Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2023

LA CULTURA

ED I MEDIA

QUINTA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE
 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Covid: sembrava scienza, invece era un…calesse.

L’Umanità.

I Benefattori dell’Umanità.

Le Invenzioni.

La Matematica.

L’Intelligenza Artificiale.

La Digitalizzazione.

Il PC.

I Giochi elettronici.

I Robot.

I Chip.

La telefonia.

Le Mail.

I crimini sul web.

Al di là della Terra.

Gli Ufo.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Da Freud all’MKUltra.

I Geni.

I Neuroni.

La Forza della Mente.

Le Fobie.

L’Inconscio.

Le Coincidenze.

La Solitudine.

Il Blocco Psicologico.

La Malattia.

La Depressione.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scrittura.

La Meritocrazia.

Le Scuole al Sud.

Le Scuole Private.

Il Privatista.

Ignoranti e Disoccupati.

Ignoranti e Laureati.

Decenza e Decoro a Scuola.

L’aggiotaggio scolastico.

La Scuola Alternativa.

La scuola comunista.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’onestà e l’onore.  

Il Galateo.

Il Destino.

La Tenacia.

La Fragilità.

Body positivity. Essere o apparire?

Il Progresso.

Le Generazioni.

I Baby Boomer.

Gioventù del cazzo.

Il Linguaggio.

I Bugiardi.

L’Ipocrisia.

I Social.

Influencer.

Le Classifiche.

L’Amicizia.

Il fastidio.

L’Invidia.

L’Odio.

Il Mostro.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Moda.

Le Auto.

I Fumetti.

I Giochi da Tavolo.

L’Architettura e l’Ingegneria.

Il Restauro.

Il Podcast.

L’Artista.

La Poesia.

La Letteratura.

Il Teatro.

Le Autobiografie.

L’Ortografia.

Intrecci artistici.

La Fotografia.

Il Collezionismo.

I Francobolli.

La Pittura.

I Tatuaggi.

Le Caricature.

I Writer.

La Musica.

La Radio.

Le Scoperte.

Markalada, l'America prima di Colombo.

La Storia.

La P2 culturale.

Ladri di cultura.

I vandali dell'arte.

Il Kitsch.

Gli Intellettuali.

La sindrome di Stendhal.

Gli Snob.

I radical chic.

La Pubblicità.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Alberto Asor Rosa.

Alberto Moravia.

Aldo Nove.

Alessandro Manzoni.

Alessia Lanza.

Aleksandr Isaevic Solzhenicyn.

Andy Warhol.

Andrea Camilleri.

Andrea Pazienza.

Anna Premoli.

Annie Duchesne Ernaux.

Anselm Kiefer.

Antonio Delfini.

Antonio Riello.

Artemisia Gentileschi.

Benedetta Cappa.

Barbara Alberti.

Beethoven.

Banksy.

Camillo Langone.

Caravaggio.

Carlo Emilio Gadda.

Chiara Gamberale.

Cristina Campo.

Curzio Malaparte.

Dacia Maraini.

Dante Alighieri.

Dante Ferretti.

Dario Fo.

Dino Buzzati.

Domenico "Ico" Parisi.

Eduardo De Filippo.

Elena Ferrante.

Eleonora Duse.

Emanuel Carnevali.

Emmanuel Carrère.

Émile Zola.

Emilio Isgrò.

Ennio Morricone.

Enrico "Erri" De Luca.

Erin Doom.

Eugenio Montale.

Eve Babitz.

Ezra Pound.

Fabio Volo.

Federico Fellini.

Federico Palmaroli: Osho.

Friedrich Nietzsche.

Filippo Tommaso Marinetti.

Francesco Alberoni.

Francesco Piranesi jr.

Franco Cordelli.

Franco Ferrarotti.

Franz Kafka.

Fulvio Abbate.

Gabriele D'Annunzio.

Gaetano Bonoris.

Gaetano Salvemini.

George Orwell.

Georges Simenon.

Giacomo Leopardi.

Giacomo Puccini.

Giampiero Mughini.

Gianfranco Salis.

Gianni Vattimo.

Gianrico Carofiglio.

Gioachino Rossini.

Giordano Bruno Guerri. 

Giorgio Manganelli.

Giovanni Testori.

Giovanni Verga.

Giovannino Guareschi.

Giuseppe Prezzolini.

Giuseppe Verdi.

Hanif Kureishi.

Italo Calvino.

Jago sta per Jacopo Cardillo.

Jacques Maritain.

Jean Cocteau.

Jean-Jacques Rousseau.

John Ronald Reuel Tolkien.

Johann Wolfgang von Goethe.

J. K. Rowling.

Jorge Luis Borges.

Julius Evola.

Lara Cardella.

Laura Ingalls Wilder.

Lee Miller.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lina Sotis.

Luigi Illica.

Luigi Vanvitelli.

Luis Sepúlveda.

Louis-Ferdinand Céline.

Ludovica Ripa di Meana.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Marcello Marchesi.

Marcello Veneziani.

Marina Cvetaeva.

Mario Vargas Llosa.

Mark Twain.

Martin Scorsese. 

Massimo Rao.

Matilde Serao.

Maurizio Cattelan.

Mauro Corona.

Michel Houellebecq.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarroti.

Michelangelo Pistoletto.

Michele Mirabella.

Michele Rech: Zerocalcare.

Milo Manara.

Oliviero Toscani.

Oriana Fallaci.

Pablo Neruda.

Pablo Picasso.

Paul Verlaine.

Pier Paolo Pasolini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Pietro Cavallini.

Pietro Citati.

Primo Levi.

Robert Capa.

Roberto Ruffilli.

Roberto Saviano.

Salman Rushdie.

Sergio Leone.

Sergio Pautasso.

Sibilla Aleramo.

Stefania Auci.

Susan Sontag.

Suzanne Valadon.

Sveva Casati Modignani.

Tim Page.

Truman Capote.

Tullio Pericoli.

Umberto Eco.

Umberto Pizzi.

Wolfang Amadeus Mozart.

Vasco Pratolini.

Veronica Tomassini.

Virginia Woolf.

Vitaliano Trevisan.

Vittorio ed Elisabetta Sgarbi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

Controinformazione e contraddittorio.

Lo ha detto la Televisione…

L’Opinionismo.

L’Infocrazia.

Rai: Il pizzo e l’educatrice di Stato.

Mediaset: la manipolazione commerciale.

Sky Italia.

La 7.

Sportitalia.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le fake news.

I Censori.

Il Diritto d’Autore e le furbizie di Amazon.

La Privacy.

L’Oblio.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

Wikipedia, l’enciclopedia censoria.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Se questi son giornalisti!

Gli Uffici Stampa.

Il Corriere della Sera.

Avanti!

Il Fatto Quotidiano.

La Gedi.

L’Espresso.

Il Domani.

Il Giornale.

Panorama.

La Verità.

L’Indipendente.

L’Unità.

Il Manifesto.

Il Riformista.

I più noti.

Alberto Dandolo.

Alberto Matano.

Alda D’Eusanio.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Amedeo Goria.

Andrea Scanzi.

Angela Buttiglione.

Angelo Guglielmi.

Annalisa Chirico.

Antonello Piroso.

Antonio Caprarica.

Antonio Di Bella.

Augusto Minzolini.

Attilio Bolzoni.

Barbara Costa.

Barbara Palombelli.

Bruno Vespa.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carmen Lasorella.

Cesara Bonamici.

Claudio Sabelli Fioretti.

Clemente Mimun.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Corrado Formigli.

Cristina Parodi.

David Parenzo.

Donatella Raffai.

Enrico Mentana.

Enrico Varriale.

Enzo Magistà.

Fabio Fazio.

Federica Sciarelli.

Ferruccio Sansa.

Filippo Facci.

Flavia Perina.

Franca Leosini.

Francesca Barra.

Francesca Fagnani.

Francesco Borgonovo.

Francesco Repice.

Furio Focolari.

Gennaro Sangiuliano.

Gian Antonio Stella.

Gian Marco Chiocci.

Gianni Riotta.

Gigi Marzullo.

Giovanni Minoli.

Hoara Borselli.

Indro Montanelli.

Italo Cucci.

Ivan Zazzaroni.

Jas Gawronski.

Laura Tecce.

Lirio Abbate.

Lucia Annunziata.

Luisella Costamagna.

Malcom Pagani.

Manuela Moreno.

Marco Travaglio.

Mario Sechi.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Massimo Gramellini.

Maurizio Mannoni.

Mia Ceran.

Michele Cucuzza.

Michele Santoro.

Milena Gabanelli.

Myrta Merlino.

Natalia Aspesi.

Nicola Porro.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Flores d'Arcais.

Riccardo Iacona.

Roberto D’Agostino.

Roberto Poletti.

Romana Liuzzo.

Rula Jebreal.

Salvo Sottile.

Selvaggia Lucarelli.

Serena Bortone.

Sigrido Ranucci.

Tancredi Palmeri.

Tiberio Timperi.

Tiziano Crudeli.

Tommaso Cerno.

Valentina Tomirotti.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.


 

LA CULTURA ED I MEDIA

QUINTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La critica allo scrittore. Alberto Asor Rosa, un piccolo borghese sul piedistallo. Ripubblichiamo l’articolo che Carlo Salinari scrisse sull’Unità del 28 marzo 1965, a proposito del libro “Scrittori e popolo” di Alberto Asor Rosa. Il titolo, qui riproposto, e piuttosto netto, era “Un piccolo-borghese sul piedistallo". Carlo Salinari su L'Unità il 29 Novembre 2023

Non è questo un libro (Alberto Asor Rosa–Scrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista in Italia-Samonà e Savelli, pp.580, l.4800) che debba essere trattato con diplomazia (se pure esistono libri verso cui sia giusto usare prudenti sorrisi): e del resto lo stesso Asor Rosa sarebbe molto più offeso da mezze critiche, mezzi riconoscimenti, mezze ammissioni o mezzi silenzi che dall’esposizione chiara o senza reticenze del nostro completo dissenso.

Perché il libro a mio parere è sbagliato: sbagliato nella sua struttura generale anche se per avventura possono trovarsi qua e là giudizi esatti e talvolta anche acuti. Vediamo.

L’oggetto del libro non è tanto il ‘populismo’ in senso stretto, quanto il modo in cui nell’ultimo secolo si è venuto configurando in Italia il rapporto tra intellettuali e popolo e in particolare tra scrittori e popolo.

La conclusione del libro è che tale modo non esce mai dall’ambito di schemi borghesi, anzi piccolo borghesi; che di conseguenza si possono mettere accanto “populisti di origine democratica, nazionalista, fascista, socialfascista, antifascista, resistenziale e gramsciana”; che, infine, a questo populismo “va attribuita la responsabilità di molta parte del moderatismo letterario italiano tra l’Otto e il Novecento”.

L’articolazione del libro è data da tre capitoli dedicati rispettivamente al populismo italiano risorgimentale e postrisorgimentale fino alla prima guerra mondiale, a quello del ventennio fascista e a quello resistenziale e gramsciano. Il volume si chiude con due saggi su Cassola e Pasolini.

Asor Rosa nell’introduzione ci dice che il suo discorso è stato nelle varie parti “congegnato in modo da precipitare tutto verso le sue ultime conseguenze, cioè verso la letteratura dell’antifascismo, della Resistenza e del gramscianesimo”, perché lontana dalle sue intenzioni era l’esigenza di una “ricostruzione storica pura”.

Ci dice anche che tale discorso è “politico” e che l’obbiettivo ultimo della sua ricerca è la “critica di parte operaia” a un aspetto assai importante della letteratura italiana dell’ultimo secolo.

Forse questi avvertimenti non erano necessari perché dalla lettura appare molto evidente che il punto di partenza ideale del libro (indipendentemente dai tempi in cui sono stati scritti i vari capitoli) è proprio la parte dedicata al secondo dopoguerra e la critica alla politica di unità svolta dal movimento operaio.

Così i luoghi comuni della critica “da sinistra” della politica del movimento operaio che ci siamo sentiti ripetere da varie parti negli ultimi venti anni, sono tutti raccolti in queste pagine: la Resistenza è stata un fatto popolare, e non di classe; il movimento operaio ha realizzato una politica di unità nazionale e, quindi, ha rinunciato alle sue proprie aspirazioni; gli obbiettivi che la classe operaia si è dovuta porre per mantenere tale fronte largamente unitario sono quelli di “una democrazia rappresentativa, nutrita di forti preoccupazioni sociali: libertà, giustizia, superamento delle strozzature tradizionali in campo economico e politico” e non, quindi, gli obbiettivi della trasformazione socialista del paese, si è snaturata la classe operaia attribuendole una funzione nazionale (e Asor Rosa sembra rimproverare persino il salvataggio delle fabbriche nel ’45) si è imposta al movimento operaio una strategia, quella della via italiana al socialismo, come necessariamente legata all’attuazione della Costituzione e delle riforme borghesi.

Sul piano culturale questo ha comportato in primo luogo il richiamo a una tradizione e non, quindi, la rottura con la cultura borghese; in secondo luogo la caratterizzazione della cultura progressista “come protesta e denuncia dell’arretratezza socio-economica dell’Italia” come “forte indignazione morale, ribellione ideale” e non quindi come critica “di parte operaia” della società capitalistica; in terzo luogo l’attribuzione alla letteratura di un compito direttamente sociale (il cosiddetto impegno); in quarto luogo il collegamento dell’impegno sociale con l’impegno nazionale e, quindi, la incapacità di uscire dal solco della nostra letteratura ottocentesca e di collegarsi con le grandi esperienze della letteratura europea.

Personalmente ritengo che tutte le posizioni indicate da Asor Rosa come errori furono profondamente giuste e che la politica di unità e la ripresa delle bandiere della libertà e della democrazia furono l’unico modo per la classe operaia di fare “storia” (altrimenti sarebbe davvero rimasta nel frigorifero ad aspettare non so bene che cosa): ritengo che senza quella unità non ci sarebbe stata in Italia la Resistenza, che rimane una svolta decisiva della nostra storia anche se Asor Rosa sembra considerarla uno sbaglio, e ritengo che anche oggi quell’unità e quegli obbiettivi democratici siano essenziali per uno sviluppo del nostro paese verso il socialismo.

Ma non è di questo che voglio discutere. Voglio discutere il fatto che partendo da simili premesse Asor Rosa doveva necessariamente scrivere un libro sbagliato.

Non solo perché sono sbagliate le premesse, ma soprattutto (ed è questa la cosa più grave almeno in sede di storiografia letteraria) perché tutta la storia è costruita in funzione della conferma di quelle premesse, e gli autori nella maggioranza dei casi, sono cavie, pretesti, oggetto di “esercitazioni” per avvalorare un’ipotesi che già in partenza si considera giusta.

Si segue in questo libro un metodo che è il contrario del metodo scientifico: del metodo cioè che dall’esame il più possibile obbiettivo dei fatti ricava un’ipotesi di lavoro e lascia aperta tale ipotesi in modo che possa essere sminuita, sostituita e anche capovolta, finché non si arrivi a una verifica definitiva.

Non c’è da stupirsi, di conseguenza, se nel primo frettoloso capitolo (che ci porta in cento pagine da Berchet alla prima guerra mondiale) sfuggono alcuni nodi decisivi come l’elaborazione del tema della questione meridionale e la corruzione del concetto di “nazione” operatasi negli ambienti crispini (per cui, sotto questo concetto, non è possibile, come fa antistoricamente Asor Rosa, raccogliere scrittori e posizioni radicalmente antitetiche).

Non c’è da stupirsi se prendendo come metro di misura la critica “di parte operaia” (nell’accezione che abbiamo visto prima) la letteratura italiana si trasforma in un cimitero, da cui si salvano solo tre o quattro nomi e si rimprovera al populismo persino di aver impedito la formazione di una vera letteratura “grande borghese”.

Non c’è da stupirsi se viene liquidato in poche pagine (e sempre nella stessa chiave con cui si era liquidata l’esperienza postrisorgimentale) un nodo storico così complesso e così poco studiato (almeno dal punto di vista degli orientamenti dello spirito pubblico) quale la prima guerra mondiale; non c’è da stupirsi se quasi non ci si accorge del filone gobettiano che permane tenace durante tutto il ventennio e così via. Non voglio insistere perché si potrebbe continuare per molte pagine.

Voglio però rilevare ancora alcune contraddizioni o affermazioni che mostrano l’inconsistenza di questa critica “di parte operaia” nel significato che vuol darle il nostro autore. Asor Rosa si dichiara persuaso che non c’è un rapporto necessario tra consapevolezza ideologica e riuscita artistica e poi imposta tutta la sua analisi sul fatto che l’ideologia populista portava anche a scelte stilistiche che mortificavano la nostra letteratura.

Asor Rosa ci dice che il marxismo “non implica una concezione del mondo che impone alla letteratura e alla poesia”, confonde quello che noi chiamiamo “asse ideologico” con la ideologia professata dall’autore o con la concezione del mondo, e dimentica che il marxismo, se non impone una concezione del mondo, non può non ispirare una letteratura “antagonista” a quella borghese.

Asor Rosa, pur facendo una critica “di parte operaia”, mantiene intatta la scala dei valori fissata dalla critica borghese per quanto riguarda il nostro Novecento (quello del provincialismo e della sprovincializzazione) non accorgendosi che proprio il movimento neorealista ha portato nello stesso tempo all’approfondimento di aspetti importanti della società nazionale e all’assimilazione compiuta e critica delle scoperte stilistiche delle avanguardie europee (basta pensare al cinema o a Pavese e Vittorini).

Asor Rosa, che pretende di fare una critica “di parte operaia”, ci fa sapere che la questione metodologica è un falso problema ideologico e che per lui è indifferente usare il metodo “stilistico o quello sociologico, quello storico o quello cosiddetto genetico-ideologico”: sposa in tal modo la tesi del revisionismo crociano di questo dopoguerra e, a conferma, della sostanziale anti-scientificità di tutto il suo discorso, ci confessa, “come nel gioco che è a questo livello la critica letteraria, l’uno valga l’altro: può essere divertente, anzi, utilizzarli tutti, l’uno dopo l’altro, così come viene”.

Se mettete insieme tutti questi elementi e cercate di coglierne il tratto comune, vi accorgete che questa pretesa critica “di parte operaia” è una critica (essa si) tipicamente piccolo borghese. Piccolo borghese la volontà di isolare la classe operaia in una sua pretesa purezza, piccolo borghese il massimalismo degli obbiettivi, piccolo borghese il gusto della strage e della stroncatura.

Piccolo borghese il rispetto dei canoni della critica borghese, piccolo borghese il trovar provinciale tutto ciò che è nazionale, piccolo borghese il rispetto indiscriminato dell’avanguardia, piccolo borghese il tono di disprezzo e di sufficienza e la volontà di fare scandalo con cui è costruito tutto il volume. C’è una pagina particolarmente rivelatrice: è quella sulla speranza.

“Se il popolo è ricettacolo di valori umani perenni, la speranza è fra di questi esattamente il cardine, intorno a cui ruota tutto il sistema. Essa è la virtù principe del progressismo. Sostituisce nel popolo l’incapacità a giudicare razionalmente il mondo e l’impotenza ad agire in senso rivoluzionario. Sentimento naturalmente compromissorio e gradualista, e proiezione di un oggettivo immobilismo storico-sociale in una dimensione prettamente ideologica…L’invito a sperare è sempre invito a ignorare. Non spera chi conosce”.

È la pennellata finale del ritratto del piccolo borghese. Asor Rosa sale su un piedistallo per sembrare più alto, vuol essere solo e senza alleati, ama la parola rivoluzione, disprezza coloro che agiscono nella storia perché soggetti e compromessi, gli piace scandalizzare e provocare, e mostra orgogliosamente al colto e all’inclita il suo cuore senza speranza.

Mi scusi Asor Rosa ma l’immagine non vuol essere offensiva (e del resto tutto il mio discorso non vuole essere tale). Vuole solo sottolineare l’assolutezza del nostro discorso. E richiamarlo alla coscienza della sterilità della sua posizione. Noi abbiamo commesso numerosi errori (ed una critica ben più profonda, a mio parere, dei limiti anche ideologici del neorealismo l’abbiamo fatta molto prima di Asor Rosa in un convengo dell’Istituto Gramsci).

Ma pure qualche cosa abbiamo realizzato: la Resistenza, ad esempio, e il neorealismo che, con tutti i suoi difetti, rimane a tutt’oggi l’unica proposta di una cultura “antagonista” alla cultura borghese italiana. Egli con questo libro ci riporta indietro, sul piano ideologico e su quello scientifico. Indietro forse di cinquant’anni. E quel che è peggio senza alcun risultato. Carlo Salinari 29 Novembre 2023

Alberto Moravia? Fu un pittore mancato ma un ottimo critico. Una mostra sul rapporto fra lo scrittore e l'arte: i ritratti, la sua collezione, gli amici di talento...Luigi Mascheroni il 7 Marzo 2023 su Il Giornale.

Forse il fatto che fosse vanitosissimo ha qualcosa a che fare con la sua feroce passione per l'arte. Infatti Alberto Moravia adorava collezionare i ritratti che gli facevano gli amici pittori e fotografi. Nato per narrare e per essere narrato.

Narratore, narciso, vanitoso, un orecchio sintonizzato sul ritmo della scrittura e un occhio perfetto per la pittura, Alberto Moravia diceva di amare più la seconda che la prima; perché la pittura è fatta di «colori e di forme» e non di un continuo «battagliare con le parole» come la scrittura; però forse è soltanto una boutade... Ma di certo Moravia si chiese più di una volta: Non so perché non ho fatto il pittore. Che è il titolo, azzeccatissimo, di una antologia curata nel 2017 da Alessandra Grandelis per Bompiani con una selezione dei suoi numerosissimi scritti d'arte - distribuiti fra il 1934 e il 1990, anno della morte, su quotidiani, dalla torinese Gazzetta del Popolo al Corriere della sera, sui cataloghi, presentazioni per gallerie, interviste e dialoghi: a suo modo Moravia fu un vero critico militante e oggi lo è di una originalissima mostra aperta alla GAM, la Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea, a Torino.

Curata da Luca Beatrice e Elena Loewenthal, la mostra Non so perché non ho fatto il pittore prova a dare una risposta. Alberto Moravia scarabocchiava su fogli e foglietti, mentre telefonava o ascoltava annoiato conferenze e dibattiti, ma non aveva né mano né tecnica per «fare arte» (un po' come Eugenio Montale, la cui «passione della domenica» ci ha lasciato acquerelli e pastelli dozzinali). Ma la capiva. Che forse è addirittura più importante. In diversi romanzi di Alberto Moravia l'arte si manifesta fra le trame e i personaggi, come il pittore fallito Dino e il suo alter ego Balestrieri, modesto e datato, ne La Noia (1960); Moravia frequentava mostre e gallerie; sua sorella era Adriana Pincherle (1905-96), moglie del pittore Onofrio Martinelli, e a sua volta pittrice: non è entrata nei manuali di storia dell'arte ma ha avuto una sua storia espositiva; Moravia conosceva bene Giosetta Fioroni, compagna di Goffredo Parise, e Titina Maselli, sorella di Citto che nel 1964 diede una vita cinematografica al romanzo Gli indifferenti...

Insomma Alberto Moravia, fra i Sei di Torino e la Scuola di piazza del Popolo, viveva l'ambiente dell'arte, respirava l'arte, trafficava con forme e colori - anche se per interposta persona - oltre che parole. E soprattutto aveva molti amici artisti: Carlo Levi, Renato Guttuso e Mario Schifano, al quale negli anni della pop era legatissimo, ma la cui opera lui che guardava solo al figurativo senza mai spingersi nei territori dell'astrazione forse non amava molto, anche se capiva che l'irrequieto «pittore puma» stava andando verso una nuova pittura...

E ad aprire la mostra, nello spazio Wunderkammer della Gam, è proprio un grande Doppio ritratto, 100 x 196, coloratissimo, che Mario Schifano dedicò a Moravia nel 1983. Poi il percorso procede in ordine cronologico, allineando, dagli anni Trenta agli Ottanta, una trentina di opere che lo scrittore collezionò, o che lo ritraggono, o dei cui autori scelse di scrivere. Ottimo il fatto che nelle didascalie si rincorrano brevi passi degli articoli o dei testi critici di uno scrittore oggi molto meno letto di quando era in vita che si occupò di letteratura certo, e di giornalismo (i suoi reportage per chi scrive restano oggi la sua cosa migliore insieme con i racconti), di fotografia e di cinema (al Cinema Massimo il Museo del Cinema di Torino organizza a marzo un ciclo di proiezioni di film moraviani e una mostra di fotografie dell'archivio di Angelo Frontoni).

L'arte del racconto e il racconto dell'arte. L'immagine e la parola. La pagina, la tela e la pellicola.

Fra le opere più interessanti, più belle e curiose della mostra (anche per riscoprire artisti oggi dimenticati o quasi come Carlo Guarienti, Antonio Recalcati o Sergio Vacchi), secondo un nostro personalissimo gusto, scegliamo: il Ritratto di Moravia giovane di Gisberto Ceracchini, oggi a casa Moravia, dipinto nel 1928, l'anno prima della pubblicazione del suo romanzo d'esordio, e il più celebre: Gli indifferenti, e infatti lo scrittore è così giovane da essere irriconoscibile; il Ritratto di Moravia di Carlo Levi, del 1930, modiglianesco con quel collo da romanzo; poi La ballerina (1941) di un inconsueto Giuseppe Capogrossi figurativo, del quale Moravia scrive che «Se esiste una pittura pura, come la poesia pura, Capogrossi ne è uno dei cultori più accreditati»; poi un disegno degli anni Cinquanta di Leonor Fini, artista che Moravia seguì con attenzione, e che proviene dalla collezione privata del gallerista milanese Tommaso Calabro; un piccolo e per noi bellissimo olio di Mino Maccari: Capriccio (1956) «Ecco Maccari con le sue rappresentazioni grosziane della vita sociale e politica romana ahimè fin troppo corposa e incombente»); uno di Piero Guccione Sul far della luna (1968-69) dove compaiono le stesse nuvole che si riflettono sulle carrozzerie delle auto di cui Moravia parla in un'intervista del 1979 sulla rivista Bolaffi Arte; e poi non è un quadro ma una foto, famosissima il ritratto di Alberto Moravia scattato nel 1970, in bianco e nero, da Elisabetta Catalano. Ma ci sono anche Mario Mafai, Renato Birolli, Onofrio Martinelli, Fabrizio Clerici, Alberto Ziveri, il torinese Mario Lattes...

E comunque, alla fine, forse è meglio che Alberto Moravia non abbia fatto il pittore. Così è diventato un ottimo critico d'arte.

Estratto dell'articolo di Mirella Serri per “la Stampa” il 7 marzo 2023.

Quanti Moravia ci sono? C'è lo scrittore di romanzi indimenticabili, da Gli indifferenti ad Agostino a La ciociara; c'è l'intellettuale-guru con le sue riflessioni sull'Urss e sull'America, sulla bomba atomica e sul possibile disastro nucleare che anticipano di decenni tante considerazioni odierne; c'è lo sceneggiatore e critico cinematografico; c'è l'intenditore di arte contemporanea, il drammaturgo, il giornalista-polemista, lo scrittore di viaggi. È possibile oggi "Riscoprire Alberto Moravia" e i suoi molteplici volti, come recita la rassegna dedicata al grande scrittore dalla Fondazione Circolo dei lettori insieme alla Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea di Torino e al Museo Nazionale del Cinema?

 Lo abbiamo chiesto alla scrittrice Dacia Maraini - sua compagna negli anni Sessanta e Settanta - che oggi con il suo intervento apre la kermesse torinese - e alla poetessa e romanziera Carmen Llera Moravia, che sposò Alberto nel 1986 e che il 9 marzo interverrà con Alain Elkann, scrittore e biografo di Moravia.

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«Le sue doti erano la razionalità e la lucidità - sottolinea Llera -. Lui detestava quello che chiamava il sentimentalismo stucchevole e amava l'analisi e la logica. Il suo fascino intellettuale era innegabile e anche la sua autorevolezza: l'ho verificato nei nostri viaggi, da quando siamo andati in Israele ricevuti da Amos Oz e da David Grossman, in America accolti da platee stracolme di studenti alla Columbia University, in Russia dove veniva fermato sulla Piazza Rossa da qualche moscovita che lo riconosceva, fino all'ossequio non formale che a Parigi gli riservò François Mitterrand in procinto di diventare presidente della Repubblica.

Mi ha conquistato con la sua raffinata intelligenza ma lo trovavo anche bellissimo, asciutto e scattante. La differenza d'età non la sentivo - era più grande di mio padre - e nemmeno lui se ne preoccupava. Non c'era un rapporto tra discepola e maestro. Al contrario! Alberto, il quale aveva fatto studi irregolari per via della tubercolosi ossea che lo aveva colpito da bambino, mi presentava come professoressa per il mio incarico universitario. Confessava di ritenersi fortunato ad avermi incontrato in età matura. "A quarant'anni mi ero inquartato! Poi sono dimagrito", diceva divertito. Mi piacevano molto il suo carattere infantile e la sua leggerezza».

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«Me lo ricordo in Africa - commenta Carmen - tra disavventure che mi atterrivano e che andavano dal guasto dell'aereo al soggiorno non programmato nel buio della foresta senza aiuti né soccorsi.

Era imperturbabile, consumava l'ultima baguette che ci era rimasta e canticchiava da Le nozze di Figaro "Non più andrai, farfallone amoroso".

Era il suo modo coraggioso di cimentarsi con l'imprevisto.

Questo era frutto della sua storia personale. I lunghi anni della sua malattia e le vicissitudini sotto il fascismo lo avevano molto temprato».

Il suo rapporto con la politica?

«Era un sostenitore del partito comunista, che apprezzava molto come partito di opposizione e non di potere - rammenta Maraini -. Fu sempre molto critico nei confronti dello stalinismo e dell'Urss. Nell'Italia bigotta e reazionaria partecipavamo a molte manifestazioni per la libertà, per esempio contro la censura dell'arte.

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Poi accettò di entrare direttamente in politica e di essere "arruolato" come eurodeputato a Strasburgo. Come accadde?

«Una visita a Hiroshima lo segnò profondamente - spiega Llera -. Capì che in Occidente si stava sottovalutando il pericolo della bomba atomica. Lo ripeteva sempre: "Come c'è il tabù dell'incesto bisogna creare quello della guerra": ci provò con articoli e interventi, poi raccolti ne L'inverno nucleare.

Enrico Berlinguer fu molto colpito dalla campagna di mobilitazione antinucleare condotta da Alberto. Venne a cena da noi con sua moglie. Un avvenimento insolito per il nostro ménage. Io non amo cucinare, vado a letto prestissimo e con Alberto consumavamo pasti veramente frugali. Il segretario del Pci gli propose di candidarsi come indipendente nelle liste comuniste al Parlamento europeo.

 Gli disse, molto affettuoso e attento: "Non dovrai preoccuparti del viaggio. Andremo insieme". Il 7 giugno 1984 Berlinguer pronunciò il suo ultimo discorso a Padova e l'11 morì. Fu terribile. Per Alberto, data l'età, l'elezione a Strasburgo rappresentò un impegno molto faticoso. Ma decise di onorare la promessa fatta a Enrico, svolse il suo incarico con dedizione e passione».

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Fu sempre aperto e attento ai giovani talenti, come Bertolucci...».

«Che aiutò - interrompe Llera - a scrivere alcuni dialoghi di Ultimo tango a Parigi.

Bernardo sosteneva che Alberto era un maestro da cui aveva tanto da imparare».

«Fu molto disponibile a sostenere negli esordi molti ventenni e trentenni - aggiunge Maraini - pubblicandoli sulla rivista Nuovi Argomenti da lui diretta. Tra questi scrittori c'era, per esempio, Sandro Veronesi».

 Il sesso è il protagonista di tutti i romanzi di Moravia. Ma il nesso letteratura e vita è molto forte: è stata lei, Llera, l'ispiratrice delle sue ultime opere, come L'uomo che guarda, tra le più trasgressive di Moravia?

«Alberto è sempre stato tormentato dalla gelosia. In una lettera mi scrisse "Morirò e tu sposerai un altro" - afferma Llera -. Non è accaduto. Io sono molto autonoma e solitaria.

Lui mi ha accettato con la mia inquietudine esistenziale, con la mia voglia di avventura e di ricerca e con il mio desiderio di libertà. Al contempo io non rompo mai i legami e mantengo rapporti con persone con cui ho avuto un flirt o un incontro anche 30 anni fa. Lui rispettava la mia indipendenza. Ma Alberto aveva le sue irrequietezze. Frequentavano la nostra abitazione donne bellissime, Fanny Ardant, Carole Bouquet, Francesca Dellera, Eva Robin's. Avevamo due camere da letto. Lui ogni tanto si affacciava da me, temeva che io non fossi tornata mentre io non sono mai andata a controllare nelle sue stanze».

Si diceva che fosse avaro. È così?

«Un pregiudizio messo in giro da chi lo voleva attaccare considerandolo uno scrittore scomodo - dice Maraini -. Il padre di Alberto era di origine ebraica e gli si gettava addosso l'accusa antisemita. Era assolutamente disinteressato. Elsa, anche dopo la fine del matrimonio, poteva accedere liberamente al suo conto.

Fu sempre vicino ai suoi amici, come i pittori che a loro volta lo stimavano molto, da Piero Guccione a Renato Guttuso, da Titina Maselli a Giosetta Fioroni, da Mario Schifano a Franco Angeli. Per i pittori aveva una speciale ammirazione. Gli piaceva il loro rapporto artigianale con la realtà». «Ho ritrovato nel fondo Moravia una lettera - aggiunge Llera - in cui chiedeva di potersi ritirare dal premio Strega del 1952, che poi vincerà con I racconti, e di far partecipare al posto suo un giovane scrittore che lo meritava. Il suo nome? Italo Calvino».

Qual era il suo rapporto con la vecchiaia? «L'estate prima della sua morte, avvenuta nel settembre 1990 - ricorda Llera - l'abbiamo trascorsa in Irlanda. All'aeroporto gli proposero una carrozzina. Si infuriò. Bisogna morire prima di diventare dipendenti dagli altri. E se ne è andato in piena autonomia, diciamo così, senza i pesanti contraccolpi dell'età». «Mi diceva: "sono vecchio" - osserva Maraini - ma poi eccolo pronto a macinare chilometri a bordo di Land Rover non perfettamente funzionanti, oppure a dormire in tenda per terra nel deserto. Non fingeva di essere giovane. Lo era nella mente. E questo gli ha permesso di essere anche un narratore prefigurante della nostra modernità».

Estratto dell'articolo di Maurizio Caverzan per la Verità Il 6 marzo 2023.

Ciao Tipo Verità». Ciao. «L’ultima volta che ci siamo parlati ho registrato il tuo numero in memoria, ma siccome mi era sfuggito il nome ti ho soprannominato: “Tipo Verità”».

 A proposito di pseudonimi, Aldo Nove lo è di Antonio Centanin. Poeta, scrittore, traduttore, ex «cannibale» nato a Viggiù nel 1967, autore prolifico e irregolarissimo, l’ultima sua raccolta in versi pubblicata da Einaudi si intitola Sonetti del giorno di quarzo.

 Nel giugno scorso il governo Draghi gli ha concesso il vitalizio della legge Bacchelli, in passato accordato a «cittadini illustri» in stato di necessità come Alda Merini, Guido Ceronetti, Giorgio Perlasca. Lo pseudonimo deriva da «Aldo dice 26 x 1», il testo del telegramma diffuso dal Clnai (Comitato nazionale liberazione alta Italia) nell’aprile del 1945 per iniziare il giorno 26 all’una di notte l’insurrezione contro l’occupazione  nazista di Torino. Aldo è il nome contenuto nel messaggio e Nove è la somma di 2 + 6 + 1.

 Stai ancora provando a cambiarlo?

«Sì, è un modo simbolico per liberarsi di sé stessi. Aldo Nove mi ha stufato. Ma la casa editrice con cui lavoro, al punto primo del nuovo contratto ha scritto che l’autore si firmerà Aldo Nove. Magari farò come Bhagwan Shree Rajneesh che, dopo morto, è diventato Osho».

(...)

È difficile liberarsi di uno pseudonimo affermato.

«Basta “disaffermarlo”. Potrei chiamarmi Roberto D’Agostino 2».

 Perché?

«Mi piace Roberto D’Agostino… La sua barba bianca, il look tra il dandy e il trasandato. Poi mi piace Dagospia perché è pieno di tette. Ah… tette si può dire nel 2023 o è maschilista? Però anche gli uomini le hanno…».

 Vuoi dire che c’è una tendenza alla censura?

Delle parole minimamente sensibili. Magari fra dieci anni “tette” sarà vietata. Ho letto che un grande editore americano ha ritirato le copie di Biancaneve e i sette nani per correggerlo in Biancaneve e i sette piccoli amici. Sembra il titolo di un porno».

 (...)

 Perché sei andato a vivere a Palmi?

«Venni a presentarci un libro… Da tempo non sopportavo la metropoli e sentivo il bisogno di trovare un posto pacifico, con bella gente. Amo profondamente il sud e penso che il futuro del mondo possa sorgere dalla grande cultura mediterranea e della Magna Grecia».

 Che cosa pensi della tragedia di Cutro che si è consumata lì vicino e delle polemiche successive?

«Le polemiche non le sento. Sento la vicinanza con chi ha vissuto quella tragedia. Si vedrà se ci sono delle responsabilità. Ciò che resta purtroppo è il fatto accaduto. Mi tocca molto la terribile sacralità della cosa. La materialità dei fatti sono persone morte».

(...)

 In questo momento cosa stai scrivendo?

«Un romanzo nuovo. E sto curando per Il Saggiatore le edizioni italiane delle ultime conferenze di Sri Nisargadatta Maharaj. L’ultimo grande mistico indiano che, siccome era analfabeta, non ha mai scritto niente, ma le sue parole sono tradotte in tutto il mondo».

 (...)

Un tuo post rilanciato da MowMag e Dagospia contestava la comunità Lgbtq.

«Esiste davvero? I miei amici omossessuali non si riconoscono in queste etichette».

 Scrivevi che le battaglie per i diritti civili sono fuffa.

«Anche Arcilesbica le contesta. Conosco molti omosessuali infastiditi dall’ideologia fluida. Con chi trombi sono cavoli tuoi senza bisogno di rivendicarlo in piazza. Zygmunt Baumann parlava di società liquida e di amore liquido, ma quell’aggettivo era il perno di una critica. Ora è diventato positivo perché è funzionale alla cancellazione dell’identità effettiva».

 Riguarda le sessualità non binarie.

«Invito a tornare alla concretezza della materia, non si può sublimare tutto nel virtuale. Il fatto che si abbia un pene o una vagina è un fatto. Poi ognuno ne fa ciò che vuole. Questo differenzia l’uomo dalla macchina, la quale non ha sesso e non è binaria».

 Con Elly Schlein guida del Pd i diritti civili saranno prioritari?

«Spazzatura ne vedo già molta. Se qualcuno vuole aggiungerne faccia pure. Personalmente tengo alla mia ecologia mentale».

 Molti esultano perché Schlein dice cose di sinistra.

«La sinistra sono i diritti Lgbtq? Un tempo c’entrava con i diritti dei lavoratori, cose concrete. Si dovrebbe occupare di chi oggi si fa il culo 15 ore al giorno a 3 euro all’ora in condizioni di schiavitù, invece… È esistita fino al crollo del Muro di Berlino e al conseguente scioglimento dell’Urss. C’erano il pensiero liberale e il pensiero socialista. Tutto questo è entrato in un tritacarne di valori… Devo pensare che la questione ambientale sia un’idea di sinistra? Cioè: quelli di destra fanno i buchi nell’ozono e quelli di sinistra li chiudono? Non mi ritrovo in una sinistra che ha sostituito Carlo Marx con Greta Thunberg».

Cosa non ti piace della predicazione ecologista?

«Che sia una religione. L’ecologismo trasformato in culto estremo».

 È il primo dogma dell’Unione europea.

«Chi ha i soldi si compra le macchine elettriche e chi non li ha è di destra perché usa la macchina a benzina? Un paradiscorso raccapricciante».

 Non è giusto che a sinistra si esulti perché con Schlein la gradazione ideologica è aumentata?

«Per come la vedo io il Pd non è sinistra, ma potere».

 Il vero potere è la grande finanza?

«Soprattutto. Quando un’agenzia di rating determina le sorti del mercato siamo in pieno neoliberismo. Un sistema nel quale i mercati sono un’astrazione. Per questo vorrei che si tornasse alle cose, alla materialità. A me sembra di vivere respirando, mangiando. Voglio dire: si parla del Metaverso, ma poi tutti i giorni ho a che fare con un patrimonio organico e biologico concretissimo».

 Un paio d’anni fa dicevi che Meloni «ha un’ottima dialettica, ma voglio vederla al potere, sotto le pressioni della Bce». Come sta andando?

«Fa quello che può, non è data altra possibilità. La cosiddetta coalizione di centrodestra aveva molte ambizioni… Poi quando arrivi al potere molli, se no ti tolgono. Berlusconi ci aveva provato, ma è arrivato l’uomo forte Mario Monti».

 Berlusconi è irrequieto?

«È il più stravagante. Anche le sue ultime dichiarazioni hanno creato imbarazzo alla Meloni. Ogni tanto gli scappano delle verità politicamente scorrette. Credo sia più un fatto caratteriale che politico».

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Mattarella rende omaggio a Manzoni: «Il potere non dia ascolto a pregiudizi e stereotipi per inseguire un effimero consenso». SERGIO MATTARELLA su Il Correre della Sera il 22 maggio 2023.

Il Capo dello Stato a Milano per le celebrazioni legate ai 150 anni dalla morte dell’autore dei «Promessi sposi»: «Un maestro indiscusso, gli siamo debitori» 

Milano, 22 maggio 2023: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della deposizione di una corona di fiori sul monumento funebre di Alessandro Manzoni (Ansa/ Ufficio stampa Quirinale/ Paolo Giandotti)

Ho deposto questa mattina, a nome della Repubblica, una corona di fiori sulla tomba di Alessandro Manzoni, in occasione del 150° anniversario della morte. Un grande scrittore, un grande italiano, un grande milanese. Perché, caro sindaco, non si potrebbe spiegare Manzoni senza Milano e, credo che si possa dire, Milano senza Manzoni.

Con questa cerimonia – che, così raccolta e partecipata sarebbe piaciuta ad Alessandro Manzoni – vogliamo rendere testimonianza di quanto l’Italia gli sia debitrice, in termini di pensiero, di produzione letteraria, di esempio morale, di evoluzione della lingua. Manzoni, uno degli spiriti più nobili del nostro Ottocento, protagonista del Romanticismo e del Risorgimento italiano. Definito, a ragione, il padre del romanzo italiano e maestro indiscusso di tante generazioni di letterati e di patrioti.

La lettura dei Promessi Sposi ci riserva, ogni volta, nuovi e sorprendenti aspetti, per finezza, per arguzia, per profondità, per vividezza delle descrizioni, per il tratteggio psicologico dei personaggi; talmente autentici che i loro nomi, ancora oggi, definiscono caratteri esemplari.

Abbiamo appena ascoltato, dalla lettura intensa di Eleonora Giovanardi, l’episodio dell’incontro a quattr’occhi di fra Cristoforo con don Rodrigo. Sono eccezionali il gioco di sguardi, quasi cinematografico, il movimento scenico, il dialogo drammatico, che si intreccia tra i rappresentanti di due concezioni del mondo così diverse: l’umiltà, la sete di giustizia, l’umanità da un lato; l’arroganza, la protervia e la prepotenza dall’altro.

Nello sterminato territorio che separa l’universo valoriale di fra Cristoforo da quello, turpe, di don Rodrigo si muove - sembra dirci Manzoni - la storia, cammino dolente ma inarrestabile dell’umanità verso il futuro.

Genti e popoli in marcia, con le loro speranze, i loro progressi, le loro miserie e le loro cadute. Un percorso che, in ultima analisi, Manzoni affida nelle mani della Divina Provvidenza. Ma che è quanto di più lontano da un rassegnato fatalismo, perché gli uomini, con la loro forza e le loro debolezze, sono e restano i costruttori del proprio presente e del proprio futuro.

Figlio del proprio secolo, Manzoni ha avuto la peculiarità - che appartiene solo ai grandi - di gettare sulla società e sulla realtà storica del suo tempo uno sguardo lungimirante, capace di andare oltre, collegandosi – e spesso ispirandole - alle forze più vive e dinamiche della cultura italiana ed europea, pervase dall’aspirazione alla libertà, all’indipendenza, all’autodeterminazione. Un’aspirazione che non può essere disgiunta dall’opposizione e dalla ripugnanza nei confronti della tirannide, l’abuso di potere, la violenza, l’ingiustizia, specie contro i poveri, gli umili, gli indifesi.

Manzoni si è sempre sottratto, per la sua proverbiale riservatezza e anche per ragioni di salute, alla militanza politica in senso stretto. Ma è considerato, ben a ragione, un ispiratore e un propulsore del nostro Risorgimento e dell’Unità d’Italia. Ed è, a tutti gli effetti, un padre della nostra Patria.

Ricollegandosi alla grande tradizione della poesia civile, di Dante, Petrarca e Foscolo, ambiva a un’Italia unita, che non fosse una mera espressione geografica, una addizione a freddo di diversi Stati e staterelli, ma la sintesi alta di un unico popolo, forte e orgoglioso della sua cultura, della storia, della sua lingua, delle sue radici.

Al poeta Lamartine, che aveva parlato sprezzante di «diversità» di «popoli» italiani, Manzoni rispose con una lettera sdegnata: «No, non c’è più differenza tra l’uomo delle Alpi e quello di Palermo che tra l’uomo sulle rive del Reno e quello dei Pirenei».

Cattolico integrale, ma mai integralista, Manzoni ha affrontato la questione dell’ingresso e della presenza delle masse cattoliche all’interno del processo risorgimentale e di formazione nazionale, respingendo ogni tentazione di mantenimento di forme di potere temporale della Chiesa, da lui considerato storicamente superato, origine di corruzione e fonte di gravi mali.

Anche quando queste tentazioni neotemporalistiche si presentavano nella forma temperata e accattivante proposta da animi illuminati, come Gioberti e il suo amico, e padre spirituale, Rosmini. Da senatore, Manzoni non ebbe alcuna remora nel votare a favore di Roma capitale, nonostante la minaccia di scomunica papale.

Si è molto parlato e discusso - a proposito di Manzoni – del suo cattolicesimo liberale; del suo punto di vista sulle masse popolari, del suo interesse - del suo amore - per gli umili e gli oppressi.

Francesco De Sanctis, in pagine illuminanti, definisce la concezione manzoniana come «eminentemente democratica»: «Non è il titolo - scriveva De Sanctis - e non la ricchezza, e non la dignità e neppure la scienza che crea l’interesse estetico; è il carattere morale, non privilegio di classe o di professione, ma partecipe a tutti: ideale democratico, che è la negazione di ogni aristocrazia di convenzione».

Conosciamo le riserve di Gramsci e di altri studiosi sul cosiddetto «paternalismo» manzoniano o sul suo vero o presunto «moderatismo». Non spetta certo a me rievocare o valutare queste controversie politico-letterarie, peraltro influenzate dallo spirito dei tempi in cui si svilupparono. Ma vorrei condividere qualche breve riflessione sul Manzoni civile.

A proposito del Romanticismo e del Risorgimento italiano si cita spesso la triade Dio, Patria e Famiglia, quasi in contrapposizione alla triade della Rivoluzione Francese, Libertà, Eguaglianza, Fraternità. È una cesura eccessivamente schematica. Il romantico e cattolico Manzoni, in verità, non rinnega i valori della Rivoluzione Francese, anzi, li approva e li condivide, insistendo soprattutto sul quello più trascurato, la fraternità. La Rivoluzione Francese, secondo Manzoni, aveva tradito questi valori, perché, con il giacobinismo, si era trasformata nell’ideologia del Terrore e della violenza. Nulla, per l’autore dei Promessi Sposi, è più nefasto delle teorie politiche astratte che immolano sull’altare della ragion di Stato i diritti di uomini o di intere popolazioni. Nulla, per lui, è più sacro della vita umana. La verità deve prevalere sulla menzogna, la tolleranza sull’odio, la pietà sulla violenza, la morale sul calcolo di convenienza. A differenza di molti suoi contemporanei, che vagheggiavano improbabili ritorni a ere classiche e pre-cristiane, scrive che non bisogna provare alcuna nostalgia per «la barbarie degli antichi», un’epoca caratterizzata da guerre di conquista, stermini, distruzioni, sopraffazioni, riduzione in schiavitù.

Non c’è alcun quietismo, non c’è rassegnazione: Manzoni sostiene i moti di indipendenza nazionale, incoraggia i venti di libertà che spirano in Italia e in tante altre parti del mondo – non a caso nella Pentecoste cita America Latina, Irlanda, Libano e Haiti – giungendo, davanti alle aggressioni e alle ingiustizie, a teorizzare la legittimità della resistenza.

Ma - nella sua visione - è la persona, in quanto figlia di Dio, e non la stirpe, l’appartenenza a un gruppo etnico o a una comunità nazionale, a essere destinataria di diritti universali, di tutela e di protezione. È l’uomo in quanto tale, non solo in quanto appartenente a una nazione, in quanto cittadino, a essere portatore di dignità e di diritti.

Colpisce quanto ricordato da Margherita Provana di Collegno, assidua frequentatrice dello scrittore milanese, a proposito del triste fenomeno della schiavitù: Manzoni le confidò, infatti, che «benché l’America abbia il governo più libero ed il Re di Napoli il più tirannico, pure, se gli avessero fatto scegliere di rinascere, o americano, o napoletano, avrebbe preferito di nascere napoletano, perché nulla esiste di peggio della mostruosa schiavitù».

Nell’idea manzoniana di libertà, giustizia, eguaglianza e solidarietà si può scorgere una anticipazione della visione di fondo della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 1948.

Una carta fondamentale, nata dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale, che individua la persona umana in sé, senza alcuna differenza, come soggetto portatore di diritti, sbarrando così la strada a nefaste concezioni di supremazia basate sulla razza, sull’appartenenza, e, in definitiva, sulla sopraffazione, sulla persecuzione, sulla prevalenza del più forte. Concetti e assunti che – come ben sappiamo - sono espressamente posti alla base della nostra Costituzione repubblicana.

Dai diritti dell’uomo la concezione manzoniana si allarga a quella del diritto internazionale e dei rapporti tra gli Stati, dove si ritrova una critica lucida e serrata al nazionalismo esasperato. Perché la moralità, la fraternità e la giustizia devono prevalere sugli odi, sugli egoismi, sulle inutili e controproducenti rivalità.

Scrive Manzoni in un frammento delle Osservazioni sulla morale cattolica, pubblicato postumo: «Bisogna sentire e ripetere che la somiglianza che ci dà l’essere d’uomo è ben più forte che la diversità di nazione; che il Vangelo ci ha fatto conoscere che abbiamo un cuore grande abbastanza per amar tutti gli uomini; che gli sforzi di una nazione contro l’altra (…) son sempre piccioli, perché fondati sulla passione e non sulla ragione e sulla verità; sono inutili, perché non ottengono stabilmente nemmeno il fine che si propongono quelli che li fanno; sono impolitici, perché producono (…) l’indebolimento e il pervertimento dei popoli».

Manzoni si spinge anche oltre, prefigurando la illiceità di accordi internazionali ratificati sulla testa di popoli e Stati: in una lettera al genero Giovan Battista Giorgini, del marzo 1861, parla esplicitamente della «ingiustizia e la nullità morale di trattati stipulati da alcuni sugli affari d’altri, senza sentirli e con il solo titolo della forza, e dell’inaudita e iniquissima teoria che attribuiva a quegli alcuni … il diritto di costituire un diritto sopra gli altri».

Per concludere, vorrei segnalare un ultimo aspetto che mi sembra di grande interesse. Sono state scritte pagine illuminanti sulla vicinanza, l’empatia, la condivisione dell’autore dei Promessi sposi nei confronti delle masse popolari, che per la prima volta diventano protagoniste di un romanzo. Utilizzando una terminologia odierna, possiamo parlare di un Manzoni certamente «popolare»», ma non «populista».

Il legame controverso che Manzoni stabilisce tra potere e opinione pubblica, tra giustizia e sentimenti diffusi, ci induce a riflettere - sia pure in tempi incommensurabilmente distanti - sui pericoli che corrono oggi le società democratiche di fronte alla diffusione del distorto e aggressivo uso dei social media, dell’accentramento dei mezzi di comunicazione nelle mani di pochi, della disinformazione organizzata e dei tentativi di sistematica manipolazione della realtà.

E, anche, sulla tendenza, registrabile in tutto il mondo, delle classi dirigenti a assecondare la propria base elettorale o di consenso e i suoi mutevoli umori, registrati di giorno in giorno attraverso i sondaggi, piuttosto che dedicarsi a costruire politiche di ampio respiro, capaci di resistere agli anni e di definire il futuro.

Già nei Promessi Sposi, nei capitoli dedicati alla peste, Manzoni scriveva icasticamente a proposito di questi rischi: «Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».

La Storia della Colonna infame - un capolavoro di letteratura civile, compreso e rivalutato solo a partire dal secolo scorso - ci ammonisce di quanto siano perniciosi gli umori delle folle anonime, i pregiudizi, gli stereotipi; e di quali rischi si corrano quando i detentori del potere - politico, legislativo o giudiziario - si adoperino per compiacerli a ogni costo, cercando solo un effimero consenso. Un combinato micidiale, che invece di generare giustizia, ordine e prosperità - che è il compito precipuo di chi è chiamato a dirigere - produce tragedie, lutti e rovine.

Autorità, care studentesse cari studenti, Alessandro Manzoni ci ha regalato alcune delle pagine più belle e intense della nostra letteratura. Il suo altissimo senso morale, la sua ispirazione ideale, insieme umana e cristiana, ci è continuamente di riferimento e da sprone.

Come tutti gli spiriti eletti e gli artisti universali, Manzoni parla tuttora all’uomo di oggi, alle sue inquietudini e alle sue ricerche di senso, con voce autorevole, ferma e appassionata. Anche per questo, oggi, gli rendiamo omaggio.

150 anni fa moriva Manzoni: aveva previsto il mondo d’oggi. Emanuele Beluffi su culturaidentita.it il 22 Maggio 2023

Scommettiamo che gli autori e le autrici dello sconcio avvenuto al Salone del Libro di Torino non lo sanno e nemmeno gli interessa saperlo, ma uno dei più grandi scrittori italiani, forse il secondo dopo Dante, moriva 150 anni fa oggi, 22 maggio 1873: Alessandro Manzoni. Sì, lui, l’autore di quei Promessi Sposi che tanti, tantissimi di noi di buona o di mala voglia hanno dovuto leggere al Liceo. Quante letture, quanti compiti in classe, quanto studio su “i bravi”, Don Abbondio che leggendo il breviario scosta i sassolini dal suo passaggio senza alzare gli occhi dalla pagina, il “matrimonio che non s’ha da fare” e Renzo e Lucia e don Rodrigo e “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno“.

Manzoni, come Dante, ci ha consegnato due cose: la letteratura e quella che con una grossa diremmo filosofia, tu leggile “etica” o “teologia letteraria” se ti pare. Ce lo fa notare Marcello Veneziani, che sgombra subito il campo dal luogocomunismo del Manzoni bigotto, del Manzoni puritano, del Manzoni “oh signora mia”. Balle, come direbbe Chuck Lownel film Mission.

Perché Alessandro Manzoni, oltre che poeta, romanziere, storico, linguista, è stato anche un pensatore. Non lo troveremo nei manuali di storia della filosofia, perché questo aspetto del suo operare letterario è più o meno sempre stato tenuto sotto traccia (ma anche e soprattutto perché non ha mai avuto una complessiva formulazione sistematica da apate del Manzoni stesso, forse semplicemente perché non gli interessava farlo), però c’è ed è importante. Ovviamente messo da parte dai più dei suoi commentatori.

Del resto, l’amicizia con Vincenzo Cuoco gli permise di approfondire il pensiero del filosofo Giambattista Vico, dal quale evinse la struttura teorica dell’intervento, sulle cose umane, della Divina Provvidenza, tramite la categoria tutta manzoniana della sventura, che già appare nel coro dell’Adelchi: la Provvidenza cambia le carte in tavole, modifica senza farcelo sapere le premesse dei nostri progetti e ci fa ottenere risultati che non sapevamo di poter ottenere. Le conseguenze impreviste delle nostre finalità: l’eterno, la meta-storia, Dio, sono quell’orizzonte sopra le nostre teste, sopra la storia, sopra il tempo. Da Giambattista Vico, Manzoni recupera quel concetto (insito nei corsi e ricorsi storici di vichiana memoria, appunto) che lui chiama Provvidenza e che agisce nel mondo per ristabilire bene e giustizia. Lo vediamo nei Promessi Sposi e nelle storie dei loro personaggi.

Se Dante era un visionario metafisico, ci dice Veneziani, Manzoni fu uno studioso di etica che anticipò i tempi e giunse ai nostri, di tempi: pre-vedendoli. Anti illuminista e più vicino alla temperie Romantica, almeno nella declinazione italiana, Manzoni vide nell’incipiente secolarizzazione e scristianizzazione, che allora professavano solo gli intellettuali, una deriva potenzialmente pericolosa. E ci vide giusto: le cronache di questi ultimi anni non hanno bisogno di commenti e non occorre andare troppo lontano per verificarne la fondatezza, in Francia sostituiscono le chiese con i supermercati, in Italia il Papa non lo stanno nemmeno ad ascoltare e lo schivare (o lo “schifare”, come usa Veneziani nelle sue riflessioni) la spiritualità cristiana si è esteso ormai, oggi, dagli uomini di lettere agli uomini tutti.

La secolarizzazione qui, in voga ormai da anni, sta raggiungendo l’apice, cioè il popolo. Scriveva il Manzoni: «Ah, se quegli che chiamano popolo adottassero un giorno la filosofia miscredente, che Dio non voglia». Presentimento più che fondato, col senno di poi, commenta Veneziani. La Morale cattolica manzoniana era considerata estranea alla cultura italiana e i risultati oggi si vedono tutti.

Anche Alessandro Manzoni era controcorrente, anche la sua era una voce fuori dal coro: si opponeva a quelle che stavano ormai diventando le idee dominanti del suo tempo, importatrici del credo illuminista e ateistico, il laicismo, l’anticlericalismo, che prevalsero sulla visone del mondo risorgimentale di un Gioberti o di un Rosmini, ai quali invece Manzoni si sentiva più affine.

E anche lui, come quelli che pensano con la propria testa, hanno lo sguardo più lungo: come dice Marcello Veneziani, “i grandi sopravanzano la loro epoca, guardano più lontano, indietro e avanti, comunque oltre”. E giungono a noi: non è allora bigotto questo nostro presente, fluido e intollerante con quelli che pensano con la propria testa?

La peste del Manzoni non è mai passata. Libri, "grida", incisioni: le paure di oggi, fra guerre e epidemie, nell'opera di don Lisander. Luigi Mascheroni il 4 Maggio 2023 su Il Giornale.

James Bradburne, direttore della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca Braidense, è stato un po' enfatico: «Guerra, carestia, peste, morte: i quattro cavalieri dell'Apocalisse che dominano i titoli dei giornali di oggi sono anche al centro della mostra, che prova come le parole di un grande scrittore possano aiutarci ad affrontare le sfide del mondo contemporaneo». Però, se voleva sottolineare l'universalità di Alessandro Manzoni, una ragione ce l'ha.

La malattia, la morte, la paura, le cure, la scienza, le credenze, le psicosi collettive. Ossessioni di oggi, storie di ieri.

Come celebrare al meglio i 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, una delle figure più alte della letteratura italiana, personificazione di Milano, re-inventore della lingua, lo scrittore attraverso il quale parliamo così, «vediamo» e pensiamo così, dalla scuola media all'età adulta? Con una grande mostra - l'iniziativa più importante di quello che sarà un lungo anno manzoniano - che racconta il momento storico e letterario più tragico della sua opera: la peste. Un fantasma con la maschera a becco che entra, devasta e esce dai suoi due libri della vita: I Promessi sposi e la Storia della colonna infame.

Benvenuti alla mostra Manzoni, 1873-2023. La peste, «orribile flagello», tra vivere e scrivere che si è aperta alla Biblioteca Nazionale Braidense di Milano, inaugurata ieri dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano (ed è stato importante che ci fosse in un luogo e per un evento del genere) e che racconta in un inedito percorso di carta la grandezza dello Scrittore, una nuova idea di Romanzo moderno, un esempio di impegno civile, l'eterno confronto fra Letteratura e Scienza.

Lo spazio più bello della Braidense - la Sala «Maria Teresa» - una curatela originale e ineccepibile di Marzia Pontone, direttrice scientifica della Biblioteca, 17 teche-sezioni (con guida scaricabile da un QrCode, volendo), 114 fra libri in prima edizione, manoscritti, incunaboli, disegni e incisioni, e un'idea forte: sfruttare la narrazione manzoniana, non solo un classico ma un modello, per una riflessione corale sulla recente esperienza della pandemia, tra virus, stragi, ossessioni, medici della peste, «untori» (ieri erano i «barbieri», oggi i cinesi...), ossessioni, ricette fai-da-te e complotti. La tragoidìa non è solo nella letteratura ma della vita.

Allestire mostre di libri non è facile. Ma quando escono bene - e La peste, «orribile flagello», tra vivere e scrivere è uscita molto bene - sono bellissime. Si parte dalla peste nel mito, il terribile morbo che colpisce il campo acheo all'inizio dell'Iliade: ecco un incunabolo in folio con la prima edizione a stampa della traduzione latina del poema dovuta a Lorenzo Valla, 1497. Poi si passa alla Storia, con la peste bizantina e la peste nera di cui il Manzoni leggerà attraverso il resoconto di Paolo Diacono: e qui ci sono opere di Tucidide, Tito Lucrezio Caro e l'edizione del Decameron curata da Lorenzo Salviati e stampata nel 1597 a Venezia con 101 «vignette» xilografiche. Quindi si attraversano le epidemie sforzesche e si arriva alle pesti borromaiche, fra cui la seconda del 1630 che Manzoni avrebbe reso celebre due secoli dopo: ed ecco una «grida» di Carlo Borromeo per invitare la popolazione a partecipare al rito della benedizione e a bruciare «libri lascivi, Madrigali e Canzoni disonheste» ma anche «dadi, carte, maschere et altre simili chose», poi una minuta autografa dell'incompiuto poemetto manzoniano La Vaccina in cui si presagiscono l'ambientazione lombarda e il tema della cura sanitaria del male, c'è il Trattato di vaccinazione del medico Luigi Sacco nell'edizione 1809, e ovviamente diverse edizioni dei Promessi sposi. E infine si «passa oltre», con documenti sull'epidemia nell'800, quando la sanità è ancora sospesa fra rimedi tradizionali, prime scoperte scientifiche e palliativi inutili se non dannosi, per chiudere il percorso con le prime traduzioni europee dell'opera del Manzoni a soprattutto il morbo raccontato dalle letterature straniere: la peste, il colera, la spagnola, il vaiolo e l'Aids nelle pagine di Jack London - eccola La peste scarlatta nella collana «Il Romanzo d'Avventure» della Sonzogno, anno 1927, «Prezzo Una Lira» - e di Thomas Mann, Camus, Gabriel García Márquez... e c'è persino Cecità di José Saramago.

Poi c'è anche un'appendice: due teche con le bellissime tavole a colori «sfascicolate» dal trattato del fisico francese Louis-Joseph-Marie Robert (1771-1850) Guide sanitarie des gouvernements européens fra cui l'iconico medico del lazzaretto di Marsiglia nel 1720 con la tunica fino alle caviglie, i guanti, il bastone, il cappello a tesa larga e una maschera a forma di becco dove erano infilate essenze aromatiche e paglia per impedire il passaggio degli agenti infettanti... Anche le mostre di carta sanno trasmettere inquietudine.

Tra i pezzi più interessanti in mostra: uno schizzo di mano del Manzoni con la pianta del lazzaretto di Milano, forse del 1839, con segnato in un inchiostro diverso il possibile percorso tenuto da Renzo dentro l'edificio; la serie di dodici incisioni di Francesco Corsi ispirate ai disegni preparatori di Gallo Gallina che illustrano altrettanti episodi del romanzo pubblicate e diffuse fra il 1828 e il 1830 dalla casa editrice Ricordi; i bozzetti di Francesco Gonin, che lo stesso Manzoni definì «ammirabile traduttore in immagini» della sua opera, usati per illustrare la «quarantana» dei Promessi sposi, cioè l'edizione definitiva del romanzo del 1840, e che lo scrittore voleva arrivasse a tutti, anche soltanto attraverso le «figure»... e guardate bene il disegno per l'episodio della madre di Cecilia, capitolo 34, dove si narra di una donna che perde una figlia a causa della peste e non volendo che sia lanciata sui carri in mezzo agli altri cadaveri paga pietosa un monatto perché le dedichi un'attenzione... «Addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme».

Per il resto, sappiamo come è andata con il Covid. Per quanto riguarda invece l'«orribile flagello» di manzoniana impresa, che ebbe il suo apice nell'estate del 1630 con seicento vittime al giorno, quando alla fine di quell'anno il morbo regredì, i morti nella sola Milano ammontavano a centocinquantamila.

Il lessico epistolare di Manzoni fra gelsi e balbuzie. Uno degli sketch più brillanti intorno alla vita del Manzoni lo racconta Carlo Dossi nelle Note azzurre, azzurro capolavoro della letteratura nostra. Davide Brullo il 27 aprile 2023 su Il Giornale.

Uno degli sketch più brillanti intorno alla vita del Manzoni lo racconta Carlo Dossi nelle Note azzurre, azzurro capolavoro della letteratura nostra. Si dice che Manzoni, «essendo terzo in una conversazione che si aggirava su un tema astruso», diede ragione, con la stessa sussiegosa intensità, a entrambi gli interlocutori: perfino al «suo nipotino» che lo rimproverava, «gran papà, te ghe daa reson a tutt e duu». Il Dossi cala l'asso filosofico: intorno a certe questioni la vittoria non è mai di uno solo, gli «opposti... possono parimenti aver ragione». A noi resta l'idea del genio della sprezzatura del Manzoni, uomo troppo verticale, vertiginoso, per occuparsi dei fatti mondani, che ammantava le diatribe tra i suoi simili con una sorta di cupa compassione. Personalità inestricabile, di elusivo fascino, Manzoni ha fomentato fior di romanzi; il più bello lo ha scritto Mario Pomilio, s'intitola Il Natale del 1833, vinse lo Strega quarant'anni fa: leggetelo.

Per penetrare nel cuore cifrato di Manzoni, però, la via più chiara è quella di assaggiarne le lettere, ora antologizzate da Alessandro Zaccuri - autore, tra l'altro, l'anno scorso di un bel romanzo manzoniano, Poco a me stesso, edito da Marsilio - come Io ti ho a scrivere cose sì strane (L'Orma, pagg. 64, euro 8). La rassegna, naturalmente, non svela Manzoni: non c'è miglior mentitore di chi scrive lettere. Le menzogne, però, spesso sono più belle della claustrale verità: la potenza linguistica - quella c'importa - è micidiale. Così, c'è il Manzoni «Oratore Cattolico» che nel 1809 scrive a Pio VII «per consentire il battesimo della primogenita Giulia» e il Manzoni «fattore» che allo zio Giulio Beccaria, nel 1819, descrive il «vivajo di circa 800 gelsi innestati» a Brusuglio; c'è l'artista che chiacchiera, nel 1821, con Goethe, «uomo avvezzo all'ammirazione d'Europa»; il penitente che si rivolge al «Veneratissimo» Antonio Rosmini; il marito distrutto che a Leopoldo II di Toscana, nel febbraio del 1834, invia un'agiografica lettera intorno alla morte di Enrichetta («nell'ultima ora, avendo chiesto d'esser mutata da una positura penosa, soggiunse: non per ischifare il dolore, ma perché il dolore m'impedisce di pensare al bel passo che son per fare»); il marito ritrovato che informa Teresa Borri, nel 1852, di una sua visita, «singolarissima», a Siena. E poi c'è il padre - austero e distratto -, il senatore che si scherma («sono balbuziente», dice a Emilio Broglio), lo scrittore in bolletta. Uno, dieci, centomila Manzoni. A leggere le lettere, pare d'inseguire un Minotauro. D'altronde, I promessi sposi è romanzo ambiguo e tentacolare quanto il suo autore. Ci trovi «il sorgere e il tramontare del sole... l'amore, la smania per le riforme» ma anche «la rassegnazione» e «la vanità del tutto». Giudizio del Dossi, condanna del Manzoni: lo scrittore che ha divorato il mondo.

Alessia Lanza: «Nel libro racconto ansie e paranoie, TikTok è la mia rivincita». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 10 gennaio 2023.

Nella copertina del libro Non è come sembra posa nuda: «Volevo far capire che sono una ragazza normale, come tutti. Molti giovani hanno più pregiudizi dei loro genitori»

Alessia Lanza è partita 22 anni fa da Gosi Pianvignale, frazione di 250 abitanti in provincia di Cuneo, ed è arrivata a essere una delle «creator» più seguite su TikTok con un format che mescola balletti, consigli di make up, storytelling e ovviamente sponsorizzazioni, se no che te ne fai di 4 milioni di follower. Per chi appartiene a un’altra generazione rimane un alone di mistero, ma è innegabile che sia un fenomeno del presente da raccontare.

Nel suo libro, «Non è come sembra» (edito da Mondadori), racconta che alle superiori l’avevano marchiata con un giudizio secco: «bella e stupida».

«Era un’etichetta difficile da togliersi di dosso. Anche da parte mia, perché dopo un po’ che ti viene continuamente ripetuta una cosa arrivi anche tu a credere che sia vera, non sai più chi sei. Avevo le paranoie a dare qualunque tipo di risposta perché temevo di dire una cavolata e sarebbe stata la conferma della mia stupidità. Il “bella” mi era indifferente, perché è il giudizio sulla personalità che ti ferisce. Avevo 15 anni e pensavo fosse colpa mia».

Soffriva anche di ansia sociale...

«Derivava tutto da lì, da quel marchio che diventa un tatuaggio sulla pelle. Facevo fatica a stare in mezzo alle persone, mi prendevano in giro e non volevo alimentare questo pregiudizio nella convinzione che ero io quella sbagliata».

Come ha superato queste difficoltà?

«Con il lavoro su me stessa fatto grazie anche a una psicologa. Mi sono messa a nudo e ho capito che sono una persona normale, sono curiosa, ho voglia di imparare, ‘sti cavoli se la gente pensa che sono stupida».

Oggi è costantemente sotto gli occhi di tutti e giudicata da tanti, è una rivincita?

«È una rivincita a mo’ di terapia d’urto. Perché avrei dovuto rinunciare a quello che mi piace fare?».

Nel libro racconta che aveva problemi a postare foto del suo profilo destro. Non sembra un problemone...

«Puoi essere considerata una bella ragazza da tutti, ma il giudice principale di te stesso rimani sempre tu, sei tu la persona cattiva con cui devi avere a che fare ogni giorno, quella che ti dà i giudizi peggiori. Poi ho capito che era una cosa che non aveva senso. Oggi se vengo male in una foto sono anche più contenta, così le persone mi vedono in ogni sfaccettatura».

In copertina è nuda: attirare l’attenzione con il corpo non è una scorciatoia?

«Per me no. L’ho vissuta come una sfida personale. Sono a mio agio con il mio corpo ed è un messaggio grandissimo quello che voglio far passare perché mi sono messa a nudo a 360 gradi nel libro e lo rivendico fin dalla copertina. Sapevo che mi sarebbero arrivati messaggi negativi, ma ho reso in una foto quello che sono io, volevo far capire che sono una ragazza normale, come tutti».

Gli hater l’hanno ferita?

«No. Ma non ho amato i messaggi di chi mi accusava di essere a favore della mercificazione del corpo femminile. Oddio aspetta, che state dicendo? Non mi sembra proprio».

In quarta di copertina fa il dito medio: a chi è rivolto?

«A nessuno di preciso, ma allo stesso tempo a tutti quanti. Non sono una persona che dice parolacce, al massimo cavolo o vaffanbrodo. Era per dimostrare che quando voglio posso mandarti a stendere se mi va, volevo far capire che ho carattere».

Racconta di essere una «sottona», di subire una sorta di sudditanza in amore...

«Anche questo fa capire che sono una ragazza normalissima. Adesso sto bene da sola, ma da adolescente inseguivo chi non mi voleva».

Ha rivelato che a 15 anni si interrogava sulla sua identità sessuale...

«È stato un modo per scoprirmi. Mi sono detta: ci sono delle domande che devo farmi e la risposta non è mai sbagliata perché devi seguire quello che ti fa stare bene. A 15 anni la mia risposta era: sono bisessuale perché mi piacciono le ragazze e i ragazzi. Adesso non lo so. Chi ti piace? Oggi non so cosa rispondere e non voglio rispondere. Perché se un giorno dici una cosa poi ti rinfacceranno quello che hai detto. Sono stufa delle etichette. Sono libera».

Se un ragazzo ha tante ragazze è un figo. Se succede a una ragazza è una facile. Anche la vostra generazione giudica con stereotipi antichi?

«Si, viviamo in una società in cui c’è ancora questa mentalità, molti giovani sono più moralisti dei loro genitori. Per queste cose ci vuole tempo».

I like e le visualizzazioni non rischiano di diventare un’ossessione?

«No. Utilizzo i social da quando avevo 16 anni e sono abituata a qualunque tipo di risultato; per me non è la quantità che conta ma quanto ci metto dentro di me stessa nella produzione di un contenuto. Ovviamente è il mio lavoro, quindi cerco di avere costanza nei numeri, ma le cose che faccio mi devono sempre piacere. Sono sempre io sui social, al cento per cento».

Sui social si posta la parte migliore di sé, i filtri aiutano a migliorare l’immagine: non è ingenuo parlare di accettarsi per come si è?

«La naturalezza, la spontaneità e la semplicità sono le mie caratteristiche principali e sono quello che porto nei social. Non utilizzo i filtri più di tanto, perché con un seguito così grande hai una responsabilità enorme: non puoi illudere che hai la pelle perfetta o che sei al top del top appena sveglia perché tanti ragazzi si faranno un’idea che non è quella vera, si sentiranno sbagliati. Io da piccola avrei voluto che ci fosse qualcuno a dirmi che il mondo delle favole non esiste».

I brand la pagano bene?

«È la classica domanda a cui nessuno di noi darà mai una risposta».

La vostra è una generazione disinteressata alla politica?

«Ammetto di non essere preparatissima sull’argomento, credo che dovrebbero esserci degli sforzi per avvicinare i giovani alla politica. Sicuramente non tramite TikTok. È giusto che certi politici ci abbiano provato, ma ora si può cercare un’altra strada».

Oggi vive in una casa (Defhouse) con altri sette creator «stimolati in continuazione a coltivare il proprio talento». Detto in modo brutale sembra un allevamento di polli per tiktoker, costruiti a tavolino e poco spontanei.

«No, perché non si riesce a fingere di essere spontanei, il tuo modo di essere filtra anche attraverso lo smartphone. È stata un’opportunità, seguo corsi per migliorarmi, è stata l’occasione di venire a Milano che è una città che offre mille stimoli ed eventi».

Il Piano B ce l’aveva?

«Avevo iniziato l’università, quello era il Piano A. Il Piano B erano i social. Poi con il tempo i piani per fortuna si sono invertiti».

Solzhenicyn ancora prigioniero nel Gulag della ideologia. Cinquanta anni fa veniva pubblicato il capolavoro del dissi.ente russo In Italia tutti lo disprezzarono, tranne Enzo Bettiza, che ne scrisse sulle pagine di questo "Giornale". Ecco l’articolo. Enzo Bettiza il 4 Giugno 2023 su Il Giornale. 

Spiace davvero che uno scrittore libero da pregiudizi come Carlo Cassola, noto per le sue periodiche meditazioni anticonformistiche sulla letteratura universale, abbia chissà perché sentito d'un tratto l'imperioso bisogno di conformarsi a un gioco che oggi va nei salotti in linea: la denigrazione di Aleksandr Isaevic Solzhenicyn. In un'intervista al Mondo della settimana scorsa Cassola, dopo aver candidamente ammesso di non conoscere una parola di russo, non s'è tirato indietro e anzi, con la sbrigativa perentorietà di uno slavista molestato nei suoi studi da una fastidiosa zanzara, ha raso con un colpo a zero le 606 pagine del primo volume dell'Arcipelago Gulag. Con poche parole, tirate via sul filo di una frivolità scorrevole e punitiva, il narratore toscano ha fatto giustizia sommaria dell'opera del russo, trattato alla stregua di un principiante capace di compitare sì e no qualche lettera dell'alfabeto cirillico. Cassola ha fugato così, una volta per tutte e per tutti, l'ombra d'ogni residua esitazione. Solzhenicyn? Non esiste. «Un retore declamatorio che non vale niente come scrittore. L'ho letto in traduzione, ma in traduzione ho letto anche Tolstoj, Dostoevskij, Cechov, Turgenev, Pasternak, sui quali non ho dubbi. Con Solzhenicyn mi sono trovato di fronte a uno scrittore anonimo: un corrispondente di provincia scrive meglio. È evidente che è stato il caso politico a portarlo alla ribalta».

DALLE VISCERE Il sospetto che sia stata la Russia a riportare dalle proprie viscere a galla gli scritti anonimi e la torva barba da vecchio credente di Solzhenicyn, non sembra incrinare neanche con un brivido la severa imperturbabilità del giudicante; così come non sembra sfiorarlo il dubbio che i suoi stessi romanzi d'amore, tradotti in russo, possano perdere qualche grammo di peso a petto dei fluviali trattati di morte di Solzhenicyn tradotti in italiano. D'altronde, con gli stessi argomenti speciosi usati oggi per raccorciare la statura di Solzhenicyn, non s'era tentato, una quindicina d'anni fa, di liquidare sul piano letterario proprio quel famoso romanzo di Pasternak sul quale Cassola dice di non nutrire dubbi di sorta? Ricordate. Si sosteneva allora, in Russia e fuori, che Pasternak, delicatissimo poeta simbolista, era però un romanziere scadente, frammentario, piagnucoloso, privo del senso della storia, assolutamente incapace di costruire situazioni e personaggi narrativi. Anche di Pasternak, come oggi di Solzhenicyn, si diceva che era un Tolstoj di serie C: uno gnomo del romanzo epico, gonfiato a dismisura da un incidente politico. Ma via via che c'inoltriamo nel passato della letteratura russa, che fu sempre una letteratura di fondo impuro, pedagogico, missionario, ci accorgiamo che il ricatto estetico, con cui oggi si cerca di «ridimensionare» Solzhenicyn, non è affatto nuovo. Già lo subirono alcuni dei massimi scrittori dell'Ottocento. Dostoevskij a suo tempo venne accusato di distorcere la realtà della Russia in moto verso l'ascesi rivoluzionaria, gettando fango sull'intelligencija radicale e incenso mistico sul popolo, e perdippiù di scrivere male, di costruire le sue trame morbose a singulti epilettici, di non saper rendere vivo un personaggio femminile, di non riuscire ad elevarsi, né con lo stile né con l'immaginazione, al di sopra della cronaca nera a cui avrebbe attinto in mancanza di una originale fantasia creativa. Da una certa ottica purista occidentale, almeno tre quarti della letteratura classica russa andrebbero in verità scartati per la loro scrittura andante, derivata dal giornalismo, spesso ipertrofizzata d'idee e di intenzioni edificanti. Di rado uno scrittore russo, veramente russo, ha cercato d'inventare un'opera bella, fine a se stessa, o bastante a se stessa; sempre ha cercato invece, obbedendo magari inconsciamente all'inflessibile codice etico conficcato alla sorgente del fiume narrativo russo nella metà del secolo scorso da Belinskij, di dare un'opera utile alla nazione russa. Al limite, come voleva appunto Belinskij, un'opera d'alta propaganda; se poi diventava arte, tanto meglio; ma l'intenzione artistica non contava molto nel momento in cui lo scrittore, avviando un nuovo romanzo, si sostituiva al giornalista, allo storico, al filosofo, al riformatore, i quali non riuscivano a operare con altrettanta libertà nei loro campi rispettivi. La perfezione artistica di Tolstoj, soprattutto in Guerra e pace e in Anna Karenina, veniva alla luce per così dire malgré lui e le sue idee evangeliche, derivava dall'alta classe aristocratica a cui apparteneva con tutto il suo sangue: era un riflesso naturale della sua ottima educazione settecentesca, francesizzante, nutrita di buone letture e di gusto sicuro. Ma Tolstoj, uomo del Settecento, era un'eccezione nel flusso letterario dell'Ottocento. La regola era rappresentata piuttosto da Dostoevskij: uomo dei nuovi ceti emergenti, dei raznochincy, dei «senza grado», intrisi di ansie nuove, di gusti più dubbi, sospinti verso la letteratura da un duplice impulso misticheggiante e radicaleggiante. È a questa corrente più esaltata e più predicatoria del realismo russo, didattica e visionaria insieme, populistica e ortodossa, pietosa e rigoristica, che il personaggio Solzhenicyn, prima ancora che lo scrittore, si riallaccia in maniera diretta. Se non lo si colloca su questa mappa spirituale della profonda Russia ottocentesca, lo si perde di vista o si rischia di vedere qualcuno che lui non è e non può essere.

CASO RELIGIOSO Innanzi tutto Solzhenicyn non è soltanto un caso letterario, o soltanto un caso politico. Egli è, essenzialmente, un caso religioso. E la sua rivolta di fondo mistico ha un peso particolare soprattutto perché è maturata assieme ai fallimenti di un esperimento sociale fideistico che, fino dal 1918, data di inizio dell'arcipelago concentrazionario, ambiva a un'impossibile totalità. Né le capziosità estetizzanti, né l'ostilità preconcetta di tanti intellettuali occidentali, sono riuscite non dico a spiegare, ma nemmeno a centrare nella cornice esatta il fenomeno Solzhenicyn. Dal punto di vista di una frivola subcultura di sinistra certamente Solzhenicyn, a causa della violenza antideologica dei suoi scritti e della fermezza dissacrante della sua denuncia che non lascia più spazio a ideali posticci, può apparire «reazionario». Nel panorama variegato dell'intelligencjia d'opposizione sovietica, se lo si contempla dall'esterno, Solzhenicyn sembra infatti rappresentare una nuova destra slavofila, mentre l'illuminato Sacharov si pone al centro e il marxista Medvedev slitta a sinistra. Però, da un'ottica interna sovietica, il vero e pericoloso radicale è lo scrittore religioso, che propone alla nazione russa una soluzione che non va più contro ma già al di là del regime. LA TRADIZIONE L'opera di Solzhenicyn è tanto perniciosa per il regime sovietico, quanto è irritante per quegli intellettuali d'Occidente che vorrebbero dipingere di rosso, o almeno di rosa, anche i sopravvissuti ai campi staliniani. Solzhenicyn insomma, richiamandosi alla sola tradizione spirituale russa rimasta viva nel popolo dopo l'ecatombe, la tradizione religiosa, indispettisce e disturba perché non rispetta le regole della letteratura da camera, perché stravolge le simmetrie del gioco, perché inserisce nella rappresentazione artistica il contagio di elementi terribili che in parvenza dovrebbero esserle del tutto estranei. Forse, l'animosità di tante piccole anime per Solzhenicyn sgorga da due sentimenti. Uno, di smarrimento mentale, prodotto dall'inesorabile violenza che la sua opera e la sua tragedia personale hanno esercitato sulle vecchie consuetudini ideologiche. L'altro, d'invidia creativa, provocato dai materiali insanguinati di quella sua stessa tragedia personale: quale scrittore al mondo ha oggi più cose da dire, da raccontare, di Solzhenicyn? Quando mai l'Occidente, con le sue surreali microrivoluzioni di minorenni, potrà offrire simili micidiali veleni alla ispirazione di un pensatore o di un artista?

Estratto da ansa.it il 19 maggio 2023.

In una decisione con importanti ripercussioni sulla creatività' artistica, la Corte Suprema ha determinato che Andy Warhol non poteva attingere liberamente al ritratto di Prince scattato nel 1981 dalla fotografa Lynn Goldsmith quando a metà anni Ottanta creò una delle sue serie più' famose. 

I giudici hanno in questo modo limitato la portata del fair use, un istituto giuridico che regolamenta, sotto alcune condizioni, la facoltà di utilizzare materiale protetto da copyright per scopi d'informazione, critica o insegnamento, senza chiedere l'autorizzazione o pagare le royalties.

Il voto è stato sette contro due. 

"Il lavoro originale della Goldsmith, come quello di altri fotografi, ha diritto di essere protetto anche contro artisti famosi", ha stabilito la giudice Sonia Sotomayor scrivendo il parere di maggioranza. Ha replicato la collega Elena Kagan nel parere di minoranza a cui si è unito il giudice capo della Corte, John Roberts: "La decisione farà il mondo più povero. Soffocherà la creatività. Impedirà nuove creazioni artistiche, musicali e letterarie, l'espressione di nuove idee e il raggiungimento di nuove conoscenze".

La Goldsmith era famosa all'epoca per le sue foto di divi del rock. Prince era un musicista emergente e lei, su incarico di Newsweek, lo portò nel suo studio truccandolo con l'ombretto viola e un rossetto per accentuare la sua sensualità androgina. Nel 1984, più o meno all'uscita di Purple Rain, Vanity Fair commissionò a Warhol un'immagine per accompagnare un articolo intitolato Purple Fame. La rivista pagò alla Goldsmith 400 dollari per i diritti sul ritratto condizionando il compenso all'uso unico legato alla pubblicazione dell'articolo.

In una serie di 16 immagini l'artista alterò la foto in bianco e nero in vari modi, tagliandola e colorandola: una di queste accompagnò l'articolo Purple Fame. Warhol è morto nel 1987 e la Fondazione che porta il suo nome ha argomentato che le trasformazioni apportate al ritratto giustificavano il suo "fair use". Poi però alla morte di Prince nel 2016 Conde Nast, da cui dipende Vanity Fair, pubblicò un numero speciale sul musicista. Pagò la fondazione oltre 10 mila dollari per usare in copertina una diversa immagine dalla serie, quella intitolata Orange Prince. La Goldsmith, che non aveva ricevuto alcun tipo di compenso o riconoscimento, fece causa.

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Estratto dell'articolo di Stefano Bucci per la Lettura – Corriere della Sera il 3 aprile 2023.

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Arrogante e insolente, Basquiat avvicina Warhol al tavolo («Non lo fare, è una superchecca, ti userà come fa con tutti», lo avverte Al Diaz). «Volete comprare un po’ di Analfabet Art? 10 dollari»: così Julian Schnabel racconterà quel primo incontro nel suo biopic del 1996 dedicato all’ enfant terrible della street art che nel 1983 sarebbe poi entrato a far parte della Factory.

 La storia dell’amicizia tra Andy Warhol (1928-1987) e Jean-Michel Basquiat (1960-1988) è quella di un’amicizia fatta di affetto vero (con la morte di Warhol dovuta ad una mal riuscita operazione alla cistifellea Basquiat entrerà in una violenta fase di tossicodipendenza che lo porterà alla fine), desiderio sessuale (come accadeva per molti frequentatori della Factory, da Billy Name a Joe Dallesandro) e senso degli affari (nel settembre 1985 il «New York Times» bollerà Basquiat come «una mascotte del mondo dell’arte» o meglio come «la mascotte di Warhol»).

Una storia «a quattro mani stupefacente per modernità e ispirazione» che la mostra Basquiat x Warhol. Painting 4 Hands che si apre il 5 aprile alla Fondation Louis Vuitton di Parigi (curata da Dieter Burchhart, Anna Karina Hofbauer con Olivier Michelon) ricostruisce in tutta la sua bellezza e complessità con le fotografie della serie Boxing Gloves scattate da Michael Halsband per il manifesto della mostra Jean-Michel Basquiat-Andy Warhol del 1985 alla Tony Shafrazi Gallery di New York.

 Basquiat: «Andy iniziava un quadro e ci metteva sopra qualcosa di molto riconoscibile, o il logo di un prodotto, e io lo deturpavo. Poi cercavo di convincerlo a lavorarci ancora un po’, cercavo di fargli fare almeno due cose».

 Warhol: «Prima disegnavo e poi dipingevo come Jean-Michel. Penso che i dipinti che facciamo insieme siano migliori quando non si può dire chi ha fatto quali parti».

 La mostra racconta questa idea di arte condivisa che avrebbe portato Andy e Jean-Michel a realizzare in tandem circa 160 dipinti: ottanta quelli esposti a Parigi oltre a fotografie, documenti e opere firmate singolarmente da Warhol, Basquiat e da altri artisti (Jenny Holzer, Kenny Scharf) che evocano l’energia della scena artistica newyorkese degli anni Ottanta.

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Tra i pezzi unici riallestiti a Parigi per la prima volta ci sono le Ten Punching Bags (Last Supper) , dieci sacchi da boxe, realizzati tra il 1984 e il 1985, mai esposti quando i due artisti erano in vita e rimasti nella collezione di Warhol fino alla sua morte: su ognuna delle Punching Bags Warhol aveva dipinto un ritratto di Cristo ripreso dall’ Ultima cena di Leonardo mentre Basquiat aveva scritto la parola judge (giudice), mettendo assieme le pulsioni religiose e l’angoscia scatenata dall’Aids di Warhol con la passione per la boxe e per Billie Holiday (e la black music ) di Basquiat.

 I curatori spiegano che Basquiat «era affascinato dal successo di Warhol ma soprattutto dalla sua capacità di mettere insieme arte e cultura popolare», mentre Warhol ammirava l’energia anche fisica del giovane collega».

 Quando nella primavera del 1984 la Factory si sarebbe trasferita da Broadway alla 33ª strada, la vecchia sede (che aveva ancora un affitto pagato per sei mesi) sarebbe diventata un doppio studio, dove praticamente ogni pomeriggio i due artisti avrebbero lavorato assieme. Di solito era Warhol (che per l’occasione era tornato ai pennelli) a iniziare, utilizzando un sistema di proiezione per dipingere sulla tela i simboli (il dollaro come il marchio della Paramount) su cui a sua volta Basquiat sarebbe intervenuto (mentre Andy lavorava, Basquiat dipingeva a sua volta sul pavimento).

Ma se, in un primo momento, si sarebbe trattato di un semplice «passaggio» di Basquiat sulle tele di Warhol, poi il legame si sarebbe fatto più profondo e Warhol avrebbe acquisito e riletto certi temi cari a Basquiat come il razzismo ( Felix the Cat , 1984-1985). In una variazione sul tema di quell’arte partecipata che aveva già spinto nell’autunno del 1983 il gallerista svizzero Bruno Bischofberger a proporre a Basquiat, Warhol e Francesco Clemente una serie di lavori in comune, una quindicina in tutto, di cui resta testimonianza nei ritratti di Basquiat e Warhol firmati da Clemente (1982-1987) e che era stata a suo tempo raccontata da una mostra al Castello di Rivoli ( Collaborations , ottobre 1996- gennaio 1997, a cura di Tilman Osterwold).

Il mix Warhol-Basquiat è «una pittura istintuale e primitiva» (Basquiat) e «un’arte seriale» (Warhol), tra le immagini, le lettere tipografiche tratte da annunci pubblicitari, i marchi di fabbrica che Warhol trasporta in modo impersonale su tela attraverso la consueta tecnica serigrafica a cui si contrappone Basquiat con «la sua pittura dal violento cromatismo, popolata da figure antropomorfe tracciate con pennellate aggressive che parzialmente cancellano le immagini di Warhol». Un mix che vivrà la propria età dell’oro tra il 1984 e il 1985, anche se questo rapporto quasi simbiotico non sarà comunque destinato a durare a lungo.

 Quando Warhol muore nel 1987, Basquiat ne sarà però profondamente toccato e, in breve, l’abuso di droga unita ai problemi mentali, lo porteranno ad una morte prematura: il 12 agosto del 1988 di overdose, nel suo appartamento newyorkese. Quella di Warhol e Basquiat è una leggenda che sembra essere destinata a non finire, una leggenda non soltanto per le cifre che le loro opere raggiungono abitualmente sul mercato: nel 2013 erano stati sborsati 105,4 milioni di dollari, da Christies’s, per Silver Car Crash / Double Disaster (1963) di Warhol mentre a novembre il ritratto di Sugar Ray Robinson di Basquiat è stato venduto, ancora da Christie’s, per oltre 32 milioni di dollari.

The Collaboration è così il titolo della piece di Anthony McCarten andata in scena con successo fino allo scorso gennaio al Friedman Theatre di New York (la collaborazione tra Bischofberger, Warhol e Basquiat), mentre c’è grande attesa per Samo Lives, il nuovo film dedicato a Basquiat che dovrebbe uscire in autunno…

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Estratto dell'articolo di Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 26 giugno 2023. 

Da un baule è appena saltata fuori una foto di Andrea Camilleri in costume a Marinella, sulla spiaggia della «vera Vigata».

In controluce, i piedi in acqua, gli occhi su una bimba sottile, i braccioli rosa su un corpicino abbronzatissimo. È la scoperta di un trasloco che ha amplificato in quella bimba, Arianna, oggi 36enne insegnante di Scienze, l’emozione e il ricordo di «un nonno vigile, eppure mai assillante, sempre vicino ma senza interferire, lasciando libertà, con massima cura e altrettanta discrezione, pronto comunque a soccorrere...». Ecco il profilo che Arianna Mortelliti, figlia di Rocco il regista e di Andreina, una delle tre figlie dello scrittore, fa del famoso nonno con milioni di libri venduti in tutto il mondo. 

Un nonno...

«Amato per una vita. E seguito da vicinissimo nel suo ultimo anno, fra 2018 e 2019.

Non mi staccavo più quando, già cieco da tempo, dopo la rottura di un femore, era costretto sulla sedia a rotelle».

Lo aiutava a scrivere?

«Non insegnavo ancora Scienze nei licei e stavo sempre accanto a nonno, nel suo studio a Roma, insieme al computer». 

Per l’ultimo libro?

«Per il suo ultimo sforzo letterario, L’autodifesa di Caino, il monologo che sperava di potere portare al teatro». 

Come nascevano le pagine?

«Sono stata i suoi occhi. E le sue mani. Lui dettava, io battevo sui tasti, poi leggevo a voce alta, correggevamo insieme, rileggevo... Diventando sempre più amici e confidenti. Un’esperienza che mi ha legato ancora di più a quel nonno meraviglioso ritrovato nella foto».

Lei piccola a Porto Empedocle.

«Una foto scattata sulla spiaggia fra la Scala dei Turchi e i Templi di Agrigento.

Appunto, nella “Vera Vigata”...».

Quella del Commissario Montalbano.

«Dove torno appena posso. Fra quei vicoli mi sembra d’esserci nata. E, come mia madre, pure lei romana, mi sento un po’ siciliana, tanto nonno ci ha fatto amare questa sua terra...». 

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Figlie e nipoti a Vigata?

«Fu l’ultimo viaggio. Noi fra la statua di Pirandello e quella di Montalbano che ha i baffi e capelli lunghi. Ovviamente a cena nella trattoria del vero Commissario, dal nostro amico Enzo Sacco. Io, vegetariana, una pasta alla carrettiera. Nonno, già tenuto a dieta, invece in libero sfogo, fritture comprese. Musica siciliana per tutta la sera. Felice come un bambino. Mangiava di tutto».

Anche i peperoni? Visto che lei adesso è in giro per presentare il suo primo romanzo, «Quella volta che mia moglie ha cucinato i peperoni». Un titolo che fa pensare a masterchef e dintorni....

«Fuori strada. La trama è legata all’ultimo mese di vita di nonno Andrea. Il mese del coma. Nel 2019. Comincia il 17 giugno e si conclude il 17 luglio. Il protagonista del romanzo è un vecchio signore che sembra vegetare per un mese in corsia. Visitato a turno da parenti e amici, pronti a raccontare sé stessi davanti a chi forse non ascolta più o, forse, percepisce ancora. Un intreccio di dialoghi, di storie con un finale a sorpresa». 

Come succede nei gialli di Camilleri.

«Nessun confronto, per carità. Ma cerco di capire anche cosa può avere percepito. Per un mese tutti noi accanto a lui. A scrutare l’accenno di un sorriso, una palpebra che si schiude. Le macchine ti dicono che non c’è corrispondenza. Ma forse non è così. Una condizione dolorosa. Cosa anima ancora quella testa? I suoni, le carezze, i sospiri arrivano? Ci ho messo un anno a riprendermi. E un anno dopo mi sono fatta aiutare dalla fantasia per capire. Anche per capire me stessa». 

Quando comincia a scrivere Arianna Mortelliti?

«Da sempre. Da bambina. Ho sempre tenuto un diario. Appunti di una vita. Adesso il salto. Realizzato con l’immaginazione, dono del nonno». 

Che cosa le raccontava?

«Ho trovato un suo libricino del 1994 “Storie per Arianna”, filastrocche molto divertenti. Le stesse che mi raccontava. Scritte per me. Esiste solo per me. Un tesoro». 

Un inedito da pubblicare?

«Non lo so». 

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Chi ha letto il romanzo per primo?

«Un grande amico di nonno, Maurizio De Giovanni, lo scrittore spesso a cena da noi. Lo puoi pubblicare, disse. Superato il primo esame, bisognava capire con chi. Ed è entrata in campo Simonetta Agnello Hornby, un’altra grande amica di nonno e di nonna Rosetta che oggi ha 95 anni. Contatto immediato con Mondadori». 

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Ma davvero è tanto importante la «vera Vigata»?

«Rispondo con due parole: San Calò. Cioè San Calogero. Secondo nome di nonno. Ateo, un po’ come me, eppur devoto al santo nero che a Porto Empedocle si festeggia il 6 settembre».

È la data di nascita di Andrea Calogero Camilleri.

«Infatti, nonno diceva che quel giorno San Calò usciva dalla chiesa e lui dal ventre di sua madre. Quando nacque passava sotto casa la processione. Il santo quasi all’altezza della finestra. La levatrice si affacciò col bimbo in braccio mostrandolo al santo che ha sempre un libro in mano. E profetizzò: “Diventerà dotto”».

«Andrea Pazienza, ragazzo geniale che amava De Andrè». Il grande disegnatore scomparso nel 1988 a soli 32 anni ha trascorso a Pescara gli anni della formazione. Ora la città gli dedica uno spazio espositivo vicino al mare. E, tra aneddoti e curiosità, ne ricorda l’estro e la fantasia. Antonia Matarrese su L’Espresso il 27 Marzo 2023.

Via Andrea Pazienza corre dritta dalla commercialissima e trafficata Nazionale Adriatica Nord verso il mare. E incrocia via Pier Paolo Pasolini. Siamo a Pescara, fra i palazzoni popolari del quartiere Zanni, la pineta (che non è però quella dannunziana) e la spiaggia dalla sabbia dorata. A due passi, il complesso sportivo delle Naiadi con le sue piscine olimpioniche che hanno visto crescere campioni di nuoto e pallanuoto.

Andrea Pazienza, che era nato qualche decina di chilometri più su, a San Benedetto del Tronto, ha trascorso a Pescara gli anni spensierati della sua breve vita. Quelli della formazione. Approdato dalla provincia di Foggia per studiare al liceo artistico, è proprio qui che incontra persone e costruisce le basi del suo immenso successo come esponente della nona arte, quella del fumetto.

A trentacinque anni dalla morte, la città gli ha dedicato un museo: “CLAP Museum (Comics Lab Art Pescara), fortemente voluto e sostenuto dalla Fondazione Pescarabruzzo che ha ristrutturato l’edificio tutto vetri e acciaio e ha distribuito per i quattro piani, in tre sezioni, 350 opere della collezione permanente e molti prestiti di privati. Tra questi balza agli occhi un inedito ritratto su tavola (una vecchia anta di finestra) di Rita Fabiani, moglie di quel Giuseppe D’Emilio che fu tra i primi a esporre i lavori di un giovanissimo Pazienza nella galleria Convergenze. L’affascinante signora ha spaghetti al pomodoro al posto dei capelli e sfoggia ai lobi orecchini a cascata di plastica azzurra, tipici degli anni Settanta. «Andrea era ghiotto di pasta al sugo di vongole e aveva ribattezzato casa nostra Pensione da Rita perché, come studente fuorisede che alloggiava dai Gesuiti (fu proprio qui che conobbe Tanino Liberatore, ndr.), era invitato a pranzo e a cena. Gli volevamo bene», ricorda.

Poco più in là, un mirabolante autoritratto, decisamente ipnotico: «Avevo nove anni ed ero innamorata di Andrea. Questo quadro lo ha disegnato utilizzando un grande foglio rosa sul tavolo del nostro tinello. Lo guardavo rapita mentre facevo i compiti. Era un giovane adulto, coltissimo, capace di passare da un discorso all’altro. Indossava camicie di flanella oversize ma era chiaramente un Narciso», racconta Bianca Maria D’Emilio, figlia di Rita e Giuseppe.

A testimonianza dello spiccato narcisismo di Andrea Pazienza un’altra pescarese, Marisa Cardona Stella, che era titolare dell’omonima profumeria sul Corso Vittorio Emanuele, ricordava anni addietro: «Arrivava in negozio questo ragazzo alto, con tanti capelli, dal sorriso disarmante, educatissimo. Era appassionato di profumi e dopobarba ma allora non poteva permettersi di spendere molto. Così gli facevo grandi sconti e regalavo campioncini. Lui ricambiava la cortesia con disegni in cui si notava già la mano felice».

Sarà un caso ma il marito della signora Marisa, Francesco Stella, aveva lo stesso nome di uno dei personaggi più iconici che il disegnatore avrebbe creato: la prima avventura di Stella fu pubblicata nel 1979 sul numero 12 di “Cannibale”. Otto tavole strabordanti di colore - gli amati pennarelli - che narrano le vicende di un operaio napoletano in una fabbrica di salsa. Il suo sogno? Esportare pomodori pelati negli States. E qui ritorna l’ossessione per la pasta al sugo.

Nell’anno scolastico 1970-1971, Andrea Pazienza arriva al Liceo Artistico “Giuseppe Misticoni” di Pescara, sezione Accademia. «Un ragazzo dalle qualità indiscutibili, geniale, forse troppo sicuro di sé». Lo descrive così Albano Paolinelli, artista poliedrico, all’epoca giovane docente di discipline pittoriche dopo un’esperienza da scenografo a Roma. «Onnivoro, passava dai classici russi al Cabaret Voltaire, corteggiatissimo dalle ragazze, molto legato alla sua classe, figlio d’arte – il padre Enrico era un ottimo acquerellista – faceva caricature a tutti. Dal punto di vista tecnico aveva difficoltà a creare pieni e vuoti, riempiva i fogli all’inverosimile. Per questo lo rimproveravo spesso. Ed era guerra aperta. Altre volte ti costringeva per sfinimento a sperimentare tecniche filmiche e di animazione: in quel periodo producevo cinema d’artista e lui era molto interessato. Fu così che nacque un corto, “Narciso”, in cui Andrea oltre a realizzare i titoli di testa fu anche interprete. Un vero Narciso».

Tanti gli aneddoti goliardici legati ad Andrea Pazienza nel suo periodo pescarese: «Impilava gli sgabelli che usavamo per i cavalletti da disegno e si divertiva a fare il Condor. Zitto e muto», dice Nicoletta Di Gregorio, compagna di liceo, diventata poi editrice. Si diplomarono entrambi con il massimo dei voti. «Eravamo vicini di casa e andavamo a scuola in autobus.

A maggio, dopo le lezioni, si scappava al mare e, come tutti gli adolescenti della nostra generazione, dividevamo la stozza che consisteva in due panini, uno salato con carne o frittata, l’altro con la Nutella. Il suo cantante preferito? Fabrizio De André», ricorda.

Di recente, la poetessa Di Gregorio ha dedicato alcuni versi ad Andrea, indimenticato compagno di classe. L’Espresso li pubblica in anteprima: “Assecondo in un balzo il tuo essere Condor o Snoopy nella stanza di ornato condottiero giovane brandisci al vento un nero lapis e scudo fu il bianco foglio che attese il tuo gesto. Accompagnano i tuoi voli veri di fantasia anche ora che lo spazio e il tempo ti convergono nel tutto che resta che arresta il respiro e varca il sorriso del cuore”.

Estratto dell'articolo di Martina Pennisi per il “Corriere della Sera” il 30 maggio 2023.

Anna Premoli è tutta nella risposta che dà se le si chiede cosa si aspetti dalla versione cinematografica dei suoi libri: «Credo che abbiano in mente una cosa televisiva perché la casa di produzione ha scelto tre romanzi collegati l’uno all’altro. Ma sono molto realista: so come funziona dal punto di vista finanziario, anche piattaforme come Netflix e Amazon sono fortemente in perdita. Quando ti opzionano non è detto che poi realizzino qualcosa».

E se le domandi i tre titoli scorre la lista dei 18 libri che ha pubblicato dal 2013 con l’editore Newton Compton e, sorridendo, riconosce: «Non me li ricordo tutti: la linea editoriale è quella di usare termini ricorrenti, orecchiabili, facili da ricordare (variazioni sul tema “amore”, “innamorarsi”, “bacio”, ndr ). Sono scelte di marketing, alla fine hanno ragione loro: i libri li vendono». Vendono, sì: più di un milione di copie complessive nel caso di Premoli, economista prestata con successo alle commedie romantiche che torna oggi in libreria con In amore vince chi rischia .

Sembra più a suo agio con i numeri e i mercati che con le dichiarazioni d’amore.

«Il mio primo e principale lavoro è di responsabile investimenti di una holding di partecipazioni. Per 15 anni, prima di passare dall’altra parte, ho lavorato in banca. La scrittura è arrivata come antistress, quando ero in gravidanza, nel 2009, e il medico mi faceva notare che avevo la pressione troppo alta. Era un periodo stressante a causa della situazione delle banche in America e il post Lehman Brothers: “Si trovi un hobby che non le faccia pensare al lavoro”, mi ripeteva».

Altro che hobby, pubblica con un ritmo impressionante.

«Esco con un nuovo libro più o meno ogni sei-nove mesi. Ho pochissimo tempo per scrivere, in realtà. Lo faccio dopo la mia giornata lavorativa, dalle 18 in poi, e questo per assurdo mi aiuta a concentrarmi. Non so se sarei così efficiente con più tempo a disposizione. Poi, certo, ci riesco perché scrivo cose leggere». 

Ha iniziato con il self publishing che le ha garantito notorietà online.

«È stato mio marito: è un ingegnere informatico e quando gli ho fatto leggere il primo romanzo che ho scritto per diletto lo ha corretto, editato e pubblicato sulla piattaforma Narcissus. Dopo due o tre mesi avevo venduto 10 mila copie a 0,99 euro: un successo. La Newton Compton mi ha notata così, anche perché nel 2012 non c’erano così tanti libri rosa italiani autopubblicati». 

[…]

Mi permetta, le sue protagoniste sembrano chiedersi se meritano davvero le attenzioni del bellone di turno.

«No, come le donne che conosco e vedo intorno a me hanno magari posizioni di carriera importanti, siedono nei consigli di amministrazione e non hanno tutta questa voglia di buttarsi a capofitto in una storia d’amore e farsi sconvolgere la vita. Cerco di raccontare la verità, e nelle grandi città la verità spesso è questa: per gli uomini invece è più facile lasciarsi andare».

[…] 

Hai mai pensato di raccontare la storia di una coppia omosessuale?

«Mi piacerebbe moltissimo, ma ho sempre avuto il timore di non riuscire a farlo in maniera efficace e di banalizzare la cosa. Arriverà il momento».

[…]

Anna Premoli non è il suo vero nome.

«Non è neanche del tutto inventato: Premoli è il cognome di mio marito e il mio nome è Ana, con una sola “n”, perché sono nata in Croazia. All’inizio l’ho adottato perché volevo tenere separati gli ambiti, sul lavoro ormai lo sanno tutti, non è una cosa che nascondo. Una volta è venuto a pranzo da noi Giovanni Tamburi (il presidente di Tamburi Investment Partners, ndr ) che aveva appena pubblicato un libro sulle valutazioni aziendali e lo stava regalando a tutti. Gli ho detto “dottore facciamo uno scambio” e gli ho dato uno dei miei libri consigliandogli di passarlo alla moglie, la dottoressa Gritti, che siede nel cda di Oviesse».

Teme l’Intelligenza artificiale?

«Prima o poi impatterà l’ambito della scrittura creativa: è difficile prevedere i tempi. Sarà una sfida per noi, anche se sono convinta che le macchine non avranno mai quel quid di originalità».

E come Ernaux: la Nobel Annie una ‘minaccia’ per la borghesia? «Da che ho vinto dicono orrori su di me. Forse scrivo cose inaccettabili...». Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 4 Gennaio 2023.

La scrittrice a 7: «Il mio approccio è minaccioso per la borghesia: non credono abbia il diritto di parlare del mio corpo e del mio mondo. Gli attacchi sono violenti, molto violenti». Ma ci sono anche «persone che mi scrivono e mi riempiono di complimenti»

Annie Duchesne Ernaux è nata a Lillebonne, in Normandia, il 1°settembre 1940: i genitori avevano un bar-drogheria. Con il suo quarto romanzo, «Il posto», ha vinto il premio Renaudot nel 1984. Quest’anno ha vinto il premio Nobel per la letteratura

Questa intervista del corrispondente del Corriere da Parigi, Stefano Montefiori, alla Premio Nobel Annie Ernaux, pubblicata su 7 in edicola il 30 dicembre, fa parte del numero speciale che il magazine del Corriere ha dedicato all’anno appena trascorso, con una carrellata di personaggi e storie - dalla A di Amini alla Z di Zelensky - che raccontano, con un alfabeto di persone e parole, eventi e protagonisti del 2022. La proponiamo online per i lettori di Corriere.it

Il 7 dicembre, a Stoccolma, Annie Ernaux ha pronunciato il discorso di accettazione del premio Nobel. Ha cominciato raccontando come lo aveva scritto, quel discorso: la pagina bianca, la ricerca di una frase iniziale. «Questa frase non ho bisogno di cercarla lontano. Emerge da sé. In tutta la sua nettezza, la sua violenza. Lapidaria. Inoppugnabile. È stata scritta sessant’anni fa nel mio diario personale: scriverò per vendicare la mia razza». È una citazione di Rimbaud («Sono di razza inferiore dall’eternità») e rappresenta la riaffermazione dell’identità di Annie Ernaux come transfuga di classe: «Avevo ventidue anni. Studiavo lettere in un’università di provincia, tra ragazze e ragazzi provenienti nella maggior parte dei casi dalla borghesia locale. Io pensavo, orgogliosamente e ingenuamente, che scrivere dei libri, diventare scrittrice venendo da una stirpe di contadini senza terra, operai e piccoli commercianti, di persone disprezzate per le loro maniere, il loro accento, la loro mancanza di cultura, sarebbe bastato a riparare l’ingiustizia sociale della nascita».

Finkielkraut, il più feroce dei suoi accusatori

A giudicare dalle reazioni in Francia, in effetti, diventare scrittrice fino a vincere il Nobel per la letteratura non è bastato. I Nobel francesi degli ultimi anni, Patrick Modiano e Jean-Marie Le Clézio, sono stati accolti come un motivo di orgoglio nazionale. Annie Ernaux è stata quasi travolta dall’affetto, ma anche bersaglio di critiche durissime e sprezzanti: secondo Alain Finkielkraut, il più feroce dei suoi molti accusatori, ha ricevuto «il premio Nobel dell’ideologia, non della letteratura». Non le perdonano di essere impegnata a sinistra, di difendere le donne e le persone in difficoltà e proprio quell’espressione così importante per lei, «vendi care la mia razza». È così che la scrittrice 82enne comincia la conversazione con 7 parlando degli attacchi prima e dopo il Nobel, e di come non sia affatto scoraggiata, anzi.

Signora Ernaux, è cambiata la sua vita dopo avere vinto il Nobel per la Letteratura?

«La mia vita è un po’ cambiata, certo, per forza. Intanto in bene, perché ricevo molte più richieste e domande che in passato, da persone che mi scrivono e mi riempiono di complimenti, felici per il mio premio. Faccio tutto da sola, non ho una segretaria o figure del genere, il risultato è che per rispondere a tutti non ho più tempo per me. E poi ci sono gli attacchi. Violenti, molto violenti».

Come se li spiega?

«Vengo criticata da quando pubblico i miei libri, dall’inizio della mia carriera. L’unico momento di pace è stato quando ho scritto Gli anni (edito in Italia da L’Orma, come gli altri suoi romanzi, ndr), ma è stata una fase provvisoria perché poi gli attacchi sono ricominciati subito».

Non le perdonano lo stile letterario o l’impegno politico?

«Credo che il mio sguardo sul mondo sia molto fastidioso per alcuni, per le persone di potere, per la borghesia. È questo. Vedono nel mio lavoro una minaccia per loro. Mentre quando scrivo io faccio semplicemente un lavoro di ricerca della verità, della realtà, ma questo per loro è insopportabile».

I suoi lettori la amano da molti anni, ma adesso il Nobel le dà una consacrazione, una dimensione globale.

«E infatti alcuni dicono che non avrei dovuto averlo, che non sono titolata per un premio così importante, che non ho la legittimità per riceverlo. Perché in quanto donna, in quanto transfuga di classe, ho scritto cose per loro inaccettabili».

La questione della legittimità è centrale nella sua opera e nel suo percorso. Se l’è posta lei, figlia di un modesto droghiere, quando ha cominciato a scrivere?

«Me la sono posta ma proprio pensando che tutti avessero il diritto di scrivere. Per questo ho cominciato a farlo io stessa, e per questo ho continuato nonostante un’accoglienza iniziale piuttosto fredda».

Sostenere che tutti, anche chi non proviene da colte famiglie borghesi, abbiano la legittimità per scrivere è stato dirompente come l’idea che le donne abbiano diritto alla sessualità, o a gestire il proprio corpo, difendendo l’interruzione volontaria di gravidanza.

«Fa parte dello stesso approccio, che è minaccioso per la borghesia. Avere il diritto di scrivere sul proprio corpo, e sul mondo dal quale si proviene».

Perché Gli anni, scritto nel 2008, ha raccolto una rara unanimità?

«Forse perché aveva qualcosa che toccava tutti, in fondo parlava della nostra storia comune. Ma poi anche quel libro è stato usato per andare a cercare frasi in difesa degli scioperi, o degli immigrati, per poi dire orrori su di me».

Lei come reagisce?

«In primo luogo, per chi si prende questa gente che osa dire a me che cosa posso o non posso scrivere, e in che modo? Poi, che questa gente si rivela per quel che è, vendicativa, antifemminista e reazionaria».

I suoi libri sono tradotti in 37 lingue. Pensa di essere letta e capita allo stesso modo in tutti i Paesi?

«Sì, credo che non ci siano grosse differenze tra la Francia e il resto del mondo, se togliamo le basse critiche che mi accompagnano in Francia».

Che cosa ha voluto dire con il discorso di Stoccolma?

«Ho voluto soprattutto spiegare da dove viene la mia scrittura, e che cosa rappresenta. Tutto qua».

C’è anche un passaggio preoccupato sull’avanzata dell’estrema destra nel mondo. Perché succede, secondo lei?

«Le ragioni possono essere tante ma a mio avviso le più importanti sono il liberalismo economico e la globalizzazione, due fenomeni legati. Tanti cittadini hanno l’impressione di non avere più alcun controllo sulle loro vite. E paradossalmente, invece di cercare di riprendere possesso del loro destino, lo affidano a movimenti e a leader politici che promettono un avvenire migliore, a condizione di sbattere fuori gli immigrati».

Come descriverebbe quindi il rapporto tra l’opera letteraria e l’impegno politico?

«Non c’è un rapporto diretto, quando mi metto a scrivere non solo la donna che vota Jean-Luc Mélenchon, la mia è innanzitutto una ricerca di verità. C’è in effetti una concordanza tra quel che scrivo e il mio impegno politico, ma rispetto alla scrittura l’impegno politico sarà sempre una questione laterale. C’è poi una necessità di semplificazione nella politica, perché la politica è azione e l’azione reclama semplicità. Si è per la pensione a 65 anni o a 60? La politica richiede di scegliere rapidamente, la scrittura affonda nella memoria e nella complessità».

I suoi libri non sono certo comizi. Un romanzo come L’evento, però, adattato al cinema nel film che ha vinto Il Leone di Venezia nel 2021, ha un valore politico enorme, oggi che il diritto all’aborto viene rimesso in discussione in tante parti del mondo.

«Assolutamente sì. Ma quando l’ho scritto, alla fine del XX secolo, era davvero per un dovere di memoria. Volevo ritrovare, attraverso la scrittura, quel che avevo vissuto. All’epoca non avrei mai immaginato che l’interruzione volontaria di gravidanza tornasse oggetto di discussione in Paesi che l’avevano ormai legalizzata».

A proposito di dovere di memoria, lei sta tenendo un diario intimo che sarà pubblicato dopo la sua morte. Perché?

«La vita scorre velocemente. I giorni passano e scrivere è un modo per salvare qualcosa. Mi sono accorta, soprattutto negli ultimi dieci anni, che l’oblio avvolge tutto. Scrivere, annotare, è un modo per fissare tante cose che altrimenti andrebbero perdute».

In questi giorni assistiamo alla rivolta delle donne e degli uomini in Iran, e la scintilla è la stata la morte di una ragazza picchiata dalle guardie perché portava il velo in modo non corretto. Lei in Francia da femminista difende il diritto delle donne di portare il velo, ma per toglierselo le donne iraniane muoiono. È una questione che divide molto, soprattutto, a sinistra. Lei come spiega la sua posizione?

«Quel che sta accadendo in Iran è tragico e formidabile, anche perché molti uomini si sono uniti alla lotta delle donne contro l’obbligo di portare il velo. La rivolta iraniana è terribile e per certi versi anche rassicurante, perché mostra che non si può mai, mai, opprimere in modo definitivo, il desiderio di libertà non è cancellabile e la repressione non può durare all’infinito quindi sono convinta che il regime al potere a Teheran sparirà un giorno. In Francia la situazione è completamente diversa, non c’è l’obbligo di portare il velo ma qualcuno vorrebbe introdurre l’obbligo di non portarlo. Io invece penso che ogni donna dovrebbe essere lasciata libera di scegliere, e di fare come vuole».

L’obiezione a questo argomento è che le donne che si mettono il velo in Francia spesso non lo fanno in virtù di una loro libera scelta, ma costrette dal marito, dal padre o dal fratello maggiore.

«Lo capisco ma il contesto è quello di una religione musulmana largamente stigmatizzata. Chi stabilisce che una donna in Francia porta il velo perché costretta? Bisognerebbe provarlo, caso per caso. Penso che la difesa della laicità non debba diventare uno strumento di persecuzione».

Nel documentario Gli anni super 8, appena uscito, sono raccolti i filmini di famiglia della sua vita, e quindi un po’ della nostra, negli Anni 60. Montare quelle pellicole risponde alla stessa esigenza di memoria?

«Sì, con in più il fatto che all’epoca si trattava di una novità tecnologica assoluta».

La vediamo in effetti alle prese con l’imbarazzo di essere filmata.

«Certo, dobbiamo immaginare un’epoca in cui non si era abituati a vedersi camminare, muoversi, vivere. Era qualcosa di davvero straordinario, e ho mantenuto questo imbarazzo, questa rigidità a lungo. Mio marito filmava la vita di famiglia e io non sapevo che fare».

Oggi con gli smartphone viviamo in un altro universo. Che cosa pensa dell’abitudine contemporanea di filmare e filmarsi in continuazione?

«Oggi esiste un’immagine di sé che prima non avevamo. Esistiamo due volte, nella realtà e nello smartphone. Forse amiamo di più noi stessi, il che non significa per forza maggiore narcisismo. Può essere anche unmodo per banalizzare la propria immagine, abituarsi al proprio fisico. Quando ero giovane non sopportavo di incrociare il mio riflesso in una vetrina o nello specchio di un grande magazzino. Ci si vedeva nello sguardo degli altri, non avevamo uno sguardo proprio su noi stessi. Credo che lo smartphone sia un’invenzione paragonabile a quella dello specchio. Una rivoluzione».

Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 29 Dicembre 2022.

Pur saldamente ancorato a tematiche novecentesche, Anselm Kiefer è senza dubbio l'artista vivente più importante. Non c'è truffa, non c'è inganno, nessun bisogno di rivolgersi a spericolate sovrastrutture e retropensieri: l'arte in Kiefer è tutto ciò che si vede e ce n'è abbastanza per parlarne da decenni, mai con il tono provocatorio o giullaresco del trickster prefabbricato per il sistema ma con una sostanza culturale e una preparazione filosofica che ha pochi eguali. 

Nonostante sia un tipo difficile con cui parlare -l'interlocutore deve prepararsi bene al confronto- Kiefer ha rilasciato parecchie interviste raccolte nel volume Paesaggi celesti (Il Saggiatore, 32) e comprese tra il 1990, anno in cui realizzò la prima grande mostra alla Neue Galerie nella Berlino liberata e il 2019, da un'idea di Germano Celant, scomparso nel 2020. 

Ne esce un ritratto complesso, articolato, non senza ambiguità che è quello che ci piace di più perché l'arte come sistema unilaterale è quanto di più prevedibile ci sia. Non ha mezzi termini Kiefer, per esempio, nei confronti del minimalismo e del concettuale che «si sono trasformati ben presto in design perché in realtà non erano mai stati nuovi orientamenti artistici, bensì la semplice reazione a un disagio», ovvero la fine dell'espressionismo astratto. 

Nato in una città della Foresta Nera nel 1945 Anselm Kiefer non ha ricordi diretti della guerra ma la guerra, con le sue macerie ne ha condizionato l'infanzia e infatti nelle sue opere compare spesso la polvere. 

Quando cominciò a lavorare, alla fine degli anni '60, fecero molto discutere le fotografie dove faceva il saluto nazista di fronte alle rovine. «Ho sentito il bisogno di risvegliare i ricordi, non di cambiare la politica, ma di cambiare me stesso». Indispensabile l'uso dell'ironia perché «ciò che diciamo è sempre un po' ridicolo. Coloro che usano le parole senza ironia sono fanatici, non esseri umani completi. Bisogna sempre essere pronti a ridere, perché tutto è ridicolo. Diffido della fede e di ogni dogma». 

In alcuni giganteschi quadri Kiefer ha rievocato l'architettura di Albert Speer e qualcuno ci ha provato a insinuarne una lettura maliziosa. Pur apprezzando il genio dell'architetto di Hitler -unica espressione passabile dell'estetica nazista rispetto a pittura e scultura- l'artista dice che «bisogna conservare le tracce fisiche così come sono, ma trasformandole nella nostra mente. C'è questo lato sinistro della storia».

«Ci sono molti artisti che finiscono nei guai lungo la strada verso il paradiso, e anche filosofi: Marx, Hegel, Mao (altrove definisce terrorismo il progetto della rivoluzione culturale), Wagner». In quanto a Joseph Beuys, suo maestro a Dusseldorf, ne parla con una certa distanza soprattutto sul significato della parola spirituale, che Kiefer rifugge perché troppo vicino a un'interpretazione new age. Polemico quando spiega, «il Beuys di cui lei parla rispecchia in realtà solo la sua ideologia verde... io ero sì allievo di Beuys, ma non ero mai presente in classe. Stavo sempre nel bosco e lavoravo».

Critico con i movimenti studenteschi, consapevole delle controversie iniziali intorno alla sua opera soprattutto in Germania -e a un certo punto si trasferisce a Barjac nel sud della Francia- amante dell'Italia e in particolare di Napoli, «a renderla interessante sono la vicinanza al Vesuvio e la sua minaccia. Ogni momento potrebbe essere l'ultimo», dove ha sede Lia Rumma la galleria che lo rappresenta nel nostro paese, Kiefer ha realizzato una delle opere simbolo per l'ingresso nel nuovo millennio, i Sette Palazzi Celesti allestiti in permanenza all'Hangar Bicocca di Milano dove dietro ai più ovvi rimandi alla tragedia delle Torri Gemelle c'è anche un aspetto biografico «perché quando ero piccolo non avevo giocattoli. L'unica cosa che avevo era una grande rovina vicino a casa nostra, giocavo con i mattoni e costruivo case».

Basterebbero queste parole, ma il libro è gustoso, pieno di rimandi, autoritratto di una persona coltissima e consapevole delle proprie scelte, per leggere Anselm Kiefer come la più grande strepitosa eccezione nell'arte contemporanea. Antropocentrista ai limiti del superomismo, decadente, convinto del primato culturale dell'occidente pur nella sua decadenza, romantico. Difficile pretendere di più

Vota Antonio (Delfini) conservatore e comunista. Lo scrittore di Modena, nel 1951, si scatena e stende il programma di un partito che ribalta lo scenario. Alessandro Gnocchi su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

Solo Antonio Delfini (1907-1963), il geniale scrittore di Modena, ingiustamente trascurato dalla critica e maltrattato dalla editoria, poteva consegnare alle stampe Il Manifesto per un partito conservatore e comunista in Italia (un titolo, un ossimoro). Finalmente Garzanti ristampa l'antologia di pezzi brevi che Cesare Garboli mise insieme, con qualche incertezza filologica, purtroppo rimasta anche in questa edizione. Minuzie, tutto sommato, che non impediscono al lettore neofita la gioia della scoperta di un grande autore. Delfini, e si capisce anche dal Manifesto, occupa una posizione tutta sua nella letteratura italiana. I suoi racconti, sospesi tra sogno e satira, sono tra i più belli del Novecento. Sono da leggere sia quelli inclusi nel Ricordo della Basca (Einaudi) ma anche quelli, più tardi, di Misa Bovetti (Scheiwiller), una esilarante cavalcata tra le ipocrisie italiane. Riciclati, faccendieri, ignoranti con la laurea, industriali orrendi, c'è di tutto. I suoi Diari (Einaudi, il titolo è errato, Quaderni è quello corretto) sono forse la migliore, e più divertente, descrizione dell'opportunismo degli intellettuali, lesti, alla caduta del Fascismo, nell'imboscarsi o nel cambiare casacca, per restare sempre al potere, con ritratti esilaranti di Eugenio Scalfari, Gian Carlo Fusco, Mario Pannunzio e tutto il giro delle Giubbe rosse, il famoso caffè fiorentino. Le sue poesie, fortemente volute da Giorgio Bassani, che le fece pubblicare da Feltrinelli, sono travolgenti e anche un esempio di rima petrosa, dantesca, in pieno Novecento. Non a caso, Delfini si definiva l'antipetrarca. Le Poesie della fine del mondo, scritte in seguito a una delusione amorosa, sono un concentrato irresistibile di cinismo, cattiveria e umorismo. Ci van di mezzo tutti, potenti, meno potenti, politici, scrittori e naturalmente il grande rovello di Delfini: le donne. Se la prosa guarda più alla Francia che all'Italia, la poesia guarda negli occhi il Duecento e il Trecento, Guido Cavalcanti e Dante in testa.

Il Manifesto per un partito conservatore e comunista e altri scritti (a cura di Cesare Garboli, Garzanti, pagg. 314, euro 20) è un'antologia di scritti sulla Seconda guerra mondiale, l'antifascismo immaginario di molti fascisti della prima e della penultima ora, il «disumanesimo» italiano, ovvero il disprezzo dei governanti per i governati, la mancanza di una cultura liberale, per cui nel nostro Paese si può scegliere al massimo tra il Dirigismo liberista e il Liberismo dirigista. Alcuni articoli sono tratti da riviste che Delfini scriveva e stampava a sue spese. Le vendeva per le strade di Modena.

Il piatto forte è il breve ma interessante Manifesto. Il tono è insolitamente serio. A temperarlo con una dose di ironia ci pensa la nota finale che spiega le circostanze in cui nacque. Nel marzo 1951 «il signor G. P.» si presenta a Viareggio (totalmente squattrinato) con l'idea di fondare una rivista e chiedere lumi a Delfini. Lo scrittore accetta: «Vivo dalla guerra in qua abbandonato dai miei vecchi amici che dirigono tutti grandi giornali per arricchire i neo-miliardari ed è logico che rimanessi tanto emozionato da non sapere in principio quali pesci pigliare per stendere il progetto di un giornale che avrebbe dovuto schiacciare tutti gli altri pettegoli ebdomadari della Repubblica». Il Manifesto è il frutto di questo lavoro. La rivista, naturalmente, finisce ancora prima di cominciare. Morale: «Sappia ognuno che se questo partito nascerà, il Manifesto che l'ha fatto nascere è nato per puro caso, forse per miracolo. Io l'ho pensato, ma perché non mi riusciva di concretare il programma di una rivista. G. P. voleva in definitiva sbarcare soltanto il lunario, e si è trovato a essere il secondo autore del Manifesto». In Scritti servili, Cesare Garboli rivela l'identità di questo anonimo estensore: Giuseppe Paganelli, nato a Cattolica, in Romagna, nel 1893. Amante di una nipote di Mussolini, passò guai per antifascismo ma riuscì sempre a cavarsela per il rotto della cuffia. Noto come «scroccone di genio» ad altri scrittori, ad esempio Alberto Moravia, Paganelli era alla costante ricerca di soldi.

Cosa c'è nel Manifesto? I partiti del dopoguerra «hanno serbato i caratteri dei prodotti importati» e non colgono l'identità del Paese, intessuta di cattolicesimo, civiltà contadina e forti autonomie locali. L'unità d'Italia, tanto cara ai comunisti, è un «falso» imposto dal Risorgimento e rilanciato dal fascismo. Delfini propone di invertire i termini della politica economica italiana: dirigismo «di tipo sovietico» nella gestione del grande capitale, liberalizzazione del commercio, conservatorismo nella proprietà terriera. L'ultimo punto chiarisce subito come questo documento sia radicato nella biografia di Delfini, possidente terriero dalle rendite sempre meno ampie, taglieggiato dalle banche, minacciato dai capitalisti che vorrebbero comprare i suoi campi per un piatto di lenticchie. Questo macroscopico conflitto d'interessi non è però sufficiente a retrocedere il Manifesto a una bizzarria dettata dal risentimento. Stampato nel 1951 da Guanda, la casa editrice dell'amico Ugo Guandalini, il Manifesto porta alle estreme conseguenze la polemica contro il grande capitale alleato della politica per spogliare lo Stato e i cittadini di ogni ricchezza. Meglio che le industrie siano gestite dagli operai in accordo con i padroni, espropriati ma non completamente. È un tipo di collettivismo dal forte sapore corporativistico più che socialista.

La proprietà terriera tutela la durata delle famiglie; riduce le invidie perché chi possiede, «possiede cristianamente»; esclude la speculazione e l'investimento ad alto interesse; crea una classe dirigente responsabile. Per questo si possono trovare correttivi al fine di ridurre la presenza di latifondi troppo estesi ma senza stravolgere una realtà secolare.

Altra cosa è l'industria. I capitalisti hanno passato il segno. Gli affaristi (industriali, feudatari del commercio, ministri ladri e anti-italiani) vogliono «ridurre gli uomini allo stato di servi cui non solo è negato vedere i loro padroni, ma anche conoscerne i nomi». L'investimento «a rendita ultra capitalizzabile con seconda rendita all'infinito» è immorale e fonte di miseria generale. Per questo Delfini, in un crescendo di provvedimenti iperbolici, propone: schedatura dei monopolisti; proscrizione degli affaristi; gestione operaia delle grandi industrie: il padrone potrà restare «con un suo impiego, e anche con una sua caratura che nell'insieme non dovranno mai fruttargli un reddito superiore a quanto renderebbe un patrimonio del valore di un milione di franchi oro 1914» (mezzo milione di dollari del 1951).

Quale cornice istituzionale riesce gradita al Partito conservatore e comunista? Lo Statuto albertino adattato «con i debiti accorgimenti al regime repubblicano». L'odierna Costituzione, lungi dall'essere la più bella del mondo, «non ha un articolo che non sia pura e semplice chiacchiera».

Secondo Delfini, è folle negare la verità: «L'Italia ha una nascosta memoria di ciò che essa era prima del 1859, prima cioè che una sorta d'arbitrio giacobino sostituisse agli storici Stati le burocratiche, numerose, ingombranti provincie». Delfini vuole concedere un'ampia autonomia agli Stati pre-unitari. Ogni Stato avrà un suo governatore assistito da una consulta formata da quattro senatori, dai deputati del territorio e da un'ampia rappresentanza della società civile. Delfini chiede anche che il Senato nazionale sia una camera rappresentativa degli Stati autonomi.

Il sistema giudiziario e quello bancario andranno rivisti in profondità. Nei tribunali, ad esempio, andranno abolite le incompetenti giurie popolari fatta eccezione per qualche caso particolare. Le banche invece dovranno tornare alla loro antica funzione (prestare soldi a tassi d'interesse onesti) ponendosi al servizio di salariati, piccoli proprietari e veri imprenditori bisognosi di essere finanziati.

Secondo il Manifesto, decoro e stile non sono secondari: «Tutta la storia italiana non è che lo sforzo di preservare un innato decoro e uno stile di vita associata articolato secondo misure che la stessa formazione geografica e storica della nostra penisola suggerisce, dalle sempre minacciose sovrastrutture barocche e dalle sempre ricorrenti cadute della dignità». Un'intera civiltà dunque è in pericolo.

In tutto questo c'è profonda contraddizione? Ma certo! Scrive Delfini in conclusione: «Non vorremmo sembrare immodesti e perciò non faremo esempi, ma i più efficaci fra i moti della storia umana sono nati da una aporìa della logica e da un'incongruenza del sentimento: più sterili rimasero e rimangono sistemi meglio congegnati e messaggi tutti didascalici e risolutivi».

Il Manifesto, in sostanza, passò inosservato anche se colpì molto almeno un lettore d'eccezione: Pier Paolo Pasolini. Ma questa è un'altra storia.

Estratto dell'articolo di Nicoletta Martelletto per il Giornale di Vicenza il 10 luglio 2023.

Ha inaugurato una nuova mostra, "Bilico", a Ginevra alla galleria Gowen contemporary e analogamente ha aperto con le sue opere la nuova Raize gallery a Venezia. La sua arte è eclettica e spietata. Prende forma in missili da giardino, fucili militari decorati come accessori di lusso da sfilata, zerbini antinucleari, bocce di vetro che contengono le reliquie della sua raccolta di bibliofilo. 

Nel 1996 realizza il videogame “Italiani Brava Gente”, in cui stigmatizza il razzismo contro i migranti albanesi. I suoi lavori sono in permanenza al Mart di Rovereto, all’Elgiz Museum di Istanbul, alla Bibliotèque Nationale di Parigi, al Mudac di Losanna, al Baltic di Newcastle, alla Kunsthalle di Vienna. Antonio Riello, classe 1958, ha estimatori dovunque. 

Facciamo un veloce riassunto biografico.

Nato sotto il segno del Leone a Marostica, ho studiato al liceo scientifico a Bassano, di cui mi porto una impronta scientifica condita di latino. Poi università a Padova, laurea in Chimica e tecnologia farmaceutica, semplicemente perché mio padre era farmacista. Ho finito bene e in fretta, volevo liberarmi di questo pensiero. Ho lavorato un po’ in farmacia, mi guardavo intorno e sono volato negli Usa dove l’arte era un gioco spontaneo. Nel 1993 ho avuto una borsa di studio dalla Fondazione Pollock-Krasner.

Qualcosa da ragazzo era stato decisivo?

Leggere un diario di viaggio di Paul Klee in Tunisia. Mi catturò tutto: luci, colori, racconto. Dovevo incontrare qualcosa, è stato un libro. Mi sono detto: «Da grande mi piacerebbe essere come lui». Avevo circa 18 anni. Era deciso, volevo fare l’artista. 

Quando ha maturato uno stile, ammesso che se lo riconosca?

Nel senso visibile e tradizionale potrei dire sì e anche no. Un palato sofisticato che conosce il mio lavoro lo identifica anche in espressioni diverse, ma non è detto che accada. Dal punto di vista formale sono uno che si annoia facilmente e voglio provare tecniche, materiali, situazioni diverse. Mi sono misurato con vetro, ceramica, pittura, disegno: inseguo l’idea, dando un guscio fisico a qualcosa che la racchiude. Sono un domatore di idee selvatiche, le addomestico.

(...)

La prima mostra a quando risale?

Una piccola cosa casalinga, a Bassano nel 1991. Al tempo avevo fatto acrilici con paesaggi urbani sui generis, ma subito dopo iniziai a tormentare gli oggetti. Le reliquie fattoidi, ad esempio: falsi fatti così bene da poter essere scambiati con quelle vere. Il percorso è proseguito a Milano, una mostra al Museo di storia naturale, poi Washington, Firenze, sempre dentro i musei che per me sono luoghi speciali dove d’intesa con i direttori mescolavo i reperti falsi a quelli autentici. La garanzia della verità era data dal tempio museale, io ero un disturbatore. 

È vero che sceglieva lei i luoghi dove proporsi?

Metà e metà, a volte mi chiamavano, a volte ero io a puntare su un museo con un progetto preciso. A Bassano nel 2018 ho mescolato Canova con opere mie, alla Biennale in Turchia ho fatto una mostra in un supermercato tra i carrelli, abbastanza divertente. 

Un’altra volta sono stato fermato dalla polizia a Colonia, tornando dalla fiera, perché avevo dei kalashnikov nel bagagliaio: mi hanno messo le manette, non parlavano inglese. Pensavano fossi un terrorista, li ho scongiurati di guardare il catalogo della fiera con le mie “armi”: ero famoso e si sono scusati. Abbiamo chiuso con la foto tutti insieme per il giornale della polizia. Restando agli aneddoti, a Basilea invece... Andavo dalla Svizzera alla Francia, con i miei lavori in auto. Alla dogana vengo bloccato: ero pieno di scatolette di carne per un lavoro sull’antropofagia.

Sull’etichetta speciale era scritto che era carne umana, ovviamente strabuzzano gli occhi, spiego che sono un artista ma non mi credono. Vogliono aprire le scatolette, dico che così mi rovinano l’opera, non c’è verso: aprono e dentro ci sono fagiolini lessati, chiamiamo il mio gallerista e li rassicura. Hanno voluto tenere una scatoletta per ricordo e ho dovuto rifarne alcune. 

L’arte è un mestiere, una passione, una emozione?

Credo sia in misura continuamente variabile un mix di tutte e tre la cose. Mestiere per ciò che riguarda le tecniche e l'esperienza: a volte perfino le necessità della committenza possono essere uno stimolo. È passione perché porta a sperimentare e reinventarsi. È emozione: bisogna saper condividere, artisticamente, le proprie emozioni.

La vita errante tra Veneto e a Londra, influisce su quello che lei crea, su come lo pensa?

Il Veneto è pieno di qualità umane e di concrete opportunità ma purtroppo manca di una grande città. Venezia è un caso a parte. Il mio bilancio non è tra Italia e Regno Unito ma tra una magnifica campagna-collina densamente urbanizzata con le sue tradizioni, e una realtà metropolitana complicata come Londra, che però funziona da acceleratore sociale e culturale. Ho messo assieme queste due dimensioni che, più o meno scomodamente, convivono. In fondo Inglesi e Veneti hanno diverse cose in comune: uno scetticismo di fondo che riguarda quasi tutto, accompagnato da una certa allergia per l'autoritarismo, insomma niente fanatismi; e un discreto rispetto per le istituzioni e direi anche una bizzarra vocazione per l'eccentricità. 

Frequenta gli artisti?

Sì, inaugurazioni, cene. Spesso vedo Langlands & Bell, Ergin Cavasouglu e David Rickard. Un paio di volte con l’americano Jeff Koons, per amicizie comuni. Ogni tanto incontro il violoncellista trevigiano Mario Brunello quando suona a Londra, è più facile che ci vediamo lì che in Veneto. 

Come si legge l’arte contemporanea in questa altalena di metropoli e collina di provincia?

Negli anni Ottanta c’era una sensibile differenza tra grande città e le nostre zone sul fronte dell’arte: oggi non la si avverte più, perché si viaggia molto, c’è internet, si moltiplicano le occasioni e il gap non esiste. Le cose succedono ovunque. Forse in Veneto non sappiamo raccontare bene le tante cose che accadono, c’è forse un problema irrisolto.

La collaborazione con il sito Dagospia?

È iniziata per caso nel 2012. Roberto d'Agostino, che conosco da decenni, mi dice: «Scrivimi qualcosa». E io: «Ma non so scrivere bene». La sua risposta: «Provaci». Da allora scrivo di arte & affini per Dagospia. La cosa interessante è l’eclettismo interclassista di chi legge. E' come i bar delle stazioni di servizio delle autostrade: si fermano tutti, proprio tutti (anche i detrattori). Per questo motivo quando si scrive di "fenomeni estetici" bisogna evitare il lessico un po' contorto dei critici d'Arte ed essere estremamente semplici e concisi. Senza ovviamente rinunciare alla "sostanza" e alla sincerità.

Artemisia Gentileschi, l'artista delle corti che nel '600 denunciò un abuso. Artemisia Gentileschi, fra le pittrici più famose del 1600, ha impressionato nobili e intellettuali del suo tempo. Vittima di una violenza sessuale, che allora significava la fine per una donna, non si fece fermare. Isabel Demetz il 13 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Artemisia, figlia d’arte

 La testimonianza sotto tortura

 Il periodo fiorentino e la rinascita

 I viaggi e l'attività sotto la corona inglese

Artemisia Gentileschi è fra le artiste più famose italiane: prima donna a essere ammessa all’Accademia delle arti di Firenze, amica dei geni illustri del primo ‘600, le sue opere contano tuttora fra le più importanti dell’eredità artistica italiana. Una figura inusuale per i suoi tempi, è stata comparata a pittori quali Michelangelo Merisi, meglio noto come il Caravaggio.

Artemisia, figlia d’arte

Artemisia Lomi Gentileschi è nata a Roma l’8 luglio 1593 da Orazio Gentileschi e Prudenzia di Ottaviano Montoni. La madre morì di parto nel 1605, quando Artemisia aveva solamente 12 anni, motivo per il quale, probabilmente, legò molto con il padre, un pittore di origini pisane, specializzato nella tecnica dell’affresco. È grazie a lui se la piccola Artemisia, che già in giovane età aveva dimostrato di possedere una spiccata dote artistica, era riuscita a coltivare il suo talento nello studio del padre.

Un episodio, però, segnerà la vita della giovane donna per sempre: nel 1611, a soli 18 anni, viene violentata da un amico del padre, un tale Agostino Tassi che frequentava abitualmente lo studio della famiglia Gentileschi, tanto da essere maestro di prospettiva di Artemisia. Tassi aveva approfittato di un momento in cui il genitore non era presente per abusare dell’allieva. Nei mesi successivi, per “alleviare” lo scandalo che ne sarebbe scaturito, l’uomo promise di sposare la ragazza. Questa però, nel 1612, scoprì che l’artista era già sposato e quindi il matrimonio riparatore tanto auspicato non si sarebbe mai potuto realizzare. La ragazza, appoggiata dalla famiglia, fece una cosa altamente inusuale per i tempi: sporse denuncia.

La testimonianza sotto tortura

Ai tempi, non esistendo il sistema giuridico odierno, il padre di Artemisia sporse denuncia dell’accaduto direttamente a papa Paolo V, che diede via al processo. Le varie udienze divennero presto un’atrocità per la donna: l’artista dovette passare per numerosi interrogatori e visite ginecologiche, anche tenute in sede del processo per provare l’azione violenta di Tassi.

Ma non bastava: per provare che stesse dicendo la verità, i giudici costrinsero Artemisia a testimoniare sotto tortura. La tecnica scelte fu quella della “sibilla” che prevedeva di avvolgere i pollici in una cordicella e stringerla fino a obbligare il testimone a confessare. Una tecnica del genere rischiava di distruggere le falangi della vittima e per Artemisia, che della pittura voleva fare la sua vita, questo sarebbe stato fatale. Ciononostante, la donna acconsentì di sottoporsi a questa tortura, continuando a confermare la sua versione dei fatti. Anzi, secondo alcuni documenti del tempo, mentre le stavano legando le dita, la donna avrebbe guardato Tassi negli occhi, dicendo: “Questo è l'anello che mi dai, e queste sono le promesse!”

Alla fine, i giudici condannarono Tassi a cinque anni di reclusione o, in alternativa, di allontanamento da Roma. Pena che però non scontò mai. Per riparare l’immagine della figlia, Orazio organizzò un matrimonio con un altro artista, Pierantonio Stiattesi, con cui Artemisia si trasferì a Firenze.

Il periodo fiorentino e la rinascita

Fu qui che la donna ebbe la possibilità di realizzarsi: venne introdotta, grazie a diverse conoscenze, alla corte medicea, dove si fece amici, tra l’altro, Galileo Galilei e Michelangelo Buonarroti il giovane, nipote del famoso scultore. È stato anche grazie a lui che Artemisia venne ammessa all’Accademia delle arti del disegno, la prima donna a cui fu concesso.

Di spiccato intelletto e doti artistiche innegabili, si mormora che la sua pittura sia stata influenzata dal Caravaggio perché questo usava frequentare lo studio di suo padre. Le sue opere, effettivamente, riprendono quel chiaroscuro tipico dell’artista, mancato nel 1610, ma i temi riflettono la vita tormentata della donna: Susanna e i vecchioni e Il ratto di Lucrezia, figure vittime dei comportamenti degli uomini, ma anche Giuditta che decapita Oloferne, Giaele e Sisara, figure che invece si ribellano al loro destino.

Suzanne Valadon, storia e opere della musa-pittrice francese

I viaggi e l'attività sotto la corona inglese

Visto il periodo storico, non potevano ovviamente mancare soggetti religiosi, che la donna cercava però comunque, ove possibile, di dedicare alle figure femminili, come Maria Maddalena. Nel 1622 decise di tornare a Roma insieme alla famiglia. Da qui, otto anni dopo, si trasferì a Napoli, città che ritenne attraente per la vivacità dell’ambiente artistico e culturale. Vi fu una breve parentesi a Londra, presso la corte di Carlo I insieme al padre, che durò dal 1638 al 1642, anno della morte di Orazio.

Sulla morte di Artemisia vi sono diverse ipotesi, inizialmente risultava che fosse morta tra il 1652 e il 1653. Recenti scoperte dimostrano però come accettasse commissioni fino al 1654. Al momento la versione più appurata attribuisce la sua morte all’epidemia di peste che colpì Napoli nel 1656. L’artista venne sepolta presso la Chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini di Napoli, ma, dopo un ricollocamento dell’edificio, il suo sepolcro risulta perso.

La vita di Artemisia Gentileschi non risultò comunque delle più semplici: nonostante avesse goduto della protezione di diversi mecenati, la sua figura risultò spesso oggetto di critiche e prese in giro, specialmente dalla popolazione romana, che non dimenticò mai le vicende del 1611. Infatti risultano tramandati nel tempo diversi sonetti che prendono di mira l’artista.

Benedetta Cappa: l'artista (donna) che fece cambiare idea ai futuristi. "Voglio fare il pittore": Benedetta Cappa ha plasmato e diffuso i principi del movimento futurista. Non “la moglie di”, ma un’innovatrice e artista totale. Simona Losito il 17 Maggio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’incontro con Marinetti

 Le opere con la sua inconfondibile firma

 Pioniera dell'aeropittura futurista

 Punto di riferimento per il futurismo

Se è vero che a partire dagli anni Venti del Novecento le donne hanno potuto affermarsi indipendentemente e senza il consenso di un uomo, Benedetta Cappa ne è una testimonianza. Nata a Roma nel 1897 da Innocenzo Cappa, ufficiale di carriera piemontese, e da Amalia Cipoffina, di confessione valdese, sin da bambina espresse una passione per l’arte. "Voglio fare il pittore, e non la pittrice come mia madre", aveva affermato una giovanissima Benedetta, pensando a un mestiere maschile e rivendicando una parità che non esisteva nell'ambito.

Benedetta, che si firmava solo con il nome femminile o più semplicemente Beny, divenne poi una pittrice, scrittrice, poetessa, moglie, madre, ma in particolar modo fu un punto di riferimento per il Futurismo. A essere rilevante è stato il suo atteggiamento professionale una volta entrata in contatto con il movimento.

Noi vogliamo glorificare le belle idee per cui si muore e il disprezzo per la donna”, scriveva Filippo Tommaso Marinetti nel primo Manifesto Futurista pubblicato su Le Figaro a Parigi nel 1909. Eppure quest’idea cambiò radicalmente e la colpa, o il merito, fu attribuito proprio a Benedetta Cappa, sua moglie. Le posizioni del leader del movimento infatti si ammorbidirono nell’arco di dieci anni e molti compagni futuristi avevano ricondotto il radicale cambiamento alla presenza della donna nella sua vita. Nonostante la personalità di quest'ultima sia rimasta in ombra rispetto a quella del leader del Futurismo, la sua figura è stata a suo tempo ammirata, corteggiata e una guida per i membri del movimento.

L’incontro con Marinetti

I due si erano incontrati per la prima volta nel 1918 nello studio di Giacomo Balla, dove Benedetta ebbe la sua prima formazione artistica: è qui che Marinetti rimase folgorato da lei, che successivamente entrò a far largamente parte della sua vita. Benedetta aveva vent’anni in meno, ma a conquistare Marinetti non fu la sua fresca bellezza, furono le sue parole pungenti e la capacità di sostenere una conversazione intellettuale con lui.

Successivamente al loro primo incontro, la Cappa fece recapitare un disegno al nuovo conosciuto, titolato Psicologia di 1 uomo. Era a metà tra l’ironia e lo sguardo severo verso il genere maschile: un cerchio centrale all’interno del quale una scritta, “vuoto”, da cui partono delle punte che formano una sorta di stella, collegate da alcune parole come sensualità, orgoglio, materialismo e ambizione. Ma, cosa più importante, è firmata “Benedetta fra le donne, parolibera futurista”. Il suo punto di vista, che affermò fermamente durante la sua carriera, voleva sottolineare gli interessi opportunistici della mente maschile e la lontananza dall’anima spirituale della donna. Nei suoi numerosi scritti infatti l’artista contestava l’egemonia maschile, sottolineando la spiritualità e la virilità della donna, creatrice nell’arte e madre in natura.

Nel 1920 Benedetta Cappa e Filippo Tommaso Marinetti si sposarono: da questo momento in poi è possibile rilevare la firma di Benedetta sotto molti manifesti futuristi, conferendo al movimento una più incisiva sfera emozionale. Ne Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica si leggeva: “Dal caos delle nove sensibilità contraddittorie, nasce oggi una nuova bellezza che, noi Futuristi, sostituiremo alla prima, e che io chiamo Splendore geometrico e meccanico”. Era il Manifesto della sensibilità futurista che apparve sulla rivista Lacerba e quella sensibilità di cui si parlava era proprio il frutto del lessico utilizzato dalla Cappa. Quest’ultimo manifesto è importante poiché al suo interno può essere rintracciata la definizione dell’atteggiamento del pittore futurista: deve essere indipendente dalla tradizione e affidarsi alla creatività.

I due ebbero poi tre figlie a cui attribuirono dei nomi “futuristi”: Vittoria, Ala e Luce. “Non so se mia madre sia stata più una letterata o un’artista […] l’amore per la pittura era cominciato per lei intorno ai vent’anni. Un giorno passeggiando per Villa Borghese aveva incontrato Balla. Lui, col suo cavalletto, stava studiando le rifrazioni della luce fra gli alberi […]. Si misero a parlare e Balla la invitò al suo studio. Lei andò e divenne sua allieva”. Così la raccontava sua figlia, Ala Marinetti, su L’Espresso nel 1998.

Le opere con la sua inconfondibile firma

Una delle caratteristiche di Benedetta Cappa era la sua firma: utilizzava sempre e solo il suo nome di battesimo per evitare che la sua identità pubblica potesse essere vista in riferimento alle figure maschili della sua vita, nonché suo padre e suo marito. Nelle sue pubblicazioni, come Progetto futurista di reclutamento per la prossima guerra, un lavoro in cui propose di invertire l’età nella leva militare e quindi partire dai più anziani, si nota una certa distanza dai suoi colleghi futuristi. Benedetta Cappa tentava infatti di argomentare le proprie idee, proponendo motivazioni sensate a livello sociale e soluzioni pragmatiche.

Nelle sue prime opere era possibile notare un legame stilistico con il suo maestro, Balla, ma in seguito il suo linguaggio divenne sempre più autonomo e personale. Una delle sue opere più famose, esposta in occasione dell’inaugurazione del Palazzo delle Poste a Palermo nel 1934, è composta da 5 dipinti enormi raffiguranti Le comunicazioni terrestri, marine, aeree, telegrafiche, radiofoniche. Qui si vedono delle auto che si muovono verso l’alto, metafora del potere intellettuale dell’essere umano e della sua capacità di invenzione. Benedetta utilizzava colori tenui e attraversano tonalità di azzurro, verde e giallo, i colori con cui la Cappa ha comunicato la sua personale visione attraverso un linguaggio complesso come quello futurista. In prima battuta, aveva sperimentato la rappresentazione del dinamismo della natura e delle persone, per poi giungere ad una versione più “monumentale” dell’avanguardia.

Il talento di Benedetta era ormai indiscusso e lo stesso Marinetti alla vista dei pannelli ammise “ammiro il genio di Benedetta mia eguale e non discepola”. Nelle sue opere raggiunse effetti surrealisti, come lei stessa affermava: “La mia arte pur partendo dalla realtà non è mai verista e se ne allontana in uno sforzo di sintesi, di astrazione e di fantasia”.

Pioniera dell'aeropittura futurista

L’interesse per l’aeropittura, di cui la Cappa firmò il manifesto negli anni Trenta, è presente in diverse opere. Le immagini prodotte dell’artista erano frutto della sua fantasia, di cui i viaggi in aereo erano solo un punto di partenza. Con suo marito infatti la Cappa viaggiò molto e proprio quel vissuto divenne oggetto di molte opere che raccontano le sue esperienze in aereo, divenendo successivamente una pioniera della cosiddetta “aeropittura futurista”. Oltre al cielo e agli aerei, altri temi a lei cari erano il mare e l’azzurro, come metafora dell’inconscio e della libertà. Opere come Velocità di motoscafo testimoniano il largo uso di questo colore e la scia che vi si osserva, simbolo di libertà anch'essa, genera un movimento che catapulta l’osservatore all’interno della tela.

Benedetta Cappa partecipò a cinque edizioni della Biennale di Venezia, conquistando il primato di prima donna a pubblicare un’opera nel catalogo della manifestazione nel 1930 e a tre Quadriennali di Roma, aleggiando abilmente dalla scenografia alla letteratura. Si impegnò anche nella scrittura di romanzi: Le forze umane, Viaggio di Gararà e Astra e il sottomarino. Anche qui il linguaggio di Benedetta è riconoscibile, intriso di un lirismo idealistico che ne arricchisce il vocabolario, delle sue opere ma in generale quello futurista. Inoltre, la sua indipendenza intellettuale le permise di affermarsi come coscienza critica del movimento.

Suzanne Valadon, storia e opere della musa-pittrice francese

Punto di riferimento per il futurismo

Benedetta Cappa divenne anche un punto di riferimento per il movimento fuori dall’Italia, come testimoniano le parole di sua figlia: “Fu lei a far conoscere il Futurismo all’estero. Dopo la morte di mio padre, avvenuta nel ’44, dedicò tutte le sue forze a valorizzare il movimento d’avanguardia riunendo le opere, i manoscritti e promuovendo mostre internazionali. […] Marinetti aveva creduto nella rivoluzione dell’arte e aveva speso molto per il futurismo e mia madre continuò per quella strada, non sottraendosi al suo compito né lamentandosi mai”.

Qualcuno l’accusava di aver indebolito il carattere fiero e rivoluzionario di Marinetti, e che lo abbia accompagnato verso quella “normalizzazione” che lo condusse a un armistizio con le istituzioni e alla carica di Accademico. Ma i fatti dicono il contrario. Benedetta, con l’avvicinarsi della guerra si impegnò dando il suo sostegno alle truppe italiane impegnate nelle guerre fasciste, a cui la stessa credeva fino al 1938, quando spinse il marito a condannare le leggi razziali.

Benedetta Cappa realizzò opere pittoriche, sintesi grafiche, romanzi e disegni di rappresentazioni teatrali, che portano a considerarla un’artista totale, in grado di emergere nonostante la fama di un celebre marito. La sua capacità di conciliare il ruolo di moglie, madre e artista è il risultato della forte convinzione che la donna non dovesse totalmente liberarsi dei suoi obblighi domestici. Doveva bensì conciliare e gestire gli impegni della vita con abilità. Morì a Venezia nel 1977, negli ultimi anni della sua vita aveva concentrato le proprie energie nell’ulteriore diffusione del Futurismo all'estero, senza mai fermarsi.

Barbara Alberti: «Grazie a Lina Wertmüller scoprii di essere stata tradita. Il sesso a ottant’anni? Basta, lasciateci in pace». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera giovedì 16 novembre 2023

La scrittrice: «Con mio marito una vita insieme, anche se per una decina d’anni ci siamo lasciati»

La scrittrice Barbara Alberti, 80 anni

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Sessant’anni insieme con Amedeo Pagani. Se lei dovesse racchiudere in una parola questo amore come lo definirebbe?

«Culo».

Barbara Alberti, siamo sul «Corriere della Sera».

«Va bene: una enorme fortuna. Una vita insieme, anche se per una decina di anni, in passato, ci siamo lasciati».

Separati o divorziati?

«Non ricordo».

Ma come?

«Se avessimo divorziato me lo ricorderei, o almeno ricorderei la trafila legale. Chissà».

Ma l’amore resisteva.

«Resistono altre cose più grandi, come il piacere di stare insieme».

Condividete due spazi diversi di questa bella casa, quartiere Trieste, a Roma.

«Ma soprattutto leggiamo ad alta voce, ogni giorno. Abbiamo provato con la Bibbia ma ci siamo fermati perché ci abbiamo trovato cose durissime, troppo anche per noi».

E che cosa state leggendo adesso?

«Una cosa meravigliosa, le “Metamorfosi” di Ovidio. Giove che ne combina di ogni, la gelosia di Giunone, il sesso, la passione, la magia».

Avete due figli, ormai grandi, Samuela e Malcom.

«Sono arrivati tutti e due nei periodi di tempo in cui io prendevo la pillola, vatti a fidare degli anticoncezionali».

Che genitori siete stati?

«Matti. Giravamo il mondo, la prima è venuta sempre con noi, il secondo è rimasto più a casa. Bambinaie e camerieri, ma erano altri tempi».

Che tempi?

«Tempi folli, in cui se ci mettevamo in testa di fare un film (Pagani è un produttore, Alberti ha scritto numerosi soggetti, ndr) eravamo pronti a tutto. Anche a venderci la casa. Ma era un modo diverso di fare le cose, appassionato, senza riserve. Oggi sarebbe assurdo, oggi tutto è marketing e mercato spicciolo».

Guadagnavate tanto?

«Un mese eravamo ricchi, quello dopo ci manteneva il droghiere dell’angolo. Ma quando il cinema pagava, pagava sul serio. Questa casa, per dire, l’abbiamo pagata facendo uno dei film con Bud Spencer e Terence Hill, “Più forte ragazzi”».

Be’, erano successi indiscutibili al botteghino.

«Sì, ma ci diedero i soldi sull’unghia, facendo un calcolo di progressione aritmetica per prevedere gli incassi».

Avevano fiducia in voi.

«Si aveva fiducia nei giovani, mica come oggi che li mandano al diavolo. Il mondo era giovane, la vita era giovane. Age e Scarpelli, Sonego, tutti i grandi sceneggiatori accoglievano i giovani e li aiutavano».

Perché vi siete lasciati con Amedeo, a un certo punto?

«Perché io l’ho tradito».

Con chi?

«E secondo lei io adesso glielo dico?».

Ma lei è mai stata tradita?

«Sì, tanto tempo fa da un mio ex. È andata che una sera lui mi dice che va a giocare a carte a casa di Lina Wertmüller, ma io chiamo Lina e di lui manco l’ombra. L’ho messo gentilmente alla porta».

Lei, Barbara, le corna non le sopporta proprio.

«Mi fanno diventare matta».

Si è mai innamorata di una donna?

«Magari».

È così difficile?

«Il fatto è che l’amore è per i coraggiosi, tutto il resto è coppia».

Non vale, questo è un aforisma tratto dal suo libro «Amores», uscito tempo fa per Harper Collins.

«Ma ci credo davvero».

Chi la conosce bene sa che, da giovane, lei ha perso la testa per un bellissimo gay.

«Sì, ma non dirò altro, nemmeno sotto tortura».

È così complicato, amare?

«Si rischia il fraintendimento. Vuole un esempio? Violetta della Traviata, secondo me, non amava quel carciofo di Alfredo, ma amava Germont, il padre di lui. È per lui che rinuncia a tutto, è per lui che si sacrifica».

Amedeo Pagani ci raggiunge in cucina. È un uomo ironico e sottile, catalizza l’attenzione. Barbara Alberti gli prepara un caffè, con premura. Lui conversa un po’ con noi, poi ci lascia, con elegante discrezione, annunciando che avrebbe accompagnato Barbara in Umbria, dove deve andare per una questione di lavoro. «Vengo per farti compagnia», dice allontanandosi.

Barbara, le è mancato Amedeo nei giorni in cui lei era nella casa del Grande Fratello?

«Diciamo che in quei giorni pensavo solo a godermi l’isolamento dal mondo. In più, poco prima della mia partenza avevamo litigato, così io gli ho scritto una lettera lunghissima, d’altri tempi, e sono sparita, lasciandomi sigillare per settimane. Un lusso quello di non ricevere risposta, che ormai non ci concediamo più, nell’epoca delle spunte blu delle chat».

Ma se lei ha un cellulare di trent’anni fa!

«Sì e guai a chi me lo tocca».

Com’è l’amore nella parte matura della vita?

«Si sta insieme perché si scopre che insieme si sta bene. È presenza fisica, è condivisione di programmi, è cose da fare, è disincanto».

Però c’è un mercato che preme molto per incentivare il sesso dopo gli 80.

«Ridicolo. Ma che senso ha spingere affinché si faccia sesso da vecchi? Lo fanno solo perché hanno capito che noi vecchi abbiamo i mezzi per consumare e allora incentivano l’eros. Lasciateci in pace».

È un appello?

«Prima c’era il confessore che ti chiedeva: “Quante volte lo hai fatto?”. E dovevi dire la penitenza. Oggi c’è il sessuologo che ti chiede: “Quante volte non lo hai fatto?”. E se non sei nella norma, dice che sei malato».

Non siamo liberi, negli anni Settanta lo eravate?

«C’era una allegra promiscuità che non scandalizzava nessuno. Noi, in casa, accoglievamo amici che restavano anche per giorni. Me ne ricordo uno, che mi faceva tanto ridere, arrivava qui con decine di persone e si chiacchierava e rideva da mattina a sera. Il suo nome era Franco Battiato».

Uno dei peggiori pregiudizi sulle donne è che mancano di senso dell’umorismo.

«Uh, se non ne avessimo avuto ci saremmo estinte da secoli».

Con tutto quello che abbiamo dovuto sopportare?

«Sì, però un vantaggio lo abbiamo: a letto non dobbiamo dimostrare nulla, non c’è l’ansia da prestazione».

Presto sarà tra i co-conduttori di «Rebus», su Rai3.

«La televisione, se fatta bene, mi piace e fa per me».

Lei ha partecipato anche a Celebrity MasterChef.

«Sì però lì bisognava saper cucinare e, francamente, è troppo per me. Fatta fuori subito».

Scrive al mattino o alla sera?

«Un tempo non andavo mai a dormire, poi ho scoperto la mattina, che è fantastica. Passeggio col cane, faccio yoga, scrivo, leggo».

Dopo tanti anni, il suo libro scandaloso uscito nel 1979, «Il Vangelo secondo Maria», ha preso la forma di un film. Non «spoileriamo» il finale, ma è molto forte.

«Eh ma il film sarà diverso, edulcorato. In ogni caso il mio vero sogno segreto non si è realizzato: avrei tanto voluto una bella scomunica».

Estratto dell'articolo di Daniele Priori per “Libero quotidiano” il 14 aprile 2023.

«Le femministe che chiedono alla Schlein di rivedere le proprie posizioni sulla gestazione per altri non sono 100 ma 101. Non vedo come si possa sostenere che quella sulla maternità surrogata sia una battaglia di sinistra e di uguaglianza. È una pratica schiavistica dove il ricco compra il povero. Non mi vengano a dire che è un atto di amore.

 Ci crederò quando una miliardaria farà figli per la sua domestica o le americane per le africane. Vorrei piuttosto che uno di questi governi si mettesse la mano sulla coscienza e permettesse alle coppie gay di adottare i bambini».

A rincarare la dose dopo l’appello delle 100 femministe è Barbara Alberti, scrittrice, volto noto della tv, da sempre attenta narratrice del mondo femminile. […]

 È serena ma anche determinata su un tema come la gestazione per altri, ci par di capire...

«Sentire la sinistra che sostiene lo schiavismo mi fa male al cuore. Mi auguro che la Schlein ascolti l’appello delle cento femministe più una».

 Recentemente l’abbiamo anche sentita esprimersi con durezza sullo schwa che dovrebbe essere una sorta di linguaggio al di sopra dei generi, salvo seguire spesso il filone della cosiddetta cancel culture...

«Le donne sono state bruciate come streghe, non possiamo essere noi adesso a praticare la censura e accendere i roghi […]».

Lei ha detto: compio 80 anni senza nessun merito. Allora partiamo dalle colpe. Se il mondo va come va, secondo lei le colpe sono più degli 80enni che hanno sbagliato o dei più giovani che non hanno capito?

«Non mi faccia queste domande del cazzo. Che ne so! (Ride) L’uomo è stolto. Dove siamo? Sull’orlo della guerra. Siamo nel medioevo. Non abbiamo imparato nulla. La scienza ha raggiunto vette importanti. Mio marito si ruppe un femore a trent’anni e dovette fare sette mesi di riabilitazione, oggi in un mese ti rimettono in piedi. Ma l’uomo è un animale suicida. Di cui scienza e tecnologia hanno anche moltiplicato la stupidità.

L’unica cosa che ci consola è dare la morte. Pensi a Putin che ha riportato in Europa la guerra che la mia generazione aveva avuto la fortuna di non ricordare […] ».

 Non mi ha detto però se c’è una generazione più colpevole di un’altra...

«Penso che la responsabilità se c’è sia nella natura umana. […] Giovani, vecchi siamo tutte piccole formiche in balìa del mercato. La morte è stata censurata dalle coscienze perché i morti non comprano. […] Stanno edulcorando il linguaggio perché deve finire tutto come nelle pubblicità.[…] questa censura sulla verità, sul linguaggio e sui fatti umani diventa una camicia di forza incredibile».

Vittorio Sgarbi facendole gli auguri si è rivolto a lei come a una donna che potrebbe essere anche un uomo. Lei, Barbara, si sente fluida?

«Non ho mai calcolato di che sesso fosse la persona che mi suscitava amore quando mi è capitato questo sommovimento del pensiero capace di metterti il terzo occhio! Quando ami hai un’audacia intellettiva oltre che fisica. Solo l’amore te lo da. E tu vai a guardare se è maschio o femmina? Sarebbe una bestemmia.

[…]

Torniamo alla politica. Giorgia Meloni e Elly Schlein. Improvvisamente l’Italia ha scoperto non una ma due donne leader. Che ne pensa?

«Da un punto di vista puramente antropologico in entrambe vedo una vitalità, una sincerità, una voglia di fare. Qualcosa che molto raramente ho visto in politica. Non so cosa ne verrà fuori. Con tutte le facce da morti o da volpi che hanno attorno, in loro vedo due persone sincere e con grande voglia di lavorare». […]

Dagospia l’11 aprile 2023. Da Un Giorno da Pecora

Invecchiare e compiere 80 anni è come diventare poveri: si scopre chi ti vuole veramente bene”. A parlare, ospite di Rai Radio1 a Un Giorno da Pecora, nel giorno del suo compleanno, è la scrittrice Barbara Alberti, che oggi è stata intervistata da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Quanti anni si sente?

 “Una persona sana di mente si sente età diverse a seconda dei momenti della giornata. E si può andare dai tre ai cento anni, ora me ne sento cinque…” Meglio essere chiamati anziani o vecchi? “Vecchi, assolutamente, il titolo ‘vecchio’ è nobile, d’onore. Le parole non le dobbiamo cambiare, le dobbiamo inventare, lo dico anche alle femministe che partecipano a questa vergognoso smantellamento del linguaggio”.

Non le piace un’invenzione linguistica come la ‘schwa’? “E’ un abominio, una negazione della realtà, un qualcosa di schifoso”. Lei ha detto che non avrebbe mai voluto essere un uomo. “Certo. Gli uomini mi fanno pena”. Perché? “Per quella disgrazia naturale: la sessualità della donna è segreta, mentre l’uomo, da quando si accorge di averlo fino alla morte, dipende da una cosa che non è governabile, e a cui ha attribuito lo stesso valore esistenziale della persona. In questo ho una grande fortuna: orgogliosa come sono – ha spiegato la Alberti a Un Giorno da Pecora - se fossi stata un uomo, dopo i primi problemi me lo sarei tagliato”.

Estratto dell'articolo di Andrea Greco per “Oggi” il 2 aprile 2023.

A dispetto dei suoi imminenti 80 anni, fatico a tenere il passo di Barbara Alberti mentre la seguo in quel labirinto che è la sua casa romana: c’è una rampa di scale, poi un’altra, una stanza colma di libri e infine si sale in soffitta affrontando una curva a “U” in salita, nella quale tocca aggrapparsi al corrimano per mantenere l’aderenza sui gradini che si assottigliano.  [...]

 Che cosa ha capito che da giovane le sfuggiva?

«Ho avuto per anni il terrore della vecchiaia, una paura infinita che mi portava a corteggiare l’idea del suicidio. Intendiamoci, per onestà devo ammettere che non lo avrei mai fatto: mancava la volontà, ma c’era l’idea, così quando ho compiuto 30 anni ho spostato la data della dipartita a 35. Raggiunti i 35 la linea rossa l’ho posticipata a 40...».

 Poi?

«Poi ho cominciato a invecchiare davvero e ho compreso una grande, tranquillizzante verità: sostanzialmente avevo fatto per tutta la vita quello che mi pareva. Avevo fatto l’impresa, come i cavalieri della tavola rotonda». [...]

 La tesi e antitesi sono a posto. C’è pure la sintesi?

«Eccola: oggi in me ci sono due sentimenti contrastanti, fortissimi. Il primo è quello di essere presente fin che posso, di intervenire sul reale, come voglio io. Il secondo è un senso di irresponsabilità infinita. Non voglio sapere nulla. Non voglio occuparmi dei piccoli problemi, non voglio occuparmi delle tasse, sapere come si paga la Tari, controllare le bollette. Per fortuna per tutto questo c’è il mio compagno. Io voglio solo occuparmi del cane».

Il cane è un sollecito e vanitoso golden retriever, con un sorriso canino stampato sul muso. È arrivato in affido a casa Alberti dopo il divorzio del figlio, e proprio per questo (mi sembra di aver capito) si chiama “lucky”, fortunato. È da lui che riparte il discorso.

«Vede Lucky quanto è sereno, felice? Lui non sa che dovrà morire e quindi vive nell’eternità. Noi invece l’idea della morte ce la portiamo dietro tutta la vita, per quello siamo così attratti dalle idee che ci promettono l’immortalità». [...]

[...]

«Mi sono innamorata tutte le volte che dovevo. È anche capitato che abbia amato uomini che mi hanno ingannato, anche con bugie grossolane, ma sono stata loro grata ugualmente per le sensazioni che ho provato, per quel coraggio che ho trovato. Ieri ho visto in tv una vecchina che si lamentava di essere stata sedotta e ingannata da un ventottenne che sembrava un bronzo di Riace. Va bene, dico io, che il lestofante sia assicurato alla giustizia, però anche la vecchina, che per due anni ha volato altissimo, dovrebbe sapere che alcune cose hanno un prezzo».

Lei è cresciuta in un paesino umbro, lontana da tutto, è stato difficile?

«Ma si figuri. Sono cresciuta a Umbertide con due nonni toscani anarchici, spiritosissimi, capaci di ridere su qualsiasi cosa. Mio padre, che lavorava col tabacco, era affettuoso e divertente. Nel secondo dopoguerra c’era un clima meraviglioso: erano sopravvissuti a una catastrofe e per essere felici bastava avere il piatto pieno in tavola, e non doversi preoccupare che i vicini fossero delle spie.

Oggi invece troppi sono lamentosi e accusatori: non si accettano le frustrazioni, si attribuisce agli altri la colpa della propria pochezza, si sterilizzano le parole e si persegue il linguaggio della tolleranza, che tradisce il fatto che non tolleriamo più la nostra condizione. [...]».

Barbara Alberti per Dagospia il 25 febbraio 2023.

Hanno censurato anche le favole. Era ora. Finalmente il mondo sarà sano.  Basta con l’arte degenerata. Basta con l’arte. L’arte è tutta de-generata ovvero esce dal genere, dalla banalità, dalla menzogna- è lo specchio della complessità della vita e la sua trasfigurazione, che la fa vera. Se no è il niente. E il niente è quello che ci serve per smettere con quell’attività sovversiva che è pensare e creare. Finalmente una censura degna del nome ha dichiarato guerra alla realtà. Una schiera di inquisitori, nelle case editrici, espunge e purifica tutto ciò che è scomodo nella vicenda umana , ciò per cui non abbiamo trovato rimedio.

Non ci sono più zoppi gobbi grassi buoni cattivi magri vecchi e giovani ignoranti e colti belli e brutti alti e piccoli ricchi e poveri, fine delle disuguaglianze: abbiamo raggiunto la parità nella retorica, nel nominalismo più sfacciato. Sparito tutto il male del mondo per decreto. Per intimidazione. Per follìa formale.

 Rimane la morte, che è imbarazzante parecchio, ma quella proprio non vuole saperne di non avere un nome, anche se la si evita, come la Vecchiaia sua sorella.  Mai c’era stata una controrivoluzione che chiedesse ai suoi fedeli  ipocrisia incrollabile, e un terrore tale della vita da non osare chiamarla per nome. Non riuscendo a fare dell’uomo qualcosa di decente, si rimedia cambiando i nomi alle cose. Splendore barocco dell’illusione. Fine per decreto di ogni disparità e ingiustizia. Siamo tutti salvi. Tutti complici. Tutti stupidi.

L’uomo è sempre stato un omicida-suicida, ma ora ha raggiunto la perfezione. La guerra e i danni all’ambiente  si incaricano dello sterminio fisico, la censura umanitaria dello sterminio del pensiero.  Lavorano concordi per l’uomo,  per liberarlo dalla realtà, e farne un quieto drogato del buonismo e della sicurezza. Mentre la guerra avanza e il terremoto le dà una mano, noi abbiamo trovato il modo per diventare veramente civili. Cambiare le parole! Coprire con l’ipocrisia più aggressiva ogni realtà umana. Ma non finisce qui, ora tocca alla storia. Carmelo Bene: lo studio della storia è istigazione alla strage. Vero. Dobbiamo ripulirla: certi avvenimenti nei libri di testo sono intollerabili per dei giovani, evitiamo di turbarli. Via tutte le guerre le crociate i genocidi in nome di dio via l’inquisizione il nazifascismo lo stalinismo i roghi  il cannibalismo della colonizzazione via i gulag via tutto. Un ragazzo legge questa roba e si sconvolge, siamo così civili che solo l’idea di quelle brutte cose ci fa svenire, ed ecco la gran trovata. Neghiamo la realtà,  così scompare.

L’epigrafe del nostro tempo, i versi di Pasolini

Sei così ipocrita, che quando l’ipocrisia ti avrà ucciso, sarai all’inferno e ti crederai in paradiso.

 Un’altra religione monoteista. Ridare decoro all’uomo, cancellare dai libri di scienza che discendiamo dalla scimmia assassina.

 Ci stiamo trasformando in un violento esercito della salvezza con la bandiera del progressismo. O si recita un requiem al libero pensiero, o si combatte per salvarlo. A metà degli 90 conobbi Geneuviève Makaping, intellettuale del Camerun, spiritosa come un angelo, scrittrice geniale- il suo “Traiettorie di sguardi” (Rubbettino editore),  è libro di testo in 22 università americane- mi disse - Chiamatemi negra! Sì capisco che alla vostra cattiva coscienza suoni come un insulto, e questo sì che mi insulta: il mio colore è così imbarazzante da non poterlo nominare?  Non voglio esser chiamata extracomunitaria! Mi fa sentire estranea. Negra è una parola poetica, viene dal latino, non dalla lingua disgustosa della “tolleranza” , cioè della sopraffazione-  Geneuviéve aveva già capito l’imbroglio che stava nascendo, allora all’alba, ora allo Zenith. Non ci accadrà mai più niente di male.  L’era del mulino bianco ci aspetta.

Quanto agli artisti, se vedono blu i campi sono degli anormali, e il loro posto è il manicomio. Ma se fanno solo finta di vederli blu, allora sono dei delinquenti, e vanno messi in galera.

Adolph Hitler”

Simonetta Scandisci su La Stampa il 21 febbraio 2023. Nicola Sturgeon ha raccontato di aver deciso di dimettersi da premier della Scozia durante il funerale di un suo amico e compagno di partito. Ha detto: «Non riesco nemmeno più a prendermi un caffè con gli amici». E poi: «Sono umana».

Jacinda Ardern ha detto cose molto simili lasciando la guida della Nuova Zelanda. È il copione delle dimissioni eccellenti che si susseguono in queste settimane. Ed è un copione in cui ricorre, esplicita o sottotraccia, una domanda di senso, la stessa che moltissimi di noi si sono posti, insistentemente, durante e dopo la prima fase della pandemia. Questa domanda, anzi queste domande: che ci faccio qui? Che senso ha la vita che conduco?

Interrogativi che, dalla seconda metà del Novecento in poi, progressivamente, sono stati bollati come capricci adolescenziali.

(...)

Alberti, qual è il senso della vita?

«Nessuno».

(...)

Non ha mai pensato di smettere di lavorare?

«Mai. A me piace moltissimo. E penso con orrore alla possibilità che l'umanità sia liberata dal lavoro. Zappare, cucire, costruire, scrivere, insegnare: sono tutte cose che ci impediscono di ammazzarci l'un l'altro. Ci tengono impegnati».

Però adesso il lavoro non ci tiene soltanto impegnati: ci soffoca.

«Osservo affascinata tutte queste donne che si dimettono, ma so anche che tutto quello che fanno le donne viene sempre ingigantito, letto come un fatto sociologico. Ed è piuttosto grottesco, visto che poi viviamo ancora una condizione miseranda. Se si fossero dimesse delle operaie, sarebbe in corso una rivoluzione».

(...)

«Ora le dico la rivoluzione che serve: che le donne possano dimettersi dall'essere donne. Meglio: da quello che essere donne è diventato, e cioè wonder woman multitasking che devono dimostrare che per loro è tutto possibile».

Ma è anche a questo che il fenomeno delle dimissioni sta dicendo basta.

«Speriamo. Sono scettica sul fatto che diventi universale. Ai maschi farebbe bene».

Secondo Umberto Galimberti il mercato non è più a nostro servizio, ma noi siamo a servizio del mercato.

«È così. Ed è la ragione per la quale al lavoro viene dato un valore assoluto: non serve più a fornirci mezzi ma è un mezzo ed è un fine. Non siamo più esseri umani, ma consumatori. E allora non dobbiamo mai morire. L'enfasi con cui adesso si parla della vecchiaia come età vitalissima, mi insospettisce per questo: temo sia un tentativo di spremere noi vecchi, fare di noi consumatori eccellenti, ora che s'è capito che viviamo meglio e più a lungo. La "cosa" continua a vincere sull'uomo».

(...)

Se l'Intelligenza artificiale liberasse l'umanità dal lavoro, ci dedicheremmo tutti a libri, dischi, film bellissimi?

«No. L'uomo senza lavoro sarebbe un delinquente. Se gli levi il torchio, non prende la cornamusa. Il problema non è che inseguiamo il lavoro, ma che inseguiamo un'idea sbagliata di successo».

Qual è quella giusta?

«Il successo è capire cosa si vuole fare e riuscire a farlo».

Estratto da focus.it il 26 marzo 2023.

Il 6 ottobre 1802, Ludwig van Beethoven prese carta, penna e calamaio, per scrivere una lettera ai suoi fratelli, Kaspar e Nikolaus, dalla sua casa di Heiligenstadt, un sobborgo di Vienna. Non era un "testamento", ma è stato chiamato così perché si trattava di una "confessione", ritrovata soltanto dopo la morte del musicista. Nello scritto il compositore chiedeva che il suo medico, J.A. Schmidt, divulgasse al grande pubblico le malattie che lo avevano colpito, specialmente negli ultimi dieci anni di vita, in modo che "per quanto possibile, almeno il mondo si riconcili con me dopo la mia morte".

Erano le parole di un uomo isolato dalla progressiva perdita dell'udito e tormentato da una cirrosi epatica, causata, sappiamo solo oggi, da una predisposizione genetica alle malattie del fegato, combinata con il virus dell'epatite B e forse un eccessivo consumo di alcol.

Oggi, più di due secoli dopo, un team internazionale di ricercatori, guidato Tristan Begg dell'Università di Cambridge, ha in parte assecondato le volontà del compositore indagando le cause delle malattie che lo hanno afflitto, attraverso l'analisi del Dna contenuto in una ciocca dei suoi capelli.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Current Biology ha lo scopo di fare luce sui principali problemi di salute di Beethoven: la perdita dell'udito, che fece il suo esordio intorno al 1815 e lo portò alla sordità nel 1818, e la grave malattia del fegato, iniziata nell'estate del 1821 con due attacchi di ittero, culminata in cirrosi epatica, in seguito individuata come la causa più probabile della sua morte, nel 1827, a soli 56 anni.

[…] INDIZI GENETICI

Il team di scienziati che ha lavorato sul Dna del musicista, però, non è stato in grado di indicare la causa della sua sordità, come ha dichiarato Axel Schmidt dell'Istituto di Genetica Umana dell'Ospedale Universitario di Bonn: […]

Per quanto riguarda, invece, la malattia al fegato, gli scienziati hanno individuato una serie di fattori di rischio genetici, oltre a un'infezione da virus dell'epatite B, contratta nei mesi precedenti alla fase finale della malattia del compositore. Tuttavia, durante le ricerche è emerso un altro elemento che potrebbe aver peggiorato la grave malattia al fegato: il consumo di alcol.

[…] L'IPOTESI PIÙ PLAUSIBILE

 Tuttavia gli scienziati, su questo punto non si sbilanciano, perché l'effettivo consumo di alcol da parte del compositore non è ancora stato quantificato con precisione. «Per concludere», afferma Johannes Krause del Max Planck Institute of Evolutionary Anthropology, «è probabile che la cirrosi epatica che ha portato alla morte il compositore sia una combinazione di tre fattori: un rischio ereditario significativo, un'infezione da virus dell'epatite B e il consumo di alcol».

Beethoven: I Quaderni segreti. Redazione L'Identità il 12 Dicembre 2022

Negli ultimi dieci anni di vita, il solo modo per comunicare con Beethoven, condannato a una sordità quasi totale, era scrivere ogni cosa su dei taccuini, dai quali mai si separava. Ne rimangono 139, sono i cosiddetti “Quaderni di conversazione”, il materiale biografico più intimo grazie al quale possiamo condividere i suoi ultimi anni di vita. I quaderni, presentati per la prima volta nella versione italiana e nell’intero arco della loro durata, tradotti e commentati da Sandro Cappelletto per Einaudi, rappresentano una testimonianza insostituibile della sua vita, assieme al “Testamento di Heiligenstadt”, pure presente nel volume, che Beethoven scrisse trentenne, quando intuì la sordità che stava sopravvenendo. Il compositore austriaco Anselm Hüttenbrenner era accanto a Beethoven al momento del trapasso, avvenuto verso le 17 e tre quarti del 26 marzo 1827 in una giornata fredda, nevosa e oscura. Il grande compositore giaceva rantolante, ormai in coma, quando un lampo, accompagnato da un violento rombo di tuono, illuminò di luce accecante la camera. Beethoven aprì gli occhi, sollevò la mano destra, guardò in alto per alcuni secondi, col pugno destro chiuso, con aria minacciosa e si riversò su se stesso, socchiudendo gli occhi, spirando. Sembra quasi la trasposizione visiva del finale del suo Quartetto opera 131. La ricerca della raccolta dei quaderni e le testimonianze presero avvio proprio da quel momento, alimentando talvolta un mercato sospetto.

Negli anni precedenti a chi veniva a trovarlo, Beethoven offriva una pagina bianca e una di quelle grosse matite da falegname che usava, le uniche a cui sapesse fare la punta, e seguiva con occhio impaziente le mani che scrivevano le parole, le parole che nascevano, le frasi di cui spesso preveniva la fine. In questo faticoso esercizio, in questa commovente tensione, c’era la volontà forte di non restare solo, l’unico modo di non essere isolato da tutto il resto del mondo. Povero Beethoven: “Le mie orecchie ronzano e rombano di continuo giorno e notte. Posso proprio dire di condurre una vita da derelitto; evito ogni compagnia, perché non mi è possibile dire alla gente che sono sordo. Se esercitassi qualsiasi altra professione la cosa sarebbe più facile; ma con la mia questa è una condanna terribile!”, scriveva. Sono tante le pagine commoventi che si scorrono nel volume. Ma anche le note importanti per comprendere la sua poetica. A esempio a proposito dell’uso del metronomo. Beethoven mantiene un atteggiamento prudente: fissare in modo preciso la misura del tempo, spiegava, può valere solo per le prime battute, perché l’espressione ha la sua misura. Per l’esecuzione all’organo del preludio del Kyrie nella sua Missa solemnis pensa a un effetto teatrale: prima forte e poi diminuendo, fino a raggiungere il piano prima del Kyrie. Anton Felix Schindler, segretario e futuro suo biografo, per difendere la leggibilità del testo ricalcava a inchiostro quanto era scritto a matita. Riporta quindi un pensiero di Beethoven: «L’artista deve creare liberamente, cedere soltanto allo spirito del suo tempo ed essere il signore del suo proprio materiale. Soltanto a queste condizioni potranno venire alla luce delle vere opere d’arte.

Il nuovo e l’originale si genera da sé, senza che uno ci pensi». E a un altro interlocutore: «Lei mi chiederà da che cosa io tragga le mie idee. Non glielo saprei dire con certezza: arrivano non sollecitate, direttamente o indirettamente. Potrei afferrarle con le mani, all’aria aperta, in mezzo al bosco, durante una passeggiata, nel silenzio della notte, all’alba, suscitate da diversi stati d’animo: quelli che nel poeta si traducono in parole, in me in suoni che riecheggiano, ruggiscono, turbinano, fino a che a un certo punto stanno dinanzi a me in forma di note». Un altro gli domanda: «Hai conosciuto Mozart?» e poi: «Dove l’hai visto?». La seconda domanda ci autorizza a pensare che Beethoven abbia risposto affermativamente alla prima. Ma dove e in quale occasione, purtroppo non sappiamo.

(ANSA il 3 ottobre 2023) - L'elusivo artista britannico Banksy, sulla cui identità da tempo girano voci e indiscrezioni mai confermate, potrebbe svelarla in seguito a una convocazione dell'Alta corte di Londra seguita a una causa per diffamazione intentata contro di lui. 

E' quanto si legge sul Mail online, che pubblica alcune presunte rivelazioni nel tentativo di rilanciare un suo pseudo scoop del 2008, in cui affermava di aver svelato il mistero individuando il nome del celebre writer: Robin Gunningham, originario di Bristol ed educato nella scuola pubblica inglese. Nei documenti legali sarebbe finita anche Pest Control, l'ente ufficiale che certifica le opere di Banksy apparse sui muri delle città di tutto il mondo.

Al centro di questo dubbio tentativo di svelare l'identità dell'artista c'è Andrew Gallagher, un imprenditore 56enne attivo negli anni Novanta nel mondo dei rave e poi dedicatosi al mercato dei graffiti, che ha citato in tribunale Gunningham prendendo per buona l'identificazione di Banksy fatta dal Mail. In merito alla causa non vengono aggiunti dettagli, in quanto, stando al legale di Gallagher, si tratta di informazioni confidenziali.

Tutto in attesa di vedere se questa convocazione diventerà esecutiva e se il convocato - ammesso che compaia - dovesse rivelarsi essere il vero Banksy. Solo in fondo all'articolo del Mail si legge anche di un precedente tentativo di azione legale analoga finita in un flop, con i giudici che l'hanno respinta dando ragione al writer. Mentre lo stesso tabloid ammette che l'identità di Banksy resta un mistero nonostante i tentativi falliti compiuti in passato dai suoi reporter.

La conferma degli storici dell’arte: «Banksy è Robin Gunningham». Storia di ALESSANDRA ARACHI su Il Corriere della Sera sabato 7 ottobre 2023.

Si chiama Robin Gunningham, è un cinquantenne di Bristol e per metà della sua vita sarebbe riuscito a nascondere la sua identità. La voce girava da un po’, lanciata dal quotidiano inglese «Daily Mail» e tornata di attualità in questi giorni, alla vigilia di un processo per diffamazione. Ma che sia proprio lui Banksy adesso lo confermano in due, Gianluca Marziani e Stefano Antonelli, tra i massimi esperti internazionali dello street artist che forse i più conoscono per quella bambina con il palloncino rosso.

Stefano Antonelli«Sappiamo tutto di Banksy e che il suo nome sia quello di Robin Gunningham lo possiamo affermare con sicurezza grazie a fonti più che certe», dicono all’unisono Marziani e Antonelli che hanno appena chiuso una mostra su Banksy da loro curata a Lecce. Ed è proprio a Lecce che sabato hanno svelato l’identità di Banksy in una conferenza organizzata durante l’evento di Semi (Storie di eccellenza, merito, innovazione), il presidio dell’associazione Cultura Italiae.

Gianluca Marziani (LaPresse)Nato a Bristol e cresciuto nei sobborghi della città, Robin-Banksy comincia le sue opere sui muri della sua adolescenza, ma a Bristol si fa conoscere con un grande murales nel 1997 e lo fa per coprire la pubblicità di un ex studio legale. Adesso sappiamo che all’epoca Banksy aveva ventiquattro anni, ma nessuno poteva immaginare che in soli vent’anni le sue opere di strada avrebbero raggiunto valori iperbolici. È il 2019 quando Sotheby’s batte all’asta una sua opera per 11 milioni di euro. È un quadro, si chiama Devolved Parliament e raffigura la Camera dei comuni di Westminster con dentro deputati che sono tutti scimpanzé, in uno stile volutamente austero a far risaltare la sua ironia. Soltanto undici anni prima, nel 2008, un’altra sua opera era stata venduta per un milione e ottocentomila euro.

Una parabola artistica ascendente davvero unica quella di Banksy che con la sua ironia a tratti feroce non ha mai risparmiato i potenti. Il suo è principalmente un lavoro di denuncia sociale e politica, le sue opere sono disseminate sui muri e sui ponti di tutto il mondo. In Italia ce ne sono soltanto tre, due a Napoli e una a Venezia. Famosa la Madonna con la pistola che nel 2010 Banksy dipinse in una notte in un vicolo di Napoli. Non ha invece fatto in tempo a diventare famosa la Madonna con la coca cola, rapidamente cancellata da un artista di strada, chissà se invidioso. A Venezia Banksy ha firmato un bambino con in mano una fiaccola con la scia fucsia.

È evidente: le opere di Banksy sono fuori dalle regole della legge. Ma fino ad ora l’artista di strada più famoso al mondo era riuscito a evitare il confronto con la legge. Ora c’è chi ha voluto trascinarlo in tribunale, ma non per le sue opere, bensì per diffamazione. A citarlo davanti alla giustizia di Londra Andrew Gallegher, un imprenditore musicale negli anni Novanta ex organizzatore di rave. E sarà il momento della verità: Banksy, e il giudice renderà esecutiva la convocazione, dovrà presentarsi in tribunale a viso scoperto.

Banksy ostaggio delle offshore: le opere di denuncia sociale finiscono nei paradisi fiscali. Un trust anonimo in Nuova Zelanda. Con una collezione di tele e graffiti del più famoso artista di strada. A controllarle segretamente è un manager italiano in affari con l’ex dirigenza del Monte dei Paschi. La nuova inchiesta de L’Espresso e del consorzio internazionale Icij sui patrimoni culturali trasferiti in tesorerie private a tassazione zero. Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso il 28 Gennaio 2022.

Una piccola storia di soldi all'estero può raccontare più di tanti grandi discorsi il potere del capitalismo finanziario. Il protagonista, suo malgrado e a sua insaputa, è Banksy, il più famoso artista di strada, autore di celebri e beffarde opere di denuncia sociale, protesta contro la guerra e l'imperialismo, contestazione delle banche e dei padroni dell'economia.

Una ventina di anni fa, quando era ancora sconosciuto al grande pubblico, due gallerie di Londra hanno cominciato a comprare i suoi lavori, a prezzi bassissimi rispetto ai valori attuali.

Da exibart.com il 12 novembre 2021. A Bristol, un addetto alle pulizie ha cancellato per sbaglio un’opera di Banksy: si tratta dello stencil di uno dei suoi iconici topi, con tanto di firma in rosso, che spiccava sulla parete di un centro comunitario abbandonato, già ricoperta da graffiti di ogni tipo. È tutto vero, anche se è un episodio di una serie tv e l’addetto si chiama Cristopher Walken. L’anonimo artista di strada – del quale si sa solo che è originario proprio di Bristol – ha realizzato l’opera e la firma per The Outlaws, serie comic crime della BBC in sei parti, creata e diretta da Stephen Merchant. La serie segue le storie di sette sconosciuti provenienti da diversi ceti sociali, costretti a svolgere insieme dei lavori di pubblica utilità a Bristol, per scontare le proprie sentenze. La loro sorte cambia improvvisamente, quando scoprono una borsa piena di soldi, ignari del fatto che alcune persone non proprio raccomandabili la stanno cercando. Piccolo spoiler: Christopher Walken interpreta Frank, il personaggio che, per completare il suo servizio, nell’ultimo episodio della stagione, ha il compito di ricoprire tutti i graffiti selvaggiamente lasciati sulle pareti di una struttura fatiscente. Dopo aver trovato l’opera di Banksy, Frank chiede al suo agente di sorveglianza se deve ricoprirla. La sorvegliante risponde distrattamente, non vedendo l’opera, che tutti i graffiti devono essere ricoperti. E così Frank esegue l’ordine, proprio come gli è stato detto, dando un colpo di rullo a una fortuna insperata. Al di là della fiction, per avere un’idea del valore di un Banksy, Game Changer, il lavoro esposto all’ospedale di Southampton in pieno lockdown, è stato venduto all’asta da Christie’s Londra, nel marzo 2021, per 23,2 milioni di sterline. «Possiamo confermare che l’opera d’arte alla fine di The Outlaws era un Banksy originale e che Christopher Walken ha dipinto su quell’opera d’arte durante le riprese di questa scena, distruggendola», ha dichiarato un portavoce di The Outlaw al Sun. Ormai raramente le opere di Banksy vengono cancellate, più spesso capita che vengano ricoperte da plexiglass per proteggerle oppure, nei casi peggiori, asportate dai muri per finire in qualche collezione privata o in giro per le centinaia di mostre in giro per il mondo, rigorosamente non autorizzate dallo street artist. Ma in questo caso la cancellazione è stata consensuale: è stato infatti spiegato che la distruzione dell’opera d’arte è stata concordata con lo street artist, che si dice sia un grande fan di Walken: «Le sue uniche condizioni erano che ci avessero davvero dipinto sopra e che sarebbe stato il suo eroe Christopher a tenere il rullo». Inoltre, Banksy è molto legato alla sua città natale e ha ammirato il lavoro di Merchant nel mostrarla come ambientazione della sua serie.

Caterina Soffici per ''la Stampa'' il 20 ottobre 2020. Riecco Banksy e questa volta non si nasconde, ma anzi rivendica su Instragram la sua ultima opera apparsa a Nottingham: una bambina che fa l'hula hoop con una ruota di bicicletta. Era apparso martedì scorso, sul muro di un salone di bellezza, accanto a una bicicletta rotta legata a un lampione. È lui o non è lui? La domanda ha tenuto banco per tre giorni. Nel frattempo, il Comune ci aveva fatto montare davanti uno schermo di protezione: viste le quotazioni milionarie raggiunte dall'artista mascherato, meglio non rischiare. E ieri mattina è arrivata la conferma dall'account di Banksy su Instagram, che ne ha rivendicato la paternità. A pensare male si può pensare che questa firma digitale sia legata alla recente causa persa contro una ditta di biglietti di auguri per il copyright su uno dei suoi graffiti più famosi, The Flower Thrower, un manifestate con il volto coperto da una mandana dipinto mentre lancia un mazzo di fior come se fosse una bomba molotov. Non avendo mai rivelato la sua identità, la sentenza ha stabilito che Banksy non poteva essere identificato come l'autore. Ma forse non c'è troppo da pensare male, e questo è semplicemente un altro messaggio in codice dell'artista originario di Bristol, che ha voluto portare un po' di gioia e ironia a Nottingham, una delle città più colpite dalla seconda ondata di Covid e dove gli studenti universitari sono chiusi nei loro dormitori, in quarantena. Infatti l'opera è su un muro proprio di Lenton, il quartiere degli studenti e la bambina - leggendo tra le righe - trova il modo di divertirsi nonostante tutto e con quel poco che ha, ovvero la ruota di una bicicletta distrutta. Per rimanere nella simbologia, Nottingham è anche la città di Robin Hood, il ribelle che si fa beffe dello sceriffo cattivo, simbolo dell'autorità e del potere, anche molto in stile Banksy. Se l'idea era di portare un po' di sorrisi nel clima pesante della pandemia, Banksy ha centrato l'obiettivo. Da giorni si sono formate code di gente per la foto ricordo e nella stradina è apparso addirittura il baracchino di un venditore di gelati, tal Silvestro Biondi, di chiara origine italiana, che ha deciso di rallegrare a sua volta l'allegra brigata di visitatori. Al cronista della Bbc ha dichiarato: «Io sono di Lenton. È bello avere un Banksy qui, rallegra le persone». Sempre la Bbc ha interpellato il maggior esperto britannico dell'artista, il professor Paul Gough della Arts University Bournemouth, che commenta: «È curioso. Le ultime quattro o cinque opere di Banksy sono tutte collegate al Covid o alle notizie di cronaca. Forse questo è il messaggio: siamo in tempi difficili, cerchiamo di sfruttarli al meglio e di tirare fuori un po' di divertimento da qualcosa che è rotto». Dall'inizio della pandemia, Banksy è stato molto presente nel dibattito pubblico, pro mask e accanto gli «eroi» del servizio sanitario, mandati a combattere in prima linea senza strumenti (questa le retorica nazionale). Ad aprile a Bristol sul volto del famoso murale della ragazza dall'orecchino di perla di Vermeer è apparsa una mascherina. A maggio il misterioso artista ha fatto recapitare all'ospedale di Southampton, dove molti medici e infermieri sono morti per Covid, una sua opera in bianco e nero con un bambino che butta in un cestino della carta straccia i suoi modellini di Spiderman e Batman e fa volare una infermiera con il pugno chiuso in posizione da Superman. E a luglio un uomo mascherato - si suppone lui - aveva riempito un vagone della metropolitana di Londra di topi che starnutiscono e altri con le mascherine. Li hanno cancellati, perché la regola è tolleranza zero per i graffiti sulle carrozze. Forse li avrebbero tenuti, se li avesse coperti da copyright.

Emanuela Minucci per “la Stampa” il 5 ottobre 2020. «Me li guardo sul tablet, sapendo che tenerli appesi sul letto sarebbe troppo rischioso. Loro sono in cassaforte, ma non li considero un investimento visto non ho nessuna intenzione di venderli. Mi emoziona il fatto che sono riuscito a mettere insieme sei opere straordinarie del più sfuggente e politico artista dei nostri tempi. Assente dal mondano, ma presente quando la storia chiama: Banksy». Luca Bravo è un giovane gallerista di Fiorenzuola, ha fatto la gavetta, tante fiere, prima piccole e italiane e oggi internazionali (lavora alla Deodato Arte di Milano). Un anno fa, avendo qualche soldo da parte e ha deciso di spenderli tutti «solo se mi fossi imbattuto nel tratto candido e rivoluzionario dell'artista senza volto». E ci è riuscito. Mettendo insieme opere come No Ball Games del 2009, uno dei topini della pandemia che brandisce il cartello Get out while you Can del 2020, e l'iconico Napalm (2004) con un pagliaccio e Topolino che tengono per mano la bimba fuggita durante i bombardamenti in Vietnam. Serigrafie autenticate da«Pest Control», l'unica agenzia al mondo autorizzata dall'artista a firmare le sue opere. Repliche di unicum che non sono in vendita, dal momento che nascono su muri o all'interno di vagoni ferroviari, oppure quando planano sulla carta si autodistruggono, come nel caso di Girl with balloon venduto da Sotheby' s a un milione e 200 mila euro un attimo prima che si tagliuzzasse da sé. Un bel patrimonio che Luca Bravo ha deciso di offrire, in mostra, ai musei. «Sarebbe un peccato non condividerli». Prima tappa, Helsinky, nel 2021.

Com' è riuscito a comporre una collezione così ricca? Fortuna, intuito, determinazione o cos' altro?

«Determinazione. Oggi non si acquista un Banksy per caso o per fortuna. È quasi impossibile trovare opere in vendita di questo autore, se non partecipando ad aste complicatissime e dal prezzo di aggiudicazione siderale e alquanto aleatorio. La mia, per Banksy, è passione allo stato puro».

Che cosa la colpisce del suo messaggio?

«Satira, provocazione, denuncia sociale. Ammiro la sua voglia di denuncia, il senso di provocazione, la scelta dei luoghi, il tempismo, l'abilità nel diventare invisibile. Tutto ciò mi ha portato a interessarmi al fenomeno Banksy fin dai suoi primi vagiti di genialità».

Lo segue da anni quindi?

«Sì, e appena mettevo qualche soldo da parte il mio sogno non era comprare un'auto o un alloggio, ma un pezzetto del suo sguardo sul mondo. In poco tempo, lavorando nel campo dell'arte, aiutato anche da un pizzico di fortuna, sono riuscito ad acquistare sei opere, ognuna con le sue difficoltà di trattativa e di pagamento. Sì perché per molti Banksy rappresenta guadagno facile. Per me è solo emozione. Ho sempre pensato all'arte come sinonimo di un'azione rivoluzionaria e dirompente. Così l'artista di Bristol è diventato una magnifica ossessione».

Quindi non ha comprato questi quadri per rivenderli.

«Se fosse stato per quello ricevo almeno dieci richieste al giorno, a un prezzo almeno doppio rispetto a quello d'acquisto. E non mi interessa. A inizio estate ero fermamente convinto di fermarmi a cinque opere, considerato il continuo e devastante innalzamento di quotazioni dell'artista. Ma quando il 14 luglio vidi la sua performance nella metropolitana di Londra, dove riempì di topini anti-Covid - che brandivano la mascherina - i vagoni dell'Underground, la mia ansia ricominciò. Feci un viaggio lampo in Inghilterra e, dopo notti passate sul web e decine di telefonate ai collezionisti e ai galleristi d'Oltremanica, conquistai il mia roditore banksiano. La sesta opera Get out while you can, con protagonista il topo rosa ecologista mi stava aspettando».

È vero che parecchi privati le hanno fatto offerte?

«Certo, ma non sono in vendita. Acquistarle è stata un'impresa. Se le vendessi proprio ora, tradirei me stesso. Banksy al momento è un assegno circolare, ma per me vale molto di più. E penso sia necessario condividere questo grande artista prestandolo ai tanti musei che vogliono dedicargli una mostra. Comincerò da Helsinky nell'estate del 2021».

Non le pare anche un artista che gioca con furbizia sul proprio mistero?

«Guardi è l'unico al mondo che ha una personalità più forte della politica stessa. Lui disegna e travolge. Il mese scorso, quando ha finanziato una barca per salvare i rifugiati nel Mediterraneo lo ha fatto con la sua famosa bambina con in mano un salvagente. Il mondo intero è rimasto a bocca aperta, e a settembre le sue quotazioni sono salite del 35% in un solo mese. Questo come lo vogliamo chiamare, se non genio. E un genio non ha prezzo, si tiene stretto».

La versione di Bansky, l’artista “no- global” più globale di sempre. Orlando Trinchi su Il Dubbio il 26 Settembre 2020. «L’arte contemporanea ha, a volte ingiustamente, la reputazione di essere difficile, mentre il mio lavoro non lo è affatto». Critico a un tempo corrosivo e ironico, Banksy riesce a coniugare un’irredenta vocazione alla protesta contro le più disparate storture prodotte dalla globalizzazione e dal consumismo imperante con un’indubbia abilità formale e un’iconica immediatezza. Le oltre cento opere che costituiscono l’essenza della mostra «Banksy A Virtual Protest», visitabile fino all’11 aprile 2021 presso il Chiostro del Bramante di Roma, rappresentano alcuni dei momenti più significativi della sua produzione, contrassegnata da un ampio utilizzo della tecnica dello stencil e da tematiche quali la disuguaglianza economica e sociale, l’ecologia, il rifiuto della guerra e la denuncia delle prevaricazioni del potere. Nato presumibilmente a Bristol all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, occupa un posto di preminenza all’interno della scena underground della capitale del Sud- ovest dell’Inghilterra, in quel fermento che ha convogliato artisti e musicisti – Banksy stesso ha partecipato a diversi progetti discografici concernenti la realizzazione di copertine di vinili e Cd – in direzione di un radicale antagonismo nei riguardi del sistema. Inserito nel 2019 da ArtReview al quattordicesimo posto nella classifica delle cento personalità più influenti al mondo, nessuno, ad esclusione degli amici e dei collaboratori più stretti, ne conosce la vera identità; anonimato che, scaturito da motivazioni di natura pragmatica – come la necessità di sfuggire alla polizia, dovuta alla realizzazione di graffiti illegali, o il bisogno di tutelarsi a fronte del contenuto satirico delle sue opere – si è ammantato nel tempo di ideologica convinzione: «Non ho il minimo interesse – dichiara – a rivelare la mia identità. Ci sono già abbastanza stronzi pieni di sé che cercano di schiaffarvi il loro brutto muso davanti». La sua opera riverbera la potenza iconica dell’immagine messa al servizio del rovesciamento stilistico. Così il giovane manifestante cinese fermo davanti ai carri armati in Piazza Tienanmen, immortalato in un celebre scatto di Jeff Widener, viene munito di un cartello con la scritta “Golf Sale” (Golf Sale, 2003); la piccola vietnamita Kim Phuc, resa dal fotografo Nick Út emblema delle atrocità della guerra, si accompagna per mano ai simboli del consumismo americano Mickey Mouse e Ronald McDonald (Napalm, 2004); in una contestata rivisitazione dell’iconografia sacra della crocifissione, l’immagine di Cristo appare sorretta non da chiodi ma da buste della spesa (Christ With Shopping Bags, 2004); il Jack Russel Terrier che ascolta da un grammofono la voce del padrone, rappresentativo della catena di dischi inglese HMV, qui sorregge con aria minacciosa un bazooka (HMV, 2004). Altra icona molto utilizzata, in chiave disturbante ed eversiva, per mettere in risalto il lato oscuro del potere è quella dello smiley giallo: la vediamo, ad esempio, al posto del volto dell’ufficiale di polizia britannico minuziosamente armato (Smiling Coop, 2003) come a sostituzione delle visiere protettive della trentina di poliziotti militari antisommossa allineati alle due ali di un carro armato (Have A Nice Day, 2003). La satira di Banksy si indirizza con persistenza e senza fare sconti contro l’obsolescenza e la superficialità di cui la società capitalista e consumista è portatrice (in) sana e ubiqua: «Finché il capitalismo resterà in piedi, non potremo far nulla per cambiare il mondo. Nel frattempo dovremmo tutti andare a fare dello shopping per consolarci». Non viene risparmiato neanche il mercato dell’arte. Nell’ottobre 2018, durante un’asta di Sotheby’s a Londra, una versione di una sua famosa serigrafia, Girl With Balloon – apparsa per la prima volta sui muri di Londra nel 2002 – appena battuta per più di un milione di sterline, venne distrutta da un trita documenti nascosto dietro l’opera. Morons (2005) invece, inclusa nella sua prima personale negli Stati Uniti del 2006, «Barely Legal», riprende uno dei momenti cardine della storia dell’arte, quando il 30 marzo 1987 il Vaso con quindici girasoli di Van Gogh venne venduto, in un’asta da Christie’s, al prezzo record di ventidue milioni e mezzo di sterline; nell’opera di Banksy, una folla di collezionisti è assiepata intorno a un banditore alle cui spalle campeggia una tela in una cornice dorata che presenta la scritta: “I can’t believe you morons actually buy this shit” (“non posso credere che voialtri imbecilli stiate davvero comprando questa merda”). Caratteristica manifesta dell’attività di Banksy è quella di essere profondamente incardinata all’epoca in cui vive e delle sue ingiustizie e iniquità ne diventa interprete attiva e vitale. Turf War (2003) riprende il gesto di un anarchico partecipante a un corteo anticapitalista avvenuto nel 2000 nel centro di Londra, che strappò una zolla d’erba e la collocò sulla testa della statua di bronzo di Winston Churchill in Parliament Square (“sorprendente atto di vandalismo creativo”). Nola (2008) è uno dei quindici dipinti dedicati all’inondazione provocata dall’uragano Katrina che si abbatté sulla città di New Orleans il 30 agosto del 2005 devastando la città del jazz e provocando oltre 3mila vittime. Una delle sue immagini più evocative, Love Is In The Air (Flower Thrower, 2003) venne riproposta in un grande murale su un edificio privato lungo la strada principale tra Gerusalemme e Betlemme, mentre nel 2017 a Betlemme, a cinque metri dal muro che divide Israele dai territori palestinesi, lo street artist aprì il suo famoso Hotel. In tempi più recenti, Banksy ha acquistato una nave – ribattezzata Louis Michel in onore di una femminista francese – e finanziato l’attività di soccorso dei migranti nel Mediterraneo «perché le autorità europee ignorano le richieste di aiuto dei non europei». Segno che, se è vero che «un muro è un’arma molto grande», è altrettanto innegabile che certi muri, talvolta, siano soltanto ostacoli da dover abbattere.

Cristina Marconi per ''Il Messaggero'' il 18 settembre 2020. Banksy ha perso il copyright sul suo lavoro più famoso e rischia di vedersi scivolare via dalle mani i diritti su tutte le sue opere: i giudici europei hanno stabilito che il celebre, poetico Lanciatore di fiori, apparso su un muro di Gerusalemme nel 2005, non può essere attribuito con certezza a un artista che si rifiuta di rivelare la sua identità. Non solo. Aprendo nel 2019 un negozio a Croydon, nella periferia di Londra, «probabilmente con l' intenzione meno poetica», per sua stessa ammissione, «con cui sia mai stata fatta un' esposizione di arte», ossia ottenere il riconoscimento del marchio Ue come chiesto nel 2014, ha agito in «cattiva fede», secondo i giudici. La sentenza dell' Ufficio europeo per la proprietà intellettuale, EUIPO, ha dato quindi ragione alla Full Colour Black, azienda che produce cartoline ispirate all' arte di strada e che da due anni contesta il diritto di Banksy di rivendicare un marchio commerciale sul suo nome e sulle sue immagini. Seguendo il consiglio del suo avvocato, Mark Stephen, l' artista di Bristol ha riempito il negozio del sud di Londra di prodotti «creati esplicitamente per rientrare in una certa categoria di marchi commerciali secondo la legge europea», e lo ha chiamato Gross Domestic Product, ossia prodotto interno lordo ma anche, volendo, prodotto nazionale rozzo. Il negozio è servito unicamente per esporre prodotti che poi si potevano comprare solo sul sito e la mossa non è piaciuta ai giudici europei. «Ammettono esplicitamente che l'uso fatto non era un utilizzo genuino di un marchio commerciale per creare o mantenere una quota del mercato vendendo dei beni, ma solo per aggirare la legge», hanno spiegato. Ma il punto centrale, e più saturo di conseguenze per Banksy, è il fatto che l' artista «abbia scelto di rimanere anonimo», rendendo di fatto impossibile «individuarlo al di là di ogni dubbio come il proprietario di quei lavori», e di «dipingere soprattutto graffiti sulle proprietà private di altri senza chiedere il permesso, invece di usare supporti di sua proprietà». Anche per questo «non può essere stabilito al di là di ogni dubbio che l' artista abbia il copyright sui graffiti». Quella dell' EUIPO, che ha sede a Alicante, in Spagna, la richiesta di avere un marchio registrato contrasta in maniera radicale il modo di procedere dell' artista, di cui il Flower Thrower, il lanciatore di fiori, è una delle opere più celebri di Banksy, anche per essere apparsa sulla copertina del suo libro, Wall and Piece.  Lì l' artista, come sottolineato dai giudici, «argomentava positivamente sui benefici della disobbedienza alle leggi sui diritti d' autore e sui marchi commerciali», prometteva che avrebbe reso i suoi lavori accessibili gratuitamente «per divertimento e attivismo» e che non avrebbe mai commercializzato la sua opera. «Il copyright è da sfigati», diceva. Ma ora forse la vede diversamente, visto che la questione non riguarda solo l' Unione europea e di certo non riguarda solo Flower Thrower: tutte le opere dell' artista potrebbero essere sottoposte in teoria allo stesso ragionamento, anche negli Stati Uniti e nel Regno Unito. L' identità di Banksy è uno dei segreti meglio custoditi del mondo e da anni girano ipotesi di cui è impossibile sapere se siano o meno fantasiose. Una di queste è che si tratti di Robert Del Naja dei Massive Attack, la band di Bristol, mentre l' ultima, circolata a inizio settembre su Twitter e smentita dal diretto interessato, è che sia Neil Buchanan, un altro musicista noto per aver presentato il programma Art Attack. Secondo il Mail on Sunday si tratta di Robin Gunningham, scuole private e famiglia ben poco radicale. Ultimamente Banksy è tornato alla ribalta delle cronache per aver finanziato una nave di salvataggio per i migranti e per aver fatto dei graffiti all' interno della metro di Londra sul coronavirus.

Andrea Concas per “il Messaggero” il 7 settembre 2020. Se fino a pochi anni fa la domanda da porsi era chi è Banksy, oggi quella più giusta è: ma chi non conosce Banksy? Nel quartiere poco raccomandabile di Barton Hill, a East Bristol, in Inghilterra, un ragazzino di 16 anni nel 1974 si muove di notte per iniziare a darsi da fare nel mondo della Street Art. Adrenalina al massimo, impara subito a sfuggire ai poliziotti riuscendo a mantenere, ancora oggi, l' assoluto anonimato dietro lo pseudonimo di Banksy. Che vuol dire? Per firmare i suoi graffiti, inizialmente utilizza la tag Robin Banx, probabile rielaborazione della frase inglese robbing banks, segno che poi ha abbandonato forse perché suonava come «rapinare banche». Ben presto però passa alla tag Banksy, che diventa in breve tempo la sua firma. Le sue tele sono i muri, i cavalcavia, i sotterranei, ma quello che conta per lui è la velocità di esecuzione, per questo a 18 anni, dopo aver trascorso un' intera notte nascosto sotto un camion, in attesa che la polizia ferroviaria andasse via, trovò la soluzione negli stencil. Le maschere in cartoncino con forme ritagliate, preparate in studio e nascoste sotto i giubbotti, si dimostreranno straordinariamente efficienti. Entra in contatto con gli artisti più noti di quel periodo come 3D, alias Robert Del Naja del gruppo musicale Massive Attack, e Inkie, alias Tom Bingle. Il suo stile è già allora inconfondibile e la sua fama cresce, tanto che nel 1998, a Bristol, organizza il trionfale festival Walls on Fire dove, per due giorni la città viene letteralmente invasa da writer per un evento memorabile. La sua vita artistica e la sua fama negli anni cresce in modo esponenziale, insieme alle sfide all' autorità e alle istituzioni come i musei dove organizza alcune incredibili incursioni. La prima nel 2003 alla Tate Britain di Londra, accuratamente travestito, beffa i vigilanti del museo e appende una sua opera a fianco dei capolavori esposti, facendo filmare il tutto da un suo complice. L' opera rimane esposta per ben tre ore al museo prima che qualcuno se ne accorga, mentre il filmato diventa virale: la sua prima incursione passa alla storia. Evidentemente mai pago, negli anni Banksy colpisce ancora: British Museum, poi Louvre di Parigi e negli Stati Uniti al MoMa - Museum of Modern Art -, al Metropolitan Museum of Art, al Brooklyn Museum e, infine, nell' American Museum of Natural History. L' attenzione del grande pubblico e dei media è ormai alle stelle, tutti vogliono conoscere l' identità di Banksy ipotizzando, inutilmente, quali saranno le sue nuove incursioni. Il mistero aumenta mentre lui continua ad agire, come nel 2005 in Cisgiordania dove, con il rischio reale di essere sparato, decide di realizzare, in soli 25 minuti, nove graffiti sul muro in cemento di separazione tra Israele e Palestina. L' arte di Banksy diventa una bandiera di protesta. Nel 2006 a Los Angeles, in occasione della sua mostra Barely Legal, decide di esporre un elefante vivo dipinto con vernice ad acqua, recuperando il detto inglese c' è un elefante nella stanza. La sua attenzione è rivolta al tema della povertà nel mondo che riguarda due miliardi di persone mentre un miliardo e 700 non hanno accesso all'acqua. Nel frattempo non mancano le guerre con altri artisti della street art, come quella con King Robbo, conclusasi nel 2010 con la tragica morte di Robbo che Banksy commemora con un suo graffito. Il mito di Banksy cresce sino ad ottenere una nomination agli Oscar con il docu-film Exit Through The Gift Shop; non vince, ma al botteghino incassa oltre 5 milioni di dollari. Negli anni le quotazioni delle sue opere crescono vertiginosamente, ma Banksy non ci sta, vede il mercato dell' arte come una mercificazione, con i suoi multipli, venduti a poche decine o centinaia di sterline fuori dalle sue mostre oppure online, rivenduti a prezzi centuplicati. Decide che la sua arte deve essere acquisita, da tutti, a prezzi accessibili tanto che lo scorso anno apre il suo store online The Gross Domestic Product, che in poche ore riceve prenotazioni per oltre 200.000 ordini. Il collezionismo di Banksy oggi resta un affare per pochi, gli originali partono da qualche decina di migliaia di sterline per le Limited Editions Prints, fino ad arrivare agli oltre 11 milioni di euro, come avvenuto, nel 2019, per la vendita del dipinto Devolved Parliament da Sotheby' s a Londra. La corsa all' oro Banksy è irrefrenabile, tanto che arrivano persino a rubare le sue opere realizzate per strada, anche per questo ha fondato la Pest Control, una società che tutela i suoi interessi e protegge dai falsi. E la guerra non è ancora finita. Le sue apparizioni nel mondo continuano, le ultimissime cavalcano l' attualità dei temi come il graffito della laguna di Venezia o la nave di salvataggio Louise Michel per gli immigrati nel Mediterraneo. Chi sia realmente Banksy nessuno ancora lo sa, ma resta più importante come la sua arte rappresenta la nostra società. Un' occasione importante per conoscere meglio lo street artist sarà la mostra, non ufficiale come sempre, Banksy - A visual protest al Chiostro del Bramante a Roma, dall' 8 settembre 2020 all' 11 aprile 2021. Prendete nota. Merita.

Da repubblica.it il 28 giugno 2020. Sei persone, sospettate di aver rubato nel 2019 al Bataclan - teatro della strage terroristica del 13 novembre 2015 a Parigi - un'opera attribuita all'artista Bansky, ritrovata di recente in Abruzzo, sono state arrestate oggi in Francia con l'accusa di averle rubate. I sei, da quanto si apprende da fonti giudiziarie e di polizia, sono in detenzione provvisoria. Gli accusati sono stati fermati questa settimana nell'Isère e nell'Alta Savoia, a sud-est della Francia, poco lontano dal confine con l'Italia. Le accuse nei loro confronti sono furto, associazione per delinquere e ricettazione. La dinamica del furto era stata studiata nei dettagli dai ladri: alcuni uomini incappucciati avrebbero usato delle smerigliatrici angolari per tagliare l'opera dalla porta di emergenza, che poi avrebbero portato via su un camion.

Paolo G.Brera per ''la Repubblica'' il 12 giugno 2020. Chissà quali intricate geometrie del crimine hanno portato la Donna in lutto di Banksy, strappata il 25 gennaio del 2019 da una porta di sicurezza del Bataclan, in un casale squinternato nelle campagne abruzzesi, abitato da una ignara coppia cinese. Il genio anonimo della Street Art l' aveva regalata al teatro parigino perché piangesse per sempre le 90 vittime di quella notte d' orrore, il 13 novembre 2015. Invece è finita chissà come nelle mani del gestore abruzzese di un albergo, un pittore dilettante, che l' aveva nascosta tra le vecchie carabattole nella soffitta di un casale di campagna «di cui aveva disponibilità » benché non fosse suo. A gennaio dello scorso anno, quando qualcuno la rubò staccandola dalla porta antincendio del Passage Saint Pierre Amelot, sul retro del Bataclan, i gestori allargarono le braccia attoniti: era «un simbolo di raccoglimento che apparteneva a tutti: residenti, parigini, cittadini del mondo ». Ora apparteneva a un paio di persone con i passamontagna: le telecamere li ripresero con le smerigliatrici per scardinare la porta, e col furgone con cui fuggire. Più nulla, poi. Ma l' indagine, in Francia, andava avanti in silenzio temendo che non fosse il valore economico - le quotazioni di un Banksy sono sempre alle stelle - il vero bottino dei ladri. Temevano il terrorismo islamista, niente sangue ma un nuovo colpo basso alla Francia e all' Occidente attraverso un simbolo del dolore e della costernazione. E invece no. Secondo la procura dell' Aquila, che ha raccolto la segnalazione all' Interpol della gendarmerie su una pista italiana, da questa parte delle Alpi c' è solo voglia losca di far quattrini. Il filo d' Arianna portava a un sospetto di Tortoreto. Quando i carabinieri del Nucleo di tutela del patrimonio artistico hanno deciso di agire, a casa sua non hanno trovato nulla. Messo alle strette, però, ha ammesso: «Ce l' ho io, è nel casale di Sant' Omero», tra le intricate colline teramane. Così si va su curva su curva, ed ecco il vecchio rudere fatiscente. Ci vive da anni una famiglia di cinesi che di quell' opera e del suo ipotetico valore nulla sapeva. Ma c' è una storia nella storia, che è un bel modo per restituire luce alla Donna in lutto , al suo e al nostro dolore per la notte di sangue che, in tutta Parigi, fece 130 morti: insieme ai carabinieri, a seguirne le tracce fino al vecchio casale c' era un gendarme parigino che cinque anni fa, mentre i kalashnikov sterminavano i giovani entrati al Bataclan per il concerto degli Eagles of Death Metal , si faceva strada tra i cadaveri per acciuffare i killer. Chi l' ha strappata da quella porta antincendio, le ha disegnato sopra una cornice con lo scotch appiccicandoci un lenzuolo con spruzzi di vernice, per simulare una porcheria d' arte astratta che non insospettisse un controllo. In Italia è arrivata così: un lembo rosso del lenzuolo è ancora ai suoi piedi, il resto i carabinieri l' hanno trovato in soffitta. Lei, la Donna in lutto , sta bene: manca la maniglia, ma «è nata per stare all' aperto, è abbastanza resistente ed era in condizioni perfette», dicono i carabinieri. Ora tornerà a Parigi, mentre le indagini inseguono chi la rapì dal Bataclan. L' albergatore senza precedenti è indagato per ricettazione, ma gli inquirenti non escludono ci siano mani esperte dietro una partita così difficile: vendere un' opera famosa e dolente non è semplice.

Un artista chiamato Bansky a Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Tra i più grandi artisti globali del nuovo millennio. Carlo Franza il 5 giugno 2020 su Il Giornale. Palazzo dei Diamanti a Ferrara  presenta la mostra Un artista chiamato Banksy, visitabile fino al 27 settembre 2020,  a cura di Stefano Antonelli, Gianluca Marziani e Acoris Andipa, ideata e prodotta da MetaMorfosi Associazione Culturale, in collaborazione con Ferrara Arte. Originario di Bristol, nato intorno al 1974, inquadrato nei confini generici della street art, Banksy rappresenta il più grande artista globale del nuovo millennio, esemplare caso di popolarità per un autore vivente dai tempi di Andy Warhol.  A parlare, al posto dell’artista inglese che nessuno ha mai visto e di cui nessuno conosce il volto, sono le sue opere. Opere di inaudita potenza etica, evocativa e tematica. Banksy rappresenta la miglior evoluzione della Pop Art originaria, l’unico che ha connesso le radici del pop, la cultura hip hop, il graffitismo anni Ottanta e i nuovi approcci del tempo digitale.  Quello che arriva a Palazzo dei Diamanti è un imponente evento che riunisce oltre 100 opere e oggetti originali dell’artista britannico, in un percorso espositivo che dà conto della sua intera produzione: vent’anni di attività che iniziano con i dipinti della primissima fase della sua carriera, fino agli esiti dello scorso anno con le opere provenienti da Dismaland, come la scultura Mickey Snake con Topolino inghiottito da un pitone. Ci sono poi gli stencil e, ovviamente, le serigrafie che Banksy considera vitali per diffondere i suoi messaggi. Un quadro raccontato esaurientemente in mostra da ricche schede testuali in grado di ricostruire storie, aneddoti, provenienze e relazioni, in un percorso di approfondimento ideato affinché il pubblico possa scoprire l’artista nelle sue molteplici angolazioni. Per Pietro Folena, presidente di MetaMorfosi, «produrre, aprire e visitare questa mostra dedicata all’approfondimento e alla conoscenza dell’opera dell’artista più controcorrente su scala globale, nei primi giorni della fase 2 è un atto di amore, di coraggio e di speranza nei confronti del valore dell’arte e della cultura, dopo mesi di dolore e di difficoltà». Tra il 2002 e il 2009 Banksy pubblica 46 edizioni stampate che vende tramite la sua casa editrice Pictures on Walls di Londra. Si tratta di serigrafie che riproducono alcune tra le sue più famose immagini, molte delle quali sono state usate nei suoi interventi all’aperto, che sono diventate “affreschi popolari”. Oltre trenta serigrafie originali che sono state selezionate dai curatori per la mostra     ferrarese. Tra queste le ormai iconiche Girl with Balloon, serigrafia su carta del 2004-05 votata nel 2017 in un sondaggio promosso da Samsung, come l’opera più amata dai britannici, e Love is in the Air, una serigrafia su carta che riproduce su fondo rosso lo stencil apparso per la prima volta nel 2003 a Gerusalemme sul muro costruito per separare israeliani e palestinesi nell’area della West Bank, che raffigura un giovane che lancia un mazzo di fiori, messaggio potente a un passo dai lanciatori di pietre del palcoscenico più caldo del Mediterraneo. Presente, con tutti i suoi rimandi all’iconografia rinascimentale reinterpretata e rielaborata secondo la tecnica del “détournement” che ne mette in crisi il significato classico, la Virgin Mary, conosciuta anche come Toxic Mary, una serigrafia su carta del 2003 che secondo alcuni rappresenta una dura critica di Banksy al ruolo della religione nella storia. “Banksy mette in discussione concetti come l’unicità, l’originalità, l’autorialità e soprattutto la verità dell’opera” spiegano due dei curatori, “tratteggiando una nuova visione sulla relazione tra opera e mercato, istituendo, di fatto, un nuovo statuto dell’opera d’arte, una nuova verità dell’arte stessa, ovvero l’opera originale non commerciabile”. Banksy preferisce da sempre la diffusione orizzontale di immagini rispetto alla creazione di oggetti unici. Una lezione mutuata da Andy Warhol, con il suo approccio seriale e l’uso sistematico della serigrafia. Fondamentali nel percorso espositivo i dipinti realizzati con spray o acrilici su diversi tipi di supporto che raramente si possono incontrare nelle esposizioni dedicate all’artista inglese. Tra questi uno dei suoi primissimi lavori, Lab Rat, realizzato in spray e acrilici su compensato nel 2000, è una delle tante opere “riscoperte” di Banksy: originariamente pannello laterale di un palco allestito presso il festival di Glastonbury, venne dipinto sul posto; il pannello è rimasto poi per anni in un magazzino e alla sua riscoperta nel 2014 è stato autenticato dall’artista. In mostra anche il CCTV Britannia, spray su acciaio forato del 2009, che trasforma la lancia della figura femminile che personifica la nazione inglese in un supporto per una telecamera a circuito chiuso, messaggio non troppo nascosto contro il controllo esercitato sugli spazi pubblici, luoghi prediletti da Banksy per il suo agire. «Banksy supera la stessa arte che finora abbiamo conosciuto. Ne riformula regole, usi e costumi, ricreando una filiera che elimina gli imbuti produttivi del modello tradizionale» spiega Gianluca Marziani «Banksy usa strumenti e materiali che tutti conosciamo, senza perdere aderenza con oggetti fisici e tangibili, con forme semplici e quasi banali, con un mondo lo-fi privo di utopie fantasy. Lo capiscono tutti in quanto usa la grammatica degli oggetti e la sintassi delle storie condivise. Si alimenta di cronaca e realtà, ribaltando storie che toccano l’umanità intera». Quello di Banksy è un immaginario semplice ma non elementare, con messaggi che esaminano i temi del capitalismo, della guerra, del controllo sociale e della libertà in senso esteso e dentro i paradossi del nostro tempo. Per la prima volta una mostra esamina le immagini di Banksy all’interno di un quadro semantico che ne veicoli origini, riferimenti, relazioni tra gli elementi e piani di pertinenza. Completano la mostra diversi poster da collezione, le banconote Banksy of England, alcune t-shirt rarissime e i progetti di copertine di vinili. “Rifiutando di essere rappresentato da una galleria, Banksy continua a infrangere le regole, e in questo modo smaschera il mercato stesso dell’arte” afferma Acoris Andipa. “È un peccato che non importi cosa produca l’artista, quanto siano impegnate le opere o il lavoro pubblico che affronta i temi delle inadeguatezze sociali: ciò che interessa la maggioranza delle persone è il suo valore economico”. Carlo Franza

In 26 contro Langone, il nuovo regime dei finti democratici. Emanuele Beluffi su culturaidentita.it il 28 Aprile 2023

A Sgarbi non gli hanno voluto stringere la mano, a Langone vogliono togliere il Premio. Il 25 aprile in piazza San Lorenzo il presidente dell’Anpi non aveva voluto stringere la mano al sottosegretario e assessore al Comune di Viterbo, oggi sempre l’Anpi più altre 25 (totale 26, in lettere ventisei, manco ci fosse da difendere la Polonia invasa dai carrarmati) associazioni di Forlì vogliono eliminare il Premio Verzocchi perché lo cura Camillo Langone.

Un passo indietro: Giuseppe Verzocchi era un imprenditore illuminato, amante dell’arte al punto che nell’immediato dopoguerra affidò a una serie di pittori (De Chirico, Guttuso, Casorati, Carrà, Vedova, mica i pittori della domenica) la realizzazione di un’opera (pagata) 70×100 cm che iniziasse ad entrare a far parte di quella che poi sarebbe diventata la Collezione Verzocchi, o Galleria Verzocchi, collezione di pittura contemporanea incentrata sul tema del lavoro. La portarono alla Biennale di Venezia del 1950 e nel 1961 Verzocchi la donò al comune di Forlì. Oggi si trova a Palazzo Romagnoli, vicino ai Musei di San Domenico e il Premio non è nulla di più e nulla di meno dei tanti Premi che nell’arte contemporanea vengono allestiti per valorizzare e promuovere, anche finanziariamente, il lavoro dei giovani artisti.

Oggi a curare il Premio Verzocchi c’è Camillo Langone e questo non è piaciuto né al consiglio comunale di Forlì (due consiglieri del gruppo Forlì e Co hanno deciso di presentare un’interpellanza urgente) né alla galassia fracassona dell’Anpi e associazioni varie, che niente niente sabato hanno deciso di scendere in piazza per chiedere la sospensione del Premio Verzocchi perché c’è Camillo Langone.

Oltre a svariate configurazioni di associazioni di partigiani, Anpi di qua e Anpi di là, troviamo Forum delle donne, Parità di Genere, Associazione Barcobaleno, Forlì Città Aperta e via dicendo, fra atei, lgbt, antifa e blah blah blah (per i curiosi, queste le sigle: Anpi Comunale Forlì; Anpi Forlì-Cesena; Arc Comitato Forlì; Associazione Barcobaleno – Aps Forlimpopoli; Associazione Luciano Lama; Auser, Forlì; Cgil Forlì; Consulta Laica Forlivese; Fondazione Lewin, Forlì; Forlì Città Aperta; Forum delle donne; Il progresso delle idee; Italia Nostra Sezione di Forlì; La materia dei sogni, Forlì; Libera Forlì-Cesena; Monnalisa; Naima Foundation; Parità di Genere; Rea Collettivo di genere; Scuola Viva; Tavolo Permanente delle Associazioni Contro la violenza alle donne; UAAR Forlì-Cesena; Udu, Forlì; Un secco no Apì; Unione Donne in Italia di Forlì; Vocedonna).

Ma perché tanto rumore? Per cosa scendono in piazza? Cosa gli ha fatto di male Langone?

Lo accusano di avere “posizioni misogine e anti-scientifiche, espresse in articoli negli ultimi anni”. Eh sì: come gli scalzacani in piazza il 25 aprile, che quando gli chiedi perché manifestano guardano sull’internet e poi farfugliano quattro cose imparaticce sbagliandole pure. Così la minoranza rumorosa girotondina sabato farà cagnara contro Langone e contro il Premio senza sapere perché, come gli antifa che berciano in assenza di fascismo, senza sapere nulla né del Premio né di Langone. Lo hanno detto loro stessi senza accorgersene: hanno notato i suoi articoli, adesso, dopo 30 anni che scrive.

Come sono noiosi. Biascicano di libertà ma sono i primi a negare il pluralismo: perché è proprio nel mondo della creatività, che ci vuole una curatela creativa. E Langone scrive divinamente. E conosce bene l’arte, soprattutto la pittura.

E’ normale che un curatore ci metta del suo, nel progetto che cura: e la Collezione Verzocchi, con quel suo splendore di pittura figurativa, sembra proprio il Premio “curabile” (anche) da uno con il curriculum di Langone, artisticamente più inclusivo di quelli che frignano per la mancanza di inclusione.

Perché questo è il vero pluralismo, non quello rilasciato come una patente dal comitato permanente degli indignati speciali, che fra lgbt, laicismo e pensiero corretto (da loro) hanno rotto le balle.

Non sarebbe interessante conoscere un punto di vista alternativo alla vulgata maxima che continuiamo a vedere nei vari MiArt e Fiera di Bologna? Non sarebbe interessante scoprire quei talenti inespressi della pittura italiana che sono coperti dalla cappa del rito artistico progressista e accettato della setta con l’asterisco? No, i piangina dell’intolleranza bru bru vogliono un’arte noiosa, una critica noiosa, mostre noiose come loro. Si dicono democratici, berciano di libertà, ma vogliono nulla di più e nulla di meno che un’arte di regime.

Camillo Langone: galera per chi imbratta i monumenti. Emanuele Beluffi su culturaidentita.it il 18 Aprile 2023

Ieri leggendo l’intervista che il nostro Fabio Dragoni ha fatto a Camillo Langone su La Verità ho ritrovato tanto di quello scrittore che, prima ancora che critico d’arte, è stato, unico fra tutti, il “critico liturgico” per eccellenza: lui recensiva le chiese e le messe, poi certo anche la “diva bottiglia” e la pittura ma, prima che il suo verbo critico fosse, l’architettura sacra verticale, lontana da Dio e umana troppo umana, cadeva sotto le stilettate della sua penna (mi piace pensarlo ancora uso alla cara vecchia carta).

Lo intervistai 14 anni fa nella sua Parma per l’uscita del primo numero – cartaceo, appunto – della rivista di critica d’arte che inventai in combutta con un artista serbo (che, democratico come tutti i serbi, mi impose di chiamarla “Kritika”, quindi alla serba, con quelle due “k” che non ammettevano repliche).

E nell’intervista di ieri di Fabio Dragoni c’era tutto il Langone che conosciamo e anche di più: l’idiosincrasia per gli anglismi del linguaggio chic che piace alla gente che piace (meglio il latino, “una lingua superiore. Scolpita e razionale. Inoltre, ci risparmia le traduzioni ambigue”), la sconfessione della sciocca accusa di attitudini reazionarie e medievali da parte dei suddetti piangina progressisiti (“Non sono reazionario. E purtroppo nemmeno medievale. Sono molto più contemporaneo di tanti miei detrattori ancora fermi agli anni 70. Sono conservatore, certo: perché cerco di conservare me stesso e le cose belle che amo”), la mistica cristiana della carne (“Sono un super carnivoro e teorizzo che l’uomo debba mangiare carne”).

E, oggi, la rivendicazione della giusta punizione per gli imbratta monumenti che vanno tanto di moda, gli eco teppisti di Ultima Generazione che andrebbero semplicemente mandati in galera (“Chi danneggia in modo premeditato il patrimonio pubblico deve andare a riflettere in carcere. Così come chi blocca le strade impedendo alle persone di andare a lavorare. È un sequestro e il posto dei sequestratori è la galera”).

E ci ha svegliati sventolandoci sotto il naso il libro vero del comunismo, che altro che morto è anzi vivo in mezzo a noi: “Maurizio Ferraris, filosofo di sinistra non certo noto al grande pubblico che conosce solo i filosofi televisivi ossia Cacciari, sostiene che il comunismo non è mai stato così vicino al trionfo come oggi. Anche Zizek, filosofo sloveno, sostiene che dalla pandemia è fiorito un nuovo comunismo. Sembra anche a me”.

Ci dobbiamo salvare dal comunismo e dal luogocomunismo delle minoranze e dei loro diritti imposti: noi, dobbiamo salvarci, non il pianeta, come vorrebbero imporci i volenterosi artefici del pensiero debolissimo alla Greta Thunberg. Il pianeta Terra continuerà a esistere benissimo dopo di noi, siamo noi che ci stiamo estinguendo e pure male: “L’utero in affitto è pratica satanica”.

Camillo attualissimo nelle sue considerazioni inattuali: per dirla con il grande Carmelo Bene, “Un Amleto di meno” e un Langone di più. 

MISTERI DIETRO LA MORTE DI CARAVAGGIO

Gaia Vetrano l'11 Marzo 2023 su nxwss.com

La scorsa settimana vi abbiamo narrato una storia di passione e ossessione, legata indissolubilmente al mito della Medusa. Una delle rappresentazioni più celebri di questa la ritroviamo nella produzione di Michelangelo Merisi, più noto come Caravaggio.

Il pittore inquieto, la cui storia è immersa nel mistero come i suoi quadri sono avvolti dalla luce e dalle ombre, in un eterno abbraccio. Alla vita di Caravaggio si stringe in una morsa oppressiva l’enigma. Quale miglior personaggio di cui raccontarne la storia?

Uno degli artisti più apprezzati al mondo, non c’è mostra che non attiri appassionati di arte. Non c’è studioso che non conosca i suoi quadri. Forse perché è riuscito a scavare nell’anima di colui che ammira i suoi dipinti riuscendo a rappresentare le più profonde emozioni della natura umana? O forse perché l’uomo è sempre stato ammaliato e affascinato dalle esistenze tormentate e dai racconti avventurosi?

Una figura dal carattere complesso e tormentato. Una vita da romanzo, segnata da eccessi, fughe, un delitto (o forse due), e anche dall’impronta personale che diede all’arte, oltre che al suo spaventoso contributo.

Giunti a parlare di quella creatura prodigiosa che è la Medusa, sotto cui posa l’agonia della morte. Su di essa si scolpisce la sua ombra, che si poggia leggiadra sulle sue vittime. Una storia che Caravaggio padroneggia e racconta come dono per Ferdinando I De’ Medici. 

Si tratta di un’opera cruda, un olio su tela incollato su uno scudo, dove Merisi immortala la sofferenza della punizione inflitta. Un realismo innovativo, che rappresenta il sangue che sgorga dalla carotide. La sublimazione più alta dell’ultimo istante di vita di una creatura condannata dal momento stesso in cui è venuta al mondo.

La creatura trasmette la paura e lo sgomento tramite l’espressione. La bocca spalancata, come se fosse stata colta durante l’ultimo grido. Gli occhi sgranati, sulle pupille impresso il riflesso della vita che le è stata tolta.

Medusa sta urlando, ma noi non la possiamo sentire. Eppure, il rimbombo della sua voce echeggia nei nostri timpani quando osserviamo l’opera, grazie alla bravura di un uomo anch’esso tormentato. Alla costante ricerca della perfezione, come dimostra il ciclo di Davide con la testa di Golia.

Quando guardiamo la luce, pensiamo a qualcosa di puro, di candido. La luce è il bene, la giustizia. Tutto ciò che di positivo c’è nella nostra cultura. All’oscurità associamo ciò che ci inquieta di più. L’ignoto, fiancheggiato dalla poesia delle lucciole e dal fuoco divampante delle stelle.

Nelle sue tele, il genio non è tanto nell’uso della luce, quanto la costante consapevolezza dell’oscurità circostante. Caravaggio, in anni di morte dovuti a pestilenze e povertà, ha reso la sua arte cattura del momento decisivo, fissata nell’eternità in un solo istante.

Estrema verità o falsità, congelate in un gesto con la mano, il pennello e i colori. Ma ciò che più stupisce del Caravaggio è anche il suo carattere. Oscuro, focoso. Capace di ardere ciò che lo circonda. 

Come scrisse di lui Giovan Pietro Bellori:

Il modo del Caravaggio corrispondeva all’apparenza sua ovvero fisionomia; gli aveva complessione oscura ed occhi oscuri, il ciglio e la chioma erano neri, si che tale colore specchiavasi nella sua pittura

Ciò che Michelangelo Merisi vede in sogno, quando chiude gli occhi, è la sua terra d’origine, la Lombardia, e gli anni a bottega. Ma soprattutto una donna, che rappresenta l’ideale di bellezza eterno e immutabile nella fugacità effimera del quotidiano. Questa ha il volto coperto, e giace sdraiata con, nella fissità delle labbra dischiuse e sensuali, il riflesso del sonno eterno.

Nella notte Michelangelo è oppresso dalla morte, che lo segue e lo ossessiona. Questa lo fissa e lo attende, come la Ophelia di Millais aspetta l’ultimo istante prima del soffocamento. Lei lo guarda, circondata dalle margherite che simboleggiano l’innocenza, dai papaveri che rappresentano il sonno mortale, e dall’ortica, simbolo del dolore.

Ma la vita del Merisi non può essere immortalata dall’ingenuità.

Caravaggio aspetta la condanna eterna, consapevole della sua vita sconsiderata. Quella di un artista che in primo luogo violò le regole in fatto d’arte che la Controriforma aveva imposto. Di carattere iroso e ribelle, propenso al gioco e alle risse. Nelle dispute sempre disposto a uscire le spade per difendere il proprio onore, tanto da arrivare a uccidere un uomo.

Così, quando deve rappresentare la morte nei suoi quadri, molto spesso si ritrae nei personaggi cui le vanno incontro, come succede con David con la testa di Golia. Nella Genesi biblica quest’ultimo è un guerriero filisteo alto tre metri, che decide di scontrarsi contro Davide, campione dell’esercito di Israele del re Saul. La vittoria del duello avrebbe deciso le sorti dell’intera guerra. 

Il piccolo israeliano non ha esperienza. È giovane e di bell’aspetto ma non è ancora pronto per combattere. Eppure è l’unico che ha il coraggio di chiedersi perché quel gigante abbia il coraggio di sfidare il popolo eletto di Dio. Proprio per questo ardore Saul accetta che sia lui a rappresentare il suo popolo.

David è solo una pedina nelle mani della fede. Riesce a vincere usando una fionda, con cui scaglia contro l’avversario ben cinque pietre. Golia cade a terra e Davide allora gli sfila la spada dal fianco e gli taglia la testa, uccidendolo.

Caravaggio rimane impressionato da questa storia, tanto da autoritrarsi, secondo molti studiosi, nel volto di Golia. Non solo, ma anche nei panni del vincitore del duello. Una doppia autoidentificazione: il Merisi crea un’immagine idealizzata del pittore adolescente, che sconfigge ormai l’anziano Michelangelo, peccatore incallito.

Il suo è l’ultimo tentativo di espiare le proprie colpe e i propri peccati. Il giovane eroe biblico sbuca dall’oscurità con la testa del gigante filisteo, che esibisce come un macabro trofeo. 

Il realismo della rappresentazione indugia impietoso sul viso, sullo sguardo spento, sulla dentatura irregolare, sulla bocca spalancata fissa nell’esalazione dell’ultimo respiro, sul labbro inferiore tumefatto, che conferisce un’aria pateticamente caricaturale al viso.

Siamo dunque di fronte a un Caravaggio contrito, che si ritrae nelle vesti del gigante decapitato perché afflitto dai sensi di colpa? Il dipinto rientra pertanto nel filone morale della Virtù che trionfa sul Vizio?

Appare quindi la contrapposizione Adolescenza/Innocenza – Maturità /Vizio, e il Caravaggio si sarebbe idealmente affidato a una giustizia più alta di quella umana, trasferendo sulla tela l’eterna contraddizione esistenziale dell’uomo. In sé racchiude il bene ed il male, trasformandosi di volta in volta in vittima e carnefice.

Quando Caravaggio si trova sulla sua feluca, diritta verso Porto Ercole da Roma, è forse a questo che lui pensa? Alla sua condanna a morte che sancirebbe la vittoria del David? 

L’imbarcazione, mentre attraversa il mare, traballa. Il pittore è preoccupato. È luglio, e con sé porta tre tavole, che rischiano di rimanere danneggiate dal trasporto, dall’umidità e dal possibile contatto con l’acqua. La sua pittura è l’ultima cosa che gli è rimasta in quegli anni di latitanza.

Un solo errore, che però aveva segnato la sua vita. Ora, però, potrebbe finire. Eppure, Caravaggio non rimetterà mai più piede nella Città Eterna, come invece tanto sperava.

La sua arte è ancora una volta il costo della libertà. Immaginate di vedere quindi un veliero che, con la prua, si dirige verso le coste. Ha delle tele arrotolate, forse qualche soldato a bordo. Arrivato a Palo di Ladispoli viene fatto scendere a terra, privo dei suoi bagagli.

Vestito da mendicante, con la barba lunga e incolta. Il viso pieno di rughe e la camminata appesantita. Porta con sé una spada dalla quale non si separa mai. Sceso a terra viene fermato da dei cavalieri che lo sottopongono a dei controlli, mentre la sua barca riparte verso Napoli. Le sue tele non le rivedrà mai più.

Sembra l’inizio di un giallo, ma è soltanto l’ultimo atto di un uomo dove i termini genio e sregolatezza si abbinano perfettamente per descrivere la sua parabola pittorica ed esistenziale. 

Nonostante Caravaggio ripeta che il Papa gli avesse concesso il perdono, le guardie lo arrestano a causa della condanna a morte che pende sulla sua testa. La sua vita è un incredibile sequela di fatti e punti oscuri e con difficoltà raccontiamo questi mesi di prigionia. Possiamo solo dire, che un’unica presenza è costante in questo periodo.

D’altro canto, cosa fare quando ti viene privata l’unica tua ragione di vita, ossia l’arte? Che smuoveva il suo animo come il mare in tempesta che spostava la feluca che lo avrebbe dovuto portare presso la salvezza.

Quei quadri sono il suo lasciapassare. La sua unica ancora di speranza. Quando verrà rilasciato, non si sa come, se a piedi o via mare, riesce a raggiungere Porto Ercole. Ma è troppo tardi.

I suoi lavori non ci sono. Lui è soltanto lo scheletro dell’uomo impetuoso che era. Agli albori dei quarant’anni, decretato grande dalla Città Eterna, soccombe sotto il peso della sua vita sregolata. Ormai, la vista si annebbia. La fronte scotta, gli occhi bruciano e fanno fatica a rimanere aperti. 

I dorsi delle mani sudano, e non hanno più quella stretta tenace, con la quale impugnava i suoi pennelli. A mala pena si regge in piedi, perché gli arti e la schiena lamentano dolori laceranti alle articolazioni. La bocca disidratata e un dolore lancinante alla testa che gli vieta di dormire e persino di pensare.

E poi la nausea e il vomito, fino al mal di gola. Caravaggio prova in ogni modo ad aggrapparsi alla vita con ogni forza che ha in corpo, ma l’ossigeno sfugge dai suoi polmoni in un soffio, senza che riesca a porre resistenza. Così, l’acido carbonico si accumula nel sangue, provocando la morte dell’uomo, che si spegne nel soleggiato luglio.

Eppure, come per la vita, anche la morte di Michelangelo Merisi possiede punti di luce e di ombra. Così, miei cari, vi introduciamo la storia di un artista tormentato e impetuoso.

E quale modo migliore per farlo se non con un proemio cavalleresco?

La vita, le liti, le armi, gli amori,

l’arte, l’audace intelletto io canto,

che furo al tempo che passaro i Cavalieri dell’ordine di Malta

d’Africa il mare, e nella vita di un uomo nocquer tanto,

seguendo l’ire e il tacito assenso

della curia romana, che si diè vanto

di vendicare l’offesa arrecata a un potente cavaliere

sopra il cardinale Scipione.

Liberamente tratto dal proemio dell’Orlando Furioso

Tra luce e ombra la vita di Caravaggio

Del luogo dove nacque, Michelangelo Merisi porta anche il nome. Nel 1573 è un giovane sprovveduto originario di un paesino lombardo, capace di dar vita a fiumi di parole. In realtà, qualcuno sostiene sia invece nato a Milano il 29 settembre 1571.

L’infanzia a Caravaggio, dove la sua famiglia viene travolta dalla peste, che brutalmente si porta via sia il padre Fermo Merisi che il nonno Bernardino e poi lo zio Pietro. Poi l’apprendistato presso Simone Peterzano, allievo del Tiziano. Questo gli insegna in quattro anni l’uso del colore, poi se ne perderanno le tracce.

Finito il suo lungo periodo di apprendistato, qualcuno ritiene sia subito andato a Roma. Eppure, abbiamo pochi documenti che, come i volti dei suoi quadri, emergono dal buio. I suoi colleghi pittori non parlano molto bene di Caravaggio, come Giovanni Baglione, che lo definisce come un personaggio ingombrante.

Gli anni dal 1588 fino al 1592, ultima testimonianza della sua presenza in Lombardia prima di raggiungere Roma, risultano piuttosto nebulosi. Caravaggio è un uomo violento, per questo molti ritengono, anche dei suoi contemporanei, che sia fuggito da Milano in quegli anni per andare a fare l’allievo di Giorgione o il cavaliere di ventura.

In particolare, come racconterà Baglione, si ritroverà probabilmente in Ungheria a combattere contro i turchi, evento che segnerà profondamente la sua vita, tanto da costringerlo a girare sempre armato di una spada, che diventa la sua fedele compagna.

Così facilmente è capace di tirarla fuori per difendersi da coloro che ritiene nemici. Incapace di adattarsi alla vita di tutti i giorni. Un uomo violento sempre in guerra contro il mondo e contro sé stesso.

A Roma per sopravvivere dipinge qualsiasi cosa, fino a quando la fortuna non gira a suo favore. Riesce ad entrare, dopo qualche mese, nello studio di Giuseppe Cesari, detto Il Cavalier d’Arpino, amato da Papi e aristocratici, dove rivela le sue straordinarie capacità. Eppure, il proprietario di bottega, forse per non lasciare che offuschi il suo talento, lo costringe a contribuire solo nella realizzazione di dettagli e opere morte.

Ecco perché Caravaggio resiste otto mesi nel suo studio. Perché il suo destino non è fare la comparsa.

Eppure, è proprio in questo luogo che prendono vita i suoi primi quadri. Questi verranno affissi nella galleria Borghese, che possiede la più vasta collezione di opere di Caravaggio. Una passione vorace lo muove a creare sempre nuovi capolavori, nonostante il carattere complicato. Realmente la testimonianza della sua bulimia artistica.

In un sottile equilibrio si uniscono i quadri dello squattrinato artista che, appena giunto nella caotica Roma, è sempre al verde. Ma questo non ferma la sua passione, e comincia a dipingere figure umane. Molto spesso sono degli autoritratti, non potendo permettersi dei modelli.

Uno tra questi è il Bacchino Malato, un quadro di grande rilevanza artistica, dove la frutta sempre quasi pronta per essere raccolta. In esso, il Caravaggio è probabilmente sofferente a causa di una ferita dovuta a un incidente.

Con l’amicizia del cardinal Francesco Maria del Monte, per cui crea alcune tele, Merisi comincia ad acquisire fama. Frequenta i più importanti salotti dell’alta nobiltà romana e l’ambiente fu scosso dalla sua pittura rivoluzionaria. Immediatamente al centro di discussioni e accese polemiche, perché molti ritengono abbia dei rapporti sessuali con i modelli che per lui posano.

Per dipingere, Merisi sfrutta uno specchio piano come guida, che lo aiuta nello studio prospettico dei piani, dei rilievi e del chiaroscuro. Un’idea che eredita da Leonardo, che sosteneva che l’arte stessa era rinchiusa nel riflesso.

La sua fama scoppia a partire dal 1599, e il traguardo più grande lo raggiunge nel 1605, quando gli commissionano un quadro per San Pietro, destinato a sostituirne un altro che decorava l’altare della loro cappella dedicata a sant’Anna.

Caravaggio ritrae quindi una Madonna prosperosa e attraente, dalle forme abbondati e la gonna sollevata che tiene in braccio un Gesù bambino completamente nudo. Al suo fianco abbiamo sant’Anna, rappresentata come una vecchia rugosa e infagottata in una veste oscura.

Ma ciò che crea più scandolo sono i modelli usati per la Vergine e il Bambino: Lena, una prostituta romana di cui Caravaggio era innamorato e suo figlio. Una donna bella e prosperosa che sulla tela non viene idealizzata.

Gli anni di successo vanno avanti, ma basta poco per distruggere ciò che si è creato. Il suo carattere irascibile lo allontana da chiunque, tanto da rimanere solo. L’unico che lo salva dalla povertà è Costanza Sforza Colonna, che gli procura committenze e amicizie influenti. 

Ma questo non basta, perché gira armato di spade e pugnali, nonostante non ne abbia il permesso. A chi gli contesta ciò risponde che gli sia stato dato a voce dal Procuratore romano.

Perché andasse in giro con un’arma rimane un dubbio. D’altro canto non era un nobile, bensì un protetto del Cardinale del Monte, che lo fa alloggiare a Palazzo Madama, e gli dona anche il denaro necessario per vivere, che Caravaggio sfrutta per pagare l’affitto di un secondo appartamento da usare come studio.

Il carcere è un luogo che conosce: vi si reca prima per aver malmenato e percosso con un bastone Girolamo Stampa. Sarà querelato poi per aver lanciato un piatto di carciofi a un cameriere. Infine rischia una condanna per aver ferito gravemente un notaio, Mariano Pasqualone di Accumoli, per difendere l’onore di Lena. Per questo deve scappare a Genova, dove aspetta che qualcuno insabbi l’accaduto.

Ritornato a Roma passa gli anni più belli della sua carriera, ottennendo la sua prima commissione pubblica, ossia Cappella Contarelli, per cui dipinge una delle sue opere più importanti: Vocazione di san Matteo. 

In quegli anni usa come soggetti persone comuni, che vengono dalla strada. Amici, prostitute, camerieri. Chiunque incontri per strada o nelle bettole che sia in grado di ispirarlo. Donne e uomini che mette in posa e ritrae dal vero. L’artista non si serve di loro solo per soggetti profani, ma anche di carattere devozionale.

Ormai, per le famiglie romane possedere un Caravaggio è motivo di vanto. Questo però è irrequieto, sempre in rotta anche con gli altri pittori, a cui ripete che non capiscono nulla di arte e che le loro pitture sono mediocri.

Il 28 maggio 1606 avviene però un fatto determinante.

A causa di un fallo in una partita di pallacorda, sport di origine medievale, Merisi e il suo avversario cominciano a discutere, finendo a duellare. Con il rivale, tal Ranuccio Tomassoni da Terni, aveva già disputato delle risse perché entrambi interessati all’amore di Fillide Melandroni. 

Quell’innocente partita diventa una resa dei conti tra i due, che si affrontano con le armi. Ranuccio ha la peggio, che cade a terra. Il pittore riesce a ferirlo mortalmente, uccidendolo.

Qualcuno ritiene che dietro il duello vi fossero anche dei motivi economici, forse dei debiti di gioco. O addirittura questioni politiche: la famiglia Tommasoni infatti, era notoriamente filo-spagnola, mentre Michelangelo Merisi era un protetto dell’ambasciatore di Francia.

Il verdetto per il delitto di Campo Marzio dà il via a una nuova fase della vita del Caravaggio, che adesso è un morto che cammina. Viene infatti condannato alla decapitazione, che poteva esser eseguita da chiunque lo avesse riconosciuto per strada.

Nei suoi dipinti cominciano ossessivamente a comparire teste mozzate, e il suo macabro autoritratto prende spesso il posto del condannato. La scena della decapitazione trova spazio già da molto tempo nelle sue tele, avendo assistito alla condanna di Beatrice Cenci, accusata di parricidio. In quel periodo le condanne a morte erano all’ordine del giorno, tra queste anche quella di Giordano Bruno, estradato a Tor di Mola e condannato per eresia.

Ancora una volta i Colonna lo aiuteranno, dandogli asilo nei loro suoi feudi laziali di Marino, Palestrina, Zagarolo e Paliano.

Alla fine del 1606, Caravaggio arriva a Napoli, nei Quartieri Spagnoli, dove rimane circa un anno. La città è un insieme di vicoli e suoni, intricata e intrecciata, brulicante di persone affamate di vita. Il luogo perfetto per il Merisi. La fama del pittore era nota presso la famiglia dei Carafa-Colonna, presso cui alloggia per intercessione di Costanza. È uno dei periodi più prolifici della sua storia, ma delle tele che realizzerà solo due rimarranno nella città.

Nel 1607 Michelangelo Merisi partì per Malta, sempre per intercessione dei Colonna, e qui entrò in contatto con il gran maestro dell’ordine dei cavalieri di san Giovanni, Alof de Wignacourt, cui il pittore fece anche un ritratto. Spera di poter ottenere l’immunità, così da sfuggire alla condanna a morte.

L’ordine di Malta mette in dubbio il luogo di nascita di Caravaggio. Lo accusano infatti di non avere la cadenza milanese, quindi di non essere nato lì. Nonostante la disputa, gli viene riconosciuta una carica minore, quella di “cavaliere di grazia“, rispetto ai “cavalieri di giustizia” di origine aristocratica.

Ma quando a Valletta litiga con i membri dell’Ordine, viene imprigionato. Nuovamente con l’aiuto dei Colonna scappa a Siracusa, dove lo ospita Mario Minniti, avendo ora i cavalieri di Malta alle calcagna. Alla fine dell’estate del 1609 Caravaggio torna a Napoli. Qui, probabilmente a ottobre, verrà attaccato fuori da una locanda da dei maltesi, che lo feriranno brutalmente.

In questi ultimi anni dipinge il David con la testa di Golia. In quegli anni, Caravaggio accetta qualsiasi commissione pur di arrotondare qualche spicciolo.

Già dai tempi in cui si trovava a Malta, però, la sua salute si dice sia iniziata a peggiorare. Continua comunque a dipingere, creando opere crude ma monumentali. Poi, la raccomandazione del Papa Paolo V, che stava preparando una revoca della condanna a morte. Dopo il difficile lavoro per i maltesi, riesce a ottenere la presunta pietà.

Da Napoli quindi, dove abitava presso la marchesa Costanza Colonna, si mette in viaggio nel luglio 1610 con una feluca-traghetto che, settimanalmente, navigava verso Porto Ercole e ritorno. Con sé porta dei quadri, che vule donare a Scipione Borghese, nipote del Papa e potente cardinale. Ma di questo vi abbiamo già parlato.

Se vi dicessimo che, forse, Caravaggio a Porto Ercole non ci sia mai arrivato? Che l’Ordine dei cavalieri di Malta sia arrivato prima?

Caravaggio è stato assassinato?

Quando l’Ordine di Malta vuole investire del titolo Caravaggio, qualcuno si rende conto che, forse, l’artista non ha la pasta giusta. Loro sono infatti sottoposti a una ferrea disciplina, che Michelangelo nella sua vita non ha mai dimostrato. La loro vita è regolata da un rigido codice di comportamento.

Quando lo sfidano a duello, lo scherniscono e gli ripetono di essere un incapace con la spada. La loro tecnica li rende degli spadaccini invidiabili, in grado di mantenere la calma davanti a provocazioni e offese altrui. Caravaggio sappiamo invece non riesca a condividere la stessa imperturbabilità d’animo.

Viene ferito alla spalla, mentre gli ridono davanti.

Nell’agosto del 1608 ferisce un cavaliere di rango superiore: un atto molto grave. Chi se ne macchia rischia addirittura la condanna a morte. Così, come vi abbiamo detto, viene arrestato. Lo imprigionano a Forte Sant’Angelo, ma a ottobre riesce a fuggire, forse grazie allo stesso Gran maestro dell’Ordine e ai Colonna.

Qualsiasi cavaliere riesca a fuggire viene espulso dall’Ordine e considerato fetido e putido. Un uomo senza spina dorsale. Quel titolo in quattro mesi gli viene sottratto. La paura di essere braccato rimane per tutto il viaggio e molti si chiedono per quale motivo sia giunto a Palo Laziale.

Malato, con una ferita ricucita male, tutti si chiedono cosa avesse in mente fuggito da Malta. In Sicilia abbandona capolavori assoluti e ottiene molte commissioni. Per quale motivo lascia questa terra che gli prometteva fortune?

Nei suoi ultimi mesi di vita smette di mangiare con regolarità e pensa solo alla sua arte, ciò che gli rimane per lasciare un segno nella sua terra. Ma la sua mente è sconvolta. Non può fare a meno che temere di essere braccato. Arriva addirittura a dormire con il coltello accanto.

Perché arrivato a Palo Laziale preferisce andare a Porto Ercole, anziché tornare verso Napoli? Dopo la prigionia copre ben 120km. Una distanza notevole. Eppure qualcuno ritiene non l’abbia mai percorsa.

Quando ci interroghiamo sugli ultimi istanti di vita di Caravaggio, Vincenzo Pacelli ci dà una risposta. Questo, ordinario di Storia dell’Arte Moderna alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli Federico II, comunemente considerato uno dei maggiori esperti di Caravaggio in Italia interviene sul “caso Caravaggio”, sostenendo che sia stato ucciso.

Attestazioni certe sulla morte non esistono. Documenti sul funerale, che normalmente è un fatto storico accertato, non esistono. Per Caravaggio non esiste neanche la prova certa che sia stato ritrovato il cadavere. Difatti, fosse morto di febbre malarica, questo sarebbe stato rinvenuto.  

Quando si parla di Porto Ercole, ci si interroga sul fatto che dà quel luogo non sia stata data la notizia del decesso. Bensì se ne parlava a Roma e a Napoli, ma sorprende che nessun abitante della cittadina marittima l’abbia descritta come tale. Infatti, la data e il luogo tradizionali per la morte di Caravaggio, si ricavano non da un dispaccio ufficiale, ma da un epitaffio del poeta Marzio Milesi che lo chiama “esimio emulatore della natura“.

Il pittore, come si legge in alcune lettere ritrovate nell’Archivio Segreto Vaticano e scritte da un personaggio di indubbia importanza quale il Nunzio Apostolico del regno di Napoli, voleva portare dei quadri a Scipione Borghese. La barca subisce però un cambio di rotta dal porto di Civitavecchia verso Palo. Appena sceso, come sappiamo, venne incarcerato, senza una motivazione plausibile. 

Secondo quanto si dice, Caravaggio sarebbe stato rilasciato dopo aver pagato un ingente somma di denaro al capitano delle guardie. Ciò ci insospettisce, perché Merisi denaro non ne aveva.

Ci chiediamo perché a questo punto la feluca sia tornata a Napoli subito, senza aspettare l’esito dell’incarceramento. È anche impossibile che Caravaggio sia riuscito ad arrivare a Porto Ercole da solo.

Sarebbe invece più plausibile che sia morto a Palo e che il suo cadavere sia stato buttato in mare. Pacelli sostiene anche che i Cavalieri di Malta lo abbiano giustiziato in riva al mare. D’altro canto, Caravaggio vive in un’epoca di notevole violenza.

Solamente Baglione accetta che la sua morte sia avvenuta a Porto Ercole. Ma possiamo essere certi delle parole di uno dei più grandi rivali di Caravaggio?

D’altro canto, dalle ossa trovate nelle fosse comuni di Orbetello, ci arrivano delle risposte interessanti. Queste sono state infatti identificate da una squadra di microbiologi capitanata da Giuseppe Cornaglia, aiutata da una equipe italo – francese dell’istituto Ihu Mediterranee Infection di Marsiglia.

Dallo studio della polpa dei canini e incisivi si scopre che, come spiega Michel Drancourt, il pittore non è morto né di malaria, né di sifilide né di brucellosi.

Hanno invece trovato tracce di stafilococco aureo, un batterio che difficilmente penetra l’organismo umano trovando nella pelle un muro invalicabile. A meno che non sia stato aiutato da una ferita da taglio, infetta grazie a un colpo, magari di spada. Questo quanto riporta uno studio della rivista The Lancet – Infectious Diseases.

Infine, Pacelli si serve anche di una biografia del pittore scritta da Giulio Mancini, che scrive come luogo della morte Civitavecchia, ma “sul documento il termine è cancellato e poi da altri corretto con Porto Ercole”.  Così come Francesco Bolvito, bibliotecario dei Teatini che, nel 1630, afferma che “il pittore è morto assassinato”.

Un altro indizio interessante è stata l’alta concentrazione di piombo rilevato nelle ossa: molti pigmenti naturali di origine minerale dell’epoca contenevano questo e altri metalli pesanti, che potrebbero essere stati introdotti nel corpo del pittore in seguito a un avvelenamento.

Pacelli conclude che, è plausibile che i cittadini di Porto siano contenti di una tradizione falsa e pretenziosa, ma è impossibile che nessuno, tra i vari committenti e le persone che in vita gli sono state vicine, si sia interessato a preparare una cerimonia per la sua morte.  

Vincenzo Pacelli muore nel 2014.

La morte di Caravaggio rimane un mistero, come tutti i più grandi poemi della storia. A noi piace pensare che sia morto a Civitavecchia, solamente a un’ora dalla sua amata Roma.

Scritto da Gaia Vetrano

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

 Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Estratto dell’articolo di Francesca Cappelletti per “la Repubblica” il 5 gennaio 2023.

Per chi non voglia iniziare l'anno senza Caravaggio, il pittore più amato e dibattuto degli ultimi decenni, è raccomandata la lettura di Cantiere Caravaggio di Alessandro Zuccari (De Luca editori d'Arte). (…)

 Le pagine più belle sono dedicate all'analisi del chiaroscuro e alla capacità di Caravaggio di conferire una nuova forza alla scena religiosa, di rappresentare la tensione, il conflitto ma la definitiva armonia fra elemento divino e terreno, un tratto comune a un altro maestro della luce come Rembrandt.

 (…) A questo punto, alla scoperta di un altro soggetto religioso più volte ripetuto da Caravaggio, non resta che mettere il libro in valigia e ripercorrere un viaggio del 1959. Il 17 dicembre di quell'anno è una data fondamentale per gli studi su Caravaggio e in particolare per la storia della Flagellazione di Rouen, capolavoro sospeso fra la fine tragica del soggiorno romano, culminato con l'omicidio di Ranuccio Tomassoni nel 1606, la fuga a sud di Roma e l'arrivo a Napoli.

 In quella giornata di più di sessanta anni fa Roberto Longhi arrivò appunto a Rouen per esaminare un dipinto che aveva da poco raggiunto il museo della Normandia. Il grande studioso lo riconobbe come opera del maestro e lo pubblicò in un articolo celebre, che doveva comparire l'anno successivo su Paragone .

Potente raffigurazione di una delle scene più drammatiche della passione di Cristo, la Flagellazione di Rouen impagina i protagonisti in maniera originale rispetto alla composizione verticale, con le figure dei carnefici ai lati della colonna, adottata da Caravaggio per la Flagellazione oggi a Capodimonte.

 Nella tela di Rouen i personaggi sono poco più grandi delle mezze figure, con il Cristo proteso verso il bordo del quadro, i gesti dei carnefici ampi e violenti, improntati a un dinamismo che mette tutta l'immagine in movimento, lasciando allo spettatore il compito di immaginare quello che può accadere oltre la superficie dipinta, quando Gesù raggiungerà lo spazio della realtà che a sinistra confina con quello del quadro.

Della tela non è nota la storia antica; di recente sono state effettuate le indagini diagnostiche che hanno individuato aggiunte e una composizione sottostante. Questi risultati eccezionali e il prestito di altre opere importantissime per definirne il contesto rendono imperdibile la mostra Caravaggio. Un coup de fouet , al Musée de Beaux Arts de Rouen fino al 27 febbraio.

 Quello che va valutato, nel caso della Flagellazione di Rouen, è la sua materia ancora corposa e costruttiva e la tensione nel movimento generato dal protendersi del Cristo verso il confine del quadro e dall'ampio gesto del carnefice con il cappello, che definisce la parte superiore della tela.

 Questo aspetto sembra avvicinare il dipinto addirittura alla foga espressiva dei laterali della Contarelli, come pensava Longhi nel 1960 e comunque alle opere che possiamo collocare agli anni romani, dalla Cena in Emmaus di Londra al San Pietro della Cappella Cerasi, senza dimenticare l'Incoronazione di spine di Vienna.

In questo caso va notato che l'invenzione caravaggesca del soldato contemporaneo, con armatura e cappello piumato, è appoggiato su una sorta di parapetto, elemento che nel quadro di Rouen era presente in una prima redazione ma che poi, come illustra Bruno Mottin nel catalogo, venne coperto dal pittore.

 Le indagini sulla tecnica di Caravaggio, condotte in maniera sistematica dagli anni Novanta del secolo scorso, hanno consentito di individuare materiali, modalità di esecuzione, ripensamenti in corso d'opera (i famosi pentimenti) elementi presenti anche nella tela di Rouen.

Giornale di guerra e di prigionia: inedito di Gadda e magnifico Adelphi. La denuncia ai profittatori di guerra, l'amore per la madre e la sorella, la separazione da se stesso, come un'avvenuta mutilazione, nello scoperta di aver perduto il fratello Enrico. Tutto questo sono gli struggenti diari di guerra di Gadda. Scritti "impossibili" secondo il saggista Giorgio Pinotti. Davide Bartoccini il 7 Aprile 2023 su Il Giornale.

Nulla può esserci di più struggente che leggere il Giornale di guerra e prigionia di Carlo Emilio Gadda, se non assistere alla sua lettura, struggente, da parte di un artista grande come Fabrizio Gifuni per Più libri più liberi. All'oscuro di una sala gremita, a tratti sorridente e a tratti commossa, perché Gadda sa far sorridere, ridere, piangere, scuotere le viscere e correre i brividi sulla pelle solo come chi sa scrivere con forza, sentimento e delicatezza oggettiva può, i passi inediti dell'ultima fatica portata alla luce da Adelphi lascia con il fiato sospeso e convince il lettore ad immergersi nel mondo della guerra di Gadda, arruolatosi patriottardo, tornato devastato nell'animo e nel corpo dal fronte. Avvelenato dalla condotta dei generali e dei miserabili profittatori di guerra, e umiliato dalla prigionia obbligata nella fortezza Rastatt.

Scritto tra il 24 agosto 1915 al 31 dicembre 1919, il diario di guerra e prigionia vergato da Gadda è un diario "impossibile", spiega Giorgio Pinotti, editor presso l'ottima casa editrice Adelphi che non perde occasione di sfornare tesori di carta che sanno raccontare la storia inedita. Impossibile perché lo stesso Gadda riteneva se stesso incapace di portare a termine una simile e inutile e incongrua fatica, scriverà proprio nel castello di Udine in Impossibilità di un diario di guerra. Impossibile perché sono taccuini, molti, scritti di getto, con una prosa e allo stesso tempo una poesia tipica dell'autore, sbalorditivi, ma mai rivista, mai corretta, mai più editata. Ed è questo che colpisce, con un colpo di pistola al cuore: pensare che il giovane Carlo Emilio Gadda contenesse tutto quel talento da sfogare, e nel frattempo, combattesse una guerra con i suoi alpini dell’89º reparto mitragliatrici inquadrato nel 5º reggimento.

Il Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda nella sua versione completa si rende in mano a lettore uno strumento storico di basilare importanza, mediante le testimonianze minuziose, tempi, luoghi, procedure, e come giustamente viene in più occasioni ricordato un "laboratorio" di scrittura che sa mostrare il groviglio di emozioni provate dal giovane sottotenente che era partito spinto dall'amor di patria coltivato da una famiglia che non voleva in alcun modo deludere; anzi, voleva soddisfare nell'aspettativa tanto quanto avrebbe fatto l'amatissimo fratello Enrico Gadda, che prontamente era partito, arruolato negli Alpini come lui.

Negli scritti di Gadda, dopo un resoconto inframezzato da brevi riflessioni e divagazioni dovute all'attesa, dell'arrivo al fronte, si può fin da subito riscontrare la vacuità delle alte sfere militari al confronto con la dura vita di truppa, la disorganizzazione del Regio Esercito e la spietata tendenza dello scarico di responsabilità che finisce per spingere una tenera vittima come il sottotenente Gadda, al profluvio di ingiurie, imprecazioni, turpiloquio che sfocia addirittura nella maturazione du sogni di vendetta: "Se avessi avuto innanzi un fabbricatore di cal­zature, l’avrei provocato a una rissa, per finirlo a coltellate", scriverà affranto e sull'orlo di un raptus omicida, quando si ferma a guardare con lucidissimo sguardo le calzature dei suoi soldati che si lacerano un poche settimane, mentre si marcia e giace nel fango gelato delle montagne scosse dalle cannonate. Non mancheranno le disamine sulla truppa, sulla diversità umana che la compone, e sull'alienazione dell'artista che altro non può fare se non astrarsi dagli uomini che lo ripudiano in quanto tale: un diversamente sensibile. Per assurdo saranno i compagni di prigionia trascorsa a Celle Lager, nella "baracca 15c" dove troverà poeti e letterati come Bonavetura Tecchi e Ugo Betti, a ricordagli di non essere solo al mondo.

I resoconti sulla disfatta di Caporetto, le espressioni colorite nei riguardi di "Cecco Beppe" reggente d'Austria, la fame, il freddo penetrante nelle celle della fortezza Rastatt dove si susseguono appelli su appelli per dileggiare i prigionieri, il lento, attonito e apatico rimpatrio su di un treno senza vetri, condotto in un futuro che Gadda quasi predice di non sapere affrontare. E infine, la straziante scoperta della perdita di quello che non stenterà a definire come "la parte migliore di se", suo fratello Enrico, passato al Servizio Aeronautico dopo essersi distinto nei combattimenti sul Monte Sperone, e deceduto in un incidente aereo mentre era sulla via del ritorno a bordo di un caccia monoposto Nieuport 27. L’edizione proposta da Adelphi, curata da Paola Italia con una nota di Eleonora Cardinale, è integrata dei preziosi taccuini inediti recentemente acquisiti dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, e si conferma una testimonianza poderosa della Storia d'Italia, quanto della storia di un grande vanto italiano come ha saputo rendersi solo Carlo Emilio Gadda.

Estratto dell'articolo di Antonio D'Orrico per “Sette - Corriere della Sera” il 10 febbraio 2023

[…] Perché Carlo Emilia Gadda non pubblicò mai le parti del “Giornale di guerra e prigionia” ora nella nuova edizione Adelphi? Perché aveva paura di tutto e di tutti, ma soprattutto era terrorizzato di tradire in qualche modo segni di omosessualità.

 Uno dei brani finora inediti dice cose indicibili all'epoca della Grande Guerra. È una nottata del novembre 1918 e Gadda, invece di dormire, chiacchiera con gli altri prigionieri, tra cui il drammaturgo Ugo Betti, degli attori che interpretano parti femminili nella compagnia teatrale “Siciliana”, incaricata di sollevare il morale alle truppe.

Scrive Gadda (a luci rosse): «Io e Betti mostravamo una certa compiacenza per alcune di queste donne, quali apparvero sul palcoscenico». Un prigioniero informato dei fatti spiega allora che «alcune di loro si investono a tal segno della loro parte, da non disdegnare i corteggiamenti» e ce ne sono tre che potrebbero spingere il flirt «fino ad estremi Wildiani», Il beninformato aggiunge che su un attore dai gusti alla Oscar Wilde è stata aperta un'inchiesta: «Lo trovarono un giorno con la testa appoggiata sulle ginocchia d'un capitano suo amico, che lo accarezzava» […]

 I pettegolezzi notturni non sono finiti. […] La chiacchierata si dilunga «in particolari di corteggiamenti, amori, odii; un attore donna ama farsi vestire e svestire, un altro si fa accarezzare il petto senza peli, ecc. ecc. ». Per come era fatto Gadda siamo quasi al coming out

Estratto dell'articolo di Davide Brullo per “il Giornale” il 24 gennaio 2023.

Una nota, scritta il 7 novembre del 1918, a Celle, in Bassa Sassonia, dove era stato deportato, dà il tono dei taccuini. Il tenente Carlo Emilio Gadda racconta la morte di Chitò, «studente di matematica superiore a Pavia», ragazzo di genio, di cui diventa amico. Era stato ferito ai polmoni da una pallottola, sul Vodil, alla riva sinistra dell’Isonzo: le marce lo avevano distrutto.

 Pur smangiato dalla fatica, «educatissimo nella terribile fame», continuava a studiare: nel suo ambito era una promessa. La descrizione del ragazzo è già letteratura – «Altissimo, sproporzionato; testone su magre spalle; occhiali sugli occhi cerchiati dalla sofferenza» –, le riflessioni possiedono corazza stoica – «è orribile la tragedia dell’uomo che ha fatto il suo dovere, che è rimasto ferito, che soccombe così, poche ore sotto l’aurora» –, le domande, invece, sono nude, semplici, pure e perciò indecenti: «Avrei dovuto far di più, ma come soccorrer tutti?», e poi, «Rivedrò la mia patria, mia Madre, i miei fratelli, gli amici, la casa?».

 Come si sa, Gadda nasce interventista e dannunziano. Figlio della buona borghesia lombarda, diplomato al “Parini”, iscritto al corso di laurea in Ingegneria elettrotecnica, ventunenne, è il 1915, viene inquadrato nel 5° reggimento alpini, a Edolo; è inviato a Vicenza, nelle trincee dell’Altopiano dei Sette Comuni, sul Monte Zovetto.

(...)

 Il Giornale di guerra e di prigionia del tenente Gadda, ora riprodotto da Adelphi (pagg. 626, euro 35), per la cura di Paola Italia, in forma definitiva– cioè, rispetto alle laboriose edizioni del 1955 e del 1965, con la presenza di nuovi quaderni, acquisiti dalla Biblioteca nazionale centrale di Roma nel 2019 – si può leggere in molti modi. Il primo è quello di leggerlo per ciò che è: una folgorante e terribile testimonianza della Prima guerra. Il secondo è un modo, per così dire, da mania mantica: prevedere in questi paragrafi, nonostante le avvertenze di Gadda – «Nessuna preoccupazione letteraria»: che però può leggersi a specchio: assidua preoccupazione formale – la metamorfosi del tenente in ingegnere, in sommo scrittore. È una formula plausibile. 

Le trincee della Grande guerra sono state la fucina della grande letteratura del Novecento. Ben più dei salotti parigini, dei club londinesi, delle belle riviste di Firenze e Roma. Sui cadaveri e sulle macerie della Prima guerra si è costruito il nostro mondo, un nuovo linguaggio (la Seconda sarà celebrata dal cinema prima che dalla letteratura).

Per capirlo, bisogna sfogliare il Giornale di Gadda insieme all’antologia dei War Poets inglesi curata da Paola Tonussi per le Edizioni Ares (pagg. 320, euro 20): si raccontano, con stregata violenza, nell’agone dell’insensatezza, analoghe atrocità. «Il cervello di un uomo è schizzato/ Sul viso di un barelliere.../ L’anima che stava annegando era ormai affondata troppo in profondità/ Per la tenerezza umana», scrive Isaac Rosenberg, ucciso da un cecchino ad Arras, in Francia, all’alba del primo aprile del 1918 e sepolto in una fossa comune.

 I «Poets of the First World War» sono eternati nel Poets’ Corner, a Westminster: insigni poeti – da Rupert Brooke a Ivor Gurney, da Wilfred Owen a Sigfried Sassoon – che forgiano, nel massacro, il lignaggio di una nazione. Nel 1929 l’editore Vallecchi pubblica una commossa Antologia degli scrittori morti in guerra: ma chi si ricorda, ormai, di Giosuè Borsi e di Mario Pichi, di Vittorio Locchi, Nino Oxilia, Ugo Ceccarelli, Mario T. Rossi... Non si tratta di operare per ideologiche nostalgie: la Grande guerra mette alla prova il Futurismo, inaugura la scrittura di Gadda, di Curzio Malaparte, di Giovanni Comisso – tutti volontari al fronte –, fa sbocciare poeti straordinari, Giuseppe Ungaretti, è ovvio, ma anche Clemente Rebora («C’è un corpo in poltiglia/ Con crespe di faccia, affiorante/ Sul lezzo dell’aria sbranata»), Piero Jahier, Sergio Solmi (per orientarsi si legga l’“Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale” curata da Andrea Cortellessa come Le notti chiare erano tutte un’alba, Bompiani, 2018).

(...)

Nel 1934, perle Edizioni di Solaria, Gadda pubblica Il castello di Udine, con cui vince il Bagutta. È il suo secondo libro. Nel secondo di quei “ricordi”, Impossibilità di un diario di guerra, Gadda confessa la propria colpa. «In guerra ho passato alcune ore delle migliori della mia vita». Poi perfeziona la colpa, la affila, perché quella colpa è l’oro della sua giovinezza, quella colpa è il suo cuore. «Ho fatto fuoco e comandato il fuoco con convinzione e con gioia... La mitragliatrice modello 907 F l’ho carezzata, l’ho tenuta pulita, l’ho unta, l’ho vaselinata, l’ho puntata mirando e facendo fuoco con cura diabolica: è stata la più bella macchina, di tante macchine della mia vita; che Dio le faccia pur girare». Ma questa è già letteratura, appunto.

Il Giornale di Gadda, invece, va letto per capire dove comincia la letteratura, perché si scrive e che senso ha scrivere. Il Giornale, con frugale fragore, parte come un inno e si spegne in requiem, crede nel trionfo – se non altro, dei propri vent’anni – e cede al cupo grigio agostiniano. Il Giornale diventa uno Zibaldone allucinato dagli shrapnel, un esercizio di spoliazione: «La mia vita è inutile, è quella d’un automa sopravvissuto a se stesso, che fa per inerzia alcune cose materiali, senza amore né fede... Non noterò più nulla, poiché nulla di me è degno di ricordo anche davanti a me solo».

 Quando non c’è nulla da annotare, allora si comincia a scrivere. Dalla crisalide muta del soldato nasce lo scrittore: per arrivare al verbo occorre annientarsi.

Chiara Gamberale, la soffiata: "Come è salita a bordo dopo la sceneggiata". Libero Quotidiano il 07 agosto 2023

Lei non sa chi sono io! La scrittrice Chiara Gamberale ha raccontato sui social l'affronto che ha subito all’aeroporto Marco Polo di Venezia dove è rimasta a terra per un “sorteggio” a sorpresa per via di troppe prenotazioni sull’aereo per Atene di Volotea.  La compagnia ha scelto, come fa sempre, la strada più semplice: imbarcare tutti tranne lei e un'altra persona. La "premio Campiello" però non ci sta e si sfoga sui social. Poi per miracolo arriva la soluzione che lei stessa ha condiviso sui social: “Siamo riuscite a prendere un volo per Vienna e poi da Vienna siamo andate ad Atene, dove siamo arrivate a mezzanotte”.

Come ha fatto? A rivelare il mistero del viaggio della Gamberale è un lettore di Dagospia che scrive a Roberto D'Agostino per raccontare la sua versione dei fatti. "Dopo il sorteggio per l’overbooking e l’esclusione dal volo", rivela il testimone, "la famosa scrittrice ha chiamato papà Vito il quale ha contattato Enrico Marchi, presidente Save, (la società che gestisce l'aeroporto di Venezia, ndr) per sapere come mai la figlia non fosse partita". "Dopo le scenate al check-in", continua il lettore di Dago, "la sera viene messa su volo Austrian per Vienna e poi da lì ha volato verso Atene".

Poi la rivelazione compromettente: "Aveva la carta identità strappata in due, e quindi non valida, e il capo scalo Lufthansa non voleva neanche farla partire". "Alla fine", spiega il testimone oculare, "è riuscita a partire perché qualcuno le ha fatto il check in online e come documento ha utilizzato la patente". "La signora Gamberale", conclude il lettore di Dagospia, "a detta delle signorine al desk e del personale aeroportuale, si è comportata in modo molto arrogante".

DAGONOTA il 7 Agosto 2023

Peccato che Johann Joachim Winckelmann non abbia avuto anch’egli un padre boiardo di Stato come Chiara Gamberale, almeno un padre alto funzionario di corte che potesse spedire una lettera in latino al re delle Due Sicilie o a un barone inglese per chiedergli di consentire al figlio di imbarcarsi su un veliero per l’amata Grecia. 

Rien à faire, malheureusement, faceva di mestiere il ciabattino a Stendal e non aveva neanche potuto far studiare il figlio che, grazie ai preti e al suo talento divenne l’erudito più colto dei suoi tempi e il fondatore della storia dell’arte antica e il cantore del primato della cultura greca a partire dai “Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke”.

Ma nessun problema: a distanza di due secoli e mezzo ci potrà pensare la “scrittrice e giornalista” dalla carta d’identità strappata, Chiara Gamberale, a colmare la lacuna sulla conoscenza dell’antichità dovuta al mancato viaggio dello studioso tedesco. 

Potendo godere di un papà ex boiardo che chiama per chiedere lumi sul mancato decollo della figlia causa ritardo del volo (una novità mai sentita), Chiara senza la figlia (ndr dopo averci smammolato nei precedenti libri sulla maternità) ha raggiunto l’amata Grecia e adesso attendiamo frementi un “Reise nach Griechenland” su “Sette”, il supplemento del “Corriere della Sera” diretto dalla femminista in borsetta Prada Barbara Stefanelli.

Certo, come racconto dell’estate il viaggio della figlia di papà dovrà sfidare niente po' po' di meno che l’insuperabile “Viaggio a Foggia” di Alain Elkan, pubblicato sul giornale del figlio. Insomma, siamo ai massimi sistemi dell’itinerario familistico, una periegesi tra cognomi e portafogli, un viaggio in treno o in aereo come allegoria del viaggio interiore o, meglio, anteriore, cioè ringraziando il papà boiardo o il papà rabbino. Solo il figlio del ciabattino non è riuscito a salpare… e poi non dite che i tempi sono cambiati.

Estratto dell’articolo di Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 7 Agosto 2023 

Allarme nel mondo delle patrie lettere! Per colpa di un ritardo di nove ore all’aeroporto di Venezia, causa overbooking, è a serio rischio l’impostazione del prossimo romanzo di Chiara Gamberale. 

Diretta in Grecia, sulle tracce di Omero o almeno di Ugo Foscolo, per l’unica settimana dell’estate in cui finalmente senza figlia può lavorare in pace e concentrazione, l’autrice romana si è vista costretta a ritardare l’imbarco e bivaccare in aeroporto come un cristiano qualsiasi. E non ci ha più visto: un incubo ha definito l’accaduto, dopo aver protestato in modo veemente contro gli impiegati della compagnia Volotea.

Come vi permettete, ha urlato, io sono una giornalista, una scrittrice! In un post su Facebookli ha definiti “delle bestie”, poi forse si sarà scusata perché le è partita la brocca, e non poco. Sempre la solita storia, ci sono ragioni che si accettano e altre no, ovviamente dalla stessa parte. Per il momento a scusarsi è solo la compagnia, con la scritttice e con un’altra passeggera che, secondo il racconto, ha lasciato ad aspettarla un bimbo di un anno. Ci dispiace, ma ogni persona ha le sue ragioni, tutte valide. 

Inconvenienti del genere capitano a tutti prima o poi, però il destino dovrebbe stare più attento a dove colpire e risparmiare le Gamberale in attesa di imbarco. Lei e le sue amiche del cerchio magico delle lettere romane, che nelle rubriche e negli articoli parlano di uguaglianza, pari opportunità, una società più giusta ed equanime, non esistano a precisare, alla bisogna, la loro diversità. Fosse rimasta a terra una casalinga o un’impiegata fatti suoi, una grande scrittrice come lei deve essere trattata in modo diverso per ciò che sta donando alla cultura italiana. Sennò si incavola e di brutto, riscopre la sua anima popolaresca e manda ammorì ammazzato le maledette low cost che vendono più biglietti dei posti disponibili.

Non fosse di una volgarità estrema, per una sostenitrice dei buoni sentimenti, che si autodefinisce autrice profonda capace di leggere le sensibilità dell’animo umano, l’accaduto sarebbe persino divertente, perché non c’è nulla di più pittoresco di una donna di sinistra che esce dai gangheri e s’incazza. In un istante è capace di dimenticare principi, credo, convinzioni, difesa dei più deboli. 

Se le tocchi nel loro privilegio, o la mala sorte le colpisce, non riescono a venirne a capo. […]  tirano fuori il lei non sa chi sono io, chiamando in soccorso il popolo dei social che va in sollucchero per i contenuti mielosi dei loro posti insensati […]- 

«Per colpa di Volotea ho perso un giorno di lavoro: chi mi risarcisce?», ha chiesto stizzita Chiara. No, Gamberale, hai perso qualche ora di vacanza in un luogo sicuramente molto bello e forse non ti sarà impossibile cambiare la prenotazione del ritorno o addirittura volare con una compagnia di bandiera e non con queste indegne low cost dove non rispettano un’erede di Elsa Morante.

Lo dice esplicitamente ai suoi fan, non viaggiate più con questi aerei, non contando che forse non tutti hanno i suoi stessi beni di famiglia e devono scegliere il biglietto più economico. D’altra parte, muoversi ad agosto ha i suoi inconvenienti e non da oggi.

Si fosse trovata in coda in autostrada Gamberale avrebbe costretto l’autista a gettarsi sulla corsia d’emergenza e in caso di fermo avrebbe detto che il secondo capitolo del suo prossimo capolavoro non avrebbe potuto aspettare. Certo una come lei o del suo giro di solito va in vacanza a giugno o settembre perché le fanno schifo affollamenti, code e imprevisti. Di solito la sfiga colpisce a caso, stavolta invece ci ha visto benissimo e ha sorteggiato proprio lei, Chiara Gamberale, invece di una segretaria o una commessa. Giustizia per una volta è fatta. Forse. Da indiscrezioni, infatti, sembra che la scrittrice abbia preso un volo partito due ore dopo quello in overbooking.

Scrittori e popolo. Chiara Gamberale, Gwyneth Paltrow e la mania dei ricchi di vivere da poveri. Guia Soncini su L'Inkiesta il 8 Agosto 2023

La giornalista e scrittrice ha raccontato la sua disavventura con la low-cost Volotea. Ma se io vendessi i libri che vende lei, spenderei tutte le royalties per viaggiare solo in modi che mi tenessero lontana dall’umanità

Di recente ho comprato un cappellino con la visiera. Di norma sono contraria a questi fessi giovanilismi, e guardo con disprezzo gli adulti che girano conciati come utilizzatori d’autotune, ma la scritta su quel cappellino era irresistibile.

A marzo, ve lo ricorderete, il palinsesto di tutti noi era costituito dai filmati – inspiegabilmente non trasmessi dalle piattaforme cui paghiamo l’abbonamento – del processo in Utah nel quale era coinvolta Gwyneth Paltrow. Un tizio diceva che lei l’aveva investito sulle piste da sci, lei diceva che era stato lui a investire lei.

Il processo è stato pieno di momenti stupendi e ha rianimato il giornalismo americano, che ci ha fatto quasi più articoli di quelli che mesi dopo avrebbe fatto su Barbie: l’avvocato di lui che ci manca poco che chieda un autografo a Gwyneth, i vestiti di Gwyneth, le risposte di Gwyneth.

Sul cappellino che ho comprato all’inizio dell’estate c’è la risposta forse più bella, data da Gwyneth quando l’avvocato del tizio le ha chiesto se fosse vero che la sua percezione fosse che, per colpa del tizio, non aveva potuto godersi «quella che era una vacanza piuttosto costosa». «Well, I lost half a day of skiing».

Ci ho ripensato venerdì, quando il turno sul palcoscenico di quest’estate, quest’estate che ricorderemo come quella il cui cartellone tematico era «Ricchi che vivono da poveri», è toccato a Chiara Gamberale.

Chiara Gamberale racconta, sui suoi social e poi al Corriere (giacché il compito dei ricchi ormai sarà pure vivere da poveri, ma quello dei giornali è decisamente rilanciare tutto ciò che possiamo leggere gratis il giorno prima sui social, o a pagamento il giorno dopo sulle loro pagine), che è arrivata in Grecia molte ore dopo il previsto.

È infatti accaduto che l’aereo sul quale doveva partire fosse in overbooking (invero una cosa imprevedibile, in agosto), e che la compagnia low-cost Volotea abbia estratto due passeggere che non sarebbero partite: Gamberale e un’altra tizia.

A quel punto Gamberale perde la pazienza, non perché come tutti noi abbia l’insensata ambizione di arrivare dove aveva previsto nei tempi previsti; bensì perché quella era «l’unica settimana dell’anno in cui lascio Vita con i nonni e con il suo papà per impostare il mio nuovo romanzo».

(Un giorno dovremo parlare dei guasti della mistica della maternità in questo secolo. Un secolo in cui non puoi lavorare concentrata una settimana se non metti migliaia di chilometri tra te e i rompicoglioni che hai generato. Un secolo in cui se non vuoi essere disturbata da tua figlia devi giustificarti e dire che è solo per una settimana l’anno: per cinquantuno settimane è simbiosi, amore assoluto, devozione senza deroghe. Un giorno ne parleremo, ma non oggi).

Gamberale perde la pazienza ma, capendo qualcosina di comunicazione, inquadra il suo spazientirsi come un moto di generosità nei confronti dell’altra tizia, la quale ha tutte le caratteristiche per venire presa a cuore dal grande pubblico: è una madre separata che sta andando a prendere il figlio dall’ex marito; se non arriva ad Atene in tempo ci sarà un problema di coincidenza per New York per l’ex (che, immagino, mica può imbarcarsi lasciando lì la creatura); quando si mette a piangere, il perfido personale aeroportuale minaccia di cacciarla (Gargamella era la fata turchina, in confronto).

Tuttavia, quando la intervista il Corriere, Chiara lascia intravedere la Gwyneth in sé: «Ho perso un giorno di lavoro per colpa di Volotea, chi mi risarcisce?». Certo, a day of work non è half a day of skiing, ma d’altra parte te la vedi la Paltrow su un low-cost?

Ecco, non vorrei che ci perdessimo il vero punto, quello drammatico: quand’è che i ricchi hanno iniziato a vivere da poveri? Perché Alain Elkann prende Italo? Perché Chiara Gamberale in Grecia non ci va con un aereo privato?

Non dico con una linea non low-cost, perché quelle spesso non ci sono proprio: l’anno scorso ho tentato invano di tornare dalla Sardegna con un volo normale, ma esistevano solo aerei di compagnie improbabili che ti facevano pagare teoricamente trenta euro e, per arrivare ai trecento finali, consideravano anche il non salire a bordo scalzi come un extra. (È stato allora che ho visto per la prima volta il nome di questa Volotea, che ha reso Gamberale protagonista dell’estate dei ricchi che vivono da poveri).

La classe media è scomparsa, e con essa i voli di linea di cui avevamo le tessere punti fino all’inizio di questo secolo, quelli di compagnie che non trattavano i passeggeri come bestiame. Ma, se io vendessi la quantità di libri che vende Chiara Gamberale, spenderei tutte le royalties per viaggiare solo in modi che mi tenessero lontana dall’umanità.

O forse, per vendere quanto Chiara Gamberale, con l’umanità ti tocca sporcarti un po’? Si può diventare autrici di bestseller viaggiando in aereo privato? Se è a noleggio invece che di proprietà, è sufficientemente vicino al popolo? Quando Alain Elkann prende un treno che passa da Benevento, lo fa come esperimento sociale?

«Sono una scrittrice e una giornalista», racconta Gamberale di aver urlato al culmine del suo smarrimento di pazienza. Non solo nessuna tv italiana ha trasmesso le udienze di Gwyneth, ma nessun citizen journalist ha filmato Gamberale che faceva la sua cover di “Sono una donna, non sono una santa”. Meno male che viviamo nell’epoca della comunicazione.

Mi torna in mente quel ritorno da Bari che Trenitalia, causa linea ferroviaria adriatica devastata dall’alluvione, mi ha diviso in due tratte, costringendomi a pagare alberghi in cui passare notti impreviste, e soprattutto facendomi trascorrere le quattro ore tra Bari e Roma su un Frecciargento senza wifi.

Sono mesi che aspetto che mi rimborsino l’executive del Frecciarossa che avevo pagato e sulla quale non mi hanno fatto viaggiare. Quasi quasi mando una seconda mail che contenga frasi più minacciose di quelle con cui ho inizialmente chiesto il rimborso: sono una scrittrice, mi avete fatto perdere mezza giornata di wifi.

Un libro collettaneo a cura di Zamboni la racconta. Chi era Cristina Campo, la riscoperta della poetessa tra il visibile e l’invisibile. Filippo La Porta su Il Riformista il 25 Aprile 2023 

Questo libro collettaneo – Cristina Campo, Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile (Mimesis), a cura di Chiara Zamboni -, che raccoglie gli atti di un convegno su Cristina Campo, è fondamentale come introduzione al suo pensiero. Libro denso, ricco di suggestioni, nel quale i contributi più belli sono quelli meno accademici (lei non era per niente accademica!), come quello di Antonietta Potente, che trattano Campo come una “amica”, come una compagna preziosa di esercizi spirituali, dialogando fraternamente con lei.

Ora, proprio pensando a questi contributi, che muovono da una prossimità alla vita e alla esperienza di Campo, si corre fatalmente un rischio. Si trattiene cioè il nucleo per noi più fecondo del suo pensiero prescindendo da tutto quello che lo ha generato, e cioè dal “duro esercizio” (Monica Farnetti), fatto di ascesi e iper-concentrazione, oblio e svuotamento di sé, estrema solitudine, fine degli attaccamenti, indifferenza alla morte, purificazione del nostro immaginario parassitario, eliminazione di desideri e fantasie. A ciò si aggiunga la disposizione a perdere qualcosa che per noi vale molto, come mostra la favola di Cenerentola che non si cura di perdere lo scarpino, per potersi salvare (nel saggio “Una rosa”, commentato da Wanda Tommasi). Non è poco, se consideriamo che tutte queste cose sono del tutto estranee al nostro attuale orizzonte di vita, saturato dai consumi, ossessionato dalla voglia di divertirsi e da un desiderio bovaristico (altro che accettare la nostra vita com’è: non ci basta mai e non vogliamo mai perdere niente!).

In queste pagine, benché utilissime come ho già detto per capire Campo, si parla forse con eccessiva disinvoltura “dell’invisibile”. Siamo sicuri che qui ed oggi sia ancora possibile una “esperienza religiosa”, nel mondo secolarizzato, del tutto immanente, e dopo i guasti prodotti dal cattolicesimo? Simone Weil – un faro imprescindibile per la Campo: si pensi solo alla intuizione di una “follia d’amore”, della grazia che sospende per un attimo la necessità, la pesanteur, l’imperio della forza, come accade nelle fiabe – riteneva di no. Personalmente ho qualche dubbio. La stessa Campo lamenta la separazione tra spirituale e corporeo, tra divino e sensibile, in tutta la modernità. Mentre nella devozione e pietà popolare – entro cui la presenza delle donne è assolutamente preponderante – , nel bacio alle icone e nella venerazione per le reliquie, così come nelle esperienze di godimento delle mistiche, si custodisce l’idea di “un’anima corporea”. Siamo ben distanti dall’astrattezza di una religione “matura” come quella protestante, che incarna l’essenza della modernità.

Ma adesso, pur con questa riserva di fondo, vorrei individuare i tre o quattro punti che mi sembrano decisivi dell’opera di Cristina Campo, avvalendomi delle pagine del libro (trascuro qui quelle, pur interessanti, dedicate alla “mistica iraniana”, per mia assoluta incompetenza). Anzitutto bisogna smontare l’immagine di una Campo esoterica, reazionaria, aristocratica, gnostico-elitaria: “Io vorrei scrivere certi versi che ho in mente da tanto tempo. Una specie di Cantico dei cantici rovesciato. Andrò per le piazze e per le vie, cercherò quelli che nessuno ama…”. Poi specifica che vorrebbe scriverlo nella lingua più moderna, “quasi sul ritmo di un blues”! Va bene, il suo cuore trepidava per monsignor Lefebvre e la messa in latino, ma contro una modernità omologante e impoetica. Perfino la sua idiosincrasia verso il vicino quartiere popolare di Testaccio, che lei guardava dall’alto del suo principesco Aventino, andrebbe letta in questa luce: è una insofferenza verso la massa informe asservita ai consumi del boom degli anni ‘60, a una plebe trasformata in ottusa piccola borghesia.

Il suo blues, non lontano dagli spiritual che Pasolini volle usare nel “Vangelo secondo Matteo”, era invece rivolto al popolo che abita piazze e vie, a tutti quelli che non sono amati né ascoltati. Ricordo qui per inciso il suo sostegno alla esperienza di Danilo Dolci (di cui era molto amica, anche se non viene mai citato nel libro), grande educatore e attivista non-violento, con gli emarginati e i paria della società: una esperienza non assistenzialistica ma di creazione di comunità. Ma vengo al punto che mi sembra centrale: la relazione tra visibile e invisibile. Da qualche parte Cristina Campo dice che il mondo invisibile, l’altro mondo cui alludono talismani e amuleti delle fiabe non è che questo mondo, però rivelato. Se “l’arte non riproduce ciò che è visibile ma rende visibile ciò che non sempre lo è” (Paul Klee) allora proprio l’arte diventa una via privilegiata – accanto alla mistica – per accedere a questo mondo rivelato, che poi, nelle parole della Campo, è il tappeto che – finalmente raddrizzato – ci mostra il proprio disegno, e dunque l’arabesco del nostro destino.

Solo allora, decifrando il disegno del tappeto ognuno di noi potrà incontrare, come il viandante, “una melodia che è sua e di nessun altro, che lo cerca fin dalla nascita e da prima di tutti i secoli”. Lei stessa attraversa la vita alla continua ricerca della propria vocazione, di cui parla nelle lettere all’amica Mita (Margherita Pieracci) e in tanti luoghi della sua opera: una ricerca che implica attenzione, capacità di attesa, passività ricettiva, riscoperta dello stupore di fronte alla realtà. Tutto ciò si riversa nella sua purissima scrittura, in una prosa che va costantemente verso la poesia e verso la preghiera, assorta e aperta al mondo, alle sue più minute sfumature:”il bambino che ascolta un vecchio rievocare batte le ciglia con ipnotica lentezza”, come un insetto in una metamorfosi. Il “duro lavoro” dell’ascesi e dell’uscita dal mondo (avrebbe detto il suo compagno Zolla, tacciato da Maria Zambrano di “dogmatismo”) si trasforma un po’ misteriosamente in gioia, sorriso, “tremore leggero”, tenerezza, libertà.

Su questa trasformazione alchemica si interroga Laura Boella, seguendo una suggestione di Maria Zambrano (che ci dà un involontario ritratto dell’amica Cristina Campo): centrale è la metafora del fuoco, della fiamma che “non si consolida né si stabilizza”(come il fiorire della vita), di ciò che nel centro della fiamma stessa rimane oscuro. “Una bellezza che non è di questo mondo”, un incompiuto ( e un incognito) che è specchio di un altrove, chiosa Laura Boella. Forse, però questo altrove pure consiste interamente nell’attimo presente. E la bellezza appartiene interamente a questo unico mondo sublunare che abitiamo, a patto però di vederlo con altri occhi, magari con l’aiuto di un amuleto. Filippo La Porta

Così Malaparte interpretò a decadenza dell'Europa. In un volume, gli atti di un convegno alla Sorbonne Nouvelle sul suo ruolo di intellettuale internazionale. Francesco Perfetti il 5 Maggio 2023 su Il Giornale.

Nella bella biografia dedicatagli Maurizio Serra definisce Curzio Malaparte un «apolide delle ideologie» difficilmente inquadrabile a destra o a sinistra perché «inviato speciale nella terribilità della storia, capace di passare senza muovere un muscolo del volto dai salotti alle trincee, dalle rivoluzioni alle conferenze diplomatiche, dai campi da golf a quelli di sterminio, da Mussolini a Hitler, da Stalin a Mao, dagli anarchici al papa» avrebbe respirato «l'aria delle ideologie totalitarie senza esserne intossicato».

Considerato esempio paradigmatico di «arcitaliano» e di «Strapaese» egli fu, in realtà, il meno italiano degli intellettuali del tempo, tanto da essere definito da Giuseppe Prezzolini «un vero scrittore europeo». Alla sua caratura internazionale è dedicato il bel volume curato da Maria Pia De Paulis, Curzio Malaparte e la cultura europea (Franco Cesati Editore, pagg. 524, euro 45) che raccoglie gli interventi pronunciati da oltre una ventina di studiosi al convegno internazionale organizzato a Parigi nel 2021 dall'Università Sorbonne Nouvelle nel quadro di una vera e propria Malaparte Renaissance in atto da qualche anno in Francia. Storici e letterati di più Paesi hanno proposto una rilettura della biografia e dell'opera malapartiane dalla quale emerge il fatto lo nota la De Paulis che la «dimensione europea» di Malaparte «è anche una condizione del suo spirito, una convinzione, un modo di essere e di riflettere sulle grandi questioni politiche e filosofiche».

Il destino di Malaparte giornalista e scrittore, ma anche uomo pubblico che si trovò a sfiorare, sia pur tangenzialmente, le stanze del potere fu quello di testimone del Novecento: un testimone eccezionale, capace di cogliere, descrivere e interpretare con partecipazione e dolente visionarietà sintomi e manifestazioni di un forse irreversibile processo di decadenza europea. Anche se in Mamma marcia il libro che più drammaticamente e simbolicamente sottolinea tale processo a conclusione di un'ideale trilogia iniziata con Kaputt e proseguita con La pelle c'è, nel suo dialogo con Guy Tosi sull'Europa ridotta a macerie di fronte alla casa di Wolfgang Goethe, un senso, quasi, di speranza, una nota di pur macabro ottimismo, che sembra riscattarlo e che lo enuclea dal pessimismo funereo di quella cosiddetta «letteratura della crisi», particolarmente fiorente nei primi decenni del secolo XX, alla quale, peraltro, lui, Malaparte, non è affatto riconducibile: «È la nuova Europa che nasce dal cadavere della vecchia Europa morta dissi. I cadaveri di donna sepolti sotto queste macerie sono incinti, nasceranno figli dai cadaveri. L'Europa è ormai una mamma marcia dissi». E ancora: «Tutti i cadaveri sono gravidi dissi. Hanno il ventre pieno di feti mostruosi: basta il peso del nostro passo sulle macerie dell'Europa, per fare uscire dall'utero di questi cadaveri incinti i feti della gioventù.».

In una intervista dell'autunno del 1949 egli dichiarò di poter scrivere solo di cose che aveva visto e vissuto. Era una dichiarazione sincera, anche se, naturalmente, il «visto» e il «vissuto» di Malaparte non corrispondono, sempre e forse anzi mai, alla realtà effettuale ma ne sono una trasposizione allegorica dove verità e fantasia, oggettività e trasfigurazione onirica si incontrano e si intrecciano in un ricamo incredibilmente ricco, mosso e variegato che si sviluppa tuttavia sotto l'insegna dell'imprevedibile o dell'improbabile. Il che spiega, per inciso, perché la vita e l'opera di Malaparte siano state caratterizzate da quelle tante oscillazioni e da quei tanti atteggiamenti che hanno finito per accreditarne l'immagine di cinico voltagabbana, di uomo delle contraddizioni, di persona priva di ideali, pronta a passare da una parte all'altra secondo le convenienze. Una immagine della quale, probabilmente, egli, da narcisista esteta qual era, non si curava troppo ma che poi, scoppiata la Seconda guerra mondiale e quando aveva già incontrato sul proprio cammino diverse ideologie e diverse incarnazioni di totalitarismo, dovette provocargli un certo fastidio.

Quella di Malaparte fu una vita sviluppatasi all'insegna della contraddizione, spesso apparente, e di un carpe diem che era frutto del suo narcisismo e del suo snobismo ma che celava un'ansia genuina di superare le limitazioni del proprio tempo. Fu fascista e antifascista, ma ciò non implica che egli debba essere inserito, ipso facto, nella categoria dei camaleonti.

Definito da Piero Gobetti il «più forte teorico del fascismo» e il «più spregiudicato scrittore tra i mussoliniani», aveva, proprio come Gobetti, una forte tempra di intransigentismo moralistico, temperato (o rinvigorito) da istintivo scetticismo e senso dell'ironia. E, ancora proprio come il suo amico Gobetti, finì per intravvedere in Mussolini il traditore della rivoluzione, l'uomo capace di piegarsi ai compromessi e obbedire alle leggi, spesso amorali, della politica.

Il suo fascismo, teorizzato soprattutto in L'Europa vivente (1923) e sulle pagine del periodico La conquista dello Stato, rivelava qualche affinità con la rivoluzione russa. Comunismo e fascismo gli apparivano movimenti paralleli, ma profondamente diversi, riflettendo, l'uno, l'anima collettivistica russa e, l'altro, lo spirito individualista dei latini. Entrambi erano segni visibili di una vera e propria rivolta contro lo spirito di modernità, identificato con la civiltà nordica, il liberalismo, il libero arbitrio, la democrazia. Per lui il fenomeno rivoluzionario italiano avrebbe dovuto essere «antimoderno» e il valore e il significato storico del fascismo avrebbero dovuto essere rintracciati «in questa sua storicissima funzione di restauratore dell'antico ordine classico dei nostri valori nazionali». In sostanza il fascismo sarebbe stato «l'ultimo aspetto della Controriforma» e, al tempo stesso, una reazione contro lo spirito della modernità. L'antimodernismo di Malaparte si configurava come dottrina politica originale, espressione di una corrente speculativa alternativa all'idealismo gentiliano.

Il suo fascismo degli anni Venti aveva pulsioni marxisteggianti e anarcoidi che spiegano il fascino che egli subì, in certi momenti, per l'Unione Sovietica e, nell'ultimo scorcio della sua esistenza, per la Cina di Mao. Ma sempre al di là e al di fuori delle ideologie. Cionondimeno egli non fu il prototipo dell'intellettuale fascista. Non ebbe un ruolo di rilievo all'interno del fascismo, fu ai margini del regime anche quando ricoprì incarichi di responsabilità in giornali importanti. Fu, però, per vivacità e profondità intellettuali, un uomo di statura europea, più di altri intellettuali dell'epoca rimasti provinciali e strapaesani.

Lo si vide bene a partire dall'inizio degli anni Trenta, quando, dopo il brusco licenziamento dalla direzione di La Stampa e dopo il trasferimento in Francia, pubblicò opere come Technique du coup d'Etat (1930) e Le bonhomme Lénine (1932), che gli assicurarono e consolidarono il successo internazionale. Al di là dell'aspetto letterario quelle opere, e soprattutto quelle successive, chiarirono il suo atteggiamento nei confronti di tutti i totalitarismi e, in particolare, l'anti-hitlerismo e l'anti-nazismo divenuti presto una costante della sua pubblicistica. Utilizzando il paradosso e l'ironia, Malaparte mise alla gogna i difetti dello Stato totalitario, i suoi connotati sacrali di religione laica, nonché le tendenze autodivinizzanti dei dittatori.

Deluso dal fascismo, lo fu anche dal post-fascismo e divenne, in certo senso, uno degli esponenti più significativi di quello che potrebbe essere definito l'anti-antifascismo nella presunzione che l'antifascismo non fosse altro che una forma rovesciata di fascismo. Tuttavia, al di là di tutto ciò e malgrado le sue contraddizioni, Malaparte fu un grande, efficace, inimitabile testimone e interprete della decadenza dell'Europa e della sua civiltà. Ed è questo, credo, il suo lascito principale.

Dacia Maraini: «L’amore è impeto di vita. E io nella mia ho amato tanto». La passione, la letteratura, i viaggi, il rapporto con i giganti della letteratura. La scrittrice cosmopolita, si racconta. E con il memoir "Vita mia" riapre la ferita della prigionia in Giappone nel 1943. Sabina Minardi su L'Espresso il 17 Novembre 2023

Plurale è un aggettivo che le piace. Lo usa per descrivere sé stessa. E il suo libro più recente, “Vita mia” (Rizzoli), adunata di una famiglia intera per raccontare la sua storia di bambina in un campo di prigionia, nel Giappone del 1943: con il padre Fosco, antropologo e orientalista fiorentino, la madre Topazia Alliata, artista palermitana, le sorelle Toni e Yuki. 

Da lì, da quel ricordo che smuoveva troppo dolore per essere raccontato prima, e dalla promessa mantenuta di farlo, ha origine un memoir densissimo di esperienze: letteratura, amori, incontri, Storia. E di un albero genealogico con radici estese e sorprendenti: nonna Sonia, cilena, che aveva studiato canto alla Scala; nonno Enrico, aristocratico con Tolstoj nel cuore che intanto lavorava, in Sicilia, coi vignaioli della sua cantina Corvo; nonna Yoï, mezza inglese mezza polacca, che zaino in spalla partiva a piedi per il mondo fino all’incontro con lo scultore Antonio Maraini, svizzero di origine. 

«Sono plurale, sono multietnica», dice sorridendo la scrittrice Dacia Maraini: «Vengo da una famiglia di tradizioni liberali. Dove i libri sono sempre stati importanti: mio padre mi ha insegnato a considerarli un atto di libertà. E anche con la scrittura c’è stata sempre familiarità: scrivevano i miei genitori, la mia bisnonna scriveva libri per bambini. Che lo facessi anch’io era piuttosto naturale». Scrive dagli anni Sessanta: “Le vacanze”, “L’età del malessere”, “A memoria” i primi successi, seguiti da “Memorie di una ladra”, “Donna in guerra”, da decine e decine di testi teatrali. E poi “Il treno per Helsinki”, i programmi in tv per le strade di Palermo. L’impegno femminista, che la porta a fondare negli anni Settanta il Teatro della Maddalena. Agli anni Novanta appartengono i romanzi più premiati: “La lunga vita di Marianna Ucrìa” (più di un milione di copie vendute, Premio Campiello), “Bagheria”, “Voci”, “Dolce per sé”, “Buio” (Premio Strega). In mezzo saggi, racconti, testi per la rivista Nuovi Argomenti che dirige da anni. Cittadina onoraria di Arona, dove organizza un festival, ha pubblicato libri sulla scuola (“La scuola ci salverà”), sull’Italia che cambia (“Una rivoluzione gentile”), su Chiara di Assisi (“Elogio della disobbedienza”). Nel 2022 con “Caro Pier Paolo” rievoca l’amico Pasolini. E torna a quei quasi vent’anni passati a fianco dello scrittore Alberto Moravia. Al mondo culturale di allora: da Elsa Morante a Maria Callas. Tra compagni di viaggio e avventure, dalla Cina alla Corea, dall’Africa al Giappone. 

«Il viaggio è nel mio Dna. Anche Alberto era un viaggiatore meraviglioso: proprio il viaggio è stato uno dei nostri punti di incontro. Ne abbiamo fatti molti. L’ho amato tantissimo, ma non era difficile: eravamo molto simili, avevamo le stesse passioni, potevamo restare vicini a leggere per ore. E anche se con gli altri Moravia passava per un tipo scontroso, difficile, in realtà era un uomo allegro, gioioso. Ogni tanto veniva fuori il suo lato più infantile. Aveva un carattere straordinario: generoso, gentile, non gli ho mai visto fare meschinità. Magari tutti gli uomini avessero quella dolcezza. La sua assenza è un rimpianto enorme», dice la scrittrice, occhi chiari che non hanno perso un filo del loro magnetismo, esaltato da un kajal fedele allo stesso azzurro. «Niente di speciale», sorride: «Una matita che cambio continuamente. E mi arrabbio perché non ritrovo mai la stessa».

Perché tutto muta, si trasforma. Solo l’amore resta.  

«Ho amato tanto, l’amore è stata una componente importante nella mia vita. E non parlo solo di amore per una persona. Parlo anche di amore per i libri, per i viaggi, per la conoscenza. L’amore è impeto di vita. È desiderio di conoscere e di mettermi in rapporto con gli altri. Quando si dice che l’amore finisce, credo che sia solo il sesso, che è misterioso e imprevedibile, a svanire. Quando non c’è più attrazione, se c’è stato vero amore resta un senso profondo di solidarietà, resta la tenerezza. A me è successo con Alberto quando si è sposato con un’altra donna, tra l’altro un’amica a cui voglio bene (la scrittrice spagnola Carmen Llera, ndr): è rimasto grande affetto. Non capisco come l’amore possa trasformarsi in odio. Se sono stata gelosa? No, non ho mai provato gelosia verso di lei. Di fronte all’attenzione di una persona che amo verso un’altra, scatta in me la curiosità di capire, di conoscere. E questo evita la gelosia, la trasforma in curiosità e in interesse. La gelosia è espressione di debolezza». 

E la gelosia nell’ambiente letterario: l’ha provata, l’ha percepita? «Sono una convinta animalista. Ho sempre avuto animali, caprette, piccioni, gatti, cani, cavalli. Penso che gli esseri umani soffrano i loro stessi sentimenti, rabbia e gelosia, bontà e gentilezza. Negli uomini però cultura e riflessione permettono di prevalere sugli istinti. Questo mi ha insegnato la cultura: che puoi avere momenti in cui vorresti uccidere un altro, però che essere dentro la civiltà umana vuol dire agire con rispetto». Ma era più feroce la società letteraria di un tempo o quella attuale? «Il mondo della cultura era più unito: magari c’erano dinamiche emotive più forti però c’era anche tanta solidarietà. E ci si frequentava spesso. Oggi c’è distacco, indifferenza, separazione: ognuno gioca la sua partita. Io conosco tutti gli scrittori del mio tempo, siamo in ottimi rapporti. Ma mentre una volta ci si incontrava in case private e fuori, oggi ci si vede solo in occasioni pubbliche». 

Le voci di chi non c’è più, però, continuano a ruotarle intorno: «Quella cerimoniosa e ingolata di Gadda, quella squillante e cantilenante di Maria Callas, quella morbida e didascalica di Rossellini, quella bassa e gentile di Natalia Ginzburg», scrive nella raccolta di interviste sull’infanzia intitolata “E tu chi eri?”. «Voci di amici con cui ho chiacchierato, riso, mangiato», riprende Maraini: «Bernardo Bertolucci, Laura Betti, Dario Bellezza. Se chiudo gli occhi mi sembra di sentirli». Più di tutti Pasolini: «Pier Paolo l’ho conosciuto solo negli ultimi dieci anni della sua vita, però siamo stati vicinissimi, abbiamo scritto sceneggiature. E fatto una decina di viaggi in Africa: abbiamo convissuto, condiviso la casa a Sabaudia». Pier Paolo amato dalla Callas, tutt’altro che diva snob e scontrosa nei ricordi della scrittrice: «Era dolcissima, invece, una bambina fragile. Lei stessa lo ammetteva: sul palcoscenico so cosa devo fare dalla prima all’ultima nota, nella vita sono completamente esposta, specie in amore. Un viaggio che mi dispiace di non aver fatto? In Tibet, dove mio padre andò giovanissimo con Giuseppe Tucci. Ma i viaggi capitano, hanno una loro storia. L’Africa con Pier Paolo significava inseguire un sogno di purezza. Con Alberto in Giappone sono tornata nei posti dell’infanzia». Per fare i conti con loro. «Se mi reputo fortunata? Sul piano privato sì, su quello storico no: l’esperienza del campo di concentramento è stata terribile e mi ha segnata per sempre. “Vita mia” è un libro che volevo scrivere da anni. Ogni volta però era come riaprire una ferita. Adesso, mentre vendette e odi si risvegliano, ho pensato che fosse il momento di portare la mia testimonianza». 

Dacia Maraini ha sette anni quando la sua vita cambia. Il padre, che insegna all’università di Tokyo, e la madre sono convocati dalle autorità giapponesi per giurare fedeltà al governo nazifascista della Repubblica di Salò. I due dicono di no. La coppia e le figlie vengono portati in un campo per traditori della patria. Iniziano due anni difficilissimi: costretti a vivere con pochi grammi di riso al giorno, tra malattie, vessazioni. In un campo alla periferia di Nagoya, tre stanze per 19 persone, freddo e coperte infestate dalle pulci. «Dormivamo abbracciati con una famiglia di scimmie su un albero spelato», scrive, annotando dolore e umiliazione, come quando il padre fruga nella spazzatura per cogliere dai resti dei giornali qualche notizia del mondo. «Ma nulla è più brutto della fame. Volevo chiamare questo libro semplicemente “Fame” perché eravamo prigionieri della fame, professionisti della fame. Quando la fame ti guida diventi ossessionato dal cibo; io avrei mangiato le pietre, le immaginavo diventare pane, pesce, frutta. In quelle condizioni, mio padre ci insegnava le tabelline cantando. Ci parlava di filosofia, raccontava i libri come quelle persone-libro che tramandano le storie dopo che un dittatore li ha bruciati tutti». 

Col Giappone continua ad avere un rapporto d’amore: la violenza di pochi non ha offuscato la generosità di molti. «A quel Paese devo il mio rapporto con la morte, l’idea che sia solo un passaggio dal quale si rinasce. E i morti non sono fantasmi che fanno paura, ma presenze che aiutano a vivere meglio. Amici dei bambini, come per la festa dei morti in Sicilia, mutuata dagli spagnoli». Sarà l’isola la terra che riaccoglierà i Maraini dopo il trauma del campo di concentramento, cura di mare, sole e i giardini profumati di Bagheria. Da allora i libri invaderanno la sua vita. «Ma non mi chieda quale amo di più, è come chiedere qual è il figlio preferito, impossibile rispondere. L’ultimo è sempre quello che mi coinvolge di più». E ognuno ha la sua genesi. «Come nascono? Succede che un personaggio arriva, bussa alla porta, io apro, gli offro un caffè, dei biscotti e lui mi racconta la sua storia. Poi se ne va. Ma a volte qualcuno mi chiede un letto per passare la notte e poi la mattina mi domanda la prima colazione e pretende anche il pranzo. Allora so che questo personaggio si è accampato nella mia testa e dovrò scriverne. Così è stato con Marianna Ucrìa, così con tutti gli altri. Ora era il tempo di “Vita mia”. Per spiegare come la guerra possa cambiare la vita in un soffio».

Maraini denuncia gli orrori del Novecento ma se ne dimentica uno: il comunismo. C'è spazio per tutto tranne i Gulag. Si cancella così un totalitarismo assassino. Massimiliano Parente l'11 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Molto toccante, l'ultimo libro della Maraini, solo che mi è rimasto un dubbio grande come una casa, anzi come una dacia di un gerarca sovietico. Voglio dire: la Maraini racconta della sua detenzione nei campi di prigionia in Giappone: lei era una bambina, la famiglia antifascista, il Giappone come sappiamo alleato dei nazifascisti. Queste «memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia», intitolate Vita mia e pubblicate da Rizzoli raccontano un'esperienza poco conosciuta dal grande pubblico, quella riservata ai dissidenti agli antifascisti in territorio nipponico. Non erano come i lager nazisti, ma rischiavi di morire di fame.

È un memoriale, questo di Dacia, pieno di profumi ma anzitutto tragico, e letto dall'inizio alla fine, sorvolando sulle parti piene di odori di ogni tipo (perché Dacia ha «un naso capace di captare gli odori più sottili») che se sei allergico ti viene un'allergia solo leggendo, un j'accuse contro tutti i totalitarismi, dalla caccia alle streghe alla Santa Inquisizione, dal nazismo fino alle dittature islamiche. Dacia, dopo la fine della guerra, va a visitare i campi di concentramento nazisti, tutti, perché è contro ogni totalitarismo, per vedere l'orrore, e ha fatto benissimo, dovrebbero farlo tutti. Ma si dimentica un dettaglio (chiamiamolo così), e qui il mio dubbio diventa grande come un'immensa dacia di un gerarca sovietico: il comunismo non c'è. Com'è possibile? Dovrebbe essere in pole position nella lista degli orrori insieme al nazismo e al fascismo, tanto più che la Seconda Guerra Mondiale, che ha portato la famiglia Maraini in un campo di prigionia giapponese, inizia con un patto tra Hitler e Stalin, non devo certo spiegartelo io. Oh, non ci crederete, ma se la follia fascista e hitleriana viene nominata più volte, quella stalinista e comunista neppure una volta, nella Vita mia vissuta da Dacia non ve n'è traccia. I milioni di morti sovietici non esistono. Anzi, una volta compare, per la verità, la parola comunismo, ma come critica alla «Liberazione, perché sarebbe stata una ottima occasione per infliggere un colpo decisivo alle mafie, ma loro (gli americani), per paura del comunismo, hanno preferito allearsi con i fuorilegge piuttosto che con coloro che avevano fatto la Resistenza». Certo che sì, perché una gran parte di coloro che hanno fatto la Resistenza parteggiavano per una dittatura analoga a quella nazista, e gli americani furono avvisati da un eroe nazionale in esilio, il conte Carlo Sforza, di non appoggiare la Resistenza proprio per questa ragione. La loro priorità era sconfiggere il nazismo prima, e combattere il comunismo dopo.

In compenso, nella vita di Dacia, c'è spazio per Hiroshima e Nagasaki (a questo punto perché non anche per Dresda rasa al suolo dagli inglesi?), ma in un mondo, quello giapponese, dove «la morte non è mai qualcosa di definitivo, ma una tappa, un passaggio da una vita all'altra. Questo mito come tanti altri costumi tradizionali appartiene a un mondo che sta scomparendo, nonostante la tenacia nel mantenere le antiche tradizioni. I McDonald's, i palazzi di cemento e vetro, le strade piene di automobili hanno largamente sostituito quel mondo delicato e cerimonioso fatto di odori e sapori squisiti, che vengono conservati con amori». Tuttavia non c'è una dittatura del McDonald's, Dacia. Nell'Occidente moderno puoi scegliere cosa mangiarti e cosa odorare e cosa leggere e cosa pensare. Ora accendo la mia PlayStation e mi ordino un Big Mac, che per me profumano di libertà.

Dacia Maraini, bambina nel campo di prigionia in Giappone: il racconto nel nuovo libro. ROBERTA SCORRANESE su Il Corriere della Sera di lunedì 2 ottobre 2023.

L’arresto nel 1943, la famiglia: esce martedì 3 ottobre per Rizzoli «Vita mia», cronaca degli anni trascorsi con i genitori e le sorelle a Nagoya 

Come ci ha insegnato Primo Levi, raccontare la propria sopravvivenza è un esercizio estremo, e qualche volta a certi autori non basta una vita intera per essere pronti. E forse è anche per questo motivo che a Dacia Maraini sono stati necessari decenni di gestazione prima di scrivere questo bellissimo Vita mia, in libreria da martedì 3 ottobre per Rizzoli. Non è un romanzo, ma del romanzo ha l’andamento lineare e aggraziato che si ritrova in tanti libri della scrittrice oggi ottantaseienne. Non è un vero e proprio diario, perché — come lei stessa premette sin all’inizio — molto si basa sui racconti di Fosco e Topazia, gli amati genitori. E non è nemmeno un saggio, anche se numerosi sono gli innesti di riflessione sulla storia e sul presente. 

Sì, giunti alla seconda rilettura, Vita mia sembra proprio vestire l’abito giusto: una cronaca asciutta dove l’autrice recupera il suo sguardo di bambina (aveva appena sei anni quando tutto cominciò) e racconta la sua prigionia in un campo di concentramento giapponese, assieme alla famiglia. La formula letteraria più adatta per questo racconto: in quell’ottobre di ottant’anni fa, quando gli ufficiali giapponesi si presentarono nella sua casa di famiglia a Kyoto, Dacia era troppo giovane per poter fare oggi un resoconto minuzioso. Ma troppo grande per affidarsi unicamente al racconto dei genitori.

Maraini cuce così ricordi lontani, antiche suggestioni, episodi tramandati in famiglia e ricostruzioni accurate per regalarci — «finalmente», diranno molti dei suoi lettori che aspettavano da tempo questo libro — il romanzo della prigionia, la testimonianza di una grande intellettuale del nostro tempo che sceglie di mettersi a nudo proprio adesso e non a caso. Adesso, scrive, perché «da una parte si vorrebbe dimenticare ciò che non si può dimenticare, soprattutto quando si sente che circola e si diffonde un sentimento di irritazione e di stanchezza verso la memoria, un sentimento che sentiamo come offensivo e umiliante [...]. Ma un’altra voce, meno persuasiva e più insistente, invece sprona a parlare. A dire, a rammentare, a testimoniare».

Il racconto comincia da quegli ultimi giorni d’estate del 1943, quando la famiglia Maraini viveva già da tempo in Giappone: Fosco era uno stimato antropologo, lavorava all’Università di Kyoto; la madre, Topazia Alliata, era bene inserita nella comunità culturale; Dacia parlava il dialetto della città e le due sorelle minori, Toni e Yuki, trascorrevano un’infanzia serena, tra filastrocche ispirate alla saggezza giapponese e gli omochi, i dolcetti preparati dalla balia Miki. L’8 settembre cambiò le sorti di tanti italiani, anche quelli residenti all’estero: i Maraini si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò e divennero così nemici del Paese dove abitavano, opponendosi al patto che il Giappone aveva appena concluso con la Germania nazista e l’Italia fascista.

Dopo un paio di settimane ci fu la deportazione, che assomiglia a tante di quelle che abbiamo imparato a conoscere dai romanzi e dai film sulla Shoah: l’arroganza sbrigativa dei militari, l’assenza di pietà di fronte a tre bambine piccole, che la madre scelse di portare con sé rifiutando di affidarle a un orfanotrofio, come proposto dai soldati. È il primo di tanti presagi che costellano questo libro: l’orfanotrofio al quale erano destinate Dacia e le sue sorelle verrà bombardato e tutti i bambini presenti moriranno.

È un presagio anche l’idea di Topazia di portare con sé delle lenzuola, sacrificando i vestiti, come se avesse intuito la futura utilità di cucire abiti per i carcerieri in cambio di una manciata di riso in più. E chissà come, nella misera valigia che li accompagnerà nel campo di Nagoya, Topazia ebbe l’idea di mettere anche uno scialle rosso: alla fine della guerra, quando ormai erano segregati in un altro campo, senza più carcerieri ma isolati dal resto del mondo, lo cucirà a un pezzo di lenzuolo bianco e a una vestaglia verde per comporre una bandiera italiana da issare al suolo e chiedere così aiuto agli aerei alleati che fendevano il cielo.

Il racconto della prigionia non ha nulla di enfatico, né tantomeno di retorico: Maraini sa perfettamente che il semplice resoconto delle giornate è sufficiente a restituire la tragedia della guerra e delle sue vittime. I guardiani — piccole macchiette più sciocche che malvagie — che sottraggono il cibo destinato ai prigionieri per arricchirsi sul mercato nero, le formiche ingoiate di nascosto nonostante l’inevitabile mal di pancia da intossicazione, lo scorbuto e il beri-beri che, poco per volta, erodono anche il corpo sano delle bambine, la spossatezza crescente di Topazia Alliata che denuncia «macchie agli occhi e caduta di capelli», la magrezza di Fosco, uomo un tempo atletico e sportivo.

Ma la natura raffinata di questo libro risiede anche nella capacità dell’autrice di innestare le vicende e le peculiarità della sua famiglia dentro il più ampio terreno della Storia. «La parola era diventata inutile, troppo faticosa, superflua», annota. È una piccola morte in una famiglia che viveva di vivaci dibattiti filosofici tra i genitori, haiku imparati a memoria dalle bambine, di un inesausto esercizio della discussione come strumento di libertà e di autonomia. Senza enfasi, ma con precisione, Maraini tesse un continuo confronto tra la qualità umana e intellettuale di Fosco e Topazia e l’assurdità della guerra, del razzismo, della violenza.

È qui che si ritrovano i nuclei fondanti della sua letteratura, da sempre improntata alla pietà, al rispetto degli ultimi (animali compresi) e l’inesauribile energia che la porta a schierarsi, ancora oggi, contro ogni forma di sopraffazione. E si ritrova pure una particolare attenzione al femminile: i piccoli grandi gesti di Topazia, il tentativo di violenza sessuale da parte di un soldato, al quale riuscì a sfuggire. Chi ha letto i suoi romanzi, rintraccerà in questo Vita mia una filigrana sottile che conduce, punto dopo punto, alle opere più importanti della scrittrice, come se in quei due anni di prigionia Dacia avesse composto i nuclei della sua poetica. «Come si apre una strada nella neve vergine», citando l’incipit de I racconti della Kolyma di Varlam Šalamov, un altro splendido e tragico affresco della prigionia.

Le presentazioni

Dacia Maraini presenta «Vita mia» a Padova venerdì 6 ottobre alle 19, nell’ambito della Fiera delle parole, in dialogo con Paolo Di Paolo; a Milano sabato 14 alle 16.30 alla Libreria Rizzoli della Galleria Vittorio Emanuele II, in dialogo con il direttore del «Corriere della Sera» Luciano Fontana; a Roma mercoledì 18 alle 18.30 alla Libreria Nuova Europa I Granai di via Mario Rigamonti 100, in dialogo con Sabina Minardi.

(ANSA mercoledì 8 novembre 2023) - Sono state già 617 in tre anni, tra cui oltre un centinaio di studenti, le persone che, in 34 lingue, hanno partecipato a L'ora che volge il disìo, il progetto di lettura perpetua davanti alla Tomba di Dante, nato in occasione del settecentenario dantesco del 2020 a cura del Comune di Ravenna e della Fondazione RavennAntica. Tanti cittadini, alcuni anche più volte, hanno deciso di omaggiare Dante cimentandosi con i suoi versi, così come sono sempre molti coloro che ogni giorno si fermano ad ascoltare la lettura, magari con la propria Divina commedia in mano.

Anche molti turisti apprezzano questo breve momento che valorizza un luogo, la zona del silenzio dedicata a Dante, già di per sé suggestivo. Il Sommo Poeta è stato declamato in inglese, francese, tedesco, portoghese, norvegese, ma anche in hindi, turco, cinese, arabo, vietnamita, urdu, taiwanese, serbo e kyrgyz. Diversi i personaggi noti che hanno partecipato all'iniziativa perché ospiti di eventi, come Scrittura Festival, Ravenna Teatro e Prospettiva Dante, oppure perché legati alla città. Tra loro Ivano Marescotti, Paolo Cevoli, Linus, ma anche lo scrittore Enrico Brizzi e il Premio Nobel per la letteratura 2021 Abdulrazak Gumah.

Dal 13 settembre 2020, data d'avvio del progetto voluto dal sindaco Michele de Pascale, ogni pomeriggio alle 17 nel periodo da novembre a marzo e alle 18 da aprile a ottobre (escluso il 25 dicembre) davanti alla Tomba di Dante si celebra l'universalità dell'opera dantesca. Chiunque lo desideri, previa prenotazione, può cimentarsi nella lettura di una delle opere più illustri della storia della cultura italiana. È possibile assistere alla lettura anche collegandosi alla pagina YouTube Viva Dante, che trasmette ogni giorno in streaming.

Sangiuliano: «Dante fu il fondatore del pensiero di destra in Italia». Redazione Politica su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2023.

Il ministro della Cultura: «La costruzione politica dell’Alighieri? Profondamente di destra». E poi: «Ma non dobbiamo sostituire l’egemonia culturale gramsciana con una di destra»

«La destra ha cultura e ha una grandissima cultura: il fondatore del pensiero di destra nel nostro Paese è stato Dante Alighieri, per la sua visione dell’umano e delle relazioni interpersonali e anche per la sua costruzione politica profondamente di destra». È quella che lo stesso ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, intervenendo all’evento organizzato da Fratelli d’Italia a Milano in vista delle elezioni regionali in Lombardia, definisce come «una affermazione forte».

Confessa Sangiuliano: «Fare il ministro della Cultura è un po’ il sogno della mia vita, anche per misurarmi e provare a cambiare quella corrente rispetto alla quale ho sempre remato controcorrente sia nella mia attività professionale di giornalista sia come saggista e cultore della storia. La destra ha cultura, deve soltanto affermarla». Ma, avverte ancora Sangiuliano, «non dobbiamo sostituire alla egemonia culturale gramsciana della sinistra una egemonia della destra: noi dobbiamo liberare la cultura, perché la cultura è tale se è libera e aperta dialetticamente. Io — assicura il ministro della Cultura — non voglio sostituire l’egemonia di sinistra con l’egemonia di destra, ma voglio affermare l’egemonia italiana».

Dante fondatore del pensiero di destra? Il Sommo poeta «non era né di destra né di sinistra, era un grande italiano». Monsignor Marco Frisina, fine biblista e compositore autore di un musical sulla Divina Commedia e ideatore di un viaggio triennale con le letture del capolavoro dantesco, replica così alle affermazioni del ministro Sangiuliano. «Forse — osserva all’Adnkronos — la sua è stata una provocazione. Ognuno è libero di pensarla come vuole ma io non amo mettere gli uomini di cultura del passato in uno schieramento, è inopportuno».

Dante e la politica mutevole, a tratti inspiegabile. Paolo Di Stefano su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2023.

Per il ministro della Cultura è il fondatore del pensiero di destra in Italia. Secoli di studi hanno tentato di definire la posizione del Divin poeta

Dante fondatore del pensiero di destra in Italia. Questa è la convinzione espressa ieri dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano in piena consapevolezza: «So di fare un’affermazione forte». L’Alighieri? Non solo uno scrittore di destra, ma addirittura il «fondatore della destra». Si tratta, come è noto, di questioni annose che riguardano le posizioni molteplici assunte dall’Alighieri nella politica del suo tempo e che non sono in tutta evidenza quelle del nostro tempo, dunque difficili da risolvere come se non ci fosse soluzione di continuità dal Trecento a oggi prefigurando una genealogia diretta tra il Poeta e il pensiero politico che ispira il governo Meloni.

Il ministro si pone nel filone che nel tempo ha cercato di annettere il Divin Poeta agli schieramenti ideologici più diversi tagliando secoli di fine esegesi, di cautele e di distinguo tra il Dante mutevole e a tratti inspiegabile dell’Inferno, quello che colloca tra i dannati Ulisse mentre ne esalta il libero anelito di conoscenza capace di rompere ogni confine (di sinistra?), e quello del Paradiso (sorvolando sulle varie facce del Purgatorio). Obliterando ogni passaggio dal Dante giovane al Dante in esilio, dal Dante aristotelico radicale al Dante della Monarchia, il trattato «eretico» che si guadagnò la condanna al rogo del cardinale Bernardo del Poggetto e – per secoli - l’iscrizione nell’Indice dei libri proibiti. Il totale di questo gran marasma intimo e pubblico non si può riassume nella formula: «Fondatore della destra italiana».

L’idea di Sangiuliano rischia di essere speculare a quelle convinzioni che traggono conseguenze dirette dal passato remoto fino a pretendere di cancellare ciò che disturba la sensibilità attuale. Speculare nel disossare un’opera complessa, un capolavoro che, in quanto capolavoro nel suo insieme (Commedia ma anche opere minori), non si presta a banalizzazioni che costringano centinaia di pagine, in versi e in prosa, così disseccate, in uno scomparto ideologico. Fu concesso tutt’al più al provocatore massimo, Edoardo Sanguineti, che però ci mise un libro intero per arrivare a definire Dante reazionario, pur se critico feroce verso il capitalismo nascente dei banchieri e dei mercanti e quindi anche, a suo modo, rivoluzionario. Trattandosi, però, di una lettura di stampo marxista, sarebbe paradossale immaginare una filiazione San-San (Sanguineti-Sangiuliano). Un aureo consiglio dantesco è che in certi casi «fia laudabile tacerci».

Massimo Cacciari: "Dante di destra? Ridicolo". Raffaella De Santis La Repubblica il 14 Gennaio 2023.

Il ministro della Cultura Sangiuliano “schiera” tra i fondatori del pensiero della sua parte politica. Massimo Cacciari gli risponde in questa intervista: “Era un eretico che scriveva perché tutti capissero”

"Il fondatore del pensiero di destra in Italia è stato Dante Alighieri". Non poteva passare in sordina la dichiarazione del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano che ieri è piombata nel bel mezzo dell'evento organizzato da Fratelli d'Italia a Milano in vista delle prossime elezioni regionali. Nel corso della giornata Sangiuliano ha spiegato che la "visione dell'umano della persona che troviamo in Dante" così come la "costruzione politica" sono "profondamente di destra".

Estratto dell’articolo di Raffaella De Santis per “la Repubblica” il 15 Gennaio 2023.

 «Il fondatore del pensiero di destra in Italia è stato Dante Alighieri». […] Massimo Cacciari […] ride, poi si inalbera. «[…] Non si può che ridere di fronte a esternazioni del genere, che tra l'altro ricorrono a categorie novecentesche, come destra e sinistra, che non mi sembrano molto aggiornate».

[…] «Questa velleità di appropriarsi di alcuni "fondatori della patria", è un vizio della destra storica. Pensiamo al fascismo che ogni volta che si dovevano celebrare anniversari, trasformava i cosiddetti padri della patria in una sorta di "precursori"».

È successo solo in Italia?

«Sono appropriazioni avvenute nell'Italia fascista come nella Germania nazista, caratteristiche di tutte le destre storiche europee. […] Credevo che le grandi celebrazioni in senso nazionalistico per Goethe, Wagner, Nietzsche o per la poesia medievale tedesca o per Walther von der Vogelweide fossero un ricordo del passato. Erano maniere per celebrare i propri santi, i propri eroi, i propri poeti, i propri artisti monumentalizzando le loro figure in senso nazionalistico e contrapponendole alle culture "altre"». «[…] è pura retorica nazionalistica che non considera la realtà […]».

 Veniamo al merito: come mai il ministro Sangiuliano ha scelto secondo lei di citare Dante?

«Ma come si fa? Dante è un rivoluzionario, un eretico, un uomo contro tutti. Dante è esule nei confronti di qualsiasi casa politica consolidata del suo tempo, a cominciare dalla teologia politica ufficiale. Può essere di destra tutto questo? Può essere di destra il fatto che un intellettuale all'inizio del XIV secolo scriva un libro come il Convivio in volgare perché la quintessenza di una filosofia possa essere compresa anche da chi non sa il latino? Si tratta di un'operazione contraria a ogni spirito di conservazione. […]».

[…] Consideriamo allora l'idea di impero di Dante. Potrebbe servire allo scopo?

«L'impero dantesco […] non è una forma nuova di dittatura e di autorità supernazionale. È invece l'impero che si forma dalla concordia delle nazioni. L'idea è talmente originale da mettergli tutti contro, dalla Chiesa alle nuove filosofie politiche. […] La Roma a cui guarda Dante è la patria del diritto su cui si fonda la civiltà giuridica europea».

 […] Non è la prima volta che Sangiuliano cita pilastri della nostra cultura letteraria e filosofica come baluardi di un'identità nazionale. Lo aveva già fatto con Leopardi.

«Il pessimismo leopardiano è totalmente impolitico. La sua radicalità deriva da certe correnti dell'illuminismo ma si tratta di una "solitudine ospitale" […] Per Leopardi proprio perché la natura ci condanna all'infelicità occorre essere solidali tra noi, che è poi l'essenza del pensiero di Schopenhauer. Leopardi è un rappresentante del grande pessimismo europeo». […]

(ANSA il 15 Gennaio 2023) "Ascoltare oggi un ministro della Cultura dichiarare esaltato che Dante è di destra, campione di destra della letteratura mondiale, fa inorridire e stringe il cuore": lo afferma l'ex direttore di Tg1 e Tg3 Nuccio Fava, oggi presidente della sezione italiana dell'Associazione dei Giornalisti Europei. "Sono stato in Rai per circa 30 anni e definito spesso moroteo e 'Nusco Fava': definizioni e ironie da redazione, senza risentimenti da parte mia.

Del resto, da giovane - ha ricordato -, avevo ben conosciuto la condizione delle dittature nei Paesi del socialismo reale in occasione di tornei di basket a Praga, Ungheria e Polonia. L'esperienza sul campo, le reazioni del pubblico e soprattutto i racconti dei giocatori hanno costituito il vaccino più efficace contro il comunismo e le restrizioni di ogni tipo". "La presidente Meloni dovrebbe anch'essa inorridire e con lei i vertici Rai e i partiti che l'hanno messo alla guida di un importante tg del servizio pubblico", ha concluso.

Dante di destra? “Lungi fia dal becco l’erba”! SILVIA TATTI su Il Domani il 15 gennaio 2023

La dichiarazione del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, su Dante fondatore della cultura di destra confligge con il ruolo stesso della cultura, che non deve prestarsi a strumentalizzazioni politiche. Dante non è né di destra né di sinistra: la sua opera nasce dal rifiuto di ogni lettura faziosa

La dichiarazione del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, su Dante scrittore di destra, anzi fondatore della cultura di destra, confligge con il ruolo stesso della cultura che non deve prestarsi a strumentalizzazioni politiche.

Per noi che insegniamo letteratura italiana a scuola e all’università e che formiamo le nuove generazioni a una cittadinanza responsabile, lo sviluppo di un pensiero critico lontano da ogni condizionamento è il presupposto necessario sul quale si fonda il significato stesso del nostro lavoro.

Dante non è né di destra né di sinistra; il senso etico del lavoro intellettuale, l’esercizio virtuoso del potere e la libertà di pensiero sono i fondamenti della sua opera, che nasce proprio dal rifiuto di ogni strumentalizzazione.

Lo scriveva lui stesso nelle parole del suo maestro Brunetto Latini che preannunciando al suo allievo, nel canto XV dell’Inferno, un destino glorioso, lo sottraeva a qualsiasi logica di parte e profetizzava «che l’una parte e l’altra avranno fame / di te; ma lungi fia dal becco l’erba».

Ma se anche non si trattasse di Dante, che è forse lo scrittore che più si presta a una difesa della libertà di giudizio, il rifiuto di astoriche etichette politiche varrebbe per qualsiasi altro autore: nessuna epoca e nessuna parte politica si può appropriare di scrittori che appartengono al mondo intero.

D’altronde Dante, il padre della patria, l’inventore della lingua italiana ha sempre suscitato tentativi di appropriazione proprio perché massimo interprete, dal Risorgimento in poi, della cultura nazionale; ed è proprio sul significato e sulla funzione di una cultura nazionale che vale piuttosto la pena interrogarsi nuovamente oggi, in un mondo globalizzato e profondamente diverso dall’epoca risorgimentale, dal fascismo, dal dopoguerra; e questo a partire proprio dalla tradizione linguistica e letteraria italiana che ci aiuta a prendere coscienza della nostra storia per collocarci nel presente.

Silvia Tatti è presidente dell’Associazione degli Italianisti

Estratto dell’articolo di Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 15 Gennaio 2023.

«Una cosa senza senso». Il primo giudizio di Corrado Augias sul "Dante di destra" del ministro Gennaro Sangiuliano è piuttosto secco. […]

 Quindi, Dante non è «il fondatore del pensiero di destra e conservatore italiano»?

«Allora, i concetti di destra e sinistra nascono con la Rivoluzione francese, alla fine del Settecento. Mentre Dante, come il ministro sa bene, è vissuto alcuni secoli prima. Tirarlo in ballo, in questo modo, è quanto di più sbagliato si possa fare».

 Ma Dante era, in effetti, un personaggio molto politico

«Certo, ma ragionava nei termini della cultura politica a lui propria, su cui aveva grande peso la filosofia scolastica, le lotte tra papato e impero, la corruzione della Chiesa, la commistione tra potere temporale e spirituale, un suo grande cruccio […]».

Non c'è proprio niente di destra?

«Dante è inclassificabile sulla base di categorie come destra e sinistra. Era un guelfo bianco, non voleva né il papato né l'impero, sosteneva la libertà comunale, che per noi non ha molto senso, perché non si può equiparare con le libertà individuali del cittadino, sancite appunto dalla Rivoluzione francese».

 Ma, come dice Sangiuliano, «la destra ha cultura, deve solo affermarla», o no?

«Senza dubbio esiste una cultura di destra, sia l'Ottocento che il Novecento sono stati percorsi da una robusta cultura di destra. […] ma se nel dopoguerra c'è stata un'innegabile egemonia culturale della sinistra, è solo per un fatto empirico: buona parte di chi svolgeva professioni culturali, dal teatro al cinema all'editoria, stava da quella parte. Proprio perché la cultura di destra era uscita sconfitta dal fascismo».

[…] È d'accordo almeno sul fatto che dobbiamo ridurre l'uso di anglicismi e parole mutuate da altre lingue?

«Su questo sì, bisogna riscoprire l'italiano, ma con ragionevolezza. […] si possono dire tante cose usando l'italiano, noto una certa pigrizia. Come quelle riunioni tra finanzieri, dove spesso si cade nel ridicolo per l'uso esagerato dell'inglese».

 Le trovo un'altra cosa su cui forse siete d'accordo: la cultura va pagata, altrimenti si svilisce il nostro patrimonio artistico?

«Sì, penso sia giusto pagare per accedere a un museo. Con prezzi ragionevoli, alcune agevolazioni, sconti per studenti e altre categorie, come già previsto, giornate gratuite. Ma, se i ragazzi spendono dieci euro per una pizza, possono spenderli anche per un museo». […]

La visione "dantesca" della destra. Mentre infuria la polemica sulla dichiarazione del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano su Dante, mi è tornato in mente un incontro, risalente agli anni '80 con Natalino Sapegno, uno dei maggiori studiosi del Poeta. Francesco Perfetti il 16 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Mentre infuria la polemica sulla dichiarazione del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano su Dante visto come esponente o prototipo di una linea culturale riconducibile alla destra, mi è tornato in mente un incontro, risalente agli anni '80 con Natalino Sapegno, uno dei maggiori studiosi del Poeta. Gli avevo chiesto un pensiero sull'attualità di Dante. E lui scrisse per me due paginette autografe dove affermava che non aveva molto senso parlare dell'attualità di un poeta, e in particolare di Dante: ogni grande poesia, anche la più vicina nel tempo, in quanto include una filosofia e una poetica, appartiene sempre al passato. Ma in quanto è poesia, e cioè cognizione e rappresentazione di sentimenti, trascrizione di una Weltanschauung in termini individuali, è sempre attuale. Sapegno si occupava di poesia, non di politica, ma riconosceva l'esistenza di una nesso fra il lavoro poetico e la Weltanshauung dell'autore. In altre parole, sosteneva che dietro l'espressione poetica si celava una «concezione della vita».

Quando il ministro Sangiuliano parla del rapporto fra Dante e la «destra» intende dire che la Weltanschauung dantesca esprime quella «visione della vita» e quei valori che costituiscono patrimonio essenziale, e non negoziabile, degli individui che, oggi, si ritengono di destra e appartenenti a una tradizione culturale che si riconosce nelle radici cristiane della civiltà europea. La parola «destra», in effetti, può generare qualche perplessità perché, storicamente, individua una «categoria» che fa la sua comparsa all'epoca della Rivoluzione francese. Ma è anche vero, che, ormai, la «destra» si autoidentifica in valori, idee, istituzioni ben precise, in molti casi mutuate dalla tradizione pre-rivoluzionaria. Il che, per inciso, rende risibili le accuse mosse a Sangiuliano di aver voluto distorcere il pensiero di Dante utilizzando categorie estranee all'epoca del poeta perché, in realtà, il ministro ha voluto far notare come sia, invece, la Weltanschauung dantesca a ritrovarsi nelle idee e nei convincimenti degli uomini di destra.

Detto questo, mi sembra non abbiano né capo né coda certe manifestazioni di indignazione per la lesa maestà dantesca che, per puro gusto di polemica, suggeriscono che il poeta non ebbe un pensiero politico definito, che fu al più un «eretico» o che espresse una idea di «impero» confusa e letteraria. In realtà Dante non soltanto si batté concretamente per il ripristino dell'autorità imperiale in Italia, ma fu anche un teorico della politica in senso proprio. Per polemizzare ad ogni costo con il governo Meloni si finisce per demolire, non potendo ammettere che il poeta era un fior di reazionario, la stessa figura di quel Dante che si finge di voler difendere dalla appropriazione della destra.

Libertà va cercando da secoli di propaganda. Paolo Di Paolo La Repubblica il 14 Gennaio 2023.

Il commento dopo la dichiarazione del ministro della Cultura Sangiuliano, secondo il quale Dante "il fondatore del pensiero di destra in Italia"

Dispiacque, a un D'Annunzio dal cuore "piagato", non partecipare al sesto centenario della morte di Dante - stravolto com'era dall'impresa fiumana. E soprattutto gli dispiacque non affacciarsi da una ringhiera approntata per lui a Ravenna: avrebbe, da lì, celebrato "l'implacabile Dante del Carnaro". Che al Vate pareva dovesse simbolicamente caricarsi sulle spalle il dolore di giovani ardenti e "deluse madri senza pianto" per la vittoria mutilata.

Se Dante riassume i valori della destra. Questa volta il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, l'ha sparata davvero grossa. Giancristiano Desiderio il 15 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Questa volta il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, l'ha sparata davvero grossa: Dante Alighieri, il sommo poeta, è di destra. E se, invece, avesse ragione lui? Sì, perché «il maschio poeta nazionale d'Italia», come dice non il ministro ma uno dei suoi autori preferiti, Giuseppe Prezzolini riecheggiando altri versi, di certo non lo si può collocare a sinistra. Al ministro è scappato il piede sull'accelleratore, ma resta il fatto che il poeta che fu soldato a Campaldino contro i ghibellini d'Arezzo, che fu sì guelfo ma a papa Bonifacio VIII e alla sua teocrazia non le mandava a dire, che aveva come ideale politico nientemeno che l'istituto monarchico-imperiale è né più né meno il padre della nostra lingua e della nostra letteratura attraverso le cui opere passa la bella umanità del nostro pensiero risorgimentale. E la Commedia che Boccaccio volle definir divina? Ha in sé il mondo cristiano e il mondo pagano ma uniti e sanati, ecco perché è un poema non medievale ma universale in cui Cristo è detto Giove, Catone suicida è a guardia del Purgatorio, Ulisse è l'eroe del rischio dell'anima per sete di conoscenza, mentre Paolo e Francesca ci commuovono ogni volta perché in quell'amore vediamo le nostre passioni e le loro dolci illusioni. Allora s'intende ciò che ha voluto dire Gennaro Sangiuliano: liberiamo la cultura italiana e riconosciamole tutto il valore che ha che è, insieme, nazionale ed europeo, patriottico e universale: «Non voglio sostituire l'egemonia di sinistra con l'egemonia di destra ma affermare l'egemonia italiana». Forse, la parola egemonia non è felice e risente della «egemonia marxista» «che nel pensier rinnova la paura» ma appare evidente ciò che il ministro intende dire: riscopriamo il valore della cultura italiana perché è proprio nell'indipendenza della cultura che nasce la libertà di un popolo. E cosa è stato Dante se non un grande poeta che ha fustigato i falsi «litterati», come dice nel Convivio, e che ha iniziato il suo trattato Monarchia proprio criticando aspramente i falsi intellettuali? La cultura italiana, che per tanto tempo è stata concepita organica al Partito che per Gramsci era il moderno principe, ha così disperato bisogno di ritrovare indipendenza e valore di giudizio che pensando a Dante e al suo esilio si potrebbero ripetere i suoi stessi versi che Croce volle in epigrafe alla sua Storia d'Europa: «Pur mo venian li tuoi pensieri tra i miei/ con simile atto e con simile faccia,/ sì che d'entrambi un sol consiglio fei».

L'idea del ministro è semplice quanto condivisibile, anche se va presa con il senso delle proporzioni (700 anni fa destra e sinistra non esistevano naturalmente...): la destra è la custode della cultura nazionale e Dante è per tutti noi, come voleva giustamente Francesco De Sanctis, il padre. È talmente preziosa questa idea che dentro c'è la critica stessa degli italiani perché Dante più che un arci-italiano è un anti-italiano che ha in odio la doppia verità, la retorica, la pavidità ed è un padre che con poesia e cultura ci indica la «diritta via» per uscire dalla «selva oscura» nella quale sempre siamo. Per tanto tempo la cultura italiana è stata o politicizzata o sterilizzata, è tempo di uscir a «riveder le stelle», è tempo di liberarla e riconoscere il suo alto valore civile.

Sangiuliano: "Dante è il fondatore del pensiero di destra italiano". Libero Quotidiano il 14 gennaio 2023

Non solo Prezzolini, Longanesi e D’Annunzio: secondo il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, anche Dante Alighieri è uno dei rappresentanti più forti del pensiero di destra italiano. Anzi, sarebbe stato proprio lui a gettarne le fondamenta. Alla convention di Fratelli d’Italia a Milano sulla presentazione dei candidati per le prossime Regionali, Sangiuliano - intervistato dal condirettore di Libero Pietro Senaldi - ha dichiarato: "So di dire una cosa molto forte, ma penso che Dante Alighieri sia stato il fondatore del pensiero conservatore italiano: la destra ha cultura, deve solo affermarla".

L'ex direttore del Tg2, poi, è tornato sulla battaglia contro i termini in lingua straniera, ormai sempre più presenti nel parlato comune. In particolare, ha provato a spiegare ancora una volta la sua intenzione, ovvero quella di ridare valore all'italiano: "Non come i francesi che neanche chiamano così il computer, però dobbiamo renderci conto ed essere all’altezza della nostra grandezza", ha spiegato. 

L’obiettivo, secondo Sangiuliano, è creare una "cultura della nostra nazione". Le sue parole su Dante “padre della destra” faranno discutere nei prossimi giorni ma hanno comunque riscosso successo in platea. "Quella visione dell’umano e della persona la troviamo in Dante, ma anche la sua costruzione politica, credo siano profondamente di destra - ha spiegato il ministro -. Ma io ritengo che non dobbiamo sostituire l’egemonia culturale della sinistra, quella gramsciana, a un’altra egemonia, quella della destra. Dobbiamo liberare la cultura che è tale solo se è libera, se è dialettica".

Estratto dell’articolo di Gennaro Sangiuliano per barbadillo.it – articolo del 27 giugno 2014 

Oggi, 27 giugno, ricorre il centenario della nascita di Giorgio Almirante (1914-1988). Questa foto […]  ci ritrae insieme in una manifestazione di studenti universitari a Napoli dove chiedevamo più libertà di pensiero negli atenei.

 Dedicammo la nostra riunione ad Alexsandr Solezenicyn […]. Il giorno dopo Almirante mi avrebbe citato dal palco durante un comizio al cinema Metropolitan […]. Fu un grande onore […].

Dopo la manifestazione Almirante mi tenne a colloquio per una quindicina di minuti […], invitandomi a studiare molto e con il massimo impegno, mi chiese quali libri leggevo, raccomandandomi Dante, Pirandello, Manzoni e i classici latini. “Studia, scrivi, approfondisci” mi ripeté. […]

Estratto dell’articolo di Roberto Fiordi per edicoladellenotizie.it il 16 gennaio 2023.

«Vorrei tanto che, quando non ci sarò più, si dicesse di me quello che Dante disse di Virgilio: “facesti come colui che cammina di notte, e porta un lume dietro di sé, e con quel lume non aiuta se stesso. Egli cammina al buio, si apre la strada nel buio ma dietro di sé illumina gli altri”». Si tratta di una delle tante retoriche del più grande oratore politico italiano del dopo guerra: Giorgio Almirante. […]

Estratto dell’articolo di Pierangelo Sapegno per “La Stampa” il 16 gennaio 2023.

Allora professor Canfora, ha sentito il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano che ha definito Dante come il fondatore del pensiero di destra in Italia?

«Non è una novità».

 Già Almirante, mi pare, sosteneva la stessa cosa...

«Molto prima. Durante il fascismo c'erano vari interpreti più o meno autorevoli della profezia del "veltro", che vincerà il male e lo caccerà da ogni terra, Inferno, Canto 1, verso 105, secondo i quali Dante annunciava l'arrivo di Mussolini per salvare l'Italia. Il nostro ministro non è il primo».

 

Luciano Canfora, filologo classico, storico del mondo antico, saggista e autore prolifico tradotto in tutta Europa, negli Usa come in Russia e negli Emirati Arabi Uniti, definisce queste abitudini «un po' buffe, persino ridicole».

[…] Ma allora Dante è un reazionario? Anche il filologo Erich Auerbach lo definisce così.

«Escluderei questo termine. La sua idea di libertà è molto profonda, così come quella della conoscenza. Chi ha tirato fuori quella definizione si riferisce alla speranza che lui ripone su Arrigo VII per ridare all'Italia la sua grandezza. È molto riduttivo, però. Dante merita rispetto, non può essere tirato per la giacca o il mantello, non ha senso».

 […] Ha più presa Dante o Garibaldi?

«Due icone italiane molto diverse. Piuttosto bisognerebbe ricordare alla Meloni che Garibaldi assunse la dittatura quando arrivò a Napoli. Il Regno delle due Sicilie era disfatto, e lui si richiamò subito al modello della gloria romana. E anche nel 1849, Garibaldi propose che venisse instaurata una dittatura e fece il nome di Mazzini, che si rifiutò. Se uno nomina questi personaggi in modo maldestro, si crea un corto circuito e si finisce per fare una figura un po' buffa».

Allora, Dante non è di destra, non è democristiano e non è reazionario. Ma è più laico o cristiano?

 «È un uomo profondamente libero. […] Al massimo uno potrebbe dire che è un cristiano eretico. Ricordiamo che un suo libro, Monarchia, la Chiesa l'ha messo all'indice fino ai tempi di Paolo VI». […]


 


 

 


 


 


 

La mia «provocazione» su Dante. Gennaro Sangiuliano - Ministro della Cultura - su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2023.

Il ministro della Cultura rivendica che l’affermazione «è l’iniziatore del pensiero di destra» ha un fondamento ben preciso

Caro Direttore, come ho premesso io stesso, affermare che «Dante è l’iniziatore del pensiero di destra» è una chiara provocazione culturale ma ha un fondamento ben preciso che si rintraccia nel monumentale volume «Croce e Gentile» edito dall’Istituto della Enciclopedia Italiana. Nel capitolo «Il Dante di Croce e Gentile» si legge il richiamo del professor Enrico Ghidetti al Dante «epicentro ideologico della trattazione del principio di nazionalità». Nella raccolta di scritti dedicati al Sommo Poeta, Giovanni Gentile scrive inoltre che «con Dante comincia ad affermarsi idealmente l’Italia; col suo Poema la filosofia italiana, per questo, “in ogni tempo”, Dante è stato considerato “padre spirituale della nazione, e “la sua poesia è la sua filosofia”». La rilettura di Dante si colloca in un’operazione culturale definita: l’affermazione dell’idealismo contro il positivismo. Norberto Bobbio, nel «Profilo ideologico del Novecento italiano», fa riecheggiare un’asserzione di Croce: «A chi ricordava l’afa e l’oppressura dell’età positivistica pareva che si fosse usciti all’aria aperta e vivida». Questa interpretazione di Dante apparterrà poi ad un altro grande filosofo come Augusto Del Noce che, nel saggio su Giovanni Gentile edito da «Il Mulino», pone l’autore della Divina Commedia come simbolo di unità spirituale «che è andata perduta nei secoli della decadenza morale e politica italiana, e che si tratta di riconquistare». Anche lo storico Federico Chabod, partigiano antifascista, nel saggio «L’idea di Nazione», ricorre in alcune pagine a Dante Alighieri per definire il percorso della Nazione italiana. In questo quadro si colloca anche Marcello Veneziani che, in un suo saggio, scrive: «La fonte principale, più alta e più vera della nostra identità è Dante Alighieri. A lui dobbiamo la lingua, il racconto, la matrice, la visione. L’Italia intesa più che Nazione, come Civiltà».

Nel «De Monarchia», il trattato che raccoglie il pensiero storico-politico di Dante, il Sommo Poeta analizza il rapporto tra potere temporale (Impero) e potere spirituale (Papato) e definisce la sua visione. Alighieri crede, insieme ad Aristotele e San Tommaso d’Aquino, che lo Stato abbia un fondamento razionale e naturale basato su legami gerarchici in grado di dare stabilità e ordine interno. A Dante rimanda più volte anche un altro gigante del pensiero come Oswald Spengler per delineare i tratti di quell’Occidente di cui denuncia il tramonto.

È vero: «destra» e «sinistra» non sono categorie dell’età di Dante. Sono apparse secoli dopo ma non di certo nel Novecento, come hanno affermato in queste ore alcuni esponenti della sinistra, ma si sono formate ben prima e attorno alla Rivoluzione francese. Per questo, forse, se lo si preferisce, si può definire Dante un «conservatore». Di certo, come hanno ricordato diversi osservatori in queste ore, non sono stato il primo a definire e a studiare «politicamente» Alighieri. Ne cito solo due: Umberto Eco, per il quale Dante sarebbe stato di destra, e il saggio «Dante reazionario» pubblicato da un poeta e letterato, nonché parlamentare indipendente nelle liste del PCI, come il professor Sanguineti.

Chi intende difendere l’identità nazionale, il senso della storia e della tradizione, cioè i conservatori, non può non ritrovare in Dante Alighieri un antenato nobile. Non a caso a Dante, al «più grande degli Italiani», Giuseppe Prezzolini, l’autore del «Manifesto dei conservatori», dedica un capitolo del libro «L’Italia finisce, ecco quel che resta», sottolineandone la difesa della civiltà comunale, «la più sincera, naturale, vigorosa».

L’analisi di un pensiero così denso e profondo come quello del Sommo Poeta, a cui i dantisti hanno dedicato anni di studi, non può esaurirsi nello spazio di uno scritto e tantomeno di una battuta. E nessuno pensa, sottoscritto compreso, che la sua opera e le sue idee possano essere trasposte, sic et simpliciter, al mondo contemporaneo. Ma se la provocazione che ho fatto è servita a far riprendere a qualcuno in mano i libri di Dante Alighieri, posto che lo abbiano mai fatto, è già un buon risultato.

Dante Ferretti: «A Pasolini davo del lei, la Callas cantava per il cane. Quella notte in cui dormii accanto a Naomi Campbell». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 26 Febbraio 2023.

Gli 80 anni dello scenografo e costumista: «Papà mi voleva falegname, finii a Cinecittà grazie a una suora. Martin Scorsese in luna di miele con la Rossellini venne a trovare Fellini sul set»

Andiamo a caccia di ricordi, aneddoti e immagini con Dante Ferretti. Dove ci vediamo? «Sulla luna», risponde. E pensiamo a E.T. , in fondo Spielberg è uno dei pochi maestri che mancano alla sua tavolozza. È scanzonato e ironico. Ha l’innocenza di un bambino. E ha una saggezza contadina, quest’uomo tenace e umile che ha portato la provincia italiana a Hollywood. Quando le parole si gonfiano, il grande scenografo sminuisce, devia, taglia corto.

Arrivò a Roma a 17 anni, inseguendo il suo sogno: il cinema. I suoi angeli custodi si chiamano Pasolini, Fellini, Scorsese. Per il film Kundun conobbe il Dalai Lama che su una piantina disegnò la sua casa natale: «Gli chiesi di firmarla, ha visto mai che me la possa rivendere, gli dissi scherzando». Ha una parete di premi dove spiccano i sei Oscar, divisi tra lui e sua moglie Francesca Lo Schiavo che fa la set decorator: «I premi sono esattamente come i miei anni, 80». Li ha compiuti domenica.

Com’è entrato il cinema nella sua vita?

«Da ragazzino rubavo i soldi dalle tasche di papà e andavo a vedere un film dopo l’altro. Siccome a scuola mi rimandavano ogni anno a settembre, mio padre vedeva il mio futuro accanto a lui nella sua falegnameria di Macerata (sono cresciuto in una povertà dignitosa); però gli strappai la promessa che se mi avessero promosso alla maturità mi avrebbe mandato a Roma a studiare alle Belle Arti». Facevo pratica dallo scenografo di Blasetti, che mi chiese di fargli da aiuto. Disegnavo su un tavolino contro il muro. Le prigioniere dell’isola del diavolo è stato il mio primo film. Avevo 19 anni».

Dopo poco incontrò Pier Paolo Pasolini.

«Ero aiuto scenografo di Luigi Scaccianoce nel Vangelo secondo Matteo, solo che Luigi seguiva più progetti insieme e alla fine Pasolini (con cui feci tutti i suoi film, dandoci del lei), manco ci parlava. Così per Edipo re diede a me tutto il lavoro, anche se come titolare figurava Luigi; al momento di ritirare il Nastro d’Argento nemmeno mi nominò. Una mattina tornai di corsa a casa perché volevo andare al mare a Fregene e mi ero dimenticato il costume. Squillò il telefono, era Renzo Rossellini, produceva Medea: Fai la valigia, fra tre ore ti passo a prendere e andiamo in Cappadocia. A fare che? Pasolini ti vuole per Medea. E dov’è la Cappadocia? Preparati e basta. Ricordo Maria Callas che la sera cantava per il suo cagnolino. Arrivato sul set, Pasolini mi disse di preparare il carretto che avrebbe dovuto guidare la Callas, domani ti darò il copione, aggiunse. Inventai qualcosa con stoffa, pelle e cuoio. Pasolini mi ha insegnato la spiritualità. Si era creata una comunione poetica tra noi, ho capito cosa significa avere una visione e cosa vuol dire trasformare la vita in arte. La sua morte è stata caravaggesca, la negazione dell’uomo che avevo conosciuto».

E poi?

«Scaccianoce mi richiamò per Satyricon di Fellini, il quale gli chiese una tonalità di beige per un interno. Non gliene andava bene nessuno, finché io per terra vidi un pezzo di cartone e a Federico dissi: maestro, è questo il colore che cerca? Lui annuì e chiese, ma tu chi sei? Sono qui sul set da tre mesi. Mi chiamava Dantino, mi diceva guarda che tu devi lavorare per me. La ringrazio ma perché mi vuole rovinare, risposi, mi dia dieci anni di esperienza. Una notte, a Cinecittà, sotto un lampione, io uscivo dal set di Todo modo e lui da Casanova. Mi disse, dieci anni sono passati. Con Fellini ho fatto i suoi ultimi sei film».

Sono vere le leggende dei 67 set per Le avventure del barone di Münchhausen di Terry Gilliam?

«Il budget si gonfiò fino a raddoppiare, 46 milioni di dollari, e quando finirono i soldi feci costruire la mongolfiera con la biancheria intima issata da una gru. Quel matto di Terry disse, ci siamo incontrati e abbiamo spiccato il volo. Uno dei grandi flop della storia del cinema è un capolavoro di fantasia e visionarietà: fu la mia prima nomination agli Oscar».

Una fantasia del tutto diversa da quella di Fellini.

«Federico mi chiedeva: Dantino, cosa hai sognato stanotte? Io non lo ricordavo, il giorno dopo stessa domanda e stessa risposta. Il terzo giorno per farlo contento gli dissi, sì, me ricordo il sogno di stanotte. Quando da ragazzino accompagnavo mamma dalla sarta, io accucciato per terra guardavo sotto la gonna delle donne. Rimise il mio sogno nella Città delle donne, è la scena in cui Mastroianni viene rapito in cielo da una mongolfiera che sono le gambe di una procace, enorme bambola gonfiabile. Oppure gli parlai della macellaia di Macerata che quando si chinava per tagliare la carne mostrava il suo seno smisurato. Sul set a Cinecittà ci venne a trovare Martin Scorsese, si era appena sposato con Isabella Rossellini. Giravamo la scena del bordello. Fellini disse a Martin, beh, non è il posto migliore per la vostra luna di miele».

E Scorsese la chiamò...

«Una decina d’anni dopo, per L’età dell’innocenza . Ho lavorato nove volte con lui. La major di Hollywood MGM mi fece volare sul suo aereo privato: enorme, a bordo c’erano un ristorante e il figlio di Sinatra che suonava. Avevamo letti al posto delle poltroncine, con delle tende per la privacy. Accanto a me intravedevo la sagoma nera di una modella. Quando aprì la tenda feci un salto e mi dissi: ho dormito accanto a Naomi Campbell».

Ma i pizzini che scambiava con sua moglie Francesca Lo Schiavo prima di fidanzarvi?

«Avevamo scoperto di essere vicini di casa, erano biglietti che ci lasciavamo sul cruscotto dell’auto, comunicazioni di servizio: cosa fai, dove ci vediamo. Non volevo che lavorassimo insieme, ma sono uno che cede subito. Ed è andata benissimo. Ora sto lavorando a un film musical americano intitolato Verona, su Romeo e Giulietta, diretto da Timothy Bogart. Siccome non ho memoria e non ricordo nulla, per non sbagliarmi lo chiamo Humphrey Bogart».

È vero che per The Aviator pensò a Macerata bombardata nella Seconda guerra?

«Sì, nei bozzetti di quel film ho disegnato cieli annuvolati da enormi ali metalliche, scie minacciose, rombi violenti che riempiono lo spazio fino quasi a farlo esplodere. Era il 3 aprile 1944. La nostra casa fu demolita, mio padre perse una gamba, io avevo un anno e due mesi, fui estratto dalle macerie da mia madre dopo quasi due giorni. Ci ho ripensato vedendo i bambini turchi e siriani del terremoto».

Chi è Dante Ferretti?

«Un megalomane. Realizzo architetture mastodontiche. Sono il contrario dello scultore, che scava e toglie: io, aggiungo. Ma nel nostro lavoro dobbiamo fare degli errori, se è tutto troppo perfetto, sembra finto».

Cosa le manca di Fellini?

«Le bugie».

Dario Fo, «L’ultimo mistero buffo» in un documentario inedito. Giuseppina Manin su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.

Il Nobel in un documentario diretto da Gianluca Rame. Il figlio Jacopo: «Il medico gli aveva dato poche settimane di vita. Faceva fatica a respirare ma andava in scena»

Camicia fresca di bucato, cappello di panama, Dario Fo entra nella cavea dell’Auditorium di Roma e dai tremila sugli spalti scatta la ola. È il primo agosto 2016. Notte di piena estate, Dario arriva in scena da solo, cantando. Un canto popolare che modula sul ritmo sfibrante del lavoro in fabbrica. Quindi, raccogliendo il fiato che gli resta, lancia un «grazie» così stentoreo da rimbalzare fino all’ultimo spettatore. «Non avete idea della gioia che provo per essere tornato dopo due mesi di lotta contro bronchi e corde vocali — grida roteando gli occhi felici —. Spero di essere uscito dall’afonia che mi aveva colpito». Dal tono di voce parrebbe di sì. Ma la realtà è un’altra.

«A quello spettacolo Dario teneva tantissimo, era il suo modo di dire che ce l’aveva fatta. Ma noi, dietro le quinte, sapevamo che sarebbe stata la sua ultima volta in scena» racconta Gianluca Rame, nipote di Franca, erede di una gloriosa dinastia di comici dell’arte, e regista di «Dario Fo: l’ultimo Mistero Buffo» , l’addio al teatro del Grande Giullare, prologo dell’ addio dalla vita, il 13 ottobre dello stesso anno. Un documento inedito che fa da cornice al racconto di alcune tappe dell’avventurosa storia di Dario e Franca, ma anche alla vitalità del loro teatro, che risorge di continuo nel mondo per denunciare ingiustizie e soprusi. Dopo l’anteprima di lunedì al Piccolo di Milano, il film, prodotto da Clipper Media, Luce Cinecittà, CTFR con Rai Documentari e il patrocinio di Fondazione Fo Rame, verrà proposto il 10 marzo in prima serata su Raitre.

«Il vero mistero è come ce l’abbia fatta quella sera — si chiede il figlio Jacopo —. Dario era atteso a Roma a giugno ma i suoi polmoni minati glielo avevano impedito. Il medico gli aveva dato poche settimane di vita, la sua vitalità caparbia, il suo coraggio da leone avevano smentito la previsione. A agosto Dario andava in scena. A fine spettacolo ho telefonato al luminare: dopo due ore di recita mio padre sta ancora cantando!». La scienza si arrende alla follia del Giullare. «Per me Dario cercava il coup de théâtre, crollare sul palco come Molière» azzarda Mario Pirovano, interprete di tante sue pièce. «No, lui non pensava a morire, era sempre proiettato nel futuro — sostiene Rame —. Sul letto d’ospedale, mi allungava ancora foglietti con su scarabocchiati progetti e idee».

Tante le testimonianze nel filmato. Da Paola Cortellesi a Stefano Benni, da Dacia Maraini a Roberto Vecchioni. Concordi nel definire il teatro di Dario e Franca «rivoluzionario» ancora e sempre. A Istanbul la recente messa in scena di «Clacson, trombette e pernacchi» viene bloccata perché in curdo. A Buenos Aires «Muerte acitendal de un ricotero» parte da Pinelli per parlare di Walter Bulacio, assassinato dalla polizia a 17 anni, reo di aver partecipato a un concerto rock. Secondo l’inquisitore: «Il colpevole è il rock, musica diabolica, il rock lo ha ucciso». Battuta che Fo avrebbe certo rubato al volo. «Il teatro è divertimento, follia, poesia — ricorda —. È stupore. Ma se non parlate del vostro tempo, non scoprite i giochi orrendi del potere, beh voi buttate via una vita. Magari i giornali parleranno bene di voi, ma se vi dimenticate di quelli che soffrono ingiustizie e violenze, voi non siete nessuno».

Quando Dino andò a trovare Hieronymus Bosch. Pubblicata in volume la presentazione che il giornalista firmò per l'opera dell'artista olandese. Luigi Mascheroni il 27 gennaio 2023 su Il Giornale.

La letteratura pennellata ad arte, o l'arte raccontata dalla letteratura: tra il 1966 e il 1985 la casa editrice Rizzoli pubblicò una collana straordinaria finita in molte delle nostre case, «I Classici dell'Arte». Centoundici volumi monografici dedicati ai nomi più importanti della pittura europea - dal Rinascimento al '900 di Egon Schiele e De Chirico - in cui la presentazione dell'artista era affidata spesso a firme celebri della letteratura italiana, una sorta di slalom parallelo, ed estroso per gli abbinamenti, tra i grandi «maestri» dei due campi. Esempi. Flaiano e Paolo Uccello, Sciascia e Antonello da Messina, Ungaretti e Vermeer, Testori e Grünewald, Morante e Beato Angelico, Volponi e Masaccio... L'accoppiata del secondo numero della collana, proprio nello stesso 1966, fu Dino Buzzati e Hieronymus Bosch. Bene, quella «presentazione», proprio mentre a Palazzo Reale di Milano è in corso la mostra Bosch e un altro Rinascimento diventa oggi un volumetto illustrato, a cura del buzzatianus maximus Lorenzo Viganò. Dino Buzzati, Il maestro del Giudizio Universale (Henry Beyle, pagg. 80, ill., euro 30). E c'è da impazzire ad assistere al duello fra la penna dello scrittore-giornalista e il pennello folle del maestro fiammingo.

Beh, insomma, volete sapere cosa s'inventa Buzzati? Come nei suoi migliori pezzi giornalistici, trasforma la presentazione in una novella fantastica, immagina un viaggio in terra d'Olanda, nella città in cui nacque Hieronymus Bosch, che si scrive proprio così: 's-Hertogenbosch, e dà vita a un incontro molto particolare con un discendente del pittore. Il quale rivela a Buzzati, e Buzzati a noi lettori-spettatori, l'esistenza di un'opera perduta, il Giudizio Universale; e soprattutto che Bosch, da tutti considerato artista del mostruoso e dell'assurdo, fu in realtà - leggi qui - uno squisito realista. Ciò che dipinse, dovete crederci, lui lo vedeva veramente...

"Prego scridipingere ancora" Le lettere dei fan di Buzzati. Ecco biglietti, fogli e fax che editori, romanzieri, lettori, registi e alpinisti inviarono negli anni allo scrittore e pittore. Paolo Bianchi il 27 gennaio 2023 su Il Giornale.

Gli scrivevano tutti. Altri scrittori, ovviamente, e giornalisti, ma anche editori, pittori, registi, alpinisti, critici, insegnanti e comuni cittadini, lettori del Corriere della sera. Dino Buzzati (1906-72) fu un punto di riferimento e di collegamento fra mondi anche molto distanti fra loro. Si sono appena concluse diverse rievocazioni della sua figura, nel cinquantenario della scomparsa, caduto l'anno scorso, e ancora va segnalata qualche coda significativa. Per esempio un'interessante selezione di lettere, rinvenute nell'archivio dell'Associazione internazionale Dino Buzzati ed esposte fino al 26 febbraio alla Galleria d'arte moderna «Carlo Rizzarda» di Feltre (Belluno), in una mostra a cura di Marco Perale opportunamente intitolata Corrispondenze. Un evento raro, dato che di epistolari buzzatiani ne sono stati pubblicati ben pochi.

«Ti guardo in faccia, così spiritato con i tuoi occhietti che mandano lampi e resto a sentire le tue garbate follie col più vivo piacere. Col vantaggio che qualche volta, parlando, si sente che sei un poeta vero» gli scrive l'editore Neri Pozza in una lettera del 14 novembre 1962. E infatti aggiunge: «Ti raccomando un libro di poesia, che dobbiamo fare per nostro divertimento (e per quello di pochi altri). Che cosa aspetti?».

Gli editori stanno sempre a chiedergli qualcosa. Livio Garzanti, un uomo evidentemente abituato a comandare, il 14 ottobre del 1971 gli manda due biglietti vergati a mano. Nel primo, in risposta al ringraziamento per la stampa del libro illustrato I miracoli di Val Morel, gli dice: «Anche lo spirito del suo libretto mi riporta ai suoi primi libri, a Barnaba, ai Segreti del bosco vecchio che sono ancora Garzanti (peccato che i Miracoli si incontrino ora in libreria col Suo nuovo libro di racconti)». Poi gli liscia il pelo: «Complimenti anche al pittore». Nel secondo biglietto il tono è un po' più autoritario: «Carpi mi dice che Lei si è interessato al suo libro e che ne ha promesso una recensione () Ma se questa è la sua promessa la prego: mi pubblichi il suo pezzo presto perché un libro come quello muore per Natale e poi difficilmente risorge; bisogna dargli una spinta subito».

Il 29 agosto del 1966, Vittorio Sereni, dalla direzione editoriale della Mondadori, gli manda una letterina che denota come il marketing non fosse del tutto alieno anche allora ai puristi della letteratura. Fa così: «Caro Buzzati, il film di Tognazzi ricavato dal tuo racconto Sette piani è ormai in lavorazione. Ricordi la vecchia idea di fare una raccolta di tuoi racconti da pubblicare in edizione economica con il titolo Sette piani, che è il titolo del racconto dal quale è stato ricavato il film? Mi avevi promesso di fare tu stesso la scelta dei racconti. Credi che si potrà intitolare l'eventuale volume Il fischio al naso come il film di Tognazzi?».

A proposito di cinema, è Ermanno Olmi a scrivergli il 24 settembre del 1967 in risposta a una lettera in cui lo scrittore si lamenta per alcune modifiche a una sua sceneggiatura del film Rai sul centenario della Galleria di Milano. «Hai ragione: le tue osservazioni sono sacrosante» gli conferma Olmi. Che poco dopo spiega: «Sono i guai dei lavori fatti troppo in fretta» e «la prossima volta che lavoreremo insieme andrà meglio». Succederà nel 1993, quando Olmi dirigerà Il segreto del bosco vecchio, tratto dall'omonimo romanzo di Buzzati.

Un altro regista con cui lo scrittore bellunese ha dei contatti è Federico Fellini, che gli scrive un «telegramma via Italcable» (altrimenti detto telex) per ringraziarlo di una recensione sul settimanale L'Europeo del suo Giulietta degli spiriti. Con lui era in corso anche una collaborazione per il famoso ultimo film di Fellini, Il viaggio di Mastorna, mai finito.

Da Santa Margherita Ligure un giorno di agosto gli scrive Vittorio G. Rossi, che gli aveva mandato un pandolce genovese per Natale e ha appena saputo, ben fuori tempo massimo, che non è stato recapitato. Il critico letterario Geno Pampaloni lo invita al Rotary club di Firenze, il germanista Bonaventura Tecchi lo ringrazia per una recensione del suo libro Gli onesti; l'architetto Gio Ponti, con una lettera graficamente molto originale, per un suo articolo sul grattacielo Pirelli; Vittorio Beonio Brocchieri gli manda un telegramma denso di riferimenti a luoghi e personaggi dei suoi libri: «Prenotato Grangala presso osteria Baliverna anno duemilatredici giorno primo aprile convitando pure tenente Drogo signorina Anfossi con altri sette messaggeri».

Qualcuno lo critica anche. Per esempio Monsignor Giuseppe Olivotti, ausiliario patriarcale di Venezia, il quale il 14 agosto 1964, dopo qualche complimento di rito, si scaglia contro un certo articolo che getterebbe «una pietra sul fiore più gentile e delicato della civiltà cristiana: il pudore. Non le pare, caro sig. Buzzati, che la nostra gioventù, la nostra gente non sia abbastanza spudorata per incoraggiarla a maggiori prodezze?». E conclude con riferimenti al crollo morale, all'impudicizia dilagante e alla morale dei lettori.

E poi c'è la pittura. Il Buzzati pittore ha ottenuto un riconoscimento postumo, forse anche perché in vita non piaceva ai critici, ormai tutti irrimediabilmente schierati a sinistra. Ma da queste lettere apprendiamo che godeva, anche come critico d'arte del Corriere, della stima di Emilio Vedova, Michele Cascella, Aldo Carpi, Enzo Morelli. Guido Cadorin invece si lamenta che il quotidiano non abbia considerato la sua ultima mostra «come un fatto eccezionale».

Quanto a lui, Cesare Zavattini gli suggerisce: «Perché non fai dei fatti di cronaca? Sarebbero il tuo pane. O sbaglio?». Un consiglio che verrà in parte seguito. L'editore Bruno Alfieri è forse il primo a proporgli un libro sulla sua pittura. Ed è il quotidiano Paese Sera ad assegnargli un premio nel 1969 per il Poema a fumetti, anch'esso ricevuto con altezzosa perplessità dai critici.

Ma è un alpinista, Gabriele Franceschini, il 18 novembre del 1968, a rivolgergli un appello che sintetizza un'intera opera: «Pregoti scridipingere ancora».

Dino Buzzati. Dino e il fumetto. Una grande passione che va da Disney a "Diabolik". Già negli anni Cinquanta, quando in Italia si bandì una crociata contro i fumetti, da più parti considerati giornaletti idioti che rovinavano i ragazzi, Dino Buzzati non si accodò alla vulgata benpensante e moralista. Luigi Mascheroni il 24 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Già negli anni Cinquanta, quando in Italia si bandì una crociata contro i fumetti, da più parti considerati giornaletti idioti che rovinavano i ragazzi, Dino Buzzati non si accodò alla vulgata benpensante e moralista. Ce lo spiega bene Lorenzo Viganò, massimo esperto dello scrittore-giornalista che quest'anno ha curato una nuova edizione, ricchissima e con molto materiale inedito, dello storico Album Buzzati (Mondadori), solo per caso una straordinaria biografia «per immagini e parole». «Buzzati - fa notare Viganò - scrisse chiaramente che era sbagliato generalizzare, e distingueva fra certi fabbricatori di fumetti dalla fantasia stentata, la tecnica dilettantesca, i gusti bassi, tutti uguali e disegnati male, e il fumetto come mezzo di comunicazione, al pari del libro e il cinema: come ci sono libri e film deprecabili oppure originali, così ci sono fumetti pessimi e inutili o ottimi e intelligenti. Bisogna soltanto sapere - e Buzzati lo intuì subito - che la differenza fra i fumetti buoni e cattivi sta nella capacità di schiacciare o esaltare la fantasia del lettore».

Insomma, se le storie sono ripetitive e scontate, tutte sparatorie e scazzottate, e le immagini rozze e didascaliche, che dicono già tutto, scena dopo scena, allora non permetti al ragazzo di mettere in moto l'immaginazione: e quando uccidi il Babau, uccidi la fantasia; se invece il disegno è di un grande artista, e Buzzati pensava ad Arthur Rackham o a Gustave Doré, le cui illustrazioni spesso ricordiamo più degli stessi versi di Dante, allora ciò è la scintilla che dà fuoco all'immaginazione che permette al lettore di inventare il suo mondo...

E Dino Buzzati, formidabile inventore di mondi, amava davvero il fumetto, in molte sue forme. Nel 1962 esce Diabolik, creato dalle sorelle Giussani nella Milano del boom, e lui se ne innamora. C'è una famosa fotografia di Buzzati nel suo studio, mentre lavora, e alle sue spalle, appeso nella libreria, un poster del Re del terrore. Lo scrittore chiamò il suo cane, un basset hound, «Diabolik», e quando la sera, a letto, un romanzo lo annoiava, si voltava verso la moglie Almerina e le diceva «Dài, passami Diabolik!». Sono anni infestati dai Kriminal, i Satanik, i Fantax e i Sadik. Ai quali il suo dipinto La Vampira (1965) deve molto... Nel 1968 Buzzati firma la celebre prefazione all'Oscar Mondadori Vita e dollari di Paperon de' Paperoni, dimostrando di aver capito benissimo il personaggio. E nel '69, fra lo stupore di molti, pubblica il Poema a fumetti (che oggi Mondadori ripubblica), un'opera per adulti sperimentale, a metà tra il romanzo e il fumetto, che rielabora il mito di Orfeo e Euridice in chiave pop, considerato una delle prime graphic novel mai pubblicate. E qui, nel suo Poema, a conferma delle sue vecchie convinzioni, ogni tavola è un'opera d'arte.

Buzzati del resto si considerava più un pittore che uno scrittore. Infatti è un artista moderno: che ruba, cita, assembla, si appropria, dando vita a qualcosa di nuovo e di profondamente diverso dagli albi usa-e-getta dei fumetti dozzinali, qualcosa che innesca timore, inquietudine, sogni, incubi, in una parola: la fantasia. Come farà, in maniera mirabile, fra cultura alta e devozione popolare, in quello che di fatto è il suo ultimo libro pubblicato in vita, I miracoli di Val Morel (e che oggi Mondadori ripubblica nel formato originale, quello voluto dallo stesso autore nella prima edizione del 1971 per Rizzoli, con la prefazione di Indro Montanelli), una raccolta di dipinti e brevi commenti imperniati su alcuni miracoli immaginari che la tradizione attribuiva a Santa Rita da Cascia e ambientati a Valmorel, località vicino a Limana, in provincia di Belluno. La sua Belluno.

Così l'iconico "Ico" Parisi creò il suo mondo di vetro. Spirito eclettico, fu un vero maestro del design del mobile degli anni '40 e '50. Geniale anche nelle "arti minori". Luigi Mascheroni su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

Parisi, che di nome faceva Domenico- ma per tutti e per sempre fu «Ico» - era nato a Palermo nel 1916 da padre e madre siciliani trapiantati in Piemonte e poi trasferiti a Como. Che divenne la sua città e il suo lago, sulle cui rive tra gli anni '40 e '60 si ritrovò un gruppo di artisti, architetti e intellettuali fra i più brillanti e «avanguardisti» dell'epoca: Giuseppe Terragni (sarà Ico Parisi a documentare con un servizio fotografico passato alla storia la sua meravigliosa e rivoluzionaria Casa del Fascio di Como per la rivista Quadrante nel 1937), Massimo Bontempelli, Cesare Cattaneo, Pietro Lingeri, Marcello Nizzoli, Mario Radice, Manlio Rho, Sartoris...

Ico Parisi fu progettista, designer, grafico, fotografo, regista (adorava il cinema), pittore (quando lo scorso luglio Maurizio Cattelan espose all'Hangar Bicocca una gigantesca scultura-monolite in resina di 18 metri raffigurante un aereo che s' infila in una torre, qualcuno si ricordò di un quadro dall'identico soggetto di Ico Parisi, del 1985, esposto proprio qui, alla Pinacoteca civica di Como), e poi architetto (con laurea tardiva, nel '52) ma soprattutto tra i più grandi esponenti del design del mobile degli anni '40 e' 50 del Novecento. Oggi i suoi pezzi originali- tavoli e poltrone in particolare - sono battuti alle aste a cifre record. Eclettico, fantasioso, creativo, spiazzante: Ico Parisi fu un artista unico. Assieme alla moglie Luisa Aiani (1914-90), anche lei progettista e designer, formò una coppia d'arte strepitosa: nel 1948 aprirono nel centro storico di Como, in via Diaz, un luogo magico destinato a durare fino al '95, «La Ruota», un po' negozio d'arte, un po' studio di progettazione, un po' cenacolo culturale che vedrà il passaggio di amici come Lucio Fontana, Fausto Melotti, Mario Radice, Osvaldo Licini... Lui era legatissimo a Gio Ponti, e guardava al genio di Gaudì e di Le Corbusier.

Eppure, purtroppo, fuori dagli addetti ai lavori, dai collezionisti voraci (Giampiero Mughini è un cacciatore dei suoi pezzi scelti) e dai pochi agguerriti fan, Ico Parisi è ancora poco conosciuto. Ora però la sua Como gli dedica una mostra che, pur concentrandosi sulle arti dette malamente «minori» - oggettistica e complementi d'arredo: sculture-soprammobili, bicchieri e vasi in vetro, giochi da tavolo, ceramiche smaltate - apre una finestra su tutto il mondo creativo e incredibilmente innovativo di Ico&Luisa: si intitola Universo Parisi, è aperta alla Pinacoteca civica di Como (fino al 28 maggio) ed è curata da Roberta Lietti con un riuscitissimo progetto espositivo, fra tavoli rotondi girevoli e musiche d'epoca, firmato da Cristiana Lopes e Giacomo Brenna. Se volete trascorrere anche solo un'ora tra «cose» belle, in un ambiente bello, dovete venire qui per una visita.

La mostra si snoda su tre ambienti, lungo un immaginario sentiero della modernità, al piano nobile della Pinacoteca (e di sopra, nella collezione permanente, un'intera sala è dedicata alla pittura e ai mobili di Ico Parisi) e mette insieme oltre cento pezzi, molti dei quali provenienti da prestatori privati, e alcuni, pur prodotti in serie, ma evidentemente in numeri molto bassi, rarissimi o mai visti. Gli appassionati dei Parisi impazziranno, chi non li conosce imparerà ad amarli.

Nella prima sala sono stati collocati alcuni dei mobili originali in legno, disegnati dallo stesso Ico Parisi, che allestivano la galleria-atelier «La Ruota», dal '48 agli anni '90. Qui sono sistemati oggetti realizzati dalla vetreria d'arte Barovier&Toso, il primo vetro disegnato da Parisi nel'56 e rielaborato negli anni '70: un vaso da terra, altissimo, a forma cilindrica, colorato e sfumato, retto da una base in acciaio spazzolato; e poi press papier e i «cachepot Luisa», una serie di secchielli in vetro trasparente blu, verde, bianco giocati su un perfetto rapporto tra diametro e altezza...

Nella seconda parte, suddivisa in due sale, e siamo nel cuore della mostra, i pezzi d'arte sono posati su grandi tavoli che ruotano, sorta di isole della fantasia, una per ogni serie o famiglia di oggetti (mentre alle pareti sono appesi schizzi e disegni coloratissimi) trasportandoci negli anni '60 più pop: portamatite, vasi per fiori, oggetti «inutili», i pazzeschi «vetri crudeli», fermacarte (come una mai vista «chiave inglese»), labirinti, portaoggetti, sia in vetro sia in ceramica, dopo l'incontro, nei primi anni '60, di Parisi con Pompeo Pianezzola, artista e art director di una storica manifattura di ceramica artistica del Vicentino, la Zanolli&Sebellin.

«Per loro Ico disegna una serie di oggetti giocati su forme geometriche solide come il cubo, la sfera e il cono che sembrano evocare, nella loro semplicità, i giochi dei bambini - ci racconta Roberta Lietti, la curatrice - ed è una ceramica "pop", ironica e originale caratterizzata da scelte cromatiche forti e contrastanti: il bianco che si scontra con il colore rosso vivo, i cubi colorati che si sovrappongono, i fumetti, gli occhi, le labbra rosse di Marilyn che mettono in mostra l'attrazione di Parisi, quasi ossessiva, per il corpo umano». Ed ecco il vaso Bocca, le sfere Occhi, il vaso e la ciotola Impronta che riproducono, in positivo e in negativo, il disegno di una mano... E poi l'«isola» degli anni '70-'80, con una serie di nuovi oggetti in ceramica eseguiti in collaborazione con la Fornace Ibis di Giorgio Robustelli: tazze, teiere, piatti e zuppiere, "pezzi" rotti, bucati, piegati, tutti volutamente inutilizzabili, fino alla radio - la famosissima Cubo di Zanuso - abitata da personaggi grotteschi o da creature dalla bocca aperta, delle faccine che sembrano uscite da un film di Tim Burton, e ancora: oggetti in vetro - sopratutto animali: tucani, pavoni, colombine e gli amatissimi gatti- realizzati grazie all'incontro con Pino Signoretto, maestro del vetro muranese.

E infine, nell'ultima piccola stanza, ecco i due protagonisti, o meglio i loro ritratti, raramente esposti, prestati dagli eredi per l'occasione, e che facevano parte dell'arredamento di casa Parisi. Luisa, giovane trentenne, è ritratta dal marito Ico «alla rinascimentale», di profilo, nel '47, anno delle nozze; mentre Ico è il soggetto di una caricatura eseguita da Giuseppe Terragni, forse nel '36. Ico e Luisa, uno accanto all'altro, qui - come nella vita - stanno benissimo.

Estratto dell’articolo di Titti Beneduce per corriere.it il 26 maggio 2023.

Eduardo De Filippo avrebbe festeggiato oggi, 26 maggio, il suo compleanno e non l'altro ieri, com'è invece riportato in tutti i profili biografici in circolazione, e come sosteneva il diretto interessato. Lo rivela l'archivio di Stato di Napoli. La data è scritta nero su bianco nei registri anagrafici originali del 1900, custoditi presso lo stesso Archivio e che sono la fonte per gli atti di nascita integrali. 

Eduardo De Filippo, l'atto di nascita ritrovato nell'Archivio di Stato a Napoli. Ma la data è diversa: il compleanno sarebbe oggi

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Falso in atto pubblico

La recente trasmissione su Rai Uno del film di Mario Martone «Qui rido io», sulla vita di Eduardo Scarpetta, racconta, però, un'altra storia, quella vera: «Nel documento - sottolinea Carrino - Luisa De Filippo commette, sottoscrivendolo con firma autografa, insieme ai due testimoni, un falso in atto pubblico, tacendo il nome del padre naturale e attestando che si trattava di uomo celibe non parente né affine: Eduardo Scarpetta, re del teatro napoletano, all'epoca quarantasettenne, infatti, era coniugato da ventiquattro anni con la zia di Luisa, Rosa, ed ebbe altri figli fuori dal matrimonio oltre ai fratelli De Filippo, fra cui, pare, il poeta, drammaturgo e giornalista Ernesto Murolo, nato dalla sua unione con la cognata Anna De Filippo. 

Questa sua libertà d'azione sembra scaturisse - come è detto nello stesso film - dal silenzio sulla vera paternità del figlio Domenico, nato nel 1876 da una relazione di Rosa De Filippo con il re Vittorio Emanuele II - morto due anni dopo - e che Scarpetta riconobbe come proprio». «Eduardo De Filippo - si ricorda - non era il primogenito dell'unione con Luisa: due anni prima, quando lei aveva appena 19 anni, il 27 marzo 1898, era nata Annunziatina, detta Titina. Probabilmente sarà possibile fare verifiche anche sul suo atto di nascita, per raccogliere particolari inediti». «Stupisce - conclude Candida Carrino - come, a tre giorni e mezzo dal parto, Luisa si sia recata personalmente allo Stato Civile per registrare la nascita di Eduardo. Giovane e forte, affrontò con pragmatismo la sua condizione».

E il genio di Eduardo De Filippo ideò sul balcone «Napoli milionaria!». Maurizio de Giovanni su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2023.

Maurizio de Giovanni racconta la sera in cui il drammaturgo concepì il capolavoro. La frase celebre: «Il protagonista Gennaro Jovine e l’immortale “Ha da passa’ ‘a nuttata”»

Questa è la storia di un momento preciso e indeterminato. Preciso, perché è stato più volte descritto nei particolari dall’uomo che lo ha vissuto, in silenzio e solitudine. Indeterminato, perché al di là di quanto è accaduto non si sa con esattezza il tempo, l’ora, la data in cui si è verificato. Qualcosa la sappiamo. Era un tardo pomeriggio, con le ombre della sera che si allungavano rapidamente; ed era inverno, perché sappiamo che da pochi giorni era iniziato il nuovo anno. E conosciamo quale anno fosse, naturalmente.

Sappiamo anche dove ci troviamo, e quale sia la città che si apre in un panorama che in altri tempi della sua storia è stato tanto bello da commuovere, e che ora è invece tragicamente triste, tanto da spezzare il cuore dell’uomo che osserva. Siamo all’inizio del 1945, e il luogo è un balcone di un appartamento del Parco Grifeo, uno dei posti più eleganti di Napoli. Dal balcone si vede un po’ di mare, e il vulcano, e il profilo della penisola sorrentina e di Capri: ma si vede soprattutto il centro storico, devastato dai bombardamenti, sventrato dalla cacciata dell’esercito tedesco, distrutto dalla fame e dalla povertà.

L’uomo che si affaccia al balcone e guarda la sua città è appena rientrato da Roma, dove per esigenze professionali vive per la maggior parte del tempo. È uno degli autori più importanti del tempo, un immenso artista, un poeta, un drammaturgo e un attore tra i massimi della storia del teatro. È all’apice della fama, ha quarantacinque anni, quanto il secolo in cui vive. Essere artista in quel tempo significa soprattutto avere cognizione della realtà, essere capace di esprimere una profonda sensibilità sociale e politica. I suoi occhi scivolano sulla città. Nello stesso tempo, la vista gli propone la desolazione e il dolore, ma la mente fa il suo lavoro. Giambattista Vico, che in quella stessa città aveva trascorso la vita, diceva che il processo della memoria e quello dell’immaginazione non differiscono. Che il futuro ha la forma del passato, perché viene elaborato attraverso i ricordi. E quindi la mente del poeta costruisce la speranza di un ritorno, di una città che abbia il sentimento e la dolcezza del passato ma anche il forte segno di quello che è accaduto, perché il futuro conservi il senso di quella morte e di quella distruzione, che mai più dovranno accadere: mai più dovrà consentirsi quello strazio. Perché le cose accadono per essere ricordate, perché il peggior delitto di una comunità è scordarsi della sofferenza, e lasciare che si creino ancora gli elementi che l’hanno causata.

Mentre cala la sera che lascerà il posto alla notte buia di quei giorni senza luce elettrica, sul balcone di Parco Grifeo nasce una storia. Nasce nel silenzio, come nascono le storie; nasce attraverso facce nuove che hanno i tratti di volti noti; nasce con frammenti di dialogo, e con luci e ambienti che assomigliano ad altri, ma che in realtà sono del tutto nuovi. Nasce vera, e assolutamente di fantasia. Come nascono le storie, insomma. Quando lo intervisteranno, chiedendogli da dove fosse venuta quella storia e cosa avesse voluto dire in particolare, risponderà che la scrisse tutta d’un fiato, come un lungo articolo sulla guerra e le sue deleterie conseguenze. E che «rispecchiava un sentimento che io avvertivo profondamente, e che volevo comunicare. Gli orrori della guerra non dovevano essere dimenticati: era il momento di iniziare la ricostruzione, non soltanto del paese distrutto dai bombardamenti, ma soprattutto degli uomini, della loro coscienza. Il passato non doveva essere cancellato, ma scolpirsi nella mente e nel cuore di tutti, diventare un monito per l’avvenire.»

In quei primi giorni inconsapevoli di una nuova era, prima ancora di avere la perfetta cognizione di quello che era accaduto, prima che arrivassero le inconcepibili notizie degli orrori dei campi, prima di Norimberga e dei russi a Berlino, il cuore e la mente di Eduardo De Filippo, affacciato a un balcone di Parco Grifeo mentre la notte inghiottiva le macerie e i sopravvissuti, partorivano Napoli milionaria!, così, col punto esclamativo nel titolo, a mostrare l’ottusa animale determinazione a rinascere e a vivere, a ritrovare dignità e bellezza, ad abbracciarsi e a sorridere di nuovo. E soprattutto in quel momento, nell’aria che diventava fredda come sempre nelle notti d’inverno, Eduardo incontrò Gennaro Jovine: l’uomo al quale avrebbe donato voce e volto, che sarebbe stato successivamente interpretato dai più grandi attori di quella città e non solo, che sarebbe diventato il portatore dell’immagine di quel passaggio tra un’epoca e l’altra.

A ripensarci oggi, che sono passati quasi ottant’anni, è incredibile l’intuizione che si concretizzò su quel balcone quella sera. Perché le due frasi simbolo che quel personaggio avrebbe pronunciato sul palcoscenico del San Carlo meno di tre mesi dopo, quando le armi ancora sparavano nella penisola e quando la Repubblica ancora non era nata, interpretarono il tempo più di quanto avrebbero fatto i libri di storia che, a bocce ormai ferme, avrebbero tentato di tirare le fila del periodo. La guerra non è finita, avrebbe detto Gennaro di ritorno dal fronte, verificando con amarezza che le persone attorno a lui non avevano voglia di ascoltare il suo racconto; rendendosi conto per primo, e restando anche l’unico, che i nemici erano forse cambiati ma che erano ancora più pericolosi, e si chiamavano corruzione, egoismo, violenza, miseria, contro i quali si combatteva una battaglia cruciale dall’esito incerto. E l’immortale Ha da passa’ ‘a nuttata, una spinta inaspettata verso un’alba fortunatamente inevitabile, un’apertura alla speranza e a un futuro diverso. La ragione del punto esclamativo del titolo.

Immaginiamo con immensa gratitudine il momento in cui l’uomo sul balcone, con un brivido di freddo, decise di rientrare voltando le spalle al dolore e alle macerie. Immaginiamo che una volta nella stanza andò alla scrivania, e lo vediamo sedersi e prendere una penna e un foglio di carta. Con un po’ di commozione riflettiamo a come il genio dell’arte, di qualsiasi arte, risieda nell’interpretazione del proprio tempo, ma anche nell’immaginazione concreta di un futuro prossimo e forse remoto; e siamo consapevoli di avere la fortuna di poter veder e rivedere l’opera del genio, per viaggiare nel tempo e ritrovare un passato ignoto, ma anche di sentire il brivido della visita in un futuro possibile. Per non dimenticare, ma anche per poter immaginare, e per poter cambiare. A questo, in fondo, servono i balconi che danno sulla città. Non vi pare?

Elena Ferrante: «Questi tre anni? Mi sento immobile, senza nemmeno la solita spinta all’adattamento». Paolo Giordano su Il Corriere della Sera il 23 Dicembre 2022

Paolo Giordano, autore di «Tasmania», e la misteriosa autrice de «L’amica geniale» riflettono sull’incrocio di realtà e immaginazione. E compiono insieme un viaggio attraverso l’isolamento, la guerra, il tempo. Quel «meraviglioso tremendo garbuglio» di “io” e “altro”. Che (forse) solo la letteratura sa dipanare

Questo dialogo tra due grandi scrittori italiani — Paolo Giordano e Elena Ferrante — è stato pubblicato sul numero di 7 in edicola venerdì 23 dicembre. Lo proponiamo online per i lettori di Corriere.it

Cara Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti usciva alla fine del 2019. Con l’eccezione di alcune interviste e delle quattro lezioni che compongono I margini e il dettato , non abbiamo avuto suoi segnali artistici dall’interno dell’ultimo complicatissimo periodo. Mi piacerebbe sapere qualcosa su come lo ha vissuto, anzitutto dal punto di vista esistenziale, qual è stata la sua personale curva dell’emotività dall’inizio del 2020 a qui.

«Per risponderle mi sono tornati in mente quei lunghi secondi tra veglia e sonno nel corso dei quali non sai dove ti trovi. Forse sei a letto, forse sei in piedi, cerchi una porta, una maniglia, e invece graffi con le unghie la parete. In questi tre anni è stato un po’ così, lo è ancora. Ma ora sto registrando un cambiamento non da poco, dovuto, temo, anche all’invecchiamento: quel riflesso che in genere mi ha sempre spinta a saltar su, ad aggrapparmi a qualcosa di solido - una maniglia, appunto: per riscoprirla, reinventarla - si è appannato. Mi sento immobile, senza nemmeno la solita spinta all’adattamento».

Con l’irrompere della pandemia prima e l’invasione dell’Ucraina poi, a me è capitato di sperimentare momenti di estraneità verso la letteratura di invenzione. Come se l’impellenza del presente ci costringesse tutti a ripensare dalle fondamenta il patto tra chi scrive e chi legge, a riconsiderare la sospensione dell’incredulità come opzione possibile. Ne ha già parlato altrove, ma in questo frangente mi sembra ancora più rilevante tornare sull’idea che la finzione letteraria permetta un accesso più autentico alla verità. Vorrei sapere se questo tempo ha avuto ripercussioni su questa idea.

«Non lo so. Forse mi sono interrogata un po’ di più su che cosa è la realtà per chi scrive, ma non ho fatto grandi passi avanti. La realtà continua ancor più che in passato a sembrarmi un meraviglioso tremendo garbuglio di “io” e “altro”, una matassa senza capo né coda sospesa tra esigenza di racconto e minaccia permanente di caos. Scrivere per me resta ancora un calarsi in quel garbuglio con una attrezzatura il più possibile adeguata. Ma una volta mi sentivo sicura che presto o tardi, a forza di insistere, ne sarei venuta fuori con pagine vere. Oggi quella fiducia si è molto ridotta. Per esempio faccio fatica a dire cos’è una “pagina vera”, formula che fino a poco tempo fa mi sembrava ovvia».

«HO IMPARATO GIÀ DA RAGAZZA CHE OGNI COSA CI PUÒ ESSERE TOLTA CON UNO SCHIOCCO DI DITA»

«È una riuscita applicazione di convenzioni collaudate? È quel particolare tipo di verità che è la verità letteraria, un congegno dove l’invenzione ha un peso rilevantissimo? È costruire un fantasioso tessuto verbale che non si rovini sotto il peso di grevi parole attuali come “pandemia”. “Ucraina”, “terza guerra mondiale”, ma anzi le sostenga con eleganza e, insieme, ne sveli il grezzo orrore? In questo momento propendo per il cavilloso resoconto di una qualche esperienza e basta. Ma non durerà, ho creduto troppo al ruolo dell’invenzione. Ciò che definiamo autentico mi pare in genere una mossa abile e insieme fortunata della capacità di inventare».

La locandina de «La vita bugiarda degli adulti» (serie Netflix in sei episodi prodotta da Fandango e tratta dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, edito da Edizioni e/o). La serie debutterà sulla piattaforma il 4 gennaio 2023. Girata a Napoli, è stata scritta da Elena Ferrante, Laura Paolucci, Francesco Piccolo ed Edoardo De Angelis e diretta da Edoardo De Angelis

Per via di un libro recente a cui ho lavorato, e per via dell’attualità, mi trovo a pensare molto alle armi nucleari. È stato questo a farmi saltare all’occhio, credo, che qua e là nei suoi scritti compaiono le parole «atomico» e «nucleare», spesso legate all’odiosità delle armi e al potenziale di distruzione che gli esseri umani hanno creato. Mi viene in mente anche il discorso di Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica, e ciò che Morante dice sull’arte come «il contrario della disintegrazione».

«Per quel che riguarda la mia generazione, il tempo della guerra fredda è stato un efficace allenamento. Ho imparato già da ragazza che ogni cosa ci può essere tolta con uno schiocco di dita, e dagli Anni 90, fino a oggi, fino al suo bel Tasmania , le cose non appaiono affatto migliorate. Quanto a Pro e contro la bomba , non si sa mai bene come e quando le parole dei testi che abbiamo amato scivolino nelle nostre. Posso dirle però che mi ha sempre colpita quel “pro” esibito già nel titolo. Ero così atterrita dalla guerra nucleare in agguato che mi pareva impossibile che qualcuno potesse essere e agire pro bomba. Eppure Morante dedicava pagine importanti a quello smarrimento della realtà che induceva persone pensanti - scriventi come lei le definiva, - a fiancheggiare anche senza accorgersene la disintegrazione del reale. Quel testo mi ha inoculato non tanto la paura di scrivere quanto di pubblicare. Morante insegnava che a ogni pagina mal concepita, male indirizzata, rischiamo la connivenza foss’anche inconsapevole con l’orrore».

«TEMO LA MASCHILIZZAZIONE ULTERIORE DEL FEMMINILE SPACCIATA PER LIBERAZIONE»

So che come formulazione è approssimativa, ma quanto e in che modo questo anelito alla distruzione è una prerogativa maschile?

«Le rispondo malvolentieri perché in modo schematico. Il maschile ha pieni poteri e li ha conservati nei millenni plasmando la violenza secondo varie modalità e gradazioni, reinventandola, ritualizzandola, regolamentandola, lasciandola esplodere furiosamente. Le donne, in assenza di una loro forma, l’hanno subita, l’hanno appresa, l’hanno respinta, l’hanno usata sempre e soltanto dal di dentro della tradizione maschile. In questo senso non c’è, per ora, volontà di annientamento e non c’è strumento di annientamento che non sia profondamente segnato dalla storia del dominio maschile».

Le sue storie - è risaputo - esprimono una partecipazione speciale verso i personaggi femminili, di ogni età ma soprattutto giovani. Anche quando ne mette in risalto le meschinità e le doppiezze, si ravvisa un senso speciale di protezione verso le ragazze, sempre esposte a un pericolo. Le capita di avere delle inquietudini nuove, specifiche rispetto al mondo in cui si trovano le ragazze oggi? E come direbbe che è cambiato, se è cambiato, il loro desiderio?

«Temo la maschilizzazione ulteriore del femminile spacciata per liberazione. Mi pare cioè che sia in atto un processo nel quale il desiderio femminile, in ogni sua manifestazione, sia premiato, potenziato, messo al lavoro, solo se collocabile coerentemente in gerarchie maschili di realizzazione. Il rischio è un rinnovato asservimento della donna che passi proprio attraverso l’accesso ai poteri a patto che siano gestiti al modo maschile. In tal caso i vecchi pericoli si riproporrebbero anche con corpo e faccia di donna».

Giordana Marengo, 19 anni, (sotto sulla copertina di 7) al debutto nella serie «La vita bugiarda degli adulti», interpreta la protagonista Giovanna, che si confronta con gli adulti della famiglia, in particolare i genitori Andrea (Alessandro Preziosi) e Nella (Pina Turco) e con la figura enigmatica della zia Vittoria (Valeria Golino)

Nelle sue storie l’istruzione scolastica ha un ruolo decisivo nel destino delle persone e, di nuovo, soprattutto in quello delle ragazze: talvolta viene perseguita con successo, talvolta con insuccesso, altre volte è impedita oppure diventa un filtro di superiorità e ipocrisia. In ogni caso è dirimente. Di sé ha scritto: «Posso dire con serenità che solo dopo la laurea ho cominciato a imparare sul serio. Prima non c’è stato apprendimento, ma solo una continua rispettosa obbediente esercitazione che serviva a occupare posti elevati nella gerarchia della bravura». Mi piacerebbe avere un suo commento su quello che, almeno a me, pare un rigurgito patriarcale: l’accento sulla categoria del «merito», l’insistenza sulle performance, perfino l’umiliazione come elemento necessario di crescita.

«Voglio sottolinearlo: per noi ragazze anche la scuola peggiore è stata un momento indispensabile di liberazione. Questo però non significa che la scuola che ci ha educate e istruite sia stata quella di cui avevamo bisogno. E rimpiangerla non mi sembra il caso. Non parliamo poi di chi ha nostalgia di parole come «punizione», «umiliazione», «merito». Sì, lei ha ragione, siamo di fronte a uno dei tanti rigurgiti patriarcali. Ma si tratta anche di un progetto politico pericoloso che immagina la crescita come un feroce disciplinamento da caserma e la buona riuscita scolastica come facile misurazione dell’obbedienza al risaputo».

«LA LETTURA SMUOVE MONDI INTERIORI, LI FECONDA, GENERA ALTRI LIBRI, OPERE D’ARTE, FILM»

Questa conversazione avviene in occasione dell’uscita della serie di Edoardo De Angelis tratta da La vita bugiarda degli adulti . Si completa così l’elenco delle trasposizioni filmiche delle sue opere. Parlando degli adattamenti di Solaris in un articolo, lei ha usato un termine più interessante di trasposizione: ha parlato di «filiazione».

Oggi tutte le opere letterarie sono esaminate come candidate potenziali per «figliare» e questo comporta dei rischi ovvi di adesione preliminare a modelli che poco hanno a che vedere con la letteratura stessa. Perciò mi sembra ancora più rilevante interrogarsi su quale sia lo specifico della letteratura, quello specifico inaccessibile ad altre forme. Qual è per lei?

«Difficile dire: forse la parola è intimamente inserita in quell’intreccio tra dentro e fuori che anima i nostri organismi, sicché i suoi usi letterari esprimono come niente altro la condizione più segreta, più enigmatica, dell’animale umano. I libri quindi sono stimoli potenti per chiunque, la lettura smuove mondi interiori, li feconda, genera altri libri, opere d’arte, film. Non c’è da stupirsi, perciò, se il cinema fa da sempre ricorso alla narrativa. Il racconto per immagini è figlio della scrittura, che sia scrittura di una cronaca, di un racconto, di un romanzo di pregio o di consumo, di un soggetto o di una sceneggiatura. Va sottolineato piuttosto che nessun film esaurisce la sventagliata di suggestioni che offre costituzionalmente la scrittura letteraria con la sua plurivocità».

«L’IMMAGINE TRASCINA CON SÉ L’ADESSO, I FATTI MENTRE SI COMPIONO, LE VOCI MENTRE RISUONANO...»

«Il peggiore dei testi sollecita svariati possibili film, e il film che infine viene realizzato - caso mai bellissimo - è sempre il risultato di una riduzione. Il racconto per immagini, nel definire, nell’incarnare, scarta, accantona, a volte non capta le mille altre indicazioni che la scrittura custodisce. In compenso ricorre a invenzioni - nel caso direttamente sul set - che spesso sconquassano pericolosamente la struttura dei personaggi, le corrispondenze studiatissime della vicenda narrata, spezzando certe linee sottilissime, ma essenziali, di pura parola».

«Azzarderei che la specificità della letteratura è proprio questo “di più” al limite dell’immediatamente visibile che altre forme espressive sono costrette a scartare pur di realizzarsi. Non a caso, per quanto la potenza dello spettacolo abbia colonizzato l’immaginario di chi scrive e abbia condizionato le attese di chi legge, la parola resta per ora lo strumento più flessibile, più fine, per trattenere gli effetti innumerevoli e sempre sorprendenti degli urti della nostra interiorità contro il fuori, del fuori contro la nostra interiorità».

A uno specifico della letteratura mi ha fatto pensare proprio la visione della serie: il napoletano, che nella sua prosa è al più una cadenza, diviene dominante. La narrazione cinematografica non può che aderire al presente della scena, anche laddove c’è una voce fuori campo che rievoca gli eventi. La libertà della scrittura mi sembra più assoluta in questo senso.

«Sono d’accordo. L’immagine ha sempre, inevitabilmente, a che fare col presente. Il film trascina con sé l’adesso, i fatti mentre si compiono, le voci mentre risuonano, le emozioni mentre trascorrono sui volti. Anche le parole, naturalmente, sono segnate dal presente della scena, ma sono anche, contemporaneamente, per loro natura, serbatoi stracolmi di passato. E poi i tempi grammaticali permettono dislocazioni audaci, l’indiretto libero concede esplorazioni vertiginose, eccetera».

«Ma basta, non bisogna esagerare con la nostra passione primaria. Amo anche il cinema e le sue conquiste di arte adulta e autonoma. Insistere nel confronto con la letteratura rischia di non rendergli giustizia. Ho provato spesso piacere nel vedere come i miei congegni di parole, le mie combinazioni di segni alfabetici, diventavano volti determinati, sfondi determinati, voci determinate. Bisogna guardarsi, per esempio, Valeria Golino nel lavoro di Edoardo De Angelis per avere la conferma immediata della energia creativa del cinema».

"Senza le donne non va niente": la rivoluzione in teatro di Eleonora Duse. Eleonora Duse ruppe le regole del teatro ottocentesco, portando i suoi personaggi sul palcoscenico in modo naturale e sincero. Una donna dai mille volti con un talento intramontabile. Francesca Bernasconi il 15 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Tutte le donne della Duse

 La rivoluzione del teatro

 Dalla parte delle donne

 Il legame con d'Annunzio

Non era necessario comprendere le sue parole. Per riconoscere il grande talento di Eleonora Duse bastava guardarla mentre andava in scena, con le espressioni cariche di sentimenti e il tono di voce naturale e ricco di emozione. Era ormai alla fine della sua lunga carriera teatrale, quando l’attrice calcò il palcoscenico di Los Angeles, recitando in italiano. Era il 1924 e tra il pubblico sedeva anche Charlie Chaplin: “Non compresi una parola - scrisse Chaplin in quell’occasione - ma mi resi conto di essere alla presenza della più grande attrice che avessi mai visto”.

Tutte le donne della Duse

Eleonora Duse fu una donna dai mille volti, capace di esprimere i drammi, le sofferenze e le gioie dei personaggi che portava in scena. Lo fece, per la prima volta, all’età di soli quattro anni, interpretando la parte di Cosette in una versione teatrale de I Miserabili di Victor Hugo.

Nata a Vigevano da una famiglia di attori, trascorse la sua infanzia girando da una città all’altra per seguire la compagnia girovaga in cui lavoravano la madre e il padre. Dopo la sua prima esperienza come attrice, nel 1873, quando aveva quindici anni, divenne la Giulietta shakespeariana a Verona. Fu anche Desdemona e Ofelia, ma a renderla nota e apprezzata dal pubblico e dalla critica fu la drammatica interpretazione di Teresa Raquin di Émile Zola. A quel tempo, Eleonora Duse era una ragazza di appena vent’anni, ma già in grado di catturare gli spettatori, che restavano ammaliati dalla sua recitazione.

Nel corso della sua carriera, la Duse diede voce a decine di donne diverse, dalla Santuzza della Cavalleria rusticana di Giovanni Verga, alla Cleopatra di Shakespeare, fino alla Nora di Casa di bambola di Henrik Ibsen. "Le donne delle mie commedie mi sono talmente entrate nel cuore e nella testa che mentre m’ingegno di farle capire a quelli che m’ascoltano, sono esse che hanno finito per confortare me", disse Eleonora Duse parlando dei ruoli che dovette interpretare.

Dopo gli anni passati nella compagnia itinerante, la Duse entrò nel 1879 in quella Semistabile di Torino di Cesare Rossi, dove diventò prima donna e maturò la sua poetica. Il repertorio della “Divina” era orientato inizialmente versò le opere francesi, tra cui scelse spesso i drammi di Alexandre Dumas figlio. Ma la Duse non si limitava a mettere in scena quelle opere, bensì a smontarle e a riempirle con il suo personalissimo messaggio, che toccava i temi più spinosi della società borghese, dal denaro, alla famiglia, al ruolo della donna, rappresentando una società ricca di ipocrisia.

Le sue donne videro la luce per l’ultima volta il 5 aprile del 1924 a Pittsburgh, pochi giorni dopo essersi esibita a Los Angeles davanti a Charlie Chaplin. Morì il 21 aprile 1924.

La rivoluzione del teatro

Con le sue interpretazioni Eleonora Duse ruppe totalmente gli schemi del tradizionale teatro ottocentesco, fatto di attori abituati a enfatizzare toni e gesti di scena, risultando innaturali. Inoltre solitamente chi recitava utilizzava parrucche e trucco pesante, che davano al tutto un aspetto artificiale.

La “Divina”, al contrario, scelse di rimanere il più naturale possibile, sia nelle modalità di recitazione, che nei costumi e nel trucco. Il suo metodo si basava sull’istinto e, a volte, anche sull’improvvisazione, con lo scopo di dare al pubblico l’impressione di essere un tutt’uno con il suo personaggio. La Duse era solita muovere molto le braccia mentre recitava, senza però esagerare nei gesti, così da rendere il suo corpo protagonista della scena, senza sacrificare la sua spontaneità a discapito di movenza plateali o innaturali. Per interpretare i vari personaggi, la Duse si affidava all’espressività del proprio volto e all’uso sapiente della propria voce, in una perfetta alternanza di silenzi e parole.

In scena inoltre la Duse era solita utilizzare pochissime decorazioni, non si truccava e lasciava il palco quasi sgombro, per dare spazio alla donna che interpretava di volta in volta. “La sua recitazione era ridotta alla più pura e limpida essenzialità - scrisse il regista e attore Sergio Tofano - assolutamente scevra dei tanti barocchismi e capricci vocali cari alle attrici sue contemporanee”. Così facendo, sul palco Eleonora Duse si trasformava nei suoi personaggi e faceva cadere quel velo che divide l’attore e il ruolo che interpreta, annullando la distanza tra la rappresentazione e la realtà e rendendo le sue donne vere, palpabili e naturali, in grado di scatenare nel pubblico i più diversi sentimenti.

Il teatro subì una vera e propria rivoluzione perché le modalità recitative della Duse ispirarono molte attrici del suo tempo e degli anni a venire. Eleonora Duse fu un'avanguardista di quel teatro moderno, che utilizza l'espressività sincera e la naturalezza.

Dalla parte delle donne

Mentre tutti diffidano delle donne, io me la intendo benissimo con loro! […] Io mi metto con loro”. Lo disse la "Divina", perché la sua bellezza e la sua fama, ottenute negli anni, non l'avevano portata a schierarsi contro le altre donne. Al contrario, lei decise di sostenerle. Quando nel 1909 abbandonò il teatro, si dedicò ad un progetto pensato interamente per le donne. A spingerla in questa impresa fu anche la sua amicizia nata con artiste, scrittrici e intellettuali di inizio Novecento, da Matilde Serao a Sibilla Aleramo, fino alla ballerina Isadora Duncan.

Nel 1914, prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, il progetto era compiuto: Eleonora Duse inaugurò a Roma una Casa delle Attrici, composta anche da una biblioteca, che divenne una sorta di casa-libreria in cui erano benvenute le giovani colleghe. Si trattava di un luogo di incontro e di rifugio in cui le donne che lo desideravano avrebbero potuto sviluppare la propria cultura e discutere dei più svariati argomenti.

Nonostante il successo del progetto, la Casa delle Attrici chiuse dopo un solo anno e i libri vennero donati alla biblioteca per insegnanti, gestita dal Comitato Nazionale delle Donne Italiane. Il suo progetto nato per le donne terminò, ma la “Divina” continuò a stare al loro fianco, seguendo da vicino i primi passi del femminismo italiano, mantenendosi però su una linea moderata.

La vita e il percorso artistico di Eleonora Duse mostrano l’importanza delle figure femminili, sia di quelle che l’hanno accompagnata come amiche, che di quelle che ha interpretato sui palcoscenici di tutto il mondo. La sua fu una vita itinerante, fatta di spostamenti e tournée in Europa e nel Mondo, ma la costante che non cambiò mai fu la sua stima per le donne che metteva in scena e per quelle che la affiancavano. "Senza le donne non va niente - disse - Questo lo ha dovuto riconoscere perfino Dio".

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Il legame con d'Annunzio

Nel 1881 Eleonora Duse aveva sposato Tebaldo Marchetti, un attore della sua compagnia. Dal loro matrimonio era nata una bambina, Enrichetta. Ma presto l’unione tra i due risultò infelice e terminò nel 1885 con la separazione definitiva. Proprio in quel periodo, il destino della “Divina” si incrociò per la prima volta con quello dell’allora cronista, poi diventato poeta “Vate”, Gabriele D’Annunzio: era il 1882 e a Roma si incontrarono per la prima volta.

Negli anni successivi ci furono ancora un paio di scambi tra i due e, nel 1992, D’Annunzio fece pervenire all'attrice una copia delle sue Elegie romane, dedicata “alla divina Eleonora Duse”. Nacque da qui il soprannome che la la accompagnò per il resto dei suoi giorni e anche tra i posteri.

Giorno dopo giorno tra l’attrice e il poeta si stabilì un legame sempre più forte che, tra passione, tradimenti, sofferenza e amore, li tenne uniti per circa dieci anni. Quello tra la “Divina” e il “Vate” fu sia un rapporto amoroso che un’alleanza artistica e lavorativa: D’Annunzio infatti avrebbe scritto opere che la Duse avrebbe portato in scena. Con questa idea, compose La città morta ma, al momento di affidare la parte della protagonista, il poeta scelse l’attrice francese Sarah Bernhardt.

Durante gli anni della loro relazione la Duse finanziò spesso la produzione delle opere di D’Annunzio e le assicurò al successo e all’attenzione della critica. La donna, inoltre, fu fonte di ispirazione per il poeta, che negli anni della loro unione compose diverse opere. Il legame tra la “Divina” e il “Vate” procedette tra momenti di vicinanza, passione e collaborazione e periodi di allontanamento, dovuto anche alle tournée della Duse, e di crisi, fino alla separazione definitiva nel 1904.

Eleonora Duse abbandonò il teatro nel 1909 ma, spinta da necessità economiche, vi fece ritorno nel 1921. Nel frattempo, qualche anno prima, aveva visto la luce il suo unico film, Cenere, tratto dal romanzo di Grazie Deledda. Nell’aprile del 1924, dopo essersi esibita a Pittsburgh, Eleonora Duse morì a causa di una malattia ai polmoni. La sua scomparsa però non fermò il suo talento e la “Divina” continuò a vivere nelle donne a cui aveva dato voce.

Emanuel Carnevali. Il poeta Peter Pan che stregò gli Usa. Da Pound a Faulkner: l'America anni Venti impazzì per il giovane e talentuoso italiano. Davide Brullo il 7 Giugno 2023 su Il Giornale.

Al giornalista del Resto del Carlino sembrava «un uomo come tanti, un uomo della folla». Da Bologna ci vogliono meno di trenta chilometri: Bazzano è un municipio che dipende da Valsamoggia; conta, attualmente, meno di settemila abitanti. Lì il poeta che aveva ripudiato la letteratura italiana, Emanuel Carnevali nome che di per sé sottende il destino di un Emmanuele carnevalesco, di un salvatore al contrario aveva il suo reclusorio. Il giornalista scrisse di una camera «austera come una cella, disordinata come una soffitta», in affitto presso la Trattoria di Porta Castello, di un poeta dallo «sguardo franco e acceso, che mi scava dentro».

Era il 1934, Carnevali era rientrato in Italia da dodici anni, odiava Bazzano «Non fui mai felice ed adesso lo sono sempre meno... ebbi sempre la speranza di diventar scrittore, benché questa speranza fosse assai incerta e non mai espressa», scrive a Carlo Linati , dove l'odiato padre era commissario prefettizio. Alcuni amici americani, ogni tanto, gli mandavano del denaro che gli permetteva di passarsela un po' meglio. Ezra Pound, ogni tanto, andava a trovarlo: una volta gli aveva regalato una radio. Nel 1932, Ez aveva inserito alcune poesie di Carnevali tra quelle di Thomas S. Eliot, James Joyce, Marianne Moore, Hemingway e William Carlos Williams in Profile, antologia stampata da Scheiwiller che radunava i poeti modernisti più rivoluzionari dell'epoca. Il libro, tirato in 250 copie numerate, è una chicca per bibliomani. Tra le poesie di Emanuel Carnevali preferisco il poemetto Neuriade, pubblicato su Poetry nel dicembre del 1921. Il testo va letto in originale, nell'inglese monolitico, con gli archi e le frecce l'Hudson che si tramuta in Orinoco di Carnevali: «For a year his desperate hands beat the darkness. Then out of their rhythm a monster was created».

Di Poetry, tra l'altro, la più autorevole rivista di poesia degli Stati Uniti, Carnevali fu, rocambolescamente, direttore. Era il 1919 e un gruppo di scrittori si diede da fare per trovare lavoro a quell'italiano dal genio a forma di stella cometa. Nato a Firenze, testa calda e cuore oceanico, Emanuel Carnevali era partito, come tanti, verso il nuovo mondo, senza sapere bene perché, con lo scopo di levarsi di torno dalla palude italica. È il 1914, ha diciassette anni, impara la lingua leggendo i cartelloni pubblicitari; fa il lavapiatti, il garzone, lo spalatore di neve a Brooklyn. La miseria è una stimmate, lo convince di essere un redivivo Rimbaud, di cui incorpora il monito e l'enigma: «Raggiungere la libertà, scrivere poesie perfette, sentire perfettamente, amare perfettamente, vivere».

Nel 1917, grazie a Louis Grudin, francese, aspirante artista, Carnevali conosce il gotha degli scrittori del tempo. Si avvicina a Waldo Frank, che lo reputa «un uomo di intelletto vero, di profondo potere spirituale»; esordisce su Poetry con proclama onnipotente: «Voglio diventare un poeta americano perché, nella mia mente, ho ripudiato i modelli italiani di buona letteratura. Non mi piace Carducci, ancor meno D'Annunzio Credo nel verso libero. Mi sforzo di non essere un imitatore».

Per un periodo, Carnevali diventa l'idolo dei nuovi poeti d'America che vedono in lui l'Orfeo straccione, il poeta depurato da ogni spuria scolarizzazione, voce genuina giunta dal sottosuolo, il mozzo di Dante, un Whitman apolide e senza speranza. William Carlos Williams gli dedica un inno, Gloria!: «Emanuel Carnevali, il poeta nero, l'uomo vuoto, la New York che non esiste Io celebro il tuo arrivo Gesù, Gesù, salva Carnevali per me». Sherwood Anderson, il maestro di Hemingway e di Faulkner, ricorda «il mio poeta italiano dai denti bianchi e forti», il «giovanotto ben fatto, dalla pelle olivastra, dai folti capelli, il tipo d'uomo che piace alle donne». A Carnevali sposatosi, diciannovenne, in America, con Emilia Valenza, giovane piemontese emigrata , piuttosto, piacevano le donne. Per un po' andò dietro a Edna St. Vincent Millay, la poetessa del momento: avvenente, ricca, diversa. Era propenso al fallimento, agli amori rovinosi, alla rude scaltrezza di chi è sempre in debito, per sempre ingrato. Si ammalò presto perché di stenti vive, autenticamente, il poeta. «I sei mesi della sua direzione risultarono i meno proficui nella storia di Poetry e io mi sentii immensamente sollevata quand'egli lasciò l'ufficio e diede le dimissioni in vista di una misteriosa offerta da New York», taglia corto Harriet Monroe.

Nel 1925, a Parigi, presso la Contact Editions di Robert McAlmon che pubblicava Hemingway e Gertrude Stein, Djuna Barnes e Ford Madox Ford esce A Hurried Man, l'unico libro di Carnevali pubblicato in vita. Quelle prose, di sifilitica bellezza, testi tesi sempre sull'orlo dell'addio e della rivolta, sono ora riproposti, insieme all'autobiografia lunatica, leggendaria, Il primo Dio (tradotta da Maria Pia Carnevali e pubblicata in origine da Adelphi nel 1978), in L'ultimo maledetto (Edizioni readerforblind, pagg. 360, euro 17; per sviscerare la vita di Carnevali è però necessaria l'edizione di Racconti di un uomo che ha fretta curata da Gabriel Cacho Millet per Fazi nel 2005). Il poeta di esasperato candore, dal talento geyser, dà la vita per l'opera, inibendo l'ambizione nell'abominio di sé: «Ora credevo fermamente di essere l'Unico Dio. Ma nessun dio fu mai più umile di me, nessun dio fece mai sbagli peggiori, nessun dio fu mai così brutto come me».

Intorno al poeta italiano che diventò il Peter Pan dei letterati americani, nacque un breve culto, spontaneo, catacombale, sommario. Carnevali morì nel gennaio del 1942, nella clinica per malattie nervose e mentali dell'Università di Bologna, strozzato da un pezzo di pane.

Gravemente ammalato, non riusciva più a scrivere; l'ultima lettera, dettata a un amico, è rivolta a Ezra Pound, con cui aveva litigato: «Tutti mi hanno lasciato... Io sono un buon amico. Ma sono anche un valido nemico. Tu sai che se voglio ti faccio cacciare dall'Italia... Facciamo la pace, va là, e mandami di nuovo le duecento lire mensili». Ad Harlem, nei giorni americani, passeggiava, povero di tutto, all'alba, sfogliando il suo taccuino, sussurrando: «Nessuno mi vede, nessuno si meraviglia di me». Al giornalista del Carlino che era andato a intervistarlo si chiamava Ferdinando Palmieri disse che gli americani «non sono buoni», che «la lingua è una creatura, sangue, nervi, muscoli» e che non conosceva l'italiano. Disse proprio così, quel grande, folle poeta italiano: «Non conosco l'italiano».

Estratto dell’articolo di Francesca Pellas per “La Stampa” il 22 maggio 2023.

Secondo lo scrittore Emmanuel Carrère, quando pensiamo alla Russia dobbiamo fare lo sforzo di adattare la nostra idea di democrazia alla loro, e capire che là quell'idea non c'è. «La Russia ha conosciuto pochissima democrazia, se non per pochi anni sotto Boris Eltsin», ha detto dialogando con il giornalista Marco Imarisio al Salone del Libro di Torino, di fronte a una sala stracolma. «Certo, a noi fa comodo credere che il loro appoggio alla guerra sia dovuto alla propaganda. E in un certo senso è vero che vivono in un universo parallelo. Ma non si tratta solo di quello». 

[…] Non vale per tutti i russi, naturalmente, e generalizzare non si può, ma è importante capire che dietro al sostegno della popolazione al conflitto ci può essere, in gran parte, anche un sentimento di rivalsa: il desiderio di tornare a splendere al pari della Grande Russia che sono stati costretti a lasciarsi alle spalle dopo la caduta dell'Unione Sovietica.

Carrère […] è convinto che la questione sia ancora più profonda, e abbia a che fare appunto con un fatto: la Russia non ha mai davvero fatto esperienza di democrazia, se non per un attimo, e in quell'istante comunque le è parsa una cosa brutta: «Noi occidentali ormai siamo abituati a considerarla una cosa buona, a cui dovrebbero aspirare tutti. Per i russi non è così: per come l'hanno vissuta loro, è una forma di governo pericolosa, disordinata, un male da cui bisogna a tutti i costi proteggersi». 

Lo scrittore pensa che cercare di comprendere quella mentalità sia fondamentale, e che provarci non significhi appoggiarla. Qui si ricollega agli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, al centro del suo ultimo libro V13 (Adelphi), in cui racconta il lungo processo che ne è seguito.

All'epoca dei fatti, l'allora primo ministro francese Manuel Valls aveva dichiarato che «tentare di capire è già giustificare», una frase che per Carrère non solo è una «connerie», ovvero una cazzata, ma è anche un controsenso giuridico: «Un processo serve proprio a comprendere, e a farlo con rigore e metodo. Tornando alla Russia, anche in quel caso, a me piacerebbe ascoltare le ragioni di Putin, entrare nella sua testa». 

Il prossimo lavoro a cui si dedicherà, ha poi spiegato, sarà la sceneggiatura del romanzo Il mago del Cremlino, dell'italiano Giuliano Da Empoli. […] «Da noi ha avuto un successo strepitoso. Credo che in Italia se ne sia parlato meno, e mi chiedo perché». Ripensando invece a uno dei suoi titoli di maggior successo, Limonov, da molti giudicato «uno stronzo», ha confidato che per lui «Limonov ha vissuto rimanendo sempre fedele a una specie di sogno d'infanzia: essere un avventuriero. E per questo io lo rispetto».

[…] Carrère ha raccontato delle sue origini georgiane, svelando che legge un po' di russo, anche se non quanto vorrebbe. […] Ha poi rivelato, e chi l'avrebbe mai immaginato, che fino a poco tempo fa ha scritto tutti i suoi libri battendo al computer con un dito solo: non sapeva che si potesse fare diversamente. […] il suo editore all'inizio l'ha presa sul ridere: gli ha spiegato che si può battere con dieci dita, e si fa molto prima. «Io ho sorriso ma non gli ho dato retta. Dopo qualche mese, una sera in cui avevamo bevuto entrambi, sentendo che avevo continuato a scrivere con un dito lui è andato su tutte le furie, e mi ha gridato che dovevo darmi una svegliata».

E lui l'ha fatto: ora scrive non con dieci ma con sei dita, che comunque è già meglio di uno soltanto. «Peccato che con sei dita faccio più errori, quindi alla fine il tempo che ci metto è sempre lo stesso, quello che guadagno lo perdo poi a correggere». 

Ma come si fa a convivere con un talento come il suo? Non si ha mai paura che un dono del genere un giorno possa finire? Prima di lasciarlo andare gliel'abbiamo chiesto. «Sì, certo, è un pensiero che ogni tanto mi viene, e mi fa paura», ha risposto alla Stampa. «Per ora non è un'ossessione. Se dovesse succedere, mi direi che anche la fine del talento fa parte della vita».

Estratto dell’articolo di Luigi Mascheroni per “Il Giornale” il 7 marzo 2023

Emmanuel Carrère, che ieri a Porto Cervo ha ricevuto il Premio Internazionale Costa Smeralda 2023, è considerato uno dei grandi scrittori dell’oggi. Eppure, 65 anni, parigino, amato in Italia quanto e forse più che in Francia […] ha scritto libri di diversa natura, raramente catalogabili con la sola parola «romanzo». Il più recente dei quali, V13, uscito da poco anche in Italia, da Adelphi, è – come da sottotitolo – una «Cronaca giudiziaria». 

Raccoglie gli articoli che tra il 2021 e il 2022 pubblicò su alcuni quotidiani europei in cui raccontava, con scrupolo da reporter e scrittura alla Carrère, le udienze del processo sugli attentati terroristici jihadisti avvenuti a Parigi nel novembre 2015 - un venerdì 13 (V13) - al Bataclan, allo Stade de France e in diversi bistrot. Una strage che causò 130 morti e 350 feriti. 

[…] Quegli attentati risalgono al 2015. Lei crede che dopo otto anni le cose siano cambiate? O potrebbe esserci un altro Bataclan?

«Sarebbe un’illusione pensare che non possa succedere ancora. Gli studiosi dicono che lo jihadismo, come tutti i terrorismi, ha dei cicli: ci sono periodi con delle esplosioni, poi periodi di calma; ma è sbagliato pensare che non possa ricominciare. Ora è finita una certa fase, quella del Califfato, ma chi ci dice che non potrebbe essercene un’altra? E poi, attenzione: dico che simmetricamente esiste il pericolo di attentati da parte dei suprematisti bianchi». 

Lei ha seguito tutto il processo, ha provato a entrare nei meccanismi mentali degli jihadisti. La domanda è: dove comincia la follia quando c’è di mezzo Dio? Cosa ha in testa quella gente?

«Nulla. Sono di una ignoranza religiosa radicale. Si crede che nella loro testa si annidi un grande mistero. In realtà non hanno niente. Sono ignorantissimi. È solo fanatismo. Più che il dato religioso, quello che interessa loro è il discorso politico e quello di appartenenza. Almeno, questo è ciò che è emerso dal processo». 

[…] L’altro grande fronte, oggi, è la guerra: Lei con altri intellettuali ha firmato un appello per la liberazione di Alexey Navalny, l’oppositore di Vladimir Putin, detenuto in carcere in Russia dal 2021.

«Ho un’ammirazione totale per Alexey Navalny. Ha mostrato un coraggio straordinario: dopo essere stato avvelenato ha deciso di tornare nel suo Paese sapendo che sarebbe stato arrestato, rischiando la vita». 

Navalny può essere un altro Limonov, per Lei? Il soggetto di un libro?

«Perché no? È come Limonov: una persona fuori dall’ordinario. Ma rieccoci alla questione di prima: cosa posso farmene io di un personaggio del genere? Voglio dire: cosa posso farci io, proprio io, e non un altro scrittore? Per Limonov avevo meno ammirazione di quanta ne abbia oggi per Alexey Navalny, ma avevo sentito che io ero la persona giusta per raccontarlo. La gente mi diceva: “Vuoi scrivere di questo piccolo fascista russo, ma sei pazzo?”. Ma l’ho fatto, perché capivo che potevo tirarne fuori qualcosa di buono. […]». 

Perché tutte le grandi opere letterarie - e spesso anche le sue, da L’Avversario a V13 - arrivano da personaggi o eventi malvagi? Solo le vite segnate dalla sofferenza o dalla cattiveria possono generale la Bellezza?

«Non credo che l’argomento dei miei libri sia l’effetto di una particolare fascinazione morbosa che io ho per il Male. Ma sono sicuro che per restituire una visione ricca e complessa dell’esistenza umana bisogna per forza passare dalla sofferenza e dall’infelicità». 

Come è arrivato alla scrittura?

«Ovviamente dalla lettura. Ero un ragazzino timido, con gli occhiali, che leggeva tantissimo. Ed è abbastanza naturale che se leggi tanto, prima o poi ti venga la voglia di imitare gli scrittori che ammiri. Nel mio caso erano gli autori di storie horror e fantastiche. E così molto presto mi sono messo a scrivere anch’io...». 

[…] Di cosa vorrebbe scrivere ora?

«Il mondo oggi ci offre argomenti enormi. I disastri ecologi, o l’Intelligenza Artificiale, per citarne due. Mi piacerebbe, certo, occuparmene come scrittore. Di più: sento che dovrei occuparmene. Leggo, mi informo, rifletto... Ma mi sento disarmato. Lo dico senza ironia: di fronte alle grandi cose del mondo preferirei scrivere qualcosa di più piccolo, sarebbe meglio che scrivessi ad esempio la storia di mio padre». […]

125 anni dal "J'accuse...!". Quel manoscritto che svela chi era Émile Zola. Ieri l'anniversario della storica lettera con la quale lo scrittore francese difese il generale Dreyfus accusato di spionaggio. Cosa dice la sua grafia. Evi Crotti il 14 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Dalla scrittura e dalla firma dello scrittore francese Émile Zola emerge una personalità non facile da inquadrare in quanto sempre alla ricerca di sé stesso avendo come obiettivo una società sempre migliore.

Amante del bello e dell’arte, Zola possiede un notevole senso estetico (vedi grafia elegante e curata me anche sciolta e scorrevole sia nel testo sia nella firma) che lo porta a vivere una sorta di interdipendenza tra Scienza e Arte letteraria. È forse questo il motivo che lo ha spinto a scegliere il giornalismo come forma espressiva adatta al suo spirito.

Di temperamento sanguigno, egli ha sempre optato per una vita intensa e attiva, esprimendo in questo modo anche la sua innata notevole ambizione (vedi firma più grande del testo), nata forse da esperienze sofferte in giovane età.

Possiede una notevole energia (vedi pressione forte e modulata), che lo ha sempre spinge ad investimenti costantemente produttivi, rendendolo però anche facilmente insoddisfatto per il fatto di pretendere sempre il meglio da sé, rischiando punte di perfezionismo. Tutto ciò può averlo portato a cercare nello scontro e nella straordinarietà un modo per farsi notare.

Sicuro delle proprie convinzioni, egli ha portato avanti il proprio credo con determinazione e tenacia con l’evidente rischio di dover poi pagare di persona questa sua arroganza. Ciò non toglie nulla alla sua raffinata sensibilità intellettuale che, unitamente ad una sofferta emotività, ha senza dubbio favorito da un lato la scalata verso il successo, ma dall’altro ha provocato contrapposizioni da parte di chi non vedeva di buon occhio il suo modo di porsi.

Emilio Isgrò: «Montale, De Chirico, Fontana e Manzoni. La mia vita per l’arte che regalerò ai milanesi». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 25 ottobre 2023.

Lo scrittore, poeta e artista: raccontai un serial killer e incontrai John Kennedy. Con le cancellature offesi Montale

Lucio Fontana taglia, Alberto Burri brucia, Mimmo Rotella strappa e lei, Emilio Isgrò, cancella.

«Li ho conosciuti bene tutti, tranne l’ultimo: me stesso. Il mio migliore amico scelse di fare lo psicanalista per capirmi; non ci è riuscito neppure lui».

Fontana com’era?

«Dolce, gentile. Voleva piacere. Veniva alle mostre dei giovani e comprava sempre qualche opera: “Isgrò, noi dobbiamo essere concettuali!” diceva».

Burri?

«Burri non parlava quasi mai. E di piacere non gli importava nulla».

Rotella?

«Sempre in competizione con i colleghi. Un nostro collezionista, Guido Peruz, pittore lui stesso, ci invitò al suo compleanno e affidò a me il discorso: l’invidia di Mimmo si sentiva nell’aria, per placarlo dovettero fargli recitare una delle sue poesie epistaltiche, fatte di suoni».

Qual è il suo primo ricordo?

«Ho diciotto mesi, sono in braccio a mia madre Elisa, e viene il carro dei poveri a portare via la vicina di casa».

Com’era il carro dei poveri?

«Bianco. Quello dei ricchi era di legno nero».

Un ricordo di morte.

«In Sicilia morte e vita sono intrecciate. I napoletani ridono della morte; noi ci conviviamo. Loro hanno avuto la commedia, noi la tragedia; loro Eduardo e Peppino De Filippo, noi Pirandello».

Di Pirandello lei ha conosciuto le pronipoti, vero?

«Sono cresciuto a casa di Mimma e Rosanna Pirandello, che mi passarono i primi libri. Era una famiglia di destra, ma in casa dopo la guerra avevano le opere di Antonio Gramsci».

A Barcellona Pozzo di Gotto, il paese di Emilio Fede.

«Suo padre era il capo dei vigili. Il figlio lo ritrovai a Milano».

Della guerra che ricordo ha?

«Per proteggerci dai bombardamenti ci nascondevamo sotto i tavoli da lavoro di mio padre».

Cosa faceva suo padre?

«L’ebanista. Era stato a Losanna a cercare fortuna, e siccome suonava il sassofono e il clarinetto lo presero nell’orchestra del Knie, il circo svizzero. Compose un valzer tirolese, lui che era nato sui monti Peloritani, per il quale ricevo ancora i diritti d’autore».

Poi in Sicilia sbarcarono gli americani.

«Andammo in una vallata per ripararci dalle cannonate, che arrivavano dal mare e passavano sopra le nostre teste. L’unico a non avere paura fu nonno Emilio: era sordo di guerra, aveva perso l’udito per una granata sul Piave; guardava il tracciato dei razzi come se fossero fuochi d’artificio».

Com’era la Sicilia del dopoguerra?

«Molto povera, ma senza sapere di esserlo. Non fuggii dalla miseria: ero un immigrato intellettuale. Arrivai a Milano nel 1956, a diciotto anni, e mi iscrissi alla Cattolica. Ricordo il fondatore, padre Agostino Gemelli, in sedia a rotelle, con il saio da francescano».

Come si trovò a Milano?

«Benissimo. Affittavo una stanza a casa di una signora sorda, come mio nonno: davo feste e lei non se ne accorgeva. Il mio compagno Raffaele Crovi mi fece pubblicare da Schwarz la prima raccolta di poesie e mi portò a casa di Vittorini, dove incontrai Montale e Calvino».

Montale com’era?

«Ghiotto come un monello, per la disperazione della Mosca, la moglie. Da Vittorini veniva a mangiare lo stoccafisso, che da ligure apprezzava moltissimo. A Venezia lo accompagnavo a passeggiare: Montale adorava Venezia sotto la pioggia, e si appoggiava al mio braccio per non scivolare sui gradini dei ponti. Mi parlava male di Ungaretti e Quasimodo, che peraltro ricambiavano parlando male di lui».

E Calvino?

«Non era simpatico. Un ligure-piemontese che aveva preso gli aspetti più aspri di entrambe le nature. Grande scrittore, però».

Come mai lei era a Venezia?

«Fui assunto al Gazzettino. Primo servizio, il processo al mostro di Pontoglio, Vitalino Morandini».

Uno dei serial-killer italiani.

«Uccideva le persone, almeno sette, e si metteva a dormire nella stanza a fianco. Era chiaramente un folle. Il difensore d’ufficio si appellò alla clemenza della corte: gli diedero l’ergastolo solo perché la pena di morte era stata abolita. Coimputato era un ex militare bergamasco, detto Soldatòn, che parlava solo dialetto. Era innocente: non aveva ucciso nessuno. In compenso rubava i maiali».

I maiali?

«Settecento maiali. Se li era caricati in spalle uno a uno. Con gli altri inviati, Guido Nozzoli e Alfonso Madeo, impazzivamo a tradurre il suo racconto dal bergamasco. “Come mai i maiali non hanno urlato?” chiese il giudice. Soldatòn aveva riempito loro la bocca di sapone: anziché grida, uscivano bolle. Il racconto piacque, le vendite del Gazzettino aumentarono. Così mi assunsero».

A Venezia lei si sposò.

«Nella chiesa di San Zaccaria, con Brigitte Kopp, la figlia di Wilhelm, un esploratore tedesco che era stato al Polo Nord con Alfred Wegener, quello della deriva dei continenti, e dopo la drammatica morte di Wegener aveva guidato il ritorno dei superstiti. Mio suocero era un uomo affascinante, ma noi avevamo vent’anni, e il matrimonio non durò».

In quella Venezia c’era Ezra Pound.

«Andavo a pranzo alla locanda Montini con lui e sua moglie Olga Rudge. Peggio di Burri: non diceva mai un parola. Una volta per sfinimento riuscii a strappargli un mormorio: “Nella mia vita ho sbagliato tutto”».

E Peggy Guggenheim?

«Mi invitò nel suo palazzo, la trovai che sfogliava un dizionario italiano-inglese: si stava preparando all’intervista. Indossava pantofole ricavate da zampe di leone, mi offrì una vodka, si lamentò: “A Venezia i miei artisti non li capisce nessuno”».

Viaggi?

«Con Vittorini e altri andai alle Baleari, per il Premio degli Editori. Scalo a Barcellona, controllo della polizia franchista, Maria Livia Serini dell’Espresso mi passa un pacco: “Me lo porti tu?”. Lo prendo, lo apro: dietro la copertina di un libro di Pavese c’era un’intera tiratura de “La guerra de guerrillas” di Che Guevara. Solo la negligenza dei poliziotti mi salvò dalle carceri del Caudillo».

È vero che conobbe John Kennedy?

«Nel 1963 lo seguii con giornalisti di tutto il mondo in un giro elettorale per l’America profonda: South Dakota, New Mexico, Texas... Ci ricevette alla Casa Bianca: “Tu sei l’italiano, vero?”. Come l’ha capito, presidente? “Dalla cravatta”. All’uscita incrociai Ferdinando Marcos, il dittatore filippino, con la moglie Imelda».

P oi lei tornò a Milano, e arrivò il Sessantotto. Che ricordo ne ha?

«I figli cadetti della borghesia si rivoltarono contro i padri. Fu utile al cambiamento dei costumi, e deleterio per l’arte».

Perché?

«Illuse che chiunque potesse fare l’artista. Ma l’immaginazione non può andare al potere; deve essere un contro-potere. L’arte, come la scienza, non è né di destra né di sinistra; è semplicemente arte, come la scienza è semplicemente scienza. Le bandiere rosse impoverirono l’arte; così come i quadri propagandistici sono i peggiori di Guttuso, che per il resto era un grande pittore».

Come ricorda Guttuso?

«Mise in scena il proprio declino, con il maggiordomo che offriva champagne agli ospiti, lui ormai molto anziano che dipingeva in pubblico, e la moglie Mimì che gli reggeva la mano».

E Giorgio De Chirico?

«Divertente. Gli piaceva giocare, anche con le proprie opere. Magari non amava il tratto un po’ grossolano di un suo quadro giovanile e lo segnalava come un falso, e invece riconosceva un falso come autentico».

Palma Bucarelli?

«Bellissima e distaccata. Occhi di ghiaccio».

Piero Manzoni?

«Veniva da una famiglia importante, e se ne vergognava. Gli pesava anche l’omonimia con l’autore dei Promessi Sposi. Piero era timido, e per nasconderlo faceva il clown. Stava con Nanda Vigo, grande artista e agitatrice culturale, con cui litigava ferocemente, si inseguivano per la casa brandendo le forbici».

Le «Forbici» di Manzoni nascono da lì?

«Secondo me sì. In casa c’era un terribile odore di selvatico, perché Nanda teneva una volpe da compagnia. L’infelice animale si suicidò infilando la testa nella ringhiera del balcone».

Emilio Vedova?

«Sempre a far casino. Quando alla Fenice disegnò le scene di “Intolleranza”, musiche di Luigi Nono, gli spettatori esasperati lo bersagliarono di ortaggi, che lui accolse con un sorriso».

È vero che lei ha inventato il tratto distintivo della sua arte, la cancellatura, passando in tipografia un articolo di Comisso, e notando che i brani cancellati erano i migliori?

«Non è vero. Lo raccontavo per fare un po’ l’ufficio stampa di me stesso. Annunciai la morte della parola: Montale lo prese come un affronto personale, e si offese. In realtà cancellare la parola è un modo per renderla più potente. La cancellatura non distrugge; rivela, esalta. È un grido muto contro la morte. Ho anche temuto che potesse distruggere me».

Come si è salvato?

«Mi inventai che la mia arte fosse una forma di devozione alla Madonna. Ci credettero».

Alcune sue opere si intitolano «Dichiaro di non essere Emilio Isgrò».

«Mi sono ispirato a Ulisse, all’astuzia con cui inganna Polifemo. “Qual è il tuo nome?”. “Nessuno!”».

Lei fece pure causa per plagio a Roger Waters dei Pink Floyd.

«E la vinsi. Aveva una cancellatura sulla copertina del disco. Il giudice ne bloccò la vendita».

Dal 1981 sta con sua moglie, Scilla.

«Era la prima donna che mi piacesse davvero in vita mia. Mi sentivo ansioso, e per non scaricarle addosso la mia ansia la evitavo. Fu lei a insistere per andare a prendere un caffè. Siamo ancora insieme».

La Meloni come la trova?

«Non sono un nazionalista, sono per un’Europa sempre più integrata. Ma vedo in lei un’energia, una forza».

La Schlein come la trova?

«Non la trovo. Non mi pare sincera, neppure quando dice cose giuste. Spero diventi più vera».

Com’è la Milano di oggi?

«Sempre viva. Anche se quest’anno sulla metro mi hanno borseggiato quattro volte...».

Quattro?

«Tre volte mi hanno rubato il portafoglio. La quarta volta avevo appena finito di rimproverare una signora che augurava la morte a tutti gli immigrati, quando uno di loro mi è sgattaiolato al fianco; ho cercato il telefonino in tasca, e non c’era più».

Oggi chi sono i grandi dell’arte? Pistoletto?

«È un generoso, uno che si dà, che non si risparmia».

Mimmo Paladino?

«Bravissimo pittore».

Maurizio Cattelan?

«Non può uscire da se stesso. È condannato a fare Cattelan; e per un artista è un bel problema».

A chi lascerà le sue opere?

«Ai milanesi. Non ho figli, e sto creando una Fondazione affinché questa mia casa diventi un museo».

Marco Morricone: «Papà Ennio ci vietava di ascoltare musica. Il suo auto necrologio per noi fu terrificante». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2023

Il figlio di Ennio Morricone: «Era un fuoriclasse, ma non si sentiva all’altezza. Componeva ovunque. Era tifosissimo della Roma: quando nel nostro palazzo abitava Spalletti, andò a bussargli alla porta per chiedergli di restare»

Suo padre è stato un mistero anche per lui. Suo padre si chiamava Ennio Morricone. Marco, classe 1957, è il primogenito che dagli Anni 80 si è preso cura di lui, lo accompagnava dappertutto. Gli altri figli sono Alessandra, dermatologa e nefrologa, Andrea, direttore d’orchestra, e Giovanni, regista. Ennio era un personaggio enigmatico, lo ricordano anche Gino Paoli e Caterina Caselli nello splendido documentario che Giuseppe Tornatore ha dedicato al grande compositore.

Marco, chi era suo padre?

«Un uomo pieno di contraddizioni che viveva in un mondo ancora tutto da scoprire. Profondamente creativo ma faceva un lavoro di scienza, perché la musica è anche matematica. Aveva un animo infantile abbinato a una quantità di studi infinita, rifiutava la melodia ma era un fuoriclasse della melodia».

Era presente a casa?

«Fisicamente sì, perché componeva, era concentrato sul lavoro. Io potevo fare tutto il casino che volevo, purché non ascoltassi dischi. Siamo cresciuti in assenza di musica (compresa la sua). Che era nella sua testa. E non voleva farsi influenzare».

Era un uomo ordinato?

«Era meticoloso. Si ritrovava nel suo disordine. In ogni angolo della casa aveva un taccuino con la penna per fermare una possibile idea. Gli intoccabili lo scrisse in bagno di notte, Sacco e Vanzetti sulla spiaggia al mare, Sostiene Pereira sulla scia di un corteo che manifestava sotto casa. Era terribilmente curioso».

Vi portava, a voi figli, al cinema, o sui set?

«Mai. Lui ci andava una volta l’anno, si vedeva tre film di seguito e stop. Quanto ai set, lo raggiunsi a Cinecittà per C’era una volta in America, ricordo Robert De Niro che dopo il ciak, truccato da vecchio, in pausa, mangiava tutto curvo, continuava a fingersi vecchio. Quel film lo girarono con la musica di papà sotto, il tema di Deborah e gli altri».

Il suo studio, con premi e spartiti, era chiuso a chiave. E lui viveva solo con la sua amatissima Maria...

«Diceva che quando io prestavo i suoi dischi, i miei amici non li restituivano. Ma erano episodi di quarant’anni prima! Papà era fatto così».

Lo scandalo all’Oscar che gli fu negato per Mission?

«Vinse Round Midnight che, contro il regolamento, non aveva tutta musica originale. Papà ci disse che non gli importava: in realtà gli importava eccome, era uno dei suoi tanti conflitti interiori. Il primo dei due Oscar, quello alla carriera, fu un risarcimento».

La storia dell’auto necrologio fece il giro del mondo.

«Ce lo consegnò il giorno prima di morire. Fu una cosa terrificante, in tre parole, ho fatto tutto, c’era la sensazione che volesse dirci: lasciatemi in pace, voglio andare via. Ho fatto tutto, nel lavoro e nella vita. Reagii, ma cosa stai dicendo? Papà rimase impassibile. Eravamo in ospedale, io, mio fratello Giovanni e mamma. La vita che loro due hanno fatto insieme è stata meravigliosa, lui le ha dedicato gli Oscar e la sua unica Messa. Dopo la sua morte mamma ci ha detto: d’ora in poi consideratemi come una vedova siciliana. Non voglio più apparire. L’arrivo al Campus Bio-Medico fu incredibile».

Può raccontarlo?

«Come ogni domenica, era a pranzo da me. Nel pomeriggio mi chiamò mamma: corri, papà è caduto. Si lamentava del dolore. Arrivò l’ambulanza ma davanti a casa cadde un enorme ramo di un pino che ci divise a metà, davanti c’eravamo io e papà, dietro mamma e mia moglie Monica. Fu come un presagio. Non potevo nemmeno aprire il garage, il figlio di Walter Chiari, nostro vicino, mi prestò l’auto».

Ennio diceva di convivere con due anime.

«Erano varie e contrarie a sé stesse. Ma anche nelle colonne sonore metteva piccole idee nascoste della sua formazione classica, Palestrina, Frescobaldi, Bach, Stravinskij. Mamma vigilava sul suo talento, era la prima a sentire le sue musiche e solo quando lei le approvava, col suo orecchio raffinato ma popolare, procedeva. Fu molto buffo il trasloco, quando dal centro si trasferirono all’Eur nel palazzo dove già abitavo io. Papà mise mamma di fronte al fatto compiuto, si presentò con buste e cartoni, e una cartella con alcuni spartiti».

Era tifoso della Roma.

«E nel nostro palazzo abitava Spalletti, che all’epoca l’allenava. Era un periodo di tensione tra lui e la società. Papà andò a bussargli alla porta, gli disse che doveva restare, che solo con lui la squadra poteva vincere. Ma lui se ne andò».

Il mondo accademico gli fu ostile per l’aspetto commerciale delle colonne sonore, riconobbe il suo talento tardivamente.

«In una lettera Boris Porena gli chiese scusa e Goffredo Petrassi, suo maestro, disse che un tema come quello di Deborah non poteva essere stato scritto da un artista che non ami e studi la musica. Il suo rapporto con Petrassi meriterebbe un film. Papà lo rispettò sempre. Dopo che John Huston, il grande regista, per La Bibbia rinunciò a Petrassi dicendo che aveva scritto musica troppo difficile, andò dal suo allievo, mio padre. Ci fu imbarazzo. A Santa Cecilia papà venne nominato accademico solo a 69 anni, lui non si sentiva quasi all’altezza».

A un certo punto diventò direttore d’orchestra.

«Negli Anni 80, ma dirigeva solo musiche sue. Ricordo il primo concerto sul podio, a Londra, dietro le quinte mi chiedeva, ma ci sarà gente? Era strapiena la sala. Faceva parte della sua umiltà, non ha mai inseguito il successo».

L’ha mai visto piangere?

«Due sole volte, quando morì la mamma di mamma, con cui papà litigava spesso sulla nostra educazione (lui era esigente, austero, severo) ma la recuperò in punta di morte. Poi pianse prima di un concerto nello stadio di San Paolo, in Brasile: ci portarono alla scuola di musica di una favela, c’era solo lo scheletro dell’edificio, i ragazzini suonavano e non c’erano nemmeno le finestre. Una scena commovente. Papà li volle in apertura del suo concerto».

Come nacque il rapporto con Tornatore?

«Io lo chiamo il mio fratello illegittimo. Nuovo Cinema Paradiso non voleva farlo, gli chiese: ma lei vuole musica folcloristica siciliana? Rispose no. E papà, allora, accettò».

La musica di suo padre buca la pancia.

«Non voleva più scriverla, a casa non suonava più il piano. La penultima musica fu quella per la sua commedia, Valerio, in nome della vostra antica amicizia; l’ultima fu per la ricostruzione del ponte Morandi a Genova. All’inizio disse no, poi vide sul ponte le 43 luci, una per ogni vittima, e la compose in sei ore».

Tarantino, per il quale vinse il secondo Oscar, lo definisce il Mozart del ’900.

«Papà diceva che la risposta l’avrebbe data il tempo. È stato un rivoluzionario, prima di lui la colonna sonora accompagnava i film, mentre le musiche di papà vivono senza immagini. A Larissa, in Grecia, hanno il suo culto, le strade sono tappezzate di murales col suo volto. Io ho goduto dei suoi insegnamenti fino all’ultimo. Ma non parlava: dava l’esempio col suo comportamento. Il primo è stato l’etica e il rispetto del prossimo. Noi familiari siamo solo il corollario del suo genio. A mia figlia Valentina che suonava il piano disse: studi 12 ore al giorno? No? Allora lascia stare».

Ennio si svegliava all’alba.

«Prima dell’alba, alle quattro. Per un’ora camminava intorno al salone e alla camera da pranzo, poi faceva una strana ginnastica. Era anti tecnologico. Usava il fax, il numero fisso, il computer non sapeva accenderlo, la musica la scriveva a penna. Cosa mi manca di più? I suoi silenzi».

C’era una volta Ennio Morricone.   Culturaidentità.it il 10 Novembre 2021. Oggi avrebbe compiuto 93 anni. Un anno fa ci lasciava Ennio Morricone. Lo ricordiamo con questo tributo di Manuel Fondato (Redazione) 

Scena uno: Roma, 1937-una terza elementare di Trastevere è in posa per la foto di classe che suggella la fine dell’anno scolastico. I bambini, tutti maschi, sono ben pettinati e ordinati nei loro grembiulini azzurri con fiocco bianco.

Nella fila in alto; partendo da sinistra, Sergio è il secondo, Ennio il quarto. Tra loro si frappone un compagno di classe.

Ennio è nato a Roma ma la sua famiglia è originaria di Arpino in provincia di Frosinone. Il padre Mario è un trombettista che lavora con diverse orchestre, mentre la madre Libera ha una piccola industria tessile. Anche Ennio ama la musica e inizierà presto a suonare la tromba. Con Sergio ha un normalissimo rapporto tra compagni di classe, non strettissimo ma cordiale, terminato il ciclo delle elementari i due prendono strade diverse e si perdono di vista.

Scena due: Siamo sempre a Roma, nel 1964. Sono passati quasi trent’anni dalla foto di fine anno della terza elementare di Trastevere. Ennio si è sposato con Maria dalla quale aspetta il terzo figlio, si è diplomato come trombettista al Conservatorio di Santa Cecilia e, come il padre, ha iniziato ad esibirsi in varie orchestre della capitale. A inizio degli anni’60 ha arrangiato dei brani che sono diventati degli enormi successi, riproposti dalle radio e cantati a squarciagola dalla gente, come sinonimo di estate e spensieratezza: Pinne, fucile, occhiali, Guarda come dondolo e Abbronzatissima di Edoardo Vianello e Sapore di Sale di Gino Paoli.

Un pomeriggio ha appuntamento a casa sua con un regista emergente, che nel 1961 ha esordito dietro la macchina da presa con Il colosso di Rodi e vorrebbe affidargli la colonna sonora del suo prossimo film. Ennio quando si trova davanti quel corpulento uomo dalla folta barba, scorge in un movimento del labbro inferiore qualcosa familiare, qualcosa del suo ex compagno delle elementari Sergio.

Non può tenersi quel dubbio e gli domanda a bruciapelo:“Ma tu sei Leone delle elementari?” ricevendo la risposta: “E tu Morricone che veniva con me a Viale Trastevere?”.

I due si riabbracciano, Ennio tira fuori quella vecchia foto di trent’anni prima ormai impolverata. Una cena a Trastevere è il giusto coronamento di un pomeriggio passato in compagnia di nostalgia e ricordi. Sergio parla a Ennio di un film del maestro giapponese Akira Kurosawa La sfida dei Samurai, invitandolo a vederlo.

Da questa pellicola ha in mente di mutuare la struttura aggiungendovi ironia, acidità e durezza per creare un nuovo genere di film western.

Ha già in mente il titolo”Il magnifico straniero” e una colonna sonora che ricordi il Deguello (pronuncia Degueio) un canto funebre messicano che il regista aveva ascoltato e apprezzato nei film Un dollaro d’onore e La battaglia di Alamo.

Il 12 settembre di quel 1964 il progetto vede la luce nelle sale cinematografiche. Non si chiama più Il magnifico straniero ma Per un pugno di dollari.

Ennio, non troppo d’accordo con la scelta del Deguello ha risolto riutilizzando una sua vecchia ninna nanna, scritta per uno spettacolo teatrale, suonata con una tromba. Il risultato è un pezzo musicale memorabile, che contribuirà non poco al successo del film e all’inaugurazione di un nuovo filone cinematografico destinato a entrare nella storia: gli spaghetti western.

Scena tre: siamo a Los Angeles, il 26 febbraio 2016.

Sergio Leone non c’è più da molti anni, è scomparso improvvisamente il 30 aprile 1989, lasciando un’impronta indelebile nella storia del cinema. Tra i registi contemporanei chi più si è abbeverato alla sua filmografia, prendendone spunti e omaggi è Quentin Tarantino, vero e proprio cultore di Leone e degli spaghetti western. Per il suo omaggio a questo genere, The Hateful eight, ha voluto affidare la colonna sonora a Ennio Morricone, ancora in piena attività ad 87 anni compiuti.

Per 20 anni: dal 1964 con Per un pugno di dollari al 1984 con C’era una volta in America, ha accompagnato con le sue musiche l’intera produzione del maestro Leone.

La sua colonna sonora per Tarantino rinverdisce il filone degli spaghetti western che ormai nessuno realizza più da molti anni. Viene premiato con l’Oscar, il suo secondo, dopo quello alla carriera del 2007, ma il primo per una colonna sonora, dopo 5 nomination in film come La palma nel cielo, Mission, Gli Intoccabili, vince anche un Golden Globe e un BAFTA.

Sempre il 26 febbraio, gli viene attribuita la stella numero 2574 nella celebre Hollywood Walk of Fame.

Ennio Morricone, l’intervista inedita: «Una bocciatura mi cambiò la vita. Le tre canzoni italiane più belle, secondo me». Walter Veltroni Online su Il Corriere della Sera il 9 gennaio 2023.

I ricordi del grande compositore, scomparso nel 2020 «Il primo western? Leone pensava che avessi copiato». «Lo scontro con Zeffirelli? Voleva inserire un pezzo di un americano. Io gli dissi: “La musica del film è mia, non ci sto”. Diedi indietro i soldi»

Otto anni fa trascorsi ore con Ennio Morricone. Dovevamo fare una conversazione per un programma di Rai Tre sulla storia della Rca. Fu una giornata bellissima. L’atmosfera di quelle ore, nella sua casa, l’ho ritrovata nel meraviglioso film che Giuseppe Tornatore, suo amico vero, gli ha dedicato con tanto amore. L’amore che Ennio meritava. Le righe che seguono sono la fedele trascrizione delle parole di Ennio, uno dei geni della cultura italiana.

«Ero ancora studente di composizione con Goffredo Petrassi e mi vennero delle proposte di fare arrangiamenti. Scoprii che Tommasini, un contrabbassista dell’orchestra della Rai che conosceva mio padre, aveva cominciato a dire in giro che ero bravissimo. Sapeva che studiavo da Petrassi e quindi secondo lui ero, per definizione, un bravissimo arrangiatore, quindi un bravo musicista. La Rca stava andando male, mi chiamò per fare gli arrangiamenti delle due facciate di un 45 giri. Un pezzo era di Gianni Meccia “Il barattolo”. Presi quattro elementi: la chitarra, il contrabbasso, la batteria, l’organo Hammond. «Rotola, rotola, rotola», erano le parole di Gianni. Mi venne l’idea di mettere un barattolo che rotolava. Fummo sfortunatissimi: feci preparare una specie di piano inclinato con dei chiodi e misi un barattolo che scendeva. Ma non faceva il rumore che serviva, per niente. Ne feci fare un’altra, sempre dall’Rca, con gli stessi chiodi, ma con dei sassi. Niente, allora mi decisi, presi il barattolo col microfono e lo battei per terra: ton, ton, ton, ton, ton, rallentando, diminuendo il ritmo quando il barattolo si fermava. Il disco risollevò le sorti della Rca».

La prima volta che entrasti a via Tiburtina?

«Sì mi ricordo benissimo quando andai a parlare con Micocci che mi offrì di lavorare per l’Rca offrendomi il due per cento sulla vendita dei dischi. Ovviamente accettai, in quel periodo mi ero appena sposato e non ero economicamente tranquillo. Sobbalzavo ad ogni telefonata che squillava a casa perché speravo sempre che mi proponessero di fare arrangiamenti. Intanto, al conservatorio, lavoravo con Petrassi, scrivevo per Petrassi, per la sua classe di alta composizione e quindi vivevo una doppia dimensione. Avevo suonato con la tromba in un’orchestra, quindi capivo cosa era la musica leggera, ma dalla formazione con Petrassi avevo tratto l’idea dell’autonomia della composizione, non mi piaceva che solo la melodia, bella o meno bella, comandasse. L’arrangiamento doveva avere una propria identità e forza».

Quindi con «Il barattolo» cominciasti ad andare bene. Quanto vendette?

«Non lo so, non l’ho mai saputo, ho ricevuto delle royalties... Invece fu incredibile quando scrissi l’arrangiamento per Paul Anka che andò a Sanremo e riuscì a vendere un milione e mezzo di copie del 45 giri».

Ricordi l’introduzione di «Ogni volta»?

«Se vuoi te la canto. Feci una brevissima introduzione, in genere la faccio lunga, perché è anche una maniera di esporre le idee che venivano all’interno degli arrangiamenti. No, questa era brevissima, fulminante. E lui partiva. Semplicissima, ma breve e anche molto dinamica, piena di energia».

C’è un’altra di queste introduzioni che tu ricordi con particolare nostalgia? Non so «Abbronzatissima»...

«“Abbronzatissima” di Vianello. Io già queste sillabe così le avevo già scritte per lui che doveva cantarle in uno spettacolo di Luciano Salce. Composi un pezzo dove aveva questo salto di ottava con la voce e lui lo fece benissimo in teatro. Poi, influenzato da questo, lui scrisse “Abbronzatissima”. Volevo che ognuno avesse una propria, originale, collocazione stilistica. Volevo sempre far notare che io ero un compositore. Ricordo un arrangiamento per “Voce ‘E Notte” di Miranda Martino. Cominciava e continuava con l’idea dell’adagio del Chiaro di luna di Beethoven. Poi lei partiva con la melodia, però l’accompagnamento beethoveniano rimaneva. Facendo così questo mestiere, questa professione un po’ bassa rispetto alle mie speranze di studente di composizione, pensavo di riscattarmi un po’. Aver studiato composizione con Petrassi e poi essersi ritrovati a fare arrangiamenti... Salce mi chiamò proprio perché facevo gli arrangiamenti per l’Rca. La mia fama di arrangiatore prese il sopravvento su quella del compositore di musica classica. Quindi io ero snobbato un po’ sia da quelli della musica classica, che dagli arrangiatori tout court. Ero poco per i primi e troppo per i secondi».

E invece ha funzionato proprio questo.

«Ha funzionato, sì».

Morandi?

«Gianni era ancora piccolino, aveva sedici anni. Fu affidato a me e io ho cominciato gli arrangiamenti per lui con molta timidezza, non solo perché avevo un ragazzino che bisognava portare al successo, ma perché dovevo tornare indietro sulle mie presunzioni e convergere sulla prevalenza della ritmica. Una volta fui chiamato nell’ufficio di Melis, il capo Rca, che aveva sul tavolo una pila di dischi americani. Me ne fece sentire alcuni dove c’erano botti con la batteria, quasi tutti erano così».

Morandi ti dava del lei?

«Non me lo ricordo, forse sì o forse no, non lo so. Aveva due produttori, Bruno Zambrini e Franco Migliacci. Era un ragazzino e stava sempre zitto, i produttori dicevano quello che si doveva fare. “Allora mi raccomando, la ritmica”, pure loro. Tenevo conto di quello che dicevano. Però i primi tempi furono dei prodotti molto semplici, messi anche in un film di Fizzarotti dove c’era proprio Morandi come protagonista. Pezzi tipo “Go-kart Twist”, non tra le mie composizioni più brillanti, poi “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” altro arrangiamento semplice. Poi cominciarono i brani con l’orchestra, che diedero maggiore rilievo a Morandi sul mercato. L’ultimo arrangiamento che ho fatto per lui era “C’era un ragazzo che couna me me amava i Beatles e i Rolling Stones”. Testo, musica e melodia bellissimi. Fu l’ultimo arrangiamento per l’Rca, poi andai via».

«Sapore di sale» come la ricordi?

«Scrissi un arrangiamento molto semplice, anche banale, ma rispondente al tono del pezzo e al clima di quegli anni. Fece effetto e forse aiutò il successo meritato di Gino Paoli. Uno degli arrangiamenti migliori in Rca fu per Jimmy Fontana. Il pezzo, famosissimo, era “Il Mondo”. Feci un esperimento: scrissi la parte iniziale dell’arrangiamento in una tonalità diversa da quella del pezzo. Il brano aveva un’espansione sonora importante che aiutò il suo successo».

Le canzoni italiane più belle?

«Mi piace molto quella di Endrigo “Io che amo solo te” e quella di Paoli “Senza fine”: due pezzi molto importanti. Non posso dimenticare certamente il grande successo di Modugno a Sanremo col suo “Volare”. Quando ascoltai quel pezzo, non a Sanremo, a casa, mi sembrò che si fosse aperta una porta importantissima nel mondo della canzone».

Quando cominci a scrivere film?

«Il primo fu nel 1961, “Il Federale” di Luciano Salce. I primi anni feci soltanto film suoi. Il secondo era “La voglia matta”, il debutto di Catherine Spaak. Il lavoro nel cinema è divertente, ma difficile. Molti registi, non Giuseppe Tornatore che ha una vasta conoscenza, mi chiedevano di scrivere musiche per i loro film, ma non avevano la cultura musicale per capire e quindi io finivo con lo scontrarmi. Perché il problema del compositore del cinema è quello di essere trino: per il pubblico, per il regista che deve capire per primo, e poi per la dignità di sé stessi: non puoi fare cose che non ti piacciono».

Poi tu incontri un tuo vecchio compagno delle elementari, Sergio Leone...

«Mi chiamò perché aveva sentito le musiche di due miei film, un western italiano di Caiano e un altro spagnolo. Mi chiese di fare la colonna sonora per “Per un pugno di dollari”. Misi il fischio, il marranzano, la frusta, l’incudine e tanti altri suoni. In ‘Un pugno di dollari’ ci fu un problema quando in moviola il montatore, nel duello finale tra Volonté e Clint Eastwood, collocò un pezzo di tromba tratto da un film americano. Io dissi “Sergio, ti piace questa musica?”. “Sì, ci sta bene”. “Allora non faccio il film perché, se sulla scena madre del film, io devo rinunciare al pezzo più importante, io non lo faccio”. Sergio mi disse “Allora fa quello che ti pare, però la tromba deve suonare”. “Va bene, la tromba deve suonare”. Presi un pezzo che avevo scritto molti anni prima per la televisione, per i “Drammi marini” di O’Neill, e lo misi nel film di Sergio. Il pezzo andò bene, piacque a Leone. Lui fu soddisfatto, ma era convinto che avessi copiato. Tanti anni dopo gli dissi: “Guarda che ho preso un pezzo che avevo scritto anni prima” “Che cavolo dici!”. Sergio mi disse “Per favore, fammi ascoltare sempre i pezzi che non hai usato o che hanno scartato gli altri registi. Fammi sentire gli scarti. Perché tanto i registi non capiscono niente di musica”».

Ti capitò anche con Zeffirelli, no?

«Fu divertente. Andai in America per fare questo film e parlai con Zeffirelli. Sono stato otto giorni a scrivere perché lui tardò all’appuntamento, in albergo composi un pezzo. Quando arrivò, gli feci sentire quello che avevo scritto, gli piacque molto e ci mettemmo al montaggio. Però arrivato in moviola ad analizzare il brano, disse: “Qua ci mettiamo un pezzo di un cantante americano”. “Scusa, la musica del film è mia, non ci sto”. Vado dal produttore e dico che rinuncio. Avevo firmato il contratto e gli diedi indietro anche i soldi. La melodia che avevo scritto per quel film era il “Tema di Deborah” che Sergio Leone ha usato in “C’era una volta in America”».

Come ti venne in mente di usare lo scacciapensieri in un film western?

«Volevo strumenti non usati, non ho pensato che il film raccontasse solo l’America. Le percussioni, i suoni che sceglievo erano di tutto il mondo, perché lo scacciapensieri esiste anche in Corea, è solo un po’ più grande. Pensai di dare una caratteristica diversa, unica per quel film e adoperai strumenti che non si usavano mai. Andò bene, piacque a Sergio, la frusta, i cavalli...».

E il fischio?

«Non ricordo se l’idea del fischio fu mia o di Sergio. Forse mi suggerì “Il tema fallo fare al fischio”. Il fischiatore fu Alessandroni che fischiava benissimo. Anche in “Per qualche dollaro in più”. Abbiamo continuato su quella linea, mi sono imitato nella ricerca di quegli strumenti strani, però la musica finiva col rassomigliarsi. Per “Il buono, il brutto, il cattivo” Sergio mi disse “Continua così”. “Scusa Sergio, ma non si può andare avanti così per tutta la vita, bisogna cambiare”. Mi disse: “Fai un po’ te”. Quel film secondo me è il più bello che lui abbia fatto. Io cambiai un po’ e, insomma, la musica di quel film è al secondo posto nella classifica americana della musica da film del Novecento. Al primo c’è quella di Williams per “Guerre Stellari”».

Sei tornato a fare un film western con Tarantino.

«Sì ma non l’ho trattato come un film western, quando sentirai le musiche ti accorgerai. Non ho fatto un film western, lui non me lo ha chiesto. Mi ha raccontato questa strana cosa della diligenza sulla neve. Mentre scrivevo telefonai in America per sapere quanto durava la scena della neve, la risposta fu “da venti a quaranta minuti”. Da venti a quaranta minuti, che faccio? Ho scritto ventisei minuti di musica e quelli sono andati nel film. Quando Tarantino è venuto a Praga sembrava fosse davvero contento. Però io ero molto in ansia, come sempre, per il parere del regista, perché il regista, si sa, è volubile. So che ha messo ventisei minuti di musica. In altre sue opere ha usato anche musiche di altri film miei».

Come è stato lavorare con Pasolini in «Uccellacci e uccellini»?

«L’incontro tra Pasolini, me e Enzo Ocone che era il direttore di produzione fu in qualche maniera drammatico. Lui mi portò una lista delle musiche che avrei dovuto adoperare nel film. Io dissi “Scusi io scrivo musica, non posso fare quella degli altri, ha sbagliato a chiamare me”. Lui rispose subito: “Faccia quello che vuole”. Io ho fatto quello che volevo, però Pasolini mi disse anche “Mi devi fare un favore, mi devi mettere una citazione da un tema di Mozart”. Lui mi indicò anche la scena e con un piffero feci questa citazione. Lui ebbe poi una bellissima idea: i titoli di testa cantati, unico caso al mondo. Li fece eseguire da Domenico Modugno. Pasolini scrisse il testo, i nomi con rime collegate, io la musica. Era un arrangiamento molto vario perché, secondo quello che diceva il testo, cambiai le orchestrazioni, come per giocare. Dopo che Modugno ha cantato il mio nome come autore delle musiche ho messo persino delle risate. Poi fischietti, il soprano che fa dei gorgheggi, tutto scherzoso e divertente».

Prima ti sei commosso dicendo «compositore». Perché?

«Come fai ad essertene accorto? Sai, è un problema per me, lo è sempre stato. Come compositore ho scritto anche cose non cinematografiche, varie cantate, pezzi di orchestra, pezzi di coro, più di cento composizioni. Quindi il fatto che io sia considerato ancora un compositore esclusivamente nel cinema mi disturba un po’, perché mi è rimasto l’orgoglio che mi veniva dalla classe di Petrassi e da Petrassi stesso. Petrassi, il giorno dell’esame in Conservatorio, mentre lo accompagnavo a casa mi disse: “Non prendere nessun impegno per due anni, perché allora avrai una sorpresa che io ti procurerò. Sorpresa che non c’è stata, perché lui venne a sapere che facevo gli arrangiamenti. Forse è stato un bene: voleva mettermi in un Conservatorio ad insegnare composizione. Io poi feci il concorso per diventare direttore del Conservatorio di Sassari. Mi bocciarono, arrivai quarto. Fu la mia fortuna».

Le sconfitte nella vita ogni tanto sono benefiche...

«Vero. Comunque questa cosa di sentirmi solo compositore del cinema mi ha pesato. Invece sono anche l’altro, il compositore che voleva Petrassi. Adesso questa impressione sta scomparendo un pochino, la mia musica è eseguita, ma ancora poco, La mia commozione era anche per questo».

Invece tu sei autore di musiche da film, autore di arrangiamenti, autore di musica popolare, compositore di musica, quella che hai imparato con Petrassi. Sei la musica, tutta.

«Io ho cominciato suonando la tromba, e così ho cominciato a fare gli arrangiamenti per la radio. Poi mentre facevo gli arrangiamenti per la radio li ho fatti per la televisione. Poi dopo la televisione mi hanno chiamato per i film, poi ho cominciato, l’avevo lasciata, a scrivere la musica cosiddetta assoluta, non la scrivevo da anni. È questa la storia della mia vita».

Dario Salvatori per Dagospia il 2 maggio 2022.

Soltanto alla fine dello scorso anno, Mimma Gaspari, discografica di lungo corso, ha trovato il tempo e il coraggio di “vuotare il sacco”, di tutto ciò che ha vissuto, favorito, trasformato nel cosiddetto rutilante mondo della musica. Oggi che non rutila più è forse tempo di bilanci, e lei li ha fatti nel suo libro “La musica è cambiata?”, prendendo una posizione che non ti aspetti. 

Dall’alto delle sue cinque decadi trascorse nel mondo del vinile, avrebbe potuto, con qualche titolo, assumere un tono moralistico, sussiegoso , della serie “oggi io questa musica non la capisco”, invece è andata a prendere di petto Achille Lauro, Marracash, Salmo, Gemitaiz, principalmente rappers con tante derive. Le sorprese sono arrivate. Sorprese che continuano a stupire. Per esempio il suo rapporto con Ennio Morricone. Il mondo del Maestro è stato invalicabile e friabile.

Nella sua logica esiste il “rumore” e i “rumors”. Venivano considerati rumori quelli prodotti dal gruppo Nuova Consonanza, ovvero una formazione d’avanguardia, ad alto tasso solistico e musicologico, messa in piedi da Franco Evangelisti e lo stesso Morricone, a cui nel tempo si sono aggiunti Egisto Macchi, Domenico Guaccero, Giancarlo Schiaffini e tanti altri. 

Il loro genere? Quello che passa per musica “contemporanea”, ovvero la musica classica del Novecento. Si andava ad ascoltare Nuova Consonanza al Beat 72, teatro d’avanguardia romano frutto della tenacia di Ulisse Benedetti e Simone Carella, e laggiù, nell’antro già di Carmelo Bene e Memè Perlini, si officiava un rito per pochi, al buio, con Morricone alla tromba, nelle ultime file. Il Maestro e i suoi amici ci istruivano su dove andava la musica: sonorità mutuate dai rumori, da quel minimalismo che ha lasciato profonde tracce nella musica rock, pop e dance.

Si entrava in un labirinto per pochi beneficiari appassionati lontani come atteggiamento da tutti coloro che si sforzavano di porsi come giudici in fatto di stile. In quella cantina si dettavano altre leggi: si proponeva avanguardia, flussi migratori e profonde trasformazioni sociali che rimodellarono il contesto in cui si svolgeva l’attività musicale. Il manifesto della musica contemporanea. Poi arrivò Fabio Fazio. 

Nell’ultimo Festival di Sanremo del secolo scorso, quello del 1999, il conduttore pronunciò a sproposito e sciaguratamente la frase: “Questo sarà un Sanremo di musica contemporanea”. E’ ovvio che non voleva dire nulla, però i suoi successori, ancora oggi, dopo più di vent’anni, continuano a dire “questo sarà un Sanremo di musica contemporanea”. 

Cambia il conduttore ma l’equivoco resiste. Così è andata. Per fortuna Alex Ross, critico musicale del “New Yorker”, pubblicò nel 2007 “The rest is noise” (in Italia il letterale “Il resto è rumore”). Questi i rumori. Poi ci sono i “rumors”, ovvero i pettegolezzi, che il Maestro non ha mai favorito.

Ma la notorietà internazionale può essere ingorda. Per esempio titolando con enfasi che la sua penultima casa, attico su due piani di mille metri quadrati, è nelle mani di Christie, con un prezzo di partenza di dodici milioni di euro. 

Ma torniamo a Mimma Gaspari: “Io sono arrivata alla Rca, la famosa casa discografica di via Tiburtina, nel 1966, in qualità di promoter, radio, tv , ufficio stampa, autrice di testi…e un po’ anche psicologa…”. 

Lei è bolognese ma la prima assunzione importante arrivò da Milano, le mitiche Messaggerie Musicali Italiane… “Fu grazie a Renzo Arbore e Gianni Boncompagni e a Teddy Reno e alle loro  affettuose  insistenze che si accorse di me la direzione della Rca, Ennio Melis, Giuseppe Ornato.” Quando incontrò per la prima volta Ennio Morricone?

“Al mitico bar della Rca, baristi deliziosi Gino e Mario. Lo incontrai lì. Una delle persone che non dimenticherò mai. Nonostante la sua smisurata intelligenza musicale, la capacità di entrare nel mood di ogni film, di essere poi garanzia di successo di ogni pellicola, era un gigante adorabile e modesto.” 

Uno che non se la tirava, insomma. “Per niente. Mi lodò per il mio  testo di –Exodus-, che mi era stato commissionato da Ladislao Sugar in persona. L’interpretazione di Nico Fidenco vendette 600.000 mila copie e Morricone mi chiese carinamente di scrivere una canzone per il suo ultimo film.” Qual era il film? 

“Siamo ancora in piena trilogia del dollaro: -Per qualche dollaro in più- . Scrissi un testo basandomi sulla trama e sulla voce di Maurizio Graf, all’epoca, 1966, era il cantante specializzato in western. Il brano era "Occhio per occhio". La canzone aveva una metrica difficile. Per me, giovanissima, fu un onore. E’ ancora su You Tube!. 

E il Morricone privato? “Sua moglie Maria è stata molto importante per lui e l’ha seguito con intelligenza per tutta la vita. A lei Ennio dedicò l’Oscar alla carriera.” Per lui era una fatica viaggiare? 

“Un pò si, perché interrompeva la sua giornata. La sveglia all’alba, qualche chiacchiera telefonica con gli amici tifosi della Roma. Un giorno lo incontrai e mi disse: "Devo andare a Los Angeles". "Tutti noi sapevamo cosa doveva succedere. Quando si dice la modestia”

Alla Rca c’erano due grandissimi arrangiatori e futuri Oscar, Morricone e Luis Bacalov, che a quell’epoca firmava anche come Bacalov. Rivalità?

“Non troppe. Ricordo la mitica discussione con Franco Migliacci, il paroliere di Gianni Morandi, che voleva un attacco più forte per "In ginocchio da te". Lui non era d’accordo, ma lo corresse e poi disse. "Tenetevi questa cagata". Fu un successo da oltre un milione di copie.” Aveva sempre gli stessi musicisti, soprattutto la sezione ritmica e i solisti a cui affidare l’assolo… 

“Vero. Ricordo l’arrangiamento per “Il barattolo”, costruito con vari pezzi di legno e vari chiodi. Ogni tanto, sempre al bar della Rca mi faceva vedere dei ferretti che gli servivano per certi suoni.” Perché amava la cosiddetta musica concreta, pura avanguardia….“Certo. Pure troppo. Una volta per  avere  “effetto d’acqua” allagò uno studio…”

Le manca? “Tanto. Ovviamente a tanti. A tutta la famiglia e ai milioni di appassionati. Diceva che ero intelligente! Mi sembrava impossibile. Io lo stimavo tantissimo e gli volevo bene.” 

All'asta la casa romana di Ennio Morricone con affaccio su piazza Venezia. Prezzo di partenza: 12 milioni di euro. Francesco Fredella su Il Tempo il 13 aprile 2022.

Una dimora da sogno, che pochi (forse possiamo contarli su una mano) possono permettersi. Si tratta della casa di Ennio Morricone, l'indimenticabile compositore morto nel 2020. La sua abitazione è stata messa all'asta, prezzo base: 12 milioni di euro. Si tratta dell'attico a due passi dal Campidoglio, con affaccio su piazza Venezia, dove il compositore ha vissuto fino a poco prima di trasferirsi all'Eur. L'annuncio della vendita è stato pubblicato on line della casa d'aste Christie's. 

"Christie's International Real Estate Roma Exclusive - si legge nell'annuncio della casa d'aste londinese - propone in vendita in uno dei punti più panoramici del centro storico di Roma, a pochi passi da piazza Venezia e dal Campidoglio, attico su due livelli, unico nel suo genere, di 1.000 mq". Quella casa, piena di opere d'arte, ha un valore unico. "L'immobile - si legge nell'annuncio - ornato da numerose sculture e manufatti dell'antica Roma, è servito da portineria h24, con moderno ascensore fino al piano e dispone di un cortile dove sono presenti due comodi posti auto relativi all'immobile oggetto di vendita". 

Due livelli, tre ingressi. Al piano inferiore c'è il salone con soffitti alti 5 metri e vista mozzafiato sull'Altare della Patria mentre al secondo piano, oltre alla sala da pranzo, ci sono cucina, 4 camere e 4 bagni. All'ultimo piano, invece, altri 4 saloni e un terrazzo con una panoramica sull'Altare della Patria.

Lorenzo D' Albergo per “la Repubblica” il 22 marzo 2022.

«Quando noi, quattro figli, siamo stati convocati in Campidoglio dopo la scomparsa di nostro padre e l'ex sindaca Virginia Raggi ci ha chiesto di dare il suo nome all'Auditorium, non siamo stati felici. Di più». Nella memoria del figlio di Ennio Morricone, Giovanni, è scolpito ogni ricordo legato al padre. I successi e le delusioni. I premi, gli Oscar e i riconoscimenti postumi. Il racconto della vita del genitore, del suo mito, è appassionato. 

Ma la narrazione di Giovanni, regista e sceneggiatore, ora al lavoro a New York, si blocca quando all'orizzonte si staglia il Parco della Musica di Roma: «Papà non avrebbe nemmeno mai potuto sognarne l'intitolazione. 

Ma quando abbiamo visto la targa che gli hanno dedicato, il modo in cui è stata realizzata, e l'assenza del suo nome sul sito dell'Auditorium... in famiglia si è risvegliato un sentimento di dispiacere». Come raccontato ieri da Repubblica, sulla vetrina virtuale dell'Auditorium non c'è traccia dell'intitolazione a Morricone.

E la targa non tiene fede a quanto specificato nella delibera con cui il Comune ne ha deciso l'apposizione. Cosa avete pensato quando avete visto l'incisione della targa? «Ha un titolo ("Auditorium - Parco della Musica", ndr ) mentre il nome di mio padre è ridotto a un sottotitolo. Lo stesso non è mai indicato online. È come se la sala Sinopoli si chiamasse "sala grande", con il nome del maestro ridotto a sottotitolo. Non è così». 

Il docufilm di Giuseppe Tornatore racconta la sofferenza di suo padre per il mancato riconoscimento da parte dell'accademia del suo lavoro per il cinema.

«Ciò che si vede in Ennio è la verità. C'è stata una resistenza storica nei confronti di papà. Oltre alle colonne sonore per il cinema, che non credo siano un prodotto di secondo livello, ha composto più di 100 brani di musica assoluta». 

Che rapporto aveva con l'Accademia di Santa Cecilia?

«Mio padre negli anni ha lavorato gratis per Santa Cecilia e ha riempito sempre il teatro con i suoi concerti. Sono fatti».

Resta il nodo della cura della memoria.

«Indro Montanelli diceva che questo è un Paese senza memoria. Dovrebbe esserci un interesse da parte delle istituzioni a ricordare chi ha regalato alla comunità un motivo di orgoglio. Non si tratta di nome o di status. Ma, nel caso di mio padre, della dignità della sua musica. La sua è una storia di umiltà, ha lavorato da quando aveva 14 anni. È stato un esempio, può esserlo ancora per i giovani». 

Come?

«Stiamo parlando con il Comune per organizzare un evento in suo ricordo. A patto che il Covid ce lo permetta». 

E l'Auditorium? In che rapporti siete dopo la vicenda della targa?

«Subito dopo la morte di papà c'è stato un concerto fuori programma. Si era anche parlato di un'esibizione discussa con nostro padre prima che morisse. Non si è più fatta. Poi c'era stata una richiesta da parte del ministero degli Esteri a cui Santa Cecilia ha dato seguito. In ogni caso, a prescindere da Morricone, ai grandi compositori va dato spazio per ricordare quanto ci hanno dato». 

Raccontava la sofferenza di suo padre. Ha più senso distinguere la musica alta da quella più popolare?

«No. Credo che anche la musica più alta debba comunicare delle emozioni. È la missione dell'arte. Se si guarda un Picasso o un Pollock, i quadri devono comunicare qualcosa. Altrimenti non c'è condivisione. 

C'è un passaggio in Ennio , quando papà racconta "la vittoria sulla propria sconfitta" e il peso del senso di colpa che gli era stato fatto sentire da una certa generazione di musicisti... il riscatto è arrivato facendo della musica per il cinema un elemento necessario per i film, ma con una vita indipendente rispetto alle pellicole. Ne parlavo con lui e mi spiegava che la musica del cinema fa parte del linguaggio contemporaneo. Mi pare che stia resistendo al tempo».

Fin qui i ricordi e le valutazioni di un figlio. Sua madre come vive questo passaggio?

«È una donna riservata. Ma ha notato tutto questo anche lei, la storia della targa e del sito. Dopo 70 anni insieme, va considerata come coautrice. Ora è l'ultima rappresentante dell'opera di nostro padre. È coscientissima tanto del suo amore per la musica assoluta che per quella per il cinema».

Massimo Iondini per “Avvenire” il 19 marzo 2022.

È arrivato anche L'ultimo treno della notte, con quasi mezzo secolo di ritardo. Un film del 1975 ad alto tasso di violenza impreziosito però dalle musiche di Ennio Morricone che escono ora per la prima volta in vinile con tutte le tracce finalmente presenti. 

Un'autentica chicca, per morriconiani e non, questo long playing che riemerge dalle polveri del passato proprio mentre il ricordo del Maestro sta rivivendo più che mai sul grande schermo grazie al meraviglioso film documentario Ennio di Giuseppe Tornatore. Il vecchio thriller di Aldo Lado, tra i film più cruenti mai prodotti in Italia, vantava comunque un notevole cast con attori del calibro di Flavio Bucci, Enrico Maria Salerno e Franco Fabrizi, oltre alla debuttante statunitense Irene Miracle poi protagonista di Inferno di Dario Argento e vincitrice di un Gloden Globe per Fuga di mezzanotte di Alan Parker.

Se in La corta notte delle bambole di vetro, il primo film diretto da Aldo Lado nel 1971, Morricone aveva usato il suono di un battito cardiaco per sottolineare lo stato catatonico del protagonista creduto morto in obitorio, ne L'ultimo treno della notte si ode incalzante lo sferragliare del treno a simboleggiare le violenza commesse sul treno da giovani delinquenti. In sintonia con gli intenti del regista, che vorrebbe attaccare la società borghese e la violenza del potere, Morricone utilizza anche la canzone pop pacifista A flower' s all you need, interpretata da Demis Roussos, all'epoca stampata soltanto su un raro 45 giri giapponese e ora presente nell'inedito vinile.

Ma il Morricone "segreto" nasconde molti altri tesori rari o sconosciuti, come per esempio alcuni film da lui musicati sotto pseudonimo, escamotage utilizzato però soltanto per alcuni western. A partire dal primo, Duello nel Texas (1963) che è anche in assoluto il primo western italiano, con la regia dello spagnolo Ricardo Blasco. Qui Morricone firma le musiche con lo pseudonimo di Dan Savio. 

Alle riprese aveva partecipato anche l'italiano Mario Caiano, regista l'anno dopo del secondo western italiano, Le pistole non discutono. E stavolta Morricone firma le musiche con il proprio nome, cosa che invece non farà subito dopo per il successivo Per un pugno di dollari, celeberrimo film che segna il debutto del sodalizio con l'amico regista Sergio Leone. 

Mistero, bizzarria o semplice intreccio di singolari circostanze? «Le pistole non discutono e Per un pugno di dollari sono stati entrambi prodotti dalla Jolly Film, così per consentire a Leone di debuttare nel genere western limitando i costi di produzione furono utilizzati il set spagnolo e gli stessi costumi di Le pistole non discutono » spiega il musicista e compositore milanese Claudio Balletti, profondo conoscitore dell'opera di Morricone e autore tra l'altro della colonna sonora del docufilm sulla pandemia Milano 2020 trasmesso lo scorso maggio in prima serata da Rete 4. 

Tra i due, il film di punta è ovviamente quello di Caiano, così sia Leone sia Morricone (Dan Savio) si firmano con pseudonimi, anche per spacciarlo per un film americano. Ma solo all'inizio. «La Rca stava aspettando di pubblicare la colonna sonora di Per un pugno di dollari, il cui titolo provvisorio era Il magnifico straniero- racconta Balletti -. Qualcuno della produzione aveva frattanto cambiato il titolo e nelle sale il film era uscito appunto come Per un pugno di dollari. La Rca però non lo sapeva, così il disco uscì molto dopo ma a quel punto, visto il successo al botteghino, con i crediti giusti sul disco e nei titoli di testa e di coda della pellicola, musica di Morricone e regia di Leone». Ma Dan Savio non è stato l'unico pseudonimo utilizzato da Morricone. 

Anche a Leo Nichols ha fatto ricorso un paio di volte il compositore romano. Successe per Un fiume di dollari del '66, primo western del regista Carlo Lizzani che si firmò con lo pseudonimo Lee W.Beaver. In quel caso Morricone non aveva nessun particolare motivo per nasconedere il proprio nome nei crediti del film, ma lo fece solo per allinearsi alla scelta di Lizzani che preferiva non rendere riconducibile a lui quell'intromissione in un genere in cui debuttava subito dopo aver girato due film impegnativi e di tutt' altro valore come Il processo di Verona e La vita agra.

Stesso anno e ancora musiche a firma Leo Nichols per il film western Navajo Joe di Sergio Corbucci. Certo, alla base della scelta di usare pseudonimi c'era anche il fatto di prendere in qualche modo, idealmente, le distanze da un genere e da un'attività, quella di autore di colonne sonore per il cinema (e prima di arrangiatore di musica leggera alla Rca), invisa all'ambiente accademico dal quale proveniva. In fondo, Morricone era stato l'allievo prediletto di Goffredo Petrassi che si era in parte sentito tradito da quel talento che alla musica d'avanguardia e alla composizione colta stava preferendo il genere popolare. Questo fu per Morricone motivo di grande sofferenza interiore, come viene ben sottolineato anche nel docufilm Ennio.

Così ci sono anche alcuni film di cui il Maestro non ha mai voluto parlare volentieri, ritenendo forse di essersi prestato con la sua musica alla realizzazione di un prodotto d'arte non all'altezza. Tra questi c'è Vergogna schifosi (1969) di Mauro Severino, con Lino Capolicchio. Ambientato a Milano, racconta di un omicidio e di un gioco ricattatorio di tre giovani. 

A elevarsi è la musica di Morricone che tocca vertici di bellezza accompagnando con un ammaliante "girotondo", una ossessionante nenia basata su una scala nel modo frigio (molto usata nel jazz), le scene di una sorta di gioco dell'oca. I rapporti con i registi non sono sempre stati idiliaci nemmeno per uno come Morricone, che comunque ha normalmente trovato il giusto connubio tra le sue idee e quelle dei cineasti. 

Oggi come oggi al compositore di colonne sonore viene dato il tempo della sequenza da musicare, così può comporre una frase ad hoc sia nella durata che nel suono da legare all'immagine. In passato però poteva succedere, anche in film importanti, che partisse la musica in una determinata sequenza e che venisse di colpo silenziata. Il montaggio veniva talvolta fatto a prescindere dalla colonna sonora e c'erano registi a cui andava bene qualsiasi cosa.

Un esempio? Uno dei più bei brani scritti da Morricone per la sua musa canora Edda Dell'Orso, In un sogno il sogno, presente nel film La donna invisibile (1969) del regista Paolo Spinola. Il brano parte in sordina, sotto a un dialogo, poi si sviluppa e cresce ma all'improvviso viene troncato brutalmente. Dell'Orso lo considerava uno dei migliori mai cantati, al livello di Scion Scion di Giù la testa. 

«Contro certi maltrattamenti dell'arte musicale nel cinema non si poteva fare nulla - dice Balletti -. Si scoprivano certi misfatti quando ormai il montaggio era già stato concluso. Quando capitava, Morricone ovviamente evitava di collaborare ancora con questi registi». 

Tra questi, i fratelli Taviani, con cui chiuse dopo aver composto le musiche di Allonsanfàn( 1974) e Il prato (1978): i due registi infatti si intromettevano troppo intervenendo persino sull'opportunità o meno di certi passaggi musicali e influenzandone la creatività. Ma c'è un film in particolare di cui il Maestro non amava parlare, Diabolik, uscito nel 1968, per la regia di Mario Bava.

«Di quel Diabolik non esiste una colonna sonora ufficiale su disco, forse sono andati persi i nastri - racconta Balletti -. Per sentirne la musica bisogna andare a rivedersi il film, da cui era stato tratto un pessimo bootleg, con un monofonico suono scadente e ovattato. Ennio non stravedeva per quel lavoro, eppure il tema principale è molto bello. Era cantato da Christy, una delle voci dei Cantori Moderni di Alessandroni». Il tema di quel lontano Diabolik stava per tornare nel remake dell'anno scorso dei Manetti Bros. I compositori Pivio e De Scalzi volevano infatti ripescarlo per la loro colonna sonora, ma alla fine non se n'è fatto nulla perché non funzionava abbastanza.

Ennio, il documentario su Morricone coinvolgente e musicalissimo. Fabio Ferzetti su L'Espresso il 14 Febbraio 2022. 

Nel trascinante film di Tornatore la storia del grande compositore e delle sue invenzioni.

Il più grande coregista del Novecento è stato Ennio Morricone. Lo abbiamo sempre sospettato, ora ne siamo certi. Anche se forse non è mai stato su un set, il musicista più prolifico e popolare della storia del cinema (oltre 500 titoli) non si limitava a comporre ma trasformava i film a cui collaborava. E prima dei film le canzoni che arrangiava negli anni Sessanta, una lunga serie di evergreen, da Gianni Morandi a Edoardo Vianello, da Paul Anka a Miranda Martino, dal ”Barattolo” a “Sapore di mare”. Successi strepitosi baciati ogni volta da un timbro, un’invenzione, un effetto che rendeva il tutto unico. Magari “suonando” una macchina da scrivere o scrivendo e riscrivendo l’attacco folgorante di “In ginocchio da te” perché Migliacci della Rca non era mai soddisfatto.

Lo racconta con contagioso entusiasmo l’affettuoso, minuzioso, trascinante, musicalissimo documentario di Tornatore, un ritratto d’artista che non dimentica mai l’uomo e con Morricone resuscita tutta un’epoca, un’Italia, uno stile di vita e di lavoro in cui vertiginosamente si mescolano l’alto e il basso, il contrappunto e la melodia, Stravinskij e il Quartetto Cetra, la musica atonale e la capacità di trasferire la sua lezione in quello che ancora non si chiamava pop, senza mai perdere rigore o inventiva. Anche se il cuore del film è nella prima parte, la più intima e commossa, che ripercorre la severa formazione del musicista romano al Conservatorio sotto Goffredo Petrassi. Anni duri, col giovane Ennio che «nel periodo dei tedeschi e poi degli americani» suona nei ristoranti per mangiare (soldi neanche l’ombra) o per i grandi della rivista, Totò, Macario, Dapporto, Rascel, Wanda Osiris. Iniziando poi a scrivere per il cinema sotto pseudonimo, timorosissimo. Fino a quando non gli telefona un ex-compagno di scuola, tal Sergio Leone, e nasce la leggenda. Fitta di trame e sottotrame memorabili come le sue musiche.

Perché da Petri a Pontecorvo, da Argento a Verdone, da Tarantino a Malick (che batte a scacchi al telefono, senza neanche vedere la scacchiera), Morricone non smette di ricordare, di stupire e stupirsi, di mettersi pudicamente a nudo con afflato quasi mistico. Sintetizza Faenza: «Anche Petrassi ha fatto colonne sonore, ma non ha mai pensato che quella da film fosse musica. Morricone invece sì». In sala dal 17 febbraio

Morricone, il Maestro che ha scritto con le note la storia del cinema. Esce in sala il 17 febbraio “Ennio”, il documentario-capolavoro di Tornatore. MARIO SESTI su Il Quotidiano del Sud il 14 Febbraio 2022.

Ennio inizia controvoglia. La tromba, l’arnese con il quale il padre sfama la famiglia, è uno strumento esigente, vuole persino che il corpo, con l’ispessimento del labbro, si adegui a lui. Vorrebbe fare qualcos’altro, forse il medico. Il padre decide diversamente e Ennio obbedisce. Dopo un inizio da studente svogliato, attacca a suonare tarantelle, bourrè, gighe. Non la smetterà mai più.

«Volevo lasciare la musica alla fine degli anni 70. Poi ho rimandato di un decennio. Alla fine del successivo ho detto che avrei smesso in quello dopo. Poi non l’ho detto più». Studia il contrappunto come un ingegnere edile le tecniche di costruzione, da Monteverdi a Frescobaldi a Bach, ma allo stesso tempo suona nelle bande militari. Maria, la moglie, lo segue per strada. Il suo maestro, Goffredo Petrassi, tra i più grandi compositori italiani del secolo, passa dal neoclassicismo di Stravinskij alla musica dodecafonica, dalla musica sacra dei Salmi del maestro russo all’oceano misterioso e sconosciuto dell’atonalità.

Ennio rimarrà per sempre marchiato a fuoco da questa dialettica impossibile: l’ostinato dei fiati, che ritroveremo in molte delle sue composizioni, o l’emozione sorprendente del rumore che diventa pura forma del suono. Intanto, però, bisogna portare il pane a casa, entra in Rai per raccomandazione e ne fugge a gambe levate, ma il destino ha in serbo per lui un incontro che cambierà non solo la sua vita, ma anche la musica leggera in Italia. Viene chiamato a curare gli arrangiamenti alla RCA che è sull’orlo della bancarotta, come Wolf in Pulp Fiction. Ennio aveva già fatto il suo servizio militare nella musica popolare accompagnando Macario, Wanda Osiris, Totò nel ritorno di fiamma della rivista nel dopoguerra, ma ora si tratta di qualcosa di completamente diverso.

L’ Italia passa con un balzo senza precedenti da paese distrutto e arretrato a potenza industriale. La musica della Storia cambia, Ennio scoverà partiture, strumenti e suoni giusti per lei. Lo sa bene Gianni Morandi («Prima di Morricone i brani venivano accompagnati da un’orchestra: lui ha inventato l’arrangiamento moderno»). Pizzicate di contrabbasso, balzi di ottava superiore, fusione di tromboni e voci maschili. Gli archi incidono nell’aria frasi di apertura vertiginose: è come se raffiche di note, agili e febbrili, facessero da battistrada alle canzonette. Come usare Klee e Kandinskij per disegnare la cartellonistica di una fiera.

L’aspetto meno conosciuto della sua biografia artistica ed esistenziale è uno dei momenti più galvanizzanti di questo documentario appassionante come il fumetto di un supereroe. Morricone si vergogna di rivelare a Petrassi quello che combina nella canzone di consumo ma allo stesso tempo assorbe dal cuore della rivoluzione della musica contemporanea (l’avanguardia di Darmstadt che vive dall’interno) l’importanza della dialettica di timbro e melodia.

Ennio sarà davvero l’unico capace di mettere insieme John Cage e Mina, il Quartetto Cetra e i fratelli Taviani, John Zorn e Springsteen, Pat Metheny e Chet Baker. Riesce a somministrare alle masse affamate di motivetti da masticare come chewingum, gli spigoli sonori di un barattolo che precipita dalle scale, suoni e rumori che diventano colonna sonora di stagioni indimenticabili, anche se la madre gli chiede con apprensione una sinfonia che abbia dentro innanzitutto la gemma di una melodia, qualcosa che chiunque possa canticchiare. Mentre apre un frigorifero, esce per prendere un autobus, incontra un collega di ufficio in un corridoio. Ennio Morricone, grazie anche alla musica da film, non ci ha mai lasciato sprovvisti di qualcosa del genere da fischiettare o accennare in falsetto.

Con la musica leggera aveva scoperto come spostare il “basso” verso l’ “alto” («Mettere nell’arrangiamento qualcosa di superiore al brano»), con il cinema imparerà a fare anche il contrario, con un ansia ed un appetito sempre più virtuoso, al punto che diverrà impossibile distinguere l’uno dall’altro: lo scricchiolare del legno, il fischio, la frusta, la campana, l’incudine, l’armonica al posto della voce, la voce del coyote, ma anche la voce umana, soprattutto quella femminile, che esce dalla cassa armonica del corpo umano («uno strumento unico») innervano la ricerca di soundtrack poliformi, orchestrazioni ellittiche, ritmiche folli. Lo sgocciolare del pianoforte e il plettro sul basso, l’incrociare dei temi nella colonna sonora che lui racconta come la più difficile (quella del Clan dei siciliani).

In fondo, il sodalizio con Leone, quello più noto, è anche meno sorprendente dell’arte vertiginosa, e nascosta, delle tre note uniche di “Se telefonando” di Mina o del tema di Metti una sera a cena. Io, personalmente, non amo la polifonia nella giungla di Mission (che ho sempre trovato di un imbarazzante quanto involontario colonialismo: la scena e il film, non la musica), ma l’operazione è Morricone puro, prendere una cosa in un universo e scagliarlo in un altro: prendere Monteverdi o Gesualdo e delocalizzarlo in Amazzonia. E lo stesso vale per il flauto di pan, usato da Gheorghe Zamfir in Picnic ad Hanging Rock, di cui Morricone diventerà il Paganini, adottandolo per il tema, amatissimo, anche da tutti gli ascensori e i grandi magazzini del mondo, di C’era una volta in America. Ennio Morricone ha fatto musica per riviste, arrangiato da “Sapore di sale” a “Pinne fucili ed occhiali”, diretto a Sanremo e composto da autore di puro novecento nella cattedrale impervia dell’atonalità, ma nel cinema è una divinità maggiore, il “creatore di inni” e melodie che non ama la melodia.

L’eccezionale compilation di testimonianze del film (da Quincey Jones a Bruce Springsteen), sta lì a testimoniarlo. Quanti autori in qualsiasi campo, oggi, in lingua italiana, potrebbero vantare un coro di estimatori così prestigioso? Una volta Sergio Leone mentì con Kubrick che lo voleva per Arancia meccanica («purtroppo è impegnato: sta lavorando con me») per evitare che ci lavorasse. Ad un certo punto, all’apogeo del proprio potere artistico e commerciale, al culmine della sperimentazione, negli anni 70, adattò la registrazione della colonna sonora a performance dal vivo (se fosse accaduto oggi, qualcuno le avrebbe sicuramente riprese) con partiture multiple generate da schemi di improvvisazione che dirige e improvvisa dal vivo in proiezione.

Ennio di Giuseppe Tornatore, ha anche il passo vorace e la frenesia espressiva del suo soggetto (nel ‘69 fece la musica di 21 film, «scriveva musica su uno spartito come se fosse una lettera»), punteggiato da accenti memorabili: il coro grottesco e quasi blues del Giudizio universale di De Sica, la sinfonia del fuoco de I giorni del cielo di Terrence Malick, la marcetta sinistra e minacciosa, come il passo di una marionetta omicida, di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, ma – è la grandezza di tutti i creatori le cui opere diventano patrimonio di tutti – ognuno potrebbe aggiungere qualcosa dalla propria playlist (io avrei inserito anche il soundtrack minimalista di La cosa di Carpenter, il tema rinascimentale del flauto de Il prato dei Taviani, la sinfonia barbarica di quello di Baària).

Ma alla fine, dopo la persuasiva dimostrazione di cosa davvero sia un un autore pop (e soprattutto di quanto Morricone stesso e la sua musica abbiano contribuito a teorizzare e definire cosa lo sia), capace di fondere il gusto di massa con l’avanguardia, l’arte con il godimento, il rumore con la sinfonia, dobbiamo a Giuseppe Tornatore questo ritratto imperdibile di un uomo mite e rinchiuso in una espressione di perenne timore, incline alla commozione, che da giovane aveva le sopracciglia di Montgomery Clift ed era capace, durante le pause da solista, in orchestra, di piccole sieste di venti secondi, la cui “mission” fu quella di diffondere, presso chiunque, la scoperta dello strumento annidato nella percussione di ogni oggetto, la contaminazione di ogni forma sonora e, soprattutto, l’idea della musica come qualcosa che, prima di una idea, di un’ambizione, di una convinzione, possiamo accogliere con felicità e abbandono.

Il successo di un film dipende anche dalla colonna sonora. FEDERICO DE FEO su Il Domani il 14 febbraio 2022.

Negli ultimi anni la composizione di una colonna sonora ha assunto sempre di più il ruolo di spartiacque in grado di determinare la riuscita o meno di un film sia a livello di critica che commerciale. Questo perché costruire un reparto sonoro coerente con la narrazione è diventato un fattore determinante per rendere il cinema sempre più interattivo.

Il risultato di questa evoluzione ha portato sempre più musicisti, non sempre appartenenti alla sfera cinematografica, a cimentarsi con il mondo delle colonne sonore creando nuovi linguaggi sempre più idonei al cinema contemporaneo.

Anche i registi hanno creato una loro visione musicale affidandosi non solo al compositore ma anche ai sound designer e alla nuova figura del music supervisor, professione coerente con i nuovi trend e fruizioni musicali.

FEDERICO DE FEO. Laureato in sound design allo Ied di Roma, con una tesi sperimentale incentrata sull'evoluzione dell'industria musicale nei nuovi metodi di promozione. Da diversi anni scrive articoli di approfondimento che indagano sulle nuove forme e tecniche della musica, in particolar modo di musica per il cinema/serie tv.

Estratto dell'articolo di Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 16 gennaio 2023.

Ha difeso Cesare Battisti, un assassino di civili inermi. Ha protestato contro l'estradizione dei brigatisti in Francia e abbracciato Barbara Balzerani, con tanto di photo opportunity: à la merde comm' à la merde... Ha contestualizzato la lotta armata («Non era terrorismo: in quegli anni fu guerra civile»).

 Ha minimizzato la violenza di Lotta continua nel recente documentario di Tony Saccucci: «La militanza era la cosa giusta». Ha colpevolizzato i poliziotti che hanno impedito ai contestatori di aggredire i partecipanti al convegno di destra all'Università La Sapienza. Ha espresso solidarietà a Roberto Saviano contro quella bastarda della Meloni. [...]

Però... Difficile sbagliarle tutte, anche a mettersi d'impegno. Intellettuale impegnato, scrittore di lezioso successo («il darling di tutti coloro che si sentono buoni lettori, buoni cittadini, bravi ecologisti» annotò a margine una volta Giuliano Ferrara), estremista triste e moralista malinconico che ha costellato la propria vita di aggressività e fanatismo per poi predicare agli altri pace e tolleranza - da Curcio al Qohèlet è un attimo, dalla critica marxista all'esegesi biblica un'illuminazione - Enrico "Erri" De Luca è uno degli autori più amati dalla sinistra sedicente solidale e intelligente.

Anche se ancora non si è capito di cosa scriva. Stile ripetitivo, apodittico e sentenzioso, i suoi sono i livres de chevet della Gauche à trafic limité, sempre sotto i 30 all'ora, sempre sulla carreggiata del bene, quella di casa alla Feltrinelli e di spiaggia al mare del Renaione. [...]

 Esistono il pensiero debole e la prosa corta. Erri De Luca: la seconda.

 È forse l'autore più è prolifico della narrativa italiana in tutto 78 titoli dal 1989 al 2022, sei all'anno, ma mai un libro più lungo di 80 paginette, corpo "Veltroni", quello grande, con spaziatura tripla, per gonfiare il testo. Testa calda, gioventù di piombo, vecchiaia arrabbiata, volto scavato, baffo da nostromo ma una passione per la montagna, Henry De Luca - nome lasciatogli da uno zio americano, che lui ha sempre scritto e pronunciato alla napoletana, "Erri" - è il santone dell'ultra sinistra movimentista e sovversiva, sandali e Sandinismo, nostalgico del peggior bolscevismo sovietico e guru dell'antioccidentalismo, scelte radicali e contestazioni ad cazzum, davvero convito di essere l'ultimo rivoluzionario del Novecento: qualcosa a metà fra il santone Quelo di Corrado Guzzanti e il ribellismo spirituale dell'ultimo Tiziano Terzani.

Si è persino convertito alla biblistica: traduce - così così secondo gli specialisti - i libri del Vecchio Testamento, e sembra che in alcuni seminari, ma non sappiamo se ciò sia causa o effetto della desacralizzazione della società, Erri De Luca sia più letto dei Padri della Chiesa. [...]

[...] Ma alla fine, perché dai propri peccati non si sfugge, è ricordato quasi solo per essere stato responsabile del servizio d'ordine di Lotta Continua ai tempi dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi. L'autonomia, l'esproprio proletario, il passamontagna, i Katanga, sbandate e sprangate. Dalla chiave inglese ai salottini Bo-bo in un amen.

[...] Erro, sempre erro, fortissimamente Erri. Mestieri romantici di Erri De Luca dopo la deriva degli annidi piombo: muratore, operaio in Fiat, magazziniere all'aeroporto militare di Sigonella, autista volontario nella Belgrado bombardata...

 Poi venne il tempo dell'istigazione al sabotaggio nei cantieri della TAV, i processi, la solidarietà della sua seconda patria («Je suis Erri») e l'indifferenza della prima. Quasi nessuno, fra gli scrittori italiani, si è sognato di difenderlo. Le parole contrarie di Erri: No Tav, No Tap, No logo, No Ilva, No Triv, No Oil, No Cav (ma se serve si può anche pubblicare con l'Einaudi di Berlusconi). Che No ia. Come ha detto uno che non si è fatto incantare dai pifferai della stagione dei folli: «Fedele alle sue provocazioni No Tav, Erri De Luca, anzi, le esaspera: ricavandone grande visibilità».

[...] Antimoderno, pacifista a guerre alterne (no all'intervento della Nato nell'Afghanistan, sì agli armamenti all'ucraina) e firma di tutto l'arcobaleno giornalistico costituzionale (da Repubblica ad Avvenire, dal Manifesto a Vanity Fair: Wow! Champagne, molotov, prediche green e borsette Louis Vuitton, non propriamente in ecopelle).

[...]

Erri di lotta e di padreterno. E poi, comunque, per capire chi sta dalla parte sbagliata, basta vedere chi sono i sostenitori sempre dalla parte giusta. I suoi sono: Gad Lerner, Concita De Gregorio, Sandro Veronesi, Wu Ming, Zerocalcare, Alessandro Gassmann, Fiorella Mannoia, la Cuzzocrea e Ovidio Bompressi. Erri: «Sì nu piatto vacante!».

 Quando, nel 2014, in seguito ad alcune frasi rilasciate contro i cantieri TAV fu rinviato a giudizio per istigazione a delinquere, perse l'occasione della vita. Se lo avessero condannato, sarebbe stato elevato a martire. Gli andò male. Fu assolto. E forse, caro Erri, guardando indietro alla tua vita antagonista, aveva ragione l'amico Vincino quando scrisse che tu non hai mai fatto un giorno di galera, dei tanti che avresti meritato.

Erin Doom si svela: «Sono Matilde: ora voglio incontrare i lettori dei miei libri». CECILIA BRESSANELLI su Il Corriere della Sera il 14 maggio 2023.

Erin Doom, la misteriosa autrice del libro più venduto del 2022, rivela la sua identità in tv a «Che tempo che fa» da Fabio Fazio e con un’intervista al «Corriere». Matilde - questo il vero nome - sarà tra poco in libreria con il nuovo romanzo «Stigma» (Magazzini Salani)

Quando arriva nella sede del «Corriere della Sera», Erin Doom è emozionata. Fino a ieri la scrittrice più letta del 2022 era invisibile. Settecento mila copie vendute con i primi due libri, Fabbricante di lacrime (2021) e Nel modo in cui cade la neve (2022), ma nessuno sapeva chi fosse.

Ora invece si presenta di persona, i lunghi capelli biondi avvolti in una fascia verde, il volto sorridente. Ha deciso di svelare la sua identità e mostrarsi, domenica sera in diretta tv su RaiTre con Fabio Fazio a «Che tempo che fa» e in questa intervista. Il tutto alla vigilia dell’uscita del suo terzo romanzo (edito da Magazzini Salani come i precedenti): Stigma . Un romance come i primi due libri amatissimi da lettori, e soprattutto lettrici, tra i 12 e i 25 anni.

"Al Salone del Libro a Torino non mi hanno fatto entrare al mio stesso evento. Sono andata in veste di lettrice."

Quindi d’ora in poi come la dobbiamo chiamare?

«Al momento mi viene naturale presentarmi con il mio vero nome, Matilde. Ma sono anche Erin Doom e così continuerò a firmare i miei libri».

Ha sempre detto che prima o poi avrebbe rivelato la sua identità. Perché ha deciso di farlo ora?

«Sono sempre stata timida e introversa. Fin dall’inizio, quando ho pubblicato i primi libri a capitoli sulla piattaforma Wattpad e poi con il self publishing (su Amazon, ndr), ho scelto uno pseudonimo per vivere tutto questo nel modo più confacente alla mia indole. L’anonimato è stata una scelta consapevole, ma anche un compromesso. Sentivo però che mi mancava la possibilità di incontrare i lettori. Ho vissuto tutto attraverso uno schermo e quasi non me ne rendevo conto. La scelta di svelarmi è stata graduale: ora sono pronta».

Le sue lettrici e i suoi lettori sapevano già il suo vero nome. Su Instagram, dove interagisce con loro, la chiamano «Mati». Svela anche il suo cognome?

«Per ora no».

Ma chi è quindi Erin Doom? Vuole dirci qualcosa in più sulla sua biografia?

«Un passo alla volta, per il momento preferisco non dare dettagli. Per ora ripeto quanto ho già rivelato: sono emiliana, ma da poco mi sono trasferita in un’altra regione. Ho meno di trent’anni. Aggiungo che sono nata a maggio. E martedì, il 16, è anche il mio compleanno».

Ha fatto studi di Giurisprudenza. Sta ancora lavorando in ambito legale?

«Non più. Ora mi dedico ai libri».

Che emozioni prova in questi giorni?

«È un momento che aspettavo da tanto. Lo svelamento significa presenza: finalmente potrò guardare negli occhi chi mi legge. Dire: ci sono. Ma ho anche tanti timori. Del resto ci vuole coraggio ad essere sé stessi».

C’è anche la paura che, tolto il mistero, qualcosa si rompa?

«No, in realtà è più il timore di deludere le aspettative di queste giovanissime».

Il successo, soprattutto grazie al passaparola su TikTok, è stato travolgente. Quando si è accorta che le cose stavano cambiando?

«Quando sul giornale che mi portò mio papà ho visto che il libro era primo in classifica. Per la prima volta un segno concreto. Prima tutto era virtuale: Wattpad e le condivisioni su TikTok...».

I suoi genitori hanno sempre saputo che lei è Erin Doom?

«All’inizio non lo sapeva nessuno. Ho iniziato a dirlo quando Fabbricante di lacrime è uscito per Salani: prima a due migliori amiche, poi a mia mamma, a un’altra amica e a mio papà».

L’anonimato era il suo mantello dell’invisibilità, come in «Harry Potter».

«Mi proteggeva. E in alcuni casi è stato molto bello. Come l’anno scorso quando al Salone del Libro ho potuto assaporare questo mondo senza paura. Ora senza mantello non so come sarà».

Non potrà più girare indisturbata.

«A Torino non sono riuscita neppure a entrare in un evento in cui si parlava di me. La sala era piena e mi hanno mandata via. Giravo con Carrie Leighton, autrice di Better, e un’altra amica scrittrice e le ragazzine le fermavano con gli occhi illuminati. Loro firmavano i libri e io scattavo foto. A un certo punto una ragazza mi ha detto: “Scusa tu. Mi tieni la penna?”. Nessuno mi calcolava. È stato incredibile».

Martedì in libreria arriva «Stigma», il suo primo «inedito», senza passaggi su piattaforme. Il titolo è una sola parola.

«È coerente con il libro che è. Fabbricante era una fiaba, filtrata dagli occhi di una ragazza che vede tutto come una magia. Qui, invece, il punto di vista è quello di Mireya, che è più dura. Come il titolo».

Mireya e Andras sono due personaggi «ben lontani dall’essere perfetti».

«Ho sempre scelto protagonisti che si completavano: Nica e Rigel in Fabbricante, Ivy e Mason in Neve. Mireya e Andras hanno invece innumerevoli difetti, e così tanti punti in comune da scontrarsi».

Nica e Ivy erano orfane, Mireya invece ha una madre che con la sua tossicodipendenza gioca un ruolo determinante.

Attraverso la mancanza di una famiglia ne sottolineavo il valore. Qui la famiglia c’è, ma la madre di Mireya ha dovuto affrontare situazioni talmente difficili che la figlia ne porta il segno, la cicatrice».

Come i precedenti, «Stigma» è ambientato negli Stati Uniti.

«Un amore che nasce dai viaggi che ho fatto fin da bambina con i miei genitori».

«Stigma» è il primo volume di una saga. Da quanti romanzi sarà composta?

«Due o tre, non l’ho ancora capito. Preferisco i romanzi autoconclusivi ma ho sempre saputo che a questa storia sarebbe servito più di un libro. Il seguito si concentrerà più su Andras».

Ha già iniziato a scrivere il seguito?

«Sì. Quando inizio un libro devo sempre sapere dove andrà a finire: per Stigma ho annotato tutto su un quadernino iniziato anni fa».

«Fabbricante di lacrime», in corso di traduzione in 18 Paesi, diventerà un film. Che cosa ci può dire della produzione?

«Purtroppo ancora nulla. Ma procede. E lo vedremo presto. Sono stata anche sul set, ma per farlo mi sono dovuta fingere una stagista della casa editrice».

Alla fine di «Stigma» ringrazia lettori e lettrici, «la scintilla che dà vita a ogni singolo romanzo».

«Senza di loro non sarei qui. Stigma è un nuovo inizio, una rinascita. Ed è bellissimo che l’uscita del libro e il primo incontro con loro a Milano coincidano con il giorno del mio compleanno».

Le presentazioni

Erin Doom, dopo aver svelato il suo volto, incontra per la prima volta i suoi lettori in occasione dell’uscita del nuovo romanzo, Stigma (Magazzini Salani). Martedì 16 maggio, alle 17.30 sarà a Milano (The Space Cinema Odeon, via Santa Radegonda) in dialogo con Fabio Fazio. Mercoledì 17 è in programma un firmacopie a Roma, alle 20, alla libreria Feltrinelli di via Appia Nuova 427. Sabato 27 maggio appuntamento alle 15 al Mondadori Megastore in Località Aurno, Marcianise (Caserta) e il giorno dopo, domenica 28 alle 16, alla libreria Ubik I Portali di via Cristoforo Colombo a San Giovanni La Punta (Catania).

"Vorrei ringraziarli tantissimo per tutto il sostegno che mi hanno dato in questi anni, anche senza vedermi, fidandosi di ciò che ho scritto."

La scrittrice bestseller Erin Doom si svela da Fazio: "Mi chiamo Matilde. L'anonimato mi ha protetto". Paolo Di Paolo su La Repubblica il 14 Maggio 2023

La giovane autrice si è rivelata a "Che tempo che fa" alla vigilia della pubblicazione del nuovo romanzo Stigma

E' un mistero a tempo, è l’anonimato a orologeria. Resta, al fondo, qualcosa di inspiegabile e perciò di tanto più affascinante in questa plateale revoca del “patto del segreto”: Erin Doom, l’autrice di un longseller da 700mila copie, Fabbricante di lacrime (Salani), si svela nello studio di Fabio Fazio a Che tempo che fa.

L’effetto sorpresa è oggettivamente potente, in un’epoca di raro stupore. Il vero nome è Matilde, è giovane, ha i capelli biondi, alla domanda su dove vive risponde un ambiguo «Qua». Fra gli aneddoti più divertenti, racconta di essere rimasta fuori, in quanto non riconoscibile, da un grande evento di cui era la protagonista. Addebita all’introversione l’istintiva scelta di nascondersi; e dice - in effetti molto emozionata - di essere consapevole di essersi, fin qui, persa qualcosa. Come la sua collega, altrettanto italiana, Kira Shell, che si mostrerà nei prossimi giorni al Salone del Libro di Torino, Doom finalmente incontrerà dal vivo lettrici e lettori, piegandosi allegramente anche a lei ai “neverending tour” sfiancanti cui il 99 per cento degli autori non può sottrarsi.

Uno dei temi è proprio questo: fino a qualche decennio fa, chi scrive non era richiamato a una esposizione pubblica tanto marcata. Non si può dire che fosse anonimo, ma certo i tratti somatici erano meno presenti alla mente dei lettori; e la distanza fra pubblico e romanziere più cospicua: Baricco una volta raccontò la sorpresa di vedere da vicino, al primo Salone di Torino (1988), Lalla Romano e Natalia Ginzburg. Le quali senza dubbio non avevano l’agenda fitta di eventi e firmacopie in libreria.

Era un altro mondo: fatto è che oggi si nota di più, morettianamente, chi non viene e se ne sta in disparte. Chi – come Elena Ferrante fin dall’esordio – sceglie di non apparire. In una lettera inviata ai suoi editori nel ’91, metteva in chiaro che non avrebbe promosso il libro né in Italia né all’estero: «Interverrò solo attraverso la scrittura, ma tenderei a limitare al minimo indispensabile anche questo. Mi sono definitivamente impegnata in questo senso con me stessa e con i miei familiari».

L’impegno preso con i parenti può sorprendere, e tuttavia anche le nipotine Doom e Shell hanno più volte motivato la loro scelta anche con la difesa della privacy personale e familiare. Ma Ferrante è netta su un tema a cui le giovani colleghe non sembrano sensibili: «Io credo che i libri non abbiano alcun bisogno degli autori, una volta che siano stati scritti». Per Ferrante conta solo l’opera, ciò che essa è in grado di dire “in assenza” di chi l’ha prodotta.

Per Doom e Shell lo pseudonimo letterario è, intanto, l’estensione o evoluzione di un nickname che inderogabilmente usa adoperare nelle piattaforme di narrativa social su cui hanno mosso i primi passi. E poi un modo per tenere distinte – à la Kafka – la vita 1 e la vita 2, quella di laureate in Legge da quella di narratrici di storie cupe e romanticissime – genere “romance”, più o meno sentimentale, più o meno dark – di orfanezza, magia, di amori vagamente, delicatamente sadomaso. Quanto abbia contribuito al successo dei loro romanzi il loro non esserci è difficile dirlo, e lo stesso vale per Ferrante: di sicuro offre uno spazio di libertà appetibile anche per chi si è già messo in scena. Vedi il caso di John Banville, Stephen King e di J. K. Rowling, che si sono divertiti a moltiplicare l’identità autoriale.

Ah, gli eternonimi di Pessoa, gli pseudonimi di Roman Kacew/Romain Gary/Émile Ajar! Anche mamma Meloni, Anna Paratore, scrisse dietro il nom de plume Josie Bell, e magari potrebbe dire la sua su Doom e Shell senza maschera (la seconda faceva le sue dirette camuffandosi con il volto simbolo di Anonymous.

E ora? Cambia qualcosa? La domanda sembra oziosa, ma forse non lo è. Di Doom è in uscita il nuovo romanzo, Stigma. Scalerà le classifiche, ma intanto c’è il bagno di folla.

Montale inedito. Meritava anche il Nobel per le battute più dissacranti. Alessandro Gnocchi il 13 Settembre 2023 su Il Giornale.

Il 10 dicembre 1975, Eugenio Montale si reca a Stoccolma per ricevere il Premio Nobel per la letteratura dalle mani del Re di Svezia. I preparativi, il viaggio, la cerimonia e il ritorno sono raccontati da Domenico Porzio, giornalista e uomo di editoria libraria (a lui si deve la traduzione in italiano delle opere di Jorge-Luis Borges, ad esempio). Nel 1976, quasi clandestinamente, esce Con Montale a Stoccolma, tra i documenti più divertenti, ma in fondo anche rivelatori, sul grande poeta ligure. Montale è debole, affaticato, bisognoso di attenzioni continue. In compenso, il suo spirito sarcastico è più in forma che mai. Porzio annota. Con precisione. Il risultato è uno splendido ritratto al volo, ma profondo, di Montale. Oggi il piccolo ma aureo volume (pagg. 86, euro 14) di Porzio è ripubblicato da Luni editrice con una presentazione di Francesco Zambon.

Ecco una piccola guida alla lettura per argomenti, con le battute migliori o più raggelanti di Montale.

PASOLINI Si discute dell'omicidio dello scrittore corsaro. Montale: «Hanno scritto cose incredibili. Qualcuno lo ha paragonato a Gesù Cristo».

SABA Il bersaglio preferito di Montale, anche se la cattiveria sembra mitigata dall'affetto: «Quando era nostro ospite (a Firenze, nel 1944, ndr). la mattina, allorché si svegliava, prima si vestiva completamente con sciarpa e berretto, poi con due dita bagnate in un filo d'acqua del rubinetto, si toccava gli occhi, il naso e le labbra: era questa la sua pulizia quotidiana». Montale ricorda un incontro a Trieste con l'amico Umberto: «Andai a trovarlo, una volta, nella casa che abitava: due balconcini su una via di pescivendoli e di venditori ambulanti. Ci sedemmo sul balcone e Linuccia, sua moglie e sua vittima, andò a prepararci il caffè. Saba volle leggermi una poesia è iniziò a recitare la prima quartina, che ora non ricordo, ma alludeva a un cane bianco a passeggio su un greto. A questo punta arrivò Linuccia, premurosa, con i due caffè. Irritato perché era stato interrotto, Saba prese la tazzina, allungò il braccio oltre il davanzale e ne rovesciò il contenuto nella strada. Impassibile, proseguì nel recitare il poema che concludeva con un verso su una farfalla nera che volteggiava, infine commentando: caro Montale, tu non scriverai mai versi come questi». Ancora Saba. Ugo Ojetti, accademico d'Italia, assunse Saba come redattore della rivista Pegaso. Il poeta andò a far visita a Ojetti. Sua eccellenza pontificava di letteratura. L'unico commento di Saba fu il seguente: «Sa, signor Ojetti, che ha dei bei calzini, davvero belli». Licenziato.

BELLOW Il romanziere statunitense Saul Bellow mandò un telegramma di congratulazioni a Montale per il Nobel: «Questo Saulo è uno di quei romanzieri che scrivono soltanto libri grossissimi, di moltissime pagine: quei libri che da noi legge soltanto Paolo Milano, perché obbligato. È giovane e può aspettare. Comunque nel telegramma conclude facendomi capire che tanto lui il Nobel lo vincerà l'anno prossimo». Beh, in effetti andò proprio così: Saul Bellow vinse il Nobel per la letteratura nel 1976. Ma come faceva a saperlo? Mistero.

MUSICA La grande passione di Montale. Il poeta, un tempo aspirante baritono, non amava i critici musicali e riteneva che le nuove leve di allora fossero particolarmente sorde. Con una eccezione, Paolo Isotta: «Fu l'unico, tra il plauso generale, a dissentire, a ragione sulla regia di Ronconi per il Sigfrido, alla Scala». Non è l'unica stoccata a Luca Ronconi: «È il padreterno registico del momento, ma è capace di rovinare il Crepuscolo degli dei». Sarcasmo, in ogni occasione, per Claudio Abbado e Giorgio Strehler. Un esempio: «Non è improbabile, nel futuro, il Nobel per la pace al maestro Abbado e a Giorgio Strehler. Forse nella loro opera vi è un messaggio di pace che noi non abbiamo recepito». Tra i direttori d'orchestra, Montale coglie un astro nascente: «C'è a Firenze un giovane di grande valore, Riccardo Muti, il futuro anti-Abbado». Montale conobbe a Monterosso, Cinque terre, il mitico Arturo Toscanini: «Gli analfabeti abitanti di Monterosso lo credevano un prestigiatore e lo chiamavano l'omo dei giucchi, forse per quella fotosfera di capelli grigi che gli circondava il capo».

ITALO SVEVO Montale fu decisivo per la scoperta di alcuni grandi scrittori. Italo Svevo, ad esempio. Montale: «In realtà Svevo non lo scoprì nessuno: né io, né i francesi, né Bazlen. Era semplicemente giunto il momento di Svevo e noi non facemmo che assecondare quello che era già scritto nel suo destino».

IL NOBEL Dopo la cerimonia della consegna, Montale riflette e cede al gusto della battuta che oggi definiremmo politicamente scorretta: «Dopo tutto mi sono divertito. Vorrei tanto che anche Vittorio Sereni vincesse il Nobel. Ma chissà quando ci sarà un nuovo turno per l'Italia; e poi, forse, il prossimo lo daranno a un narratore. C'è anche il fatto che continuano a sorgere in Africa nuovi stati indipendenti che subito si affrettano a pubblicare schiere di poeti in dialetto tribale. Pare ce ne sia, laggiù, uno importantissimo che scrive in lingua boera, in Afrikaans».

GIORNALISMO Montale, che fu giornalista al Corriere della Sera, è sempre abile nel descrivere il mestiere. Così ricordava «Cipolla» un collega inviato della Stampa: «Raccontano che si chiudesse nella casa di Ciriè e li scriveva i servizi sfogliando le Guide di Hachette. A fine mese la moglie passava dall'amministrazione del giornale a ritirare i compensi, assicurando che il marito stava in terre lontane, in Alaska tra gli ultimi pellerossa».

AUTOBIOGRAFIA Gli organizzatori del Nobel rimasero stupiti davanti alla scheda biografica di Montale, scritta da Montale stesso. Era troppo scarna. Alla richiesta di rimpolpare il testo, Montale rispose negativamente con queste parole: «Non ho avuto una vita avventurosa. Gli scrittori italiani della mia generazione risultano per solito quasi tutti martiri del fascismo. Si dà il caso che io non sia stato un martire, mi creda, e non ho avuto avventure. È giusto quindi che la biografia sia semplice, di tono discreto».

 Estratto dell'articolo di Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 19 marzo 2023.

Giovanni Ansaldo e Eugenio Montale, due pesi massimi del giornalismo e della letteratura del ’900, avevano un solo anno di differenza il primo era nato nel novembre del 1895, il secondo nell’ottobre 1896 - entrambi genovesi, entrambi con ambizioni intellettuali- il primo però aveva fatto il Classico, il secondo l’Istituto tecnico comtrt' merciale - entrambi collaboratori, giovanissimi, del Giornalino della Domenica, il settimanale per ragazzi fondato nel 1906 da Luigi Bertelli, alias Vamba.

 Frequentarono, a Genova, gli stessi ambienti, e Montale collaborò in modo altalenante con Il Lavoro quando Ansaldo era caporedattore, negli anni Venti. Non si può dire che i due fossero amici: ma si frequentarono molto, fra aiuti reciproci, stima, invidie, punzecchiamenti e dispetti (dandosi sempre rigorosamente del Lei).

Una testimonianza del loro rapporto è un gruppo di lettere, una trentina in tutto, che il giornalista e il poeta si scambiarono in un arco di tempo molto lungo, dal 1925 al 1954: conservate alla Fondazione Ansaldo di Genova vengono pubblicate oggi per la prima volta nel nuovo fascicolo dei Quaderni montaliani (Interlinea) a cura di Diego Divano, ricercatore dell’Università di Genova. Di per sé il carteggio ha una grossa rilevanza, ma solo per il mondo dell’Italianistica. Se non fosse che tre di quelle lettere danno vita a una querelle sui costumi sessuali degli italiani durante il Ventennio molta curiosa dal punto di vista giornalistico. Tra «ragazze della domenica», «mariti in mutande», «onanisti» e «finocchi». Comunque, eccoci al punto.

Accade che Giovanni Ansaldo siamo nel 1934 • proprio sul Lavoro di Genova scrive una serie di articoli di costume in cui, da una posizione di convinto conservatorismo, stigmatizza alcune abitudini diffuse nei Paesi del centro e del nord Europa, come quella dell’esibizionismo balneare o delle «sonntagsmadchen», le «ragazze della domenica» con le quali si accompagnavano - senza fini sessuali gli uomini non sposati e di cui aveva letto in una corrispondenza da Praga sul Corriere della sera. 

 (...)

Montale legge l’articolo di Ansaldo, e gli scrive una lettera in cui di fatto gli suggerisce di non essere così severo, e di farei conti con la realtà. «Tempo fa Lei scriveva che il torto dei nostri calligrafi era di non ch****** abbastanza ed è vero - dice Montale ad Ansaldo -.Ma allora perché incoraggia questa mentalità di mariti in mutande e di onanisti che è di regola da noi? Non sa che a Roma (e non è colpa del regime ma della mentalità italiana) la percentuale dei finocchi ha superato quella delle maggiori città straniere?». Interessante la replica di Ansaldo: «Sì, caro Montale; più vado avanti, e più divento ortodosso, e strettamente ortodosso, in questioni di morale pratica, e di costumi. Il popolo italiano non può adottare usi e abitudini di popoli nordici, senza imbastardirsi, e perderci di dignità e di forza; allo stesso modo, e per le stesse ragioni, per cui le nostre donne non possono adottare mode libere e spregiudicate, fatte per donne di altre razze, senza diventare delle sgualdrine». E ancora: «I modi liberi, le “sonntagsmadchen”, l’esibizionismo balneare, sono tutte cose, da noi, sconvenienti e dannose, appunto perché, da noi - e specialmente nell’Italia più Italia, cioè da Roma in giù - l’uomo ha una prontezza sensuale più viva e immediata che nel nord-europa.

Si capisce poi che questa “prontezza” bisogna che si sfoghi: e si deve sfogare con l’ausilio di una antichissima istituzione, che qui fu sempre di casa cioè il postribolo. Il postribolo, in Italia, è la garanzia suprema della decenza e della dignità dei costumi!». «Si capisce, che, con una gioventù del “temperamento” di quella romana, chiudendo i casini da una parte, si moltiplicano i finocchi dall’altra... E si trasforma, necessariamente, tutto il Lido di Ostia in un unico e vasto postribolo; dove, sotto il nome di igiene, di elioterapia, di “nuova mentalità”, eccetera, sono prostituite tutte le figlie della piccola borghesia romana!».

La risposta, ultima, di Montale è del 23 luglio 1934, e rivela una posizione più laica, più sfumata, più sentimentale (cui forse non è estranea - azzarderebbe qualcuno - un’omosessualità latente del poeta, o una sua “impotenza” sessuale, sublimata nelle note Muse). «Lei pensa che i rapporti sessuali possono esaurirsi nel matrimonio e nella prostituzione. Possono, infatti; ma “debbono”? E questi rapporti sono tutti sesso o lo sono per un quarto solo, riservandosi gli altri tre quarti a quel romance ch’è una forza addirittura imperiale?». «Ho paura- conclude il poeta - che oltre alla charitas dell’elemosina (che lei fa bene ad approvare) ci siano nella vita infinite altre forme di charitas (e di amore) che l’italiano come piace a Lei non conosce. E a me duole, caro Ansaldo, di vivere in un paese senza amore».

Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera - Edizione Milano” il 15 Dicembre 2022.

«Il secondo mestiere» di Montale (come da titolo di un suo libro), che fu economicamente il primo, fu quello di giornalista culturale al Corriere d'Informazione e al Corriere della Sera. In questo ruolo gli fu affidato anche il compito di seguire il Teatro alla Scala, attività a lui gradita poiché da giovane avrebbe voluto cantare come baritono. Come accade anche per i «minori», Montale si lamentava di non essere sempre la prima firma.

Lo scherzo peggiore glielo fece, però, la Scala quando boicottò una sua introduzione a un libro che uscì nell'agosto del 1966 con il titolo « La Scala 1946-1966 », a cura di Franco Armani, edito dall'Ente Autonomo Scala e Rizzoli. 

Siamo nel '66, lui non è ancora Nobel (1975), ma è già Montale: ha pubblicato «Ossi di seppia» quarant' anni prima e in quell'anno esce « Xenia », dedicata alla moglie («Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale»). Armani (1912-2000), figlio di un direttore d'orchestra amico di Montale, era capo ufficio stampa della Scala e doveva curare una pubblicazione sulla vita del teatro dalla ricostruzione ad allora. La pubblicazione fu poi superata in qualità da quella dell'ingegner Luigi Lorenzo Secchi, per decenni responsabile degli allestimenti scenici. Armani chiede l'introduzione a Montale che gliela manda e nel suo testo fa ampi riferimenti a Francesco Siciliani, ancora in carica come direttore artistico del teatro. Sono giudizi personali, righe d'elogio.

Ma Siciliani - Montale lo sa - sta per dimettersi per divergenze con Antonio Ghiringhelli (1906-1979), imprenditore calzaturiero del Varesotto dal 1948 sovrintendente della Scala. Pretesto del contrasto tra i due fu il «Faust» di Gounod. Gianandrea Gavazzeni, che lo aveva diretto nel marzo del '62, non voleva che Siciliani lo riproponesse nel '66 affidandone la direzione a George Prêtre. La tensione si accentuò per divergenze sulla «Chovancina » di Musorgskij (lo stesso del «Boris Godunov» di quest' ultima Prima) prevista per la stagione seguente. Ma il motivo di fondo che fece maturare in Siciliani il proposito di abbandonare la Scala va cercato nel crescente disagio con il quale svolgeva la sua attività, alla quale si volevano porre vincoli inaccettabili per il comprensibile orgoglio del direttore artistico divenuto famoso nel mondo. 

A Ghiringhelli l'introduzione di Montale non sta bene e la boccia. Ma non è lui ad alzare la cornetta. A comunicare al poeta la bocciatura è l'ufficio stampa con una telefonata che dice, più o meno: «Grazie tante, ma il pezzo non va bene, perché s' è permesso di dare dei giudizi personali su Siciliani». Siciliani si dimette l'11 luglio '66 e il mattino dopo, sull'edizione nazionale nella pagina degli Spettacoli del Corriere si trova un «Saluto a Siciliani» a sigla E.M. Viene sostituito nel suo incarico a fine ottobre da Gianandrea Gavazzeni. 

L'incavolatura deve essere stata notevole poiché gli esiti sono tranchant anche per Montale, come racconta Camilla Cederna nel ritratto-intervista «Il galateo di monsignor Eusebio » ( L'Espresso , 2 giugno 1968): «È un po' di tempo, però, che di cantanti Montale non ne sente, da quando cioè ha smesso di fare la critica musicale, così adesso alla Scala non ci va più. Né lo invitano alle prove generali, da quando il sovrintendente Ghiringhelli gli ha bocciato la prefazione per un volume sulla Scala». 

L'inedita introduzione è un dattiloscritto, senza titolo, depositato al Centro Manoscritti di Pavia tra le carte donate da Gina Tiossi, la governante di Montale. Ora l'inedito viene pubblicato in «Quaderni montaliani», numero 2, anno II, diretti da Roberto Cicala (Interlinea edizioni). L'introduzione di Montale non ha nulla di scandaloso, riflette il suo conservatorismo. Troviamo Toscanini sul gradino più alto, «divo per diritto di nascita convinto com' era che un'esecuzione scrupolosamente fedele al testo fosse sufficiente». E troviamo il suo rifiuto a ogni concessione spettacolare: «La Scala ha dovuto subire, nel lungo e operoso periodo della sovrintendenza di Antonio Ghiringhelli, l'evoluzione del gusto del pubblico in senso spettacolare». «Subire», un termine che, forse, a Ghiringhelli non era troppo piaciuto.

Estratto da “Interviste a Eugenio Montale (1931-1981) a cura di Francesca Castellano” di Giorgio dell’Arti (ed. Società Editrice Fiorentina) pubblica da “Il Fatto Quotidiano” il 14 settembre 2022.  

Sei lire

“Quando uscì il libricino degli Ossi di seppia nel 1925 mio padre avrebbe voluto comprarne una copia, ma rinunciò non appena seppe che costava sei lire”.

Giornalista

Montale diventa giornalista quando ha già 52 anni. “Era il 30 gennaio del ’48, ero di passaggio a Milano e andai a far visita al direttore, Emanuel, che ancora non conoscevo personalmente. Lo trovai nervoso e preoccupato. Sul suo tavolo c’era la strisciolina di carta di un flash d’agenzia con la notizia dell’assassinio di Gandhi. Cercai quasi di nascondermi in un angolo della stanza.

Capivo di essere arrivato al giornale in uno di quei momenti in cui non c’è tempo per i convenevoli, e me ne sentivo in colpa. Emanuel mi fissò. Poi disse: me le scriverebbe lei quattro o cinque cartelle su Gandhi? Dissi di sì, mi accompagnarono in una stanza. Dopo due ore l’articolo era pronto. Uscì senza firma né sigla. Era intitolato Missione interrotta”. Emanuel lo assunse la sera stessa. “Con il minimo dello stipendio”.

Cantante

Come mai non riuscì a fare il cantante? “Forse non ero abbastanza stupido. Per riuscire occorre un misto di genialità e cretineria”. 

Disoccupati

“Fra qualche anno l’Italia sarà piena di disoccupati intellettuali, forniti di titoli di studio che non varranno più nulla... Nessuno si rassegna più alla propria condizione, l’autorità religiosa e del pater familias diminuisce ogni giorno, la filosofia è morta, siamo guidati da gente mediocre, la società ha bisogno di uomini di modesta levatura che sappiano fare un mestiere e basta” (a Giovanni Grazzini, 30.01.1973).

Avvenimenti

Qual è, professionalmente, l’avvenimento cui rimpiange di più di non avere assistito? “Nessuno: quando si deve fare un servizio tutti gli avvenimenti sono egualmente spiacevoli”. 

Fascismo

“Certo il fascismo fu una tirannia, ma solo per quelli che si occupavano attivamente di politica. Tutti gli altri hanno vissuto prosperando alle ombre del regime. Solo pochi si opposero, perciò mi hanno fatto sempre ridere quelli che dopo la Liberazione si sono ammantati di meriti mai vissuti” (1975).

Amore

Preferisce essere amato, ammirato, indifferente o addirittura antipatico? “Amato, ma molto da lontano”. 

Spaventi

Quali cose nella vita la spaventano di più? “L’istruzione obbligatoria, il suffragio universale, e il voto alle donne (tutte cose, purtroppo, necessarie)”. 

Nobel

Ricevuta la notizia del Nobel, e pranzato con riso all’olio e due polpette, dichiarò: “Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io? 

Donne

“Personalmente, non trovo nulla di male nel fatto che una o più donne vogliano fare una carriera che non sia quella della prostituta o della moglie”. 

Novecento

“L’Ottocento ha dato di più”. 

Scuola

“Una volta si mandavano i bambini a scuola per farli uscire dalla famiglia. Oggi succede esattamente il contrario: è la famiglia che entra nella scuola! È una cosa oscena! Le madri nella scuola!... L’Università è malridotta. Non si insegna più niente. Conosco una ragazza laureata in Psicologia. Che significa? Farà l’assistente sociale” (1975). 

Aldiquà

“Per credere nell’aldilà bisognerebbe avere alcune basi, dei punti di partenza più sicuri. Per esempio, esiste veramente il tempo? O il mondo? Io non lo so. Ecco, non conoscendo l’aldiquà finisco per avere scarsa curiosità anche per l’aldilà”. 

Notizie tratte da “Interviste a Eugenio Montale (1931-1981)”, a cura di Francesca Castellano, Società Editrice Fiorentina, pagg. 1.172, 90,00€

Barbara Costa per Dagospia il 13 Maggio 2023.

Roba tipo gelosia, sdegno e le altre orrende tattiche sessuali da sempre usate per reprimere le femmine come me e Eve Babitz impedendoci di spassarcela, non funzionano più “se sai come non rimanere incinta, non diventare cliente abituale della clinica per accidenti venerei, e farti un’orribile reputazione da sbandierare”.

E se io sono colei le cui pornate ti va di leggere su Dagospia, Eve Babitz è stata una scrittrice “tornado, tornado bollente”, che oggi avrebbe 80 anni esatti, ha avuto la fortuna di nascere e vivere e "essere" di L.A., negli anni in cui valeva la pena, cioè i '60, e nel '66 innamorarsi “a prima vista” e finire a letto con Jim Morrison.

Quel Jim Morrison. Dei Doors. A differenza di me che fossi stata sua coetanea e con lei a L.A. “accesa dal fervore di groupie che avanza sc*pando lungo la strada del rock”, avrei puntato driiitta a Ray Manzarek, e a differenza di vecchie galline patetiche che persistono a spacciarsi ex amanti di Jim Morrison forti di non essere smentite da uno che è schiattato 52 anni fa a Parigi e mai sapremo come davvero e perché e Marianne Faithfull una buona volta la finisca con la storiella del conte amico suo che a Jim ha venduto l’ero che a sentirla non ne posso più, Eve Babitz Jim lo ha conosciuto e lo ha sc*pato e sul serio e ecco le prove: dedica di Jim sulla copia a Eve donata de "The New Creatures", raccolta di poesie di Jim, ma non quella che tu trovi sul web a due spicci, bensì una delle rarissime e rilegate copie auto-pubblicate da Jim Morrison per il gusto di regalarle a Pam, la sua ragazza ufficiale, gli amici più stretti, le donne che per lui hanno contato qualcosa. Una è stata Eve Babitz, e come resistere a una “bionda con le tette” (quinta) in giro per Hollywood, “in cerca di uomini in grado di garantirmi che se non stavo alla larga avrei trovato guai”?

E se per Eve Babitz “l’idea di fare qualcosa una volta uscita dal liceo al di là di stare seduta sulla spiaggia mi sembrava chiedere troppo”, e pure se “una cosa che volevo fare da adulta c’era, e era invitare gente a casa e organizzare cene”, io l’ho sempre saputo, che sarei finita a scrivere e se cucinare non so, mi faccio invitare, e se i guai come la Babitz non è che me li vado a cercare, li creo e li accolgo, braccia e gambe aperte, tuttavia la questione è questa: io e Eve Babitz ce ne freghiamo di ogni femminismo figuriamoci di quello odierno perché mai ci siamo sentite oppresse (“che cosa malsana!”), o piene di rabbia repressa (“ma che orrore!”).

E sai perché? Perché non ci siamo limitate a legarci a un uomo se non per la vita neppure per una parte di essa, ma soprattutto perché sicure non abbiamo fatto nostro l’esempio materno. Eve Babitz è stata fortunata, a ritrovarsi una madre che l’ha lasciata “libera di non diventare niente”, al contrario della mia, santa donna ma dal disco rotto che non manca occasione di specificarmi che lei ce l’ha messa tutta sicché non è colpa sua se sono cresciuta ostinata e sboccata.

Ehi, che diavolo! Siamo femmine senza i tormenti e le “tribolazioni che ti bloccano l’intera esistenza”. Se sei una che lo sa, che “vivere per sempre felice e contenta è al di fuori della tua portata”, hai altre priorità. Conta un uomo che ti bacia finché il “profumo speziato del suo dopobarba ti sprizza la lingua a mo’ di arcobaleno”. 

Solo così capisci che, con uno così, il sesso orale (lui a te) è l’ultimo dei tuoi problemi anche perché, con uno così, di problema ne hai un altro e pure incombente, “trattenerti dal non sfilarti le mutandine di dosso lì stante, in pieno giorno”. Io e Eve Babitz ce ne sbattiamo della parità uomodonna. È fregatura. Che te ne fai? Metooiste, “a che servono le tette, se non a promettere qualcosa nelle trattative di lavoro”? Ma “le mogli a cui un marito gli serve per pagare tutto”, sono p*ttane o no?

Nella vita ci sono alte priorità. Peccato che io al contrario di Eve non sappia decolorarmi i capelli da sola, ma gran merito che io, come lei, “intellettualmente non arrivo certo ultima”, e al pari di lei non mi faccio “ingombrare la mente di dettagli isterici come la politica”. Perdio, “votare?!??? Di politica ci capisco troppo perché me ne importi, e comunque non funziona mai niente”. 

E Jim? Jim Eve lo incontra a L.A. una sera del '66 “in un locale malfamato. Puzzava di pelle e di alcool”. Risolvono a letto subito: così si fa. Chi ti dice stai attenta è invidioso di ciò che fai e lui no. Eve con Jim “in qualunque momento mi chiamasse, riconoscevo quei silenzi ancor prima che dicesse pronto e avevo le scarpe ai piedi e le chiavi in mano per andare a prenderlo al Troubador e a rimanere sdraiata con lui tutta notte e solo per essere sicura che nessuno prendesse troppi barbiturici. E che ci fosse un domani”.

E come io col primo uomo per cui ne è valsa la pena, lo stesso Eve con Jim non si è “mai sentita abbastanza donna”. Ma come essere donna abbastanza per uno che “non avrebbe avuto donne abbastanza nemmeno se fosse vissuto 106 anni”, ma poi “c’erano migliaia di volontarie altrettanto qualificate pronte a seguirlo, e però nude, o in visone, o con i capelli fiammeggianti”. 

Le caz*ate che puoi fare per un uomo. Io ne so. Ne faccio. Per piacere a Jim “oltre la tortura dei bigodini che fanno tanto art nouveau”, come Nico (quella a Via Veneto con Mastroianni in "La Dolce Vita" poi cantante dei Velvet Underground, Lou Reed, Warhol, Factory, amfe, ci sei?) Eve se li tinge di rosso. E finisce che "A lucky little lady/ in the city of light/ I see your hair is burnin'… è Eve la "L.A. Woman" di Jim. Ma potrebbe essere ogni rossa.

O nessuna. Le canzoni illudono. Lo so. Non lo sapevo però, che il Viagra c’era prima di chiamarsi Viagra in pillole blu, ed erano “iniezioni di testicoli di pecora o di capra”. Me l’ha detto Eve. Le prendevano i boss della Fox per sc*parsi Norma Jean Baker e farla diventare Marilyn Monroe. Io come Eve credo che la vita è ingiusta, e che come lei “sono troppo fortunata ma non posso farci niente a parte sentirmi in colpa o provarci”. Alla fine “se volete la mia opinione, a Parigi ci vai solo se sei in cerca di un posto dove morire”.

Estratto dell’articolo di Riccardo De Palo per “Il Messaggero” il 13 Gennaio 2023. 

(…)

Eve Babitz racconta tanti altri aneddoti in “La mia Hollywood”, il suo primo libro pubblicato nel 1974, inedito in Italia, che uscirà il 18 gennaio per Bompiani. (…)

Si dice che fosse festaiola, libertaria, sciupauomini.

 Ma chi era veramente Eve Babitz? Nata nel 1943 nella Città degli Angeli fu, da subito, un'intellettuale controcorrente. (…) C'è una celebre foto di Julian Wasser in cui compare completamente nuda, intenta a giocare a scacchi con il maestro del surrealismo Marcel Duchamp. Era il 1963, e per lei fu il primo quarto d'ora di celebrità. Raccontò poi che, mentre posava, pensava con rabbia al suo ex che non l'aveva invitata al vernissage e intanto si concentrava per tirare indietro la pancia e non fare brutta figura.

 Tra i tanti flirt che le furono attribuiti, figurano il frontman dei Doors Jim Morrison, gli attori Steve Martin e Harrison Ford. Le uniche cose che le interessavano, diceva lei stessa, erano «il divertimento, gli uomini e i guai».

In una città dove i predatori erano in agguato, e il potere delle celebrità maschili era alle stelle, Eve pretendeva che gli altri si piegassero alle sue regole.

 Los Angeles è un grande parco dei divertimenti, il centro di una festa mobile ininterrotta e seducente. Ma la giovane futura scrittrice confessa: «L'unico altro posto in cui mi sia mai sentita a mio agio è Roma». Ovvero, una città spesso paragonata a una «Hollywood distillata», dove Babitz passa sei mesi nel 1962.

(…)

Purtroppo, nel 1997 Eve è costretta a scendere dalla giostra. Subisce gravi ustioni: nella sua macchina, ha dato fuoco al suo stesso vestito, armeggiando con un accendino. Viene ricoverata, e gli amici che le vogliono bene organizzano una colletta per aiutarla a pagare le cure (negli Usa senza assicurazione non vai da nessuna parte).

 Dopo l'incidente, Eve Babitz ha vissuto sempre più nell'ombra, nel suo piccolo appartamento di Santa Monica Boulevard, con la sola compagnia del suo gatto con gli occhi color arancio, Zsa Zsa. Ogni tanto però concedeva ancora interviste fiume, mentre i suoi libri tornavano di moda negli Usa. Eve Babitz morì in una clinica di Los Angeles il 17 dicembre del 2021, per una rara malattia neurodegenerativa, il morbo di Huntington. Aveva 78 anni.

Eve Babitz. Barbara Costa per Dagospia il 5 febbraio 2023.

Tu come ti chiami? Che lavoro fai? La lecchi la f*ga?”. Questo si deve dire, soltanto questo, a meno che non ti imbatti in uno “che pensa che leccarla sia una cosa che si chiama "tuffo nel pelo", e che la fanno i pervertiti”. Scappa via da tali debosciati, ma che, non lo sai? Gli uomini si dividono in 2 categorie: bravi ragazzi, e str*nzi. Il 90 per cento sono str*nzi, grazie a dio. Ne vale la pena. Specie con quelli “che hanno gli occhi così azzurri che sembra che il cielo gli risplenda dentro”. E se lo str*nzo ti delude… ti puoi vendicare “passandogli per dentifricio la tua polvere vaginale!”.

Così faceva Eve Babitz, così ci insegna e scrive, e nei particolari, in "La Mia Hollywood", la sua (prima) autobiografia (Bompiani). Autobiografia datata 1974, e ci è voluto mezzo secolo per libarla nella nostra lingua!!! Hanno avuto paura, e hanno avuto motivo di averla avuta. Eve Babitz è un mostro. Di bravura. Di vita. Di femmina. Di scrittrice. Del fatuo. Ovvero, di quel che più vale la pena vivere. Ehi: “Ognuno, finché è vivo, dovrebbe fare una festa tutta sua: la morte non è altro che gente che se la spassa senza di te”.

Si scrive per aver qualcosa da fare durante la giornata, e la più segreta ambizione di Eve Babitz è “stata quella di restare zitella”. Uomini che vanno e vengono, tra le gambe, ma che dopo non ti stanno tra i piedi, se ne vanno, da casa tua, e tu sei libera, “e non t’annoi mai”. Perfidamente rimproveravano alla Babitz di non maturare, ma…“chi l’ha detto che bisogna diventare maturi? Io non voglio diventare vecchia e morire. Io voglio solo morire. Non posso? Invece sì. L’ho sempre fatto. Io non credo nel dover affrontare il dolore a meno che non sia del genere che ti piace. Io consiglio a chiunque mi voglia dar retta di evitare le sofferenze o finirete per acquisire gusto per il dolore, e credere che vi piaccia, quando invece… è solo un film!”.

Qualcosa in contrario? Cosa? E perché non farvi chili di fatti vostri invece di puntare il dito sulle scelte altrui? È di Eve Babitz (com’è mio) l’odio puro per chi dice “è per il tuo bene”. Bene di chi? Ma perché parenti e ficcanaso imperterriti ci chiedono “quand’è che ti sposi? Ma vaffanc*lo! e le sbatto giù il telefono. Mia nonna vuole che mi sposi come lei e che abbia figli e nipoti ingrati che le sbattono il telefono in faccia”. Innamorarsi? Che rottura. “L’amore è qualcosa che fanno gli altri per mettersi nella giusta disposizione di procrear figli”.

 I Principi Azzurri non esistono, esistono gli uomini e se non sono quelli giusti, tanto meglio. Poi, se sono sposati, bingo! Gli sposati hanno fame di sesso ignota ai single. “Le loro mogli si infuriano se scrivo le iniziali dei loro nomi”. Ma tra gli amanti di Babitz, Jim Morrison, Harrison Ford, Ed Ruscha, Steve Martin, Ahmet Ertegün, e sono quelli che si possono dire. Questo sì che è vivere! Perché sposar bifolchi, e finire a far lavori tediosi, “estetiste a 1 dollaro e 60 l’ora, commesse a Tutto a 2 dollari… è corteggiare il disastro!”.

Guai a rimanere intrappolati nella prigione che ci si è ideati. Il potere sta nel valore aggiunto di sapere cosa ti piace. E a Eve Babitz non piacciono “Kubrick. La fantascienza. Parigi. La stabilità. I frignoni. Le sorprese. I cani. E i bambini, e farei di tutto per Andy Warhol, se solo mi pagasse!”. Warhol sta a New York e a Babitz N.Y. non piace, lì parlano e diavolo “non mettono gli spazi tra le parole!”. Eve vive a N.Y. un anno, e “che puoi fare a NY, se non mangiare? Le alternative? Bellevue o eroina”.

O presentare Frank Zappa a Salvador Dalì. “Ho spedito 40 kg di "Life" da N.Y. a L.A. Bus Greyhound. Non è costato troppo”. Con la gatta Rosie, Babitz ritorna nella sua L.A. I posti vanno scritti SOLO con la maiuscola. Non si va a ovest: si va a Ovest. E a L.A., “dove vuoi andare che non sia vicino a un’uscita autostradale?!? Me ne frego di cosa pensano gli altri! A L.A. non è importante, e finisce lì”.

Eve Babitz è di L.A, “dove il sole sprofonda a Ovest e dove tutto quello che resta sono le Hawaii”. Eve Babitz è nata e cresciuta a Hollywood. Non si è mai messa troppi vestiti addosso. Nella sua vita le stagioni non ci sono mai state. E “la sapete una cosa? A Hollywood, a 14 anni, e non mi era ancora venuto il ciclo, mi ha dato il primo bacio indimenticabile e null’affatto paterno Johnny Stompanato, poveretto”, e poveretto si sa il perché. O no? E chi sa chi è (stata) Ona Munson? Indizio: ha fatto la p*ttana… Eve Babitz ha perso la verginità “a 17 anni, e grazie a 2 lattine di Rainier Ale da 26 cent. Non ho sanguinato, non mi ha fatto male e non sono diventata una donna. Pochi mesi dopo ho preso il diploma con dello sperma che mi gocciolava da una gamba”.

Eve Babitz mai è stata “un dolce petalo di passività: sono di L.A. e col cavolo che credo in Dio per via dei terremoti: io so già come va a finire. Se Dio vuole che gli creda io lo farò, ma solo per l’Oceano Pacifico, e i tramonti. Per il resto… aspetterò sotto lo stipite”. Le religioni orientali? Per carità! “Dicono che Budda non ha avuto donne. Certo! Come faceva a usare il caz*o in mezzo a tutto quel grasso??? Probabilmente era lungo 5 cm disteso nell’impeto”.

Pioniera dell’uso libero del diaframma, Eve Babitz si è un’intera vita domandata “come deve essere riuscire a entrare in un Dior. E comunque non posso lamentarmi. Non credo che si debba fare i difficili, e io sono bella quanto basta. E certe volte sono anche magra quanto basta”. Gay? Bisex? “No alle donne. Come regola. A meno che i suoi seni non siano un Botticelli migliorato. In quel caso… una cosa è esser lesbiche. Un’altra è entrare negli Uffizi”. Mai farsi addomesticare! Sintonizzati su altri canali. Interessati.

Ci sono vite da sperimentare. Autodefinitesi “sentimentalmente ritardata”, per Eve “il rossetto arancione gessoso da un punto di vista filosofico non ha senso, e lo dico sempre, come c’è niente di più utile di una borsa nera… e io non riesco a funzionare nella confusione, e non ho il coraggio d’andare da nessuna parte senza "Earthly Paradise" di Colette, e se mi succede qualcosa, e non ce l’ho?!??? Proust?

Basta il ritrattino da checca che ne fa Colette: 3 paragrafi e ti risparmi 9 milioni di pagine! Ma io gli eccitanti… non è che non li amavo, era solo troppo complicato... ma lo sai che mi hanno presentato a un Beatle come la ragazza migliore d’America!??? E allora sì, lui mi telefona, alle 6 del mattino, e per dirmi di non farlo impazzire troppo… e la Woolf è nella ragione e le femministe nel torto, e dato che questo è il mio libro, e dato che è esistito James Joyce, perché non mi fate fare a modo mio? E tu, mia cara, cos’altro vuoi da bere?”. Eve Babitz, sun woman.

Cosa significa essere “felliniani” oggi, trent’anni dopo la morte di Federico Fellini. ANNA MANISCALCO su Il Domani il 31 ottobre 2023

Il 31 ottobre 1993 moriva Federico Fellini. Il suo cognome è diventato un aggettivo, azzeccato o abusato. Fregnacciaro, opulento, caricaturale, senza schemi: alcune di queste definizioni sono valide adesso per la regista Carolina Cavalli e la sceneggiatrice Elisa Dondi, che all’epoca erano solo bambine: ha senso per loro, giovani cineaste, il continuo richiamo al passato?

«Avevo sempre sognato, da grande, di fare l’aggettivo. Ne sono lusingato», disse una volta Federico Fellini. Che aggettivo in effetti lo era diventato, e lo è rimasto: felliniano è un termine che si ritrova pure su Treccani. «Cosa intendano gli americani con “felliniano” posso immaginarlo: opulento, stravagante, onirico, bizzarro, nevrotico, fregnacciaro. Ecco: fregnacciaro è il termine giusto», aveva continuato. 

Aveva ragione: felliniano è il termine di riferimento per quella cinematografia che si mostra imponente e caricaturale, che inserisce elementi legati al sogno, al circo, a una qualche narrazione dell’esistenza che è malinconica e divertita allo stesso tempo. Termine azzeccato, a volte abusato: in questo senso, è l’equivalente cinematografico di “kafkiano”. 

Sono passati trent’anni da quando il maestro, nato a Rimini sotto il segno del Capricorno («ma a un quarto d’ora dal segno dell’Aquario, ho i difetti di entrambi i segni»), è morto all’ospedale Umberto I di Roma. La lunghissima coda di personalità del cinema e della politica che hanno sfilato per rendergli omaggio alla camera ardente allestita presso il suo amato Teatro Cinque di Cinecittà è stata ripresa nel documentario che gli ha dedicato l’amico Ettore Scola, Che strano chiamarsi Federico. Se è strano chiamarsi Federico, ancora più strano oggi, per le cineaste che appartengono a un’altra generazione, è essere felliniane.

VOLTI UMANI E CARICATURALI

In un contesto lavorativo Carolina Cavalli, ad esempio, non ha mai usato il termine felliniano. Regista e sceneggiatrice poco più che trentenne, il suo lungometraggio d’esordio, Amanda, è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia ed è stato selezionato nella Critics’ Pick del New York Times. 

«Per me ha semplicemente il significato di qualcosa di relativo a Fellini o al suo lavoro, quindi non la utilizzerei per raccontare il lavoro di qualcuno che non è lui», ha detto a Domani. Se personalmente non ne ha mai abusato, Cavalli riconosce però come possa essere utilizzato nella vita comune: «Ho un amico che definirei felliniano, per questo non andiamo sempre d'accordo», ha spiegato. «Oppure ci sono dei volti che mi colpiscono particolarmente che definirei felliniani, li descriverei come estremamente umani e allo stesso tempo caricaturali».

Rimane quindi un’aura intorno alla parola, che va oltre l’aspetto puramente cinematografico: «Se qualcuno mi dicesse che ha passato una notte felliniana, credo che potrei immaginarmela ed esserne sicuramente curiosa». Fermo restando però, che il confronto con l’originale sarebbe per lei impietoso: in questo senso, sì, l’aggettivo felliniano promette quello che non mantiene e si svuota di significato.

FUORI DALLE CATEGORIE

«Felliniano, per noi autori, vuol dire darsi il monito di scrivere cercando una propria visione», ha raccontato invece Elisa Dondi, sceneggiatrice. Ha scritto, insieme alla regista Laura Samani e a Marco Borromeo, Piccolo corpo, presentato alla Settimana internazionale della critica nell’edizione 2021 del Festival di Cannes, e vincitore del David di Donatello per la miglior regia esordiente.

Per Dondi, felliniano è pensare fuori dalle categorie. Il cinema di oggi, ha osservato, sempre di più chiede a un titolo di inserirsi in determinate caselle, per facilitarne la produzione e soprattutto la commercializzazione. Il regista di Otto e ½ si inseriva in un contesto vivissimo. Cinecittà rinasceva dopo la guerra, l’invenzione era ovunque: adesso, dentro un’offerta vasta che rimbalza tra le sale e i servizi on demand, lungometraggi e serie televisive, il rischio è che le produzioni si orientino di più al mantenere piuttosto che all’innovare.

«La voce di Fellini è unica, come quella di Andrej Tarkovski. Sono registi che rompono ogni schema», ha detto Dondi. Il cinema di Fellini per una sceneggiatrice come lei è un incoraggiamento a non scrivere pensando solo a quello che funziona, in termini di vendite, ma a «cercare un proprio sguardo, anche piccolo. Qualcosa che ti ricordi che in fondo, stai facendo arte».

Il film di Fellini a cui è Dondi è più legata è La dolce vita. La prima volta che l’ha visto è stato al Centro sperimentale di cinematografia, dove è arrivata senza aver fatto studi specifici: veniva da psicologia. Nella Dolce vita lei e i suoi colleghi, agli inizi della carriera, hanno ritrovato, in piccolo e con le differenze del caso, il mondo in cui stavano entrando. Con le sue contraddizioni, e la mancanza della parola fine. 

ANNA MANISCALCO. Laureata in Giurisprudenza e diplomata in cinema. Frequenta la Scuola di giornalismo Walter Tobagi di Milano

Pierangelo Sapegno per “La Stampa” - Estratti lunedì 30 ottobre 2023.

Ebbe nella morte la dolcezza di chiudere la luce il giorno dopo il cinquantesimo anniversario del matrimonio con Giulietta Masina. S’era sposato il 30 ottobre 1943. Sarà perché forse Federico Fellini pensava che la morte fosse l’unica cosa vera della vita. O perché gli piaceva la cabala. Anita Ekberg in una velenosa intervista disse che lo sapevano tutti che lui credeva a streghe e fattucchiere. 

(...) 

In fondo, che cosa sono i sogni se non una grande bugia? Fellini lo ripeteva spesso di sé, forse anche solo per liberarsi dal peso insopportabile della verità: «Sono un gran bugiardo». O un fregnacciaro: «Cosa intendano gli americani con felliniano posso solo immaginarlo: opulento, stravagante, onirico, bizzarro, nevrotico, fregnacciaro. Ecco, fregnacciaro è il termine giusto».

Ma Alberto Sordi lo spiegava ancora meglio quando diceva che «tutto quello che vi racconteranno di lui se non ve lo dico io non è vero. E sapete perché? Perché probabilmente gliel’ha raccontato Fellini. E Fellini è un grande bugiardo, l’uomo più bugiardo del mondo. Però, ahò, Federico c’ha una capoccia così». 

Sordi lo conosceva bene, perché erano diventati amici negli anni giovanili dei sogni e della miseria, quando Fellini era uno sconosciuto caricaturista che scriveva gag per Aldo Fabrizi. 

A Rimini, da liceale, d’estate si metteva il vestito più bello e andava in spiaggia a fare i ritratti a pastello dei bagnanti. Ed era venuto a Roma a fare il vignettista. Era così magro che Tonino Guerra diceva che sembrava Gandhi: «Un fachiro dagli occhi profondi», con quella chioma arruffata che gli pesava sul capo. «Eravamo due poveracci», ha ricordato Sordi. Andavano a mangiare in una latteria di via Frattina e facevano così pena che la cuoca s’era intenerita e gli nascondeva due bistecche e due uova sotto gli spaghetti che avevano ordinato.

Facevano lunghe passeggiate la sera, piene di sogni e Federico gli diceva: «Albé, io un giorno diventerò un grande regista, forse il più grande del mondo». Solo che Sordi lo doveva sostenere, perché c’aveva fame e «gli era rimasta soltanto una testa così, piena di capelli su un corpo che si deperiva di giorno in giorno. E io non potevo fare niente per lui perché anch’io ero un poveraccio senza una lira». Ma poi arrivò il suo angelo salvatore. Conobbe una ragazzina che faceva la radio e si chiamava Giulietta. 

Era l’opposto dei suoi sogni femminili. Quasi minuta, dolce, carezzevole, così lontana dall’immaginario erotico di Gradisca, dalla sensualità prepotente e provinciale delle donne felliniane. Ma lui se ne innamorò come ci si innamora senza saperlo della vita che ci aspetta. «Lui scrisse per lei una rubrichetta e si fidanzarono. Lei da buona emiliana cominciò a cucinare agnolotti, lasagne, tortellini e cominciò a ingrassare Federico».

Fellini il Grande è nato lì, quando è cominciata la sua seconda vita. È nato con Giulietta. Cinquant’anni e un giorno, ha detto la cabala. Ma le fattucchiere le cercava solo come cercava le mignotte, quando assieme a Marcello Mastroianni saliva sulla macchina guidata da Isabella Biagini e andavano di nascosto nella pineta di Ostia, lei davanti e loro due dietro. Isabella passava i soldi, 20, 30, 50mila, per convincerle a farsi intervistare. 

Chiedevano storie per i loro film. Incubi, sogni, il mondo di Fellini, con la cartapesta che reinventa la natura e gli uomini e le donne che galleggiano sul respiro della vita. Poi alla fine Federico le chiedeva, ma voi godete? «Dottò, che vuole? Ce ne so’ alcuni che puzzano come cadaveri». Era, nel suo perimetro onirico, un arcitaliano, che amava il rumore, un certo disordine definito e persino gli ossimori, la dolcezza come l’autorità senza sconti. Odiava Luchino Visconti.

Ha raccontato Giancarlo Dotto che una volta si incrociarono in macchina a piazza del Popolo e finsero di non vedersi. Ma Fellini disse all’amico che guidava: «Chiudi il finestrino. Visconti mi sputa dentro». E invece aveva grande affetto per Giulio Andreotti. Gli scrive un mucchio di lettere, «caro Giulio, mi fa tanto piacere chiamarla così», gli fa lunghe telefonate di solidarietà durante i suoi processi. Votava repubblicano o socialista, una sola volta votò Dc, nel ’76. Mai il Pci.

Al suo genio possiamo perdonare tutto, anche le sue incongruenze. Ha amato Sandra Milo e altre donne che animavano la sua fantasia erotica, però nessuna è entrata dentro alla sua vita come Giulietta, mamma sorella e compagna. In fondo, diceva Tonino Guerra, non c’è niente da capire.

Durante le riprese di Amarcord vide uno che veniva alla sera per raccattare gli avanzi dei cestini buttati dagli attori. Si chiamava Vincenzo Caldarella, era un senzatetto di piazza del Popolo. Lui lo fece diventare l’emiro del Grand Hotel. Solo Fellini poteva fare una cosa così. Ma è vero che non c’è niente da capire. E quando è morto un giorno dopo i 50 anni con Giulietta, non è stato altro che una volontà del cielo. Perché è ben strana la vita. È come i sogni. Nessuno li può spiegare

Federico Fellini, 30 anni senza il regista di «Amarcord»: come nacque l’amore con Giulietta Masina, l’Oscar alla Carriera, 8 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2023.

Il regista de «La dolce vita», «La strada» e «8½» moriva a Roma il 31 ottobre 1993, all'età di 73 anni

«Felliniano»

«Un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo». Così si autodefiniva Federico Fellini, considerato uno dei più grandi registi della storia del cinema. Se ne andava a Roma il 31 ottobre 1993, all'età di 73 anni, dopo aver diretto nell’arco di quarant'anni di attività diciannove film, tra cui «I vitelloni», «La strada», «Le notti di Cabiria», «La dolce vita, «8½» e «Amarcord». La sua attività come regista ha ispirato un aggettivo, «felliniano», usato nel linguaggio comune per indicare qualcosa di surreale, onirico oppure grottesco. «Mio padre voleva che facessi l'ingegnere, mia madre il vescovo, e io sono diventato un aggettivo».

L’invenzione del «paparazzo»

A Federico Fellini è legato anche un altro termine: paparazzo. Deriva dall’omonimo personaggio, interpretato da Walter Santesso, del film «La dolce vita» (1960), che - appunto - fotografava le celebrità. Paparazzo è stato modellato dal regista sui racconti di Carlo Riccardi, Tazio Secchiaroli, Matteo Ridolfi e Marcello Geppetti, celebri fotografi dei divi nella Roma degli anni Sessanta.

Le critiche per «La dolce vita»

Oggi considerato uno dei capolavori del maestro riminese, alla sua prima nazionale - che ebbe luogo al cinema Capitol di Milano il 5 febbraio 1960 - «La dolce vita» fu fischiato. In seguito furono presentate due interrogazioni parlamentari, una alla Camera e una al Senato (il film era accusato di «infondere un'ombra calunniosa sulla popolazione romana»), e il mondo cattolico si divise. Alla sua uscita «La dolce vita» fu vietato ai minori di 16 anni (soprattutto per la breve scena di nudo femminile, per il riferimento al suicidio e per la presenza di alcune parolacce). In Spagna il film fu proibito dalla censura franchista e fu possibile vederlo solo nel 1981, dopo la morte di Francisco Franco (avvenuta nel 1975).

I film di Renzo Arbore

Per una scena del film di Renzo Arbore «"FF.SS." - Cioè: "...che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?"» (1983) Federico Fellini si offese: «Fu terribile - ha raccontato Arbore nel 2021 al Corriere -. Il Pap’occhio gli era piaciuto. Il film successivo, FF SS. Federico Fellini South Story, doveva essere un omaggio. Glielo facemmo vedere. Ma lui si dispiacque per la scena in cui il copione volava via dalla finestra mentre andava a fare pipì. Ce lo disse in faccia: “Non ci siamo. La cosa migliore è il finale con la musica di Rota”. Una pugnalata al cuore».

L’amore con Giulietta Masina

Nel 1942 negli studi dell'EIAR, dove lavorava come autore, Federico Fellini incontrò per la prima volta Giulietta Masina. La coppia convolò a nozze un anno dopo, e nel 1945 nacque il figlio Pier Federico (che purtroppo morì undici giorni dopo la nascita). Federico Fellini e Giulietta Masina sono rimasti insieme fino all’ultimo: l’attrice è morta il 23 marzo 1994, cinque mesi dopo il marito.

La relazione con Sandra Milo

Il regista ha avuto una relazione clandestina, durata 17 anni, con Sandra Milo. L’attrice ha interrotto il rapporto quando Fellini le ha chiesto di uscire allo scoperto. Ha raccontato qualche anno fa a Domenica In: «Quando lui mi ha detto “Basta essere amanti, voglio stare con te” io non ho accettato. Noi eravamo stati insieme per 17 anni. Una storia clandestina, un amore fantastico che aveva sempre escluso problemi perché era solo la bellezza e l’emozione di incontrarsi. Ho pensato: “Se quest’amore così fantastico e un po’ irreale, lo trasformo in qualcosa di normale, dove lui può dirmi ‘Che ci hai messo in questo sugo?’ o ‘Spendi troppo’ o ‘Sei ingrassata’, io ci rimango male”. Volevo conservare l’amore straordinario che è ancora dentro me e mi dà forza e felicità, dovevo lasciarlo così com’era, senza banalizzarlo con una storia di vita in comune. Ho preferito chiuderlo nel momento più bello ed è rimasto così». A proposito di Giulietta Masina invece Milo ha raccontato: «Volevo molto bene a Giulietta. Era una donna fantastica, intelligente, curiosa, piena di fantasia e molto generosa. Se mi sentivo a disagio con lei? Ma no, condividevamo amore. Era un amore condiviso. Lei lo amava molto e anch’io. Con un uomo come Federico, era impossibile pensare di tenerlo solo per sé. Sia le donne che gli uomini facevano follie per lui. Lei, però, aveva una parte importante di lui. Lui tornava sempre da Giulietta e questo era bellissimo».

L’Oscar alla carriera (e le 12 candidature)

È stato candidato per 12 volte al Premio Oscar e «La strada», «Le notti di Cabiria», «8½» e «Amarcord» hanno vinto l'Oscar come miglior film straniero. Nel 1993 è stato conferito a Federico Fellini l’Oscar alla carriera. Il regista dedicò (in inglese) il riconoscimento, che gli fu consegnato da Marcello Mastroianni e Sofia Loren, alla moglie: «Non me l’aspettavo davvero. O forse sì, ma non prima di altri venticinque anni! In ogni caso, è meglio ora. Vengo da un Paese e appartengo a una generazione per i quali l’America e il cinema erano quasi la stessa cosa, e ora essere qui con voi, miei cari americani, mi fa sentire a casa. Voglio ringraziare tutti voi per quello che sto provando. In queste situazioni è facile essere generosi e ringraziare tutti. Vorrei, naturalmente, prima di tutto ringraziare tutte le persone che hanno lavorato con me. Non posso nominare tutti, quindi lasciate che faccia un unico nome. Quello di un’attrice che è anche mia moglie. Grazie, carissima Giulietta, e per favore, non piangere più!».

Fumetti

Federico Fellini ha iniziato come disegnatore e vignettista e da regista disegnava abitualmente le scene dei suoi film. Amava moltissimo i fumetti, soprattutto quelli di Stan Lee e della Marvel. Nel 1991 il settimanale Topolino lo ha omaggiato con una versione a fumetti del suo film «La strada», scritta da Massimo Marconi e disegnata da Giorgio Cavazzano.

Federico Fellini, il regista diventato un aggettivo che indica qualcosa fra realtà e finzione. Walter Veltroni su Il Corriere della Sera sabato 14 ottobre 2023.

L’omaggio a Federico Fellini a trent’anni dalla sua scomparsa. Non mise la parola «fine» ai suoi film, non mettiamola al suo cinema

Nei film di Federico Fellini non è mai comparsa la parola «Fine», come si usava nel cinema del suo tempo. Fellini immaginava che le sue storie non si concludessero, avessero una vita propria, che i suoi personaggi continuassero a battere le strade del mondo, a conoscere avventure e delusioni, speranze e amori. A Vincenzo Mollica narrò che, da giovane spettatore, quella parola, «Fine», lo irritava, gli faceva pensare al termine della festa, al ritorno ai doveri, ai compiti da fare. Perché, per Fellini, il cinema è sempre stata proprio una festa. Un allegro baraccone da riempire di colori e di persone. Si sentiva simile al Creatore, quando guardava il grande teatro di Cinecittà, il suo numero cinque, vuoto, deserto e silenzioso. Immaginava poi di popolarlo delle sue birichinate, dei personaggi che più assomigliavano ai suoi disegni — non il contrario — delle fantastiche confusioni che gli volteggiavano in quella testa piena di sogni.

Uno dei suoi film più famosi, Otto ½ , nasce proprio in questo meraviglioso caos. Fellini non riusciva a trovare il senso di una storia che dentro di lui si era manifestata più come atmosfera che come racconto strutturato. Aveva iniziato a scrivere una lettera al produttore per dire che rinunciava, il set era già pronto, quando il capo macchinista Menicuccio lo interruppe per invitarlo a brindare per il compleanno del suo collega Gasparino. E lì, in quella festa allegra in cui si festeggiava anche il film che stava per cominciare, Fellini capì che non poteva più tornare indietro. E si rese conto che questo, proprio questo, sarebbe stato il senso di Otto ½: la storia di un regista che non sapeva più che film voleva fare.

Questa è, almeno, la storia che Fellini raccontò. Che fosse vera o no, è tutto da dimostrare. Come diceva Alberto Sordi, che lo conosceva bene, Fellini era «il più grande bugiardo della terra». Inventava storie a ripetizione, e lui stesso poi non ricordava più se fossero vere o no. Ma non contava, né per lui, né per noi. Perché nel suo cinema, forse nella sua vita, non esisteva confine o linea di demarcazione tra realtà e fantasia.

In un prezioso piccolo libro, un’intervista che non voleva fare a Giovanni Grazzini, il regista raccontò la sua giovanile folgorazione per il mondo della celluloide: «Mi accorgevo che il cinema ti permette miracolosamente questo doppio, grande gioco, di raccontare una storia e, mentre la racconti, viverne tu stesso un’altra, avventurosa, con personaggi straordinari quanto quelli che stai narrando; e a volte anche più affascinanti, e di cui parlerai in un altro film, in una spirale di invenzione e vita, di osservazione e creatività, spettatore e attore nello stesso tempo, burattinaio e burattino, inviato speciale avvenimento, come quelli del circo che vivono in quella stessa pista dove si esibiscono, in quegli stessi carrozzoni in cui viaggiano».

«La spirale di invenzione e vita», «Inviato speciale e avvenimento»: nel modo spettacolare in cui racconta il suo cinema c’è tutta la magia della sua avventura umana e la ragione della persistenza, nel tempo, ovunque, del mondo di immagini che lui ha creato. «Una scena felliniana» o «Un personaggio felliniano» sono divenuti modi di dire, spesso usati arbitrariamente, per definire qualcosa che volteggia in quel limbo chiassoso e colorato tra realtà e finzione, in quel meraviglioso baraccone di atmosfere che Fellini allestiva ogni volta che indossava la sua sciarpa rossa, inforcava il megafono e con quella vocina, che sembrava una presa in giro, diceva «Azione». Il suo cinema ha svuotato la sua memoria, tanta ne ha riversata nei personaggi, negli ambienti, nelle storie. Aveva scritto opere magnifiche del neorealismo, con Rossellini, ma poi ne aveva avvertito l’insufficienza. Gli sembrava che fosse stato inghiottito in una deriva ideologica che disdegnava ciò che a lui più piaceva: l’emozione personale, la fantasia, il gioco della creazione della realtà.

Il suo cinema invece era una cornucopia in cui si agitavano confusamente i fumetti della sua infanzia, il Kafka della Metamorfosi, Buster Keaton, più di Charlot, i clowns e gli acrobati, Dickens, Omero, Matisse, il silenzio dei luoghi abbandonati. E tutti i fantasmi della sua Romagna, come il Nasi, una simpatica canaglia che aveva venduto a un tedesco un pezzo di mare davanti al Grand Hotel e, richiesto di una descrizione della sua filosofia di vita, diceva: «Non sappiamo più vedere la verità perché non sappiamo curvarci fino in terra». Sono passati trent’anni da quando Fellini se ne è andato. Il suo mondo immaginario continua a muoversi leggero nell’aria, come le «manine» di Amarcord che annunciavano la primavera. Il migliore omaggio che si può fare oggi a Fellini è dire che anche per il suo cinema, per le sue parole, per la sua vita, non può essere scritta , non è stata scritta, la parola «Fine».

Amarcod, vitellone, dolcevita: come Fellini ha plasmato il nostro linguaggio.

Oggi, 20 gennaio, è la Giornata del cinema italiano. Ma è anche la data di nascita di Federico Fellini, il cui lascito non riguarda solo il mondo della settima arte, ma anche la capacità di modificare il linguaggio, come dimostra un nuovissimo glossario. Erika Pomella il 20 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Il 20 gennaio si festeggia la Giornata del Cinema Italiano, ma la data viene spesso commemorata anche per essere l'anniversario della nascita di Federico Fellini, maestro della settima arte e colonna portante del cinema italiano, capace di creare degli standard che, ancora oggi, vengono seguiti. Ne è un esempio il recente È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, che proprio a Fellini dedica un passaggio del lungometraggio, ricordando uno dei tanti insegnamenti che il regista de La dolce vita ha lasciato ai posteri.

Nato a Rimini il 20 gennaio 1920, Fellini ha avuto una carriera prolifica, che lo ha portato a firmare diciannove lungometraggi, molti dei quali considerati dei capolavori e delle vere e proprie pietre miliari. Federico Fellini è anche il cineasta italiano più premiato nella storia degli Academy Awards, con cinque Oscar portati a casa, di cui uno onorario alla carriera. Gli altri quattro sono stati vinti dai film Le notti di Cabiria, Amarcord, La strada e 8 e mezzo, che continuano ad essere i fari luminosi di una filmografia piena di capolavori. Non è un caso, allora, che la Giornata mondiale del cinema italiano ricada proprio nell'anniversario della nascita del cineasta: Fellini, in questo senso, è egli stesso l'anima e il simbolo del cinema made in Italy è il suo lascito è indubbio.

Ma la grandezza di questo artista non si evince solo dalla portata immortale dei suoi lungometraggi, che pure rimangono un grandissimo biglietto da visita, ma anche per la sua capacità di forgiare la realtà intorno a lui e di travalicare i confini dello schermo. Ad esempio, ci sono espressioni linguistiche utilizzate nella lingua italiana di tutti i giorni che vengono proprio dalla sua produzione: quando si utilizza il termine "Amarcord" o "Paparazzo" o anche solo la frase "la dolce vita" è a Fellini che si fa risalire l'origine. Non è un caso, allora, che Babbel, azienda per l'apprendimento delle lingue, abbia dedicato proprio a Fellini un glossario che possa permettere ai suoi iscritti di conoscere da vicino il lascito del cineasta. Parole come Bidone (nell'uso colloquiale di truffa e imbroglio), Felliniano o Vitellone rientrano nella ricerca per dimostrare quanto la grandezza di un'artista risieda sempre nella capacità non solo di raccontare una grande storia, ma anche di plasmare la realtà, di modificare il proprio tempo.

Basti pensare che anche il termine dolcevita arriva direttamente dalla produzione felliniana. Il dolcevita è il maglione a collo alto tanto amato da Marcello Mastroianni e che lo riconduce al film di Fellini, al cui interno l'attore ha un ruolo centrale, non solo a livello narrativo, ma anche ideologico. Gianluca Pedrotti, Principal Learning Content Editor di Babbel ha commentato la scelta di dedicare a Fellini un glossario con le seguenti parole: “Tra i ‘neologisti’ più prolifici va citato naturalmente anche Federico Fellini, il regista ‘dai mille volti’ che ha segnato non solo il gergo specialistico del settore cinematografico, ma anche la lingua d’uso comune, in Italia e all’estero”.

Estratto dell’articolo di Fabrizio Caccia per corriere.it il 19 giugno 2023.

Ed eccolo Federico Palmaroli, il noto vignettista in arte Osho, quando è appena finita la prima puntata di Tg1 Mattina Estate, la nuova striscia della rete ammiraglia della Rai fatta di intrattenimento e notizie che lo vede tra i protagonisti, dal lunedì al venerdì. 

«C’è un clima molto euforico in redazione», racconta lui a poche ore dal debutto, beatamente immerso nell’avventura e disponibilissimo a parlare di Giorgia Cardinaletti la conduttrice e anche di Giorgia Meloni la sua amica premier. «Fate dell’ironia? Non c’è un nesso. Per fortuna sia io che la Cardinaletti- scherza Osho - eravamo già in Rai prima che Meloni diventasse premier. Mica lei l’hanno chiamata a condurre il programma perché si chiama Giorgia come l’inquilina di Palazzo Chigi! Io poi collaboro da tre anni con Porta a Porta di Bruno Vespa, se devo a qualcuno il mio approdo in Rai lo devo a lui e gli dico grazie».

Per la prima puntata Palmaroli ha presentato tre vignette, sempre col suo originalissimo metodo delle foto che parlano, recitandole lui direttamente come fa già a teatro: «Sarà TeleMeloni? Macchè. Il mio obiettivo è realizzare la par condicio nella satira - dice spavaldo - Una cosa abbastanza complicata». 

Così a Tg1 Mattina ha immaginato Schlein e Conte che chiacchierano a margine della manifestazione di sabato scorso dei CinqueStelle. Con la segretaria dem che dice al leader del Movimento: «Ti meravigli che io sia qui in piazza per la precarietà, che c’è di più precario di un segretario del Pd?». 

La seconda vignetta, invece, Osho l’ha dedicata al centrodestra, con Antonio Tajani, in questo momento alle prese con il problema della leadership in Forza Italia dopo la scomparsa di Silvio Berlusconi, che chiede lumi a Elon Musk, il fondatore di Tesla, la macchina con l’autopilota: «Ma tu ce l’hai un partito che si guida da solo?». 

In tanti lo attaccano dicendo che la sua satira non è abbastanza feroce. Osho concorda: «Forse hanno ragione loro, non lo so, ma il mio intento da sempre è solo far sorridere, umanizzando il più possibile i personaggi della politica, avvicinandoli alla gente comune, trattando Renzi e Calenda che litigano come fossero due fidanzati». 

Alla fine della prima puntata, lo ha chiamato il nuovo direttore del Tg1, Gian Marco Chiocci, per complimentarsi: «Vabbè ma è normale - si schermisce Palmaroli - Lui mi conosce da tanto tempo, siamo amici, anzi fu lui a scoprirmi e a lanciarmi come vignettista politico a Il Tempo, il quotidiano di Roma che allora dirigeva, era il primo gennaio 2018». 

È passato tanto tempo e adesso la destra è al potere: «Sì ma io simpatizzavo per Fratelli d’Italia quando era un partito al 3% e sono amico di Giorgia Meloni al di là della politica. I miei odiatori sui social oggi mi chiamano fascio, mi riempiono d’insulti, mi minacciano, ma io me ne infischio e tutt’al più blocco i loro profili e continuo per la mia strada».

Meloni a fine trasmissione non l’ha chiamato («Anche se è molto contenta che io faccia questo programma») e non l’ha chiamato nemmeno Augusta Montaruli, la vicepresidente della Commissione di Vigilanza Rai, sua ex fidanzata («Mi ha chiamato solo il 9 giugno per farmi gli auguri di compleanno»).

Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per “La Stampa” il 12 aprile 2023.

Federico Palmaroli, […] autore delle vignette firmate Osho, […] è d'accordo con le multe e il carcere che il governo Meloni intende introdurre?

[…] «Trovo inutile questa forma di protesta, mi sembra un puro esibizionismo. La conseguenza è che questi ambientalisti finiscono solo per stare sulle palle alle persone.

Non mi sembra di aver visto grande vicinanza nei confronti delle loro azioni, a parte la Schlein.

 Pure Nardella si è infervorato parecchio quando hanno imbrattato palazzo Vecchio. Almeno su questo mi sembra che ci sia convergenza da parte delle forze politiche nel proibire queste forme di protesta inutili» .

 Gli attivisti di Ultima Generazione rispondono che invece di punire loro bisognerebbe occuparsi di chi non fa nulla per salvare il pianeta.

«Intraprendere azioni per difendere il pianeta è necessario ma non credo che, senza di loro, saremmo tutti qui tranquilli ad aspettare che il pianeta muoia e che ci ricordiamo del riscaldamento globale solo grazie a loro. Anzi, secondo me si genera un processo contrario. Non credo che la gente se ne sbatta dell'ambiente ma quelle proteste non sono accattivanti» .

 Ha dei consigli? Lei che cosa farebbe al posto loro?

«[…] Al posto loro non cercherei di attuare forme di vandalismo che non sono utili e provocano solo danni abnormi. Se pensiamo a tutta l'acqua che è stata utilizzata per pulire Palazzo Vecchio mi è sembrato che abbiano fatto solo autogoal».

[…] È d'accordo sul divieto del governo Meloni alla carne sintetica?

«Sono assolutamente contrario alla carne sintetica. Non riesco a immaginare un futuro di alimenti creati in laboratorio. Sono legato a un certo tipo di tradizione gastronomica.  […] Da piccolo sognavo di fare il macellaio. Mi piaceva toccare la carne cruda, sentirne l'odore. Pensare che la carne arrivi in provetta è inconcepibile per me, non riesco ad accettarlo […]».

 Lei ha partecipato agli Stati generali della cultura nazionale. Erano le prove per combattere l'egemonia culturale della sinistra e imporre un'egemonia culturale della destra?

«Che sia esistita per anni un'egemonia culturale della sinistra è poco ma sicuro. Non va combattuta, sarebbe auspicabile un affiancamento da parte della cultura della destra che è stata a lungo ghettizzata».

 […] È pronto per Sanremo?

«Le vignette a Sanremo mi sembrano piuttosto complicate da proporre. È quasi più facile immaginare che io possa condurlo».

Osho: «Né buffone di corte né ideologo di destra. Non mi etichettate». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 7 Aprile 2023

«Buffone di corte anche no. E nemmeno ideologo del centrodestra, non ne ho la sostanza. Faccio satira e non mi piacciono le etichette, anche se certo è risaputo che non vado in giro sventolando bandiere rosse», dice Federico Palmaroli, alias Osho, con lo stesso tono sornione e molto romano con cui crea le sue celebri foto-vignette. Ce l’ha con chi, vedendolo agli Stati generali della cultura di destra, l’ha subito piazzato nella truppa degli artisti fedelissimi di Fratelli d’Italia. Accanto a Pier Francesco Pingitore del fu Bagaglino («Che comunque ha raccontato come pochi la Prima Repubblica») e a Pino Insegno («Dicono che l’anno prossimo condurrà Sanremo, vi è chiaro che è una fregnaccia, sì?»), lanciati alla conquista della Rai. «Non andiamo a occupare proprio niente. Anche se fosse, dove sta il problema? La sinistra lo ha fatto per anni e non è che, con loro al governo, ho visto nascere eccellenze televisive, quindi? Alla destra piacciono pure artisti di sinistra, il contrario non succede mai». 

Non si sente nemmeno il vignettista-immagine di Meloni&dintorni. «Mai avuto tessere di partito, non amo i dogmi, anche se il mio pensiero va più a destra e non l’ho mai nascosto, dichiarando simpatia per FdI quando stava al 3%, non è che ora passo all’incasso. Non pretendo niente, non mi è stato offerto niente. Peraltro detesto parlare di politica e comunque sono stato ospite dei Cinque Stelle e pure alla Festa dell’Unità di Rimini». E che alla vicepresidenza della commissione di Vigilanza ora sieda Augusta Montaruli, sua ex fidanzata, non significa che avrà un programma a Viale Mazzini. «Una storia di due anni fa, durata sei mesi, ormai sono un single refrattario, cerco la passione, temo la noia. Sono contento per lei, ma per principio non chiedo mai nulla». Però tra le sue fan più accanite c’è la premier e si sa: «Giorgia si diverte moltissimo, ha un’ironia simile alla mia». 

Sono amici dal 2016, quando ancora Osho era il fake del santone indiano. «Mi ha voluto conoscere tramite un’amica comune, ci siamo visti in un bar, rideva, non le importava come la pensassi, potevo pure essere dei centri sociali». Si frequentano. «Ora meno, ci scambiamo messaggini: “Com’è Bali?”, “Che carina Ginevra” o — quando era in India — “Di’ che sei amica di Osho che ti trattano bene”. Non le parlo di politica, sennò sai che palle, poveraccia». Qualche cena scacciapensieri ci scappa. «Non da me, manco so cucinare, vivo di cibo da asporto, ora che mia mamma vive con me perché non sta bene finalmente torno a casa e si sente odore di soffritto. Giorgia è molto simpatica nel privato, è una “battutara”, mi fa molto ridere». Non è esentata dalle vignette. «Prima però gliele faccio vedere... Scherzo dai».

Come il ministro Sangiuliano. «Quando ha detto che Dante era il padre della destra, ho preso un dipinto del Sommo poeta — foto non ce n’erano — e un tizio accanto che dice: “Gira voce che sei fascio”, la classica frase che mi dicevano a scuola». Eppure Osho è super-trasversale. «I colleghi di sinistra mi stimano. Makkox sicuro, Vauro non so, Corrado Guzzanti dice che sono il suo umorista di riferimento e non è proprio un naziskin». Idem per i politici. «Avoja. Elly Schlein mi segue sui social, tempo fa ha ricondiviso una vignetta in cui c’è lei che dice a Enrico Letta: «Me stava pure a venì na mezza idea de fa le primarie pe decide come fa le primarie». E ci ha aggiunto sopra: «Vedi che ce capimo al volo?». Tra i groupie di Palmaroli è iscritto Nicola Fratoianni di Sinistra italiana. «Dopo il decreto anti-rave che puniva i raduni illegali di più di 50 persone, ho montato lui e Bonelli che dicono sollevati: “Menomale, noi per fortuna a più di 50 non ci arriviamo mai”. E lui mi ha messo like su Facebook con la faccina sorridente».

Dagospia l’1 aprile 2023. Da “Un Giorno da Pecora” – Rai Radio1

Tra i più noti e apprezzati autori satirici italiani, Federico Palmaroli, la mente dietro alle pagine social e ai libri a nome 'le Frasi di Osho', oggi è stato ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, dove si è raccontato ai conduttori Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Come definisce il suo lavoro? “Mi definirei un umorista o un vignettista 2.0. Io faccio una sorta di fotoromanzi, forse è questa la definizione più giusta”.

 In pratica crea dei meme? “Quello è un termine che non mi piace, fa molto bimbominkia, io al massimo sono un boomer. Diciamo che se devo presentare il mio lavoro dico che faccio satira politica”. Lei però ha anche un'altra professione. “Si, un lavoro 'normale', ordinario, mi occupo di mercato immobiliare in una società”. E' vero che lei è un grande amico della premier Meloni? “La conosco dal 2016, ci siamo conosciuti in occasione dell'uscito di un mio libretto su Osho, una mia amica in comune mi ha detto che voleva conoscermi, così me l’ha presentata e da lì è nata l’amicizia”.

Lei è sempre stato di destra? “Tendenzialmente non amo le etichette e per un lungo periodo non ho votato. Ideologicamente sono di destra - ha spiegato Palmaroli a Rai Radio1 - tendenzialmente si, ma io non amo le etichette né seguo i dogmi”. Con Meloni avete fatto delle vacanze o delle cene insieme? “Delle cene si, molte volte. Ci troviamo perché lei ha un'ironia simile alla mia, è questo il motivo per cui è nata l'amicizia" Da quanto non la vede? “L'ultima volta ci siamo sentiti tramite messaggio. Lei era andata in India e io le dissi: 'dì che sei amica di Osho così ti trattano bene'...”

 E lei cosa le ha risposto? “Mi ha mandato un emoticon con la faccia che ride, che è quella che usa di più quando ci scriviamo”. E' vero che quando la premier disse a Berlusconi di non esser ricattabile lo fece per un suo suggerimento? “Quando il Cavaliere le scrisse quelle cose io mi sentii con Giorgia e le dissi: la sintesi, fondamentalmente, è che tu non seri ricattabile. Poi Giorgia ha valutato che questa fosse la cosa giusta da dire e quindi l'ha detta”.

Lei è amica di Meloni ma si è scritto anche che fosse fidanzato con la deputata Augusta Montaruli, E' vero? “Si, siamo stati fidanzati due anni fa”. E poi? “E' finita, come spesso succede. Era poco che stavamo insieme, solo sei mesi, ma siamo rimasti molto amici”.

Osho: «Non sono sposato e non ho figli: sono un bruto. Con Meloni facciamo cenette familiari e ci ammazziamo dalle risate». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 17 febbraio 2023

Federico Palmaroli: «L’unica querela da uno sconosciuto che compariva in una foto». «Facciamo cenette familiari in cui non parliamo di politica e ridiamo come matti»

Devo chiamarla Osho o Federico Palmaroli?

«Ormai, mi chiama Osho pure mia mamma».

Osho fa ancora l’impiegato nel settore immobiliare anche se ha quasi due milioni di followers sui social e lunedì parte con uno spettacolo teatrale?

«Mi prenderò qualche giorno di ferie. Timbrare mattina e sera mi aiuta a darmi una regola di vita: mi fa alzare presto, mi tiene coi piedi saldi nella normalità ed è funzionale a trovare spunti di satira tastando il polso della gente».

E che cosa ci ha fatto ridere di più nell’ultimo anno?

«Purtroppo, la guerra l’ha fatta da padrone, ma a me piace fare cross over fra situazioni lontane. Tipo, c’è la foto di Volodymyr Zelensky che dice ai suoi “Totti e Ilary se stanno a separà e noi pe ‘na guera stamo a fa ‘na tragedia”. O c’è Sergio Mattarella nel palco di Sanremo che fa “che due co..oni... Ma nun je potevo mannà pur’io ‘na lettera?”».

In principio, di politica non si occupava.

«Cominciò tutto con un’altra logica, nel 2015, in un giorno di noia. Avevo trovato una pagina Facebook su questo Osho, che non conoscevo, un maestro spirituale indiano, un santone per come era conciato. C’era una foto in cui guardava una pianta e ci appiccicai su una frase fatta di quelle che diciamo senza neanche accorgercene. Ci scrissi “i pomodori non sanno più di un ca...o”. Una grande verità, fondamentalmente. La postai ed ebbe subito successo».

Lei è cintura nera di luoghi comuni.

«Sono sempre stato un osservatore delle ripetizioni linguistiche delle persone. Le ascolto sull’autobus, al ristorante... Da ragazzo, ascoltavo quello che dicevano i miei genitori al telefono. Osho nasce così: mettendo in bocca a un personaggio spirituale delle banalità che fanno parte del nostro istinto verbale. Per esempio: un uomo e una donna passeggiano in via Condotti a Roma, a Natale... Lui: “Una ca...ata pure a tuo cognato tocca fargliela”. O, di recente, ho trovato una foto di Eva Kaili seduta in un salottino con due emiri. La vignetta è che uno le domanda “e se ti chiedono se fa caldo, tu che devi rispondere?” e lei: “Che fa caldo, ma è un caldo secco”».

Le frasi fatte se le appunta o le ha tutte in testa?

«Tutto in mente. Quando guardo una foto è come se si aprisse un cassettone lungo lungo, come quelli delle farmacie, e passassi in rassegna tutto il mio vissuto».

Quando e perché ha iniziato a fare satira politica?

«Quando la Fondazione di Osho coi suoi studi legali internazionali mi ha fatto capire che, se andavo avanti parodiando le sue frasi, mi avrebbe fatto nero. E quelli so’ avvocati di New York, mica parafangari. Poi, il Premio Satira a Forte dei Marmi è stata un’investitura e, da lì, sono arrivate le collaborazioni. Mi chiamarono Porta a Porta, poi il quotidiano Il Tempo, dopo, ho scritto una serie per RaiPlay con protagonista Neri Marcorè, di cui sto scrivendo la seconda stagione».

Il romanesco è la sua lingua madre?

«Sono nato nel quartiere Monteverde, cresciuto a Roma Nord. Se devo fare una battuta, la faccio in romanesco».

Da dove le arriva l’ironia: Dna, talento naturale, studio?

«Non sono mai stato un musone, mi piaceva fare battute già a scuola. E papà era simile a me. Forse è un po’ talento innato, un po’ Dna, un po’ la cinematografia alla Carlo Verdone con cui sono cresciuto. Poi ho scoperto nei social una specie di palcoscenico, ma nel 2015 erano più frequentabili, oggi, sono diventati sfogatoi e, appena vedono che fai un po’ di successo, non te lo perdonano. Se raggiungi i libri, la tv, l’invidia arriva. La gente rancorosa non sopporta che sei arrivato in alto grazie a loro».

In più, la politica è divisiva.

«Ho sempre fatto battute su tutti i partiti, ma in tempi non sospetti dichiarai di aver votato, in gioventù, Movimento Sociale. Lo dissi quando Fratelli d’Italia era al quattro per cento e dichiararlo era scomodo».

Ora, però, è il suo momento. È vero che è molto amico di Giorgia Meloni? «Lo siamo dal 2016, ci siamo trovati subito, abbiamo un’ironia molto simile. E io non potrei essere amico di una persona di cui non mi piacciono le battute. Facciamo cenette familiari in cui non parliamo di politica, ma ci ammazziamo dalle risate. Detto questo, continuo a fare satira equidistante e sono stato anche invitato a eventi dei Cinque Stelle, di Azione, del Pd».

Chi sono i politici che funzionano di più?

«Ultimamente, pochi. Quando c’è un ricambio, bisogna aspettare che i personaggi diventino riconoscibili. Le cavolate le fanno sempre, ma io uso le foto e ho bisogno che la gente riconosca la faccia. L’uscita di scena di Luigi Di Maio è stata una grande perdita. Ma Giuseppe Conte fornisce sempre spunti, anche se con lui a volte sono stato pesante».

Chi l’ha querelata?

«Solo un tizio sconosciuto che si è riconosciuto in una foto».

Come riesce a fare due lavori?

«Prima, la sera uscivo a cena, ora, esco dall’ufficio e mi metto a cercare qualcosa da pubblicare. Comincio dai temi di tendenza sui social, poi cerco foto che m’ispirano. Mangio verso le 23 e vado a letto. Ho una vita infame, in effetti».

Avrà 50 anni a giugno, è sposato? Fidanzato?

«Niente. E non ho figli. Sono un bruto, in pratica».

Come si portano le vignette in teatro?

«Ripercorrerò i punti salienti degli ultimi anni, un po’ quelli del libro Rizzoli Come dice coso , e userò dei cult del passato, come i cantanti ai concerti che fanno l’ultimo Lp e i cavalli di battaglia. Vado indietro per far capire come si è passati da certi governi ad altri, e ricorderò quello che i che politici dicevano e si sono rimangiati. Tutto accompagnato dalla musica del Furano Saxophone Quartet».

Dopo la Sala Umberto di Roma, #lepiùbellefrasidiosho sarà il 6 marzo al Manzoni di Milano, poi a Bologna, a Varese. Quanto la spaventa entrare in un vero teatro?

«Quando mi sono esibito agli eventi pubblici, il palco mi è sembrato il mio habitat naturale: posso recitare con l’intonazione e l’intenzione che volevo dare io alle battute. Non escludo che il teatro possa diventare il mio mezzo preferito. Soprattutto, perché ci sono le luci e non vedi le persone in faccia: se le vedo, di sicuro mi fisso su quello che non ride».

Osho ride dell'Italia intera senza far sconti a nessuno. Esce "Come dice coso" di Federico Palmaroli, diario di un anno (tragicomico) di vita pubblica. Alessandro Gnocchi il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il diario 2021-2022 di Federico Palmaroli, l'inventore della pagina Le frasi di Osho, è la migliore descrizione dell'ultimo anno abbondante. Come dice coso (Rizzoli, pagg. 192, euro 16) fa sbellicare dalle risate ma è anche, purtroppo, la descrizione esatta di cosa significhi essere italiani. Così retorici da essere ridicoli. Così pasticcioni da essere ridicoli. Così ipocriti da essere ridicoli. Così incompetenti da... avete capito. Inutile prendere sul serio un Paese dove nulla è serio. Non è serio il governo, non è seria l'opposizione, non sono serie neppure le cariche più alte dello Stato e dello Stato della Chiesa. Fa molto ridere, ed è anche molto dolorosa, la gestione isterica della pandemia proprio da parte di chi avrebbe dovuto mantenere la calma. Fa molto ridere, ed è anche molto dolorosa, l'ascesa e la caduta di autentici miracolati da dio che finiscono con l'occupare poltrone ministeriali di importanza cruciale. Fanno ridere Zelensky e Putin, eppure sappiamo quale tragico momento l'Europa stia vivendo.

Fa ridere Draghi, con quella serietà esibita e riverita da legioni di giornalisti-zerbino. Fa ridere Giuseppe Conte, a capo di una Armata Brancaleone da 5 stelle. Fa ridere l'intero centrodestra, con le sue alleanze sempre a rischio. Fa ridere l'intero centrosinistra, ma in particolare fa ridere Enrico Letta, l'uomo sbagliato al posto sbagliato, fischiato nelle piazze, «bullizzato» dagli alleati (?) pentastellati. Fanno ridere i cinghiali di Roma, i riti stanchi della monarchia britannica, la separazione di Totti e Ilary, gli sfondoni di Joe Biden.

Più si ride, più si stringe il nostro cappio al collo. Moriremo dalle risate? Pare di sì, come testimonia la colta epigrafe scelta da Palmaroli, l'Aldo Palazzeschi del Controdolore: «Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange (...) L'uomo non può essere considerato seriamente che quando ride (...) Quello che si dice il dolore umano non è che il corpo caldo e intenso della gioia ricoperto di una gelatina di fredde lacrime. Scortecciate e troverete la felicità».

Intanto, possiamo osservare che l'esistenza di Federico Palmaroli, e delle sue Frasi di Osho, sono la prova del fatto che sia possibile fare satira in modo indipendente. È questo l'unico modo di fare satira: se gli sbeffeggiamenti vanno solo in una direzione, dalla satira si passa rapidamente alla propaganda. In questo modo, all'ombra di un partito, è più facile passare all'incasso. Inoltre Palmaroli è nato sul web, lavora con l'immagine fotografica, e punta sulla viralità dei suoi contenuti: insomma, è pienamente contemporaneo.

Avrà comunque capito che l'indipendenza si paga di tasca propria. Prendiamo Gaio Fratini, che era un vero scrittore satirico: finì con la legge Bacchelli. Lui, che era stato l'anima del Caffè di Giambattista Vicari, la longa manus di Livio Garzanti a Roma, l'amico e consigliere di altri assi dimenticati, come il grande Antonio Delfini. Fratini compilò un'antologia di epigrammi satirici, La rivolta delle muse. Epigrammi d'Italia (Vallardi, 1994). Vista la data? Un attimo prima della trasformazione definitiva del comico in tribuno della plebe in funzione politica di contrasto al centrodestra, una stagione umiliante per la satira, con gli artisti (o sedicenti tali) ridotti a camerieri del potere mediatico e culturale, fortemente sbilanciato a sinistra. Volete un epigramma di Fratini? Eccolo: «Al sommo derby della Nostalgia/ il Predappio sul campo del Salò/ Invitati speciali Bocca e Fo». Con versi così si finisce all'ospizio dei poveri, alla lunga.

Comunque oggi il cretino è pieno di idee, come chioserebbe Ennio Flaiano. Quindi il cretino satirico si specializza nel combattere battaglie che, alla fine, sono sempre quelle del politicamente corretto. Si mette sempre dalla parte dei «buoni», facendo finta di essere scomodo. In tv e sui giornali dominano i comici della trasgressione consentita, i battutisti di regime, i rivoluzionari con la pensione, gli indignati un tanto al chilo d'oro, i moralisti della domenica, gli eterni perseguitati da nessuno, i giullari fedeli alla linea, i censurati immaginari, i contestatori del libero mercato con il codice a barre stampato in fronte, i fustigatori di indifesi o indifendibili, insomma gente che racconta mediocri barzellette a senso (politico) unico. Fanno penose imitazioni dei leader di partito, disegnano vignette verbose e vengono intervistati come fossero laureati in scienze politiche. Ovviamente ripetono le solite banalità: la destra vince perché il popolo è ignorante, il fascismo è ormai alle porte, la sinistra non è abbastanza di sinistra e così via.

Palmaroli e pochi altri come lui (Valerio Lundini, Maurizio Milani, giusto per fare un paio di nomi) sono quindi una specie da tutelare.

Francesca D'Angelo per “Libero quotidiano” il 25 luglio 2022.

Due anni in un'ora. Se non è classificabile come il primo miracolo di Osho, poco ci manca: il 31 luglio, al Parco della Casa del Jazz di Roma, il celebre vignettista Federico Palmaroli, in arte Osho, proverà a riassumere questi ultimi due annidi pandemia, scazzi politici, guerra e complottismi epocali, nel giro di una sola ora. Lo spettacolo si chiama #LepiùbellefrasidiOsho, si ispira ovviamente alle sue vignette e «sarà a velocità 5 Giga», come scherza Palmaroli. 

Tu ridi, ma secondo me mica ce la fai. Un'ora è troppo poco

«Ce la faccio, ce la faccio! Parto più o meno dal primo lockdown per raccontare i vari patti politici, i divieti sanitari e come abbiamo affrontato, ma soprattutto aggirato, le varie limitazioni». 

Insomma, Conte superstar?

«Be' certo».

Qualcosa mi dice che, artisticamente, devi molto ai Cinque stelle...

«Sì, le loro giravolte spaziali mi offrono sempre tantissimi spunti. Anche la parentesi Conte 2 è stata interessante perché si è trasformata in una specie di sit com tra lui e Casalino. Al contrario, Draghi è più difficile da decifrare umoristicamente, perché è un uomo molto compassato, defilato, che appare poco in tv». 

Ora Draghi ce lo siamo giocato. Cosa pensi della crisi di governo?

«Questa legislatura è stata surreale: eravamo arrivati già al terzo governo con maggioranze assolutamente eterogenee, che ormai non riflettevano più la volontà del popolo. A questo punto, sono contento che si vada a votare».

A Zelensky quindi resta solo Biden?

«Sarà un caso, stadi fatto che chi appoggiava Zelensky non ha poi trovato un grande consenso. Alle ultime elezioni Macron se l'è vista bruttina, Boris Johnson è saltato, l'addio di Draghi è notizia di questi giorni... A Zelensky resta giusto Biden ma non credo che, dopo le ultime performance, gli americani abbiano ancora grande fiducia nel Presidente. È diventato come il nonno che ti porti appresso alle feste perché non puoi lasciarlo a casa da solo...». 

Alcuni anni fa lamentavi di essere un po' ostracizzato come vignettista, per via delle tue simpatie a destra. È ancora così?

«Nel mio piccolo, credo di aver rotto un po' gli steccati perché, al di là delle ipocrisie, c'era di fatto una sorta di egemonia a sinistra e continua a esserci. Sono quindi felice di quello che sono riuscito a ottenere: la gente che mi legge se ne frega della mia appartenenza ideologica. In fondo se una cosa fa ridere, fa ridere: punto. Persino Corrado Guzzanti mi segue e mi apprezza. Vero è che, se vieni da certi ambienti, devi faticare il doppio per emergere». 

La tua è un'ironia democratica: a turno prendi in giro tutti. Si tratta solo di onestà intellettuale oppure le differenze tra destra e sinistra sono scomparse?

«Per definizione, il bersaglio della satira è il governo: in Italia siamo andati avanti con un governo marmellata dove c'erano dentro tutti. Giusto Fratelli d'Italia era fuori. Quindi, vuoi o non vuoi, ho preso in giro tutto l'arco costituzionale». 

C'è chi ti rimprovera di essere molto tenero con la Meloni...

«È per causa di forza maggiore: ho iniziato a fare satira politica nel 2018 e in questi anni i governi sono stati sempre di determinati colori. Prima c'era Salvini con i Cinque stelle, poi Cinque stelle e Pd, poi Pd, Forza Italia e Cinque Stelle... Di fatto Meloni non ha mai preso decisioni e quindi non poteva diventare oggetto di battute». 

Lei però ti piace?

«Ho un buon rapporto con la Meloni, così come con alcuni esponenti di sinistra. Comunque sì, mi piace: è una delle poche leader donne, è preparata, ha studiato». 

Da romano, invece, cosa pensi dell'operato del nuovo sindaco Gualtieri?

«È ancora presto per giudicare però, come tutti quelli che lo hanno preceduto, dovrebbe evitare di fare promesse che non può mantenere. Aveva assicurato di liberare Roma dai rifiuti entro lo scorso Natale, e non mi pare che ci siamo... Ora invece dice che nel giro di due anni trasformerà la Capitale in un borgo trentino. Ecco, fossi in lui sarei più prudente nelle dichiarazioni». 

Chi salvi delle precedenti gestioni?

«Rutelli e Veltroni avevano fatto bene, anche se c'è stato un dispendio di risorse ed energie che forse non potevamo permetterci. E ora lo stiamo pagando». 

È vero che a un certo punto qualcuno ha chiesto anche a tedi entrare in politica?

«Ma', sì, è successo... Ogni tanto ci sono dei velati abboccamenti, è normale, ma mica perché io abbia doti da politico: interessa il seguito che potrei portare in dote». 

Quindi?

«Quindi niente. Ho sempre rifiutato. La politica deve farla chi conosce il mestiere. Direi che abbiamo avuto la dimostrazione lampante che le improvvisazioni non portano nulla di buono».

Ma se proprio dovessi scegliere, quale ministero vorresti?

«Forse quello dell'agricoltura». 

Perché le tue sarebbero braccia rubate alla terra?

«Un po' sì! (ride) Inoltre sono molto attratto dal mondo della campagna». 

Ho letto che lavori ancora come impiegato. Scusami, ma perché non molli?

«Considero il lavoro da vignettista ancora come un hobby. Mi fa bene concepirlo così: mi permette di essere più umano nella scrittura». 

Dite si sa molto poco. Sei sposato?

«No». 

Hai figli, legittimi o illegittimi?

«Illegittimi non lo so: per ora ancora nessuno si è presentato». 

Sei credente?

«Sono convinto che esista Qualcosa, che guida le nostre esistenze, ma non saprei dargli un nome».

Calcio: Lazio o Roma?

«Lazio, ovvio». 

Totti è l'ottavo re di Roma?

«Ma proprio no! Godevo come un riccio a ogni suo gol sbagliato. Francamente credo che avrei altri modelli anche se fossi romanista». 

Perchè usi le foto per le tue vignette?

«Non so disegnare». 

La tua verve ironica è da romano verace. Però vivi a Prati, una Roma un po' fighetta...

«Mano, a Prati c'è di tutto, anche zone popolari. Però il mio riferimento è Trieste-Salario». 

Io comunque sogno una challenge (oggi si dice così) tra te e Zerocalcare: un freestyle tra Roma Nord e Roma Sud. Come la vedi?

«Mi piacerebbe tantissimo, lo stimo molto e sarebbe bello riuscire a creare una sintesi tra i due nostri registi. Però non credo che lui sia altrettanto interessato...».

Zerocalcare partirebbe comunque avvantaggiato: anche lui, comete, ha fatto una serie tv, ma mica sulla popolana RaiPlay. La sua va su Netflix, una piattaforma più figa.

«È vero anche se sarebbe dovuto accadere il contrario visto che è lui l'uomo di sinistra e di Roma Sud». (ride) 

A proposito della tua serie tv, ci sarà una seconda stagione de Il santone?

«La stiamo scrivendo. Sono molto contento di quest' adattamento, perché racconta la periferia da un punto di vista inedito». 

Hai praticamente fatto tutto: libri, serie tv, teatro. Cos' altro ti manca?

«Il calendario sexy. Battuta a parte, mi piacerebbe molto fare un programma tv, magari di nicchia, come per esempio una rassegna stampa ironica, in stile Osho». 

Io e il santone Osho…che non sapevo neanche chi fosse” Di  Edoardo Sylos Labini su Culturaidentita.it il 9 Giugno 2022

Oggi “Osho” compie 49 anni. Federico Palmaroli è il creatore di “Le più belle frasi di Osho”, tra le pagine social più seguite e apprezzate (oltre un milione di like su Facebook e 400 mila follower su Instagram). Il suo estro creativo ci ha regalato la copertina del mensile di maggio 2020 e una pagina di vignette futuriste, pubblicata sul numero di gennaio 2022, dove lui, amante del Futurismo, trasporta Filippo Tommaso Marinetti al Quirinale. Come ha detto al direttore di CulturaIdentità Edoardo Sylos Labini nell’intervista che oggi vi proponiamo in occasione del suo compleanno, Federico Palmaroli è ormai diventato il re della satira italiana: un percorso iniziato dalla gavetta, anzi dalle retrovie futuriste, come tiene a ricordare lui stesso, che ha tatuato su un avambraccio il fondatore del Futurismo Filippo Tommaso Marinetti. Con Edoardo Sylos Labini, il nostro Osho condurrà una delle serate del Festival di CulturaIdentità a Senigallia.(Redazione).

Com’era Federico Palmaroli liceale?

Puntava alla salvezza, nel senso che facevo il minimo indispensabile per superare l’anno scolastico! Però mi ricordo che quando facevo “sega” a scuola (spesso!), invece di andare in sala giochi andavo al Foro Romano: già lì emergeva la mia natura. Di questi tempi, invece, i ragazzi anziché marinare la scuola marinano la famiglia e non vedono l’ora di tornare in classe.

Hai mai fatto parte di movimenti giovanili, cosa ne pensi?

Non mi hanno mai attratto, non ho mai avuto una militanza politica. Mi sono avvicinato invece ad associazioni culturali più che ai vari collettivi.

Da adolescente che professione immaginavi per il tuo futuro?

Mi sarebbe piaciuto molto fare il macellaio perché amavo l’odore della carne cruda e toccarla (lo so, sembro un maniaco), poi ho anche pensato di fare il giornalista. Alla fine, come accadeva all’epoca, ho seguito un po’ il gregge e infatti la mia vera vena è uscita in età molto adulta.

Come nasce Osho?

Per caso, non sapevo nemmeno chi fosse. Vedendo la gente sui social che condivideva continuamente i pensieri di questo santone, ho avuto l’idea di appiattirlo sulle questioni quotidiane e di farlo parlare come se ce lo avessi accanto in giro per Roma. Tanti sannyasin, i seguaci di Osho – quel nome mi divertiva. Mi faceva pensare che si comprassero gli abiti a via Sannio – se la sono presa per la parodia e mi hanno fatto una vera e propria guerra attraverso la Fondazione che fa capo a Osho.

Spiegaci meglio

Iniziavano ad arrivare comunicazioni da studi legali con una carta intestata che solo a riceverle facevano paura. Quindi ho sospeso l’utilizzo, anche perché non mi avrebbe portato da nessuna parte a livello professionale. È stato un momento difficile perché vedevo quell’esperienza terminata invece è stata un’opportunità perché ho swichato sulla satira politica e da lì mi sono arrivate tutte le collaborazioni.

Qual è lo stato della satira in Italia?

Nel caso della vicenda Scotti/Hunziker, ha fatto bene Ricci a non chiedere scusa. Perché altrimenti si fa il gioco di questo politicamente corretto spinto alle estreme conseguenze. Oramai c’è una moralità costruita in modo artificiale che non consente più di esprimersi liberamente, anche in termini di satira come invece era prima. Vi ricordate la locandina di Un cinese in coma di Verdone? Purtroppo ci sono gli algoritmi che lavorano al posto della morale comune e agiscono in automatico. Per chi fa satira sul web è un problema ed è pericoloso perché si va verso l’appiattimento, un limite enorme alla creatività.

La tua avventura, per certi versi, ricorda molto quella del Bagaglino, nato con esponenti che non facevano parte di quel mondo dell’intellighenzia di sinistra

Ho confuso un po’ le acque perché il linguaggio che usavo era molto popolare e secondo certi stereotipi, poteva era assimilato a un tipo di satira di sinistra. C’è stato un cortocircuito quando dichiarai di non essere di sinistra. Appartenere ad un’area diversa da quella dell’egemonia culturale, pensavo mi avrebbe creato de- gli ostacoli invece la stima è arrivata da tutte le parti. Anzi, spero di avere rotto gli steccati e aver fatto capire che puoi farti una risata ed essere apprezzato anche se una cosa viene da destra. La mia satira è ficcante ma mai offensiva e colpisce i governi. Se il centrodestra andrà mai al governo, menerò sulla destra. Chi pensa il contrario, rimarrà deluso.

Scanzi ti diede del “fascio”

Sì, fra l’altro utilizzando una battuta trita e ritrita. Poi uno si mette sempre sulla riva del fiume ad aspettare il cadavere e credo sia molto peggio fregarsi un vaccino anziché partecipare a una cena elettorale. Detesto chi moralizza troppo perché pensa di essere al di sopra di ogni sospetto, proprio come i Cinque stelle che si sono presentati al grido di morte al re e adesso si ritrovano a governare col PD. Meglio fare un passo indietro prima perché poi quando sbagli vieni distrutto.

E l’amicizia con Di Battista? Cosa ne pensi del suo percorso politico fino a qui?

È stato lungimirante. Si è tirato fuori in un momento in cui iniziava la deriva e oggi viene visto come un salvatore di quell’idea originaria. Poi chissà forse capiterà anche a lui di dover scendere a compromessi.

Oggi è più difficile far ridere?

Quando c’era Conte al governo le contraddizioni sono state uno stimolo per fare satira, adesso che sono praticamente tutti al governo è più difficile perché non ci sono quei contrasti che ti offrono gli spunti giusti.

In pochi conoscono la tua passione per il Futurismo.

Mi innamorai del Futurismo nel 2001 per una mostra al palazzo delle Esposizioni. Cito spesso un discorso di Marinetti a Montecitorio dove fu portato via dalle forze dell’ordine e il giorno dopo D’Annunzio gli scrisse complimentandosi. Oggi quelle figure ci mancano più che mai.

Cosa vorresti dire ai giovani?

Sono preoccupato da questo andamento, vedo un appiattimento culturale. Se avessi dei nipoti li stimolerei a riscoprire le radici delle grandi figure del passato.

Raccontaci un episodio trash della tua carriera.

L’aneddoto più curioso è legato a Osho. Nel pieno dell’utilizzo di quel personaggio, da un resort dell’India mi mandarono una foto che ritraeva la gigantografia di una mia vignetta all’ingresso del villaggio, probabilmente per dare il benvenuto a degli ospiti italiani. Riportava la scritta “Ciò che non ci uccide, te rompe li cojoni”, hanno scoperto solo dopo cosa c’era scritto! Anche se secondo me è una grande verità che potrebbe avere detto anche Osho. Che pensi delle riaperture? Tra regole assurde e inspiegabili, come il coprifuoco alle 22.00, si rischiano di creare discriminazioni inaccettabili. Mi auguro, poi, che consentano anche ai ristoranti che non hanno spazi all’aperto di riaprire comunque con i distanziamenti, altrimenti per questi imprenditori sarà la mazzata finale. Il pericolo è generare una lotta all’interno già di un’altra lotta. In pratica, le scatole cinesi delle lotte sociali.

Quando Nietzsche si divertiva fra gite, vermouth e corride.  Nel 1884, terminato lo "Zarathustra", il filosofo visse momenti felici. Con una studentessa bruttina ma acuta. Daniele Abbiati l'11 Agosto 2023 su Il Giornale.

Le donne belle e desiderabili, a chi chiede loro quali siano le doti che un uomo deve possedere perché lo considerino interessante, mettono sempre ai primissimi posti il «deve farmi ridere». Le donne un po' ci marciano, con questa faccenda del «ridere», come se essere simpatico fosse, ai loro occhi, molto più importante di altri fattori, ma in fondo c'è da capirle, e anche da ringraziarle: lo dicono per incoraggiare i non belli e i non ricchi, a volte persino i brutti e i poveri. Ebbene, una donna che non spiccava per bellezza, né per fascino, è passata alla storia (quella storia minima, elitaria, libresca che interessa soltanto agli studiosi di filosofia) invertendo i poli del rapporto empatico, cioè ricoprendo il ruolo dell'uomo che «fa ridere» la donna, oltretutto una donna incline alla melanconia (quando era di buon umore) e all'ira (quando era nei momenti no, cioè quasi sempre). Quella donna era Friedrich Nietzsche, e quella donna-uomo era l'austriaca Resa (diminutivo di Theresia) von Schirnhofer.

Scrive l'inquieto Fritz a Overbeck il 18 agosto 1884, a proposito di Resa: «è una creatura divertente, che mi fa ridere, e che si abitua facilmente a me». Cosa, quest'ultima, tutt'altro che facile, come sappiamo. È vero che pochi giorni dopo il Nostro confessava a Malwida von Meysenbug, la colta salottiera tedesca (ma ormai da molto tempo italianissima per frequentazioni, usi e costumi) che aveva consigliato a Resa di far visita al «professore mezzo cieco» a Nizza: «Peccato che, come dicono a Basilea, sia così sgraziata! Non riesco a sopportare a lungo la bruttezza nelle mie vicinanze (già con la sig.na Salomé avevo l'impressione di dover fare un certo sforzo su me stesso)». Tuttavia, anzi, forse proprio grazie a quella «bruttezza» che tolse di mezzo ogni possibilità di innamoramento, è un fatto che Resa sia da considerare un unicum in positivo, nella vita di Nietzsche.

E poi lei, che nel gennaio del 1889 si sarebbe laureata a Zurigo con una tesi dal titolo «Confronto fra le dottrine di Schelling e di Spinoza», non era soltanto una Bridget Jones ingenuotta e goffa: a 29 anni sapeva usare bene la testa, come dimostrano questi giudizi sul compagno di quei 14 giorni sereni fra Nizza (dal 3 al 12 aprile 1884) e Sils-Maria (a cavallo di Ferragosto): «La sua iperestesia emozionale può essere facilmente rivelata attraverso molti passi del Nietzsche solitario». E soprattutto: «La sua impostazione di pensiero razionalistica era in lotta con la sua sfera sentimentale, che, cresciuta a partire dall'etica cristiana, era a essa ancora vitalmente legata. La sua volontà, tuttavia, affiorando precocemente dal fondo oscuro delle pulsioni, gli predicò l'eroismo contro la sua natura portata all'emotività, anche riguardo alla compassione, e dominò sempre sovranamente il suo mondo conoscitivo...». Insomma, mentre tutti vedevano un solo Nietzsche, lei ne vide, giustamente, due, confliggenti ma dialoganti.

Queste annotazioni di Resa von Schirnhofer sono datate 1937, quando lei, 82enne, avendo assistito scandalizzata allo scempio propagandistico compiuto dalla sorella del filosofo sugli scritti di lui, decise di dire la sua, di offrire un ritratto pulito e limpido dell'uomo trasformato in ideologo ante litteram del nazismo. Lo fece in Vom Menschen Nietzsche, cioè Sull'uomo Nietzsche che Feltrinelli manderà nelle librerie il 29 agosto (pagg. 107, euro 9,50, a cura di Susanna Mati). Alcuni brani di questo memoir li abbiamo letti in Nietzsche nei ricordi e nelle testimonianze dei contemporanei, a cura di Claudio Pozzoli (Bur, 1990) e poi in Io solo dinamite, la biografia del filosofo di Sue Prideaux (Utet, 2019). Ma trovarseli di fronte ben apparecchiati e commentati dalla curatrice colma una lacuna nella bibliografia nicciana, ed è una boccata d'aria fresca, anche se vecchia di 86 anni, che ritempra, già a partire dalla copertina, con Fritz ritratto da Curt Stoeving sotto un pergolato, tra vasi di fiori e piantine e una piacevole alternanza di luce e ombra.

Dunque, siamo nella primavera del 1884, ed è un bene, perché il filosofo ha appena terminato Così parlò Zarathustra e, dando a Resa la sua disponibilità a incontrarla, le scrive il 30 marzo: «ora sono libero, forse più libero di quanto sia mai stato, ed estremamente disponibile per qualsiasi otium cum dignitate». Inoltre il corpo a corpo (purtroppo per lui soltanto metaforico) con Lou Salomé era terminato e, dopo essere finito ko, aveva bisogno di rimettersi in piedi. Resa aveva letto di Nietzsche le Considerazioni inattuali e Nascita della tragedia dallo spirito della musica e aveva avuto modo di assaggiare a Bayreuth, in occasione del Parsifal di due anni prima, il «virtuosismo dialettico» e la «cavillosità sofistica» di Lou, restandone «avvinta». Ma mai avrebbe immaginato di diventare per il Nostro un ricostituente dopo la malattia rappresentata dalla conturbante russa...

In Costa Azzurra il quarantenne Nietzsche è sceso alla Pension de Genève, ma non è proprio il caso di restarsene in camera o sulla terrazza a rimuginare: via, prof, andiamo a fare una bella passeggiata sul monte Boron. Il mistral, il cielo terso, lo «stato d'animo ditirambico», persino un bicchierino di «vermouth di Torino»... E poi la corrida soft: un vero spasso, con sei tori che sembrano consumati attori di una commedia, al riparo dalle lame dei toreri... con il sottofondo fuori luogo della Carmen di Bizet, «come una fanfara di guerra in una festa danzante di campagna», che cosa comica! Intanto, si parla di scrittori, e di storia. Lo sa, signorina, che il mio polso è lento quanto quello di Napoleone? Sessanta pulsazioni al minuto! A proposito, avrei una gran voglia di visitare tutta la Corsica, mi accompagnerebbe? Potremmo fingere di essere zio e nipote... Quando si accenna a Wagner spuntano le lacrime. Ma poi spuntano i riferimenti letterari fra i più amati: Stendhal e Taine.

Cambio di scena: Sils-Maria, intorno a Ferragosto. È d'obbligo sostare in raccoglimento di fronte alla «roccia sacra» di Zarathustra, ma quando poi si incontrano delle mucche al pascolo innervosite alla vista dei due umani seccatori, si ride come pazzi, con il prof che le disperde mulinando il suo ombrello. A un certo punto Nietzsche confessa che spesso chiudendo gli occhi vede fantasmagorici fiori che s'avviticchiano, sicché Resa pensa: allora è vero che prende l'hashish. Si sfiora anche il tema della paura della follia, e di averla ereditata dal padre (altro che caduta rovinosa sui gradini, come volle far credere la sorella Elisabeth...).

L'ultimo incontro? Sorvolando sul triste giorno d'autunno del 1897 a Weimar, quando Fritz è ormai una larva custodita in una teca da Elisabeth, avviene il 6 maggio di dieci anni prima, a Zurigo. Giusto il tempo per un elogio alla grandezza di Dostoevskij e per una riflessione sul vantaggio di avere «abitudini brevi», che non sono vessatorie come quelle troppo «lunghe». Da parte sua, Resa von Schirnhofer non ebbe il tempo di diventare per Nietzsche un'«abitudine lunga». Fu una lieta parentesi di gioia in un fluviale romanzo di dolore.

Tutta la forza dionisiaca e senza confini che animava il giovane Friedrich Nietzsche. La raccolta dei primi scritti del filosofo illumina un percorso spirituale. Barbara Castiglioni il 6 Luglio 2023 su Il Giornale.

Nell'agosto del 1881, mentre errava tra i boschi di Silvaplana, Friedrich Nietzsche viene folgorato dall'idea dell'eterno ritorno: «L'istante in cui nacque in me l'idea del ritorno è immortale. Per quell'istante io sopporto il ritorno!». Questa fatale intuizione, al contempo terribile e meravigliosa, suggerisce che per vivere un istante immortale e assoluto si possa sopportare perfino la realtà, e riassume la grandezza del filosofo che scriveva a Cosima Wagner: «è un pregiudizio che io sia un uomo!».

Questa grandezza è già evidente in due scritti giovanili, La visione del mondo dionisiaca e Su verità e menzogna, pubblicati da Bompiani (Tutto sarà allora Dioniso, pagg 108, euro 10). Nella Visione del mondo dionisiaco, Nietzsche anticipa le intuizioni de La nascita della tragedia: parla della saggezza di Apollo, e di Dioniso, il dio dolcissimo e terribile che arriva dall'Asia e sconvolge la Grecia. Descrive l'ebbrezza dionisiaca, il suo vortice irresistibile, l'eccitazione narcotica e lo scatenamento degli impulsi; parla dei limiti, «che per poter essere fermi devono essere riconoscibili», e che portano all'ammonimento apollineo gnòhi seautòn («conosci te stesso»).

Secondo Nietzsche, però, è l'eccesso a svelarsi come verità, è «il fascino demonico di un sentimento straripante»: più o meno, il contrario del medèn ágan («nulla di troppo»), l'altro monito apollineo per eccellenza, che campeggiava sul tempio del dio a Delfi. L'estasi dionisiaca abbatte ogni costrizione, «lo scintillio olimpico impallidisce davanti alla sapienza del Sileno», e il ritorno alla realtà e alla coscienza dà la nausea: ed è curioso - e misterioso che sia proprio Euripide, che nella Nascita della tragedia sarebbe stato definito il distruttore della tragedia, a scrivere, nelle Baccanti, quello che si avvicina forse di più alle idee di Nieztsche: «Stare nei limiti dell'uomo è una vita senza dolore. Non voglio una sapienza sottile. La mia gioia è cercare altri beni, grandi e chiari».

Il secondo testo, Su verità e menzogna, è, invece, «un pro memoria». E descrive l'uomo, «costantemente ingannato», e il cui «intelletto dispiega le principali forze nella finzione»: perché «le verità sono illusioni», ma l'uomo «ha un'invincibile inclinazione a farsi ingannare ed è come incantato di fronte alla felicità». Per Nietzsche, che non a caso riteneva superficiale, in confronto a lui, «il fondatore del cristianesimo», il grande uomo ha l'esigenza dell'immortalità, ma è rallentato, frenato, ostacolato dai «piccoli cervelli di miseri esseri umani fugacemente viventi».

Perché «l'uomo morale guarda ogni scomparire e tramontare con insoddisfazione, con la meraviglia di esperire qualcosa di impossibile», e con la nostalgia di quell'«istante di perfezione cosmica». L'«attimo di suprema perfezione», infatti, scompare senza lasciare tracce o eredi, e questo «offende nella maniera più forte l'uomo morale»: in fin dei conti, non sarà per illudersi di rintracciare almeno il ricordo di quell'attimo che Marcel Proust, cinquant'anni più tardi, avrebbe scritto Il Tempo Ritrovato?

"Torniamo alla terra!". Com'era ecologista l'anima di Marinetti&Co. Uno studio innovativo di Guido Andrea Pautasso racconta i legami sorprendenti tra avanguardia e naturismo, vegetarianesimo e ambientalismo. Luigi Mascheroni il 23 Aprile 2023 su Il Giornale

Sì, lo sappiamo bene: Futurismo uguale esaltazione delle macchine, l'automobile rombante come mezzo e fine della creatività artistica e metafora dell'esistenza, simbolo di un progresso «senza morale»; il Futurismo come avanguardia della tecnologia e della scienza; il Futurismo e il mito della guerra, della velocità, dell'elettricità, della metropoli moderna e dinamica... le fabbriche, i grattacieli, la città che sale.

Ma - paradosso futurista - Filippo Tommaso Marinetti e compagni, negli anni Trenta, seppero cogliere l'aspetto più razionale e «naturale» della tecnica e la macchina venne trasformata in un elemento utile per il cittadino e funzionale per l'umanità. È il punto massimo della visione progressista del Futurismo: conciliare il lavoro dell'uomo con la Natura, dove la macchina migliore non è la più veloce ma la più utile, non è la più potente ma quella che alleggerisce la fatica dell'uomo. Non quella che lo rende schiavo, ma che lo libera.

Può apparire strano - e in effetti ci stiamo addentrando in un campo di studi pochissimo battuto - ma il Futurismo fu molto rispettoso dell'ambiente. Se non fosse che il movimento mal tollerava le parole straniere, si potrebbe dire che il Futurismo fu green... Marinetti, Prampolini, Thayaht, Ginna, Fillìa - solo per ricordarne alcuni - seguirono un'alimentazione vegetariana; sperimentarono tecniche per la realizzazione spirituale dell'individuo derivate dalla teosofia, dall'antroposofia e dalle culture esoteriche orientali; erano animalisti ante litteram; progettarono abitazioni in armonia con l'habitat naturale; composero musiche e pièce teatrali ispirate alla ricerca della Natura.

Tutto ciò vi sembra inconciliabile con l'immagine della prima avanguardia artistica europea del '900? Allora dovete leggere un saggio originalissimo, il primo nel suo genere (sì, certo: c'è qualcosa di Claudia Salaris sull'alimentazione), pubblicato dopo anni di studio e di ricerche da un grande esperto di Futurismo&dintorni, Guido Andrea Pautasso: Naturismo futurista (Biblohaus, pagg. 404, euro 20), sottotitolo molto esplicativo: «Ritorniamo alla terra! L'anima verde di Marinetti e dei futuristi». Ed ecco il punto: il fondatore del movimento, che nel 1934 con Arnaldo Ginna compose il Manifesto del Naturismo Futurista, poi creò i Gruppi Naturisti-Futuristi e le riviste il Nuovo (1934) e La Forza (1935) per lanciare la sua campagna ecologica e animalista, e fu sempre attento alla cultura fisica e all'alimentazione dell'essere umano. E attraverso il Naturismo, in anticipo sui tempi, tentò di dare vita a una bonifica integrale dell'individuo moderno e della società per poter «costruire» - e non solo fisiologicamente - un Uomo virile, energico, sportivo, sano, rispettoso dell'ambiente naturale e futurista ancor prima che fascista.

Molte le immagini e i testi poco conosciuti e le rivelazioni contenute in Naturismo futurista. Ad esempio. I manifesti di Marinetti e Fillìa dove si evoca il perfezionamento fisico dell'uomo e per la prima volta il riconoscimento di un'anima ecologista e animalista degli artisti d'avanguardia. Una fotografia rarissima di Marinetti su una motoaratrice con al seguito, intento ad agevolare l'opera di aratura, il conte futurista Arnaldo Ginna; un'altra foto di Marinetti durante la campagna d'Africa immortalato accanto a un Ottoritteropo o Aardvark (un maiale di terra) dell'Abissinia. Poi il disegno di Ruggero Michahelles - nome d'arte: RAM - per illustrare la copertina della rivista Natura ispirata a una statuetta ritrovata durante il suo soggiorno nella allora colonia africana. I testi dei vari convegni dei Gruppi Energicisti e Futuristi dove Marinetti tende a virilizzare il corpo umano, ad addestrarlo all'uso e all'impiego della macchina per salvaguardarlo da inutili sforzi nel lavoro dei campi. L'esaltazione del salutismo, con Marinetti che invoca il miglioramento individuale e delle masse mediante lotte quotidiane contro le paludi e la malaria, lasciando presagire la necessità degli interventi di bonifica sul territorio nazionale e la nascita di città nuove. L'opera dei medici Francesco Vasta e Mario Cassoni che elogiano l'idea futurista di utilizzare cure naturali per la salvaguardia dell'uomo moderno. Il ritorno alla Natura professato dall'architetto futurista Alberto Sartoris con la creazione di edifici che esaltino gli spazi e gli ambienti naturali. Le pagine dedicate al vegetarianismo e all'eutrofologia professata da precursori del naturismo moderno come Fortunato Peitavino, il quale creò la prima colonia in Italia per la rigenerazione dell'individuo e la cura delle malattie tramite terapie naturali (colonia per altro frequentata da Italo Calvino e dai suoi genitori). La creazione di un'agricoltura futurista e la messa a punto di studi futuristi per il miglioramento degli allevamenti di bestiame voluti dal cremonese Idelfonso Stanga. E l'idea (mai realizzata) di far nascere in Versilia, a Marina di Pietrasanta, un Centro Naturista-Futurista.

Eccola la concezione utopistica di una civiltà moderna e ecologista che sancisce l'incontro tra la Natura e la nascente sensibilità dell'uomo nuovo futurista.

Alberoni: «La mia carriera spiccò il volo quando raccontai gli hippy. Per amore finii in clinica psichiatrica». Pier Luigi Vercesi su Il Corriere della Sera il 22 Marzo 2023

Il sociologo: «Mara Cagol si laureò con me, fu lei a portare Renato Curcio sulla cattiva strada»

«Come può un sociologo come te, che ha scritto saggi fondamentali, occuparsi di reggiseni e mutandine?», lo provoca, scherzando, un direttore del Corriere della Sera. Francesco Alberoni, diventato una star internazionale con il suo libro «Innamoramento e amore» (un paio di milioni di copie vendute persino in Giappone) sbotta: «Scherzi? Io vengo da lì, se non avessi azzeccato il colore dei corredi delle italiane la mia vita avrebbe preso una piega diversa».

Professore, ma lei non è il teorico dello «stato nascente», concetti complessi che permettono di comprendere i «movimenti» e come si comportano le masse?

«Sì, ma nessuno mi avrebbe dato le opportunità che ho avuto se non avessi aiutato Piero Bassetti nell’affare più spericolato della sua vita».

Ci spieghi meglio.

«Inauguro la mia esistenza da adulto con il piede sbagliato. Mi iscrivo a Medicina a Pavia. Il professore con cui devo laurearmi, quando vede le mie 52 interviste a melanconici realizzate per la tesi, dice che quella è psicoanalisi, non psichiatria: o cambi passo o cambi mestiere. Per fortuna il rettore dell’università dirige anche il collegio Cairoli dove sono ospitato. Una mattina gli faccio la posta, lui capisce e mi dirotta sul professor Lattes, un ebreo che ha fatto l’esperienza dei campi di concentramento. Per farla breve, mi laureo con 110 e lode. A quel punto voglio diventare psicoanalista, ma mi spiegano che invece devo fare il medico condotto. Stringo i denti e porto i miei lavori a padre Agostino Gemelli all’Università Cattolica. Un tale mi comunica che è in Spagna. Insisto: vi lascio i miei lavori, fateli vedere a un assistente. Quando non ne può più, il tale prende i fogli e mi dice di aspettarlo. Passano due ore. Me ne sto andando mentre sbuca da una scala e dice che padre Gemelli mi riceve. Ma non era in Spagna? “Si dice sempre così”. Scendiamo in uno scantinato e me lo trovo davanti. “Li hai fatti tu? Come ti chiami?” Alberoni. “Discendente del cardinale?”. No, noi siamo dei morti di fame. “Vai dall’amministratore e fatti dare una borsa di studio”. A settembre me la assegnano e padre Gemelli mi chiama perché Bassetti vuole capire se produrre tessuti per le doti in bianco, come è sempre avvenuto, o a colori, un’eresia. “Fai una ricerca”. Come si fa? “Come ti viene”. Con una Cinquecento usata batto l’Italia dalla Calabria a Bolzano. Ci stavano lavorando anche sociologi di fama pagati profumatamente. A me rimborsavano la benzina. Loro dicevano che le donne italiane adoravano il bianco. Io tornai convinto che erano tutte balle: l’80% era per il colorato. Lo dico a Gemelli e a Bassetti che, con una punta di follia, seguono il mio consiglio. Fu un successo e, quando si sparse la voce, nel giro degli imprenditori ero un enfant prodige, per i sociologi uno da uccidere in fasce».

Eppure comincia la sua carriera accademica. Non le tagliarono le gambe?

«Vinco il concorso per la cattedra di Psicologia, mi sposo e muore Gemelli, peggio che se mi fosse mancato un padre. Faccio consulenze, mi cooptano nel board messo insieme dalla Fondazione Olivetti e dalla Ford Foundation. Così comincio ad andare a New York e mentre gli altri se ne stanno in ufficio io batto la strada. Sta arrivando l’onda lunga del movimento hippy. Quando torno, racconto. Mi faccio la fama di uno che capisce i movimenti. È lì che elaboro il mio pensiero, la forza inarrestabile dello “stato nascente”, di un uragano che travolge. Non ci si può opporre, se lo vuoi governare devi cavalcarlo. Anni dopo lo spiego a Bettino Craxi: sali sul carro di Mario Segni, se gli vai contro, ti abbattono. Non mi crede: “Andate tutti al mare”, dice in occasione del referendum. E il mare lo affoga. A conferma dell’intuizione, poi, mi capita di sperimentare l’uragano in prima persona e di non capire che non posso oppormi: mi sono persino fatto ricoverare in una clinica psichiatrica».

Voleva diventare hippy?

«Peggio. Vado dal professor Ferrarotti a Roma, conosco la sua assistente e me ne innamoro. Ho moglie, tre figli e insegno alla Cattolica. In clinica volevo disperatamente guarire dall’amore. Inutile. Alla fine mollo tutto e scappo con Laura, un rapporto travagliato che finisce con una brutta immagine: io chiuso fuori di casa perché lei ha fatto cambiare la serratura. Per fortuna sta entrando nella mia vita Rosa Giannetta, di cui mi innamoro e riesco a non essere geloso quando nei suoi romanzi racconta di altri amori...».

Torniamo indietro: in quello scorcio di anni Sessanta diversi uragani scuotono l’Italia...

«All’università di Trento, nel 1967 c’è una rivolta e tutto il corpo docente si dimette. Norberto Bobbio e Manlio Rossi-Doria fanno il mio nome come dell’unico che capisce di movimenti. È una bella sfida. Accetto la nomina a rettore. Per dimostrare che sono di una nuova razza metto insieme un collettivo, colgo fior da fiore il meglio della psicologia, della sociologia e dell’antropologia. Costituisco due plenum, sei professori e sei studenti, e li metto a discutere nella sala dei dodici apostoli. Funziona. La mia teoria è provata: il movimento si auto-organizza. Mi affeziono a Mauro Rostagno e quando lascia il movimento per diventare buddista lo capisco. E c’è gente come Curcio. Non ha una matrice ideologica precisa. Qualcuno come lui a volte torna nell’alveo della chiesa. Curcio poteva diventare un bravo studioso di Amadeo Bordiga, un buon bibliotecario. Ma si innamora di una montanara cattolica testarda. È stata Margherita Cagol a portarlo su quella strada. Lei ha fatto la tesi con me e probabilmente glie l’ha scritta lui. Li ho incontrati ancora a Milano, vicino all’Istituto dei ciechi. Era incinta. Perso il bambino sono andati a sparare».

A quel punto nascono i suoi best seller. L’aveva previsto?

«Lascio Trento e vado a Messina per avere la tranquillità di metter tutto nero su bianco. Nasce Movimento e istituzione e gli altri libri vengono a ruota. Innamoramento e amore viene tradotto in ogni lingua possibile. Ma ce ne sono altri che ritengo più importanti, come Genesi».

Eppure l’accusavano di essere banale.

«Dagospia mi soprannominò “va’ pensierino”. Non immaginano quanti sforzi faccio per farmi capire da tutti».

Provi allora a spiegare cos’è lo «stato nascente».

«Non c’è una definizione. Posso visualizzarlo. È il momento in cui nella piazza davanti alla Cattolica gli studenti cominciarono a cantare, prima sottovoce e poi più forte: We shall overcome one day... Arrivano gli scioperanti, i sindacalisti e ci sono altri canti intonati da don Giussani».

Vede all’orizzonte movimenti che possono travolgerci?

«Due: uno è quello ucraino, ma non è nemmeno il più potente. L’altro è l’India. La sottovalutiamo perché interessa poco agli americani. Eppure è lì che dobbiamo puntare gli occhi. Lo dico da tempo; nessuno mi ascolta».

Estratto dell’articolo di Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 27 febbraio 2023.

Vive la France! La «nostra insigne benefattrice», accorsa «a porgervi la sua destra per sollevarvi dalla dura schiavitù, che vi tenea oppressi, e dal ferale giogo, che vi pesava barbaramente sulla cervice». […]

 La mattina del 10 marzo 1798 in cui furono pubblicati sul «Monitore di Roma» quei bellicosi incitamenti a sostenere la truppa napoleonica, «il mezzo sicuro ed unico di prevenire la perfidia degli aristocratici, i quali van sotto mano preparando nuove catene e fabbricando sordamente una più barbara schiavitù», gli amici stessi restarono senza fiato.

 L’autore dell’incendiario appello ai romani «discendenti de’ Bruti, de’ Cincinnati e de’ Gracchi» era Francesco Piranesi. Il figlio del veneziano Giovan Battista Piranesi che proprio alla corte dei Papi (soprattutto sotto il pontefice veneziano Clemente XIII, suo munifico protettore, della serenissima stirpe dei Rezzonico) era riuscito a imporsi come incisore, archeologo, architetto ma più ancora fondamentale protagonista del recupero e del rilancio delle leggendarie antichità romane accrescendo via via il mito del Grand Tour.

Che ci faceva lui, l’erede di quel padre immenso, tra i rivoltosi della Repubblica Romana 1798-1799? Lo spiega, tra intrighi spionistici e irresistibili dettagli, il libro Nel nome del padre. Le molte vite di Francesco Piranesi edito dall’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, e scritto da Pierluigi Panza, storico dell’arte, docente universitario, giornalista del «Corriere» e curatore di tre mostre sul grande Piranesi in occasione del terzo centenario della nascita. Dove si racconta come il rampollo, sulle prime destinato alla carriera ecclesiastica, fosse finito tra i più accaniti mangiapreti bonapartisti e prima ancora tra le spie di Gustavo III di Svezia finché...

 Ma è meglio partire dall’inizio. E cioè da quel genio di suo padre, Giovan Battista Piranesi che, fece davvero fortuna, racconta Panza, «divenendo con le sue Vedute e con le Antichità Romane uno dei più noti incisori, poi architetto, cavaliere, antiquario e scultore all’antica per soddisfare il gusto dei viaggiatori».

L’Urbe era allora una città «di tredici chilometri quadrati circondata dalle mura aureliane. Gran parte delle abitazioni erano medioevali, strette e lunghe, di due o tre piani, in travertino di Tivoli o peperino», ci vivevano meno persone che a Napoli e poco più che a Venezia, la popolazione era costituita soprattutto da chierici, preti, pellegrini, servitori e pigionanti, si «contavano 240 monasteri maschili contro 73 femminili» e insomma poco restava della metropoli imperiale che quindici secoli prima pare superasse un milione e mezzo di abitanti.

 […] Un’officina d’arte dai ritmi febbrili: questo erano i Piranesi nel loro palazzo Tomati, a Trinità dei Monti. Al punto di sfornare per i clienti, sempre più numerosi, più ricchi e più esigenti, matrici su matrici, vedute su vedute, copie su copie di statue e candelabri e pezzi di ogni genere ritrovati negli scavi e riprodotti in tale quantità da essere 263 sparsi in 43 siti diversi.

 […] Fatto sta che quando morì, nel novembre 1778, dopo un faticoso viaggio a Paestum che gli aveva ispirato «18 tavole sui templi, che credeva fossero Etruschi», lasciò alla moglie Angelica, alle due figlie e i tre figli, un patrimonio tale da garantire (così sperava) una «comoda sussistenza».

Il maggiore e cioè Francesco che aveva collaborato col padre alle ultime acqueforti (aggiungendone tre sue), annoterà giorni dopo l’architetto Giannantonio Selva, «ha del talento e può essere capace di calcare l’orme del Padre. Avrà però sempre rimorso d’essere stato ancor lui motivo d’inquietudine al detto suo Genitore perché un giorno arrivò sino a revortarsegli contro con un coltello alla mano. È ben vero che il Padre troppo lo tiranneggiava e fu cagione che non potendo avere qualche paulo chiedendoglielo, si pose a rubargliene».

 In realtà, scrive Panza, Francesco «apparve subito incapace di seguire la qualità del padre». Peggio: appena prese coscienza che non ce l’avrebbe fatta a reggere il confronto, cominciò a badare ancor di più a sé stesso. Al punto di spingere Angelica a fargli causa per l’eredità.

E i documenti dovevano essere dalla parte sua perché «il giudice decise che Francesco e il più giovane fratello Pietro provvedessero al sostentamento della madre con un assegno mensile, più abiti e gioielli». Dopodiché, stabilito «che il valore dell’eredità di Giovanni Battista ammontava a 43 mila scudi» dispose che Francesco «non potesse alienare “beni” o “stabili” accumulati dal padre, ovvero “mobili e merci, cioè stampe, rami, statue, pietre, marmi ed altro”». Un verdetto che Francesco disattese iniziando subito a vendere il museo paterno.

Giochi d’azzardo? Amanti insaziabili? Vizi inconfessabili? Mistero. Certo, a leggere Nel nome del padre, il talentuoso ma non abbastanza figlio del grande Piranesi sprecò quanto aveva di buono tentando d’ingraziarsi monarchi e potenti di mezza Europa con assillanti e untuose proposte che l’uno o l’altro gli comprassero tutto tesoro o via via ciò che restava (beninteso: vendendosi a parte qualche pezzo, magari di straforo) avuto in eredità. Prima il Re di Polonia Stanislao, poi il Re di Svezia Gustavo III, poi Giuseppe Bonaparte piazzato dal fratello Napoleone prima come Re di Napoli poi come Re di Spagna...

 Una vita intera al servizio, a fini di lucro (una somma favolosa, una pensione, un vitalizio...) di questa o quella corona. Con un occhio di riguardo per quello svedese alla quale fece arrivare via Civitavecchia (ci fu chi chiuse un occhio…) 90 pezzi della collezione, fino a ricever la proposta di spiare l’«amico» generale Gustaf Armfelt caduto in disgrazia a Stoccolma e rifugiatosi a Napoli per sfuggire alla pena di morte.

Una richiesta che lui, cresciuto nella Roma papalina e avvezzo a distribuire «mancie a quelli che procuravano le nuove segrete», non poteva rifiutare. Quando morì esule a Parigi, nel 1810, gli erano probabilmente rimasti mille rimpianti. Tra cui il rifiuto alla richiesta di divenire cittadino veneziano. Anche quella, ovvio, nel nome del padre.

Incisore, spia, antiquario, politico... Le mille incredibili vite di Piranesi (figlio). Pierluigi Panza racconta l'esistenza turbolenta e affascinante di Francesco. Mimmo Di Marzio su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

«Noi compiangiamo la perdita di un artista raccomandabile, colui che fece uscire la Roma antica dalle sue rovine; Giovan Battista ha vissuto ancora nella persona di suo figlio Francesco». L'elogio funebre datato 24 gennaio 1810 era di Antoine Denis Chaudet, scultore attivo a Roma fino alla caduta di Napoleone. L'artista compianto, invece, era Francesco Piranesi, personaggio geniale ancorché controverso, la cui vicenda nasce nella bottega del più celebre incisore della storia, quel cavalier Giovan Battista che seppe soddisfare il gusto dei viaggiatori del Grand Tour. La bottega era quella di palazzo Tomati, a Trinità dei Monti, che oltre a stampare le celeberrime vedute vendeva, collezionava e restaurava pezzi scavati e antichità. Proprio in questa casa-museo, tra bulini, vasi, candelabri, tra disegni e stampe, il giovane Francesco apprese il mestiere: «L'unico - come scrisse l'architetto veneziano Giannantonio Selva - ad avere del talento e capace di calcare l'orme del padre».

Ma se è vero che la prima generazione crea e la seconda mantiene e in qualche caso distrugge, le gesta di Piranesi jr vengono oggi ricordate nel brillante saggio di Pierluigi Panza Nel nome del padre. Le molte vite di Francesco Piranesi (Istituto Veneto di Scienze, pagg. 208, euro 45), un'epopea sulle molte vite vissute da Francesco spesso pericolosamente a tu per tu con i protagonisti del mercato dell'arte, principi, emissari di case reali straniere e conquistatori imperiali. Il libro di Panza, a metà tra biografia, saggio e romanzo storico, ne tratteggia doviziosamente la parabola, contrassegnata da un'indole iperattiva quanto incostante, nell'alternanza di scelte sempre però dettate da autentica versatilità, spirito colto e passioni sincere. Difficile, scrive Panza, enumerare tutte le attività di Francesco: assistente di bottega, disegnatore, incisore, archeologo, antiquario, titolare di una bottega di calcografia e restauro, stampatore; e ancora, «agente per le antichità» e ministro estero, agente commerciale, mediatore, spia, politico, capo della Guardia nazionale, economo di Stato, professore e industriale... fallito.

Ambizione e arrivismo, che furono pari alla sua passione di giovane antiquario, lo spinsero a sfruttare il brand Piranesi per relazioni internazionali come la corte di Svezia, dove si accreditò, tra luci e ombre, come agente e mercante ufficiale. Emblematica, fra trattative e carteggi, fu l'epopea per l'acquisizione dell'Endemione, statua del periodo ellenistico rinvenuta a Villa Adriana nel 1783, nella prestigiosa collezione del Re Gustavo III. Le relazioni pericolose con lo Stato straniero furono anche quelle che ne fecero, suo malgrado, una spia alla corte di Napoli e che lo costrinsero alla fuga, prima di sposare la causa giacobina durante la campagna italica di Napoleone e tornare sugli allori con la nomina a commissario della contabilità nella Repubblica Romana. Ma non fu quella l'ultima delle vite di un Piranesi che, esule a Parigi, si avventurò anche nell'imprenditoria con la fondazione di una manifattura di oggetti «in stile antico». Fu l'inizio della fine: l'indebitamento, la polverizzazione dell'immenso patrimonio di palazzo Tomati e un gusto ottocentesco che ormai preferiva l'arte romantica al neoclassicismo, lo condussero alla rovina.

Dal “Corriere della Sera – ed. Roma” il 20 febbraio 2023 - ESTRATTO

Stasera alle 18.30 a Palazzo Carpegna, sede dell’Accademia Nazionale di San Luca (piazza dell’Accademia di San Luca 77) incontro in occasione dell’ottantesimo compleanno di Franco Cordelli — scrittore e critico teatrale, da oltre trent’anni firma del «Corriere della Sera» — a quasi un anno dalla pubblicazione del suo ultimo libro Tao 48 (La Nave di Teseo). 

I critici letterari Giulio Ferroni, Raffaele Manica e Giorgio Montefoschi parleranno dell’opera letteraria di Cordelli e della sua carriera. L’attore Umberto Orsini leggerà alcune pagine dell’autore. Titolo dell’omaggio, Cordelli 48 , a richiamare quello del libro. Introduzione di Francesco Cellini. 

Paolo Di Stefano per il “Corriere della Sera” il 20 febbraio 2023 - ESTRATTO

Franco Cordelli, con che spirito ti avvicini al tuo compleanno?

«Ma sai, penso che dopotutto ho campato ottant’anni e non è andata male: ho rischiato la vita almeno tre volte e quindi sono grato alla fortuna o agli dèi. Per quel che resta da vivere, sapere che è poco è tuttavia confortevole. Dà una certa serenità».

 Stai parlando della serenità di chi ha fatto ciò che voleva fare?

«Direi piuttosto che sono riuscito a non fare quel che non volevo fare. È così. Negli anni scolastici, dalle medie fino ai primi anni di università, il mio pensiero ossessivo era: nella mia vita non lavorerò, e ci sono riuscito».

 Da ragazzo pensavi di fare lo scrittore?

«Ricordo perfettamente un dialogo con un compagno di università. Eravamo sotto una tenda in campeggio, e parlando del più e del meno gli dissi: vedi, non riuscirei mai a scrivere un libro del genere. Mi riferivo a Memoriale di Paolo Volponi, era il 1962».

A quell’epoca già ti piaceva scrivere?

«Subito dopo il liceo andai a trovare una mia compagna di scuola a Bocca di Magra. Avevo un quaderno a quadretti su cui scrivevo a mano, come ho poi sempre fatto. Quel quaderno cadde in acqua: cadde o ce lo buttai, ma se cadde non capisco perché me lo portai in mare… Quando lo tirai fuori, era tutto cancellato».

 Quanto hanno contato per te le amicizie?

«Devo premettere che non sposarmi non era un mio proposito, come quello di non lavorare, anzi, anzi… Con la mia primissima fidanzatina, una compagna di liceo alla quale rimasi legato dai 16 ai 23 anni, parlavamo di matrimonio. Un giorno, era la Vigilia di Natale 1965, mi disse che era incinta di un altro uomo e così l’idea del matrimonio decadde».

 Mai più pensato al matrimonio?

«Non credo per la delusione, ma da allora non ci ho più pensato, per quanto io poi sia stato lungamente fedele agli amori… Sai, il matrimonio è la famiglia, non c’è niente da fare. Sto leggendo per la terza volta Il dottor Zivago , ecco in quel romanzo l’idea di famiglia è così radicata, così centrale come raramente si legge in un libro contemporaneo».

 Quell’idea di famiglia ti è estranea?

«È diventata per me l’idea di fraternità. Quando mi chiedi degli amici, io ti rispondo che gli amici sono stati e sono la mia famiglia. Purtroppo, molti non ci sono più e ne sento la mancanza, però quelli che ci sono continuo a pensarli come la mia famiglia. Una cosa diversa da quella di Pasternak, ma le si avvicina».

 Di quali senti la mancanza?

«Ti faccio quattro nomi. Maurizio Grande, che è stato un grande critico, l’esegeta principale di Carmelo Bene, morì nel ’96 per un incidente stradale. Ugo Margio, che è stato un importante regista sperimentale. Un altro regista e sceneggiatore, Emidio Greco, che cito come autore de L’invenzione di Morel e Notizie degli scavi. E Stefano Magagnoli, con cui ho vissuto a Milano per vent’anni e che è morto troppo giovane secondo me per la stupidità del mondo in cui viveva, quello editoriale».

E Dario Bellezza non era un tuo amico?

«Ci sentivamo fai conto tutti i giorni, tutti i giorni. Anche con Valentino Zeichen. Non li ho citati perché le nostre storie si erano già consumate, in modo naturale, non drammatico».

 Narrativa, critica letteraria e teatrale, giornalismo, poesia: da dove hai iniziato?

«Tutto è cominciato con la poesia, ne leggevo in modo quasi eccessivo, la cercavo ovunque, la scovavo nelle riviste, tanto che poi deflagrò nelle serate al Beat ’72 e a Castelporziano. Con il passare degli anni è quella che si è consumata di più e oggi leggerla è diventato difficile. Il teatro è stato occasionale: non prevedevo di fare il critico teatrale, è stata una fortuna peculiare essere invitato da Elio Pagliarani a scriverne per “Paese sera” , e poi piano piano è diventato una vera passione mentre scemava quella per la poesia. Ho fatto una piccola ricerca e ti prego di scriverlo: l’unico vanto è che credo di essere il critico teatrale più longevo della storia d’Italia. Siamo al 54° anno: ho cominciato nel settembre 1968».

 Il giornalismo?

«Si è complicato e si è impoverito rispetto all’idea di giornalismo che abbiamo vissuto nel Novecento, ma la passione è rimasta. Qualche giorno fa ho letto un’intervista di Aldo Cazzullo a Rahul Gandhi e mi ha entusiasmato. Devo però aggiungere un’altra passione, legata a quello che forse è il mio primo ricordo. Abitavo ancora a Porta Pia, avrò avuto nove anni e passando davanti al cinema Europa dove era annunciato un certo film ho pregato di essere ancora vivo il giorno dopo per poterlo vedere. Oggi vedo un film al giorno. Non dico che ho tanti dvd quanti libri, perché è impossibile, però...».

Cosa ti appassiona del cinema oggi?

«Credo che il cinema francese continui a sottrarsi al nuovo stile delle serie televisive.

Penso ad autori come Olivier Marchal e Jacques Audiard, ma anche Louis Garrel. È il cinema che viene dalla nouvelle vague , su cui mi sono formato. Il film però che, da molto tempo ormai, amo di più è All That Jazz di Bob Fosse.

Italiani?

«Mi sono formato anche su Fellini e Antonioni. La dolce vita e 8½ sono i film della mia vita. Sono andato al funerale di Fellini senza averlo mai conosciuto».

 Potresti dire con la stessa precisione i tuoi romanzi preferiti?

«Sotto il vulcano è il romanzo in assoluto che ho più amato. È un romanzo che rovescia la tradizione ottocentesca, ponendosene al limite mentre si pone anche al limite della modernità. Oltre non si può andare. Ecco perché è un libro davvero disperato. Nessun contemporaneo di Malcolm Lowry è tanto disperato. Si salvano tutti, perfino Kafka e Beckett».

Che cosa intendi quando parli di disperazione in letteratura?

«Si può scrivere anche avendo una fede e lo si fa spesso, ma non amo quei libri. La letteratura che mi interessa di più è quella in cui non c’è speranza se non nella vita giorno per giorno, nel momento in cui stai vivendo. Non mi suicido, quindi scrivo. Eccola la disperazione della scrittura».

 Altri autori imprescindibili (e disperati)?

«Mi ricordo di aver scritto per gli amici e poi rinnegato e poi di nuovo recuperato la mia lista dei preferiti. Avrò avuto quarant’anni: c’erano James, Nabokov, Landolfi, lo stesso Lowry e Lawrence Durrell. Dicevo: questi sono gli autori che ho amato, ma ora basta. Qualche anno dopo ho riletto James e mi sono detto: ma sei scemo, come fai a ripudiare Henry James?».

 E adesso?

«Oggi non li ripudio affatto, ma quel mondo lì, gli autori della modernità, sento di averli talmente assimilati che se provo a rileggerli, e ci provo, dopo un po’ smetto perché è come se leggessi me stesso».

Dunque, cosa preferisci leggere?

«Da un paio d’anni, mi entusiasmo con Il giardino dei Finzi-Contini o Il dottor Zivago .

Mi piace, lo dico con una parola terribile, la loro semplicità, che è tutt’altro che semplicità naturalmente, è una misura. Sono scrittori che non hanno mai bisogno di stupire. Un altro libro a cui torno sempre, per le stesse ragioni, è Il gattopardo , anche se sono tutti romanzi per struttura e stile molto diversi fra loro».

E molto diversi dal tuo modo di scrivere.

«Sì, è proprio questo: qui scopro un altro mondo, un mondo che non conoscevo. Detto quasi con brutalità, è il mondo della mia vecchiaia, direi più sereno, anche se l’aggettivo è assurdo... Diciamo che quel che c’era da capire con quei libri l’ho capito, i sottotesti ormai li conosco. Era come se concentrandomi sui sottotesti avessi dimenticato il testo».

 Che cos’è il sottotesto?

«È qualcosa che il testo non dice in modo esplicito, lo dice per vie traverse o lo tace e lo si può percepire soltanto attraverso la musica della parola. È qualcosa di non dicibile o traducibile, che si può immaginare o solo percepire.

Una potenza musicale che produce emozione, e ciò che conta, alla fine, è l’emozione».

 Chi altri vale la pena scoprire o riscoprire?

«Saul Bellow è un caso particolare della mia vita: durante l’università qualcuno mi chiese di fare una tesi di laurea a pagamento su Bellow per una ragazza. Eravamo all’altezza di Herzog , scrissi quella tesi, e questo ti dà la misura di quanto Bellow fosse dentro di me. Poi un po’ si ripete e forse per questo l’avevo dimenticato.

Ma rileggendo Herzog dopo sessant’anni, ne ho sentita la potenza, una potenza della voce indubitabile che non trovo nemmeno in Philip Roth, che pure ho amato».

 Faulkner non lo metti tra i tuoi preferiti?

«Figuriamoci, L’urlo e il furore, Mentre morivo, Sartoris … E su un racconto come L’orso c’è da rompersi la testa… Ma un autore che metto sullo stesso piano di Pasternak e Bassani è Orwell, perché non pone problemi di sottotesto, è ciò che dice e ciò che dice mi basta e mi dà gioia. Anche pensare alla sua vita disgraziata e breve mi dà un senso di solidarietà. Penso non ai suoi libri di fantascienza, ma a Senza un soldo a Parigi e a Londra , a Fiorirà l’aspidistra e a La strada di Wigan Pier» .

 È una questione di stile?

«Certo, lo stile è la questione dominante. Inutile usare, per la letteratura, aggettivi tipo “semplice”, “immediato”, “spontaneo”, che farebbero inorridire chiunque».

 Perché hai dedicato un libro a Piovene?

«Se penso a Le furie e a Le stelle fredde , lo sento come lo scrittore che sull’Italia mi ha detto di più. È uno scrittore sommamente ambiguo, ma è quello che sull’ambiguità, sul carattere e sulla storia d’Italia dopo l’unità ha detto meglio».

 E la tua passione per Flaiano?

«L’altro giorno sono riuscito finalmente a vedere il documentario che fece a puntate per la Rai, Oceano Canada , l’ultimo suo lavoro. Io Flaiano l’avevo intravisto di persona fuggevolmente una sera nella folla del Teatro Giulio Cesare di Roma e vederlo nel documentario mentre cammina e parla è stato come incontrarlo davvero per la prima volta… 

 A parte che ritengo Tempo di uccidere un capolavoro, ma Flaiano mi commuove proprio per quello che non è riuscito a scrivere, sento la disperazione della sua intelligenza. Il poemetto finale, La spirale tentatively , dice tutta la tragedia della sua vita, dalla malattia della figlia fino all’attesa della morte. E in ogni frammento autobiografico del Blu di Prussia non puoi non amarlo e sentirlo fraterno». 

Ripensando al tuo percorso narrativo, che pensiero te ne sei fatto? 

«Il libro di cui sono più contento, proprio perché assomiglia di più a libri come Il giardino dei Finzi-Contini , è La marea umana . Amo meno i primi tre, Procida , Le forze in campo e I puri spiriti, perché mi sembra che ci sia una volontà di stupire. Uno dei mali, anzi il male dell’avanguardia è questo». 

 Non è che oggi la voglia di stupire è diventata un obiettivo primario della letteratura? 

«Forse, ma più che di voglia di stupire parlerei di circo. Mentre in passato la voglia di stupire veniva da una ricerca sul linguaggio, oggi è l’esigenza di giocare sull’effetto sorpresa dei temi, dei personaggi, dei luoghi, delle trame». 

 Quali sono i benefici dell’avanguardia? 

«La letteratura deve andare verso l’avanguardia, o meglio doveva, visto che sono molto scettico sul futuro della narrativa. L’avanguardia è sempre la rottura di uno schema precedente, è come una scoperta scientifica che apre nuove prospettive». 

 Dopo i primi tre libri le cose per la tua scrittura sono cambiate?

 «Pinkerton è il libro più difficile che io abbia scritto: ne esistono sette versioni diverse ed è stato l’unico mio romanzo che ha avuto un certo successo. Merito del fatto che fu pubblicato da Leonardo Mondadori in un momento felice dell’editoria e della narrativa italiana».

 Gli altri tuoi romanzi? 

«Cosa posso dire? Non li rinnego ma non ci penso mai, né a Guerre lontane né al Duca di Mantova che pure mi è costato un processo pesante da parte di Cesare Previti e la rottura con il mio editore, Einaudi. Ridicola, perché penso che Berlusconi se avesse letto quel libro si sarebbe pure divertito». 

«Una sostanza sottile» è il tuo libro più autobiografico? 

 «Parla del fatto che la morte mi è passata sotto gli occhi ed è fuggita via, o forse sono fuggito via io. E poi c’è un amore platonico, per una figlia che non ho mai avuto, e l’amore platonico in ultima analisi è la mia vera idea dell’amore. L’amore che dura nel tempo, in cui l’anima vince sul corpo, mettiamola così». 

 Perché dici di non vedere un grande futuro per la narrativa?

«Si scriveranno sempre romanzi, forse per l’eternità, ma sono scettico sul futuro per il banale motivo che si scrive troppo. È chiaro che quando la quantità tende a superare la qualità, questa non è che muore ma si va esaurendo e trovarla per il lettore diventa impossibile». 

Questo mette in crisi il senso della critica . 

 «Perché, esiste ancora la critica? Per carità, potrei farti dieci nomi di gente che scrive ancora eccellenti saggi critici, ma non vuol dire niente. Potrei anche citarti bei libri recenti: che so, Nuoto libero di Julie Otsuka, un grande romanzo di una giapponese che vive negli Stati Uniti, ma è uno su un milione, non uno su dieci, e trovarlo è un colpo di dadi. La letteratura migliore, quella che esprime una verità — non la verità, ma una verità — è condannata a rimanere sommersa». 

Franco Ferrarotti: «Sono nato sotto il fascismo e morirò sotto il fascismo. Speriamo sia meno cruento». Il decano della Sociologia italiana racconta la sua vita e giudica il presente, dalla destra al potere alla tecnologia. E spiega cosa lo preoccupa di più: l’individualismo che uccide le collettività. Stefana Rossini su L'Espresso il 6 luglio 2023.

Con Franco Ferrarotti è impossibile applicare la deferenza che si deve a chi ha raggiunto un’età venerabile perché la sua intatta passione per le idee e il linguaggio torrenziale con cui coinvolge l’interlocutore annullano ogni distanza. Il grande vecchio della sociologia italiana ha compiuto da poco 97 anni, ma niente, durante il nostro colloquio, lo farebbe supporre. La voce tonante, la velocità dei riflessi, i guizzi di ironia e anche l’elevato senso di sé rendono ancora incisive le sue riflessioni sulla realtà contemporanea e sulla sua vicenda di uomo e di intellettuale.

Professore ormai emerito di Sociologia, materia della quale ha ottenuto nel 1960 la prima cattedra italiana, ha scritto decine di saggi e ultimamente anche un libro di poesie, di cui vorrà declamarci qualche verso. Ma, da appassionato analista della società, i suoi primi pensieri non possono che riguardare questo difficile presente.

Professor Ferrarotti, lei che ha vissuto un gran numero di cambiamenti sociali e politici, come si trova in questi tempi nuovi?

«Vivo il paradosso di essere nato sotto il fascismo e di sapere che morirò sotto il fascismo».

Quindi considera questo governo fascista?

«E che altro potrebbe essere? Dopo gli applausi a Berlusconi nel Duomo di Milano ci siamo trovati fascisti senza essercene accorti. Posso soltanto augurarmi che questo governo, grazie all’Europa, ci dia un fascismo meno cruento di quello passato. Ma ci sono anche altri pericoli, come l’avvento di una terza guerra mondiale ».

Teme davvero che possa accadere?

«Sì, a meno che le classi dirigenti non si decidano a riconoscere che il mondo non può più essere unipolare o bipolare, come pensano gli Stati Uniti, che non hanno coscienza storica e occupano una posizione imperiale senza mai aver avuto un passato imperiale. Ma per fortuna c’è stato il Covid».

Per fortuna?

«Non si meravigli. Grazie al Covid abbiamo scoperto l’unità del genere umano perché la pandemia ha colpito tutti: sviluppati, arretrati, tecnicizzati, selvaggi».

Però soprattutto gli anziani. Il virus ha esposto le persone della sua età a un forte rischio. Non lo ha temuto?

«È diffusa l’idea di considerare gli anziani come un inciampo, ma è ora di smetterla di definirli fragili con palese degnazione. Per il solo fatto di essere diventati vecchi, hanno dimostrato di essere più forti della media».

Pensa a se stesso?

«Penso a Edgar Morin e ai suoi 102 anni di lucidità. Ma se devo parlare di me, le assicuro che non sono stato a letto un solo giorno in vita mia. E non è certo un virus che può preoccuparmi».

Che cosa la preoccupa invece?

«L’indebolimento del legame sociale che tiene insieme la collettività. Vivere vuol dire convivere, riconoscere l’altro praticando un’empatia creatrice, tema su cui l’anno scorso ho pubblicato anche un saggio. Invece stiamo facendo tutto il contrario, guardiamo solo a noi stessi, ci isoliamo e in questo modo ci illudiamo di rafforzarci. Sa che cosa ha creato tutto ciò?».

Me lo dica.

«L’economia di mercato che è così forte da trasformare la società degli uomini in una società di mercato. Quando tutti i rapporti diventano utilitaristici, non c’è più società, ma un foro di ricatti reciproci e tornaconti individuali. E i giovani ne sono le prime vittime».

Spesso lei parla dei ragazzi di oggi con toni poco benevoli. Che cosa non va in loro?

«Sono decentrati, possono andare ovunque e quindi da nessuna parte, non riescono più a interrogarsi perché non hanno più la capacità di chiedersi chi sono, il motivo per cui sono al mondo e che cosa vogliono fare».

Possono fare ben poco, condannati come sono al precariato.

«È vero ed è una tragedia perché non possono progettare la propria vita. Ma sono anche vittime di un eccesso di informazioni mentre l’umano è ancora una macchina lenta. Assegnando la memoria al computer si perde la memoria interiore profonda».

Sembra che non apprezzi nulla delle grandi innovazioni tecnologiche.

«Non mi fraintenda. Il papa ha detto che internet è dono di Dio e io aggiungo che lo è per quelli che lo fabbricano, non per i ragazzi che hanno bisogno di riflettere e indugiare su se stessi. Mi rendo conto che parlo come un parroco di campagna, ma oggi la vita interiore è fondamentale».

E lei invece che ragazzo è stato? Si guardi indietro e ce lo racconti.

«Intanto ho visto la società precedente, quella che ci ha portato fino a qui».

Com’era?

«Schiava della velocità, innamorata della tecnica, con la quale credeva di risolvere tutto, fino al delirio di immaginare un mondo affidato all’intelligenza artificiale. La tecnica è importante, ci dà l’acqua calda, ci consente di muoverci restando seduti in automobile, ma ha un valore puramente strumentale, non finale. Non può dirci da dove veniamo, dove siamo, dove andiamo».

Stavamo parlando di lei, del ragazzo che è stato…

«Beh, ora che sono vicino alla fine della mia corsa mi domando spesso che cosa ho combinato».

Che cosa si risponde?

«Che ho avuto cinque vite: la prima come traduttore, una scelta fatta per fame. La seconda come consulente industriale accanto a un grande uomo: Adriano Olivetti. Fin dal primo contatto ci fu tra noi una consonanza profonda, qualcosa che somiglia a quello che secondo Platone accadeva tra Socrate e il giovane Fedro: «Pupille che si vedono riflesse le une nelle altre». Sono stato l’ultima persona a cui ha telefonato prima di salire sul treno dove poco dopo sarebbe morto».

Lei prese il suo posto in Parlamento come deputato del Movimento di Comunità. è la sua terza vita?

«No, la quarta. Nella terza sono stato diplomatico internazionale per la Oece, l’organizzazione istituita nel 1948 per coordinare il Piano Marshall. In Parlamento ero invece subentrato ad Olivetti già nel 1959 quando lui si dimise. Poi non mi sono più voluto ripresentare».

Perché?

«Il Parlamento non faceva per me. Moro mi chiamava “il nostro giovane Merzagora” senza capire che questo mi faceva vomitare».

Resta la quinta vita.

«La più importante e la più lunga. Ho avuto la prima cattedra in Sociologia nel 1960. Poi ho sempre insegnato: in Italia, a Parigi, in Sud America, a Chicago, a Tokyo...».

Lei sa che all’università di Roma aveva fama di essere un seduttore? Posso dirlo con sicurezza perché sono stata una sua studentessa.

«Non soltanto all’Università. è una fama che mi sono portato in tutti i miei incarichi. Avevo come vizio la curiosità infinita. E le donne sono continenti sconosciuti da esplorare, misteriosi, fondamentali come la poesia e la musica».

Se ci fosse già stato il MeToo avrebbe passato i suoi guai.

«Ma io non miravo al possesso! Cercavo la contemplazione della donna, quell’essere che nel momento in cui ti attira, ti consuma. Non ero come Pavese che amava le donne ma le viveva come una dannazione. Sono convinto che si salvano soltanto i seduttori e i dongiovanni perché non si buttano mai completamente in una situazione. E oggi le posso dire con tranquillità che muoio come un seduttore e un dongiovanni».

È la seconda volta che accenna alla morte. Ci pensa spesso?

«Sto cercando di capire che cosa ho fatto e che cosa ho imparato per andare con questo bagaglio incontro alla morte. E sto scoprendo di essere un vegliardo neonato. A volte non distinguo la differenza tra il giorno e la notte. Vivo così, in base a provocazioni intellettuali e corporali. Questa vita sparpagliata è anche una vita felice».

Che cosa le dà questa felicità?

«Il fatto che sia una vita. È vita, non c’è altro. Hai l’idea che sta finendo e non sai quando. Ho pubblicato da poco un libro di poesie, intitolato “L’amica bisbetica” che è, appunto, la morte. Le dico qualche verso?».

Certo.

«Una poesia comincia così: “La morte verrà / verrà / non si sa / nessuno la vede...” E finisce: “ma anche se verrà a notte fonda / liberandomi da questa vita errabonda / sarà un’amica squisita”».

Prima di lasciarla la riporto al suo mestiere di sociologo. Che società sarà quella che ci aspetta?

«Saremo quelli che siamo stati, a meno che non si recuperi il senso del limite e il valore della vita interiore. Altrimenti saremo come il viaggiatore di Marco Aurelio che si appresta, corre, va, ma ha dimenticato lo scopo del viaggio lungo la via».

Così il Kafka uno e trino cercava una nuova teologia. Praghese, ebreo e tedesco, esortava alla "fede in un Dio personale»" E fino all'ultimo voleva "salire" in Palestina. Marino Freschi il 2 Giugno 2023 su Il Giornale.

«Quando Kafka leggeva i suoi scritti agli amici, quell'umorismo diventava particolarmente manifesto. Ridemmo, per esempio, senza freno quando ci fece sentire il primo capitolo del Processo. Egli stesso rideva talmente che per qualche momento non era capace di continuare la lettura. Fatto abbastanza strano quando si pensi alla tremenda serietà di questo capitolo».

Così Max Brod ricordava la lettura, nel 1914, del più famoso romanzo del suo amico, nel Café Arco di Praga, la loro città, dove - a differenza del Café Continental, per Brod «una delle roccaforti del germanesimo di Praga», o della Kavárna Union e Café Slavia completamente ceche - si praticava il bilinguismo con la presenza degli artisti figurativi del Gruppo degli Osma, degli Otto germanofoni e cechi insieme, ovvero: autentici boemi. Dovevano essere serate vivaci e celebri, al punto che non passarono inosservate a Karl Kraus che da Vienna li battezzò ironicamente gli «Arconauti». In realtà il riservato Doctor juris Franz Kafka, funzionario dell'Imperial-regio «Istituto per gli Infortuni sul lavoro», frequentava anche il Café Louvre, dove erano assidui i discepoli del filosofo Franz von Brentano e dove, nel suo anno a Praga nel 1911, bazzicava anche Albert Einstein, nonché l'iniziatore della psicologia della Gestalt, Christian von Ehrenfels, come pure Rudolf Steiner, il fondatore dell'antroposofia, quand'era nella capitale boema. Insomma Kafka così solitario non era, anzi era partecipe del grande dibattito intellettuale ed estetico del suo tempo, che in gran parte è anche il nostro. Certo, Praga gli stava stretta, come scriveva, non ancora ventenne, all'amico del cuore, Oskar Pollak, nel 1902: «Praga non molla... Questa mammina ha gli artigli. Bisogna adattarsi o... In due punti dovremmo appiccarle il fuoco, al Vyehrad e al Hradschin, e così sarebbe possibile liberarci... Pensaci un po' su fino carnevale». Sempre quell'ironia disperata, pur nel graffiante umorismo. Qualcheduno ce l'aveva fatta a lasciare Praga: Rilke, che se ne fuggì e per tutta la vita non ne volle sapere di tornare.

Praga significava per Kafka la famiglia, il padre Hermann, robusto, autoritario, un self-made-man, una forza della natura, un provinciale che da un oscuro villaggio ceco si era affermato nell'elegante Primo Distretto, e la madre Julie Löwy, discendente di una famiglia di rabbini. Stranamente un perfetto matrimonio. In effetti Kafka in quella Praga ebraica, di rabbini e di mercanti, era proprio radicato con tutta la sua anima antica, come confessò al giovane ammiratore Gustav Janouch, che gli aveva chiesto se ricordava ancora l'antico ghetto: «Dentro di noi vivono ancora gli angoli bui, i passaggi misteriosi, le finestre cieche, i sudici cortili, le bettole rumorose e le locande chiuse. Oggi passeggiamo per le ampie vie della città ricostruita, ma i nostri passi e gli sguardi sono incerti. Dentro tremiamo ancora come nelle vecchie strade della miseria. Il nostro cuore non sa ancora nulla del risanamento effettuato. Il vecchio malsano quartiere ebraico dentro di noi è più reale della nuova città igienica intorno a noi. Svegli, camminiamo in un sogno: fantasmi noi stessi di tempi passati». La tensione della memoria allude al nucleo più autentico della concezione del mondo kafkiana: quella di una nuova teologia - per rifarsi al testo postumo di Roberto Calasso, L'animale della foresta (Adelphi) - espressa negli Aforismi di Zürau (Adelphi, sempre a cura di Calasso), in cui affiora potente l'intuizione: «L'uomo non può vivere senza una costante fiducia in qualcosa di indistruttibile dentro di sé, anche se quell'indistruttibile come pure quella fiducia possono rimanergli costantemente nascosti. Una delle possibilità di esprimersi, per tale rimanere nascosto, è la fede in un Dio personale».

L'universo kafkiano non sempre è ingarbugliato in percorsi letterari indecifrabili. Sovente Kafka è di una straordinaria e lucente chiarezza, alla pari con i grandi mistici d'Occidente: «Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te». Queste intuizioni sono il risultato di un lungo periodo di solitudine in un villaggio, in una casa assai modesta, quando ormai era stata diagnosticata la tubercolosi che lo avrebbe portato alla morte - dolorosa - il 3 giugno del 1924, a Kierling, in una clinica vicino Vienna, a soli 41 anni. Era nato, infatti, il 3 luglio 1883. In questi mesi la sua opera viene rivisitata con riedizioni come l'adelphiana Il messaggio dell'imperatore a cura di Anita Rho, nonché con una ragguardevole impresa de Il Saggiatore che propone nuove traduzioni dei capolavori kafkiani: Il disperso, a lungo noto con il fuorviante titolo datogli da Brod America. La traduttrice Silvia Albesano si rifà all'edizione critica del 1983. Ugualmente alla medesima edizione si ricollega la nuova versione de Il processo a cura di Valentina Tortelli, e così pure Il castello a cura di Alessandra Iadiciccio che riconosce i meriti della «vecchia (e stupenda) traduzione di Anita Rho». Avremo tempo per valutare e apprezzare queste nuove proposte traduttive che ci forniscono in un linguaggio senz'altro più aggiornato i romanzi kafkiani. Il Saggiatore ci offre anche una riedizione di Kafka. Una battaglia per l'esistenza di Klaus Wagenbach (tradotto nel 1968 da Ervino Pocar), che è uno dei più validi contributi per avvicinarsi alla vita e all'opera dell'autore praghese.

Praghese, ma anche ebreo, ma anche tedesco: questa triplice identità costituisce il complesso intreccio della scrittura di Kafka, così incerta e insieme così eccezionalmente lucida. Kafka chi era? L'amico degli espressionisti del Café Arco, sodale di Brod, Werfel, Kubin. Il riservato funzionario austro-ungarico. Oppure l'ebreo occidentale, assimilato e acculturato, tormentato dall'insicurezza metafisica, che voleva tornare all'ebraismo, a quello vero degli ebrei orientali, come scriveva a Milena, la raffinata intellettuale, sua traduttrice in ceco, con cui visse un breve e trascinante amore, custodito in uno dei più appassionati epistolari: «Se mi avessero dato la possibilità di essere ciò che voglio, avrei voluto essere un ebreo orientale giovinetto». L'ultimo amore fu Dora Diamant, una giovane ebrea orientale, di una famiglia ortodossa. Solo con lei trovò il coraggio di emanciparsi dagli artigli di Praga, ma era ormai tardi, anche se lui ancora progettava di salire (secondo l'uso ebraico) in Palestina, di aprire con Dora un caffè, lui cameriere, lei cuoca sopraffina. E studiava, studiava l'ebraico e riempiva quaderni di vocaboli più che di racconti. Scrisse, ai primi di maggio 1924, al padre di Dora per chiedere, come prescrive la tradizione, il permesso di sposarla. Il pio uomo mostrò la richiesta al suo Rabbi della dinastia chassidica di Ger. Il Rabbi si espresse negativamente. La risposta raggiunse Kafka ormai allo stremo delle forze. Dora gli era accanto con un giovane medico, Robert Klopstock: erano la sua dolce e affettuosa famigliola. I nodi si scioglievano, i problemi della vita trovavano una soluzione: la scrittura si conciliava con il matrimonio, con la fondazione della famiglia secondo l'aspettativa della Legge.

Ma era tardi per aprire un Caffè in Palestina. La situazione precipitò. Per i dolori alla trachea Kafka non poteva più parlare, scriveva bigliettini eppure curava le bozze del suo ultimo racconto: Josefine la cantante o il popolo dei topi, uno dei più sofferti e significativi. Un testo tra i più emblematici della modernità. Praghese, ebreo, ceco e tedesco, funzionario, scrittore, mistico, il suo mistero è la sua grandezza, fondata sull'indistruttibile, che è il suo messaggio e la nostra interrogazione.

Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera” il 15 maggio 2023.

Per capire quel che resta della nobiltà bisogna leggere Lo Stemma di Fulvio Abbate, scrittore e giornalista ex comunista ora arcicritico della Sinistra, nobile decaduto fustigatore dei costumi nobiliari, esempio di stile visionario eroicomico, studioso di Céline ma finito anche tra i concorrenti del Grande Fratello. 

Passeggiando per le vie di Palermo il protagonista del romanzo (edito da La nave di Teseo, pagine 485, e 22), Sergio Sucato, entra in un negozio che vende targhe e decide di farsi disegnare uno stemma araldico, nonostante non appartenga alla nobiltà siciliana. Mentre la negoziante avanza proposte, l’uomo s’immagina ornato di questo titolo fittizio alla conquista dell’alta società, descritta come un ambiente animato da uomini senza qualità. 

Questa Palermo già irredimibile viene turbata da una serie di foto che ritraggono la principessa Costanza Redondo di Cosseria (vien dal mare) in momenti di intimità. La principessa è, noblesse oblige , «svogliata, mutevole e incostante» e trascorre le sue giornate presenziando a esilaranti eventi mondani che sanciscono il contemporaneo scadere della qualità della pizza e il predominio della tartina sul gateaux di patate e sull’aglassato.

Sebbene poco preoccupata, decide di rivolgersi a Duilio Vitanza, un tipo che vanta arti divinatorie e, per questo, in voga nell’alta società. Dopo aver consultato cavalieri e fanti dei tarocchi, il cabalista dei quattro Canti le fa capire che la vicenda è grave (ma non seria). Costanza, allora, si rivolge al commissario Gandolfo Calascibetta, che ipotizza uno scherzo irrispettoso del comune senso del pudore, che alla principessa manca del tutto.

Le giornate di Costanza proseguono tra libri ed enciclopedie Treccani mai aperti, vaghe aspirazioni da crocerossina, baroni attratti dai quadri di Zurbarán, una sontuosa festa di compleanno — funestata da una scritta ingiuriosa sul muro davanti al suo civico —, la corte di pavoneschi spasimanti e caricaturali situazioni tra le quali, ovviamente, la proposta di scendere in politica, che lei accetta nella certezza di possedere le doti necessarie (a chi mancano, del resto?). 

Ma proprio durante la disfida elettorale, Blanche Murat, un’amica venuta addirittura da Los Angeles, riceve in busta un puzzle che mostra una foto oscena di Costanza in compagnia di un uomo: cherchez l’homme, s’il vous plaît ! Fallito l’approdo parlamentare, nella vita della principessa Redondo di Cosseria fa ingresso Sucato: i due si sposano con sfarzoso banchetto, come quelli iperkitsch ideati dai wedding planner in tv.

Ma lo stalker colpisce ancora e il revenge porn si consuma in un cimitero, presso la tomba di Enzo Andronico, il comico che debuttò nei Vitelloni di Fellini. Il finale rivela l’autonarcisismo dei nostri giorni, la grottesca irrilevanza delle élite e di questa stagione nella quale la verità, come Richard Rorty riprende da William James, «è vera solo nel senso della credenza». Nell’età dell’Intelligenza artificiale che sarà mai crearsi un titolo aristocratico, aggiungersi un’acca al cognome o una particella nobiliare, «entrare» (e magari uscire) in politica? O far circolare foto pornografiche finte? Oppure essere altro da sé? Si è ciò che si vuole essere, per un attimo, cioè il nulla. E soprattutto per la nobiltà la Storia si presenta sempre due volte: la prima come tragedia (e ciò è già accaduto), la seconda come farsa.

"Il mio romanzo è un anti-Gattopardo dove la mediocrità è ritenuta un blasone". Luigi Mascheroni il 29 Aprile 2023 su Il Giornale.

Lo scrittore palermitano ambienta nella sua città un "catasto" dell'intero immaginario siciliano

Panormita delle Zone Nuove - il quartiere costruito negli anni '60, via Empedocle Restivo, perché la topografia è importante: «A Palermo ogni piazza, ogni via, ogni strada ha dietro di sé una psicologia, un racconto» - ma romano di vita e di lavoro da sempre, Fulvio Abbate, 66 anni e 26 fra romanzi e pamphlet, nella sua Sicilia torna raramente. «È un luogo mortuario, nocivo, dove è assente la cordialità e l'umanità». Ma se umanamente la malsopporta così tanto, non ne può fare a meno letterariamente. Ed ecco il suo nuovo romanzo, un anti-monumento alla retorica sui miti della Sicilia, di Palermo e del Gattopardo: s'intitola Lo Stemma (La nave di Teseo), lo scrive un romanziere-filosofo discendete del Marchese Ignazio Abbate di Lungarini, omonimo del padre, e riposa in una chiesa palermitana di via Maqueda dal '700 - «Ma tutti gli scrittori sono duchi, marchesi, conti: abbiamo a disposizione le immense baronie dell'immaginazione, dell'estro, del travestimento...» - ed è un romanzo anti-gattopardesco, dal piglio settecentesco, scritto nel miglior barocco linguistico, dove l'espressione è lo stile: efflorescenze sintattiche, giochi retorici, citazioni, amplificazioni, torsioni, la ricerca dell'arguzia, il dono della sorpresa - «Non sono un narratore di storie e di plot, ma di squarci e osservazioni sulle cose» - e il cui bersaglio manifesto, ed ecco che ai valori estetici corrispondono ai valori etici, è la mediocrità come unico vero talento, vincente nella società in cui viviamo.

Non sei un narratore di avventure, ma Lo Stemma è pieno di storie: tanti personaggi che si muovono nella Palermo del 2023, ognuno dei quali cerca di compiere un'impresa, ma destinati tutti a fallire per la loro assoluta modestia.

«Sono personaggi-icona dell'intera mitologia siciliana: la principessa Costanza Redondo di Cosseria, la quale cerca di scoprire chi vuole screditare la sua moralità con messaggi che compaiono sui muri della città, un'aristocratica che però non ha contezza della Storia; poi un monsignore che sogna di diventare un artista d'avanguardia; o Penny Capizzi, di famiglia mafiosa riconosciuta e dall'erotismo spietato; o Vittoria Cilona della Ferla, impegnata a scrivere il seguito del Gattopardo - quell'insostenibile retorica sul mondo del Gattopardo... - e che finirà col vincere lo Strega...».

Ma tu non vuoi fare una parodia del Gattopardo.

«No, quello lo ha già fatto, a suo modo benissimo, Alberto Arbasino con Specchio delle mie brame, nel '74. Il mio romanzo invece è una sorta di catasto che custodisce tutto ciò che la Sicilia ha prodotto sul piano della sua narrazione storica, dal sublime al trash, dai film di Franco e Ciccio al marchese di Villabianca, il Duca di Saint-Simon di Palermo, fino al sempre annunciato e sempre rimandato kolossal di Tornatore sulla misteriosa confraternita dei Beati Paoli...».

Nel romanzo tutti i personaggi sono senza talento, sotto il livello medio d'intelligenza.

«Tranne il cugino della principessa Costanza, la protagonista: il barone Carlo Sicuro di Torralva, lui sì che sa dare il nome alle cose, che sa riconoscere i segni della memoria, che prova a restituire una sostanza alla città e una coscienza all'intero racconto. Ma che alla fine reputa sia meglio uccidersi».

Il talento come un ingombro, la mediocrità come un blasone.

«Sì, certo: la mediocrità è il vero talento. Ma lo è sempre stato: la mediocrità è immanente, appartiene a tutti i tempi della Storia, altrimenti noi non celebreremmo i santi, gli eroi e i geni. Che sono tali proprio per il fatto che tutto intorno prevale la mediocrità. Certo, oggi poi la mediocrità è ancora più esaltata, e premiata. Il mediocre è un liquido che assume voluttuosamente la forma del contenitore, si adatta a tutto, non è conflittuale. E vince. Ciò che è perturbante e rompe gli schemi invece è meglio esiliarlo. E il talento diventa solo l'evidenziatore della mediocrità altrui».

Anche in letteratura?

«Anche in letteratura, certo. L'abilità, l'ingegno, la cultura, lo stesso Sapere, diventano un fastidio là dove si è instaurata la dittatura del giusto mezzo. Il sublime non può convivere con la medietà. Nell'ambito letterario l'enciclopedismo non è ammesso, prevalgono i romanzi di maniera, la scrittura media, la narrativa femminile dolente, il racconto sentimentale o adolescenziale... Anche nell'editoria prevale sempre la via più facile. E in tv è peggio. Se in un talk show citi Gioacchino Murat, re di Napoli e fondatore della massoneria in Italia, il conduttore ha un brivido di fastidio perché lo allontani per qualche secondo dal tema del fondi del Pnrr».

E in politica?

«Lo stesso. Non viene mai cooptato il migliore, ma il mediocre. Colui che si adatta, non colui che scompagina. Il Palazzo ha bisogno di figure gregarie. Le persone sono selezionate verso il basso. Il potere tende a perpetuare se stesso e il timore che l'altro possa essere il Bruto di Cesare o il Galeazzo Ciano del Duce, è sempre in agguato».

Anche oggi?

«Più che mai. La mediocrità della destra la percepisci quando senti parlare di sostituzione etnica o quando scivola nel revanscismo, cercando di ridare legittimità al sentimento che i nonni o i padri della Meloni hanno nutrito nei confronti del fascismo. La mediocrità della sinistra la vedi in una come Elly Schlein che non è in grado di conoscere il dissimile da lei, l'altro da sé, che non sa parlare ai cassintegrati ma solo al giro amichettistico delle chiare valerio. E più in generale, in politica si assiste sempre più a uno schiacciamento del linguaggio verso il basso. Non si parla nemmeno più per slogan, ma per stickers».

Il non sapere più dare il nome alle cose, non avere coscienza della propria storia, cambiare il passato - fosse anche il nome di un locale storico di una città - sono i primi sintomi della caduta dell'Occidente...

«Oh, quella si può intravedere anche da cose apparentemente molto più insignificanti... Un personaggio del romanzo si accorge come dai primi anni Ottanta al secondo decennio del nuovo millennio, a Palermo, nella Felicissima Palermo, le pizze siano platealmente peggiorate in qualità, sapori, materie prime, perfino nell'origano e nel fiordilatte... È qui che comincia il tramonto dell'Occidente. Poi tutto il resto. L'Occidente muore perché è morta la conversazione, perché è morta la curiosità - che per gli Illuministi era il principio della filosofia - perché è morto il valore del Sapere. Due personaggi del romanzo a un certo punto immaginano di affidare a Damien Hirst la ricostruzione della Natività del Caravaggio rubata dalla mafia dall'Oratorio di San Lorenzo a Palermo, nel 1969. Qui siamo oltre la società dello spettacolo, siamo alla società del turismo. Dove, ancora una volta, la mediocrità è ritenuta un blasone».

A proposito di stemmi e blasoni. Un paio di mesi fa in Francia sei stato nominato Officier de l'Ordre des Arts et des lettres.

«Nell'indifferenza generale del mondo culturale italiano... Ma non mi interessa misurarmi con gli intellettuali. Più che con il Salone del libro di Torino o le dirette di Fahrenheit su RaiTre preferisco misurarmi con i viventi: il mio orgoglio è di aver convinto il pubblico di Forum, la trasmissione di Barbara Palombelli, in un caso di una moglie tradita, che il marchese De Sade non era un mostro, ma un filosofo. E che la virtù è spesso oggetto di sventure... Ecco la vera missione dell'artista. Ci vuole più talento a fare cambiare opinione a un pubblico o a vincere un premio letterario?».

Luigi Mascheroni

Mito, bellezza, eroismo- D'Annunzio, il poeta che non cede alla crisi del Novecento (e oltre). Gibellini raccoglie gli scritti di una vita sul grande autore abruzzese. Ne esce un ritratto sorprendente. Giuseppe Conte il 23 Novembre 2023 su Il Giornale.

Quanti autori sono passati e passano. D'Annunzio resta. Pietro Gibellini, uno dei più accreditati studiosi di D'Annunzio, direttore della Edizione Nazionale delle sue Opere, con Un'idea di D'Annunzio (Carabba editore, pagg. 710, euro 35), raccoglie trent'anni di lavoro in un volume corposo e tuttavia agile, che prende in esame tutta l'opera letteraria, poesia, romanzo, teatro, e il rapporto tra il «gesto e il testo» dell'autore dell'Alcyone, nella sua vita inimitabile, «aristocratica e populista». Io che con la mia ripresa (in sordina) di D'Annunzio venni indicato decenni fa come protagonista di un «caso letterario», e che ho scritto la prefazione all'ultima edizione francese della lirica dannunziana, ho trovato nel volume di Gibellini sollecitazioni nuove.

La vita di D'Annunzio viene vista da Gibellini in una geografia che comprende l'Abruzzo, Firenze, Roma, Napoli, la Francia e il Vittoriale. Lo dico subito: io credo che vada aggiunta Fiume. Ma verso l'impresa fiumana l'autore non mostra l'interesse che merita. L'Abruzzo è un mito fondamentale, aurorale per l'uomo D'Annunzio, ma non decisivo nella sua formazione culturale. Il Vittoriale è una specie di decorativa sepoltura prima del tempo. Già nel 1922, il poeta rischia di morirvi per la caduta dalla finestra che lui ribattezzò immaginosamente «il volo dell'Arcangelo». In realtà quella caduta, come racconta benissimo Gibellini, nasconde un vero mistero. In quei giorni travagliati e torbidi per la politica italiana, appena prima della marcia su Roma, era uscita la notizia che stava per formarsi un direttorio composto da D'Annunzio, Mussolini e Nitti. D'Annunzio si affrettò a smentire sul Corriere della Sera. Il Comandante di Fiume è una mina vagante, che qualcuno potrebbe avere interesse a eliminare. E poi c'è la pista amorosa, legata alla spregiudicata e vorace vita sessuale del poeta. Troppe attenzioni per Jojò, la sorellina di Luisa Bàccara, la musicista insediata al Vittoriale e amante ufficiale? Insomma, se fu una caduta o una spinta, e in questo secondo caso chi la diede, nessuno ancora oggi riesce a dirlo con sicurezza. Il vertice della poesia viene indicato canonicamente nell'Alcyone, tributo alla terra e al cielo, mentre Maia è tributo al mare, e Elettra un canto dedicato agli eroi nella accezione che a questo termine dà Thomas Carlyle, e che comprende chi irradia luce con la sua opera anche nel campo delle varie arti: D'Annunzio vi celebra Segantini, Bellini, Verdi, Hugo, e soprattutto Dante, «eroe/ primo del nostro sangue». Ma mentre Dante intende la patria nella successione di città, nazione, impero, D'Annunzio cancella il primo e l'ultimo termine per soffermarsi solo su quello centrale, spingendo l'amor di patria verso il nazionalismo. Molto interessanti le annotazioni sul mancato incontro tra D'Annunzio e Freud: lo scavo nei meandri della psiche che inaugura il padre della psicoanalisi e che tanta influenza avrà su tutto il Novecento non interessa il poeta cultore del mito: perché è proprio attraverso il mito che lui si immerge negli abissi della mente e dell'anima umana, portando alla luce «lo stesso materiale rovente». In Maia, per me un'onda di canto ininterrotto e prodigioso, D'Annunzio, con il dio Ermes per guida, rimitizza il mondo contemporaneo, reintroduce incanto e creazione dove i seguaci di Freud vedono solo il buio sotterraneo di un inconscio privo di sbocchi. D'Annunzio celebra la vita, la bellezza senza tempo, l'audacia gratuita, la sensualità dell'immersione nella natura, e dunque è estraneo al concetto di crisi, dell'individuo e della civiltà, così al centro della vita culturale del secolo scorso, e ancora della nostra, tra epigoni e passatisti. Piuttosto D'Annunzio potrebbe essere avvicinato a D.H. Lawrence, gigante incompreso, nella sua reazione al declino e alla vocazione mortifera di tanta cultura del Novecento. Non mancano nel volume pagine sui rapporti di D'Annunzio con Eleonora Duse, con Giovanni Pascoli, che si rivolge a lui dicendosi suo «fratello minore e maggiore», con Marinetti il futurista mitoclasta, che secondo leggenda l'autore di Alcyone definì una volta «un cretino con qualche sprazzo di imbecillità».

Il volume si chiude con una analisi della figura di Ulisse nel Novecento, dopo le comparse dell'eroe omerico in D'Annunzio e Pascoli, sino a riportare i versi di Guido Gozzano che, più che una parodia dell'Ulisse dell'Odissea, sembra una parodia del D'Annunzio di Maia: «Visse a bordo di uno yacht/toccando tra liete brigate/ le spiagge più frequentate/ dalle famose cocottes». Ulisse si ritrova in Umberto Saba, in una chiave esistenziale, e in Giuseppe Ungaretti, in una chiave metafisica, quasi biblica, alla ricerca della Terra Promessa: «Verso meta si fugge:/chi la conoscerà?/Non d'Itaca si sogna». Ma lo spirito ulisside più profondo, a dispetto delle parodie, rimane quello espresso proprio a da D'Annunzio all'inizio e alla fine di Maia: quella antica esaltazione della vita nel movimento, nel rischiare, nel cercare sempre. Ricordate? «Necessario è navigare/non è necessario vivere». Giuseppe Conte

DA RAPAGNETTA A VATE. Gabriele D'Annunzio fortunato dalla nascita: suo papà cambiò cognome, quello vero non era tanto poetico. Attilio Mazza su L’Arena il 04 febbraio 2014

Gabriele D'Annunzio: il primo cognome di suo padre era Rapagnetta

Gabriele d'Annunzio fu perseguitato dalla fortuna, sin dalla nascita. Si sarebbe dovuto chiamare Rapagnetta, come suo nonno Camillo, come suo padre Francesco Paolo: un cognome capace di strioncare sul nascere la carriera di un Vate. Se non che il padre, adottato dall'Antonio zio per parte di madre, con le ricchezze ne ereditò anche il cognome: D'Annunzio. Il quale avrebbe dovuto, tuttavia, appaiarsi con Rapagnetta, trasformando il cognome in Rapagnetta-D'Annunzio; ma non si conosce un solo documento, né d'ufficio, né privato, in cui Francesco Paolo d'Annunzio figuri solo Rapagnetta. E unicamente il cognome d'Annunzio compare sul certificato di nascita di Gabriele.

Franco Di Tizio — medico e studioso abruzzese fra i più interessanti e feraci, direttore della collana Saggi e carteggi dannunziani, edita a Pescara da Ianieri — nel suo ultimo impegnativo lavoro va ben oltre la ghiotta aneddotica. Nel volume Gabriele d'Annunzio e la famiglia d'origine (Ianieri, 38 euro), ricostruisce, infatti, in oltre 500 pagine, l'intera cerchia parentale del grande poeta e scrittore del quale si concluderanno il primo marzo le celebrazioni a 150 anni dalla nascita. Nel libro c'è, per iniziare, l'inventario delle lettere e dei telegrammi — molte centinaia, numerosi gli inediti — che il poeta scambiò tra i componenti della stretta cerchia familiare.

I sette capitoli sono suddivisi tematicamente: l'infanzia, il padre, la madre, le tre sorelle — Anna (di cui a Parigi il poeta presentì la morte avvenuta a Pescara nell'agosto 1914), Elvira, Ernestina — e il fratello Antonio, forse il meno amato; difficoltà ebbe anche con la sorella Elvira; dovette, inoltre, far fronte, in diversi modi, alle costanti richieste d'aiuto di tutti i congiunti più stretti e anche di altri.

IL FRATELLO Antonio emigrò in America a 33 anni per sfuggire al carcere a causa di cambiali firmate con il nome di Gabriele, sopravvivendo dando lezioni di musica e suonando l'oboe. Tornò in Italia nei primi mesi del 1934, gravemente ammalato e in disastrosa situazione economica, cercando la protezione del fratello, che lo aveva soccorso già ben nove volte. Ma non gli vennero aperti i cancelli del Vittoriale. Si accommiatò con queste righe: «Partirò col Rex col tuo nome nel mio cuore e con l'animo straziato per non averti potuto rivedere per l'ultima volta».

Lacerante anche l'ultima lettera al celebre cognato di Adele, moglie di Antonio: «Tu non mi crederesti ma non riusciresti neppure lontanamente a fartene un'idea con tutta la tua potenza divinatrice» dei sacrifici, delle rinunce, del doppio lavoro «anche per tener alto il prestigio del nostro nome. Sembrerebbe come se la signora fortuna, per gioco, largendo a te ogni soddisfazione e conforto detraesse, per equilibrio, a tuo fratello anche la più legittima necessità».

È impossibile offrire, nell'ambito di una succinta nota, un'idea compiuta dell'accurata ed esaustiva ricostruzione di Franco Di Tizio dei molteplici legami domestici di Gabriele d'Annunzio, tutte storie che meriterebbero d'essere raccontate, alcune veri e propri romanzi. Ecco, quindi, solo alcuni accenni.

I GENITORI. La madre, Luisa de Benedictis, donna riservata, di famiglia benestante e di tradizioni signorili, alla quale Gabriele fu assai legato, andò in sposa a don Francesco Paolo D'Annunzio il 3 maggio 1858 a Ortona; lei aveva 25 anni, lui 26. La casa dei giovani e abbienti coniugi fu allietata dalla nascita di cinque eredi: Anna (1859), Elvira (1861); Gabriele (1863), Ernestina (1865) e Antonio (1867).

Il poeta trasse i segni del destino già dai casati della madre, de Benedictis, dal proprio nome e dal cognome del padre: «Se io porto il nome dell'Arcangelo, ho nella mia mente il suggello sovrano dell'Arcangelo. Platone direbbe di me che sono una natura regale». Gli piacque ritenere che la madre fosse imparentata con Jacopo de Benedictis (o de' Benedetti), il grande poeta francescano Jacopone da Todi; e tra i suoi avi ricordò anche un antico tipografo: «Ho ritrovato un documento che dimostra come mia madre discenda da uno dei più insigni stampatori del primo rinascimento: Plato de Benedictis».

Curioso, per molte ragioni, l'episodio riportato da Franco Di Tizio, riguardante il padre, testimoniato dalla sorella Elvira nel 1923: «Gabriele aveva solo tre anni e una notte che dormiva nel letto di mia madre d'un tratto si svegliò, pretendendo che mia madre accendesse una candela. “Perché figlio mio vuoi che accenda, se stavamo dormendo?”, domandò mia madre. “Perché ho sognato – rispose testardo Gabriele – che piangevi in silenzio e perciò io devo assolutamente asciugarti le lacrime!” La candela fu accesa. Il bambino aveva indovinato». La madre aveva litigato, infatti, con il marito, impenitente e sfrontato dongiovanni che per le donne sperperò larga parte del patrimonio regalando anche case e terreni alle amanti che gli diedero figli di cui non fece mistero.

Ecco delineati due caratteri del poeta: il suo dichiararsi «sensitivo», come ribadirà ripetutamente durante la vita, e la natura del padre, al quale assomigliò per via di femmine e di sperperi.

È stato ribadito dai biografi «che Gabriele ereditò dalla madre la fine sensibilità mentre dal padre il temperamento sanguigno, la passione per le donne e la disinvoltura nel contrarre debiti. Si racconta che il padre gioisse immensamente nel rimirarlo da bambino. Non perseguiva in sé i propri pensieri, ma quelli di lui. Spesso lo stringeva tra le sue ginocchia tenendolo per le braccia, fermamente, come un artista usa osservare la sua opera».

Gabriele da piccolo non seppe rinunciare né voler male a questo padre. Gli sarà violentemente ostile solo da uomo maturo, soprattutto per difendere la madre.

Ben diverso fu il legame con la madre. Su un tavolino della Stanza del Lebbroso, una delle più misteriose, e per lui più sacre nella Prioria del Vittoriale, pose la fotografia della genitrice sulla quale scrisse di proprio pugno i versi del Poema paradisiaco: «Non pianger più. Torna il diletto figlio alla tua casa». Ma fu solo un desiderio.

Attilio Mazza

Quando D’Annunzio accusò Scarpetta di plagio: la guerra al tribunale di Napoli. Serena Palumbo su Vesuviolive.it il 21 Gennaio 2022

Tra fine Ottocento e inizi Novecento il panorama teatrale napoletano era ricco di attori-autori la cui fama artistica ancora oggi viene ricordata. Tra questi va annoverato senza alcun dubbio Eduardo Scarpetta, padre di Titina, Eduardo e Peppino De Filippo.

EDUARDO SCARPETTA, IL MARADONA DEL TEATRO

Scarpetta conquistò il pubblico napoletano soprattutto con l’interpretazione dell’emblematico personaggio Felice Sciosciammocca: un borghese ingenuo e opportunista, che scatenava costantemente il riso nei suoi spettatori, ironizzando i vizi e i peccati della società. I guadagni dei botteghini erano infiniti quando Scarpetta recitava, tanto che Giuseppina Scognamiglio, studiosa e docente di Letteratura Teatrale all’Università di Napoli Federico II, l’ha definito “Il Maradona del teatro”. 

La bravura artistica di questo leone da palcoscenico si è poi trasferita anche nei figli, riconosciuti e non, come Vincenzino Scarpetta, l’indimenticabile trio De Filippo ed Ernesto Murolo, a sua volta padre del cantautore Roberto Murolo. L’innovazione teatrale di Scarpetta risedeva nella riscrittura di testi del teatro leggero francese: questa tipologia di teatro oltralpe gli appariva come una strada maestra per rinnovare il repertorio tradizionale del teatro dialettale partenopeo. Il teatro scarpettiano, dunque, adattava temi e motivi del teatro francese al pubblico napoletano, servendosi della parodia e dell’immancabile lingua del popolo.

In opposizione al suo teatro innovativo, accusato di camuffare gli originali francesi in una patina meridionale, insorse un gruppo di antiscarpettiani, tra i quali Salvatore Di Giacomo. Ma Scarpetta non si fece mai piegare dalle feroci critiche, continuando il suo lavoro di gran successo, finché non venne accusato da un intellettuale che molto stimava: Gabriele D’Annunzio.

LA POLEMICA TRA SCARPETTA E D’ANNUNZIO: DAL TEATRO AL TRIBUNALE

Tutto ebbe inizio nel 1904, quando Eduardo lavorava a Roma. Come riportato nel libro “E’ il teatro, bellezza!” di Giuseppina Scognamiglio e Massimiliano Mottola, una sera decise di voler mettere in scena la parodia della tragedia pastorale dannunziana La Figlia di Jorio. L’idea non lo abbandonò neanche i giorni seguenti, tanto da divenire una vera ossessione per lui. Decise allora di recarsi al cospetto di D’Annunzio, perché come scrive nella sua autobiografia: “Desideravo di rappresentare la mia parodia col gentile permesso dell’autore attaccato al mio manifesto”. 

Durante questo incontro D’Annunzio lesse il copione e acconsentì verbalmente alla messa in scena, notando anche la riduzione dell’autore-attore da tre a due atti. Ma il celebre poeta non fu di parola: nel momento in cui furono annunciate le date di debutto della parodia, la prefettura di Napoli fu sommersa da numerose lettere di protesta inviate da D’Annunzio stesso e da molti suoi compagni. Ciò nonostante il prefetto non proibì l’imminente messa in scena, che però fu sabotata da un pubblico istruito e comandato ai fischi dalla schiera dannunziana.

Poco dopo D’Annunzio ufficializzò la querela per plagio contro Scarpetta, accusandolo di aver contraffatto e non parodizzato la tragedia pastorale da lui scritta. Da questo momento iniziò quella che lo stesso Eduardo definì “Una Via Crucis”: la lotta si spostò nel 1908 in un’aula del tribunale penale di Napoli. Il pubblico di Scarpetta che, come in teatro, così in tribunale lo sosteneva con il fido amico Benedetto Croce, potette assistere a una disputa combattuta a suon di aspre dichiarazioni. 

Il processo si concluse a favore di Scarpetta: La Figlia di Jorio venne ufficialmente dichiarata una parodia e non un plagio, come sosteneva D’Annunzio. Nonostante la vittoria, Eduardo non era più lo stesso, era distrutto ed estenuato dal lungo processo, nonché mortificato per l’umiliazione che gli oppositori, schierati con l’intellettuale, gli avevano inflitto. La via crucis porta così Scarpetta alla crocifissione, non legale, bensì professionale: Eduardo Scarpetta, il Maradona del teatro, decide di ritirasi dalle scene.  

Serena Palumbo

Laureata in Filologia all'Università di Napoli Federico II e appassionata di Social Media Marketing e giornalismo. Sono un misto tra antiche culture e nuove conoscenze: il Latino e le strategie comunicative trovano una perfetta sintonia nel mio lavoro.

D’Annunzio, inedito su Scarpetta e la «questione sciosciammocchesca». Natascia Festa su Il Correre della Sera il 17 maggio 2022 2022

Alla Biblioteca Nazionale di Napoli mostra sugli archivi teatrali: c’è lo studio di Nino Taranto, il primo frac di Viviani, cimeli e foto anche delle Nemesiache e Patroni Griffi 

Dopo tanto snobismo intellettuale, il lungamente esecrato Scarpetta è dunque tornato al centro della scena culturale con un revival di alto profilo. Dopo i bei film Qui rido io di Mario Martone e I fratelli De Filippo di Sergio Rubini, riguarda ancora una volta la «questione sciosciammocchesca» uno dei pezzi più interessanti della mostra Napoli in scena. Documenti e immagini dalle raccolte della Biblioteca Nazionale di Napoli, a cura di Francesco Cotticelli e Gennaro Alifuoco,che si inaugura oggi alle 16. Un inciso: si assiste a un ritorno non a Scarpetta ma «agli Scarpetta» come testimonia la mini-rassegna del Trianon con due belle regie di Francesco Saponaro, una su Titina e l’altra su Vincenzo Scarpetta, con compagnie da far davvero onore alla suddetta schiatta. 

La lettera con cui D’Annunzio cerca di bloccare la parodia di Scarpetta

In mostra alla Nazionale ci sono alcuni documenti che preludono alla causa intentata da Gabriele D’Annunzio contro Eduardo Scarpetta per la parodia de La figlia di Iorio che divenne per man partenopea Il figlio di Iorio (3 dicembre 1904 al Mercadante). Nonostante la contesa sarà vinta dal comico che si giovava di un patrocinatore come Benedetto Croce, la vicenda segnò profondamente il commediografo che dopo poco si ritirò dalle scene, lasciando la «premiata ditta» nelle mani di Vincenzo, di cui peraltro si espongono da oggi documenti e foto. Prima di ricorrere alla legge, il poeta cercò di dissuadere Scarpetta. «Alla Lucchesi Palli — raccontano i curatori — sono conservate le lettere autografe con le quali il vate sollecita il divieto. In particolare lo fa con quella del 27 ottobre scritta al drammaturgo Gaspare Di Martino».

Ecco una parte del testo dannunziano: «Il nostro amico Marco Praga mi scrive che la tutela dell’opera mia — in proposito dell’incresciosa questione sciosciammochesca - è affidata a lei [...] È necessario - penso - operare con energica prontezza. E io desidero che Ella mi dica quale atto - da parte mia -possa riuscire più efficace per ottenere che il divieto parta dalla Prefettura. La quale, per fortuna, è retta da un gentiluomo “ornato di tutte le lettere”, a cui parrà onorevole officio la difesa della poesia minacciata da una profanazione… Come dire? Escrementizia. Ella forse avrà veduto [...] che non si tratta d’una semplice parodia buffonesca, ma di una vera e propria contraffazione con traduzione quasi letterale di interi versi e anche di scene intere. Don Felice mi dichiarava - con un lampo di orgoglio letterario - ch’egli si era proposto di rivelare alle turbe il significato recondito della mia tragedia, troppo oscuro sotto il velame dei versi!!! Com’Ella sa, anche dopo la visita di Don Felice, anche dopo il riso e dopo le lacrime e dopo l’invocazione della vecchia madre aspettante con ansia etc. etc., e dopo l’intromissione di amici autorevoli, io mantenni il divieto...».

Il Vate sprezzante si guarda bene dal nominare Scarpetta indicandolo con il nome del suo personaggio, non uno qualsiasi, quello che aveva operato all’interno del sistema teatrale napoletano una rivoluzione copernicano-sciosciammocchesca, mettendo in un angolo il Pulcinella di Petito. Di questa storia la mostra rende conto nei suoi vari passaggi, attingendo ai formidabili archivi con foto, locandine, copioni, cimeli e arredi che gli eredi delle tante famiglie teatrali hanno donato alla sezione Lucchesi Palli della Biblioteca, un vero scrigno della scena. 

Titina De Filippo soubrette al Teatro Nuovo, con la compagnia del varietà

«La mostra, realizzata con il contributo della Regione — ricorda la direttrice Maria Iannotti - è la prima complessiva ricognizione del patrimonio di interesse teatrale della Nazionale, un giacimento immenso di cui per la prima volta si espongono insieme le opere più preziose e rare, oltre a fonti indispensabili a chi tenti l’arduo compito di descrivere la storia del teatro partenopeo. L’Arte dello Spettacolo a Napoli affonda le sue radici in testi antichi, come il manoscritto seicentesco di Francesco Antonio Nigrone (in mostra) dove si può individuare una delle prime rappresentazioni iconografiche della maschera di Pulcinella». 

Lo studio di Nino Taranto

Tra i cimeli esposti c’è lo studio di Nino Taranto, il piccolo frac indossato da Viviani a quattro anni per il suo debutto, tanti copioni pieni di annotazioni, bozzetti, scenografie, costumi, contratti, mandati di pagamento e appalti perché il teatro è sempre stato un’impresa inserita nel tessuto economico della città.

Si va dall’epoca d’oro del Fiorentini ai fasti San Carlino «tra proposte - dicono i curatori - che testimoniano il coesistere fra colto e popolare in una tradizione che ha trovato nuove forme di affermazione attraverso grandi attori-autori, come Altavilla, Petito, De Filippo fino ai contemporanei».

Ancora una volta è un progetto multimediale di Stefano Gargiulo per Kaos a trasformare il mero documento in oggetto evocativo e feticcio narrante.

Rivista e Sceneggiata

Un meritato spazio occupano le compagnie di rivista e la sceneggiata «fucina di talenti — continuano i curatori — con nomi che fecero la storia della comicità e del teatro popolare partenopeo: Agostino Salvietti, Raffaele Di Napoli, Totò, Nino Taranto, Tecla Scarano, Franco Sportelli, Ugo D’Alessio, Dante e Beniamino Maggio, Titina De Filippo, Tina Pica per ricordarne solo alcuni». E di Titina sono esposte foto inedite degli anni che la videro apprezzata soubrette. Tra i più importanti lasciti, c’è l’Archivio di Raffaele Viviani per il quale nel marzo del 2020, Giuliano Longone, figlio di Luciana Viviani e nipote di Raffaele, ha formalizzato l’atto di donazione, e che documenta in maniera quasi esaustiva la sua attività, attraverso manoscritti e dattiloscritti, foto di scena e private.

Assai ampio, dunque, l’arco cronologico indagato dal Seicento a Gilda Mignonette e Nicola Maldacea, al Novecento protestatario delle Nemesiache e Peppino Patroni Griffi (il cui archivio è stato donato da Fausto Nicolini). Fino al tratto riconoscibile di Lino Fiorito di cui la Nazionale conserva ben 500 bozzetti.

Processo Scarpetta e D’Annunzio, al Mercadante va in scena la giustizia. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Dicembre 2021 

Una rievocazione, una messa in scena, proprio come fa il teatro che racconta la vita. A distanza di oltre un secolo, rivive il processo che vide contrapposti Eduardo Scarpetta e Gabriele D’Annunzio. Era il 1908 e nel Tribunale di Castel Capuano si celebrò la causa tra il grande autore napoletano e il vate. L’attore e commediografo era accusato di aver rappresentato al Real Teatro Mercadante, il 3 dicembre 1904, la commedia Il figlio di Iorio, parodia della tragedia pastorale di D’Annunzio, La figlia di Iorio, e di averlo fatto arbitrariamente perché su quell’opera il vate aveva il diritto esclusivo. Fu la prima causa per plagio della storia. Eppure, le due opere erano diverse.

La figlia di Iorio era un dramma, Il figlio di Iorio, invece, ne era la parodia. Scarpetta, nelle sue pagine, sbeffeggiava D’Annunzio e la sua ridondanza, stravolgendo trama e senso dell’opera che divenne esilarante. Il commediografo voleva a tutti costi portare in scena Il figlio di Iorio, anche a dispetto delle critiche della moglie Rosa che lo invitava a non abbandonare il personaggio di Felice Sciosciammocca. Niente da fare: Scarpetta andò dritto per la sua strada, arrivando persino a incontrare D’Annunzio per ottenere la benedizione come già capitato quando incontrò Giacomo Puccini in occasione della versione parodistica de La bohème. L’autore e il poeta si incontrarono a Marina di Pisa. D’Annunzio lesse e rise di gusto leggendo l’opera. ma alla fine disse no. Nessun permesso, nessuna benedizione. Lo fece anche formalmente con un telegramma, ma era troppo tardi. Il figlio di Iorio andò in scena il 3 dicembre del 1904 e il pubblico sembrò apprezzare, ma una probabile claque dannunziana organizzò in platea una tale protesa da costringere Scarpetta a interrompere lo spettacolo. Fu solo l’inizio. Pochi giorni dopo, infatti, il direttore generale della Siae, Marco Praga, a nome della società e per conto del poeta, querelò Scarpetta per plagio e contraffazione. La vicenda toccò le corde dell’intellighenzia nazionale ed estera.

Molti gli intellettuali che si espressero a favore di uno o dell’altro contendente: Salvatore di Giacomo per D’Annunzio, Benedetto Croce a favore di Scarpetta. Era il primo processo che si teneva in Italia sul diritto d’autore e la fama dei personaggi, l’interesse dell’opinione pubblica e la consapevolezza che la sentenza avrebbe generato un precedente consistente portarono un grande impegno. Come quello dell’avvocato Carlo Fioravante, difensore di Scarpetta, che nella sua arringa, sottolineò l’importanza della parodia, definendola «Il bisogno imprescrittibile di ridere, il bisogno di chiedere un’ora di conforto e di tregua lungi dalle miserie e dalle amarezze ond’è stata, e sarà sempre, travagliata la vita».

La sentenza arrivò nel 1908, quando il Tribunale dichiarò il non luogo a procedere nei confronti di Scarpetta perché il fatto non costituiva reato. Un verdetto epocale che cambiò la storia dello spettacolo per sempre. Felice Sciosciammocca aveva vinto. «A querela, ‘o pruciesso, ‘a parudia, / tutt’ ‘e magagne e tutt’ ‘e nfamità… / veramente me l’avesse sunnato / e che mò, miez’a buie, me so scetato?», recitava il sonetto con cui Eduardo Scarpetta commentò la sentenza nel modo a lui più congeniale. Ieri, su iniziativa del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Napoli, della Camera penale, del Teatro di Napoli e dei Teatri Uniti quel processo è tornato a vivere sul palco del Teatro Mercadante,

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Chi ha vinto nella realtà la causa tra Eduardo Scarpetta e Gabriele D’Annunzio? La verità. Nicoletta Cerone su amalfinotizie.it il 21 Maggio 2023 

La storia della controversia legale tra Eduardo Scarpetta e Gabriele D’Annunzio è parte della storia del nostro paese. Scopriamo cos’è successo nella realtà.

L’inizio della controversia

La controversia tra Eduardo Scarpetta e Gabriele D’Annunzio ebbe inizio nel 1904, quando Scarpetta, allora a Roma, decise di realizzare una parodia della tragedia pastorale di D’Annunzio, “La Figlia di Jorio”. Come riportato nel libro “E’ il teatro, bellezza!” di Giuseppina Scognamiglio e Massimiliano Mottola, Scarpetta era ossessionato dall’idea di portare in scena la sua versione dell’opera di D’Annunzio.

Per ottenere il permesso di rappresentare la sua parodia, Scarpetta si recò personalmente da D’Annunzio. Durante l’incontro, il celebre poeta lesse il copione di Scarpetta e, secondo quanto riportato da Scarpetta nella sua autobiografia, acconsentì verbalmente alla messa in scena della parodia.

La protesta e la querela di D’Annunzio

Nonostante l’apparente assenso di D’Annunzio, quando furono annunciate le date del debutto della parodia, il poeta e molti dei suoi compagni iniziarono a inviare numerose lettere di protesta alla prefettura di Napoli. Nonostante le proteste, il prefetto non proibì la messa in scena dell’opera, che tuttavia fu sabotata da un pubblico ostile, istruito a fischiare dalla fazione di D’Annunzio.

Poco dopo, D’Annunzio presentò una querela formale per plagio contro Scarpetta, accusandolo di aver contraffatto, e non parodiato, la sua tragedia pastorale.

Il processo e il verdetto

La disputa si trasformò in una lunga e aspra battaglia legale, che si concluse nel 1908 in un’aula del tribunale penale di Napoli. La sentenza, tuttavia, fu a favore di Scarpetta: la sua versione de “La Figlia di Jorio” fu ufficialmente riconosciuta come una parodia, e non un plagio come sosteneva D’Annunzio.

Nonostante la vittoria legale, Scarpetta ne uscì profondamente segnato. Era estenuato dalla lunga causa legale e mortificato dall’umiliazione che gli era stata inflitta dagli oppositori schierati con D’Annunzio.

Le conseguenze per Eduardo Scarpetta

Nonostante la vittoria in tribunale, la disputa con D’Annunzio ebbe ripercussioni significative sulla carriera e sulla vita di Eduardo Scarpetta. L’esperienza del processo influenzò profondamente la vita e la carriera di Scarpetta. L’umiliazione pubblica e la pressione del processo lo portarono a decidere di ritirarsi dalle scene. Il fatto che una vittoria in tribunale potesse causare tanta angoscia personale è una testimonianza del peso emotivo della controversia.

Sebbene Eduardo Scarpetta abbia vinto la causa legale contro Gabriele D’Annunzio, le conseguenze personali e professionali della disputa furono devastanti per il celebre attore e commediografo. Poco tempo, infatti, il genio partenopeo si ritirò dalle scene.

 Eduardo Scarpetta e la storica vittoria nella causa contro D'Annunzio e la Siae Da napoliateatro.it il 16 ottobre 2016.

Eduardo Scarpetta e la storica vittoria nella causa contro D’Annunzio e la Siae Il 2 marzo 1904, al Teatro Lirico di Milano, viene rappresentata, per la prima volta, una tragedia in 3 atti di Gabriele D’Annunzio. Dal titolo ‘La figlia di Iorio’. Facendo un passo indietro nel tempo di neanche un mese, precisamente al 6 febbraio dello stesso anno, al Teatro Valle di Roma, veniva messa in scena ‘La geisha’, parodia di un’opera di Sidney Jones firmata da Eduardo Scarpetta. Nelle parodie di Scarpetta presente anche un giovanissimo Eduardo De Filippo In cui si ironizzava sull’ormai eccessivo gusto borghese per l’Oriente e tutto ciò che lo riguardasse. Come protagonista, un bravissimo Vincenzo Scarpetta, nel ruolo della geisha Mimosa-San. Ma va sottolineato come, in una scena del coro finale, apparisse un giovanissimo Eduardo De Filippo, che all’epoca aveva solo 4 anni. Il successo ottenuto, portò Scarpetta a pensare di scrivere un’altra parodia, ovvero ‘Il figlio di Iorio’, che prendesse spunto proprio dall’opera di D’Annunzio, senza dubbio ritenuta eccessivamente drammatica. Per far ciò, la trama venne completamente stravolta. E, come il titolo lascia già presagire, tutti gli interpreti femminili divennero maschili e viceversa. D’Annunzio negò il consenso per La figlia di Iorio con un telegramma Dopo aver quasi del tutto allestito la parodia, Scarpetta si recò a Marina di Pisa da D’Annunzio per ottenere il suo consenso. L’incontro fu piacevole e divertente. Lo stesso “Vate” rise molto all’ascolto dell’opera, ma si sentì costretto a negare il sopracitato consenso, per paura di ripercussioni negative sulla sua rappresentazione. Il problema è che questo rifiuto arrivò solo tramite telegramma e quando era ormai troppo tardi per fermare tutto. Fu così che, il 1 dicembre 1904, al Teatro Mercadante di Napoli, andò in scena ‘Il figlio di Iorio’. Inizialmente il pubblico sembrò anche gradire molto, sottolineando ciò con importanti risate e applausi. All’inizio del secondo atto, però, la situazione cambiò drasticamente. A causa, pare, di alcune persone in platea che, forse manovrati da qualcuno, in difesa dell’opera dannunziana cominciarono a creare confusione, fischiare e urlare. Costringendo Scarpetta, appena entrato in scena con abiti femminili, a far calare il sipario.

Al danno, si aggiunse anche la beffa, quando qualche giorno dopo venne querelato per plagio dalla Siae e per conto di Gabriele D’Annunzio, amministratore privato della stessa. Al Tribunale di Napoli, Scarpetta si esibì come fosse a teatro L’apice dello “scontro” avvenne al Tribunale di Napoli, durante un’udienza. Quando Scarpetta, neanche si fosse trovato al centro della scena di uno dei suoi spettacoli, tenne un dialogo con il Presidente, che avrebbe tranquillamente potuto mettere in uno di essi. Come riportarono gli stessi giornali dell’epoca. «Scarpetta: Ecco, Signor Presidente , io non sono un oratore, farò del mio meglio…(ricominciando , con tono solenne) Signor Presidente, signori della Corte (scoppio di risa) Presidente: Scarpetta, questa non è Corte, è Tribunale. Scarpetta: me credevo che stevo facenno o’ terz’atto d’ O Scarfalietto…» Abilmente mise in rilievo la spocchia del Vate quando raccontò del suo incontro con D’Annunzio: «…gli feci scrivere dall’amico Gaetano Miranda, sollecitando il permesso. Ma non ebbi alcuna risposta. Mi si disse che il Poeta aveva l’abitudine di non rispondere a nessuno. Tante grazie!». «Presidente: È vero che D’Annunzio vi promise una sua fotografia? Scarpetta: Si, volle anche la mia, ma non mi mandò più la sua.» Infine dopo aver recitato in tribunale alcuni versi de Il figlio di Iorio rivendicò orgogliosamente la sua autentica dignità di autore teatrale dialettale pari a quella di chi componeva opere in lingua letteraria e avanzava il sospetto che l’insuccesso della rappresentazione fosse stato preordinato: «Era questa una parodia da meritare quei fischi della prima sera? Durante il baccano che si fece, ricordo che Ferdinando Russo gridò “Abbasso Scarpetta, Viva l’arte italiana”. Ma scrivo io, forse, per il teatro turco o cinese? Io non feci una contraffazione, ma una parodia.» Quello tra D’Annunzio e Scarpetta fu il primo processo per diritto d’autore in Italia La causa andò avanti fino al 1908 e si concluse con la piena assoluzione di Scarpetta, in quanto il fatto non costituiva reato. Sentenza fondamentale, nel primo processo per diritto d’autore in Italia, per legittimare tutte le parodie che successivamente avrebbero contraddistinto la storia dello spettacolo. Anni dopo, come riporta il sito eduardoscarpetta.it, Gabriellino D’Annunzio, figlio del poeta, rivelò a Maria Scarpetta, figlia di Eduardo, che la vicenda fu incitata e sospinta da Marco Praga, fondatore della Siae, nella speranza di ottenere una sentenza di condanna con tutte le conseguenze morali ed economiche.

D'Annunzio e Scarpetta: la storia del processo del secolo. Paolo Speranza su La Repubblica il 7 settembre 2021 e su lavocedellevoci.it il 9 settembre 2021

Toni Servillo interpreta Eduardo Scarpetta in "Qui rido io" di Mario Martone 

E' l'evento al centro di "Qui rido io", il film di Mario Martone sulla vita del commediografo napoletano. Che nel 1906 sconfisse il Vate in tribunale

"A querela, 'o pruciesso, 'a parudia, / tutt' 'e magagne e tutt' 'e nfamità... / veramente me l'avesse sunnato / e che mò, miez'a buie, me so scetato?". All'indomani della sentenza sulla parodia teatrale di "La figlia di Iorio", che nel marzo del 1906 lo aveva visto prevalere su Gabriele D'Annunzio, Eduardo Scarpetta la commentò nel modo a lui congeniale: un divertente sonetto intitolato 'A causa mia, che declamò agli invitati del banchetto nel Caffè Calzona.

 “’A querela,’o pruciesso, ‘a parudia, / tutt’ ’e magagne e tutt’ ‘e nfamità… / veramente me l’avesse sunnato / e che mò, miez’a buie, me so scetato?”....

All’indomani della sentenza sulla parodia teatrale di La figlia di Iorio, che nel marzo del 1906 lo aveva visto prevalere su Gabriele D’Annunzio, Eduardo Scarpetta la commentò nel modo a lui congeniale: un divertente sonetto d’occasione intitolato ‘A causa mia, che il commediografo declamò agli invitati del banchetto nel Caffè Calzona.

“Qui rido io”, poteva finalmente rivendicare, come nella frase incisa sulla sua villa di campagna, scelta da Mario Martone per il titolo del film che oggi viene presentato in anteprima mondiale a Venezia. Del resto il presidente del Tribunale di Napoli, Adolfo Giaquinto, nella sobria e lucida motivazione della sentenza lo aveva sottolineato: “D’Annunzio vuol destare sentimenti di dolore e di terrore; Scarpetta giovialità e riso”, per cui risultava del tutto infondata l’accusa di riproduzione abusiva della tragedia dannunziana La figlia di Iorio da parte di Scarpetta. Il figlio di Iorio era nient’altro che una parodia, forse mal riuscita, come riconobbero anche i suoi sostenitori, ma legittima, come le precedenti parodie scarpettiane: quella della Boheme, che aveva fatto divertire lo stesso Puccini, e di La geisha, di Sidney Jones, accolta trionfalmente alla “prima” del 6 febbraio 1904 al Teatro Valle di Roma (oggi chiuso, in cui Martone ha girato molte scene di Qui rido io), dove aveva fatto il suo esordio un “giapponesino” di quattro anni, Eduardo De Filippo, uno dei numerosi figli naturali di Scarpetta.

Questa volta, però, c’era di mezzo il Vate, per molti italiani (e lo stesso Scarpetta) il più grande poeta nazionale vivente, e a nulla erano valse le sostanziose modifiche al testo originale, come attesta Mario Corsi su “L’Illustrazione italiana” del 24 ottobre 1943: la scena era stata spostata dall’Abruzzo a Pozzuoli, tutti i personaggi avevano cambiato sesso (lo stesso Scarpetta interpretò il ruolo di Cornelio in abiti femminili) e il terzo atto, il più carico di pathos, era stato soppresso. Né era servito il gesto di cortesia da parte di Scarpetta, che per ottenere l’autorizzazione di D’Annunzio (e prevenirne il temuto anatema) si era recato nell’agosto del 1904 nella villa del Vate a Marina di Pisa, in una giornata buia e tempestosa, in compagnia del comune amico Gaetano Miranda. Il poeta, in realtà, si era mostrato piuttosto tiepido ma non ostile al progetto teatrale di Scarpetta, come rievoca quest’ultimo nel 1922 nel libro di memorie Cinquant’anni di palcoscenico; ma più realisti del re furono gli esagitati fan di D’Annunzio (i “patuti”, li ribattezzò Scarpetta), che alla “prima” del Figlio di Iorio, il 3 dicembre 1904 al “Mercadante” di Napoli, inscenarono all’inizio del secondo atto un’indegna gazzarra, che indusse la direzione del teatro a sospendere le repliche. Per Scarpetta, abituato a platee osannanti, fu uno choc, ma il peggio doveva ancora venire. Una settimana dopo la “prima”, il direttore della Società Generale degli Autori, Marco Praga, sporse querela contro Scarpetta, a nome della SGA e dello stesso D’Annunzio, rivelando una strategia preordinata, e nominò come periti di parte tre prestigiosi artisti napoletani: “i miei cari e buoni amici”, come li definirà ironicamente Scarpetta nelle sue memorie, Salvatore Di Giacomo, Roberto Bracco e Giulio Massimo Scalinger.

A difesa di Scarpetta si schierarono un agguerrito collegio di avvocati e, come periti di parte, due intellettuali altrettanto illustri: Benedetto Croce e il critico siciliano Giorgio Arcoleo, l’allevo più brillante di Francesco De Sanctis. Con questo parterre di esperti il processo ebbe un’eco planetaria (con la stampa italiana più favorevole a D’Annunzio, quella americana e il francese “Le Figaro” pro-Scarpetta) e una valenza epocale: per la prima volta un tribunale era chiamato a esprimersi su temi, ancora oggi stringenti, come la libertà dell’artista, il diritto d’autore, il limite della satira. “Delitto di parodia”, come il titolo dello spettacolo su questo processo andato in scena con successo nel 2008, per la regia di Francesco Saponaro, da un soggetto di Antonio Vladimir Marino. E come non ricordare la geniale trovata di Ugo Gregoretti, che nel 1985 mise in scena sia La figlia di Iorio che la parodia di Scarpetta, affidando agli spettatori l’”ardua sentenza”?

Il processo vero, sovvertendo i pronostici, lo vinse Scarpetta, grazie soprattutto agli interventi di Croce e Arcoleo e alla determinazione dei suoi legali, uno dei quali, Francesco Spirito, non esitò a definire D’Annunzio “vate dell’incesto” e “inventore di lascivie”. La sentenza, scrive un giornale dell’epoca, “fu accolta da fragorosi applausi e il comico napoletano fu sollevato di peso dai suoi amici e trasportato fuori dall’aula fra acclamazioni”. Ma la gioia più grande la regalò a Scarpetta il napoletano più famoso nel mondo, Enrico Caruso, che in una lettera molto cordiale gli chiedeva due copie del Figlio di Iorio, per poter “ammirare questo lavoro che tanto chiasso suscitò sui giornali del mondo intero”. Anni dopo, persino la stampa fascista finì per ammetterlo: “Don Felice Sciosciammocca aveva vinto…”.

«Qui rido io» strizza troppo l’occhio al pettegolezzo. Fausto Nicolini il 31 Maggio 2023 su quartapareteroma.it

Domenica 21 maggio RaiUno ha trasmesso, in prima serata, Qui rido io, film di Mario Martone del 2021 su Eduardo Scarpetta. All’epoca, quando uscì nelle sale, qualcuno urlò al capolavoro; unanimi i giudizi positivi sia per l’autore e regista, sia per l’attore protagonista e per l’intero cast. Ancora oggi, non posso che associarmi al coro di chi lo aveva lodato, tuttavia con sempre maggior parsimonia. Non si tratta, infatti, di un soggetto frutto della fantasia, ma, abbracciando il genere biografico, rientra nella condizione di film storico, e pertanto andrebbe riesaminato al setaccio con l’attenzione che merita la materia. Non fosse altro per il rispetto del personaggio risolutore della questione giudiziaria che coinvolse Scarpetta, sulla quale, nella seconda parte, si concentra la trama: quel Benedetto Croce che fece della storia argomento fondamentale dei suoi eruditi studi.

Premetto che quando la pellicola uscì nelle sale cinematografiche, già evidenziai l’ombra commerciale che incombeva sulla realizzazione dell’opera: il ritratto che Martone fa dello Scarpetta soddisfa certamente i tanti palati rozzi di chi s’ingozza ogni giorno di quella scialba cronaca rosa che riempie le pagine d’informazione sempre più scadente; ergo, è ovvio che l’entusiasmo di costoro si ravvivi di fronte a certi affari privati che fino a qualche anno fa regalavano brividi esclusivamente alle portinaie, poi alle sciampiste, oggi a tutti coloro che navigano per social in cerca di «cofecchie», direbbe Totò. E che Martone abbia voluto costruire un film, appunto, sulle «cofecchie» più che sulla biografia artistica di un uomo di teatro, lo dimostra l’incongruenza storica di alcune scene.

L’intervento di Croce nella causa tra Gabriele D’Annunzio e Eduardo Scarpetta apre il complicato paragrafo delle discordanze delle date. Da questo episodio sappiamo con certezza che la sua relazione giudiziaria (redatta con il senatore Giorgio Arcoleo) è dell’ottobre del 1907; sappiamo altresì che il processo fu avviato nel dicembre 1904 e che la sentenza definitiva è del gennaio 1908. Dunque si presume che la sceneggiatura di Martone cominci, quando l’affaire dannunziana era ancora lontana, in un anno compreso tra il principio del 1902 e la metà del 1903. Sin dall’apertura vediamo, però, un giovanissimo Eduardo De Filippo che già recita, legge e scrive, ma tutto ciò è improbabile perché Eduardo è nato il 24 maggio 1900; dunque, all’inizio del film avrebbe poco più di due anni. Nella parte di Peppiniello, il bambino di 8 anni di «Miseria e nobiltà», si riconosce prima Titina e poi lo stesso Eduardo, ma quest’ultimo incarnò quel ruolo non prima del 1910 (forse 1911), cioè due o tre anni dopo la fine del processo D’Annunzio-Scarpetta; invece, nel periodo della causa, Martone addirittura veste il più piccolo dei De Filippo con quei panni, e Peppino fu Peppiniello soltanto nel 1913 (a dieci anni), quando Scarpetta già s’era ritirato dalle scene e Vincenzo (figlio legittimo del patriarca) aveva preso il suo posto. Ma la più grossa imprecisione riguarda proprio Peppino, il quale, nato il 24 agosto 1903, fu affidato (come pure si vede) alle cure di una balia in campagna per ben cinque anni. Tornò ad abitare a Napoli, con la mamma e i fratelli, nel 1908, dopo la sentenza definitiva che assolse Scarpetta. Invece, per Martone, quando si svolge il processo (1904-1908), Peppino già corre per il palcoscenico e sembra avere un’età molto maggiore dell’effettiva. Insomma, nella realtà, quando scoppia il caso del Figlio di Iorio, Peppino è ancora in campagna dalla balia e Eduardo ha appena mosso i primi passi sul palcoscenico del Valle di Roma (anzi, fu portato in braccio!), e non può certamente ricopiare i testi del padre naturale. Altro particolare che non corrisponde al vero riguarda il maialino con cui giocava Peppino in campagna e che invece Martone trasforma, non si sa per quale motivo, in una capretta.

Eduardo Scarpetta jr. (nel film, Vincenzo Scarpetta) e Alessandro Manna (Eduardo De Filippo) © ph Mario Spada

Per quanto riguarda le musiche d’accompagnamento, anch’esse fuori dal contesto temporale, il discorso è diverso. Si capisce che il commento musicale spazia dall’inizio del ‘900 fino agli anni Settanta: è una scelta ben precisa quella di uscire dal tempo. Piuttosto la selezione è molto ardita: si tratta spesso di brani eccessivamente famosi che potrebbero indurre lo spettatore a seguire la canzone distraendosi dal film. Sono poesie struggenti, musicate con note che ubriacano di malinconie, di passioni, di dolcezze ed è difficile non essere risucchiati dal trasporto canoro di versi assai conosciuti. Si odono i pezzi classici della canzone partenopea: Voce ‘e notte di Nicolardi (del 1904), ma anche brani di epoca molto più recente, come Indifferentemente del 1963, e Carmela di Salvatore Palomba che è, addirittura, del 1976. Anche le voci straordinarie di Sergio Bruni e Roberto Murolo incantano, malgrado all’epoca della causa giudiziaria non fossero ancora nati.

Torniamo, però, al nocciolo della questione. Pur appartenendo al genere storico e restando un film ben curato a livello artistico, Qui rido io strizza troppo l’occhio al mero pettegolezzo. Del protagonista si è preferito ispezionare esclusivamente il torbido, il pruriginoso, il lato oggi più facilmente vendibile al botteghino, soffocando la luce di una ribalta che invece fu molto illuminata. Chi non conosce l’opera di Eduardo Scarpetta, e soprattutto la trasformazione che egli attuò al repertorio napoletano del teatro comico popolare, dopo la visione, ne trarrà certamente un’idea confusa del commediografo partenopeo.

Foto a sin: Scarpetta con Luisa De Filippo e suoi figli, Eduardo, Peppino e Titina. Foto a des: Eduardo Scarpetta

La morbosità dell’argomento riproduttivo ha tenuto ben distante la curiosità sullo spirito popolare artistico e letterario dell’uomo. Anche la scena iniziale di Scarpetta che in camerino addenta una pizza, sottolineata da alcuni critici «come simbolo della semplicità geniale di cui si nutre l’arte popolare a Napoli», assume un valore tradizionale soltanto se rientra nell’analisi della totale dedizione di un artista per il palcoscenico; ma se il frugale e folcloristico pasto fa da contorno a una carrellata di notizie a sfondo sessuale, allora il senso cambia e il gesto potrebbe essere confuso per sbrigativa superficialità di chi abbia necessità di recuperare il tempo speso negli anfratti del teatro per aver soddisfatto le sue smanie focose.

Non sta a me raccontare la storia di Eduardo Scarpetta, né la sua ascesa teatrale, né il suo successo e nemmeno la sua geniale intuizione, ma, a tal proposito, basta ricordare la scena che ha meglio riassunto, con garbo e sensibilità, la rilevanza artistica del creatore di Felice Sciosciammocca. Sciosciammocca, nella tradizione del teatro comico napoletano, rappresenta l’erede di Pulcinella. Pulcinella, nel periodo antecedente a Scarpetta, si chiamava, in realtà, Antonio Petito. Antonio Petito, per uno di quei casi imprevedibili che, quando accade, subito è pronto a diventar leggenda, scelse di morire dietro le quinte del palcoscenico del San Carlino durante una rappresentazione. Ora si dovrebbe spiegare cos’era, in quel periodo, il Teatro San Carlino a Napoli, ma sarebbe troppo lungo: basterà dire che fu per oltre cinquant’anni la casa di Pulcinella, dove Eduardo Scarpetta apprese l’arte della commedia. La sera del 24 marzo 1876 si recitava «La dama bianca», farsa di Giacomo Marulli. Il giovane Scarpetta comprese sin da subito che il suo maestro non era al meglio delle forze, e quando, in scena, sentì le battute prive di verve, intuì che la serata non sarebbe stata come le solite. Altre volte accadde che in quinta l’umore di Pulcinella non fosse frizzante, ma poi, di fronte al pubblico, l’adrenalina saliva e il coinvolgimento della platea era assicurato. Quella sera non fu così: Petito riuscì con un filo di voce a terminare il terzo atto. Il sipario si chiuse e a fatica l’attore raggiunse una sedia in quinta sulla quale si accasciò. Sì sfilò la maschera nera e un attimo dopo crollò a terra. Scrive Scarpetta: «E mentre tutti i comici del San Carlino accorrevano intorno a lui, sua sorella Adelaide proruppe in un grido disperato: “È muorto Totonno”». Al di là del sipario gli spettatori, in attesa del quarto atto, concitatamente compresero la tragica notizia. Il corpo senza vita di Antonio Petito, con la maschera poggiata sul viso, fu adagiato su un materasso e portato al centro della ribalta. Il sipario si riaprì, per l’ultimo saluto al più grande dei Pulcinella. 

Martone rende un rispettoso e doveroso omaggio alla maschera di Petito riproponendo la scena dell’attore morto adagiato in ribalta. È forse l’attimo più toccante e significativo del film, durante il quale, in un momento in cui si tirano le somme di una lunga carriera, la coscienza di Scarpetta gli suggerisce che potrebbe essere stato lui ad aver ucciso Pulcinella, e quindi di aver affossato il teatro popolare napoletano. Dopo la morte del maestro, infatti, la più famosa maschera partenopea, cedette lentamente il posto a un altro personaggio, un tipo assai curioso, un fessacchiotto allampanato, un po’ rincitrullito, insomma uno che di Pulcinella poteva essere il fratello o il cugino, ma in abiti borghesi. Era Felice Sciosciammocca, l’erede di Pulcinella, il personaggio inventato da Eduardo Scarpetta.

Tuttavia questa scena, senza alcun sostegno storico, senza alcun accenno alla nascita di don Feliciello, senza alcuna spiegazione che chiarifichi il motivo per cui Scarpetta sentì la necessità di togliere a Pulcinella il suo abito bianco e soprattutto la maschera, diventa comprensibile soltanto a coloro che conoscono la storia dell’attore e commediografo che, famoso che sia, non è certo attore di cui si parli quotidianamente. E allora chi ignora il lato artistico di Eduardo Scarpetta cosa dirà dopo aver visto il film di Martone? Chi è stato incuriosito dal richiamo pubblicitario della produzione cinematografica, cosa ha appreso di costui? Che Scarpetta è un fetentone, molto più fetentone di Pulcinella; che è uno che andava a letto con la moglie, con la sorella della moglie, con la cameriera, con la governante, con la vicina di casa e con la comparsa appena scritturata; insomma, uno sciampagnone senza né arte né parte che usava il palcoscenico per dar sfogo alle sue primitive polluzioni. Eh no, caro Martone, non è così! Scarpetta non è questo, e tu lo sai bene.

Se il film voleva essere un omaggio a cotanto attore, avrebbe dovuto contenere qualcosa che facesse vedere come e cosa avesse prodotto il suo genio. Non basta riproporre la scena, vista e rivista in tv, con Totò che in piedi sul tavolo, s’infila gli spaghetti in tasca. Quel pezzo, oggi, per l’opinione pubblica, appartiene più a Totò che a Scarpetta, più all’interprete che all’ideatore, il quale non merita di essere confuso nemmeno con il principe De Curtis. Trascrivo qui di seguito Salvatore Di Giacomo, e non a caso (ché nel film anche la sua figura è stata ben travisata!): «… ecco infine Scarpetta che adatta alla modernità la sua linea e le sue trovate ridicole, non mirando ad altro se non che a risollevare lo spirito del suo pubblico e a lasciar dimenticare a quest’ultimo tutte le noie della vita…». Salvatore Di Giacomo, poeta stimato da Croce, suo amico e collaboratore sodale di storia patria, avrebbe mai potuto sentirsi in tal competizione con Scarpetta così come ci è stato presentato nel film tanto da malignare alle sue spalle con Libero Bovio, Ferdinando Russo e con lo stesso Ernesto Murolo (altro figlio naturale dell’attore)? Se così fosse, Croce, o non si sarebbe mai esposto in prima persona; o avrebbe osato un’ardita tirata d’orecchie ai suoi discepoli.

Don Benedetto non era personalità da far passare sotto silenzio una simile e sciocca presa di posizione nei confronti di un artista degno della sua attenzione. Leggete qui come redarguisce pubblicamente proprio il Di Giacomo in occasione di una pubblicazione nata senza il suo consenso: «Perché mai quel finissimo artista ch’è Salvatore Di Giacomo si è dato a comporre libri di storia, irti di citazioni e di documenti? E come gli è ora saltato in mente di scegliere una materia [la prostituzione in Napoli, ndr], della quale può sembrare imbarazzante, in pubblico, perfino ripetere il nome?». In breve, Croce rimprovera Di Giacomo per aver pubblicato uno studio erudito su una materia fin troppo realistica, eseguito con il suo solito «temperamento lirico e di sognatore», che lo ha spinto ad appagare la sua fantasia più che la curiosità storica. Insomma, lo ha ben servito per quanto riguarda le cose concrete della vita!

Ora, è vero che Di Giacomo fu invitato da alcuni poeti e scrittori (Bracco e Scalinger ne furono i promotori) a promuovere in tribunale l’arte di D’Annunzio contro quella di Scarpetta per sostenere il plagio della «Figlia di Iorio» del quale il napoletano era accusato, ma è pur vero che trattò l’argomento con molta delicatezza, proprio con quel suo «temperamento lirico e di sognatore», tanto che a don Benedetto bastò davvero poco per scioglierle come polvere d’Idrolitina nell’acqua. Nella sequenza che vede Scarpetta in visita al Croce sarebbe dovuta venir fuori l’attestata grandezza artistica di Scarpetta; un particolare che, purtroppo, viene offuscato da una inspiegabile commozione del protagonista troppo impegnato a esibire imbarazzi e timidezze al cospetto dello storico. Scarpetta non avrebbe mai pianto di fronte a Croce che già conosceva: qualche anno prima, nel 1899, per esempio, gli chiese personalmente «due parole di prefazione» al volume delle sue memorie. E Croce non si tirò indietro. Il filosofo stimava il teatro di Scarpetta, tanto da scrivere: «L’importanza che Napoli non ha avuta nel teatro letterario, l’ha avuta invece grandissima nella commedia popolare e dialettale…»; considerando per «teatro letterario» quello del Di Giacomo e soprattutto quello di Roberto Bracco.

E naturalmente stimava la poesia di D’Annunzio. Qualche anno prima prese le difese del Vate, proprio come poi prese quelle di Scarpetta: a seconda delle accuse rivolte all’uno o all’altro. Croce sosteneva che molti artisti di genio erano facilmente vittime di antipatie da parte di chi era afflitto da «angustia mentale, … una ripugnanza verso la vita e verso la pienezza e varietà della vita». Costoro – spiega Croce – da sempre, provano un fastidioso ribrezzo per tutto ciò che intorno a loro cambia senza la loro partecipazione. Non la chiama propriamente invidia, ma si ferma a constatare che si tratta comunque di una «forma di malattia» di cui prima D’Annunzio e poi Scarpetta furono nobili bersagli prescelti.

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Qui rido io, un film di Mario Martone del 2021; con Toni Servillo (Eduardo Scarpetta), Maria Nazionale (Rosa De Filippo), Cristiana Dell’Anna (Luisa De Filippo), Eduardo Scarpetta (Vincenzo Scarpetta), Roberto De Francesco (Salvatore Di Giacomo), Lino Musella (Benedetto Croce), Paolo Pierobon (Gabriele D’Annunzio), Giovanni Mauriello (Mirone), Chiara Baffi (Nennella De Filippo), Roberto Caccioppoli (Domenico “Mimì” Scarpetta), Gigio Morra (presidente del tribunale), Gianfelice Imparato (Gennaro Pantalena), Iaia Forte (Rosa Gagliardi), Greta Esposito (Maria Scarpetta), Alessandro Manna (Eduardo De Filippo), Marzia Onorato (Titina De Filippo), Salvatore Battista (Peppino De Filippo), Paolo Aguzzi (Ernesto Murolo), Tommaso Bianco (zio Pasqualino), Benedetto Casillo (Luca), Giovanni Ludeno (Ferdinando Russo), Giuseppe Brunetti (Libero Bovio), Nello Mascia (giudice istruttore). Soggetto e sceneggiatura, Mario Martone, Ippolita Di Majo. Costumi, Ursula Patzak. Regia di Mario Martone. RaiUno, il 21 maggio 2023 

Fausto Nicolini

Estratto dell'articolo di Giordano Bruno Guerri per “La Stampa – TuttoLibri” il 28 maggio 2023. 

(...)

È un libro inconsueto in tutto, per me, fin dall'origine. Di solito scelgo io l'argomento, invece stavolta l'idea è partita dalla Rizzoli: Massimo Turchetta e Andrea Cane, vecchi amici da quando lavoravamo tutti alla Mondadori. Non c'è stato bisogno di spiegarmi che razza di libro avessero in mente, avevo già in casa i primi due della collana, Berlinguer di Fabrizio Rondolino e Montanelli di Marco Travaglio. Mi erano piaciuti subito quei volumi, da lettore e da ex editore: grande formato, molte foto, caratteri ampi e leggibilissimi, strilli e sommari, come si trattasse di un lungo articolo; la carta emana - all'acquisto e per giorni - un delicato profumo di rose nel camerino di Marilyn Monroe.

Turchetta e Cane volevano un testo su d'Annunzio, e qui sono stato sul punto di dire di no: per ricompensa di averlo resuscitato, quell'uomo mi sta mangiando vivo. Se fino a qualche anno fa ero il signor Guerri, adesso per molti sono «quello di d'Annunzio» o «quello del Vittoriale». E sì che faccio anche altre cose, scrivo altri libri. Per esempio, è enorme la soddisfazione che mi ha dato nel 2022 il mio secondo saggio su Ernesto Buonaiuti. Eretico o santo. Il prete scomunicato che ispira papa Francesco (La Nave di Teseo). Il primo, nel 2001, si intitolava Ernesto Buonaiuti. Eretico o profeta (Mondadori), e risvegliò l'attenzione su quell'uomo martirizzato dalla Chiesa e dallo Stato. Finalmente, il 2 settembre 2022, l'Avvenire (dico l'Avvenire) è uscito con una pagina per riconoscere che, sì, era un profeta, la Chiesa sta andando nella direzione da lui indicata più di un secolo fa. Per il riconoscimento della santità, bisognerà aspettare ancora, ma ci si arriverà.

Insomma, non avevo voglia di scrivere altro su d'Annunzio dopo L'amante guerriero, La mia vita carnale, Disobbedisco (Mondadori). Poi, l'illuminazione: occorreva un ultimo saggio breve - 450.000 battute - e di sintesi, corredato da fotografie che meglio ancora del testo illustrassero la sua vita inimitabile, o meglio la sua vita come opera d'arte. Occorreva dare il colpo di grazia al cumulo di pregiudizi che si è accumulato su di lui nel corso dei decenni. Incredibilmente si è conservata intatta la condanna che la borghesia piccina e provinciale di fine Ottocento diffuse a piene mani per la sua libertà sessuale e l'amore per il lusso, come se noi non rivendicassimo, orgogliosamente, la stessa libertà di sesso e di acquisti. 

Altro scandalo, il suo passare dalla Destra alla Sinistra, nel 1898, per opporsi alle leggi liberticide che il governo stava per varare, dopo aver fatto sparare a cannonate sui manifestanti che protestavano per l'aumento del prezzo del pane. Come se noi non pretendessimo la libertà di cambiare idea politica.

Infine, l'enorme equivoco sul suo essere fascista, perché accettò da Mussolini il denaro per edificare il Vittoriale degli Italiani. Ma d'Annunzio aveva donato il Vittoriale allo Stato, che lo dichiarò monumento nazionale. Lo Stato dunque investiva su se stesso, e fu uno dei migliori affari che capo del governo abbia fatto. In cambio di una modesta somma di circa 10 milioni di euro, oggi abbiamo il parco più bello d'Italia (premio nel 2012), 3000 metri quadrati coperti contenenti 20.000 meraviglie e 33.000 volumi preziosi, 3 milioni di pezzi d'archivio e un museo che è insieme motore di cultura e di economia. 

Pur non essendo quel che oggi si definisce «antifascista», d'Annunzio parlava di «camicie sordide», non nere, di «soperchieria di ossa e muscoli». E risolutiva è la sua opposizione all'alleanza con Hitler, «ridicolo imbianchino coi baffi alla Charlot». Ebbe la fortuna di morire nel marzo 1938, prima che accadesse il peggio, e forse non fu un caso: la bella e giovane altoatesina - poi ricomparsa a Berlino durante la guerra - potrebbe essergli stata messa accanto per finirlo, a 75 anni, con un veleno o con il sesso e la cocaina.

Accettai dunque di scrivere il libro, e velocemente. Avevo tre mesi per la consegna del testo, e ci ho messo meno. Di solito in una prima stesura riesco a stendere da due a cinque pagine al giorno, stavolta sono arrivato fino a venti. Le parole venivano una dietro l'altra, senza inciampi. Non c'è stato bisogno di scaletta, la storia scorreva con naturalezza, anche saltando da un'epoca all'altra, da un tema all'altro, con il gusto - senza pudore - di intromettermi per raccontare i miei rapporti con lui e il Vittoriale. Era il frutto di una lunga conoscenza, come quelle vecchie coppie che sanno bene i discorsi dell'altro, e potrebbero concluderli a metà frase.

Estratto dell'articolo di Alessandra Necci per “Il Messaggero” il 3 maggio 2023.

«Con D'Annunzio ci parlo ogni giorno, e non sono matto. È che mi occupo della sua incarnazione di pietra. Tecnicamente sono la sua vedova». Così Giordano Bruno Guerri descrive il rapporto, il dialogo con il Vate. Che non è fine a sé stesso, bensì ha uno scopo preciso. «Adattare il presente alle sue volontà». 

Ed è con queste dichiarazioni di intenti che si apre il libro D'Annunzio. La vita come opera d'arte, edito da Rizzoli. 

[…] Potrebbe sembrare una narrazione volutamente "letteraria", quasi onirica, se non fosse che a tenerne le fila, a fare da sfondo e da mastice sta appunto un luogo solido, concreto: il Vittoriale, «libro di pietre vive». L'insieme di edifici, strade, giardini e altro ancora, che fu costruito a Gardone Riviera nel 1921.

[…] Giordano Bruno Guerri - scrittore, autore di diversi profili storici, direttore di giornali, presidente della Fondazione il Vittoriale degli Italiani - […] si muove infatti nelle medesime stanze che aveva abitato D'Annunzio. Può vedere, in lontananza, quel bel lago di Garda che aveva visto il poeta abruzzese. 

Camminando per il Vittoriale, attraverso gli infiniti oggetti che lo gremiscono, se ne sente vivida e persino incombente la presenza. 

[…] 

Emerge il Gabriele istrionico e quello libertino, il poeta e il padre, il politico e il rivoluzionario, l'ecologista e il vanesio seduttore, il capitano di ventura e l'uomo inseguito dai creditori. Il punto di partenza è quel voler «fare della propria vita un'opera d'arte» che D'Annunzio attribuisce a Andrea Sperelli ne Il Piacere, ma che riassume lui stesso.

Da lì la biografia si snoda in capitoli cronologicamente ordinati, scanditi da citazioni e da definizioni, inframezzati da fotografie. Foto di familiari e amici, di luoghi, cani e cavalli, di auto e aerei, di profumi a cui il Vate fa da testimonial, di manoscritti e lettere, di un guardaroba quasi femmineo nella sua vastità. E foto delle amanti che hanno costellato il cammino di un uomo deciso a sedurre non solo loro, bensì la Storia. 

Fra cui spicca Eleonora Duse, la Ghisola «che non meritai», come si duole con qualche compiacimento lui alla sua morte. E anche donne meno note. Quasi sempre destinate a triste vecchiaia. Ci sono i grandi accadimenti, fra cui l'impresa di Fiume, e i personaggi come Guglielmo Marconi, «mago degli spazi», dal cui yacht Elettra D'Annunzio lanciò un messaggio al mondo. 

Si esamina il difficile e talvolta conflittuale rapporto con Mussolini - «Il Vate non fu mai fascista» - e l'avversione dichiarata per Hitler, definito da D'Annunzio «Attila imbianchino», «ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot».

Ma c'è anche l'air du temps, le smanie interventiste all'alba del Novecento, il timore della pace e dell'inazione, il rapporto con i futuristi, la passione per la velocità, le moltissime opere letterarie e le loro fortune. E il declino, poi la fine. «Tutto è presente. Il passato è presente. Il futuro è presente», aveva dichiarato il poeta abruzzese. Che, in questa intuizione, supera il proprio tempo e diviene nostro contemporaneo.

Un genio così avanti sui tempi che resta ancora da scoprire. Per anni Gabriele D'Annunzio è stato considerato contiguo al fascismo: nel suo nuovo saggio Giordano Bruno Guerri dimostra invece che ne era ben lontano. Alessandro Gnocchi il 22 Aprile 2023 su Il Giornale 

Sarebbe ora di dare una rinfrescata all'immagine scolastica di Gabriele d'Annunzio. Riassumiamo: grande poeta ma vacuo, grande narratore ma derivativo, grande personaggio pubblico ma contiguo al fascismo. Per quanto sia possibile cadere in qualche equivoco, perché d'Annunzio è larger than life, gli studi dicono ormai cose completamente diverse. Eugenio Montale non apprezzava l'abruzzese ma ammetteva che non si poteva fare poesia nel Novecento senza attraversare l'opera di d'Annunzio. Sul narratore, c'è davvero molto da aggiungere, e proveremo qui ad accennare cosa. Sulle posizioni politiche, il recente centenario della impresa di Fiume non lascia spazio a dubbi. D'Annunzio non aveva simpatia per il fascismo e per Benito Mussolini. La Carta del Carnaro, il suo testamento politico, non ha nulla a che fare con le leggi fascistissime che diedero vita al regime. La Carta del Carnaro è una costituzione libertaria e avanzata, ancora oggi suona moderna e coraggiosa. Lo stesso richiamo al corporativismo ha origini e finalità diverse da quello in camicia nera: era un richiamo ai liberi comuni in una città-stato, Fiume, che lottava per non essere inghiottita dalla Jugoslavia, visto che l'Italia non sembrava in procinto di annetterla. In questa stessa pagina, potete trovare una testimonianza dei rapporti tra Gabriele d'Annunzio e Benito Mussolini. Il primo inviò, da Fiume, una lettera di insulti. Il secondo, genio del giornalismo, con qualche abile taglio riuscì a pubblicarla sul Popolo d'Italia, facendola passare come il messaggio di un amico. Quando i legionari fiumani tornarono in Italia, d'Annunzio disse loro di non mescolarsi alle camicie nere.

Molti faranno il contrario, delusi dall'attendismo del vate e ignorandone gli ordini. È vero piuttosto che Mussolini saccheggiò i metodi della propaganda dannunziana (altro tema scavato a fondo in questi anni). Il furto più importante, oltre alle parole d'ordine, è il discorso dal balcone, un classico per d'Annunzio. Il vate si chiuse nel Vittoriale, capì di aver perso l'occasione, convisse in silenzio col Regime. Mussolini continuava a temerlo come rivale. Quando l'alleanza con la Germania si fece stretta, ecco saltare fuori d'Annunzio, nettamente contrario al legame con Adolf Hitler e il nazismo. Cosa avrebbe detto il vate nel previsto discorso all'Accademia d'Italia, principale istituzione culturale del regime? D'Annunzio ne aveva accettato la presidenza nel 1937 ma non aveva mai presenziato a una riunione. Poi aveva deciso di parlare, alla fine del 1938. Il regime temeva che avrebbe detto qualcosa di inaccettabile nella nuova situazione diplomatica. La morte di Gabriele d'Annunzio, il 1° marzo 1938, a qualcuno probabilmente fece tirare un respiro di sollievo.

In D'Annunzio. La vita come opera d'arte (Rizzoli, pagg. 290, euro 27), Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale, offre una avvincente biografia del poeta-soldato, estremamente aggiornata e arricchita da un importante apparato fotografico: sono ancora migliaia le lastre che attendono di essere stampate. Il Vittoriale sta provvedendo, e nel volume potrete vedere un ricco assaggio di questo lavoro.

La morte dunque. Guerri ritiene, come ha anche scritto sul Giornale, che qualche indagine ulteriore andrebbe condotta sulla figura dell'ultima cameriera del Vittoriale, una altoatesina di Bolzano, chiamata Emma. La donna prese il posto di amante in carica e potrebbe aver avuto un ruolo da chiarire nella morte del poeta. Overdose di cocaina? Avvelenamento? Si dovrebbero riesumare i resti e condurre qualche analisi approfondita. Oppure è meglio lasciar riposare il Vate. Fatto sta che Emma, dopo un periodo al servizio di Costanzo Ciano, filo-tedesco, si trasferì in Germania. Una leggenda vuole che sia entrata al servizio di Ribbentrop, futuro ministro degli Esteri del nazismo.

D'Annunzio è sempre pieno di sorprese. Eccone una. Guerri: «C'è, in un cassetto della camera da letto al Vittoriale, una scatoletta che la prima volta aprii con raccapriccio. È piena di riccioli di pelo pubico, di svariati colori e forme. Ma guarda che maniaco, pensai. Poi un giorno incontrai uno storico della transumanza - esistono - e mi spiegò che i pastori abruzzesi (Ah perché non son io co' miei pastori?) prima di partire per la lunga migrazione tagliavano un ciuffetto alla moglie e lo portavano sul cuore, segno d'intimo amore, non di libido».

Ed ecco che un aneddoto spalanca un mondo da indagare, sul quale esistono ancora pochi e pionieristici studi, ad esempio I sacrifici umani. D'Annunzio antropologo e rurale (Liguori editore, 1991) di Rosamaria LaValva. D'Annunzio conosceva personalmente Antonio De Nino, archeologo abruzzese. Affascinato dal folclore, conosciuto nel corso degli scavi, De Nino getterà le basi della antropologia italiana. Il poeta e lo studioso viaggeranno, nel 1896, tra Scanno, Sulmona e Anversa degli Abruzzi. D'Annunzio raccoglierà molto materiale, poi disseminato in opere diverse. De Nino pubblicherà studi su usi e costumi del folclore abruzzese e resterà in contatto con d'Annunzio al quale suggerirà numerosi spunti. L'archeologo studierà riti sacri, favole, rimedi medici e la vita del santone Oreste De Medicis, riecheggiata dall'amico scrittore nel romanzo Il trionfo della morte (1894).

Il poeta, nelle vecchie favole tradizionali, coglieva risvolti apertamente simbolici e intuiva la presenza di uno spazio oscuro dove si nascondevano i fantasmi della violenza e della crudeltà. Vanno rilette alla luce di queste conoscenze opere come Le novelle della Pescara, antologia di racconti che sfoggia gioielli neri come Il cerusico del mare o La morte del duca d'Ofena, chiaramente giocati sul ruolo del sacrificio (umano) nelle società ancestrali poi trasfigurato nei riti della modernità.

Nell'Archivio del Vittoriale si conservano 34 pagine di appunti datati «1906» dall'autore. Il titolo è I Sacrifizii Umani. Lo scrittore annota i testi sacri in cerca degli episodi in cui appare un sacrificio. È possibile che d'Annunzio avesse svolto il lavoro di documentazione in vista della immaginata biografia della più grande tra le vittime volontarie: Gesù. Non ne farà niente. Intanto, però, d'Annunzio stesso ci ha fornito le prove di un interesse per niente passeggero.

Non sarebbe sbagliato, anzi: andrebbe indagato, quanto la consapevolezza di certi meccanismi abbia influenzato anche l'attività da oratore e da politico. D'Annunzio è il «mago» che incanta la folla dal balcone ma è anche il «sacerdote» consapevole di quanto sia importante suggestionare la folla con la ritualità, leggera o solenne, dei festeggiamenti pubblici, che infatti erano centrali nella vita di Fiume occupata.

Estratto dell'articolo di Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 24 aprile 2023. 

Sarebbe ora di dare una rinfrescata all’immagine scolastica di Gabriele d’Annunzio.

Riassumiamo: grande poeta ma vacuo, grande narratore ma derivativo, grande personaggio pubblico ma contiguo al fascismo. Per quanto sia possibile cadere in qualche equivoco, perché d’Annunzio è larger than life, gli studi dicono ormai cose completamente diverse. Eugenio Montale non apprezzava l’abruzzese ma ammetteva che non si poteva fare poesia nel Novecento senza “attraversare” l’opera di d’Annunzio. 

(...)

Quando l’alleanza con la Germania si fece stretta, ecco saltare fuori d’Annunzio, nettamente contrario al legame con Adolf Hitler e il nazismo. Cosa avrebbe detto il vate nel previsto discorso all’Accademia d’Italia, principale istituzione culturale del regime? D’Annunzio ne aveva accettato la presidenza nel 1937 ma non aveva mai presenziato a una riunione. Poi aveva deciso di parlare, alla fine del 1938. Il regime temeva che avrebbe detto qualcosa di inaccettabile nella nuova situazione diplomatica. La morte di Gabriele d’Annunzio, il 1° marzo 1938, a qualcuno probabilmente fece tirare un respiro di sollievo.

In D’Annunzio. La vita come opera d’arte (Rizzoli, pagg. 290, euro 27), Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale, offre una avvincente biografia del poeta-soldato, estremamente aggiornata e arricchita da un importante apparato fotografico: sono ancora migliaia le lastre che attendono di essere stampate. Il Vittoriale sta provvedendo, e nel volume potrete vedere un ricco assaggio di questo lavoro. 

La morte dunque. Guerri ritiene, come ha anche scritto sul Giornale, che qualche indagine ulteriore andrebbe condotta sulla figura dell’ultima cameriera del Vittoriale, una altoatesina di Bolzano, chiamata Emma. La donna prese il posto di amante in carica e potrebbe aver avuto un ruolo da chiarire nella morte del poeta. Overdose di cocaina? Avvelenamento? Si dovrebbero riesumare i resti e condurre qualche analisi approfondita. Oppure è meglio lasciar riposare il Vate. Fatto sta che Emma, dopo un periodo al servizio di Costanzo Ciano, filo-tedesco, si trasferì in Germania. Una leggenda vuole che sia entrata al servizio di Ribbentrop, futuro ministro degli Esteri del nazismo. 

D’Annunzio è sempre pieno di sorprese. Eccone una. Guerri: «C’è, in un cassetto della camera da letto al Vittoriale, una scatoletta che la prima volta aprii con raccapriccio. È piena di riccioli di pelo pubico, di svariati colori e forme. “Ma guarda che maniaco”, pensai. Poi un giorno incontrai uno storico della transumanza - esistono - e mi spiegò che i pastori abruzzesi (Ah perché non son io co’ miei pastori?) prima di partire per la lunga migrazione tagliavano un ciuffetto alla moglie e lo portavano sul cuore, segno d’intimo amore, non di libido». 

Ed ecco che un aneddoto spalanca un mondo da indagare, sul quale esistono ancora pochi e pionieristici studi, ad esempio I sacrifici umani. 

D’Annunzio conosceva personalmente Antonio De Nino, archeologo abruzzese. Affascinato dal folclore, conosciuto nel corso degli scavi, De Nino getterà le basi della antropologia italiana. Il poeta e lo studioso viaggeranno, nel 1896, tra Scanno, Sulmona e Anversa degli Abruzzi. D’Annunzio raccoglierà molto materiale, poi disseminato in opere diverse. De Nino pubblicherà studi su usi e costumi del folclore abruzzese e resterà in contatto con d’Annunzio al quale suggerirà numerosi spunti. L’archeologo studierà riti sacri, favole, rimedi medici e la vita del santone Oreste De Medicis, riecheggiata dall’amico scrittore nel romanzo Il trionfo della morte (1894).

Il poeta, nelle vecchie favole tradizionali, coglieva risvolti apertamente simbolici e intuiva la presenza di uno spazio oscuro dove si nascondevano i fantasmi della violenza e della crudeltà. Vanno rilette alla luce di queste conoscenze opere come Le novelle della Pescara, antologia di racconti che sfoggia gioielli neri come Il cerusico del mare o La morte del duca d’Ofena, chiaramente giocati sul ruolo del sacrificio (umano) nelle società ancestrali poi trasfigurato nei riti della modernità.

Nell’Archivio del Vittoriale si conservano 34 pagine di appunti datati «1906» dall’autore. Il titolo è I Sacrifizii Umani. Lo scrittore annota i testi sacri in cerca degli episodi in cui appare un sacrificio. È possibile che d’Annunzio avesse svolto il lavoro di documentazione in vista della immaginata biografia della più grande tra le vittime volontarie: Gesù. Non ne farà niente. Intanto, però, d’Annunzio stesso ci ha fornito le prove di un interesse per niente passeggero. Non sarebbe sbagliato, anzi: andrebbe indagato, quanto la consapevolezza di certi meccanismi abbia influenzato anche l’attività da oratore e da politico. 

D’Annunzio è il «mago» che incanta la folla dal balcone ma è anche il «sacerdote» consapevole di quanto sia importante suggestionare la folla con la ritualità, leggera o solenne, dei festeggiamenti pubblici, che infatti erano centrali nella vita di Fiume occupata.

D'Annunzio avvelenato perché odiava Hitler. Una cameriera tedesca avrebbe "finito" il Vate a colpi di sesso, cocaina o altra sostanza tossica. Giordano Bruno Guerri su Il Giornale il 14 Aprile 2023

Nel 1935 arrivò al Vittoriale una nuova cameriera. Era altoatesina di Bolzano, si chiamava Emma, poi soprannominata Emy o Emmy, ed era stata raccomandata dalla moglie di d'Annunzio. Essendo piuttosto giovane e bella, subito entrò nelle grazie di Gabriele d'Annunzio e riuscì a spodestare le altre due amanti, la pianista Luisa Baccara e la governante Amélie Mazoyer, entrambe gelosissime. Emy era sempre con il comandante, strinsero un rapporto molto stretto che diventò quasi subito fisico.

La sua presenza però pone qualche domanda. D'Annunzio non aveva simpatia per il fascismo e aveva una ostilità dichiarata verso il nazismo. La signora era nata in Alto Adige quando la regione era ancora austroungarica. Si sospetta che sia stata introdotta al Vittoriale per sorvegliare il vate. Mano a mano che l'alleanza con il nazismo si faceva più stretta, d'Annunzio infatti manifestava un dissenso sempre più aperto. Dopo la morte di Guglielmo Marconi, il comandante venne nominato presidente dell'Accademia d'Italia, la più importante istituzione culturale. Nel novembre del 1938 aveva già accettato di tenere una prolusione davanti alle massime cariche dello Stato, Benito Mussolini incluso. Nel regime, c'era il timore che d'Annunzio facesse un discorso contro Adolf Hitler o comunque dai toni inaccettabili. Nel 1937, quando Mussolini era tornato dalla visita in Germania, aveva incontrato d'Annunzio alla stazione di Verona. Il vate disse al duce che l'amicizia con Hitler era deplorevole e sbagliata. Dal diario di Amélie Mazoyer risulta che Emy sfinisse d'Annunzio con il sesso e probabilmente con la cocaina, sostanza dalla quale Gabriele cercava di disintossicarsi. Era in un periodo di grande fragilità fisica. Il sospetto è che Emy l'abbia «finito» o con la cocaina o con l'avvelenamento. Il sospetto è reso più grave dal fatto che successivamente la donna andò al servizio di Costanzo Ciano, fedelissimo di Mussolini. Poi si trasferì a Berlino, prese la cittadinanza tedesca, e una leggenda vuole che andò al servizio di Ribbentrop. Ci sono anche altre teorie, naturalmente. Ad esempio, che il comandante si sia avvelenato. Sembra improbabile, d'Annunzio non era uomo da togliersi la vita, soprattutto in una stanza di servizio, avrebbe creato una circostanza spettacolare, per così dire. Sarebbe opportuno fare un esame sui resti di d'Annunzio. Decisione difficile da prendere: si tratta di aprire la bara e sottoporre i resti ad esami dai risultati comunque destinati a non essere sicuri al centro per cento. Ma è una idea da considerare e sulla quale chiederei un parere pubblico. Le prime persone a cui mi rivolgo, ovviamente, sono i discendenti, a partire da Federico d'Annunzio, principe di Montenevoso.

Resta comunque il fatto che d'Annunzio, come pochi altri protagonisti del Novecento, calamita l'attenzione del pubblico. Di recente, nel corso di un dibattito all'archivio di Stato di Pisa, Eike Schmidt, direttore della Galleria degli Uffizi di Firenze, ha raccontato l'iniziativa degli Uffizi diffusi, un modo di raggiungere altre città. Io ho invece ricordato il legame di d'Annunzio con Firenze e con gli Uffizi in particolare. Così è nata la proposta di estendere gli Uffizi diffusi al Vittoriale. Proposta subito accettata con entusiasmo da Schmidt. Avremo dunque gli Uffizi in Lombardia...

Estratto dell’articolo di Francesco Specchia per Libero Quotidiano il 14 aprile 2023.

(...)

Giordano Bruno Guerri, storico lieve e tignoso, nonché presidente del Vittoriale degl’italiani tra le pagine della sua prossima biografia di Gabriele D’Annunzio - La vita come un’opera d’arte (Rizzoli, pp 300, euro 27) rende pubblico un sospetto atavico: il Vate fu avvelenato, probabilmente dal regime fascista.

 Caro Guerri, quest’idea della governante-infermiera Emy Heufler che avvelenò D’Annunzio, è una teoria che gira da qualche tempo.Tu ci credi?

«Si tratta di un cold case. Se n’era parlato solo a livello complottistico, ma studiando sempre più le carte e le circostanze storiche, mi sto rendendo conto che l’abbiano davvero ucciso. Avvelenato, ma è solo una delle ipotesi. Oppure potrebbe essere stato spinto alla morte da una serie di eccessi costruiti ad arte. Spingere un settantecinquenne già debilitato a esagerare col sesso, ma soprattutto con la cocaina, o con un mix micidiale di sesso e cocaina, equivale a ucciderlo».

La cocaina soprattutto a Fiume – perdoni il bisticcio - scorreva a fiumi. Ma se D’Annunzio ne avesse abusato non avrebbe influito, a lungo andare, sulla sua produzione letteraria?

«D’Annunzio si aiutava nei rapporti sessuali con la coca, e ne era effettivamente dipendente. Questo è un dato storico. E io dico sempre che è una fortuna che il Vate abbia conosciuto la droga tardi, e che abbia preso il vizio quando aveva già prodotto tutto il meglio artistico. D’altronde la coca, allora non era vietata, la si dava agli aviatori per tirarsi su, come agli alpini si somministrava il grappino. D’Annunzio voleva disintossicarsene, ma mai ci riuscì».

 Tornando alla presunta assassina, che genere donna era la Heufler?

«Emma/Emy, era un’altoatesina discreta di madrelingua tedesca. Era  entrata in casa introdotta dalla moglie stessa di D’Annunzio che l’aveva raccomandata. Era giovane, bella, e D’Annunzio ovviamente cadde volontariamente nella rete. E lei cominciò a fargli terra bruciata, plagiandolo, prendendone in mano la vita, allontanandolo perfino dagli affetti. L’aveva isolato perfino dalla stessa Luisa Baccara e, alla fine, anche da Amélie Mazoyer la “bruttina assai” che divenne l’amante-governante di D’Annunzio più temuta del Vittoriale».

Una badante decisionista che ne sostituisce un’altra. Mi ricorda qualcosa...

«Emma era una badante che, diciamo, fornisce servizi molto particolari. Prende in pugno la situazione, diventa la partner di giochi erotici del poeta, e di fatto accompagna D’Annunzio nel suo declino, fino alla morte. Potrebbe averlo portato all’ictus».

 (...)

 E perché affermi che il committente sarebbe stato il Duce in ascesa? Il quale Duce, ti ricordo, di D’Annunzio diceva: «È come un dente cariato: o lo ricopri d’oro o lo estirpi».

«E lo estirpò. Guarda, D’Annunzio era ferocemente antifascista, e soprattutto antinazista. Non è un caso che la sua ultima uscita pubblica è nel 1937 alla stazione di Verona, quando va incontro a Mussolini rientrato dal viaggio in Germania con Hitler. E cerca di convincerlo a lasciar perdere il Führer che lui chiamava l’“Attila imbianchino”. La cosa era risaputa, qualcuno dell’entourage potrebbe aver deciso di toglierlo di mezzo».

 In effetti, per fermare la fama eroica di D’Annunzio il regime difficilmente poteva prenderlo di petto. Ma c’era un momento particolare in cui potesse essere fatto fuori senza dare troppo nell’occhio?

«Tieni conto che nel 1937 D’Annunzio era diventato, dopo Marconi, presidente dell’Accademia d’Italia. E, agli inizi del ’38 – proprio nel marzo del ’38 sarebbero entrate in vigore le annunciate leggi razziali - il Vate avrebbe dovuto tenere a Roma un discorso ecumenico davanti a tutte le autorità, la stampa, il governo. E non è escluso che il regime temesse che, appunto, le sparasse grosse contro Mussolini. Immaginati il casino...».

Come fare per risolvere il “cold case” sull’avvelenamento di D’Annunzio, il caso freddo che dovrebbe essere riaperto?

«Un esame del dna dei resti sarebbe utile per scoprire le cause della morte, e risolverebbe un giallo. Per riesumare la salma occorre innanzitutto il permesso degli eredi; lo chiederò al pronipote Federico D’Annunzio che già collabora col Vittoriale». 

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Anticipazione da “Oggi” il 13 aprile 2023.

Giordano Bruno Guerri, storico e da presidente della casa museo del Vittoriale di Gabriele d’Annunzio, in un’intervista sul settimanale “Oggi” da oggi in edicola dice: «Più vado avanti, più mi convinco che d’Annunzio sia stato avvelenato».

 La diagnosi di ictus, pronunciata il 1° marzo 1938, davanti al corpo di d’Annunzio, accasciato senza vita al tavolo da lavoro, secondo lo storico avrebbe meritato e meriterebbe qualche approfondimento in più: «Dovremmo riesumare la salma e accertare la causa di morte, ma non credo me lo lascino fare».

Guerri, ora in libreria per Rizzoli con “D’Annunzio – La vita come opera d’arte”, ritiene che il Vate possa aver pagato con la morte l’opposizione all’alleanza con la Germania di Hitler da lui definito «l’Attila imbianchino»: «La sua ultima uscita pubblica è nel 1937 alla stazione di Verona, va incontro a Mussolini che rientra da un viaggio in Germania e cerca di convincerlo a lasciar perdere il Fuhrer. La cosa era risaputa e qualcuno potrebbe aver deciso di tappargli la bocca».

Nell’intervista a “Oggi”, Guerri agita più di un sospetto attorno alla figura di una governante altoatesina, Emma, che nello stesso periodo «prende in pugno la situazione, diventa la partner di giochi erotici del poeta, e di fatto accompagna d’Annunzio nel suo declino, fino alla morte».

 L’avvelenamento è solo un’ipotesi. «L’ictus», aggiunge Guerri, «potrebbe essere stato causato da una serie di eccessi. Spingere un uomo anziano e debilitato a esagerare col sesso, ma soprattutto con la cocaina equivale a ucciderlo. La cosa strana è che nel 1941 la donna riapparirà non a Bolzano, la sua città, ma a Berlino».

Tener-a-mente. Liberiamo d’Annunzio dagli schemi ottusi, cercava la bellezza ovunque la trovasse. Francesco Lepore su L’Inkiesta il 20 Febbraio 2023.

Ricorre il centenario della donazione allo Stato italiano del Vittoriale, visitato ogni anno da trecentomila persone. Il presidente Giordano Bruno Guerri, al quarto mandato, racconta l’eredità di un poeta in rapporto conflittuale con Mussolini, né di destra né di sinistra, perché si sentiva superuomo

«Come la morte darà la mia salma all’Italia amata, così mi sia concesso preservare il meglio della mia vita in questa offerta all’Italia amata». Con queste parole Gabriele d’Annunzio chiudeva, il 22 dicembre 1923, l’atto di donazione «al popolo italiano» del Vittoriale, di cui ricorre quest’anno il primo centenario. Immerso in un parco, riconosciuto nel 2012 il «più bello d’Italia», scrigno di tre milioni di pezzi d’archivio, trentatremila volumi e ventimila oggetti d’arte raccolti dal poeta-scrittore, il complesso monumentale di Gardone Riviera è con i suoi quasi trecentomila visitatori l’anno la Casa Museo più visitata al mondo.

Il merito di tale primato va ascritto all’impegno e alla passione di Giordano Bruno Guerri, che è al quarto mandato quinquennale di presidente del Vittoriale degli Italiani. Sotto la sua guida il luogo dell’ultima dimora del Vate si è arricchito del Museo d’Annunzio Segreto e del Museo d’Annunzio Eroe, di opere d’artisti dal calibro di Ettore Greco, Mimmo Paladino, Arnaldo Pomodoro, Ugo Riva, Jacques Villeglé, Velasco Vitali, del festival annuale Tener-a-mente con l’esibizione di grandi nomi della musica, del teatro, del cinema, della danza quali, ad esempio, Eleonora Abbagnato, Giorgio Albertazzi, Burt Bacharach, Joan Baez, Franco Battiato, Jeff Beck, Stefano Bollani, Johnny Depp, Ludovico Einaudi, Ben Harper, Michael Kiwanuka, Diana Krall, Lou Reed, Patti Smith.

Di Vittoriale e di d’Annunzio, di cui Guerri è tra i maggiori esperti, abbiamo appunto parlato con lui nel corso d’una conversazione telefonica caratterizzata da competenza, stile vivace, battuta pronta. E casualmente intercorsa venerdì, 17 febbraio, giorno dell’uccisione di Giordano Bruno, in una sorta di ricorrenza onomastica per lo storico e intellettuale toscano. «Gli altri anni – così esordisce – ero sempre a Campo de’ Fiori a ricordarlo».

Cento anni dalla donazione del Vittoriale: perché un tale gesto e quale il significato ancor oggi attuale?

D’Annunzio intese fare questo dono al popolo italiano – lo Stato fu solo un mediatore –, per celebrare la sua vita e l’eroismo italiano durante la Prima guerra mondiale, offrendo al contempo un ricordo di bellezza, cultura, storia. È stato uno straordinario dono contrariamente alla leggenda d’un Mussolini che avrebbe in realtà coperto d’oro d’Annunzio. Magari i governi italiani facessero degli affari simili. Nel corso degli anni Mussolini ha infatti dato per l’edificazione del Vittoriale l’equivalente attuale di dieci milioni di euro.

Possono sembrano tanti ma non lo sono affatto, se si tiene in conto che oggi sul lago di Garda si compra con quella somma solo una bella villa con piscina. Noi qui abbiamo invece il valore inestimabile di dieci ettari di terreno preziosissimo, il parco più bello d’Italia, una mole immane di oggetti d’arte, libri – molti dei quali annotati dallo stesso poeta –, documenti d’archivio, compulsati annualmente da circa duecento studiosi. Oltre ai circa trecentomila visitatori paganti l’anno, manteniamo l’economia d’un intero paese dando lavoro non solo direttamente a quarantatré persone, ma anche a un centinaio di collaboratori e ai numerosi ristoranti, bar, alberghi della zona. Insomma, il dono di d’Annunzio è stato veramente tale.

A proposito di Mussolini quale furono esattamente la posizione e il giudizio del Vate sul capo del fascismo e sul fascismo stesso?

D’Annunzio sapeva che Mussolini l’aveva ingannato ai tempi di Fiume, promettendogli ogni possibile forma d’aiuto da parte delle sue camicie nere. È opportuno ricordare che ne aveva accettato la collaborazione nel settembre del ’19, quando cioè il fascismo era un movimento rivoluzionario orientato a sinistra – come dimostra il documento di nascita, Il programma di San Sepolcro, contro il Vaticano, la monarchia, il regio esercito, il capitale –, non già, dunque, quello che sarebbe poi diventato in seguito. Ora Mussolini non solo non diede alcun aiuto concreto all’impresa fiumana, ma fece addirittura la spia informando Giolitti, tramite il prefetto di Milano, delle intenzioni di d’Annunzio.

Il Vate questo lo sapeva bene: fece però l’errore, secondo me, di non denunciare pubblicamente la cosa, portandola nel cuore per tutta la vita con una vera e propria diffidenza verso Mussolini. Diffidenza non smentita affatto dalle sue lettere apparentemente cordiali, che in realtà, come ha rilevato Renzo De Felice nell’introduzione al Carteggio d’Annunzio-Mussolini, erano ironiche. Se nutriva una forma di rispetto verso il demiurgo che, conquistando l’Italia, aveva conseguito quanto a lui non era riuscito, mai l’ebbe e in nessun modo verso il fascismo, tanto da chiamare le camicie nere «le camicie sordide». Disapprovava tutto quello che il regime faceva, a eccezione dell’impresa d’Etiopia che da buon nazionalista apprezzò.

Molto s’è scritto e parlato del rapporto tra lo scrittore e le donne, poco o nulla, invece, di quello con maschi. Tenendo anche in conto di quanto successo nella Fiume del ‘19-‘20, si può ritenere che la visione dannunziana dei rapporti omosessuali fosse positiva e rientrasse nella sua concezione ludica, ispiratrice d’arte, catartica della sessualità in generale?

D’Annunzio aveva un assoluto rispetto dell’omosessualità. Forse sarebbe meglio dire che aveva un sano atteggiamento di non considerazione, ritenendo che ognuno potesse fare quanto vuole secondo il proprio orientamento e i propri desideri. Non a caso uno degli uomini a lui più caro era Guido Keller, di cui conosceva benissimo l’omosessualità. Orbene, non solo lo nominò capo della sua guardia, ma lo volle poi sepolto nel mausoleo del Vittoriale insieme ad altri nove amici ed eroi. Credo che, in ultima analisi, l’atteggiamento di d’Annunzio verso l’omosessualità era quello di non problema e, come tale, non bisognoso di discussione.

Fiume e la Reggenza italiana del Carnaro rimandano anche all’atteggiamento di apertura della Santa Sede, che nominò un amministratore apostolico nella persona di Celso Costantini. Quale fu la posizione di d’Annunzio verso Oltretevere e, più in generale, verso il cattolicesimo?

Va detto innanzitutto che lui aveva un grande rispetto del sacro. Ne è plastica riprova qui al Vittoriale la Sala delle Reliquie, dove ci sono reliquie, immagini, simboli delle diverse fedi: buddismo, induismo, cristianesimo, religione del coraggio… Il sacro nel cattolicesimo, e più in generale nel cristianesimo, ha tutto il suo amore e rispetto, anche perché hanno creato bellezza. D’Annunzio andava a cercare la bellezza ovunque la trovasse. E ne ha trovata molta nelle chiese e nelle varie manifestazioni artistiche del cristianesimo. Aveva poi un particolare attaccamento per la figura di Francesco d’Assisi, che era il suo santo prediletto.

Da qui le invettive contro la Chiesa cattolica, cui rimproverava atteggiamenti poco francescani. In questo mi piace accostarlo a Ernesto Buonaiuti, su cui ho scritto un libro recentemente riedito col titolo “Eretico o Santo”: pur non citandolo mai, credo che d’Annunzio si riconoscesse nelle posizioni buonaiutiane di ritorno della Chiesa al Vangelo. Era inoltre contrario al Concordato da un punto di vista dello Stato. Ciò detto, sbaglierebbe chi considerasse d’Annunzio un anticlericale, non essendoci mai state in lui manifestazioni d’anticlericalismo. Basti pensare che aveva addirittura corrispondenza con padre Pio e che qui al Vittoriale circolavano frati, sacerdoti, monsignori. Frequenti poi le sue visite al vicino convento dei cappuccini di Barbarano di Salò, che anzi finanziava con doni molto generosi.

Col suo linguaggio immaginifico d’Annunzio fu l’artiere della parola per antonomasia, coniando numerosi vocaboli e richiamando in vita quelli disusati. Di fronte a una diffusa barbarie linguistica non crede che sarebbe opportuno rifarsi all’esempio del Vate a partire dalle modalità nel formulare neologismi?

In molti casi non c’è bisogno di formulare neologismi. Quando, ad esempio, mi dicono: «Aspetto un feedback», sono solito rispondere: «Scusi, cosa aspetta?» Personalmente trovo ciò insopportabile, avendo l’italiano una parola chiarissima quale riscontro. Diverso è il caso di termini provenienti da altre lingue e intraducibili, che lo stesso d’Annunzio utilizzava senza alcuna difficoltà. Si prenda, ad esempio, sport. Per il resto si divertiva sapientemente a trovare alternative. Il caso più famoso è tramezzino, anche se io preferisco, perché più carina nonché dal richiamo erotico, la formulazione di Marinetti traidue. In realtà, d’Annunzio, più che inventare le parole, le pescava nell’italiano antico oppure le recuperava dal latino, dal greco. Oggi avremmo davvero tanto bisogno del suo contributo linguistico.

Il Vate è diventato nel tempo uno degli intellettuali di riferimento della destra, laddove la sinistra ne ha invece deprezzato la figura e l’opera. Non sarebbe forse ora di liberarlo da tali etichette politicizzanti e anguste?

Beh, come noto, io ci sto lavorando da quasi vent’anni, prim’ancora di diventare presidente del Vittoriale. La mia operazione è di liberare d’Annunzio dagli schemi ottusi che lo circondano. Uno schema ottuso appartiene alla destra, facendone un campione e un progenitore del fascismo, che certo non fu. Altro schema ottuso è quello della sinistra, che non ne ha capito la potenzialità di modernizzatore e innovatore, dando soprattutto prova di non aver mai letto la Carta del Carnaro. Basterebbe quella perché la sinistra dica: «Ecco è uno dei nostri». In realtà, d’Annunzio non apparteneva né alla destra né alla sinistra. Un superuomo, infatti, non può appartenere a un’ideologia né tantomeno a un partito politico. E d’Annunzio era e si sentiva un superuomo.

Così D'Annunzio distrusse il porto "inespugnabile". In un saggio Eugenio Di Rienzo ripropone i rarissimi taccuini scritti in volo dal poeta. Più travolgenti di una serie tv. Il Vate era così convinto del suo piano da insultare i superiori. Alessandro Gnocchi il 2 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Ci vuole fegato per essere un avvoltoio. Il fegato, di certo, non mancava a Gabriele d'Annunzio e neanche la rapacità dell'avvoltoio. Si capisce benissimo da un interessante (e divertente) libro di Eugenio Di Rienzo: «Ariel armato». Gabriele d'Annunzio e la grande guerra aerea italiana (Società editrice Dante Alighieri, pagg. 82, euro 6). Di Rienzo raccoglie numerosi documenti sulle imprese del Vate a bordo di un aeroplano militare. Ci sono lettere, studi tattico-strategici e soprattutto Il fegato e l'avvoltoio. Diario dell'impresa di Cattaro (22 settembre-5 ottobre 1917). Il diario è composto da due strepitosi taccuini composti in volo, durante l'impresa. Nel primo, D'Annunzio, a capo del raid, descrive l'avvicinarsi della squadra all'obiettivo. Nel secondo, impartisce gli ordini al pilota, il capitano Maurizio Pagliano, non potendo comunicare a voce, a causa del rumore. Il pilota, poi, trasmette al resto della squadra i messaggi del comandante. Sembra di essere sul campo insieme a Gabriele d'Annunzio, in confronto le serie tv non hanno suspense.

I due taccuini furono stampati, in anastatica, nel 1928 per iniziativa di Arnoldo Mondadori. Il volume fu tirato in cento esemplari fuori commercio dall'Istituto Nazionale Dannunziano. Inutile dire che sono quasi introvabili anche sul mercato antiquario. Vale la pena di ricordare l'importanza di questo attacco a sorpresa fortemente voluto, quasi contro le gerarchie, da un ardimentoso Vate. La base di Cattaro, città oggi montenegrina, era stata un avamposto della Repubblica di Venezia fino al 1797 quando entrò a far parte dei possedimenti della monarchia asburgica. Il porto era in una posizione strategica. Lì accanto sorgevano i cantieri di Teodo. Dalle piste nei pressi di Cattaro partivano gli aerei che bombardavano gli obiettivi nell'Adriatico. Cattaro era considerato un porto inespugnabile a causa della conformazione della costa, quasi un fiordo. D'Annunzio però aveva un'idea. Partire con una squadriglia di aerei, volare basso, attaccare senza essere visti, fuggire dopo aver distrutto la base. Era così convinto da mandare a quel paese i suoi superiori e in particolare l'ammiraglio Acton. Di Rienzo raccoglie lo scambio epistolare tra i due, con l'inferiore in grado che dà del traditore al suo capo...

La spedizione iniziò male. La nebbia rendeva invisibili i segnali luminosi provenienti dalle torpediniere. I piloti si orientarono con bussola e stelle. I 14 velivoli diventarono 12. Due dovettero tornare indietro per un guasto dopo un'ora di volo. La squadriglia sganciò le bombe da tremila metri di altezza, devastò i sottomarini in rada e i depositi di benzina, quindi fuggì e toccò terra a Gioia del Colle nella tarda nottata del 5 ottobre 1917. La contraerea nemica non riuscì ad attivarsi. «Ariel» aveva visto giusto, la missione fu un successo.

"Siamo in cielo, soli con la nostra sorte". Gabriele D'Annunzio il 2 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Il poeta soldato racconta la partenza per la battaglia. In diretta.

Si risogna la sera di San Franscesco, si risogna la notte di Cattaro. Si riassapora quella gioia di guerriero che non somiglia ad alcun'altra e che poteva rimanermi ignota se la sorte non mi avesse gettato nella guerra dopo tanti anni di tristezza, alla fine del mio vigore.

Rivedo i miei sette velivoli in armi, schierati su quel campo squallido della Puglia estrema, in ordine di partenza. Primo il mio, nella doratura dell'ultimo sole che si riflette sopra le carlinghe lisce come se fossero fatte di lastre d'avorio connesso con arte bisantina. Li esamino a uno a uno. Salgo a prua, osservo gli strumenti di bordo, provo con le nocche il suono dei serbatoi, Son pieni fino al tappo, colmi. Comincio a soffrire della sera troppo lenta. Si dice che il vecchio Pan avesse il torace azzurro; ma l'aviatore in attesa ha tutto il cielo nel petto inquieto.

Ecco che la luna è già alzata! Il faro del San Michele è già acceso. Gli apparecchi sono in silenzio, con un poco di luna su l'avorio della carlinga. L'ultima mezz'ora è un'eternità. Non posso più sopportare intorno a me la ressa. Ho un bisogno disperato d'esser solo, dietro il mio schermo di mica, dietro la mia mitragliatrice nera appuntata come un telescopio verso la mia stella. Avvolgo alla sbarra che sostiene la prua il guidone azzurro dell'Orsa. Il mio soldato, invece di prendere il cordone del medesimo colore, ha preso un nastro nero, un nastro funebre. Lego con quello il guidone avvolto; e una quiete si fa in me, d'improvviso. La guazza è tanta che l'apparecchio è tutto bagnato come se avesse ricevuto un acquazzone. Cova i due «giacomini», le due granate da 260 accoppiate.

Il meccanico mette in moto il motore. Il rombo mi assorda. Le fiamme verdi, rosse, turchine, gialle, versicolori come il velo d'Iride irrompono dai tubi di scarico. Salgo a prua, e dispongo le mie cose intorno al seggiolino. Colloco le mie carte, i miei taccuini, i miei guanti, i miei calzari, il mio colare di salvezza, il mio salvagente, il tubo pieno di thè caldo. Ridiscendo, saluto, mi metto la cuffia: già assente, già lontano. Risalgo. Occupo il mio posto.

I due piloti sono già alle leve, mascherati. Luigi Gori ha il suo solito bavaglio verde, il suo aspetto bizzarro di bautta dagli occhi demoniaci. Maurizio Pagliano è grave, raccolto e attento come un organista davanti alle sue tastiere, tra registi e pedali prima di cominciare toccata e fuga, mentre già lavorano i mantici. Il canto dei motori è pieno. Le frecce di fuoco svariano nei colori, palpitano nella vibrazione della rapidità frenata. Vedo sotto la prua le mani che si tendono nell'estremo augurio. Vedo laggiù, in fondo al campo, i fasci bianchi dei fari. Si parte! Si parte! Credo che la mia volontà stessa sollevi le ali, tanto è tesa dal desiderio della lontananza. Si parte!

Ho davanti a me la notte ignota, il mare aperto, le stelle attenuate dal bagliore lunare. Mi sollevo a prua, e getto l'alalà. Odo il clamore che risponde, scorgo le mani che si agitano. L'apparecchio rulla, si stacca dalla terra, s'impenna come Pegaso verso le costellazioni. L'Orsa è a sinistra. Vedo i due fari convergenti di Conversano. Sono deboli. Vedo il proiettore del Settimo gruppo delle siluranti, del gruppo che incrocia a dodici miglia dalla nostra costa. È molto potente. Mi sporgo nel vento a scrutare il terreno. Ho in me una così grande pienezza di vita che quando mi chino mi sembra di traboccare. Vedo i nastri bianchi delle vie. Con un brivido profondo, indovino la massa dell'acqua. Ecco la riva sparsa di macchie biancastre, e una via litoranea che la segue. La sorpassiamo. Eccoci sul mare! Eccoci sull'Adriatico amarissimo e amatissimo! Il proiettore navale splende davanti a noi e ci segna la rotta. L'Adriatico è quieto, sottomesso all'incanto della luna. Siamo ormai soli con la nostra sorte.

Momento eroico di accettazione e di pacificazione. L'anima si agguaglia agli elementi, diventa notturna e stellata. È sospesa tra cielo ed acqua, come una sfera che sia piena a metà d'acqua e a metà di cielo. Il cuore è attraversato da una corrente melodiosa, come nel principio della creazione di un poema. Non sto per creare la mia avventura?

Estratto dell’articolo di Mario Baudino per la Stampa il 12 marzo 2023.

 Un editore di vent’anni volle liberare Ezra Pound dal manicomio in cui era rinchiuso dal ’45, dopo che gli americani lo avevano arrestato per altro tradimento ma dichiarato incapace di intendere e di volere. E ci riuscì mobilitando gli scrittori italiani intorno a un appello rivolto all’ambasciata americana, che di per di sé non venne preso ufficialmente in considerazione ma fu in qualche modo decisivo nell’imprimere una svolta a un movimento d’opinione globale.

 Era Vanni Scheiwiller (1934 – 1999), succeduto al padre nella raffinata casa editrice dedicata soprattutto ai poeti, compreso ovviamente Pound. Raccolse 33 adesioni, tutte di altissimo profilo, da Ungaretti a Moravia, ma non fu impresa facile; perché nel mondo letterario italiano, al di là della sua infatuazione per il fascismo e soprattutto per la figura di Mussolini, l’autore dei Cantos – e di un capolavoro come lo Hugh Selwyn Mauberley – era guardato sì con ammirazione, ma anche con una certa diffidenza.

Peraltro ricambiata – come si ricava dalla lettura di La libertà dell’intelligenza. Ezra Pound, un intellettuale tra intellettuali (edizioni Ares) a cura di Roberta Capelli e Alice Ducati, che pure raccoglie saggi in apparenza molto specifici sulla vicenda poundiana. Letti nel loro complesso ci raccontano però una grande storia tragica, che non è solo quella di un appello. 

 (...)

 Di Pound e della sua prigionia, prima disumana, in una gabbia nel campo di Coltano, quella dove scrisse i Pisan Cantos, poi nell’ospedale psichiatrico dove invece poteva ricevere visite e scrivere lettere, si parlava già da tempo, com’è ovvio. Nel ’48, in America, gli era stato conferito il Premio Bollingen della Library of Congress; della giuria facevano parte T.S. Eliot e W.H. Auden.

 La campagna per la liberazione era nell’aria, ma ancora nessuno l’aveva organizzata. Vanni Scheiwiller se ne assunse l’onere. Mobilitò, a partire da Ungaretti, tutti i maggiori scrittori europei (ad eccezione, volle precisare in una lettera a Jean Cocteau, di quelli «d’oltre cortina e quelli fascisti, mi pare non abbiano il diritto di firmare»). E tuttavia quando Pound, finalmente liberato, tornò in Italia, nel ’58, l’evento non fu poi così clamoroso. Stava iniziando per lui il lungo «tempus tacendi» (morirà a Venezia nel 1972); ma non ammise mai i propri madornali errori.

(...)

 «Ho considerato il fascismo IL POSSIBILE in ITALIA (in maiuscolo nel testo, ndr) in dette circostanze», scrive all’amico Manlio Dazzi. Si scagliava contro l’usura, il totem polemico delle sue dottrine economiche. Pagò care le sue trasmissioni in inglese all’Eiar, dai toni oggi diremmo equivocamente pacifiste. Dopo l’8 settembre si mise a disposizione della Repubblica di Salò e dei suoi macellai, senza rendersi conto di chi fossero gli interlocutori.

 Quale demone lo stava ingannando? Proprio Pasolini, che non aveva firmato l’appello e anzi era sempre stato categorico al proposito («non sono affatto tenero con quel fascista – scrisse a Scheiwiller – essere poeti non significa essere pazzi o irresponsabili») lo intervistò in una trasmissione Rai del ’67, rispettoso e devoto; e non glielo chiese. Montale aveva invece aderito. Generosamente, si direbbe, considerato che conosceva personalmente il poeta anche se in modo superficiale; con un certo ironico distacco lo aveva definito in un articolo del ’55, «erudito, ma di una erudizione che sapeva di digesto, di corso accelerato»: sottolineando però come proprio quella sua strana idea dell’Italia, mussoliniana ed «eroica», non fosse la via migliore per comprendersi a vicenda.

Fabio Volo: «Io, separato per evitare l’inferno. Murgia? Non capì il mio libro. Ora riapro la panetteria». Giovanni Viafora su Il Corriere della Sera il 12 novembre 2023.

Il 14 novembre esce in libreria «Tutto è qui per te». «Amo ancora la madre dei miei figli, lasciarsi non è un fallimento. Se oggi avessi 20 anni andrei via dall’Italia. Fedez? È solo marketing, io vivo ancora di pancia»

Fabio Volo lei andrà in paradiso?

«Ma non so neanche se esista».

Dice uno dei personaggi del suo nuovo libro che per gli antichi egizi bastava rispondere «sì» a due domande: hai dato gioia?/hai ricevuto gioia?

«Se è così, sì. Ma io credo che paradiso, purgatorio e inferno siano qui, in questa vita».

E lei attualmente dove sta?

«All’inizio del purgatorio, però sono appena uscito dall’inferno».

Milano, intanto si sosta al caffè della Triennale. Sul tavolo la sua ultima fatica letteraria: «Tutto è qui per te» (Mondadori). La 13esima, dopo 9 milioni di copie vendute. La prima dopo la separazione con Johanna, la madre dei suoi due figli.

L’inferno è stato lasciarsi?

«No, ci siamo lasciati proprio per evitarlo. L’inferno è quando finisci dentro a un problema e non riesci a vederne l’uscita. Sono i tuoi limiti. E non è che poi non ci rientri più».

Nel romanzo il protagonista è Luca, un 50enne che si lascia, cerca nuove passioni, ritrova vecchi amori. E si confronta con tre donne molto risolte, forti. È lei?

«Diciamo che mi interessava raccontare la storia di un uomo che scappa dalla sua condizione. E che capisce che non esiste soluzione esterna alla sua felicità».

Il tema della separazione però torna ossessivamente.

«La separazione non è un fallimento. I rapporti si evolvono, conta l’intelligenza. Io non credo di amare meno la madre di miei figli. E non credo che lei ami meno me. C’è un modo di stare insieme diverso. Oggi ci preme creare un ambiente amorevole per i nostri figli. Siamo anche andati in vacanza insieme, in Amazzonia».

Ma dopo tre anni ha capito perché tra voi è finita?

«Quando incontri una persona, quella è una promessa di felicità. Se la promessa non si avvera, ti arrabbi. È come un tradimento. Ma l’altra persona non c’entra. La promessa è una tua proiezione, sei tu che carichi l’altro di questo peso. Se non hai risolto i tuoi nodi, non risolvi niente».

Li ha risolti? Ed è ancora single?

«Non sto con nessuno, sono rimasto alla ricerca delle miei cose. La risposta non è un’altra donna».

È stato innamorato davvero nella vita?

«Migliaia di volte, mi innamoro anche delle giornate, dei libri, dei film...».

Sì, ma le storie importanti?

«La donna più importante della mia vita è stata ed è ancora la madre dei miei figli. Rimane lei, domani non so».

Nell’immaginario è visto come un grande conquistatore, un grande...

«Ho capito che cerca la parola per non offendermi: donnaiolo, vuole dire!».

Ecco.

«Avevo quell’immagine lì, dello womanizer, come dicono in inglese. Ma non mi appartiene più. Ho fatto le cose giuste negli anni giusti, non ho il regret di andare in discoteca a 51 anni, sarebbe un fallimento».

La prima volta?

«A 16 anni. Ero in Spagna, in vacanza. A quell’età cominciavano a farlo tutti, per cui dovevi farlo anche tu. Ho conosciuto una ragazza, non so neanche chi fosse. Non aveva niente a che fare con fare l’amore. Poi non è che da lì tutti i giorni, eh... Passò un anno prima che risuccedesse».

Quante donne hai avuto?

«Non le conto».

Qualche follia l’avrà fatta...

«Una sera con una ragazza decidiamo di appartarci dietro a un negozio della Decathlon, l’auto era sua, chiese a me di guidarla. Improvvisamente sento bussare alla portiera: era un carabiniere. Mi dico: è finita. Lui invece gentilissimo: “Ragazzi, attenti, questa zona non è raccomandabile”. Sollevo il finestrino e tiro un sospiro di sollievo. Un instante dopo lei mi fa: “Per fortuna che non ci ha chiesto i documenti, quest’auto l’ha rubata mio padre”. Oggi non sarei qui forse».

Luca vive l’esperienza con la ventenne Matilde. Neanche questa è reale?

«Non l’ho vissuta e non ti dico che sono contento (ride). Ma ho amici coetanei che hanno storie così. Oggi le 25enni sono più mature, evolute e fanno fatica a relazionarsi con uomini un po’ persi. Mentre i loro genitori se ne stanno su Instagram...».

Fabio Volo: «Le vacanze con i miei? Non c’erano soldi, ci andavo con l’oratorio»

Cioè?

«Quando ero giovane non c’erano i social, dopo scuola ci si trovava in piazza sulla panchina: si fumava di nascosto, limonavi. Avere una mamma di 55 anni, vestita sexy, che balla su TikTok è come se allora te la fossi trovata sulla panchina a fianco, a farsi le canne. Questi ragazzi non hanno più il riferimento di un adulto che sappia stare al suo posto».

Domenica il suo primo figlio Sebastian compirà 10 anni. Alla sua educazione sentimentale ha pensato?

«Quello che faccio con loro è parlare per fargli capire che con me possono parlare di tutto. Do pochi giudizi. Loro sono dei mini-adulti, cerchi di dirgli delle cose e scopri che hanno sempre saputo. Sentono tutto».

Della vostra separazione cos’hanno sentito?

«Per adesso vedo dei bambini sani, comprensivi».

Con suo padre, invece, il rapporto non fu sempre facile.

«Era berlusconiano, c’erano confronti e scontri. Ma non è che non ci siamo mai parlati. Mi ricordo che non voleva che vedessi Rai 3. Io intanto lavoravo a Mediaset, dopo le Iene però tornavo a casa a fare il pane con lui in bottega. Mi ha insegnato la disciplina».

Ha detto: mi ha salvato un suo bacio.

«Mio padre non mi ha mai dato baci, perché era un uomo d’altri tempi. Non era uno affettuoso con noi, rideva e scherzava, ma non era come me con i miei figli, che me li mangio. Un giorno, quando era già malato, gli ho fatto la barba io, per me è stato un momento mistico. Mentre mi avvicino per andare sull’altra guancia, lui mi ha dato un bacio. Fu inaspettato e toccante».

Oggi cosa gli direbbe?

«Ho capito tante cose di mio padre attraverso la relazione con i miei figli. Vorrei potergli parlare con questa consapevolezza. Ci lamentiamo sempre che i genitori non ci capiscano, però è altrettanto vero che noi figli non capiamo loro. Io vorrei che i miei mi capissero».

È vero, invece, che pensa che giornalisti e intellettuali la odino?

«In Italia le categorie vivono negli acquari, con le loro dinamiche. Io ci sono finito dentro scrivendo libri e tutti i pesci hanno cominciato a dire: “Ragazzi, questo non è del nostro acquario, dura poco». Si sono sentiti minacciati. Ma non sono entrato dicendo: “Ho venduto 9 milioni di libri in 25 Paesi, sono il più bravo di tutti”. Sono sempre stato io quello a non prendersi sul serio. Comunque non sono le persone a cui voglio piacere».

Murgia con lei fu spietata: «Gli alberi si vendicheranno». Vi siete mai riconciliati?

«No. Disse anche che dei testi di Battiato erano canzonette: per me sono illuminanti. Oggi è difficile parlarne perché lei non c’è più. Però secondo me anche Murgia nella vita si è sbagliata. Recensì quel mio libro («A cosa servono i desideri», ndr) come fosse un romanzo: era un libro di domande, li avevo visti fare a San Francisco anni prima. In California c’era pure una scuola. Lei forse non lo sapeva. Adesso in America i libri di tendenza sono tutti così. Però probabilmente ho anticipato i tempi. L’ho fatto anche con altre cose: ho realizzato una serie tv dove interpretavo me stesso, i critici mi dissero che ero egocentrico e narciso. Tre anni dopo l’hanno fatta tutti: Verdone, Bisio..».

Fedez, pure. Tra voi ci fu uno screzio.

«Avevo detto una cosa in radio e lui si era offeso. Poi i suoi follower mi hanno inondato di insulti. Ci siamo scritti: lui mi ha chiesto scusa, io gli ho chiesto scusa».

Vivrebbe in vetrina come fa lui?

«Figuriamoci, nelle foto metto ancora i cuoricini sulla faccia dei miei figli. Ma non voglio dare un giudizio. Io vivo ancora di pancia, faccio quello che mi piace: se vado a mangiare una pizza non è che penso che devo fare una foto alla pizza. Il suo è un altro modo di lavorare. Io sono come un contadino, lui è quello laureato. È il frutto del marketing. Non mi pare che ci sia niente di spontaneo».

Chi sono i suoi amici?

«Quelli storici di Brescia; poi alcuni che ho acquisito in questi anni a Milano».

Del suo mondo?

«Non ne ho tanti. Con Accorsi andiamo d’accordo, ci vado a bere una birra. Anche con Favino. Cattelan lo vedo in radio, ma non è che lo chiamo per andare a mangiare la pizza».

Milano le piace ancora?

«Sì, ho bisogno di una città che mi offra delle cose. Certo, Milano è peggiorata; ma dopo il Covid anche New York e Parigi non sono più belle come prima».

Dall’Italia scappano tanti giovani.

«Fanno bene. Abbiamo una gestione familiare del lavoro: se incontro un ragazzo in Spagna mi dice: “Lavoro 8 ore, se ne faccio 9 mi pagano un’ora di straordinario”. Qui invece la risposta è: “Poi ci aggiustiamo...”. E ti schiavizzano. Se io fossi un ventenne, oggi me ne andrei dall’Italia».

Non abbiamo parlato della separazione che ha fatto più clamore negli ultimi tempi: Meloni-Giambruno.

«Non penso che in quei fuori onda lei abbia scoperto un uomo che non conoscesse. Per altro era molto più fastidioso il modo in cui lui camminava. Ma lungi da me giudicare, errori ne ho fatti un sacco nella vita. Il problema è un altro».

Quale?

«Il karma. Sono convinto che Meloni dentro di sé non creda davvero all’idea di famiglia tradizionale, come neanche Salvini che è separato due volte. Il punto è non tenere conto del dolore che intanto, con le parole, creano a certe famiglie. Quello prima o poi torna».

Si sposerebbe?

«Mai. Ha più senso andarsene con la propria donna dentro un bosco e chiedere una benedizione. Mi chiedo: con un figlio firmi un accordo per dire che gli vorrai bene?».

Non crede in Dio?

«Medito tutti i giorni da qualche anno. Sento che siamo in connessione con qualcosa. Che sia poi uno con la barba non mi interessa».

Ha un sogno?

«Mi piace la vita che faccio. Ma ora riaprirò la panetteria di famiglia, a Brescia. Torno alle origini. Non che mi metterò a fare il pane, eh. Devo ancora visualizzarmi cosa ci sarà dentro. Forse sarà una catena. Dentro però ci sarà la foto di papà».

Il libro è pieno di citazioni enologiche. Lei che vino si sente?

«Un Valpolicella, percepito come un Lambrusco».

Le dà fastidio?

«No, è buonissimo».

Fabio Volo: «Meglio una separazione civile che un matrimonio triste, come è successo a me e Johanna». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 2 febbraio 2023.

In «Una gran voglia di vivere», che interpreta con Vittoria Puccini, racconta di una coppia che ha tutto per essere felice, ma non riesce a esserlo. Ha scritto undici libri che hanno venduto 8 milioni di copie. «La mia vita è una vita da outsider».

Fabio Volo e Vittoria Puccini in Una gran voglia di vivere, il film dal 5 su Prime tratto dal suo libro. Hanno tutto per essere felici, ma non riescono a esserlo. Coetanei, belli, sani, un figlio. Non basta. Una crisi invisibile, senza tradimenti, erode la coppia, che si sfalda dopo un viaggio in camper in Norvegia che doveva rimettere le cose a posto. «Un viaggio avventuroso rompe la routine, si fanno tante piccole scelte, uscendo dalla comfort zone. Sono occasioni in cui ci si riscopre. Ma non basta», dice la regista Michela Andreozzi.

Lei, racconta Vittoria, architetta, donna imprevedibile, nella carriera fa un passo indietro per la famiglia, e glielo rinfaccia; lui, racconta Fabio, ingegnere, razionale «tende a funzionare più che a vivere, non ha una grande educazione sentimentale e non riesce a esprimere le sue emozioni».

Meglio una separazione civile che un matrimonio triste. Un po’ quello che è successo a Fabio, «ci sono spunti autobiografici che poi ho vissuto, mi sono separato dopo dieci anni dalla mia compagna islandese, Johanna, con cui ho due figli di 9 e 7 anni. Il camper è un’esperienza fatta personalmente. Lì parcheggio dove voglio e scrivo, come faccio quando prendo il Freccia Rossa. Non vedo l’ora di prendere un treno». Undici libri, 8 milioni di copie vendute nel mondo.

Non male per uno che ha la terza media. Fabio, in che fase è della vita? «A giugno compio 51 anni, e forse sto imparando a godere la vita. E’ sempre stata una lotta continua col senso del dovere. Ho fatto il panettiere, il muratore, il cameriere». Qualcosa ti resta addosso, «sono uno che a tavola non lascia avanzi e spegne le luci».

Il prossimo film, Una vita nuova, anch’esso da un suo romanzo, è in parte modellato sul padre povero, «gran lavoratore, felice solo quando guidava la sua 850 Fiat che però dovette vendere per i debiti». E lui nel libro gliela ricompra, «autorizzando me stesso a essere felice, convivendo con i sensi di colpa. Ecco, io non voglio che i miei figli siano a loro agio nell’infelicità, come lo sono stato io». Fabio Volo non si identifica in ciò che fa, «il lavoro non è tutta la mia vita»; dice di non essere simpatico, «posso essere divertente ma vado a giorni»; non vive a Roma, «dove si decidono i film sulle terrazze».

Non è un artista da premi, letterari o di cinema, e i festival non gli mancano perché non appartengono al suo immaginario. Ha una forte spiritualità, «pratico yoga, meditazione e mi aiuto con lo psicoterapeuta, ne ho cambiati due o tre, ho provato di tutto, ho un team che mi sostiene». Un outsider amato, di successo.

I veri affetti del conte Bonoris: amò una donna francese da cui ebbe anche un bimbo nato morto. Costanzo Gatta su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Singolare scoperta del curatore Boifava a cento anni di distanza dalla morte di Gaetano Bonoris: decisivo il memoriale biografico del suo segretario.

Di Gaetano Bonoris hanno detto che era un misantropo incapace di accettare il prossimo. Hanno sostenuto che era gay e le donne non gli interessavano. Tutte falsità. A cento anni di distanza dalla sua morte — proprio in questi giorni — s’è scoperto un intenso legame con una francese e che dalla relazione nacque — purtroppo morto — un bimbo ora sepolto nella tomba Bonoris del cimitero di Montichiari. A insinuare le falsità furono alcuni lontani parenti del conte. Pretendevano di invalidare il testamento ed avere una fetta dei beni che Bonoris lasciò il 19 dicembre 1923 per testamento. Erano i fratelli Achille, Cesare ed Enea Savelli, figli del generale Eugenio Savelli e della contessa Elisabetta Smania, a sua volta figlia di Amalia Bonoris, zia del defunto conte.

Costruirono un castello di accuse con la complicità di alcuni servitori e le diedero in pasto ai giornali. Pensavano così di ottenere dalla Congrega di carità apostolica — erede universale — denaro per mettere a tacere lo scandalo. A scatenare i Savelli fu il ritrovamento di una cassaforte zeppa di oro e gioielli per un valore di 17 milioni dell’epoca. Impugnato il testamento la causa si trascinò per quasi vent’anni. Solo nel 1947 la Cassazione mise la parola fine dando torto ai Savelli. Ovviamente per loro il gioco valeva la candela perché di beni il conte ne aveva a bizzeffe. Un bresciano che non poteva permettersi un capriccio era solito dire: Mé ghó mia la borsa dè Bonoris.

La scoperta dello studioso Paolo Boifava

La liaison fra il conte e la francese e la nascita di un bambino fa parte di una serie di notizie inedite scoperte da un gruppo di studio guidato da Paolo Boifava curatore dei musei di Montichiari e del castello Bonoris. Ci dice: «Abbiamo cercato di ristabilire la verità sulla personalità di Gaetano Bonoris passando al setaccio migliaia di documenti conservati negli oltre 150 faldoni dell’Amministrazione Bonoris depositati nell’Archivio di Stato di Brescia». Quindi una sorpresa? «Il punto di svolta — aggiunge Boifava — è stato quando ci si è resi conto che nessuno aveva mai consultato le carte dell’avvocato Arturo Reggio incaricato negli anni ‘30 del ‘900 di difendere la Congrega della carità nel processo contro i Savelli. Colpo di fortuna tutti i documenti di Reggio sono conservati dall’archivio di Stato di Brescia. Indagando fra quelle carte è emerso materiale che rende finalmente giustizia sulla vita di uno dei più grandi benefattori della storia bresciana del ‘900 »

Molte notizie si devono poi al segretario di Bonoris, Bindo Azzali. Scrisse un memoriale biografico del conte che aveva servito per oltre trent’ani e di cui conosceva tutto. «Ebbene — continua Paolo Boifava — da questo memoriale — colpo di scena — scopriamo l’amore per una donna francese con la quale Bonoris convisse a Montichiari per alcuni anni. Apprendiamo inoltre che da questa signora (madame Bebenne Lamotte) il conte ebbe un figlio nato morto nel 1896 e sepolto in tutta segretezza nella tomba Bonoris». Spontaneo chiedersi se vi siano altre testimonianze. Boifava non ha dubbi: «Alla circostanza accenna in una lettera anche un medico del posto, Archimede Baratozzi, che assistette al parto. Non vi è traccia di questa nascita nemmeno nello specifico registro parrocchiale dei bambini nati senza vita».

Chiedo a Boifava se le indagini del gruppo continuino: «Cerchiamo — ed è per ora introvabile — la bellissima lettera che questa donna amata scrisse nel 1924, un anno dopo la morte di Bonoris e sottoposta al giudice in occasione del processo tra la Congrega ed i Savelli. Lettera che l’avvocato Reggio definì «vibrante di affetto e di devozione, che dice tutta la bontà del povero conte ed è una attestazione commossa di ciò che egli era veramente nell’intimità e negli affetti domestici»

Dai documenti inediti ritrovati si riesce a tratteggiare meglio la figura del Bonoris. Si viene a conoscere così la sua formazione scolastica prima a Basilea poi a Zurigo, la conoscenza di tre lingue, la passione per l’architettura, i numerosi viaggi in Europa e a Costantinopoli, e la passione per la letteratura. E si attendono altre sorprese.

Leggete le opere di Salvemini. Io, querelato da un ministro per averlo citato, sono felice. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 10 Febbraio 2023.

Il personaggio nella foto è Gaetano Salvemini. Invito i lettori a nutrirsi di lui in tutta la sua meravigliosa forma. Era impopolare perché non parteggiava ma criticava, sempre pronto a misurare pericoli autoritari e a denunciare ingiustizie

Gaetano Salvemini, intellettuale e politico antifascista pugliese, nacque a Molfetta nel 1873 e morì a Sorrento nel 1957, due giorni prima di compiere 84 anni. Fu deputato socialista

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 10 febbraio. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»

Quando ero ragazzo sono cresciuto con le canzoni dei briganti. Le cantavamo durante le occupazioni a scuola o nelle giornate di scampagnata la domenica. Appena c’era una chitarra si intonava Brigante se more o La muntagna, canzoni che raccontano della resistenza dei briganti alle truppe sabaude, della delusione per un’Italia unita per conquista e non per diritti, che raccontano poeticamente di una vita ridotta alla barbarie e di un tentativo impossibile di riscatto. In queste canzoni si è consapevoli che nulla cambierà mai, ma non è sufficiente motivo per ingoiare e subire imbelli. Le cantavo, queste canzoni, mentre vivevo in me la contraddizione di essere un ibrido; mia madre nata a Trento da famiglia ligure e mio padre originario dell’entroterra campano. Oggi capisco che non di ibrido si trattava, ma di sintesi.

Mentre mercoledì scorso ero in tribunale, portatovi dal vicepremier Salvini, querelato per una mia opinione sul suo operato, canticchiavo tra me una canzone - lo faccio spesso quando sono costretto, malvolentieri, a stare immobile in un luogo triste. Canticchiavo proprio la canzone dei briganti La muntagna; lì c’è un passaggio che mi ha sempre affascinato: « Quann’ o’ piglian’ ngopp a muntagn’, more senza paura e senza rimpiant’. Quann o’ piglian int ‘e pais’, ricene quant’ è bell’ murire accise », che tradotto significa: «Quando lo uccidono sulla montagna, muore senza paura e senza rimpianto. Quando lo uccidono nei paesi, dicono quanto è bello morire uccisi». «Quanto è bello morire uccisi» è la beffa: se non è possibile vivere in giustizia, allora che si muoia per la giustizia. Vien da ridere, ma in tribunale sentivo il ritornello cambiarmi in mente: quanto è bello essere querelati per una citazione di Salvemini, quanto è bello essere portato in un processo per la propria critica al ministro di un governo, svelando così la sua volontà di individuare in chi lo critica un bersaglio da abbattere.

Credetemi, è davvero insopportabile, per una democrazia, che il potere esecutivo chieda al potere giudiziario di decidere entro quale perimetro sia concesso criticarlo. Ecco perché invito i miei lettori di questa rubrica a nutrirsi di Gaetano Salvemini (è lui il personaggio ritratto nella foto che ho scelto questa settimana) in tutta la sua meravigliosa forma. Bollati Boringhieri, editore che protegge sempre preziosissimi libri, ne ha ristampati diversi. Dai ricordi di un fuoriuscito 1922-1933, libro splendido che mappa i fatti che trasformarono la democrazia in dittatura e conferma come l’unico compito dell’intellettuale sia presidiare ingiustizie, manipolazioni, alleanze economiche nefaste. E poi Ministro della Mala Vita, il capolavoro saggistico che racconta come Giolitti aveva mortificato, sfruttato e soprattutto utilizzato il Sud Italia come bacino di voti facili, mentendo alla parte più fragile del Paese, blandendola in campagna elettorale, ignorando però i suoi problemi atavici.

Da questo libro ho preso l’espressione che mi ha condotto fino ai banchi di un tribunale come imputato. Salvemini, come dirà Ernesto Rossi, uno dei suoi allievi più geniali, «toccò un’impopolarità mai raggiunta da nessun altro uomo politico italiano». Impopolare perché non parteggiava ma criticava, perché era sempre pronto a misurare pericoli autoritari e a denunciare ingiustizie con l’analisi e la presa di posizione. E questo generava fastidio nei codardi, imbarazzo nei complici, noia nei distratti. Il saggio potente di Sergio Bucchi sul pensiero salveminiano La filosofia di un non filosofo (Bollati Boringhieri) è una mappa nel suo labirinto da leggere subito. E anche l’editore Donzelli ha mandato in stampa diversi libri salveminiani: Un figlio per nemico. Gli affetti di Gaetano Salvemini alla prova dei fascismi di Filomena Fantarella è bellissimo. È la storia incredibile di Jean, figlio della sua compagna Fernande Duriac, che aderisce al nazismo: questa circostanza metterà in crisi tutta la sua vita.

Consiglio anche, di Gaetano Pecora, Socialismo come libertà, ottima introduzione al pensiero salveminiano. In sintesi, queste parole di Gaetano Salvemini per descrivere le sue idee, io le considero un dono che condivido con voi: «Ormai credo solo nel Critone e nel Discorso della Montagna. Questo è il mio socialismo e me lo tengo inespresso nel mio pensiero, perché ad esprimerlo mi pare di profanarlo».

120 anni fa nasceva George Orwell: da 1984 alla Fattoria degli animali, i 5 migliori libri. Massimo Balsamo il 25 Giugno 2023 su Il Giornale.

Lo scrittore britannico è stato l’anticonformista par excellence, in grado di tracciare un solco nella storia della letteratura mondiale

Tabella dei contenuti

 Senza un soldo a Parigi e Londra (1933)

 Omaggio alla Catalogna (1938)

 Una boccata d’aria (1939)

 La fattoria degli animali (1944)

 1984 (1948)

Polemista e anticonformista avverso a ogni forma di totalitarismo, sicuramente tra i più lucidi saggisti del suo tempo ma anche uno scrittore che ha tracciato un solo. George Orwell - pseudonimo di Eric Arthur Blair legato al fiume Orwel – ha acceso i riflettori sulla borghesia e sui suoi valori, sul socialismo e sulle condizioni di vita degli operai, ma anche su se stesso.

Nato esattamente 120 anni, George Orwell ha vissuto mille vite. È stato membro della polizia imperiale indiana in Birmania, ha vissuto per strada tra Parigi e Londra, ha preso parte alla guerra civile spagnola. Solo lo stop per motivi di salute gli negò la Seconda guerra mondiale. Ma è la letteratura ad aver tratto il più grande beneficio dal suo genio: lo scrittore nato a Motihari ha influenzato la cultura popolare ma anche quella politica. Del resto l’aggettivo “orwellian” è diventato di uso comune per descrivere le pratiche sociali totalitarie e autoritarie. Sfruttiamo questa ricorrenza per andare a conoscere i suoi 5 migliori libri tra romanzi e saggi.

Senza un soldo a Parigi e Londra (1933)

“Senza un soldo a Parigi e Londra” è il primo romanzo completo di George Orwell. Un memoriale diviso in due parti racconta la sua vita tra Francia e Inghilterra fatta di vari mestieri utili e soffrendo spesso la fame. Un esperimento sociale tra spietatezza e ironia per analizzare le difficoltà affrontate dalle classi più povere, un lavoro sicuramente degno di nota.

Omaggio alla Catalogna (1938)

Scritto nel 1938 al termine della sua esperienza in Spagna, “Omaggio alla Catalogna” è il personale resoconto di George Orwell della guerra civile spagnola. Il primo segnale della vocazione politica dello scrittore inglese, che mette la firma su un romanzo coinvolgente e allo stesso tempo su un saggio rigoroso. Un’opera che ha attraversato le generazioni e che è in qualche modo diventata film: Ken Loach si ispirò largamente a questo testo per il suo “Terra e libertà” del 1995, presentato a Cannes e vincitore degli European Film Awards.

Una boccata d’aria (1939)

Amato molto dallo stesso George Orwell, “Una boccata d’aria” contiene le prime tracce della vena apocalittica successiva. Scritto durante il soggiorno nel Marocco francese – scelto per il recupero dopo le ferite riportate in Spagna – il romanzo racconta la storia di un quarantacinquenne che prevede la Seconda guerra mondiale e prova a rintracciare l’idilliaca innocenza vissuta durante l’infanzia. C’è un grande pessimismo di fondo, ma non manca la consueta ironia.

La fattoria degli animali (1944)

Un capolavoro, non ci sono molte altre definizioni per “La fattoria degli animali”. Attraverso una narrazione in forma di favola – con gli animali che si ribellano ai padroni umani per compiere una rivoluzione per la libertà – George Orwell riflette con amarezza sul fallimento della rivoluzione bolscevia. Il linguaggio di questo romanzo allegorico è molto semplice e per questo ficcante. Un’opera attualissima, talmente potente da essere bandita dalla Russia.

1984 (1948)

Come “La fattoria degli animali”, anche “1984” brilla per la sua sconvolgente attualità. La tetra visione del futuro di George Orwell fino alle estreme conseguenze, fino alle tendenze totalitarie. Lo scrittore descrive un mondo in cui gli individui sono costantemente controllati dalle telecamere e dai microfoni del Grande Fratello, una specie di divinità che rende le persone schiave. Un romanzo distopico che ha rivoluzionato la letteratura, con importanti ripercussioni su tutte le forme d’arte.

Dietro le quinte della polizia c'è Simenon con il taccuino. Escono gli articoli di nera dell'inventore di Maigret su detenuti, assassini ma soprattutto bravi detective...Gianluca Barbera su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

Di Georges Simenon, il padre del commissario Maigret, non si butta via niente. Adelphi lo ha capito e da anni ha intrapreso la pubblicazione sistematica delle sue opere, incluse quelle che documentano la stagione dei reportage, usciti per lo più tra il 1931 e il 1946, tutti pagati profumatamente, anche se non tutti all'altezza della sua fama. Dopo aver mandato in libreria Il Mediterraneo in barca (2019), Europa 33 (2020) e A margine dei meridiani (2021), ecco Dietro le quinte della polizia (traduzione di Lorenza Di Lella e Maria Laura Vanorio, pagg. 275, illustrato, euro 16). Simenon era sempre in fuga da qualcosa. Prima di mettersi in viaggio si presentava dagli editori con l'intento di farsi spesare in cambio di reportage che i lettori avrebbero letto avidamente. Molti dei viaggi intrapresi finirono per annoiarlo, se non per disgustarlo. Navigando in lungo e in largo per il Mare Nostrum a bordo di una goletta di trenta metri ribattezzata Araldo, accompagnandosi a un improbabile equipaggio di sette uomini capitanato da un napoletano di nome Angelino con cui comunicava a gesti, è lui stesso a ricordare come i momenti più felici fossero quelli in cui scendeva a terra per imbucarsi in qualche bordello. Nell'estate del 1932, stanco di tutto, si inoltrò nel continente africano. «L'unica cosa buona da queste parti» scrisse «è il fatto che il cibo vi fa andare bene di corpo. Fin troppo bene, in verità». Dell'Africa non apprezzò quasi nulla. «L'ho lasciata detestandola». Gli effetti deleteri del colonialismo gli apparvero con chiarezza, a cominciare dall'inettitudine dei governanti europei, capaci solo di attirarsi l'odio delle popolazioni locali. «L'Africa prima o poi ci risponderà merda. E farà bene». Il Sudamerica gli fece un'impressione anche peggiore: nient'altro che un «viscido pantano». A Panama cercò di farsi pagare da un editore che aveva pubblicato senza autorizzazione alcuni suoi romanzi puntandogli contro una pistola. A Tahiti, però, la nudità delle donne indigene accese fatalmente il suo interesse. E durante la traversata dall'Oceania all'India perse la testa per una giovane infermiera inglese, meditando di piantare la moglie. Su un'isoletta al largo di Istanbul riuscì a intervistare Trotzkij, l'esiliato più famoso del mondo. Della Turchia, gli rimase il ricordo di un paese in sfacelo. Nell'estate del 1933, in un hotel di Berlino, si trovò a tu per tu con Hitler. I due rimasero chiusi in ascensore ingaggiando un duello di sguardi. A un certo punto lo sentì pianificare con Goebbels l'incendio del Reichstag, ma quando telegrafò la notizia a Parigi nessuno volle credergli.

Per molti anni Simenon ha scritto al ritmo di due o tre romanzi al mese, una produzione sterminata, la sua: centinaia di testi tra romanzi, libri di memorie, raccolte di racconti, di articoli giornalistici. I pezzi di Dietro le quinte della polizia, pubblicati tra il 1933 e il 1937, nascono da però esigenze diverse, essendo il resoconto delle giornate spese dallo scrittore negli uffici della polizia giudiziaria parigina allo scopo di fare pratica dei metodi investigativi in voga. Non solo parole, ma anche fotografie da lui scattate spesso di soppiatto, che ci restituiscono l'atmosfera della Parigi del tempo, specie quella del malaffare e delle fosche tragedie famigliari di ambientazione borghese.

Simenon sapeva di non avere talento per le astrazioni. Appena si metteva a filosofeggiare, si smarriva, perciò appena poteva si tuffava nel racconto in presa diretta, nell'affabulazione. E così assistiamo all'imbarco, tra ali di folla, di centinaia di detenuti incatenati l'uno all'altro, destinati alle colonie penali della Guyana. Assassini, borseggiatori, ladri, violentatori, criminali famosi e anonimi, tutti ammassati sul ponte di un grande rimorchiatore come sulla barca di Caronte. Lo scrittore ci fa strada per i tetri corridoi del Palazzo di Giustizia, dove si aggira un'umanità afflitta: «La Giudiziaria (così la chiamano gli addetti ai lavori) si trova in quai des Orfèvres, incastonata nell'immenso edificio del Palazzo di Giustizia. Sotto le sue finestre scorre la Senna. Ma fate attenzione a non sbagliare porta. Un po' più avanti, infatti, ci sono le prostitute che vengono per il controllo medico, e così in quel tratto il lungosenna è particolarmente animato». Ci si muove in «grandi uffici grigi, poco illuminati e non troppo puliti», tra «migliaia e migliaia di schedari che ricoprono i muri fino al soffitto». C'è naturalmente spazio per aneddoti e pennellate di colore: «Non molto tempo fa un assassino scendeva le scale tra due angeli custodi. Aveva le manette ai polsi. Arrivato sul pianerottolo, dà una spallata a destra, una a sinistra, una scrollata ai polsi e con un salto attraversa la porta a vetri». Bastano poche righe per farci ritrovare qualcosa dello stile inconfondibile del grande scrittore belga, che vanta oltre settecento milioni di copie vendute nel mondo in poco meno di un secolo. «In tutti gli uffici il telefono non smette mai di squillare, ma nessuno ci bada granché. Sono solo pochi uomini, il più delle volte calmi e misurati, ma custodiscono tutti i segreti di Parigi, se non della Francia intera. Non assomigliano né a Sherlock Holmes né a Rouletabille e nemmeno al signor Lecoq. Sono per lo più dei bravi borghesi che la domenica vanno a pesca e aspettano la pensione per trasferirsi in campagna e coltivare il proprio giardino. Non parlano mai di intuizione o di fiuto. E a maggior ragione nel loro vocabolario non esiste la parola genio. No! È gente del mestiere». Quanto alla Polizia scientifica, non sono che «una manciata di uomini che dispongono di magre risorse. Li hanno sistemati all'ultimo piano, in alcuni locali inutilizzati, e spesso sono costretti a costruirsi da soli gli strumenti di cui hanno bisogno. Il direttore è un giovane chimico dalla carnagione rosea che ha l'aria di uno studente più che di un ufficiale di polizia. Intorno a lui ci sono altri giovani, chini su provette, macchine fotografiche, apparecchi complicati». «I miei non erano dei reportage veri e propri» chiarirà in seguito. «Erano la ricerca dell'uomo messo a nudo, dell'uomo come è veramente». Insomma, poco più che una chiacchierata coi lettori. E difatti, nello scorrere delle pagine, vere e proprie gemme si alternano a passaggi sciatti, buttati lì, quasi nella fretta di concludere e passare all'incasso, ma le sue impareggiabili atmosfere ci sono tutte.

Mattia Rossi per “il Giornale” il 10 gennaio 2023.

La convalescenza dopo l'incidente in auto, la relazione con l'amante e i rapporti con la futura moglie, il flop di Madama Butterfly. Sono alcuni dei temi che emergono nelle quasi 900 lettere del terzo volume dell'Epistolario di Giacomo Puccini edito da Olschki (pagg. 746, euro 90).

 Innanzitutto vi è la vicenda della sua relazione con una ragazza piemontese: Corinna Maggia, di Biella, studentessa a Torino, la cui frequentazione gli causò parecchi guai con la futura moglie Elvira Bonturi. Nel 1902, scrivendo alla Bonturi, la rassicura: «L'affare torinese è molto ma molto indebolito da parte mia». Elvira, però, sottopose Puccini a vere e proprie sfuriate di gelosia tant' è che, talvolta, il compositore scriveva alla figliastra Fosca: «Ti raccomando di calmare un po' mamma».

Puccini fu sempre "controllato" dalla Bonturi («Mi pare d'essere in prigione e un sorvegliato») la quale gli vagliava e sequestrava la posta, come emerge da una lettera a un amico di Torre del Lago: «Se per caso ti trovi alla posta quando arrivano le lettere fatti vedere le lettere e se ne vedi una sospetta mettila dentro o alla Tribuna o ad altro giornale così mi arriva».

 La relazione con la Maggia fu duramente condannata da Ricordi: «Ma è mai possibile che un uomo come Puccini, che un artista che fece palpitare e piangere milioni di persone colla potenza e col fascino delle proprie creazioni, sia divenuto trastullo imbelle e ridicolo fra le mani meretrici di femmina volgare e indegna?». Puccini patì quella lettera, ma decise di far pedinare Corinna a Torino e, da Parigi, pose fine alla relazione: «Che dio maledica quella donnaccia là», scrisse alla Bonturi nel dicembre del 1903. Giacomo ed Elvira si sposarono pochi giorni dopo, il 3 gennaio 1904.

Se la vicenda dell'amante è la novità di questo terzo Epistolario, non mancano altre pagine spassose perché Puccini era un maestro anche nella scrittura e nella mescolanza di toni. E da buon toscano verace, poi, era tutto tranne che placido e accomodante. Come quando Elvira sorprese il loro figlio, Antonio, a letto con la domestica: lui venne spedito in collegio e la donna licenziata. In seguito, scrivendo alla cognata Ida, Puccini tornò sull'argomento: «La troja pare calmata però dice alla Doria che per le sue anemie ci vuole un rotolo di carne cruda - e viva!».

 Il gusto per l'allusione sessuale torna spesso nelle missive. Lavorando a Madama Butterfly, laddove Cio-Cio-San ricorda le parole di Pinkerton di tornare nella «stagione serena quando fa la nidiata il pettirosso», in una lettera al librettista Illica scherza: «Bisogna mettere in bocca a Butterfly questo uccello». E ancora, per descrivere la colomba pasquale inviatagli da Ricordi: «Il ser Giulio mi manda l'uccello con dolciura e confetti d'argento».

 Puccini aveva due passioni molto maschie: la caccia e i motori. Cacciatore incallito, quando perse il suo fidato coltello sentì il bisogno di annotarlo in una lettera e quando dimenticò il fucile a Roma sul treno scrisse che gli venisse spedito «a grande velocità» a Torre del Lago.

E poi le macchine: le acquistava e le collezionava e nel 1903, con la sua Clement 8HP, si ruppe una gamba in un incidente stradale. La convalescenza fu lunga e sofferta, soprattutto per l'impossibilità di lavorare alla Butterfly (ma non solo: «Ho desiri erotici che mi rimangio»).

 Il cantiere di Madama Butterfly è il tema preminente dal punto di vista musicologico. Vi si leggono i dissapori con Giacosa (soprannominato Buddha) sulla struttura dell'opera e la delusione per il fiasco della prima del 17 febbraio 1904 che commentò con l'amico Camillo Bondi: «Fu un vero linciaggio! Non ascoltarono una nota quei cannibali. Che orrenda orgia di forsennati, briachi d'odio! Ma la mia Butterfly rimane qual è: l'opera più sentita e più suggestiva ch' io abbia concepito! E avrò la rivincita, vedrai». Grazie all'epistolario emerge sempre più un uomo diretto, anticonformista, boccaccesco. Un Puccini da amare ancora di più.

"Devo lasciare". Perché Giampiero Mughini abbandona il Grande Fratello. Il giornalista e scrittore ha comunicato nella puntata andata in onda ieri sera, 16 novembre, la decisione di abbandonare la Casa. Ecco perché. Cristina Balbo il 17 Novembre 2023 su Il Giornale.

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 L’abbandono di Giampiero Mughini

 I saluti di Giampiero Mughini

Colpo di scena al Grande Fratello: Giampiero Mughini ha deciso di lasciare definitivamente la Casa di Cinecittà. A comunicarlo, è stato personalmente il giornalista e scrittore nella puntata andata in onda ieri sera, 16 novembre, dopo averne parlato nei giorni scorsi con gli autori della trasmissione. Naturalmente, non è mancato il dispiacere dei compagni d’avventura, oltre che i ringraziamenti e i complimenti del padrone di casa, Alfonso Signorini.

L’abbandono di Giampiero Mughini

Lo scrittore è stato chiamato in confessionale a colloquio con Alfonso Signorini, il quale si è complimentato per il percorso fatto all’interno del reality. Il conduttore, dopo aver ringraziato Giampiero Mughini, ha rivelato che non si aspettava che la sua permanenza nella Casa potesse essere così duratura. Sono passati circa due mesi, infatti, dall’inizio dell’avventura di Giampiero e la sua esperienza è stata assolutamente positiva. È per questo che Alfonso Signorini ha sottolineato quanto il giornalista sia riuscito a fare emergere un lato di sé probabilmente sconosciuto al grande pubblico.

D’altronde, sono noti gli accesi confronti di cui è stato protagonista Giampiero Mughini. A questo proposito lo scritto ha riferito: “Questo sopra ciò è una leggenda su di me. Io sono costituzionalmente un bravo ragazzo che è attento agli altri, che accetta le sfumature degli altri, certo se uno mi aggredisce non faccio un passo indietro. Sono stato benissimo nel vivere questa esperienza originale, incredibile, con ragazzi e ragazze che non avrei mai incontrato nel mio cammino professionale abituale”. È a questo punto che Signorini ha chiesto al giornalista di dire la sua anche una volta abbandonata la Casa, direttamente dallo studio: “Ti dico neanche con tanto dispiacere, io credo che tu possa continuare anche qui dallo studio, il tuo punto di vista che per me è preziosissimo”.

I saluti di Giampiero Mughini

Una volta terminato il dialogo con Alfonso dal confessionale, Giampiero è rientrato in Casa per comunicare direttamente la sua decisione – oltre che il motivo dell'abbandono- al resto degli inquilini. “Allora, premesso che le mie sono inezie e briciole messe su un piatto rispetto a quelle di Alex, sono qui purtroppo non a pronunciare una di quelle battutacce che mi vengono così facili, facili, ma fare un discorso che per me è rigato di lacrime, ossia a comunicarvi che io lascerò questa odiosissima e portentosa casa”, ha iniziato così Giampiero il suo discorso “d’addio” ai compagni d’avventura.

Poi, ha continuato spiegando i motivi che l’hanno spinto a compiere questa scelta: “La prima è dovuta alla vigliaccheria, perché non mi permette di leggere i miei cinque quotidiani al giorno, alla mia libreria, e a mia moglie Michela e ai miei figli a quattro zampe. Questa decisione ne vale al 25 per cento. Il restante 75 è legato al fatto che devo terminare un libro, entro fine dicembre dovrò consegnarlo”. E ancora: “Scrivere un libro è paragonabile a quello che è per una donna il tenere in grembo un bambino”. Infine, ha concluso:“Aspetto ognuno di voi a pranzo o cena a casa mia, dove sarete accolti da me, mia moglie Michela e dai miei due bambini Bibi e Klimt. A presto, presto, presto”.

Da ilfattoquotidiano.it sabato 4 novembre 2023.

Giampiero Mughini è sposato con Michela Pandolfi da 30 anni e non è uno che parla della propria vita privata. Ma essendo uno dei concorrenti del Grande Fratello Vip e avendo quindi a che fare con il ‘re del gossip’ Alfonso Signorini, stavolta ha dovuto “cedere”. Il conduttore gli ha rivelato che la moglie ha rilasciato un’intervista a Chi nella quale ha dichiarato di essere stata tradita una volta e di non averlo ancora perdonato: “È successo che un’altra persona splendida che ricordo con affetto…

È successo quello che succede nella vita di tutti. A me non piaceva stare nella menzogna così lei ha trovato delle foto che erano a portata di mano, forse volevo farlo sapere. La cosa è durata qualche mesetto con la consapevolezza di Michela, ma lei ci è stata male. Però in tanti anni di storia il bilancio con un solo tradimento può essere piú che positivo”, le parole del giornalista. 

Cesara Buonamici, opinionista di questa edizione, ha chiesto: “Ho una domanda per te, in amicizia vorrei sapere come ha fatto a sopportarti?“. Mughini se l’è cavata con un ricordo del primo incontro: “Ci abbiamo messo un anno per raggiungere un equilibrio, c’era gente che le diceva che ero omosessuale. Lei faceva la costumista e l’ha bevuta. Ci siamo conosciuti in uno studio televisivo…”. 

(...) 

Valerio Palmieri per “Chi” - Estratti sabato 4 novembre 2023.

Si chiama Michela Pandolfi e, da 30 anni, è a fianco di Giampiero Mughini, la rivelazione di questo Grande fratello. Michela ha sempre parlato pochissimo e, da quando suo marito è entrato nella Casa del Gf, non si è mai espressa. La cerchiamo al telefono e ci risponde con la sua “erre” francese e il suo stile elegante e ironico. 

Domanda. La disturbiamo?

Risposta. «Sto rivedendo la puntata del Grande fratello registrata, mando avanti per sentire cosa dice Giampiero. L’ho appena visto in piscina mentre apprezza le bellezze della Casa». 

D. Oddio, abbiamo sbagliato momento.

R. «No, non sono gelosa, lui apprezza la bellezza femminile, è un esteta. Pensi che in casa abbiamo anche la “stanza delle putt...”». 

D. Mi scusi, in che senso?

R. «Ma sì, è una stanza dove Giampiero conserva la letteratura erotica, le stampe, le illustrazioni di nudi femminili. È un esteta, una cosa di testa».

D. Lei era d’accordo che partecipasse al Grande fratello?

R. «Guardi, non ho mai visto nemmeno 30 secondi di quel programma nella mia vita, è stata Irene (Ghergo, ndr) a insistere perché lo facesse. Non mi interessano i fatti di questi che si parlano addosso, però vedo che Giampiero si diverte molto. Pensavo che si sarebbe annoiato, infatti gli stavo cercando altri libri da leggere, sa, ha già finito quelli che si è portato dentro la Casa». 

D. Giampiero è un intellettuale, perché ha accettato una sfida tanto ardita?

R. «Lui dice che, alla sua età, può fare quello che vuole. È sempre stato un uomo libero e lo ha anche pagato». 

D. Dopo dieci minuti che era nella Casa ha detto una cosa contro Matteo Salvini.

R. «Ma dai, non l’ho visto. E Salvini ha risposto?». 

D. Sì, ha detto che essere insultati da Mughini è una medaglia.

R. «Che divertente, io avrei detto di peggio». 

(...) 

D. Come l'ha conquistata?

«Ci è voluto più di un anno, anche perché ero sposata e avevo due figlie grandi. Poi, per lui, mi sono separata. All'inizio era solo un'amicizia, ci piaceva chiacchierare, andavamo al cinema di pomeriggio, non pensavo al futuro. Anzi, non avevo nessuna attrazione per lui se non mentale. Gliene ho combinate tante, visto che non mi interessava. Avrà pensato che fossi una str...a e, visto che gli sono sempre piaciute le str...e, ne aveva una collezione avrà pensato lo fossi anche io. Ma io non lo ero, sono un finta str..nza». 

D. E lui è stato fedele in questi 30 anni?

R. «No».

D. L'ha beccato?

R. «No, me l'ha detto lui. Parliamo di vent'anni fa». 

D. L'ha perdonato?

R. «Forse non l'ho mai perdonato».

D. L'ha mandato via di casa?

R. «Non potevo. Eravamo appena andati a convivere, perché i primi dieci anni di relazione abbiamo vissuto in case separate e lui dice che era per quello, perché non aveva mai convissuto, che si era distratto. Si è giustificato con il trauma della convivenza. Ma io non ci credo». 

D. E geloso dell'amore platonico di suo marito per Brigitte Bardot?

R. «Ma no, non l'ha mai neanche incontrata».

D. E a lei chi piace?

R. «A me piaceva Sam Shepard, ma una volta ho incontrato Alain Delon e mi ha lanciato uno sguardo che non dimenticherò mai». 

D. Una vendetta francese.

R. «Ero molto giovane, ed ero all'Isola del Giglio con i miei genitori. Delon era in barca con la moglie, il figlio, con Annie Girar-dot e Renato Salvatori. Stavano a mangiare da Ruggero, il ristorante più bello dell’isola, ma erano vestiti talmente male che furono rimbalzati. Poi li hanno riconosciuti e gli hanno dato un tavolo. I miei genitori erano lì, a pranzo, e mia mamma mi telefonò: "Devi venire qui subito". Mi affaccio, vedo questo sguardo pazzesco, bellissimo, forse anche troppo. Lo ricorderò per sempre».

(…)

Giampiero Mughini per Dagospia venerdì 6 ottobre 2023. 

Caro Dago, non ricordo più dove ho letto qualche giorno fa di un tale che si stupiva che chi andasse a chiacchierare del più e del meno in televisione venisse pagato, e questo perché l'esser pagato non poteva non essere un vincolo alla sua libertà. Se tu vai e vieni pagato in un canale televisivo il cui proprietario è un nero o un monarchico o uno iscritto alla P2, ovvio che dirai tutto il bene possibile dei neri o dei monarchici o degi iscritti al P2, questo è il pensiero del povero imbecille da cui sono partito. Chi va da qualche parte a esporre il suo pensiero, secondo questo misirizzi, deve farlo gratis. 

Ti confesso che nel leggere questa porcata ho avuto un soprassalto dato che il mio pensiero laico - appunto perché laico - va esattamente all'opposto. Non sono nato ricco, vivo del mio lavoro e dunque a esporre gratis il mio pensiero non vado neppure da casa mia a cento metri di distanza. Purtroppo ricevo ogni giorno almeno una richiesta di dare il mio tempo gratis. Rarissimamente accondiscendo, il più delle volte è un no.

Non so come faccia a funzionare il canale televisivo la7 dove pagano solo i conduttori, e difatti mai mi ci vedrete sui loro schermi che pure sono affollati dalla mattina alla sera. Possibile che quelli che ci vanno siano tutti ricchi di loro? Non hanno da pagarsi uno studio professionale (nel mio caso di sette stanze, perché tante ce ne vogliono a contenere i miei libri), la relativa Imu, gli abbonamenti ai vari e tanti canali televisivi, l'acquisto di libri giornali riviste dischi, l'ingresso nei musei o alle mostre d'arte? Senza di questo, e a meno che tu non sia semianalfabeta (il che non è rarissimo tra quanti aprono bocca in televisione) come fai a palare del più e del meno? 

In quest'ultima settimana mi sono arrivati tre cataloghi di libri rari e importanti, da ognuno dei quali spremerò il relativo succo: da Andrea Galli di Rimini, da Paolo Bongiorno, dalla libreria milanese Libri Senza Data. Sì, il relativo succo e difatti ci ho speso qualcosa di vicino a 2000 euro nell'acquistare libri e materiali vari da quei tre cataloghi. Beninteso, soldi tutti santi e benedetti, contribuiranno a dare l'impressione che quando apro bocca non lo faccio per fare uscire dei suoni indistinti, delle banalità illimitate, dei giudizi che neppure uno della terza elementare.

Che c'entra questo con le limitazioni alla libertà di pensiero? Tutto al contrario, è un pensiero liberamente conquistato e liberamente espresso. Le volte che da qualche parte me la volevano limitare quella libertà di pensiero, ho preso la borsa a tracolla e me ne sono andato anche se non sapevo come avrei fatto a pagare l'affitto di casa il mese successivo. L'ho fatto più e più volte. L'ho raccontato più e più volte. Lo rifarei domani se del caso. 

Non che me ne vanti, ci mancava solo che non lo facessi. Mi mancherei di rispetto, il che mi è assolutamente impossibile. Io porto rispetto a tutti, ovviamente anche a me stesso.

Mughini: «Entro al Grande Fratello. I figli? Non mi manca non averne avuti, è stato già tanto sposarmi con Michela ». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera venerdì 29 settembre 2023. 

Da Prezzolini e Montanelli a Loretta Goggi e Milly Carlucci: « Vi racconto cosa mi ha colpito di loro» 

Giampiero Mughini, chi è la persona più intelligente che abbia mai conosciuto?

«Dopo Norberto Bobbio?».

Dopo Norberto Bobbio.

«Indro Montanelli. Ha fatto Montanelli per tutta la vita; e ci voleva molto talento».

Cosa significava fare Montanelli?

«Stare al confine tra le due parti — Mussolini, la Dc, Berlusconi, e i loro avversari —, cogliendo sempre il momento giusto per schierarsi».

Qual è il suo primo ricordo?

«Firenze, 1944. Mio padre, fascista, con l’arrivo dei partigiani si era nascosto. Poi partimmo su un camion americano verso la Sicilia. Il viaggio durò 15 giorni».

I suoi genitori si separarono.

«Una cosa che non succedeva mai: mariti e mogli si facevano le corna, ma restavano insieme. A Catania l’unico figlio di separati ero io. Pranzavo da mio padre tre volte al mese. Un giorno mi disse: lo sai che tua madre frequenta un altro uomo? Risposi: “Ne ha pieno diritto”. Avevo tredici anni».

Suo padre aveva fatto la marcia su Roma, vero?

«Così diceva. Ma parlando con il suo grande amico di Marradi, il paese dove era nato, mi sono convinto che fosse una vanteria. Poco importa: stava da quella parte».

Com’era?

«Di una durezza che faceva paura. Diceva una parola ogni mezz’ora; ma era una parola che lasciava il segno. Ho impiegato tutta la vita a sentire più vicina a me la durezza della toscanità attiva di mio padre, rispetto al chiacchiericcio meridionale di mio nonno».

Chi era suo nonno?

«Pietro Battiato era comunista. Finì anche in galera, e mio padre lo fece liberare. Sul comodino aveva i ritratti di Marx, Engels, Lenin, Gramsci e Stalin. Dopo il ventesimo congresso del Pcus tolse il ritratto di Stalin. Mio padre aveva una sola foto, di Mussolini giovane. E sa qual è la differenza?».

Quale?

«Mio padre aveva un’esperienza personale di Mussolini giovane. Mio nonno di Marx, Engels e compagnia non sapeva nulla. Il nonno era un chiacchierone cui piacevano le belle donne».

Povero nonno.

«Lo adoravo. Fece anche il direttore di Giovane critica, la mia rivista, grazie al suo tesserino da giornalista pubblicista. Pure lui si separò dalla nonna, quando avevano settant’anni».

Mussolini ha sulla coscienza 440 mila morti italiani nella seconda guerra mondiale.

«Mio padre e i giovani fascisti non covavano i morti. Covavano quella che loro ritenevano la strada giusta per opporsi al bolscevismo».

Qual è il suo primo ricordo pubblico?

«Era il 25 aprile 1961, avevo vent’anni, parlai in piazza. Dissi che con gli ex fascisti dovevamo essere spietati; e non tenni in alcun conto che tra quegli ex fascisti c’era mio padre. Da allora sono passati 62 anni, e ancora me ne vergogno. Non perdonerò mai a me stesso di aver detto quella bestialità».

Anche lei però divenne comunista.

«Di sinistra accesa».

Fu tra i fondatori del Manifesto.

«Rimasi tre mesi, ma mi resi conto subito che era una follia vagheggiare un partito comunista a sinistra del Pci. Scrissi un articolo raccogliendo giudizi, anche critici, sulla nuova testata. Lucio Magri mi disse che lui quelle cose non le avrebbe scritte. Mi alzai, presi la mia borsa, e me ne andai».

Com’era Lucio Magri?

«Mi è sempre stato antipatico. Da quando ho saputo del suo suicidio, in una clinica svizzera, è per me un fratello».

Anche lei ha conosciuto la depressione?

«Sì. Fu un periodo in cui anche solo andare dal letto al bagno mi costava una fatica terribile. Pensavo di essere fuori da qualsiasi giro».

Come ne è uscito?

«Con le pillole. E con la consapevolezza che nella vita esiste il bianco ed esiste il nero».

Quale fu il suo momento bianco?

«Pubblicare Compagni addio fu uno spartiacque. Positivo, anche se doloroso. Paolo Flores d’Arcais non mi ha più rivolto la parola. Nanni Moretti neppure».

Lei per Moretti fu anche attore. Si racconta che abbiate litigato quando lui, in questa casa così piena di oggetti preziosi da essere ribattezzata Muggenheim, ruppe un bicchierino da whiskey con cui giocherellava.

«Nanni lo gettava in aria, lo faceva volteggiare, e lo riprendeva al volo. Prima volta: paf! Seconda volta: paf! Terza volta: crash! Ma non abbiamo certo rotto per questo, bensì per Compagni addio. Eppure, se oggi Nanni tornasse in casa mia, lo abbraccerei».

Lei Mughini ha vissuto una doppia vita. I futuristi, e la tv con Loretta Goggi. I designer, e i talk sul calcio di Piccinini e Pardo. Gli stilisti giapponesi, e Ballando con le Stelle. Qualcuno dice che lo fa per denaro.

«Il denaro è una motivazione importante, ma non certo la prima».

Altri dicono che lo fa per narcisismo.

«Questa è già un’ipotesi più calzante. Ma il vero motivo è fare una cosa per la prima volta, rientrare nel giro, mettermi in gioco. E il pop, dal cinema al fumetto, per me è parte essenziale della vita».

A Ballando le hanno dato zero.

«Davvero lei e io ci siamo incontrati qui oggi per parlare della giuria di Ballando?».

È vero che adesso va al Grande Fratello?

«Sì. Entro nella casa tra un paio di settimane. Senza cellulare e senza orologio. Porto la mia salsa per condire quella pietanza».

Come fu con Loretta Goggi?

«Era la prima volta che guardavo una macchina da presa e parlavo a milioni di italiani. Ho imparato che in tv hai pochi secondi a disposizione. Oggi leggo articoli che dopo cinquanta righe non hanno ancora detto nulla».

Loretta com’era?

«Straordinaria. Un giorno venne Klaus Dibiasi. Lei lo guardò stranita: “E questo chi è?”. Risposi: è il più grande tuffatore di tutti i tempi, oro olimpico dalla piattaforma a Città del Messico 1968, Monaco 1972, Montreal 1976. Un attimo dopo Loretta parlava con Klaus Dibiasi come se lo conoscesse da sempre, come se avesse assistito al suo duello con Greg Louganis a bordo piscina. Strepitosa».

Chi è il più grande sportivo di tutti i tempi?

«Roger Federer è per me un dio, ma ora ho capito la grandezza di Nadal. Tra gli italiani ho amato molto Pietrangeli e Alberto Cova».

Tra i calciatori?

«Marco Tardelli: il più moderno. La prima volta che lo incontrai ero emozionato come un bambino; ora lui e Myrta Merlino sono cari amici. La Juve tutta italiana del 1977 è per me la squadra più forte di sempre. In Argentina giocò un Mondiale favoloso. E mancavano Beppe Furino e Francesco Morini: due rocce».

E tra gli stranieri?

«Crujff era mostruoso».

Maradona? Platini?

«Non sono stranieri. Maradona è il più grande calciatore napoletano. Platini è diventato grande in Italia».

Come mai lei è diventato juventino?

«Perché da bambino giocavo con le figurine Panini e mi piacevano Giampiero Boniperti, che si chiamava come me, ed Ermes Muccinelli, che era piccolo e nervoso come me».

L’ipotesi del narcisismo guadagna terreno.

«Ma io mi sento minuscolo rispetto alle grandi intelligenze. A ripensarci, la persona più intelligente che ho conosciuto è Prezzolini. Lo intervistai quando stava per compiere cent’anni. Era il 1982 e mi raccontò un pranzo del 1926 a Firenze: “C’erano Tizio, Caio, Sempronio e... perbacco! Non mi ricordo il quarto!”».

E Sciascia?

«Forse il più intelligente di tutti è lui. Eravamo amici. Quando morì stava lavorando a una biografia di Telesio Interlandi, il teorico del razzismo. Il figlio di Interlandi mi propose di continuare io. Ci pensai 35 secondi e gli dissi di sì».

Lei ha intervistato anche Terracini, il comunista che firmò la Costituzione.

«Mi raccontò che ogni sera dei diciassette anni che passò nelle carceri fasciste infilava i pantaloni sotto il materasso, per averli stirati il mattino dopo. Un dettaglio meraviglioso, che dà l’idea della dignità, della forza morale. Ma quando rilesse l’intervista quel dettaglio lo trovò troppo borghese. E me lo fece togliere».

E Togliatti?

«Fu l’unico leader comunista a sopravvivere a Stalin. Lui, De Gasperi, Einaudi, Fanfani: giganti».

E la Meloni?

«Me la trovai davanti la prima volta che avrà avuto diciotto anni: non sbagliò una parola. Pure al governo ha iniziato bene; poi si è ingarbugliata. Anche a causa della sua squadra: se giocasse a calcio, sarebbe in serie C».

Voterà Meloni o Schlein?

«Certo non la Schlein. Nulla in lei mi suona, tranne qualche sillaba che mi ricorda tempi remotissimi. Se mi chiedessero di andare a cena con la Schlein o con Vannacci, sceglierei il generale».

Perché?

«Non mi pare uno sciocco. Non per il libro, ma perché ha avuto un comando di uomini in zona di guerra».

Di Berlusconi che ricordo ha?

«Non buono; buonissimo. Ero in una sua tv quando qualche leccapiedi disse: il presidente Berlusconi ha vinto l’Oscar. Risposi che l’Oscar l’aveva vinto Salvatores, con un film prodotto da Berlusconi. Il giorno dopo lui mi telefonò per ringraziarmi di aver corretto quell’importuno. Era la prima volta che lo sentivo in vita mia».

Craxi?

«Un altro gigante, che ha cambiato la storia della sinistra italiana».

Un condannato.

«Certo. Ma non meritava di essere straziato in quel modo, cacciato fuori dall’Italia dove si sarebbe potuto salvare, operato in condizioni spaventose, quasi condannato a morte».

Berlinguer?

«Brava persona, comunista banale».

Perché?

«La questione morale, il proclamarsi superiori, è una banalità da terza elementare. È banale aspettare il golpe in Polonia del 1980, quarant’anni dopo Katyn, per proclamare la fine della spinta propulsiva dell’Urss».

Le manca non avere figli?

«Non sarei stato all’altezza. È già stato tanto sposarmi, tre anni fa, con Michela».

Lei crede in Dio?

«No. L’aldilà non esiste».

Quindi la sua amata Brigitte Bardot non risorgerà?

«Purtroppo no. Ma è entrata talmente dentro di noi, che fino a quando sarà vivo un uomo della nostra generazione, BB vivrà».

Estratto dell'articolo di Maria Volpe per corriere.it domenica 10 settembre 2023.

Lunedì 11 comincia la nuova edizione del Grande fratello e tra i personaggi noti, quasi certamente ci sarà Giampiero Mughini, giornalista, scrittore, intellettuale, opinionista, acceso polemista. Da tempo la televisione è la sua casa ma l’entrata nella casa più spiata d’Italia, ha creato un certo stupore. 

[…] Da tempo girava la voce di Mughini nel cast del Grande fratello e la (quasi) conferma è arrivata da una lettera aperta, indirizzata a Dagospia, dove Mughini ha detto (senza citare espressamente il GF): «Parteciperò a un reality, un’amica mi difenderà sui social dove si decide il destino di ognuno di noi».

Lotta Continua

Giampiero Giovanni Mughini è nato a Catania, il 16 aprile 1941. È stato uno dei fondatori del periodico Il Manifesto (1969), ma l’ha abbandonato dopo soli tre mesi per incompatibilità con i colleghi.

È stato poi direttore responsabile di Lotta Continua, giornale dell’omonimo movimento della sinistra extraparlamentare, che lascia nel 1971. Per la direzione di LC subisce vari processi e condanne pur non condividendo le posizioni estreme della redazione. Ha detto: «In quel giornale non sono mai entrato, non lo leggevo neppure tanto, ma ho fatto il direttore responsabile, ho preso 3 condanne e ho subito 28 processi, pagando le spese da me». 

L'intellettuale di «Ecco bombo»

Mughini, personaggio eclettico, viene chiamato da Nanni Moretti a interpretare la parte di un intellettuale, l’uomo occhialuto nel film Ecce bombo (1978). […]

Tanti anni al «Costanzo show»

Maurizio Costanzo non si fa scappare un personaggio così colto, istrionico, vivace. E diventa un ospite quasi fisso nel longevo talk show. Negli anni novanta, pungenti e coloriti sono i suoi interventi sul palco del Teatro Parioli. 

Proprio nel maggio scorso, quando ancora Costanzo era vivo, in una puntata dello show, Mughini si è reso protagonista di una vera e propria rissa con Vittorio Sgarbi. Insulti e mani addosso. Ma pace e stretta di mano a fine puntata. 

Ballerino e polemista

Mughini coraggioso. Nel 2022 ha partecipato come concorrente al programma di Rai1 Ballando con le Stelle insieme alla ballerina Veera Kinnunen. Come sempre l’intellettuale dai variopinti occhiali , oltre che provare a danzare , ha battibeccato con molti giurati tra cui Selvaggia Lucarelli e Guillermo Mariotto 

La moglie Michela

Mughini è sposato con Michela Pandolfi. Le nozze sono state celebrate nel 1985 e dunque il loro matrimonio va decisamente a gonfie vele possiamo dire che il matrimonio prosegua a gonfie vele da ben 38 anni. […] 

Lo sport e la passione per la Juve

Mughini oltre che uomo di grande cultura è un grande appassionato di calcio e tifoso sfegatato. Sempre molto appassionati i suoi interventi nei programmi come L’appello del martedì e Controcampo e le sue difese della squadra del cuore.

Giampiero Mughini per Dagospia domenica 27 agosto 2023.

Caro Dago, e siccome succede che a breve parteciperò a una trasmissione televisiva seguita dal grande pubblico, ecco che una mia cara amica mi manda una mail: "Caro Giampiero, ti difenderò sui social". Ed è perfettamente affettuosa nel dirmelo, perché è sui social che si combatte la battaglia di Stalingrado che decide del destino massmediatico di ognuno di noi. 

L'ho capito ancor meglio quando ho letto della contesa tra Fabio Fazio e la Rai su chi dei due avesse la proprietà dei contenuti social relativi alla fortunatissima trasmissione fondata e governata da Fabio su RaiTre. Poche chiacchiere, erano là che stavano i segnali più significativi della storia televisiva di "Che tempo che fa". 

I commenti o magari gli insulti che a decine e decine di migliaia scaraventano sui social, e laddove quando io scrivo sul Foglio un articolo che mi è costato tre giorni di lavoro sono contentissimo se un paio di amici mi scrivono una mail a dirmi che lo hanno trovato interessante.

Non c'è più gara. A dire se esisti e come esisti, i social sono l'inizio e la fine di tutto. Quando entri in un albergo, non è la carta di identità che dovrebbero chiederti a identificare chi sei, e bensì il tuo account social. Ne sta parlando uno che non sa neppure che cosa siano esattamente Facebook e Instagram, uno che allibisce quando legge di due fidanzati vip che lei racconta sui social la loro storia momento per momento. Alla faccia dell'indiscrezione, alla faccia della petulanza, alla faccia del narcisismo, tutto della vita privata viene offerto alla degustazione di tutti.

Delle volte che io esco non dico con una mia amante ma con una mia amica  – con Sandra, con Chiara, con Simona, con Fiamma, con Barbara – neppure sotto tortura confesserei una sola delle cose che ci siamo dette e che appartenevano a noi e a noi soltanto. Possibile che i giovani in particolare non lo capiscano più che un solo silenzio vale più di cento schiamazzi? Che il meglio della vita non è il parteggiare alto e sonante per il Nero o per il Bianco e bensì cogliere le sfumature della vita di noi tutti esseri umani? 

Le sfumature, le ambiguità le contraddizioni, le ambivalenze, tutto ciò che è perfettamente antitetico alla musica dei social. Possibile non capiscano che nessuno può spingere il proprio narcisismo sino al punto da esaltare ogni spicciolo della propria esistenza quotidiana, da tempestare il prossimo tuo con una mitragliata di autoesaltazioni, di rimandi ai propri libri o ai propri articoli o agli spettacoli di cui sei il regista? Un po' di misura, almeno un poco, cari amici. Un po' meno di autoesaltazione, poco poco meno.

Per quanto mi riguarda ieri ho mandato due sms. Uno ad Alberto Mingardi che aveva scritto sul Foglio un magnifico elogio di Vilfredo Pareto, uno al mio vecchio amico Ernesto Galli della Loggia affinché comunicasse a sua moglie Lucetta Scaraffia quanto avessi letto con piacere il suo articolo di cattolica e femminista sul libro del generale Roberto Vannacci. Libro che purtroppo non leggerò mai e lo dico con la massima grazia possibile. Solo che è un libro che mi sembra poco incline alle sfumature e alle ambivalenze.

Giampiero Mughini per Dagospia lunedì 21 agosto 2023.

Caro Dago, ci mancherebbe altro che io non pianga la vita spezzata di Michela Murgia, contando niente che le sue idee fossero così diverse dalle mie. Mi pare sia stato Roberto Saviano a commemorarla vantandone il fatto che lei era una che "prendeva posizione", ossia che sceglieva una parte e la sosteneva col dare addosso alla parte o alle parti avverse. E a dar loro addosso coi controfiocchi, ossia menando duro e in pieno volto. 

Ebbene pur appartenendo a una generazione che fin dagli anni Sessanta è fiorita menando colpi all'impazzata - e su quegli anni non c'è nessuno che abbia a dirmi qualcosa che non so -, oggi non è più questa la latitudine cui mi colloco. Anche perché quelli che sostengono la primazia del "prender posizione" in realtà vogliono dire che la posizione che va presa è la loro, e guai a prendere una posizione diversa. Di certo è il caso di Saviano, al quale peraltro auguro ogni bene. 

Io invece sono oggi uno che non ha una "parte", e che quando affronta un  personaggio pubblico o un problema di rilievo o quello che volete voi, sa come inizierà il ragionamento ma non come lo finirà. Perché a me non interessa "prendere una posizione" e tatuarmi in fronte che razza di posizione è. A me interessa mettere a nudo tutti i lati della questione, la sua possibile ambiguità. A me non interessa arrivare a una sentenza e pronunciarla a voce alta mentre deambulo nella rete fognaria che ha nome "social", a pronunciarla a voce alta in uno scritto di poche righe eruttato in cinque o dieci minuti. Di tutte queste "prese di posizione" me ne strafotto altissimamente. 

Essere antifascista? E' una tale ovvietà che mi vergognerei persino a pronunciarla. Resta il fatto che se c'è uno che con la storia del fascismo ha un rapporto diverso dal mio, io non cerco a tutta prima di azzannarlo, di dirgliene di tutti i colori, di ricordargli la morte di Matteotti e la cella di Gramsci. Cerco di capire che cosa lui intende col dirsi fascista, a quali valori esattamente fa riferimento, che cosa intende fare di reale nella società italiana del terzo millennio. Ne sto parlando in una casa romana sita a poche decine di metri dall'indirizzo di viale Trastevere dove i nazi bussarono alla mattina presto del 16 ottobre 1943 per poi asportarne un'intera e numerosa famiglia ebrea, ivi compresi due adolescenti, nessuno dei quali tornò vivo. 

Ecco una cosa è sicura, che noi non siamo al 16 ottobre 1943 ma in tutt'altro anno e in tutt'altro millennio e che nessuna famiglia ebrea che abitasse a viale Trastevere avrebbe di che temere se qualcuno bussasse alla loro porta. Né mi pare che ci sia qualcuno che se lo augura di andare a bussare con intenti malevoli alla porta delle case dove abitano famiglie ebree. E' semplice, no?

E' semplice che I nostri problemi oggi sono tutt'altri e richiedono dunque tutt'altre denominazioni e tutt'altre etimologie che non siano quelle adattabili ai fatti del secolo scorso. Tutt'altr e "posizioni" che quelle prese durante la guerra civile tra italiani. O no? 

A me sembra molto semplice. E poi c'è un altro fatto immane, e cioè che alla vita democratica sono necessarissimi quelli che prendono una posizione diversa dalla tua. Per me è un fatto acclarato che in Ucraina abbiano cominciato i russi a invadere e uccidere, però mi è necessarissima la posizione di quanti reputano che non è a forza di armi usate da una parte e dall'altra che si porrà fine alla tragedia , che bisogna trovare i termini di un compromesso che sia accettabile da entrambe le parti.

Assolutamente bisogna trovarli. E perciò leggo con attenzione spasmodica quelli che "prendono posizione" sulle pagine del Fatto, un giornale di cui non condivido molte "posizioni" ma che mi mancherebbe molto se alla mattina non lo trovassi all'edicola.Tutto qui. 

Ps. mi metto i guanti bianchi prima di "prendere posizione" su chi davvero ha messo la bomba alla stazione. Non ne ho letto a sufficienza, due o tre libri dei dieci o quindici che dovrei conoscere. C'è che io sono persuaso che Valerio e Francesca quella bomba non l'abbiano messa loro, e questo perché non sta né in cielo né in terra con tutto quello che loro sono stati, le loro follie omicide ivi comprese. Follie che erano inscritte nel loro dna di ventenni. La bomba di Bologna no, quella non era inscritta affatto. Se prendo "posizione"? C'è che fra un paio di giorni verranno a cena da me, loro due una giornalista radicale loro amica. Mi sembra una "posizione" del tutto pertinente.

Giampiero Mughini per Dagospia il 14 aprile 2023.

Caro Dago, Nanni Moretti ha avuto un’idea magnifica nel far partire il suo film (di imminente uscita) dalla condizione di un regista che sta girando un film sui fatti d’Ungheria del 1956, ossia dalla narrazione simbolicamente e intellettualmente la più importante per almeno tre o quattro generazioni del nostro dopoguerra.

 Tanto per i più o meno quarantenni quali Luciano Cafagna e Carlo Muscetta che da militanti del Pci fecero combutta nel cucinino di una casa romana dalle parti di Piazza Venezia pur di stilare il famoso “documento dei 101” dov’era nettissima la condanna dell’azione dei carri armati sovietici (e dunque la rottura con quel sistema politico/ideale che così a lungo aveva fatto da “sole dell’avvenire”), quanto per i men che ventenni quale il sottoscritto che da quei fatti impararono a sillabare un loro “anticomunismo” che nel tempo sarebbe divenuto non meno definitivo dell’antifascismo da cui avevamo preso le mosse.

Quanto a Nanni questi sentimenti e questi umori gli sono arrivati per la via del fratello maggiore Franco (futuro professore di Letterature comparate in un’università americana) e dello strettissimo rapporto di quest’ultimo con Paolo Flores d’Arcais. Più precisamente ancora a Nanni (di sette anni più giovane di me) deve essere come entrato nelle vene l’atteggiamento proprio a Paolo, a Giulio Savelli e ad altri della mia generazione, i quali pensarono di respingere l’orrore staliniano a forza di adesione a un’altra variante del bolscevismo, il trokismo, e del resto io stesso tengo su uno scaffale una ventina di libri di questo grande intellettuale e scrittore oltre che capo politico.

Solo che il nostro era un colossale abbaglio. Se al momento della successione a Lenin la leadership del partito comunista bolscevico fosse stata conquistata da Lev Trockij anziché da Stalin, lui  avrebbe compiuto più o meno le stesse nefandezze di Stalin, e basterebbe a dimostrarlo il settarismo con cui trattò quelli della sua chiesuola che si distaccavano dalla via maestra, ad esempio quel Boris Souvarine che i conti con il bolscevismo li fece con il suo magistrale Stalin (in Italia tradotto da Adelphi).

 Il vizio era nel manico, nella base di partenza del bolscevismo, nell’idea che un partito politico esaltato dall’ “odio di classe” (e meglio ancora il gruppo di vertice di quel partito) diventasse il sovrano assoluto dei corpi e delle anime di quelli che costituiscono la società per come essa è davvero. Da questo infame punto di partenza discende  giù il comunismo reale, assieme al fascismo/nazismo (non sono la stessa cosa) l’altra massima abiezione diffusa del Novecento, solo che è durata poco meno di mezzo secolo in più. E’ durata a San Pietroburgo, a Mosca, a Praga, nella metà della Germania, a Varsavia, a Bucarest, in Ucraina.

 E’ durata a lungo a Budapest, dove nel 1956 studenti e operai si scagliarono contro i boia stalinisti ungheresi. Un grande fotografo italiano, Mario De Biasi c’era in quella Budapest e me li ha raccontati i momenti in cui (mentre lui scattava foto su foto) la folla entrò in una sede del partito comunista e linciò alcuni di quelli che ci si erano barricati.

Nel liceo catanese dove studiavo irruppero i giovani missini e noi andammo dietro di loro a vociferare ai piedi dei balconi della Federazione del Pci. Se mi sono pentito di averlo fatto assieme a cotanta compagnia? Avevo quindici anni, mi pentirei di più se non lo avessi fatto. Al desco della mia casa di borghesia impoverita mia madre (che in quel momento era apolitica) bisticciava con suo padre e mio nonno che era un dirigente della Federazione catanese del Pci e che approvava l’intervento dei carri armati sovietici. Quando ho intrapreso il cammino per diventare un uomo pensante, a vent’anni, ho letto libri di cui non mi dimenticherò mai, lo splendido libro di Roberto Guiducci dedicato ai fatti d’Ungheria e il romanzo dello scrittore ungherese Tibor Déry, Storia di un cane, dove i fatti di Ungheria del 1956 vengono narrati dal punto di vista di un cane il cui padrone viene afferrato dalla polizia politica stalinista. Sono i libri cui devo tutto di quello che sono divenuto oggi.

Una decina di anni fa sono stato a Budapest. Sono arrivato a sera tarda. Alla mattina dell’indomani la prima cosa che ho fatto è stata prendere un taxi che portasse me e Michela al numero 60 di viale Andrássy dov’è la Casa del terrore che ospitò dapprima la polizia fascista e successivamente la polizia stalinista ungherese. E’ un museo inaugurato nel 2002 e particolarmente voluto da Viktor Orbán. Le stanze dov’erano gli uffici, le cantine dov’erano reclusi un tempo gli ebrei e un tempo i non comunisti, il bugigattolo con la forca cui si accedeva montando tre gradini, tutto era tale e quale il tempo in cui vi era sovrano l’orrore. C’era una stanza in cui la scrivania cui sedeva il capo dei boia mentre interrogava i prigionieri era messa con la stessa angolazione che era stata la sua al tempo dell’orrore, ed era naturalmente la stessa scrivania usata prima da un capo fascista e poi da un capo comunista.

Mai nella mia vita ho visto nulla di simile, pareti e arredi che era come se sanguinassero, stanze che trasudavano l’eco della sofferenza e del dolore. Appunto, il comunismo reale.

Non vedo l’ora di andare a vedere il film di Nanni. Sono sicuro che qualcosa di quanto sto scrivendo ce lo ritroverò grazie al suo genio cinematografico.

Giampiero Mughini per Dagospia il 31 marzo 2023.

Caro Dago, e siccome il segretario della Cgil Maurizio Landini lo ripete continuamente che a pagare le tasse sono soltanto i lavoratori dipendenti e i pensionati, ogni volta io me ne sento punto sul vivo. Meglio ancora offeso.

 Sono anch’io un pensionato, ma da oltre quarant’anni la più parte del mio reddito viene dal lavoro da partita Iva.

 E dunque mi sento offeso dal sentir pronunciare che per il fatto di essere una partita Iva sono senz’altro uno che evade le tasse. Non che io ci tenga particolarmente a essere identificato come uno di sinistra, come uno particolarmente attento agli “ultimi”, a quelli che hanno di meno e che dunque vanno aiutati per la via fiscale da chi ha di più. Il fatto è che io tengo immensamente a essere una brava persona, e che ai miei occhi l’eventuale mancato pagamento delle tasse dovute è peggio che l’essere un adepto di Casa Pound.

Vorrei spiegare un tantino a Landini com’è il vivere e il lavorare da partita Iva, ossia da uno che di volta in volta fa un lavoro che gli viene chiesto, che di volta in volta gli viene accettato o magari no, che di volta in volta gli viene pagato ma non sempre, che di volta in volta deve aspettare tra i tre e i quattro mesi per intascare il pattuito, un lavoro che di volta in volta comporta spese per la produzione del reddito anche ingenti. Una condizione che si fa rovente alla fine di ogni mese, ad esempio questo fine marzo/avvio di aprile dove io mi aspetto di incassare il lavoro fatto in gennaio o magari in dicembre 2022 e prego Iddio di riuscirci.

A Landini evidentemente non lo hanno mai spiegato com’è il lavoro e dunque la vita di una partita Iva, glielo spiego io volentieri. In quello che è il mio settore professionale specifico, dove è puramente cialtronesco il detto dell’ex capo del governo Giuseppe Conte (per come lo ha riferito l’ottimo Francesco Merlo), e cioè che un giornalista arriva agevolmente a guadagnare 200/300 euro l’ora, le cose stanno così.

 Quindici anni fa a uno come me bastava scrivere un articolo per pagarci due bollette della luce, oggi ce ne vogliono tre di articoli per pagarne una, e fermo restando che sono rilevanti le spese necessarie alla produzione di quel reddito: devi avere uno studio professionale attrezzato al meglio, devi pagare libri e giornali a iosa, devi essere abbonato a tutti i canali televisivi e streaming possibili e immaginabili, devi portare degli interlocutori a cena e a pranzo, se uno come me va in uno studio televisivo è meglio non essere vestito da impiegato delle pompe funebri com’è il caso ad esempio dei parlamentari italiani.

Ebbene a partire da un reddito dichiarato di 50mila euro lordi l’anno, corrispondenti più o meno a 3500 euro netti al mese, tutto compreso tu paghi il 50 per cento di tasse e senza contare l’Imu sulla casa che funge da studio professionale. Ho detto paghi perché nel mio ramo professionale dove non c’è una bell’e tonda fattura elettronica su cui l’Agenzia delle entrate può puntare il suo mirino, i tempi di pagamento non scattano.

 Non fatturi? Nessuno paga. E’ molto semplice, caro Landini. Beninteso, in questi ultimi cinque anni confesso che due o tre volte mi hanno pagato in nero. Due o tre volte contro 150-180 fatture circa fatte in cinque anni. Tanto che rientro nell’1 per cento di italiani che svelano un reddito lordo superiore ai 100mila euro annui. Tanto che non so se ridere o piangere.

Ma non è finita. Ciascun lavoro a partita Iva è pagato con un contratto che determina i tempi di pagamento, 90 volte su cento 60 giorni fine mese. Lavori in gennaio? Ti pagheranno a fine marzo. O per meglio dire ti pagheranno nel corso del mese di marzo perché il contratto menziona esplicitamente un ulteriore lasso di tempo di 10-15 giorni dovuto al fatto che il pagamento è “telematico”, ossia al fatto - lasciano intendere i pagatori - che i soldi a te destinati se la fanno a piedi, lemme lemme per tutto lo stivale italiano.

Dicevo che ogni fine mese è un tempo rovente. Tu hai i tuoi pagamenti da fare, e non puoi ritardarli neppure di un’ora. I tuoi introiti arriveranno quando e se Dio vuole. Lei non crede a quanto le sto raccontando, caro Landini? Lei è convinto che la situazione fiscale delle partite Iva sia paradisiaca, che siamo tutti degli evasori allo stato puro? E allora perché non la apre anche lei una partita Iva al fine di spassarsela fiscalmente? Chi glielo impedisce?

Giampiero Mughini per Dagospia il 27 marzo 2023.

Caro Dago, ovvio che a nessuno di noi venga in mente di chiedere un lavoro gratuito a un commercialista o a un medico specialista o a un architetto, anzitutto per non averne in risposta una pernacchia.

 Ma che dico?, a nessuno di noi viene neppure lontanamente in mente di chiamare un idraulico o un elettricista o un tecnico dell’ascensore o un restauratore di vasi in ceramica a darci gratis magari dieci minuti del loro tempo prezioso. Sono professionisti che vivono del loro lavoro, e che appena lo hanno concluso stendono la palma della mano a riscuotere la loro mercede più Iva. E ci mancherebbe altro che le cose non andassero così.

 Ora succede che il mio lavoro, il saper chiacchierare per iscritto o per orale del più e del meno, non dico sia del rango di quello di un medico o di un architetto, e nemmeno di un idraulico o di un elettricista. Lo so bene che è un lavoro detto “intellettuale” e dunque un lavoro che non serve a nulla e a nessuno, ma pur lavoro è e tanto più che io non sono nato ricco e con quel lavoro ci debbo pagare due pasti al giorno nonché le bollette e gli abbonamenti a canali televisivi e streaming e gli acquisti di tantissimi libri.

E invece quattro o cinque volte alla settimana, talvolta anche un paio di volte al giorno, mi arrivano telefonate cortesi di chi mi chiede di conversare o di scrivere di questo o di quello, di andare su o giù per l’Italia, di metterci la mia faccia e la mia voce innanzi all’uno o all’altro pubblico. Parlano a nome di un circolo culturale, di un qualche festival locale, di un museo, di un assessorato, di un blog online, di un canale televisivo non dei più frequentati. Mi raccontano al telefono la storia della loro iniziativa, mi dicono chi ci sarà accanto a me, quanto tempo passeremo sull’eventuale schermo skype, che cosa esattamente si aspettano da me. Per poi concludere - se si tratta di una iniziativa che si terrà fuori Roma - che mi “pagheranno il viaggio” lasciando intendere che di altra trippa ce n’è zero. Che mi pagheranno il viaggio me lo dicono col tono di chi si mette nei miei  panni, di chi porta rispetto al mio lavoro, in effetti non è mica una cosa da nulla pagarmi il viaggio e tanto più che sono scomparsi i vagoni di terza classe sui quali mi spostavo ai tempi in cui andavo a contattare un eventuale collaboratore di “Giovane critica”.

Li ascolto, e siccome sono una persona gentile mi limito a replicare che gratis io non vado neppure da chi sta di fronte a casa mia. So bene che le mie chiacchiere sul più e sul meno non hanno nessun valore di scambio, nessuna tribù intellettuale che le attenda come imprescindibili, nessun salotto che vorrebbe adornarsene. Lo so bene. Epperò quelle chiacchiere le ho covate e rifinite al meglio per qualcosa come sessant’anni. Per qualcosa come sessant’anni ho pagato libri e riviste di che alimentarle, per qualcosa come sessant’anni ho alimentato il dolore e la separazione e la solitudine che mi costavano lo starmene lontano dallo sciocchezzaio corrente, dall’imbecillità diffusa, un’imbecillità che oggi è diventata frastornante.

 Beninteso, io non chiedo nulla a nessuno. Ma nessuno si arrischi  a chiedere gratis il mio tempo e il mio talento, ammesso che io ne abbia uno. Nessuno. Ve lo sto annunciando per iscritto, che è il mio modo sacrale di comunicare.

Estratto dell'articolo di Luca Pallanch per “La Verità” il 18 aprile 2023.

Gianfranco Salis, professione fotografo. Al fianco di grandi registi, come Mario Monicelli, Marco Ferreri, Nanni Loy, tra un film e un altro ha coltivato la sua vera passione, il ritratto. Con l’obiettivo, e l’illusione, di catturare la qualità umana più effimera, la bellezza, declinata esclusivamente al femminile. 

(...)

Ha intrapreso la strada del fotografo di scena sui set…

«Ho iniziato di supporto a Secchiaroli, che a volte si assentava. Così ho lavorato su I clowns e su Amarcord di Fellini. Poi ho fatto una parte de Il viaggio di Vittorio De Sica, con Richard Burton e Sophia Loren. Il primo contratto che ho firmato in assoluto è stato con Pasquale Squitieri per L’ambizioso. Da lì i produttori si sono accorti della qualità delle mie foto e ho lavorato continuamente nel cinema. Ho fatto sedici film con Tinto Brass, al quale sono molto legato, come lo ero a Squitieri. La mia fantasia si è sviluppata grazie alla magia del cinema, però mi sento più ritrattista che fotografo di scena».

Ha ritratto le rampolle della nobiltà romana.

«Sì, nel mio studio in Passeggiata di Ripetta, Anna Chigi, Alessandra Borghese, Vittoria Odescalchi e altre. Volevo vedere per la prima volta il volto di quelle ragazze e riuscire a cogliere nell’immediatezza la loro interiorità. Più di mezz’ora non ho mai impiegato. Sono sempre stato velocissimo. Quando feci la pubblicità per il profumo Armani con Laura Morante, grazie ai miei ritratti pubblicati da Paolo Pietroni su Amica, erano presenti i rappresentanti dell’agenzia francese Cpv, ma lei non voleva essere fotografata con tutte quelle persone nello studio. 

Chiesi a tutti di andare al bar e quando tornarono, gli consegnai i rullini, che mandarono subito a sviluppare. Erano sbalorditi. Il direttore artistico George Schiller mi disse: “Se fossimo stati a Parigi, saremmo stati tre giorni a lavorare con cifre sbalorditive, con te in poche ore c’è l’imbarazzo della scelta!”».

Anche i famosi ritratti a Margaux Hemingway e a Marisa Berenson li ha realizzati in poche ore?

 «In tre quarti d’ora, in Brasile, durante le riprese di Killer Fish - L’agguato sul fondo di Antonio Margheriti. Carlo Ponti, che era il produttore del film, aveva chiesto al figlio Alex di chiamare il fotografo di Vogue brasiliano: “Ho urgenza di avere due ritratti per collocare delle gigantografie al Festival di Cannes. Se lui non viene, chiedi al fotografo di scena”. A Margaux feci una ventina di foto in esterno con i capelli sciolti, poi le dissi: “Raccogliti i capelli, togli la camicetta bianca e mettiti questa mia maglia”. 

Si mise di profilo e fece un solo scatto. Lei era entusiasta: “Fantastic portrait”. Fedele Confalonieri scelse proprio quello come copertina del primo numero di Panorama Mese, nel settembre 1982». 

E Marisa Berenson?

 «Tra una scena e l’altra, entrammo nella hall dell’albergo, nei cui pressi giravano il film, e scattai questa foto meravigliosa a Marisa mentre i turisti le passavano accanto. Ricevetti i complimenti da Carlo Ponti tramite Alex. Pensa che Sophia Loren, la moglie di Ponti, mi concesse solo un quarto d’ora sul set di Qualcosa di biondo di Maurizio Ponzi, dopo che le avevo fatto vedere i miei lavori. Il suo ritratto è stato poi pubblicato in copertina su L’Illustrazione italiana». 

Tra i personaggi che ha ritratto, spiccano Ilona Staller e Moana Pozzi.

«Fu merito di mia moglie Patrizia che mi disse: “Ma perché non fotografi Ilona Staller?”. “Ritratti?”. “No, prova a fare le figure intere”. La contattai tramite Riccardo Schicchi, portandogli le otto pagine di ritrattistica che erano uscite sulla rivista Amica e lui accettò immediatamente. Poi Ilona mi disse: “Perché non fotografi la mia amica Moana?”. “Non la conosco”, perché non seguivo il settore della pornografia. L’insistenza di Ilona mi spinse a fotografarla. Moana mi chiamò in continuazione per essere fotografata di nuovo, ma io le risposi: “Io non fotografo più la stessa persona”». 

Lei si convinse?

«No! Una volta c’erano le segreterie telefoniche. Ho ancora le registrazioni dei messaggi che mi lasciava: “Ho comprato un vestito rosso bellissimo. Devi assolutamente…”. L’ho fotografata la seconda volta». 

Perché ci teneva tanto?

«Perché le piaceva uscire dal suo personaggio, si sentiva gratificata nel porsi come una diva. Angelo Frontoni, che è stato un grandissimo fotografo, mi disse: “Sai cosa ti invidio? Che hai fotografato Ilona e Moana. Nessuno è riuscito a fare delle belle immagini a queste due pornostar. Tu lei ha rese donne meravigliose”». 

 Com’era Moana Pozzi?

«Deliziosa. Parlava lentamente, con una voce soave». 

Ilona Staller?

«Generosa, buona, altruista, una carissima amica, una delle poche, insieme con Francesca Dellera, con cui sono rimasto in contatto. Quindici anni dopo ho rifotografato anche Ilona per vedere se riuscivo a cogliere ancora la sua bellezza. Aveva all’epoca 54 anni. Mi sembra di aver fatto un buon lavoro. Ho realizzato anni fa una mostra itinerante su Moana e ho venduto tantissime foto: a professionisti, avvocati, ingegneri, produttori. C’è un culto attorno a lei». 

Quali attrici l’hanno colpito particolarmente?

«Più di tutte Liv Ullmann su Speriamo che sia femmina di Mario Monicelli. Anche lì brevissimi scatti, durante la pausa delle riprese. Le lasciai la foto in albergo, lei mi mandò un messaggio dicendo che era il più bel ritratto che avesse mai avuto e mi invitò a cena. Rifiutai. Su quel film ho fotografato anche Catherine Deneuve, che era stata la moglie di David Bailey ed era stata immortalata da Helmut Newton. Comunque la donna più bella che ho fotografato, su Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli, è stata Claudia Cardinale. Meravigliosa, anche come persona». 

Sui set fotografava anche gli attori?

«Sì, con Tinto Brass meno!». 

È differente ritrarre un uomo rispetto a una donna?

«È noioso!». 

Nessun attore l’ha colpito per il suo volto?

«Forse Francisco Rabal».

Chi avrebbe voluto fotografare?

«Mia Farrow, Glenda Jackson, Charlotte Rampling. Forse l’unica attrice che avrei voluto fotografare anche in tarda età è la Rampling». 

Tra le attrici attuali?

«Keira Knightley mi attrae e anche Cate Blanchett mi interessa molto come volto. Ora le bellezze sono tutte omologate. Mi domando: “Chi sto fotografando?”. Con l’avvento del digitale ho perso interesse. Preferisco occuparmi del mio archivio».

(...)

Addio a Gianni Vattimo, filosofo del “pensiero debole”. Il Domani il 19 settembre 2023

Aveva 87 anni, l’annuncio del compagno. È stato tra i massimi esponenti della corrente postmoderna

È morto a 87 anni il filosofo Gianni Vattimo. Da tempo era ricoverato all'ospedale di Rivoli (Torino). Lo ha comunicato il compagno, Simone Caminada. Tra i massimi esponenti della corrente postmoderna, studioso e originale prosecutore del pensiero di Martin Heidegger, maestro del "pensiero debole" a livello internazionale.

Esponente della filosofia ermeneutica, fu allievo di L. Pareyson e fece studi a Heidelberg sotto la guida di H. G. Gadamer. Ha insegnato estetica, poi filosofia teoretica nell'università di Torino, da cui si è congedato nel 2008. Oltre alla vita accademica, ha conosciuto nel suo percorso anche la carriera politica. Deputato al Parlamento europeo dal 1999 al 2004, si è poi ricandidato come nel 2009 come indipendente nelle liste dell'Italia dei Valori, eurodeputato nell’Alleanza dei democratici e dei liberali per l’Europa, nel 2015 ha aderito al Partito comunista italiano.

Prosecutore dell'ermeneutica filosofica contemporanea, Gianni Vattimo è stato un grande studioso di Schleiermacher, Nietzsche, Heidegger e Gadamer, del quale ha curato la traduzione italiana di Wahrheit und Methode. Negli anni '80 Vattimo è stato protagonista del dibattito filosofico con la sua teoria legata all'orizzonte teoretico nietzschiano e heideggeriano, ma anche a quello del dibattito sul postmoderno, la teoria di un "pensiero debole" con l'abbandono delle pretese di fondazione della metafisica tradizionale e dalla relativizzazione di ogni prospettiva filosofica o politica da intendersi come definitiva.

Fra le sue numerose opere, Essere, storia e linguaggio in Heidegger (1963), Poesia e ontologia (1967), Schleiermacher filosofo dell'interpretazione (1968), Il soggetto e la maschera (1974), monografia su Nietzsche, Le avventure della differenza (1980), Al di là del soggetto (1981), Il pensiero debole (raccolta di saggi curata in collab. con P. A. Rovatti del 1983). Fra le ultime fatiche di Vattimo, Scritti filosofici e politici del 2021. 

Precursore del coming out, avvenuto nel 1975, dal 2010 si era legato al suo assistente, Simone Caminada, che nel febbraio scorso è stato condannato in primo grado dal Tribunale di Torino a due anni (pena sospesa) per circonvenzione di incapace. La difesa di Caminada aveva annunciato ricorso. E lo stesso professore, subito dopo la condanna, in un'intervista a "La Stampa" aveva ribadito la sua intenzione di voler sposare Simone.

Sarah Martinenghi per repubblica.it martedì 19 settembre 2023.

È morto nella serata di martedì a Torino il filosofo Gianni Vattimo. A dare la notizia a Repubblica è stato Simone Caminada, compagno del filosofo negli ultimi anni di vita. Aveva 87 anni. Ha passato le ultime ore ricoverato in ospedale a Rivoli.

La lunga carriera accademica

Vattimo, nato il 4 gennaio 1936, è stato un influente filosofo e politico italiano nato a Torino. Professore all'Università degli studi di Torino, il suo lavoro è conosciuto a livello internazionale per aver sviluppato il concetto di "pensiero debole", una critica alla metafisica tradizionale. Fortemente influenzato da Nietzsche, Heidegger e Gadamer, ha reinterpretato la postmodernità come una "liberazione" dalla metafisica totalizzante. Oltre alla sua carriera accademica, Vattimo è stato membro del Parlamento europeo, contribuendo attivamente alla politica italiana e europea.

Le principali opere di Vattimo

L’autore ha segnato la scena filosofica con una serie di opere importanti. "La fine della modernità", pubblicata nel 1985, esamina il superamento della razionalità moderna e l'emergere della postmodernità. Insieme a Pier Aldo Rovatti, nel 1983, ha presentato "Il pensiero debole", un'opera che introduce il concetto omonimo come critica alle fondamenta metafisiche. Questa idea viene ulteriormente esplorata in "Oltre l'interpretazione", dove Vattimo si concentra sul ruolo centrale dell'interpretazione nella filosofia contemporanea. Tuttavia, non ha trascurato temi come religione e fede, come dimostra in "Credere di credere", dove propone un "cristianesimo debole" per l'epoca postmoderna. "Dopo la cristianità", invece, approfondisce il rapporto tra postmodernità e religione, evidenziando le trasformazioni della fede nel contesto attuale.

L’outing del 1975

Vattimo raccontò proprio in un’intervista a Repubblica nel 2016 il proprio outing, che definì “tardivo e involontario. Era il 1975 – aveva detto Vattimo –,  avevo 39 anni, stavo da tempo con Gianpiero. Una mattina all'Università scoprii dai quotidiani di essere candidato nelle liste del Fuori, il movimento di Angelo Pezzana. Un colpo. Sì, certo, fino a quel momento non avevo nascosto niente, ma la pubblicizzazione sul giornale mi fece un certo effetto. Ebbi paura anche delle ripercussioni sul piano accademico. E pregai mia sorella di nascondere i quotidiani a mia madre".

L’imprescindibile Vattimo era più del pensiero debole. STEFANO VELOTTI su Il Domani il 20 settembre 2023

Ripercorrere le opere del filosofo scomparso martedì a 87 anni resta un’“avventura della differenza” che testimonia di un travaglio fortemente vissuto, strettamente intrecciato alla storia di tutti noi e che va oltre la “sigla” che l’ha reso famoso

Gianni Vattimo è morto a quarant’anni di distanza dalla pubblicazione di un libro a più voci – ma a cui lui aveva dato l’intonazione dominante – che per molto tempo è rimasto associato al suo nome come un marchio di fabbrica, Il pensiero debole, Feltrinelli.

In realtà, nell’introdurre quel pamphlet insieme all’amico Pier Aldo Rovatti, gli autori avvertivano che l’espressione era da intendersi solo come una metafora e non sarebbe potuta diventare mai «la sigla di qualche nuova filosofia». Due anni fa, le opere di Vattimo sono state raccolte in un corposo volume curato da Antonio Gnoli e Gaetano Chiurazzi, con il titolo di Scritti filosofici e politici, La nave di Teseo. Basta sfogliarlo per rendersi conto di quanto il pensiero di Vattimo non sia riducibile a quella “sigla”.

L’INFLUENZA DI GADAMER E RORTY

A Vattimo, poi, dobbiamo anche l’introduzione, nel nostro panorama filosofico, del capolavoro di Gadamer, Verità e metodo, Bompiani e del libro più influente di Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani. Due autori entrambi significativi per ricordare l’atmosfera di quegli anni (gli anni del “postmoderno”), ma anche per avvicinarsi al pensiero di Vattimo. Gadamer, insieme a Pareyson – che di Vattimo fu maestro– e a Ricoeur erano i rappresentanti di spicco dell’ermeneutica filosofica, mentre Rorty era diventato il più brillante rappresentante del cosiddetto “neopragmatismo”.

Che relazione c’era tra queste due proposte? L’ermeneutica aveva radici antiche nella teoria dell’interpretazione della Bibbia e nel pensiero romantico, ed era stata ripensata da Heidegger, maestro di Gadamer e uno dei principali interlocutori di Vattimo.

Con il “neopragmatismo” di Rorty l’ermeneutica aveva in comune il rifiuto di ogni pensiero che pretendesse di poggiare su un fondamento, che fosse Dio, la coscienza soggettiva, una struttura impersonale o la realtà oggettiva. La cosiddetta “metafisica occidentale” (grosso modo, tutta la tradizione filosofica, da Platone al Novecento) aveva preteso di sapere troppo, di stabilire imperativi morali o criteri di verità ingiustificabili.

Bisognava invece riconoscere che il pensiero non ha un terreno solido su cui poggiare, ma è inesauribile re-interpretazione della tradizione. Per questo Gadamer rivalutava il ruolo dei pregiudizi – che la ragione illuminista aveva preteso di poter smascherare – indicandoli invece come “luoghi comuni” imprescindibili per il pensiero, che occorreva riprendere e reinterpretare.

D’altro lato, il “neopragmatismo” proposto da Rorty vedeva nella filosofia un genere letterario tra gli altri: nessuna teoria della rappresentazione “corretta” del mondo, della scienza o della conoscenza, ma il dipanarsi di una conversazione ironica, democratica, solidale e sempre legata a un contesto specifico. Pretese universali sono impossibili, l’etnocentrismo è inevitabile. Sarebbe illusorio, infatti, pretendere di trascendere le nostre pratiche per collocarle in orizzonti di senso ulteriori.

Entrambe queste prospettive erano esempi di “indebolimento” del pensiero. Vattimo, da parte sua, sosteneva che non bisognasse tentare di “superare” la “metafisica occidentale”, perché ogni tentativo in questo senso avrebbe inevitabilmente riproposto qualche altro fondamento, vero o autentico, che si sarebbe celato “al di sotto” o “al di là” delle apparenze o degli “errori” della metafisica.

Lo stesso Essere heideggeriano – il cui “oblio” starebbe nel nostro esserci ridotti a un commercio esclusivo con “enti” determinati, che siano l’Ente supremo o gli oggetti delle scienze – non andava inteso come un terreno più profondo su cui collocarsi, ma come qualcosa da riprendere-distorcere: in termini heideggeriani, non un superamento (Überwindung) della metafisica, ma una sua ripresa-distorsione (Verwindung). La “morte di Dio” – il venir meno di ogni garanzia trascendente, il nichilismo – non assumeva in questo quadro alcun tono tragico, ma era anzi il liberatorio venir meno di perni o ancoraggi del pensiero autoritari, un’apertura a un’“erranza” sgravata dal peso dell’errore. 

IMPRESCINDIBILE 

Per il dibattito filosofico degli anni Ottanta, il nome di Vattimo era imprescindibile: si leggevano con passione i suoi articoli su quotidiani e settimanali, si discutevano i suoi libri e gli autori da lui rivisitati in modi chiari e originali (a cominciare da Nietzsche e Heidegger). Mentre i suoi libri venivano tradotti in tutto il mondo, la sua idea secondo cui l’ermeneutica era diventata la koinè della filosofia contemporanea suscitava ampie adesioni e qualche ferma resistenza. È vero, il “pensiero debole” non poteva diventare la sigla di una nuova filosofia. Lo stesso volume che portava quel titolo era un insieme di saggi eterogenei. Tuttavia, è innegabile che tra gli anni Ottanta e Novanta quella sigla coglieva bene un’atmosfera, uno stile di pensiero, una tonalità prevalente.

Il lavoro di Vattimo non si è certo fermato a quegli anni. Ma è inevitabile chiedersi cosa sia rimasto di quella koinè. Ecco: sembra che sia passato un secolo. L’idea stessa che quella leggerezza, quell’indebolimento di veri o presunti fondamenti forti del pensiero potesse portare a un’emancipazione – per vie alternative rispetto al marxismo, alla teoria critica francofortese o alla ragione erede dell’illuminismo – si è dimostrata illusoria. Lo stesso Vattimo è approdato, negli ultimi anni, a prospettive diverse, racchiuse nella formula, ancora una volta sorprendente, di “comunismo ermeneutico”. Un’ermeneutica interessata non più tanto alla ripresa-distorsione dell’eredità della metafisica occidentale, quanto al mondo dei vinti e degli esclusi, per questioni di genere o di classe, economiche o geografiche.

UNA LUNGA FIAMMATA

Quella koinè ermeneutica di cui Vattimo è stato un protagonista appare ora, col senno di poi, una fiammata, una lunga fiammata, che sembra tuttavia esaurita.

Da un lato, ha certamente contribuito a incenerire ogni pretesa dogmatica e reazionaria di voler trovare fondamenti presuntivamente “naturali” per giustificare o fondare comportamenti e ordini sociali. Nella natura, si sa, è possibile trovare un ordine, ed “estrarne” regole e leggi, ma solo perché la natura ospita uno straordinario numero di ordini e di comportamenti.

Eleggerne uno a ordine “naturale” è ridicolo e pericoloso. E pensare di cogliere la natura a prescindere dal suo intreccio inestricabile e originario con la cultura è una pretesa assurda. Ogni tanto, a dire il vero, rispuntano ancora tentativi, più o meno raffinati, mossi forse da una certa nostalgia di assolutezza, che non identificano più l’assoluto in un ente supremo, ma in una relazione con la natura o con le cose. Una relazione, però, che tenta di autocancellarsi: un desiderio di relazionarsi al mondo senza relazionarsi a questo stesso relazionarsi... Sciolti, “ab-soluti” da ogni correlazione.

D’altro lato, credo sia difficile sostenere ancora una visione della filosofia occidentale come un blocco compatto, “la metafisica occidentale”, dato che ogni filosofo significativo sfugge a queste maglie classificatorie, troppo grossolane e un po’ mitologiche. Molte mode filosofiche effimere nascono dalla mancanza di confronto con chi, nel passato, ha pensato a fondo problemi che ancora ci riguardano, a prescindere dall’inevitabile stile culturale o dalle convinzioni personali, magari antiquate o inaccettabili, con cui quel pensiero è intrecciato. Un conto sono le convinzioni personali, altro il pensiero, ed è proprio un’interrogazione genuina che ci permette di distinguere le due cose, non una rielaborazione-trasformazione dei pregiudizi.

Anche se dalla cultura non si esce – ci siamo immersi – non tutto è riconducibile a un piano culturale. Sarà necessario, per esempio, porsi sempre di nuovo la domanda sulle condizioni di possibilità di una cultura, che non possono essere a loro volta solo linguistico–culturali. Come altrettanto discutibile si è rivelata nel tempo la distinzione netta tra il moderno e il postmoderno, non solo perché il postmoderno è stato retrodatato da alcuni addirittura a Kant, ma anche perché è intessuto di problematiche già moderne.

Ripercorrere le opere di Vattimo – una persona gentile, un virtuoso dell’understatement, che nell’unicità della sua vita ha vissuto con passione molte vite – resta un’“avventura della differenza” che testimonia di un travaglio fortemente vissuto, strettamente intrecciato alla storia di tutti noi.

RAFFAELE ALBERTO VENTURA scrittore

È morto Gianni Vattimo: il filosofo del "pensiero debole" aveva 87 anni. Roberta Damiata su Il Giornale il 19 Settembre 2023

È scomparso Gianni Vattimo, il grande filoso del "pensiero debole" che sfidò le costruzioni metafisiche. Aveva 87 anni.

Era un grande pensatore antidogmatico anche se nella vita si considerava allo stesso tempo comunista e cattolico. A Gianni Vattimo, morto martedì 19 settembre all’età di 87 anni, va riconosciuta la grande coerenza nel criticare ogni costruzione metafisica, conosciuta comunemente come "pensiero debole", dal titolo di una famosa raccolta di saggi da lui curata con Pier Aldo Rovatti nel 1983. Era ricoverato all'ospedale di Rivoli in provincia di Torino. A dare l'annuncio è stato il compagno degli ultimi anni di vita Simone Caminada, che pochi giorni fa aveva comunicato il peggiorare dello stato di salute del filoso.

Era considerato tra i più noti filosofi italiani e tra i massimi esponenti della filosofia ermeneutica (ovvero: "l’arte della spiegazione, del chiarimento, della traduzione". L'ermeneutica è il sistema che analizza testi letterari, pedagogici, giuridici, storici e ne fornisce il significato, nel senso più profondo, ndr) a livello mondiale. I suoi testi sono stati tradotti in varie lingue, studioso e originale prosecutore del pensiero di Martin Heidegger, Vattimo ha teorizzato l'abbandono delle pretese di fondazione della metafisica e la relativizzazione di ogni prospettiva filosofica, diventando così il maestro del "pensiero debole" a livello internazionale.

La carriera iniziata in Rai

Nato a Torino il 4 gennaio 1936, come Gianteresio detto Gianni, Vattimo era figlio di un carabiniere calabrese di stanza a Torino, che era morto di polmonite quando era piccolo. Cresciuto in condizioni disagiate, aveva sempre rivendicato le sue origini proletarie. Oltre alla scuola, frequentata sempre con ottimo profitto, diventò un giovane militante nell'Azione Cattolica dove si era subito messo in luce. Appena diciottenne era divenuto delegato diocesano degli studenti dell’Azione cattolica, dalla quale però era stato presto espulso per le sue posizioni critiche verso l’autorità ecclesiastica, ma l'ambiente dell'oratorio aveva comunque contribuito alla sua formazione.

È stato allievo di Luigi Pareyson, assieme a Umberto Eco con cui ha condiviso amicizia e interessi, laureandosi in filosofia nel 1959 all'Università di Torino. Proprio insieme a Eco fu anche tra i pionieri della televisione italiana: nel 1954 insieme parteciparono e vinsero un concorso della Rai per l'assunzione di nuovi funzionari. Rimase in Rai solo per pochi anni, dando invece seguito al sui istinto per specializzarsi negli anni Sessanta all'Università di Heidelberg con Hans Georg Gadamer e Karl Löwith. Nel 1964 divenne docente nell'Università di Torino, prima come professore di estetica, poi (dal 1982) come professore di filosofia teoretica (come materia di studio accademico, tratta i problemi generali concernenti la conoscenza nei suoi aspetti fondamentali e avanza una ricerca metodologica e teorie generali, simili ma non coincidenti a quelle della metafisica ossia della realtà nella sua interezza, ndr).

Nel 1963 era uscito il suo libro Essere, storia e linguaggio in Heidegger (Marietti, 1963), che già indicava una linea di ricerca dai tratti originali. Studioso della filosofia ermeneutica contemporanea, ne ha indagato i presupposti storici e sviluppato le implicazioni teoretiche, dedicando le proprie ricerche a Friedrich Schleiermacher, Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger e Gadamer, del quale ha curato l'edizione italiana di Verità e metodo (1972).

Il pensiero e le sue passioni che lo hanno portato lontano

Vattimo è stato anche un visiting professor negli Stati Uniti, oltre a tenere seminari in diversi atenei nel mondo dove agli studenti spiegava il suo pensiero critico. È stato inoltre direttore della Rivista di Estetica, membro di comitati scientifici di varie riviste italiane e straniere, socio corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Torino, nonché editorialista per i quotidiani La Stampa e La Repubblica e per il settimanale L'Espresso. Ha ricevuto lauree honoris causa dalle Università di La Plata, Palermo, Madrid e dalla Universidad Nacional Mayor de San Marcos di Lima.

Una vita piena di dolori e addii

Il filosofo non aveva mai nascosto la sua omosessualità e nella sua vita privata aveva avuto grandi dolori. Nel 1992 era morto di Aids il suo compagno Gianpiero Cavaglià, che aveva assistito amorevolmente fino all'ultimo. Anche l'altro compagno Sergio Mamino, era stato colpito da un tumore ed era morto su un volo transoceanico dall’America all’Europa nel 2003, quando aveva già deciso per l’eutanasia all’estero. Anche con l'ultimo Simone Caminada, si era creata una vicenda giudiziaria, quando venne accusato dai magistrati di circonvenzione d’incapace nei riguardi del filosofo, fatto questo che lo aveva profondamente addolorato.

La sua eredità in tanti libri

Numerosi sono gli scritti del filosofo a iniziare da: Essere, storia e linguaggio in Heidegger (Edizioni di Filosofia, 1963); Poesia e ontologia (Mursia, 1967); Schleiermacher filosofo dell'interpretazione (Mursia, 1968); Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione (Bompiani, 1974); Le avventure della differenza. Che cosa significa pensare dopo Nietzsche e Heidegger (Garzanti, 1980); Al di là del soggetto (Feltrinelli, 1981); Il pensiero debole (raccolta di saggi curata in collaborazione con Pier Aldo Rovatti, Feltrinelli, 1983); La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna (1989); Etica dell'interpretazione (Rosenberg & Sellier, 1989); Oltre l'interpretazione (Laterza, 1994); Credere di credere (Garzanti, 1996); Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000 (Garzanti, 2001); Tecnica ed esistenza. Una mappa filosofica del Novecento (Bruno Mondadori, 2002); Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso (Garzanti, 2002); Della realtà (Garzanti, 2012). Di recente sono apparsi i volumi Essere e dintorni (La Nave di Teseo, 2018) e Scritti filosofici e politici (La Nave di Teseo, 2021).

Valeria Braghieri per il Giornale - estratti giovedì 21 settembre 2023.

«Mi scusi, di solito ho una voce baritonale. Ma da ieri sera (martedì, ndr) ho una tosse nervosa, rantolo come una Cinquecento». Ci sono un sacco di cose che uno non si aspetterebbe da Simone Caminada, brasiliano, 40 anni, assistente e compagno del filosofo Gianni Vattimo scomparso martedì sera a 87 anni all’ospedale di Rivoli (Torino): 

(...)

Qual è l’ultima canzone che gli ha letto?

«“I fichi” di Guccini. Perché in stanza con lui c’era un signore a cui la moglie aveva portato dei fichi». 

(…) Sua mamma viveva con voi?

«No. Ma è stata preziosa. Lunedì sera, ha salutato Gianni dicendogli “Ci vediamo domani”, lui ha avuto la forza di fare segno di no col dito. Era di una straordinaria autoironia Gianni, come quando mi diceva, “Se muoio prima io cosa scriviamo nell’ultimo messaggio? Scrivi Beh... Ero debole”. È quello che ho messo su Instagram e gli haters mi sono piovuti addosso». 

(…)

Ma allora tutte queste insinuazioni sull’eredità e sul suo conto...?

«Certi giornali di sinistra, anche nella morte, hanno schizzato odio nei miei confronti negando dignità all’uomo Vattimo. Possono descrivermi come “brutto, sporco e cattivo” ma io sono una persona mite». 

Da dove sono nate le accuse e la condanna, poi sospesa, per circonvenzione d’incapace?

«Da una geriatra che non è mai stata né geriatra né amica di Gianni, Flavia Longo, l’abbiamo vista di rado. Ci era stata presentata da una psicologa, Maria Luisa Quaini, alla quale ho dato molto fastidio. Era lei che lo faceva sentire depresso, lo voleva sempre per terra. Io spiegavo a Gianni che avrebbe dovuto tenere il controllo del suo patrimonio almeno finchè fosse stato in vita. 

Gianni è sempre stato “diretto” dalle donne, a partire da sua madre e da sua sorella, è rimasto orfano di padre a 2 anni e poi è diventato l’uomo di casa. Anche le morti dei suoi due ex compagni lo hanno prostrato. Gianni ha sempre avuto bisogno di essere “pilotato”, ma non in senso passivo: aveva bisogno di punti fermi». 

Tipo lei?

«Quest’anno avremmo festeggiato i 14 anni insieme: un terzo della mia vita. Quando ci siamo conosciuti, io navigavo a vista. Arrivavo a Torino dopo uno spettacolo con i bambini dello Zecchino d’oro. Ci conosciamo con amici, inizio a sostituire il suo autista e poi durante i suoi viaggi in Val di Susa per i movimenti No Tav, poi Austria, Germania... ci avviciniamo sempre più».

E siete diventati una coppia, il professore le ha lasciato tante cose, resterà nella casa in cui stavate vivendo?

«Lo sanno tutti cosa c’è in quell’eredità, nella polizza vita (da 450mila euro, ndr) di cui sono beneficiario al 40%, nel “tesoretto” (orologi, opere d’arte, quadri, il taccuino di Fidel Castro, ndr). Vedremo il da farsi, come per la casa». 

Vi hanno impedito due volte di sposarvi.

«La seconda con la sindaca di Occimiano, Valeria Oliviero, è stata comica. Dovevamo solo portare le carte per il matrimonio, quando ha visto Gianni è impazzita di gioia. Ma ha ritenuto che lui reagisse troppo poco alle sue “feste”, ci ha trovato qualcosa di strano e ha annullato tutto». 

A febbraio è stato condannato a due anni. Cosa rischia?

«L’annoiamento più totale. La pena è stata sospesa perché sono stato accusato di “essere in potenza” di commettere il reato, non di averlo commesso. Cinque anni di sofferenze inutili».

(…)

Gianni Vattimo: “La scuola gentiliana resta la migliore”. Edoardo Sylos Labini il 20 Settembre 2023 su Culturaidentità.it. 

E’ morto a 87 anni Gianni Vattimo, dopo un ricovero di alcuni giorni all’ospedale di Rivoli. Nato a Torino il 4 gennaio 1936, diventa professore incaricato nel 1964 e cinque anni dopo diventa ordinario di Estetica all’Università di Torino, nella quale fu preside, negli anni Settanta, della facoltà di Lettere e Filosofia. Dal 1982 ha insegnato nella stessa università Filosofia Teoretica. E’ stato autore di programmi tv e ha collaborato con numerosi giornali italiani e stranieri. Storico esponente del post-modernismo, ha teorizzato il pensiero debole ed è stato un interprete di fama internazionale del pensiero di Nietzsche e di Heidegger. Ha fatto politica in varie formazioni di sinistra e si è sempre dichiarato “comunista”, pur assumendo questa definizione con accezioni fortemente eterodosse e rivendicando il proprio cristianesimo in una forma “secolarizzata” che attenua l’idea di Dio come “assoluto”. Per ricordare questo grande filosofo vi ripropongo l’intervista di settembre 2020 dell’allora direttore di CulturaIdentità Alessandro Sansoni, dove Vattimo, a proposito di scuola e istruzione, afferma a chiare lettere che “molti danni all’istituzione scolastica li ha fatti il Sessantotto e che forse bisognerebbe tornare a Giovanni Gentile”, ricordando altresì di aver vissuto con la scuola “una breve esperienza diretta, molto particolare: prima di laurearmi insegnavo in una scuola aziendale di ispirazione cattolica, con alunni che provenivano da famiglie molto povere”.

Professore, secondo molti autorevoli commentatori la scuola italiana rappresenta, a prescindere dalle problematiche sorte con la pandemia, una delle principali emergenze del paese. Quali sono, a suo avviso, i principali problemi da affrontare?

Credo che siano innanzitutto dei problemi di ordine materiale, dovuti alla scarsità di risorse economiche investite nella pubblica istruzione, che genera disfunzioni sotto il profilo organizzativo e infrastrutturale.

Di chi è la colpa?

Io direi soprattutto della politica che dedica alla scuola scarsa attenzione.

E i docenti?

Il mio giudizio sui docenti italiani è in generale positivo, poi è chiaro che l’entusiasmo scema se si è malpagati e si hanno pochi mezzi a disposizione. D’altronde lo ha dimostrato anche il covid…

Cosa?

che anche le varie difficoltà che gli istituti stanno incontrando nella fase di riapertura dell’anno scolastico, dopo il lungo lockdown, hanno una origine molto più antica e di ordine materiale: immobili vecchi e talvolta fatiscenti, classi sovraffollate… Tutto questo rimanda

a problemi pregressi e di natura essenzialmente economica. Molti, però, accusano i sindacati dei professori di essere una delle principali cause della decadenza…Non ho esperienze dirette in proposito, non ho mai diretto una scuola, né fatto sindacato. Penso, tuttavia, che i sindacalisti facciano il loro mestiere, tanto più in un settore, che, come dicevamo, avrebbe bisogno di maggiori investimenti. Fino a una decina d’anni fa lo studente italiano medio poteva vantare una preparazione superiore a quella di un francese, di un inglese o di un tedesco. Oggi non è più così.

Cos’è successo?

Effettivamente i nostri ragazzi potevano vantare un tempo una certa superiorità, soprattutto a livello di preparazione di base. Ho insegnato in America e ricordo perfettamente che gli studenti anglosassoni mi sembravano assai meno ricettivi dei nostri. La tradizione italiana è sempre stata rigorosamente umanistica e questo rendeva i nostri alunni intellettualmente più duttili.

Quando parla di “tradizione italiana” intende “tradizione gentiliana”?

Senza dubbio. Essa fu oggettivamente la migliore dell’epoca e resta tuttora insuperabile. Essersene discostati non ha giovato, dunque, alla qualità della nostra didattica…

Lei sta parlando con un accanito sostenitore dell’importanza del liceo classico…Forse c’è stato uno scadimento anche della scuola elementare nel nostro paese?

Un tempo l’Italia poteva vantare una scuola elementare estremamente efficace. La qualità di maestri e maestre era molto alta. Poi abbiamo assistito ad una de-qualificazione del personale docente, attualmente assai malpagato.

Parlo contro i miei interessi, per quanto oggi io sia in pensione, ma credo che per il loro ruolo sociale i maestri elementari dovrebbero essere pagati più dei professori universitari. Certo i magri stipendi rendono poco attrattivo l’insegnamento nella scuola primaria e i migliori preferiscono intraprendere altre carriere…Le dico una cosa: una civiltà si valuta da quanto paga e dall’importanza che riconosce ai maestri elementari e nel nostro paese, attualmente, essi sono considerati alla stregua di custodi di greggi. Più in generale, molti danni all’istituzione scolastica li ha fatti il Sessantotto, forse bisognerebbe tornare a Gentile…Molti dei ragazzi del Sessantotto avevano motivazioni positive, desideravano costruire una scuola più viva e creativa: purtroppo rispetto al modello gentiliano hanno spesso prodotto sconquassi. Non credo, però, sia possibile tornare a quel modello e, nonostante l’ammiri, vorrei qualcosa di diverso: una scuola menomassificata e con più articolazioni interne…Mi piacerebbe una “scuola di prossimità”.

E invece il covid ha accelerato un processo opposto che prelude, per certi aspetti, a una vera è propria mutazione del paradigma socio-antropologico: la scuola sembra essere diventata, infatti, il banco di prova dei cambiamenti che ci condurranno all’uomo digitale. Lei cosa ne pensa?

Il peggio possibile, evidentemente. La didattica a distanza coltiva l’ideale del docente-robot, una sorta di macchina: tu schiacci un bottone e il docente-robot ti fa una lezione. Stiamo parlando della negazione della scuola.

Perché?

Perché così si perde completamente il rapporto umano tra docente e discente che è alla base dell’insegnamento, nonché quello tra compagni di classe. Capisco la razionalità della scelta nella fase dell’emergenza sanitaria, ma se un simile sistema diventa la normalità della scuola non resta più nulla. E’ una cosa che mi terrorizza, non riesco nemmeno a figurarmela.

È l’ultimo stadio del dominio della Tecnica di cui parla Heidegger…

…già la Tecnica, ma credo si tratti soprattutto di Economia. Io non credo che la Tecnica abbia un suo sviluppo autonomo, ci sono ragioni di utilità economica che la dirigono in un senso piuttosto che un altro. Martin Heidegger vedeva nella Tecnica un demone in grado di autodeterminarsi, ma la domanda che dobbiamo porci è: chi la spinge verso la disumanizzazione? Chi ne trae vantaggi economici

Gianni Vattimo: il ‘68, le scorrettezze politiche e la rivalità con Eco: «Sono più intelligente di lui». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 20 settembre 2023. 

Il filosofo era capace di ironizzare su tutto, a partire dall’ambiente religioso in cui era cresciuto

Gianni Vattimo è morto il 19 settembre 2023. Aveva 87 anni. Questo è il ricordo firmato da Aldo Cazzullo. 

Gianni Vattimo era uno degli uomini più intelligenti che abbia mai conosciuto («Diciamolo: sono più intelligente di Umberto Eco» sorrideva). Questo non gli impediva di dire a volte sciocchezze, ad esempio su Israele. Ma il modo in cui racchiudeva sistemi filosofici in poche parole comprensibili a tutti era straordinario. E straordinaria era la sua storia. Politicamente scorrettissimo, era capace di ironizzare su tutto, a cominciare dall’ambiente religioso in cui era cresciuto: «Io questa storia dei preti pedofili non la capisco — raccontava —. Sono cresciuto nell’Azione cattolica. Ho fatto la campagna elettorale del 1953 per la Dc, accompagnavo le vecchiette ai seggi. Con Umberto Eco da ragazzi cantavamo, in onore di Pio XII: “Bianco Padre che da Roma/ ci sei luce, meta e guida/ su ciascun di noi confida…”. Ho sempre avuto a che fare con i preti. Ebbene: non uno, dico uno!, che abbia allungato le mani. Nessuno mi voleva. Un’indecenza!».

Che fosse più intelligente ancora di Eco – e non era facile – lo pensava il maestro di entrambi, Luigi Pareyson, ferreo cattolico che nonostante la dolorosa scoperta dell’omosessualità dell’allievo prediletto volle lasciargli la cattedra di estetica a Torino, esiliando Eco a Milano. «In realtà Pareyson adorava Eco — diceva Vattimo —, ma lo considerava inaffidabile. Ad esempio non sopportava che per Natale non gli mandasse neanche un biglietto. E io lo difendevo: non è per trascuratezza, è che Eco ritiene banale scrivere cose tipo: porgo i migliori auguri…».

Figlio di un poliziotto calabrese e di una casalinga di Torino, Gianni Vattimo era la prova che nell’Italia del Dopoguerra il talento e lo studio potevano portare dappertutto. Nel novembre 1961 tenne la sua prima conferenza — in via Po, dove poi prese casa — sul tema non agevole «il Nietzsche di Heidegger», avendo in prima fila («Eco era in quarta o quinta») Bobbio, Viano, Rossi, Abbagnano, Geymonat, Chiodi, Guzzo, Mazzantini, Michele Pellegrino futuro arcivescovo e Pareyson, insomma la Filosofia.

Buono d’animo, poteva diventare cattivissimo. Quando era in competizione con Marco Rizzo alle Europee del 1999, l’anno della guerra in Kosovo appoggiata dai Comunisti italiani, fece scrivere da un allievo sotto i portici di via Po «Rizzo pelato/ servo della Nato». Di Mercedes Bresso, presidente della Regione Piemonte, disse: «Il suo profilo intellettuale è quello di una buona casalinga e di una discreta insegnante delle medie inferiori». Di Asor Rosa: «Un vecchio barbagianni». Un’altra volta proclamò: «Sto pensando di fingermi etero, circondarmi di donne». Perché mai professore? «Perché mi vergogno di essere omosessuale come Cecchi Paone».

Vattimo cercarono di cambiarlo in tutti i modi. «Mi mandarono dallo psichiatra, poi dalla psicanalista, che venne ad aprirmi la porta con un dobermann al guinzaglio. Poi mi presentarono una bellissima ragazza, di una famiglia tra le più ricche di Torino. Le volevo bene, pensavo che una donna altoborghese avrebbe potuto sposare un gay. Ma il padre prese informazioni su di me in questura. E la costrinse a lasciarmi». L’outing glielo fece nel 1976 il padre del movimento gay italiano, Angelo Pezzana: «Scoprii dalla Stampa di essere candidato radicale in quota Fuori, Fronte unitario omosessuali rivoluzionari. Mia sorella nascose il giornale a mia madre». Pareyson sapeva già tutto, «gli avevo presentato Giampiero, il mio compagno. Morto di Aids. Poi è venuto Sergio. Ucciso dal cancro. Andammo per l’ultima volta in America, al ritorno dovevamo raggiungere l’Olanda per l’eutanasia: morì sul volo. Ho avuto una vita sentimentale tragica».

Gianni Vattimo in India con il compagno Sergio Mamino, morto nel 2003 

Però il matrimonio omosessuale non lo interessava molto: «Le nostre unioni durano perché non sono unite da legami codificati. Se potessimo sposarci, non per questo saremmo più felici. Che gusto c’è altrimenti a essere liberi, trasgressivi, insomma gay? Un conto sono le garanzie legali sull’assistenza o sulla casa: già Aristotele nel testamento divise il patrimonio tra la moglie, i figli e il suo amante. Ma se uno si lega troppo finisce per reclamare un’istituzione sacramentale; e forse è un errore. Andavo a New York in cerca di avventure, trovai un nero, un bonazzo, che però ogni sabato sera mi piombava in casa, voleva cucinare per me, piangermi sulla spalla: si lamentava del razzismo dei bianchi, delle lavanderie a gettone… Sono tornato a Torino». A Torino aveva un fidanzato cubista di 27 anni. Poi nella sua vita entrò Simone Caminada, cui voleva lasciare tutto, nonostante la magistratura.

Non bisogna però pensare Vattimo come uno spensierato gaudente, anzi, sosteneva che con i giovani occorresse una certa dose di repressione: «Noi siamo diventati serenamente vecchie maiale perché al nostro tempo fummo repressi da esami di coscienza, confessioni, penitenze…». Il successo di pubblicò arrivò nel 1985, quando Roberto D’Agostino lanciò a Quelli della Notte «il pensiero debole di Gianni Vattimo», che era poi la fine delle ideologie, la vittoria del relativismo, e la riscoperta di Protagora: l’uomo è misura di tutte le cose; e un cibo che a qualcuno pare dolce ad altri può risultare amarissimo.

Talvolta l’intelligenza prodigiosa di Vattimo andava protetta da se stessa; come se fosse minata da un tratto indolente, lieve, incostante, che peraltro lo rendeva ancora più simpatico. Nelle conversazioni poteva passare da Fichte a Bonolis, da Talete a Chiamparino («uno stalinista»). Era amico di Habermas e di Carlo parrucchiere delle dive. Sosteneva di essere rimasto cattolico, anche se si era gettato a sinistra: «Mi arrestarono ai cancelli di Mirafiori mentre leggevo il Vangelo al megafono: beati gli ultimi perché saranno i primi…».

Una sterzata ulteriore venne con il ’68: «Entrai in ospedale per un’ulcera. Passai tre mesi a leggere Marcuse. Ne uscii maoista. Per Pareyson fu un altro colpo durissimo. Eppure continuò a volere me al suo fianco, non Eco». Frequentava casa Agnelli e le case Gescal della periferia, dove portava Fausto Amodei e le canzoni dei Cantacronache, testi di Calvino, Straniero, Liberovici, Fortini ed Eco («il più bruttarello: tuppe tuppe colonnello/ compreremo un campicello/ entro un anno sarà pronto/ un bellissimo aeroporto. Mah»). Si vantava di essere citato nei dizionari filosofici francesi prima di Voltaire. Con gli elettori parlava dialetto piemontese e calabrese e distribuiva santini con una citazione di Keynes: «La Repubblica dei miei sogni si colloca all’estrema sinistra della volta celeste». 

Gianni Vattimo, l'assistente e compagno Simone Caminada, la condanna per circonvenzione d'incapace, il testamento. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera martedì 19 settembre 2023.

Gli ultimi anni di vita del filosofo sono stati segnati dalla vicenda giudiziaria che lo ha dipinto come una vittima inconsapevole del giovane 38enne che per 14 anni è rimasto al suo fianco. 

«Un po’ me lo aspettavo. Non pensavo certo che il Tribunale cambiasse idea in un giorno. Dispiace, ma la mia vita non sarà rivoluzionata». Era il febbraio di quest’anno e Gianni Vattimo commentava così la condanna del proprio compagno, Simone Caminada, a due anni per circonvenzione d’incapace. Al filosofo torinese è sempre importato poco di quanto sostenesse la magistratura e di quello che avrebbero scritto i giudici nelle sentenze. «Non manderò mai via Simone», diceva. E così è stato. Caminada ha continuato a rimanere nella vita del professore ed era al suo capezzale quando Vattimo si è spento nel reparto di nefrologia dell’ospedale di Rivoli.

La vicenda giudiziaria

Gli ultimi anni di vita del filosofo sono stati segnati anche dalla vicenda giudiziaria che lo ha dipinto come una vittima inconsapevole del giovane 38enne che per 14 anni è rimasto al suo fianco. Una vicinanza – è il parere dei giudici – viziata dal desiderio dell’assistente di ereditare il patrimonio economico e culturale di una delle menti più brillanti del Novecento. L’inchiesta della Procura di Torino muove i primi passi nel 2018. A far scattare le indagini è un esposto presentato dal cenacolo di amici che un tempo ruotava intorno alla figura del professore. Tra loro c’è anche la sua geriatra, preoccupata per le condizioni di salute fisiche e psicologiche. L’esposto è un atto formale, dal forte valore giuridico, che diventa lo strumento capace di sollevare il velo di riservatezza che fino a quel momento era adagiato sulla vita privata di Vattimo. Ed è così che le debolezze umane e fisiche del filosofo vengono messe a nudo. Fragilità che secondo i giudici lo avrebbero reso manipolabile.

Simone Caminada

Caminada e Vattimo si conoscono nel 2010 in un contesto conviviale. All’epoca il filosofo è europarlamentare e assume il giovane prima come autista e poi come assistente. Ben presto Caminada si trasferisce in un appartamento in via Po comunicante con quello del professore, diventando non solo un aiuto per il disbrigo di tutte le pratiche quotidiane ma anche un compagno di vita. Una storia umana e affettiva che viene riscritta dagli atti dell’inchiesta. Nei faldoni approdati in un’aula di Tribunale Caminada viene infatti descritto come un approfittatore e un manipolatore che avrebbe indotto Vattimo a «compiere azioni dannose per il proprio patrimonio e per i potenziali eredi», come i bonifici intestati alla madre dell’assistente per importi superiori al suo compenso mensile e le spese «ingiustificate rispetto al tenore di vita che comportavano l’erosione del patrimonio per 60 mila euro». Non solo, Caminada avrebbe anche obbligato lo scrittore a sottoscrivere una polizza sulla vita da 415 mila euro di cui lui sarebbe beneficiario al 40 per cento, oltre a un testamento in cui lo nominava erede «disponendo in suo favore orologi, opere d’arte, quadri» e altri oggetti di valore, tra i quali un taccuino appartenuto a Fidel Castro.

La gestione del patrimonio

Durante il processo, Vattimo testimonia in aula. La sua voce è un sussurro e il suo corpo è minato dalla malattia. Difende Caminada e non nasconde l’affetto che prova per lui. Il docente ripercorre i rapporti con i tanti amici che hanno attraversato la sua vita e che oggi non frequenta più. Di fronte ai giudici emergono la generosità e l’altruismo del filosofo: «Mi sono goduto la vita fino a quando non ho avuto qualche problema di salute. E ho aiutato a star bene le persone che mi stavano attorno». Poi riferisce di aver sempre concordato con il proprio assistente la gestione del patrimonio e di considerare il processo un’ingerenza nella propria vita. E fuori dall’aula parla apertamente di «persecuzione della magistratura».

La sentenza di condanna

Nelle motivazioni della sentenza di condanna, il giudice scrive che Caminada si mostra «affettuoso» in pubblico per accreditarsi agli occhi altrui «quale figura sinceramente protettiva e coinvolta sul piano sentimentale». Ma capace, in privato, di «crudeli momenti di freddezza» quando il professore «si mostrava renitente a seguire i suoi desiderata». Non solo, si narra «l’impatto doloroso» della vicenda sul teorico del pensiero debole, «di cui ci si può rammaricare ma che non può inibire l’obbligatorio esercizio dell’azione penale finalizzata a interrompere definitivamente la condotta criminosa a primaria tutela della vittima, non in grado di comprendere la natura tossica del rapporto» con il compagno. 

Le nozze fallite

Dopo la condanna, nulla è cambiato nei rapporti tra Vattimo e Caminada. E in due occasioni la coppia ha tentato di convolare a nozze. Propositi interrotti dall’intervento della magistratura, che ha aperto un nuovo fascicolo d’inchiesta. Nel frattempo, la Procura ha anche inoltrato al Tribunale Civile un’istanza per la nomina di un amministratore di sostegno. Ma la pratica è ancora in corso. Fino all’ultimo, Vattimo ha deciso per se stesso.

Gianni Vattimo, le polemiche ‘post mortem’: “Come dimenticare le sue farneticazioni antisemite?” Prima gli elogi per il filosofo, poi le accuse: riprese alcune sue frasi contro lo Stato di Israele. Redazione Web su L'Unità il 23 Settembre 2023

Lo scorso 19 settembre ha perso la vita il filosofo Gianni Vattimo. Aveva 87 anni ed era ricoverato presso l’ospedale di Rivoli. L’aggiornamento sulle sue condizioni di salute è stato comunicato dal compagno e collaboratore Simone Caminada. Nato a Torino, Vattimo era un allievo di Pareyson. È considerato uno degli autori italiani più tradotti all’estero. Ma dopo gli elogi e le commemorazioni è giunto il tempo delle polemiche. In questi giorni c’è stato chi ha contestato a Vattimo di aver professato l’antisemitismo attraverso frasi e dichiarazioni aggressive e fuori luogo.

Le frasi antisemite di Gianni Vattimo

Un articolo pubblicato su Bet Magazine Mosaico ha ripreso alcune delle sue esternazioni più eclatanti sul tema: “Ci vorrebbero più morti israeliani – affermava Vattimo in un’intervista a La Zanzara su Radio 24 – andrei a Gaza, a combattere a fianco di Hamas, direi che è il caso di fare le Brigate Internazionali come in Spagna, perché Israele è un regime fascista che sta distruggendo un popolo intero. È un genocidio in atto, nazista, razzista, colonialista, imperialista e ci vuole una resistenza, le Brigate internazionali. Hamas quanti morti ha fatto? Nessuno, voglio promuovere una sottoscrizione internazionale per permettere ai palestinesi di comprare armi vere, veri missili, non delle armi giocattolo. L’Europa dovrebbe dare gratis le armi ai palestinesi“.

E poi: “È una guerra di puro sterminio, i palestinesi sono stati cacciati dalla loro terra, li rinchiudono a Gaza e poi li gasano e li bombardano. Israele è peggio di Hitler“. Ma Vattimo ha anche espresso il suo sostegno al progetto atomico dell’Iran, sostenuto il complotto anti israeliano relativo ai Protocolli di Sion e il boicottaggio di Israele alla Fiera del libro di Torino dsel 2010. Anche il Progetto Dreyfus ha posto l’accento su queste affermazioni del filosofo. Recuperando un loro post pubblicato su Facebook nel 2013, fu questa la loro risposta al filosofo: “Vattimo siamo tanto scandalizzati noi di te…l’uso strumentale dei palestinesi è solo l’ennesima arma antisemita di chi non sa più a cosa aggrapparsi. Vergogna“. Redazione Web 23 Settembre 2023

Estratto dell’articolo di Paolo Varetto per “la Stampa” sabato 23 settembre 2023.

Fratelli d'Italia non parteciperà al minuto di silenzio che la Sala Rossa tributerà alla memoria di Gianni Vattimo durante la seduta di lunedì prossimo. «Era un convinto antisemita, paragonava lo Stato di Israele a Hitler, vaneggiava della bomba atomica in mano agli ayatollah, dichiarava di essere pronto a combattere a fianco di Hamas» attacca Giovanni Crosetto, nipote del ministro della Difesa Guido e capogruppo di FdI a Palazzo Civico. 

«Una posizione che ho condiviso anche con eminenti figure della comunità ebraica di Torino» assicura, dopo aver dato ai suoi consiglieri la disposizione di non partecipare al momento di raccoglimento deciso dalla conferenza dei capigruppo di ieri pomeriggio. E il presidente della comunità Dario Disegni spiega: «Gianni Vattimo è stato indubbiamente uno dei grandi filosofi della nostra epoca. Altrettanto indubbiamente ha espresso sempre nei confronti di Israele posizioni di una violenza estrema, del tutto inaccettabili». […] 

Un'iniziativa, quella di Crosetto, che pare non trovare proseliti al di fuori dei confini del suo gruppo. Anche Fabrizio Ricca, consigliere comunale e assessore regionale della Lega storicamente vicino alla comunità ebraica, ne prende le distanze, rimarcando il principio di civiltà per il quale «non si fa polemica sui morti». […] Crosetto non fa un passo indietro rispetto alle sue posizioni, corroborate da una puntuale cronaca delle dichiarazioni del professore sullo Stato di Israele. «Ha persino sostenuto che ci vorrebbero più morti israeliani - insiste - e che a Tel Aviv è al potere un regime fascista che sta distruggendo un intero popolo. Le sue posizioni antisemite, che vanno condannate categoricamente, non si cancellano con la sua morte». […]

Estratto dell'articolo di Lodovico Poletto per “la Stampa” il 6 aprile 2023.

Il giorno in cui sono nati tutti i dubbi era un venerdì. Il 2 di marzo. La sindaca del paese di Occimiano, l'ex maestra Valeria Olivieri, alla fine, aveva ceduto alle insistenze di quell'uomo. E adesso li aveva tutti lì davanti. La coppia che inseguiva un'unione civile, il «mediatore» che l'aveva tempestata di telefonate, un ex parlamentare, e poi ancora la mamma e lo zio del più giovane aspirante al matrimonio. E lei si era messa parlare. Il più anziano della coppia alla ricerca di un'unione civile, ricorda la sindaca: «Rispondeva a monosillabi o poco più. E quella scena non mi piacque per niente. C'era qualcosa che non funzionava in questa storia. E allora ho preso del tempo e poi quando ho capito di più sono andata dai carabinieri».

 Matrimonio del filosofo Gianni Vattimo, con il suo compagno - assistente Simone Caminada, atto secondo.

Da un mese in procura a Vercelli c'è un fascicolo aperto su questa vicenda. E ci sono due indagati. Il primo è Simone Caminada, il trentanovenne, originario di Salvador Bahia, già condannato dal tribunale di Torino per circonvenzione di incapace. Il secondo si chiama Tullio Romussi, ha 52 anni, abita nell'alessandrino, ed è «il mediatore» di questo matrimonio che non si celebrerà neanche qui, sulle colline del Monferrato, comune di Occimiano.

La Procura, infatti, ipotizza nei loro confronti la circonvenzione di Gianni Vattimo, il filoso padre del «pensiero debole», autore di opere note in tutto il mondo, ex parlamentare europeo per due legislature.

 (...)

È il 3 di marzo. L'appuntamento è in municipio, nell'ufficio della sindaca.

Si presentano in sei. Apre la fila Tullio Romussi. E subito dietro ci sono Simone Caminada e Gianni Vattimo.

 Poi, a sorpresa, entrano anche la mamma e uno zio di Simone Caminada. Chiude la fila un ex parlamentare. Si chiama Roberto Rampi, ed è l'uomo che avrebbe dovuto celebrare il matrimonio del filosofo e del suo compagno a Vimercate. Quello, per capirci, poi bloccato quasi all'ultimo minuto dalla Procura della Repubblica di Torino il 13 dicembre scorso. È lì perché - raccontano le cronache - è amico di lunga data di Vattimo. Si è laureato in filosofia teoretica, ed è un intellettuale.

Che cosa si siano detti in quei minuti è tutto agli atti inviati adesso alla Procura di Vercelli. E il sindaco ricorda soltanto «le risposte a monosillabi del filosofo. Non ne ebbi una buona impressione». E così ringraziò tutti per la disponibilità dimostrata, disse al filosofo di essere onorata di aver fatto la sua conoscenza e poi li congedò chiedendo del tempo per predisporre gli atti, che avrebbero preceduto l'invio dei documenti della coppia, necessari per celebrare le nozze.

 Il resto è storia abbastanza nota. Fatta di telefonate con gli uffici giudiziari di Torino, la preparazione di una memoria e l'incontro con i carabinieri del paese, che hanno compreso al volo la situazione. Risultato? Un mese fa tutta la documentazione è finita sul tavolo di un altro magistrato, a Vercelli. Con due persone indagate. Il primo è Romussi, figura sulla quale per ora nessuno si bilancia. L'altro è l'assistente del filosofo e futuro compagno.

Perché un altro tentativo di matrimonio? «Perché si vogliono bene» dice chi conosce Vattino e Caminada. E ricorda che all'inizio di gennaio la coppia aveva annunciato, ad un giro ristrettissimo di amici, l'intenzione di riprovarci. Erano a una cena in un ristorante nel centro di Torino. Al tavolo c'erano gli amici più cari e più fidati del filosofo. E qualcuno aveva anche mostrato le fedi per la cerimonia.

Testo di Gianni Vattimo pubblicato da La Stampa giovedì 21 settembre 2023.

Ebbene sì, anch'io sono tra quegli intellettuali occidentali che si lasciano affascinare da dittatori e caudilli sudamericani, magari anche attratti dal fatto di essere invitati a viaggi principeschi verso le loro spiagge dorate... Le spiagge di Cuba sono effettivamente dorate, ma io ci sono arrivati, su invito della Biennale d'arte della Avana, con un volo charter in cui non c'era nemmeno il posto per le gambe, in compagnia di turisti per lo più anziani che si lamentavano perché l'ultimo giorno prima della partenza il volo, che non era riuscito a riempirsi, era stato svenduto a prezzi incredibili (600 euro o giù di lì tutto incluso). 

D'accordo, io non avevo pagato neanche quello, la compagnia aveva regalato alcuni biglietti (quelli da 600 euro?) agli organizzatori della Biennale,

Se son venuto meno ai miei doveri di buon occidentale nemico del terrorismo internazionale - ça va sans dire - e delle dittature, non è stato per denaro o beni materiali, ma per amore. Di Castro, sì. 

Il primo amore, si sa, è difficile da scordare, e io avevo passato parte della mia giovinezza, a partire dagli anni Sessanta almeno, imparando le canzoni della rivoluzione cubana e rimirando il poster di Che Guevara (...). 

Così, quando dopo aver assistito all'apertura della Biennale e aver anche ricevuto un diploma onorario assegnatomi, in quanto cultore di estetica, dall'Accademia di Belle arti, molto pubblicizzato dalla Granma del giorno dopo, sono stato ricevuto da Fidel (una domenica pomeriggio) per un colloquio privato, non ho dovuto fingere nulla, i miei sentimenti di ammirazione, devozione, vero e proprio «amoroso affetto» hanno potuto esprimersi liberamente. Castro (nella sua solita uniforme verde oliva) mi ha abbracciato e io gli ho preso il viso tra le mani con qualche lacrima agli occhi.

Non solo rivivevo la mia gioventù (pseudo) rivoluzionaria, ma ero consapevole di essere in presenza di uno dei pochi resti monumentali della storia del secolo XX (anche mia, perciò). Fidel comincia a parlare di Europa, sa che sono stato deputato europeo, mi domanda della nuova Costituzione, poi si allarga a una specie di sunto della storia europea del Novecento, le guerre mondiali uno e due, e la ragionevolezza del fare una Unione per evitare che guerre quelle si ripetano. Ma funziona? Esprimo i miei dubbi, c'è di mezzo sempre una certa riluttanza degli inglesi... Già, perché sono così legati agli Usa. Digressione sulla crisi dei missili anni Sessanta. «E poi, a un certo punto, arriva quel campesino astuto di Nikita» - mi emoziona un po' sentir definire così familiaremente Krusciov.

Ma Castro si mette anche a fare l'imitazione di Bush jr., che egli vede evidentemente sulla Cnn, e mostra come Bush quando parla in pubblico guardi di lato, per vedere l'effetto (di quelle che Castro ritiene bugie). Mi parla con entusiasmo delle dimostrazioni degli immigrati ispanici negli Stati Uniti, che chiedono più diritti, poi degli accordi che è riuscito a strappare, certo in amicizia, a Chavez, e non concorda con l'idea che mi sono fatto, e che forse ho incautamente espresso, per la quale con il petrolio di Chavez Cuba può finalmente uscire dalla povertà e magari permettersi una vita meno austera.

«La colpa della povertà di Cuba», dice Castro, «è il blocco statunitense. Che ha sostituito le aggressioni militari vere e proprie, Baia dei Porci e simili».

Insistere sul fatto che con gli Stati Uniti «c'è una vera e propria guerra in corso». Non lo dice lui, ma io lo penso: se c'è la guerra anche certe restrizioni delle libertà individuali (che non ignorano), e il razionamento del riso, la doppia economia (per turisti e per cubani) non sono poi così scandalosi; tutti i cubani con cui parlo si lamentano, ma sopportano appunto perché si sentono in guerra, e poi ricordano che cos'era il regime di Batista. Invento persino, non solo ad usum Castri, l'ipotesi "cubanizzazione del mondo", cioè che il fattore A., l'America di Bush, condizioni ormai tutto il mondo "democratico" imponendo limiti spesso intollerabili alle libertà civili. 

Anche in Italia, qualunque sia la sinistra che voglia avere possibilità di andare al governo è condizionata da questo fattore A.; gli racconto anche per sommi capi la storia delle imprese della Cia nel nostro paese, il rapimento di un musulmano sospettato di essere un terrorista.

Sono ormai passato circa tre ore dall'inizio del colloquio. Durante le quali, mentre parla, Castro (ahi, mi ricorda Berlusconi nel primo faccia a faccia elettorale con Prodi) ha disegnato, scritto cifre, fatto segni in un taccuino blu simile a quello che ho anch'io sul tavolo davanti a me. Gli chiedo se me lo lascia portar via, giuro di non venderlo. Scrive allora una bella dedica che al ritorno mostro ad ex rivoluzionari commossi. 

Ma al momento di lasciarmi andare (alla lettera, di mollarmi; in questi giorni è uscito il libro che riporta la sua intervista di cento ore con Ignacio Ramonet!) Castro mi dice che vuole ancora mostrarmi una cosa: apre una porta accanto alla sala ( del Palacio de la Revoluciòn, dove siamo) e mi trovo in un altro salone che è una specie di esposizione di elettrodomestici: frigoriferi, pentole a pressione, condizionatori, lampade, aggeggi vari da cucina elettrica. 

Mi viene in mente che, dopo tutto, a ottant'anni Castro può anche essere impazzito, e che questa sala sia il suo giocattolo...

Ma il cattivo pensiero viene subito dissipato, anche se Fidel si gode per un momento il mio sconcerto. Mi spiega che sta facendo personalmente esperimenti per trovare gli elettrodomestici che consumano meno; a Cuba questo è l'anno del risparmio energetico. 

Già nei giorni precedenti, visitando Pinar del Rio e Santa Clara (dove c'è il mausoleo del Che), ho notato che davanti alle porte delle case di interi quartieri c'erano dei frigoriferi; pronti, mi hanno spiegato, a essere sostituiti in massa da altri (credo cinesi) che consumano la metà dell'energia. Castro vuole procedere su questa strada anche per altre attrezzature domestiche - specialmente la pentola a pressione, sogno di tutte le massaie cubane. Se compriamo questi apparecchi in grandi numeri, diamo, otteniamo sconti giganti e possiamo rinnovare tutto il "parco" (...).

La mia coscienza «democratica» mi dice di vigilare, mi richiama agli anni del fascismo italiano prima della alleanza con Hitler, le massaie rurali, il sabato fascista (certo, con le «adunate» più o meno obbligatorie). Non ho il coraggio di chiedere a Castro dei tanti omosessuali ancora in prigione a Cuba. Ma sono lì in sua presenza accompagnato da alcuni intellettuali notoriamente gay, dunque... Non so se sto scegliendo tra il mio amore per la libertà e l'amore per Castro. Certo preferisco vivere nel mondo capitalista, ma davvero l'entusiasmo per un impegno politico che forse costa (privazioni e limiti) ma che almeno fa sentire vivi non conta niente, è solo una faccenda da ingenui privilegiati che ogni tanto fanno del turismo rivoluzionario (sia charter puro con voli)? 

Mi sembra invece di aver imparato che la rivoluzione cubana non è più soltanto una questione di progetti e di chiacchiere socialiste, diventa un fenomeno concretamente capace di fornire modelli, di costituire un centro di resistenza alla forza del capitalismo nordamericano.

La mia avventurosa di una "cubanizzazione del mondo" forse non è così insensata. Anzitutto, a partire da Cuba, dal Venezuela, ma ormai anche dalla Bolivia di Morales, dal Brasile di Lula, dal Cile della signora Bachelet, dall'Argentina di Kirchner, si sta profilando un gruppo di paesi che, pur con le loro differenze, hanno interesse a rendersi autonomi dagli Usa e che possono diventare i partner di una Europa un po’ meno Bush-dipendente. 

Sarà vero che ora l'interesse del grande capitale americano è diretto verso l'Oriente di India e Cina la quale ultima è ormai proprietaria di mezza America. Ma forse anche grazie a questa minore attenzione per la metà Sud del continente da parte di Washington, in questi paesi si sta costruendo un’alternativa non solo politica, ma anche sociale, al modello capitalistico sempre più evidentemente in crisi. Che tutto questo successo in una regione dove il volto umano del socialismo può prendere anche le sembianze del Buena Vista Social Club, della musica e del piacere di vivere dei Caraibi, non fa che rendere la prospettiva ancora più attraente e amichevole.

DAGOREPORT mercoledì 20 settembre 2023

Addio scudo crociato, in soffitta falce e martello, benvenuti negli anni Ottanta. Siamo al di qua e al di là dei partiti, in un paesaggio che vede l'economia schiacciare la politica (la famigerata "reaganomics"), in cui sale alla ribalta il leader che si fa partito. 

Si è chiuso il ciclo della politicizzazione, del protagonismo collettivo e della ricerca della felicità sociale, secondo l'espressione coniata dal sociologo Albert Hirschmann, autore appunto del libro "Felicità privata e felicità pubblica" (che spiega come i pendolarismi della storia derivino dall'oscillazione dei gusti del pubblico fra questi due poli). 

Di qui, complice la delusione sui risultati delle battaglie sociali e ideologiche, finite nell'assassinio di Aldo Moro, inizia un nuovo ciclo, quella della felicità individuale, della affermazione personale, della fine degli steccati e dei ruoli consolidati.

Mescolare le carte, dunque. Dal sinistrismo al narcisismo, dal Noi all'Io, dalla sommossa delle Bierre alla mossa delle Pierre, da Lotta Continua al successo di breve durata, dai furgoni cellulari al telefonino cellulare, dal significato al significante, dalle fratte ai frattali, dal ciclostile al fax, dalla rivolta a Travolta. 

E' un Pediluvio universale. Impara l'arte e mettila nei party. Peperoncino dall'inizio alla fine. Conciliare l'alto e il basso. L'est e l'ovest. La Storia e la scoria. La qualità e la quantità. Lo snob e il Blob. I Dik Dik e i Duran Duran. Le Botteghe Oscure e le boutiques lucenti. 

Del resto, lo scavalcamento dei ruoli, la sapienza combinatoria, il desiderio di sedurre, è ben rappresentato e legittimato dalle culture emergenti degli anni Ottanta: il Post-moderno nell'architettura, la Transavanguardia nella pittura, il "Pensiero debole" nella filosofia, la New Wave nella musica giovane, il miraggio del look nelle tribù giovanili, il computer come memoria istantanea, il video come operazione di smontaggio e rimontaggio della realtà.

Se non si può opporre l'avanguardia alla tradizione, né l'avvenire al passato, alle idee forti dell’ideologia marxista, ormai obsolete, occorre contrapporre il Pensiero Debole,  un tentativo positivo di mettersi in comunicazione con l'astuzia del tempo e l'ambivalenza del presente. A che serve, armati fino ai denti di sacra ideologia, scavare e scavare alla ricerca della “verità” quando poi, una volta risaliti in superficie, quella “verità” non ci serve a un cazzo, visto la velocità dei cambiamenti nella società? 

Ecco che, partendo dal pensiero di Nietsche (“Il massimo della profondità è la superficie”), Vattimo e Rovatti scodellano “Il pensiero debole” (Feltrinelli)  dove propongono una filosofia quasi Zen: la realtà sempre più turbolenta va fronteggiata a mo’ di un surfista che sa bene che affrontare l’onda finirà a gambe all’aria, meglio cavalcarla e arrivare alla riva.

Addio Gianni Vattimo, teorico del postmoderno che non lascia eredi. L'intellettuale e storico collaboratore de L'Espresso è scomparso all'età di 87 anni. Lo ricordiamo con questa lunga intervista fatta nel 2018 quando ci raccontava che i suoi allievi hanno preso altre strade e il suo archivio è finito a Barcellona: «Qui nessuno me lo ha chiesto». Marco Pacini su L'Espresso mercoledì 20 settembre 2023.

In via Carlo Alberto, all’angolo con la piazza che porta lo stesso nome, la fine della filosofia (di una filosofia) è scolpita nel marmo: «In questa casa Federico Nietzsche conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto...». E annega nella follia mentre completa “Ecce homo”: Dio è già morto, la Verità anche, a pochi metri da dove Nietzsche conclude la sua parabola abbracciando e parlando a un cavallo. Era il 3 gennaio del 1889, così dice la storia. O la leggenda, ma poco importa. «Su Torino non c’è niente da ridire: è una città magnifica e singolarmente benefica... Torino è una città che non si abbandona», scriveva il filosofo agli amici dalla casa di via Carlo Alberto 6, dove abitava dal 21 settembre dell’anno precedente. Fu costretto ad abbandonarla solo 6 giorni dopo quel 3 gennaio. Destinazione: una clinica psichiatrica a Basilea. 

E tutto potrebbe finire così, con questa istantanea da Torino, dove è sepolta la filosofia. Ma fuori dai contorni di questa cartolina scattata sulle tracce dell’Oltreuomo crollato ai piedi di un cavallo - potente metafora della resa di un Pensiero - c’è dell’altro. C’è la resistenza della filosofia «che non finisce di finire». E che ha trovato in Torino un suo avamposto nel Novecento: Abbagnano, Pareyson, Geymonat, Bobbio... per citare solo alcuni grandi nomi. 

Torino che ancora oggi attira centinaia di studenti da tutta Italia mentre altrove i corsi di laurea in filosofia chiudono. La Torino dove Maurizio Ferraris con il suo Labont (laboratorio di ontologia) segna la strada del “Nuovo realismo”. 

E poi, o prima, la Torino di Gianni Vattimo, uno dei filosofi italiani più tradotti e letti nel mondo per decenni. Il pensatore della postmodernità che nel 1983, con “Il pensiero debole”, insieme a Pier Aldo Rovatti impresse una svolta destinata a durare molto tempo al dibattito filosofico italiano, intrecciandolo soprattutto con quello francese. E che per tutta la vita - «da quando ero bambino e stavo con mia madre» - non ha mai abitato a più di qualche centinaio di metri di distanza da quell’appartamento al quarto piano di via Carlo Alberto dove Nietzsche dava gli ultimi colpi di martello alla filosofia sistematica, tentando l’ignoto. 

«Se devo raccomandare a qualcuno di leggere questo libro, lo farò in nome del fatto che la sua lettura può migliorargli la vita...». C’è scritto proprio così a pagina 10 di “Essere e dintorni” (edito da La Nave di Teseo, pp. 425, € 22), l’ultimo libro di Vattimo che raccoglie i suoi scritti degli anni più recenti. Servirà a questo la filosofia? Domanda antica come la filosofia stessa. 

Converrà allora bussare alla porta dell’autore per provare a capire, cioè, non solo il senso di quel “miglioramento”, ma soprattutto se e a che cosa servano i filosofi e la filosofia dopo Nietzsche e nell’epoca dell’accelerazione senza direzione e del pensiero tecno-indotto. 

Torino, via Po 11. L’appuntamento è alle 10; il dito preme sul campanello con qualche minuto di anticipo. Alla porta c’è Simone Carminada, suo amico e assistente. Vattimo è seduto su una comoda poltrona. Sancho, l’inseparabile gatto fulvo, sonnecchia poco distante. Sorride il professore di fronte all’ospite che vorrebbe capire meglio come migliorarsi la vita. Perché in fondo quelle due righe erano una battuta, un gioco di sponda con Gadamer e Hegel. «Però sì, la filosofia, non questo o quel libro in particolare... La filosofia può migliorare la vita perché rende il mondo più interessante, dà significato agli eventi». 

Piccola pausa, un sorso d’acqua. «Però è un dubbio che qualche volta ho anch’io... se e a che cosa serva la filosofia voglio dire... Se la filosofia ha ancora qualcosa da dire è attraverso Heidegger. Il problema passa da uno che ci segnala la condizione di alienazione in cui siamo. La filosofia è questo, non è un sapere specialistico. È cogliere il fatto... Ecco, Heidegger, nel 1927, coglie con “Essere e Tempo” il fatto che la nostra cultura considera l’Essere come oggettività. Quello che succede al mondo è solo pianificazione tecnica di controllo. E oggi lo vediamo più di allora. Se l’Impero c’è, è il dominio dell’oggettività». 

Heidegger è quasi una presenza fisica in questa casa che si affaccia sul cortile del vecchio rettorato. Insieme a Gesù Cristo e a Marx. È in questa “strana compagnia” che possiamo trovare una forma di pensiero, una prassi (anche politica) che non si limiti alla descrizione di ciò che c’è, facendone un’apologia che ostacola ogni trasformazione, secondo Vattimo. 

Cristiano, comunista, heideggeriano, l’ottantaduenne filosofo è da sempre e sempre di più sostenitore di una “ermeneutica militante” contro le pretese e il dominio dell’oggettività, del dato di fatto. Nemico giurato del c’est la vie , che è la predisposizione prevalente con cui ci poniamo di fronte al dominio dell’iper-capitalismo, della tecnologia totalitaria, del loro sodalizio che costituisce un “mondo”. «Un mondo», scrive Vattimo, «che sfugge sempre di più alla nostra possibilità di controllo e comprensione». 

E ricompare Heidegger, che nei “Contributi alla filosofia”, ricorda il professore, «scriveva che la vera emergenza oggi è l’emergenza da mancanza di bisogno, il fatto che non accada nulla… è il trionfo della metafisica oggettivistica, il come stanno le cose è il solo orizzonte possibile». 

Come fare accadere qualcosa dunque? Come trovare un altro orizzonte?

«Il mondo di domani a cui guarda, aspira, l’ermeneutica», scrive Vattimo in uno degli interventi raccolti in “Essere e dintorni”, «è un mondo dove le cogenze “oggettive”, il “principio di realtà” - che ormai si identifica sempre più con il capitalismo finanziario - dovrà sempre più confrontarsi con l’ampliarsi del mondo del dialogo, della verità-evento, della progressiva simbolizzazione che, mettendo in secondo piano gli oggetti per farne dei termini di comunicazione tra soggetti, ridurrà anche sempre di più la violenza dell’immediatezza». 

È la sua battaglia di sempre. Che consiste nell’«affinare le proprie capacità critiche mostrando che le pretese di verità sono sempre, anche e anzitutto, pretese di potere».

Sembrano aprirsi squarci di verità mentre si ascolta il filosofo che non ha mai smesso di prenderla di mira. Ma si ha anche l’impressione che sia solo. Non l’uomo, il filosofo.

Solo con il suo “cattocomunismo”, il suo “cristianesimo senza verità” da comprendere e praticare come kènosis (l’abbassamento di Dio che si è fatto uomo). Solo con il suo heideggerismo che non si è fatto scalfire dalla pubblicazione dei “Quaderni Neri” del pensatore tedesco e dalla riapertura del dossier “Heidegger nazista”. E infine solo con il suo “comunismo ermeneutico” elaborato insieme all’amico-collega Santiago Zabala e criticato da molti marxisti.

Dei suoi allievi, cresciuti filosoficamente con lui a Torino, Vattimo ha perso per lo più le tracce. «E oggi», racconta il giovane filosofo Leonardo Caffo, «mentre ci aggiriamo tra gli studenti che si stanno dirigendo verso le aule del dipartimento di filosofia, del pensiero di Vattimo è rimasto ben poco a Torino. Un grande pensiero... Ma qui si è abbracciata la filosofia di matrice anglosassone, analitica, che ha poco da dire...». 

La separazione teoretica più importante risale ormai a molti anni fa. Ed è stata quella tra Vattimo e uno dei suoi allievi di allora più brillanti: Maurizio Ferraris, destinato a diventare una star della filosofia come il vecchio maestro. Quando poi, nel 2012, Ferraris ha aggiunto l’ultimo tassello alla sua svolta di fine anni Ottanta, con la pubblicazione del “Manifesto del nuovo realismo”, la polemica tra i due è decollata finendo sugli scaffali delle librerie: volume contro volume. 

Oggi, ricordando gli anni della sua formazione con il vecchio maestro, del loro sodalizio filosofico, Ferraris cita i versi di Francesco Guccini: «Però che Bohème confortevole giocata fra casa e osterie / quando a ogni bicchiere rimbalzano le filosofie...» . «Pensare alla Torino filosofica di fine anni Settanta mi richiama questa canzone del 1981», dice Ferraris, «giusto l’anno in cui, con “Tracce”, distillavo il senso del mio passaggio attraverso il postmoderno, che però, a quel punto, e come tutto quel mondo, si incamminava per me verso il passato. Due anni dopo usciva “Il pensiero debole” ed era il canto del cigno. Ma la seconda metà degli anni Settanta è un tempo che ricordo bellissimo e angoscioso, come è giusto che siano gli anni di formazione, e segnato per me come per tanti altri e in modo incancellabile da Vattimo, dal suo unire Nietzsche, Heidegger, la sinistra e il cristianesimo, dalla sua ironia, dal suo rigore, dalle sue speranze (all’epoca, non dimentichiamolo, aveva poco più di quarant’anni)». 

Oggi che quegli anni li ha doppiati, Gianni Vattimo non si cruccia per i “divorzi”, distilla il suo pensiero in modo ancora più radicale. Scandendo bene le parole nel salotto di via Po. «No, non ho eredi, non lascio una “scuola”, in America Latina sono ormai più popolare che qui. Ma a dire il vero non mi sono mai posto il problema se ho degli eredi. Nonostante questo mi sento abbandonato, isolato... ma non bisogna prendersi sul serio. Sono solo un giocatore tra tanti». 

Isolato al punto che l’archivio di uno dei più importanti filosofi italiani della seconda metà del Novecento non ha trovato casa in Italia. Casse di appunti, manoscritti, minute, testi annotati, lezioni: l’archivio Vattimo è finito a Barcellona. «Qui nessuno me lo ha chiesto, nessuno mi ha proposto nulla. Me l’ha proposto Santiago Zabalo... In facoltà a Torino non avevo più molti amici, e così ho accettato che andasse a Barcellona».

Isolato in Italia e nella sua Torino. Un’icona della filosofia italiana del Novecento da guardare con rispetto ma sottolineando la distanza. Come fa anche Giovanni Leghissa, professore di filosofia teoretica a Torino che si è formato negli anni Ottanta con Pier Aldo Rovatti, alla scuola del “pensiero debole”. 

«Vattimo ha legato il proprio nome a una delle stagioni più feconde del pensiero italiano tra fine degli anni Settanta e inizio degli anni Novanta», osserva Leghissa. «Oggi di quella stagione resta poco: più che interpretare il mondo, sembra oggi urgente capire come è fatto, quali strutture complesse ne governino l’architettura e le stratificazioni». 

Eppure è dell’oggi (e del domani) che Vattimo continua a parlare mentre il gatto fulvo reclama qualcosa e Simone si prepara per la passeggiata con il professore. Lo fa qualche volta in modo iperbolico, come quando immagina Papa Francesco come unico possibile capo di un’internazionale comunista. Ma in ogni caso sempre fedele, sulle orme di Heidegger, alla storicità dell’Essere. Che è evento, non “dato di fatto”. E ci investe come tale, per essere interpretato. 

«L’evento accade al di là della qualifica umana di soggetto», spiega il filosofo. «L’Essere accade, e accade coinvolgendo i soggetti non per loro iniziativa. Accade nel mondo tecnologico come vediamo, e può inquietare, ma “là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”, come ricorda Heidegger citando un verso di Hölderlin. Il futuro dell’uomo non è nelle sue mani: o è religione o è totalitarismo». 

«Solo un dio ci può salvare», dice Vattimo citando il titolo dell’ultima intervista postuma del filosofo di “Essere e tempo”. E aggiunge: «L’esito del pensiero heideggeriano è un pensiero religioso». Forse non tutti gli studiosi del pensatore tedesco saranno della stessa opinione. 

Di certo è religioso l’esito del pensiero di Vattimo. Nulla di sorprendente per un filosofo che si è sempre professato cristiano. Ma forse lo è più di quanto si aspettassero i suoi lettori. 

Prima della passeggiata Vattimo liquida il “nichilismo pop” di certi autori molto in voga, alla Michel Onfray, con un gesto della mano: «Non seguo questi nichilisti. C’è un destino dell’Essere anche nella negatività. Lo dico perché sono cristiano nel senso della kènosis. Solo un’umanità religiosa potrà vivere in questa situazione di negatività crescente. L’Essere si afferma al di là degli enti. Per volgere in spirito ciò che la tecnica ci butta addosso ci vuole un’umanità religiosa. Solo un dio ci può salvare». 

Il filosofo è solo, la filosofia forse non ancora. A farle compagnia c’è almeno l’ “inattualità” di Gianni Vattimo.

Gianni Vattimo: «L'amore debole vincerà». L'unica coppia legittima è quella che riproduce la vita umana? Il mondo ha un ordine eterno? Un  filosofo contesta il Papa. Gianni Vattimo su L'Espresso mercoledì 20 settembre 2023.

Questo intervento di Gianni Vattimo veniva pubblicato sull'Espresso il primo giugno 2006 

Quando sembrava che il papa si fosse stancato di mulinare le sue armi contro i 'relativisti', comincia la campagna contro l'amore 'debole'. Del relativismo ci stiamo felicemente dimenticando, con l'uscita di scena - parziale, e temiamo provvisoria - del senatore Pera. Il cui magistero filosofico-politico non è riuscito a cogliere, e a spiegare al suo illustre coautore, l'impossibilità logica della esistenza reale di un relativista; cioè di qualcuno che mentre dice una cosa affermi insieme che qualunque altra, contraddittoria con la prima, ha lo stesso valore di verità.  

La questione dell'amore debole, sfortunatamente, non è riducibile e liquidabile con una elementare precisazione del senso delle parole. Qui siamo già più vicini al piano, pericoloso, dei contenuti e di filosofia vera. L'amore non riproduttivo è debole, sembra di capire, perché non frutta in termini di nuove vite messe al mondo. Quindi è un amore 'inutile'. Preti, suore, religiosi con il voto di castità sono ovviamente esonerati da quest'obbligo di aiutare la vita a proseguire. Non parliamo poi di Gesù stesso, che non solo nacque da una vergine (qui il massimo di 'forza': riproduzione senza amore, neanche quello forte che il papa privilegia), ma che non poté di sicuro mai essere sfiorato dall'idea di lasciare una discendenza (vade retro Dan Brown e 'il Codice da Vinci'). Ma di dove mai, da quali pagine della Scrittura, viene questa frenetica volontà di sovrappopolare la povera terra, in via di esaurimento almeno fino a quando non si troveranno nuove fonti di energia e nuovi 'spazi vitali'?  

Se c'è un segno di decadenza nella Chiesa cattolica è questa ripetitiva predicazione del valore della vita, qualunque essa sia, purché in grado di vegetare e di dar luogo a riproduzione. Come se la creazione divina dell'uomo e della donna fosse principalmente un modo per non lasciare sfitta questa parte dell'universo, una questione utilitaristica. Non si può non ripensare a Pavese e alla pagina del suo diario: "Ha trovato uno scopo ideale nei suoi figli. E questi? Nei loro figli... Ma a chi serve tutta questa fottitura generale?". Salveremo la civiltà cristiana garantendoci la superiorità numerica sui perfidi musulmani e gli orridi atei? Anche per la Chiesa il numero è potenza? Ma perché allora non dovremmo 'fortificare' i nostri amori con l'aiuto delle macchine, con la clonazione, magari sorvegliata da commissioni di chierici per garantire la qualità del (ri)prodotto? L'amore dei papi (e dei dittatori) per i bambini, il mito della famiglia numerosa, non saranno proprio il segno di una vecchiaia che, essendosi vietate le gioie del sesso e della famiglia, se ne fa una sorta di immagine ossessiva? Quando il papa condanna l'amore debole e raccomanda quello forte e 'fecondo' non starà, facendo qualcosa di simile al Gustav von Aschenbach che (nel racconto di Mann) a Venezia, morente, si imbelletta per somigliare al suo Tadzio? 

Si è osservato spesso che, dopo la domanda di perdono a eretici, scismatici, scienziati già perseguitati e scomunicati, la Chiesa non ha più nemici se non gli omosessuali. Il che certo si spiega con la necessità di combattere un vizio (per loro è tale) 'interno' a seminari, conventi, parrocchie. Ma una simile spiegazione sarebbe riduttiva e quindi non sufficiente. Sembra molto più probabile che il culto della riproduzione, abbia un fondamento filosofico e sia un segno di invecchiamento, come ripiegare su ciò che appare più naturale quando si è persa ogni speranza nella capacità di sopravvivere in nome di valori, di un progetto di vita capace di affascinare e suscitare impegno. Aristotele pensava che la riproduzione fosse il modo in cui l'umanità può imitare l'eternità dei cieli. Da buon pagano, però. Ma che ha da fare il Dio della Bibbia, e soprattutto quello del Nuovo Testamento, con questo biologismo naturalistico? Non si tratta, qui, nemmeno del difendere la 'natura' dalle minacce di distruzione che scienza e tecnica moderne, con il loro spirito faustiano, rappresentano per essa. Voler salvare e preservare l'ambiente perché possa ancora permettere la vita - non solo quella dei microrganismi e degli scarafaggi che, ci si dice, sopravvivranno anche dopo la nostra scomparsa - comporta ancora sempre un progetto. Ma quando proprio la riproduzione umana benedetta dal 'pensiero forte' è la massima minaccia all'ambiente planetario, la contraddizione diventa troppo palese perché la si possa ignorare.  

E poi: l'opposizione tra 'forte' e 'debole', con la preferenza per il primo termine, non sarà un segno (il papa ripensi a Nietzsche) che si sta abbracciando un insieme di valori "umani troppo umani"? In che cosa consiste la novità del cristianesimo se non nel rovesciamento di queste gerarchie? Il volto di Gesù sofferente serve solo per le parate del venerdì santo? Il Lutero che va a Roma e ne torna scandalizzato dal lusso e dalla lussuria imperanti nel centro della cristianità ormai non farebbe più notizia. È stato solo un uomo di poca fede, non ha resistito allo scandalo, mentre invece proprio questa è la prova che un buon credente deve saper superare. Sempre di nuovo "credo quia absurdum"?  

E ancora: sarà pur vero che i gay che si sentono maltrattati dalla Chiesa oppositrice dei Pacs sono quattro gatti, prima o poi si quieteranno. Ma la questione omosessuale, che proprio il papa non fa che mettere sempre di nuovo al centro della sua predicazione, ha un senso molto più essenziale. Non per niente implica anche la messa in discussione di tutta la politica maschilista e sessuofobica che ha dominato la Chiesa specialmente nella modernità. Maschilismo e sessuofobia sono tratti non originalmente cristiani, che però si sono incrostati sul suo corpo come la donazione di Costantino. Lo scandalo, anche quello che ha svegliato Lutero, è la vera e propria 'secolarizzazione' del Vangelo: l'assimilazione e consacrazione di un mondo che Cristo era venuto a cambiare.  

La questione omosessuale, dunque, è così drammatica nella Chiesa perché - in questo papi e vescovi hanno ragione - minaccia le stesse basi dell'insegnamento cattolico, della metafisica che esso presuppone e che non vuole mettere in discussione. Ma sempre più, e agli occhi di sempre più numerosi credenti, anche seriamente impegnati, questa metafisica (Dio crea il mondo assegnando a ogni cosa una essenza che deve essere riconosciuta teoricamente e 'osservata' praticamente: la teoria aristotelica dei 'luoghi naturali') appare una manifesta duplicazione ideologica delle cose 'come sono' (o si crede, e si vuole, che siano). C'è la guerra? Devi andarci, sii uomo, sii un buon italiano. Ma perché devo essere tutto ciò? Perché lo sei. E alla base di tutto, l'idea (tipica di chi comanda, dei vincitori: si ricordi Walter Benjamin) che il mondo com'è è 'in ordine', (Dio guarda la sua creazione e vede che le cose sono 'valde bona'), va solo rispettato e conservato così. 

Di qui anche la disinvolta ermeneutica che il papa applica alla storia della creazione di uomo e donna. Sono fatti per essere una sola carne (già, perché invece l'amore omosessuale non 'prevede' anche questo? Lo sapeva già Platone...), e dunque solo il loro amore è legittimo. Come dimostra il fatto che dà origine a nuova vita - verrebbe da dire, come tante forme di putrefazione da cui nascono quei vermi che, evolvendo evolvendo, popoleranno la terra del dopo disastro atomico. 

Ma non proseguiamo su questa via che io giudico 'fantabiologica'. L'altra, quella esplicita nella predicazione papale, si sviluppa così: l'amore forte del matrimonio è anche quello che garantisce ai figli di crescere in una famiglia, dove non può mancare un padre perché è quello che assicura l'educazione all'autorità e perpetua il meccanismo edipico (ricordate la 'fabbrica della follia', gli scritti di Foucault e Deleuze? Non sarà ora di rileggerli?). Per esercitare il suo ruolo, la famiglia ha dunque bisogno di essere indissolubile, anche se piano piano la stessa Chiesa si è abituata al divorzio, purché i due che si separano siano rigorosamente maschio e femmina e sposati in parrocchia. E il povero Platone che aveva persino immaginato che i figli crescessero affidati alla comunità, sviluppando magari altre nevrosi ma non quelle dello "sporco piccolo segreto" di cui parlava, appunto Deleuze? È vero che i cristiani primitivi avevano tutto in comune, e in quell'orizzonte si potevano anche immaginare famiglie meno chiuse e 'proprietarie'. Ma, 'com'è naturale' (più o meno così la vede l'Enciclica sul Deus caritas), le forme del comunismo primitivo scomparvero presto. Naturale? Sì, come tutto quello che la Chiesa ha trovato e trova nell'ordine terreno e che consacra e benedice senza batter ciglio (dalle guerre giuste alla pena di morte alle dittature...) purché le siano assicurati 'i mezzi per la sua missione'.  

Sembra un quadro troppo complicato per spiegare la 'naturale' ripugnanza delle gerarchie ecclesiastiche nei confronti della (accettazione teorica della) omosessualità. I gay hanno forse esagerato nel considerare la propria condizione come una vocazione profetica, sentendosi minoranza capace di suscitare (certo insieme a tanti altri esclusi ed escluse) una trasformazione. Ma con l'aiuto provvidenziale di queste gerarchie non si potrà sperare che si ripeta, in modo rovesciato, il miracolo di Sodoma, e cioè che il sassolino della ignobile minoranza gay diventi una valanga tale da travolgere, almeno in buona parte, la 'sacrilega istituzione'? 

Gianni Vattimo: «Rivendico la mia diversità». 'Siamo contronatura? Ebbene, tenetevela questa vostra maledetta natura". Gianni Vattimo su L'Espresso mercoledì 20 settembre 2023.

Questo intervento di Gianni Vattimo veniva pubblicato su L'Espresso il 10 giugno 2010 

Vale o no la pena di continuare a battersi perché la cultura comune abbandoni il suo tradizionale atteggiamento omofobo, cercando che almeno nel linguaggio e nelle "ovvietà" quotidiane i gay non siano sempre di nuovo le vittime designate del disprezzo collettivo?  

Non si dimentichi che, nonostante la recente correzione di rotta da parte del ministro a ciò preposto nelle gerarchie vaticane, secondo il quale i pedofili saranno puniti con particolare severità nell'Inferno (non solo pianto e stridor di denti, dunque; ma forconi e fuoco a gogo, e chi più ne ha più ne metta), questa severità speciale che dovrebbe saziare la sete di giustizia divina è sempre stata promessa, dal catechismo, a chi pratica il "vizio impuro contro natura", il "peccato contro lo Spirito Santo" che "grida vendetta al cospetto di Dio".  

Perché sia stato sempre così, nella tradizione cattolica, almeno quella ufficiale, non si sa precisamente, tanto che sembra a tutti ovvio che il Dio biblico "esattore di prepuzi" (secondo un'espressione di Joyce) sia altrettanto ovviamente un custode di orifizi e del loro legittimo uso. Basta, si potrebbe dire, cercare di raddrizzare le gambe ai cani. Siamo "contro natura"? Ebbene, tenetevela questa vostra maledetta natura.  

Vi piacciono gli tsunami, la lotta "naturale" per la sopravvivenza, eruzioni pompeiane ed epidemie avicole o suine? Noi orgogliosamente siamo una "cultura" diversa, non ci interessa la vostra stima, solo vogliamo che ci siano riconosciuti i diritti di un qualunque cittadino: anche sposarsi, eventualmente, con tutto ciò che il diritto di famiglia comporta. Nostalgia della solida, naturale, rassicurante struttura della coppia benedetta dal Comune o dal Santo Padre? Ma fateci il piacere, se vogliamo poter avere una famiglia è solo per un giusto bisogno di eguaglianza civile, anche di comodità amministrativa.  

Il resto, la vostra falsa monogamia e le vostre acrobazie tra mogli, amanti, seconde amanti, consorti "morganatiche", magari escursioni fuori le mura con trans esotici, tenetevelo pure; vi servirà per dare un po' di thrilling alla vostra prossima confessione.

Estratto dell’articolo di Antonio Gnoli per “Robinson – la Repubblica” il 26 febbraio 2023.

La vecchiaia di un celebre filosofo, come tutte le vecchiaie verrebbe da aggiungere, andrebbe protetta dalle bagarre mediatiche. Quelle che da alcuni anni hanno visto coinvolto Gianni Vattimo. Era da un po’ che con Gianni non ci si vedeva e quando gli ho telefonato l’ho sentito disponibile all’idea che sarei andato a trovarlo. Ci siamo visti per pranzare nella sua grande e accogliente casa di via Po. Dove tutto è come l’ultima volta.

 Tranne il gatto fulvo che non c’è più. Ci sono i libri, la grande televisione dove il professore segue a volume piuttosto alto un telegiornale. Le immagini corrono davanti a una specie di indifferenza dello sguardo. Mi riceve Simone Caminada. Presenza per molti ingombrante, per alcuni necessaria. Il giorno dopo la visita, una sentenza giudiziaria lo condanna a due anni di carcere per circonvenzione. In pratica avrebbe approfittato della fragilità del filosofo per mettere le mani sul suo patrimonio. Non entro nella questione che è stata già ampiamente trattata dai giornali.

Mi limito a osservare la padronanza con cui Caminada - un adulto di 40 anni di Salvador Bahia - gestisce il rapporto con Vattimo. […]  Non so bene da dove iniziare. Forse dal fatto che l’antico allievo Maurizio Ferraris si sia rappacificato con il maestro.

 Ho letto l’articolo che Ferraris ha scritto su di te.

«Non credo di averlo capito bene quell’articolo».

 Cosa hai pensato?

«A una mozione di affetti, e che alla fine si torna un po’ bambini. Senza più l’obbligo di dover capire tutto».

 Che vuoi dire?

«Non lo so, mi sento un po’ bambino. Sono accudito come un bambino. Lo vedi, di mio faccio poco».

 Perché non puoi o non vuoi?

«Non posso, è chiaro. Parlo a fatica, a volte sono a un millimetro dalle parole».

Dalle parole per esprimerti e spiegarti?

«Avverto il suono e il senso di quelle altrui. Le mie escono strane».

 […] Vorrei tornare all’articolo di Ferraris. […] Dice che sei un cattolico, ma io ti vedo poco come cattolico.

«No, no. Lo sono».

 Sei dentro il cristianesimo.

«Sono cattolico apostolico romano».

 Non te l’ho mai sentito dire in modo così netto.

«Per me il cristianesimo è il cattolicesimo romano».

 Il cristianesimo è molto di più.

«Ma sono nato qui. Fossi nato altrove sarei probabilmente un’altra cosa».

 La Chiesa è tutt’altro che salda.

«Principi e la gerarchia non mi interessano».

 E cosa ti interessa?

«Vivere la mia condizione periferica».

 Di Ratzinger che cosa pensi?

«Mi pare sia morto».

Sì ma che giudizio ne dai?

«Negativo. La sua rinuncia, per quel che si è scritto, è stato un gesto bello. Ma troppa teologia impositiva».

 Faceva il suo mestiere.

«Fin dall’inizio mi è parso respingente».

 E di Papa Francesco cosa dici?

«Una grande figura. È la sola che mi interessa. So che ha letto alcuni miei libri. Prima della pandemia ci sentimmo telefonicamente».

 Cosa vi diceste?

«Non lo ricordo».

 Posso dirtelo io. Gli era piaciuto il tuo “Essere e dintorni”.

«Un libro che non chiude la mia opera, la lascia aperta».

L’opera aperta mi fa pensare al tuo amico Umberto Eco.

«Come me veniva dal mondo cattolico».

 […] Quanto a te?

«Ho sostenuto un cristianesimo senza verità».

 Un cristianesimo debole, intendi dire?

«Debole, certo. Al punto che dovendo scegliere tra Gesù e la verità sceglierei lui. Era una strepitosa battuta di Dostoevskij».

 Ma non si dice che Gesù sia la verità?

«Certo, ma quale? Non la verità che abbiamo ereditato dalla tradizione filosofica. Gesù ci ha liberati da quella verità. Ci ha chiesto di aderire al suo messaggio. Che è anche un messaggio profondamente politico».

 Hai scritto molto di politica.

«È così».

 Così come?

«La mia ermeneutica – il modo di interpretare i testi, gli eventi, la vita – si serviva dello sguardo politico. Non puoi limitarti a interpretare il mondo, devi provare a cambiarlo».

 Pensi di esserci riuscito?

«Ho i miei dubbi. Anzi la certezza di avere fallito».

 […] Segui ancora la politica?

«Guardo i telegiornali. La politica non mi interessa più.

Non saprei da che parte collocarmi. Sapevo stare dal lato dei più deboli. Ma chi sono i deboli oggi?».

 Beh, sfruttati, emarginati, poveri non mancano, il discorso sulle disuguaglianze è più che mai attuale.

«Si sono riempite biblioteche di testi, io stesso vi ho contribuito. Ho spinto perché la sinistra, oltre che ai vecchi diritti pensasse anche ai nuovi. È una sinistra senza contenuti. Dovrebbe occuparsi degli ultimi».

[…] Forse c’è anche molto rumore mediatico.

«Assordante, non c’è dubbio».

 Tu come lo hai vissuto, come lo vivi?

«Con fastidio. Si sono dette troppe cose. E il processo che mi ha riguardato è sembrata una cosa arbitraria».

 C’era chi temeva per il tuo patrimonio.

«Dei miei soldi faccio quello che voglio. Si sono create troppe aspettative attorno a me. Non è giusto finire sui giornali per fatti che riguardano la mia vita privata».

 Ti ha tolto serenità?

«Un po’ sì, ma neanche tanto. Vorrei essere più autonomo, più libero. Ma sono in queste condizioni di semi immobilità. Ho bisogno di aiuto. E Simone svolge il compito egregiamente».

 È qualcosa di più di un assistente?

«Lo considero il mio compagno».

 Simone mi ha detto che il tuo Parkinson è una balla. Un’invenzione.

«Ti ha detto questo? Non lo so. So che mi muovo a fatica e che debbo usare la carrozzina per spostarmi».

 Ha aggiunto che se mai ci sia stato è regredito.

«Forse un po’ è regredito, chi lo sa».

 […] Ormai sei considerato quasi un classico.

«Toglierei il quasi. Lo sono. È il solo diritto di cittadinanza che mi riconosco».

[…] Ricordi il tuo esordio in pubblico?

«Credo di averne avuti più d’uno».

 Mi riferisco a te poco più che venticinquenne mentre tieni una lezione all’università di Torino.

«Sinceramente non ricordo, dammi qualche indizio».

 Era il novembre del 1960 e tu parlavi per la prima volta davanti a una schiera di autorevoli professori torinesi.

«Chi c’era?».

 Tra gli altri c’erano Guzzo, Abbagnano, Chiodi, Bobbio e il tuo maestro Pareyson.

«Ero fresco della lettura dei seminari di Heidegger su Nietzsche che erano usciti quell’anno. Allora ero un dirigente dell’Azione cattolica e parlare di Nietzsche e Heidegger poteva sembrare una stravaganza».

Quale dei due è stato più importante per te?

«Oggi ti risponderei Heidegger. Nietzsche ha svolto il ruolo di accompagnatore. Ha funzionato da melodia».

 Come vivi questa fase finale?

«Provo a non pensarci, le conseguenze sono pesanti».

 Hai fatto testamento biologico?

«No c’ho pensato. Ne dedurrai che sono un ottimista».

 E lo sei?

«Lo ero, qualcosa è rimasto di quell’ottimismo».

 Forse la gentilezza e il saper accogliere gli altri.

«La chiamerei predisposizione cristiana».

Com’è una tua giornata?

«Mi alzo tardi, faccio fisioterapia, la colazione, leggo i giornali e poi l’attesa del pranzo. Guardo le notizie in televisione leggo qualche libro. Sono molto noioso».

 Che libri leggi?

«Narrativa poliziesca, non vado molto più in là».

 Ti manca il non poter scrivere come vorresti?

«Moltissimo. Avrei voglia di scrivere, di continuare a lavorare alle mie cose. Ma non ce la faccio».

 Ti rassegni?

«A volte mi dispero, ma so che è inutile. E mi rassegno».

 Oltre alla scrittura cos’altro ti manca?

«I compagni che non ci sono più, i miei».

Intendi i tuoi genitori?

«Mio padre praticamente non l’ho conosciuto. Mi manca mia madre. Una figura importante per me».

 Una volta mi raccontasti del suo lavoro da sarta e che ti insegnò a cucire.

«È vero. Ero un bambino cresciuto con le conseguenze della guerra. La fame e le bombe. Un misto di paura e precarietà. L’aiutavo a confezionare abiti».

 Hai detto all’inizio di questo nostro incontro che si torna quasi sempre bambini.

«La magia è avere dentro di sé il bambino che eri».

 Pensi di averlo conservato in te?

«Penso che quello che sono diventato lo devo a quello che fui. E se lo so è perché è ancora dentro di me».

2 Settembre 2004 - Claudio Sabelli Fioretti intervista Gianni Vattimo - Corriere Magazine  

Come filosofo ha sempre avuto successo, ma come politico è incappato in una trombatura colossale. Alle ultime europee si è presentato con i Comunisti Italiani. E non ce l’ha fatta nonostante fosse un deputato uscente. «Adesso mi sento un po’ meglio», si sfoga Gianni Vattimo, 68 anni, l’inventore del «pensiero debole». «Ma ci sono rimasto male. Mi avevano convinto che avrei vinto tranquillamente e avevo fatto una campagna elettorale molto intensa».

 Pagata come?

«Smettendo di dare 1.700 euro al mese ai Ds». 

L’Europa ti aveva divertito?

«Mica tanto. Ogni volta mi chiedevo: ma che cavolo vado a fare? Era come entrare in un supermercato senza soldi. E si discuteva dell’altezza dei parafanghi delle auto e della lunghezza dei porri». 

Ti sei mai addormentato?

«Io sedevo fra Volcic e Veltroni. Quando c’erano le votazioni davamo delle grandi botte sul tavolo per svegliarci a vicenda». 

Tempo perso?

«Non sempre. A volte mi eccitavo un po’. Come quando ci occupavamo di Echelon, la rete di spionaggio mondiale». 

Echelon esiste?

«È possibile tecnicamente. Quindi esiste».

Anche noi siamo ascoltati dalle grandi orecchie di Echelon?

«Se intercettano tutto è come se non intercettassero niente. Però con i motori di ricerca, le griglie, le parole chiave?». 

Se diciamo quattro volte bomba bomba bomba bomba e Bush Bush Bush Bush?

«Domani mattina vengono qua e ci ingabbiano». 

Perché i Ds non ti hanno ricandidato?

«Perché avevano da sistemare la presidente della Provincia, Mercedes Bresso. Che mi preferissero Kant l’avrei capito, ma una casalinga…». 

Perché è successo?

«Immagina: ho cominciato tre anni fa a dire che D’Alema andava rottamato». 

Poi ti sei pentito.

«Pentito? D’Alema andrebbe rottamato e continuo a pensarlo». 

Ti meravigli che ti abbiano cacciato?

«Se nei Ds ci sta Franco Debenedetti che scrive cose di una destraggine mostruosa, peggio di Berlusconi, non potevo starci io?». 

Con Diliberto risultati scarsi.

«Mi aveva detto che Rizzo mi avrebbe lasciato il seggio. Invece niente». 

Rizzo ha battuto perfino Cossutta.

«Rizzo ha fatto una campagna efferata. Quando ho visto che i miei manifesti non venivano affissi ho cominciato a sospettare. Poi ho scoperto che i picchiatori che Rizzo continua a portarsi dietro come eredità della sua carriera precedente li buttavano via». 

Ma sei sicuro?

«Quando i miei assistenti hanno iniziato ad attaccare direttamente i manifesti i picchiatori ci hanno telefonato e ci hanno detto: “Ogni manifesto di Vattimo che attaccate direttamente è un setto nasale rotto”. Dovresti vederli. Sono dei bruti». 

Con Rizzo ne hai mai parlato?

«No. Lui mi intimidisce un po’ perché politicamente è molto bravo. Andavamo insieme alle trasmissioni televisive. Lui faceva la parte della persona perbene e compassata. Io urlavo e gridavo. Ho dato del figlio di puttana a Cecchi Paone. Gli ho detto che era una cloaca umana». 

Ci sei andato leggero.

"Cecchi Paone mi aveva provocato. Aveva detto: “Ma professore di che?”. È stato in quella occasione che ho capito che era gay". 

Sorpreso? Proprio tu?

«Mi viene voglia di andare con una donna quando penso che appartengo alla stessa schiera di Cecchi Paone. Molti intelligenti sono gay, ma non tutti i gay sono intelligenti». 

Essere gay ti ha danneggiato nella vita?

«No, anzi, mi ha favorito. Nell’estate del 1976 si seppe che ero omosessuale. Nell’autunno la facoltà di Lettere mi elesse preside. Era una facoltà essenzialmente conservatrice, cattolici tranquilli e sinistri conformisti. Hanno eletto un gay per darsi una rinfrescata». 

Hai detto che se non fossi stato gay non saresti stato neanche di sinistra?

«Per essere di sinistra o sei un proletario sfruttato o hai qualche altra incazzatura. Se non fossi stato gay avrei probabilmente sposato una ragazza ricca di cui mi ero innamorato. Non sarei mai stato di sinistra: nel senso che sarei rimasto un diessino».

Essere gay non ti ha mai creato problemi, veramente?

«Non è così. Mi sono preso l’ulcera perforata sanguinante. Io non nascondevo niente. Ma non lo dicevo. Ho smesso di soffrirne nel ’68. Il ’68 è stata la rivoluzione. Tutti si svelavano per quello che erano. Oltretutto i ragazzi del movimento erano bellissimi. Nell’estate del ’68 ho conosciuto un ballerino peruviano splendido, divino: appena entrava in un posto tutti cadevano svenuti. Era gentile, simpatico, intelligente. Ma sai come sono i ballerini peruviani?». 

Confesso la mia ignoranza.

«Dopo un po’ ti mollano. Allora ho vissuto a lungo con un ragazzo, specialista in letteratura ungherese. Ma è morto di Aids. Per un’altra ventina di anni ho vissuto con un ragazzo che si è beccato un cancro al polmone e in due mesi se ne è andato». 

E adesso?

«Sono single e innamorato di un cubista. Un ragazzo simpatico e bellissimo al quale voglio un gran bene, ma ha mille anni meno di me. Posso mettermi a vivere con uno che potrebbe essere mio nipote?».

Raccontami la tua vita.

«Sono nato a Torino 68 anni fa. Padre poliziotto calabrese immigrato, morto di polmonite quando io avevo un anno e mezzo. Feci carriera nell’Azione Cattolica, diventai vicepresidente diocesano. Cattocomunista». 

Scuola?

«Gioberti. Ero un capo del movimento studentesco. Mi prendevano in giro perché ero cattolico e perché non andavo al casino». 

Lavoro?

«Feci la domanda per impiegarmi alle Assicurazioni Generali ma finii alla Rai. Trasmissioni per ragazzi, programmi culturali… Culturali? Avevamo un consulente che confondeva il Courvoisier con Le Corbusier». 

Alla Rai hai conosciuto Umberto Eco e Furio Colombo.

«Li avevo conosciuti prima, nel movimento studentesco cattolico». 

Eco e Colombo con i cattolici?

«Certo. Quando ci incontrammo tutti e tre a Gargonza non facevamo altro che cantare vecchie canzoni di quell’epoca. Anche canzonacce reinventate da Eco: “E san Giuseppe non lo sa, che quando passa ride tutta la città”. Roba del genere. “Il paraclito, col suo dito, un pochino lo ha avvilito”».

Eco ti prende spesso in giro.

«Mi dà dell’irrazionalista. Lui è rimasto un tomista. È un filosofo molto tradizionale, per questo va d’accordo con gli americani». 

Tu lo accusi di disinteresse antiberlusconiano.

«Eco è uno dei pochi che riconosco più intelligenti di me. Non gli danno il Nobel solo perché lo hanno già dato a Dario Fo. Però è un sornione, si identifica troppo volentieri con la sua figura sociale di mostro sacro, di monumento nazionale. E mi incazzo con lui quando vedo che si mette con quelli di “Libertà e Giustizia”, che è una specie di comitato della Croce Rossa. Signori equilibrati che è difficile vedere scamiciati in piazza san Giovanni a gridare contro Berlusconi». 

Con Eco e Colombo hai anche vissuto insieme.

«Tre mesi, come fossimo Hegel, Holderlin e Schelling. Eco, il più ricco, aveva una stanza singola e pagava un po’ di più. Io e Furio avevamo una stanza con due letti». 

Che cosa ricordi del ’68?

«Ricordo che ero appena stato lasciato dalla ragazza con la quale credevo di poter stare. Una mia allieva. Sognavo di avere moglie e figli». 

Strano sogno per un gay.

«Ancora oggi, se avessi una famiglia, sarei più contento. Era una ricca borghese ed io speravo che i suoi potessero accettare un bisessuale. Invece no». 

È anche un problema di fedeltà.

«Se io tradisco mia moglie con un’altra signora capisco, ma se la tradisco con un militare che gliene importa? Aristotele aveva una moglie, dei figli e un amante. Era un mostro?». 

Torniamo al ’68.

«Ero già professore. Un anticapitalista romantico convinto di essere molto più a sinistra della sinistra, di tutti quei figli di ricchi che facevano i party con le patatine e intanto parlavano di Marx mentre io ero un vero proletario cacciato anche dalla famiglia ricca della mia pseudo fidanzata». 

E quindi?

«Mi beccai di nuovo l’ulcera, finii all’ospedale. Un sacco di tempo libero. Lessi Marcuse e uscii dall’ospedale maoista». 

Tu hai frequentato gli Agnelli. Sei amico di Romiti.

«Un’amica comune ci invitava a cena, Gianna Recchi. Io con Romiti mi trovavo bene. È un testone, un destro di natura, ma potrebbe essere il capo di una destra civile, rispettabile. Mi ha tradito con Nando Adornato. E adesso quando sento Adornato parlare a nome di Berlusconi in Parlamento mi cadono le brache». 

Parliamo di voltagabbana?

«Certo, di Giuliano Ferrara». 

Ma Ferrara, dicono, è uno che ci crede.

«Crede a se stesso. Ed è sfrontatamente autoassolutorio. Quando parla di Machiavelli, della politica che deve essere fatta dagli astuti, crede soprattutto al fatto che non bisogna credere. Propone una visione del mondo dove è previsto prendere i soldi dalla Cia. È al di là della sopportabilità». 

E l’adulazione?

«Ce ne sono purtroppo ma nomi non ne faccio. Certe persone, anche di sinistra forte, come Gad Lerner, mi sembrano affascinate dal potere. Molti miei studenti sessantottini avevano nella loro camera il ritratto dell’avvocato Agnelli sul tronetto dorato e non era solo messo lì come obbiettivo per le freccette. Io ricordo sempre un’intervista di Gad a Cesare Romiti. Glielo dissi: “ma il potere ti affascina a tal punto?”. Come quando faceva lo schiavetto di Ferrara ad Otto e mezzo. Lo faceva solo perché lo pagavano bene o per cupidigia di servire?». 

Ce l’hai con Lerner?

«Ho il dente avvelenato con Gad perché a causa della sua giudeità sopporta qualunque cretinata americana. E diventa amico di tutta la destra possibile». 

Chi non ti piace a sinistra?

«Il peggiore è D’Alema. Il secondo Bertinotti. Poi c’è Violante. Guarda questo ritaglio. Me lo porto sempre appresso. 28 Febbraio 2002. Camera dei deputati. Violante: “L’onorevole Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena, nel 1994, quando ci fu il cambio di governo, che non sarebbero state toccate le televisioni”. Capito? Violante si fa bello di aver garantito a Berlusconi la salvezza del suo impero». 

Cofferati ti piace?

«Molti di noi speravano che Cofferati prendesse il potere nella sinistra. Un bel colpo di mano, una scossa di tipo movimentista. Gliel’ho anche detto». 

E lui?

«Mi ha detto: “Potevo presentarmi candidato alla segreteria del partito, ma D’Alema mi avrebbe fatto a pezzi e il partito è nelle sue mani”. Non ha avuto abbastanza fantasia e audacia per fare un proclama: “io rifondo la sinistra italiana, chi vuole stare con me?”». 

Hai suscitato la reazione degli amici di Sofri quando lo invitasti a rifiutare la grazia se fosse arrivata da Berlusconi.

«Mi hanno coperto di ingiurie. Ma io dicevo semplicemente: vuoi la grazia? Chiedila! Ma se pensi che non sia giusto chiederla, perché vuoi accettarla gratis da Berlusconi con l’intercessione di Giuliano Ferrara? Sarebbe il massimo della turpitudine umana. Condivido una cosa che scrisse Rossana Rossanda: “liberatelo, che almeno poi possiamo criticare le sciocchezze che scrive”. Io non leggo quasi più le sue cose sulla Repubblica. Sembra il Papa». 

Che cosa pensi degli intellettuali italiani?

«Culo e camicia. Si ritrovano tutti tra di loro. Sono dei culcamicisti. Come quelli che facevano parte del circolo einaudiano. Si consideravano la crema della crema dell’intellighenzia italiana. Mi facevano venire l’orticaria. Superciliosi, presuntuosi, si consideravano dei pontefici. La riunione del mercoledì con Giulio, che palle!». 

Gioco della torre. Chi butti giù, Colombo o Eco?

«Sei proprio uno stronzo». 

Mica si fanno domande facili, qui.

«Butto Eco. Colombo dirige l’Unità. Si prende responsabilità politiche». 

Prodi o Rutelli?

«Butto giù Rutelli. È vuoto pneumatico».

Pera o Buttiglione?

«Butto Pera, è più presuntuoso. Non lo disprezzo. Ha sempre studiato Popper decorosamente. Ma non ha mai esibito un’idea nuova». 

Mimun o Mentana?

«Mentana ha fatto danni irrimediabili. Ha dato rispettabilità a un tg berlusconiano. Mimun non è in grado di dare rispettabilità a nulla». 

Giorgino o Marzullo?

«Giorgino è un bel ragazzotto. Però sembra uno di quelli arrivati lì per puro caso».

Cofferati o Bertinotti?

«Giù Bertinotti. Ha consegnato l’Italia nelle mani di Berlusconi per questi ultimi cinque anni. Ho sempre pensato: se si è fatto pagare da Berlusconi è una puttana. Ma non si è fatto pagare, lo ha fatto gratis. Quindi è un ninfomane».

Intervista di Claudio Sabelli Fioretti del 23 Gennaio 2007

Ho intervistato già il professor Gianni Vattimo. Qualche anno fa. Mi presentai per errore il giorno prima. O almeno è quello che sostiene lui. Stendo un pietoso velo sul fatto che non era vero. Ma siccome l’intervistatore deve sempre dare ragione all’intervistato, quando al citofono lui mi disse che l’appuntamento era per il giorno dopo, dissi di sì, che mi ero sbagliato. Che mi scusasse. Lui, gentilmente, mi disse che non mi avrebbe rimandato a casa ma che nel frattempo, se avessi voluto andare a mangiare qualcosa, lui avrebbe approfittato per prepararsi.  

Non vorrei scendere in particolari scabrosi ma credo che lo avessi beccato in un momento imbarazzante visto che erano le quattro del pomeriggio e che a quell’ora, anche a Torino, nessuno pensava a pranzare. Andai naturalmente a mangiare qualcosa e tornai dopo un’ora. Quell’intervista gli costò 15 mila euro. Lo querelarono sia Alessandro Cecchi Paone che Marco Rizzo perché disse che…

VATTIMO: "Se potessimo evitare almeno questa volta…Non vorrei essere costretto a tirare fuori altri 15 mila euro". 

Va bene. D’altra parte bisogna anche ammettere che il pagamento di quei 15 mila euro è l’unico motivo per cui lui ricorda questa intervista. Perché, va detto, il professore è tirchio. Anche se nel libro che ha scritto a quattro mani con Piergiorgio Paterlini, "Non Essere Dio", in pratica la sua autobiografia, ha perfino inserito un capitolo dedicato alla sua generosità.

Ammetto: si tratta di un libro particolare. Si parla di Nietzsche e delle marchette al parco Valentino. Di invidie accademiche ma molto di amore. Anzi direi che si tratta di un libro fondamentalmente sull’amore. Ma anche un libro sulla sinistra e sul disamore per la sinistra. A pag. 11 ho incontrato la prima entrata a gamba tesa. Dice il professore: "La sinistra è una porcata". Si poteva dire con argomentazioni più soft? Un po’ più sfumato? Dico e non dico? Una metafora e vediamo se capiscono? 

VATTIMO: "L’ho detto e non lo rinnego. Anzi da quando abbiamo scritto il libro ad oggi la situazione è solo peggiorata. Ma quella è una frase detta per amore". 

Certo, tu ami la sinistra. Figuriamoci che cosa diresti se la odiassi.

VATTIMO: "Io sono sempre stato un cattocomunista fin dalla più tenera infanzia e con tutte le contraddizioni. Sono stato perfino deputato europeo dei Ds". 

Poi ti sei dimesso dai Ds.

VATTIMO: "Non ho mai detto: "Basta mi dimetto". Diciamo che sono stato messo in libertà. Mi hanno spinto via. Hanno preferito la candidatura della Bresso alla mia. E io ho detto: "Tante grazie"".

Non mi risulta che tu abbia mai detto ai Ds "Tante grazie".

VATTIMO: "E’ vero. Mi sono incazzato come una bestia. Alla fine però ho accettato e adesso mi sento più a mio agio. Al partito avevo anche dato un mucchio di soldi". 

Veramente ti hanno rimproverato di non avergliene dati abbastanza…

VATTIMO: "La tesi di Chiamparino sulla mia giubilazione è stata: "Ma potevi dare un altro milione al mese così ti toglievi la paura perché la Bresso si sarebbe lasciata convincere a rinunciare".

Cioè Chiamparino sosteneva che tu dovevi dare un milione al mese alla Bresso?

VATTIMO: "Ma no! Al partito. Il deputato normalmente deve versare un terzo del suo stipendio al partito. Per me era anche una festa perché essendo deducibile dalle tasse, quando dovevo fare la denuncia non dovevo pagare quasi niente. Però dovevo versare altri mille euro alla mia sezione locale. Io la mia sezione locale l’avevo conosciuta sotto forma di sette ragazzetti aggressivi, rompipalle, ignoranti come capre. Uno di loro si era laureato con una tesi che mi aveva fatto quasi vomitare. Il giorno dopo fu assunto come funzionario nella federazione. A questi qui non ho dato nemmeno una lira. Naturalmente si sono arrabbiati. Quando ci sono di mezzo i soldi…" 

Ma non si era detto che tu sei molto generoso?

VATTIMO: "Generoso ma mica scemo. Oltretutto con quei soldi che non davo alla federazione torinese finanziavo un ufficio dove campava un’associazione di studenti. Adesso, quando lo dico, si arrabbiano. Dicono: "Ma ci tratti come degli straccioni!" Ma è vero. L’affitto lo pagavo io, la fotocopiatrice la pagavo io, il computer lo pagavo io. Loro forse si pagavano le birre. Ma erano la mia famiglia. A parte questi elementi terra terra, io sono sempre…fin da due o tre anni dopo la mia elezione, il 2001…è successo…vicino a Bologna…a San Coso in Coso…" 

Mi piace la tua precisione. San Coso in Coso.Vicino a Coso di Sopra?

VATTIMO: "Ma no! Lì avevamo fatto un incontro e qualcuno mi aveva rimproverato di aver detto che D’Alema andava rottamato. Io risposi: "L’ho detto e lo confermo". C’erano delle cose che non mi piacevano nei Ds e le dicevo. Anche perché non mi sentivo così importante. Questo è il punto. Anche stasera io confesserò delle cose innominabili…" 

Ma veramente?

VATTIMO: "Assolutamente no. Poi magari vado sul giornale e mi chiedono ancora soldi".

Però che D’Alema andrebbe rottamato ormai l’hai ridetto…

VATTIMO: "L’ho detto, l’ho ridetto e lo ripeto". 

Va bene, chiamo l’Ansa…

VATTIMO: "Ma è un discorso politico. Io sono convinto che D’Alema sia dannosissimo alla sinistra. Anche se oggi appare il più "sinistro" del governo, vedrai distruggerà la sinistra. Altro che Occhetto. D’Alema prepara la situazione in cui alle prossime elezioni non ci sarà più nemmeno un voto che non sia del Partito Moderato dei Cristiani. Ne sono convinto, mi dispiace, mi arrabbio. Ma non dico mica che lo pagano per questo. Dico solo che effettivamente lui compie un errore clamoroso…" 

Resta che sei contro la sinistra…

VATTIMO: "Io sono contro la sinistra attuale, compresa la sinistra estrema perché questo qui che sta seduto nella terza carica dello Stato e non si schioda nemmeno se gli mettono la Base Nato a casa sua…ragazzi che cosa aspetta? Après moi le déluge? Nessuno spero voterà più per Rifondazione Comunista, e nemmeno per i Comunisti Italiani e nemmeno per i Verdi se si fanno rifilare l’ampliamento della base di Vicenza e l’Afghanistan oltre tutto il resto. In questo momento preferisco Prodi a Berlusconi però Berlusconi è meno pericoloso, diciamo la verità, perché non distrugge la sinistra dalle radici per i prossimi 500 anni. Noi ormai siamo nella…" 

Nella?

VATTIMO: "Nella fanga. Queste sono le buoni ragioni che credo di avere per parlar male della sinistra. Poi non so che dire".

Dicci che cosa vuoi in cambio.

VATTIMO: "La stessa politica di Prodi la può fare Zapatero. Il quale però ritira le truppe molto prima di noi dall’Iraq, non si fa coinvolgere in Afghanistan, spero, fa i Pacs, anzi ne fa di tutti i colori giovandosi dell’anticlericalismo di base della società spagnola che ha conosciuto il clericalismo più a lungo di noi. 

Insomma è un po’ più dignitoso. Noi siamo al livello della sotto sotto sotto colonia. Almeno fossimo uno Stato americano avremmo l’arma del voto. Potremmo votare contro Bush. A me dispiace anche di arrabbiarmi. Per come si può vedere anche nel libro, anche per merito di Piergiorgio Paterlini, io sono fondamentalmente allegro, gentile, simpatico, uno al quale va bene tutto. Ma questo è intollerabile. Per questo dico che la sinistra è una porcata". 

Rischi?

VATTIMO: "Il tacitamento della sinistra internamente può portare il rischio di un nuovo brigatismo. La sinistra non parla più. Quando non ci sono più movimenti di sinistra alternativa…non dico che io adesso prendo le armi…io non so nemmeno fare una molotov… ma davanti alle cose che succedono…se non potete nemmeno più fidarvi di Bertinotti che cosa fate?"

Io ho una vecchia ruggine con la filosofia…

VATTIMO: "Ti bocciavano?"

No. Ma non capivo nulla. Però nel tuo libro leggo che anche tu quando leggevi Foucault non capivi niente. Questo mi consola. D’altra parte anche a leggere quello che scrivi tu non è che si capisca molto. Pagina 138: "C’è una pagina di Heidegger…" 

Come si pronuncia Heidegger?

VATTIMO: "Con due accenti".

Ho una moglie tedesca che sostiene che io non so pronunciare Shumacher…Come si pronuncia Schumacher?

VATTIMO: "Così: Schumacher". Appunto. Heidegger. Hai scritto: "C’è una pagina di Heidegger che ho un po’ stiracchiato in tutti i modi perché è l’unica in cui lui dice che forse il nuovo evento dell’Essere, un darsi dell’Essere diverso dalla Metafisica, può accadere nell’insieme del mondo tecnologico che è come l’estremo della dannazione, l’oblio dell’Essere più totale, ma che potrebbe anche rivelarsi un primo lampeggiare dell’evento".

Ma quel povero disgraziato di Piergiorgio Paterlini capiva quello che dicevi? Quando dicevi: "Non possiamo ricordare l’Essere. Possiamo solo ricordare di essercene scordati", lui che faccia faceva?

VATTIMO: "Certe frasi prese isolatamente fanno impressione. Questa era una tesi di questo Heidegger…" 

L’amico di Shumacher.

VATTIMO: "Esatto, proprio lui. Devo dire che io e Piergiorgio scrivendo questo libro ci preoccupavamo che non ci fossero cose che avrebbero fatto ridere i miei colleghi. Confesso che non ho l’impressione che sia davvero così difficile capire quello che io ho cavato da questi autori".

Che cos’è il pensiero debole?

VATTIMO: "Una forte teoria dell’indebolimento come unica via dell’emancipazione". 

Bastava dirlo.

VATTIMO: "Non è poi così inverosimile. Si capisce: è un discorso filosofico. Se non ci fosse un’implicazione di vita effettiva io non lo farei nemmeno. Il pensiero debole è l’idea che noi viviamo dentro a delle strutture sociali organizzate metafisicamente. Che cos’è la metafisica secondo Heidegger?" 

Me lo stavo appunto chiedendo.

VATTIMO: "E’ l’idea che c’è una struttura dell’Essere data una volte per tutte che si tratta solo di riconoscere e poi adeguarsi ad essa nella pratica". 

E’ proprio quello che pensavo.

VATTIMO: "Tutto dipende dal fatto che vedi le essenze, come Platone, come Aristotele. O come la Chiesa. Perché poi la Chiesa oggi cosa fa? E’ per questo che questo pensiero non è poi così inattuale. Davanti a tutta la problematica della bioetica, degli embrioni, della nonna e della zia, dei Pacs, o anche del mercato, tutti quelli che vi impongono di accettare la realtà com’è vi dicono: "Sii realista". Anche D’Alema quando io lo critico, mi dice…" 

Tu parli con D’Alema?

VATTIMO: "Ma no, non parliamo, non si occupa di me. Di me non curat praetor. Se mi parlasse direbbe: "Ma guarda la realtà, dobbiamo prendere atto che le cose stanno così". Questa è la metafisica per Heidegger. Liberarsi dalla metafisica vuol dire erodere, corrodere, dissolvere progressivamente gli assoluti che pretendono di dominare la nostra vita. 

Perché Heidegger dice che abbiamo dimenticato di aver dimenticato l’Essere? Abbiamo dimenticato l’Essere che non è questa roba qua, e ci siamo perfino dimenticati di averlo dimenticato. Siamo convinti che ciò che è vale, e ciò che non è non vale. Il giorno che assisterete alla presentazione di qualche libro di Emanuele Severino vedrete l’esempio della metafisica. "Ciò che è è e ciò che non è non è"." 

Mi sembra di essere tornato a scuola:

VATTIMO: "E tutto il resto? Quello che non è ancora e vorrei che fosse? Questo è il problema della metafisica per Heidegger. In questo senso io mi sento autorizzato a parlarne pur tentando di fare il politico ogni tanto. Anche se ormai mi hanno convinto che non è il caso di fare ilpolitico. Io ringrazio Piergiorgio Paterlini perché mi piaccio come mi ha rappresentato lui. E cerco di somigliarmi. Lo ringrazio anche per aver collocato queste tesi filosofiche dentro un contesto che le rende meno indigeste. D’altra parte chi non ha voglia di leggere i capitoli filosofici li salti e legga solo gli altri che sono le conseguenze".

In un lungo capitolo del libro, che ho soprannominato Capitolo Calimero, ti lamenti che tutti ce l’hanno con te. Anzi non ti lamenti. Lo dici con una certa spocchia. Te ne vanti. Dici che non ti perdonano di essere libero. Però poi dici: attenzione c’è anche un motivo di classe. Non mi perdonano perché vengo da una famiglia umile, sottoproletaria e non sono uno da terrazza romana. E alla fine dici anche: "Ma come possono non voler bene a uno come me?" Uno come te? Tu sei narciso, presuntuoso, permaloso, e anche invidioso.

VATTIMO: "Ma no. Poco. Homo sum come diceva quel signore raccontato in un epigramma di Marziale trovato a letto col postino".

Dici anche nel libro: "Sono l’unico filosofo popolare". E’ vero ma non dovresti dirlo tu.

VATTIMO: "Ma popolare è detto nel senso peggiore della parola". 

No, no, nel senso migliore. Dici anche: "Non come Cacciari".

VATTIMO: "Cacciari sì che è un monumento. Però c’è di mezzo tutto il mio modo di concepire la filosofia. Quando mi invitano come in questa occasione a ripetere le mie chiacchiere, non posso rispondere: "Scusate io ho cose più serie da fare" perché non ho assolutamente niente di più serio da fare. Quando rifiuto un impegno lo faccio solo perché quel giorno lì sono già impegnato".

Svelo una cosa: stamattina presto Vattimo si era impegnato ad andare alla Sette. Ma ha telefonato dicendo una menzogna: "Non posso perché sono malato". Alla Sette si sono vendicati dando la notizia in diretta: "Il professor Vattimo è malato".

VATTIMO: "Non volevo essere smaialato in questa maniera. Ma comunque io andavo "a gratis"…" 

Sempre della serie "come è generoso il professor Vattimo".

VATTIMO: "Ma perché mai debbo alzarmi alle sei di mattina? Una volta facevo il politico ma ormai non più".

Ma allora perché avevi detto sì?

VATTIMO: "Perché sono amico di quello che fa la trasmissione. Ma poi mi sono addormentato tardi e la mattina avevo sonno. Allora ho telefonato ma il taxi era già arrivato. Ho dovuto anche pagare dieci euro per diritto di chiamata al taxista. Diciamo la verità, io sono come Berlusconi, ho bisogno di essere amato. Non metto mai dei limiti. Questa è la mia generosità che non è una virtù ma uno svaccamento. Io non ho mai grandi programmi in base ai quali decido, qua vado qua non vado. Penso invece a Cacciari che dice "Basta, soluzione non v’è"". 

Cosa dice Cacciari?

VATTIMO: "Uno dei motti di Cacciari è: "Soluzione non v’è". Lo dice sempre".

Tu incontri Cacciari e gli dici: "Buongiorno". Lui risponde: "Soluzione non v’è".

VATTIMO: "Facciamogli un po’ di pubblicità, coraggio. E’ giovane, è più bello di me, ha i capelli tutti neri". Una mia amica dubita che siano tutti suoi. Lei sospetta che abbia la parrucca".

Uno si immagina i filosofi, seri, impegnati in profonde speculazioni…No, stanno lì a massacrarsi uno con l’altro sui capelli…Ti immagini Kant che dice che Hegel ha la dentiera?

VATTIMO: "Ma non lo dico io, lo dice la mia amica".

Ricomponiamoci un po’.

VATTIMO: "Io davvero non so se la Mia Opera, "emme" maiuscola "o" maiuscola, come direbbe Severino, resterà negli anni. Tra l’altro non si sa nemmeno se le biblioteche reggeranno. 

E’ vero, ho un pensiero debole anche in questo senso: credo moderatamente all’importanza delle mie tesi filosofiche. Questo mi rende disponibile, svaccato, smandrappato. Ma mi impedisce anche di giudicare seriamente le altre persone. E’ una forma di pigrizia. La mia vita è sempre andata avanti così. Non ho mai preso grandi decisioni. Non ho mai giudicato male nemmeno Sabelli Fioretti. Ma qual è la domanda dalla quale sono partito per questo autoelogio?" 

 Non me lo ricordo.

VATTIMO: "Nemmeno io".

Sembra un colloquio fra due rincoglioniti.

VATTIMO: "L’invidia. Io non sono invidioso. Anche perché penso che nessuno sia meglio di me. Di Umberto Eco ho ammirazione ma non invidia. E’ uno che mi tratta da amico, è stato mio amico quando ero piccolo, mi ha fatto scuola di filosofia medioevale. Adesso mi sembra che lui somigli troppo al proprio monumento. Comunque vincerà il premio Nobel. 

O lui o Magris. Tutti e due studiano da premio Nobel. Si comportano anche da moderati. Non sono mai venuti a piazza San Giovanni a gridare "a morte questo a morte quest’altro". Non a caso stanno in "Libertà e giustizia" che è una cosa da dame della Croce Rossa, molto bella per carità, alcuni di loro sono anche impegnati a fare il programma del Partito Moderato Democratico. Insomma sono contento che uno dei due vincerà il premio Nobel così l’altro si incazzerà a morte". 

Ma litighi con Eco?

VATTIMO: "Io mi arrabbio con lui. Lui generosamente non si arrabbia con me. Però mi sgrida. Dice che continuo a sputtanarmi. Ma che cosa volete che vi dica? Io non ho mai voglia di andare al Gay Pride ma finché il Papa sarà contro bisogna andarci. A me del Gay Pride non importa un fico". 

Nel tuo libro c’è molto amore, molto romanticismo. Molto più di quanto se ne potrebbe trovare in un libro di…

VATTIMO: "Di Susanna Tamaro".

Passioni… delusioni… il tuo desiderio di farti una famiglia sposando una ragazza ricca…

VATTIMO: "Avevo una tendenza bisessuale. Ma lo dicono tutti i gay quando si debbono giustificare. Però è vero che io ho una certa nostalgia di una vita famigliare…avrei voluto avere dei figli…la festa di Natale…conosco alcuni di cui non faccio il nome…" 

Aristotele…

VATTIMO: "Di Aristotele posso anche fare il nome".

Aristotele non querela.

VATTIMO: "Nel nostro mondo siamo abituati ad essere monogamici, sia etero che omo…ma poi conosco alcuni signori ricchi, rispettati e molto per bene, di cui non faccio il nome che hanno famiglia in Italia e casa e amichetti in Marocco. E questo non scandalizza nessuno".

Torniamo un attimo a Cecchi Paone e a Rizzo. Che ne pensi di loro?

VATTIMO: "Cecchi Paone è una specie di zia di destra. Non mi è antipatico. Non mi piace ma non perché è di destra. Se Robert Redford fosse di destra mi piacerebbe lo stesso. Cecchi Paone, sinceramente…Rizzo nemmeno mi piace. Ma quando nei locali gay si nomina Rizzo si eccitano tutti…quella testa pelata…" 

Ma non ti piace nessuno dei politici italiani?

VATTIMO: "Casini. Quando si è fatto fotografare nudo su Novella 2000…"

 Non si è mai fatto fotografare nudo. Lo hanno fotografato di nascosto mentre si cambiava costume.

VATTIMO: "Ha lasciato che succedesse". 

Nel libro tu parli continuamente della morte…

VATTIMO: "Ci sono delle persone che vivevano con me. Il primo si è ammalato di Aids, nel 1986, quando nessuno pensava ancora che potesse arrivare in Italia. Poi è morto anche il secondo, di cancro. Questo mi ha segnato. Mi sento un po’ un sopravvissuto. Io ero il più anziano e ho dovuto seppellirli entrambi. Alla fine non sono così allegro come sembro. Mi galvanizzo molto in pubblico. Il narcisismo serve a questo. Normalmente da solo io devo stare attento a non lasciare la chiavetta del gas aperta. Poi la morte è anche un tema filosofico". 

Racconti di avere scritto molti necrologi. Hai scritto anche il tuo?

VATTIMO: "No, il mio no".

Un narciso come te dovrebbe farselo.

VATTIMO: "Va bene adesso ci penso. Potrei anche scrivere il mio coccodrillo".

Certo. Anche senza impegno a morire subito.

VATTIMO: "No, però il necrologio deve avere una certa attualità". 

Hai un sacco di nemici, ma hai anche degli amici. Alcuni strani.

VATTIMO: "In che senso?" 

Beh, Franco Debenedetti. Uno come te dovrebbe prenderlo a schiaffi tutte le mattine.

VATTIMO: "Franco è stato uno dei primi amici che avevo a Torino. Ci conosciamo da 40 anni. Dal ’68. Quando passavamo davanti a casa Agnelli, in corso Matteotti, il corteo cantava: "Agnelli, Agnelli, Agnelli del buco del cul, vaffancul vaffancul".

Anche Debenedetti? Non posso crederlo.

VATTIMO: "Non so se lo cantava anche lui insieme agli altri". 

Tu sei stato perfino maoista.

VATTIMO: "Ero già professore incaricato ma ero sotto concorso per diventare ordinario. Pareyson, il mio maestro, era un cattolico di destra. Sapeva che io non ero di destra ma al massimo mi considerava un cattocomunista. Ci fu un periodo che per un’ulcera dovetti stare tre mesi in ospedale e lessi molti libri e diventai maoista. Uscito andai da Pareyson e gli dissi: "Sono diventato maoista". E lui: "Adesso me lo dici?". E io: "Quando glielo dovevo dire? Prima che succedesse?". Poi cercai di convincere anche lui. "Ma venga alle manifestazioni, tutti si danno del tu, si chiamano compagni. E’ come andare in chiesa".

Come è finito quel concorso?

VATTIMO: "Eco me l’ha giurata. In quel concorso c’era anche lui. Ma non mandava mai gli auguri di Natale a Pareyson. Io mandavo gli auguri a Pareyson. Io ho vinto il concorso e lui no".

Eri il portaborse di Pareyson.

VATTIMO: "Un perfetto portaborse. Lo accompagnavo anche all’aeroporto quando doveva andare a Roma la domenica mattina. Ma solo quando doveva andare per un concorso accademico". 

Quando andava per i fatti suoi?

VATTIMO: "Non lo accompagnavo. Insomma Eco se l’è legata al dito. Quando sono andato a portargli il mio libro su Nietzsche che volevo uscisse da Bompiani gli ho detto: "Guarda che io nel ’68 sono uscito maoista". E lui: "Sì ma sei uscito anche ordinario". 

VATTIMO: "Non so se Eco l’ha mai raccontato. Quando noi abbiamo seguito il corso di preparazione alla Tv, Eco era stato mandato a Milano ad occuparsi dei programmi di varietà con una missione che lui chiamava "operazione mutandoni". Doveva badare che i dirigenti della tv dell’epoca, che volevano dimostrare che i cattolici erano dei figli di buonadonna, non mettessero alle ballerine dei mutandoni troppo lunghi". 

Altro tuo amico strano: Cesare Romiti.

VATTIMO: "Romiti era uno che aveva bisogno a quei tempi di un intellettuale di riferimento. E pensava di averlo trovato in me. Ci incontravamo a cena a casa di una signora amica di tutti e due. Abbiamo perfino cominciato a darci del tu. Ma abbiamo deciso di non dirlo a nessuno perché i rispettivi amici ci avrebbero preso a pesci in faccia.

Sia i miei amici di sinistra che i suoi di destra. Quando incontro Romiti, succede di rado ormai, faccio in modo sempre che parli lui per primo. Se mi dà del tu rispondo col tu, se mi dà del lei rispondo con il lei. A Romiti spiegavo alcune mie teorie economiche molto azzardate. Io ero un ammiratore di quel tal Giuffré che prendeva cento lire e dopo due mesi ne restituiva duecento che prendeva da un altro al quale restituiva quattrocento. Perché mai il gioco è dovuto finire?". 

A causa del codice penale. Si va in galera.

VATTIMO: "Ma perché? Ma perché non si accentua il più possibile l’aspetto immaginario dell’economia? Faccio un esempio. I Paesi latinoamericani hanno dei debiti che le banche rinunciano a esigere perché se no vanno tutti in rovina. Gli continuano a prestare dei soldi per pagare gli interessi. Il giorno che uno vuole venire a vedere la realtà (io sono filosoficamente nemico della realtà) va tutto a ramengo. Facciamo qualcosa di diverso". 

Come ha reagito Romiti alle tue teorie?

VATTIMO: "Ha cambiato intellettuale di riferimento. E’ passato ad Adornato".

Tu frequentavi anche casa Agnelli.

VATTIMO: "Una volta ci sono andato con Federico Zeri ed Ezio Mauro. Ad un certo punto donna Marella ha tirato fuori un cammeo antico. "Professore che ne pensa?" E Zeri: "Bello, ma mica glielo avranno veduto come antico. Questo cammeo è dell’Ottocento". Donna Marella resse bene il colpo. Una volta usciti Ezio Mauro mi disse: "Già che c’eri potevi anche dire che la tua Thema non funziona"." 

Agnelli ti aveva regalato una macchina?

VATTIMO: "No, l’avevo presa con forte sconto dall’ufficio stampa. Ma era sempre rotta. Quando la usavo la domenica non partiva mai. Sono stato anche lì lì per passare alla Repubblica a causa della Thema. Anche perché non mi avevano pubblicato un pezzo sulla Stampa".

Una forte motivazione…

VATTIMO: "Telefonai a Scalfari ma per fortuna non c’era, era all’estero. E così mi riconciliai con la Fiat e con la Stampa".

Tu sostieni, nella tua incredibile presunzione, di raccontare le barzellette meglio di Berlusconi.

VATTIMO: "Berlusconi racconta barzellette stupide e stravecchie. Io modestamente ho imparato da Eco che era un grande barzellettiere. Adesso si è un po’ appannato…volete che ve ne racconti una?"

Se insisti.

VATTIMO: "Il re Umberto 1 viene sparato dall’anarchico. Muore e gli trovano un buco in mezzo alla testa. Si chiedono: come è possibile? Delicatamente interrogano sua Maestà

Estratto da open.online giovedì 21 settembre 2023.

C’è un giallo sul testamento di Gianni Vattimo, filosofo torinese scomparso martedì 19 settembre. Anzi, ce ne sono tre. Tanti quanti sarebbero i testi con le sue ultime volontà. Il primo, racconta oggi il Corriere della Sera, vedeva tra i beneficiari gli amici del suo cenacolo, tra cui Martine Tedeschi, la moglie da cui all’epoca non aveva ancora divorziato. 

In base a questo testo il compagno Simone Caminada avrebbe ereditato il 50% della casa in via Po e le opere d’arte. Poi ce n’è un secondo, che risale come il primo al settembre 2018. Qui Caminada è nominato erede universali. Entrambi sono agli atti del processo per circonvenzione d’incapace in cui Caminada ha ricevuto una condanna in primo grado. E non sono pubblicabili, ovvero non hanno alcun valore.

Le ultime volontà

Ma Vattimo, sempre secondo Caminada, ne avrebbe realizzato un terzo. «Lo ha scritto dopo aver testimoniato. Ha visto il marcio nei suoi ex amici», sostiene il giovane. Il documento quindi sarebbe successivo al febbraio 2022. «Gianni mi ha affidato le sue ultime volontà, ne parlavamo spesso», dice Simone al quotidiano. Per poi ricordare gli ultimi mesi del professore: 

«Quest’estate era in montagna, stava bene. Poi siamo tornati a Torino e si è lasciato andare. Si è sentito minacciato dalla Procura per la nomina dell’amministratore. Ha sempre detto che si riteneva perseguitato e a un tratto ha deciso di non lottare più: non mangiava né beveva. Lo imboccavo come i bambini, ma niente». L’archivio delle opere invece si trova all’Università Pompeu Fibra di Barcellona.

(...)

La morte del filosofo. Chi è Simone Caminada, il compagno e assistente di Gianni Vattimo condannato per circonvenzione d’incapace. La sentenza: 2 anni di reclusione. "Non manderò mai via Simone", aveva ribadito il filosofo dopo la condanna. Si erano conosciuti nel 2010, l'inchiesta partita da un esposto di alcuni amici del professore. Redazione Web su L'Unità il 20 Settembre 2023

A dare la notizia della morte Gianni Vattimo è stato Simone Caminada, compagno del filosofo da tempo in condizioni fisiche critiche e scomparso a 87 anni. Più del pensiero debole, degli studi su Martin Heidegger e Hans-Georg Gadamer, i media si sono occupati negli ultimi anni di Vattimo soprattutto per la sua battaglia legale per unirsi civilmente a Caminada, bloccata in attesa di una sentenza definitiva dopo che il compagno era stato condannato lo scorso febbraio in primo grado per circonvenzione di incapace.

Vattimo e Caminada si erano conosciuti nel 2010 quando il filosofo era europarlamentare. Aveva assunto quel ragazzo brasiliano prima come autista e poi come assistente. Caminada si sarebbe trasferito poco tempo dopo in un appartamento di via Po a Torino comunicante con quello dell’accademico. “C’è qualcuno che mi ha voluto fare del male attraverso Simone, il mio assistente che si occupa di tutto. Hanno preteso che mi affidassero un amministratore di sostegno. Non sono completamente interdetto, ma devo chiedere a lui per qualsiasi cosa. Spero si tolga dai piedi al più presto”, aveva dichiarato il filosofo in un’intervista di un paio di anni fa a Rolling Stone.

L’inchiesta era partita nel 2018 dopo un esposto di alcuni amici del professore, tra cui la sua geriatra. Secondo la giudice Federica Fallone Caminada si sarebbe approfittato delle condizioni di Vattimo, una vittima inconsapevole, per ereditare il suo patrimonio. Secondo il Tribunale l’uomo avrebbe indotto Vattimo a “compiere azioni dannose per il proprio patrimonio e per i potenziali eredi” come per esempio bonifici intestati alla madre dell’assistente per importi superiori al suo compenso mensile e spese “ingiustificate rispetto al tenore di vita che comportavano l’erosione del patrimonio per 60 mila euro”. Altre accuse: Caminada avrebbe fatto sottoscrivere al filosofo una polizza sulla vita da 415mila euro di cui lui sarebbe stato beneficiario al 40% e un testamento in cui lo si nominava erede.

Il filosofo dopo la sentenza aveva ribadito la sua intenzione di sposare il compagno. “Non manderò mai via Simone”, aveva detto il filosofo respingendo le tesi della magistratura. Aveva testimoniato anche in aula, difendendo sempre il compagno, definendo il processo un’invasione nella sua vita privata, una “persecuzione”. Stando alla sentenza di condanna il compagno e assistente si sarebbe sempre mostrato affettuoso e attento in pubblico ma anche capace di “crudeli momenti di freddezza” in privato quando il professore “si mostrava renitente a seguire i suoi desiderata”.

Caminada, 38 anni, è stato condannato in primo grado a due anni di reclusione per circonvenzione di incapace. Ha continuato a vivere al fianco del filosofo fino all’ultimo. La coppia aveva tentato almeno due volte di convolare a nozze, di nuovo interrotta dalla magistratura che ha aperto un nuovo fascicolo d’inchiesta. La Procura aveva anche inoltrato un’istanza per la nomina di un amministratore di sostegno. Vattimo è morto all’ospedale di Rivoli. Soltanto due giorni fa il compagno e assistente aveva postato dall’ospedale una foto dal reparto di nefrologia con il filosofo e un lungo post.

“Si è completamente lasciato andare – aveva scritto – , avrà detto basta alla persecuzione di questa … non lo so ma umanamente capirete voi stessi che è molto possibile. Certo è che da inizi agosto mangiava e beveva poco ma solo perché osservato da noi che l’abbiamo a cuore (appena giravi l’angolo…) dormiva molto la bocca si era spenta e ogni tanto mi chiamava a lui ma solo per darmi un lungo abbraccio. Poi mi staccava, pacchetta buffetto sulla guancia e occhi che ti chiedono ‘ora va e lasciami dormire ancora un po’’.

Redazione Web 20 Settembre 2023

L'addio a 87 anni. Gianni Vattimo amava la carità e la libertà: odiava la verità. Sprezzante delle contraddizioni e dei giudizi, si definiva “comunista e cristiano”, perché in queste ideologie, trovava ciò che cercava: non solo un “pensiero debole”, ma un pensiero “per i deboli”. Lucrezia Ercoli su L'Unità il 21 Settembre 2023

Ero debole”. Questo epitaffio compare sulla pagina Facebook di Gianni Vattimo alle ore 22:00 di martedì, insieme alle date di nascita e di morte, 04 gennaio 1936 / 19 settembre 2023. Naturalmente non è stato lui a scriverlo, si era già liberato dal suo corpo mortale, ma il post che annuncia la sua scomparsa strappa un malinconico sorriso ed è immediatamente condiviso da centinaia di amici, colleghi, allievi, lettori, comuni estimatori che in quel calembour dolceamaro riconoscono l’ironia e la leggerezza profonda del teorico del “pensiero debole” che scherza con la sua (e con la nostra) dipartita.

Siamo deboli – lui, come noi – e condividiamo lo stesso destino mortale, segnato dalla finitezza. Questo il suo ultimo insegnamento: accettare di Non essere Dio, come recitava il titolo della sua (auto)biografia a quattro mani con Piergiorgio Paterlini (Ponte alle Grazie, 2007), per i suoi settant’anni. Siamo chiamati a convivere con la nostra fragilità, e non abbiamo a disposizione certezze incontrovertibili e verità assolute dietro cui nasconderci.

Incontrai Gianni Vattimo per la prima volta nel settembre 2009, in occasione del mio primo festival filosofico che stavo organizzando a Civitanova Marche insieme al professor Umberto Curi. Avevo poco più di vent’anni, stavo per laurearmi in filosofia e avevo sudato sul suo saggio del 1974 Il soggetto e la maschera per l’esame su Friedrich Nietzsche. Lo salutai con il rispetto dovuto a uno dei più importanti filosofi italiani, studiato e apprezzato in tutto il mondo. Immaginate la trepidazione di incontrare chi aveva segnato la storia del pensiero contemporaneo e dialogava alla pari con i più grandi pensatori viventi.

Ma lui non volle essere trattato come un “venerato Maestro”, rifuggiva l’alterigia dei baroni universitari e la superbia degli accademici; con un sorriso accogliente e genuino, spazzò via ogni affettato imbarazzo. Di fronte a un bicchiere di vino, discettava con aria bonaria di vita e di filosofia, trasmettendo a tutti un’umanità calorosa, capace di far franare tutte le gerarchie sociali e intellettuali. Con lui ogni nostro festival si trasformava in una festa del pensiero e in un gioco dell’intelletto. Da Vattimo non ci si aspettava l’ennesima lectio magistralis seriosa e cattedratica, ma un autentico dialogo filosofico, condito di dotte citazioni e di guizzi creativi, di battute scherzose e di vette teoretiche.

La sua capacità di passare dal serio al faceto abbatteva gli steccati tra cultura alta e cultura bassa, tra centro e periferia, tra borghesia e borgata, tra università e televisione. Ricordo che mentre parlava del difficile rapporto tra scienza e democrazia nel mondo contemporaneo, si fermò per ricordare di quando un traduttore in lingua spagnola aveva confuso la sua citazione di Popper con un riferimento a Harry Potter, facendo scoppiare il pubblico attento e concentrato in una risata liberatoria. D’altronde Il pensiero debole è il titolo della famosa raccolta di saggi, curata insieme a Pier Aldo Rovatti e pubblicata nel 1983, ma anche il tormentone ri-lanciato da Roberto D’agostino in Quelli della notte, mentre straparlava di “edonismo reaganiano” con montaggi situazionisti tratti dal flusso mediatico dell’epoca. Insomma, una formula filosofica di successo, esposta a mille fraintendimenti e decontestualizzazioni, di cui lui per primo sorrideva.

La filosofia, da sempre, per me deve essere utile, è strettamente intrecciata alla vita”, questo era l’importante. Seguiva la massima di Goethe che Nietzsche cita nel suo Sull’utilità e il danno della storia per la vita: “mi è odioso tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività”. Vattimo aveva preso sul serio l’annuncio nietzschiano: “Non ci sono fatti ma solo interpretazioni, e anche questa è un’interpretazione”. È finita l’era degli eterni e degli assoluti, viviamo nell’era delle interpretazioni e delle opinioni. Le fondamenta su cui edifichiamo le nostre certezze sono sabbiose, siamo esposti alla tempesta, senza ancore di salvezza. Ma Vattimo ci invitava anche a cercare l’allegria dei naufragi: emancipati dai dogmi del passato, dobbiamo amare la nostra libertà. E si scagliava contro i detentori della “verità vera” che pretendono di definirci una volta per tutte: chi vuole affermare una verità assoluta, valida sempre e per tutti, vuole solo esercitare un’autorità. Nelle aule universitarie e nelle piazze cittadine invitava gli studenti e il pubblico a diffidare dagli esperti e dai tecnici che vogliono governarci bypassando il consenso democratico.

Sconfitto in tutti i luoghi del mondo, non mi sono mai sentito così libero”. La sua vita irregolare e anarchica è testimonianza del suo amore per la libertà, a ogni costo, a rischio di tutto. Era capace di ironizzare su tutto, di prendersi gioco di tutto (innanzitutto di sé stesso), di ridere dei più intoccabili tabù; e ha trasformato la sua libertà vissuta e ostentata in una pratica di liberazione contagiosa. Come gli antichi parresiastes, Vattimo era un Maestro di pensiero e un Maestro di vita. Sprezzante delle contraddizioni e dei giudizi, si definiva “comunista e cristiano”, perché in queste ideologie, trovava ciò che cercava: non solo un “pensiero debole”, ma un pensiero “per i deboli”. Tanto che al posto della parola “verità” spesso usava la parola “carità”, non nel senso buonista ecumenico, ma nel senso di un’intersoggettività necessaria che ci obbliga alla relazione con gli altri. Ma non risparmiava critiche irridenti e sarcastiche al mondo delle gerarchie ecclesiastiche invischiate nei vizi temporali.

In un mondo intriso di moralismo e omofobia, amava raccontare apertamente della sua omosessualità e delle sue scorribande sentimentali e sessuali, senza censure e senza pudori, ribaltando i sensi di colpa della sua educazione cattolica assimilata in oratorio. Nel 2012, dal palco del nostro festival “Popsophia”, si era indignato per la mancata legalizzazione delle coppie omosessuali. Ricordando il caso di Lucio Dalla, morto proprio in quell’anno, aveva ribadito il suo scandalo per ciò che avviene dopo la morte di uno dei conviventi: “Il compagno di una vita è stato espropriato di tutto. In molti casi i soldi se li beccano i parenti di sangue, fino a quel momento non pervenuti. E questo vuol dire negare i nostri diritti fondamentali, calpesta la nostra Costituzione”.

Non sapeva che stava profetizzando il suo triste destino. Negli ultimi anni Vattimo è stato osteggiato e perseguitato da tribunali, perizie, udienze: volevano a ogni costo riconoscerlo incapace di intendere e di volere, sottometterlo all’amministratore di sostegno, separarlo dal suo assistente e compagno di vita Simone Caminada, condannato per “circonvenzione di incapace”. A nulla era valso il durissimo appello di Alessandro Dal Lago e Pier Aldo Rovatti, che – sulle pagine de “Il Manifesto” nel giugno del 2021 – chiamavano a raccolta colleghi e amici contro la terribile “alleanza tra il potere psichiatrico e il potere giudiziario-inquisitivo” che si era intromessa nella vita personale del filosofo torinese. Fino alla fine, come insegnava Nietzsche in Umano, troppo umano, è stato uno “spirito libero”.

Lucrezia Ercoli 21 Settembre 2023

Martine Tedeschi, l’ex moglie di Vattimo (sposata solo per poterle lasciare i suoi beni): «Uno choc quando chiese il divorzio». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera l’11 Febbraio 2023.

L’ex moglie Martine Tedeschi, cugina di Carla Bruni: «Sono stata babbiona, Caminada raggirò anche me. Gianni era amico di mia madre, nella mia vita c’è sempre stato. Scelse me dicendomi che non voleva che i suoi averi andassero perduti»

Capelli bianchi con un caschetto scomposto, sigaretta accesa, un viso un po’ scavato che ricorda quello di Valeria Bruni Tedeschi. C’è anche una moglie segreta nella storia intricata e malinconica del filosofo Gianni Vattimo e del suo assistente condannato a due anni di carcere per circonvenzione d’incapace. E questa non è solo la versione colta del feuilleton che imperversa in tv su Gina Lollobrigida e il suo assistente che è a processo per circonvenzione d’incapace.

Le due storie, una in cui l’eredità contesa include un taccuino di Fidel Castro, l’altra dove si discute se la diva fosse solita spostarsi in elicottero, sono la summa di un’Italia che va via via diventando Paese di anziani longevi come mai, ma anche soli come mai, con meno fratelli, con meno figli o nessun figlio e perciò bisognosi dell’aiuto di qualcuno più giovane e sperabilmente non malintenzionato, anziani che vanno massicciamente incontro al nuovo dilemma da talk show: si può essere capaci di intendere e di volere e però influenzabili e quindi privati della libertà di decidere della propria vita e dei propri soldi?

Martine Tedeschi, 66 anni, medico, psicoterapeuta torinese (e sì, cugina di secondo grado di Valeria e di Carla Bruni), è stata la moglie di Gianni Vattimo dal 2010 al 2022. Non sono mai stati insieme, ma lei è figlia di una cara amica che non c’è più e il professore l’aveva sposata per poterle lasciare i suoi beni. Poi, ha chiesto il divorzio per poter sposare invece Simone Caminada, il suo giovane assistente, brasiliano, oggi 38 anni. Ma, col processo in corso, scattato dopo una segnalazione del medico curante di Vattimo, l’unione civile è stata bloccata, prima a Torino, poi a Vimercate. Martine, finora, se n’è stata zitta.

Che amicizia era quella di sua madre e Vattimo?

«Un’amicizia che durava da oltre cinquant’anni. Si sono sempre visti, con un giro di amici stretti che andavano al cinema insieme, mangiavano insieme, facevano vacanze insieme. Da che avevo dieci anni, Gianni, nella mia vita, c’è sempre stato. E quando sono cresciuta, l’ho frequentato anche indipendentemente da mia madre».

Chi era sua madre?

«Nessuno di celebre, un’insegnante con una testa molto bella, molto colta, sempre al centro di circoli di artisti, cineasti, intellettuali».

Come arriva la decisione sua e di Vattimo di sposarvi?

«Un giorno, mi disse che non voleva che i suoi averi andassero perduti e, non avendo nessuno a cui lasciarli, mi propose di sposarci, continuando, però, a fare ognuno la propria vita. Pensavo che scherzasse. Poi, all’ennesimo rinnovo di proposta, gli ho chiesto: stai dicendo sul serio? Per non far circolare la notizia, ci siamo sposati in Francia, a Roquebrune-Cap-Martin, dove aveva una casa. C’erano con noi solo gli amici stretti. Dopo, tutto è andato avanti come prima. Almeno fino all’arrivo di Simone, due o tre anni dopo».

Vattimo ha detto al Corriere che il matrimonio era più utile a lei che a lui.

«La spiegazione che mi sono data è che ha pensato a me perché tra i figli dei suoi amici sono l’unica non sposata, che non ha una casa e a cui nessuno ha lasciato niente».

Però porta un cognome dell’alta borghesia torinese.

«Mio padre si è giocato tutto in investimenti sbagliati. E i miei si sono separati quando avevo due anni e mezzo, l’ho sempre visto, ma non ho vissuto il suo ambiente. Ho scoperto di essere parente di Carla Bruni solo quando lei è apparsa sui giornali».

Cosa succede quando entra in scena Caminada?

«Ha preso sempre più spazio e si è conquistato Gianni finché l’ha convinto che era da sposare. Quando nel 2017 Gianni mi ha detto “divorziamo” sono rimasta di stucco».

Non aveva avuto avvisaglie?

«Sono stata un po’ babbiona: non ho capito che Simone raggirava anche me, gli occhi mi si sono aperti di colpo e ho capito che faceva l’amicone solo per farmi accettare più facilmente il divorzio. Eppure, avrei dovuto accorgermi dell’attenzione che metteva sulle questioni economiche. Io avevo la firma sul conto di Gianni, ma non ho mai interferito con le sue scelte e le sue spese. Simone, intanto, aveva ormai accesso alla sua mail, alle sue password. Un giorno, essendoci crisi di liquidità, io e lui abbiamo controllato gli estratti conto e ci siamo accorti, per esempio, che Gianni mandava duemila euro al mese a un ragazzo in Sudamerica, per aiutarlo a finire Medicina, ma lo faceva da anni e anni e questo ragazzo doveva essere ormai già medico da un pezzo. A un altro aveva pagato il dentista, a una ragazza pagava l’affitto... Era tutto così».

Vattimo sostiene che Caminada è stato prezioso nel limitare la sua generosità, ma il tribunale ritiene che lo abbia fatto per tutelare la sua eredità.

«Quando, da testimone, mi hanno chiesto che penso di lui ho risposto che lo raggira. E a me un funzionario della banca manifestò preoccupazione perché Gianni aveva comprato una casa a Simone e pagava sua madre come badante. Ma non c’era più verso di parlare con lui: tutti gli amici cari sono stati allontanati da Simone e ora tutti patiscono per Gianni senza poterlo avvicinare. Telefonavano ma rispondeva Simone e diceva che Gianni dormiva o era impegnato. Oppure Gianni rispondeva, ma Simone era presente e lui non era libero di parlare o si sentiva Simone parlar male e a voce alta delle persone con cui Gianni era al telefono».

Il tribunale aveva imposto al professore un amministratore di sostegno, poi lui ha vinto il ricorso e non ce l’ha più. Lei, da medico, ritiene che ne abbia bisogno?

«Certo, di uno che gestisca i sui soldi, controlli le bollette: cose normali che da tempo lui non è più in grado di fare. Ed è necessario perché già ai tempi del divorzio i suoi soldi erano diminuiti drasticamente».

Il professore, a 87 anni, come sta fisicamente?

«Già prima che chiedesse la separazione, le difficoltà a muoversi erano aumentate e non poteva essere lasciato solo la notte».

Alla fine, e di nuovo lo chiedo al medico, pure la mente più brillante può restare ostaggio di chi si prende cura del suo fisico malandato?

«Si finisce per dipendere da chi ti aiuta a far tutto. Gianni non è incapace di intendere o di volere, ma è facilmente influenzabile da Caminada, che può fargli fare tutto quello che vuole».

Lei come prese la richiesta di divorzio?

«Ci sono rimasta male. E ho speso pure undicimila euro di avvocato. Abbiamo fatto una consensuale, Gianni mi paga un assegno divorzile minimo. Non sapevo neanche che fosse obbligatorio. Ma credo che lo faccia volentieri. Io non ce l’ho con lui, anche se sono combattuta: continuo a volergli bene, ma a volte potrei anche dargli delle martellate in testa. Non solo perché mi ha illusa di poter fare una vecchiaia tranquilla e non è così. Sono arrabbiata perché mi sembra che non ragioni in autonomia».

Forse è arrabbiata perché si è sentita abbandonata da una figura paterna?

«Le domande le ho fatte anche a me stessa e credo di aver cercato in quel matrimonio il riferimento paterno che non ho avuto. Ma, soprattutto, sono arrabbiata perché, se Gianni fosse contento, saremmo contenti tutti, il problema è che non mi sembra contento: anche se non gli parlo da più di un anno, in ogni foto, mi sembra molto, molto, triste».

Estratto dell’articolo di Sarah Martinenghi per repubblica.it il 6 febbraio 2023.

Due anni di carcere per essersi approfittato di Gianni Vattimo facendosi nominare suo erede. Si chiude così il processo per Simone Caminada l’assistente tuttofare che da dieci anni è al fianco del filosofo. Lo ha deciso il tribunale che ha stabilito la responsabilità di Caminada, 38 anni, infliggendogli anche una multa da 900 euro.

 “Non cambia nulla nella nostra quotidianità” ha commentato l’imputato uscendo dall’aula e divagando con battute su Sanremo e un po’ di sarcasmo. “Vattimo non è potuto venire perché a casa si è bloccato l’ascensore” ha spiegato ancora.

 I pm Dionigi Tibone e Giulia Rizzo avevano contestato l’accusa di circonvenzione di incapace chiedendo la sua condanna a 4 anni di carcere. In sostanza Caminada avrebbe allontanato Vattimo dalle storiche amicizie per amministrare il suo patrimonio con più autonomia.

 (...)

 Caminada ha sempre respinto l’accusa; se all’inizio del rapporto aveva cercato di farsi adottare da Vattimo, di recente ha annunciato di volersi unire civilmente a lui. Le nozze, chieste d’urgenza a poche settimane dal verdetto, erano però state bloccate dalla procura. Cosa accadrà adesso? “Ne parlerò con Gianni e vedremo cosa fare, ma per noi non cambierà nulla ” ha commentato l’assistente.

Estratto dell’articolo di Irene Famà per “la Stampa” il 7 febbraio 2023.

Affetto sincero o avidità e raggiro? Simone Caminada, trentotto anni, assistente e compagno di vita del filosofo Gianni Vattimo, ieri è stato condannato a due anni di reclusione per circonvenzione. Per i giudici avrebbe approfittato della «fragilità» del pensatore per mettere le mani sul suo patrimonio. «Puntava ai soldi, a diventare erede universale», hanno sostenuto in aula i magistrati. Così ha conquistato la fiducia di Vattimo, arrivando a fare «da filtro nelle sue comunicazioni, isolandolo, escludendolo dalla vita sociale». Accudendolo per amministrarne il patrimonio, diventare erede universale, intestatario di polizze assicurative e altri beni.

 In discussione non c'è l'amore, l'affetto, la libertà di Gianni Vattimo […] ma se sia stato o meno manipolato dal compagno-factotum. […] Vattimo e Caminada si conoscono nel 2010 e iniziano una relazione. Poi, il professore, oggi 86enne, inizia, per dirla con le parole della procura, a manifestare «fragilità». I periti hanno evidenziato «patologie che portano a un deficit sul piano previsionale, esecutivo e sulla capacità di autodeterminazione.

Un disturbo depressivo aggravato dal parkinson».

 Ed è proprio di quelle debolezze che Caminada avrebbe approfittato. A lui vengono intestate polizze assicurative da 450 mila euro, il suo nome compare sull'eredità, nel suo cassetto finiscono quadri, libri e pure il taccuino di Fidel Castro. Gli amici del professore, quelli a cui Vattimo ha sempre elargito denaro e regali, pagando cene e affitti, spese mediche e vacanze, vengono allontanati. Presentano denuncia. Scattano le indagini. […]

 I pubblici ministeri […] producono in aula conti, firme, intercettazioni telefoniche. Così si sente Caminada parlare con la madre: calcolatore, analizza la situazione economica del pensatore e le sue aspettative di vita. Ora la condanna. […] Che ne sarà del testamento di Vattimo? La firma ormai c’è. Il filosofo non ha eredi e quindi nessuno potrà impugnare quanto è stato scritto nel documento. A parte lui. […]

Estratto dell’articolo di Maurizio Bosio per “la Stampa” il 7 febbraio 2023.

«I filosofi come me non sono molto interessati a queste bagarre giudiziarie». L'atteggiamento del professor Gianni Vattimo sembra trascendente. […] La condanna? «Tutto passa». […] Il suo assistente, Simone Caminada, si scompone, alza il tono di voce, lo interrompe, vuole dettare regole a domande e risposte: «Basta, basta. Su questo non abbiamo nulla da dire».

Professor Vattimo, lei si sente vittima?

«Sì, ma non di Simone».

 E di chi?

«Del sistema, per così dire. Dal sistema mi sento abbastanza stritolato. […]».

  […] In aula ha difeso Simone Caminada. I giudici non le hanno creduto?

«Non ho seguito tutte le udienze, c'è qualcosa che ho detto che non è stato creduto? Mi hanno considerato un bugiardo?».

 […] La sua avvocata dice che in questa vicenda ha pesato il suo orientamento sessuale. Lo pensa anche lei?

«Sì forse ha pesato. Perché tutto sommato cosa c'era d'altro di interessante in questa faccenda?».

 Simone Caminada è stato condannato. Cambia qualcosa nel vostro rapporto?

«Ma no. Tra di noi resta tutto uguale».

 Avete ancora intenzione di proseguire con l'unione civile?

«Direi di sì». […] «[…] ci sposeremo in un posto periferico. Una cosa così». […]

Gianni Vattimo: «Tra me e Simone c’è un amore stabile. Voglio sposarlo, sarà il mio unico erede». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera l’8 Febbraio 2023.

Il filosofo: «Non dubito di lui. In un documentario voglio raccontare questa mia ultima battaglia di libertà. Vorrei che ci fosse anche il Papa»

Simone Caminada e Gianni Vattimo

Professor Gianni Vattimo, il tribunale di Torino ha condannato a due anni il suo factotum e promesso sposo Simone Caminada. Lei ha mai avuto il dubbio che lui la raggirasse per interesse?

«Neanche per sogno».

Per il Pm Dionigi Tibone, lei non si può sentire parte offesa perché è talmente soggiogato da Caminada da dipenderne totalmente e, in più, ha paura di restare solo. Non è così?

«Sono anni che io e Simone stiamo insieme e non ha senso che uno pretenda di mettere becco negli affari miei».

Però, agli atti, ci sono intercettazioni in cui lei dice a degli amici «devi difendermi da Simone» e «Simone ha preso troppo spazio».

«È stato forse una volta in cui mi sono arrabbiato perché aveva fatto un assegno a mio nome».

E poi c’è un’intercettazione fra voi due, in cui lei gli dice: non andartene, faccio quello che vuoi.

«Sono cose che si dicono al telefono. Che dimostra quello che ho detto? Niente».

Fa pensare che, avendo lei 87 anni e una salute incerta e avendo delegato a questo trentottenne tutto ciò che la riguarda, lui si approfitti delle sue fragilità.

«Può anche darsi. Ma il rapporto costante e stabile fra noi conta molto di più dei momenti in cui uno può dire uffa che barba».

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Chi è Caminada per lei?

«È un affetto consolidato nel tempo».

Un affetto o un amore? Ovvero: siete fidanzati?

«È un amore, certo che siamo fidanzati».

Glielo chiedo perché, in passato, voleva adottarlo: era per lasciargli l’eredità?

«Sì, anche».

Chi sarebbero i suoi eredi legittimi per la legge?

«Ho solo un cugino che non so più dove viva. Ma sul mio testamento, l’erede universale è Simone e non vedo ragione di cambiare».

Vi è stato impedito di unirvi civilmente prima a Torino e poi a Vimercate. Ci riproverete?

«Io voglio sposarlo ancora. In qualche modo faremo».

Cinque anni fa, lei mi raccontò di aver sposato la figlia di una sua amica e mi autorizzò a scriverlo. Poi, s’intromise Simone e lei cambiò idea: mi pregò di non farlo. La sentii in forte difficoltà, mi sembrò temere l’ira di Caminada. L’accontentai per non lasciarla alla sua mercè. È stato Caminada a farla divorziare?

«Avevo sposato quella ragazza perché mi sembrava difficile la sua situazione, non la mia. Poi ho cambiato idea».

Raccontò anche che, avendo guadagnato tanto e sentendosi un po’ in colpa, aveva ecceduto in generosità verso chi aveva bisogno, ma che ormai era riuscito a contenere i cordoni della borsa. La aiutò Simone?

«Questo è vero, mi era vicino e mi ha messo in guardia».

Per il filosofo e per l’uomo innamorato, cambia qualcosa se Simone l’ha fatto per amore o per tutelare soldi che potevano andare a lui?

«Certo che cambia, ma non credo alla possibilità che l’abbia fatto per sé».

Neanche dopo aver letto le intercettazioni in cui lui sembra calcolare quanto le resta da vivere?

«Se fa i calcoli su quanto mi resta da vivere e quanti soldi restano mi sembra normale».

In tutto ciò, lei come sta?

«Affaticato. Il mio stato generale non è il massimo».

So che sta girando un docufilm col regista argentino Juan Ignacio Fernàndez Gebauer che ha filmato tutto il processo e momenti privati della sua vita con Caminada. Perché ha accettato?

«Perché voglio documentare questa mia ultima battaglia di libertà: il messaggio che ognuno può fare quello che vuole. E perché la mia è una questione che riguarda tante persone, famose e no».

Ha chiesto un incontro a papa Francesco. Vuole filmare anche lui e vuole andarci con Simone?

«Lo abbiamo chiesto e vorremmo metterlo nel documentario. L’abbiamo conosciuto in Argentina quando non era Papa, mi ha telefonato quando gli mandai un libro e lui sa di me e Simone».

Nel caso di Gina Lollobrigida, lei crede alla buona fede del suo assistente Andrea Piazzolla a processo per circonvenzione?

«Non lo so, so solo che ci sono di mezzo molti più soldi che nel mio caso. Io ho solo 140 mila euro sul conto e la casa di Torino».

Lei è il teorico del Pensiero Debole, che è l’emancipazione dalla verità attraverso l’inflazione della verità. Ora che su lei e Simone c’è la sua verità e quella di un tribunale, cosa pensa il filosofo?

«Che nessuna verità è neutrale e dipende da chi la dice. Il filosofo fa questa domanda: chi lo dice? Risposta: uno fatto così e cosà. Va bene. Ma io, invece, sono fatto così e colà».

Gianni Vattimo dopo la condanna dell'assistente: «Ci sposeremo presto, non mi interessa cosa pensano tutti». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 07 Febbraio 2023

Due anni inflitti a Simone Caminada, accusato di circonvenzione d'incapace. Il filosofo: «La mia vita non sarà rivoluzionata. De Benedetti testimone? No comment»

Gli occhi azzurri guizzano da una parte all’altra della stanza e sembrano indagare il pensiero degli interlocutori che ha di fronte. Gianni Vattimo, 87 anni, ha atteso nella casa di via Po il verdetto sul suo assistente e compagno Simone Caminada, accusato di circonvenzione d’incapace. Ed è tra le mura di quell’appartamento, in cui ha scritto le proprie opere tradotte in 18 lingue e considerate capisaldi del pensiero filosofico moderno, che ripensa agli ultimi quattro anni della propria vita. Dal giorno in cui alcuni amici di vecchia data hanno depositato in Procura un esposto e tolto così il velo sul privato della sua quotidianità, su quella parte di esistenza che racconta l’uomo e non il professore teorico del «pensiero debole». 

Caminada è al suo fianco, mentre risponde alle domande. La voce del professore è debole e quasi sommessa, ma le espressioni del viso e il gesticolare parlano per lui. Per il Tribunale, Caminada è colpevole. 

Gianni Vattimo, condannato l'assistente: «La sentenza forse destabilizza i giornalisti non certo noi»

La sorprende questa sentenza? 

«In realtà un po’ me l’aspettavo. Me l’aspettavo nel senso che non si può immaginare che improvvisamente il Tribunale cambi idea in un giorno. Certo, fa un po’ impressione vederlo scritto. Ma poi passa». 

Cosa cambia ora? 

«Nulla, non è che questa sentenza rivoluzioni la mia vita. Le persone che conosciamo certamente non modificheranno le loro opinioni dopo questo processo. In questi mesi non mi sono preoccupato oltre un certo limite e i filosofi non sono molto interessati a quello che succede intorno a loro. O a quello che si pensa di loro». 

Nelle settimane scorse lei e Caminada avete annunciato il desiderio di sposarvi, intende andare avanti in questo progetto? 

«Penso proprio di sì. Non vedo perché non dovremmo». 

Caminada, scherzando, dice che questa volta è lui a tirarsi indietro. Ci crede? «Per carità, no» (sorride). Le ipotetiche «nozze» sono già state bloccate una volta dalla Procura: adesso dove celebrerete l’unione, e quando? «Non lo so, cercheremo un posto un po’ più periferico». 

Professore, Simone la invita a rispondere «no comment». 

«No comment». 

Ma la data è stata fissata? E De Benedetti sarà testimone? 

«No comment». 

Lei ha testimoniato in aula e difeso Caminada: la offende non essere stato creduto? 

«No, come dire…. C’è qualcosa che è stato detto e a cui non hanno creduto. Non ho mai pensato di essere considerato un bugiardo. Spero non ci sia nessuno che mi consideri un bugiardo». 

Per la giustizia lei è una vittima, si ritiene tale?

«Sì, sono una vittima del sistema e della giustizia. Mi sento abbastanza vittima, ma poi me ne dimentico». 

Ritiene che a essere giudicata sia stata la sua vita privata? 

«Non ci avevo pensato all’inizio. E comunque non mi sembrava il caso. Ma è accaduto. Insomma, succede. Vediamo oltre, vediamo su cosa si fondano queste prove». 

Pensa che in questa vicenda abbia pesato l’orientamento sessuale? 

«Forse sì. Perché tutto sommato cosa c’era, altrimenti, di eccitante nella faccenda? Direi nulla». 

Alla luce del verdetto, teme che la Procura possa di nuovo presentare un’istanza perché venga nominato un amministratore di sostegno? 

«Non lo so. Perché, possono farlo? Può succedere di nuovo?». 

Lei ha già affrontato il Tribunale, c’è stato un momento in cui si è trovato sotto accusa? 

«Per i No Tav, ricordo. Ecco, allora ero più preoccupato di adesso. Era la prima volta che andavo a giudizio. Ma per la sentenza di oggi non sono in pensiero».

Maurizio Ferraris per il “Corriere della Sera” il 2 gennaio 2023.

«Svegliati, esci dall’infanzia!» è la frase di Rousseau che Kant pone in epigrafe a Che cos’è l’Illuminismo?, ed evoca appunto il titanismo razionalista. Ma è la scelta giusta? Non è che la ragione ci impone vincoli anche più imperiosi della tradizione, e più implacabili perché certi del loro buon diritto? 

Ecco il nocciolo del pensiero di Gianni Vattimo, che tra pochi giorni compirà ottantasette anni pieni di scritti, pensieri e azioni. La ragione è esposta al rischio del dogmatismo, mentre la tradizione, quella che ci hanno insegnato da piccoli, può essere sempre interpretata, cioè alleggerita, con una ermeneutica ad hoc.

Sulle prime, vedere un cattolico che invoca l’ermeneutica, ossia l’interpretazione individuale dei testi, Bibbia compresa, senza affidarsi al magistero della Chiesa, può apparire paradossale. Una volta ricordai a Vattimo il titolo del libro pubblicato nel 1819 da un sacerdote cattolico, Francesco Zamboni: Saggio di una memoria sopra la necessità di prevenir gl’incauti contro gli artifici di alcuni professori d’Ermeneutica. 

E gli chiesi: ma come fai, al tempo stesso, a dichiararti ermeneutico, ossia difensore del pensiero autonomo, e debolista, ossia teorico di un essere che magari si è anche rivelato un giorno, per esempio come un roveto ardente, ma il cui senso consiste tutto nella storia, ossia nella versione laica della tradizione apostolica tanto invisa ai protestanti? 

Tuttavia, proprio qui sta l’intuizione che merita a Vattimo il suo posto di primo piano nella filosofia contemporanea, il capovolgimento di ogni dogmatismo, compreso quello che spinge Paolo, nella Lettera ai Corinzi,a proclamare: «Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede». 

Sarà vero? E soprattutto è necessario che lo sia? Non è più cristiano e umano il contrario? Cristo non è risorto, Dio e la sua manifestazione secolare, l’essere, si è indebolito, anzi, si è «camolato», ossia tarmato, ha scritto e detto Vattimo con un piemontesismo che incantava il suo amico Umberto Eco. 

Ma proprio per questo la nostra fede, la nostra speranza e la nostra carità ricevono il loro autentico valore, che non è un confronto con l’eterno o con la fine dei tempi, ma con la storia e il mondo umano. Ora, questo indebolimento, questo rifiuto del considerare la resurrezione un fatto oggettivo («Cristo è risorto! È veramente risorto» si dicono invece gli ortodossi nel giorno di Pasqua) rende intimamente cattolica la filosofia di Vattimo.

Dal cristianesimo, prima che da Nietzsche, Vattimo trae l’idea della morte di Dio, cioè del passaggio dall’infinito al finito: non esiste alcun assoluto. Ma qui veniamo al momento specificamente cattolico: in Del Papa, opera ben più illustre di quella dello Zamboni, ma uscita lo stesso anno, Joseph de Maistre diceva che il cattolico non crede in Dio, ma nel Papa, ossia nel suo erede e rappresentante secolare, e nella tradizione che costituisce non una aggiunta alla rivelazione, ma l’essenza di un Dio che si fa uomo e storia.

Può sorprendere trovare il nome di un ultras della Restaurazione, le cui tesi sul Papa apparvero eccessive anche al loro presunto beneficiario, quando si parla di un filosofo che ha sempre pensato a sé stesso come a un rivoluzionario. Eppure ciò che nel 1819 era restaurazione nel 1983, quando esce Il pensiero debole, era rivoluzione contro le pretese egemoniche del sapere e della verità.

 Come nella barzelletta dei Gesuiti che ritrovano le spoglie di Cristo a Gerusalemme, e si stupiscono non del fatto che non sia risorto, ma che sia esistito, l’autore di Credere di credere trova irrilevante che Cristo sia risorto, o magari persino che sia esistito, perché quello che conta non è l’evento, accertabile o meno, ma l’effetto, l’apertura di un mondo libero da assoluti e da quella speciale forma di superstizione che è il pensiero critico, la pretesa di aver ragione.

Ricordo di aver capito sino in fondo questo punto quando un tassista, a Napoli, commentò l’indignazione di uno cui aveva tagliato la strada passando col rosso: «Se ne approfitta perché ha ragione». E de Maistre non ha forse scritto che i protestanti, con i loro ragionamenti arzigogolati muoiono dalla voglia di aver ragione, sentimento inconcepibile per un cattolico?

La verità non esiste in natura, e sarebbe molto difficile anche solo concepire una pietra o un castoro interessati alla verità, che dunque non è oggettività ma interpretazione. E se Paolo poteva con tanta forza proclamare la certezza della resurrezione di Cristo, così come l’imminenza della fine dei tempi, peccava di ingenuità proprio come l’amante ebrea del giovane Talleyrand che (commentò una signora) si era fatta cristiana avendo appreso che Dio si era fatto uomo.

Davvero Cristo è risorto? E davvero Dio si è fatto uomo? Ecco lo stato d’animo dominante nel postmoderno, ed ecco come il Pensiero debole, lanciato come un tormentone da D’Agostino in Quelli della notte, ha generato una forma di cultura civile che impone circospezione nell’uso dogmatico di parole come «verità» o «scienza»: parole che si può permettere Greta Thunberg per via della sua giovane età, ma che, in una persona più matura, suonerebbero sinistre come la pretesa di Colin Powell di avere le prove dell’esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq.

 Rinunciando al più facile dei mestieri, il catastrofismo, il pensiero debole vede nella storia un avvenire destinato a durare a lungo, e il cui senso è l’emancipazione dell’umano dai vincoli che gli sono imposti dalla natura e dalla tradizione. E dico proprio «emancipazione» perché il processo non consiste nella liberazione di un Prometeo incatenato, ma piuttosto nella decisione di un

Epimeteo emancipato di alleggerirsi, per esempio lasciando nell’armadio, a camolarsi, il cappotto siberiano reso inutile dal riscaldamento globale. «Non ci sono fatti, solo interpretazioni», la celebre e controversa frase di Nietzsche, diventa a questo punto il grimaldello con cui sabotare le pretese egemoniche di tutti i portatori di verità, che si tratti di scienziati, di filosofi, o di politici. Ed era proprio questo che mi aveva attirato ai corsi di Vattimo nella metà degli anni Settanta.

 Non consideravamo, tuttavia, che i grandi artisti del governo non hanno alcun bisogno di servirsi della verità per esercitare la loro autorità. E che la verità è piuttosto l’unico strumento a disposizione degli oppressi.

La favola del lupo e dell’agnello continua a insegnarcelo: non ho alcuna difficoltà a immaginare un lupo postmoderno capace di sostenere che gli argomenti dell’agnello sono il frutto di un dogmatismo scientista, e magari di una fisica newtoniana ormai desueta. Ricordo uno scambio all’epoca della declinazione più apertamente movimentista del pensiero di Vattimo, quella che si risolverà nella teorizzazione del comunismo ermeneutico.

 Gianni annunciava una conferenza intitolata «dal pensiero debole al pensiero dei deboli», e io gli dissi che il passo successivo sarebbe stato «dalla filosofia della miseria alla miseria della filosofia». Questo per dire i toni di un dialogo anche drammatico, ma mai serio. A me il pensiero dei deboli ricordava tanto il populismo, la dittatura del proletariato dei social che trasformano i politici non in influencer, ma in influenced.

E, sempre per quello che mi riguarda, è stata proprio una esperienza storica a persuadermi che la fiducia nel ruolo decostruttivo dell’interpretazione era mal riposta. Perché il populismo mediatico che prese piede in Italia negli anni Novanta, anticipando una tendenza diventata mondiale, proprio quella che ha portato gli Oxford Dictionaries a eleggere «postverità» come parola dell’anno 2016, era la migliore dimostrazione degli effetti perversi dell’addio alla oggettività in nome della solidarietà, e del primato delle interpretazioni sui fatti.

Immagino che Gianni mi obietterebbe che questa conclusione non ha nulla di necessario, e anzi è ancora il segno di quell’oggettivismo da cui il pensiero debole insegna a emanciparsi, e io gli risponderei che anche questa è una situazione da interpretare. «Tu eri il mio amico, e io volevo solo provare la tua fede. Anche all’ultimo momento ti ho gridato: Abramo, Abramo, fermati!».

 È Dio che parla ad Abramo in Timore e tremore. Abramo si è sbagliato, per difetto ermeneutico o per semplice sordità non ha sentito che doveva fermarsi. E Dio, dio debole, anzi pasticcione, perché non è riuscito a evitare il male, si giustifica come può. Questa storia di equivoci è un po’ anche quella dei rapporti tra maestro e allievo: è Abramo che ci sente male o è Dio che si è sbagliato?

In ogni caso, e per fortuna, nelle piccole vicende accademiche tutto avviene senza spargimento di sangue e senza conseguenze irrevocabili. Lo dico per esperienza, giacché non c’è stato un giorno, dalla prima lezione di mezzo secolo fa al momento in cui scrivo queste righe, in cui si è interrotto un dialogo spesso silenzioso, altre volte pubblico, troppo raramente, negli ultimi anni e per colpa mia, privato.

Dal cristianesimo Vattimo trae l’idea della morte di Dio, cioè del passaggio dall’infinito al finito

Massimiliano Peggio per “la Stampa” il 3 giugno 2022. 

«Che cosa diciamo?» Il professor Vattimo rivolge la domanda al suo fedele factotum, Simone Caminada, con un filo di voce, alzando appena la testa. Nella sua casa museo, in via Po, s' improvvisa una conferenza stampa per parlare delle traversie giudiziarie, delle perizie discordanti, delle accuse al suo collaboratore-compagno che tengono banco in tribunale, dei soldi spariti dai conti correnti. Invenzioni? Esagerazioni dei giudici? Allora professore si fida del suo collaboratore? «Sì, abbastanza». 

Storia di una fulgida mente in declino. Gianni Vattimo, adesso, ha 86 anni. I fatti vivisezionati a più riprese da giudici e periti risalgono ad alcuni anni fa. Per la Cassazione civile, come sentenziato l'altro ieri, il professore è in grado di disporre dei sui beni liberamente e non ha bisogno di un'amministrazione di sostegno. Per la procura no, sarebbe manipolabile, incapace di badare ai propri beni.

Si sente manipolato dal Simone? «No, mi fido di lui» risponde, interrompendo il suo silenzio, che sembra quasi un torpore. Il suo giovane assistente è sotto processo e si difende. Elettrizzato dalla sentenza della Cassazione, si lancia una lunga filippica contro la giustizia penale, che lo vede come un impostore. 

«Altre persone hanno fatto del male a Gianni, e sono sparite. Quelle stesse persone che adesso testimoniano contro di me». Caminada è istrionico, a tratti affabulatore, buon eloquio. Già in aula, la sua deposizione da imputato, era stata definita uno show. Vattimo ascolta la conferenza stampa improvvisata, annuisce, risponde a monosillabi alle domande. Osservandolo, i ricordi sgorgano crudeli, nell'immaginarlo ancora il professore che ammaliava schiere di studenti, che intervistava Fidel Castro, che firmava arguti articoli per la Stampa, scandagliando il pensiero del Novecento in inesorabile declino.

Oggi appare così fragile su una sedia a rotelle, le sue mani sottili, consumate dalla malattia. A tratti gli occhi scrutano gli interlocutori. Mentre il suo vulcanico assistente, in bretelle nere e camicia bianca, se la prende con la Finanza, con i magistrati, racconta di parassiti che hanno attinto al patrimonio del professore fingendo amicizia, amore. Lui no, Gianni è la sua famiglia, e chi lo accusa di averlo circonvenuto si sbaglia di grosso. «Gianni ha la delega sul mio conto ed io sul suo. Siamo una cosa sola. 

Siamo una famiglia». E spiega la sua verità. «Gianni deambula poco e male, ma ha la capacità di telefonare a chiunque. E' lucido. Gli voglio bene. Sono rimasto qui nonostante tutto quello che è successo». Poi snocciola cifre, depositi bancari. «Mi sono sempre occupato delle spese, di pagare gli stipendi della badanti. Ho amministrato la casa. Anche se il concetto suona enorme, non amministro un'azienda, faccio quello che fanno tutte le persone in una famiglia». 

Va bene, ma come la mettiamo con il testamento e tutto il patrimonio del professore, che è stato anche parlamentare? «Sì, formalmente l'atto dice che sono proprietario dei quadri e della biblioteca, ma tutti questi beni sono vincolati e dovranno essere donati a università ed enti». La realtà che circonda oggi il professore, così come emerge all'apparenza, tra verità sfuggenti e dispute giudiziarie, non ha nulla di filosofico. E stride con i ricordi di quella casa, osservando il libro-reliquia di Pareyson su Fichte, la foto con Umberto Eco, i premi raccolti per le lezioni sull'ermeneutica.

Processo Vattimo, la difesa dell’assistente Caminada: «Ma quali soldi, volevo solo proteggerlo». Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2022.

È accusato di aver approfittato delle condizioni di fragilità del filosofo: «Ho sempre agito per il bene di Gianni, sono stati altri a prendergli tutto». Lo «show» in aula, che fa esclamare al pm: «Sembra di essere a teatro».

Per nulla fiaccato da quasi cinque ore di esame in aula, Simone Caminada, completo impeccabile come sempre, gemelli ai polsini della camicia e cappello di paglia bianco, si stira nel cortile del palazzo di giustizia, girandosi verso i cronisti: «Ho voglia di dire la verità, di fronte a tutte le falsità che stanno venendo fuori in questo processo». E la sua verità, da accusato di aver approfittato delle condizioni di fragilità di Gianni Vattimo, l’aveva detta poco prima: «Altro che volere il suo patrimonio, non volevo che morisse», si era sfogato. E ancora: «Io ho sempre agito per il bene di Gianni, sono stati altri a prendergli tutto, ma noi siamo ancora qua, nonostante tutto quello che è successo».

Da assistente, con compiti «un po’ da segretario», ora come prima al fianco del filosofo ed ex europarlamentare, che era comparso in aula a metà mattina, accompagnato su una sedia a rotelle.

È stata un’udienza estenuante, quasi più per l’eloquio dell’imputato che per i tempi, tanto che, più volte, il giudice Federica Gallone l’ha ripreso: «Parli senza fare giri di parole o divagazioni». Seguiranno altri richiami, a volume alto, anche alla mamma dell’imputato, tra il pubblico: avrebbe perso la pazienza pure un monaco tibetano.

La tesi accusatoria emerge chiara dalla lettura (e dall’interpretazione che la Procura ne dà) di alcune intercettazioni, tra Caminada e la madre, citate dal pubblico ministero Giulia Rizzo: «Arrivo a 45 anni con 4-5 mila euro al mese», diceva l’uomo, facendo riferimento all’eventualità di un’unione civile con il filosofo.

«Solo una boutade», s’è difeso, per poi correggersi: «Era lo sdegno nervoso di quei giorni che mi portò a dire cattiverie». Dopodiché, la madre, sempre nella telefonata, pareva essere stata esplicita, parlando dell’eventuale eredità di «un quarto della casa», alla quale era preferibile prendere i soldi: «Meglio i contanti».

Per Caminada, accusato di circonvenzione di incapace, furono invece altri ad approfittarsi del professore emerito: gente che si sarebbe portata via «6-700 mila euro in 53 mesi».

Il tutto in un racconto zeppo di incisi e aneddoti tra smorfie e gesti, in un mix surreale: «Sembra di essere a teatro», esclama a un certo punto il pm Dionigi Tibone. Finale in linea, con il difensore, l’avvocato Corrada Giammarinaro, rivolta al giudice: «Qui stanno venendo fuori fatti inquietanti».

Franco Debenedetti: «Per Gianni Vattimo questo processo è motivo di grande sofferenza». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2022.

L’imprenditore ed ex senatore, fratello di Carlo, testimone nel procedimento in cui è imputato di circonvenzione di incapace Simone Caminada, assistente e compagno del filosofo

«Durante il periodo dell’amministrazione di sostegno ho ricevuto più volte richieste di denaro da Vattimo. Lui è un amico vero, non ho dubbi che quei diecimila euro mi verranno restituiti». A parlare è Franco Debenedetti, 87 anni, uno degli amici storici del filosofo torinese. L’imprenditore ed ex senatore, fratello di Carlo De Benedetti, ha testimoniato in Tribunale a Torino nel processo in cui è imputato Simone Caminada, assistente e compagno di Vattimo: il trentottenne di origini brasiliane è accusato di circonvenzione d’incapace. Secondo i pm Dionigi Tibone e Giulia Rizzo, il giovane avrebbe sfruttato la situazione di «fragilità psichica del filosofo» e «mediante un’attività costante di pressione morale consistita nell’approfittare della sua generosità è riuscito ad accedere a tutta una serie di benefici economici»: dal farsi intestare polizze assicurative fino alla nomina di erede universale.

L’ex senatore ha spiegato che formalmente a chiedere i prestiti era stato Caminada. «Ma è la stessa cosa», ha spiegato al giudice. «Me li chiedeva perché doveva andare al supermercato a fare la spesa. Per un filosofo come Vattimo è motivo di grande sofferenza la situazione che sta vivendo. Sono addolorato per lui, l’ho visto depresso», ha aggiunto. Debenedetti ha poi spiegato che un tempo lui e Vattimo si frequentavano molto di più: «Andavamo in vacanza insieme e trascorrevamo in compagnia i fine settimana, poi mi sono trasferito a Milano e gli appuntamenti si sono diradati. Ma non ho mai avuto alcun problema a incontrare Vattimo, Caminada non si è mai frapposto». Debenedetti ha anche confermato la prodigalità del filosofo: «La sua è una generosità singolare, non si è mai lamentato che qualcuno gli avesse chiesto troppo. Ammetto che in passato gli ho suggerito di affidare l’amministrazione dei suoi soldi a uno studio esterno».

Tra i testimoni sfilati in aula anche il filosofo padre Giovanni Ferretti, 89 anni: «Conosco Vattimo dagli anni Sessanta. Nell’ultimo periodo ci siamo incontrati spesso, c’è un rapporto spirituale. È sempre stato lucido, non si è mai lamentato di Caminada e lui non ha mai intralciato i nostri colloqui».

Simona Lorenzetti per corriere.it il 19 febbraio 2022.

«Sono fatti miei», replica Gianni Vattimo al pm Giulia Rizzo. È questa la risposta che più di altre racchiude il pensiero genuino del filosofo, ma anche la difficoltà a chiarire le dinamiche del rapporto con Simone Caminada. Vattimo è comparso in aula per testimoniare nel processo in cui l’assistente e compagno è accusato di circonvenzione d’incapace. Secondo la Procura, il trentottenne brasiliano avrebbe sfruttato la situazione di «fragilità psichica del filosofo» e «mediante un’attività costante di pressione morale consistita nell’approfittare della sua generosità è riuscito ad accedere a tutta una serie di benefici economici»: dal farsi intestare polizze assicurative fino alla nomina di erede universale.

Vattimo arriva in Tribunale in sedia a rotelle. È un’immagine inedita, che mette a nudo la debolezza fisica di un uomo stanco e malato. Parla con un filo di voce. Risponde con lucidità, ma lo scorrere dei pensieri non sempre è lineare. Non nasconde l’affetto che prova per quel ragazzo che siede sul banco degli imputati e che da oltre dieci anni è al suo fianco: «Sì, ho modificato la polizza assicurativa per destinare a lui il 70 per cento, del resto ha gli avvocati da pagare».

Il docente ripercorre i rapporti con i tanti amici che hanno attraversato la sua vita e che oggi non frequenta più. Emergono la generosità e l’altruismo: «Mi sono goduto la vita fino a quando non ho avuto qualche problema di salute. E ho aiutato a star bene le persone che mi stavano attorno». Ma non è la sua magnanimità sotto accusa, piuttosto le presunte «pressioni morali» di Caminada che avrebbe deciso di mettere un freno alle elargizioni di denaro: «Evidentemente Simone ha ritenuto che stavo spendendo più di quanto potessi permettermi». Vattimo riferisce di aver sempre concordato con il proprio assistente la gestione del patrimonio, fino alla necessità di sbloccare 70 mila euro di investimenti: «Non avevamo più liquidità e c’erano dei conti da pagare».

Ma a indispettire l’accademico sono le domande sui presunti dissidi tra lui e Caminada: «Litigi normali di due persone che vivono insieme. Come ci sono tra marito e moglie». Ma il pm Rizzo insiste e pur usando la delicatezza e il rispetto che si deve a uomo di 85 anni, considerato tra le menti più brillanti del ‘900, non può fare a meno di fargli notare che in alcune intercettazioni telefoniche si rivolge agli amici per chiedere aiuto: «Simone si prende troppo spazio», «Devi difendermi da lui», «Caminada vuole andarsene perché non faccio quello che vuole».

Ma a incuriosire il magistrato è il fatto che Vattimo chiedeva ai propri interlocutori di non parlare di questi «dissidi» in Procura. «Perché non dovevano essere raccontati?», domanda il pm. «Sono fatti miei», chiosa il docente.

Ferruccio Pinotti per corriere.it il 6 giugno 2022.

La parola è flebile e impercettibile, il corpo abbandonato su una sedia a rotelle, lo sguardo è quello basso e mesto di chi si è arreso alla difficile condizione dell’anziano intellettuale che sente la propria decadenza e che non ha più voglia di combattere. È questa la condizione del professor Gianni Vattimo, 86 anni, esimio filosofo torinese, reduce da una «vittoria» in Cassazione contro chi — la Procura di Torino, impegnata in un processo per circonvenzione di incapace contro il suo giovane compagno di colore Simone Caminada — voleva costringerlo alla amministrazione di sostegno.

Vattimo, l’inventore di una corrente laica come il «pensiero debole» — caratterizzata dalla critica a numerosi presupposti fondanti della filosofia classica nel più ampio contesto del relativismo — è parso in questi ultimi tempi riavvicinarsi al cristianesimo: in un momento critico come questo, fatto di guerre, di nazionalismi e “pensieri forti”, accetta di parlare a ruota libera di vari temi pubblici e privati con il Corriere, a margine della sentenza. E le sue parole a sorpresa, vertono sulla figura di Papa Francesco. 

L’amicizia con il Pontefice, la guerra, la “Fratelli Tutti”

«Il mio giudizio su Papa Francesco? È molto positivo, così come è molto positiva la valutazione della sua enciclica 

Fratelli Tutti, alla quale sto dedicando il mio prossimo libro, “Fratelli Tutti?”, edito da Castelvecchi e in uscita a settembre, spero. Si tratta di un lavoro fatto insieme alla Georgetown University, con la Civiltà Cattolica di Roma e con il caro amico collega Antonio Cecere, in cui si parla anche del Documento di Abu Dhabi sulla Fratellanza Umana del 2019 firmato da Francesco con un grande Imam oltre che di Fratelli Tutti, perché offrono a credenti e non credenti strumenti di riflessione e discernimento», esordisce Vattimo con un filo di voce.

«Seppure l’origine dell’Enciclica è necessariamente la fede cristiana, essa apre a una riflessione a tutto campo sui problemi del nostro tempo. Un cristianesimo critico non solo nei confronti della politica, dell’economia, della comunicazione, dell’ambiente, ma anche nei confronti di se stesso. Un cristianesimo capace di interrogarsi e di porre domande più che offrire risposte preconfezionate e, proprio per questo, capace di chiamare ciascun essere umano a prendere posizione in modo consapevole. Quindi ammiro Francesco, anche se sulla guerra in Ucraina mi piacerebbe vedere un suo intervento più incisivo».

Le sintonie di Francesco con il «pensiero debole»

Vattimo, allievo del filosofo cattolico Luigi Pareyson, vede delle sintonie forti tra il magistero di Francesco e il suo «pensiero debole» che si è sempre opposto agli assolutismi, filosofici e non. «Il Pontefice secondo me è debolista per natura perché riflette in maniera aperta sui grandi temi come la migrazione, l’omosessualità, le periferie, ponendo e ponendosi domande senza però dare, diciamo, la Verità con la V maiuscola. Bisogna accogliere in modo consapevole e responsabile l’invito di Papa Francesco a confortarsi sui tanti temi del nostro tempo con lo scopo di stimolare riflessioni costruttive».

Un rapporto personale forte

Vattimo rivela che tra lui e Francesco esiste un rapporto personale forte. «La mia conoscenza con il Pontefice — che è mio coetaneo, anche lui è del 1936 — risale a quasi dieci anni fa, al 2013, quando era ancora Cardinale. Le rivelo un fatto inedito: nel 2013 dovevo incontrare il Cardinale ad un convegno in Argentina, ma accadde che lui fu in quei giorni chiamato in conclave ed eletto Papa. Quindi lui volava verso Roma per divenire Papa mentre io volavo in Argentina. Una volta nominato Pontefice mi fece arrivare un bel messaggio simpatico, da un amico comune: “Chiedo scusa al professor Vattimo per non aver potuto essere alla conferenza, ma mi han fatto Papa”. Poi ci siamo visti successivamente, in varie udienze private. E il nostro dialogo continua. Tra l’altro, oltre a “Fratelli Tutti?” c’è con il mio assistente Simone Caminada un nuovo libro in programmazione sulla Chiesa dopo Francesco, che inevitabilmente non sarà più la stessa».

La mancanza di un figlio

Vattimo ha vissuto una vita intensa, fatta di tanti rapporti. Rifiuta le etichette e le categorizzazioni facili: «Pensi che da giovane dovevo sposarmi con Gianna Recchi, appartenente alla ricchissima dinastia dei costruttori torinesi, poi divenuta moglie di Gabetti, ma consegna al Corriere una confessione personale: «Mi manca molto un figlio biologico, questo sì lo ammetto. Ora sarebbe grande e potrebbe essermi vicino. Ma con Simone io mi sento come se avessi un vero figlio e comunque lui mi è sempre stato vicino ed è premuroso e attento ad ogni cosa per il mio bene. A me questo basta». La mestizia nel suo sguardo sembra dire che la verità è più complessa, ma va bene così.

Pantaleo Romano per mowmag.com l'8 giugno 2022.

Sono circa le 12 di un afoso lunedì mentre salgo le scale di un palazzo seicentesco nel cuore di Torino. 

Al terzo piano mi aspetta uno dei più grandi intellettuali italiani, un filosofo che ha lasciato il segno nella sua disciplina con il concetto postmodernista di “Pensiero debole”, un pensatore che per anni ha passato la vita tra università, impegno politico e conferenze internazionali (l’ultima tenuta nel febbraio 2022 alla veneranda età di 86 anni). Una vita che gli ha dato tanto, una vita impegnativa, ma anche “divertente” come mi dirà sorridendo durante l’intervista. Entro nell’appartamento e sono circondato da quadri, opere d’arte e librerie che avvolgono ogni stanza. 

Ad accogliermi in casa Simone Caminada, da circa dieci anni assistente personale del docente. Un parquet leggermente scricchiolante mi porta nel soggiorno dove seduto in una poltrona mi aspetta il professor Gianni Vattimo. Appoggiati su un tavolino accanto a lui ci sono i principali quotidiani italiani, sgualciti e ormai abbandonati dopo la lettura. Mi saluta amabilmente con un sorriso, stringendomi delicatamente la mano. Simone gli passa un foglio con le domande che ho preparato ed il professore s’immerge nella lettura. Lo avevamo già incontrato lo scorso anno (come nel video-reportage realizzato da Gianmarco Aimi che vedete qui sopra), ma ora qualcosa è cambiato. 

Perché non sono stati semplici gli ultimi anni in casa Vattimo. Dal 2018 infatti la procura di Torino ha cercato di dimostrare l’incapacità del professore di prendere decisioni autonome. Un procedimento che, come scrive La Nation, ha preoccupato finanche Papa Francesco, amico di lunga data del professor Vattimo ben prima di essere nominato pontefice. È così che di punto in bianco lo studioso vede assegnarsi un amministratore di sostegno che avrà il compito di gestire i suoi soldi (il quale spenderà circa 10 mila euro in più nel biennio 2018-2020 rispetto alla gestione di Caminada). L’ipotesi è che Simone voglia circuire Vattimo per arricchirsi. Il processo che vede coinvolto Caminada non si è ancora concluso mentre la parola fine è stata posta sulla vicenda che ha riguardato lo studioso.

Il 27 maggio è infatti arrivata dalla Cassazione la sentenza che ritiene inammissibile l’appello della procura. Una sentenza che pesa, giacché, oltre a considerare il professore “persona lucida e correttamente orientata, […] capace di controllare la gestione del proprio patrimonio” ha rigettato completamente l’appello della procura, aggiungendo che “deve essere escluso il ricorso all’istituto (dell’amministrazione di sostegno, ndr) nei confronti di chi si trovi nella piena capacità di autodeterminarsi […] in quanto simile utilizzo implicherebbe un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona”. 

Insomma, una lezione di diritto da parte dei membri della Cassazione ai ricorrenti della procura. Si tratta di una sentenza che potrebbe essere importante anche per il processo di Caminada, visto che a questo punto sembra difficile parlare di circonvenzione d’incapace.

Al massimo si potrebbe parlare di “circonvenzione di capace” come scrisse ironicamente anni fa Marco Travaglio in un suo editoriale. La vicenda, comunque, non impensierisce il professore. Ormai definitivamente libero dall’amministratore di sostegno, Vattimo vuole mettersi alle spalle le questioni giudiziarie e magari tornare a fare conferenze come un tempo. “Purtroppo logisticamente, vista anche l’età del professore, è più difficile che in passato, ma in futuro vedremo” dice Caminada. Dopo pochi minuti Vattimo alza lo sguardo dal foglio sgualcito e con un cenno del capo mi fa capire che è pronto per rispondere alle mie domande. 

Professor Vattimo, innanzitutto come sta dopo la sentenza della Cassazione che la libera definitivamente dall’amministratore di sostegno?

In questi anni mi sono sentito molto limitato, molto debole. Devo dire però che ormai, dopo 4 anni, era diventata un’abitudine, una cosa che passa quasi in secondo piano e che dopo l’iniziale difficoltà tutto sommato non ne ho sofferto molto.

Come l’ha fatta sentire, dopo una vita intera dedicata al pensiero e al ragionamento filosofico, essere considerato non capace di scegliere autonomamente della propria vita?

A dir la verità è una vicenda che non mi ha ferito più di tanto. Come ho detto la prima richiesta di amministrazione è stata più dura da accettare e a quella ho reagito molto negativamente. Poi francamente non è me n’è importato niente di quello che voleva da me il procuratore Giulia Rizzo, sinceramente non ho mai sentito questo provvedimento come qualcosa che riguardasse me direttamente. 

Lei è stato sempre un gran viaggiatore, ora che la sentenza definitiva è arrivata le piacerebbe tornare a fare viaggi fuori dall’Italia?

Si molto! Direi che quella sarebbe la cosa che mi piacerebbe fare di più. Ormai sono in una condizione che rende più difficili i grandi viaggi di un tempo; mi dispiaccio un po’ se penso a tutte le possibilità che avevo di incontrare persone, vedere posti diversi. Nel frattempo però le cose si sono ridimensionate e non ho più l’esigenza di muovermi come un tempo. 

Da ormai 10 anni nella sua vita è presente Simone Caminada, assistente che la segue non solo nei viaggi ma anche e soprattutto nell’amministrazione della quotidianità. Come descriverebbe il vostro rapporto?

Beh direi che Simone per me è fondamentale nella vita quotidiana. Senza di lui penso che sarei diverso. In qualche modo mi tiene saldo alla realtà. 

Le sta accanto, la consiglia a volte?

Mah, mi consiglia più o meno, più che altro ormai ci capiamo a prima vista e c’intendiamo subito. 

Il processo penale che pende a carico di Caminada potrebbe avere una svolta positiva dopo la sentenza della Cassazione che la libera dall’amministratore di sostegno. È preoccupato per l’esito del processo che vede coinvolto il suo assistente?

Preoccupato non credo proprio. Pare talmente assurdo l’insieme che è difficile che si arrivi ad una condanna. È vero che il procedimento è strano ma non lo sento come un fatto grave, mi sembra più una di quelle cose che passano e che non hanno a che fare con la nostra vita.

Dopo una vita frenetica ora si gode la tranquillità del suo appartamento Torinese. Guardandosi indietro cosa pensa della sua storia e della sua carriera?

Penso di aver avuto un passato molto più divertente e interessante di quanto non immaginassi. Sono piuttosto grato di quello che mi è successo perché tutto ha seguito un percorso ed è andato bene. Da ragazzo immaginavo la carriera accademica ma non l’impegno politico. Non credo di essere cambiato dai tempi in cui ero ragazzo, è come se tutto avesse seguito una logica… Da ragazzo ricordo di non aver mai voluto essere diverso da com’ero, questo è molto strano a ben pensarci, però è andata così. 

I giovani vivono spesso l’incertezza del futuro. Ai suoi tempi c’era lo stesso tipo di interrogativo?

Credo che fosse abbastanza simile ad ora. Se penso a com’era la lotta per il futuro direi che l’attenzione per questo tema non è cambiata. Rimane difficile però paragonare quella che era la visione del futuro in quegli anni con la visione che si ha del futuro adesso. 

Sono due punti di vista che si confondono. Quello che è cambiato è sicuramente la realtà delle classi sociali. In passato c’era un nesso più stretto tra quello che un ragazzo era e quello che stava diventando. C’era molta più sensibilità riguardo l’appartenenza ad una classe sociale, il riconoscersi con i compagni. 

Lei è uno dei più grandi studiosi di Friedrich Nietzsche ed in questi tempi si parla molto di un’espansione del nichilismo, chiamato anche come “ospite inquietante” dal Professor Umberto Galimberti e prima ancora da Martin Heidegger. Ritiene che sia così?

Sento molto la mancanza di una direttiva che sostituisca quella che io avevo un tempo. Si sente molto più “nichilismo” nella società e la saturazione che esso ha raggiunto è più negativa che positiva. Inoltre oramai i valori rimasti sono davvero pochi. C’è un generale atteggiamento nichilistico nella società che si sente nettamente. Ciò che è difficile è comprendere dove porterà. Dal mio punto di vista siamo ancora nella fase esperienziale della caduta dei valori, quello che verrà dopo non si può immaginarlo. 

Si è definito un “comunista cristiano” che in quanto tale ha sempre rifiutato la violenza dello stalinismo in favore di una dialettica della tolleranza. Come vive la guerra tra Russia ed Ucraina alla luce del suo pensiero politico? Ritiene che supportare militarmente l’esercito Ucraino sia la scelta giusta?

Penso che valutare questa guerra sia difficile perché non si capisce dove si va a finire. A che punto siamo? Che succede? È come se ci fosse un continuo ribaltamento per il quale fare previsione sugli esiti futuri risulta molto complesso.

Non credo che si arrivi ad una guerra mondiale. Sono troppo prudenti per usare l’atomica. In questi casi si arriva sempre ad un certo punto e poi si frena. Per quanto riguarda l’Ucraina sono favorevole a rispettare la Costituzione, che nell’articolo 11 vieta l’utilizzo della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, ma fino che punto? Quando? Perché? Fornire armi all’Ucraina o no?… francamente su questo sono un po’ incerto. 

La sua vita ha attraversato quasi tutto il ‘900, un secolo complesso che ci ha portato in questa “modernità liquida”. Quali pensa siano i cambiamenti più importanti che ha vissuto?

Credo senza dubbio che la caduta del muro di Berlino sia uno dei momenti, forse il momento decisivo del ‘900. Abbiamo assistito ad una trasformazione radicale di paradigmi e istituzioni che hanno accompagnato la caduta del muro. Stiamo ancora vivendo gli effetti di quell’accadimento. La nascita di internet anche ha comportato un cambiamento radicale, tuttavia credo che la caduta del muro abbia avuto un impatto più profondo nella società, un cambiamento totale dei paradigmi che vigevano all’epoca. 

Parliamo del panorama politico italiano. Come crede che arriveranno i partiti politici alle prossime elezioni?

Secondo me molto male, nel senso che avremo sempre meno democrazia e sempre più “ordinaria amministrazione”, perché in realtà è questo che sta avvenendo: “ordinaria amministrazione”. Non sono molto fiducioso per gli anni a seguire. Anche con il PNRR credo che saranno fatte delle scelte di “ordinaria amministrazione” dove tutto resterà a livello di piccoli provvedimenti aggiustativi e niente più, senza un progetto politico solido alla base. Certo poi si vedrà… 

Lei in passato ha militato nel Partito Comunista, ora il partito è rinato con Marco Rizzo. Cosa ne pensa di questo progetto? Ha le sue simpatie?

Sì certo, ha le mie simpatie. Non so fino a che punto mi identificherei con il loro pensiero però sicuramente è un progetto che mi interessa e mi riguarda in qualche modo. Sa, bisogna considerare anche le dimensioni di questo partito, tuttavia le idee che hanno sono interessanti ed infondo si tratta di un partito positivamente diverso da quello che si aspettava. Insomma come progetto non sembra tanto da buttare ecco.

C’è un messaggio che vorrebbe lasciare alle nuove generazioni e a quelle future?

Probabilmente gli consiglierei di ascoltare molto. “Ascoltare chi?" Lei mi chiederà. Ascoltare l’evento, l’accadimento… Ascoltare più che dire, ascoltare più che parlare. 

Le faccio una ultima domanda sul suo amico Umberto Eco. Cosa le manca di più di lui?

Lui è quello che mi manca di più. Mi mancano, non solo le cose che ho imparato da lui, ma anche le cose che non ho imparato. È come sentire la mancanza di qualcuno che avrebbe ancora qualcosa da dire. Come se la mancanza superasse le cose che ha fatto e detto, come se ci fosse qualcosa in più che mi manca di Eco, un qualcosa che non riesco a dire, che mi sfugge. Forse è la sua amicizia, vai a sapere…

Irene Famà per "la Stampa" il 15 dicembre 2021. «Il professore aveva un forte desiderio di colmare la solitudine. Aveva paura di rimanere solo come un cane, senza nessuno intorno. Così ne beneficiavano tutti». La frase è di un cinismo disarmante e Stefano la pronuncia con altrettanto disarmante sorriso. Testimone al processo a Simone Caminada, 38 anni, assistente del filosofo Gianni Vattimo che si sarebbe approfittato della situazione di fragilità dell'intellettuale, racconta di un insieme di persone, lui in primis, che quell'umano timore della solitudine l'hanno sfruttato, manipolato per ottenere favori. Viaggi, cene in «ristoranti strepitosi», aiuti economici e così via. Perché è vero, Stefano parla di una «relazione intima, profonda», iniziata nel 2013 ad una cena e dal 2017 andata via via allentandosi. Usa frasi come un «amore coinvolgente». Poi arriva a parlare di soldi: oltre 750 mila euro. «Tutti i mesi mi dava del denaro. Qualcuno per le spese comuni, i più erano bonifici, regali». Il professore glieli ha dati spontaneamente, certo. Ma c'è la questione giuridica e c'è la questione umana. C'è quel «bisogno di affetto» che Stefano aveva «percepito sin da subito. L'ho manipolato. Sapevo che mi amava profondamente e sapevo di amarlo un po' meno». Parole sue. Probabilmente pensieri di tanti. «Tutti prendevano. Assolutamente tutti. Dai ragazzi dell'università che gli chiedevano i soldi per le sigarette, alle cene che pagava sempre lui». C'era chi doveva sostenere le spese del dottorato, chi quelle dei figli, chi sieropositivo non poteva pagare le medicine. Una lunga lista. «Spesso davo denaro a persone vicine che credevo amici», aveva dichiarato il teorico del pensiero debole a La Stampa. Vattimo è un «gentleman» dice Stefano. Sicuramente generoso, sicuramente attento agli altri. Con delle fragilità, come tutti. Ed è su quelle fragilità che chi gli era attorno sembra aver fatto leva. Poi è arrivato Simone Caminada (per altro ieri archiviato da un'accusa di stupro per un'altra vicenda del 2019, che nulla c'entra con questa). Spregiudicato, è andato oltre. Lo sostengono i pm Dionigi Tibone e Giulia Rizzo e anche diversi testimoni. Avrebbe tentato di disporre del patrimonio e cercato di allontanare gli altri. «Ha rotto gli equilibri. Gli dicevo di stare al suo posto, che lui non era il padrone», spiega Stefano. E aggiunge: «Caminada, agli occhi di Vattimo, ci ha descritti tutti in un certo modo». Quale? Come degli «approfittatori». E il professore, così sembra, gli ha creduto. «A me ha tolto la carta di credito intestata sul suo conto corrente». Il filosofo aveva spiegato: «Simone ha approfittato della mia generosità? Tutte palle. Cercava di limitare le uscite di denaro inimicandosi le altre persone». Caminada è accusato di circonvenzione di incapace. Vattimo ribatte: «Sono completamente lucido. Il periodo dell'amministratore giudiziario è stato un incubo». Dei suoi soldi vuole disporre come meglio crede. E, come meglio gli è parso, ha gestito le sue fragilità.

Anticipazione da “Oggi” il 9 giugno 2021. «So benissimo che c’è chi pensa “Vattimo s’è innamorato e ha perso la testa”. Non è così. Simone per me è un amico, quasi un figlio. E a 85 anni affermo il diritto di spendere i miei soldi come voglio». Il filosofo Gianni Vattimo risponde così, in un’intervista al settimanale OGGI, in edicola da domani, alle accuse rivolte al suo assistente personale Simone Caminada di averlo manipolato per sottrargli denaro e farsi inserire tra i beneficiari della sua polizza vita. «Un medico ha deciso che sono a rischio di circonvenzione. Ma la possibilità di essere plagiato e l’effettivo fatto di esserlo non sono certo la stessa cosa: ho qualche acciacco, ma con la testa ci sono tutto». Caminada, 38enne di origini brasiliane che convive da dieci anni con il maestro del pensiero debole, è stato rinviato a giudizio dalla Procura di Torino con l’accusa di circonvenzione di incapace. «Una persecuzione umiliante», la definisce Vattimo, il quale spiega a OGGI che la sua polizza vita è intestata anche ad altri e tutte le spese sono documentate. «I miei amici più cari, come Franco De Benedetti e Marco Rizzo, mi ritengono una persona libera e sono scandalizzati».

(ANSA il 9 giugno 2021) Il giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Torino ha rinviato a giudizio Simone Caminada, l'assistente personale del filosofo Gianni Vattimo, per circonvenzione di incapace. Il gup ha accolto la tesi del pm Giulia Rizzo secondo cui Caminada avrebbe approfittato dello studioso per farsi elargire denaro e intestare polizze assicurative. Il processo inizierà il 27 ottobre.

Franco Debenedetti per "la Stampa" il 9 giugno 2021. «Ogni uomo trova, nella sua vita, una donna che lo vuole salvare: a volte ci riesce». La frase, incorniciata, stava in bella vista nell' ufficio di Libero Gualtieri, repubblicano, romagnolo, scapolo che avevamo eletto capo di «Sinistra Democratica», il gruppo parlamentare del Senato che avevo contribuito a costituire nella XII Legislatura. La frase mi attraversò veloce la mente quando, nell' autunno del 2018, sentii al telefono M., una delle amiche storiche di Gianni Vattimo, che, con voce concitata, mi chiedeva che cosa stesse succedendo da lui, dove a suo dire, regnava «un'atmosfera plumbea»: «Sempre quel Simone tra i piedi!» fu la sua replica alla mia richiesta di chiarimenti. Anch'io, quando invitavo Gianni a pranzo al ristorante, avrei preferito che a chiacchierare fossimo solo noi due, amici da poco meno di mezzo secolo. Ma Gianni non se la sentiva di uscire senza il braccio di Simone; senza l'aiuto di questo ragazzo di origine brasiliana, chi avrebbe risposto alle email, pagato le fatture, rimpiazzato le badanti, cercato i libri nei piani alti della libreria, affittato una casa dove rifugiarsi dall' afa estiva? Nei mesi seguenti, la frase ebbe modo di ritornarmi in mente, questa volta in tutto il suo spessore: perché la sua salvifica preoccupazione l'amica la comunicò ad altre amiche, animò cene e incontri, e un'alchimia cambiò l'«atmosfera», da plumbea che era, in aurea: nel senso che il povero Simone venne accusato, non di essere fonte di disagio per gli ospiti, ma di essere troppo a suo agio nei conti in banca del Professore. «Povera e nuda vai filosofia»: ma Vattimo, tra la pensione di accademico e quella di parlamentare europeo, una bella casa torinese al terzo piano in via Po tra piazza Castello e l'Università, e qualche risparmio bene investito, non ha problemi economici per il resto della sua vita. La sua preoccupazione, dopo che i due suoi grandi amori morirono uno dopo l'altro, è sempre stata quella di sapere a chi lasciarli i soldi: questa fu la sola ragione per cui un bel giorno decise di sposare una delle sue amiche. Non si capisce Gianni senza comprendere questo suo sentirsi in debito, donde il bisogno di aiutare con regolarità il cognato malato, la mamma di Stefano (il predecessore di Simone), i suoi assistenti parlamentari a Bruxelles, ecc. Banale interpretarlo come senso di colpa: per me è piuttosto l'orgoglio di chi si vantava delle sue tre C, cattolico, comunista, «cüpiu». L' interesse diede sostanza alle ciance, e parla che ti parla, una cena dopo l'altra, la vicenda suscitò il salvifico istinto di una delle «amiche», che ritenne di portare la cosa all' attenzione del magistrato: questi, essendo la circonvenzione di incapace un reato, per l'articolo 112 della Costituzione non può che iscrivere Simone nel registro degli indagati. Se c' è un circonveniente, ci vuole un circonvenuto: un perito ne attesterà la influenzabilità; e, a impedire la reiterazione del reato, un amministratore di sostegno vigilerà su ogni uscita di danaro. Tutto logico, tutto consequenziale. Ma il risultato complessivo è qualcosa di cui vergognarsi. Perché è vergognoso che il maggiore filosofo italiano della seconda metà del '900 debba essere sottoposto a visite psicologiche per accertare se è «incapace»: è vero, a 85 anni non scrive più un libro con la grinta di un tempo, legge Simenon (e ogni sera qualche pagina in tedesco tanto per non perdere l'abitudine, ma non Heidegger). E che la visita lo dichiari «influenzabile», come se, nell' epoca del digitale, a esserlo non siano milioni, forse miliardi di persone. L' amministratore di sostegno è un serio professionista che esegue il suo mandato, ma le conseguenze possono essere impensabili: può accadere che un uomo che, figlio di una sarta, col suo solo lavoro intellettuale si è messo da parte un patrimonio che non è certo quello di Bill Gates, ma che non riuscirebbe a spendere nella sua vita, debba chiedere aiuto ad amici per pagare la spesa nel weekend, se il contante è finito e le sue carte di credito sono bloccate. Vergognoso impedire di essere generosa a una persona che in questo trova la sua completezza. Vergognoso rendere difficile a una persona di 85 anni, che avrebbe i mezzi per farlo, di prendere un alloggetto per sfuggire al caldo di Torino, dato che nessun padrone di casa vuole affittare a un amministratore di sostegno. Vergognoso infine anche nei confronti di Simone: non ci sarebbe nulla di male se avesse sperato di ereditare una parte del patrimonio di una persona che ha aiutato da dieci anni con capacità e con affetto; e non è giusto che venga incolpato di circonvenzione quando per giunta quello stesso patrimonio sotto la sua gestione è aumentato. Per quelle che sono responsabili di aver messo in moto questo diabolico meccanismo non è una scusante non aver previsto dove esso avrebbe portato: vergognoso è proprio averlo concepito fin dall' inizio. Nel caso avessero giudicato che ci fosse qualcosa da controllare o correggere in quella casa, non hanno neppure pensato che avrebbero potuto provvedervi alcune tra le tante persone che ammirano Gianni e gli vogliono bene. Non potevano pensarlo: loro non sono tra quelle.

Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 26 settembre 2021. È il filosofo italiano più tradotto al mondo, ma da qualche tempo la Procura di Torino ha deciso di affidargli un amministratore di sostegno a tutela dell’intero patrimonio. In vista della decisione di oggi di revocare o meno questa misura e della prima udienza del processo (27 ottobre) a carico del suo assistente personale accusato di circonvenzione di incapace, abbiamo raggiunto proprio il professor Gianni Vattimo, 85 anni, per capire con quale spirito stia affrontando il contenzioso. A sorpresa, a fissarci l’incontro è proprio lui, Simone Caminada, il 38enne finito nell’occhio del ciclone che ancora vive con l’illustre datore di lavoro nella bella casa di oltre 300 metri quadri all’ombra della Mole e continua a occuparsi delle faccende come se nulla fosse. D’altronde, il diretto interessato ci ha subito tenuto a precisare: «Ma quale circuìto, non sono mica rincoglionito. Qualcuno ha cercato di farmi del male attaccando Simone». Il caso, comunque, promette di continuare a far discutere perché Vattimo, secondo i periti che lo hanno psicoanalizzato, sarebbe in grado “di interpretare la realtà, discutere di filosofia, analizzare il mondo che lo circonda” ma, a detta dello psichiatra Franco Freilone, diventerebbe “molto più fragile nell’autodeterminarsi, nel compiere tutte quelle scelte che riguardano la propria sfera personale”. A riprova di questa tesi le testimonianze di alcuni amici, i movimenti bancari e l’uso di bancomat, carte di credito e intercettazioni telefoniche che hanno convinto i pm Giulia Rizzo e Dionigi Tibone a procedere nei confronti del 38enne. Nel frattempo, la vita in via Po – a pochi passi da via Carlo Alberto, dove il 3 gennaio del 1889 Nietzsche impazzì alla vista del cocchiere che frustava un cavallo – sembra procedere nella più assoluta tranquillità. Fisioterapia al mattino. La visita di un amico a pranzo (l’imprenditore Franco Debenedetti). Il campanello che suona ogni dieci minuti e i corrieri che scaricano pacchi di libri. A occuparsi che tutto proceda con ordine, sempre il giovane assistente armato di cellulare che, anch’esso, non smette mai di squillare. Durante l’intervista, nonostante ammetta un po’ di stanchezza dovuta agli anni che passano e a qualche acciacco, l’ideatore del “pensiero debole” ci è apparso molto combattivo. Si è appena candidato alle amministrative con il Partito Comunista di Marco Rizzo perché «senza Comunismo non saprei vedere il futuro». Ha lanciato stilettate verso gli esponenti di centrodestra Salvini e Meloni e molti illustri colleghi, da Massimo Cacciari a Giorgio Agamben, da Maurizio Ferraris a Diego Fusaro: «È promettente ma minaccioso». Ha ribadito la stima per Papa Francesco («il più comunista che abbiamo mai avuto») e ribadito l’importanza della filosofia: «È un modo di essere presente alla propria storia». Ma soprattutto ha difeso a spada tratta Caminada da accuse molto pesanti: «Spero che l’amministratore di sostegno se ne vada fuori dai piedi il prima possibile».

Professore, intanto come sta?

Come vedi funziono a metà, sono poco mobile. Ma spero di non essere completamente rimbecillito. 

E il suo “pensiero debole” come se la passa dopo tanti anni?

Lui non male, visto che le “debolezze” stanno bene su tutto. Il “pensiero debole” è stata una corrente che ha voluto liquidare tutti gli assoluti. La filosofia che pretenda la verità totale, che non funziona. In cambio, non soltanto l’idea che tutti gli assoluti si debbano combattere, che non mi sembra poco, ma l’affermazione della forza della debolezza. Ultimamente mi sono domandato: a chi può dare ancora fastidio il pensiero debole? Naturalmente a quelli che hanno il potere. Loro lo hanno declinato nella vicinanza con il proletariato, con chi è fuori dai grandi giochi. Quindi mi sembra quanto mai attuale.

Il “pensiero debole” a contrasto dei Big Tech come Facebook, Amazon e Google?

È particolarmente urgente proprio oggi, perché l’integrazione progressiva del sistema con i computer, i social, l’internazionalizzazione dell’economia tende alla rigidezza. Per funzionare bene l’integrazione ha bisogno di certezze. Al contrario del “pensiero debole” che garantisce la mobilità che contiene la libertà. 

La filosofia in generale, però, non sembra incidere come in passato nel dibattito pubblico.

È vero. Quando me ne occupavo io, aveva una quantità di agganci con l’attualità enormi. Tutta una serie di temi per i quali non utilizzavamo la filosofia astratta, ma era legata all’attualità, a ciò che la gente viveva ogni giorno sulla propria pelle.

Consiglierebbe a un giovane oggi di studiare comunque la filosofia?

Nonostante tutto, non vorrei che nessuno facesse qualcosa di diverso dalla filosofia. Perché è un modo di essere presente alla propria storia. È indispensabile. Io non ne potrei fare a meno e non potrei consigliare a nessuno di occuparsi di altro. Come diceva De Chirico: “Di cosa mi dovrei occupare se non mi occupassi della metafisica?”. Io stesso penso: di cosa vorreste occuparvi se non della filosofia? Cioè di interpretare l’esistente per modificarlo e aiutare l’affermazione di una visione alternativa del mondo. 

C’è qualche giovane filosofo che l’ha colpita negli ultimi tempi?

Forse Pier Aldo Rovatti, benché tanto giovane non lo sia più… 

Rovatti è classe 1942.

Giovani non ne vedo tanti. Probabilmente Maurizio Ferraris, sta scrivendo cose che tutto sommato potrebbero andar bene, ma non so fino a che punto sono condivisibili. Ha una fiducia esagerata nella tecnologia. Da un lato mi piacerebbe questa prospettiva, dall’altro mi spaventa. 

Come mai?

Perché io credo in una filosofia che corrisponda alla rivelazione, al cristianesimo. L’unica cosa che farei è coltivare una filosofia cristiana. E poi, che Dio ce la mandi buona…

Eppure, Ferraris è stato un suo allievo.

Ha avuto un periodo in cui ha polemizzato molto con me, ora ci siamo riconciliati. La sua ultima prospettiva è di tipo tecnofilo. Sostiene che se applicassimo in toto la tecnologia potremmo liberarci di molti fardelli. Una specie di Marcuse tecnologico. In generale non mi sembra sbagliato, mi pare solo un po’ troppo utopico. Non so se lo debba considerare un nemico del “pensiero debole” o meno. Probabilmente certe cose che sostiene vanno benissimo con la “debolezza”. 

In una recente intervista ha sostenuto di Massimo Cacciari: “Non capisco cosa dice”.

Lui mi ha sempre detto che l’amore mi fa velo. Che sono troppo simpatetico. Io lo vedo molto presente come commentatore, molto meno come filosofo in senso stretto. Filosoficamente continuo a credere che il “pensiero debole” sia il massimo a cui si possa arrivare, ma evidentemente non tutti sono d’accordo, compreso lui. Ma Cacciari è credente o non è credente? Mah, non mi stuzzica perché non ho chiaro cosa pensa davvero.

Le faccio altri nomi, visto che non è mai stato politicamente corretto. Umberto Galimberti?

È simpatico, una persona perbene, ma non mi entusiasma. Mischia troppo la filosofia con la psicanalisi. È notevole nel panorama filosofico attuale, ma non lo considero un grande maestro. 

Un giovane filosofo che fa molto discutere ci sarebbe: Diego Fusaro.

È promettente e minaccioso. Ha scritto testi interessanti, solo che ultimamente sta facendo grande eco di pensieri controversi. Mi è simpatico ma un po’ temo… cioè temo per lui non per me… che si mischi con un certo tipo di argomenti. Forse è troppo intelligente, per questo è anche pericoloso.

Pier Luigi Bersani in tv ha detto: «Stimo molto Cacciari, Agamben e Barbero, ma quando si ha molta intelligenza non bisogna usarla tutta: perché si arriva anche alla capziosità».

Non ha tutti i torti. Anzi, ha più ragione Bersani rispetto a Fusaro. 

Giorgio Agamben?

Non condivido diverse sue posizioni perché è troppo apocalittico. Io all’apocalisse spero di non arrivarci direttamente. Ma in generale non lo leggo molto. 

È stato più netto nei confronti di Paolo Flores d’Arcais e Piergiorgio Odifreddi: «Non vorrei mai essere come loro».

Flores D’Arcais non lo accetto perché è esageratamente illuminista. Fa troppo affidamento nella ragione. Per me che sono un credente, un comunista tradizionale, figuriamoci cosa me ne importa di questa sua posizione. Odifreddi invece crede troppo nella scienza, che purtroppo non risolve niente se non contiene una pulsione filosofica che è qualcosa d’altro del solo sapere scientifico. Odifreddi non mi è antipatico, fa sul serio le sue cose, però è meglio che si occupi solo di matematica.

Intanto si è candidato alle amministrative con il Partito Comunista di Marco Rizzo.

Potrebbe far sorridere, lo riconosco. C’è chi mi ha detto: “Cosa vuoi occuparti di comunismo oggi?”. Ma un elemento di comunismo bisogna che ci sia sempre in prospettiva. Non potrei credere al futuro se non sapessi che prima o poi qualche elemento di questo modo di essere si realizzerà. 

Meno male che non dovrebbe essere in grado di intendere a volere.

No no, mi voglio impegnare particolarmente nella campagna elettorale, non perché pensiamo di vincere le elezioni su due piedi, ma perché bisogna mantenere il sogno dell’orizzonte comunista per il futuro, sennò in cosa possiamo sperare? Kant si domandava se possiamo sperare davvero in una società più giusta. Sì, se penso alla società come la pensava Lenin: “elettrificazione più soviet”.

Visto che è in campo, cosa pensa della spaccatura all’interno della Lega di Matteo Salvini?

Non credo a un suo indebolimento, mi pare fumo negli occhi. Però, tutto quello che ha a che fare con la Lega lo vedo negativamente. Non mi piace il suo razzismo, l’intolleranza verso il diverso. 

E se nella sfida interna al centrodestra dovesse prevalere Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia?

Per carità… io con quelli non ho rapporti né personali né politici. Non credo ci sia un pericolo fascista in Italia, ma c’è il pericolo introdotto dai loro atteggiamenti in politica. 

Il suo coetaneo Silvio Berlusconi sembra pensi al Quirinale.

Non è più un pericolo e più moderato di tanti altri. Però ormai mi sembra un po’ suonato, al di fuori di certi giochi.

Lei ha scelto il Partito Comunista e non il Partito Democratico. Non è abbastanza comunista?

Se dovessi votare per le politiche, probabilmente voterei Pd. Ma alle amministrative è importante che ci siano elementi di comunismo nelle giunte locali. 

Quando Matteo Renzi ha abbandonato il PD cosa ha provato?

Ho tirato un sospiro di sollievo. All’inizio mi sembrava simpatico, in seguito si è rivelato uno che voleva fare tutto di testa sua e mi è diventato abbastanza antipatico. 

D’altronde lei si è definito “castrista”, in riferimento a Fidel Castro.

Certo, soprattutto vorrei una America Latina “castrista” o “chaveziana”. A questo sono ancora profondamente legato. Perché se ci sarà una salvezza politica verrà proprio da quei paesi, che hanno una cultura relativamente giovane e mi aspetto molto da loro.

Dopo quello che è accaduto in Afghanistan è finita l’egemonia americana?

Lo spero proprio. Anche se devo dire che adesso c’è un problema di equilibrio mondiale, non so fino a che punto possiamo permettere che gli Stati Uniti vengano sostituiti dalla Cina. 

Teme la Cina comunista?

Comunista fino a che punto? È molto capitalista dal punto di vista del risultato economico. Preferirei un mondo multipolare, con una presenza forte anche dell’Europa. Possibile che noi non riusciamo a contare di più? 

Come verrà interpretata dai filosofi fra 100 anni questa epoca segnata dalla pandemia?

Bisognerebbe che la pandemia desse luogo a una maggiore unità internazionale. In questo momento avremmo bisogno di più connessioni, e non solo del mercato mondiale. Possiamo sperare che sia un fattore di unità piuttosto che di separazione. In molti aspetti mi sembra stia già funzionando in questo senso.

Lei è comunista e credente. Come concilia questi due aspetti?

C’è stato un periodo in cui ho frequentato meno la chiesa, soprattutto quando sono stato in Germania perché vivevo nell’ombra di Gadamer e Heidegger. Però non mi sono mai dichiarato ateo e questo mi ha salvato, visto che la fede mi ha ripescato. Infatti, sono un buon credente. 

C’è chi dice che Papa Francesco in fondo sia un po’ comunista.

Alla faccia, come no? è il Papa più comunista che abbiamo mai avuto. Mi ha insegnato a non essere in imbarazzo nel sentirmi cristiano. Lo amo molto e sono preoccupato per gli attacchi che subisce ultimamente che vengono dagli Stati Uniti e da alcuni cardinali che vorrebbero farlo fuori per sostituirlo con un Papa meno progressista.

Dietro Papa Francesco c’è ancora Ratzinger, che nel nuovo libro ha lanciato una bordata verso le nozze gay: «Sono contro le culture dell’umanità». Da omosessuale come l’ha presa?

Il Papa emerito sostiene che sono una schifezza? Be’, Papa Francesco non è che abbia detto “dateci dentro”, ma solo “se ci sono due persone che si vogliono bene sono fatti loro”. A me questo ha fatto molto piacere, mi è sembrato un Papa più aperto alla carità che al dogma. Ho discusso con Ernesto Galli della Loggia, il quale sostiene che Papa Francesco si preoccupa troppo poco della salvezza. Ma la salvezza è nelle cose. Dio dove sta? Nel prossimo! Gli sembrava un massone per il suo umanesimo e mi obiettava che parlasse troppo poco dell’aldilà. Ma nell’aldilà speriamo di arrivarci, prima pensiamo all’aldiquà. 

Non ci pensa mai a come potrebbe essere l’aldilà?

Come diceva Derrida: “L’instant de ma mort”. Siccome sono credente mi aspetto un aldilà tollerabile. Possibilmente in cui prosegua la vita. Uno dei misteri gloriosi del rosario che recito sempre contiene Gesù che sale in cielo e ha un prosieguo. Mi auguro che in qualche modo si continui lo sviluppo dell’umanità, della presenza di Dio attraverso gli altri. Non so di preciso cosa immaginare. Forse sarà possibile professare e attuare le nostre idee, in questo ci spero molto. 

Professore, da come ragiona non mi sembra poi così “rincoglionito” come sostiene qualcuno.

C’è qualcuno che mi ha voluto fare del male attraverso Simone, il mio assistente che si occupa di tutto. Hanno preteso che mi affidassero un amministratore di sostegno. Non sono completamente interdetto, ma devo chiedere a lui per qualsiasi cosa. Spero si tolga dai piedi al più presto. 

Insomma, non si sente circùito dal suo assistente?

Non credo proprio di essere rincoglionito. Alcuni pseudo amici pensando di farmi un “favore” mi hanno nominato questo amministratore di sostegno e mi ha dato fastidio. Fortunatamente un po’ di libertà ce l’ha lasciata. Vedremo come andranno le cose. 

Cosa si sentirebbe di dire al giudice che dovrà decidere sul caso?

Di tenere conto delle perizie e dei dati bancari. Basta guardare la situazione oggettiva. Dal canto mio sono disponibile nuovamente a farmi psicanalizzare. 

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 27 settembre 2021. Non ci sta a passare per colui che ha cercato di plagiare il grande filosofo ideatore del “pensiero debole” per estorcergli beni materiali. La prima udienza si svolgerà il 27 ottobre e Simone Caminada, 38 anni, dovrà rispondere dell’accusa di circonvenzione di incapace nei confronti del professor Gianni Vattimo, 85enne, con il quale vive da dieci anni - ufficialmente nelle vesti di assistente personale - nella splendida casa in centro a Torino. Per capire come mai, nonostante il procedimento giudiziario, condividano ancora lo stesso tetto, siamo andati a trovarli e per la prima volta Caminada ha deciso di parlare: di seguito trovate l’esclusivo video-reportage. Il tutto è partito da un esposto della geriatra Flavia Longo, amica del professore, che ha denunciato la situazione, preoccupata perché il filosofo avrebbe interrotto i rapporti con tanti suoi cari. Da lì sono partite le indagini, gli accertamenti e le intercettazioni e secondo la procura, Caminada dal 2015 avrebbe “indotto Vattimo ad effettuare bonifici sul suo conto corrente per importi superiori di circa 19 mila euro all’ammontare della retribuzione dichiarata da Caminada”. Per l’accusa, come si legge nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, il 38enne induceva inoltre il filosofo “a effettuare spese ingiustificate per quasi 60 mila euro” e avrebbe ottenuto dal filosofo persino “la delega ad operare sulla sua cassetta di sicurezza e almeno su tre conti correnti”, convincendolo inoltre, nel giugno 2017, “a stipulare una polizza assicurativa sulla vita da 415 mila euro di cui il 40% sarebbero a lui spettati”. Tra le accuse anche le presunte pressioni su Vattimo perché nel testamento lo nominasse erede di numerosi beni, tra cui orologi, opere d’arte, quadri, audio registrazioni e altri reperti di valore, tra cui il prezioso taccuino di Fidel Castro. In buona sostanza, si sarebbe approfittato della situazione di «fragilità psichica del filosofo». Per il pm, Caminada, «mediante un attività costante di pressione morale consistita nell’approfittare della generosità di Vattimo, è riuscito ad accedere a tutta una serie di benefici economici». Dal canto suo, il 38enne nell’intervista che ci ha concesso ha smentito ogni addebito. Prima di tutto sottolineando che la perizia psicologica effettuata sul filosofo non avrebbe portato a niente più che a constatare qualche acciacco dovuto alla vecchiaia. E poi ha contrattaccato, accusando chi ha voluto innescare il procedimento giudiziario sostenendo che erano loro a voler mettere le mani sul patrimonio del filosofo, mentre sarebbe stato lui stesso a bloccare una operazione di spartizione del “tesoretto” di Vattimo e per questo si sarebbe attirato le loro accuse.

Il caso del filosofo. Vattimo colpevole di altruismo smisurato: a processo la sua anima. Emiliano Morrone su Il Riformista l'11 Giugno 2021. Gianni Vattimo è un uomo molto generoso. Ha sempre aiutato persone in difficoltà: ex allievi, extracomunitari, domestiche, badanti e amici fragili con la fissa del denaro e della bella vita. Nell’era dei pregiudizi, verrebbe facile imputargli eccessi interessati, senza scomodare il ddl Zan. Ma il padre del «pensiero debole» pratica e predica la carità verso il prossimo, dà e non vuole. Vattimo ha 85 anni, ha paura della solitudine, manifesta un disperato bisogno di famiglia e da tempo vive nell’ombra: perché l’Italia 2.0 se n’è dimenticata, perché nell’eterno presente digitale non contano molto il pensiero, la cultura, la storia e l’idea dell’emancipazione. Dal 2018 la Procura di Torino è convinta che il filosofo sia incapace e quindi possibile vittima di circonvenzione da parte del suo assistente: Simone Cicero Caminada, trentasettenne di origini brasiliane, scuro di pelle e spirito ribelle con a carico un procedimento a parte, per presunta violenza sessuale nei confronti di una ragazza. Secondo il Pm Giulia Rizzo, Caminada avrebbe influenzato Vattimo in modo da garantirsi entrate, investimenti e l’eredità dell’intellettuale, compresi oggetti ritenuti di valore, come un taccuino di Fidel Castro. La tesi della Procura poggia su una perizia psichiatrica dell’universitario Franco Freilone e sull’analisi dei conti bancari di Vattimo, gestiti dall’accusato per volontà e delega del suo stesso datore di lavoro, con cui condivide spazi domestici e vita quotidiana. Dal canto suo, Caminada, contrattualizzato da un pezzo, ha ricostruito al centesimo i bonifici ricevuti e le spese sostenute da Vattimo, che ha detto di fidarsi in pieno del suo assistente, riconoscendogli un ruolo, una gestione oculata della cassa e il blocco di uscite destinate a confidenti del filosofo e questuanti vari. Vattimo ha replicato, addirittura dimostrato, di non essersi rimbecillito: continua a studiare e pubblicare, anche se la vecchiaia gli gioca brutti scherzi, costringendolo a restare in casa, tra l’altro con i conti bloccati dall’autorità giudiziaria. Il già preside di Filosofia ed ex parlamentare europeo cammina male, è nostalgico, provato. Sa d’aver vissuto tra successi e dolori: la fama internazionale, la carriera accademica e politica, i convegni all’estero, la stima dei Castro e Chavez, la scomparsa prematura dei suoi familiari e compagni, l’affermazione di suoi discepoli: Maurizio Ferraris, Alessandro Baricco, Franca D’Agostini, Diego Fusaro. Talvolta Vattimo, specie dopo la morte Umberto Eco, si abbandona a riflessioni sulla fine dell’esistenza, naturali per l’età, per la consapevolezza della perdita delle forze, dell’impossibilità di tornare indietro, di non poter rimediare alla mancanza di un figlio, se non considerando tale chiunque gli mostri affetto e vicinanza. È il non essere padre il chiodo fisso del professore. Per quanto voglia rifugiarsi nelle sue interpretazioni di Nietzsche e di Heidegger, Vattimo non riesce ad allontanarlo dalla mente, non più alleggerita dall’impegno politico, dall’attualizzazione del «pensiero debole» e dalle tavolate allegre con i suoi diversi “figli adottivi”. Qualcuno di loro ha ricevuto oltre centomila euro dalla vendita di un appartamento del filosofo a Parigi, il resto del ricavato va diviso. Altri sarebbe stato foraggiato a lungo. C’è pure chi ha ottenuto l’intero archivio del pensatore, che egli avrebbe ceduto per dare una mano a tutti i costi, al punto da privarsi di testi, appunti e documenti fondamentali. Ma Vattimo è così, prendere o lasciare. Lo sa benissimo Aldo Cazzullo, per esempio, che in più articoli ne ha colto pregi e difetti, non di rado coincidenti o inscindibili. La debolezza, o la forza, di questo maestro del post-moderno sta nel suo altruismo smisurato, probabilmente frutto del vissuto, che l’ha abituato al distacco totale dai beni materiali, al bisogno di donare anche a costo di rimetterci nel profondo. Vattimo ha confessato di essersi addirittura sposato, da poco è separato, per preservare una parte dei propri averi e trasferirla ad una professionista, figlia della sua compianta amica Mara Di Fabio. «Un fatto amministrativo», così il filosofo aveva definito il suo matrimonio con il medico Martine Tedeschi. Mercoledì 9 giugno Caminada, che da circa 6 anni si prende cura della salute, si è presentato all’udienza preliminare ed è stato rinviato a giudizio. In ogni caso la giustizia penale non potrà entrare nell’animo del filosofo, per cui, peraltro, è stato chiesto l’amministratore di sostegno. In ogni caso, questi manterrà il desiderio, cosciente e sentito, di essere caritatevole ad oltranza, il diritto di libera scelta. Forse aveva ragione il teologo Massimo Naro, che sentenziò: «Vattimo è l’ultimo monaco florense, l’ultimo seguace di quel Gioacchino da Fiore che ispirò la vita povera di Francesco d’Assisi». Emiliano Morrone

Filippo Femia per "la Stampa" il 10 giugno 2021. Quando riceve la notizia, Gianni Vattimo è incredulo: «Quindi alla fine è arrivato il rinvio a giudizio?», domanda al telefono con un filo di voce. La conferma arriva da Simone Caminada, il suo assistente 38enne di origini brasiliane: il 27 ottobre inizierà il processo a suo carico per circonvenzione di incapace. Secondo l'accusa, «avrebbe approfittato della fragilità psichica» e della generosità dell'85enne teorico del pensiero debole «per accedere a una serie di benefici economici». Caminada, secondo la Procura, avrebbe indotto Vattimo a sottoscrivere una polizza vita da 415 mila euro, di cui lui è beneficiario al 40%. In più ci sarebbe un testamento che nomina l'assistente tra gli eredi, «disponendo in suo favore orologi, opere d' arte, quadri» e altri oggetti di valore. «Non so nemmeno come definirla, questa decisione del giudice», commenta il filosofo. «A me sembra una vera sciocchezza. È anche un enorme spreco di tempo».

Professore, nei giorni scorsi, commentando le tesi della Procura, parlava di «persecuzione». Ora è arrivata la decisione del gup.

«Mi sembra che questo accanimento continui. Perché diavolo si dovrebbe celebrare un processo su basi inesistenti? Purtroppo non resta che prenderne atto. Ma si tratta di un errore: anche i giudici commettono sbagli». 

Si aspettava una decisione diversa?

«Certamente, ero convinto che sarebbe arrivata l'archiviazione. Continuo a ricevere messaggi da diversi amici: sono scandalizzati, non si capacitano di questa decisione.

Stiamo vivendo una vicenda grottesca».

Lei è convinto dell'innocenza del suo assistente?

«Senza ombra di dubbio. Non esiste alcuna evidenza che provi la sua colpevolezza. Simone mi ha sempre trattato benissimo, ha un regolare contratto da 1300 euro al mese e ora viene accusato di cose assurde». 

Non c' è stato nessun danno al suo patrimonio, dunque?

«Tutte le spese che ha fatto Simone sono documentate: può dare conto di ogni singolo euro speso. I miei conti in banca sono a posto». 

Le carte della Procura parlano di spese ingiustificate che ammontano a 60 mila euro.

«Ripeto, è tutto documentabile. Sono soldi usati per un intervento chirurgico che ho subìto e per altre spese mediche. In sede processuale non avremo difficoltà a dimostrarlo. Chiameremo tutti i nostri amici a testimoniare». 

Parla al plurale, ma lei non sarà sul banco degli imputati.

«Questa vicenda mi turba, genera grande tensione. E mi preoccupo per Simone: non merita questo trattamento. Che Dio ce la mandi buona». 

Ad accusare Caminada, sostiene lui, sono persone interessate al suo patrimonio. Ci può spiegare?

«In passato ho spesso dato denaro ad amici. Poi Simone ha cercato di limitare queste uscite, inimicandosi quelle persone. Le stesse che adesso lo accusano ingiustamente». 

Le dà fastidio essere dipinto come influenzabile e circuito?

«Nessuna perizia ha mai dimostrato che sia incapace di intendere. Ho 85 anni, qualche acciacco, e la mente non è più brillante come un tempo. Ma non sono affatto rimbecillito. Sto per iniziare a scrivere un libro sulla Chiesa dopo papa Francesco. Continuo ad avere conversazioni con amici in diverse lingue. Se vuole possiamo continuare in inglese, do you want?». 

Lei è una persona fragile psichicamente?

«Mica si può chiedere a un matto se è matto (ride, ndr). Magari in futuro lo faranno, ma finora nessuno mi ha interdetto. Un medico ha deciso che sono a rischio circonvenzione. La possibilità di essere plagiato, però, e l'effettivo fatto di esserlo non sono la stessa cosa». 

«Vattimo si è innamorato di quel ragazzo», ha ipotizzato qualcuno.

«Per carità. Figuriamoci se mi innamoro alla mia età. Per me Simone è un amico, quasi un figlio». 

Secondo la Procura, Caminada, che vive con lei da 10 anni, minacciava di andarsene e lasciarla da solo. È vero?

«Si tratta di una menzogna. Qualche discussione c' è stata, non posso negarlo. Ma Simone non se n' è mai andato né ha minacciato di farlo».

Cosa le dà più fastidio di questa vicenda?

«Le accuse infondate a Simone e il fatto che io non possa disporre liberamente dei miei soldi. E, badi bene, non si tratta del patrimonio di Bill Gates. Ora è in mano a un amministratore di sostegno: dei 10 mila euro di pensione da docente ed eurodeputato ho accesso solo a 4 mila, in due tranche. Due anni fa per andare in vacanza mi sono indebitato: devo 40 mila euro a un amico». 

Ieri in aula il suo assistente ha portato con sé l'ormai celebre taccuino di Fidel Castro, tra i beni che dovrebbe ereditare insieme con opere d' arte e orologi.

«Il povero Fidel hanno tirato in ballo! Forse questa è la parte più grottesca di tutta la vicenda. Quel taccuino ha un valore puramente affettivo, dubito che sul mercato possa valere qualcosa».

Filippo Femia per “la Stampa” il 2 giugno 2021. «È un grande pasticcio, mi sento perseguitato». Gianni Vattimo lo ripete più volte, lanciando una richiesta d' aiuto: «Datemi una mano per fare chiarezza su questa vicenda, liberatemi da questo incubo». Pochi giorni fa l'85enne teorico del pensiero debole era sulle pagine di molti quotidiani per la pubblicazione della sua opera omnia da parte della Nave di Teseo. Lunedì è arrivata la notizia della chiusura delle indagini ai danni del suo assistente Simone Caminada, 38 anni: la procura ne ha chiesto il rinvio a giudizio perché «avrebbe approfittato della fragilità psichica del filosofo per accedere a una serie di benefici economici», come si legge nelle carte firmate dalla pm Giulia Rizzo. Ma Vattimo smentisce categoricamente: «Contro Simone non c'è alcuna prova, spero che tutto venga archiviato al più presto».

Professore, procediamo con ordine. Simone Caminada è ancora il suo assistente?

«Certamente, vive a casa mia. Questo ragazzo mi ha sempre trattato benissimo.

Ha un regolare contratto da 1.300 euro al mese e adesso è accusato ingiustamente di cose assurde».

Secondo la ricostruzione della procura avrebbe approfittato della sua generosità con «un'attività costante di pressione morale».

«Tutte palle. Qualche anno fa è stato nominato un amministratore per i miei beni, ma nessuna perizia ha mai certificato che io fossi un imbecille non in grado di intendere. Da allora non posso disporre liberamente del mio patrimonio: dei 10 mila euro di pensione da docente ed eurodeputato, ho accesso solo a 4 mila, in due tranche. Due anni fa per andare in vacanza a Sauze d' Oulx mi sono indebitato. Devo 40 mila euro a un amico».

Le carte della procura parlano di «spese ingiustificate per 60 mila euro» effettuate da Simone Caminada.

«Ma quali ingiustificate. Simone può dare conto di ogni singolo euro speso. Ricordo quella cifra: dovrebbe riferirsi al pagamento della mia operazione alla prostata».

La procura riferisce anche di una polizza assicurativa sulla vita di 415 mila euro di cui il 40% spetterebbe al suo assistente.

«Esatto, l'ho stipulata io. In totale libertà e trasparenza».

I bonifici contestati dalla Procura «superiori di 19 mila euro alla retribuzione dichiarata da Caminada»?

«Non esiste alcuna prova».

La Procura sostiene che Caminada minacciava di andarsene di casa e di lasciarla da solo. È vero?

«Non è mai successo. Qualche litigio c'è stato, non posso negarlo. Ma Simone non se n'è mai andato. Il problema è un altro».

Quale?

«Spesso davo denaro a persone vicine, che credevo amici. Simone cercava di limitare queste uscite, inimicandosi quelle persone. Le stesse che ora lo accusano e che hanno chiesto al tribunale di nominare un amministratore di sostegno. Io mi sento perseguitato».

Lei avrebbe nominato Caminada, sempre dopo sue pressioni per i pm, erede di «opere d' arte e beni di valore».

«Le uniche opere d' arte che ho in casa sono prove d' artista di Giulio Paolini: non credo che quei dipinti abbiano un grande valore di mercato».

E il taccuino di Fidel Castro, destinato anche quello al suo assistente?

«Me lo regalò il Líder Maximo: aveva scarabocchiato alcuni disegni durante un'intervista e glielo chiesi. Ha un valore affettivo, ma credo che difficilmente qualcuno lo comprerebbe».

Nessuna pressione di Caminada, dunque?

«Mai. Mi ha sempre aiutato e non è un pericolo per il mio patrimonio: tutti i miei conti bancari sono a posto. Spero che questo pasticcio si risolva in fretta».

Noir, toga rossa e carta bianca. Il giudice del moralismo in tv. Ex magistrato, ex senatore del Pd ed ex buon giallista. Ossessionato dal successo, dalla destra "sudata" e dal karate. Luigi Mascheroni il 19 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Intanto non si capisce perché si faccia chiamare Gianrico, se all'anagrafe è Giovanni.

De Giovanni, De Cataldo, De Silva, Del Castillo de gustibus non disputandum, ma a noi i gialli ci fanno cachè.

Una cosa però va tenuta a mente: la categoria più pericolosa, da cui ci si possono aspettare i più gravi disastri e da cui bisogna guardarsi con la massima circospezione, è quella dei magistrati intraprendenti. Che vogliono farsi politici e - persino - scrittori.

Ex magistrato, ex politico, ex scrittore discreto (il primo giallo, Testimone inconsapevole, è ottimo, poi ha prevalso la ripetitività del genere e la serialità), Gianrico Carofiglio, pugliese di Bari, città Vecchia e botte per le strade, è entrato in magistratura nel 1986 e ha lavorato nella Direzione distrettuale antimafia fino al 2008. Poi Charta minuta canta dichiarò che un pubblico ministero non può candidarsi nello stesso territorio in cui ha esercitato. Quindi si presenta alle elezioni politiche del 2008 nelle liste del Pd. Circoscrizione? Puglia. Può succedere È stato senatore inconsapevole per una legislatura (politicamente Carofiglio è un Michele Emiliano che non ce l'ha fatta) fino a quando nel 2013 ha abbandonato sia la magistratura sia la politica per dedicarsi tempo pieno e vuoto legislativo - alla scrittura.

Da allora scrive più o meno un libro a settimana.

Inventore del filone «thriller legale all'italiana», ha pubblicato sedici romanzi mass market, cinque raccolte di racconti e sei saggi, tradotti in 28 lingue e venduti in cinque milioni di copie. Ce n'è abbastanza per invidiarlo. Se rinasco, rinasco Carofiglio: ricco, magistrato, politico, scrittore, brizzolato, del Pd e sempre primo nella classifica dei libri più venduti.

«Mi stai dicendo che hai letto un romanzo di Carofiglio? Tutto? Cioè sei arrivato alla fine? Beh, sei fantastico».

Fantastico per migliaia di lettori e soprattutto di lettrici, Gianrico Carofiglio è un po' come la Bari che descriveva Mario Sansone, l'italianista allievo di Benedetto Croce: «Una città senza ironia né malinconia». Carofiglio è come i suoi romanzi: formalmente ineccepibili, senza acuti né sussulti. Libri che si possono leggere. Ma anche no. Come dice in via confidenziale un italianista di chiara fama: «Sono di una superficialità spaventosa». Format: trama gialla, ambientazione pugliese, citazioni letterarie, interrogatori, massime di Lao-Tze, rovelli etici, citazioni musicali, codice penale, affreschi d'ambiente, citazioni cinematografiche, ritrattini umani, sentimentalismo, altre citazioni letterarie e moralismo alle cime di rapa. Ottimo per altro abbinato a un Primitivo di Manduria.

Moralista alla Sciascia senza essere Sciascia, fanatico senza accorgersi di esserlo, conformista convinto del contrario, perbenista ma per male, convinto che «Chi afferma di non essere né di destra né di sinistra è immancabilmente di destra», quindi gli altri sono tutti fascisti, già idolo dei salotti mangia-tartine pugliesi e vendoliano de fiirre, Gianrico Carofiglio pur sparito dal Parlamento continua a essere politicamente impegnato. Intellectuel engagé, che a Bari si dice: «Sì nu cazze cchine d'acque», è ricercatissimo in tv, preferibilmente sulla Pravda 7, ma non solo. Carofiglio ospite a Piazzapulita, Carofiglio ospite a Otto e mezzo, dove è presenza fissa in quota «magistrati-scrittori»; Carofiglio ospite di Gramellini per parlare del governo Meloni con Landini, Rampini, Giovanna Botteri, Roberto Vecchioni, e il contraddittorio sarà per un'altra volta; Carofiglio ospite da Fabio Fazio, e ti pareva; Carofiglio ospite da Geppi Cucciari; Carofiglio ospite a Quante storie (e anche quante banalità: «Il solo modo etico per vivere il successo è sentirsi in debito con chi non ce l'ha avuto»); Carofiglio ospite a #Cartabianca; Carofiglio ospite da Floris a Dimartedì... E poi a un certo punto, di lunedì, gliene hanno data una a lui di trasmissione, su Rai3 (strano...): Dilemmi. E infatti la domanda è: «Ma perché?». Era il programma su cui puntava la governance dell'era Draghi. È stato il peggiore flop Rai dell'anno. Sei puntate, media share 5%, voto zero al pluralismo. Ospiti monocolore: Oscar Farinetti, Giulia Innocenzi, Marco Cappato, Chiara Valerio (... ma va?!), Walter Siti, Stefano Massini, Marco Travaglio, Gherardo Colombo. Musa: l'attrice Lella Costa. Si capit u fatt?

Slogan carofigliesco: «La sinistra riparta dalla parola comunità». Lui ha ristretto il campo largo ed è partito dalla famiglia. Scrittrice la cara madre, Enza Buono, con la quale il caro figlio scrisse un libro. Scrittore il fratello, il caro Francesco, una sottomarca di Carofiglio, con il quale ogni tanto scrive libri. E scrittrice la cara figlia, Giorgia, con la quale va in tv a promuovere il nuovo libro carofigliesco, L'ora del caffè, in cui Caropadre e Carafiglia «prendono spunto dalle differenze fra generazioni per costruire un dialogo che ci riguarda tutti». Domanda: ma com'è che 'sto Paese sguazza sempre nel familismo?

Aggettivi carofiglieschi: educato, freddo, saccente, formale, narciso, mite, vanitoso (se c'è un festival del libro tra il Salento e Pordenone, lui dev'essere invitato, e sul palco migliore), coraggioso, a volte manesco, supponente, «Te lo spiego io come va il mondo», noiosissimo. Un po' triste. E non possiamo certo dire fedele. Appena Rizzoli gli offrì più soldi, Gianrico Carofiglio pugnalò alle spalle Elvira Sellerio che lo aveva pescato fra i dattiloscritti in attesa di pubblicazione portandolo al successo (quando lui si faceva vanto di vendere più di Camilleri, ma non era vero, e più di Saviano, ed è vero); poi appena Einaudi gli offrì il blasone dello Struzzo, e i soldi di Berlusconi, abbandonò anche Rizzoli come da celebre metodo investigativo: follow the money - ma tenendo una Church's anche dentro Feltrinelli, che fa tanto pedigree new left oriented.

Ultra left, un'ossessione etnica per Salvini, che se fosse per lui lo manderebbe all'ergastolo, una ripugnanza per la destra «sudata», una crociata per i pagamenti digitali (facendo finta di non sapere quanti illustri intellettuali impegnati a sinistra si fanno pagare in nero premi letterari, festival e conferenze, Hasta la Visa siempre), 61 anni, una moglie magistrato, due figli, case sparse fra il quartiere murattiano e Campo Marzio ex Apulia lux, ex Roma villa deluxe - un assillo per lo Strega, cintura nera e sesto dan di karate, «Caro te», Carofiglio, filosofia Zen (Ci-ammène prime, ammène do volde, «Chi colpisce prima, colpisce due volte»), combattente da salotto - bastone, carota e Carofiglio - romanzi noir, toga rossa, camicia bianca, jeans stinti e giacca blu, Gianrico è fissato col rapporto tra lingua e potere, la manomissione delle parole, la precisione del linguaggio...

Slogan caro a Carofiglio: «Quando le parole perdono il loro significato, le persone perdono la propria libertà». Perché le parole sono importanti, in ogni sfumatura. Ad esempio. «Non saprei»: Cazz' ne saccje. «Chi se ne importa»: C' cazz' se ne fregh! «Ora la circostanza si fa drammatica»: Mò sò cazz'. «Accidenti!»: Cape d' cazz'. «Mi fai cadere le braccia»: E c' cazz'! «Ho tanti pensieri per la testa»: Teng' tand d'chidde cazz' pa' cape. «Ti ringrazio per ciò che mi dici ma sono argomenti che già conoscevo da tempo»: Grazie o' cazz'. «Ma chi è costui che si presenta dinanzi a me con fare spavaldo?». Ma c' cazz' sii? «Cerchi forse qualcosa che io non posso darti?»: Ma c' cazz' wué? Ma soprattutto: «Non dovresti interessarti della vita privata degli altri»: Fatt' le cazz' tuh'! È tutto, Vostro Onore.

Estratto dell'articolo di Alberto Mattioli per “il Foglio” il 21 febbraio 2023.

Questo Rossini! A “Che tempo che fa” non lo inviterebbero mai e Concita lo recensirebbe malissimo. Sessista, biscazziere, politicamente scorretto e con degli interpreti pure un po’ (un bel po’) razzista. Sono spigolature che emergono dalla lettura del gran libro di Paolo Fabbri appena uscito per la Libreria Musicale Italiana, Come un baleno rapido – Arte e vita di Rossini, 838 pagine anche belle larghe, monumentale tanto nelle analisi musicologiche che nella massa di notizie biografiche.

E qui si rilegge con vergognoso divertimento questa letterina ad Angelo Anelli, librettista dell’Italiana in Algeri (scritta per la verità in origine non per lui ma per Luigi Mosca), dal quale Rossini voleva un altro libretto, ovviamente cucito su misura per i cantanti già scritturati: “Per il Tenore una Parte Eroicomica. Per Galli [Filippo, basso, ndr] Un Carattere Esagerato. Per Remorini [Ranieri, altro basso, ndr] il contraposto del secondo. e per la donna Un Cazzo il quale possa addattarsi alla Cosi detta Pelosa di quella donna la quale dovrà prestarsi per i nostri Parti”, punteggiatura, parolacce, maiuscole e minuscole sono quelle originali. Poi Anelli non si fece convincere, arrivò Sterbini, l’opera semiseria fu Torvaldo e Dorliska e, guarda caso, la primadonna Adelaide Sala, sedicenne e alle prime armi, evidentemente non corrispose molto ai parti e deluse: “È Zero”, scrisse Rossini alla mamma.

Di lì a poco metterà in scena Otello, ossia Il moro di Venezia, tratto molto alla lontana da Shakespeare dal marchese Francesco Berio di Salsa. Nel marzo 1818, il Rossini in Salsa va in scena con il tenore Nicola Tacchinardi al San Benedetto di Venezia, almeno secondo Fabbri (Ilaria Narici, nel suo saggio sul blackface su Calibano, la nuova raffinatissima rivista di Paolo Cairoli per l’Opera di Roma, dice invece che era la Pergola di Firenze nel ’19), e gli spettatori, fra i quali c’è un lord Byron assai scandalizzato, si trovano davanti un Moro perfettamente bianco.

Spiega un’Avvertenza sul libretto: “Chieder forse potria taluno, perché Otello sulle Scene non venga in nero sembiante, come lo richiederebbe (non si sa a qual motivo) il sogetto (sic) del tragico Inglese; ma non troppo probabile sembrando, che una gentil Donzella da più leggiadri giovani corteggiata, accendersi potesse per un Mostro, il di cui aspetto fra noi orrido, e deforme riputasi, si risolse il sig. Tachinardi (ri-sic) di vestir forme meno ripugnanti; massime anche nel considerare, che non tutti i figli dell’Africa han nero il volto”. Blackface al contrario, insomma.

Intanto Rossini fa i soldi con i giochi d’azzardo, firmando il 1° aprile 1819 un contratto con l’impresario del San Carlo, Domenico Barbaja, che lo rendeva socio al 5 per cento dei “giuochi”, cioè della roulette collocata nel ridotto (a proposito del teatro come Tempio di cui si è tanto parlato in questi giorni). Salvo doverci rinunciare quando l’effimero governo costituzionale napoletano uscito dai moti del 1821 l’abolì per i consueti intenti moralizzatori della sinistra. Già, e la politica? Rossini era in realtà il tipico intellettuale italiano disposto a servire qualsiasi regime purché gli servisse, e infatti lo fece con tutti con l’eccezione di quello di Luigi Filippo che non voleva pagargli la pensione.(...)

Estratto dell’articolo di Caterina Soffici per “La Stampa” il 2 giugno 2023.

Giordano Bruno Guerri […], […] dice Nicola Lagioia che l’egemonia culturale della destra è un’ossessione della politica, non di chi si occupa di cultura. Esiste o no, questa egemonia?

«È un fatto storico, non si può neppure discutere. Subito dopo la guerra la Dc ha deciso di disinteressarsi della cultura, lasciandola a Togliatti, e rivendicando per sé il controllo di altri fenomeni sociali importanti. Così il Pci si è impossessato della cultura. Gli intellettuali non sono leoni. Sappiamo bene da dove vengono, dal Rinascimento stipendiati da un signore. Lavorano dove si può lavorare». 

Quindi?

«Quindi quelli di destra si sono rattrappiti, hanno avuto difficoltà a trovare ruoli nella università, giornali, televisione, radio. Gli altri intanto andavano a gonfie vele. Quindi il sistema ha funzionato da solo. Chi voleva lavorare, anche se non era di sinistra, ha dovuto atteggiarsi come se lo fosse». 

Ma nel 1994 è andato al potere un signore che si chiamava Silvio Berlusconi, che per un periodo ha controllato tutta la tv (Mediaset e Rai), Mondadori e addirittura Einaudi. Come si fa a dire: adesso tocca a noi, basta con l’egemonia di sinistra.

«Berlusconi ha fatto tacitamente un accordo come De Gasperi con Togliatti. Lui si è tenuto le televisioni e la cultura di massa. Il resto lo ha lasciato alla sinistra. Non ha mai usato Mondadori o Einaudi a fini politici».

Perché?

«Perché a lui non interessava. Sarebbero stati strumenti formidabili. Anche sotto Berlusconi la cultura alta di destra è rimasta orfana. […] È un dato indiscutibile che ci sia stata questa egemonia e che duri tuttora, perché il sistema è rimasto lo stesso».

Mi pare che la cultura di destra abbia un problema a rapportarsi con la modernità. Fa convegni su Prezzolini. Perché non c’è uno Zerocalcare, una Murgia, un Fazio, un Saviano di destra?

«È vero. Lo abbiamo detto: perché l’egemonia sta dall’altra parte. L’obiettivo per me non è strappare il potere alla sinistra, col motto adesso arriviamo noi. Ma allargare il campo a voci diverse». 

La cultura passa anche per Sanremo, per l’arte astratta, per le serie tv. Lì si plasma l’immaginario. La destra ha qualche idea?

«La destra è per la maggior parte conservatrice, quindi tende a muoversi lentamente. È rimasta indietro». 

Al pubblico evidentemente piacciono certi temi, che la destra non bazzica. La destra ha una cultura elitaria, rifugge la massa. È anche un problema di argomenti, allora?

«[...] Mi sembra che l’orientamento stia cambiando. Stanno nascendo dei nuovi personaggi. Osho, per esempio, è estremamente popolare e non è di sinistra. E se questo governo dura dieci anni, come io credo, ne salteranno fuori in tanti […] ». 

Nomi?

«Anche se l’avessi non li farei». 

Walter Siti ha scritto che a destra ci sono più poltrone che culi. È vero?

«Sostanzialmente sì. Bisogna formare i culi. Non è una cosa che si improvvisa. Perché quando occupi una poltrona e sbagli, provochi un danno ancora maggiore alla tua parte». 

[...] Lei è stato ostracizzato?

«Io vengo considerato molto a destra perché mi sono occupato di fascismo. Nel libro su Bottai, scritto nel 1976 e che dopo 47 anni ancora si trova in libreria negli Oscar, per la prima volta si è detto che era esistita una cultura durante il fascismo. 

E questo mi ha provocato questo marchio di essere di destra, se non addirittura fascista. E sono cose che si pagano. Io le ho pagate».

In che termini le ha pagate?

«Certamente sarebbe stata una cosa diversa. Perché io ho scritto questi libri per l’unico motivo nobile per cui si scrivono libri di storia, cioè per cambiare una vulgata sbagliata. Il che non significa che il fascismo sia una buona cosa. Io detesto il fascismo. Sarei stato un furioso antifascista durante il regime. Ma la storiografia è un’altra cosa. Bisognava ristabilire una giustizia storiografica su Marinetti, su Bottai, su D’Annunzio». 

Parliamo di D’Annunzio (a cui è dedicato anche il suo ultimo libro “La vita come opera d’arte”, Rizzoli). Per esempio, ne “I cani del nulla” Emanuele Trevi si ispira a una poesia di D’Annunzio sui suoi cani e sostanzialmente lo definisce un fascista.

«È un tic che io combatto da anni. Gli storici sanno da sempre che D’Annunzio non era fascista. Prendeva in giro Mussolini, chiamava le camicie nere camicie sordide. Però quando sono arrivato al Vittoriale fuori c’erano bancarelle con paccottiglia varia, i gagliardetti, gli Eia Eia Alalà, i manganelli, le magliette con la scritta Me ne frego. Prima gli imposi di vendere anche le magliette con Che Guevara. Quando è scaduta la concessione sono riuscito a far rimuovere le bancarelle e a Gardone non si trova più un accendino con il duce. Per questo mi sono inimicato un sacco di gente a destra, prima di tutti Casa Pound». 

[…] Da quando Meloni è al governo, la parola fascismo è tornata ad essere molto usata. Esiste un pericolo autoritario?

«La parola fascismo appartiene alla storia. Non si dovrebbe usarla se non in quel contesto. […] ».

Ignazio La Russa, presidente del Senato, seconda carica dello Stato, esibisce un busto di Mussolini e non perde occasione di rivendicare la sua appartenenza – anche simbolica – a quella cultura.

«È una provocazione. Viene da una sua nostalgia personale […]. Certo non sono contento che si faccia fotografare con il busto del Duce. Ma la democrazia l’ha messo lì. Non ci è piombato con una marcia su Roma». 

Anche Hitler è stato eletto.

«Vorrebbe dire che la democrazia è una cosa sbagliata? Se La Russa impedisse la discussione in Senato sarebbe un’alta cosa. Non mi pare l’abbia ancora fatto». 

Esiste il “fascismo degli antifascisti”?

«Non esiste. Un’altra occasione dove la parola fascismo è usata a sproposito». 

Come giudica lo spoils system in Rai? Fazio è un Bello Ciao o una risorsa persa? Lucia Annunziata?

«Mi sembra legittimo e normale non rinnovare il contratto a Fazio, dopo vent’anni. La Annunziata ha presto una posizione politica. Legittima anche quella». 

Diciamo la verità: a destra ci sono persone veramente impresentabili che usano l’ostracismo per giustificare il proprio insuccesso e la propria irrilevanza.

«Chi è bravo davvero il successo lo ottiene. Ma questa figura c’è anche a sinistra. Gente di estrema sinistra che pensa di essere appestata. È una condizione umana marginale e triste”.

Estratto dell'articolo di Giancarlo Dotto per Diva e Donna il 10 maggio 2023.

Giordano Bruno Guerri mi parla dall’antifona soave e molto dannunziana del suo illimitato piacere, nessuno dei cinque sensi escluso. Un luogo fisico, il suo ufficio al Vittoriale, ma soprattutto mentale. La festa permanente, si capisce, di svegliarsi la mattina e chiedersi: cosa posso fare oggi perché domani sia ancora più eccitante di ieri? Per sé, per il fantasma del Vate e per chiunque si presenti qui da tutto il mondo, avendo mille quesiti e stupori da spendere. 

L’Inimitabile alias D’Annunzio è ovunque nella casa museo di Gardone Riviera, più che mai nella testa e nell’agenda di Bruno Guerri, presidente a tempo pieno dal 2008 della Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani”. “A tempo pieno”, da intendersi alla lettera. La sua biografia, D’Annunzio, la vita come opera d’arte (Ed. Rizzoli), dal 18 aprile nelle librerie, ha l’aria di quelle definitive.  

(...)  

Ti definisci la sua “vedova allegra”.

“I presidenti del Vittoriale si definiscono vedove di D’Annunzio, io preferisco vedova allegra, ma più ancora amante. Mi si addice di più”.

Ci parli tutti i giorni con il Vate senza per questo sospettarti folle.

“Il  mio ruolo per statuto è valorizzare e conservare la sua memoria. Ogni cosa che faccio qua dentro, interventi anche robusti, richiede che io m’interroghi: “Piacerebbe a lui, sarebbe d’accordo?”. Ed ecco allora che glielo chiedo”.

Gli dai del lei o del tu?

“Ci diamo del tu. Da vedova allegra e amante non posso dargli del lei. Lo chiamo comandante”.

(...)

“Vedova con tanto di giarrettiere. Niente abiti di lutto. Non ci piacciono, soprattutto non sarebbero piaciuto a lui”.

Quand’è che Gabriele D’Annunzio diventa per Giordano Bruno Guerri una felice ossessione?

“Diciamo intanto che a me, come a molti della mia generazione, ma anche di quelle precedenti e successive, D’Annunzio non ce l’hanno insegnato a scuola. Era un tabù, uno sporcaccione, un malfamato, una cosa scabrosa e pasticciata”.

Il primo impatto con il tuo futuro amante?

“Casuale e curioso. Preparavo la mia tesi di laurea su Giuseppe Bottai. Trovai nel suo archivio delle lettere di D’Annunzio. Venni al Vittoriale, non perché me ne fregasse qualcosa di D’Annunzio, cercavo solo le lettere di Bottai”.

La tua prima volta al Vittoriale.

“Il presidente dell’epoca mi fece visitare la sua casa, ancora chiusa al pubblico e  tenuta intatta, com’era alla sua morte. Rimasi fulminato. Trentacinque anni dopo scrissi il mio primo libro su di lui. Nel frattempo, avevo letto tutto”.

Un amore a prima vista?

“Un amore giovanile che poi è esploso in età matura”.

A quando l’intimità?

“Quando sono arrivato qui al Vittoriale come presidente. Qui il nostro rapporto è diventato vicinanza fisica. Dal primo giorno, quando mi hanno messo in mano le chiavi del Vittoriale”.

Un fantasma molto carnale quello del poeta guerriero.

“Sono ritornato nella sua casa, non più da ospite, ma da vedova. C’era moltissimo da fare, tantissimo da recuperare. Si potevano visitare solo tre o quattro ettari su dieci. Catene e sbarramenti ovunque. L’incuria totale”.

Nel tuo libro ti batti con gli stereotipi che da sempre si accaniscono su D’Annunzio. Quale il più odioso?

“D’Annunzio fascista è veramente insopportabile. Si dice che la storia la scrivono i vincitori, in questo caso l’incidente è che l’hanno scritta i vinti. Il regime fascista non ha fatto altro per 25 anni che impossessarsi dei suoi riti, dei suoi miti, dei suoi culti. Ci sono prove infinite che D’Annunzio diceva cose tremende sul fascismo. Un superuomo non può appartenere a un’ideologia, tanto meno a un partito”.

Il tuo libro ha il merito, tra i tanti, di rievocare la sua non abbastanza nota caricatura chapliniana di Hitler.

“Era soprattutto un anti nazista. L’ha scritto e l’ha detto in ogni modo. In questi giorni, ma l’ho fatto anche nel libro, ho ventilato l’ipotesi che D’Annunzio in realtà sia stato avvelenato o aiutato a morire dalla governante, amante, badante, altoatesina”.

Personaggio misterioso. Forse, una spia nazista.

“Ipotesi che considero attendibile, l’avvelenamento. Anche perché non fu fatta l’autopsia. Si dice che potrebbe essersi suicidato. Non era uomo da suicidarsi, soprattutto in un modo così anonimo, alla scrivania”.

Avrebbe scelto una soluzione più spettacolare.

“Certamente sì… La storia del fascismo di D’Annunzio è una menzogna, gli storici lo sanno bene, ma sgomberare la vulgata è molto difficile. Io sto cercando come posso di cambiarla”.

Ci stai riuscendo?

“I risultati dicono di sì. I visitatori del Vittoriale sono più che raddoppiati.  Aumentano, soprattutto, le scuole. Vuol dire che gli insegnanti si stanno liberando di certi luoghi comuni”.

Tante cose, a cominciare dalla sua carta costituzionale di Fiume, dimostrano la sua indole libertaria, il rifiuto di ogni ghettizzazione o discriminazione.

“D’Annunzio era un nazionalista libertario. Pensa solo che in un’epoca in cui si discuteva se dare il voto alle donne, lui scrisse che non solo potevano votare, ma potevano essere anche elette e fare il servizio militare. Parità assoluta” .

In anticipo di mezzo secolo sui tempi. Libertario e libertino. Il suo rapporto privato con le donne.

“Un altro dei pregiudizi. D’Annunzio, ben prima del fascismo, venne giudicato dalla borghesia provinciale e piccina dell’Italia di fine ‘800 per la sua forte inclinazione al lusso e al sesso e anche per il suo passaggio dalla destra alla sinistra in parlamento”.

L’uomo dava scandalo perché scandalosamente libero.

“Manifestava libertà sessuale, amore per il consumismo, indipendenza politica. Tre cose che noi oggi pretendiamo e pratichiamo. Lui è stato un anticipatore. Ma gli è rimasto per decenni il marchio maledetto di quella borghesia”.

Una specie di lettera scarlatta.

“Lui, in realtà, è un nostro contemporaneo”.

Molto interessante, e tu lo sottolinei nel libro, il suo modo di comunicare. Un anticipatore anche in questo.

“Fu il primo a capire l’importanza dell’immagine. Non permetteva che lo si fotografasse a caso, per strada o a tavola. Sceglieva lui l’immagine che voleva dare di sé, del guerriero, del pensatore o del dandy”. 

Qualcosa ti appassiona più di altro del tuo consorte? Poeta soldato che si fa seppellire con l’uniforme, negazione vivente dello scrittore pensoso e chiuso nei suoi eremi e nei suoi postriboli mentali.

“Vero. Ma più che il D’Annunzio soldato della prima guerra mondiale, pure figura strepitosa, mi appassiona quello che conquista senza sparare un colpo una citta e la tiene per sedici mesi, in una situazione di drammatica gioia”.

Che intendi per “drammatica gioia”?

“Fiume era una citta assediata, con tutte le penurie del caso e, nonostante questo, ogni giorno era una festa. Trentamila legionari, nazionalisti, avventurieri arrivati da tutta Europa, che lui seduce e tiene insieme con l’idea di sfidare il mondo. Quello è il D’Annunzio che amo”. 

“Dannunziano” ancora oggi sta spesso come appellativo denigratorio.

“…Dammi solo un secondo che mi arrotolo una sigaretta. Sai che D’Annunzio fumava le Abdulla numero 11, speciali sigarette speziate. Ne è rimasta una nella sua farmacia. Darei chissà cosa darei per fumarla, ma non lo farò mai”

Fosse sopravvisto, come avrebbe interagito con le vicende buie della guerra e l’alleanza con il nazismo?

“Si sarebbe di sicuro ribellato alle leggi anti ebraiche. Non era razzista. Tanto più si sarebbe opposto all’alleanza con i nazisti. L’ultima volta che uscì dal Vittoriale fu nel ’37 per incontrare a Verona il Duce, reduce dal viaggio in Germania. Lo ammonì a non fare l’alleanza, gli disse che sarebbero arrivate sciagure infinite”.

Mussolini non lo ascoltò.

“D’Annunzio è morto al momento giusto.  Si è risparmiato cose terribili. La morte gli impedì di fare la sua campagna contro l’alleanza. Anche questo accredita l’ipotesi dell’avvelenamento”.

Misteriosa anche la sua rovinosa caduta dal balcone di casa del ‘22.

“Si fanno mille illazioni. La mia ipotesi  è che stesse tentando un kamasutra acrobatico”.

Il soggetto nostro contemporaneo che più si avvicina alla figura di D’Annunzio?

“Chi si avvicina di più è il mio amico Vittorio Sgarbi. Solo che Vittorio non ha conquistato una città e non ha scritto l’Alcyone”.

Ha sorvolato, però, i cieli di Tripoli.

“Uomo troppo intelligente per pensare di emulare un personaggio come D’Annunzio. I tempi sono diversi. So per certo che Sgarbi ama molto il Vittoriale, viene spesso qua”.

Lusso e lussuria. D’Annunzio, risulta dal tuo libro, aveva una passione per le donnone stile valchiria. Lui, piccolino, superava appena il metro e sessanta.

“Le sue preferite erano le donne alte, magre, dalle spalle strettissime. Devi pensare che all’epoca andavano di moda le donne formose, mammose, tutte trine e merletti. D’Annunzio lanciò in controtendenza l’immagine della donna moderna, che fuma, guida, gode e beve”.

La sua favorita in assoluto?  

“La contessa Mancini. Lo scrisse lui: passò con lei la notte d’amore più straordinaria della sua vita. Si prese anche la briga di misurarle le spalle, 38 centimetri. La contessa aveva un’altra attrattiva per D’Annunzio. Era molto religiosa, soffriva di sensi di colpa e questo scatenava il suo desiderio”.

Sulle fantasie erotiche di D’Annunzio si favoleggia da sempre.

In realtà, la sua sessualità era molto semplice. Da ragazzo gli piacevano le donne mature, da vecchietto aveva un debole per le giovani. Gli piacevano due donne insieme che facevano cose. Insomma, l’abc dell’immaginario del maschio medio. La differenza è che lui riusciva a metterle in pratica”.   

Ha realizzato quasi tutto quello che ha fantasticato.

“Nel Piacere, che ha composto a 25 anni, scrive: vorrei diventare un principe. Oh, è diventato anche un  principe”.

Quando diventa un cocainomane perso?

“Quando, per fortuna, aveva già scritto tutto, tranne Il Notturno, suo ultimo capolavoro. La cocaina durante la guerra non era proibita per legge. La davano ai piloti prima delle missioni. Dovevano essere belli lucidi. Mentre gli alpini e i fanti li stordivano con i grappini prima del massacro”.

Arriva poi la “turpe vecchiezza che rende melenso e vile anche un eroe”, D’Annunzio non la vive bene. Tu come te la batti con l’idea della turpe vecchiezza?

“Non ci penso proprio. È ancora così lontana nel caso mio. Ho due figli ragazzi, di 16 e 11 anni, Pietro e Nicola. Non mi posso permettere di pensare alla vecchiezza. Voglio diventare nonno. Ti aggiungo che non ho nessun acciacco, a parte il calo della vista. Infine, mia madre mi ha lasciato a 102 anni”. 

Allora, a maggior ragione, appuntamento al Vittoriale.

“Ti farò sedere sul suo trono, quello che si vede sulla copertina del libro, ma solo se accavalli le gambe come lui”. 

Estratto dell’articolo di Federico Novella per “La Verità” il 27 febbraio 2023.

«Sarà un Salone del Libro totalmente di parte, stile festa dell’Unità». Giordano Bruno Guerri […] ancora fatica a spiegarsi la bufera sulla kermesse letteraria di Torino. «Cose del genere accadevano ai tempi del fascismo, oppure in Unione Sovietica».

 Breve sunto: Paolo Giordano rinuncia alla guida del Salone, lamentando un tentativo di «lottizzazione partitica». Dito puntato sul Ministero della Cultura, che proponeva la triade Bruno Guerri-Buttafuoco-Campi nel consiglio editoriale. Paginate di giornali sulla destra che scippa la cultura agli intellettuali.

«[…] è un assurdo numerico. […] Questi nomi sarebbero stati inseriti in un consesso di 19 componenti. Insomma, avremmo rappresentato con Campi e Buttafuoco un’assoluta minoranza. Dunque il fatto che Paolo Giordano gridi alla mutilazione della sua autonomia mi sembra davvero fuori luogo, tanto da far pensare che ci siano altri motivi».

 Per esempio?

 «Non lo so. Forse non si considerava all’altezza del compito, e ha trovato la scusa nobile. […]».  […] «Io […] ritengo di essere a posto con il curriculum. Adesso però mi si deve spiegare perché non vado bene».

Lei non va bene, per usare le parole di Concita De Gregorio su La Repubblica, perché a Torino avrebbe svolto «una servizio di tutela e sorveglianza» nei confronti del direttore del Salone. Come un agente dell’Ovra.

«Spero almeno che la De Gregorio abbia avuto l’intelligenza di adoperare il condizionale. La verità è che stiamo andando verso un Salone del Libro a guida totalmente di parte. Ed è sbagliato. È così che si offende la cultura: con questa divisione tra buoni e cattivi. La cultura non si può dividere in parrocchie politiche, e la verità non può stare da una parte sola. C’è tanta gente a sinistra e anche a destra che la pensa diversamente da me, su tantissime cose. Dove sta il problema?».

Cosa le brucia di più?

«Che in queste polemiche io venga etichettato come “di destra”, quando almeno la metà delle mie idee disgusterebbero un vero conservatore. A differenza di chi mi ha accusa, non ho mai avuto tessere di partito. Ho sempre votato radicale, ma quando Pannella mi propose di tesserarmi, io gli risposi: “No, perché sono troppo radicale”».

 Sarà dunque una kermesse editoriale concettualmente antidemocratica?

«E allora lo si dica in un modo aperto e chiaro: anziché Salone del Libro, si chiami “Salone dell’Unità”, come una volta c’erano le feste dell’Unità». […] «[…] Dire “la cultura sono io” è il gesto più anti-culturale che esista. È offensivo per gli stessi uomini di cultura».

[…] L’allarme fascismo è risuonato anche nelle aule scolastiche. A Firenze studenti di destra picchiano studenti di sinistra. Solo una rissa, o come dice il sindaco Nardella, un «atto squadristico»?

«[…] questo richiamo continuo e quotidiano al pericolo fascista. Un giorno per una frase di La Russa, un altro per la storia del liceo di Firenze. Da par mio, l’unico pericolo fascista che vedo è la Russia di Putin, non solo in Italia ma nel mondo. Questa in Ucraina è la loro guerra d’Etiopia».

La preside di un liceo fiorentino ha scritto agli studenti: «È in momenti come questi che nella storia i totalitarismi hanno preso piede. Chi decanta il valore delle frontiere, chi richiama il sangue degli avi, va chiamato con il suo nome».

«È chiaramente un eccesso ideologico. Attacca le tradizioni, ma la conservatrice è lei, quando si appella a una difesa rituale dell’antifascismo, che in questo contesto appare totalmente fuori luogo».

 […] La sinistra disarticolata a livello politico, si rifugia nelle ridotte culturali, editoriali, scolastiche, persino musicali?

«Il Festival di Sanremo l’ho seguito attraverso i giornali. Condivido l’analisi di Aldo Cazzullo sul Corriere: siamo passati da Sandra e Raimondo a Fedez e Ferragni». […] «Non è che voglia incensare l’Italietta borghese di Vianello e Mondaini, ma certo loro non facevano della provocazione un’arte redditizia come fanno gli influencer di oggi. E lo dico io, che su molti temi, come il matrimonio gay, mi trovo d’accordo con i Ferragnez. Ma a differenza loro, non ho mai pensato di catalogare come idiota, o politicamente sospetto, chi la pensa diversamente».

Però lei ha definito Gabriele D’Annunzio come un influencer ante litteram.

«Sì, ma lui ha scritto l’Alcyone, Il Piacere, nonché la rivoluzionaria Costituzione di Fiume. Fedez e quelli come lui scrivono al massimo un tweet. È preoccupante che qualcuno li elevi a punti di riferimento culturali».

 Se a Fedez si toglie il gusto della provocazione, cosa resta?

«I tatuaggi?».  […]

Da mowmag.com il 21 dicembre 2022.

Mentre lo intervisti, Giordano Bruno Guerri è cinetico. Crea spazi circolari con la sedia semovente, va avanti e indietro. Più spesso si ferma, ti guarda sottecchi. Risponde deciso. Nel complesso, dà una sensazione di caos calmo. O forse, meglio dire un caos che si è dato una calmata, se si raffronta il Guerri di oggi, presidente e direttore generale della Fondazione Vittoriale degli Italiani oramai dal 2008, al Guerri provocatore degli anni ’80-’90 o folletto a piedi scalzi in quella perla sperimentale che era il talk “Italia mia benché” su Rai 3 (durata infatti appena due anni, ’95-’97). 

Il filo rosso che lega il tutto è la passione per la Storia, per temi e personaggi discussi – o discutibili, a seconda dei punti di vista – a partire dalla sua opera prima, la biografia dell’intellettuale fascista per antonomasia, Giuseppe Bottai, passando per Malaparte, Italo Balbo, Filippo Tommaso Marinetti ma anche per il brigatista rosso Patrizio Peci o la “povera santa” Maria Goretti, fino alle “antistorie” (degli Italiani, del Risorgimento) e a Fiume dannunziana, arrivando così a lui, Gabriele D’Annunzio, il Vate la cui memoria è custodita in quel Vittoriale di Gardone dove siamo andati a trovarlo. “Il 2002 si chiude con 260 mila visitatori”, esordisce soddisfatto. “Un po’ meno dei 279 mila del 2019, il nostro anno migliore, ma gli effetti del Covid si fanno ancora sentire”. La casa del poeta, bilancio in mano, è in attivo grazie a un flusso di ingressi ragguardevole. C’è anche chi noleggia alcune sue parti per i matrimoni: “9 mila euro più Iva per l’Anfiteatro”, per esempio. Ma il nome, la suggestione, l’ispirazione del poeta-guerriero, simbolo del nazionalismo italiano, quanto vivi e attuali sono nell’anno di grazia 2022, anno primo dell’era di Giorgia Meloni al governo? E chi meglio di Guerri (che era stato dato fra i papabili al posto di nuovo ministro della cultura) può rispondere? 

Giordano Bruno Guerri, noi di MOW avevamo supportato il suo nome che circolava fra le ipotesi per il dicastero della cultura. Le cose sono andate diversamente: la Meloni ha scelto Gennaro Sangiuliano, ex direttore del Tg2.

Meglio così, mi avrebbe stravolto la vita.

Il ministro Sangiuliano ha dichiarato di voler lavorare sull’immaginario collettivo degli italiani, per imprimere una svolta culturale di destra. A parte le gaffes iniziali (non si ricordava delle fiction e film già usciti su Pirandello o la Fallaci), secondo lei siamo di fronte a un tentativo di egemonia da destra? Quanto potrebbe tornar utile D’Annunzio, in questo senso?

Nel calendario degli eventi del 2023 di Fratelli d’Italia a marzo D’Annunzio è previsto. A me fa piacere che sia considerato un nume tutelare, e non mi stupisce: già da direttore del Tg2 Sangiuliano ha dedicato numerosi servizi a D’Annunzio e al Vittoriale.

C’è qualcosa di imperdonabile, in D’Annunzio? Un aspetto che proprio non si può mandar giù?

Non si giudicano personaggi e fatti del passato con gli occhi del presente.

Ma neanche il tratto retorico, che poi confluì nella retorica del regime mussoliniano?

Certo, è avvenuta. Ma un conto è un discorso e un atteggiamento da parte di D’Annunzio, un altro è il gerarchetto di provincia e da un popolo in massa, come istituzione. D’Annunzio ha inventato dei riti e dei miti senza immaginare che sarebbero stati usati in quel modo. 

Pensa di essere riuscito nella non facile impresa di de-fascistizzare la memoria del poeta della marcia su Fiume?

De-fascistizzazione è una parola che non mi piace. Però sì, certamente questo è stato il principale lavoro culturale a cui mi sono dedicato, attraverso i quaderni, i convegni, gli eventi, i film. Si tratta di cambiare una vulgata che per la verità è stata messa in discussione da tempo, almeno dal 1988, quando Renzo De Felice (storico principe del fascismo, ndr) organizzò un convegno in cui si chiariva che D’Annunzio non era fascista. Direi che questo lavoro sta procedendo bene, lo vedo dall’aumento delle visite studentesche. Significa che il messaggio arriva agli insegnanti.

Magari ai ragazzi di oggi, in epoca di gender fluid, potrebbe risultare più interessante per contrasto il D’Annunzio come figura di un maschio che non c’è più, il maschio-maschio, verrebbe da dire. Potrebbe essere questo un modo per farlo conoscer e “venderlo” meglio?

Sulla sessualità di D’Annunzio circolano da sempre molte leggende, a partire dalle costole (che si sarebbe in parte tolte per praticare l’autofellatio, ndr). In realtà nel sesso era la persona più banale del mondo: quando era giovane, gli piacevano le mature, da vecchio invece le più giovani. Oppure andare con due donne. La grande differenza era che lui ci riusciva. Non fu mai omosessuale. Del resto anche lui risentiva della cultura del tempo.

Oggi sarebbe più fluido?

Con le donne faceva sicuramente la lesbica.

Di recente lei si è rivisto in una definizione, “uomo di destra che pensa da sinistra”. Anche D’Annunzio era così? Il suo lascito politico, la Carta del Carnaro ossia la costituzione scritta di Fiume, fu materialmente redatta da Alceste De Ambris, che finì esule antifascista.

D’Annunzio ha stimolato il nazionalismo italiano di inizio Novecento e ha combattuto il socialismo e la democrazia. La Carta del Carnaro, che non fu scritta solo da De Ambris ma anche e in significativa parte da D’Annunzio, era la più avanzata del tempo. Bisogna distinguere fra ciò che faceva per sé, per il “superuomo” superiore alle leggi e alle convenzioni, e fra ciò che decideva per il bene del popolo.

Per questo non poteva essere fascista. Accettava il fascismo per quelle espressioni che lui aveva contribuito a creare, e gli si avvicinò realmente solo nel momento di massima affermazione dell’Italia in quegli anni, cioè durante la guerra d’Etiopia. Ma fu contrarissimo alla guerra di Spagna, pensava che Franco fosse troppo reazionario. Ed è nota la sua ostilità verso Hitler. 

Venendo all’attualità, non crede che l’ultimo tentativo di andare oltre gli steccati di destra e sinistra, sia pur a conti fatti fallito, lo abbia fatto il Movimento 5 Stelle prima maniera?

Esistono i populismi di sinistra e i populismi di destra. Il M5S è populismo-populismo. Per questo è pericoloso. 

Ma anche lei in sostanza si dice né di destra né di sinistra.

Sì, è vero. Ma Destra e Sinistra sono semplificazioni che servono ancora per poter capirsi, per parlarsi. 

Sono ancora utili, insomma. E in effetti i riferimenti culturali sono diversi. La destra della Meloni ne ha due, in pratica: Tolkien e la saga del Signore degli Anelli e, per i più colti, il conservatore inglese Roger Scruton (citato dal Presidente del Consiglio nel suo discorso di insediamento). Sono anche suoi riferimenti?

Ho altre letture. 

Negli anni ’90 era un convinto anti-europeista, con l’antropologa Ida Magli aveva fondato “Italiani Liberi” conducendo una dura requisitoria contro l’Unione Europea. L’Europa così com’è si è rivelata una camicia di forza, basta vedere la manovra finanziaria del governo. Avevate ragione voi.

Allora parlare dell’Europa in modo critico era come dire che tua mamma è una puttana. C’erano 48 movimenti anti-europeisti nel continente, e neanche uno in Italia. La nostra era una contestazione culturale e antropologica di un’unione fondata esclusivamente sull’economia, e direi che le analisi le abbiamo azzeccate tutte. Oggi però non direi mai di abbandonare l’Europa. Andremmo in rovina. L’Europa ha bisogno di integrazione culturale, ma per quella ci vuole molto più tempo. 

Non trova che il dibattito culturale sia avvitato sempre sugli stessi sacri numi, anche a destra? Ogni tot un evento sui futuristi, che forse non avrebbero apprezzato, visto che erano anti-passatisti per eccellenza. Oppure Sgarbi che rispolvera Evola (sia pur con qualche ragione, vista la damnatio memoriae patita). Ma gli emergenti? Il nuovo? Largo ai giovani no? Non sente anche lei di soffocare un po’?

Guardi, la conoscenza del passato è essenziale per progettare il futuro. Oggi siamo schiacciati sulla politica spicciola. La notizia sulla fusione dell’atomo è durata un giorno, quello dopo tutti a parlare del Pos. I grandi cambiamenti si perdono sistematicamente di vista. Il nostro sarà il secolo della Scienza, basti pensare alla genetica. Eppure viene seguita pochissimo. Se facessi un talk show adesso lo farei senza dubbio sulla scienza. 

Ma la scienza applicata porta anche alla sorveglianza digitale che è la nuova schiavitù. Come la mettiamo?

Bisogna fare attenzione a porrei dei limiti.

Ma un libertario come lei in che modo vorrebbe vederli fissati, i limiti?

Per un libertario la difficoltà è molta. Come per l’uso del contante: io devo essere libero di usarlo, ma dev’esserci un limite, per ridurre l’evasione. Sono contraddizioni che rendono la vita molto dura, a un libertario. Bisogna valutare caso per caso, spesso sbagliando. 

Qual è il pensiero dominante, oggi?

Il politicamente corretto. Non mi riferisco solo a non poter usare certi termini, ma proprio all’impossibilità di poter esprimere certi concetti. È un modo per bloccare il dibattito.

Non è che il politically correct sia una conseguenza del vero pensiero unico da tutti accettato, che è quello del Mercato eretto a sistema di vita, che non ama i conflitti e le differenze?

Ma il capitalismo ha vinto! Ha vinto sul fascismo, ha vinto sul comunismo. La stessa Cina prospera grazie a idee di tipo capitalista. 

Ma non è inaccettabile questa acquiescenza trasversale, specialmente per un eventuale eretico?

Sì, l’acquiescenza c’è. Ma la Storia è andata in questa direzione. 

Bisognerà aspettare che la ruota della Storia giri, allora. Venendo alla sua personale, si potrebbero distinguere due Giordano Bruno Guerri: quello della prima fase, più provocatorio e scamiciato, e quello della seconda, più istituzionale, pacato, forse riconciliato con il mondo. Lo spartiacque è stato sposarsi con una donna? La “famiglia naturale”, come la chiama la nostra Costituzione, è ancora e sempre l’àncora vitale che resiste al di là di ogni trasformazione?

Si dice che si è rivoluzionari a 20 anni per diventare poi conservatori. Io lo sono rimasto fortemente fino a 55. Lo spartiacque è stato conoscere Paola e aver fatto figli subito. Intendiamoci: non voglio dire che “tengo famiglia”. Avere figli significa pensare di più al futuro, non in senso rivoluzionario, cioè caotico, ma in modo ponderato, con stabilità e solidità.

Nella prima fase lei visse il mondo omosessuale in un periodo in cui era più difficile farlo di adesso. Cosa pensa della diffusione capillare dell’estetica, dei temi e dei soggetti gay, sempre parlando di immaginario mediatico e culturale?

È avvenuta senz’altro una liberazione. Ma come tutti i vincitori, può capitare che anche i gay eccedano. È normale. Oggi penso che quella che invece vada combattuta sia per le donne, che sono ancora discriminate a livello culturale, amministrativo, sociale. I gay oggi sono a posto, devono semmai fare i conti ancora con quelli rimasti mentalmente indietro, che li insultano dicendo “froci”. 

Crede anche lei che il patriarcato, il potere maschile e maschilista, affondi ancora le grinfie nella società della libertà sessuale?

Ma certo che c’è ancora! Un potere che esiste da decine di migliaia di anni non si cambia in una generazione, si tratta di una tradizione ultramillenaria. 

Cos’è che le fa più schifo dell’Italia odierna?

La visione corta. Faccio due esempi. Il calo demografico: di questo passo ci porterà a scomparire come popolo. E poi i giovani, che scappano all’estero, e non è colpa loro. Non che io sia contrario, tanto è vero che ho istituito il Premio Genio Vagante, giunto al suo quarto anno. L’ultimo premiato è uno studioso di intelligenza artificiale che vive a Singapore. Non sono cervelli in fuga, sono cervelli che corrono in avanti.

Un’ultima domanda. Che differenza c’è fra la casa di D’Annunzio e la casa di Vittorio Sgarbi, sovraccarica di ogni ben di dio artistico?

La casa di Sgarbi in effetti è un piccolo Vittoriale. Diciamo che a lui piacerebbe molto che fosse come quella di D’Annunzio.

L’INTELLETTUALE LIQUIDO. Chi è Giordano Bruno Guerri, possibile ministro alla cultura. GIULIA MORETTI su Il Domani il 18 ottobre 2022

Anticlericale e favorevole a eutanasia e matrimoni omosessuali, l’attuale direttore generale del Vittoriale potrebbe essere il ministro più progressista del governo Meloni. È stato “assessore al dissolvimento dell’ovvio” in un comune di Catanzaro

Condivide il nome con uno dei filosofi più rilevanti e anticlericali dell’occidente, di cui ha ereditato anche lo spirito critico nei confronti della religione. Giordano Bruno Guerri potrebbe essere il prossimo ministro della Cultura e uno di quelli meno appiattiti sull’ideologia predominante nel centrodestra del prossimo governo. Storico del periodo fascista e studioso del rapporto tra italiani e chiesa cattolica, Guerri dal 2014 è direttore generale del Vittoriale degli italiani, ruolo che potrebbe lasciare per trasferirsi nella sede di Campo Marzio. 

IL RAPPORTO CON LA CHIESA

La famiglia di Guerri gli impartisce un’educazione cattolica, nonostante ciò lui si professa ateo. L’interesse per le questioni di chiesa nasce quando a 32 anni pubblica Povera santa, povero assassino,  la storia della santa Maria Goretti riletta con occhi più indulgenti sull’uomo che la uccise dopo aver tentato di violentarla.

L’anno dell’affermazione come studioso in questo campo però è il 1993, quando pubblica Io ti assolvo. Il libro è un resoconto di confessioni raccolte in giro per l'Italia in cui si sottolineano le differenze tra diversi confessori cattolici sugli stessi argomenti e le prassi penitenziali, alcune delle quali sono secondo l’autore discutibili.

Sia Io ti assolvo che il libro su santa Maria Goretti raccolgono numerose e aspre critiche da ambienti vaticani. Questo è uno dei motivi per cui la sua eventuale nomina a ministro sarebbe un gesto in controtendenza con quanto successo finora, in particolare la nomina di Lorenzo Fontana a presidente della Camera. 

DAL SESSANTOTTO ALL’ASSESSORATO

La parabola politica di Guerri comincia con la partecipazione ai moti del Sessantotto, quando era ancora un liceale. Lo storico racconta di avervi preso parte «come cane sciolto ringhiante, ma non politicizzato». Poi all’università, dove è iscritto a lettere moderne, decide di approfondire le sue conoscenze sugli stili di vita di epoca fascista, secondo lui a quel tempo ancora sottovalutati.

Prima di definirsi un liberista, è stato vicino al Partito radicale del quale condivide alcune battagli tra cui quella contro la pena di morte. Con l’antropologa Ida Magli ha fondato il movimento culturale, ItalianiLiberi, di matrice «antieuropeista e di libero pensiero», per il quale ha diretto il giornale Internet italianiliberi.it. 

Nel 1997 il neosindaco di Soveria Mannelli (in provincia di Catanzaro), Mario Caligiuri, gli propose di divenire il suo assessore alla cultura, Guerri accettò ma con una riserva: volle essere chiamato “assessore al Dissolvimento dell'ovvio”. 

LA CULTURA LIQUIDA

Ma ciò che rende più distante Giordano Bruno Guerri dalla maggioranza che si sta delineando è la sua opinione di intellettuale su alcuni temi identitari. «Io da presunto, e sottolineo presunto, uomo di destra sono favorevole all’eutanasia, ai matrimoni gay, all’accoglienza. E mi vergogno a essere identificato con una schiera di bacchettoni o polverosi reazionari», ha dichiarato all’agenzia di stampa Agi. 

Una distanza che si accentua quando si tocca il tema di ciò che sia la cultura di destra che Guerri definisce «liquida, come un'acqua che filtra dappertutto in modo disomogeneo e talvolta confuso. Mi sembra si debba parlare non tanto di posizioni politiche, quanto di atteggiamenti mentali verso problemi contingenti».

Da storico quale è non intende dimenticare il passato dei conservatori italiani, sul quale, da presunto uomo di destra, è pronto a fare autocritica. Ma afferma che le tre storiche correnti della destra –  quella post-fascista, quella liberale e quella conservatrice –  non possono conquistare le nuove generazioni.

«Perché è giusto che si conservino i beni culturali, è giusto che si protegga la tradizione della pizza e della mortadella di Reggio, ma riguardo al resto c’è l'esigenza di modernizzare e proiettare questo paese nel futuro. I giovani non hanno niente da conservare, vogliono aprirsi al mondo, innovare e progettare», dice.

GIULIA MORETTI. Nata e cresciuta in Umbria, dopo una laurea triennale in lettere classiche ha virato verso il giornalismo e si è laureata in Editoria e scrittura con una tesi in comunicazione politica. Scrive per Zeta, la testata del master in giornalismo della Luiss, occupandosi di diritti, attualità e fact-checking

Dagospia il 24 Ottobre 2022. COME MAI GIORDANO BRUNO GUERRI, DATO PER SICURO, E' STATO CASSATO DA MINISTRO DELLA CULTURA? IL VATICANO NON HA ACCETTATO UN MANGIAPRETI, SCOMUNICATO UN PAIO DI VOLTE PER LIBRI ANTICLERICALI, A CAPO DI UN DICASTERO CHE HA IN MANO LA GESTIONE DELL'ENORME PATRIMONIO ARTISTICO DELLA CHIESA - AD AZIONARE LA CONTRAEREA SU GUERRI, SI E' MESSO IN MOTO GENNARO SANGIULIANO, LEGATISSIMO AL SOTTOBOSCO DEL VATICANO, CEI, OPUS DEI, DA FISICHELLA A GALANTINO. E COSI' IL PIO SANGIULIANO E' RIUSCITO A FARSI NOMINARE MINISTRO DEI BENI CULTURALI (GIORGIA MELONI HA INCONTRATO LA CEI DEI VESCOVI BEN TRE VOLTE...)

Giamarco Aimi rollingstone.it. Estratto dell’articolo del 28 febbraio 2021

In Gli italiani sotto la Chiesa lei fa risalire certi vizi che ci caratterizzano proprio a quegli anni. In particolare un certo opportunismo, come quando ci si convertiva al cristianesimo solo in punto di morte per assicurarsi la vita eterna.

È il nocciolo del libro, a parte la constatazione ovvia che il Vaticano ha combattuto e impedito per lungo tempo il formarsi di uno stato nazionale unitario. È un danno enorme e se siamo indietro rispetto ad altri paesi come Francia e Gran Bretagna è anche per questo motivo. E l’opportunismo è dovuto alla doppia morale, visto che la Chiesa stessa ha sempre agito, semplificando, al motto di “predica bene e razzola male”. Un esempio negativo.

Chiarisco all’inizio che la Chiesa ha avuto anche dei meriti enormi nell’aiuto ai poveri e ai bisognosi e nel favorire e conservare la bellezza e la cultura. Di questo va ringraziata, ma purtroppo in generale ci ha fatto vivere come Arlecchino servitore di due padroni, che poi in realtà erano tre: il potere ducale, dell’imperatore e del Papa. Barcamenarsi fra questi tre poteri richiedeva dosi tali di opportunismo, di furbizia e di spirito di sopravvivenza che ha condizionato il carattere nazionale. 

Per quello dopo l’unità d’Italia per 40 anni il primo partito è stato la Democrazia cristiana e ancora oggi ci sono politici che si appellano al cuore immacolato di Maria?

A parte questi casi eclatanti, la Chiesa condiziona ancora molto la politica. La prima cosa che fa un presidente del governo è chiedere udienza al Papa. Vedremo cosa farà Draghi. È vero che viviamo in un periodo di laicizzazione, però sono fenomeni che richiedono tempi lunghissimi.

Altro aspetto interessante che mette in evidenza in questa sua “antistoria” è un certo anticlericalismo degli stessi cattolici. Da cosa deriva?

È legato alla fede in Dio, in Gesù e più spesso nei santi o nei loro rappresentanti in terra, anche se poi si capisce che spesso non sono santi. Gli stessi Papi non hanno dato un buon esempio, a partire dal periodo della “pornocrazia papale” fino a errori enormi di papi recenti comunque fatti santi.

Facendo un balzo in avanti, mi sembra sia stato piuttosto indulgente con Papa Benedetto XVI. La sua decisione di abbandonare la ritiene dettata da problemi personali o dall’impossibilità di far fronte a certi scandali che erano in corso nella Chiesa?

Quello lo definisco un capitolo di cronaca, perché la storia ha bisogno di sedimentare, di documenti e che gli episodi siano conclusi. Comunque, sulle dimissioni ci varie sono ipotesi. Quella che sia stato costretto perché accerchiato e in difficoltà, così come quella che non ce la facesse più ad andare avanti. Da uomo colto e tedesco in ogni fibra, forse si è reso conto che non riusciva più a tenere le redini di una macchina così complessa. Nel complesso, però, è stato un Papa importante che ha avviato riforme che lo stesso Francesco sta proseguendo. C’è una continuità fra i due, nonostante le apparenti differenze. 

Papa Francesco ha invertito la tendenza: amatissimo da chi prima era distante dalla Chiesa e criticatissimo dai cattolici più intransigenti. Anche questo è un bel paradosso.

Perché è un Papa di rottura, quindi ha provocato una divisione. Ma ho l’impressione che venga amato da certi ambienti più per i suoi aspetti esteriori. Mentre non c’è dubbio che dia molto fastidio per un rinnovamento effettivo che sta imprimendo alla Chiesa. Sia sull’aspetto finanziario, dove sta facendo uno sforzo di chiarezza, sia sul fronte della pedofilia, dove invece ha tirato un po’ il freno. È anche vero che viene attaccato fino a sfiorare il fanatismo da chi ha a che fare con un mondo di conservatori che io trovo deprecabile. Nello stesso tempo, il futuro del cattolicesimo è in Africa e in Asia, per cui credo che lui abbia una visione molto più ampia rispetto all’Occidente, dove intendiamo la figura del Papa in modo tradizionalista, ancor di più in Italia.

Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 18 ottobre 2022.

Uomo di destra? "Presunto", risponde di solito Giordano Bruno Guerri, papabile ministro della Cultura nel futuro governo Meloni. "Sono favorevole all'eutanasia, ai matrimoni gay, all'accoglienza. E mi vergogno a essere identificato con una schiera di bacchettoni o polverosi reazionari", raccontava solo qualche settimana fa, subito dopo il voto, intervistato dall'Agi.

Per dire: quando l'anno scorso uscì la notizia che la Dc Comics lavorava a un Superman bisex, mentre a destra, appunto, più d'uno storceva il naso, lui benediceva l'operazione: "Non mi dispiace affatto. Anzi, spero che con la kryptonite verde diventi trans".

Situazionismo e gusto della provocazione non gli mancano, se è vero che per il primo incarico pubblico, era il 1997, nel piccolo comune calabrese di Soveria Mannelli, mutuò il tradizionale dipartimento alla Cultura in "assessorato al Dissolvimento dell'Ovvio". Durò un mese, ma fece in tempo a inaugurare il Monumento al Cassonetto.

Saggista, storico, giornalista, cultore di D'Annunzio - passione diventata professione nel 2008 in qualità di direttore del Vittoriale degli Italiani, confermato in quel ruolo dal dem Dario Franceschini - nella corsa al Ministero dei Beni culturali Guerri sembra avere sorpassato Vittorio Sgarbi, un altro che di provocazioni se ne intende. E il direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano, che però dall'inizio sembra più destinato a scalare le gerarchie in Rai (è in pole per il Tg1) che a traslocare nel governo a trazione FdI.

Classe 1959, toscano di Monticiano, hinterland senese, famiglia di contadini e operai, comincia come correttore di bozze per Garzanti. Poco dopo, nel 1971, approda in Bompiani. Le sue "Norme grafiche e redazionali" sono tuttora in uso. Si laurea nel 1974, tesi sul ministro fascista Giuseppe Bottai, che verrà pubblicata da Feltrinelli. Il primo di una sterminata produzione di saggi, dedicati in buona parte a personaggi del Ventennio, da Italo Balbo a Galeazzo Ciano, fino alle pubblicazioni più recenti sul Vate. Direttore editoriale di Mondadori e di Storia Illustrata, per un anno, tra il 2004 e il 2005, guida l'Indipendente, oltre dieci anni dopo Vittorio Feltri.

Poi collaboratore del Giornale. E infine la lunga stagione al Vittoriale, casa-monumento di D'Annunzio sul lago di Garda. Prima di ritrovarsi nel toto-ministri, Guerri consigliava alla nuova classe dirigente della destra un paio di libri: "21 lezioni per il XXI secolo" di Harari e "Limonov" di Carrére. "Ammesso che sul comodino non abbiano soltanto quelli che hanno scritto loro".

Giampiero Mughini per Dagospia il 18 ottobre 2022.

Caro Dago, ne sarei felice se il mio vecchio amico Giordano Bruno Guerri diventasse - ciò che mi pare molto probabile - ministro della Cultura nel governo condotto da Giorgia Meloni. Del resto se c’è un uomo a caratterizzare il quale servono a niente le vecchie (e talvolta belluine) partizioni tra Destra e Sinistra, questo è lui.

Giordano è un ex enfant prodige della cultura italiana che aveva debuttato men che trentenne con dei libri memorabile nel raccontare il recto e il verso di personaggi chiave della storia politica e culturale dell’Italia del Novecento, da Giuseppe Bottai a Curzio Malaparte.

Era stato fra i primissimi della sua generazione a voler comprendere intera la genealogia dell’équipe dirigente del fascismo.

Quel comparto della nostra storia lui non voleva racchiuderla in una parentesi buia buia da cassare punto e basta, di cui vergognarsi punto e basta. E tanto più che era stata proprio l’équipe dirigente del fascismo a buttar giù Benito Mussolini nella notte tra il 25 e il 26 luglio 1943, non certo gli scioperi operai torinesi del marzo 1943 com’era scritto in un libro pubblicato da Einaudi che avevo letto nei miei vent’anni: e ancora ne inorridisco di una tale panzana.

Con Giordano ho contratto un debito che non si dimentica nel 1987, ai tempi del mio “Compagni addio”. C’era che nel farmi la cravatta innanzi allo specchio m’era venuto in mente quel titolo. Un titolo che avrebbe fatto da insegna di quanto avevo covato per poco meno di vent’anni, ossia il raschiar via dalla mia pelle e dalla mia anima quella ressa di ideologismi di sinistra e sinistra estrema da cui è stata asfissiata la buona parte della mia generazione. Quel libro, o meglio quel titolo, lo proposi a un Giordano che appena trentacinquenne era divenuto il capintesta della saggistica Mondadori. Libro e titolo Giordano li accolse con un entusiasmo fraterno. Dubito che se non ci fosse stato lui un qualche altro grande editore avrebbe accettato un titolo che risuonava come una bestemmia, e a causa del quale alcuni miei compagni di generazione mi tolsero il saluto.

E difatti quando il libro uscì ebbe sui giornali un unico commento positivo, quello di un certo Indro Montanelli. Adesso vedo che su internet ci vogliono da cento euro in sopra per averne una copia. Ieri l’altro mi ha scritto uno che aveva un’aria intelligente a chiedermi se avessi una copia da vendergli. Purtroppo, e a parte la mia, non ne ho più una da almeno trent’anni.

Auguri fraterni, caro e valoroso Giordano.

La vita di Giorgio Manganelli, detto il Manga, scritta da sua figlia Amelia. UGO CORNIA, scrittore su Il Domani il 16 marzo 2023

Aspettando che l’inferno cominci a funzionare, edito da La nave di Teseo, sarebbe la vita di Giorgio Manganelli, detto il Manga, scritta da sua figlia Amelia, detta Lietta.

Oltre a raccontare le mille avventure e sventure del nostro scrittore, sarebbe anche di riuscire a dissipare i mille misteri che la sua singolare opera è riuscita a produrgli intorno.

A quanto sembra, Manganelli non era bello: «Il Manga, Edoardo Sanguineti e Mario Bortolotto stanno passeggiando per Roma, quando mio padre si ferma di botto e chiede: “Secondo te, Mario, chi è più brutto, io o Edoardo?” Posso solo immaginare l’imbarazzo del povero Bortolotto, che dopo averci pensato un attimo, sbotta: “Ma cosa c’entra, Edoardo è antropomorfo, tu no”».

Giorgio Manganelli. Aspettando che l’inferno cominci a funzionare, edito da La nave di Teseo, sarebbe la vita di Giorgio Manganelli, detto il Manga, scritta da sua figlia Amelia, detta Lietta. Scopo dell’opera, oltre a raccontare le mille avventure e sventure del nostro scrittore, sarebbe anche di riuscire a dissipare i mille misteri che la sua singolare opera è riuscita a produrgli intorno: distinguere il vero dal verosimile e anche dal falso.

Per esempio, tanto per iniziare, potremmo venire a scoprire che uno dei nostri più grandi scrittori lombardi, lombardo non era, o almeno non era lombardo al cento per cento. Ci sarebbe invece un’origine emiliana, della bassa parmense. «Mio padre ha delle fortissime radici emiliane, anzi è un emiliano nato casualmente a Milano» dice Lietta.

La madre del Manga, figlia del maresciallo dei carabinieri, era di Roccabianca; il padre, figlio di un vagliatore di ghiaia, era di Stagno di Roccabianca. E nell’ottobre del ’43, per sfuggire alle rappresaglie previste per i disertori, lo stesso Manganelli, lasciata Milano, a Roccabianca farà rientro.

Lì, per le strane evoluzioni delle cose, diventerà partigiano e nel ’44 entrerà nel partito comunista. Sarà anche fucilato in quel di Roccabianca? Ovviamente no, se no non ci sarebbero state né Centuria, né Hilarotragoedia, ma verrà fermato, insieme a altri giovani, come ritorsione per l’uccisione di un fascista, tale Gavazzoli.

IL RACCONTO

Il Manga così la raccontava a sua figlia: «Mi avevano arrestato, mi avevano messo al muro e stavano per schierarsi per fucilarmi quando un soldato russo mi guardò attentamente, avevo ventitré anni e ne dimostravo molti meno, e disse: “Ma su, non lo vedete che è un bambino?”, e dopo aver riflettuto un attimo mi dette un terribile colpo in testa col calcio del mitra. Io svenni e quando mi risvegliai ero solo, non c’era più nessuno e il sangue mi colava sul viso. Mi rimisi in piedi e tornai a casa, e mia madre mi medicò». Queste le parole del Manga.

Ma ecco, mentre Lietta si trova a Roccabianca per ricostruire le avventure del Manga e conoscere i suoi parenti, che arriva un tale Zilioli, classe ’29, ex staffetta partigiana, che dice a Lietta: te lo racconto io com’è andata: «Il 18 marzo si fecero i funerali del Gavazzoli … C’era tutto il paese al funerale … perché non esserci voleva dire dichiararsi apertamente antifascisti … La bara, con sopra il coperchio una mitragliatrice, veniva portata a spalle e i fascisti, armati fino ai denti, si guardavano intorno.

Un movimento sbagliato e, penso io, un’ombra scambiata per un partigiano, e i fascisti iniziarono a sparare fra la folla. Un fuggi fuggi generale, durante il quale uno della brigata nera sparò, volutamente, alle spalle di un anziano, tale Spagnoli, ferendolo gravemente.

COLORO CHE NON FUGGIRONO

Fra coloro che non fuggirono c’era Manganelli che con altri quattro venne messo al muro per essere fucilato sul posto. Il padre del morto, anch’egli capitano delle Brigate nere, si oppose alla fucilazione di Manganelli, che lui conosceva bene in quanto professore d’inglese di sua figlia, e al grido di: “L’è miga lù, l’è miga lù; lù l’è al profesor ad me fiòla!” fermò l’esecuzione. Ormai la confusione era diventata massima, per cui i cinque furono arrestati, e non fucilati, condotti in carcere, ovviamente percossi e strapazzati, e vennero poi rilasciati per ordine del comando tedesco, il quale, va detto, non era affatto d’accordo con quella fucilazione». Lietta considera questa storia come una delle tipiche “invenzioni dal vero” di suo padre. Era meno imbarazzante essere stati salvati da un soldato russo che da fascisti e tedeschi.

Verremo comunque anche a sapere che, prima dell’8 settembre, e prima di diventare un partigiano comunista, Manganelli aveva anche militato regolarmente nell’esercito italiano: «Ho contribuito alla sconfitta dell’Italia. Mi assegnarono ai servizi sedentari e non mi fucilarono perché sarebbe stata una cattiva azione. Non ho mai imparato a mettere le fasce. Ero inetto, inutilizzabile. A Bergamo, in una caserma di fanteria, divenni furiere con l’incarico di compilare il ruolino del reparto. La mia pessima calligrafia rese il ruolino illeggibile. L’8 settembre del ’43 tornai a casa: quel giorno si chiuse la mia vita militare».

Ma continuiamo il nostro racconto: è chiaro che perché ci sia una figlia, Lietta appunto, autrice di questo libro, bisogna che nella vita di Manganelli ci sia stato un amore, un conseguente matrimonio e un qualche slancio riproduttivo che abbia avuto successo.

LA PASSEGGIATA PER ROMA

A quanto sembra, Manganelli non era bello. Lietta per provarlo ci racconta questo episodio, anche se non sappiamo in che anno sia avvenuto e se si riferisca a un Manga giovane, a un Manga maturo o a un Manga anziano: «Il Manga, Edoardo Sanguineti e Mario Bortolotto stanno passeggiando per Roma, quando mio padre si ferma di botto e chiede: “Secondo te, Mario, chi è più brutto, io o Edoardo?” Posso solo immaginare l’imbarazzo del povero Bortolotto, che dopo averci pensato un attimo, sbotta: “Ma cosa c’entra, Edoardo è antropomorfo, tu no”». Lei invece era molto bella. Si chiamava Fausta Preschern, naturalizzata Chiaruttini.

Era la sorella di una dottoressa che operava a Roccabianca e che aveva ricucito qualche partigiano ferito. Il padre (di origine slovena) era diventato preside di una scuola di Parma. Sono molto diversi ma si fidanzano: Manganelli innamoratissimo, lei così così.

L’esempio più eclatante della loro differenza, secondo Lietta, è questo: «Mio padre scrive a Fausta che per l’Epifania la raggiungerà a Endenna, e nel contempo inventa per “la fanciulla dalla bella capellatura” una romantica favola, con castello, cavallo e cavaliere innamorato di nome “il Giorgissimo”, la risposta della fanciulla è criptica, credo che per lui sia stata terribile: “Comprato braciole, urge pangrattato”. Ogni commento è superfluo». Nonostante questo i due si sposano in una chiesa di Milano. Secondo Lietta, due beghine presenti all’evento commenterebbero così l’uscita dalla chiesa degli sposi: «Le’ l’è blina acsè, ma lu’ l’è brut, madonna, se l’è brut (lei è proprio bellina, ma lui è brutto, madonna se è brutto)».

Ma perché c’è questa insistenza su una presunta bruttezza del Manga? Perché Fausta, in un rarissimo momento di confidenze, avrebbe detto alla figlia Lietta: «Vedi, io ho cercato di innamorarmi del Giorgio, ma io non sono assolutamente capace di amare le persone brutte. Mi sono accorta quasi subito che non sarebbe diventato nessuno … e dopo pochi mesi di matrimonio avevo già deciso di lasciarlo, ma non volevo restare da sola, non mi pareva giusto, volevo un figlio, un figlio mio! Il Giorgio, che oltretutto era stato fortemente traumatizzato dalla guerra, non voleva figli, quindi io ho pensato di farlo ubriacare – mio padre in quei tempi era totalmente astemio – e così sei nata tu».

L’avventura matrimoniale andrà avanti ancora qualche anno. Poi nel ’53, rientrando a casa, Manganelli trova una valigia in corridoio; dice: «Che bello! Sono arrivati i tuoi?» ma Fausta risponde: «No, Giorgio, sei tu che te ne vai».

È così che il Manga, come è noto, abbandonerà la famiglia e si trasferirà a Roma. Salirà sulla sua lambretta “Bakunina”, caricherà la valigia e su quel mezzo raggiungerà la capitale. No. Anche questa è una leggenda da sfatare. Andrà in lambretta fino alla stazione centrale, la caricherà sul treno e in treno raggiungerà Roma.

Poi diventerà insegnante, subaffitterà una stanza presso la famiglia Magnoni e la seguirà per vari traslochi, chiedendo che di trasloco in trasloco contino una stanza anche per lui, frequenterà uno psicanalista junghiano, diventerà scrittore, amerà altre donne, tante, scriverà sui quotidiani, inizierà a fare reportage meravigliosi in giro per il mondo, e finalmente avrà una casa sua e così via. Farà anche la sua vita. E quando finalmente lei diventerà maggiorenne, il Manga tornerà a frequentare Lietta.

UGO CORNIA, scrittore. È nato a Modena nel 1965. È insegnante di filosofia e di sostegno in una scuola superiore. Suoi racconti sono apparsi su “Il Semplice” e su “Il diario”. Il suo ultimo libro è Favole da riformatorio (Milano, Feltrinelli, 2019)

Il dolore della gente comune. La cronaca secondo Testori. Per lui non esistevano notizie "piccole": casi come quello della giovane suicida erano al centro di molti suoi pezzi. Alessandro Gnocchi il 4 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Ogni tanto la cronaca squarcia il velo e ci lascia vedere la realtà. Abbiamo una notizia: la realtà dei giovani non si esaurisce negli ecologisti che sporcano i quadri, nei fuori corso che occupano gli atenei, nei pro-nipoti dei Sessantottini, di qualsiasi colore, impegnati nella inconsapevole parodia degli anni di piombo.

La realtà sono i ragazzi che studiano, lavorano e talvolta pregano. Come hanno sempre fatto. A questi, nessuno pensa. Nessuno crede siano realmente importanti. Sono la massa e la massa non interessa fino a quando non accade un fatto clamoroso. Il suicidio della studentessa, allo Iulm di Milano, ha colpito tutti. Una ragazza di diciannove anni si è tolta la vita perché aveva paura di aver fallito, di non essere stata all'altezza delle proprie aspettative. È l'unico motivo? In realtà, qualcosa ci dice che l'intera società sia responsabile. Forse cuciamo addosso ai ragazzi panni che non appartengono loro. Forse non siamo capaci di fornire una prospettiva diversa dal successo. Quanti danni hanno provocato i like su Facebook: ci hanno educato a valutare tutto in base alla popolarità. Quanto abbiamo sottovalutato l'impatto di quasi due anni scolastici vissuti nella propria cameretta? Forse abbiamo dimenticato che il no alla vita discende anche dal no a una visione (diciamolo: religiosa) che renda sacra la vita stessa. Forse, forse, forse. Quanti dubbi. Si avverte la carenza, non la mancanza, qualcuno c'è, di intellettuali interessati ai drammi comuni dei ragazzi comuni. Vengono in mente gli splendidi articoli che Giovanni Testori scrisse sulle colonne del Corriere della Sera e del Sabato. Testori, nato cento anni fa, sapeva cogliere l'eterno nelle storie considerate piccole soltanto da chi non era capace di comprenderle davvero. Ecco dunque la sua attenzione per i casi di suicidio, le risposte ai lettori, l'idea che proprio una vicenda atroce come il suicidio allo Iulm dovesse aprire un dibattito; un dibattito molto più importante delle solite scaramucce politiche.

Gli articoli di Testori, che invitiamo a riscoprire in occasione del centenario, sono pieni di storie straordinarie di ragazzi «comuni». Ma Testori sapeva che non esistono ragazzi «comuni». Ognuno è speciale. Il diavolo è numero e ci tratta come massa. Dio è Parola e ci chiama per nome. Uno a uno.

Questa attenzione per la persona, anche la più umile, spiega una doppia idiosincrasia di Testori: la sociologia e la statistica. Entrambe le discipline riducono l'uomo a numero. Sono dunque false scienze e vere espressioni della civiltà delle cose. Una testimonianza di Luca Doninelli, inoltre, fa capire quanto le pagine di nera toccassero Testori, specie se riguardavano perfetti sconosciuti: «Più volte l'abbiamo visto e sentito scoppiare in lacrime alla notizia di un crimine, di un suicidio, di un disastro naturale. Piangere per un terremoto in Irpinia? Chi erano gli irpini per lui e lui per gli irpini? Invece ecco: piangeva a dirotto. A Milano uno stupido ragazzotto drogato uccideva una bambina nel tentativo di rubarle la catenina d'oro, a Renate Brianza un ragazzino uccideva a martellate la zia presso cui viveva. Ed ecco il pianto, prima delle parole, prima di ogni luce di discorso: il pianto che era il primo, insostituibile atto d'intelligenza» (si cita da Luca Doninelli, Una gratitudine senza debiti. Giovanni Testori, un maestro, La nave di Teseo, 2018).

Nel silenzio delle nostre case, di notte, quando nulla ci può salvare da noi stessi, ci chiediamo quale significato abbia il nostro dolore. Un dolore cieco, che non ha nome, perché è diventato un compagno fedele. La nostra condizione abituale. Il dolore diventa insopportabile se non è la premessa e la promessa della salvezza. Qualcosa lentamente muore dentro di noi ma continua a occupare la nostra anima. Qualcosa di nero e di confuso. Un rumore costante di sottofondo, pronto a esplodere quando siamo soli, e si può essere soli anche in mezzo alla folla o circondati dagli amici. Qualcosa avvelena il nostro cuore, spegne il nostro sguardo, ci rende aridi come il deserto, assetati come viandanti, troppo orgogliosi però per chiedere acqua. Ecco allora il richiamo della fede e dell'assoluto, il riconoscimento della nostra finitezza, l'umiltà di accettare la sofferenza, il capire che non ci si salva da soli. Qui nasce il legame con la comunità, sofferente come noi e bisognosa delle stesse attenzioni.

Nella Maestà della vita (Bur), dove Testori raccolse buona parte degli editoriali pubblicati tra il 1977 e il 1981, si parla di questo tipo di dolore. Leggendolo si rimane stupefatti: dove sono finiti i corsari da prima pagina, i Testori e i Pasolini, gli Sciascia e gli Arbasino? E come speriamo di aiutare chi ha bisogno se non usciamo mai dalla stanca routine delle dispute ideologiche, spesso di un altro secolo?

Giovanni Verga, scoperto l'inedito "Frine", il suo romanzo giovanile. Riportato alla luce "Frine", un inedito romanzo giovanile di Giovanni Verga, grazie alle ricerche e agli studi di Lucia Bertolini professore ordinario di Filologia della Letteratura italiana all'Università eCampus. Roberta Damiata il 3 Luglio 2023 su Il Giornale.

È stato ora dato alle stampe, grazie alle ricerche e agli studi di Lucia Bertolini, professore ordinario di Filologia della Letteratura italiana nell'Università eCampus, Frine, un inedito romanzo giovanile dello scrittore Giovanni Verga. La studiosa ha pubblicato il testo e ne ha illustrato la storia nel quarto volume dell'Edizione nazionale delle opere di Giovanni Verga, pubblicato da Interlinea. Il volume comprende anche l'edizione del successivo e molto conosciuto romanzo Eva.

Rimasto inedito fino a oggi, l'unico manoscritto esistente faceva parte del materiale sequestrato nel 2013 a seguito della controversa vicenda delle "Carte Verghiane", a tutt'oggi non consultabile direttamente, ma conservato in una buona copia microfilmata presso il Fondo Mondadori, dal quale la professoressa Bertolini lo ha trascritto per l'edizione critica.

Il mistero delle "Carte Verghiane"

Per comprendere il valore della scoperta, è importante soffermarsi e spiegare l'intricata vicenda della "Carte Verghiane" che ha coinvolto per anni aule di tribunale e comincia nel 1889, quando il giovane e sconosciuto compositore Pietro Mascagni, si iscrive al concorso indetto dalla casa editrice milanese Sonzogno per la scrittura di un’opera in un singolo atto. La scelta del soggetto La Cavalleria Rusticana, ricade sull’omonima novella verghiana edita nel 1880: "Strettamente aderente all’azione del Verga, aggiungendovi semplicemente qualche brano lirico per vestire la nudità della tragica vicenda", racconterà Mascagni.

"L’azione” a cui si riferisce il compositore è il dramma che lo stesso Verga aveva ricavato dall’adattamento teatrale della novella, trionfante nei teatri a partire dal 1884, che aveva catturato l’attenzione di Mascagni in una rappresentazione meneghina al teatro Manzoni. Le strade tra il compositore e lo scrittore, si incontrano solo per via epistolare quando nel 1890, Mascagni dopo aver vinto il concorso, si mette in contatto con Verga per chiedergli il permesso di rappresentare nei teatri la sua opera riconoscendogli il diritto di imporre i patti che avrebbe ritenuto “utili o necessari”.

Verga accetta senza badare troppo allo sconosciuto compositore, che lo ringrazia, ma il futuro de La Cavalleria Rusticana si rivela un enorme successo in tutta Europa. Al culmine del trionfo, Verga chiede la paternità dell'opera a Mascagni tramite il Tribunale di Milano anche per definire, al contrario del primo frettoloso sì, con grande precisione e formalità, quali e, soprattutto quanti, sarebbero stati i suoi “utili o necessari” accennati in precedenza da Mascagni.

Il processo si è trascinato per molti anni nelle aule del Palazzo di Giustizia prima di trovare l’intesa finale. Nel 1891 il tribunale impone a Mascagni e al suo editore Edoardo Sonzogno il versamento del 50% degli utili netti, ricavati e futuri del successo della Cavalleria. Ma è solo nel 1893 che si trova l’intesa finale mediante un accordo transattivo che ha riconosciuto la somma di lire 143.000, pari ad oltre 500.000 euro attuali, allo scrittore siciliano, ancora insoddisfatto della decisione iniziale del tribunale. Ma la vicenda non finisce qui.

Il sequestro dei carabinieri

Nel 2013 i carabinieri del Reparto operativo Tutela Patrimonio Culturale avevano sequestrato a Roma e Pavia una considerevole "fetta" del patrimonio letterario dello scrittore siciliano. Si trattava di 36 manoscritti tra romanzi e novelle, migliaia di riproduzioni fotografiche di lettere, oltre a centinaia di lettere autografe, bozze, disegni e appunti, il cui valore è stimato intorno ai 4 milioni di euro. Questi documenti erano stati consegnati da Giovannino Verga Patriarca, nipote dello scrittore, a uno studioso di Barcellona Pozzo di Gotto, per farne una stima, senza che questo li restituisse mai al legittimo proprietario. Lo stesso Giovannino Verga e successivamente suo figlio Pietro avevano cercato in ogni modo di rientrare in possesso dei documenti per vie legali, supportati anche da diverse interrogazioni parlamentari andate avanti dal 1957 al 1977.

Nel 1975 Pietro Verga ottenne dal Tribunale di Catania una sentenza che sanciva a suo carico il possesso legale di tutti i manoscritti, compresi quelli non ancora inventariati a causa del rifiuto dello studioso messinese. Tre anni dopo, ancora prima di entrarne in possesso, l'erede aveva venduto al Comune di Catania l'intero corpo delle Carte Verghiane, acquistate tramite la Regione siciliana per 89 milioni di lire. Il fondo però non ne entrò mai in possesso. Da allora, il Comune di Catania e gli eredi di Verga hanno cercato di ottenere la restituzione dei beni dalla figlia dello studioso, nel frattempo deceduto.

La vicenda è arrivata a una svolta quando la Soprintendenza ai Beni Librari della Regione Lombardia, ha individuato un elenco di Carte Verghiane messe in vendita presso una casa d'aste, proprio della figlia dello studioso. Ora i documenti si trovano in un deposito presso il Centro di ricerca del Fondo manoscritti dell'Università di Pavia.

La storia di Frine

Verga, iniziò a scriverlo dopo il suo breve soggiorno fiorentino nella primavera del 1865, all'epoca aveva solo 25 anni, ma continuò a lavorarci per lungo tempo sottoponendolo anche all'attenzione di alcuni amici, i cui suggerimenti sono ancora appuntati tra le carte del manoscritto. Fu terminato nel 1869 quando Verga lo propose all'editore Emilio Treves che però si rifiutò di pubblicarlo, decretando la sua fine dentro un cassetto dello scrittore. Almeno fino ad ora.

Il titolo originario di Frine - che alludeva all'amante di Prassitele - nel 1869 aveva preso il nuovo nome di Eva (lo stesso del più noto romanzo riscritto nel 1873), il che aveva creato parecchie confusioni nella bibliografia passata. Per questo nell’introduzione del volume uscito ora per Interlinea, Lucia Bertolini ha spesso adottato l'etichetta di Frine-Eva per indicare l'inedito in quelle fasi della storia nelle quali per certo il titolo era ormai stato cambiato. Ci sono in effetti molti punti in comune tra i due romanzi; dall'ambientazione fiorentina, fino al protagonista, in entrambi gli scritti un pittore catanese.

La trama

Luigi Deforti, un giovane pittore di provincia catanese, conosce a Firenze la cortigiana Eva Manili che ostenta doti di pittrice dilettante e che man mano rivela le sue vere caratteristiche di cinismo e interesse. Il giovane, innamorato della donna, abbandona i suoi ideali artistici e per rivalità con il conte di Fontanarossa, diventa prima baro poi spadaccino. Tornerà in Sicilia malato e deluso, ma in verità non ancora effettivamente 'sanato' dall'illusione che arte e amore possano non entrare in contraddizione.

Alberto Guareschi, figlio di Giovannino: «I film di don Camillo lo fecero incavolare. Da ragazzo lo contestai, ancora me ne pento». Stefano Lorenzetto su Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023

Alberto, il figlio di Giovannino Guareschi, racconta: «Quando tornò a casa dai lager pesava 46 chili, ma ricordo il suo sorriso. MI ha insegnato la coerenza e la dignità» 

Non è vero che l’Italia di don Camillo e Peppone fosse migliore di quella odierna. Quando a 8 anni Alberto Guareschi si ritrovò ad avere per fratellastri immaginari i due di Brescello, il parroco burbero e il sindaco comunista, capì che suo padre era tanto odiato quanto amato: «Appeso alla porta della nostra casa milanese di via Pinturicchio trovai un disegno che lo raffigurava penzolante da una forca, con la scritta: “Sei il primo della lista”». A Giovannino Guareschi i «trinariciuti» non perdonavano le vignette su Candido e il manifesto con lo slogan «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!», che aveva contribuito alla sconfitta del Fronte popolare il 18 aprile 1948.

Suo padre era anticomunista, monarchico o cattolico?

«Era uno spirito libero».

Giovanni XXIII avrebbe voluto fargli scrivere un «piccolo catechismo» per il popolo.

«Don Giovanni Rossi della Pro civitate christiana propose l’idea a papa Roncalli e ottenne il suo assenso».

Cosa impediva al cristiano di essere democristiano?

«Diciamo che mio padre non era come il capo della famiglia Bianchi, il signor Cesare, “lercaromontinolapiroroncalliano”, e sua moglie Maria, un po’ “moroide”, cioè affascinata da Aldo Moro».

Pensa che Giovannino Guareschi sarebbe stato felice di avere una donna premier?

«Considerato che i personaggi più simpatici delle sue opere sono femminili, direi proprio di sì».

Anche se Giorgia Meloni è cresciuta nel Msi?

«La signora Bianchi, la suocera Cristina e Gypo simpatizzano per quella parte».

Il suo primo ricordo di lui?

«Tornava dai lager nazisti. Avevo 5 anni. Mi trovai davanti uno sconosciuto con il volto magro, lo sguardo intenso e un paio di baffoni. Pesava 46 chili, compresi stracci e zoccoli. Ma sorrideva».

Che cosa le ha insegnato?

«La coerenza e la dignità».

Lo ha mai contestato?

«Sì, da adolescente, e provo ancora dispiacere. Lo accusai assurdamente di essere troppo attaccato ai beni che si era procurato con il suo lavoro».

Sgobbava parecchio.

«Quando l’editore Angelo Rizzoli installò il marcatempo per far timbrare l’orario di entrata ai redattori di Bertoldo, mio padre prese il cartellino e ci scrisse sopra “culo”. A casa si era costruito lo studio nell’abbaino. Lavorava tre giorni e tre notti senza mai scendere. Calava con la corda un secchio e noi ci mettevamo dentro i generi di conforto: acqua, caffè, arance». 

Ha venduto tantissimo.

«Saremo sui 25 milioni di copie. Ogni anno escono tre o quattro edizioni all’estero, l’ultima in turco. È pubblicato ovunque, persino alle Samoa. Tranne che in Cina. Lo hanno tradotto in greco antico e latino, in varie lingue con il metodo Braille e persino in milanese, friulano, bergamasco, bresciano e comasco».

Perché piace da 75 anni?

«Parla di persone vere, di verità non legate alle mode».

Nei libri lei è Albertino.

«Mi assegnò questo nome letterario. Poi nel 1957 mi ribattezzò Sputnik, perché, pur rimanendo nella sua orbita, mantenevo sempre la distanza di sicurezza».

Sua sorella Carlotta, morta nel 2015, era la Pasionaria.

«Come Dolores Ibárruri, cui mio padre la accostava per via della forte personalità».

Ora è rimasto l’unico custode del Club dei Ventitré.

«Per 30 anni ho fatto il ristoratore qui a Roncole Verdi. In seguito mi sono dedicato completamente a curare i volumi postumi di racconti».

Il club si chiama così perché Alessandro Manzoni si rivolgeva a «venticinque lettori» mentre suo padre diceva di averne due in meno.

«Non registriamo il numero di ospiti del nostro illustre vicino di casa Giuseppe Verdi, ma ogni giorno arriva un gruppetto di visitatori».

Vedo che il lampadario resta quello fatto con tre damigiane e tre imbuti.

«Guai a toccarlo. Se lo costruì mio padre. Gli piaceva».

«Il Don Camillo mai visto»: il film girato e mai montato

Guareschi avrebbe avuto successo senza i film con Fernandel e Gino Cervi?

«Il valore letterario non lo hanno aumentato i film, semmai lo hanno leso. Il compagno don Camillo di Luigi Comencini è un completo tradimento del libro. Da tre sceneggiature mio padre ritirò la firma incavolato».

Ebbe rapporti conflittuali con i cineasti, ne deduco.

«S’intese poco o nulla con Julien Duvivier, il regista del primo Don Camillo . Però lo stimava: “È talmente bravo che può permettersi il lusso di essere antipatico”, ammetteva. Rizzoli, proprietario della Cineriz, dovette rivolgersi a un francese perché i registi italiani si erano eclissati, temendo le reazioni del Pci. In precedenza aveva tentato d’ingaggiare Vittorio De Sica, ma ne ebbe un rifiuto».

Conserva le pizze del film «La rabbia», che diresse con Pier Paolo Pasolini nel 1963?

«Certo. Sparì dalle sale perché il regista del secondo tempo ritirò la firma».

Per quale motivo?

«Gli amici comunisti, Alberto Moravia in testa, lo rimproverarono e Pasolini corse ai ripari. Qualche anno fa Giuseppe Bertolucci revisionò il film, tagliando la parte guareschiana».

Lei avrebbe pubblicato le due lettere del 1944, poi dichiarate false, con cui Alcide De Gasperi chiedeva agli Alleati di bombardare Roma «per infrangere l’ultima resistenza morale del popolo»?

«Sì. Umberto Focaccia, perito calligrafo del tribunale di Milano, ne aveva accertato l’autenticità».

Come ricorda il 26 maggio 1954, quando suo padre entrò in carcere a Parma per quello scoop di «Candido»?

«Mi pareva d’essere spettatore di qualcosa che capitava a un altro. La mamma tenne bloccato per tre ore in cucina il ministro dell’Interno, Mario Scelba, venuto a offrire a mio padre, asserragliato al piano di sopra, una scappatoia per non finire in prigione. Restò dentro 409 giorni».

La detenzione aggravò il suo stato di salute?

«Direi. D’inverno in cella la temperatura sfiorava lo zero».

Chi venne ai suoi funerali?

«Le persone giuste. Nessun politico. Pochi colleghi: Carlo Manzoni, Giovanni Mosca, Nino Nutrizio, Alessandro Minardi, Baldassarre Molossi, Enzo Biagi, Ferdinando Palermo. Ricordo, seminascosto, Enzo Ferrari, il cui figlio, Dino, aveva trovato conforto nei libri di mio padre durante la malattia che lo uccise».

Lei portò a spalla la bara.

«Con mio cognato e due muratori. Per molti anni era stato la prima “industria” di Roncole Verdi. Dal 1951 in avanti aveva fatto lavorare le maestranze del paese. Ma ci alternammo in molti».

Chiese lui la «Messa da requiem» di Verdi?

«Si tratta dell’invenzione di un cronista. Non fu eseguito alcun brano. Forse il parroco don Adolfo Rossi si ricordò delle ultime volontà espresse dalla maestra Cristina nel Don Camillo: “Voglio un funerale senza musica, perché la morte è una cosa seria”».

Davvero suo padre non la baciò né la abbracciò mai?

«A quei tempi avevamo pudore dei nostri sentimenti».

Lei fa lo stesso con le sue quattro figlie e i nove nipoti?

«Con loro è diverso».

Non cercava di abbracciare il loro nonno e bisnonno?

«Non era necessario. Sapeva che gli volevo bene».

Postfazione di Vittorio Feltri a “Giuseppe Prezzolini, l’anarchico conservatore”, di Gennaro Sangiuliano (ed. Oscar Mondadori), pubblicata da “Libero quotidiano” il 9 giugno 2023.  

Ho conosciuto Giuseppe Prezzolini nel 1982. All’epoca aveva cento anni esatti. Era ancora lucidissimo. Lo intervistai per La Domenica del Corriere. Confesso: ero a disagio.

Nonostante non fossi di primo pelo, incontrare l’uomo che aveva segnato due o tre stagioni della cultura italiana mi metteva un po’ in soggezione. Il maestro, inoltre, aveva fama di essere una persona difficile e scostante. 

Nell’ambiente giornalistico me lo avevano descritto eternamente depresso e scontroso. Tagliente e sarcastico. Pessimista, ma di quella razza intraprendente che trova proprio nel malumore e nell’insoddisfazione lo stimolo necessario per andare avanti. In questo era come il suo allievo Indro Montanelli. Le trattative furono lunghe, ma non complicate. Prezzolini, infatti, non amava i giri di parole.

Conservo ancora una sua lettera. Poche righe molto chiare: «Gentile Feltri, patti chiari e amicizia lunga. Voglio centomila lire. Cordiali saluti». Mi misi in viaggio per Lugano. Lo avevano invitato più volte a tornare in Italia. Non ci pensava neanche. Il suo Paese lo aveva emarginato per decenni. E lui rispondeva con un sentimento ambivalente: amore e odio, contemporaneamente.

Nelle pagine di questo libro c’è un aneddoto molto divertente in proposito. Nel 1982, nel corso di una premiazione al Quirinale, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini chiese a Prezzolini perché non rientrasse in Italia. 

La risposta fu una battuta fulminante: «Stia tranquillo, presidente! In Italia ci vengo tutti i giovedì a comprare la verdura». Alle otto di mattina bussai alla sua porta. Prezzolini era già sveglio da alcune ore. Mi chiese di accomodarmi in salotto per qualche minuto.

Doveva infatti scrivere un articolo per Il Resto del Carlino. «Le prendo subito qualcosa chele farà compagnia» mi disse. Iniziò ad arrampicarsi sulla libreria. Spostò alcune pile di volumi. Mi aspettavo di vedermi consegnare qualche prima edizione rara e preziosa. Invece saltò fuori una bottiglia di grappa, nascosta con cura nel fondo dello scaffale. Me la consegnò con un sorriso complice. Poi si precipitò alla macchina da scrivere nella stanza attigua. Mi preparai a una lunga attesa. Con la coda dell’occhio riuscivo a vederlo all’opera. Tempestava i tasti senza requie. In dieci minuti preparò tre cartelle e passa. Rilesse brevemente. Appuntò qualche parola nei bordi delle pagine. Quindi si alzò. Aveva finito. 

Era pronto. Rispose alle mie domande con il suo stile secco e brusco ma accattivante.

Fu la sua ultima intervista. I libri e le carte del maestro sono ancora in Svizzera. L’Italia non trovò modo di riscattarli. 

O forse non volle. C’è poco da stupirsi. Nel clima di soffocante conformismo del dopoguerra, Prezzolini fu rimosso velocemente. Non era classificabile. Non aveva etichette. E non le avrebbe comunque accettate. Non era stato fascista. (O meglio, lo era stato fino a quando Mussolini salì al potere. In quel momento sentì puzza di regime e traslocò in America.) Non era però antifascista. Era senz’altro di destra ma non assimilabile ai nostalgici missini.

Si era guadagnato senza difficoltà l’ammirazione e il rispetto di chi, negli Usa, si era opposto ai totalitarismi europei. Cos’era dunque? La risposta è offerta da Gennaro Sangiuliano e dal libro che stringete fra le mani. Era un anarchico conservatore, come lui stesso amava definirsi. Può sembrare una contraddizione, ma non lo è. La società, se lo Stato non interviene, si regola da sé. 

Crea spontaneamente una gerarchia di valori che, per comodità, possiamo chiamare tradizione. Prezzolini confidava nella tradizione e diffidava dello Stato.

Una tradizione vitale e non imbalsamata.

Pronta all’autocritica e aperta al dibattito. Egli fu nemico feroce dei vizi tipicamente italiani. L’assistenzialismo e lo statalismo. Le corporazioni e gli ordini professionali. La retorica e il linguaggio che oggi definiamo politicamente corretto. Lui stesso, maestro di Longanesi, Montanelli e Fallaci, non volle saperne della tessera da giornalista e diventò pubblicista soltanto a ottant’anni. 

Fu invece a favore del mercato e della concorrenza fin dai tempi gloriosi della Voce. Prezzolini era un liberale, razza sconosciuta agli italiani, ben nota agli americani. Forse non è un caso che proprio negli Stati Uniti Prezzolini abbia trascorso tre decenni, una parte molto importante della sua vita. Importante sotto tutti i punti di vista, non solo per la sua biografia. Insegnava letteratura italiana alla Columbia University. I suoi studenti lo ricordano con piacere. Affabile e alla mano, lontanissimo dallo stereotipo del professore serio e accigliato.

È questo un Prezzolini meno conosciuto, e andrebbe studiato. Egli portò aldilà dell’Atlantico la cultura italiana. Ma fece anche il contrario e diffuse quella americana in Italia. In questo campo fu un pioniere assoluto. La portata di alcuni suoi lavori geniali è ancora da valutare. Fu il primo, ad esempio, a parlare di letteratura italoamericana. 

Pubblicò un’antologia sulle opere dei nostri connazionali immigrati nel Paese del Grande Sogno. È argomento oggi al centro dell’attenzione. Lui ci arrivò con qualche decennio d’anticipo. Del resto, Prezzolini aveva l’occhio allenato alle novità e sapeva come farle arrivare a una platea vasta. Non è il caso di aprire una parentesi sulla Voce, ormai considerata all’unanimità la migliore rivista culturale mai pubblicata in Italia e come tale presentata in tutte le scuole. Gennaro Sangiuliano, in questo libro documentato come un saggio accademico ma avvincente come un’inchiesta, ne racconta benissimo la nascita e la storia. Mi limito a notare una cosa. 

Contrariamente a quanto pensa qualche mio collega, i giornali sono fatti per essere venduti. Questo principio Prezzolini lo teneva a mente. La Voce raggiunse le cinquemila copie, un risultato straordinario per gli anni in cui fu pubblicata

Verdi, che Maestro nel dirigere le sue finanze. Nel 1888, Verdi, che in base ai conteggi del ministero delle Finanze del 1889 risultava il quinto maggior contribuente italiano, iniziò ad appuntarsi su un particolare taccuino ogni sorta di spesa, entrate e uscite. Mattia Rossi su Il Giornale il 15 Aprile 2023  

Il periodo dal 1887 al 1893 fu, per Giuseppe Verdi, l'arco entro il quale portò in scena le sue due ultime opere: Otello e Falstaff. Si trattò, dunque, di anni nei quali, congedandosi dai palcoscenici, l'anziano maestro non poté più contare sugli introiti derivanti da nuovi titoli. Così, nel 1888, Verdi, che in base ai conteggi del ministero delle Finanze del 1889 risultava il quinto maggior contribuente italiano, iniziò ad appuntarsi su un particolare taccuino ogni sorta di spesa, entrate e uscite: iniziò, dunque, a fare di conto e a controllare i suoi flussi di cassa. Questo particolare taccuino composto da un'ottantina di pagine è oggetto della ricerca coordinata da Giuseppe Martini che l'ha pubblicato in Il taccuino finanziario di Giuseppe Verdi (Egea, pagg. 354, euro 38) dopo che Corrado Mingardi, appassionato verdiano e storico direttore della Biblioteca del Monte di Pietà di Busseto, l'ha individuato e segnalato a Casa Verdi di Roberto Ruozi.

Verdi, il 1° gennaio 1888 inizia il taccuino con una «dichiarazione di tutto il mio avere oggi»: 1 milione e 452mila lire tra immobili, macchinari e animali e 1 milione e 400mila lire in cartelle, azioni e depositi. Per ogni mese, il compositore provvedeva a segnare i «denari in cassa» e le spese concludendo i conteggi: «Quindi in tutto il mese di ... furono spesi», «Quindi la spesa di tutto ... fu di». Ad ogni 1° gennaio, il conteggio di fondi, immobili, beni e cassa ripartiva. Il libro, dopo la riproduzione anastatica del taccuino con la trascrizione a fronte dal quale, come scrive il curatore, «emerge un profilo di gestione finanziaria privata che in Italia si poteva considerare eccezionale», gode di tre saggi integrativi. Nel primo, Ruozi analizza il patrimonio di Verdi, incrementato nel tempo anche grazie a prezzi sempre più alti richiesti per le sue opere; nel secondo, Filippo Annunziata si concentra sulle royalties incassate dalla Francia; infine, Maria Pia Ferraris estrapola dal taccuino la quotidianità tra il compositore e i Ricordi, suoi editori. Il taccuino finanziario testimonia, una volta di più, l'inesauribile fonte dell'arte e della biografia verdiana.

Senza cuoricini. La sfortuna di Kureishi e l’arte di usare magistralmente le parole. Guia Soncini su Linkiesta il 9 Gennaio 2023

I social hanno creato un grande equivoco: far credere a tutti di essere autori di livello. Da un letto d’ospedale, lo scrittore inglese ci ha ricordato perché lui è quello bravo

Una volta, per sapere come gli scrittori scrivevano in privato, alle fidanzate ai creditori ai debitori agli amici agli altri scrittori, dovevamo aspettare che morissero. Per leggere i loro diari o le loro corrispondenze, ed esserne sorpresi o confermati nelle nostre convinzioni.

Elias Canetti si chiedeva cosa ci dicesse di Pavese il fatto che la sua opera migliore fossero i diari; la mia risposta è che il mio libro preferito di Francis Scott Fitzgerald sono le lettere al suo editor, Maxwell Perkins, in cui parla solo di anticipi e copie vendute (compagno Scott, compagno di niente: ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu).

Poi sono arrivati i social, e il gigantesco equivoco che scrittori siano tutti. Anche quelli che non hanno mai creato un mondo, o un linguaggio, o venduto fantastiliardi di copie. Tutti quelli coi cuoricini, tutti quei sessanta milioni di italiani cui prima o poi un editore ha proposto di scrivere un libro perché avevano più di quattordici cuoricini sotto a un post.

(Il libro più venduto in Italia la settimana dopo Natale è un romanzo rosa che non avevo mai sentito nominare. Non avevo mai sentito nominare neanche la casa editrice, sono andata a guardarne il sito e c’è scritto che la società ha un capitale sociale di diecimila euro. Finalmente un modo intelligente d’investire il bonus cultura: diventare editori di bestseller, che come disse molti anni fa Enrico Vanzina non sono mai letti dai best reader).

Hanif Kureishi è uno scrittore. Gente che di solito non sa bene che fare dei social, covi di dilettanti con eccessi d’autostima, luoghi di lettura per non lettori. Uno scrittore, in condizioni normali, i social li usa solo come scusa per non scrivere, come distrazione, come fuga.

Il 26 dicembre Kureishi si è sentito male nella sua casa di Roma, non si sa bene cosa sia successo ma pare sia caduto e, sbattendo su uno spigolo, si sia procurato una lesione al midollo, e ora non si sa se tornerà a camminare. (Il 2022 è stato l’annus horribilis degli scrittori: dall’attentato che ha subìto, Salman Rushdie è uscito senza l’uso d’un occhio e d’una mano. Salman Rushdie – ora vi sembra un’informazione ridondante, ma tra un po’ vi servirà – raggiunse il grande successo commerciale con un libro intitolato “I figli della mezzanotte”).

La voce del suo incidente girava, e quindi venerdì scorso Kureishi ha dettato alcuni tweet in cui raccontava quel che ricordava di ciò che era successo. Poi – giacché è in ospedale, e in ospedale innanzitutto ci si annoia – si è ricordato che aveva aperto una newsletter che non aveva molto usato, ma è a questo che serve essere uno scrittore che ha la fortuna di abitare un’epoca in cui puoi scrivere anche se non riesci a muovere le braccia: a fare di qualche tweet una newsletter, d’una newsletter una storia, dei tuoi inciampi qualcosa che valga la pena leggere.

Sabato, la newsletter cominciava così: «Non ero un bambino felice ma non ero neanche un bambino infelice». Un incipit che l’invidiosa in me spera fosse già su qualche hard disk, l’inizio d’un libro che Kureishi aveva già cominciato a scrivere; ma la realista in me sospetta che a quelli bravi gli incipit pazzeschi gli vengano così, in un letto d’ospedale mentre maledicono la sfiga d’aver sbattuto contro uno spigolo e di dover stare lì a farsi cambiare il catetere.

Dopo quell’incipit ci sono venti righe di purissima bravura in cui Kureishi racconta del padre che voleva fare il corrispondente di guerra, della macchina per scrivere su cui lui piccino s’esercitava bendato copiando pagine di “Delitto e castigo”, «un lieto volume che s’addiceva a un giovanotto», e di come un giorno decise di dire di sé che era uno scrittore.

Molti anni fa intervistai il fotografo David LaChapelle, che mi raccontò di come aveva cominciato: andando da Andy Warhol e dicendogli «Sono un fotografo». Avevo obiettato che all’epoca non aveva ancora fatto niente, e avrebbe dovuto dirsi un aspirante fotografo, e lui pazientemente mi aveva spiegato che no, devi dire che lo sei, perché nel momento in cui lo dici lo sei. Che è un concetto pericoloso in una società con tendenza alla mitomania, ma forse è l’unica strada per gli ambiziosi, ed evidentemente Kureishi l’aveva intuìto già da piccolo.

«Scoprii che la parola mi stava a pennello, come una bella camicia o un bel taglio di capelli, o dei pantaloni ben tagliati. Mi copriva come un mantello, la parola, e non vedevo l’ora che anche gli altri la usassero nei miei confronti, anche se ancora non avevo scritto niente. Dopotutto, a scuola avevano già usato nei miei confronti molte parole, parole come marroncino o paki o faccia di merda, quindi trovai la mia parola, mi ci attenni, e non la lasciai più andare. È ancora la mia parola».

Poi si scusa, perché è arrivata l’infermiera a fargli un clistere, che è esattamente quel che ti succede quando sei immobilizzato in un letto d’ospedale. E, se sei uno scrittore, a quel punto racconti che, l’ultima volta che t’avevano fatto un clistere prima di questo inconveniente, una volta in un ospedale presumibilmente inglese qualche anno fa, quella volta nel mentre l’infermiera t’aveva chiesto quanto ci avessi messo a scrivere I figli della mezzanotte. E, poiché l’invidia e il danaro non sono mica prerogativa di Francis Scott Fitzgerald, sono temi e pulsioni nelle quali gli scrittori prosperano, tu a quel punto avevi risposto: «Se avessi scritto I figli della mezzanotte, non pensa che sarei in una clinica privata?». 

Ieri ha scritto di nuovo – al terzo giorno siamo già lettori viziati: che bello, è pomeriggio, ora Kureishi scrive per noi – ed è tornato al tema originario della newsletter: la scrittura, la creatività. Stava spiegando che carta, che inchiostro, cosa succede quando i personaggi prendono vita, quand’ecco che: «Scusate, mi stanno iniettando l’eparina». 

Ero lì che pensavo che è già una perfetta pièce teatrale, il monologo dell’allettato interrotto dalle infermiere, quando Kureishi mi ha sorpresa di nuovo, dicendo che il processo di dettare queste righe a Isabella – sua moglie – è molto frustrante, che si era innervosito, che lei gli aveva chiesto: «Tu l’avresti mai fatto per me?».  

Gli scrittori servono a dire l’indicibile, quello che tutti pensiamo ma non oseremmo, e quindi proprio il tizio che ci preoccupavamo di non ferire dicendo a voce alta il nostro pensiero l’ha detto per noi: pensa sposarsi un figo pazzesco e ritrovarsi con un invalido. E pensa essere tutt’e due le cose, e trovare le parole per dirlo quando noialtri mediocri non troveremmo neanche la forza di salutare quella che ci fa l’eparina. 

Dicono che Kureishi sia stato molto fortunato perché la moglie è rientrata poco dopo il suo capitombolo, e ha potuto chiamare subito un’ambulanza salvandogli probabilmente la vita.

Nella sfiga, una piccola fortuna. La nostra, di piccola fortuna, è vivere in un tempo in cui quelli la cui parola è «scrittori» possono srotolare quella parola anche nelle condizioni più impossibili. 

Cento anni fa nasceva Italo Calvino, lo scrittore cosmicomico. MICOL MACCARIO su Il Domani il 15 ottobre 2023

Oggi è il centenario dalla nascita di uno degli scrittori più apprezzati del Novecento, autore di romanzi come Marcovaldo e Se una notte d’inverno un viaggiatore. Il New Yorker l’ha definito «lo scrittore più affascinante che abbia posato la penna sulla carta nel XX secolo»

Italo Calvino è stato «il maestro della fantasia allegorica». Così l’ha ricordato il giornalista Herbert Mitgang sulle colonne del New York Times in occasione della sua morte, il 19 settembre 1985. Era nato 62 anni prima, il 15 ottobre 1923, a Santiago de Las Vegas de L’Habana. Esattamente cento anni fa da oggi. 

Cuba è stato solo il primo panorama della vita di Calvino, da lì si è spostato nei primi anni di vita insieme ai genitori per trasferirsi a Sanremo, dove ha trascorso gli anni dell’infanzia. «Vivevo in un mondo agiato, sereno, avevo un’immagine del mondo variegata e ricca di sfumature contrastanti, ma non la coscienza di conflitti accaniti», aveva detto. Quella consapevolezza però è arrivata presto con lo scoppio della guerra, quando ha deciso di combattere a fianco della Resistenza nelle Alpi Marittime.

La sua vita lo porterà poi in una piccola camera in affitto in via XX settembre a Torino, la città in cui ha studiato (ma presto abbandonato) alla facoltà di agraria e poi (con più successo) a quella di lettere. Proprio alla facoltà di lettere conoscerà quella che sarà una presenza costante nella sua vita, Cesare Pavese, il primo lettore delle sue opere.

Il New York Times racconta che appena Calvino finiva un racconto correva a farlo leggere a Pavese e Natalia Ginzburg, che in quegli anni stavano cercando di organizzare la nuova casa editrice di Giulio Einaudi. Ma Ginzburg e Pavese erano così stanchi di dover interrompere continuamente il lavoro che Pavese suggerì a Calvino di provare a scrivere un romanzo, nella speranza di impegnarlo più a lungo. Il suo primo romanzo fu poi pubblicato nel 1947 proprio da Einaudi, anche se nel corso della vita scriverà anche molti racconti, tra i più noti ci sono Le Cosmicomiche e Fiabe italiane.

IL DOPPIO, LA MODERNITÀ E LA METALETTERATURA

In Italia, è molto conosciuto per la storia di Cosimo Piovasco di Rondò, un giovane nobile che dopo un litigio familiare decide di salire su un albero e non scendere mai più. Da quel momento gli alberi diventano la sua nuova quotidianità, un luogo da cui proverà tutte le emozioni umane più semplici: si innamorerà di Violante, sarà geloso, farà amicizia, si sentirà triste. E infine sempre da quei rami si aggrapperà a una mongolfiera e sparirà per sempre. 

Questo libro, Il barone rampante, fa parte della trilogia I nostri antenati scritta tra il 1952 e il 1959, insieme al Visconte dimezzato e Il cavaliere inesistente. Sono tre romanzi in cui ha un ruolo centrale l’elemento del doppio, della divisione, dell’opposto. Ma presto l’autore si allontanerà da questi sdoppiamenti per arrivare, con Il castello dei destini incrociati, Le città invisibili, La speculazione edilizia e La nuvola di smog, allo spaesamento e ai problemi della modernità.

Le sue opere sono anche spesso fonte di ragionamento sulla letteratura stessa, come in Se una notte d’inverno un viaggiatore, che lo stesso Calvino aveva definito «d’infiniti universi contemporanei in cui tutte le possibilità vengono realizzate in tutte le combinazioni possibili».

L’IMPEGNO POLITICO

Due momenti fondamentali nella sua formazione personale e politica sono stati l’esperienza della Resistenza e l’adesione al Partito comunista italiano. Dal confronto con la guerra all’età di 24 anni è nato Il sentiero dei nidi di ragno, il racconto dell’esperienza partigiana visto con gli occhi di un bambino, Pin. «A me, questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo e solenne per le mie forze. E allora, proprio per non lasciarmi mettere in soggezione, decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi d’un bambino, in un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse in margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso tempo ne rendesse il colore, l’aspro sapore, il ritmo», aveva scritto.

Nel 1945 aderì al Partito comunista per poi abbandonarlo nel 1957. «Sembrava avere il programma più realistico per opporsi alla rinascita del fascismo e per riabilitare l’Italia», aveva detto in riferimento al Pci prima di aggiungere però di essere diventato «apolitico».

COSA CI HA LASCIATO

Italo Calvino è una presenza a cui prima o poi quasi tutti gli studenti della scuola italiana si avvicinano. Da Marcovaldo, classica lettura proposta dalle maestre della scuola primaria di primo grado, al Barone rampante, in quella di secondo grado, fino a Lezioni americane qualche anno più in là.

Leggere tutti gli scritti di Calvino non è un’impresa facile perché in 61 anni di vita ha scritto oltre 20 libri, molte recensioni, più di 300 articoli per l’Unità, 140 per Repubblica e 70 per il Corriere.

Non c’è dubbio che sia stato uno dei protagonisti del secondo dopoguerra, voce dell’esperienza del conflitto mondiale, ma anche autore di storie apparentemente leggere, nonché appassionato di teatro, cinema, arte e musica.

Calvino «è stato, parola per parola, lo scrittore più affascinante che abbia posato la penna sulla carta nel XX secolo». Così lo ha definito la critica letteraria Merve Emre sul New Yorker in un articolo di febbraio.

LA STORIA D’AMORE TRA ITALO CALVINO ED ELSA DE’ GIORGI. Su libreriamo.it Articolo del 25 settembre 2018

Italo Calvino è passato alla storia della letteratura come un letterato schivo, riservato, a tratti persino freddo. Eppure, a parte sua moglie, c’è stato qualcun altro che ha tenuto a precisare che oltre allo scrittore vi fosse un uomo appassionato e passionale: Elsa De Giorgi. 

I due furono amanti, negli anni tra il ’55 e il ’58 e, a testimoniare il loro amore, vi è un carteggio di lettere (ben 407) conservate interamente nel Fondo Manoscritti di Pavia. Ma non solo. Nel 1990, infatti, proprio la De Giorgi decise di pubblicarne alcune sulla rivista “Epoca” e alcune di essere sono state riprese anche qualche anno fa dal “Corriere della Sera” con un certo disappunto da parte della moglie dello scrittore.

COME SI CONOBBERO – Ma facciamo qualche passo indietro. Elsa De’ Giorgi, nata Elsa Giorgi Alberti nacque nel 1914 e fu una delle attrici più amate del cinema dei “telefoni bianchi”; proveniva da una nobile famiglia e appena 18enne iniziò la sua carriera, agevolata dalla sua bellezza. 

Nel 1948 sposò il Conte Sandrino Contino Bonacossi, partigiano e collezionista d’arte; nella loro Villa a Roma ricevevano personalità del calibro di Alberto Moravia, Carlo Levi, Renato Guttuso ed Elsa era piuttosto stimata in quanto donna e in quanto letterata. Nel 1955 conobbe Italo Calvino; all’epoca lo scrittore – dieci anni più giovane rispetto a lei – e si occupava dell’ufficio stampa alla casa editrice Einaudi.

IL LORO AMORE – I due iniziarono a collaborare e il lavoro sfociò ben presto in un amore difficile e furioso, fatto di incontri proibiti, corrispondenze, viaggi in treno tra Roma e Torino.

La relazione finì sui giornali di cronaca e finì nel 1958. A testimonianza di questo rapporto c’è appunto il corpus epistolare che la filologa Maria Corti, una delle poche ad averlo letto nella sua interezza, ha dichiarato essere “il più bello del Novecento italiano”. La stessa Elsa De’ Giorgi si battè per far capire quanto questa relazione incise non solo sulla formazione di Calvino in quanto uomo ma anche e soprattutto in quanto scrittore.

Su “Repubblica”, l’ottimo Antonio Gnoli intervista Guido Davico Bonino, letterato e grande amico di Calvino, che racconta un episodio bollente: “Ero in casa editrice. A un certo punto irruppe una biondona con lo chignon. Mi accorsi che in mano aveva una pistola vera. Dov' è Italo, dov' è? Gridò nel corridoio. Ma lei chi è, che vuole? “Sono Elsa De Giorgi, quel mascalzone dov'è?”

“Un usciere senza un braccio, perso durante la resistenza, si avvicinò e le disse: ma signora perché urla, il dottor Calvino non è in sede. " Non ci credo, ditemi dov' è". Giulio Einaudi comparve sulla soglia del suo studio. Capì perfettamente cosa stava accadendo e impaurito si richiuse dentro. Italo dov' è? continuava a gridare la signora”. 

Effettivamente non c'era. Giunse anche Giulio Bollati che riuscì a calmarla. Alla fine se ne andò. Era ancora una bella donna appesantita nel corpo. Furiosa per il tradimento del suo amante. Quando rividi Italo mi disse che da una settimana dormiva fuori casa; certe notti da Fruttero, altre da Lucentini. Scappava dall' ira della De Giorgi! Un episodio del genere fu a suo modo unico. In casa editrice vigeva l' etica del silenzio. Non si parlava mai di questioni inerenti il sesso. Il sesto comandamento era formalmente rispettato”

Paolo Di Stefano per il “Corriere della Sera” - Estratti martedì 31 ottobre 2023. 

(...)

E per finire Mondadori pubblica le Lettere a Chichita (1962-1963), a cura della figlia Giovanna. La quale ci ricorda i tre appuntamenti chiave di suo padre con il destino: la Resistenza, la casa editrice Einaudi e Chichita, ovvero Esther Judith Singer, traduttrice argentina, incontrata a Parigi nell’aprile 1962. Sono lettere molto belle che precedono il matrimonio. 

Calvino è un eccezionale epistolografo. Il 7 giugno ‘63 scrive da Torino un elogio dell’Emilia: «dà l’impressione che Stati Uniti e Unione Sovietica siano già diventati una cosa sola, le cooperative agricole comuniste inaugurano supermarkets ultramoderni (...), le fabbriche e le iniziative di questo popolo laborioso, euforico, allegro si moltiplicano, si moltiplica il consumo e la gioia di vivere, e i voti comunisti aumentano sempre».

Più antipasoliniano di così non si può. A «Chichita angelo agnolotto amor mio» parla di politica (teme Paolo VI, «il papa del neocapitalismo»), di letteratura (vorrebbe scrivere come Fenoglio), di vita («qui piove a dirotto»), di lavoro e d’amore: «il calore estivo e la lontananza prolungata da te mi tengono in uno stato di desiderio phisicoespiritual tan agudo que no lo puedo exprimir si non in forma metaphoricotrascendental de intensidad de pensamiento oppure in forma di ululato: uuuuuuuuuuuuu!...». 

A chi chiedeva perché tenere nascoste le meravigliose lettere a Elsa De Giorgi, amata negli anni precedenti, la famiglia e gli amici hanno sempre risposto indignati dall’idea del buco della serratura: si legga l’opera e basta. Dunque? La futura moglie è opera e l’ex fidanzata è pettegolezzo? Damnatio memoriae per la diva dei telefoni bianchi?

Italo Calvino per sempre. Dopo cent’anni è ancora in classifica. BEPPE COTTAFAVI, editor, su Il Domani il 15 ottobre 2023

Lo scrittore, nato il 15 ottobre 1923, continua a essere molto cercato in libreria e su Wikipedia. I testi inediti e le opere di critica sanciscono un amore letterario che supererà la ricorrenza

Oggi è il 15 ottobre ed è il centenario della nascita di Italo Calvino. Parliamo allora di un’altra classifica. Perché in occasione del centesimo anniversario Wikipedia ha analizzato le visualizzazioni delle pagine dedicate all’autore italiano e alle sue opere.

I romanzi sul podio sono ll barone rampante con 90.388 visualizzazioni, Il sentiero dei nidi di ragno con 88.590 e Il visconte dimezzato con 61.587 che è pure nei primi cento tra i bestseller della classifica di Amazon.

La classifica prosegue con il quarto posto de Le città invisibili (60.680) e il quinto posto di Se una notte d’inverno un viaggiatore (44.325). Con Marcovaldo e le Lezioni americane sono tutti titoli che stazionano stabilmente in classifica nelle prime duecento posizioni dei rilevamenti di Gfk e di Nielsen. 

Italo Calvino è stato uno dei narratori che più ha plasmato la letteratura italiana contemporanea sia per le opere letterarie, sia per l’impegno politico e civile. L’autore cardine del secondo Novecento assieme, e per opposizione, a Pier Paolo Pasolini.

NEI GIORNI DELLA SCUOLA

Se si analizza l’andamento delle visualizzazioni delle principali voci di Wikipedia riportate in queste classifiche, è interessante notare come il maggior numero di click si sia registrato in concomitanza con l’inizio della scuola. Non a caso, le pagine di opere quali Il barone rampante e Il sentiero dei nidi di ragno hanno avuto il picco di visualizzazioni nella settimana dal 11 al 18 settembre, picco anche degli acquisti in libreria e sulle piattaforme.

In questo anno del centenario, la pagina dedicata alla biografia di Italo Calvino ha ricevuto 307.256 visualizzazioni ed è disponibile in oltre 60 lingue su Wikipedia. Da quando la versione italiana della pagina è stata creata nel 2006, più di 1.110 volontari hanno apportato modifiche per aggiungere e migliorare le informazioni.

IL CORAGGIO DI UN EDITORE

Le opere di Calvino sono tutte in catalogo da Mondadori. Perché, lo ha raccontato Gian Arturo Ferrari nel suo Storia confidenziale della editoria italiana, da Marsilio, Andrew Wylie, il suo leggendario agente, anche di Borges e di Roth, era stato ben impressionato da come Mondadori avesse avuto il coraggio di pubblicare I versetti satanici di un altro suo rappresentato, quel Salman Rusdhie, colpito dalla fatwa, che sempre da Mondadori uscirà il 16 aprile con il suo nuovo libro Coltello - Meditazioni dopo un tentato assassinio, un racconto di cosa significa sopravvivere a un accoltellamento che gli ha causato la perdita della vista dall’occhio destro e l’uso parziale della mano sinistra.

Per Calvino, oltre alle ripubblicazioni, ci sono testi inediti, come le Lettere a Chichita. Quelle scritte da Calvino tra il 1962 e 1963 a Esther Judith Singer, detta Chichita, che nel 1964 diventerà sua moglie. 

Ritrovate dalla figlia Giovanna, vengono oggi pubblicate per la prima volta assieme a un testo inedito coevo, Sulla natura degli angeli, e a una delle risposte di Chichita. Una testimonianza di Calvino giovane, privato, inatteso e proprio per questo prezioso.

C’è poi la nuova edizione di Album Calvino: la biografia per immagini curata da Luca Baranelli ed Ernesto Ferrero con molte nuove fotografie. 

POCHE PAROLE

Entra nel catalogo Mondadori anche I libri degli altri, un libro di culto (pubblicato nel 1991) che, attraverso più di trecento lettere, racconta quarant’anni di lavoro editoriale di Calvino nella casa editrice Einaudi.  

Il libro dei risvolti è un omaggio originale all’autore: contiene le note introduttive, le quarte di copertina, le schede bibliografiche e tante altre scritture editoriali prodotte da Calvino durante il suo lavoro redazionale alla Einaudi. Il minimo di parole per ottenere il massimo di significato che racchiude l’essenza del lavoro editoriale e ci mostra uno scrittore geniale. 

Arricchito da un testo inedito, torna sugli scaffali anche Sono nato in America, la ricchissima raccolta di interviste. Mentre l’amico e collega Ernesto Ferrero pubblica da Einaudi, con l’empatia del suo sguardo, Italo. 

Chi era veramente Calvino? «Non troverete nulla», rispondeva a chi cercava di scavare nella sua storia intima e biografica, fedele all’immagine dello scrittore appartato, del Barone rampante che vive sugli alberi: l’inafferrabile che voleva essere soltanto una mano che scrive. 

LA CLASSIFICA DELLA SETTIMANA

La classifica della settimana è caratterizzata dall’instabilità. Nessun libro riesce a rimanere primo per più di una settimana.

Questa volta è il turno del romance e del rosa con due titoli in prima e terza posizione: Better. Ossessione, la storia del grande amore di Thomas e Vanessa raccontata per Magazzini Salani da Carrie Leighton, e Anime elettriche. Love love me, vol 2 di Stefania S. per Sperling&Kupfer. Profuma di rosa anche lo sfogo romanzesco di Tiziano Ferro La felicità al principio, che insegue in quarta posizione, per Mondadori.

Il ritratto di Italo Calvino nel giorno del suo centenario. ALBERTO RIVA su Il Domani il 14 ottobre 2023

Nel libro dell’editore Ernesto Ferrero di Einaudi troviamo un racconto da dietro le quinte che ci spiega chi era lo scrittore attraverso il punto di vista di chi lo aveva conosciuto

Un giorno qualcuno dovrà indagare davvero a fondo – e senza paura – il più grande mistero della letteratura italiana del nostro tempo: vale a dire Italo Calvino. Lo scrittore nato esattamente cento anni fa (alle 9.30 di mattina del 15 ottobre 1923, a Cuba) è, in tutta la sua abbagliante presenza, come una grande luna ancora parzialmente coperta da nuvole.

Attenzione: indagare non già Calvino, oggetto di centinaia di studi critici in tutte le lingue, bensì il suo mistero. Ed è curioso che oggi, di fronte ad esso si ponga – come dinnanzi a una fatica estrema, e anche un po’ struggente – uno degli uomini che più a fondo lo hanno conosciuto, frequentato, dopo averlo letto e amato, e in fine riletto.

Quest’uomo è il torinese Ernesto Ferrero, scrittore ed editore, che conobbe Calvino a venticinque anni, nel 1963, quando cominciò a lavorare presso l’Einaudi dove oltre che una colonna della casa editrice, era già un autore di grande successo (Il barone rampante) in procinto di lasciare Torino in direzione Parigi, dove vivrà a lungo, per poi rientrare a Roma gli ultimi anni della vita, conclusasi il 19 settembre 1985 a Siena.

Ferrero subito avverte che Calvino non era nulla di quanto di lui è stato mitizzato, speculato, infarcito. D’altra parte, lo scrittore ci mise del suo per rimanere un enigma. La fortezza-Calvino non doveva essere profanata per volere di Calvino stesso. La sua ambizione era scomparire, come aveva indicato Flaubert nella sua regola destinata ai romanzieri: quello che si deve vedere è l’opera, non l’autore.

Calvino ci è riuscito? Questa è la grande domanda: è davvero scomparso? O non ci ha piuttosto strenuamente tentato senza riuscirci? Mi pare sia questo l’interrogativo che corre sotto la superficie di Italo, che ora esce da Einaudi, nel quale Ferrero si pone e pone al lettore le domande: «Che cosa sta registrato nella “scatola nera” che non voleva farci ispezionare? Che cosa si estende sotto la punta dell’iceberg che ha voluto essere? In definitiva, chi era veramente Italo Calvino?».

IL LIBRO

Quello di Ferrero è un saggio biografico? Un memoir allo specchio? Una rievocazione sentimentale alla ricerca del tempo perduto? Certamente è tutte queste cose, ma è anche un ritratto vivido e per certi versi definitivo, perché si edifica proprio sul presupposto dell’enigma.

Chi era veramente Calvino? È l’avverbio a fare la differenza. E molto del mistero va ricercato nell’infanzia, nella geografia ligure, nel padre agronomo e «nomade» da cui, nonostante fossero due poli in opposizione, Calvino ha preso moltissimo: innanzitutto proprio il nomadismo.

La storia di Calvino è la storia, ci racconta Ferrero, del figlio di un padre e una madre singolarissimi. Calvino divorava “Il Corriere dei Piccoli”, e il padre era, per lui, come uno di quei personaggi usciti dalla rivista: «il dottor Piramidone dalle invenzioni geniali e strampalate, lo zio Diomede che ha la mania della fotografia».

Mario Calvino era un ciclone, un uomo soverchiante e indomabile, uno scienziato-contadino, un avventuriero erudito alla Indiana Jones, con il cappellaccio e il cinturone. Era uno che si prendeva la vita nelle mani come la terra dei suoi appezzamenti sopra San Remo, dai quali Italo a un certo punto è scappato, perché era tutto tremendamente faticoso. Un tradimento.

Amorevole, appassionato, inevitabile, ma vissuto dallo scrittore così, come un voltare le spalle alla terra e alla sua geografia interiore. Un dolore che forse in Calvino non si è mai spento. Scrive Ferrero: «Padre e figlio sono più vicini di quanto pensino: cercano entrambi di dare un ordine e un senso generale al mondo, sia pure con strumenti diversi. Tutti e due ambiscono a una sorta di padronanza totale dell’esistente, non si accontentano di acquisizioni parziali. Li rode un’ansia d’infinito, di illimitato…». 

Ma, per la sua generazione, c’è la grande prova, la grande linea di demarcazione: la guerra. «La guerra è il sasso che, sollevato, svela la vita brulicante del sottoterra, insieme ripugnante e dotata di un suo fascino oscuro, che diventa rimorso, sensazione di inadeguatezza e impotenza» scrive Ferrero. La scrittura come molla per superare quel rimorso nasce qui, nella Resistenza. Una scoperta che sgomenta: l’orrore si può raccontare e sconfiggerlo scrivendo, perché in altro modo non si può. E mi pare illuminante la riflessione di Ferrero sul fatto che la riservatezza di Calvino, che sconfina in reticenza, abbia inizio qui, nel non-raccontare mai fino in fondo quei mesi passati nella brigata Garibaldi con l’alias di Santiago, insieme al fratello Floriano. E qui nasce tutto il suo stile ricostruttivo, allusivo, sviante.

«La sua è la guerra di un semiologo che cattura segni e cerca di sistemarli in un discorso organico; ma anche di un antropologo che si ritrova sottomano uno spaccato sociale brulicante di diversità; di un disegnatore e caricaturista che sa cogliere i dettagli che rivelano un uomo o un paesaggio».

I successivi quarant’anni di attività saranno intensissimi di libri, successi, viaggi, lavoro indefesso sui libri degli altri, ma non si può non rilevare che i "racconti di guerra" così come Il sentiero dei nidi di ragno siano alcuni dei pochi momenti in cui è possibile udire più chiara che altrove la voce di Calvino.

Nel suo libro Ernesto Ferrero ci racconta il viaggio lungo e tortuoso con cui lo scrittore ha cercato di allontanarsi dalla responsabilità di raccontare il peso del visibile, mi viene da dire, il peso del sanguinante – ecco allora il tragicomico visconte dimezzato, ecco lo svanito Marcovaldo, la non entità cifrata e universale di Qfwfq (personaggio mai abbandonato fino alla fine), ecco l’occhio raggelato e distante del signor Palomar, persino il Marco Polo che descrive città invisibili (possibili?) a un ascoltatore tutto sommato distratto e inconcludente, ecco dunque le fiabe italiane, patrimonio di fantasia popolare, archeologia umana, riportato faticosamente alla luce. E dunque: chi era veramente Italo Calvino?

Se c’è una risposta, nascosta nelle bellissime pagine di Ferrero, è che la risposta non c’è, e se c’è è molto più semplice di quanto abbiamo sempre creduto. «Italo aveva conservato fino alla fine una forma di candore, d’innocenza. Un bambino che aveva voluto restare sé stesso, sino in fondo. Che aveva rifornito di storie, fiabe a apologhi quegli altri i bambini, i lettori».

Ma allora alla fine del racconto di Ferrero, capiamo che forse siamo sempre caduti in un equivoco, pensando, illudendoci che scrivere per lo scrittore significhi costruire qualcosa, o addirittura salvarsi. Annota, con una smorfia di timida ironia che potrebbe essere calviniana: «Ma la scrittura non garantisce niente, tanto meno promesse di felicità». Eppure a volte la realizza, come nient'altro riesce a fare. ALBERTO RIVA

Alberi, ecologismo, nidi di ragno. Com'era "naturalistico" (e scientifico) l'umanista Italo! Per l’anniversario, una mostra alla "Kasadei Libri" a Milano ripercorre vita e carriera di uno scrittore che deve molto ai genitori.. Luigi Mascheroni l’8 gennaio 2023 su Il Giornale.

Italo Calvino è il letterato più puro del nostro '900. Un classico moderno, un Umanista. Ma che dialogò in maniera disincantata con la Scienza in un momento in cui, fra neorealismo e postmoderno, i ponti fra le due Culture erano pochi, e pochissimo frequentati. Ed ecco la letteratura scientifica (o la scienza raccontata dalla letteratura) di Ti con zero, la cosmologia fantastica delle Cosmicomiche, la contemplazione delle stelle e del sistema solare del Signor Palomar... E poi. Calvino ha sempre vissuto con una sorta di fastidio, quasi con un complesso di inferiorità, il suo essere scrittore in una famiglia di scienziati. Nel '56, in un'intervista, elencando il padre agronomo, la madre botanica, due zii chimici, un fratello geologo, confessa: «Tra i miei familiari solo gli studi scientifici erano in onore. Io sono la pecora nera, l'unico letterato di famiglia». Domanda: è possibile che tutta la sua narrativa naturalistica - il barone che vive sugli alberi, il j'accuse contro la speculazione edilizia degli anni '50, il racconto ecologista prima ancora che l'ecologia fosse di moda La nuvola di smog, del '58 - sia un modo per ricomporre la frattura con la sua famiglia di scienziati? La risposta, come sempre, è nei libri.

Romanziere, narratore, saggista, all'occorrenza anche traduttore, soprattutto editor («Il massimo del tempo della mia vita l'ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei»), uomo di pensiero non d'azione, Italo Calvino (1923-85) trascorse una vita fra i libri, per i libri, nei libri. Tutta la sua carriera, la sua biografia e la sua poetica - dal realismo della Giornata d'uno scrutatore al paradigma combinatorio di Se una notte d'inverno un viaggiatore, dalla fiaba storica della «Trilogia degli Antenati» all'enciclopedismo di Collezione di sabbia - si possono capire, persino riscrivere dove è il caso, mettendo «in ordine» i suoi libri. Ed ecco l'omaggio - il primo in ordine di tempo, e sicuramente fra i più belli - che l'Italia dedica nel centenario della nascita allo Scrittore per antonomasia del nostro '900, il più famoso, conosciuto e tradotto nel mondo: è la mostra Calvino in Kasa che apre il 18 gennaio alla Kasa dei Libri a Milano (fino al 6 aprile) curata da Andrea Kerbaker.

Volete rileggere in un'ora o poco più l'avventura intellettuale di Calvino? Eccola. Raccontata in una Kasa, quattro sale, 350 pezzi fra libri, riviste, giornali, volumi illustrati, dischi, locandine...

Si parte, ed è l'idea più forte e originale della mostra, dal rapporto fra Italo e i genitori: la madre, Eva Mameli Calvino, una delle prime laureate sarde in botanica, e soprattutto il padre, Mario Calvino, del quale lo scrittore - per altro non incline all'autobiografia: spesso nelle interviste inventava e sviava - ha sempre parlato poco, e più per sottolineare le differenze che le eventuali derivazioni, a volte sottolineandone il carattere autoritario. Eppure, a loro Italo deve molto. Ecco qui - ed è una delle tante rarità esposte - cento fascicoli del mensile di floricoltura Il giardino fiorito che il padre (direttore) e la madre (segretaria di redazione) fondarono e pubblicarono a Sanremo una volta tornati da Cuba, dal 1931 al 1947. «In quegli anni Calvino è un adolescente: vuol dire che convive in casa con una piccola redazione, con tutti i temi editoriali del caso: certamente più di una coincidenza, per chi poi ha lavorato così tanto in editoria», è l'idea che si è fatto Kerbaker. E poi, accanto ai libri e agli opuscoli accademici dei Calvino (e di Libereso Guglielmi, il celebre giardiniere della villa di famiglia, il figlio che Mario e Eva avrebbero voluto avere...) ecco le opere giovanili di Calvino, autore estremamente consapevole del rapporto con la natura, fin dal titolo del suo esordio, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), e dal racconto La formica argentina, uscito la prima volta nel '52 su Botteghe Oscure, descrizione di assoluta esattezza dell'invasione delle formiche argentine nelle coltivazioni della riviera di Ponente all'epoca della sua infanzia... Titolo della prima sezione della mostra: «Alle radici di Calvino»; e l'allestimento è un accenno di bosco, dove sono collocati i vari pezzi. Esempi: i fascicoli del Corriere dei piccoli su cui apparvero alcuni racconti di Marcovaldo e le riviste con le edizioni originali della Speculazione edilizia e della Giornata d'uno scrutatore. Poi, e siamo alla seconda sezione, «Le infinite possibilità del narrare», le tante varianti letterarie sui temi scientifici, a partire agli anni '60, con alcuni dei testi di Ti con zero e Palomar usciti originariamente sul Corriere della Sera e tutte le prime edizioni dei libri.

Dopo, due sezioni corpose: una, «Ho vissuto in mezzo a boschi e palazzi incantati», dedicata al mondo della fiaba, che Calvino ha frequentato per tutta la carriera, dalla celebre antologia delle Fiabe italiane del '55 ai numerosi interventi critici (era diventato così esperto di fiabe che gli chiedevano prefazioni da tutte le regioni d'Italia...); l'altra è la sezione «I libri degli altri» - forse la più ricca - concentrata sul suo lavoro di editor. «Calvino da piccolo ha visto fare una rivista in casa con forbici e colla dai suoi genitori: quando dirigerà il Notiziario Einaudi non può non ricordarsene», fa notare Kerbaker. E qui sono raccolti centinaia di contributi, spesso anonimi, del letterato-editore Calvino: schede editoriali, risvolti, quarte di copertina. Tra le cose più belle: un teatrino con le undici introduzioni alle opere di Shakespeare che (non) firmò per la Piccola Biblioteca Scientifico-Letteraria Einaudi negli anni '50; tutti i «Centopagine», la collana che Calvino fonda nel 1971 e prosegue fino alla sua morte, nell'85: 77 titoli che messi in fila (molti hanno la grafica di Munari...) mostrano perfettamente il rapporto dell'autore con i classici; e un inedito: la prefazione a un poemetto sulla Resistenza del 1949, titolo Carte fasciate di rosso, scritto da un certo Raffaele Pin (che è il nome del protagonista del Sentiero dei nidi di ragno) stampato a Biella. «Salvo errore, lo smilzo libretto è sfuggito a tutte le ricognizioni bibliografiche su Calvino», nota con orgoglio Kerbaker.

E infine, perché i libri non sono solo importanti, ma spesso anche semplicemente belli, la sezione degli «Illustrati»: qui c'è il meraviglioso volume sui Tarocchi pubblicato da Franco Maria Ricci nel '69 - in tiratura limitata, con le immagini incollate a mano - dove compare la prima versione del Castello dei destini incrociati; il racconto Andato al comando illustrato meravigliosamente da Dino Battaglia nel '74 per alterlinus; e i due numeri dell'edizione italiana di Playboy per cui Calvino scrisse negli anni '70.

E poi cinema, televisione e musica. L'ultima sezione, «Sul palco e sul set», riguarda i rapporti di Calvino con il mondo dello spettacolo. Frase da citare è quella che Calvino regala in un'intervista del '63 ad Alberto Arbasino: «Voialtri trovate il tempo per fare tutto: la pubblicistica, il cinema, il teatro... mah. Tutte belle cose. Divertenti. Forse anche facili. Ma a me sembra che se le facessi io sarei un dilettante». E infatti, Calvino in questo campo limitò le sue incursioni a pochi episodi. Ma quel poco, qui c'è. Ecco i libretti e le locandine che lasciano traccia della sua collaborazione con Luciano Berio, con due azioni musicali importanti degli anni '80, La vera storia e Un re in ascolto; i dischi che testimoniano le canzoni di taglio popolare che scrive negli anni '50 (Oltre il ponte e Dove vola l'avvoltoio); i video con la versione animata del Cavaliere inesistente di Pino Zac (1970) e quella televisiva del Marcovaldo (curiosità: uno dei film di maggiore successo del dopoguerra, I soliti ignoti, è ispirato, senza dirlo, a uno dei primi racconti di Calvino: Furto in pasticceria...), più alcuni documentari sulla guerra partigiana, come Giorni di furore (1965), a cui lo scrittore prestò la voce...

Per festeggiare l'apertura del centenario di Italo Calvino, come si intuisce, ce n'è abbastanza.

Estratto dell'articolo di Enrico Galletti per il “Corriere della Sera” il 23 gennaio 2023.

 […] Jago sta per Jacopo Cardillo. Lavora l'argilla, mentre parla. È nato a Frosinone nel 1987, 35 anni.  A 24 viene selezionato da Vittorio Sgarbi per partecipare alla Biennale di Venezia con un busto in marmo di papa Benedetto XVI che le vale la Medaglia Pontificia.

 Che cos' è l'arte?

«Una parola abusata, oggi chiamiamo tutto arte. Ma è giusto così, che ognuno si senta libero di riconoscere l'arte nelle cose».

[…]

 Lo scorso agosto davanti a Castel Sant' Angelo, a Roma, una sua opera (rimasta per un mese a bordo della Ocean Viking in mezzo al Mediterraneo) è stata distrutta dai vandali. «Sono pronto al flagello», il titolo. Era un'opera contro il razzismo, raffigurava un giovane profugo a terra.

«Se lasci un'opera in piazza qualcuno la accarezza, qualcuno la tocca, qualcuno la danneggia. Un esperimento sociale. Intendiamoci: so quanto costa un anno di lavoro distrutto, ma se vuoi indagare nell'animo umano lo devi mettere alla prova. Quel comportamento ti insegna cosa non fare. La politica qui è maestra, direbbe: "Grazie a quel disgraziato che ha fatto questa cosa io oggi posso dire questo"».

[…]alla fine ha aperto un laboratorio nel rione Sanità.

«Tornavo dagli Stati Uniti, mi serviva un appoggio e a Napoli ho incontrato padre Antonio Loffredo, un rivoluzionario. Ci siamo riconosciuti guardandoci negli occhi: io scultore di marmo, lui scultore umano, al fianco degli ultimi. Mi ha dato uno spazio abbandonato e da riqualificare.

Una basilica, la chiesa di Sant' Aspreno ai Crociferi, chiusa da 40 anni. Oggi quello è il mio laboratorio. E non vorrei che restasse un caso isolato».

 In che senso?

«Questa modalità deve propagarsi: i luoghi abbandonati in Italia vanno messi a disposizione di chi ha idee da condividere con le comunità. […]».

 È vero che ha scelto di non essere rappresentato dalle gallerie d'arte?

«Sono sempre stato la cosa meno interessante per una galleria d'arte. Eppure venivo da una forma di educazione che ancora oggi dice: "Quando esci dal sistema scolastico, cerca una galleria". A me interessa poco essere rappresentato. Non ci deve essere qualcuno che parla per me, che vende per me. Io preferisco avere un rapporto diretto con chi guarda le mie opere».

Dalla stampa è stato spesso definito il nuovo Michelangelo, cosa risponde?

«Ha idea degli insulti che mi arrivano per questa cosa? Le persone pensano che sia una mia forma di megalomania. Io non ho nessun desiderio di essere il nuovo Michelangelo, che senso ha essere la brutta copia di qualcun altro, visto che la bella copia è impossibile diventarlo?».

 […]

Quando il ceo di Apple, Tim Cook, è venuto a Napoli ha espresso il desiderio di incontrarla. È venuto nel suo studio. Cosa vi siete detti?

«Credo abbia sbagliato strada ( ride ). Mi ha colpito una caratteristica: formulava domande nutrendo davvero il desiderio di capire cosa accadesse dall'altra parte. Abbiamo trascorso due ore a chiacchierare. Poi si è messo a scolpire con me».

[…]

Se l'Italia oggi fosse una scultura?

«Toccherebbe continuare a scolpirla. È una scultura in divenire. Ma se fosse metafora dell'Italia del futuro, spererei possa trovare spazio di crescita per i giovani. Anche se viviamo di conservazione, con rispetto e amore per ciò che abbiamo ereditato, mi auguro che ci sia posto per l'intraprendenza di ragazze e ragazzi. Perché sono convinto di una cosa...».

 Di cosa?

«La nuova generazione, quella con cui ci confrontiamo ogni giorno, ha presente? Ecco, quella generazione si prenderà i suoi spazi e vincerà una sfida: riuscirà - a dispetto dei pronostici - a superare la bellezza che abbiamo ereditato».

Persone ma anche comunità. Jacques Maritain, 50 anni dopo il filosofo francese è un faro per l’Italia di oggi. Stefano Ceccanti su Il Riformista l'1 Maggio 2023 

Una delle immagini-chiave del Concilio Vaticano II è quella in cui Paolo VI consegna al suo grande amico Jacques Maritain, di cui ricorrono i cinquanta anni dalla scomparsa, il messaggio rivolto agli intellettuali, di cui vale la pena di riportare il passaggio centrale: «Anche per voi abbiamo dunque un messaggio, ed è questo: continuate a cercare, senza stancarvi, senza mai disperare della verità! Ricordate le parole di uno dei vostri grandi amici, sant’Agostino: ‘Cerchiamo con il desiderio di trovare, e troviamo con il desiderio di cercare ancora’.

Felici coloro che, possedendo la verità, la continuano a cercare per rinnovarla, per approfondirla, per donarla agli altri. Felici coloro che, non avendola trovata, camminano verso essa con cuore sincero: che essi cerchino la luce del domani con la luce d’oggi, fino alla pienezza della luce!». Si coglie qui, in particolare, il senso di un filone fecondo del pensiero europeo, quello del personalismo comunitario, a cui è connesso in modo stringente il cattolicesimo democratico italiano, che, contrariamente a quanto molti pensano, è stato soprattutto una sorgente di idee, una matrice di idee più che il ricorso a formule fisse, a principi rigidi e immutabili e a strumenti ritenuti permanenti. Un percorso di ricerca in cui affinare e ridiscutere i propri punti di partenza.

Molti sono rimasti incantati o affezionati ai termini un po’ altisonanti, da cultura palingenetica del progetto degli anni 30, con cui i pensatori personalisti avevano esordito: “rivoluzione personalista e comunitaria” (Mounier), “nuova cristianità democratica” (Maritain) e/o dalla loro identificazione con strumenti partitici, con i partiti democristiani (peraltro mai stata vera per Mounier, ma solo parzialmente per Maritain). Tutte posizioni radicalmente superate nella loro ulteriore riflessione avvenuta nel vivo dei processi storici dei decenni precedenti, a partire dalla partecipazione alla Resistenza, esperienza comune tra credenti di religioni diverse e non credenti, che aveva fatto loro superare la frattura rivoluzionaria tra laici e cattolici, le polemiche eccessive contro lo Stato liberale, una contestazione per così dire dall’alto e dall’esterno degli Stati nazionali e il correlato intransigentismo, simile a quello dei cattolici italiani segnati dalla breccia di Porta Pia.

Di Mounier restano attuali soprattutto le riflessioni sulla legittima difesa anche armata contro l’appeasement verso il nazismo, applicazione particolare della sua dottrina realistica dell’impegno come scelta per cause imperfette e con mezzi imperfetti e la ricerca di strumenti politici nuovi, misti tra laici e cattolici, nello spazio della sinistra non comunista in alternativa alla divisione tra riformisti cattolici (Mrp, la dc francese) e laici (socialisti e radicali). Di Maritain ci resta soprattutto l’idea dell’opzione preferenziale per la democrazia, contro l’impostazione astratta di neutralità rispetto alle forme di Stato che portava fatalmente a uno scivolamento verso ambigue alleanze con i regimi autoritari, denunciato a partire dalla sua polemica contro il consenso dato dai vescovi spagnoli al franchismo. Vi è anche, a ben vedere, anche una confutazione ante litteram delle democrazie illiberali.

Per Maritain, infatti, se si leggono in particolare le opere mature del dopoguerra, ossia L’uomo e lo Stato e le Riflessioni sull’America, i Paesi che avevano visto crollare le democrazie per la debolezza delle loro istituzioni e non per la loro forza (Italia, Germania, ma anche la Francia della III Repubblica) dovevano dotarsi di esecutivi forti e stabili, capaci di realizzare moderni Stati sociali, la politica doveva quindi essere decidente, ma al contempo anche non invasiva della sfera di autonomia della persona. In particolare a ciò conduce l’evoluzione del concetto di bene comune ben rilevata da Roberto Ruffilli: mentre in precedenza il pensiero cattolico, segnato dall’intransigentismo, si rivolgeva allo Stato per favorire la partecipazione alla vita eterna e quindi la propria attività sacramentale, e riteneva quindi i Concordati con gli stati autoritari un elemento chiave di questa strategia, in seguito il bene comune è invece visto in modo più ampio come un insieme di condizioni che consentono di valorizzare la dignità di tutte la persone, in tutte le sue dimensioni. Dalla richiesta per la libertà della Chiesa si passa a quella della libertà per i credenti e poi per quella di coscienza di tutti gli uomini.

Come nel primo emendamento della Costituzione americana, attentamente compreso da Maritain, occorre evitare quindi la tentazione di imporre una particolare confessione religiosa o un’unilaterale visione etica. In particolare occorre evitare di farlo con la coercizione del diritto penale perché ciò, nonostante le intenzioni, metterebbe in pericolo il bene comune ampiamente inteso, inserendo un contrasto tra la lealtà alle istituzioni e i codici morali di alcune persone e gruppi sociali “la cui forza morale non è adeguata alla messa in vigore di quella proibizione”, come scrive ne L’uomo e lo stato, a partire da alcuni brani di S. Tommaso sulla legge umana che non può pretendere di inserire il vino nuovo della virtù in otri vecchi, nelle persone e nei gruppi umani coi loro limiti strutturali, pena la rottura degli otri.

Il personalismo, e il cattolicesimo democratico che ne deriva, non consiste pertanto nella sostituzione dell’imposizione di alcuni principi del cattolicesimo intransigente (in primis la libertà della Chiesa) con altri più o meno nuovi (l’uguaglianza, la fratellanza), con la medesima logica a somma zero del tutto o niente, ma nel ricercare con gli altri, senza autoghettizzazioni, concrete soluzioni pratiche, efficaci mediazioni tra principi e realtà, tra punti di vista che partono da fondamenti irriducibilmente diversi, come nel lavoro che Maritan sviluppò nella stesura della Dichiarazione Onu sui diritti umani. Difficile non vederne l’attualità, pur nella diversità di situazioni, a cinquant’anni di distanza. Stefano Ceccanti

Cocteau a caccia del suo angelo custode. Jean Cocteau è stato un poeta, saggista, drammaturgo, sceneggiatore, disegnatore, scrittore, librettista, regista e attore francese. Andrea Caterini il 9 gennaio 2023 su Il Giornale.

Poeta, librettista, drammaturgo, attore, regista, romanziere, pittore. Forse Jean Cocteau (1889-1963) fu troppe cose per un individuo solo. O forse è proprio questa dissipazione, questa sua molteplice ricerca di una forma a fare di lui un talento inafferrabile. Amico di Picasso e Stravinskij, ma pure di pugili e di Coco Chanel, Cocteau è stato un uomo che dopo i furori della sua istrionica presenza è stato più semplice dimenticare - perché, in fondo, questo suo esibizionismo infastidiva. A sessant'anni dalla morte però, torna nelle librerie italiane, ed era assente dalla fine degli anni Ottanta, il Diario di uno sconosciuto, riproposto dall'editore Occam nella nuova traduzione di un poeta, Flavio Santi, che mette a disposizione anche il proprio, di talento, per immergersi in queste pagine multiformi, nelle quali Cocteau prova, probabilmente come non aveva mai fatto prima, a denudarsi. E lo fa sfidando soprattutto i generi, perché qui sperimenta il ragionamento filosofico, l'aforisma, si immerge in fatti di cronaca, si lascia andare al racconto, guarda in faccia la nascita della poesia. Per la difformità di queste pagine rivendica «il diritto all'artigianato spirituale» che, scrive, «rappresenta al meglio l'individualità minacciata dall'onda travolgente della pluralità massificante». Bisogna porre l'attenzione sulla parola che sigla dopo «artigianato». L'idea di una scrittura che sia soprattutto un lavoro per lo spirito ci fa comprendere, pagina dopo pagina, come Cocteau cercasse la ragione di un tormento che lo assediava. Un tormento a cui affida il nome di «angelo»: «Da dove nacque l'idea dell'angelo? E l'aspetto umano assunto da questi esseri non umani? Senza dubbio dal desiderio dell'uomo di rendere comprensibili certe forze, di vincere una presenza astratta, di incarnarla per potersi riconoscere un po', per avere meno paura». Quella di Cocteau, in tutte le sue forme, era una lotta con il mistero - che aveva sembianze cristiane e pagane nello stesso tempo. Una lotta che lo costringeva ogni volta a cambiare forma, stile, a verificare i diversi volti che quell'angelo che di lui si impossessava gli faceva assumere. Un angelo che lo costringe a guardarsi allo specchio, a recitare i suoi contenuti, «Per una figura astratta l'unico modo di diventare concreta, restando invisibile, è contrarre matrimonio con noi, riservandosi la parte più consistente, e concedendo a noi soltanto una parte infinitesimale di visibilità. Quella più disonorevole». Cocteau indossava la sua maschera in società, o quella parte di lui infinitesimale e disonorevole, per lasciare spazio a quel mistero del quale non poteva fare a meno. Ma la sua idea di incarnazione, profondamente intessuta di una religiosità soggettiva, assolutamente individualista, rifiuta ogni teoria psicanalitica, tanto che di Freud dirà trattarsi di un superficiale: «Freud è di facile accesso. Il suo inferno (un purgatorio) è alla portata della massa. Al contrario del nostro studio, esso cerca soltanto la visibilità. La notte di cui mi occupo è diversa. È una grotta dei tesori». Per il Cocteau del Diario di uno sconosciuto quell'oscurità non deve emergere, il mistero deve rimanere tale. La sua funzione è quella di una forza propulsiva, un oltraggio al pudore, una frattura alle regole, che permettono alla poesia (che va intesa come l'assoluto dell'arte) di essere. Anche correndo il rischio di non venire mai compresi. «Mai dimenticare che un capolavoro testimonia una depravazione dello spirito. (Rottura della norma). Trasformatelo in azione. La società lo condannerebbe. Del resto è quanto succede di solito».

Jean-Jacques, il Rousseau buono. E poi c'è "l'altro"...Scaduto il contratto sociale, Rousseau in versione Giano bifronte ruotò di 180 gradi la sua testolina ormai canuta e prese a osservarsi nei panni di Jean-Jacques. Daniele Abbiati il 26 Luglio 2023 su Il Giornale.

Scaduto il contratto sociale, e non più rinnovabile a causa della manifesta insoddisfazione delle (ipotetiche fra le ipoteche) parti contraenti, e chiuso a doppia mandata nel cassetto dei sogni lo stato sociale, Rousseau in versione Giano bifronte ruotò di 180 gradi la sua testolina ormai canuta e prese a osservarsi nei panni di Jean-Jacques. Ciò che vide non gli piacque, dunque lo considerò degno di essere romanzato. L'operazione richiese l'invenzione di un deuteragonista, subito individuato nel presunto (forse persino sperato...) complotto ai suoi danni, sicché Le confessioni e gli altri scritti affini e collaterali assunsero il rango di una diffusa memoria difensiva, peraltro arricchita da abilissime e strategicamente geniali auto-accuse volte a generare il pensiero controdeduttivo del lettore. Inoltre occorrevano due impulsi, uno psicologico e l'altro patologico, che giustificassero le molte azioni riprovevoli di JJ: ed ecco schierati in campo, da un lato lo spirito di emulazione, l'engouement per i cattivi esempi, e dall'altro una sorta di «crisi di assenza» o «crisi epilettica», insomma un momentaneo black out delle capacità di discernimento. Infine serviva ciò che a prima vista parrebbe paradossale, in un contesto memorialistico, ovvero l'oblio, l'arte del dimenticare che desse valore, mimetizzandola nei vari contesti, all'arte della memoria.

Sistemati sulla scrivania i suddetti strumenti di lavoro, il nonno (putativo) dalla Rivoluzione francese impiegò gli anni da pensionato a rivalutarsi come scrittore, dopo aver pagato decenni di contributi volontari da filosofo. E adesso siamo noi a spiare chi spiò se stesso, spesso vedendosi riflesso negli specchi deformanti, per oltre mezzo secolo. Il titolo del saggio di Bartolo Anglani, L'altro Rousseau (Le Lettere, pagg. 622, euro 35), paga il pegno di un aggettivo inflazionato, ma in compenso il sottotitolo acchiappa assai: «La memoria, l'impostura, l'oblio». Perché questo fu il Rousseau autobiografo: un pendolo in moto perpetuo fra ricordo e dimenticanza mosso da menzogne, omissioni, non-c'ero-e-se-c'ero-dormivo, distrazioni di comodo e scene mute. Per cogliere come Rousseau sia agli antipodi rispetto a Proust, basta notare che mentre il secondo alimenta la sua narrazione con cose viste, odorate, mangiate (la celebre madeleine), il primo fa perno su azioni (il nastro rubato, il pettine rotto...), e che mentre Marcel procede, sebbene mai in linea retta, verso un'unica direzione, JJ è maestro del voltafaccia e/o della giravolta, introdotti da un semplice «tuttavia» (cependant).

Anglani, citazionista di vaglia che si tratti del soggetto in questione o dei suoi innumerevoli interpreti e studiosi (al netto degli idillici e degli psicologisti, che aborre), ci suggerisce tre immagini del Rousseau confessionale: lo sbalestrato in lotta contro i mulini a vento da lui stesso inventati, come il Don Chisciotte di Cervantes; il trasformista compulsivo, come il Leonard Zelig di Woody Allen; e soprattutto il geneticamente bugiardo, come Pinocchio. Ma il pezzo forte della sua analisi resta quel magico verbo, oublier. «L'oblio - scrive - è il filtro che rende visibile il passato decomponendolo in frammenti e impedisce all'occhio di essere abbagliato dall'eccesso di presenza». Un filtro che funziona come un caleidoscopio, nel senso che trasforma pezzettini di caso in una sontuosa e simmetrica architettura.

Quel piccolo borghese dello Hobbit che fa infuriare tutti. Alessandro Gnocchi il 12 Novembre 2023 su Il Giornale.

C' è qualcosa in J.R.R. Tolkien, e nel suo capolavoro, Il signore degli anelli, che fa rabbia a tutti

C' è qualcosa in J.R.R. Tolkien, e nel suo capolavoro, Il signore degli anelli, che fa rabbia a tutti. A sinistra ma anche a una parte della destra. Per questo la mostra romana sullo scrittore e filologo britannico (inaugurazione il 15 novembre) ha già suscitato un numero spropositato di articoli, incluso questo. Certo, i Campi Hobbit sono stati un simbolo della destra missina. Certo, Giorgia Meloni proviene da quella storia, quindi si può usare perfino Tolkien per denigrare ma anche per adulare la premier. Ma questo non spiega perché la Terra di mezzo infastidisca, molesti, turbi. Sarà che non siamo più abituati a un mondo dove esistono il Bene e il Male, con le maiuscole.

Nell'occidente secolarizzato sono ammessi solo il bene relativo e il male relativo. Il cattolico Tolkien ha fatto anche di peggio. Il Bene e il Male, al netto della invenzione e del folclore, sono proprio quelli del Vangelo. La luce contro le tenebre. Gli individui contro le moltitudini: Dio è parola e ci chiama per nome mentre il diavolo è numero e ci tratta da massa senza volto. Da una parte, Frodo, Bilbo, Gandalf, Turin, Aragorn... Di là la folla indistinta degli orchi, che sono tutti ugualmente orrendi.

L'oltraggio definitivo di Tokien è affermare che il Bene ha il volto insicuro ma generoso di un piccolo borghese. Avete mai pensato a come è fatto uno hobbit? È basso (piccolo) di statura e ha enormi piedi per restare saldamente ancorato a terra. Lo hobbit ama la sua casa, le storie dei suoi avi, le feste di paese, la buona tavola e non cerca grane. Ma quando le grane vengono a cercarlo, state sicuri che lo hobbit dimostrerà un coraggio da leone e un senso dell'amicizia pronto a sublimarsi in spirito di comunità. Lo hobbit è fatto per restare, le polemiche per svanire. Alessandro Gnocchi

Intellettuali di destra, guardate queste altre. A volte sono conservatrici. E non bisogna snobbarne l'immaginario. Vittorio Macioce il 12 Novembre 2023 su Il Giornale.

Questo è poco più di un gioco e parte con una domanda: gli intellettuali di destra stanno trascurando alcuni eroi dell'immaginario contemporaneo? Qui non si parla di «classici», che pure avrebbero molto da dire. Non ci sono Frodo e Aragorn. Non c'è Dagny Taggart, incarnazione di Ayn Rand, in La rivolta di Atlante. Non c'è D-503, il protagonista di Noi, il romanzo di Evgenij Zamjatin, che svela l'inganno della rivoluzione bolscevica. Non ci sono Bastiano e Atreiu che lottano contro l'avanzare del Nulla nella Storia infinita. Non c'è neppure Winston Smith di 1984. Si potrebbe parlare di alcuni personaggi di Clint Eastwood, con quella frase presa da I ponti di Madison County che in poche battute segna un sentimento: «I vecchi sogni erano bei sogni. Non si sono avverati, comunque li ho avuti». È che delle ragioni di Clint se ne sono bene o male accorti tutti e no, non è banale e non è razzista, ma è solo uno che ci tiene parecchio alla propria libertà e si sente scomodo nella retorica di questo secolo che già comincia a invecchiare.

Allora chi? Per esempio Katniss Everdeen. È la ragazza di fuoco del dodicesimo distretto, che porta il nome dell'erba saetta, che alza il canto della rivolta con al petto il simbolo della ghiandaia imitatrice e sopravvive al tributo di sangue degli Hunger games. Non lasciatevi ingannare dalle apparenze. Katniss combatte contro un Occidente che ha rinnegato se stesso, quel mondo di Panem dove non c'è più una repubblica ma un Super Stato aristocratico, che assomiglia a certe piattaforme oligarchiche e private, dove ogni cosa appare virtuale tranne la fame e la morte e non si crede a nulla se non al quarto d'ora di celebrità. Il mondo messo su da Suzanne Collins, l'autrice della saga distopica, è un futuro possibile, si spera iperbolico, ma che rappresenta il tradimento dei diritti universali dell'umanità, per la miopia di chi avrebbe dovuto garantirli e li ha invece barattati per una società che ha fatto del nichilismo uno spettacolo attimo per attimo. «Immagino che non ci siano più regole su ciò che una persona può fare a un'altra persona». Hunger Games è il rimpianto che avremo un giorno per la liberal-democrazia, sacrificata sull'altare del nulla o di qualche bugiarda utopia.

Allora chi? Beatrice «Tris» Prior. È la ragazza divergente, che le macchine e la scienza non riescono a ingabbiare in nessuna definizione. Il suo spirito non ha caselle. Non è candida, non è pacifica, non erudita, non abnegante, non intrepida. Non riesce, per natura e vocazione, a appartenere a un genere, a un circolo, a una casta. È per tutti e per nessuno. Tris vive in una Chicago di un futuro imprecisato, dove i muri sono l'unica sicurezza che ti resta, e a governare sono i filosofi che basano la loro saggezza solo su loro stessi. È l'incubo che nasce dall'antico inganno della Repubblica di Platone, con la ricerca di una perfezione sociale che porta direttamente all'inferno. La saga di Veronica Roth è un omaggio a tutti i cani sciolti, quelli che il sistema considera un'anomalia da estirpare.

Allora chi? Gli Stark di Grande Inverno, la casata del Trono di Spade che non si sottomette ai sotterfugi e ai veleni della politica e tiene fede ai principi della tradizione, che non è il peccato degli ottusi, ma la forza di chi non scappa dai doveri e dalle responsabilità. Non crede agli azzeccagarbugli e ai venditori di buoni sentimenti, non pensa che tutto si possa comprare con il denaro e non si tira indietro quando c'è da difendere terra e valori. «Credi che la mia vita sia così preziosa per me? Credi che scambierei il mio onore per qualche altro anno di cosa? Tu sei cresciuto con gli attori, hai appreso la loro arte con scaltrezza. Ma io sono cresciuto coi soldati, ho imparato molto tempo fa come si muore».

Allora chi? La famiglia Weasley. Tutta l'avventura magica di Harry Potter è un manifesto del conservatorismo aperto, che non si rifugia nel passato, ma non lo rinnega. È la profondità del tempo che ti permette di non lasciarti ingannare dall'oscurità. Arthur e Molly Weasley, i genitori di Ron, il migliore amico di Harry, sono il simbolo di un ceto medio che cerca di sopravvivere in un mondo dove non c'è più spazio per chi vive del proprio lavoro con dignità. È la famiglia di maghi che in fondo più ricorda l'origine borghese di Joanne K. Rowling, dove K sta per K, e in fondo ne segna anche l'insofferenza di un certo politicamente corretto, povero soprattutto di buon senso.

Allora chi? Frank Gallagher, il padre sciagurato di Shameless. A suo modo è epico. Certo, è una famiglia di nullafacenti ai limiti della società e con un certo talento a tirare avanti, ma dove lo trovi un altro «senza vergogna» che ti piazza un monologo di Ayn Rand. Lo Stato sono loro, i liberal fuori dal ghetto.

Traduzione dell’articolo di Hannah Roberts per politico.eu venerdì 10 novembre 2023. 

Presentando il futuro Primo Ministro Giorgia Meloni al suo ultimo comizio della campagna elettorale dell'anno scorso, il compère (Pino Insegno, ndR) ha citato una frase da un discorso di battaglia nel Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien: "Verrà il giorno della sconfitta, ma non è questo il giorno”.

La Meloni non ha nascosto che l'epopea fantasy è la sua opera letteraria preferita. Da giovane attivista si è vestita da hobbit; dopo essere diventata ministro, ha posato accanto a una statua di Gandalf per un servizio fotografico su una rivista.

La storia di Tolkien è stata, un po' bizzarramente, fatta propria dalla destra italiana negli anni Settanta ed è rimasta un testo sacro per il partito Fratelli d'Italia, che la Meloni ha portato al governo. Ora, mentre il suo governo segnala un cambiamento di rotta nelle istituzioni culturali italiane, una delle mosse più insolite è una grande mostra che celebra Tolkien. 

Il Ministero della Cultura ha finanziando un’esposizione a Roma per i 50 anni dalla morte dell’autore, per un costo di 250.000 euro, secondo quanto dichiarato da un funzionario, che spera di recuperare i fondi dalla vendita dei biglietti. La stessa Meloni inaugurerà la mostra il 15 novembre alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, prima di spostarla in altre città italiane. Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha annunciato la mostra all'ala giovanile del partito della Meloni a luglio come "un regalo".

Mercoledì, presentando la mostra, Sangiuliano ha detto che l'esposizione "non è stata casuale ma deliberata e voluta". In risposta a una domanda di POLITICO, ha insistito sul fatto che Meloni non aveva richiesto la mostra, ma "l'ha scoperta solo in seguito". 

Negli anni Settanta l'estrema destra organizzava festival cosiddetti "Hobbit camp"; la Meloni ha ricordato che i suoi amici erano soprannominati Frodo, Gandalf e Hobbit, come i personaggi centrali dei libri. 

Ha citato ampiamente Tolkien nel corso della sua carriera, da uno dei suoi primi discorsi politici come leader giovanile nel 2002, alla sua autobiografia del 2022. Nel 2015 ha invitato i suoi seguaci a combattere quel "nemico subdolo che Tolkien chiamava gli anelli del potere", riferendosi all'élite finanziaria globale.

Dopo la sua elezione, Arianna, sorella della Meloni, ha giurato su Facebook di emulare l'hobbit Samwise Gamgee nell'accompagnare la Meloni (che rappresenta Frodo) al Monte Fato. 

Tolkien piaceva alla generazione di Woodstock negli anni Sessanta, ma una prefazione alla prima edizione italiana, pubblicata nel 1970, lo interpretava come una voce della tradizione contro il progresso. 

Per gli attivisti di estrema destra cresciuti con la Meloni, Tolkien è un pilastro intellettuale che rappresenta la lotta per difendere l'identità cristiana e occidentale contro la modernizzazione, la globalizzazione e l'invasione di popoli stranieri.

Mercoledì Sangiuliano ha detto che Tolkien è stato un cattolico e "un autentico e sincero conservatore" che ha difeso i valori tradizionali "dimenticati" in Occidente: "Il senso della comunità, la tradizione della natura, l'opposizione agli aspetti più disumanizzanti e controversi della modernità... il sacrificio di sé, l'amicizia, il coraggio, l'onore". Ha affermato che Tolkien era "contro il fascismo ma anche contro il comunismo". 

Estratto dell'articolo di Emanuele Lauria per “la Repubblica” venerdì 10 novembre 2023.

Meloni, garantisce lui, non c’entra nulla: «Gliel’ho detto dopo», tiene a precisare il ministro Gennaro Sangiuliano. Ma che abbia almeno fatto un bel regalo alla premier non può negarlo. Portando a Roma, in una cornice sontuosa - la Galleria nazionale di arte moderna - la mostra dedicata a John Ronald Reuel Tolkien, il padre del Signore degli anelli, l’autore inglese preferito dalla leader di FdI e dal gruppo politico che è cresciuto con lei.

È il giorno della presentazione dell’evento (apertura il 16 novembre) e scivola via in un dibattito caldo, alimentato dalla stampa inglese che mette nel mirino l’iniziativa. Il Times e il Guardian , con accenti diversi, dedicano la loro attenzione alla passione della prima ministra italiana, rubricata a ossessione, per lo scrittore che più di tutti ha animato il genere fantasy.

Il Times , in un articolo di James Imam, ricorda tra l’altro che Giorgia Meloni visitò una scuola con i costumi del Signore degli Anelli. Imam scrive che «adesso il governo di centrodestra è accusato di tentare il controllo della cultura attraverso l’organizzazione della mostra». 

[…]  Più caustico il commento che, sul Guardian , ha la firma di Jamie Mackay: «Mi sento da tempo deluso – afferma - da questa bizzarra ossessione di Meloni per il Signore degli Anelli, che la premier definisce un testo sacro». 

Il quesito che Mackay pone ai lettori: «Cosa sta cercando di ottenere il governo imprimendo il segno in modo così aggressivo su una delle saghe fantasy più amate al mondo? Un semplice esercizio di branding per ammorbidire l’immagine della Meloni?». Secondo l’editorialista del Guardian «c’è un lato più profondo e francamente più strano di questa storia.

Quando il Signore degli anelli arrivò per la prima volta sugli scaffali italiani negli anni ‘70, l’accademico Elémire Zolla scrisse una breve introduzione in cui interpretò il libro come un’allegoria sui gruppi etnici “puri” che si difendono dalla contaminazione degli invasori stranieri. 

I simpatizzanti fascisti dell’Msi colsero subito la provocazione. Ispirati dalle parole di Zolla, videro nel mondo di Tolkien uno spazio in cui avrebbero potuto esplorare la loro ideologia in termini socialmente accettabili, liberi dai tabù del passato.

Meloni ha sviluppato la sua coscienza politica in quell’ambiente. Da adolescente ha anche frequentato un Hobbit Camp, un ritiro estivo organizzato dall’Msi in cui i partecipanti si vestivano con abiti cosplay, cantavano ballate popolari e discutevano di come le mitologie tolkieniane avrebbero potuto aiutare la destra post-fascista a trovare credibilità in una nuova era». 

E allora, prosegue Mackay, «vale la pena riconoscere che, con un po’ di immaginazione, le saghe della Terra di Mezzo si adattano perfettamente alla logica del populismo di destra contemporaneo. Il Signore degli Anelli segue la logica di un gioco a somma zero, radicata nella metafisica cattolica. Ci sono hobbit ed elfi “buoni” che combattono gli orchi “malvagi”.

C’è poco spazio per le sfumature. Non ci vuole molto sforzo per piegare quella definizione a scopi nazionalisti. Meloni fa proprio questo».

Ma Sangiuliano non fa una piega: «Meloni non è stata coinvolta nell’organizzazione della mostra. La verrà a vedere e ne sono onorato ma farla non è stata una sua scelta, ha altro di cui occuparsi». Uno dei curatori, Alessandro Nicosia, ha ricordato che «Tolkien fu un convinto antifascista ». Il ministro è costretto a una prova di equilibrismo: «Fu antifascista ma anche anticomunista». […]  E comunque «quando la cultura è alta non ha una dimensione politica », dice Sangiuliano che rivendica «il conservatorismo di Tolkien».

Poi, con un’ultima sterzata, annuncia: «Proporrò una mostra anche su Gramsci». […]

Dago-traduzione dell'articolo di Jamie Mackay per “The Guardian” il 4 Novembre 2023

In quanto fan di lunga data di J.R.R. Tolkien, ho spesso trovato perplessità nell'ossessione di Giorgia Meloni per Il Signore degli Anelli. Nel corso degli anni, il primo ministro ultraconservatore italiano ha citato brani nelle interviste, ha condiviso foto di sé stessa mentre leggeva il romanzo e ha persino posato con una statua del mago Gandalf come parte di una campagna. Nella sua autobiografia-manifesto, dedica diverse pagine al suo "libro preferito", che a un certo punto definisce un testo "sacro". 

Quando questa settimana ho letto la notizia che il Ministero della Cultura italiano sta spendendo 250.000 euro per organizzare una mostra su Tolkien alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea di Roma, e che la Meloni parteciperà all'inaugurazione, non ho potuto fare a meno di chiedermi: perché? Cosa sta cercando di ottenere questo governo imprimendo il suo marchio in modo così aggressivo su una delle saghe fantasy più amate al mondo?

I miei amici italiani non capiscono il problema. Si tratta di politica quotidiana, dicono, un semplice esercizio di branding per ammorbidire l'immagine della Meloni. Forse. Ma c'è un lato più profondo, e francamente più strano, di questa storia. Quando Il Signore degli Anelli arrivò per la prima volta sugli scaffali italiani negli anni Settanta, l'accademico Elémire Zolla scrisse una breve introduzione in cui interpretava il libro come un'allegoria sui gruppi etnici "puri" che si difendono dalla contaminazione degli invasori stranieri. I simpatizzanti fascisti del Movimento Sociale Italiano (MSI) colsero subito la provocazione. 

Ispirati dalle parole di Zolla, hanno visto nel mondo di Tolkien uno spazio dove poter esplorare la propria ideologia in termini socialmente accettabili, liberi dai tabù del passato. Meloni, membro dell'ala giovanile del MSI, ha sviluppato la sua coscienza politica in quell'ambiente. Da adolescente ha persino partecipato a un "Campo Hobbit", un ritiro estivo organizzato dall'MSI in cui i partecipanti si vestivano in abiti cosplay, cantavano ballate popolari e discutevano di come le mitologie tolkieniane potessero aiutare la destra post-fascista a trovare credibilità in una nuova era.

Ovviamente stiamo parlando di un movimento marginale. Ma vale la pena riconoscere che, con un po' di immaginazione, le saghe della Terra di Mezzo si inseriscono piuttosto bene nella logica del populismo di destra contemporaneo. Il Signore degli Anelli segue la logica di un gioco a somma zero, radicato nella metafisica cattolica. 

Ci sono hobbit ed elfi "buoni" che combattono gli orchi "cattivi". C'è poco spazio per le sfumature. Mentre la maggior parte di noi probabilmente legge i personaggi "buoni" in termini apolitici, non ci vuole molto sforzo per piegare questa definizione a scopi nazionalisti. Nel suo libro, la Meloni fa proprio questo. Un momento prima ci dice che il suo personaggio preferito è il pacifico Samwise Gamgee, "solo un hobbit".

Poche pagine dopo paragona implicitamente l'Italia al regno perduto di Númenor e cita la chiamata alle armi del personaggio di Faramir ne Le due torri. In definitiva, la scrittrice sembra considerare l'opera di Tolkien come una favola didattica antiglobalizzazione, un'epopea iperconservatrice che propugna una guerra totale contro il mondo moderno in nome dei valori tradizionali. 

L'interesse della Meloni per la fantasia, i simboli e le grandi narrazioni la distingue dai leader precedenti. Tutti i governi in Italia, di destra e di sinistra, usano la cultura per aiutare i loro messaggi politici. Tuttavia, l'attuale amministrazione sembra atipicamente ossessionata dal controllo dell'immaginario pubblico.

Una delle prime cose che Meloni ha fatto quando è salita al potere è stata quella di nominare Giampaolo Rossi, un giornalista noto per aver difeso Vladimir Putin, direttore generale dell'emittente pubblica Rai. Il mandato dell'organizzazione è stato ora riscritto per includere l'obbligo di promuovere "la ricchezza del parto e della genitorialità". Poi ha nominato Alessandro Giuli, critico conservatore e schietto euroscettico, presidente del più importante museo d'arte contemporanea di Roma, il Maxxi. 

La scorsa settimana il governo ha nominato Pietrangelo Buttafuoco, intellettuale pubblico ed ex membro del comitato centrale dell'organizzazione giovanile post-fascista Fronte della Gioventù, come prossimo presidente della Biennale di Venezia. Alla vigilia della decisione, Buttafuoco ha dichiarato: "In questa stagione si abbatteranno gli steccati. Verrà data una casa a chi finora non l'ha avuta". 

Si è tentati di non considerare le guerre culturali come tattiche superficiali di campagna elettorale: argomenti polarizzanti che i politici usano per galvanizzare le passioni in vista delle elezioni, e nulla più. Le azioni della Meloni ci ricordano che c'è anche un lato serio. Durante l'estate, con una mossa che ricorda quella di Viktor Orbán, il governo italiano ha compiuto il drammatico passo di attribuirsi direttamente il potere di nominare i dirigenti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, una delle più importanti scuole di cinema italiane.

Il deputato Igor Iezzi ha giustificato la decisione con la necessità di "modernizzare" l'istituzione, aggiungendo che la sinistra deve sforzarsi di "togliere gli artigli dalla cultura". È interessante notare che il governo non sembra avere alcuna remora nei confronti del numero apparentemente crescente di editori di estrema destra che stanno ristampando libri di autori fascisti come Giovanni Gentile e Julius Evola per una nuova generazione di lettori (molti di questi editori, tra l'altro, stanno usando Il Signore degli Anelli per attirare nuovo pubblico). 

Non è ancora chiaro quale sia la direzione di tutto questo. Il progetto culturale della Meloni è ancora in fase embrionale e non c'è ancora traccia di una politica statale coesa. Tuttavia, i primi segnali sono preoccupanti. Nell'ultimo anno, molti hanno creduto all'idea che la Meloni sia una "moderata". Si sono innamorati dei suoi sorrisi, del suo linguaggio corporeo da pecorina, del suo linguaggio appena moderato. Sotto la superficie, tuttavia, c'è un programma culturale profondamente preoccupante.

Tolkien, la mostra del loro scontento. La rassegna a Roma scatena la sinistra che vede le mani del "fascismo" sulla letteratura. Vittorio Macioce il 10 Novembre 2023 su Il Giornale.

Ci sono quelli che non leggono Tolkien perché gli hobbit gli ricordano gli amish, o perché non hanno mai capito la filastrocca sul Signore degli anelli, o non si fidano di Grampasso, un cane sciolto che finge di non essere l'ultimo re, oppure perché ancora sussurrano alle orecchie di Théoden di Rohan come eterni vermilingui. C'è poi chi ha smesso di nominarlo, lui, Tolkien, perché piace troppo a Giorgia Meloni e trova sospetta una mostra romana per i cinquant'anni della morte. Tutto questo, di questi tempi, non è opportuno. È il segno che la maledetta destra sta mettendo le mani sulla cultura, con orde di goblin, uruk-hai geneticamente modificati e orchi neri imbastarditi. Allarme, allarme. Lo grida Repubblica, citando il Guardian e il Times, perché l'occhio lontano è sempre più autorevole e ti conferma che quella luna nera che oscura il cielo indica l'apocalisse etica e culturale che pesa sul nostro destino. I sacerdoti si interrogano, come fa Jamie Mackay sul Guardian: «Cosa sta cercando di ottenere il governo imprimendo il segno in modo così aggressivo su una delle saghe fantastiche più amate al mondo?». Mistero. L'aggressione sarebbe questa mostra, che secondo i Wu Ming puzza troppo di destra e rievoca i campi hobbit missini degli anni '70 e poi odora di sangiulianismo, con un taglio troppo ministeriale, quindi un po' demodée.

L'idea è che se la destra sfiora Tolkien è una bestemmia. È usurpazione. È arrogante e allo stesso tempo maldestra. Si permette di mettere le sue luride manacce su un architrave del «fantasy». La destra che piace deve restare nel suo recinto, per giudizio divino rozzo, maneggione, parodistico, sgraziato. Il sogno è che sia fascisti, così da giustificare la giostra mascherata degli antifascisti eterni che, ormai si è capito, senza un nemico immaginario si sentono orfani e vivono con il rimpianto che non ci sia in giro una cultura fascista con fez e camicie nere, per interpretare su tutti gli schermi la messinscena degli eroi a tempo perso. È così che in assenza di segnali più evidenti si gettano famelici sulla mostra tolkeniana, con la stessa logica dei malati di complottismo. Rivendicare il conservatorismo di Tolkien è l'ultima traccia di Ur-Fascismo. Lo avrebbe detto anche Umberto Eco. Sicuro, come la morte.

Giorgia Meloni non ha bisogno di una mostra per amare Tolkien. Non c'è nulla di pubblico nella passione per Lo hobbit, Il signore degli Anelli, Il Silmarillion. È una storia privata. È l'incanto di una ragazzina che scopre un mondo fantastico e si immerge, passo dopo passo, e si lascia stregare da Gandalf, e sorride per le battute alla Rosencrantz e Guildenstern del nano Gimli e dell'elfo Legolas, forse un po' si lascia affascinare da Aragorn, ma è più proibabile che lei si senta in sintonia con il popolo di mezzo, quegli hobbit di cui pochi conoscono l'esistenza. È Frodo il suo eroe, perché sa resistere al potere dell'anello e ne sente il peso, ma la sua anima è più forte di quella di Gollum e alla fine riuscirà nell'impresa di gettarlo e distruggerlo nel fuoco del monte Fato. È lì che impara che il potere ha un prezzo e ti corrompe. È lì che fa i conti con il tradimento di Saruman il bianco: anche i maestri possono deluderti.

È l'ambizione senza fine che danna perfino gli angeli, figuratevi gli umani. È il desiderio di potere, di immortalità, di potenza esponenziale con l'aiuto delle macchine che spazza via l'innocenza del mondo. La risposta è nel coraggio di chi non crede alle promesse utopiche di paradisi in terra, di masse senza identità, di artifici dove il confine tra reale e virtuale si fa sempre più sottile e non tutto ciò che vedi sa di vero. È la resistenza dei pochi e disperati al Fosso di Helm. È il rifiuto di abbassare la testa davanti a un potere globale. È in quella pagina che la ragazzina sente i valori di quello che chiamiamo Occidente. Senza certezze. È tutto molto più semplice.

È quello che dice Sam a Frodo. «Noi non dovremmo nemmeno essere qui. È come nelle grandi storie, quelle che contano davvero. Come poteva il mondo tornare com'era dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine è solo una cosa passeggera, Anche l'oscurità deve passare. Le persone di quelle storie avevano molte occasioni di tornare indietro e non l'hanno fatto. Andavano avanti, perché loro erano aggrappate a qualcosa».

Frodo: «Noi a cosa siamo aggrappati, Sam?»

Estratto dell’articolo di Mirella Serri per “La Stampa” il 6 Novembre 2023

John Ronald Reuel Tolkien, ovvero una sorta di passepartout per una destra che ancora non ha trovato la sua strada tra conservatorismo, populismo, autoritarismo, tradizionalismo e quant'altro. La giovanissima Giorgia Meloni, innamorata de Il signore degli anelli, opera-culto dell'autore di cui quest'anno ricorrono i 50 anni dalla morte, frequentava i campi hobbit certa di aver incontrato nei testi dello scrittore di saghe una mitologia postfascista, una nuova visione del mondo fatta di lotte, di valori autentici e di lealtà. 

Adesso però, arrivata al potere, in questo narratore la premier scopre molto di più: un grimaldello per scardinare la cosiddetta egemonia culturale della sinistra e al contempo per fornire una bussola a una destra in cui convivono tante anime, spesso litigiose. A rilanciare il romanziere come venerato maestro della nuova destra darà un contributo fondamentale la mostra che verrà inaugurata dalla presidente del Consiglio e dal ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, il 15 novembre.

La Galleria nazionale d'arte moderna di Roma ospiterà circa centocinquanta opere, tra foto, documenti, filmati, serie tv e libri. Meloni e Sangiuliano hanno un preciso obiettivo: quello di far uscire Tolkien dal "recinto" degli scrittori fantasy o dei bestselleristi (il suo Signore degli anelli ha venduto oltre 150 milioni di copie) e presentarlo come il conservatore per eccellenza, lo scrittore-modello per la nuova destra di lotta e di governo impegnata a offrire inediti esempi all'immaginario degli italiani attraverso scuola, cinema, arte ed editoria. […] 

Alla fine degli anni '70 invece Tolkien indossava i panni, per così dire, del capellone: era stato adottato dagli hippy e dalla cultura freak anglosassone che vedeva in lui il nume tutelare del mondo rurale, dei contadini, della semplicità e della quiete di una terra abitata dagli hobbit, definiti dall'autore stesso «dolci come il miele e resistenti come le radici di alberi secolari».

Gli hippies inglesi e americani si appuntavano sulle camicie fiorate distintivi con scritto «Frodo vive» e arredavano gli appartamenti con le mappe della Terra di mezzo. Non a caso Rusconi, editore italiano di stampo conservatore, su una ristampa del 1977 del Signore degli anelli appose una fascetta con la dicitura «la Bibbia degli hippies». 

Una sorte ben diversa aspettava invece Tolkien in Italia: divenne l'eroe dei Calimero missini che il politologo Marco Tarchi voleva far uscire dalla marginalità e che stimolava a compulsare il Signore degli anelli come «il breviario dei ribelli, dei disperati, degli emarginati». 

[…] Ancora differente la lettura di Meloni che nel suo autore prediletto vide il mago-creatore di un messaggio anticapitalista per combattere contro «quel nemico subdolo che Tolkien chiamerebbe l'anello del potere». Eccolo, dunque, Tolkien-Vate della gente semplice, dei mercati rionali e delle borgate che la politica, secondo Meloni, non avrebbe mai dovuto tradire alleandosi con le banche, con la finanza e con il potere.

[…] Ma per il resto è molto eclettica. L'ideologia-simbologia di Tolkien è così ricca e sfaccettata che va bene come collante della nuova destra in cui confluiscono anti-illuminismo, populismo, anticapitalismo e, ça va sans dire, un pizzico di nostalgia per il fascismo. 

Insomma una gran confusione e tanta ambiguità, come quelle che traspaiono dalle migliaia di pagine dell'autore britannico. Ironia della sorte, la mostra a lui dedicata si terrà in un museo d'arte moderna, non di arte popolare. Prendiamolo come un segnale, lasciamo Tolkien nel "recinto" di bestsellerista, apprezzato da bambini e adulti, non plasmiamolo come un novello Antonio Gramsci di stampo reazionario. La cultura di destra per il momento è ancora in cerca di autore.

J.R.R. Tolkien, la sinistra senza miti ora vuole appropriarsi dello scrittore. Luca Beatrice su Libero Quotidiano il 07 novembre 2023

La storia di J.R.R. Tolkien in Italia è senza dubbio una storia di destra e un’affermazione come quella di Mirella Serri nel suo articolo di ieri su La Stampa - la cultura di destra per il momento è ancora in cerca di autore- è sbagliata. Semmai si potrebbe invertirne la direzione: nel momento in cui la sinistra sta perdendo uno dopo l’altro i propri riferimenti - di mito nonoserei parlare, non è argomento o figura che qualifica il pensiero di sinistra - cerca in maniera piuttosto stucchevole di accaparrarsi quelli altrui. Abbiamo sentito più volte la teoria che negli anni ’70 le comunità hippie americane si appassionarono al mondo fantasy e pacifista, leggendo così l’autore de Il Signore degli Anelli come un ambientalista e un fricchettone alla Siddharta. La differenza di vedute rispetto alla sorte che Tolkien ha avuto in Italia ne testimonia una volta di più la centralità nel panorama letterario internazionale, mentre da noi è stato a lungo ridotto a puro romanziere di genere se non addirittura irriso.

In Italia la narrazione è coerente, a partire dalla prima edizione del romanzo uscita nel 1970 per Edilio Rusconi, editore conservatore e cattolico, e dalla curatela di Quirino Principe, musicologo mahleriano, traduttore dal tedesco di altri autori “proibiti” come Ernst Junger, che limò e rifinì il precedente lavoro di Vittoria Alliata, che di Tolkien ha parlato con affetto definendolo «bizzarro filologo medievista, eterno bambino di genio». Siamo ancora negli anni ’70 quando la destra missina, culturalmente vivace e attenta a costruirsi un proprio mondo questo si davvero alternativo e di ricerca avanguardista proprio perché non le veniva dato modo di esprimersi a causa della schiacciante supremazia della sinistra, scopre nel romanzo di Tolkien quei principi che ancora la animano, a mezzo secolo di distanza: il valore delle radici, il profondo legame con la Tradizione (la maiuscola è d’obbligo), i riti della compagnia dell’anello come espressione del senso di comunità. Tolkien è stato un intellettuale conservatore, cattolico e strenuo difensore della cultura occidentale, motivi sufficienti per irriderlo, minimizzarne la portata, ridurlo a mero scrittore fantasy e, bollarlo come bestsellerista per cui la porta della letteratura vera non si doveva aprire.

PRIMA IGNORATO POI...

Per tanti anni Il Signore degli Anelli è rimasto un libro ignorato, inviso alla sinistra. Improvviso ecco spuntare qualche recente tentativo di appropriazione indebita, come quella dei Wu Ming che per Bompiani hanno da poco ripubblicato il saggio del 2013 Difendere la terra di mezzo, sostenendo a proprio vantaggio la tesi di un Tolkien troppo universale per essere rinchiuso in una nicchia identitaria, equiparato ad altri grandi scrittori reazionari come Conrad e Borges, superandone la marginalizzazione nella letteratura fantastica. Anche Michela Murgia diceva di esserne una accanita lettrice, almeno una volta l’anno, di adorare gli elfi e di conoscere i giochi a esso ispirati.

La grandezza e la fama di Tolkien, dunque, si è consolidata anche in quegli ambienti a lungo ostili? Ci interessa o ci insospettisce piuttosto il nobile o opportunista tentativo di ascriversi, di attribuirsi Tolkien oggi, promuovendolo così al rango di narratore d’eccellenza levandogli così il marchio destrorso d’infamia? E invece, per colpa della mostra che inaugurerà alla Galleria Nazionale di Roma il 15 novembre, fortemente voluta da Giorgia Meloni e dal ministro Gennaro Sangiuliano, siamo di nuovo nel pieno della polemica, Tolkien torna a essere autore di destra, anzi sospetto fascista, e l’iniziativa si inserisce nella propaganda governativa determinata a conquistare quell’egemonia culturale a lungo inseguita. Oppure, in alternativa, si alza qualche voce a dire no, vi siete sbagliati, non è l’eroe dei “calimero missini” e dei suoi eredi oggi al potere che prepotentemente lo usano per marcare il territorio. Immaginando il fenomeno su larghissima scala - Il Signore degli Anelli ha venduto 150 milioni di copie nel mondo - Tolkien divide analogo destino con altre figure urticanti, il cui pensiero attraversa il tempo e continua a far parlare di sé. Come Pier Paolo Pasolini, tradizionalista ma in senso diverso, tanto da non poter essere trasformato in un simbolo per la destra, nonostante più di una tentazione. Quelle di Tolkien, invece, sono idee certamente di destra, le nostre idee, non vedo perché non ribadirlo. 

Un ritratto del celebre creatore della Compagnia dell’Anello. A 50 anni dalla morte di Tolkien, un viaggio inaspettato. In questi giorni si celebra il cinquantennale dalla morte di J.R.R. Tolkien, celebre autore britannico, avvenuta il 2 settembre 1973 a Bournemouth. Nelle sue opere l’amicizia è un sottile ma infrangibile legame. Charlie D. Nan su Il Riformista il 31 Agosto 2023 

Ennyn Durin Aran Moria. Pedo Mellon a Minno. Tradotto dall’elfico: Le Porte di Durin, Signore di Moria. Dite “amici” ed entrate. La scritta è un enigma, inciso su una desolata parete di roccia che sovrasta Frodo Baggins, intralciando il cammino della Compagnia dell’Anello attraverso il regno dei Nani; ed è una delle scene più conosciute dei libri di J.R.R. Tolkien, autore britannico di cui viene celebrato il cinquantennale dalla morte avvenuta il 2 settembre 1973 a Bournemouth. Da poco il giovane Hobbit ha accettato il compito di Portatore dell’Anello per gettarlo nel Monte Fato.

“Quando si chiede a un lettore qual è la prima parola in lingua elfica che gli sovviene, questa è probabilmente Mellon, “amico”, una parola che schiude le porte di Durin a Moria, una parola che permea l’universo e la letteratura di J.R.R. Tolkien. Quella stessa amicizia che ha valore fondamentale tanto nelle opere quanto nella vita del professore oxoniense. Si ricordi innanzitutto lo stretto e talora difficile legame con il collega C.S. Lewis, oppure l’affetto che legava lo scrittore ai membri del TCBS, gruppo di amici falcidiato dalla Prima guerra mondiale”, afferma Stefano Giorgianni, presidente dell’AIST – Associazione Italiana Studi Tolkieniani, fondata nel 2014 e si occupa della divulgazione delle opere di J.R.R. Tolkien in Italia ed è consulente di Bompiani per la traduzione dei volumi tolkieniani sul mercato italiano.

Un dettaglio: lo spirito di fratellanza tra gli Elfi dell’Eregion e i Nani di Khazad-dum era al suo apice quando, durante la Seconda Era della Terra di Mezzo, furono costruite le Porte di Durin al fine celebrare la prosperità e l’amicizia tra i due popoli. E fu proprio attraverso le Porte che gli Elfi e i Nani poterono incombere sulla retroguardia di Sauron, l’Oscuro Signore che mirava al dominio dei popoli, e permettere a molti di salvarsi. Spiega Stefano Giorgianni: “Se dovessimo scegliere tre parole, nelle opere tolkieniane l’amicizia è fulcro, potere e forza. L’amicizia è unione, ed è tramite la stessa amicizia che, emblema di comunione tra le razze, porta alla formazione della Compagnia e, se si ben riflette, anche alla distruzione dell’Unico Anello”.

In questa epica valoriale, eroica e così stratificata risiede il senso politico dell’intera poetica del professore di Filologia Anglosassone presso il Pembroke College di Oxford. J.R.R. Tolkien agisce consapevolmente nel dipingere un albero composto di storie, mappe, annali, detti popolari inventati, poesie e chansons de geste da cui germogliano i dettagli di una nuova mitologia, a sua volta scomposta nelle pagine dei libri, la quale l’autore stesso sa di lasciare incompiuta, tanto che affiderà al figlio la volontà di definirne le radici nascoste nella Storia della Terra di Mezzo (il volume 4 è stato pubblicato a maggio da Bompiani).

L’epopea tolkieniana non è, pertanto, il tramite per diffondere un’univoca tradizione, di cui qualcuno vorrebbe appropriarsi di antiche simbologie esoteriche, ma sono sterminati miti che si alimentano tra di loro. Infatti, come afferma lo stesso J.R.R. Tolkien, “difficilmente avrebbe affrontato la lettura di una fiaba senza volerne scrivere una”, allo stesso modo per una ballata medievale o una leggenda nordica. Una pulsione avversa all’elitarismo culturale a favore dell’idea di un complesso sistema narrativo popolare il cui destinatario ultimo è l’umanità intera. È sulla base di questa intenzione che J.R.R. Tolkien oppone alla Mano Nera che imprigiona la Terra di Mezzo ciò che solo uno scrittore possiede: un viaggio inaspettato compiuto da eroi altrettanto inconsueti.

Gli eroi delle sue storie sono piccoli uomini dai grandi piedi pelosi, elfi dall’animo fin troppo gentile, nani che fanno i conti con l’avidità, uomini che fuggono da ciò che era stato deciso per loro. A differenza del male, loro sono fallaci, incompleti, manchevoli, sono laici poiché tremendamente terreni. A differenza di Sauron, i loro poteri sono determinati e limitati dalla forza delle convinzioni. A discapito di chi vorrebbe privarli della loro libertà loro hanno un amico a fianco: come Samvise Gamgee, disposto a calcare il passo sempre più lontano dalla Contea pur di accompagnare Frodo, ogni giorno più vicino al suo inesorabile destino.

“L’amicizia, in sé, è amore in contrapposizione all’odio rappresentato dalle opere di malvagi Morgoth e Sauron. Diversi ritratti dell’amicizia sono innanzitutto il rapporto tra Frodo e Sam, ma anche tra Bilbo e Thorin nello Hobbit, oppure tra Túrin e Beleg nel Silmarillion”, conclude il presidente dell’AIST – Associazione Italiana Studi Tolkieniani.

Nell’opera di J.R.R. Tolkien l’amicizia è un sottile ma infrangibile legame, più forte di ogni magia, più forte di ogni tentazione, di fronte al quale il male della Terra di Mezzo, i mali del ‘900, arretrano e si arrendono. È un motore perpetuo che nasce dall’animo di chi sceglie di abbracciare le storie che lo circondano e intraprende un viaggio inaspettato. Charlie D. Nan

Tolkien, un classico al di là delle ideologie. "Studi cattolici" dedica un "Quaderno" all'autore. Che fu molto influenzato dalla fede materna. Luca Gallesi il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Il 2 settembre prossimo sarà il cinquantesimo anniversario della morte di J.R.R. Tolkien (1892-1973), colui che, con l'epica del Signore degli anelli, ha reinventato la classicità adattandola al Ventesimo secolo e innovando efficacemente i miti e le leggende che la modernità sembrava aver cancellato dall'orizzonte umano. Il mensile Studi cattolici celebra questa ricorrenza con uno speciale Quaderno Tolkien allegato al numero 749/70, che si può richiedere alle Edizioni Ares, curato da Marina Lenti - che ha ricostruito attentamente le intricate vicende legate alla nuova traduzione firmata da Ottavio Fatica - a cui hanno collaborato lettori, studiosi e appassionati dell'opera tolkieniana come Paolo Gulisano e Giuseppe Cozzolino, che si sono occupati, rispettivamente, della vita di Tolkien e della trasposizione cinematografica del Signore degli Anelli realizzata da Peter Jackson.

Nato in Sudafrica, ma cresciuto in Inghilterra, il piccolo John Ronald Reuel Tolkien rimane precocemente orfano di padre, e all'età di sedici anni perde anche la madre, convertitasi in età adulta al cattolicesimo, fede che risulterà essere l'eredità più solida e preziosa lasciata ai figli. Già, perché, sebbene nella Terra di Mezzo inventata dallo scrittore non vi siano riferimenti espliciti al cristianesimo, tutte le avventure degli Hobbit sono improntate ai valori cattolici; il viaggio di Frodo - come Tolkien scrive in una risposta alla recensione del Ritorno del Re scritta da W.H.Auden - è una missione «per liberare l'umanità da una malefica tirannia», aggiungendo che «nel Signore degli Anelli il conflitto fondamentale non riguarda la libertà, che tuttavia è compresa. Riguarda Dio, e il diritto che Lui solo ha di ricevere onori divini», per concludere con l'affermazione che «il mio non è un mondo immaginario, ma un momento storico immaginario su una Terra-di-Mezzo che è la terra dove noi viviamo». E tanto basti per calare un pietoso sipario sulla rielaborazione politicamente corretta messa in scena dalla - peraltro noiosa - serie tv Gli anelli del potere, prodotta da Amazon e sonoramente bocciata dal pubblico dopo essere stata meritatamente stroncata dalla critica.

Come tutti sanno, prima di essere un film o una serie televisiva, Il Signore degli Anelli è un libro epico diviso in tre volumi, La Compagnia dell'Anello, Le due torri e Il ritorno del Re, pubblicati tra il 1954 e il 1955, che riprendono il mondo e i personaggi delineati nel romanzo Lo Hobbit, uscito nel 1937. Il successo non fu immediato, ma quando scoppiò divenne travolgente, accendendo l'interesse per il genere fantasy che dilagò nel secondo dopoguerra, con il fiorire di temi, libri e pellicole ispirate più o meno direttamente all'epica tolkieniana: la riscoperta delle fiabe, il dilagare di gnomi e fate, l'invenzione di giochi di ruolo come Dungeons and Dragons, fino agli interminabili cicli letterari inaugurati dai romanzi di Shannara, e i mille altri che sono tutti in qualche modo derivati degli hobbit. I piccoli e pacifici esseri immaginati dal professore oxoniano furono, inoltre, un cult della letteratura hippie e, come tutti sanno, diventarono negli anni Settanta anche i numi ispiratori dell'estrema destra nostrana, che tentò inutilmente di liberarsi dalla muffa delle vecchie sezioni organizzando, come fossero delle feste a lungo attese, i famosi Campi hobbit, che segnarono il definitivo distacco dagli altri campi, quelli paramilitari.

J.R.R. Tolkien è un classico, e i classici non si possono aggiornare, altrimenti non sarebbero più tali; un classico è qualcosa che rimane sempre valido, senza bisogno di aggiustamenti, ritocchi o ammodernamenti, come ha dimostrato il regista Peter Jackson con la sua splendida trasposizione cinematografica, che ha ravvivato l'interesse per le imprese della Compagnia dell'Anello e per l'universo della Terra di mezzo. I tre bellissimi film, campioni d'incasso in tutto il mondo, hanno permesso a delle generazioni di non-lettori di scoprire la ricchezza feconda del patrimonio di miti e leggende che il professore di Oxford aveva rielaborato dal folklore scandinavo e dalla letteratura anglosassone. Appassionato lettore di saghe nordiche sin da bambino, Tolkien le trasformerà nell'oggetto della sua professione quando salirà in cattedra all'Università di Oxford. Professore tanto serio e preciso nello studio quanto originale e anticonvenzionale nel metodo di insegnamento, l'inventore degli hobbit riusciva ad appassionare gli studenti valorizzando il contenuto dei testi affrontati, anche mettendosi a declamare i versi del Beowulf come un menestrello medievale, un po' come il famoso professor Keating impersonato da Robin Williams nell'Attimo fuggente. Una materia noiosa e arida come la filologia, che poteva addormentare anche i più volenterosi studiosi di lingue antiche, vittime di misteriose rotazioni consonantiche, dallo studio faticoso di lingue morte si trasformava in un'epica travolgente, popolata di coraggiosi cavalieri che sconfiggevano draghi sputafuoco, dove gentili donzelle aspettavano di essere liberate dai loro volenterosi corteggiatori. Lo studio della letteratura antica e medievale non era più un mero esercizio di anatomopatologia effettuato su testi morti ma era diventato un'appassionata ricerca di tutto quello che c'è di vivo, perché eterno, nei testi della tradizione.

Nel suo Discorso di commiato all'Università di Oxford, Tolkien disse con molta chiarezza quali erano i suoi principi, applicati tanto dal professore quanto dallo scrittore: «L'oggetto primario delle grandi Scuole non è la cultura e il loro utilizzo accademico non è limitato all'educazione. Le loro radici stanno nel desiderio di conoscenza, e la loro vita è mantenuta da coloro che hanno una passione o una curiosità senza riferimento a scopi personali. Se questa passione e questa curiosità individuali vengono meno, la loro tradizione diviene sclerotica».

Ecco perché, nonostante tutti gli sforzi profusi, le manipolazioni woke e gli adattamenti politicamente corretti dei grandi classici non avranno mai successo.

Donne, scarpe e hotel. I lussi di Goethe in Italia. Dal settembre 1786 al febbraio 1787 il grande scrittore in viaggio da noi prese nota di tutto. Marino Freschi il 5 Luglio 2023 su Il Giornale.

«Ho pressoché sorvolato le montagne tirolesi; ho visitato bene Verona, Vicenza, Padova e Venezia, di sfuggita Ferrara, Cento e Bologna. Firenze si può dire non l'ho veduta. L'ansia di giungere a Roma era così grande, aumentava tanto di momento in momento, che non avevo tregua, e sostai a Firenze solo tre ore. Eccomi qui adesso tranquillo e, a quanto pare, placato per tutta la vita. Giacché si può dire davvero che abbia inizio una nuova vita».

Goethe era letteralmente fuggito in Italia, scappando alle tre di notte del tre settembre del 1786, prendendo il mezzo più veloce (e più caro) dell'epoca, la Extrapost. Perché tanta fretta? Per evitare di farsi riacciuffare dagli uomini del Duca di Weimar, e non perché fosse in rotta col sovrano, anzi proprio il contrario: era insostituibile, in 11 anni di servizio era diventato il factotum del Duca, che gli aveva delegato gran parte dell'amministrazione, dallo stato delle strade alle miniere, dalle uniformi militari del piccolo stato all'organizzazione dei divertimenti di corte. Come l'avrebbe presa Carl August? La prese bene quando seppe, ma solo a novembre, che il suo Goethe era «tranquillo» e «placato» a Roma. E poi c'era anche la delusione per il grande amore della vita: Charlotte von Stein, che però era sposata con prole. Lui gli aveva proposto ancora dieci giorni prima, il 23 agosto, di abbandonare tutto e tutti: «Così tutto finirà dolcemente e i frutti maturi cadranno. Dopo di che, potrò vivere nel mondo con te, in una felice solitudine, senza nome e grado, più vicini alla terra da cui siamo venuti». Così si scrive quando si ama. Ma lei non accettò. E lui fuggì. Non badando a spese, ma annotandole tutte in un «libro dei conti», che ora viene riprodotto in originale, trascritto, interpretato e commentato da Paolo Boccafoglio: Il «Libro dei conti» di Goethe durante il viaggio in Italia (edizioni Il Sommolago del Comune di Malcesine, grande la provincia italiana!).

Il «libro dei conti» va dal 3 settembre alla vigilia della partenza da Roma per Napoli nel febbraio 1787. È un testo avventuroso con una miriade di monete: fiorini, talleri vari, Kreuzer, Groschen, livres francesi, lire venete, scudi, paoli e baiocchi. Il curatore italiano è molto preciso, ma ciò nonostante ci si perde con entusiasmo tra le varie valute e l'equiparazione con il valore attuale. Ma ancora più intriganti sono i mezzi di trasporto, a cominciare dalla veloce Postchaise della Extrapost. Più volte Goethe lascia la carrozza per spostarsi in barca, sul Garda, sul Brenta, da Venezia per raggiungere Chioggia, e poi tramite canali e fiumi Ferrara sempre da Venezia. Inoltre viaggia in sediola, una specie di carrozzella a due ruote, ma anche sul mulo o a piedi: per esempio da Foligno ad Assisi. Inoltre sono segnati i costi dei pernottamenti in alberghi di lusso come a Venezia al «Regina d'Inghilterra», ma anche in stamberghe. Ma Goethe non si scoraggia. Gli capita talvolta di pernottare in spelonche pagando solo il letto e usando come toilette il prato davanti all'osteria. Goethe seguiva le indicazioni delle guide, tra cui il celebre Volkmann, che accompagnava ogni viaggiatore. Il «libro dei conti» registra anche gli acquisti di libri - tra cui le opere di Vitruvio e del Palladio - nonché spese per intrattenimenti teatrali - specie a Venezia -, per i cibi (molto amati i fichi e l'uva di stagione), l'abbigliamento.

Era partito con gli stivali, ma in Italia a settembre è ancora estate e Goethe si munisce di scarpe, calze di lino e di seta. E poi di bauli di varie grandezze dove riporre le numerose pietre che raccoglie durante il viaggio. Spedisce a Charlotte caffè e cioccolata e per lei scrive un diario di viaggio per farsi perdonare la fuga, ma anche per avere una traccia scritta che utilizzò - dopo trent'anni! - per scrivere il suo Viaggio in Italia. Inoltre deve pagare i vetturini, dare generose mance a camerieri, parrucchieri, lavandaie, servitori di piazza (una sorta di ciceroni e camerieri personali), come pure prevedere spese speciali per ungere le ruote. E poi c'è la misteriosa indicazione di donne. Il precursore di questi intriganti studi su fatture e libri dei conti, Roberto Zapperi, suggerisce che questa voce possa alludere a intrattenimenti intimi, che soprattutto a Venezia erano a portata di ogni borsa. La questione resta aperta. A Roma cambierà tutto con la bella Faustina: «Spesso io ho già poetato tra le sue braccia, il ritmo dell'esametro con la punta delle dita/ a lei sulle spalle leggermente scandendo. Ella respira nell'amoroso sonno e il suo alito mi penetra e mi brucia nel più profondo del petto./ Amore intanto ravviva la fiamma...». E addio Frau von Stein: malgrado il dono del diario, il grande amore era finito.

Per tutto il viaggio, soprattutto fino a Napoli, Goethe è in incognito. A Santa Maria del Popolo a Roma va dal parroco, che svolgeva le funzioni di impiegato comunale, e viene registrato nel «Libro delle anime» come Filippo Miller, tedesco, di 32 anni (in realtà ne aveva 37). Abita al Corso (attualmente c'è l'unico museo tedesco all'estero: Casa di Goethe, via del Corso, 18) con tre pittori, tra cui Tischbein, che gli fece il famoso ritratto, con il mantello bianco, appoggiato a un sarcofago sullo sfondo della Campagna Romana. Intanto Goethe si è abituato all'Italia, ama la lingua (il «Libro dei conti» è redatto in italiano!) e la gente. Sono quasi due anni di studi, di scrittura, di libertà sperimentata per la prima volta, di quella che lui chiama la sua «rinascita». Aveva compreso che lui era - lo scrisse al Duca - un artista. Non poteva seguire tutta l'amministrazione dello staterello. A Roma divenne ciò che veramente era.

E ora con il «libro» possiamo calcolare quanto gli costò questa esperienza, resa possibile per la liberalità del Duca che continuava a versagli gli emolumenti. Il sovrano comprese che, se lo rivoleva a Weimar, doveva essere generoso. Goethe continuò, da bravo tedesco, per tutta la vita a tenere in ordine i conti. In archivio vi sono circa 25mila pagine tra documenti vari relativi alle spese. Aveva imparato dal padre che pure era un attento amministratore e che redigeva i suoi libri dei conti ancora in latino. Goethe non era certo uno sprovveduto: da giovane aveva frequentato gli ambienti finanziari di Francoforte e a Weimar per anni aveva seguito le finanze del Ducato. Certo in Italia fu prodigo, aiutò i giovani pittori, suoi coinquilini. Liberale fu anche con Faustina, nonché lesinò con le visite ai musei, gallerie, ville private, escursioni a scopo artistico o scientifico.

Il ritorno fu doloroso, ma inevitabile. E a Weimar, pochi giorni dopo il rientro, incontrò una giovane di modesta condizione, Christiane, con la quale rivisse, stabilmente e a lungo in segreto, l'indimenticabile esperienza romana. Eppure quasi ottantenne, il 9 ottobre 1828, confessava che dopo il soggiorno romano «non ho più goduto veramente di una simile felicità».

Goethe e Schiller, dialogo fra giganti (neo)classici. Le lettere che si spedirono fra il 1794 e il 1805 sono un resoconto del secolo d'oro della letteratura tedesca. Marino Freschi su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

A metà dicembre del 1788, sei mesi dopo il ritorno a Weimar, dopo quasi due anni in Italia, Goethe annotava: «Non so dire quanto abbia sofferto lasciando Roma. Quel che mi circonda al momento non m'invita granché all'esercizio e alla contemplazione dell'arte». Disperatamente solo, né lo rincuorava l'intimità con Christiane Vulpius, la giovane operaia con cui aveva allacciato una relazione clandestina, di cui tutta Weimar sapeva. Gli amici non lo comprendevano più, né lui capiva più loro.

In quei mesi, Schiller, l'altro grande scrittore della letteratura tedesca, confidava, riferendosi a Goethe, che «il suo mondo non è il mio». Anche il giovane autore del Don Carlos si sentiva incompreso, non accettato, escluso dalla cultura ufficiale, ma aveva un progetto che voleva realizzare e lo strumento più adeguato era una rivista: Die Horen («Le Ore»). Aveva già dato prove convincenti di organizzatore culturale, ma questa volta il piano era veramente ambizioso e per realizzarlo aveva bisogno degli intellettuali e artisti più affermati e soprattutto determinante sarebbe stata l'adesione del principale scrittore dell'epoca, di lui: Goethe. La manovra di avvicinamento fu graduale e strategica, culminata con una ossequiosa lettera del 13 giugno 1794, in un momento particolarmente propizio per entrambi, come conferma il deferente finale dell'invito: «Quanto più sarà grande e attento l'interesse di cui degnerete la nostra impresa, tanto più ne crescerà il valore presso quel pubblico, la cui approvazione è per noi di somma importanza. Con la più alta considerazione rimango, Illustrissimo, il Vostro devotissimo servitore e lealissimo ammiratore Schiller».

L'alleanza che si creò significò anche il superamento di spigolosità caratteriali e generazionali. Goethe era del 1749, Schiller del 1759; inoltre Goethe era dell'alta borghesia, nobilitato nel 1782 (a quel tempo il titolo contava ancora molto), ministro del Duca di Weimar; Schiller era uno scrittore già celebre, ma senza una vera sistemazione sociale. Il patto tra i due si saldò nella comune opposizione al massimo evento dell'epoca: la Rivoluzione francese. A differenza dell'entusiasmo, almeno iniziale, di numerosi intellettuali da Kant a Hegel e Hölderlin - Goethe e Schiller compresero che la via tedesca alla politica era quella del «compromesso storico» tra aristocrazia illuminata e borghesia colta nel nome dell'umanesimo classico. Gli ideali del neoclassicismo ispirarono quell'accordo culturale fondato sul patto di tacere, di non accennare mai ai fatti di Parigi. Di fronte ai clamori e ai proclami filo-rivoluzionari, la scelta inattuale dei due scrittori, ormai alleati, era di non parlarne mai e mai silenzio fu più assordante. La coalizione si cementava nel patto sottinteso di ignorare la Rivoluzione e la guerra con un chiaro atteggiamento di distanza e di irreversibile disprezzo per il «sanculottismo letterario», secondo un'espressione di Goethe. L'epistolario diventa così la pietra miliare di quella cultura tedesca radicalmente antipolitica, culminata nel 1918 nelle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann, ripresa e aggiornata nel «Passaggio al bosco» (Trattato del ribelle) di Ernst Jünger nel 1951.

L'ostilità antirivoluzionaria è il filo rosso che attraversa il Carteggio tra Goethe e Schiller, ora tradotto per la prima volta integralmente a cura di Maurizio Pirro e Luca Zenobi, autori di una superba introduzione, per l'editore Quodlibet e l'Istituto italiano di studi germanici. Sono circa mille lettere (e più di 1000 pagine, euro 60). L'epistolario s'interrompe il 27 aprile 1805: Schiller morì il 9 maggio a 45 anni, consumato dalla malattia e dall'eccessivo lavoro. Il carteggio è il vero trattato del classicismo, punto di riferimento insostituibile per l'intera cultura europea. Le lettere sono, inoltre, l'esempio di una intensa collaborazione culturale. Sollecitato da Schiller, sempre generoso nei consigli e nella fiducia, Goethe porta a termine il Wilhelm Meister, riprende a scrivere il Faust, mentre Schiller viene, a sua volta, incoraggiato da Goethe a concludere i suoi lavori teatrali, soprattutto a non interrompere la stesura della trilogia del Wallenstein e dell'ultima tragedia, il Wilhelm Tell (da cui Rossini prese lo spunto per l'opera omonima).

Accanto all'impegno impolitico (in realtà assai politico) vi era un'altra battaglia che vede ancora alleati i dioscuri di Weimar: la lotta contro il romanticismo, o più esattamente contro i tentativi della nuova generazione romantica soprattutto i fratelli August Wilhelm e Friedrich Schlegel - di sabotare l'estetica neoclassica. Nel carteggio affiora una gioiosa vis polemica, culminata nell'esortazione di Schiller: «Bisogna dar fastidio, turbare la pace, mettere in agitazione». E l'olimpico Goethe era pienamente d'accordo a «incommodiren».

Neoclassicismo e romanticismo vennero poi travolti dal comune tramonto della età dell'arte di fronte alle nuove tendenze che dal 1830 imposero una letteratura politica, liberale e sociale, insomma engagée. Quando nel 1828-1829 Goethe pubblicò in sei volumi il carteggio, era consapevole che un mondo, il suo mondo, era tramontato: «Ci sta davanti questa testimonianza di un'epoca trascorsa che non tornerà più e che tuttavia esercita ancor oggi i suoi effetti producendo un influsso vivo e potente». Ormai anziano, di nuovo e definitivamente isolato, intuisce che il carteggio rappresenta il testamento di una stagione epocale: «Se si considera che nel 1806 ebbe inizio l'invasione francese, si vede subito che queste lettere chiudono un'epoca della quale non ci rimane quasi più traccia». L'epistolario è l'estrema reliquia della socievolezza settecentesca, il monumento a quella che venne chiamata la Goethezeit, l'«età di Goethe», presto dimenticata, ma più tardi riscoperta e, a ragione, canonizzata come il secolo d'oro della letteratura tedesca.

(ANSA il 16 febbraio 2023) - Bufera sul New York Times per un op-ed schierato con J.K. Rowling e le sue prese di posizione sui trans. Il quotidiano ha pubblicato la difesa dell'opinionista Pamela Paul 24 ore dopo una lettera aperta, firmata da 170 dipendenti del giornale, che aveva accusato la 'Vecchia Signora in Grigio' di "pregiudizi" anti-trans.

 Il Times ha difeso la sua copertura così come la decisione di pubblicare l'op-ed con la volontà di presentare l'intera gamma di posizioni sull'argomento in questione. Negli ultimi anni tuttavia, secondo i firmatari della lettera, il giornale ha trattato i temi della diversità di genere "con un mix di pseudoscienza e eufemismi, pubblicando allo stesso tempo articoli sui ragazzi trans che omettono importanti informazioni sulle fonti".

 Sono anni d'altra parte che la Rowling è al centro di polemiche per le sue affermazioni sui trans. Tutto è cominciato nel giugno 2020, quando l'autrice dei libri di Harry Potter usò il suo account Twitter per criticare un articolo sulla "gente che ha le mestruazioni".

La scrittrice aveva deriso l'articolo per non aver usato la parola "donne" e il tweet aveva provocato una valanga di commenti negativi, spingendo la scrittrice a ripeterlo ed elaborarlo in un mini-saggio sull'identità di genere che aveva alimentato ulteriormente la controversia.

 La prossima settimana la scrittrice tornerà alla carica in un podcast - I processi alle streghe contro J.K. Rowling - in cui condividerà "le minacce di morte e di violenza" ricevute da lei e dalla sua famiglia "che la polizia ha giudicato credibili": questo lo spunto che ha indotto la Paul a scrivere l'op-ed.

Nell'articolo pubblicato oggi sulla pagina dei commenti, l'opinionista ha definito "assurdi" gli attacchi contro la Rowling: nulla di quanto la 'mamma' di Harry Potter ha detto "si qualifica come transfobico". Secondo la Paul, "se più persone avessero difeso la Rowling, non solo le avrebbero reso giustizia, ma avrebbero preso posizione in difesa dei diritti umani, specialmente dei diritti delle donne, dei gay e anche dei trans. Avrebbero difeso la verità".

Estratto dell'articolo di Antonello Guerrera per repubblica.it il 23 Febbraio 2023.

J.K. Rowling ha lottato per anni contro il suo primo, violento marito, il giornalista portoghese Jorge Arantes, con il quale è stata sposata un anno, dall’ottobre 1992 al novembre 1993, prima di scappare e liberarsi da un aguzzino che la maltrattava e tormentava. [...]

Jorge era molto violento e possessivo”, ricorda Rowling, “soprattutto da quando rimasi incinta di mia figlia Jessica. Non mi concedeva neanche le chiavi di casa, non avevo la libertà di entrare e uscire. Stavo vivendo una tensione orribile”. Tuttavia, nonostante il terribile contesto, la romanziera continua a scrivere Harry Potter e la pietra filosofale. Fino a quando l’ex marito decide di sequestrarle anche quel pezzo della sua vita: “A un certo punto di è reso conto quanto fossero importanti per me quelle pagine”, continua Rowling, “e così decise di prendersi il manoscritto come suo ostaggio”.

Per questo Harry Potter e la pietra filosofale vale moltissimo per me”, argomenta la scrittrice, “alla fine sono riuscito a completarlo prendendo di nascosto qualche pagina alla volta, in modo che Jorge non se ne accorgesse, e fotocopiarla. Così, dopo qualche tempo sono riuscita a recuperarlo e a completarlo. Il resto l’ho nascosto in un armadio”.

Dopo tante angherie, Arantes prova però anche a prendersi la figlia Jessica appena nata, quando nel 1993 butta fuori di casa Rowling e la picchia in strada. Ma lei, come ricorda il Times, lo denuncia alla polizia, il giorno dopo riesce a riportare con sé Jessica, e di lì nasce la leggenda della letteratura inglese, oggi sposata - dal 2001 - con un medico, Neil Murray, con il quale ha due figlie.

 […]

Estratto dell'articolo di Simona Siri per "La Stampa" il 22 febbraio 2023.

Sono trascorsi poco più di due anni da quando J.K. Rowling è passata da essere la scrittrice più amata e di successo del mondo a essere accusata di transfobia, nemica delle persone transgender, vittima di una ondata di odio online senza precedenti, minacciata di morte, stupro, percosse.

Il tutto risale al 2020 quando Rowling si butta nella discussione sul gender con questo tweet: «Se il sesso non è reale, non c’è attrazione per lo stesso sesso. Se il sesso non è reale, la realtà vissuta delle donne a livello globale viene cancellata. Conosco e amo le persone trans, ma cancellare il concetto di sesso rimuove la capacità di molte di discutere in modo significativo delle loro vite». […]

Una storia, quella della caduta di Rowling, che più di ogni altra parla di guerra culturale, del vizio della cancellazione, dei pericoli dei tribunali morali guidati dalla folla online e che oggi viene raccontata nel podcast The Witch Trials of J.K. Rowling le cui prime due puntate sono uscite ieri.

[…] la serie è composta da sette episodi. A condurla è la scrittrice Megan Phelps-Roper, cresciuta in una famiglia all’interno della Westboro Baptist Church, un’organizzazione estremista religiosa che ha lasciato nel 2012.

Al podcast ha lavorato per un anno, dopo aver scritto una lettera a Rowling in cui le chiedeva un’intervista. Lei non solo gliel’ha concessa, ma le ha aperto le porte della sua casa in Scozia per quello che, a oggi, è il più profondo e dettagliato racconto della sua vita, dalla morte della madre al matrimonio con un uomo violento, dalla nascita della figlia all’idea di Harry Potter avuta quando aveva 25 anni, depressa, senza lavoro, sostenuta dagli aiuti economici dello Stato.

«Non ho mai deciso di far arrabbiare nessuno. Tuttavia, scendere dal mio piedistallo non mi ha procurato disagio», dice nel primo episodio, rispondendo alla domanda sul perché, invece di godersi fama e ricchezza, abbia deciso di mettere a repentaglio la sua eredità commentando un argomento così controverso, ancora di più visto che era già stata vittima di odio all’inizio della carriera, i suoi libri bannati e condannati dai fondamentalisti religiosi, accusata di stregoneria e di voler manipolare le menti dei ragazzini. […]

Nell’articolo di presentazione del podcast uscito sul New York Times, Pamela Paul si chiede se non sia arrivato il momento di ripensare la presunta transfobia di Rowling. Alcuni segnali ci sono: Caitlin Flanagan su The Atlantic e Hadley Freeman su Sunday Times l’hanno difesa, così come Helena Boham Carter e Ralph Finnes. The Witch Trials of J.K. Rowling è un ulteriore passo? E.J. Rosetta, in passato accusatrice di Rowling, l’anno scorso è stata incaricata di scrivere un articolo intitolato "Le 20 frasi transfobiche di J.K. Rowling". Dopo 12 settimane a leggere, ha scritto: «Non ho trovato un solo messaggio veramente transfobico. State bruciando la strega sbagliata».

Trascrizione della parte finale del secondo episodio del podcast The witch trials of J.K. Rowling, intitolato "Burn the witch" – pubblicata da "La Stampa" il 22 febbraio 2023.

Nel 1999 sono venuta per la prima volta a sapere che i miei libri venivano bannati. Che c’era un movimento che chiamava i miei libri pericolosi e immorali. Venivano usate parole estreme: che stavo danneggiando i bambini, che ero una strega, che stavo avvelenando le loro menti.

Con l’inizio degli anni 2000 tutto improvvisamente sembra diventare più enorme e dal mio punto di vista più folle. All’epoca durante i firma copie in libreria c’erano code di migliaia di persone. Una volta ci fecero evacuare per un allarme bomba, apparentemente da parte di un personaggio appartenente alla destra ultra conservatrice cristiana. C’erano altri libri che parlavano di stregoneria, ma credo che il problema con i miei sia stato l’enorme successo, la sua misura.

Nelle interviste di allora fui costretta a chiarire che non credevo nella stregoneria e che non era mia intenzione insegnarla ai bambini. Vedere i miei libri bruciati, assistere ai tentativi di rimuoverli dalle biblioteche scolastiche, cercare di capire cosa passa nella mente di queste persone: è un tema che è presente in tutti i libri di Harry Potter ovvero l’idea che il concetto di essere dalla parte del giusto non è incompatibile con il compiere azioni abominevoli. Molte delle persone che appartengono a gruppi capaci di azioni terribili considerano loro stessi come appartenenti alla parte giusta, credono di fare la cosa giusta.

Dal mio punto di vista bruciare libri rappresenta, per definizione, il trapassare la soglia del dibattito razionale, il distruggere l’idea con cui non sono d’accordo, distruggere la sua rappresentazione. Non c’è libro su questa terra che merita di essere bruciato, inclusi libri che personalmente penso possano recare danno. Bruciare libri è l’ultima risorsa per persone che non sono in grado di discutere. […]

 (Traduzione di Simona Siri)

"Con le minacce che ho ricevuto potrei tappezzarci casa". J. K. Rowling, l’autrice di Harry Potter si racconta in un podcast: dal marito violento alle accuse di transfobia. Antonio Lamorte su il Riformista il 22 Febbraio 2023

J.K Rowling si racconta, si apre come non aveva mai fatto la scrittrice da record, autrice della saga di Harry Potter oltre ad altri libri per bambini e a noir sotto pseudonimo. Si racconta a tutto campo in un podcast di sette puntate dal titolo esplicito: "I processi alla stregoneria di J.K Rowling" ("The witch trails of J. K. Rowling"). Poco più di due anni fa esplodeva infatti il caso: Rowling accusata come nemica delle persone transgender, bersaglio di odio online, minacciata di stupro e allontanata, boicottata, perfino esclusa dalle celebrazioni per l’anniversario dell’uscita del primo film della saga del maghetto di Hogwarts: alcuni attori della stessa hanno preso le distanze da lei. Lei, disinvolta, non si preoccupa di come verrà ricordata: "Sarò morta, preferisco pensare a chi vive".

Al momento le puntate uscite sono due, in tutto saranno sette, per The Free Press, giornale creato da Bari Weiss, ex giornalista del New York Times. La scrittrice nel podcast risponde alle domande di Megan Phelps-Roper, cresciuta in una famiglia all’interno della Westborough Baptist Church, un’organizzazione estremista religiosa che ha lasciato nel 2012. Ha raccontato degli anni turbolenti dell’adolescenza, della perdita della madre, del trasferimento in Portogallo, della relazione e del matrimonio con il primo marito, delle violenze subite dallo stesso primo marito, della scrittura, della fuga a Edimburgo, della nascita e del fenomeno di Harry Potter e dell’universo di Hogwarts – un cult ormai. Dopo che la giornalista le aveva chiesto un’intervista, la scrittrice ha aperto le porte della sua casa. E si è raccontata. Il lavoro è durato un anno.

Harry Potter ha venduto circa 500 milioni di copie in tutto il mondo. Il primo manoscritto, ha raccontato la scrittrice, era stato sequestrato dal marito: aveva capito che quell’opera, la scrittura, erano la sua fuga. "Era molto violento, mi controllava in ogni cosa". Si erano conosciuti in un caffé in Portogallo. Era il 1990, lei aveva 25 anni, lui 23. Rowling provava in quel periodo di superare il lutto per la perdita della madre. Ha descritto quell’uomo come iper protettivo: la controllava in tutto, perfino nella borsa, non le permetteva di avere una copia delle chiavi della casa dove vivevano.

Lei aveva cominciato a portare a lavoro, ogni giorno, alcuni fogli del manoscritto, in un numero tale da non destare sospetti, e a fotocopiarli. "Pian piano una copia cominciò a crescere nel mio armadietto, senza che lui potesse farci nulla", ha raccontato la scrittrice. "Quel manoscritto significa ancora moltissimo per me. Allora aveva la precedenza su tutto, tranne su mia figlia Jennifer. Ma lei era ancora dentro di me, quindi al sicuro". L’ultimo episodio, quello che distrusse definitivamente la relazione, quando la bambina era appena nata. Rowling si rivolse alla polizia.

L’ex marito ha confessato in un’intervista nel 2000 di aver aggredito la donna, ha parlato di "una relazione molto altalenante, eravamo sempre o in paradiso o all’inferno". Rowling ha confessato di sentirsi ancora fragile per via di quella relazione. "Non era un uomo stupido, doveva aver capito che stavo cercando una via di fuga", ha raccontato la scrittrice. Evasione che trovava proprio nella scrittura. Il matrimonio era finito dopo solo anno. La scrittrice si è risposata nel 2001, con il dottore Neil Murray, con cui ha avuto due figlie. "Spero loro non debbano mai avere gli stessi motivi che ho io per odiare i rumori alti o le persone che ti approcciano di sorpresa".

Rowling è scappata a Edimburgo nel 1993. Harry Potter e la pietra filosofale, primo capitolo della saga, venne rifiutato da dodici editori prima di essere pubblicato nel Regno Unito nel 1997. Fu un caso letterario da subito. La scrittrice ha ammesso però di non essersi mai abituata alla fama. Tutto è stato reso ancora più difficile dalle accuse e dalle contestazioni verso le sue posizioni. L’hanno accusata di essere una terf: "trans-exclusionary radical feminist", ovver una femminista radicale che esclude dalle sue battaglie le persone trans.

"Potrei tappezzare la mia casa con le minacce che ho ricevuto", ha dichiarato. "Quando apri le porte di bagni, camerini e spogliatoi a uomini che credono o sentono di essere donne apri quella porta per tutti gli uomini che vogliono entrare", aveva scritto sul suo sito web scatenando un’ondata di accuse. "Se il sesso non è reale non c’è attrazione per lo stesso sesso, se il sesso non è reale la realtà vissuta dalle donne a livello reale viene cancellata. Conosco e amo le persone trans ma cancellare il concetto di sesso rimuove la capacità di molte di discutere in modo significativo delle loro vite", il tweet che l’aveva catapultata al centro della polemica che ha travolto anche l’uscita del videogioco "Hogwarts Legacy" negli ultimi giorni.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Borges, il poeta della disumanità e della nostalgia. OTTAVIO DI GRAZIA su Il Quotidiano del Sud il 17 Luglio 2023.

ALTO sul suo cavallo, circondato dal malinconico crepuscolo, il colonnello Francisco Borges, cavalca e va incontro alla morte che paziente «spia dai fucili» e lo aspetta. «Tristemente Francisco Borges va per la pianura», la pampa infinita, ossia il paesaggio che ha visto per tutta la vita. Il colonnello Borges era il nonno di Jorge Luis Borges che lo “vede” allontanarsi, impenetrabile ai versi scritti quasi cent’anni dopo dal celebre nipote, poeta impenetrabile alle sue parole, «appena sfiorato dal mio verso».

Borges, il grande poeta, scrittore, saggista, traduttore argentino lascia il nonno nel suo mondo epico e non è più in grado di carpire il segreto della sua vita. Siamo in presenza dello «splendore inalterabile dell’accadere che sfugge alle acrobazie dell’intelligenza e alla pomposa geometria delle parole, che si illudono di definire la vita e sperano di quantificarla». (C. Magris). Borges è autore di pagine di altissima poesia e di una prosa in grado di offrire a chi lo legge continue sorprese. Vale la pena ricordare che una volta Borges ha detto che «lasciava agli altri di gloriarsi dei libri che avevano scritto e che la sua gloria erano invece i libri che aveva letto».

Borges è il poeta dell’essenziale e della disumanità insita in ogni purezza, apparente, di fronte alla totalità della vita. Soltanto letture superficiali della sua opera possono fare di Borges il simbolo e il cantore di una raffinatezza manieristica impermeabile ai sentimenti, espressione di un compiaciuto artificio, di una letterarietà superba ed estranea alla vita. Anzi, Borges è il cantore della nostalgia della vita, della sua semplicità profonda e struggente, della sua verità inattingibile e perduta. C’è una malinconia del mutamento che attraversa la sua poesia e il suo pensiero. Borges amava il tango che, come ha scritto Enrique Santos Discepolo, musicista, compositore e regista argentino, è «pensiero triste che si balla»; una danza che è una “grazia rara” che si accompagna al dono dell’istante, all’epica di un riscatto, forse, impossibile, al sogno di una liberazione sempre di là da venire. Ma, questa “grazia rara” basta a rendere indelebile la verità di un uomo. Le sue pagine sono profonde, le «più grandi che siano state scritte sul rapporto tra vivere e scrivere». Potrei aggiungere tra vita e pensiero.

Possiamo dire che Borges ha saggiato le possibilità letterarie della filosofia? Borges, certamente, da poeta, ha avuto una grande sensibilità filosofica. Nella sua opera, c’è una profonda attenzione per i miti, le dottrine, i poemi, le narrazioni sull’origine e la formazione dell’universo. Non sarebbe così complicato stabilire paralleli tra Borges, Eraclito, Hume, Barkeley, Nietzsche e Schopenhauer. Pensiamo al tema del tempo, di cui parla, in particolare in Storia dell’eternità, in cui sviluppa un teso corpo a corpo con Platone e Plotino e con le vertiginose speculazioni della teologia cristiana, da Sant’Agostino a Sant’Ireneo di Lione, sull’eternità e la Trinità come dinamismo eterno e interno a Dio stesso. «Il tempo è la sostanza di cui son fatto. Il tempo è un fiume che mi  trascina, ma io sono il Fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo disgraziatamente è reale; io, disgraziatamente sono Borges».

Il tempo «immagine mobile dell’eternità», come affermava Platone nel Timeo. Ma poi c’è un tempo che ci riguarda e che non sappiamo definire. L’eternità è una parola inconcepibile, afferma Borges. È solo una immagine per la nostra speranza umana troppo umana. Immagine, illusione? Ha scritto Borges: «Traggo anticipatamente questa conclusione: la vita è troppo breve per non essere anche immortale e aggiunge – ma non abbiamo nemmeno la sicurezza della nostra povertà, poiché il tempo, facilmente confutabile nell’ambito dei sensi, non è tuttavia confutabile in quello intellettuale della cui essenza sembra inseparabile il concetto di successione». La sfida posta dal “Tempo”, il suo trascorrere, ha un ruolo fondamentale anche nella storia delle religioni, in cui c’è una sorta di “rispetto per il tempo”, per non perdersi nell’indistinto, attraverso la periodicità e la ricorrenza delle festività, dei cicli solari e lunari. Elementi che, come ha insegnato Mircea Eliade, servono a rompere l’omogeneità del tempo e a costruire una porzione della sua sacralità.

Ma resta tutta la fatica concettuale per afferrare il senso del tempo. Lo stesso Sant’Agostino nelle Confessioni, dichiarava di non saperlo spiegare. Lo sentiva, lo sperimentava nella propria esistenza, come accade a tutti noi, ma poi definirlo era un compito vertiginosamente complesso. Cosa sono passato, presente e futuro? Cos’è l’eterno ritorno dell’uguale, l’attimo eterno? In un’intervista del 1979 Borges disse di aver usato la filosofia e la metafisica come strumenti letterari e di non ritenersi un pensatore, di non essere capace di produrre pensieri suoi. Le interpretazioni che i filosofi hanno fornito del mondo possono dunque essere intese come finzioni fantastiche e metafisiche capaci d’individuare questi “interstizi”, finzioni che, in quanto tentano di rendere ragione di un ipotetico mondo reale, non possono tuttavia fare a meno di escogitare spiegazioni che vadano oltre l’esperienza più immediata e realistica. Anche per questa ragione Borges preferì sempre la forma del racconto al romanzo lungo: perché riteneva questo genere letterario incline a riempire di circostanze le storie narrate e distratto dal vano tentativo di rappresentare la realtà.

La vedova di Borges, Maria Kodama, minuta, con lineamenti orientali, di ascendenza giapponese, con incredibile potenza espressiva richiamava le passioni e il carattere del marito: «Bisognerebbe chiamarlo Borges di Buenos Aires, aggiungendo al suo nome quello della città, esattamente come facevano gli antichi greci con i loro filosofi: Pitagora di Samo, Talete di Mileto». Al di là dalla «ragnatela del suo soave scetticismo, dal suo farraginoso enciclopedismo, dal suo ecumenismo eclettico», nell’opera di Borges ci si trova immersi nel mito e nella storia. In questo senso, nell’orizzonte sconfinato dell’universo “creativo” di Borges, c’è una profonda attenzione per i temi biblici e per quelli della fede.

La Bibbia è stata una presenza costante nella vita di Borges che riteneva vi fosse un trittico di storie capitali nella storia dell’umanità: l’Iliade, l’Odissea e, quello che chiamava il terzo “poema”: le storie bibliche, appunto. La sua era una vera passione per la Bibbia. In Siete conversaciones con Borges, lo scrittore afferma: «Di tutti i libri della Bibbia quelli che mi hanno impressionato sono il libro di Giobbe, l’Ecclesiaste (o Qohelet), i Vangeli. Sarebbe troppo complicato seguire tutti i passaggi evocati da Borges nella sua opera, tratti dalla Bibbia, le immagini, le figure, i personaggi. Molte sue opere sono dei veri e propri commenti e interpretazioni dei testi biblici. Penso in particolare a L’Aleph. Caino e Abele, il tema della colpa. Il volto di Cristo che è da ricercare negli specchi ove si riflettono i volti umani. Il termine “parola”, logos, davar, Wort, che Goethe, nel Faust tradurrà come forza, atto, (proprio come la parola davar, che in ebraico significa parola e cosa), è al centro di profonde analisi e meditazioni da parte di Borges. Non sono solo codici linguistici. A più riprese Borges aveva espresso il suo desidero di essere ebreo. Borges nutriva una vera fascinazione per il misticismo ebraico e per la Qabbalah.

Vorrei solo ricordare, a questo proposito, la stima profonda che il poeta Borges nutriva per lo scrittore spagnolo Rafael Cansinos-Assens, che fece del ritorno all’ebraismo la cifra e lo scopo della sua vita. La loro amicizia aveva qualcosa che travalicava la semplice stima “professionale. Borges lo considerava un Maestro e l’ebraismo era per Borges luogo di incontro di civiltà e, soprattutto, una tradizione in cui la “parola” è tutto. Al momento della morte, accanto al letto, aveva il  Livre de Poche  di  Voltaire e i Frammenti di Novalis. Un momento solenne, quello dell’addio alla vita terrena, in cui ancora una volta oscillarono sospese l’ironia e l’immaginazione, la luce e la penombra.

Estratto del libro "Uomini contro" (Longanesi) di Mirella Serri pubblicato da “la Stampa” mercoledì 11 ottobre 2023.

Evola era un guru e una specie di mago. Sapeva catturare i più giovani, farli diventare i suoi cerimonieri e gli officianti dei suoi riti. Chi erano i giovani di destra che frequentavano la casa di Evola in corso Vittorio Emanuele e che ascoltavano le parole del maestro costretto sulla sedia a rotelle? Come nell'Antica Grecia, Evola si poneva come un «saggio» ed ebbe nel novero dei più fedeli e devoti allievi il giovanissimo Angelo Izzo, l'artefice del massacro del Circeo con Andrea Ghira e Gianni Guido, amici e compagni di scuola al San Leone Magno.

Izzo era un Narciso dai grandi occhi sporgenti e dall'eloquio brillante e, grazie all'assidua frequentazione del «maestro», divenne un esecutore delle evoliane teorie dell'orgia, mise in atto la predicazione di Evola dello stupro come forma di dominazione del mondo femminile. Era anche un convinto antisemita.

Il massacro del Circeo segnò fortemente e drammaticamente la pubblica opinione e servì per cambiare finalmente la legge sulla violenza contro le donne […] Le violenze sessuali erano considerate un delitto contro la morale e il buon costume. Dopo vent'anni di manifestazioni femministe, nel 1996 fu approvata una nuova normativa e lo stupro fu definito un crimine contro la persona.

All'epoca del processo la mentalità più diffusa era quella di considerare colpevoli le donne sottoposte a violenza. Le vittime di abusi […] finivano per essere stuprate perché «se l'erano andata a cercare», girando da sole, senza madre, padre o fratelli accompagnatori e ponendosi come prede sessuali disponibili. […] La cultura del Movimento sociale italiano […] non si era molto evoluta dalla fine della seconda guerra mondiale. L'idea della donna subalterna […] era la più accreditata […]: le donne dovevano essere a fianco degli uomini e non avere libertà decisionale.

Lo sostenevano esplicitamente pure le stesse aderenti al Msi, che portò la prima donna in Parlamento solo nel 1963: fino ad allora le donne si erano riconosciute nell'esclusivo ruolo di solerti mogli, madri, figlie e compagne che accudivano i loro «militanti e guerrieri».

Negli anni Settanta la presenza femminile di destra scoprirà di poter contare e di poter avere una propria autonomia sempre però a fianco del maschio «dominatore».

Nel 1973 le missine elogiavano il valore dei neorivoluzionari fascisti opponendosi al femminismo: «Alla scostumatezza delle femministe noi contrapponiamo la nostra femminilità intelligente», dichiarava una delle responsabili femminili del Msi […] «La casa è il nostro fortino... il lavoro della donna deve essere assistenziale, prima sposa e madre e poi lavoratrice... il progresso femminile è necessario ma il femminismo è deleterio, importante è la funzione angelica della donna che aiuta il guerriero a riposare». 

Le fanciulle che aderivano al partito con la fiamma tricolore si autoproponevano come comprimarie […] Evola ribadì a più riprese le sue posizioni a proposito della debolezza intrinseca della donna e della presenza dannosa degli ebrei nel mondo moderno.

Nel 1967 su Noi Europa, organo di Ordine Nuovo, pubblicò una lettera di rimprovero ad Almirante per «un poco simpatico cedimento» nel corso di un suo intervento tv in cui aveva rinnegato il razzismo fascista, al quale il filosofo invece attribuiva «anche aspetti positivi». Gli ebrei, per Evola, in quanto nomadi e astuti mercanti si erano attirati e continuavano a calamitare forme di odio da parte dei non ebrei: «L'Olocausto non ha avuto quelle dimensioni tradizionalmente evocate: se gli ebrei sono morti, è perché non avevano da mangiare come i tedeschi». 

Nei campi di concentramento si moriva di fame e magari di malattie da raffreddamento: le camere a gas per Evola non esistevano. Anche le persone di colore erano investite dal razzismo dello studioso romano. Nel 1969 ammonì gli americani che per risolvere il problema razziale potevano sgomberare «dai bianchi uno degli Stati minori dell'Unione per mettervi tutti i negri statunitensi».

Il teorico della destra estrema […] parlava ai giovani di destra della funzione liberatoria della sessualità nell'orgia. […] Distinguendo tra Eletti e specie inferiori, come le persone di colore, gli ebrei e le donne, il filosofo romano fece da battistrada agli omicidi di Angelo Izzo e di Andrea Ghira.

L'assassinio era un modo «per procurarsi sangue e feticci che servivano per altre potenti pratiche esoteriche e il sesso un mezzo per ottenere poteri alchemici e per attrarre nella nostra setta uomini potenti e viziosi», spiega Izzo. […] Come racconta Filippo, il fratello di Andrea Ghira, anche in anni successivi i ragazzi che Evola aveva indottrinato con i suoi saggi continuarono ad autodefinirsi patrioti, militanti controrivoluzionari, e a ribadire che non dimenticavano la lezione di Hitler. Erano seguaci pure del nazionalismo di Stalin […]

Julius Evola. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Julius Evola, pseudonimo di Giulio Cesare Andrea Evola (Roma, 19 maggio 1898 – Roma, 11 giugno 1974), è stato un filosofo, pittore, poeta, scrittore, occultista ed esoterista italiano.

Si occupò di arte, filosofia, storia, politica, esoterismo, religione, costume, in una sintesi che rappresenta una mescolanza singolare (anche se non necessariamente originale) di diverse scuole e tradizioni di pensiero, che includono l'Idealismo tedesco, le dottrine orientali, il tradizionalismo integrale e, in ruolo preminente, la Weltanschauung della Konservative Revolution, con cui Evola ebbe una profonda identificazione anche personale.

Le sue posizioni si inquadrano nell'ambito di una cultura di tipo aristocratico e di tendenze ideologiche in gran parte presenti anche nel fascismo e nel nazionalsocialismo, ai quali fu vicino pur esprimendosi talvolta in chiave critica nei confronti dei due regimi sotto alcuni aspetti. Evola fu inoltre promotore di diverse teorie del complotto di impostazione antisemita e razziste unite ad una visione del mondo caratterizzata dalla magia e dall'occulto. Nel dopoguerra affermò di aver ricevuto apprezzamenti da Mussolini per alcune impostazioni: in particolare il ritorno alla romanità e una teoria della razza in chiave spirituale, che propugnò in un'ampia serie di scritti. Da parte sua il filosofo nutrì una pacata ammirazione nei confronti del Duce ma rimase sempre più vicino alla concezione tedesca del fascismo che non a quella italiana.

Nonostante ciò, le sue idee eterodosse non sempre furono ben accolte dalla classe dirigente italiana del tempo e gli valsero la sospensione di alcune pubblicazioni da parte dello stesso PNF e in Germania il sospetto delle gerarchie naziste. Evola contribuì alla divulgazione in Italia di importanti autori europei del XIX e del XX secolo: Bachofen, Guénon, Jünger, Ortega y Gasset, Spengler, Weininger, Meyrink, traducendo alcune loro opere e pubblicando saggi critici.

La complessità del suo pensiero gli procurò, anche dopo la fine della guerra, un grande seguito negli ambienti tradizionalisti conservatori italiani ed europei, dagli esponenti della destra più moderata (Giano Accame, Marcello Veneziani) fino a quelli più radicali del neofascismo (rappresentati da Franco Freda, Adriano Romualdi, Pino Rauti ed Enzo Erra del Centro Studi Ordine Nuovo). Le sue opere vengono tradotte e pubblicate in Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Grecia, Svizzera, Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti, Messico, Canada, Romania, Argentina, Brasile, Ungheria, Polonia, Turchia.

Biografia

Origini

Giulio Cesare Andrea Evola nacque a Roma alle ore 22:00 di giovedì 19 maggio 1898. I genitori erano Vincenzo Evola (1854-1941) e Concetta Mangiapane (1865-1952). Entrambi i genitori erano siciliani, nati a Cinisi. I nonni paterni di Giulio Cesare Evola erano Giuseppe Evola (1815-1897) e Maria Cusumano (1818-1895). Giuseppe Evola è riportato come falegname nell'atto di nascita di Vincenzo. I nonni materni di Giulio Cesare Evola erano Cesare Mangiapane (1825-1896) e Caterina Munacó (1831-1930). Cesare Mangiapane è riportato come bottegaio nel registro delle nascite di Concetta. Vincenzo Evola e Concetta Mangiapane si sposarono a Cinisi il 25 novembre 1892. Nell'atto di matrimonio Vincenzo Evola è riportato come capo meccanico telegrafico e già residente a Roma, mentre Concetta Mangiapane è riportata come possidente. Giulio Cesare Evola aveva un fratello maggiore, Giuseppe Gaspare Dinamo Evola (1895-1958) per cui, essendo il secondo figlio maschio, seguendo la convenzione di denominazione siciliana dell'epoca, seppur con una leggera variazione, Giulio Cesare Evola fu in parte denominato in onore al nonno materno.

Benché non lo fosse, Giulio Cesare Evola si è spesso riportato come barone], in riferimento a un presunto distante rapporto di discendenza con una famiglia aristocratica siciliana di antica origine normanna (gli Evoli, baroni di Castropignano in Molise, nel Tardo Medioevo, poi passati in Sicilia) del Regno di Sicilia.

Formazione

Giulio Cesare Evola studiò all'Istituto Tecnico "Leonardo da Vinci" di Roma. Le poche notizie sui suoi anni di formazione si possono ricavare dall'autobiografia intitolata Il cammino del cinabro, pubblicata nel 1963 dall'editore Scheiwiller e che, nelle intenzioni dell'autore, sarebbe dovuta uscire postuma, la quale più di ogni altro scritto di Evola contribuì alla nascita del culto del suo autore Riguardo ai dati puramente biografici e famigliari, Evola fu sempre abbastanza riservato, dicendo di essersi lasciato alle spalle questi aspetti, pur essendo in seguito state pubblicate, nella ristampa moderna dall'autobiografia, diverse fotografie che lo ritraggono durante l'infanzia con i genitori.

«Nella prima adolescenza, mentre seguivo studi tecnici e matematici, si sviluppò in me un interesse naturale e vivo per le esperienze del pensiero e dell'arte. Da giovinetto, sùbito dopo il periodo dei romanzi d'avventure, mi ero messo in mente di compilare, insieme ad un amico, una storia della filosofia, a base di sunti. D'altra parte, se mi ero già sentito attratto da scrittori, come Wilde e D'Annunzio, presto il mio interesse si estese, da essi, a tutta la letteratura e l'arte più recenti. Passavo intere giornate in biblioteca, in un regime serrato ma libero di letture. In particolare, per me ebbe importanza l'incontro con pensatori, come Nietzsche, Michelstaedter e Weininger. Esso valse ad alimentare una tendenza di base, anche se, a tutta prima, in forme confuse e in parte distorte, quindi con una mescolanza del positivo col negativo» (Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 5.)

La lettura delle opere degli autori su citati (in particolare Nietzsche), ebbe su Evola alcune dirette conseguenze: in primo luogo un'opposizione al Cristianesimo, soprattutto in riferimento alla teoria del peccato e della redenzione, del sacrificio divino, della grazia e dell'eguaglianza fraterna. In secondo luogo una sorta di insofferenza verso il mondo borghese, la sua piccola morale e il suo conformismo.

Decise dunque di svincolarsi dalla routine borghese, soprattutto nei suoi aspetti più concreti e quotidiani: famiglia, lavoro, amicizie. Si iscrisse alla facoltà di ingegneria, ma rifiutò di discutere la tesi per disprezzo dei titoli accademici, poiché «l'apparire come un "dottore" o un "professore" in veste autorizzata e per scopi pratici, mi sembrò cosa intollerabile, benché in seguito dovessi vedermi continuamente applicati titoli che non ho».

Proseguì nello studio dell'arte e della filosofia:

«A parte gli autori accennati, va menzionata l'influenza che su me adolescente esercitò anche il movimento che alla vigilia della prima guerra mondiale e durante la prima parte di essa ebbe per centro Giovanni Papini con le riviste Leonardo e Lacerba, in seguito in parte anche con La Voce. Fu il periodo dell'unico vero Sturm und Drang che la nostra nazione abbia conosciuto, dell'urgere di forze insofferenti del clima soffocante dell'Italietta borghese del primo novecento […] A lui e al suo gruppo si deve il nostro venire a contatto con le correnti straniere più varie e interessanti del pensiero e dell'arte d'avanguardia, con l'effetto di un rinnovamento e di un ampliamento di orizzonti» (Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 5.)

Successivamente si distaccò anche da Papini, soprattutto per la conversione di costui al cattolicesimo e a seguito della pubblicazione del libro Storia di Cristo (1921).

Il primo periodo artistico: l'idealismo sensoriale

Inizia giovane l'attività in campo artistico: i primi quadri risalgono al 1915, le prime poesie al 1916.

Attraverso Giovanni Papini entra in contatto con alcuni esponenti del Futurismo quali Giacomo Balla e Filippo Tommaso Marinetti. Nel 1919 partecipa alla "Grande Esposizione Nazionale Futurista" di Palazzo Cova a Milano. Ben presto si stacca da questo movimento per ragioni che lui stesso espone:

«Non tardai però a riconoscere che, a parte il lato rivoluzionario, l'orientamento del futurismo si accordava assai poco con le mie inclinazioni. In esso mi infastidiva il sensualismo, la mancanza di interiorità, tutto il lato chiassoso e esibizionistico, una grezza esaltazione della vita e dell'istinto curiosamente mescolata con quella del macchinismo e di una specie di americanismo, mentre, per un altro verso, ci si dava a forme sciovinistiche di nazionalismo. A quest'ultimo riguardo la divergenza mi apparve netta allo scoppio della prima guerra mondiale, a causa della violenta campagna interventista svolta sia dai futuristi che dal gruppo di Lacerba. Per me era inconcepibile che tutti costoro, con alla testa l'iconoclasta Papini, sposassero a cuor leggero i più vieti luoghi comuni patriottardi della propaganda antigermanica, credendo sul serio che si trattasse di una guerra per la difesa della civiltà e della libertà contro il barbaro e l'aggressore» (Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 8.)

A questa prima fase, definita dallo stesso Evola idealismo sensoriale, appartengono le opere: Fucina, studio di rumori (1917 circa), Five o'clock tea (1918 circa) e Mazzo di fiori (1917-18).

Gli anni della prima guerra mondiale

Nel periodo della neutralità italiana, fu tra i pochi che sostenevano di dover entrare in guerra, non contro gli Imperi Centrali, ma al loro fianco.

Frequenta a Torino un corso per allievi ufficiali e partecipa alla prima guerra mondiale come ufficiale di artiglieria sull'altopiano di Asiago dal 1917 al 1918. Rientra a Roma dopo il conflitto e attraversa una profonda crisi esistenziale che lo porta sull'orlo del suicidio, come egli stesso riporta ne Il cammino del cinabro:

«Questa soluzione [...] fu evitata grazie a qualcosa di simile ad una illuminazione, che io ebbi nel leggere un testo del buddhismo delle origini. Fu per me una luce improvvisa: in quel momento deve essersi prodotto in me un mutamento, e il sorgere di una fermezza capace di resistere a qualsiasi crisi»

(Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 10.)

Il passo cui si riferisce Evola è il seguente: «Chi prende l'estinzione come estinzione e, presa l'estinzione come estinzione, pensa all'estinzione, pensa sull'estinzione, pensa "Mia è l'estinzione" e si rallegra dell'estinzione, costui, io dico, non conosce l'estinzione». Si tratta di una traduzione e rielaborazione di una frase del Buddha contenuta nel discorso del Mulapariyâya Sutta (Canone pāli, Majjhima Nikaya, I).

Il secondo periodo artistico: l'astrattismo mistico

Nel 1920 aderisce al Dadaismo ed entra in contatto epistolare con Tristan Tzara. Come pittore diviene uno dei massimi esponenti del Dadaismo in Italia. Questa seconda fase viene definita, sempre da Evola, astrattismo mistico ovvero una reinterpretazione dadaista in chiave di spiritualismo e di idealismo. A questa fase appartengono alcune importanti opere: Paesaggio interiore 10,30 (1918-20) e Astrazione (1918-20). Questo periodo vede Evola impegnato in due mostre personali: quella del gennaio 1920 alla casa d'arte Bragaglia di Roma, e quella del gennaio 1921 alla galleria Der Sturm di Berlino in cui presenta sessanta dipinti.

Pubblica nel 1920, per la Collection Dada, l'opuscolo Arte astratta. Sempre nello stesso anno fonda con Gino Cantarelli la rivista Bleu e pubblica a Zurigo il poema dada La parole obscure du paysage intérieur. Collabora inoltre con Cronache d'attualità di Anton Giulio Bragaglia e con Noi di Enrico Prampolini. Nel 1923 cessa l'attività pittorica e fino al 1925 fa uso di sostanze stupefacenti con il fine di raggiungere stati alterati di coscienza: «In questo contesto, vi è anche da accennare all'effetto di alcune esperienze interiori da me affrontate a tutta prima senza una precisa tecnica e coscienza del fine, con l'aiuto di certe sostanze che non sono gli stupefacenti più in uso [...] Mi portai, per tal via, verso forme di coscienza in parte staccate dai sensi fisici».

Il periodo filosofico

Evola e il magico "Gruppo di Ur"

È il 1927 quando si forma il "Gruppo di Ur", con l'obiettivo di trattare con serietà e rigore le discipline esoteriche e iniziatiche. La parola, come spiega lo stesso Evola, è «tratta dalla radice arcaica del termine "fuoco", ma vi era anche una sfumatura additiva, pel senso di "primordiale", "originario", che essa ha come prefisso in tedesco». Rispetto a un tentativo già intrapreso da Reghini con la direzione delle riviste Atanor e poi Ignis, il "Gruppo di Ur" si prefigge di accentuare maggiormente il lato pratico e sperimentale.

Il gruppo di studio adotta il principio dell'anonimato dei collaboratori – che si firmano tutti con uno pseudonimo – e inizia sotto la direzione di Evola la pubblicazione di fascicoli mensili che sono poi riuniti nei volumi Introduzione alla magia usciti tra il 1927 e il 1929. Il termine magia, spiega Evola, non corrisponde al significato popolare, ma alla «formulazione del sapere iniziatico che obbedisce a un atteggiamento attivo, sovrano e dominativo rispetto allo spirituale».

Verso la fine del 1928 nel "Gruppo di Ur" avviene una scissione rispetto alla quale Evola è molto vago, anche in relazione al principio dell'anonimato cui il gruppo si rifà: parla genericamente di intromissioni della massoneria all'interno del gruppo, ma in realtà sono presi di mira Arturo Reghini e Giulio Parise, entrambi massoni. A seguito di questa scissione, pochi mesi dopo, il gruppo si scioglie definitivamente.

Successivamente, ne Il cammino del cinabro, Evola torna sull'argomento raccontando di come Mussolini si preoccupasse del "Gruppo di Ur", pensando che qualcuno volesse agire magicamente su di lui. Evola mette in relazione questo fatto all'ordine giunto ad alcune riviste di interrompere la collaborazione con lui e decide di chiarire il fatto con il duce: «Giunto a sapere come le cose effettivamente stavano, Mussolini cessò di interferire. In realtà, Mussolini, oltre che suggestionabile, era abbastanza superstizioso (come controparte di una mentalità, in fondo, chiusa alla vera spiritualità)».

Sempre ne Il cammino del cinabro Evola ammetterà la non veridicità di alcuni dei fenomeni paranormali descritti nelle riviste Atanor e Ignis e poi raccolti in Introduzione alla Magia quale scienza dell'Io: «Per debito di onestà, debbo dire che vanno messi sotto beneficio d'inventario alcuni dei fenomeni riferiti in Introduzione [alla Magia quale scienza dell'Io], in relazione al gruppo [di Ur]».

Il mancato suicidio è per Evola il momento di passaggio più significativo: fine del periodo artistico e inizio del periodo filosofico. Esce nel 1925 il primo libro di filosofia: Saggi sull'idealismo magico. Coerentemente con le posizioni teoriche della sua seconda fase artistica (astrattismo mistico) Evola si distacca dall'idealismo hegeliano in favore di una libertà interiore assoluta. Il pensiero deve prefiggersi il compito di superare i limiti dell'umano per andare verso l'oltre-uomo teorizzato da Nietzsche. L'attualismo gentiliano diventa dunque il punto di partenza: dall'Io come principio attivo della realtà su un piano logico-astratto, all'Io come criterio di potenza capace di affermare l'individuo assoluto.

Secondo Evola l'individuo assoluto è immediatamente sé nelle infinite affermazioni individuali e in ciascuna di esse si fruisce come libertà, come incondizionata agilità e arbitrio assoluto. Termina nel 1924 la Teoria e fenomenologia dell'individuo assoluto che inizia a scrivere già in trincea (nel 1917) e che viene pubblicata in due volumi (nel 1927 e nel 1930) dall'editore Bocca. In questo testo Evola si interessa delle dottrine riguardanti il sovrarazionale, il sacro e la gnosi, con l'obiettivo di tentare il superamento della dualità io/non-io. Il suo interesse verso le tradizioni orientali si manifesta in L'uomo come potenza, pubblicato nel 1926, dove compare una concezione dell'io ispirata ai dettami del tantrismo e del taoismo.

Queste ultime opere segnano un'ulteriore svolta: passaggio da una posizione filosofica di tipo teoretico a una di tipo pragmatico. Evola cerca infatti di individuare strumenti concreti per mezzo dei quali calare nella vita quotidiana la teoria dell'Individuo assoluto. A partire dal 1924 inizia un'intensa esperienza giornalistica: partecipa alla redazione di Lo Stato democratico, una rivista contemporaneamente antifascista e antidemocratica, e tra il 1924 e il 1926 collabora a riviste come Ultra, Bilychnis, Ignis, Atanor e Il mondo. In questo periodo Evola frequenta i circoli esoterici romani e partecipa alla vita notturna della capitale intrattenendo un tempestoso rapporto sentimentale con Sibilla Aleramo, come lei stessa riporta nel libro Amo dunque sono del 1927:

«Disumano qual è, gelido architetto di teorie funambolesche, vanitoso, perverso, s'è trovato dinanzi a me come a cosa tutta viva, tutta schietta, mentre aveva fantasticato chissà... quale avventura necrofila. E questa cosa tutta schietta l'ha turbato, l'ha commosso, segretamente […]» (Sibilla Aleramo, Amo dunque sono, Milano, Mondadori, 1927, p. 104.)

Tra il 1927 e il 1929 coordina il Gruppo di Ur, che si occupa di esoterismo e di ricerche sulle tradizioni extra europee: un'antologia dei fascicoli editi viene più tardi pubblicata in tre volumi (tra il 1955 e il 1956) con il titolo Introduzione alla magia quale scienza dell'Io. Conosce Arturo Reghini e legge i suoi scritti. Nel 1928 pubblica un libro che gli procura grande fama: Imperialismo pagano, uscito per la casa editrice massonica Atanòr alcuni mesi prima della stipulazione dei Patti lateranensi. In questo pamphlet (poi tradotto in tedesco nel 1933) Evola attacca violentemente il Cristianesimo ed esorta il Fascismo a ritrovare l'antica grandezza della civiltà romana perduta con l'avvento della nuova religione:

«Oserà dunque il fascismo assumere qui, qui donde già le aquile imperiali partirono per il dominio del mondo sotto la potenza augustea, solare, regale […] oserà qui riprendere la fiaccola della tradizione mediterranea?» (Julius Evola, Imperialismo pagano, Padova, Edizioni di Ar, 1996, p. 24.)

Nell'opera, Evola sostiene che per creare un vero impero fascista bisogna contrastare la Chiesa e non rapportarsi con essa sullo stesso piano distruggendo ogni sua influenza all'interno dello stato italiano, il quale deve essenzialmente aspirare a una rivoluzione pagana anticristiana che metta la Chiesa sulla via dell'estinzione[42]. Il libro venne poco apprezzato dalla società fascista dell'epoca suscitando critiche e derisioni verso il suo autore che venne inoltre accusato di aver plagiato le tesi di un testo intitolato appunto Imperialismo pagano scritto da Arturo Reghini nel 1914 per la rivista Salamandra.

Augusto di Prima Porta

Influenzato dalla lettura delle opere di René Guénon su consiglio dello stesso Reghini, abbandona in seguito alcune delle tesi proposte in Imperialismo pagano a favore di un personale concetto di "tradizione" e fonda con Emilio Servadio la rivista La Torre (uscita in soli dieci numeri tra febbraio e giugno del 1930), destinata a difendere principi sovrapolitici, in realtà «una tribuna di intellettuali che si battevano per un fascismo più radicale e più intrepido». Critiche mosse ad alcuni personaggi del Regime dalle pagine de La Torre, provocano l'intervento di Achille Starace che prima diffida Evola dal continuare la pubblicazione, poi proibisce a tutte le tipografie romane di stampare la rivista la cui pubblicazione, alla fine, viene sospesa.

Evola viene sorvegliato dal regime in quanto accusato di affiliazione all'Ordo Templi Orientis oltre che di essere «degenerato», «pederasta» e «cocainomane» ed è costretto ad assumere alcune guardie del corpo, altri militanti fascisti che invece simpatizzavano per le sue idee (come testimoniato da Massimo Scaligero). Aneddoti e testimonianze della supposta omosessualità di Evola continuarono a circolare anche anni dopo nel Movimento Sociale Italiano e negli ambienti del neofascismo (si veda un'offensiva battuta del terrorista nero Pier Luigi Concutelli).

Estraniato dal regime in questi anni, Evola inizia così un periodo dedicato interamente all'alpinismo. Nel 1930, con la guida alpina Eugenio David, affronta la scalata della parete settentrionale del Lyskamm Orientale. Di questa e di altre esperienze viene poi redatto un libro nel 1973: Meditazioni delle vette. Evola intende l'alpinismo come pratica ascetica e meditazione spirituale: superamento dei limiti della condizione umana attraverso l'azione e la contemplazione, che divengono due elementi inseparabili, «un'ascesa che si trasforma in ascesi».

Successivamente pubblica due opere: La tradizione ermetica (1931) e Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo (1932). La prima è una disamina dell'aspetto magico, esoterico e simbolico dell'alchimia. La seconda è un saggio critico su quelle correnti di pensiero che, secondo Evola, «invece di elevare l'uomo dal razionalismo moderno e dal materialismo, lo portano ancora più in basso: spiritismo, teosofia, antroposofia e psicoanalisi». Nel 1934 appare la sua opera fondamentale, Rivolta contro il mondo moderno, nella quale traccia un affresco della storia letta secondo lo schema ciclico tradizionale delle quattro età: oro, argento, bronzo e ferro nella tradizione occidentale e satya, treta, dvapara e Kali Yuga in quella induista. Nell'opera si indaga inoltre dell'origine della razza ariana e della sua origine iperborea-polare, che Evola identifica precisamente, riprendendo le teorie di Herman Wirth, con l'isola di Atlantide per Evola coincidente con l'antica Thule.

In Rivolta Evola oppone il mondo "tradizionale" al mondo moderno. Nella prima parte analizza le categorie qualificanti l'uomo della "tradizione" e le antiche "razze divine"; nella seconda analizza la genesi del mondo moderno e i processi a causa dei quali la civiltà tradizionale è crollata (dal dominio dell'autorità spirituale al dominio del "quarto stato"). Partendo da questi presupposti, tre anni dopo, esamina a fondo Il mistero del Graal (1937) e le sue implicazioni dottrinarie nelle visioni dei diversi periodi storici, impostando tutta la sua disamina sul concetto di "tradizione ghibellina dell'impero", cercando di svincolare il Graal e la sua portata simbolica dalla tradizione cristiana.

La scuola di mistica fascista

A partire dal 1934 Evola collabora attivamente con la Scuola di mistica fascista, fondata da Niccolò Giani nel 1930, tenendo alcune conferenze e figurando nel comitato di redazione della rivista Dottrina fascista. La maggior parte degli interventi di Evola in conferenze e scritti, riguardano principalmente il tema del razzismo, argomento che trova appoggio sia da parte di Giani sia da parte dello stesso Mussolini. Secondo Evola, tuttavia, l'espressione mistica fascista rappresenta un'incongruenza potendo parlare, al più, di etica fascista. Questo perché in realtà il fascismo, secondo Evola, «non affronta il problema dei valori superiori, i valori del sacro, solo in relazione ai quali si può parlare di mistica».

Jean-Paul Lippi – giurista e saggista francese, tra i più importanti studiosi d'oltralpe del pensatore tradizionale – rileva come Evola ravveda nella mistica «un elemento rivelatore di una spiritualità lunare e del polo femminile dello spirito». E infatti il sottotitolo di Diorama filosofico – la pagina prima mensile e poi quindicinale curata da Evola nel quotidiano Il Regime Fascista di Cremona tra il 1934 e il 1943 – è: Problemi dello spirito nell'etica fascista. Nel 2009 una serie di scritti di Evola relativi alla scuola di mistica fascista sono stati pubblicati dall'editore Controcorrente di Napoli, e aiutano in parte a chiarire le posizioni assunte dal filosofo all'interno della suddetta corrente.

Le tesi sulla razza

Se i rapporti che Evola intrattiene col fascismo sono innegabili, soprattutto a partire dalla metà degli anni trenta, tutt'oggi è oggetto di dibattito, tra gli studiosi, l'appartenenza del filosofo ad un orizzonte intellettuale propriamente fascista in senso ortodosso.

È il 1964 quando Evola pubblica Il fascismo. Saggio di un'analisi critica dal punto di vista della Destra per i tipi dell'editore Volpe. Evola durante il fascismo non ha una particolare risonanza popolare e per lungo tempo è quasi ignorato dalla cultura ufficiale dell'epoca. Il filosofo infatti, pur iniziando ad entrare in sintonia con i temi culturali del regime fin dal 1927 – è di quell'anno il suo primo articolo pubblicato su Critica Fascista – si farà conoscere e apprezzare dall'intelligencija e dalle gerarchie fasciste solo attorno al 1934 (con le prime collaborazioni nell'ambito della Scuola di mistica fascista) e, ancor più, dopo il 1937, grazie all'avvicinamento dell'Italia alla Germania nazista ed al rapido sviluppo di una campagna e di politiche antiebraiche. Il "razzismo spirituale" di Evola viene allora recuperato dal Regime, insieme a quello di Preziosi, Orano, Bottai e di altri noti antisemiti italiani del tempo.

Da una ricerca effettuata presso l'Archivio di Stato e pubblicata nel 2001 sulla rivista Nuova storia contemporanea emerge che Evola, dal luglio 1941, ottiene dal Min.Cul.Pop. – per intercessione dello stesso Mussolini – uno stipendio mensile di duemila lire a fronte della stesura di alcuni articoli sulla razza. L'assegno cessa con la nascita della Repubblica di Salò in quanto Evola si rifiuta di trasferirsi al nord.

In quegli anni Evola scrive per quasi tutte le maggiori testate fasciste, anche se le sue collaborazioni più note (Regime fascista di Farinacci e La Vita Italiana di Preziosi) sono importanti ai fini del dibattito sul mondo della Tradizione, ma lo sono assai meno nel dibattito interno al fascismo. Infatti, più che rappresentare una corrente interna al fascismo, «Evola intese rettificare il fascismo in senso spirituale e tradizionale, in nome di idee e valori che non erano quelli originari del fascismo, ma quelli della destra conservatrice ed aristocratica».

Evola dunque non si pone come obiettivo quello di interpretare il fascismo nel suo contesto storico, ma di individuare quegli elementi che si possono ricondurre ai canoni della destra "tradizionale". Già nel volume Imperialismo pagano (1928) l'autore esorta il fascismo a valorizzare quei simboli propri alla tradizione romana (il fascio, l'aquila, l'impero). Quanto evidenziato può in parte spiegare la profonda ammirazione che Evola prova per la figura di Benito Mussolini, da lui definito «rappresentante di una razza nuova ed antica ad un tempo che ben si potrebbe chiamare razza dell'uomo fascista o razza dell'uomo Mussolini». Mussolini infatti cerca di riesumare alcuni di quei simboli per stabilire improbabili parallelismi fra i fasti dell'antica Roma e l'Italia del tempo.

Tuttavia l'incapacità di creare da parte del regime fascista un homo novus propriamente "tradizionale", unitamente al crollo delle speranze riposte da Evola in Mussolini, artefice di un sistema politico le cui «potenzialità positive» non sono state recepite dal popolo italiano, spingono il filosofo, nel secondo dopoguerra, a prendere sempre più le distanze dall'esperienza storica del nazifascismo più che da quella ideologica. Scrive a tale proposito Julius Evola che «non fu il fascismo ad agire negativamente sul popolo italiano, sulla "razza" italiana, ma viceversa, fu questo popolo, questa "razza" ad agire negativamente sul fascismo, cioè sul tentativo fascista, in quanto dimostrò di non sapere fornire un numero sufficiente di uomini che fossero all'altezza di certe esigenze e di certi simboli, elementi sani e capaci di promuovere lo sviluppo delle potenzialità positive che potevano essere contenute nel sistema». Secondo Evola, in breve, il fascismo è stato solo un'altra degenerazione tipica del Kali Yuga, in quanto fenomeno di massa, ma che conteneva una possibilità di ritorno all'Età Aurea che non venne adeguatamente sfruttata.

Secondo lo storico Claudio Pavone «nel fondo delle posizioni di questo tipo c'è l'idea che non è stato il fascismo a rovinare l'Italia, bensì l'Italia a rovinare il fascismo, di cui era indegna». Il passo summenzionato di Evola viene citato anche da Pino Rauti e Rutilio Sermonti. I punti di criticità sollevati da Evola rispetto al fascismo sono sostanzialmente tre: il problema dello stato da un punto di vista istituzionale (rapporto tra fascismo e monarchia), il problema della rappresentanza (effettiva rilevanza del partito unico e della funzione carismatica di Mussolini) e, infine, alcuni aspetti direttamente correlati alla gestione della nazione (questione economica e sociale, autarchia, questione della razza e politica internazionale) inclusa la sua adesione ad un nazionalismo sciovinista e borghese nonché di conseguenza ad un tradizionalismo cattolicheggiante.

Secondo Evola il fascismo si distingue per un'ambiguità di fondo: oscilla fra una concezione religiosa del potere e una mistica della nazione di derivazione rivoluzionaria. Il concetto stesso di "nazione" – derivando dalla frantumazione della civiltà imperiale e feudale – è secondo l'autore un concetto falsamente di destra, in quanto si basa sui principi sovvertitori del mondo della tradizione promossi a partire dalla rivoluzione francese. Così come lo è anche lo "stato totalitario": per Evola uno stato che tende ad occuparsi di tutto (economia, educazione, indirizzi morali, conformismo) non è uno stato tradizionale. Il potere organico che si richiama infatti alla vera destra è omnia potens, non omnia faciens.

In quest'ottica l'esperienza della Repubblica Sociale è per Evola totalmente da rigettare sotto il piano istituzionale («dal nostro punto di vista, nulla è da raccogliere dal fascismo della Repubblica Sociale») in quanto la stessa è condensata di elementi di populismo e di socialismo. Ciò che salva della RSI è quella mentalità per cui molti italiani decidono di continuare a lottare pur essendo consapevoli della disfatta. Questa mentalità si fonda per Evola sul concetto di onore e fedeltà proprio alla spirito legionario. Evola critica inoltre il concetto di "partito politico" che, derivando da una concezione illuminista, rappresenta una forma di legame improprio tra la base e il vertice, una sorta di "democrazia plebiscitaria". Allo stesso modo sottolinea di come anche il concetto di "duce" presenti analoghe problematiche: Mussolini sceglie infatti una gestione populistica della propria figura, ritenendo che l'andare verso le masse sia un elemento rafforzativo del proprio potere, anziché optare per un aristocratico distacco dal popolo.

In appendice all'edizione del 2001 del libro Fascismo e Terzo Reich si trovano alcuni interessanti scritti di Evola che vanno dal 1930 al 1940 circa in cui l'autore opera un'analisi discriminatrice sul fascismo, non risparmiando critiche al regime di Mussolini. Gli scritti sono circa una ventina. Tra i più significativi: Carta d'identità (1930), Due facce del nazionalismo (1931), Paneuropa e fascismo (1933), Razza e cultura (1934), Significato spirituale dell'autarchia (1938), Legionarismo ascetico (1938) e Partito od Ordine? (1940). In questi articoli, apparsi nel corso degli anni su alcune testate giornalistiche (La Nobiltà della Stirpe, Rassegna Italiana ed altre), Evola contesta, anche se in forme non esplicite, alcune scelte del regime (il retaggio socialista, la deriva populista di Mussolini, l'ingerenza dello stato totalitario nella vita del singolo, il concetto stesso di partito politico).

Come rileva Gianfranco De Turris nella nota introduttiva al testo «Evola scrisse le sue critiche, espose i suoi dubbi, propose le sue interpretazioni alternative durante tutto il Ventennio fascista. Certo, con toni e con modi adeguati ai tempi, conformi al suo scrivere all'interno del regime e su testate del regime ancorché eterodosse e di fronda, ma lo fece a differenza di tanti altri che espressero i loro dubbi e le loro repulse [...] solo dopo il 1945».

A metà degli anni trenta Evola inizia a orientare i propri studi su aspetti più propriamente politici, legati in particolar modo alla "questione della razza". La teoria razziale evoliana è spesso definita "razzismo spirituale".

Riprende l'attività giornalistica scrivendo su quotidiani: Il Regime Fascista, Corriere Padano, Il Giornale della Domenica, Roma, Il Popolo d'Italia, La Stampa e Il Mattino; su stampe e periodici: Logos, Educazione Fascista, La Rivista del Club Alpino Italiano, Politica, Nuova Antologia, '900, Il progresso religioso, La difesa della razza, Augustea, Carattere, Insegnare e Scuola e cultura.

Nel 1937 pubblica Il Mito del Sangue (poi riedito nel 1942) dove ricostruisce le concezioni sulla razza dalle civiltà antiche fino alle teorie del XVIII secolo (de Gobineau, Woltmann, de Lapouge, Chamberlain), contrapponendole alla versione moderna del razzismo biologico di stampo nazionalsocialista. Segue nel 1941 Sintesi di dottrina della razza. In questi testi esprime le sue concezioni antisemite basate non semplicemente su un razzismo biologico quanto anche spirituale. Gli ebrei, per Evola, non possono essere considerati propriamente una razza specifica a causa della molteplice stratificazione etnica avvenuta nel corso dei secoli: «Già la Bibbia parla di 7 popoli che avrebbero concorso a formare il sangue ebraico [...] Come da questo composto etnico abbia potuto sorgere un sentimento così vivo di solidarietà e di fedeltà al sangue [...] tale da far pensare che il popolo ebraico praticamente sia stato fra i popoli più razzisti della storia - questo è un mistero [...] La formula, in ogni modo, è che gli ebrei non sono una razza ma solo una Nazione». Di conseguenza gli ebrei costituirebbero un gradino molto basso nella scala della razza dello spirito teorizzata da Evola venendo definiti «detriti di razze».

Egli oppone a livello "tradizionale" "Giudei" e "Ariani" (da "Arya") nel nome di una differenza non solo biologica ma anche di spirito. Il libro non trova il successo sperato del suo autore di imporsi come credo razzistico ufficiale del regime fascista. In un articolo pubblicato sul Corriere padano dal titolo Responsabilità di dirsi ariani, Evola si opponeva a quel razzismo che faceva un feticismo della razza fisica affermando che sarebbe irrilevante definirsi ariani considerando solo la fisicità e non "la spiritualità ariana". Nel 1937 pubblica la Introduzione alla quinta edizione italiana dei Protocolli dei savi di Sion, manifestando adesione al feroce e maniacale antisemitismo di Giovanni Preziosi, traduttore ed editore del pamphlet. Nonostante la falsità del documento fosse stata comprovata già dal 1921 in questa Introduzione Evola afferma in maniera anti-filologica che non avrebbe importanza la non autenticità storica dell'opuscolo, visto che comunque lo stesso manifesterebbe veridicità secondo lui attendibile nel descrivere i maneggi ebraici per il controllo della società (banche, stampa, mercato, politica). L'ebraismo è per Evola «una forza eternamente nemica» una colpa senza redenzione anche di fronte alla conversione: «nemmeno il battesimo e la crocefissione cambia la natura ebraica».

Nel marzo del 1938 ebbe occasione di incontrare in Romania, presso la sua abitazione Corneliu Codreanu definendolo «una delle più nobili e generose figure del fronte dell'antiebraismo e del "fascismo" europeo» e sentendo subito una profonda affinità intellettuale col leader della Guardia di Ferro apprezzando l'ascetismo militare del suo gruppo quanto la tenacia antisemita e la sua battaglia per l'eliminazione della "idra ebraica".

In un primo momento si esprime negativamente sul colonialismo italiano giudicando l'Etiopia conquistata dall'Italia nient'altro che una «contraffazione degenerescente di un organismo tradizionale» seppur in seguito affermerà di averne riconosciuto dei lati positivi per aver creato «un rafforzamento del sentimento di distanza e della coscienza della propria razza in senso generico, per prevenire pericolose promiscuità e tutelare un necessario prestigio». Sempre in quegli anni tiene un ciclo di conferenze presso le Università di Firenze e di Milano su richiesta del Ministro dell'Educazione Nazionale Bottai. Benché non ve ne sia traccia nella biografia dell'autore, il saggista Franco Cuomo scrive che Evola, nel 1938, è tra i firmatari del cosiddetto Manifesto della razza. Tutt'oggi la "questione razziale" di Evola rimane un tema molto dibattuto tra gli studiosi. A partire dagli anni sessanta, Evola, a più riprese, cerca di ribadire – in alcuni casi rivedendo certe posizioni giovanili – la sua concezione sulla razza.

Già ne Il mito del sangue (1937) Evola, in riferimento alla concezione esclusivamente biologica che i tedeschi fanno del razzismo, espone le sue perplessità: «È ben possibile che in questo stato il razzismo avrebbe potuto aver la possibilità di sviluppare più proficuamente gli elementi valevoli che esso può comprendere in sé. Invece, con l'assurgere a ideologia ufficiale di una rivoluzione [quella nazionalsocialista germanica], il razzismo ha finito con il pregiudicare siffatti elementi» facendo riferimenti espliciti alla figura di Hitler: «[...] l'idea razzista da parte dello Hitler [...] quanto a idee nuove rispetto a quel che finora abbiamo conosciuto, non ve ne è quasi nessuna».

Dedica un intero capitolo (Il problema della razza) della sua autobiografia a questo tema in cui ribadisce la necessità di interpretare il concetto di razza da un punto di vista spirituale e non semplicemente biologico, contestando ad Alfred Rosenberg (il principale esponente del razzismo nazionalsocialista) la strada del razzismo materialistico intrapresa a suo tempo dalla Germania, definendola «materialismo zoologico» e condannando apertamente il fatto che il «fanatismo antisemita» fosse assimilato al semplice razzismo biologico nazionalsocialista, cioè a quella forma di antisemitismo che individua esclusivamente nell'ebreo l'unica causa di decadimento della società, non considerando ulteriori elementi come l'umanesimo, il cartesianesimo, la riforma protestante, l'illuminismo, il comunismo, il liberalismo, l'individualismo e il libero pensiero. Fanatismo verso il quale però, nel 1963, a diciassette anni dalla fine della guerra, si vedrà bene dal chiarire nei particolari, affermando semplicemente: «né io, né i miei amici in Germania sapevamo degli eccessi nazisti contro gli ebrei [...] e se ne avessimo saputo in alcun modo avremmo potuto approvarli». Evola afferma però che le persecuzioni contro gli ebrei in Italia non furono causate da una passiva accettazione della politica hitleriana ma una attiva presa di "coscienza della propria razza" data dall'esperienza coloniale e principalmente colpa dell'antifascismo dell"ebraismo internazionale" che costrinse l'Italia a prendere delle "contromisure".

Evola ha una concezione dell'uomo come essere costituito da corpo, anima e spirito, dove la parte spirituale deve avere maggior dignità su quella corporea pur senza escluderla. Secondo Evola «l'opportunità di questa formulazione risiede nel fatto che una razza può degenerare, anche restando biologicamente pura, se la parte interiore e spirituale è morta, diminuita o obnubilata, se ha perso la propria forza (come presso certi tipi nordici attuali). Inoltre gli incroci, di cui oggi pochissime stirpi sono esenti, possono avere come conseguenza che a un corpo di una data razza siano legati, in un individuo, il carattere e l'orientamento spirituale propri di un'altra razza, donde una più complessa concezione del meticciato». Il razzismo evoliano si mostra quindi più radicale ancora di quello nazista in quanto si focalizza anche sulle componenti ebraiche diffuse nell'arianità, non negando, ma comprendendo come una piccola parte del totale, il razzismo di stampo biologico.

Alfred Rosenberg, le cui teorie biologiche furono criticate da Evola

Alcune parole dello storico Renzo De Felice, che pur molto critico e severo rispetto al pensiero e alle tesi di Evola ne riconosce comunque una sua coerenza, sono state utilizzate da seguaci di Evola per testimoniare di come lo stesso Evola respingesse «anche più recisamente [dell'Acerbo] ogni teorizzazione del razzismo in chiave esclusivamente biologica», dando l'idea di una sorta di giustificazione al "razzismo spirituale" del maestro.

A tale proposito De Felice segnala anche che Evola non è stato il solo a prendere le distanze dal razzismo esclusivamente biologico di matrice nazionalsocialista. Altre note figure della cultura fascista del tempo, come Giacomo Acerbo, e meno note, come Vincenzo Mazzei, se ne dissociano. L'impostazione critica data da De Felice su questo passaggio del pensiero di Evola è particolarmente apprezzata dagli autori filo-evoliani.

Anche Paolo Orano sviluppa, secondo taluni, una forma di "antisemitismo etico-sociale" che rinvia a Il mito del sangue di Evola. L'approccio al "problema della razza" di Evola, come quello di Acerbo e Orano, pur se sviluppato da posizioni e secondo logiche diverse, viene apprezzato da Mussolini che ne intravede gli elementi differenziatori da quello germanico, anche se successivamente il "Duce" non si farà scrupolo di dare patente di legittimità anche all'antisemitismo di un Preziosi, di un Interlandi e di un Gayda.

Altri autori, invece, ritengono che l'opera e il pensiero di Evola continuino a essere razzisti tout court o addirittura emuli delle tesi di Paolo Orano. È di questo avviso Attilio Milano che, a proposito della campagna antiebraica fascista, scrive: «Primo, in ordine di tempo, e per notorietà personale, come già ricordato, fu Paolo Orano [...] dietro di lui, con una vena più scadente, comparvero anche Ebrei, Cristianesimo, Fascismo, di Alfredo Romanini, Tre aspetti del problema ebraico, di Giulio Evola [...]». Lo storico Francesco Germinario nel suo saggio Razza del Sangue, razza dello Spirito analizza in particolare il progressivo avvicinamento di Evola al nazionalsocialismo, specialmente in relazione alla grande ammirazione che il filosofo aveva nei confronti delle SS e di Heinrich Himmler, il quale conobbe personalmente. Secondo il filosofo, diplomatico e scrittore del nazismo esoterico Miguel Serrano, proprio la vicinanza e l'ammirazione per gli ambienti nazisti, portò Evola ad essere invitato come ospite al castello di Wewelsburg, sede spirituale di ogni membro della SS, dove tenne alcune conferenze.

La tesi di maggior rilievo del saggio di Germinario consiste nel tentativo di interpretare il razzismo evoliano come una sorta di differenzialismo in nuce, ovvero un razzismo che identifica il suo obiettivo principale nella ricomposizione dei cosiddetti tre ordini di razza: corpo, anima, spirito. Dunque, secondo Germinario, Evola riprende, seppur in maniera meno esplicita, alcune delle teorie di de Gobineau che cercano di identificare una gerarchia ideale nei gruppi delle razze umane. Lo storico torinese Francesco Cassata, che ha dedicato molti suoi scritti al rapporto tra fascismo e razzismo e agli studi sull'eugenetica, nel suo A destra del fascismo, sottolinea di come il razzismo sia un aspetto centrale del pensiero evoliano, e che in realtà lo stesso è volutamente depotenziato e purificato dai suoi estimatori con lo scopo di dare una visione edulcorata delle teorie del filosofo.

Più dura la posizione del giornalista Gianni Scipione Rossi, che con il volume Il razzista totalitario cerca di mettere in luce quegli aspetti contraddittori del pensiero evoliano rispetto al tema della razza. Ma soprattutto Il razzista totalitario tenta di dimostrare che quella di Evola non è una parentesi razzista, ma una costruzione originale e autonoma di una teoria che accompagna tutta l'opera evoliana. Per il germanista Furio Jesi Evola è «un razzista così sporco che ripugna toccarlo con le dita». Lo storico e saggista torinese infatti dubita fortemente della definizione spiritualistica attribuita al razzismo di Evola e ritiene anzi che le sue teorie farneticanti e triviali conducano direttamente ad Auschwitz: «Egli [Evola] non si è mai dichiarato paladino dei roghi dei libri, anche se bisogna precisare che implicitamente, da intellettuale, s'intende, ha dato una mano ai forni crematori non per libri ma per uomini».

La maggior parte delle critiche mosse a Evola e ai suoi studi sulla razza (per esempio da Dana Lloyd Thomas, Gianni Scipione Rossi, Francesco Germinario, Francesco Cassata), sostanzialmente, cercano di dimostrare che il cosiddetto razzismo spirituale in realtà è una sofisticata costruzione teorica utilizzata dall'autore e ancor più dai suoi epigoni per celare il convincimento di un vero e proprio razzismo di matrice biologica, e che dunque c'è in realtà un filo diretto tra le teorie nazionalsocialiste e quelle evoliane, queste ultime solo apparentemente diverse. In ogni caso è in concomitanza con la campagna antiebraica scatenata dal regime fascista a partire dal 1937 che Julius Evola, grazie al suo "razzismo spirituale", entra definitivamente a far parte, a pieno titolo, della cultura e dell'intelligencija fascista di quegli anni. Secondo Fabio Venzi, in maniera del tutto infondata, ciò non impedisce a Evola di avere una "doppia affiliazione" ed essere pure membro della tanto di lui osteggiata Massoneria.

Gli anni della seconda guerra mondiale

Evola non aderisce al Partito Nazionale Fascista e tale mancata adesione gli impedisce nel 1941 di arruolarsi come volontario contro l'Unione Sovietica nel corso della seconda guerra mondiale. Nel 1942 viene pubblicato un suo saggio dal titolo Per un allineamento politico-culturale dell'Italia e della Germania nel quale esprime ammirazione per il nazismo tedesco, considerandolo superiore al fascismo in ragione del coraggio nel risvegliare l'antico spirito ariano e germanico. Critica tuttavia l'incompletezza nell'attuazione di questo programma, non abbastanza radicale e aderente ai principi della "Tradizione": per esempio una difesa della razza improntata giuridicamente a una sorta di "igiene razziale" basata meramente sul razzismo biologico e il potere del Führer derivato dal popolo e non un potere regale di origine divina come nell'ideale società ario-germanica delle origini.

Evola teorizza dunque il tradizionalismo puro, ideale e radicale, capace di attuare i propri principi e di far trionfare la cultura romana e pagana delle origini. Tra l'Unione Sovietica bolscevica e gli Stati Uniti d'America capitalistici, il nazionalsocialismo tedesco gli sembra proporre una terza via: un impero europeo e pagano sotto la guida egemonica della Germania di Hitler. Nel 1943, riprendendo temi già trattati nei suoi anni giovanili, pubblica La dottrina del risveglio, un saggio sull'ascesi buddhista. Nel 1951 l'opera viene poi tradotta in inglese da Harold Edward Musson (Ñāṇavīra Thera) con l'avallo della Pali Society, anche se l'unica fonte che riporta questa informazione è lo stesso Evola: «L'edizione inglese aveva avuto il crisma della Pali Society, noto istituto accademico di studi sul buddhismo delle origini, che aveva riconosciuto la validità della mia trattazione».

Ancor oggi rimane aperto, tra gli studiosi, il dibattito sull'adesione di Evola alla Repubblica Sociale, alla quale fanno accenno saggi e opere enciclopediche di larga diffusione. In realtà subito dopo l'8 settembre, il filosofo romano, che si trova in Germania per tenere alcune conferenze, raggiunge a Monaco gli altri esuli fascisti «[...] osservando con distacco reazionario scelte che non lo convincono». Farà ritorno nell'Italia liberata solo al termine della guerra, tranne un breve periodo a Roma. Essendo Evola rigorosamente contrario all'abrogazione della Monarchia e alla trasformazione dell'Italia in una Repubblica, intraprende tentativi di influenza sulle SS e sui nazisti tedeschi, compreso lo stesso Heinrich Himmler che, apprezzando molto il pensiero di Evola, lo invitò più volte a tenere conferenze davanti alle élite delle SS. Lo stesso Himmler non a caso finanzierà personalmente i suoi soggiorni in Germania e permetterà la creazione di una Fondazione di Studi italo-tedesca. Evola in risposta apprezza profondamente il corpo delle SS in qualità di ordine guerriero iniziatico anticristiano alla pari di un ordine cavalleresco e la casta guerriera indiana degli Kshatriya e quindi perfetta sintesi tra tradizionalismo e nazionalsocialismo. Si scopre poi, nel dopoguerra, che Evola è – sia in Germania sia in Italia – tenuto sotto sorveglianza dall'Ahnenerbe in quanto reazionario legato ad ideali «utopistici» di aristocrazia feudale vecchia maniera e «buoni solo per generare confusione ideologica». Nonostante Karl Maria Wiligut, studioso di ariosofia incaricato da Himmler per valutare le idee di Evola, lo guardò con sospetto per la sua ideologia, le SS gli permisero di avere ruoli culturali di rilievo solo nei casi in cui questo avesse giovato alla causa tedesca. Tuttavia Evola collaborò con la sezione delle SS che si occupava di studiare e combattere le trame occulte e antitradizionali della massoneria e dei poteri forti in genere. Nel dopoguerra alluderà in alcune sue opere di aver lavorato per la Sicherheitsdienst o SD, i servizi segreti delle SS fondati da Reinhard Heydrich, anche nella prassi persecutoria del partito nazista. Gianfranco de Turris ha smentito che Evola sia uno degli uomini ritratti in una famosa foto con Mussolini e Hitler a Rastenburg, poco dopo l'attentato del 20 luglio 1944, immagine utilizzata da de Turris per il saggio Julius Evola. Un filosofo in guerra. 1943-1945. Infatti, quel giorno, Evola (che a Rastenburg era stato ospite ma nel 1943) era in Austria, dove risiedeva (sotto pseudonimo) dopo essere fuggito da Roma nel giugno 1944 per sfuggire all'arresto da parte dei partigiani o, come lui stesso dice nel Cammino del cinabro, dai militari alleati, che erano andati a cercarlo ma erano stati trattenuti dalla madre di Evola mentre lui si allontanava dall'abitazione.

Nel 1945 Evola si trova a Vienna sotto falso nome, occupandosi dello studio di documenti esoterici e massonici probabilmente su incarico del controspionaggio del Reich nonché, stando alle sue parole, per un lavoro in stretto rapporto con le SS relativo la creazione di un ordine segreto elitario ispirato ai Templari. Le SS fornirono ampi capitali in una banca della città per lo sviluppo del gruppo procurando a Evola numerosi libri di occultismo che sarebbero state la base anche per un libro intitolato Historié Secrète des Sociétés Secrètes, ma tutto il lavoro raccolto andrà perduto verso la fine della guerra con la conquista sovietica della città; il 21 gennaio, nell'intento «di non schivare anzi di cercare i pericoli, nel senso di un tacito interrogare la sorte», si avventurò in una passeggiata durante i bombardamenti sovietici che colpirono la capitale austriaca. Sbalzato da uno spostamento d'aria, subisce una lesione al midollo spinale che gli provoca una paralisi permanente agli arti inferiori. Durante il bombardamento il suo appartamento venne quasi raso al suolo causando la perdita di tutti i manoscritti e documenti. Al poeta cattolico Clemente Rebora Evola dirà che «quell'incidente è stato come una risposta enigmatica al mio chiedere – attraverso l’espormi al pericolo – se alla mia vita terrena potesse esser posto un fine». Con una battuta, disse nel 1961 di essersi «adeguato con calma alla situazione, pensando umoristicamente talvolta, che forse si tratta di dèi che han fatto pesare un po’ troppo la mano, nel mio scherzare con loro». Viene inizialmente ricoverato in un ospedale locale, e rimane ricoverato in diverse strutture della Vienna distrutta per tre anni.

«Nulla cambiava, tutto si riduceva ad un impedimento puramente fisico che, a parte dei fastidi pratici e certe limitazioni della vita profana, poco mi toccava, la mia attività spirituale e intellettuale non essendone in alcun modo pregiudicata o modificata.» (da Il cammino del cinabro)

Solo nel 1948, grazie all'interessamento di Umberto Zanotti Bianco – presidente della Croce Rossa Internazionale – viene trasferito prima al sanatorio di Cuasso al Monte, poi a Bologna, all'ospedale ortopedico, e infine, nel 1951, a Roma, come egli stesso riporta in una lettera inviata all'amico poeta Girolamo Comi. Lo Stato italiano gli concesse quindi una pensione di invalido di guerra al 100% che gli consentì di vivere adeguatamente.

Il processo ai FAR

A partire dal 1949 inizia la collaborazione con la rivista La Sfida fondata da Enzo Erra, Pino Rauti ed Egidio Sterpa, ispirando poi la nascita della nuova rivista Imperium che vede la luce nel 1950. Nel 1950 pubblica su Imperium l'opuscolo Orientamenti nel quale vengono sintetizzate in undici punti le sue idee (poi sviluppate nei libri successivi e riedite nel 1970). Orientamenti si oppone fortemente al concetto di "fascismo nazionale" al quale invece si propone un'alternativa con la creazione di una comunità europea modellata sull'esempio delle Waffen-SS. Alla pubblicazione dell'opera il partito pan-europeo dell'European Liberation Front fondato dal filosofo Francis Parker Yockey definì Evola "il più grande filosofo autoritario vivente" nella loro testata Frontfighter. Seppur fortemente influenzato dal libro Imperium dell'autore americano va precisato però che le posizioni di Evola sul concetto di Europa unita e sulla sua ricostruzione morale e spirituale, prima ancora che politica e sociale, coincidevano solo in parte con quelle di Francis Parker Yockey, che difatti Evola criticò con una certa severità in un articolo affermando che essa debba essere retta esclusivamente da una elite di "uomini superiori che operano dietro le scene", accettandone comunque le premesse di base. Evola in segno di ammirazione successivamente dedicò un intero capitolo a Yockey in Gli uomini e le rovine. Negli anni successivi molti gruppi vicini al neofascismo tra cui il centro studi Ordine Nuovo adotteranno Orientamenti come un vero e proprio manifesto d'azione.

Nel 1951 Evola viene arrestato con le accuse di apologia di fascismo e di essere l'ispiratore di alcuni gruppi neofascisti insurrezionalisti: si tratta del processo ai FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria). In questa occasione Evola viene difeso gratuitamente dall'avvocato Francesco Carnelutti e dall'ex ministro dell'RSI Piero Pisenti ed egli stesso tiene dinanzi al Tribunale un'autodifesa poi pubblicata integralmente dalla Fondazione Julius Evola. Scrive Evola:

«Dissi che attribuirmi idee fasciste era un assurdo, non in quanto erano fasciste, ma solo in quanto, rappresentavano, nel fascismo, la riapparizione di principi della grande tradizione Politica europea di Destra in genere. Io potevo aver difeso e potevo continuare a difendere certe concezioni in fatto di dottrina dello Stato. Si era liberi di fare il processo a tali concezioni. Ma in tal caso si dovevano far sedere sullo stesso banco degli accusati: Platone, un Metternich, un Bismarck, il Dante del De Monarchia e via dicendo»

(Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., pp. 94-95.)

Pino Rauti ricorda che Evola viene portato dall'infermeria di Regina Coeli nella I sezione della Corte d'Assise di Roma su un telo retto da quattro detenuti, per l'occasione trasformati in infermieri, in quanto in tutta la Corte non vi è una sedia a rotelle.

Una rara fotografia degli anni cinquanta

Durante il processo Evola rinnegherà di essere mai stato fascista definendosi invece "superfascista". Successivamente, in merito a questa affermazione, la storica Elisabetta Cassina Wolff noterà che "rimane poco chiaro se [con questa affermazione] Evola intendesse porsi al di sopra o oltre il fascismo".

Il processo ai FAR si conclude il 20 novembre del 1951 con l'assoluzione di Evola con formula piena.

Successivamente lo scrittore Marcello Veneziani, in relazione all'accusa mossa a Evola di essere l'ispiratore e ideologo dei FAR, scrive che «[...] gli errori compiuti da chi ha cercato di tradurre Evola sul terreno sismico della politica, appartengono a chi li ha compiuti e non ad Evola». Analoga tesi sostiene Giorgio Galli, sottolineando inoltre di come lo stesso Evola è molto polemico nei confronti delle ristampe cosiddette "non autorizzate" che alcuni fanno dei suoi testi, soprattutto in relazione agli scritti giovanili (Imperialismo pagano in particolare) e a quelli relativi al problema della razza (Il mito del sangue, Indirizzi per una educazione razziale, Sintesi di dottrina della razza).

Scrive Evola in L'Italiano: «Non è certo colpa mia se alcuni giovani hanno fatto un uso arbitrario, confuso e poco serio di alcune idee dei miei libri, scambiando piani molto diversi». Secondo l'evoliano Gianfranco De Turris, non essendo per lui possibile accusare Evola direttamente per i suoi scritti, si tenterebbe di effettuare una "doppia lettura" dei suoi testi: una lettura palese per il volgo e una "esoterica" per gli "iniziati". Il citato Furio Jesi è il primo ad avanzare questa teoria nel suo famoso Cultura di destra del 1979: "lo schema antropologico proposto dall'ultimo Evola è ricalcato esattamente su quello consueto a innumerevoli dottrine iniziatiche" e corrisponderebbe all'artificio retorico per cui il vero messaggio è riservato a "coloro che giungono al secondo e più alto grado". Sempre secondo De Turris, Jesi giungerebbe ad una conclusione «aberrante [poiché] a suo giudizio attentati e stragi potrebbero essere il risultato di questa pedagogia del compito inutile, una prova iniziatica attuata dai terroristi neri per passare dal primo grado al secondo grado, dal neofascismo profano al neofascismo sacro». Altri autori sostengono invece che Evola sia un vero e proprio cattivo maestro. Felice Pallavicini – partigiano e frequentatore di Evola – così delinea l'influenza del pensatore tradizionale sui giovani neofascisti: «Non ha fabbricato ordigni esplosivi, non è stato il capo di una banda di dinamitardi, ma le idee producono fatti, conseguenze [...] Ebbene l'evolismo ha prodotto fascismo, razzismo e antisemitismo. La rivolta ha senso solo se alla distruzione segue la ricostruzione, ma Evola ha badato solo a distruggere».

Il dopoguerra

Nel 1953 pubblica Gli uomini e le rovine – testo che mira ad influenzare gli ambienti della destra italiana post-bellica – nel quale spiega la decadenza del mondo moderno in seguito alla distruzione del principio di autorità e di ogni possibilità di trascendenza per l'affermarsi del razionalismo, in contrasto con le antiche civiltà e i valori della "Tradizione". Nel testo Evola propone, in netta opposizione al Movimento Sociale Italiano, un rimedio per salvare la destra italiana organizzandola in una rete anti-parlamentare comune ("un Ordine") e rivalutare l'uso della violenza nella lotta politica (significativamente la prefazione della prima edizione porta la firma di Junio Valerio Borghese, successivamente autore di un tentato colpo di stato nel 1970 ricordato col nome di Golpe Borghese). Nel 1958 esce la Metafisica del sesso, incentrato sull'aspetto magico dell'atto sessuale attraverso lo studio dei simboli esteso a numerose tradizioni. Nel 1959 esce un testo sul pensiero di Jünger: L'«Operaio» nel pensiero di Ernst Jünger. Nel 1961 è la volta di Cavalcare la tigre, autodefinito dallo stesso Evola un "manuale dell'anarchico di destra", opera in cui prosegue la sua critica al mondo moderno: il testo è infatti una critica al capitalismo e al consumismo del cosiddetto "boom economico" che ha portato l'Italia al materialismo e a quelle che Evola ritiene false forme di liberazione (alcol, droghe, sesso, culto del lavoro, emancipazione femminile, etc.) che hanno in realtà alienato la società nel tentativo di colmare un vuoto esistenziale.

Evola nel 1971

Scrive anche su alcune riviste ispirate al concetto metafisico e immanente di Tradizione, come Il Ghibellino. Gli uomini e le rovine e Cavalcare la tigre sono considerati due testi fondamentali grazie ai quali c'è «una fattiva adesione dei giovani di destra al ribellismo antisistema partito dalle università» alla fine degli anni sessanta. Scrive Pino Tosca: «Se si medita bene, ci si accorgerà che la posizione dei tradizionalisti nei fatti del '68, proviene in massima parte dalla lettura miscellanea di questi due testi». Nel 1963 pubblica Il cammino del cinabro, la sua autobiografia, e nel 1968 un volume di saggi di critica verso la società contemporanea e vari fenomeni di attualità: L'arco e la clava.

In questi anni inoltre torna all'attenzione del pubblico la sua produzione artistica: nel 1963 Enrico Crispolti organizza una mostra dei suoi quadri alla galleria La Medusa di Roma; nel 1969 viene pubblicata da Scheiwiller Raâga Blanda, una raccolta di tutte le sue poesie, tra cui alcuni lavori inediti. Riprende anche l'attività giornalistica e scrive su Meridiano d'Italia, Monarchia, Barbarossa, Ordine Nuovo, Domani, Il Conciliatore, Totalità, Vie della Tradizione e Il Borghese. In questo periodo Evola assiste alla costituzione del Gruppo dei Dioscuri, sodalizio dedito al ripristino della cultualità romana e italica, di cui è uno degli ispiratori, attraverso i suoi scritti sulla romanità, il paganesimo di Franco Mazzi e le idee imperiali, oltre che attraverso un particolare rapporto di intimità intellettuale con i fondatori dei Dioscuri.

Nel 1967 pubblica su Noi Europa, organo di Ordine Nuovo, una lettera di rimprovero nei confronti di Giorgio Almirante, leader del Movimento Sociale Italiano ed ex segretario di redazione de La Difesa della Razza, accusato da Evola di «un poco simpatico cedimento» nel corso di un suo intervento televisivo in cui rinnegò il razzismo fascista, al quale Evola invece attribuisce «anche aspetti positivi».

Gli ultimi anni

Vive gli ultimi anni con una pensione di invalido di guerra facendo traduzioni e scrivendo articoli, sostenuto economicamente da alcuni ammiratori guidati da Sergio Bonifazi, direttore del trimestrale Solstitivm.

Un primo scompenso cardiaco si manifesta nel 1968, un secondo nel 1970. In quest'ultima occasione viene fatto ricoverare in ospedale da Placido Procesi, suo medico personale. Evola è infastidito dalle suore che lo assistono e minaccia di denunciarle per sequestro di persona. Viene fatto rientrare nella sua abitazione. La sua salute continua costantemente a peggiorare: inizia ad avere difficoltà respiratorie ed epatiche.

Nel 1971 inizia a collaborare per il quotidiano Roma sotto la direzione di Pietro Buscaroli. Nel 1973 cura la prefazione per la ristampa di Anni decisivi di Oswald Spengler per le Edizioni del Borghese. Poco prima della morte detta lo statuto originario di quella che sarebbe diventata la Fondazione Julius Evola per la difesa dei valori di una cultura conforme alla Tradizione. Muore nella sua casa romana di corso Vittorio Emanuele l'11 giugno del 1974, nell'appartamento che gli era stato offerto gratuitamente dalla contessa Amalia Baccelli-Rinaldi. Secondo la disposizione testamentaria del 1970 affidata alla contessa e a Procesi, Evola afferma che "è da escludersi qualsiasi forma di corteo funebre, di esposizione in chiesa e di intervento religioso cattolico". Ad occuparsi della salma e del trasporto sono amici membri del gruppo neopagano detto "dei Dioscuri", vestiti in abito bianco con un fiore rosso all'occhiello. Ogni simbolo religioso, come il crocifisso apposto sulla bara dall'agenzia funebre, viene rimosso.

Pierre Pascal così lo ricorda nei suoi ultimi giorni: «Gli dissi il desiderio supremo di Henry de Montherlant: essere ridotto in ceneri dal fuoco, affinché fossero disperse a brezza leggera del Foro, tra i Rostri e il Tempio di Vesta. Allora quest'uomo, che era davanti a me, disteso, con le belle mani incrociate sul petto mi mormorò dolcemente e quasi impercettibilmente: "Io vorrei... ho disposto... che le mie fossero lanciate dall'alto di una montagna"». L'esecuzione testamentaria è affidata all'avvocato Paolo Andriani, condirettore della rivista Civiltà e amico fraterno, il quale riesce, dopo molte peripezie, a far cremare il corpo di Evola – come da sua esplicita richiesta – presso il cimitero di Spoleto. L'amica di Evola Amalia Baccelli ricorda che il feretro rimane per molti giorni bloccato al Cimitero del Verano nella stanza mortuaria. Un'urna contenente una parte delle ceneri venne consegnata alla guida emerita del CAI Eugenio David (compagno di scalate di Evola in giovinezza e nonno dello sfortunato campione sciatore Leonardo, deceduto nel 1985). Fu poi lo stesso David (1974) ad affidarla ai fratelli falegnami e guide alpine di Gressoney-Saint-Jean Arturo, Oreste e Lorenzo Squinobal.

L'urna cineraria venne calata in un crepaccio del Lyskamm Orientale dove si può vedere la parete Nord tra la roccia e il Colle del Lys (4130 mt.) sul Monte Rosa. Era presente anche il Direttore del Centro Studi Evoliani di Genova Renato Del Ponte. Una seconda urna si trova invece presso la tomba di famiglia al cimitero del Verano.

Sintesi del pensiero

Orientamenti - undici punti 

La teologia della modernità e la teologia del progresso: chiusura del nostro ciclo storico.

La sostanza umana esemplare: uomini dal giusto sentire e dal sicuro istinto.

La vocazione allo stile legionario: rispetto di sé, fedeltà all'idea.

La vera immagine gerarchica: disegnata dalle qualità dell'anima (ben-essere), non dalle quantità della ricchezza (benessere).

La regressione delle caste e la lotta radicale alla decadenza.

L'allucinazione materialistica dell'era economica. Necessità della sborghesizzazione e della sproletarizzazione.

Organicismo e totalitarismo. Sovranità dell'aristocrazia.

L'idea di Stato, paradigma degli uomini in ordine per formare compagini di uomini dell'Ordine.

Cultura e visione del mondo. Le ossessioni culturali della modernità ultima.

Il possesso di un ethos aristocratico ed eroico, condizione necessaria per rimanere fedeli alla consegna, propiziando la "ricostruzione": il ripristino delle forme originarie dell'essere nell'uomo e nel mondo.

Il necessario orizzonte religioso: la spiritualità trascendente quale consacrazione alla vita eroica.

Tradizionalismo e spiritualismo aristocratico

Evola è propugnatore del Tradizionalismo, un modello ideale e sovratemporale di società caratterizzato in senso spirituale, aristocratico e gerarchico. Evola auspica una società suddivisa in un rigido ordine castale in cui ognuno deve riconoscere e accettare la propria posizione. Secondo l'autore tale modello si riscontrerebbe, da un punto di vista "super-storico", in civiltà quali quella egiziana, romana e indiana. Tali civiltà non si baserebbero per Evola su criteri economici, materiali e biologici, ma sarebbero suddivise e gestite in base a criteri di gerarchia sociale di carattere ereditario e razziale/spirituale. Evola si oppone aspramente al cristianesimo in quanto ritiene che esso, derivando dalla corrente ebraica ed essendo una forma di dionisismo degenerato, abbia sovvertito l'ordine gerarchico "tradizionale" aristocratico e virile dello spirito attraverso i suoi ideali di amore fraterno, carità, uguaglianza e l'opposizione alla violenza come metodo di sopraffazione dei propri avversari. Evola nutre inoltre una profonda ammirazione per l'Islamismo in quanto ideologia politico-spirituale guerriera che ha superato le due precedenti religioni abramitiche.

L'essere e il divenire

Secondo Evola ogni azione che avviene durante la vita biologica (il divenire) rispecchia direttamente una medesima azione di carattere metafisico (l'essere) e dunque imperitura e sovratemporale.

Il tempo e l'involuzione dell'uomo

Lucas Cranach il Vecchio, L'età dell'oro (1530).

Il cammino dell'uomo durante la sua involuzione (come la definisce lo stesso Evola in aperto contrasto con le teorie darwiniane) avviene attraverso un percorso di tipo circolare, non lineare. Traccia di questa teoria la si trova, ad esempio, nello schema proposto da Esiodo relativo alla cosiddetta teoria delle cinque età (dell'oro, dell'argento, del bronzo, degli eroi, del ferro), corrispondenti ai quattro yuga dell'induismo (satya, treta, dvapara e kali). Queste civiltà menzionate – ritenute "superiori" da Evola – si basano dunque su una più elevata dimensione metafisica e spirituale dell'esistenza, anziché su criteri di ordine materiale. La naturale decadenza di queste società è direttamente proporzionale all'aumento del progresso e della modernità.

Tale processo di decadenza ha inizio con la perdita dell'unico polo che in passato racchiude sia l'autorità spirituale sia quella temporale e prosegue con la spinta propulsiva dei valori illuministi espressi con la Rivoluzione francese: si arriva così alla società odierna dove la dimensione spirituale dell'esistenza è andata definitivamente perduta. In particolare Evola rifiuta totalmente il concetto di egualitarismo, in favore di una visione differenziatrice della natura umana. Ne consegue un netto rifiuto per la democrazia (intesa come strumento di massa) e parimenti per ogni forma di totalitarismo, anch'esso ritenuto uno strumento di massa che si basa non su un'autorità spirituale, bensì su un'autorità esclusivamente di tipo temporale. Evola inoltre critica fortemente i concetti di "nazione" e di "patria" in quanto concetti di origine "naturalistico-collettivista" responsabili della degenerazione dell'Europa dal suo ipotetico antico stadio imperiale "super-storico".

La via iniziatica

Secondo Evola l'uomo ha la possibilità di elevarsi alla sfera divina e metafisica attraverso precise strade (il rito e l'iniziazione, la cosiddetta via iniziatica), utilizzando determinati strumenti (l'azione e la contemplazione) all'interno di contesti sociali predeterminati (la casta, l'impero). In aperto contrasto con le teorie di Sant'Agostino espresse nel De civitate dei e in sintonia con i dettami del buddhismo delle origini, Evola sostiene che non esiste differenza qualitativa tra l'uomo e il dio. Per l'autore ogni uomo è un dio mortale e ogni dio un uomo immortale. Ispirandosi alla via esoterica magica ed ermetica, alle figure di Stirner, Michelstaedter, Braun, Hamelin e Keyserling, Evola concepisce un idealismo magico che nega l'esistenza della realtà esterna, che per l'aspirante iniziato deve quindi diventare opera concreta di distruzione alchemica, riconoscendo l'Io quale unico «individuo assoluto», con tutto quel che una tale posizione comporta, dato che per Evola nel «presupposto gnoseologico dell'idealismo magico, è implicito il solipsismo». Il cammino iniziatico prevede:

La prova del fuoco è il primo passo del cammino iniziatico dell'idealismo magico, in cui si sperimenta la negazione drastica di ogni principio e presupposto esterno a sé nella propria condotta di vita. Si tratta di bruciare nel fuoco alchemico purificatore tutto quel che si oppone all'Io, e che in quanto oggettività è pura «negazione», nel senso di azione negativa, dell'agire attivo del soggetto.

La prova della sofferenza è la seconda fase in cui si accetta di subire il disfacimento della propria vita, non più negandola nella maniera attiva e risoluta con cui di fatto ci si legava ancora ad essa, ma liberandosi in tal modo dalla dipendenza dell'oggetto da negare.

La prova dell'amore è quella infine in cui l'Io non ha più bisogno di opporsi a nulla, auto-determinandosi secondo il principio taoista dell'«agire senza agire» (wei-wu-wei). Mentre infatti «l'azione violenta ed appassionata contro delle cose testimonia che esse hanno a priori per l'Io una realtà, e a dir vero proprio come antitesi, e non riesce quindi a superare l'antitesi ma solo a esasperarla e riconfermarla», soltanto nell'amore incondizionato l'Io si riappropria del potere che aveva ceduto al mondo al fine di negarlo.

«Il principio fondamentale della magica è che per avere realmente una cosa, occorre volerla non per l'Io ma per sé stessa, ossia amarla; che desiderare è precludersi la via alla realizzazione; che la violenza è il modo del debole e dell'impotente, l'amore e la dolcezza quello del forte e del signore. È la profonda dottrina del Taoismo: non volere avere per avere, dare per possedere, cedere per dominare, sacrificarsi per realizzare.»

(Julius Evola, L'idealismo magico, pag. 89, a cura di G. De Turris, Mediterranee, 2006)

Attraverso la via occultistica dell'amore, l'Io sperimenta sé stesso come infinita potenza e libertà assoluta, impossessandosi di quella forza creativa della realtà, per la quale l'idealismo magico di Evola trova un corrispettivo artistico nel dadaismo.

Il razzismo "spirituale"

«Sia razzialmente, sia in fatto di ideali, esiste una grande opposizione fra l'uomo ariano e tradizionale europeo e il giudeo. Fin dalle origini il giudeo ci è apparso come un essere diviso in se stesso. A differenza dell’ariano egli fu sempre incapace di concepire e di realizzare un'armonia fra spirito e corpo. Il corpo significò per lui la carne, cioè una crassa e peccaminosa materialità, da cui deve redimersi per raggiungere lo spirito che per lui sta in una sfera astratta, fuori della vita. Ma nel giudeo questo impulso alla liberazione fallisce ed allora le prospettive si invertono: colui che era tormentato dal pungolo della redenzione si precipita disperatamente nella materia, si abbandona ad una brama illimitata per la materia, per la potenza materiale e per il piacere. Voi così vedete un uomo che si sente schiavo della carne e per questo vuol vedere intorno a sé solo degli schiavi come lui. Perciò egli gode dovunque egli scopra l’illusorietà dei valori superiori, dovunque torbidi retroscena si palesino dietro la facciata della spiritualità, della sacralità, della giustizia e dell’innocenza.» (Julius Evola, La civiltà occidentale e l’intelligenza ebraica)

Una copertina de La difesa della razza, rivista diretta da Telesio Interlandi a cui Evola collaborò con alcuni articoli. La testata sosteneva tesi antisemite e razziste di matrice arianista, nordicista e mediterraneista, volte a definire una "pura razza italiana", secondo la definizione mussoliniana.

Conseguenza di questo pensiero è che le differenze naturali tra gli esseri umani si rispecchierebbero anche nelle razze. Il filosofo rifiuta una visione razzista della vita esclusivamente in senso biologico, sostenendo in aggiunta ad esso la sua teoria del cosiddetto "razzismo spirituale", sviluppata principalmente nel dopoguerra. La "razza interiore" di cui parla Evola è definita come un patrimonio di tendenze e attitudini che, a seconda delle influenze ambientali, giungerebbero o meno a manifestarsi compiutamente. L'appartenenza a una razza si individuerebbe dunque sulla base delle caratteristiche spirituali, e in seguito di quelle fisiche, diventandone col tempo queste ultime il segno visibile. Partendo da questi presupposti assiomatici, Evola definisce gli ebrei come razza materialista e spiritualmente inferiore rispetto alla razza ariana, in sintonia con alcune idee del nazismo tedesco. Nel corso del dopoguerra, Evola definirà il suo razzismo biologico come un elemento secondario del suo pensiero e della sua produzione intellettuale poiché ormai inattuale a causa della diffusione dello spirito ebraico oltre i confini della stessa comunità ebraica affermando la necessità di «colpire l'Ariano ebreo prima dell'ebreo per razza e per destino».

Escludendo quindi un razzismo esclusivamente biologico nei confronti degli ebrei il "razzismo spirituale" di Evola non rappresenta una versione attenuata dell'antisemitismo nazista, ma una sua continuazione ed estremizzazione anche in senso metafisico: secondo Enzo Collotti, «il razzismo spirituale del quale parla Evola vuole partire appunto dal dato biologico, che gli pare ancora troppo rozzo e deterministico, per sublimarlo e portarlo a pieno compimento "sul piano dello spirito", ossia sul piano metafisico. In tal modo Evola intendeva potenziare e nobilitare, e non già attenuare, il razzismo, avvolgendolo in una nebulosa filosofeggiante e scrostandolo di quel tanto di ruvido antropologismo».

Nell'opera del dopoguerra L'arco e la clava, specialmente nel saggio America negrizzata, Evola afferma come, oltre all'ebreo, la nuova minaccia sociale sia per lui rappresentata dal "negro" e dalla sua cultura che ha preso piede negli Stati Uniti e aggiunge che anche in Italia si stesse palesando il rischio di vedere normalizzata la presenza di "razze inferiori" nella società e nella cultura italiana ponendoli in ruoli sociali (ad esempio giudici, avvocati, medici, poliziotti etc.) nei film e nella televisione italiana o di vedere ballerine o cantanti neri esibirsi insieme ad artisti italiani, e vedendone come un allarmante segnale il recente successo avuto in Italia dalla cantante jazz afroamericana Ella Fitzgerald, definita da Evola una "massa informe urlante di carne". Già nella Sintesi della dottrina della razza riproponeva al proposito dei neri alcune idee simili a quelle del razzismo nazionalsocialista sugli ebrei, seppur de-biologicizzate: «una donna, i cui rapporti sessuali con un uomo di colore sono cessati da anni, può dare alla luce un figlio di colore nella sua unione con un uomo, come lei, di razza bianca: qui una idea confittasi in condizioni speciali nella subcoscienza della madre in forma di un “complesso”, anche dopo anni ha agito formativamente sulla nascita».

Il ruolo della donna

Evola sostiene, riprendendo alcune tesi da Sesso e Carattere di Otto Weininger, che uomo e donna, in quanto innatamente bisessuali, siano elementi polarmente opposti inseriti nel binomio su cui si basa il mondo (l'uomo rappresenta elementi come il sole, il fuoco, il cielo mentre la donna la luna, l'acqua, la terra, etc.) e queste due parti si influenzano inevitabilmente tra loro, per quanto Evola sostenga comunque che il principio dell'uomo sia autosufficiente mentre quello della donna per esistere gli debba essere necessariamente dipendente. Ogni equiparazione di ruoli e diritti è quindi per Evola un errore, un'abdicazione dal proprio ruolo gerarchico spirituale tendente alla virilità e alla femminilità assoluta.

Evola sostiene che il femminismo e i diritti della donna siano un errore, in quanto l'emancipazione femminile trasformerebbe la donna in una fuori-casta, una paria senza importanza. A causa di comportamenti e degenerazioni "moderne" la donna moderna (non più dipendente dall'uomo) si troverebbe così portata all'errore di divenire indipendente e emancipata dalla società patriarcale cui deve spiritualmente essere subliminata. Evola aborrisce il concetto di monogamia in quanto mera costruzione sociale e perlopiù degenerazione di origine giudaico-cristiana che viene giustificata socialmente dall'istituzione del matrimonio. L'uomo della tradizione pratica per natura la poligamia e dispone di un folto harem mentre la donna tradizionale al contrario può definirsi realmente libera per Evola solo in quanto pratica la venerazione totale (bhakti) nei confronti di un uomo, marito, padre o figlio che sia. Solo l'uomo quindi è capace di aspirare ad una vita spirituale mentre la donna, appartenendo alla terra, è parte del mondo materiale e dei bassi istinti da cui è attratta, di conseguenza per Evola essa è priva di ego, razionalità e morale: ontologicamente è una nullità destinata essenzialmente al coito sessuale e alla continua riproduzione del materiale e di altri individui. Evola stesso afferma che "i periodi in cui la donna ha raggiunto un'autonomia e una preminenza hanno quasi sempre coinciso con epoche di palese decadenza di più antiche civiltà". Secondo la scrittrice Paola Giovetti invece (nell'introduzione al testo evoliano Il problema della donna) «parlando dei due sessi Evola non parla di superiorità o inferiorità, ma si esprime in termini di eterogeneità, di polarità come legge cosmica e di complementarietà, e auspica un ritorno alla normalità delle precedenti civiltà quando, senza bisogno di psicologi e sessuologi, i due sessi si esprimevano "senza complicazioni, con chiarezza e intensità".»

In Metafisica del sesso, opera direttamente ispirata da Weininger, affronta temi come il pudore, la gelosia, il sadomasochismo, la nudità femminile come contemplazione sacra iniziatica, il complesso amore-morte, la magia sessuale. Lo studioso evoliano Gianfranco de Turris ricorda sia che Metafisica del sesso fu accolto con sdegno come "pornografia" e "libertinismo" dalla destra cattolica che dagli ambienti femministi, sia il monito di Evola (nell'articolo Libertà del sesso e libertà dal sesso e in un'intervista concessa alla rivista Playmen nel 1971) secondo cui la rivoluzione sessuale avrebbe spento il "magnetismo" dell'Eros, non lo avrebbe affatto "liberato" dalla repressione del cristianesimo, in quanto lo avrebbe portato oltre i naturali limiti rendendolo onnipresente. Evola incolpa il cristianesimo oltre che la modernità, avendo legato il matrimonio alla sola procreazione. A causa di questa degenerazione spirituale (la "femminilizzazione della spiritualità")  e del sesso non riproduttivo concepito come elemento non più magico-spirituale, la donna sarà di conseguenza, per Evola, portata ad una maggiore propensione all'emancipazione, o all'attrazione per il denaro, la moda, lo sport, il sesso edonista e la mondanità in generale, portando alla distruzione il valore "eroico" e ascetico che rivestiva la famiglia nel passato e distruggendo ogni limitazione di ceppo, di casta e di razza del retaggio ideale e archetipico.

Evola però scrive anche che la colpa dell'emancipazione e dell'autonomia femminile è da attribuirsi in primo luogo all'uomo che, soggetto ad "evirazione spirituale", non è stato di grado di ricondurre la donna al proprio ruolo, con qualunque mezzo anche violento:

«Vi è piuttosto il pericolo che oggi per un uomo vero nella grande parte dei casi sarebbe piuttosto congrua l’altra massima, quella consigliata dalla vecchia a Zarathustra: «Vai dalla donna? Non dimenticare la frusta» – quando in questi tempi progressisti fosse possibile applicarla impunemente e fruttuosamente.» (Cavalcare la tigre)

scrive Evola citando Nietzsche, pur senza accettarne il richiamo anti-trascendente e immanentistico.

Una critica viene effettuata anche agli atteggiamenti maschili e femminili della gioventù italiana, ad esempio ne Le ragazze italiane:

«La donna mediterranea, quasi senza eccezione, ha la propria vita orientata nel modo più unilaterale e, diciamo pure, più primitivo verso l’uomo. Noi siamo ben lungi dall’esaltare la donna mascolinizzata o la "compagna": fatto è però che la donna mediterranea trascura quasi sempre di formarsi una vita propria autonoma, una sua personalità, indipendentemente dalla preoccupazione del sesso, tanto da potersi permettere poi, nel campo del sesso, quella libertà, e mantenere in esso quella spregiudicatezza unita a linea, che si riscontrano, ad esempio, in una berlinese, in una viennese, in una danese. La vita interiore della gran parte delle nostre ragazze si esaurisce, invece ed appunto, nella preoccupazione pel sesso e per tutto ciò che può servire per ben “apparire” e per attrarre l’uomo nella propria orbita. [...] Si può vedere ogni giorno, in una via di grande città, che cosa succede quando una ragazza appena desiderabile passa dinanzi ad un gruppo di giovani: questi la scrutano e la seguono con lo sguardo “intenso”, come se fossero tanti Don Giovanni o degli affamati tornati dopo anni di Africa o di Artide; l’altra mentre nelle pitture, nell’incedere, nelle vesti e così via non fa mistero di tutta la sua qualificazione femminile, affetta un’aria di sovrana indifferenza e di “distacco” (anche quando si tratta di una mezza calzetta, ove sarebbe difficile trovar dell’altro, oltre la qualità biologica di esser nata, per caso, donna)» (J. Evola, Le ragazze italiane')

Prosegue con una critica anche all'atteggiamento del maschio italiano:

«...il carattere immediato e, diciamo pure, grezzo delle sue inclinazioni erotiche, un certo tipo umano, purtroppo da noi molto diffuso, allarma la donna, la mette sulle difese, favorisce ogni specie di complicazioni dannose: dannose, in primo luogo, proprio per lui. La donna, mentre da un lato non pensa che a possibili rapporti con l’uomo e all’affetto che essa può produrre sull’uomo, dall’altro si sente come una specie di preda desiderata e inseguita, che deve star bene attenta ad ogni passo falso e “razionalizzare” adeguatamente ogni relazione ed ogni concessione. Ma a parte queste circostanze esteriori, di cui ha colpa l’uomo, devesi accusare un atteggiamento effettivamente falso proprio ad un diffuso tipo femminile. Si può affermare che, nel 95% dei casi, una ragazza può aver già detto interiormente “si”, ma che essa si sentirebbe avvilita nel comportarsi risolutamente di conseguenza, senza sottoporre l’uomo a tutta una trafila di complicazioni, ad una via crucis erotico-sentimentale. Temerebbe, altrimenti di non esser considerata come una “persona seria” o “per bene”, laddove da un punto di vista superiore, proprio una tale insincerità e artificialità sono segno di poca serietà. Su base analoga si svolge la prassi ridicola di flirts, il rituale dei “complimenti”, del “fare la corte”, della obbligata “galanteria” del “forse che si, forse che no”. E che in tutto ciò l’uomo non si senta offeso nella sua dignità, quasi come per una prostituzione psichica che, alla fine, dovrebbe fargli chiedere si le jeu vaut la chandelle - ciò dimostra l’influenza che sul nostro sesso hanno componenti razziali poco felici.» (J. Evola, ibidem')

Evola conclude che l'uomo dovrebbe far comprendere alla donna che per «quanto importanti, amore e sesso non possono avere che una parte subordinata rispetto a più alti interessi; in secondo luogo, smettendola di atteggiarsi continuamente come un Don Giovanni o come una persona, che mai abbia visto una donna», perché «in via normale, dei due è la donna che deve cercare e chiedere l’uomo, non viceversa».

Evola si schierò a favore dell'introduzione del divorzio nell'ordinamento italiano, a differenza del Movimento Sociale Italiano, e attaccò inoltre la legge del 1958 che aboliva la prostituzione legale in Italia perché "non è tanto facile tracciare un limite netto fra ciò che, in una donna, è prostituzione, e ciò che non lo è", e poiché nell'antico oriente, a suo avviso, ci furono donne che diedero a tale inclinazione "uno sviluppo qualitativo adeguato". Essa è per Evola una "vocazione" e il suo divieto "una espressione tipica per quel miscuglio di ipocrisia, di irresponsabilità, di falso zelo, di retorica e di moralismo che caratterizza, in genere, il clima democristiano", "mentalità borghese" e "ipocrisia moralistica".

«Le donne, che la letteratura ottocentesca chiamava 'perdute', per un certo verso esercitano un'utile azione diversiva, dati tutti coloro che, non essendo in grado di sopprimere o trasformare un impulso elementare, chiuse le vie della esplicitazione più spicciativa di esso, non possono non cercarne di altre. Vi è un lato per cui quelle ragazze, che si vorrebbero additare al disprezzo generale e di cui l'antropologia lombrosiana di beata memoria avrebbe voluto fare addirittura la controparte del delinquente, assolvono ad una funzione sociale protettiva di utilità indiscutibile, con un sacrificio che, per essere inconscio e involontario, non è per questo meno reale.» (Julius Evola)

Riprendendo dalle teorie di Bachofen, in ogni ciclo eroico per Evola vi è inoltre l'opposizione degli "Uomini della Tradizione" all'etèrrismo (tipico delle donne libere e sessualmente emancipate) e all'amazzonismo (tipico delle donne che fanno propri e propongono comportamenti tipici dell'uomo), ovvero al riscatto "ginecocratico" da parte delle donne (il quale Evola definisce anche come il riscatto terrestre della femminilità ancestrale o della restaurazione lunare): l'uomo dovrebbe quindi impersonare simbolicamente l'Eracle dorico misogenos, sterminatore di Amazzoni, per ristabilire l'ordine castale di natura.

Epistolario

Lettere a Benedetto Croce

Nel 1994 vengono ritrovate presso l'archivio crociano di Napoli sette lettere scritte da Evola a Benedetto Croce (più una, l'ottava, indirizzata all'editore Laterza). Tale ritrovamento, per opera di Stefano Arcella – funzionario dei Beni Culturali presso la biblioteca di Napoli – permette di ricostruire almeno in parte i rapporti tra Evola e il filosofo del liberalismo. Evola invia inizialmente a Croce, in una lettera del 13 aprile 1925, la richiesta di intercedere presso l'editore Laterza per la pubblicazione dei Saggi sull'idealismo magico e Teoria dell'individuo assoluto. Pochi giorni dopo Evola risponde a una cartolina postale di Croce ringraziandolo per il giudizio di apprezzamento sul lato formale dei due manoscritti.

Laterza, nonostante l'appoggio favorevole di Benedetto Croce, scrive a Evola una lettera il 14 settembre 1925 in cui precisa di volersi riservare «la massima libertà di decidere anche nei riguardi di autorevoli amici». L'8 aprile 1930 Evola scrive nuovamente a Croce chiedendo aiuto per la sua nuova opera sull'alchimia: La tradizione ermetica. In una successiva, breve lettera, Evola ringrazia Croce per l'interessamento e l'anno successivo, il manoscritto esce per i tipi dell'editore barese.

Secondo Stefano Arcella in questo periodo si realizza un collegamento tra due opposizioni culturali al fascismo: una in senso tradizionale (Evola) e una in senso liberale (Croce). Secondo Gianfranco De Turris Evola si rivolge a Croce in quanto preferisce aperture presso uomini e gruppi non dogmatici, più che presso l'ufficialità del regime fascista. Poiché Evola non lascia un archivio epistolare, non è possibile analizzare le risposte date da Croce alle missive dello stesso Evola. Senza le risposte di Croce diventa infatti difficile valutare l'apertura del pensatore liberale verso i contributi filosofici del pensatore tradizionale.

Lettere a Giovanni Gentile

Evola invia, tra il 1927 e il 1929, quattro lettere al Senatore Gentile. Nonostante le marcate divergenze sul piano filosofico – Evola si discosta dall'attualismo gentiliano in favore di una rigida codificazione teoretica (l'idealismo magico) – il pensatore tradizionale cerca un confronto con uno dei massimi esponenti del mondo accademico. Tale confronto, secondo Stefano Arcella – curatore del volume Lettere di Julius Evola a Giovanni Gentile (1927-1929) – non produce risvolti interessanti sotto il profilo speculativo in quanto i due filosofi sono su posizioni eccessivamente distanti, e anche i presupposti dottrinali e religiosi sono inconciliabili.

Sempre Arcella afferma che «il tentativo evoliano di aprire un colloquio costruttivo rimane un fiore che non sboccia». Evola cerca di costruire, pur senza risultati apprezzabili, un punto di riferimento culturale alternativo all'ambiente gentiliano. Nel Cammino dei cinabro tenta di spiegare così le ragioni di questo mancato incontro:

«Tutti i riferimenti extra-filosofici di cui il mio sistema filosofico era ricco servirono come un comodo pretesto per l'ostracismo. Si poteva liquidare con un'alzata di spalle un sistema che accordava un posto perfino al mondo dell'iniziazione, della "magia" e di altri relitti superstiziosi. Che tutto ciò da me fosse fatto valere nei termini di un rigoroso pensiero speculativo, a poco servì. Però anche da parte mia vi era un equivoco, nei riguardi di coloro ai quali, sul piano pratico, la mia fatica speculativa poteva servire a qualcosa. Si trattava di una introduzione filosofica ad un mondo non filosofico, la quale poteva avere un significato nei soli rarissimi casi in cui la filosofia ultima avesse dato luogo ad una profonda crisi esistenziale. Ma vi era anche da considerare (e di questo in seguito mi resi sempre più conto) che i precedenti filosofici, cioè l'abito del pensiero astratto discorsivo, rappresentavano la qualificazione più sfavorevole affinché tale crisi potesse essere superata nel senso positivo da me indicato, con un passaggio a discipline realizzatrici»

(Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 61.)

Gentile tuttavia riconosce a Evola una certa competenza in campo esoterico-alchemico e infatti chiede al filosofo della tradizione di curare la voce Atanor per l'Enciclopedia Italiana. Anche alcuni allievi di Gentile riconoscono a Evola una certa stima, in particolare Guido Calogero ma in generale Gentile rimarrà per Evola sempre oggetto di aspre critiche soprattutto nel dopoguerra.

Alessandro Giuli successivamente riporta altre informazioni, relative al carteggio Evola-Gentile, reperite all'interno della "Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici", occupandosi in particolare dei vari volumi che Evola invia con dedica al Senatore.

Lettere a Carl Schmitt

Si tratta di sette lettere inviate da Evola a Schmitt tra il 1951 e il 1963, conservate nel Nachlass Carl Schmitt dell'Archivio di Stato di Düsseldorf. L'epistolario mette in luce da una parte alcune amicizie e conoscenze in comune tra i due pensatori (Ernst Jünger, Armin Mohler), dall'altra il tentativo di proporre la pubblicazione in italiano del saggio di Schmitt sul tradizionalista cattolico Donoso Cortés. Tale tentativo non va in porto, così come fallisce anche il secondo progetto editoriale, risalente al 1963, di pubblicare un'antologia schmittiana.

Di rilievo, all'interno dello scambio epistolare, le due divergenti visioni rispetto alle teorie di Donoso Cortés sul ruolo dell'uomo politico e la sua autonomia. Evola interpreta il concetto di dictatura coronada come «necessità di un potere che decida assolutamente, ma a un livello di una dignità superiore, indicata dall'aggettivo coronada». Per il giurista tedesco, invece, esiste prima di tutto un passaggio significativo che porta dal concetto della legittimità del regnare a quello della dittatura. Per Cortés, scrive Schmitt, «la dittatura incoronata, la dictadura coronada, significava solo un pis-aller pratico [...] mai ha concepito questo espediente pragmatico come una forma di salvezza religiosa o teologica».

Anche in questo caso – così come già ampiamente esposto in Rivolta contro il mondo moderno – il costante rimando evoliano a un fondamento trascendente dell'ordine politico rimane «quell'ineliminabile discrimine che non può essere in alcun modo occultato o minimizzato». Antonio Caracciolo sottolinea anche di come l'epistolario assume rilievo in relazione al tentativo di «fornire di solidi contrafforti ideologici e culturali il mondo conservatore che, nel dopoguerra italiano, si trovava a combattere la sua battaglia politica».

Lettere a Gottfried Benn

Evola entra in contatto epistolare con Gottfried Benn – medico e poeta tedesco appartenente alla cosiddetta Rivoluzione conservatrice – fin dal 1930. Il primo incontro risale invece al 1934, durante la tappa berlinese di un viaggio che Evola effettua in Germania. Da quell'incontro scaturisce una famosa recensione-saggio di Benn alla traduzione tedesca di Rivolta contro il mondo moderno che appare nel 1935 sulla rivista Die Literatur di Stoccarda. Nel presentare l'opera, Benn espone le sue teorie convergendo con la visione del mondo di Evola.

Successivamente Francesco Tedeschi rintraccia nello Schiller-Nationalmuseum Deutsches Literaturarchiv di Marbach due lettere manoscritte (la prima del 30 luglio e la seconda del 9 agosto 1934) più una dattiloscritta del 13 settembre 1955 che Evola invia a Benn. Le prime due lettere sono importanti in quanto chiariscono la comunanza di vedute dei due autori rispetto al tema della tradizione e di una visione del mondo conservatrice, oltre al fatto che entrambi non si riconoscono nel nazismo tedesco. Dalla lettera del 9 agosto: «Sono sempre più convinto che a chi voglia difendere e realizzare senza compromessi di sorta una tradizione spirituale e aristocratica non rimanga purtroppo, oggi e nel mondo moderno, alcun margine di spazio; a meno che non si pensi unicamente a un lavoro elitario». La terza lettera è importante in quanto testimonia il tentativo di Evola di riprendere, nel dopoguerra, i rapporti con quegli esponenti conservatori che conosce negli anni trenta e quaranta.

Lettere a Tristan Tzara

Nel 1975 compaiono, in un articolo di Giovanni Lista, brani di due lettere inviate da Evola a Tristan Tzara, il fondatore del Dadaismo. Dall'articolo non si evince però la loro collocazione. Solo nel 1989, grazie al lavoro di ricerca della studiosa Elisabetta Valento, tutta la corrispondenza viene trovata presso l'archivio della Fondation Jaques Doucet della biblioteca Sainte-Geneviève di Parigi.

Si tratta di una trentina di documenti tra lettere e cartoline: la prima è del 7 ottobre 1919, l'ultima del 1º agosto 1923. Molte tappe del cammino artistico del filosofo romano sono già note prima del rinvenimento della corrispondenza con Tzara: in parte perché lo stesso Evola ne parla nella sua autobiografia, in parte perché dedotte dai critici e dagli studiosi nelle partecipazioni, in qualità di articolista, che Evola ha in alcune riviste d'arte dell'epoca: Noi, Cronache d'Attualità, Dada e Bleu. Secondo la Valento, ciò che invece non è noto prima del rinvenimento della corrispondenza, sono «le modalità dell'avventura evoliana nella sfera artistica, ovvero come essa si attuò, come fu vissuta, a che mirava». Dopo gli anni venti Evola prenderà severamente le distanze dal movimento di Tzara quale produzione dell'ebraismo definendolo inoltre "bolscevismo artistico".

L'archivio della corrispondenza tra i due artisti ha, inoltre, il pregio di colmare il vuoto di un periodo giovanile poco conosciuto di Evola. Questo vuoto si colma sia attraverso la ricostruzione di tappe cronologiche (il recupero di alcune date, partecipazioni a mostre, riviste, incontri) sia attraverso il recupero di tappe più specificamente «psicologiche». In particolare quelle che portano Evola ad annunciare il proprio suicidio (lettera 24 del 2 luglio 1921) e che raccontano di un uomo colto nel pieno male di vivere, di una sperimentazione del travaglio interiore che l'artista vive tra il 1920 e il 1921, dove la «sofferenza acuta si alterna alla disperazione».

Fortuna e critica del pensiero evoliano

Oggetto di critica serrata, il pensiero di Evola secondo Franco Ferraresi "può essere considerato come uno dei più coerenti e radicali sistemi dottrinali di orientamento antipopolare, antiliberale e antidemocratico del XX secolo".

Evola ha una sua influenza, anche se difficilmente quantificabile, nel variegato mondo della cultura fascista, spesso ingigantita dai suoi stessi resoconti del dopoguerra: con lo scopo di indirizzarne l'impostazione culturale e ideologica verso posizioni più affini al suo pensiero, scrive numerosi saggi, collabora intensamente con riviste e giornali di grande tiratura e partecipa alla vita accademica del suo tempo in veste di conferenziere, sia presso alcune prestigiose università italiane e straniere sia nell'ambito dei corsi di mistica fascista, nonostante la sua precedente dichiarata opposizione al mondo accademico e delle università (nonché al concetto stesso di mistica fascista). Lo stesso Giuseppe Bottai, alto esponente del Partito Fascista che anni prima aveva permesso la sua pubblicazione, definì le sue opere e il suo pensiero come "un arbitrario accoppiamento di una massa mal digerita di nozioni”. Sostanzialmente Evola durante il fascismo rimarrà per il mondo politico e culturale un "isolato e un eccentrico".

Ma è lo stesso Evola, nel primo numero della rivista da lui diretta, La Torre, quando espone il suo pensiero sul mondo della tradizione, a sintetizzare la sua posizione verso il fascismo: «Nella misura che il fascismo segua e difenda tali principi, in questa stessa misura noi possiamo considerarci fascisti. E questo è tutto». Sulle stesse pagine della rivista Evola allo stesso tempo scriverà in un articolo anonimo precisando che per lui il fascismo è stato «Troppo poco» e che «Noi avremmo voluto un fascismo più radicale, più intrepido, un fascismo veramente assoluto, fatto di forza pura, fatto di irriducibilità a qualsiasi compromesso, ardente nella fase di un senso reale della potenza imperiale». Seppur mai comprovato, c'è anche chi tra i suoi sostenitori ritiene che in sede diplomatica Evola svolgesse missioni ad altissimi livelli per conto dello stesso governo italiano. Centrale nel suo pensiero è infatti il concetto di "tradizione", ma lo stesso Evola spiega come tale concetto debba essere interpretato principalmente in chiave spirituale-esoterica e non in riferimento ad una realtà del passato quanto ad una ideale epoca a-storica..

Evola è stato inoltre considerato uno dei principali ideologi dell'estrema destra terrorista durante gli Anni di piombo, del neopaganesimo romano-italico e le sue opere verrebbero apprezzate anche da alcune frange del fondamentalismo islamico, oltre che dagli ambienti di suprematismo e nazionalismo bianco, neofascismo, nativismo, neonazismo, neo-eurasiatism e identitarismo, ma trova seguito anche nella destra moderata. Evola è inoltre un autore popolare tra gli appassionati di esoterismo, pseudoscienza, spiritismo e paranormale, in gran parte anche causa delle sue convinzioni metafisiche, magiche e soprannaturali, inclusa la fede nei fantasmi, nella telepatia e nell'alchimia.

Sulla mostra di pittura di Evola tenutasi al Museo d'arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto (MART) di Rovereto dal 15 maggio al 18 settembre 2022, voluta dal presidente del museo Vittorio Sgarbi, ci sono state critiche soprattutto da parte di esponenti della cultura ebraica, come la storica Anna Foa e lo storico Alberto Cavaglion che hanno stigmatizzato l'antisemitismo di Evola. Cavaglion ha fatto notare con un intervento sul Moked - il portale dell'ebraismo italiano che Evola «fu dell’antisemitismo italiano [...] un protagonista indiscusso, forse, il solo rappresentante della via italiana al razzismo» e conclude «non mi sembra che la storiografia sull’antisemitismo nel primo Novecento italiano abbia saputo misurare bene il veleno della fede evoliana. Una mostra di quadri mediocri temo non servirà molto a migliorare le cose».

Estratto dell’articolo di Maria Novella De Luca per “La Repubblica” il 30 aprile 2023.

Trentaquattro anni dopo si fa chiamare Graziella, vive a Bergamo, fa la prof di Lettere e in Sicilia non torna da dieci anni. "Mi mancano il mare, le sarde a beccafico di mia madre e i templi di Agrigento. Ma l'estate resto quassù, accanto all'ospedale dove mi curano, se nessuno mi riconosce sono felice, Lara è storia di ieri, a diciannove anni due milioni e mezzo di copie possono travolgerti e sì, io ne sono stata travolta". Era il 1989. 

Lara Cardella sconosciuta studentessa di Licata, scrive "Volevo i pantaloni" e -  racconta - "il mondo crollò". Successo e ferocia. Poco più di 100 pagine, un titolo fulminante.  "Mi chiamavano tv e giornali di tutta Europa, ma a Licata non potevo uscire di casa: venivo lapidata di parolacce. Ero la buttana che aveva infangato il paese". 

Oggi la sua casa è al Nord. Però sembra un po' un esilio.

"Figuriamoci. A Bergamo sto benissimo. La felicità dell'anonimato. Delle cose che funzionano. Quando mi presento con il mio vero nome, Graziella Cardella, quasi nessuno si ricorda di Lara. Sono la prof Cardella. Un mestiere che adoro". 

E' vero che tutto è iniziato con una brioche?

"Era la posta della scommessa con una mia amica sul concorso lanciato da "Cento cose" per scrittori esordienti. Se avessero respinto il mio manoscritto, come sostenevo, avrei pagato io". 

Invece?

"Pagò lei. La Mondadori mi telefonò durante le vacanze di Natale. C'erano i telefoni fissi. "Cerchiamo la signora Lara Cardella". Credevano fossi una cinquantenne che si faceva passare per ragazzina". 

"Volevo i pantaloni", storia di Annetta che negli anni Settanta si ribella al patriarcato, racconta uno stupro in famiglia e l'omertà di un paese, diventa un best seller tradotto in 15 lingue, due milioni e mezzo di copie vendute. Cosa è cambiato da allora?

"Niente".

Come niente? Sempre più donne laureate, politiche, mediche, avvocate, ministre.

"Sempre più ragazzine che vivono nel culto della bellezza per piacere ai maschi. Lo vedo nelle mie classi. Studiano di più, fanno lavori più importanti, ma nel fondo sono prigioniere del ruolo. Però se restano incinte non possono dirlo ai genitori. Come a Licata quando ero ragazzina". 

Parla di una sua allieva?

"Mi chiese aiuto. Aveva 16 anni e voleva abortire. Diceva che i genitori l'avrebbero cacciata. L'ho indirizzata dal giudice tutelare, così vuole la legge, poi all'ospedale. E dallo psicologo". […] 

Com'era il film "Volevo i pantaloni"?

"Una schifezza" 

Perché i suoi concittadini la odiarono?

"Ero il fenomeno del momento. Giovanissima, siciliana, autrice di best seller. Mi invitò Maurizio Costanzo che fu straordinario, paterno. Dal palco del Parioli denunciai quello che tutti sapevano". 

Il maschilismo della sua città?

"Non parlavo di Licata, mai citata, ma del tormento dell'essere guardate unicamente come oggetti sessuali. E di non poter mettere una minigonna". 

Se ricordo bene l'esempio fu un gelato.

"Appunto. Tu mangi un gelato per strada, dunque lecchi il gelato? Sei puttana". 

Possibile? Eravamo negli anni Novanta.

"Ma il libro è ambientato vent'anni prima. Non me l'hanno perdonata. Tutta la mia famiglia, i miei genitori, mia sorella, hanno pagato un prezzo alto. Insulti, minacce, emarginazione". 

"Volevo i pantaloni" diventa uno slogan di emancipazione, lei però si ritrova a Gela a fare la mamma e la casalinga, accanto ad un uomo violento. Lara non era una ribelle?

"Marco è stato il grande amore della mia vita e non rinnego niente. Mi chiedo anch'io, ancora, come fossi finita in quella prigione. L'ho sposato per amore, ma era tossicodipendente e di una gelosia morbosa. Però con lui ho avuto mio figlio Junior, un grande dono. Quando Marco è finito a San Patrignano ho capito che dovevo andarmene". […]

Dopo Marco chi è arrivato?

"Un'infinità di altri uomini, uno soltanto importante". 

Il nome?

"Lasciamo perdere, è famoso". 

E' vera la statistica che le attribuisce, addirittura, 300 uomini?

"Falsa. Sono di più. Direi cinquecento. Mai voluto essere casta. Mi piace scegliere". 

Una provocazione?

"Decida lei". […] 

Ha detto che Loredana Bertè le ha salvato la vita. Voleva morire?

"Ero in cura da uno psichiatra. Un momento buio, però non volevo suicidarmi. Mi aveva dato un cocktail di farmaci troppo forte. Quella sera avrei dovuto incontrare Loredana. Al telefono non rispondevo. Così lei chiamò la reception del residence in cui vivevo. Ero in coma. Quindi sì, mi ha salvata". […]

"Non posso fare una promessa che non manterrò": chi era la scrittrice de "La casa nella prateria". Laura Ingalls Wilder è stata l'autrice dei libri da cui fu tratto il telefilm mandato in onda dal 1977 per 9 stagioni e innumerevoli repliche. Angela Leucci il 26 Luglio 2023 su Il Giornale. 

Tabella dei contenuti

 La vera storia de La casa nella prateria

 I libri, il successo, il pensiero

Vantava avi e parenti celebri, ma tutti la conoscono per i suoi libri e una serie tv cult. Laura Ingalls Wilder è stata infatti la reale protagonista e autrice dei libri da cui fu tratto il telefilm La casa nella prateria, mandato in onda in Italia a partire dal 1977 per 9 stagioni e poi replicato innumerevoli volte, sempre con successo. Laura Ingalls non è stato infatti un personaggio di invenzione: è stata una scrittrice ma anche una pioniera.

La vera storia de La casa nella prateria

“Il futuro è nelle nostre mani per farne ciò che vogliamo”. Molti pensano che questo sia un concetto originale che può essere ascoltato nella saga di Ritorno al futuro, ma in realtà si tratta di una citazione della vera Laura Ingalls. Ritratta in tv dall’attrice Melissa Gilbert, Ingalls nacque nel 1867 a Pepin nel Wisconsin: era pronipote di un passeggero della Mayflower e discendente dei Delano - famiglia dalla quale sarebbe nato il 32esimo presidente Usa Franklin Delano Roosevelt - inoltre era una lontana cugina del generale Ulysses S. Grant, che ebbe un grosso ruolo nella Guerra Civile.

I genitori di Ingalls si chiamavano, come nella serie, Charles e Caroline, che iniziarono la propria storia nel Wisconsin, per poi trasferirsi in Missouri e quindi nel Kansasm e infine tornare nel Wisconsin, sempre a Pepin, ma La casa nella prateria è ambientata in Minnesota. Perché gli Ingalls non si fermarono lì: la storia della famiglia, della quale fecero parte 5 figli compresa Laura, proseguì successivamente in Minnesota e infine nel South Dakota, a De Smet. Gli Ingalls si occuparono di agricoltura e allevamento, ma i figli frequentarono la scuola locale: tutto nella serie è molto aderente ai romanzi autobiografici di Laura Ingalls, tragedie comprese.

È il periodo dei pionieri negli Stati Uniti: nulla è facile. Carestie, malattie, mancanze di ogni tipo di ciò che oggi si dà per scontato erano all’ordine del giorno. Alcuni personaggi però furono inventati dalla stessa Laura Ingalls: la coetanea antipatica e snob Nellie Oleson, per esempio, non è mai esistita, ma la scrittrice ne modellò il personaggio a partire dai caratteri di tre coetanee eufemisticamente non troppo gentili.

Nel 1882, a neppure 16 anni, Ingalls diventò un’insegnante per aiutare la famiglia, ma proseguì i suoi studi, diplomandosi, e contemporaneamente lavorò da una sarta. Tre anni più tardi, nel 1885, sposò Almanzo Wilder, da cui prese il secondo cognome: Almanzo era un uomo benestante, ricco di famiglia, ma la loro vita non fu felice. Nel 1889 nacque infatti il loro secondogenito che morì a 12 giorni dal parto, mentre un anno prima, nel 1888, Almanzo era rimasto parzialmente e temporaneamente paralizzato a causa dei postumi di una difterite. Successivamente persero la loro casa a causa di un incendio dovuto a una disattenzione della primogenita Rose, e dovettero affrontare diversi periodi di siccità. Tutto questo li costrinse a trasferirsi in Minnesota, poi Florida e quindi in Missouri nel 1894. Grazie all’aiuto economico dei genitori di Almanzo, rimisero in piedi una fattoria, tornando a occuparsi di agricoltura e allevamento. Il rapporto con Almanzo però fu paritario: al momento delle nozze si rifiutò di usare il termine “obbedire” tra le promesse, dicendogli: "Non posso fare una promessa che non manterrò”.

I libri, il successo, il pensiero 

A partire dal 1911 Laura Ingalls Wilder iniziò a lavorare come giornalista, per piccole rubriche locali del Missouri che riguardavano l’agricoltura. Laura aveva scritto in realtà per tutta la sua vita un lungo romanzo autobiografico chiamato Pioneer Girl, ma solo nel 1930, dopo che la sua famiglia fu colpita dalla Grande Depressione, decise di provare a pubblicarlo su incoraggiamento della figlia Rose Wilder Lane, a propria volta già una scrittrice al tempo: la sua opera fu poi divisa in diversi libri, il primo dei quali pubblicato nel 1932, seguito da numerosi altri, alcuni dei quali postumi. Pioneer Girl venne pubblicato integralmente solo nel 2014, diventando subito un bestseller. Ogni suo volume fu in effetto un successo, per di più internazionale: alla fine degli anni ’40 per esempio la fama di Ingalls raggiunse perfino il Giappone, una nazione con la quale i rapporti diplomatici erano con gli Usa ancora molto freddi.

Laura Ingalls Wilder morì nel 1957 all’età di 90 anni, dopo essersi ammalata, a causa del diabete e di problemi cardiaci. Fu seppellita a Mansfield nel Missouri, insieme al suo amato Almanzo. Nonostante tutte le difficoltà che dovette incontrare nella vita, pensava (e scrisse) che: “Una bella risata supera più difficoltà e dissipa più nubi oscure di qualsiasi altra cosa”.

Negli anni 2000 gli scritti di Laura Ingalls Wilder sono stati oggetto di revisionismo per il modo razzista in cui venivano dipinti gli afroamericani da poco liberati dalla schiavitù: chiaramente non è cancellando il passato che il futuro non potrà ripetere certi orrori e quindi questi libri, come tanti altri del resto, vanno inquadrati in un periodo storico di riferimento, al di fuori del quale non possono essere compresi.

Estratto dell’articolo di Marco Belpoliti per “la Repubblica” il 9 gennaio 2023.

 È più interessante la vita o l'arte di Lee Miller? La sua carriera di modella, amante di uomini più o meno illustri, seduttrice vitale e vitalistica, giornalista oltre che fotografa, musa e insieme museo di artisti eccellenti, viaggiatrice indefessa, fotografa di guerra al crollo del Terzo Reich: la donna-giusta-nel-posto-giusto- al-momento-giusto? [...]

 La mostra che si è aperta a Venezia a Palazzo Franchetti, Lee Miller-Man Ray. Fashion, Love, War (a cura di Victoria Noel-Johnson, catalogo Skira), fino al 10 aprile 2023, espone le fotografie di lei accanto alle immagini di lui, e insieme sono tra gli scatti più belli del Novecento, i più affascinanti, perché contengono in potenza tutto quello che è stato e quello che sarà a partire dall'epoca tra le due guerre, momento irripetibile per la cultura europea, francese in particolare. [...]

        Tutto comincia con le molestie sessuali subite a sette anni, con una malattia venerea da curare e la morte tragica d'un innamorato a 13 anni sotto i suoi occhi: eventi che producono la cura spasmodica dei genitori che la viziano in modo spudorato e accentuano le sue capacità manipolatorie. Espulsa da scuola, la mandano a Parigi nel 1925 segnandone il destino. Ma non basta. C'è la bellezza congiunta con un'aura "ardita e luminosa" che ne fanno una vamp potenziale.

Ci mette la mano il caso: attraversa sbadatamente una strada a New York e sta per essere investita. La salva Condé Nast, il re dei rotocalchi, che la tira indietro. Lei balbetta qualcosa in francese e gli cade tra le braccia. L'effetto sono gli scatti di Edward Steichen che la trasformano in una diva sulle riviste di moda.

 Tutto poteva anche finire qui, se non fosse che Lee è una donna particolare, un carattere determinato, un'intelligenza prensile, ambiziosa e con uno smodato piacere per la novità. Incarna il tipo femminile dell'epoca: bionda, misteriosa, elegante, unione di angelo e demonio. Lei sa di essere tutto questo, e se ne serve. Che sia stata un tipo particolare lo dimostra la sua stessa biografia, il testo più dettagliato su di lei, scritta dal figlio, Antony Penrose, Le molte vite di Lee Miller (tr.it. di V. De Rossi e M. Baiocchi, Contrasto), che ne narra amori, storie, colpi di testa, alti e bassi, gettando un corto e spesso feroce raggio di luce sugli angoli della sua vita, come se a scriverlo fosse stato un estraneo.

La divinità che ha presieduto alla sua esistenza si riassume con la parola greca Kairos : è il tempo cairologico, che è il momento supremo o, se vogliamo, l'Occasione, che Lee sa cogliere in modo perfetto guidata da una forza superiore. Decide di diventare fotografa - meglio fotografare che essere fotografata, ha detto - e nel 1929 a Parigi va a bussare alla porta di Man Ray, il più famoso fotografo surrealista, e non solo.

 Lui non c'è, è partito per le vacanze. Entra in un caffè lì a fianco e Man Ray sbuca da una scala. Gli dice che vuole essere la sua allieva; lui le risponde che non prende allievi e sta per partire. Lei: lo so, vengo anche io. Così vivono insieme per tre anni. […] Vanity Fair la include tra i sette fotografi più famosi.

Non le basta neppure questo. Nel 1934 sposa un ricco uomo d'affari egiziano di cui è l'amante, e si trasferisce in Egitto. La moglie di Aziz, ElouiBey, una delle cinque donne più belle del mondo, si suicida. Il matrimonio durerà tre anni. Le foto scattate nel Paese africano sono sorprendenti e anticipano lo stile che sarà della guerra vista da lei. [...]

 Questa è forse la parte più nota della sua attività, perché passa dalla casa di Hitler a Monaco - foto di Dave Scherman, suo compagno di viaggio, nella vasca da bagno mentre si lava, gli anfibi in primo piano e il ritratto del Führer di lato. Quindi è a Dachau dove testimonia l'orrore dei lager nazisti. In che cosa consiste la sua bravura? Nell'unione di surrealismo e glamour, d'avanguardia e di moda. Nei suoi scatti c'è sempre qualcosa di artefatto, di posato, come nel celebre ritratto della figlia del borgomastro di Lipsia morta suicida: adagiata sul divano Chesterfield.

E al tempo stesso qualcosa di vero: la vita, o la morte, così ben costruita da essere vera. Come lei stessa. Dopo questo viaggio nelle viscere disfatte del Reich cadrà in depressione, e anche successivamente alla nascita del figlio. Abbandona la fotografia e si trasforma in una supercuoca.

 La bellezza e la passione erotica l'abbandonano. La frase più efficace per descrivere il suo carattere la pronuncia il suo medico, cui ha detto di essere depressa: «Non hai nulla, né possiamo tenere il mondo in un perenne stato di guerra per assicurarti l'eccitazione di cui hai bisogno». L'energia che la spingeva era quella, l'eccitazione, e lei sapeva dosarla con il talento del suo sguardo e dei suoi sensi.

«Un’eco del Maghreb nella scrittura al contrario di Leonardo da Vinci». Angiola Codacci-Pisanelli su L’Espresso il 21 Marzo 2023

Sua madre era una schiava arrivata in Toscana dal Caucaso. Però sulla sua vita ha influito di più il nonno viaggiatore. Lo storico Carlo Vecce fa il punto sulle sue scoperte intorno al genio del Rinascimento. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica

La scoperta è affidata, per ora, alle pagine di un romanzo, “Il sorriso di Caterina” (Giunti). L’autore del libro però è lo storico Carlo Vecce, professore all’Orientale di Napoli, tra i massimi esperti di Leonardo da Vinci. E infatti i documenti che dimostrano che la madre di Leonardo era una schiava circassa arrivata in Toscana dal Caucaso saranno esaminati nei dettagli in una biografia ancora in lavorazione. Il romanzo però ha già acceso una curiosità mondiale, come accade per ogni notizia che abbia a che fare con quello che non è più solo il più grande genio del Rinascimento, ma l’ispiratore di un blockbuster hollywoodiano come "Il Codice da Vinci”.

I nuovi dettagli sull’identità di Caterina vengono da un documento in cui il padre di Leonardo, che era un notaio, firma l’atto di liberazione della donna dalla schiavitù. Il fatto che provenisse da una popolazione che in seguito avrebbe fatto parte del mosaico dell’Impero Ottomano fa sorgere una curiosità: non sarà che la caratteristica scrittura “al contrario” di Leonardo da Vinci è ispirata dai legami della madre con l’Oriente? No: ma c’è probabilmente un rapporto con l’arabo e l’ebraico, due lingue che si scrivono da destra a sinistra e che si usavano nel Maghreb, con cui in quegli anni i toscani commerciavano spesso. Lo scopriamo in questa conversazione affascinante che spazia da Leonardo alla schiavitù, dalle rotte commerciali del Quattrocento alle caratteristiche di ogni bambino che, anche oggi, inizia a scrivere con la mano sinistra.

Perché Leonardo scriveva da destra a sinistra?

«Semplicemente perché era mancino. Non solo scriveva al contrario, ma disegnava al contrario, un elemento che di solito si ricorda poco ma è uno degli indizi importanti per esempio per l'attribuzione dei disegni di Leonardo. Se disegni con la sinistra, anche il tratto, soprattutto il tratteggio del chiaroscuro, lo fai con un movimento inverso della mano, un risultato chiaramente riconoscibile rispetto a un pittore che non è mancino. E questo è un elemento importante per l'attribuzione dei disegni: e ricordiamoci che dire che un disegno è di un minore del 400 o che è di Leonardo porta a una differenza di valore di milioni di dollari… Però, come ha dimostrato molto bene Marco Cursi, qualche volta Leonardo scrive anche con la destra, ed è una scrittura molto bella, non mostra alcun segno di sforzo. Probabilmente non aveva avuto nessuna educazione regolare durante l'infanzia e nell'adolescenza. E Curzi ha dimostrato che c'è una grande somiglianza tra i suoi caratteri grafici e quelli del padre, il notaio ser Piero, ma anche del nonno Antonio da Vinci. La scrittura di Leonardo è una classica mercantesca dell’epoca: se la rifletti con uno specchio vedi una normale mercantesca scritta al contrario».

Quindi era mancino, non aveva perso l’uso della mano destra come si legge a volte…

«No, questo succede solo nella parte finale della sua vita. Alcuni viaggiatori che lo vedono ad Amboise negli ultimi anni di vita notano che ha una difficoltà dell'uso della destra, che però lui normalmente usava poco… C’è un altro elemento da considerare: come abbiamo detto Leonardo non ha avuto una educazione scolastica regolare e quindi si è probabilmente realizzato in lui un fenomeno che gli psicologi notano nei bambini mancini – l’ho notato anche in mio figlio. Se non li correggi, loro spontaneamente tendono a riflettere l'immagine, scrivono invertendo il senso dalla scrittura rispetto a chi usa la destra. A scuola poi, com’è successo a mio figlio, i maestri insegnano a scrivere regolarmente: però usando la mano sinistra finisci per pasticciare sul foglio perché mentre scrivi copri l’inchiostro e rischi di fare macchie».

Leonardo può essere stato influenzato dalla scrittura araba?

«Probabilmente sì: ma non c’entrano niente le origini orientali di sua madre, come vedremo. È una cosa che racconterò nei dettagli nel prossimo libro, la “Vita di Leonardo”, una biografia con documenti, note e bibliografia. Nel corso degli ultimi 3 o 4 anni ho scoperto diverse cose che riguardano il nonno di Leonardo, Antonio da Vinci, con cui in pratica lui vive i primi 10 anni della sua vita. Il padre non lo poteva prendere con sé a Firenze dove aveva sposato un'altra donna. A Vinci c'era la mamma di Leonardo, che lo allatta e lo accudisce, e ci sono i nonni. Fino a qualche anno fa non si sapeva niente di Antonio, si diceva che fosse un proprietario terriero. Poi sono saltate fuori alcune sue lettere commerciali e si è scoperto che era un mercante: da giovane, alla fine del 1300, era emigrato a Barcellona dove lavorava nella compagnia di Francesco Datini che lo ha poi mandato in Marocco. E ci sono le lettere autografe del nonno di Leonardo spedite da lì, dove era andato anche suo cugino Frosino. Diciamo che metà della famiglia da Vinci era partita per commerciare con i paesi arabi. In quel periodo a Fes, che era la capitale, c'era anche un rappresentante della compagnia degli Alberti, la famiglia del famoso Leon Battista. Alcune di queste cose sono anche nel romanzo, perché uno dei personaggi è Antonio che racconta in prima persona le sue avventure. È uno dei capitoli che mi ha divertito di più perché ho viaggiato in Marocco e rivissuto il mio viaggio in quello di questo fiorentino di vent'anni che per lavoro si trasferisce a Fes…».

Ma Antonio da Vinci aveva imparato a scrivere in arabo?

«Non possiamo saperlo, e non possiamo sapere se avesse portato con sé qualche libro in arabo o in ebraico – anche l’ebraico si scrive da destra a sinistra, e c’erano molti commercianti ebrei in Marocco dell’epoca. Sappiamo che Antonio aveva un portolano, e negli inventari di suo figlio risulta anche quello che viene chiamato “mappamondo”, cioè una carta geografica catalana, e una “bussola da navigare”».

E Caterina, che viene da un popolo che oggi è islamico ed era stata venduta come schiava a Costantinopoli, pochi anni prima della caduta della città in mani islamiche, c’entra qualcosa?

«Chissà che questa mamma non abbia raccontato poi al bambino delle sue avventure da giovane… Però delle carte in arabo di certo lei non le aveva. Caterina appartiene a un mondo totalmente privo di scrittura: le tribù circasse dell’epoca non conoscono la scrittura, e neanche il denaro. Però c’è un dettaglio interessante nell’Annunciazione, che è un quadro legato a Caterina. Lì c’è un particolare enigmatico: il libro che la Madonna stava leggendo è in una scrittura indecifrabile. È diverso dalle annunciazioni di Ghirlandaio o di Botticelli, dove si riesce a leggere nelle pagine dipinte. Invece se guardi attentamente il libro dell’annunciazione di Leonardo vedi una scrittura che somiglia a quella ebraica, scritta da destra a sinistra».

Forse potremmo immaginare, ripensando a quello che lei ha detto prima di suo figlio, che il nonno di Leonardo vedendolo scrivere al contrario gli abbia detto: “Ma sai che ci sono delle lingue che si scrivono così? L’arabo e l’ebraico, io li ho conosciuti…” La mamma invece essendo una schiava era sicuramente analfabeta, o no?

«Era difficile che una schiava potesse scrivere ma i circassi poi non sapevano nemmeno che cos'era la scrittura. A quell’epoca, prima del 400, non erano ancora musulmani: erano per così dire cristiani perché erano sono stati un po’ cristianizzati dai bizantini sulle coste. Ma in realtà erano pagani, avevano tante divinità, un po’ come i nativi d'America: veneravano come dei il vento, il cavallo, il lupo…».

La scoperta sulla mamma di Leonardo riporta in primo piano una cosa che si cerca di non evidenziare: anche in Italia fino a pochi secoli fa c’erano gli schiavi.

«Sì, la schiavitù continua fino al 700, anche se alla fine in forma ridottissima. Il traffico di schiavi verso l'Italia  finisce quasi del tutto dopo la caduta di Costantinopoli, nel 1453, perché gli schiavi venivano soprattutto dall’est. I mercanti veneziani li prendevano lì perché gli italiani li preferivano agli africani. Soprattutto le donne dovevano essere alte, bionde, belle…».

C’è un libro di Jennifer Glancy pubblicato da Claudiana che sfata completamente il mito di un cristianesimo nemico della schiavitù.

«Sì, quella è una narrazione che è venuta dopo, e che ci fa vedere che il cristianesimo porta alla liberazione degli schiavi e quindi alla caduta dell'impero romano che si basava in gran parte sul lavoro servile. Ma in realtà nel Vangelo c'è l'idea che gli uomini sono tutti uguali perché tutti figli di Dio, però se sei nato schiavo resti schiavo. Quando muori la tua anima in cielo sarà uguale a tutte le altre, ma sulla terra le differenze restano. Addirittura c’è stato a lungo un dibattito all'interno della Chiesa per decidere se gli schiavi avessero l'anima oppure no. Alcuni teologi dicevano di no, soprattutto per quanto riguardava le donne schiave. In particolare su questo c’è il libro di un domenicano, Jacopo Canfora, che scrive il “Trattato dell'anima” all'inizio del 1400. L’autore è un religioso, è quasi un umanista, e ancora si chiede se gli schiavi hanno l’anima…».

Estratto da “La vita segreta dei colori”, di Lauretta Colonnelli (ed. Marsilio), pubblicate dal “Fatto quotidiano”

 […] Leonardo. Leonardo giovane, che girava in calze rosa e pitocco rosato corto al ginocchio, i lunghi capelli abboccolati che gli ricadevano sulle spalle. […]

Estratto dell'articolo di Pierluigi Panza per corriere.it il 16 marzo 2023.

Secondo Carlo Vecce, insigne biografo di Leonardo e ora anche romanziere con il libro «Il sorriso di Caterina. Storia della madre di Leonardo» (Giunti), Caterina, madre del genio di Vinci, sarebbe stata una schiava circassa giunta a Firenze dopo un lungo peregrinare. Nata nei monti caucasici, quelli dell’Arca di Noé, vissuta in Russia sul mare d’Azov, poi nella Bisanzio che sta per cadere in mano ai turchi, finisce sulle galee a Venezia, quindi a Firenze da tale Donato, che commerciava in battiloro e tessuti per la cui lavorazione si serviva di schiavi circassi.

 Caterina era diventata domestica di questo Donato a circa 15 anni. Era poi stata presa «in prestito» da ser Piero Da Vinci per far da balia a Maria, la sua prima figlia. Presso di lui, a Vinci, veniva pagata 18 fiorini all’anno, un prezzo molto alto perché, ritiene Vecce, era sostanzialmente la sua schiava sessuale. Sei mesi dopo la nascita di Leonardo, messer Piero Da Vinci la libera dal vincolo di servitù[…]

Così Caterina […] fu liberata dal vincolo e poté vivere, come noto, con Accattabriga da Vinci. Morto questi, andò a sua volta a morire a Milano, «tra le braccia del figlio» Leonardo, allora al servizio di Ludovico il Moro.  […] Il 16 luglio 1493, infatti, uno scritto di Leonardo fissa la donna a Milano con lui. Quindi, come emerge dal Codice Foster II, l’anno successivo Leonardo annota le spese di un funerale (costoso, 120 soldi): quello della madre. Dove fu sepolta?

Per Vecce c’è una storia possibile: quella della sua sepoltura nella chiesa di San Francesco Grande, per la quale Leonardo dipinse «La Vergine delle rocce». La chiesa di San Francesco Grande fu per secoli la seconda chiesa per dimensione della città dopo il Duomo. […]

 La chiesa di San Francesco Grande venne abbattuta nel 1806 per consentire la costruzione, nella stessa ubicazione, della Caserma dei Veliti Reali, poi caserma Garibaldi. Secondo Vecce è assai probabile che anche la madre di Leonardo fu sepolta qui. Il pittore, infatti, era allora impegnato qui per conto dei confratelli dell’Immacolata Concezione di Maria presso questa chiesa e stava realizzando per loro la seconda versione della «Vergine delle rocce». La caserma Garibaldi è stata in parte svuotata da mesi per servire da ampliamento all’Università Cattolica e sono in corso i lavori di risistemazione al suo interno.

E proprio durante gli attuali scavi sono emerse le volte di alcune cappelle e vari luoghi di sepoltura. Tra questi, secondo Vecce, una potrebbe essere la cappella dell’Immacolata Concezione per i cui frati Leonardo dipinse la «Vergine delle rocce» e tra i sepolcri uno potrebbe corrispondere a quello di Caterina, madre del genio di Vinci. […]

Scoperta l’identità della madre di Leonardo Da Vinci: «Si chiamava Caterina, era una principessa circassa fatta schiava». Pierluigi Panza su Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2023.

La straordinaria rivelazione fatta dal professor Carlo Vecce dell’Università di Napoli, grazie ad un documento inedito trovato nell’Archivio di Stato di Firenze. «Era una profuga straniera, fu venduta ai veneziani. Il suo sorriso potrebbe essere quello della Gioconda»

Sono una madre (di Leonardo Da Vinci), sono una schiava e sono una profuga straniera. Agli editor della Giunti deve non esser parso vero quando il serio biografo di Leonardo, Carlo Vecce, ha comunicato di aver in mano un documento di questo genere su Caterina, la madre del genio di Vinci. Il documento attorno a cui tutto ruota, comunicazione politica, romanzo intitolato Il sorriso di Caterina, viene dall’Archivio di Stato di Firenze e data sei mesi dopo la nascita di Leonardo. In esso messer Piero da Vinci affranca la donna dalla servitù, la libera dall’esser schiava. Nel caso di Leonardo possiamo proprio dire che il padre è certo mentre la madre sempre più incerta nel suo profilo.

Che fosse la «domestica» di casa e che il piccolo fosse nato fuori dal matrimonio è cosa nota, tanto che molti decenni dopo, alla morte del padre, Leonardo dovette lasciare Milano per Firenze per risolvere problemi di eredità davanti ai giudici. Davanti ai giudici era già finito per sodomia e «salvato» da un Tornabuoni. Questa Caterina madre, schiava e straniera è nata nei monti caucasici, quelli dell’Arca di Noé, e viene portata in Russia sul mare d’Azov, poi a Bisanzio che sta per cadere in mano ai turchi, poi a Venezia, quindi a Firenze, poi a Vinci, dove ha figli illegittimi dal padrone. Sei mesi dopo la nascita di Leonardo messer Piero Da Vinci la libera dal vincolo di servitù: «Filia Jacobi eius schlava sue serva de partibus Circassie».

Il documento data due novembre 1452 (Leonardo è nato il 15 aprile). Questa schiava circassa era stata portata a Firenze da tale Donato, che viveva a ridosso della chiesa di San Michel Visdomini e commerciava in battiloro e tessuti per la cui lavorazione, a Venezia, ci si serviva di schiavi circassi. Lei era diventata sua domestica a circa 15 anni. Era poi stata presa «in prestito» come balia di Maria, figlia di ser Piero Da Vinci. Era pagata 18 fiorini all’anno, un prezzo molto alto perché, ritiene Vecce, era sostanzialmente la schiava sessuale di ser Piero. Questo Donato, quando muore nel ‘66, lascia tutto al Monastero di San Bartolomeo di Monte Oliveto, per il quale Leonardo dipinge la «Annunciazione», che quindi forse si lega alla memoria della madre Caterina, schiava di Donato: Leonardo porrebbe se stesso come il Salvatore.

Nello sfondo di questo quadro vediamo una città marina, navi, un paesaggio non toscano ma orientale, forse ispirato ai racconti che Caterina può avergli fatto, forse la colonia veneziana della Tana (Azov, altra coincidenza con l’oggi) da dove partivano le navi di schiavi. Così Caterina (fino ad oggi chiamata Caterina del Vacca 1427-1495 o Caterina di Piero Lippi secondo Martin Kemp) — sei figli in tutto —, liberata, potrà vivere con Accattabriga Da Vinci e anche andare a morire a Milano, «tra le braccia del figlio» finito al servizio di Ludovico il Moro. Il 16 luglio 1493, infatti, uno scritto di Leonardo la fissa a Milano con lui. Quindi, come emerge dal Codice Foster II, l’anno dopo Leonardo annota le spese del suo funerale (costoso, 120 soldi). Viene sepolta a Milano, probabilmente presso la chiesa di San Francesco Grande, per la quale Leonardo dipinse «La Vergine delle rocce».

Durante gli attuali scavi alla Caserma Garibaldi, davanti alla Cattolica, sarebbe emersa proprio la cappella dell’Immacolata concezione, quella della «Vergine delle rocce». Caterina, però, non ha voce nel romanzo: sono le persone che incontra che la raccontano. Tutto balla sui due piatti della bilancia, quello del vero e quello del verosimilmente fondato — e questo richiede un po’ di tempo per valutarlo. Il libro è una docu-fiction, senza note. Ma seguirà una nuova Vita di Leonardo, scritta in forma saggistica, con note, dallo stesso Vecce (stesso metodo della Mazzucco per la figlia di Tintoretto e di altri). Una ipotesi di Caterina schiava araba era già stata avanzata da Alessandro Vezzosi e da Martin Kemp con Pallanti. Difficile capire cosa abbia indotto uno studioso e saggista a dar notizia del ritrovamento di questi documenti attraverso un romanzo, esperienza narrativa comunque già presente, con altri autori, nel catalogo Bompiani (gruppo Giunti).

La serietà del ritrovamento è attestata da Paolo Gallizzi, studioso dell’Accademia dei Lincei e, quindi, il ponderoso romanzo che andremo a leggere non va confuso con le quotidiane fluviali interpretazioni della Gioconda, con i Leonardi esotici, detective e altre amenità di fiction (anche televisive). Sebbene anche Vecce non rinunci a ipotizzare che il sorriso delle donne Leonardo sia quello della madre (tanto che il romanzo si intitola Il sorriso di Caterina con immagine di copertina acchiappa lettori). Questo romanzo, che l’autore ha scritto rapidamente, durante i mesi del lockdown, si presenta come un romanzo epico, di cappa e spada, di pirati e prostitute dove il verosimile che si aggiunge al vero delle fonti serve per configurare i tasselli mancanti. Leonardo non è il protagonista del romanzo; la matrice è il dramma di Caterina da leggere, ovviamente, in controluce al presente. Per Giunti, che pubblica i fax simili dei codici di Leonardo e già pubblicò varie edizioni critiche dell’indimenticabile Carlo Pedretti, nonché la “Biblioteca di Leonardo” curata dallo stesso Vecce, il romanzo sulla madre di Leonardo è una formula narrativa di modellazione dei documenti, una ibridazione letteraria che si inquadra nella divulgazione della figura di Leonardo. Carlo Vecce, Il sorriso di Catrina. La madre di Leonardo, Giunti, Pp.528, euro 19 in libreria dal 15 marzo

Leonardo da Vinci, svelata l’identità della madre: era una schiava del Caucaso. MARIA TORNIELLI su Il Domani il 14 marzo 2023

Rapita dai monti del Caucaso, venduta, sfruttata come manodopera e come balia in Italia: una nuova ricerca sulla madre di Leonardo da Vinci prova a risolvere un mistero che assilla gli studiosi. Ma lo fa con un romanzo

Una schiava, catturata in una colonia veneziana alla foce de Don. La madre di Leonardo Da Vinci non era italiana e soprattutto non era una donna libera, ma una giovane arrivata dal mar Nero per essere sfruttata nelle manifatture tessili attorno a Rialto e poi come balia a Firenze. 

Finora Caterina è sempre rimasta poco più di un nome: di certo si sa soltanto che non era sposata con il padre di Leonardo. Ora una nuova ipotesi prova a sciogliere il nodo che da sempre assilla appassionati e studiosi del grande genio rinascimentale: un’ipotesi che (è il caso di dirlo) sembra un romanzo. 

Probabilmente è anche per questo che il filologo ed esperto di Rinascimento Carlo Vecce, professore all’università di Napoli L’Orientale, ha scelto di presentare la sua ricerca non con un saggio, ma con un libro di fiction storica, Il sorriso di Caterina, in uscita oggi per Giunti e presentato ieri a Firenze.

IL DOCUMENTO

Caterina, filia Jacobi, de partibus Circassie: Caterina, figlia di Jacob, della Circassia. Secondo Vecce la madre del grande artista e scienziato rinascimentale si cela in questa dicitura, scovata in un atto notarile conservato nell’Archivio di stato di Firenze. È un documento firmato dal giovane Piero da Vinci, il papà di Leonardo. Si tratta di un atto di liberazione. Oltre a restituire informazioni sulla provenienza della donna (la Circassia è una regione storica del Caucaso, oggi parte della Russia), vi si trovano i nomi della padrona di Caterina, Ginevra d’Antonio Redditi, e di suo marito, Donato di Filippo di Silvestro. 

Sono una coppia fiorentina un po’ anomala, lei ultraquarantenne, lui ultrasettantenne, ma sposati solo da tre anni. Donato aveva a lungo fatto affari a Venezia, dove aveva manifatture tessili, oltre che vari capitali e proprietà che negli anni il padre di Leonardo avrebbe aiutato a gestire.

Spesso le manifatture di broccato come quella dell’imprenditore fiorentino impiegavano come manodopera schiave provenienti dal Caucaso. Caterina era una di loro, portata da Donato a Firenze nel 1442 quando aveva 15 anni e poi regalata a Ginevra. La libertà le sarà concessa solo dieci anni dopo, il 2 novembre 1452, a pochi mesi dalla nascita di Leonardo nell’aprile dello stesso anno. 

Altri documenti mostrano che la giovane da due anni era stata “affittata” come balia da Francesco di Domenico Castelli: un ricco rampollo di una famiglia fiorentina che tra l’altro riporta nel suo diario l’occasione della sua liberazione, in circostanze che coincidono perfettamente con quelle del documento notarile.

I LEGAMI

È proprio in questo periodo, secondo Vecce, che Piero, notaio di fiducia di Francesco oltre che di Ginevra e Donato, avrebbe messo incinta la giovane Caterina mentre era al servizio della famiglia Castelli. Una situazione che, ha notato lo studioso, rischiava di essere problematica per il giovane notaio: le donne in schiavitù erano appunto considerate proprietà privata e le pene per chi le metteva incinte erano molto severe.

Dopo la liberazione, Caterina viene data in moglie a un contadino di nome Attaccabrighe, da cui avrà altri cinque figli, vivendo poco lontano da Vinci: è qui che vivrà Leonardo per i primi dieci anni della sua vita, secondo la ricostruzione dello studioso. Madre e figlio si ricongiungeranno per pochi mesi Milano, come attestano alcuni documenti: lì Caterina morirà nel 1494. I taccuini di Leonardo mostrano che l’artista si prodigò per renderle onori funebri degni di una nobildonna.

«Non riuscivo a credere che la madre di Leonardo potesse essere una schiava, straniera, non italiana», ha detto Carlo Vecce durante la presentazione del libro, cui farà seguito anche una biografia scientifica di Leonardo aggiornata con le nuove scoperte.

Vecce non è stato il primo a ipotizzare che la mamma dell’artista potesse essere stata una schiava, vista la difficoltà di diversi studiosi a identificarla fra le donne di Vinci nominate in documenti e archivi di quegli anni e visto che Caterina era un nome spesso usato per le schiave. Ma ha affermato di non aver mai trovato la teoria convincente, prima di leggere l’atto di affrancamento firmato da Piero. 

IL ROMANZO

Rapita, sfruttata, anche sessualmente (per fare da balia nel 1450 a Maria Castellani doveva aver partorito da poco: Leonardo con ogni probabilità non era il suo primo figlio). Se Leonardo è l’uomo universale per eccellenza, bisogna purtroppo riconoscere che c’è un’universalità anche nella travagliata esperienza di vita di sua madre. Un’universalità ancora attuale, come ha sottolineato l’autore, che ha voluto connettere esplicitamente la tragedia di Caterina con quelle attuali di tante donne profughe e vittime della tratta.

Nel libro, Vecce immagina il plausibile percorso della donna fino all’Italia: dalle vette del Caucaso a Tana, la colonia veneziana sul Don che nel XV secolo era il centro della tratta degli schiavi, e attraverso il mar Nero fino alla Costantinopoli in procinto di cadere, 

Una storia avventurosa che ben si presta ad essere raccontata a un grande pubblico, con una «docufiction», come l’ha definita lo storico Paolo Galluzzi, in cui la fantasia costruisce gli anelli di congiunzione fra personaggi realmente esistiti e attestati. 

Ma in cui Caterina non prende mai la parola: i narratori della storia sono tutti gli uomini che incontra nel suo percorso, perché «a lei è stato tolto tutto, anche la voce», ha detto l’autore. 

INFLUENZE SU LEONARDO? 

Dell’infanzia di Leonardo, passata con ogni probabilità proprio a fianco della madre, non sappiamo molto. Ma secondo l’autore sono stati fondamentali e le nuove scoperte sulla possibile identità di Caterina possono aiutare a comprendere meglio alcuni aspetti della personalità e del vissuto dell’artista.

La stessa attitudine al disegno era diffusa tra le donne circasse, che proprio per questa competenza erano spesso impiegate come manodopera nelle manifatture di broccato e altri tessuti. Come anche è possibile, secondo l’autore del libro, che i paesaggi del Caucaso raccontati da Caterina al figlio si possano intravvedere nei suoi dipinti: ad esempio nella sua prima opera, l’Annunciazione degli Uffizi, originariamente destinata al monastero di san Bartolomeo di Monteliveto, la chiesa a cui proprio l’ex “padrone” di Caterina, Donato di Filippo di Silvestro, aveva lasciato in eredità tutti i suoi beni.

A fare da sfondo alla Madonna e all’arcangelo Gabriele in quel dipinto c’è un monte altissimo che si perde nelle nubi e che sovrasta una città affacciata sul mare, piena di navi rappresentate nei minimi dettagli: è suggestivo immaginare, come fa l’autore de Il sorriso di Caterina, che rappresenti i monti da cui la madre di Leonardo è stata strappata ancora bambina. 

È stato facile quindi per Vecce ipotizzare che lo spirito libero che si riconosce in Leonardo da Vinci sia dovuto anche dal rapporto con una donna a cui la libertà era stata strappata.

MARIA TORNIELLI. Giornalista, è laureata in Antichità classiche e orientali. Ha frequentato la scuola di giornalismo Walter Tobagi di Milano

Estratto dell'articolo di Maria Tornielli per editorialedomani.it il 14 marzo 2023.

Una schiava, catturata in una colonia veneziana alla foce de Don. La madre di Leonardo Da Vinci non era una donna libera, ma una giovane arrivata in Italia dal mar Nero per essere sfruttata nelle manifatture tessili attorno a Rialto e poi come balia a Firenze.

 La ricostruzione che vuole sciogliere il nodo che da sempre ha assillato gli studiosi e appassionati di Leonardo è del professore Carlo Vecce, che ha però affidato le sue ricerche scientifiche a un romanzo, Il sorriso di Caterina, in uscita per Giunti.

Caterina filia Jacobi de partibus Circassie: una schiava originaria della Circassia, nel Caucaso. Secondo Vecce è in questa dicitura che si trova il segreto dell’identità della donna, sulla quale sono sempre mancate informazioni certe: solo il nome Caterina e che non era sposata con il padre dell’artista.

 Si tratta di un documento conservato nell’archivio di Stato di Firenze, un atto notarile firmato dal giovane notaio Piero da Vinci, padre di Leonardo: è un atto di liberazione in cui si trovano i nomi della padrona di Caterina, Ginevra d’Antonio Redditi, e di suo marito, Donato di Filippo di Silvestro.

 […] Caterina era una di loro, portata da Donato a Firenze nel 1442 quando aveva 15 anni e poi regalata a Ginevra. La libertà le sarà concessa solo dieci anni dopo, il 2 novembre 1452, a pochi mesi dalla nascita di Leonardo nell’aprile dello stesso anno. Altri documenti mostrano che la giovane da due anni era stata “affittata” come balia da Francesco di Domenico Castelli, un ricco giovane fiorentino.

Secondo Vecce, Piero, che era notaio di fiducia di Francesco oltre che di Ginevra e Donato, avrebbe messo incinta la giovane Caterina mentre era al servizio della famiglia Castelli.

 Dopo la liberazione, Caterina viene data in moglie a un contadino di nome Attaccabrighe, da cui avrà altri cinque figli, vivendo poco lontano da Vinci: è qui che vivrà Leonardo per i primi dieci anni della sua vita, secondo la ricostruzione dello studioso. Madre e figlio si ricongiungeranno per pochi mesi Milano, come attestano alcuni documenti: lì Caterina morirà nel 1493. […]

Schiava e straniera: ecco chi era Caterina, la madre del genio. C'è da aggiornare la biografia di Leonardo da Vinci (15 aprile 1452 - 2 maggio 1519). Anzi. È già stata aggiornata. Alessandro Gnocchi il 15 Marzo 2023 su Il Giornale.

C'è da aggiornare la biografia di Leonardo da Vinci (15 aprile 1452 - 2 maggio 1519). Anzi. È già stata aggiornata. Nella sede fiorentina dell'editore Giunti, ieri è stata presentata una operazione culturale fuori dal comune. Carlo Vecce, autorevole studioso di Leonardo, ha scritto un romanzo, Il sorriso di Caterina. La madre di Leonardo, fondato su documenti inediti. Fosse solo questo, si potrebbe restare perplessi. Meglio non confondere realtà e finzione. Vecce ha risolto il problema con efficacia: dopo il romanzo, arriverà Vita di Leonardo, biografia aggiornata alla luce delle nuove carte. Nel frattempo, Vecce le ha mostrate ieri durante una affollata conferenza stampa alla quale hanno partecipato come oratori anche Antonio Franchini, Paolo Galluzzi e Sergio Giunti.

Proprio Sergio Giunti ha notato come questo libro sia l'ultimo capitolo di una storia iniziata nel 1962, a una conferenza di Eugenio Garin sull'universalità del genio di Leonardo: «Ero con mio padre Renato. Garin ci disse che nessun editore aveva pubblicato Leonardo per intero. Diventò la nostra missione. Studiammo il problema e optammo per la riproduzione in fac simile. L'ultimo volume, che riproduce i disegni realizzati in Francia, risale al 2009». Vecce appartiene già a questa storia editoriale, fatta di innovazione e rischio imprenditoriale. Fu introdotto da Carlo Pedretti, peso massimo degli studi leonardeschi.

Veniamo alla notizia principale, prima di collocarla nell'incredibile vicenda raccontata per intero da Vecce. La madre di Leonardo è sempre stata un personaggio misterioso. Alessandro Vezzosi e Martin Kemp avevano ipotizzato che potesse essere straniera, forse orientale, forse una prigioniera. L'intuizione, suffragata da documenti parziali, e in parte non collegabili a Leonardo, si rivela ora esatta.

Caterina, la madre di Leonardo, era nata in Circassia, sulle montagne del Caucaso che scendono verso il Mare d'Azov. Catturata e ridotta in schiavitù, venne condotta a Venezia attraverso Costantinopoli, dieci anni prima della fine dell'Impero. Da Venezia arrivò a Firenze, poi a Vinci. Morì a Milano, da donna libera, dopo aver riabbracciato il suo secondo figlio: Leonardo. Piccola parentesi da tenere a mente: le schiave circasse erano merce rinomata. Sapevano disegnare e ricamare la stoffa. Per questo venivano imprigionate e rivendute.

Ascoltiamo Vecce: «Questo lavoro nasce dal volume La biblioteca di Leonardo edito da Giunti nel 2019 per il centenario della morte dell'artista. Nel corso delle mie ricerche mi sono imbattuto nel registro del notaio Ser Piero da Vinci, un documento autografo conservato all'Archivio di Firenze». È inedito. Contiene l'atto di liberazione di «Caterina, figlia di Iacob dalla Circassia». Il documento presenta più d'una stranezza. Gli schiavi erano non persone per cui il patronimico e il luogo d'origine sono una assoluta rarità. Ci sono anche il nome della padrona e il luogo dove viene vergato l'atto: siamo alle spalle del duomo di Firenze, in via Sant'Egidio, nella casa di monna Ginevra e di suo marito Donato di Filippo di Salvestro Nati. Risulta presente la stessa Caterina. A proposito, il nome è attestato qui per la prima volta. Probabilmente fu battezzata a Venezia e le fu dato un nome cristiano. Le peculiarità, nel documento, proseguono. Infatti monna Ginevra regala alla ex schiava le lenzuola e un cuscino, oltre ad altri oggetti. L'atto avviene il 2 novembre 1452. Bene. Ser Piero da Vinci è il padre di Leonardo, nato pochi mesi prima.

A questo punto, Vecce si mette in cerca di altri documenti. «Ginevra e Donato erano una strana coppia. Nel 1452, lei aveva quarant'anni, lui oltre settanta, ma si erano sposati nel 1449. Donato aveva passato la vita a Venezia, dove aveva lavorato prima nella finanza e poi in quella che oggi definiamo industria del lusso. La sua manodopera era composta da schiave circasse. È lui a portare Caterina a Firenze. È lui a donarla a Ginevra, donna di carattere forte e di grande famiglia». Francesco di Matteo Castellani teneva un libro di memorie, un diario. Le sue ricordanze si conservano all'Archivio di Firenze. Il 2 novembre 1452 registra l'avvenuta liberazione di Caterina. Il 15 aprile dello stesso anno era nato Leonardo. C'è una informazione preziosa in aggiunta: Caterina è a servizio come balia a casa Castellani per la figlia Maria. Nel 1450, Caterina era stata affittata per 8 fiorini all'anno, prezzo molto alto. Le schiave erano un bene di lusso. Il prezzo però resta altissimo. Resta il sospetto che fosse schiava anche sessualmente. Se era balia significa che aveva appena partorito. Di questo fratello maggiore di Leonardo nulla sappiamo salvo forse il nome, Pier Filippo figlio di Ser Piero. Siamo a Palazzo Castellani, oggi sede del museo Galileo. Qui, probabilmente, Caterina si incontra con Piero da Vinci. Il notaio di fiducia per Francesco, Ginevra e Donato». Insomma: Leonardo nasce figlio di una schiava straniera ma è un uomo libero perché a Firenze si eredita lo status del padre. Ser Piero da Vinci è un uomo libero.

Per la prima volta vediamo apparire il fantasma di Leonardo. Da qui in poi, la sua sarà una presenza-assenza sempre più importante. Vecce: «Donato va spesso da Piero per cercare di recuperare la parte dei suoi beni trattenuta dalla Repubblica di Venezia. Nel 1476 fa testamento. Regala tutto al monastero di San Bartolomeo in Monte Oliveto, fuori Porta San Frediano. È il luogo per il quale Leonardo ha dipinto la sua prima opera, l'Annunciazione oggi agli Uffizi. Il testamento è il primo documento che salda Leonardo alla prima chiesa dove abbia dipinto». Non è tutto. «L'Annunciazione si lega alla memoria di Caterina. Il dettaglio più affascinante ed enigmatico è il paesaggio: cosa rappresenta? C'è un monte altissimo, sotto si vedono il mare, uno stretto, una città portuale. Navi di ogni tipo dipinte con un pennello finissimo, sono quasi invisibili, eppure perfettamente dettagliate. Da dove arriva questo paesaggio? Caterina potrebbe aver descritto al figlio i luoghi della sua adolescenza, la doppia cima dell'Elbrus, l'altopiano di Kislovodsk, nell'antica Kabardia. È il luogo dove vivono i circassi, divisi in tribù diverse. La Kabardia è parte della Circassia. È la regione d'origine di Caterina. Se la montagna è il Caucaso, la città è la colonia veneziana di Tana, il punto di partenza delle navi dei trafficanti di schiavi. Oggi non esiste più».

La penultima tappa è Vinci. Dopo un anno Ser Piero torna a Firenze, si sposa ma trova marito a Caterina, il contadino Antonio Buti detto Attaccabriga. La storiografia, dice Vecce, è stata troppo dura con Ser Piero. Anche in questo caso sono in arrivo nuovi documenti. In realtà, a Vinci ci sono i nonni, il fratello Francesco e poi le sorelle nate dal matrimonio tra Caterina e Antonio. Quando la famiglia torna a Firenze, dopo la morte del nonno Antonio, Ser Piero segue tutti i passi del figlio, cercando di proteggerlo e mandandolo a bottega da Andrea del Verrocchio.

Ancora Vecce: «Leonardo ha vissuto dieci anni con la madre: cosa gli raccontava Caterina, quali fiabe, quali canti e in quale lingua? Probabile che la madre non parlasse un buon volgare. Il bambino impara dai nonni Antonio e Lucia, dal fratello Francesco, dalle sorelle. Alla morte del nonno, tutti tornano nella casa fiorentina di Piero. La lingua di Leonardo è il fiorentino popolare con tracce del contado. Ha imparato la lingua dalla strada. Per tornare alla domanda iniziale: cosa può aver dato Caterina a Leonardo? Ipotizziamo. Lo spirito di libertà assoluta che noi riconosciamo nella ricerca scientifica di Leonardo. L'amore per la natura, Caterina veniva da un mondo fatto solo di natura; cavalli e uccelli, per i circassi, sono simboli della libertà, e quante volte Leonardo li dipinge o disegna? L'attitudine stessa al disegno può essere un'eredità materna. In fondo, perché Leonardo è universale? Perché appartiene a diverse civiltà e ne è consapevole. Inoltre, siamo sempre nel campo delle suggestioni, aggiungiamo: il sorriso delle figure femminili di Leonardo, secondo Sigmund Freud, era l'eco del sorriso di Caterina».

Come finisce la storia? «Questa volta è Leonardo a raccontare, indirettamente. Nei taccuini da tasca, periodo milanese, presi con matita rossa, leggiamo una nota datata Milano, 16 luglio 1493: è arrivata Caterina in città. La madre, vedova e sola, raggiunge il figlio. Vivono insieme per qualche tempo. Leonardo le compra abiti invernali. In un codice, l'artista stila l'elenco delle spese sostenute per il funerale della madre, morta di malaria. Sono 120 soldi in totale: Leonardo ha concesso a Caterina un servizio funebre da gran dama. La fa seppellire in San Francesco Grande, chiesa abbattuta nell'Ottocento per far spazio alla caserma Garibaldi. Lì Leonardo dipinse nella cappella della Immacolata concezione La vergine delle rocce». Colpo di scena finale: «Qualche tempo fa, l'università Cattolica ha acquisito la caserma e, prima di restaurare tutto, ha fatto alcuni scavi. Uno ha portato alla luce proprio la cappella in questione, si vede ancora parte della decorazione, sopra la Vergine delle Rocce c'era un cielo azzurro con stelle dorate. In un sacco sono stati trovati resti umani. Non si può dire se siano quelli di Caterina, non lo sapremo mai».

Ma attenzione a confondere il passato e l'oggi. Tra i fenomeni di maggior moda editoriale, negli ultimi anni si registra una impennata di romanzi "però documentati come saggi". Alessandro Gnocchi il 15 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tra i fenomeni di maggior moda editoriale, negli ultimi anni si registra una impennata di romanzi «però documentati come saggi». Siamo un passo oltre ai «romanzi che si leggono come i saggi» di qualche tempo fa. Nella quasi totalità dei casi, si tratta di dare al lettore una impressione di autorevolezza, mettendosi al riparo dagli eventuali errori con la scusa che tanto è finzione. Carlo Vecce inaugura una nuova e più seria tendenza. C'è il romanzo, Il sorriso di Caterina, fondato su nuovi documenti. Seguirà una biografia di Leonardo che presenta gli stessi documenti alla comunità scientifica. È una operazione ben pensata. Naturalmente il diavolo è sempre dietro l'angolo. Infatti, i documenti ci dicono che Caterina, la madre di Leonardo da Vinci, era una schiava circassa. Il romanzo aggiunge che Caterina, nelle sue terre d'origine, era una principessa: ma questa è una invenzione (dichiarata) di Vecce. Ci vuole un attimo per confondersi: e infatti ieri i siti e le agenzie mescolavano realtà e finzione, facendo diventare Caterina una ex principessa caduta in schiavitù. Piccolo incidente, subito corretto. C'è però un'altra cosa da dire. Non ci pare che la storia di Caterina abbia bisogno di essere attualizzata. Invece, in conferenza stampa, ma anche negli apparati che accompagnano il romanzo, si sente il bisogno di accostare Caterina alle sue «sorelle che muoiono nel mare». Si trova sempre qualche gonzo pronto a cavalcare una riga di comunicato. Così un omaggio è scambiato per il cuore del libro, che all'improvviso diventa la storia di una migrante straniera. La pattumiera dei social è già piena di riflessioni su questo tema. Aspettiamo solo il principe o la principessa dei gonzi: ci dirà che la storia del Rinascimento va riscritta in questa chiave. Onestamente, la morte dei migranti in mare è un insulto contro l'umanità e contro Dio, per chi ci crede, e sono ripugnanti le ambiguità su chi va salvato, ma voler ricondurre tutto a questa tragedia, con colossali forzature, altrettanto onestamente, non ci sembra una forma di rispetto verso le vittime, che hanno diritto a una propria storia e non a quella della (ehm) principessa del Caucaso.

La scoperta del professore Carlo Vecce all'Archivio di Stato di Firenze. Caterina, la madre di Leonardo Da Vinci era una principessa fatta schiava e profuga: “La Gioconda aveva il suo sorriso”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Marzo 2023

Caterina era una principessa che venne rapita, imprigionata, trasportata per monti e per mari, profuga straniera prima di diventare la madre di Leonardo Da Vinci. È una scoperta che potrebbe rappresentare un notevole passo in avanti, un tassello importantissimo nella ricostruzione della vita del genio del Rinascimento italiano. La notizia è stata nota da Carlo Vecce, che ha presentato il suo libro Il sorriso di Caterina – La madre di Leonardo, edito da Giunti, un lavoro basato su un atto ritrovato nell’Archivio di Stato di Firenze. L’atto è quello di liberazione dalla schiavitù di Caterina firmato dal notaio del contado fiorentino Piero da Vinci, padre di Leonardo.

Si sapeva che Leonardo fosse nato fuori dal matrimonio, si ipotizzava che Caterina fosse la domestica di casa. Si parlava di Caterina del Vacca o Caterina di Piero Lippi. “Direi di sì, il sorriso di Caterina è il sorriso della Gioconda, è lo stesso sorriso che troviamo in tanti altri volti delle donne di Leonardo – ha detto Vecce al Corriere Fiorentino – la memoria di questa donna si rivela fondamentale per lo sviluppo, la genesi della personalità di Leonardo, qualcosa che lui si porta dentro per tutta la vita e che influenza il suo modo di vedere il mondo, di sognare, di costruire le sue opere”.

Il professore Carlo Vecce è filologo e storico del Rinascimento, docente all’Università di Napoli “L’Orientale”. Il suo annuncio è arrivato questa mattina a Firenze, nella sede di Giunti Editore. L’atto è datato 2 novembre 1452, circa sei mesi dopo la nascita di Leonardo, su istanza della proprietaria della schiava, una certa Ginevra d’Antonio Redditi, moglie di Donato di Filippo di Salvestro Nati. Riporta Caterina come “filia Jacobi eius schiava seu serva de partibus Circassie”.

Un po’ per caso, qualche anno fa, sono venuti fuori questi documenti, ho iniziato a studiarli per dimostrare che questa Caterina schiava non fosse la madre di Leonardo, ma alla fine tutte le evidenze andavano in direzione contraria, soprattutto questo documento di liberazione”, ha spiegato Vecce all’Ansa. “Il notaio che libera Caterina è la stessa persona che l’ha amata quando ancora era una schiava e dalla quale ha avuto questo bambino”.

Caterina era una principessa dei Circassi, figlia del principe Yakob, che governò uno dei regni sugli altopiani settentrionali del Caucaso. Fu rapita, molto probabilmente dai tartari, fatta schiava e rivenduta ai veneziani. Secondo la ricostruzione fu portata in catene dalle montagne del Caucaso fino ad Azov, l’antica Tana, alla foce del fiume Don, da cui poi fu trasportata, attraverso il Mar Nero, nel 1439 a Costantinopoli. Da Costantinopoli sarebbe passata in mano a mercanti veneziani che la portarono a Venezia l’anno dopo. A Firenze sarebbe arrivata intorno al 1442, portata da tale Donato che commerciava in battiloro e tessuto per la cui lavorazione a Venezia ci si serviva di schiavi circassi.

Quando arrivò in Toscana la ragazza aveva circa 15 anni. Divenne “in prestito” serva e balia in casa di Maria, dove conobbe il padre di questa Piero Da Vinci, con cui concepì il figlio illegittimo nato il 15 aprile ad Anchiano, piccolo borgo del comune di Vinci. Era pagata circa 18 fiorini all’anno, un prezzo alto perché era sostanzialmente la schiava sessuale dell’uomo. Leonardo era primogenito di Piero ma non di Caterina perché, ha spiegato Vecce sulla base dei documenti dell’Archivio di Stato di Firenze, come le Ricordanze del letterato umanista Francesco di Matteo Castellani, risulta che nel 1450 era stata già “ingravidata” risultando infatti una balia che allattava.

Lo studioso ha anche ipotizzato che i due avrebbero avuto rapporti sessuali in Palazzo Castellani, lo stesso che oggi ospita la sede del Museo Galileo, sui lungarni fiorentini. Secondo la ricostruzione sarebbe morta a Milano, “tra le braccia del figlio”, e dove sarebbe stata sepolta come emerso dagli scritti di Leonardo che era al servizio di Ludovico il Moro. Al romanzo che ha raccontato la storia seguirà il libro di Vecce, Vita di Leonardo, che sarà invece scritto in forma saggistica. La serietà del ritrovamento è attestata da Paolo Gallizzi, studioso dell’Accademia dei Lincei.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Antonio Giangrande: In un mondo dove sono tutti ciottiani per convenienza, pronti a spartirsi il ricavato, mi onoro di essere il solo ad essere sciasciano e come lui processato dai gendarmi dell'antimafiosità.

Antonio Giangrande: Col sigillo antimafia molti, come dice Sciascia, fanno carriere, e molti, come dice il PM Maresca, fanno i soldi.

La grandezza di Leonardo Sciascia? Trasformare le vittime anonime della giustizia in carne viva e sangue...

"Ispezioni della terribilità. Leonardo Sciascia e la Giustizia". E' il bellissimo libro curato da Lorenzo Zilletti e Salvatore Scuto. Gaetano Pecorella Il Dubbio il 13 aprile 2023

Questo straordinario libro - Ispezioni della terribilità. Leonardo Sciascia e la giustizia a cura di Lorenzo Zilletti e Salvatore Scuto - è sul pensiero di Leonardo Sciascia, ma va al di là di Leonardo Sciascia: è un libro sul dolore umano che sempre si collega all’amministrazione della giustizia, e, più in generale, all’esercizio del potere. E’ un libro sulla responsabilità di decidere sulla sorte di un uomo; sui collaboratori sempre creduti, perché «il far nome di sodali, di complici è sempre stato dai giudici inteso come un passar dalla loro parte» ; sulla pena di morte e su un “piccolo” giudice che ebbe la forza di opporsi, in epoca fascista, alla sua applicazione, come scrive Insolera, sul rapporto tra Verità e Potere, sul potere giudiziario privo di responsabilità; sulle miserie del sistema giudiziario, e sul “terribile” e pur “necessario” mestiere del giudicare; è, infine, un libro sull’errore giudiziario che si riassume nelle parole di Sciascia: «Per come va l’ingranaggio, potrebbero essere tutti innocenti».

A ben vedere tutto ciò non ha in sé nulla di nuovo, per lo meno a partire da Voltaire e dall’illuminismo, da Beccaria e dai fratelli Verri. Allora qual è, qual è stata, la grandezza di Sciascia che emerge dalle pagine delle “Ispezioni della terribilità”? La risposta che mi sento di dare è che Sciascia ha trasformato le parole dei giuristi in carne e sangue di coloro che sono stati vittime della ferocia dei giudici.

Il volume nasce dal felice incontro tra l’Associazione amici di Leonardo Sciascia e l’Unione delle camere penali, impegnate tra il settembre del 2020 e il giugno 2021 in una serie di Letture ‘sciasciane’. Si parte dall’assunto che il volto feroce della giustizia non appartiene ad epoche remote, ma è realtà presente.

«Terrificante è sempre stata l’amministrazione della giustizia». Il passaggio è tratto da «La strega e il capitano», in cui Sciascia ricostruisce scrupolosamente la condanna al rogo di Caterina Medici (nel 1617 a Milano) fantesca nella casa del senatore Luigi Melzi, considerata responsabile dei suoi strani dolori di stomaco e per questo bruciata. La rievoca Salvatore Scuto ponendo la eterna questione del «rapporto tra il senso assoluto della giustizia e la realizzazione che di essa fanno le leggi».

L’idea base del volume è questa: Sciascia è insieme “testo” e “pretesto”. Testo perché si commentano frasi sulla giustizia penale tolte dai suoi lavori di narrativa, frasi di efficacia straordinaria per la loro forza comunicativa. Pretesto, perché parlare di Sciascia è parlare di giustizia, quella intesa come potere, come macchina violenta che chiunque può stritolare nei suoi ingranaggi, con gli interventi di penalisti, di costituzionalisti, di intellettuali d’altra cultura e infine di avvocati.

Paolo Borgna ragiona su una frase de il “Contesto”, romanzo sull’errore del giudicare, in cui un personaggio dice: “Sì, ero innocente. Ma che vuol dire essere innocente, quando si cade nell’ingranaggio? Nientevuol dire, glielo assicuro”.

Sciascia, per Vincenzo Maiello, ha il merito di introdurre nel lessico civile vocaboli e concetti che identificano un paradigma di giustizia penale conforme allo Stato di diritto, costruito sulla inviolabilità dei diritti umani.

Paolo Ferrua muove dall’affermazione di Sciascia: «Il potere di giudicare i propri simili non può e non deve essere vissuto come potere», per poi ricostruire la lenta, ma costante distruzione del processo accusatorio da parte dei giudici per riacquisire tutto quel potere che era stato sostituito dalla logica della ragione e dalla dialettica.

Emanuele Fragasso ricorda, a conclusione del suo intervento, le parole con cui si chiude “Porte aperte”: «sono parole di incoraggiamento verso l’uomo, a condizione che questi sia risoluto a combattere per la sua libertà e per l’umanità che è presente in ogni uomo».

Ogni intervento meriterebbe di essere ricordato ben più ampiamente di quanto si è fatto sin ora: tuttavia, ognuno di essi è talmente ricco di riflessioni, di citazioni di Sciascia, di osservazioni giuridiche e non giuridiche, che appare un’opera impossibile.

In chiusura vorrei toccare un aspetto di Sciascia che mi ha particolarmente colpito. Gli scritti contenuti in questo libro danno anche un quadro delle contraddizioni, forse irrisolvibili, che animano il mondo della giustizia. Sciascia ha investigato, ma la realtà è talmente complessa che alcune domande sono rimaste senza risposta, perché nel difendere un principio si finisce per oscurarne, o sottovalutarne un altro. Anche in questo sta la grandezza di Sciascia: non ci ha presentato una soluzione di tutti i problemi, un mondo della giustizia perfetto, nel quale si trova sempre una risposta giusta. Sciascia ha lasciato, a chi lo avrebbe letto, una eredità di grandi dubbi, di nodi inestricabili: ne cito un paio.

Il rapporto tra la giustizia e il popolo. Sciascia ha scritto che il popolo deve vigilare su come i giudici amministrano il loro potere; ha individuato però nella ricerca del consenso popolare gli eccessi di non pochi magistrati. Ciò è accaduto in passato, e accade oggi: “mani pulite” ha reso le Procure dei soggetti politici, ha creato un consenso popolare dando ai magistrati un ruolo di “difensori dell’onestà”, a prescindere dalla colpevolezza degli imputati.

Il rapporto tra giustizia e legge scritta. Sciascia censura quei giudici che si fanno essi stessi creatori del diritto piegando le norme ai propri fini. Nello stesso tempo, però, descrive il giudice di Porte aperte come un uomo che ha forzato la legge per non applicarla, visto che in quel caso prevedeva la pena di morte. In quali casi il giudice può piegare la legge alla sua coscienza?

Infine, un’ultima domanda: c’è un mezzo per avere una giustizia meno crudele, o la giustizia per governare non può essere diversa da ciò che è? Sciascia non lo dice, ma con la sua lotta per il diritto ha testimoniato che conta soltanto continuare a credere che sia possibile.

A Racalmuto, dove è nato lo scrittore Sciascia. Oggi la sua casa è un museo: fra comò e sedie di design, una miniera (in crescita) di libri e riviste. Stenio Solinas il 29 Marzo 2023 su Il Giornale.

L'ultima in ordine di tempo è questa CasaSciascia, associazione culturale e insieme museo, frutto della tenacia e della passione di Pippo di Falco, già consigliere comunale di Racalmuto, una vita a sinistra, quando ancora a sinistra c'era vita, ma sempre e comunque uomo di cultura, lettore accanito, bibliofilo raffinato. Dal 2011, mi racconta, la casa era rimasta inabitata: venute nel tempo a mancare le zie e gli zii di Sicilia che di Sciascia uomo scrittore erano stati una costante, non si erano trovati possibili acquirenti né una reale tutela pubblica, se non come «luogo dell'Identità e della Memoria». «Proprio perché è un luogo dell'anima, uno spazio che ci racconta le sue fantasie letterarie giovanili, le sue prime letture e le sue prime scritture, ma anche uno spazio familiare, moglie, figli, lavoro, alla fine la casa l'ho comprata io... Volevo fosse aperta al pubblico. E così è stato».

Se al piano terra non resta più nulla di ciò che fu inizialmente la sartoria dello zio Salvatore e in seguito la prima dimora di Leonardo e Maria Sciascia freschi di matrimonio, i due piani superiori ricostruiscono fedelmente il salotto, la camera da letto, la stanzetta delle figlie ancora piccole, lo studiolo con tanto di scrittoio davanti a una finestra che si apriva sul paese e sulla poco distante Centrale elettrica, la stessa che oggi è la sede della Fondazione Sciascia. E ancora, i comò, il mobile-biblioteca, le sedie in stile Nico Parisi, un designer in voga negli anni Sessanta e molto amato dagli scrittori siciliani (un altro suo fan è il catanese Giampiero Mughini...).

Su tutto però dominano i libri. Le prime edizioni al completo delle sue opere, le collezioni da lui curate per Sellerio e per quello Sciascia editore suo omonimo e suo amico, gli autori preferiti, siciliani e no, da Pirandello a Stendhal, da Manzoni a De Roberto... E poi le riviste, letterarie, di cinema, di teatro, d'arte e di cultura, Pesci rossi, Scenario, Filmcritica, Rinascita, cartelle d'arte e libri fotografici, ritagli-stampa con i suoi articoli, le sue interviste, le recensioni ai suoi libri.

Una sorta in pratica di work in progress permanente, fra visite studentesche, arrivi di studiosi, catalogazione di nuove acquisizioni frutto delle incessanti ricerche di Di Falco, con in più, a pochissima distanza, uno spazio espositivo, La stanza dello scirocco, all'interno di un antico palazzo nobiliare, messo a disposizione gratuitamente da un altro scrittore racalmutese, Gaetano Savatteri. Raramente è dato incontrare, in una realtà di qualche migliaio di abitanti, una dimensione altrettanto libresca e colta nel senso più vero del termine.

Dire che Racalmuto sia Leonardo Sciascia è un luogo comune e insieme una verità. Non a caso via Regina Margherita, dove è appunto CasaSciascia, da più di vent'anni ha cambiato il suo nome in via Leonardo Sciascia. Non a caso, nel centro del paese, a due passi dal circolo Unione da lui frequentato e raccontato, dove campeggia una lapide che lo ricorda, c'è la statua che lo ritrae come fosse a passeggio, opera di uno scultore racalmutese, Giuseppe Agnello. Non a caso nella scuola Macaluso c'è un'aula-museo che ne porta il nome e che, come scrivono Salvatore Picone e Gigi Restivo nel loro bellissimo Dalle parti di Leonardo Sciascia. I luoghi, le parole, la memoria (Zolfo editore) - incredibile miniera topografica e biografica di quanto Sciascia si sia imbevuto di Racalmuto e viceversa - «c'è una vera e propria macchina del tempo: la cattedra e la lavagna, l'alfabetario, la vetrinetta con gli strumenti didattici, dal planetario agli insetti imbalsamati, la radio da cui l'alunno Sciascia ascoltava le canzonette del regime e il futuro maestro l'inno di Mameli». E poi i calamai, i quaderni, i vecchi banchi di legno... Non a caso, infine, la fondazione che ne conserva il nome allinea, fra le tante altre cose, oltre 200 ritratti di scrittori (acqueforti, acquetinte, disegni e dipinti) da lui raccolti e poi donati, fra cui spiccano opere di Clerici, Maccari, Caruso, Guccione, Guttuso, Messina, Chagall, de Segonzac, Laurencin, Fantin-Latour...

Dietro quel luogo comune/verità, c'è però anche un'altra storia, ovvero un'altra memoria, altrettanto significativa, quella stessa del resto che farà scrivere a Sciascia: «Ho l'impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato». In una Racalmuto seicentesca, per esempio, c'è spazio in contemporanea per un pittore famoso e orbo di un occhio, Pietro d'Asaro, per un frate eretico, Fra Diego La Matina, uccisore del suo stesso inquisitore, don Juan Lope de Cisneros, per il protomedico delle due Sicilie Antonio Alaimo, la più alta autorità sanitaria dell'isola al tempo della peste. Su di loro Sciascia ha scritto, interrogandosi anche su una sorta di spirale che dal passato si allungava sino al suo presente, alla «determinazione» della sua stessa nascita: «Per quali ragioni, insomma, a un punto del tempo e dello spazio, in un certo periodo e in un certo luogo, viene a prodursi una fioritura di ingegni, un fervore di pensiero e di opere, resta - nonostante tutte le indagini e le analisi che se ne possono fare - un mistero come di natura, in quel che la natura ha ancora, e avrà sempre, di misterioso. E di meraviglioso».

Anche il teatro Regina Margherita di Racalmuto, altro tempio della giovinezza sciasciana, è come lì ad attenderlo da quella fine Ottocento in cui fu inaugurato, un teatro che farebbe la gloria di qualsiasi città d'arte, costruito nel cuore di una Sicilia rurale, di zolfatare e di saline: centoventi posti, due file di palchi, stucchi e pitture a profusione, l'Apoteosi di Apollo dipinta sulla volta, il velaio storico dei Vespri siciliani a fare da quinta alla platea. «Lì ho vagheggiato il mio destino nel teatro: a scrivere per il teatro»; e poi, quando la sua platea si aprirà anche alla proiezione cinematografica, «fino oltre i vent'anni sognai di fare il regista, il soggettista, lo sceneggiatore». Chiuso a metà degli anni Sessanta, un decennio dopo Sciascia documenterà sul settimanale L'Espresso «le rovine di quel luogo che ricordavo splendido, incantevole»: i velluti rossi a brandelli, gli affreschi corrosi, le assi del palcoscenico fradicie per l'umidità... Un grido di dolore che negli anni successivi si concretizzerà in un primo restauro e poi finalmente, a partire dal Duemila, nel suo recupero totale e nella sua riapertura, anche se purtroppo non in pianta stabile. Visitarlo però, con la sua mostra permanente di costumi di scena, è una gioia per gli occhi e un intatto senso di meraviglia.

Ironicamente, poco prima di morire, Sciascia scrisse che sperava «di non diventare né un'attrazione turistica né un bene culturale». Ma quando qualcuno si provò a obiettare che una fondazione culturale in Sicilia, anche se a suo nome, rischiava, come già avvenuto in passato per iniziative simili, di vedere quel lascito letterario rosicchiato dai topi, risponderà tranquillamente: «Bene, se topi devono essere che siano topi di Racalmuto».

E in fondo è proprio questo senso di immedesimazione che si sente in questa giornata di primavera in cui un giovane agrigentino, appassionato e competente, Roberto Bruccoleri - fondatore di un blog che si chiama Blasco da Mompracem, organizzatore di viaggi letterari e partecipe del progetto «Strade degli scrittori» -, mi porta in giro per Racalmuto insieme con l'infaticabile Pippo Di Falco e l'andirivieni sollecito e cortese di alcuni degli Sciasciaboys del tempo che fu, tutti oggi affermati professionisti e tutti però a quel tempo rimasti fedeli. L'aria calda di una domenica di sole, quel cognome Sciascia che ancora nell'Ottocento veniva trascritto Xaxa, un'etimologia araba che indica «il velo del capo» e che solo qui viene pronunciata, come ha osservato un altro siciliano doc, Pietrangelo Buttafuoco, «con quella tipica aspirazione che risente del linguaggio dei musulmani che dodici secoli fa conquistarono l'isola», il silenzio delle stradine nell'ora di pranzo, la quieta allegria di un ristorante familiare, colorano Racalmuto di una struggente memoria viva, sempre presente, per nulla addomesticata.

La biografia. Sciascia, dal Pci ai radicali: in direzione ostinata e contraria. Biagio Castaldo su Il Riformista il Novembre 2019

È l’epitaffio di Villiers che Leonardo Sciascia scelse per essere ricordato, un inno che restituisce il suo ultimo paradosso: sfidare la scommessa di Pascal sull’esistenza di Dio. Il ritorno alle terre di zolfare dell’agrigentino che gli ha dato i natali nel 1921, dalla quale eredita l’umorismo pirandelliano e il materiale narrativo dei suoi primi libri, Le parrocchie di Regalpetra (1956) e Gli zii di Sicilia (1958), che destano immediatamente l’attenzione della critica letteraria più engagé. La Sicilia,  le indagini sulla mafia e quel relativismo  della conoscenza, per cui la realtà è più ingarbugliata di come appare – Gadda pubblica negli stessi anni Il Pasticciaccio – inaugurarono la stagione del giallo. Il giorno della civetta (1961), scritto in seguito all’assassinio del sindacalista Miraglia nel 1947,  e A ciascuno il suo (1966), che scavalcano la definizione confinante di giallo e nobilitano a livello sociale un genere letterario da sempre bistrattato. Intanto si trasferisce a Palermo, comincia  a collaborare con il Corriere della sera e a dedicarsi al romanzo, Il contesto, pubblicato poi nel 1971: una critica nelle vesti di divertissement al sistema giudiziario di una terra immaginaria, nella quale è facilmente riconoscibile l’Italia degli anni 70.  Il contesto gli vale la candidatura al premio Campiello, che Sciascia decide sapientemente di ritirare in seguito alle forti polemiche suscitate dal dibattito politico-intellettuale. Nel ’74 Todo modo è l’occasione di polemizzare con le alte gerarchie ecclesiastiche,  attraverso un poliziesco di «cattolici che fanno politica», cardinali e uomini politici impegnati tra riti spirituali e delitti.  Nel 1975 scrive La scomparsa di Majorana (avvenuta nel 1938), un’indagine rielaborata in forma di prosa sulla scomparsa del fisico Ettore Majorana, e nello stesso anno viene eletto segretario regionale del Pci alle elezioni comunali di Palermo. Incarico che abbandonerà due anni più tardi, quando assumerà posizioni

molto critiche nei confronti della direzione  del partito, alla quale aveva manifestato tutta la sua contrarietà a proposito del compromesso storico.

Il caso Moro porta Sciascia sulle tracce delle lettere di prigionia dell’onorevole durante i 55 giorni di sequestro, delineando un urgente ritratto di «opera di verità», pubblicata nel ’78 con il titolo di L’affaire Moro. Sebbene il caso avesse tratti al limite del romanzesco, ricordando certe pagine di Pasolini, Sciascia investe qui la letteratura di un ulteriore ruolo: svelare il senso della tragedia dietro la solitudine di un uomo, prima ancora che di un politico incatenato. Il 1979 consacra l’entrata di Sciascia tra i Radicali, candidandosi sia al Parlamento europeo che alla Camera, vincendo entrambe le elezioni, ma preferendo dapprima la sede di Strasburgo e dopo appena due mesi accettando l’incarico a Montecitorio, dove rimarrà fino al 1983. Come membro della Commissione parlamentare d’inchiesta, Sciascia si occupa della strage di via Fani, dell’assassinio di Moro, del problema terrorismo in Italia, a proposito del quale mantiene posizioni antigiustizialiste. Si schiera dapprima contro la legislazione d’emergenza, che in quegli anni inasprì la pena per molti reati, poi nel 1982 quando il Partito Radicale denuncia le torture inflitte dalla polizia ai brigatisti, Sciascia prende una posizione inamovibile. Intanto continua a muoversi tra l’attività parlamentare,  quella di curatore di mostre e quella giornalistica con il lucido sguardo che caratterizzò sempre la sua attività e polemizzando nel ’87 sulle colonne del Corriere con quelli che definì gli «eroi della sesta», i magistrati palermitani del pool antimafia, tra i quali capitò anche Borsellino, accusandoli di carrierismo. Due anni dopo, a causa di un male incurabile, il 20 novembre 1989 muore da laico. E noi, su questo pianeta, lo ricordiamo ancora. Biagio Castaldo

La piccola patria di Leonardo e dei suoi allievi. Il teatro fatto rinascere, contrada Noce e la scuola elementare dove insegnava. Alessandro Gnocchi il 30 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Racalmuto. Ogni passo un ricordo di Leonardo Sciascia, il maestro di Racalmuto, cittadina in provincia di Agrigento. C'è la sua statua, a grandezza naturale, sul marciapiede del corso dove passeggiava dopo essere stato al circolo. C'è il prestigioso teatro Regina Margherita, un gioiello tornato a splendere grazie al suo aiuto. Lo scrittore ne era un frequentatore, anche nell'epoca in cui la sala era diventata cinematografica. C'è una pagina della novella La zia d'America dove si raccontano le due ore del film trascorse a sputare «a ondate» dal loggione alla platea, con altri ragazzacci, pronti anche a sottolineare le scene d'amore con «quel rumore di succhiare lumache» a imitazione dei baci. Il teatro ebbe un momento di crisi, durante la quale il palco era occupato dalle galline. Si dice che Giuseppe Tornatore, nel capolavoro Nuovo Cinema Paradiso, abbia attinto in pari misura ai propri ricordi e a quelli di Sciascia. Fu comunque Sciascia a rimettere il Regina Margherita al centro dell'attenzione scegliendo il teatro per presentare un libro negli anni Ottanta.

Appena fuori Racalmuto, settemila abitanti, uno dei tanti paesi italiani in doloroso calo demografico, c'è la campagna di Sciascia, in contrada Noce. In cima a una collina ci sono tre edifici. Uno, antico e modesto, in cui fu scritto Il giorno della civetta. Uno, antico e utile, occupato dal forno. Uno, risalente agli anni Settanta, costruito per volontà di Sciascia. Non aveva avuto richieste particolari da rivolgere all'architetto. D'altronde, ovunque lo si giri, lo sguardo incontra campi e colline di struggente bellezza. Non è difficile innamorarsi di un luogo simile, soprattutto se ci nasci. Però Sciascia volle lo studio con le finestre affacciate in direzione del mare. Forse per godere al massimo della luce che proviene da quella parte: il cielo di Sicilia è speciale. Sul retro, c'è una terrazza da cui si domina la valle. Il marrone, in ogni sua sfumatura, il grigio e il verde riempiono gli occhi. La sabbia, la pietra, le vigne.

Sciascia scriveva dalle sette alle dieci e mezzo di mattina. Poi riceveva. A Racalmuto capitava di incontrare Marco Pannella o editori o artisti. Andavano a udienza da Sciascia. Sotto la proprietà dello scrittore, c'erano (e ci sono ancora) le case degli amici: il giornalista Aldo Scimè e Nico Patito, «contadino filosofo». Più giù ancora, l'unico edificio dove ci fosse il telefono. Alle 17 suonava, spesso era la redazione di un giornale a cui il maestro dettava l'articolo dopo aver preso accordi in mattinata.

Nella scuola di Racalmuto hanno ricostruito la classe delle elementari dove Sciascia insegnò negli anni Cinquanta. Oggi l'istituto è intitolato proprio allo scrittore. Gaspare Spalanca, allievo del maestro, ci accompagna nella visita e si siede nel banco che occupava all'epoca. Tutto è stato conservato. Lavagna, cattedra, libri. Ci sono i quaderni. I registri di classe compilati da Sciascia. Le pagelle dello Sciascia studente. Spalanca racconta al Giornale: «Era una persona riservata, mai severa, in anni dove la benevolenza del professore non era scontata. Era di una sensibilità rara e contagiosa». Come la dimostrava? «C'era tanta povertà a Racalmuto. Prima di iniziare la lezione chiedeva a tutti se avessero fatto colazione. Poi ordinava il caffè, latte e qualcosa da mangiare per chi a casa non aveva avuto nulla. Senza fare scene, come fosse normale, un dato di fatto a cui non si doveva dare peso. Ma ce l'aveva un peso, dopo lo abbiamo capito». Trattava tutti allo stesso modo? «Certamente. Era sempre attento a dare un regalino a ogni allievo, una caramella, un giocattolino, un complimento... Nessuno era dimenticato». Insegnava anche religione? «Sì. Io non so se sia vero che Sciascia era ateo. Forse conveniva dipingerlo così o si dava per scontato per via delle sue idee politiche. Ma io ricordo un insegnante rigoroso e capace di trasmettere il senso del sacro». Siete rimasti amici, dopo gli anni scolastici? «Quando era a Racalmuto si fermava volentieri a chiacchierare con me e con gli altri ex alunni». Come vi rivolgevate a Sciascia? «A scuola, lo chiamavamo professore. Dopo, io ho preso a chiamarlo maestro. Lo considero un maestro di vita, al di là dell'insegnamento. L'attenzione verso il prossimo andava di pari passo con un'estrema curiosità verso ogni aspetto della cultura e della società. Questa è la sua lezione, per me, per tutti, credo».

La tomba di Sciascia, nel cimitero di Racalmuto, è una sepoltura laica, semplice, pulita, una lastra bianca in mezzo a un piccolo prato. A volte la grandezza si intuisce dalla umiltà.

Passione civile. Così Leonardo Sciascia ha dato un senso alla vita sociale del nostro paese. Alfonso Amendola, Fabrizio Catalano, Ercole Giap Parini su L'Inkiesta il 24 Agosto 2022.

Lo scrittore siciliano scrive secondo schemi ben precisi: se si trattano le principali caratteristiche del proprio popolo necessariamente si analizzano anche i moti di una società più in generale. Tramite l'esegesi delle sue opere, “Il tenace concetto” (Rogas editore) ripercorre tutti i pensieri formulati dall'autore e le sue opinioni i sulla nostra nazione 

Ci sono scrittori per i quali la letteratura è sorta di gioco di sponda con la vita, dove questa vi è rappresentata attraverso l’onirico e il simbolico, e dove l’immaginazione lascia soltanto trasparire barlumi di realtà e per di più chiamando in causa il lettore, che ha davanti una intera tavolozza per ricreare quelle immagini appena tratteggiate.

Dall’altra parte vi sono quelli che nelle lettere impongono un cambiamento di ritmo nella lettura di una realtà documentata o documentabile.

Poi vi è Sciascia, che sembra unire questi due mondi, tenendo insieme, le sue lettere, l’attenzione informata alla cronaca e alla storia con quella possibilità di renderle simboli, di astrarle dalla contingenza con la forza dell’onirico.

Abbiamo visto come Sciascia tenesse in grande considerazione Borges, rappresentandolo come sorta di paradigma degli scrittori del primo tipo poc’anzi evocati. Uno scrittore che attraverso i labirinti evocava l’impossibilità di comprendere il mondo, lo spiazzamento umano di fronte al mistero dell’esistente.

Arrivò a definirlo – summa delle contraddizioni di quel secolo – teologo ateo perché «ha fatto diventare il ‘discorso su Dio’ un ‘discorso sulla letteratura’. Non Dio ha creato il mondo, ma sono i libri che lo creano. E la creazione è in atto: in magma, in caos». E Sciascia riconosceva la differenza con questo scrittore così amato e studiato. Sciascia, così attento alla storia e alla cronaca del suo tempo, e che in questa si immergeva con la passione civile che ho messo in evidenza, vedeva Borges sfuggire alla storia nei suoi labirintici giochi di specchi:

I nomi che facevo posso ora, in una migliore e più assidua conoscenza dello scrittore, considerarli più approssimativi che approssimati: possono avvicinarsi a Borges e avvicinarcelo, ma non intrinsecamente. L’errore era però un altro: l’avere usato la parola storia invece che la parola tempo. Poiché non dalla storia è ossessionato Borges, ma dal tempo. Per lui la storia non è che l’assurdo corollario di quella più vasta e spaventosa assurdità che è il tempo. E arriva al punto da desiderare che si sperda o si consumi, il tempo, almeno sul suo nome, sul suo ricordo, sulle sue pagine: una volta scontatolo nella vita, con la vita.

Sono come speculari, questi due autori. Da un lato lo scrittore Borges, che trova i labirinti della vita nell’onirico, dall’altro un autore che li trova nella cronaca, dove il sogno è, semmai, approdo confondente di storie fondate nella realtà contingente o storica. Sorta di giocatore di biliardo, Borges, con la vita e con il mondo, sempre attento alle sponde dell’onirico; poi c’è Sciascia che nella vita si immerge, quasi fosse uno sport di lotta, di contatto, un corpo a corpo, dal quale sapeva di uscire comunque sconfitto ma anche che quella lotta, quella resistenza della ragione, era l’unica vittoria dell’umano che l’umano avesse a disposizione. Così la sua tormentata relazione con la politica, dalla simpatia per il Partito Comunista fino alla rottura con questo, che percepisce essere troppo attento alle alleanze, mettendo in ombra i contenuti emancipativi del suo ruolo politico; cosa che si acuisce durante il periodo della solidarietà nazionale e del miglioramento dei rapporti tra quel partito e la Democrazia Cristiana. E poi l’approdo al Partito Radicale e le sue battaglie parlamentari orientate nel senso di una laicità militante e attenta ai diritti delle persone umane (come le avrebbe chiamate lui); le controversie, anche ruvide, contro l’antimafia e quelli che considerava i suoi professionisti, che gli valse mille polemiche, fraintendimenti e necessità di chiarire.

Per Sciascia la letteratura è parte della vita vissuta e sale all’onirico, al simbolico quasi sgravandosene come esito di un percorso di un attraversamento al termine del quale troviamo un tenace concetto che consiste nell’umanità.

Per altri scrittori le lettere sono sì parte della contingenza e della vita; il flusso delle loro parole si dipana nella cronaca ed è pure animato da simile passione civile. Ma quelle parole hanno una immediata spendibilità che si deprezza nel momento in cui il contingente si trasforma, e quella semantica, così incapace ‒ a differenza di quella di Sciascia ‒ di levarvisi, evapora con il passare del tempo.

Impegnarsi nella ricostruzione della vicenda di Moro significa quindi per Sciascia affondare la penna dello scrittore nella carne viva della sua epoca, dopo averla intinta nell’inchiostro della passione civile alla ricerca di una reazione rispetto all’assopimento collettivo di fronte alle ragioni del potere.

Parimenti fa Sciascia quando affronta la questione della mafia, entrando nella carne viva di un contesto di trame oscure che lega la Sicilia all’Italia; e con la stessa passione cerca di districare la matassa del caso Majorana che, pur partendo dalla sua Isola, tende un filo immaginifico che arriva alle bombe di Hiroshima e Nagasaki.

Per di più, le circostanze, assolutamente contingenti, duramente e drammaticamente reali, si aprono a un’indagine meticolosamente documentaria ma supremamente letteraria, con quel suo chiamare a raccolta la letteratura per districare le trame più complesse, nel convincimento, che è anche un obiettivo, di giungere a «una ‘verità romanzesca’ più vera di quella ufficiale» (Di Grado 2014: 35)[1]. Come forma di sincerità verso quel carattere utopico di imprese di questo tipo. José Ortega y Gasset, il grande filosofo spagnolo che aveva sviluppato la propria filosofia proprio a partire dalla lettura del romanzo che dei romanzi è considerato l’archetipo, il Don Chisciotte[2], considerava l’utopia come il darsi un obiettivo che non può essere perseguito. Nel nostro caso, dipanare tutti quei garbugli del reale con le lettere. Ma così facendo si aprono nuove e impreviste possibilità creative che permettono proprio quel­l’elevazione di cui scrivevo prima, che permette di concepire l’umano e la sua vita relazionale come summa di tutte quelle esperienze.

Tzvetan Todorov mette in evidenza un rapporto stretto, sorta di parentela, tra la letteratura e le scienze umane e la filosofia, in quanto tutte mosse dalla curiosità sulla società. E scrive: «Come la filosofia e le scienze umane, la letteratura è pensiero e conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo. La realtà che la letteratura vuole conoscere è semplicemente (…) l’esperienza umana» (Todorov 2008: 66). Senza disconoscerne le differenze, dato che «l’una [la letteratura, n.d.a.] preserva la ricchezza e la diversità del vissuto, l’altra favorisce l’astrazione, che le consente di formulare leggi generali» (Todorov 2008: 66-67). Così simili e così dissimili, quindi, la letteratura e le altre scienze; la diversità sta proprio in quella capacità letteraria di preservare ricchezza e varietà del vissuto.

Questa contiguità dello sguardo gettato sullo stesso oggetto, a partire da differenti prospettive, era già stata messa in evidenza da Robert Nisbet: «Che uomini come Weber, Durkheim e Simmel siano parte nella tradizione della scienza è fuor di dubbio. I loro lavori, nonostante la profonda sensibilità e intuizione artistica, non appartengono alla storia dell’arte più di quanto i lavori di Balzac e Dickens non appartengano alla storia della scienza sociale».

Ma mentre Sciascia riflette sulla letteratura sembra fare intravvedere qualcosa di più. La letteratura non solo come rispecchiamento, ma come fare e farsi della storia. Lo fa, per esempio, in alcune pagine del suo Nero su nero: «Forse è un sistema di oggetti eterni che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono si eclissano tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità». Sta forse qui, in questa definizione, che mette in gioco la capacità di splendere e il destino di eclissarsi, la ragione sociale della letteratura, il suo essere intrecciata con quanto accade di volta in volta. E la sua capacità di dare risposte, anche nella forma di domanda, senza la possibilità di giungere a una definitezza. E proprio Nero su nero è un libro dedicato alla verità, all’ansia di intravvederla insieme alla difficoltà di contenerla, di raggiungerla.

Un ruolo, quello della letteratura, quindi, di leggere nella venatura della cronaca il farsi dei vasi che irrorano la vita; vedere, a partire da una dotazione particolare, tipica dello scrittore, quello che altri non vedono, insieme, però, alla possibilità di fissare degli schemi che permettono di dare un senso ai fatti, di darvi ordine forse anche facendoli accadere: «Le sintesi non potevano apparire che anticipazioni, che profezie; se non addirittura istigazioni». I fatti, insomma, accadono se sono narrati, se hanno una loro possibilità di interpretazione. In questo doppio movimento è visibile l’orientamento alla verità della letteratura: nel mentre fa radiografie, utilizzando elementi che non sono necessariamente quelli piegati al realismo o alla verosimiglianza, lascia schemi capaci di dare ordine alle cose. E in qualche modo diventa essa stessa tenace concetto, impadronendosi della storia. 

“Il tenace concetto. Leonardo Sciascia: la letteratura, la conoscenza, l’impegno civile”, di Fabrizio Catalano, Alfonso Amendola, Ercole Giap Parini, Rogas editore, pagine 120, euro 11

La bellezza e la politica. Le ultime conversazioni di Leonardo Sciascia. Leonardo Sciascia su L'Inkiesta il 3 Gennaio 2022. L'Espresso il 4 Gennaio 2022. Sono i colloqui con Domenico Porzio, raccolti e pubblicati da Adelphi. Uno sguardo sulle passioni del grande scrittore, dalla storia della Sicilia a considerazioni su collezionismo, autori e servizio pubblico di archivio Lapresse, particolare.  

Nel “Cavaliere e la morte” dici una cosa che mi è piaciuta molto: che il tuo alter ego, il Vice, leggendo “L’isola del tesoro” di Stevenson, conosce una delle sue forme di suprema felicità.

È un’idea che ho preso da Borges.

È così anche per lui?

Anche per lui e anche per me.

Per Borges, in effetti, la felicità sta nell’infanzia, nell’avventura. Penso che Borges abbia letto Stevenson in una di quelle edizioni illustrate ancora in uso ai suoi tempi. Forse non sarà la felicità suprema come lui sosteneva, perché non credo che qualcuno possa possedere la felicità nella sua totalità, però le si avvicina.

Sono delle forme di approssimazione. Forme di approssimazione alla felicità. Per me la felicità è in gran parte legata ai libri. I libri letti, i libri da rileggere, i libri che rileggo, i libri che scopro e anche le stampe, la scoperta di una certa acquaforte…

Allora anche il collezionismo.

Sì. Il collezionismo è una cosa che mi aiuta a vivere. Non direi che sia proprio la felicità, ma aiuta.

In che senso aiuta a vivere?

Ti crea una aspettativa, perché speri sempre di trovare qualcosa, qualcosa da aggiungere.

E il collezionismo è di tutte le età.

Sì, credo che come istinto esista in tutti. 

Ci sono anche luoghi, per te, che sono forme di felicità. Racalmuto.

Sì, ma anche altri. Parigi è una forma di felicità. La amo per la sovrapposizione della città letteraria alla città reale.

E non ti disturba il contrasto?

Le cose sono secondo letteratura, insomma. Ma anche altre città che non risvegliano riferimenti letterari speciali come Barcellona, Siviglia, Salamanca si avvicinano all’idea di felicità, quando ci vai o ci torni.

Parli solo di città europee.

Non ne conosco altre.

Non hai mai viaggiato nelle Americhe, in Africa?

No, mai.

Quindi i tuoi amori di viaggiatore sono Parigi e la Spagna. Anch’io mi sento molto legato alla Spagna. C’è un legame che nasce anche dalla letteratura, dalle affinità di lingua.

Be’, per un siciliano più che letteratura è storia. I nomi dei nostri viceré sono nomi di paesi della Spagna: Toledo, Ossuna…

Eppure la memoria storica della presenza spagnola in Sicilia non è delle più esaltanti.

No, no. La Spagna in Sicilia è terribile. Coincide con l’Inquisizione, piena di atrocità.

Però mi dicevi che era anche governata secondo un ammirevole concetto di giustizia.

Sì, secondo una certa idea della giustizia. In effetti quando occorreva dare un esempio eclatante, che impressionasse la fantasia popolare, i viceré lo davano. Come Giron, il nipote del viceré de Ossuna, che fu decapitato. Ma per il resto era un mondo di ingiustizie, di privilegi.

La Sicilia interessava alla Spagna per ragioni strategiche mediterranee? O forse come granaio, come semplice terra di sfruttamento?

Sì, come terra di sfruttamento. La Sicilia è stata disboscata per costruire l’«Invincibile Armata», in gran parte nei cantieri siciliani di Messina.

Ma in Spagna non avevano legname a sufficienza?

L’avranno anche avuto, ma era più comodo disboscare la Sicilia.

In Sicilia gli spagnoli hanno lasciato un’impronta letteraria, artistica come l’hanno lasciata gli arabi?

No. C’era molta gente bilingue, ma letterariamente parlando, niente.

Nemmeno nelle relazioni storiche, descrittive?

C’è qualcosa in Quevedo, in Góngora, una certa memoria della Sicilia, e in Cervantes, nelle Novelle esemplari. C’è un racconto che ha per protagonista un ragazzo di Trapani. Cervantes è stato a lungo a Messina e a Palermo, per la preparazione della battaglia di Lepanto; la flotta mosse verso Lepanto da Messina. Cervantes entrò poi in amicizia con un poeta siciliano, Antonio Veneziano; si erano conosciuti in prigionia. Cervantes gli dedicò una poesia.

Ancora sulle forme di felicità: fa effetto notare quanto cambino a seconda dei temperamenti umani. Pensa alla felicità dell’intrigo, coltivata dagli uomini politici. Sembra che ci sia un vero e proprio gusto dell’intrigo, anche per statisti come Mazzarino.

Per i mediocri sì, c’è questo gusto.

Per i mediocri? Ma io ho fatto il nome di Mazzarino; allora lo consideri un mediocre?

Non so quanta soddisfazione traesse Mazzarino dal suo potere, comunque io sto con Guicciardini, l’animale politico più intelligente a mia conoscenza. Guicciardini dice che tante cose, una volta raggiunte, dovrebbero dare una grande soddisfazione e invece non la danno affatto.

Ciò vuol dire che la politica non dovrebbe essere una delle forme della felicità. Eppure…

Dovrebbe essere un servizio.

Dovrebbe essere lasciata a gente che ha un grande amore per il prossimo.

Savinio diceva che la politica espelle l’uomo intelligente come un corpo estraneo. Credo che avesse ragione.

da “Fuoco all’anima. Conversazioni con Domenico Porzio”, di Leonardo Sciascia (a cura di Michele Porzio), Adelphi, 2021, pagine 169, euro 13

 Il carteggio. Leonardo Sciascia e Enzo Tortora, storia di un’amicizia contro il giustizialismo. Lucio D'Alessandro su Il Riformista il 30 Dicembre 2021. “Sciascia, un maestro oltre la letteratura”. Questo è il titolo con cui Roberto Andò ha scelto di ricordare nei giorni scorsi all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli l’amico Leonardo Sciascia in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita. L’intendimento è stato chiaro da subito: guardare allo scrittore puntando all’intellettuale nel senso che lo stesso Sciascia volle dare al termine già in un articolo uscito su La Stampa il 25 novembre 1977: «L’intellettuale è uno che esercita nella società civile […] la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze sociali».

Tra i molti fatti a cui lo scrittore diede spazio e interpretazione mi piace ricordare (anche per la rimbombante attualità del tema tutto italiano della calpestatissima presunzione costituzionale di innocenza in rapporto al comportamento dei media) quello che coinvolse Enzo Tortora. Quando il 17 giugno 1983 Tortora viene arrestato (sarà poi condannato in primo grado senza prove) come spacciatore e sodale di Cutolo con quello che fu definito da Giorgio Bocca «il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese», Sciascia pubblica a poche settimane di distanza (7 agosto 1983) un articolo sul Corriere della sera su quel caso eclatante di alterazione della verità. Lo scrittore prende subito posizione in termini difensivi, senza tentennamenti: «E se Tortora fosse innocente? Sono certo che lo è». Già chiuso in un «tunnel assurdo, demenziale, basato sul niente», Tortora commosso gli indirizzerà un telegramma, ringraziandolo per aver visto con «occhi profetici la tremenda realtà che lo imprigiona».

Da quel momento i rapporti tra i due si consolidano e Tortora affida allo scrittore i suoi tormenti di detenuto. Le sue riflessioni, registrate con precisione nelle lettere a lui indirizzate dove la descrizione puntuale dei fatti e dei movimenti a Regina Coeli prima, poi agli arresti domiciliari nell’appartamento di via Piatti 8 a Milano, fa da sfondo a una lucida, disincantata e amara constatazione dell’uso alterato della legge in un Paese che non solo ha perso il senso della Giustizia ma ha distrutto con la vita di un uomo la sua stessa civiltà. Per Sciascia sono quegli gli anni di composizione di Porte aperte (1987), in cui affronta proprio il tema della giustizia e della libertà sopraffatte da un giustizialismo che rende la pressione dell’opinione pubblica più efficace dell’azione di un giudice onesto. Protagonista ne è un giudice limpido servitore della giustizia, in questo caso, a mettere a repentaglio la sua carriera, pur di difendere, seppur invano, l’imputato dalla pena capitale. Il suo punto di vista è che opporsi alla pena di morte – invocata a gran voce, dalle autorità così come da una città che ha aperto le porte della follia ­ «è un principio di tal forza che si può essere certi di essere nel giusto anche se si resta soli a sostenerlo». «L’ho visto come il punto d’onore della mia vita, dell’onore di vivere» dichiarerà con fermezza il “piccolo giudice”. Si tratta di difendere la propria visione dei fatti nella convinzione di perseguire la giustizia, anche quando si è soli contro l’opinione più diffusa.

Frattanto Tortora era stato assolto dalla Corte d’appello di Napoli nel 1986, proprio in quella città che era stata palcoscenico e punto di inizio dell’irrisolta scomparsa di Majorana a cui Sciascia dieci anni prima aveva voluto offrire una possibile, sebbene artificiosa, soluzione. La relazione intrecciata con solidità e rafforzata dalla comune militanza nel partito radicale non durerà che qualche anno stroncata dalla morte prematura di entrambi (Tortora nel 1988, l’anno seguente lo scrittore). Ne resta però traccia nelle disposizioni testamentarie di Tortora che volle che le sue ceneri fossero riposte accanto a una copia della Storia della colonna infame nell’edizione con prefazione per l’appunto di Leonardo Sciascia, pubblicata nel 1981 dalla casa editrice Sellerio.

Se la Storia manzoniana ha un senso nella nostra storia attuale, nelle parole di Sciascia, questo risiede proprio nel suo continuo ammonimento rivolto alle generazioni future. La responsabilità personale per i gesti di ciascuno non può mai essere obliterata dal comodo riparo delle circostanze, dall’oscuro rifugio dei contesti. Ciascuno di noi è chiamato in ogni momento a rispondere di fronte al più severo dei tribunali, quello della propria coscienza. E la coscienza va oltre la Storia. Certamente in questa battaglia di responsabilità Sciascia e Tortora s’incontrano, così come pure condividono un medesimo disincanto rispetto a una realtà che appare ostile al vero e al giusto. Un disincanto segnato dall’epitaffio scritto da Sciascia per l’amico che recita quasi a memento o forse ad augurio per le battaglie di giustizia «che non sia un’illusione». Lucio D'Alessandro

Amici del Dubbio, quella prefazione di Sciascia è anche una lezione sulla responsabilità dei magistrati. Nella prefazione a un libro di Raffaele Genah e di chi scrive: “Storie di ordinaria ingiustizia” “saltato” il finale capoverso. Valter Vecellio su Il Dubbio il 5 dicembre 2021.  Un’ossessione. Per Leonardo Sciascia l’amministrazione della Giustizia è questo. Si sente simile allo scrittore francese Andrè Gide, cui capita l’” avventura” di essere giudice popolare; ne ricava indelebile esperienza; dopodiché inaugura per l’editore Gallimard una collana intitolata “Non giudicate”. Non a caso Sciascia cura per la Sellerio la pubblicazione de “Il caso Redureau” dello stesso Gide: un adolescente che massacra senza comprensibile motivo la famiglia presso cui presta servizio. «Il problema della giustizia è sempre esistito; e chi c’è andato dietro ne ha scoperto le assurdità, le corruzioni, insomma tutto quello che noi sappiamo, che è inerente al funzionamento della giustizia», dice Sciascia; e si «sente» come un sospiro di rammarico per dover fare qualcosa che non si vorrebbe, e che in fondo al cuore ripugna: una dolorosa, inevitabile, «necessità». Il 1 dicembre Il Dubbio ha pubblicato uno scritto di Sciascia: la prefazione a un libro di Raffaele Genah e di chi scrive: “Storie di ordinaria ingiustizia”: collezione di incredibili vicende consumate in nome del popolo italiano; e qui basti citare il caso di una donna per lungo tempo detenuta per illegale detenzione d’arma: e si trattava della pistola giocattolo ( di plastica), del figlioletto. E’ il 1987 quando chiediamo a Sciascia una sua riflessione da usare come prefazione. Operazione meritoria, quella del Dubbio, di riproporre un testo che nulla ha perso della sua inquietante attualità. Peccato solo sia “saltato” il finale capoverso, importante forse più oggi di quando è stato scritto: «Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto. Ma non che il referendum sulla responsabilità dei giudici possa risolvere il problema, anche se può apporvi qualche rimedio il problema vero, assoluto, è di coscienza, è di “religione”».

Passaggio importante non solo perché, Corte Costituzionale permettendo, a primavera si voterà per sei referendum per una giustizia più giusta ( ne tenga conto, chi deve: penosamente, ma inevitabilmente, chi giudica sarà giudicato). Soprattutto perché occorre cercare di recuperare quel senso di coscienza, di “religione”, perduto.

Conviene, a questo punto, rileggere un libro di Sciascia del 1976: “Il contesto”. Il colloquio tra il commissario Rogas e Riches, presidente della Corte Suprema. Parlano della giustizia, di come viene amministrata. Dice il giudice Riches: «… Prendiamo la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dell’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo».

Timidamente il commissario obietta: «E i gradi di giudizio, la possibilità dei ricorsi, degli appelli…». Riches non ammette obiezioni: «Postulano, lei vuole dire, la possibilità dell’errore… ma non è così. Postulano soltanto l’esistenza di un’opinione diciamo laica sulla giustizia, sull’amministrazione della giustizia. Un’opinione che sta al di fuori. Ora quando una religione comincia a tener conto dell’opinione laica, è ben morta, anche se non sa di esserlo. E così è la giustizia, l’amministrazione della giustizia…». Uno sfacelo da attribuire agli illuministi, in particolare a Voltaire, al “Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas”: il punto di partenza dell’errore: dell’errore che potesse esistere il cosiddetto errore giudiziario: «… la giustizia siede su un perenne stato di pericolo, su un perenne stato di guerra… la sola forma possibile di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità. E l’umanità risponde del singolo. Non ci potrà essere altro modo di amministrare la giustizia. Dico di più: non c’è mai stato. Ma ora viene il momento di teorizzarlo, di codificarlo…».

In magistratura abbonando i giudici alla Riches; più oggi di ieri. Ha fatto scalpore “Il sistema”, il libro colloquio di Luca Palamara e Alessandro Sallusti: ma quanti l’hanno davvero letto e capito, voluto capire?. Più di recente, di un altro libro si è scritto e parlato; e male: perdendo di vista il cuore dei problemi che pone. Il libro è “La stanza numero 30. Cronache di una vita”, dell’ex magistrato Ilda Boccassini. L’attenzione, un po’ da guardoni, si è concentrata sul quarto capitolo, racconto di una intima storia con Giovanni Falcone: di fatto “distrae” dalla sostanza delle questioni.

La sostanza è il racconto di anni e anni di storia di magistrati, del loro questo sì discutibile operare per acquisire e difendere postazioni di potere e carriera; le spartizioni, i boicottaggi, i servilismi: il quadro desolante e desolato della magistratura, e di uffici giudiziari particolarmente importanti: quelli di Milano, Roma, Palermo, Caltanissetta; il lato meschino, vanesio, di “toghe” famose; i metodi di spartizione per l’attribuzione dei vertici apicali della magistratura da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. Una scena e mille retroscena, deprimenti: giustificano quello che probabilmente Boccassini neppure si sogna: la campagna referendaria per una giustizia più giusta. Eppure di tutti i capitoli del libro, solo il quarto, pare abbia catturato l’attenzione e l’interesse di quanti se ne sono occupati. Una “indifferenza” che la dice lunga sul quotidiano, diffuso, smarrimento di “coscienza”, di laica, sciasciana, “religione”.

Quel confine tra diritto e letteratura che Sciascia consacrò al dubbio. Nel libro, curato da Luigi Cavallaro e Roberto Conti, giuristi autorevoli rileggono alcune tra le più celebri opere di Leonardo Sciascia. Il Dubbio il 15 novembre 2021. «È stato naturale pensare ad un volume della Biblioteca di cultura giuridica dedicato al rapporto di Sciascia con la giustizia, tema sul quale tutta l’opera dello scrittore di Racalmuto torna in continuazione. Ed è nato così il libro che il lettore ha tra le mani: un libro che interpreta al meglio la filosofia della collana, collocandosi sul confine tra letteratura e diritto, un confine meno definito di quanto si creda, in cui si incrociano riflessioni e sentimenti che segnano le nostre vite». È quanto scrive il Primo Presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio, direttore della collana, nella sua presentazione al volume “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia” (Cacucci Editore, pp. 158). Nel libro, curato da Luigi Cavallaro e Roberto Conti (che firmano l’introduzione di cui qui riportiamo un estratto), giuristi autorevoli rileggono alcune tra le più celebri opere di Sciascia, cercandone insegnamenti per chi il diritto lo pratica per mestiere. Chiudono il volume una riflessione di Paolo Squillacioti, curatore delle opere di Sciascia per Adelphi, e un testo dello scrittore siciliano. «Che due magistrati curino un libro scritto da giuristi di varia appartenenza – accademica, forense, giudiziaria – è un fatto piuttosto comune nella prassi, e non meriterebbe di per sé nessuna specifica spiegazione che non sia quella indirettamente ricavabile dal tema che è oggetto dell’opera. Ma trattandosi, nella specie, di un libro scritto da giuristi che riflettono su11’opera di uno scrittore che giurista non fu, due parole in più sono forse opportune, se proprio non necessarie. Non si deve alle radici isolane che pure accomunano i curatori allo scrittore. Benché per ragioni diverse la figura di Leonardo Sciascia sia stata per entrambi presente fin dall’infanzia, lo stesso potrebbe dirsi di quella di Pirandello come di Brancati, di Verga come di Tomasi di Lampedusa: e mai essi avrebbero pensato di poter dedicare un omaggio a costoro, come invece hanno inteso fare allo scrittore racalmutese per il centenario della sua nascita. Il fatto è, piuttosto, che i curatori di questo libro hanno vissuto appieno, nella loro esperienza di giudici e cultori del diritto, la crisi della capacità ordinatrice della fattispecie legale di matrice statuale, sotto la cui ombra rassicurante avevano intrapreso i primi passi della loro formazione. (…) Entrambi i curatori di questo libro sono testimoni di un tempo in cui la legge sembra aver perduto ogni pretesa di verità e in cui, di conseguenza, al giudizio non può più essere ascritta quella funzione di disvelamento che era presupposta dalla tranquillizzante immagine del sillogismo. Ed è proprio qui che essi hanno incontrato la figura di Leonardo Sciascia e il suo inquieto confrontarsi con gli schemi di percezione propri del romanzo giallo: anch’esso nato all’insegna della fiducia nelle capacità di discernimento e rivelazione della ragione e nell’opera sciasciana ridotto invece ad espediente formale per raccontare di una società in cui la verità e la giustizia paiono diventate impossibili. Fu Sciascia stesso, in effetti, a confessare a Claude Ambroise che tutto, ai suoi occhi, era “legato al problema della giustizia” (“in cui s’involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo”); ed è facile constatare come, nell’intera sua opera, l’anelito per la giustizia costituisca l’autentico pendant delle innumerevoli “ingiustizie” (alcune reali, altre immaginate, altre spinte volutamente all’eccesso, al paradosso, alla parodia, alla parabola) di cui sono invece popolate le sue pagine. D’altra parte, se è vero che da queste pagine emerge uno spaccato per nulla edificante del “pianeta giustizia” e dei suoi attori – giudici, avvocati o investigatori che siano: quasi tutti intenti a fabbricare le menzogne di cui si alimenta una “verità giudiziaria” fasulla, ancorché “verosimile” — non è meno vero che, per lo scrittore racalmutese, nella scrittura questo problema può ancora trovare “strazio o riscatto”: ossia ritrovare quella “verità” che un’umanità dolente inutilmente attendeva, a fronte delle fallacie e delle pervicaci e ostinate illogicità ammannitele dalla giustizia “ufficiale”. Ciò che Sciascia critica in radice, dunque, non è la possibilità “in sé” della verità, ma piuttosto il concreto modo in cui è amministrata la giustizia, intesa come insieme delle istituzioni preposte all’applicazione della legge, a dicere ius: che è conclusione particolarmente interessante per i giuristi, perché alimenta la speranza – affatto assente, invece, in quell’a1tro “giallista” sui generis che è Friedrich Dürrenmatt – che il tempo difficile che pure stiamo vivendo non sia conseguenza di un’irredimibile “crisi della ragione” e sia ancora possibile (oltreché auspicabile) che il giudizio raggiunga non “una” verità qualunque, ma precisamente quella verità che possa dirsi anche “giusta”. Non è però semplice traguardo. (…) Sovviene qui la battuta di Laudisi al commissario Centuri, nel “Così è (se vi pare)” di Pirandello: “Vogliono una verità, non importa quale; pur che sia di fatto, categorica? E lei la dia!”. E si potrebbe perfino cogliere una contraddizione nel pensiero sciasciano, lì dove sembra attribuire all’incedere della giustizia un passo che è “nella totalità dei casi di impressionante lentezza e di atroce peso per coloro che vi si trovano implicati”, salvo poi stigmatizzare gli esiti “non veritieri” di quelle inchieste che si chiudono “con rapidità impressionante”; e legittimamente chiedersi se, ai suoi occhi, l’opera di bilanciamento tra opposti valori alla quale è spesso chiamato il decisore giudiziario sia da condannare come sintomatica di opaci compromessi al ribasso o testimoni invece di quel !ragionare” che egli esige da ogni decisore pubblico, politico o giudiziario che sia. Né ciò è tutto. Si può agevolmente dimostrare che l’equazione tra diritto e ragione espressamente postulata da Sciascia in più luoghi della sua opera presuppone che il termine “ragione” venga a sua volta declinato come sinonimo di ratio, e dunque come “bilanciamento” tra le istanze intrinsecamente conflittuali della libertà individuale e della giustizia sociale. Ma quando lo scrittore insiste sul “ragionare” che sta dietro alla “giustizia” del caso concreto, a quale “diritto” sta pensando? (…) La “verità” e la “giustizia” del diritto sono per Sciascia suscettibili di “conoscenza”? Dove si colloca la “verità” quando si debbono ricostruire i diritti delle persone, sempre più condizionati da una protezione proteiforme che un sistema integrato qual è quello odierno rende complesso individuare? Fino a che punto i valori immanenti alla coscienza sociale storicamente data possono penetrare nell’astratta formula legislativa per riportarla al caso concreto e alle necessità di tutela che esso reclama? C’è o non c’è del metodo in quel “ragionare” che, riempiendo di senso il testo di una disposizione di legge, produce la sua trasformazione in norma? E se il diritto non è suscettibile di un “ragionare” metodologicamente fondato, dove mai si potrà collocare quella differenza tra “verità” ed “errore” che pure si deve postulare, salvo inconsapevolmente parodiare il cinismo con cui il Presidente Riches proclamava che tutte le sue sentenze erano “giuste”? Queste le domande che i curatori di questo libro si son posti sin dai primi concistori in cui ha preso corpo la scommessa che a queste pagine è consegnata. Che vorrebbe essere, né più e né meno, una riflessione a più voci che provi finalmente a prendere sul serio gli interrogativi sul diritto, sulla verità e sulla giustizia che attraversano l’opera tutta di Leonardo Sciascia». (…)

"Vi racconto lo Sciascia grande critico d'arte e scopritore di talenti". Matteo Sacchi il 3 Luglio 2021 su Il Giornale. Lo scrittore siciliano aveva fiuto: "Non si lasciava forviare dalle mode e dalle ideologie". Domani, nell'ambito del caleidoscopico programma della Milanesiana 2021 (ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi), a partire dalle 21, la piazza del Duomo di Monza diventerà molto siciliana. La serata - a fare gli onori di casa sarà proprio Elisabetta Sgarbi - sarà infatti dedicata a Leonardo Sciascia e l'arte. Ci sarà una lettura di testi del grande scrittore di Racalmuto, la voce sarà quella dell'attrice Sabrina Colle, e una lectio di Vittorio Sgarbi intitolata: «Sciascia critico d'arte». Sgarbi poi tornerà a parlare di Sciascia il 5 luglio alle 21 in Piazza del Kuerc a Bormio, sempre nell'ambito della Milanesiana, in una serata dal titolo Leonardo Sciascia. A futura memoria (se la memoria ha un futuro), questa volta in compagnia di Pietrangelo Buttafuoco. Abbiamo, quindi, chiesto al critico di anticiparci, chiacchierando con noi, alcuni dei moltissimi temi dei sui interventi.

Sgarbi, perché Leonardo Sciascia che noi conosciamo soprattutto come scrittore è importante anche per la critica d'arte?

«Sciascia aveva una spiccatissima sensibilità verso l'arte contemporanea. Aveva con la critica un rapporto che potremmo definire di preterizione. La capacità di cogliere il valore di artisti che da parte della critica ufficiale erano negletti. Ovviamente ha compiuto anche interventi di grande importanza relativamente all'arte moderna, basti ricordare la sua attenzione al furto della Natività di Caravaggio nel 1969 che ha ispirato Una storia semplice o il suo accostamento fra il Trionfo della Morte di Palermo e Guernica di Picasso, sfruttato per la difesa dei beni culturali nel suo intervento in Parlamento del 1983 sul restauro del dipinto. Ma la sua capacità di guardare dove la critica non guardava è ciò che conta se parliamo di Sciascia. Era curioso, colto, corsaro. Senza pregiudizi».

Mi faccia un esempio...

«Io e Sciascia abbiamo iniziato a frequentarci in maniera più intensa quando Gesualdo Bufalino, che era suo amico, vinse il Campiello nel 1981, quindi ho seguito da vicino il suo percorso quando iniziò a pubblicare alla Bompiani, grazie a mia sorella. E proprio con Bompiani ha pubblicato Invenzione di una prefettura, nel 1986. Si tratta del contributo fondamentale per la riscoperta e la valorizzazione degli affreschi di Duilio Cambellotti. Gli affreschi erano di epoca fascista e, quindi, venivano, follia, addirittura coperti con dei teli per non mostrarli, erano vittime di un insensato tabù. Sciascia con Invenzione di una prefettura ha analizzato quel progetto figurativo senza alcun pregiudizio ideologico, è stato capace di rompere il tabù... Ma non solo, Sciascia ha contribuito alla riscoperta di moltissimi artisti come Alberto Savinio, che alla fine, prima del suo intervento veniva considerato quasi soltanto il fratello scemo di Giorgio De Chirico... Lui ne ha colto in pieno il valore. E ha colto il valore di molti artisti che si sono mossi poi sulla linea di Savinio. È stato il massimo studioso di Fabrizio Clerici, altro artista con venature surrealiste, rimasto ai margini dell'interesse della critica diciamo così ufficiale. Senza l'interesse di Sciascia non sarebbe sopravvissuto nella memoria. Così come è stato importante nel cogliere tutto il potenziale dell'arte di Guttuso. Guttuso, dal punto di vista commerciale, era certamente un artista di successo ma la critica lo trascurava, in quanto figurativo. Sciascia ha colto il suo essere una sorta di Van Gogh Italiano. Ma siamo debitori a Sciascia anche per l'attenzione verso Karl Plattner e la sua vena molto espressionista. Tutti questi artisti venivano messi ai margini rispetto ai Burri o ai Fontana, rispetto alle avanguardie. Ma lui era capace di coglierne il valore».

Una sorta di supplenza alla critica d'arte portata avanti da un grande scrittore?

«Sì, esattamente, creava un ponte tra la letteratura e l'arte così come faceva il poeta Giorgio Soavi, altro scrittore capace di cogliere il genio di Giacometti o quello di De Chirico. E infatti è un peccato che gli scritti d'arte, le introduzioni, i cataloghi di Sciascia non siano mai stati raccolti in volume... Non si è mai riusciti anche se io ho insistito sia con la famiglia che con la Fondazione. Al momento l'unico testo esistente sul tema è il libro di un giovane studioso che si chiama Giuseppe Cipolla. Si intitola Ai pochi felici Leonardo Sciascia e le arti visive un caleidoscopio critico. Ovviamente cita molti stralci di testi di Sciascia ma è, per me, incomprensibile che non ci sia una pubblicazione completa dei testi di Sciascia relativi all'arte... Le sue sono meravigliose azioni corsare purtroppo come dicevo quasi dimenticate».

Aveva un legame viscerale anche con la fotografia?

«Certamente, era in primo luogo uno scrittore fotografico a partire proprio dal suo stile narrativo: era uno scrittore oggettivo. Ovviamente, questa sua attitudine lo ha portato a collaborare con grandi fotografi come Enzo Sellerio e soprattutto Vittorio Scianna con cui ha prodotto una serie di monografie illustrate. Del resto è stato recentemente pubblicato da Mimesis, a cura di Diego Mormorio, Sulla fotografia, che ci mostra alcuni degli scatti dello stesso Sciascia e raccoglie alcuni dei suoi scritti più interessanti su questo tema. Era attento anche al mondo delle stampe e della grafica. Voleva coinvolgermi negli anni '80, mi riteneva la persona più adatta, nel progetto di ripubblicare, con Franco Maria Ricci con cui io collaboravo, una rivista di arte liberty, ricca di stampe e di disegni che si chiamava Fiammetta... Un progetto rimasto nel cassetto per la sua morte».

Al momento leggere direttamente lo Sciascia che parla di arte resta un'operazione quasi impossibile per il grande pubblico.

«Che non si facciano pubblicare i suoi scritti o da Adelphi o anche dalla casa editrice di mia sorella è incomprensibile. Il testo di Cipolla è interessantissimo ma dovrebbe essere l'introduzione a una pubblicazione. Sono tantissimi gli artisti su cui Sciascia ha dato un contributo fondamentale. Lui è stato il più sensibile lettore di Piero Guccione e di tutti i grandi pittori della scuola di Scicli. Lo stesso per un artista come Giuseppe Modica o uno scultore come Emilio Greco. Sempre al di fuori degli orientamenti prevalenti della critica... Era un presidio di cultura». 

Matteo Sacchi.  Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano.

Leonardo Sciascia, “Professionisti dell’Antimafia”, Corriere della Sera, 10 gennaio 1987. “Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno”.

Cento anni fa la nascita di Sciascia, i suoi tre valori di vita: la Verità, la Giustizia e la Dignità dell’uomo. Giovanni Stanzione su Il Quotidiano del Sud il 7 gennaio 2021. IL RAPPORTO CON I PUGNALATORI DI PROFESSIONE. La mafia esiste. No, non esiste. Tutto è mafia, non c’è solo mafia. Quando ero una studentessa di Giurisprudenza, alcuni anni fa, mi appassionai alla Procedura penale. Volevo essere scrittrice e il processo era il più teatrale dei luoghi giuridici. Sul palco del processo, personaggi e drammi umani della più diversa natura si incontravano e capitava molto spesso che la verità rimanesse inconosciuta, come se non fosse quello il fine ultimo di tutta la dolorosa messinscena. Sentii quello stesso smarrimento che provavano molte delle persone coinvolte nei procedimenti penali, convinte di essere lì per ristabilire una verità violata, ma che si ritrovavano a guardare ogni cosa attraverso un specchio infranto i cui frammenti rimandavano ognuno una propria parziale e personalissima verità. Fu allora che decisi di leggere Sciascia. Leonardo Sciascia nacque a Racalmuto l’8 gennaio del 1921, se una malattia logorante non lo avesse portato via a 78 anni, festeggerebbe in questi giorni il suo centesimo compleanno. Scrittore prolifico, eterogeneo, notissimo in vita e in morte, fu inviso a tanti, a causa della fermezza delle sue opinioni e dell’impossibilità di inquadrarle nell’una o nell’altra corrente, che fosse politica, letteraria o sociale. Di sé diceva: «Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità». Man mano che lo leggevo, nelle pause dello studio, Sciascia mi insegnava questo: che lo scrittore, per usare una terminologia giuridica, è, prima di ogni cosa, un collaboratore di verità, “un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice.” Ricordo che, alla fine, scrissi al margine del libro di Procedura penale questa frase: non giudice né imputato ma testimone sempre. Le sue parole, nel corso di tutta la sua vita e anche in seguito, furono contestate, travisate e strumentalizzate. Poche figure di intellettuali hanno attirato tanto odio e così radicato che tutt’oggi mi capita di imbattermi, nei commenti agli articoli che lo riguardano, in insulti feroci nei suoi confronti, sebbene i fatti e gli uomini per e contro cui si è battuto in vita siano stati ormai coperti dalla dimenticanza e dal passato. L’eretico, come veniva chiamato allora, era ancora oggetto di condanna a distanza di decenni. “L’eresia di per sé è una grande cosa, – aveva scritto nel 1979 – e colui che difende la propria eresia è sempre un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo. […] C’è sempre, nel potere che si costituisce in fanatismo, questa paura dell’eresia.”

Se il potere è ortodossia, l’intellettuale è naturalmente un eretico, in quanto non è capace di allinearsi alla narrazione imposta. E Sciascia sempre fu dalla parte opposta e contraria, in rigorosa, ostinata, ricerca della sola cosa che gli interessava davvero: la verità. Nei romanzi “gialli”, nell’Affaire Moro, in Todo modo, sostenne posizioni che lo fecero escludere da molti consessi che lo avevano in precedenza corteggiato, tirato dalla propria parte. Di fronte alla sua figura mi viene allora da chiedermi: dove sono oggi gli eretici? Gli intellettuali che con il rogo delle convenzioni, degli schemi, degli allineamenti, dei luoghi comuni, illuminano le contraddizioni del potere? E dove si annida il potere stesso? L’ultima raccolta Sciascia l’aveva intitolata: A futura memoria (se la memoria ha un futuro). Mi sento chiamata in causa anch’io, in quanto “futuro” depositario di quella memoria, come si sentono chiamati in causa gli uomini e le donne che oggi scrivono insulti allo scrittore sotto gli articoli che lo riguardano. Ripenso all’immagine della verità in frantumi di quando studiavo il processo e credo che i miei dubbi e la ferocia degli insulti dei commentatori di internet abbiano in fondo la stessa matrice e, per quanto diametralmente opposti, siano prodotti dalla stessa incertezza, figlia di questo tempo: la sfiducia nella verità. Siamo nell’epoca delle post-verità, così è stata definita, nella quale imperano le credenze che fondendosi con altre cento, mille credenze simili si cementificano e simulano la durezza della verità. Oppure, al contrario, lo scetticismo incontrollato e non verificato squalifica talmente tante verità da non riuscire più a ricostruirne alcuna. Anche il potere ha imparato a non avere una Verità, ma a moltiplicarsi in tante quante sono le teste dei suoi seguaci. In questa mutazione del potere che non impone più la verità ma anzi la stigmatizza, anche essere eretici è diventato complicato, si rischia di essere scambiati per un adepto di una certezza che lotta contro altri adepti di differenti certezze, ognuno con la stessa legittimazione.

Qual è allora la differenza? Nel 1977 Sciascia diceva che l’intellettuale è uno che esercita nella società “la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze possibili. La funzione, insomma, che l’intelligenza, unita a una somma di conoscenze e mossa – principalmente e insopprimibilmente – dall’amore della verità, gli consentono di svolgere.” Questi punti delineano una sorta di mappa per il futuro intellettuale eretico: fatti, intelligenza, conoscenze, verità. Hanno detto di Sciascia che fosse eretico, scettico oltre ogni dire, profondamente pessimista. Nessuno però è riuscito mai a dire che fosse cinico. Quando sapeva di stare per morire indicò come suo epitaffio queste parole: ce ne ricorderemo, di questo pianeta. Comprendo a questo punto anche l’ultima delle parole indicate da Sciascia nel suo breviario dell’eresia: amore. Non un amore sentimentale o erotico, ma un amore per l’essere umano che si declina nel più semplice dei significati: quello di tenere all’oggetto dell’amore. E allora c’è un’ulteriore importante connotazione nell’eretico che va al rogo: che non lo fa solo e unicamente per la verità fine a se stessa. La necessità di quella verità non è mai slegata dall’amore per l’umanità, non solo quella presente ma intesa anche come posterità. Sciascia ci teneva, ci ha sempre tenuto, alla verità e all’umanità. L’intellettuale eretico aveva come fari tre grandi valori: quello della verità (positiva), quello della giustizia (terrena) e quello della dignità dell’uomo, il cui rispetto è la più importante forma d’amore tra sconosciuti. “Ritengo che rispettando il prossimo mio come me stesso (e magari di più), amando la verità, affrontando tutti i rischi che comporta il dirla, in definitiva io viva religiosamente”.

L’amore reciproco tra Sciascia e la Puglia. A 100 della nascita dello scrittore siciliano, nel libro di Antonio Motta alcune testimonianze di intellettuali pugliesi che con Sciascia hanno avuto a che fare o che lo hanno intervistato. Raffaele Nigro su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Marzo 2021. Rinnova la sua amicizia e il ricordo per Leonardo Sciascia nel suo centenario della nascita, Antonio Motta, un intellettuale che non ha mai smesso di progettare studi e indagini sulla cultura del Gargano e che allo scrittore siciliano ha dedicato un fondo che fa di San Marco in Lamis non solo un ponderoso archivio della letteratura del Novecento ma che di Sciascia conserva ogni traccia creativa documentale e critica. Dopo aver provato a mettere in piedi a Rodi Garganico un premio dedicato a Giuseppe Cassieri, mi sorprende con un libro edito dalla Progedit di Gino Dato che ha per titolo Nella crepa di un muro. Sciascia, Moro e la Puglia. Un libro che mette insieme quindici testimonianze di intellettuali pugliesi che con Sciascia hanno avuto a che fare o che lo hanno intervistato per qualche circostanza sul tema dei rapporti con la Puglia. Tra gli interventi di molti anni orsono, il più antico mi pare un ricordo di Vittore Fiore, il nostro dimenticato meridionalista. Era il 1955 quando Vito, allora giovane poeta, fece visita a Vito Laterza: ”gettai sul suo tavolo ‘Nuovi Argomenti’ con queste parole di sfida: leggi, questo è il racconto. L’autore si chiama così e così, è un poeta. Anzi, sai che ti dico? Fra due ore, nel salone soprastante il teatro Petruzzelli, leggeremo le sue poesie. Se la cosa ti va, vieni che te lo presento”. Quando Vittore, con un leggero ritardo, arrivò a teatro, vide in un angolo che Laterza e Sciascia confabulavano. Un anno più tardi usciva per i tipi dell’editrice barese le Parrocchie di Regalpetra, con dedica a Vittore e Tommaso Fiore. La storia vera - La faccenda era andata così. Italo Calvino aveva indirizzato all’editore Carocci che pubblicava “Nuovi Argomenti”, un racconto di un giovane maestro siciliano, Leonardo Sciascia, Cronache scolastiche. Il libretto uscì dopo altri tre romanzi di giovani scrittori italiani, uno di Pasolini, uno di Angelo Romanò e un terzo di Roberto Roversi. Fiore aveva invitato Sciascia a presentare il libretto al Petruzzelli di Bari e nella circostanza, Laterza concordò l’edizione di un volume più corposo nella collana “I libri del tempo”, dove avevano trovato asilo Scotellaro, Giovanni Russo e lo stesso Tommaso Fiore. Passò qualche tempo e Sciascia lasciò l’Einaudi e Vittorini con cui era in predicato l’edizione delle Parrocchie e firmò il contratto con Laterza. ”Caro Dottor Laterza, Le restituisco firmata una copia del contratto – e La ringrazio moltissimo. In settimana le spedirò la prima parte delle cronache. Poiché i riferimenti a persone e a fatti sono in qualche modo evidenti, ho pensato di chiamare il paese ‘Regalpetra’ e il libro intitolarlo R come Regalpetra .- o soltanto Cronache regalpetresi. Lei che ne dice?”. Raffaele Crovi mi disse più tardi che Sciascia non aveva condiviso i tagli che gli aveva proposto Vittorini. Il libro vide la luce a Bari nella primavera del 1956. Un secondo momento importante per il rapporto tra Sciascia e la Puglia lo racconta Valter Vecellio e riguarda l’incontro tra Giuseppe Giacovazzo e lo scrittore siciliano. Allora responsabile delle pagine culturali de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, Giacovazzo invitò Sciascia a pubblicare per il quotidiano barese. Tra il gennaio e il settembre del 1962, Sciascia pubblicò 7 elzeviri. Poi Giacovazzo emigrò in Rai e tornò al quotidiano solo negli anni ’80 come direttore. Questa volta Sciascia decise di collaborare con un articolo alla settimana, dal 7 giugno 1981 al 23 maggio 1982, come “L’angolo di Sciascia”. Grazie a Giacovazzo Leonardo Sciascia ebbe l’opportunità di sapere molte cose del carattere di Aldo Moro. E L’affaire Moro ebbe un profondo aiuto grazie a quell’amicizia. Sciascia accettò l’invito di Giacovazzo a trattenersi nel trullo della valle d’Itria. “Con Sciascia abbiamo parlato a lungo di Moro nella primavera del 1981, a Locorotondo, in Puglia - ricorderà lo stesso Giacovazzo- Dai miei trulli al ristorante ‘Casa mia’ sono appena cinquanta passi. Là ci aspettava Vincenzo, il Cagliostro della gastronomia pugliese. Più si accaniva a fargli domande,più si esaltava a portargli leccornie”. Sciascia si meravigliava come padre Sorge e Pietro Scoppola non avessero riconosciuto l’autenticità delle lettere che Moro scriveva dalla prigionia. Perché l’umanità di quell’uomo che per Leonardo era morto “con dignità e da eroe” era sconosciuta a tutti. Amicizie e incontri - Un terzo elemento che tocca la figura di Sciascia è l’amicizia con Gianfranco Dioguardi. Il razionalista pugliese che si è occupato della mente barocca ha avuto lo scrittore siciliano come direttore della collana nella quale ha pubblicato Un avventuriero nella Napoli del Settecento, quindi il Gioco del caso e il Viaggio nella mente barocca. Balthasar Gracian ovvero le astuzie dell’astuzia. “I nostri incontri avvenivano generalmente a Roma o a Milano, qualche volta a Bari, dove venne a trovarmi anche per appagare la sua curiosità riguardo alla festa di San Nicola. Girammo molto, quella volta, tra la folla festosa, commentando eventi che a lui ricordavano le sagre popolari delle sue terre”. Ma altri incontri interessanti sono quelli avvenuti tra Sciascia e Nico Perrone, che gli fu vicino nel momento in cui i suoi interventi sulla vicenda dell’omicidio di Enrico Mattei gli recarono non pochi contrasti. E infine l’incontro dello scrittore con la poesia e la narrativa di Tommaso Di Ciaula. Era il 1970, ricorda Enrica Simonetti, quando Sciascia parlò sul “Corriere della sera” della raccolta di versi Chiodi e rose del poeta operaio di Bari. “Una poesia, disse Sciascia, che ha radici contadine, quelle immagini, che ancora istituisce con il mondo un rapporto magico”. 

Leonardo Sciascia. Cento anni fa la nascita di Sciascia, Lui e il cinema, quel grande amore ricambiato da registi e attori eccellenti. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 7 gennaio 2021. Buio in sala, schermo acceso. In una sorta di retrospettiva virtuale scorrono i titoli dei film legati a Leonardo Sciascia. Legame a doppio binario: da un lato il grande schermo ha tratto ispirazione da alcuni romanzi o racconti dello scrittore di Racalmuto, dall’altra la passione di Sciascia per il cinema coltivata sin da ragazzo. Una storia questa che somiglia a certe novelle antiche raccontate nelle sere d’inverno ai bambini prima del bacio della buonanotte. “Tra le grandi innovazioni che nel 1929 travolsero la piccola Racalmuto, il cinema colpì Leonardo Sciascia più di tutte, segnando l’inizio di una grande passione che, accesa dalle prime proiezioni racalmutesi, trovò poi espressione più compiuta nel periodo di formazione a Caltanissetta […] tanto più che lo scrittore nel piccolo cinema di Racalmuto godeva di un posto d’eccezione: suo zio era infatti l’addetto alla gestione dello stabile e Leonardo Sciascia, ancora bambino, otteneva così di sedere sempre nel “palco del podestà”, postazione che abbandonava solo per sgattaiolare nell’attigua sala di proiezione, dove si divertiva a esaminare le pellicole e a ritagliarne i fotogrammi per collezionarli”. A ricostruire l’incontro tra il cinema e lo scrittore ancora ragazzino figura, ad esempio, Gina Bellomo sul magazine online Il Chiasmo, Treccani. Ma, traccia viva e palpitante si trova anche in “Fatti diversi di storia letteraria e civile” la raccolta di ventitré saggi che Sciascia, pubblica nel 1989 con Sellerio poco prima di morire. Uno si intitola “C’era una volta il cinema”. Non un caso, dunque, la commozione con cui – si racconta – lo scrittore siciliano assistette a Milano ad una proiezione di “Nuovo Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore. Pellicole, cinema, celluloide e film. Registi come Elio Petri, Damiano Damiani, Gianni Amelio, Francesco Rosi sono stati ispirati dalle pagine scritte da Sciascia. Nel cartellone figurano: “A ciascuno il suo” di Petri, “Un caso di coscienza” di Grimaldi, “Il consiglio d’Egitto” di Greco, “Il giorno della civetta” di Damiani, “Porte aperte” di Amelio, “Una storia semplice” di Greco, “Todo modo” di Petri con le musiche di Morricone. E ancora “Cadaveri eccellenti” di Rosi. Difficile raccontarli tutti. Si può provare a riproporne tre, immaginando di essere in un cinematografo. Magari in Sicilia! “A ciascuno il suo” del 1967 è il primo dei film tratti dalle opere di Sciascia firmato dal regista Elio Petri. Sceneggiatura a quattro mani con Ugo Pirro. Le musiche sono dell’argentino Luis Bacalov. Il cast è da palmarès, a cominciare da Gian Maria Volonté (Paolo Laurana) e Irene Papas (Luisa Roscio). In un paese siciliano vengono uccisi due uomini: il farmacista Manno e il dottor Roscio. Le indagini seguono la pista del delitto d’onore. Paolo Laurana, un professore di liceo, giunge invece ad altre conclusioni. “Soltanto un professorino, Paolo Laurana, un po’ astratto, un po’ nevrotico, un po’ curioso, vuole vederci chiaro, andare sino in fondo. Crede di essere un crociato, un pioniere della verità, ma al primo incontro con la vedova Roscio, è già dentro nella trappola[…] ”, scriverà Alberto Pesce,  Cineproposte, La Scala, 1978.  Tante le curiosità e le discussioni intorno alla pellicola. Qualche anno fa fece parlare anche un inedito carteggio tra Sciascia e Petri. Lo scambio epistolare conservato nell’Archivio della Bibliomediateca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, è pubblicato – riferì l’Adnkronos il 4 febbraio del 2016 – a cura di Gabriele Rigola dell’Università di Torino sulla rivista internazionale di studi sciasciani “Todomodo” (Olschki editore). “Ho fiducia che farai un buon film, ma sarà in ogni caso, un film che non avrà niente a che fare col racconto.  […] ”, scriveva Sciascia l’8 settembre 1966 a Petri che stava per iniziare  le riprese del film. “Il giorno della civetta”, non può mancare nella nostra retrospettiva il film del 1968 diretto da Damiano Damiani. Sicilia, 1961, l’ufficiale dei carabinieri Bellodi, parmense ed ex partigiano, in servizio in un piccolo paese, si trova ad indagare sull’omicidio di Salvatore Colasberna… La pellicola girata a Partinico e a Palermo contava tra l’altro su un cast di prim’ordine: Franco Nero, Claudia Cardinale, Lee J. Cobb, Serge Reggiani e Nehemiah Persoff. “Si era deciso di filmare Il giorno della civetta e partii per Palermo per conoscere Leonardo Sciascia. Non avevo idea di come potesse essere, non era allora un uomo fotografato. Poteva essere alto e sicuro, oppure grassoccio e ciarliero. Venne avanti invece un uomo minuto, gentile, silenzioso, profondamente civile. Che cosa rimpiango oggi? Di non aver mandato a buon fine il desiderio che subito mi fece nascere di conoscerlo più a fondo, come persona, trascinato via subito dal trambusto cinematografico. Lo rividi altre volte, ma avrebbero dovuto essere di più […] ” commenterà Damiani ricordando quell’incontro. E c’è ancora Volonté nel cast di “Porte aperte”  di  Gianni Amelio  del  1990 con Ennio Fantastichini e  Renato Carpentieri. Nella  Palermo  degli  anni Trenta, Volonté interpreta il ruolo  del giudice Vito Di Francesco. Visi, storie, parole, personaggi, colonne sonore … È un attimo: le luci in sala si accendono, lo schermo si spegne. Non il ricordo dello scrittore di Racalmuto.

100 anni fa nasceva Leonardo Sciacia, il maestro venuto dalla luna. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 5 Gennaio 2021. Otto gennaio 1921, Racalmuto, Agrigento. 100 anni fa, Leonardo Sciascia apparve sulla terra, in un luogo senza sbocchi sul mare, e lui un bagno non lo fece mai, restò spalle al Mediterraneo, isolato in un deserto lunare. Ed è sulla luna che immediatamente andò a vivere, lontanissimo dalla Terra eppure con la possibilità originale di scrutarne ogni suo angolo. Questa sua fortuna e sfortuna geografica lo ha reso unico, rende ancora adesso speciale e insuperata la sua voce: lui non scrive, dalle sue opere sorgono parole che appaiono malferme, azzoppate da un accento siciliano che è magia, parole semplici che sembrano dover durare la frazione del secondo e diventano cammino infinito attraverso una umanità in travaglio. È un maestro elementare che evoca, che sa di parlare a un popolo bambino, popolo che prende dalla classe quinta e lo accompagna alla classe quarta, e ancora indietro in un curioso caso di Benjamin Button. Sciascia comprende subito che una lettura utile del mondo non passa attraverso le profezie, le intuizioni su ciò che avverrà, che Orwell sarebbe morto prima dell’84. Il mondo torna indietro a causa di un futuro arcaico, che già è passato, la rivoluzione sta tutta dentro una lingua, quella meridionale, che non conosce il futuro nei verbi: il siciliano, come il calabrese, non possono essere declinati al futuro, hanno verbi solo al presente, soprattutto al passato. Sciascia ci spiega il mondo da una prospettiva aliena, utilizzando l’intuizione lessicale del siciliano, la sua verità diventa inoppugnabile perché ha visto tutto ciò che accadrà, perché tutto già è avvenuto nella sua visione distante, sovrumana. Lui non può sbagliare perché non deve vaticinare, solo raccontare quello che ha già visto, è avvenuto. E lui che un bagno non lo ha mai fatto è il figlio perfetto del mare, il frutto di una cultura che è arrivata da lì: è Xaxa prima che Sciascia e non può vedersi altro se non arabo, in cresta a uno tsunami biblico e coranico che ha spostato le palme fino al polo nord. Nasce figlio unico perché certe stagioni sono ripetibili solo se torni a frequentarle e non se ne cerchi di nuove: non puoi pensare di ritrovarti alunno di Vitaliano Brancati nel futuro, di essere notato e recensito da Pasolini e Calvino, di sederti accanto a Pannella, stare su una sedia insieme a Bufalino e Consolo o dare avvertimenti a Borsellino e Falcone. Devi saperlo come si appicciano i lumi per accendere una lampadina nuova. E tutto, forse, sta tornando indietro perché non ci sono più i maestri elementari, gli esseri alieni che con parole semplici, malferme, cariche di inflessioni dialettali, siano in grado di sporcarsi nel male che sorge in un deserto e appartiene al mondo. È la convinzione che il centro sia il centro del mondo che è sbagliata, è lo sguardo fisso nel futuro che acceca, priva di prospettive, di capacità di comprensione. Sciascia dimostra ancora che dall’angolo si possa vedere tutto, che si può stare dentro l’acqua vivendo tutta la vita nel cuore del deserto. Si stanno spendendo parole e parole e pagine e pagine sui 100 anni di Sciascia. Le migliori, per chi ha avuto la fortuna di vederlo in anteprima, sono quelle contenute nel documentario di Marco Ciriello, che SkyArte manderà in onda l’8 gennaio alle 21,15; perché sono le parole di Sciascia stesso, che escono dalle bocche di Emanuele Macaluso, di Marcelle Padovani, di Fulvio Abbate, di Emma Bonino, di Giuseppe Ayala. È lo sguardo di uno scrittore alieno che si fa regista, pervicacemente fermo sulla luna, allunga ancora lo sguardo della telecamera sulla terra, fa discendere la propria parlata fra gli uomini e tiene acceso un lume che aspetta un passaggio di testimone di cui non si avvertono i passi.

Sciascia politico: l’intellettuale che odiava il potere. Filippo La Porta su Il Riformista il 29 Novembre 2020. In un convegno romano, “Sciascia primo, ultimo e postumo” (undicesimo Colloquium, curato da Franco Contorbia e dagli Amici di Sciascia), si è tra l’altro discusso “dell’itinerario politico” dello scrittore, testimoniato dal suo impegno politico diretto, ma anche dalla tensione ideale che anima tutti i suoi libri. Da una parte quell’impegno si è tradotto in alcune esperienze concrete (dal 1975 al 1983: schierato con il fronte del referendum sul divorzio, poi indipendente nella lista del Pci alle elezioni comunali palermitane, infine deputato radicale al Parlamento) e dall’altra percorre l’intera sua opera – narrativa, saggistica, giornalistica -, e si potrebbe riassumere in una continua, inesausta meditazione sul potere, sorretta dall’idea che tra potere e verità vi sia incompatibilità. Il potere vuole solo una cosa: autoconservarsi, con ogni mezzo. L’unica verità che gli interessa è una verità efficace, utile a tale fine (non si tratta tanto di un giudizio moralistico quanto di una realistica presa d’atto). Nella radicalità di questa formulazione Leonardo appartiene alla grande famiglia novecentesca degli intellettuali eretici del ‘900, a prevalente formazione libertaria, quella che comprende Simone Weil (per la quale i partiti hanno tutti una segreta vocazione totalitaria), Camus (si veda la polemica con Sartre a proposito della verità sull’Urss), Chiaromonte e Orwell (di cui scrisse uno splendido necrologio), fino a Pasolini (con cui Sciascia ebbe a fraternizzare in modo particolare). Il ritratto che fa di Moro (nell’Affaire Moro), un ritratto pure intriso di dolorosa pietas, è degno del suo Manzoni: «Preda della più antica stanchezza, della più profonda noia», dove perfino l’ironia era appannata da quella stanchezza e da quella noia; e soprattutto Moro aveva maturato una conoscenza «tutta in negativo» della natura umana. Viene in mente il famigerato aforisma andreottiano: «A pensare male degli altri si fa peccato, ma ci si coglie». Ora, mi chiedo, una antropologia di questo tipo non è la esatta negazione della politica? Non è l’essenza dell’antipolitica? La politica infatti, oltre ad essere una tecnica per la conquista e gestione del potere, si definisce come arte di creare amicizia, o almeno così la intendevano Aristotele e Cicerone. Per Aristotele l’amicizia serve a «tenere unite le città», mentre per Cicerone deve essere il fondamento della civiltà che rinascerà dopo la guerra civile, poiché la benevolenza genera società. L’amicizia, sottolineava Hannah Arendt, è un fatto politico, non privato: collaborazione, fiducia e lealtà, rispetto reciproco, relazione amichevole tra le persone sono alla base del legame sociale (non la diffidenza reciproca e il pensar male!). Ripassiamo ora velocemente i suoi rapporti con le due grandi “chiese” simmetriche della nostra politica, il Pci e la Dc. Emanuele Macaluso ci ha ricordato recentemente che Sciascia non aderì mai al Pci pur votando il partito che difendeva la povera gente, i minatori e i contadini. È nota la sua battuta: «Non c’è che la sinistra per fare una buona politica di destra»(nella intervista di Nico Perrone che uscì su il manifesto nel 1978, in seguito libretto Archinto, in versione integrale, 2015). Quale destra ha in mente? Direi soprattutto la Destra storica liberale e laica, quella del pareggio di bilancio, del senso dello stato, quella del rigore e del buon governo, che precede il trasformismo della Sinistra di Depretis. Quando si presentò alle elezioni siciliane lanciò la proposta del “buon governo a Palermo”. Poi, eletto, si dimette nel marzo del 1977, fortemente deluso dal compromesso storico. Da allora i rapporti di Sciascia con il Pci peggiorarono fino alla rottura. E fino alla candidatura nel 1979 nella lista di Pannella, e all’impegno in Parlamento che si conclude nel 1983. Anche nella sua narrativa, dal Contesto a Candido, lo scrittore prende sempre più di mira il Pci, le sue “ambiguità” e i suoi “giochi delle parti”, il suo spirito chiesastico e il suo dogmatismo – la sua indifferenza alla verità, cui sempre sarà da preferire la ragion di partito – e testimonia un avvicinamento alla tradizione libertaria. Per quanto riguarda la Dc, Sciascia si sofferma, nella intervista, e con toni insolitamente severi, sul cinismo di Andreotti: «Devo dire che Andreotti non mi piace. Non mi è mai piaciuto. Non credo nemmeno che sia l’uomo di grande intelligenza celebrato anche dai comunisti». Non dobbiamo qui processare nessun uomo politico, ma certo la durezza del giudizio di Sciascia colpisce perché va radicalmente contro alcune mitologie dell’epoca. L’itinerario politico di Sciascia si traduce in una critica della politica, o meglio di una politica esclusivamente machiavellica che, nel bene e nel male, ha come modello fondamentale la guerra, e nell’immaginare una politica ridefinita, basata sulla verità (senza la quale si possono anche raggiungere dei risultati pratici ma non c’è democrazia, come leggiamo nel Gorgia di Platone) e sulla amicizia (fonte di pace e di giustizia). A ben vedere una visione che lo avvicina alla migliore tradizione terzaforzista, a quel luminoso pamphlet che scrisse Bobbio nell’ultima fase, Elogio della mitezza, assumendo la mitezza come virtù sociale.

La lezione di Sciascia: la Giustizia senza pietà è maschera di vendetta. Filippo La Porta su Il Riformista il 30 Settembre 2020. Parafrasando Orwell a proposito dei santi si potrebbe dire che tutti i giudici sono colpevoli, fino a prova contraria. Per la ragione che si trovano a disporre di un potere “terribile”(Montesquieu), che li eleva – realmente ma anche illusoriamente – al di sopra di tutti gli altri uomini. E, come ha detto Sciascia, un giudice dovrebbe non tanto “godere” il potere che ha quanto “soffrirlo”. Proprio a Sciascia e alla giustizia è dedicato un ciclo di incontri, le “Lezioni Bordin”(in memoria del giornalista radicale), inaugurato qualche giorno fa a Bari e destinato a protrarsi in altre città, organizzato dall’Associazione Amici di Sciascia e dalla Unione Camere Penali Italiane, in collaborazione con l’editore Olschki e Radio Radicale. A Bari tra l’altro Sciascia esordì con Le parrocchie di Regalpetra, pubblicato da Laterza nel 1956. Sono intervenuti nella sala del Consiglio Regionale avvocati, docenti e storici del diritto, giornalisti, amministratori, etc., con la convinzione che la giustizia non è uno dei temi di Sciascia, ma il “suo” tema, così come il tema – poniamo – di Pasolini è stato il genocidio culturale (conseguenza della nostra convulsa modernizzazione) e il tema di Elsa Morante lo scandalo della Storia di fronte agli innocenti, alle vittime anonime. Sciascia ha affrontato questo tema come romanziere, come saggista, come direttore editoriale (diresse una collana Sellerio a ciò rivolta), come opinionista ed editorialista. Mi limito a citare Il contesto, che secondo il critico Claude Ambroise svela la struttura fondamentalmente inquisitoriale della giustizia (il giudice interroga non per accertare la verità ma per dimostrare una colpevolezza), e poi tutti gli ultimi titoli, La strega e il capitano (dedicato al Manzoni civile della Storia della colonna infame), 1912+1 (con una tirata contro le perizie), Fatti diversi di storia letteraria e civile, A porte aperte (sulla pena di morte), fino a gli articoli raccolti in A futura memoria, che uscì l’anno della sua morte, nel 1989. Per capire la posizione di Sciascia potrebbe essere utile un riferimento al tema della giustizia nella Divina Commedia. Lo scrittore non si è mai occupato esplicitamente di Dante, se non in alcuni articoli usciti su “l’Ora” di Palermo nel 1965, poi qui e là, nella conversazione con Borges del 1982, e in altri rari passi, però l’orizzonte dantesco non sembra del tutto estraneo alla sua riflessione. Com’è noto dall’Inferno al Purgatorio il passaggio è dall’etica aristotelica, del mondo pagano, per la quale il valore più alto è la giustizia, e l’etica cristiana, che invece assegna un primato all’amore. Nel Paradiso poi leggiamo che per l’imperatore legislatore Giustiniano, la giustizia – rappresentata con l’aquila imperiale – si trova ad essere intrecciata con la vendetta, in un modo inquietante: «Ché la viva giustizia che mi spira, / li concedette, in mano a quel ch’i dico, / gloria di far vendetta a la sua ira». La giustizia si fonda su una proporzionalità (bilancia, razionalità), l’amore – almeno inteso in senso cristiano – su una dismisura (gratuità, paradosso). E anche perciò l’amore cristiano dovette apparire a Luciano di Samosata, raffinato filosofo ellenistico – caro a Sciascia – , una incomprensibile follia. Nel regno della giustizia troviamo criteri ragionevolmente proporzionali, equivalenze, diritti, pene e compensazioni, procedure. La legge del contrappasso – corrispondenza tra pena e colpa per contrasto o somiglianza – richiama in qualche modo la legge del taglione , e nella sua astratta, “loica” razionalità ha qualcosa di inesorabile. Nel regno dell’amore abita invece la misericordia, che implica una “esagerazione”, o, nelle parole di papa Francesco, «un inaudito straripamento». I due termini – giustizia e amore – restano in Dante non del tutto conciliati tra loro, e certamente la giustizia divina, che a volte punisce chi in Terra aveva pur agito bene, avrà sempre per noi qualcosa di misterioso, di insondabile (anche perciò un giudice è sempre tentato da una hybris direi professionale).  Torniamo a Sciascia. Cose come l’amore, il perdono o la carità cristiana non possono essere formalizzate, né inserite in un master specialistico per diventare magistrati, ma Sciascia, che era uno spirito laico, benché più pascaliano e giansenista che volterriano (si autodefiniva “un ateo incoerente” e leggeva ogni giorno i Vangeli accanto ai suoi illuministi), sa che qualsiasi giustizia terrena, non trattenuta dalla pietà, è solo una maschera della vendetta. E soprattutto deve essere amministrata non solo con equilibrio e prudenza, ma soprattutto con una capacità di empatia (in una lettera a Pertini propose di far trascorrere a ogni futuro giudice tre giorni dentro un carcere!), con un senso del tragico della condizione umana, con la consapevolezza che la verità è sempre pirandellianamente sfaccettata, e che mettere paura a un essere umano – solitario, inerme – è la cosa peggiore che si possa fare. Probabilmente quel senso del tragico, quella empatia e quella consapevolezza possono essere acquisiti solo attraverso una assidua frequentazione della letteratura.

Leonardo Sciascia, l’eretico etico. Filippo La Porta su Il Riformista il 19 Novembre 2019. Nell’opera di Leonardo Sciascia è impossibile separare la letteratura dall’impegno, la scrittura dalle battaglie civili (perciò sbaglia Citati a respingerne l’ultima parte in quanto “politica”: anche le Parrocchie di Regalpetra – 1956 – sono “politiche”!). Per una semplice ragione: l’impegno è sempre impegno verso la verità – oltre ogni ideologia e perfino oltre ogni “eresia”, come il suo Candido – , e la letteratura è “figlia della verità”. Il suo stile – conciso, nitido, di sobria eleganza (ispirato a Manzoni, Stendhal, alla prosa d’arte e a Brancati) – è segretamente intessuto di barocco siciliano, benché si tratti di un barocco trattenuto, inesploso. Geometriche puntigliosità, digressioni, parentesi dentro parentesi, ellissi. Ed è un barocco diverso da quello, poniamo, di Manganelli, dove l’alchimia delle parole e il gioco estenuato della lingua servono a esorcizzare la morte, il nulla. No, Sciascia la morte intende guardarla in faccia, con serietà e compostezza, come il commissario Vice, protagonista del suo penultimo libro, Il cavaliere e la morte. In ciò vicino ai suoi scrittori spagnoli, ad esempio a Machado per il quale il colpo secco della bara che scende nella fossa è qualcosa di «maledettamente serio». È vero quello che ha detto il suo principale e simpatetico studioso, Claude Ambroise: i suoi personaggi si progettano tutti come uomini in rivolta, dal capitano Bellodi del Giorno della civetta all’avvocato Di Blasi del (meraviglioso) Consiglio d’Egitto, dall’ispettore Rogas del Contesto fino allo stesso Moro in carcere, e tutti verranno ammazzati. In rivolta contro che? Contro il potere, che proprio sulla morte – limite oscuro dell’esistenza, destino inappellabile – costruisce il suo spaventevole edificio di bugie e soprusi. Il giudice, l’inquisitore, il boss mafioso, in fondo dando la morte si illudono di starne al di sopra, come il “tiranno” di cui parla Elias Canetti. Si credono immortali e vivono dentro la irrealtà, mentre Sciascia vuole restare fedele alla realtà, enigmatica, limitata eppure mai risolta. Di qui affiora un carattere di misteriosa incompiutezza della sua opera, rifinita ma inafferrabile. La contraddizione – che è parte costitutiva della realtà – non viene mai risolta, come invece nei labirinti ingegnosi e senza minotauro dell’estetizzante Borges (da lui amato). L’intera, multiforme produzione di Sciascia mi sembra cioè, come quella di Pasolini, felicemente esposta a un semifallimento. Gialli senza soluzione, romanzi spaesanti e metafisici travestiti da thriller, riscritture imperfette di classici, parodie spesso incomprese, pamphlet solitari e battaglie perdute. Libri di artigianale perfezione, lavorati all’estremo, ma anche aperti all’inconcluso della esperienza. Lo scrittore insegue la verità – ambigua, prismatica, cangiante – delle cose con piglio ostinato e illuministico. Un erede di Voltaire che ha letto Pirandello. Anche per questa ragione a me sembra che il genere letterario che più corrisponde alla vocazione di Sciascia sia quello del personal essay di Montaigne, autore da lui prediletto, un genere digressivo, antisistematico e divagante che schiude la modernità, e che – a ben vedere – troviamo al centro della tradizione italiana cinquecentesca, sia pure in una forma carsica, più nascosta, a partire da Machiavelli e dai Dialoghi di Tasso. Una volta parlando di Savinio, illustre esponente del genere, Sciascia evoca Guicciardini, cui Savinio somiglierebbe anche fisicamente, e che anticipa di qualche decennio lo stesso Montaigne con i suoi aforismi morali e politici. Nei Ricordi (ammonimenti) Guicciardini osserva che «è grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente assolutamente… perché quasi tutte hanno distinzione ed eccezione per la varietà delle circostanze». Ecco: lo stile di Sciascia sempre aderisce fedelmente alla varietà delle circostanze, alla unicità degli eventi, alla irripetibilità dell’esperienza del singolo.  Una volta ebbe a dire: «Credo di essere saggista nel romanzo e narratore nel saggio». Ma anche solo quella sua frase dimostra un primato del personal essay, poiché un saggio che comprende la narrazione è appunto il saggio moderno e “dilettantesco” di Montaigne, da lui travasato in libri popolari e di grande affabilità comunicativa. Benché amasse romanzi-fiume come il Chisciotte e Anna Karenina Sciascia optava personalmente per la “brevitas”, per una asciuttezza scandita tuttavia da pause interne, da uno sciame di chiose, digressioni e postille. E di ciò si sostanzia il suo illuminismo insulare, la sua alterità “saracena”, sorprendentemente capace di parlare a tutti, senza rimuovere il tragico e senza banalizzare il mistero.

Il paradosso di Sciascia: denunciò i professionisti dell’antimafia e gli diedero del mafioso. Valter Vecellio su Il Riformista il 19 Novembre 2019. Ricordare Leonardo Sciascia a trent’anni dalla morte… non è facile, non è semplice. Un modo, forse ne sarebbe contento, potrebbe essere l’invito del ministro dell’Istruzione Pubblica a tutte le scuole, agli studenti, ai professori, di dedicare qualche ora per leggere un paio di pagine tra i tanti libri che ci ha lasciato. Credo proprio che gli farebbe piacere. Per lui un efficace impegno anti-mafia era magari una marcia in meno, ma leggere un libro di più. Un antidoto simile a quello suggerito dal grande amico Gesualdo Bufalino: «Per combattere Cosa Nostra più maestri di scuola». La cultura, insomma. Contro la mafia, l’ignoranza, il cretino.  Sciascia: poco dopo l’alba del 20 settembre, stanco, logorato da una malattia che non ha rimedio, finisce di soffrire. Un soffio; china la testa di lato. La lunga agonia finisce. Come parlarne, senza scadere nel cliché? Qualche sua pagina, appunto, sulla sua “ossessione”: la giustizia, su come viene amministrata. Per un libretto scritto con Raffaele Genah, Storie di ordinaria ingiustizia, gli chiedo un paio di cartelle da utilizzare come prefazione. Si viene afferrati da un senso di avvilimento, nel constatare quanto siano attuali. Scrive dell’errore giudiziario, e raccomanda di tener sempre a mente il monito di Manzoni: «…quasi sempre si tratta di “errori” ben visibili ed evitabili; e in particolare visibili ed evitabili proprio da parte di chi li commette: “trasgredir” le regole ammesse anche da loro…se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa…». Per dare spiegazione di come l’amministrazione della giustizia sia quella che è, spiega che «deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto a estrovertirlo, a esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano l’arbitrio. Quando i giudici godono il loro potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto…». Un’altra citazione viene in soccorso da Una storia semplice, l’ultimo libro, scritto con grande fatica, straordinariamente lucido. Un vecchio professore è interrogato dal suo ex alunno, diventato magistrato inquirente. «Posso permettermi di farle una domanda?… Poi ne farò altre, di altra natura…», dice ammiccante il magistrato. «Mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Una volta mi ha dato cinque: perché?». «Perché aveva copiato da un autore più intelligente», risponde il professore. Il magistrato scoppia a ridere: «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…». Il professore fulminante: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare. Con meno italiano, lei sarebbe ancora più in alto». Può bastare per comprendere l’amara, radicale, “visione” di Sciascia non tanto della giustizia, quanto di come (e da chi) viene amministrata.  Sul capo di Sciascia, in vita (ma anche dopo), si rovesciano una quantità di insulti. È una parzialissima, antologia di meschinità quella che segue: «Codardo»… «Sprazzi di autentica balordaggine»… «Amara e inutile vecchiaia»…«Lancia avvertimenti mafiosi»… «Precipitato al livello di un terrorismo piccolo-borghese»… «Travolto dagli anni e da antichi livori»… «Stregato dalla mafia»… «La sua funzione è esaurita»… «Non ci serve più»… «Fa l’apologia della mafia… «Iena dattilografa»…«Trozkista»… «Quaquaraquà»… Ascolto, ma soprattutto osservo Emanuele Macaluso, da sempre amico di Sciascia. Gli ricordo che qualcuno ha detto che Il giorno della civetta è un libro che esalta la mafia. «Questa sciocchezza che purtroppo è stata detta da un parlamentare… della sinistra – sillaba Macaluso – è la stupidità più clamorosa che ho sentito su Leonardo. Quel libro fu il primo che fece capire cos’è la mafia: non una delinquenza comune, ma personaggi che avevano anche un rapporto politico con la politica, ma anche con la gente: la Grande Mafia, la mafia-mafia che ha contato, aveva un rapporto politico con il potere, ma anche con la popolazione: si prestava a risolvere i problemi, una specie di tribunale per le questioni… altrimenti non era mafia, era delinquenza…Per la prima volta Sciascia fa capire che cos’è la mafia: con un carattere, una storia…Perché altrimenti non si capisce perché la mafia c’è da più di cento anni, e si discute ancora del suo potere». Mafiologi ai quattro formaggi non sanno (non vogliono) cogliere l’essenza di quel romanzo: il “metodo” che anni dopo adottano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Boris Giuliano e i tanti caduti nella lotta alla mafia. Il capitano Bellodi, a un certo punto si rende conto che il capomafia, grazie alle protezioni politiche, gli sta per scappare di mano; ha la tentazione di far uso di quei metodi al di sopra e al di là della legge del prefetto Cesare Mori, negli anni della dittatura fascista. Tentazione/illusione che subito rigetta, perché non bisogna uscire mai dai binari della legge, del diritto; sempre e comunque.  Piuttosto «…bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena, e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende: revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze, o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…». Questo è il romanzo che «fa piacere alla mafia e la esalta». Questo il destinatario del sanguinoso insulto «quaquaraquà», quando pubblica sul Corriere della Sera del 10 gennaio 1987 l’articolo redazionalmente titolato “I professionisti dell’antimafia”. Tra i non molti, lo difende Tullio De Mauro, il celebre linguista, fratello di Mauro, il giornalista de L’Ora, atteso da sicari mafiosi sotto casa: rapito, neppure il corpo viene mai stato trovato. Racconta Tullio: «I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fatto folcloristico siciliano. Sciascia si è sempre esposto in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 con la scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in un’altra serie innumerevole di circostanze…».  Mi confida Macaluso: «Una cosa ignobile. Una cosa vergognosa e ignobile del cosiddetto Comitato Antimafia di Palermo, dove c’erano alcuni personaggi che non voglio ricordare…Sciascia aveva espresso un’opinione che non coinvolgeva tanto – era solo un esempio – Borsellino, quanto un metodo di affrontare la questione delle carriere…quando Leonardo individuò in quei metodi del Csm dei limiti e delle storture, credo che avesse ragione: i fatti recenti ci dicono che quelle polemiche non erano campate in aria o strumentali, ma avevano un fondamento…». Non solo il Csm, e i suoi metodi di nomina. Francesco Forgione, ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, è autore di un libro, I Tragediatori. La fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti; utile, preziosa lettura, ricco com’è di fatti ed episodi che documentano come una parte dell’antimafia abbia fatto uso di un impegno di facciata per raggiungere ben altri. Per tornare a Sciascia: dopo aver consigliato la lettura di alcuni libri, presuntuoso, ne segnalo uno recentissimo, mio: Leonardo Sciascia, la politica, il coraggio della solitudine (Ponte Sisto editore). Scritto con l’obiettivo di ragionare su un aspetto che si tende – non a caso – a omettere, ignorare: il suo essere stato scrittore politico, immerso consapevolmente e totalmente nella realtà; il suo aver voluto sempre fare politica in senso etico. Il motivo per cui, pur deluso da precedenti esperienze, dopo aver rifiutato gli inviti a candidarsi nelle liste del Psi e del Pli, accetta di farlo in quelle del Partito Radicale: un partito a cui era sempre stato vicino, come Elio Vittorini, Ignazio Silone, Pier Paolo Pasolini. Ma a candidarsi non ci pensa proprio, ed è ben intenzionato a dire un cortese “No, grazie” a Pannella, volato a Palermo per convincerlo. Vecchia volpe, Pannella sa trovare la chiave giusta: «Non ti chiediamo di aderire al nostro programma. Siamo noi radicali che aderiamo al tuo». È fatta: accende l’ennesima sigaretta, con lo sguardo osserva le volute del fumo; infine, passa dal “Lei” al “Tu”: «Hai bussato perché sapevi che era già aperto».

Leonardo Sciascia difese il diritto ma fu diffamato: le sue battaglie garantiste sono ancora incomprese. Valter Vecellio su Il Riformista il 6 Gennaio 2021. Ovunque si trovi, par di vederlo, Leonardo Sciascia. Magari con attorno il gruppo di suoi amici: Gesualdo Bufalino, Bruno Caruso, Fabrizio Clerici, Vincenzo Consolo, Mario La Cava, Marco Pannella, Francesco Rosi, Roberto Roversi, Aldo Scimé, Elvira Sellerio, Enzo Tortora, Antonello Trombadori, Tono Zancanaro, gli altri del cenacolo romano da “Fortunato” al Pantheon, o alle gallerie d’arte di Palermo, o la libreria antiquaria “Palmaverde” di Bologna… la Benson & Hedges eternamente accesa e aspirata; e un sorriso misto indulgente e ironico…Accade che oggi di Sciascia parlino in tanti. Troppi. Quand’era in vita, in molti – e anche chi ora lo incensa – lo hanno ricoperto di insulti. C’è chi gli ha perfino dato del mafioso, per le sue coraggiose posizioni, rigorose e radicali, per la difesa del diritto e la giustizia giusta. Gli hanno perfino dato del quaquaraquà: l’ultima delle cinque categorie, la più infamante, con cui il mafioso Mariano Arena de Il giorno della civetta suddivide l’umanità. Sono arrivati a sostenere che quel romanzo esalta la Cosa nostra, che i mafiosi ne vengono celebrati, un po’ come negli ingenui romanzi di William Galt-Luigi Natoli. Emanuele Macaluso, storico dirigente del Pci, padre nobile della sinistra, da sempre amico ed estimatore di Sciascia, anche nelle polemiche che non sono mancate. Quando si parla di questo episodio, lo capisco dalle espressioni del viso, più ancora che dalle parole, ancora freme per l’indignazione, l’amarezza; un furore represso a fatica, il suo: «Questa sciocchezza che purtroppo è stata detta da un parlamentare… della sinistra; non ne voglio neppure fare il nome. È la stupidità più clamorosa che ho sentito su Leonardo. Quel libro fu il primo che fece capire cos’è la mafia: non una delinquenza comune, ma personaggi che avevano anche un rapporto politico con la politica, ma anche con la gente: la Grande Mafia, la mafia-mafia che ha contato, aveva un rapporto politico con il potere, ma anche con la popolazione: si prestava a risolvere i problemi, una specie di tribunale per le questioni… altrimenti non era mafia, era delinquenza…Per la prima volta Sciascia fa capire che cos’è la mafia: con un carattere, una storia…Perché altrimenti non si capisce perché la mafia c’è da più di cento anni, e si discute ancora del suo potere. I mafiologi ai quattro formaggi non sanno (non vogliono) cogliere l’essenza di quel romanzo: il “metodo” che anni dopo adottano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Boris Giuliano e i tanti caduti nella lotta alla mafia. Il capitano Bellodi, a un certo punto si rende conto che il capomafia, grazie alle protezioni politiche, gli sta per scappare di mano; ha la tentazione di far uso di quei metodi al di sopra e al di là della legge del prefetto Cesare Mori, negli anni della dittatura fascista. Tentazione/illusione che subito rigetta, perché non bisogna uscire mai dai binari della legge, del diritto; sempre e comunque. Piuttosto «…bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena, e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende: revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze, o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…». Questo è il romanzo che fa “piacere alla mafia e la esalta”. Questo il destinatario del sanguinoso insulto, “Quaquaraquà”, quando pubblica sul Corriere della Sera del 10 gennaio 1987 l’articolo redazionalmente titolato “I professionisti dell’antimafia”. Tra i non molti, lo difende Tullio De Mauro, il celebre linguista, fratello di Mauro, il giornalista de L’Ora, atteso da sicari mafiosi sotto casa: rapito, neppure il corpo viene mai stato trovato. Racconta Tullio: «I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fatto folcloristico siciliano. Sciascia si è sempre esposto in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 con la scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in un’altra serie innumerevole di circostanze…». Ancora Macaluso: «Una cosa ignobile. Una cosa vergognosa e ignobile del cosiddetto Comitato Antimafia di Palermo, dove c’erano alcuni personaggi che non voglio ricordare… Sciascia aveva espresso un’opinione che non coinvolgeva tanto – era solo un esempio – Borsellino, quanto un metodo di affrontare la questione delle carriere… quando Leonardo individuò in quei metodi del Csm dei limiti e delle storture, credo che avesse ragione: i fatti recenti ci dicono che quelle polemiche non erano campate in aria o strumentali, ma avevano un fondamento…». Non solo il CSM, e i suoi metodi di nomina. Francesco Forgione, ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, è autore di un libro, I Tragediatori. La fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti; utile, preziosa lettura, ricco com’è di fatti ed episodi che documentano come una parte dell’antimafia abbia fatto uso di un impegno di facciata per raggiungere ben altri, illeciti, scopi: «…Certo in una regione che dal 2001 al 2008 ha avuto un presidente condannato per mafia, l’antimafia è stata usata sia nelle lotte intestine interne ai partiti che per sostituire un blocco di potere a un altro…». Più recente, ma non meno istruttiva lettura, quella de Il sistema Montante dell’ex sindaco di Racalmuto Salvatore Petrotto (Bonfirraro editore). Libro curiosamente passato inosservato (pochissime le eccezioni). Come racconta il suo autore, si tratta di una “pentola maleodorante” su un sistema di potere il cui architrave era costituito «dall’ex presidente di Confindustria Sicilia e responsabile nazionale per la legalità di Confindustria Nazionale… Oggi risulta condannato a 14 anni di reclusione. Fino a qualche anno fa era ritenuto ed accreditato unanimemente un insostituibile ‘apostolo dell’antimafia’». Schivo, discreto, Sciascia incarna quel decoro e quell’eduzione che sono la cifra di un’Italia che si vorrebbe e che spesso non è. È nato cent’anni fa, a Racalmuto, un paese siciliano arroccato vicino ad Agrigento. Per tutta la vita la Sicilia, e quel paese gli rimangono nel cuore. Dice: «Incredibile è l’Italia; e bisogna andare in Sicilia, per constatare quanto lo sia». Ecco una sommaria antologia di “apprezzamenti” che patisce in vita (ma qualcuno anche da morto non ha mancato di dargli il calcio dell’asino): “Codardo”; ”Sprazzi di autentica balordaggine”; “Aspetto profondamente reazionario”; “Amara e inutile vecchiaia”; ”Lancia avvertimenti mafiosi”; ”Precipitato al livello di un terrorismo piccolo-borghese”; ”Penoso”; “Travolto dagli anni e da antichi livori”; ”Gravissimi furono i suoi silenzi”; ”Stregato dalla mafia”; ”La sua funzione è esaurita”; ”Non ciserve più”: ”Fa l’apologia della mafia”; ”Non è più capace di immaginare un uomo vero”; ”Il suo credo: vendo, ergo sum”; ”Sta finendo piuttosto male”; ”Disfattista”; ”Arrogante”; ”Si riduce in misere polemiche sulle Brigate Rosse e l’antimafia”; “Trozkista”, “Nei suoi romanzi, qualunquismo e codardia civile”; “Iena dattilografa”…

Sciascia: uno degli scrittori più colti e raffinati del secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Con i suoi romanzi, i suoi racconti, con i suoi interventi ha saputo raccontare l’Italia e gli italiani; al pari di autori giustamente considerati “classici”: Alessandro Manzoni, Luigi Pirandello, Federico De Roberto… Per aver saputo dire tante, indicibili, verità è stato (ed è) tanto amato e detestato. Con l’aiuto di chi lo ha frequentato e conosciuto si proverà a raccontare l’uomo e lo scrittore Sciascia: che, al pari dell’amato Georges Bernanos, preferisce perdere un lettore, piuttosto che ingannarlo…Stefano Villardo, classe 1922, amico di Sciascia da sempre. Per Sellerio ha pubblicato un paio di libri che “devono” figurare in una biblioteca che si rispetti: Tutti dicono Germania Germania; e A scuola con Leonardo Sciascia, una lunga conversazione con Antonio Motta. A quindici anni frequenta la prima classe dell’Istituto Magistrale a Caltanissetta. Gli occhi gli si illuminano, quando racconta di questa fantastica amicizia: «Tutto nasce da una bocciatura…Una fortunatissima bocciatura, grazie alla quale diventai compagno di scuola, di banco prima, e per il resto della vita poi, di Leonardo. Era un ragazzo timidissimo che non sapeva rispondere; forse non voleva rispondere alle domande dei professori. Però i suoi temi erano stupendi. Il professore, Giulio Granata, si incaponì, e sprecò la nottata intera per capire dove Leonardo poteva aver copiato il tema. La mattina dopo le parlò con il preside Luigi Monaco, era davvero un ottimo preside. Lo ascoltò paziente, e poi gli disse: è inutile che cerchi, è Leonardo che scrive così. Granata non se ne capacitava: ma se quando lo interrogo non risponde mai alle domande… E Monaco: non risponde per timidezza. Leonardo è la timidezza in persona. Poi si è sbloccato… Stiamo parlando di uno dei più grandi scrittori del Novecento, non solo italiani. La sua prosa mi ha sempre affascinato, uno stile limpido, chiaro, diretto, preciso, profondo. Chi legge i suoi libri non può non riflettere sulle cose essenziali della vita. Leonardo era un vero uomo: di fede di ingegno, di rispetto…». Maurilio Catalano è un pittore titolare della galleria “Arte al Borgo” di Palermo. È lì che Sciascia ama trascorrere pomeriggi a conversare con gli amici. «Un giorno Sciascia viene nella mia galleria; io non lo conosco, lui non conosce me. Si presenta: ‘Sono Leonardo Sciascia, vivo a Racalmuto, sono qui a Palermo per caso, e sono venuto a trovarvi…’. Mi dice che è a conoscenza della nostra passione per la grafica che lui condivideva. Cominciò da quel giorno a venirci a trovare: guardava curioso, discuteva con noi… È cominciata un’amicizia vera, che ogni giorno si suggellava grazie a una colla particolare, che non è in vendita: io lo ascoltavo e lui mi ascoltava, ci si studiava… ci siamo trovati… veniva alla Galleria, si prendeva un caffè, si parlava. Era sempre molto cordiale e disponibile. Non dico che desse confidenza, ma ascoltava, era curioso di tutto… era estremamente semplice. Lui per esempio, ai giovani voleva molto bene, però non dovevano essere cretini…Lui andava contro il cretino. Perché un cretino non è interessante, perché a un cretino, diceva, non puoi rubare nulla…». Matteo Collura, giornalista, scrittore, autore di un’importante biografia di Leonardo Sciascia, Il maestro di Regalpetra (La nave di Teseo), gli è stato molto amico: «Sciascia è stato uno scrittore anomalo nella storia della letteratura italiana. Appartiene a una tradizione più francese che italiana: un’idea di letteratura che di cui fanno parte Emile Zola e prima ancora Voltaire. Mi riferisco al famoso “J’accuse…!” di Zola, il titolo dell’editoriale su L’Aurore, per denunciare i persecutori del capitano ebreo Alfred Dreyfus, e le irregolarità e le illegalità commesse nel corso del processo-montatura che lo vide condannato per alto tradimento, uno dei più famosi “affaires” della storia francese; e anche il “Caso Calas”, una vicenda giudiziaria del XVIII secolo a Tolosa, diventato famoso per l’intervento di Voltaire… Sciascia è stato protagonista di uno di questi casi, con L’Affaire Moro, e si iscrive in questa categoria letteraria. Ecco: Sciascia forse andrebbe ricordato in una sorta di appendice della letteratura francese: un’appendice che ha dei nomi che brillano, ma che francesi non sono: Manzoni e Sciascia… Non era uno scrittore cattolico, ma era animato da spirito autenticamente cristiano. L’epigrafe che vedrei sulla sua tomba è: cristiano senza chiesa, socialista senza partito… Le racconto un aneddoto che dà la cifra della persona, un episodio che ho visto con i miei occhi; era venuto a Milano, mi aspettava nella hall dell’albergo. Quel pomeriggio, prima di me, erano arrivati i rappresentanti di una grande casa editrice, ormai si può anche fare il nome, la Mondadori: erano disposti a dargli cinque miliardi di lire (ancora non c’era l’euro), per avere i diritti di tutta l’opera completa. Lui rifiutò. Schiacciando l’ennesima sigaretta fumata sul posacenere, me ne spiegò la ragione: ‘Ma cosa vogliono da me, per offrirmi tanti soldi?’. Ecco: quanti pensi che siano gli scrittori che avrebbero rifiutato tutti quei soldi, pur di restare uomini e scrittori liberi?». Ancora Macaluso: «Ho conosciuto Leonardo nel 1941, in pieno fascismo. Ero un po’ più giovane di lui, avevo già aderito alla cellula comunista di Caltanissetta. Leonardo era molto amico di un altro ragazzo che però studiava al liceo, Gino Cortese. Era un giovane comunista molto spiritoso, Leonardo con lui ha avuto un rapporto che è proseguito nel tempo. Lo stesso Leonardo racconta che proprio Gino lo introduce non solo all’antifascismo militante, ma nell’ambiente comunista, anche se non si è mai iscritto al Pci. Leonardo questo rapporto lo racconta in alcune pagine delle Parrocchie di Regalpetra; sono episodi anche divertenti, Gino era molto spiritoso. Leonardo, per esempio, racconta che Cortese andava al Gruppo Universitario Fascista, e lì declamava i discorsi di Stalin, ma dicendo che si trattava dei discorsi che aveva fatto un gerarca fascista; e quelli se la bevevano… C’è una cosa che mi preme, e la voglio dire soprattutto ai giovani, a chi certi giorni non li ha vissuti perché è nato dopo: Leonardo con i libri che ha scritto, anche con la sua produzione giornalistica, penso ai suoi scritti sul Corriere della Sera, su La Stampa, o L’Ora di Palermo, ci manca. Ora che non ci sono più, lui e Pier Paolo Pasolini, si avverte un grande vuoto. Sciascia e Pasolini hanno animato le battaglie politico-culturali nel nostro Paese, come nessun altro ha saputo fare. Non ci sono più “firme” come quella di Sciascia o Pasolini… Leonardo, in particolare, protagonista con i suoi libri e i suoi articoli di ‘polemiche’ su un terreno che ancora oggi considero fondamentale, quello della giustizia. Aveva l’autorità, il coraggio di sostenere queste battaglie garantiste sulla giustizia, la sua è stata una voce fondamentale. E ha avuto un valore fondamentale nella formazione politico-culturale del nostro Paese: in quegli anni, quei dibattiti sulla giustizia hanno avuto un carattere e un senso che oggi purtroppo non vedo più. Da questo punto di vista Leonardo non è stato solo un grande scrittore, ma anche un grande italiano; al tempo stesso un uomo dell’Europa, ha incarnato con i suoi scritti e le sue battaglie politico-culturali, il meglio che questo Paese poteva esprimere».

Buono, brillante e generoso: vi racconto il mio amico Leonardo Sciascia. Valter Vecellio su Il Riformista il 7 Gennaio 2021. Racconto, qui, il “mio” Leonardo Sciascia. Lo scrittore affermato che un giorno si trova tra le mani la lettera di un ragazzetto che gli propone di collaborare a una rivistina messa su alla bell’e meglio; e risponde che lo farà volentieri: perché è giunto il tempo di fare quello che Seneca diceva dovessero fare gli schiavi: cominciare a “contarsi”; e a onta del preteso pessimismo che gli si vuole incollare, si dice sicuro che si scoprirà, con nostra sorpresa, «d’essere più di quanti si crede»; isolati forse, ma non soli, e comunque sufficienti a opporre un’“opinione” alle “opinioni”. Racconto la persona che paziente insegna – letteralmente – a quel ragazzetto come leggere e capire I promessi sposi di Manzoni e William Shakespeare; che interrompe il suo lavoro, quando irrompo nella sua casa palermitana per chiedergli un paio di cartellette da usare per prefazione a un libro, Storie di ordinaria ingiustizia, che con molto anticipo raccontava le sventure di tanti signor “nessuno” che hanno patito calvari analoghi a quello di Enzo Tortora; e sono un paio di cartelle scritte in mezz’ora dense e sapide come solo lui sa; scrivo di un uomo “buono” nel senso più ampio e autentico del termine, che cerco di raccontare in un libro pubblicato da poco: Leonardo Sciascia, la politica, il coraggio della solitudine (Ponte Sisto editore). Libro scritto con l’obiettivo di ragionare su un aspetto che si tende – non a caso – a omettere, ignorare: il suo essere stato scrittore politico, immerso consapevolmente e totalmente nella realtà; il suo aver voluto sempre fare politica in senso etico: il cosciente mescolare politica ed etica, nel tentativo di perseguire conoscenza e verità. Il motivo per cui, pur deluso da precedenti esperienze, dopo aver rifiutato gli inviti a candidarsi nelle liste del Psi e del Pli, accetta di farlo in quelle del Partito Radicale: un partito a cui era sempre stato vicino, come Elio Vittorini, Ignazio Silone, Pier Paolo Pasolini. Ma a candidarsi non ci pensa proprio, ed è ben intenzionato a dire un cortese “No, grazie” a Pannella, volato a Palermo per convincerlo. Vecchia volpe, Pannella sa trovare la chiave giusta: «Non ti chiediamo di aderire al nostro programma. Siamo noi radicali che aderiamo al tuo». È fatta: accende l’ennesima sigaretta, con lo sguardo osserva le volute del fumo; infine, passa dal “Lei” al “Tu”: «Hai bussato perché sapevi che era già aperto». Scrivo di uno scrittore che “segna” come pochi altri (Pasolini, Italo Calvino, Vittorini, Silone, Mario La Cava, Mario Soldati, Piero Chiara, Alberto Moravia), il secondo Novecento letterario italiano. Un ministro dell’Istruzione davvero dell’Istruzione ministro, avrebbe invitato tutte le scuole a dedicare qualche ora di lezione per leggere un paio di pagine tra i tanti libri che ci ha lasciato. Leggerle a voce alta, e commentarle, discuterle, criticarle, magari. Per Sciascia un efficace impegno anti-mafia, era magari una marcia in meno, ma leggere un libro di più. Antidoto simile a quello suggerito dal grande amico Gesualdo Bufalino: «Per combattere Cosa Nostra più maestri di scuola». La cultura, insomma. Contro la mafia, l’ignoranza, il cretino. Non sorprende che né il ministro né qualcuno dei suoi consiglieri abbia avuto questo riflesso. Il contrario, sì, quello avrebbe sorpreso. Parlo insomma dello Sciascia “ossessionato” dal problema della giustizia, e di come viene (malamente) amministrata. Nel testo che mi affida, scrive dell’errore giudiziario; raccomanda di tener sempre a mente il monito di Manzoni: «…quasi sempre si tratta di ‘errori’ ben visibili ed evitabili; e in particolare visibili ed evitabili proprio da parte di chi li commette: ‘trasgredir le regole ammesse anche da loro… se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa’…». Per dare spiegazione di come l’amministrazione della giustizia sia quella che è, spiega che «deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano l’arbitrio. Quando i giudici godono il loro potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto…». Merita, a questo punto, d’essere citato un passaggio che si ricava da Una storia semplice, l’ultimo libro, scritto con grande fatica, straordinariamente lucido. Un vecchio professore è interrogato dal suo ex alunno, diventato magistrato inquirente. «Posso permettermi di farle una domanda?…Poi ne farò altre, di altra natura…», dice ammiccante il magistrato. «Mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Una volta mi ha dato cinque: perché?». «Perché aveva copiato da un autore più intelligente», risponde il professore. Il magistrato scoppia a ridere: «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…». Il professore fulminante: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare. Con meno italiano, lei sarebbe ancora più in alto». Può bastare, per comprendere l’amara, radicale, “visione” di Sciascia non tanto della giustizia, quanto di come (e da chi) viene amministrata. Molti si sono detti stupiti che Sciascia si sia “inteso” con un personaggio come Marco Pannella, e in sintonia con il Partito Radicale. Stupore senza fondamento. In più di un’intervista Sciascia dice che di volta in volta vota per il partito che più gli sembra in quel dato momento opportuno, ma che il suo voto più bello era stato, negli anni Sessanta, a una lista dello Psiup perché vi erano inseriti candidati radicali. Il perché di questa scelta è condensato in una dichiarazione del maggio 1979: «Parlando di politica, Borges diceva – in un’intervista di 15 anni addietro – che se ne era occupato il meno possibile, tranne che nel periodo della dittatura. Ma quella – aggiungeva – non era politica, era etica. Al contrario, io mi sono sempre occupato di politica; e sempre nel senso etico. Qualcuno dirà che questa è la mia confusione o il mio errore: il voler scambiare la politica con l’etica. Ma sarebbe una ben salutare confusione e un ben felice errore se gli italiani, e specialmente in questo momento, vi cadessero. Io mi sono deciso, improvvisamente, a testimoniare questa confusione e questo errore nel modo più esplicito e diretto del far politica; e col partito che, a questo momento, meglio degli altri, e forse unicamente, lo consente». “Semplice” (si fa per dire) la “filosofia” di Sciascia: «Bisogna rompere i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà; rompere questa specie di patto fra la stupidità e la violenza che si viene manifestando nelle cose italiane, rompere l’equivalenza tra il potere, la scienza e la morte che sembra stia per stabilirsi nel mondo; rompere le uova nel paniere, se si vuol dirla con linguaggio e immagine più quotidiana, prima che ci preparino la letale frittata». Leonardo “riposa” in una tomba che ha voluto semplicissima, accanto a quella della moglie Maria Andronico; è alle porte del cimitero di Racalmuto. «Ce ne ricorderemo di questo pianeta», è l’epigrafe che lui ha voluto. Una frase dello scrittore francese Auguste de Villiers de l’Isle-Adam. Il razionalista, l’illuminista, accetta così di partecipare alla scommessa di Blaise Pascal; al tempo stesso avverte che una certa attenzione questo mondo, questa vita, la meritano: in definitiva, un’ipotesi, una possibilità di sopravvivenza dopo la morte. Un “qualcosa” – è l’amico Bufalino a notarlo – legata a una insopprimibile volontà di memoria: finché saremo, in qualunque forma e natura, noi ricorderemo; e solo se ricorderemo, saremo. Noi siamo la capacità di ricordare, siamo memoria. Già in questa sola frase c’è molto, c’è tanto – e dell’essenziale – di Sciascia. L’uomo, l’artista: cerchiamo di vedere l’uno e l’altro (ammesso che si possa scindere l’uno dall’altro) con gli occhi di chi gli voluto bene: la figlia Annamaria; i nipoti Fabrizio e Vito. «Lo scrittore coincideva con l’uomo», dice Annamaria. «Un esempio da seguire. Una persona che dettava le regole senza parlare, non aveva bisogno di rimproverare. Bastava uno sguardo. Era una persona allegra. Partecipava a tutte le cose della famiglia. Un costante punto di riferimento. Lo hanno dipinto come taciturno, ombroso, silenzioso; ma a casa mio padre parlava molto, raccontava fatti, aneddoti. Andava al circolo di Racalmuto, seguiva tutte le vicende, poi ce le raccontava; e anche a Caltanissetta e poi Palermo… lui è cresciuto tra donne: unico uomo con tre zie e sei donne. Un universo femminile, e dunque amava i racconti, i pettegolezzi, tutto questo gli piaceva…». Fabrizio, Vito, vostro nonno vi voleva molto bene. Lo si capisce a guardare le molte fotografie in cui comparite con lui, lo sguardo, i piccoli gesti: si indovina che con voi aveva un rapporto speciale… Per voi chi era quest’uomo? Vorrei approfondire questo vostro legame… Fabrizio: «Può sembrare banale, ma per me, era un uomo come tanti altri, anche se al tempo stesso era palesemente diverso. Ecco: forse questa tipologia di intellettuale, oggi è molto difficile da trovare: persone capaci di estrapolare dagli eventi della società idee e concetti illuminanti; e al tempo stesso si comportavano come le persone normali. Mi veniva a prendere all’uscita della scuola, giocava con me… Le cose, insomma che fa un nonno con suo nipote. Al tempo stesso, vivendo in quella casa respiravo un’aria diversa; capitava di sentire discorsi con le persone che venivano a trovarlo, che certamente a 10-12 anni si capiscono e non si capiscono; ma in qualche modo, comunque, ti restano impressi, come se si appiccicassero alla pelle… Quanto al rendermi conto che mio nonno era Leonardo Sciascia: chissà, forse ne sono stato sempre cosciente. Sulla sua scrivania, per esempio, un posto d’onore l’aveva la fotografia di Pirandello. Mio nonno lo considerava una specie di padre. Già questa era una cosa fuori dal comune; che però io ho vissuto come normale. Tra noi si parlava anche in dialetto; e non solo il nostro, anche in altri dialetti. Lui mi leggeva le poesie di Trilussa, in romanesco: poesie, per inciso, che sono la perfetta metafora dello sfacelo di questo paese, di questo continente. Ho dei bei ricordi. I primi anni, li ho passati dai nonni, mamma e papà lavoravano, per un certo periodo mio padre a Catania; gran parte della settimana si stava con i nonni… c’erano due case, la grande e la piccola, e ogni tanto mi confondevo. Mio nonno aveva una collezione di sigilli, custoditi in una vetrina stretta e lunga, me li faceva toccare. Una passione che avevamo in comune. Nella lettera-testamento che ha lasciato, dispone che siano dati a me; non ho mai avuto il coraggio di toglierli da quella bacheca…». Vito: «Ai miei occhi appariva come una persona che conduceva una vita molto semplice. Siamo qui, nelle campagne di Racalmuto dove lui trascorreva le vacanze estive: si facevano le passeggiate nei campi, si raccoglievano fichi ed asparagi. Era una vita scandita da ritmi molto normali. Mio nonno era molto nonno: amava stare con noi nipoti; ci raccontava storie al focolare. Io chiedevo quelle con i briganti, dove c’era azione, avventura; e lui mi raccontava dei briganti del luogo. Nella vita domestica aveva fissato delle regole chiare, precise: nel primo pomeriggio, per esempio, non si dovevano fare schiamazzi. In generale, non amava la confusione. Però non aveva esigenze particolari. Per esempio, quando lavorava non ci imponeva il silenzio, la vita della casa procedeva normalmente. Capitava che andassi a vederlo mentre scriveva, nella sua stanza; lui non ci faceva particolarmente caso. Però non gli piaceva il disordine, il caos, lo schiamazzo». Giunti a questo punto, penso che per ricordare come gli sarebbe piaciuto essere ricordato, la cosa migliore sia quella di leggere i suoi libri; e/o rileggerli. Tutti, in ordine di pubblicazione, o come vengono, non importa. Sono un prezioso contravveleno; per dirla con un poeta francese, René Char, costituiscono una ‘fantastica amicizia’ da opporre ai “tempi dei monti furenti” che tocca vivere e patire.

Le zie di Sicilia:  Leonardo Sciascia intervistato da Franca Leosini. “Ritengo che molti mali della Sicilia siano imputabili al dominio femminile”, “La donna consiglia viltà, prudenza, opportunismo. E l’uomo obbedisce”... A cento anni dalla nascita (8 gennaio 1921), riproponiamo le parole del grande scrittore, pubblicate nel 1974 sull’Espresso. Invettive che provocarono polemiche. Affidate a una intervistatrice d’eccezione. Franca Leosini su L'Espresso il 7 settembre 2020. Nei suoi romanzi, fatta eccezione per "Gli zii di Sicilia", dove però la zia d'America è pur sempre un pretesto per descrivere un certo ambiente ed una certa atmosfera, Leonardo Sciascia colloca invariabilmente la donna in una posizione marginale. Soave compagna di viaggio in "Il mare colore del vino", presunta ispiratrice di delitti oscuri e irrisolti nel "Contesto" e in "A ciascuno il suo", moglie infedele nel "Quarantotto", la donna di Sciascia resta pur sempre sullo sfondo delle vicende che riflettono una sua "storia-ideale-eterna" della Sicilia.

Chiediamo a Sciascia il perché di questo: forse non le interessa la donna? Non ama indagarne la psicologia, o non la considera un soggetto da raccontare?

«Sì, credo che la donna non riscuota molta attenzione da mia. Ma ci sono tante ragioni. La prima, prima, che ho fatto un certo tipo di narrativa e di soggettistica impegnata sui problemi siciliani, particolarmente, oppure sui problemi politici italiani e non. E allora la donna entrava marginalmente in questo. Ci può anche essere una ragione più profonda, ed è che la Sicilia è un matriarcato. Io ho una certa avversione per questo tipo società matriarcale, perché ho visto sempre che le donne hanno comandato, e hanno comandato sempre annientando l'uomo. C'è tutta una tesi di Dominique Fernandez in "Madre mediterranea" in cui sostiene che persino la mafia nasce da questo matriarcato. È come una rivalsa che l'uomo opera fuori della famiglia. Sì. Forse la ragione profonda per cui non mi occupo della donna è questa avversione al matriarcato, al mammismo in genere».

Ma lei, Sciascia, è proprio convinto di questo matriarcato siciliano (perché è un matriarcato piuttosto sotterraneo dal momento che apparentemente la donna siciliana è succuba dell'uomo)?

«Ah, sì! Si! Apparentemente le cose stanno così, però nella realtà la donna siciliana comanda nel modo più subdolo e più negativo. Sì, io ritengo che molti mali della Sicilia siano imputabili a questo matriarcato. La donna ha sempre consigliato la viltà, la prudenza, l'opportunismo, l'interesse particolare, e l'uomo ha obbedito sempre. Ma credo che Brancati l'ha già messo in luce impareggiabilmente. In fondo questa virilità siciliana si riduce a ben poco».

Anche nei confronti della morte?

«Ad un certo punto della vita, quando non sempre, l'uomo siciliano è preso dall'idea della morte, da un'assidua contemplazione della morte. La donna siciliana la morte invece l'amministra, la gestisce, la maneggia come ne fosse immune. Nei miei ricordi (oggi forse non più) i tre giorni di lutto, il cosiddetto "visito" erano il suo teatro e la sua apoteosi».

Questo carattere matriarcale della società siciliana trova riscontro nella storia della sua famiglia, contribuendo quindi a questa sua visione?

«Indubbiamente sì. Una mia lontana proziaa, Mariuzza, nota per le sue stravaganze (dormiva fra l'altro con ìl capo poggiato su di un cuscino imbottito di salsicce), sentenziò: “Gli uomini di questa casa non servono”, convincimento che, come una regola, si è tramandato per generazioni nella mia famiglia. Le mie tre zie custodivano intatta l'eredità di questa convinzione. Mio nonno era un uomo eccezionale ed io lo ammiravo profondamente; ma di lui le zie dicevano - con una venatura di sottinteso rammarico - “Non ruba, non aiuta a rubare, contrasta la mafia”, e cosi il nonno viveva praticamente ignorato dal settore femminile della famiglie».

Ma è così anche ora in casa sua?

«No! Non lo sopporterei! Nella mia famiglia le donne (moglie e figlie intendo) vivono la loro vita in consapevole libertà. Di conseguenza, per quel che mi riguarda, in un clima di equilibrio e di rispetto reciproci. No! Il matriarcato in casa non saprei sopportarlo».

Potrebbe farmi qualche esempio di grandi matriarche siciliane?

« “I vicerè”, di Federico De Roberto, si apre che Teresa Uzada è appena morta. Ma tutti i destini dei figli saranno dominati e determinati dalla volontà di questa madre, da questo terribile personaggio assente. Ma non si possono fare esempi, indicare dei personaggi al di fuori di quelli che ci offrono gli scrittori siciliani; la forza del matriarcato sta appunto in questo: nel non scoprirsi, nel non mostrarsi. Al contrario di quello americano. Ricordo un saggio intitolato "Mom" in un numero della rivista di Sartre dedicato agli Stati Uniti. Non c'è niente di simile che riguardi il matriarcato siciliano: tranne quel che dice - ripeto - Dominìque Fernandez in “Madre mediterranea”, ma è appena una intuizione, un po' troppo, forse, svolta in psicanalisi».

Una società di tipo matriarcale c'è quindi anche in America. Se volessimo fare un paragone fra il matriarcato americano e il matriarcato siciliano, lei come lo stabilirebbe?

«Il matriarcato americano è più spietato, più sfrontato, più evidente. Quello siciliano è molto nascosto, molto subdolo, ma altrettanto tenace. Tanto per fare una differenza fra la “mom” americana e la “madre mediterranea”: ricordo un romanzo, pubblicato da Vittorini nei “Gettoni” di Morri's, se non ricordo male. La madre americana tende, appunto, ad essere la madre dell'eroe: quella mediterranea del mafioso, del camorrista. Che poi l'eroe non sia eroe è un altro discorso».

A suo avviso il matriarcato siciliano, attraverso l'emigrazione ha influito su quello americano?

«No. quello americano ha altre origini, irlandesi, quacchere».

Sciascia, lei è conservatore o progressista nei confronti della donna?

«Credendo nella famiglia come cellula prima della società, sono necessariamente un po' conservatore. Ma non lo sono nel senso che voglio che all'uomo sia permesso quello che non è permesso alla donna; vorrei che ci fosse una certa parità. Se la donna deve osservare certe regole, queste regole le deve osservare anche l'uomo».

Nei confronti della donna che lavora lei che atteggiamento mantiene?

«Sempre nel senso della conservazione familiare ritengo sia negativo il lavoro femminile. La donna, tra l'altro, non sa che perde di potere specialmente nella società meridionale. Questo processo di emancipazione femminile, questa parità che la donna sta conquistando può costituire la fine del matriarcato. Cioè, c'è speranza per l'uomo in Sicilia contro il matriarcato, oggi che la donna sembra debba essere più libera. Perché almeno si combatte ad armi pari. È un avversario che hai di fronte e non alle spalle».

Fra la donna italiana e la donna siciliana c'è stata sempre una certa differenza oltre che di atteggiamento anche di valutazione. Attualmente lei pensa che ci sia un livellamento in corso, oppure c'è ancora questa posizione più conservatrice sia della donna in quanto donna, sia della società siciliana verso la donna, sia dell'uomo siciliano verso la donna?

«Credo si stia arrivando ad un certo livellamento. Il costume, la morale pubblica sono mutati dovunque. E questo è per me deludente per quanto attinge agli aspetti civili della cosa. È come il passare la barriera. Quando una donna siciliana passa la barriera, la passa proprio nel modo più totale. C'è un rilassamento che va al di là di quello che può essere il fatto della morale sessuale. Il rilassamento della morale sessuale presuppone o si assimila ad altri rilassamenti. La Sicilia è un paese in cui non esiste la morale pubblica, ecco, e in questa misura si perde anche la morale privata. È anche un fenomeno provinciale. In una grande città la moda non è portata da tutti. In provincia è portata da tutti. Così, se è di moda avere amanti, avventure, in un ambiente socialmente più solido questa moda avrà ripercussioni minori che in un ambiente in cui ci sono strutture sociali più fragili. In effetti siamo sempre lì. La pratica della virtù, anche se ipocrita, era della classe borghese e quindi, dove non c'è stata una borghesia, dove non c'è, il costume risente più facilmente gli echi innovatori».

Lei vuole quindi affermare che la donna siciliana fa tutto in modo esasperato?

«Sì, fa tutto in modo esasperato e fa anche pesare quello che fa. Cioè, una donna, diciamo, della Val Padana fa quei servizi di casa che fanno le donne siciliane ma senza farli pesare eccessivamente, senza stare impiegata tutta una giornata a fare quei servizi. Io vedo che le donne settentrionali sono sempre più sbrigative; anche in cucina, dove cucinano più elaboratamente, si sbrigano più presto della donna meridionale, della donna siciliana».

Queste differenze lei a cosa le ascrive: a una maggiore abilita della donna del Nord?

«Le ascrivo ad una specie di politica della donna meridionale che vuole fare pesare proprio la sua fatica, il suo lavoro. È un modo, per la donna siciliana, di vendere la propria merce ad un prezzo più elevato e di esercitare il suo potere. C'è una bambina, figlia di un mio amico, che quando le domandano che cosa vuole fare da grande dice: “Voglio fare la comandiera”. Vuole comandare perché ha capito benissimo il meccanismo della faccenda».

C'è una corrente femminista in Sicilia?

«No. Il femminismo di associazione non c'è. Non mi pare ci sia neanche nelle grandi città. Questo è segno che non ce n 'è bisogno. Per quel che mi riguarda, siccome non riesco a concepire niente di simile da parte degli uomini , non lo capisco neanche da parte delle donne». Il gallismo? È anch'esso una forma di servitù alla donna (nell'accezione di Brancati) che si esaurisce nel parlare di lei: vagheggiamenti senza risultati concreti. Nel momento in cui si apre una certa libertà fra uomo e donna finisce il gallismo. In effetti il gallismo è in agonia proprio per la possibilità (con la parità) di portare alla realizzazione un fatto prima soltanto ipotizzato.

Sciascia, ma a lei piacciono le donne?

«Magari mi segneranno a dito, ma mi piacciono».

Che tipo di donna le piace?

«Un tipo di donna siciliano. E quindi viene fuori che sono un po' masochista».

In tema di masochismo: guardiamo all'Italia come ad una grande mamma. La mamma cosa chiede spesso ai suoi figli? Sacrifici, dedizione, rinunzie, in un rapporto masochistico del figlio verso la madre. Un matriarcato a livello politico, insomma: e tanto più chiede adesso che ad una crisi di valori si è aggiunta la crisi energetica.

«Io penso che sia tutta una finzione. Insomma, non ci credo poi tanto alla crisi energetica, almeno oggi. Nella prospettiva sì. potrà anche avvenire, ma oggi c'è una specie di giuoco della crisi. È un po' un giocare ai poveri. Di fatto la gente non è che ci creda poi tanto a questa crisi».

Ma ne paga il prezzo.

«Ne paga il prezzo, purtroppo, sempre quella gente che l'ha pagato e continua a pagarlo. Anche negli anni del benessere non è che la gente stesse bene, quella che oggi paga il prezzo della crisi. Giocano i governi alla crisi. In fondo i governanti hanno capito che la gente vuole sentirsi dire certe cose, vuole sentirsi chiedere dei sacrifici. Ieri sera ne parlavamo con Arbasino. In fondo quando l'uomo di governo, che è un dittatore anche se non lo è, dice: “Io vi chiedo fame, io vi chiedo lacrime e sangue, diventa popolare. Sì, è un fatto curioso, quando si chiedono dei sacrifici si diventa più popolari, e si induce il popolo a farli più allegramente che se non fossero conclamati».

È quindi ottimista sugli sviluppi di questa situazione?

«La crisi c'è. È mistificata, viene recitata. Potrebbe essere meno grave di come si va delineando. C'è questo fatto irreversibile che è l'avvento della massa. Mi pare che la massa impedisca quell'effettivo andare in avanti che viene dal pensare. È difficile sciogliere questo nodo. Abbiamo due sistemi che si fronteggiano immobilmente e sono come due recipienti al cui interno c'è un volume che cresce e potrà spaccarlo. Si spaccheranno tutti e due. Non ce ne sarà un terzo pronto in cui recuperare quello che resta dell'uno e dell'altro. Questo rende le prospettive della crisi d'un orizzonte assolutamente oscuro».

Quanto lei afferma adesso, non è in contraddizione con quanto ha detto prima sul “gioco della crisi”?

«No. Non c'è contraddizione, perché ci sono due livelli, uno in cui la crisi c'è veramente, uno in cui si recita. Il giuoco della crisi. Ma giocando la crisi c'è sul serio, specialmente la crisi dell'Europa che così giocando si riduce ad una pura espressione geografica».

Quindi, lei non crede all'avvenire di un'Europa unita?

«Non solo nell'avvenire, oggi come oggi. L'Europa ha troppa storia sulle spalle e ogni popolo europeo ha troppa storia che è diversa da quella del suo vicino. E allora diventa molto difficile. Certo, l'unità europea è nelle mie aspirazioni. Ritengo che De Gaulle sia stato, tutto sommato, un grande uomo; il fatto è che voleva fare un'Europa a modo suo, in cui ci fosse la supremazia della Francia, il prestigio culturale della Francia. E questo era anche giusto. Però penso che De Gaulle abusasse in questo senso. Aveva comunque idee chiare, una visione molto chiara. L'avere scavalcato tutti intavolando rapporti con la Cina è stato un gesto da grande politico. E difatti la Cina è oggi il paese, la grande potenza più interessata ad un'Europa unita. E De Gaulle aveva previsto questo».

Ma se non la facciamo quest'Europa, che possibilità abbiamo di sopravvivere?

«Ma non credo che si possa sopravvivere. L'Europa praticamente è stata divisa a Yalta, e questa divisione funziona ancora. In effetti l'equilibrio, quello che noi chiamiamo l'equilibrio, la pace, si fonda su questa divisione che le grandi potenze hanno fatto a Yalta nel '44 . Non c'è altro: questa è la zona di influenza americana, quella la zona di influenza sovietica. Se si turba questo equilibrio può anche essere la guerra. DI fronte a questo pericolo è preferibile tenerci questo equilibrio, per quanto difettoso e per quanto terribile esso sia».

Il nuovo libro che sta scrivendo ha attinenza con questi problemi?

«No. questo libro si svolge nel mondo cattolico-politico italiano. È un po' un "contesto" sotto specie cattolica. Prende spunto dai democristiani che fanno gli esercizi spirituali. Ero in un albergo e c'erano questi esercizi spirituali di un gruppo di politici cattolici. Gli esercizi si svolgono secondo le prescrizioni ignaziane».

Ha già un titolo?

« “Esercizi spirituali”, appunto. Non si parla solo della Democrazia cristiana, si parla di cattolici che fanno la politica».

Per questo libro le verrà addosso tutta la Democrazia cristiana, come è accaduto da parte dei comunisti per il “Contesto”.

«Non credo. I cattolici sanno che solo il silenzio può uccidere un libro. Ormai hanno capito che solo le scomuniche servono a farli leggere».

«Enzo e Sciascia parlavano la stessa lingua e si ritrovarono nel Partito Radicale». Francesca Scopelliti, compagna del conduttore, racconta il rapporto tra Enzo Tortora e Leonardo Sciascia tra letteratura e giustizia. Valentina Stella su Il Dubbio il 12 gennaio 2021. Leonardo Sciascia è stato tra i pochissimi a credere senza dubbio alcuno nell’innocenza di Enzo Tortora. Il loro rapporto di amicizia aveva radici profonde: era iniziato parlando di letteratura e si concluse discettando di malagiustizia. Ne parliamo con Francesca Scopelliti, storica compagna del conduttore, giornalista e politico radicale e presidente della Fondazione per la giustizia Enzo Tortora.

Come nacque l’amicizia tra Enzo Tortora e Leonardo Sciascia?

«Quando Sciascia pubblicò il libro “Gli zii di Sicilia”, Enzo gli scrisse un biglietto perché aveva trovato il testo davvero brillante. Enzo lo faceva spesso: quando un libro lo colpiva in modo particolare cercava l’indirizzo dell’autore e gli mandava un biglietto di apprezzamento. Sciascia non conosceva Enzo, perché credo non guardasse la Rai e forse faceva bene. Però il messaggio di Enzo gli procurò un’alta considerazione da parte delle sue figlie. E da lì iniziò il loro rapporto».

Sciascia è stato uno dei pochi a credere fin da subito nella innocenza di Tortora. Quanto è stato importante questo per Enzo?

«Ha significato tantissimo. Appena fu arrestato, Enzo subì una violenta e feroce campagna mediatica. Anche giornalisti quotati non persero tempo ad accusarlo sposando pedissequamente e acriticamente la tesi della Procura di Napoli. Quindi quando scrivevano Giorgio Bocca, Indro Montanelli, Enzo Biagi, Leonardo Sciascia per lui erano boccate di ossigeno. Enzo fu molto riconoscente a Sciascia. Entrambi parlavano un linguaggio molto simile perché, pur avendo una derivazione diversa, erano due uomini di grande cultura: Enzo era un liberale, Sciascia veniva da una esperienza politica di candidatura con la sinistra. E poi invece si ritrovarono insieme nel Partito Radicale. Un giorno Sciascia venne con la moglie a casa nostra a Milano: dopo pranzo lui ed Enzo rimasero ore a parlare; mi dispiace non aver registrato la loro conversazione perché sarebbe stata una bella testimonianza per i giovani di oggi».

Oggi chi è rimasto a difendere le garanzie giuridiche nel mondo dell’informazione?

«Piero Sansonetti perché ha una storia politico-culturale che gli fa cogliere molte sottigliezze delle nostre disfunsioni. E poi voi del Dubbio e non lo dico per piaggeria: conosco il vostro editore e so bene il valore e la competenza specifica che ha una categoria professionale come quella degli avvocati nella direzione di un giornale che vuole tutelare le garanzie di uno Stato di Diritto. Quindi viva il Dubbio».

Dall’altra parte invece abbiamo Travaglio.

«Se nell’87 ci avessero fatto il tampone sul garantismo saremmo risultati positivi. Non a caso in quell’anno il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati fu vinto con oltre l’80% di sì. Oggi quello stesso tampone risulterebbe positivo al virus del giustizialismo, perché mancano gli anticorpi. C’è ormai nell’opinione pubblica una miopia nel vedere oltre quello che dichiara certa stampa sulle inchieste dei magistrati, oltre a quello che dice Travaglio. I cittadini non riescono a crearsi una coscienza critica di civiltà giuridica perché influenzati da giornalisti come Travaglio, che è un j’accuse continuo».

A proposito di J’accuse, per molti Marco Pannella fu lo Zola d’Italia che denunciò il caso Tortora. Quanto sono urgenti in questo momento le battaglie radicali per una giustizia giusta?

«Se noi siamo in questa situazione è perché la politica non ha avuto il coraggio di affrontare una riforma strutturale della giustizia, soprattutto dal punto di vista penale. Non è mancato solo il coraggio, ma proprio la volontà di cambiare le cose: recentemente c’è stato il caso Palamara che ha aperto un vaso di Pandora e bisognava approfittarne di questa occasione per fare un profondo lavoro di autocritica e riformare seriamente la magistratura e il sistema giustizia. Quante volte abbiamo sentito Marco Pannella criticare i sistemi di elezione al Csm? Quante volte i radicali hanno denunciato la questione degli incarichi fuori ruolo dei magistrati? È passato, allora come oggi, tutto sotto silenzio; adesso tutti sono soddisfatti perché Palamara ha pagato da solo, senza riuscire a portare in un processo pubblico i magistrati che facevano parte del suo sistema. La magistratura come sempre si è voluta autotutelare e la politica non si è sdegnata abbastanza. L’unico che fa battaglie garantiste è Matteo Renzi».

Forse però Renzi ha un rapporto complicato con il garantismo, visto che voleva come ministro della Giustizia Nicola Gratteri.

«Quella fu una grossa gaffe di Renzi provocata, io penso, da quella campagna stampa che ancora oggi accompagna la figura di Gratteri come grande magistrato impegnato sul duro fronte della lotta alla ’ndrangheta. Io non vorrei più porte girevoli tra magistrati e politica».

Vogliamo parlare anche di Pietro Grasso?

«Ricordo che le negò la sala del Senato per presentare “Lettere a Francesca” di Tortora. Grasso ha offeso la memoria di Tortora dicendo che l’iniziativa non rientrava nelle finalità del Senato. Fu una giustificazione allucinante. Poi lui lì parlava non come Presidente del Senato ma come magistrato. È un vizio della nostra politica sponsorizzare magistrati per ricoprire importanti ruoli politici forse per tenerseli buoni».

Sciascia scrisse: Tortora “parlava con precisione e passione nella grande illusione che il suo sacrificio potesse servire a qualcosa. Con questa illusione è dunque morto. Speriamo che non sia davvero un’illusione”. E invece è rimasta tale?

«L’espressione “Speriamo che non sia una illusione” l’ho voluta incidere sulla colonna che raccoglie le ceneri di Enzo al cimitero monumentale di Milano. Purtroppo dopo 32 anni dalla morte di Enzo ahimè la situazione è addirittura peggiorata. Per presentare il libro ‘Lettere a Francesca’ ho girato davvero tutta Italia: se si parla di Enzo sono tutti d’accordo nel dire che è stato ucciso dalla malagiustizia. Ma se si parla di altre inchieste questa consapevolezza comincia a svanire: e invece stiamo vivendo un momento in cui grandi inchieste che hanno coinvolto personaggi della politica, come Mannino o Bassolino, hanno bruciato intere carriere politiche. Poi dopo decenni gli imputati risulteranno innocenti. E allora io mi chiedo: ma può la magistratura ribaltare le sorti politiche di un Paese, prima rivoluzionando la vita di un personaggio pubblico e poi non pagando per l’errore di averlo perseguitato ingiustamente per anni?»

Estratto dell'articolo di Michela Proietti per il “Corriere della Sera” – articolo del 20 agosto 2022, ripubblicato in  occasione del 79esimo compleanno di Lina Sotis

«A volte sono stata cattiva e me ne sono pentita». Penna raffinata, colta, implacabile: un sì o un no di Lina Sotis sul Corriere della Sera sono stati spesso una promozione sul campo o una sentenza di morte (almeno civile). 

«Un signore ansioso di essere conosciuto in città si fece scrivere dieci righe da me: alla fine chiusi con la frase “ma in fondo, chi è questo qui?”». Per essere un «milanese» bisognava dimostrare di saper fare, più che di avere. 

Come Gae Aulenti, «che anche quando non era nessuno era una protagonista, perché aveva curiosità». O proprio come lei, Lina Sotis, giornalista e scrittrice, nata nel 1944 a Roma e diventata la regina di Milano, «armata solo di grande pazienza, qualità senza la quale non avrei potuto cambiare tante vite: prima orfana di mamma, poi snob della Roma bene, moglie dell’industriale e infine prima cronista donna del Corriere». 

[...] Che tipo di famiglia era la sua?

«Borghesi illuminati. Mio nonno Emilio Storoni aveva fondato con Malagodi il Partito Liberale. Mio padre si risposò con Maria Bassino, avvocato penalista lesbica. Avevo 13 anni e lei mi insegnò cosa era il Pci e il mondo gay».

Il collegio era la seconda casa.

«Al Mary Mount scoprirono che la borghese Sotis aveva più portamento di Cunegonda Patrizi. Poi a Cortina, dalle Orsoline, conobbi il mio futuro marito, Gian Marco Moratti». 

Anche lui in collegio?

«No, era in vacanza e aveva otto anni più di me. La cosa più folle per lui e i suoi amici era conoscere le ragazze delle Orsoline: venivano una volta a settimana in collegio dove si facevano dei balletti, sorvegliati dalle suore».

Un colpo di fulmine?

«Sì, mi diceva che avevo delle belle mani. Quando tornai a Roma mi telefonava da Milano, anche due volte al giorno. Arrivavano queste interurbane annunciate dalla cameriera. Ci siamo conosciuti nel 1960, sposati nel 1962». 

Un ottimo partito.

«All’epoca non c’era questa fascinazione per Milano e sposare un industriale del Nord non era un punto di vantaggio. Non avevamo capito il miracolo a Milano, noi vivevamo quello romano, fatto di principi. Milano era vista come un posto orrendo».

Si è sposata incinta di Angelo.

«Un disonore. Andammo dallo zio, il mio tutore, a chiedere il permesso per sposarci: “Ci pensi bene, avete avuto una educazione diversa”, disse lo zio. Intervenni: “Sono incinta”. Ci sposammo in San Pietro e Paolo». 

[…] E si è messa a lavorare.

«Andai a Vogue, dove volevo firmare con il mio cognome, perché è solo con il proprio che si fa fortuna. Poi chiesi a Giulia Maria Crespi: “Aiutami a trovare un impiego per diventare giornalista professionista”».

Il «Corriere della Sera».

«Angelo Rizzoli comperò il Corriere, gli dissi: “Angelo vorrei scrivere in un quotidiano”. E lui: “Certo, però te lo devi meritare. Che ne dici di lavorare alle 6 al Corriere d’Informazione, il giornale del mattino?”. Risposi: “Dico che non potremo andare a ballare la sera. Accetto”». 

[…] Ferruccio de Bortoli.

«Aveva otto anni meno di me e un’aria vispa […]». 

[...] Il suo ex marito non l’ha mai aiutata?

«Nel lavoro no, lo fece quando mi ammalai. A 34 anni, siccome avevo poco cervello e ne avevo usato troppo, mi venne un tumore alla testa. Mi diedero per spacciata, Gian Marco mi portò a Roma con un volo privato e venni operata da un luminare. Mi salvai, ma tornai al lavoro senza campo visivo. I ragazzi della cronaca mi aiutavano: Biancaneve con 24 nani».

E sono nate le fulminanti dieci righe di Lina.

«Le milanesi le accettavano perché ero come loro: anche a Roma una certa società non si levava mai le calze». 

[…] Era la Milano di Craxi.

«All’inizio lui e Anna erano un poco snobbati. Facevano di domenica delle cene a cui partecipavamo tutti, però senza scapicollarci. Ma lui era un politico sopraffino».

L’uomo più elegante?

«Guido Venosta, dirigente alla Pirelli e presidente dell’Airc e anche del Clubino: era tradizionale ma chic. Indossava il rosso scuro». 

Tra i politici?

«Pannella era mica male, esagerato. Ora direi Mario Monti e Mario Draghi, ma anche Enrico Letta, che ha quel nonsoché da Sorbona». 

[…]  Una donna chic.

«Cecilia Pirelli, semplice e indossa bene il bianco. O Camilla Baresani: una brava scrittrice che non lo fa pesare. Milano è troppo piena di fighette: tacchi alti, gonna corta e sguardo sfrontato. Non è così che si prendono i soldi dei pochi uomini rimasti. Perché non vestire di nuovo da collegiali?».

Le milanesi vere e quelle acquisite.

«Milano è inclusiva e premia chi merita: Marva Griffin è la regina del design con il Fuorisalone. Invece un’altra non milanese, con la pelle scura, ex ben sposata, poteva avere il mondo ai suoi piedi, ma ha deluso tutti...». 

Letizia Moratti, seconda moglie del suo ex marito. Ne è stata gelosa?

«Molto! Però sono madrina di suo figlio Gabriele e le sono vicinissima. Ci siamo scambiate mille gesti di amicizia, anche da poco».

Quando è stata eletta sindaca di Milano si è sentita sorpassata?

«No, poteva fare comodo anche a me». 

[…] Gli uomini più seducenti.

«Francesco Saverio Borrelli, da farci due pensierini: ma era quel genere di uomo che voleva sudditanza. O Franco Angeli, bello e buono: mi disegnò un cuore per la mia collezione. Riccardo Muti? Troppo piacione». 

Il suo secondo marito, Marco Romano?

«Un uomo coltissimo, un buon marito che ora non sta bene. L’ho conosciuto a 48 anni». 

E poi suo cognato, Massimo Moratti.

«Mi manda sempre l’uovo a Pasqua. Da giovane sembrava Celentano: è spiritoso». 

Il salotto più ambito di Milano?

«Oggi non saprei: prima piacevano le donne e i soldi, più ce n’erano, meglio era». 

Il mix perfetto per un salotto ben riuscito.

«Non deve mai mancare un gay, una bella donna, una donna intelligente anche se bruttissima, una così così che s’accontenta di tutto e sa solo ascoltare. Poi una volgarità da guardare, meglio maschile che femminile, perché ti dà un’ebbrezza momentanea e puoi sempre parlarne male».

Il salotto sbagliato.

«Quello di soli borghesi, di soli intellettuali, di soli gay. Bisogna mischiare, sempre». 

Una cosa cafona non più perdonabile?

«Chi ti dice “cara” e non ti conosce, come nei pronti soccorsi americani : “dear”...». 

Qual è il bon ton oggi?

«Sorridere, non usare i monopattini, chiedere scusa se suona il cellulare a tavola». 

[…] La vecchiaia.

«Sono stata giovane così a lungo che avere dei capelli bianchi in testa mi fa allegria». 

Milano le piace ancora?

«Sì, ma non ci sono più elefanti con le zanne, i bracconieri li hanno fatti fuori. È un mondo senza zanne, irriconoscibile, ma facendo del bene le faremo ricrescere».

Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera” il 10 luglio 2023.

«Chi son? Sono un poeta./ Che cosa faccio? Scrivo./ E come vivo? Vivo./ In povertà mia lieta/ scialo da gran signore/ rime ed inni d’amore./ Per sogni, per chimere/ e per castelli in aria/ L’anima ho milionaria» canta Rodolfo nella Bohème , ma le parole le ha scritte lui, sono autobiografiche. 

Bohemienne come uno studente Erasmus, scapigliato come un rapper, giornalista da «tre righe a volo», avventuriero come un naufrago che salpa sedicenne dal porto di Livorno diretto verso mari salgariani, Indie o Americhe che siano, dai quali torna poliglotta, rotto a ogni esperienza, indurito nel carattere ma con savoir faire da signorotto di campagna, mattatore istintivo nell’odio e nell’amore. Bovary c’est moi , disse Flaubert, Rodolfo di certo è lui, Luigi Illica da Castell’Arquato, colline della coppa e dello gnocco fritto, librettista di Puccini, gente a cui piaceva andare in macchina schiacciando forte l’acceleratore della vita, piacevano le donne, piacevano, da guasconi, i sentimenti forti. 

In anticipo sul centenario della morte di Puccini (2024) il giornalista e editorialista del «Corriere» Giangiacomo Schiavi ha dedicato a Illica una biografia (Il genio ribelle , edito dalla Fondazione Donatella Ronconi ed Enrica Prati), arricchito di carteggi e con una lettera inedita sul destino dell’artista scritta a Toscanini (è stata ritrovata in un fondo comprato all’asta e aperto un mese fa).

(...) 

Geniaccio ribelle — fin dalla scuola — Illica lancia una sottoscrizione per gli operai in lotta a Marsiglia, cavalca le proteste di piazza dei giovani garibaldini, finisce sotto processo (assolto) ma ci rimette la direzione del « Don Chisciotte» . Con la benedizione dell’amico Giosuè Carducci debutta nella narrativa con Intermezzi drammatici che firma Luigi della Scorziana, uno pseudonimo. Milano lo ha accolto: salotti, caffè Cova, Scala, la conoscenza di Giacosa, che nel 1882 è già un venerato maestro dell’ambiente culturale, prolifico commediografo e multitasking nei generi. 

Giulio Ricordi, il grande editore musicale, ha messo in gestazione l’idea di portare in sena una Manon Lescaut : spinge un giovane talento di Torre del Lago a uscire dall’indolenza per essere il successore di Verdi: Giacomo Puccini. Per lui, con Giacosa, Illica comporrà i libretti di quattro capolavori: Manon Lescaut , La Bohème , Tosca e Madama Butterfly . Della Bohème i critici scrivono «opera mancata», «non lascerà traccia nella storia della musica», mentre la Butterfly sarà un fiasco.

Con la fama da librettista tutto cambia, salvo lui: il 27 agosto 1884 Illica e Antonio Cuzzocrea si danno appuntamento dietro l’Arcoveggio di Bologna per una sfida a duello «al primo sangue» (si finisce appena uno è ferito). Questioni d’onore e reputazione: il poeta piacentino aveva insultato da un palcoscenico l’avversario. A guardar loro le spalle i padrini: Carducci è a fianco di Illica. Sarà il poeta-accademico a stoppare il duello vedendo Illica sanguinare dal capo. Ha l’orecchio mozzato, «ma tanto non serviva a nulla», commenta dopo la medicazione.

Ci sono anche le ferite d’amore, attrici e attricette, e poi ci sono le donne in scena, come la sciagurata Butterfly vittima del turismo sessuale dell’americano Pinkerton. Ma per le donne nei bordelli il libertino Illica chiama alla liberazione: sogna per le sue protagoniste un destino diverso da quello dei suicidi che mette in scena. 

Acciaccato nella salute, ma vitale nelle idee, a sessant’anni si agita ancora. L’Italia in guerra riaccende i suoi occhi d’acciaio, che già una volta avevano preso la mira dalla trincea. Il 25 maggio 1915 il governo Salandra schiera l’Italia con Francia e Inghilterra contro Austria e Germania e lui chiede di partire volontario per il fronte. In condizioni di normalità sarebbe riformato, anche per l’artrosi. Invece viene arruolato e assegnato alla Terza batteria del 21 artiglieria da campagna.

Continua a scrivere ai direttori dei giornali parlando di libertà e quando torna dal fronte si ritira a Castell’Arquato. «Scriveva, scriveva e non dormiva mai», ricorda il musicista Franco Alfano (quello che concluse la Turandot di Puccini), che insieme a Pietro Mascagni, Puccini e alla moglie di Toscanini gli è vicino. Illica muore il 16 novembre 1919. Funerali due giorni dopo. Mascagni in lacrime lo saluta «come un fratello». Telegrammi di cordoglio da Toscanini («amatissimo amico»), Umberto Giordano («indimenticabile») e Giacomo Puccini («tremenda sciagura»). Anche nei giovani d’oggi c’è molto della sua ribellione e del suo azzardo, il letto sporco di vino, i morsi alla pelle, gli occhi da vipera..., ma non ci sono le opere, e non è differenza da poco.

Estratto dell'articolo di Stefano Bucci per “la Lettura – Corriere della Sera” il 7 febbraio 2023.

È stata la prima archistar della storia. Eppure delle archistar, nel senso classico, Luigi Vanvitelli sembrerebbe non avere gli elementi più caratteristici: «Non era un talento precoce» e nemmeno «un artista immaginoso librato sulle ali della fantasia» secondo quanto scrive Francesco Fichera nel suo storico saggio del 1937 pubblicato dalla Reale Accademia d’Italia.

 […]  Il grande Lazzaretto (ospedale-fortezza a pianta pentagonale costruito su un isolotto artificiale), la Chiesa del Gesù e l’Arco Clementino di Ancona; il Foro Carolino, Palazzo Doria d’Angri e Palazzo Calabritto a Napoli: la storia e la fama di questo architetto, ingegnere e pittore […] si può riassumere in questi progetti.

Anche se poi la notorietà universale di Vanvitelli resta soprattutto legata a quella Reggia di Caserta realizzata tra il 1752 e il 1845 per volere di Carlo di Borbone e del suo giovanissimo successore Ferdinando IV […] diventata nel 1997 (con l’annesso Acquedotto Carolino e il Belvedere di San Leucio) Patrimonio dell’umanità più volta trasformata in set holliwoodiano (da Star Wars a Mission Impossible ) e che nel 2022 ha inanellato oltre 770 mila visitatori superando i numeri pre-Covid.

Le celebrazioni per i 250 anni dalla morte di Vanvitelli (Napoli, 12 maggio 1700-Caserta, 1° marzo 1773), che si apriranno proprio il 1° marzo, riportano in primo piano l’idea di un’archistar «capace — come spiega Tiziana Maffei, direttrice della Reggia di Caserta, che delle celebrazioni sarà il fulcro — di utilizzare l’architettura per la celebrità, anche se poi la sua fama si lega prima di tutto alla capacità di gestire i cantieri e alla sua affidabilità».

La capacità di un costruttore nel senso più lato della parola, artista e tecnico insieme […]Una miscela degna appunto di un’archistar («Mi piace molto essere chiamato costruttore», ama dire Renzo Piano) che ritrova con queste celebrazioni, aggiunge la direttrice Maffei, «la giusta collocazione, quella collocazione che forse negli anni gli era stata negata dalle invidie dei contemporanei, dall’essere stato allo stesso tempo architetto sia del papa che del re».

 D’altra parte la celebrity era in qualche modo già scritta nel destino di Luigi, figlio di quel Gaspar van Wittel (1653-1736), pittore e disegnatore olandese naturalizzato italiano (il suo nome sarebbe così diventato Gaspare Vanvitelli), le cui vedute delle città d’Italia (dal Bacino di San Marco a Castel Sant’Angelo) rappresentavano all’epoca uno status symbol per famiglie reali, nobili o semplicemente molto ricche. […]

Per Sangiuliano «Vanvitelli è stato un gigante assoluto che ha lasciato segni tangibili nel nostro Mezzogiorno e in tutta Italia», un genio «capace di trasmettere immediatamente la percezione della bellezza e di cui ancora apprezziamo l’armonia». […]

 Schivo, amante della musica e del lotto: il nipote Luigi Vanvitelli jr così lo descriveva nella sua Vita dell’architetto Luigi Vanvitelli (1823; ancora un anniversario).

Precisando poi: «Estremamente laborioso, e disegnatore indefesso, egli riuniva qualità sovente discordi, prontezza d’ingegno e sofferenza di studio, vivacità di spirito e ostinazione di fatica. In mezzo a tante occupazioni e gloria sì rara, era sempre umano, moderato, piacevole, discreto cogli operai, pietoso con i miseri, cortese con tutti. Raro ed imitabile esempio di lodevolissima onestà, di dolci costumi, nettissimo d’invidia, affabile e sincero per natura era da tutti desiderato, ed amici aveva moltissimi».

Alla Reggia di Caserta […  ]le celebrazioni coincideranno con una serie di appuntamenti ancora in parte da definire: gli interventi strutturali sulla Grande Galleria, sulla scala elicoidale e sulle sale di rappresentanza; l’apertura al pubblico a marzo delle quattro Sale delle Guardie; il restauro dei plastici della Reggia che Vanvitelli fece realizzare dall’ebanista Antonio Rosz; il riallestimento di tutte le opere di Terrae Motus (la collezione d’arte contemporanea istituita nel 1980 dopo il terremoto dell’Irpinia) con una sala dedicata (da luglio) a Lucio Amelio, inventore-creatore di Terrae Motus ; il recupero definitivo, dopo anni di non-utilizzo e difficoltà gestionali causate dall’assenza di giardinieri, delle serre borboniche (alla loro originaria vocazione produttiva grazie al progetto «Semi»).

E ancora: le Giornate internazionali di studio di Storia dell’architettura di Vanvitelli: il linguaggio e la tecnica organizzate (dal 28 febbraio) dall’Università degli Studi di Napoli Federico II; il convegno L’eredità del Maestro: la Reggia di Caserta che chiuderà ufficialmente le celebrazioni; la mostra I luoghi di Vanvitelli in Italia. Eredità, fotografia e paesaggio con le fotografie di Luciano Romano e Luciano d’Inverno; l’emissione di monete celebrative in oro e argento da parte del Poligrafico e Zecca dello Stato. […]

«Caro figlio, la patria è dove ci si sente meglio»: l’inedito di Luis Sepúlveda. Una missiva al figlio che tornava in Cile dopo 20 anni, riapre nel grande scrittore la ferita dell’abbandono. In un testo ritrovato da Daniel Mordzinski, le riflessioni attualissime su esilio e radici. Luis Sepúlveda su L'Espresso il 26 Aprile 2023.

Noi cileni amiamo i diminutivi, forse perché viviamo in un Paese troppo grande, siamo pochi e il calore dei diminutivi ci fa sentire meno soli. Ogni Carlos lo chiamiamo Carlitos, e voglio parlare proprio di un Carlitos che torna in Cile dopo vent’anni di assenza.

Carlitos lasciò il Paese quando aveva appena otto anni e a dire il vero non voleva andarsene, non voleva salire sull’aereo, non voleva nemmeno essere gentile con il signore dell’ACNUR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che accompagnava lui e sua madre proteggendoli dagli sguardi d’odio della soldataglia, lanciati soprattutto alla madre, che era sopravvissuta a un centro di tortura clandestino chiamato Villa Grimaldi. 

Carlitos stringeva una piccola valigia. I suoi averi non erano molti: qualche cambio di vestiti, un maglione fatto ai ferri dalla nonna, un libro sui dinosauri e un pupazzo di plastica del capitano Han Solo, l’eroe più simpatico e coraggioso di Guerre stellari. Prima di salire sull’aereo, un ufficiale dei servizi segreti militari gli consegnò il suo primo passaporto. Sul frontespizio c’era una misteriosa «L» e una scritta: «Documento valido per l’ingresso in ogni Paese, tranne per il rientro in Cile». Così Carlitos, a sette anni, si unì alla confraternita universale degli esiliati.

Era un soggetto pericoloso per la dittatura di Pinochet? Forse. Il prete che dirigeva la scuola salesiana dove studiava sosteneva di non avergli mai sentito pronunciare discorsi sovversivi, ma le sue ripetute assenze alle lezioni di religione lo rendevano sospetto. Inoltre Carlitos aveva dato prova di coraggio davanti ai militari: quando nel 1973 gli avevano arrestato il padre, aveva tranquillizzato la madre giurandole che papà ne sarebbe uscito vivo, perché poteva contare sulla protezione di Sandokan. Tre anni dopo, quando avevano arrestato e fatto sparire sua madre, non aveva pianto davanti ai soldati, ma li aveva affrontati avvertendoli che su di loro si sarebbe abbattuta tutta la forza della Federazione Galattica.

Carlitos si chiama Carlos Sepúlveda. È il maggiore dei miei figli. L’ultima volta che l’ho visto in Cile aveva cinque anni. Quando l’ho rivisto a Stoccolma, in una gelida giornata di gennaio, ne compiva otto. Fra pochi giorni ci rivedremo in Cile e festeggeremo i suoi ventotto anni. Un paio di settimane fa ho parlato di lui, della sua vita e del suo ritorno, a Jerome Charyn. Quel grandissimo scrittore ha ascoltato in silenzio e poi ha mormorato: «Carlitos comes back». La sua vita, come quella di tutti i bambini in esilio, non è stata facile, ma in lui c’è sempre stato qualcosa che l’ha protetto dalla disperazione e dalla frustrazione che ha ucciso tanti compagni, fisicamente o spiritualmente, o in entrambi i modi, a prescindere dall’età.

In esilio, nel corso degli anni, ha saputo della morte dei nonni, ha sofferto la perdita del suo Paese affettivo, ma allo stesso tempo ha accolto con grandissime dimostrazioni d’amore l’arrivo di tre fratelli. Ci vedevamo ogni volta che era possibile: io andavo in Svezia o lui veniva in Germania. A un certo punto, fra una visita e l’altra, ho perso il bambino e ho trovato l’adolescente. Il capitano Han Solo è stato rimpiazzato da un gruppo di ragazzi svedesi con cui ha formato una rock band, e alla fine di un concerto, quando ho visto che veniva applaudito da decine di ragazze, ho trovato il coraggio di parlargli di certe cose che consideravo importanti. «È arrivata l’ora di dirti qualcosa di intelligente» l’ho avvisato. «Okay, vecchio saggio. Rivelami qualche verità universale», ha ribattuto. «Mio nonno diceva che uno è di dove si sente meglio».

«Bellissimo. È vero. Io sono di qui» ha risposto, e stringendo la sua chitarra Fender Stratocaster è salito di nuovo sul palco tra le grida felici delle ragazze che lo applaudivano. Ho sempre sospettato e oggi sono sicuro che Carlitos ha fatto della musica il posto dove si sente meglio. La musica è stata ed è la sua patria. E persino la sua famiglia, perché quel gruppo di ragazzi svedesi è rimasto: prima si chiamavano Base, ora si chiamano Psycore e sono uno dei gruppi hard rock più famosi in Scandinavia, Inghilterra e Germania.

«Uno è di dove si sente meglio» mi ha ripetuto otto anni fa presentandomi una bellissima ragazza svedese, e poi ha aggiunto: «Si chiama Linda e sarà la mia compagna per tutta la vita». È vero, lo è stata e lo sarà sempre. Nell’aprile del 1999 si sono sposati e abbiamo fatto una grande festa, a cui hanno partecipato tutti i suoi fratelli tedeschi, il fratello svedese, la sorella ecuadoriana e centinaia di amici. Fra gli invitati c’era anche mia madre, l’unica nonna che gli era rimasta. E lei gli ha restituito un pezzo di Cile: una tazza d’argento in cui il nonno di Carlitos, mio padre, aveva l’abitudine di servirle la colazione. Allora, per la prima volta, l’ho visto piangere, stringendo la tazza e ripetendo la parola Cile con tutto il dolore della perdita, con tutta la furia amorosa degli anni di esilio. Io e i miei figli ci intendiamo con poche parole. Era arrivato il momento di tornare, di fare i conti con la vita, e ho capito che voleva avermi al suo fianco. Fra pochi giorni saremo a Santiago. Carlitos non porterà con sé il capitano Han Solo. Nella mano stringerà la mano di Linda, la sua compagna, la mia amatissima nuora svedese, e dopo aver visitato le tombe dei nostri morti berremo un bicchiere di vino cileno, un vino allegro, sano e fraterno che lo aspetta da vent’anni e che lui si merita, perché, come suo nonno e il suo bisnonno, Carlitos appartiene alla stirpe degli uomini che amano la vita, e questo amore ci ripete che vinceremo.

Luis Sepúlveda e Daniel Mordzinski, biografia di un’amicizia. Sabina Minardi su L'Espresso il 26 Aprile 2023. 

Il fotografo è stato testimone del lavoro dello scrittore. Insieme hanno dato vita a diversi libri. Il 15 giugno il Festival letterario Taobuk di Taormina l’omaggio al grande scrittore cileno scomparso tre anni fa

È stato il suo fotografo, compagno di viaggio, testimone del lavoro e della vita. Daniel Mordzinski, “il fotografo degli scrittori”, ha accompagnato Luis Sepúlveda molte volte nei suoi itinerari geografici e letterari. Con l’intesa di due fratelli, hanno dato forma a diversi libri, come “Ultime notizie dal Sud”, frutto delle loro esplorazioni in Patagonia e Terra del Fuoco.

Quando il Covid ha portato via il grande scrittore cileno, esattamente tre anni fa, davanti a quel mar Cantabrico dove aveva vissuto per 23 anni, «qualcosa si è spento in me e da allora cammino come al buio, perso e disorientato, senza trovare requie», ha scritto Mordzinski. Per contrastare il lutto, ha gettato ancora una volta un ponte tra le loro passioni, la letteratura e la fotografia, riunendo diversi testi di Sepúlveda e scovandone molti inediti, come quello qui pubblicato. Il risultato è un’antologia a quattro mani, “Hotel Chile” (pp. 208, € 18, tradotto da Ilide Carmignani), che Guanda manda il libreria il 2 maggio.

Mordzinski sarà protagonista assieme alla scrittrice Carmen Yáñez, che con Sepulveda ha condiviso vita e lotta politica, dell’omaggio allo scrittore che il Festival letterario Taobuk di Taormina gli tributerà il 15 giugno, nell’ambito della rassegna (fino al 19 giugno) quest’anno interamente dedicata alle Libertà.

La guerra "vera tra le vere". Ecco il soldato Céline. Nelle memorie di Jaques Pavard sul Primo conflitto mondiale, il riferimento del "maresciallo Destouches". Andrea Lombardi il 24 Settembre 2023 su Il Giornale.

Una testimonianza diretta si aggiunge all'ormai voluminoso dossier delle fonti letterarie, epistolari e degli archivi militari che sviscerano l'esperienza della Grande guerra di Céline: l'edizione, a lungo ignorata dai ricercatori internazionali, dei Souvenirs et notes d'un cuirassier (Ricordi e note di un corazziere) di Jacques Pavard, pubblicata privatamente dalla sua pronipote Coralie Ceccaldi nel 2009, scoperta dallo scrivente lo scorso mese durante il nostro perenne peregrinare tra la vita e le opere dello scrittore francese e che è oggetto di un approfondimento a cura del ricercatore Gaël Richard nel periodico Le Bulletin célinien di settembre.

Nei ricordi di Jacques Pavard, nato nel 1890 e assegnato al momento della mobilitazione generale il 2 agosto 1914 al 12° Reggimento corazzieri, lo stesso reparto dove prestava servizio il Maréchal des Logis Louis Destouches, e coprenti l'intero conflitto (Pavard sarà smobilitato il 6 maggio 1919, e morirà nel 1959), emergono delle annotazioni rivelatorie sugli ultimi mesi passati al fronte dal Maresciallo Louis Destouches e sulle giornate cruciali dal 26 al 29 ottobre 1914, quelle della sua ultima azione di guerra e del suo ferimento, passi di capitale importanza nel suo "divenire Céline". Inoltre, gli studi su questo periodo della vita di Céline sono stati di recente rimessi in discussione dalla pubblicazione del manoscritto inedito di Guerra, la cui scrittura è stata definitivamente datata come posteriore al Viaggio da Henri Godard nella sua prefazione alla nuova edizione dei romanzi di Céline nella prestigiosa collana della Pléiade includente i manoscritti riemersi fortunosamente nell'estate del 2021.

Nel 1914 il Maresciallo Destouches accoglierà la notizia della guerra con lo stesso entusiasmo patriottico di milioni di giovani come lui in tutta Europa, come testimoniato da questa lettera ai genitori scritta poco prima della partenza per il fronte, tanto diversa per stile e spirito dal Viaggio al termine della notte: "Cari genitori: l'ordine di mobilitazione è arrivato partiamo domani mattina alle 9 h 12 per Étain nelle pianure della Wöevre non credo che entreremo in azione prima di qualche giorno. Quanto a me farò il mio dovere sino in fondo e se per fatalità non dovessi tornare... siate sicuri per attenuare la vostra sofferenza che muoio contento, e ringraziandovi dal profondo del cuore. Vostro figlio". Ma dopo qualche settimana al fronte, la guerra inizia a mostrarsi al giovane Destouches per quello che è: niente eroiche cariche di cavalleria, ma un cieco tritacarne. Come dirà a Pierre Ordioni nel 1939: "Senza il Maresciallo d'alloggio Destouches, non ci sarebbe mai stato Céline. Vedrà, al ritorno non sarà più lo stesso. La guerra vi fa smaltire la sbornia", mentre dal "Viaggio al termine della notte": "Si faceva la coda per andare a crepare. Perfino il Generale non trovava più accampamenti senza soldati. Abbiamo finito per dormire tutti in aperta campagna, generali o no. Quelli che avevano ancora un po' di cuore l'hanno perso. È a partire da quei mesi lì che hanno cominciato a fucilare i soldati semplici per tirargli su il morale, a drappelli interi, e che il gendarme ha cominciato a essere citato all'ordine del giorno per il modo con cui conduceva la sua piccola guerra personale, quella profonda, vera tra le vere".

Dopo aver partecipato ai combattimenti sulla Marna nel settembre 1914 il 12° Corazzieri muoverà quindi verso Langemark nelle Fiandre, e tra il 25 e il 28 ottobre coprirà il fianco sinistro del 66° Reggimento della 18esima Divisione di fanteria, il cui compito era di riconquistare Poelkapelle, un piccolo comune a nord ovest di Ypres, nella valle del Lys. Il 27 ottobre Poelkapelle è battuta incessantemente dal tiro dell'artiglieria e delle mitragliatrici tedesche, tanto che sembra impossibile garantire con staffette le comunicazioni tra il 66° e il 125° Reggimento di fanteria, impegnati a fondo e con gravi perdite nell'attacco all'abitato. È in questo momento che il Maresciallo Destouches, distaccato come staffetta presso il Comando reggimentale del 125°, si fa avanti, dandosi volontario per questa missione quasi suicida. Louis riuscirà a portare a termine il pericoloso compito, ma al ritorno, intorno alle ore 18, è ferito gravemente al braccio destro da un proiettile, oltre a essere gettato contro un albero dall'onda d'urto dell'esplosione di un proiettile d'artiglieria, riportando probabilmente una commozione cerebrale. Così il corazziere Jacques Pavard ricorda nelle sue memorie ritrovate il combattimento per Poelkapelle e il ferimento del Maresciallo Destouches: "Dobbiamo tenere costi quel che costi a Langemark, il 66° attacca Poelkapelle. Jouanin perde il suo cavallo e andrà a cercarlo l'indomani. Fleurentin, Denis et Pape sono al posto di comando del 125° con il Maresciallo Destouches. Passiamo la notte nella fattoria più vicina, sfamandoci con del coniglio. Piove tutta la notte, i cavalli non dissellati con le briglie legate a un recinto, noi sdraiati ai piedi della casa. L'indomani, il 66° attacca ancora, Poelkapelle deve essere presa per mezzogiorno, noi portiamo gli ordini ai comandanti di Battaglione e al Tenente Colonnello 125° che comanda la Brigata, le mitragliatrici crepitano, un cannone del 30° spedisce 210 granate sul campanile di Poelkapelle!!! Dietro di noi, più di 30 pezzi d'artiglieria a dieci metri l'uno dall'altro fanno un gran fracasso!!! Ma alle cinque, Poelkapelle non è stata presa, il 66° ha perso un sacco di uomini, Chouquet dei nostri è stato ferito, e anche Destouches. La sera dormiamo nel fienile della fattoria, dei proiettili attraversano il tetto". Mentre nella prima bozza di Féerie pour une autre fois, scritta in prigione in Danimarca nel 1946, Céline scriverà: "La guerra 1914 sempre nell'orecchio - Poelkapelle la cella" - fondamentale questo parallelo di Céline tra l'esperienza bellica e quella carceraria , ricordante un passo all'inizio del manoscritto di Guerra: "Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l'ho chiusa nella testa". Dopo essersi ricongiunto alla sua unità, il Maresciallo Destouches raggiungerà un ospedale da campo presso Ypres e sarà poi da lì evacuato a Hazebrouck, località rievocata in Guerra nel toponimo di fantasia Peurdu-sur-la-Lys, unione drammaticamente evocativa di peur (paura) e perdu (perduto), dove sarà operata la frattura del braccio, e poi ricoverato in degenza all'ospedale militare Val-de-Grâce a Parigi, dove subirà un secondo intervento chirurgico il 19 gennaio 1915. Dichiarato inabile al servizio e invalido al 70%, viene riformato il 2 settembre 1915: finisce così il servizio attivo di Louis Destouches nell'Armée, e nasce la leggenda di Céline. Andrea Lombardi

La sua letteratura a 60 anni dalla morte. Louis-Ferdinande Céline, il gigante che indagò da ‘dentro’ la bestialità dell’uomo. Mario Lavia su Il Riformista l'1 Giugno 2023 

La letteratura di Louis-Ferdinande Céline si svolge tutta “dentro”. Dentro la testa, dentro le viscere. Non sa guardare “fuori”, questo gigante che narra con un francese a scatti, nervoso, una lingua che viene anch’essa da “dentro”, non levigata come quella dei classici, per “raccontare” i suoi personaggi, marionette impazzite in un mondo animalesco.

Si, Céline è un gigante del Novecento che si è scagliato contro il mondo voltando la pagina della scrittura e che ha distrutto la memoria («Era una bolgia, la memoria»), il contrario di Proust che passò tutta la vita a tentare di ricostruirla: «È una carogna il passato, sempre ubriaco di smemoratezza, un vecchio marpione che ha sputato su tutte le tue storie». Per quanto fosse un personaggio odioso, ferocemente antisemita fino all’approdo nazista (perché tutto l’odio del mondo alla fine confluisce nell’olio per l’ebreo), il dottor Destouches (il suo vero nome), scrittore furente fino alla bestialità – la bestialità dell’uomo, la bestialità del suo tempo di guerra – a sessant’anni dalla morte resta come un grandioso punto interrogativo della letteratura del Novecento, il secolo della guerra.

E “Guerra”, appunto, è il breve romanzo probabilmente scritto nel 1934 ritrovato dopo decenni e varie peripezie diventato subito un caso letterario in Francia e adesso pubblicato da Adelphi grazie alla non facile impresa di Ottavio Fatica che lo ha tradotto. È un distillato, “Guerra”, di ciò che il lettore céliniano ha già abbondantemente affrontato con la grande opera di Céline, il Voyage au bout de la nuit (e per chi non la conosce questa è un’ottima tappa di avvicinamento), raccontando appunto «lo scoppio della guerra nella testa» del protagonista Ferdinand (lo stesso nome dell’eroe del Voyage) durante quella Prima Guerra mondiale che vide lo stesso Céline in trincea a un certo punto, il 27 ottobre 1914, ferito gravemente – e del dolore alla testa si lamentò per tutta la vita.

Ferdinand-Céline è un fantasma che si aggira nei gironi infernali di una Francia desertificata ove rimbomba lontano il rumore di un cannone, si cura in modo parossistico in una specie di ospedale in una cittadina informe tra uomini mezzi matti e donne-schiave. Ferdinand è avviluppato dentro un turbinìo di sensazioni da proto-eroinomane e di assenza totale di umanità («Io all’umanità non devo niente»), come uno scarafaggio emerso in superficie dalla fossa della Storia tra altri personaggi-insetti uno peggiore dell’altro, tranne forse il camarade Bébert che poi farà una brutta fine, con le donne di Céline che sono animali come animali sono gli uomini, una assurda “parità” al ribasso della dignità.

Il racconto è dunque un non-racconto, come in Beckett, ma la prosa violenta e asimmetrica di Céline non è intellettualistica, viene da “dentro”, è autenticamente carne: ed è senza dubbio letteratura. Solo in un passaggio anch’egli evoca la grande prosa francese: «Lontano, lontano c’erano sempre il sole e gli alberi, tra poco arrivava l’estate (…) È fragile il sole del Nord. A sinistra scorreva il canale addormentato sotto i pioppi pieni di vento. Se ne andava a mormorare quelle cose laggiù fino alle colline e poi filava dritto fino al cielo che lo proseguiva in azzurro prima delle più grandi delle tre ciminiere sulla linea dell’orizzonte».

Ma è solo una brevissima pausa bucolica nell’inferno di sangue, odio, corpi e nefandezze, tutto scarnificato nelle miniature di una scrittura rapidissima ed essenzialmente infame, senza misericordia e senza sentimento con, forse, una apertura sul futuro quando alla fine Ferdinand lascia la Francia per l’Inghilterra. Però tutto tende a confluire nel mistero, nella mancanza di un filo, nella morte della ragione. Che per Céline non è mai nata davvero, su questa terra infame… Mario Lavia

Louis-Ferdinand Céline. Estratto dell'articolo di Roger Mauge per “Paris Match” del 24 settembre 1960 - ripubblicato da “il Giornale”

Céline, Lei ha una miniera, con tutto quello che è successo durante il periodo bellico e dopo...

«Vede, la sfrutto anch'io. E questa cosa rende gelosi gli altri che dicono: Cazzo, quello stronzo ne approfitta». 

Tutto quello che è successo durante i pochi mesi in cui il suo libro si svolge è profondamente drammatico...

«Oh! Si svolge su un bel po' di tempo, anni direi! Un fuorilegge, per questo si deve essere fuorilegge, cioè essere nella morte. L'essere condannato a morte, beh, ti rende un personaggio speciale. Tutti vogliono condannarti a morte, ovvio, ma, diciamo, in modo legale, eh. Sì, è divertente. Bene, allora ecco il caos. Non vediamo spesso un caos sociale.

Tutto viene ribaltato, no? C'è uno strano modo di passare dietro le quinte per guardare. Allora si passa dietro le quinte e vediamo che tutto va a rotoli, che ognuno fa kaputt ed esce di scena. Bene. Quindi è tutto un po' confuso. Allora, dio mio, è già una fortuna che la gente mostri interesse, ma in realtà non sono molto interessati. Continuano a interessarsi alla storia della tabaccaia. La cosa invece spassosa è osservare qual è il gusto del pubblico. Beh! 

Il gusto del pubblico incontra il romanzo popolare. Il romanzo popolare è fantastico. Semplice, e in effetti è questo il più venduto. La vera lettura non è mica in libreria, no! È dalla merciaia, all'edicola, alla caffetteria della stazione. È lì che si comprano i libri. La riprova è che i Delly fanno 150 milioni di profitto all'anno. In un attimo. C'è una vecchia ridicola e pretenziosa, qui vicino, la Desmarest. Fa un libro. Mai una riga di recensione. Mai una riga di niente di niente. E si fa 20 milioni in un batter d'occhio». 

Oppure Françoise Sagan?

«Sì, stessa cosa. È scappata dalla merceria». 

[…] 

Gli intervalli di tempo ci sembrano lunghissimi, venticinque, cinquant'anni, ma alla fine non sono poi così lunghi. Non ci possono essere geni ogni cinque anni.

«Geni, no. Questa è la parte spettacolare, siamo d'accordo. Ma per esempio sento spesso dire: Tizio ha una portentosa lingua teatrale. Oh! Che battute! Sono splendide! Che forza, che presenza!, allora io leggo, osservo, cerco la forza, la presenza. Non c'è niente. Oh! Questa battuta... è stato sorprendente. Vedrà quel che ha detto!. E invece... il nulla. È mortale.

Non è nemmeno brutto, no, anzi. Cercando bene, avevo visto tre, quattro tizi che avevano avuto un'intuizione, che c'erano quasi arrivati. Erano Ramuz lo svizzero, Paul Morand e poi Barbusse. Visioni diverse, generi diversi che avevano percepito la rottura del ritmo. I vomitevoli Bordeaux, Bourget, Anatole France. È carino Anatole France, è molto elaborato, davvero niente male, è grazioso ma poi mi chiedo: E dopo? Benissimo, l'ha portato al massimo grado ma adesso ci sono solo dei mezzi scemi, dei pezzenti e delle straccione. Nient'altro». 

Credo di aver letto quasi tutti i suoi libri e ho letto quest'ultimo tutto d'un fiato. Mi ha colpito il fatto che non ci fossero scene di sesso.

«Eh, ma c'è il Procuratore. Qui il Procuratore non ha niente da ridire, ma sono certo che se ci fosse il benché minimo accenno al sesso, allora ci sarebbe un buon padre di famiglia, un Resistente particolarmente virtuoso che non esiterebbe a scrivere al Procuratore».

C'è comunque un vecchio che si fa fustigare.

«Sì, quello sì. Ma il resto lo lascio alla Sagan. Adesso, è tutto della Sagan, di Sartre. Tutta quella gente si abbandona al sesso. Oh! Il sesso! Povere piccole merde! Non si reggono su ritti. Mancano di vigore. Io che ho trascorso la vita tra i culi delle ballerine! Che cosa andrà cercando, la povera piccola Sagan, con i suoi fiammiferini.  È una rottura il sesso, no? Perché il francese è libertino, dobbiamo essere libertini. Allora avanti tutta Vecchio Arrapato! Oh! Mi piace da matti! Oh!, ed è così alla radio tutto il giorno. Oh! Come mi prendeva! Oh, lo adoro, oh! Il mio Uomo!». 

I suoi personaggi esistono davvero o sono tutta farina del suo sacco?

«Hauboldt, esiste. Mattke pure». 

È simpatico Hauboldt.

«Sì, diciamo che rappresenta bene i tedeschi che non esistono più, la razza che abbiamo distrutto, insomma, è finita. Era gente come quella del Rinascimento, pronta a tutto, che era umana e per niente stupida. Non se ne trovano più di persone così. Tutto finirà con la canaglia, diceva sempre Nietzsche. È vero. Ci siamo.  (Il regime nazista è stato) tirato su da gente che non aveva viaggiato abbastanza. Hanno iniziato quell'affare senza le forze necessarie. Era persa in partenza. Napoleone è voluto andare in Russia per mandare all'aria i Russi. Hanno fatto lo stesso di Napoleone».

Scrive qui?

«Mai qui. All'interno. In bottega. Scrivo... è una parola. Lei scrive, Maestro?, Cosa ci sta preparando, Maestro?, L'ho capita, su..., Alla Sig.ra Gertrude che mi ha capito. È un bel messaggio. Vanno proprio a braccetto. Ma tutti questi imbecilli della letteratura sono ricchi, loro». 

Sì, credo si guadagnino velocemente parecchi soldi...

«Beh! Sapete che la NRF riceve 10.000 manoscritti all'anno e che pubblica 350 libri su quei 10.000, e di quei 350 libri, quanti crede che si vendano? Sono stampati in 3.000 copie. Quanto crede che si venda, di questa tiratura di 3.000? 300». […]

(traduzione di Valeria Ferretti)

Antonio Gnoli per “la Repubblica – Robinson” - ESTRATTO l'8 maggio 2023. 

Autrice di documentari televisivi, scrittrice, giornalista. Ha attraversato vari generi: la poesia, la drammaturgia, il romanzo, le interviste. Da un paio di mesi ha compiuto novant’anni: “ La mia storia più importante è stata quella con Vittorio Sermonti”

Quella fragilità del corpo, che ogni novantenne vive come una minaccia, non le impedisce di combattere ancora e raccontarsi attraverso la forza del ricordo.

E i ricordi, per Ludovica Ripa di Meana, sono come scatole meccaniche che si aprono da sole. «È strano – dice – ma da qualche tempo non devo più compiere sforzi per ricordare.

Non è la mia mente che pesca tra i ricordi, ma sono questi che si lasciano cadere dall’alto, come piccole gocce di luce. Oggi il passato mi rende meno incerta e mi fa dire che la vita che ho avuto – bella o brutta che sia stata – mi è appartenuta interamente, con gli uomini che ho amato e a volte detestato, i libri scritti, i sogni inseguiti, i figli realizzati. E se tu mi chiedessi che cosa provo, ti risponderei che non provo nessuna nostalgia».

………………….. 

Cosa ti manca di Vittorio?

«L’essenziale e forse di più. Tutto quello che nella casa vedi ha subito pochissime modifiche. Da anni vivo sola e penso che la continuità tra il passato e il presente sia dettata dalla necessità di cambiare il meno possibile il posto degli oggetti, i libri, le poltrone, i quadri, le foto». 

Come un fermo immagine.

«Una fotografia corrisponde a questo stato d’animo che descrivo». 

Sbiadita?

«Per niente. È come se ogni volta una certa luce del passato irrorasse questo fermo immagine e producesse nuove interpretazioni. Qualcosa di sorprendentemente analogo mi sembrò di viverlo nella casa di Contini e in quella di Gadda. Come se anche lì il tempo si fosse arrestato».

Su entrambi hai scritto delle belle pagine.

«Più che altro un atto dovuto. Nel caso di Gadda delle note diaristiche riposte e uscite 40 anni dopo la sua morte. Andai da lui, con la mediazione di Giancarlo Roscioni, per intervistarlo. Viveva in una casa molto modesta. Di una tristezza che afferrava alla gola.

Sedeva normalmente su una poltrona da giardino, fatta con i fili di plastica, che troneggiava nel salotto. C’era la stanza dove dormiva e quella di Giuseppina, la domestica». 

Che impressione ti fece?

«Poteva essere dolce o iroso; timido fino all’imbarazzo o severo nel tono. A volte isterico. Ricordo un duetto con Giuseppina che a volte lo provocava, facendogli il solletico. Beh, un giorno assistetti a una scenetta insolita. Giuseppina che rivolgendosi a me diceva “signora mia la vede sta criatura in poltrona – la creatura era Gadda – troia mi ha detto. Brutta troia, mi ha chiamato”. E Gadda con occhi furiosi pieni di odio che le diceva mi lasci in pace, vada via!». 

Litigavano spesso?

«Non lo so, non credo. Tanto è vero che poi quel pomeriggio si concluse con la lettura dei Promessi sposi, il romanzo che Gadda amava sopra ogni altro». 

Contini invece?

«Con lui è stata la frequentazione tra un maestro e una specie di allieva con studi disordinati alle spalle. Dovevo fargli un’intervista radiofonica. Ma l’ictus gli aveva creato problemi di espressività. L’austero filologo, che alla parola aveva dedicato tutto se stesso, non era più intelligibile. Ma fu accogliente. Ricordo che mi presentai tutta tremebonda e lui capì quanto fossi disarmata. Si rese conto immediatamente della mia inadeguatezza culturale. Eppure fu generoso e prodigo di storie quando gli chiesi se potevamo immaginare un libro insieme. Per otto giorni andammo a Domodossola dove era nato. Aspettava il nostro arrivo sulla soglia della casa». 

……………… 

Vista la tua “inadeguatezza” come ti eri posta davanti a lui?

«Volevo innanzitutto capire e per capire dovevo essere umile. Dice Simone Weil che l’umiltà è la prima qualità dell’attenzione». 

Accennavi ai tuoi studi disordinati, a cosa si dovevano?

«A un crollo economico della famiglia. Mio padre ufficiale, aristocratico piemontese, incapace di guadagnare. Mia madre, figlia di un importante politico austriaco, era piuttosto dotata per gli affari. Vivevamo, intendo io e i miei sei tra fratelli e sorelle, nell’agiatezza. Dopo la guerra finì tutto. La famiglia si impoverì perdendo i capitali e le proprietà. I miei si separarono e io smisi di studiare. La retta scolastica era troppo alta. A 16 anni andai a lavorare. Il primo impiego fu segretaria in un’agenzia immobiliare. Capisci allora il mio terrore davanti a Contini. In pratica sono una autodidatta». 

A parte l’impiego cosa facevi a Roma?

«Ero rapita da questa città che alla fine degli anni Quaranta era bellissima. Lo era così profondamente da farmi pensare che l’essere umano sia inappropriato davanti a Roma». 

Vuoi dire inerme?

«È la sensazione di impotenza che scaturisce dallo scarto tra l’eternità della città e la caducità umana. Sono convinta che il cinema abbia potuto ambientarsi a Roma solo grazie a questo contrasto. Qui ho avuto le prime storie sentimentali fino all’innamoramento con Carlo Aymonino». 

L’architetto?

«Proprio lui. Un uomo bello e ti confesso che ho sempre avuto una passione per gli uomini belli». 

Anche tu non scherzavi quanto a grazia e bellezza.

«Sì, ma allora, a vent’anni, non mi prendevo sul serio. Però la bellezza, quella altrui, ha avuto un potere enorme su di me». 

Eravamo rimasti ad Aymonino.

«Ci mettemmo assieme nel 1951 e ci sposammo che ero incinta. Negli anni che abbiamo condiviso ho fatto la moglie e la madre. Mi stavo intristendo. Oltretutto, Carlo era comunista e ci poteva stare, ma lo era in maniera ottusamente ideologica. E poi, quando scoprii l’uomo aggressivo, incline alla violenza verbale e perfino fisica, cominciai a star male. Ricordo che durante un diverbio mi diede una spinta, caddi urtando dei mobili e con la caduta si concluse il nostro rapporto». 

A proposito di maschi violenti qual è il tuo rapporto con il femminismo?

«Non ho un grande feeling, per dirla tutta non l’ho mai avuto». 

Perché?

«Certi discorsi teorici, fondati sul concetto di differenza, di cui capivo ben poco, mi sono sembrati questioni ideologiche. Non voglio dire che certe rivendicazioni non fossero giuste, anzi, ma penso che il potere delle donne sia fatto di una sostanza molto più fluida e invece quello che notavo era la volontà di sostituirsi al dominio maschile con un potere altrettanto duro e inscalfibile». 

Tu hai scritto che la cosa che le femministe non hanno capito è che siamo tutti ermafroditi.

«Non ci vedo nulla di sbagliato nell’amare l’altro sesso e contemporaneamente il proprio». 

Ma tu hai avuto storie solo maschili?

«Se mi fossi innamorata di una donna non ci sarebbe stato problema».

…………………………

I tuoi figli?

«Aldo e Livia. Non credo di essere stata una madre perfetta. Voglio dire che la prima cosa che ho pensato quando sono nati, nell’ordine prima Aldo e poi Livia, è stato beh, ora siete al mondo e non vi considero mia proprietà. Vi amo, vi rispetto. Ma siete altro da me. È un ragionamento che puoi fare a un adulto non a una creatura appena nata».

Diciamo che non li hai soffocati di affetto.

«No, ma avrei potuto dedicar loro più tempo». 

Il tempo, per esempio, che hai dedicato a Vittorio.

«Ma sai, la relazione con Vittorio vive in un’altra dimensione. È stata la storia con la esse maiuscola. Un giorno gli dissi: siamo come un decrepito ermafrodito. Due vecchie anime fuse insieme». 

Come lo hai conosciuto?

«Avevo intravisto quest’uomo bellissimo e brillante da molto giovane. Mi risultò subito antipatico. Poi, anni dopo, fu Enzo Muzii con cui avevo condiviso una lunga storia ormai finita, a insistere che lo conoscessi. Come argomento usò un libro di Vittorio appena pubblicato, Il tempo fra cane e lupo. Mi disse leggilo. E quando settimane dopo incontrai Vittorio a una cena gli dissi: hai scritto un libro bellissimo. Era la storia del periodo in cui viveva a Praga. Dopo poco ci mettemmo assieme. Primi anni Ottanta. Siamo stati una cosa sola fino alla sua morte nel novembre del 2016».

Ora che non c’è più?

«Questi anni trascorsi senza di lui mi hanno detto da che parte stare. È come se un Vittorio invisibile avesse tracciato un cerchio dove potermi collocare. Ora sono lì, con i miei nervi, la mia memoria e la voce che ti sta raccontando. Mi illudo che non sia cambiato niente. E sono qui in attesa. Un paio di anni fa un ictus ha rallentato la mia vita. Mi sono ripresa. Sto bene. L’unico strascico è un incerto equilibrio. Ed è buffo». 

Buffo cosa?

«Buffo che per quasi tutta la vita abbia avuto bisogno della vertigine dell’altezza. Il resto è stato istinto». 

Stai alludendo a Dio.

«Anche. Il mio Dio non nasce dalla testimonianza religiosa. Dio è una parola che assorbe tutto. Un buco nero. La parola che non si può sapere. La soglia che non puoi superare. È il limite che noi umani ci siamo dati. Se mi chiedo perché sono al mondo non ho risposta. Ma c’è quella parola. Che mi fa affrontare pene, perdite e dolori. È lo stordimento e la vertigine che mi afferra in questo tempo di attesa che non passa mai».