la vera novità di oggi rispetto a ieri. Oggi noi assistiamo a un processo rivoluzionario, o almeno ne cogliamo i sintomi, iniziali ma chiarissimi; e vediamo che a questo processo la classe operaia e il movimento studentesco partecipano concordemente. Quando gli operai francesi occupano la fabbrica, chiudono a chiave il direttore (non perché sia cattivo, anzi dicono che è un brav’uomo e non ha nessuna colpa a incarnare il potere), innalzano la bandiera rossa e suonano l’Internazionale, ci troviamo di fronte a una situazione che non ammette dubbi. Lei, Pasolini, mi chiami pure passionale: ma a questo punto io gli uomini li giudico a seconda se stanno da una parte o dall’altra.

PASOLINI. No, lasciatemi chiarire. Io sono decisamente dalla parte degli operai francesi che hanno occupato la fabbrica e chiuso a chiave il direttore. Ma mentre l’operaio quando si muove ed occupa una fabbrica fa la rivoluzione, lo studente, quando occupa una università, fa soltanto la guerra civile. Bisogna che abbiamo ben chiara la distinzione tra le due cose. Per questo io dico agli studenti: «State attenti, tra voi e gli operai la concordia è impossibile. Aceto e olio non si mescolano». Ho assistito il giorno 8 maggio a un indimenticabile duetto Scalzone-Longo (Oreste Scalzone leader degli studenti e Luigi Longo, segretario del Pci, ndr). È noto che in questi ultimi tempi gli studenti hanno capito che bisogna ricordarsi degli operai e sono andati a manifestare a braccetto. Cosa che ha avuto l’unico effetto di dare delle insincere ispirazioni ai titolisti dell’“Unità” e di dimostrare quanta differenza ci sia tra la faccia e il corpo di uno studente e la faccia e il corpo d’un operaio.

AIELLO. Sarebbe forse opportuno che Pasolini precisasse meglio perché la rivolta degli studenti si trasforma in guerra civile e non in rivoluzione.

PASOLINI. Perché la massa degli studenti “dissenzienti” vogliono fare le riforme in un giorno anziché in un decennio, e vogliono che siano mille anziché una. Questi nobilissimi Pierini non vogliono accettare pedissequamente il sistema, pretendono di comandarlo. E questo che cosa significa? Significa che la borghesia si schiera nelle barricate contro se stessa, che i “figli di papà” si rivoltano contro i “papà”. La meta degli studenti non è più la rivoluzione ma la guerra civile. Ma, ripeto, la guerra civile è una guerra santa che la borghesia combatte contro se stessa…

FOA. Pasolini, mi permetta di rivolgerle, ancora una volta, una critica personale. Lei si lamenta dello strapotere presente e futuro della borghesia, teme i mostruosi inganni del neocapitalismo che cattura e corrompe tutti. Ma contemporaneamente scrive una poesia contro gli studenti e la presenta come una lirica “di provocazione”, “di autocritica” e così via. Vuole che si discuta di questa poesia, che ci si scagli contro di essa, purché se ne parli. Critica se stesso, sollecita la critica degli altri contro di sé, si contraddice. Con quale risultato? Di valorizzare il suo prodotto in termini di mercato. Questo per quanto riguarda la parte commerciale. Dal punto di vista politico la sua ode rappresenta un aiuto offerto agli avversari del movimento studentesco, un aiuto pesante. Perciò io direi che prima di scagliarsi contro il sistema, bisogna vedere fino a che punto se ne è prigionieri. Il primo esperimento va fatto di fronte allo specchio.

PASOLINI. Mi è difficile rispondere. Dovrei fare un processo a me stesso, stendere un’autoconfessione. Dovrei spargere le viscere su questo tavolo. La cosa è molto complicata. Per quanto mi riguarda, non mi ero reso affatto conto, fino a ieri, del valore dirompente di questa ode, né avevo pensato a valorizzarla. Tornando agli studenti, penso che solo se la loro autocritica sarà completa, severa, rigorosa, giusta, allora il loro movimento potrà affiancarsi veramente agli operai.

AIELLO. Vogliamo vedere allora se e fino a che punto il movimento studentesco l’ha fatta, questa autocritica? Lei, Petruccioli, cosa ne pensa?

PETRUCCIOLI. Secondo me tutti i problemi che abbiamo discusso finora sono presenti all’attenzione del movimento studentesco. Tranne qualche piccola frangia, nessuno nel movimento afferma che la rivoluzione prima la facevano gli operai ed oggi la fanno gli studenti. Quello che si ricerca è la via originale di una rivoluzione socialista che comprenda la classe operaia e i suoi alleati, tra cui gli studenti progressisti.

PASOLINI. Io sbaglierò, la mia sarà una visione poetica, ma mi pare che questo non sta avvenendo. In Francia, da una parte vedo gli operai, dall’altra gli studenti. Con qualche caso isolato di contaminazione.

AIELLO. Vorrei chiedere a Petruccioli, che è un comunista, che effetto gli ha fatto leggere sulla “Pravda”, due settimane fa, una dura scomunica degli studenti ribelli di Parigi, dei seguaci di Marcuse e così via.

PETRUCCIOLI. Ho già commentato sull’“Unità” l’articolo della “Pravda”. Il suo errore fondamentale era di non tener conto del clima politico in cui cadeva, del fatto che proprio in quei giorni, ad esempio, il “Corriere della Sera” pubblicava grossi titoli come “Operai contro studenti in Francia”. Ma anche se non ci fossero episodi di questo genere, noi comunisti dobbiamo lavorare per rendere possibile la saldatura fra operai e studenti. In Italia stiamo lavorando in questa direzione.

PASOLINI. Allora, voi comunisti, siete d’accordo con me che esiste una differenza sostanziale, quasi di natura, tra studenti e operai?

PETRUCCIOLI. Il movimento operaio organizzato ha mezzo secolo di vita, il movimento studentesco è appena nato. C’è una differenza di linguaggio, di tradizione oltre che di origine sociale e di robustezza teorica.

FOA. Non c’è soltanto questa differenza storica di cui parla Petruccioli, c’è anche un’azione dell’avversario di classe, specifica, costante, insistente, demagogica, per operare la frattura tra studenti e operai. La sua ode, Pasolini, si unisce al coro.

PASOLINI. Ma io non seguo nessuna tattica politica. Se sbaglio non me ne importa nulla. Non sono mica un uomo politico, io.

AIELLO. Ma lei, Pasolini, non diceva poco fa che tutta la sua opera in versi è poesia politica?

Pasolini. È la politica di un non-politico, di uno scrittore non iscritto a partiti.

PETRUCCIOLI. Ma insomma, che cosa vuol dire Pasolini con la sua poesia? Che gli studenti devono uccidersi come movimento studentesco? Che il piccolo-borghese deve negare il suo essere piccolo-borghese per diventare rivoluzionario? Su questa esigenza siamo tutti d’accordo. Cominciamo allora a vedere che cosa fanno in realtà gli studenti. Il loro slogan principali è “No alla scuola dei padroni”. Essi cercano il rapporto con la classe operaia, vogliono una radicale trasformazione della società borghese, un superamento della civiltà occidentale. Ecco ciò che gli studenti fanno, ecco ciò che sono.

PASOLINI. Questa è la loro volontà. Questo è quello che vogliono. Quello che sono in realtà è molto diverso: sono dei borghesi, dei figli di papà rimasti tali e quali ai loro padri. Parlano come i loro padri, hanno un senso legalitario della vita, sono profondamente conformisti. Vorrei comunque rivolgervi una domanda: che differenza c’è, secondo voi, tra uno studente e un intellettuale? Per me sono la stessa cosa. E sarebbe l’ora che gli studenti smettessero di autodefinirsi studenti. Che interesse hanno? Si chiamino “intellettuali”. Tutti sanno che l’università, in Italia, è un’istituzione classista. Chi si definisce studente fa sorgere, immediatamente, il sospetto d’essere l’esponente di una classe retriva.

PETRUCCIOLI. Mi sembra un po’ inutile mettersi a discutere sulle parole. A Roma, nei giorni successivi ai fatti di Valle Giulia, un rappresentante del movimento studentesco tenne una specie di comizio rivolto ai poliziotti. «Noi vogliamo un’università in cui possano andare anche i vostri figli», questo era il succo del suo discorso. Era un appello significativo. A mio parere, nella università, come nella società, l’integrazione tra studenti e operai non è affatto impossibile. Se pensassimo che è impossibile, allora dovremmo esortare gli studenti a mettersi da parte, ad abbracciare la causa della borghesia che li ha messi al mondo, senza creare confusione. Dovremmo ricacciarli indietro. Finiremmo per creare una nuova categoria di “indesiderabili”. Non più i “dannati della terra”, ma i dannati della nascita.

"Quando Pasolini mi chiamò: vieni subito a girare Medea". Sara Frisco il 4 Marzo 2022 su Il Giornale.

Lo scenografo, sul set con il regista per nove dei suoi film, lo ricorda in una mostra a Los Angeles: "Gli devo tutto".

Los Angeles. «Ci siamo sempre dati del lei, ma con Pasolini c'è stato un rapporto di collaborazione e amicizia che andava al di là di quella formalità. Gli devo la mia carriera. Pasolini è stato il mio faro». Lo scenografo Dante Ferretti è stato a Los Angeles per l'inaugurazione della mostra Conoscenza carnale: I film di Pier Paolo Pasolini (fino al 12 marzo) organizzata da Bernardo Rondeau nel nuovo museo dell'Academy costruito da Renzo Piano e inaugurato lo scorso settembre. Ferretti ha fatto ritorno nella capitale mondiale del cinema dieci anni dopo aver vinto, insieme alla moglie Francesca Lo Schiavo, il suo terzo Oscar per la scenografia di Hugo Cabret di Martin Scorsese, e venti anni dopo un'altra rassegna che lo vedeva protagonista. «Allora Cinecittà e l'Academy realizzarono una bellissima mostra dei miei disegni».

Vent'anni fa era già uno dei più richiesti scenografi al mondo, ma la sua carriera è iniziata molto prima, negli anni Sessanta, proprio con Pasolini.

«Ho iniziato a 17 anni, facendo l'assistente di Luigi Scaccianoce, bravissimo scenografo che però aveva l'abitudine di prendere più commesse insieme. Un giorno mi disse, dobbiamo fare un film con Pasolini a Matera. Era Il Vangelo secondo Matteo. Mi avvertì: guarda che ci sarò poco. Pasolini mi conobbe così, prima a chiedermi dov'era lo scenografo e poi a trattare direttamente con me. Così io, a poco a poco, cominciai a prendere qualche iniziativa personale».

Poi vennero Uccellacci e Uccellini con Totò e Ninetto Davoli, e L'Edipo Re.

«Stessa trafila. Lo scenografo ufficiale era Scaccianoce ma sul set c'ero quasi sempre solo io e così mi sono conquistato la sua fiducia».

E quella di Fellini.

«Scaccianoce fu chiamato per il Satyricon e io fui di nuovo ingaggiato come assistente. Scaccianoce in questo caso c'era sul set ma litigò con Fellini, che invece mi prese in simpatia, mi chiamava Dantino».

Poi venne il suo primo film da titolare, fu Pasolini in persona a chiamarla, per Medea.

«Stavo per andare al mare con un amico. Uscii di casa ma tornai indietro perché avevo scordato qualcosa. Squillò il telefono. Pasolini mi voleva subito sul set di Medea, in Cappadocia. Invece di andare al mare volai a Istanbul e da lì raggiunsi il set».

Dove c'erano Pasolini e la Callas.

«Pasolini mi disse: fra quattro ore c'è in programma questa scena con la Callas, su un carretto. Ma il carretto non esisteva e io avevo quattro ore per inventarmi qualcosa. Chiesi aiuto a tutti quelli che conoscevo sul set. Mi portarono della stoffa, del cuoio. Alla fine il famoso carretto era pronto, un'ora prima di girare».

Fu l'inizio di una folgorante carriera che fra gli anni Ottanta e Novanta assunse un rilievo internazionale.

«Fui chiamato da Jean-Jacques Annaud per Il Nome della Rosa. Poi da Terry Gilliam per Le avventure del Barone di Munchausen».

E poi da Martin Scorsese, Neil Jordan, Tim Burton e negli anni del 2000 arrivò la consacrazione agli Oscar. Nel 2005 per The Aviator di Scorsese, nel 2008 per Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street di Burton, e nel 2012 per Hugo.

«Abbiamo sei statuette su una mensola dell'Ikea, tre mie e tre di mia moglie Francesca (Lo Schiavo, set decorator, ndr). Insieme a cinque Bafta, altrettanti David di Donatello, 14 nastri d'argento. Nessuno però mi ha ancora premiato con un milione di dollari, ora lancio un appello».

A proposito di Oscar, cosa ne pensa di È stata la mano di Dio di Sorrentino?

«Mi è piaciuto moltissimo, a me Sorrentino piace molto e quel film mi ricorda la mia infanzia a Macerata, nelle Marche. Anche io sognavo di fare cinema, non sapevo cosa avrei potuto fare, però. Fu un amico scultore a suggerirmi la scenografia. Così feci l'Accademia di Belle arti a Roma e poi iniziai a fare pratica sui set».

Con Pasolini girò in tutto nove film compreso l'ultimo, Salò o le 120 giornate di Sodoma, la cui première si svolse dopo la sua morte.

«Girammo vicino a Parma, in una grande cascina dove avevamo ricostruito tutti gli interni. Poi Pasolini tornò a Roma per fare vedere il suo film e quella notte, in quella spiaggia di Fiumicino, successe quel che successe. Lo seppi la mattina dopo, ero con Elio Petri, passeggiavamo sul Lungotevere quando, passando davanti a un bar apprendemmo della sua morte, da una televisione accesa. Andammo all'obitorio e l'avvocato della famiglia di Pasolini mi chiese di andare sul posto con un metro per prendere le misure sulla scena del delitto. Lo feci, fu dura».

Lo sguardo a destra di Pasolini. Lorenzo Pallotta su Culturaidentità su Il Giornale il 5 Marzo 2022.

Pasolini fu intellettuale contraddittorio, tanto di sinistra quanto di destra, tentare di dare coerenza univoca al suo pensiero significa necessariamente mutilarlo.

Il 5 marzo 1922, precisamente cento anni fa, nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini: poeta, sceneggiatore, attore, regista, scrittore e drammaturgo, è stato uno dei più grandi intellettuali del secondo dopoguerra.

Un discorso sul suo pensiero deve partire da un fondamentale presupposto: il fatto che Pasolini sia stato un brillante intellettuale non significa che le sue idee non possano essere contraddittorie. Anzi, tentare di dare coerenza univoca al pensiero di un personaggio del suo calibro significa necessariamente mutilarne la figura e limitare la portata rivoluzionaria della sua produzione artistica. Egli andò oltre le vecchie suddivisioni e appartenenze ideologiche e fu proprio questo a renderlo così geniale. 

In prima istanza v’è quindi da criticare l’erroneo ritratto che mostra un Pasolini intellettuale unicamente di sinistra. Egli, infatti, fu sì comunista ma con toni fortemente antimodernisti, il suo marxismo fu eretico e reazionario ed il suo pensiero fu sempre marcatamente conservatorista e legato ad un populismo rurale. Per quanto riguarda la storia del poeta, poi, ci si dimentica troppo spesso di alcuni elementi focali, che non poterono fare a meno di porlo in una posizione critica rispetto al PCI: l’uccisione di suo fratello, partigiano, da parte di partigiani comunisti e l’abbandono subito da parte del Partito, che lo cacciò, rinnegandolo, non appena si scoprì la sua omosessualità. Passata in sordina è anche la sua denuncia del potere dilagante della sinistra, astutamente camuffatasi come candida resistenza liberatrice.

La verità è che Pasolini fu intellettuale di sinistra tanto quanto lo fu di destra. A tal proposito egli dedicò uno dei suoi primi articoli all’entusiastico racconto di un viaggio fatto con gli universitari fascisti a Weimar e nella sua ultima poesia parlò di un giovane fascista a cui suggerì d’amare la tradizione di una “destra divina” fondata su tre principi cardine: difendere, conservare e pregare. Inoltre il poeta disapprovò nel’68 la “falsa contestazione dei giovani borghesi, figli di papà coccolati dalla cultura dominante di sinistra”, difendendo i poliziotti, spesso poveri e provenienti dalle periferie. Egli si pose infatti come il vero cantore dei sobborghi, delle campagne, della ruralità, a tutela dei molti particolarismi culturali di cui l’Italia è sempre stata ricca, osservando con lucida preoccupazione il nascente capitalismo consumistico, che tutto stava inglobando e uniformando già cinquant’anni fa. Non a caso la sua poesia nacque nella lingua dialettale materna, il friulano, e nella sua innovativa antologia sulla Poesia dialettale del Novecento (1952) egli elesse i dialetti come vera lingua “patria”, da non opprimere nelle scuole e da non relegare al livello basso della comunicazione.

Ad agevolare lo storico accostamento dello scrittore unicamente alla sinistra è stato il fatto che la destra si è accorta tardi di Pasolini e solo dopo averlo a lungo frainteso e contestato. Per questo motivo, oggi più che mai, è importante ricordare che parlare di Pasolini vuol dire anche parlare di temi cari alla destra, scardinando un ricordo parziale ed errato che troppo a lungo è stato tramandato del suo pensiero. Scriveva Pasolini: “L’Italia non ha avuto una grande Destra perché non ha avuto una cultura capace di esprimerla”. Appare dunque naturale domandarsi se la Destra riuscirà oggi a raccogliere l’invito che il poeta gli faceva più di mezzo secolo fa, comprendendo l’importanza della nascita d’una propria cultura e identità.

Pasolini 100, militante nella terra promessa. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Marzo 2022.

«La passione non ottiene mai il perdono». Pier Paolo Pasolini fu ucciso per mano del «ragazzo di vita» Pino Pelosi nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975 all’idroscalo di Ostia. Aveva 53 anni. Regista, poeta, polemista, Pasolini scompigliava certezze ideologiche e appartenenze politiche. Neppure a sinistra era a suo agio, fin da quando la Federazione comunista di Pordenone lo espulse nel 1949 per «indegnità morale» attribuita alla sua omosessualità e «alle deleterie influenze dei vari Gide e Sartre». Pier Paolo aveva perso il fratello minore Guido, partigiano trucidato dai «rossi» nell’eccidio di Porzûs del 1945, e fu laconico nella risposta ai burocrati del PCI: «Malgrado voi, resto e resterò comunista». Nato a Bologna il 5 marzo 1922, visse durante la guerra a Casarsa della Delizia con Guido e con l’amatissima madre Susanna Colussi, che era originaria della cittadina del Friuli, «un paese di temporali e di primule», come recita il titolo di una sua raccolta.

Si forma allora l’autore eretico, corsaro o luterano, straniero talora finanche a se stesso, che coltiva il diritto allo scandalo proprio della frase evangelica Necesse est enim ut veniant scandala (Matteo 18, 7). È l’opportunità di creare un inciampo nelle situazioni stagnanti, cara all’autore del Vangelo secondo Matteo (1964). Pasolini tenacemente assunse posizioni controcorrente sulla scuola, l’omologazione televisiva e la fine della civiltà contadina, il ‘68 dei «figli di papà», il Palazzo e la Democrazia cristiana per cui invocò il «processo». Il suo approccio era tanto metaforico quanto concreto, come se davvero egli guardasse alla Terra vista dalla Luna, titolo di un breve film con Totò e Ninetto Davoli (1967). «Nessun mondo nuovo senza un nuovo linguaggio», ammoniva negli stessi anni la poetessa austriaca Ingeborg Bachmann, che giunge in Italia nel 1953 della morte del lucano Rocco Scotellaro, e prende a viaggiare nel Mezzogiorno - da Ischia a Matera, alla Puglia - per scandagliarne la sotterranea utopia. Pasolini si affratella a quel mondo altro, grazie appunto al Vangelo, girato a Matera, Barile, nel Castello di Lagopesole, oltre che in varie località pugliesi: Massafra, Gioia del Colle, Manduria, Ginosa, Barletta, Santeramo in Colle. Nei Sassi il poeta con la macchina da presa individua i caratteri di sobrietà e sacertà di una «nuova» Terra promessa, che non aveva trovato in Israele, dove si era recato nei mesi precedenti con don Andrea Carraro, perché le facce erano ormai «occidentalizzate».

Matera invece è ancora salva dall’omologazione culturale e dalla paventata mutazione antropologica che fa assomigliare i figli del popolo ai piccolo-borghesi. Perciò Pasolini non può che definire «un delitto» lo svuotamento dei Sassi in corso. Il film esordisce il 4 settembre 1964 alla Mostra di Venezia, dove, oltre al Premio speciale della Giuria (il Leone d’oro va a Deserto rosso di Antonioni), si aggiudica il riconoscimento assegnato dall’OCIC, l’Office Catholique International du Cinéma. La Chiesa ne coglie subito la spiritualità e non solo in virtù della dedica di Pasolini «alla cara, lieta, familiare figura di Giovanni XXIII». Il ruolo del Nazareno è affidato a Enrique Irazoqui, scomparso nel 2020, allora diciannovenne sindacalista catalano (la madre era una ebrea italiana di Salò), ch’era stato spedito in Italia a cercare fondi e appoggi contro la dittatura fascista di Francisco Franco. A Roma conobbe La Pira, Nenni, Pratolini prima di essere condotto a casa di Pier Paolo, il quale non ebbe dubbi: ecco il Cristo per cui fino ad allora erano in predicato il poeta siberiano Evgenij Evtušenko e lo scrittore americano Jack Kerouac.

Pasolini non è morto all'idroscalo di Ostia, ucciso dal "Rana". E' morto perché nessuno potrebbe più scrivere «io so i nomi dei responsabili, ma non ho le prove». Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 4 marzo 2022.

«Dopo la mia morte, perciò, non si sentirà la mia mancanza» – così scrisse in Trasumanar e organizzar. Ci manca Pasolini?

Ci manca anche Sciascia, e tanto; e ci manca Calvino, e altri – anche se non è lungo l’elenco degli “irregolari”, partigiani senza esercito, la cui voce illuminata o pacata o ironica arrivava come un tuono. Ma Pasolini di più, se così si può dire. E ci manca di più perché Pasolini era dove non ti aspettavi mai dove avresti pensato che sarebbe stato. Fu contro l’aborto, Pasolini, e contro il divorzio, mentre il paese si spaccava nei referendum, fin dentro le famiglie. Fu contro gli studenti che “imberbi” iniziavano il loro Sessantotto a Valle Giulia, Roma – che avevano la stessa faccia dei loro padri che contestavano, mentre lui stava con i poliziotti, facce di figli del popolo. E ogni volta non eri d’accordo con lui, e ogni volta ti scavava dentro e vi lasciava i semi del suo pensiero, a crescersi. Non era solo una “postura”, la sua – quella dell’intellettuale che è contro. Che contraddice il mondo, iniziando a contraddire se stesso. Era uno sguardo, una complessità di pensieri. Era lo sguardo poetico – disarmato, sacro, violento. Mai consolatorio.

Per questo ci manca Pasolini – senza volerlo tirare per la giacchetta, questo macabro esercizio di “riesumare” persone che hanno detto cose importanti per fargliene dire altre su cui chissa come si sarebbero espressi. Eppure – cos’avrebbe detto Pasolini del DDL Zan? Cos’avrebbe detto Pasolini dell’eutanasia? Oh sì, che ci manca Pasolini. Cosa avrebbe detto di questa guerra?

Non dovremmo mai fare di Pasolini un mito, lui per primo se ne sarebbe irritato. Non è il “pasolinismo” che ci manca, anzi, di questo proprio – ne faremmo volentieri a meno. Di quelli, cioè, che pontificano moralisticamente sul mondo ma non mettono mai in gioco se stessi – e “se stessi”, intendo esattamente le proprie ossa, il proprio naso, la propria faccia, il proprio corpo. È stato l’uomo più denunciato d’Italia, Pasolini, e ha racimolato le sue condanne – anche di rapina a mano armata, fu accusato, fatta con una pistola dai “proiettili d’oro”, una farsa.

Alla prima nazionale di Mamma Roma, novembre del 1962, nel foyer del cinema Adriano, a Roma, apostrofato da un gruppo di giovani squadristi, li affronta a pugni, scatenando una rissa – non si tirava indietro: il corpo è la misura del proprio scandalo. E non perché si è omosessuali, o almeno: non solo. Ma perché è la cosa più sacra che abbiamo – o tale dovremmo considerarla. Oggi, le risse sono solo virtuali. Lui è stato un martire – proprio nel senso più cristiano del termine.

Pasolini non ha eredi, non ha neppure lasciti. Perché il mondo in cui lui ha vissuto e poetato, scritto e amato non esiste più. E non solo il “mondo delle lucciole”, quella società povera e contadina, legata alla comunità del lavoro della terra, spazzata via prima dallo sviluppo industriale e dal consumismo di massa, e poi dalla globalizzazione. Non esiste più il mondo politico in cui lui ha vissuto e poetato, scritto e amato, quello della Democrazia cristiana e del Partito comunista. Quello delle ideologie. Quello delle chiese.

Pasolini non è morto all’idroscalo di Ostia, ucciso dal “Rana” – è morto perché nessuno potrebbe più scrivere oggi: «Io so i nomi dei responsabili. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi» . È morto perché nessuno potrebbe più girare un film come Salò o le 120 giornate di Sodoma – a chi potrebbe venire in mente una “dittatura sessuale”, in cui si applicano “prove” orribili, quando al massimo le prove che riusciamo a sostenere con lo sguardo e l’immaginazione sono quelle dell’Isola dei Famosi? Quel mondo bigotto, reazionario, conservatore, sessuofobico, stragista, in cui mestavano agenzie straniere e bombaroli nostrali – è morto. Era un mondo con un piede ancora tutto dentro la tragedia del fascismo – quello storico, quello vero.

Il processo alla Democrazia cristiana – quello che voleva fare Pasolini – lo fecero poi le Brigate rosse, quando sequestrarono Moro per 55 giorni. Anzi, lo fece Moro stesso, nelle sue lettere, al suo partito – quando capì che lo avrebbero abbandonato al suo destino, quando lo dichiararono pazzo. E la tragedia divenne grottesca, con un esito sanguinario. E il Partito comunista – quello che lo aveva espulso nel ’ 49 per “deviazione ideologica”, quando era scoppiato il primo scandalo per una breve avventura, e a cui lui rispose parlando di “disumanità” (e anche di cretineria) – restò sotto le macerie del crollo del muro di Berlino.

Sarà poi la magistratura, con Tangentopoli, a porre fine al “ridicolo decennio”, proprio quella magistratura che Pasolini odiava – e ne aveva ben donde, non solo perché simbolo proprio del “potere” ma perché si accaniva nel perseguitarlo: il procuratore Di Gennaro, al processo contro La ricotta per “vilipendio alla religione di Stato”, con sprezzo del ridicolo porterà in aula una moviola e fotogramma per fotogramma indicherà le ragioni dell’accusa («un cavallo di Troia, nella città di Dio» – 4 mesi di condanna). Non amavamo Pasolini, noi ragazzi del ’ 68 – e non per quella sua poesia scema.

Non lo amavamo per quel collocare la purezza proletaria in un mondo distante e opposto all’industria, alla produzione, alle merci. La purezza linguistica anche – Ragazzi di vita è uno degli straordinari tentativi  (insieme al Gadda del Pasticciaccio e poche altre cose) di ridare vita a un italiano che usciva dai dialetti ma trovava il suo standard nella “parola televisiva”. Pasolini disse una volta che l’unica parola che in quel momento si capiva da Milano a Palermo era: “frigorifero”, una parola tecnica – una merce, si potrebbe aggiungere. Ma per noi, ragazzi del ’ 68, questo irrompere del desiderio operaio di comprare cose (l’automobile, la lavatrice, il frigorifero, la casa) era proprio il segno che si andava spostando la distribuzione della ricchezza. Il proletariato non ha una sacralità – è una rude razza pagana.

Eppure, quella frenesia espressiva, quella capacità di toccare registri dma, dal romanzo all’articolo di quotidiano, dalla poesia al saggio), e ogni volta sorprenderci, ogni volta spiazzarci, ogni volta incuriosirci, per quelle sue parole che ti scartavetravano dentro, quella bava corrosiva del conformismo che si lasciava dietro – oh sì, come ci mancano.

È morto un poeta – disse Moravia al suo funerale. Il poeta dei margini, dei lembi, degli estremi, dei dialetti – quello friulano e quello romanesco. Il poeta delle periferie, di quello che preferiamo non vedere, di ciò che è “clandestino” nella nostra società, di ciò che ci arriva come eco di una qualche cronaca ma non mai è al centro dei nostri pensieri, delle nostre preoccupazioni, delle nostre ossessioni, dei nostri affanni. Della nostra democrazia. Quelle periferie di Pasolini non ci sono più – un mondo scomparso con lui. Ma altre periferie, altri margini, altri lembi di società sono fra noi. E ci manca il poeta che li racconti. Nicotera, 3 marzo 2022.

Pasolini, cento anni dopo. Un dossier per ricordare lo scrittore corsaro. Lucio Luca su La Repubblica il 5 Marzo 2022.  

Articoli, commenti, video, mostre, libri e gallerie fotografiche. Per celebrare il grande intellettuale ucciso nel 1975. 

Pier Paolo Pasolini cent’anni dopo. Cosa rimane oggi dell’intellettuale più amato e odiato del Novecento? Quale eredità ci ha lasciato “uno dei pochi poeti che nasce in un secolo” come gridò angosciato Alberto Moravia subito dopo il delitto di Ostia? E perché, a distanza di quasi cinquant’anni dalla sua morte, PPP fa ancora così paura?

Lo scorso numero di Robinson, il settimanale culturale di Repubblica, ha celebrato Pasolini in una speciale monografia. Nel giorno del centenario dalla nascita, quel lavoro diventa uno speciale sul nostro sito arricchito da altri articoli, libri, iniziative, gallerie fotografiche che ricordano l’opera dello scrittore corsaro, regista maledetto, profeta inascoltato e chissà quanto altro.

Pier Paolo Pasolini nasce il 5 marzo del 1922 a Bologna. Primogenito di Carlo Alberto Pasolini, tenente di fanteria, e di Susanna Colussi, maestra elementare. “Sono nato in una famiglia tipicamente rappresentativa della società italiana: un vero prodotto dell'incrocio – scriveva lui - Mio padre discendeva da un'antica famiglia nobile della Romagna, mia madre, al contrario, viene da una famiglia di contadini friulani che si sono a poco a poco innalzati, col tempo, alla condizione piccolo-borghese. Dalla parte di mio nonno materno erano del ramo della distilleria. La madre di mia madre era piemontese, ma ciò non le impedì affatto di avere egualmente legami con la Sicilia e la regione di Roma. Gli effetti dell'unità d'Italia".

Nel 1928 l'esordio poetico: Pier Paolo annota su un quadernetto una serie di poesie accompagnate da disegni. Il quadernetto, a cui ne seguirono altri, andrà perduto nel periodo bellico. Conclude gli studi liceali e, a soli 17 anni si iscrive all'Università di Bologna, facoltà di lettere. Collabora a Il Setaccio, il periodico del GIL bolognese e in questo periodo scrive poesie in friulano e in italiano, che saranno raccolte in un primo volume, Poesie a Casarsa. Partecipa inoltre alla realizzazione di un'altra rivista, Stroligut, con altri amici letterati friulani con i quali crea l'Academiuta di lenga frulana.

Arruolato durante la Seconda guerra mondiale a Livorno, nel 1943, all'indomani dell'8 settembre disobbedisce all'ordine di consegnare le armi ai tedeschi e fugge. Dopo vari spostamenti in Italia torna a Casarsa. La famiglia Pasolini decide di recarsi a Versuta, al di là del Tagliamento, luogo meno esposto ai bombardamenti alleati e agli assedi tedeschi. Qui insegna ai ragazzi dei primi anni del ginnasio.

La morte in guerra del fratello Guido avrà effetti devastanti per la famiglia Pasolini, soprattutto per la madre, distrutta dal dolore. Il rapporto tra Pier Paolo e Susanna diviene così ancora più stretto, mentre con il padre – specialmente dopo la scoperta dell’omosessualità del figlio – il legame si dirada quasi completamente.

In quegli anni comincia la sua militanza politica. Nel 1947 si avvicina al PCI, cominciando la collaborazione al settimanale del partito Lotta e lavoro. Diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa, ma non viene visto di buon occhio dal partito e, soprattutto, dagli intellettuali comunisti friulani. Molti “compagni” vedono in lui un sospetto disinteresse per il realismo socialista e una eccessiva attenzione per la cultura borghese.

Il 15 ottobre del 1949 viene segnalato ai carabinieri di Cordovado per corruzione di minorenne avvenuta, secondo l'accusa, nella frazione di Ramuscello: è l'inizio di una delicata e umiliante trafila giudiziaria che cambierà per sempre la sua vita. Espulso dal Pci perde il posto di insegnante, decide allora di fuggire da Casarsa e insieme alla madre si trasferisce a Roma. I primi anni romani sono molto complicati: sono tempi d'insicurezza, di povertà, di solitudine. Pasolini tenta la strada del cinema, fa il correttore di bozze, sbarca il lunario e comincia a frequentare le borgate, il cosiddetto sottoproletariato romano.

Ma i suoi scritti cominciano a essere pubblicati nelle riviste letterarie, riesce anche a trovare un posto nella redazione letteraria del giornale radio Rai, il peggio sembra essere passato. E nel 1954 pubblica il suo primo importante volume di poesie dialettali: La meglio gioventù. Seguito, un anno dopo, dal romanzo Ragazzi di vita che ottiene un vasto successo, sia di critica che di lettori. Sebbene, anche negli ambienti comunisti, si sussurra che il libro è intriso di “gusto morboso, dello sporco, dell'abbietto, dello scomposto, del torbido..”.

Il ministro dell’Interno Tambroni porta a giudizio Pasolini e l’editore Garzanti. E’ una censura bella e buona ma, a sorpresa, entrambi vengono assolti perché il fatto non costituisce reato". Il libro, per un anno tolto alle librerie, viene dissequestrato. Ma Pasolini diventa un bersaglio: lo accusano di tutto, persino di una incredibile rapina a mano armata a un distributore di benzina al Circeo.

E poi c’è il cinema, opere che contribuiscono ad accrescere l’amore e l’odio per un regista mai scontato: collabora con Sergio Citti a Le notti di Cabiria di Fellini, fa l’esordio da attore ne Il gobbo del 1960. L’anno dopo l’esordio da regista con Accattone, film subito vietato ai minori di 18 anni che suscita non poche polemiche alla Mostra del cinema di Venezia. Nel 1962 dirige Mamma Roma, poi l’episodio La ricotta (inserito nel film a più mani RoGoPaG), per il quale Pasolini viene imputato di vilipendio alla religione dello Stato.

Nel '64 Il vangelo secondo Matteo, poi Uccellacci e Uccellini, Edipo re, Teorema,  Porcile.  Nel 1970 Medea e fino al '74 la triolgia della vita, o del sesso, ovvero Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte. Fino all’ultimo film-shock, Salò o le 120 giornate di Sodoma concluso poco prima della morte.

La mattina del 2 novembre 1975, sul litorale romane ad Ostia, in un campo incolto in via dell'idroscalo, una donna, Maria Teresa Lollobrigida, scopre il cadavere di un uomo. Sarà l’attore e amico Ninetto Davoli a riconoscere il corpo di Pier Paolo Pasolini. Nella notte i carabinieri fermano un giovane, Giuseppe Pelosi, detto "Pino la rana" alla guida di una Giulietta 2000 che risulterà di proprietà proprio di Pasolini. Il ragazzo, interrogato dai carabinieri, e di fronte all'evidenza dei fatti, confessa l'omicidio.

Racconta di aver incontrato lo scrittore alla Stazione Termini e dopo una cena in un ristorante, di aver raggiunto il luogo del ritrovamento del cadavere. Lì, secondo la versione di Pelosi, il poeta avrebbe tentato un approccio sessuale, e vistosi respinto, avrebbe reagito violentemente: da qui, la reazione del ragazzo. Una verità mai del tutto accertata. Si ipotizza che ci fossero altri quella notte, che sia stato un omicidio politico con diversi esponenti della destra neofascista romana coinvolti e non si chiarirà mai l’esatta dinamica del delitto. Un solo fatto è certo: per la morte di Pasolini l’unico condannato è stato proprio Pelosi.

Nel dossier, a raccontare i tanti aspetti di un intellettuale multiforme, che ha lasciato la sua impronta sulla cultura italiana e che ancora oggi ci parla, sono le firme di Repubblica, gli intellettuali e gli studiosi che si sono dedicati alla sua opera, gli artisti che lo hanno conosciuto e che hanno lavorato con lui, mentre ad accompagnare analisi, ricordi e interviste troverete le splendide immagini di alcuni dei fotografi più celebri che ritrassero PPP, da Dino Pedriali a Roberto Villa.

Lo scrittore Francesco Piccolo dipinge la natura contraddittoria e la molteplicità che lo ha reso “l’artista e l’essere umano più complesso del Novecento”. Basti pensare alle tre definizioni: cattolico, comunista, omosessuale dichiarato. E ognuna di queste era intollerabile per le altre due”. Giancarlo De Cataldo racconta il mistero infinito del suo delitto, il giallo ancora irrisolto intorno al suo cadavere martoriato, ritrovato a Ostia il 2 novembre 1975.

Michele Serra, partendo dalla celebre invettiva pasoliniana “Io so. Ma non ho le prove”, analizza la sua forza di polemista, capace di pronunciare frasi che dette da altri non sarebbero state credibili, come forza non di un semplice intellettuale ma di un artista. Concita De Gregorio racconta le donne della sua vita: la madre Susanna, l’amica Laura Betti, e poi le dive, dalla Callas ad Anna Magnani, che ha voluto come protagoniste dei suoi film, e Paolo Mauri il suo circolo di amicizie, mentre Donatella Di Pietrantonio  e Gabriele Romagnoli analizzano il Pasolini che fece del suo corpo un’icona fragile e vigorosa, fino al nudo degli ultimi scatti.

Della dimensione mitica in cui si muoveva Pasolini scrive Raffaella De Santis, che colloquiando con lo studioso Marcello Barbanera ne ricostruisce il rapporto con l’antichità, i viaggi in Oriente e la genesi di opere come Edipo Re e Medea: sulle pagine di Robinson, proprio dal set di Medea, troverete alcuni splendidi scatti inediti.

E ancora: Piergiorgio Paterlini ripercorre la sua giovinezza e la vita da maestro in Friuli, Dante Ferretti, intervistato da Arianna Finos, ricorda gli esordi della sua carriera di scenografo dei suoi film, mentre è Alberto Anile a dare le coordinate della sua opera cinematografica. Angelo Guglielmi, che da critico ha avuto un rapporto più che dialettico con lo scrittore di Casarsa, ne parla con Simonetta Fiori. Nello Strapalando, invece, Antonio Gnoli colloquia con Furio Colombo, che fu l’ultimo a intervistare Pasolini prima della morte.

In fieri. Petrolio è un grande libro mancato di un grande scrittore mancato. Tiziano Gianotti su L'Inkiesta il 21 Marzo 2022.

L’inedito postumo di Pier Paolo Pasolini è l’opera di un uomo d’ingegno divorato da un’ossessione sessuale (non erotica) che è disperazione. Ed è anche un ipertrofico preludio a una disperata vitalità a cui non poteva più attingere. Il récit di un’ossessione, un testo terminale.

Pier Paolo Pasolini: pare difficile dirne senza entrare in questioni che esulano dal valore letterario dell’opera. Tanto per cominciare c’è tutta la mitologia pasoliniana, con sacerdoti e sacerdotesse dedite al culto che vigilano; poi c’è tutta la retorica del complotto e dell’assassinio di Stato o quasi, dove folklore de sinistra e paranoia gauchiste producono tomi su tomi; e infine l’immaginetta omosessuale da taschino. Bene, di tutto questo non solo non mi importa nulla: lo considero dannoso, in molti casi oltraggioso sia dell’opera sia dell’avventura terrena di un uomo d’eccezione. Credo che il rispetto dovuto stia nel dire della sua opera e basta.

Credevo non ci fosse molto da aggiungere al gran lavoro fatto da Walter Siti e Silvia De Laude per l’edizione delle opere nei Meridiani – ben dieci volumi, con materiale inedito e disperso e scartafacci in gran copia – ma mi sbagliavo. Rimaneva aperta la questione di Petrolio, l’opera postuma pubblicata a cura di Maria Careri e Graziella Chiarcossi con l’ausilio di Aurelio Roncaglia: ed è questione fondamentale per più di una ragione. Petrolio infatti continuava a girare come un nero e scabroso cetaceo letterario da cui tutti si tenevano alla larga, per varie e pittoresche ragioni. (Le celebrazioni acritiche e le ebbrezze esoteriche sono modi per tenersi alla larga). Io l’ho letto allora, con grande fatica e non per la scabrosità: mi pareva da un lato un testo terminale, dall’altro un tentativo disperato: da qualunque parte lo prendessi non si definiva in opera, rimaneva una congerie di quadri narrativi dai registri più disparati e i più cerebrali – tali mi parevano le celebrate o vituperate scene erotiche, che non erano per nulla erotiche. Pure Petrolio continuava a girare nei discorsi e ogni volta mi sorprendevo curioso ad ascoltare. Niente di urgente e di urticante: solo la curiosità di intendere tanto interesse e l’origine di quello.

Ora, la meritoria pubblicazione da parte di Garzanti di una nuova edizione a cura di Maria Careri e Walter Siti, ricca di materiali inediti e documenti utili a chi volesse approfondire – più un saggio di Walter Siti che è il vero punto d’interesse – non poteva che risvegliare la curiosità e la voglia di capirne l’origine.

Lo dico subito, per chiarezza: la rilettura del testo non sposta il giudizio sull’opera: un grande libro mancato. (Così come riprendendo la formula di Alfonso Berardinelli ritengo Pasolini un grande scrittore mancato). Pure ogni volta provo imbarazzo nel dirlo e per una buona ragione. Si continua a sorvolare su un fatto decisivo: Petrolio è stato pubblicato postumo, quindi non per volontà dell’autore, e diciassette anni dopo la sua morte. Se si aggiunge che, come ha rivelato Maria Careri, il lavoro al testo si interrompe un anno prima della morte e non ci sono documenti a dire il motivo e le ragioni della interruzione, ecco che i motivi dell’imbarazzo diventano chiari e evidenti. Stiamo parlando di un’opera in fieri interrotta.

Facciamo un passo indietro. Nel 2012 Emanuele Trevi pubblica Qualcosa di scritto, saggio narrativo dove si dice del lavoro dell’autore al Fondo Pier Paolo Pasolini, inventato e governato da Laura Betti e allora in quel di Roma. Il libro si regge su due figure, Laura Betti e il fantasma di P., ma a spiccare è la lettura che Trevi imbastisce su Petrolio, già indicato nel titolo. (Qualcosa di scritto è la locuzione con cui Pasolini indicava Petrolio: “Né più, né meno – è questa la formula che in varie occasioni riaffiora in Petrolio, come la più adatta a definire l’opera che prende forma”). Segue un’apoteosi di metafore: il testo diventa “un’ombra o una secrezione appiccicosa”, passa ad essere “un essere umano, un corpo vivente”, per finire come “mostro informe” che contiene la presenza – “questo fiato che appanna ogni specchio” – di nientemeno che “lui, P.P.P., in carne ed ossa”. Una carambola di ispirate generalizzazioni esoteriche, che culminano in una di quegli sgradevoli emblemi di cui Trevi si compiace e su cui ha costruito una minuscola mitologia: “Qualcosa di scritto: significa intrattenere con le parole la stessa penosa intimità che unisce il bambino che piscia nel letto alla chiazza tiepida che si è allargata sul lenzuolo”. Ora, non ho goduto di questo problema infantile e quindi non posso dire della perspicuità della figura: pure la locuzione non lascia intravedere alcuna umida intimità di Pasolini con le parole: è evidente se mai un distacco emotivo, netto: una perdita di aderenza tra lo scrittore e le sue parole. Una distanza.

Trevi arrivava presto al punto: “Qualcosa di scritto [Petrolio], fin dal momento della prima concezione è un libro sacro, un annuncio, una rivelazione”: insomma un testo iniziatico: Pasolini letto tra Ernesto De Martino e Roberto Calasso. È anche un libro unico, per la gioia postuma di Bobi Bazlen: “La sua natura di oggetto misterioso, la sua inconfondibile vibrazione di messaggio supremo [il corsivo è mio: di irritazione] lo rendevano diverso da ogni altro libro in cui mi fossi imbattuto”. Affranto, acconsentivo. Non era finita: ora arrivava il punto saliente (per me, poco ricettivo agli entusiasmi misterici), che era il sottolineare la scelta pasoliniana, “che è quella del rifiuto dell’opera compiuta. Quando invece – suprema intuizione realista – non c’è niente che inizia e niente, meno che mai, che finisca”. Eccolo, il punto: l’estetica dell’incompiuto, dell’opera che cresce e non si chiude: l’iperbole del frammento. Le bianche poetiche dell’avanguardia si univano nel talamo all’esoterismo dalle bande nere. Ma lasciamo gli entusiasmi misterici e diciamo dell’incompiuto.

Tutto ha origine dai dieci-volumi-dieci dell’opera omnia di Pasolini ideata e così realizzata da Walter Siti: un lavoro ciclopico sul filo di un paradigma tautologico: “la vera opera di Pasolini è l’insieme delle sue opere, dai cui interstizi figurali traspare il volto stesso di Pasolini”. Nei fatti, le singole opere pubblicate sono parte di un unico libro che contiene anche gli abbozzi, le varianti, le riscritture: tutto in un unico flusso – o in unico gorgo: dipende dal giudizio. È una sorte di epitome della variantistica: l’opera letteraria come un unico, pantagruelico scartafaccio.

(Qui c’è da discorrere a far notte: non è il luogo e non è l’ora: e necessitano generi di conforto. Rimane il fatto che questa bulimia variantistica è una delle malattie della modernità: la clausola del testo come metastasi ben si attaglia al paradigma novecentesco della malattia. Sarebbe l’ora di andare oltre).

Trevi benediceva l’ipotesi di Siti e l’abbracciava con trasporto: “Personalmente [sic], sono totalmente d’accordo con Siti. Mi interessa solo il disordine, ciò che è instabile e approssimativo. I metodi e i processi, molto più che i cosiddetti risultati. La pari dignità dell’abbozzo e del prodotto rifinito”. Non avevo e non ho dubbi: è evidente. Quel che della lettura di Trevi rimaneva, e spostava, era che indirizzava oltre la trita tiritera di Petrolio come allegoria del Potere: il cetaceo era ben altro e chiedeva una nuova lettura: non mi convinceva quella di Trevi, troppo esposta agli entusiasmi misterici, ma una strada si apriva. Serviva un’occasione.

Ecco spiegato il motivo dell’accoglienza alla nuova edizione garzantiana di Petrolio, soprattutto del saggio di Walter Siti: è l’occasione giusta. (Devo risparmiare spazio, così non dirò dei criteri della edizione: non me ne voglia Maria Careri). L’intuizione geniale di Siti è quella di anteporre al testo e a far da prologo la lettera di Pasolini a Alberto (Moravia), dove lo scrittore dice dell’opera allo stato dell’arte del momento. È un documento fondamentale: in qualche modo contiene tutti i motivi che agitano l’autore, l’intento che lo muove e l’interrogativo che lo angustia non poco e decisivo. Tutto meno quel che sta all’origine della disperazione ben dissimulata e lo sconforto che l’accompagna – non ce n’era bisogno: l’amico e scrittore sapeva e lo intendeva Decisivo più che l’interrogativo che pone è però l’affermazione dell’ultimo paragrafo: lascio al lettore il gusto di scoprirlo. Dirò soltanto che nella espressione “preambolo di un testamento” si cela la verità della condizione dell’uomo, prima che lo scrittore. Ma non corriamo. Nel saggio messo a postfazione Siti accoglie entrambe le letture accreditate – Petrolio come allegoria del potere e come libro iniziatico (“Hanno ragione tutti e due”), dirime alcune questioni non proprio capitali e viene al punto: la centralità del tema della scissione (il protagonista si scinde in due Carli: Carlo di Polis e Carlo di Teti), lo sdoppiamento. Niente di nuovo o di strepitoso: chiunque abbia letto Pasolini intende come lo sdoppiamento frutto di una contraddizione sia la bestia che nutre l’immaginario e distrugge la salute dell’autore. “Al fondo della scissione dei due Carlo c’è il disagio di Pasolini nell’accettarsi in quanto borghese: integrazione e ribellione lottano dentro di lui in una tesi/antitesi che non può mai essere superata in una sintesi”, scrive Siti, e va bene: è un fatto evidente. Passa poi a una lettura a base freudiana (Siti è frutto della temperie pisana: Marx e Freud) del tutto esornativa che molto ecciterà i cultori del genere, si accosta al tema della iniziazione esoterica rilevando in nota come P. si mostri pigro nell’indagine relativa, così come per l’investigazione giornalistica: non è un caso: non è quello il punto. Entrambi sono magazzini di materiale di scena e cartapesta.

Poi, finalmente, si gioca: “Il Pasolini che la sera del 1° novembre 1975 si avvia all’appuntamento fatale è un uomo disperato ma pieno di progetti”: e fa seguire un elenco dettagliato, più una frase: “E poi quel romanzo [Petrolio] che sembra volersi estendere all’infinito perché non sa come chiuderlo”. Fermiamoci qui. Pasolini è “un uomo disperato ma pieno di progetti”, infatti ha abbandonato da un anno Petrolio; Siti dice il libro un “romanzo”, e già questo meriterebbe un discorso; quel romanzo “che sembra estendersi all’infinito perché non sa come chiuderlo”. Non è finita qui. “Pier Paolo vuole e insieme non vuole scrivere il libro che sta scrivendo, ne vive la genesi e pretenderebbe una trasformazione di sé che gli risulta impossibile”. Certo: Pasolini era troppo intelligente per non sapere che l’iniziazione misterica non era cosa per lui (andava di fretta: il patetico e non il sublime era cosa sua: e la stizza): può darsi se ne sia doluto ma non credo: certo sapeva di fare un uso retorico di tutta la paraphernalia esoterica. C’era ben altro e non certo la politica: “L’ansiosa percezione del «“nulla” sociale» proietta in disperazione sociologica e politica la propria privata sessualità ormai diventata perversa: le due strade dei due Carli si riuniscono in un unico smarrimento”. Eccolo, il punto che mi è sempre parso lampante: ci voleva la forza cognitiva e lo sprezzo della statuaria di Siti per dirlo. Petrolio, come peraltro Salò o le 120 giornate di Sodoma, è l’opera di un uomo d’ingegno divorato da un’ossessione sessuale (non erotica) che è disperazione. Concepito come “edizione critica di un testo inedito” di cui sarebbe stato il curatore, è un ipertrofico preludio: non a un testamento: a una “disperata vitalità” a cui non poteva più attingere. Il récit di un’ossessione – e un testo terminale.   

Per concludere: ho sempre pensato che Pasolini avesse più occhio che orecchio – ma non fino al punto di esser stato il più geniale allievo di Roberto Longhi, come pretenderebbe Giovanni Agosti. Non è un caso se il meglio della sua opera, oltre al dittico Saggi corsari e Lettere luterane, stia nelle opere cinematografiche (le prime). Pasolini ambiva a essere un grande manierista, un Pontormo oppure un Rosso Fiorentino, inizia come un bambocciante da suburra con Ragazzi di vita e Una vita violenta, e finisce col delineare crudeli manichini degni di Johann Heinrich Füssli. (Fin dalla prima lettura di Petrolio mi sono venuti a mente i disegni erotici di Füssli). Non saprei dir meglio la traiettoria letteraria di Pier Paolo Pasolini.

CENTO ANNI DALLA NASCITA DI PPP. Cosa voleva dire davvero Pasolini con il suo Petrolio. WALTER SITI, scrittore, su Il Domani l'01 marzo 2022

Circolano alcuni luoghi comuni su Petrolio (l’ambizioso romanzo che Pier Paolo Pasolini stava scrivendo quando fu ucciso) che svaniscono alla prova della lettura.

Il libro è ancora troppo informe perché si possa affermare che sia un capolavoro; insieme a brani di indubbia bellezza ci sono pagine raffazzonate e mal scritte, il finale semplicemente non esiste perché Pasolini non ha fatto in tempo a immaginarlo.

La fortuna di Petrolio è stata di comparire in tempi di risorgente avanguardia, e di ricomparire ora che va di moda l’opera trans-testuale, multimediale, il testo che farà finire tutti i testi eccetera.

WALTER SITI, scrittore. Saggista, scrittore italiano e critico letterario: dopo aver pubblicato saggi su E. Montale e S. Penna (fra gli altri), è divenuto il curatore dell’opera completa di P.P. Pasolini per la collana I Meridiani di Mondadori. Scrittore di romanzi quali Scuola di nudo (1994), Un dolore normale (1999), Troppi paradisi (2006), Il contagio (2008), Autopsia dell’ossessione (2010), Resistere non serve a niente (2012, Premio Mondello 2013 e vincitore al Premio Strega 2013), Il realismo è l'impossibile (2013), Exit strategy (2014), La voce verticale - 52 liriche per un anno (2015) e Bruciare tutto (2017); nel 2018, il pamphlet Pagare o non pagare e il romanzo Bontà (2028); La natura è innocente (2020).

Aldo Grasso per corriere.it l'1 marzo 2022. 

Per essere uno che detestava la tv («Non c’è dubbio che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogan mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione specie, appunto, la televisione, non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre — Corriere della Sera, 9 dicembre 1973), per essere un apocalittico, si diceva, di tv ne ha fatta molta: inchieste, interviste, dibattiti. Rai Storia, nel preziosissimo spazio «Domenica con» curato da Enrico Salvatori e Giovanni Paolo Fontana, ha dedicato un intero pomeriggio alle immagini, alle interviste e ai documentari tratti delle Teche Rai che hanno visto Pasolini protagonista. 

Il lungo viaggio inizia con Gabriella Ferri che canta una sua canzone scritta per Laura Betti, con «Cinema 70» di Oreste Del Buono e finisce con «Settimo giorno» quando il critico Francesco Savio intervista Pasolini in occasione dell’uscita de «Il fiore delle mille e una notte». La maratona televisiva conferma l’idea che in molti suoi interventi, Pasolini sia stato un felice dilettante di successo; la sua morte tragica lo ha santificato e ha ostacolato ogni forma di ragionevole critica. 

O lo si ama o lo si disdegna. Tanto più che un pasolinismo di maniera — la sparizione delle lucciole, il nuovo fascismo della società dei consumi, l’omologazione, il centralismo della pubblicità, l’«Io so, ma non ho le prove» — è ancora oggi fonte di non pochi travisamenti. Speriamo che il centenario della nascita sia l’occasione per disvelare il «mistero» della sua opera, per sostituire l’icona pop con il poeta.

300 nuovi documenti, tra cui un inedito. Cento anni di Pier Paolo Pasolini, pubblicata la nuova edizione dell’epistolario. Filippo La Porta su Il Riformista il 3 Marzo 2022. 

La nuova edizione dell’ampio epistolario di Pasolini – Pasolini, Le lettere, a cura di Antonella Giordano e Nico Naldini (scomparso alla fine del 2020) – si raccomanda come documento prezioso per capire lo scrittore, la cui opera si presenta come una interminabile, stremata autofiction. È la storia di un’anima (commovente perché assolutamente trasparente), di un’anima inserita in un preciso contesto e momento storico.

Dunque capitolo di una storia sociale del nostro paese a partire dal 1940 e per 35 anni, della mentalità, delle ideologie, del costume, dell’ethos collettivo, e pure di tante speranze disilluse, compilato da un testimone eccezionale (per acume psicologico, intelligenza “politica”, spirito di osservazione e totale sincerità nel rivelare i propri demoni). Impossibile rendere qui conto anche minimamente dell’epistolario, che si distende per quasi 1500 pagine, e che nella nuova edizione comprende 300 nuovi documenti e uno struggente testo inedito, una lettura inviata idealmente al fratello Guido, il giorno della notizia della sua morte, nella primavera del 1945. Mi limito a segnalare – sfiorando l’arbitrio – alcuni passi sparsi che mi sembrano di particolare rilievo.

Innumerevoli le lettere ai poeti, da Betocchi a Ungaretti, da Noventa a Bertolucci, da Sereni a Gatto – una “categoria” che gli era particolarmente cara, accanto ai ragazzi di vita – , però bisogna aggiungere che dei letterati tendeva a diffidare, per la ragione che “richiedono sempre delle opinioni, e io non ce le ho”. In una “domenica senza prospettive” del febbraio 1950 scrive alla cara amica Silvana Mauri che andrà a ballare con una ragazza che lavora alla Biblioteca Nazionale. E comunque con gli scrittori – da Calvino a Volponi – il suo rapporto, benché amichevole, resta sempre tormentato, polemico, a tratti rissoso: a Soldati scrive “tu non capisci niente di me”, rimproverandogli di avere “pensieri degni di Flaiano. Anche tu appartieni a quella razza?” (dove la “razza” è presumibilmente quella, ostica a Pasolini, dei borghesi moralisti e spiritosi del “Mondo”). Aggiungo solo che Pasolini, estraneo alla società letteraria, aveva pure l’ossessione dei premi, e in occasione dello Strega del 1959 (cui partecipa con Una vita violenta) tempesta amici e conoscenti (Quasimodo, Solmi, Palazzeschi…) di biglietti per invitarli a votarlo. Si tratta di una delle tante – spesso vitalissime – contraddizioni di Pasolini: maestro ma diffidente della pedagogia, comunista (fino alla fine) ma consapevole che il marxismo era diventato una retorica del Nuovo Potere, laico ma attratto dal “poco-razionale” e dal sacro, ossessionato dall’eros ma tentato dalla castità…

Sempre a Silvana Mauri, nella stessa lettera (si tratta delle lettere più intime, con una affettività debordante, come quelle alla adorata madre, “pitinicia”, e ad alcuni amici) confessa di essere nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era un inpiù… Me la sono sempre vista accanto come un nemico”. Eppure, lui che “ha avuto il destino di non amare secondo la norma” dice anche che solo a Roma, dove si era da poco trasferito, si sente accolto e ha “trovato il modo di vivere ambiguamente”. In altre lettere sono contenuti giudizi acuminati, in forma di consigli, ad altri scrittori. Cito solo il commento, fatto all’autore, a un racconto di Arbasino: “Si desidererebbe che Lei fosse molto più semplice o molto più complicato, sì che le citazioni e le mimetizzazioni letterarie non risultassero ammiccamenti al lettore… le sue cose somigliano un po’ a camicie finissime stirate con troppo amido”. Il gusto di Pasolini ha l’aria di essere infallibile! O al giovane Massimo Ferretti, nel 1956: “… fai un po’ il super-uomo, estetizzi, ti compiaci del maledettismo e della solitudine… sii più parco, lima qualche sovrabbondanza”. In altri casi si affida a definizioni epigrammatiche: del “critico confusionario” come gli appare Angelo Guglielmi scrive che “vorrebbe fare del Cosmo un Caos. Tutto al contrario di me”.

Interessante la lettera del 1970 a Walter Siti, allora autore di una tesi di laurea su Pasolini e in seguito eccellente curatore dei Meridiani a lui dedicati: prima gli assegna trenta e lode, e ne elogia alcuni capitoli “bellissimi” ma poi lo accusa di moralismo predicatorio, di “adulazione ai forti” – il Movimento Studentesco è di quegli anni – e di averlo rinchiuso unilateralmente “in un triangoletto regressione-aggressività-narcisismo” attraverso una psicanalisi un po’ dilettantesca. Ne è tenero verso la rivista “Quaderni piacentini”, che lo stroncò attraverso Fofi (con il quale invece dovette schierarsi Fortini): in particolare a Piergiorgio Bellocchio, che giustamente lo avverte che nessuno può parlare di sé come “poeta” (da cui risulterebbe illuminata tutta la propria opera), replica che accusare di “immobilità” astorica il mondo sottoproletario e il proprio mondo interiore è arbitrario e soprattutto ideologico.

Ha pure uno scontro duro con l’amata Elsa Morante, la quale si lamenta per non essere stata pagata per la partecipazione al Vangelo secondo Matteo. Anche qui Pasolini sembra combattere soprattutto un riflesso moralistico nei suoi interlocutori. Alla Morante, chiamata “caro angelo mio” – che gli rimprovera la frequentazione dei Padri Farisei risponderà: “Non vedo perché dovrei escludere i Farisei ricchi, in quanto persone. In quanto classe sociale lo sai che non ho e non ho avuto nessun rispetto e non sono sceso a nessun compromesso” (e aggiunge che lui prova “rispetto” per ogni creatura, anche per il cane di Moravia e Dacia Maraini).

Infine suggerisco un prelievo, per certi versi illuminante su Pasolini, da una lettera decisamente anomala, che nell’ottobre 1975, poco prima di morire, scrive al neofascista Ventura, in carcere per la strage della Banca dell’Agricoltura (il quale si era rivolto strumentalmente a lui per avere una “sponda” favorevole durante il processo): “Vorrei che le sue lettere fossero meno lunghe e più chiare. Una cosa è essere ambigui, un’altra è essere equivoci. Insomma, almeno una volta mi dica sì se è sì, no se è no”. Già, in nome della complessità e “ambiguità” della condizione umana quanti comportamenti equivoci! Pasolini gli risponde citando il Vangelo e invitandolo ad una elementare limpidezza morale, che non è mai moralistica. Filippo La Porta

Pier Paolo Pasolini e il cinema, tutta la filmografia del regista.  PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud l'1 Marzo 2022.

In occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini analizziamo brevemente ogni singolo film del regista, Identificando l’altalenante girovagare tra tragico e comico di un regista perennemente sospeso tra la Vita e la Morte.  

ACCATTONE (1961)

Malavita da strada, lessico naturale (i dialoghi sono curati con profonda etimologia dal pasoliniano Sergio Citti) naturale vocazione da prostituta per le donne accompagnano l’estate di Accattone e della battona romanesca che a lui si unisce. Un bianco e nero esemplare illumina emarginati che diventano protagonisti assoluti di una Storia che è controstoria.

MAMMA ROMA (1962)

Anna Magnani dà forma, fisicità e voce a Mamma Roma, prostituta che attraverso il mestiere cerca il riscatto piccolo borghese abbandonando la borgata per una più rispettabile periferia romana che invece non redime e non perdona. Ettore, il figlio, in un finale struggente muore su un letto di contenzione dopo un fermo di polizia.

LA RABBIA (1963)  

Film di montaggio realizzato in due parti da Giovannino Guareschi e Pier Paolo Pasolini che non avrà successo. Si tratta di una sorta di grande Blob ante litteram in cui due personalità titaniche e opposte hanno modo di urlare la loro concezione politica del mondo.

LA RICOTTA (1963)

Episodio del film collettivo Rogopag. Sorta di summa pasoliniana che mette al centro della ricostruzione filmica la Passione di Cristo celebrando l’ascesa e caduta del sottoproletario Stracci destinato alla morte di fame in Croce per motivi di finzione. Uso alternato del bianco e nero e del colore con raffinate citazioni pittoriche del Pontormo. Orson Welles attore.

COMIZI D’AMORE (1964)

Microfono in mano e cameraman al seguito Pasolini gira le spiagge e le piazze d’Italia dal nord al sud per chiedere domande semplici che restituiscono uno dei migliori spaccati sociali e antropologici dell’Italia dell’epoca. Non mancano domande a celebri intellettuali.

IL VANGELO SECONDO MATTEO (1964) 

Il film che consegna una dimensione internazionale a Pasolini come regista di grande talento. La sceneggiatura è tratta integralmente dal testo

evangelico è resa filmica con scene indimenticabili e di gran valore. Un film monumento che si vedrà con lo stesso interesse fino alla fine dell’umanità.

UCCELLACCI E UCCELLINI (1966) 

Totò è il papà di Ninetto Davoli in uno dei film più intensi nella riflessione pasoliniana. Sono i due eroi, che di cognome fanno simbolico “Innocenti”, in un film saggio che resta a futura memoria . Li segue un corvo che ha la voce del poeta Leonetti che racconta loro la storie di fraticelli francescani che trovano narrazione filmica negli stessi attori.

EDIPO RE (1967)

La tragedia greca ambientata e mescolata in chiave cinematografica nella provincia italiana del primo dopoguerra filtrata dall’autobiografismo del regista  ripropone le sue profonde difficoltà esistenziali che ciclicamente lo contrappongono al difficile rapporto con il padre.

APPUNTI PER UN FILM SULL’INDIA (1967)

Documentario nato su committenza della Rai per essere inserito nella programmazione di TV7.

LA TERRA VISTA DALLA LUNA (1967)

Episodio del film “Le streghe”. Totò e Ninetto Davoli questa volta duellano con la Mangano in una vicenda all’ombra del Colosseo dove si agitano amore, morte, soldi e fantasmi.

TEOREMA (1968)

Un’ospite intruso nel nucleo familiare di un industriale fa sesso con tutti i componenti nessuno escluso. Quando andrà via tutti sono cambiati. Si

salva solo la serva di origine contadina interpretata da una bravissima Laura Betti che vince la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia.

LA SEQUENZA DEL FIORE DI CARTA (1969)

Pier Paolo torna all’evangelista Matteo per modernizzare la parabola del fico nel film ad episodi “Amore e rabbia”.

PORCILE (1969)

Complessa parabola che si dipana in due direzioni:  un cannibale sbranato dalle fiere in un luogo inventato ambientato sull’Etna e il figlio di un

industriale tedesco che si accoppia ai porci che finiranno per divorarlo nella villa Pisani di Stra.

APPUNTI PER UN’ORESTIADE AFRICANA (1969-1973)

Tra Uganda e Tanzania con il proposito di allestire l’Orestiade di Eschilo in una terra madre non aggredita ancora del consumismo e dal regno delle merci.

MEDEA (1970)

Maria Callas nella trasposizione della tragedia di Eschilo e sul tema estremamente pasoliniano del conflitto tra società agricola che diventando urbana perde il concetto di sacro.

IL DECAMERON (1970)

Pasolini ha il merito di aver restituito agl’italiani la lezione del Decamerone, notevole opera caduta in dimenticanza. Le 7 novelle scelte per la sceneggiatura sono ambientate a Napoli con una precisa scelta di campo meridionalista. Pasolini grande esperto di pittura interpreta Giotto.

LE MURA DI SANA’A (1970)

Pasolini realizza un documentario d’impegno  (non privo d’ispirata poesia civile) appellandosi all’Unesco per salvare la città dello Yemen.

I RACCONTI DI CANTERBURY (1972)

Pasolini elabora 8 dei 21 racconti del libro di Chaucer e li sceneggia con la propugnante vitalità (nonostante dissensi critici molto manifesti) del precedente. Ennio Morricone elabora musiche celtiche scelte dal regista

IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE (1974)

La trilogia della vita si conclude ad Oriente con uno dei novellieri più celebri della letteratura mondiale che Pasolini potenzia ancora una volta sul versante sessuale che sta a lato dalla Morte incombente.

SALO’ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA (1975)

Pasolini lascia il suo testamento adoperando il fascismo storico ambientando una metafora molto leggibile della epoca che si appresta ad ammazzare Pasolini con la stessa violenza che si mostra nel film. Sade viene trasposto a Salò e Marzabotto in una precisa identificazione del nuovo fascismo.

Cento anni di PPP. Perché abbiamo tanto amato Pier Paolo Pasolini anche se alcune sue scelte erano opposte agli ideali di sinistra. Fausto Bertinotti su Il Riformista l'1 Marzo 2022. 

Non si salverà neppure Pier Paolo Pasolini dalla celebrazione. La celebrazione mediatica è un segno dei tempi. La secolarizzazione, di cui Pasolini aveva letto in anticipo, seppure credo unilateralmente la barbarie, ha invaso e pervaso di sé almeno il grande campo delle comunicazioni. Anniversari di morte e di nascita, come la scomparsa di una personalità pubblica, diventano l’occasione di un trionfo mediatico. Un tempo si diceva che il comunista buono era il comunista morto, ora vale per tutte le persone che hanno raggiunto il nuovo codice d’onore, cioè la notorietà.

Non so se potrà bucare il muro della prevedibile retorica dar conto, al contrario, di come una generazione politica di sinistra, interna al Movimento operaio, giovani comunisti, socialisti, abbiano amato Pasolini e abbiano continuato a farlo, malgrado alcune sue scelte politiche risultassero per loro urticanti e li vedesse su opposte frontiere. Era il ’68 quando, nella battaglia di Valle Giulia a Roma, che aveva opposto gli studenti alla polizia, Pasolini scrisse ne “Il Pci ai giovani”: «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti, perché i poliziotti sono figli di poveri». Il colpo fu duro. Pensammo, e continuo a pensare, che si sbagliava, trascinato nell’errore da un poco significativo dato sociologico e dal comprensibile odio per tutte le borghesie. Sbagliava tanto da non vedere la risposta operaia e studentesca che stava attraversando il mondo intero e che avrebbe aperto le porte alla straordinaria stagione di lotta di classe che ha trasformato il nostro Paese negli anni Settanta, anche rendendolo un po’ più umano, proprio a partire da quel biennio rosso ’68-’69.

Una ballata da dentro quel nuovo mondo, proprio dentro quello scontro, ne dava conto in presa diretta, con le speranze e i sogni che stavano nascendo, seppure lontani dalla terra arata e seminata dal sempre grande intellettuale. Era la ballata Valle Giulia di Paolo Pietrangeli. La rottura continua a scavare nel fondo, fino a rivelarsi in modo illuminante nel famosissimo testo La scomparsa delle lucciole. La tesi di Pasolini va al fondo di una mutazione antropologica che viene fatta risalire alla metà degli anni Sessanta, comparabile all’inquinamento dell’aria e dell’acqua, che produce la scomparsa delle lucciole e comparabile all’invasione nelle borgate delle “brutte costruzioni” che la snaturano. L’industrializzazione e la società dei consumi avrebbero demolito quel che Pasolini definiva “il grande Paese”, il mondo del Pci che si stava formando dentro il Paese Italia. Secondo Pasolini, quel popolo, che avendolo tanto amato aveva ben conosciuto, subiva una mutazione che lo ha deformato come la sua stessa coscienza, rendendolo «degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale».

Alla luce di questa inquietante traiettoria, Pasolini rivedrà drammaticamente, fino al rovesciamento, anche il suo giudizio, sui protagonisti dei suoi romanzi: i ragazzi della borgata romana. Dopo la scomparsa delle lucciole, anche la politica avrebbe cambiato di segno, rendendo inusabile persino il discorso del Politecnico e di Fortini sulla presenza in Italia di due fascismi: soggettivo e oggettivo. Dopo, la Democrazia cristiana diventa il vuoto, e i suoi dirigenti le “teste di legno”. Si sarebbe preparato così il passaggio dal vecchio assetto di potere a quello nuovo della polizia tecnocratica e sovranazionale. Non tragga in inganno la singolare aderenza di questa conclusione, quella della scomparsa delle lucciole, con la situazione attuale. Di mezzo, ci sono tutti gli anni Settanta, ci sono i suoi protagonisti: gli operai dei Consigli, i giovani, le donne. In mezzo c’è stata una contesa che ha cambiato il Paese con riforme sociali e di civiltà e soprattutto con una partecipazione e un protagonismo delle masse che avrebbe potuto portare a un’altra società, a un altro modello di società. È la sconfitta di quella storia che ci ha condotti qui, non la sua esistenza, che invece il poeta si è negata.

La distanza politica non poteva essere più grande, e proprio in quella fase, la metà degli anni Settanta, si faceva una distanza cruciale. Eppure, un filo forse allora poco visibile quanto resistentissimo ci ha continuato a legare a lui. Bisognerebbe riuscire a spiegarlo. Non so se in casi come questi, l’incontro tra dei giovani critici e uno scrittore, si possa parlare di innamoramento. Noi lo conoscemmo divorando i suoi Ragazzi di vita e Una vita violenta. Non eravamo così raffinati da aver saputo guardare bene dentro le straordinarie poesie che li avevano preceduti. Quei libri, per noi, furono una rivelazione. Ci portarono dentro le borgate romane fino al Prenestino a conoscere il sottoproletariato, così lontano dalla realtà operaia e politica che frequentavamo, e vicini alla sua scandalosa umanità. In quell’universo, il Riccetto, un ragazzo che vive di espedienti, di furti e di altro “fuori norma”, si tuffa nell’acqua del Tevere e rischia la sua vita per salvare una rondine che stava affogando. La vitalità, la spontanea generosità del ragazzo di borgata sono una risorsa di umanità, ma non possono essere un dono permanente. Quando Riccetto perde i suoi riccioli e si integra perde quella dote e si avvia al drammatico destino costruitogli da una società ingiusta e inumana.

Ma lì, in quel mondo, vivevano le lucciole, che sono la ragione della poetica di Pasolini. Lo dirà lui stesso nelle Ceneri di Gramsci. Il poeta si rivolge a Gramsci dicendogli «sono attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me una religione. Per la sua allegria (lo attrae), non la millenaria sua lotta, la sua natura, non la sua coscienza». C’è in una frase tutta una ragione di attrazione profonda e di un dissenso. Ritorna allora l’interrogativo: “Allora perché Pasolini?”. Già negli anni Sessanta, non è facile capire bene perché quei giovani militanti che si volevano eredi di marxismi eretici, che leggevano la politica del sindacato e delle sinistre alla luce della centralità del conflitto di classe, nella lente della lotta operaia, fossero così attratti dalla tematica pasoliniana e dalle sue opere, e ancora di più dalla sua figura di intellettuale, di scrittore, di artista. Lo inseguimmo ovunque: nel romanzo, nella poesia, nella saggistica, nella linguistica, fin dentro quel suo cinema così intenso e illuminato, che il capolavoro La ricotta aveva preannunciato.

Ci avevano avviati a lui i Dialoghi con Pasolini, la rubrica che lo scrittore teneva su Vie Nuove, un periodico comunista e popolare tra gli ultimi anni Cinquanta e i primi Sessanta. Erano state quelle risposte alle lettere dei lettori, che saranno poi raccolte nel volume Le belle bandiere. Ancora oggi, esse ci parlano della temperie di un tempo, di ricerca e di impegno. Pasolini vi era immerso da protagonista, secondo la sua interpretazione, e una presenza profetica in un tempo che era di transizione, cercando le risposte anche a quella che veniva definita una crisi (una delle tante crisi) del marxismo. Ma non nelle prossimità politiche vanno cercate quelle passioni nostre che si rivelarono durevoli. Infatti, anche quando quelle prossimità vennero meno, le nostre passioni continuarono. Già allora il panorama intellettuale e letterario avrebbe suggerito di poter alimentare, quelle stesse passioni, con altre presenze, suscettibili di maggiori sintonie politico-culturali. Scrittori come Franco Fortini, poeti come Edoardo Sanguineti, il Volponi del Memoriale, per altri versi ancora Calvino, e poi per intero il “Gruppo 63” che animava la ricerca della nuova Avanguardia, e altri ancora avrebbero potuto esserlo allo stesso titolo.

Perché quella connessione sentimentale con Pasolini? Una ragione forse si trova nel doppio di quella sua frase che abbiamo citato. Da un lato, un assoluto religioso della ricerca di un popolo che vive già, come può, l’umanità cercata per il futuro, l’avversione radicale alla società dei consumi, al capitalismo delle società violente come rifiuto sistematico del mondo borghese, conducono alla tensione profetica del poeta. Isaac Deutscher titola uno dei tre volumi della trilogia su Leone Trotskj Il profeta disarmato. Nessuna parentela con Pasolini, se non forse proprio la definizione di “profeta disarmato”. Noi quell’essere disarmato lo trovavamo nel secondo paragrafo della frase citata, quella in cui si diceva che non l’attraeva di quel popolo, che pure cercava, la sua lotta, la sua coscienza, cioè si può dire la classe operaia. Non si può prendere la scorciatoia per spiegare il rapporto con Pasolini con la sua grandezza, perché anche altri ce ne sono.

Forse ci aiuta invece a capirlo proprio questa drammatica tensione tra i due poli che, uniti, hanno riempito la politica del Novecento. Deprivato di quell’unione tra popolo e classe, Pasolini non si è arreso e ha continuato a cercare e a testimoniare. Conservatore e rivoluzionario, com’ebbe a dire Berlinguer del comunista. Alla modernità Pasolini si è messo di traverso, come Walter Benjamin, credo pensasse che la rivoluzione si fa premendo il freno e non l’acceleratore. Forse era proprio questo non poter essere mai pacificato che non consentì mai al dissenso di farsi separazione. “Loro” uccisero il profeta. Non so se avesse ragione Gianni Borgna nella sua ricerca sulla genesi dell’uccisione del poeta, uccisione che definiva politica. Certo, fu un omicidio culturale. Pasolini portava con sé nel mondo il carisma dell’ultimo grande intellettuale civile del Paese.

Nella contesa tra Sartre e Camus non si trattava allora di scegliere da che parte stare, ma di connetterli, di connettere l’intellectuel engagé e l’uomo in rivolta. Uno scrittore suo coetaneo, seppure da lui lontanissimo, Beppe Fenoglio, aveva trovato la parola giusta che credo possa definire il nostro Pasolini. Ritrovando le speranze del nuovo mondo che si affacciava, le speranze dell’aurora, Fenoglio scriveva che nasceva allora «quella nuova parola, nuova nell’acquisizione italiana, così tenera e splendida, nell’aria dorata: partigiano». Partigiano. Forse sta qui la ragione di una passione durevole.

Fausto Bertinotti. Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.

Anticipazione da Oggi – oggi.it il 2 marzo 2022.

A 100 anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini, l’ex agente infiltrato della Dea Nicola Longo, in una intervista esclusiva a OGGI, in edicola dal 3 marzo, rivela: «Fui io nel 1976 a recuperare le pizze rubate con le ultime scene di Salò o le 120 giornate di Sodoma (il cui recupero fu il pretesto per attirare Pasolini all’idroscalo di Ostia e ucciderlo, ndr), attraverso l’aiuto di un pezzo grosso della criminalità ormai deceduto.

Mi portarono il campione di alcune scene sottratte dal Casanova di Fellini per provarmi che stavano dicendo il vero», dice l’ex agente. Che aggiunge: «Il criminale che le fece ritrovare non chiese nulla in cambio». La ricostruzione e l’intervista completa sono su OGGI in edicola dal 3 marzo.

Cento anni di PPP. Ecco perché fu ucciso Pier Paolo Pasolini: la verità di David Grieco. Susanna Schimperna su Il Riformista il 2 Marzo 2022.  

«Un anno e mezzo per avere una distribuzione. La mia compagna Marina Marzotto, produttrice del film insieme a me, era andata a farlo vedere in Rai. Non avrei voluto, sapevo che sarebbe stato inutile. Infatti. Un mare di complimenti, elogi alla recitazione di Massimo Ranieri, di Libero De Rienzo, ma poi: “Pensate di farlo uscire al cinema? No, non può, nel modo più assoluto”». Così alla fine, senza aver avuto i fondi ministeriali e dopo ostacoli di ogni genere, il film di David Grieco Macchinazione, terminato nell’agosto del 2014, riesce ad arrivare nelle sale solo a Pasqua del 2016 grazie a una piccola distribuzione.

Pochi l’hanno visto anche se continua a circolare per l’Italia, ogni volta accolto come un piccolo evento, fonte di enorme curiosità, sconcerto, dibattiti. Perché Grieco, che ha conosciuto e frequentato Pasolini per più di quindici anni, in Macchinazione e nel libro omonimo scritto parallelamente alla lavorazione del film propone sull’uccisione del poeta un tesi molto diversa da quella ufficiale.

Se Pasolini non è stato ammazzato da Pino Pelosi, allora da chi? E soprattutto, perché?

È stato ammazzato perché rompeva i coglioni. Dillo con queste parole qui. Quello che andava scrivendo da un po’ sul Corriere della Sera, quello che scriveva sulle stragi, il suo “Io so tutto ma non ho le prove” – che è un manifesto del giornalismo, e lui negli ultimi anni si sentiva più che mai un giornalista – , il processo alla Dc, il suo ultimo romanzo Petrolio; ecco, tutto questo è “il perché”. Tutti sapevano che stava scrivendo Petrolio e che al centro del libro c’era Cefis. Anni dopo si è scoperto che molti appartenevano alla P2, che anche i vertici Rai appartenevano alla P2 (associazione su cui non si è mai riuscito a far luce, non dimentichiamolo). Pier Paolo andò all’idroscalo a lasciarci la pelle con la piena consapevolezza di rischiare. Probabilmente pensava “Mi conoscono tutti, sono Pasolini, faccio saltare il coperchio dalla pentola”. Invece non c’è riuscito perché le connivenze erano tante e tali. Pelosi ritrattò uscito dal carcere, poi cambiò ancora versione, e alla fine si è portato nella tomba ciò che sapeva. Ma cosa sapeva, poi? Solo quello che aveva visto. I baraccati che erano ai margini del campo di calcio raccontarono a Furio Colombo, che due giorni dopo andò lì, che erano in tanti, in tanti a infierire su un uomo solo per più di mezz’ora, mentre lui gridava “Mamma, mamma!”. Furio disse: “andate a parlarne ai magistrati”, e loro “no no, siamo abusivi e poi ci cacciano via di qua”. Che loro non siano andati dai magistrati è comprensibile, molto meno comprensibile è che i magistrati non siano andati da loro.

Anche tu sei andato all’idroscalo subito dopo l’omicidio.

Sì. Ho ventiquattro anni, vado e porto con me Faustino Durante, che è mio suocero, che a sua volta porta Guido Calvi, all’epoca un giovane avvocato. Scrivo poi la memoria di parte civile del primo processo a Pino Pelosi, su incarico della cugina ed erede di Pasolini, Graziella Chiarcossi. Tempo dopo c’è il progetto di un film con Abel Ferrara che invece non farò.

Che è successo con Abel Ferrara?

Mi aveva chiesto di scrivere un film su Pasolini di cui lui sarebbe stato il regista. La televisione francese Canal Plus era disposta a produrlo solo se l’avessi scritto io, che ho tantissimo materiale accumulato negli anni e sono molto ben disposto. Ma entro subito in rotta di collisione con Abel perché lui se ne fotte altamente di come sia morto Pasolini. «Io non voglio fare una storia di spionaggio», mi dice. E mi descrive Pasolini con “un uomo ricco che comprava carne”, mandandomi in bestia. Allora scrivo e realizzo un film mio, parallelamente a un libro con lo stesso titolo, per raccontare una parte dei retroscena su quella morte. Altri retroscena sono venuti fuori successivamente.

Facciamo un grande salto all’indietro. A quando hai conosciuto Pasolini.

Avevo nove anni. Lui frequentava la compagna di mio padre, Lorenza Mazzetti, quindi veniva spesso a casa nostra. Lorenza aveva cominciato a fare dei film a Londra non avendo una lira, rubando la pellicola e la macchina da presa alla scuola che frequentava, ma questo Pier Paolo non lo sapeva ed era ansioso di capire come si potesse realizzare un film a basso costo. Veniva insieme a Bernardo Bertolucci, restavano a chiacchierare per ore. Doveva fare Accattone ed era stato accannato da Fellini… Poi un giorno, all’epoca di Teorema, scrive una parte per me. Io quanto a recitazione sono un cagnaccio, e subito, il primo giorno di riprese a Milano, mi impunto: «Non me la sento di proseguire questa impostura, non sono un attore, non posso fare l’attore». Gli chiedo però di essere il suo assistente volontario e lui accetta. Quando, a diciott’anni e quindi poco dopo, sono giornalista all’Unità, divento un po’ il suo tramite: faccio una serie di campagne col giornale contro la censura, contro i sequestri insopportabili dei film, tra cui quelli proprio di Pasolini. Al di là di questo, ci frequentiamo molto. Pur non essendo borgataro (mio padre giornalista e per anni direttore dell’agenzia Tass, mio nonno tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia), faccio parte di questa banda di borgatari, Franco Citti, Ninetto Davoli. Perché sono cresciuto un po’ in mezzo alla strada e parlo la loro stessa lingua, cosa che affascina Pasolini.

Che facevate con questa banda?

Erano anni in cui la sera uscivi senza mèta. Ancora si poteva. Per esempio facevamo le “macchinate”: tutti a bordo di due o tre macchine, e via. Finivamo al Tiburtino III, o magari a vedere l’alba a Pietralata. Lui amava Roma come la può amare un gatto randagio e ci portava tutti dietro.

Raccontami di lui sul set. E nel quotidiano, a parte le macchinate.

Era ovunque lo stesso. Era come era. La persona più gentile del mondo. Non alzava la voce nemmeno quando ci assalivano i fascisti per la strada. Succedeva spesso: lui era molto riconoscibile, con quei tratti del viso, gli occhiali neri, quindi le persone lo fermavano e si mettevano a parlare. Pasolini dedicava tempo a chiunque (e per questo non si arrivava mai puntuali agli appuntamenti). Poi uno o più tipi cominciavano a insultarlo, a botte di “frocio” e altre piacevolezze. Pasolini non mollava, cercava finché possibile di dialogare. Ma se quelli passavano alle mani, lo faceva anche lui. Gli ho visto mettere in fuga anche tre o quattro uomini ben piazzati.

Di che parlavate? Che ti ha insegnato?

Non faceva sermoni di tipo paternalistico. Era un uomo di poche parole, dotato di ironia. A me ha insegnato essenzialmente una cosa: a pensare con la mia testa. Ti cito uno degli infiniti episodi. Ero diventato critico cinematografico dell’Unità e in quel periodo Moravia lo era dell’Espresso. Lo era a modo suo, e tutta la categoria dei critici cinematografici lo prendeva molto in giro. Una sera Pasolini sentì che stavo un po’ schernendo Moravia e mi disse «Sei uno stupido. Moravia vede i film con i suoi occhi e la sua testa, e tu faresti bene a fare la stessa cosa, anziché far parte di una congrega». Se poi vuoi sapere dei suoi discorsi, si partiva sempre da cose semplici, il cibo che stavamo mangiando per esempio, e si poteva arrivare pure a parlare di Socrate, ma così, perché veniva spontaneo. Amava la spontaneità e la sincerità sopra ogni cosa, odiava la falsità e i formalismi. Infatti era fuori da tutti i giri. Ogni tanto si andava nei cosiddetti salotti, ma erano incursioni rapidissime solo per salutare qualcuno e basta, di solito per salutare proprio Moravia.

Hai detto prima che da un certo punto in poi si sentiva soprattutto un giornalista…

Sì, e il rapporto con me era infatti anche professionale. Lui, pubblicista, adorava questo mestiere. Indagava per conto suo, quindi gli servivano articoli, materiale, e me li chiedeva. Scritti corsari, raccolta di articoli apparsi sul Corriere, per me è il libro di iniziazione pasoliniana. I ragazzi oggi lo stanno scoprendo, lo amano. Io vado spesso nelle scuole, ora più che mai perché è l’anno di Pasolini, ed è pieno di giovani interessatissimi a lui e a quel libro, con delle curiosità che non ti aspetti.

Celebrato da decenni e quest’anno più che mai…

Da un lato lo santificano, dall’altro lo vedono come un cliente di marchettari ammazzato una sera per caso da un marchettaro. Pasolini odierebbe tutte queste celebrazioni, non amava nemmeno ricevere premi. Era un dolce ragazzaccio.

Di lui si sono appropriati tutti. Si sottolineano tendenziosamente alcune sue posizioni, che se pure ha avuto allora forse in altri tempi e contesti avrebbe cambiato, e certe sue frasi vengono ripetute come dei mantra. Un po’ come è accaduto con Fabrizio De André. Guai a contestare Pasolini. Cosa ti dà più fastidio delle infinite cose dette su di lui?

Dato che non sono lui né sono suo figlio, mi faccio scivolare tutto, non mi indigno più. Ne ho sentite talmente tante quando era vivo, che ci avevo (e ci aveva anche lui) fatto il callo. Il Pd, che è quella cosa che somiglia alla Dc più di ogni altra identità politica, creò qualche anno fa una scuola di partito a Roma – idea di Massimo Recalcati – intitolata a Pasolini. Un paradosso. Mi diverte vedere quanta gente provi a impossessarsi di Pasolini e che magre figure facciano.

La famosa poesia dalla parte dei poliziotti: “Avete facce di figli di papà. / Buona razza non mente. / Avete lo stesso occhio cattivo. / …Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti / io simpatizzavo coi poliziotti!”…

Quanto ci hanno ricamato sopra. Quanto l’hanno usata per denigrare la ribellione dei ragazzi. È tutto molto più semplice e dobbiamo ricordare l’occhio lucido di Pasolini: a Valle Giulia negli scontri con la polizia ci stavano i fascisti, ci stavano Stefano Delle Chiaie e tutta questa gente qua. C’erano le foto, bastava osservarle. Il punto è: perché Pasolini quelle foto le “vedeva”, oltre che guardarle, e gli altri no?

Vedere. Occhio lucido. Ma non solo: Pasolini è considerato un profeta. Tra le tante cose, quale è quella più importante che avrebbe previsto, secondo te?

La più straordinaria è Alì dagli occhi azzurri. È la visione a colori estremamente nitida, a fuoco, della migrazione dall’Africa. Parliamo dei primissimi anni Sessanta. Quella sì che fu come uno squarcio profetico. Per il resto, era… lavoro. Lui indagava, pensava, e giungeva a conclusioni logiche. Aveva negli ultimi tempi un’ansia letteralmente febbrile, tanto che era difficile stare con lui, viaggiava velocissimo. Aveva capito che si stava creando o si era appena creata la P2, con complicità insospettabili di qualsiasi genere. Per fare il colpo di stato senza carri armati e senza sparare un colpo.

Era pessimista. Direi apocalittico. All’intervista del 1° novembre ’75, rilasciata a Furio Colombo poche ore prima di morire, aveva voluto dare un titolo egli stesso: “Perché siamo tutti in pericolo”.

Si sentiva solo. Eravamo in tanti a stargli vicino, Laura Betti forse prima fra tutti, ma lui capiva e soffriva di non riuscire veramente a trasmetterci le scoperte che andava via via facendo, e i suoi timori. Parlavamo spesso di politica, mi aveva fatto portare una lettera a Enrico Berlinguer alle Frattocchie. Amava molto Berlinguer. Poi come aveva visto che si stava realizzando il compromesso storico, era trasecolato e aveva detto “no no, Berlinguer non deve fare un errore di questo genere”.

Temi di cui aveva parlato anche in quell’ultima intervista: l’istruzione scolastica obbligatoria a cui era contrarissimo e che secondo lui appiattiva tutti; la repressione sessuale ancora potente; il consumismo; l’omologazione (che si cita puntualmente insieme al nome di Pasolini, ma in realtà non è per lui un male primario, è la risultante di scuola obbligatoria, più tv, più consumismo). Che avrebbe detto oggi della sessualità, del gender, di questa voglia di nominare e forse normare? L’avrebbe considerata o no la tappa di un percorso di liberazione?

No, avrebbe odiato tutto questo. Si era tenuto sempre lontano anche dal FUORI di Angelo Pezzana, non era d’accordo sulla “sindacalizzazione” degli omosessuali. Figuriamoci adesso. Non puoi più dire nulla, tutto deve essere all’interno di questo cruciverba assurdo, fatto di incastri che sono in realtà proibizioni, limiti.

Sul darsi un nome, definirsi: siamo sicuri che Pasolini fosse di sinistra? Intendo con i parametri dell’epoca, non quelli attuali.

Lui era un comunista. È morto pensando di essere comunista, e se ti dovesse rispondere adesso continuerebbe a dire «Sono un comunista». Con tutto ciò che questo implica, anche illusioni e disillusioni. Susanna Schimperna

Dacia Maraini: «Pasolini viene spesso a trovarmi nei sogni. Anche ora». Scrittore corsaro. Voce profetica. Poeta maledetto. Capro espiatorio. A cento anni dalla nascita continua a inquietare i conformisti. In un Paese non più suo, abitato dal vuoto. Marco Damilano su L'Espresso il 28 febbraio 2022.

Pier Paolo riposa oggi accanto alla mamma Susanna, in una piccola tomba con la lapide sporca, annerita dal tempo, che si fa fatica a vedere. «Carissima pitinicia», si rivolgeva a Susanna, «in Casarsa quello che conta è la campagna attorno, con i suoi orizzonti e i suoi angoli segreti». A Casarsa della Delizia, sulle sponde del fiume. «Ho voglia di essere dentro il Tagliamento, a lanciare i miei gesti uno dopo l'altro nella lucente concavità del paesaggio.

Ascanio Celestini: «Pasolini, un poeta ucciso dal Novecento​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​».

La prima poesia. Il cimitero di Casarsa. L’innocenza perduta del Pci. La bomba di piazza Fontana. Il corpo seviziato. Negli oggetti dello spettacolo teatrale “Museo Pasolini” la nostra storia. «Era famoso, è stato utilizzato dal fascismo come un contenitore del letame. Il regime l’ha consegnato alla sua fine». Marco Damilano su L'Espresso il 28 febbraio 2022.

Largo Spartaco, con le case di via Sagunto nel quartiere Quadraro di Roma, costruite con il piano Ina-Casa firmato nel 1949 dal ministro democristiano Amintore Fanfani. Un lunedì romano di pioggia e di vento, i murales nel sottopassaggio, il bar con le foto di Anna Magnani e Alberto Sordi, la parrocchia dell’Assunzione di Maria di cemento armato in mezzo ai palazzi, una scritta sul muro: «Babbo Natale servo del Capitale».

Poeta, scrittore, regista, polemista; un artista totale. Chi era Pier Paolo Pasolini, il vate del complottismo e del giustizialismo. Angela Azzaro su Il Riformista il 26 Febbraio 2022. 

Scrittore, poeta, polemista, regista, pittore. Ma anche anti-sessantottino, anti-abortista, anti-modernità. Pier Paolo Pasolini ha incarnato nel Novecento l’artista totale, il genio che qualsiasi iniziativa decidesse di intraprendere diventava un’operazione riuscita. La sua opera, a prescindere dal mezzo che utilizzava, ha toccato le grandi questioni della contemporaneità con domande e con provocazioni che ci interrogano ancora oggi. Artista totale lo era anche per il modo in cui ha vissuto la sua vita, in un’esposizione costante del suo corpo, del suo desiderio, del suo essere se stesso.

Pasolini il maledetto, perché la sua epoca lo ha tanto amato ma anche tanto odiato. Per la sua sessualità che nella dichiarazione di omosessualità non si è mai voluta normalizzare, diventare famiglia, scegliendo la strada e i ragazzi di vita come luogo del proprio desiderio. Per la sua ereticità, per il suo stare sempre dall’altra parte come quando dopo Valle Giulia si schiera con i poliziotti contro i figli della borghesia che manifestano. Con le lucciole rimpiange in maniera reazionaria il passato, evocando un mondo ancestrale fatto di sfruttamento e di potere maschile. Lui queste storture non le vede, non le denuncia. Anzi. La nostalgia per il mondo che viene travolto da quella che poi chiameremo globalizzazione è troppo forte. E così sull’aborto volta le spalle al femminismo, le cui ragioni non fa mai sue. Pasolini viene espulso dal Pci per immoralità, subisce 33 processi e un centinaio di denunce. È scomodo, fuori da qualsiasi chiesa. Eppure proprio lui che viene perseguitato dalle autorità per le sue idee e il suo linguaggio è uno dei padri del complottismo italiano.

Non è un caso che di recente la rivista del Fatto quotidiano, “Millennium”, abbia dedicato un articolo alla persecuzione giudiziaria da lui subita. A parte la contraddizione palese – l’house organ delle manette che protesta contro le manette a Pasolini – è chiaro il filo che lega il grande scrittore a giustizialisti e complottisti, che poi spesso sono la stessa cosa. Certo, va fatta subito una precisazione: stiamo parlando da una parte di un grande intellettuale e grande scrittore, dall’altra del cascame ideologico, privo di talento, che in questi anni ha divorato anche la cultura e l’intellighenzia del nostro Paese. Ma non si può, a distanza di anni, non mettere sotto accusa l’articolo uscito il 14 novembre 1974 sul Corriere della sera dal titolo Cos’è questo golpe? Io so (i nomi): un atto di accusa generico contro la classe politica che avrebbe nascosto i responsabili delle stragi. “Io so i nomi – scriveva – ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”.

Il manifesto del giustizialismo che decide la colpevolezza calpestando la presunzione di innocenza, che manda le persone in galera sulla base di teorie non verificate, che organizza processi sommari nella pubblica piazza sulla base di convinzioni personali. Sì, è vero che Pasolini è stato profetico, lo è stato sicuramente rispetto a quello che sarebbe stato il clima generale del Paese dopo vent’anni, trent’anni dalla sua morte. Un clima che dura ancora oggi. Un anno dopo la pubblicazione di quell’articolo, il 2 novembre 1975, Pasolini viene ucciso all’Idroscalo di Ostia. Il colpevole per i giudici è Pino Pelosi, detto la Rana, che trent’anni dopo aver riconosciuto di essere stato lui l’omicida di Pasolini, dichiara in un’intervista a Franca Leosini di non essere stato solo sul luogo del delitto. In seguito farà anche i nomi dei cosiddetti complici. Ma Pelosi non parla a caso. Sono anni e anni che si alimentano teorie complottiste sulla morte di Pasolini. Qualcuno dice che è stato ucciso per avere scritto l’articolo “io so i nomi”, altri legano il mistero al film Salò che uscirà poco dopo la sua morte e di cui, durante le riprese, vengono rubate alcune bobine.

Nel 1986, quando viene pubblicato Petrolio, la narrazione sulla sua morte si infittisce ulteriormente. Il romanzo è un “non finito”, ma forse proprio per questo suo “non finito” è dal punto di vista stilistico, letterario, un vero caso. Il frammento inserito nel disegno monumentale dell’opera crea un elemento di contraddizione fortissimo: la narrazione sincopata eppure epica, l’ambizione di raccontare un intero Paese, attraverso lo sdoppiamento di personalità del protagonista Carlo diviso tra il bene e il male e che a un certo punto si sveglierà nel corpo di una donna. C’è in Petrolio tutta l’ideologia pasoliniana che andrebbe indagata, capita, vagliata. Ma c’è chi ci ha voluto vedere prima di tutto il motivo della sua morte. La critica al potere, al Palazzo (è sua la definizione populista) sono il collante dell’opera in cui si raccontano le vicende dell’Eni. E se lo avessero ucciso per questo? E se Petrolio fosse legato a Salò e alle bobine rubate?

Nel 2010, per non farci mancare nulla, Marcello Dell’Utri, ha dichiarato di avere ritrovato un frammento sparito del romanzo. Nuove ombre, nuove congetture. Invece l’unica certezza è che Pasolini è stato ucciso da uno dei ragazzi di vita, e questo non va giù. Non va giù che il mito, il vate, il grande intellettuale avesse una vita sessuale non classificabile, per molti insopportabile moralisticamente. Quegli stessi che però ne hanno amato le congetture, le definizioni che alimentano i sospetti, la cultura della presunzione di colpevolezza. A tal punto hanno amato questi aspetti di Pasolini, da aver proiettato sulla sua morte questa passione per l’irrazionale, per l’anti-politica, per tutto ciò che non rientra nello stato di diritto. Caro Pasolini, lasciacelo dire, quanti danni hai fatto!

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Dagospia l'11 marzo 2022. Tratto da “Quando c’era Pasolini” (Baldini+Castoldi) di Fulvio Abbate. Appena uscito in libreria.

Nel novembre del 2013, su “La Lettura” del “Corriere della Sera”, ho avuto modo di scrivere poche parole. Di congedo. Da Pasolini. Convinto – scrivevo allora – che si tratti di una battaglia ormai persa. Eccole: «Ho appena deciso di “abiurare” ciò che ho scritto a proposito di Pasolini nel corso degli ultimi vent’anni. 

Nell’ordine, un romanzo del 1992, Oggi e un secolo, dove lo immaginavo mentre fa ritorno a noi, come in un seguito di Uccellacci e uccellini; e ancora, C’era una volta Pier Paolo Pasolini, del 2005, dove provavo a raccontare la “necessita” della sua voce di poeta, anzi, il bisogno della persistenza della sua tersa consapevolezza politica; e poi, infine, Pier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi, uscito pochi mesi fa.» 

Uno scritto, quest’ultimo, concepito affinché coloro che son venuti dopo potessero intuire la vitalità, la grandezza dello scandalo che animava gli anni Settanta, i più incandescenti, l’avventura terminale pasoliniana. Lo stesso scrittore, pochi mesi prima di finire assassinato, volle abiurare, testualmente, la sua Trilogia della vita: Decameron, Canterbury e Il fiore. Riteneva che «ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, e divenuto suicida delusione, informe accidia».

Anch’io sento una simile delusione, e dunque prometto che quando si tratterà di celebrare i cento anni della nascita, o portare l’ennesima primula all’Idroscalo di Ostia, non ci sarò, ne metterò nero su bianco una parola, fosse anche di quelle necessarie a spiegare, come disse proprio Pasolini al giovane Veltroni, che «si applaudono sempre i luoghi comuni» mentre uno scrittore dovrebbe essere «una contestazione vivente». 

Parole che listano a lutto l’assenza ormai conclamata di una Sinistra, di una forza d’opposizione, di uno «straccetto rosso»; acclarato il vuoto di fantasia di chi avrebbe dovuto almeno provare a dargli retta. Alla fine, non sono riuscito a scriverne ancora. 

Personalmente penso che la scelta non apologetica, bensì problematica, sia l’unica necessaria per sottrarre Pasolini alle sue prefiche. Laureate e non. Trovo desolante che il poeta delle Ceneri di Gramsci sia diventato un Padre Pio dell’afasia «civile», sempre lì a mettere in moto la regressione letteraria e fideistica, com’e testimoniato dai molti blog che tengono accesa la lucciola pasoliniana nell’infinito della Rete, dove la melopea-lagna non riesce a produrre pensieri se non regressivi: fra convento fortificato e fan club. 

Sono deluso dalle semplificazioni di quei «fascisti» che con poveri mezzi d’intelletto a loro volta rivendicano l’antimodernità dello scrittore in chiave autarchica, cosi come mi deprime ripensare, e l’ho già raccontato, alcuni ragazzi gay in nero-Paul Smith che davanti alle foto di PPP nudo scattate alla torre di Chia da Dino Pedriali nel 1975 seppero trovare come uniche parole un «che gran figone!» Per non dire di certi ex voto pittorici del suo volto, talmente brutti da surclassare il peggiore dei generi.

Anche Enrique Irazoqui, già Cristo nel Vangelo secondo Matteo, ha detto di sentirsi altrettanto «infastidito dal culto acritico universale di San Pier Paolo Pasolini, del Profeta Pasolini, dell’Infallibile Pasolini». Stringere la mano a Pino Pelosi, l’assassino, l’ho detto, mi ha suscitato meno disagio di tutto ciò che ho appena provato a raccontare. 

Come in una tragica natura morta, ritrovo e provo ad elencare le povere cose che si trovano oggi al Museo Criminologico di via Giulia, a Roma, la strada della «comare secca», la morte.

 Ritrovate nell’auto, la Giulia metallizzata di Pier Paolo Pasolini in ordine sparso: il libretto degli assegni, il libretto dell’auto, una confezione di preservativi “777” e una di “Saridon”, una carta geografica dell’Italia centrale, tre fototessere, i suoi occhiali, la tessera in marocchino verde di giornalista pubblicista, una copia dell’antologia, tascabile, del “Politecnico” di Elio Vittorini, una copia Adelphi di Sull’avvenire delle nostre scuole di Friedrich Nietzsche, un premio cittadino: una statua che mostra Nettuno con il suo tridente, infine la canottiera verde che indossava la notte della morte, la camicia a righine orizzontali, le due tavolette che servirono al suo massacro dove, con vernice rossa, si trova scritto: “Via idroscalo 93” e “Buttinelli. A”. 

Chissà perchè, chissà come, alla fine di questo libro, pensando all’«umile Italia», mi sono ritrovato tra le mani due foto, scattate, in bianco e nero, ai baracchini delle fototessere che si trovano in strada o in prossimità delle stazioni.

Nei due scatti in sequenza appare, c’è, vive, Peppino R., «sottoproletario della sezione Borgo Vecchio del Pci di Palermo». Chi le ha fatte giungere fin sotto il mio sguardo, cinquant’anni dopo, lo racconta, lo restituisce «cantastorie, imbianchino a tempo perso e venditore di palloncini nelle feste di paese. Il Pci degli umili e dei senza voce» 

Nelle foto, Peppino indossa il basco cachi del servizio militare, il fregio di plastica nero della fanteria, lo indossa e così si mostra come vezzo, come se quel berretto, indossato come un oggetto di scena della vita trascorsa, lo restituisse alla pienezza del tempo e del mondo, forse anche del cosmo, di più, del viaggio. Chissà in quale possibile paradiso delle molliche sociali calpestate, spazzate via dalla durezza dell’esistenza, ammesso che un paradiso esista, sia mai esistito, si possa trovare adesso Peppino. Alla fine, non resta che una parola, per lui, per tutti: compassione.

Il mio libro è dedicato a Carlo Alberto Pasolini dall’Onda, padre rimosso di Pier Paolo.

Cento anni di PPP. “Quando c’era Pasolini”, cronache di un mondo che non esiste più. Fulvio Abbate su Il Riformista il 27 Febbraio 2022. 

Il primo significativo anniversario della morte dello scrittore di cui c’è modo d’avere pubblica memoria, il decennale – novembre 1985 – innalzava un titolo che sapeva di avvenire, forse anche speranza di continuità del suo discorso, delle sue profezie, Una vita futura, la manifestazione seppe occupare lo spazio monumentale, arcaicamente imperiale, dei Mercati di Traiano, in via IV Novembre, tra l’infilata di una piccola scalinata che lascia intravedere il Vittoriano e piazza Venezia, e il viale in salita che conduce al Quirinale, a Roma.

Nelle “stanze”, trovavi i costumi da Maria Callas indossati nei fotogrammi di Medea, esposti accanto a ceste colme di nocciole raccolte a Chia, nel bosco intorno alla torre medievale da Pasolini acquistata nel 1970 con l’intenzione dichiarata di trascorrervi la vecchiaia, coabitando magari con la famiglia di Ninetto Davoli. C’è ancora modo di ricordare la presenza di Alberto Moravia, la sua andatura d’ospite, amico, d’onore, l’andatura del parente, del congiunto, la sua compagna Carmen Llera che lo tiene per mano, e poi, elegantissimo, «regimental» nel gusto, mano in tasca, Alberto Arbasino che confabula proprio con la Betti di com’erano «certi giorni insieme a Pier Paolo», discutono di cose amate insieme e forse ormai assenti, com’era Roma al tempo di Giro a vuoto, com’era Gadda, squisito, «davvero carino» incalza lei, la vedova Pasolini, abito verde ampio come uno Zeppelin, in gran spolvero per la vernice culturale e mondana. «L’unica forza contestatrice è il passato», affermava d’altronde Pasolini. Arbasino nel suo libro Un paese senza ha scritto cose molto chiare e terse su PPP.

Sotto le mura e dunque in mezzo ai fossati di Castel Sant’Angelo, Pietro Folena, nello stesso decennale della morte dello scrittore, proprio Folena segretario dei giovani comunisti del Pci, volle che la loro festa annuale prendesse il nome, il volto e gli argomenti politici e umani di Pasolini, e perfino la proiezione dei suoi film, su tutto Accattone. Nel 1985 lo stabilimento del «Ciriola», chiatta galleggiante dipinta d’azzurro e bianco che nel film ricorre come un luogo di ritrovo obbligato, stava ancorata al suo posto, sotto il ponte con il suo corredo di angeli di pietra, sebbene fosse ormai in stato d’abbandono, casa sbilenca, rifiuto urbano, monumento ufficioso al tempo di un’altra città, di un altro fiume… Sempre lì, Giovanni Franzoni, già abate della basilica di San Paolo fuori le Mura sospeso «a divinis» per aver dichiarato il proprio voto al Pci nei primi anni Settanta, raccontò di un Pasolini polemico con i cattolici “del dissenso” a proposito del concetto di «desacralizzazione» sostenuto da questi ultimi. «Voi sbagliate», avrebbe detto, «occorre invece imporre la sacralità del tutto».

Per il ventennale – novembre 1995 – giunse da alcuni la bizzarra idea, accolta comunque volentieri da Laura Betti, di mettere la cittadina di Ciampino al centro dell’evento. Gli amici, gli ospiti, i partecipanti, accompagnati, portati fin laggiù in treno, partendo dai binari di Termini, con una vera tarda «littorina» ormai degli anni Cinquanta, messa a disposizione dalle Ferrovie dello Stato, così da rifare lo stesso tragitto che PPP affrontava ogni mattina per andare a insegnare, a Ciampino appunto, scuola media «Petrarca», dove fra i suoi allievi avrebbe avuto il futuro scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami. Si era in clima di «tangentopoli», la ruota dell’inchiesta Mani pulite sembrava dovesse mutare radicalmente il costume e il paesaggio stesso del Paese, così a qualcuno venne in mente di organizzare, sempre in nome della «cara memoria» di Pasolini, una partita di calcio fra politici e magistrati. Non era forse vero che l’uomo amava il calcio più di ogni altra cosa al mondo? Non era altrettanto sicuro che la giustizia gli dovesse ormai un «risarcimento» morale?

Intervistato da Pippo Baudo a La freccia d’oro, programma pomeridiano che prevedeva un quiz per scoprire un personaggio famoso attraverso alcuni indizi, Pasolini alla domanda «Se non avesse fatto lo scrittore, cosa avrebbe scelto?» rispose «Avrei fatto il calciatore». «In che ruolo?» ribatté il presentatore, e lui, con tono sicuro che non nascondeva una garbata timidezza: «Mezz’ala». Lo si era già detto, ma qui suona da conferma. Fra i giudici, nello stadio di Ciampino, Gherardo Colombo e Felice Casson, fra i politici Walter Veltroni e Massimo D’Alema. Alla partenza da Termini, le tende spesse di broccato marrone, mosse dal vento che giungeva dai finestrini aperti nono- stante le temperature di novembre, schiaffeggiavano le guance dei passeggeri seduti lì accanto, il paesaggio non era più quello originario, anche se il Mandrione sembrava immacolato nella sua realtà marcita di rudere. Intronata sui sedili di legno, Betti, al meglio del suo furibondo fulgore, rimuginava intanto qualcosa di terribile, una scenata, sì, una scenata improvvisa, una scena madre che sarebbe poi avvenuta davvero in trattoria.

Franco Citti, Sergio Citti, Mario Cipriani (quest’ultimo è «Il Balilla» di Accattone e lo «Stracci» de La ricotta), e Ninetto Davoli, per fatti loro, la testa nel piatto colmo di ricotta, citazione alimentare volontaria della serata, se ne infischiano delle sue bizze, anzi, Franco Citti mormora un «Ma se n’annasse affanculo, che cazzo vole…» Forse insieme a loro c’era anche Ettore Garofolo, il figlio della Magnani in Mamma Roma. Gli ex ragazzi di vita anche quel giorno, vent’anni dopo la fine tragica dell’amico «Paolo», «Pa’», mostravano d’appartenere ad altri mondi, Paese e tavoli separati, lontani dagli e dalle sovrastrutture della cortesia borghese. Anche Franco Citti, sì, lui, Accattone, e non il fratello Sergio, il regista, il «filosofo» che portò Pasolini a scoprire meglio le borgate, proprio Franco, l’attore, un bel giorno, suppergiù nel 1991, sentì il bisogno di fare un film per Pasolini, lo sentì “dal cuore”, come in una chiamata. Nonostante il carattere ombroso, la natura taciturna, Franco ottenne il sostegno di un amico proprietario di una televisione privata, così il film poté essere girato in 16 millimetri, ma «co’ manco ’na lampadina».

Mi raccontava invece Ettore Scola di avere avuto «l’idea di un film con un prologo», da affidare a Pasolini, una sorta di «apocrifo» pasoliniano. «Solo in letteratura esiste il prologo, la prefazione», continuava a dirmi Scola, «dove un autore più importante presenta il testo del più giovane. Allora gli dissi: siccome questo mio film arriva quindici anni dopo Accattone, con un genocidio culturale sempre più evidente, nuovi falsi bisogni imposti dal consumo borghese, mi piacerebbe davvero che ci fosse un tuo prologo. L’avremmo girata a film finito, dopo avere rivisto insieme il materiale montato. Non un prologo scritto, ma un prologo parlato, ovviamente. Era d’accordo, mi disse così: mi vesto tutto di bianco e lo vengo a girare in queste baracche che hai costruito a Monte Ciocci, meglio, in cima a via Cipro, dalle parti della stazione ferroviaria urbana di Valle Aurelia, con me che passeggio tra le baracche e intanto racconto questi dieci anni che hanno visto la prosecuzione di un genocidio umano e antropologico.

Fulvio Abbate.

Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “La peste bis” (1997), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Pasolini raccontato a tutti” (2014), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "I promessi sposini" (2019). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

Cento anni di PPP. Per salvare Pasolini bisogna abbandonarlo, non trasformarlo in un feticcio pop. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 27 Febbraio 2022. 

«Contro tutto questo voi non dovete fare altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare». Nel suo ultimo documento pubblico – il testo di un intervento che avrebbe dovuto tenere al 15º Congresso del Partito Radicale nel novembre del 1975, due giorni dopo il suo assassinio – Pier Paolo Pasolini ci consegna un compito: sappiate essere “eternamente contrari”.

I cento anni dalla nascita di PPP ci obbligano a confrontarci con questa eredità inattuabile e sfuggente. Ciò che rimane di Pasolini non è sintetizzabile in un insegnamento univoco o in una formula trasmissibile, ma è rappresentata dalla complessità contraddittoria di una testimonianza che ci invita ad essere sempre incompatibili, sempre contrari. E Pasolini incarna e rappresenta questa inconciliabilità dell’intellettuale “di nessuna chiesa” che vuole attraversare tutte le contrapposizioni cui sono gravide la vita e la società, rifiutando le etichette e le appartenenze. Tra solitudine e mondanità, tra perversione e santità, tra marxismo e cattolicesimo, tra ribellione e conservazione, Pasolini è “eternamente contrario”, inclassificabile negli schemi binari in cui, oggi più che mai, tendiamo a ordinare il mondo.

«I maestri si mangiano in salsa piccante» consigliava il Corvo a Totò e Ninetto Davoli in Uccellacci e uccellini. E se i maestri non vanno venerati, ma letti, studiati, interpretati, digeriti, contraddetti e (quando necessario) abbandonati, allora anche Pasolini va mangiato “in salsa piccante” per parafrasare un saggio di Marco Belpoliti.

Rimanere fedeli al maestro-Pasolini vuol dire affrancarlo dai sacerdoti del “pasolinismo” che lo hanno trasformato in un mito venerabile e intoccabile, in un santino plastificato, in un feticcio pop molto simile alla faccia di Che Guevara sulle magliette. Bisogna tornare alla molteplicità ambigua della sua opera, alla forza tragica e disturbante, come nel suo corpo nudo, indifeso e potente, come nelle foto scattate da Dino Pedriali nella torre della Tuscia dove si era esiliato a scrivere Petrolio. Se vogliamo rispettare il suo comandamento – “essere eternamente contrari” – dobbiamo diffidare dagli epigoni che vogliono imitarne la posa parodiando l’atteggiamento dell’intellettuale apocalittico che parla male della televisione in televisione e che tutti i giorni posta la propria indignazione contro i social sul suo profilo social. Quella retorica benpensante, trita e ritrita, è buona solo per conquistare un po’ di temporaneo consenso. Ma il successo, come spiega Pasolini in una memorabile intervista televisiva a Enzo Biagi, «è l’altra faccia della persecuzione». E gli intellettuali pasoliniani hanno scambiato l’engagement alla francese degli intellettuali del ‘900 per l’engagement all’inglese dell’attivismo social, dove il coinvolgimento del proprio pubblico va di pari passo con il sostegno alle buone cause.

L’antidoto per vaccinarci dal pasolinismo à la page ce lo fornisce, per fortuna, Pasolini stesso. Basta rileggere gli Scritti corsari per avere le armi giuste per difendersi dal virus del conformismo degli anticonformisti, dal pericolo del fascismo degli antifascisti, dall’ipocrisia di chi trasforma la critica radicale in una moda vuota e superficiale. Pasolini non è l’intellettuale organico che “suona il piffero per la rivoluzione”, e tanto meno un semplice giornalista d’inchiesta che si batte per raccontare le verità taciute dai “poteri forti”. Chi schiaccia la morte di Pasolini su quel “Io so” pubblicato in prima pagina dal Corriere della Sera – alimentando l’idea di un martirio causato dalle trame occulte di un complotto politico– lo fa per rendere più accettabile una morte inaccettabile, legata alla pratica di un’omosessualità mai digerita dalla cultura italiana (e dallo stesso Partito Comunista che nel 1946 lo espelle per “indegnità morale e politica”).

La definizione più autentica dell’enigma-Pasolini l’ha data Alberto Moravia che durante il suo funerale dice: «Oggi è morto un poeta». Pasolini è un poeta perché solo i poeti possono plasmare la realtà. Solo i poeti sono capaci di fornirci altre lenti con cui guardare il reale, un altro sguardo che trasforma le cose illuminandole in modo nuovo. Solo i poeti possono trasformare la vita stessa in un’opera. “Poesia vissuta” come la chiama in una lettera a Sandro Penna del 1970 (raccolta nella nuova edizione pubblicata da Garzanti a cura di Antonella Giordano e Nico Naldini), poesia come questione di vita o di morte, nulla a che fare con la retorica del “si stava meglio quando si stava peggio” della vulgata pasoliniana. Solo i veri poeti non ricercano la provocazione esteriore, l’oscenità fine a se stessa, ma il vero “scandalo” che trasforma il mondo e la vita. In un dibattito con il giornalista Antonio Ghirelli, Pasolini lo esplicita chiaramente: «Non cerco la provocazione formale, ma lo scandalo in senso evangelico».

Il termine skandalon è ripetuto almeno 15 volte nel Vangelo e, in greco, vuol dire “pietra di inciampo”. Lo scandalo ci fa inciampare, segna un’interruzione del nostro percorso lineare, è un ostacolo che ci fa sbandare e cadere a terra. E infatti il Cristo raccontato da Pasolini nel suo Vangelo secondo Matteo è una figura radicalmente scandalosa: estrema, ineluttabile, urticante, non accetta compromessi e non scende a patti con nessuno, mette disagio sia i farisei, sia i suoi discepoli. Un Gesù che non ha nulla a che vedere con quello consolatorio e pacificante dei fondi oro delle chiese e delle prediche, ma che ci consente di entrare in rapporto con il mysterium tremendum et fascinans del sacro.

Pasolini stesso vuole incarnare “la pietra dello scandalo” e non solo perché la sua opera scandalizza i ben pensanti (dai Ragazzi di vita accusato di oscenità a La Ricotta accusata di vilipendio alla religione di Stato, Pasolini ha subito trentatré processi e più di cento denunce).

Il vero scandalo di Pasolini è quello interno al suo corpo-opera: lo «scandalo del contraddirmi ogni volta» come ammette ne Le ceneri di Gramsci. Lo scandalo di una natura eretica ed anarchica che rifiuta ogni quieta appartenenza e che segue il proprio desiderio fin nei sentieri più oscuri, un’alterità assoluta che i guardiani del manierismo pasoliniano in tutti questi anni hanno tentato di addomesticare e di normalizzare. Oggi per salvare Pasolini, bisogna abbandonarlo. Ce lo consiglierebbe lui per primo. Lucrezia Ercoli

Estratto dell’articolo di Antonio Bozzo per “Prima Comunicazione” martedì 28 novembre 2023.

Si potrebbe dir così: un pellerossa siederà sulla poltrona di presidente della Biennale di Venezia dal 3 marzo 2024, il giorno dopo che l'attuale reggitore dell'istituzione, Roberto Cicutto, lascerà l'incarico. 

Lo sanno anche i sassi che il nuovo presidente si chiama Pietrangelo Buttafuoco, 60 anni, catanese, cresciuto nel defunto Movimento sociale italiano (lo zio Antonino ne fu parlamentare), intellettuale con saggi e romanzi all'attivo, giornalista che ha scritto per Il Secolo d'Italia quando era organo del partito neofascista, Il Giornale, Panorama, Il Foglio, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e altre testate, conduttore radio e tv, presidente di teatri.

Ebbene, è lui che ha ottenuto lo scalpo di un'istituzione prestigiosa come la Biennale, e lo mostrerebbe orgoglioso assieme al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, che lo ha nominato quale trofeo dell'occupazione operata dalla destra al governo nei feudi dove regnava la sinistra. A dipingere Buttafuoco nei panni di un feroce Apache […], è Piero Fassino, già segretario Ds e ministro, attualmente deputato Pd nel collegio veneziano. Mentre la destra, partito di Giorgia Meloni in testa, esulta [...]. 

[…] Ma farsi domande su Buttafuoco alla Biennale, la più importante fondazione culturale italiana, nata nel 1895, sotto la quale ricadono le esposizioni d'arte appunto biennali, la Mostra del Cinema di Venezia (il più antico festival cinematografico al mondo, inaugurato nel 1930), le mostre di teatro, architettura, il festival di danza contemporanea, non è ozioso.

Per esempio: Buttafuoco si è convertito all'Islam, e abbiamo ragione di credere non si sia trattato di una mossa situazionista, per épater les bourgeois'. "Avrebbe anche assunto il nome di Giafar al-Siqilli, in omaggio al generale arabo -siciliano che conquistò il Nord Africa per conto della dinastia dei Fatimidi poco prima del Mille", leggiamo in un pezzo di Paolo Conti sul Corriere. 

Articolo che ricorda come Giorgia Meloni nel 2015, anni luce distante da Palazzo Chigi, ne stoppò la candidatura a presidente della Regione Sicilia proprio a causa di questa fede. E ora? Un musulmano al vertice della Biennale non costituisce un problema? […]

[…] In sé, il problema di un islamico al vertice delle Biennale non dovrebbe esistere: ognuno è libero di professare la fede che preferisce, o di non professarne alcuna. Ma l'aderenza all'Islam tende a farsi Stato, a determinare ogni scelta del fedele in misura maggiore rispetto a religioni più laiche (per intenderci), o perlomeno uguale in intensità a ciò che accadrebbe se stessimo parlando di integralismo cattolico. 

Da musulmano duro e puro, Buttafuoco dovrebbe armarsi di (metaforica) scimitarra contro le derive della modernità, dell'affermazione femminile, dell'inclusione e dell'apertura. Tutti concetti che invece sono pilastri dell'arte (del cinema, dell'architettura), attività che […] vive ormai da oltre un secolo con gli spiriti abrasivi dell'avanguardia. Come riuscirà Buttafuoco a conciliare gli opposti? 

Giudicheremo quando comincerà a lavorare. Ma ci facciamo domande anche sulla reale competenza internazionale di Giafar al-Siqilli, esperto di tradizione […], forse meno dei rituali di scambi e incontri connessi con il mondo globale dell'arte contemporanea, nel quale l'unica istanza superiore a cui ubbidire non è Maometto, ma il denaro e l'affermazione della propria personalità con l'uomo al centro e nessun altro sopra.

[…] Qualcuno però vide in Buttafuoco secoli fa, nel 1995, un uomo di cui si sarebbe parlato. Giordano Bruno Guerri lo intervistò per Prima, ricavandone un ritratto dell'artista da cucciolo, quando Buttafuoco aveva 31 anni, si definiva "fascista di sinistra" e si vantava di aver inventato per Prodi la definizione "mortadella dal volto umano". Quell'intervista la riproponiamo: è più rivelatrice di tanti commenti e delle interviste che (forse) Buttafuoco presto darà.

Estratto dell’articolo di Giordano Bruno Guerri per “Prima comunicazione” - aprile 1995 

E allora mi sono incazzato per davvero. Erano le due e mezzo di notte ma l'ho chiamato lo stesso, Pietrangelo Buttafuoco: "Vorrei vederti, adesso". "Va bene", risponde, assonnato e tranquillo. Vaffanculo vaffanculo, rimugino mentre esco dall'albergo. Non solo ha trentun anni, accidenti a lui. Non solo è il giornalista più originale che mi capita di leggere da molto. È anche uno scrittore extraordinario.

 […] eccomi qui, in una notte romana dove ci sarebbe di meglio da fare, montato su un taxi a cercare la casa di Buttafuoco, vicino alla fontana di Trevi.

Casa da studente, quattro piani a piedi, mansarda di quelle che sbatti la testa, mobili così, pochi libri, pochi dischi, alle pareti foto di Sciascia e siciliani vari, da Battiato a Verga. Lui è un siciliano Agira, Enna di quelli strani, alto e quasi biondo, occhi azzurri, allegro e misurato. Non fa una piega neanche quando gli irrompo in casa come un lupo mannaro, né chiede che succede. Mi tocca dirglielo io: "Sai che faccio quelle interviste su Prima. Ho cominciato con Mieli e Feltri, il prossimo forse sarà Rinaldi ma in mezzo ci voglio mettere te". 

È una notizia che dovrebbe fare un po' di impressione a un praticante da 1 milione 770mila lire al mese, ma lui non batte ciglio. Mi fa una rabbia... Scopro il suo punto debole: i polmoni, i bronchi: fatica a respirare. Comincio a fumare, a fumare, gli sbuffo in faccia, tossisce disperatamente tutta la notte, mentre risponde alle domande; a un certo punto si deve anche attaccare all'aerosol, che tiene a portata di mano, ma non geme e non protesta.  Mi si consegna legato mani e piedi. […] si fida, sa benissimo che non voglio fargli del male, anzi: l'intelligenza la si prende dove si trova.

E dire che era lui un mio ammiratore. Si era fatto avanti un giorno, a un convegno per dirmi che aveva letto questo e quest'altro dei miei libri, che non perdeva un articolo, eccetera. Anch'io ero curioso di lui, ne avevo sentito parlare. Ho cominciato a seguire gli articoli che scrive come Angelo Albino e la rubrica che tiene la domenica sul Secolo d'Italia (già, il Secolo d'Italia) e che si permette il lusso di firmare con lo pseudonimo Dragonera (perché il signor praticante firma con lo pseudonimo, non spende il suo prezioso nome che sembra uno pseudonimo anche quello) e ho detto: "Cazzo!".

Comparve al disonore delle cronache per la prima volta nel 1992, quando andò a intervistare Toni Negri a Parigi, e Negri quasi lo picchiava, ma Buttafuoco portò a casa questa dichiarazione, a proposito di giornalismo e terrorismo: "Biagi, Bocca e Montanelli sarebbe stato meglio per loro essere assassinati, così ora non sarebbero costretti a fare i buffoni". 

Il primo a segnalare pubblicamente la sua bravura fu Filippo Ceccarelli, che lo intervistò per La Stampa. Di recente è stato stracitato come primo fascista' che ha scritto su Cuore.

Eccolo qui il fascista, che tossisce rovinosamente ascoltando me e Mozart e cerca di salvare almeno le prime vie respiratorie mangiando fette di enormi limoni coperte di sale (buonissime, ho preso il vizio anch'io).

Domanda - Allora, perché sei fascista? Sei fascista?

Risposta - Intanto, non mi sento di destra, perché la destra in Italia si identifica con il conservatorismo, l'ordine, e io tutt'altro sono che un conservatore: non voglio fare il guardamacchine a nessuno. E non sono neanche fascista, secondo il concetto comune. Io sono affascinato dallo stile di vita di un certo fascismo, spavaldo, libertario, guascone, divertente e menefreghista. Sono fascista di sinistra: libertario. 

D - Per chi hai votato?

R - Sempre per il Movimento sociale. 

D - Ma il fascista che descrivi non c'era nel Msi e non c'è in Alleanza nazionale. Descrivi Italo Balbo e Berto Ricci.

R - Infatti. Non riesco mai a spiegare come si possa essere fascisti e allo stesso tempo avere il gusto della libertà. Penso al Mussolini libertario, al Mussolini non perbenista... L'unica cosa buona della svolta di Alleanza è che non coinvolgerà più il fascismo nella sua propaganda politica: neanche il Movimento sociale è mai stato fascista.

D - Tu parli di un fascismo che non è mai esistito davvero, che era ridotto ai minimi termini anche ai tempi del regime, un fascismo astratto e probabilmente irrealizzabile. Come la vorresti la destra, oggi?

R - Elitaria, aristocratica, che si preoccupi della bellezza. Adesso solo la sinistra ha la sensibilità per la bellezza, la destra è fatta da ragionieri. 

D - Liberalizzeresti la droga?

R - Sì. 

D - Patria?

R - Sicilia (la Sicilia torna sempre nei suoi discorsi. È favorevole alla separazione dell'isola dall'Italia: "Non me ne fotte un cazzo dell'Italia unita"). 

D - Nemico?

R - Conformisti. 

D - Divorzio?

R - Certo. 

D - Dimmi perché lo sei diventato, fascista'.

R - Mio zio era un parlamentare del Msi. Mio padre, direttore didattico, e mia madre sono fascisti. La mamma è farmacista e un tempo teneva sotto il banco una bottiglia di acido muriatico, nel caso i rossi' invadessero il negozio. In casa c'era un busto di Mussolini. Ma non ho cominciato a essere di destra per educazione, bensì per ribellione: tutti i miei coetanei erano a sinistra. Leggevo Papini, Prezzolini, Malaparte. Evola mi ha annoiato subito. 

D - Mussolini chi era, per te?

R - Da piccolo mi sembrava un eroe: Achille. Poi mi è piaciuto il Mussolini socialista di Salò, il suo essere un personaggio tragico. Oggi per me è solo una metafora letteraria. Mi sono iscritto al Msi nel 1984 e ho fatto anche parte della direzione nazionale del Fronte della gioventù quando il capo era Fini, ma non ero finiano, ero di sinistra. Conosco Fini da molti anni, abbiamo rapporti cordiali ma non siamo amici. Sono stato anche consigliere provinciale, con scarsi risultati perché la burocrazia mi annoia, ho un sacro terrore delle clientele, della gente che ti scongiura di trovargli il posto. Poi a 23 anni mi sono laureato in filosofia, con una tesi su Ernst Jünger, a Catania. A 25 mi sono sposato con una compagna di scuola, sono ancora sposato ma lei sta in Sicilia, vado a trovarla quasi tutti i fine settimana.Mi sono sposato in chiesa, con il rito latino, perché è tipico dei fascisti e fa incazzare i vescovi. Odio i preti. 

D - So che hai fatto anche il libraio. Questo ci piace. Racconta.

R - Nell'89 ho aperto con mia moglie una libreria a Leonforte, un paesone siciliano ricco. Anche la libreria era ricca, di lusso, tavoli di marmo nero, novità, catalogo, presentazioni di autori. Ma sono un pessimo venditore, mi vergogno a farmi pagare, e i rappresentanti delle case editrici erano tremendi, mi davano di tutto. È durata quattro anni e ho perso sui 240 milioni. 

D - Sei ricco?

R - Ho avuto la fortuna di nascere nella famiglia giusta. 

D - E dopo questa esperienza che idea ti sei fatto dell'editoria?

R - Io facevo il libraio come attività romantica: non ci ho capito niente. Anzi, ho capito che i librai acculturati sono antipatici ai lettori, mentre quelli ignoranti riescono a capire se il libro andrà o no. 

D - Al giornalismo come ci arrivi?

R - Grazie a Adolfo Urso, oggi deputato di An, che mi fa scrivere sul Roma di Napoli, e a Domenico Mennitti, oggi direttore di Ideazione e allora del Secolo, che mi fa cominciare L'orto delle delizie', la rubrica di Dragonera.

Poi è arrivato Maurizio Gasparri (coordinatore di An) e giocavamo a non andare d'accordo, perché io sono un siciliano e lui è un poliziotto. Comunque mi ha preso come praticante. Ho cercato lavoro in tutti i giornali, scrivevo ai direttori, ma nessuno mi ha mai risposto. Ho fatto anche domanda di assunzione alla Fininvest: al loro esame di giornalismo mi hanno bocciato già allo scritto. Per fortuna poi è arrivato Gennaro Malgieri, maggio 1994, il primo direttore vero che Il Secolo abbia avuto. 

[…] D - Ti piace stare al Secolo, Buttafuoco?

R - Sei matto. Voglio visibilità, voglio sfondare, voglio scappare. 

D - Se potessi scegliere, cosa ti piacerebbe fare?

R - L'inviato cazzeggione. Raccontare. Fare pezzi di scrittura. Il quotidiano che mi piace di più fra i giornali borghesi è La Stampa, perché è un giornale di inviati.

D - Non ti dovrebbe essere difficile, adesso, farti assumere in un buon quotidiano.

R - Dici? 

[…] Il vero problema è capire quanto sia ingenuo e quanto finto ingenuo. Sul finto l'ho beccato una volta sola, quando mi ha detto che si è visto arrivare a casa la Freccia alata senza chiederla solo perché viaggia spesso sul Roma -Catania. 

(D - Non dire stronzate. Chi sa che hai fatto per averla.  R - Beh, ho scritto un articolo parlando malissimo dell'Alitalia...). 

[…] D - Tu sei un grande scrittore?

R - Sì. Fotto tutti perché penso e scrivo in siciliano, come Sciascia, Verga, Pirandello: sembra che scriviamo in italiano, ma la struttura linguistica e mentale è siciliana. 

D - La cosa che ti piace di più al mondo è scrivere?

R - No, è fottere. Scoperei notte e giorno, ho sempre voglia. 

D - Olè. Omosessualità?

R - Niente.

D - Droghe?

R - Macché, neanche sigarette o alcol. Costretto alla sobrietà per la salute. 

D - E come giornalista, quanto sei bravo?

R - Non mi considero un giornalista. Sono giornalista per caso, perché so leggere, parlare, scrivere: ma i giornalisti spesso perdono la dignità stando nel gregge, mentre il dovere dell'intellettuale è stare nella cattiveria dell'essere contro: penso a Busi, a Carmelo Bene... Comunque non posso parlare male del giornalismo: a me fa divertire.

D - Esci da te medesimo. Parlami del giornalismo come lettore.

R - Il giornalismo italiano è ipocrita. Un giornalismo di dogmi, che gronda di rispetto verso certi personaggi, certi editori, dove non si può dire questo o quest'altro a seconda delle testate. 

Ma tutti i giornali borghesi si fanno le pippe, aprono con le solite solfe del Galante Garrone o del Norberto Bobbio di turno, coi grandi papi laici che devono profondere le loro elucubrazioni. Ma soprattutto c'è il fatto che nei giornali certe cose non si possono dire, non scrivono mai quel che è vero ma quel che si deve dire, che non è mai vero.

Per esempio, il problema Scalfaro: gli italiani ormai hanno capito che è un sacrestano, un... (censura dell'esperto intervistatore per evitare querela) ma i giornali non lo dicono. Lo dice magari Feltri e allora si pensa che serve Berlusconi; in realtà quello che scrivete di Scalfaro, lui o tu, tutti lo pensano e nessun altro lo scrive. Così come nessuno scrive che in Italia c'è un problema che si chiama Fiat, che lo sviluppo del Paese è deformato perché serviva alla Fiat: pessimo sistema ferroviario, eccetera.

D - E così perdi venti miliardi di pubblicità e chiudi il giornale.

R - Sì, ma come hanno funzionato Il Popolo d'Italia di Mussolini o L'Indipendente di Feltri, anche con un minimo di pubblicità? Con la violenza del linguaggio, con la velocità del messaggio, con la capacità di scuotere la gente: se tu non procuri un tuffo al cuore al lettore, non fai buon giornalismo. Se dici la verità colpisci sempre il lettore, e lo conquisti. Io farei un giornale con il massimo di raffinatezza nella scrittura e il massimo di volgarità nelle denunce. I giornali borghesi si guardano bene dal fare l'una e l'altra cosa. 

D - Cosa intendi per "giornale borghese"?

R - È il giornale che ci immaginiamo venga aperto dopo il pranzo la domenica pomeriggio e accompagna lo zapping fra lo sport e Domenica In'. Quello che ospita l'enciclica domenicale di Eugenio Scalfari: è la testata che si incarna nel solco del perbenismo italiano, cioè tutte. Anche Il Secolo ha un'aspirazione a diventare un giornale borghese; borghesissima è L'Unità, battuta solo dal Sole 24 Ore. L'unico quotidiano non borghese che ho visto in Italia era L'Indipendente di Feltri, e anche quello di Pialuisa Bianco.

D - Cuore?

R - È un giornale istituzionale. 

D - Espresso e Panorama?

R - Di Panorama mi piacciono solo gli articoli di Mughini... 

D - E ridagli con la Sicilia. Cos'è, un'associazione giornalistico mafiosa?

R - Oh, Mughini è un po' il padre di tutti noi giornalisti siciliani a Roma... Comunque, Panorama è il salotto che compri da Aiazzone, è popolare: il borghese vero è quello che sa accostare i mobili antichi con quelli moderni. L'Espresso in questo senso è borghese borghese borghese, però mi piace tantissimo perché è anche libertario e cazzeggione. È capace di analizzare le grandi trasformazioni della società italiana: peccato che siano così fanatici nella battaglia contro Berlusconi. Berlusconi deve essere visto per quello che è, un ingenuo, certo non un mefistofele. 

D - Berlusconi un ingenuo?

R - Ma sì, è più un bravo padre di famiglia che una mente politica. Basta vedere la falsità che c'è dietro il suo sorriso, così palese che solo un uomo ingenuo può credere di riuscire a nasconderla. Secondo me finirà male: il berlusconismo verrà amministrato dal centrosinistra e arriveremo a una società berlusconiana senza Berlusconi, amministrata da gente tipo Prodi che rappresenta il perbenismo beota, la retorica dei tortellini e la bicicletta con la panza. 

D - Sei tu, vero, ad avere inventato la definizione di Prodi "mortadella dal volto umano"?

R - Sì.

D - E Fini?

R - Tutt'altro che ingenuo. Si è saputo trasformare e ha una grande virtù, il fattore C: il culo, ha un culo straordinario, le circostanze gli sono sempre favorevoli.

D - Facciamo che incontri un bambino siciliano e gli devi spiegare chi sono i giornalisti italiani.

R - Per prima cosa gli direi che ci sono un sacco di tagliasacchetti, che non vuol dire tanto borseggiatori quanto avvoltoi, quelli che aspettano sempre il momento giusto per approfittare di qualsiasi cosa: i più sono dei pezzenti, dei cialtroni, dei pompinari. 

Per esempio, nella vicenda di Alleanza nazionale al governo, le puttane più assolute sono stati i giornalisti, osceni. Noi, che abbiamo sempre avuto un marchio di infamia, ci trovavamo davanti questi personaggi che sono stati democristianini, moderatini, e che d'improvviso plaffete ti facevano vedere la fotografia del padre in orbace: "Guarda, è un orgoglio per me!". 

C'è anche il giornalismo ipocritissimo e becero, da coglione, non saprei come definirlo altrimenti, che è quello dei tre pontificatori Biagi, Bocca e Montanelli, soprattutto quello malafedissimo di Montanelli, per il quale è ancora valida la definizione di Longanesi: "Montanelli è uno stronzo, uno stronzo, uno stronzo", perché è semplicemente in malafede, col suo turarsi il naso e i vari cambiamenti.

Fra i giornalisti, i più sono impiegati. Del resto è così in qualsiasi istituzione italiana, dall'esercito all'università. Poi hanno questo buffo senso della gerarchia e del nonnismo che a me praticante più bravo di loro fa sempre ridere: questi capiservizio, capicazzo, capieccetera sempre a rivendicare il loro potere. 

Poi ci sono pochi giornalisti che amano veramente il mestiere e che lo vivono 24 ore su 24, come Ceccarelli o Pier Luigi Battista. Comunque, la categoria più patetica è quella dei frustrati, come spero di non dovere essere io, quei tanti che fanno giornalismo solo perché vorrebbero fare gli scrittori. C'è anche un giornalismo di alta scrittura che non si sente frustrato perché vuole fare proprio quello: Igor Man, Francesco Merlo...

D - Siciliani anche loro. Allora cantami vitti 'na crozza' e non ne parliamo più.

R - Mica per regionalismo, che credi! Ti ho già detto che la lingua siciliana favorisce la grande scrittura. 

[…] D - E il giornalismo di destra?

R - I più erano reietti che meritavano di esserlo, e che dovrebbero esserlo per sempre. Le eccezioni erano Paolo Isotta e come si chiama quel pazzo simpatico che se la prende coi froci... Piero Buscaroli. Si salva anche Giano Accame. Quanto a oggi, mi piace ovviamente Malgieri, una delle persone più colte che ho conosciuto. Veneziani è un mitomane, anche se di grande livello, colto. 

D - E il futuro?

R - Il giornalismo di destra dovrà eliminare tutti i suoi tromboni, che sono tantissimi e penosi: quelli che fanno il giornalismo moralista, moralisteggiante, moralizzatore. Ma fra quelli che si occupano di politica non vedo i sostituti, anche perché uno dei vizi più forti della classe dirigente di An è l'analfabetismo. Era molto più colta la dirigenza del Movimento sociale. […] 

[…] D - Se L'Espresso ti offrisse una rubrica, il tempo lo troveresti?

R - Senz'altro. 

D - Mafia?

R - Non esiste ed è un peccato che non ci sia: è stata sostituita dalla criminalità volgare, anche se ne mantiene le forme e la struttura esoterica della vecchia mafia. La mafia nasceva da un istinto primario dell'uomo, da uno scetticismo di base, dalla consapevolezza che la politica non può dare la felicità a nessuno e che chiunque si mette in testa di creare un paradiso non fa altro che creare un inferno. La mafia è fondata sulla convinzione che tutto è fatuo ed è una struttura che non conosce ipocrisia: era la sua caratteristica più terribile ma anche più interessante. 

[…] Eccolo qui, il Pietrangelo Buttafuoco. Alla fine della notte mi sembra molto meno bravo, meno interessante di quando scrive. Ma è normale, succede quasi sempre con i grandi scrittori. Vi piaccia o no, ci avremo a che fare.

Intervista di Giordano Bruno Guerri

DAGOREPORT domenica 12 novembre 2023.

La sigla Ar è l’abbreviazione di Aristocrazia Ariana e così si chiamano le edizioni di Franco Freda, un nome che brilla come una stella nel firmamento del terrorismo nero, e che è stato dichiarato colpevole di associazione sovversiva per la costituzione del gruppo di Ar, appunto. 

Un gruppo formato da sostenitori di questa casa editrice neofascista, tradizionalista e neonazista, che si ispira a Julius Evola. Freda accusato di aver organizzato la strage di piazza Fontana del 1969, inizialmente è stato assolto per mancanza di prove (cosiddetta "formula dubitativa"). 

Ma la Cassazione nel 2005 ha affermato che la strage fu realizzata dal “gruppo eversivo  Ordine Nuovo…. capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura”, e ha dichiarato che i due non sono più processabili in quanto “irrevocabilmente assolti dalla Corte d’assise d’appello di Bari”.

Adesso Freda, il timoniere del famigerato Ordine Nuovo, pubblica tomi e volumi che discettano sul tema della democrazia e dei mali che questa comporta: nel novembre 2022 la sua libreria di Avellino è stata perquisita in quanto considerata la base di una cellula neonazista.

Freda è un maestro e un punto di riferimento, speriamo solo giovanile, del neopresidente della Biennale di Venezia, Pietrangelo Buttafuoco. Presso Aristocrazia Ariana, il cui nome è già tutto un programma, Buttafuoco nel 2003 ha pubblicato “Fogli consanguinei” dove il primo dei “consanguinei” è proprio il suo editore, il terrorista nero. 

A Freda il quale “s’intende di libertà per essere stato rinchiuso nel cattiverio (sic) delle prigioni democratiche” e che è stato “toccato dalla legge Mancino … come istigatore all’odio razziale” (un’accusa non proprio irrilevante), il saggista Buttafuoco chiede di spiegare cosa è la “democrazia”. Glielo chiede proprio perché è un nemico della stessa.

Freda è un “uomo di grande cultura”, dice Buttafuoco del suo editore, “inarrivabile, solitario  e anche spiritoso”(sai che risate parlando di democrazia con un sovversivo razzista). Ma è anche un intellettuale fumoso e incomprensibile quando sentenzia che “la ricerca dell’originario è una conversione della forma mentale che si volge all’origine e all’alto e non al futuro e al basso come effetto dell’entropia …”. 

Questo linguaggio ermetico conquista lo stesso lo scrittore siciliano convertitosi all’Islam e gli ricorda quello del grande Jorge Luis Borges. Buttafuoco alla fine afferra quello che conta e cioè che esiste la “memoria del sangue”, formula di antica memoria per stabilire il primato della razza.

Insomma se questo è il maestro cosa sarà l’allievo? E quali sono i principi democratici (?) del nuovo intellettuale di punta che guiderà la Biennale della Italia democratica (?)…

Estratto dell’articolo di Carmelo Lopapa per “la Repubblica” il 28 giugno 2023.

«La destra di Giorgia Meloni conquista il mondo della cultura», ha scritto con una certa enfasi Le Monde nei giorni scorsi. Dalle istituzioni culturali, appunto, alla Rai. 

Non avranno esagerato, Pietrangelo Buttafuoco?

[…] «[…] credo che il trauma politico maturato con la vittoria di Giorgia Meloni abbia aperto i recinti. E che sia accaduto sul piano culturale quel che si verifica in ambito economico: ha presente gli ascensori sociali che salgono e che consentono agli esclusi di raggiungere i piani alti? Ecco, sta succedendo qualcosa di molto simile».

Vuole dire che staremmo passando dal complesso di inferiorità all’egemonia culturale della destra?

«In realtà […] una vera e propria sudditanza culturale non c’è mai stata. Quella che a noi sembrava onnipotenza culturale della sinistra era solo sottocultura mediatica. Per voler fare nomi e cognomi, di Lucia Annunziata […] che è stata in Rai, non le patrie lettere, ma l’Inps se lo ricorderà. […] Vogliamo chiamare cultura le uscite di Roberto Saviano la domenica sera da Fabio Fazio? Nel cinema abbiamo avuto l’Oscar di Roberto Benigni, certo, ma nessuno ricorda che ben più importanti, nella storia del cinema, sono stati quelli a Pietro Germi, che non era della parrocchietta, e a Federico Fellini, l’anti-ideologico per antonomasia».

[…] «[…] la sinistra abbia sempre fatto più che altro dell’ottimo marketing culturale.

[…] questa stagione farà crollare i recinti. Sarà data casa a chi casa finora non ne ha avuta una». 

Vuol dire posti e poltrone, nelle istituzioni culturali come in Rai?

«Mi riferisco […] all’opportunità di dare spazio a chi finora è stato censurato. […]». 

[…] Resta un problema di fondo, per la destra: fare cultura, d’accordo, ma con chi? Giusto lei e pochi altri intellettuali di area riconosciuti. Davvero poca cosa, non pensa?

«Ma questo è un luogo comune alimentato dal gioco mediatico della sinistra, insisto. […] Basta avere la curiosità intellettuale di confrontarsi con altri. […]». 

[…] Che ne sarà del berlusconismo dopo Berlusconi e cosa del centrodestra dopo la morte del padre?

«[…] Berlusconi lo capisci e lo racconti attraverso le lenti e la penna di Balzac, di Donizetti o del vostro Filippo Ceccarelli. Con quelle categorie lì, letterarie più che di cronaca politica. È uno di quegli individui che quando irrompono in scena trascinano tutto: ha mutato la società, si è impadronito di un lessico e ha cambiato la storia italiana di questi decenni. […] ha introdotto l’individualismo nell’era della politica corale».

[…] Qual è stato il suo merito?

«Aver liberato l’Italia dall’obbligo guelfo. Eravamo costretti a una sorta di destino: avevamo due grandi chiese apparentemente contrapposte, la tradizione comunista e quella democristiana. Lui sfascia questo ingranaggio e crea un nuovo riformismo». […]

 

Dagospia il 19 maggio 2023. Da “Un giorno da Pecora – Radio1”

Lo scrittore a Un Giorno da Pecora:  alla premier regalerei opera omnia di Carmelo Bene; mi dà fastidio esser definito intellettuale e di destra, ho delle mie idee 

Se sono amico di Giorgia Meloni? “Ovvio, lei è molto più giovane di me, l'ho vista crescere, veniamo dalla stessa famiglia. Quale? Per comodità diciamo la destra ma io userei un altro termine, il 'cattiverio'...” 

A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è lo scrittore e giornalista Pietrangelo Buttafuoco, intervistato da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Lei è viene definito uno dei più alti intellettuali di destra. “Mi dà fastidio esser definito intellettuale e poi di destra, gli intellettuali sono altri, Leonardo Sciascia, oppure, oggi, Massimo Cacciari”.

Lei è soprattutto uno scrittore: che libri regalerebbe alla premier? “Direi il Maestro e Margherita di Bulgakov o l'opera omnia di Carmelo Bene”. Si sente 'meloniano'. “Io ho delle mie idee. Giorgia la benedico e faccio come Giovanni Lindo Ferretti (ex cantante dei CCCP e dei CSI, ndr) che mi ha detto: ogni mattina dico una preghiera per la Meloni affinché ce la faccia'. Bene è un'ottima idea, va ringraziata perché ha rotto il giocattolo inamovibile di un sistema che era impossibile da smuovere”.

Quindi anche lei fa una preghiera al mattino per la premier? “Certo”. L'ha votata? “Si, ho votato per tre donne, due FdI e una Fi”. Una volta lei disse che Giorgia Meloni è di sinistra... “Certo, ed è molto più di sinistra di Elly Schlein, su questo non c'è dubbio. Secondo voi una persona che si ammazza di lavoro ha l'armocromista?” 

E' vero che nel 2015 Matteo Salvini le propose la candidatura alla Regione Sicilia? “E' vero, ma io gli ho detto di no, non sono adatto a quelle cose, dissi no anche quando mi proposero di fare l'assessore alla cultura sempre nella mia regione”. La Stampa, all'epoca, scrisse che la Meloni era contraria perché lei si era convertito all'Islam. “Si, è vero, ci fu questa polemica. Ma da uomini liberi è normale discutere e fare le proprie scelte”. E a livello nazionale? “Crisafulli, ex Pci e Ds in Sicilia, mi voleva fare deputato. Ma anche lì risposi: non sono degno...”

Dagospia il 19 maggio 2023. Da “Un giorno da Pecora – Radio1” il 19 maggio 2023.

“Grazie a Dio faccio altro, ma di mio posso dire che non ho potuto trovare lavoro nel giornalismo perché non rispondevo ai canoni richiesti dal dettato ufficiale. Oppure posso portare l'esempio di uno come Franco Branciaroli, che a teatro si deve ammazzare di fatica per trovare gli spazi”. Lo dice a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, Pietrangelo Buttafuoco, intervistato da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro.

“Nel teatro dell'Aquila invece, dove io sono presidente, in cartellone ci sono tutta una serie di nomi che corrispondono ai protagonisti del dibattito politico culturale anti meloniano. Ecco – ha ragionato Buttafuoco a Rai Radio1 - io non mi sentirei mai di toglierli ma sono sicuro e ci scommetterei che lor signori non darebbero mai spazio a chi la pensa diversamente da loro”. 

Ci sono molti giornali di c.destra però. “Quelle sono case già chiuse però, qui si apre un altro discorso. Mentre quando c'erano gli uomini liberi, come ai tempi di Scalfari, io ero una firma di Repubblica. E ora è peggio di prima”. Il suo è uno dei nomi che si fanno per dei nuovi programmi in Rai.

Qualcuno l'ha contattata? “Assolutamente no – ha detto a Un Giorno da Pecora Buttafuoco - lo sanno perfettamente che io non sono adatto alla Rai”. Lei chi metterebbe al posto di Fabio Fazio? “Ranucci secondo me non sarebbe una cattiva idea: in fondo lui a Report ha dimostrato di saper sostituire, e bene, una come Milena Gabanelli”.

Sulle tracce di Cavallini. Il vero Giotto di Roma. Il pittore trecentesco era creativo e moderno ma poco noto perché Vasari preferì i toscani. Vittorio Sgarbi il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Come tutti sanno, o come sarebbe opportuno sapessero, la pittura del Trecento, e parliamo di una cosa lontana nel tempo, è in realtà la prima espressione della pittura moderna. Il primo pittore moderno è infatti Giotto. Ora sarebbe, non dico vano, ma difficile trovare Giotto a Roma. Eppure una traccia, incredibilmente, io l'ho indicata in prossimità della casa in cui abitavo a via dell'Anima, cioè Palazzo Pamphilj, nell'appartamento che era stato residenza privata di Innocenzo X. Ebbene, chi va in via dell'Anima può ritrovare, nel rigonfiamento di un muro di laterizio, l'indicazione appena accennata dell'abside di Sant'Agnese in Agone. Nella parete un'edicola indica il luogo sacro e fa avvertire che lì si trova la parte posteriore, appunto, la parte absidale della chiesa la cui facciata è su piazza Navona. E lì, nel riquadro di questa edicola, si vede una Madonna con il Bambino che, in tutta evidenza, indica una precedente collocazione. Questa Madonna quindi è stata staccata per indicare il luogo sacro. Chi la guarda avverte, nell'area cronologica di una decina d'anni, tra il 1300 e il 1310, la sensibilità e il gusto di Giotto. Si sente insomma una impostazione monumentale, solenne e statuaria, che è tipica del pittore toscano. L'ipotesi che ho fatto quando ne diedi notizia la prima volta è che si tratti dell'espressione di una cultura moderna che a Roma trova il suo Giotto, o dialoga con Giotto nella persona di Pietro Cavallini.

Forse è proprio Pietro Cavallini il primo pittore moderno, ed esattamente come Giotto agli inizi del Trecento egli mostra una lingua pittorica nuova, diretta, costante, narrativa. Potremmo dire che Cavallini è il Giotto di Roma, o addirittura un suo precursore, tanto che alcuni critici hanno osservato il primato della scuola romana nella persona di Cavallini rispetto alla scuola toscana. La differenza semmai è che la scuola toscana ha avuto una grande promozione attraverso Vasari, il quale ha esaltato Giotto e ha invece, con minore interesse, guardato al Giotto moderno che era Cavallini.

Partendo allora da questa conflittuale Madonna recuperata e sistemata nell'edicola di via dell'Anima, il primo itinerario che propongo per Roma è un percorso nella pittura del Trecento, e in particolare nella pittura di Pietro Cavallini. Egli in autonomia rispetto a Giotto, ma con sensibilità moderna a lui affine, superando quella del mondo bizantino, dà testimonianza del suo modo di intendere e di vedere il mondo in una serie di importanti opere visitabili a Roma.

Chi sale nella chiesa dell'Aracoeli vede un'edicola, una tomba che ha sul fondo un affresco di Pietro Cavallini con la Madonna, il Bambino e due santi, un'opera importante e monumentale.

Il capolavoro vero e proprio di Cavallini, però, è il Giudizio Universale della chiesa di Santa Cecilia in Trastevere, luogo mitico della mia giovinezza perché difficile da vedere: era possibile visitarlo infatti soltanto il sabato e la domenica dalle undici a mezzogiorno, dopo aver chiesto l'autorizzazione per entrare alle suore del convento. Ma quando uno entra può ammirare sulla parete di controfacciata il Giudizio Universale, in una condizione molto favorevole, soprattutto in condizioni molto migliori dopo il restauro di Giantomassi, perché vede l'affresco all'altezza giusta da consentirgli di avere davanti a sé uno schieramento di dodici apostoli con il Cristo Pantocratore al centro. Ad altezza degli occhi il visitatore contempla un corpo a corpo di figure, dagli apostoli assisi sui loro troni agli angeli che si muovono in cielo, ad accompagnare il Giudizio Universale. Il Cristo, poi, con questo volto meraviglioso, che si ispira al Pantocratore bizantino, è un'immagine modernissima così come moderno risulterà tutto il movimento di quest'opera.

Pietro Cavallini a Santa Cecilia, con gli apostoli e il Cristo Pantocratore, testimonia una moderna visione dell'arte, la quale, in uno spirito schiettamente giottesco, si può anche trovare non più in affreschi, e neppure in pitture o tavole, ma in mosaici nella chiesa di Santa Maria in Trastevere, nella cui abside si scorgono le Storie della Vergine dipinte con perfette architetture, che sono molto vicine al gusto di Giotto e al suo tentativo di sentire lo spazio. Le Storie sono l'opera più importante di Pietro Cavallini, probabilmente al pari di Santa Cecilia, e forse ancor più per lo stato di conservazione. I due principali cicli, il Giudizio Universale dell'Ara Coeli di Santa Cecilia e le Storie della Vergine di Santa Maria in Trastevere sono così i documenti più importanti della grande pittura italiana del Trecento, e si possono trovare a Roma, non a Firenze come tutti potrebbero credere. Pietro Cavallini a Roma, quindi, è pittore meno noto di Giotto ma altrettanto importante, e come Giotto, forse più, inaugura una nuova stagione, quella della pittura moderna.

Lo scrittore scomparso un anno fa. Le stucchevoli pagine di Citati dove tutto è “lieve e delizioso”. Filippo La Porta su Il Riformista il 28 Aprile 2023 

Pietro Citati, scomparso l’estate scorsa, è stato certamente un saggista notevole. La sua prima raccolta, Il tè del cappellaio matto (1972), rivelò una qualità visionaria della scrittura e una immaginazione letteraria prodigiosa. In una storia ideale della saggistica letteraria lo metterei nel capitolo di Garboli e Calasso: critici inafferrabili e dallo stile elegantissimo – a tratti ipnotico – , “dilettanti” di genio onnivori, a proprio agio nelle discipline più diverse (dalla critica d’arte alla teologia), inclini a condensare il destino di uno scrittore in un aforisma. Citati è un inesauribile flâneur letterario e un biografo innamorato. Credo però che la sua prosa, che riflette coerentemente la sua idea di letteratura, incontri un limite insuperabile, che ora cercherò di spiegare.

Proviamo a leggere l’ultimo libro di articoli e recensioni, uscito postumo, La ragazza dagli occhi d’oro (Adelphi), una raccolta che spazia ariosamente dalle tradizioni sapienziali ai grandi mistici, dalla pittura al romanzo inglese, russo e francese dell’’800, da Groucho Marx a Sebald, da Herling a Marìas, e ad alcuni ritratti di scrittori italiani con cui ebbe amicizia (Moravia, Flaiano, Manganelli…).. Nella Ragazza dagli occhi d’oro trovate pagine di critica letteraria e di meditazione sull’esistenza, degne dei grandi moralisti classici: si pensi a quelle dedicate a Jane Austen e Dickens, ad Oblomov, (il “far nulla” come ossessione), a Sherlock Holmes (i cui padri putativi sono Montaigne, Sterne e Poe!) e o anche a certe scintillanti istantanee (su Bosch: “era cattolico. Non essere cattolico era per lui una cosa impossibile…”). Ogni articolo si presenta come una lunga, affascinante conversazione, “genere” settecentesco a lui caro, in cui rientrano “l’allegria, la fatuità, l’edonismo, il dono mimetico, l’arte dell’improvvisazione, la finezza di spirito, la leggerezza frivola e grave”.

Però il tono prevalente è quello di una svenevolezza erudita, di una leziosaggine intellettuale, distillata perlopiù in uno stile calligrafico e in una eccessiva propensione al racconto critico. Citati passeggia amabilmente tra i suoi autori, raccontandoceli con una letizia disarmata, fin troppo esibita. Il suo aggettivo prediletto è “lieto”, e subito dopo “lieve”, e ancora dopo “delizioso”. In questa radiosa, eterna primavera della scrittura può diventare “lieto” perfino un giornale quotidiano, come il Giorno, cui collaborava. Se Saint-Beuve che era “felice e vanitoso dei propri bon mots”, anche Citati si mostra felice e vanitoso delle sue invenzioni verbali e delle sue lucenti metafore: “le nuvole, queste forme fantastiche e luminose, queste tenebre caotiche, queste immensità verdi e rosa…questi firmamenti di raso nero o viola, questi orizzonti dolorosi…”. Sembra l’inizio di un poema in prosa, ma potrebbe continuare all’infinito, come se non ci fosse attrito con gli “orizzonti dolorosi”. Citati ci fa sapere che è come sepolto dentro una biblioteca sterminata – che come quella di Borges non finirà mai di leggere – per lui fonte di godimento.

A me pare una immagine da incubo. Va bene, probabilmente “la lettura e i libri sono l’unica cosa illimitata del mondo” ma questa lettura claustrofobica somiglia a un ergastolo ostativo. Possibile che tutti i libri di mistica che ha letto non gli abbiano insegnato che l’eternità non è tanto un tempo senza limite quanto la sospensione del tempo. L’unico vero “illimitato” è l’amore per un altro essere umano, un sentimento di pienezza vitale nel quale perfino la morte stenta a fare breccia e che ci proietta in una dimensione eterna in quanto extratemporale. Una eternità dell’attimo vissuto, che tutti abbiamo sperimentato e che certo non coincide con una biblioteca. Citati ci parla spesso delle tenebre, della follia (“parte suprema della letteratura”), del disordine, della contraddizione, del vertiginoso, del male, dell’ “altro”, ma non ci fa mai sapere dove si trova lui. Come il suo Pascal – schiacciato “dagli spaventosi spazi dell’universo” – trova rifugio solo nella scrittura, in una “sublime stenografia”. E possiamo capirlo. Però se avesse trovato una lingua per dire quel disordine o quelle vertigini in modo diretto, almeno per una volta non “sghembo” – dunque rischiando anche qualcosa – sarebbe stato un saggista memorabile. Filippo La Porta

Breaking bad. Primo Levi ha reso il sadismo indecifrabile di Auschwitz una esperienza biologica e sociale. Massimo Bucciantini su L’Inkiesta il 27 gennaio 2023.

“In un altro mondo” (Il Saggiatore) racconta tre figure rivoluzionarie e il momento in cui, grazie a un’inattesa scoperta, la loro vita, il loro tempo e la nostra storia sono cambiati per sempre. Galileo Galilei, Vincent van Gogh e Primo Levi

Primo Levi ha dichiarato più volte che Auschwitz è stata la sua università. Si sa che questa analogia non è sua ma di Lidia Beccaria Rolfi, anche se per lei non si trattò di Auschwitz ma di Ravensbrück, il principale lager femminile della Germania nazista, circa 90 chilometri a nord di Berlino.

Anche per Levi Auschwitz si trasformò in un luogo di apprendimento. Anzi, nel luogo di apprendimento che prima e più di ogni altro lo ha costretto a scrivere. Non una scuola qualunque, dunque, ma una universitas, deputata alla conoscenza della condizione umana nel senso più generale del termine. «Io credo di poter dire altrettanto» dichiara nell’«Appendice» a Se questo è un uomo, richiamandosi a Lidia Rolfi, «e cioè che vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, ho imparato molte cose sugli uomini e sul mondo».

Pochi però appresero quello che era necessario apprendere. L’Häftling, il prigioniero 174517, vi riuscì in tempi brevissimi, grazie anche al fatto che per lui, diversamente da Lidia Rolfi e dalla stragrande maggioranza dei deportati, Auschwitz fu la sua «seconda università»: perché Levi entrò nell’altro mondo non come scrittore o come intellettuale, ma come chimico. Se non avesse avuto quel tipo di mentalità tecnico‐scientifica, la forza della sua scrittura e la sua maniera di vedere e di capire non sarebbero state le stesse.

Non sarebbe stato lo stesso il modo in cui riesce a farci vedere quanto accadde quella notte di gennaio del 1945, quando i tedeschi, pressati dall’avvicinarsi delle truppe russe, abbandonarono il Campo senza uccidere i prigionieri rimasti in infermeria. Oppure quando ci fa immaginare quel giorno di primavera del 1944, portandoci con lui nel Polimerisations‐Büro, nel Kommando 98, dove si tenne l’esame più folle del mondo. Oppure, ancora, quando ci fa udire il grido di morte dell’«ultimo» – «un duro», un solitario che «doveva essere di un altro metallo del nostro» –, la sua voce e le sue parole, insieme al rumore secco della botola che si apre e dove «il corpo ha guizzato atroce [e] la banda ha ripreso a suonare».

Vale ripeterlo: la chimica – come approccio metodico, come forma mentis – gli servì a scrivere, ma anche a conoscere il complicato intreccio di relazioni umane di un mondo apparentemente assurdo, a capire che quella città‐prigione circondata da due altissimi reticolati di filo spinato non era altro che una «gran macchina» costruita dagli uomini per distruggere altri uomini.

A Levi sembra di essere stato cacciato dentro un meccanismo indecifrabile, costruito per divertimento e sadismo, dove anche un medico, un ungherese che ha studiato in Italia e che si presenta come un criminale‐dentista, dice cose folli.

Ma con il passare dei giorni la capacità di Levi di cogliere i minimi dettagli, di individuare gli apparentemente incomprensibili dispositivi di funzionamento della «macchina» si affinò sempre di più. «Il Lager è stato per molti di noi e per me in specie, un osservatorio; cioè un altro modo parallelo a quello che dicevo prima del mestiere chimico, di immagazzinare esperienze positive».

Ciò dipese in larga misura proprio dal tipo di attenzione e di sensibilità allo studio dei fenomeni naturali, e in particolare a quelli legati alla trasmutazione della materia che aveva acquisito negli anni universitari. A mano a mano che oltrepassa la soglia di quel congegno infernale, l’impressione che ne ricava è di essere finito in una macchina‐mondo fatta a rovescio, dove regna la confusione delle lingue e la prima regola è non pensare e non capire.29 «Qui siamo su un altro pianeta. Non dimenticartelo» sentenziò Rudolf Höss, rivolgendosi al cognato Fritz Hensel.

Levi descrive con grande accuratezza questo stato di vita umano‐animalesca. Com’è evidente all’inizio del capitolo «Le nostre notti», dove i verbi «scavare» e «secernere», e i sostantivi «nicchia» e «guscio», ci fanno percepire quanto questo legame sia in gran parte originario e non acquisito.

È il Levi curioso osservatore della natura animale e umana a prendere la parola. E non importa sapere se nel 1947 avesse letto di etologia, se già conoscesse Konrad Lorenz o fosse al corrente di altri studi sul comportamento animale. Certamente aveva letto Darwin, ed era più che sufficiente: è lui stesso a dirlo, per di più a quindici‐sedici anni, a un’età precocissima.

Levi si sentiva chimico dentro, e quanto questa sua condizione era così pervasiva e compenetrata con qualunque altro aspetto del suo animo. Qualsiasi linea di confine interiore è saltata. Il suo modo di lavorare e di pensare la materia, di percepirla e osservarla, di competere e lottare con essa, si riflette nel suo modo di vedere e di stare al mondo.

Leggendo brani come questo, sembra quasi che la sua abitudine all’osservazione dettata dal suo essere chimico influenzi ogni altro suo aspetto dell’agire e del pensare. A tal punto che tra cose e persone non c’è soluzione di continuità. Vita e materia non sono campi separati: il termine «cose» si riferisce anche alla materia umana, «comprende anche le persone». «Per lui non esistono confini di genere tra materia inanimata, vegetali e animali».

Prima di giungere ad Auschwitz, la mente e l’occhio di Levi sono dunque già allenati al distanziamento necessario per «cacciare» la materia in qualunque forma essa si presenti, sia come reazione chimica nel regno minerale sia come trasformazione della vita nel regno vegetale e animale. L’attestazione più evidente di questo legame è «Carbonio», l’ultimo racconto del Sistema periodico, ma che venne concepito per primo.

La storia di un atomo di carbonio prendeva corpo nel carcere di Aosta, prima del trasferimento di Levi a Fòssoli e poi ad Auschwitz. Qui il nesso strettissimo tra materia e vita è già presente: «La mia idea era quella di insegnare alla gente questo miracolo del carbonio quale elemento vitale, di spiegarle il perché di questa storia sbalorditiva, di come il carbonio può diventare un elemento vivo».

Fin da subito, quindi, fare il chimico e riflettere sul mestiere del chimico sono due aspetti inseparabili da un discorso più generale che coinvolge anche la vita umana nella sua costitutiva ambiguità e mutevolezza. Per Levi, per il chimico sui generis Levi, non c’è nessuno iato tra lo studio della trasmutazione della materia e lo studio delle infinite variazioni che si manifestano nell’animale‐uomo, nella complessa macchina umana. L’attitudine mentale è la medesima. E l’osservazione del comportamento umano all’interno del Lager lo dimostrava pienamente.

Robert Capa, gli occhi che hanno fatto notizia. Il primo servizio famoso fu nel 1931, per Trotskij. L'ultimo, fatale, sulla guerra in Indocina, nel '54. Francesca Amé il 14 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Robert Capa, il più grande fotoreporter del Novecento, nasce Endre Ern Friedman, centodieci anni fa a Budapest. Per firmare i suoi scatti sceglie presto uno pseudonimo: nome hollywoodiano, Robert, e cognome facile da ricordare, Capa, che nella sua lingua madre indica un attrezzo per lavorare la terra. Ebreo ungherese e socialista, lascia casa a 17 anni e approda a Berlino, dove si dà al giornalismo: capisce subito che un'immagine vale più di mille parole e che la piccola Leica che tiene in tasca può portarlo in prima pagina (come quando, nel '31, con un escamotage s'infila alla conferenza che Lev Trotskij sta tenendo all'università di Copenaghen e realizza un iconico servizio sul «grande dissidente»).

Capa è già Capa prima di essere Capa: fulmineo nello scatto, intuitivo, muscolare, empatico, macho quanto basta. La sua carriera si brucia in pochi decenni, dagli anni Trenta alla metà degli anni Cinquanta, prima di essere vittima, lui che aveva coperto i peggiori conflitti in Occidente, della guerra che sentiva meno sua, quella in Indocina. Salta su una mina antiuomo mentre seguiva dei soldati in un campo: i rullini che aveva con sé si sono conservati e alcune di queste foto sono in mostra a Rovigo, nelle sale di Palazzo Roverella, per «Robert Capa. L'opera 1932-1954» (fino al 29 gennaio), esposizione corposa, curata con intelligenza da Gabriel Bauret e realizzata con 366 foto selezionate dagli archivi dell'agenzia Magnum Photo che Capa stesso aveva contribuito a fondare. Non è l'unico omaggio al suo talento fotografico: anche il Mudec di Milano, con «Robert Capa. Nella storia» (fino al 19 marzo), presenta un bel viaggio in ottanta immagini, scelte da Sara Rizzo.

I lavori del reporter sono arcinoti: alcuni sono entrati nei libri di storia e nell'immaginario collettivo, come Morte di un miliziano lealista o quella del contadino siciliano che indica a un soldato americano dove sono andati i tedeschi, per non parlare degli scatti sullo sbarco in Normandia, a Omaha Beach, cui Steven Spielberg ha dichiarato di essersi ispirato per Salvate il soldato Ryan. A Rovigo li troviamo nella sezione centrale della mostra e poi stampati sul Time (la seconda parte dell'esposizione si concentra sulle pubblicazioni cartacee, presentando le riviste cui Capa collaborava con assiduità): il reporter, oggi si direbbe embedded, alla divisione dei primi soldati alleati chiamati a sbarcare in Francia aveva con sé due macchine fotografiche e consumò due rullini per ciascuna. Si affrettò, una volta al sicuro, a inviarli in redazione, a Londra: Time aspettava con ansia quelle foto straordinarie, ma il caso volle che di turno fosse un tecnico inesperto, che chiuse troppo a lungo le porte dell'essiccatore dentro cui si mettevano i rullini.

Risultato: scatti da buttare, tranne undici parzialmente danneggiati. Leggendari, comunque. «Leggermente fuori fuoco» li definì il Time nella didascalia in pagina, attribuendo la colpa alla mano del fotografo, tremolante per l'emozione. Cosa che fece infuriare Capa, spingendolo di lì a poco a fondare con Henri Cartier Bresson e David Seymour l'agenzia indipendente Magnum Photo per tutelare i fotografi e renderli proprietari del copyright del loro lavoro e delle didascalie correlate. Quel «leggermente fuori fuoco» sarà poi il titolo di un fortunato memoir di guerra (in Italia edito Contrasto) firmato proprio da Capa, che non difettava di ironia né di consapevolezza del mestiere.

La mostra a Palazzo Roverella illustra il suo talento lungo nove sezioni, partendo dalle fotografie degli esordi e da quelle realizzate in Spagna, durante la guerra civile, là dove Capa conobbe la polvere della trincea a fianco dei militanti antifranchisti e dove, senza vedere la messa a fuoco, scattò la foto del miliziano che lo rese famoso. Lo seguiamo, grazie a un felice allestimento, nei reportage in Cina, durante la crisi cino-nipponica immortalata lungo le ferrovie, e poi al seguito degli americani in Europa, Italia inclusa, durante la Liberazione, per poi virare a Est, in un viaggio storico in Russia e in Ucraina con lo scrittore John Steinbeck, scortati entrambi da funzionari sovietici che vagliavano ogni cosa, passando per Israele, con le intense immagini dei primi coloni arrivati nel '48, e, infine, l'ultimo incarico in Indocina dove trova la morte.

In mezzo, ben documentato in mostra, c'è un Capa più intimo, quello dell'amore per Gerda Taro, anche lei fotoreporter di guerra d'assalto, morta appena a 25 anni in Spagna, e un Capa in pausa dai conflitti negli anni Cinquanta, quando coltiva la passione per Ingrid Bergman, per il gioco, per i cavalli e allena la capacità di ritrarre gli artisti (Picasso, Matisse). Capa se n'è andato, ha detto Cartier-Bresson, «all'apice della gloria»: ha fatto Robert Capa fino all'ultimo.

L'assassinio dell'intellettuale cattolico. Chi era Roberto Ruffilli, il pensatore che anticipò il crollo dei muri. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 25 Aprile 2023 

Il giornalista Paolo Giuntella, uno degli amici più stretti di Roberto Ruffilli, era solito dire che, rispetto ai momenti chiave della formazione di ciascuno di noi, i doni ricevuti si devono restituire a trasmettere a nostra volta. Ed è anche per questo che ho ritenuto di promuovere, insieme al prof. Clementi, un seminario che parte dal trentacinquesimo anniversario del suo assassinio (16 aprile) per ragionare sulle riforme, anche tenendo conto della ricorrenza del trentennale del referendum elettorale del Senato (18 aprile).

Mi sono trovato a diciotto anni, nel novembre 1979, dieci anni prima della caduta del Muro di Berlino, ad assistere ad un mio primo convegno politico nazionale ad Arezzo, organizzato dalla Lega Democratica di Pietro Scoppola, che è stato come Aldo Moro docente della nostra Facoltà di Scienze Politiche de “La Sapienza”, e Achille Ardigò, in cui conobbi per la prima volta Roberto Ruffilli, intitolato “La terza fase e le istituzioni”. Il primo passaggio che vorrei affrontare è quello della definizione di “terza fase”. Lo storico delle istituzioni nato a Forlì, allora semplice docente universitario, aveva ad Arezzo il compito di parlare sul tema “Il dibattito sulle istituzioni nell’Italia repubblicana” e, come si può rileggere nel numero del successivo mese di dicembre di “Appunti di cultura e di politica”, la rivista della Lega Democratica, riprese le fila dell’eredità di Aldo Moro, ucciso l’anno precedente. Per Ruffilli “l’insegnamento di Moro pare essere quello di una specie di ritorno alle origini del sistema politico, un ritorno alla ‘tregua’… Il problema è adesso quello di riprendere il lavoro lasciato interrotto alla Costituente per la individuazione di regole comuni del gioco politico democratico”. 

Dopo la prima fase del dialogo all’Assemblea Costituente, segnata da un accordo alto sui Principi della Prima Parte della Costituzione ma anche, a causa della Guerra Fredda, da una sfiducia reciproca che si era tradotta in una legislazione elettorale iper-proporzionalista e in una forma di governo debolmente razionalizzata, vi era stata la seconda, quella della centralità democristiana e del cosiddetto bipartitismo imperfetto, con la Dc sempre al Governo e il Pci sempre all’opposizione, ma poi se ne era aperta una terza, una fase di stallo, con le elezioni dei “due vincitori” del 1976, così denominata da Aldo Moro. Di “ritorno alle origini” e di “fase di stallo” parla in ultimo Aldo Moro anche nel suo memoriale scritto durante i cinquantacinque giorni del sequestro. Ruffilli ritorna costantemente sul pensiero di Moro, affinando progressivamente l’analisi, come segnala Federico Scianò su “Appunti di cultura e di politica” il mese successivo all’uccisione del professore. Secondo Scianò quello che è chiaro nel pensiero di Moro ricostruito da Ruffilli è il poter arrivare alla fisiologia dell’alternanza democratica, igiene della democrazia, mentre Moro non fa alcuna affermazione precisa su come si sarebbero scomposte e ricomposte le forze politiche in un sistema imperniato su una logica del tutto diversa da quella precedente.

Del resto per Moro le novità nel sistema dei partiti non erano figlie solo di una dinamica politica autoreferenziale, ma di un processo di liberazione della società che finiva col mettere in discussione anche vecchie appartenenze e collateralismi. A differenza dei settori più intransigenti del mondo cattolico, come Augusto del Noce, altro docente della nostra Facoltà, che avevano ritenuto di leggere in modo solo negativo quel processo di liberazione, parlando della “società radicale” come un blocco individualistico da combattere, ad esempio promuovendo un referendum per abrogare la legge sul divorzio, Moro ed anche Ruffilli non leggevano così la realtà, preferendo distinguere e praticare l’arte della mediazione. Ruffilli era stato a Forlì tra le poche personalità dell’area cattolica ad esprimersi in dissenso dalla Democrazia Cristiana e dalla Conferenza Episcopale Italiana rispetto al referendum sul divorzio.

Un’esperienza da cui poi si sviluppò la Lega Democratica. Per Aldo Moro, e più in generale per quel filone del cattolicesimo democratico, il nodo non era quello di contrapporsi in blocco alla nuova sensibilità per i diritti, ma di riuscire ad accompagnarla con un “nuovo senso del dovere”, diverso quindi dalla riaffermazione astratta di principi e di vecchie mediazioni datate, ritenute erroneamente immutabili, a cominciare da schemi paternalistici e patriarcali. In questo senso, come ha scritto il sociologo Luca Diotallevi, anch’egli impegnato nella Lega Democratica, il referendum sul divorzio ha rappresentato una presa di coscienza sul versante cattolico analogo a quello che Carniti e Tarantelli (altra vittima delle Br) imposero alla sinistra sui temi del lavoro e dell’inflazione nel referendum del 1985.

Il secondo passaggio che vorrei affrontare, e che parte sempre dal titolo del Convegno di Arezzo, è il tema delle riforme istituzionali.  Il punto di svolta di quel convegno intitolato, ripeto, “La terza fase e le istituzioni” fu appunto la consapevolezza che la terza fase, la prospettiva dell’alternanza, potesse e dovesse essere incentivato anche da nuove regole elettorali e istituzionali, e non solo da dinamiche strettamente politiche. Lo spiega bene Leopoldo Elia, sempre nel numero del maggio 1988 di “Appunti di Cultura e di politica”: “più di uno tra noi comprendeva in quegli anni che non bastava insistere nell’attuazione della Costituzione… intravvedemmo che le indicazioni politiche di Moro potevano trovare una vera terza fase in una politica istituzionale nella quale si realizzassero condizioni e regole per una democrazia più idonea a corrispondere alle sue grandi missioni di giustizia e di progresso sociale per l’attuazione del disegno fissato nella Prima Parte della Costituzione”.

Una tentazione, quella del conservatorismo costituzionale, che si ammanta dello slogan dell’attuare inteso in alternativa al riformare, ben criticata da Elia, che è una costante della storia italiana. Da allora Ruffilli sviluppa con coerenza, in particolare su “Appunti di cultura e di politica” questa doppia e simultanea attenzione, per un verso al tramandare il senso profondo delle indicazioni morotee (“Si tenta di cancellare la stessa immagine di Moro”, articolo del marzo 1981; le due immagini di Moro” del novembre 1983) e per altro verso a individuarne precise conseguenze sulla riforma delle regole (“In nome del popolo sovrano” febbraio 1984; “La razionalità istituzionale”, gennaio-febbraio 1988).

Come è maggiormente noto, rispetto a questi articoli sulla rivista della Lega Democratica, queste riflessioni hanno poi trovato i punti di caduta più precisi in due testi editi da Il Mulino nella collana curata con l’Arel, “Materiali per la riforma elettorale” (1987) e “Il cittadino come arbitro” (1988). Nelle conclusioni del primo, Ruffilli segnala che l’aggregazione al centro del sistema politico è entrata in crisi proprio perché ha avuto successo, ormai vi è un consenso all’interno riconosciuto anche all’esterno sulle scelte di fondo di collocazione euro-atlantica delle principali forze politiche, ma che però questo non era in grado di tradursi, a regole invariate, in un sistema di comportamenti, accordi, convenzioni tra le forze politiche, in grado di realizzare un chiaro rapporto tra consenso, potere e responsabilità che faccia del cittadino attraverso l’elezione del Parlamento anche della chiara scelta di una coalizione di Governo per la legislatura. Quello del ruolo del cittadino rispetto alla scelta di una maggioranza è per Ruffilli l’obiettivo gerarchicamente più importante della riforma elettorale e di conseguenti riforme costituzionali.

È il tema trattato in modo ancora più netto nel secondo testo: di fronte all’indubbio “sfaldarsi delle regole, delle convenzioni e dei comportamenti politici” che portano alla “richiesta di deleghe in bianco” e che ci allontanano dalla fisiologia delle grandi democrazie parlamentari che funzionano con coalizioni, dove non è messa in discussione come regola ordinaria la convenzione per la quale la guida del Governo è attribuita per la legislatura al candidato indicato prima del voto da parte del partito più grande della coalizione, l’obiettivo delle riforme è dare centralità alle scelte del cittadino elettore. Prima della caduta del Muro di Berlino esistevano però ancora schegge di resistenza ad una compiuta democrazia dell’alternanza, di colore opposto ma convergenti nelle loro azioni, anche attraverso l’uso dell’assassinio politico, contro i promotori di questo decisivo cambiamento.

In questa chiave, sempre nel numero citato di Appunti del mese successivo, Paolo Giuntella accomuna gli omicidi Ruffilli, Moro, Bachelet e Tarantelli, uomini che avevano saputo anticipare il crollo dei muri, segnalando per inciso, come ulteriore attenzione profetica di Ruffilli quella della consapevolezza dell’importanza della tutela costituzionale dell’ambiente. È del tutto evidente quanto queste acquisizioni di cultura politica abbiano reso possibile la nascita e lo sviluppo del movimento referendario per le riforme elettorali dei primi anni ’90 che ha ottenuto risultati coerenti e positivi per Comuni e Regioni, parziali e contraddittori per il livello nazionale. Anche forse per l’assenza di queste personalità che ci sono state sottratte anzitempo siamo oggi in un cammino ancora pienamente compiuto, in cui dobbiamo inserirci, senza dogmatizzare nessun particolare punto di caduta concreto, ma certo ispirandoci agli stessi principi. Stefano Ceccanti

Roberto Saviano condannato: mille euro per l'insulto a Giorgia Meloni. Il Tempo il 12 ottobre 2023

Mille euro. Questo il "prezzo" dell'insulto. Il tribunale monocratico di Roma ha condannato Roberto Saviano al pagamento di una multa di tale entità con l’accusa di diffamazione nei confronti del presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Riconosciute allo scrittore le attenuanti generiche. La procura aveva sollecitato per l’imputato una pena pecuniaria di 10 mila euro, da richiesta dal sostituto procuratore Pietro Pollidori. Saviano era sotto processo per il reato di diffamazione nei confronti del presidente del Consiglio Giorgia Meloni. I fatti sono noti: lo scrittore durante una puntata della trasmissione Piazzapulita, in onda su La7 a dicembre 2020 sul tema dei migranti, definì Meloni, all’epoca parlamentare di Fratelli d’Italia, con il termine "bas***da". "Oggi sono qui senza Michela Murgia, che mi è sempre stata accanto. Ritengo il comportamento di Giorgia Meloni un’ intimidazione", ha detto Saviano nelle spontanee dichiarazioni durante il processo. 

L’avvocato Luca Libra, legale di parte civile della presidente del Consiglio, aveva chiesto un risarcimento di 75 mila euro per il danno e una provvisionale non inferiore a 50 mila euro. "Il termine bas***do non può rientrare nella legittima critica, nemmeno della critica politica più aspra - ha detto il penalista -. Proprio per la sua mediaticità, molti esponenti di spicco hanno espresso parere. Violante da Porro disse: ’bas***do non è una critica, è insulto'. Queste parole, unite alla lettura del termine bas***do sul dizionario, che evidenzia come questo termine sia dispregiativo, si aggiunge un terzo elemento: la giurisprudenzia che ha sempre condannato il termine". "L’unico interesse di Saviano era colpire l’aspetto puramente morale e personale di Meloni, non c’era nessuna critica. Non puoi criticare una misura che non è lei a fare", ha aggiunto l’avvocato Libra. Se una persona vuole "contestare, lo fa nel perimetro che la giurisprudenza e il codice ci hanno dato. Questa è la differenza tra una società democratica e la guerriglia". I giudici hanno condannato Saviano, ma a una pena che farà discutere per la sua entità: mille euro. 

Saviano si crede il Verbo, Paragone a valanga sul "martire di professione". Gianluigi Paragone su Il Tempo il 28 luglio 2023

Se lo aspettava, il Martire Saviano. Se lo aspettava perché farlo fuori dalla Rai «è una decisione politica», come ha commentato sul «suo» Corriere. Niente Saviano, insomma. Niente più quei bei racconti di denuncia, di coraggio ineguagliabile, di inconfondibile epica che puntellavano la riserva culturale e intellettuale di Fabio Fazio. Cosa non ci farà vedere dunque la nuova Rai del governo Meloni e che invece l’Insider di Saviano ci avrebbe rivelato? Inchieste «su Don Peppe Diana, sacerdote ucciso dal clan dei casalesi; sui collaboratori di giustizia che hanno permesso di svelare importanti rapporti tra mafia e politica e tra mafia e imprenditoria. E sui giornalisti perseguitati».

E allora uno si domanda: ma davvero senza Saviano non ci sarà pure un racconto sull’antimafia? Ci sarà eccome, ma il Martire pensa di avere l’appalto narrativo in esclusiva: nessuno come lui. In Rai resterà solo Peppa Pig, ha dichiarato il Nostro che ovviamente pensa di essere il solo Verbo e il solo Papa. «Io ho attaccato il potere», per questo gli hanno tolto la trasmissione. Saviano propone la stessa cosa da anni, gli cambia titolo e tanto basta. Di don Diana in Rai possono parlare con altrettanta intensità anche altri giornalisti, ciò che nella nuova narrazione della Rai dovrebbe accadere - ma non so se accadrà - è il coraggio di sfidare la comunicazione dominante ponendo e ponendosi delle domande scomode perché controcorrente: è facile dire oggi che Kevin Spacey ha pagato un prezzo alto; più difficile era ascoltare le ragioni della difesa prima, cioè quando imperava il #MeToo. Per esempio. I racconti dell’antimafia sono una fondamentale prova di giornalismo (e non solo) per il Paese, ma la prova di maturità si completa quando si ha il coraggio di dire che se rovini la vita di una persona innocente con l’accusa di essere mafioso o in odor di ‘ndrangheta, quella persona va risarcita e riabilitata.

Nel presepe di Saviano non c’è spazio per queste storie, per queste prese di posizione. Il giornalismo di Saviano serve a Saviano. Altre trasmissioni racconteranno di mafia e di ‘ndrangheta e lo faranno magari raccontando anche cosa significa vivere in galera perché un certo furore, misto a intoccabilità, muove taluni procuratori; racconteranno cosa significa spendere soldi per difendersi da accuse pesantissime con la differenza che per difenderti da accuse false devi intaccare i tuoi risparmi mentre chi costruisce castelli accusatori non paga mai dazio. Saviano non attacca il potere, Saviano è il megafono di un altro potere, assolutamente legittimo; basta piagnistei come fosse l’unico a essere bersagliato. «L’Italia è un paese che mette paura», ha detto. Vero soprattutto per chi da innocente finisce con la vita rovinata per colpe che non ha.

 Saviano nel mirino di Dalla Chiesa: "Si desse pace, non è l'antimafia". Il Tempo il 29 luglio 2023

Roberto Saviano è da giorni al centro delle discussioni per la cancellazione da parte dei vertici Rai del suo programma "Insider, faccia a faccia con il crimine". Ad annunciarlo è stato l'amministratore delegato Roberto Sergio. Il motivo della decisione? Una violazione del codice etico, occorsa nella recente occasione in cui lo scrittore ha definito il ministro dei Trasporti Matteo Salvini “Ministro della malavita”. Questa vicenda è stata commentata su Twitter da giornalisti, politici e opinionisti. Tra questi, Rita Dalla Chiesa su Twitter ha espresso la sua opinione. 

Paolo Giordano, su Twitter, ha esternato un parere sulle parole pronunciate da Roberto Saviano dopo l'annullamento della sua trasmissione in Rai. "Per Saviano 'l’Italia è un paese che fa paura'. Gli auguro di non trovarsi mai nei paesi che fanno DAVVERO paura. Le sue parole sono un insulto a chi perde vita, lavoro, affetti e speranze proprio nei paesi che fanno DAVVERO paura": così il giornalista ha "incenerito" il saggista. 

L'intervento di Giordano non è passato inosservato a Rita Dalla Chiesa che, su Twitter, ha risposto così: "Se gli fa paura l’Italia c’è sempre la scorta che ha da anni per proteggerlo, e la casa di New York per accoglierlo. Si desse pace. L’antimafia non è lui". E ancora sui social la conduttrice è tornata a puntare il dito contro chi crede che la cancellazione del programma di Saviano sia una vendetta per quella della striscia quotidiana affidata a Filippo Facci. "Vendetta per che cosa? Il diritto all'insulto non è il sacrosanto diritto di critica. Nessuno può permettersi di offendere così pesantemente le Istituzioni. Non rappresenta l'antimafia, lui. Rappresenta solo uno che ha copiato gli articoli di due coraggiosi giornalisti", ha scritto Rita Dalla Chiesa. 

"Il suo contributo? Non pervenuto". Il generale antimafia asfalta Saviano. Francesca Galici il 28 Luglio 2023 su Il Giornale.

Carmelo Burgio è stato in prima linea nella lotta alla camorra come generale dei Carabinieri e dai social si è esposto con una posizione critica su Roberto Saviano

Continua a far rumore l'esclusione di Roberto Saviano dalla Rai. Mentre a sinistra si stracciano le vesti, considerandola parte di un sistema politico, nel mondo reale la decisione è stata considerata per quello che è, una scelta editoriale, sulla base della quale nei giorni precedenti era stato cancellato anche il programma di Filippo Facci. "Saviano icona della anti-camorra? Io resto ai fatti come li ho vissuti. Un libro di successo e una condanna per plagio... Pare abbia scopiazzato… Non sono io a dirlo ma una sentenza", dichiara in un lungo post Carmelo Burgio, generale italiano dell'Arma dei Carabinieri, che ha vissuto in prima persona la lotta contro la camorra negli anni più sanguinosi delle faide locali, essendo lui di stanza a Caserta.

"Peppe Setola o’ cecato iniziò nel 2008 la mattanza, segno che per sparare ci vedeva... 20 morti in 6 mesi e la strage di S. Gennaro... Un italiano e sei africani in una sera sola. Era allora ministro dell’interno Bobo Maroni... Veniva una volta al mese in prefettura organizzando il Comitato Nazionale Ordine e Sicurezza Pubblica", prosegue Burgio, che poi chiede: "Contributo di Saviano alla lotta alla camorra, in quegli anni? Parlo per me e i Cc di Caserta : NON pervenuto". In quegli anni, spiega il generale, Caserta era una città quasi militarizzata: "Arrivò di tutto e di più, anche il 186esimo paracadutisti di Siena che fu di grande aiuto. Setola arrestato insieme a tanti altri, di altri clan. Il modello Caserta, per intenderci".

Il ruolo di Roberto Saviano, secondo Burgio, nella lotta alla camorra è stato irrilevante. "Magari comunque altri hanno avuto di più dalle sue esternazioni... Non saprei", prosegue il generale, sottolineando poi che quanto scritto dall'autore nei suoi libri non fosse poi una gran novità. "Ad ogni modo, nel 1927 il PCM in carica, nel celebre discorso, spiegava a tutta l’Italia che le mafie serie, allora, erano nella Terra dei Mazzoni (Castelvolturno), nell’agro aversano e in Sicilia. Quindi manco questa è stata una scoperta di Saviano", fa notare il militare, che ha dimostrato sul campo di conoscere molto bene le organizzazioni criminali che agiscono nel nostro Paese, avendole affrontate sul campo. Nel suo post, quindi, Burgio prosegue ricordando che "Gomorra esce a processo Spartacus concluso, dopo il duce del fascismo lo aveva detto anche altra gente, fra magistrati e Forze dell’Ordine".

Macché censura, Saviano è vittima di sé stesso. Prima a sinistra andavano in cerca di fascisti e facevano cacciare i “nemici” Ora si stupiscono perché il codice etico viene fatto valere pure per loro. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 28 luglio 2023

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

C’è Roberto e Roberto. In Roberto Sergio, amministratore delegato della Rai, convivono: la corpulenza del servizio pubblico, l’astuzia della vecchia Dc e il rigore del manager che danza tra esigenze contrattuali e svolgimento di una funzione pubblica esercitata con «disciplina e onore»: roba forse polverosa, ma prevista dalla Costituzione all’articolo 54.

Sergio ha, di fatto, re-imposto alla tv di Stato un perduto «codice etico» a interpretare estensivamente i doveri dei dipendenti pubblici. Può piacere o non piacere, ma così è.

Sicché quando l’altro Roberto, il Saviano, scrittore ormai dedito all’affaticata caccia ai fascisti immaginari, ha continuato a ribadire e, soprattutto, a rivendicare gli insulti verso «Salvini ministro della mala vita»; be’, ovvio che, alla fine, pure il doroteo Roberto, il Sergio, si sia incazzato. Sollecitato da una levata di scudi del centrodestra (sollecitato a sua volta da Libero), l’ad della Rai ha dunque cancellato dal palinsesto di Raitre la trasmissione di Saviano, Insider, faccia a faccia col crimine. Il motivo è di una banalità tecnico-aziendale e «non politica» ha affermato Sergio al Messaggero, «abbiamo trovato un’azienda demoralizzata e preoccupata. Il rapporto con la politica? La Rai non può esimersi, è importante che la politica non la condizioni». Per Sergio la Rai non è un insieme di programmi, è una postura istituzionale. Sicché, dopo il precedente della soppressione del programma di Filippo Facci per un articolo su Libero considerato sessista attorno al caso LaRussa jr, l’ad della Rai non poteva evitare di far fuori Saviano. 

IL SOLITO EMBOLO Al quale Saviano è ovviamente partito il solito embolo.

E, con usuale propensione martirologica, lo scrittore ci ha dato dentro, elargendo espressioni del tipo: «Facci ha attaccato una persona inerme per difendere il potere. Io ho attaccato il potere. Non vedo molti punti di contatto» (e qui emerge un paradosso: se Facci difende il potere, perché allora l’hanno fatto fuori?); o «hanno elaborato un codice etico che risponde ai desiderata di Salvini» (quest’ossessione di Salvini non è più Freud, ma Lacan, bisognerebbe mettergli alle costole lo psicologo Massimo Recalcati); o «la decisione è politica». Ma la decisione non è affatto politica.

O meglio, è politica solo nella misura in cui la politica, nelle sue profonde contraddizioni, continui ad aleggiare attorno alle decisioni del settimo piano di Viale Mazzini. A cotè, il solito tappeto sgualcito di dichiarazioni- slogan dall’opposizione. La Schlein spara: «Il governo Meloni riesce ad attaccare Don Ciotti da sempre impegnato nel contrasto alla criminalità organizzata e cancellare quattro puntate di Insider (già registrate) contro le mafie di Roberto Saviano come vendetta perché è saltata la striscia di Facci», senza specificare che chi ha fatto saltare Facci è lo stesso ad che ha cancellato Saviano. L’ad che ha pure mantenuto in palinsesto tutti i programmi dei conduttori di sinistra assegnandone perfino qualcuna ai 5 Stelle.

Michela Murgia rincara la dose: «Nessuno era così ingenuo da pensare che avrebbero mai dato una trasmissione nuova a Saviano col nuovo corso fascista in Rai». Nicola Fratoianni ringhia: «È un continuo di decisioni che andranno ad affondare la maggiore industria culturale del Paese, ad insultare milioni di telespettatori del nostro Paese». Ma il sinistro Fratoianni non articola su quali siano le decisioni che precipiterebbero nell’apocalisse una Rai strappata per i capelli alla morte clinica di piani industriali inesistenti, palinsesti lasciati al destino, contratti di servizio mai confermati. Cioè: dall’opposizione prima sollecitano la cacciata di Facci per un «reato d’opinione». Poi, però, toccati i loro per lo stesso motivo, invocano l’epurazione e persino la volontà di «cancellare programmi sull’antimafia»; con l’ex magistrato grillo Cafiero de Raho, a chiedere l’intervento proprio della Commissione Antimafia. Cose così, di un surralismo spiazzante e, finanche, fascinoso.

DEGNITÀ DI STATO La vera verità è che questa Rai non riesce a produrre i bei martiri di una volta. Non si riescono più a creare i Luttazzi e i Santoro; gli editti bulgari appartengono alla storia. Lo stesso Facci non è felice della cacciata di Saviano perchè «sono due voci in meno». E qui due sono le scuole di pensiero. Per la prima ogni opinione, anche la più inopportuna, in Rai non dev’essere soggetta a regole. Perla seconda le regole sono la cifra di un modello culturale. Sergio ha scelto la seconda. La dignità e la degnità del servizio pubblico. Se ha fatto bene si vedrà, ma è una scelta da rispettare.

Sallusti contro Saviano e Don Ciotti: "Un caso psichiatrico e un caso umano". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 28 luglio 2023

Giorgia Meloni è alla Casa Bianca a parlare del futuro dell’Occidente ma qui da noi l’estate della sinistra si incentra su quattro casi delicati: un caso psichiatrico, Roberto Saviano, un caso umano, don Ciotti, un caso di depistaggio politico internazionale, il Pd e un caso di linciaggio mediatico al compagno di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno.

Partiamo dal caso di Roberto Saviano, il cui programma Rai è stato cancellato dopo gli improperi pubblici rivolti a mezzo governo. Essendo lui un egocentrico con manie persecutorie sta andando in giro a dire che la sua sospensione è una vittoria della mafia su mandato del governo. Di mafia ovviamente in questa storia non c’è ombra, e neppure di censure o limitazioni della libertà di informazione. Saviano infatti è libero di dare, cosa che ha fatto, dei bastardi e dei malavitosi al primo ministro e ai ministri, ma non essendo ciò un’inchiesta giornalistica documentata bensì una sua opinione incappa nel codice etico della Rai che non vuole tra i piedi chi insulta gratuitamente e gravemente rappresentanti delle istituzioni, cioè i suoi azionisti.

Il caso politico è che il Pd ha portato la questione della “censura a Saviano” addirittura al Parlamento europeo lasciando intendere al mondo - qui sta il depistaggio - che in Italia non c’è più libertà di opinione. Ora, è vero che “Meloni bastarda” e “Salvini ministro della malavita” sono opinioni che hanno diritto di circolare, infatti circolano, ma non necessariamente o per forza anche in prima serata sulla televisione pubblica. 

Terzo caso, quello umano. All’alba dei suoi ottant’anni, don Ciotti – il prete che da antidroga si è riciclato antimafia – ha detto che il Ponte sullo Stretto caro a Matteo Salvini è una follia perché “unisce due cosche”, intendendo immagino la mafia e la ’ndrangheta. La secca replica del ministro è stata fatta passare come un tentativo di censura a un eroe dell’antimafia. Ora, vogliamo ammettere che anche gli eroi invecchiando rimbambiscono? Già, perché sarebbe come dire che non si doveva costruire l’Autostrada del Sole in quanto avrebbe unito più velocemente le bande criminali dell’Italia, la Salerno-Reggio Calabria perché avrebbe collegato la camorra alla mafia, ma financo che è stato folle dare vita all’Alitalia perché avrebbe avvicinato Milano ai loschi traffici mafiosi di Palermo.

E infine, non in ordine di importanza, il linciaggio in corso al compagno di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno, secondo la sinistra l’unico a non avere libertà di opinione pur essendo un giornalista. Nella sua trasmissione su Mediaset, Giambruno ha così commentato le parole del ministro del Turismo tedesco che aveva invitato a non passare le vacanze in Italia perché fa troppo caldo: “Se non le sta bene stia a casa sua, avete pur sempre la Foresta Nera”. Tra un italiano che difende l’Italia e un tedesco che ci denigra secondo voi la sinistra chi sceglie? Il tedesco, ovvio. E quindi apriti cielo e giù di manganello contro Giambruno colpevole di lesa idiozia (del tedesco). Ecco, questa è l’agenda politica della sinistra italiana per l’estate 2023 affidata a psicopatici, rimbambiti, mestatori e picchiatori. Intanto Joe Biden, democratico e presidente degli Stati Uniti d’America, brinda ai successi e all’affidabilità di Giorgia Meloni. A voi le conclusioni. 

Estratto dell’articolo di Antonella Baccaro per corriere.it giovedì 27 luglio 2023.

«L’Italia è un paese che mette paura». Roberto Saviano commenta così la cancellazione del suo programma Insider II dalla Rai. 

Come l’ha saputo?

«Dal mio giornale, il Corriere della Sera». 

Se lo aspettava?

«Sì, è una decisione politica che si inserisce nella strategia più ampia di usare le azioni giudiziarie come grimaldello per impedirti di lavorare». 

Che tipo di programma è Insider II?

«Un programma su Don Peppe Diana, sacerdote ucciso dal clan dei casalesi, sui collaboratori di giustizia che hanno permesso di svelare importanti rapporti tra mafia e politica e tra mafia e imprenditoria. E sui giornalisti perseguitati: tra loro Rosaria Capacchione ed Enzo Palmesano, quest’ultimo è stato parte della storia di Alleanza Nazionale, poi allontanato per il suo impegno antimafia, non in linea con il nuovo corso».

La sua trasmissione sarebbe stata cancellata non per i  contenuti ma per le espressioni da lei usate nei confronti del vicepremier Salvini, non in linea col Codice etico Rai.

«Quindi voi giornalisti ora sarete attenti a tutte le dichiarazioni rese negli anni da chiunque abbia avuto una trasmissione in Rai, verificandone l’aderenza a un Codice etico fatto per compiacere chi, nel 2015, scrisse: “Cedo due Mattarella per mezzo Putin” (Matteo Salvini, ndr). La possibilità che in Rai resti solo Peppa Pig è alta». 

Il suo caso è paragonabile a quello di Filippo Facci?

«Facci ha attaccato una persona inerme per difendere il potere. Io ho attaccato il potere. In realtà l’equiparazione è una strategia politica dei media di destra che sono nelle mani di un parlamentare della Lega».

(...) 

“Ministro della Mala Vita” è tra le espressioni, da lei riferite a Salvini.

«E’ il titolo di un libro di Gaetano Salvemini. Avevo usato questa espressione 5 anni fa e sono stato querelato». 

Ma a cosa allude?

«Al fatto che l’attitudine di Salvini nei confronti del Sud Italia è la stessa che Salvemini attribuiva a Giolitti: sfruttamento elettorale e scarsa attenzione ai problemi reali». 

Lei sostiene che il vicepremier fa di tutto per tirare il processo contro di lei per le lunghe.

«Non lo sostengo io. Il processo è bloccato perché lui non si presenta a testimoniare: avrà paura di rispondere sotto giuramento? Sul mentire, Salvini deve capire che utilizzare l’immunità parlamentare per schermarsi dai processi per diffamazione è un’arma a doppio taglio: significa ammettere che ciò che dice non vale nulla».

Esiste anche un processo a suo carico per aver definito Meloni “bastarda” circa la politica migratoria.

«Non ho definito “bastarda” Meloni, ho definito “bastardi” Meloni, Salvini, Di Maio e Minniti, come ha sottolineato la stessa difesa di Meloni. Esiste una registrazione di Radioradicale».

Estratto dell'articolo di Serena Riformato per la Stampa giovedì 27 luglio 2023.  

Della cancellazione del suo programma Insider, faccia a faccia con il crimine dai palinsesti Rai, Roberto Saviano ha saputo dai giornali.

Non un messaggio, non una telefonata dai vertici: «L'amministratore delegato Roberto Sergio deve essersi vergognato. Posso comprendere, essere un mero esecutore di decisioni politiche può causare un certo disagio».

Un dato rende ancora più assurda la scelta del settimo piano di viale Mazzini: le quattro puntate del format di inchiesta e racconto sulle mafie erano già state ideate e registrate, persino presentate ufficialmente all'interno dell'offerta televisiva della prossima stagione, il 7 luglio, con un video dello scrittore. Poi il dietrofront al culmine di una strategia, dice Saviano, molto precisa: «Il paragone fra me e Filippo Facci lo cavalcano i giornali di destra su esplicito mandato politico». 

Secondo la Rai il suo linguaggio sarebbe incompatibile con il Codice etico dell'azienda. Lei sostiene sia un "pretesto". Perché?

«Ho definito "Ministro della Mala Vita" Matteo Salvini nel 2018, "bastardi" lui, Giorgia Meloni, Luigi Di Maio e Marco Minniti nel 2020. Sono sotto processo con la premier e Salvini (che ha annunciato il bis) e con il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano che ha perso il primo grado di giudizio e ha annunciato ricorso, ma nonostante questo sono stato ospite in Rai decine di volte e ho condotto la prima stagione di Insider. Hanno solo inventato il rispetto di un presunto codice etico». 

La sua vicenda è stata paragonata a quella di Filippo Facci, il cui programma è stato cancellato dopo le frasi sessiste contro la ragazza che ha denunciato il figlio di Ignazio La Russa. Quali sono le differenze?

«Filippo Facci ha attaccato una persona inerme per difendere il potere. Io ho attaccato il potere. Il paragone Facci vs. Saviano lo cavalcano i giornali di destra su esplicito mandato politico. Spero che voi giornalisti seri, a questo punto, passerete al vaglio del codice etico tutte le dichiarazioni dubbie di chi oggi in Rai ha trasmissioni televisive ancora non cancellate. Mi sa che resterà solo Rai Yoyo». 

C'erano stati segnali prima dell'annuncio?

«È una strategia politica dei media di destra che sono nelle mani di un parlamentare della Lega. Ne parlano da giorni. Alla fine Roberto Sergio ha ceduto, dimostrandosi un mero passacarte perché la decisione è politica e per nulla aziendale. Fosse aziendale dovrebbero epurare mezza Rai in virtù del codice etico, da Bruno Vespa a Nunzia De Girolamo a Luca Barbareschi. Mi sa che l'anno prossimo in studio ci saranno Peppa Pig, la Pimpa e Sponge Bob. Anche se su Sponge Bob ho qualche dubbio».

Ha parlato al telefono con l'amministratore delegato Roberto Sergio? Che cosa le ha detto?

«Ho saputo la decisione della Rai dal mio giornale, Il Corriere della Sera. L'ad Sergio deve essersi vergognato. Posso comprendere, essere un mero esecutore di decisioni politiche può causare un certo disagio». 

(...)

Eliminare un programma su questi temi cosa dice sull'impegno professato dalla maggioranza nella lotta contro le mafie?

«Nello stesso giorno Matteo Salvini attacca don Luigi Ciotti e ordina ai suoi scherani in Rai di cancellare "Insider", è evidente da che parte sta questo governo, no? Cancellare un programma che denuncia le organizzazioni criminali non fa onore a nessuno. Farlo poi seguendo un finto codice etico elaborato per compiacere chi, nel 2015 dichiarava: "Cedo due Mattarella per mezzo Putin", è un orrore».

 (...)

Estratto dell’articolo di Federico Monga per “La Stampa” il 3 maggio 2023.

Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha perso in primo grado la causa di diffamazione contro lo scrittore Roberto Saviano. Secondo il giudice di Roma Silvia Albano, definire l'attuale ministro, quando fu nominato vice direttore del Tg1 e poi direttore del Tg2, "galoppino" di Mario Landolfi (condannato in via definitiva a due anni per corruzione), Italo Bocchino, Nicola Cosentino (condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa a dieci anni) e Amedeo Laboccetta (condannato anche lui in Cassazione a sette anni per lo stesso reato) rientra nel "diritto di critica" garantito dalla Costituzione. Il ministro ha annunciato che farà ricorso in Appello.

Saviano, se lo aspettava?

«È una sentenza non scontata in una situazione politica del genere. Ora sta diventando sempre più difficile criticare il governo con parole forti». 

Il giudice scrive nella sentenza: "Parole aspre".

«Chi comanda deve poter esser criticato e non con prudenza. Lo ricorda anche la Corte europea dei diritti dell'uomo: maggiore è il potere politico e maggiore deve essere la possibilità di critica». 

Si può dire allora quello che si vuole?

«Certo che no. Ma […] dobbiamo chiederci qual è il prezzo pagato da chi muove critiche forti al potere. Un prezzo pagato non solo in tribunale, dove quasi un intero governo mi ha portato. Bisogna considerare i tanti spazi che vengono tolti non solo a chi muove queste critiche ma anche a chi gli sta intorno. Di fronte alla critica questa destra crea il deserto».

Facciamo un esempio.

«Uno per tutti. La Lega appena andata la potere in Trentino chiude "Il festival dell'Economia" dove ero stato ospite. Le associazioni che ti invitano, le trasmissioni che ti ospitano diventano automaticamente nemici». 

La querela in Italia è troppo facile.

«Un intellettuale, un giornalista, uno scrittore e un politico non sono due liberi cittadini che si confrontano ad armi pari. Il ministro Salvini o la premier Meloni, che mi hanno querelato, hanno una struttura dietro, un partito che paga gli avvocati, uffici stampa, hanno la possibilità di intervenire nella vita pubblica, hanno l'immunità parlamentare. Io no. Essere inserito nella schiera dei nemici, degli avversari, appena muovi una critica, immiserisce il dibattito. È pericoloso».

[…] Il potere non è mai andato a braccetto con la critica. Anche in Italia. Ricordiamo Massimo D’Alema che querelò Forattini, per fare un esempio noto e andare a sinistra.

«Ma D'Alema quando andò al governo ritirò la querela. Sangiuliano no. […]». […] 

La libertà di critica è in pericolo?

«L'Italia si sta avvicinando sempre di più alla Polonia, all'Ungheria di Orban, alla Serbia. Si sta balcanizzando. […] Da noi gli intellettuali critici si sentono sempre più soli». 

Torniamo alla sentenza. Il giudice scrive che le sue parole "non sono condivisibili". Cosa c'entra questo giudizio con il diritto civile?

«[…] Non è un giudizio del giudice ma ricorda che la libertà e il diritto di critica sono protetti dalla Costituzione anche se quelle parole non sono condivisibili». 

Ha in corso altre cause con Salvini che ha definito "ministro della malavita" citando Salvemini e con Meloni che, in riferimento alle posizioni sui migranti, ha bollato come "bastarda". Questa sentenza la lascia più tranquillo?

«No perché tutto ci si può aspettare soprattutto in un clima del genere che non è sereno. Battaglierò al processo. I media sono colonizzati e spaventati soprattutto dalla fragilità economica».

Come giudica la vignetta sulla sorella di Meloni a letto con una persona di colore e il ministro Lollobrigida?

«Difendo il diritto alla satira: quella vignetta aveva tutto il diritto di essere fatta e pubblicata ma non la ho condivisa. La satira va rivolta su chi ha potere ma dal basso verso l'alto e non lateralmente. Sui parenti è meno impattante. E poi ha fatto un favore alla destra. Ha distratto l'attenzione dalla frase gravissima, squallida di Lollobrigida sulla sostituzione etnica». 

Il ministro ha detto di non sapere di cosa stava parlando...

«Di sostituzione etnica hanno parlato Meloni e Salvini in campagna elettorale. Adesso che sono al governo si sono messi una maschera. Devono fare la faccia buona a Bruxelles dove chiedono i soldi. Quando sono Roma tornano quelli di sempre: populisti e reazionari. E Lollobriguida è costretto a fare la figura del fesso, dell'ignorante». 

Cosa ne pensa del video di Meloni del Primo Maggio e della decisione di non fare conferenza stampa sul decreto?

«Una furbata. Tutti noi comunichiamo con i social, anche io. Ma il premier non è un cittadino né uno scrittore e deve passare all'interno del confronto democratico. Persino Berlusconi agiva diversamente». 

Saviano che rimpiange Berlusconi è una notizia.

«Lui voleva convincere e andava anche in luoghi avversi per conquistare. Meloni no, vive nella sua bolla. La tendenza del governo ora è parlare solo alla sua parte, tipico gioco populista». 

[…] Siamo alla vigilia di una nuova tornata di nomine in Rai e di una nuova lottizzazione politica. Come sempre.

«Vero. Meloni eredita un sistema già malato. Ma la situazione è peggiorata. Non ci sono più nicchie dove difendersi, da dove far sentire voci critiche. L'organizzazione orizzontale che attraversa le reti permette un controllo trasversale. Non c'è più la Rai 3 di Ruffini che mi difendeva. […]». […]

Daniele Dell'orco per “Libero quotidiano” il 2 gennaio 2023.

Tra i cantori della "intelligenza annacquata", quel bizzarro schema di pensiero tutto contemporaneo che rende pochi intellettuali capaci di parlare di ogni argomento dello scibile mescolando l'alto e il basso e applicando concetti al limite del trash persino a sfere delicate e intime come l'etica e la sacralità, figura un esponente di spicco come Roberto Saviano. 

Lo scrittore di Gomorra è un campione di polarizzazione, e per dividere l'opinione pubblica non esita a titillare spesso e volentieri gli istinti più irrazionali delle persone per combattere quanti, secondo cui, sarebbero rei di utilizzare la stessa arma. Le sue banalità, però, sono ben mascherate da un alone di pseudocultura, quindi al riparo dalle sonore pernacchie che riceverebbero se fossero pronunciate da qualunque comune mortale. Oltre alla politica e alla letteratura, Saviano ha applicato il suo metodo anche al calcio, in lunga intervista concessa alla Gazzetta dello Sport.

Lo scrittore, napoletano e grande tifoso del Napoli, ha parlato della lotta scudetto in serie A, facendo ricorso a tutti gli stereotipi possibili per dare ai partenopei la sensazione di essere in fondo in fondo ancora "uno di loro": «Cosa temo? Da tifoso: che non ce lo facciano vincere... Che si metta in moto la grande macchina che spinge le squadre del Nord». Il grande complotto anti-meridione ordito dai giganti con le maglie a strisce, insomma. 

Niente che non possa dire dopo ogni sconfitta del Napoli chiunque in qualunque bar del Vomero. Ma che a dirlo sia Saviano, uno che ha denunciato il marcio "vero" della camorra, è davvero avvilente. Magari avrà voluto strizzare l'occhio ad un popolo che molto spesso lo "incolpa" di aver infangato la città e di averne ritratto solo i lati peggiori a scopo di lucro. Ma certo questa è una riflessione con la profondità del Mar Morto. Non pago, dopo le rapine del Settentrione "leghista", Saviano ha scelto di menzionare il Dio di Napoli, Maradona, raccontando della semifinale dei Mondiali del '90 tra Argentina e Italia: «Ero al San Paolo con mio padre. 

A un certo punto, dopo il vantaggio di Schillaci, la parte non napoletano dello stadio comincia a fischiare e a insultare Diego ogni volta che tocca palla. Allora tutta la curva fa sparire le bandiere tricolori, compresa la mia, e comincia a urlare "Diego, Diego". Non capivo. Ero un bambino di 11 anni. Tutti si identificavano con Maradona, nessuno con l'Italia. Lasciai lo stadio felice. Aveva vinto Diego. Non lo dimenticherò mai». Prima Napoli, poi l'Italia, quindi. Mancava la citazione di qualche numero della Smorfia per chiudere alla grande il cerchio dei cliché.

Luigi Garlando per la “Gazzetta dello Sport” il 2 gennaio 2023. 

Nek maggio 2006 usciva «Gomorra», bestseller da 10 milioni di copie, tradotto in 52 Paesi, diventato poi film e serie tv. Nell'ottobre successivo, Roberto Saviano, l'autore, minacciato dalla Camorra, cominciava la sua vita sotto scorta. Nella violenta sforbiciata alla liberta è rientrato anche il calcio. In 16 anni Saviano non è più tornato al San Paolo, dove, bambino, seguiva Maradona seduto sulle gambe del padre. Il Napoli capolista sta per affrontare l'Inter in una partita chiave. Ne parliamo con lo scrittore-giornalista. Partendo da Pelé.

Saviano, chi era il Re del calcio, per lei?

«Pelé è stato, è, un calciatore nero, nero ebano, non mulatto, discendente degli schiavi africani deportati in Brasile, che fa alzare in piedi milioni di persone, mentre nel resto del mondo ai neri è proibito sposare bianchi, frequentare gli stessi bagni, le stesse scuole. Una rivoluzione che oggi non viene percepita nella sua potenza davanti alla grandezza del mito sportivo. Il lustrascarpe che prende la strada dello sport come strada di riscatto, cosa all'epoca affatto scontata. Per me Pelé è soprattutto questo».

Ma a Napoli cantano: «Meglio Diego»

«Argentina-Italia, semifinale di Italia 90. Ero al San Paolo con mio padre. A un certo punto, dopo il vantaggio di Schillaci, la parte non napoletana dello stadio comincia a fischiare Diego e a insultarlo ogni volta che tocca la palla. Allora tutta la curva fa sparire le bandiere tricolori, compresa la mia, e comincia a urlare: "Diego! Diego!". Non capivo. Ero un bambino di 11 anni con un'asta di plastica in mano. Tutti si identificavano con Maradona, nessuno con l'Italia che, a parte De Napoli in panca e Ferrara e Carnevale in panca, era composta da juventini e rivali storici. Lasciai lo stadio felice. Aveva vinto Diego. Non lo dimenticherò mai, come il famoso Napoli-Verona».

San Paolo, 20 ottobre 1985.

«Quando il Napoli si avvicinava alla porta, io scendevo dalle gambe di mio padre, lui si alzava e seguivamo l'azione. Diego segnò da metà campo, mio padre si alzò di scatto, io volai via e presi una facciata per terra».

 Con Pelé è morto un po' anche il Super Santos...

«Il pallone arancione e nero che ho amato di più da bambino, anche sei il Tango, simile a quello di cuoio, era il mito, raggiunto tardi, a 14 anni. Il Super Santos che ho calciato in ogni spazio possibile era un capolavoro dell'industria italiana: alta qualità, prezzo contenuto e non volava via come il Super Tele».

Che calciatore era?

«La grande delusione di mio padre, malato di calcio. Il calcio è mio padre, il rapporto con lui, il silenzio sacro, l'ansia, lui non è in grado di assistere a un rigore, o dà le spalle alla tv o lascia la stanza... Mio padre setacciava punti di forza che non avevo. Mi piaceva stare in attacco, ma non avevo i piedi buoni, in difesa ero una pippa perché entravo sui piedi e non sulla palla, in porta avevo paura delle pallonate. Mi salvavo con certi tiri di piatto all'incrocio. Ma vedevo la delusione negli occhi di mio padre. Ricordo una partita in Germania, facevo l'Erasmus».

 Dove?

«Dusseldorf. Formano le squadre e tutti mi vogliono, perché italiano e di Napoli, doppia garanzia. Io li avviso: "Non sono forte". Risposta: "Un non forte di Napoli è cento volte più forte di un tedesco". Il calcio più mi ha appassionato è quello di strada e nelle città del sud del mondo lo giocano tutti in strada». 

Non abbiamo più talenti, anche perché i nostri ragazzi giocano di meno in strada, dicono.

«Io credo invece che la mancanza di uno ius soli sia determinante. Un ragazzino di talento che non ha la prospettiva di avere la cittadinanza, va via. Siamo incapaci di fare dello sport uno strumento di integrazione, come fa la Germania, per esempio. Lo ha dimostrato con l'ondata del milione di siriani. Noi siamo lo sketch di Checco Zalone che seleziona i migranti al confine e fa entrare chi palleggia meglio».

 In «Cuore puro», Dario che fa la sentinella in una piazza di droga, tradisce il Sistema perché invece di lanciare l'allarme all'arrivo della Polizia, continua a inseguire il gol. Viene punito, ma poi è l'unico tra gli amici che si salva. Lo sport salva?

«Lo sport ti salva tenendoti occupato, lontano dalla noia, dalla violenza, dalle salette dei videogames e dei biliardo, dove la criminalità arruola "muschilli". Il calcio di strada ti salva anche se non ti fa diventare un campione, perché ti impegna».

«Gomorra» è uscito nel 2006, l'estate di Calciopoli; «Cuore puro» ora, nella bufera delle plusvalenze. Quanto è puro il cuore del calcio?

«A parlarne si rischia di apparire cialtroni o mitomani. Impossibile discutere dei soldi riciclati nel calcio dalla criminalità organizzata che pure è importantissimo. Le curve spesso sono hub di narcotraffico evidenti. Non è un caso che diversi noti narcotrafficanti siano capi ultrà.

Non c'è mai stata un'inchiesta vera. L'unica quella che stava conducendo il p.m. Narducci a Napoli che portò a Calciopoli, ma fu bloccata, perché non mirava a denunciare brogli, ma voleva dimostrare come il denaro veniva lavato nei club, anche attraverso la cessione di giocatori. Il calcio è inattaccabile».

 13 ottobre 2006, inizia la sua vita senza libertà. In questi anni, quante volte è stato in uno stadio?

«Una, a Barcellona, ospite di Manel Estiarte, il Maradona della pallanuoto. Conobbi Messi che mi chiese subito: "Davvero sei di Napoli?". Mi sistemarono in un cubo antiproiettile. E poi una volta sono stato al San Paolo, ma vuoto, con Daniel Pennac arrivato per un documentario su Maradona. Andai a sedermi in curva, da dove avevo assistito a Italia-Argentina da bambino».

 Quanto le manca il San Paolo pieno con questo Napoli dentro?

«Non poterci andare mi fa soffrire. Faccio fatica a chiamarlo stadio Maradona, temo di esser troppo vecchio e continuerò a chiamarlo San Paolo. Ma prima della fine del campionato voglio andarci. Sto pensando come essere invisibile perché il Napoli dovrà vincere, altrimenti se la prima volta che torno allo stadio fa male, poi si nota... ed è malamente».

 Le piace questo Napoli?

«Moltissimo, per lo spirito con cui gioca. Si vede che si diverte, che è un gruppo in armonia. Non c'è un leader che detta la sua linea e comanda. Sono rappresentate tantissime nazionalità, lo spogliatoio trasmette l'idea di comunità. Io lo vedo come un Napoli internazionalista, accogliente e libertario, contro il populismo scontato dell'individualità».

 Spalletti ha dei meriti.

«Mourinho e Zeman? No, il vero filosofo del calcio è uno solo: Luciano Spalletti. Non a parole, ma nell'applicazione di un'idea. Ha imposto la sua ossessione per il gruppo, con alternanze tipo Raspa-Simeone che mantengono tutti in equilibrio. Ha costruito una squadra vera, è l'anti CR7, l'anti-Messi».

Il giocatore preferito?

«Kvaratskhelia. Mio padre me lo aveva segnalato prima che ci pensasse il Napoli. Lo aveva visto nell'Under 21. Mi piace perché non ha la faccia del calciatore, ma di un bambino timido che gioca in strada. E poi perché giocava in Russia, e alla scoppio della guerra è tornato in patria, anche a costo di perdere le chiamate dei ricchi club tedeschi. Il Napoli è stato bravo a inserirsi. Per me Kvara è uno che ha detto no a Putin, anche se non parla mai delle pressioni subite quand'era al Rubin Kazan».

Osimhen?

«Mi entusiasma anche lui. Quando lo picchiano, i napoletani dicono "Bbuono...", cioè "Meglio così", perché sanno che così si carica. Anche lui ha una corsa allegra, da ragazzo di strada, va in fuorigioco per troppa passione. La maschera lo ha reso più iconico. Kim mi ha fatto impazzire quando ha chiesto scusa dopo un errore contro l'Udinese.

Dovremmo ringraziarlo e lui chiede scusa».

 Cosa teme da qui allo scudetto?

«Da tifoso: che non ce lo facciano vincere... Che si metta in moto la grande macchina che spinge le squadre del Nord. Seconda paura: come ripartiremo dopo il Mondiale. C'è solo una cosa peggiore degli infortuni: stare fermi. Con l'Inter, gara chiave, scopriremo se siamo quelli di prima».

 Chi teme di più?

«Il Milan per me è l'avversario numero uno. Forse per i miei antichi incubi da bambino che temeva Gullit e Van Basten. La Juve mi preoccupa meno. Credo che sarà frenata dai problemi societari».

 Saviano, con che maglia al Maradona? Scelga.

«Quella di Kvara che ha detto no a Putin».

"Non farsi impaurire da terrorismo". Il ritorno di Salman Rushdie in pubblico. Storia di Massimo Balsamo su Il Giornale il 19 maggio 2023.

A nove mesi dalla brutale aggressione con coltello sul palco di un festival letterario a Chautauqua, Salman Rushdie ha scelto il gala del Pen America per la sua prima apparizione pubblica. Lo scrittore anglo-indiano è stato premiato con il Centenary Courage Award e ha sfruttato l'occasione per accendere i riflettori sulle guerre culturali sui libri proibiti, in particolare sulla situazione in Florida e sulle campagne per mettere al bando libri dalle scuole.

Il ritorno di Salman Rushdie

"Gli attacchi ai libri, gli attacchi all'insegnamento, gli attacchi alle biblioteche in Florida non sono mai stati più pericolosi, e mai è più importante che ci impegniamo per combatterli", le parole dell'autore de "I versetti satanici", da anni vittima di minacce di morte e tentati omicidi. Ospite dell'organizzazione degli scrittori che si batte per la libertà di espressione e i diritti degli autori in tutto il mondo, Rushdie ha indossato un paio di occhiali con la lente destra colorata di nero per "proteggere" l'occhio accecato dall'attacco con coltello dello scorso agosto. 

"È bello essere di nuovo qui, rispetto a non essere qui, che era anche una possibilità. Ma sono abbastanza contento che i dadi siano stati lanciati in questo modo", ha aggiunto lo scrittore, accolto dagli applausi degli oltre 700 presenti. Rushdie si è anche soffermato sulla terribile aggressione subita: "Mi viene assegnato un premio per il coraggio, ma il vero coraggio non è stato mostrato da me, Dopo che sono stato attaccato, la prima persona che è corsa a difendermi è stata Henry Reese. Henry, un uomo sulla settantina, è corso contro il mio aggressore, che aveva 24 anni, con in mano un coltello". L'anglo-indiano ha ringraziato chi è intervenuto in sua difesa e ha così evitato il peggio: "Il coraggio quel giorno è stato tutto il loro. Non ho mai saputo i loro nomi, non ho mai visto i loro volti, ma a quel grande gruppo di persone devo la mia vita". E ancora, Rushdie ha invitato tutti a non mollare: "Il terrorismo non deve terrorizzarci, la violenza non deve scoraggiarci. Come dicevano i vecchi marxisti, la lotta continua".

Bagni Italiani

Suzanne Nossel, ceo di Pen America, ha espresso tutta la sua gioia per la presenza di Rushdie: "Vederlo tornare in azione in occasione di questo evento con la famiglia di PEN America è una straordinaria testimonianza della sua resilienza e della sua forza, e una sorta di emblema del nostro lavoro: di fronte a minacce mortali, lo scrittore trionfa e la voce continua", le sue parole riportate da Variety.

Estratto dell'articolo di Maurizio Molinari per “Robinson - la Repubblica” Il 6 marzo 2023.

I diritti della donna nell’India dell’antichità, il potere che si nasconde dietro la fede, la memoria come pozzo di ricordi e la pubblicazione di Victory City per guardare oltre la grave aggressione subita nell’agosto dello scorso anno. Lo scrittore Salman Rushdie si racconta a Robinson nella prima intervista a un giornale italiano dopo l’attentato che ha messo in serio pericolo la sua vita.

 L’occasione è l’uscita di La città della vittoria(Mondadori), un romanzo dove il realismo magico consente di immergersi nel regno Mogul del Sud dell’India, un luogo immanente che Rushdie sente di avere dentro di sé e nel quale accompagna il lettore per scoprire personaggi, luoghi e valori che hanno richiami evidenti anche nel mondo di oggi.

 […] La conversazione che segue è avvenuta durante una video chiamata nella quale Salman Rushdie ha parlato confermando la sua grande passione per la vita, mischiando humour, cultura e memoria — come alcuni suoi personaggi — e mostrando di convivere con i danni subiti dal suo corpo a causa del tentato omicidio avvenuto nella Chautauqua Institution, nello Stato di New York, che lo ha obbligato a un lungo periodo di riabilitazione. Dal quale è uscito con l’energia e la fantasia di sempre, che ne fanno uno degli scrittori più popolari al mondo. […]

Perché trova così importante scrivere sul passato?

«Credo che scrivere sul passato sia anche un modo per scrivere sul presente. Si tratta di trovare un altro modo per raccontare ciò che sta succedendo ora e quindi penso che alcuni temi del libro sono contemporanei. In luoghi come l’India, ma non solo, penso ad esempio anche altri luoghi dell’Asia, l’Afghanistan, l’Iran. Penso soprattutto a ciò che sta succedendo alle donne in questi Paesi. È infatti piuttosto straordinario, ma è vero, che a quel tempo, nel XIV e XV secolo, in India molto spesso avevano più diritti di quanti ne abbiano adesso. Le donne ad esempio potevano essere generali nell’esercito, avvocati, mercanti, dottoresse, e quindi il mondo era molto aperto verso le donne a quel tempo. Trovo che sia molto interessante che 700 anni fa…».

 Sta dicendo che nell’India meridionale di allora i diritti e l’educazione erano più avanzati di quanto non siano oggi in molti Paesi...

«Esatto. Questo è il punto da cui ho iniziato a pensare a questo libro. Volevo scrivere una storia con una donna al centro. Anche perché le grandi mitologie indiane, come il Ramayana, il Mahabharata e così via, sono storie molto maschili. C’è ad esempio un poeta che detta a uno scrivano le avventure e l’eroismo dei maschi e le donne si trovano in un ruolo secondario, di supporto. Ho pensato invece di mettere una donna a raccontare la storia, per offrire una prospettiva diversa».

 […]

In che modo il clima politico e sociale della città riflette realtà sociali più ampie del nostro tempo?

«È molto interessante che il governo indiano attuale usi la storia di Vijayanagara per sostenere la propria ideologia nazionalista hindu. La sfruttano per affermare che il grande impero hindu è stato distrutto dall’invasione musulmana e quindi i musulmani sono cattivi. Usano la storia di Vijayanagara al servizio di questa ideologia. In realtà quando leggiamo la storia di questo periodo non è affatto così, perché c’è molta più compenetrazione tra le religioni.

Durante l’impero di Vijayanagara c’erano generali musulmani nell’esercito, e così via, quindi l’idea che si tratti di una semplice guerra tra l’induismo e l’Islam non è quello che è successo veramente. Quello che è successo era assai più interessante e più complicato, più mescolato. Infatti, verso la fine della storia che racconto, i sultanati musulmani che combattevano con Vijayanagara avevano più paura dell’impero Mogul a Nord, anche se era musulmano, avevano più paura dei Mogul che non degli hindu a Sud.

 Quindi l’idea che è stata diffusa, secondo la quale fu solo un conflitto religioso, non riflette la realtà. Quello che avvenne e che succede spesso nella storia, è la lotta per il potere, per chi riesce a governare, la questione centrale non è la fede ma “noi vogliamo il tuo impero e quindi ti facciamo la guerra”. Si tratta di potere, non di religione. Raccontare questa storia in questo momento serve dunque per suggerire che spesso quando ci troviamo davanti a conflitti religiosi in realtà non sono altro che scontri per il potere».

 Quanto realismo magico c’è nel libro?

«Ho sempre pensato che questa espressione dovrebbe essere lasciata ai sudamericani. Credo che appartenga a García Márquez e ai suoi contemporanei. Ma è anche vero che provengo da una tradizione letteraria in cui il fantastico è sempre stato presente, non è mai stato assente. Dalla più antica letteratura indiana fino ai giorni nostri, il fantastico è presente, e qualcuno nel romanzo dice che “il miracoloso e il quotidiano sono due facce della stessa moneta”.

 Questa è la letteratura da cui provengo. E, naturalmente, è collegata al surrealismo e al realismo magico e via dicendo, ma ha le sue radici particolari. Avrà notato che, nel romanzo, almeno in un punto c’è un chiarissimo riferimento a Italo Calvino, quando due personaggi immaginano che esistano delle città con i loro nomi e inventano queste città immaginarie l’uno per l’altro. Mi sono chiaramente ispirato a Le città invisibili di Calvino.

Sono molto fortunato perché lo conobbi quando fu pubblicato I figli della mezzanotte, nei primi anni Ottanta. Venne a Londra per un evento letterario e io avevo scritto una recensione del suo libro Se una notte d’inverno un viaggiatore, così lui chiese che fossi io a presentarlo nel teatro dove doveva intervenire e io ero molto emozionato. Io ero il giovane e lui il vecchio maestro. Scrissi il discorso che volevo fare e quando arrivai al teatro ed eravamo dietro le quinte, nella stanza verde, mi chiese: “Hai scritto qualcosa?”. “Certo?”, gli dissi. “Fammelo vedere”. Pensai: “Dio mio, cosa faccio se non gli piace?”.

 Fortunatamente, all’inizio di ciò che avevo scritto, lo avevo paragonato ad Apuleio, l’autore de L’asino d’oro. Lo vide e disse “Ah, Apuleio! Molto bene!”. E poi, dopo di ciò, non è che siamo diventati amici, ma ci conoscevamo. Infatti, quando il mio libro venne pubblicato in italiano, lui scrisse un lungo pezzo sul libro su Repubblica, che sotto molti versi fu il modo in cui tanti lettori italiani vennero a conoscenza del mio lavoro. Quindi, fu molto generoso con me sotto questo aspetto.

Naturalmente, amo il suo lavoro, l’ho sempre apprezzato e la sua influenza è presente, come tante altre cose».

 […]  Questa è la sua prima opera dopo aver subito l’aggressione a colpi di coltello da parte dell’americano-libanese Hadi Matar nell’agosto del 2022 durante un evento pubblico a Chautauqua. Matar è sospettato di aver agito a seguito della fatwa emessa contro di lei nel 1989 dall’ayatollah iraniano Khomeini per la pubblicazione del libro “I versi satanici”. Scrivere può essere la risposta migliore al fanatismo?

 «Avevo finito il libro prima di essere attaccato, appena prima. Circa dieci giorni prima dell’attacco avevo finito le ultime revisioni e il libro era pronto per la stampa. È stato davvero così vicino che non ho dovuto cambiare niente. Comunque sì, sono molto contento di essermi trovato nella condizione di poter pubblicare. E non avevo bisogno di cominciare a scrivere in quel momento, perché sarebbe stato impossibile. Nemmeno adesso, sei mesi dopo, sto scrivendo molto. Guarire richiede molto tempo. Le ferite erano gravi e la cura è un processo lungo. Se non avessi avuto un nuovo libro, sarebbero potuti passare anni prima di scriverne uno.

Fortunatamente, come un dono, questo libro era pronto e sono molto emozionato di poterlo offrire, perché è anche un modo per cambiare discorso, un modo per dire: “Non sono solo una persona che qualcuno ha accoltellato, ma sono anche l’autore di questo libro”. Voglio essere giudicato per la mia arte, non per gli incidenti che succedono nella mia vita. Qualche giorno fa ho detto ad alcuni amici che ho sempre pensato che il mio lavoro sia più interessante della mia vita. Purtroppo, non sempre il mondo è d’accordo con me».

 Chi ama la vita prevale sempre su chi crede nella morte…

«Sì, e penso che un giorno scriverò qualcosa su quello che mi è successo, ma non so ancora che cosa sarà».

 Che cosa l’ha portata a diventare scrittore?

«Quando ero bambino i miei genitori mi dissero – se ne sono andati entrambi ormai, e quindi non posso chiedergli conferma – che era quello che dicevo da piccolo. Quando si chiede ai bambini che cosa vuoi fare da grande, io non dicevo che volevo essere un astronauta o un eroe sportivo, o altro, dicevo che volevo fare lo scrittore. Credo che la ragione sia che da bambino adoravo leggere.

 Ero un grande lettore da piccolo. Quando un bambino dice di voler fare lo scrittore vuole dire è che ama i libri. Quando hai 8, 9, 10 anni, come puoi sapere che cosa significhi fare lo scrittore? Quando lo dici non significa niente, perché non sai che cosa stai dicendo. Ma è anche vero che quando andai all’università dicevo ancora che volevo provare a fare lo scrittore.

L’unica altra cosa che abbia mai pensato di fare è l’attore. All’università facevo molto teatro e partecipavo ai gruppi di studio teatrale e cose di questo genere e avevo questa strana fantasia che forse avrei potuto fare l’attore. Fortunatamente, ebbi l’intelligenza di capire che non ero abbastanza bravo. Pensai: “okay, magari non farlo e concentrati sull’altra cosa che hai sempre voluto fare”, cioè scrivere».

 Ci può raccontare un momento speciale che ha segnato la sua vita di scrittore?

«Ci sono degli scrittori che hanno successo rapidamente. Per me non è stato così. Ho lottato per molto tempo. Ricordo che quando cominciai a scrivere il libro che divenne I figli della mezzanotte, a metà degli anni Settanta, avevo 27-28 anni, e quando cominciai a scrivere cercai di scriverlo con la narrativa in terza persona, ma non mi piaceva.

Pensai che non risultava vivo e a un certo punto mi chiesi che cosa sarebbe successo se avessi lasciato che fosse il personaggio principale a raccontare la storia, se avessi lasciato che fosse la sua storia, raccontata con la sua voce. Poi un giorno, ero seduto nella mia stanza a Londra, e glielo lasciai fare. Ho sempre pensato che quello fosse il momento in cui diventai uno scrittore perché quello che ne risultò fu un paragrafo molto simile a quello che è il paragrafo iniziale de I figli della mezzanotte.

 Non so da dove sia venuto, non è venuto da me. Per prima cosa pensai che fosse il miglior paragrafo che avessi mai scritto in vita mia, questo era chiaro. Pensai che dovevo solo lasciarlo andare, libero di correre, di raccontare la storia e non perderlo, tenerlo stretto e lasciarlo correre. Lo feci e fu così che diventai uno scrittore. Perché la sua voce mi diede la mia voce».

I suoi libri sono stati tradotti in oltre 40 lingue, e sono ampiamente letti in tutto il mondo. Cosa prova ad avere un pubblico così vasto e differente?

«È molto emozionante. Ci sono Paesi di cui non conosco nulla. Ad esempio, mi dicono che i miei libri sono piuttosto famosi in Corea del Sud. Non sono mai stato a Seul, conosco davvero poco della Corea del Sud, a parte quello che leggo sui giornali. Le mie storie non trattano per niente quella zona del mondo, ma per qualche ragione alcune persone di lì sono interessate. Come ho detto prima, penso che il miracolo della nostra epoca moderna è che il lavoro dei traduttori lo rende possibile.

 Credo che i traduttori siano le persone meno apprezzate al mondo in letteratura eppure senza di loro questo pubblico di lettori internazionali non sarebbe possibile. Io sono un grande amante della letteratura russa, adoro Bulgakov, Turgenev, Tolstoj, Bulgakov, Dostoevskij, Gogol, e così via, ma li ho solo letti nella traduzione inglese. Non conosco lo spagnolo ma leggo gli scrittori sudamericani in inglese. C’è una bella storia raccontata dal traduttore di García Márquez in inglese. Si chiama Gregory Romasa. Una volta partecipò ad una conferenza stampa e si trovò accanto a Márquez e Márquez gli disse che riteneva che la traduzione inglese fosse migliore dell’originale in spagnolo, il che probabilmente non era vero.

Probabilmente Márquez era solo gentile, ma si capisce che il traduttore fu molto emozionato al sentirselo dire. Ed è in effetti un’ottima traduzione. Quando leggi la traduzione in inglese di quel grande libro hai la sensazione di leggere quel grande libro.

Noi viviamo in quest’epoca in cui i traduttori ci danno la possibilità di leggere oltre la barriera della lingua ed è emozionante».

 […]

 Si parla tanto di intelligenza artificiale. Lei pensa che sarà un’opportunità o un rischio per gli scrittori?

«Credo che se l’intelligenza artificiale scoprirà mai l’immaginazione e il senso dell’umorismo allora saremo tutti rovinati. Penso che fino ad ora non ha dato nessun segno di avere immaginazione, né senso dell’umorismo. Dunque, per ora siamo salvi».

Nella "Città della vittoria" dove Rushdie ha sconfitto i fanatici. Arriva il primo romanzo dell'autore dopo l'attentato: una storia sul potere della parola. Stefania Vitulli l’8 Febbraio 2023 su Il Giornale.

La scena che apre La città della vittoria, l'ultimo romanzo di Salman Rushdie - in uscita oggi per Mondadori in contemporanea mondiale con Stati uniti e Gran Bretagna (traduzione di Stefano Mogni e Sara Puggioni, pagg. 360, euro 22) è struggente e grandiosa: in un minuscolo principato, appena sconfitto in una insignificante battaglia senza nome, le donne rimaste vedove attraversano il fiume su piccole imbarcazioni e accendono un grande falò. Poi con inquietante solennità una alla volta, lentamente, si avviano al suicidio di massa, incamminandosi tra le fiamme. Tra loro c'è la madre di Pampa Kampana: la bimba ha nove anni e assiste piangendo in silenzio all'avviarsi di sua madre, senza un addio, verso la morte. Il dettaglio macabro e magistrale insieme che Rushdie aggiunge nel descrivere la scena sintonizza da subito il lettore sulla frequenza del romanzo: l'epica tragica. È impossibile, spiega la voce narrante, «Mascherare l'intensità cannibale delle donne cucinate vive... Pampa Kampana non mangiò mai più carne, e non riusciva a resistere in nessuna cucina dove veniva preparata. Tutti quei piatti trasudavano il ricordo di sua madre, e quando altre persone mangiavano animali morti, Pampa Kampana era costretta a distogliere lo sguardo».

Salman Rushdie, nato a Mumbai nel 1947, da mezzo secolo uno degli scrittori più celebri al mondo, autore di 14 romanzi, al più opere fantastiche che uniscono ricostruzioni storiche e politiche con elementi di realismo magico - come è anche il caso di La città della vittoria - riesce anche nel 15° titolo nell'intento, fin dalle prime pagine: farci assistere alla battaglia brutale tra l'ineluttabilità del destino e la misteriosa energia poetica del sentire umano. Poco conta che a vincere i singoli scontri siano le forze oscure: poesia e letteratura fanno andare il nostro sguardo oltre la morte. Inevitabile il paragone con la vita stessa di Rushdie, sconvolta da un singolo volume, I versi satanici, nemmeno il migliore che abbia scritto. «Era come se l'universo in persona le stesse mandando un messaggio: apri le orecchie, respira, e impara», è il commento del narratore alla sorte di Pampa Kampana. E la bimba impara e applica: morirà all'età di 247 anni, «poetessa cieca, artefice di miracoli e profetessa» e l'ultimo giorno della sua vita, terminato il suo immenso poema narrativo sull'Impero Bisnaga, nato dalla città-sogno cui un forestiero ha dato il nome e divenuto realtà grazie alle gesta magiche di Pampa, lo seppellisce, «chiuso dentro un vaso di terracotta sigillato con la cera, come messaggio per il futuro».

Come nella migliore tradizione del romanzo epico, in un breve prologo in cui si rivolge ai suoi venticinque lettori, il narratore svela che La città della vittoria non è che la sua versione del capolavoro poetico trovato in quel vaso e chiamato «Jayaparajaya» (che significa «Vittoria e sconfitta»), Un poema scritto in sanscrito, costituito di ventiquattromila versi, e contenente segreti celati per quattro secoli e mezzo. Rushdie ci fa godere di questi segreti, che, come spesso accade nei suoi romanzi, sono viscerali, divertenti, spesso erotici e a tratti estatici, pieni di quella gioia di stare al mondo che ha fatto della nostra una razza di semidei. Come lo stesso Rushdie, che sembra ogni volta rinascere dalle afflizioni provocategli dal fondamentalismo. E come Pampa Kampana che diviene oracolo della dea sua omonima, con una missione possibile: in un mondo patriarcale, riconsegnare il governo alle donne. «Tu lotterai per assicurarti che nessun'altra donna sia mai più bruciata in questo modo, e che gli uomini inizino a considerare le donne con occhi nuovi, e vivrai abbastanza a lungo da assistere sia al tuo successo sia al tuo fallimento»: per farlo, la dea le conferisce poteri, superpoteri e tempo. Tempo per intessere da guerriera la storia di una città e, da amante, di sedurre un re e un forestiero e frequentarne il letto nello stesso tempo, senza che loro in fondo se la prendano più di tanto.

Autore, fra l'altro, di La vergogna, I figli della mezzanotte, L'ultimo sospiro del Moro, Shalimar il clown, Joseph Anton, del reportage sul Nicaragua Il sorriso del giaguaro, dei volumi di saggi Patrie immaginarie e Superate questa linea, tutti editi in Italia da Mondadori, Rushdie viene però spesso menzionato solo per la condanna a morte promulgata il giorno di San Valentino di 33 anni fa dall'allora leader iraniano ayatollah Khomeini a causa del romanzo I versi satanici, e mai cancellata. Quella fatwa e una serie di attacchi fondamentalisti sono da tempo la sua maledizione e il volano della fama globale, come celebrity cui tenere un faro sempre puntato addosso, casomai la minaccia s'avverasse. L'ultimo di questi attacchi è il tragico accoltellamento di cui è stato vittima l'estate appena trascorsa, poco prima del discorso alla Chautauqua Institution nello stato di New York: ha perso un occhio e l'uso di una mano, non comparirà in pubblico a promuovere il libro, come ha annunciato il suo agente Andrew Wylie , ma «È ancora il Salman di prima», dicono i suoi amici scrittori. E con questo 15° romanzo sembra voler di nuovo dimostrare al mondo che la sua missione è quella del «tessitore di trame» - come si definisce nella prima pagina di La città della vittoria, non del simbolo politico.

DAGONEWS il 6 febbraio 2023.

A sei mesi dall’accoltellamento a un evento letterario a New York, Salman Rushdie torna a parlare, dichiarando di sentirsi fortunato e grato di essere sopravvissuto all’attacco.

«Sono fortunato - ha detto Rushdie in un'intervista che il New Yorker ha pubblicato lunedì - Quello che voglio davvero dire è che il mio principale sentimento travolgente è la gratitudine».

 L'autore è stato in ospedale per sei settimane e ha perso la vista da un occhio e l'uso di una mano. Per l’attacco è stato arrestato il 24enne Hadi Matar: lui si è dichiarato non colpevole, ma per gli investigatori ha tentato di eseguire la fatwa che il defunto leader iraniano Ayatollah Ruhollah Khomeini ha emesso sulla vita di Rushdie dopo che molti musulmani hanno trovato i “Versetti satanici” blasfemi.

Nell'intervista al New Yorker condotta dal collega autore David Remnick, Rushdie ha incolpato solo Matar per l'accoltellamento, rifiutandosi di dare responsabilità ai responsabili della sicurezza. «Ho cercato di evitare recriminazioni e amarezza. Uno dei modi in cui ho affrontato l'intera faccenda è guardare avanti e non indietro. Quello che succede domani è più importante di quello che è successo ieri». Poi un pensiero è stato rivolto anche alla moglie Rachel Eliza Griffiths: «Ha preso il sopravvento in un momento in cui ero impotente.

 Ha appena preso il controllo di tutto, oltre a dover sopportare il peso del fatto che sono stati quasi ucciso». L'intervista di Rushdie è stata pubblicata pochi giorni prima della data di uscita del 9 febbraio per il suo nuovo romanzo Victory City. L'agente dello scrittore, Andrew Wylie, ha detto che Rushdie «non farà alcuna apparizione pubblica per promuovere il suo prossimo romanzo».

Rushdie: «Sto guarendo, ma è difficile scrivere». Corriere della Sera il 6 febbraio 2023.

Nella prima intervista dopo l’assalto del 12 agosto scorso l’autore definisce il suo attentatore «un idiota»

«Ho sempre pensato che i miei libri fossero più interessanti della mia vita. Sfortunatamente, il mondo sembra non essere d’accordo».

Prima ancora di leggere questa frase, la più bella di un’intervista con il direttore del New Yorker apparsa ieri sul sito della rivista, bastava vedere la foto — un ritratto in bianco e nero scattato da Richard Burbridge — per capire che l’attacco, barbaro del 12 agosto dell’anno scorso ha privato Salman Rushdie di un occhio, il destro, e dell’uso di una mano, la sinistra, ma non della sua intelligenza scintillante, dello sguardo disincantato sul mondo, del famoso senso dello humour con il quale punzecchia, fin dai tempi dell’università, amici e nemici (nell’intervista c’è un aneddoto fantastico, un famoso pittore qualche anno fa lo avvicina al ristorante per chiedergli se ci sia pericolo e sia meglio scappare e Rushdie risponde semplicemente «io sto cenando, lei faccia un po’ quello che vuole»).

Il fanatico che ha cercato di uccidere Rushdie per la fatwa decretata dall’ayatollah Khomeini nel 1989 non aveva ovviamente letto I versi satanici (edito in Italia da Mondadori); è in attesa di processo e Rushdie nella prima intervista di questi mesi lo definisce «un idiota».

Ma come sta? «Beh, sono stato meglio, ma considerando quello che è successo non sto poi così male. Il grosso delle ferite è guarito, essenzialmente. Ho sensibilità nel pollice e nell’indice e nella metà inferiore del palmo della mano sinistra, sto facendo molta terapia di riabilitazione e mi è stato detto che sto andando molto bene». Purtroppo la fisioterapia non può scacciare gli incubi che lo tormentano da quel giorno, e scrivere non è soltanto più difficile fisicamente (con la sinistra non può usare la tastiera: «Scrivo solo più lentamente. Ma miglioro») ma, come è ovvio, psicologicamente («Trovo molto, molto difficile scrivere. Mi siedo e non succede niente»). Rushdie, scrittore prolifico, non è mai stato bloccato, ma ora si trova incagliato creativamente. Il libro al quale pensava prima dell’attacco non prende forma; potrebbe raccontare invece l’esperienza di malato, in prima persona, non in terza come fece nell’autobiografia Joseph Anton.

A noi lettori, per ora, basta il suo nuovo libro che esce oggi nel mondo, La città della vittoria (Mondadori, anticipato il mese scorso da la Lettura), benissimo recensito: la storia romanzata di una città sorta nell’India meridionale nel XIV secolo, Vijayanagara, «città della vittoria» appunto.

La storia è narrata da una bimba che, ispirata dalla dea Parvati, vivrà 247 anni: il romanzo diviso in quattro parti — Nascita, Esilio, Gloria, Caduta — racconta l’epopea dell’impero nato dal rogo delle vedove di una battaglia perduta dai loro uomini, scaturito dal dolore per dare pari dignità, diritti, e potere a uomini e donne. «La vittoria appartiene alle parole», scrive la bambina, ormai vecchissima, nel suo poema in sanscrito che il narratore, Rushdie sotto mentite spoglie, traduce per noi. Perché le parole sono più forti dell’ignoranza, della violenza, dell’avidità degli uomini che distrussero Vijayanagara. E delle coltellate di un fanatico.


 

Così rivive Sergio Leone l'uomo che inventò l'America. Arriva su Sky e su Now il documentario premiato con il Nastro d'Argento. Un ritratto avvincente...Sara Frisco il 4 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Los Angeles. Sergio Leone, l'italiano che inventò l'America, che il 4 febbraio arriverà su Sky Documentary e su Now, è il documentario dell'anno secondo il Direttivo dei Giornalisti Cinematografici Italiani che subito dopo il Festival di Berlino consegnerà il Nastro d'Argento al regista, Francesco Zippel, in una cerimonia che si terrà a Roma.

Presentato in concorso nella sezione Venezia Classici lo scorso settembre, alla Mostra del cinema, il documentario è stato prodotto da Sky Italia con Leone Film Group (i figli del maestro). Rappresenta una lettera d'amore al regista romano e al suo cinema, da parte del mondo della settima arte, in Italia come in America.

Inizia Quentin Tarantino: «Da lui e dai suoi film ho preso tutto il possibile, lui ha inventato un genere ed io l'ho fatto mio».

Tarantino, Clint Eastwood, Steven Spielberg, Martin Scorsese, Frank Miller, Robert De Niro, Giuseppe Tornatore, Carlo Verdone, Dario Argento, Ennio Morricone in immagini d'archivio, Jennifer Connelly, i figli Raffaella, Francesca e Andrea, sono tante le voci che si alternano nel racconto. Ne emerge un ritratto preciso, divertente, pieno di aneddoti, a tratti nostalgico, che parte dai primi spaghetti western e dal sodalizio fra il regista e Clint Eastwood. «Un giorno il mio agente mi contattò racconta Eastwood mi disse che avrei dovuto prendere in considerazione l'idea di fare un film in Italia. Avevo qualche giorno di vacanza, non volevo andare ma mi fece promettere che avrei letto il copione. Lo feci e scoprii che era un adattamento de La sfida dei Samurai, di Akira Kurosawa. Amavo quel film e mi convinsi». «In realtà ed è la stessa voce di Sergio Leone a spiegare in un'intervista d'archivio - Kurosawa aveva estrapolato quella sceneggiatura da un romanzo americano».

Leone in pratica riportava in patria quella storia. «Andai in Italia continua Eastwood e incontrai quest'uomo affascinante, andammo subito d'accordo anche se io non parlavo italiano e lui non parlava inglese, comunicavamo a gesti. Da quel momento la mia carriera fu nelle sue mani».

Non manca naturalmente il racconto del sodalizio artistico con Ennio Morricone. «Leone era gli occhi, Morricone le orecchie», dice Steven Spielberg. Il figlio Andrea racconta di aver provato a proporre i musicisti del momento. «Sì, possiamo fargli fare una canzone, ma la musica è di Ennio», rispondeva il padre.

Giuliano Montaldo racconta un episodio avvenuto alla Jolly Film: «Sentii dei rumori e delle voci nella stanza accanto: ecco che arrivano! Pum pum!, era Sergio Leone che raccontava ai produttori il suo film, con parole e effetti sonori». Steven Spielberg spiega il tratto fanciullesco che Leone non perse mai: «Era un ragazzino che gioca ai cowboy, un artista poco pretenzioso e molto generoso». Frank Miller: «I suoi personaggi sembravano usciti da un cartone animato».

Non fu un regista prolifico. Il suo primo film fu Il colosso di Rodi, poi arrivarono Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo, C'era una volta il West, Giù la testa e l'ultimo, C'era una volta in America, arrivato dopo un lungo periodo di inattività, ben undici anni. «Disse di no a tantissimi film perché aveva un chiodo fisso, disse no alla regia del Padrino perché voleva solo fare il suo film», dice il produttore Arnon Milchan. «C'era una volta in America è il suo capolavoro» è convinto Steven Spielberg. Volle Robert De Niro come protagonista e Milchan racconta di una lite fra il regista e l'attore per la scelta di un collega nel cast che non andava a genio a De Niro. Leone lo mise subito al suo posto: «Questo non è un film con Robert De Niro diretto da Sergio Leone, questo è un film di Sergio Leone con Robert De Niro», gli disse. Non si lasciava intimidire da nessuno e non reprimeva la rabbia, come quella volta in cui durante le riprese di Giù la Testa, un ponte che avrebbe dovuto esplodere saltò prima che le cineprese fossero pronte. Clint Eastwood racconta la sua furia: «Si placò solo quando gli promisero di ricostruirlo per poterlo fare saltare di nuovo».

Non rabbia ma amara delusione arrivò quando, dopo il successo al Festival di Cannes, C'era una volta in America venne tagliato: La prima versione durava quattro ore e mezzo dice Milchan riuscimmo a ridurlo a tre ore e 45 minuti e quella fu la versione che venne mostrata a Cannes.

«Non ha mai cercato l'applauso dice la figlia Raffaella fu sorpreso quando ci furono quei venti minuti di ovazione. Nonostante questo, come spesso accadeva nei suoi film, non finì tanto bene». Tornato in America, fu rimontato senza la sua supervisione e ridotto a due ore e 45 minuti. «Non è più il mio film», disse allora Leone, che rifiutò per tutta la vita di vedere quella nuova versione.

Estratto dell’articolo di Piero Negri per la Stampa il 4 febbraio 2023.

Una volta, Carlo Verdone chiese a Sergio Leone chi fosse il più grande regista di western: «John Ford, Sam Peckinpah?». Lui lo guardò, fece una delle sue pause e disse: «Non hai capito un c…». Poi, dopo un altro silenzio: «Il più grande autore di western di tutti i tempi è… Omero». «Aveva ragione - riflette oggi Verdone - l'Iliade è tutta un duello».

 Verdone è uno dei notevolissimi registi che partecipano al racconto di Sergio Leone - L'italiano che inventò l'America, il documentario di Francesco Zippel da oggi su Sky, dopo l'anteprima assoluta alla Mostra del cinema di Venezia e dopo aver vinto il Nastro d'argento come documentario dell'anno 2023. Gli altri registi che dicono la loro sull'illustre collega sono Clint Eastwood, Steven Spielberg, Martin Scorsese, Quentin Tarantino, Jacques Audiard, Damien Chazelle, Darren Aronofsky, Giuseppe Tornatore, Dario Argento, Tsui Hark, Frank Miller. Tra gli attori, ci sono Jennifer Connelly, Robert De Niro e Eli Wallach.

 Per Zippel, l'uscita televisiva del film, che intanto prosegue il viaggio di festival in festival (il prossimo è in Corea), segna la conclusione di un lavoro iniziato diversi anni fa, prima della Pandemia, spalla a spalla con Raffaella e Andrea Leone, i figli del Maestro. Racconta Zippel: «È incredibile la venerazione di cui è circondato Leone. Steven Spielberg prima di fare l'intervista con noi si è rivisto tutti i film e ha voluto a tutti costi parlare via Zoom con Martin Scorsese e con Clint Eastwood».

 «Fon-da-men-ta-le»: Carlo Verdone scandisce l'aggettivo con cui definisce il peso che Sergio Leone ha avuto per lui.

Leone ha prodotto per lui Un sacco bello e Bianco Rosso e Verdone, usciti nei primi anni 80, ma c'è di più. «Ero il suo primo spettatore ogni volta che usciva un film - ricorda - quel suo modo di girare, quel ritmo assai lento - avanguardia pura, allora - che diventava improvvisamente nevrastenico, le musiche di Morricone e gli effetti sonori, il vento nel deserto che solleva la polvere. E quelle facce di attori, perfette come in un teatro dei pupi. Avevo visto tutti i western, ma quelli di Leone erano diversi da tutto: gioia degli occhi e stupore continuo».

 Quando Verdone incontrò davvero Leone, il sogno del cinema sembrava destinato a rimanere tale: «Facevo spettacoli di cabaret underground perché mia madre aveva insistito, lì mi notarono Enzo Trapani e Bruno Voglino e finii alla Rai, a Non Stop. Alla terza puntata, mi chiamò Sergio Leone». È il 1977, Verdone ha 27 anni, Leone una ventina di più. «Si procurò il mio numero, mi convocò a casa sua, all'Eur, e mi ricevette con una camicione mediorientale. Stava alla scrivania, mi sedetti di fronte a lui e cominciò una specie di duello, sembrava di essere in un suo film: per un minuto e mezzo mi guardò, non disse niente, e io neppure, finché gli chiesi di andare in bagno. Poi parlammo, lui mi propose di fare un film. Io avevo già rifiutato otto proposte, ma come facevo a dire di no a Sergio Leone? Mi spiegò che la sceneggiatura è un'arte che va imparata, mi fece incontrare Ruggero Maccari, Lina Wertmuller, perfino Gigi Magni. 

Sergio Leone, era mio padre.  Francesco D'Errico su Panorama il 15 Ottobre 2022.

Il rapporto burrascoso con Robert De Niro, la «scoperta» di Clint Eastwood, la passione per il Far West. Andrea Leone, figlio del celebre regista, rivela a Panorama aneddoti e storie sul lavoro di suo papà con gli occhi di chi il backstage lo ha vissuto fin da bambino. E anticipa il docufilm che ne celebra la carriera (nelle sale dal 20 ottobre).

«Robert De Niro è un tipo molto introverso. E sul set di C’era una volta in America nessuno poteva incrociare il suo sguardo, a parte il direttore della fotografia Tonino Delli Colli, e il regista, mio padre, altrimenti chiedeva di rigirare la scena. All’inizio lui e mio papà si studiarono, ebbero anche qualche screzio: De Niro per esempio non era d’accordo sulla colonna sonora di Morricone, ma lui finì per convincerlo. Alla fine ottenne la sua fiducia incondizionata, e ricambiata. Al punto che, se mio padre non fosse morto il 30 aprile 1989, gli avrebbe chiesto di essere protagonista anche del suo film su Leningrado, purtroppo mai realizzato».

Il produttore Andrea Leone, 52 anni, presidente e amministratore delegato di Leone Group, ricorda così la lavorazione dell’ultimo titolo e capolavoro assoluto di suo padre Sergio Leone, la cui carriera, film, collaborazioni e influenza sui cineasti a venire sono raccontati nel documentarioSergio Leone, l’italiano che inventò l’America di Francesco Zippel, in arrivo al cinema dal 20 ottobre. «Far venire star come De Niro da Hollywood, o altri come James Coburn e Rod Steiger per Giù la testa, era difficile allora come adesso. Ma quando eri un autore di cinema riconosciuto, come oggi accade a Paolo Sorrentino, allora potevi riuscirci» spiega Andrea Leone. Clint Eastwood invece lo lanciò proprio lui in Per un pugno di dollari. Clint non parlava una parola d’italiano, né suo padre d’inglese. Come riuscivano a lavorare? Comunicavano a gesti, e siccome li accomunava la conoscenza del linguaggio cinematografico, riuscirono comunque a mettere in scena uno spettacolo fantastico. Mio papà diceva che Clint era un grande attore ed era contento di aver lavorato con lui. Credo sarebbe stato curioso di vederne la crescita da regista, perché quando morì, Eastwood ancora non aveva girato i suoi capolavori. Come descriveva suo padre gli «spaghetti western»? Non amava molto quella definizione un po’ dispregiativa coniata in America. Lui era cresciuto con il genere, ma i suoi western erano realistici, perché aveva studiato quell’epoca e sapeva che i cowboy non erano damerini, ma assassini o gente che viveva di espedienti. Diceva sempre che nei film di John Ford il protagonista apre una finestra per guardare l’orizzonte oltre la prateria, mentre nei suoi per prendere una pallottola in mezzo agli occhi. I suoi western erano violenti e cupi. In C’era una volta il West il protagonista è uno spietato assassino che, mandato a intimidire un proprietario terriero, uccide lui e i suoi tre figli… Per la parte scelse Henry Fonda, che fino ad allora aveva interpretato solo ruoli da buono. Gli piaceva stupire gli spettatori di cui aveva enorme rispetto, perché diceva sempre che il pubblico è il più autorevole critico del mondo.

E con la critica che rapporto aveva? Non era molto amato dai critici e, come altri autori, è stato consacrato solo dopo la morte. Viveva la cosa con dispiacere, pur consapevole che non tutti abbiamo la stessa visione della vita e del cinema. Quando girò Giù la testa le recensioni lo massacrarono. Come mai? Era un film politico, ambientato durante la rivoluzione messicana, in cui il peone interpretato da Rod Steiger diceva all’ex rivoluzionario James Coburn che le rivolte sono combattute dai poveri, mentre i ricchi parlano, mangiano e poi alla fine rimangono al proprio posto. Era un discorso che oggi sarebbe considerato populista e in quegli anni, che seguivano la contestazione, la sinistra disapprovava, perché era un messaggio contrario alla causa. Lei aveva 21 anni quando suo padre è morto d’infarto. Che ricordi personali ne conserva? Adorava stare con mia madre (Carla Ranaldi, ex prima ballerina dell’Opera di Roma, ndr), me e le mie sorelle Raffaella (60 anni) e Francesca (58): trascorreva tutto il tempo libero con noi e organizzava vacanze dove venivano anche i nostri amici. Giocavamo a carte, vedevamo le partite di calcio della Roma, di cui era un grande tifoso, e vedevamo film. Ne ricorda alcuni?

Amava molto Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman e Witness - Il testimone di Peter Weir. Ricordo che uno degli ultimi visti insieme era Big: una volta finito mi disse che Tom Hanks, ancora a inizio carriera, sarebbe diventato una star. Casa vostra da chi era frequentata? Che amici aveva suo padre? In casa nostra passavano tutti: Ugo Tognazzi, Renato Zero, Luigi Magni e tanti altri. Per noi erano amici di papà, che ovviamente conoscevamo nei loro pregi e difetti. Ricordo però che quando conobbi Alberto Sordi ero emozionato. Nell’ultima fase della sua vita mio padre si legò molto a Giuliano Gemma. E poi c’era il suo grande amico ed ex compagno di scuola Ennio Morricone: si mettevano insieme al piano, Ennio suonava le melodie e mio padre gli dava indicazioni: «Ennio, questa fammela più dolce». Come mai dopo Giù la testa aspettò addirittura 13 anni per girare C’era una volta in America? Aveva letto il romanzo Mano armata di Harry Grey, una sorta di autobiografia del personaggio di Noodles (interpretato da De Niro, ndr) e voleva reinventarlo a modo suo, sostituendo i classici mafiosi italoamericani con gangster ebrei. Amava il cinema e voleva girare i film che gli piacevano, al punto tale che gli offrirono di dirigere Il padrino e rifiutò pur di realizzare quel film. Così aspettò 13 anni, mentre produceva altre pellicole e pubblicità. Il film trionfò a Cannes, ma fu un flop negli Stati Uniti, dove lo tagliarono dai 229 a 139 minuti. Mio padre la prese malissimo e non volle mai vedere quel montaggio. Che probabilmente fu realizzato per avere più spettacoli al cinema e vendere più biglietti. E di Leningrado cosa è rimasto? Solo una pagina dei titoli di testa. E il mio ricordo di quando lo raccontò scena per scena in una conferenza stampa a Mosca, poco prima di morire. Siamo convinti che esista una registrazione audio di quell’incontro, ma non siamo mai riusciti a trovarla.

Clint Eastwood: «Lavoravo in tv, Sergio Leone mi scoprì. Rivoluzionò i western anche in America». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 18 Ottobre 2022. 

Mentre esce il documentario sul grande regista italiano, prodotto da sua figlia Raffaella, un'icona del cinema americano racconta il loro rapporto: «Quella volta che per un errore della troupe spagnola si dovette ricostruire il ponte saltato in aria» 

Risponde a tutto tranne che a una domanda, argomento di cui si parla nel filmato: perché C’era una volta in America non fu capito in USA, ne tagliarono un’ora? Leone non volle mai vedere quella versione. Parlando con Clint Eastwood , 92 anni, è inevitabile ripensare al poncho e alla colt nella fondina. «Sono girate tante leggende, a un certo punto dissero che li avevo conservati in casa, sotto una teca di cristallo…Ho restituito tutto al dipartimento dei costumi dei film di Sergio».

Il vostro primo incontro?

«Appena atterrato in Italia . Non c’ero mai stato prima. Una magnifica interprete ci aiutò nella comunicazione perché all’epoca io non parlavo una parola d’italiano e Sergio non parlava una parola d’inglese. Ci capivamo a gesti. Abbiamo parlato di cinema, ho incontrato la sua famiglia. Ma eravamo concentrati sul film. Non potevo sapere che, al pari di Don Siegel, sarebbe stato l’uomo che più mi avrebbe influenzato come regista. Mi ha fatto amare l’ironia e l’amore per i paesaggi».

Come reagì il pubblico USA al western all’italiana?

«Scorsese nel documentario dice che all’inizio ne fu irritato perché non riusciva a capirlo, a prendere le misure…C’erano dei tabù, penso che solo il jazz e il western sono forme d’arte veramente americane. In effetti nell’ambiente ognuno diceva che era un genere compiuto e non si poteva aggiungere altro. Ma era entrato in una zona opaca, manierata. Ci fu un cambio di prospettiva e gli spaghetti western (la favolizzazione di un mito a voi estraneo), furono considerati una rinascita».

C’è un tempo sospeso nei film di Leone.

«Ecco, questa novità che in un western possa non succedere nulla fu una cosa rivoluzionaria. Quei film fanno parte della storia del cinema, sembrano girati oggi, non sembrano vecchi, datati. Il documentario mi è molto piaciuto, mi ha fatto scoprire nuovi elementi di un uomo che credevo di conoscere».

Lei, dopo la trilogia…

«Vengo al punto, sta per chiedermi perché non accettai C’era una volta il West . Ho sempre cercato di fare cose nuove, ed era venuto il tempo di provare qualcosa di diverso, e di parlare la mia lingua. Con Sergio non ci siamo separati, abbiamo preso filosoficamente strade diverse. I miei sono set molto diversi dai suoi, giro velocemente pochi ciak. Non dico nemmeno azione, motore; dico, ragazzi se siete pronti partite. Io mi indirizzavo verso storie più personali, lui amava la spettacolarità, le esplosioni sui treni, i soldati sulle colline».

Quale episodio ricorda?

«Beh, la scena del ponte che esplode in Il buono, il brutto e il cattivo . I tecnici spagnoli sbagliarono i tempi dell’innesco della miccia e Leone sbucò fuori imprecando, gli occhi iniettati di sangue. Era furibondo. Il ponte si dovette ricostruire. E poi i set erano pieni di comparse spagnole e tzigane con i mantelli, le divise, le pistole, se lei avesse chiesto loro di cosa parlassero quei film, non avrebbero saputo rispondere».

Ennio Morricone?

«Nessuno ha usato la musica come lui, cambia lo stile, l’approccio, le sue melodie sembra che aggiungano frasi alle sceneggiature, sono suoni che parlano. Un sacco di trombe e poi bum, i cavalli nitriscono. E’ una musica operistica che esalta la violenza e le sparatorie. Ennio è stato uno splendido compositore, ha vinto due Oscar, uno glielo consegnai io».

Leone non ne vinse.

«Beh, tanti buoni film meritavano di vincerlo e sono rimasti a bocca asciutta, e vale il ragionamento contrario. Talvolta non dipende dalla qualità del film. Di Sergio ricordo le parole che mi hanno fatto diventare un attore migliore: tieniti stretta la fantasia, l’immaginazione dei bambini».

L’uomo senza nome, come si chiamava il suo personaggio, è un eroe?

«Eroe è chi fa cose utili per la società, io la vedo così».

Cosa ama?

«Il golf, il jazz e i sigari cubani. Ma ora cerco di evitarli».

Sergio Leone, che con “un pugno di dollari” cambiò il genere western. Alvaro Gradella su culturaidentita.it il 28 Settembre 2022

Dopo Alida Valli proseguiamo con un’altra icona del cinema italiano, Sergio Leone, il papà dei cosiddetti “spaghetti western”, il Maestro al quale molti si sarebbero ispirati (tanto per citare due nomi: Dario Argento, che collaborò al soggetto di C’era una volta il West e Tarantino). Il ritratto di Sergio Leone lo trovate sul numero di settembre di CulturaIdentità in edicola.

«Al cuore, Ramon. Se vuoi uccidere un uomo, devi colpirlo al cuore! Sono parole tue, no?»

Il pistolero americano si è di nuovo alzato da terra e ripete a voce alta la sua sfida.

Gli spettatori fissano ipnotizzati il grande schermo sfolgorante di un sole implacabile.

Sollievo e stupore. Non capiscono. Ramon – l’infallibile capobanda messicano – lo ha centrato due volte!

Neppure Ramon capisce. Non può. Non sa. E’ certo di averlo colpito entrambe le volte al cuore, eppure…

Ottusamente, spara ancora col fucile Winchester. Una, due volte.

In sala, ormai tutti sanno che il pistolero si rialzerà. Aspettano solo di scoprire come mai.

«Al cuore, Ramon… Al cuore! Altrimenti non riuscirai a fermarmi.»

Sbigottito, il bandito scruta quel fantasma dal viso di pietra avvicinarsi irridendolo.

Di nuovo, mira convulsamente. Al cuore. Uno, due, tre colpi.

Ramon sorride di caparbia speranza. Il gringo è crollato. Com’era quel vecchio proverbio messicano? Quando un uomo col fucile incontra un uomo con la pistola, quello con la pistola è un uomo morto… Già.

Ma quello con la pistola è già in piedi. Lascia cadere la lastra di metallo nascosta sotto il poncho. È crivellata di colpi. All’altezza del cuore.

Il pubblico torna a respirare, estasiato dal colpo di scena. Si gode la fine dell’uomo col fucile, mentre già desidera tornare a vedere questo stupefacente film western.

La sequenza finale di Per un pugno di dollari di Sergio Leone è fra le più note e iconiche nella storia del cinema.

Questo film ha segnato una svolta nella cinematografia mondiale. Giacché rivelò al mondo il formidabile talento di Sergio Leone e cambiò per sempre il genere western. Lo cambiò anche per gli americani, che ne erano i Maestri.

Per un pugno di dollari si girò nel 1964, esterni in Spagna e interni a Roma, con soli 80 milioni di lire. Leone ebbe l’idea da Yōjinbō – La sfida del samurai del grande regista giapponese Akira Kurosawa, presentato nel ‘61 alla Mostra del Cinema di Venezia. Toshiro Mifune, nelle vesti di un solitario e misterioso ronin, si frapponeva con la sua micidiale katana fra due clan yakuza rivali che vessavano un villaggio.

Anche John Sturges, nel ‘60, si rifece a Kurosawa utilizzando il plot de I sette samurai per il suo kolossal I magnifici sette. Però il film nipponico fu citato nei titoli, evitando il contenzioso che invece subì Per un pugno di dollari quando divenne un impensato successo mondiale.

Per il pistolero senza nome, Leone volle un giovane americano dalla recitazione asciutta e dalle movenze indolenti, protagonista della serie western Rawhide (ricordate la theme song ripresa da Aykroyd e Belushi ne The Blues Brothers?). Era Clint Eastwood, e avrebbe avuto la voce secca e strascicata del geniale Enrico Maria Salerno. Al talentuoso attore italiano Gian Maria Volonté affidò il ruolo di Ramon.

E quando Leone incontrò Ennio Morricone per la colonna sonora, non ricordava che erano stati insieme alle elementari. Un segno del destino? Certo è che le musiche di Per un pugno di dollari sarebbero state essenziali per il successo planetario del film! Così come per ogni altro che il grande maestro avrebbe musicato. Morricone si ispirò alla soundtrack dell’acclamato Dimitri Tiomkin in Sfida all’O.K. Corral di Sturges e Un dollaro d’onore di Howard Hawks, ma ne reinventò il mood. Non più orecchiabili canzoncine, né fuggevoli violini. Con lui la musica diventava coprotagonista! In quelle note c’erano potenza, struggimento, metafora, Èpos! Senza Ennio Morricone, sarebbe stato un film minore.

La première fu il 12 Settembre 1964 a Firenze, col solito trucco degli pseudonimi americaneggianti: Sergio Leone apparve come Bob Robertson, Morricone come Don Savio, Volonté come John Wells.

Nessuno s’aspettava tanto successo! Ignorato all’inizio dai distributori, il film era adorato dal pubblico che tornava a rivederlo, passando parola. Gli incassi furono mai visti nel cinema italiano. In tre mesi stracciò gli introiti totali de I magnifici sette, e rimase nelle sale fino all’anno dopo quando uscì Per qualche dollaro in più. Idem all’estero. In America incassò 11 milioni di dollari! Nella patria del western il trionfo fu tale che il logoro manierismo del genere cambiò anche lì, a partire da Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah (’69) e Soldato blu (’70) di Ralph Nelson. Tanto che la Paramount chiese a Sergio Leone di dirigere Il Padrino, ma lui rifiutò.

Per un pugno di dollari fu un western rivoluzionario e sarà l’archetipo dei suoi film futuri. Egli infatti stravolse i canoni del genere, tratteggiandolo per primo con acre verismo. Il tutto esaltato da innovative riprese in primissimo piano (spesso incrociate col piano lungo), da tempi dilatati nelle inquadrature a dare solennità e suspense, da lunghe scene senza dialogo.

Al contrario di tanti imbellettati classici d’oltreoceano, case e saloon sono tetri e fatiscenti, i romantici cowboy appaiono miserabili, luridi, brutali. Perfino l’Eroe ha appena un’astuzia volpina e un casuale barlume di carità.

Per primo, Leone mostra la violenza e le brutture che in realtà avevano permeato il selvaggio West. Il cruento pestaggio di gruppo che sfigura il pistolero non ha precedenti nel western americano. Lo stesso Clint Eastwood riecheggerà la scena nel suo pluripremiato Gli spietati (’92), che poi dedicherà “A Sergio e Don (Siegel)” nei titoli di coda.

Questa rivoluzione dei canoni si riverbererà in tutte le cinque opere successive, dove Leone padroneggia grandi budget e star come Henry Fonda e Robert De Niro. Così mutò un buono per antonomasia come Fonda nello spietato assassino del monumentale C’era una volta il West (’68); mentre De Niro, nell’ultimo C’era una volta in America (’84), non sarà uno dei famosi criminali dei gangster movie americani, bensì un oscuro contrabbandiere di liquori durante il proibizionismo, un perdente dal buffo soprannome: Noodles (un piatto ebraico).

Sergio Leone rimane, quindi, uno dei cineasti più rilevanti e autorevoli nella storia del cinema. Da Per un pugno di dollari in poi, i suoi film – presto o tardi – sono stati considerati dei capolavori dalla critica e adorati dal pubblico di tutto il mondo. Ma, anzitutto, è l’unico regista italiano che abbia sfidato sul loro terreno gli americani, dimostrando ai signori e padroni del grande cinema popolare di saperlo fare altrettanto bene. Anzi, meglio.

 SERGIO LEONE. “CLINT EASTWOOD LO CONSIDERAVA UNO STRONZO”. Alessandro Ferrucci e Fabrizio Corallo per "Il fatto Quotidiano"  il 27 aprile 2019. Sul set insieme, Cinecittà o la Spagna, anche mesi senza discontinuità nel ciak ("Era un perfezionista mai contento"); le lunghe stesure dei copioni, le battute limate, le litigate non si evitavano ("spesso ci mandavamo a quel paese. Che caratteraccio"), così come il ritrovarsi e via con un nuovo progetto insieme, e via ancora con un altro pezzo di storia del cinema. Sergio Leone è cinema ("il suo ambiente, era perfetto solo sul set"). Il 28 aprile sono trent' anni dalla sua morte, e Sergio Donati è lo storico sceneggiatore dei suoi capolavori western. E come lui lo conoscono in pochi.

Come arriva a Leone?

«A 22 anni ero già riuscito a pubblicare tre romanzi come Gialli Mondadori e grazie al direttore di allora, quel fenomeno di Alberto Tedeschi».

Perché i gialli?

«Era l' argomento più semplice, meno rischioso, e andò bene tanto che sono stati acquistati all' estero. Insomma, dei piccoli successi editoriali. Quindi Dopo il terzo mi cerca Sergio Leone, due chiacchiere al telefono, poi fissiamo un appuntamento. "Te devo parlà di un proggetto"».

Western?

«No. Mi illustra l' idea di un thriller ambientato sulle montagne del Sestriere. Lo ascolto. Prendo appunti. Ci salutiamo e dopo una decina di giorni mi presento con un soggetto di una ventina di pagine».

Immediato.

«Non ho mai impiegato molto, per C' era una volta il west sono bastati venti giorni».

Torniamo all' incontro.

«Lo legge. Alza gli occhi, mi guarda e segna la strada: "Bravo, mi piace, ma tutta la parte che si svolge nella sperduta baita di montagna in realtà va ambientata in questo albergo del Sestriere". Scusa, e perché? "Il proprietario della struttura mette i soldi, e magari durante le riprese si vuole scopare pure qualche attrice"».

Uomo pratico.

«Assolutamente! Lui puntava diritto all' obiettivo, e non solo con la macchina da presa: se aveva un' idea, non si fermava, annusava la direzione da prendere e non mollava mai.

La sua reazione?

«Mi prende un colpo, dentro di me penso: "Oddio, ma è questo il cinema?". Così saluto inorridito, e decido di abbandonare il sogno, e di puntare sulla pubblicità: entro in una grande società di Milano. E lì costruisco un' ottima carriera».

Fino a quando?

«Anni dopo squilla il telefono, era Sergio: "Ma che cazzo stai a fa' al Nord?". Lavoro. "Ma che è un lavoro? Lascia perdere, sto realizzando un film, però non mi convince, ho bisogno di un tuo trattamento"».

Cede.

«Torno a Roma a spese sue e mi affida la revisione prima di Per qualche dollaro in più e poi del Il Buono, il Brutto e il Cattivo; in particolare quest' ultimo era più lungo di mezz' ora, allora lo taglio e rimonto».

Ufficialmente non lo ha firmato.

«No, solo Age, Scarpelli e Vincenzoni».

Il suo rapporto con Leone?

«Grande stima ma caratteri molto diversi, a volte inconciliabili, ancora oggi a volte mi stupisco di come siamo riusciti a concludere insieme così tanti film».

Com' era Leone?

«Un talento smisurato, un fenomeno, uno che già prima di iniziare le riprese aveva chiarissimo il prodotto finale e sapeva conquistarsi il suo sogno, con ogni mezzo. Poi a questo associava un carattere difficile, molto egocentrico».

Arriva a Roma.

«Lo incontro e esordisce con tutta la sua sicurezza, di modi e parole: "Sto a fa' un film gajardo. Un western". Un western in Italia? "Sì, fidate". Leggo la sceneggiatura ed era identica a un lungometraggio di Kurosawa (La sfida dei samurai del 1961)».

Lo ha detto?

«Certo, e la sua risposta è stata: "Tranquillo, se questo film arriva a Caltanissetta, è già un miracolo. Non se ne accorgerà nessuno"».

Previsione perfetta.

«Non aveva tutti i torti, prevedere quel successo era quasi impossibile, e poi il budget assolutamente limitato, anzi bassissimo, per questo presero Clint Eastwood, invece di Cliff Robertson, enormemente più caro: "Non ce lo possiamo permettere", mi disse Sergio».

Tra Leone ed Eastwood?

«Nessuna cordialità, Clint stava sempre da una parte, sempre per cacchi suoi, era un po' ombroso come nei film; e anni dopo non perdonò a Sergio la storica battuta su di lui: "Eastwood ha solo due espressioni: una con il cappello e una senza"».

Feroce.

«Sergio non lo stimava, lo definiva uno "stronzo" o un "manichino" in grado solo di eseguire le indicazioni, e anche io non credevo molto nelle sue qualità; mi sono stupito della grande carriera da regista».

Ma Leone era geloso di Eastwood?

«Lo considerava una sua creazione, e si incazzò moltissimo quando per Il Buono, il Brutto e il Cattivo pretese un cachet da vera star hollywoodiana; per Sergio fu un affronto personale: "L' ho creato io e questo si permette pure di rompere"».

Però ha ceduto.

«Per forza, era obbligato dalle major statunitensi, ma con un piccola vendetta: non poteva più ridurre la sua parte, il copione oramai era stato approvato, quindi nel film lasciò amplissimo spazio alle controscene di mimica e smorfie del grande Eli Wallach».

Eastwood l' avrà presa bene.

«Anche Clint pensava di aver contribuito alla fortuna di Sergio, almeno in questo erano d' accordo, solo da lati opposti.

"C' era una volta il west". (Si alza dalla sedia ed estrae un tomo enorme). È la stesura originale».

Proprio lei.

«Prima di iniziare le riprese dissi a Sergio: "Occhio che è troppo lungo". E lui: "Non ti preoccupare, alcune scene le giro più brevi". Impossibile, pensai».

Impossibile in assoluto o per uno come Leone?

«Tutte e due, forse più per lo stile di Sergio. Comunque dopo poco tempo mi chiama agitato: "Per favore vieni qui in Spagna, in Almeria, c' è da tagliare". Quindi ho caricato in macchina moglie, figlio di tre anni e baby sitter e siamo rimasti lì per oltre un mese.

Un mese, come.

«Di lavoro folle e bello, di solite discussioni su come e dove tagliare, sulle battute, di rapporti con gli attori. In particolare, con Ricordo benissimo Charles Bronson, mi inseguiva per studiare insieme, "voglio capire bene la parte", mi diceva».

Non era così?

«Ogni tanto provava a correggere qualcosa, e a un certo punto un accenno di fastidio lo ho anche dimostrato, della serie "io sono lo sceneggiatore e tu l' attore"; poi all' improvviso ho capito: all' improvviso ho capito che il suo problema erano le parole con la "esse", aveva la classica zeppola».

Però non lo diceva.

«Fingeva di no, così quando gli ho rivelato la mia scoperta, si è rabbuiato, come se lo avessi offeso. Avevo sottovalutato il suo complesso nel particolare e nel generale».

Nel generale?

«In mezzo a un cast di fenomeni si sentiva una mezza cartuccia, per questo si atteggiava».

Henry Fonda.

«Con lui Sergio mi ha fatto morire».

Cosa ha combinato?

«Fonda era un vecchiotto».

No!

«Prima della Spagna la preparazione è stata realizzata a Cinecittà. Un giorno attendiamo proprio Fonda, con un po' di emozione, almeno da parte mia. A un certo punto arriva una macchina della produzione, si ferma a due metri da noi, e scende la signora Fonda con al polso due orologi, uno con l' ora italiana, l' altro con quella statunitense; dopo un paio di secondi si apre l' altro sportello e ci troviamo di fronte un vecchietto malmesso».

Fonda.

«Sergio assiste alla scena e va in crisi, bestemmia: "Che ce famo co' questo?". Tentiamo di calmarlo, macché, non sentiva nessuno. Per fortuna ascolta il direttore di produzione: "A Se', aspetta, non è come appare". Allora porta Fonda nel camerino e gli dà il costume di scena. Lui si veste. E alla fine ci raggiunge sul set tutta un' altra persona: era Henry Fonda. E il bello è che seguiva entusiasta tutte le indicazioni di Sergio, non protestava mai».

Magia del cinema.

«Fuori dal ciak tornava il vecchietto che dicevo prima, e il pomeriggio lo passava accanto a mio figlio per vedere i cartoni animati. Un pensionato. Sergio scuoteva la testa, non poteva crederci».

Il rapporto degli attori con Leone?

«Lo rispettavano, anzi lo temevano, perché Sergio sapeva girare, sapeva comunicare, era uno nato sul set e che viveva di set; non dimentichiamoci che era figlio di un regista e di un' attrice. Nato sul set Pane e cinema, e si vedeva dalla sicurezza; certi atteggiamenti sono innati, non si acquisiscono ma si possono solo perfezionare con il passare del tempo. Tra i suoi attori anche Mario Brega Insieme erano due di Trastevere, parlavano la stessa lingua, la ricerca ossessiva del popolare, quando il cinismo e l' ironia si inseguivano, e per Brega il confine tra legale e illegale non sempre veniva rispettato».

In "C' era una volta il west" c' è una battuta rivolta alla Cardinale che oggi verrebbe giudicata sessista. "Se qualcuno ti tocca il sedere, tu fai finta di nulla".

«(Scoppia a ridere). Davvero la trovate sessista? Sergio era un po' maschilista, e la Cardinale con lui spesso si ritrovava smarrita perché massacrata dai ripetuti ciak, anche 35 per una scena sola».

35 sono tanti.

«Era così in assoluto, un perfezionista, non si accontentava, e gli altri zitti. Lui era il padrone e il produttore; per questo non aveva rapporti affettuosi con gli attori».

E tra di voi?

«Alla fine ci limitavamo sempre e solo al set, un po' per evitare discussioni e un po' perché gran parte della nostra vita era lì. Ah, si scocciava per l' età Cioè? Sergio aveva solo quattro anni più di me, ma quando uscivamo insieme, magari negli Stati Uniti, ci scambiavano per padre e figlio e lui sistematicamente si incazzava».

Tra Leone e Verdone?

«Li ho presentati io: una sera vado in un teatrino vicino a San Pietro e assisto allo spettacolo di un giovane comico. Il giorno dopo chiamo Sergio: "Devi vedere questo ragazzo, bravissimo". E da lì sono partiti».

Con lui il legame c' era realmente?

«Credo di sì, con lui sì. E poi Carlo è una persona rara per carattere e talento».

Insomma, tra di voi.

«Dopo Giù la testa avevamo molti progetti insieme, ma lui cercava sempre il capolavoro, era ossessionato. Per questo a un certo punto ci siamo allontanati, ho deciso di guardare altrove».

Litigavate.

«Ci sfanculavamo».

Attualmente lei vive quasi solo negli Stati Uniti. Lì com' è valutato Leone?

«Attenzione: bisogna saper scindere il giudizio umano da quello professionale e Sergio è uno dei grandissimi del cinema, anche oltreoceano lo sanno, e lo giudicano giustamente un maestro da studiare».

Insieme dovevate anche realizzare un film sull' assedio di Leningrado.

«Eccome! Per questo motivo una sera usciamo con un regista russo molto importante, alla fine degli anni Cinquanta aveva girato Quando volano le cicogne (Mikhail Kalatozov). Durante la cena Sergio chiede del film, il russo tutto soddisfatto replica: "Davvero lo ha visto?". "Certo, e ho apprezzato molto i grandi scenari, le prospettive ampie". A quel punto cala il silenzio. E il russo freddamente risponde: "In realtà è girato e ambientato in due stradine". Insomma, non lo aveva visto, bluffava».

Bugiardo?

«Diciamo creativo, si ingegnava per arrivare a meta. Ma il cinema vero è anche questo».

Un aggettivo per Leone?

«Leone (Perché "quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto")»

C’ERA UNA VOLTA SERGIO LEONE. Gloria Satta per “il Messaggero” il 30 aprile 2019. «È il più bel regalo che potessimo fare a papà, il modo migliore per celebrarlo nell' anno del doppio anniversario: i 30 anni della morte e i 90 della nascita», dice Raffaella Leone, la figlia produttrice (in tandem con il fratello Andrea) del grande Sergio che il 30 aprile 1989 se ne andava ad appena sessant' anni, dopo aver consegnato alla storia del cinema sette film rimasti mitici: Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il Buono il Brutto il Cattivo, C' era una volta il West, Giù la testa, C' era una volta in America. E il regalo di cui parla Raffaella è Colt, il western concepito dal regista e mai realizzato: a Cannes, in pieno Festival (14-25 maggio), verrà annunciato al mondo che il film finalmente si fa, finanziato da capitali internazionali, dopo anni di tentativi andati a vuoto, entusiasmi, ostacoli, speranze. Protagonista è una pistola che passa di mano in mano e dietro la cinepresa ci sarà Stefano Sollima, anche sceneggiatore con Luca Infascelli, Massimo Guadioso e un professionista americano. «Papà ebbe l' idea di Colt molti anni prima di morire, quando noi figli eravamo ancora piccoli», rivela Raffaella, «e a dire la verità non voleva farne un film: molto in anticipo sui tempi, pensava ad una serie tv». Perché proprio Sollima? «È l' erede di Sergio. Ha il suo stesso gusto del racconto epico e concepisce il cinema come qualcosa di grande, di mitico. Il suo stile crudo, realistico e sempre accompagnato dall' ironia, è affine a quello di mio padre. Ma Stefano saprà stravolgere il progetto originale e farlo totalmente suo». Leone nacque a Roma il 3 gennaio 1929 e in occasione del novantesimo anniversario della nascita un altro grande evento celebrerà il suo talento: la grande mostra C' era una volta Sergio Leone che, dopo il debutto alla Cinémathèque Française di Parigi nell' ottobre scorso, il 12 dicembre approderà a Roma, all' Ara Pacis, per rimanervi fino a Pasqua 2020. «In Francia abbiamo registrato 60 mila presenze, più di quelle che erano state contate all' esposizione su François Truffaut. Sinceramente, non mi aspettavo un entusiasmo così grande da parte del pubblico», spiega Gianluca Farinelli, il direttore della Cineteca di Bologna (che nel 2014 ha restaurato Per un pugno di dollari) e curatore della mostra, organizzata da Equa di Camilla Morabito. «Il talento di Leone è ancora conosciuto e amatissimo». La mostra si snoderà attraverso la retrospettiva completa dei film del regista (anche quelli da lui prodotti, come i cult di Carlo Verdone Un sacco bello, Grande grosso e Verdone, Troppo forte) fotografie, documenti, documentari, conferenze, oggetti, un libro. E, rispetto all' evento di Parigi, a Roma ci sarà una sezione nuova di zecca: «Sarà dedicata all' influenza esercitata da Leone sull' immaginario collettivo e sul lavoro degli altri registi come Martin Scorsese, Quentin Tarantino, Ang Lee, Guillermo Del Toro e tanti altri», anticipa Farinelli mentre il BiFest di Bari si prepara a celebrare il padre di Sergio, il regista Roberto Roberti (nome d' arte di Vincenzo Leone). Una chicca: all' Ara Pacis verrà proiettato un filmato, mai visto, in cui Leone appare impegnato nella post-produzione di un suo film nel ruolo di rumorista. In epoca pre-digitale, era lui stesso a curare il sonoro: per rendere il galoppo dei cavalli indossava uno zoccolo sulla mano e la sbatteva sul tavolo, per rendere lo scorrere del fiume svuotava una bacinella d' acqua con il bicchiere. «Per lui il cinema era artigianato», dice il direttore della Cineteca di Bologna. È d' accordo anche Carlo Verdone: «Mentre il cinema spesso dimentica i suoi maestri, ancora oggi tutti amano Sergio», spiega il regista romano. «Ha avuto il merito di reinventare un genere, il western. Ha messo il mito al centro di ogni sua storia e creato la maschera di Clint Eastwood, ha sempre pensato in grande: gli si rizzerebbero i capelli, se sapesse che i film oggi vengono visti sugli smartphone...». Aggiunge: «Io gli devo tutto. Se Sergio non mi avesse portato dai produttori Puccioni e Colajacomo non sarei mai esistito. E non avrei imparato ad essere sceneggiatore, regista e protagonista dei miei film». Quale cinema amerebbe, oggi, Leone? «Adorerebbe Tarantino», risponde Raffaella, «e le serie tv: hanno i tempi lunghi dei suoi capolavori. L' assedio di Leningrado, l' imponente progetto che aveva in mente prima di morire, l' avrebbe realizzato a puntate».

Dal profilo Instagram di Carlo Verdone. Ponte Sisto.Il ponte dei miei ricordi più belli perché la mia casa paterna era parallela alla sua destra. Su quel ponte Il mio primo bacio ad una ragazza, mia madre che lo attraversava quando tornava dalla scuola dove insegnava, il mio primo complimento ad un attore che camminava davanti a me (Gian Maria Volonté). Il ponte dove si suicidava di tanto in tanto qualcuno e si formava un capannello di gente dove ognuno dava un' informazione sbagliata sulla persona e sul movente. Il ponte che mi ispiro' la scenetta dei " due cervi a Ponte Sisto". Il ponte dal quale gettai nel 1985 un anello che avevo comprato per la mia ragazza che poco prima mi confessò di avere un' altra storia con uno. Il ponte che Sergio Leone mi fece attraversare per fare due passi al fine di calmarmi la notte precedente all' inizio di "Un Sacco Bello". Il ponte dei ragazzi di vita che venivano rimorchiati per finire sotto la scala che portava alla banchina da uomini grandi. Il Ponte che univa Trastevere a Campo de' Fiori.  Bello il mio ponte, immagine degli anni migliori. Buona serata a tutti voi. 

Marco Giusti per Dagospia l'8 agosto 2020. Magari vi farà piacere sapere qualcosa su “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone che va in onda stasera su Rai Tre alle 20, 30. Così recupero le cose che scrissi per il mio libro sugli Western Italiani, Mondadori, ora fuori commercio, che uscì assieme alla celebre rassegna western della Venezia di Muller. Intanto, sia chiaro a tutti, che "Il buono, il brutto, il cattivo" è un capolavoro. Ora si può dire. Ai tempi di Tullio Kezich e dei critici barbogi no. E’ anche il terzo western di Sergio Leone. E l’ultimo che gira con Clint Eastwood. E chiude quella che Leone chiamava Trilogia del Dollaro. Anche se ho sempre pensato che quest’idea della Trilogia era del tutto casuale, che non fosse stata cioè affatto progettata. E Leone c’era arrivato a film già fatti. Ma forse è un’idea solo mia. Ovviamente grande successo in tutto il mondo e comunque l’ultimo western leoniano di un certo tipo. Dopo arriverà “C’era una volta il West” che avrebbe dovuto chiudere tutto per sempre. Per il primissimo cast Leone parla a Dario Argento, giornalista del “Paese Sera”, di Clint Eastwood, Gian Maria Volontè e di Enrico Maria Salerno, escludendo quindi Lee Van Cleef e Eli Wallach. Nella stessa intervista ricorda che farà ancora altri due western, una storia di Calamity Jane e Wild Bill Hickock interpretata da Sofia Loren e Steve McQueen e una nuova versione di Viva Villa, il vecchio film americano di Jack Conway che tanto era piaciuto al pubblico italiano. Di certo per vedere una donna forte nel cinema di Leone dovremo aspettare il successivo C’era una volta il West. Ma qualcosa delle sbruffonate di Tuco, ricordano un po’ quelle del Villa di Wallace Beery. Proprio sulla scelta del grande Eli Wallach nel ruolo di Tuco, il brutto, una delle carte vincenti del film, dirà a Oreste De Fornari nella sua biografia: “Eli Wallach l’ho preso per un gesto che fa nella Conquista del West, quando scende dal treno e parla con Peppard. Vede il bambino, figlio di Peppard, si volta di scatto e gli spara con le dita facendogli una pernacchia. Da quello ho capito che era un attore comico di estrazione chapliniana, un ebreo napoletano: si poteva fare tutto con lui. Infatti ci siamo molto divertiti a stare insieme.” Eli Wallach, in realtà, aveva fatto già il bandito messicano con John Sturges in I magnifici sette. Era Calvera. Cattivo, ma anche comico, e già doppiato da Carletto Romano. Leone non poteva non saperlo. Come non poteva non conoscere la sua filmografia noir, almeno il magnifico The Line Up di Don Siegel. O il suo saper fare perfettamente, prima di Robert De Niro e di Joe Pesci, l’italo-americano di Brooklyn. Nel film di Leone, curiosamente, Eli Wallach, ebreo, si fa un sacco di volte il segno della croce come fanno gli italo-americani. La prima volta che lo chiamano per un provino con Leone risponde. “Un western italiano, non ne avevo mai sentito parlare, suona come una pizza hawaiana. Beh, allora incontro Sergio, che non parlava inglese. Disse in francese: Ti vorrei nel mio film. Pesava 290 libbre e disse: Ti farò vedere qualcosa. Vuoi vedere un piccolo pezzo del mio film?”. Leone gli manda così due pagine di sceneggiatura. Wallach accetta e va a scegliere gli abiti al negozio Western Costume di Los Angeles insieme a Henry Hathaway. Li porta sul set e Sergio Leone rimane incantato. Più tardi, Leone dirà: “Tuco rappresenta, come più tardi Cheyenne, tutte le contraddizioni dell’America, e in parte anche le mie. Avrebbe voluto interpretarlo Volonté, ma non mi sembrava una scelta giusta. Sarebbe diventato un personaggio nevrotico, e io invece avevo bisogno di un attore dal naturale talento comico. Così scelsi Eli Wallach, di solito impiegato in parti drammatiche. Wallach aveva in sé qualcosa di chapliniano, qualcosa che evidentemente molti non hanno mai capito. E per Tuco fu perfetto”. Per la seconda volta torna nel cinema leoniano Lee Van Cleef. Anche se in un primo tempo Leone cerca Charles Bronson, che però deve girare con Robert Aldrich Quella sporca dozzina. Lee Van Cleef ottiene quindi il ruolo di Sentenza, il cattivo, anche se nella sceneggiatura si chiamava Banjo e nella versione inglese diventerà Angel Eyes. Lee Van Cleef ricordava: “Sul primo film non potevo trattare, visto che non riuscivo nemmeno a pagare il conto del telefono. Feci il film, pagai il conto del telefono e esattamente un anno dopo, il 12 aprile del 1966, fui chiamato di nuovo per fare Il buono, il brutto, il cattivo. E insieme a questo, feci anche La resa dei conti. Ma ora, invece di fare seventeen thousand dollars, ne stavo facendo a hundred e qualcosa- merito di Leone, non mio. Da allora in poi feci il protagonista e il cattivo in Italia”. Per lui non era un problema girare due film contemporaneamente (“non lo è per qualcuno che si ritiene un attore...”), anche se i personaggi sono un po’ diversi. Sentenza è un vero son-of-a-bitch, “cattivo perché sorride mentre compie azioni orrende”. Il rapporto con Leone stavolta è davvero amichevole. Lo va a trovare anche mentre monta il film. “Il montaggio è davvero dove Leone è al top. I suoi tempi sono grandi, anche i nostri registi seguono il montaggio, ma non lo fanno manualmente. Lui invece se lo fa da solo”. Per la terza e ultima volta torna Clint Eastwood. “Sergio odiava Clint Eastwood, credo perché aveva chiesto troppo per l’ultimo film; ognuno dei due si attribuiva il merito del successo dell’altro.”, ha detto lo sceneggiatore Sergio Donati. Clint si metterà il poncho dei primi due film solo per il duello finale. Sembra che Eastwood avesse in realtà chiesto 250.000 dollari e il dieci per cento degli incassi. Ma soprattutto Eastwood non era affatto contento del suo ruolo, che era visibilmente meno forte di quello di Tuco. Inizia anche a serpeggiare una evidente competizione con lo stesso Leone su chi avesse inventato il genere e su chi fosse indispensabile all’altro. Conflitto che porterà alla rottura definitiva dopo la fine del film. Sul set Leone parla qualcosa di più di inglese e le cose funzionano meglio con gli attori americani. Grimaldi, il produttore, finì per comprare a scatola chiusa un copione che non era ancora stato scritto. Ma era comunque il terzo western di Leone. Il titolo e la storia erano di Luciano Vincenzoni, che riprendeva parte dell’idea chiave che aveva già ispirato La grande guerra e parte di un raccontino di Guy de Maupassant, “Deux Amis”, che era ambientato tra Francia e Germania nel 1871. In pratica era La grande guerra ambientato durante la Guerra Civile americana. Per questo Leone chiama anche Age e Scarpelli, che erano gli sceneggiatori del film di Mario Monicelli assieme a Vincenzoni. Anche il titolo è di Vincenzoni. Leone lavora al copione con Age e Scarpelli, ma con lui i due esperti sceneggiatori non funzionano molto. Così ci lavora da solo per due revisioni, poi durante la lavorazione e poi finisce a rivedere tutto con Sergio Donati. “Per Il buono, il brutto, il cattivo Leone voleva i migliori sceneggiatori disponibili sul mercato”, ha dichiarato Donati, “così chiamò Age e Scarpelli, e fu un errore. Scrissero una specie di commedia ambientata nel West, non un western; nel film credo sia rimasta appena una battuta scritta da loro”. Ovviamente questo è da verificare, anche se Furio Scarpelli ha descritto come “fatale” il loro incontro con Leone. Contemporaneamente si raffreddano anche i rapporti di Leone con Vincenzoni, che se ne va dalla scrittura del film e lavora a due western di registi diversi, Il mercenario di Sergio Corbucci e Da uomo a uomo di Giulio Petroni. Sul set arriva anche, fresco di tre film come aiuto di Marco Ferreri, un giovanissimo Giancarlo Santi. “Sergio voleva conoscermi e aveva i pezzi della pellicola di Per qualche dollaro in più quando l’ho incontrato. Abbiamo simpatizzato subito, mi ha chiamato per il progetto e scaraventato in Spagna dal marzo all’agosto ’66, il periodo più bello della mia vita. Il buono, il brutto, il cattivo si lasciò alle spalle le storie limitate dei primi due western, aveva maggior respiro epico, etico e storico. Imparai anche come si gestisce un budget, perché Leone era un grande imprenditore” (Santi, intervistato al Festival di Torella dei Lombardi nel 2006). E’ grazie a Santi, barbuto, e già aiuto di Marco Ferreri, che Leone si fa crescere la barba. Lo vede la prima volta e gli dice: “A Foschia [il soprannome di Santi], sotto la barba si può nasconne un genio come ’no stronzo.” E Santi risponde: “Allora nun te la fa’ cresce, così l’equivoco nun se crea!” E così divennero amici, Leone si fece crescere la barba, e “sotto c’era un genio”. Santi prepara le scene da girare in Spagna e tutta la parte sulla Guerra Civile. Dice che scelse gli hippy che stavano in Spagna, “tutte facce da primo piano. Su Se sei vivo spara hanno fatto i protagonisti”. Grazie a Santi, che dirigeva la seconda unità, e a Sergio Salvati, operatore alla mcchina, si è capito qualcosa riguardo al disastro della scena del ponte che salta in aria. In pratica Leone voleva fare un piacere all’esercitò spagnolo di Franco che si era prestato a dare le tante comparse per i sudistie  i nordisti delle scene di massa. E ebbe l’idea di far esplodere il ponte, sul serio, di fronte alle cineprese a un ufficiale spagnolo. Solo che si sbagliò e il ponte saltò prima che le cineprese girassero la scena. Un disastro produttivo e economico. Anche se poi lo stesso esercito si adopererà per rimettere un po’ in piedi il ponte e farlo saltare di nuovo. Il film è ambientato durante la Guerra Civile. Tuco è un messicano che si mette d’accordo con il Biondo per intascare le taglie e poi scappare. Sentenza, invece, un pistolero a pagamento, cerca l’oro dei Confederati e va dietro al nome di un soldato, Bill Carson. Tuco e il Biondo trovano Bill Carson morente e sentono la storia dell’oro. Devono andare al cimitero militare di Sad Hill, alla ricerca di una tomba sconosciuta, accanto a quella di Arch Stanton. Si vestono da sudisti e vanno a visitare la missione del fratello di Tuco, padre Pablo Ramirez. I due vengono presi dai Nordisti, che li scambiano per Sudisti e finiscono nella prigione militare di Betterville, dove Sentenza è diventato sergente. Lì Sentenza prima tortura Tuco e poi lo fa evadere. I tre si incontrano, si tradiscono, fino a quando arriveranno a Sad Hill. Il Biondo uccide Sentenza e se ne va con l’oro mentre Tuco è lasciato con una corda al collo e senza cavallo. “Alla fine”, spiegava Leone, “tutto si gioca fra Tuco e il Biondo. Ma concludere così il film non mi soddisfaceva. Allora appena prima della sequenza dell’arena ho inventato la scena nella quale Clint trova il poncho vicino al corpo di un giovane sudisata gonizzante, lo stesso poncho che lui indossava nei film precedenti. Alla fine, liberato Tuco, lui si allontana con quel poncho e va verso le avventure precedenti, va verso il Sud per vivere la storia di Per un pugno di dollari. E il ciclo, come la trilogia, ricomincia”. In realtà in film non viene affatto percepito in questo modo e questa sembra più una riflessione molto a posteriori acchiappa-critici inventata da Leone. Visto poi all’interno del rapporto Eastwood-Leone sembra invece l’addio della star americana al regista italiano. Il budget è molto ricco, un milione e trecentomila dollari, metà dei quali vengono dalla United Artists. La lavorazione si svolge tra maggio e luglio 1966. Il set di Tabernas è usato per Valverde, Santa Ana per Santa Fe, Colmenar Viejo per Peralta. La stazione è a La Calahorra, vicino a Guadix, mentre il convento francescano è a Cortijo de los Frailes, a pochi chilometri da Los Albicoques. La battaglia si svolge a nord di Madrid, accanto al fiume Arlanza, fuori Burgos. Lì c’è anche il cimitero, ancora luogo di culto per i fan del film. Per la prima volta Leone lavora con Tonino Delli Colli, grande direttore della fotografia legato però al cinema realistico e alla commedia, diciamo dal Pasolini di Accattone ai tanti film con Dino Risi. In realtà Tonino avrebbe dovuto lavorare da subito con Leone, del quale era molto amico, ma i produttori della Jolly Film, Papi e Colombo, gli imposero Massimo Dallamano per il primo film, “Per un pugno di dollari”, uomo di loro fiducia. E Dallamano, grande esperto di colore, funzionò benissimo, specialmente per glie sterni sotto al sole. Al punto che girerà anche “Per qualche dollaro in più”, prodotto da Alberto Grimaldi e non più da Papie  Colombo. Ma volle passare alla regia. E così si liberò il posto per Tonino. O, forse, Tonino, era sempre stata la prima scelta per Leone. Comunque fosse andata, Delli Colli farà un grandissimo lavoro sul film. “C’è stato un punto di partenza, un principio estetico: in un western non si possono mettere tanti colori.”, ha detto Delli Colli. “Abbiamo tenuto le tinte smorzate: nero, marrone, bianco corda, dato che le costruzioni erano in legno e che i colori del paesaggio erano piuttosto vivi.” In un trionfo di cultura, Eli Wallach ricorda che Leone si ispirava, per la luce, volutamente a Vermeer e Rembrandt. Possibile...? Non ci sarà lo zampino di Carlo Simi in tutto questo sfoggio di cultura? Quello che veramente cresce durante la lavorazione è il ruolo di Eli Wallach. La scena che l’attore preferisce è quella dove viene impiccato per la terza volta. “Stavo seduto su questo cavallo, le mie mani legate dietro la schiena, e pensavo: Che cosa sto facendo nel sud della Spagna seduto su un cavallo? Io potrei essere da qualche parte del mondo a interpretare Cecov”. A quel punto una piccola signora lo guarda, lui la riguarda, digrigna i denti e gli esce un Grrr... molto comico, molto umano. Certo su Eli Wallach Leone fa un gran lavoro, anche perché è l’unico personaggio davvero nuovo e l’unico vero attore del gruppo. Notevolissimo anche Aldo Giuffrè, che si vede raramente negli spaghetti western. In questo caso è doppiato da Pino Locchi. Fa un piccolo ruolo, ma interessante, la cubana Chelo Alonso, allora già moglie del produttore Alfonso Pomilia, che così ricorda il suo ruolo. “Io non dovevo interpretare nessun ruolo. Ero andata in Spagna con mio marito, che era il direttore generale del film. Avevo portato mio figlio. Eravamo molto amici di Leone, della moglie, delle figlie. Avevamo preso due ville vicine che davano sul mare. Sergio mi chiedeva in continuazione di fargli una particina, una piccola cosa, che avrebbe scritto apposta per me. Anche se eravamo molto amici, io non lo volevo fare. Poi, il giorno che devono girare la scena dove ero prevista io, mi dicono che l’attrice che avevano chiamato al mio posto non poteva più venire. Era rimasta a Madrid. Ho ancora il dubbio che non l’avessero chiamata per niente. E così feci questo piccolo ruolo, gratis. La cosa divertente è che, poco tempo fa, mi hanno chiamata quelli della Imaie, la società che tratta i diritti sui film passati in tv per gli attori. Mi dicono di avere dei soldi da darmi. Era parecchio che mi stavano cercando. Alla fine scopro che dovevano darmi 10.000 euro e che ogni volta che passa il film, io prendo 500 euro. E pensare che non lo volevo neanche fare.” Sergio Donati lavorò otto mesi al montaggio e al missaggio del film. Un lavoro che sembrava interminabile e che finì solo il 23 dicembre a un soffio dall’uscita prevista. Un massacro, ricordano tutti, visto che Leone non era mai contento. Nino Baragli, il montatore, lo chiamava “spappolation” (“ti ammazza al montaggio…”). Tagliarono una ventina di minuti dal montatone finale per problemi di durata. Via anche una scena di sesso fra Eastwood e una messicana, come capitò spesso nei film di Leone. I critici italiani, questa volta, esaltano il film. Parlano le firme maggiori. “Ironia, invenzione, senso dello spettacolo rendono memorabile questo film, situando il suo autore tra gli uomini di cinema più interessanti dell’ultima leva” scrive Pietro Bianchi su “Il Giorno”. E Enzo Biagi, sull’”Europeo”: “Per fare centro tre volte, come è appunto il caso di Sergio Leone, bisogna essere dotati di vero talento. Non si imbroglia la grande platea, è più facile ingannare certi giovanottoni della critica, che abbondano in citazioni e scarseggiano in idee.” Alberto Moravia lo accusa invece di bovarismo piccolo borghese, ma è una critica a tutto il genere, non solo al film di Leone: “Il film western italiano è nato non già da un ricordo ancestrale bensì dal bovarismo piccolo-borghese dei registi che da ragazzi si erano appassionati per il western americano. In altri termini il western di Hollywood nasce da un mito; quello italiano dal mito del mito. Il mito del mito: siamo già nel pastiche, nella maniera” (“L’Espresso”). Il film, uscito a Natale 1966 arrivò terzo negli incassi italiani dopo due kolossal come La Bibbia di John Huston e Il dottor Zivago di David Lean. Qualcosa deve avergli nuociuto anche il divieto ai 14 anni, con il film che usciva, attesissimo, in pieno Natale. Venne poi derubricato qualche tempo dopo con il taglio di qualche scena, ad esempio il pestaggio di Tuco ad opera del perfido Mario Brega (grande scena) e qualche ferito un po’ troppo truculento. Ma sembrano quasi tagli di puro alleggerimento. Lo stesso Donati poi perde due mesi in America per il doppiaggio in inglese, con Leone ormai apertamente in guerra con Clint Eastwood. In America esce nel gennaio 1968, cioè oltre un anno dopo l’uscita europea. Responsabile del bellissimo doppiaggio americano è Mickey Knox, vecchio amico di Eli Wallach, un attore che ebbe seri problemi con il Maccartismo, e che in Italia farà spesso questi adattamenti, oltre che qualche ruolo. Racconta che il lavoro fu difficilissimo, un po’ per la povertà della traduzione dall’italiano, un po’ per i frequenti cambiamenti di battute degli attori, un po’ per la solita Babele di lingue dei film western italiani. Per fare quello che, normalmente, si poteva fare dai sette ai dieci giorni, Knox ci perderà sei settimane, che è più o meno quello che ricorda Donati. Di certo, però, come spiega Knox, “questo non era un film normale”. Luciano Vincenzoni ha detto più volte di aver scritto un sequel: “Il buono, il brutto, il cattivo n.2”. Ambientato vent’anni dopo la fine del primo. Lo ha confermato anche Eli Wallach: “Tuco sta ancora cercando quel figlio di puttana. E scopre che il Biondo è stato ucciso. Ma il suo nipote è ancora vivo, e sa dove è nascosto il tesoro. Così Tuco decide di inseguirlo”. Clint Eastwood si era dichiarato pronto a dare la voce narrante e persino a produrlo. La regia prevista era di Joe Dante e Leone era solo co-produttore. Ma non ha mai accettato di farlo, né di farlo fare a qualcun altro concedendo l’uso del titolo e dei personaggi. Del resto, un film e dei personaggi così amati era difficile toccarli e farli toccare da altri. Il film ha, ovviamente, fan in tutto il mondo, e il titolo fu imitato e citato centinaia di volte. Bobby Kennedy lo usò in campagna elettorale. Ma venne usato anche molto nella musica. Pensiamo solo al gruppo inglese nato nel 2000 che si presenta come The Good, The Bad, The Queen. Tra le tante variazioni musicali del tempo ricordiamo quella, magnifica, dei Pogues per il film di Alex Cox Straight to Hell. Ma non scherzava nemmeno quello di Bruce Springsteen. Il duello triangolare finale, il triello, come lo chiamava Leone, per Tarantino è la migliore scena d’azione di tutti i tempi.

Pautasso, il letterato-editore che costruiva libri di successo. Critico e scrittore, elaborò un "vademecum" per il romanzo perfetto basato su struttura, trama, scrittura e mercato. Luigi Mascheroni il 20 Dicembre 2022 su Il Giornale.

È stato a lui a creare il fenomeno editoriale di Fantozzi: Paolo Villaggio aveva scritto dei racconti sui giornali, lui capì che le tragicomiche avventure di quel buffo ragioniere erano - seppure ingigantite - le disavventure quotidiane di tanti di noi. Poi arrivarono anche i film diventati di culto, a dimostrazione del suo fiuto.

È stato lui a seguire pagina per pagina, correzione dopo correzione, consiglio su consiglio, l'intrattabile Oriana Fallaci quando stava scrivendo il suo libro più difficile, Un uomo, uscito per Rizzoli nel 1979.

Ed è stato lui a cambiare faccia, destino e scrittura a decine e decine di romanzi e di saggi. Di Andreotti, di Alberoni, di Romano Battaglia, di Castellaneta...

Lui è Sergio Pautasso (1933-2006), divoratore di letteratura grande e piccola, quella di qualità, d'autore e commerciale. È stato scrittore lui stesso (poeta e saggista), storico della Letteratura, docente di Lingua e letteratura italiana all'Università Iulm di Milano, è stato nelle giurie di molti premi letterari, consulente per la Rai, l'Einaudi, l'Enciclopedia Treccani, bibliofilo maiuscolo (accumulò 70mila volumi nelle sue due case di Milano e Forte dei Marmi), è stato soprattutto - incarnazione perfetta del «protagonista nell'ombra» del mondo culturale italiano - prima direttore editoriale e poi «lettore» ascoltatissimo della Rizzoli. Chi più di lui conosce i segreti del successo e del fallimento di un libro?

A svelarli anche a noi è una giovane insegnante, Laura Tettamanti, laureatasi con una tesi che è diventata ora un libro, Promossi o bocciati. I giudizi di Sergio Pautasso letterato editore, edito da Biblohaus con una serie eccellente di peritesti che lui avrebbe apprezzato: una prefazione di Alberto Cadioli, uno scritto di Andrea Kerbaker e la postfazione del figlio Guido Andrea Pautasso.

Lavorando, per la prima volta, sulle schede di lettura fornite da Pautasso alla Rizzoli fra il 1996 e il 2006, e consultando anche le lettere e le agende private messe a disposizione dalla famiglia, l'autrice ricostruisce il modus operandi del grande studioso - definito perfettamente come «letterato editore» - il quale per anni ha seguito da vicino la narrativa, la poesia e gli studi critici che venivano prodotti in Italia e che nello stesso tempo nelle sue opere e nel suo mestiere editoriale ha portato avanti una precisa idea di letteratura. «Un fatto rivoluzionario - ha lasciato scritto - in quanto suscettibile di modificare il gusto, la mentalità e la sensibilità correnti».

Pautasso era un carpentiere dell'editoria e aveva capito che il libro «perfetto» si costruisce valutando quattro elementi cardine: l'impianto strutturale, la scrittura, il contenuto e infine il rapporto dell'opera con il pubblico da una parte e il mercato dall'altra, tentando persino di conciliare vendibilità e qualità (ecco una sua frase da mandare a memoria: «L'opera che non regge l'urgenza del mercato è una pessima opera»).

Analizzando i pareri editoriali non soltanto si scoprono divertenti bocciature e promozioni, ma si possono individuare le caratteristiche necessarie perché un libro funzioni. I diversi episodi in un buon romanzo devono essere saldamente legati fra loro e non cuciti in qualche modo (motivo per cui respinge due prove, troppo sfilacciate e bozzettistiche, di Elena Gianini Belotti e di Giuseppe Cassieri e accoglie Gli altri di Michele Prisco: solido e dalla trama «ben intessuta»). La storia deve essere lineare - che non significa un appiattimento, cosa che genera cali di tensione - e lo sviluppo «rettilineo e limpido», come nel Viaggio a Salamanca di Raffaele Nigro e come invece non è nel dattiloscritto di Silvana La Spina Uccidimi per amore, narrazione «caotica, intricata, con una struttura soggetta a continue fratture». Poi c'è da considerare la misura del testo. Pautasso non ama la prolissità: l'eccessiva lunghezza può demotivare il lettore, mentre stringatezza e essenzialità sono sicure virtù. E i personaggi: plasmare i soggetti nella maniera più appropriata rispetto al contesto in cui sono inseriti è un punto chiave per garantire un esito felice del romanzo, e qui le lettere di rifiuto abbondano (anche se poi molti libri bocciati da Rizzoli o prima o dopo escono da editori minori). E poi, certo: ci sono la scrittura e lo stile. Sono in pochi a possederne uno peculiare e originale. Per fare qualche nome noto, Pautasso riconosce la capacità di Pietro Citati di creare uno stile distintivo e singolare che invece non è in grado di ottenere Giorgio Montefoschi (come saggista, come romanziere invece è molto amato). E sul fronte della biografia elogia i lavori e il «passo» stilistico di Luigi Meneghello e di Giorgio Soavi.

Pautasso non sopporta l'eccesso di sperimentalismo (soprattutto se proposto da autori ancora acerbi), si stufa presto del linguaggio funambolico e gaddesco (vedi stroncatura di Sergio Spina), apprezza invece gli scrittori capaci di adoperare un linguaggio lineare, diretto, dove il parlato entra meravigliosamente nello scritto (ecco perché i libri di Alberoni funzionano benissimo), condanna le scritture che sono pretesto per mostrare l'erudizione fine se a se stessa (non basta un buon «armamentario letterario» per fare vera letteratura), e punta molto sulla trama e la materia narrativa. Ad esempio un'eccessiva quantità di eventi può determinare perdita di plausibilità e scadimento di interesse, come riscontra nell'opera proposta da Gaia Servadio col titolo Il fattore Z, dove alla fine «c'è troppa carne al fuoco e perciò non tutta cuoce bene», o in L'ombra della Poinciana del magistrato-scrittore Domenico Cacopardo in cui «l'abbondanza di azione e di movimento caratterizza l'impianto del libro con continui colpi di scena fino a un finale moscio dopo tutto quello che è successo». Cosa che succede peraltro con molti noir e polizieschi italiani di oggi, anche se in verità Pautasso già nei primi anni Duemila si lamentava del fatto che la narrativa contemporanea subiva una considerevole inflazione giallistica... Una garanzia di successo, invece, è il sapere tenere la suspense. Gli esempi in positivo sono parecchi: Posillipo di Elisabetta Rasy, che infatti Rizzoli pubblica subito; Indivisibili di Andrea Canobbio; Privacy di Furio Colombo e persino un romanzo di Valerio Morucci, il brigatista: «Non è di tutti i giorni leggere un thriller fantapolitico italiano originale, brillante, costruito senza incappare in errori grossolani». Giudizio che dice molto sulla capacità di «leggere» il proprio tempo da parte di un critico coltissimo, poliedrico, pragmatico. Un grande letterato editore, appunto.

"Smarrimento senza nome", violenza, abbandono: e Rina diventò Sibilla. Figlia, moglie, madre e finalmente donna. Sibilla Aleramo, nella tragicità degli eventi che hanno colpito la sua vita, ha saputo cogliere l’arte della scrittura mettendo se stessa al primo posto in una società che per lei avrebbe preferito l’ultimo. Laura Lipari su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

Un fascino che fa girare la testa a uomini e donne. Sibilla Aleramo ha sempre avuto un dono: quello di saper utilizzare le parole giuste per denunciare, allietare e descriversi. Nei suoi versi si legge la storia di una ragazzina divenuta presto adulta con la fretta che una società patriarcale mette a quelle come lei. Solo la letteratura riesce a salvarla in un ambiente che non perdona e, se lo fa, ne rimarca sempre la condizione di supremazia.

Nasce ad Alessandria nel 1876 con il nome di Rina Faccio, da una famiglia borghese che sarà per lei un primo approccio al dolore e all’incomprensione. La madre, infatti, è una donna molto fragile, quasi invisibile, che soffrirà fino alla morte di disturbi mentali. Il padre, un ingegnere, è una figura autoritaria ma poco incline al sentimentalismo. Ciò nonostante a Rina e ai suoi fratelli non mancheranno gli agi durante l’intera infanzia; più tardi lei la ricorderà infatti come “libera e gagliarda”.

Crescendo, Rina diventa una ragazza affascinante, estroversa e più amata rispetto agli altri figli perché appare agli occhi del padre Ambrogio più sveglia. La stima è reciproca tanto che la giovane sviluppa una vera e propria adorazione verso l’uomo: “L’amore per mio padre mi dominava unico. Alla mamma volevo bene, ma per il babbo avevo un’adorazione illimitata”, scriverà nel suo romanzo. L’adolescenza è un alternarsi tra intense letture e il lavoro da contabile nella vetreria paterna. Lì l’ambiente è altamente maschile e maschilista. La sua figura spicca soprattutto tra gli operai che la guardano con malizia, ma lei sembra non fare caso alle insidie su cui potrebbe cadere. Quella fabbrica è un luogo familiare, una seconda casa.

Una moglie

Fino a quel momento la sua vita viene definita da lei stessa come un’alba. Uno spettacolo che sorge a poco a poco e che donerà il suo splendore non appena il suo futuro sarà sorto grazie all’abilità con cui utilizza le parole. Come una notte senza luna, invece, quegli anni si deformano fino ad assumere aspetti orridi. Nel 1890 infatti, la madre tenta il suicidio dopo che alcune voci su un presunto tradimento del marito le giungono all’orecchio.

Le mura di quella casa, in cui aveva trascorso un’infanzia felice e che fino a quel momento era stata un rifugio confortevole, diventano improvvisamente soffocanti. Il trasferimento della madre in un centro psichiatrico smuove in lei e nei fratelli una doppia sensazione tra l’abbandono e il sollievo. Questo cambiamento rivoluziona l'intero assetto familiare. Rina quindi cerca di aggrapparsi ancora di più alla figura perfetta del padre. Questi però diventa sempre più schivo e chiuso in se stesso. Il lavoro resta l’unico appiglio su cui concentrarsi, il mezzo con il quale la ragazza riesce a passare brevi momenti insieme a quell’uomo tanto amato ma che adesso si comporta quasi da estraneo.

C’è anche un altro pensiero che l’assilla. Da mesi un collega molto più grande di lei la stuzzica con interesse ma lei continua a non assecondarlo. Quando un giorno quelle avance da parole diventano fatti, Rina si rende conto di aver subito un abuso. Quelle mani che veloci e forti hanno violato il suo corpo l’hanno sorpresa improvvisamente. “Sogni di vergine ch’io non ebbi il tempo di sognare, nubilità che non conobbi, mia violata vita!”.

La sua è un’epoca in cui ogni scandalo viene coperto da un lenzuolo di omertà, soprattutto se c’entra una donna e la sua pudicizia. “Appartenevo ad un uomo, dunque? Lo credetti dopo non so quanti giorni d’uno smarrimento senza nome”. A questo torto quindi non si può che tentare di sistemarlo con un matrimonio riparatore.

Nel 1893, all’età di 16 anni e mezzo, Rina Faccio diventa improvvisamente non solo Rina Pierangeli ma anche una donna adulta che deve pensare alla casa, a un uomo e a partorire figli sani e forti. Non è ammissibile che continui a lavorare, per quello ci pensa il marito Ulderico che pian piano si è preso tutto di lei, svuotandola di ogni cosa.

Una madre

Nel 1895 nasce Walter. Rina rimugina il pensiero che quella condizione le è stata imposta, non ha scelto lei di sposarsi né di concepire, ma a quell’epoca i termini “vittima” e “violenza” non possono in alcun modo descrivere la sua condizione perché l’uomo, in quanto tale, ha il diritto di impossessarsi di ciò che vuole.

Lei, invece, vittima ci si sente: quella situazione è frutto di una violenza fisica e psicologica. Il contesto in cui si trova è di assoluta reclusione, ogni sua mossa è sorvegliata dal marito e dalla suocera che l’ha sempre guardata con disprezzo. Il bambino è ancora piccolo e cagionevole di salute, le risucchia come un parassita tutte le energie. La sua amata scrittura è ormai un ricordo lontano. Rina non è nessuno per la società, questo è un assillo che l’attanaglia giorno e notte. L’unica via d’uscita è la morte.

Quella follia appartenuta alla madre, che lei da bambina non aveva compreso e che a volte aveva condannato perché artefice del suo abbandono, adesso è una parte che Rina sente anche dentro di sé. La disperazione la porta a tentare di uccidere quel corpo umiliato e quella mente troppo rumorosa. Quando qualcuno la salva da quella fine tragica, allo stesso tempo e involontariamente, la condanna. Dopo quel gesto il marito la crede una squilibrata da tenere sotto controllo.

Da questo momento Rina diventa in cuor suo Sibilla e comincia a esternare il suo dolore scrivendo ogni sua sensazione e turbamento in un taccuino che l’accompagna durante le giornate più malinconiche. Adesso spende tutte le energie per le parole e per Walter, così da non pensare ad altro.“Mio figlio, piccolo psicologo inconsapevole, afferrava sul mio volto le sfumature della tristezza e della serenità, taceva quando mi vedeva assorta, corrugava le ciglia allorché percepiva malumore fra suo padre e me…”.

Incastrata in un matrimonio che la soffoca tenta una prima fuga dopo aver conosciuto il brivido che le lascia una relazione clandestina con un uomo sposato. La cosa però viene scoperta immediatamente e la donna viene punita ancora con violenza e indifferenza. “La sua non era più gelosia, era un livore oscuro, era umiliazione, era mania di imporsi, come per sfida, vedendo affermarsi la possibilità della mia indipendenza”.

Sibilla è nuovamente sola, infelice, disperata e ancora incompresa. Da questo momento un solo pensiero le riempie la mente: fuggire. Trema solo all’idea ma è l’unica via d’uscita. C’è un grosso problema all’interno del piano che elabora mentalmente: il figlio. Sa che se dovesse portarlo con sé il padre li troverebbe e sarebbe la fine per entrambi e poi lei che vita potrebbe assicurargli?

La soluzione è dolorosa quanto giusta, abbandonarlo come aveva fatto sua madre per garantirgli una vita più giusta ma con il dolore che Walter, crescendo, non l’avrebbe mai perdonata. L’unica consolazione che le resta è che, forse, un giorno, quando avesse cominciato a toccare con mano le ingiustizie e le insidie della vita, avrebbe potuto finalmente comprendere quel suo gesto. Il suo destino lo sa già, per quell’abbandono non sarà perdonato negli anni a venire neanche da una parte dei suoi lettori.

Una donna

Adesso Rina è una donna ferita, tormentata, con un senso di colpa che l’attanaglia ma è libera. Inizia così la sua seconda vita da Sibilla Aleramo. Tutto il suo mondo diventa la letteratura e la scrittura di romanzi.

Nel febbraio del 1902 si trasferisce a Roma e inizia la sua relazione sentimentale con il collega Giovanni Cena, direttore della rivista “Nuova Antologia” e, contemporaneamente, la stesura di Una donna. Nel ’19 esce Il passaggio e l’anno seguente una raccolta di liriche e di prose; più tardi verranno pubblicati Andando e stando, Trasfigurazione, Amo dunque sono, Il frustino. Da qui in poi vengono partorite tutte le altre opere in prosa e le poesie.

Fino alla morte non si adeguerà mai a ruoli o immagini femminili tradizionali. Viaggia, scopre e vive. Incuriosita da tutto quello che la circonda. Il concetto di "femminismo" permea tutte le sue opere nelle quali mette sempre un pezzo di vita vissuta, rendendole sempre attuali e partecipa ad accesi dibattiti sulle riviste che parlano del tema.

Al lavoro si alternano anche grandi amori tormentati come quelli con Lina Poletti, Dino Campana, Tullio Bozza e Franco Matacotta a relazioni fugaci con personalità celebri come Giovanni Papini, Umberto Boccioni, Salvatore Quasimodo, Raffaello Franchi.

Negli ultimi anni Sibilla continua a scrivere e soprattutto a parlare in pubblico per scuotere le coscienze attraverso un’intensa propaganda femminista. Muore nel 1960 all’età di 84 anni. L’immagine di Walter, che le si aggrappa con tutte le forze per non lasciarla andare, rimarrà fino alla fine dei suoi giorni il suo pensiero più doloroso. “... Mio figlio mi pensa, stamane. Gli ho scritto qualche rigo, giorni fa. Tristezza irreparabile del nostro rapporto, dappoi che ci siamo rivisti dopo i trent’anni d’intervallo e invano abbiamo provato a sentire come una realtà il fatto ch’io sono sua madre e che lui è mio figlio”. Aver barattato il frutto del suo grembo per una libertà d’animo è stata una scelta che è toccata a lei per volere di una società patriarcale e violenta.

Stefania Auci: «Molti siciliani si pensano sconfitti in partenza. Ma la nostra è una terra ricca di talenti e conoscenze». Emanuele Coen su L'Espresso il 25 Maggio 2023 

La serie tv tratta dalla saga best seller “I leoni di Sicilia”, l’ammirazione per la Francia e per Carrère, i consigli di Dacia Maraini per il nuovo romanzo. Dialogo a tutto campo con la scrittrice

Che tra Stefania Auci e la Francia ci fosse un’affinità, se non un legame profondo, si poteva intuire dal titolo del suo primo romanzo storico ambientato in Italia: “Florence” (Baldini+Castoldi), storia d’amore, guerra e ideali ambientata tra il Chianti e Firenze. Il libro uscì otto anni fa, molto prima che “I leoni di Sicilia” e “L’inverno dei leoni” (Editrice Nord) garantissero alla scrittrice il successo internazionale, oggi all’apice: diritti di traduzione ceduti in 37 Paesi, un milione e 200mila copie vendute in Italia e 100mila solo in Francia, dove la saga della famiglia Florio, quattro generazioni tra Ottocento e inizio Novecento, è stata pubblicata in tre volumi dall’editore Albin Michel. Entro quest’anno sarà disponibile in streaming su Disney+ la serie tv tratta dalla saga, diretta da Paolo Genovese. Un trionfo annunciato.

Fuori dai confini nazionali, la scrittrice sta conquistando lettori soprattutto in Francia, a giudicare dalle vendite e dall’accoglienza calorosa del pubblico a Parigi, in occasione del Festival du Livre, con l’Italia come Paese ospite d’onore. «Per me le suggestioni nascono dai luoghi, più che dalla letteratura. Non si può camminare a Parigi senza pensare che in queste strade è passata la Storia», afferma Auci, empatica e gioviale, seduta su un banco con le gambe incrociate in attesa di incontrare professori e studenti della scuola italiana statale “Leonardo da Vinci”. Qui, nell’affollata palestra che ospita l’evento, gioca in casa: insegnante di sostegno in un istituto tecnico in un quartiere difficile di Palermo, la scrittrice è abituata a trattare alla pari con i colleghi.

Auci, che rapporto ha con la Francia? Il Paese è attraversato da profonde tensioni, durante le manifestazioni contro la riforma delle pensioni sono state arrestate centinaia di persone.

«Ho grande rispetto per la Francia. In gran parte, i principi giuridici europei di democrazia e uguaglianza affondano qui le radici. Si vede anche dai fermenti di natura sociale e dalle manifestazioni, a volte violente, che comunque rappresentano un certo modo di intendere la cosa pubblica. Una concezione che in Italia si è persa».

Cosa pensa della letteratura francese contemporanea?

«Mi è capitato di incontrare Emmanuel Carrère a Taormina, è stata un’esperienza pazzesca. Lo apprezzo moltissimo per la sua scrittura, l’incisività, la capacità di leggere la realtà. Aprire un libro di Carrère significa gettare uno sguardo sul mondo contemporaneo. È una figura fondamentale».

A proposito di Carrère, di sicuro avete in comune lo yoga, che è anche il titolo del libro, edito da Adelphi, dello scrittore francese.

«Da anni faccio pilates e yoga per scaricarmi e rilassarmi. Per un lungo periodo ho fatto nuoto, mi manca moltissimo ma la situazione delle piscine a Palermo è pietosa. Lo yoga è fondamentale, ma devo stare attenta a non distrarmi perché rischio di farmi male».

Anche Michel Houellebecq è una star.

«Confesso di non conoscerlo molto. Di lui ho letto poco, a sprazzi. Sinceramente mi trovo più a mio agio con i classici: Victor Hugo e soprattutto Alexandre Dumas».

C’è un momento storico o un personaggio che le piacerebbe approfondire?

«Ho una grande passione per il periodo di Napoleone III e per un romanzo maltrattato: “Il fantasma dell’Opera” di Gaston Leroux. Uno di quei casi in cui il romanzo è infinitamente più bello, ricco, vivace e pieno di sfumature del musical che ha generato. E mi hanno sempre incuriosito le grandi cortigiane di quel periodo: donne senza risorse economiche che hanno contribuito a creare un certo tipo di femminilità. Libere, capaci di determinare sé stesse e anche la propria disgrazia, di avere relazioni con i potenti dell’epoca. Ma non si trattava di bieca prostituzione. Oggi non riusciamo a capirle fino in fondo».

In autunno uscirà in streaming su Disney+ “I leoni di Sicilia”, la serie tv diretta da Paolo Genovese. È soddisfatta del risultato?

«Ora è in fase di post-produzione. Sono molto contenta di quello che ho visto. Non c’è una piena, totale aderenza al romanzo, ma succede sempre nella trasposizione, si tratta di due linguaggi diversi».

I suoi libri sono stati tradotti in 37 Paesi, anche in cinese e in arabo. Che effetto le fa?

«La copia in cinese, devo essere onesta, non l’ho ancora vista. E mi è sembrato strano avere tra le mani quella in arabo, che si legge da destra a sinistra come quella in ebraico. Nella mia libreria le ho messe l’una vicina all’altra, spero che almeno lì il dialogo sia possibile».

Il successo le consentirebbe di lasciare il lavoro di insegnante. Ci sta pensando?

«Insegnerò finché le condizioni mi permetteranno di farlo. Mi occupo di ragazzi che hanno una disabilità: il lavoro mi piace, insegno in un istituto professionale difficile. Dal mio mestiere ho imparato che la vita è ben altro rispetto ai libri: fatica, sfortuna, privazione. Prima di essere una scrittrice sono anzitutto una persona, penso che ognuno debba mettere i propri talenti a disposizione degli altri».

A proposito di talento, la saga dei Florio è anche una storia di riscatto sociale. Quando Vincenzo, figlio di Paolo, prende in mano l’azienda di famiglia, lo slancio diventa inarrestabile. Sarebbe possibile un’ascesa sociale simile nella Sicilia di oggi?

«La voglia di ottenere risultati prescinde da tempo, luogo e spazio. È legata al bisogno di ogni essere umano di trovare la propria strada. Tuttavia, diventa tutto più complicato in alcune aree del mondo: mettere su un’impresa in Sicilia non è facile, per diversi motivi. La criminalità organizzata è uno dei meno rilevanti, rispetto ai trasporti, alla capacità di porsi sul mercato in maniera adeguata, alla mentalità. Molti siciliani pensano a sé stessi come sconfitti in partenza e invece la nostra terra è ricca di talenti, risorse, conoscenze».

Le piacerebbe lasciare la Sicilia?

«Sì, ma solo per un’isola ancora più isolata: Favignana o Pantelleria (ride), chissà».

Nel corso dei decenni molti scrittori, artisti e intellettuali siciliani sono andati a vivere al Nord.

«È un fatto che mi ha sempre colpito. Leonardo Sciascia è stato a Milano e Parigi, ma alla fine è tornato in Sicilia. Anche Nadia Terranova, che sento molto vicina, vive a Roma ma i suoi racconti hanno come orizzonte Messina. I siciliani che se ne vanno si dividono in due categorie: chi ripudia le proprie radici e chi parte ma non riesce a staccarsi del tutto dalla propria terra. Per un sacco di tempo molti siciliani si sono vergognati delle proprie origini: il Sud e il dialetto erano sinonimi di estrazione sociale povera, disagio, scarsa cultura. Oggi tutto questo, invece, viene vissuto come ricchezza e biodiversità della lingua».

Andrea Camilleri ha giocato un ruolo importante.

«Direi fondamentale. Lui stava a Roma ma la Sicilia se l’è portata dentro tutta la vita. Anche io ho cominciato a parlare di questa terra quando me ne sono andata. Il mio periodo a Firenze mi è servito a creare questo distacco, poi ho scelto un luogo della Sicilia che amo moltissimo ma da cui non provengo: Palermo. Non so se avrei la stessa freddezza nel raccontare Trapani».

Dopo il successo come affronta il prossimo romanzo?

«Qualche tempo fa ho incontrato Dacia Maraini. È una donna di grandissima sensibilità e intelligenza, uno dei miei punti di riferimento. Le ho chiesto: “Come si sopravvive a un successo?”, alludendo al suo romanzo “La lunga vita di Marianna Ucria”, che fu un trionfo (nel 1990, ndr). Lei mi ha risposto: “Chiudi la porta, scrivi come meglio puoi, non pensare agli altri, continua a divertirti”. È quello che cerco di fare con il nuovo libro».

Nicola Mirenzi per il Venerdì – La Repubblica sabato 28 ottobre 2023.

Benjamin Moser ha iniziato a frequentare Susan Sontag quando lei era morta da tempo: «Per otto anni sono stato al suo fianco giorno e notte. Con lei ho girato il mondo. Ho conosciuto i suoi successi e i suoi fallimenti. Ho seguito l’evoluzione della sua mente. È stata l’ultima grande star letteraria americana. Ma la sua immagine oggi sovrasta la sua opera. La gente la cita ancora. In pochi però la leggono». 

Scomparsa all’età di settantuno anni il 28 dicembre del 2004, Susan Sontag è resuscitata nella biografia con cui Moser ha vinto il premio Pulitzer, oggi tradotta in italiano da Rizzoli con il titolo Sontag. Una vita. «Scrivere di qualcuno che è morto» dice «significa tentare di riportarlo al mondo. Ma una biografia non riproduce la vita di una persona. È una storia. In questo caso, è la mia storia. L’ho scritta per invitare la gente a leggerla, a conoscerla, a confrontarsi di nuovo con Susan».

(…)

Carismatica. Insicura. Arrogante. Geniale. Debole. Crudele. Ambiziosa. Masochista. Coraggiosa. Intelligente. Spaventosamente priva di empatia. Susan Sontag non è stata una persona: è stata almeno due persone diverse. La scrittrice che ha creato un modello di autorevolezza culturale al femminile, e la donna vulnerabile. L’intellettuale di potere,che decideva carriere con uno scritto, e l’amante in balìa delle sue partner. La testimone impavida, e la donna che si vergognava di essere lesbica. «Tutti indossiamo delle maschere per stare al mondo» dice Moser. 

(…)  È incredibile che abbia detto solo pochi anni prima di morire di essere lesbica.

«È stata la sua tragedia personale, all’interno di una tragedia storica. Ancora fino a pochi anni fa, le persone omosessuali erano emarginate violentemente nelle nostre società. Leggere Susan Sontag significa anche questo: accorgersi dell’enorme libertà che le minoranze hanno conquistato nel tempo». 

Ha ancora qualcosa da dire ai movimenti Lgbtq+ di oggi?

«Avrà sempre qualcosa da dire alle persone che si sentono soffocate dalla società, che ambiscono a qualcosa di più alto dei modelli televisivi e che vogliono impegnarsi per raggiungerlo. Nello specifico: non si è mai pronunciata sul matrimonio omosessuale. Anni fa, non era un tema all’ordine del giorno. Ma credo che l’avrebbe approvato, in nome dell’uguaglianza. Anche se difficilmente si sarebbe risposata dopo il primo, disastroso matrimonio che ha avuto». 

Si è sposata con un professore, una settimana dopo averlo conosciuto, a 17 anni.

«Insieme hanno avuto un figlio, David,, diventato oggetto di uno scambio crudele».

Quale?

«Il vero primo libro di Susan Sontag è un testo fondamentale su Sigmund Freud, The mind of a moralist (pubblicato in Italia come Freud moralista, ndr). Il dettaglio è che porta la firma di suo marito, Philip Rieff. Susan lo scrisse dopo aver avuto David a 19 anni, e nella separazione fu barattato con il marito: lei gli cedeva il testo, lui il figlio».

Lei sostiene sia falso che Sontag sia stata una grande saggista e una pessima romanziera. Perché?

«È il luogo comune più tenace intorno alla sua opera. È un giudizio che tutti ripetono in continuazione, forse perché così hanno l’occasione di sminuirla, di sentirsi per un attimo superiori a lei. Invece, trovo che alcuni suoi saggi siano mal riusciti, mentre alcuni romanzi sono eccellenti. Per esempio, L’amante del vulcano». 

La sua dimensione politica, però, era molto forte.

«In realtà è una dimensione che ha sviluppato nel tempo. Da giovane ha vissuto nella Francia sull’orlo della guerra civile senza neanche accorgersene. Ha scritto reportage da Cuba, immediatamente dopo la rivoluzione, citando Castro solo per le sue opinioni sulla poesia. Era tipico della generazione di scrittori americani dell’immediato secondo dopoguerra. Come Kerouac, erano dediti all’esplorazione del mondo e di sé, più che alla politica».

Poi la guerra in Vietnam cambia tutto.

«Sontag diventa una scrittrice radicale che applica il suo discorso sulle metafore al linguaggio politico. Scrive reportage dalla guerra, con risultati altalenanti». 

Ma negli ultimi decenni della sua vita subisce un’altra mutazione: da radicale si trasforma in una bandiera delle idee liberali.

«Fu decisivo l’incontro con il poeta russo Josif Brodskij, con il quale intreccerà anche una relazione sentimentale. È lui che le fa realmente comprendere l’anticomunismo degli scrittori perseguitati dal regime, che lei aveva letto e in alcuni casi anche conosciuto di persona, ma senza capirli davvero. Il processo arriverà al culmine quando il 2 febbraio 1982 denunciò il comunismo in un evento alla Town Hall di New York che diventò celebre». 

Poi difenderà Salman Rushdie dalla fatwa di Khomeini.

«Mentre altri scrittori erano terrorizzati di parlare. Avevano ucciso il traduttore giapponese di Rushdie. Accoltellato e picchiato quello italiano. Assassinato l’editore norvegese. Alcuni scrittori erano arrivati a biasimare Rushdie per la catastrofe generata dal suo libro. Susan li rimise in riga, e organizzò letture pubbliche dei Versetti satanici. Furono interventi che diedero coraggio a Rushdie, che era molto demoralizzato dall’“ostilità non islamica” che vedeva intorno a sé».

La storia di Sarajevo come iniziò?

«Andò lì per stare vicino al popolo bosniaco, massacrato dai serbi a un’ora di volo da Roma, come da tutte le altre capitali europee. Rischiava di essere uccisa in qualsiasi momento dal colpo di un cecchino. Mise in scena Aspettando Godot mentre in America in molti dicevano: “Ma che ci fa quella vecchia isterica laggiù?”. Oggi però la piazza antistante il teatro nazionale di Sarajevo porta il suo nome». 

Com’è possibile che una scrittrice che negava il suo corpo ne facesse un’arma della sua battaglia culturale?

«Il modello che si era data, nella sua grandiosità, era Socrate, il filosofo disposto a morire per la verità. Era affascinata dagli scrittori che erano andati a combattere il fascismo in Spagna, mettendo in gioco la propria vita. Per lei la letteratura non era un esercizio di stile. Credeva, con Michel Leiris, che sia necessario mettersi in pericolo per quel che si scrive. Altrimenti, la letteratura si riduce a gioco narcisistico».

È politica la sua influenza più duratura?

«Credo che il più grande risultato l’abbia ottenuto scrivendo Malattia come metafora. Prima che lei lo pubblicasse il cancro era vissuto come una vergogna e una colpa nel mondo occidentale. Oggi non è più così, e quel libro ha dato un contributo decisivo a questa metamorfosi. Uno scrittore non può fermare Putin o Hamas. Quello che può fare è cambiare il modo in cui la realtà viene percepita. Il primo passo di qualsiasi cambiamento. È un’influenza enorme. Non nell’immediato. Ma nel lungo periodo». 

Oggi come vivrebbe nel nostro mondo?

«Credo che rischierebbe di essere “cancellata” in continuazione. Era una donna che facilmente mandava a quel paese qualcuno che si avvicinava per dirle una scemenza. Basterebbe uno smartphone che riprende la scena, oggi, e addio Susan Sontag». 

Lei definisce «olimpica» la sua vita sessuale.

«Poche donne del suo tempo hanno avuto amanti, maschi e femmine, tanto numerosi, belli e illustri. Eppure nella sua vita il sesso è rimasto fondamentalmente un’idea. Voleva superare la separazione tra il suo corpo e la sua mente. Ma le sue attrazioni rispondevano spesso a stimoli di natura intellettuale».

Usava le anfetamine per lavorare di più.

«Al tempo non si conoscevano gli effetti collaterali di queste sostanze. Sembrava realizzassero il sogno di ogni scrittore: quello di prendere una pillola e riuscire a scrivere il doppio di quel che normalmente può fare».

Per quanti anni le ha usate?

«Per venticinque, trent’anni. Ma la cosa più sorprendente è che quando capì che era ora di smettere, scrisse un lungo saggio su Sartre (rimasto inedito) in cui lo accusava di aver distrutto la propria mente, una delle “più fertili e generosamente dotate del secolo”, abusando delle anfetamine. Ancora una volta: senza mai confessare che lei aveva fatto lo stesso».

(...)

E poi: “Bisogna avere rispetto del dolore della presidente del consìio!”, “Vi chiedo di rispettare una famìia che è finita!”. Addirittura finita, come la benzina in autostrada. Davvero commovente. Una libertà intellettuale che Report se la sogna. Anzi, speriamo che la tutela legale che vogliono togliere alla squadra di Ranucci la diano a lei perché Nunzia sta rischiando grosso: una querela per eccesso colposo di legittima difesa del presidente del consìjo, se va avanti così, non gliela leva nessuno.

Suzanne Valadon: la storia e le opere della musa-pittrice francese. Simona Losito il 5 Aprile 2023 su Il Giornale.

Si ispirò al primitivismo di Gauguin, ma anche a Toulouse-Lautrec e a Edgar Degas e infine ai fauves e ai cubisti. Chi era l'artista che in Francia dipinse liberamente senza sottostare alle regole e ai luoghi comuni

Tabella dei contenuti

 La giovinezza di Suzanne

 Una musa per grandi artisti

 Oltre la posa: da modella a pittrice

 I suoi dipinti

Suzanne Valadon è stata una modella e pittrice, più spesso nota per essere stata la madre del più famoso artista Maurice Utrillo. Suzanne fu inoltre identificata come amante e modella di alcuni degli artisti più celebri dell’epoca, ma dietro tutto questo si nasconde un’artista da non sottovalutare.

La giovinezza di Suzanne

Marie-Clémentine Valadon, questo il suo vero nome, è nata nel 1865 a Bessines-sur-GartempeIl, un paesino nella Nuova Aquitania. Il nome di suo padre è sconosciuto, mentre di sua madre, una sarta a servizio di una nobile famiglia della Limousenne, si conoscono i problemi con l'alcol. A soli nove anni sua madre l’aveva mandata a lavorare in una sartoria. Leggende sulla sua storia, dalla stessa diffuse, narrano di una bambina ancora in fasce trovata sui gradini della cattedrale di Limoges e di essere stata adottata da quella che in realtà era la sua vera madre. Quando ancora adolescente aveva svolto diversi lavori, prima cameriera e successivamente fioraia.

Approdata a Parigi, nel quartiere di Montmatre, con sua madre e sua sorella maggiore, nella grande capitale la Valadon riuscì a dar sfogo alla propria personalità con un impiego più adatto a lei: a 15 anni divenne acrobata nel circo di Mollier. Sfortunatamente però una caduta pose fine alla sua carriera da acrobata. È qui che la Valadon pensò di utilizzare il suo corpo agile e attraente e la sua bellezza per accedere a un ambiente rinomatamente maschile: divenne così una musa ispiratrice dai folti capelli e dallo sguardo intenso.

Una musa per grandi artisti

Il primo artista che si accorse della sua bellezza fu Pulvis de Chavannes, che la volle subito come modella. Tra i due, nonostante la grande differenza d’età (lei aveva 16 anni e lui 58) nacque una relazione che durò ben sette anni. Suzanne Valadon, anche se ancora non conosciuta con questo nome, divenne così una musa richiesta tra i grandi artisti dell’epoca. Posò infatti anche per Auguste Renoir, che, catturato dalla bellezza della donna, intraprese con lei una relazione tradendo la propria compagna Aline Victorine Charigot. Posò poi per il veneziano Federico Zanodomeneghi e per Edgar Degas che la definì “la terribile Maria” per il suo temperamento.

Il nome con cui è conosciuta, Suzanne, le fu invece attribuito dall’artista, e amante, Henri de Toulouse-Lautrec, prendendo spunto dal personaggio biblico di Susanna, la quale doveva difendersi dalle attenzioni dei "vecchioni", in riferimento alla sua attività di modella per artisti âgés. Il suo viso è impresso in celebri opere di Auguste Renoir come Ballo a Bougival o Ballo in città, i cui protagonisti sono Suzanne Valadon e Paul Lhote, amico di Renoir. In quest'ultimo Suzanne appare in abito bianco con i capelli raccolti in uno chignon, pelle candida e setosa, di spalle in una posa elegante, quasi a contrasto con la sua anima irrequieta e il suo spirito ribelle e anticonformista.

Nel 1883, a soli diciotto anni, la modella scoprì di essere incinta, ma l’identità del vero padre non venne mai rivelata. Negli stessi anni Suzanne aveva una relazione con il pittore e giornalista spagnolo Miguel Utrillo y Molins, che decise di riconoscere legalmente il figlio Maurice nonostante non fosse certo di esserne il padre. Infatti non se ne occupò mai, soprattutto perché la madre non rinunciò alla sua indipendenza e non accettò mai di convivere con lui.

Oltre la posa: da modella a pittrice

Suzanne però aveva un sogno ben più grande: da quando era bambina aveva praticato il disegno, esprimendo anche talento. Era desiderosa di praticare l’arte e vivere a stretto contatto con numerosi artisti aveva aumentato questo desiderio. Durante le lunghe ore di posa infatti cominciò a osservare il lavoro dei pittori che la stavano ritraendo, prendendo nota di ogni dettagliata pennellata e dell’uso dei colori.

Cominciò così ad avvicinarsi alla pittura attraverso lo studio accademico del corpo, dedicandosi infatti a nudi e ritratti. Si può dire che fosse vicina al movimento impressionista ma anche influenzata dall’emergente Espressionismo, in quanto la sua tavolozza risultava essere vivace e caratterizzata da una linea brusca che contraddistingue molte opere come Il lancio della rete. Il linguaggio adoperato dalla Valadon è personale ma non indifferente alle trasformazioni in atto che prevedevano l’abbandono della pittura figurativa classica con l’avvento delle avanguardie.

Nel 1894 Suzanne divenne la prima donna a essere ammessa alla Société nationale des beaux-arts. La sua vita venne immersa dal lavoro di pittrice, motivo per cui affidò il figlio alle cure della nonna materna Madeleine. Come detto, quest'ultima era un’assidua bevitrice che, allo scopo di placare le frequenti crisi epilettiche del piccolo nipote, utilizzava bevande alcoliche.

Si trasferirono nuovamente nel quartiere di Montmatre, centro indiscusso di sperimentazione e pullulante di locali notturni. Dal suo atelier Suzanne poteva osservare la rinomata locanda Le lapin agile, nota per essere frequentata dai bohémien del XX secolo, tra cui Max Jacob, Pablo Picasso e Amedeo Modigliani.

Successivamente sposò un ricco commerciante di tessuti, Paul Mousis, nel tentativo di garantire alla famiglia stabilità e agiatezza. In questo periodo Suzanne tentò di omologarsi e adeguarsi alla vita borghese. Ma la sua indole non poteva sottostare a tutte quelle regole e presto la gabbia dorata in cui si era rinchiusa le divenne troppo stretta. Così nel 1919 si separò dal marito per stringere un forte legame con il miglior amico di suo figlio, aspirante pittore dal corpo scultoreo molto più giovane di lei, André Utter, che utilizzerà da modello per svariate opere. Un esempio è Adam and Eve, in cui Suzanne si autoritrae accanto al suo giovane amante André. Una relazione al limite della decenza per quell’epoca, ma Suzanne non era certo una donna che si faceva intimorire dalle opinioni della gente.

I tre si trasferirono poi al numero 12 di Rue Cortot, nel celebre edificio che ospita oggi la sede del Museo di Montmartre. Nel quartiere si guadagnano l’appellativo di “trinité maudite”, trio infernale, a causa dei rumorosi litigi di cui erano protagonisti, spesso dovuti alle crisi epilettiche di Maurice, il quale, geloso della relazione della madre con il suo amico, soffriva di crisi d’abbandono e perdeva spesso lucidità. Nonostante i giudizi a riguardo, Utter e Suzanne, con una differenza d’età di più di vent’anni, si sposarono.

Nel 1912 la Valadon partecipò al Salon des Indépendants e nel 1919 al Salon d’Automne, muovendosi con destrezza e successo sulla competitiva scena artistica parigina. Questi anni caratterizzati da numerosi successi artistici furono sfortunatamente segnati dai problemi di salute di suo figlio, che per i ripetuti atteggiamenti distruttivi venne ricoverato nel reparto di psichiatria dell’ospedale Sainte-Anne di Parigi. Una volta fuori dalla clinica, sotto consiglio del neurologo Maurice viene avviato alla pittura, alla quale si affacciò sotto la guida di Suzanne, che colse l’occasione per recuperare gli anni d’infanzia trascorsi lontana da lui.

Ben presto la sua produzione artistica divenne più fruttuosa e più facile da vendere rispetto ai quadri di Suzanne, motivo per cui Maurice diventò una risorsa economica importante. Il rapporto tra i due si ammalò, sfociando in una dipendenza affettiva reciproca. Presto però per costruire una vita più serena, Suzanne spinse Maurice nelle braccia di Lucie Valore, una quarantanovenne vedova di un banchiere belga, che se ne prese cura allontanandolo dall’alcol ma anche da sua madre, nonostante la forte adorazione provata nei suoi confronti. Suzanne e il marito Utter furono infatti estromessi dalla vita del giovane e famoso artista.

L’apice del suo successo arrivò nel 1932, quando Suzanne espose alla Galleria Georges Petit. Qualche anno dopo, all’età di 73 anni, nel 1938, fu colpita da un ictus proprio mentre dipingeva. Ai suoi funerali erano presenti tutti i maggiori esponenti del quartiere, tra cui Pablo Picasso e Georges Braque. Suo figlio invece non era presente, preferendo riservatezza. La crescente fama di quest’ultimo oscurò per sempre il rilevante percorso artistico di Suzanne.

I suoi dipinti

A riconoscere il talento di Suzanne era stato Degas: nonostante fosse conosciuto per il suo carattere duro e per la sua misoginia, nei confronti della sua musa era mite e paziente. Per Suzanne divenne una figura paterna, un mentore che premiava i suoi progressi e sottolineava i suoi errori. Degas aveva intuito i punti di forza della pittrice, ovvero costanza e ricerca della perfezione quasi maniacale, una dote riservata ai grandi artisti che non si adagiano solo sul proprio innato talento.

Il suo genere è stato sicuramente un ostacolo per lei: la pittura e l’arte in generale erano per gli uomini e la società non tollerava una donna pittrice di talento. Per questo le sue opere furono rifiutate dal mercato dell’arte e fu spesso presa in giro dai suoi colleghi pittori. Solo con l’ammissione alla Société Nationale des Beaux-Arts cominciò a ricevere i primi riconoscimenti.

Suzanne Valadon era una pittrice autodidatta e, come detto, perfezionista nel suo lavoro tanto da impiegare anni nella realizzazione di un dipinto prima di esporlo. I temi delle sue opere erano quelli del primitivismo di Gauguin, ma prese spunti anche dagli artisti che l’avevano guidata, come Toulouse-Lautrec e Edgar Degas, passando per il Fauvismo e il Cubismo.

Nei suoi dipinti è impossibile non notare l’uso dei colori, ma è incisiva anche la forza compositiva. La scelta di dipingere il corpo femminile nudo era certamente trasgressiva, in quanto donna. Molti sono stati anche gli autoritratti di nudo, nell’ultimo dei quali ritraeva il suo corpo invecchiato senza vergogna.

Da brava anticonformista, rifiutava le convenzioni accademiche e d’avanguardia: la sua rappresentazione del nudo femminile ha richiamato l’interesse per il suo lavoro da parte di artiste e femministe, che hanno riconosciuto in lei la ribellione ad alcune delle rappresentazioni dominanti della sessualità femminile nell’arte occidentale del primo Novecento.

Sveva Casati Modignani: «Ho tentato di suicidarmi a 3 anni. Del Vecchio? Era molto felice di avermi ispirato un romanzo». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 3 ottobre 2023.

«Mio marito e il Parkinson: anni duri ma l’ho assistito io». «Sento spesso gli amici dei miei nipoti, a questi ragazzi invidio la libertà». «Esco a cena e bevo vino rosso. Scrivo dalle 3 fino alle 5, poi stacco come alle Poste»

Sveva Casati Modignani, «la vita è bella, nonostante», come dice il nuovo libro?

«Non mi lamento, ho 85 anni, una vita piena e un gruppo di amiche della mia età. Ci chiamiamo “ragazze” e andiamo a cena fuori, bevendo del buon vino rosso».

Le piace la compagnia dei giovani?

«Mi sento con gli amici dei miei nipoti Luna e Lapo. Vivono un mondo meno bello del mio alla loro età, l’Italia piena di energia del Dopoguerra. Dicono che dovranno trasferirsi in Australia per lavorare. Ma a loro invidio la libertà».

Lei non è stata libera?

«Negli anni Cinquanta una donna che diceva vado a vivere con il mio uomo sarebbe stata linciata. Ermellina, una delle protagoniste del libro, ha patito proprio quel mondo lì, che si nutriva di ipocrisie».

Cosa le vietavano?

«Scegliere cosa fare, vivere la vita fregandosene degli altri. La classe piccolo borghese, di cui faccio parte da sempre, era legata a questi schemi: dovevi arrivare vergine al matrimonio e se non lo eri succedeva un dramma. Una perbene non si truccava, il rossetto era peccato».

Lei era perbene?

«Le mie amiche erano tutte così, l’unica permale ero io. Mi ribellavo a quella ipocrisia vittoriana e quindi erano lotte continue. Una vita difficile».

Un ricordo da piccola.

«Il mio primo tentativo di suicidio a 3 anni. Ero nel letto dei nonni, ho aperto il comodino e c’era una boccetta color ambra, con dentro il chinino di Stato. Le pastiglie erano avvolte in una glassa rosa. Ne ho prese una manciata, le ho messe in bocca. Mi hanno fatto la lavanda gastrica».

Perché si voleva suicidare a 3 anni?

«Da bambina corteggiavo la morte, mi sembrava una cosa misteriosa, da approfondire. Poi ci sono stati i semi dell’olio di ricino, a 10 anni: buonissimi. Lì ho capito che le cose buone ti fanno male».

Ha avuto un rapporto difficile con sua madre.

«Vedendo che avevo fatto della scrittura un mestiere mi diceva: “Ma tu credi di lavorare? Questo non è un lavoro”. Andavo con la torcia in cantina a leggere».

Cosa voleva che facesse?

«La suora o in secondo ordine la magliaia: sarei stata in casa, mi avrebbero comperato la macchina per lavorare».

Questo vulnus affettivo l’ha condizionata?

«Moltissimo. Una volta da ragazzina l’ho presa sottobraccio e lei mi ha detto: “Non ti stai accorgendo che con il braccio mi sfiori il seno”? Mi sono vergognata di quel mio gesto affettuoso».

Suo figlio Nicola lo ha abbracciato?

«Finché ho potuto, anche se il tipo di educazione ricevuta mi ha fatto male anche in questo: non sono stata mai una madre equilibrata, ero amorevole ma a volte agivo d’imperio: “Basta, si fa così!”»

«La vita è bella, nonostante» è un romanzo con al centro un gruppo di donne forti e moderne. È femminista?

«No, quando scrivo non ho mai messaggi per nessuno. C’è solo il piacere di raccontare, io stessa voglio vedere come va a finire».

Nel libro gli uomini muoiono ...

«È il potere dello scrittore: quando qualcuno non ti serve più, lo uccidi».

Maria Sole scopre di avere un compagno gay.

«Ho amici gay che hanno avuto una vita difficile. Maria Sole si incazza quando lo scopre, poi capisce, è una donna d’oggi. Ai miei tempi lo avrebbe denunciato al vescovo...»

Lei che moglie è stata?

«Mio marito si è ammalato di Parkinson e l’ho sempre assistito. Avevo 3 badanti, ma voleva me. Ero io che dovevo fargli la barba, la doccia, imboccarlo. Sono stati anni molto duri».

Monsignor Paglia sul Corriere si è pronunciato contro la vecchiaia in RSA.

«Mio marito voleva stare a casa e così ho fatto. I medici mi sconsigliavano, ma oggi non ho rimorsi».

I suoi libri si ispirano a fatti veri: Il Falco è Leonardo Del Vecchio?

«Certo e ho saputo della sua grande gioia nel leggerlo. Francesco Milleri mi ha invitato a pranzo e mi ha svelato che Del Vecchio diceva: “Avrei dovuto imparare anche io l’inglese con la Molly, invece che cretino, sono andato a Londra!” Si riferiva al protagonista che aveva un’amante inglese. Oggi in Luxottica tutti lo ricordano come Il Falco».

Altri libri e riferimenti?

«Il Mercante dei sogni è Attilio Ventura e la sua donna Francesca è Francesca Vacca Agusta, che conoscevo, un bel personaggio letterario».

Cosa aveva di speciale Francesca nella realtà?

«Il cuore, la generosità e un senso di insoddisfazione che la perseguitava. Purtroppo è finita malamente, a sniffare. Vado a prendere una sigaretta che ho voglia di fumare».

Quante sigarette fuma?

«Una decina al giorno».

E beve e mangia?

«Colazione, pranzo, merenda e cena. Prima di dormire una crostatina di marmellata con un deca americano».

Dimostra 20 anni di meno.

«Non sono rifatta. Alle mie amiche dico: “siete sceme, ma perché vi riducete così”».

Si sente una sciura?

«Per nulla, anzi mi fanno ridere. In casa li chiamavamo “voler ma non posso”. Le riconoscevi dalla pelliccia, poi gratta gratta scoprivi che erano morti di fame...».

Eppure nei suoi romanzi c’è sempre il bel mondo.

«Perché l’ho conosciuto. Ma ogni volta che vedevo quelle case con i portasigarette in oro massiccio ero felice di tornare nella mia».

Frequentava i salotti?

«Andavo da Anna Bonomi Bolchini e dalla Enrichetta Invernizzi. Ecco, loro ostentavano: vedevo brillanti come noci e pensavo: “Come si fa a portare al collo una casa di 11 piani?”».

In quanto tempo scrive?

«In sei mesi, ma prima ci lavoro un anno nella mia testa. Scrivo un paio d’ore al giorno, tre al pomeriggio, alle 18 stacco come alle Poste».

Ha avuto onorificenze?

«L’Ambrogino d’Oro? No, a Milano non mi filano...».

Ha venduto 12 milioni di copie regalando leggerezza.

«Per questo il mio lavoro ha un senso. Una suorina entrò a una mia presentazione con due borse dell’Esselunga piene di libri da firmare: erano per le sue malate oncologiche: “Non sa quanto bene facciano alle donne che curo”».

Le piace Milano?

«Non più, ma che c’entrano i grattacieli? Milano è una città dai tetti rossi».

Mi dica una cosa in milanese.

«Süca e melün han la sua stagiun , ogni cosa ha il suo tempo».

Tim Page in Vietnam: il fotoreporter senza paura che morì tre volte per raccontare la guerra. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2023

L’avventurtoso professionista che ispirò il personaggio del fotografo hippie nel film «Apocalypse Now» era nato in Inghilterra. Scomparso nell’agosto 2022, in realtà fu protagonista di vari episodi in cui sfiorò la morte prima e durante la guerra: tutto iniziò con un incidente in moto, poi il Laos e Saigon

Se le storie d’amore sono davvero storie di fantasmi, la storia d’amore di Tim Page per la fotografia e per il giornalismo è la storia di una lunghissima serie di fantasmi. Una vita incredibile che non poteva non finire a Hollywood, sugli schermi dei cinema. Page, secondo molti il più grande fotografo della guerra del Vietnam che di grandi fotografi ne ha avuti molti, è conosciuto per le sue immagini memorabili e perché chiunque abbia visto Apocalypse Now , il capolavoro di Francis Ford Coppola, ha visto Tim Page. Il personaggio di Dennis Hopper, il fotografo hippie con le Nikon al collo, sotto l’effetto di droghe, è una trasposizione fedele fino ai dettagli — la passione per le sciarpe e le collane etniche — di Page.

Il padre marinaio caduto in guerra

È morto nell’agosto dell’anno scorso, 78enne, dopo una malattia brevissima. Per ricordarlo a un anno dalla scomparsa i colleghi si riuniranno alla tradizionale conferenza fotografica di Aperture il 12 e 13 agosto a Melbourne, nell’Australia che lo accolse negli ultimi anni un po’ acciaccati della sua vita straordinaria, e dove morì. Il primo fantasma della vita di Tim Page — nato il 25 maggio 1944 nel Kent con il nome di John Russell — è quello di suo padre, marinaio morto in guerra prima della sua nascita. La madre, che non conobbe mai, portò a termine la gravidanza e diede immediatamente il neonato in adozione.

La prima volta che sfiorò la morte

L’affetto della tranquilla famiglia Page, i suoi genitori adottivi che lo ribattezzarono Timothy e gli diedero il loro cognome, non basta a rasserenare il ragazzino irrequieto. A sedici anni resta quasi ucciso in un incidente di motocicletta. Scappa di nascosto dalla sonnolenta Orpington, a sudest di Londra. Lascia una lettera: «Cari genitori, vado in Europa, o forse in Marina, per vedere il mondo. Non allertate le autorità, vi scriverò con regolarità». È il 1962.

L’approdo in Laos e le foto del golpe 1965

Salta l’Europa a piè pari e finisce l’anno dopo in Laos. Senza conoscere nessuno nel mondo del giornalismo riesce da freelance a piazzare i primi “colpi” per Upi e France Presse . Documenta il tentato golpe laotiano del 1965 e la Upi lo manda all’ufficio di Saigon. Qui arriva un altro fantasma, Larry Burrows, di vent’anni più grande, che diventa il suo mentore e maestro (morirà in Laos nel 1971). Page diventa amico e coinquilino di altri due ragazzi, americani, Sean Flynn (figlio dell’attore Errol Flynn che a Hollywood preferì la giungla vietnamita) e Dana Stone, che poi morirono anche loro nel 1971: dividono la casa, la droga, l’alcol e le ragazze, completamente indifferenti al pericolo, accettando missioni pericolosissime, i tre moschettieri apparentemente invulnerabili sulle gesta dei quali, anni dopo, verrà realizzata una serie tv, Frankie’s House .

Risorto’ sulla lettiga: «Sono già morto?»

Muore altre tre volte in Vietnam, sempre «tornando indietro all’ultimo istante»: colpito da 200 schegge, affondato in mare aperto, dopo ogni ferimento qualche licenza passata in America (a fotografare il celebre concerto nel quale Jim Morrison finì arrestato per atti osceni sul palco, in manette pure Page che fotografava) e in Israele per la Guerra dei Sei giorni. Il terzo ferimento — la terza morte — è dell’aprile 1969: salta giù da un elicottero per soccorrere dei feriti e il soldato davanti a lui viene dilaniato da una mina antiuomo. Una scheggia di cinque centimetri gli entra nel cervello, viene dichiarato morto prima sul posto e poi in ospedale. Portato in obitorio terrorizza un portantino chiedendo da sotto il lenzuolo «sono già morto?».

L’Lsd, Roma e lo stress post-traumatico

Gli Anni 70 sono leggermente fuori fuoco («Fumai molto e presi molta Lsd»): Page da Los Angeles va a Roma, ma il lavoro al desk di un’agenzia non fa per lui. Torna in Inghilterra sapendo che a trent’anni appena compiuti non può più andare al fronte come una volta, azzannato dai postumi delle ferite e dalla depressione e da quello che ancora non era stato chiaramente definito dalla psichiatria come stress post-traumatico. Pubblica libri, cataloga, e c’è la prima mostra a Londra. Finalmente la scoperta del buddismo e della meditazione lo aiutano a sollevare la buia coltre degli Anni 70. Di lui restano tre mogli, un figlio, la vecchiaia da anziano maestro, l’archivio di 600mila diapositive, un mini-film girato dalla Leica (della quale fu affezionato cliente per tutta la carriera) nel quale spiega che usava così spesso un obiettivo, il 21mm, che ti costringe a stare vicinissimo al tuo soggetto, perché per lui la fotografia era quello: esserci.

Quei giudizi a sangue caldo del cronista Truman Capote. Attori, scrittori, registi, pittori: nessuno sfuggiva ai caustici ritratti del romanziere in veste di fustigatore del jet-set. Gian Paolo Serino il 31 Agosto 2022 su Il Giornale.

Il giovane Holden di Salinger? Un Huckleberry Finn dei quartieri alti di Park Avenue. Andrè Gide? Uno scrittore privo di immaginazione e estremamente insincero. Ezra Pound? La sua vera gabbia non era dove l'avevano rinchiuso ma la sua vita. Humphrey Bogart? Un attore senza teorie tranne quella di essere pagato. Picasso? La piovra dell'arte. Marlon Brando? Il Rodolfo Valentino della generazione bop.

Sono questi alcuni giudizi, per lo più al vetriolo, espressi in molti articoli di saggistica da Truman Capote, lo scrittore americano conosciuto a tutti per il suo A sangue freddo. E sono ora raccolti da Garzanti nelle nuove edizioni di I cani abbaiano e Giardini nascosti. Certo in quegli anni '70 Capote era diventato un alcolista imbottito di pillole: lui la definiva una «crisi creativa». Nella prefazione al romanzo Musica per camaleonti, il penultimo libro pubblicato in vita, racconta di essersi reso conto di lavorare con soltanto la metà o un terzo delle sue capacità per essersi messo in testa di epurare e perfezionare il proprio stile. La verità è più che altro che era disperato all'idea di scrivere qualcosa e istintivamente tornò alle sue radici - ai ricordi d'infanzia, alle stranezze e agli eccentrici che popolavano la sua prima narrativa - lasciandosi alle spalle il mondo dell'alta società.

Tra queste pagine, oltre che nei protagonisti della letteratura e del cinema, ci imbattiamo anche in descrizioni di città: della New Orleans del 1946 scrive che l'atmosfera è «come quella dipinta nei quadri di De Chirico», e un anno dopo scrive la stessa cosa di Hollywood: «Qui dove nessuno cammina le auto scivolano in un flusso costante e silenzioso, la mia ombra, che si muove lungo la strada bianca e spoglia, è come l'unico elemento vivo di un De Chirico».

Capote amava l'ombra tropicale e la spettrale penombra, così come amava le nebbie veneziane, le case dei pensionanti, le statue dei cimiteri. Dalle sue descrizioni, a volte è difficile distinguere un luogo dall'altro - la Brooklyn di Capote è praticamente indistinguibile da New Orleans - e questo perché tutti i suoi paesaggi aspirano in qualche modo al Sud ricordato della sua infanzia. Anche quando descrive il presente, molti dei pezzi hanno un sapore nostalgico, e su quasi tutti aleggia un'atmosfera di eccessiva maturità, di fiori che iniziano a sfiorire. «Non avevo mai conosciuto nessuno che scrivesse», ha detto una volta Capote a proposito della sua infanzia in una piccola città del Sud e «in effetti conoscevo anche poche persone che leggevano».

Queste selezioni di saggi, estratti e interviste, ricordano anche il Capote che era allo stesso tempo uno scrittore e un giornalista letterario arrivista dei suoi tempi: il bon vivant che si nutriva di patate al forno ripiene di caviale; il romantico tormentato che dichiarava che la parola più bella e la parola più pericolosa in inglese erano la stessa cosa: «amore». Era anche il pettegolo, l'amante della mondanità e l'attaccabrighe che non amava gli attori: di John Gielgud dice: «Tutto il suo cervello è nella voce»; di Marlon Brando: «Nessun attore... ha trasportato la falsità intellettuale a livelli più alti di esilarante pretesa».

Allo stesso tempo è anche un Capote al massimo della sua rilassatezza, incline a prendere in giro le sue stesse numerose bizzarrie, soprattutto quando si scontrano con le eccentricità degli altri. Il racconto di Capote di una cena a base di pollo con un famoso artista andata male è uno dei pezzi più divertenti della letteratura culinaria e un piacere in qualsiasi contesto.

Forse nessuno scrittore del XX secolo è stato un cronista così attento e aggraziato dei suoi tempi come Truman Capote. Giardini nascosti è il primo volume dedicato esclusivamente a tutti i saggi pubblicati da questo amatissimo scrittore.

Ci sono anche i pezzi dei primi anni della sua carriera, quando Capote non la smetteva mai di lavorare sulle storie e sulle sceneggiature. Ma era soprattutto il giornalismo ad alimentare la sua immaginazione. Non era soltanto prolifico, ma anche un consumato creatore di frasi poi diventate etichette in quella società mondana: famosa quella dedicata al regista John Huston: «Un dandy allampanato e strascicato».

Tra i brani raccolti c'è anche quello che lo ha portato alla fama: The Duke in His Domain, il leggendario profilo di Marlon Brando datato 2 novembre 1957 e apparso sul New Yorker. Capote descrive Brando a Kyoto, in Giappone, mentre sta girando la versione cinematografica di Sayonara di James Michener. Descrive gli oggetti presenti nella stanza di Brando, i calzini, le scarpe e le giacche, le camicie da mandare in lavanderia. E libri, una cascata di pensieri profondi, tra i quali si vedeva The Outsider di Colin Wilson e varie opere sulla preghiera buddhista, sulla respirazione degli Yogi e sul misticismo indù. Ma niente narrativa, perché «Brando non legge nulla».

«Dichiara di non aver mai aperto un romanzo dal 3 aprile 1924, giorno della sua nascita, a Omaha, Nebraska», scrive Capote. E aggiunge: «ma anche se non gli interessa leggere narrativa, desidera scriverla, e il lungo tavolo laccato era pieno di posacenere stracolmi e di pagine accatastate della sua ultima fatica creativa, che si dà il caso sia una sceneggiatura cinematografica». Le tecniche utilizzate da Capote - l'osservazione minuziosa dell'ambiente, la registrazione accurata di ogni sfumatura del dialogo, la paziente attesa del piccolo gesto rivelatore (Brando che schiaffeggia il tavolo, con allegria o forse con indignazione) che rivela il carattere - hanno ispirato generazioni di cronisti del jet set, pochi dei quali hanno operato con l'intelligenza, il brio o la precisione di Capote.

L'articolo su Marlon Brando è rivelatore anche del suo erotismo sublimato. Capote (come la maggior parte del mondo di allora) era attratto dal giovane Brando, e in seguito avrebbe stretto un forte e doloroso legame con Perry Edward Smith, uno degli assassini del caso descritto in A sangue freddo, del quale avrebbe osservato la morte, quando fu giustiziato per impiccagione il 14 aprile 1965.

A differenza del profilo di Brando, tuttavia, il romanzo A sangue freddo è scritto senza ironia e senza intrusioni autoriali, con un distacco di stampo flaubertiano che permise a Capote di affermare di aver inventato una nuova forma letteraria, «il romanzo di non-fiction», sebbene altri scrittori del New Yorker, in particolare Joseph Mitchell e Lillian Ross, avessero già imboccato questa strada.

È consuetudine sostenere che Capote sia stato vittima della celebrità che bramava. Ma in lui c'era anche qualcosa di eroico, perché ha affinato il suo mestiere e sacrificato la sua tranquillità e il suo equilibrio morale pur di (de)scrivere la vita che lui non è riuscito a vivere, ma soltanto a raccontare.

Barbara Costa per Dagospia sabato 23 settembre 2023.

“Le donne sono come i serpenti, l’ultima cosa a morirgli è la f*ca” dice uno slang USA, per cui "tail" si traduce sia coda sia f*ca, e pure secondo l’implacabile e perfidissimo Truman Capote. Lui lo dice e ridice, soddisfatto, in "Colazione da Truman", il suo sfogo autobiografico, uscito in nuova edizione da Minimum Fax: veloci domande e risposte concesse tra il 1982 e il 1984 a Lawrence Grobel, giornalista di "Playboy". Volete sapere quanto può essere sincero e brutale uno scrittore che ha conosciuto mezzo e più star system? E gotha di potere? Ogni regola educativa, e un minimo corretta, con Capote va a farsi benedire.

Non si salva nessuno, politici, icone, scrittori, attori, sp*ttanati da un Capote al veleno. Si vola oltre l’offesa. Qualche esempio? Papa Wojtyla “è mooolto falso, ma come uomo travestito da donna è fantastico!”. E Madre Teresa “è una donna ambigua”. E Martin Luther King “è stato un prete dalle molte facce, alla moglie ha fatto le corna, e di ogni colore!”. Truman Capote, lui i preti, li conosce “e tanti sono gay!!! La metà di chi a New York va nelle saune gay, sono preti gay”.

Capote non sopporta e non capisce “le femministe, quelle befane, ma che vogliono???”. Per lui essere omosessuale “non è mai stato un problema”, lui ne ha sempre parlato, sui giornali, lui ha avuto “tre storie finite male”, prima di innamorarsi dello scrittore Jack Dunphy, "rubarlo" alla moglie, e starci insieme 40 anni, fino alla morte, in una relazione non monogama, e "coabitandoci" in case separate ma adiacenti. E Capote ha frequentato “bar necrofili, ci si scambiano indirizzi di pompe funebri”, e i bar “dove i giovani hanno il feticismo dei vecchi: fanno a gara per rimorchiarseli”. 

Capote ha iniziato a bere whisky “a 12 anni, ho smesso a 15”, per poi più smettere nonostante i rehab. Capote l’ha ammesso, “sono un alcolizzato sono un tossicomane”, lui ha “provato tutto tranne l’eroina. Ho scritto tanto sotto cocaina. Molte parti di "Preghiere esaudite". Per un anno ne ho fatto uso ogni giorno. Col mio amico Aldous Huxley, ho preso anche il peyote. Allo "Studio 54" si fuma dell’erba tailandese che ti fa sballare per ore”.

Capote ha conosciuto tutte le first lady americane “da Eleanor Roosevelt a Nancy Reagan, eccetto Pat Nixon”: la peggio di tutte è Jackie Kennedy, “un’opportunista, falsa, vuota e meschina. La conosco da prima che sposasse John. Le ho dato della sgualdrina a un party, davanti a tutti. Mai pentito di averlo fatto”. 

E Capote non ha mai votato. Frequentava i Kennedy, “Bobby lo disprezzo”, John è uno “sc*patore compulsivo, io lo so, conosco il suo pappa di Las Vegas: a John interessavano le squillo d’alto bordo di Las Vegas, ma prima si informava su come succhiavano l’uccello, per quanto tempo, quanto lungo e grosso lo prendevano, quant’erano grandi le loro tette”. Capote sapeva che i due Kennedy andavano a letto con Marilyn Monroe, Marilyn “ballava nuda davanti allo specchio e godeva vedendo le sue tette che si dimenavano qua e là”.

Capote stesso si è sc*pato un politico, il due volte candidato (e trombato) alla presidenza Adlai Stevenson: “Noi due vivevamo insieme, la notte prima che morisse d’infarto la abbiamo passata insieme”. Se Stevenson fosse stato eletto presidente “cosa avrei potuto combinarci io, alla Casa Bianca, nel Giardino delle Rose!”. 

Le più acute stilettate Capote le lancia ai colleghi scrittori: Joyce Carol Oates “è una disgustosa. Dovrebbe essere decapitata in un auditorium con centinaia di spettatori. Vederla significa provare disgusto. Leggerla significa vomitare”. Capote e Harper Lee sono “cresciuti nello stesso posto, e ho passato l’infanzia a tenerle le mani via dai miei pantaloni”. E poi: Jack Kerouac “è un buffone, non scrive, batte i tasti”. W. H. Auden “è un bastardo dispotico, di maleducazione e stupidità terrificanti”. Per J. D. Salinger, “la morte sarebbe un aiuto”, e Hemingway “è un mediocre e un gay non dichiarato”. Norman Mailer “è un illuso, e un copione”.

Gore Vidal “dire che lo detesto è un eufemismo. Vidal è uno strafatto con gli occhi da pazzo. Mi invidia perché io ho avuto una storia con Albert Camus, e lui no”. Saul Bellow “è fiacco, una nullità”. John Updike “io lo odio”, Philip Roth “lasciamo perdere”. André Gide “è solo una vecchia grossa checca dalla faccia rugosa. Per 2 anni siamo stati vicini di casa a Taormina. Gide andava a caccia di 15enni che si portava a letto il pomeriggio”. E “dio ci liberi da quella zitella di Simone de Beauvoir, e dal livido, succhia pipe di Sartre!”. Che ne pensa Capote delle rockstar? “Elvis Presley mi piaceva, l’unica cena di gala che ha organizzato è stata per me! A Las Vegas: pollo fritto, maiale fritto, pesce gatto fritto…”.

John Lennon “lui pure mi piaceva, ma Yoko Ono non la sopporto. La giappa. Paranoica. La persona più sgradevole che esista”. Capote è stato in tour con i Rolling Stones: “Una band di rottami, Keith Richards è totalmente fuori di testa, ma è quello con più talento. Jagger è noioso. Pensa soltanto ai soldi. Gli Stones girano filmini porno con chi raccattano di città in città, e non fanno del male a nessuno”. Bob Dylan “è un impostore, falso, che non sa cantare”. 

Truman Capote ha lavorato a Hollywood come sceneggiatore, che ne pensa degli attori? Meryl Streep “ha il naso da gallina e la bocca di una gallina”. Jane Fonda “è noiosa e fasulla”. Woody Allen “è un completo idiota”. Monty Clift “era gay, lo sapevano tutti”, Anthony Perkins “pure, ma non lo sapeva nessuno”.

E poi, “"Colazione da Tiffany" io lo odio!!! Il regista, Blake Edwards, mi veniva voglia di sputarli addosso”, lui ha scelto “Audrey Hepburn che con la protagonista del mio libro non c’entra niente!!! Jodie Foster sarebbe stata l’ideale”. E non è vero “che io e John Huston durante le riprese di "Il tesoro dell’Africa" sc*pavamo, è una voce messa in giro da Humphrey Bogart, e che Huston assecondava. Sì, dividevamo la stessa roulotte. Sul set erano proprio schifati!”.  Ha detto Tennessee Williams: “Non so decidermi: Truman è uno str*nzo, sì o no?”. E Marlon Brando: “Io Capote lo ammazzo”.

Estratto dell'articolo di Paolo Di Stefano per il “Corriere della Sera” il 16 giugno 2023. 

Non c’è domenica che non vada a lavorare nel suo atelier.

Tullio Pericoli è infaticabile e forse per questo i suoi 86 anni non si vedono: dipinge, scrive, progetta, non si stanca di corteggiare l’arte. Non si stanca nonostante la certezza, avanzando l’età, che quella signora capricciosa non si concederà mai del tutto: «Con gli anni cresce una vaga sensazione di fallimento, ma per fortuna a ogni risveglio ritorna il piacere di dipingere». 

(...) Un amico perduto con cui rifare una cena?

«Con Giorgio Bocca, a casa sua in via Bagutta, ma con lui in cucina, perché il Bocca cucinava divinamente. Tranne il dolce, che portavo io». 

Che tipo era Bocca?

«Era come avesse le mani coperte da una leggera carta vetrata, ma anche nelle sue cose più rudi e dirette c’era una verità. Era rimasto sempre in montagna a fare la lotta partigiana anche scrivendo».

Avete passato molte ore insieme?

«Sì, a casa sua, in montagna o nelle Langhe. Diceva: “Quando scrivo, sento le parole che mi arrivano dai muscoli delle braccia”. È così anche per me, come pittore, le cose che arrivano sulla tela non le sento provenire dall’intelletto, ma dall’apparato nervoso o muscolare». 

Nel libro di ricordi, «Incroci», c’è un magnifico ritratto di Cesare Zavattini.

«Avevo 23 anni, gli scrissi e andai a trovarlo a Roma. È come se mi avesse accolto uno zio che non vedevo da tempo. Misi via i soldi per un taxi, e il tassista appena sentì l’indirizzo, mi disse: “lei va da Zavattini!”. Era celeberrimo, e io mi sentii al centro del mondo».

Come andò?

«Passò tre ore a darmi dei consigli tecnici, morali, pratici. Mi disse: “Smetti di studiare e vai a Milano…”. Si prese una bella responsabilità e mi cambiò la vita». 

Il volto più presente nel nuovo libro, «Ritratti di ritratti», è Umberto Eco. È difficile ritrarre un amico?

«Ritratti da anni non ne faccio più, ma per prima cosa bisognava dimenticarsi l’amicizia e guardare la faccia come fosse una mappa silenziosa e inerte… Dopo lo studio della superficie, arrivano le emozioni, che non riguardano solo l’amicizia, ma tutto quello che ha fatto, pensato, scritto. Allora avviene una specie di raffronto tra due mappe, la prima deve contenere la seconda e viceversa, finché affiora concretamente il segno nero sulla pagina o sulla tela».

Qual è il tratto distintivo del volto di Eco?

«Era il modo particolare con cui partiva la riga dei capelli: c’era un piccolo ciuffo che alzandosi faceva l’“echità” di Eco. Un giorno, di fronte a un suo ritratto, Umberto mi disse che non si ritrovava, ma ci rivedeva suo nonno, una zia e una bisnonna. Ne fui contento. Facendo un ritratto volevo entrare nella echità, nella calvinità, nella gaddità, al di là della somiglianza».

Che amico era Eco?

«È stata un’amicizia allargata alle famiglie. Ci si vedeva da me o da lui nelle Marche.

Quando veniva a Rosara, restava ore a galleggiare in piscina. Era una persona molto chiusa, Umberto, non lasciava trasparire niente di sé. Manifestava i sentimenti per piccoli gesti. In fondo forse non voleva neanche che qualcuno si aprisse con lui. Le anime per Umberto erano stupide, gli interessavano le menti». 

Un ricordo?

«Era già malato. Una sera al ristorante arrivò a tavola un piattino di burro: Eco sembrò svegliarsi da uno stato di assenza, caricò di burro un minuscolo pezzo di pane. Gli dissi: “Non vorrai mangiarlo! Ti fa male!”. Mi guardò come un bambino e rispose: “Proprio per questo” e se lo cacciò in bocca. Con uno sguardo gli dissi che avevo capito». 

(...) 

Roberto Calasso, l’editore di Adelphi, è stato un amico?

«Circa un mese prima di morire mi scrisse una mail: “Caro Tullio, mi aspetto da te — diis faventibus — un disegno che ti stia particolarmente a cuore — e scelto da te. Non è sfrontatezza ma complicità, che c’è sempre stata fra noi”.

Rimasi stupito. Gli mandai un quadro intitolato Il pittore e le modelle , degli anni 90. Pensavo che potesse piacergli. Mi fece una telefonata affettuosa.

Sentivo che gli si sgretolavano le parole in bocca… un segno di commozione e fatica».

Com’era l’editore?

«Gli parlavi di un progetto e lui rispondeva va bene o non va bene. Se andava bene, il libro andava fatto al più presto, altrimenti era meglio non parlarne più». 

Un suo consiglio?

«Gli proposi un libro di riflessioni sull’arte in forma di dialogo. Mi disse di no, niente dialogo, mi consigliò di trovare dieci parole e di scriverle come su un muro per vedere che cosa generavano. Fu un’idea folgorante, pensai a carte moschicide con gli insetti che volando finivano prigionieri… Per dare l’idea dei meccanismi del mestiere pensai al titolo Sul farsi. Mi fece notare che poteva sembrare un manuale sulla droga. Venne fuori Arte a parte ». 

C’è una lettera di scuse a Pericoli nell’epistolario di Calvino. Cos’era successo?

«Era l’84. Preparavo una mostra sui miei disegni per Robinson, e lui aveva appena scritto un articolo su Robinson. Gli telefonai per chiedergli un testo per il catalogo, mi disse che ci avrebbe pensato. 

Quando lo richiamai, mi fece una scenata tremenda: “Tu non mi devi cercare per lavoro, ma per andare al cinema o a prendere un caffè… Non ce la faccio più…”. Misi giù disperato e gli mandai una lettera di scuse. Mi rispose che stava passando un periodo difficilissimo di irritabilità e depressione, era pieno di impegni e incapace di concentrarsi… Sarebbe morto un anno dopo, mi dissero che aveva già avuto piccoli ictus». 

Gli piacevano i ritratti?

«Mi ha fatto due dediche bellissime. Mi scrisse che le Cosmicomiche erano “il più pericoliano” dei suoi libri. Poi, mi dedicò Una pietra sopra con queste parole: “A Pericoli, questi saggi che se fossero disegni forse assomiglierebbero ai suoi”».

Estratto dell'articolo di Paolo Di Stefano per il “Corriere della Sera” il 12 maggio 2023.

Tullio Pericoli ha raccontato diverse volte come procede (o procedeva) nel fare un ritratto. È un lavoro di avvicinamento paziente e progressivo da cui si genera d’improvviso, attraverso un particolare, l’attimo dell’epifania, cioè della rivelazione del volto. 

Ritroviamo il suo racconto in Colti nel segno, un libriccino del 1995: «Prendo le foto che posseggo del personaggio prescelto, le distendo sul tavolo e le esamino ad una ad una, poi tutte assieme, comparandole. Faccio il primo schizzo su un blocco di comune carta da appunti: qualche volta appare subito un segno, un dettaglio che andrà coltivato. Strappo quindi il foglio e lo infilo sotto il successivo e mi concentro sul dettaglio che sviluppo sul nuovo foglio (...), e così di seguito, finché arrivo, per gradi, al risultato che mi soddisfa».

È stata una lunga relazione d’amore, quella di Pericoli con il ritratto, a partire dalle prime committenze dei giornali. Un lavoro fatto prima e in contemporanea con i dipinti di paesaggio, dipinti che sono un’altra declinazione del ritratto, non umano ma naturale. 

[…] C’è in tutto ciò un momento-chiave: quello che, scrive Pericoli, «mi procura sempre una piccola emozione ed è l’attimo in cui nei pochi segni di matita appena tracciati riconosco il volto per me vero, vivo e segreto di una particolare persona». Questi Ritratti di ritratti che escono adesso da Adelphi (in libreria dal 2 maggio) testimoniano il lavoro in fieri che conduce all’opera finale (forse finale): «ritratti di ritratti» è appunto questa dimensione al quadrato. 

[…]

Se chiedete a Pericoli di parlarvi di questo volume, per prima cosa vi mostrerà la copertina, dove compare il taglio orizzontale che inquadra gli occhi, l’attaccatura del naso e un accenno di rughe frontali. «Ecco, Beckett è qui…», dirà indicando due incisioni scavate tra gli occhi. «E Calvino? Calvino è qui». Il suo dito punterà agli angoli delle labbra, due buchini che accendono un lieve sorriso. Il gioco potrebbe continuare. 

Dove sarà Hemingway, colto quasi sempre di profilo o di scorcio? A intuito, si direbbe nelle fessure degli occhi. E Doris Lessing? Forse è in quelle sopracciglia che incombono pesanti sullo sguardo. Pirandello si direbbe nella forma, a mandorla, degli occhi. E così via, come se dal seme di quel dettaglio sbocciasse il ritratto nel suo insieme. 

Dalla successione delle pagine possiamo intuire come arriva, Pericoli, a quell’accensione e a quella fioritura, entrando nel laboratorio. Ciò che non sapremo mai è il perché, se è vero che il percorso dell’invenzione conserva sempre qualcosa di inattingibile e misterioso. Che cosa muove la mano nell’attimo in cui avviene la rivelazione.

Se Ritratti di ritratti ricostruisce il viaggio creativo, sia pure in direzione cronologicamente contraria (partendo dal risultato più recente e risalendo al più antico), tuttavia le date di composizione ci dicono che non si tratta quasi mai di un processo lineare: si va per tappe non sempre coerenti, con pentimenti, tentativi e recuperi a distanza (il magnifico olio finale di Primo Levi, del 2014, anticipato da schizzi remoti). 

Se prendiamo Kafka, antica passione di Pericoli, notiamo a ritroso che l’approdo del 2017 ai disegni del Digiunatore in chiave giacomettiana (il libro recente), si realizza attraverso una lunga fase che parte dal 1996 con tecniche, impaginazioni e contesti diversi, dove già vanno e vengono le silhouette vaganti degli omini kafkiani. E quegli stessi dettagli appaiono come presentimenti nelle messe in scena più teatrali ancora precedenti.

Ma va detto che una protostoria kafkiana in Pericoli risale al 1985-89 e raffigura lo scrittore alle prese con una gigantesca K, che tiene sottobraccio o fa volteggiare per aria.

Dunque, varianti e variazioni sul tema (il volto, il corpo). O meglio «variazioni e varianti», che avrebbe potuto essere un altro bel titolo, includendo in sé, nell’arte del ritratto, musica e letteratura. 

Certo, le variazioni e le varianti non sono mai indipendenti dalle tecniche, che in Pericoli sono molteplici, e un’ipotesi tutta da verificare è che, passando dalla carta al cartone alla tela, dalla matita o dalla china o dal carboncino al colore del pastello o (ancora di più) dell’acquerello o dell’olio, il ritratto tende ad aprirsi verso una scena teatrale (il tavolo da lavoro, lo studio) e persino a volte a inglobare variamente il paesaggio. Che spesso è un paesaggio interiore portato all’esterno, giocosamente (più di rado drammaticamente) sviscerato.

È sul gioco che si scatena la sua «fantasia di avvicinamento» a quello che è di gran lunga il più ritratto dei «suoi» scrittori, Eco, vissuto e rivissuto, visto e rivisto, con divertimento reciproco tra il ritratto e il ritrattista. Fino però all’olio finale (2022), in cui il movimento incessante di una vita fisica e intellettuale sembra arrestarsi tragicamente. 

Ovvio che si potrebbe continuare a indagare sulle rughe di Beckett (altra magnifica ossessione di Pericoli), su Gadda dal cappottone, sulle orecchie di Kafka, su Joyce quasi contorsionista, sul papillon di Mann, sulla sigaretta di Montale, senza tralasciare nessuno degli 89 personaggi disegnati, non solo scrittori e artisti, ma filosofi e scienziati (Marx, Darwin, Einstein, Nietzsche, Croce), registi (Buñuel, Hitchcock, Fellini, Woody Allen), musicisti (Stravinskij, Britten). O Rossini, che contiene in sé e fuori di sé interi paesaggi e colline marchigiane. Quelle da cui Pericoli è partito giovanissimo ma che non ha mai lasciato.

Umberto Eco, in viaggio con il professore nel suo labirinto di parole. La biblioteca come ecosistema. Davide Ferrario su Il Corriere della Sera il 14 settembre 2023.

Il regista Davide Ferrario racconta in prima persona come è nato il film tra i 40.000 libri (con 1500 rarità) collezionati dall’autore del ’Nome della rosa’. «Consultarli equivale a muoversi nella sua mente»

Fu otto anni fa, un giorno di gennaio, a casa di Umberto Eco a Milano. Avevo appena finito le riprese di un’intervista che sarebbero confluite in una videoinstallazione per la Biennale d’Arte di Venezia, propostami da Vincenzo Trione, il direttore del Padiglione Italia. Fino a quel punto i rapporti col Professore erano stati piacevoli, ma professionali. La troupe stava già smontando il set quando Eco mi chiese: «Le andrebbe di vedere la mia biblioteca?». Ne fui sorpreso e lusingato. Come si faceva a rifiutare quell’invito? Lui aprì una porta che dava su un lungo corridoio a L, pieno di libri: una ininterrotta scaffalatura di 50 metri buoni di lunghezza. Lui davanti, io dietro, arrivammo in fondo: io già convinto di averla vista, la biblioteca... Invece il grosso dei libri stava in un’altra grande stanza. Volumi alle pareti e anche su scaffali che tagliavano in parallelo lo spazio interno. Ero ammirato. Evitai la battuta che, scoprii poi, visitatori più incauti talvolta gli facevano, irritandolo: «Ma li ha letti tutti?». Al che di solito rispondeva: «No, questi sono quelli che devo ancora leggere».

Il piano-sequenza

Per me, dopo la meraviglia, il primo pensiero era un altro, da regista che vede un’occasione unica. «Senta, professore», gli chiesi, «di là c’è ancora la troupe, possiamo rifare questa camminata per la macchina da presa? Vada a prendere il libro più lontano facendo il percorso più tortuoso... Lo so, suona stupido, ma il cinema è così...». Eco mi guardò sorridendo e poi disse: «Va bene». Quella camminata tra i libri è adesso la scena che apre La biblioteca del mondo; ma è stata anche la ripresa usata dai media di tutto il pianeta un anno dopo, quando Umberto Eco, purtroppo, morì. Non dovrebbe dirlo l’autore, ma quel lungo piano-sequenza racconta in modo iconico e anche poetico la relazione speciale di un uomo, uno studioso, uno scrittore, un bibliofilo con il suo mondo fatto di parole stampate. E non solo per la dimensione della biblioteca (40.000 volumi) ma anche per il modo in cui in quel mondo Eco si muove, come una primadonna sul suo palcoscenico preferito.

La stanza degli antichi

Quello che nella sequenza non c’è, ma che pure Eco mi mostrò con soddisfazione e orgoglio, è la “stanza degli antichi”, un luogo a parte in cui era conservato il vero gioiello, la collezione di 1.500 libri rari. Oggi tutto quanto, volumi antichi e moderni, è stato ceduto dalla famiglia allo Stato italiano. I libri antichi sono già stati trasportati alla Braidense di Milano; la biblioteca di studio, invece, andrà a Bologna, nell’Università dove Eco ha insegnato per tanti anni. Questo nei piani originari, confermati anche dopo alcune polemiche di questi giorni sulla destinazione dei libri. Proprio per parlare di questo trasferimento mi chiamò un giorno un giornale spagnolo perché li mettessi in contatto con gli eredi: la vedova Renate Ramge e i figli Carlotta e Stefano. Cosa che feci; ma da quella conversazione nacque quasi casualmente l’idea di documentare per immagini la biblioteca prima che i libri lasciassero per sempre la casa di Milano. Bontà loro, gli Eco ritenevano che fossi proprio io, visti i trascorsi, l’autore più adatto allo scopo. Primo problema, però: si può parlare di Umberto Eco in modo “semplice”? Cavarsela con qualche carrellata sul dorso dei libri senza provare a raccontare cosa ha significato Umberto Eco per la cultura italiana? D’altra parte era lui stesso a indicare la via: la chiarezza e la lucidità che ne hanno contraddistinto il pensiero sono sempre andate di pari passo con l’erudizione e con la complessità (e viceversa).

I libri e il lettore

Ecco così che l’idea di una semplice testimonianza si è rapidamente trasformata nel progetto di un film articolato, che parlasse insieme dei libri e del loro proprietario e lettore. Perché è da quel mare di carta stampata che nasce tutto: sia il filosofo che il narratore. E, in qualche misura, anche l’uomo Umberto Eco. Perciò nel film non ci sono intellettuali e accademici. Eco ce lo raccontano Renate, Carlotta, Stefano e i tre nipoti, nonché l’amico e collaboratore Riccardo Fedriga, quasi sempre dentro quel set straordinario che è la casa affacciata su piazza Castello, una location labirintica come un luogo borgesiano, dove i volumi debordano occupando ogni spazio: tavoli, sedie, divani, anche il pianoforte.

I libri, oggetti statici, sono in realtà le molle da cui scattano i «più dissennati deliri della fantasia», per citare Eco a proposito di Athanasius Kircher, formidabile figura di studioso del Seicento. Infatti, quei libri fantastici, pieni di illustrazioni che avrebbero fatto sognare i surrealisti, non erano, per Eco, solo oggetti di bibliofilia.

L’intreccio

Lui, in quella stanza, ci si chiudeva senza telefono né computer a leggerli per davvero, scatenando a sua volta l’immaginazione che ha riversato in Il nome della rosa e in tutti gli altri romanzi. Perché, come ben dicono i figli nel film, per Umberto la biblioteca non era un archivio codificato o un deposito, bensì una cosa viva, organizzata non solo alfabeticamente o per temi, ma anche per rimandi e connessioni; consultabile, in quei lunghi scaffali, non solo orizzontalmente ma anche verticalmente, come un piano cartesiano o una mappa geografica, dove scoprire sorprendenti punti di convergenza tra longitudini e latitudini culturali. Consultare la sua biblioteca, per come l’aveva organizzata, ci offre la possibilità di viaggiare nella mente stessa di Eco.

Umberto Eco ha spesso ripetuto che la biblioteca è, in senso generale, la memoria del mondo. Ma le biblioteche sono mondi essi stessi. Perciò siamo andati in giro per l’Italia, l’Europa, in Messico e in Cina, a filmare meravigliose biblioteche antiche e moderne, luoghi di puro incanto visivo vuoi per le loro collezioni vuoi per l’architettura che le contraddistingue. Nel film, queste spettacolari immagini contrappuntano un montaggio di pensieri di Eco su tre temi principali: ricordare, narrare, fingere. Poiché, parole sue: «Io sono interessato al linguaggio non perché può descrivere quello che esiste, ma perché può descrivere quello che non esiste». Diventano così incredibilmente profetiche certe sue opinioni sulla memoria elettronica e sul web, perché parlano della nostra contemporaneità. Per esempio, il paradosso per cui la memoria elettronica, proprio quando ci illude di metterci a disposizione una conoscenza infinita, ci depriva della memoria organica, come ben sa chiunque possieda uno smartphone: unico depositario, oggi, di un elenco di numeri e nomi che una volta invece ciascuno ricordava di persona. Quanto alla rete, Eco non era certo un conservatore, anzi. Ma vedeva bene il pericolo della scomparsa di una “enciclopedia comune” condivisa a favore della creazione di verità “private”, una per ogni navigatore del web, verità che non necessitano di una controprova oggettiva. E questo quando ancora non si parlava di fake news. Da qui, di conseguenza, la sua fascinazione per le teorie del complotto, su cui Il pendolo di Foucault costruisce un mirabolante tour de force. A film finito, la mia maggior soddisfazione è poter dimostrare a tutti quanto viva e importante sia ancora l’influenza di Eco sulla cultura mondiale. E di comunicarlo con l’ironia di cui il Professore era maestro. Penso e spero che La biblioteca del mondo gli sarebbe piaciuto.

ARCHIVIO DI MEMORIA Il film dedicato a Umberto Eco e alla sua (immensa) biblioteca. Micol De Pas su L’Inkiesta l’1 Marzo 2023.

Il documentario, al cinema dal 2 marzo, perlustra la casa dello scrittore, esplora le testimonianze di altri intellettuali e il rapporto con il nipotino. Davide Ferrario, il regista, ha avuto accesso a questo paradiso grazie alla collaborazione della famiglia di Eco

Il cammino è lungo, ma lo spettatore, per quanto pronto a scommettere che quella di Eco sia tra le più grandi collezioni di libri del mondo, non immagina quanto. Il professor Eco infatti cammina tra gli scaffali della sua biblioteca con l’intenzione di andare a prendere il volume più lontano dal punto di partenza, quello dove il regista Davide Ferrario ha dato il via al gioco.

Una piccola sfida che gli ha consentito di filmare per un po’ il padrone di casa mentre si muove nel suo mondo. Cioè, nella sua biblioteca. Che è appunto il mondo: c’è chi lo esplora sui pattini a rotelle! Succede nel film Umberto Eco – La biblioteca del mondo, di Davide Ferrario, una produzione Rossofuoco in collaborazione con Rai Cinema, presentato in anteprima qualche mese fa (da Belleville scuola di scrittura e festa del cinema di Roma) e ora pronto a sbarcare nelle sale cinematografiche d’Italia.

Un film che vale la pena di vedere perché è un ritratto importante del protagonista, una riflessione necessaria sulla memoria e un ragionamento profondo sulla natura del libro. Non senza ironia, naturalmente. Perché è stata la cifra del grande scrittore, che ha fatto di quella monumentale conoscenza uno strumento fantastico di divulgazione in forma di leggerezza.

Lo vediamo, per esempio, seduto davanti alla televisione con un nipotino a cui spiega, mentre passa la pubblicità, che non deve credere a tutte quelle parole perché si tratta di un messaggio promozionale. Poi però inizia il telegiornale e il nipotino sottolinea che dunque anche quelle parole non saranno tutte vere… e lo spettatore assiste in diretta a una lezione di semiotica formato bambino.

Poi ci sono i figli e la moglie, ci sono altri intellettuali che parlano di Eco e soprattutto dei suoi libri. Poi c’è Eco, animale da palcoscenico e grande affabulatore, oppure intervistato dalle televisioni di mezzo mondo, poi ci sono i suoi libri, quelli di cui è l’autore e i suoi scritti… Ma soprattutto c’è un’idea: la biblioteca come simbolo e realtà della memoria collettiva. Senza memoria, dice Eco in questo documentario, l’uomo è come una pianta, un vegetale.

Ecco perché la biblioteca è un luogo creativo e vivo, mai semplicemente una conservatoria o un archivio: in quello spazio-mondo i libri sono gli strumenti per costruire teorie, idee, altri libri, approfondimenti, viaggi immaginari e (forse) anche sogni. La biblioteca è il luogo dell’approfondimento, dello studio e della curiosità dove creare opere aperte. Lo sono tutte le biblioteche (e in questo film se ne visitano di splendide), ma non lo è Internet. Il motivo? Non stimola la memoria perché non si sente il bisogno di ricordare qualcosa. Non solo: troppe informazioni fanno rumore e il rumore non è uno strumento di conoscenza.

Torniamo ai suoi scaffali, stracolmi di volumi. Venticinque anni fa, racconta Eco proprio all’inizio del film, erano trentamila, poi non ha più avuto tempo di contarli. E se quell’intervista, girata da Ferrario in occasione della Biennale di Venezia e usata solo in piccolissima parte è stata l’occasione per tornare a casa Eco, questo film va molto più in là: conduce il pubblico nel fare creativo dello scrittore, nel suo ispirarsi, nel suo scombinare le carte per ricomporle in un pensiero decisamente geniale. «A chi viene a casa mia per la prima volta, scopre la mia biblioteca e non trova niente di meglio che chiedermi “Li hai letti tutti?”, io ho diversi modi di rispondere. Uno è “No, questi sono solo quelli che devo leggere la settimana prossima. Quelli che ho già letto sono in università”. La seconda risposta è: “Non ho letto nessuno di questi libri. Altrimenti perché li terrei?”». Parola di Umberto Eco (e perfetto titolo di viaggio per approcciare questo film).

DAGOREPORT il 23 Febbraio 2023.

La biblioteca di Eco è composta di tre elementi: 30mila libri moderni, circa 1200 libri antichi e l’archivio delle sue lettere, appunti inediti ecc. Solo questo terzo elemento è, in sé, di reale interesse nazionale-archivistico, poiché i libri antichi e moderni di Eco sono già tutti presenti nelle grandi biblioteche di Stato.

 Cosa fa, direi giustamente, la sovrintendenza/Stato dopo la morte di Eco? Vincola il “patrimonio materiale” (libri e archivio) del grande autore, onde evitare le lamentazioni giornalistiche del materiale del grande autore che finisce all’estero (Svizzera, Usa) VENDUTO dalla famiglia.

Lo Stato, di fatto, è subito sotto ricatto. Questo patrimonio ha valore culturale solo in quanto appartenuto a quell’autore, poiché in sé ha un valore economico strano: i 30mila volumi moderni sono un peso per lo Stato e per chiunque debba trovare uno spazio dove metterli altrimenti sarebbero da bancarella di remainders; i 2000 libri antichi, invece, hanno un valore significativo sul mercato antiquario, ma mai lo Stato li avrebbe acquistati per due milioni se non fossero appartenuti a Eco in quanto le biblioteche di Stato già posseggono questi libri antichi: lo Stato è “costretto” a comprarli dopo averli vincolati perché la famiglia non li dona e avrebbe potuto venderli attraverso una casa d’asta disperdendoli. L’archivio, invece, che interessa, resta alla famiglia.

Insomma, un po’ troppo comodo per la famiglia Eco. Sono i famigliari che tengono l’archivio, decidono di dare a Bologna i libri moderni del prof. (e l’università paga per trovare un posto dove metterli) e alla Braidense di Milano i libri antichi del loro illustre concittadino.

 Alla Braidense i libri antichi di Eco (comprati dalla Stato) sono dei doppioni di quelli che ha già ma, per celebrare il suo possessore, la Biblioteca (spendendo soldi di Stato) ricava con fatica una sala, che ristruttura e chiama “Biblioteca di Eco” e ci mette dentro questi libri (catalogati, ma inutili per la consultazione in quanto già presenti).

 Ora ci manca solo che la famiglia, dopo che lo Stato ha messo il vincolo a protezione, dopo non aver donato i libri ed essere stata pagata dallo Stato, dopo aver mantenuto presso di sè l’archivio, dopo aver deciso insieme dove mettere libri antichi e moderni torni indietro e obblighi lo Stato a ottemperare al suo stesso vincolo di “non dispersione”, chiedendo di mettere tutto a Milano o a Bologna (salvo ciò che interessa, l’archivio!). O far tornare tutto in casa Eco!

Roberto Cotroneo per il “Corriere della Sera” il 2 gennaio 2023.

Ancora negli anni Ottanta gli ottici fabbricavano lenti per miopi troppo spesse, e le montature erano solide. Per cui, quando mi sono ritrovato davanti la prima volta Umberto Eco, notai che le pupille erano ingrandite dalle lenti degli occhiali. E siccome era un uomo curioso, ti sembrava di essere di fronte a un uomo che ti faceva i raggi X, e per quanto bisognoso di occhiali, riusciva a vedere tutto, anche quello che non era palese. 

Si era ad Alessandria, alle fine di dicembre di un anno, il 1980, che al professor Umberto Eco avrebbe cambiato la vita. Il nome della rosa era uscito da due mesi. Ed era un buon successo. Ma nessuno avrebbe immaginato che l'aggettivo buono, adatto a qualcuno che aveva condotto la vita di un intellettuale bravo e serio, sarebbe diventato clamoroso e mondiale. Neppure lui.

Con Valentino Bompiani, suo editore e amico di una vita, si erano detti: «Pensi che ne venderemo ventimila? O forse no?». In Italia, e solo nei primi due anni erano già due milioni di copie. Per non dire nel resto del mondo. Le vendite de Il nome della rosa , nessuno riesce a contarle, un po' come le dimensioni dell'Universo. C'è chi dice 26 milioni di copie, chi va oltre. Poco importa. Quando superi certi numeri è tutto quello che c'è intorno che conta davvero.

 E dire che quella stessa estate, mentre viaggiava in treno da Milano a Bologna, Eco aveva incontrato Giorgio Bocca, che andava a Roma. Nel tratto di viaggio assieme gli aveva detto: «Non lo so, secondo me io sono condannato a fare Umberto Eco per il resto della vita, non cambieranno le cose nei prossimi vent' anni».

Voleva dire lezioni, conferenze, saggi colti e ammirati, pochi salotti intellettuali, amici cari che andavano e venivano, e non molto di più. Eco ha cinquant' anni, Giorgio Bocca dodici in più: sono già 62. Bocca gli risponde qualcosa che non sappiamo, perché la sua risposta non me l'ha detta. Certo qualcosa di solido e al tempo stesso sghembo come era lui: ex partigiano di Cuneo.

Erano entrambi ironici, disincantati, abituati al grigio, alla nebbia, e a certe ruvidezze.

Non è bastato il ruvido realismo piemontese. Eco avrebbe stupito il mondo. Vendendo un libro di 600 pagine, pieno di dispute medievali, poco o niente sesso, ragionamenti aristotelici, e un po' di monaci ammazzati, in milioni di copie anche in luoghi dove l'uomo medioevale era paragonato all'incirca, per distanza e percezione, all'australopiteco.

 Una volta, a Montgomery, in Alabama (ma lui non era sicuro, forse era Austin, Texas, ma siamo sempre nel Sud degli Stati Uniti) presentando Il nome della rosa , disse che non avrebbe mai fatto un'analisi semiotica sul suo romanzo, perché sarebbe stato come «operarsi di emorroidi da solo». Due giorni prima, a Boston, l'espressione era stata: sarebbe come «psicoanalizzare i miei figli». Paese che vai, paragoni che trovi. E lui era così. Poi l'analisi la fece, con le Postille , ma tutti glielo chiedevano, e in queste cose non si sottraeva.

In altre sì. Fu una fortuna incontrarlo e intervistarlo nel 1980. L'inizio di un'amicizia potrei dire, con un certo pudore, peraltro. Già non dava quasi più interviste. Già le sue fedeli segretarie, la signora Cioncolini a Milano e la Simona a Bologna, filtravano tutte le telefonate. Non esistevano mail e cellulari, naturalmente.

 Il cellulare non gliel'ho mai visto in mano, fino a un anno prima della morte, quando una sera a casa di suo figlio Stefano, con pochissimi amici, Riccardo Fedriga, Roberto Benigni, Danco Singer, molto rilassato, ha tirato fuori dalla tasca uno smartphone. L'ho guardato come avrei potuto guardare Napoleone Bonaparte che si mette alla guida di una Lancia Aurelia. Aveva un cellulare? E chi poteva immaginarlo.

E dire che tecnologico lo era da sempre, e prima di tutti. In genere nelle cose lui era prima di tutti. Prende un ebreo newyorkese con la passione per i film e il cinema che si fa chiamare Woody Allen, e pubblica i suoi libri per Bompiani.

 Nessuno lo conosceva. La stessa cosa fa con un americano schivo e silenzioso, che disegna fumetti con bambini molto saggi e un cane che scrive romanzi, lo consiglia a Milano Libri, e scrive la prefazione, che inizia così: «Charles Schultz non beve, non fuma e non bestemmia». È la data di nascita dei Peanuts in Italia.

Inventa saggi dove le teorie dell'informazione vanno a braccetto con la filosofia. Sdogana per primo quello che riteneva andasse sdoganato. Ma il termine allora non si usava.

Per avere un'idea, citandoli di seguito: Flash Gordon, Ian Fleming, Carolina Invernizio, Guido Da Verona, Eugene Sue e in generale il romanzo di appendice.

 Tutti pensano fosse professorissimo e curiale. Era l'opposto. L'arte della barzelletta doveva avergliela insegnata suo zio Romeo. Lo zio più giovane che di professione era sarto. E che era spiritoso e divertente, e ne raccontava molte. Da lì poi i calembour, i giochi linguistici, la passione per l'enigmistica, e un suo modo di contenere mondi diversi.

Appassionato di musica contemporanea e del flauto barocco, passava l'estate a Monte Cerignone, in quelle Marche in odor di Romagna, a esercitarsi.

 Con Luciano Berio che lo guardava severo: «Umberto il flauto negli ultimi anni lo suona sempre peggio», mi ha detto una volta divertito. Ma le passioni musicali di Eco andavano da Boulez a Gorni Kramer. Meglio: a Gianni Coscia. Una vita assieme. Compagni di banco al Liceo Plana di Alessandria. Amici di sempre. Gianni, jazzista e grande fisarmonicista ha inciso un disco, se ancora si può dire in tempi di Spotify, con le musiche del romanzo La misteriosa fiamma della Principessa Loana .

Dove si passa da Ma l'amore no a Stormy Weather . Quel pomeriggio non sapevo ancora nulla di lui. E avrei continuato a sapere assai poco, se non fosse stato per i suoi romanzi, che riguardo al suo privato erano come dei chiavistelli. Confrontavi storie che raccontava nei libri, con quello che ti diceva a cena, o davanti a un caffè e una sigaretta, e trovavi il disegno segreto. Capivi qualcosa di lui, perché altrimenti il suo riserbo era quasi impenetrabile. Quando gli chiesero perché si era messo a scrivere romanzi a cinquant' anni, lui rispose: «perché avevo voglia di avvelenare un monaco».

Quando pubblica la sua tesi di laurea, discussa con Luigi Pareyson, il titolo è Il problema estetico in San Tommaso d'Aquino . Quindici anni dopo, nella riedizione per Bompiani, toglie il San. E diventa Il problema estetico in Tommaso d'Aquino . Ormai l'Azione Cattolica è diventato il passato. È ateo ed era cattolico.

 Chiunque altro avrebbe dato interviste su quel cammino e quel percorso, fino a sfinirci. Lui toglie il San, e chi vuole capire capisca. In questa sciarada continua, le domande erano poche: «Umberto, il finale del Pendolo di Foucault , è una storia tua». Certo che è una storia sua. La sua passione per la tromba, il Genis per essere precisi. E quale dei tuoi libri ti porteresti nell'isola deserta? E lui che ti guarda nello stesso modo, anche se nei decenni le montature si sono fatte più sottili, e le lenti meno spesse.

Ma quegli occhi ti scrutano e per certi versi ti inchiodano ancora: «È il Pendolo Umberto, il tuo libro preferito tra quelli che hai scritto?». E lui: «Lo hai detto tu». L'ho detto io. Ed è stato il suo modo di rispondermi. Le ermeneutiche impazzite, le semiosi incontrollate, la teoria del complotto sono state le sue ossessioni. Oggi regolano sempre di più il mondo che abitiamo.

 Ancora una volta lo sapeva prima degli altri. È sempre stato il suo modo di capire il gioco e anticiparlo. Non sarà un caso che i due alessandrini più famosi sono stati Umberto Eco e Gianni Rivera: genio del calcio, pallone d'oro, numero 10 prima di tutti i numeri 10 che sarebbero venuti dopo. Come Umberto, anche Rivera è nato in un luogo piatto, grigio e nebbioso. Ma forse proprio in posti così possono nascere e crescere geni eccentrici come loro.

"La mia Roma della Dolce vita. Così sono nati i paparazzi". Dalla campagna di Zagarolo alla Roma di Via Veneto, le grandi star, la dolce vita, la nascita del paparazzismo e l'amicizia con Almirante. Il "compagno" Umberto Pizzi si racconta. Federico Bini l’8 gennaio 2023 su Il Giornale.

Umberto Pizzi da Zagarolo, 85 anni, è l’ultimo grande testimone di una Roma che non c’è più. Quella della sfavillante e leggendaria Via Veneto e di Hollywood sul Tevere. Dei caffè, delle osterie e dei night. Con la sua macchina fotografica ha immortalato i grandi della terra, da Giovanni Paolo II a Onassis, da Gianni Agnelli a Gorbaciov. Nei palazzi romani – che conosce a memoria - è una vera istituzione, anche se lui le istituzioni le fotografa. Il “compagno” Pizzi, di profonda fede comunista, ha mantenuto nel corso della sua lunga carriera – vissuta a gran velocità tra una via e l’altra di Roma – buone amicizie anche a destra. Storico è stato il suo legame con Giorgio e donna Assunta Almirante. Al compleanno del democristianissimo Gianfranco Rotondi anche il presidente del Consiglio Meloni gli ha reso omaggio con tono ironico e divertito: “Guarda chi c’è, il comunista Pizzi”. E gli ha dato un bacio sulla guancia. La prima donna premier e di destra che saluta lo storico comunista. Anche questa è Roma, la città eterna, che si adatta ai cambiamenti del tempo e dei nuovi personaggi al potere. E Pizzi è lì, intramontabile, pronto con il suo obiettivo a ritrarli tra vizi e virtù, tra luci e ombre, tra ascese e cadute. Click.

A 85 anni continua a fotografare e a lavorare. Non si è stancato?

No. La ragione è che quando uno comincia a invecchiare se ti fermi è una tristezza. Specialmente per un uomo che è sempre stato attivo… Insieme a una mia nipote, stiamo sistemando l’archivio fotografico, e siamo arrivati a quarantamila foto, ma saremo forse al dieci percento. Voglio salvare l’archivio perché non deve morire, deve essere una testimonianza per il futuro, per la gente che vorrà sapere come eravamo, come ci comportavamo, come vestivamo, come ci divertivamo… la fotografia ha una grande virtù, è un racconto. L’importante è saperla leggere. E questo mi dà motivo di lavorare”.

Come nasce la sua passione per la fotografia?

A diciotto anni non sapevo cosa fare. Trovare un lavoro fisso non mi eccitava molto. Vivevo in campagna, avevo una di quelle ‘macchinette a soffietto’, e mi misi a fotografare ogni cosa, le radici dell’albero, le persone anziane… All’inizio degli anni ’60 vivevo in Via Veneto, dove c’era un ricco signore, proprietario di un albergo che aveva perduto una gamba e aveva bisogno di un assistente che lo accompagnasse, così mi misi al suo servizio. In questo contesto ebbi modo di conoscere un austriaco – aiutava il mio datore di lavoro a fare ginnastica – che volle presentarmi una sua amica, picture editore della FAO. Accettai alcuni progetti in Medio Oriente, tuttavia la paga era poca e pensai di trovare un posto fisso, che mi garantisse tredicesima, feste, malattie ecc… ma alla fine mi dette un consiglio prezioso che seguii alla lettera. “Senti Umberto, perché non guardi come lavorano i paparazzi?”. Capii dopo poco che era un lavoro che mi eccitava e in sei mesi diventai quasi una star. Avevo tutte le caratteristiche per fare bene, soprattutto la velocità di comprendere le cose, un occhio molto attento e poi la volontà…”.

Lei ha lavorato nella Roma della dolce vita.

Sono stati anni bellissimi. Roma era una città appetibile per il mercato cinematografico, costava poco a differenza di Hollywood. Cominciarono ad arrivare le grandi star come Elizabeth Taylor, Richard Burton, Anita Ekberg, Ursula Andress… Dopo il successo di Fellini, era iniziata un’altra dolce vita, la vera, che in effetti ha proseguito quasi fino alla fine degli anni ’80. L’italiano stava uscendo dal dopoguerra e andava a divertirsi, a vivere la notte… si vedevano fuori dai night le macchine di lusso, dalle Rolls-Royce alle Ferrari, e c’era una serie di playboy, quasi tutti nati all’interno della nobiltà che si divertivano, si scambiavano le donne”.

Tra le tante celebrità incontrate chi ricorda particolarmente?

Sophia Loren, Gina Lollobrigida, le bellezze italiane… ma anche la Taylor era la Taylor. Venivano tutti a Roma e quando arrivavano si divertivano. Gli americani venivano per vedere il Colosseo, Fontana di Trevi e per andare al Jackie O’ e Number One…”.

Prova nostalgia?

Io provo nostalgia perché ero giovane. Ero capace di fare le tre, le quattro di notte, e la mattina mi arrivava una telefonata “vai a Montecarlo”, “vai a Capri…”. Si montava in macchina e si andava, perché si aveva l’incoscienza, la forza e poi si guadagnava bene”.

Qual era il segreto che adottava nell’andare a scovare le star?

Io utilizzavo un sistema, ero diciamo un “osservatore antropologo”, studiavo i personaggi. Quando arrivavano per girare un film, per due, tre giorni non prendevo nemmeno la macchina fotografica, li studiavo da quando uscivano dall'auto e dalla direzione che prendevano, così poi mi piazzavo con il teleobiettivo dalla parte opposta e facevo le foto di nascosto. Con la Elizabeth Taylor intrapresi una vera e propria sfida. Lei quando veniva a Roma per tre giorni stava chiusa nella suite al Grand Hotel per il jet lag”.

Come era il rapporto con le star?

Direi di amore e odio. Anche se, essendo bravi a fare le foto, quando uscivano erano particolarmente belle che questi signori si sentivano quasi santificati…”.

Quand’è che nascono i paparazzi?

I primi paparazzi nacquero a Roma alla Stazione Termini con l’aiuto di Edilio Rusconi. Prima di essere editore, fu un eccellente giornalista dell’Oggi. Allora la redazione del settimanale era in Via Veneto. Quando scendeva dal treno – questo signore piccolo, bassetto ma molto tosto - vedeva tanti fotografi, reduci dal dopoguerra che davano il bigliettino nel tentativo di racimolare qualche soldo dai turisti e gli diceva “ma ragazzi che state a fare? C’è Hollywood sul Tevere, andate in Via Veneto, fate foto alle star, guadagnate quanto un mese a stare qui!”.

Che tipo di paparazzo era?

Io mi sono sempre definito un paparazzo intellettuale… studiavo la persona, mi informavo e facevo lavorare il cervello”.

Mastroianni?

Era un uomo un po’ intristito, incupito, ti contestava sempre. Diceva “Umberto perché non fai il metalmeccanico?” e io gli rispondevo “A Marce’ questo è il mio lavoro. Perché non lo fai te?”. Lo colpivo ferocemente. Aveva la nomea del playboy, anche se veniva “violentato” dalle attrici con cui girava i film, specialmente bionde. Tant’è vero che sua mamma ogni tanto andava sul set e gli diceva “Marce’ ma non anna’ con ‘ste donnacce… so’ donnacce” e lo accarezzava sulla guancia”.

La Loren?

Se ne stava sulle sue. Io l’ho pizzicata molte volte… la seguivo ovunque. Tra l’altro il mio editore del National Enquirer ne era innamorato pazzo e mi ripeteva “Umberto go on… unlimited budget”.

Anna Magnani?

Era come incontrare una cummare, aveva un fascino popolare, non le piaceva apparire… viveva a Palazzo Altieri, noi ci appostavamo fuori e prima di chiudere il portone diceva “beh, mo’ che me volete fa’?”.

Sordi?

Era sempre sorridente e divertente. Io credo che non ci sia qualcuno che conosca profondamente Alberto Sordi. Però era una brava persona. A me piaceva molto”.

Vittorio De Sica?

Personaggio straordinario, ha fatto dei capolavori. Pensava molto al suo successo ed era un ‘francese’ in quanto viveva più a Parigi e Montecarlo che a Roma”.

Flaiano?

Dopo aver fatto il film di Fellini non si vedeva più in giro. Lui è stato quello che ha fatto nascere La dolce vita, Fellini l’ha portata sullo schermo”.

Il 16 marzo del ’78 fu tra i primi ad arrivare in Via Fani.

Quella fu una giornata che cambiò l’Italia. In quel periodo collaboravo con una testata americana molto famosa, mi chiamò una giornalista che ci lavorava dicendomi “Umberto corri in Via Fani. Hanno ammazzato Moro”. Io abitavo a San Basilio, in linea d’aria a sette, otto km, sono montato sul motorino e a gran velocità ho raggiunto Via della Camilluccia. Ad un certo punto si doveva girare ma era tutto occupato dalla polizia. Siccome il nostro mestiere è fatto di velocità del pensiero, ho girato contromano e sono arrivato in Via Fani. Uno scenario terribile. I corpi della scorta di Moro senza vita e i proiettili in terra che era impossibile non calpestare”.

Il leader della sinistra che ha amato di più?

Berlinguer”.

Si sente ancora oggi un compagno?

Sì, assolutamente. Il comunismo ha fatto il suo percorso, non ci sono più i comunisti di un tempo, però penso che ci siano delle cose da mettere a posto in questo paese”.

A destra aveva buone amicizie?

Sì. Avevo un buon rapporto con Almirante. Il leader missino andava al night, era un gran tombeur de femmes… Io fino alla morte sono stato un amico di donna Assunta. Giorgio diceva di me “lui è un compagno! Ma è il mio fotografo preferito”. Una volta li fotografai fuori da un ristorante vicino Piazza Navona. Non si vedevano spesso in giro insieme, così scattai delle foto. Almirante le comprò una rosa, donna Assunta la prese, venne contro di me come se mi volesse menare e le dissi “mo’ che me voi mena’?”. E ci siamo messi a ridere tutti quanti”.

Il primo presidente della Repubblica che ha fotografato?

Saragat. Poi li ho ritratti tutti, fino a Mattarella. Anche se non era molto gettonato fotografare il presidente della Repubblica, non pagavano niente e c’è sempre una certa attenzione… a pensarci bene non credo di aver mai dato una foto all’Unità o a Paese Sera. Noi fotografavamo le persone che andavano sulle riviste patinate e non sui giornali”.

E tra i pontefici?

Il primo fu Giovanni Paolo II nel ’78, perché un magazine americano mi chiese i dieci uomini a lui più vicini”.

Lei conosce ogni angolo di Roma. Qual è la cosa che ama di più di questa città e quella che le fa più paura?

Io amo tutto di Roma. Roma è come una bella signora, non invecchia mai e poi è sempre accogliente. Quello che mi fa paura è la gente che c’è dentro”.

Chi avrebbe voluto fotografare?

Che Guevara”.

È un mestiere che ha un futuro?

Secondo me no. Con l’avvento dei telefonini hanno bruciato tutto. La gente poi è molto cambiata, ha perso anche il gusto di godere di un’immagine”. Federico Bini

Maria Anna Mozart, la sorella geniale (e sconosciuta) di Amadeus. Si dice che il suo talento superasse quello del fratello e che le prime opere di Mozart siano state composte da lei. Visse di musica ed ebbe una vita più lunga e agiata del fratello. Elisa Zanetti il 19 Aprile 2023 su Il Giornale

Tabella dei contenuti

 Enfants prodiges

 La fine della carriera

 I rapporti con la famiglia

 Il lavoro da insegnante di musica

 Consigli di lettura per conoscere più a fondo la storia di Maria Anna Mozart

"A soli dodici anni, è tra i migliori pianisti d’Europa". Con queste parole Leopold Mozart non si riferiva al suo geniale e celeberrimo figlio Wolfang Amadeus, bensì a sua figlia Maria Anna Mozart. Non tutti sanno che nella famiglia Mozart l’amore per la musica e il talento non riguardavano solo il padre musicista e compositore Johann Georg Leopold Mozart e lo straordinario Wolfang Amadeus, ma anche Maria Anna. Quarta figlia di Leopold e di Anna Maria Walburga Pertl, insieme al più noto fratello Anna Maria fu l’unica sopravvissuta dei sette figli della coppia, mentre gli altri morirono tutti nei loro primi mesi di vita. Il suo forte attaccamento alla vita e la sua forza le valsero il soprannome di Nannerl, “benedizione di Dio”.

Enfants prodiges

Maggiore di cinque anni rispetto ad Amadeus, fu probabilmente lei che, esercitandosi, accese la passione per la musica nel fratello. Non solo: alcuni studiosi ritengono che alcune delle prime composizioni di Mozart andrebbero invece attribuite alla sorella. Maria Anna era infatti solita comporre dei brani per Amadeus, affinché il fratellino imparasse a suonare ed era sempre lei a riportare sullo spartito le prime creazioni di Amadeus, quando egli ancora non era capace di scrivere da solo. Il percorso musicale di Maria Anna iniziò a sette anni con lezioni di clavicembalo e pianoforte impartite direttamente dal padre, spesso alla presenza del piccolo Amadeus che la ascoltava suonare e che presto avrebbe dato a sua volta prova delle sue incredibili doti.

La fine della carriera

Nel 1762 la coppia di fratelli geniali fu chiamata a esibirsi davanti all’imperatrice Maria Teresa d'Austria, quando Maria Anna Mozart aveva solo 11 anni e Amadeus 6 e, successivamente, tra il 1763 e il 1766, la giovane artista e il fratello partirono per un tour in numerose città d’Europa. I due iniziarono anche a comporre le loro prime opere. Purtroppo però al percorso di Maria Anna restavano pochi anni: al compimento dei 18 anni e al raggiungimento della cosiddetta “età da marito”, il padre scelse di non portare più con sé la figlia e di destinarla a un matrimonio sicuro con un ricco magistrato, il barone Johann Baptist von Berchtold zu Sonnenburg.

I rapporti con la famiglia

Nonostante l’abbia allontanata dal successo che aveva iniziato ad assaporare e l’abbia privata della possibilità di continuare a esprimere la sua genialità, Maria Anna Mozart restò comunque legata al padre e, per lungo tempo, anche al fratello. Restano tracce del grande affetto tra i due nelle lettere di Amadeus alla sorella (le risposte di Maria Anna sono per lo più andate perdute). L’allontanamento fra i due si avrà solo con la scarsa vicinanza geografica - una volta sposata, Maria Anna si spostò nel villaggio di Sankt Gilgen, a sei ore di carrozza da Salisburgo, dove invece viveva il fratello - e il passare degli anni, ma nella parte finale della sua vita, quando Amadeus era ormai morto da tempo, Maria Anna ritrovò grande serenità nel rapporto con uno dei nipoti, Franz, con il quale strinse un legame profondo.

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Il lavoro da insegnante di musica

In tanti, ai tempi in cui Maria Anna Mozart calcò i più celebri palcoscenici in città come Vienna, Parigi e Londra, affermarono che il talento della giovane era addirittura maggiore di quello di Amadeus. Non se ne avrà mai la certezza, ma di certo si sa che Maria Anna, a cinquant’anni, rimasta vedova, per mantenere sé stessa e i suoi figli tornò felicemente a lavorare come insegnante di musica e il destino le donò una vita lunga e una morte serena, diversa da quella tormentata del suo giovane fratello, che trascorse i suoi ultimi anni sommerso dai debiti e morì a soli 35 anni.

Consigli di lettura per conoscere più a fondo la storia di Maria Anna Mozart

Ci sono diversi libri che raccontano la storia di Maria Anna Mozart, tra questi troviamo il romanzo La sorella di Mozart di Rita Charbonnier (Marcos y Marcos, 2022); il saggio Le sorelle di Mozart, Storie di interpreti dimenticate, compositrici geniali e musiciste ribelli di Beatrice Venezi (Utet, 2020), che racconta non solo la storia di Anna Maria Mozart, ma anche di tante altre musiciste cui fu impedito di suonare, di firmare i propri componimenti o di accedere ai conservatori solo perché donne. Infine, per i lettori più piccoli, dai cinque anni in su, la biografia illustrata Sono una Mozart anch'io! Il genio perduto di Anna Maria Mozart di Audrey Ades (Edizioni Arka, 2022).

Il ricordo dello scrittore. Chi era Vasco Pratolini, un maestro finito nell’oblio. Intimistico ma allo stesso tempo capace di leggere tra le pieghe del Novecento, lirico e realista. Da “Cronaca familiare” a “Metello” ha raccontato l’Italia degli umili e dei semplici. Filippo La Porta su L'Unità il 18 Ottobre 2023 

Do you remember Vasco Pratolini, nato un 18 ottobre di tanti anni fa (1913)? A ricordarci l’anniversario un libretto utile, simpatetico e scritto con mano felice da Valerio Aiolli: A Firenze con Vasco Pratolini. Baci, spari e altre forme di amore (Perrone). Basterebbe questa notazione, fondamentale per introdurci allo scrittore fiorentino: “I libri di Pratolini sono pieni di baci. Baci tra ragazzini e ragazzine, tra uomini e donne, tra donne e donne, tra uomini e uomini…non sono mai baci distratti, ciascuno di essi è una porta che conduce a un altrove”. Anche seguendo qui e là Aiolli proviamo a tracciare un veloce ritratto dello scrittore.

Pratolini non aveva bisogno di andare verso il popolo poiché dal popolo proveniva. Figlio di un cameriere e di una sarta (presto orfano di madre), ha fatto i mille mestieri – garzone di bottega, venditore di caramelle nei cinema, fattorino d’albergo, tipografo…- , prima di collaborare a qualche rivista letteraria, prima il Bargello poi Campo di Marte da lui fondata. Partecipò alla Resistenza dopo una giovanile adesione al “fascismo di sinistra” (insieme a Vittorini e Bilenchi). Considerato un narratore imprescindibile del dopoguerra e della grande stagione neorealista, ispiratore con i suoi romanzi di una quantità di film (lui stesso sceneggiatore, con Rossellini, Blasetti. Lizzani, etc.), appassionato di sport popolari (pubblicò un reportage sul Giro d’Italia), autore di radiodrammi, lo scrittore “della simpatia umana” (Pampaloni) è via via sprofondato in un ingiusto oblio, per motivi diversi.

Lui stesso vi ha contribuito con l’afasia degli ultimi due decenni (morì nel 1991). Ma soprattutto è scomparso il mondo che raccontava: a quel “popolo” – con la sua identità specifica, le sue spinte ideali, le sue passioni quotidiane – si è sostituita la “massa”, amorfa e passiva. Eppure non è uno scrittore anacronistico poiché in letteratura, al contrario che nelle scienze, niente è mai superato definitivamente: non vi è un progresso unilineare. E anzi, dato che in un romanzo si può inventare tutto tranne la psicologia, come diceva Tolstoj – uno degli scrittori a lui più cari (una volta lo andai a trovare: il suo cane si chiamava Pierre, per omaggiare il Bezuchov di Guerra e pace) – è proprio sulle sue finissime analisi psicologiche, sulla enciclopedia delle emozioni della sua “commedia umana” che possiamo ritrovare la attualità di Pratolini.

L’opera pratoliniana oscilla tra ruvido realismo, molto toscano (si pensi a Tozzi) e una vena lirica, elegiaco-sentimentale, su cui volle infierire il ferrigno Asor Rosa di Scrittori e popolo (1965). Ora, se a tratti possiamo trovare limiti di bozzettismo e di Arcadia, l’impressione è che lo scrittore resti tolstojanamente fedele a quella storia minore dei suoi personaggi – più reale della grande Storia – , alla piccola vita della piccola gente del quartiere, ai baci rubati agli angoli delle strade. Protagonista dei romanzi è la luce. Pratolini, come osserva giustamente Aiolli, richiama subito il suo amico Ottone Rosai, grande pittore fiorentino, come lui raffinato e popolare, ritrattista degli umili, delle osterie e di certi scorci di Firenze. Esordisce con i racconti autobiografici del Tappeto verde (1941), poi le grandi rappresentazioni corali: Cronaca familiare (1947), Cronache di poveri amanti (1947) e Le Ragazze di San Frediano (1952). Raggiunge il successo con Metello (1955), su un giovane muratore fiorentino tra gli scioperi degli edili dei primi del ‘900: fu un caso letterario e di politica culturale, esaltato da Carlo Salinari – il critico più autorevole del Pci – in quanto passaggio dal neorealismo al realismo, e superamento dell’odiato decadentismo.

Con Metello inaugura una ambiziosa “Storia italiana” che continuerà ne Lo scialo, 1960, ricostruzione “polifonica, dinamica, acutissima” (Aiolli) degli inizi del fascismo attraverso un ritratto acuminato della borghesia, e infine Allegoria e derisione, 1966. Non sembrerebbe uno scrittore di irresistibile appeal per un ventenne di oggi, ma se apriamo uno qualsiasi dei suoi romanzi è difficile non restare colpiti dalla naturalezza del narrare, dall’accento di verità dei dialoghi, dalla serissima leggerezza con cui ritrae la spuma dell’esistenza. Mi soffermo sul romanzo più bello di Pratolini, anche se non il più noto: Un eroe del nostro tempo (1947), dove mette in scena un giovane fascista, il 16enne Sandrino negli anni del dopoguerra, che vuole essere fedele alla memoria del padre morto in Africa.

Un ragazzo vitale e irruento, di innocente brutalità, primitivo nelle sue reazioni e imbevuto di slogan repubblichini. In conflitto col mondo, intende rifarsi contro le donne (umilia e picchia la vedova con cui ha una storia) e contro la società (entra in una banda di criminali). Nella parte finale incontra una coetanea con la quale sente un legame di amore, fatto di reciproca fiducia e aspirazione alla purezza. Ma prevale la sua “ombra”, una oscura vocazione autodistruttiva. Come vede Pratolini il fascismo? Sandrino è un ragazzino psichicamente disturbato (con un bisogno di risarcimento), ma soprattutto confuso.

Lei gli dice: “sembra che le parole ti escano di bocca senza che tu le accompagni col pensiero”. Rappresentare il fascismo come assenza di pensiero e devianza psicopatologica può sembrare riduttivo. Eppure, pensando agli stessi scrittori che a un certo punto diventarono fascisti- da Céline a Pound – potremmo concludere che la loro adesione al fascismo corrisponde a un obnubilamento. Per Hannah Arendt l’integerrimo funzionario nazi Eichmann si spiegava con la interruzione del pensiero, del dialogo con se stessi.

Il libro di Aiolli è una guida pratoliniana perfino minuziosa a strade e piazze di Firenze, ed è anche un saggio critico originale, ad esempio la pagina sui memorabili personaggi femminili pratoliniani. A un certo punto leggiamo: “Non è possibile parlare di Pratolini senza parlare di politica”. L’impegno dello scrittore sfuma in una integrità anzitutto morale, come quando rifiuta la offerta di collaborazione al Corriere nel 1957. Ma forse quello dell’engagement è il principale equivoco a cui oggi potremmo legare la figura di Pratolini. Sapeva infatti che l’unico impegno autentico dello scrittore è prendersi cura delle parole. In un’intervista volle paragonare la letteratura a “fare degli esercizi di calligrafia sulla pelle dell’uomo”. Dunque: scrivere bene sulla “pelle dell’uomo”, sulla superficie frastagliata della sua vita emotiva e intellettuale. Filippo La Porta 18 Ottobre 2023

Veronica Tomassini, la scrittrice irregolare che racconta gli ultimi: «Lì ho trovato Dio». Francesca Barra su L'Espresso il 26 Maggio 2023 

L’amore per Slawek, incontrato mentre chiedeva l’elemosina, ha condizionato la sua vita. E, quindi, gran parte della sua produzione letteraria. «Il mio sguardo si è spostato sulle ombre, tutto mi faceva pietà. Ancora oggi ho un’ipersensibilità da abbandono»

«Dio mi ha messo davanti a storie non ordinarie, enormi, ogni tanto credo che mi abbia sopravvalutata». Veronica Tomassini è una scrittrice potente, raffinata, libera, probabilmente la più interessante penna degli ultimi anni, anche se niente di ciò che scrive è consolatorio e rassicurante. Leggerla ti lascia la stessa sensazione che provi di fronte a uno scatto del fotoreporter brasiliano Sebastiao Salgado: respiri le fatiche umane. Non c’è una lezione morale, non c’è bisogno, eppure diventa un manifesto sociale, con la sua cruda verità che ha un sola origine: l’amore.

Non ha un’immagine pubblica ordinaria, dunque non la troverete nei luoghi dove siete soliti rintracciare gli scrittori e i giornalisti. Vive a Siracusa, nella casa di campagna dei suoi genitori, con suo figlio Patrick, avuto da Slawek, grande amore della sua vita che ha condizionato gran parte della sua produzione letteraria. Polacco, alcolista, orfano e bellissimo; chiedeva l’elemosina al semaforo della sua città quando l’ha incontrato. Questa storia è diventata nel 2010 un libro dal titolo “Sangue di cane”, un caso letterario, la storia della sua vita. «Devi andare lì dov’è la tua ferita, non ci devi girare attorno». Le disse il curatore editoriale Giulio Mozzi quando la scoprì.

«Mi sono fermata a Siracusa a un semaforo e ho visto un ragazzo bellissimo chiedere l’elemosina non perché fosse povero, ma perché era alcolista. I suoi amici morivano, lui si è salvato. Per anni l’ho aspettato quando spariva o sono corsa a riprenderlo. Dio l’ho incontrato lì, non dentro una Chiesa, ma nei parchi dove la gente moriva, per me lì c’erano indizi di eternità. Ridotti com’erano quei reietti della società, non riesci a immaginare che un tempo fossero stati perfino uomini. Uscivo e non sapevo se tornavo viva perché finivo in ambienti pericolosi, rischiavo la vita».

Nessun salotto, nessun talk show, nessuna strategia mediatica, la stessa vita di sempre, nella sua «solitudine geografica». Nel 2019 ha pubblicato “Mazzarrona”, candidato al premio Strega; nel 2020, decide invece di auto-pubblicare il romanzo epistolare “Vodka siberiana”, l’ennesimo successo di critica. Lo fa malgrado avesse già pubblicato con case editrici come Marsilio, Feltrinelli, soprattutto per la consapevolezza di avere un linguaggio non conforme, che non somiglia a nessuno.

«Ho studi limitati e ogni tanto penso come facciano a uscirmi le parole. Per molto tempo non avevo modo di essere una brava madre, di scrivere. Ancora oggi non c’è giorno che io non pianga, ho un’ipersensibilità da abbandono. Mi sento disperata e malgrado questo puntualmente vengo abbandonata. Quando c’era lui ero felice, anche nella disperazione: questo era amore. Oggi non sono più innamorata».

Il suo sguardo così lucido e «deragliato sugli ultimi», di pietà nei confronti dei perdenti si è acceso per caso, a otto anni, quando ha scelto di leggere il libro: “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”. «Il mio sguardo ha iniziato a spostarsi sulle ombre. E per me quell’ombra era luce, tutto mi faceva pietà, se c’era qualcuno sdraiato per terra io lo fissavo. Volevo capire. Ho delle difficoltà oggettive che hanno condizionato la mia vita. Sono una irregolare».

Veronica non ha avuto una vita infelice, non una vita felice. Tuttavia, tutto ciò che malgrado questo, o forse per questo, è stato prodotto è diventato bellezza. Come l’ultimo libro, “L’inganno”, edito da La nave di Teseo.

Stralci da “Diari II (1920-1924)”, di Virginia Woolf (ed. Bompiani), pubblicati dal "Fatto quotidiano" il 7 Settembre 2023

Soltanto il pavimento mi separa da T. S. Eliot. La cosa strana è che ha gli occhi vivaci e giovani mentre l’impronta del viso e lo stile delle sue frasi è formale e perfino pesante. Pare un viso scolpito – senza labbro superiore: imponente, poderoso; pallido. E poi quegli occhi castani sembrano sfuggire al resto della persona... 

È migliorato col procedere della giornata; rideva più apertamente; è diventato più simpatico. L. (Leonard Woolf, marito di Virginia, ndr) l’ha trovato deludente quanto a cervello – meno poderoso del previsto, e con minore flessibilità mentale. Io sono riuscita a non farmi sommergere, anche se un paio di volte ho sentito l’acqua salire. 

Con questo intendo che lui ha ignorato del tutto le mie pretese di scrittrice e se fossi stata più remissiva immagino che sarei finita sott’acqua – ho sentito lui e le sue opinioni dominanti e sovversive... Dopo il tè abbiamo parlato un po’ delle cose che scrive. Ho il sospetto che celi una buona dose di vanità e anche di inquietudine al riguardo. L’ho tacciato di nascondere volutamente le transizioni.

Lui ha detto che le spiegazioni non servono. Se le inserisci, annacqui i fatti. Andrebbero intuite senza spiegazioni. L’altra mia accusa è stata che serve una mente ricca e originale per avvalorare una scrittura così psicologica. Lui mi ha detto che niente gli interessa quanto le persone. Non riesce a leggere Wordsworth quando parla di natura... 

James Joyce offre interni. Il suo romanzo Ulisse presenta la vita di un uomo in 16 episodi che si svolgono tutti (mi pare) in una sola giornata. Eliot, per quello che ha visto, dice di trovarlo davvero geniale. Forse cercheremo di pubblicarlo. Ulisse, secondo Joyce, è il più grande personaggio della storia. Joyce in sé e per sé è un tipo insignificante, con gli occhiali spessi un dito, un’aria un po’ alla Shaw, scialbo, egocentrico e sicurissimo del fatto suo. C’è molto da dire sui tanti aspetti di Eliot – per esempio la difficoltà di stabilire un contatto con le persone intelligenti – e via dicendo – anemia, imbarazzo; la sua mente, però, non è ancora spuntata né offuscata. Vuole scrivere in un inglese preciso; ma si sorprende a fare dei lapsus; e se qualcuno gli domandasse se intendeva quello che ha detto, dovrebbe rispondere, molto spesso, di no...

Perché la vita è così tragica; così simile a una piccola striscia di asfalto sopra l’abisso? Guardo giù; sento una vertigine; mi domando come farò a camminare fino in fondo. È il senso d’impotenza: di non farcela... 

La malinconia diminuisce man mano che scrivo. Allora perché non ne scrivo più spesso? È la vanità a impedirmelo. Voglio apparire stimata anche ai miei occhi. Ma non arrivo al sodo. È il fatto di non avere figli, di vivere lontano dagli amici, di non riuscire a scrivere bene, di spendere troppo per mangiare, di diventare vecchia – penso troppo ai perché e ai percome: troppo a me stessa. Non mi piace che il tempo mi svolazzi intorno. Allora lavora. Sì, ma mi stanco così in fretta del lavoro – non riesco a leggere più di un pochino, un’ora di scrittura basta e avanza. 

Nessuno viene fin quaggiù a perdere piacevolmente tempo.

Se vengono, mi dà fastidio. Andare a Londra è una sfacchinata... È la vita in sé e per sé, penso certe volte, per noi della nostra generazione così tragica. L’infelicità impazza; basta uscire di casa; o la stupidità, che è peggio. Ma ancora non riesco a estirpare quest’ortica che ho dentro...

Penetrata di rado come sono dall’amore per il genere umano, a volte mi spiace per i poveri che non leggono Shakespeare, e devo dire che ho avuto una generosa ipocrisia democratica all’Old Vic quando hanno messo in scena l’Otello e i poveri, uomini, donne e bambini, l’hanno avuto tutto per sé. Che splendore, e che povertà. Scrivendo sbollisco il nervosismo, perciò se scrivo stupidaggini pazienza... Abbiamo convenuto che scrivere è un supplizio. 

Ma per noi è vita. Respiriamo la vita attaccandoci alla penna. E l’emozionante illusione ha inizio. Clive Bell (critico, amico e amante della Woolf, ndr) dice che noi versiamo fiumi d’alcol per creare storie d’amore che non esistono...

Eliot ha cenato qui e ha letto il suo poema. L’ha cantato, salmodiato, scandito. Ha grande bellezza e forza espressiva: simmetria; e tensione. Quale sia il collante non l’ho capito bene... La terra desolata, s’intitola; e Mary Hutch (compagna di Bell, ndr), che l’ha sentito con più calma, lo interpreta come l’autobiografia di Tom – un’autobiografia malinconica. 

Ebbene sì, Mary mi ha dato un bacio lungo le scale, poi è venuta verso di me e mi ha fatto le fusa all’orecchio...

Eliot mi ha leggermente deluso; è scontroso, lamentoso, egoista; per farla breve la povertà è indecorosa. Pilucca ciliegie, ma ci ricama su e complica le cose, ti dà la sensazione che tema la vita come un gatto teme l’acqua. Ma se solo glielo accenno sfodera subito gli artigli. 

Certo, considerato quanto mi sono spesa per lui nutro senz’altro qualcuno dei sentimenti vili e altezzosi della benefattrice.

Dipende dal fatto che è americano, dice L.; americano e nevrotico... Ma vita, vita! Che voglia avrei di prenderti tra le braccia e stritolarti!

LA PASSIONARIA DEI DIRITTI DELLE DONNE. Redazione L'Identità su L’Identità il 25 Gennaio 2023. di Benedetta Basile

Nacque 141 anni fa Virginia Woolf, non solo importante scrittrice e saggista britannica, ma anche attivista in favore dell’emancipazione e dei diritti delle donne, tematiche che ovviamente incluse spesso nelle sue opere letterarie.

Adeline Virginia Stephen nacque a Londra il 25 gennaio 1882 dalle seconde nozze del padre, Sir Leslie Stephen, anche lui autore, storico e critico e della madre Julia Prinsep Jackson, entrambi rimasti precedentemente vedovi.

Il padre, considerato letterato di una certa fama, fece crescere i figli in maniera considerevolmente influenzata dalla società letteraria vittoriana e, come prescriveva la regola educativa del movimento, a Virginia non fu concesso di frequentare alcun istituto scolastico. La madre le impartì lezioni di latino e francese e il padre le consentì di leggere i libri che teneva nella biblioteca del suo studio.

Insieme al fratello Thoby, la giovane scrittrice mostrò subito le sue inclinazioni, dando vita a “Hyde Park Gate News”, un giornale domestico in cui scrivevano storie inventate.

Gli Stephen avevano una residenza estiva, Talland House, che guardava sulla baia di Porthminster. Le memorie e le emozioni che visse nel periodo di vacanza in quella tenuta furono molto significative per Virginia, che fu ispirata in seguito a scrivere una delle più grandi opere “Gita al faro”.

Nel 1985 Virginia fu colpita da un primo grande lutto, la morte della madre, poi toccò alla sorellastra Stella e nel 1904 al padre.

Una serie di eventi tragici che provocarono a Virginia il primo crollo nervoso.

Ma non furono gli unici.

Infatti in “Momenti di essere e altri racconti” la scrittrice rivelò che lei e la sorella Vanessa Bell subirono degli abusi sessuali da parte dei fratellastri George e Gerald Duckworth.

Questo spiegherebbe i frequenti esaurimenti nervosi, le crisi maniaco – depressive e i forti sbalzi d’umore che la portarono spesso a tentativi di suicidio.

Dopo la morte del padre si trasferì con la sorella a Bloomsbury, dove fondarono il primo Bloomsbury Group, un circolo intellettuale.

Nel 1905 iniziò a scrivere per il supplemento letterario del “Times” e nel frattempo conobbe alcuni letterari importanti che si fecero chiamare gli Apostoli: Bertrand Russell, Edward Morgan Foster, Ludwig Wittgenstein e il futuro marito Leonard Woolf, con cui si sposò nel 1912.

Pubblicò il suo primo libro nel 1915 “The Voyager Out”.

Insieme ai fratelli Thoby e Vanessa si trasferì in Gordon Square, dove diedero vita al “Bloomsbury Set” insieme agli “ex Apostoli” che dominò per oltre 30 anni la cultura e la letteratura inglese. Nacquero così le serate del giovedì in cui si discuteva di politica, lettere e di arte.

Virginia, ispirata da questo clima intellettualmente elevato, iniziò a dare ripetizioni serali alle operaie e si avvicinò molto alle “suffragette” (attiviste del movimento di emancipazione femminile).

Dopo aver scritto il suo primo libro, però, nel 1913 cadde nuovamente in depressione e tentò il suicidio.

Per ridarle speranza e fiducia il marito le propose di aprire un’impresa editoriale, la Hogarth Press, che pubblicò non solo per la stessa Virginia, ma anche tagli altri per Italo Svevo e Sigmund Freud.

Nel 1919 pubblicò “Kew Gardens” e “Notte e giorno”, nelle sue opere successive come “Gita al faro” e “La Signora Dolloway” iniziò a dotare i suoi personaggi di una profonda analisi psicologica e ad utilizzare il “flusso si coscienza”: essendo attivista all’interno dei movimenti femministi per il suffragio delle donne, spesso riflettè nelle sue opere sulla condizione femminile, come “In una stanza tutta per sé” del 1929 e “Le tre ghinee” del 1938.

Nel romanzo “Orlando”, invece, trattò in modo più approfondito il lato sentimentale, ispirandosi alla sua storia d’amore con Vita Sackville – West.

Tra un atto e l’altro”, che pubblicò nel 1940, fu la sua ultima opera: la Gran Bretagna era in guerra e le crisi maniaco depressive della scrittrice divennero sempre più frequenti e violente. Così il 28 marzo 1941, all’età di 59 anni, si riempì le tasche di sassi e si lasciò annegare nel fiume Ouse nel Sussex.

"La mia ancora di scrittura". Così Virginia divenne un faro per le donne. Virginia Woolf ha rappresentato un faro per tutte le donne e le scrittrici a venire: chi era l'artista che reclamò uno spazio per sé e le altre. Angela Leucci il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Non potete mettere alcun cancello, alcun catenaccio, alcun lucchetto alla libertà del mio pensiero”. Con questa frase Virginia Woolf espresse il concetto massimo di libertà: se esistono delle libertà individuali che vengono garantite dal diritto positivo (come la libertà di parola o di stampa), la libertà di pensiero appartiene naturalmente a ognuno, ma va coltivata.

Per tutta la vita Woolf si mosse all’interno di questa libertà, esplorando le prime pieghe storiche del femminismo reale nella letteratura. “Figlia”, discendente per estensione, di scrittrici e poetesse come Elizabeth Barrett Browning o Jane Austen, riuscì a definire un’idea di letteratura femminile completamente innovativa, tanto da risultare attuale ancora oggi.

Una vita di libri, una morte da acqua

Virginia Woolf nacque nel quartiere di Hyde Park a Londra il 25 gennaio 1882. La sua fu una famiglia numerosa, dato che i genitori si erano risposati dopo essere rimasti vedovi. Il padre Leslie Stephens fu scrittore e intellettuale, mentre la madre Julia Prinseps Jackson fu modella per vari pittori. Visse una prima fase della sua esistenza in maniera felice e stimolante: nel suo salotto passarono artisti come Henry James e T.S. Eliot, in particolare quando la famiglia si trovava nella casa delle vacanze a Saint Ives, in Cornovaglia.

Woolf studiò in casa parzialmente da autodidatta, com’era uso nella società vittoriana: la madre le insegnò il latino e il francese, mentre il padre le mise a disposizione la propria vasta biblioteca. Solo dal 1897 al 1901 condusse degli studi in un istituto, il King’s College di Londra.

Fin da piccola mostrò una particolare propensione per le lettere, con la composizione di racconti, diari e bollettini famigliari, ma il suo esordio letterario risale al 1905, quando iniziò a pubblicare sulla rivista Times. Dieci anni più tardi pubblicò a puntate il primo romanzo, La crociera. Tra il 1895 e il 1904 però la sua psiche fu sottoposta a duri copi: morirono i genitori e una delle sorelle. In più pare che lei e un’altra sorella fossero sottoposte ad abusi sessuali da parte di due dei fratellastri. Iniziarono così esaurimenti nervosi e crisi depressive che la portarono a tentativi di suicidio.

Per molti anni, supportata dalla sua scrittura e da persone che le volevano bene, Virginia Woolf riuscì a sopravvivere. Una di queste persone fu senz’altro il marito Leonard Woolf, che sposò nel 1912 e con cui fondò 5 anni più tardi la Hogarth Press, una casa editrice che pubblicò nel Regno Unito i romanzi di Virginia e degli autori legati al loro salotto letterario come appunto Eliot, ma anche Italo Svevo e James Joyce.

Al periodo della Hogarth Press appartiene gran parte della produzione romanzesca di Woolf, da Notte e giorno (1919), La stanza di Jacob (1922), Mrs. Dalloway (1925), Gita al faro (1927), Orlando (1928), Le onde (1931), Gli anni (1937). Scrisse però anche molti racconti, saggi e biografie. Anche durante il suo periodo di massima attività come scrittrice, ebbe un grosso ruolo nella comunità femminile: frequentò il movimento delle suffragette e diede ripetizioni alle operaie che non potevano permettersi di studiare.

La Seconda Guerra Mondiale ebbe però un impatto infausto sulla sua già minata salute mentale e nel 1941 portò a compimento la sua “morte per acqua”: mise dei sassi nelle sue tasche e si suicidò nel fiume Ouse, lasciando però una lettera di commiato e di ringraziamento per il marito Leonard. “Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone avrebbero potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia”, scrisse Virginia Woolf.

Vita e morte sono sempre stati per lei intrecciati, non antonimi. In uno dei suoi diari si legge: "Questo insaziabile desiderio di scrivere qualcosa prima di morire, questo senso divorante della febbrile fugacità della vita, che mi fa avvinghiare, come un uomo a una roccia, alla mia sola ancora”. Poco prima di morire completò infatti il suo ultimo romanzo, Tra un atto e l’altro, poi uscito postumo.

Un’innovatrice postmoderna

Alcune delle opere di Virginia Woolf sono da collocare all’interno del movimento modernista inglese, altre del postmodernismo. Fa parte di quest’ultima corrente sicuramente Orlando, un romanzo il cui protagonista cavalca i secoli cambiando genere, un’immagine metaforica della lotta al patriarcato che per Woolf si consumò tra le pagine dei suoi libri e anche in parte nella vita reale, dato che intrattenne una relazione con alcune donne, tra cui Vita Sackville West, cui il romanzo è dedicato, e che spesso vestiva abiti maschili.

Innovativi nello stile sono invece Mrs. Dalloway e Gita al faro, in cui Woolf ricorre al concetto di moments of being e utilizza i flussi di coscienza nei pensieri ma anche nel parlato. Mentre i flussi di coscienza ripercorrono il modo in cui il cervello umano passa da un argomento all’altro senza soluzione di continuità, i moments of being rappresentano invece, per usare una semplificazione, un ricordo o una consapevolezza che riaffiora a partire da un oggetto, come accadeva pure con le madeleine di proustiana memoria.

Nella stanza di Virginia: "Scrivo queste pagine senza fermarmi a pensare e trovo diamanti tra i rifiuti"

Un femminismo precorritore

Una donna, se vuole scrivere romanzi, deve avere soldi e una stanza per sé, una stanza propria”. Tra le opere più celebri di Virginia Woolf c’è sicuramente Una stanza tutta per sé, un saggio romanzato che parla di come la letteratura femminile sia marginalizzata. Solo due anni prima della nascita di Woolf era morta Mary Ann Evans, meglio conosciuta come George Eliot: la scrittrice scelse un nome maschile per essere presa sul serio, una questione che nel XIX secolo era stata lambita anche oltreoceano nel romanzo Piccole donne di Louisa May Alcott. E in Gran Bretagna il diritto di voto alle donne era stato concesso solo una decina di anni prima, rispetto a quando il libro uscì.

Il fenomeno era in effetti vivo in tutto l’Occidente all’inizio del Novecento e lo sarebbe stato per decenni. Ma Woolf fece qualcosa, in particolare nel Regno Unito, che cambiò la situazione per sempre: i suoi libri, a cavallo tra modernismo e postmodernismo, riuscirono a farsi strada formando e ispirando generazioni di scrittrici, che pian piano riuscirono a reclamare il loro “spazio” - “room” nel titolo originale di Una stanza tutta per sé significa infatti sia “stanza” che “spazio”.

Il sorriso dolente di Trevisan. EMANUELE TREVI su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

Stile, rigore, coscienza della condizione umana: la lezione a un anno dalla scomparsa. Il premio Strega ricorda lo scrittore vicentino: i suoi scritti conseguenza della visione sradicata del mondo

Vitaliano Trevisan era un uomo difficile, saturnino, pessimista d’istinto ancora prima che per convinzione filosofica. A prima vista, poteva sembrare forte e risoluto, ricco com’era di esperienza della vita, e di conoscenza profonda di sé. Non è che queste prime impressioni siano necessariamente ingannevoli, ma di sicuro sono incomplete, e troppo comode. La verità è che Trevisan attingeva la sua energia vitale, e la sua potenza creativa, dallo stesso pozzo scuro e profondo di malinconia che ha finito, con le sue esalazioni, per rendergli intollerabile la vita. Baudelaire scrisse di Edgar Allan Poe che l’«angelo cieco dell’espiazione» aveva governato la sua vita. E sulla vita di Trevisan (che adorava Poe) era facile riconoscere l’ombra di un custode altrettanto tirannico.

Questo non vuol dire che fosse incapace di allegria e di amabilità, tutt’altro. Più che rigorosamente tragica, la sua visione dell’esistenza umana potrebbe definirsi tragicomica, spesso e volentieri surreale. Non a caso l’opera che rappresenta la sua piena maturità artistica, Works, pubblicata nel 2016, ha un tono di satira sociale e antropologica che può far pensare a un Luciano Bianciardi redivivo. Ma la nota dominante, l’aspetto fondamentale della personalità di Trevisan era cupo, sempre più dolente e risentito con il passare degli anni.

Parlo dell’autore come potrei parlare dell’opera, non lo avessi conosciuto e frequentato. Tutto quello che Trevisan ha scritto è la conseguenza di una percezione del mondo fondamentalmente disadattata, e sradicata. L’esercizio più raffinato dell’intelligenza diventa, per un carattere così incline al negativo, una forma suprema di disperazione. Anche nei libri degli autori più amati, Trevisan cercava la visione spietata, il disincanto assoluto. Adorava Leopardi e Cioran.

Nato nel 1960, è stato un vero scrittore del Novecento, quasi fuori tempo massimo, un erede consapevole e dichiarato dei grandi maestri del fallimento e dell’assurdo, e soprattutto di Samuel Beckett e Thomas Bernhard. I suoi personaggi, e preferibilmente il «Thomas» di alcuni libri memorabili, non fanno altro, in effetti, che raccontare crolli, riferire catastrofi. La possibilità di un patto vantaggioso con la realtà è escluso in partenza.

Questi resoconti in prima persona, a partire da Un mondo meraviglioso, il libro che rivelò il talento di Trevisan nel 1997, solo approssimativamente si possono definire «romanzi». Più adeguato sarebbe parlare di soliloqui, o anche meglio di monologhi. Perché l’eroe di queste storie, che le racconti nella sua testa o le affidi a un memoriale scritto, sembra sempre un attore capace di conquistare l’attenzione del suo pubblico trascinandolo a forza nel suo mondo interiore. La provocazione, nel senso più ampio della parola, prevale decisamente sull’intrattenimento.

Esperto musicista oltre che scrittore, Trevisan era ossessionato dal ritmo della prosa, che per lui non era un orpello, un abbellimento secondario, ma lo strumento più adatto a creare quella che è una vera e propria suggestione, una specie di contagio emotivo e simbolico di rara efficacia. È il ritmo a sprigionare, nei primi libri di Trevisan, il fantasma credibile di una voce, con le sue pause, i suoi affanni, le sue ripetizioni e variazioni sul tema.

Più che tentare facilmente nuovi esperimenti, Trevisan lavorava molto su ciò che, in quello che aveva già fatto, era rimasto ancora inespresso, come se il libro successivo fosse anche il risarcimento di tutto ciò che non era riuscito ad ottenere nel precedente. Ed è così che, nel solco già splendidamente scavato in Un mondo meraviglioso, si collocano almeno due opere destinate a lasciare un segno indelebile nei suoi lettori: I quindicimila passi del 2002 e Il ponte nel 2007.

L’epigrafe del primo di questi due libri è una frase di Karl Marx sulla quale Trevisan deve avere meditato a lungo, tanto è vicina al cuore della sua poetica. È paradossalmente l’epoca dei «rapporti sociali più sviluppati», osserva profeticamente Marx, a generare «il modo di vedere dell’individuo isolato». Isolato dai suoi simili, e prigioniero della sua mente, che diventa necessariamente un surrogato del mondo, una parodia della creazione che in realtà è un’apocalisse. Quanto più i vincoli sociali si stringono e si ramificano, tanto più la solitudine dei singoli si accresce, fino a rendere incerta e inaffidabile anche la loro memoria.

E il fatto che della solitudine si possa raccontare una storia non significa né una consolazione né una redenzione. Possiamo solo supporre che, rinunciando alla sua vita, Trevisan abbia portato alle sue estreme conseguenze quell’aspetto auto-distruttivo della coscienza di sé e del mondo circostante che è il tema principale della sua scrittura rapsodica e visionaria.

Per chi ha preso sul serio i suoi libri il suo destino lungamente annunciato è stato un dolore, ma non una sorpresa. Quello che davvero rimane di lui è una lezione di stile, di rigore, di consapevolezza della condizione umana dalla quale, sommersi come siamo da tanta inutile frivolezza letteraria, abbiamo tutti molto da imparare.

Le iniziative - I fiori, il romanzo incompiuto

Ricordando Vitaliano Trevisan: a un anno dalla scomparsa sono diversi gli omaggi. Tra questi, a Sandrigo (Vicenza) Ma fiori, non opere di bene è un invito a portare un fiore sabato 7 gennaio, dalle 16 alle 19, sulla tomba, al cimitero del paese mentre in contemporanea la chiesetta Trissino ospita l’installazione sonora, con la voce dello stesso Trevisan, Note sui «Sillabari». Omaggio a Goffredo Parise, su testo edito da InSchibboleth. Il 17 gennaio a Roma (Casa delle Letterature, ore 18, piazza dell’Orologio), presentazione del libro postumo e incompiuto Black Tulips: con Simona Cives, introduce Paolo Repetti, interventi di Andrea Cortellessa ed Emanuele Trevi; letture a cura di Federica Fracassi; ingresso libero.

La biografia

Vitaliano Trevisan è scomparso il 7 gennaio di un anno fa a Crespadoro (Vicenza); era nato il 12 dicembre 1960 a Sandrigo (Vicenza). È stato autore di romanzi, racconti e testi teatrali. Ha esordito con i racconti Un mondo meraviglioso (Theoria, 1997; poi Einaudi Stile libero, 2003). Tra gli altri suoi lavori I quindicimila passi. Un resoconto (Einaudi Stile libero, 2002), Shorts (Einaudi Stile libero, 2004; Premio Chiara), Il ponte, un crollo (Einaudi Stile libero, 2007); e ancora Works (Einaudi Stile libero, 2016) di cui è apparsa nel 2022 una nuova edizione ampliata. Dello scrittore morto suicida è, infine, uscito postumo lo scorso ottobre il romanzo incompiuto Black Tulips (Einaudi Stile libero)

Vittorio.

Elisabetta.

Vittorio.

Estratto dell’articolo di Leonardo Bison per “il Fatto quotidiano” venerdì 24 novembre 2023.

C’è una storia che tormenta Vittorio Sgarbi fin dai suoi esordi tv, quando era funzionario della Soprintendenza del Veneto e ben prima di essere condannato per assenteismo. Anno 1988: va all’asta da Finarte la “Cena in Emmaus” di Agostino da Lodi (1470-1519), per 850 milioni di lire. Era lo stesso quadro che pochi anni prima, nel 1985, Sgarbi aveva reclamizzato sulla rivista FMR come una sua “scoperta”, un quadro “perduto”, individuato nei depositi dei Musei civici di Treviso nel 1979. 

Nonostante fosse stato notificato dal 1930, lo Stato non sapeva in quel momento, secondo Sgarbi, dove si trovasse. Sgarbi, che era funzionario di Soprintendenza, si mise alla ricerca del proprietario del quadro, la contessa Pia Bressanin della Rovere, che lo aveva dato in custodia ai Musei civici di Treviso nel 1973: la individuò, scrive, “sola, senza assistenza, aveva abbandonato la sua casa e si era ricoverata in un ospizio per anziani”. In realtà, l’anziana signora stava piuttosto bene, si trovava in un albergo di livello, e il quadro era noto alla Soprintendenza dall’anno prima.

Nel 1979 la contessa riceve la visita di due uomini che vogliono parlarle del dipinto: sono Sgarbi, che non era funzionario a Treviso, ma aveva un incarico ad hoc del Soprintendente per un’ispezione nei depositi del museo, e Lucio Puttin, l’allora facente funzioni come direttore del Museo Civico, che nel 1986 si suiciderà a causa di voci che lo accusavano di aver contribuito al trafugamento di materiali dalle collezioni civiche: l’inchiesta aperta finì archiviata. 

Torniamo al 1979. “Nei depositi trovammo un grande telero, che mostrava chiaramente di essere, nonostante l’incuria, ben conservato, sostanzialmente integro”, scrive Sgarbi nel 1985. Alla contessa però raccontarono di un quadro in condizioni terribili, al punto da rischiare di non esistere più, e che dati i grossi costi di restauro sarebbe stato meglio venderlo.

[…]  Sgarbi lo segnalò allora al regista Mario Lanfranchi per l’acquisto. Poco dopo la contessa lo manda a restaurare e lo vende per 8 milioni di lire, dice lei, per 25 secondo Sgarbi. Lanfranchi agli atti pagò 25 milioni. Poi il quadro passa, nel 1985, per 250 milioni a Leonardo Mondadori, e poi nel 1988, attraverso la casa d’aste Finarte, all’avvocato ticinese Marco Gambazzi, per la sopracitata cifra di 850 milioni di lire (inizialmente si parlò di 700). 

Cifra che attirò l’interesse dei media, dato che lo Stato, nel 1979, quando ancora il prezzo era basso, non ebbe i tempi tecnici per esercitare il diritto di prelazione (“per i soliti ritardi burocratici” spiegò anni dopo Sgarbi).

La vicenda fu raccontata nel 1988 sul manifesto da Franco Miracco, che parlò con una Pia Bressanin della Rovere che aveva la sensazione di essere stata ingannata. Seguì una lunghissima risposta di Vittorio Sgarbi, che negò qualsiasi imperfezione nel suo lavoro, e raccontò la sua visione: “Per i moralisti è meglio uno Stato disinteressato alla conservazione dei suoi beni che non un privato che se ne curi”. 

Non spiegò però perché si recò quel giorno ai Musei di Treviso al posto dei colleghi funzionari d’area preposti, e perché un funzionario statale dovrebbe segnalare un quadro a un privato compratore. E non spiegò perché nella sua difesa notò che i 700 milioni del 1988 potrebbero essere stati “una finta vendita promozionale e pubblicitaria”, fatto comune nel mercato dell’arte, ma che figurerebbe un reato.

Vittorio Sgarbi nel 1989 durante il Maurizio Costanzo Show arrivò ad augurare “la morte” al grande storico dell’arte Federico Zeri, colpevole di aver dato credito alle accuse della contessa trevigiana. Seguirono interrogazioni parlamentari e l’apertura di un’indagine per interesse privato in atti d’ufficio, presto archiviata per prescrizione. [...]

(…) L’avvocato chiede anche se abbia provato a parlare del vecchio stupro con il suo istruttore di kite surf in Sardegna, Marco G., e la studentessa conferma: «Con lui si, perché si era aperto con me su certe cose della vita passata. Io volevo un’opinione su questo, siccome non avevo denunciato […] gli ho raccontato cosa era successo». 

E con l’allenatore ha affrontato anche la questione della notte da incubo a casa di Ciro & C., perché in quel momento era «l’unica figura “vicina” adulta» e la giovane voleva «capire come agire in questa situazione»: «Mi ricordo di aver iniziato a raccontare un po’ la vicenda, soltanto che lui si stava fumando una canna e quindi non lo vedevo molto attento e mi e passata la voglia di raccontare e quindi alla fine gli ho detto qualcosa, ma non sono entrata troppo nei particolari». L’uomo le avrebbe dato un suggerimento che l’aveva fatta sentire ancora più sola: «Era molto schivo e in più diceva di lasciar perdere perché poi magari si complicavano le cose o ci sarei rimasta io male, mi sarei trascinata una cosa dietro, insomma. Questo e stato il suo consiglio». Che lei non ha seguito.

Vittorio Sgarbi: «Mi pagano perché lavoro. Con Sangiuliano non parlo più. E ora so il nome del corvo». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2023.

Il sottosegretario Vittorio Sgarbi:  «Andrei lodato, non punito, invece ho subito un pestaggio mediatico. Nessun conflitto ma se ci fosse uno stop lascerei il governo»

Resterà più defilato mentre l’Antitrust indaga sul suo possibile conflitto di interessi?

«Figuriamoci. Aspetti che sto giusto chiudendo un articolo», si interrompe il sempre indaffarato sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi, per dettare la frase finale al segretario che trascrive. «Come diceva? Le conferenze le faccio ancora, ci mancherebbe. Mi aspettano giusto a Borgo Mantovano per una lezione su Caravaggio. Il racconto dell’arte è libero, non c’entra niente con il mio incarico governativo. Andrei lodato, non punito, invece ho subito un pestaggio mediatico senza precedenti».

Preoccupato per come finirà?

«Macché, il controllo del Garante è benedetto, sono felicissimo, non potranno che giungere alla mia stessa conclusione: che ogni mia attività è tutelata dall’art 21 della Costituzione sulla libertà di manifestare il proprio pensiero, puro esercizio del mio diritto di autore. Lo hanno già stabilito con una pronuncia di maggio, lo ribadiranno».

E se invece a febbraio 2024 arrivasse uno stop?

«Allora mi dimetterei subito dal governo. Io invece credo che mi daranno ragione. E il problema poi sarà loro. Qui per assurdo si fa passare uno che lavora per il colpevole. Ma io sono l’unico competente a parlare di Giotto o di Mantegna: invitano Sgarbi, non il sottosegretario».

La pagano.

«E perché non dovrebbero? I famosi 300 mila euro in 9 mesi li ho guadagnati, mica rubati. Anche la Milanesiana, che è di mia sorella, mi paga. Perché, Cacciari va gratis? Non ho una ditta di restauri, non gestisco la biglietteria di un museo. Una conferenza o un libro non sono in conflitto con la tutela e la conservazione del Colosseo o degli scavi di Pompei. Io non vendo niente, soltanto idee».

L’ha risentito Sangiuliano?

«Non gli parlo, non ho niente da dire a uno che mi segnala sulla base di una denuncia anonima. E che tre giorni dopo, come se niente fosse, con l’affetto di sempre, mi manda a Bologna al suo posto per la faccenda della Garisenda. “Vai tu, Vittorio, sei il migliore”. Doveva parlare con me, prima. Gli avrei spiegato. E poi dichiara che mi terrà lontano, che combino guai. Quando in teatro parlavo su Caravaggio e Pasolini, in platea ad ascoltarmi c’era anche lui, dove vive? Pensava che lo facessi gratis?».

Crede che in qualche modo il ministro patisca la sua esimia presenza?

«Questo chiedetelo a lui. Ci conosciamo da trent’anni, sei venuto a cena a casa mia e ti comporti così? Che poi alla fine ho scoperto chi è il corvo che gli ha passato il materiale, si è tradito, in un dettaglio c’è la sua firma, l’ho riconosciuto, so nome e cognome, è un tizio che collaborava con me ai tempi di Rinascimento e un bel giorno sparì, la madre raccontò che era in coma, invece era agli arresti domiciliari per truffa. Si chiama Da...».

Non può fare nomi così.

«Ah. Comunque è falso pure che avrei eseguito una perizia, non ne faccio più dal 2021».

Gli impegni non li rallenta.

«Si ricorda di Gilberto Gil? Fu nominato ministro della Cultura con Lula. Mica smise di cantare. Doveva uscire un mio libro su Michelangelo per La nave di Teseo. Ecco, mia sorella Elisabetta ha deciso di rimandare, che non è il momento, ma sono valutazioni dell’editore, non mie».

Non si perderà nemmeno la giuria di Miss Italia, sabato 11 novembre

«Certo, Patrizia Mirigliani mi ha confermato l’invito, ho un contratto e lo rispetto. Le mando il suo vocale». Lo invia su WhatsApp. «Ha sentito? Vado, vado. Che c’entra un concorso di bellezza con i Beni culturali? Dove sta l’incompatibilità? Se ho un compenso? Certo che sì, non vedo mica lo scandalo».

Thomas Mackinson per il Fatto Quotidiano - Estratti sabato 4 novembre 2023. 

“Buongiorno. Torno a chiedere la valutazione dei quadri presi in visione dal dott. Sgarbi questo luglio. Sono passati davvero tanti mesi ora. 

Sottolineo che il pagamento per la presa visione delle opere di 1.500 euro è stato soddisfatto subito. Spero di ricevere presto notizie”. Il messaggio è del 19 ottobre ed è destinato a Vittorio Sgarbi per ricordargli qualcosa che forse gli è sfuggito: un sopralluogo fatto in un’abitazione privata del Nord Italia il 22 luglio scorso, quando da sette mesi è sottosegretario ai Beni culturali. L’episodio impatta sul tema del conflitto di interessi e delle incompatibilità che si dibatte da giorni e potrebbe portare al ritiro delle deleghe da parte di Giorgia Meloni. 

Stefano Passigli, esimio professore ed esperto in questioni di Antitrust tirato in ballo da Sgarbi per dire che può fare tutte le conferenze e le mostre a pagamento che vuole, l’ha poi avvertito: libri, conferenze e presentazioni sono tutelati dal diritto d’autore e dalla Costituzione che superano la legge Frattini (n. 215/2004) sul conflitto di interessi purché “fatte direttamente”, come persona fisica, e non tramite società, cosa che avviene invece sistematicamente, tramite le società del capo segreteria Nino Ippolito e della compagna Sabrina Colle, come ha raccontato Il Fatto. Perché allora “la questione si fa più delicata per lui”.

Le attività professionali, ha spiegato Passigli al nostro giornale e prima a Nicola Porro per “Quarta Repubblica”, ricadono invece nelle incompatibilità di legge. “Anche se gratuite” dice l’articolo 2 della legge 215/2004. E dunque, dice Passigli, “guai se Sgarbi facesse perizie e valutazioni, ma tanto Sgarbi ha detto più volte che non ne fa”. Ed ecco il punto di caduta: può il sottosegretario ai Beni culturali, oltre ai panni del conferenziere “a gettone”, vestire pure quelli del valutatore di opere presso privati? Magari di opere che, nelle sue funzioni, dovrebbe porre sotto tutela dello Stato? 

Il 22 luglio 2023, dunque. Il sottosegretario Sgarbi è in una città del Nord Italia per eventi collegati alla Milanesiana, kermesse culturale ideata e diretta dalla sorella Elisabetta. La sua presenza non sfugge a una famiglia che detiene quadri di sicuro pregio di cui vorrebbe conoscere però il valore, anche a fini successori. Sgarbi alloggia lì vicino e viene contattato per un sopralluogo funzionale a un’eventuale expertise, cioè una valutazione certificata delle opere e del loro valore. Il sottosegretario si reca nell’abitazione.

“Ho preso solo un caffé, non faccio perizie da anni e non chiedo compensi”, dice Sgarbi al Fatto. Il sopralluogo viene filmato e le opere fotografate proprio in vista delle future valutazioni. Sgarbi osserva una coppia di angeli con doratura damascata; con la sua torcia scruta pennellate e dettagli delle tele: “Questo viene da Guido Reni” dice, “Questo è bresciano, scuola Luca Mombello” e così via. Ma è il sottosegretario di Stato ai Beni culturali, ed lì per fare un sopralluogo che – stando al messaggio – sarebbe stato pagato, subito e in contanti. Chi era presente preferisce non comparire, nega il pagamento (per comprensibili motivi) confermando l’incontro. Il punto è questo perché la legge Frattini vieta prestazioni professionali “anche se gratuite, a favore di soggetti pubblici o privati”.(…)

Sgarbi querela il "Fatto". "Io vittima di stalking, menzogne ogni giorno". Il sottosegretario sul suo accusatore Mackinson: "Lui archiviato per l'estorsione? Non risulta". Massimo Malpica il 2 Novembre 2023 su Il Giornale.

«Menzogne».Vittorio Sgarbi risponde al telefono mentre è in questura. «Sto presentando un'altra denuncia per diffamazione e per stalking, perché sono vittima anche di questo reato se un giornale fa uscire ogni giorno un articolo contro di me zeppo di menzogne». Ce l'ha con il Fatto, il sottosegretario alla Cultura, e ovviamente con il giornalista autore dell'inchiesta contro di lui, Thomas Mackinson. Che, nei giorni scorsi, si è difeso dall'accusa di aver «minacciato» gli ex collaboratori di Sgarbi per ottenere informazioni contro il politico e critico d'arte. Spiegando come i messaggi mandati a un ex autista fossero solo un modo per caldeggiarne una replica, in mancanza della quale avrebbe comunque scritto un articolo che conteneva informazioni su di lui. «Macché», replica il sottosegretario parlando al Giornale. «Ha chiamato Domenico, questo mio ex autista, e poiché non voleva dire nulla lo ha minacciato di rivelare che mentre faceva l'autista per me percepiva anche il reddito di cittadinanza, cosa che peraltro io nemmeno sapevo. Se non è una minaccia questa». Sgarbi sostiene anche che Mackinson abbia mentito al suo cdr, «sostenendo che la denuncia per diffamazione ed estorsione presentata contro di lui a Torino sia stata archiviata, cosa che non è affatto vera», e accusando lui e il giornale che aveva raccontato la vicenda «di metodo Boffo, quando è evidente - attacca Sgarbi - che il metodo Boffo è quello che usano loro».

Dei tanti suoi ex collaboratori contattati dal Fatto, Sgarbi sottolinea come l'unico ad averlo messo nel mirino sia Kevin, quello «abbandonato» in autostrada a Fossano, la cui storia è stata raccontata nell'articolo pubblicato ieri sul quotidiano diretto da Marco Travaglio. Ma, insiste Sgarbi, «l'articolo è totalmente diffamatorio a partire dalla geografia». «Se sono a Saluzzo - spiega - per andare a Montecarlo vado nella direzione opposta di Elva, che è a 283 chilometri e 4 ore da Montecarlo. Questa è la prova che non avevo mai pensato di andare nel Principato». Insomma, la storia dell'autista sarebbe farlocca: nessun quadro a bordo, nessun viaggio verso Montecarlo. E il bonifico da 1.500 euro sarebbe «il compenso per il suo lavoro, non un modo per comprare il suo silenzio, io il famoso video nemmeno l'ho mai visto», taglia corto il sottosegretario.

Anche l'abbandono in autogrill sarebbe «concordato», secondo Sgarbi, che racconta che Kevin era ubriaco, non era in grado di guidare, ma alla proposta del sottosegretario di lasciar guidare D'Angelo, il commerciante d'arte che viaggiava con loro, «ha replicato dicendo che avrebbe preferito fermarsi lì piuttosto che stare a bordo facendo guidare altri, essendo lui l'autista. Così è sceso».

Per Sgarbi, insomma, quella contro di lui è una campagna mediatica tesa a delegittimarlo, «uno stillicidio» per farlo apparire infedele verso lo Stato. «E per farlo, hanno chiamato quasi tutti quelli che hanno lavorato con me», spiega ancora, aggiungendo che questi, però, sono tutti solidali con lui. «L'unica eccezione è questo qui prosegue il sottosegretario alla Cultura - questo autista che tra l'altro è pregiudicato, e guarda caso è grande amico della persona che sospetto sia la gola profonda di questa storia, l'autore della famosa lettera anonima».

Sgarbi, l’Antitrust avvia l’istruttoria: possibili violazioni Il critico: il mio è diritto d’autore, vado al contrattacco. Storia di Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera martedì 31 ottobre 2023.

L’Antitrust ha avviato un procedimento istruttorio nei confronti di Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura: «Dalle prime evidenze emergono elementi dai quali si evince che le attività segnalate siano state effettivamente prestate», spiegano nella delibera, e come tali potrebbero quindi «porsi in contrasto» con quanto previsto dalla legge Frattini sul conflitto di interessi. È stato il suo stesso ministro, Gennaro Sangiuliano , a fare una segnalazione all’Autorità garante della concorrenza e del mercato dopo aver ricevuto una lettera anonima. La contestazione nella lettera: possibili condotte illecite per attività incompatibili con la titolarità di una carica di governo. Si parla di 300 mila euro mila che Sgarbi avrebbe percepito per attività come convegni, conferenze, presentazione di libri, inaugurazione. C’è anche la presidenza della giuria per il prossimo concorso di Miss Italia. «Sono felicissimo dell’avvio dell’istruttoria dell’Antitrust», ha commentato Sgarbi, sicuro che con questa istruttoria si chiarirà che «le mie attività sono un esercizio legittimo del diritto d’autore». Il sottosegretario ha annunciato: «Partirò al contrattacco non appena la polizia postale avrà individuato la persona che ha mandato la lettera anonima alla stampa».

Nella delibera con cui ha predisposto l’avvio del procedimento nei confronti di Vittorio Sgarbi, che dovrà concludersi entro il 15 febbraio 2024, l’Autorità garante fa riferimento a un articolo della legge Frattini secondo il quale un titolare di cariche di governo, nello svolgimento del proprio incarico, non può «esercitare attività professionali o di lavoro autonomo in materie connesse con la carica di governo, di qualunque natura, anche se gratuite, a favore di soggetti pubblici o privati». «In ragione di tali attività il titolare di cariche di governo può percepire unicamente i proventi per le prestazioni svolte prima dell’assunzione della carica; inoltre, non può ricoprire cariche o uffici, o svolgere altre funzioni comunque denominate, né compiere atti di gestione in associazioni o società tra professionisti». Il Garante nella delibera considera che «le attività oggetto di segnalazione, se confermate, appaiono connesse con la carica di governo, nonché svolte in maniera né marginale, né occasionale, potendo porsi in contrasto con la norma».

Sgarbi entra nel merito delle contestazioni: «A mio favore si è dichiarato anche Stefano Passigli, autore di una proposta di legge sulla incompatibilità assoluta e quindi molto più rigida rispetto alla legge Frattini. Anche lui sostiene che è regolare un qualsiasi mio intervento riconducibile al diritto d’autore». Il sottosegretario ricorda «l’articolo 21 della Costituzione che garantisce la libertà di espressione». E poi aggiunge, ironico: « Se poi guardiamo l’elenco delle incompatibilità riguarda pure Miss Italia...» . Tornando serio Sgarbi fa appello al cosiddetto «diritto secondario», che viene dopo il diritto primario che riguarda la stampa del libro, ed in particolare il diritto «theatrical» vale a dire il diritto di mettere in scena una propria opera o di cedere ad altri il diritto di farlo. Secondo i legali di Sgarbi tutte le presentazioni da lui fatte nell’ultimo anno, da quando cioè è stato incaricato nel governo, sono tratte da suoi libri. «E scrivere libri non è vietato, l’ha fatto pure Sangiuliano» dice Sgarbi che ne deduce quindi che se non è vietato scrivere libri non è vietato neppure metterli in scena.

Estratto dell’articolo di Thomas Mackinson per il “Fatto quotidiano” martedì 31 ottobre 2023.

Una Bmw scura da Roma risale l’Italia. Dietro c’è il sottosegretario ai Beni culturali, nel bagagliaio c’è un dipinto. Per l’autista che lo ha caricato era destinato a un facoltoso committente a Montecarlo. È la notte del 14 maggio. Quell’autista guida da 20 ore. Insiste per fermarsi, ma Sgarbi lo lascia lì, in piena notte in autostrada, a 650 km da casa. “Io ho il mio di autista, la mia macchina, mi pago la benzina!”, sbraita Vittorio Sgarbi in tv. La verità? Gli autisti Sgarbi non li usa, né li assume: li consuma. E poi li rottama.

Uno era finito in coma, un altro sotto una montagna di multe. Questo è sparito quel giorno, il giorno in cui Sgarbi diventa sindaco di Arpino (Frosinone), dove però voleva andare a spese del ministero, con auto e conducente che si è fatto autorizzare come “missione istituzionale”: riconsegnare ai suoi elettori un dipinto di Francesco Trevisani, “incautamente finito in una stanza degli uffici del Distretto sanitario di Sora”. Ma non è tutta la verità: Sgarbi quel 15 maggio chiede l’auto con conducente al ministero perché il suo l’aveva mollato lui dall’altra parte dell’Italia. 

Non chiamateli autisti però, chiamateli “eroi”. Spiega uno di loro: “Il ruolo dell’autista è fondamentale nella vita di Vittorio che è attivo 20 ore su 24 con appuntamenti di ogni tipo in tutta Italia. Una resistenza fisica non indifferente. Pesantissimo in termini di ritmi e chilometri. Vittorio in un mese ne macina 30-40 mila, ma nel mezzo lui dorme, noi no”. […] Il penultimo noto è appunto R.R.K., un rumeno dai modi eleganti che parla quattro lingue, al volante dall’estate 2022.

S’è fatto tutta la campagna elettorale per Arpino e le Regionali in Lombardia, su e giù per l’Italia. Il carburante misura la sua dedizione: in due giorni, dal 13 al 15 maggio, Sgarbi gli bonifica 600 euro come “rimborso benzina”. Fino alla notte del 14 maggio. In meno di 24 ore in cui si accumulano trasferte, il viaggio sembra volgere al termine in una remota località Piemontese (Elva) al confine con le Alpi Francesi. In auto Sgarbi e Giuseppe D’Angelo, commerciante d’arte che lo segue nelle sue “missioni”.

Perché in quell’angolo dimenticato del Piemonte? L’autista ha un’ipotesi: “Quella volta era per un committente a Montecarlo, non ricordo se ho caricato uno o più quadri. Capitava di portarli a persone ricche, anche principi e imprenditori che ho conosciuto. Non è che mi dicevano le cose chiaramente, ma c’era un tema di evasione delle notificazioni allo Stato”. Sgarbi è indagato su questo reato: un'opera che si trovava a casa sua è stata ritrovata a Monaco. L’ex autista racconta: “Ero pagato 6/7 euro l’ora, con contratto di prestazione occasionale, che occasionale non era”. 

L’indomani c’è la proclamazione ad Arpino e Sgarbi vuole tornar lì a tutti i costi. L’autista però non ce la fa più e si ferma all’autogrill di Rio Ghidone Ovest, dalle parti di Fossano, entra e prende un caffé. “Quando esco la Bmw non c’era più: mi avevano abbandonato lì, in piena notte”. Alle 2:15 del mattino posta un video in cui lo racconta. Lo chiamano: “togli tutto”. Gli bonificano 1500 euro. Il posto però l’ha perso. A qualcuno è andata peggio.

A.L.G. ha 30 anni la notte del 2012 in cui l’auto del critico si sfracella all’altezza di Frosinone. Sgarbi esce dall’ospedale rilasciando autografi e interviste, solo fratture per lui. L’autista ne esce in coma, non si trovò mai il copertone in mezzo all’A1 che nella versione di Sgarbi aveva provocato l’incidente. Il molisano D.V. lavora per Sgarbi dal 2019. Era lui alla guida della Bmw quando nel 2022 l’auto venne fermata alla dogana svizzera per via d’un lampeggiante acceso che gli agenti contestano.

Sgarbi se la prende con loro ma verrà fuori che all’epoca non aveva titolo per averlo: 500 euro di multa. “Colpa dell’autista, dormivo o leggevo”, dirà allora Sgarbi. Che, suo malgrado, era l’intestatario della macchina e il conducente registrato. Con un patto però: mille euro in più al mese, se arrivano multe fino a 300 euro le paga lui, sopra intervengono Vittorio e la compagna Sabrina Colle, o la sorella Elisabetta.

Più d’uno aveva intimato a Sgarbi di smetterla con le auto a noleggio, catorci (una è andata a fuoco) troppo cari. Ma lui una soluzione alle multe l’aveva pure trovata: una concessionaria in Romagna, che il sottosegretario incenserà più volte (ci sono i video), offre un servizio esclusivo “Multe Comprese”: 3.400 euro al mese e il locatario è libero dalle contravvenzioni. Ci pensa la società a dichiarare come conducenti, per la decurtazione dei punti, prestanome nullatenenti. Non così il povero D.V. che figura invece nei pubblici registri e sui contratti e, a detta degli altri autisti, si ritrova presto foderato di multe e spogliato dei punti patente. Chiede che vengano pagate, finirà per vendere l’auto per rifarsi, motivo per cui non guiderà più.

[…]

Estratto dell’articolo di Michele Masneri per “il Foglio” lunedì 30 ottobre 2023.

L’abbiamo visto invecchiare con noi, cambiare, crescere, anche ammorbidirsi, è la nostra Camilla Parker Bowles (anche per le chiome). Come una regina la sua immagine è ovunque, anche tra le decine, forse centinaia di comuni della penisola di cui è assessore alla Cultura in una specie di performance in cui lui è testimonial seriale e “protagonista del Novecento” come diceva quel tale delle televendite, seriale come in un multiplo di Andy Warhol, sempre contemporaneo anche se antico. 

E’ stato uno dei primi politici a denudarsi sulla copertina dell’Espresso, ha inventato per primo lo scontro fisico quando i talk-show ancora erano pacate presentazioni di libri. Però Vittorio Sgarbi è sempre a un passo dal trono, regina non diventa mai, molto meno astuto di Camilla si ferma sempre un momento prima, anzi a un certo punto regolarmente cade. Per incidente autoprocurato. 

Così anche adesso con le indagini scatenate da denunce arrivate ai magistrati e riportate dal Fatto, per presunte malversazioni finanziarie, parallele a un non gradimento del suo ministro, Sangiuliano, il tronetto anzi la poltrona di Vittorio Sgarbi è pericolante, per l’ennesima volta. A Panorama nel 2018 richiesto di autodefinirsi in una frase rispose: “Mi cacciano sempre”. “Cacciato da sottosegretario del ministro Urbani, cacciato da assessore alla Cultura a Milano dal sindaco Letizia Moratti, da Alto commissario a piazza Armerina, da sindaco di Salemi”. Ora l'hanno cacciato pure da Miss Italia, a cui doveva presenziare (diecimila euro il cachet). 

Giuliano Urbani, che era il “suo” ministro nel 2001, anno di una delle principali defenestrazioni di Sgarbi, ha commentato l’altro giorno col Corriere: “Mi dispiace perché Vittorio è una persona buona, che tende a crearsi problemi da solo”. A quell’epoca, Sgarbi pensò bene di attaccare la moglie del ministro, oltre a combinare pasticci per certe opere col Vaticano. 

“E’ una persona buona”, ha ribadito Urbani. “L’ha indebolito la scomparsa dei genitori, le uniche due persone che potevano parlargli. E’ rimasto due volte orfano, legalmente e psicologicamente”. La scomparsa dei genitori e soprattutto della mamma come freno inibitore lo accomuna a Berlusconi. 

Anche per Sgarbi infatti la mamma è stata fondamentale: in quel di Ro Ferrarese Rina Cavallini, farmacista, formidabile rezdora emiliana, tirò su il figlio per i più ampi destini. Raccontano che lei soprattutto di Vittorio era musa e tuttofare. Per le mille collaborazioni del figlio, libri giornali saggi, lei sbobinava di notte e teneva degli addetti a scrivere per lui, poi la mattina all’alba controllava, e spediva gli articoli. 

[…]

La sorella Elisabetta nella complicata psicologia di casa ha fatto fatica a emanciparsi, e alla scomparsa della mamma Rina si è trasformata pure lei nella protettrice e musa del figlio-fratello. E oggi il rapporto vero e solido è proprio quello con lei, la carismatica doppelgänger di Vittorio, Elisabetta, capa delle edizioni Nave di Teseo: i due passano la giornata al telefono tra di loro, fin nelle ore più piccole, da macchina a macchina, da albergo ad albergo, come se fossero le star di boy band impegnate in due tournée parallele. 

Entrambi non bevono, non fumano, non dormono e non mangiano, le loro batterie si ricaricano solo al contatto tra loro, per induzione; hanno partner mansueti la cui funzione è soprattutto il contenimento di queste energie degli Sgarbi in eccesso. Energie che in Vittorio esplodono notoriamente negli scontri tv (mitico quello con Roberto D'Agostino a "L'Istruttoria" di Giuliano Ferrara).

Uno dei rarissimi casi che vide Sgarbi con la pila scarica fu invece quello con Aldo Busi, un altro italiano Duracell che pare rientrare nella categoria sgarbiana, cioè geniali o genialoidi che a un certo punto perdono la brocca, o in cui l’amore di sé e dei denari trabocca qualunque altra dote. 

 I due hanno molto in comune. Anche Sgarbi è diventato famoso sul palco del Maurizio Costanzo Show, esordendo nel 1987 abbrutendo una professoressa, mentre negli stessi anni Aldo Busi salpava col suo primo grande romanzo, “Seminario sulla gioventù” che molto beneficiò di quel palco. 

[…] 

Leggendario appunto lo scontro anni fa tra i due da Piero Chiambretti: Busi attaccò Sgarbi sulla mancata carriera universitaria, su quella fiorente invece politica ma soprattutto sferrò un micidiale e precisissimo attacco psicoanalitico (“la tua è una servitù poco gratificante ascrivibile a un eterno ritorno di uno stato di infantilità. Hai bisogno di un padre”). 

La risposta fu un sintetico: “Fatti i cazzi tuoi”, e però lì Sgarbi (che in quella occasione introdusse per la prima volta il celebre “capra”), forse caso unico nella storia delle sue tenzoni televisive, soccombette appunto, forse perché l’attacco busiano proveniva da altro idealtipo simile, altro geniaccio di provincia autosabotato dal carattere e dall’ego. Alla fine: “Tu cerchi sempre giocattolini da rompere. Tu sei il classico figlio del dottore che non ha mai fatto un cazzo in tutta la sua vita” gli disse Busi.  E lì Sgarbi vacillò, come se fosse l’attacco più preciso mai ricevuto, una freccia imbevuta nel veleno che bagna le stesse terre, il contado ferrarese come quello bresciano.

[…] 

Pure i guai di Sgarbi son sempre di due categorie, quella ascrivibile allo sbrocco puro e semplice, che ce lo rende simpatico, e quella diciamo dell’intrallazzo artistico-pecuniario, e qui non si vuol scendere nella complicata vicenda che lo vede sotto accusa – quadri comprati e non notificati, prestazioni a pagamento forse incompatibili col suo ruolo istituzionale, infine debiti col fisco – né si vuol dire che gli esperti d’arte non possano anche essere commercianti. 

Il più grande di tutti, Bernard Berenson, era entrambi, e anzi traeva orgoglio dalle perizie e attribuzioni ben pagate, ma Sgarbi sembra aver perfezionato il meccanismo estendendolo anche alla monetizzazione del reading e di tutto ciò che comporta l’essere Sgarbi cioè l’uomo di cultura televisivo e riconoscibile e ubiquo ai casi, polemista-recensore-presentatore-assessore alla Cultura h24 con lampeggiante e gettone di presenza. “Sono indignato dal comportamento di Sgarbi, va bene? Lo vedevo andare in giro a fare inaugurazioni, mostre e via dicendo. Ma mai avrei pensato che si facesse pagare per queste cose”, ha detto il “suo” ministro di oggi, Gennaro Sangiuliano.  

[…]

Qui, il talento di Sgarbi di “estrarre valore” anche da questo immenso scrittore diffuso che è l’Italia, merita una riflessione: dunque, secondo il Fatto, ecco un bonifico del 23 maggio per presentare a Milano il libro di una tal Melanie Francesca, autodefinita poetessa, autoconsiderata “una James Joyce tutta al femminile”. 

La presenza di Sgarbi come presentatore è evidenziata in ogni modo possibile, e poi Sgarbi alla poetessa dedica questa bella parole: “A null’altro di più attinente si potrebbe paragonare questa ambiziosa e gravosa summa in tre parti, Adamo ed Eva, Eden e Apocalisse, se non a un testo a carattere sacrale, accompagnato da illustrazioni in tono (Melanie disegna bene), con cui viene proposta una versione originale del Verbo, la parola rivelata riguardante l’origine e il fine del tutto”.

Melanie disegna bene, ma paga pure abbastanza bene, per il disturbo sono 2.500 euro (Sgarbi realizza il sogno di tutti noi, con duemilacinquecento a presentazione, il problema di sussistenza degli scrittori sarebbe risolto, altro che legge Bacchelli e cuneo fiscale e Pnrr). 

“Se vai avanti così ti toccherà vendere le litografie di Cascella e i mobili in stile” fu una maledizione busiana. Il fantasma, il doppio di Aldo Busi ritorna sempre (in comune i due hanno anche l’amore per il danaro e l’adorazione per la mamma). Un altro pasticcio corrente sgarbiano non penale ma che spiega il personaggio è l’organizzazione della prossima mostra dedicata a Robert Mapplethorpe, famoso per i nudi maschili che si sarebbe dovuta allestire nella sua città, Ferrara, a palazzo dei Diamanti. 

Sarebbero dovute arrivare a marzo le foto affiancate per la prima volta a dipinti e disegni di De Pisis. Ma alla Fondazione newyorchese che gestisce le immagini del fotografo il titolo non è piaciuto e si è tirata indietro. “Fiori e cazzi”, era il titolo sgarbiano. “A quel punto ho detto io no. Ho preso atto della decisione. Se mi devono mettere il velo su un artista che per tutta la vita ha fotografato uomini nudi, si tengano Mapplethorpe e lo rendano santo”.

Tutto giusto. Ma a una cena, ricordiamo che Vittorio senza toccar cibo (odia mangiare, odia stare a tavola) chattava con qualcuno dell’organizzazione della mostra, ordinando: “Mettici più cazzi!”. E qui non può che tornare alla memoria il leggendario “Cazzi e canguri”, romanzo di Busi col sottotitolo “pochissimi i canguri”. 

Sgarbi ha anche un altro primato poco noto, nella sua carriera ormai quasi quarantennale dopo gli inizi come supplente di latino a Tresigallo in provincia di Ferrara, poi i primi libri e il successo mondano e televisivo: è anche uno degli italiani più ritratti nella storia. Circolano centinaia, migliaia di sue raffigurazioni pittoriche, si dice sia secondo solo al Duce […]

Come se la sua immagine non fosse abbastanza ubiqua tra tv, giornali, anche Instagram. Un suo collaboratore pubblica infatti le stories della vita prevalentemente notturna, la sgarbeide fuori orario tra auto col lampeggiante che sfrecciano tra musei aperti apposta, inaugurazioni, custodi tirati giù dal letto, riunioni mentre albeggia coi fidi consiglieri. Che sono quasi sempre gli stessi. […] 

I collaboratori, Sgarbi, li sottopone a vita frenetica, di giorno e appunto di notte, tanto più che questi, che sono spesso sia collaboratori che fan, dopo un po’ mollano. Anche Alain Elkann che era una specie di addetto stampa araldico nel 2001 ci litigò, poi la lite rientrò, e pare che all’esperienza ministerial-vitalistica col lanzichenecco Sgarbi Elkann abbia dedicato il romanzo “L’invidia”. Anche oggi sarebbe stato un collaboratore a mandare anonimamente le denunce, arso da sete di vendetta.

Perché la sgarbeide è assoluta o non è, è una missione e una scelta di vita, non viene tollerata una mezza fedeltà. Soprattutto la notte. La notte è il suo regno. Qualche volta infatti spesso si addormenta, di giorno, a inaugurazioni e proiezioni, ma la notte, la notte si rianima come un Nosferatu delle Belle Arti. 

Di notte ha rischiato anche la vita, nel 2015, in autostrada, partito da Brescia dopo una manifestazione dedicata al Moretto e la visita a due chiese col favore delle tenebre. I primi sintomi all’altezza di Mantova, a Carpi il crollo, a Modena il ricovero. “Alle 3,58 di mattina”, secondo i referti. Commenti del paziente: “Se fossi andato avanti ancora sarei morto in autostrada, magari a Roncobilaccio. Non è il massimo morire a Roncobilaccio”.

Poi: “Ho dovuto annullare 26 impegni. Avrò un cuore nuovo, potrò fare qualunque abuso ma non so quanto Viagra potrò prendere”. E poi: se ha paura della morte? “Ma io vivo in questo modo proprio perché ho paura della morte”. 

A vegliare sulla vita e a scongiurare la morte di Sgarbi c’è l’eterea, solida Sabrina Colle, moglie-non moglie (gli Sgarbi, come i Berlusconi, non si sposano più) che attende, modera, comanda. Contiene. Nei saloni questi sì dannunziani dietro al teatro Argentina, tra dipinti e oscuri velaggi, la notte è il territorio sgarbesco che – altra cosa in comune con Berlusconi – è insonne, dunque eccolo lì, su un divanetto, in fondo in fondo, mentre la casa pullula di cortigiani, belle ragazze, ragazze così così, segretari coi fogli che cascano, e lui lì che gira su se stesso, detta, bacia, perizia, agguanta la vita (notturna). Magari in mutande. 

La visita a casa Sgarbi è una tappa inevitabile nel grand tour romano, quando ti installi nella capitale prima o poi qualcuno – di notte – ti dirà: andiamo a casa di Vittorio, come a dire, ti porto al premio Strega o alla villa Furibonda. E’ un passaggio importante, iniziatico. Anche se la vera casa di Sgarbi è la macchina, lui infatti in auto bivacca, l’auto (perennemente col lampeggiante acceso) sfreccia ad altissima velocità di badia in badia di museo in museo, di inaugurazione in inaugurazione, ricolma di carte, documenti, libri, mentre Vittorio seduto davanti a destra (mai dietro) compulsa, gli occhiali tirati su, le novità del momento anzi del secondo, sul cellulare a cui è perennemente attaccato.

Sgarbi insomma è un misto tra D’Annunzio e Bruno Cortona, la sua vita oscilla tra “Il piacere” e “il Sorpasso”; il suo gesto più filologicamente dannunziano fu nel 1998 quando cercò di rompere l’embargo internazionale alla Libia di Gheddafi, violando – col fido Glidewell e un manipolo di arditi – il blocco aereo e atterrando a Tripoli con due piccoli Piper decollati da Lampedusa. 

Ma per restare a terra, una volta lo si incontrò in un grand hotel della Versilia con una signora dall’aria spaesata che aveva tirato su chissà dove, un’ammiratrice, anche un po’ agée, a cui aveva fatto vivere il brivido, per qualche giorno, della vita sgarbesca, tra suite e inaugurazioni (e chissà poi dove l’avrà depositata). 

Perché la vera dimensione di Sgarbi è la provincia, la provincia delle pievi e dei conventi e delle cattedrali ma anche degli industriali e dei burrifici. […]

Come Berlusconi e D’Annunzio e Busi non è un fenomeno urbano e metropolitano, la sua presenza appartiene a un contado che si immagina leggendario. Al suo passaggio le signore sospirano, e lui non è insensibile. Ma come Berlusconi e a differenza del Vate, Sgarbi non necessita di polverine, lui produce eccitanti da sé, è autosufficiente come uno di quegli enormi impianti eolici disseminati nella infinita provincia italiana, quei mulini a vento che sono tra i suoi nemici preferiti.

L'accusatore di Sgarbi fu denuciato per estorsione. Massimo Malpica il 30 Ottobre 2023 su Il Giornale.

La querela: il giornalista del "Fatto" avrebbe minacciato dossier contro un editore. Il sottosegretario: anch’io vittima

Sarebbe vittima di una «campagna di delegittimazione» ordita ai suoi danni, e non semplicemente il protagonista di un’inchiesta sugli incassi per le consulenze che l’incarico di sottosegretario alla Cultura non consentirebbe. Vittorio Sgarbi decide di andare al contrattacco, e se la prende con il cronista del Fatto Quotidiano Thomas Mackinson, autore degli articoli sulle sue consulenze da sottosegretario, accusandolo esplicitamente di minacce e di tentata estorsione.

Il giornalista, secondo Sgarbi, avrebbe infatti contattato negli ultimi giorni un suo ex collaboratore «con ripetute telefonate (molte con il numero oscurato) e messaggi, intimorendolo», e chiedendogli «“notizie in via confidenziale” su di me”».

Sgarbi sostiene di aver appreso di questi episodi soltanto ieri mattina, e aggiunge che il suo ex collaboratore, replicando a queste richieste di informazioni riservate ricevute da Mackinson, si sarebbe rifiutato di «rilasciare qualsiasi dichiarazione, non essendo lui un personaggio pubblico e avendo diritto alla riservatezza». Ma di fronte al no, il cronista del Fatto, restando al racconto del sottosegretario, gli avrebbe mandato il seguente avvertimento: «Se non vuole parlare con me io dovrò presto parlare di lei per quello che so. Per questo la invito a parlarmi... Spero di essere stato altrettanto chiaro... Io uscirò lunedì con la mia storia che ti riguarda».

Insomma, riassume Sgarbi, quella del giornalista sarebbe «una minaccia e una tentata estorsione (parla con me o altrimenti scrivo quello che so di te)».

Così il politico e critico d’arte spiega di aver «dato mandato al mio legale d’informare la magistratura e l’Ordine dei Giornalisti», considerando le notizie sulle presunte pressioni illecite esercitate sulla «fonte» un tempo a lui vicina come una prova che «quella che sta conducendo il Fatto Quotidiano contro di me e i miei collaboratori è una campagna di delegittimazione che non ha nulla a che fare con il giornalismo».

Non è tutto. Oltre all’esposto all’Ordine e alla denuncia, Sgarbi aggiunge di non essere stupito da quanto avrebbe scoperto, spiegando di aver «appreso» anche che il cronista che ha firmato gli articoli sulle sue consulenze per il Fatto è «lo stesso Thomas Mackinson denunciato lo scorso maggio dal suo ex editore per un reato gravissimo: estorsione».

L’ultimo riferimento è alla querelle giudiziaria in corso tra Mackinson e Massimo Massano, un passato da parlamentare missino nella Prima Repubblica e oggi amministratore della Argo, editrice del quotidiano torinese CronacaQui. Mackinson, che intorno al 2010 era stato dipendente di Massano, a novembre 2022 aveva pubblicato un articolo sul Fatto Quotidiano a proposito dei contributi pubblici incassati dall’editore torinese. E nel pezzo, Mackinson riferiva anche di altri business trascorsi di Massano con un tono che l’editore torinese ha considerato diffamatorio. L’ex parlamentare riteneva che l’articolo fosse parte di un piano ordito per minacciarlo a scopo di estorsione, prevedendo la pubblicazione «a puntate» di «un velenoso e calunnioso dossier» contro di lui. E così ha denunciato sia il cronista del Fatto che il presunto «mandante» di quell’articolo per estorsione e diffamazione a mezzo stampa, denuncia che – spiega Massano parlando al Giornale – starebbe «facendo il suo corso» alla procura di Torino.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” giovedì 26 ottobre 2023.

Incredibile ma vero, nel 2023 siamo ancora qui a occuparci di Sgarbi. Come se non avesse passato la vita a dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio la sua assoluta incompatibilità con qualsiasi incarico pubblico. […] nel ’96 la Cassazione l’ha condannato a 6 mesi e 10 giorni per truffa aggravata e continuata e falso ai danni del ministero dei Beni culturali perché era dipendente della Soprintendenza del Veneto, ma non ci metteva quasi mai piede, esibendo falsi certificati medici e inventando malattie immaginarie (dal “cimurro”, tipico dei cani, all’“allergia ai matrimoni”), che naturalmente non gli impedivano di insultare ogni sera i migliori pm a Sgarbi quotidiani su Canale 5.

Ora è sottosegretario ai Beni culturali che ha truffato. E la colpa non è neppure sua. È di chi ce l’ha messo (B.) e rimesso (Meloni). Di chi l’ha fatto eleggere cinque volte al Parlamento e una all’Europarlamento. Di chi gli ha regalato una collezione di poltrone almeno pari a quella di dipinti (comprati non si sa come, visto che risulta sempre nullatenente), aiutandolo a usare le casse dello Stato come un bancomat: sindaco di Salemi (subito sciolto per mafia), S. Severino, Sutri e Arpino, prosindaco di Urbino, assessore in Sicilia e a Viterbo, consigliere regionale in Lombardia, commissario a Codogno, presidente di Ferrara Arte, Mart di Trento, Mag di Riva del Garda, Gypsotheca del Canova...

[…] Tre mesi fa il nostro stilnovista impreziosì il Maxxi con una dotta prolusione sul suo pene e la sua prostata (“questa troia puttana di merda”) e, quando qualcuno obiettò, si paragonò nell’ordine a: Pasolini, Califano, Battisti, Mozart e Da Ponte. […] Ora il Fatto documenta che ha continuato, da sottosegretario, a fare ciò che ha sempre fatto, assetato com’è di denaro per risarcire tutti quelli che ha insultato: il juke box.

Infili il soldino e canta la tua canzone preferita. Il guaio è che, stando al governo, la legge lo vieta in nome di quella strana cosa che l’art. 97 della Costituzione chiama “imparzialità dell’Amministrazione”. Ma lui è il Fabrizio Corona della politica: più danni fa, più se lo contendono. Quasi quasi ne chiederemmo le dimissioni, se non temessimo di fare ciò che ha già fatto Striscia con i fuorionda di Giambruno: un favore al governo. Ma è uno sporco mestiere e qualcuno deve pur farlo.

Da la Stampa – Estratti giovedì 26 ottobre 2023.

«Alla radice di questo caso c’è un mio collaboratore che si è sentito emarginato dal mio staff, più che da me, e ha mandato diverse lettere anonime a persone di governo e giornali. Potendo solo sospettare che sia stato lui ho denunciato tutto alla polizia». Vittorio Sgarbi, 71 anni, ferrarese, sottosegretario alla Cultura, è a Bologna «inviato dal ministro Sangiuliano con delega piena per la salute precaria della Torre Garisenda» mentre gli piovono addosso diverse accuse sulla sua attività. 

Tutto nasce da questo collaboratore infedele?

«È entrato dentro a un mio account di posta elettronica e ha mandato in giro diverso materiale prima che il mio segretario se ne accorgesse. Se ne occuperà la polizia postale».

Ma cosa è venuto fuori?

«Il segreto di Pulcinella! Che faccio delle collaborazioni, cosa nota e trasparente, per niente incompatibili con la mia attività politica e di governo. Non sono una sfinge che non può muoversi. L’Agcom si è già occupata a maggio del mio caso assicurando che posso scrivere sui giornali e svolgere conferenze». 

(...)

Non c’è un conflitto d’interessi tra l’attività di governo e quella di critico o curatore?

«Non c’è perché l’Agcom ha già detto che sono ruoli compatibili».

Dai documenti è saltato fuori anche un debito col fisco di 715 mila euro?

«Il tema è già stato risolto con la rottamazione delle cartelle, sto pagando a rate».

Si era dimenticato delle imposte?

«La responsabilità è del commercialista.  

(...)

Pare che anche il ministro Sangiuliano abbia scritto al Garante per avere lumi…

«Ha fatto bene, ma riceverà la stessa risposta che ho avuto io. Sul nostro rapporto girano tante voci, ma la verità è che mi ha appena mandato con affetto a Bologna per risolvere il problema della Garisenda e che non ha rilasciato nessuna intervista sul mio caso».

Nessun problema col governo Meloni dunque?

«No, hanno solo ricevuto tutti le lettere anonime del mio ex collaboratore e questo ha creato un po’ di confusione».

Non si dimetterà allora?

«Non vedo perché dovrei, faccio questo da tutta la vita. Nessuno in Italia ha aiutato tanto l’arte quanto me. Sia al ministero sia come divulgazione.

Sarà difficile rimproverarmi qualcosa. Forse qualcuno vorrebbe che lo facessi gratis, ma è la morale dei deficienti. Chi scrive un libro riceve i diritti d’autore, e allora? Anche Meloni ha pubblicato un libro con Sallusti. Nessuna norma lo impedisce. Tutta questa costruzione si basa sull’idea che un sottosegretario viva come un monaco».

De Bello Sgarbico all’italiana: Ma Vittorio è prendere o lasciare. Domenico Pecile su L'Identità il 26 Ottobre 2023

Era il 23 ottobre 1987 quando apparve per la prima volta al Costanzo show. Era più magro, i capelli non ancora color cenere. Squadernò subito la sua vis polemica riuscendo a battibeccare duramente con il conduttore. Il quale anni dopo confidò che molti ospiti accettavano l’invito in tv a condizione che non ci fosse lui. Il suo epiteto preferito per attaccare gli interlocutori divenne capra, che in un talk show proferì contro un ospite 13 volte consecutive. Pungente, aggressivo, ma già noto critico d’arte, scrittore, uomo di vasta cultura. Impossibile da incasellare sotto ogni profilo. Spesso incline a cambiare schieramento. Qualcuno lo vorrebbe il più grande trasformista d’Italia, altri un astuto opportunista che ama stare alla corte dei vincenti da cui si fa pagare lautamente. Politicamente si è più volte definito liberale e libertario.

Si è dichiarato favorevole alla liberalizzazione delle droghe di ogni tipo: “Mai fatto uso di cocaina. Se la cocaina mi vede, si eccita”. Una lunga e doverosa premessa per arrivare alla stretta attualità. Eccola: incarichi d’oro, almeno 300 mila euro da febbraio a oggi per consulenze a enti pubblici e privati, convegni e giurie di premi, tra cui quella di Miss Italia dell’11 novembre prossimo. È quanto si legge in un’inchiesta del Fatto quotidiano. Nel mirino è finito proprio lui, il sottosegretario alla Cultura, Vittorio Sgarbi, immediatamente scaricato dal ministro alla Cultura Gennaro Sangiuliano che invoca le sue dimissioni. “Sgarbi non l’ho scelto io e anzi cerco di tenerlo a debita distanza e di rimediare ai guai che combina. Ho segnalato la cosa a Meloni e dato in mano all’Antitrust per verificare una volta per tutte se quell’attività a pagamento è contraria alla legge. A me sembra di sì. Non dovrei essere io eventualmente a intervenire visto che il sottosegretario è nominato dal presidente del Consiglio”.

Nei corridoi di Palazzo Chigi si mormora che neppure il premier Meloni l’abbia presa bene visto che è ancora alle prese con il caso Santanchè e che tra crisi mediorientale e problemi di Bilancio ha la testa da tutt’altra parte e di certo non vorrebbe occuparsi anche di questo caso. Imbarazzo anche nel governo – che ha annunciato un approfondimento della vicenda – perché si è saputo anche che la Procura di Roma ha aperto un fascicolo nei suoi confronti per un presunto mancato pagamento all’Agenzia delle entrate per una somma di circa 715 mila euro. Vicenda che risale all’ottobre del 2020 e sulla quale il critico d’arte ha anticipato una serie di azioni legali su quelle che ha definito “sequela di bugie”. Rispondendo invece al ministro, Sgarbi ha escluso di dimettersi dall’incarico governativo. “Se c’è la possibilità che mi dimetta? Nessuna. L’intervista di Sangiuliano a Il Fatto quotidiano – ha commentato – è falsa. Qualunque articolo viene pagato, come qualunque libro genera diritti d’autore. Ogni libera prestazione, conferenza, spettacolo deve essere pagata”. Poi ha rincarato la dose: “L’intervista (del ministro a Il Fatto quotidiano) è falsa. La telefonata che mi ha fatto poche ore fa è esattamente di spirito contrario a quanto si legge in quella falsificazione”. Insomma, tanta carne al fuoco che trascinerà nella polemica l’intero agone politico. Ma alcune domande si pongono.

E cioè Sangiuliano ma anche Meloni sanno e sapevano chi è Vittorio Sgarbi, conoscevano anche una certa disinvoltura nel muoversi dentro i palazzi ed erano pure al corrente che spesso è refrattario al galateo istituzionale nonostante gli incarichi ottenuti a svariati livelli. A febbraio ne ricopriva ben 10 (“Ho il fisico, ce la faccio”). La sua vita è punteggiata da aneddoti, da scontri verbali durissimi, da polemiche infuocate. Insomma, nessuno oggi può dire “non lo sapevo”. Amato. Odiato. Ammirato. Montanelli lo definì un “volgare calunniatore”. A Benigni ricordò “il figlio impazzito di Wanna Marchi”. La descrizione più paradigmatica è quella di Egidio Moretti: “Un giorno Sgarbi è andato a Lourdes e gli è apparsa la Madonna. Dopo trenta secondi ci ha litigato”. Già, prendere o lasciare.

Da open.online - Estratti martedì 24 ottobre 2023.

Il sottosegretario Vittorio Sgarbi dice di avere una lettera dell’Autorità Anticorruzione che giustifica le sue «attività divulgative». Ovvero i 300 mila euro incassati dall’inizio dell’anno in consulenze, presentazioni e mostre. L’Anac, secondo Sgarbi, ha detto che «non c’è alcuna incompatibilità. Sono illazioni che nascono dalle denunce di un mio collaboratore con lettere anonime. 

Ma sono infondate. E comunque non prendo una lira dal ministero per le missioni». Ma intanto, scrive proprio Il Fatto Quotidiano, il sottosegretario è indagato a Roma per sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Si parla di debiti non pagati per 715 mila euro. E, soprattutto, il suo ministro, ovvero Gennaro Sangiuliano, lo scarica oggi in un’intervista rilasciata a Thomas Mackinson: «Non sapevo nulla delle consulenze. Ho già avvertito Meloni. Del resto non l’ho voluto io. Cerco di tenerlo a distanza e di rimediare ai suoi guai». 

(...)

Thomas Mackinson per il Fatto Quotidiano- Estratti martedì 24 ottobre 2023.  

Chiede la testa del sovrintendente che “disturba” il principe, che gli regala 54mila euro.

Seleziona un’artista per la Biennale, che poi gli bonifica 4.500 euro. E se c’è da chiedere un “passaggio”, il sottosegretario Vittorio Sgarbi chiede la Nave di Stato al prefetto, facendo passare la sua presenza a un evento (a pagamento) per “missione istituzionale”, per la quale chiederà pure il rimborso. 

Ma Sgarbi rilancia, poco turbato dall’inchiesta del Fatto sui sostanziosi emolumenti riscossi – direttamente o attraverso società intestate al suo principale collaboratore al ministero, Antonino Ippolito, e alla fidanzata, Sabrina Colle, per conferenze, inaugurazioni, lezioni magistrali e quant’altro, compresa la giuria di Miss Italia del prossimo 11 novembre. “Se ho guadagnato 300 mila euro in nove mesi? Non lo so, forse è una cifra sottostimata, spero siano molti di più”.

Per lui sono attività “episodiche” compatibili con la carica di sottosegretario alla Cultura, checché ne dica la legge sul conflitto di interessi

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Ci scherzano sopra Sgarbi e il suo avvocato, Giampaolo Cicconi: “Meraviglioso è pensare – dice il legale – che vi sia incompatibilità fra la funzione di sottosegretario e quella di presidente della giuria di Miss Italia. È inopportuno per ragioni di prostata?”. Ieri sera Sgarbi ha sventolato “una lettera dell’Anac” che escludeva incompatibilità per il suo ruolo in alcune Fondazioni e l’attività giornalistica: nulla di simile per eventi, mostre e lezioni a pagamento. 

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Il 15 maggio 2023 Sgarbi è ad Arpino (Frosinone), dove lo proclamano sindaco. Teleuniverso Tv e le dirette Facebook documentano i comizi nei quali promette di farla conoscere al mondo, cosa che “un piccolo amministratore locale non può fare”. Mentre uno grande può poi scrivere agli uffici ministeriali una email con oggetto: “Sottosegretario Vittorio Sgarbi, missione ad Arpino in data 15 maggio 2023 per visite istituzionali”. Nella lettera cita il regolamento sui rimborsi e la circolare n. 158 del 2017. Che al primo punto definisce “missione” l’“attività istituzionale nell’interesse dell’Amministrazione”. Dell’amministrazione di Arpino, della Ars Srl di Ippolito o di casa Sgarbi?

Th. Mack. Per il Fatto Quotidiano - Estratti martedì 24 ottobre 2023.  

“Sono indignato dal comportamento di Sgarbi, va bene? Lo vedevo andare in giro a fare inaugurazioni, mostre e via dicendo. Ma mai avrei pensato che si facesse pagare per queste cose”. È un fiume in piena il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. 

Apre il Fatto e legge dell’attività parallela del suo sottosegretario Vittorio Sgarbi, del capo segreteria che gli organizza conferenze a pagamento (vietate dalla legge) ed emette pure fatture al suo posto con una società ad hoc, così come la compagna del critico Sabrina Colle.

Legge che nello staff ha assunto la figlia della loro domestica, come se il ministero fosse casa loro, e chi più ne ha più ne metta. “Ho subito avvertito chi di dovere e segnalato di averlo fatto a Giorgia Meloni. Del resto si sa, non l’ho voluto io e anzi: cerco di tenerlo a debita distanza e di rimediare ai guai che fa in giro”. Spiega che effettivamente una segnalazione era arrivata anche a lui e pure a Palazzo Chigi venerdì scorso. Dice di averla trasmessa all’Agcm, che vigila sui conflitti di interessi degli esponenti del governo, non è dato sapere cosa abbia fatto il vertice dell’esecutivo.

Che tipo di guai?

Va in giro a promettere cose irrealizzabili. Annuncia acquisti di palazzi e cose da parte del ministero che ha solo 20 milioni in bilancio per acquistare beni. E io poi dopo devo andare a spiegare ai giornali che questa cosa non esiste, che non si può fare, che c’è una procedura, che bisogna rispettare le leggi, che tutto va fatto con l’Agenzia del demanio. Se faccio l’elenco delle cose che lui dice che bisogna comprare tocca spendere 1 miliardo che lo Stato non ha. Comunque ho scritto a chi di dovere. 

Intende l’Antritrust?

Sì, dovrà verificare una volta per tutte se quell’attività a pagamento è contraria alla legge. A me sembra di sì, e infatti appena venerdì ho appreso della questione, ho preso tutte le carte e le ho subito mandate all’Antitrust, che è l’istituzione competente. E questo lo posso dimostrare. 

Ha informato la Meloni?

È già informata 

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Come ne esce il ministero?

Ecco, a questo tengo, su tutto. La mia moralità è irreprensibile. Io pago di tasca mia anche i pranzi istituzionali, a costo di svenarmi.

Se non trovano un albergo a 200 euro e costa di più, la differenza me la pago da solo. Se mi regalano una cosa da ministro la dono, previa autorizzazione dell’Agenzia delle Entrate, alla Caritas. Io sono così.

Thomas Mackinson per il “Fatto quotidiano” - Estratti martedì 24 ottobre 2023.

Prendi l’arte, mettila da parte ma meglio se coi soldi. Almeno 300 mila euro, solo da febbraio a oggi. Sono per il sottosegretario Sgarbi, ma vengono dati anche al suo capo segreteria e alla sua compagna, e son tutti felici. E che fine ha fatto la legge che da vent’anni impone ai titolari di incarichi politici di dedicarsi esclusivamente alla “cura degli interessi pubblici” vietando “attività professionali in materie connesse alla carica di governo”? 

Guardando ai suoi impegni, il sottosegretario di Stato Vittorio Sgarbi, quella legge dello Stato la ignora sistematicamente, col beneplacito (o la distrazione indulgente?) del ministro Sangiuliano e del governo. 

Esempi?

L’11 novembre – si attende conferma – Sgarbi presiederà la giuria per la finale di Miss Italia. L’ingaggio vale 10 mila euro per tre ore di “lavoro”, tutto spesato. Fitto è il calendario d’impegni coi Comuni a cui chiede 5-7 mila euro (più Iva) per una o due ore di presenza, pagati anche se non potrà esserci perché sarà in tv (il contratto lo precisa). Per la lectio magistralis su Caravaggio chiede 200 euro al minuto, per una mostra su Andy Warhol a Polesella 6.100 e ben 35 mila per curare la “Vergine delle Rocce” in corso ad Agrigento.

In sei mesi, l’incasso supera i 300 mila euro. 

(...)

E infatti a emettere fattura e incassare pagamenti sono perlopiù due società di persone a lui vicine, entrambe senza dipendenti e il cui core business sembra uno solo: far fruttare il cachet del critico-sottosegretario. Sono state create nel 2017 e 2018, quando Sgarbi era assessore ai Beni culturali in Sicilia, sindaco di Sutri e presidente di varie fondazioni, tutti ruoli suscettibili di incompatibilità con l’attività di conferenziere a pagamento.

La prima si chiama Ars Srls, ha 1.000 euro di capitale sociale e il suo amministratore è Antonino “Nino” Ippolito da Salemi, il suo attuale capo segreteria al ministero. Sgarbi lo ha conosciuto quando era sindaco del comune. Ippolito, già legale rappresentante de “La capra Srl”, era il suo addetto stampa. Al ministero però, anziché il capo della segretaria sembra fare un altro lavoro ancora: rispondere alle tante richieste di partecipazione, a pagamento, che arrivano alla casella mail eventi@vittoriosgarbi.it. In qualità di amministratore di Ars Srl garantisce lui “la presenza del prof. Vittorio Sgarbi” a prendervi parte, dietro corrispettivo di un “gettone di presenza” oltre ai relativi rimborsi spese (trasferte, auto, autisti, hotel e cene). 

L’altra società cui arrivano compensi è la Hestia Srl, costituita nel 2018 dalla storica compagna e sua attuale “manager” Sabrina Colle, con sede legale nel loro appartamento a Roma e 3 mila euro di capitale sociale. Sopra, per inciso, abita Ippolito e a tutti fa le pulizie la signora Francisca Consuelo Augustin, la cui figlia Chiara è stata assunta nello staff del sottosegretario.  

(...)

Ma Sgarbi nega. “La mia attività non è vietata dalla legge, sono come un ministro che scrive libri. Lei sta lavorando su dati che riguardano la mia attività professionale, probabilmente carpiti via Internet, cosa che ho appena denunciato”.

Il ministro e Meloni sono informati delle sue attività a pagamento? “Non c’era bisogno”. 

Sgarbi parla anche di una lettera anonima, il suo legale Giampaolo Cicconi scrive: “La prego per ora di astenersi dal pubblicare notizie, anche per non violare la privacy e il segreto istruttorio”.

Estratto dell’articolo di Giovanna Cavalli per corriere.it martedì 24 ottobre 2023.

«Se ho guadagnato 300 mila euro in 9 mesi? Non lo so, forse è una cifra sottostimata, spero che siano molti di più», rilancia Vittorio Sgarbi, per nulla o quasi turbato dall’inchiesta del Fatto Quotidiano che gli contesta i sostanziosi emolumenti riscossi – direttamente o attraverso società intestate al suo principale collaboratore Antonino Ippolito e alla storica fidanzata Sabina Colle - per conferenze, inaugurazioni, lezioni magistrali e quant’altro (c’è anche la presidenza della giuria per la finale di Miss Italia del prossimo 11 novembre).

Perché risulterebbero incompatibili con la carica di Sottosegretario alla Cultura, secondo il disposto dell’articolo 2 della legge 215 del 2004 che recita così: «Il titolare di cariche di governo non può esercitare attività professionali o di lavoro autonomo in materie connesse alla carica di governo, di qualunque natura, anche se gratuite, a favore si soggetti pubblici e privati».

Per parlare di Caravaggio la stima del suo cachet sarebbe di 200 euro al minuto.

«Ma che ne so, non tengo mica io i conti. Parlo d’arte, e allora? È una la vita che lo faccio, da parlamentare, da sindaco, ora da sottosegretario. Queste accuse fanno ridere i polli, proibirmelo sarebbe un atto fascista». 

C’è la norma, però.

«Ma io non ci rientro affatto. Intanto perché si tratta di prestazioni episodiche, occasionali e non continuative. Non è un lavoro fisso o un’attività parallela a quella di sottosegretario. Non potrei parlare di Caravaggio a teatro? Dovrei fare le conferenze senza farmi pagare, perché mai? Allora se un cantante diventasse ministro, non potrebbe più cantare o dovrebbe farlo gratis?». 

In realtà, applicando rigidamente la norma, non si potrebbe manco in quel caso.

«Sbagliato. Al ministero mi occupo di tutela del patrimonio artistico, Caravaggio è un’idea, non un’opera. L’arte è tutto, se fosse così come dicono, allora io non potrei fare più niente. E Miss Italia poi che c’entra con i beni culturali?». 

In effetti.

«Questa storia, lo so per certo, parte da una lettera anonima di un mio ex collaboratore, che si è voluto vendicare rivelando dati privati, ho già fatto denuncia alla polizia postale. Ma in ogni caso io sono in regola. L’ Autorità garante della concorrenza e del mercato già a maggio aveva escluso l’incompatibilità della carica di sottosegretario con altri miei incarichi». 

Ce ne invia copia. Si legge che non sussistono i presupposti per un accertamento per la carica di responsabile nazionale, in particolare per la valorizzazione dei beni culturali, storici e artistici di Anci (associazione nazionale comuni italiani), per lo svolgimento di attività giornalistica, per il ruolo nella fondazione Cavallini-Sgarbi e per la presidenza dell’associazione culturale Rinascimento. «Le mie attività sono state analizzate una per una» […]

Camillo Langone per il Foglio - Estratti martedì 19 settembre 2023.

L’ultimo dei critici d’arte, Luca Beatrice. L’ho pensato leggendo “Le vite. Un racconto provinciale dell’arte italiana” (Marsilio), libro neovasariano in cui le biografie di artisti fra ventesimo e ventunesimo secolo si intrecciano all’autobiografia di un critico militante. Beatrice, che pure non è uno stroncatore, nel libro esprime dubbi e giudizi di valore: ecco il critico. Ed ecco la differenza col curatore, la figura oggi prevalente. Il curatore fa parte del personale di servizio.  

(...)

Estratto dal libro “Le vite” di Luca Beatrice

Vittorio Sgarbi

(Ferrara, 1952. Vive a Roma e dove capita)

«Che lavoro fai?» Il critico d’arte. «Ah, come Sgarbi! Ma lo conosci?» Non so quante volte me lo sarò sentito chiedere. Da quando lui rese popolare un mestiere fino ad allora riservato agli specialisti, agli addetti ai lavori, ai professori universitari, in Italia c’è un prima e un dopo Sgarbi: l’uomo che ha modificato il ruolo dell’intellettuale rispetto ai media, alla politica e alla televisione, a partire dagli anni novanta ospite praticamente fisso al Maurizio Costanzo Show, poi conduttore e attore negli Sgarbi quotidiani. 

Non più il professore chiamato ogni tanto a dire la sua in televisione come già capitava, ma uno showman perfettamente inserito nei meccanismi della comunicazione. Sgarbi, infatti, può parlare di Caravaggio e del governo, di un’attribuzione dubbia o di un caso di cronaca; può azzuffarsi con gli altri ospiti e passare all’insulto con il famoso intercalare «capra, capra, capra»; può curare una mostra, presiedere un museo, diventare sindaco o sottosegretario; viaggiare per ventiquattro ore di fila e dormire «nei ritagli di tempo». Ci vuole un’energia non comune, anzi straordinaria, per essere Vittorio Sgarbi e siccome non ce l’ha nessuno, il suo modello non è duplicabile, comincia e finisce con lui.

Dal libro alla tv fino ai social, dove chiaramente è seguitissimo da un pubblico orizzontale di fan, maneggia qualsiasi strumento di comunicazione, dal più paludato al più innovativo. Condimento necessario e la provocazione, il cui primo effetto è stato moltiplicare la popolarità sua e del mestiere di critico. 

Non c’è abbastanza spazio per ripercorrerne la biografia: ci vorrebbe un J.R. Moehringer che, dopo André Agassi e Spare, dove racconta Harry, il principe di riserva, si mettesse a scrivere la vita di Vittorio Sgarbi, che la sorella Elisabetta pubblicherebbe per La Nave di Teseo.

Sgarbi è multiforme, e di certo ne esistono almeno due: quello che ha davanti telecamera e microfoni e non si pone alcun limite, e quello «a tu per tu», affabile, disponibile, generoso persino. Se ti capita la fortuna di incontrarlo in questa seconda veste, il confronto è culturale e sempre appagante. 

Vorrei vederlo di più, ma è impossibile, conduciamo vite troppo diverse, come se abitassimo fusi orari opposti: lui è attivissimo la notte, io vado a letto presto e presto mi sveglio al mattino, ho il vizio della puntualità esasperata mentre lui spesso colleziona ritardi insostenibili. Dopo le 23 il mio telefono è spento, Vittorio ti può chiamare a qualsiasi ora, anche alle 3 o alle 4 e, se non gli rispondi, si arrabbia pure. Ecco perché, nonostante l’amicizia, l’affetto, la stima, i nostri incontri non possono che essere casuali. 

A meno di non inseguirlo, pratica di molti insistenti. Quando si presenta a un evento, talvolta ben oltre l’orario di inizio previsto, si forma il codazzo di ammiratori, ammiratrici, questuanti, aspiranti artisti che lo toccano come fosse un santo che dispensa miracoli. Lo adulano. Lui per un po’ ci sta, perché gli piace: ricambia con pacche, abbracci, come dire «vedete, sono umano anche io», eppure si capisce che è annoiato e stanco. 

Davanti al gruppo in attesa, io fuggo, e pazienza se non ci siamo salutati neanche stavolta: sarà per la prossima. Però niente anticamera: non si aspetta, non è dignitoso; capiterà prima o poi, e se non capiterà ci sarà modo di sentirci al telefono, basta che non sia troppo tardi. 

Di Vittorio, Paolo Villaggio avrebbe detto «ha una cultura mostruosa»: sa tutto di arte ed è preparato anche in letteratura, musica, teatro, con una predisposizione al classico. Nei suoi confronti c’è un pregiudizio che mi infastidisce, perché lo sento ripetere superficialmente dai pappagalli: Sgarbi è uno storico che conosce profondamente la pittura dei secoli passati, ma del contemporaneo non capisce niente. 

Giudizio affrettato che genera un errore. Sgarbi dice che tutto è contemporaneo e questo non e proprio vero, perché lo è Damien Hirst, mentre mia zia che dipinge marine e paesaggi è solo vivente in quanto non incide sul proprio tempo che poi e anche il nostro, a differenza di Hirst o di Maurizio Cattelan. Altro discorso è identificare il contemporaneo con la linea del pensiero dominante e unico: Sgarbi non ci sta e anzi ama gli artisti non troppo alla moda, va in cerca dell’estro, della curiosità, si ribella all’esclusione preconcetta e promuove

un antisistema che non trovi né a Basilea né ad Artissima. 

Il suo taglio critico originale sta nell’accostare artisti di diverse epoche storiche, in quanto si può leggere il presente tenendo conto dell’eredità del passato e il passato con lo sguardo del presente.

Affascinato dalle storie controcorrente, ama il virtuosismo, la capacità nel fare con le mani oltre che con la testa, si entusiasma per le vicende poco note: tra i grandi dell’arte cita, ad esempio, Luigi Serafini, l’autore del Codex Seraphinianus pubblicato da Franco Maria Ricci nel 1981, amato anche da Roland Barthes e Italo Calvino; un personaggio d’altri tempi, che da giovane raggiunse l’architetto Paolo Soleri nella città utopistica di Arcosanti, che lavorò con Federico Fellini ed è pittore, ceramista, scultore, ovvero l’archetipo dell’artista virtuoso, inclassificabile e di nicchia che piace a Vittorio. 

Tra i più giovani, menziona spesso Nicola Samori, pittore di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, e in genere espone gli artisti che ama al mart di Rovereto da quando ne è presidente, interpretando questo ruolo istituzionale con la consueta operatività vulcanica, facendo acquisire al museo una vivacità prima inconsueta, per cui ogni volta trovi sempre qualcosa di diverso.

In quanto al gusto, Sgarbi si trova a proprio agio con le tecniche tradizionali come la pittura, la scultura e il disegno rispetto all’installazione, l’oggetto, il concetto. Verrebbe da dire: come tanti altri, anche tra gli specialisti, che però non osano dichiararlo apertamente, temendo di risultare troppo démodé.

Sgarbi diverso da tutti gli altri critici? In qualche modo sì. Esiste una sua linea poetica molto precisa che si legge nel rapporto tra antico e contemporaneo, raccontata in decine di libri illustrati, saggi e conferenze. Ecco, ciò che non farò mai è partecipare a una conferenza con lui. Come oratore Vittorio è inarrivabile, parla sempre a braccio, parte da un punto, fa giri incredibili e arriva a chiudere il cerchio: mai un’esitazione, un intercalare che mostri incertezza. 

Io credo di cavarmela bene nel cosiddetto «public speaking», ma lui non teme rivali. Non vedo proprio la necessità di farmi massacrare, e visto che non c’è bisogno di accettare confronti né sfide, quando parla sono ben felice di ascoltare, prendere appunti, elaborare. Così non mi viene l’ansia e me lo godo, l’autentico fuoriclasse dell’arte in Italia.

Estratto dell'articolo di E.B. per “il Giornale” giovedì 20 luglio 2023.

C’è anche Vittorio Sgarbi in Lei mi parla ancora, il film di Pupi Avati in cui i suoi genitori, Giuseppe Sgarbi e Rina Cavallini, sono protagonisti assoluti. E domani sera, sul palco della Milanesiana a Bormio, ci sarà anche lui. 

Vittorio Sgarbi, da figlio come ha reagito vedendo i suoi genitori in un film?

«Tutto risale a qualche anno fa, quando lessi il primo libro di mio padre. Avevo un ottimo rapporto con lui, ma lo consideravo destinato alla dissoluzione, della memoria e del passato».

E invece?

«È un classico: prima ero in conflitto, poi l’ho scoperto a 93 anni... Il titolo del suo primo libro, Lungo l’argine del tempo: memorie di un farmacista, è un riferimento all’idea che, sul fiume, avesse trascorso i suoi giorni più felici, a pescare: da limite fisico, l’argine diventa metafora della vita. E poi ha scritto Non chiedere cosa sarà il futuro, da un verso di Orazio, trovato nella nostra casa a Ferrara, che era stata quella di Ariosto».

Poi è arrivato Lei mi parla ancora.

«Mia mamma era morta, e lui volle fare un libro solo su di lei. L’ultimo, Il canale dei cuori, non l’ha visto stampato. Questi quattro libri compongono la tetralogia di un uomo capace nello scegliere i temi: la guerra, le relazioni, i figli, il tempo...» 

E quando Pupi Avati ha fatto il film?

«Due cose. La prima: non poteva mancare il ponte in chiatte fra Ro Ferrarese e Polesella, quello che, nel film, i miei attraversano da giovani, in bicicletta. La seconda riguarda me: sarei apparso solo durante l’acquisto del quadro di Guercino, altrimenti avrei esondato lo spazio. Io gli avevo proposto di eliminarmi del tutto e di farmi vedere solo in televisione, dai miei, mentre urlo negli anni ’90». 

Da anziani, suo padre è Renato Pozzetto, sua madre Stefania Sandrelli.

«Due ottimi attori. Pozzetto ha superato sé stesso: è riuscito a diventare mio padre, a muovere le mani come lui, rendendo il pathos della sua età tarda. Lo chiamo papà...» 

Ma nella vita, da figlio, come vedeva i suoi genitori?

«Mia madre era severa. Sentivo che i miei erano un ingombro, e litigavo con loro; poi però li ho “rieducati” e sono diventati miei coetanei, hanno assunto il mio pensiero, e mia madre è diventata modernissima». 

(...) 

Insomma è stato un figlio ribelle?

«Appartengo a una generazione di lotta, di contestazione. Quando avevo 15 anni, fra il collegio e la lotta, i miei genitori rappresentavano per me un mondo superato. Fino a che li ho fatti diventare miei coetanei, complici». 

È più difficile essere genitori o essere figli?

«È più difficile essere padre. Sono un nichilista tale che figli non ne avrei fatti... Io mi sento figlio, non padre. Perché padre è facile diventarlo, ma non esserlo: ci vuole vocazione. Il figlio è una realtà passiva, invece essere padre richiede una volontà di investire sui figli».

(…)

«Al dolore non mi sottraggo, soffro adesso di non poter telefonare a mia madre... Mia sorella è stata molto vicina a lei nel declino, è diventata genitore. Io sono stato pessimo: come padre e come figlio».

Dagospia il 10 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

che Dio ci conservi Vittorio Sgarbi: la risata quotidiana è assicurata. L’ultima crociata dell’Indiana Jones dell’invettiva è contro una “Bohème” a Torre del Lago, che il regista, Christophe Gayral, annuncia di voler ambientare nel Sessantotto parigino. 

Sulla sua pagina Facebook, il sottosegretario alla Cultura strilla di voler “fare qualunque azione per impedire che venga rappresentata”. Gli argomenti sono una serie di frasi esclamative e ultimative modello Melomane Medio o povera zia o ascoltatore della “Barcaccia”, anche se Sgarbi ci ha almeno risparmiato il “povero Puccini” che “si rivolta nella tomba”, del resto lì vicina.

Naturalmente, secondo una tipica caratteristica dell’attuale governo, Sgarbi parla di cose che non sa. Quello di cambiare l’ambientazione delle opere (l’ambientazione, attenzione, non la drammaturgia, che è un’altra cosa) è un espediente abituale che serve, semplicemente, a fornire al pubblico dei riferimenti spazio-temporali che gli siano più familiari e gli permettano quindi di capire meglio quel che vede. Si tratta di roba vecchia come il cucù, e dimostra, se non altro, che Sgarbi di teatro d’opera parla ma non ci va.

Altrimenti saprebbe che già nel più importante spettacolo del Dopoguerra, il “Ring” di Chéreau a Bayreuth del 1976, fu fatta piazza pulita di tutta la paccottiglia nibelungica con le corna in testa per far vedere ciò di cui Wagner parla davvero, famiglie disfunzionali e misfatti sociali. 

Scendendo, artisticamente, un’infinità di gradini, quando mise in scena a Novara “Il matrimonio segreto” (uno spettacolo orrendo, ma si sa che in Italia le regie d’opera sono come un posto da sottosegretario: non si negano a nessuno), l’intellettuale di riferimento di Sgarbi, Morgan, scelse dei costumi vagamente punk, che in un’opera del 1792 un po’ distopici lo erano.

“La Bohème” è ambientata durante il regno di Luigi Filippo, dunque fra il 1830 e il 1848 (ma in realtà dopo il ‘40, perché fu in quell’anno che aprì il “Bal Mabille” dove Benoît va cercare compagnia): i suoi protagonisti, nel Quarantotto, sarebbero andati sulle barricate come i loro fratelli maggiori avevano fatto nelle “trois glorieuses” del Trenta. 

Scegliere il maggio 1968 vuol comunicare al pubblico, che magari della storia costituzionale francese dell’Ottocento non sa proprio tutto, che parliamo di una generazione ribelle e anche un po’ velleitaria come, alla fine, fu quella delle due rivoluzioni, che in comune non ebbero solo il pavé. Poi lo spettacolo risulterà bello o brutto, che è l’unica cosa che conta: ma prima bisogna vederlo.

Sgarbi, che prima di fare il tuttologo era uno storico dell’arte, dovrebbe sapere che i grandi artisti questi cambi d’ambientazione li hanno sempre fatti: altrimenti dovrebbe impedire anche la visione, che so?, della “Vocazione di San Matteo” di Caravaggio perché i personaggi non sono affatto vestiti da ebrei dell’antichità ma da contemporanei del pittore. Vergogna, povero San Matteo che si rivolta nella tomba, sentenzierebbe il MM.

Insomma, per chiunque sappia di cosa si sta parlando, a seppellire le intemerate di Sgarbi basta e avanza una risata e non varrebbe davvero la pena di occupare il prezioso spazio di Dagospia.

Quel che è gravissimo è che sia un esponente del governo a dire quel che si può o non si può rappresentare. Peraltro, Sgarbi è recidivo perché le stesse sciocchezze le aveva già dette in un’esilarante intervista alla “Gazzetta di Parma”. La censura è sempre intollerabile; ancora di più a teatro, che per sua stessa natura è il luogo della discussione, della provocazione, del dibattito: della libertà. E poi il ministro che vota i libri che non legge, insomma Gennaro Sangiuliano, la delega sui teatri d’opera l’ha data a un altro sottosegretario, Gianmarco Mazzi, che come Sgarbi ne sa nulla ma a differenza di lui lo dice quindi sta ad ascoltare chi invece l’opera la fa, ci va e la sa. Risparmiando al sottoscritto di dover commentare delle sciocchezze.

Alberto Mattioli

L'eterno putto raffaellesco che rifiuta la vita d'adulto. Luigi Mascheroni il 10 Luglio 2023 su Il Giornale.

Vive di urla, provocazioni, insulti. Non rispetta orari, le persone e se stesso. Gli fanno schifo regole, compromessi e ipocrisia...

Fino all'età di due anni la madre di Vittorio Sgarbi la Rina, figura mitologica, ircocervo fra Artemisia Gentileschi e Elena Fabrizi - pensava che suo figlio avesse dei problemi perché taceva sempre. Poi lui si è abbondantemente rifatto. Non sembra, ma è dai neotelevisivi anni Ottanta che lo ascoltiamo in radio, alla tele, a teatro, sui giornali, su Facebook, in Rete, in un flusso perenne di parole, urla, spiegazioni, polemiche, scatti di genio e di ira, un rumore domestico di sottofondo, una consuetudine familiare, Sgarbi come uno di famiglia che ti parla da ovunque, non sai neppure più in quale trasmissione, non sai a proposito di cosa, non sai perché. Cominciò a urlare quando eravamo all'università, forse prima. Lei mi parla ancora. Ma lui non ha mai smesso.

Vittorio Sgarbi non ha mai smesso di strillare e litigare, di presidiare la tv e presenziare in Parlamento, di andare su e giù per il patrimonio artistico italiano, partendo dalla Bassa - le gite sul Po, le balere, l'anguria e i pessimi Extraliscio una vita come una biglia da flipper che rimbalza fra mostre d'arte e nuovi mostri, feste, vernissage, studi tv, scopate all'impiedi, risse, vera poesia e falsi Modigliani, capre, expertise, attacchi a testa bassa e tacchi alti da maiale, giorni a mangiare male e notti a dormire peggio, letti sfatti, libri letti, quelli scritti, tribunali e festivàl. Domanda: Sgarbi ha speso più in quadri o in querele?

Il quadro è quello. Vittorio Umberto Antonio Maria Sgarbi Umberto come Boccioni, per il quale pure non impazzisce, Antonio come il matto Ligabue, Maria come le sue mille Madonne, sante di giorno, Maddalene di notte è uomo facile da dipingere. Nutrito da una maleducazione patologica, allevato in un narcisismo imbarazzante, di un'aggressività intollerabile, una spropositata fiducia in se stesso, persino più di Tomaso Montanari, individualista metodologico, anaffettivo fuori la cerchia stretta dei famigli, senza una gerarchia dell'amicizia - sono tutti suoi amici e alla fine non lo è nessuno - a lui tutto è concesso. Ritardi, collere, insulti, parolacce, provocazioni, il pretendere che ti aprano i musei alle tre di notte, il chiamarti sul cellulare alle quattro del mattino, recensire le proprie mostre, l'entrare a casa degli altri come se fosse la tua e aprire la tua alle Iene che ti inseguono nel cesso, donne prese e esposte come in un padiglione della Biennale, figli fatti e lasciati per i fatti loro, telefonate perenni in viva voce e la vita come un estenuante tentativo di scappare dal pensiero della morte.

Una vita come opera d'arte, per l'arte, con l'arte, Vittorio Sgarbi (uno portato alle trasgressioni dalle proibizioni e che si proibisce tutto tranne la trasgressione: non fuma, non si droga, beve solo Lambrusco) di arte sa tutto, da Cimabue a Morandi, mentre quella contemporanea non è vero che non la conosce, gli fa semplicemente schifo. È il resto il problema. In filosofia si è laureato ma ha smesso di studiarla, il cinema lo annoia, lo moda è fatta solo di mocassini e giacche blu, del cibo gli frega nulla - come dice un celebre chef «trangugia tutto in sei minuti e non distingue cosa è buono e cosa no» di politica si picca di capire tutto ma non azzecca un'alleanza e confonde la pratica di governo con l'accumulo di cariche, inizia mille battaglie (oggi per i musei gratis, ieri contro l'abbattimento di una villa liberty, una settimana fa contro il bando per il Padiglione Italia, domani per spostare una Pietà, ma alla fine non ne conclude una) e di televisione ne sa ancora meno. Ospite perfetto, la sa sfruttare. Conduttore pessimo, non la sa fare. Leggendario il naufragio della trasmissione Ci tocca anche Vittorio Sgarbi, 8% in prima serata Rai, chiusa alla prima puntata, stagione di scarsa grazia 2011.

E così ci è toccato Vittorio Sgarbi, da quando, tanti programmi fa, al circo del Costanzo Show, disse a una professorina che le sue poesie erano una merda e lei una stronza. Dovette pagare 40 milioni di lire ma fu l'investimento più azzeccato per una carriera mediatica formidabile, fra trash, eccessi, scandali, Osanna, Crucifige, standing ovation e cupio dissolvi. Quando augurò la morte a Federico Zeri e poi, morto davvero, pianse. Quando fu scaricato per intemperanza come sottosegretario dal ministro Giuliano Urbani, e oggi rischia la stessa cosa con Sangiuliano. Quando voleva infilare nel cul* il tapiro di merda a Vittorio Staffelli. Quando definì Oscar Luigi Scalfaro «una scoreggia fritta», il Trio Medusa dei «culattoni raccomandati» e gli elettori veneti «delle teste di cazzo». Quando voleva pisciare in testa a Giuseppe Cruciani. Quando mandò a fare in culo Barbara D'Urso, «Falsa!», e noi rivedemmo la clip in loop ottanta volte, tante quante i Capricci di Goya. Quando disse a Marco Travaglio «Siamo un grande Paese con un pezzo di merda come te» e il Tribunale lo condannò a pagare 30mila euro e lui si corresse: «Travaglio non è un pezzo di merda: è una merda tutta intera», e la condanna raddoppiò: 65mila, e forse è lì che Sgarbi pensò «Sono un mito».

E adesso ci scandalizziamo - partecipazione a titolo personale sì, ruolo istituzionale no - se dice in pubblico scop*re, cazz* e al maxximo troi*... Come direbbe lui, «Vai a fare in culo».

Vittorio Sgarbi, da Ferrara, Fràra, ducato di nobili, di Cosmè Tura, cappellacci alla zucca e bestemmie sublimi, è da una vita che usa e abusa del linguaggio in tutte le sfumature, dall'empireo al Kitsch. Adora tutte le parole (a parte «carriera» e «pensione», che gli fanno schifo) e del resto, puer aeternus, ha cominciato così... cacca, culo, pipì, e non ha mai smesso.

In fondo la sua insostenibile coprolalia, il vivere in un tempo proprio in perenne ritardo, l'assoluta mancanza di rispetto per gli altri e per se stesso, la scenografica misoginia, il perverso godere nel far litigare chi lo circonda, il suo bisogno di essere sempre chiamato sul proscenio e il suo gusto per l'osceno, il rifiuto della vita adulta fatta di regole e compromessi, eterno putto raffaellesco, insomma tutto ciò che lo fa essere personaggio, tutti i suoi atteggiamenti inaccettabili, dipendono, ecco il punto, da una totale assenza di ipocrisia - hypokrisía, simulare per essere apprezzati dagli altri - che, alla fine, è il suo pregio più alto. E il motivo per cui lo si ama.

Amato quanto odiato, ormai 71 anni, figlio di una madre marescialla e un padre scrittore per interposto ghostwriter, una sorella ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, mille donne idealizzate più che conquistate, una fidanzata storica, Sabrina Colle, la più affascinante di tutte, che se l'è preso quando era giovane, bello, ricco, famoso, e questo è facile, e se l'è tenuto ora che è vecchio, malato, ingobbito e pieno di querele, e questo è vero amore, un tumore alla prostata, un cuore debole, quattro stent, milioni di chilometri percorsi (è stato a Treviso 256 volte, e riesce a trovare una bellezza anche a Pietrabbondante, in provincia di Isernia, Molise), una serie impressionante di incidenti, risse, affogamenti scampati, infarti superati (ha rischiato di morire a Roncobilaccio, e non era il caso), un corpo martirizzato da ritmi di vita infami che forse è la sublimazione della body art, una sconcertante capacità di circondarsi, fra le migliaia di amici che ha, sempre dei peggiori (il morboso rapporto ego-erotico con Morgan, la stima mal riposta in Oliviero Toscani, gli agenti sanguisuga, la carovana di artisti scalcagnati, trans, zoccole e parassiti), Vittorio Sgarbi è intollerabile, insostenibile, insopportabile per tutti quei difetti che alla fine sono figli di una profonda, vulnerabile umanità.

Per usare il lessico raffinato della più alta e longhiana critica d'arte, molti dicono che Vittorio «è un amico» (è la premessa) «e per questo gli diciamo che è uno stronzo». Noi invece pensiamo che Vittorio (è la premessa) sia uno stronzo. E per questo gli siamo amici.

«Vecchio mio».

Vittorio Sgarbi, il collezionista di incarichi pubblici e stipendi. Salvatore Toscano su L'Indipendente venerdì 7 luglio 2023.

Vittorio Sgarbi è uno dei personaggi mediatici più noti d’Italia, famoso per le poco tranquille apparizioni televisive, gli interventi sul mondo dell’arte e una carriera politica figlia del suo tempo. Più volte membro del Parlamento e di diverse amministrazioni comunali, Sgarbi sui media tende a far parlare di sé più per le discusse prestazioni di avanspettacolo, l’ultima delle quali – pochi giorni fa al Maxxi – ha provocato accuse di sessismo e richieste di dimissioni. Tuttavia, parlarne solo come personaggio televisivo offusca le sue capacità politiche, evidenti soprattutto nella qualità fuori dal comune di collezionare poltrone e stipendi. Il governo Meloni l’ha nominato lo scorso ottobre sottosegretario alla Cultura, carica entrata in conflitto qualche mese dopo con l’elezione a consigliere regionale della Lombardia. Dopo che il Pirellone ha preso atto dell’incompatibilità, Sgarbi ha avuto dieci giorni per decidere tra le due cariche, puntando alla fine su Palazzo Chigi. Poco male: il critico d’arte è anche Prosindaco di Urbino, Assessore alla bellezza di Viterbo e sindaco di Arpino.

Nel 2019, Vittorio Sgarbi ha dichiarato un reddito complessivo di 475.653 euro. All’epoca sedeva tra i banchi di Montecitorio come deputato di Forza Italia (salvo passare in un secondo momento al gruppo misto), guadagnando un’indennità lorda di circa 11 mila euro, una diaria di 3.503 euro e un rimborso spese da 3.690 euro. Alle elezioni del 2022, Sgarbi non è riuscito a confermare il ruolo parlamentare, cedendo il collegio senatoriale di Bologna a Pier Ferdinando Casini. Qualche giorno dopo è stato però scelto dal governo Meloni per ricoprire la carica di sottosegretario alla Cultura, a cui corrisponde una retribuzione superiore ai 130 mila euro lordi all’anno: secondo l’Osservatorio dell’Associazione Italia Futura, lo stipendio medio di un sottosegretario di Stato è di 10.697 euro lordi al mese. Tale carica è entrata in conflitto con la successiva nomina a consigliere regionale della Lombardia, che assicura uno stipendio mensile tra i 10 e i 13 mila euro lordi. Nessun problema, invece, per i ruoli di assessore alla bellezza di Viterbo e sindaco di Arpino con cui Sgarbi guadagna rispettivamente 4.806 e 2790 euro mensili. Per la carica di prosindaco di Urbino è difficile stimare una retribuzione esatta, dal momento che dipende dalle presenze in Consiglio.

Alle 4 cariche pubbliche si aggiungono diversi impegni negli organi direttivi di diverse realtà, come la Fondazione Canova o il Museo dell’Alto Garda (MAG). Sgarbi è stato poi nominato Commissario alle Belle Arti di Codogno, presidente della Fondazione Ferrara Arte e Presidente del Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto (MART).

«Ho sempre pensato che le incompatibilità fossero un pretesto per lavorare poco», ha dichiarato il critico d’arte in un’intervista a La Repubblica. Non sono dello stesso avviso i cittadini che da anni denunciano un disimpegno sistematico dai propri mandati locali. Sgarbi continua però sulla sua strada, puntando ai 50 incarichi pubblici ricoperti durante la carriera politica: l’elogio della quantità a discapito della qualità.

La vita politica di Sgarbi

Vittorio Sgarbi inizia la sua carriera politica nel 1975, con l’iscrizione alla Federazione giovanile de L’Unione Monarchica Italiana. “Il più grande trasformista d’Italia” dà prova della sua visione politica già nelle amministrative del 1990, quando si candida contemporaneamente nelle liste del Partito Comunista e del Partito Socialista. Due anni dopo, sostenuto da Democrazia Cristiana e Movimento Sociale Italiano, diventa sindaco di San Severino Marche. Sempre nel 1992, Sgarbi viene eletto in Parlamento con il Partito Liberale. Poi la caduta della Prima Repubblica, le elezioni anticipate e l’ennesimo cambio di casacca, a favore questa volta dell’astro nascente della politica nostrana: Forza Italia di Silvio Berlusconi. Così Sgarbi torna a Montecitorio nel 1994, l’anno della celebre rissa con Umberto Bossi, leader della Lega Nord. La casacca azzurra veste stretta e il critico d’arte sul finire del millennio fonda il proprio movimento: I Liberal-Sgarbi. È l’inizio del suo leitmotiv politico, fatto di partiti personali, liste civiche e continui cambi di casacca che per anni in Parlamento hanno seguito la direzione Forza Italia-gruppo misto. Segni di una carriera volta al compromesso e al trasformismo, ormai tipici di una politica – e di riflesso società -estremamente quantitativa, che esalta il “multitasking” senza porsi alcun interrogativo.

[di Salvatore Toscano]

Estratto dell'articolo di Tommaso Rodano per il “Fatto quotidiano” martedì 4 luglio 2023.

Da almeno trent’anni, Vittorio Sgarbi fa Vittorio Sgarbi: usa le sue capacità retoriche per trasformarsi in una macchietta indemoniata e demenziale, a beneficio di autori televisivi senza fantasia e un pubblico senza pretese. Il suo contributo abituale è di urla, insulti, minacce, incontinenze verbali e fisiche. 

Oltre al folklore, ci sono le diffamazioni: dal 1996 al 2001 si è meritato il record assoluto delle richieste di autorizzazione a procedere respinte; 78 votazioni alla Camera, di cui 70 per dichiararlo insindacabile. Solo nel 2006, poi la Giunta per le autorizzazioni è stata costretta a occuparsi di lui 6 volte, sempre per aver offeso magistrati (da metà delle imputazioni è stato graziato ancora con l’insindacabilità). Sgarbi è sempre stato questo, e questa è una piccola parte di ciò che ha offerto al dibattito pubblico. 

Mani pulite. “Di Pietro, Colombo, Davigo e gli altri sono degli assassini che hanno fatto morire della gente (...). Vadano in chiesa a pregare per tutta quella gente che hanno fatto morire”; “I giudici di Mani pulite vanno arrestati, sono un’associazione a delinquere con licenza di uccidere che mira al sovvertimento dell’ordine democratico” (Sgarbi quotidiani, Canale 5, luglio 1994)

Montanelli. “È un vigliacco, un pavido, un uomo che ha tradito, che è stato fascista, razzista, antisemita, sempre fascistissimo, nero come la pece!

Ha sempre espresso banali stupidità, un modesto giornalista, il più mediocre storico italiano” (Sgarbi quotidiani, dopo le critiche lanciate da Montanelli sulla Voce alle prime mosse di Berlusconi, fresco di vittoria elettorale, 31.3.1994) 

Caselli. “Qualche mese prima di essere ucciso, don Pino Puglisi mi disse angosciato: ‘Caselli, contattandomi e facendomi contattare continuamente dai suoi uomini, ha fatto di me consapevolmente un sicuro bersaglio’. (...) E così è stato: Caselli per aumentare il suo potere ha avuto la sua vittima illustre” (Sgarbi quotidiani, 7.4.1995, a proposito dell’assassinio di don Giuseppe Puglisi, per additare addirittura il procuratore Gian Carlo Caselli come il mandante morale di quell’orrendo delitto. Piccolo dettaglio: Caselli non ha mai incontrato in vita sua don Pino Puglisi: non gli ha mai parlato, neppure al telefono).

(...)

Cecchi Paone. “Ateo bastardo! Ateo fasullo! (...) Pensi solo all’esibizione della tua oscena bisessualità. Ridicolo sei! (…) Capra ignorante! Quello è! Rispetta! (...) Legga Dante, legga Manzoni, impari quella capra! Non portarmi dei fasulli… che fanno i laici del cazzo… il cazzo gli piace! Quello gli piace!” (Markette, La7, 8.2.2007) 

Travaglio. “Sei un pezzo di merda, un pezzo di merda puro!” (Annozero, Rai2, 1.5.2008); “Mi correggo. Travaglio non è un pezzo di merda. È una merda tutta intera” (Domenica 5, Canale5, ospite di Barbara D’Urso, dopo la condanna per il precedente insulto, 13.12.2009) Barbacetto. “Capra, bestia ignorante, (...) faccia di merda (...), merda secca, tu e il tuo giornale (...) Tu cachi merda, non parole. Tu e quella camicetta rosa da finocchietto” (Vero Tv, 11.9.2012)

(...)

Carfagna. “Mi hanno cacciato dal Parlamento per 15 giorni, con la Sor-cagna, con la Carfagna, la Sorcagna, che dice: ‘Ha cercato anche di negare di avermi insultata’; ma come posso insultare una che non esiste, ma vaffanculo” (Facebook, giugno 2020) 

Lobby gay. “Il governo è pieno di cripto-checche ed è una catena che parte da Conte e si diffonde come un polipo” (Stasera Italia, Rete 4, 24.7.2019) 

Lobby gay bis. “Casalino è una checca inutile” (Stasera Italia, Rete 4, 30.1.2020).

Estratto dell'articolo di Giovanna Cavalli per il Corriere della Sera il 22 marzo 2023.

«Ma no che non mi sono offesa, è il nostro modo di scherzare, dai. Certo, detta in tv alle tre di pomeriggio magari non era una battuta tanto adatta, gli è uscita un po’ male. Papà non è così tremendo, ma quando c’è da parlare si infervora e non ne azzecca una», lo difende con affetto Evelina, 22 anni, involontariamente presa di mira da Vittorio Sgarbi, veemente sottosegretario alla Cultura.

 Che, ospite con le due figlie da Mara Venier a Domenica In per la Festa del Papà, l’ha santificata a modo suo. Rivolto appunto alla terzogenita, di cui non ricordava la data di nascita («Tu di che anno sei Evelina? Del 1999, vero?».

«No, del 2000»), aveva poco felicemente ribattuto: «Devi stare attenta, allora... secondo una mia assistente quelle nate nel 2000 sono tutte tr...».

Gelo in studio e fuoco e fiamme sui social che lo hanno prontamente sommerso di critiche.

 «A suo modo è un padre affettuoso e premuroso, mi spiace perché passa per str... e non lo è», spiega la studentessa («ora sono in pausa, devo decidere che fare») nata da una relazione del critico d’arte con Barbara, riservata signora torinese. «Fa il duro, lo scontroso, poi mi accontenta sempre, la sua è tutta scena».

Come quando la rimproverò per non essere andata al Grande Fratello Vip : «Le avevano offerto 100 mila euro, ci sputi sopra? Per una come lei che frequenta l’ambiente della moda, le avrebbe fatto comodo. E non metteva in croce me per farsi comprare una borsa di Dior da duemila e 800 euro». Alla fine però gliel’ha regalata. «Certe cose le dice per il mio bene», continua Evelina. «Ho il suo stesso carattere, specie se mi arrabbio, mi riconosco, sono uguale a lui». E ne va fiera. «Mi piace il suo essere diretto, il non aver paura di dire ciò che pensa.

 Un genitore remissivo sì che mi avrebbe messo a disagio.

Papà è irruento, esagerato, arrogante e sincero, gli voglio bene proprio perché è così».

Lui si autoassolve da ogni peccato: «Sono passato per provocatore, per villano, ma era una battuta che testimonia il rapporto cameratesco che ho con le mie figlie, come fossi un loro coetaneo», assicura Sgarbi. «Come quando ho aggiunto che per proteggerle da un mondo di incapaci le avrei volute in convento.

O sposate con un principe azzurro che è sempre ricco.

Scherzavo. I ragazzini mi considerano un loro idolo». Come padre «mi assegno un 6 meno, poco presente, ma ho una dimensione mitologica, mi possono chiedere qualsiasi cosa, sono un riferimento sicuro. Mi presentano pure i fidanzati». E superano l’esame? «Abbastanza».

 Conferma l’innocenza paterna la secondogenita Alba, 25 anni, nata a Tirana e figlia della cantante lirica albanese Kozeta («Cosetta», la chiama lui), conosciuta pare a un concerto nell’aula di Montecitorio. «Stava soltanto giocando, gli piace scherzare. Anzi, è un papà dolce, non quello sempre arrabbiato che conoscete voi. Quando ho bisogno, per me c’è sempre». Come quella volta che è rimasta bloccata in aeroporto a Milano perché il passaporto non era più valido. «Gli ho chiesto aiuto, ha fatto qualche telefonata e finalmente sono partita»

(…)

Sgarbi-Morgan: rissa in chat. Il musicista: "Se non fosse per me non saresti neanche sottosegretario". Giovanni Gagliardi su La Repubblica il 15 Gennaio 2023.

Feroce scambio di accuse fra i due. Al centro il progetto dell'ex Bluvertigo per Luigi Tenco, criticato però dalla famiglia del cantautore. Il precedente della mancata nomina dell'artista al ministero della Cultura

"Non hai cuore", "Mi basta la testa". Sono le frasi più 'gentilì della lite furibonda e burrascosa, a colpi di insulti e improperi, fra i due (ex?) amici Vittorio Sgarbi, sottosegretario al ministero della Cultura, e Marco Castoldi in arte Morgan. Ad ospitare lo scambio di colpi verbali è la chat Rinascimento Dissoluzione, creata da Sgarbi e di cui anche Morgan è amministratore; chat che vede(va) iscritti politici, giornalisti e peronalità varie. Ma tutto sembra finito in una serata di rissa virtuale, con Morgan che avrebbe cancellato - senza consultare Sgarbi - diversi nomi, 'colpevoli' di non prendere a cuore il suo impegno per un progetto sulla figura di Luigi Tenco. Il tutto svelato da Mow, con tanto di screenshot inviadi da una fonte, dice il sito, "che preferisce l'anonimato".

Il precedente

L'episodio, probabilmente, è stata l'ultima goccia, dopo la mancata nomina di Morgan come consigliere speciale per la Musica al ministero della Cultura, incarico affidato dal ministro Sangiuliano al direttore d'orchestra (e fan di Meloni) Beatrice Venezi. Un ruolo per il quale Sgarbi aveva indicato Morgan, prima in un'intervista a Repubblica e poi parlandone a tu per tu con lo stesso titolare del dicastero. Il cantante ci era rimasto male. "Ho pianto per la sconfitta", "provo un'umiliazione", aveva scritto in un sms spedito a Venezi. Smaltita la delusione, l'ex giudice di X Factor si era però detto disponibile a collaborare. Salterà fuori qualcosa per lui, aveva assicurato Sgarbi: "Magari un programma su Rai 1". Ma le cose hanno preso una piega inaspettata.

La lite furibonda

La rissa esplode nella serata di ieri, dopo la pubblicazione sulla chat da parte di Sgarbi, delle critiche al progetto da parte della famiglia del cantautore, che avrebbe inviato una nota privata proprio al sottosegretario, scatenando Morgan che si è sentito «diffamato» e «non difeso».

Il temperamento non certo paludato dei due è così sfociato in uno scambio di accuse e controaccuse, postate da Morgan con uno screenshot su un'altra chat da lui creata, 'Mistero della Cultura'. "Non ti ho neanche pensato. Tu sei un topo" ha scritto Sgarbi a Morgan. "Ti manca il cuore", è stata la replica. "Mi basta la testa" la controreplica e il testa a testa prosegue.

La delusione di Morgan

Morgan: "Mi dispiace, pensavo fossi una persona degna. È una delusione immensa". E ancora: "I vili fanno così. Ridono degli altri quando li invidiano". Sgarbi: "La mia non è una delusione perché non mi sono illuso". Morgan: "La mia intelligenza è la cosa migliore che hai incontrato negli ultimi venti anni". Sgarbi: "Non mi piace chi, dotato per mia generosità del potere di agire, cancella istericamente e caccia i miei ospiti da casa mia, per suo capriccio. Le azioni devono essere guidate dalla ragione, magari avendo ragione".

L'acceso scambio di messaggi

"Io ho chiesto a voi solidarietà e appoggio. Sgarbi mi ha accoltellato e umiliato, nonostante io lo abbia sempre appoggiato con lealtà, si è permesso di fare questo a me, perché? Perché ho espresso indignazione?", denuncia Morgan. E ancora: "Quanto tempo ho sprecato per Sgarbi, quante notti, quante parole, quanti sogni. Se non fosse stato per me non sarebbe sottosegretario. Così fanno i cattivi. Sfruttano e poi accoltellano". E ha aggiunto: "Gli ho detto che è stato sleale e mi ha risposto che io sono un topo che con i suoi amici mi deride e che non si è mai illuso che io fossi meritevole. Non è un'amicizia, è una mia illusione, ma lui non mi è amico. Mi ha sempre solo usato", ha scritto Morgan che ha anche pubblicato sulle sue store Instagram uno screenshot.

Maria Francesca Troisi Maria Francesca Troisi per mowmag.it il 14 gennaio 2023.

Volano gli stracci tra Morgan e Sgarbi nelle chat Rinascimento Dissoluzione e in un altro gruppo privato. Una rottura fortissima, che coinvolge il ministero della Cultura (in una delle chat era presente anche il ministro Sangiuliano), che appare insanabile e di cui siamo in grado di farvi conoscere i dettagli. Tutto sembra nascere dal mancato sostegno da parte del critico d'arte sul caso Tenco e sfociato in uno scambio di messaggi in cui i due si sono mandati reciprocamente a quel paese a suon di insulti (“Non hai un cuore”. “Sei un topo”. “Tu uno stronzo, mi hai solo usato”. “È merito mio se sei sottosegretario”). 

Ma forse c’è anche la mancata nomina di Morgan a un ruolo a lungo promesso legato al ministero. È la fine di un'amicizia, ma anche di un sodalizio che prometteva grandi progetti a livello culturale? C'eravamo tanto amati. Ma ora è bufera intorno al Ministero della Cultura, o perlomeno nella sua succursale via Whatsapp. I protagonisti? Ancora loro: il cantautore Morgan e il sottosegretario e critico d'arte Vittorio Sgarbi. 

 Tra gli (ex?) amicissimi legati da un'intesa sfociata nella celeberrima chat Rinascimento Dissoluzione, covo di politici, giornalisti, “geni arruolati” e similari sembra tutto finito. Kaput nell'arco di una serata di ordinaria follia. Se pensate che Shakira con Piqué abbia picchiato duro, non avete ancora visto niente. Messaggi che noi di MOW siamo in grado di svelare di un accesissimo scambio di accuse e recriminazioni tra i due, che ci ha inviato una fonte che preferisce l'anonimato e presente in ambedue i gruppi menzionati.

Che succede? La rottura si consuma sulla questione Luigi Tenco, una battaglia che Marco Castoldi, in arte Morgan, porta avanti da giorni per dare maggiore risalto al patrimonio artistico del cantautore genovese. Battaglia per la quale ha cercato aiuto nel fidato amico e sottosegretario alla Cultura, oltre che in altri partecipanti delle chat, ma non trovando quasi nessuno ad ascoltarlo, ed essendo amministratore, ha iniziato a buttare fuori tutti coloro che non partecipavano alla discussione. 

 Peccato che molti fossero amici e collaboratori del critico d'arte. Apriti cielo! Prima Sgarbi ha estromesso lo stesso cantautore dal gruppo e nel mentre lo stesso si è sfogato in un'altra chat che riunisce diversi artisti e personaggi (compreso Sgarbi) e che si chiama Ministero della Cultura. 

Infine, come se non bastasse, proprio lì Morgan ha condiviso lo screenshot del dialogo privato tra i due, dove Sgarbi gli ha risposto per le rime. E nello sconcerto generale, tra chi dava ragione all'uno e chi all'altro, sono volate parole grosse che difficilmente potrebbero portare a una riappacificazione. Così è, se vi pare, al momento. Di seguito lo scambio di messaggi. 

 Morgan esordisce in Rinascimento Dissoluzione: “Io ho chiesto a voi solidarietà e appoggio, perché stimo a priori chi non conosco. Chi mi ha pugnalato invece da me è sempre stato difeso, lo ha fatto perché, sostiene, io ho sporcato in casa sua, eliminando suoi amici, e aggiunge che sono uno stupido perché vado a cercare supporto da una massa di disperati, che invece lui conosce personalmente”. 

Poi affonda: “Non vi fotte proprio un cazzo. Vivete come cento anni fa, convinti di essere moderni, ma siete nel Medioevo, ancora non vi siete accorti dell’invenzione del biciclo. Indignazione solenne per il vuoto culturale che state rappresentando. Sordi. Ciechi. Muti. Morti. Vuoti. Speriamo che l’intelligenza artificiale si sbrighi a produrre androidi, saranno sicuramente più passionali di voi”. 

 E prosegue: “Basta cazzoni. Sgarbi mi ha accoltellato e umiliato, nonostante io lo abbia sempre appoggiato con lealtà, si è permesso di fare questo a me, perché? Perché ho espresso indignazione? Che cosa greve. Ma come si fa a dire “meno emozionale”? Com'era, troppo emozionato? Molto semplice. Non ce la fate. Così come non ce la farà l’Italia. È evidente. Non c’è speranza alcuna. Nessuna. Continueranno così. Ignari di tutto. Per secoli. Io soffro anche per la loro sciagura, quella di non essere intelligenti”.

Una delusione totale che Morgan ha spiegato con parole durissime verso il critico d'arte: “Quanto tempo ho sprecato per Sgarbi, quante notti, quante parole, quanti sogni. Se non fosse stato per me non sarebbe sottosegretario. Così fanno i cattivi. Sfruttano e poi accoltellano. Io perdo tempo, serenità, speranza, lavoro, contatti, allegria, progetti, stima... Parecchie cose perdo. Basta. È uno stronzo, un mostro. Alcuni di voi hanno gli screenshot della discussione tra me e Sgarbi. Giudicate voi, io stacco e me ne fotto, chiudo tutto, siete (quasi) tutti delle merde umane. Affanculo miserabili”. 

Fino alla resa dei conti finale: “Vado a bere del vomito di cane in lattina per provare una sensazione più gradevole delle parole di Sgarbi. Una persona che dice cose così cattive mi fa paura. Gli ho detto che è stato sleale e mi ha risposto che io sono un topo che con i suoi amici mi deride e che non si è mai illuso che io fossi meritevole.  Non è un’amicizia, è una mia illusione, ma lui non mi è amico. Mi ha sempre solo usato”. 

Per concludere con la condivisione della discussione privata (di seguito lo screenshot) dove effettivamente Sgarbi gli risponde: “Io non ti ho neanche pensato. Sei un topo” (forse l'evoluzione di capra, nda). Morgan contrattacca: “Ti manca il cuore”. E il critico ribatte: “Mi basta la testa” e finisce così, per ora, una collaborazione tra le più discusse degli ultimi tempi: “È una delusione immensa” dice Morgan sconsolato e non trova nessuna pietà da parte di Sgarbi: “La mia non è una delusione perché non mi sono illuso”.

Un litigio tra due artisti che, come “le brutte intenzioni, la maleducazione”, farà parecchio parlare.

Sgarbi: «Penso che San Siro non sarà abbattuto. Uffizi e pale eoliche, i miei no per tutelare la bellezza». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 2 Gennaio 2023.

Intervista a Vittorio Sgarbi: «A Milano serve un museo d’arte contemporanea: le pare normale che non ne abbia uno come si deve? E la Pietà Rondanini torni al Castello»

Vittorio Sgarbi, che cos’è questo rumore di sottofondo?

«Sto andando da Sorrento a Ischia in motonave, controllo la situazione dopo l’alluvione».

Da qualche giorno lei, sottosegretario alla Cultura, ha le deleghe su architettura e patrimonio culturale.

«E vorrei che questo governo intervenisse subito, come priorità, su aree danneggiate da eventi naturali. Come Ischia, però penso anche alle zone terremotate».

Ma quello che fa discutere è il destino dello stadio di San Siro. Le deleghe che le sono state assegnate dal ministro Gennaro Sangiuliano ora potranno evitare l’abbattimento?

«Non sono le deleghe ad avere questo potere, anche se oggi il mio peso politico è più forte e potrò dunque indirizzare il prossimo sovrintendente, che arriverà a metà gennaio. Il punto è che in passato aveva prevalso il no al vincolo monumentale sullo stadio, ma nel 2024 questo scatterà in automatico, perché saranno trascorsi 70 anni dall’ultimo intervento importante sul monumento milanese. Quindi...»

Quindi?

«Penso proprio che San Siro non verrà abbattuto».

Sempre a Milano, lei ha contestato la collocazione della Pietà Rondanini di Michelangelo nell’Ospedale Spagnolo. Ora si batterà anche per un ritorno del gruppo scultoreo nell’allestimento firmato dallo studio BBPR, nella Sala degli Scarlioni del Castello Sforzesco?

«L’arte contemporanea è una forma di identità per Milano. L’allestimento di BBPR è perfetto, anche se in questo caso la procedura è conclusa: ci vorrebbe un sindaco diverso che mi chiedesse di farlo. Dirò di più: ma vi pare normale che Milano non abbia un museo d’arte contemporanea come si deve?»

Idee?

«Ne immagino uno nell’area dove si è svolto l’Expo 2015. Appena possibile comincerò a indagare se nella zona dove svettava il Padiglione Zero sia possibile pensare a un nuovo museo».

Lei vorrebbe vincolare anche l’Arengario, dicendo no all’ipotesi di una passerella, parte del progetto di raddoppio del Museo del Novecento. Farà valere le sue deleghe?

«Ah, quella non si fa di certo. Anche qui farò presente al nuovo sovrintendente che mi pare assurdo sfregiare l’opera architettonica di Giovanni Muzio. C’è l’idea, buona, di fare una struttura ipogea».

E la famosa loggia progettata nel 1998 da Arata Isozaki che non è (ancora) stata realizzata nella Galleria degli Uffizi di Firenze?

«Mi oppongo e posso farlo, perché l’edificio è dello Stato. E proprio pochi giorni fa, in un incontro con il sindaco Nardella, con la nuova sovrintendente Ranaldi e con il direttore degli Uffizi Schmidt ci siamo trovati in sostanza d’accordo su un’alternativa: un pergolato. Ho già contattato un architetto, Paolo Genta, lui ha un’idea buona. Vedremo. In questo caso ci eviteremmo anche un costo spropositato che occorre per pulire una struttura trasparente. Non ho idea di quanto costi pulire la Nuvola di Fuksas a Roma, facciamoci domande».

Altri vincoli che lei vorrebbe mettere, in Italia?

«Penso al paesaggio del Salento, specie in provincia di Lecce. Uno dei più toccati e deturpati dall’eolico e da altre forme di produzione energetica. La bellezza di posti come Santa Maria di Leuca o Ostuni non può essere sfregiata. In Puglia ci sono 1.700 pale eoliche, contro le 9 del Piemonte. Non solo Lecce: voglio studiare bene anche l’area intorno a Brindisi. Penso al Molise, nel tratto da Sepino a Pietrabbondante. E anche in Sardegna presto mi metterò a studiare i dossier su eolico e fotovoltaico».

A Roma c’è l’eterna questione della collezione Torlonia, statue antiche e preziose che non hanno ancora una vera e propria «casa».

«La mia idea è un museo ad hoc in palazzi come il Vivaldi o il Palazzo degli Esami. Anche a Noto abbiamo individuato un palazzo dietro la Cattedrale, dove fare un museo del Novecento siciliano, che non è solo arte visiva ma anche letteratura e teatro».

Altre idee?

«Fare del Castello di Sammezzano (Firenze) un museo di arte orientale e comprare, come Stato, la dimora di Giuseppe Verdi a Sant’Agata (Piacenza). Infine è in cantiere un museo del Realismo a Sulmona. Ma ora devo andare, Ischia mi aspetta».

Elisabetta.

Elisabetta Sgarbi: «Non ho voluto figli, ma è stato un errore. Mio fratello Vittorio mi ha messa alla prova per tutta la vita». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 28 marzo 2023

L’editrice della Nave di Teseo: «Il mio grande colpo? Quando il Papa è andato a trovare Edith Bruck». Il look: «Perché non tolgo gli occhiali scuri? Rispondo sempre come David Lynch»

Chi ha scritto: «Trattando le parole come persone»?

«Io. La parola per me è sacra, e trattare le parole come persone significa usarle con amore, credendo nel valore della parola come si deve credere nelle persone».

Chi sono le più importanti della sua vita?

«Alcune non ci sono più, ma continuano a esserlo, perché la mia visione religiosa dell’esistenza pretende di far vivere anche i morti. E questa casa dove lei è adesso ne è la testimonianza».

Dunque, i suoi genitori.

«Sono stati fondamentali, a loro devo tutto. Mio padre era una persona piuttosto timida e lo dimostra il fatto che ha seguito una famiglia complessa come la nostra — mia madre, mio fratello e me — con grande umiltà e capacità di ascolto. Ecco: mi ha insegnato ad ascoltare gli altri».

E sua madre?

«Lei mi ha costretta a superare l’insicurezza. Affronto le cose accompagnata sempre da questo senso di non essere all’altezza di ciò che faccio. Ma lei mi ha aiutato a pensare che ogni ostacolo deve essere superato».

Suo fratello Vittorio?

«È stato precoce per intelligenza e voracità nella lettura. Mi precede ed è stato un confronto costante che mi ha messo alla prova».

Nessuna intervista restituirà mai tutta l’esperienza di Elisabetta Sgarbi, nostra signora dell’editoria (vedi alla voce: La nave di Teseo), del cinema (il suo ultimo docufilm, Nino Migliori. Viaggio intorno alla mia stanza, sarà proiettato oggi a Parigi) e della cultura (La Milanesiana è una delle sue creature). Mentre meriterebbe un’intervista a parte la casa-museo di Ro Ferrarese dove ci incontriamo: quattromila opere d’arte e duecentomila libri ci osservano e bisbigliano da una stanza a un’altra, nascoste come in un gioco di scatole cinesi. Pomponio Gaurico sussurra ad Artemisia Gentileschi che accenna qualcosa a Guercino che lo dice a Corcos che riferisce a Balthus che ne parla con Stern e lui con Fausto Pirandello, con Niccolò dell’Arca e Adolfo Wildt. La Storia fa il suo giro e per non restare storditi bisogna appoggiarsi a un po’ di deperibile dolcezza, un quadretto appeso alla porta della cucina, lì dove avrebbe posato lo sguardo dal suo posto a capotavola Giuseppe Sgarbi detto Nino se fosse stato ancora vivo, perché è la lettera in cui Papa Francesco nomina la figlia membro della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, un anno fa.

Come andò l’incontro con il Pontefice?

«Quella volta non andai, perché ero impegnata con la Milanesiana. Ma l’ho incontrato in udienza il 19 febbraio con altri della Fondazione Ente dello Spettacolo e le istituzioni del cinema. Ero fiera e orgogliosa di andarci come editrice e regista».

Con lei c’era Eugenio Lio.

«Filosofo e teologo, è parte importante della mia vita professionale e privata. Con lui mi confronto moltissimo. Era entrato alla Bompiani nel 2000 come editor. E con Mario Andreose, Umberto Eco e altri, è tra i fondatori della Nave di Teseo».

Un’immagine di Eco?

«Lo rivedo quando andiamo tutti e quattro nello studio notarile di Piergaetano Marchetti e con un entusiasmo da ragazzino mi ascolta raccontare il piano editoriale di una ipotetica casa editrice che avrebbe dovuto sottrarsi a ogni logica di grande concentrazione editoriale».

Gli analisti finanziari vi davano due anni di vita.

«E invece ne sono passati sette e La nave di Teseo ha pubblicato mille titoli, di cui il 30 per cento è catalogo, la memoria letteraria di un autore: Coelho, De Carlo, Scerbanenco, Rezza, Houellebecq... Ricordo che 20 giorni dopo la morte di mia madre consegnai le dimissioni da Bompiani: un taglio netto dopo 25 anni di lavoro e risultati. Tre mesi dopo mancò Eco. Debuttammo con il suo Pape Satàn Aleppe, anche se non avrebbe voluto essere il primo, in nome dell’indipendenza, anche dai fondatori».

Qual è il bestseller?

«In assoluto, con il suo catalogo, Paulo Coelho. Poi Joël Dicker, che ha venduto un milione di copie. Tra gli italiani, Sandro Veronesi: il Colibrì ha superato le 300 mila».

Il suo talento più grande?

«Credo sia una forma di istinto verso le persone».

Istinto applicato ai libri?

«Per esempio Edith Bruck. Non si era mai visto un papa andare a casa di un’autrice nei panni del lettore».

L’atto più coraggioso?

«Pubblicare Woody Allen in lockdown, nonostante le accuse dell’ex moglie e del figlio, e uscire comunque in ebook a prezzo pieno. Ho vinto la mia scommessa. L’opera letteraria è indipendente dalla vita morale delle persone. Vedi Caravaggio».

Gli Extraliscio sono un’altra scommessa vinta.

«Me ne sono innamorata grazie a Ermanno Cavazzoni. Il film che ho diretto e prodotto con la mia casa di produzione Betty Wrong è stato presentato a Venezia, candidato ai Nastri d’Argento e ha ricevuto i Premi Fice e Siae».

Quanto dorme per notte?

«Quattro ore».

Vittorio ha ereditato da vostra madre il gesto di spostarsi il ciuffo con la mano. E lei?

«Non penso a un gesto. Ma quando mando un messaggio alle persone cui voglio bene, chiudo scrivendo tre volte ciao. È come se volessi far parlare lei: era il suo saluto all’ospedale, negli ultimi tempi, con un’allegria che è anche un segno di generosità».

Parla ancora con i suoi?

«No, sarei pazza. Ma mi piace andare a trovarli al cimitero, nella cappella di famiglia a Stienta dove ho messo delle opere d’arte perché gli tengano compagnia. Amo i riti, come il Piccolo Principe con la volpe e la rosa. È capitato che leggessi a mia madre a voce alta gli articoli di mio fratello: lui stava male ed era il mio modo di onorare la promessa fatta a lei di stargli vicino».

Le dispiace non aver avuto figli?

«Sì, molto. Ma anche questo fa parte del mio tuffarmi con serietà ed estremismo nelle cose. Pensavo che non sarei riuscita a dividermi tra lavoro e famiglia. Così ho fatto la scelta di non avere figli. Ma penso sia stato un errore».

Perché porta sempre gli occhiali scuri, anche di notte?

«David Lynch alla stessa domanda risponde che li porta perché guarda al futuro e il futuro è molto luminoso. Questa frase la voglio fare mia».