Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2023

LA CULTURA

ED I MEDIA

QUARTA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
 


 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Covid: sembrava scienza, invece era un…calesse.

L’Umanità.

I Benefattori dell’Umanità.

Le Invenzioni.

La Matematica.

L’Intelligenza Artificiale.

La Digitalizzazione.

Il PC.

I Giochi elettronici.

I Robot.

I Chip.

La telefonia.

Le Mail.

I crimini sul web.

Al di là della Terra.

Gli Ufo.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Da Freud all’MKUltra.

I Geni.

I Neuroni.

La Forza della Mente.

Le Fobie.

L’Inconscio.

Le Coincidenze.

La Solitudine.

Il Blocco Psicologico.

La Malattia.

La Depressione.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scrittura.

La Meritocrazia.

Le Scuole al Sud.

Le Scuole Private.

Il Privatista.

Ignoranti e Disoccupati.

Ignoranti e Laureati.

Decenza e Decoro a Scuola.

L’aggiotaggio scolastico.

La Scuola Alternativa.

La scuola comunista.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’onestà e l’onore.  

Il Galateo.

Il Destino.

La Tenacia.

La Fragilità.

Body positivity. Essere o apparire?

Il Progresso.

Le Generazioni.

I Baby Boomer.

Gioventù del cazzo.

Il Linguaggio.

I Bugiardi.

L’Ipocrisia.

I Social.

Influencer.

Le Classifiche.

L’Amicizia.

Il fastidio.

L’Invidia.

L’Odio.

Il Mostro.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Moda.

Le Auto.

I Fumetti.

I Giochi da Tavolo.

L’Architettura e l’Ingegneria.

Il Restauro.

Il Podcast.

L’Artista.

La Poesia.

La Letteratura.

Il Teatro.

Le Autobiografie.

L’Ortografia.

Intrecci artistici.

La Fotografia.

Il Collezionismo.

I Francobolli.

La Pittura.

I Tatuaggi.

Le Caricature.

I Writer.

La Musica.

La Radio.

Le Scoperte.

Markalada, l'America prima di Colombo.

La Storia.

La P2 culturale.

Ladri di cultura.

I vandali dell'arte.

Il Kitsch.

Gli Intellettuali.

La sindrome di Stendhal.

Gli Snob.

I radical chic.

La Pubblicità.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Alberto Asor Rosa.

Alberto Moravia.

Aldo Nove.

Alessandro Manzoni.

Alessia Lanza.

Aleksandr Isaevic Solzhenicyn.

Andy Warhol.

Andrea Camilleri.

Andrea Pazienza.

Anna Premoli.

Annie Duchesne Ernaux.

Anselm Kiefer.

Antonio Delfini.

Antonio Riello.

Artemisia Gentileschi.

Benedetta Cappa.

Barbara Alberti.

Beethoven.

Banksy.

Camillo Langone.

Caravaggio.

Carlo Emilio Gadda.

Chiara Gamberale.

Cristina Campo.

Curzio Malaparte.

Dacia Maraini.

Dante Alighieri.

Dante Ferretti.

Dario Fo.

Dino Buzzati.

Domenico "Ico" Parisi.

Eduardo De Filippo.

Elena Ferrante.

Eleonora Duse.

Emanuel Carnevali.

Emmanuel Carrère.

Émile Zola.

Emilio Isgrò.

Ennio Morricone.

Enrico "Erri" De Luca.

Erin Doom.

Eugenio Montale.

Eve Babitz.

Ezra Pound.

Fabio Volo.

Federico Fellini.

Federico Palmaroli: Osho.

Friedrich Nietzsche.

Filippo Tommaso Marinetti.

Francesco Alberoni.

Francesco Piranesi jr.

Franco Cordelli.

Franco Ferrarotti.

Franz Kafka.

Fulvio Abbate.

Gabriele D'Annunzio.

Gaetano Bonoris.

Gaetano Salvemini.

George Orwell.

Georges Simenon.

Giacomo Leopardi.

Giacomo Puccini.

Giampiero Mughini.

Gianfranco Salis.

Gianni Vattimo.

Gianrico Carofiglio.

Gioachino Rossini.

Giordano Bruno Guerri. 

Giorgio Manganelli.

Giovanni Testori.

Giovanni Verga.

Giovannino Guareschi.

Giuseppe Prezzolini.

Giuseppe Verdi.

Hanif Kureishi.

Italo Calvino.

Jago sta per Jacopo Cardillo.

Jacques Maritain.

Jean Cocteau.

Jean-Jacques Rousseau.

John Ronald Reuel Tolkien.

Johann Wolfgang von Goethe.

J. K. Rowling.

Jorge Luis Borges.

Julius Evola.

Lara Cardella.

Laura Ingalls Wilder.

Lee Miller.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lina Sotis.

Luigi Illica.

Luigi Vanvitelli.

Luis Sepúlveda.

Louis-Ferdinand Céline.

Ludovica Ripa di Meana.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Marcello Marchesi.

Marcello Veneziani.

Marina Cvetaeva.

Mario Vargas Llosa.

Mark Twain.

Martin Scorsese. 

Massimo Rao.

Matilde Serao.

Maurizio Cattelan.

Mauro Corona.

Michel Houellebecq.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarroti.

Michelangelo Pistoletto.

Michele Mirabella.

Michele Rech: Zerocalcare.

Milo Manara.

Oliviero Toscani.

Oriana Fallaci.

Pablo Neruda.

Pablo Picasso.

Paul Verlaine.

Pier Paolo Pasolini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Pietro Cavallini.

Pietro Citati.

Primo Levi.

Robert Capa.

Roberto Ruffilli.

Roberto Saviano.

Salman Rushdie.

Sergio Leone.

Sergio Pautasso.

Sibilla Aleramo.

Stefania Auci.

Susan Sontag.

Suzanne Valadon.

Sveva Casati Modignani.

Tim Page.

Truman Capote.

Tullio Pericoli.

Umberto Eco.

Umberto Pizzi.

Wolfang Amadeus Mozart.

Vasco Pratolini.

Veronica Tomassini.

Virginia Woolf.

Vitaliano Trevisan.

Vittorio ed Elisabetta Sgarbi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

Controinformazione e contraddittorio.

Lo ha detto la Televisione…

L’Opinionismo.

L’Infocrazia.

Rai: Il pizzo e l’educatrice di Stato.

Mediaset: la manipolazione commerciale.

Sky Italia.

La 7.

Sportitalia.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le fake news.

I Censori.

Il Diritto d’Autore e le furbizie di Amazon.

La Privacy.

L’Oblio.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

Wikipedia, l’enciclopedia censoria.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Se questi son giornalisti!

Gli Uffici Stampa.

Il Corriere della Sera.

Avanti!

Il Fatto Quotidiano.

La Gedi.

L’Espresso.

Il Domani.

Il Giornale.

Panorama.

La Verità.

L’Indipendente.

L’Unità.

Il Manifesto.

Il Riformista.

I più noti.

Alberto Dandolo.

Alberto Matano.

Alda D’Eusanio.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Amedeo Goria.

Andrea Scanzi.

Angela Buttiglione.

Angelo Guglielmi.

Annalisa Chirico.

Antonello Piroso.

Antonio Caprarica.

Antonio Di Bella.

Augusto Minzolini.

Attilio Bolzoni.

Barbara Costa.

Barbara Palombelli.

Bruno Vespa.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carmen Lasorella.

Cesara Bonamici.

Claudio Sabelli Fioretti.

Clemente Mimun.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Corrado Formigli.

Cristina Parodi.

David Parenzo.

Donatella Raffai.

Enrico Mentana.

Enrico Varriale.

Enzo Magistà.

Fabio Fazio.

Federica Sciarelli.

Ferruccio Sansa.

Filippo Facci.

Flavia Perina.

Franca Leosini.

Francesca Barra.

Francesca Fagnani.

Francesco Borgonovo.

Francesco Repice.

Furio Focolari.

Gennaro Sangiuliano.

Gian Antonio Stella.

Gian Marco Chiocci.

Gianni Riotta.

Gigi Marzullo.

Giovanni Minoli.

Hoara Borselli.

Indro Montanelli.

Italo Cucci.

Ivan Zazzaroni.

Jas Gawronski.

Laura Tecce.

Lirio Abbate.

Lucia Annunziata.

Luisella Costamagna.

Malcom Pagani.

Manuela Moreno.

Marco Travaglio.

Mario Sechi.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Massimo Gramellini.

Maurizio Mannoni.

Mia Ceran.

Michele Cucuzza.

Michele Santoro.

Milena Gabanelli.

Myrta Merlino.

Natalia Aspesi.

Nicola Porro.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Flores d'Arcais.

Riccardo Iacona.

Roberto D’Agostino.

Roberto Poletti.

Romana Liuzzo.

Rula Jebreal.

Salvo Sottile.

Selvaggia Lucarelli.

Serena Bortone.

Sigrido Ranucci.

Tancredi Palmeri.

Tiberio Timperi.

Tiziano Crudeli.

Tommaso Cerno.

Valentina Tomirotti.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.


 

LA CULTURA ED I MEDIA

QUARTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Dress Code.

Il Costume da bagno.

L’armocromia.

Inquinatori.

I Cappellai.

Il Tartan.

Chiara Boni.

Moschino.

Brunello Cucinelli.

Mary Quant.

Ottavio Missoni.

Karl Lagerfeld.

Roberto Cavalli.

René Lacoste.

Giorgio Armani.

I Versace.

Dress Code.

Dress Code. Estratto dell’articolo di Antonio Mancinelli per “La Stampa – Specchio” il 2 maggio 2023.

Nel 2005, una signora di colore, dopo essere sbarcata da un volo intercontinentale dall'America a Parigi volle entrare nella boutique di Hermès, poco dopo l'orario di chiusura. Un commesso in quella donna nera malvestita vide solo una seccatrice a cui dire che era tutto «fermé», malgrado vi fossero ancora molti acquirenti all'interno, visibili dalla strada. 

Lei era Oprah Winfrey, una delle giornaliste e imprenditrici più potenti degli Stati Uniti. Lui non l'aveva riconosciuta. L'episodio fu una catastrofe per le relazioni pubbliche del marchio e scatenò varie speculazioni sulle motivazioni dell'addetto alle vendite: poteva essere maleducazione. Poteva essere razzismo. Poteva essere un mix complicato di tutte queste cose. 

Il fatto è poi che esistono persone talmente ricche e/o famose che, potendosi permettere di comprare tutta la merce di un negozio di lusso, si concedono il lusso di entrarci sembrando degli scappati di casa, per dimostrare superiorità: non ci si veste per far colpo perché non si ha bisogno di far colpo.

Ma è un codice che va decrittato, prescrittivo tanto quanto – se non di più – di quel galateo a cui soggiacevano le nostre nonne che, pur non abbienti, avevano il vestito adatto per quella determinata occasione. 

Il simpatico aneddoto viene riportato da uno dei libri più interessanti in circolazione negli ultimi tempi sui rapporti tra abiti, società, addirittura giurisprudenza: Dress Code (il Saggiatore) di Richard Thompson Ford, con la frizzante traduzione di Valeria Lucia Gili. L'autore, professore di Legge alla Stanford Law School, ha scritto testi di diritto su questioni sociali, culturali ed essendo afroamericano, anche razziali e collabora con teste prestigiose come il New York Times e la CNN. […]

Dress Code usa i codici del vestire come stele di Rosetta grazie a cui identificare quattro interessi alla base degli sviluppi della moda: status, sesso, potere e personalità. E dunque, sì: i codici esistono ancora, anche se più sofisticati da decifrare. La capacità degli abiti di trasformare visualmente il corpo dà all'abbigliamento l'autorità dell'illusione: i nostri abiti non sono un'affermazione da analizzare e valutare, sono una dimostrazione che persuade a livello subconscio, prima che ci si possa riflettere su. 

[…] La moda, però, è malleabile. E Ford sostiene con eleganza che, poiché è viva, ha la capacità di evolversi. Chi è disposto a trasgredire i regolamenti stabiliti induce le regole a cambiare. Costringe il potere a passare di mano. O almeno, nel tempo, a essere condiviso.

Estratto dell’articolo di Serena Riformato per “la Stampa” giovedì 3 agosto 2023.

Per ora i parlamentari casual l'hanno scampata: la Camera dei deputati non adotterà il codice d'abbigliamento più severo previsto da un ordine del giorno del deputato di Fratelli d'Italia Salvatore Caiata, cravatta obbligatoria e scarpe da ginnastiche vietate. […] Starà agli uffici di presidenza e ai questori valutare specifiche disposizioni […]  «Peccato – commenta Paolo Cirino Pomicino […] – al contrario di quello che dice il noto proverbio, in parlamento l'abito fa il monaco». 

È necessario un dress code più rigido per le istituzioni?

«La capacità creativa del parlamentare è legata anche al decoro. La lenta sciatteria nell'abbigliamento dei parlamentari ha corrisposto a una sciatteria legislativa inimmaginabile. Dopo la discesa, il degrado, non si può che risalire». 

La discesa?

«A volte sembra che il parlamento sia un condominio o uno stadio con curva sud e curva nord». […] «Spero che la preoccupazione di ripristinare un codice di abbigliamento segni l'alba di un nuovo giorno». […] «Però […] a volte nelle persone anziane la vecchiaia prende o le gambe o la testa per cui le scarpe di gomma aiutano». 

Cosa prevedeva il codice di abbigliamento quando lei era parlamento?

«Ma ai miei tempi non sarebbe mai stato necessario sollecitare delle disposizioni. Tutti avevano la cravatta e il giusto abbigliamento. Le eccezioni confermavano solo la regola». 

E quali erano le eccezioni?

«Alla fine degli anni '80 il movimentismo del Partito radicale cominciò a fare accettare che qualcuno avesse uno stile meno formale, ma fra i dubbi di molti. In ogni caso magari i radicali erano sciatti nel modo di vestire ma avevano delle idee». 

Qualche caso?

«Beh, portarono in Parlamento Cicciolina […]». […] «Le donne in Parlamento erano decorose, nessuno aveva un abbigliamento da pin up. Molte erano ex partigiane, portavano sul corpo le cicatrici di lunghe battaglie politiche».

Per alcuni partiti uno stile più casual è servito ad avvicinarsi agli elettori?

«Ma è sempre stata una finzione. Come quella dell'ex presidente della Camera Roberto Fico che il primo giorno arrivò in autobus. Poi mica l'ha preso più. Ma il Movimento 5 stelle è un incidente della storia». 

Un po' severo. In fondo la richiesta di sobrietà veniva dagli elettori.

«L'autorevolezza impone il decoro e certi segni fra cui l'auto blu. Non si va a Palazzo Chigi in bicicletta».

Francesco Bellomo, Vittorio Feltri: perseguitato e infamato ingiustamente. Vittorio Feltri Libero Quotidiano il 26 luglio 2023

È notizia di pochi giorni fa (ovviamente ignorata dai media) che l’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo è stato archiviato anche a Torino. I magistrati del capoluogo piemontese hanno evidenziato, per l’ennesima volta, la “regolarità” del contratto tanto discusso e la piena liceità delle sue relazioni. Definito “porco” in diretta televisiva, attaccato da giornalisti e opinionisti che lo hanno considerato fin dal principio reo oltre ogni ragionevole dubbio dei reati contestatigli, bersaglio di ogni genere di insulto, infamato in maniera crudele, deriso, beffeggiato, disonorato, argomento di cronaca giudiziaria quotidiano per mesi e mesi, addirittura anni, e sempre con toni assolutamente colpevolistici e spietati, il brillante magistrato è stato definitivamente prosciolto da ogni accusa, senza mai essere neppure rinviato a giudizio. Ed è stato assolto non da un tribunale, bensì da sei procure distribuite da Nord a Sud. Anzi, specifico che il tribunale di Milano, la cui serietà è arcinota, già agli albori di questa faccenda, provvide ad archiviare il procedimento, dal momento che era evidente che Bellomo, accusato di avere imposto un dress-code agli studenti, sia maschi sia femmine, i quali partecipavano ai suoi corsi in magistratura, non si fosse macchiato di alcun crimine.

Il magistrato è stato poi dichiarato innocente dai tribunali di Bari, Piacenza, Roma, Bergamo, Torino. I giudici, insomma, hanno in maniera incontrovertibile appurato che Francesco Bellomo è – lo ripetiamo – innocente. E se non è colpevole, allora egli è vittima. Dunque, egli è stato perseguitato, ingiustamente screditato, colpito, massacrato dalla stampa, divorato da questi personaggetti tristi che popolano i talk-show e che pretendono di insegnarci la morale, pur non possedendone una. Quello che Bellomo ha patito è stata una iniquità. Lo ha riabilitato e rinfrancato proprio quella Giustizia cui egli stesso si è votato dedicandole la propria intera esistenza e la propria carriera. Bellomo fu un pubblico ministero giovanissimo, il più fresco d’Italia.

Questa vicenda dovrebbe essere conclusa, eppure Bellomo attende ancora di essere reintegrato nel suo ruolo, ossia quello di consigliere di Stato, che gli fu indebitamente tolto anni fa a causa dei procedimenti in corso. Cosa stiamo aspettando a restituire a Cesare quel che è di Cesare? Insomma, non soltanto abbiamo tormentato questo giudice, quest’uomo, dai cui corsi di diritto sono usciti decine e decine di magistrati che operano all’interno dei nostri palazzi di Giustizia, ma lo abbiamo anche privato del suo mestiere, che era la sua vita, e non glielo abbiamo mai più restituito. Il tutto senza giustificazione, come hanno dimostrato gli esiti dei vari processi.

Mi domando: in uno Stato di diritto è ammissibile che accada un fatto del genere? Io ritengo che tutto questo non si sarebbe mai dovuto verificare, o che, quantomeno, una volta emersa l’innocenza di Bellomo, questi avrebbe dovuto immediatamente riavere il suo posto all’interno del Consiglio di Stato. Cosa che ancora non si è realizzata, purtroppo.

Questo vuole essere un appello al nostro ministro della Giustizia, Carlo Nordio, anch’egli ex magistrato, affinché le istituzioni si sensibilizzino nei confronti dell’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo, processato e assolto da ben sei procure, il quale meriterebbe quindi che il suo status quo ante venisse ripristinato subito.

Nessuno può rendere a Bellomo gli anni che gli sono stati portati via, insieme a parte della salute e dei soldi persi, dilapidati in spese legali che egli non avrebbe dovuto sostenere, però possiamo riconsegnargli le sue funzioni. Sarebbe il minimo che gli dobbiamo. Colgo l’occasione per esprimere la mia stima nei confronti di quei giudici che lavorano nei nostri tribunali con zelo, impegno, passione, rispondendo, tra mille difficoltà, alla domanda di giustizia che proviene dai cittadini. Non condivido affatto l’idea che la magistratura sia marcia, politicizzata, ostile, impegnata a triturare le persone. E la questione Bellomo ne è dimostrazione. La giustizia non agisce seguendo schizofrenici parametri di tipo moralistico che oggi sembrano dominare più che mai la società, bensì applicando la legge, che ha una sua razionalità.

Il Costume da Bagno.

Dalla lana al poliestere riciclato: breve storia dei costumi da bagno (e come farli durare). Marina Savarese su L'Indipendente lunedì 14 agosto 2023

Dai pesanti costumi castigati delle nostre nonne ai minuscoli fili interdentali sfoggiati sulle spiagge delle isole più in voga, sembrano essere passati secoli. Eppure il bikini ha compiuto “solo” 77 anni; era il 1946 quando il sarto (ed ex ingegnere automobilistico) francese Louis Réard, ispirandosi alle dame viste sulle rive di Saint Tropez, che usavano arrotolare i costumi dell’epoca per scoprire più pelle a favore dell’abbronzatura, ideò un “due pezzi” succinto e audace, che rivoluzionò la storia del beachwear per sempre (in realtà un modello simile è stato ritrovato in Sicilia, nei mosaici del 300 d.C. di Villa del Casale). 

Fino a quel momento, infatti, per bagnarsi erano usati degli “abiti”: siamo passati dai pesanti mantelli d’inizio XIX secolo fino ai completi composti da pantaloni al polpaccio, abiti al ginocchio e scarpine allacciate usati in Francia intorno al 1850. La scarsa praticità di questi indumenti fu lentamente abbandonata in favore di tutine, sempre intere e coprenti, che con il tempo hanno cominciato ad accorciarsi, separarsi e ridursi fino ad arrivare alle forme che conosciamo oggi. A cambiare, nel corso degli anni, non sono state solo le fogge, ma anche e soprattutto i materiali: dal jersey di lana, al cotone sferruzzato in maglie fitte ai ferri, dalla seta elasticizzata usata per alcuni completi fino alla lycra del periodo immediatamente successivo al dopoguerra. 

Indubbiamente le qualità di questa fibra sintetica derivata dal petrolio, come la capacità di allungarsi senza rompere il tessuto e ritornare alla forma originale, l’hanno resa facilmente perfetta per i nuovi modelli, perché le prestazioni di confort e vestibilità non potevano essere in alcun modo replicate da altri materiali naturali. Oltre al fatto di essere un materiale decisamente più economico. Il che lo rende ancora più adatto, nell’ottica di una produzione industrializzata e su larga scala.

I problemi che accompagnano lycra (e simili) sono svariati: non è biodegradabile né riciclabile, è prodotta partendo da materiali fossili che sono sempre meno disponibili (e per estrarre i quali sono necessarie grandi quantità di energia), consuma un sacco di acqua e per produrla si utilizzano un sacco di sostanze chimiche. A complicare le cose il problema delle micro-plastiche, ovvero il rilascio di micro-particelle a ogni lavaggio che vanno a finire direttamente in mare. 

Sintetico eco-sostenibile? 

Letta così sembra un ossimoro, eppure le nuove tecnologie stanno dando un contributo e parte del problema diventa parte della soluzione. È il caso di tessuti sintetici sostenibili ottenuti al 100% da materiali plastici riciclati come reti da pesca, bottiglie di plastica, tappeti dismessi, scarti industriali. In questo modo una parte del problema, quella dell’utilizzo del petrolio, è abbattuta; anche la parte dello smaltimento dei rifiuti come bottiglie, reti, ecc. diventa l’inizio di un nuovo processo di trasformazione che porterà alla creazione di un nuovo materiale completamente riciclato. Il filo di Nylon rigenerato ECONYL® è un esempio nostrano, ottenuto trasformando la parte superiore di tappeti di Nylon e moquette, le reti da pesca e altri prodotti di scarto fatti di Nylon; questi, giunti a fine vita, non sono smaltiti in discarica, ma recuperati, rigenerati e trasformati da Aquafil in filo ECONYL®, in seguito utilizzato per la produzione di tessuti altamente tecnici in grado di garantire le stesse performance. Le fibre sintetiche riciclate certificate a basso impatto ambientale sono sicuramente più ecologiche nella fase di produzione. Però le micro-plastiche le rilasciano pure loro. Per questo motivo è sempre più auspicabile far durare a lungo quello che c’è già.

Manutenzione e cura 

Cambiare costumi ogni stagione (che poi una stagione vuol dire circa 3 mesi con un utilizzo non certo giornaliero) è un meccanismo indotto, non certo una necessità reale. O meglio, in generale i tessuti si deteriorano, quelli dei costumi ancora di più: ore sotto al sole, esposti al cloro, al salmastro e sfregati su sedie a sdraio o rocce… o rotolati nella sabbia. Anche la migliore lycra è spesso messa a dura prova, ma basterebbe prendere delle piccole precauzioni per allungargli la vita ed evitare nuovi prodotti in circolo. 

– Lavaggio. Dopo ogni uso il lavaggio con acqua (non calda) e sapone neutro è un passaggio obbligato per la tutela del buono stato del tessuto. Non c’è bisogno di ammolli prolungati, di strizzate energiche, di metterlo ad asciugare al sole (che notoriamente stinge) e tanto meno di stirarlo.

– Attenzioni! Sfregamenti eccessivi, siano su sabbia o scoglio, possono rovinare il tessuto più rapidamente. Così come oli e creme solari spalmati più sul tessuto che sulla pelle. Avere la possibilità di alternare un paio di costumi, evita di stra-consumarne uno solo (facendoli arrivare entrambi alla stagione successiva). 

– Conservazione. Prima di mandare il costume in letargo, un rituale di buona conservazione è un toccasana. Per l’ultimo lavaggio è consigliato un risciacquo con l’aggiunta di poco aceto bianco di vino, lasciando l’indumento in immersione per pochi minuti (l’aceto è un ammorbidente naturale, ravviva i colori, preserva gli elastici e igienizza). Per assicurarsi che sia completamente asciutto, una bella passata con il phon (a debita distanza) prima di ripiegarlo senza forzare gli elastici e riporlo in scatole o cassetti. Importante non metterlo in buste di plastica, un ambiente che impedisce la circolazione dell’aria e favorisce la comparsa di cattivo odore nel guardaroba e sugli indumenti. Meglio optare per un contenitore di stoffa e meglio ancora metterli via singolarmente, senza fare ammucchiate inutili. Se poi nel cassetto infiliamo anche un sacchetto di gel di silice per eliminare l’umidità il più possibile, l’estate successiva il costume sfoggerà di nuovo tutta la sua bellezza. [di Marina Savarese]

L’armocromia.

 È scoppiato l'Armocromiagate. Cos’è l’armocromia, l’analisi del colore e il caso di Elly Schlein e della consulente Enrica Chicchio. Vito Califano su Il Riformista il 27 Aprile 2023 

Potrebbe passare alla storia come ArmocromiaGate, perché no. Elly Schlein ha rivelato di avere una consulente d’immagine. “Le mie scelte di abbigliamento dipendono sicuramente dalla situazione in cui mi trovo. A volte sono anticonvenzionale, altre volte più formale. In generale dico sì ai colori e ai consigli di un’armocromista, Enrica Chicchio”, ha detto a Vogue Italia. E apriti cielo: si è partiti con le battute, i meme, gli sfottò di avversari e i commenti degli odiatori. Come se la politica non fosse comunicazione, come se la comunicazione non fosse anche forma, estetica. Cosa c’è di così scandaloso in tutto ciò?

La nuova segretaria del Partito Democratico, la prima donna nella storia della formazione, si è raccontata in una di quelle interviste a tutto campo in cui si passa da questioni cruciali per il paese ad aneddotica sul personaggio: passioni, interessi, hobby. Quel passaggio sull’armocromia e sull’armocromista di fiducia hanno bucato l’attenzione di media e pubblico. Definita anche analisi del colore, analisi del colore personale o stagionale, corrispondenza della tonalità della pelle, si tratta in estrema sintesi di un metodo per scegliere e determinare i colori dell’abbigliamento in armonia con la carnagione della pelle, quello degli occhi e dei capelli di una persona per studiare e costruite i propri outfit e il proprio guardaroba.

Il metodo sarebbe nato agli inizi degli anni 80 negli Stati Uniti. Considerato titolo fondamentale se non fondativo è Color Me Beautiful di Carole Jackson. A seconda di colori più caldi, freddi, brillanti o tenui si può individuare una stagione di riferimento a partire da categorie come sottotono, valore, intensità e contrasto. Il sottotono è la “temperatura” della pelle, il valore è l’elemento predominante tra chiaro e scuro, l’intensità indica la brillantezza e il contrasto la differenza di valore tra elementi. Il primo passo per capire quali sono i colori in palette è individuare la propria stagione di riferimento. Per scoprirla si ricorre a consulenti che fanno dei test di persona, senza trucco e possibilmente senza abbronzatura.

Così Enrica Chicchio spiega l’armocromia, sul suo sito ufficiale: “Il primo step della consulenza d’immagine. Ha l’obiettivo di trovare la TUA palette colori valorizzante in completa armonia con le tue caratteristiche cromatiche. Grazie a questa consulenza: scoprirai l’armonia dei colori che applicati alla vita di tutti i giorni, diventeranno alleati preziosi nella scelta di abbigliamento, accessori e gioielli; acquisirai maggiore consapevolezza sui futuri acquisti limitando perdite di tempo e denaro; acquisterai solo capi di colori che ti valorizzano cromaticamente; imparerai a creare abbinamenti, percependo che un uso corretto del colore non modifica la tua personalità, ma la rinforza”.

A commentare questa svolta estetica ma anche comunicativa di Schlein anche Rossella Migliaccio, tra le prime e più esperte in Italia di armocromia, a Vanity Fair Italia. “Credo che il fatto che Elly Schlein abbia parlato apertamente di questo cambio di look sia anche una strategia per avvicinarsi all’elettorato, soprattutto a quello più giovane, perché lei non ha solo parlato di una ‘consulente d’immagine’, ha citato proprio l’armocromia, sapendo benissimo che è un grande trend sui social tra i millenial e la Gen-Z. Non sono affermazioni che si fanno a caso in un’intervista su Vogue. Mi sembra del tutto chiaro che volesse parlare ai i più giovani”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Estratto dell’articolo di Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 29 aprile 2023.

[…] Nei giorni scorsi ha suscitato clamore l’intervista a Vougue di Elly Schlein, neo segretaria del Pd, che ha fatto conoscere a tutti gli italiani questa tecnica da molti ignorata, rivelando di essersi affidata, per il suo look e il suo abbigliamento, ad una consulente d’immagine specialista in Armocromia, e di essere stata indirizzata da lei, in base alle scelte cromatiche per il suo stile e il trucco, alle tonalità dell’ Inverno, seguendo parametri specifici dell’analisi del colore dalla tavolozza cromatica creata appositamente, compatibile con l’ombra della sua pelle, del fisico e del ruolo sociale, incluso quello politico. 

Ma come si svolge una seduta di armocromia professionale? Prima di tutto l’esperta/esperto di turno analizza la cliente, che indossa soltanto una t-shirt bianca, studiando il viso, l’elemento dominante, completamente struccato e deterso, scrutando le caratteristiche cromatiche della pelle del volto e della cute di tutto il corpo, poi il colore dell’iride e quello dei capelli, delle labbra, delle orecchie e delle vene sottocutanee.

Dopodiché vengono utilizzati quattro drappi colorati, divisi in quattro sezioni, stagione per stagione, i quali, una volta accostati al viso, illuminano più o meno intensamente la pelle, e vengono selezionati ed individuati quelli che minimizzano eventuali difetti estetici, e che esprimono le migliori nuance di accostamento. Da tali dati vengono poi realizzate delle combinazioni di colori personalizzate, scegliendo tra le tonalità che illuminano di più la carnagione, per le palette di make-up e di abiti da realizzare più adatti a quello specifico incarnato. 

Naturalmente vengono valutate anche le alterazioni vascolari che il corpo subisce durante lo sforzo fisico o l’esposizione al sole, quando la pelle tende ad arrossarsi o a cambiare tono per l’abbronzatura, ed una volta stabilito quali gradazioni può raggiungere si stila il verdetto: se la carnagione si esalta con il drappo arancione, il sottotono è caldo e la stagione di riferimento è la Primavera, se i colori dominanti sono quelli chiari, e l’ Autunno se sono scuri.

Se il tessuto scelto è invece fucsia il sottotono di riferimento è freddo, con la scelta dell’Estate per chi ha tonalità chiare, e Inverno per quelle scure. L’Armocromia oltre ad indirizzare verso le stagioni armocromicamemte fredde (estate e inverno) o quelle calde (autunno e primavera) per il make-up, è in grado di armonizzare su tali dati anche i colori dei capi da indossare per valorizzare il proprio look in rapporto al tono della pelle, occhi e capelli, senza preconcetti legati all’età o al genere, esplorando nuove tonalità e sfumature lontane dai classici grigio e nero. […]

Inquinatori.

Il greenwashing è ancora un grande problema per il settore della moda. Stefano Baudino l'1 maggio 2023.

Sono molte le aziende attive nel fast fashion che descrivono i loro capi come frutto di una produzione sostenibile – utilizzando nelle etichette parole come “eco”, “green” e “cares” – e che si dicono in prima linea per la promozione di migliori condizioni di lavoro. In molti casi, però, tali informazioni non sono veritiere, trattandosi invece di greenwashing, ovvero “ecologismo di facciata”. Lo ha svelato l’ultimo report di Greenpeace Germania, che ha analizzato i dati riportati sulle etichette degli indumenti di 29 aziende che aderiscono alla campagna Detox, lanciata dalla stessa organizzazione (che chiede di eliminare le sostanze tossiche per l’uomo e inquinanti per l’ambiente dai capi d’abbigliamento), e quelle di marchi internazionali come Decathlon e Calzedonia/Intimissimi.

Tantissime le anomalie appurate. Tra le più numerose, etichette presentate come certificate ma che in realtà derivano da programmi di sostenibilità aziendali, l’assenza di una verifica di terze parti o della valutazione del rispetto dei migliori standard ambientali e sociali, la mancanza di un sistema di tracciabilità delle filiere e una falsa narrazione sulla circolarità. Inoltre è stato più volte registrato il ricorso massiccio a termini fuorvianti come “sostenibile” o “responsabile” associato a materiali che registrano performances ambientali solo leggermente migliori rispetto alle fibre vergini o convenzionali, il continuo ricorso a mix di fibre come il “Polycotton o Policotone” spesso presentato come più ecologico, nonché la scelta di affidarsi all’indice Higg (strumento assolutamente parziale) per valutare la sostenibilità dei materiali.

Le uniche iniziative che hanno ottenuto buoni risultati sono quelle di COOP “Naturaline” e Vaude “Green Shape”. Bocciati, tra gli altri, anche Decathlon “Ecodesign”, H&M “Coscious” e Zara “Join Life”. Per quanto riguarda i marchi italiani sotto esame, Benetton e Calzedonia, i risultati sono negativi: nel primo caso sono state appurate in particolare storture e inaccuratezze su quantità e qualità della produzione, nonché sulla definizione ingannevole di “cotone sostenibile”; nel secondo sono state registrate irregolarità sulle dichiarazioni riferite alla tracciabilità delle filiere e sulla gestione delle sostanze chimiche pericolose.

Secondo Greenpeace, un ricorso così marcato al greenwashing genera “confusione nelle persone, spinte a credere di acquistare prodotti sostenibili ma che in realtà non lo sono”. Infatti, “mentre si pubblicizza una sostenibilità inesistente, in realtà sono in costante aumento gli abiti fatti di plastica usa e getta derivante dal petrolio, non riciclabili e per lo più prodotti in condizioni di lavoro inaccettabili“. [di Stefano Baudino]

Il vero costo del lusso (la follia dietro la perfezione) Marina Savarese su L'Indipendente il 25 Marzo 2023

Quando si parla d’impatto ambientale della moda, si punta immediatamente il dito sul mondo del fast fashion. Giustamente. Un sistema di lavoro basato sulla produzione a ciclo continuo di collezioni durante tutto l’arco dell’anno, con volumi impressionanti e con scarsa attenzione alla qualità, non è di certo un tocca sana per la natura (e nemmeno per l’uomo) e di etico non ha niente. Eppure, anche i signori del mondo del lusso e i grandi marchi, con le loro follie mascherate da maniacale ricerca della perfezione, fanno la loro parte, contribuendo ad alimentare un sistema fatto di sprechi e consumi insensati.

Un tempo le case di moda nate a cavallo degli anni ’70 e ’80, quelle fondate da rinomati stilisti e spesso gestite in maniera familiare, erano basate su principi riguardanti la qualità, la cura e la creazione di abiti e accessori dall’alto valore materiale e immateriale. L’obiettivo era di produrre capi in grado di durare nel tempo e realizzati seguendo i tempi della manifattura, dell’artigianalità e dell’ispirazione. Oggetti di lusso. 

Ma il mito della crescita, della fame e dell’arricchimento facile, ha solleticato l’interesse di tutti; così, anche gli esimi esponenti del mondo del lusso hanno cominciato a comportarsi come marchi di prêt-à-porter. Iniziando a proporre i total look, moltiplicando le collezioni (passando dalle due uscite annuali alle quattro/cinque dei primi anni 2000, con i famosi flash intra stagionali) e incrementando i ritmi produttivi, con la produzione di grandi volumi e la distribuzione dei prodotti fuori da qualsiasi logica stagionale. Un ingrandimento esponenziale ha portato i marchi a mettere la loro firma su molte altre categorie merceologiche: dalla moda al beauty fino ai ristoranti, ma anche alberghi. Il tutto è stato possibile grazie all’acquisizione di questi brand da parte di holding quotate in borsa, ovvero grandi gruppi finanziari che hanno inglobato sotto di loro aziende e stilisti per aumentare i profitti (fuori da queste logiche, al momento, sono rimasti solo Prada, Armani, Moncler e Zegna in Italia, Burberry in Inghilterra, Chanel e Hermes in Francia), riducendo la moda a una macchina per produrre soldi. Spesso in maniera non etica e seguendo il modello tracciato dal fast fashion, dove per avere margini e profitti più alti (per pochi, di solito quelli al vertice) basta tagliare i costi. Ovviamente delocalizzando. Ma spesso seguendo anche una modalità tanto sofisticata quanto insostenibile: quella di una folle ricerca della perfezione, dietro alla quale si nascondono sprechi enormi.

Il primo dispendio di materie prime ed energia avviene negli uffici stile, in quei luoghi avvolti di glamour e mistero, dove si decidono le sorti delle fogge stagionali dei più. In minima parte alcune dinamiche filosofiche sono state rese note dal famoso monologo di Miranda ne Il diavolo veste Prada, che ci ricorda il valore sociale del ceruleo e di certe scelte stilistiche. Peccato aver sorvolato sull’impatto ambientale generato dai capricci di designer e stilisti in fase di progettazione, e sui minuziosi controlli qualità dove per vedere i difetti bisogna andare a cercarli con la lente d’ingrandimento.

Tra campioni e campionari infiniti iniziano i primi sprechi, sotto forma d’innumerevoli prototipi che vengono sdifettati e perfezionati fino allo sfinimento: centimetri in più o in meno da limare o aggiungere, un ricamo da spostare di qualche millimetro, il tono di celestino che non era del celestino giusto… A volte si tratta di dettagli impercettibili, altre volte di grossi errori da correggere. In tutti i casi, quasi sempre, è prevista la realizzazione di un contro-campioni multipli, che in termini pratici vuol dire altro tessuto, altri ricami, altre stampe, altri bagni di colore, altro lavoro. Tutto ciò moltiplicato per svariate centinaia di capi.

Questa è solo la punta dell’iceberg dello spreco. Si potrebbe parlare delle prove di stampa, dove per ogni pattern o disegno da mettere in collezione, sono stampate ingenti quantità di tessuto, solo ed esclusivamente per abbattere i costi (senza valutare il costo ambientale, ovviamente). Quel che avanza, da pochi metri a svariati rotoli, si abbandona, si brucia o si passa la patata bollente a stockisti, che si ritrovano con bancali pieni di materiali sospesi in una bolla, dove è vietata la vendita (la vecchia storia dei loghi che guai a vederli in giro), però bruciare sembra uno spreco e un crimine. E, in effetti, lo è. Ma il sistema, purtroppo, ancora non è responsabilizzato a sufficienza per i suoi errori e per i suoi peccati di leggerezza.

Questione simile ma con l’aggravante avviene nel tentativo di raggiungimento del punto di colore perfetto: un mezzo tono sopra o sotto da quello desiderato è causa di crisi isteriche nel reparto design, ma anche di un consumo di risorse ingenti, perché il processo tintorio richiede una discreta quantità di acqua. Questa devozione al dettaglio è venduta come precisione, ma somiglia tanto a un capriccio. 

E via così, tra cambi repentini d’idee dal giorno alla notte che condannano stoffe preziose a un limbo senza fine e assurdi controlli qualità fatti con la lente d’ingrandimento, dove una minima imperfezione preclude l’utilizzo della materia prima in questione, che si trasforma immediatamente da risorsa a rifiuto. Se non è pazzia questa…

Insomma, la spasmodica ricerca di una perfezione irreale è solo la facciata luccicante di un settore, quello del lusso, che in realtà ne ha perso il senso più profondo. Quello di creare prodotti speciali, curati in ogni minimo dettaglio, senza tempo, eterni, capaci di trascendere il momento e andare oltre perché fatti per durare. Pezzi su misura, esclusivi, unici. Di Lusso. Che, a guardare bene, non sono più appannaggio di questi grandi gruppi, ma di piccoli grandi artigiani e designer indipendenti.  [di Marina Savarese]

La complicata relazione tra moda e chimica Marina Savarese su L'Indipendente il 12 dicembre 2022.

Moda e chimica, due mondi apparentemente distanti, hanno in realtà una relazione molto stretta, anche se a tratti conflittuale. Basta avvicinarsi alla scienza tessile per scoprire che la moda, senza la chimica, va da poche parti. È nei capi che s’indossano, nei cosmetici che vengono usati quotidianamente, negli elementi di arredo della casa, nei giocattoli… dappertutto. C’è, anche se non si vede, e la portiamo giornalmente con noi a contatto con l’organo più grande che abbiamo: la pelle.

L’uso di sostanze chimiche nel tessile è una pratica indispensabile per conferire ai tessuti determinate caratteristiche o qualità: si usano per ammorbidire, per lavare a fondo, per ottenere particolari tipi di colorazioni, per rendere le superfici idrorepellenti, dare stabilità termica o quel praticissimo effetto anti-macchia che salva da innumerevoli lavatrici. Nel corso degli anni le tecniche si sono affinate, la scienza ha fatto grandi passi in avanti e, grazie alla sperimentazione, si sono ottenuti notevoli progressi in molti processi per la realizzazione di questi trattamenti. Per questo, quando si parla di eco-design, non si può prescindere dal chemical management. I primi passi verso una gestione attenta delle sostanze chimiche si sono mossi negli anni 90, con la diffusione di certificazioni volontarie sulla sicurezza chimica dei capi come Oekotex ed Ecolabel. Ma è nel 2007 che è entrata in vigore la direttiva europea Reach (Registration, Evalutation, Authorisation of Chemicals), un regolamento che registra, valuta, autorizza e limita l’uso delle sostanze chimiche tossiche, andando a escludere quelle nocive per l’ambiente e per la salute durante tutte le fasi di produzione del prodotto, con il fine di garantire una maggior sicurezza per il cliente finale. In generale, tutti i prodotti realizzati al 100% in Europa, hanno un certificato REACH oppure sono dichiarati fuori legge. E fin qui tutto bene. 

Il problema sopraggiunge quando i prodotti o la materia prima sono importati dagli altri Paesi (con la delocalizzazione delle produzioni si fa presto a capire che questo è il caso in cui, fatta la regola, si trova subito il modo per aggirarla). Se un abito è realizzato con un tessuto importato dall’India, non c’è nessuna garanzia del rispetto dell’uso delle sostanze chimiche consentite, se non un’auto-certificazione dell’azienda stessa (praticamente bisogna andare sulla fiducia) o con test effettuati a campione (in maniera sporadica e assolutamente casuale). E non si parla solo dell’uso delle sostanze e della pericolosità per chi le maneggia quotidianamente, ma anche del loro smaltimento, che avviene spesso nei corsi d’acqua in modo non proprio pulito (in alcuni Paesi, per capire qual è il colore-tendenza dell’anno, basta affacciarsi a vedere di che nuance è il fiume che si trova vicino alle aziende tessili). La gestione dei processi chimici non è di per sé semplice, figuriamoci quando ci spostiamo in zone remote dove certi tipi di controlli o norme non esistono. Per ovviare a questo far west, nel 2011 Greenpeace ha lanciato la campagna Detox My Fashion, con la quale ha chiesto ai marchi di moda di sostituire i prodotti chimici inquinanti con altri più sicuri. Non ridurre, ma eliminare direttamente certe sostanze; disciplinandone lo smaltimento e impedendo il liberarsi in maniera selvaggia di elementi non biodegradabili che stanno causando danni all’intero ecosistema (l’esempio più noto sono i PFC perfluorocarburi – usati principalmente per l’idrorepellenza e l’impermeabilità – che una volta rilasciati nell’ambiente, possono restarvi per centinaia di anni).

La campagna ha ottenuto un notevole successo e oggi sono molte le imprese che elaborano e impongono ai propri fornitori specifiche RSL (Restricted Substances List), cioè liste di sostanze soggette a restrizioni, e crescono azioni collettive di soggetti industriali che condividono l’impegno per produzioni chimicamente più sicure (la più diffusa è la M-RSL Manufacturing Restricted Substances List di ZDHC, fondazione Zero Discharges of Hazardous Chemicals).

Con tutte queste accortezze e normative, possiamo quindi dormire sonni tranquilli comodamente avvolti nei nostri pigiami? Non ancora. Nonostante gli impegni e i passi in avanti di un sistema sempre più attento e capace di valutare ciò che usa, al momento disponiamo di un mosaico di normative provenienti da dozzine di paesi che stanno cercando di costruire uno standard di sicurezza chimica in maniera incoerente e disorganizzata. Un intricato mondo fatto di certificazioni private, conflitti d’interesse, giochi economici (chi paga le certificazioni? Chi impone ai produttori di andare veloce e gioca al ribasso con i prezzi impedendo di adeguarsi agli standard richiesti?), scarichi di responsabilità e informazioni nascoste ad arte (tanto che per il cliente finale è pressoché impossibile accedere a questi dati). Con il risultato che certe sostanze circolano ancora indisturbate (come da ultimo report di Greenpeace sul colosso Shein che “ha registrato quantità di sostanze chimiche pericolose superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee”). 

La soluzione, come suggerito dal Report di Transformers Foundation, potrebbe stare in un’azione reazionaria, collaborativa e coesa. Che si crei uno standard unico, chiaro e adottato su larga scala, indipendentemente dal marchio o dal fornitore. Che si educhino reparti di design, spronandoli a lavorare gomito a gomito con chi ne sa di chimica e con i fornitori stessi, fornendo mezzi economici e tecnologici a questi ultimi per stare al passo con i tempi e spingerli a usare agenti chimici più sicuri. La legge, poi, dovrebbe garantire standard minimi uguali per tutti, controllando ciò che entra nel paese in maniera costante. Infine, fornire una lista delle sostanze presenti nei capi per permettere ai consumatori di fare scelte consapevoli, sarebbe un gesto auspicabile per mettere la salute pubblica davanti ai profitti. 

I Cappellai.

Estratto dell’articolo di Maria Corbi per “la Stampa” il 4 aprile 2023.

«È impossibile, solo se pensi che lo sia», diceva il cappellaio matto ad Alice. E Giuseppe e Lazzaro Borsalino non hanno mai avuto dubbi quando il 4 aprile 1857 fondarono ad Alessandria l'azienda che ha messo il cappello in testa al mondo che conta.

 Una leggenda che inizia in Piemonte ma che fa il giro del pianeta passando per Hollywood, con la consacrazione del classico feltro indossato da Humphrey Bogart nella scena finale di Casablanca. Ma anche da Alain Delon e Jean Paul Belmondo nel film che prende il nome proprio dal Borsalino.

Oggi ad Alessandria la riapertura del museo che celebra i 166 anni del brand.

Fu in Francia, che il fondatore dell'azienda Giuseppe Borsalino, un ragazzino di sedici anni, decise nel 1850 di trasferirsi per imparare il mestiere. E quando tornò, sei anni dopo, in un cortile di via Schiavina, ad Alessandria, gettò le fondamenta della ditta di famiglia, costruita sull'ambizione, sui sogni, sul talento artigiano ma anche sulla visione industriale che gli fa comprare macchinari modernissimi a Manchester.

[…] Troppo lungo l'elenco dei clienti che comprende capi di stato, principi, star del cinema, registi, artisti, compositori come Giuseppe Verdi, gangster come Al Capone. Ma anche cardinali con in testa il rosso galero, con nappe e trenta fiocchi. 

Molti i pezzi storici conservati nel museo: la bombetta dell'imperatore del Giappone Hirohito a quella di Benito Mussolini, uno dei cilindri che lo scià di Persia ordinò per le celebrazioni dei duemilacinquecento anni dell'impero persiano a Persepoli. Il cappello di Charlie Chaplin, ma anche di Ezra Pound, il copricapo del Pandit Nehru, il charro in oro zecchino fatto fare per Pancho Villa.

 Cappelli che sono stati testimoni di grandi eventi della storia, in testa a Chamberlain, Truman, Churchill, Gorbaciov. Il filmato che testimonia la fucilazione di Galeazzo Ciano mostra il feltro che scivola via insieme alla vita del condannato.

A Hollywood Gary Cooper sfoderava il suo fascino sotto a un Panama, Fred Astaire faceva volteggiare insieme alle sue gambe proprio una paglietta made in Alessandria. E insieme a loro una folla di divi, da Orson Welles a Warren Beatty. Ma anche Robert Redford, Robert De Niro (ne indossa uno ne "Gli Intoccabili"), e attrici dalla bellezza conturbante come Marlene Dietrich, Ingrid Bergman, Greta Garbo. A Cinecittà non si fanno guardare dietro e mettono il Borsalino, tra gli altri Federico Fellini, Alberto Sordi, Marcello Mastroianni.

Un mito a se il modello "Panama", in fibre e germogli di Carludovica palmata, così flessibile da potersi arrotolare e chiudere nella custodia di un sigaro. Lo hanno indossato Napoleone III e Theodore Roosevelt, Edoardo VIII d'Inghilterra e Gustavo di Svezia, Gabriele D'Annunzio e Ernest Hemingway. E Giovanni XXIII ne ricevette uno in dono. […]

Il Tartan.

Antonio Riello per Dagospia il 4 aprile 2023.

Il Victoria and Albert Museum di Londra ha creato una sua nuova filiale a Dundee, una città nel Nord-Est della Scozia, sulla riva settentrionale del Firth of Tay. La sede è un edificio molto avvenieristico e davvero singolare, disegnato apposta dall'Architetto Giapponese Kengo Kuma.

 Il tema della mostra (curata da Jonathan Faiers, Kirsty Hassard, Mhairi Maxwell e James Wylie) che inaugura l'attività di questo spazio è assolutamente emblematico sia rispetto alla natura del V&A (votata alle arti applicate ed in particolare alla Moda) che al luogo. Facile da indovinare. Sì, non poteva essere altro che il mitico TARTAN.

Che cosa è un Tartan? E' tecnicamente un tessuto dove l'incrocio di trama e ordito produce un motivo "a scacchi", visivamente caratterizzato da una geometrica e stringente regolarità. Colori e schema di intreccio, di caso in caso, possono variare. Una tipologia di stoffa abbastanza diffusa in tutto il Mondo fin da quando l'Umanità inizia i suoi primi tentativi di tessitura.  Il primo esempio di Tartan (il termine deriva dal gaelico tarsainn  e significa "incrociare" e anche "mescolare") nelle isole Britanniche risale al terzo secolo dopo Cristo ed è stato trovato a Falkirk.

 All'inizio la colorazione è semplicemente legata al diverso colore del vello delle pecore disponibili. Poi si utilizzano delle piante del posto con la capacità di tingere la lana, comunque sempre pochi colori e piuttosto spenti. E' diffuso nelle Highlands (soprattutto nella zona orientale) e a Sud nella confinante Northumbria, dove esiste ufficialmente l'unico caso "Tartan Inglese": un essenziale motivo a scacchi bianchi e neri.

La squadra del NewCastle United riprende nella sua maglia, bianca e nera, proprio questa antica tradizione. Inizialmente il Tartan esiste in pezze di stoffa rettangolari di ampie dimensioni chiamate "plaid", usate per coprire tutto il corpo senza una precisa relazione con località o clan familiari. Giusto una usanza locale, il prodotto dell'allevamento delle pecore e di una certa abilità degli indigeni nella tessitura della lana.

 Le guerre Jacobite (1715 e 1745) che vedono soccombere definitivamente la Scozia sotto il ferreo controllo Inglese portano alla proibizione di indossare in pubblico il Tartan perchè viene visto come un evidente elemento di ribellione contro il governo di Sua Maestà.

 Ma ci sono delle eccezioni: le efficienti e feroci truppe scozzesi che combattono per conto del Re d'Inghilterra, sempre impegnato in rischiose imprese coloniali, chiedono di conservare le loro tradizioni e viene concesso l'uso del Tartan per le loro uniformi. La stretta associazione con l'abbigliamento militare di questi tessuti (che venivano usati essenzialmente per confezionare pantaloni) è fondamentale per quello che accadrà in seguito.

Prima James Macpherson con i "Canti di Ossian" e poi il movimento Romantico iniziano, in una prospettiva di "inclusione Britannica", a recuperare le virtù delle "TerreAlte" (in realtà buona parte della Scozia, quella a Sud, non fa parte delle "Highland"). Walter Scott (1771-1832) è la figura-chiave che sdogana la Scozia come il luogo dove vive il miglior spirito del Regno Unito (tra le sue opere c'è anche "Rob Roy").

 Il Colonnello David Stewart of Garth organizza una celebrazione delle peculiarità dell'abbigliamento tradizionale Scozzese. Il Re Giorgio IV (1762-1830) visita la Scozia e toglie il bando al Tartan che anzi diviene, da subito, l'oggetto di una avida riappropiazione da parte della Corona Britannica. Nel frattempo si passa dal "Plaid" al "Kilt". Sembra che sia proprio un Inglese, Thomas Rawlinson, che inventa la versione che conosciamo del Kilt (il tipico gonnellino da uomo....tra l'altro fluid-fashion con un bel po' di anticipo).

Scoppia la Tartan-mania, associata ad un'idea di aristocratica rusticità: castelli, caccia, rude raffinatezza, sincerità, paesaggi incontaminati e drammatici, coraggio, virtù militari. E nasce contemporaneamente la narrazione che ogni Clan Scozzese ha il proprio Tartan di cui è geloso custode (una truffa ideologica e un classico esempio di "tradizione-artificiale: le cose storicamente non stanno affatto così, ma con astuzia mediatica viene creato un romantico ed afficiente strumento di propaganda).

Questo tipo di stoffa quindi non solo racconta le glorie dell'Impero Britannico ma viene altresì fortemente associata all'idea di appartenenza: insomma una potente icona universale di identità. I colori vivaci dei Tartan che conosciamo oggi sono per lo più il frutto dei primi coloranti artificiali che potevano garantire una certa brillantezza.

 La Regina Vittoria aveva una grande passione per tutto ciò che era scozzese (è lei che acquista il Castello di Balmoral, prima i sovrani Britannici se ne guardavano bene dall'andare a soggiornare in Scozia). La Tartan-mania si espande rapidamente in India, Australia, Canada, Estremo Oriente. Qualcosa che finirà per essere patrimonio dell'immaginario collettivo globale, travalicando i confini dell'Impero Britannico.

L'impero non c'è più ma il Tartan rimane prondamente associato all'idea di "identità". Stati e nazioni di conseguenza hanno sviluppato i loro. Gli Irlandesi sostengono addirittura di averlo inventato loro e anche l'Argentina, fortemente anti-Britannica, ha il suo.

 Alcuni stati degli USA hanno sviluppato un proprio Tartan: il New Mexico, e l'Ohio, e l'Oklahoma. Il governo Catalano non è da meno. Pochi sanno che, nel 2000, anche l'Unione Europea ha fatto disegnare un suo Tartan. Esiste The Scottish Register of Tartans che ha formalmente la facoltà di brevettare i Tartan di nuova invenzione. Anche aziende o privati lo possono fare. C'è un Tartan per la defunta Lady D disegnato al tempo del suo matrimonio regale. E perfino l'F.B.I. ne ha voluto uno.

 La Cultura, popolare o meno che sia, non può certo ignorarlo. Il gruppo dei Sex Pistols ne fa la propria icona. La controcultura Punk ne va matta, soprattutto nella variante rosso/nera. Diventa un elemento decisivo anche della celebre e longevissima serie televisiva Doctor Who. Il progetto museale itinerante BE SQUARE! è basato sul "potere del Tartan" e anche l'artista Americano Matthew Barney nel suo Creamster 3 lo prende in considerazione.

Il Tartan nella moda è come il tessuto mimetico, ha un andamento carsico: ogni 3/4 anni ricompare regolarmente alla ribalta. Gli stilisti ne hanno fatto ampio uso: Alexander McQueen, Comme des Garçons, Grace Wales Bonner, Nicholas Daley e Olubiyi Thomas. Vivienne Westwood, recentemente scomparsa, lo ha adottato a proprio stilema e oggetto di culto. E' anche il  caratteristico motivo che caratterizza tutta la produzione del marchio di lusso Inglese Burberry. In mostra, tra più di 300 oggetti differenti, è presente una camicia di Dior disegnata da Marc Bohan per Wallis Simpson, moglie di Edoardo VIII.

E comunque, per chi non lo sapesse,  il 6 di Aprile è il Tartan Day.

Chiara Boni.

Chiara Boni: «Romiti mi preparò una cena tutta a forma di cuore. Sgarbi scriveva di notte e veniva a letto alle 6 di mattina». Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera domenica 26 novembre 2023.

La stilista in Io nasco che immaginaria racconta la sua vita: la festa per i 18 anni con mille persone a palazzo Corsini, i viaggi in treno con Oreste Scalzone «così magro che dormiva sui retini per le valigie», gli amori con uomini di cultura e di potere, l’attività di imprenditrice. «Ora ho un rapporto che è adulto e solidale»

Chiara Boni, nata a Fiorenze nel 1948

Bambina tutta vestita di bianco a inizio anni Cinquanta, adolescente al ballo per i suoi 18 anni, mille persone a palazzo Corsini in abito alta moda firmato Mila Schön per lei e la mamma, e poi poco dopo nella Swinging London del ‘67 dove ha buttato via in un giorno il kilt e il cerchietto in testa per farsi investire dal cambiamento vorticoso che arrivava dalla strada. E ancora, tornata in Italia, manifestante sull’altro fronte in pelliccetta azzurra e poi via via ideatrice di una moda accessibile e diversa, assessore alla Regione Toscana dove è stata pioniera della sostenibilità, e ancora l’amore con potenti e non: la stilista Chiara Boni racconta la sua vita, anzi le sue mille vite con l’aiuto della giornalista Daniela Fedi nel libro Io che nasco immaginaria.

Testimone perfetta di una generazione, quella dei baby boomer, Chiara ha incrociato la storia in tutte le svolte anche quelle più delicate, vivendole al di qua e al di là della barricata, da signorina buona famiglia a protagonista del costume e della società, fino a diventare imprenditrice in proprio convincendo con i suoi abiti in tessuto jersey stretch non solo le donne italiane. Tutto vissuto con curiosità onnivora.

Una vita a cavallo fra potere e contropotere: più di altri del suo tempo, dagli anni Sessanta in poi, ha pendolato fra i due mondi.

«Sì certo la cosa curiosa è che ho percorso il secolo passando attraverso tutto e conoscendo tanti personaggi. Per me è stata una scoperta uscire dal mio mondo borghese dove ti vestivano tutta di bianco da piccola e poi andavi ai balli in giro per l’Italia e vedere che esisteva un altro mondo molto più ricco intellettualmente che io non avevo toccato, non avendo fatto l’università, perché non era contemplato. E quel mondo mi ha aperto le idee, e mi dato una visione, fino ad allora i miei sogni erano quelli di sposare il principe azzurro. Che poi in realtà ho incontrato proprio nel mondo della contestazione, ed è stato il mio primo marito Titti Maschietto».

Un principe rosso più che azzurro?

«Sì, un borghese ma rivoluzionario, colto e con amici interessanti, faceva Architettura a Firenze, con lui ho conosciuto Umberto Eco, Pio Baldelli, Ettore Sottsass. In seguito abbiamo conosciuto il gruppo di Potere operaio con Toni Negri, Franco Piperno e Oreste Scalzone. Pensi che un giorno mio padre, che ce l’aveva con me perché ero diventata così diversa da quella che conosceva, ci incontra sulla spiaggia all’Augustus a Forte dei Marmi mentre eravamo a prendere il sole, e proprio Scalzone si alza ed educatamente saluta: “Buongiorno, come sta?”. E mio padre mi dice: “Ecco, questi sono i ragazzi carini che dovresti conoscere”. Non aveva capito evidentemente chi era».

Quelli erano i primi momenti del movimento degli studenti. Poi l’aria è cambiata.

«Sì, c’era un po’ un mix in quel momento, si partecipava insieme e non ti rendevi conto anche dei rischi, perché credevi talmente tanto che dovesse succedere qualcosa di bello e di buono. Giravamo l’Italia, in treno, ricordo che Scalzone era così magro che quando era stanco lo issavamo sui retini delle valigie e lui dormiva un quarto d’ora, e poi lo tiravamo giù. Ma poi noi siamo stati fortunati a non entrare nella lotta armata. Forse anche perché io ho sempre difeso la mia identità. Andavo alle manifestazioni in pelliccia celeste, e litigavo con Titti perché lui voleva che mettessi l’eskimo, e io dicevo “se mi vogliono io sono così; ci sono, ma non sono come gli altri”. E come mi sono arrabbiata una sera a un convegno studentesco dove parlavano solo i maschi, i classici capetti, quando a un certo punto uno mi ha detto: “La compagna della rosa rossa (perché avevo una rosa rossa al collo) vada a fare la colletta!”. Mi sono stufata del fatto che noi donne dovessimo essere trattate così, angeli del ciclostile e di tutto, e da lì sono diventata femminista, mi sono allontanata dal movimento e ho cominciato a lavorare, partendo da un negozio di antiquariato perché per mia mamma la boutique era poco chic. Solo dopo è venuta la moda, con You Tarzan me Jane e il resto. Negli anni Cinquanta una bambina separata non aveva vita facile, alcune amichette non mi invitavano neppure. Ma non è che ce l’ho con mia madre per questo, a mia madre ho voluto tantissimo bene lo stesso: mi ha sempre supportato poi ha fatto anche i fatti suoi, ma ha fatto bene. Non si è resa infelice quindi dispensava amore».

Veniamo ai suoi amori. Un giovane Sgarbi per esempio.

«L’ho conosciuto a Cortina, non ancora famoso come adesso ma con fascino intellettuale: mi ha rapito, è stato un periodo bellissimo. Lui mi portava via e mi faceva girare mezza Italia a vedere capolavori e musei che faceva aprire nel cuore della notte e alla fine arrivavamo la sera a Ro Ferrarese, a casa della sua mamma: lui cominciava a scrivere gli articoli con lei, io andavo a dormire poi lui arrivava a letto alle 6 di mattina. Poi mamma Rina faceva i tortellini e venivano a mangiare scrittori, pittori, era divertentissimo. Sua sorella Elisabetta mi ha detto “mi hai fatto piangere con il ricordo di queste giornate”. Lui si arrabbiò moltissimo quando lo lasciai».

E dopo la cultura, il potere.

«Ho conosciuto Romiti per caso, poco dopo che ero arrivata al Gft, il Financial Textile Group, dove mi aveva chiamato Marco Rivetti. Romiti, che era alla Fiat e che era molto curioso, mi volle conoscere e mi ha invitato a cena, ma ho poi messo un sacco di tempo a capire che mi faceva la corte, a me sembrava centenario, anche se aveva 25 anni più di me, e ora riguardando le foto non mi pare così vecchio. Finché una sera fa fare una cena per me a casa della sua amica Marida Recchi: un pranzo fatto solo di cose a forma di cuore, il mio simbolo, una cosa meravigliosa, e a un certo punto mentre eravamo a tavola lui mi mette una mano sulla mano, io lo guardo e mi dico “cosa fa questo?”. Mi ha accolto e travolto con la sua energia. Ma non ho mai approfittato del potere, avrei potuto diventare potente ma non lo sono diventata. Perché non mi è neanche venuto in mente. Nel momento in cui io avrei avuto bisogno di lui non mi parlava perché qualcuno gli aveva raccontato che quando la nostra relazione si era già allentata per Mani Pulite io avrei avuto flirt con Paolo Mieli, Giovanni Malagò e Nicki Grauso, persone che erano grandi amici e basta. Avevano sbagliato obiettivi, se c’era qualcuno che poteva essermi piaciuto in quel periodo non era uno di loro».

Arriva invece nel 1996 l’amore con Angelo Rovati.

«Angelone, un gigante alto più di uno e novanta, da giovane giocatore di pallacanestro aveva militato anche nella Virtus a Bologna e lì aveva conosciuto Romano Prodi perché i suoi figli erano appassionati di basket e Angelo li faceva giocare. Angelo portava Prodi in macchina in giro per le campagne elettorali, era l’autista suo, di Alberto Clò e anche di Beniamino Andreatta, che era davvero speciale, dava del lei a Romano, si dimenticava la moglie in autogrill, era completamente distratto. Una sera è arrivato in areoporto con la pipa che fumava in tasca. Tra Angelo e Romano c’era affetto e fiducia reciproca, Prodi è stato suo testimone di nozze. Purtroppo quando ci siamo sposati Angelo era già molto malato, aveva un tumore da anni e non voglio ricordare neppure la data della sua morte, le ultime tre notti in casa sola con lui che urlava dal dolore: un incubo».

E ora l’amore consapevole, con Fabrizio Rindi.

«Un angelo mandato da Angelo. Mi faceva la corte nell’estate del 2013 quando è morto Angelo. Era vicino di barca. Ma io lo evitavo, quasi non lo salutavo, riconosco di essere stata scortese, ma vivevo un momento particolare».

Lui ama passeggiare e lei anche, ma come le ha poi raccontato, quell’estate cambiava gli orari: «Mi odia e non voglio disturbarla», si diceva. Un episodio tenero.

«Sì, lui è molto protettivo e con quel signore che ho tanto maltratto ho costruito un amore adulto e solidale».

Moschino.

Morto Davide Renne, direttore creativo di Moschino: 46 anni, era stato nominato a capo della maison a metà ottobre. Federica Bandirali su Il Corriere della sera il 10 novembre 2023

Davide Renne, toscano, per 20 anni aveva guidato l’ufficio stile donna di Gucci. Lunedì era stato operato a Milano per un problema al cuore. Dopo tre giorni di terapia intensiva non ce  l’ha fatta

Lutto nel mondo della moda: è morto Davide Renne, direttore creativo di Moschino. Renne, toscano di 46 anni,  era stato nominato a metà ottobre 2023. Lunedì era stato operato a Milano per un problema al cuore. Dopo tre giorni di terapia intensiva non ce l’ha fatta. 

La carriera

Renne, molto conosciuto soprattutto dagli addetti ai lavori, aveva guidato per vent'anni l'ufficio stile donna di Gucci con il ruolo di head designer for Womenswear sotto la guida di Alessandro Michele e prima ancora di Frida Giannini. Nel suo passato un’altra grande esperienza lavorativa 24 anni fa all’ ufficio stile di Alessandro Dell’Acqua.

Il lutto della maison

«Non ci sono parole per descrivere l’incommensurabile dolore che stiamo vivendo in questo momento così drammatico. Davide si era unito a noi solo pochi giorni fa, quando un malore improvviso ha stroncato troppo presto la sua giovane vita. Non riusciamo ancora a credere a quello che è successo. Con Davide stavamo lavorando a un progetto ambizioso, pieni di entusiasmo e di ottimismo verso il futuro. Anche se è stato con noi solo per pochissimo tempo, Davide è stato in grado di farsi subito amare e rispettare. A noi resta oggi la responsabilità di portare avanti ciò che la sua fantasia e creatività avevano solo immaginato. Ci stringiamo alla famiglia e ai numerosissimi amici di Davide con affetto» ha detto Massimo Ferretti, presidente esecutivo di Aeffe SpA.  

Conosciuto come gran lavoratore, sempre dietro le quinte, innamorato del suo lavoro, giovane solare e dinamico, la moda perde un grande personaggio: avrebbe dovuto presentare la sua prima collezione di Moschino nel febbraio 2024. 

Gli inizi

Nato nel 1977 a Follonica, vicino a Grosseto, aveva iniziato fin dal liceo a disegnare abiti femminili. Inizialmente avrebbe voluto diventare architetto ma poi ha cambiato strada, frequentando il Polimoda di Firenze («mi ha donato un senso assoluta libertà» aveva detto), e da lì si era aperta la strada a una carriera che non ha mai abbondonato. 

«Un designer brillante»

Massimo Ferretti, Presidente Esecutivo di Aeffe SpA, quando aveva nominato Renne come direttore creativo di Moschino aveva detto: «Siamo rimasti tutti colpiti dalla visione estremamente sofisticata di Davide, dalla sua consapevolezza del potere della moda di creare un dialogo vivo e poetico con il mondo che ci circonda e dalla sua profonda comprensione dell’heritage di Moschino e dei nostri codici. È un designer brillante e un essere umano speciale». 

La moda come gioco e sperimentazione

Il designer, in risposta, aveva spiegato che la sua visione per il futuro del marchio sarebbe stata in linea con lo spirito giocoso e irriverente del suo fondatore: «Franco Moschino aveva soprannominato il suo studio ‘la sala giochi’. Questo è esattamente ciò che credo: la moda, in particolare quella italiana, e in particolare la Maison Moschino, dovrebbe sempre essere intrisa di gioco, gioia, scoperta e sperimentazione. Sono profondamente grato a Massimo Ferretti per avermi concesso l’onore di prendere il timone di una Maison fondata da una delle menti creative più brillanti della moda. Non vedo l’ora di iniziare questo entusiasmante capitolo: ci divertiremo insieme».

Addio Davide Renne: lo stilista di Moschino è morto a 46 anni. Si è spento all'improvviso lo stilista toscano. Era stato nominato solo tre settimane fa alla direzione creativa del marchio simbolo del made in Italy. La sua prima collezione avrebbe dovuto essere presentata a Milano a febbraio. Sui social, il cordoglio dei colleghi. Serena Tibaldi su La Repubblica.it il 10 novembre 2023

L’annuncio è arrivato come un fulmine a ciel sereno: Davide Renne, il designer 46enne nominato solo tre settimane fa nuovo direttore creativo di Moschino, è morto il 10 novembre. Nulla si sa sulle cause della sua scomparsa: pare che lo stilista sia mancato nel corso di un intervento chirurgico. A nulla sono valsi i tentativi di rianimarlo in terapia intensiva.

«Non ci sono parole per descrivere l’incommensurabile dolore che stiamo vivendo in questo momento così drammatico. Davide si era unito a noi solo pochi giorni fa, quando un malore improvviso ha stroncato troppo presto la sua giovane vita. Non riusciamo ancora a credere a quello che è successo. Con Davide stavamo lavorando a un progetto ambizioso, pieni di entusiasmo e di ottimismo verso il futuro. Anche se è stato con noi solo per pochissimo tempo, Davide è stato in grado di farsi subito amare e rispettare. A noi resta oggi la responsabilità di portare avanti ciò che la sua fantasia e creatività avevano solo immaginato. Ci stringiamo alla famiglia e ai numerosissimi amici di Davide con affetto» dichiara Massimo Ferretti, Presidente Esecutivo di Aeffe SpA.

Il percorso professionale

Difficile trovare le parole per commentare una notizia del genere, che ha lasciato di sasso tutto il mondo della moda, sia chi conosceva Davide personalmente che chi ne aveva solo sentito parlare. Toscano, originario di Follonica, Renne inizia a sperimentare con l’abbigliamento dagli anni del liceo, quando il suo stile decisamente più forte della media si fa notare parecchio. Sogna di fare l’architetto, ma poi capisce che è proprio la moda il suo futuro: studia design al Polimoda di Firenze che, dirà poi, gli ha donato un senso di “assoluta libertà”. Il suo primo lavoro a Milano è nel team stilistico di Alessandro Dell’Acqua, assieme a un altro dei nomi nuovi dello stile italiano, Walter Chiapponi. Si trasferisce poi a Roma per lavorare da Gucci dove rimane per vent’anni, collaborando prima con Frida Giannini e poi con Alessandro Michele, che lo sceglie come suo direttore delle collezioni donna. A seguito dell’addio al brand di Michele, che Renne ha ringraziato per avergli insegnato a sognare in grande e per averlo incitato e aiutato a realizzare i suoi sogni, resta fino alla fine della scorsa primavera per gestire la transizione al nuovo direttore creativo Sabato De Sarno. 

L'arrivo a Moschino

La nomina da Moschino era quindi la sua prima occasione per uscire finalmente alla ribalta, ed è questo che addolora di più oggi. Renne sinora è stato un nome molto popolare tra gli addetti ai lavori, ben consapevoli delle sue capacità, ma virtualmente sconosciuto al grande pubblico: la direzione creativa di Moschino era il coronamento di una carriera lunga e proficua, il riconoscimento del suo talento e della sua professionalità. Il suo debutto in passerella sarebbe dovuto essere il prossimo febbraio, alla fashion week milanese. Del suo Moschino non si sapeva ovviamente ancora nulla, ma la sua prima e unica dichiarazione in proposito dimostra già quanto avesse le idee chiare: “Franco Moschino aveva soprannominato il suo studio ‘la sala giochi’. È così: ciò che la moda – soprattutto quella italiana, e la Maison Moschino in primis – può realizzare con la sua influenza, dovrebbe essere sempre fatto con un senso di gioco e di gioia”, aveva scritto. È davvero triste pensare che non abbia nemmeno avuto l’occasione di godersi ciò che s’era guadagnato.

Il cordoglio dei colleghi e degli amici

Tra i primi commenti postati su Instagram, quello di Alessandro Dell’Acqua: "Ciao Davide!! Sarai sempre nel mio cuore".

Il primo lavoro a Milano di Renne è stato nel team stilistico di Alessandro Dell’Acqua, assieme a un altro dei nomi nuovi dello stile italiano, Walter Chiapponi.

Scrive Walter Chiapponi: "Ti ho conosciuto nel 1999 ed è stato amore a prima vista, sei stato mio fratello, la mia famiglia, il mio tutto, da allora. Davidó, mi mancherai ogni secondo, ho il cuore spezzato, oggi è uno dei giorni più difficili della mia vita. Per favore rispettate il mio dolore". Lo stilista ha sempre considerato Renne un fratello, e sta postando molte foto che li ritraggono assieme.

Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci: "Dolce amico mio, fratello inseparabile, amore grandissimo. Che viaggio straordinario e indimenticabile abbiamo fatto insieme. Quante risate e che gioia sfrenata. Quanti sogni incoscienti abbiamo rincorso. E come ci siamo abbracciati stretti, con batticuore. Perché tu non sei stato solo uno dei più talentuosi creativi che io abbia mai conosciuto. Eri soprattutto parte insostituibile di una piccola famiglia sgangherata. La nostra, quella che avevamo scelto di costruire con tutto l'amore del mondo. Non riesco, ora, a non piangerti disperatamente. In questo giorno di pioggia in cui manchi come l'aria, vorrei così tanto abbracciarti e dirti, ancora una volta, che andrà tutto bene".

È morto a 46 anni Davide Renne, da pochi giorni direttore creativo di Moschino. Il Domani il 10 novembre 2023

Il lutto che sconvolge il mondo della moda, lo stilista aveva appena cambiato maison dopo un’esperienza ventennale a Gucci

È morto Davide Renne, da pochi giorni direttore creativo di Moschino. Era nato a Follonica (Grosseto) nel 1977. A comunicare la sua morte è Moschino che in una nota esprime «cordoglio e grande tristezza per la prematura scomparsa di Davide Renne avvenuta il 10 novembre 2023 a Milano».

Renne, 46 anni, era stato nominato lo scorso 16 ottobre e aveva assunto il ruolo dal primo novembre.

È morto a Milano per un malore, dopo essere stato ricoverato per un problema cardiaco.

«Non ci sono parole - dichiara Massimo Ferretti, presidente esecutivo di Aeffe Spa - per descrivere l'incommensurabile dolore che stiamo vivendo in questo momento così drammatico. Davide si era unito a noi solo pochi giorni fa, quando un malore improvviso ha stroncato troppo presto la sua giovane vita. Non riusciamo ancora a credere a quello che è successo. Con Davide stavamo lavorando a un progetto ambizioso, pieni di entusiasmo e di ottimismo verso il futuro. Anche se è stato con noi solo per pochissimo tempo, Davide è stato in grado di farsi subito amare e rispettare. A noi resta oggi la responsabilità di portare avanti ciò che la sua fantasia e creatività avevano solo immaginato. Ci stringiamo alla famiglia e ai numerosissimi amici di Davide con affetto». 

Dopo gli studi al Polimoda di Firenze, Renne – come ha raccontato lui stesso il giorno della sua nomina –aveva lavorato nel team di Alessandro Dell'Acqua: «Alessandro è stato il mio primo maestro e mentore nella moda. Sono poi andato da Gucci dove ho passato due decenni straordinari come Head Designer for Womenswear. Gli ultimi otto anni di questo periodo li ho trascorsi insieme ad Alessandro Michele: lui mi ha insegnato a sognare in grande, mi ha incitato e mi ha aiutato a realizzare i miei sogni». «La moda, come la vita – scriveva Renne – ci dà modo di scoprire noi stessi. Non mi piace la moda che detta risposte, sono più propenso a trovare la domanda giusta, poi le risposte arriveranno nel dialogo dello stilista con il pubblico: la moda è, per sua stessa natura, fatta su misura. Prendere il timone della casa creata da un genio del design italiano e dell'arte contemporanea è un onore che non prendo alla leggera».

I nove giorni di Davide Renne da Moschino. Un malore stronca il nuove direttore creativo. L'incarico era iniziato solo il 1°novembre. Lunedì aveva subito un intervento al cuore. Daniela Fedi l'11 Novembre 2023 su Il Giornale.

Il primo messaggio che ci siamo scambiati conteneva una frase di Alexander Pope: «Recita bene la tua parte, in questo consiste l'onore». Davide Renne non recitava mai: era davvero un essere speciale. Infatti sul palcoscenico della vita è stato bravo come Charlie Chaplin e Peppino De Filippo nell'interpretare tutte le parti che ha avuto in sorte compresa quella davvero crudele di morire a soli 46 anni sotto i ferri nel disperato tentativo di salvarlo da una severa patologia cardiaca.

Nominato lo scorso 16 ottobre direttore creativo di Moschino, aveva preso servizio il 1° novembre immergendosi con grande entusiasmo in quell'ufficio stile che Franco Moschino amava chiamare «La sala giochi». Anche lui come il grande designer lombardo prematuramente scomparso nel 1994 trattava con grande serietà gli aspetti ludici dell'esistenza e pensava che il gioco fosse cibo per la mente. Nato a Follonica in provincia di Grosseto, Davide ha sempre avuto un senso estetico fuori dal comune e un talento naturale per il disegno. Tutti pensavano che sarebbe diventato architetto, ma lui sapeva che la moda era il suo destino. Si iscrisse infatti al Polimoda di Firenze dove diceva di aver imparato quel senso di assoluta libertà che un designer deve pur avere per creare qualcosa di bello. Il suo primo lavoro è stato nell'ufficio stile di Alessandro Dell'Acqua dove ha incontrato il suo miglior amico, Walter Chiapponi, un altro grande talento del made in Italy appena nominato direttore creativo di Blumarine.

Dopo 4 anni di duro lavoro che entrambi hanno sempre definito come una meravigliosa esperienza umana e professionale, i due sono passati da Gucci dove Davide è rimasto vent'anni prima con Frida Giannini e poi con Alessandro Michele. Sotto la sua guida Davide è diventato head designer del womenswear e quando un anno fa avvenne il brutale divorzio tra il mitico direttore creativo romano e il marchio delle due G, toccò a Renne portare avanti le collezioni in mezzo a mille difficoltà. Recitò così bene la sua parte da conquistarsi l'affetto e la stima anche dei più sfegatati fan di Alessandro Michele e di Tom Ford. «Lo sono anch'io da anni» ci confessò dopo la prima sfilata senza la guida del grande visionario. «In questa collezione concluse abbiamo tentato di unire due mondi diversi che insieme sono l'anima dell'azienda». Il nostro ultimo incontro è stato all'aeroporto di Seul dove ci spiegò che nella cruise collection presentata la sera prima c'erano precisi riferimenti alle Haenyeo, ovvero le donne che sull'isola di Jeju s'immergono in apnea fino a 20 metri per pescare 7 ore al giorno per 90 giorni all'anno. «Sono le ultime sirene asiatiche», concluse prima di imbarcarsi per Roma dove trovò un'immeritata lettera di licenziamento. «È la vita», commentò. Vorremmo essere altrettanto fatalisti, ma nel mondo della moda si sa: abbiamo perso un essere speciale.

Brunello Cucinelli.

Estratto dell’articolo di Paola Pollo per il “Corriere della Sera” giovedì 3 agosto 2023.

«Lei aveva 16 anni e mezzo e io 17, suvvia la stessa età. Perché la differenza sono solo sei mesi. E non mi guardare così perché non è un anno...». «Io sono del ‘54 e tu del ‘53. A settembre ne compi 70 e io ne avrò sempre 69». 

Ridono Brunello e Federica Cucinelli, marito e moglie dal 7 marzo 1982 ma innamorati da 52 anni. «Avevo un vespino color panna e ogni mattina seguivo la corriera che portava Francesca a scuola». «Cosa dici? Il nostro primo incontro è stato alla Città della domenica, a ballare un pomeriggio. È lì che mi hai notato. Chissà poi perché? Andavamo alla stessa scuola: tu geometria e io ragioneria. Poi a voi vi hanno spostato nell’ex ospedale psichiatrico e vi prendevamo in giro dicendo “i geometri sono andati ai matti”». 

[…] «Ero appena arrivato dalla campagna, in città, ad Arezzo. Non sapevo cosa fosse l’elettricità, l’acqua calda e la tv. Scoprivo le cose piano, piano. Alla Città della domenica, una specie di Disneyland di cinquant’anni fa, arrivavano i pullman delle gite. Pensavo che lei fosse una di fuori. Solo il giorno dopo vidi che frequentava il mio istituto. E cominciai a seguire la sua corriera con il cinquantino. Pensavo di conquistarla così con il vespino e il mio lungo cappotto cammello da zar. Ma nulla. […] ».

«Lo notavo. Lo notavo. E ne ridevo con le mie amiche. Mi piaceva questo gioco di farlo aspettare e a volte depistarlo». 

Neanche un cenno?

«Nulla. Dovetti aspettare marzo. Ancora alla Città della domenica. Si ballavano i lenti. La invitai in pista, la strinsi a me e la baciai. Gli amici ridevano di noi: entrambi avevamo i capelli lunghi e in due non facevamo 100 chili: “Tu e Federica — dicevano — neanche se fate l’amore su di un barile di latta vi si sente!”.

[…] «La nonna controllava le distanze. Ricordo le telefonate di Brunello: io a casa e lui al bar dove stava, sempre. Mio padre quando lo vide la prima volta disse: “Guarda tuo cugino ha portato un’amica... ma era Brunello con i capelli lunghi». 

[…] Dal bacio all’amore?

«Non sapevamo nulla. Niente di niente. Non avevo neanche mai visto una donna in costume. Figurarsi se sapevo come si faceva all’amore. Lo scoprimmo insieme. Presi la patente e comperai l’auto, una Mini Minor. Era il 26 dicembre, il giorno dopo Natale. Fu la prima volta per tutti e due. Si andava tutti nello stesso bosco». «[…] mi piaceva perché era un po’ matto, non come gli altri». 

Ma a vent’anni parlava già con i filosofi?

«Non proprio. Però era un visionario. Ricordo una volta, fra le prime, che eravamo in piazza a Solomeo e lui alzò gli occhi verso la torre e disse “questa sarà nostra e aiuteremo tutti a far rinascere il paese”. Gli credetti». 

«Ma non lavoravo ancora a quei tempi. Giocavo a carte! E vincevo. Poi Federica e sua sorella misero su un negozio di abbigliamento e ogni tanto le seguivo dai fornitori. È così sono entrato nella moda». 

Quindi senza «la» Federica di Solomeo, oggi non ci sarebbe nulla?

«Già è così. Tutti a dire che genio è Brunello e invece è tutto merito di Federica. E tutt’ora è lei l’anima e il cuore di questo borgo. Lei organizza e fa per la comunità». 

«Diciamo che feci entrare Brunello nel nostro mondo che era una vita di paese dove ci si conosceva e si aiutava tutti. Una famiglia allargata. Ci si ritrovava e ci si ritrova».

[…] «Non mi è pesato stare dietro: sono felice che Brunello sia entrato e abbia reso Solomeo un luogo famoso nel mondo. Io con lui ho vissuto una favola». 

La testa a posto Brunello Cucinelli quindi quando l’ha messa?

«Tardi... Dopo tre anni di ingegneria, a 25 anni. Mio padre mi diceva tutti i giorni: “Come va la scuola?”. E io: “Babbo potrebbe andare meglio”. I miei due fratelli lavoravano e io facevo il signorino». 

«Vuoi dire il viziato. Al sabato quando ero in negozio, fuori Perugia, lui passava prima di andare a fare il bagno al lago. Alla sera tornava e stavamo insieme sino alle 11. Poi lui andava al bar e io a Solomeo con le amiche. Ognuno i suoi spazi e la sua libertà. Ieri e ora».

«Ancora oggi è così: lei va giù a cantare nel coro o guarda i suoi sceneggiati, come li chiama la zia, e io resto a rincoglionirmi con il fuoco o a leggere dei miei filosofi e dei miei santi». 

Qualcosa che non va?

«Brunello odia viaggiare. Io lo amo. […] In questo proprio non ci capiamo. Così me ne vado in giro con il mio coro polifonico». «Io farei come Kant, non mi muoverei mai da casa». 

Quando arrivò Brunello a casa parlando di cashmere?

«Federica, che è la cugina prima di Schopenhauer, era scettica». «Un giorno venne a casa con un pacchetto di cambiali infinte e firmate. “Oddio Brunello che hai fatto?”. E non lo ostacolai, no. Anche perché non sarebbe stato e non è facile fermarlo». 

«Avevo comperato la torre con 250 milioni di cambiali. Confortato dal proprietario che mi disse: “Non ti preoccupare, le sposteremo”. Non certo da Federica-Schopenauer che disse: “Sarà!”».

Litigi?

«Pochissimo […]. All’inizio le dissi solo: “Ti raccomando non ti venga mai in mente di offendermi perché sono figlio di contadini. Per il resto puoi dirmi tutto”. Ma non ce n’è stato bisogno». 

Chi è cambiato di più?

«Brunello, è diventato più riflessivo. Anche se a me piaceva matto». «Per forza, prima abbiamo messo su un allevamento di lombrichi, poi di lumache che sono scappate e l’idea dei conigli che non è decollata. Dovevo mettere la testa a posto».

Gelosie?

«Era bella e corteggiata.... Ma che ti ridi?». «Non è mai stato geloso. Io sì invece. Ma che ti ridi?». [….]

Mary Quant.

Da adnkronos.com il 13 aprile 2023.

La stilista britannica Mary Quant, considerata l'inventrice della minigonna, è morta oggi all'età di 93 anni nella sua casa nel surrey, nel regno unito. l'annuncio della scomparsa, come riferisce la BBC, è stato dalla sua famiglia, definendola "una delle stiliste più riconosciute a livello internazionale del xx secolo e un'eccezionale innovatrice, che con il suo talento lungimirante e creativo si affermò rapidamente come un contributo unico alla moda britannica" a Mary Quant è riconosciuto il merito di aver reso popolari, prima tra le modelle, e poi tra le nuove generazioni di tutto i mondo, le minigonne che hanno contribuito a definire lo stile degli anni '60 della 'swinging london'.

La definitiva consacrazione della minigonna, come modello elegante, snello e vivace, ebbe luogo nel 1966, quando la quant la indossò a buckingham palace, in occasione della cerimonia con la quale la regina elisabetta le conferito il titolo di dama dell'ordine dell'impero britannico. almeno fino agli anni cinquanta l'orlo delle gonne non era salito oltre il ginocchio. 

 La linea del ginocchio venne conquistata e superata grazie a Mary Quant: nel suo atelier di kings road a Londra, dove aveva aperto anche una boutique ("bazaar") la giovane stilista, figlia di professori universitari che l'avrebbero volentieri avviata alla carriera di insegnante, concepì il nuovo indumento, la miniskirt. l'invenzione nacque nel segno della rottura con la tradizione: quant era convinta che "somigliare a un adulto era una cosa brutta, allarmante e terrorizzante, soffocante, vincolante e orribile".

La novità piacque, specie alle ragazze e alle indossatrici che, proprio in quei primi anni '60, avevano sposato un nuovo modello estetico: la donna androgina, dai fianchi stretti e dalle gambe lunghissime. nata a Londra l'11 febbraio 1934, figlia di due insegnanti gallesi, dopo gli studi di design al goldsmith's college of art, nel 1955 Mary Quant aprì, insieme al suo futuro marito alexander plunket greene, la boutique "bazaar" in king's road, centro nevralgico della "swinging london", dove venivano venduti capi semplici e colorati che sarebbero diventati espressione tipica dell'abbigliamento inglese degli anni sessanta.

Nel giro di dieci anni la quant divenne proprietaria di una sorta di impero della moda giovane che produceva abiti, accessori e cosmetici. da allora nome della quant è rimasto legato soprattutto alla minigonna, di cui si è contesa la creazione con andré courregès. alla fine degli anni settanta la quant cedette il marchio, pur continuando a occuparsi della linea cosmetica e a collaborare con altre case di moda. 

Mary Quant è morta: ha inventato la minigonna. Maria Teresa Veneziani su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2023

La stilista britannica aveva 93 anni. In un comunicato diffuso dalla famiglia si legge che si è spenta serenamente questa mattina nella sua casa del Surrey

Il suo impatto sul mondo della moda è stato paragonato a quello dei Beatles per la musica pop. Mary Quant, stilista britannica che ha incarnato gli Swinging 60s, conosciuta in tutto il mondo per aver lanciato la minigonna, è morta a 93 anni. In un comunicato diffuso dalla famiglia si legge che si è spenta serenamente questa mattina nella sua casa del Surrey, contea dell’Inghilterra sud-orientale.

Quant era nata a Londra nel 1934. Figlia di insegnanti del Galles, si era cimentata con i vestiti fin dalla tenera età, cominciando a scuola ad accorciare le gonne ispirata da una compagna che ballava il tip tap, come racconta nella autobiografia «Quant by Quant». Dopo gli studi di illustrazione alla Goldsmiths di Londra, aveva completato un apprendistato con il modista Erik di Brook Street. Nel 1955 gli esordi nella moda, quando, con il marito Alexander Plunket Greene, aprì il suo negozio Bazaar di Kings Road che da subito divenne un ritrovo per i giovani, con la folla che si formava fuori dalla porta. Il caschetto firmato da Vidal Sasson, le minigonne fecero subito tendenza.

Mary Quant, che inizialmente disegnava abiti basati su semplici modelli di sartoria ha rivoluzionato le convenzioni della vendita al dettaglio, puntando su un progressivo rifornimento delle scorte: con gli incassi di una giornata avrebbe pagato la stoffa per realizzare i nuovi modelli del giorno successivo, quasi un preludio di fast fashion. Aveva intuito che i giovani si erano stancati di vestire come i loro genitori. Era arrivato il momento di una rottura con il passato. Dimostrò di essere anche una brillante imprenditrice, fondando già nel ‘63 il Ginger Group per esportare i suoi prodotti negli Stati Uniti che in seguito aveva arricchito con una linea di cosmetici e una collezione di calzature.

La stilista ha incarnato l’intera rivoluzione che investì gli anni ‘60 e che ebbe il suo epicentro a Londra, mentre nel mondo s’imponevano i nuovi simboli: i Beatles, George Best, la Mini Minor, la modella Twiggy. Luoghi simbolo di quella rivoluzione furono Carnaby Street e King Road e accanto agli abiti che si accorciavano esplodevano anche i movimenti pacifisti e per la liberazione sessuale.

Non è certo che sia stata proprio lei ad aver inventato la gonna corta, ma certamente accorciando gli orli 10 centimetri sopra il ginocchio ha contribuito a far sentire libere le ragazze, anche dalle convenzioni. Pioniera della moda democratica. E pazienza se la sua frase «Non siamo tutte duchesse» fece storcere il naso a Coco Chanel. Non a caso l’ editorialista del «Times», Bernard Levin, l’ha definita «alta sacerdotessa della moda dei Sixties». Nel ‘66, «per il contributo all’industria del fashion», la regina Elizabeth le ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Corona Britannica. E proprio recentemente Re Carlo III, l’ha premiata con il titolo di Membro dell’ordine cavalleresco dei Compagni d’Onore. Mary, che nel 2021 è stata celebrata dal docufilm di «Sadie Frost, Quant », era felice: «È un onore ricevere questo premio alla fine di una vita che ho avuto il privilegio di trascorrere facendo ciò che amo e che mi ha sempre divertito». Un bel testamento per un’esistenza ricca e lunga.

Estratto dell’articolo di Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 14 aprile 2023.

Come è lontano il tempo di Mary Quant, quando pareva che tutto il mondo fosse giovane, sempre più giovane, e ascoltando “Revolver” dei Beatles eravamo ormai sicuri che la giovinezza non ce l’avrebbe rubata nessuno, che le gonne che scandalizzavano New York ci sarebbero durate per sempre.

 Adesso so che Mary Quant aveva la mia età, era vecchissima, eppure noi ce la ricordiamo con quel buffo aspetto e quella pettinatura di lacca corta e scura a renderla diversa da tutte. […]

Anche io correvo da Biba, il grande negozio profumato in Chelsea dove essere felici voleva anche dire comprarsi a prezzi che parevano niente le sue meraviglie […]

 Lei, Mary Quant - o Courrèges che rivendicava il taglio liberatorio - se la inventarono perché era il momento giusto, e non si poteva più farne a meno, proprio all’inizio epocale del 1967. […] Attorno la bella musica dei Rolling Stones, dei Beatles di tutti i nuovi giovanissimi che accompagnavano la grande giovinezza. […]

Quelle gonne corte e sempre più audaci, che liberavano le donne molto giovani, erano naturalmente il primo segnale di una libertà, vecchia ormai di sessant’anni, un modo di annunciare una frivolezza che in realtà non c’era. Però i Settanta erano vicini e in quegli anni, con le minigonne e le gonne, le donne ebbero la forza di intervenire per riuscire a conquistare, penso a noi, il divorzio, l’interruzione di gravidanza e il diritto di famiglia. Adesso la minigonna c’è o non c’è, la portano le belle nere che la moda sceglie, Mary Quant se ne è andata, e a noi non resta che arrivi una signora di quelle che facciano miracoli.

Estratto dell'articolo di Alessandra Rizzo per “la Stampa” il 14 aprile 2023.

È stata per tutti la «madre della minigonna», uno dei simboli della «Swinging London» degli Anni'60 e della liberazione femminile: la stilista inglese Mary Quant è morta ieri mattina all'età di 93 anni nella sua casa del Surrey. È stata una delle figure più influenti nella moda e della cultura nella Gran Bretagna del dopoguerra: la sua boutique a King's Road a Londra non vendeva solo vestiti, ma era uno dei punti di ritrovo per giovani, artisti e intellettuali che confluivano nel quartiere di Chelsea, dai Beatles e Rolling Stones a Brigitte Bardot.

 «Ha rivoluzionato la moda ed è stata una fantastica imprenditrice», ha detto Twiggy, la modella «grissino» che contribuì a rendere la mini popolarissima tra le giovani donne di tutto il mondo. «Gli Anni 60 non sarebbero stati gli stessi senza di lei».

Mary Quant era nata a Londra nel 1930; i suoi genitori erano maestri di scuola provenienti da famiglie di minatori gallesi, e volevano per la figlia una carriera convenzionale. Ma lei aveva altre idee: cominciò a studiare arte, e ben presto conobbe quello che sarebbe diventato suo marito, l'eccentrico aristocratico Alexander Plunkett Smith. Insieme i due aprirono, nel 1955, la boutique Bazaar a Chelsea, dove si poteva entrare fino a tardi, ascoltare musica jazz e bere un bicchiere in mezzo ai giovani bohémien della capitale. Da qui partì la rivoluzione della moda: linee essenziali, vestitini a trapezio, colori vivaci, materiali sintetici. E, naturalmente, la minigonna, portata con collant spessi e colorati, e stivali.

 Se sia stata davvero lei a inventarla, o lo stilista francese Andrè Courrèges, è materia di dibattito. Ma sul fatto che sia stata Mary Quant a renderla popolare in tutto il mondo non ci sono dubbi.

[…] Né lei sembrava voler rivendicare la paternità dell'indumento simbolo di una generazione, sostenendo invece di essere stata brava a captare lo spirito del suo tempo. «Sono state le ragazze di King's Road a inventare la mini», diceva. «Io volevo realizzare abiti che potessero consentire di correre e ballare». E ricordava come le giovani clienti volessero gonne sempre più corte. Seguirono accessori, scarpe, una linea di cosmetici, persino una bambola chiamata Daisy, la margherita che era il suo logo.

 […] «Il buon gusto è morte», disse una volta al Guardian. «La volgarità è vita».

Estratto dell'articolo di Marinella Venegoni per “la Stampa” il 14 aprile 2023.

Tutto, in Patty Pravo, parte sempre da Venezia. La città dov'è nata, la città che par di capire le andava stretta fin da adolescente. Allevata dai nonni paterni, affezionatissima al nonno Domenico direttore dei Tabacchi, alla sua morte decise che lì non ci voleva più stare: «Ho annunciato alla nonna che dopo otto anni ero stufa del Conservatorio e, con la scusa di un corso d'inglese, sono saltata in auto con alcuni amici e siamo andati a Londra», ricorda. Era il 1965.

L'inglese s'imparava anche per strada, la curiosità della bellissima fanciulla andava altrove, alle zone più appetibili della Swinging London: «Ci si infilava a ballare, si cantava.

E mi sono scatenata nelle strade della moda, sono andata da Biba e sì, non mi sono persa neanche Mary Quant, mi ricordo anche di averla vista. Ho fatto il pieno di vestiti, poi sono andata a Roma e sono approdata al Piper».

 Chiedere particolari alla memoria di Nicoletta Strambelli è un po' complicato, quel che è certo è che era una ragazza molto sveglia, e sostiene anzi che lei nell'epoca della minigonna ci entrò da prima, danzando: «Mi piaceva, come a tutte le ragazze, e la mettevo. Era nell'aria, e anzi la mettevo già prima: mi ricordo che prendevo un sacchetto di stoffa (allora era beige), tagliavo il fondo, me lo infilavo e stringevo in vita il laccetto della parte superiore, come cintura».

«[…] In quel periodo a Londra c'erano minigonne da tutte le parti: Mary Quant fu geniale, perché riuscì a pubblicizzare questa novità della minigonna che però era già nell'aria, e se ne impadronì, la ufficializzò, fece una pubblicità moderna, le diede un'impronta fino a farla diventare una cosa sua. Dalla sua parte aveva Twiggy. Nel suo negozio poi non si trovavano solo le minigonne, c'erano i prodotti di bellezza, il trucco che cambiava e le ragazze che insegnavano come truccarsi a noi clienti, inglesi e straniere, che pendevamo dalle loro labbra. Carnaby Street era così affollata che non si riusciva a camminare».

[…]

Vittorio Feltri, la minigonna? "Tutto merito di Oriana Fallaci". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 15 aprile 2023

All’età di 93 anni è morta Mary Quant, colei che a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, nella conservatrice Inghilterra, inventò la minigonna, segnando una rivoluzione non soltanto nell’ambito della moda ma anche in quello del costume. La sottana divenne subito simbolo della emancipazione femminile e si diffuse rapidamente in tutto il mondo. Amata dalle donne, però pure dagli uomini, i quali ancora ci risparmiavano dall’orrore di indossarla a loro volta, limitandosi ad apprezzarla vestita dal gentil sesso. La gradiscono forse tutti i maschi, meno che il sottoscritto, lo ammetto. Trovo più eleganti le gonne al ginocchio o poco sopra il ginocchio. Meno si vede, infatti, e più si è costretti a immaginare. 

È vero che l’occhio vuole la sua parte, tuttavia questa parte non deve essere mai troppo ampia. In ogni caso, la dipartita della mamma della microgonna nella mia mente ha portato a galla un ricordo, ossia l’incontro che la mia amica Oriana Fallaci ebbe, per volontà dell’editore de L’Europeo, a New York, nell’estate del 1966, proprio con Mary Quant, allora trentatreenne, incontro da cui nacque una interessante e vivace intervista, di quelle infinite che faceva Oriana, consegnandoti la radiografia dell’anima dell’intervistato. Fallaci rimproverava a Mary di avere costretto le signore ad accorciare di un centimetro i propri vestiti di mese in mese e che, di quel passo, a Natale si sarebbero ritrovate in mutande, cosa poco decente, addirittura “preoccupante”.

In quell’occasione Quant ebbe la facoltà di spiegare che per lei la minigonna doveva essere indossata in un certo modo per non essere un capo peccaminoso bensì persino innocente. Innanzitutto, andava portata con le scarpe basse e non di sicuro con i tacchi a spillo, inoltre con i collant e non con le calze tenute su con le giarrettiere. Quant fissò un’altra regola fondamentale, oggi più che mai trascurata: se scopri le gambe devi coprire tutto il resto, quindi andrebbero abolite le scollature abissali sul davanzale, ad esempio. Insomma, Mary Quant inventò la minigonna ma non di certo la volgarità dilagante che vediamo in giro. Già da quel colloquio emerge la consapevolezza piena di Quant che dalla minigonna non si sarebbe mai più tornati indietro. Essa, tra alti e bassi, sarebbe durata. E viene a galla altresì il carattere deciso di Mary, il suo spirito incontenibilmente ribelle, l’audacia, virtù propria di coloro che sono destinati a lasciare il segno nella storia e la moda non è affatto qualcosa di marginale: essa ci racconta una maniera di vivere, una mentalità, gli usi, le paure, i pregiudizi, i divieti e i tabù di una determinata società in una determinata epoca.

 «Detesto le donne che portano le cosine semplici, le cosine ben tagliate, le cosine dai colori educati, le cosine che non passano mai di moda e sono così femminili. Sono le donne che vanno a comprarsi qualcosa di nuovo e tornano con l’abito classico, le donne senza coraggio. Sono le donne che vorrebbero portare le calze nere e gli stivali bianchi ma non li portano e si decidono solo quando li portano tutti. Sono le donne che non cambiano mai la pettinatura, che posseggono solo gioielli veri e antichi, che cercano un marito come soluzione di vita», dichiara ad Oriana Mary Quant, la quale si definiva «libera e senza trucchi» e riteneva inelegante soltanto l’assenza di spontaneità. Alla fine, credo che Mary Quant abbia invitato le fanciulle di ogni età a scoprire in particolare il cervello. 

 Addio a Mary Quant, la rivoluzionaria che liberò per prima le gambe delle donne. Nicola Santini su L’Identità il 14 Aprile 2023

Oggi, il mondo piange la perdita di una figura che ha cambiato per sempre la moda e la società: Mary Quant, l’indimenticabile inventrice della minigonna, si è spenta all’età di 93 anni.

La sua scomparsa invita a riflettere sulle profonde trasformazioni che ha innescato, sull’eredità che ci ha lasciato e sulle battaglie che ancora si devono combattere.

Nata a Londra nel 1930, Mary Quant ha dato vita, con la minigonna, a un capo di abbigliamento che si è trasformato in un vero e proprio simbolo di ribellione e libertà.

Non solo ha rivoluzionato il modo in cui le donne si vestivano, ma ha anche contribuito a infrangere le rigide barriere sociali e culturali che le costringevano a nascondere le proprie gambe e la propria identità.

Le sue gonne corte, simbolo di una femminilità indomita e desiderosa di emancipazione, hanno raccontato un mondo in cambiamento, un’epoca di sogni e speranze che vedeva le giovani donne protagoniste di una rivoluzione culturale e sessuale.

Mary Quant, con la sua audacia e il suo spirito anticonformista, ha saputo interpretare e guidare questo processo di trasformazione, diventando una figura amata e contestata al tempo stesso.

Non è stato facile per lei imporsi in un mondo dominato da convenzioni e pregiudizi, eppure Mary Quant non si è mai arresa. Ha continuato a lottare per i suoi ideali, per la libertà delle donne e per una moda che fosse espressione di una nuova identità. Ha ricevuto riconoscimenti e onorificenze, ma la sua più grande vittoria è stata quella di vedere le sue creazioni indossate con orgoglio da generazioni di donne.

Tra le numerose celebrità che hanno abbracciato lo stile rivoluzionario di Mary Quant, indossando con orgoglio la sua iconica minigonna, figurano alcuni dei nomi più noti e influenti dell’epoca e di oggi. Attrici, cantanti, modelle e perfino membri della famiglia reale inglese hanno contribuito a rendere questo capo di abbigliamento un simbolo di emancipazione e di trasgressione.

Tra le più celebri fan della minigonna di Mary Quant, troviamo la modella britannica Twiggy, che negli anni ’60 divenne il volto della Swinging London, incarnando lo spirito ribelle e anticonformista dell’epoca. Anche l’attrice Jean Shrimpton, icona di bellezza e fascino, fu spesso fotografata con indosso le creazioni di Quant, contribuendo a diffondere il fenomeno della minigonna a livello internazionale.

La famiglia reale inglese non è rimasta indifferente al fascino della minigonna. La principessa Margaret, sorella della regina Elisabetta II, fu una delle prime ad adottare questo stile audace, dimostrando un’apprezzabile apertura verso le nuove tendenze e le espressioni della cultura contemporanea. Anche la principessa Diana, nel corso degli anni ’80 e ’90, fu spesso avvistata con gonne corte che rievocavano lo stile di Mary Quant, confermando il suo ruolo di icona di moda e di eleganza ribelle.

Nell’epoca attuale, anche Kate Middleton, duchessa di Cambridge, e Meghan Markle, duchessa di Sussex, hanno mostrato il loro apprezzamento per lo stile innovativo di Mary Quant, indossando gonne corte che celebrano la libertà e la forza delle donne, riconoscendo l’eredità di una designer che ha cambiato per sempre il modo in cui le donne si vestono e si esprimono.

Sebbene Mary Quant sia universalmente nota per la sua rivoluzione nel mondo della moda, la sua vita privata è sempre stata caratterizzata da una certa riservatezza, con aspetti intimi e segreti che pochi conoscono. Quant si sposò nel 1957 con Alexander Plunket Greene, un imprenditore e musicista, che divenne il suo partner sia nella vita che negli affari. Insieme, formarono un duo indimenticabile, condividendo passioni e ideali, e supportandosi a vicenda nelle loro imprese.

Da questa unione nacque anche un figlio, Orlando, il cui arrivo nella loro vita portò una profonda felicità e una nuova prospettiva. Mary Quant era una madre devota e amorevole, che cercava di bilanciare il suo ruolo di genitrice con quello di imprenditrice e icona della moda. Nonostante le sfide e le difficoltà che questo comportava, riuscì a trovare un equilibrio, senza mai perdere di vista i valori che la guidavano nella sua vita e nella sua carriera.

Ora che Mary Quant ci ha lasciati, è importante non dimenticare il suo coraggio e il suo spirito ribelle.

Addio a Mary Quant, con la sua minigonna “scandalizzò” il ‘900. La stilista inglese aveva 93 anni. Negli anni ‘60 rivoluzionò la moda inventando l’abito corto: l’emancipazione femminile è passata anche dalle sue forbici. Francesca Spasiano Il Dubbio il 13 aprile 2023

«Ma io amo la volgarità. Il buon gusto è morte, la volgarità è vita». Ottobre 1967, Mary Quant è già un’icona internazionale, e a chi l’accusa di aver dato vita a una moda “lasciva” sa bene come rispondere. Senza peli sulla lingua e senza stoffa sulle gambe: la minigonna che indossano le sue ragazze è già di tre o quattro pollici sopra il ginocchio. Sono loro, le giovani inglesi di King’s Road, ad aver inventato l’abito corto che gli stilisti di tutta Europa si contendono dagli anni ‘60. «Né io, né André Courrèges, abbiamo avuto l’idea della minigonna. È stata la strada ad inventarla», dirà Quant trent’anni dopo. Con il designer francese, a cui qualcuno attribuisce l’invenzione della “mini-jupe”, condivideva «la stessa logica, anche se creavamo moda per persone diverse». Lui per l’alta moda, lei per le «ragazze come me», che erano semplicemente stufe di «vestirsi come le loro madri».

La logica di cui parla la stilista britannica è insieme banale e rivoluzionaria: «Stavo facendo abiti semplici e giovanili, con cui era possibile muoversi, con cui si poteva correre e saltare e li avrei realizzati della lunghezza voluta dalla clientela. Io li indossavo molto corti e la clientela diceva “Più corti, più corti”». Si trattava di vestire comode, per prendere al volo l’autobus senza inciampare su metri di stoffa. Ma anche di essere sexy, di provocare, di cambiare quel paradigma che in breve tempo avrebbe trasformato Londra “da una oscura e sudicia capitale postbellica a un lucente epicentro di stile”. È la Swinging London, negli Swinging Sixties, di cui Mary Quant è icona indiscussa. Per la moda, come i Beatles lo sono stati per la musica: l’incarnazione di una nuova generazione che nella Gran Bretagna degli anni ‘60 vuole godersi la vita e cambiare le cose. Anche Mary Quant voleva cambiarle, e lo ha fatto: l’emancipazione e la liberazione femminile è passata anche dalle sue forbici. Anche se Quant non si è mai presa troppo sul serio. E anche se non ha mai voluto prendersi quel merito che tutti le riconoscono: soprattutto ora che la designer britannica è morta a 93 anni nella sua casa nel Surrey, nel sud dell’Inghilterra, chiudendo un’intera stagione di fermenti culturali che ci raccontano come siamo arrivati fin qui.

Nata l’11 febbraio 1930 a Blackheath, in un sobborgo di Londra, comincia a scrivere il suo futuro rompendo gli schemi che le avevano imposto: figlia di due professori gallesi della London University, scappa di casa a 16 anni perché non vuole fare l’insegnante. Se ne va a Londra e lì incontra Alexander Plunket Greene, nipote di Bertrand Russell, discendente di una famiglia nobiliare, che come lei sogna di vivere la bohème. Inizia un’intensa storia d’amore: i due mangiano quando possono, viaggiano spesso, fanno scandalo per l’abbigliamento fuori dall’ordinario. A Mary piacciono le gonne corte, gli stivaletti, e le calze spesse e colorate che presto tutti vorranno portare. I benpensanti le colpiscono con la punta dell’ombrello le gambe per strada: sono troppo scoperte.

Nel 1955 la svolta: la coppia apre con un amico una boutique di abbigliamento e accessori di nome Bazaar, nello scantinato del loro appartamento, sulla King’s Road. I benpensanti son sempre lì, bombetta in testa e bastone alla mano. Ora bussano alla vetrina del negozio per protestare contro quei manichini sgargianti ed eccentrici che Quant mette in mostra. “Immorale, schifoso!”, gridano per strada e sui giornali. Ma nel quartiere in pieno fermento di Chelsea le ragazze invece adorano lo stile di Mary e Alexander. La boutique diventa un punto di riferimento per giovani e artisti come Brigitte Bardot, Audrey Hepburn, i Beatles e i Rolling Stones. I ragazzi si allungano i capelli, le ragazze li accorciano. Tutte vogliono assomigliare a Twiggy, una parrucchiera di 17 anni che diventerà una delle prime top model teenager e simbolo del nuovo stile confezionato da Quant. Che oltre a rivoluzionare l’abbigliamento, lancia anche un nuovo trend con l’iconico taglio di Vidal Sasson: caschetto e frangia simmetrica.

Forte del sempre maggiore successo, la stilista apre un secondo negozio a Londra e comincia a collaborare con la catena americana di grandi magazzini JC Penney e lancia una linea, The Ginger Group, accessibile al grande pubblico. Per il resto della sua carriera continua a promuovere una moda ludica, senza snobismo, puntando su contrasti di colori, forme geometriche, giochi di materie e pois. A lei le donne di tutto il mondo devono gli short, gli impermeabili in plastica, e anche un nuovo stile di trucco: basta rossetto rosso e ombretto celeste, arrivano le lentiggini e le ciglia finte. Ma soprattutto le devono un nuovo modo di concepire se stesse, dall’abbigliamento alla vita privata e alla sessualità. Nel 1961 arriva la prima pillola concezionale e sono le donne, «solo loro», dice Quant, «a decidere se e quando concepire». Il potere è nelle loro mani, dal sesso ai vestiti. «La moda non ha niente a che vedere con l’età o la frivolezza, riguarda l’essere vivo, oggi», dice ancora Quant. Che aveva una sola regola: sii libera, sii te stessa.

Ottavio Missoni.

Margherita Missoni: «L’adolescenza da Quincy Jones e l’incidente aereo dello zio Vittorio. Ora sono grata a chi mi ha tolto tutto». Storia di Paola Pollo su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2023.

«Ricomincio, da me. Cioè da Margherita. Che è sempre Missoni ma finalmente anche e soprattutto Maccapani». È facile, per chi è nato senza un destino segnato, concludere il ragionamento con un «scusi, ma il problema dove era?». Ma per questa giovane donna non è stato così. «Un eterno conflitto: perché sono nata Maccapani e poi mi sono ritrovata Missoni. E non posso nascondere certo che è stato comodo e utile. Però avevo sempre dei sensi di colpa nei confronti di mio papà e non solo. Ogni tanto sentivo anche di non essere me stessa, cioè lo ero ma solo una parte». Eccola, bella come il sole. La voce calda.

Anche se lei sembra sempre un’eterna ventenne, Margherita Maccapani Missoni ha compiuto 40 anni nel febbraio scorso; separata da poco, è madre di Augusto Amos, 9 anni, e Otto Hermann, 8. Figlia primogenita di Angela Missoni e Marco Maccapani, ha respirato colori e tessuti e moda sin da ragazzina. Prima e più di tutti i nipoti del clan. Poi accadde un’estate che Gilles Bensimon, famoso fotografo francese, amico di mamma, scrivesse: «Angela, vengo a trovarti in Sardegna, fatti spedire alcuni vestiti, che scatto un servizio con Margherita». Quelle foto divennero nove pagine su Elle Francia e nacque la nuova (e perfetta) testimonial Missoni.

In tanti erano pronti a scommettere che un giorno sarebbe stata lei il futuro di Missoni, dopo i nonni e , sua madre Angela e i suoi zii Luca e Vittorio. «Certo, certo. E sicuramente io mi ero fatta dei programmi di vita che erano in azienda. E poi c’è stato questo capovolgimento, interno. Ora, anche se siamo ancora azionisti, siamo usciti dall’operatività e per me è stato uno choc. Non l’ho scelto io e non ero preparata. E nello stesso tempo mi sono separata quindi è stato un ribaltamento di tutto quello che mi ero immaginata nella e per la mia vita. È stato difficile mollare le cose e cambiare. Molto difficile. Varese e le mie radici. Perché di questo si trattava. Mai ci avrei pensato. Un tempo riflettevo che se avessi voluto andare a vivere in Australia non avrei potuto. Non mi sentivo insomma libera. E non avrei mai avuto il coraggio. Adesso sono addirittura grata a chi mi ha tolto tutto. Ed è successo anche nella mia vita privata. Perché nello stesso periodo mio marito ha deciso di lasciarmi. Non avrei mai pensato che sarebbe successo: lui era un amico di mio fratello e mia nonna paterna ha sempre sostenuto che eravamo fatti una per l’altro. Quando vivevo a New York mi chiamava per dirmi che era lui la persona giusta. Così quando sono rientrata a vivere in Italia mi ha organizzato un appuntamento al buio e ci siamo sposati. Sono una donna ingombrante e difficile, lo ammetto. Per far andare bene le cose mi ero annientata per equilibrare il rapporto. Ma non è così che funziona. Lui mi ha lasciata e io mi sono riscoperta. Ora sono felice. Ho sofferto, lottato, mi sono fatta aiutare ma ci sono».

Molto difficile mollare, vero. Però dopo due anni addirittura si è rimessa in gioco con Maccapani, un linguaggio in abiti tutto nuovo. «Appena ho mollato l’idea e il controllo, tutto ha preso una sua strada. Prima la storia del film e poi il brand spinta da colleghi con cui ho lavorato una vita. Un cerchio che si è magicamente chiuso: era il mio sogno, avevo studiato da attrice ma...».

Ma a 19 anni era già la testimonial nel mondo dell’azienda di famiglia: feste e aperture, red carpet e sfilate. Mai una settimana nello stesso posto. Lei era una delle It-girls, le ragazze più cool (da Tatiana Santo Domingo a Eugenie Niarchos a Bianca Brandolini) dello scorso decennio. Chi era Margherita ieri e chi è oggi? «In realtà sono soltanto immagini ma dentro sono sempre io. Allora era un immaginario sempre felice, sempre solare. Oggi sicuramente è più provocante, vuole far scaturire dei ragionamenti, dei pensieri, un po’ ribelle. Un lato b che è venuto fuori da una sofferenza».

Ma sta parlando di abiti o di lei? «Di entrambi. E in un caso e nell’altro questa Margherita sta spiazzando tutti».

Mamma e nonna cosa dicono? «Sono felici per me».

Lo sarebbe anche suo ? «Credo che sarebbe contento e orgoglioso. Lui metteva la libertà prima di tutto. Non è mai sceso a compromessi sul tema. E quindi penso approverebbe perché è un po’ quello che avrebbe voluto per me, perché mi sono liberata del fardello di aspettative, di programmi che comunque erano stati decisi o per lo meno che la vita aveva deciso per me. Ogni tanto quando guido in autostrada, lo sento il nonno che mi schiaccia la punta del naso, lo faceva sempre. Mi manca tanto. Sembrava sempre non ascoltasse, magari era in un angolo della stanza a leggere, ma alzava la testa e diceva sempre la cosa giusta».

Chissà chi ha conosciuto con il nonno... «Una volta risposi al telefono al posto suo. Tirai su la cornetta: “Pronto, sono Federico Fellini e chiamo dall’Hotel Roma di Rimini”. Poi ridevo sempre quando nonno chiamava Enzo Biagi perché la segretaria urlava: “Direttore c’è il suo migliore amico”. Cose incredibili, per una bambina: a otto anni Gianni Mura cercava di insegnarmi a fare gli anagrammi... e Maurizio Nichetti si stupì che non sapessi chi fosse Pirandello a 12 anni, dico dodici, però cominciai a leggere “Uno, nessuno, centomila”...».

Stimolante! «Molto. E poi i nonni erano appassionati di sport, ogni giorno si leggeva la Gazzetta dello Sporte ogni mercoledì mi portavano a pranzo a Milanello. Così a chi mi infastidiva chiedendomi se da grande avessi voluto fare la stilista, avrei risposto: “No, io farò la giornalista sportiva”».

E invece a 15 anni disse «voglio fare l’attrice». «Già. E stanca dei campi estivi della Montessori, chiesi di andare a un corso di recitazione a Los Angeles. Andai ospite di un amico di famiglia, Quincy Jones...».

Quincy Jones? «Sì, sì. Era sempre emozionante stare da lui. Ti capitava di trovare Beyoncé e Jay-Z... ma la prima volta avevo 15 anni e allora mamma chiede a un altro suo giovane amico di occuparsi di me e di portarmi qualche volta fuori. Mi veniva a prendere con le sue auto scassate e mi faceva conoscere gli attori e le attrici più giovani. Lui era Vincent Gallo e la diciassettenne con cui chiacchieravo spesso si chiamava Natalie Portman».

Pensa che tutto cambiò nel 2013, quando suo zio Vittorio perse la vita in gennaio in un incidente aereo e suo nonno Ottavio morì in maggio? «Siamo tutti cresciuti... Le dinamiche sono cambiate. Non eravamo più solo in tre ma eravamo in tanti. Ricordo le discussioni. Ed era già stato deciso di vendere prima. No, non è cominciato tutto in quell’anno così pesante. Avevano già deciso di vendere una parte allora».

La prima notte senza Missoni? « Il mio unico pensiero era per la nonna, il dispiacere, la delusione. Buona parte della mia vita è stata dedicata a fare bella figura con la nonna... La volontà di portare avanti Missoni era dovuta a lei, in nome di tutto quello che ci ha dato e ha fatto. Quella era la cosa a cui pensavo di più. Poi però mi tornavano le immagini di quella persona che nel salutarmi mi aveva detto: “Sai qual è l’unico tuo valore in questa azienda? Il cognome che porti cioè Maccapani, e ora vai. Terribile, vero?».

La famiglia è sopravvissuta a tutto questo? «Assolutamente sì, ci vediamo, ci sentiamo, ci sono le chat, non è cambiato nulla da questo punto di vista».

Avrebbe potuto anche non lavorare più. «Ho sempre vissuto di ciò che guadagno da quando ho 18 anni, poi sono stata fortunata perché ho avuto molti contratti proprio per il mio ruolo in Missoni, non voglio fare il genietto».

E la stagione delle it-girls? «Mi piaceva tantissimo esserlo: io cresciuta a Montonate sognavo sempre di essere dove succedono le cose, per esempio a New York. Sognavo ad occhi aperti e pregavo mamma di portarmi. Quando ho compiuto 18 anni sono andata: feste e viaggi, viaggi e feste. È capitato poi che i vestiti della mamma erano perfetti per me e sono diventata la testimonial dell’azienda. C’erano poi Tatiana e le altre. Ci sono ancora: ogni tanto facciamo ancora delle réunion, a sorpresa. Di solito è Eugenie (Niarchos) che le organizza: ci convoca all’ultimo, serate ma anche concerti, e noi arriviamo. Siamo diventate mamme e lavoratrici, fa un po’ effetto pensando a come eravamo, così matte».

Stupidate? «A vent’anni se ne fanno, ma ho sempre avuto un forte senso di responsabilità. Però sono molto più leggera ora di quando ero giovane. Mi è sempre mancato vivere il momento. Quando ero ragazzina era la mia angoscia: pensavo che ogni azione avesse delle conseguenze, inarrestabili, sul mio futuro. Pensavo che non riuscendo a fare una cosa sarei stata una fallita per sempre. Ho fatto la scuola Montessori dove insegnano che tutto dipende da te e che sei tu a scegliere. E siccome ero una bambina molto responsabile e volevo compiacere, facevo sempre il massimo. Mia madre mi lasciava scegliere e fare, ma io avevo bisogno che qualcuno mi aiutasse a decidere. Fra i 15 e i 18 anni ho anche sofferto di depressione per il “se non faccio e non riesco è colpa mia”. Ero l’avversaria di me stessa».

Con la nuova avventura riparte da zero, non ha paura di non riuscire? «Ho lavorato su questo. Ho fatto analisi. Sul “mollare” la presa e sul prendersi i rischi con la consapevolezza che non ci sono certezze. Così dopo aver fatto la figlia, la nipote, l’It-girl, la testimonial, la mamma e la moglie ho superato la necessità di identificarmi sempre con una figura e mi sono appropriata di Margherita che è una mamma, un’amica, un’imprenditrice, e anche una che vuole andare a ballare. Ma non devo per forza essere una di queste persone, sono tutto. Sono Margherita».

Estratto dell'articolo di Elvira Serra per corriere.it il 19 luglio 2023.

Sveglia la mattina?

«Alle 7. Faccio una colazione frugale, poi la doccia e mi preparo per la giornata. Sono ancora responsabile di Missoni Home, anche se adesso lavoro soprattutto da casa».

Legge sempre tre quotidiani ogni giorno?

«Certo: Corriere, Gazzetta e Repubblica». 

E nuota ancora?

«Adesso la piscina è fuori uso. Ma sono appena stata in Sardegna e ho fatto dei bagni. Fino all’anno scorso andavo per mare con maschera e boccaglio assieme a mio bisnipote. Quest’anno vedremo...». 

Rosita Jelmini Missoni è una dolcissima signora di 91 anni, appena infragilita dall’età. Ricorda con precisione luoghi e fatti e cambia espressione, rabbuiandosi repentinamente, soltanto quando parla del 2013, l’annus horribilis che le ha portato via il marito e un figlio. Ma si illumina davanti al Monte Rosa, nascosto dalla foschia, come se fosse di nuovo quel giorno del 1968, con le cime coperte di neve, quando il marito Ottavio la portò a Sumirago in mezzo alle vigne con una promessa: «Sono sicuro che ti piacerà». 

Aveva ragione. Ci costruirono la nuova sede della casa di moda che stava decollando nel mondo, con le finestre affacciate alle querce e alle montagne. Poi fu la volta di questa casa in mezzo al verde, dove ha insegnato a nipoti e pronipoti a distinguere l’insalata matta dalle altre erbette commestibili finite oggi sulla nostra tavola. 

(...)

Il viaggio di nozze?

«A Positano. Ottavio era bellissimo, ma soprattutto di una simpatia travolgente. Le battute sul non voler lavorare troppo facevano preoccupare mio padre sulla sua affidabilità. Lui, del resto, si straniva che il barista al mattino gli chiedesse: “Com’el va laurà?”, come va il lavoro? Ma ti sembra un buongiorno?, sbottava. Era abituato a Trieste, dove semmai gli domandavano se aveva fatto bei sogni». 

È mai stata gelosa?

«Sì, ma non lo davo a vedere, non ho mai fatto scenate».

Litigavate?

«Altroché, tavoli ribaltati! Perché io volevo fare di più, sul lavoro, e lui di meno...».

Insieme avete frequentato il jet-set internazionale.

«Per noi erano semplici amici. Passavano qui per colazione Harry Belafonte, Donna Summer con il marito. Brera, Fellini, Biagi, Olmi erano amici fraterni di Ottavio, le mie erano Natalia Aspesi e Lea Massari». 

Avete vestito, e del resto vestite ancora, tante star.

«Tantissime, da Liza Minnelli a Lauren Bacall, da Monica Vitti a Charlotte Rampling. Volevano tutte conoscerci. Nino Manfredi è stato un nostro testimonial ante litteram, di sua iniziativa». 

Il 12 settembre 1973 vi fu assegnato il Neiman Marcus Fashion Award, l’Oscar della Moda. Ormai eravate conosciuti in tutto il mondo.

«E avremmo potuto fare qualsiasi cosa, ma Ottavio non volle cambiare nulla. Mi diceva: quando li spendiamo, poi, questi soldi?».

Il regalo più bello che le ha fatto?

«Angela, nostra figlia. Avevamo già due maschi e non pensavamo di averne altri. A quei tempi fino all’ultimo non conoscevi il sesso del nascituro. Quando l’ostetrica cominciò a dire: “È una bimba!” non può capire la gioia. Abbiamo continuato a chiamarla Bimba per anni, alcune mie amiche la chiamano ancora così».

Come si sopravvive a due lutti terribili? Il vostro primogenito Vittorio si inabissò nelle acque del Venezuela a gennaio del 2013, e quattro mesi dopo morì Ottavio.

«La vita deve continuare. Siamo sempre stati una famiglia unita. Io non ho smesso di lavorare e viaggiare. Ricordo il primo Natale senza di loro: Angela mi disse che mia nipote Teresa desiderava che andassi con lei in India; a lei aveva detto che ero io a voler partire. Ci furono imprevisti divertenti: una sua amica dimenticò i soldi in albergo e dovemmo tornare a recuperarli; un’altra prese la valigia di uno sconosciuto per errore e si ritrovò con cravatte e giacche da uomo. Infine prolungammo il viaggio di una settimana. Curiosità ed entusiasmo mi hanno salvato».

Va a trovare Ottavio in cimitero?

«No, perché è in camera da letto con me, dentro un vaso. Quando è mancato non ho avuto dubbi sulla cremazione, non so perché».

Come passerà l’estate?

«Tra poco torno in Sardegna con la mia amica Nanda, a Puntaldia. Poi, sempre con lei, andrò in montagna a Crans-Montana, a cercar funghi. E ancora al mare, con un bel viavai di tutta la famiglia». 

Tre figli, nove nipoti, sei bisnipoti (tra poco 7): il libro che ha regalato più spesso?

«Cent’anni di solitudine».

Il lusso più grande?

«Il pollaio in giardino. Quando i miei nipoti erano piccoli li portavo a prendere le uova, ma gliele facevo trovare già pulite. Quando hanno scoperto la verità ci sono rimasti male».

L’ultima volta che è andata allo stadio?

«Tre mesi fa, con mio figlio Luca. Sono milanista sfegatata: ogni volta mi fanno una grande festa. Adesso però mi dispiace un po’ che abbiano venduto il nostro Tonali».

Karl Lagerfeld.

Estratto dell’articolo di Martina Manfredi per repubblica.it il 2 maggio 2023.

C'è chi ha cambiato hairstyle, come Jessica Chastain e Florence Pugh; chi si è nascosto dietro mascherine e protesi da gatto, come Doja Cat e Lil Nas X; chi ha decorato le unghie con le catene, come Rita Ora. E c'è chi ha giocato con cerchietti, fasce e fiocchi neri. Stiamo parlando del red carpet del Met Gala 2023, che ha inaugurato la mostra "Karl Lagerfeld: A Line of Beauty" al Metropolitan Museum of Art, dove la notte scorsa le star hanno reso omaggio alla carriera e allo stile di Karl Lagerfeld. Anche con i loro beauty look. Ecco di seguito alcuni dei più belli. 

Il makeover hairstyle più audace visto al Met Gala è stato quello dell'attrice Florence Pugh: un nuovo buzz cut con capelli rasati molto corti, quasi a zero, nel suo colore naturale, ovvero castano. Il taglio è opera dell'hairstylist Peter Lux ed è stato valorizzato al meglio sul red carpet grazie a un copricapo di piume sviluppato tutto in verticale (come fosse una cresta deluxe). […]

Tra le nail art più d'impatto vince quella di Rita Ora, realizzata dalla nail artist giapponese Naomi Yasuda: lunghissime catene gioiello attaccate alle unghie lunghe e nere, che vogliono essere una versione decostruita di una collana di Chanel. Belle anche le lunghissime onde morbide, botticcelliane, e lo smokeye firmato Charlotte Tilbury. […]

DAGONEWS il 2 maggio 2023.

Il tema di quest’anno del MET Gala non è stato un brand o un concept, ma una persona: Karl Lagerfeld. Lo stilista, morto nel 2019 all'età di 85 anni, era noto tanto per i suoi modelli per Chanel, Fendi, Chloé quanto per la sua stessa fama 

Con i suoi occhiali scuri, l’aria sempre imbronciata, la camicia a collo alto e la coda di cavallo, Lagerfeld ha pronunciato delle frasi a volte buffe, altre volte ha tirato fuori dal cilindro delle sparate capaci di scioccare i paladini del politicamente corretto. 

In un'intervista del 2018 con la rivista di moda europea “Numéro”, ad esempio, ha affermato di essere "stufo" del movimento #MeToo: «Ciò che mi sconvolge di più in tutto questo sono le starlet che hanno impiegato 20 anni per ricordare cosa è successo - ha detto Lagerfeld - Per non parlare del fatto che non ci sono testimoni». 

Nella stessa intervista si è lamentato delle nuove linee guida che potrebbero garantire la sicurezza delle modelle sulle passerelle: «Se non vuoi che ti tirino i pantaloni, non diventare una modella! Entra in convento, ci sarà sempre un posto per te in convento. Stanno persino reclutando!».

Ha deriso le donne grasse, definendo Adele "un po' troppo grassa" nel 2012 ( si è scusato poco dopo ), dicendo che "nessuno vuole vedere" modelle taglie forti, in un'intervista del 2009 alla rivista tedesca “Focus”: «Ci sono madri grasse con i loro sacchetti di patatine sedute davanti alla televisione e che dicono che le modelle magre sono brutte». 

Nel 2017, ha fatto un bizzarro collegamento tra l'Olocausto e la decisione della cancelliera tedesca Angela Merkel di aprire i confini della Germania ai rifugiati siriani: «Non si può - anche se ci sono decenni di differenza - uccidere milioni di ebrei in modo da poter portare al loro posto milioni dei loro peggiori nemici. Un amico tedesco ha accolto un siriano e alcuni giorni dopo mi ha detto: "'La cosa più grande che la Germania ha inventato è stato l'Olocausto”». 

Parole che creano problemi a chi decide di dedicargli mostre. Come quella al Metropolitan Museum of Art dove il curatore Andrew Bolton ha dovuto sottolineare che si concentreranno più “sul suo lavoro che sulle sue parole. Era una persona problematica».

Lagerfeld aveva la reputazione di nascondere anche i fatti più semplici della sua vita, come l'anno e il luogo di nascita. Come molte celebrità, Lagerfeld era noto a molti, ma solo alcuni lo conoscevano intimamente. 

Aveva tagliato fuori dalla sua vita tanti amici dall’oggi al domani, ma c'è una persona che gli è rimasta accanto per tutta la vita: Anna Wintour. Motivo per cui l’annuncio del tema per il MET Gala ha fatto storcere il naso ai detrattori di Lagerfeld. Da quel momento il mondo si è diviso tra chi non voleva celebrare il personaggio e chi ha invitato tutti a separare la persona dal suo straordinario lavoro nel mondo della moda.

E c’è chi, come William Middleton, reporter di moda che ha pubblicato una biografia definitiva di Lagerfeld a febbraio, pensa che la sua durezza sia stata una sorta di "posa": «Era una performance, ha creato un personaggio. A volte si riferiva a se stesso come la marionetta».

Era anche incoerente nei suoi commenti. Un anno dopo aver licenziato le donne taglie forti, ne ha fotografata una per V Magazine e ha detto a Vice quanto gli piaceva vedere personaggi come Beth Ditto nella moda.

Tornando al MET Gala, bisogna ricordare anche chi è Anna Wintour, la donna che ha trasformato il ruolo di direttrice di Vogue in qualcosa di diverso. Lei è un’ambasciatrice della moda. I CEO delle maison la consultano quando assumono i direttori creativi e spesso suggerisce loro nomi, addirittura, negozia accordi tra marchi e designer. Motivo per cui Wintour non è alleata solo di Lagerfeld e, in più di un’occasione, ha sostenuto designer coinvolti in qualche scandalo.

Quando Galliano è stato licenziato da Dior nel 2011, dopo che è stato pubblicato un filmato del designer che, sotto effetto di droga, si lanciava in un discorso antisemita,  ha cercato il consiglio di Wintour. Nel 2013, il Met ha inserito il lavoro di Galliano per Dior nel Met Gala a tema cinese del 2014, utilizzando un suo abito del 2003 per annunciare la mostra . Quando ha ottenuto il ruolo principale alla Maison Margiela nell'ottobre 2014, Wintour è stato tra i primi a indossare i suoi modelli, dopo avergli conferito l'eccezionale premio ai British Fashion Awards a dicembre.

È scesa in campo a sostegno di Demna, il direttore creativo di Balenciaga, finito nel tritacarne dopo le sue foto in cui accostava oggetti fetish a bambini. E stessa cosa ha fatto quando Alexander Wang venne accusato alla fine del 2020 di aver drogato e aggredito sessualmente alcune persone. Quando tornò alle sfilate, Wintour sedeva in prima fila.

E Daniel Lee, il designer di Bottega Veneta che ha misteriosamente lasciato il suo incarico alla fine del 2021 tra un'ondata di rumors, è stato nominato da Burberry meno di un anno dopo. Pare che dietro ci sia la manina di Wintour. Ma come mai queste posizioni? Non si tratta certo di benevolenza. Per dirla senza mezzi termini, Vogue ha bisogno di entrate pubblicitarie dai marchi di moda per sostenersi. Ma è una posizione che la mette in conflitto con una generazione più giovane di appassionati di moda che non è così disposta a perdonare e dimenticare.

Karl Lagerfeld: l’uomo che ha rivoluzionato i codici della moda. Elisabetta Cillo su Panorama il 30 Aprile 2023

 (Ansa) PERSONAGGI30 Aprile 2023 Guanti spuntati in pelle nera, occhiali da sole squadrati e un codino che racchiude i capelli argentati, un uomo che ha fatto della sua immagine uno status

Karl Otto Lagerfeld, meglio noto come il Kaiser della moda, venerato dai colleghi del settore e conosciuto persino dai novellini della moda, è il protagonista del Met Gala di quest’anno. Karl Lagerfeld: A Line of Beauty la mostra che ha l’arduo compito di rendere omaggio al direttore creativo selezionando, purtroppo, solo 150 abiti. A onorare la memoria del direttore creativo saranno anche gli ospiti, che hanno il compito di scegliere il loro abito «In Honor of Karl». La scelta è sicuramente ardua ma le aspettative sono molto alte, Lagerfeld nel corso della sua carriera ha prestato la sua immaginazione a tante case di moda, tra Balmain, Fendi e Chloé, per non parlare di Chanel. Ma vediamo nello specico com’è nato questa gura che sembra essere sempre esistita nel mondo della moda. Possiamo ricondurre il suo esordio al 1954, quando Lagerfeld ha partecipato al Woolmark Prize, ideato dall’Internazional Wool Secretariat - organizzazione formata per gran parte degli allevatori di pecore dell’Australia - che ai tempi rappresentava un punto di riferimento per i giovani apprendisti della moda a Parigi, promotori dell’uso della lana vergine nell’era in cui le bre sintetiche fecero il loro ingresso. La competizione metteva in palio la realizzazione del proprio bozzetto e le categorie erano tre: cappotto, abito da sera e tailleur. Karl, nonostante la sua avversione per i cappotti, trionfò grazie al suo cappotto giallo canarino con maniche a tre quarti, dal profondo scollo a V sulla schiena e una spessa bbia al posto del colletto. Gli appassionati sapranno che è la stessa competizione che ha visto anche la vittoria di Yves Saint Laurent per l’abito da sera, che venne realizzato da Hubert de Givenchy, mentre il cappotto di Karl da Pierre Balmain. Dopo poco tempo il designer tedesco riceve l’offerta di lavorare come assistente per Balmain, riufiutando la proposta di Cristóbal Balenciaga perché ritenuto dal Kaiser troppo «spagnolo» con linee severe e dalla fredda eleganza. Passano gli anni e il designer inizia a sentirsi insoddisfatto, si trasferisce così alla maison di Jean Patou di Rue Saint-Florentin, acquisendo a pieno titolo la carica di direttore creativo che tanto agognava. Sin da allora si capisce che Lagerfeld ha le idee ben chiare e fa di sé stesso un’icona. É infatti tra i primi a realizzare degli scatti che lo ritraggono all’opera mentre poggia del tessuto su una modella, sfruttando i media a suo vantaggio e creando la sua identità. Stanco dell’alta moda, il giovane Karl decide di mettersi in proprio suscitando lo stupore generale intraprendendo questo percorso ai tempi considerato avventato. Dal 1964 inizia a collaborare con Chloé che permetteva a giovani designer di ideare bozzetti e allo stesso tempo lavorare in proprio infatti, nonostante gli impegni con Fendi, Chanel e il marchio omonimo, Lagerfeld ha lavorato per la maison no al 1998. È il 1967 quando le sorelle Fendi volano a Parigi per rmare il contratto che sanciva l’inizio di una collaborazione che sarebbe durata ben 54 anni, un record per il mondo della moda. Gli anni Sessanta hanno visto il desiderio del designer di rilanciare numerosi marchi famosi prender vita e fu infatti l’inizio di una collaborazione piena di aetto dal sapore di casa «All’inizio mi sembrava una specie di mago: si sedeva alla scrivania, tracciava un paio di linee, poi un’intera silhouette e la volta dopo aveva già un modello pronto. Non mi capacitavo della sua abilità di dare vita a un’intera collezione a partire da una singola idea. Per me era diventato un punto di riferimento fondamentale» racconta Silvia Fendi, che alla sua morte ha preso il suo posto alla guida della Maison.

Nel 1982 arriva la proposta da Alain Wertheimer - presidente di Chanel - di risollevare la maison francese ai tempi in gravi dicoltà. Il Kaiser non si tirò certo indietro e prese i simboli distintivi della storia narrata da Coco Chanel e ne modernizzò i codici stilistici. Mai così attuale la collezione FW del 1995 che Karl dedica al Barbiecore, moderna e terribilmente alla moda con tailleur che diventano abiti e silhouette eleganti. Sfidando le 24h che la giornata ci mette a disposizione, sembra che il designer avesse ancora del tempo da sfruttare perciò un anno dopo decide di aprire il suo marchio omonimo. «La moda è lo spirito che dobbiamo dare alle cose perché si evolvano» recita il designer. Ciò che Karl ha capito e messo in atto sin da subito è il non guardare mai al passato, perché la società è in continua evoluzione e la moda ha il dovere di stargli dietro, senza voltarsi mai. Nonostante ciò, c’è una grande verità che è pienamente condivisibile: «Ogni epoca ha la moda che si merita».

Ma forse questa, più che chimica, è utopia…[di Marina Savarese]

Estratto dell’articolo di Andrea Palazzo per “Il Messaggero” il 26 marzo 2023.

A quattro anni, per il suo compleanno, Karl Lagerfeld chiese in regalo a sua madre un valletto: «Volevo qualcuno che mi preparasse i vestiti per cambiarli più volte durante la giornata». Aveva le idee chiare già da bambino, il designer tedesco che ha rivoluzionato i marchi più prestigiosi della moda, trasformando il mondo delle passerelle in uno spettacolo sgargiante senza fine. Nessun creativo era più prolifico di lui. «Sono un calvinista attratto dalle cose superficiali», diceva e quando gli chiedevano se fosse frivolo, rispondeva: «Potrei non esserlo? Vendo vento e per ora va tutto nella mia direzione».

LE ORIGINI

Il 28 febbraio per Harper esce negli Usa Paradise Now: The Extraordinary Life of Karl Lagerfeld di William Middleton (non ha ancora un editore italiano), biografia di un uomo che fino alla sua morte nel 2019 ha vissuto come un altezzoso aristocratico del 700.

[…] I genitori benestanti abbandonavano a se stesso il giovane Karl e lui disegnava ossessivamente. Il rapporto con la madre non era facile. «Quando mi vestivo alla tirolese lei mi diceva: sembri una vecchia lesbica. Sono cose da dire a un bambino?». Tuttavia, la donna sapeva essere - a modo suo - rassicurante: «Quando le chiesi cosa fosse l'omosessualità, lei rispose: è come il colore dei capelli, non è un problema». All'età di 16 anni, a una sfilata di Dior, Karl intuì che quello sarebbe stato il suo mestiere.

I CONTRATTI

Trasferitosi a Parigi nel 1952 […]  inventò il concetto di prêt-à-porter di lusso con il brand Chloe, iniziando allo stesso tempo una collaborazione con le sorelle Fendi. Sarebbero diventate per 60 anni la sua famiglia romana. «Il logo con la doppia F è una mia idea - puntualizzò Karl - quelle iniziali sono state l'inizio della loro fortuna».

 «Aveva sempre una borsetta infilata sotto il braccio. Conoscevo "checche" esagerate nella mia vita, ma non avevo mai visto niente del genere - dichiara il modello Corey Tippin - Se ne fregava di cosa pensassero gli altri».

L'unica storia d'amore di Lagerfeld fu con il dandy Jacques de Bascher, che durante la relazione ebbe un flirt con Yves Saint Laurent.

 […] Quando tornarono insieme, Jacques organizzò per Lagerfeld il famoso Black Moraturium party, radunando il meglio dell'élite francese con un obbligatorio outfit in nero "dall'aria tragica". La sorpresa furono le performance di sesso sadomaso. «La serata divenne ingestibile, la gente iniziò a far sesso dappertutto», ricorda l'autore. Karl amava essere anche un gran provocatore.

 Quando le sue modelle si lamentarono dei comportamenti poco gentili di alcuni uomini, lui rispose: «Se non volete che vi mettano le mani sul fondoschiena, non fate questo mestiere». La svolta della carriera fu nel 1983, con la sfida di riportare ai fasti di un tempo la maison Chanel, ormai moribonda.

 Lagerfeld voleva rivolgersi a un pubblico che non fossero solo le signore con lo chignon. In breve creò un brand globale multimilionario […] Arrivò a chiedere al suo fiorista di portare un cactus al funerale di un rivale detestato. Quando incontrò Cicciolina e l'allora marito, l'artista Jeff Koons, commentò: «Dei due, indovinate chi è la vera prostituta?».

 […] Le sue stravaganze diventarono leggendarie. Il fotografo Giovanni Gastel raccontò di essere stato convocato per una riunione a Parigi, ma Karl era chiuso in stanza e non intendeva aprire: i disegni gli dovevano essere passati sotto la porta. […]

Roberto Cavalli.

Lo stilista italiano ha 82 anni. Chi è Sandra Nilsson, la compagna di Roberto Cavalli che l’ha reso papà per la sesta volta. Piero de Cindio su Il Riformista il 9 Marzo 2023

Ottantadue anni, due mogli e cinque figli. Anzi da oggi sei. È lo stilista Roberto Cavalli che oggi è diventato papà per la sesta volta. Dal suo amore con la 37enne svedese Sandra Bergman Nilsson è nato Giorgio. Per la modella svedese, al fianco dello stilista dal 2014, è il primo figlio. Ma chi è la modella che ha stregato lo stilista italiano?

Sandra Nilsson è nata il 17 febbraio 1985, sotto il segno dell’Acquario. Ha esordito nel mondo della moda all’età di 14 anni, dopo essere stata notata da una importante agenzia francese. A 16 anni il primo contratto ufficiale e il debutto come modella in Svezia. Proprio nel suo Paese è stata eletta Miss Salming, poi a Malta Miss World Bikini Model, Miss EU, Miss Siren (in Serbia) e Miss Hawaiian. Sui social, Instagram e Facebook, appare con il cognome ‘Bergman‘, ed è una famosissima ex coniglietta di Playboy America. Nel 2006 si è aggiudicata il prestigioso e ambito titolo di “donna più bella di Svezia”. Non solo successi e moda per lei, nel 2014 arriva l’amore con Roberto Cavalli che l’anno dopo le regala  un’isola, Stora Rullingen, del valore di circa 2,2 milioni di sterline. Dopo tanti anni insieme e un legame che ha retto agli urti del tempo e dell’enorme differenza di età, è arrivato Giorgio.

La storia del nome “Giorgio” affonda le sue radici in un ricordo doloroso per Roberto Cavalli. Giorgio si chiamava suo padre, ucciso dalla Wehrmacht nel 1944, fu fucilato dai tedeschi nel comune di Cavriglia. Una pagina drammatica per lo stilista che una volta disse: “Non ho avuto un’infanzia facile. Mio padre è stato fucilato dai tedeschi nel luglio del ‘44, in una retata a Castelnuovo dei Sabbioni. Era geometra, lavorava per una miniera del Valdarno. Io avevo due anni. Non ho parlato fino a 18. Però la vita è stata generosa con me, mi ha ricompensato di tutto.” E la vita gli ha regalato anche sei figli.

Roberto Cavalli, infatti, è stato sposato due volte prima di conoscere l’attuale compagna con la quale non è ancora convolato a nozze. Ha detto “sì” per la prima volta nel 1964 alla moglie Silvana. Di lei si sa poco o niente, di sicuro che non faceva parte dello star system e che lo stilista italiano ha sempre mantenuto in gran riserbo sulla sua identità. Un amore avvolto dal mistero. Da lei ebbe due figli Tommaso e Cristiana. Nel 1980, poi, convola a nozze per la seconda volta e la nuova moglie dello stilista è stata Eva Duringer, decisamente più nota della prima. Modella, stilista e imprenditrice è stata al fianco di Roberto Cavalli negli anni d’oro della sua casa di moda. Ben 19 anni di differenza tra Roberto Cavalli e la moglie Eva Duringer, con lui che aveva 40 anni quando si è sposato per la seconda volta e lei 21. Con Eva Duringer ha avuto tre figli: Rachele, 40 anni, Robert, 29 anni, e Daniele 36 anni. E ora la famiglia Cavalli da il benvenuto al piccolo Giorgio!

Piero de Cindio. Esperto di social media, mi occupo da anni di costruzione di web tv e produzione di format

René Lacoste.

René Lacoste: diventare un coccodrillo. L’estroso francese fu molte cose insieme: tennista chirurgico, inventore mai sazio, imprenditore visionario. Tutto nel segno del rettile. Paolo Lazzari il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Dal vetro lievemente appannato intravede ogni giorno la stessa immagine. Fuori è il solito traffico di anime che erompe in mattine ancora da stappare. Addensati contro la parete del negozio, infilato in uno dei quartieri più patinati di Boston, lo attendono impazienti i suoi tre compagni di squadra. René Lacoste però ne ha ancora per qualche minuto. Preme quel naso prominente contro la vetrina, ammaliato dalle fattezze esotiche di un elegante borsone in pelle di coccodrillo.

Esausto, il capitano della squadra francese di Coppa Davis, Pierre Gillou, picchietta sulle sue spalle. “Se ti piace così tanto te la compro io, a patto che tu vinca le prossime due partite”. René socchiude le palpebre, immaginando mentalmente di infilare le sue racchette di legno nel borsone. Poi sistema la scriminatura dei capelli impomatati sorprendendosi nel riflesso di fronte a sé e si avvia con il resto della comitiva. Non vince, ma l’aneddoto giunge all’orecchio di un cronista americano che, il giorno dopo la debacle, titola cubitale: “Sconfitta per l’alligatore francese”. In Francia la ribattono con eccessiva disinvoltura. Per un errore di traduzione, il rettile accostato a René diventa il coccodrillo. Non è la stessa cosa, ma ormai il giornale è stampato. Lacoste lo sfoglia qualche giorno più tardi in un consolatorio caffè parigino e se ne compiace.

Nastro progredito di botto. Riavvitando un po’ la cinepresa, il quadro si fa più nitido. Agli inizi del Novecento questo ragazzino dal fisico affusolato ed elegante sgrana spesso gli occhi, sedotto dallo sport praticato da sua sorella. Jean - Alida maneggia la racchetta da tennis in scioltezza, ma non è certo destinata ad abbagliare. René strattona la giacca del padre, un indaffarato e facoltoso produttore di automobili. Vuole tentare anche lui. Il genitore dapprima dissente, poi stringe un patto: se all’età di diciott’anni non sarà ancora diventato un campione, se ne dovrà andare a lavorare in azienda.

E Lacoste, sia chiaro, non è un talento naturale. Non è stato partorito in un flûte di buonasorte tennistica. Non è cresciuto all’ombra di qualche illuminato maestro. Le stimmate del campione di sicuro non ce le ha. Però possiede altre cose. Un piano. Tanti libri sul tennis. Un muro di cemento da crivellare di colpi. Si allena per mesi interi rispondendo a sé stesso. Si impone standard rigidissimi. Studia minuziosamente il gioco avversario, fino a indovinarne le fessure. In partita non è il migliore per talento, né per eleganza. La sua tattica però è sublime. Il suo approccio allo sport chirurgico.

Giocare contro di lui equivale presto a sedersi dal dentista. Lacoste diventa subito, per i suoi contendenti, quel muro contro il quale si è sfinito per interminabili ore. Non importa quanto gli altri siano più bravi di lui. René respinge al mittente ogni colpo. Ti costringe a giocare allo specchio. Ti sfinisce con una strategia cinica e accerchiante, per poi infliggerti la stoccata finale. Il suo tennis è il gioco sadico del rettile con la preda.

Dunque eccolo qui, a qualche anno di distanza da quella promessa sospesa, al fianco di quegli altri tre: Toto Brugnon, Henri Cochet e Jean Borotra. La squadra francese di Coppa Davis negli anni Venti. Un quartetto talmente formidabile, che nel 1927 in loro onore - dopo il successo colto negli Usa - viene eretto un nuovo tempio del tennis. Lo battezzano “Roland Garros”.

Quell’estate fa un gran caldo. René, che non ha mai rimosso quei titoli di giornale, fa tagliare le maniche lunghe alle maglie della squadra. D’un tratto diventano fresche polo. Sulla sua fa cucire un enorme coccodrillo verde, all’altezza del cuore. Al campo d’allenamento i compagni gliela invidiano. Allora chiama i suoi sarti e ne fa preparare altre tre. La scena inizia a ripetersi in giro per il mondo. La richiesta si moltiplica. Lacoste dapprima regala le sue creazioni, poi intuisce che la faccenda sta assumendo contorni giganteschi. Svolta così, improvvisamente, la vita di un tennista validissimo. Inizia, senza preavviso, la prodigiosa favola del Lacoste imprenditore.

Molla lo sport appena varcati i trent’anni, fiaccato da una debilitante forma di tubercolosi. Dal tennis però non si disintossica mai: inventore effervescente, propone uno dei primi prototipi di racchetta in metallo. Un’intuizione destinata ad archiviare il ricorso al legno. Le sue linee di abbigliamento nel frattempo esplodono. Lacoste diventa un fenomeno mondiale, un modo di essere, un’icona fuori dal tempo, un impero miliardario.

Chissà se René si sarebbe mai immaginato tutto questo, mentre premeva il naso contro quella vetrina di Boston. Ma i sogni, si sa, cominciano ad accadere quando li fai.

Giorgio Armani.

Silvana Armani: «Modella, centralinista poi le prime collezioni. La mia vita con zio Giorgio (che è stato più di un padre)». Paola Pollo su Il Corriere della Sera mercoledì 22 novembre 2023.

La nipote dello stilista nonché «erede» dello stile designata si racconta per la prima volta nella sua vita: «Non mi dice mai brava, ma lo leggo il suo sguardo»

Silvana Armani, possibile che non abbia mai rilasciato un’intervista in vita sua?

«Mai».

Colpa dello zio?

«Ma no. Nessuno me l’aveva mai chiesta e poi il “signor Armani” (poi scopriremo il perché del “signor”, ndr) è sempre stato molto protettivo con me. Non perché pensasse potessi dire stupidaggine, ma semplicemente ha sempre saputo che sono una persona riservata e un po’ orsa. Dunque sono sempre stata felice di stare nell’ombra. Al contrario di mia sorella Roberta che, occupandosi dei personaggi, è sempre stata in prima linea. Però eccomi qui, con i miei 68 anni di cui quaranta trascorsi a lavorare con lo zio».

Riavvolgiamo il nastro.

«Ho cominciato facendo la modella ma non per lui. Per Walter Albini, per Krizia, per tanta gente. Sfilavo quando ancora andavano le bassine». Ride. «Poi sono arrivate le spilungone, e sono passata a lavorare solo per Armani».

Quanti anni aveva?

«Ventitré anni».

Ventitré anni... e prima?

«Studiavo e mi occupavo dei miei cani. Ho sempre avuto una passione per loro... sì comunque diciamolo, ero un po’ fancazzista. Non eravamo così uniti come famiglia, come lo siamo ora, ma quando cominciai ci legammo sempre di più, e poi c’era Sergio Galeotti che mi tirava sempre dentro. Era molto simpatico e compagnone, al contrario dello zio che era timido e riservato. Poi la morte di mio padre (il fratello dello stilista, ndr) ci ha avvicinato ulteriormente. E oggi posso dire di essere stata più con mio zio che con mio papà. Da quaranta anni, ogni giorno. Vacanze a parte. Lavoriamo gomito a gomito, se non sono prove di stile, sono riunioni. E sono felice perché ho imparato e sto imparando ancora».

Fu lui a chiederle di affiancarlo?

«È andata così: un giorno mi chiese di mettergli giù dei colori, di fare insomma una mia cartella. L’ho fatta, gli è piaciuta ed è anche diventata una collezione di costumi da bagno. Quasi per gioco, ecco. Mi sono subito appassionata. Eravamo ancora in via Durini e facevo di tutto: dal centralino, dove mi hanno mandata via perché combinavo troppi guai, alla rassegna stampa. Ho fatto tante cose prima di avvicinarmi alla moda. I miei primi capi sono stati dei piumini!».

Un’autodidatta, allora?

«Assolutamente sì. Nessuno studio. Mi ha insegnato tutto lo zio. Forse è nel nostro Dna. Sin da quando ero ragazzina tutti mi hanno sempre detto che sono elegante».

Come la nonna, Maria Raimondi Armani?

«Lei, ma anche mia mamma. Così raccontano, perché io non ho molti ricordi. Lei è morta che avevo 25 anni ma si era ammalata quando io ne avevo due, per cui sono stata affidata a mia nonna Maria. Papà se n’è andato, anche lui, più 20 anni fa ma dopo lunga malattia, quindi per me lo zio è stato un padre. Detesta se glie lo dico! Non vorrebbe questa briga. Ma se io devo chiedere un consiglio parlo con lui».

Ci racconta primi anni?

«Molto conflittuali certo» sospira. «Lui pretendeva e pretende sempre il massimo e non ti dà mai soddisfazione. Ho imparato a contare sino a dieci prima di parlare: me lo ripeteva sempre, e aveva ragione».

Tecnicamente, che maestro è stato?

«Generoso di insegnamenti, ma non negli atteggiamenti. Non ti dice mai brava, ma lo comprendi dallo sguardo. Una volta che lo hai capito ti basta. Una sua pacca sulla spalla ti fa saltare di gioia. Il fatto è che ogni giorno con lui, imparo qualcosa, sul lavoro e nella vita. Perché quando finisce il signor Armani comincia lo zio. In ufficio c’è il primo, a casa il secondo. Io adoro entrambi».

E lei cosa ha dato a lui?

«Tutta la mia vita, tutta la mia gioventù».

Non è poco...

«L’ho fatto con amore, tanto amore».

Non ha mai pensato «se fossi nata Silvana Rossi forse potevo...»?

«Mi ritengo una persona molto, molto fortunata ad avere quello che ho. Ad avere lui, ad aver avuto il suo insegnamento. Detto ciò, forse avrei fatto l’interior designer. Mi piace occuparmi delle case, delle mie case. Anche se come le taglia lo zio non le taglia nessuno».

Armani «taglia» le case?

«Non so come faccia, perché non ha mai studiato architettura, ma lui riesce a progettare nel modo ottimale una stanza, una casa, una villa, un palazzo in 20 secondi! Ha un senso della perfezione, delle proporzioni incredibile: è un dono che per magia esprime quando ha fra le mani una matita».

E lei non ce l’ha questo dono?

«Assolutamente no: ho un team di persone che si occupano di disegnare per me le mie idee sulle collezioni donna, poi il signor Armani supervisiona tutto, ma tutto».

Nell’autobiografia «Per amore» per la prima volta Armani ha fatto sapere che lei e Leo Dall’Orco siete i suoi eredi stilistici. Mettendo a tacere tutti. Una responsabilità enorme.

«Non ne parliamo mai. L’altro giorno mi ha detto mentre lavoravamo alla collezione: “Vedi Silvana, questa è una vera palestra allenamento”. E lì tu, dopo 40 anni rimani un attimo così; pensi ma non rispondi, non c’è nulla da aggiungere, solo puoi continuare ad allenarti. Da quando ha preso questa decisione sembra molto più sereno, come liberato. Un po’ come se avesse voluto dire: “Ho deciso sarà così, adesso basta lasciatemi andare avanti”. Però è sempre lui a comandare».

Siete anche una delle famiglie più ricche d’Italia.

«Ripeto: mi ritengo molto fortunata, per cui cerco di delegare questa fortuna anche ad altri. Per esempio, se io faccio un viaggio, e spendo cento devolvo la stessa cifra in beneficenza. Trovo che sia giusto che le persone abbienti diano a chi ne ha bisogno e non è necessario gridarlo».

Il successo cambia, il denaro pure

«Ma non lo zio. Lui è sempre stato così. Il primo a fare qualcosa per gli altri e noi famiglia lo seguiamo. Abbiamo una chat con mia sorella Roberta e mio cugino Andrea (Camerana, ndr) che si chiama “I Gini” nella quale ci confrontiamo su tutto, sulle donazioni ma anche sullo zio... lui però non lo sa».

Oltre il lavoro?

«Scappo in campagna. O al mio rifugio per cani. Mi piace stare nella natura, adoro gli animali. Poi leggo e vado al cinema. Adoro Milano, non vorrei vivere da nessun altra parte. Mi piacerebbe vederla più organizzata, ma non posso fare a meno della sua frenesia. Mi dà energia, come allo zio».

Figli?

«Non sono arrivati. Quando potevano venire non c’era la persona giusta. Così anche mia sorella. Solo Andrea ha dato due splendidi nipoti allo zio. È una parte della vita che mi manca, a un bambino avrei spiegato e raccontato e tante altre cose. Non sarei stata una mamma da tate, non lo avrei lasciato a casa per vederlo solo cinque minuti al giorno, quindi con il lavoro non so come sarebbe andata. A un certo punto non ci ho più pensato».

Suo zio spesso tuona contro qualcuno. Lei non si arrabbia mai?

«Ma è solo il suo modo di fare: penso che lui non guardi gli altri. A volte sono io che gli dico “hai visto quelle cose che carine che ha fatto Tizio o Caio”, e lui mi risponde sempre: “Ma va là”».

Come è stato uscire con lui e Dell’Orco in passerella per la prima volta?

«Non mi aveva detto nulla, salvo mezzora prima della sfilata chiedermi se avevo la giacca blu! Ma la mia non gli andava bene, voleva che ne indossassi una uguale alla sua. Ed è stato bellissimo».

Estratto dell'articolo di Maria Corbi per “La Stampa” il 12 maggio 2023.

È un Giorgio Armani emozionato quello che parla al pubblico del teatro Municipale di Piacenza, tanti giovani venuti ad ascoltarlo nel giorno in cui l'università Cattolica gli conferisce la laurea honoris causa in Global business management. È una laurea «speciale» non solo per il prestigio, ma perché a Piacenza, lo stilista è nato, 89 anni fa, prima di trasferirsi a Milano. […] «Da Piacenza sono partito per cercare la mia strada, che ho trovato a Milano, ma le mie radici sono e rimarranno sempre qui», dice nella sua lectio magistralis. Affiorano ricordi come «le gite in bicicletta sul Trebbia, ma soprattutto la guerra, quando mia madre mi portava dalla camera al quinto piano nel rifugio, di notte, era molto brutto».

La platea è affollata di ragazzi ed è a loro che re Giorgio si rivolge: «Questa laurea non deve essere una conclusione, ma mi ha obbligato a ricordare un percorso impegnativo che ho fatto dimenticando me stesso, e questo ve lo sconsiglio. Lavorate, tenete duro sul vostro lavoro, abbiate rigore, ma non dimenticate che avete a casa il cane, il gatto, il marito, la nonna, l'amante. Andando avanti hai bisogno di persone al tuo fianco».

Di sé dà una definizione perfetta: «Sono un creativo razionale».

[…] Nel mondo della moda è l'unico che ha ancora il controllo assoluto dell'azienda: «Ascolto gli altri, ha detto, ma poi decido solo io». E sull'annoso dibattito se la Moda sia arte, Armani dice la sua con chiarezza: «Io ho sempre visto il mio ruolo vicino a quello di un sociologo, più che a quello di un'artista. Ho sempre offerto al mio pubblico strumenti nuovi, di emancipazione e di autorappresentazione, capaci di dare nuovi significati ai gesti quotidiani».

[…]

Estratto del discorso di Giorgio Armani al conferimento della laurea honoris causa, pubblicato da “La Stampa” il 12 maggio 2023.

Il mio è stato un percorso lungo, a tratti complesso, ma i momenti difficili sono riuscito a superarli con l'impegno, la dedizione e il rigore, valori che ho assimilato in famiglia, gli stessi che raccomando di seguire sempre, per dare forma a ciò in cui si crede, ancor di più oggi che si moltiplicano i successi effimeri. Perché quel che richiede impegno, invece, dura. Il mondo cambia e il progresso va vissuto per la sua parte più positiva. Con coraggio e fiducia, ho sempre coltivato con fierezza, difendendola, la mia indipendenza.

Ascolto il parere degli altri, ma sono io che prendo le decisioni, soppesando sempre rischi e benefici, con un grande senso di responsabilità. In questo modo ho costruito un Gruppo che nel mondo è diventato sinonimo di qualità, bellezza, misura, armonia, di quei valori estetici e industriali che fanno grande l’Italia. Ho iniziato creando vestiti e un passo dopo l'altro mi sono avventurato in altri ambiti sempre con coerenza e mai con avventatezza.

Sono un creativo razionale, ma la spinta nasce sempre dalla passione, da un'intuizione e dal desiderio bruciante di realizzarla. Ogni idea, in fondo, è frutto di un innamoramento e questo lavoro, che per me è la vita, è un atto continuo di amore. Anche a voi raccomando di coltivare l'amore per ciò che fate con rispetto di chi vi è vicino. Ho parlato di me, in questo discorso, pensando soprattutto a voi studenti. E vorrei, con la mia storia, essere un esempio, uno stimolo e ricordare a tutti che il lavoro vero porta lontano

Estratto dell’articolo di Maria Corbi per “la Stampa” il 17 gennaio 2022.

Nostalgia della Milano che fu, ma anche della bellezza assoluta, senza «censure» inclusive. Nostalgia di una idea romanzata, ottocentesca, dell'amore. Nostalgia di un mondo borghese. Va in scena l'eleganza Armani, e la sua poetica, nel teatro di via Borgonuovo, come se la passerella fosse un atrio di un nobile palazzo meneghino.

 E negli abiti che sfilano indossati da modelli dalla bellezza «imbarazzante» (come dirà il maestro a fine sfilata) non c'è traccia di fluidità, di concessioni al diktat contemporaneo, alla stravaganza.

 Qui la bellezza ha canoni precisi, fissati dall'occhio del maestro che ha ricreato nei tessuti le geometrie dei marmi pregiati e policromi che adornano ingressi e cortili degli antichi palazzi da cui, a fine sfilata, escono a braccetto, dandosi la mano, guardandosi languidi negli occhi, coppie fatte da un lui e da una lei, pronti per andare a un ballo.

In scena, insieme agli abiti impeccabili (la più bella collezione degli ultimi anni) c'è anche l'amore etero: «E' una scelta precisa, si parla di un uomo e di una donna che si vogliono bene, che si amano. Facciamo vedere questa realtà che piace a tutti, poi ci sono le trasgressioni, le varianti, le modernità, vanno bene, non dico nulla naturalmente, ma mi piaceva rivedere una coppia carina».

 Ma non c'è traccia di restaurazione, di conformismo ai tempi che corrono, in questa scelta coreografica, come non c'è negli abiti. Anzi, è un'affermazione di libertà, di indipendenza dal giudizio collettivo, una sfida a regole dettate da altri.

«Non si è conservatori se ci si veste bene», fa notare il maestro. E non si è conservatori se si è affascinati dall'«amor cortese». Così è se vi pare, e anche se non vi pare. Qui è Giorgio Armani che detta le regole, evocando atmosfere ormai lontane, che « cuce» nei completi della collezione Uomo Autunno-Inverno 2023-2024.

 […] «L'uomo della finanza non può andare con un cappotto di finta tigre ma deve avere un look preciso, anche se con una forma nuova, che rassicura». Le regole di Armani sono chiare: «A me non piace vedere uno con la "camiciaccia" andare a una riunione importante dove, per esempio, si decide il futuro del prezzo della benzina». […]

 «Nelle foto d'epoca, spiega Armani, si vedono scrittori e artisti che portavano giacche colorate, seduti nelle poltrone dei salotti, nelle case di grande rispetto». Ancora la borghesia intellettuale come punto di riferimento, portatrice ideale di questa eleganza. Riprendere il classico in termini moderni, il nuovo corso che si è visto in queste sfilate milanesi dedicate all'uomo e che è stato ufficializzato proprio qui, alla corte di re Giorgio.

I Versace.

Dagospia mercoledì 4 ottobre 2023. Riceviamo e pubblichiamo: Dichiarazione di Paola Malanga, Direttrice Artistica della Festa del Cinema di Roma, sul film Gianni Versace. L’imperatore dei sogni di Mimmo Calopresti: 

“Il docufilm di Mimmo Calopresti non sarà alla Festa perché ad oggi, per quanto attiene alla valutazione artistica, non risulta idoneo a una proiezione ufficiale, come è emerso anche nel confronto avvenuto con la produzione del film, che nella fase di presentazione della proposta rimane l’unico interlocutore. L’invito precedentemente inviato è stato di conseguenza ritirato per decisione della Direzione Artistica che ne ha piena facoltà”.

Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per ilfoglio.it mercoledì 4 ottobre 2023.

“È la prima volta che mi succede una cosa del genere”. Il regista Domenico – per tutti Mimmo – Calopresti qualche giorno fa ha ricevuto la telefonata surreale di Paola Malanga, direttrice della Festa del cinema di Roma, scuola Rai Cinema. 

“Mi ha detto che il mio docufilm non sarebbe stato proiettato, ma senza un apparente motivo, solo perché la famiglia non voleva. In particolare Santo, che di Malanga è amico”.  La famiglia in questione è quella di Gianni Versace, […] ucciso nella sua villa di Miami nel 1997 da due colpi di pistola sparati da Andrew Cunanan.

Il docufilm “L’imperatore dei sogni” doveva essere l’evento di chiusura della festa dell’Auditorium, il 29 ottobre. Sul red carpet romano erano attese – per provare a uscire da una kermesse molto Grande Raccordo Anulare – Carla Bruni, Naomi Campbell e tutte le top model che considerano ancora oggi Versace “un padre, il primo che ha rivoluzionato il nostro mondo”, come racconta  Bruni in Sarkozy nell’opera censurata o comunque cassata all’improvviso dopo l’iniziale via libera. 

“Non vorrei che un rifiuto così strano fosse figlio dei tempi, del clima che si respira nel paese”, dice Calopresti, senza crederci troppo, senza voler passare da martire. […]  

È un regista engagé, Calopresti, ma l’opera in questione oltre a una zoomata sui moti di Reggio Calabria e un’intervista al compagno di Versace, Antonio D’Amico, non avrebbe turbato i patrioti entrati anche nell’ultimo bunker del Pd romano.

Gianluca Farinelli, presidente della Festa del cinema di Roma con ambizioni che guardano a Venezia, a fine settembre aveva rassicurato Calopresti: il suo docufilm era piaciuto, tanto da essere la coccarda su questa edizione, il gran finale. 

“Poi la direttrice mi ha raccontato della richiesta di Santo Versace che era contrario alla proiezione ed essendo suo amico ha dovuto assecondarlo. Così mi ha detto. E per la prima volta […] mi sono trovato davanti a una scelta incomprensibile: prima sì, tutti entusiasti; poi no, tutti imbarazzati”.

La biondissima Donatella Versace […] qualche giorno fa ha anche attaccato il governo Meloni perché “sta cercando di togliere i diritti delle persone di vivere come desiderano”.  Santo Versace, […]  dopo aver lasciato il mondo del fashion si è dato alla filantropia e al cinema, tanto che guida la Minerva Pictures. Era uno dei coproduttori del docufilm. E’ stato anche a Montecitorio, eletto con il Popolo delle libertà, finì con l’Api di Rutelli prima di chiudere con la politica oscillando tra “Fare per il fermare il declino” di Oscar Giannino e “Italia Unica” di Corrado Passera.

Della sorella Donatella non parla quasi mai, di Gianni sempre. A lui ha dedicato anche un libro (“Fratelli, una famiglia italiana”). Ma adesso è soprattutto un produttore cinematografico.

Ma insomma perché, Calopresti, la sua opera è stata cassata così all’improvviso? Se non è stata la “cinecommissione Colle Oppio” a giudicarla non idonea, cosa può essere accaduto? “Non riesco a spiegarmelo […]”. 

[…] Il tributo dura un’ora e dieci da bersi tutti di un fiato come quella Milano versaciana. E prima o poi sarà proiettato da qualche parte. Magari quando il caso di questo docufilm sarà stato risolto. Unica storia di una proiezione durata in cartellone come “Un gatto in tangenziale” (per citare il film interpretato da Paola Cortellesi che aprirà la festa di Roma con la sua opera prima da regista). Ma niente Naomi né Carlà.  

La Versace e Saviano utili idioti degli anti italiani. Alessandro Sallusti il 26 Settembre 2023 su Il Giornale.

Si è chiusa ieri la settimana della moda di Milano

Si è chiusa ieri la settimana della moda di Milano. Migliaia di stilisti, addetti ai lavori e star dello spettacolo sono stati accolti con interesse e simpatia, omaggiati dalle autorità e inseguiti da decine di migliaia di fan in cerca di selfie. Una festa, insomma, chiusa da una super festa al «Teatro alla Scala». Da quel palco, invece che ringraziare l'Italia, Donatella Versace se ne è uscita così: «Il nostro governo sta cercando di togliere alle persone il diritto di vivere come desiderano: di togliere la libertà di camminare per strada a testa alta e senza paura, indipendentemente dalla propria identità».

È noto che il mondo della moda è assai variegato, etero e gay di ogni tendenza si amalgamano senza problemi, ed è certo che nessuno dei presenti ha avuto problemi a raggiungere il teatro sulle proprie supercar, né a rientrare nelle proprie lussuose dimore o suite di grandi alberghi, semmai ha faticato per eccesso di attenzione e affetto. Ciò dimostra che in Italia nessuno nega a nessuno «il diritto di vivere come desidera» e di «camminare in strada a testa alta» indipendentemente dalle pulsioni sessuali. E dimostra come Donatella Versace a furia di vivere fuori dal mondo, solo per merito di ciò che gli ha lasciato il fratello Gianni, non sa cosa accade nel mondo reale e parla per slogan e pregiudizi stupidi quanto lei.

Mi chiedo. Perché una italiana che deve tutto a questo Paese odia l'Italia al punto da screditarla di fronte a una platea internazionale raccontando un'Italia che non esiste se non nelle sue ossessioni amplificate per altro dal fatto che, leggo sull'enciclopedia Wikipedia, «per decenni ha vissuto una forte dipendenza da cocaina con pesanti impatti sulla sua vita privata superata grazie ad una terapia di disintossicazione in una clinica dell'Arizona durata quasi un anno»? Non sono quindi le sue parole che devono preoccupare, è capire se il mondo che era alla Scala le saprà collocare nella giusta casella o se crederà davvero che in Italia i gay vengono perseguitati. E per stare in tema se all'estero crederanno al trombone Saviano che, temendo di restare disoccupato, ieri ha postato: «Il boss Matteo Messina Denaro è morto ma l'Italia resta un paese a vocazione mafiosa». Per dire che lo spread più pericoloso non è quello che misura il differenziale tra titoli pubblici tedeschi e italiani bensì quello tra la verità e le farneticazioni di personaggi che pur di colpire il governo Meloni fanno carne di porco del loro Paese.

OMICIDIO VERSACE: LA FINE DI UN’ERA

Gaia Vetrano il 4 marzo 2023 su nxwss.com

Il mondo della moda non sarebbe stato lo stesso senza la Medusa di Versace.

Per comprendere meglio questa storia, dobbiamo prendere un volo aereo e spiccare verso la calda e soleggiata Miami. Il simbolo della Medusa troneggia sopra la Villa Casa Casuarina, nell’Art Déco Historic District.

Di questa sappiamo che la bellezza e l’ambiguità sono i caratteri principali. Per il mito, giace fissando il cielo notturno supina su un monte. Sotto di lei vi è la vita, e la sua beltà è divina per chi osa scrutarla accidentalmente. Sulle sue labbra posa la quinta essenza della femminilità, che aleggia attorno a lei come dispersa nell’etere.

Eppure, al suo cospetto, non è tanto l’orrore, ma la inquieta grazia a impietrire chi la osserva. Al suo cospetto, la vita e la morte ballano un tango senza lieto fine.

Sovrapposta alle tenebre, il terrore si fa tempesta nei cuori di coloro che sanno di essersi imbattuti contro la miserabile Medusa. Un volto di donna dai capelli viperei che nella morte contempla il cielo.

Spaventosa e seducente, è l’unica mortale tra le tre Gorgoni. Una musa mutevole che, nel corso dei secoli, assume significati diversi. Capace, come le sue sorelle, di pietrificare chiunque abbia la malaugurata idea di incrociare il suo sguardo.

Ovidio, nelle sue Metamorfosi, la descrive come talmente bella da attirare le voglie del dio del mare Poseidone, che ci portano così a un – quasi prevedibile – stupro, in uno dei templi dedicati ad Atena. Sarà proprio quest’ultima a vendicarsi sulla mortale, trasformandole i capelli in serpenti.

Una donna tanto attraente non solo da subire le controverse azioni del dio, che rimangono impunite, ma da venire condannata e per questo sfigurata. Perseo infine la raggiungerà, per decapitarla. La sua testa mozzata verrà usata come arma. 

Riconosciuta dal termine mostro, dal latino “monstrum”, che significa anche “cosa meravigliosa”. Che genera stupore. Perché opera del creato umano intrisa di erotismo, di mistero, di potere. Così, come gli abiti di Versace.

Stando infatti alla storia del marchio, Gianni ne scelse il volto come simbolo perché in grado di ricordare le sue origini calabresi e il suo passato nella sartoria della madre. La Medusa, con la sua chioma di serpenti, è in grado di guardare in tutte le direzioni. Può illuminare il sentiero di Versace verso la fama. Peccato che non riesca a prevedere il suo mortale destino. 

Medusa non è mai stata solo rappresentata come una creatura aberrante, ma anzi spesso come una giovane piacente, lontana dall’immagine furiosa con cui passa alla storia. Così come la donna dei sogni di Gianni, i cui abiti le calzano perfettamente, come un guanto.

Sarà in particolare Euripide a dare a Medusa la sua caratteristica dualità. Nella sua “Ione”, la regina ateniese Creusa vuole uccidere suo figlio, da cui prende il nome la tragedia, nato da un rapporto con il dio Apollo. Per farlo ha bisogno del sangue di Medusa, ottenuto in eredità dal padre Eretteo.

Una goccia è in grado di curare dalle malattie e di infondere vita, l’altra è invece un potente veleno. Si svela così la sua vera natura, in grado di donare ma allo stesso tempo di sottrarre il soffio vitale. Insieme è sacro e profano. Mostruosa e allo stesso tempo miracolosa. Una potente arma salvifica.

Versace ne fa il suo simbolo, intreccia ad essa la sua storia. Eppure sotto il volto di Medusa, questa non fu in grado di proteggere il suo pupillo dalla morte.

L’intrinseca ambivalenza di Medusa troneggia quando, nel 92’, Gianni approda nella terra dove tutti i sogni dovrebbero diventare realtà. Già all’apice del suo successo, portavoce di una definizione di lusso e di moda che sdogana i tabù, a partire da quelli sessuali.

Maestro del colore e della sensualità, i suoi capi ridefiniscono il concetto di donna, quando ancora non era chiara la posizione sociale che questa avesse. Quando ancora non era accettato che potesse essere impegnata negli affari e allo stesso tempo una dominatrice tra le pareti del talamo.

Il serpente si fa portatore della circolarità della vita. Un ciclo infinito di nascita, morte e rigenerazione. Ognuna parte naturale delle cose. Contiene in sé l’equilibrio. Quando a Parigi sfila l’ultima grande collezione dello stilista calabrese, è la chiusura di un cerchio. 

Una sfilata di Haute Couture, che include abiti impreziositi da croci con drappeggi o inserti in maglia metallica. Ottantatré look, conclusi dalla splendida Naomi Campbell, la prima a sfilare, che per l’occasione personifica una sposa moderna, con tanto di velo bianco.

Dietro uno sfondo dorato, che recita la scritta “Versace Atelier”. Poi, una scalinata in marmo nero, come il tappeto su cui le modelle sfilano. Tra lacci, spille da balia, e lustrini, Gianni coniuga la sua definizione di vita e amore estremo.

Sentimento al quale lo stesso Versace non rinunciò mai. Verso il suo lavoro, la sua passione. Ma anche verso di sé. Eppure, fin troppe volte l’energia primordiale dell’Eros si destreggia insieme alla distruzione di Thanatos. Una dicotomia rappresentata alla perfezione dalla Medusa stessa.

La mattina del 15 luglio del 1997, l’Amore e la Discordia si coniugano tra loro. Dall’ultima sfilata di Versace sono passati esattamente tre giorni, ed è stato un grande successo. La sua è, come spesso la definisce, una moda liberatoria, che pone delle scelte.

Dopo delle giornate stressanti, com’è tipico durante la fashion week, Gianni è da qualche giorno tornato nella sua villa insieme al suo compagno Antonio D’Amico. Prima aveva fatto una sosta a New York, dove si era incontrato con la Morgan Stanley, per quotare l’azienda in borsa.

Adesso può finalmente riposare nella sua amata Casa Casuarina, che sotto il suo volere è stata trasformata nel suo mausoleo, e decorata da marmi e mosaici, splendenti come l’oro e blu come l’acquamarina.

Come da routine sale la sua scalinata in marmo bianco che lo porta dritto verso la camera da letto e la sua cabina armadio, dove tiene, insieme alle sue creazioni, la sua vestaglia in seta e le sue ciabatte in velluto nero, rigorosamente con il volto della Medusa.

Tutte le mattine saluta i dipendenti della villa novecentesca per poi sdraiarsi sulle sdraio bordo piscina. Del meritato relax sotto l’ombra di qualche palma. Magari mentre degusta della frutta, o sorseggia un po’ di caffè. Si sa, Gianni è comunque un maniaco del lavoro. Anche a casa, pensa sempre ai suoi abiti perché la sua mente non riposa mai. 

Il suo tempo lo impiega a disegnare bozzetti da mandare poi a Milano, dove sua sorella Donatella è sempre impegnata con i preparativi delle sfilate. Anche quando esce la mattina, come quel famoso 15 luglio, lo fa per andare ad acquistare le ultime riviste di moda: Vogue o Vanity Fair. Così da poter vedere come sono andati gli ultimi set fotografici delle sue amate modelle.

Le strade di Miami lo omaggiano, e gli abitanti della soleggiata città lo salutano, quando hanno l’onore di incontrarlo. Qualcuno, mentre cammina verso il cancello, lo ferma per chiedergli un autografo.

Quando gira per la sua città ha la pelle ambrata dal sole e la barba bianca. Non perde mai l’occasione per passeggiare e per assaporare l’odore della salsedine, che gli ricorda i profumi della sua terra, la Calabria. Mentre sale la scalinata davanti casa sua, dà le spalle a un parchetto pieno di palme. Lì qualcuno fa jogging, altri vanno in bicicletta, o fanno passeggiare il cane.

Versace ha il tempo di uscire dalla tasca dei bermuda le sue chiavi. Una a una prova a inserirle nella serratura, mentre tramite le grate nere osserva i dettagli dorati delle fioriere o incastonati sui parapetti delle finestre.

La Medusa, scolpita sulla cima ornamentale dei quadrelli, osserva inerme l’arrivo di una seconda figura da dietro una palma. Un giovane alto, con dei bermuda, una canottiera estremamente sgualcita e un berretto con la visiera calata. Questo è affannato, come se avesse appena finito di inseguire Gianni per tutto il parco.

Ha il braccio puntato in avanti: tra le dita stringe una pistola, che colpita dalla luce brilla come un diamante. Sono le 8:45 del mattino e, nonostante ci sia qualcuno nelle vicinanze, passa comunque inosservato.

Al cospetto della Medusa, i secondi collimano tra loro, da sembrare interminabili. In essi la pulsione della vita combacia con quella della morte, che prevale sulla prima e guida la languida follia. In un attimo, l’uomo spara un colpo verso la schiena di Gianni.

Versace ha il tempo di girarsi verso il suo aggressore, e rimane pietrificato. Il re della moda, davanti a colui che sta per porre fine alla sua vita, è come una comune vittima della Medusa.

Il killer spara un ultimo colpo, alla testa. Gianni Versace, davanti al suo personale castello, che lo rendeva il sovrano di Miami Beach, cade di colpo a terra. Mentre l’assassino corre via, il corpo dello stilista esala il suo ultimo respiro. 

Versace rappresenta dominio e sottomissione. Lo sbalzo verso la fama di chi vuole sempre restare legato alle proprie origini. Il fascino di chi incomincia dal basso. La sontuosità della bellezza, nata da un estro figlio di una società fin troppo bacchettona. Il connubio perfetto tra la pulsione vitale e l’ultimo respiro. Sintesi perfetta della sua epoca.

La Medusa, davanti al suo corpo esanime, sembra quasi sorridere. Mentre immortala tramite l’arte la vita dello stilista in uno sfuggente attimo. Versace, disteso sulle scalinate della sua villa, è solo l’ennesima vittima di uno sfortunato valzer con la Morte.

L’impero della Medusa

In quello che viene definito il più bel giardino d’Italia nasce Gianni Versace, nel 46’.

Parliamo di Reggio Calabria, un paesaggio ricco di distese, dove la luce gioca tra la pianura e rilievi, creando successioni di Sole e di ombra, mentre all’Orizzonte continua il mare. Una terra dove, ovunque ti giri, scopri nuovi colori. 

Una città metropolitana locata proprio sulla punta dello stivale. Una piccola striscia d’acqua la separa dalla Trinacria e in particolare da Messina. Ad est rimane nascosta dall’Aspromonte.

Le inebrianti note profumate del bergamotto, dell’alloro, della borragine, della liquirizia e del finocchietto rendono la Calabria una terra ricca di meraviglie. In grado di stupire, come la Medusa. Parlando proprio di antichi greci, si tratta della colonia più antica in Italia, addirittura nel 730 a.C.

La Medusa è seduzione, e io voglio sedurre. Amo sedurre sia gli uomini che le donne

Le più diverse espressioni del folklore calabrese sono intrise dalla cultura ellenica. La Calabria è un quadro di tinte forti e audaci, che si mescolano tra loro a contatto con il mare. Dove i paesaggi già descritti, ricchi di vegetazione, celano busti marmorei, rovine di tempi calcarei e ceramiche dipinte.

Quando Gianni viene al mondo, la sua Reggio si sta ancora risollevando dallo scisma del 1908 che, in soli trentasette secondi, rase al suolo un quarto della città. Le operazioni di soccorso vennero gestite male, ma vi era ancora la speranza che la città potesse risorgere come una Fenice. A colpi di stucco, la città ritrova un nuovo fascino, nato dalla fusione del nuovo con l’antico.

L’uomo che inventa il concetto di top model nasce dal basso. Uno spregiudicato inventore, che comincia a disegnare per la sorella Donatella. La madre, Francesca Versace, è una sarta di professione.

Dentro la boutique della madre, ogni giorno, donne facoltose fanno il loro ingresso. Per le strade principali della città, ticchettano i loro tacchi stiletto. Camminano altezzosamente, con la schiena dritta, il capo coperto da un foulard, un tailleur blu e una borsa in pelle di coccodrillo infilata nell’avanbraccio. Clienti di un certo spessore, che si dirigono come in pellegrinaggio verso il numero civico 13 di via Tommaso Gulli.

Tutte le signore a bene vanno da Franca perché nessuna la eguaglia e, evidentemente, riesce a trasmettere il suo talento a suo figlio, venuto al mondo una mattina di dicembre.

Gianni è libero di acquistare dal mondo esterno l’ispirazione necessaria, come se fosse la sua personale linfa vitale. È avido di conoscenza e, come un esploratore, si aggira per le campagne della città, ammirando i resti delle popolazioni elleniche. Tra questi anche un busto della Medusa, nascosto tra le fronde del bergamotto. Da questo ne rimane molto colpito.

Il padre, a causa della sua curiosità, a volte per lui fuori luogo, lo fa sentire inadatto. Per questo, fuori dalle mura di casa, se in presenza dei propri genitori, sembra quasi inibito.

Quando però ne ha la possibilità, è sempre al fianco della madre Franca. Nascosto dietro la sua macchina da cucire, la ammira immersa nel suo lavoro, che tutti pensino debba dare spazio solo al femmineo. Gianni è il pupillo della boutique della madre: l’angioletto di un luogo tutto al femminile che lo adotta.

Dai compagni di classe e dalla maestra delle elementari viene continuamente bacchettato per come si veste, ma a lui non importa. In aula passa il tempo a disegnare vestiti, dimostrando sin dalla tenera età il suo genio intriso di creatività sfrontata e la grande capacità di lasciarsi ispirare dal mondo esterno.

A 11 anni, Gianni si ritaglia il suo posto come apprendista nella sartoria della madre. A fianco delle altre sarte è come una spugna: avido di imparare e conoscere nuove tecniche. In breve tempo diventa più esperto, arrivando a marinare la scuola per portare avanti la sua passione.

Assimila i colori della sua terra e del tramonto sul mare, ciò che lo colpisce per le vie più trafficante, e lo trasmette nei suoi abiti. Non si diplomerà, ma non è un problema. La clientela borghese è il suo regno: per questa può essere ciò che vuole.

Fuori dalla sartoria è schivo, rimane per le sue. Si mostra timido e diffidente. Quando non è nella sua confort zone, resta cauto e silenzioso. In grado di mostrare due nature, come la Medusa. 

Gli echi di Cardin e Saint Laurent arrivano fino alle sue orecchie e lo spingono ad aprire la prima boutique. Da qui comincia la sua ascesa. Quando il vestire era controllato da regole che sancivano come accostare i colori o le lunghezze tra loro, riesce a cambiare gli equilibri, conferendo alla moda una nuova natura, ricca di audacia.

Davanti al suo cospetto, le clienti pendono dalle sue labbra, come un oracolo. Ma l’unica donna ad avere importanza è Donatella. È il carburante dell’estro creativo di Gianni, la sua complice.

Il complesso dell’Aspromonte è troppo difficile da scalare. Se Gianni vuole arrivare dove le creazioni della madre non sono giunte, deve lasciare la sua terra. Dieci anni dopo, nel 72‘, parte per Milano. Lì affina le sue competenze riguardo il regno della maglieria, a lui estraneo. Brucia le tappe velocemente, disegnando per Callaghan, Genny e Complice.

Solo sei anni dopo presenta la sua prima collezione. Con l’aiuto del fratello Sandro, apre bottega Gianni Versace.

Silhouette fluide ma al tempo stesso scolpite, contrasti ricchi di colore, sono la firma di Versace. Alle modelle viene chiesto di trasmettere il desiderio di voler prendere un posto nel mondo. Dei veri e propri manifesti femministi.

La morte di Franca sconvolge però il precario equilibrio. Quando sembrava che tutto stesse cominciando ad andare per il verso giusto, il porto sicuro di Gianni crolla in frantumi. Il lutto gli dà la possibilità di legare con la sorella Donatella, che rappresenta l’archetipo della donna Versace. Forte, determinata, appassionata e sensuale.

La sua visione del mondo inaugura una nuova era: quella del Chic and Choc. Gianni rappresenta l’eleganza, Donatella la trasgressione. I due caratteri principali della maison, una mistura esplosiva. Con l’aiuto del fotografo Richard Avedon, segnano la storia.

Nasce il mito delle supermodelle: incredibili donne, scelte e viziate da Versace, che al mondo appaiono eteree, invidiabili e irraggiungibili. Christy Turlington, Linda Evangelista, Naomi Campbell, ossia la celebrity trinity, che per il marchio lavorano in maniera esclusiva. Poi Kate Moss, Cindy Crawford e Claudia Schiffer. Il gruppo delle Big Six, che sfamano la stampa.

I modelli di Versace, nei primi anni Novanta, soddisfano ciò che il mondo richiede, diventando man mano sempre più sensuali e provocanti.

Se Armani veste la moglie, Versace veste l’amante

Anna Wintour

Già dagli anni 80’ comincia una cospicua collaborazione con le compagnie teatrali milanesi, per cui realizza i costumi. Ogni spettacolo che porta il suo nome va facilmente sold – out e, in molti, acquistano il biglietto solo per guardare i costumi del calabrese. Durante la prima di Josephslegende di Richard Strauss, al teatro alla Scala, si reca Antonio D’Amico.

Un moderno discobolo, dal profilo greco, i capelli mori e mossi. Questo resta incantato dai vestiti, che sembrano fluttuare di vita propria. Eppure, non avrebbe mai pensato di poterne incontrare il creatore, proprio alla cena dopo lo spettacolo.

Per Gianni, appena vede Antonio, è un colpo di fulmine, e lui di bellezza se ne intende. D’Amico accetta di potersi sedere accanto a lui, anche se fin troppo a disagio quando l’altro si alza per salutare la miriade di persone che conosce. Non è di certo abituato alla fama, ma non si tira indietro quando lo stilista gli chiede il suo numero. Dopo diverse cene, gite al lago, e incontri, i due si legano indissolubilmente.  

All’asfissiante vita pubblica, Gianni preferisce quella privata, fatta di istanti, seppur a volte fugaci, passati con i propri cari e familiari. Con Antonio viaggia e, per puro caso, fanno scalo a Miami. Di questa perla, punta delle coste americane, se ne innamora follemente.

La città ai suoi occhi è un’esplosione di vita e colori. L‘odore della salsedine e il sole sulla pelle gli ricorda la Calabria. Quel mix di culture che in quel luogo convogliano lo colpiscono sin da subito, e Gianni rimane inebriato. Nonostante i pareri contrari, è deciso. Acquista immediatamente una casa e la ristruttura. Il quartiere viene riqualificato e diventa una calamita per modelle e aspiranti designer.

Da quel momento in poi, Gianni veste le stelle, come il safety pin dress indossato da Elizabeth Hurley. Quando gli viene diagnosticato un cancro all’orecchio, dal quale guarisce, cambia la sua poetica. Ogni giorno deve essere vissuto come se fosse l’ultimo, e merita di avere dei vestiti adatti.

Già dal 1993, la Medusa è il simbolo di Versace. L’angelo custode del marchio. Quando le ambulanze arrivano per cercare di rianimarlo, lei è sempre al suo fianco. Al suo cospetto, la vita ha già smesso di lottare.

La colomba annegata nel sangue

Per l’autopsia, l’ora del decesso stabilita è le 9:21. Gli aiuti dei medici sono inutili. Gianni muore sotto gli occhi del suo compagno. Il corpo verrà portato in ospedale, inutilmente.

Se quello che vi abbiamo fornito nell’introduzione è il primo quadro dell’omicidio, l’autopsia andrà a modificare la prima ricostruzione degli inquirenti. Ciò che appare è che, almeno uno dei proiettili non è stato esploso alle spalle, ma ha penetrato la guancia destra, con l’arma a contatto del volto.

Sicuramente un dettaglio importante. Rappresenta l’intento del killer di voler sfigurare la vittima, decisione mossa da una rabbia repressa particolarmente intensa.

I moventi potevano essere molteplici: primi tra tutti la rapina. Quest’ultimo venne escluso subito. Gianni quel giorno girava con il suo portafoglio, dove dentro teneva sei carte di credito e più di mille e cento dollari in contatti. In più, al collo, aveva una collana d’oro.

Esclusa questa pista, la polizia comincia a esaminare la sfera privata. Forse un fan ossessionato? Un ex compagno respinto? Qualcuno invidioso del suo successo? Sicuramente, un individuo capace di compiere un atto tanto brutale da sembrare un’esecuzione.

Nel frattempo, la scientifica rivela la provenienza dei due bossoli: una calibro 40. Insieme ai proiettili ritrovati sulla scena del crimine, anche il cadavere di una colomba bianca. Un simbolo tradizionalmente usato dalla mafia. Cosa poteva farci lì?

Nonostante questo possa sembrare incredibile, viene ordinata un’autopsia del volatile. Per gli inquirenti appare necessario, perché rivela la tipologia del proiettile che aveva ucciso il piccione. Gli inquirenti scoprono così che la pallottola che aveva colpito Versace era riuscita a rimbalzare e a colpire l’animale. Una banale, seppur assurda coincidenza.

Stando ad alcuni testimoni, il killer sarebbe scappato in un parcheggio sulla tredicesima.

Ciò che lì trovano è un pick-up rosso con una targa del South Carolina. Infine, rimangono le foto della scena del crimine, dove sembra quasi brillare la colomba bianca, simbolo della purezza, annegata nel sangue di una vittima innocente.

Sotto l’ombra del pick-up: chi è Andrew Cunanan?

Ciò che il pick-up rosso sembra nascondere è una nuova pista. La targa è infatti rubata, e al suo interno contiene oggetti di uso quotidiano, come se qualcuno ci avesse vissuto al suo interno.

Il detective Navarro viene raggiunto da innumerevoli novità, che implicano l’FBI.

Il sospettato di questo crimine è infatti un pluri-omicida che i servizi segreti inseguono già da tempo. Versace sarebbe infatti  l’ultima di una serie di vittime, uccise con l’uso di una calibro 40, da un uomo che si aggirava per il paese con un furgone rosso del South Carolina. 

Il numero del telaio dell’FBI è lo stesso.

Si cerca così di creare un profilo psicologico su questo soggetto.

Per capire di più su Andrew Cunanan dobbiamo partire dai suoi genitori, Mary Anne Schillaci e Modesto Cunanan, che si incontrano negli anni Sessanta in un bar. Lui è un filippino e fa parte della marina. La divisa gli conferisce un grande fascino. E si sa, quale donna è in grado di resistere davanti a tanto mistero? Il loro amore è tanto ardente: la donna resterà incinta e, solo sei mesi dopo, i due si sposeranno.

Eppure, la fiamma che alimenta il loro rapporto si consuma troppo in fretta, e la stabilità della loro relazione inizia a vacillare a partire dalla nascita di Christian, il loro primo figlio. Modesto è una persona molto gelosa, tanto da dubitare che la seconda figlia Elena sia sua. Mary non riesce comunque a lasciarlo andare e mette al mondo altri due figli: Regina e infine Andrew, nel 1969, a San Diego.

Dopo l’ultima gravidanza Mary entra in un pesante periodo di depressione post – partum, che le verrà rinfacciato più volte dal marito, che la accuserà di non essere una madre responsabile. Modesto di occupa del neonato, che si rivela essere un bimbo sensibile ai conflitti. Quando i genitori litigano, riesce a sentirsi al sicuro solamente se lontano dai due.

L’angoscia è combattuta solamente quando può rifugiarsi nel suo mondo di fantasia, dove mamma e papà sono delle persone dall’animo buono e dal portafogli profondo, sempre pronti a soddisfare ogni suo desiderio. Le menzogne diventano così il suo pane quotidiano, l’unico modo che ha per combattere gli evidenti problemi della sua famiglia.

I compagni di scuola non gli credono e lo sopportano a stento. Per loro è un bugiardo cronico, qualcuno da cui tenersi alla larga.

Modesto decide a un certo punto di prendersi una licenza dalla marina e di tentare a diventare un broker, aprendosi un suo ufficio. Per sostenere il suo lavoro e sembrare più professionale, pensa sia necessario vestire solo firmato, così, sperpera il suo denaro in completi, che acquista anche per il dodicenne Andrew. Il bambino, che ormai veste come un uomo d’affari, inizia a sviluppare così la sua spiccata vena narcisistica, che eredita dal padre.

Nuovamente è oggetto di prese in giro dei suoi coetanei, ma a lui non importa, perché almeno è al centro dell’attenzione. I suoi genitori lo cambiano comunque di scuola, e lo iscrivono alla costosa Bishop Academy. Qui è compreso dai suoi compagni, che anzi ammirano la sua parlantina. Addirittura, scopre di avere un quoziente intellettivo pari a 140: è un vero genio.

Ma ciò non basta, perché Andrew non è capace di dare un senso alle emozioni e ai pensieri che prova. Sa che è normale in quanto adolescente, eppure non riesce da solo a comprendersi, e non capisce come possano farlo gli altri. Il sesso femminile lo incuriosisce, ma nessuna assomiglia a sua madre. Sono invece i ragazzi buoni e gentili ad attirarlo. 

Quando vive la sua prima esperienza omosessuale, non può fare a meno che vantarsene. Ama parlare di sé ai suoi compagni di scuola, che gli danno del pagliaccio. A quindici anni non gli importa più della sua istruzione.

Una volta scoperto il gentil sesso, attua ormai la sua trasformazione da studente modello a camaleonte sociale, iniziando a frequentare i club gay in voga di San Diego.

Certo, siamo tutti un po’ camaleonti sociali. Dire troppo di sé agli altri, significa dare un potere a chi ci ascolta. Che a volte può metterci in pericolo. Per le persone fin troppo fragili è difficile togliersi la maschera del personaggio dopo che lo si interpreta da troppo. Per un attimo si dimentica quasi che, sotto quel grande velo di finzione, c’è ben altro.

Andrew è tra questi. Le sue origini filippine gli danno poco charm: si fa chiamare Da Silva o Morales, perché nelle sue vene scorre sangue spagnolo. Divo e sex symbol.

Abbandona presto la facoltà di Storia, perché si muove già abbastanza bene nell’ambiente nel quale è entrato. Poco gli importa della sua istruzione, quando ha un dono molto più grande tra le sue mani: il suo corpo. Ormai, sa distinguere un avvocato da un medico. Un magistrato da un libero professionista. Lo capisce da come si muovono, da come parlano e da come si vestono. 

E, soprattutto, conosce le leggi dell’attrazione. È un grande seduttore, spudorato, e non si fa un problema a frequentare altri uomini che preferiscono vivere in segreto la loro omosessualità, meglio se addirittura con una copertura.

Andrew comincia a vendere le proprie prestazioni sessuali, e lo fa a caro prezzo. Non gli importa se è una storia da una notte, anzi. Decide lui termini e condizioni. E ai suoi clienti va più che bene. In cambio vuole auto di lusso, appartamenti, carte di credito. Gli chiede di girare al loro fianco, in qualità di segretario, assistente o socio d’affari.

In questo modo allarga il suo giro, tenendosi per sé le informazioni che ricava. I suoi genitori si insospettiscono, ma il fallimento dell’attività di Modesto è un problema più grande a cui pensare, al posto del lavoro del figlio. Il padre rischia il carcere per appropriazione indebita e così scappa nelle Filippine.

Mary Anne è costretta a vendere la casa e ad accettare l’aiuto dei figli, tranne quello di Andrew, che ha visto con un altro uomo per le strade di San Diego. In quanto fervente cattolica non accetta l’orientamento sessuale del figlio. Durante il litigio, il piccolo Cunanan, preso dalla rabbia, la scaraventa contro un muro, slogandole la spalla.

La madre è troppo infuriata e delusa per ascoltare le sue scuse, così Andrew scappa alla ricerca del padre. Non è abituato alla miseria e ai rifiuti delle Filippine. Il mito del padre si distrugge davanti ai suoi occhi quando la sua reale natura. Cunanan non ha i soldi per tornare in America. Ciò che gli resta è il suo corpo, che vende ai migliori offerenti per racimolare del denaro, con cui tornare a casa.

A Castro District, a San Francisco, si respira un’aria nuova. Ogni notte recita una parte diversa. Tra le tante persone che conosce, un avvocato di cognome Gold. Grazie a questo fortuito incontro, viene invitato a una festa al Colossus Disco.

Ebbene, a volte la sorte si diverte a giocare con il destino, e a creare degli intrecci particolari. Perché se Andrew non avesse conosciuto Gold, non sarebbe andato al Colossuss, e non avrebbe conosciuto Gianni Versace.

Versace e Cunanan, genesi di un omicidio

Versace è un uomo socievole. Stringe le mani di molte persone. Qualcuna la conosce davvero, di altri non si ricorda neanche. Ma per i comuni mortali, non ci si scorda di un volto come il suo. Cunanan non può fare a meno che sorridergli. Non può farselo scappare.

Immediatamente fa finta di conoscerlo, di averlo già visto. Eppure, dopo quella festa al Colossuss, non si vedranno mai più.

L’amico Anthony Dabiere ha detto che Cunanan tornò a casa quella sera “in alto come un aquilone” vantandosi del suo “fine settimana con Gianni Versace”, parlando di tutte le cose che hanno fatto insieme. Era tutta una bugia e l’inizio di un’ossessione fatale.

Nella spregiudicata San Francisco, ormai Cunanan si annoia. Ormai predilige ciò che dagli altri sono considerate perversioni. Lo chiamano per girare pellicole sadomaso dove si diverte a impersonare lo schiavo sessuale, e si fa sottoporre a torture e umiliazioni.

Eppure, nel 96’, la sua lucidità si perde. Smette di essere una persona razionale e sorridente, ma inizia a fare cose strane. Diventa irrequieto, sempre pronto a discutere e si chiude spesso nella sua camera, che trasforma in un santuario dedicato a Tom Cruise. Si sottopone ai test per l’AIDS, ma non ritira i risultati, perché pensa di essere già spacciato.

A 27 anni si lascia andare: prende 15 chili, gli cresce la barba e smette di curarsi. Di botto, si accanisce contro i suoi due unici amici, David Madson e Jeffrey Trail. Quest’ultimo è un suo amico di Minneapolis, mentre David è un giovane con cui si era frequentato. I due legano, ma Andrew si ingelosisce del loro rapporto, e li accusa di escluderlo.

Cunanan li tempesta di telefonate, in particolare a Trail, e lo minaccia di ucciderlo. Nonostante siano stati avvertiti, quando il giovane arriva a Minneapolis, sono convinti che stia attraversando un periodo difficile e che abbia solo bisogno di supporto. 

Andrew e i due escono a cena. Madson spera di fargli capire che non hanno una relazione. Ma le cose non vanno per il verso giusto finché, improvvisamente, Cunanan non si alza e va dritto verso la cucina. Lì afferra un martello, con cui colpisce con furia il cranio di Jeffrey, fino a fracassarglielo. David è impietrito e, forse per paura, aiuta l’altro ad arrotolare il cadavere dentro un tappeto.

Per giorni faranno finta di non aver nascosto dietro il divano il corpo del loro amico, continuando a girare per la città come se niente fosse. Sta di fatto che un collega di lavoro di Trail, preoccupato per le assenze dell’uomo, chiede alla portinaia di controllare come stesse. Appena la donna, entrata nell’appartamento, vede le tracce di sangue e sente il feto che permea la casa, chiama la polizia.

David ed Andrew scappano verso il Nord del Minnesota, uscendo poi per la campagna. A bordo della Jeep di Madson percorreranno almeno cinquanta chilometri. Appena scesi per la prima sosta, Cunanan uscirà una pistola e, senza rimorsi, pianterà tre proiettili in testa all’altro. 

Il giovane ha appena preso la strada del killer. Ma lui non è un omicida seriale, bensì un compulsivo, che colpisce le vittime in più luoghi diversi nello stesso periodo. Non ci sono momenti di lucidità, non maschera le proprie tracce. Al contrario, sembra quasi prendere parte a un gioco dove l’avversario è la polizia, che deve riuscire a fermarlo il prima possibile. L’obiettivo? Mietere più vittime possibile.

Alla fine, il traguardo è la morte. Il suicidio è già probabilmente contemplato nel loro piano di distruzione, che non ha criteri o moventi.

Forse la paura dell’AIDS lo ha fatto deragliare? Un dramma frutto della sua gelosia? Non importa, perché nel frattempo Andrew colpisce ancora. Si trova a Chicago quando incontra nuovamente il settantaduenne Lee Miglin, costruttore edile. Con lui si era frequentato anni prima, quando ancora faceva il gigolò. Mentre la moglie è in viaggio per lavoro, Cunanan lo costringe a farlo entrare nel suo garage.  

Non sappiamo per quale motivo ma, dopo avergli legato i polsi e imbavagliato, lo tortura con tutti gli attrezzi che trova nella rimessa. Gli taglierà la gola con il seghetto, per poi passare più volta sul suo corpo con la Lexus di proprietà dell’anziano.

Gli investigatori, quando arrivano di fronte al suo corpo, capiscono di avere a che fare con un folle, a cui non importa se lascia le sue impronte dappertutto. Cunanan abbandona l’auto di Madson davanti casa di Miglin, preferendo la sua Lexus. A Lee sottrae inoltre una raccolta di monete d’oro da collezione. Un sadico, il cui volto tappezza i muri delle città. È ufficialmente uno degli uomini più pericolosi degli Stati Uniti.

Arrivato in New Jersey, abbandona la macchina e ruba il famoso pick – up rosso, che fa al caso suo. Il proprietario è la sua quarta vittima, William Reese, ossia guardiano del Finn’s Point National Cemetery di Pennsville. Un quarantacinquenne che si occupa di lapidi.

Quando Cunanan bussa alla sua porta per chiedergli le chiavi, le dà senza problemi, e questo insospettisce Andrew, che gli spara lo stesso. Il giorno dopo arriverà a Miami, il 10 maggio, dove alloggerà al Normandy Plaza, dando il nome falso di Kurt De Mars. Lì frequenta i locali gay, mentre aspetta di incontrare la sua prossima vittima.

Morto Versace, incomincia una vera caccia all’uomo. Il Procuratore di Miami sostiene che verrà trovato in poche ore, ma gli innumerevoli errori condotti durante l’indagine rendono le sue parole poco affidabili.

Innanzitutto, perché il pick – up rubato da Reese venne trovato così tanto tempo dopo? E’ rigoroso specificare infatti che William è morto il 9 maggio, mentre Versace il 15 luglio. Tre mesi di ricerche per individuarlo.

Com’è possibile che, nonostante Cunanan fosse uno dei più grandi ricercati dello stato, potesse girare a piede libero per la città di Miami? Non è forse inverosimile ritenere che qualcuno possa averlo riconosciuto, ma che non sia stato ascoltato?

Infine, Andrew, prima di uccidere Versace, aveva venduto a un banco dei pegni una delle monete d’oro di Miglin per 200 dollari. Per farlo aveva compilato un modulo, dove si era firmato con il suo vero nome e aveva inserito l’indirizzo dell’hotel al quale alloggiava. Per legge, una copia di tutti i moduli confluisce al Miami Beach Police Department, dove si verifica che gli oggetti impegnati non siano frutto di rapine. Non c’è bisogno che vi dica altro.

Mentre Elton John, Donatella Versace, Naomi Campbell, Lady D e Sting piangono il defunto ai funerali, le indagini dietro l’omicidio vengono definite la commedia degli errori. 

Del funzionario che doveva verificare quei moduli non vi è ombra fino a qualche settimana successiva al delitto Versace, perché era in vacanza. Così si organizza un commando SWAT, che irrompe al Plaza, ma di Cunanan non vi è traccia.

La colpa è però del proprietario dell’hotel, che aveva indicato alla polizia il numero della stanza sbagliato. Per la seconda volta, due giorni dopo si organizza un nuovo blitz, ma nella 322 non si trova Andrew.

Sarà Fernando Carreira a ritrovarlo. Il 23 luglio sta perlustrando la sua rimessa di barche galleggianti e, mentre passa di fronte quella di Torsten Reineck, un tedesco in vacanza a Las Vegas, sente dei rumori provenire dal suo interno. L’uomo chiama immediatamente la Polizia. Sul posto arrivano anche l’FBI e la guardia nazionale.

Sfugge alla nostra comprensione per quale motivo decidano di aspettare tre ore prima di fare irruzione, dopo averne perse due per circondare la casa. Forse perché non vogliono lasciare niente a caso. Eppure, quando entrano è troppo tardi.

Cunanan è coricato sul letto. Ha la barba incolta. Gli abiti sgualciti e sudati. E’ sdraiato sul letto e, per terra, ci sono i resti del cibo che ha consumato. Sotto di lui ci sono dei cuscini e, stretta nella sua mano, la sua calibro 40. Andrew si è suicidato, sparandosi in bocca. Nulla che non ci aspettassimo.

Il perché delle sue imprese rimane un mistero. Per l’FBI, la gelosia di Cunanan è stata determinante. Jeff e David erano una coppia felice. Due professionisti affermati nei loro ambiti i cui parenti avevano accettato il loro orientamento sessuale, cosa che non aveva fatto Mary Anne.

Probabile che Cunanan percepisse Versace come tutto ciò che avrebbe voluto essere. Un’icona di successo per il mondo intero. Una personalità affermata di cui poco importava del suo orientamento sessuale, cosa che gli permetteva di vivere apertamente il suo amore con Antonio D’Amico. Andrew voleva per sé le attenzioni che aveva Versace. Voleva essere come Gianni.

Nella sua psiche si annidava un vero mostro. Un individuo loquace, con un grande ego, superficiale e capace di mascherarsi e nascondersi tra la folla. In ogni suo omicidio ha sempre mostrato mancanza di rimorso perché ognuno sacrificabile. Un soggetto senza responsabilità, incapace di avere dei piani a lungo termine.

Infine, la paura dell’AIDS, di cui non era malato, come dimostrerà l’autopsia.

Antonio D’Amico ripeterà più volte di non aver mai creduto alla versione della Polizia. Cunanan, il cui profilo è quello di uno psicopatico, è il perfetto capro espiatorio. E non è l’unico a pensarla così.

Il 25 settembre 1997 va in onda su Rai 3 “Il sorriso della Medusa”, documentario diretto da Chico Forti – di cui vi lasciamo il link – prima di essere arrestato a Miami per truffa. Sarà poi condannato all’ergastolo per la morte di Dale Pike. 

Per Forti Andrew Cunanan non si sarebbe suicidato. Quello che emerge dalle indagini dell’investigatore privato Gary Schiaffo è che sarebbe stato ucciso e poi sarebbe stato inscenato il suicidio. Sia Versace che il giovane per metà filippino sarebbero vittime della criminalità organizzata perché degli individui fin troppo scomodi. Lo stesso Antonio aveva detto

È stato chiuso troppo velocemente. Non credo a niente di quello che hanno detto i giornali. Sono convinto che ci sia dietro altro

Proprio per questo motivo la Polizia statunitense di sarebbe accanita contro Forti. Quest’ultimo sapeva che avrebbe rischiato. Il suo rompere le scatole, il suo voler ricercare la verità, lo ha reso vittima di un clamoroso errore giudiziario.

Di Modesto sappiamo che, nel 1999, dopo essere tornato negli Stati Uniti, affermerà che il figlio è solo una vittima innocente della mafia. Ovviamente senza accennare delle altre vittime. Poi se ne perdono le tracce, tanto da non sapere se sia vivo o morto. Chi ci ha invece lasciato è Mary Anne, scomparsa nel 2012. Anche lei ne sosterrà sempre l’innocenza.

Antonio D’Amico ci lascia il 6 dicembre dello scorso anno a causa di un tumore alla gola. Non smetterà mai di amare Gianni.

Versace andrà in eredità alla giovane Allegra, figlia di Donatella e nipote di Gianni. La conduzione del marchio andrà alla sorella. Affrontare un lutto mentre si deve pensare al lavoro non è un compito facile, nonostante Donatella abbia sempre dato priorità al marchio.

L’imitazione del genio o il drastico cambio rotta sono strade difficili da prendere. Alla fine del 2004, con l’aiuto di Giancarlo Derisio, il marchio ha l’illuminazione vincente. Venendo a mancare Gianni, si punta su Versace e sui concetti veicolati dal brand. Nel 2022 il brand chiude l’anno con un fatturato di 308 milioni di dollari, in aumento del 9,2% rispetto all’anno precedente.

Villa Casa Casuarina è oggi un hotel di lusso. A chi passa davanti al cancello, la Medusa sembra ancora sorridere.

Scritto da Gaia Vetrano

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Estratto dell’articolo di Paolo Bricco per il “Sole 24 Ore” il 12 marzo 2023.

«I più grandi dolori? La morte di mio fratello e la mancata fusione fra Versace e Gucci.

L’uccisione di Gianni ha fatto scomparire una parte di me e ha chiuso traumaticamente un’epoca. Inoltre, ha impedito la costituzione di un polo del lusso che avrebbe cambiato la moda internazionale. Quell’operazione avrebbe mutato il destino dell’Italia. Sarebbero emersi nuovi assetti produttivi, finanziari e strategici per il nostro Paese. Ne sono sicuro.

Gianni mi diceva: “Santo, quanto ci siamo divertiti in questi primi venticinque anni? Non abbiamo fatto ancora nulla. Non sai quanto ci divertiremo nei prossimi venticinque”».

Santo parla di Gianni. […] «Il 15 luglio 1997 a Miami spararono a Gianni. Io ero a Roma a preparare la sfilata a Trinità dei Monti. A lungo ho rimosso quei minuti. Mi hanno poi raccontato che, quando mi dissero che Gianni era morto, io risposi “Non è possibile. Gianni è immortale”».

 Quel colpo di pistola in Florida ha interrotto la vita di un ragazzo nato a Reggio Calabria, ha dissolto un pezzo di anima di un fratello e ha provocato una crepa nella storia industriale e civile dell’Italia. «Poco prima della morte di Gianni, c’era stato un pranzo al Savini di Milano. Avevamo trovato un accordo. Il progetto era stato suggerito dai banchieri di Morgan Stanley, Paola Giannotti de Ponti e Galeazzo Pecori Giraldi. Gucci, che era già quotata, avrebbe fatto un aumento di capitale che noi avremmo sottoscritto conferendo la nostra società.

Tecnicamente, insieme, avremmo controllato il 60% del capitale del nuovo aggregato. La moda non sarebbe più stata la stessa. Gianni aveva 50 anni ed era all’apogeo. In Gucci Tom Ford, che in quel momento era lo stilista più brillante della nuova generazione, ne aveva 35. La loro azienda era condotta da Domenico De Sole. Dalla nostra parte, nel versante gestionale, c’ero io. Loro erano fortissimi negli accessori. Noi lo eravamo nei vestiti, sia da donna che da uomo. Una irripetibile combinazione di business e di persone».

[…] «Kering non sarebbe esistita. Perché il gruppo della famiglia Pinault, che prima si chiamava Ppr e che nel 2013 avrebbe cambiato il suo nome in Kering, ha avuto un passaggio evolutivo fondamentale quando, nel 1999, ha assorbito in maniera definitiva Gucci. Versace e Gucci sarebbero stati un campione nazionale vero. Con forza finanziaria, capacità produttiva, solidità logistica.

Saremmo arrivati ovunque», riflette Santo con dispiacere controllato, ma senza troppa nostalgia. E, così, quello sparo di 26 anni fa a Miami Beach illumina la traiettoria della successiva travagliata vicenda dell’impresa (fino all’acquisizione, nel 2018, da parte della società che possedeva già Michael Kors e Jimmy Choo, rinominata Capri Holdings) e soprattutto chiarisce una delle occasioni mancate della storia italiana. […]

Estratto dell’articolo di Giulia di GImberardino per vogue.it il 19 gennaio 2023.

Not Donatella Versace, THE Donatella Versace. “Icona, oggi, è una parola abusata”, scrive Emily Ratajkowski nel lancio dell'ultima puntata del suo podcast, High Low, “ma quando si tratta di lei, non esiste descrizione migliore”.

 «La moda era piena di regole. Dovevi indossare un elegante abito grigio o la gonna sotto al ginocchio con una borsetta, per essere accettata dalla società o per avere credibilità» ha raccontato la designer.

 «Gianni e io ci siamo resi conto che non era così, abbiamo realizzato che l'abito grigio è per gli uomini e veniva utilizzato come per dire “Guarda chi sono, sono potente e posso dirti cosa devi fare”. Ecco, noi donne non ne abbiamo bisogno. Dobbiamo far esplodere la nostra femminilità, il nostro io più profondo, la nostra personalità. Facciamo vedere chi siamo! Non si tratta di essere sexy, ma di essere donne».

[…] Dall'essere la bambina più elegante della scuola al diventare bionda dentro a 13 anni, dall'ultima telefonata con Gianni venticinque minuti prima che venisse ucciso alla responsabilità di prendere le redini di un'azienda, tutti gli strati della sua vita convergono nella consapevolezza. […]

 È cresciuta nel sud Italia, tra la boutique della mamma - una donna che si è fatta da sola - nel centro di Reggio Calabria ma è diventata grande all'interno di un'azienda. Non ha mai immaginato di fare altro ma forse avrebbe potuto essere un'insegnante, ha raccontato. Versace è nata in un periodo di fulgore della moda italiana, in un periodo in cui però l'imperativo era essere chic, «una parola che non apparteneva affatto al vocabolario di Gianni.  Ha sempre apprezzato il corpo delle donne, come la loro personalità. Voleva farle sentire sensuali, più sicure, a proprio agio. E il fenomeno delle top model è nato così.»  […]

«Cosa rende una donna Versace? La sicurezza. Non è una questione di bellezza, ma di consapevolezza della propria femminilità. È una donna che si sente a proprio agio nella sua “bitch era”, appunto.» «Ma ha anche un po' di attitudine italiana» ha aggiunto l'autrice del podcast. […]

Dagospia il 13 dicembre 2022. Da “Un Giorno da Pecora”

Santo Versace si racconta a Un Giorno da Pecora. L’imprenditore, fratello di Santo e Donatella, ora attivo nel mondo delle produzioni cinematografiche, oggi è stato ospite in studio della trasmissione di Rai Radio1, dove ha parlato della sua vita a 360°. Nella sua lunga carriera nel mondo della moda, lei ha conosciuto le donne più belle del mondo: si è mai innamorato di una di loro? “Innamorato mai, ma ho avuto tante storie con donne bellissime, anche famosissime top model. Tutto però – ha sottolineato Versace a Rai Radio1 - prima di conoscere mia moglie”. 

Lei ha avuto anche un altro ‘flirt’, seppur breve: quello con la politica. “Sono sempre stato un socialista, democratico, mai comunista. Nel 2008 però mi chiamò Berlusconi per propormi di servire il Paese, al di là della colorazione politica”. 

A sinistra nessuno le offrì di fare il parlamentare? “Si ma mi chiamavano persone inopportune, non voglio fare nomi ma se vuoi Santo Versace lo chiami direttamente…” E alle ultime politiche chi ha scelto? “Ho votato per il Terzo Polo, nel mio collegio c’era Calenda quindi ho votato per lui. Ma mi convince allo stesso modo anche Renzi”.

Da esperto di stile e appassionato di politica, ci può dire come valuta il look della premier di Giorgia Meloni? “Mi piace molto, ha uno stile adeguato, lo stile Armani, quello della donna in carriera”. 

Nel suo ultimo libro ‘Fratelli racconta di come si è arrivati al testamento di suo fratello Gianni: prima la vostra impresa era al 45% di Gianni, al 35% sua e al 20% di Donatella. Col testamento il 50% è diventato di Allegra, figlia di Donatella, il 30% suo e il restante di sua sorella. “Non è stato un problema, siamo stati fortunati da aver tanto di più di quello che serve”. Pochi giorni prima della morte, Gianni però le disse che avrebbe voluto modificare quel testamento.

Probabilmente quel testamento era frutto di qualche scambio di convenevoli tra me e lui su qualche spesa. Mi ricordo che dopo una splendida sfilata pranzammo a Firenze, a casa sua, poi dovevamo partire per Parigi e lui mi disse ‘devo cambiare il testamento, quando torno lo cambio, non ti preoccupare’”. Come se la modifica dovesse andare maggiormente a suo favore? “Per come me l’ha detto penso che quel testamento era una cosa superata”. 

Parlando di sua sorella, lei ha scritto che in pubblico Donatella sentiva il bisogno di ignorarla quando raccontava la vostra “storia comune’. “È un racconto legato al passato – ha detto a Rai Radio1 Santo Versace -, nella realtà dei fatti però io sono uscito dalla Versace e lei lavora ancora lì, questi sono i fatti”. Andate d’accordo? “Io vado d’accordo con tutti”. Allora farete il Natale insieme? “Dalla morte di Gianni non lo facciamo quasi mai le festività insieme – ha concluso l’imprenditore a Un Giorno da Pecora - io sono in Calabria e lei quasi sempre in America”.

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2022.

«I rapporti tra fratelli non seguono regole precise. Piuttosto, seguono le onde della vita.

Ci si unisce e ci si disunisce, ci si allontana e ci si riavvicina. Si naviga a vista. Calma piatta o mareggiate. Qualcuno che casca fuoribordo e qualcuno che lo riacciuffa. 

Si arriva in porto navigando en souplesse o si è costretti a scappare, inseguiti dagli squali. Se devo dire qual è stato e qual è tuttora l'aspetto più straordinario della mia vita, più ancora dei risultati ottenuti, mi ha entusiasmato la navigazione. Ho seguito il vento, ho seguito il vento della nostra famiglia. Ho imparato a vivere dai miei genitori, ho incoraggiato i progetti di Gianni e poi di Donatella, ho protetto il nostro patrimonio». 

Con queste parole Santo Versace introduce il senso del suo libro "Fratelli", Rizzoli Editore, nato venticinque anni dopo l'uccisione del fratello Gianni, stilista ed imprenditore e fondatore della casa di moda omonima, tra i più rivoluzionari di tutti i tempi, capace di stravolgere il mondo della moda.

«Quel 15 luglio del 1997 quando mi arrivò la notizia della morte di mio fratello Gianni entrai in qualcosa che mi stravolse la vita. Ero morto assieme a Gianni».

Come hai saputo di ciò che era successo?

«Stavamo preparando la sfilata a Roma in Piazza di Spagna quando all'improvviso mi dissero che mio fratello Gianni era stato ferito e poi, dopo pochi minuti, che era morto». 

Quale è stata la tua reazione Santo?

«Nella immediatezza dissi "Gianni è immortale", non so perché ma fu la prima cosa che mi venne in mente». 

Pochi giorni fa è mancato Antonio D'Amico, storico compagno di suo fratello. Aveva ancora contatti con lui?

«Antonio ha sempre avuto buoni rapporti con me, nel periodo passato con Gianni e anche dopo. Al tempo della loro unione vivevano in simbiosi, erano sempre insieme e Antonio rendeva mio fratello un uomo felice: non avrei potuto non volergli bene. Dopo la tragedia io mi sono rinchiuso in me stesso».

In che senso Santo?

«Nel mio libro "Fratelli" lo racconto bene: andavo a dormire nel letto di Gianni, è stato un vero e proprio trauma. In quel periodo ciascuno di noi era ripiegato sul suo dolore, e ci siamo allontanati anche con Antonio, però ...». 

Dimmi Santo...

«Quando sono ripartito e ho deciso di scrivere il libro per superare Miami, la prima cosa che ho fatto è stato riprendere i rapporti con Antonio, ma in realtà non li avevamo mai interrotti, solo che ognuno ha vissuto la tragedia a modo suo, siamo due persone che in questa tragedia hanno sofferto in maniera enorme, in maniera incredibile, ognuno nel suo. Ma appena c'è stata l'occasione ci siamo risentiti con affetto». 

Perché hai deciso di scrivere questo libro Santo?

«Innanzitutto è stato terapeutico per me rileggere ed affrontare una serie di traumi vissuti, tra cui la morte di Gianni. Questo è stato possibile dopo l'incontro con Francesca, oggi mia moglie, avvenuta nel 2005. 

Francesca mi ha insegnato ad amare, ho ricominciato a vivere e posso dire serenamente che mi ha salvato la vita; questo libro è un atto d'amore nei confronti di mio fratello Gianni. Una delle cose per me sconvolgenti era che Gianni aveva battuto pure la malattia. Tutto andava a gonfie vele e la "Versace" si stava quotando in borsa oltre che aver programmato la fusione con Gucci e poi, tutto d'un tratto, il buio fino all'arrivo di Francesca». 

Fu amore a prima vista?

«Sì. Amore assoluto subito: venne con sua mamma in ufficio da me ed appena la vidi scattò immediatamente un sentimento. Devi poi pensare che io ho avuto una sorella, Fortunata, mancata a soli dieci anni per una peritonite, che nacque il 10 novembre, la stessa data di nascita di mia moglie Francesca. Quando scoprii questo, mi dissi che era un altro segno del destino». 

Tu che rapporto avevi con tuo fratello?

«Eravamo la metà della stessa mela ed avevamo solo due annidi differenza di età. Abbiamo fondato assieme l'azienda, lui stilista ed io imprenditore, forse io ero un po' il saggio e lui l'eterno bambino con una capacità creativa che non aveva eguali, ancora oggi Gianni è dentro la mia vita». 

Con Donatella che rapporto avevate?

«Gianni ed io eravamo la squadra, sempre assieme, nostra sorella Donatella è molto più giovane di noi, un'altra generazione, ed è stata, la sua nascita, come un dono di Dio dopo la morte di Fortunata».

La politica è sempre stata una tua passione: hai iniziato da giovane nel partito socialista. Come mai?

«L'impegno civico mi è sempre appartenuto come desiderio ed ho sempre pensato che la politica potesse essere la più alta forma di carità esistente.

Naturalmente se per politica parliamo anche di impegno per gli ultimi. A Reggio, la mia città, è stato importante impegnarmi per gli ideali in cui credevo». 

E poi? Sei stato anche deputato nel PDL: sei rimasto deluso?

«Non posso dire di alcuna delusione ma posso certamente riscontrare che la mia personalità non si addice per l'impegno politico». 

Perché?

«Ho iniziato a lavorare con mio padre a sei anni e mi considero un uomo del "fare" ed oggi con la nascita della nostra Fondazione Santo Versace (mia e di Francesca) anche del "dare". "Fare" e "dare" sono la stella polare del mio agire e non sempre le ho trovate in politica. Anche se, in tanti anni, ho incontrato molti politici appassionati». 

Quindi mai più politica?

«La faccio da libero cittadino».

Quale è il compito della vostra "Fondazione Santo Versace"?

«Tre parole: aiutare i fragili. Il simbolo della Fondazione è quello di due mani che compongono un cuore: sono la mano mia e di Francesca che non si lasciano mai. Anche adesso, dopo diciassette anni di vita assieme, quando camminiamo per strada ci teniamo la mano. Da qui l'idea di un segno che appartenesse al nostro modo di essere». 

E questo lavoro di aiuto per i fragili come si declina?

«In due modi: uno diretto su progetti che abbiamo selezionato noi ed un altro, come accadeva per Altagamma, sostenendo le Fondazioni che stanno già prodigandosi a fare del bene». 

Mi faresti qualche esempio?

«Sosteniamo, per esempio, la comunità Nuovi Orizzonti di Padre Davide Banzato e Chiara Amirante e l'oratorio inclusivo fondato da Don Aldo Buonaiuto. Dall'altra parte sosteniamo attività che in qualche modo possano rieducare, con un progetto dal nome "Made in Carcere", chi si è macchiato di un crimine e sta scontando la propria pena». 

Una vita piena di progetti quindi Santo?

«Proiettata, con amore, verso il futuro. In tutto questo non abbiamo citato la nostra casa di produzione cinematografica Minerva fondata nel 1953 da Antonio Curti ed oggi gestita, assieme a noi, da Gianluca Curti. È diventata sempre di più una realtà internazionale sino a vincere, nell'ultimo Festival del Cinema di Venezia, due leoni d'argento nella categoria Documentari. Una grandissima soddisfazione per tutti noi».

Sai Santo, in ogni parola che tu hai pronunciato in questa intervista declamavi il tuo grande amore per Francesca. Non vi manca avere dei figli?

«Grazie al lavoro della Fondazione noi siamo pieni di figli che sosteniamo. Questo fa crescere ogni giorno il nostro amore». 

A me vengono in mente le parole di mia madre sull'amore "amare e generosamente dare", è forse proprio in questo che Francesca e Santo Versace hanno trovato la chiave della loro felicità.

Antonio D’Amico, l’uomo che amò fino all’ultimo Gianni Versace. Maria Teresa Veneziani su Il Corriere della Sera l’8 Dicembre 2022

All’età di 63 anni è scomparso nella notte del 6 dicembre. Santo Versace il fratello dello stilista ucciso: «Nel segno dell’amore voglio ricordare Antonio, perché quello tra lui e mio fratello è stato grande»

Fu il grande amore di Gianni Versace e il suo compagno dal 1982 fino alla tragica scomparsa nel 1997. Antonio D’Amico è morto nella notte del 6 dicembre all’età di 63 anni. A dare la notizia è stato il suo amico e manager Rody Mirri. Proprio Antonio fu il primo a soccorrere lo stilista assassinato davanti alla sua villa, Casa Casuarina, con vista sul mare di Miami Beach, in Florida. Da mesi combatteva contro una malattia che si è rivelata fatale e che ha affrontato con grande forza e coraggio, racconta chi gli era vicino. Originario di Mesagne, nel Brindisino, dal 2002 viveva a Manerba del Garda, Brescia, dove aveva fondato una casa di moda che portava il suo nome, chiusa dopo tre anni. Dal 2002, insieme con alcuni soci avviò la gestione del ristorante «La Carera», cessando però l’attività dopo qualche tempo per tornare a occuparsi di moda nel ruolo di designer. Un anno fa aveva inaugurato la nuova linea di abiti sartoriali, Principe di Ragada.

La sua vita è stata segnata dal legame con il grande stilista: si erano incontrati nel 1982 quando Antonio aveva appena 22 anni e non si erano più lasciati, fino alla morte di Gianni quella tragica mattina del 15 luglio. Si erano conosciuti al ristorante dopo la prima di un balletto alla Scala, di cui Versace aveva disegnato i costumi. L’ultimo pensiero era il più bello e anche il più doloroso: «La sera prima di morire eravamo in piscina quando Gianni mi abbracciò e mi disse: qualunque cosa succeda, ricordati che ti vorrò sempre bene».

«Non mi toglierò mai l’angoscia per ciò che è successo — si era sfogato —. Con me è stato buono, generosissimo. Vivrò bene grazie a lui, potrei stare nelle sue case ma non ci metterò più piede, sarebbe una sofferenza». Dopo la scomparsa, D’Amico ebbe dei contrasti con la famiglia dello stilista che a suo beneficio aveva lasciato un vitalizio e l’uso delle sue dimore. Lui però preferì ricevere la liquidazione in un’unica soluzione per iniziare la sua nuova vita e avviare la carriera di stilista di moda «senza copiare Gianni. Lui era unico». Ora però è proprio Santo Versace — appena uscito in libreria con l’autobiografia «Fratelli - il mio atto di amore per Gianni» (Feltrinelli) — a rendere omaggio al compagno del fratello stilista con un sentito ricordo. «Negli ultimi tempi ci eravamo parlati parecchio — ha dichiarato —, tanto che ero al corrente della sua malattia. Scrivere il libro è stato per me terapeutico, ma più di tutto è l’amore a guarire: se non avessi avuto mia moglie Francesca non so se sarei mai uscito dal trauma. L’amore è in grado di guarire ogni ferita. Ed è nel segno dell’amore che voglio ricordare Antonio, perché il suo e di Gianni è stato grande». Antonio e Gianni furono una delle prime coppie omosessuali a fare coming out ufficialmente e a vivere il loro amore pubblicamente. Nella serie dedicata all’assassinio dello stilista andata in onda su Fox, Antonio D’Amico è stato interpretato da Ricky Martin.

Da lastampa.it il 6 dicembre 2022.

È morto nella notte Antonio D'Amico, designer, ex modello e compagno di Gianni Versace fino alla sua scomparsa. Aveva 63 anni e da mesi combatteva contro una malattia che si è rivelata fatale. 

In questo periodo - dice chi gli era vicino - ha sempre dato a tutti un esempio di forza e coraggio. Antonio D'Amico un anno fa aveva inaugurato la sua nuova linea di abiti sartoriali, Principe di Ragada. A dare la notizia stamani il suo manager e amico Rody Mirri.

D'Amico fu il compagno di Gianni Versace dal 1982 fino alla sua tragica scomparsa nel 1997, e suo collaboratore alla linea sportiva della maison. Lo stilista aveva lasciato a suo beneficio un vitalizio e l'uso delle sue dimore. Tuttavia D'Amico preferì ricevere la sua liquidazione in un'unica soluzione e l'adoperò per lanciare la propria carriera di stilista. La casa di abbigliamento Antonio D'Amico, con sede e showroom a Milano, nonostante l'ottimo avvio, cessò l'attività dopo tre anni a causa di difficoltà gestionali-manageriali, ma D'Amico proseguì nella sua attività sotto altre forme fino alla fine.

Di carattere riservato, e in pessimi rapporti con i fratelli Versace, D'Amico negli anni successivi alla tragica morte di Versace ha rilasciato pochissime dichiarazioni e solo due interviste, di cui l'ultima a dicembre dell'anno scorso, ospite in tv di Serena Bortone, quando si è concesso alle telecamere, raccontando la sua storia. Su un punto, nonostante i cattivi rapporti, era in completo accordo con la famiglia Versace: il rifiuto totale della serie tv che raccontò la morte di Gianni.

L’incontro con Gianni Versace avvenne nel 1982 durante un balletto e fu un colpo di fulmine.  "Quando siamo stati presentati a cena ci siamo lasciati così - ricordò Antonio con gli occhi lucidi nel corso della trasmissione televisiva - poi dopo qualche mese (perchè io ero fuori per lavoro) in cui lui mi scriveva sempre, io mi sono fatto sentire e lui mi ha chiesto il perchè non gli avevo mai risposto. Ma io neanche avevo avuto modo di leggere i messaggi». I due furono una delle prime coppie omosessuali a fare coming out e a vivere il loro amore pubblicamente per ben 15 anni.

Fu Antonio, quel tragico 15 luglio del 1997, a ritrovare Gianni Versace: "Fu il giorno che ha tagliato in due la mia vita e la parte che è rimasta si è sotterrata. Quella parte ci ha messo molto a riprendersi, sono ferite che non si rimarginano completamente. Quella scena in cui io l'ho ritrovato nella mia testa non si è mai cancellata. La rivedo ancora oggi, Quella mattina voleva per forza andarsi a comprare i giornali, io mi sono alzato sono andato a giocare a tennis e l'ho saputo dopo che era uscito. Nessuno poteva immaginare questo. 

Un'esperienza tragica, che segnò ulteriormente la sua esistenza, già segnata drasticamente dalla morte della sorella Maria, deceduta davanti ai suoi occhi, quando Antonio aveva appena 16 anni, a causa di una malattia cardiaca congenita. 

Si aprì per Antonio in quel momento il baratro della depressione: «Non avevo più ragioni d'esistere. Non aveva senso nulla. Ho ingoiato medicine per morire. Avevo scritto anche una lettera di addio».

Solo alcuni anni dopo Antonio ritrovò l'amore, come lui stesso raccontò in quell'occasione: «Ho un compagno da 16 anni. Sono per le storie lunghe. Una volta che scegli di stare con una persona per me è per sempre. Lui sarebbe contento di vedermi così sereno».

Addio a D'Amico, l'ex compagno di Versace. "La mia vita si fermò quando sentii quei colpi". Si erano conosciuti alla Scala nell'82. Era in casa la mattina dell'omicidio. Daniela Fedi il 6 Dicembre 2022 su Il Giornale.

È morto nella notte tra ieri e lunedì Antonio D'Amico, 63 anni, compagno di Gianni Versace dal 1982 fino al delitto di Miami.

Nato a Mesagne, in Puglia, aveva scoperto alcuni mesi fa di avere una malattia che gli è stata fatale. Viveva ormai da tempo a Manerba sul Garda dove aveva avviato insieme con alcuni soci il ristorante «La Carrera». Dopo la chiusura del locale era tornato a occuparsi di moda lanciando una linea di abiti sartoriali da uomo chiamata «Principe di Ragada» per cui aveva aperto un piccolo atelier a Lonate del Garda. Fisico da modello e profilo da medaglia, Antonio aveva incontrato Gianni alla Scala dove uno era di casa in quanto melomane e autore di meravigliosi costumi per i balletti di Bejart, mentre l'altro coltivava appena possibile la sua passione per la danza classica. La scintilla scoccò di li a poco e i due non si sono mai più lasciati fino alla maledetta mattina del 15 luglio 1997 quando il serial killer Andrew Cunanan freddò Versace con due colpi di pistola sulle scale di Casa Casuarina, la sontuosa villa acquistata dal designer nell'Art Deco District di Miami.

I primi ad accorrere sul luogo del delitto furono proprio Antonio che stava per fare la doccia dopo aver giocato a tennis di prima mattina e il cuoco. «La mia vita si è come fermata nel preciso istante in cui ho sentito i due colpi di pistola» ci raccontò un paio d'anni dopo quando si presentò come stilista di una linea di abbigliamento per uomo e donna.

Purtroppo l'esperienza maturata nell'ufficio stile della linea istante by Versace cui Antonio dava un contributo creativo, non era sufficiente nemmeno per cominciare. Nel mondo della moda circolò subito una feroce battuta della serie «non basta andare a letto con il vocabolario per imparare una lingua». Dopo un paio di stagioni Antonio ebbe il buon senso di chiudere lo show room in piazza Baiamonti a Milano e di fermare le spese pazze per fare per sfilate piene di top e con musica eseguita dal vivo da Elton John. Evitò così di dissipare a tempo record la cospicua eredità che gli aveva lasciato Gianni: un vitalizio di 50 milioni di vecchie lire al mese e l'usufrutto, sempre a vita, di tutte le case dello stilista. D'Amico chiese agli esecutori testamentari di versargli l'intera somma in un'unica soluzione. Santo e Donatella fecero fare i calcoli nel modo più preciso ed equo possibile. I fratelli Versace furono talmente inclusivi da concedergli il posto d'onore al funerale di Gianni: accanto alla principessa Diana nel Duomo di Milano. Entrambi hanno sempre riconosciuto che lui era stato il grande amore del fratello, la stampella cui si era appoggiato nei duri mesi di lotta contro una rara forma di tumore all'orecchio che hanno preceduto quella tragica morte. Ci piace pensare che adesso si possano ritrovare nelle regioni spirituali della pace.

Da "Il Foglio" il 3 dicembre 2022.

Dopo la cessione della Versace a Cammi Holdinas. nel settembre del 2018, e il progressivo abbandono delle deleghe e della presidenza dell'azienda fondata col fratello Gianni nel 1978, Santo Versace si è ritrovato imprenditore, ha differenziato gli investimenti, messo a segno da distributore il colpaccio di "Saint Omer' di Alice Diop all'ultima Biennale Cinema (Leone d'argento, Leone miglior opera prima). 

Una settimana fa ha presentato la fondazione che porta il suo nome e che ha sviluppato con la moglie, l'avvocata Francesca De Stefano, destinata a chi "vive in condizioni di fragilità e disuguaglianza sociale" (primi due finanziamenti per la Cittadella Cielo di Frosinone, della Comunità Nuovi Orizzonti e la parrocchia San Nicolò di Fabriano di Ancona. E poi c'è la sua versione dell'assassino del fratello Gianni, degli anni difficili che ne seguirono, delle cause per diffamazione intentate in tutto il mondo contro presunti e strampalati scoop sulle motivazioni dell'omicidio di Miami e tutte vinte.

C'è la storia della famiglia e quella di Donatella, la piccola di casa, e di sua figlia Allegra, la "principessa" dello zio Gianni, che ereditò la metà delle azioni, e c'è la storia di un'azienda che forse, non fosse stato per una certa epica discussione fra i due fratelli maggiori a pochi giorni da quei colpi di rivoltella, avrebbe avuto un destino diverso, quello che era peraltro già stato scritto: la fusione con Gucci, la quotazione in Borsa, il decollo del primo polo del lusso italiano. Il libro si intitola "Fratelli. 

Una famiglia italiana", lo pubblica Rizzoli e lo sta presentando per l'Italia Paola Jacobbi. In copertina ci sono Gianni e Santo Versace in barca. All'interno. il racconto della moda a Milano negli Anni Settanta e il ruolo di Walter Albini nella definizione della figura del designer come lo conosciamo oggi, oltre a molti retroscena fra cui uno, piuttosto intrigante, degli anni in cui Santo Versace fu parlamentare del Popolo delle Libertà e anche dei più fumantini e meno irreggimentabili (l'8 novembre del 2011 si rifiutò di votare il Rendiconto Generale dello Stato, innescando la crisi che portò alla caduta del governo Berlusconi IV). "Ho scritto questo libro per chiudere un'epoca, soprattutto la tragedia di Miami", dice. Ma in realtà dice molte altre cose. Come si può evincere da questo  abstract.

Ero appena stato eletto, chiesi a Berlusconi di poter organizzare una cena per promuovere Altagamma. La serata si svolse a Villa Madama. Ai tavoli il gotha degli industriali italiani, settore moda al gran completo, da Leonardo Ferragamo a Laudomia Pucci, da Carla Fendi a Claudio Luti, a Paolo Zegna. Sono seduto al tavolo principale, quello di Berlusconi. Al mio fianco c'è Paolo Bonaiuti. Vedo il suo nome sul cartellino del placement.

Poi vedo lui. Che era un uomo altissimo, tra l'altro. Impossibile non accorgersi della sua presenza. Nel giro di pochi minuti, prima dell'arrivo degli antipasti, Bonaiuti scompare come polverizzato dalla bacchetta magica di Harry Potter. Al suo posto c'è una ragazzina. 

Ci viene detto che è una cara amica delle figlie di Berlusconi, che è una grande appassionata di moda e che ha chiesto la cortesia di partecipare alla cena. Il nome?

Noemi Letizia. La rividi un anno dopo, su tutti i giornali, nella famosa fotografia che la ritraeva al suo diciottesimo compleanno. Santo Versace

Io, Gianni e l’Italia che ce la farà. Rita Cavallaro su L’Identità il 10 Dicembre 2022.

L’Italia è un paese straordinario e riuscirà a superare tutti i suoi problemi”. Se ci crede l’uomo che ha creato l’impero della Medusa, diventato l’icona italiana per eccellenza nel mondo, non può che essere così. Santo Versace, d’altronde, è stato fin dall’infanzia un visionario, capace di realizzare tutti i sogni di suo fratello Gianni. E Gianni Versace era il genio creativo, l’artista che ha cambiato il mondo, usando i “costumi” per affermare gli usi. Lo stilista che ha rivoluzionato la donna, che reso le super modelle simulacro in grado di incarnare la nuova libertà, scevra dalla connotazione sessuale. Gianni Versace è la divinità scesa in Terra per portare il bello. Ma uno spietato assassino l’ha strappato troppo presto al mondo, in quel terribile 15 luglio 1997, quando le immagini del corpo dello stilista riverso nel sangue davanti al cancello della sua villa Casa Casuarina, al civico 1116 di Ocean Drive a Miami Beach, furono mandate in diretta da tutti i notiziari internazionali, mentre migliaia di persone in lacrime si accalcavano sulla scena del crimine per portare fiori e biglietti. Il killer, che sparò due proiettili in testa all’icona della maison di moda italiana, in quel momento era un gigolò gay di 28 anni senza arte né parte, che voleva diventare grande. Negli ultimi mesi aveva ucciso quattro persone nella sua folle fuga disseminata da una scia di sangue attraverso gli Stati Uniti, tanto che il suo nome era finito nella lista dell’Fbi dei dieci ricercati americani più pericolosi. Il 27 aprile, a Minneapolis, Cunanan aveva massacrato a colpi di martello sul cranio il vecchio amico Jeffrey Trail, al quale aveva rubato la pistola, una Taurus 40. Con la stessa arma, il 3 maggio, sparò alla testa a David Madson, la sua seconda vittima. E partì per Chicago, dove il giorno dopo torturò a morte Lee Miglin. Il 9 maggio fu la volta di William Reese, un guardiano del New Jersey che il gigolò uccise soltanto per rubargli il pick-up, con il quale arrivò poi a Miami. Ma non era ancora abbastanza per Cunanan. Al serial killer serviva una vittima illustre, un nome simbolo che avrebbe potuto per sempre suggellare la sua fama e renderlo indimenticabile. Quest’uomo era Gianni Versace. Cunanan a Miami si mosse indisturbato per due mesi, durante i quali architettò l’omicidio. Probabilmente studiando le abitudini dello stilista. La polizia non lo individuò neppure quando il 7 luglio il killer andò in un banco dei pegni per impegnare una moneta d’oro da collezione rubata al ricco Miglin, la sua terza vittima. Nonostante Cunanan avesse compilando il modulo con i suoi dati personali reali e avesse indicato come domicilio l’hotel degradato in cui alloggiava, il commesso andò in ferie e non inoltrò subito il documento alla polizia. Così quel 15 luglio, il gigolò poté agire indisturbato: sorprese Versace mentre stava per entrare a casa e lo freddò con la Taurus 40. Dopo il delitto, il 23 luglio, una telefonata che segnalava un’effrazione in una casa galleggiante di Miami Beach portò all’operazione che si concluse con l’irruzione nella house boat, dove i detective trovarono Cunanan morto, riverso sul letto: si era sparato alla testa. Per venticinque anni suo fratello Santo, che con Gianni ha creato e reso grande la maison della Medusa, ha cercato il silenzio, ha esitato a parlare dell’omicidio, dei suoi sentimenti, quasi per mettere un muro che lo proteggesse, chiuso com’era in una realtà parallela dove Gianni non era morto. Ma oggi il fondatore della maison Versace rompe ogni indugio, nel libro Fratelli. Una famiglia italiana, edito da Rizzoli, in cui ripercorre la sua vita con Gianni e racconta particolari inediti nell’incredibile viaggio che li ha consacrati nella storia.

Santo Versace, perché ha scritto Fratelli?

Fratelli è un atto d’amore nei confronti di Gianni. È la storia della mia vita insieme a mio fratello.

Eravate molto legati, vero?

Io e lui siamo le due parti della stessa mela, le due facce della stessa medaglia. Ci completavamo, perché lui era il creativo eterno bambino e io il pragmatico vecchio saggio.

Quindi lei lo mitigava?

Non direi. La follia era reciproca, perché lui era il grande creativo, ma io su come fare l’azienda, sugli spazi da prendere, sugli investimenti da fare ero più pazzo di lui.

E siete partiti insieme. Non solo due fratelli ma anche capi di un impero che è diventato un’icona mondiale?

Noi siamo partiti per realizzare dei sogni. Gianni sognava e io andavo dietro ai suoi sogni. Lui voleva volare, ma io stavo attento che le sue ali fossero solide, che non fossero quelle di Icaro.

È bellissima questa immagine. E la sua voce traspare emozioni dopo tutti questi anni. Mi parli dei sogni di Gianni.

Il suo sogno era creare. Lui voleva fare le collezioni, sognava di fare belli l’uomo e la donna.

Si spieghi meglio.

Dice bene nella sua recensione Natalia Aspesi: Gianni va visto come un creatore di bellezza. Il suo sogno era rendere belle sia le donne che gli uomini. E addirittura è andato oltre ogni sogno, perché quello che ha fatto lui è straordinario. Ha tolto agli uomini tutti i problemi sui blocchi mentali, come l’introduzione dell’uomo senza cravatta. Lo ha liberato da qualunque legame, da qualsiasi lacciolo. E dato alle donne una libertà che non avevano prima, le ha rese libere di vestirsi e di essere se stesse fino in fondo. Ha dato loro libertà, bellezza, la vena erotica ma senza mai trascendere. È straordinario.

Gianni ha stravolto il concetto dell’angelo del focolare?

Lui quel concetto non lo intendeva neanche, perché ha avuto l’esempio di nostra madre Francesca, una donna che ha sempre lavorato, ha creato l’atelier, è stata sempre autonoma. Ha avuto un esempio di una donna libera e attiva.

Che per quei tempi in Calabria era un unicum, vero?

Infatti. Per questo Gianni ha sempre visto le donne come protagoniste. Come le ho viste pure io. Noi, grazie all’esempio di mia madre, abbiamo capito che le donne sono straordinarie e che sono meglio degli uomini. Con tutto il rispetto di mio padre Antonio, che era eccezionale, era un’altra persona che io ho amato e con il quale mi sono formato. Gianni invece ha imparato da nostra madre. E da questi due genitori straordinari sono nati due eccellenze straordinarie.

Mentre suo fratello creava le collezioni lei cosa faceva per lui?

Tutto il resto. Vede, la creatività non porta da nessuna parte se è da sola. Io ho creato le aziende, il commerciale, ho scelto tutti i negozi nel mondo, i più belli, mi occupavo della comunicazione, delle campagne fotografiche. Ho fatto tutto quello che serviva per far sì che la sua creatività si trasformasse in una realtà di successo.

E si occupava pure dei fidanzati di Gianni. Lei nel libro scrive che suo fratello si fidava così tanto di lei da chiederle anche di risolvere alcuni problemi privati. Scrive testualmente: “Mi chiese di liquidare fidanzati che stavano diventando molesti o che lui non sopportava più”.

È la dimostrazione che io gli risolvevo tutti i problemi. Ero suo fratello maggiore.

Vi siete mai scontrati su punti di vista differenti, perché magari lui voleva andare troppo oltre?

Tra i due quello che andava oltre ero proprio io. Lui sul piano della genialità e della creatività andava oltre il muro, oltre tutto, perché la genialità dalla fine del secolo scorso è stata solo Gianni. Non esiste nessuno come Gianni. Però io non mi fermavo di fronte a nulla. Ero un intenditore, colui che trasformava i sogni in realtà. Lui sognava, io realizzavo i sogni. E andavo oltre i sogni.

Ma il 15 luglio 1997 quei sogni si sono infranti per sempre. Cosa ha provato?

Con Gianni è morta anche una parte di me. Se riavvolgo il nastro nella mia mente, rivivo tutto. Lo struggente dolore della perdita di mio fratello. La violenza con cui la nostra famiglia, da sempre unita negli affetti e nel lavoro, è stata scaraventata nel lutto. Il vuoto, incolmabile, che Gianni ha lasciato nella storia della moda.

Cosa ricorda del momento in cui le comunicarono che suo fratello era morto?

Rimasi scioccato. L’unica cosa che riuscì a dire fu: “Gianni non è morto, Gianni è immortale”. Mi sono spezzato dentro, per mesi e anni, a cercare di capire l’incomprensibile. Nei primi quattro anni dopo la sua morte, quando potevo, nel fine settimana, andavo a dormire nella casa sul lago di Como, proprio nel suo letto. Lo cercavo, inconsciamente volevo riportarlo in vita. Il mio equilibrio era relativo, però ho sempre lavorato e cercato di andare avanti. Sono passati venticinque anni e ho capito che ricordare purtroppo non serve né mai servirà a comprendere né ad accettare, però ho anche capito che ripercorrere quei momenti è terapeutico e, in qualche modo, mi riavvicina al pensiero di Gianni e ne tiene viva la memoria fuori, nel mondo.

E come è riuscito a superare quella che è stata la tragedia più grande della sua vita?

Nella mia vita, in realtà, ho avuto due eventi tragici. La morte della mia sorellina Tinuccia, che aveva tredici mesi più di me, e la morte di un fratello, che aveva due anni meno di me. La sorellina l’ho persa quando aveva dieci anni per una peritonite. Lui me l’hanno portato via, ucciso a cinquant’anni. Quindi il primo trauma me lo sono trascinato, probabilmente senza capirlo, per tutta la vita. Dal secondo, se non fosse arrivata mia moglie Francesca, forse non ne sarei mai uscito.

Allora è stato l’amore a salvarla?

L’amore è l’unica cosa che ti libera dalle cicatrici, è l’unica cosa che ti può far guarire. Ed è stato l’amore che mi ha fatto rinascere.

Ci parli di Francesca De Stefano in Versace.

Io ho avuto la fortuna, diciotto anni fa, di incontrare una ragazza bellissima. Una brunetta calabrese, un peperino di Reggio Calabria, mia conterranea. Pensi che la nonna di mia moglie era cliente di mia madre. E la madre di Francesca era cliente di Gianni. Cioè ci conosciamo da sempre. Solo che lei è molto più piccola di me, abbiamo venticinque anni di differenza, e io non l’avevo vista prima, perché ero già partito dalla mia terra quando lei era bambina. Me la ricordo sul passeggino, si figuri.

Com’è scoppiato l’amore tra voi due?

Lei venne con sua madre a Milano, che aveva un appuntamento con me, perché voleva dei consigli. E si portò Francesca. Io vidi questa stupenda ragazza e poi da cosa nasce cosa. D’altronde, se guardi Michelangelo, Raffaello o Leonardo Da Vinci ti innamori dei suoi quadri. Ecco, Francesca è il mio quadro e io mi sono innamorato di lei. Quando è arrivata, Francesca ha agito con il suo amore, facendomi superare gli anni in cui sono sopravvissuto, ma non ho vissuto. Ora ho voglia di recuperare il tempo che ho perso.

E lo sta facendo felicemente con Francesca.

Sì, senza di lei non ci sarebbe stata la guarigione, non mi sarei mai ripreso da Miami, ne sono sicuro. E non ci sarebbe stato neanche il libro. Perché nel corso di questi anni, man mano che insieme ci liberavamo dal dolore, ho pensato che era arrivato il momento giusto di fare anche un atto d’amore verso Gianni e di raccontare quella che è stata la nostra galoppata insieme, il nostro percorso, la nostra straordinaria vita. La sua che si è fermata a 50 anni, la mia che durerà ancora per tantissimo tempo, perché io ora voglio vivere. Infatti nel libro, oltre a ripercorrere tutta l’infanzia e la camminata fianco a fianco con Gianni, vado anche oltre. Perché nell’ultima parte parlo del futuro.

Cosa c’è nel suo futuro?

Il cinema e l’amore per gli altri.

Lei infatti è presidente di Minerva Picture e con sua moglie avete istituito, l’anno scorso, la Fondazione Santo Versace. Ci racconti.

Sì con Minerva abbiamo vinto alla 79esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia il Leone d’Argento e il Leone della critica con il film Saint Omer, che in questi giorni è nelle sale. E nel segno del cinema, della cultura e dell’amore per il prossimo io e Francesca, che non abbiamo figli, abbiamo dato vita al nostro figlio più grande, quello che ci permetterà di aiutare tutti i fragili, sia i bambini che gli adulti, a prescindere dall’età. Vogliamo stare accanto a chi ha bisogno.

È questo l’obiettivo della Fondazione?

Con la Fondazione Santo Versace vogliamo lasciare una cosa nostra, che andrà oltre noi e ci rappresenti nei secoli a venire. È la continuazione di quello che ho fatto con Gianni, perché nel cinema c’è creatività, e puntiamo agli Oscar. Ci siamo messi nell’industria cinematografica perché vogliamo fare il grande cinema italiano, quello che è stato di Federico Fellini, di Vittorio De Sica, di tutti quelli che ci hanno preceduto vincendo l’Oscar. Dall’altra parte c’è la voglia di stare accanto ai fragili e aiutare chi ne ha bisogno, perché è una cosa che ci hanno insegnato i nostri genitori. Sia i miei che quelli di Francesca erano persone che hanno sempre dato. Abbiamo dei progetti in cui crediamo molto, sulla base del concetto che ho applicato nella mia vita, ovvero quello di fare sistema, collegare tutte le fondazioni virtuose, in maniera che lavorando insieme si possa fare con gli stessi mezzi molto di più.

Santo, se le chiedessi due parole che pensa siano in grado di riassumere tutto se stesso?

Sono due verbi: fare e dare. Fare significa costruire. La maison Versace, il cinema, la Fondazione. E la Fondazione è il dare. Noi siamo stati fortunati e ora desideriamo che la nostra fortuna torni a chi ha bisogno. Io ho attraversato tante vite, ma la vita che sto trascorrendo adesso e quella degli anni a venire sarà la più bella. Fare il cinema e avere una fondazione che porta il mio nome. Più di così, cosa si può volere dalla vita?

C’è una domanda su tutte che si è posto con insistenza in questi anni e alla quale non ha saputo rispondere?

Sull’assassino di Gianni. Nonostante Cunanan fosse entrato da mesi nel mirino dell’Fbi, fosse stato inserito nella lista dei fuggitivi più ricercati d’America, nonostante l’Fbi fosse a conoscenza del fatto che si trovava a Miami a partire dal 12 maggio di quell’anno, non venne fermato. E poi non saprò mai perché Cunanan scelse di uccidere Gianni Versace. Infine ci sono le domande sul destino.

Quali?

E se Gianni quella mattina non fosse uscito? E se una telefonata l’avesse trattenuto? E se non fosse stato da solo, ma con il compagno Antonio D’Amico? Sono tutti se, se, se.

A proposito di Antonio D’Amico. Il compagno storico di suo fratello è morto pochi giorni fa, dopo una lunga malattia. Non vi frequentavate più dopo l’omicidio di Gianni?

Alla morte di Gianni io e Antonio ci siamo allontanati. Lui e mio fratello erano inseparabili e, quella tragedia immane, che mi ha portato a chiudermi in me stesso, allo stesso modo mi ha spinto ad alzare un muro anche con lui. Poi ho cominciato a scrivere il mio libro e questo è stato il passo per riallacciare i rapporti con Antonio.

Eravate in contatto negli ultimi momenti?

Ci sentivamo spesso, sapevo che era malato. E la sua scomparsa oggi mi colpisce molto, perché lui rendeva felice Gianni e io non avrei potuto non volergli bene, visto che volevo davvero molto bene a Gianni. Sa, non esiste né in italiano né in altre lingue, un termine per definire chi perde un fratello o una sorella. Non esiste l’equivalente di “vedovo” o “orfano”. Eppure è un dolore immenso, che poco si conosce. Io lo conosco fin troppo bene.

Natalia Aspesi per “il Venerdì di Repubblica” il 28 novembre 2022.

Questa autobiografia non sarebbe forse stata scritta se l'autore non avesse quel cognome, o per lo meno non l'avrebbe intitolata Fratelli. Ed è infatti soprattutto il rimpianto di anni in cui lui, Santo, e Gianni e Donatella erano una cosa sola di affetto, complicità, business, successo, denaro: erano i Versace, protagonisti dei grandi momenti di splendore, tra la metà dei 70 e la fine dei 90, nel tempo cupo di stragi fasciste, rivolte studentesche, Brigate Rosse, eroina e poi quel flagello dell'Aids che molto colpì proprio il regno felice della bella moda. 

I Versace hanno perduto Gianni 25 anni fa, assassinato misteriosamente a Miami davanti alla sua villa; Donatella forse da tempo si è allontanata da Gianni, non ha voluto collaborare al libro e neppure leggerlo, e lui, tra le tante fotografie che accompagnano il testo, ne ha scelta una sola in cui c'è anche lei, i tre fratelli insieme, reperto dell'incancellabile antica fratellanza. Forse rimossa, certo molto rimpianta.

La ferita tra fratello e sorella si è aperta nell'orrore della tragedia di Miami con quel testamento forse azzardato (secondo Santo redatto dopo uno dei loro tanti litigi ma che col tempo sarebbe stato corretto) che lasciava il 30 per cento di tutta quella ricchezza a Santo, il 20 a Donatella e il 50 alla di lei figlia Allegra, adorata dallo zio Gianni, una bambina allora di 11 anni, troppo fragile per sopportare quella morte e quel peso assurdo di responsabilità e denaro. «Questo significava che fino al 2004, quando Allegra avrebbe compiuto 18 anni, Donatella avrebbe avuto virtualmente in mano il 70 per cento della società... Era troppa pressione per tutti». 

Chi c'era ricorda a Milano il funerale in Duomo di un uomo, Gianni Versace, 50 anni, non solo celebre per il suo genio, ma anche molto amato per la sua gentilezza e generosità. Dietro le transenne la folla dei grandi eventi, davvero commossa, assisteva alla sfilata della celebrità il lutto, la principessa Diana, che poco più di un mese dopo sarebbe morta tra i rottami della macchina distrutta a Parigi, al braccio di Elton John in lacrime, e Carolyn Bessette, moglie di John Fitzgerald Kennedy Jr. che con lui sarebbe scomparsa in mare due anni dopo, e Sting con la moglie e i tanti colleghi compreso il grande rivale, Giorgio Armani, e quelle top model da lui inventate, donne grandi di vistosa bellezza, le donne degli uomini ricchi, che decoravano la Milano da bere, la bella vita craxiana.

Naturalmente si brontolò e Don Antonio Mazzi "scatenò" una polemica sul fatto che non si sarebbe dovuto concedere il Duomo per le esequie di un omosessuale...

Gianni era stato molto coraggioso a dichiarare pubblicamente di essere gay. Oggi si direbbe fare coming out. Lui lo fece senza giri di parole nel 1995, in un'intervista con il mensile della comunità gay americana The Advocate. Santo cita Richard Martin, curatore del Costume Institute del Metropolitan Museum di New York: «Non c'è dubbio che l'identità gay di Gianni Versace sia parte integrante del suo lavoro come stilista».

Mentre lo stesso Gianni in un'intervista aveva detto: «Se un uomo commenta la bellezza maschile, per esempio di un divo del cinema, la gente penserà che è gay... ma per le nuove generazioni le cose sono già molto diverse, credo che tra qualche anno ci sentiremo tutti di commentare qualunque tipo di bellezza senza temere di essere etichettati in un modo o in un altro». Nel luglio 2011, Santo era ancora deputato del Popolo della Libertà, cooptato da Berlusconi nel 2008, «ci fu la discussione sul disegno di legge che avrebbe dovuto introdurre l'aggravante di omofobia nel codice penale. 

Venne affossato. Io mi ribellai. In aula fui l'unico deputato della maggioranza a farlo». Finì la legislatura nel gruppo misto. «Non mi sono più candidato. In conclusione è stata un'esperienza deludente». Ricorda un aneddoto a una cena da lui organizzata per gli industriali del settore moda, presente Berlusconi. Un invitato se ne va e al suo posto arriva una ragazzina, «ci viene detto che è un'amica delle figlie di Berlusconi che è una grande appassionata di moda. Il nome? Noemi Letizia. La rividi un anno dopo su tutti i giornali».

Ancora prima dell'assassinio di Gianni, si era cominciato a ipotizzare legami illegali dell'azienda. «Noi non avevamo nulla da nascondere. Siamo calabresi, non mafiosi. Nel 2010 in una trasmissione televisiva si parlava di un libro sulle infiltrazioni mafiose al Nord. Nel libro c'erano palate di fango contro di noi... Gianni sarebbe stato ucciso all'interno di un ipotetico fantasmagorico scontro con gente che nessuno di noi ha ma incontrato né conosciuto. L'anno della morte di Gianni avevamo pagato centoquattro miliardi di lire di tasse. Non proprio un comportamento da azienda alla canna del gas che si rivolge alla 'ndrangheta».

Reggio Calabria, una famiglia per bene. Nonno materno Giovanni, calzolaio, anarchico mandato al confino dopo i moti dei Fasci Siciliani, papà Nino commerciante di carbone e poi di elettrodomestici, mamma Franca, tipica donna italiana d'epoca, sottomessa al patriarcato per poter comandare con pugno di ferro la famiglia, la sua gestione e il suo denaro. Tutti ubbidienti, in più lei sarta di lusso e di successo, 15 dipendenti, le signore di Reggio in fila per le sue toilette. Nascono Tinuccia, che morirà bambina, e poi Santo, e poi Gianni, e anni dopo Donatella. «Se qualcuno si aspetta che io in qualche modo attacchi mio fratello, o mia sorella, resterà deluso. Pur nelle incomprensioni e nelle difficoltà di alcuni momenti, il legame resta profondo e sincero». 

Santo si laurea in Economia e commercio a Messina, Donatella, molto studiosa, in Lingue a Firenze. Gianni ha già scelto altro; adolescente va a Parigi con la mamma «a comprare i cartoni di Dior, Chanel, Chloé» (così usava allora, le sarte italiane rifacevano il lusso parigino) e poi la convince ad aprire accanto alla sartoria una massima novità, la boutique di prêt-à-porter, chiamata Elle, diventandone il buyer, con immediato successo. 

Sono i primi anni 70, il made in Italy ancora non esiste, lo stilista è solo il collaboratore di produttori di abiti, il più noto è il meraviglioso Walter Albini che per primo oserà mettersi in proprio. Ma a Reggio Calabria c'è questo giovane compratore di gran gusto, perché non farlo salire al Nord? Ricorda Santo: «Per aiutare Gianni a realizzare il suo sogno prendo in mano la situazione...». Solo un paio d'anni dopo «cominciai a impostare la Gianni Versace a tavolino, a modo mio... investimmo una cifra che oggi fa ridere, venti milioni di lire, diecimila euro attuali...».

A Milano li raggiunse anche Donatella e iniziò per loro, ma anche per le tante celebrità del lusso italiano, un'epoca di meraviglie: persino per noi giornaliste che, dedicandoci alla moda, venivamo allora mal giudicate dai colleghi, ma in compenso avevamo accesso a ricevimenti stupendissimi, a cene fantasmagoriche, a sfilate sempre più pazze, a sederci accanto alle celebrità, e alle famose cose firmate, le borse e i cappottini che tutte le ragazze sognavano e che a noi venivano regalate.

Tra il 1981 e il 1986, i Versace comprarono l'antico palazzo Rizzoli di via Gesù, 4.281 metri coperti, un cortile di 600, un giardino di 900. I grandi saloni immediatamente adornati da arte neo-classica e reperti archeologici e opere della transavanguardia, mentre nella palazzina di New York si moltiplicavano i Picasso, seppur i meno epocali, e nella antica villa di Moltrasio brillavano barocchismi di ogni tipo. Ospiti i divi americani, le celebrità del rock, chiunque fosse giovane e gay: e in mezzo noi invisibili, col nostro flute di champagne al lume di mille candele, un po' stordite e certo grate. 

Pur di avere quel magnifico palazzo, io, dice Santo, «ero pronto a batterlo all'asta sino a 19 miliardi di lire». Gianni si fidava di lui così tanto che più di una volta gli chiese di «liquidare fidanzati che cominciavano a diventare molesti o che lui non sopportava più». Il lungo amore, sino alla morte, era stato per Antonio D'Amico, citato dal testamento ma escluso dall'azienda. 

Santo Versace ha 78 anni, due figli di primo letto e quattro nipoti, una bella sottile seconda moglie, Francesca, 25 anni di meno, che ha rinunciato alla sua professione di avvocato dopo essere stata dirigente della Presidenza del Consiglio dei ministri, ispettore di Finanza pubblica al ministero dell'Economia. Lui se ne vanta moltissimo e nel libro abbondano le foto della coppia. Lui ha abbandonato il mondo della moda e adesso si occupa di produzione cinematografica con la Minerva film e ha già vinto premi ai festival.

La Gianni Versace è stata venduta anni fa agli americani per due miliardi di dollari, e si chiama ormai solo Versace, un marchio che vuole dimenticare il suo creatore: si vende Versace anche su Instagram. Donatella continua ad essere il volto e la consulente creativa dell'azienda, Allegra si occupa delle campagne pubblicitarie con grande successo. Credo che sia suo il palazzo di via Gesù. Il solo estraneo a quello che è stato il regno che ha aiutato a nascere e crescere, è lui, Santo. Il dolore per essere stato cancellato, dall'azienda e forse dalla famiglia, gli ha dettato questi ricordi.

Quirino Conti per Dagospia il 16 luglio 2022.  

Dalle nuvole si capiva che si era arrivati a Milano: diverse da quelle plateali, ricche e sontuose che ci si era lasciati alle spalle, a Roma. Mentre queste erano sobrie, concise, seppure estese sulla città come un campo da calcio.  

Tuttavia, il segnale più convincente era il tassista: pugliese, dalla pronuncia inconfondibile come in un cinepanettone, non appena sentiva un indirizzo che poteva sottintendere “Moda” o “Stilista” istantaneamente si trasformava in un jet ultrasonico per funzionalità ed efficienza.  

Poiché anche lui in quella fase diveniva interprete di un fenomeno che stava trasfigurando il territorio lombardo, in quegli anni settanta, quelli della transverberazione di una città tristanzuola in un redditizio concetto estetico. E tutti i suoi cittadini, nei vari ruoli e competenze, si formarono su questa nuova identità. Se non altro, almeno per entusiastica adesione. 

Tanto che persino quegli edifici non ancora del tutto allineati alla costosa bellezza del momento apparivano scenograficamente testimoni di una particolare Bohème delle origini, assumendo i caratteri di una specie di Bateau-Lavoir e di tenero reperto archeologico. Così gli alberghi, anche i meno prestigiosi, si fecero particolarmente ospitali e complici già di mille consegne, depositi, messaggi, depistaggi e segreti. 

In tutto questo Barbara Vitti, a quel tempo potente concertista del sogno di Armani e Galeotti, progettava e formava proprio allora un club di teste coronate che mensilmente, con un appuntamento serale ai tavoli del Toulà, riuniva la migliore stampa dell’ambiente. E se non era la migliore, di sicuro rappresentava la più potente e impicciona. Una specie di Congresso di Vienna che ridisegnava potentati, sovranità e linee genealogiche. 

C’erano sempre N. A. già con zazzeretta colore del grano, R. E. orgogliosa dei suoi ascendenti sefarditi, A. R. immancabilmente addobbata da santona brasiliana; l’austera C. V. con codino e tenuta d’attacco; C. B. di “Vogue Uomo”, severa come una badessa cistercense; P. G. la più tenera e distratta anche perché interamente proiettata dentro i segreti del burraco; poi a sorpresa, in qualche sera più scura e piovosa, magari nomi nuovi prossimi a esibirsi e a meritare magari, da tutte loro, un diniego sferzante o un plauso appena accennato.  

Non c’era F. S. non ancora stratega per conto di Condé Nast, e troppo giovane per mescolarsi a un simile battaglione già rodato e potente. Mancava anche A. P. che in solitaria – deposto il kilt – stava ascendendo al suo ruolo con stranezze stilistiche, combini inauditi e un suo particolarissimo potere, inconciliabile con l’ortodosso ossequio armanesco delle altre socie. Tutto passava per le loro manie e sulle loro lingue con sentenze assolute e cadute precipitose, regni da sostenere e corone da abbattere.

Non partecipava nemmeno A. M. allora incontestabile Pizia di ogni pedana, generosa suggeritrice nel bene e terribile distruggitrice nell’errore.  

Comunque, per quel club c’era sempre un posto in prima fila ovunque e senza alcun ripensamento: destinatarie di ogni “save the date” prima di chiunque altro e degli omaggi più sofisticati. Grandi, grandissime, come nessuna mai più, e soprattutto “caratteristiche” – cioè al limite quasi esilaranti –, come le definiva ogni volta Natalia Aspesi quando, all’uscita dal Toulà, le guardava nel loro insieme continuare a ciarlare nell’attesa di un taxi. 

Poi le stagioni cominciarono a scorrere troppo velocemente, tanto che il triste Giacomino Leopardi, con la sua operina sulla Moda divenne sempre più realisticamente interprete della scena. Fino a quella dura stagione che portò l’obbligo del lutto nel mondo della Moda per i molti che se ne andranno, fino al grande Versace, e mentre per troppe assenze si cominciavano ad avvertire i primi scricchiolii di un potere che era sembrato eterno. 

Come un bosco in autunno anche quel bosco di intelligenze iniziò a ingiallire e ad annunciare l’inverno. Barbara se ne andò niente di meno che dalla Sicilia, dove si era appena trasferita. Poi fu la volta di qualche compagno e di molti amici, per un virus che inesorabilmente marchiava il mondo dello Stile.  

Mentre ci si sfrenava ormai in pettegolezzi sempre meno ridanciani, fino al ritiro di quasi tutte in una città che ora non le conosce più. Malanni, tristezze, rimpianti. Milano divenne acida, e quasi francese dopo le troppe cessioni e i troppi inghippi creati da unioni insane e avventurose.

Ora ci si telefona molto: fingendo anche qualche impegno con ancora l’attitudine al dominio di quel che è scomparso. F. S. non c’è più, ci sono nomi nuovi, ma con poca eco e con un’aura di rispetto sempre meno radiosa – persino maschi con pochette a cascata.  

Di quel tempo e di quel Club non resta che il ricordo di pochi, mentre chi può si ricicla in qualsiasi lavoro, più per ossessione che per necessità. Come una volta quando un loro battito di ciglia voleva dire una svolta e per qualcuno anche la felicità del successo. In un autunno sentimentale che non si addice alla Moda.

Intanto, le più pervicaci e caparbie, dopo aver penetrato con sudore di sangue ogni segreto della rete, fingono ora di sentirsi pronte a disquisire di MFT, criptovalute e beni virtuali. E seppure il consumatore pare poco incline al Metaverso, loro no. E così terrorizzano la collega meno sperimentale sproloquiando su avatar e generazione Z.  

Pronte perfino a nuove eventuali consulenze del genere shopping ibrido. Mentre purtroppo, per qualche trentenne assuefatta al “nuovo”, tutto questo appare già perfino il prossimo “passato”. 

Quirino Conti per Dagospia il 13 luglio 2022.  

A perpetuo turbamento e vergogna degli sciocchi, il sapientissimo Paolo De Benedetti, curatore editoriale tra i massimi, scritturista infaticabile e onnivoro indagatore di ogni sapere biblico, concludeva il suo sguardo sulla vita affermando di non aspettarsi altro dal profondo silenzio dell’Assoluto che un sospiro, un solo piccolo sospiro, e un alef dal suo amatissimo Elohim. 

Giacché stimare che il silenzio non rappresenti che la negazione stessa della Parola è da sciocchi. E, nonostante la fatica di divulgatori e scienziati positivisti, ancora non si è riusciti a spegnere il bisogno di “altro” oltre l’orizzonte dell’esistenza biologica.  

Ecco perché si parla con timore di chi ci ha preceduto nel congedo dalla vita. Forse perché potrebbero ancora adombrarsi nell’ipotesi di un racconto inesatto o di una terminologia irriguardosa? 

Anche solo per questo, parlare di Gianni Versace con ostentata disinvoltura pone oggi, a distanza di venticinque anni dalla sua morte, in autentica soggezione quanti provano a farlo: non riuscendo ancora a pacificarsi con il dubbio terribile di un’eterna sparizione e del nulla.

Ecco allora i giudizi sommari, le conciliate sintesi biografiche, le azzardate analisi totalizzanti e, per chi le compone e le elabora, quasi il timore mistico di essere ascoltati e trascendentalmente riconosciuti.

Non è questa, infatti, la stagione dei cimiteri, la morte non si addice alla stilizzazione della Moda. Seppure... 

Questo per quanto riguarda il complesso e variegato rapporto con la memoria di Gianni Versace. Chi non ricorda, infatti, la drammatica immagine di sua sorella in gramaglie e con un crocifisso stretto tra le mani? 

Anche solo per questo, i venticinque anni da una simile violenza sono una data che necessariamente deve mettere d’accordo osannanti e critici. Tutti: su talento, genialità e sovvertimento di ogni luogo comune. Tanto che commuove come opinioni un tempo ardite, taglienti e mordaci trovino ora una così grande conciliazione con il mistero del suo silenzio e perfino con le ombre suscitate a suo tempo dalla violenza inumana del suo martirio. 

Chi può dire in merito di non aver ferocemente combattuto, nella sua coscienza, con l’evidenza di giustificazioni piuttosto traballanti? Forse per gelosia, per vendetta o rancore. E quella innocente vittima in un lago di sangue, intesa perfino per malafede come il capro espiatorio di una giustizia lontana, segreta e irragionevole.

Poi capita anche che parlare di abiti, lussi e facezie di fronte al suo essere divenuto ormai come il Commendatore del “Don Giovanni”di Mozart sia un’ipotesi che raggela. Un anniversario pubblico, dunque, che pone il solito problema: può mai esistere, oltre i sentimenti di ciascuno, un rapporto equilibrato tra Moda, giornalismo, pubblicità, memoria e persino dolore?  

Anche se per Saint Laurent si è potuto parlare e sparlare senza alcun limite: per scritto e per immagini. Così come per Lagerfeld. Assenti e senza più voce in capitolo, giacché entrambi vittime di una stagione che non ammetteva sospiri dall’alto, tantomeno richiami mistici, oltre la paolina “carne”.

Ma ora altre sono le disposizioni dell’intelletto verso il Cielo e verso chi è entrato nella luce tenebrosa della morte. 

Senza nulla togliere alla sua passione, alla sua dedizione e alla sua capacità di iperscrtittura, Versace fu un gigante della comunicazione: un nome-mito, un macrosuccesso. Alla sua morte si precipitarono verso il suo trono deserto epigoni innumerevoli, da Cavalli a Tom Ford, a Mattiolo e a moltissimi altri assatanati da quel serto neoclassico di gloria. 

La stampa più vorace pensò allora, dalla sera alla mattina, di sostituirlo con il fedele Antonio, il suo compagno: e così come si avventò su una sua ipotetica affermazione (da riempire senza troppi problemi, quel terribile vuoto), con la stessa famelica energia se ne fuggì delusa quando comprese che l’affare non si sarebbe mai concluso. Se non come avvenne tra le sontuose pareti domestiche.

Comunque, oltre tanto dibattere, una speranza ci resterebbe; escatologica e perfettiva, direbbero gli studiosi: che dalla sua meravigliosa Calabria celeste, dove ora vive felice e in pace, Gianni Versace in nessun modo si curi delle tante commemorazioni – talora colme d’ipocrisia – che gli si intessono intorno. 

"Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti", e non distraiamo i viventi da quella meritatissima eterna felicità, oltre tutto e tutti. Contro un faticoso vociare che non può più sfiorarlo. Ora che alla crudele Medusa ha sostituito il volto raggiante del Mistero.

Quirino Conti per Dagospia il 16 gennaio 2022.  

Tra il 14 e il 18 gennaio, Milano è tornata – con una minestrina particolarmente allungata – a presentare le sue volenterose collezioni Uomo. 

Presenze di rilievo? Forse neppure una decina. E come in tutte le feste comandate, il ricordo del passato torna crudelmente a mordere. Soprattutto per le assenze. 

Gianni Versace avrebbe oggi settantasei anni, se fosse ancora costretto a calcolare la vita con degli aridi numeri. Per noi terrorizzati terrestri, una quantità neppure eccessiva, a guardarsi attorno: dal momento che il consumo, pur inscenando ormai teatrini appena post-adolescenziali, sposta continuamente un po’ più in là il limite della giovinezza. 

Ma per Gianni Versace non possono esserci dubbi. Fu crudelmente strappato dalla vita in un triste giorno del 1997. E da un luogo tanto impietoso da potervi inscenare l’ultima dimora di un Imperatore della Decadenza. 

Lo vollero a quel modo, come un Tiberio a Capri, il cinismo degli adulatori e, su tutti, l'avidità della stampa e dei suoi emissari, per poter finalmente dare fondamento alle loro morbose elucubrazioni. Ma Gianni Versace non era così. 

A lui toccò il destino di chi deve espiare origine e natura: quasi in un ottocentesco melodramma. E dopo che in tanti provarono senza esito a indossare la sua faticosa divisa, è naturale domandarsi cosa ne sarebbe stato di quella masnada di cortigiani che – assieme alla plebe redenta dal craxismo – sembravano aver cancellato per sempre Dio e il suo Paradiso. Ma Gianni Versace non era così. 

Perché dopo di lui, per i suoi interpreti – fotografi e narratori – calò impietosa la mannaia del Tempo. Ma Gianni Versace non era così. 

Dovette forzosamente adattarsi a tutti i “neo” inventati da scribi logorroici, a tutte le ebbrezze concertate dai suoi orchestrali, a tutte le finalità imbastite dai suoi sceneggiatori, che rimbalzavano dall’America a Milano.  

La Moda era questa, purtroppo, già molto prima che si scoprissero le trame dei suoi più solleciti seduttori: s’introducevano indossatori consenzienti, come tanti “pesciolini” di corte, nei letti di chi si voleva. E da qualche tempo il danaro liquefaceva le opinioni.  

Finché non arrivarono la stupefatta innocenza di Gianni Versace e la sua dolorosa fatica da giovane immigrato. Purtroppo non c’è stato chi non abbia voluto mescolare la sua epopea con quella del Rocco di Visconti. Ma lui non era così: piuttosto, semmai, la sua è stata l’epopea di un nuovo Ludwig, costretto al titanismo da un sogno costante di redenzione. Perché Gianni Versace era così: un innocente che gli applausi della più servile Accademia resero l’ideale vittima designata del suo Tempo. 

Il movente ignoto, i colpi, il sangue: quando Versace fu ucciso da un serial killer. Nel 1997 Gianni Versace fu ucciso da Andrew Cunanan, un serial killer già autore di altri 4 omicidi: il movente non è mai stato trovato. Angela Leucci l'11 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’omicidio Versace

 Chi era Andrew Cunanan

 Un movente mai trovato

Il 15 luglio 1997 una notizia dagli Stati Uniti attraversò rapidamente l’Atlantico, giungendo in Europa e soprattutto in Italia. Gianni Versace, uno dei simboli dell’eccellenza italiana nella moda, stilista audace dalla mente e dalla mano riconoscibilissime, era stato freddato da due colpi di pistola mentre faceva ritorno alla sua sontuosa residenza di Miami, Casa Casuarina. Fu ucciso da un serial killer, Andrew Cunanan, ma esistono ancora punti oscuri in questa morte, in primis il movente.

“È caduto ai piedi della villa che doveva essere il monumento alla sua vita e sarà invece, per sempre, il mausoleo della sua morte - scrisse all’epoca Vittorio Zucconi - È stato ucciso come un principe che stramazza nel suo stesso sangue a un passo dai suoi ori, dai suoi broccati, dai suoi vasellami, con la mano tesa verso il cancello mentre il sicario già gli punta alla nuca l'arma che l’ucciderà”.

L’omicidio Versace 

Nel 1997 Versace era uno dei grandi simboli del made in Italy. La sua carriera era stata fondata su una cifra stilistica unica, capace di affascinare alcune delle donne più in vista e potenti del mondo all'epoca, in primis Lady Diana, tra l’altro amica personale dello stilista che sarebbe scomparsa anche lei di lì a poco.

La mattina del 15 luglio 1997, Gianni Versace uscì di casa per una passeggiata, recandosi in edicola per acquistare giornali e riviste. Al suo rientro un uomo sconosciuto gli sparò due colpi alla nuca, fuggendo tra la folla e lasciando la sua ultima vittima vicino al portone di casa in un lago di sangue. Il primo a giungere, per chiamare i soccorsi, fu il compagno dello stilista, Antonio D’Amico, mentre qualcuno cercava di rincorrere il killer, che però si dileguò facilmente.

Chi era Andrew Cunanan 

Nel 1997 Andrew Cunanan, riconosciuto ben presto come l’assassino di Versace, aveva 27 anni. Viene descritto come un uomo di origini filippine colto e intelligente, che aveva sbarcato il lunario in diversi modi fino a quel momento, soprattutto sfruttando i suoi diversi alias costruiti nel tempo, facendo il mantenuto con alcuni omosessuali anziani e prestando favori sessuali a pagamento sempre con gay molto ricchi e in là con gli anni.

“Aveva abbandonato il college dalla California - si legge sul sito dell’Fbi - Era molto intelligente, parlava due lingue e fin dalla sua adolescenza aveva cercato di vivere una vita ricca e agiata. Aveva integrato i suoi guadagni con strani lavori qua e là prestando servizio come prostituto e impegnandosi in relazioni a lungo termine con omosessuali più anziani che avrebbero potuto inondarlo di regali e denaro”. Ma quello che non si sapeva pubblicamente fino a quel momento era che Cunanan fosse un serial killer: come riporta il Time, prima di Versace aveva ucciso 4 uomini.

Uno era un suo amico, Jeffrey Trail, 28 anni ed ex ufficiale di Marina, ammazzato a martellate. L’altro era un uomo di cui si era innamorato, un architetto 33 enne di nome David Madson, lasciato morire nei pressi di un lago in Minnesota. C’era poi Lee Miglin, 72 anni, marito di un'ex ballerina e famosa imprenditrice nel campo della cosmetica scomparsa nel 2022: l’uomo fu seviziato con un cacciavite e sgozzato con delle cesoie. Infine Cunanan uccise quasi per caso un custode cimiteriale, William Reese di 45 anni, per rubargli un pick up rosso che utilizzò per raggiungere la Florida.

Al momento dell’omicidio Versace quindi l’Fbi lo cercava già, ma il cerchio si strinse attorno al giovane killer solo dopo che uccise lo stilista. Al momento gli inquirenti pensavano che l’artista italiano fosse stato colpito da un sicario su commissione - il fatto che fosse appunto italiano fece ben presto pensare a un delitto di matrice mafiosa - ma ben presto gli indizi si rivolsero tutti su Cunanan.

Il New York City Gay and Lesbian Anti-Violence Project offrì una ricompensa a chi lo avesse catturato. L’assassino fu braccato in una caccia all’uomo che durò giorni. Alla fine, il 23 luglio 1997, Cunanan fu stanato in una casa galleggiante: l’uomo, vistosi braccato, si sparò un colpo di pistola in bocca, suicidandosi.

Un movente mai trovato 

Nessuno ha mai saputo perché Andrew Cunanan abbia ucciso Gianni Versace. Molte ipotesi sono state fatte sia nell’immediato che nel corso del tempo. C’è chi ha detto che il killer fosse diventato vendicativo pensando di aver contratto l’Hiv, ma quel che è certo è che Versace non fosse contagiato da quel terribile virus.

Non si sa neppure se ci siano stati mai contatti tra i due. La giornalista Maureen Orth ha ipotizzato in un libro, poi utilizzato nella seconda stagione di American Crime Story, che assassino e vittima abbiano avuto uno o due incontri casuali, durante i quali Cunanan avrebbe messo al corrente Versace delle proprie origini italiane - la madre di Cunanan era una donna italoamericana, che di cognome faceva Schillaci.

Sono tantissimi gli interrogativi sul caso che non sono mai stati spiegati. Qualunque segreto avesse l’assassino, se l’è portato nella tomba.

JONATHAN MAYO PER IL DAILY MAIL il 28 luglio 2022. 

Gianni Versace, 50 anni, è stato lo stilista più famoso e appariscente del mondo nel 1997. Nato a Reggio Calabria nel 1946, è diventato apprendista nell'attività di sartoria di sua madre da adolescente.

Nel 1978, aprì la sua prima boutique a Milano creando un marchio multimilionario che ha vestito alcune delle più grandi celebrità del mondo, tra cui la principessa Diana, Jennifer Lopez, Madonna, Elton John, Liz Hurley. 

Nelle parole dell'ex direttore di ‘’Vanity Fair’’ Tina Brown, Versace, con l'aiuto della sua amata sorella minore Donatella e del fratello maggiore Santo, "ha trasformato lo stile da prostituta in alta moda" introducendo un nuovo livello di gioielli di lusso, fortemente influenzato dalla sua passione per l'Antica Grecia, con design d'interni e arredi. 

Poi, nell'aprile del 1997, un prostituto di 27 anni di nome Andrew Cunanan si imbarcò in una follia omicida.

Domenica 27 aprile 1997

Sin dalla sua adolescenza in California, Andrew Cunanan ha vissuto una vita edonistica. Ossessionato dalla moda, bramava lo stile di vita ricco di molti dei suoi compagni di scuola - tra i quali era noto per le sue storie inverosimili e bugie - in un ricco sobborgo di San Diego. A metà dei suoi 20 anni ha spacciato droga, venduto merce rubata e ha lavorato come “marchetta”. 

Gli amici credevano che Cunanan avesse il potenziale per la violenza. Parlava spesso di andare in una "corsa omicida in cinque stati". 

Recentemente, Cunanan è diventato sempre più dipendente dalla cocaina-crack e dal suo comportamento irregolare. La polizia sarebbe poi arrivata a credere che potesse anche essersi convinto di essere sieropositivo.

Cunanan vola a Minneapolis dove litiga con un amico di 28 anni, Jeff Trail. Successivamente attira Trail nell'appartamento del suo ex amante, David Madsun. Lì prende un martello da carpentiere da un cassetto della cucina e picchia a morte Trail davanti a Madsun. Successivamente spara a Madsun, 33 anni, alla testa con la pistola di Trail, lasciando il suo corpo sulla riva di Rush Lake, Minnesota. 

Sabato 3 maggio

Cunanan guida per 400 miglia a Chicago fino alla casa dell'anziano promotore immobiliare Lee Miglin. Tortura Miglin, legandogli mani, piedi e testa con del nastro adesivo, prima di tagliargli la gola e pugnalarlo più di 20 volte con le forbici. Cunanan fugge a New York sulla Lexus di Miglin. Il movente dell'omicidio di Miglin, o se i due uomini si conoscessero, non è mai stato stabilito. 

Venerdì 9 maggio

GIANNI VERSACE

Cunanan desidera disperatamente scaricare la Lexus perché sa che lo collegherà a Lee Miglin, quindi guida nel New Jersey alla ricerca di un nuovo veicolo. Spara al 45enne custode del cimitero William Reese - una vittima casuale - e ruba il suo pick-up rosso. 

Cunanan guida quindi per 1.250 miglia fino a Miami, in Florida, dove sa che Gianni Versace ha una casa. Cunanan ha deciso che il famoso stilista sarà la sua prossima vittima. 

La polizia non è mai riuscita a stabilire un legame tra i due uomini, ma gli amici di Cunanan affermano che si erano conosciuti in un bar gay a San Francisco nel 1990, dove ebbero una breve conversazione. L'amico Anthony Dabiere ha detto che Cunanan tornò a casa quella sera "in alto come un aquilone per il suo fine settimana con Gianni Versace, parlando di tutte le cose che hanno fatto insieme, di tutto il trattamento sontuoso che aveva ricevuto". Era tutta una fantasticheria e l'inizio di un'ossessione fatale. 

Lunedì 12 maggio

Cunanan arriva a South Beach, Miami, e fa il check-in in un hotel economico, il Normandy Plaza, dando il nome falso di Kurt De Mars. Con il passare dei giorni il manager dell’albergo nota che Cunanan, che è sempre stato una specie di camaleonte, cambia costantemente aspetto indossando una varietà di parrucche. 

Cunanan passa il suo tempo a leggere e guardare materiale pornografico mentre aspetta che Versace arrivi a casa sua a South Beach. 

Giovedì 10 luglio

Gianni Versace sbarca a Miami per una vacanza di due settimane con il suo compagno da 15 anni, lo stilista e modello Antonio D'Amico. 

Versace era stato a New York per parlare con la società di gestione degli investimenti Morgan Stanley per far quotare la sua azienda in borsa. 

La coppia arriva a Casa Casuarina, la sua villa di 35 stanze a South Beach. Gianni ha acquistato la casa in rovina nel 1992 e l'ha trasformata in un palazzo italiano con incredibili giardini e fontane. Il suo amico Elton John una volta disse: "Gianni era così stravagante che io al confronto sembrava l'incarnazione della vita frugale e del sacrificio di sé". 

Venerdì 11 luglio

L'FBI ha ora collegato le uccisioni di Jeff Trail, David Madsun, Lee Miglin e William Reese a Cunanan e lo ha inserito nella loro lista dei Most Wanted, offrendo una ricompensa di $ 10.000 per le informazioni che portano alla sua cattura.

Cunanan ha finito i soldi, quindi è uscito da Normandy Plaza senza pagare il conto e ha vissuto nel furgone rosso rubato parcheggiato in un garage vicino a Casa Casuarina. 

In un fast-food di South Beach, il cameriere Kenneth Benjamin riconosce Cunanan dalla sua foto segnaletica nello show televisivo America's Most Wanted e chiama la polizia. Kenneth viene messo in attesa per così tanto tempo che quando arriva la polizia Cunanan se n'è andato. 

Più tardi quella notte Cunanan va al Twist, un famoso club gay di Miami. Sulla pista da ballo, un giovane gli chiede: 'Cosa fai?' Cunanan risponde: "Sono un serial killer!" e ride. 

Martedì 15 luglio

3:30: Gianni non riesce a dormire e scende al piano di sotto per telefonare al suo ufficio di Milano per parlare con l'amico e collega Franco Lussana dei piani per la nuova collezione. 

Poi chiama la sorella Donatella, 42 anni, all'Hotel de la Ville di Roma dove sta provando i modelli per uno show televisivo italiano chiamato ‘’Donna Sotto Le Stelle’’. 

Le fa così tante domande sullo spettacolo che Donatella dice con rabbia: "Gianni, non puoi aiutarmi da lì!" e riattacca. Dopo circa 20 minuti di ulteriori telefonate, torna a letto. 

Gianni ha molto per la testa e non solo affari. Ha litigato con una delle sue clienti più famose, Diana, Principessa del Galles. Aveva usato le foto di Diana e dei suoi figli William e Harry in un libro intitolato ‘’Rock And Royalty’’, in aiuto della Elton John's AIDS Foundation. 

Il libro includeva anche foto di modelli maschili seminudi. Diana era inorridita e si rifiutò di scrivere la prefazione. Elton le scrisse dicendo senza mezzi termini quanti soldi era costata alla sua fondazione. 

Diana rispose con una lettera formale e arrabbiata indirizzata a: 'Caro signor John . . .' 

Diana è ora in vacanza con Dodi Al Fayed su uno yacht di suo padre, il magnate di Harrods caduto in disgrazia Mohamed Al Fayed, nel Mediterraneo, con immagini e dettagli della controversa vacanza "romantica" che riempiono giornali e riviste di tutto il mondo.

8:15: Lasciando addormentato il suo compagno Antonio, Gianni si veste con una maglietta nera, pantaloncini a quadri grigi e bianchi e sandali neri. Prende la grande chiave dei cancelli di Casa Casuarina e parte per la sua normale passeggiata mattutina lungo Ocean Drive. Dall'altra parte della strada, Andrew Cunanan lo osserva, un berretto da baseball che gli copre il viso. 

8:30: Gianni entra in un negozio chiamato News Cafe e compra alcuni giornali e riviste, tra cui il New Yorker e Vogue. 

Ama avere riviste sparse per casa: le usa come ispirazione e le copre con post-it pieni di idee. 

Di ritorno a Casa Casuarina, il vicino e amico di Gianni, Lazaro Quinana, arriva per giocare a tennis con Antonio, che sta prendendo un caffè in veranda. 

8:45: Gianni torna a casa e raggiunge i gradini della sua magione. Dall'altra parte della strada, Andrew Cunanan si alza ed estrae la pistola calibro 40 che ha rubato alla sua prima vittima, Jeff Trail. 

Gianni sorride alla passante Mersiha Colakovic, italiana residente part-time a South Beach, e tira fuori la chiave per aprire i cancelli. 

Cunanan cammina dietro Gianni, allunga il braccio dritto e spara a Gianni sul lato sinistro del collo. È così vicino che la polvere da sparo segna la pelle di Gianni. Il proiettile gli recide istantaneamente il midollo spinale, rimbalza sul cancello di metallo e poi, in una bizzarra svolta, uccide un piccione sul marciapiede.

Un uccello morto è un simbolo della mafia, quindi questo in seguito porta a false speculazioni sul coinvolgimento della mafia nell'omicidio. 

Gianni cade a terra e Cunanan spara ancora, questa volta in faccia, il proiettile che gli si conficca nel cranio. Mersiha Colakovic, a meno di 10 piedi di distanza e l'unico testimone, osserva sbalordito l'assassino che mette la sua arma in uno zaino e se ne va con calma. 

"Cunanan ha continuato per la strada come se niente fosse", ha detto. (Inizialmente, la signora Colakovic ha richiesto uno pseudonimo quando ha rilasciato la sua dichiarazione alla polizia perché, è stato riferito, temeva che fosse stato un colpo di mafia.)

Il sangue ora scorre giù per i gradini della villa.

8:46: Lazaro Quinana corre fuori dai cancelli e trova Gianni sdraiato a faccia in giù. Viene rapidamente raggiunto dal partner di Versace, Antonio, che ha detto in seguito: "A quel punto, tutto è diventato nero. Sono stato trascinato via, non ho visto più.' 

Lazaro controlla il battito di Gianni e poi grida: 'Chi ha fatto questo? Chi ha fatto questo?' Mersiha Colakovic indica Cunanan che ora è a circa un isolato di distanza. 

Antonio grida: 'Laz! Vai a prenderlo!' Lazaro corre per la strada gridando: 'Bastardo! Fermatelo!' Cunanan inizia a correre e si infila in un vicolo, e Lazaro lo segue, ma quando Cunanan si ferma e gli punta la pistola, indietreggia.

8:48: Uno del personale di Casa Casuarina chiama i servizi di emergenza sanitaria: 'Un uomo è stato colpito. È Gianni Versace. Abbiamo appena sentito degli spari e siamo usciti. È sui gradini di casa'. 

Cunanan raggiunge il pick-up rosso dove ha dormito. Si cambia i pantaloncini e la maglietta e si mette dei vestiti nuovi. Il piano di Cunanan era quello di fuggire nel camion, ma vede un'auto della polizia e decide di scappare a piedi.

8:55 : Un'ambulanza arriva a Casa Casuarina e, sebbene i paramedici non riescano a trovare segni vitali, fissano un tutore al collo di Gianni Versace e tentano la rianimazione. 

La polizia impedisce ad Antonio di salire sull'ambulanza perché ha bisogno che descriva loro l'assassino. Gianni viene portato al Jackson Memorial Hospital di Miami. Sui gradini insanguinati viene lasciato un unico sandalo nero Versace.

9:15 : A Milano, il fratello maggiore di Gianni, Santo, riceve una telefonata da un assistente che ha sentito che il designer è stato colpito da una fucilata. Santo dice subito a Donatella: "Un pazzo ha sparato a Gianni, ma stai tranquillo che sta già andando in ospedale e loro si prenderanno cura di lui". Santo inizia a capire come far rimpatriare Gianni in un ospedale in Italia. 

Nel 1978 stava aprendo la sua prima boutique a Milano e ha continuato a creare un marchio multimilionario che ha vestito alcune delle più grandi celebrità del mondo.  

Nel 1978 stava aprendo la sua prima boutique a Milano e ha continuato a creare un marchio multimilionario che ha vestito alcune delle più grandi celebrità del mondo.

9:21 : I medici del Jackson Memorial Hospital dichiarano morto Gianni Versace. Antonio è così sconvolto che deve prendere un sedativo. La polizia di Miami ha trovato il pick-up rosso e la pila di vestiti di Cunanan ancora bagnati di sudore. 

All'interno del veicolo ci sono il passaporto di Cunanan, proiettili e un biglietto del banco dei pegni per una moneta d'oro rubata alla sua terza vittima, la casa di Lee Miglin. 

9:30 : Donatella Versace chiama l'ospedale di Miami e le viene detto che suo fratello è morto. Urla così forte che le modelle fuori dall'Hotel de la Ville la sentono. Donatella sviene e Santo la aiuta a portarla nella sua suite attico.

10:00 : Decine di spettatori si accalcano intorno all'ingresso di Casa Casuarina. Uno dello staff di Gianni sta pulendo i gradini. 

Presto diventano un memoriale improvvisato ricoperto di carte e fiori. Nel frattempo, gli hacker stanno cercando di entrare nei computer del Jackson Memorial Hospital per rubare le cartelle cliniche di Versace.

A Roma, 30 guardie del corpo scortano Donatella e Santo attraverso una mischia stampa fino a una limousine che li porterà su un jet privato diretto a Miami. 

11:00 : John Reid, il manager di Elton John, gli telefona nella sua casa per le vacanze nel sud della Francia per dirgli che Gianni è stato assassinato. Elton scrisse in seguito: "Ho acceso la TV in camera da letto e mi sono seduto lì, a guardare il servizio, a piangere". 

Gianni e Antonio sarebbero dovuti partire per stare con Elton e il suo partner, David Furnish, la settimana successiva. 

La notizia dell'omicidio raggiunge la principessa Diana sullo yacht di Al Fayed. È scioccata e sconvolta e crede che Versace sia stato ucciso da un terrorista. 

Diana dice alla sua guardia del corpo Lee Sansum: "Pensi che mi faranno questo?" 

Diana chiama Elton per chiedergli come sta affrontando la tragica notizia e si scusa per la loro lite: "Mi dispiace, è stato uno sciocco litigio. Restiamo amici.' 

18:00 : A Miami, la dottoressa Emma Lew, medico legale, esegue un'autopsia sul corpo di Gianni Versace. La polizia ha anche portato il piccione morto, quindi esamina l'uccello, trovando minuscoli frammenti di metallo del proiettile nei suoi occhi.

Ormai la polizia ha controllato le targhe di immatricolazione del pick-up rosso di William Reese. Il veicolo e il suo contenuto, oltre a una descrizione dell'uomo armato, indicano che Andrew Cunanan è l'assassino. Viene lanciata una caccia all'uomo a livello nazionale e la polizia e l'FBI cercano di trovare un motivo per l'omicidio di Versace. 

3:30 : Donatella e Santo arrivano a Casa Casuarina dall'Italia, dove i giornali sono dominati dalla morte di Gianni Versace.

Scrive La Repubblica: «Fu ucciso come un principe adagiato nel proprio sangue, con una mano tesa verso i suoi dipinti a olio, i suoi arazzi, il suo oro». 

Casa Casuarina è ancora circondata da folle, spettatori, troupe televisive, stampa e fan in lutto.

mercoledì 16 luglio

10:00 : il corpo di Gianni è stato portato dall'obitorio dell'ospedale al Riverside Gordon Funeral Home a Miami. Donatella e Santo ricevono gli effetti personali del fratello morto: $ 1.173,63 in contanti e una piccola immagine della Vergine Maria. 

Donatella veste il corpo del fratello pronto per la cremazione. La velocità con cui il corpo di Gianni viene cremato porta a ipotizzare che lo stilista fosse sieropositivo e che i suoi fratelli volessero evitare qualsiasi test per mantenere segreta la sua malattia e proteggere il loro marchio di moda.

La famiglia Versace ha negato con veemenza che Gianni fosse sieropositivo. Quella notte, quando tutti se ne sono andati, Donatella apre i cancelli di metallo di Casa Casuarina e bacia il punto in cui è stato ucciso suo fratello. 

Martedì 22 luglio

18 : Una settimana dopo l'omicidio, stanno per iniziare i funerali di Gianni Versace al Duomo di Milano. 

L'edificio è gremito di nomi famosi del mondo della moda, della musica, del cinema e del teatro. L'Aga Khan è lì, così come la top model Naomi Campbell insieme ai colleghi designer di Versace Giorgio Armani e Karl Lagerfeld. 

Donatella ha detto: 'Gianni è stato ucciso come un cane randagio. Voglio che abbia un funerale degno di un principe».

Centinaia di poliziotti e uomini della sicurezza circondano l'edificio. Una principessa Diana in lacrime è seduta accanto a un sconvolto Elton John e viene fotografata mentre lo conforta accarezzandogli la mano; entrambi indossano Versace in omaggio al loro amico. Tra sole sei settimane, Elton suonerà Candle In The Wind al funerale di Diana presso la Cattedrale di St Paul. 

A Elton e Sting è stato chiesto dalla famiglia Versace di cantare il 23° Salmo, Il Signore è il mio pastore, ma la gerarchia della cattedrale non è contenta che due non cattolici si esibiscano e quindi li ‘’interroga’’ prima della funzione per vedere se sono "adatti". '.

Elton ha scritto: "È stato orribile, come essere trascinato fuori davanti alla scuola dal preside durante l'assemblea". 

Alla fine, i sacerdoti danno il loro permesso e Sting ed Elton cantano, mentre Donatella e Santo piangono. 

A migliaia di chilometri di distanza negli Stati Uniti, continua la caccia all'uomo di Andrew Cunanan. 

mercoledì 23 luglio

15:35 : A Miami Beach, a circa cinque miglia da Casa Casuarina, un custode di nome Fernando Carreira e sua moglie stanno controllando una grande casa galleggiante azzurra di cui si prendono cura per un cliente. 

La serratura della porta d'ingresso è rotta e tutte le luci del soggiorno sono accese; i cuscini sono sparsi sul pavimento. Fernando dice a sua moglie: "Qualcuno è qui, proprio ora". 

Improvvisamente c'è uno sparo al piano di sopra e la coppia fugge, convinta di essere stata colpita. 

Mentre gli elicotteri televisivi sorvolano la casa galleggiante, una squadra SWAT della polizia arriva per stanare l'assassino. Ma una volta dentro scoprono Andrew Cunanan sdraiato sul letto in una pozza di sangue.

Si era sparato in bocca, usando la pistola che aveva usato per uccidere Gianni Versace. 

Andrew Cunanan non ha lasciato un biglietto d'addio, così tante domande sulla sua follia omicida sono rimaste senza risposta. La polizia ipotizza che credesse di essere già condannato a morte per essere sieropositivo e sentiva di non avere nulla da perdere per i suoi atti atroci.

Antonio D'Amico lavora ancora come stilista e vive con il suo compagno nella campagna italiana. 

Dopo la morte di Gianni, Donatella ha assunto il ruolo di direttore artistico del marchio, posizione che mantiene ancora oggi. 

Fu devastata dall'omicidio di suo fratello e disse a Elton John: "La mia vita è come la tua candela nel vento! Voglio morire!' Elton l'ha aiutata a liberarsi dalla dipendenza da cocaina e pillole.

Oggi, Versace rimane un marchio di moda leader a livello mondiale e ha un valore di oltre 670 milioni di sterline.

Santo Versace: «Io e Gianni eravamo pronti a firmare la fusione con Gucci». Stefano Righi su Il Corriere della Sera il 14 Luglio 2022.

«Eravamo due facce della stessa medaglia». Il progetto era estremamente ambizioso e li avrebbe portati in cima al mondo dell’industria della moda.

Il 15 luglio 1997 sui tre gradini davanti a Casa Casuarina, a Miami Beach, in Florida, non morì soltanto Gianni Versace , fenomenale talento creativo della moda italiana, ma anche uno straordinario progetto finanziario e industriale che avrebbe probabilmente cambiato il volto e gli equilibri internazionali nel mondo della moda.

Quel maledetto martedì

Quel giorno era un martedì. La settimana precedente, venerdì 11 luglio, a Milano, negli uffici della Versace in via Manzoni 38, Santo Versace, presidente del gruppo, aveva firmato con la banca americana Morgan Stanley un accordo per portare in quotazione, nella primavera successiva, il gruppo Versace attraverso un accordo con Gucci, allora guidata da Domenico De Sole e Tom Ford. L’accordo venne firmato da Santo Versace e da Galeazzo Pecori Giraldi, che aveva al suo fianco Paola Giannotti de Ponti. In quella medesima occasione Versace, davanti ai due banchieri, telefonò a Pier Francesco Saviotti, allora amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana con il quale si sarebbe dovuto incontrare la settimana successiva. Il progetto prevedeva infatti che Morgan Stanley e la Commerciale Italiana sarebbero stati i due lead del progetto di quotazione, a cui avrebbero partecipato, come co-lead, anche il Credito Italiano e Barclays. Il progetto era estremamente ambizioso e prevedeva la quotazione in Borsa della Versace nella primavera 1998.

L’acquisizione di Gucci per arrivare in cima al mondo

«Era un progetto straordinario — dice oggi Santo Versace, 77 anni —, che ci venne sottoposto da Morgan Stanley. Dal capitale di Gucci erano da poco usciti gli arabi di Investcorp e il momento era propizio per creare un polo mondiale del lusso a matrice italiana. Gucci era una vera public company. All’idea lavoravamo dal 10 marzo ’97. La quotazione sarebbe avvenuta a maggio ’98, tramite un aumento di capitale della Gucci e il conferimento della Gianni Versace. Il gruppo non sarebbe stato scalabile e sarebbe nata la prima realtà italiana, con marchi complementari e separati e una grande integrazione industriale. Gianni non si occupava di finanza aziendale, non ne voleva sapere. Era solo preoccupato di dare un futuro al gruppo. Dove vuoi che sia la Gianni Versace fra vent’anni, gli chiedevo? E lui: insieme a te, in cima al mondo. Per questo la quotazione piaceva a tutti».

Azienda famigliare nata nel 1972

Il rapporto tra i fratelli era molto stretto. L’azienda, una accomandita semplice, venne costituita a Reggio Calabria alla fine del 1972. Quattro i soci: Gianni, Santo e i loro genitori, Antonino e Francesca, lei sarta, lui commerciante. «Donatella inizialmente non c’era — spiega Santo — perché minorenne, andava ancora al liceo». Santo si era laureato in Economia e commercio nel 1968 a Messina e appena rientrato dal servizio militare come ufficiale di cavalleria aprì uno studio di commercialista.

«Il primo contratto da stilista di Gianni lo stesi io»

«Gianni firmò il suo primo contratto da stilista con Florentine Flowers, un’azienda di Lucca. Lo stesi io — ricorda Santo —. Poi arrivarono gli accordi con Callaghan, Genny, Complice, Alma, Spazio. Gianni era richiestissimo. Io lo seguivo facendo la spola, ma già allora mi portava via un terzo del mio tempo. Fu così che mi convinsi, tra la fine del 1976 e l’inizio del ’77 che era arrivato il momento di realizzare una linea autonoma, che portasse il nome di Gianni. Non era semplice. Ma trovai in Paolo Greppi, che a Novara aveva Callaghan e in Arnaldo Girombelli, che ad Ancona aveva Genny, Complice e Byblos, due partner importanti. Greppi e Girombelli erano pronti ad aiutarci, mettevano a disposizione le linee produttive, ma vollero che io mi trasferissi a Milano per occuparmi di tutto. Così lasciai Reggio e affiancai quotidianamente Gianni. Lui si occupava della moda, delle collezioni, io di tutto il resto. Eravamo due facce della stessa medaglia, una mela tagliata a metà. Aprimmo la prima boutique al 20 di via della Spiga in franchising nel marzo 1978, prima ancora della sfilata inaugurale della nostra maison: fu un successo incredibile».

La sorella Donatella comincia ad affiancare Gianni

Il gruppo era organizzato in quattro società. Due erano produttrici, dove i soci industriali avevano il 60 per cento, una si occupava di distribuzione e qui erano i Versace in maggioranza e poi c’era la holding Gianni Versace, interamente controllata dalla famiglia. «Negli anni entrò in società anche Donatella, che affiancava Gianni nella parte creativa. Erano i due vice presidenti, con deleghe operative, mentre dal ’72 al 31 dicembre 2018, quando vendemmo al gruppo Capri holdings, io sono stato l’unico presidente del gruppo e fino alla morte di Gianni anche l’unico amministratore delegato e direttore generale».

Morì un talento o straordinario talento e un visionario progetto

L’avventura dei Versace, una galoppata di 25 anni iniziata nel 1972 e conclusasi sui tre gradini di Casa Casuarina, fu un successo globale. Rivoluzionò il mondo della moda, della comunicazione, svelò il corpo dello star system e creò l’idea della top model. Nel 1997 il gruppo sfiorò i mille miliardi di lire di fatturato, fermandosi a quota 973, oltre 502 milioni di euro. «Eravamo nel pieno della forza creativa di Gianni — conclude Santo —. Quell’anno pagammo 104 miliardi di lire di imposte e l’accordo con Gucci ci avrebbe dato un’ulteriore spinta alla crescita». Due colpi di pistola interruppero il sogno.

Porsche.

Opel.

Ferrari.

Il Lingotto.

Pio Manzù.

Le più brutte.

Fiat Nuova 1100.

Lancia Thema.

Fiat Barchetta.

Fiat 131.

Fiat Marea.

Alfa Romeo 164.

Porsche.

Ferdinand Porsche, il padre fondatore di un mito. Ferdinand Porsche è il grande patriarca di quello che è uno dei brand più prestigiosi e importanti dell'automotive. Un genio e pioniere nel suo campo. Tommaso Giacomelli il 7 Agosto 2023 su Il Giornale.

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 Dalla scuola alla passione per l'elettricità

 L'avvicinamento al mondo delle automobili

 Dalla Austro-Daimler all'autonomia

 Porsche si trasferisce in una segheria

Il nome Porsche ha oltrepassato ogni barriera, collocandosi in una dimensione scillintillante ed esclusiva, dove pochi altri possono affacciarsi. Le sportive vetture tedesche sono un sinonimo di eccellenza costruttiva, di affidabilità e, soprattutto, di velocità. Le auto di Zuffenhausen sono in grado di riempire gli almanacchi sportivi con vittorie sofisticate e straordinarie, dalla 24 Ore di Le Mans alla Parigi-Dakar, contribuendo a rendere il campo delle quattro ruote tanto epico quanto emozionante. Come ogni grande avventura che si rispetti, c'è un principio, un inizio e la scintilla che ha dato la vita a questo indistruttibile marchio è opera del suo fondatore, Ferdinand Porsche. Un genio assoluto e un visionario per la sua epoca. Scopriamo la vita e le gesta di uno dei grandi pionieri dell'automobile.

Dalla scuola alla passione per l'elettricità

Ferdinand Porsche nasce a Maffendorf (oggi Vratislavice nad Nisou) nel 1875, a pochi chilometri da Liberec, nella Boemia settentrionale. La sua famiglia è cattolica di costume calvinista, con il padre che è un conosciuto mastro lattoniere, proprietario dell’omonima officina di lattoneria. Sono anni nei quali le professioni vengono tramandate di padre in figlio, investitura che solitamente spetta al primo genito. Ferdinand, però, è il terzo figlio di Anna Ehrlich e Anton Porsche, mentre il più grande della prole è il fratello Antonius Ferdinandus. Quest'ultimo, tuttavia, muore in giovane età per un incidente sul lavoro, così l'attività del padre finisce improvvisamente nelle mani di Ferdinand. Il ragazzo frequenta la Staatsgewerbeschule, la scuola professionale di Liberec, seguita dall'apprendistato nell'officina di famiglia. Tuttavia, nel cuore di Ferdinand l'amore non sboccia, questa attività lo annoia, tanto che il ragazzo si guarda intorno. Lo incuriosisce con particolare attenzione la fabbrica Ginzekey, uno stabilimento tessile tra i più importanti della Boemia, e a pochi passi dalla sua officina. Lì vengono prodotti tappeti e coperte, ma quello che lo cattura non è il prodotto in sé, ma la sua lavorazione. Una folta schiera di macchinari che operano in modo instancabile grazie all'elettricità.

Dunque, Ferdinand inizia a seguire dei corsi di elettrotecnica, cosa che il padre giudica una perdita di tempo, mentre la madre dà pieno appoggio alle aspirazioni del figlio. Grazie alle conoscenze acquisite in quei corsi serali, il giovane Porsche riuscirà a portare la corrente anche nella casa paterna. Dopo la fabbrica Ginzekey, l'abitazione dei Porsche diventa il secondo edificio della città a possedere l'elettricità. È scoppiata la passione. Affascinato da questo nuovo mondo, Ferdinand lascia il suo posto in officina al fratello Oskar e muove verso Vienna, per iscriversi all'università e seguire le lezioni di elettronica. Non riuscirà a portare a termine il suo percorso di studi, ma le conoscenze acquisite gli permetteranno di entrare nella Béla Egger Electrical Company, dove sperimenta i primi motori installati direttamente nei mozzi delle ruote.

L'avvicinamento al mondo delle automobili

L'industria di fine '800 viene scossa dalla tempesta che si chiama automobile. Un'innovazione travolgente e dinamica, che rompe con gli schemi del passato. Tutta l'Europa è in fermento. Nel 1898 Ferdinand Porsche riesce a entrare nella K.u.K-Hofwagenfabrik Jakob Lohner & Co., azienda specializzata nella realizzazione di carrozze per l’imperatore austriaco e per tanti monarchi del Vecchio Continente. Ed è qui che Porsche si avvicina alle quattro ruote, perché già un paio d'anni prima del suo ingresso in squadra, l'ingegner Lohner aveva iniziato la produzione di veicoli a motore. Il primo progetto di successo si chiama Lohner-Porsche 1, ed è una carrozza provvista di motore elettrico a mozzo. L'embrione per la nascita della futura Porsche era appena stato formato. 

La Lohner-Porsche 1 viene costantemente perfezionata e aggiornata, infatti le vengono donati altri due motori elettrici insieme a due motori monocilindrici, che hanno il dovere di ricaricare le batterie durante il viaggio. Grazie a questa soluzione avveniristica, la vettura era in grado di percorrere 200 chilometri di strada. Siamo nei primi del '900 e, sostanzialmente, Porsche ha già sviluppato la sua prima elettrica a trazione integrale. L'automobile viene mostrata anche all'Esposizione Universale di Parigi, riscuotendo grande successo.

Dalla Austro-Daimler all'autonomia

Nel 1906 la nuova avventura si chiama Austro-Daimler, nella quale - con il ruolo di direttore tecnico - Porsche si ritaglia uno spazio importante, sviluppando delle monoposto da corsa in grado di sfrecciare a velocità inimmaginabili per l'epoca: oltre i 140 km/h. Durante il periodo bellico della Prima Guerra Mondiale, Ferdinand progetta persino dei motori aeronautici. Quando le armi sono deposte da tempo e siamo nel 1922, Porsche viene nominato Direttore generale della Austro-Daimler e la sua Sasha, macchina da corsa, si impone alla Targa Florio. L'anno seguente, dopo essere stato assunto dalla Daimler-Motoren-Gesellschaft di Stoccarda, a Ferdinand Porsche viene conferita la laurea honoris causa dalla Technische Hochscule. Nel 1931 è giunto il momento per Porsche di mettersi in proprio, fondando nel capoluogo del Baden-Wurttemberg lo studio di progettazione e ingegneria Dr. Ing. h.c. F. Porsche GmbH, Konstruktion und Beratug für Motoren- und Fahrzeugbau. La sede centrale viene issata nel cuore di Stoccarda, nella Kronenstrasse 24.

La Porsche finalmente è un'entità reale e autonoma. I primi anni lavorano nella fabbrica tedesca appena venti operai in modo artigianale, mentre in società si affaccia anche la figura del figlio, Ferdinand "Ferry" Porsche. In Germania, dal 1933, il nuovo cancelliere è Adolf Hitler, che in poco tempo diventa il dittatore del Terzo Reich. La croce uncinata arriva dappertutto e anche Porsche ne resta invischiato. Nel 1938 il Fuhrer gli commissiona un progetto basilare per la massificazione dell'auto, che prevede una vettura economica, pratica e per quattro persone. Porsche risponde con il Maggiolino della futura Volkswagen, che avrà una diffusione limitata prima della Seconda Guerra Mondiale, mentre le sue derivazioni militari (Kübelwagen e Schwimmwagen) arriveranno dappertutto. Nel 1939, finalmente, si vede la prima vettura a marchio Porsche, la Typ 64, una sportiva che trae ispirazione proprio dal Maggiolino.

Porsche si trasferisce in una segheria

I bombardamenti Alleati sopra le sue fabbriche tedesche obbligano Porsche a trasferirsi a Gmünd, in Austria. Qui, in una segheria, riparte la produzione delle sportive vetture teutoniche, che vengono realizzate esclusivamente a mano. Ed è sempre qui, nel cuore della Carinzia, che vengono assemblate le prime 356, prima del nuovo trasferimento a Stoccarda, nel quartiere di Zuffenhausen. Ferdinand, dopo aver passato un periodo di dura prigionia nelle celle francesi e, in seguito alla sua liberazione tramite cauzione pagata dal pilota Piero Dusio, ritorna a dirigere la sua azienda. Purtroppo, l'esperienza dietro alle sbarre ne mina lo spirito e il fisico, e nel 1951 muore a Stoccarda quando ha settantasei anni. L'eredità e l'azienda passano nelle mani di Ferry Porsche, che farà del sogno paterno un mito immarcescibile.

Opel.

Adam Opel, colui che non credeva nelle automobili. Adam Opel è il fondatore dell'omonima azienda che si è imposta nel campo delle quattro ruote. Gli inizi però sono stati molto diversi, con il patriarca scettico sulla bontà delle automobili. Tommaso Giacomelli il 3 Agosto 2023 su Il Giornale.

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 Macchine da cucire e biciclette firmate Opel

 La morte del fondatore e l'inizio della produzione automobilistica

Rüsselsheim am Main è un fortino dell'automobile. Nella cittadina tedesca bagnata dal fiume Meno, l'auto ha messo delle radici salde, come quelle di una quercia secolare. La prima grande fabbrica che qui ha posto la prima pietra è stata Opel, che troneggia dovunque con il suo fulmine, mentre in tempi recenti anche il colosso sudcoreano, Hyundai-Kia, ha fissato qui il proprio centro strategico per la pianificazione e lo sviluppo del mercato europeo. Per tutti, comunque, Rüsselsheim è la città di Opel e non è un caso. Qui il fondatore dell'azienda, Adam, è nato nel lontano 1837 quando le quattro ruote erano soltanto delle carrozze trainate dai cavalli. Il paradosso è questo: quando le prime vetture a motore iniziarono a circolare in Germania, Adam Opel le accolse con un scetticismo mordace, bocciandole in toto; peccato che poi il suo nome si sia legato inscindibilmente a loro.

Macchine da cucire e biciclette firmate Opel

Adam è il figlio di un fabbro, Philipp Wilhelm Opel, che ha la propria officina nel centro di Rüsselsheim. Quando raggiunge l'età idonea al lavoro si avvicina al mestiere paterno in qualità di apprendista. Destino analogo per i suoi fratelli Georg e Wilhelm, intenti a seguire le orme dell'ingombrante padre. Adam, tuttavia, ha sete di conoscenze e desidera ampliare il proprio bagaglio culturale viaggiando. Quando compie vent'anni si trasferisce prima in Belgio, poi in Inghilterra, senza tralasciare una fondamentale tappa a Parigi, la culla dell'Ottocento. Una volta pronto a rientrare nella propria città natale, la sua prospettiva di vita viene stravolta. Nel suo lungo peregrinare in Europa rimane folgorato dalle macchine da cucire, delle quali ha appreso segreti e virtù. Dunque, tornato stabilmente a Rüsselsheim, Adam Opel rileva un magazzino nel centro storico della cittadina dell'Assia e fonda la sua società, la Opel. È il 1862 e l'impresa si rivela da subito azzeccata. L'investimento in questo settore è tempestivo e assolutamente redditizio. Nel giro di pochi anni gli affari lievitano così tanto, che l'azienda cresca a dismisura. C'è la fila per mettere le mani sopra le grandi macchina di Opel.

Nel 1868 Adam si sposa con Sophie Marie Scheller, figlia di un locandiere locale, e mette su famiglia. Il legame tra i due sarà molto saldo e con una numerosa schiera di figli al seguito. I tempi sono propizi per fare un ennessimo allargamento imprenditoriale, così accanto alle macchine da cucito arrivano le biciclette. I velocipedi sono un altro settore dalla grande domanda e Opel non si fa trovare minimamente impreparato. A stretto giro di posta l'azienda di Rüsselsheim diventa uno dei maggiori costruttori di tutta la Germania, senza contare il successo nel campo delle macchine da cucire che ha permesso a Opel di essere leader in tutta Europa. Nel 1884 la Opel può festeggiare un traguardo prestigioso: 18.000 macchine prodotte in un anno.

La morte del fondatore e l'inizio della produzione automobilistica

Nel 1895 il patriarca Adam muore per una febbre tifoide, lasciando alla moglie e ai figli una grande eredità. Prima della sua dipartita ebbe modo di approcciarsi alla grande innovazione della fine del XIX secolo: l'automobile. Vedendo passare questi bizzarri veicoli non trainati da cavalli, o altre bestie da soma, ma alimentate da scorbutici motori a scoppio, Adam Opel ebbe a dire con disprezzo: "Questi aggeggi saranno solo giocattoli per milionari che non sanno come buttar via i loro soldi!". Previsione totalmente errata da parte di un uomo che ha sempre dimostrato intuito e lungimiranza, specialmente negli affari.

Due anni dopo la dipartita del marito, la vedova insieme ai suoi cinque figli maschi, intraprende l'avventura definitiva della propria famiglia: la fabbricazione delle autovetture. Carl, Wilhelm, Heinrich, Fritz e Ludwig Opel prima rilevano la Lutzmannfabrik e poi nel 1909, grazie alla collaborazione della francese Darraq, lanciano la prima utilitaria della loro lunga storia: la Opel 4/8 PS. Il resto è narrazione, la Opel è una delle più grandi realtà dell'automotive, malgrado lo scetticismo dimostrato dall'antico fondatore. Il blitz ha affrontato tragedie e crisi con la testa all'insù e adesso è uno dei principali marchi di Stellantis, un gruppo che parla anche francese come gli amici di Darraq. Per quanto riguarda il futuro, questo sarà ancora legato all'automotive, mentre il nome Opel campeggerà a Rüsselsheim, come fa da oltre un secolo.

Ferrari.

Quando il Drake fu "presunto colpevole". Alla Mille Miglia '57 una "Rossa" esce di strada, 9 i morti. L'Italia è sotto choc. Nino Materi il 6 Agosto 2023 su Il Giornale.

«Il Commendatore», «L'Ingegnere», «Il Mago», «Il Patriarca», «Il Grande Vecchio», «Il Drake». È lunga la lista di soprannomi che hanno accompagnato Enzo Ferrari in un'esistenza dipinta di rosso e profumata di pneumatici. Ma - nonostante su di lui siano stati scritti decine di libri - c'è un appellativo che è sempre rimasto in ombra, come una macchia d'olio per motore incrostata nell'angolo del garage: «Presunto colpevole». Addirittura di «omicidio».

No, Enzo Ferrari non è mai finito in carcere per essere stato corresponsabile di «una strage», ma per questo terribile reato fu processato. E assolto.

Un dramma vero, sconosciuto ai più, che Luca Dal Monte ha il merito di raccontare con piglio documentaristico nel libro «Ferrari, presunto colpevole» (Cairo).

Spiega l'autore: «È la vicenda poco conosciuta del processo per omicidio intentato nei confronti di uno degli italiani più famosi di sempre. Un processo che avrebbe potuto distruggere Enzo Ferrari, e cambiare così la storia (con la S maiuscola, e non solo sportiva) di questo Paese».

Seconda domenica di maggio 1957: durante la 24ª edizione della Mille Miglia, la «Rossa» guidata dal marchese spagnolo Alfonso De Portago esce fuori strada travolgendo un gruppo di spettatori che assistevano alla corsa, uccidendone nove tra cui cinque bambini; nell'incidente perdono la vita anche De Portago e il suo co-équipier, l'americano Edmund Nelson.

La gara, incredibilmente, non viene sospesa. I giornali titolano: «Vergogna, chi è il colpevole?». De Portago è morto. Serve un capro espiatorio. E chi meglio del costruttore dell'«auto killer?»: Enzo Ferrari, appunto. Che così si ritrova sul banco degli accusati in un'indagine tesa più che altro a calmare un'opinione pubblica scioccata dal dramma. A Ferrari vengono ritirati patente e passaporto, proprio come se al volante della «macchina assassina» ci fosse stato lui.

All'incriminazione per «omicidio colposo plurimo» si aggiunge l'anatema morale della Chiesa che sull'Osservatore Romano riserva all'imprenditore modenese un ritratto impietoso, definendolo un «Saturno ammodernato che divora i propri figli», dove «per figli» si sottintendono i piloti sacrificati sull'altare del dio denaro.

Le pagine scritte da Dal Monte corrono via senza mai far scendere il tachimetro dell'attenzione. Ritmo e accelerazioni non mancano.

Ultimo capitolo: «Il verdetto». Con l'imputato Enzo Ferrari «assolto per non aver commesso il fatto»: epilogo giudiziario prevedibile, ma non scontato. Siamo pur sempre in Italia...

Quando Enzo Ferrari fu accusato di omicidio plurimo. Nel maggio del 1957, durante la Mille Miglia, una Ferrari esce di strada e uccide 9 persone: sorge un assurdo processo a carico del costruttore, che è costretto a provare la sua innocenza anche se non era al volante. Paolo Lazzari  il 23 Luglio 2023 su Il Giornale.

Scala le marce il marchese Alfonso De Portago. Scorre veloce sul nastro d'asfalto, sospinto da un motore sontuoso. Slaccia un sorriso ogni volta che accelera, divorando le curve della Mille Miglia del 1957, nella zona di Mantova. La folla assiste rapita alla danza di quei bolidi che sfrecciano a due passi. Per la normativa di sicurezza citofonare più tardi, grazie. Viaggia, il nobile iberico, inconsapevole dello sfacelo che sta per generare. Sgasa in concomitanza di una svolta stretta. La vettura si imbizzarrisce. De Portago prova a riprenderla, ma sbanda. E si infila dritto in mezzo alla folla circostante, falciandola. Muore lui. Muore il copilota, l'americano Edmund Nelson. E perdono d'un tratto la vita altre nove persone, di cui cinque bambini. Una tragedia immane che scuote il circuito. Gara sospesa, ma soltanto dopo tre ore, alle sette di sera. Piloti che schivano i cadaveri. La carcassa della macchina che fluttua in un fosso. Il marchese - scena raccapricciante - tagliato a metà da un palo dopo essere stato sbalzato fuori. Lutto lancinante.

Ma quel che ne consegue è francamente bizzarro. Subito dopo i funerali sgorga la polemica. Va trovato un colpevole. Un capro espiatorio. Non certo De Portago, che è passato a miglior vita. Nemmeno chi lo coadiuvava dal sedile a fianco. Se di qualcuno deve essere la responsabilità, bisogna che sia vivo e vegeto per istruire un processo a suo carico. E quel qualcuno viene presto identificato in Enzo Ferrari, il costruttore modenese che ha plasmato quel sogno rosso. Le forze dell'ordine lo fermano, lo perquisiscono, gli ritirano persino il passaporto. Pare assurdo, ma è tutto reale. A processo per omicidio colposo plurimo. Anche se alla guida non c'era mica lui. Però la perizia tecnica ordinata dal tribunale è un pugno nello stomaco. Il mezzo era sufficientemente sicuro per viaggiare in quel modo? Apparentemente no.

D'un tratto Ferrari si sente protagonista involontario di un horror. Anche perché, accanto allo zelo dei giuristi, si moltiplica la furia del popolo, su cui soffiano da ogni lato. L'ossigeno maggiore per questa fiamma giunge dalla chiesa che - come ha ricordato Luca Dal Monte nel suo libro "Ferrari, presunto colpevole" - tramite l'Osservatore Romano fa saper che il costruttore è "Un Saturno ammodernato che divora i propri figli". Tradotto: manda al macello i suoi piloti, facendoli salire su vetture non sicure.

Del resto la perizia sembra rivelare chiaramente che quelle gomme lì erano inadatte. Che non potevano resistere alle sollecitazioni di una velocità come quella raggiunta dal mezzo. Quegli undici morti vanno giustificati. Enzo Ferrari, all'apice del successo, rischia di vedere sbriciolata in un amen la sua prodigiosa carriera. Non solo: se perde lo sbatteranno in galera per decenni, considerata la moltiplicazione della pena.

Si affida, allora, al luminare del diritto Giacomo Cuoghi. Insieme a lui predispone una inscalfibile memoria difensiva. Per scagionarsi dimostra dapprima che i periti del tribunale non possiedono le competenze tecniche richieste per emettere quel genere di verdetto. Poi imbastisce una contro perizia, riuscendo a dimostrare che gli pneumatici sono sì esplosi, ma mica per la sollecitazione della velocità. A bucarli irrimediabilmente è stato l'urto contro uno degli "occhi di gatto" che delimitano il centro della strada. Touché. Enzo è salvo in corner. Scansa quella raffazzonata ipotesi di responsabilità oggettiva e torna a respirare nel 1961, quattro anni dopo la tragedia.

Ma chissà che ne sarebbe stato della macchina più amata e invidiata al mondo, se lo avessero messo dentro gettando via la chiave.

Ecce auto. Il gelido pomeriggio del 1899 in cui nacque il mito del cavallo della Ferrari. Enrico Brizzi su l'Inkiesta il 22 Maggio 2023.

Alla guida della prima automobile mai comparsa a Modena c’è Fredo Ferrari, padre di Enzo. Enrico Brizzi racconta per HarperCollins la giovinezza del fondatore della scuderia nel primo volume di una saga dedicata al «Signore delle Rosse»

Appena Gisa si riebbe dalla meraviglia di vedere Fredo alla guida del De Dion, orgoglioso come l’auriga del mitico carro del sole, un pensiero la fece raggelare: quella voiturette dalla carrozzeria turchese doveva essere costata una fortuna.

Ormai s’era impadronito di lei l’orribile sospetto che il marito avesse sostenuto metà della spesa, indebitandosi a vita, e dal momento che in Emilia sono le donne ad amministrare le finanze di casa, sentì il sangue andare alla testa.

«Aspetta, Fredo!» gridò prima che gli ambasciatori del progresso si allontanassero tra due ali di folla. «Dov’è che corri?»

Il guidatore non le prestò attenzione, così Gisa si gettò in strada col figlio maggiore per mano e il piccolo Enzo stretto in braccio. Risalì senza complimenti il drappello dei Notturni, si fece largo fra mocciosi e quadrupedi, e appena riuscì ad affiancare il marito gli ruggì addosso:

«Non eri al lavoro, tu?». «Tesoro!» esclamò lui, meravigliato di trovarsela accanto e, rallentando l’andatura, le sorrise beato. «Hai visto?» domandò. «Alla fine ce l’abbiamo fatta!»

«Ti credevo in officina» protestò lei, marciando al passo con la vettura.

«Volevamo fare una sorpresa» bofonchiò suo marito, mentre Leonida decantava a gran voce le virtù degli automobili, gli scintillanti draghi dal fiato arroventato che s’apprestavano a colonizzare le strade d’Europa.

«È riuscita una carnevalata!» osservò lei con un cenno alla folla che li assediava, e subito si peritò di aggiungere: «Comunque ’sto trabiccolo fa una puzza orrenda».

Lui si strinse nelle spalle. «Butta un po’ di fumo» concesse, staccando la destra dal volante per salutare a sua volta i concittadini. «Ma non è una meraviglia?»

«Quante arie che ti dai!» osservò Gisa, irritata, e andò dritta al punto: «Giurami che non hai fatto debiti, boione!». «Ne parliamo a casa» mormorò lui, in un tono implorante che non si capiva se fosse un proposito o una domanda.

Allora lei allungò il fagotto dal quale sporgeva il visetto di Enzo verso il guidatore e mugolò esasperata: «Hai delle responsabilità, Fredo! Io sono quasi andata all’altro mondo per dare alla luce i nostri figli, e tu devi pensare al loro futuro!».

Fredo annuì grave, abbassando le palpebre sotto gli occhialoni. Il parto del maggiore era stato complicato, il secondo addirittura drammatico. Erano serviti due giorni e due notti, prima che la puerpera e il neonato fossero dichiarati fuori pericolo, e solo a quel punto lui s’era spinto all’anagrafe per denunciare la nascita di Enzo.

Rabbrividì nel ripensare a quei momenti, relegati in una piega angosciosa della memoria, e provò un bisogno fisico di guardare i suoi figli; sorrise a Dino, che filava di buon passo accanto alla vettura supplicando di essere preso a bordo, quindi rivolse uno sguardo colmo di tenerezza al piccolo di casa che, risvegliato dal trambusto, chiosava il battibecco dei genitori coi suoi versi di bebè.

«Se levi il pane di bocca ai bambini per soddisfare i tuoi capricci, giuro che ti strappo gli occhi.» Gisa riprese a tormentarlo. Fredo provò la tentazione di dare gas, ma al dunque si sporse verso di lei e sussurrò: «È stato Leonida a sobbarcarsi la spesa. Te lo giuro, tesoro».

«Spero per te che non sia una balla» lo minacciò Gisa, e aggiunse un’ottava sotto: «Ti crederò solo quando avrò visto i conti della banca». «E fammi un sorriso, bella donna!» la confuse Fredo. «Sei la moglie del primo automobilista della città! Non ci pensi che, un giorno, i nostri figli ne saranno orgogliosi?»

Gisa gettò un’occhiata alla gente che applaudiva da sotto il portico, e d’un tratto si sentì gravare addosso la mole di spiegazioni che avrebbe dovuto fornire nei giorni a venire. «Ne parleranno per mesi» esalò. «Lo verranno a sapere anche a Marano».

«Perdiana!» gridò di soprassalto Leonida afferrando la spalla dell’amico. «Quella bestia è impazzita!» e il guidatore realizzò che a man destra, venti passi avanti al muso dell’automobile, un campagnolo in cappa e gambali di cuoio stentava a trattenere per la cavezza un cavallo morello.

«Via, Gisa!» intimò Fredo. «Metti in salvo i bambini!» e, mentre lei trascinava la prole al riparo del colonnato, azionò con energia la tromba d’avviso.

Il cavallo, nell’udire quel richiamo, diede un nitrito disperato e imbizzarrì in via definitiva, quasi riconoscesse nella vettura che avanzava verso di lui un predatore mortale: provò a scalciare, fece scintillare il lastricato con i ferri che portava agli zoccoli e, per quanto i carabinieri dessero man forte al suo proprietario, trovò l’energia per scrollarsi gli uomini di dosso.

Leonida gettò a Fredo un’occhiata disperata. Fermarsi sotto gli occhi di tutta quella gente sarebbe stato uno scacco insopportabile. «Macchina avanti tutta!» Gisa sentì gridare mentre il morello, in preda al fomento, si rizzava sulle zampe posteriori.

«Non saranno le bizze di un animale a fermare la corsa del progresso!» Il guidatore azionò la leva del cambio di marcia, la vettura diede un rauco colpo di tosse e prese velocità; adesso filava scoppiettando verso Porta Bologna, e il corteo degli ammiratori non riusciva più a starle dietro.

«Il babbo va addosso al cavallo!» strillò Dino, e Gisa si avvide che anche il bimbo infagottato tra le sue braccia fissava la scena a occhi sbarrati. «Buono, Enzino» si raccomandò, scuotendolo dolcemente come faceva quando accennava un pianto.

«Va tutto bene» ma il piccolo non sembrava sul punto di frignare, anzi pareva ipnotizzato da quello spettacolo inaudito: gli sforzi degli uomini per ridurre il destriero schiumante alla ragione, i fasci di muscoli che guizzavano sotto il mantello corvino, una nuova impennata.

E, ancora, i versi striduli della tromba, le grida che salivano d’attorno, il tremore improvviso che sembrava scuotere il corpo di sua madre; finalmente, la traiettoria ampia della curva con cui Fredo, arrivando a rasentare i paracarri dei portici, passava con maestria al largo dal pericolo.

Quando si ha avuto la sorte di vedere cose straordinarie coi propri occhi non c’è bisogno di inventare nulla: fu così e in nessun altro modo, signore e signori, che in un gelido pomeriggio del 1899 l’automobile e il cavallo apparvero per la prima volta a Enzo Ferrari.

2023 Enrico Brizzi – Pubblicato in accordo con MalaTesta Lit. Ag. Milano

2023 HarperCollins Italia S.p.A., Milano 

Da “Enzo. Il sogno di un ragazzo” di Enrico Brizzi, HarperCollins464 pagine, 20 euro.

Il Lingotto.

Il Lingotto compie 100 anni: maggio 1923 - maggio 2023. Dario Basile su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2023 

Progettato nel 1915 da Giacomo Matté Trucco lo stabilimento di via Nizza diventa presto uno dei principali esempi italiani di modernità architettonica. Le Corbusier lo definì «uno degli spettacoli più impressionanti che l’industria abbia mai offerto» 

Sono passati cento anni da quando, nel maggio del 1923, il re Vittorio Emanuele III inaugurava il nuovo stabilimento Fiat Lingotto. Il celebre architetto Le Corbusier considerava quell’edificio come «un documento per l’urbanistica» e, ancora oggi, quella costruzione rappresenta il passato e il futuro di Torino. Il Lingotto è il simbolo per eccellenza del passaggio dalla città fabbrica a quella postindustriale. Dove un tempo gli operai erano freneticamente impegnati ad assemblare componenti dei motori ed elementi della carrozzeria oggi le persone passeggiano spensierate tra vetrine, alberghi, ristoranti e aule universitarie. Un cambiamento radicale partito da lontano e che sembra essere giunto in qualche modo al suo compimento con la recente riconversione in giardino pensile e spazio espositivo della vecchia pista di collaudo sul tetto dell’edificio. Risalire a piedi la rampa elicoidale del Lingotto per giungere alla «Pista 500» è un’esperienza da consigliare. È un po’ come ripercorrere a ritroso la storia della città.

Progettato nel 1915 da Giacomo Matté Trucco lo stabilimento di via Nizza diviene ben presto uno dei principali esempi italiani di modernità architettonica tanto che Le Corbusier lo definisce: «uno degli spettacoli più impressionanti che l’industria abbia mai offerto». Quella struttura non è però solo interessante da un punto di vista architettonico, l’edificio rispecchia una nuova organizzazione del lavoro. Alla sua nascita è il più grande stabilimento europeo destinato alla produzione di serie. Seguendo l’esempio statunitense i dirigenti della fabbrica automobilistica torinese si rendono conto che per migliorare la produzione occorreva ridurre al minimo lo spostamento degli operai dal loro posto di lavoro. 

La pista sopraelevata fotografata nel 1966

Secondo il modello fordista, bisognava far procedere il prodotto in costruzione attraverso i vari reparti. La nuova fabbrica di via Nizza permetteva di concentrare in un’unica struttura le diverse parti del ciclo di lavorazione dell’automobile e rappresentava una nuova fase in quella costante ricerca di razionalità organizzativa inseguita dalla fabbrica automobilistica torinese fin dai suoi esordi. La lavorazione delle varie componenti dell’autovettura era suddivisa per piani e l’operaio della catena di montaggio era parte di un ingranaggio produttivo che non doveva mai interrompersi. Al primo piano avveniva lo stampaggio della lamiera, al secondo l’assemblaggio dei motori, al terzo la lavorazione degli ingranaggi, al quarto la verniciatura, al quinto montaggio e finiture.

A quel punto l’auto era pronta ma prima di essere inviata al reparto spedizione doveva essere sottoposta al collaudo sul tetto dell’edificio. Le rampe elicoidali rappresentavano il principale sistema di movimentazione verticale e collegavano le aree di produzione tra loro fino alla pista sopraelevata. L’ascensione dei manufatti ricordava in qualche modo i gironi danteschi e l’arrivo alla pista di prova delle automobili, appena assemblate, sembrava sottendere a una sorta di idea morale insita nello stabilimento. Quel circuito dove le macchine sfrecciavano a un passo dalle nuvole non poteva non ricordare il paradiso.

Di straordinario rilievo plastico la pista occupa l’intero piano di copertura delle officine. Lunga circa un chilometro e mezzo è formata da due rettilinei di 443 metri l’uno raccordati da due curve paraboliche. Il tracciato continuo viene progettato per sostenere il collaudo simultaneo di 50 automobili appena uscite dalla produzione.

Nella storia del Lingotto sono molti i modelli che sono transitati sul tetto della fabbrica: dalla Fiat 501 degli anni Venti fino alla Lancia Delta degli anni Ottanta. Fiore all’occhiello della casa automobilistica la pista era una tappa obbligata per sovrani, cardinali e uomini di cultura che negli anni si sono succeduti nella visita agli stabilimenti. Il giro panoramico sul tetto, per godere di una spettacolare vista su Torino, era il momento clou del tour della fabbrica. Quel privilegio, un tempo riservato a pochi, oggi è accessibile a tutti. La vecchia pista di collaudo è divenuta la «Pista 500», un polmone verde a 28 metri di altezza con più di 40.000 piante di oltre 300 specie autoctone diverse. Il nuovo spazio riconvertito è anche un ambizioso progetto di arte pubblica che abbellisce la Pista con un percorso espositivo curato dalla Pinacoteca Agnelli.

Il giardino pensile viene arricchito regolarmente con nuove istallazioni di artiste e artisti internazionali ideate appositamente per quello spazio. Il prossimo 4 maggio l’area accoglierà la nuova opera «Pistarama» dell’artista francese Dominique Gonzalez-Foerster che andrà ad aggiungersi alle installazioni già presenti sulla Pista. L’opera della lunghezza totale di 150 metri, prendendo spunto dalla storia politica e culturale di Torino, vuole celebrare il modo in cui le azioni collettive delle persone possono diventare agenti del cambiamento sociale. Non sappiamo se la classe operai andasse in paradiso ma le automobili certamente sì.

Pio Manzù.

Pio Manzù, un talento portato via da un beffardo destino. Pio Manzù è morto all'età di trent'anni in un incidente stradale, ma nella sua breve vita ha dato un contributo prezioso alla storia dell'automobile. Tommaso Giacomelli il 19 Marzo 2023 su Il Giornale.

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 Un talento precoce

 Pio Manzù, giovane ma prolifico

A maggio i giorni si fanno più intensi, la primavera raggiunge il suo massimo splendore, la natura è rigogliosa e basta puntare il naso all'aria aperta per assaporarne i profumi e i sapori. Le notti sanno quasi di estate, anche se talvolta una brezza freschina ti ricorda che non è ancora il momento di scoprirsi più di tanto. In una di quelle sere, come tante altre, Pio Manzù promettente e talentuoso designer anche di Fiat, allievo prediletto di Dante Giacosa, prende la 500 della moglie per tornare a Torino dalla Lombardia, sua terra di origine. All'altezza del casello di Brandizzo, quando le ore si fanno molto piccole, la vettura di Manzù sbanda e va fuori strada. La piccola utilitaria è accartocciata, il giovane viene estratto dalle lamiere ed è in condizioni gravissime. Nel viaggio in ambulanza, purtroppo spira. È il 29 maggio del 1969, Pio Manzù aveva soltanto 30 anni ma in tasca aveva un futuro scintillante. Il suo estro era baciato dalle stelle, ma un destino crudele lo ha spezzato quando per lui la stagione era ancora verde. Nella sua breve vita ha comunque lasciato il segno, il suo impatto nel mondo dell'auto è stato rilevante. Pensare che quella sera avrebbe consegnato ai vertici del Lingotto il suo progetto per la Fiat 127, quello che poi sarebbe stato premiato come vincente. In tutti i sensi, perché la compatta torinese sarebbe arrivata nelle catene di montaggio nel modo in cui lui l'aveva pensata e immaginata. Ahimé, questo trionfo non lo ha potuto assaggiare di persona, ma la gloria - seppur postuma - nessuno gliela può togliere. Chissà, quanti altri progetti avrebbe potuto dedicare all'automobilismo, e non solo. Ma sfortunatamente, non lo sapremo mai.

Un talento precoce

Pio Manzoni, detto Manzù, nasce a Bergamo nel 1939. È un figlio d'arte perché suo padre, Giacomo, è una delle figure più rilevanti della scultura italiana del '900. Pio, invece, è un talento in erba, ma si capisce fin da subito la sua stoffa pregiata. Dopo gli studi classici e la laurea all'università di Ulm, in Germania, presso la facoltà di disegno industriale, il giovane ragazzo si cimenta in svariati progetti, dagli arredi al design automobilistico. Dante Giacosa, deus ex machina della Fiat, lo vuole sotto la sua ala. Ha il desiderio di portarlo all'ombra della Mole per rinforzare la batteria di geniali designer di Torino. In molti al Lingotto non gradirebbero la figura di un esterno, quale sarebbe Manzù, ma devono ricredersi una volta visto il ragazzo all'opera. Nel suo primo anno di apprendistato è capace di sfornare un concept geniale, pionierstico e precursore del genere dei monovolume: si tratta del City Taxi. Piccola fuori e grande dentro, con delle soluzioni stilistiche brillanti, questo prototipo sarà la base per la futura 126, l'auto che andrà a sostituire la gloriosa 500. Vista la fama ottenuta con questo progetto, alla Fiat lo mettono alla prova con un compito ambizioso e stimolante: concepire la futura 127. Un'automobile importante e che dovrà dominare il mercato a livello continentale. Come detto, la sua idea sarà azzeccata.

Pio Manzù, giovane ma prolifico

In soli trent'anni, Pio Manzù è stato in grado di incidere profondamente nel settore del design, non soltanto a quattro ruote. Certo, le sue celebri creazioni per Fiat, che abbiamo elencato poc'anzi, sono eccezionali per modernità e per il linguaggio stilistico efficace e tagliante, ma il nativo di Bergamo è stato produttivo anche in altri settori. È suo il Cronotime, il primo orologio italiano a transistor, ancora oggi presente nel catalogo Alessi ed esposto al MOMA di New York. Stessa cosa dicasi per il portaoggetti della Kartell e la lampada Parentesi di Flos, vincitrice del Compasso d’Oro 1979 e tutt'ora nel catalogo dell'azienda. Manzù ha realizzato persino un brillante autobus per l’azienda tedesca Magirus-Deutz, oltre a sviluppare altri interessanti progetti per Piaggio, Olivetti, Autobianchi e NSU. Se quel maledetto colpo di sonno non lo avesso colpito in quella tragica notte di maggio del '69, chissà come si direbbe di Pio Manzù oggigiorno. Uno dei più brillanti e sfortunati geni d'Italia.

Le più brutte.

Le 10 auto più brutte di sempre secondo Walter De Silva: «La peggiore? La Tesla Cybertruck». Edoardo Nastri su Il Corriere della Sera il 28 marzo 2023

La top 10 fatta dal famoso designer, papà dell’Alfa Romeo 156 e dell’Audi A5. Nell’elenco auto da tutto il mondo, comprese due Fiat del passato

«Brutte e senza concetto»

Sgraziate, sproporzionate, senza funzione. In una parola: brutte. Di auto così se ne vedono molte, ma quali sono le peggiori della storia ? Lo abbiamo chiesto a Walter De Silva, uno dei più noti designer automobilistici del mondo, già capo dello stile di Alfa Romeo e del gruppo Volkswagen e papà di modelli come l’Alfa Romeo 156 o l’Audi A5. «La classifica sarebbe ben più nutrita di 10 modelli, ma ho voluto lasciare fuori quelli che, seppur brutti, avevano un concetto, una funzione e uno scopo. Insomma, quelli che erano brutti, ma intelligenti», ci racconta sorridendo il progettista.

Tesla Cybertruck

L’auto più brutta della storia è, secondo De Silva, il Tesla Cybertruck, l’ultimo pickup elettrico annunciato da Elon Musk che, dopo innumerevoli rinvii, dovrebbe arrivare sul mercato entro fine anno. «Non è un’automobile, ma un modo di esibirsi senza alcuna logica», spiega De Silva. «Lo vedi e manca tutto: non ci sono proporzioni, non c’è un concetto, solo spigoli messi a caso qua e là per apparire. Rispecchia bene i tempi che viviamo: si gioca a chi la spara più grossa così se ne parla, ma la sostanza sotto sotto non c’è. È come se Musk fosse andato al festival di Sanremo a cantare vestito nel modo più eccentrico possibile. Non importa se manca la canzone, si parla comunque di lui».

Gac M8

«Per la seconda più brutta voliamo in Cina: qui Gac, uno dei più grandi gruppi della Repubblica popolare, ha realizzato un capolavoro della sproporzione: la M8», racconta De Silva. «L’immagine spiega tutto, c’è ben poco da dire: bruttissima. La parte peggiore è la griglia frontale enorme, senza alcun senso». De Silva sottolinea come il vizio delle griglie smisurate stia prendendo anche diversi costruttori europei: «Da Lexus ad Audi a Bmw è tutto un proliferare di frontali sgraziati, ma qui almeno si risponde a logiche di mercato. Il caso di Gac è solo cattivo gusto».

Austin Allegro

Per la medaglia di bronzo andiamo indietro nel tempo: Inghilterra, 1973. «Di Allegro questa Austin ha solo il nome. Era una vettura pensata per la classe media, nata per rispondere alle esigenze di risparmio e spazio, ma il risultato è davanti agli occhi di tutti. Sgraziata e sproporzionata ha segnato un’epoca per la sua bruttezza». L’intenzione sarebbe stata quella di prendere il posto della BMC Ado 16 disegnata da Alec Issigonis, papà della Mini, il risultato estetico però fu penoso nonostante le oltre 660 mila unità vendute. «L’apice della bruttezza lo raggiunge nella versione familiare, dove si trasforma in una specie di van: guardare per credere».

AMC Gremlin

«Voliamo negli Stati Uniti per parlare della bruttissima AMC Gremlin. L’intenzione era realizzare un’auto a tre porte, forse shooting brake, per rilanciare il brand. Il risultato fu pessimo perché nacque un modello che effettivamente non apparteneva a nessuna categoria: era solo brutto».

Ford Anglia

«La Ford Anglia è una di quelle auto che non sono stilisticamente servite a nulla: voleva imitare le auto americane ma non ci riuscì e fortunatamente non venne importata in Europa». Un disastro dal punto di vista stilistico che venne presto sostituito da un modello azzeccato, ben presto di successo ed esportato in tutto il Vecchio continente: la Ford Escort. La Ford Anglia è apparsa anche nel primo film della saga di Harry Potter.

Fiat Argenta

«Un capolavoro di bruttezza. Era una berlina di medie dimensioni uscita nel 1981, molto molto triste nelle linee quasi sovietiche. Troppo squadrata, decisamente impersonale, avrebbe dovuto essere un’ammiraglia ma il risultato finale è quello sotto gli occhi di tutti». È stata prodotta fino al 1985 e poi sostituita dalla Fiat Croma.

Fiat Duna

«Credo che sia un’opinione comune: la Duna è stata una delle Fiat più brutte in assoluto. Nata per il sudamerica ma importata anche in Italia, veniva prodotta in Brasile e Argentina. Una nota positiva? Lo spazio interno buono per la sua categoria». La Duna ha sostituito la mitica 128 («auto di tutt’altro spessore anche estetico») ed è andata in pensione addirittura nel 2000 con l’arrivo della Fiat Siena.

Renault 10

«La storia della Renault 10 (o R10, come veniva ufficiosamente chiamata) è strettamente collegata a quella della Renault 8, della quale era in pratica una variante maggiorata. Il problema è che per risparmiare al massimo i progettisti di fatto allungarono solo anteriore e posteriore squadrandoli il più possibile e ottenendo forme davvero brutte».

Simca 1000

«Un mito per la sua bruttezza. La Simca 1000 è diventata un po’ un simbolo di un matrimonio, quello tra il costruttore francese Simca e la Fiat, riuscito male. Nonostante le linee e soprattutto le proporzioni sgraziate fu un successo commerciale». Gli esemplari venduti furono quasi 1,7 milioni e fu prodotta fino al 1978.

NSU Prinz

«Dalla classifica non lasciamo certo fuori i tedeschi che con la NSU Prinz, piccola vettura a tre porte, hanno realizzato un capolavoro di banalità. Il disegno è estremamente piatto e privo di qualsiasi emozione, unico respiro quel rigoletto che gira intorno alla vettura, senza anima». Sarà sostituita nel 1973 dalla Audi 50.

Fiat Nuova 1100.

Fiat Nuova 1100, la borghesia ha il suo nuovo destriero. La Fiat Nuova 1100 è stata presentata nel marzo del 1953 al Salone dell'Automobile di Ginevra. Prodotta anche in India è arrivata fino al 1999. Tommaso Giacomelli il 4 Aprile 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il debutto al Salone di Ginevra

 Più versioni, una sola anima

 I vari restyling

 La Fiat 1100 in giro per il mondo

L'Italia apre gli anni Cinquanta del secolo scorso con un rinnovato ottimismo, innescando una serie di reazioni agli orrori della guerra, che l'avrebbero proiettata da lì a breve a una nuova prosperità collettiva: il boom economico. Nel 1949, però, le cicatrici del cataclisma bellico si mostravano ancora aperte lungo tutto lo Stivale, anche se il morbo della rinascita era già stato instillato nell'aria e gli italiani potevano respirarlo a pieni polmoni. Alla Fiat dopo essersi leccati le ferite per troppo tempo, giunge il momento di tornare a fare qualcosa di innovativo e di brillante, che avesse il sapore della rivincita. Osservando il gusto degli italiani, al Lingotto capiscono che la borghesia inizia a nutrire più esigenze, mentre il rapporto con l'automobile muta. Adesso servono più velocità, più spazio e maggiore versatilità con un occhio di riguardo alle dotazioni. La classe media italiana vuole spostarsi rapidamente e raggiungere le proprie destinazioni con stile e comfort. In questo periodo, dunque, nasce l'embrione del progetto Fiat Nuova 1100.

Il debutto al Salone di Ginevra

Esattamente sessant'anni fa, al Salone dell'Automobile di Ginevra 1963, debutta dunque la Fiat Nuova 1100. La dicitura che annuncia l'anima innovativa di questo modello non è casuale, perché la berlina torinese ha delle caratteristiche molto all'avanguardia per il suo periodo, pur rimanendo classica sotto altri aspetti. Dotata di scocca portante e carrozzeria con parafanghi integrati a 4 porte e 3 volumi, coda corta molto sinuosa e tondeggiante, cattura lo sguardo e le attenzioni di tutti. È fresca e convincente, in più sembra possedere tutte quelle doti ideali per entrare nel cuore della gente.

Sono anni in cui il cinema americano penetra nell'immaginario collettivo degli italiani e la 1100 vagamente può assomogliare a una delle automobili d'Oltreoceano che si vedono sul grande schermo, seppur con delle proporzioni europee e uno stile tremendamente italiano. Il buon padre di famiglia accetta di buon grado di firmare delle sanguinose cambiali pur di darla in dote a moglie e figli, come nuova carrozza da viaggio.

Più versioni, una sola anima

Il suo nome deriva dal propulsore che si cela sotto al tondeggiante cofano anteriore: un quattro cilindri con albero a camme laterale di 1089 cc. Un motore solido, robusto e ben consolidato, avendo già equipaggiato la versione antecedente a quella dei primi anni Cinquanta. La nuova 1100, poi, si presenta ai nastri di partenza con due versioni: la Tipo A, più spartana ed economica, e la Tipo B, meglio equipaggata e rifinita. Il colpo di genio della casa torinese è la possibilità di far sedere a bordo della propria vettura ben sei persone. Un'abitabilità da competizione per una macchina che misura appena 4 metri.

Nel 1954, poi, arriva la più pragmatica di tutte: la "giardinetta", la station wagon della famiglia. Nel frattempo, però, era uscita anche la versione TV (turismo veloce), dotata di qualche cavallo in più e destinata a chi al volante vuole anche divertirsi con una guida brillante, magari con guanto in pelle con il quale accompagnare le veloci cambiate. Infine, nel 1955 arriva anche la più frivola e sbarazzina: la Trasformabile, piccolo spiderino dai tratti molto americaneggianti.

I vari restyling

Nel corso degli anni la Fiat Nuova 1100 va incontro a varie operazioni di ringiovanimento, ma quello più sostanziale è datato 1966. In concomitanza con il lancio della nuova vettura di punta del marchio, la 124, a Torino pensano bene di non disfarsi di un modello così apprezzato e gradito, anche se gli donano un ruolo più "proletario". La 1100 diventa più povera, ma sempre con grande dignità. Anche stilisticamente toglie le pinne e le varie rotondità, per accogliere un design più squadrato e duro. Questa operazione permise alla berlina di restare nel palinsesto di Fiat fino all'anno 1969, prima di salutare l'Italia per diventare protagonista in altri lidi, ancora bisognosi di un'auto così solida e pragmatica.

La Fiat 1100 in giro per il mondo

Chiusa una porta si apre un portone, dice il popolare adagio. Stessa sorte accade alla Fiat 1100, che ritenuta al pari di un ferro vecchio dal popolo borghese degli anni Settanta, trova rifugio e una seconda giovinezza in un mercato lontano come quello dell'India. Fu direttamente il costruttore indiano Premier a voler ospitare nelle proprie catene di montaggio l'eccellente vettura italiana, rivelando la licenza alla Fiat nel 1967. Costruita nella città di Pune, la 1100 d'India era in tutto identica a quella italiana, compreso il motore da 1089 cc e 48 CV. Questo veicolo ha stabilito un notevole record di longevità, restando in commercio fino al 1999, sfiorando con mano le soglie del nuovo millennio, dopo aver collezionato oltre un milione di esemplari venduti. Un destino da world car simile ad altre sue colleghe illustri, come le più recenti Uno e 128. Se Giuseppe Garibaldi è stato l'eroe dei due mondi, anche la Fiat 1100 può candidarsi a un analogo ruolo ma con le quattro ruote al posto dei piedi.

Lancia Thema.

Lancia Thema, ammiraglia seducente e regina di eleganza. Tommaso Giacomelli il 27 Marzo 2023 su Il Giornale.

Lancia Thema è un'ammiraglia elegante e raffinata, nata dalla matita di Giugiaro, dominatrice della scena italiana per oltre un decennio

Tabella dei contenuti

 Una storia d'amore con gli italiani

 Elegante e opulenta

 Lancia Thema, quando il secondo capitolo è meglio del primo

 Il finale di carriera

 Familiare e con motore Ferrari

Nel 1984 il Presidente della Repubblica Italiana è Sandro Pertini, omaggiato dal Toto Cutugno nazionale nel suo più grande tormentone, "L'italiano", con il quale stava sulla cresta dell'onda dall'anno precedente. Una strofa di quella canzone parla del vezzo tipico dell'automobilista italico di passare il tempo con l'autoradio sempre nella mano destra. Un dipinto veritiero di un Paese e di una popolazione che ha avuto sempre un debole per le macchine, stimolato da una cultura e da una tradizione splendente in fatto di quattro ruote. In quel periodo la nuova stuzzicante ossessione si chiama Lancia Thema.

Una storia d'amore con gli italiani

La prima uscita ufficiale della Thema avvenne a casa sua: al Salone dell’Automobile di Torino nel novembre del 1984. Per gli italiani fu amore a prima vista, di quelli che fanno venire il battito accelerato, l'iper salivazione e le farfalle nello stomaco. Il merito è di quelle linee tanto semplici quanto calde, eleganti e classiche, interpretate magistralmente dalla matita di Giorgetto Giugiaro. In un colpo solo, come quando si sparecchia una tavola imbandita, tutte le competitor dell'ammiraglia di Lancia divennero obsolete. Intorno alla Thema si creò un sentimento di puro desiderio, quasi peccaminoso, con gli automobilisti più disparati tra loro, che la misero nel mirino per conquistarla il prima possibile.

elle concessionarie di Lancia arrivarono frotte di professionisti, imprenditori, scalatori delle finanza e yuppies all'italiana, con l'orologio sopra al polsino come Gianni Agnelli, a ordinarne una per rappresentare al meglio il loro stato sociale: la Thema significa che ce l'hai fatta. La puoi mostare con orgoglio ai parenti, ai colleghi e ai vicini di casa, per farli ingelosire quanto basta. Il filtro d'amore, poi, viene deglutito anche dallo Stato, che la rende ufficialmente una delle sue predilette "auto blu". In fondo l'abito scuro le dona. La lunga storia d'amore ha inizio.

Elegante e opulenta

La Lancia Thema è figlia di un progetto ambizioso, innovativo, moderno e ben congegnato. Per lei viene concepito un pianale razionale, dove si possono abbinare comfort, abitabilità e guidabilità a un livello eccellente. Questa piattaforma prende il nome di "Tipo 4" che il Gruppo Fiat, in un'ottica di economia di scala e di sinergia tra marchi, distribuisce anche ad altre grandi berline: Fiat Croma, Saab 9000 e, successivamente, Alfa Romeo 164. Il suo designer, Giugiaro, studia per la Thema un intreccio di linee pulite, geometriche, decisamente classiche. I tre volumi sono abilmente bilanciati con poche cromature e senza guarnizioni e gocciolatoi alle portiere, che la rendono ancora più aggraziata.

Oltre all'aspetto puramente estetico, rispettando l'adagio in cui l'occhio vuole la sua parte, offrono una grande esaltazione anche gli allestimenti interni, con i sedili che possono essere rivestiti da un pregiato velluto, dall'Alcantara, e - per la prima volta in un auto di serie - dalla pregiata pelle Poltrona Frau. Il suo possessore deve restare ammaliato, attonito e soddisfatto dell'oggetto che capita sotto alla sua mano. Il metodo migliore per farlo sono gli optional: sedili regolabili e riscaldabili elettricamente, sia quelli anteriori che quelli posteriori, e doppio impianto di climatizzazione automatico di straordinaria efficacia, chiamati “Automatic Climate System” e “Automatic Heating System”. In poche parole, la Thema è una signora, all'accorrenza elegante e talvolta opulenta, ma sempre con grande classe.

Lancia Thema, quando il secondo capitolo è meglio del primo

Nella cinematografia raramente il secondo capitolo di un film di successo, riesce a superare quanto di buono è stato raggiunto con il titolo originale. Sono pochissimi gli esempi che controvertono questo assioma, che in linea di massima funziona anche per il mondo delle automobili. La Lancia Thema è una delle più dolci eccezioni, perché la seconda serie lanciata nel 1988, piace ancora più della prima. I ritocchi estetici donano alla linea una personalità più rilevante, che accentua la sua indole seduttiva che diventa d'un tratto travolgente. Lo testimoniano le vendite e il gradimento degli automobilisti, che la sceglieranno con più foga rispetto all'primigenia targata 1984.

L'ammiraglia torinese punta su un lifting del suo aggraziato volto, adesso riconoscibile per dei fari divisi orizzontalmente in cui la parte inferiore, di colore più scuro, viene contraddistinta dalla presenza degli indicatori di posizione. Internamente, invece, le modifiche riguardano i rivestimenti sui copriporta che diventano in lamina di legno a poro aperto, mentre sulla plancia razionale e di personalità, compaiono dei pulsanti e degli interruttori dal taglio più moderno. La Thema scava nel cuore, punge con la sua freccia come Cupido, e prosegue a far innamorare la platea degli utenti della strada.

Il finale di carriera

Quando l'Italia viene travolta da Tangentopoli, che scoperchia un sistema corrotto e depravato che coinvolge il suo establishment, la Thema diventa il simbolo su quattro ruote di quell'amara stagione. Aprendo qualsiasi telegiornale dell'epoca, la lussosa berlina diventa involontaria protagonista, con passaggi di fronte alle aule di tribunale e nei palazzi del potere. Lo specchio di un'epoca luminosa, fragile come un gigante dai piedi d'argilla, si adombra con una tempesta che scuote tutti quanti. La Thema con la terza serie uscita proprio nel 1992, si appresta a un congedo che arriverà di lì a poco. Prima, però, mostra ancora qualche colpo a effetto come i paraurti rinforzati da nuovi scudi, le cromature brunite e un'altra moltitudine di optional. Il suo cursus honorum finisce nel 1994 con 370.000 esemplari venduti, lasciando spazio a un cataclisma di nome Lancia K. Sono ancora tanti coloro che rimpiangono la Thema, un'auto completa e all'avanguardia.

Familiare e con motore Ferrari

Dulcis in fundo, dicevano i latini, lasciamo al finale la portata - forse - più gustosa. La Thema ha dato dignità al mondo delle station wagon, relegate per decenni ad auto di fatica, di servizio, da lavoro sporco, con la sua versione "familiare" che ha introdotto il lusso in un campo dove non si era fino a quel momento misurato. Ha affidato la partita del design alla Pininfarina, non uno nome qualsiasi, vincendo la sua sfida. La sua "giardinetta", a partire dal 1986, viene venduta in 20.000 esemplari, non pochi per un settore quasi di nicchia per l'epoca.

La più estrema, però, è la versione 8.32, chiamata anche Thema Ferrari. L'idea tanto folle quanto brillante, è quella di mettere il motore prodotta a Maranello sotto al cofano della berlina torinese. Nessuno si era mai spinto a tanto, ma d'altronde in quel periodo proliferano le berline pompate e sportive, e Ferrari è unanimente la massima espressione della performance. La sigla indica 8 cilindri e 32 valvole, che si traducono in 215 CV che fanno della Thema la vettura a trazione anteriore più veloce al mondo, coi suoi 240 km/h. Tecnicamente vanta delle sospensioni elettroniche con taratura automatica o sportiva selezionabili dal conducente, oltre a un alettone posteriore retrattile (il primo della storia). Gli interni sono un tripudio di sfarzosità e lusso, come si confà a una vettura che nel 1986 ha un prezzo di listino di 61.207.140 lire. Della prima serie ne furono vendute circa 2370, mentre sono 1150 quelle realizzate della seconda.

Fiat Barchetta.

Fiat Barchetta, la spider degli anni Novanta. Tommaso Giacomelli il 25 Marzo 2023 su Il Giornale.

La Fiat Barchetta è stata la spider simbolo degli anni Novanta, una "sportivetta" a cielo aperto con il fascino e lo stile di una classica del passato

Tabella dei contenuti

 La forza è nella storia

 Fiat Barchetta tra artigianalità e seduzione

 La seconda serie

Fresca come un sorbetto al limone sotto al caldo sole dell'estate, seducente come una "Venere" appena uscita dall'acqua, la Fiat Barchetta irrompe negli anni '90 sconquassando tutti gli equilibri. Il colosso torinese ha una voglia matta di tornare a danzare con il vento tra i capelli, grazie a un'auto romantica che adora essere guidata a cielo aperto. Nella tradizione Fiat le Spider (soprattutto 850 e 124) hanno rappresentato una pagina felice e spensierata, un orpello da esibire come l'argenteria per le grandi occasioni, mentre alla Barchetta spetta il compito di recitare uno spartito differente: dare noia alla Mazda MX-5.

La giapponese è il vero punto di riferimento degli "spiderini" a buon mercato, perché ha una linea aggrazziata e una dinamica di guida superlativa. Il merito è soprattutto di un peso complessivo contenuto e della trazione posteriore. Dal canto suo la Fiat può contare sul favore della bilancia, ma affidandosi al telaio della Punto, le ruote da muovere sono inevitabilmente quelle anteriori. Nonostante questo limite invalicabile, le frecce nella faretra dell'italiana non sono affatto poche.

La forza è nella storia

I limiti tecnici imposti dal telaio della Punto, non si rivelano un grande problema. In primo luogo perché grazie all’accorciamento del passo e all’adeguamento delle estensioni del cofano, nessuno potrebbe immaginare che sotto all'amabile veste si nasconda lo scheletro di una Punto. Su strada, poi, la Barchetta si comporta in modo egregio, brillando per maneggevolezza e brillantezza. Anche se non possiede uno schema classico, la spider di Fiat guadagna le sue stelle al merito direttamente sul campo.

Dicevamo, però, che la sua forza sta in un design che risplende per accuratezza e rispetto della tradizione. Per scegliere la penna che avrebbe disegnato la sua forma definitiva, al Lingotto nasce una battaglia intestina tra Chirs Bangle e Andreas Zapatinas. A spuntarla è il designer greco, mentre all'americano tocca la Fiat Coupé. Zapatinas vince perché da un foglio bianco partorisce una macchina classica, con delle linee morbide e dolci con evidenti richiami al passato. A tal proposito le maniglie apri porta sono ispirate a quelle della Cisitalia di Pininfarina, mentre il rilievo laterale della fiancata è ripreso dalla Ferrari 166 del 1940 (Touring). Anche i fari carenati sono una folgorazione che guarda a ciò che c'era ieri. Infine, tra le vernici spicca l'arancione aragosta della Lamborghini Miura, affidato in concessione dalla Carrozzeria Bertone.

A referto ci sono anche soluzioni geniali e moderne, come il cofano motore e il portellone baule con apertura a botola, che permettono di avere delle linee levigate dal vento. In fondo, la Barchetta ha solo tanta voglia di essere sospinta da una brezza marittima. Il nome, infine, svela la sua natura: due posti secchi con carenatura subito dietro ai sedili, assenza dei deflettori e parabrezza dalle dimensioni ridotte. La capote, invece, viene custodita dietro un lamierato che si alza e riabbassa, a testimonianza di un'impostazione da barchetta. Una reinterpretazione contemporanea di un classico senza tempo.

Fiat Barchetta tra artigianalità e seduzione

Ad aumentare l'appeal della spider torinese contribuisce la scelta di affidare il suo assemblaggio alla Carrozzeria Maggiora di Moncalieri, in Piemonte. Proprio come nei fastosi anni Cinquanta e Sessanta, i grandi artiginani tornano protagonisti con una macchina elegante e affascinante, destinata a una nicchia di clienti che sa apprezzare il lavoro manuale. Sul mercato si presenta con un motore benzina aspirato da 1.8 litri e 130 CV, che sa ruggire e irradiare belle vibrazioni al cuore di chi siede al volante. La complessiva leggerezza (1070 chilogrammi) permette alla Barchetta di desteggiarsi con abilità anche nei percorsi più tecnici, mentre se viene scatenata su una dritta lingua di asfalto può toccare i 200 km/h di velocità massima.

L'handicap della trazione anteriore non si fa sentire, la Fiat Barchetta è infatti un buon rasoio tra le curve grazie a un comparto di sospensioni eccellente: MacPherson all’anteriore e ruote indipendenti al retrotreno. A completare il pacchetto ci pensano le carreggiate allargate, che permettono una stabilità eccellente. Lo sterzo, poi, è un'arma in più per far brillare nel misto la seducente vettura con capote in tela. Il prezzo di partenza nel 1995 è di 33,8 milioni di lire, qualcosa in meno rispetto alla sua rivale nipponica.

La seconda serie

La Fiat Barchetta riceve una seconda serie, che è sostanzialmente un massiccio restyling, nel 2003. La produzione si sposta dalla Carrozzeria Maggiora allo stabilimento interno di Mirafiori. Il design riceve una rinfrescata grazie alla mano di Tom Tjaarda, affermato disegnatore di auto, già padre della Fiat 124 Sport Spider. Rispetto alla versione originale, il frontale viene rivisto nella parte del fascione paraurti, dove viene introdotta una calandra nera raccordata alla forma della presa d'aria posta sotto il logo circolare FIAT. Quest'ultimo è quello con sfondo blu, adottato nel centenario della casa torinese. Al posteriore, invece, fa capolino un paraurti di diverso taglio, più levigato, uniforme e senza nervature. Nel complesso la Barchetta, forse, perde un po' di charme e appeal. La sua carriera si interrompe nel 2005 con quasi 60.000 unità vendute in dieci anni, ma la sua traccia è ben visibile ancora adesso. Sono in tantissimi gli appassionati di questo modello, che appena un raggio di sole spunta all'orizzonte scoperchiano il tetto e si mettono a ballare tra le curve con un bel sorriso sul volto.

Fiat 131.

Fiat 131, l'auto da famiglia che diventa campione del mondo. Tommaso Giacomelli il 24 Marzo 2023 su Il Giornale.

La Fiat 131 si è imposta come auto solida, versatile e pragmatica. Si è tolta persino lo "sfizio" di vincere il titolo mondiale per tre anni consecutivi

Tabella dei contenuti

 Nata per essere solida

 Più vesti per la Fiat 131

 Una ricca gamma di motori

 Campione del mondo rally

 Diffusa in tutto il globo

A volte gli astri sorridono anche a coloro che nascono nel momento e nel luogo sbagliato. La Fiat 131 era stata immaginata per avere una destinazione d'uso diversa, più frivola e rilassata, ma quando viene presentata al Salone dell'Automobile di Torino del 1974, le contingenze storiche sono molto sfavorevoli per i lustrini e le paillettes. La Guerra del Kippur ha mandato il prezzo della benzina alle stelle, di conseguenza la maggioranza delle automobili ha subito un drastico stop alla circolazione e altre sono finite nel mirino di coloro che le reputano un orpello ormai inutile.

L'inflazione, poi, non dà tregua e non c'è respiro, soprattutto per la classe operaia, che comincia a picchettare gli stabilimenti del colosso torinese. Nonostante lo scenario ostile, i dirigenti di Fiat lavorano alacremente, i tecnici scattano tra un corridoio e l'altro, schivano i tumulti, le manifestazioni e le rappresaglie, arrivando alla gestazione finale di una berlina all'apparenza molto austera.

Bisogna dimenticarsi le versioni coupé e cabriolet della sua antenata 124, alla 131 sono tassativamente vietate, perché i tempi sono cambiati e bisogna badare al sodo. Al Lingotto sanno che questa automobile deve rispecchiare profondamente determinati canoni: sicurezza, comfort e classe. Il lavoro viene portato a termine con successo, anzi, la 131 si rivelerà così ben costruita da sorprendere e stupire, eccellendo anche in ambito sportivo, togliendosi lo sfizio di laurearsi campione del mondo rally per tre anni consecutivi.

Nata per essere solida

Il mercato impone delle linee da seguire molto nette, che la Fiat vuole fare sue senza deragliare neanche per un istante. Le auto di quel periodo devono consumare di meno, essere solide e robuste. L'obiettivo finale è quello di dare ai clienti un oggetto che si trasformi in un riparo caldo e accogliente come un nido, per tutte quelle famiglie che hanno il desiderio di viaggiare su gomma. Senza, tuttavia, pesare troppo sul portafoglio. La 131 alza la mano e risponde presente all'appello, assumendo nei suoi circuiti e nei suoi metalli tutte le doti appena elencate.

La nuova berlina viene concepita con scocca composta da una cellula abitativa indeformabile, mentre il muso e la coda sono congegnati per assorbire qualsiasi tipo di urto. Inoltre, i paraurti sono ad incasso per permettere una maggiore elasticità in caso di sinistro, mentre i lamierati sono imbullonati anziché saldati. Soluzione, quest'ultima, pensata per non gravare sulle spese del proprietario una volta portata la macchina dal carrozziere.

Più vesti per la Fiat 131

Per la prima volta un modello di Fiat può fregiarsi non soltanto di una sigla numerica, ma anche di un nome: infatti comapre Mirafiori accanto a 131. Un omaggio allo stabilimento torinese in cui questo veicolo viene assemblato e costruito. L'ambizione è fortissima, perché al Lingotto - seppur rinunciando a coupé e cabrio - vogliono declinare la propria macchina in più varianti di carrozzeria, tutte logiche e razionali, senza trascinarsi in vezzi inutili. Dunque, a fianco della classica berlina a quattro porte, amata soprattutto negli Stati Uniti, ci sono la due porte (destinata ai mercati Nord Europei), e la station wagon che assume la denominazione di Familiare. Gli allestimenti poi sono pragmatici: "Mirafiori" e "Mirafiori Special". Il primo più abbordabile, riconoscibile soprattutto per i fari anteriori rettangolari, e il secondo più ricco, distinguibile per i doppi gruppi ottici circoli all'anteriore.

Con la seconda serie, al debutto nel 1978, il listino si fa più ricco con l'aggiunta dell'esclusivo allestimento Supermirafiori che vanta dei cerchi dalla forma a quadrifoglio in lamierato stampato, paraurti in plastica e targhette identificative. La due porte, invece, viene impreziosita con la versione Racing (2.0 litri 115 CV), mentre la station wagon diventa la Panorama. Quest'ultima sarà la familiare più venduta nella storia di Fiat, la più diffusa nelle strade del mondo, soprattutto quelle del vecchio e caro Stivale. Nel 1981 entra in scena la terza serie, il canto del cigno, perché nel 1983 la 131 si congeda per lasciar spazio alla Regata.

Una ricca gamma di motori

Al debutto la 131 si presenta con motore ad aste e bilancieri longitudinale e trazione posteriore, uno schema classico che regala un abitacolo spazioso e confortevole. I primi propulsori, quelli del 1974, derivano direttamente dalla 124: 1.3 da 65 CV e il 1.6 da 75 CV. Nel complesso offrono prestazioni dignitose e consumi garbati. Il cambio può essere il manuale a quattro o cinque velocità, oppure un automatico a tre marce. Con i tempi che corrono e gli scenari finalmente più favorevoli, i motori bialbero subiscono un discreto upgrade, in concomitanza del lancio della seconda serie: il 1.6 raggiunge i 96 CV, mentre sulla Racing a due porte esordisce un 2.0 da 115 CV. La berlina di Mirafiori tocca la velocità massima di 180 km/h.

A completare la gamma arrivano anche i quattro cilindri diesel 2.0 e 2.5, prodotti dalla Sofim. In quel caso, la 131 vede crescere una leggera gobba sul cofano anteriore. I più ambiti, però, erano quelli con la puntura dello Scorpione di Abarth, che equipaggiavano la versione stradale della 131 Abarth Rally: un 2.0 litri da 140 CV, 16 valvole e dalle prestazioni mostruose per la sua epoca.

Campione del mondo rally

Come Clark Kent e Superman, la 131 sveste l'abito borghese per trasformasi in eroina. Il suo habitat passa dalla città al fango, alla neve e allo sterrato. Nel frattempo la carrozzeria della due porte diventa muscolosa, bombata e cattiva. Sotto al cofano, per le versioni da competizione, giunge in supporto un 2.0 da 215 CV che spinge la torinese a quasi 200 km/h. Le migliorie tecniche del team Abarth e della squadra corse Fiat, permettono a questa macchina di divenire un'arma invincibile su ogni terreno. Dal '78 al 1980 arrivano tre titoli mondiali rally consecutivi, che garantiscono alla 131 l'ingresso alla sala riservata alle più grandi vetture nella storia dei rally. Un merito ce lo hanno anche piloti del calibro di Markku Alen e Walter Rohrl, capaci di esaltarsi al volante della "Mirafiori" d'assalto.

Diffusa in tutto il globo

Alla Fiat 131 viene affidato un biglietto di sola andata per gli Stati Uniti, ma sul passaporto cambia l'identità. In quel mercato, infatti, si chiamerà Brava, come la berlina compatta di metà anni Novanta. Naturalmente per rispettare le norme in vigore a quelle latitudini, l'italiana muta anche parte del suo aspetto, aggiungendo dei paraurti maggiorati e delle luci di posizione di serie. Lo stesso motore è diverso, perché viene adottato un 1.8 da 86 CV. L'accoglienza è discreta, ma non lascerà il segno.

Cosa che avviene da altre parti, perché come altre sue colleghe anche la 131 diventa una world car a tutti gli effetti. Su licenza Fiat viene prodotta dalla Seat, in Spagna, tra il 1975 e il 1982 in 356.670 esemplari. Stessa sorte nella lontana Turchia, dove la 131 viene costruita a Bursa dalla Tofaş. Da qui si muove alla volta dell'Egitto nel 1991 fino a raggiungere l'Etiopia nel 2006, a distanza di oltre quarant'anni dal suo debuto sotto alla Mole Antonelliana. Della 131 "turca" sono stati prodotti 1.257.651 esemplari, mentre per l' "italiana" ben 1.513.800. Un successo clamoroso, forte di una progettualità studiata nei minimi dettagli, di una qualità impeccabile e di un prezzo competitivo.

Fiat Marea.

Fiat Marea, da Mont Saint-Michel al mondo intero. Tommaso Giacomelli il 23 Marzo 2023 su Il Giornale.

La Fiat Marea è stata la media torinese da metà anni Novanta fino al 2003. Ha legato la sua immagine a uno spot girato a Mont Saint-Michel

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 Spot a Mont Saint-Michel

 La Fiat Marea sostituta di Tempra e Croma

 I motori della Marea

 Termina la vita in Europa

 Si riscopre bella in Sud America

Un'isola, anzi, no un santuario arroccato in mezzo al mare, come un maniero inespugnabile. L'unica via d'accesso è attraverso l'acqua, ma bisogna fare attenzione perché come diceva un vecchio adagio medievale, le maree si alzano al ritmo di un cavallo al galoppo. Forse, si tratta di un paragone un tantino eccessivo, ma comunque, qui l'acqua avanza alla velocità di 6 km/h. Stiamo parlando di Mont Saint-Michel, avamposto immerso nella Normandia più selvaggia, tra sabbie mobili, antichi spettri e storie di un'epoca lontana. Un luogo unico, magico e incantevole, vero simbolo del fenomeno naturale delle maree. A questo spicchio di mondo si lega il (ri)lancio commerciale di un'auto che ha solcato, come le onde dell'oceano, gli anni Novanta e il nuovo Millennio: la Fiat Marea. E non poteva che essere così, che tra questa amena località e la vettura italiana si instaurasse un legame istintivo e del tutto spontaneo.

Spot a Mont Saint-Michel

In questo teatro di incredibile bellezza venne girato un spot che ha lasciato il segno nell'immaginario collettivo e che ha contribuito a rendere ancora più popolare la Marea, specialmente a livello europeo. La protagonista è una versione Weekend, la station wagon, che affronta le maree che infestano l'area intorno all'antico santuario francese, attraversando l'unica via percorribile, incurante dei pericoli ma forte dei suoi possenti motori a gasolio JTD. Sono anni in cui il diesel - fiore all'occhiello della produzione torinese -spopola e riesce a prendere il sopravvento sulla benzina nel cuore degli automobilisti. Spingendo e accelerando con veemenza, la Fiat solca le inarrestabili onde e raggiunge il ponte levatoio, per trovare rifugio all'interno delle antiche mura. A quel punto sorge un primo piano sulle forme della Marea e la dissolvenza chiude un réclame incisiva. Grazie a questa breve sequenza, la Fiat ottiene ancora più fascino soprattutto all'interno dei confini dell'Esagono francese. La popolarità tanto desiderata è adesso nelle mani della macchina italiana. Era il 1999, ma in realtà la Marea era in scena già da qualche anno.

La Fiat Marea sostituta di Tempra e Croma

La Fiat Marea viene presentata l'11 settembre del 1996 e ha il compito di sostituire in un colpo solo la Tempra e la Croma. Si affaccia al pubblico con una linea moderna e levigata, seguendo il gusto e gli appettiti della sua epoca. Rispetto al passato, con lei si dimenticano le curve tese, gli spigoli e le squadrature. La silhouette è armonica, rotonda e piena. Il frontale ha più di qualche dettaglio in comune con le Bravo e Brava, parenti strette seppur di gamma inferiore, mentre la fiancata e il posteriore sono molto originali. Questo accade nella versione berlina a tre volumi, mentre per la stagion wagon, chiamata Weekend il retro diventa ancora più personale con i gruppi ottici che si sviluppano in senso verticale, un po' come succede con la Punto sua coeva. Infine, per rinverdire i fasti della presenza Fiat sulle strade dell'elegante isola di Capri, dove spesso ha portato dei taxi speciali, il Centro Stile concepisce una Marea per sei persone e completamente decappottabile. Quell'esemplare unico e raro come l'unicorno ancora circola nelle incantevoli vie di quella porzione di terra emersa dalle calde acque del Mar Mediterraneo.

I motori della Marea

La gamma motori della Marea è molto ampia, si spazia dai più piccoli Fire a benzina, passando per i più robusti Pratola Serra, per finire coi diesel TD e JTD. A referto c'è anche un versione Bi-Power (benzina e metano). Il vertice per prestazioni è il 2.0 20V a 5 cilindri che nella versione originale sviluppa 147 CV, per toccare i 155 nella sua evoluzione. Come dicevamo, però, il suo periodo storico è quello del diesel a tutti i costi, così il propuslore di punta diventa il 2.4 JTD da 137 CV, che garantisce un bel mix tra prestazioni, consumi e comfort di marcia.

Termina la vita in Europa

Dopo un restyling targato 1998, la Marea resiste nella sua produzione europea fino al 2003. La sua eredità resta sospesa a metà, perché nel listino di Fiat la versione berlina tre volumi - almeno per l'Italia - non verrà mai sostituita, mentre per la Weekend ci penserà, seppur parzialmente, la Stilo. Questa vettura ha dato una grossa mano al marchio ed è divenuta un'auto affidabile, utilizzata anche da tante Forze dell'Ordine italiane, specialmente la Polizia. Anche se il suo cammino europeo si interrompe nel 2003, la Marea troverà una seconda vita in Sud America.

Si riscopre bella in Sud America

In America Latina arriva in colpevole ritardo, perché la Fiat Marea sbarca a queste latitudini soltanto nel 1998. Arriva in scena con motori potenti, allestimenti ricchi e con il restyling del 2001 diventa ancora più curiosa. Nella berlina la particolarità è l'adozione di gruppi ottici posteriori che sono esattamente identici a quelli della Lancia Lybra, in commercio in Europa. Il suo percorso di successo si stronca nel 2007, non senza rimpianti, ma facendo in tempo ad adottare il nuovo stemma con sfondo rosso, lo stesso che aveva debuttato nello stesso anno con la nuova Bravo e 500.

Alfa Romeo 164.

Alfa Romeo 164, la prima ammiraglia anteriore del Biscione. Tommaso Giacomelli il 20 Marzo 2023 su Il Giornale.

L'Alfa 164 è stata la prima berlina del Biscione a dotarsi di trazione anteriore. Prodotta tra il 1987 e il 1997 ha avuto un successo di vendite mondiale

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 Design di Pininfarina

 Interni di grande stile

 I motori da vera Alfa

 Una vettura di successo

Nel 1986, dopo un'accesa disputa con Ford, la Fiat riesce a mettere le mani sull'Alfa Romeo, anche grazie a un intervento diretto di Romano Prodi, presidente dell'IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). Il primo modello della nuova gestione, non più statale del Biscione, è un'ammiraglia di prestigio, specchio di una società veloce e arrembante come quella della seconda metà degli anni Ottanta. Un veicolo di rottura con la tradizione Alfa Romeo, che segna un'epoca con il suo passaggio alla trazione anteriore, che prima di allora era stata destinata solo ai modelli di gamma inferiore come Alfasud e 33. Stiamo parlando della Alfa Romeo 164, una berlina di rango, che si è fatta amare per il design, il comfort e il carattere sportivo.

Design di Pininfarina

La 164 nasce sul pianale "Tipo 4", lo stesso che viene adoperato in quegli anni su Lancia Thema, Fiat Croma e Saab 9000. L'Alfa Romeo, però, debutta nel 1987, qualche anno più tardi e questo le dà alcuni vantaggi. In primis, per lei viene scelto un design - se possibile - ancora più carismatico, affidando il compito alla Pininfarina e al designer Enrico Fumia, che compie un piccolo capolavoro. Per la grande berlina concepisce un frontale aggressivo, con il grande scudetto al centro, ben visibile, specialmente per coloro che se lo vedono nello specchietto retrovisore. L'obiettivo è quello di creare un tentativo di soggezzione, affinché il lento apripista lasci strada alla veloce Alfa Romeo. Altrettanto brillante è la scelta studiata per il posteriore della vettura, in cui compare un gruppo ottico unito in un sol pezzo, che attraversa tutto il lato B. Un linguaggio stilistico vincente che verrà seguito anche in altri modelli Alfa di quel periodo. Rispetto alle varie Lancia, Fiat e Saab, che condividono anche il giroporta, l'ammiraglia di Arese si distingue anche in questo caso, perché presenta una profonda nervatura che corre lungo le fiancate, che conferisce ancora più dinamicità a un veicolo che ama la corsa veloce. La linea a cuneo è bella accentuata e il coefficiente di resistenza aerodinamica recita un risultato strabiliante (Cx 0,30). Nonostante la trazione "dalla parte sbagliata", la 164 ha le stimmate dell'auto di successo.

Interni di grande stile

Gli interni sono un'altra mirabile invenzione, un concentrato di modernità che tocca dei picchi di avanguardismo. La console centrale è rivolta verso il guidatore e possiede un enorme quantitativo di bottoni e piccoli display, per governare il vasto assortimento di dispositivi in dotazione a questa grande berlina. L'effetto ottico è d'impatto e ben si sposa con un abitacolo che viene impreziosito, a seconda delle versioni, da selleria in pelle pregiata. Quest'ultima, poi, presenta persino la regolazione elettrica con tanto di memoria. Il climatizzatore, invece, è automatico ed è un oggetto di culto per quel periodo storico. Presentata al Salone di Francoforte del 1987, la 164 fa sballare e girare la testa. In un colpo solo fa dimenticare le varie Alfa 6 e Alfa 90, sue dirette progenitrici e mandate in pensione istantaneamente.

I motori da vera Alfa

Per essere un'Alfa che si rispetti, deve avere un comportamento su strada di tutto rispetto, una dinamica invidiabile e dei motori capaci di suonare tanto bene, quanto di andare forte. Missione compiuta in toto. La gamma propulsori è infatti un fiore all'occhiello. A referto ci sono i vari 2.0 Twin Spark, 2.0 V6 Turbo e il 3.0 V6 progettato dall'ingegner Busso, che fanno toccare all'ammiraglia italiana delle velocità di punta straordinaria. Anche i turbo diesel sviluppati dalla VM, consentono alla 164 di guadagnare le copertine, anzi, al momento del lancio è lei la vettura a gasolio più veloce al mondo. Un traguardo di tutto rispetto, da vera Alfa Romeo. Negli anni, le varie motorizzazioni vengono aggiornate, così come la possibilità di dotare la berlina della trazione integrale. È nel 1993 che la 164 mette il 4x4, ottenendo ancora maggiori successi.

Una vettura di successo

La sua carriera termina ufficialmente nel 1997, quando nei listini Alfa arriva la sua erede "166", anche se alcuni esemplari riescono a essere targati nell'anno successivo. Se ne va lasciando un'impronta notevole nella storia del marchio, con molti appassionati che ancora adesso la rimpiangono. È stata l'ultima Alfa a essere importata negli Stati Uniti, prima del ritorno a metà anni 2000 con la 8C Competizione, ma soprattutto è la prima auto della storia a essere stata disegnata con Autocad. Un altro primato è quello ottenuto dalla versione ProCar, un esemplare laboratorio con motore V10 derivato da quella della Formula 1 e destinato a una categoria del motorsport che, alla fine, non ha mai visto la luce. Quella vettura da oltre 600 CV tocca i 350 km/h di velocità massima, un record per il 1988. Tra le curiosità c'è il cambio di sigla nei mercati di Hong Kong, Malaysia e Indonesia, dove prende il nome di 168. Da quelle parti il numero 4 ha un'accezione particolarmente negativa, a differenza di quanto non accada invece con l'8, reputato molto positivo. In dieci anni di onorato servizio ha venduto quasi 270.000 unità, fra queste ce n'è una rossa molto speciale: l'ultima auto posseduta e guidata regolarmente da Enzo Ferrari. Storia di una vera macchina di successo.

Walter Elias Disney.

Atlas Ufo Robot, per tutti Goldrake.

Universo Marvel.

Zio Paperone.

Dino Buzzati.

Diabolik.

Walter Elias Disney.

Disney, cento anni fa nascevano i leggendari cartoon. Storia di B. V. su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2023.

Era il 16 ottobre 1923 quando i fratelli Walt e Roy Disney firmarono il primo contratto per 12 film, sancendo la nascita del mondo di Topolino, Paperino e delle migliaia di altri personaggi animati nati nel tempo.

In occasione dei 100 anni di Disney, sono tante le iniziative per festeggiare la ricorrenza, a partire da un cortometraggio che è disponibile da oggi sulla piattaforma Disney+, intitolato Once Upon a Studio: il corto riunisce 543 personaggi provenienti da oltre 85 lungometraggi e corti di tutta la storia Disney. Principi, principesse, stregoni, eroi, antagonisti, animali e fate si ritrovano in una celebrazione che unisce l’animazione tradizionale e la computer grafica più recente con una nuova tecnica.

In giro per il mondo, invece, il primo secolo della Disney dà vita a una lunga lista di progetti: a Londra è stata inaugurata la mostra «Disney 100 - The Exhibition», con gallerie immersive, sale interattive, materiali d’archivio, costumi, disegni e memorabilia. Allestita negli spazi di London ExCel, sarà aperta fino alla primavera 2024 e il mese prossimo sarà replicata anche negli Stati Uniti, a Chicago.

Fino al 30 ottobre, invece, i fan di tutto il mondo possono partecipare a una speciale asta benefica multimediale a supporto della campagna Create 100 che celebra la creatività, sostenendo la Fondazione Make-a-Wish: tra gli oggetti e le opere che si potrà tentare di aggiudicarsi, figurano la tuta indossata da Beyoncé nel suo visual album «Black is King» e pezzi unici donati da molti celebri brand e nomi della moda. Il mondo del fashion, tra l’altro, si unisce ai festeggiamenti con tante collaborazioni già disponibili che vanno da Karl Lagerfeld a Tommy Hilfiger, ma non manca neanche una versione speciale della Vespa, realizzata dalla Piaggio.

Video correlato: Auguri Disney, 100 anni di magia (Mediaset)

Dai parchi tematici Disneyland e Disneyworld alla Pixar acquistata nel 2006, dalla Marvel alla Lucasfilm, con l’universo di Guerre Stellari ora approdato su Disney+, lo sfaccettato universo Disney festeggia 100 anni di storia guardando al futuro: oggi prende il via anche una collaborazione con TikTok che permetterà ai fan di guardare video dai vari brand Disney, creare i propri usando musiche ed effetti Disney, scoprire curiosità, collezionare e scambiarsi «Character card» sui personaggi e mostrare tutto il proprio affetto verso l’universo disneyano.

La Walt Disney compie 100 anni. Tra remake, inclusività e Ai, ecco come si prepara al futuro. ANNA MANISCALCO su Il Domani il 16 ottobre 2023

Il 16 ottobre 1923 a Burbank prendeva vita uno studio d’animazione destinato a diventare un impero. Un secolo dopo, i lungometraggi d’animazione si sono iscritti nella memoria collettiva e vengono reinterpretati in live-action e con più attenzione ai diritti civili. Non sono mancate le critiche e gli aggiustamenti, e rimane la curiosità sulle svolte più tecnologiche

Un patrimonio da più di 200 miliardi di dollari, secondo Forbes, e ricavi annui da 80 miliardi. Produzioni originali di film e cartoni animati, un servizio streaming on demand da quasi 160 milioni di abbonati, parchi divertimenti, canali di broadcasting, canali sportivi, merchandising.

Sono passati 100 anni tondi da quel martedì di metà ottobre a Burbank, contea di Los Angeles, poche miglia a nord-est di Hollywood, in cui due fratelli hanno firmato i documenti per fondare il loro studio di animazione, Disney Brothers Cartoon Studios. Buzz Lightyear in Toy Story (1995) si lanciava al grido di «Verso l’infinito e oltre!», e viene naturale chiedersi quale sia la posizione di lancio da cui il colosso Walt Disney Company partirà, potenzialmente per i prossimi 100 anni.

Sono numerose le iniziative di compleanno, tra aste di oggetti firmati realizzati per l’occasione il cui ricavato andrà in beneficenza e la realizzazione di un corto, Once upon a studio, che chiama a raccolta 543 personaggi da più di 85 lungometraggi e corti Disney, disponibile su Disney+ dal 16 ottobre.

Il richiamo alla loro storia secolare del resto non passa solo per i contenuti creati ad hoc per i festeggiamenti: è anche una strategia che la Walt Disney Company sta portando avanti con costanza da diversi anni, tanto che Vulture ha scritto una volta che la società «stava scavando con più forza che mai nel proprio passato d’animazione». 

DA BIANCANEVE A BIANCANEVE 

Le tappe fondamentali sono note: nel 1928 Topolino compare in Steamboat Willie ed è un successo in grado di rimpolpare le casse della società, magre dopo la perdita dei diritti del primo animaletto disegnato da Disney insieme a Ub Iwerks, il coniglietto Oswald, di proprietà della Universal.

L'anno dopo arrivano le Sinfonie Allegre, a livello societario avvengono un po' di trasformazioni, poi arriva il Technicolor, sui cui Walt Disney riesce a ottenere un'esclusiva di tre anni. Nel dicembre del 1937, arriva nelle sale il primo lungometraggio d'animazione targato Disney: Biancaneve e i sette nani.

Da lì alla morte di Walt Disney nel 1967 i successi si susseguono: Cenerentola, Le avventure di Peter Pan, La carica dei cento e uno, Mary Poppins. Fioriscono le controllate, vengono costruiti i Walt Disney Studios a Burbank, arrivano le serie e i programmi per l'Abc come Il club di Topolino, apre il primo parco a tema Disneyland in California. 

Per quanto la filmografia Disney sia vastissima, non tutti i decenni sono stati particolarmente creativi: in riferimento ai Classici Disney, dopo i titoli azzeccati degli anni Cinquanta e Sessanta si è impennata di nuovo negli anni Novanta, con film come La bella e la bestia, Aladdin, Il re Leone, Hercules.

Anche i film Pixar hanno avuto il loro peso nel dare nuovo lustro alla Disney, che aveva un contratto da 10 anni con la società che ha poi finito per acquistare nel 2006: Toy Story, il primo lungometraggio in computer grafica, ad esempio, o Monsters & Co, uscito in tempo per essere nominato al primo premio Oscar al miglior film di animazione. Quell'anno vinse Shrek della Dreamworks, ma Alla ricerca di Nemo portò presto la statuetta a casa Pixar, e da allora la grande maggioranza dei film premiati è rientrata nella galassia Disney.

Nonostante la Disney continui a produrre almeno un lungometraggio d'animazione all'anno, con titoli come Frozen e Zootropolis capaci di superare il miliardo di dollari di incassi, e un film come Encanto abbia conquistato TikTok, con la canzone originale Non si nomina Bruno in testa alla Billboard Hot 100 per più di una settimana, negli ultimi tempi è stato dato un grande spazio ai live-action, i remake “in carne e ossa” dei classici più amati.

Da Alice nel paese delle meraviglie, diretto da Tim Burton, a Cenerentola, al Re Leone questa operazione nostalgia ha incontrato critiche, ma è allo stesso tempo redditizia. Come osserva Screen Rant in un'analisi del fenomeno, questi remake sono una puntata sicura, dal momento che le storie sono già amate dal pubblico e permettono di risparmiare anche tempo e soldi nella fase di pre-produzione: non ci sono nuovi diritti da acquistare. 

Senza contare tutti i titoli targati 20th century Fox, Marvel, Searchligh Pictures, e il franchise di Star Wars, che fanno tutti parte della galassia Walt Disney Company, quello che ci sarà quindi nel futuro è senz'altro nuovi remake: è in uscita a breve Biancaneve, e si parla di un Hercules prodotto dai fratelli Russo e diretto da Guy Ritchie.

Joe Russo ha detto a Variety nel novembre 2022 che la vicenda del semidio che vuole diventare un eroe «sarà un po' più sperimentale nei toni e nell'esecuzione», rispetto agli altri progetti che sono rimasti piuttosto fedeli all'originale animato. Si parla prima di tutto di un musical, con un occhio ultracontemporaneo: «Il pubblico oggi è abituato a TikTok, giusto? Quali sono le loro aspettative su come deve essere un musical?». Ad agosto è girata sui social la notizia, ancora da confermare, che nei panni di Hercules e Megara ci saranno Tagar Egerton (già Elton John in Rocketman) e la cantante Ariana Grande.

Anche un remake di Oceania potrebbe essere in programma per il 2025: Dwayne “The Rock” Johnson, che ha doppiato il personaggio di Maui nel cartone, ha annunciato il progetto in un video rilasciato in aprile. 

Quanto alle storie originali, i prossimi film in uscita sono Wish a novembre, sulle stelle che esaudiscono i desideri, ed Elio, previsto in primavera, che avrà una deriva fantascientifica con tanto di alieni. In arrivo c'è anche il seguito di Inside Out e Mufasa, un prequel del Re Leone.

LA SFIDA DELL’INCLUSIVITÀ

Ridare vita a vecchie storie non è solo la scelta confortevole che sembra. Nel campo della letteratura e della cinematografia è in atto da tempo un lavoro di rielaborazione e riattualizzazione delle storie, soprattutto per bambini, uscite in un contesto differente da quello odierno e che rivelano stereotipi sessisti, razzisti o abilisti.

È un tema che è stato affrontato ad esempio per quanto riguarda i romanzi di Roald Dahl, e inevitabilmente va a toccare una produzione vasta come quella disneyana, che per i suoi lungometraggi deve risalire fino al 1937. 

Sulla piattaforma di streaming Disney+, per esempio, titoli come Peter Pan sono accompagnati da un avviso: «Questo programma include rappresentazioni negative e/o trattamenti errati nei confronti di persone o culture. Questi stereotipi e comportamenti erano sbagliati allora e lo sono oggi. La rimozione di questo contenuto negherebbe l'esistenza di questi pregiudizi e il loro impatto dannoso sulla società. Scegliamo invece di trarne insegnamento per stimolare il dialogo e creare insieme un futuro più inclusivo».

Se nei film già realizzati la scelta quindi è di contestualizzare per non dimenticare il percorso fatto, nei remake Disney ha l'occasione di correggere il tiro e rispettare il proprio impegno «a creare storie con temi ispiratori e aspirazionali che riflettano la ricca diversità dell'esperienza umana in tutto il mondo», come prosegue il disclaimer.

La scelta di scritturare Halle Bailey, un'attrice nera, per interpretare Ariel in La sirenetta è stata oggetto di attacchi: «Il pubblico è possessivo nei confronti di una proprietà culturale come i classici Disney, perché servono, in tanti modi, a rinforzare la tradizionale narrativa statunitense: nei mondi bianchi, tutti gli eroi sono bianchi», è stato scritto sul Guardian. 

Allo stesso modo, Rachel Zegler, che vestirà i panni della nuova Biancaneve, è stata attaccata per le sue origini in parte colombiane, che, stando ad alcuni, tradirebbero il requisito del personaggio «con la pelle bianca come la neve». Zegler ha bollato la polemica come “nonsense” su X, il vecchio Twitter, chiedendo alle persone di smettere di taggarla in tweet a riguardo.

L’adattamento del lungometraggio ha richiesto anche un altro aggiustamento: l’attore di Game of Thrones Peter Dinklage ha infatti accusato la Disney di applicare «doppi standard», dal momento che il film avrebbe comunque previsto la presenza dei sette nani. La società ha risposto che «per evitare di rinforzare gli stereotipi del cartone originale useremo un approccio diverso per i sette personaggi, e ci stiamo consultando con la comunità delle persone affette da nanismo».

Disney negli ultimi anni si è esposta di più anche sulle tematiche Lgbtq+, ospitando la parata del Pride a Disneyland Paris o costruendo trame e personaggi che rompessero il canone eterosessuale: Le Tont nel remake della Bella e la Bestia era stato applaudito come il primo personaggio apertamente gay, non senza qualche rimostranza dello stesso attore che lo interpretava sul fatto che si sarebbe potuto fare di meglio.

La controversia tra Disney e il governatore Ron De Santis sui parchi divertimenti in Florida degli ultimi mesi sembra poi aver preso le mosse proprio dal comunicato rilasciato dalla società a supporto della comunità Lgbtq+ nella scia del progetto di legge ribattezzato “Don't say gay”.

La legge prevede che non si faccia in nessun modo accenno nelle scuole elementari ad argomenti relativi all’orientamento sessuale e all'identità di genere, e aveva ricevuto critiche dal presidente Joe Biden e dall'ex amministratore delegato di Disney (ex all'epoca, ora è di nuovo in carica) Bob Iger. 

L'Orlando sentinel aveva rivelato che la Disney in realtà finanziava alcuni degli sponsor dietro il disegno di legge: i lavoratori avevano chiesto una presa di posizione netta, e in particolare i dipendenti della Pixar avevano lamentato una politica interna che riduceva di molto le scelte creative che includevano storie d'amore o personaggi esplicitamente omosessuali. All'uscita di Lightyear, si è scoperto che i creativi avevano insistito per far inserire la scena di un bacio che era stata precedentemente tagliata.

LO STREAMING

Il futuro passa anche per le scelte distributive. Oltre a essersi allargata ai franchise come la Marvel e Star Wars, nell'immediato pre-pandemia la Walt Disney Company si è lanciata nel settore dei servizi di streaming on demand con la propria piattaforma Disney+. Adesso, l'intero settore dello streaming sta andando incontro a diversi aggiustamenti, tra innalzamento dei costi di abbonamento e restrizioni sulla condivisione degli account. Anche la stessa uscita di film in contemporanea in sala e sugli schermi on demand è una pratica su cui tutti i servizi si stanno ora interrogando.

In agosto Forbes segnalava che nel terzo trimestre fiscale la piattaforma aveva perso più di 11 milioni di iscritti. Tuttavia, Bob Iger, che è tornato nella veste di Ceo di Disney dopo la parentesi di Bob Chapek, ha annunciato che lo streaming è una delle tre direzioni su cui puntare per la crescita, insieme alla produzione di contenuti e ai parchi. A settembre la compagnia ha comunicato anche che espanderà l'investimento nel settore dei parchi a tema.

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Quanto ai passi futuri nel campo della tecnologia, Reuters ha rivelato in agosto l'esistenza di una «task force» per «studiare l'intelligenza artificiale e la sua applicazione nel campo dell'intrattenimento». Disney non ha commentato, mentre una fonte anonima avrebbe detto a Reuters che «società come Disney devono capire l'intelligenza artificiale o rischiano l'obsolescenza».

La presunta task force sarebbe stata avviata prima dell'inizio dello sciopero degli attori di Hollywood, che tra le richieste avanzate dal sindacato presenta proprio la necessità di regolamentare l'utilizzo dell'intelligenza artificiale nel cinema. 

ANNA MANISCALCO. Laureata in Giurisprudenza e diplomata in cinema. Frequenta la Scuola di giornalismo Walter Tobagi di Milano

Disney, dal topo "wasp" alle fiabe politically correct. Nel 1923 nasceva la "fabbrica" dei cartoni animati. Una terra di sogni che qualcuno vuole riscrivere. Claudio Siniscalchi il 27 Agosto 2023 su Il Giornale.

Le fortune di due fra i più importanti imprenditori-innovatori statunitensi contemporanei sono nate in un garage. Da lì sono partiti, con immensa fiducia, poche certezze e mezzi finanziari risibili, Steve Jobs (fondatore di Apple) e Bill Gates (fondatore di Microsoft). Storie incredibili. Ma non nuove. Spostando il calendario indietro di cento anni, uno squattrinato disegnatore fatica non poco per racimolare i soldi per pagarsi il biglietto del treno per Los Angeles. Si chiama Walter Elias Disney. Nato a Chicago nel 1901. La «città degli angeli» è nel vortice dell'espansione economica. I produttori cinematografici hanno abbandonato la fredda costa dell'Est per accasarsi nella calda costa dell'Ovest. Possono lavorare ininterrottamente tutto l'anno. Disney e il fratello partono da un garage. E da lì scalano a grandi passi il «tempio della celluloide». Walt ha una grande intuizione. Ai magnati di Hollywood non interessa il cartone animato. Il mercato di fatto è un oligopolio, dominato da otto compagnie: cinque grandi e tre piccole. Poi ci sono gli indipendenti, che tali debbono restare. Se hanno ambizioni di crescere e trovarsi un posto al sole accanto ai grandi, si sbagliano di grosso. Disney per il disegno animato ha un talento insuperabile. È un discendente di Leonardo da Vinci catapultato nel XX secolo. E il 16 ottobre 1923 Walt Disney e suo fratello Roy con il nome di Disney Brothers Studios.

Uno scrittore francese oggi quasi dimenticato, Joseph Kessel, nel 1937 così definisce Hollywood: «I cattolici hanno il Vaticano. I musulmani La Mecca. I comunisti, Mosca. Le donne, Parigi. Ma per gli uomini e le donne di tutte le nazioni, di tutte le credenze, di tutte le latitudini, una città è nata dopo un quarto di secolo, più affascinante e più universale che tutti i santuari. Si chiama Hollywood. Hollywood! Qui si fabbricano, destinati per la terra intera, sogni e sorrisi, passione, brivido e lacrime. Si costruiscono volti e sentimenti che servono da misura, ideale o droga per milioni di esseri umani. E nuovi eroi si formano ogni anno per l'illusione delle folle e dei popoli». Walt Disney doveva aver scolpite nella mente queste parole. E le traduce in cartoni animati per il grande schermo. Disegna senza sosta. Dal suo cappello magico saltano fuori conigli meravigliosi. Uno su tutti, diviso tra la carta stampata e la pellicola: Topolino. Il punto di svolta dell'arte cinematografica di Disney arriva con Biancaneve e i sette nani (1937). Un lungometraggio moderno che incanta i bambini come i grandi. Lo adorano il regista comunista Sergej M. Ejzentejn e lo scrittore fascista Robert Brasillach. Il film rappresenta uno spartiacque. Il cartone animato dopo Biancaneve ha un solo indiscusso punto di riferimento: Walt Disney. Il suo genio sforna nei tre decenni successivi opere sbalorditive: Pinocchio ('40), Fantasia ('40), Dumbo ('41), Alice nel paese delle meraviglie ('51), Le avventure di Peter Pan ('53), La spada nella roccia ('63). Il successo planetario è inarrestabile. Disney fonda un proprio studio, mescola il cartone animato con la finzione (Mary Poppins del '64 è il modello insuperabile), riceve premi, guadagna dollari a palate. Non è più un cartonista-regista-artista: è l'America. L'immagine dell'America nel mondo americanizzato. Muore nel 1966, quando ad Hollywood la fiducia nel futuro sembra essere svanita. I «vecchi titani» che spesso hanno guardato Disney dall'alto in basso, stanno cedendo le loro case di produzione. Il futuro però è della Disney. La televisione, la nuova finanza e il consumismo stanno integrandosi nella produzione cinematografica. La Disney ha tutto. Nei quasi sessant'anni che seguono la scomparsa del fondatore, il cartone animato si trasforma in Disneyworld.

Walt Disney in vita ha avuto parecchi detrattori. Molti non gli hanno perdonato le sue simpatie per le dittature fasciste degli anni Trenta. Ma polemiche, controversie e incidenti di percorso non mutano la sostanza della realtà. Il «papà di Topolino» deve essere annoverato fra i massimi cantori della cultura occidentale, ovviamente in «salsa WASP» (bianca, anglosassone e protestante). Il «canone occidentale» ha trovato in Disney l'intelligente illustratore attraverso il cartone animato. Nella dimora dove Disney è sepolto da qualche anno si avvertono forti sommovimenti tellurici. È Walt che si gira e rigira, a causa della tendenza «politicamente corretta» adottata dal suo impero. Oggi l'universo disneyano si sta scrivendo o riscrivendo seguendo i dettami della «cancellazione culturale». Una caratteristica propria del turbocapitalismo attuale consente all'ideologia di reggere le redini dell'economia, orientandone le finalità. L'ideologia «gender» è il nuovo, ferreo codice di produzione multimediale. Walt Disney è stato un umanista. Basta ascoltare il dialogo tra il mago Merlino e lo scudiero-sguattero Semola (diventerà Re Artù) in La spada nella roccia. «La cosa migliore da fare quando si è tristi», replicò Merlino, cominciando a soffiare e sbuffare, «è imparare qualcosa. È l'unica cosa che non fallisce mai. Puoi essere invecchiato, con il tuo corpo tremolante e indebolito, puoi passare notti insonni ad ascoltare la malattia che prende le tue vene, puoi perdere il tuo solo amore, puoi vedere il mondo attorno a te devastato da lunatici maligni, o sapere che il tuo onore è calpestato nelle fogne delle menti più vili. C'è solo una cosa che tu possa fare per questo: imparare. Impara perché il mondo si muove, e cosa lo muove ». Un piccolo condensato di sapienza greca, romana, giudaico-cristiana (quindi biblica), scespiriana e, in ultimo, appunto a chiudere il «canone», disneyana. La storia, un po' come le montagne russe, è un alternarsi di salite e discese. L'orribile moda «politicamente corretta», essendo una moda, finirà anch'essa per tramontare. Così il sorridente Walt Disney potrà smettere di agitarsi, tornando a dormire serenamente. Come merita.

Atlas Ufo Robot, per tutti Goldrake.

Marco Zonetti per Dagospia il 5 aprile 2023.

Quarantacinque anni fa, martedì 4 aprile 1978, poche settimane dopo il rapimento di Aldo Moro, arrivava in Italia Atlas Ufo Robot, il cartone animato giapponese che avrebbe cambiato per sempre la "Tv dei ragazzi".

 Uscito tre anni prima in Giappone con il titolo Ufo Robot Grendizer, da noi giunse dopo il passaggio sulla Tv francese dalla quale la Rai adattò la serie, sbagliandone il titolo. "Atlas ufo robot" era infatti una guida al cartone (atlas = atlante in francese), e lo stesso nome "Goldrake", affibbiato al robot protagonista Grendizer, era in realtà l'anglicizzazione del francese "Goldorak".

Senza Internet, YouTube, DVD e piattaforme streaming, nessuno se ne accorse e, impreziosito da sigle indimenticabili (come Ufo Robot/Shooting Star di Luigi Albertelli-Vince Tempera con Ares Tavolazzi al basso), Atlas Ufo Robot fu un successo immediato ed epocale. In onda sulla Rete Due alle 18,45 all'interno del contenitore Buonasera con..., non esisteva bambino o bambina dell'epoca che non lo seguisse appassionatamente.

Il seguito di quel cartone mirabolante così diverso dai placidi e delicati "disegni animati" ai quali i bambini e i genitori italiani erano abituati (fra cui gli altrettanto giapponesi Vicky il Vichingo e Heidi, giunti in Italia poco prima di Goldrake), fu talmente capillare fra le generazioni più giovani che finì per scatenare un putiferio di polemiche sulla presunta violenza delle immagini, finendo addirittura nel mirino della Commissione di Vigilanza.

Uno dei suoi componenti, il deputato Silviero Corsivieri, pubblicò infatti sulla Repubblica un intervento dal titolo "Un ministero per Goldrake" nel quale ne sollecitava la sospensione in quanto celebrava "l'orgia della violenza annientatrice, la religione delle macchine elettroniche, il rifiuto viscerale del diverso". La deputata del Pci Nilde Iotti si spinse addirittura a definirlo un cartone "fascista", oltre che "antidemocratico", "violentissimo", mentre sociologi, intellettuali, pensatori e così via dilapidavano fiumi di parole e altrettanti d'inchiostro interrogandosi se quel supereroe nipponico non fosse in realtà "il diavolo". Gianni Rodari, Nicoletta Artom e Oreste Del Buono furono invece più miti nelle loro analisi spezzando una lancia a favore del robottone venuto dal Sol Levante.

All'epoca, detrattori e paladini non sapevano che "Goldrake" era soltanto il terzo in ordine cronologico di una trimurti robotica ideata dal genio di Go Nagai, paradossalmente arrivato in Italia per primo. In Giappone era stato infatti preceduto da Mazinger Z (giunto da noi nel 1980 su Rai1 e ribattezzato Mazinga Z) e quindi dal Grande Mazinger, uscito nel nostro Paese nel 1979 sulle tv locali. Il legame fra i suddetti robot, una vera e propria trilogia, era il personaggio del pilota Koji Kabuto che in Italia, per errori di adattamento, riuscì ad avere ben tre nomi: Koji nel Grande Mazinger, Ryo in Mazinga Z e Alcor in Atlas Ufo Robot.

La venuta dei personaggi di Nagai in Italia aprì le porte a tutta una panoplia di emuli o epigoni nipponici quali Jeeg Robot d'Acciaio, Jetter Robot, Danguard, Daitarn 3, Gundam, Gordian e così via, tutti approdati nel nostro Paese tra la fine degli anni '70 e i primissimi anni '80 sulle tv locali, contribuendo a decretarne la popolarità.

Per quanto riguarda la Rai, invece, la crociata politica contro Goldrake e Mazinga ebbe l'effetto di far cancellare per sempre dai palinsesti del servizio pubblico i robot giapponesi, riducendo paradossalmente al lumicino la gloriosa "Tv dei ragazzi" che, a metà degli anni Ottanta, era già consegnata chiavi in mano alle televisioni commerciali e soprattutto a Mediaset. Con le reti di Silvio Berlusconi assurte a quotidiane compagne ed educatrici dei bambini e ragazzi dell'epoca (e futuri elettori...).

 Tornando al compleanno di Atlas Ufo Robot, quarantacinque anni dopo quel martedì 4 aprile 1978 quando comparve per la prima volta sui teleschermi italiani ancora perlopiù in bianco e nero, fa ancora un certo effetto - per chi fu bambino all'epoca - rivedere su YouTube la sequenza della corsa di Actarus nei corridoi dell'Istituto di Ricerche Spaziali.

L'adrenalinico ingresso nella navicella spaziale dopo la trasformazione in "Duke Fleed", e l'uscita di Goldrake dai vari nascondigli sotto le cascate, sono scene indelebilmente scolpite nell'immaginario di un tempo che ci appare dorato rispetto a quello di oggi, malgrado si fosse nel pieno degli anni di piombo. Forse perché, nello stesso anno in cui Aldo Moro veniva rapito e poi trovato assassinato, i bambini italiani potevano ancora sognare un supereroe venuto dallo spazio per raddrizzare i mali del mondo.

Goldrake compie 45 anni: oggi nel 1978 il primo episodio italiano. Goldrake compie 45 anni, ma è ancora giovanissimo nella memoria dei milioni di ammiratori. La prima puntata trasmessa su Rai 2 il 4 aprile del 1978, grazie all'intuizione di una funzionaria Rai. Roberta Damiata il 4 Aprile 2023 su Il Giornale.

Fu letteralmente una rivoluzione. Bastò una puntata, trasmessa il 4 aprile del 1978 su Rete 2, per trasformare Atlas Ufo Robot, che poi diventò per tutti Goldrake, in una vera mania. Solo 20 minuti durava una puntata della serie giapponese Ufo Robot Grendizer, ma furono sufficienti per far impazzire tutti, diventando croce e delizia dei genitori "costretti" nei mesi a venire, a mettere mano al portafoglio, travolti dalle richieste dei figli di giocattoli e gadget, di questo innovativo supereroe.

E fu proprio l'innovazione a decretare il successo nel nostro Paese, abituato a ben altro genere di cartoni per ragazzi. Un salto in avanti per un genere che veniva dal Giappone, 45 anni fa luogo lontano e misterioso, di cui molto non si sapeva se non poi, l'avvento di questo nuovo genere di animazione. Ogni giorni, ben cinque milioni di bambini, ragazzi, tate, genitori e qualche nonno, si "piazzavano" davanti al televisore in quell'appuntamento imperdibile, che oggi festeggia i 45 anni di messa in onda in Italia.

L'intuizione di una funzionaria Rai

A portarlo nel nostro Paese fu una funzionaria Rai Nicoletta Artom, che lo aveva visto un anno prima, nel 1977, al Mifed di Milano ((Mostra Italiana del Film, Telefilm e Documentario, ndr), comprendendo subito la rivoluzione che avrebbe portato in tv. Ma non fu così semplice farlo arrivare nella seconda rete della tv "di Stato", servì la "spinta" definitiva dell'allora direttore di rete Massimo Fichera, che vide oltre, per farlo acquistare e poi trasmettere.

Come ogni cosa nuova e in un certo senso "rivoluzionaria", Goldrake dovette combattere batttaglie non solo dentro lo schermo, ma soprattutto fuori. Tutti parlavano di questo cartone; o meglio "anime", gionalisti, psicologi, insegnanti e politici, e non tutti con parole di approvazione. Come riporta Massimo Nicora, autore del saggio: C'era una volta Goldrake - La vera storia del robot giapponese che ha rivoluzionato la TV e il mercato del giocattolo in Italia: "In una piccola scuola di Imola alcuni genitori lanciano addirittura una crociata contro i cartoni animati giapponesi".

Ne parlò anche Enzo Tortora nel suo programma L’altra Campana, a testimonianza del dilagante successo del cartone. Fama e notorietà che rimangono immutate anche ora, 45 anni dopo, quando quei bambini seduti davanti alla tv, sono ora adulti, e hanno loro stessi figli che lo apprezzano; e non esiste festa, sia di piccoli o di grandi, che non riproponga la sigla, che tutti intonano riportando alla luce emozioni che facevano battere il cuore.

Universo Marvel.

Estratto dell'articolo Luca Valtorta per “La Repubblica” il 28 dicembre 2022. 

«Per la maggior parte del tempo facevamo cancellare a Stan la matita dalle tavole inchiostrate o lo mandavamo a prendere i caffè», racconta Joe Simon, primo editor della Timely Comics, la casa di fumetti fondata da Martin Goodman da cui sarebbe poi nata la celeberrima Marvel, «quando non aveva nulla da fare se ne stava seduto in un angolo del reparto grafico suonando il suo flauto facendo impazzire Kirby. Jack gli urlava di smetterla».

Nel racconto di vari testimoni lo strumento varia: diventa un'ocarina o addirittura un fischietto. Di sicuro non è stato uno dei modi migliori per fare amicizia con Jack Kirby, uno dei massimi autori e disegnatori di fumetti della storia, arrivato a influenzare persino avanguardie artistiche come la Pop Art. Continua lo stesso Kirby: «Mi ricordo Stan seduto sul mio tavolo a suonare il flauto, intralciando il mio lavoro. Io prendevo molto sul serio quello su cui stavo lavorando mentre lui non era mai serio in niente».

Joe Simon ricorda anche di aver sentito spesso Kirby ringhiare frasi come: «Un giorno quel ragazzino lo ammazzo!». Se quel ragazzino fosse ancora vivo (è venuto a mancare nel novembre 2018), proprio oggi compirebbe 100 anni. [...] 

Cominciamo dal fatto più concreto: è stato Stan Lee a creare tutti o quantomeno la maggior parte dei personaggi a cui la Marvel deve la sua gloria come forse ancora oggi la maggior parte della gente crede? Non esattamente. Ma al tempo stesso è vero che se non ci fosse stato lui molto probabilmente le cose non sarebbero andate nello stesso modo. 

[...] Un teorema che vale per tutti i "grandi" ma in particolare per lui perché se c'è una cosa su cui tutti, amici, nemici, critici ed esegeti concordano, è questa: è stato Stan Lee a creare, al di là dei singoli personaggi, la formula alla base dei supereroi moderni, quella che li ha resi così famosi a tutti le latitudini.

[...] E allora, ritorna la domanda, chi è stato davvero Stan Lee? Prova a spiegarlo Marco M. Lupoi, direttore publishing di Panini Comics, forse il maggior conoscitore dell'universo Marvel in Italia: «Stan Lee è una personalità unica nella storia del fumetto, perché non è stato solo uno sceneggiatore, uno scrittore, un editor, ma colui che ha creato un universo interconnesso di dimensioni mai viste fino ad allora, e mai eguagliate, introducendo nei comics un modo di rappresentare il mondo, di interagire con i lettori e di restare connesso con l'attualità: un "Marvel Style" che ha cambiato la storia».

[...] Come faceva?  Lo racconta Igort, autore, disegnatore e direttore di Linus, che a Stan Lee dedica il numero in edicola: [...]«Tra le cose che Stan ha introdotto nei comics, per me la più importante è la capacità di raccontare le storie di uomini che sono dei e di dei che sono uomini. Il suo tocco umano colora l'universo Marvel, e ne sarà sempre la caratteristica più importante » . 

Tutto dunque viene da lì, dai "supereroi con superproblemi". Una lezione che da quel momento verrà declinata in mille modi nei fumetti a venire. Cambiando per sempre l'immaginario e non solo: contribuendo a rendere il mondo un posto più bello e più gentile.

Zio Paperone.

Buon compleanno zio Paperone: i 75 anni del più ricco (e tirchio) papero del mondo. ANDREA MAZZOTTA il 15 Dicembre 2022 su Il Quotidiano del Sud.

Paperon de’ Paperoni, o meglio zio Paperone, compie 75 anni, il compleanno del papero più ricco, scorbutico e tirchio del mondo

IL papero più ricco, famoso, simpatico e tirchio del mondo compie 75 anni di vita editoriale, anche se la sua età anagrafica, come ci ha svelato il maestro fumettista Don Rosa nell’indimenticabile “Saga di Paperon de’ Paperoni”, inizia, da pulcino, nel 1867. Paperon De’ Paperoni, più comunemente conosciuto come Zio Paperone, appare per la prima volta su Four Color numero 178 (Edizioni Dell Comics), nel racconto Christmas on Bear Mountain del dicembre del 1947 che vedrebbe, in teoria, come protagonisti Paperino e i suoi nipoti Qui, Quo e Qua, anche se il vecchio papero ruberà loro subito la scena.

IN ITALIA IL RICCO PAPERO ARRIVA NEL 1948

In Italia la storia viene presentata con il titolo “Il Natale di Paperino sul Monte Orso” su Topolino Giornale dal 14 febbraio al 27 marzo 1948. Topolino Giornale, che arriva nelle edicole italiane ad opera dell’editore Nerbini nel 1932, per poi passare a Mondadori, è l’edizione antesignana del Topolino Libretto, cioè la testata che ha accompagnato la crescita di migliaia di lettori e che oggi presenta, ogni settimana, le splendide storie della famiglia dei Topi e dei Paperi che appassionano e conquistano bambini di tutte le età.

LE ORIGINI DI ZIO PAPERONE NEL SUO 75° COMPLEANNO

A inventare il personaggio fu l’immenso e incommensurabile Uomo dei paperi, Carl Barks, autore a cui dobbiamo uno sconfinato mondo di personaggi, luoghi immaginari, e storie strabilianti. Non serve avere una grande conoscenza della letteratura angloamericana per capire che Scrooge McDuck, questo il nome in originale, noto anche come Uncle Scrooge, appunto “Zio” Paperone, è ispirato al personaggio di Ebenezer Scrooge, avido protagonista del Canto di Natale di Charles Dickens. Ma non solo.

Lo zio ricco d’America non è solo un topos dell’immaginario europeo, ma esiste anche nel continente americano, creato dalla striscia a fumetti The Gumps, nata nel 1917 dalla matita di Sidney Smith, dove al protagonista Andy si affianca il ricchissimo zio australiano Uncle Bim. Barks la conosceva e ne ha tratto sicuramente ispirazione, evolvendo poi la figura di Paperone e costruendo intorno a lui un mondo complesso e credibile.

Se nessuno fu e sarà come Barks, va detto che sono diversi i mastri dell’arte sequenziale che si sono cimentati con le storie del Papero più ricco del mondo. Don Rosa gli ha costruito una bellissima biografia (La saga di Paperon De Paperoni), Romano Scarpa ha sottolineato la sua dimensione affettiva, Guido Martina ne ha mostrato le magagne, Rodolfo Cimino l’ha spedito in giro per il mondo alla ricerca di tesori incredibili, Cavazzano gli ha cucito addosso mille volti e ruoli.

BUON COMPLEANNO ZIO PAPERONE, PAPERO RUDE MA DAL CUORE UMANO

Ne è uscito un Papero più umano che mai, dalla personalità sfaccetta e prismatica, coerente a sé stesso e pieno di fisiologiche contraddizioni, esattamente come ciascuno di noi. Una figura leggendaria che ha saputo ritagliarsi uno spazio anche nella storia dell’animazione Disney, apparendo tanto sul piccolo schermo (con la serie televisiva Ducktales) che sul grande, fino ad aggiudicarsi un lungometraggio tutto per lui (Zio Paperone alla ricerca della lampada perduta – 1990).

La vita del papero nato a Glasgow, in Scozia, è stata, narrativamente parlando, tempestata di infinite avventure, la stragrande maggioranza delle quali, se escludiamo Bark e Rosa, prodotte proprio in Italia, grazie alla grande tradizione Disney italiana.

Una tradizione così forte da far sorgere in Italia anche una vera e propria Accademia Disney, fondata nel 1988 sotto il nome di “Scuola Disney” da Giovan Battista Carpi e successivamente ribattezzata “Accademia Disney” nel 1993. Fu un’istituzione privata della Walt Disney Company creata con l’intento di sviluppare nuovi talenti capaci di operare nel mercato nel mondo dell’illustrazione e della narrazione visiva in conformità con lo stile Disney. Ma questa è un’altra, splendida, storia.

IL PRIMO PAPERONE, LA SUA RICCHEZZA, LE SUE STORIE

Il personaggio che incontrano Paperino e i suoi nipoti, nella storia ambientata a Natale, è un papero molto diverso da quello che si rivelerà nelle migliaia di pagine successive. È stanco, vecchio, forse un po’ deluso dalla vita.

Il perché ce lo spiega proprio Don Rosa nella sua incredibile epopea che racconta tutto il percorso di vita di un avventuriero mai domo, che parte della Scozia per esplorare il mondo. Un viaggio durato anni, decenni, che lo porterà a diventare il Papero più ricco del mondo, a costruire un deposito nel quale riposano di 3 acri di monete d’oro, pari a 5 multiplujilioni, 9 impossibidilioni, 7 fantasticatrilioni di dollari e 16 centesimi.

In realtà, non si tratta di tutti i possedimenti del vecchio papero, che vanta migliaia di floridi conti correnti e proprietà sparse per il mondo ma solo di ciò che ha guadagnato personalmente, con il proprio sudore e che non spenderà mai. Un viaggio che, tuttavia, l’ha costretto a mettere da parte gli affetti, trasformando il pulcino sognatore che partì alla ricerca di fortuna da condividere con la famiglia, in un vecchio acido e solitario. Ma questa era solo la sua condizione all’inizio della fine di una parte della sua esistenza…

ZIO PAPERONE E IL SUO RAPPORTO CON PAPERINO E GLI ALTRI PROTAGONISTI

Ancora tanto sarebbe stato raccontato di lui, compreso il complesso rapporto con il nipote Paperino, costantemente indebitato con lo zio, e con i nipotini. Tanto affetto, (e qualche spasimante come Brigitta MacBridge e Doretta Doremì, conosciuta durante gli anni in Klondike) ma anche tanti nemici, pronti a derubarlo (i Bassotti e Amelia), oppure a sminuirne i meriti (Cuordipietra e Rockerduck).

E ancora viaggi, errori, pentimenti, grandi momenti di gloria, vittorie, sconfitte, dimostrazioni di testardaggine epocali, pavimenti solcati da passi carichi di pensieri, una vita segreta da supereroe, la mitica numero 1, portafortuna per antonomasia, o forse solo il primo mattoncino di un impero, una tuba per cappello e le ghette ai piedi. Insomma, Zio Paperone è davvero un elemento fondamentale dell’immaginario collettivo mondiale, un archetipo narrativo, uno specchio, come spesso sono i fumetti, nel quale ognuno vede un po’ stesso per come è, per come vorrebbe o non vorrebbe essere. Piuma più, piuma meno.

COSA REGALARE A ZIO PAPERONE NEL GIORNO DEL SUO COMPLEANNO?

Cosa regalare al Papero più ricco del mondo per i suoi 75 anni? Nulla, lui ha già tutto. Forse solo una promessa: quella di continuare a leggere le sue avventure, pubblicate in Italia sul settimanale Topolino, sul mensile Zio Paperone e i suoi volumi editi da Panini Comics, che ne cura in Italia, splendidamente, la proposta editoriale. Tanti auguri vecchia tuba!

Un vero capitalista che non si vergogna della sua ricchezza (come scrisse Buzzati). Il personaggio nacque nel 1947 dalla matita di Carl Barks. Fra l’Arpagone di Molièree il Grandet di Balzac, è diventato anche lui un classico, accumulando dollari. Felice Modica il 24 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Quando, nel dicembre del 1947, Carl Barks ideò per Walt Disney il personaggio di Uncle Scrooge McDuck, di sicuro aveva in mente l'Ebenezer Scrooge protagonista del Cantico di Natale di Charles Dickens. E forse neppure l'autore avrebbe scommesso su una vita così lunga per la sua creatura, originariamente concepita per esaurirsi nel racconto d'esordio, quel Christmas on Bear Mountain, tradotto in italiano col titolo di Paperino e il Natale sul monte Orso. I personaggi dei fumetti, però, vivono di vita propria. Crescono, si sviluppano, assumendo nuove forme e modificando il loro carattere. Di avari sono pieni la letteratura e il teatro. Dal plautino Eucline, all'Arpagone di Molière, al Todero di Goldoni, al Grandet di Balzac. Paperon de' Paperoni - il cui nome italiano si deve a una geniale intuizione di quell'insuperato direttore di Topolino che fu Mario Gentilini - non è un loro fratello minore. Forse, come sosteneva il fumettista veneto Piero Zanotto, è più strettamente imparentato con il goldoniano Sior Todero brontolon, anche lui, in fondo, un simpatico avarastro... Adesso che Paperone è giunto al suo settantacinquesimo compleanno, la casa editrice Panini, che ha in Italia l'esclusiva dei Paperi, farà festa grande. Sui periodici del gruppo, con storie inedite e ripubblicazioni di classici ma, soprattutto, rieditando due capolavori del genere, in cartonato da collezione. Si tratta di Vita e dollari di Paperon de' Paperoni e de La saga di Paperon de' Paperoni di Don Rosa. Il primo merita alcune considerazioni. Uscito in origine per gli Oscar Mondadori, nel lontano 1968, comprende sette vecchie celebri storie di Carl Barks pubblicate tra il 1949 e il 1954. La nuova edizione, contrariamente all'originaria italiana, che era in bianco e nero, è interamente a colori e presenta ciascuna storia corredata da un ampio apparato redazionale inedito. Tuttavia, nell'edizione Panini mancano due cose che impreziosivano notevolmente il testo originario: la prefazione di Dino Buzzati e l'introduzione di Mario Gentilini. È un vero peccato, in quanto Gentilini è una miniera di informazioni. Ci dice, per esempio, che in Italia esisteva un «frate Paperone de' Paperoni, domenicano trasferito dalla cattedra di Foligno, il giorno 21 luglio dell'anno 1282...». Specialmente Buzzati, però, tratteggia un profilo perfetto del nostro multimiliardario, fornendo una lettura politica del personaggio, di grande attualità. Dopo aver definito Paperone e Paperino «tra le più grandi invenzioni narrative dei tempi moderni», sottolineandone «la vertiginosa fantasia e ingegnosità delle vicende, in un mondo dove la regola quasi sovrana dei romanzi è la noia», l'autore del Deserto dei Tartari spiega perché Paperone sia sempre divertente e simpatico. Scrive: «è uno spilorcio al mille per cento. In fatto di dollari non ammette debolezze o eccezioni, mai. Se è di buon umore vuol dire che è in arrivo un buon carico di sestilioni, se ha la luna vuol dire che gli è stato sottratto qualche cent. Se è generoso - raramente ma capita - è generoso perché la poca grana che sgancia è servita, o servirà, a guadagnare cento, mille volte tanto». Se Scrooge era odioso, Paperone è simpatico per due ragioni: «pur essendo il re degli arpagoni, non è arido come Scrooge. È capace di soffrire, di piangere, e quando piange (per la perdita di un soldo) fa pena come un bambino maltrattato. Secondo: lo rende simpatico la sua eroica fermezza e inflessibilità d'avaro. Nel nostro mondo industriale, dove tutti i ricchi sembrano vergognarsi dei loro capitali, e si allineano con la cultura di sinistra, e invitano alle loro feste coloro che proclamano apertamente la loro intenzione di spogliarli, è confortante incontrare un plutocrate che, senza pudori, ostenta lo splendore dei suoi miliardi, e se li tiene bene stretti, determinato a non farne parte con nessuno, e disprezza i poveracci che non sono stati capaci di fare quello che ha fatto lui. Una carogna, un maledetto, un mostro. Però un capitalista di carattere, che sarà odiato, ma in fondo rispettato molto più dei colleghi pusillanimi e camaleonti». Troppo vero e attuale per ripubblicarlo nell'anno del Signore 2022... In compenso, integrale è la grande saga di Don Rosa, il vero erede di Carl Barks che, in due anni di intensissimo lavoro, tra il 1991 e il 1993, realizzò in 212 magnifiche tavole l'appassionante biografia del papero più ricco del mondo. Bellissimo, anche per le tavole.

Dino Buzzati.

Dino e il fumetto. Una grande passione che va da Disney a "Diabolik". Già negli anni Cinquanta, quando in Italia si bandì una crociata contro i fumetti, da più parti considerati giornaletti idioti che rovinavano i ragazzi, Dino Buzzati non si accodò alla vulgata benpensante e moralista. Luigi Mascheroni il 24 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Già negli anni Cinquanta, quando in Italia si bandì una crociata contro i fumetti, da più parti considerati giornaletti idioti che rovinavano i ragazzi, Dino Buzzati non si accodò alla vulgata benpensante e moralista. Ce lo spiega bene Lorenzo Viganò, massimo esperto dello scrittore-giornalista che quest'anno ha curato una nuova edizione, ricchissima e con molto materiale inedito, dello storico Album Buzzati (Mondadori), solo per caso una straordinaria biografia «per immagini e parole». «Buzzati - fa notare Viganò - scrisse chiaramente che era sbagliato generalizzare, e distingueva fra certi fabbricatori di fumetti dalla fantasia stentata, la tecnica dilettantesca, i gusti bassi, tutti uguali e disegnati male, e il fumetto come mezzo di comunicazione, al pari del libro e il cinema: come ci sono libri e film deprecabili oppure originali, così ci sono fumetti pessimi e inutili o ottimi e intelligenti. Bisogna soltanto sapere - e Buzzati lo intuì subito - che la differenza fra i fumetti buoni e cattivi sta nella capacità di schiacciare o esaltare la fantasia del lettore».

Insomma, se le storie sono ripetitive e scontate, tutte sparatorie e scazzottate, e le immagini rozze e didascaliche, che dicono già tutto, scena dopo scena, allora non permetti al ragazzo di mettere in moto l'immaginazione: e quando uccidi il Babau, uccidi la fantasia; se invece il disegno è di un grande artista, e Buzzati pensava ad Arthur Rackham o a Gustave Doré, le cui illustrazioni spesso ricordiamo più degli stessi versi di Dante, allora ciò è la scintilla che dà fuoco all'immaginazione che permette al lettore di inventare il suo mondo...

E Dino Buzzati, formidabile inventore di mondi, amava davvero il fumetto, in molte sue forme. Nel 1962 esce Diabolik, creato dalle sorelle Giussani nella Milano del boom, e lui se ne innamora. C'è una famosa fotografia di Buzzati nel suo studio, mentre lavora, e alle sue spalle, appeso nella libreria, un poster del Re del terrore. Lo scrittore chiamò il suo cane, un basset hound, «Diabolik», e quando la sera, a letto, un romanzo lo annoiava, si voltava verso la moglie Almerina e le diceva «Dài, passami Diabolik!». Sono anni infestati dai Kriminal, i Satanik, i Fantax e i Sadik. Ai quali il suo dipinto La Vampira (1965) deve molto... Nel 1968 Buzzati firma la celebre prefazione all'Oscar Mondadori Vita e dollari di Paperon de' Paperoni, dimostrando di aver capito benissimo il personaggio. E nel '69, fra lo stupore di molti, pubblica il Poema a fumetti (che oggi Mondadori ripubblica), un'opera per adulti sperimentale, a metà tra il romanzo e il fumetto, che rielabora il mito di Orfeo e Euridice in chiave pop, considerato una delle prime graphic novel mai pubblicate. E qui, nel suo Poema, a conferma delle sue vecchie convinzioni, ogni tavola è un'opera d'arte.

Buzzati del resto si considerava più un pittore che uno scrittore. Infatti è un artista moderno: che ruba, cita, assembla, si appropria, dando vita a qualcosa di nuovo e di profondamente diverso dagli albi usa-e-getta dei fumetti dozzinali, qualcosa che innesca timore, inquietudine, sogni, incubi, in una parola: la fantasia. Come farà, in maniera mirabile, fra cultura alta e devozione popolare, in quello che di fatto è il suo ultimo libro pubblicato in vita, I miracoli di Val Morel (e che oggi Mondadori ripubblica nel formato originale, quello voluto dallo stesso autore nella prima edizione del 1971 per Rizzoli, con la prefazione di Indro Montanelli), una raccolta di dipinti e brevi commenti imperniati su alcuni miracoli immaginari che la tradizione attribuiva a Santa Rita da Cascia e ambientati a Valmorel, località vicino a Limana, in provincia di Belluno. La sua Belluno.

Diabolik.

Michele Bovi per Dagospia il 2 marzo 2023.

Eva Kant compie 60 anni. Uscì nelle edicole il 1° marzo 1963 il terzo numero di Diabolik con l’esordio della compagna del “re del delitto”. Per celebrare l’anniversario la Zecca di Stato ha coniato monete per collezionisti e l’editrice Astorina pubblica una serie di iniziative editoriali inedite. Una rievocazione che coinvolge anche le “similEva” nate in questi 60 anni, ovvero le parodie, le copie, le contraffazioni che dall’inizio accompagnano il fumetto ideato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani: il loro genio del crimine e la sua donna hanno scatenato l’altrui ingegno dell’imitazione. 

 C’è chi, come la Fumettoteca Alessandro Callegari “Calle” di Forlì, custodisce l’inventario aggiornato di tutte le Eva Kant col nome storpiato accanto agli altrettanti deformati Diabolik. In cima alla lista ci sono Parabolik e la compagna Eva Katz disegnati da Federico Distefano nel 1996. Ma l’elenco è interminabile. 

A quel nome con la consonante K in coda fecero seguito fumetti noir di successo come Sadik di Nino Cannata e Satanik di Max Bunker (al secolo Luciano Secchi), oppure settimanali “eroticomici” come Menelik e una valanga di caricaturali Brutik, Fetentik, Fifonik, Trasformik. Molte le opere spassose, come Paperinik, creato nel 1969 da Elisa Penna e Guido Martina assieme al disegnatore Giovan Battista Carpi per il periodico Topolino della Walt Disney Company Italia, o l’ultimo arrivato, Maialik, la salama che uccide, un gastrocriminale in 3D inventato nel 2016 dall’illustratore Dino Marsan assieme a Alessandro Bersanetti che racconta le avventure di un supereroe ispirato al piatto tipico di Ferrara. 

Ma quanti di questi gemelli sono stati autorizzati dagli editori di Diabolik e quanti invece hanno dato origine ad azioni giudiziarie per contraffazione?

In 60 anni le autorizzazioni a copiare sono state poche – racconta Mario Gomboli, responsabile della casa editrice Astorina – Ottenemmo la prima proprio io e lo sceneggiatore Alfredo Castelli, ovvero le due persone più vicine alle sorelle Giussani che ci consentirono nel 1968 di pubblicare Diabetik, parodia con i disegni di Carlo Peroni. Io ho autorizzato nel 2013 l’albo Ratolik di Leo Ortolani. 

 Altri non sono stati formalmente autorizzati ma li abbiamo accettati volentieri in quanto lavori rispettosi e di buona qualità. Per il resto abbiamo subìto senza nemmeno mai tentare azioni legali: c’è poco da fare, gli espedienti della satira e della parodia devitalizzano ogni addebito di contraffazione. In alcuni casi, davanti a iniziative che ritenevo davvero sguaiate mi sono limitato a scrivere invitando i destinatari a un maggiore riguardo nei confronti del soggetto originario”.

Eppure Diabolik con i tribunali ha una particolare familiarità. 

È stato trattato categoricamente per quello che rappresenta: un irriducibile criminale. – racconta Gomboli – Diabolik nei primi anni di vita è stato continuo bersaglio di denunce e provvedimenti di sequestro. I fascicoli finivano al macero, diventando preziosi per i collezionisti, come il numero 82 del 20 marzo 1967 intitolato Il tesoro sommerso sequestrato sull’intero territorio nazionale dal pretore di Lodi perché in copertina era disegnata una ragazza in bikini: oltraggio al pudore. Ci furono interrogazioni parlamentari perché Diabolik e Eva Kant in una vignetta apparivano mano nella mano adagiati sul letto matrimoniale, pur non risultando sposati. C’era poi l’accusa ricorrente di corruzione di minori, perché prima di Diabolik i fumetti erano soltanto Topolino o Tiramolla pertanto diretti ai bambini. 

E l’annuncio Per adulti in copertina non era ritenuto sufficiente a tutelare i piccoli lettori. Nell’anticamera delle chiese Diabolik compariva negli elenchi delle letture sconsigliate, anche se abbiamo sempre evitato riferimenti religiosi. Una sola volta apparì l’esclamazione Mio Dio, che poi fu cancellata nella ristampa. Insomma il criminale a fumetti ha fatto lavorare molto gli avvocati. Eppure non è mai stato condannato”.

Però uscì sconfitto da una vertenza giudiziaria in cui compariva nella sorprendente veste di parte lesa: l’unica volta in cui Diabolik è stato protagonista di una causa per contraffazione.   I magistrati del tribunale di Roma nel 1968 furono chiamati a pronunciarsi su una causa intentata da Angela e Luciana Giussani contro il film Arriva Dorellik diretto da Stefano “Steno” Vanzina e prodotto da Dino De Laurentiis, che era la trasposizione cinematografica dell’esilarante e maldestro criminale interpretato da Johnny Dorelli con i testi di Franco Castellano e Giuseppe “Pipolo” Moccia per il varietà televisivo Johnny Sera del 1966. 

In realtà le Giussani non ce l’avevano con Dorelli e i suoi autori – rivela Mario Gomboli – La citazione in giudizio era diretta a colpire Dino De Laurentiis con il quale c’era stata un’impetuosa baruffa a seguito del film Diabolik, diretto nel 1968 da Mario Bava”. 

 Il produttore aveva acquistato dalle due sorelle i diritti cinematografici per la pellicola interpretata da John Phillip Law (Diabolik), Marisa Mell (Eva Kant) e Michel Piccoli (l’ispettore Ginko). Ma non tutti gli accordi stabiliti erano stati rispettati. Almeno secondo Angela Giussani che pertanto tentò di lavare l’onta osteggiando De Laurentiis nella realizzazione cinematografica del buffo personaggio incarnato da Johnny Dorelli. 

Un regolamento di conti che tuttavia non gratificò le sorelle milanesi – aggiunge Gomboli – I giudici infatti riconobbero agli accusati il diritto di parodia e di satira e Arriva Dorellik fu assolto”. Una sentenza che scatenò il copia-copia generale. C’è un modo sicuro per colpire senza conseguenze anche due pericolosi criminali come Diabolik e Eva Kant: basta prenderli per i fondelli. 

Luigi Mascheroni per “il Giornale” - 3 agosto 2022

Diabolik, chi sei? Risposte. Un antieroe, un criminale per cui si parteggia, un personaggio ambiguo: feroce e dignitoso, un Mistero, un ladro inafferrabile, uno dei più celebri fumetti italiani di sempre, un fenomeno editoriale, sociale, culturale. 

 Tra cronaca di ieri e miti d'oggi. Swiisss... Diabolik entra in scena, silenzioso come il sibilo del suo pugnale, un nebbioso e grigio inizio di novembre - i giorni dei morti... - del 1962, un mese dopo lo schianto di Enrico Mattei nelle campagne di Bascapè, uno prima del collaudo della Linea 1 della metropolitana milanese e pochi mesi dopo la rivolta operaia di piazza Statuto a Torino. 

Un fumetto rivoluzionario e ribelle, inventato dalle borghesi sorelle Giussani, destinato negli anni a diventare conservatore e corretto, come il suo protagonista, capobanda di una lunga serie di «eroi in nero», tutti marchiati nel nome con una rigorosa K, da Kriminal a Satanik, che hanno terrificato una felicissima stagione fumettistica, e non solo. 

Il primo numero di Diabolik - titolo: Il Re del Terrore - esce nelle edicole in poche migliaia di copie, di fatto solo nel Nord del Paese, Milano e Torino soprattutto, e quasi soltanto nelle stazioni ferroviarie. Atmosfere nere e formato tascabile, è la lettura perfetta per i pendolari che nei primi anni '60 affollano i treni locali e interregionali. 

 Da lì il genio del Male inventato da due ragazze della Milano bene, conquista prima migliaia, poi milioni di lettori, diventando un simbolo sia del noir sia dei coloratissimi Sixties all'italiana. Storie in bianco e nero, copertine pop, optical, psichedelia, design all'avanguardia: tutti i colori del nero. Era nato per essere letto in treno dai pendolari e sotto il banco dagli studenti: si è trasformato in una multicolore icona popolare. 

Diabolik è uno straordinario caso sociale, editoriale, imprenditoriale a cavallo tra da una parte - l'Italia del boom economico, della grande trasformazione, del benessere e della cultura, dei mutamenti della mentalità e del costume, delle città che diventano metropoli, delle opportunità e del miracolo e - dall'altra - dell'Italia del desiderio, inquietante e oscura, che vuole emanciparsi, arricchirsi, possedere, l'Italia di un modello diverso di donna, elegante e irriverente, di nuove abitudini e nuovi vizi, un Paese che, trasformandosi da agricolo a uno tra i più industrializzati del mondo, conosce imponenti flussi di migrazioni interne, conflitti sociali, diseguaglianze economiche e un forte aumento della criminalità: furti, traffico di stupefacenti, rapine e omicidi... Eccola, l'Italia in nero. Il grande Nord ricco, brumoso bramoso, peccaminoso. 

È il Nord che ha due capitali. Torino, la città più misteriosa d'Italia, magica, diabolica e nera, «una giungla composta da ladri, rapinatori, scippatori, travestiti, pervertiti, belle di notte e di giorno», la città che diventa scenario del delitto perfetto - siamo alla fine degli anni '50, una manciata di mesi prima dell'uscita di Diabolik - commesso da un killer che si firma "Diabolich", e poco dopo diventa la città della banda Cavallero che con le sue violente scorribande costellò gli anni dal 1963 al 1967... 

E poi Milano, la città più ricca d'Italia, sfrontata, feroce, mondana e irriverente, un carosello di negozi di lusso, teatri d'avanguardia, night club, «la città dei mitra» - palcoscenico della spettacolare rapina dell'aprile 1964 in una gioielleria della centralissima via Montenapoleone... della speculazione immobiliare, della moda, delle minigonne, dei gioielli, del design (quanto ce n'è negli albi di Diabolik...), della cupidigia. 

La Domenica del Corriere dell'aprile 1965 dedica la copertina con la grande illustrazione di Walter Molino al personaggio di Diabolik che, calzamaglia nera e pugnale sguainato, balza nella camera da letto di una bellissima donna immersa nella lettura di fumetti proibiti: all'interno del popolare settimanale spicca il servizio di Guglielmo Zucconi su «Ragazzini e signore-bene divorano i nuovi fumetti dell'orrido». 

 E sul Corriere d'informazione, siamo nell'ottobre 1966, Dino Buzzati pubblica un articolo sul caso della conturbante spogliarellista Rosa Draganovich, accoltellata in città, dal titolo Milano Diabolik?, dimostrando quanto l'inafferrabile ladro dagli occhi di ghiaccio sia entrato nell'immaginario collettivo. 

È lo stesso Buzzati che firma tanti pezzi di nera dell'Italia di quegli anni: rapine, omicidi, fughe, rapimenti... Ed è il Buzzati che chiama il suo cane, un basset hound, «Diabolik», e che quando la sera, a letto, un romanzo lo annoia, si voltava verso la moglie Almerina e le diceva «Dài, passami Diabolik!». 

 Sono anni infestati dagli epigoni del «Re del Terrore», da Kriminal a Satanik di Max Bunker, da Fantax, a Demoniak e Sadik, tra successi in edicola, scandali, denunce in pretura, sequestri, interrogazioni parlamentari, parodie, film (quello di Selth Holt del '65 con Jean Sorel, iniziato e mai realizzato, o quello di Mario Bava del '68, oggi un cult) anatemi dei moralisti e studi dei sociologi. Inquietudini, cupidigie, voglie e immaginari di un tempo che fu. 

Figlio di Fantômas, Rocambole e Arsenio Lupin, padre di una sterminata serie di criminali moralmente efferati e mediaticamente ad effetto, Diabolik ha attraversato sulla sua velocissima Jaguar la cronaca e il costume di sessant' anni di storia italiana. Sopravvissuto alle sue due madri - Angela è morta nel 1987, Luciana nel 2001 - uscito indenne da critiche e processi, salvatosi dai mutamenti epocali che hanno travolto il mondo del fumetto e dell'entertainment, passato con eleganza il giro del secolo, è diventato un fenomeno sociale sconfinando dal fumetto al cinema, al romanzo, le figurine, le canzoni, la pubblicità, i videogame... 

Ha resistito, con i suoi modi, a tutte le mode, ed è restato in piedi persino di fronte allo tsunami globale della Rete. Diabolik - con accanto la fedelissima, blondissima Eva - è ancora tra noi. Tira centomila copie al mese, terzo fumetto d'avventura più venduto in Italia dopo Tex e Dylan Dog. Ed è diventato più ancora che una icona. È una «figura»: un tempo della trasgressione, oggi della tradizione. Ci ha spaventato arrivando, ci rassicura rimanendo. Ora abbiamo capito chi è Diabolik. Un compagno d'avventura.

Laura Altieri per “Panorama” il 3 Gennaio 2023.

Il traffico e i parcheggi sono l'incubo di chi abita nelle grandi città. A Roma, con poche linee metropolitane e strade caotiche, questi problemi sono all'ennesima potenza. Chi usa l'automobile deve mettere in conto tanto tempo perso e una pazienza salomonica. Qualcuno ha pensato che è meglio prenderla a ridere.

 Il modo di dire, in romanesco, fare Er giro de Peppe, per indicare il girare a vuoto, al limite dell'esaurimento nervoso, è diventato il titolo di un nuovo gioco da tavolo ispirato proprio al problema del traffico.

 Ideato da Rome is More, canale social nato nel 2018 con l'intento di divulgare la cultura romana attraverso il suo dizionario romanesco -inglese, e Clementoni, azienda leader nel gioco educativo con 60 anni di storia e 30 milioni di giocattoli prodotti l'anno, ripresenta tutte le problematiche che un automobilista deve affrontare nella Capitale.

 Tra monumenti, semafori, ingorghi e altri imprevisti della Città Eterna, i giocatori devono cimentarsi nei quiz e guadagnare monete per parcheggiare. Dall'Eur a Ponte Milvio, da Ostiense a Prati, dal Pigneto a Monteverde, il tabellone attraversa i principali luoghi di appuntamento della Capitale, prevedendo una serie di ostacoli che i romani conoscono fin troppo bene. Non mancano nemmeno i parcheggiatori abusivi. L'esperienza stressante di trovare un posto dove lasciare la propria auto diventa, con il gioco, un modo divertente per scoprire la città dice Carolina Venosi, ideatrice di Rome is More. E ci sono anche quiz sulla storia della Capitale.

 I divertimenti da tavolo, del resto, sono sempre molto attenti ai fenomeni sociali e a ciò che fa parte della quotidianità. Prendiamo Monopoly: ha regole semplici, legate alla vita di ogni giorno. Comprare, vendere, pagare tasse, avere imprevisti sono esperienze comuni a tutti. Non solo. Questo tipo di giochi è, per dirla con gli esperti di comportamento, strumento di coesione sociale, antidoto allo stress e palestra per affinare il pensiero strategico.

La psicologa Luciana Negri, che ha studiato il fenomeno, spiega che non c'è solo il fattore intrattenimento. Ha anche una funzione educativa, impone il rispetto delle regole e questo è formativo per un giovane, oltre a stimolare la socialità sempre più messa a rischio dalle tecnologie. La pandemia poi, con le restrizioni imposte durante la reclusione tra le mura domestiche, ha portato alla riscoperta di questo genere di passatempi, che ha insidiato il primato della Playstation.

Secondo Assogiocattoli-NPD, è il segmento che cresce maggiormente nel mercato dei giocattoli, al secondo posto nella classifica dei prodotti più venduti (dopo le costruzioni). Con una crescita di almeno 16 milioni in un anno, arriva a valere circa 150 milioni di euro. La società di analisi Euromonitor International ha stimato che il mercato globale dei giochi da tavolo e dei puzzle nel 2020 ha raggiunto un controvalore di 11,3 miliardi di dollari, in crescita di un miliardo rispetto al record del 2019. In Italia, il colosso del settore Asmodee ha rilevato, attraverso le ricerche sui portali di vendita, un aumento del 50 per cento dell'interesse dei consumatori.

Il settore dei board game non è mai stato vivace quanto oggi. Il Global Board Games Market Report 2022 valuta per il settore un tasso di crescita pari al più 13 per cento da qui al 2026, contro il più 11 dei videogiochi.

 Il segreto del successo è nella capacità di innovarsi. Ogni anno vengono sfornati ben 800 nuovi titoli e si moltiplicano i festival, da Lucca Comics e Games (secondo evento al mondo dopo quello di Tokyo con circa 750 mila visitatori) a Milan Games Week & Cartoomics (con un pubblico di oltre 100 mila paganti), fino a Modena Play (40 mila giocatori doc da tutta Italia).

La domanda è alta. Andrea Ligabue, ludologo, game designer, spiega ciò che attrae in questo intrattenimento: È un modo per incontrarsi di persona, in tempi in cui tutto si fa attraverso la Rete ed è difficile relazionarsi. Inoltre stimola la fantasia, la creatività e rilassa la mente, impegnandola. Infine piuttosto economico, costa da non sottovalutare: costa sui 30-40 euro, come una cena fuori, solo che non si esaurisce in una serata. È stato coniato il nome kidult cioè kids+adult, a indicare l'età del pubblico, per lo più millennial che, diventati grandi, possono assecondare le loro passioni senza badare a spese e condividerle con i figli.

Mentre fino a qualche anno fa il mercato era dominato da pochi editori, ora si moltiplicano le nuove realtà. Cranio Creations è un esempio di eccellenza: ha vinto il Toy Award nel 2020 con Mystery House: Adventure in a Box battendo un gigante come Mattel. Il fiore all'occhiello del made in Italy è sempre Clementoni, tra i pochi a produrre un gran numero di giochi educational per definizione (dal Sapientino in poi).

 Si affacciano sul mercato grandi nomi come Ravensburger o addirittura Funko, brand noto in tutto il mondo per i vendutissimi - e a volte rarissimi - Pop, le statuette in vinile da collezionare.

Negli ultimi anni, grazie ai best seller Dixit e Ticket To Ride, è stata Asmodee a conquistare quote di mercato, anche se rimangono sempre leader indiscussi i giochi in scatola firmati Hasbro, come gli intramontabili L'allegro chirurgo e Indovina Chi?. Le novità arrivano proprio dai classici. Monopoly, nonostante i suoi 87 anni, è sempre il più venduto a livello globale e la versione più recente è Monopoly In viaggio per il mondo che ha una sorpresa al suo interno: i più fortunati potranno trovare un biglietto d'oro (alla Willy Wonka) per una vera crociera Msc con tutta la famiglia.

 Il Cluedo, invece, dopo 70 anni di misteri torna alla ribalta con una versione nuova in formato esclusivo: Cluedo Escape - Tradimento a Villa Tudor unisce la suspense e gli intrighi dell'iconico gioco in scatola del giallo a un modo del tutto nuovo di divertirsi in modalità Escape Room. Il celebre Trivial Pursuit, il gioco a quiz più famoso in assoluto, riappare in un'edizione dedicata a tutta la famiglia: ben 2.400 domande in 400 carte divise in due mazzi, uno per gli adulti e uno con domande molto più semplici a misura di bambini.

Riecco anche i mostri sacri come HeroQuest e Betrayal at House on The Hill, veri cult ricomparsi nei negozi italiani per soddisfare la richiesta di chi ama incontri di strategia e del genere fantasy, con tanto di miniature da dipingere e ambientazioni horror. A Natale, più che sulle piste da sci, oggi la moda è sfidarsi attorno a un tavolo con le novità o, per i più esigenti, con le scatole di giochi da modernariato.

Estratto dell’articolo di Eleonora Chioda per “la Repubblica” l’8 gennaio 2023.

Svelato il segreto che ha permesso a ponti e acquedotti romani di sopravvivere cosi a lungo. Lo annuncia il Mit di Boston. Dietro questa scoperta c'è un gruppo di scienziati sparsi tra Usa, Svizzera, Italia, coordinati da un ex profugo bosniaco che si è laureato a Torino. 

 Si chiama Admir Masic ed è professore associato di ingegneria civile e ambientale al Massachusetts Institute of Technology, tra le università più prestigiose del pianeta. Il segreto della resistenza delle strutture dell'antica Roma è una formula a base di calce viva che permette al calcestruzzo di ripararsi da solo. E di durare più a lungo.

 L'autorevole rivista Science Advances ha appena pubblicato lo studio chimico-archeologico di Masic, confermandone la valenza scientifica. «Dal 2017 con il mio team al Mit studiamo il calcestruzzo romano, chiedendoci come mai strutture magnifiche come Pantheon e Colosseo, ma anche porti, acquedotti, ponti e terme, siano sopravvissute affrontando intemperie, terremoti, incurie» spiega Masic. 

 «Il procedimento usato dagli antichi si chiama hot mixing, consiste nell'aggiungere alla miscela di calcestruzzo anche calce viva, che, reagendo con l'acqua, riscalda la miscela. Questo procedimento porta alla formazione di "granelli" di calce: sono loro a permettere l'autoriparazione».

Come funziona? «Quando il calcestruzzo moderno si fessura, entrano acqua o umidità e la crepa si allarga e si propaga nella struttura. Con la nostra tecnologia, la fessura si autoripara. I granelli di calce, inglobati nel calcestruzzo al momento della presa, con l'infiltrazione dell'acqua si sciolgono e forniscono gli ioni di calcio che "cicatrizzano" e riparano le crepe».

 Dalla scoperta di Masic, brevettata anche dal Mit, è nata una startup italiana: Dmat. Sede a Udine, fondatori italiani. Oltre a Masic, c'è Paolo Sabatini, esperto di affari internazionali con un passato alle Nazione unite e poi all'Expo di Milano, grande appassionato di innovazione. I due si incontrano a Boston e si chiedono: come possiamo trasformare questo studio in un prodotto utile per l'umanità? Dopo anni di studi e ricerche, ottengono le certificazioni industriali dell'Istituto svizzero di Meccanica dei materiali. 

 E fondano la startup che sviluppa la tecnologia per creare calcestruzzi durevoli e sostenibili. «Puntiamo a dematerializzare l'ecosistema del calcestruzzo», aggiunge Sabatini. Materiale economico, disponibile ovunque, semplice da utilizzare, ha però due grandi problemi: sostenibilità e durabilità.

 «Il mercato del calcestruzzo vale circa 650 miliardi di euro. E i suoi processi produttivi sono tra i più impattanti del Pianeta. La sua filiera industriale è responsabile dell'8% delle emissioni di CO2» continua Sabatini. 

 «Grazie alla tecnologia che abbiamo sviluppato, potremo creare prodotti del 50% più durevoli, con una riduzioni delle emissioni del 20% e a un prezzo più basso della metà rispetto ai prodotti oggi comparabili sul mercato». Il primo calcestruzzo di nuova generazione a entrare sul mercato è D-Lime: questo prodotto allungherà la vita delle costruzioni.Nessuna differenza in termini di procedimenti. Si continuerà a costruire nello stesso modo ma utilizzando ricette innovative. [...]

E portarla nel mondo moderno», spiega Masic. La sua è una meravigliosa storia di riscatto. E di amore per il nostro Paese. Ex profugo bosniaco, scappato dalla guerra a 14 anni, ha vissuto nei campi profughi a Fiume. Qui scopre il suo talento per la chimica. Arrivato a Torino con i volontari del collettivo Azione Pace che aveva conosciuto quando assistevano i profughi dell'ex Jugoslavia, si laurea in chimica: 110 e lode. Prende un dottorato, poi crea un'impresa. [...]

 Dagotraduzione da studyfinds.org l’8 gennaio 2023.

Il segreto della durabilità del calcestruzzo romano — che ha resistito alla prova del tempo per oltre 2000 anni — è stato finalmente scoperto. Gli scienziati del MIT hanno isolato l'ingrediente che consente al cemento romano di "autoguarirsi", rendendolo più forte del suo equivalente moderno. Le loro scoperte sul “ritorno al futuro” potrebbero aiutare a ridurre l'impatto ambientale della produzione di cemento nella società odierna.

 Gli antichi romani erano maestri dell'ingegneria, costruendo un'enorme rete di strade, acquedotti, porti e templi, molti dei quali sono ancora in piedi fino ad oggi! Molte di queste strutture sono state costruite con cemento, incluso il Pantheon di Roma, che ha la cupola in cemento non armato più grande del mondo ed è ancora intatto nonostante sia stato dedicato nell'anno 128 d.C. Alcuni antichi acquedotti romani ancora oggi forniscono acqua alla Città Eterna, mentre molte moderne strutture in cemento si sgretolano dopo pochi decenni.

Gli scienziati hanno trascorso decenni cercando di capire il segreto del materiale da costruzione "ultra resistente", in particolare nelle strutture che hanno sopportato condizioni particolarmente difficili, come moli, fognature e dighe.

 Ora, un team internazionale ha scoperto antiche tecniche di produzione del calcestruzzo che incorporavano diverse proprietà chiave di "autoguarigione". Per anni, i ricercatori hanno creduto che la chiave per la durabilità dell'antico calcestruzzo fosse un ingrediente: il materiale pozzolanico, come la cenere vulcanica della zona di Pozzuoli, nel Golfo di Napoli.

 Gli storici affermano che questo specifico tipo di cenere è stato spedito in tutto l'impero romano per essere utilizzato in progetti di costruzione, essendo descritto come un ingrediente chiave per il calcestruzzo all'epoca. Dopo un esame più attento, questi antichi campioni contengono anche piccole, distintive caratteristiche minerali bianche brillanti su scala millimetrica. Erano componenti comuni dei cementi romani. I pezzi bianchi - spesso chiamati "clasti di calce" - provengono dalla calce, un altro ingrediente chiave nell'antica miscela di cemento.

"Da quando ho iniziato a lavorare con il cemento dell'antica Roma, sono sempre stato affascinato da queste caratteristiche", afferma Admir Masic, professore di ingegneria civile e ambientale del MIT in un comunicato universitario. "Questi non si trovano nelle moderne formulazioni concrete, quindi perché sono presenti in questi materiali antichi?"

 Sebbene studi precedenti abbiano ignorato queste caratteristiche come segno di pratiche di miscelazione sciatte o di materie prime di scarsa qualità, il nuovo studio teorizza che i minuscoli clasti di calce hanno conferito al calcestruzzo la sua capacità di autorigenerazione.

 "L'idea che la presenza di questi clasti calcarei fosse semplicemente attribuita a un controllo di qualità scadente mi ha sempre infastidito", afferma Masic. “Se i romani si sono impegnati così tanto per realizzare un materiale da costruzione eccezionale, seguendo tutte le ricette dettagliate che erano state ottimizzate nel corso di molti secoli, perché avrebbero dovuto impegnarsi così poco per garantire la produzione di un prodotto finale ben miscelato? Ci deve essere di più in questa storia.

Utilizzando tecniche di imaging multiscala e di mappatura chimica ad alta risoluzione sperimentate per la prima volta nel laboratorio del Prof. Masic, i ricercatori hanno ottenuto nuove informazioni sui clasti di calce. Storicamente, gli scienziati presumevano che quando i romani aggiungevano la calce al cemento, la combinassero prima con l'acqua per formare una sostanza pastosa altamente reattiva, un processo chiamato schiacciamento.

 Tuttavia, il prof. Masic afferma che il processo da solo non potrebbe spiegare la presenza dei clasti calcarei. L'autore dello studio si è chiesto se fosse possibile che i romani usassero effettivamente la calce direttamente nella sua forma più reattiva, nota come calce viva.

 Studiando campioni dell'antico calcestruzzo, i ricercatori del MIT hanno determinato che le sostanze bianche erano costituite da varie forme di carbonato di calcio. Ulteriori analisi hanno fornito indizi che si erano formati a temperature estreme. Questo sarebbe il risultato atteso di una reazione esotermica prodotta utilizzando calce viva invece della calce spenta nella miscela di calcestruzzo.

 Il gruppo di ricerca ora ritiene che la "miscelazione a caldo" sia stata la vera chiave per la natura super resistente del calcestruzzo .

 "I vantaggi della miscelazione a caldo sono duplici", spiega Masic. "In primo luogo, quando il calcestruzzo complessivo viene riscaldato a temperature elevate, consente sostanze chimiche che non sarebbero possibili se si utilizzasse solo calce spenta, producendo composti associati ad alta temperatura che altrimenti non si formerebbero".

 "In secondo luogo, questa temperatura aumentata riduce significativamente i tempi di polimerizzazione e presa poiché tutte le reazioni sono accelerate, consentendo una costruzione molto più rapida".

 I metodi antichi hanno superato quelli moderni

Masic aggiunge che, durante il processo di miscelazione a caldo, i clasti di calce sviluppano un'architettura nanoparticellare caratteristicamente fragile. Ciò crea una fonte di calcio facilmente fratturabile e reattiva, che potrebbe fornire una capacità di autoguarigione "critica" per i materiali da costruzione . Non appena iniziano a formarsi minuscole crepe all'interno del calcestruzzo, possono preferenzialmente viaggiare attraverso i clasti calcarei ad alta superficie.

 Il prof. Masic spiega che il materiale può quindi reagire con l'acqua, creando una soluzione satura di calcio. Quindi si ricristallizza come carbonato di calcio e riempie rapidamente la fessura o reagisce con materiali pozzolanici per rafforzare ulteriormente il materiale.

 I ricercatori notano che queste reazioni avvengono spontaneamente e quindi guariscono automaticamente le crepe prima che si diffondano. Il team ha prodotto campioni di calcestruzzo miscelato a caldo che incorporavano formulazioni antiche e moderne. Poi li hanno deliberatamente rotti e hanno lasciato scorrere l'acqua attraverso le fessure.

 Entro due settimane, le crepe sono completamente "guarite" e l'acqua non poteva più scorrere. Un pezzo identico di cemento fatto senza calce viva non è mai guarito e l'acqua ha continuato a scorrere attraverso il campione. A seguito del successo dei test, il team sta lavorando per commercializzare il materiale cementizio modificato.

 “È emozionante pensare a come queste formulazioni di calcestruzzo più durevoli potrebbero espandere non solo la durata di questi materiali, ma anche come migliorare la durabilità delle formulazioni di calcestruzzo stampate in 3D”, conclude Masic.

 Masic spera che le scoperte del team, pubblicate sulla rivista Science Advances , possano aiutare a ridurre l'impatto ambientale della produzione di cemento, che attualmente rappresenta circa l'8% delle emissioni globali di gas serra.

Antonio Buttazzo per blitzquotidiano.it il 4 gennaio 2023.

Tel Aviv è la città con più edifici in stile Bauhaus al mondo, oltre 4.000. Bauhaus è la scuola architettonica nata nel 1919 in Germania, che ha esercitato decisiva influenza sulla architettura moderna, inclusa quella italiana, ancorché chiamata fascista. 

Nella loro versione originale, i giovani architetti della  Bauhaus erano di sinistra.  La scuola fu riconosciuta dal Governo di Weimar nel 1919. Due anni prima c’era stata la rivoluzione in Russia, l’Europa, Italia compresa, era tutta un fermento. Il centenario della Bauhaus, nel 2019, fu annunciato dal New York Times con un paio di articoli ma complessivamente l’evento cadde nel silenzio mondiale. Ma torniamo indietro di un secolo.

Con l’avvento di Hitler al potere, per quelli della Bauhaus fu il momento della chiusura e della persecuzione. Molti erano ebrei, una indubbia aggravante. La maggior parte di loro (Van der Rohe in testa) emigrarono in America, esercitando una notevole influenza sulla architettura del dopoguerra. Esemplare il grattacielo noto come Seagram Building, il cui pianterreno, occupato dal ristorante Four Seasons per mezzo secolo, ospitava a pranzo  e cena il top della politica e dell’editoria americana.

Alcuni seguaci della Bauhaus scelsero come meta Israele, che in quell’epoca iniziava ad assumere i caratteri di nuova terra promessa che diventò realtà dopo la guerra e la fine del nazismo e del fascismo. Le case in stile Bauhaus di Tel Aviv sono concentrate in un quartiere conosciuto come la Città Bianca di Tel Aviv, costruìto negli anni ’30 del secolo scorso. Fu voluta dall’allora sindaco di Tel Aviv, Meir Dizengoff, col beneplacito degli inglesi,  da cui dipendeva Israele fino al 1948 (anno di nascita del nuovo stato ebraico).

Furono costruiti nell’arco di pochi anni oltre 4.000 edifici, tirati su appunto secondo lo stile Bauhaus, trapiantato nella città israeliana, quando sulle dune a nord di Jaffa, antico insediamento palestinese, ebbe inizio la costruzione della moderna Tel Aviv. Solo in seguito, negli anni 70, conobbe lo sviluppo verticale che oggi caratterizza la parte più moderna della città.

 Il delizioso nucleo abitativo chiamato la “città bianca”, insediato tra la Promenade che costeggia il mar Mediterraneo e il Centro, intorno all’area commerciale della città, è dal 2003 patrimonio culturale dell’Umanita’. In una città così giovane, quelle costruzioni chiare, basse e dalle essenziali linee ondulate, quasi sempre immerse nel verde, rappresentano la zona “storica” di Tel Aviv che comunque, nella parte araba di Jaffa (la municipalità è detta Tel Aviv-Jaffa) ha una storia millenaria, in quanto  secondo la leggenda semitica, fu fondata da Jafet, figlio di Noè.

Fedeli alla ispirazione socialista, quelle palazzine sono costruzioni semplici, popolari. Ma chi le abita si ritiene un privilegiato e assicura che con quello che ha speso per comprare quei 70/80 metri quadrati, a New York vivrebbe al Trump Plaza, a Roma in una residenza del ‘600 e a Londra vicino  ai giardini di Kensigton.

L'impresa eccezionale. Dal Colosseo alla Basilica di Norcia, i cantieri impossibili dei maghi del restauro. L'azienda pugliese Cobar è riferimento a livello nazionale per gli interventi di restauro più delicati: fondata una quarantina di anni fa, fattura 200 milioni di euro e ha oltre 350 dipendenti. Dino Bondavalli il 14 Luglio 2023 su Il Giornale.

L’intervento di cui vanno più orgogliosi è quello che ha riguardato il Colosseo. Qui, infatti, Cobar ha contribuito al restauro degli Ipogei, un dedalo di corridoi, archi e passaggi nei quali venivano preparati gli spettacoli dell’anfiteatro Flavio. Ma tra le operazioni che fanno di questa realtà pugliese una delle eccellenze italiane nel campo dei grandi restauri ci sono anche quelle che hanno riguardato il Palazzo Reale di Caserta, Palazzo Barberini a Roma, il Teatro San Carlo di Napoli e il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, nel quale sono custoditi i Bronzi di Riace, giusto per citarne qualcuna.

Impresa di riferimento in campo edile per gli immobili di alto pregio, con un’expertise riconosciuta nel restauro, nella ristrutturazione e nel risanamento conservativo di beni monumentali di alto valore storico sottoposti a tutela (teatri, musei, chiese, santuari, monasteri, palazzi storici), Cobar può sfoggiare un curriculum che fa impressione. E che aiuta a comprendere meglio i numeri di questa impresa, fondata una quarantina di anni fa ad Altamura (Bari) da Vito Barozzi: un fatturato di 200 milioni di euro, un operato validato da ben 12 certificazioni di qualità, più di 350 dipendenti tra operai e tecnici, e un migliaio di professionalità esterne coinvolte.

Ogni restauro è una nuova sfida

“Avere la possibilità di mettere mano a beni di grande importanza storico-culturale è un’occasione irripetibile” spiega Vito Barozzi, fondatore e amministratore unico di Cobar Spa. “Ciascuno di essi è unico per caratteristiche e per qualità e perciò va indagato attraverso delicate e approfondite fasi di studio e analisi che servono a progettare il miglior intervento possibile, che ovviamente deve essere cucito su misura. È un confronto che affrontiamo con grande rispetto, poiché operazioni di questo tipo rimangono nella storia del monumento e nella sua narrazione futura”.

Intervenire su edifici antichi, risalenti a secoli e millenni passati e realizzati con tecniche costruttive che, nel frattempo, sono state dimenticate o sono andate perdute è un’operazione tutt’altro che banale. “I cantieri di restauro sono vere e proprie sfide”, conferma Barozzi. “Occorrono professionalità altamente specializzate e l’Italia in questo è maestra grazie all’eccellenza in materia di restauro e conservazione che i suoi tecnici hanno appreso anche grazie al loro esser figli di un patrimonio di bellezze ricco e variegato”.

Nessuna sorpresa, quindi, che l’intervento che sta realizzando Cobar sulla Basilica di San Benedetto a Norcia, il santo patrono d’Europa, abbia attirato l’attenzione non solo dei tecnici italiani, ma anche di quelli europei. “Percepiamo tutta l’attenzione e il calore della intera comunità europea che sta seguendo in prima linea l’avanzamento dei lavori, anche perché ci stiamo confrontando con tecniche costruttive del 400 d.C. che rendono ogni singola fase un’emozionante scoperta”, conferma il fondatore di Cobar. “Aver lavorato sul Colosseo ci riempie di orgoglio, ma anche questa sfida su cui siamo concentrati ora è uno stimolo costante”.

Cosa succede con il PNRR

Non solo. II lavoro dell’azienda, infatti, non si limita al settore dei beni culturali. L’expertise maturata in decenni di delicati interventi sul patrimonio edilizio italiano ha consentito all’azienda di ampliare il proprio raggio d’azione alla realizzazione di opere pubbliche nel settore dell’edilizia industriale e delle infrastrutture, oltre che la realizzazione, gestione e manutenzione di impianti tecnologici.

Tutto questo operando in un settore, quello delle costruzioni, che negli ultimi lustri si è dimostrato a dir poco altalenante. “Veniamo da un periodo in cui gli incentivi fiscali dei vari bonus emanati dal Governo hanno esaltato il mercato che, per quasi un anno, è stato assorbito da questa tipologia di lavori”, spiega Barozzi.

Poi, “l’improvviso blocco della cessione dei crediti da parte degli istituti bancari ha generato un colpo di coda nel settore che ha messo in difficoltà tantissime realtà che si sono ritrovate di punto in bianco con i cassetti fiscali pieni e con poca liquidità sui conti. Adesso ciò che sta animando nuovamente il mercato sono i fondi pubblici del PNRR, che stanno inondando il territorio nazionale di opere pubbliche da realizzare e che darà per i prossimi 2/3 anni ampi fronti di lavori per tutti i settori legati all’edilizia. Il rischio, però, è che tutta questa mole di lavoro non si riesca a realizzare per tempo”, conclude Barozzi, “cosa che rappresenterebbe un danno per i territori e per le imprese del settore che contano su questi lavori per rimanere in piedi”.

Dal libro al Podcast e ritorno: lunga, e nuova, vita alle storie. Dal 9 all’11 giugno a Milano appuntamento con il Pod - l’Italian Podcast Awards: primo premio nazionale dedicato ai migliori contenuti dell’anno. Andrea Colamedici, Maura Gancitano su L'Unità il 3 Giugno 2023 

Quando Giacomo Leopardi sentiva dentro di sé il formarsi di una comprensione, per far sì che venisse appieno al mondo usava insieme tre forme differenti: diario, poesia e prosa. Zibaldone, Canti, Operette Morali. Tre stili attraverso cui il poeta faceva affiorare al meglio scoperte, dubbi e riflessioni.

La stessa istanza, infatti, manifesta caratteristiche variabili in funzione alla forma in cui viene calata: scrivere su un dolore, un’emozione o un’illuminazione in una pagina di diario, in una poesia o in una novella significa raccontare porzioni di senso affini ma non identiche, appaiate ma non del tutto sovrapponibili: aumentando i pixel della conoscenza si potenzia la risoluzione del reale. Quello di Leopardi è, a guardarlo bene, un ottimo esempio di transmedialità, un fenomeno che oggi può essere di grande aiuto nel gestire la complessità e la fluidità dei mezzi di comunicazione.

Transmediale è quella storia o quel servizio capace di offrire porzioni di senso e narrazioni complementari su piattaforme differenti (film, libri, fumetti, serie tv, podcast, videogame, come nel caso di Matrix, Star Wars, Avengers, Harry Potter o Assassin’s Creed). Oggi la diversità dei media si fonde e si sovrappone, creando un intreccio fitto di forme espressive che vanno oltre le categorie tradizionali di pensiero. Un’opera è sempre più l’insieme delle sue trasposizioni: da libro a film, da film a podcast, da podcast a serieTV. E anche quando viene semplicemente traghettata identica da un medium all’altro – per esempio, da libro ad audiolibro – assume in realtà caratteristiche nuove che cambiano radicalmente l’esperienza di chi ne fruisce.

The Message is the Medium

La transmedialità, infatti, è un fenomeno che amplia la produzione di senso fra i canali e le audience. È una sfida da non prendere sottogamba, giacché ci invita a superare i limiti imposti dalle singole forme di media e ad abbracciare l’idea che le storie, le idee e le emozioni possano e debbano trovare espressione in modi molteplici e complementari. La forma di comunicazione non è un contenitore neutro, ma è parte integrante del messaggio stesso. Il medium è oggi più che mai (parte del) significato, e influisce radicalmente sulla nostra possibilità di percepire e interpretare il senso delle opere.

Il mondo del podcasting sta dimostrando, ad esempio, che le trasposizioni da un mezzo all’altro possono non essere semplici adattamenti ma veri e propri processi di trasformazione e reinvenzione in cui le storie vengono rielaborate, ampliate e arricchite attraverso l’uso di linguaggi diversi. Ne è un buon esempio il podcast di Siamomine Il lavoro non ti ama, nato a partire dal libro omonimo di Sarah Jaffe, che ha avuto il merito di calare nella realtà italiana lo studio della giornalista americana attraverso un’indagine in cinque puntate sul mondo del lavoro. La transmedialità pone, inoltre, di fronte alla questione della partecipazione attiva degli utenti nell’esperienza artistica.

I confini tra autore e fruitore si assottigliano, e si apre lo spazio verso una co-creazione in cui il pubblico può interagire con l’opera e influenzarne lo sviluppo. Questa rarefazione dei bordi avviene anche tra i medium stessi e contribuisce a quella che si prospetta come la nuova rivoluzione dell’intrattenimento e della cultura: vale a dire il ruolo degli spettatori, che da fruitori passivi si stanno facendo sempre più attori decisivi.

Da libro a podcast, da podcast a libro

La versione in audiolibro de Il Conte di Montecristo letta da Moro Silo ha riscosso una grandissima fortuna. Una voce capace di accompagnare nelle atmosfere di Alexandre Dumas ha reso accessibile un capolavoro a molte persone che forse avrebbero voluto leggerlo da sempre, ma che l’avevano sempre ritenuto troppo lungo e impegnativo (1191 pagine, che corrispondono a quasi cinquantanove ore di ascolto). Il formato audio può togliere ai classici l’alone di inaccessibilità che riscontrano molti lettori, spaventati dalla versione cartacea.

L’esperienza sarà diversa, ma niente vieta che la stessa opera possa essere fruita in molti modi e numerose volte nel corso della vita.

La trasposizione di opere letterarie che si estende nei podcast o si traduce negli audiolibri trasforma la parola scritta in un’esperienza sonora, consentendo agli ascoltatori di immergersi nelle storie attraverso la voce, gli effetti sonori e la cura nella produzione audio. La trasposizione da libro ad audiolibro offre nuove sfumature all’opera originale, aprendo spazi per interpretazioni vocali che possono rendere più appetibili letture altrimenti considerate fuori portata.

D’altra parte, l’estensione da libro a podcast permette approfondimenti e focus che per varie ragioni la pagina non può contenere. E così come un traduttore può fare le fortune di un libro, allo stesso modo un lettore può potenziare la portata di una storia nata sulla carta (Lamento di Portnoy letto da Luca Marinelli è ancora più Roth di Roth, per esempio). La transmedialità e la crossmedialità tra libri e podcast rappresenta, in particolare, uno spazio di connessione e dialogo importante tra due mezzi di comunicazione apparentemente non conciliabili. Nel flusso opposto, alcuni podcast di successo hanno trovato la loro naturale estensione nel formato cartaceo e non solo.

In America è stato il caso di Serial, quello che è considerato uno dei podcast più influenti di tutti i tempi, che ha trasformato il genere true crime: dopo il successo del podcast sono stati creati libri, documentari e una serie televisiva basati sul caso discusso nella prima stagione. O di Welcome to Night Vale, un podcast narrativo che si presenta come una trasmissione radiofonica fittizia da cui sono nati romanzi, spettacoli dal vivo, fumetti e persino una serie di libri interattivi.

In Italia è quel che è accaduto al podcast Da Costa a Costa di Francesco Costa, che ha gettato le basi per il libro Questa è l’America, che a sua volta ha fatto da ponte per il programma televisivo CinAmerica, condotto dall’autore con la sinologa Giada Messetti. Insomma: la transmedialità – se fatta bene – crea un circolo virtuoso di rielaborazione e rinnovamento, aprendo opportunità di esplorazione e sperimentazione per gli autori e offrendo al pubblico nuove modalità di fruizione che non tradiscono ma amplificano l’originale. In fondo le storie sono come la pasta madre: vanno rinfrescate se si vuole mantenere attivo il loro potere. In questo modo si contribuisce a mantenerle vive nel panorama culturale contemporaneo, arricchendo l’esperienza sia dei creativi che degli spettatori.  Andrea Colamedici, Maura Gancitano - 3 Giugno 2023

Audiolibri, li ascoltano quasi 11 milioni di italiani: maschi, giovani e del Sud. Alla riscoperta della voce: i più ricercati sono i classici, seguiti dai thriller e dai titoli di fantascienza e di fantasy. E il primo in classifica è Harry Potter. I risultati della ricerca Nielsen IQ. Sabina Minardi su L'Espresso il 22 maggio 2023.

«Non leggete i libri, fateveli raccontare» provocava Luciano Bianciardi, in un piccolo, graffiante saggio su come diventare intellettuali. Gli italiani lo hanno preso alla lettera. Sono 10,7 milioni gli ascoltatori di audiolibri, 700 mila in più rispetto all’anno scorso, secondo una ricerca Nielsen IQ realizzata per Audible e presentata al Salone internazionale del libro di Torino.

Chi sono? In leggera prevalenza uomini, in controtendenza rispetto alla lettura dei libri che vede le donne in maggioranza. Sono principalmente compresi nella fascia di età 25-34, giovani decisamente immersi nel digitale, che già trascorrono almeno quattro ore su Internet. Ma sempre più l’esperienza dell’ascolto sta diventando un fatto trasversale alle generazioni, con uno scambio forte di titoli da ascoltare tra genitori e figli. Interessante il dato che gli appassionati di audiobook vivano soprattutto al Sud: in antitesi alla lettura tradizionale, che vede le regioni meridionali sempre un po’ più indietro. Quanto ai luoghi di lettura, è la casa il principale posto dove si ascoltano gli audiobook (70 per cento). Il commuting, il tempo per gli spostamenti in macchina o sui mezzi pubblici, viene dopo, a conferma che è la voglia di relax la principale motivazione dell’ascolto (49 per cento), seguita dal desiderio di ascoltare un libro quando non si ha voglia di leggere (33 per cento) e dall’obiettivo di imparare qualcosa di nuovo (29 per cento).

Cosa si ascolta? «I classici, soprattutto, seguiti dai thriller e dai titoli di fantascienza e di fantasy”, spiega Giorgio Pedrazzini di NielsenIQ: «Con una preferenza spiccata per una singola voce narrante (61 per cento), meglio se di un narratore professionista, più che per una narrazione fatta da più voci».

In un mondo che fatica ad ascoltare, insomma, gli italiani scoprono il gusto della voce. Un gesto ancestrale, in fondo: dell’uomo che racconta e ascolta storie da quando ha scoperto il fuoco.

La top ten degli audiolibri più ascoltati su Audible nel 2022 parla chiaro: al primo posto la saga completa di Harry Potter di JK Rowling letta da Francesco Pannofino; la versione integrale del Conte di Montecristo di Alexandre Dumas letto da Moro Silo; L’inverno dei leoni. La saga dei Florio 2 di Stefania Auci letta da Ninni Bruschetta; I pilastri della terra di Ken Follett letto da Riccardo Mei. Al quinto posto di nuovo Auci, con I leoni di Sicilia. La prima uscita della saga dei Florio. E ancora Ken Follett con il romanzo Per niente al mondo; I miserabili di Victor Hugo nell’interpretazione di Moro Silo; Tre di Valérie Perrin letto da Lucia Mascino; il ciclo di Dune di Frank P. Herbert, letto da Alessandro Parise; Mondo senza fine di Ken Follett (Kingsbridge 2).

«È interessante il fatto che l’ascolto non cannibalizzi la lettura dei libri di carta», nota Cristina Mussinelli, che da anni segue le dinamiche del mercato editoriale per l’Aie, Associazione italiana editori: secondo la ricerca, il 30 per cento degli intervistati acquista la versione cartacea di un libro ascoltato in audio o ascolta la versione in audiolibro di un titolo già letto. «È un comportamento che risulta anche a noi. L’audiolibro è spesso un modo per rivivere titoli che si sono già amati».

«Sono anch’io un lettore “feroce” di libri di carta. Non penso che apprezzare gli audiobook voglia dire essere dei traditori», interviene Juan Baixeras, Country Manager Spain & Italy di Audible: «Ho appena ascoltato Almudena Grandes, autrice che amo particolarmente, e che leggo e rileggo in carta. Credo che la differenza la faccia l’alta qualità delle produzioni, grazie alle grandi voci coinvolte e a una classe creativa capace di creare contenuti che entrano non solo nelle orecchie, ma anche nel cuore degli ascoltatori. Questa ricerca evidenzia soprattutto una cosa, al di là dei numeri: che ascoltare è diventata un’abitudine nella dieta mediatica anche degli italiani».

Perché se i campioni dell’ascolto restano i Paesi anglosassoni, Stati Uniti, Gran Bretagna e Europa del Nord in testa, il mercato italiano è decisamente in crescita.

«Dobbiamo ricordarci che stiamo parlando ormai di una vera e propria industria culturale, con migliaia di dipendenti e investimenti forti: per Audible più di 5 milioni di euro solo nel 2022 e un piano di forte espansione, correlato alla crescita degli audioascoltatori», aggiunge: «Abbiamo cominciato con 5.000 titoli, oggi ne abbiamo in catalogo 15 mila. Lavoriamo con le case editrici italiane ma abbiamo anche una divisione interna dedicata allo sviluppo di contenuti nostri, esclusivi. E di qualità».

Un’ossessione, per Baixeras: puntare ai migliori. Trasformare il tempo dell’ascolto in un tempo di qualità. Che, nell’era del rumore, è in fondo la vera scommessa dell’audiolibro: ecologia linguistica che restituisca alla parola tutta la sua potenza.

Siamo tutti podcaster. Lo sciopero degli sceneggiatori e la discrasia tra successo percepito e tornaconti reali. Guia Soncini su L'Inkiesta il 4 Maggio 2023

La saturazione di contenuti del Grande Indifferenziato, con conseguente abbassamento dei budget, crea il problema di pagare adeguatamente gli autori: una questione forse irrisolvibile in un mondo in cui tutti sono convinti di essere gli unici il cui talento valga compensi novecenteschi 

A un certo punto di questo articolo, che parlerà dello sciopero degli sceneggiatori americani in atto da martedì, vi verrà il dubbio che vi abbia truffati, e che stia scrivendo la continuazione dell’articolo dell’altro giorno sui podcast, che con tanta serenità è stato accolto dai poco ricchi operatori del settore. Forse è un dubbio fondato, chissà.

Tanto per cominciare, «sceneggiatori» è una parola imprecisa, indicando in italiano solo coloro che scrivono film o, appunto, sceneggiati televisivi. In inglese «writers» include anche coloro che scrivono per la tv scritta, quella che non è fatta di reality, e infatti da martedì i programmi di tarda serata – Colbert, Fallon, Kimmel: quella roba lì – hanno sospeso le trasmissioni.

E qui tocca dire qualcosa sugli americani, il popolo più ottuso e ignorante e con meno senso delle priorità del mondo, gente che pensa i diritti siano questioni che hanno a che fare con la percezione e non col reddito. Gli americani non sanno di cosa parlano quando parlano di sciopero.

I commenti allo sciopero degli autori sono incredibili. Da destra, gente che si sente furba perché dice «ah, Colbert senza autori non va in onda, quindi è un pirla non in grado di scriversi quattro battute da solo»: no, imbecille, non va in onda perché quelli che lavorano boicottando gli scioperi si chiamano crumiri, lo sapresti se vivessi in una nazione che ha un’idea seppur vaga dei diritti dei lavoratori.

Da sinistra, peggio mi sento, autori indignati perché Fallon non ha obiettato quando la Nbc ha annunciato che se scioperavamo non ci pagava: come credevi fosse fatto, uno sciopero, stellina? Pagarti per non lavorare non è sciopero: è malattia, o ferie, o congedo di maternità – tutti concetti che conosceresti se vivessi in una nazione che ha un’idea seppur vaga dei diritti dei lavoratori.

L’ultima volta che gli autori della tv e del cinema americani hanno indetto uno sciopero era il 2007 e – sembra sette secoli fa – il problema erano i dvd. Coloro che scrivevano i film volevano rinegoziare la percentuale ottenuta una volta che i film finivano in dvd, che all’epoca erano il modo con cui guardavamo i film a casa.

Restarono in sciopero tre mesi, e una delle conseguenze veniva ricordata, come monito, su un cartello dei picchetti di sciopero in questi giorni: nell’anno successivo ci fu molta tv unscripted, non danneggiata dallo sciopero degli autori, e uno di quei programmi era la versione per famosi di The Apprentice. Sì, quella con Donald Trump.

Adesso, il problema sono le piattaforme. Che, mi pare che qualcuno l’abbia scritto qui pochi giorni fa, non hanno numeri ufficiali: non si sa se la serie che scrivi la vede solo tuo cugino o decine di milioni di spettatori, la piattaforma non te lo dice, e quindi tu non hai guadagni proporzionati al successo delle repliche.

Il rapporto di chi fa lavori veri con il concetto di diritto d’autore è molto interessante. L’anno scorso ho letto una lunare (ma probabilmente perfettamente normale per chi fa lavori veri) discussione tra americani che – si parlava di libri – sostenevano che le royalties non avessero senso: scrivi un libro, ti pagano il lavoro che fai, che venda dieci copie o un milione non ha senso che tra dieci anni continui a incassare diritti per un lavoro che hai fatto dieci anni prima.

Il che, vi confesso, non mi sembrerebbe del tutto insensato (un chirurgo mica lo pagano di più se il suo paziente sopravvive più a lungo).

Però c’è un problema che nessuno dei dibattenti poneva. Un libro che continua a vendere continua a generare profitti: se chiedi che non vadano all’autore, stai chiedendo che se li tenga tutti l’editore? (Che comunque se li tiene già quasi tutti, lo dico per quando prenderanno la Bastiglia delle royalties: ricordatevi di decapitare prima gli editori e solo molto dopo gli autori).

Questo per dire che non sono sicura che il pubblico simpatizzi con sceneggiatori irritati dal fatto che, in assenza di riscontri numerici visibili, non ci sia la possibilità d’incassare i frutti del proprio successo. Ma sono abbastanza sicura che non simpatizzi con quell’entità astratta che sono i multimiliardari proprietari di piattaforme, gente che somiglia ai protagonisti di “Succession” nella mancanza di etica ma non nei dialoghi brillanti (quasi quasi è più facile che simpatizzino con gli editori, in fondo poricristi che fanno libri, cascami novecenteschi).

Sono però piuttosto certa che non sia una questione risolvibile: il problema principale del rendere visibili i numeri non è mica che poi devi pagare gli sceneggiatori del “Racconto dell’ancella” quanto pagavi quelli di “Friends”. Il problema del rendere i numeri visibili è che le piattaforme, esattamente come i podcast, vivono di suggestione, di successo percepito, di ruolo nella conversazione collettiva.

Se sveli i numeri poi, sì, puoi non pagare gli sceneggiatori del titolo di cui tutti parlano, perché si scopre che tutti ne parlano ma mica nessuno lo guarda; ma, se sveli che le cose di cui tutti parlano nessuno s’incomoda a guardarle, ti si rompe il giocattolo.

Il New Yorker, nel raccontare la settimana scorsa l’imminente sciopero, ha citato il più famoso telegramma della storia di Hollywood, quello che Mankiewicz scrisse a Ben Hecht sollecitandolo a trasferirsi presto lì: «Ci sono milioni da arraffare e la concorrenza è costituita da idioti». Solo che non è più così, pare. Perché le piattaforme nessuno le guarda? Anche (un concetto di cui si lamentano assai gli autori, mutilati nella loro creatività, è la richiesta di second-screen content: idee per serie o film che puoi far andare mentre stai al telefono o fai altro); ma non solo. C’è anche il fatto che le piattaforme tutti le fanno.

C’è una saturazione di contenuti (come adesso si chiamano, nel Grande Indifferenziato, i libri e i podcast e i film e la tv e le tutte cose), e questa saturazione la si ottiene abbassando i budget. Se devi produrre cento serie, non ti possono costare ognuna quanto costava un prodotto della tv di quando c’erano tre canali. Un canale visto da decine di milioni di persone – alle quali facevi vedere lo stesso spot dei biscotti per il passaggio del quale l’azienda di biscotti ti dava milioni di dollari – aveva un’economia che una piattaforma il cui intero archivio posso guardare per un mese a dodici dollari non avrà mai: non c’è un modo di far tornare i conti, neanche riformando la matematica.

È, in più d’un senso, la stessa cosa che è successa nei giornali. Certo che centinaia di trentenni italiani scrivono per testate che li pagano due lupini e un’oliva; ma, nell’economia novecentesca la cui gloria essi credono d’aver mancato per un soffio, plausibilmente non sarebbero stati la Fallaci o Pansa. Plausibilmente sarebbero stati giovanotti col sogno del giornalismo che impilavano scatolette di tonno nel negozio d’alimentari al paesello.

La saturazione del mercato, con conseguente abbassamento dei budget, è ciò che permette alle zie rimaste al paesello di dire oggi quel che non avrebbero potuto dire nel Novecento: mio nipote scrive sul giornale. La discrasia di successo percepito e tornaconti reali è quella rovazziana di «ho milioni di views ma vivo in un monolocale», ma anche quella dello sceneggiatore di “The Bear” che va a prendere il premio per la serie di cui tutti parlano indossando un farfallino preso a credito perché è sotto in banca. È un’economia che non basta per tutti, ma esigiamo che basti per noi.

Siamo tutti mitomani, e convinti d’essere l’eccezione: noi, proprio noi, gli unici il cui talento valga compensi novecenteschi. E invece, del telegramma a Hecht, non valgono più i milioni da arraffare, ma vale ancora la valutazione della qualità media di coloro che ambiscono.

Spotify e segugi. Nessuno ascolta i podcast, ma titillano l’ego degli intellettuali nutriti con i sott’olio di mammà. Guia Soncini su L'Inkiesta il 29 Aprile 2023

Il genere nato per gli americani che stanno tre ore in macchina è diventato il nuovo Graal dell’élite culturale italiana. Si guadagna quasi niente, ma fa figo esserci

Una volta, in un tempo così lontano che non esistevano i social, la gente che smaniava per esistere pubblicava libri. Stiamo parlando dell’Italia: quel luogo di fantasia, patria della cottura al dente, in cui un libro è alla portata di tutti; non di paesi dall’editoria selettiva in cui «published author» è una definizione che fa colpo sugli impressionabili.

In questa penisola di fiaba, dunque, pubblicare un libro era più semplice che comparire al Costanzo Show, e a qualcuno ogni tanto portava la gloria, e quel qualcuno pensavamo sempre di essere noi.

Almeno finché un libro non l’abbiamo pubblicato praticamente tutti, e non abbiamo iniziato ad aver praticamente tutti il numero di qualcuno che lavorava nell’editoria, e quindi a chiedere ogni giovedì quant’ha venduto Tizio e quanto Caio.

Almeno finché non ci siamo resi conto che la profezia di Troisi si era avverata: tantissimi a scrivere, uno solo a leggere. A quel punto l’italiano smanioso ha ripiegato sui giornali, acciocché la zia al paese potesse dire che il nipote ha il nome in prima pagina, e mandargli i sott’olio tutti i mesi altrimenti coi soldi dei giornali le finiva denutrito.

Solo che a un certo punto, all’intellettuale nutrito a sott’olio, ha iniziato a divenire chiaro perché Cavalli e segugi lo pagasse due lupini e un’oliva: «Scusi, sa dov’è un’edicola» è domanda che i passanti accolgono con lo smarrimento che si riserva alle lingue straniere.

Se si viene a sapere che sì, scrivo, ma nessuno mi legge, che ne sarà del mio esistere? Sarò condannato all’anonimato e a essere io quello che nutre gli squattrinati con visibilità? Ma io i sott’olio non li so fare, puntesclamativo.

Poi, per fortuna, è arrivata la possibilità di non contarsi. Vuoi mettere scrivere una serie per Netflix, che non si saprà mai se è un supercalifragilistico insuccesso, rispetto a scriverne una per Rai 1, che la vedranno sì in cento volte tanti ma il giorno dopo rischi che i giornali titolino che qualche tronista ha fatto due punti di share più di te?

La possibilità di autocertificare i propri successi è inebriante. Mandi un film in sala, e tutti sanno quanto sbiglietti, e tutti fanno impietosi paragoni: nel 2003 i film di Tizio incassavano x, adesso una frazione di x. Si chiama «giornalismo del grazie al cazzo», è un genere d’autocertificato successo disponibile sui migliori siti. Metti un film su Netflix, e non saprai mai se «più visto» significhi quattordici spettatori invece degli undici che totalizza il meno visto.

Nessuno vuol essere un insuccesso percepito, nell’epoca in cui i numeri non vogliono dire talmente niente che quelli degli unici successi veri mica li dici: quando a Sanremo entrano Morandi e Ranieri e Al Bano, Amadeus non ha bisogno di convincerci che stiamo guardando una figata sciorinando numeri di streaming, di visualizzazioni, di dischi d’oro ottenuti ogni volta che un decimo delle persone che una volta si sarebbero dovute comprare un tuo disco clicca gratis su una tua canzone che non pagherebbe mai.

I numeri mentono, diceva una sondaggista saggia in un vecchio sceneggiato. Lo diceva cercando di convincere un politico che, stolido come quelli che hanno passato gli ultimi tre anni a ripetere «io credo nella scienza» (cosa c’è di più scientifico del fideismo), riteneva che i sondaggi fossero inequivocabili: erano numeri, diamine. Mi torna in mente ogni volta che qualcuno fotografa un «più venduto» di Amazon di fianco al suo libro, senza specificare che quella in cui è primo non è quella generale ma la sottoclassifica «storie di centravanti e ricette vegane».

E così si sono diffusi i podcast, quel genere nato per le autostrade americane, per gente che vive a Malibu e lavora a Beverly Hills e ogni giorno sta tre ore in macchina e in quelle tre ore mica ascolta l’audiolibro di Proust: ascolta Joe Rogan che intervista Tarantino. Ho un amico che ogni tanto mi dice che devo proprio ascoltare la tal intervista di Rogan, e io non so come spiegargli che c’è un solo genere di italiana senza patente che ha tempo di ascoltare tre ore e mezza di podcast, ed è l’italiana senza patente che stira. Non possiedo un ferro da stiro: non ascolto i podcast.

Non ascolto i podcast come tutti, la differenza è che non ne faccio. I miei conoscenti che non fanno un podcast ne hanno fatto uno in tempi recenti. I miei conoscenti che non hanno ancora fatto un podcast stanno per farne uno. Chi li ascolta? Non si sa. Se sono primi in classifica, esultano quindici secondi, poi ti spiegano con sconforto che i produttori li hanno informati di che oggetto fantasioso sia la classifica di Spotify. Almeno quelli di Netflix ti lasciano credere al successo percepito, i produttori di podcast sono crudelissimi.

Ed essendo crudelissimi, pagano persino meno di Cavalli e segugi. «Sto per fare un podcast: non mi pagano» è una frase che a cinquant’anni sento con la frequenza con cui a trenta mi dicevano «mi ha detto che lascia la moglie»: con lo stesso tono rassegnato ma destinato.

Esiste un pubblico, là fuori. Non è disposto ad ascoltare i podcast, ma in compenso è ignaro del fattore ascesa di cui tiene conto Spotify, e pensa che se sei primo non significa solo che sei nuovo, ma che sei un successo. C’è un pubblico che pensa che ti paghino, che tu sia l’élite culturale, e che questa cosa che quando vivrà in California anche lui ascolterà sia il futuro. Lo pensi anche tu, che dici eh per ora non c’è budget ma intanto mi sono inserito nel settore. Lo penso anch’io, mentre ti preparo i sott’olio.

Sbagliando non s’impara. Il podcast come segno del declino della civiltà (e l’errore di Checco Zalone). Guia Soncini su L’Inkiesta il 27 febbraio 2023.

In questa inesorabile discesa agli inferi della pigrizia viviamo nel terrore che ciò che produciamo sia troppo difficile per un pubblico sempre più stupido e meno disposto a far fatica

Questo sarebbe dovuto essere un articolo su «Sbagliando si impara», la frase stampata sulla stola di Checco Zalone quando dà le spalle al pubblico, durante le date postsanremesi del suo spettacolo teatrale, dopo aver scritto una lettera a sé stesso in cui si scusa per le molte volte in cui ha sbagliato, per le molte volte in cui ha usato i cataloghi di Postalmarket come materiale da masturbazione.

Questo sarebbe dovuto essere un articolo sulla frase che mi aveva fatto più ridere questa settimana, e chi meglio di Checco Zalone con le modelle di Postalmarket, senonché poi è arrivata questa: «Sebbene Rowling non abbia preso parte all’ideazione creativa del gioco, beneficia finanziariamente dalle sue vendite, causando ansia per l’ipotesi che giocarci equivalga a sostenere la causa anti-trans».

La scrive una giornalista di Variety la quale evidentemente non legge neppure gli articoli che lei stessa sta scrivendo, considerando che la scrive venti righe sotto la notizia che Hogwarts Legacy, il videogioco di Harry Potter uscito due settimane fa, ha già venduto dodici milioni di copie, per un incasso di ottocentocinquanta milioni di dollari, e che a giovedì i preoccupatissimi, ansiosissimi militanti immaginati da Variety avevano giocato per un totale d’un po’ più di duecentottanta milioni di ore in due settimane.

Ci sono molte domande che ci si possono fare su questa notiziola, alcune delle quali forse varrebbero un pezzo di spettacolo di Zalone. Per esempio: in cosa consiste la causa anti-trans? Nell’andare casa per casa a chiedere alla gente di non essere così disturbata da tagliarsi organi sessuali sani, «se proprio vuoi chiamarti Gina anche se hai i baffi fallo pure, caro Asdrubale, ma ti prego non mutilarti»?

Ma anche domande alle quali lo Zalone del posto fisso aveva già risposto: duecentottanta milioni di ore giocate in due settimane cosa dicono delle nostra produttività? E: che speranza può mai esserci per un mondo che parte dai libri, scende ai film, e poi ai videogiochi, perché nessun consumo culturale è abbastanza semplificato per le ore nelle quali non produciamo prodotto interno lordo e non combattiamo le cause anti-trans?

Io, per dire, questa settimana ho ascoltato due ore di “The Witch Trials of JK Rowling”, il podcast che Meghan Phelps ha realizzato per la piattaforma di Bari Weiss, e già così sento d’aver abbassato la media culturale delle mie giornate. Non perché il podcast sul delirio che circonda l’autrice di Harry Potter non sia pieno di cose interessanti – lo è – ma perché mi pare evidente che i podcast stanno lì, un po’ sopra ai videogiochi ma molto sotto ai film, nella gerarchia della nostra calante voglia di utilizzare i neuroni: raccontami una storia, io ascolto senza bisogno d’impegnarmi come con le fiabe di quand’ero puccettona.

Una volta una storia così sarebbe diventata un libro, l’avremmo letto e qualcosa avremmo assorbito, poi siamo passati da impegnarci a capire le frasi a buttare un occhio ai documentari di Netflix, e ora siamo scesi ai podcast da tenere accesi mentre cuciniamo guidiamo telefoniamo ci facciamo la manicure, e chissà cosa c’è ancora sotto, nella discesa agli inferi della pigrizia. Viviamo nel terrore che ciò che produciamo sia troppo difficile per un pubblico sempre più stupido e sempre meno disposto a far fatica, e non sappiamo più come abbassare il livello.

Non è un problema cominciato ieri (i fenomeni culturali non lo sono mai, i declini delle civiltà non sono sveltine). È la stessa Rowling a raccontare, in “The Witch Trials”, che, quando dopo molti rifiuti editoriali arrivò qualcuno disposto a pubblicarla, quell’editore stampò però di quella prima edizione di Harry Potter solo cinquecento copie: chi vuoi mai che lo compri, una storia in costume, i bambini non fanno la fatica di leggere una storia non ambientata al presente, in collegio poi, un’anticaglia che faticano a immaginare.

Mi scuso con Meghan Phelps per avere dubitato che sapesse quello che faceva, durante una ricostruzione degli anni Novanta – il decennio in cui Harry Potter comincia a venire pubblicato – che all’inizio mi era sembrata assurdamente americanocentrica. È un difetto che la saggistica americana sugli anni Novanta ha sempre; per gli intellettuali americani non esiste nulla che non sia accaduto dentro gli Stati uniti d’America, e negli ultimi anni leggendo “The Naughty Nineties” di David Friend o “The Nineties” di Chuck Klosterman ho molto sbuffato: si può ricostruire il decennio della Cool Britannia o di Mani pulite ignorando l’esistenza di entrambe le questioni?

Quando Phelps inizia a parlare di Waco o di Columbine, penso sia la solita americana per cui esiste solo ciò che accade nei codici postali intorno a lei: Rowling è inglese, che c’entra quell’umore collettivo con Harry Potter? C’entra perché – persino dai podcast si possono imparare cose – nelle prime cronache di Columbine era saldamente presente la leggenda che i due liceali assassini avessero chiesto alle vittime, prima di ucciderle, se fossero cristiane.

Chi riesce ancora a conservare memoria dei cambiamenti nei decenni se ne ricorderà: c’è stato un tempo in cui subito dopo queste stragi non ci si riprometteva di cambiare le leggi americane sul possesso di armi, né ci si doleva per la piaga del mancato equilibrio psichico; c’è stato un tempo in cui s’indagavano i consumi degli assassini: a che videogiochi giocano, che rap ascoltano, quali poster in cameretta li hanno fatti sbroccare e dire sai che c’è, pianifico una strage in una scuola.

Fu quindi fisiologico decidere che si trattava d’una persecuzione culturale della cristianità e che ne fosse corresponsabile l’autrice dei libri col bambino mago. Quando, tre mesi dopo Columbine, uscì il terzo Harry Potter, Rowling era colei che incita alla stregoneria, quindi la nemica dei valori cristiani, quindi la mandante morale delle stragi nelle scuole.

Ventiquattro anni dopo, se c’è una cosa che ci ha insegnato l’internet è come funzionano le falsificazioni informative. Che una smentita non è, come si diceva nel Novecento, una notizia data due volte, ma è un inutile rumore ulteriore che si perde nel passaparola, nel modo distratto in cui consumiamo le notizie e le interpretazioni, nell’eccesso d’informazioni che diventa caos.

Ci sarà sicuramente qualcuno che crede ancora che Columbine sia stata una strage con una motivazione anticristiana; esattamente come, per quanti articoli possano fare i giornali per dire che stiamo dando da anni della transfobica a una che non ha mai detto mezza parola contro il diritto degli esseri umani adulti di farsi chiamare Gina invece che Asdrubale, ci sono e continueranno a esserci migliaia di rumorosi disinformati pronti a twittare che schifo, Rowling è transfobica. Prima o poi doveva arrivare anche il momento in cui Checco Zalone aveva torto: sbagliando non s’impara.

L’Arte Fighetta. Ugo Nespolo per “Tuttolibri - la Stampa” il 10 luglio 2023.

Con Marco Vallora conviene subito dire che «quando uno riceve un libro, per leggerlo o recensirlo, talvolta si coagula, nel sottofondo, come un'immagine acustica, percussiva che non ci abbandona». Succede un po' anche ora con questo libro di Christian Caliandro Contro l'arte fighetta, turbolento nucleo di testi, già apparsi in forma e ordine differente su Artribune, Che fare e minimaetmoralia. 

Lavoro come tappa acuminata della collana Fuoriuscita di Castelvecchi diretta da Caliandro medesimo il quale in proprio è storico e critico d'arte, prolifico autore di saggi come L'arte rotta, promotore di fatti e eventi culturali nutriti di mostre e di variegati progetti d'arte e cultura espansa. 

La tesi del libro è dettata in fondo da quello che l'autore sostiene essere l'abbandono negli ultimi trenta - quarant'anni della working class a favore della borghesia e delle classi privilegiate, non solo in campo economico e politico ma soprattutto in quello culturale, per far sì che l'intero immaginario sia interessatamente proiettato verso valori da definire come appartenenti al mondo agiato o meglio ancora fighetto. 

L'idea (tutta da verificare) è che principalmente l'universo delle arti figurative - più della letteratura e della musica - abbia aderito, anticipato e promosso l'adesione ai valori delle élite e delle classi privilegiate. Si dice delle presunte grandi rivoluzioni linguistiche degli anni Sessanta e Settanta fino ad abbracciare l'acida fase regressiva degli anni Ottanta. Anni perfidi, patrimonio della globalizzazione capace persino di far precedere il valore economico a scapito di quello culturale. 

Artisti-imprenditori e artistar producono solo arte che si adegua alla comunicazione pubblicitaria proprio come fanno i vari Koons, Hirst, Cattelan e tutti gli altri con opere che si vogliono da subito accessibili e sensazionali, sature di opache transazioni finanziarie.

Caliandro sa bene che in arte siamo al tempo del ciò che costa vale, arte che adora e vuole gatekeepers e market makers, paga opere in forma di asset d'investimento alternativo a quello borsistico e immobiliare o delle commodity roba come maiali, gas naturale, zucchero, piombo, bulk chemical.

Fosse così semplice pensare che a partire dai primi anni Novanta ci si accontenti di riproporre patetici revival degli stilemi dell'arte concettuale, povera e postminimalista mettendo in mostra (e sul mercato) solo i gusci artaudiani depurati degli afflati utopici e di qualsiasi complessità esterna, non saremmo per niente sorpresi. Saremo pronti a salvare simili operazioni col gioco furbo del «lecito» citazionismo ereditato dal sepolto postmoderno. 

(…) 

Sa bene Caliandro che la presunta rivoluzione dell'Arte Povera e le velleitarie dichiarazioni teoriche iniziali di Celant (guerriglia!) erano ab origine confezionate per il mercato internazionale dominio di istanze d'oltreoceano e della tacita e servile osservanza europea, la stessa che ancora perdura e prospera. 

(...)

L'artista fighetto che sa di essere inutile, incapace di incidere sulla realtà è travolto dalla disperazione. La sua opera è depotenziata in partenza e appare vuoto anche l'atteggiamento impotente e ironico che la informa. Per Caliandro l'artista fighetto non può che essere conservatore sia in campo politico e sociale come in quello formale, lontano dall'inafferrabile fantasma vaporoso che l'autore chiama ancora il nuovo, mitica scheggia del moderno dissolta da tanto nel brodo opaco dell'anything goes dei meandri postistorici. Per essere onesti si deve dire che tutto il mondo del contemporaneo adora il pallido grugnito di Andy: «The good business is the best art».

 (...)

Una corposa parte centrale del saggio è dedicata, con ammirevole competenza, alla Lunga digressione sul pop sotterraneo per verificare con molta sensibilità il lungo viaggio, trionfo e declino del pop, svanita l'esplosione creativa degli anni Settanta e Ottanta quando s'arena in una sorta di riflusso collettivo, in ripetizioni prelevate dall'archivio del passato recente. Anche la musica pare aver perso il suo potenziale di esplorazione dell'ignoto per votarsi alla prevedibilità e agli algoritmi. Lontani Depeche Mode, Nine Inch Nails, Nirvana, U2, Talk Talk, The Cure, Smashing Pumpkins, resta ora solo un guscio vuoto, un gioco esornativo e prevedibile.

Caliandro è drastico nell'indicare la sua personale via d'uscita e adotta il tono da predicatore alla Jesse Duplantis quando invoca per noi il «rifiuto di partecipare personalmente alla menzogna» e di ostacolarne la diffusione. Prende forma la nozione di arte sfrangiata, un'arte «fatta di niente come l'esistenza che cambia in continuazione e diventa…» una zona di disagio, un'arte non positiva, non costruttiva, non ottimista «nel senso piuttosto disgustoso e deprimente che questi aggettivi hanno assunto negli anni». 

Quest'arte è anche antinostalgica e, dopo aver perso i suoi margini si vuol fondere con terreni scomodi, tristi e problematici e - si sa - non deve essere consolatoria. Sarà per Christian Caliandro un'arte fatta tra amici e per gioco, intima come le cose comuni, come una bella chiacchierata e poi dovrà «allungare le ciglia verso le estremità del mondo». Lontani echi di Fluxus, piccoli gesti di sovversione individuale come il sorriso di Henry Flynt verso un'arte dell'insignificanza fatta di scarti buoni come per banalizzare la cultura in uno sberleffo senza fine. Vicina anche la visione della verde giduglia, Patafisica come la più alta tentazione dello spirito, l'orrore del ridicolo.

Solo Guy Debord con l'Internationale Situationniste ha saputo dar vita all'abbraccio col reale sfoderando utopie eliminando il coté artistico, sempre corrotto, per una direzione integralmente politica e radicale. Se siamo davvero - secondo Perniola - al grado zero dell'arte, per Jean Baudrillard l'arte stessa è giunta a un punto morto. Diventa un processo catastrofico. Una strategia fatale. 

LA MUSICA NON È FINITA. Una vita da artista. Massimiliano Cellamaro su L'Indipendente il 26 Aprile 2023.

Artista. Che brutta parola! Nell’uso comune ha un’accezione negativa. In Italia è sinonimo di “personaggio che non ha voglia di lavorare”. Ma se un artista vuole emergere e soprattutto vuole vivere della propria Arte, nel nostro paese è costretto a fare i salti mortali. Vuol dire impegnarsi nella propria passione 24/7. Ventiquattro ore al giorno per tutta la settimana. Non esistono orari o feste comandate. In qualsiasi momento l’ispirazione si presenti, un artista sa che non può lasciarsela scappare. Deve passare all’azione immediatamente, prima che l’idea voli verso chi gli dedicherà l’attenzione che merita.

Ma li hai visti come si vestono? Spesso hanno l’aria trasandata, lo sguardo sognante. Sembra che vivano in un altro mondo. In effetti vivono su altre dimensioni. Da quando sono diventato papà è una fatica enorme rimbalzare da uno stato creativo alla massima lucidità e attenzione che la vita familiare richiede. Per fortuna non fumo più le canne! Ma restano comunque universi paralleli ingestibili contemporaneamente. Una Partita I.V.A., le tasse, le bollette, la spesa, niente hanno a che vedere con la fantastica vita di un artista completamente immerso nel suo universo creativo. Anzi, essere preso dai doveri quotidiani e le spese mensili mi inchioda al mondo reale, dove spazio per sognare non ce n’è. Non parlo dell’Amore infinito che provo per la mia famiglia, appartiene al mondo dell’Arte e della bellezza che devi saper coltivare. Parlo della burocrazia implicita al far parte di questa società che per un artista diventa un dedalo di vicoli in cui è facile perdersi.

Un artista per creare ha bisogno di staccare i piedi dal suolo. In un istante puoi venire rapito da un volo che non sai dove ti porta. Molti, addirittura, decidono di non posare più i piedi per terra. Ci vuole una bella dose di sensibilità. Chi è più materiale vive incollato alla realtà, crede solo a ciò che può toccare con mano. Un animo più sensibile preferisce sorvolare su futili questioni quotidiane, non è interessato alle idee che riempiono la vita dei babbani, vuole spingersi verso territori inesplorati. É difficile da spiegare, scavi così a fondo nel tuo animo da prendere il volo e librarti nell’aria, sembra un controsenso, lo so. Quando un’emozione investe un creativo ha a che fare con un animo curioso che non si fermerà alle prime impressioni. La studierà da ogni angolazione. Cercherà frasi, colori, tele, materiali, che raccontano quell’emozione per tradurla sul piano della realtà. Cosicché chi è meno sensibile la possa vedere, toccare, ascoltare. Non riuscirà mai a riportarla esattamente come l’aveva immaginata e questa è l’eterna frustrazione di noi artisti. La musica poi è la più eterea delle Arti, la più elevata. Perfino l’architettura o l’Arte della scultura vengono considerate musica congelata, scolpita nel tempo.

Quello sguardo sognante e un po’ assente, l’aria trasandata, sono segnali che ci stiamo muovendo su altre dimensioni, siamo in cerca di risposte. Intercettiamo nuovi trend, offriamo nuovi punti di vista, analizziamo l’intimo più profondo del genere umano per raccontarlo, sviscerarlo. Questi sono i principali motivi per cui un artista andrebbe valorizzato e supportato nella società moderna così poco attenta al proprio lato interiore.

L’animo profondamente maschile che caratterizza i tempi che stiamo vivendo si rivela nella musica che il mercato propone. É un’epoca in cui l’immagine conta più della musica che produci. Ciò che si vede conta più di ciò che si ascolta o percepisce. Il fine ultimo è poter ammassare più beni materiali possibili, il messaggio non è neanche così velato, anzi spudoratamente sbandierato. Le donne devono tirare fuori i cojones in un mondo che non venera il proprio lato femminile come dovrebbe. L’iperbole della tecnologia è in piena accelerazione e stiamo vivendo tempi di cambiamento tutt’altro che semplici. Soffiano forti venti di cambiamento, nessuno sa dove ci porteranno, ed è fondamentale mantenere un proprio equilibrio.

Con l’avvento dell’era digitale molte professioni sono sparite ed è una tendenza in forte aumento. Grazie al web stiamo scoprendo nuove ed infinite possibilità, nuove figure professionali nascono ogni giorno. Nel giro dei prossimi dieci anni il mondo verrà totalmente stravolto. Siamo entrati nell’era del Web3… già da un po’… e come ogni novità ce la stiamo perdendo. L’Italia risponde sempre barricandosi in vecchie sicurezze, con l’unico risultato di rimanere una piccola fortezza esclusa dall’evoluzione verso cui il resto del pianeta si sta muovendo. Non permettere agli italiani di usufruire di Chat GPT ci ha riportato in un istante indietro di dieci anni rispetto al resto del mondo. La SIAE che taglia fuori la nostra musica dai social per questioni economiche di un accordo non raggiunto, crea un danno incalcolabile ad artisti che dovrebbe tutelare. Siamo un paese che ha difficoltà a rapportarsi con le nuove tecnologie.

Tutta questa incertezza che si respira nel mondo del lavoro per gli artisti non è affatto una novità, siamo abituati ad affidarci alla sincronicità degli eventi. Ma oggi, anche chi ha un posto fisso si è dovuto arrendere all’idea che tutto può cambiare da un momento all’altro e potrebbe essere obbligato a reinventarsi. L’ansia e gli attacchi di panico sono il perfetto sintomo della paura latente creata da questa continua instabilità. Io la vedo come una possibilità di crescita. Il mio consiglio è di cogliere al balzo l’opportunità di coltivare piccoli sogni che spesso teniamo rinchiusi. Se viviamo esclusivamente nella nostra dimensione mentale rischiamo di farci inghiottire da infiniti ragionamenti alla ricerca di una spiegazione razionale. In una società che di razionalità ne dimostra ben poca. Una possibile soluzione potrebbe essere vivere un po’ più da Artista e rispondere alle proprie sensazioni passando immediatamente all’azione.

Ma che volete che ne sappiano gli artisti? Viviamo più di pancia, seguendo il cuore. Resto un inguaribile sognatore. [di Massimiliano Cellamaro, in arte Tormento]

Quattromila anni di poesia in un'antologia per "ribelli". La megaraccolta a cura di Crocetti e Brullo parte dagli antichi testi indiani e arriva all'italia dei giorni nostri. Alessandro Gnocchi l'11 Novembre 2023 su Il Giornale.

Tra le menzogne più riuscite della critica letteraria, c'è la coincidenza tra scrittore e romanziere, tra libro e narrativa. Semplicemente, il critico accoglie i desiderata dell'industria editoriale. I romanzi vendono, dunque esistono solo i romanzi. Si parla di quelli e stop. Una visione miope che autorizzava, insieme con una falsa definizione di democrazia, il buttare a mare ogni sapere specifico: la storia della lingua, la metrica, la filologia, la paleografica. Al posto, giusto un po' di sociologia, facilissima da maneggiare (male) e appiccicare sopra a romanzi sempre più stereotipati.

Assistiamo così alla ridicolaggine di poeti incapaci di riconoscere un endecasillabo e di critici incapaci di distinguere una poesia da un pensierino da liceale depresso. Tutti scrivono poesie: basta andare a capo nel punto sbagliato. Tutto questo in Italia, ovvero un Paese che ha una ricchissima tradizione poetica e non solo. A inizio Novecento, ad esempio, la prosa lirica era un (non) genere tra i più praticati. Oggi ricordiamo a stento i Frantumi di Giovanni Boine, le Orchestrine di Arturo Onofri, i Trucioli di Camillo Sbarbaro. Senza dimenticare il Gabriele d'Annunzio delle Faville del maglio e di Notturno. Dimmi un verso anima mia. Antologia della poesia universale (Crocetti editore, pagg. 1250, euro 50) prova a rimettere le cose a posto con un'autentica impresa critica ed editoriale. L'uomo ha sempre scritto poesie, fin da quando ha levato la testa al cielo per la prima volta, e Nicola Crocetti e Davide Brullo ne hanno le prove. E ora anche noi lettori, grazie a questa incredibile antologia che parte dal 2000 avanti Cristo e arriva ai giorni nostri, dopo un viaggio tra India e Europa, Oriente e Occidente, Sud e Nord. Testi sacri, tradizionali, raccolte d'autore, frammenti. C'è di tutto, di tutte le epoche e di tutti i luoghi. Non iniziamo neanche col giochetto delle presenze e delle assenze. Una scelta si doveva pur fare. Per gli esclusi, si potrebbe comunque apportare un secondo volume. Un lavoro simile comporta una enorme quantità di traduzioni e traduttori (laddove non abbiano provveduto i curatori stessi). Piace segnalare il classicista Ezio Savino. Solo Nicola Crocetti e Davide Brullo potevano misurarsi con l'impossibile e tornare a casa con un libro formidabile. Crocetti ha sfidato il mercato per decenni con la sua rivista Poesia e con la sua casa editrice di qualità impeccabile. Brullo... Facciamo così: leggete i Salmi tradotti da Brullo e capirete cosa sia un fuoriclasse della poesia, come scrisse Cesare Cavalleri, uno che dava del «tu» a Pound e intesseva carteggi con Eliot. Entrambi, Crocetti e Brullo, sono glorie di questo Giornale, il che non guasta. Entrambi, nelle rispettive introduzioni, suggeriscono il modo corretto di spolpare un piatto ricco come quello servito nell'antologia. Un po' alla volta, aprendo a caso, in cerca di ispirazione o di consolazione o di nuove parole per descrivere il proprio stato d'animo. E noi seguiamo il consiglio. Il primo carotaggio è subito sopraffino: il poeta provenzale Jaufré Rudel (1125-1148), uno dei primi cantori dell'amor cortese, e soprattutto dell'amor de lonh, l'amore da lontano, impossibile: «Non prenderò mai gioia dell'amore/ se non godrò quest'amore lontano».

Non solo la donna è al di là di valichi insuperabili, il povero Jaufré, come molti altri trovatori, è stato stregato affinché non fosse mai amato. Il secondo assaggio è decisamente erotico. Trattasi di Veronica Franco (1546-1591), rinomata prostituta, poetessa e sospettata di stregoneria. Questo l'incipit: «Così dolce e gustevole divento,/ quando mi trovo con persona in letto,/ da cui amata e gradita mi sento,/ che quel piacere vince ogni diletto». La terza portata è Samuel Taylor Coleridge (1772-1834) e il Kubla Khan tradotto da Alessandro Ceni. Si diffonde nell'aria il dolce profumo della cannabis mentre si odono versi fondatori del Romanticismo: «A Xanadu Kubla Khan volle/ un imponente dimora di piacere/ dove Alfeo, il sacro fiume, trascorre/ per caverne smisurate ad occhio umano/ e s'immerge in un mare senza sole». La prima pagina ci introduce alla letteratura indiana antica e al Rgveda, inni della conoscenza. È una genesi: «In principio vi era solo tenebra nascosta dalla tenebra. Acqua indistinta era tutto questo universo. Il germe dell'esistenza, che era avvolto dal nulla, grazie al potere del suo ardore interiore, nacque come l'uno». Possiamo paragonare, nelle pagine della antologia, questo passaggio con gli antichi testi egiziani o dei popoli mesoamericani o con la Bibbia e il Vangelo, soprattutto di Giovanni: «Il Verbo era nel principio, e il Verbo era in Dio, e Dio era il Verbo. (...) In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini./ E la luce splende nelle tenebre e le tenebre non la offuscarono». In generale, si ricava la conferma che il primo impulso alla scrittura poetica fu la religione ovvero la ricerca dell'origine e la preparazione alla fine. Le acque, le tenebre, la luce sono i testimoni della nascita della vita. Giovanni convoca anche il Verbo e sulla fiducia nel Verbo era cresciuta la nostra civiltà oggi accecata e umiliata dalle vuote chiacchiere digitali. In fin dei conti, aprire questo libro, che restituisce dignità alla parola, grazie alla poesia, è un piccolo gesto rivoluzionario e di resistenza al nulla che incombe.

Le Poetesse.

Le Librerie.

La Naja.

Le Poetesse.

Chi sono le poetesse? Da Aleramo a Merini il catalogo è questo ma niente quote rosa...La curatrice Leardini compila il canone delle donne, spesso ignorate dalla critica. Davide Brullo il 21 Agosto 2023 su Il Giornale.

L'idea di femminilizzare il canone Feminize Your Canon, secondo la formula propalata dalla Paris Review è agghiacciante. Si rischia, così, di parlare di temi più che di testi, di genere più che di generi (letterari), di autoritarismo sociale più che di autorevolezza poetica, con il coro di erinni vittime intorno. Eppure, la questione, riformulata la presenza del genio femminile nel canone ha un suo senso, alla luce dei nudi fatti. L'antologia più canonizzante del secolo, Poeti italiani del Novecento, firma Pier Vincenzo Mengaldo, è il 1978, allinea cinquanta autori: tra questi, soltanto uno, Amelia Rosselli, è donna. I vasti repertori lirici italiani, di norma, relegano le donne ai margini. Così, l'esuberante antologia del comunista Edoardo Sanguineti, Poesia italiana del Novecento, era il 1969, riesce, su quarantacinque autori, alcuni dimenticabili, a non insediare alcuna donna. La poesia italiana è dominio dei maschi? Nell'ambito del romanzo usiamo come microscopio il Premio Strega alcune donne s'erano già imposte, a quell'altezza cronologica: Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Anna Maria Ortese, Lalla Romano. Nel 1926 il Nobel per la letteratura incoronava Grazia Deledda. Non va meglio se sguazziamo nei decenni successivi. La (brutta) antologia ideata dal duo Cucchi-Giovanardi, Poeti italiani del secondo Novecento (Mondadori, 1996), imbarca settantuno poeti di cui otto donne; la (bella) antologia curata da Daniele Piccini su La poesia italiana dal 1960 a oggi (Bur, 2005) seleziona diciannove poeti esemplari: le donne sono soltanto due. Non credo, come scrive Isabella Leardini, che «spesso i giovani poeti si comportano come i loro illustri predecessori: le ragazze fanno parte del gioco ma alla fine giocano un'altra partita»; non conosco «giovani poeti» che abbiano il carisma poetico dei loro anche diretti, o dirimpettai «predecessori» e il gioco del fiocco azzurro o del fiocco rosa non mi appassiona. Mi piacerebbe poter rispondere che alcune tra le più importanti imprese letterarie del secolo scorso erano capitanate da donne Poetry, sotto l'egida di Harriet Monroe e Sur, dominata da Victoria Ocampo, ad esempio; la Hour Press fondata da Nancy Cunard e la Hogarth Press di Virginia Woolf; La Licorne, la rivista di Susana Soca e la Cuala Press di Elizabeth Yeats ma devo, nel contesto italiano, stare con la Leardini: «le donne in poesia sono state incontrovertibilmente una minoranza il canone è soltanto la conseguenza, il riflesso inevitabile di un vizio di sguardo e di una società». La raccolta di Poetesse italiane del Novecento allestita dalla Leardini, Costellazione parallela (Vallecchi Firenze, pagg. 290, euro 18,00) è, dunque, un lavoro necessario, furbo contrappasso di genere: le poetesse vendono molto di più dei poeti , fascinoso. La curatrice poetessa, guida del Centro di Poesia Contemporanea dell'Università di Bologna alterna nomi ovvi, imprescindibili (Ada Negri, Sibilla Aleramo, Antonia Pozzi, Lalla Romano, Maria Luisa Spaziani, Amelia Rosselli, Alda Merini), a sgargianti riscoperte (Nella Nobili e Daria Menicanti, ad esempio). Al centro di questo canone inverso, spicca l'opera di Cristina Campo genio inarginabile, Vittoria Guerrini, questo il vero nome, progettò, già nel 1953, per Gherardo Casini editore, «una raccolta mai tentata finora delle più pure pagine vergate da mano femminile attraverso i tempi», alternando Saffo ad Anna Achmatova, Ildegarda di Bingen a Caterina da Siena e Simone Weil e quella di Fernanda Romagnoli. Scoperta da Attilio Bertolucci, la Romagnoli pubblicò, in vita, due raccolte di pregio, Confiteor (Guanda, 1973) e Il tredicesimo invitato (Garzanti, 1980), dai versi tesi, a tratti bellissimi, di tersa ferocia: «Lei non ha colpa se è bella,/ se la luce accorre al suo volto,/ se il suo passo è disciolto/ come una riva estiva/ Se tu l'ami, lei non ha colpa./ Ma io la vorrei morta». Da qualche tempo, la critica si è accorta della sua grandezza: vent'anni fa Donatella Bisutti ha curato un'edizione de Il tredicesimo invitato e altre poesie per Libri Scheiwiller, l'anno scorso Interno Poesia ha stampato, per merito di Paolo Lagazzi e Caterina Raganella, una scelta di testi come La folle tentazione dell'eterno.

Un'antologia, per sua natura, ha il carisma della suggestione e della provocazione. Il libro ideato dalla Leardini, per non restare velleitario, pretende di esplodere. È ora di lavorare, cioè di pubblicare per intero i libri delle poetesse del secolo scorso. Non esistono quote rosa in poesia eppure: negli ultimi vent'anni il Nobel per la letteratura è andato a otto donne: lo stesso numero di premiate dell'intero secolo precedente ma soltanto la spietata lotta dei testi. Così, a onor di verso, Sibilla Aleramo (di cui il Saggiatore ha da poco pubblicato Tutte le poesie, a cura di Silvio Raffo) non vale Dino Campana; i versi di Mariagloria Sears (una grata scoperta) non sono paragonabili a quelli dell'amico Vittorio Sereni; i testi di Nella Nobili (raccolti nel 2018 per Solferino da Maria Grazia Calandrone come Ho camminato nel mondo con l'anima aperta) sono interessanti ma non rivaleggiano con quelli, chessò, di Andrea Zanzotto; Maria Luisa Spaziani non è Eugenio Montale; Alda Merini è priva della vertigine linguistica del molto meno noto di lei Alessandro Ceni. Questa non è distorsione virile dei sensi estetici: sarebbe perverso affermare il contrario.

Dunque, ben venga il lavoro critico senza impostazioni pregiudiziali o prolegomeni politicamente corretti; io, per dire, amo le poesie di Egle Marini, certi versi di Nadia Campana e Claudia Ruggeri (nessuna inclusa nel canone Leardini). Lo stesso lavoro, d'altronde, va fatto per riscoprire decine di poeti maschi, dilaniati dall'oblio baccante, imprigionati nel limbo (prendo a prestito il titolo di un libro di Marco Merlin: Poeti nel limbo. Studio sulla generazione perduta, Interlinea, 2004). La poesia è un androgino boia: del poeta il sesso non conta resta la carcassa, il tenue bagliore di alcuni, rari versi.

Le Librerie.

A Milano c’è la libreria più antica d’Italia: è aperta dal 1775. La libreria Bocca in Galleria custodisce un tesoro di prime edizioni. In mezzo a quadri e sculture. Ora, il proprietario racconta la sua storia in un volume. Margherita Marvasi su L'Espresso il 17 Aprile 2023.  

Incastonata nella Galleria Vittorio Emanuele II di Milano, come un gioiello, riluce una piccola libreria specializzata in libri d’arte: custodisce un tesoro di prime edizioni che hanno fatto la storia della cultura italiana e, in qualche caso, internazionale. La Libreria Bocca vanta un altro primato: è la più antica d’Italia, aperta nel 1775. Uno spazio di cinquanta metri quadrati – molto amato dal mondo dell’arte e della moda, ma anche dai turisti – con i muri ricoperti da scaffali, colmi di volumi patinati che arrivano fino al soffitto, tra sculture, quadri e pezzi di arredamento realizzati ad hoc da artisti contemporanei. Ne racconta la storia Giorgio Lodetti, l’attuale proprietario, in un volume che vuole essere un omaggio a questo luogo speciale e ai suoi fondatori, i fratelli Bocca: “Archivio storico di una famiglia di librai milanesi” (in uscita il 23 aprile in una prima edizione di 150 copie, cui ne seguiranno altre due. Un volume di 384 pagine, con 660 immagini in bianco e nero, che verrà presentato l’11 maggio alla Biblioteca Nazionale Braidense).

La critica d’arte Cristina Muccioli descrive la Libreria Bocca come «una Wunderkammer aperta a tutti. Chi entra si sente Alice da quando, nel 1979, il locale appena rilevato si avviò a essere, da libreria generica, libreria d’arte: una scelta strategica di posizionamento che, più che essere in controtendenza, ne ha creata una. Si può cercare un’opera d’arte e andare in libreria, oppure cercare un libro e andare in una galleria d’arte. In entrambi i casi, a Milano si va alla Bocca». E l’hanno frequentata in tanti: dal fotografo Sandro Miller a Gianni Versace, Federico Zeri, Giuseppe Pontiggia, Giorgio Mondadori, Giovanni Spadolini, Gianfranco Ferré, solo per citarne alcuni.

Lodetti, con il padre Giacomo, ha ricostruito la storia della famiglia torinese di stampatori e librai dalle origini, da Giuseppe Bocca senior, nato nel 1789, fino alla fine del XIX secolo, registrando la conclusiva nascita del nipote Giuseppe Bocca junior, ultimo detentore dell’attività col cognome familiare, deceduto nel 1951. Numerosi sono i volumi stampati dai Bocca nel corso di tre secoli. Il lavoro di Lodetti si concentra sulle ultime due collane editoriali, sia per l’importanza degli autori sia per la rilevanza dei titoli e il contenuto degli argomenti, dimostrando la competenza e la lungimiranza di questa famiglia. Che a Torino vantava uno dei salotti culturali più rinomati d’Europa, frequentato da filosofi come Friedrich Nietzsche e Arthur Schopenhauer o matematici come Giuseppe Peano, di cui pubblicarono “Fondamenti della geometria”.

«Tutto è cominciato nell’ottobre 2020, dopo la telefonata di un’amica che mi segnalava la presenza di alcune casse contenenti vecchie edizioni dei fratelli Bocca all’interno di un box milanese. Nei giorni seguenti sono andato a vederle e le ho comprate», così Lodetti racconta della sua impresa, una campagna acquisti durata qualche anno. «La presenza delle edizioni Bocca all’interno della libreria ha origini decennali. Mio padre, infatti, ha sempre acquistato le piccole pubblicazioni, ma senza costanza o desiderio di completare la raccolta. Io ho deciso di iniziare una catalogazione completa online. Nello stesso periodo ho scelto di raccogliere quelle che ancora oggi considero le due collane di riferimento edite da Bocca tra il 1898 e il 1958: Biblioteca di Scienze Moderne e Piccola Biblioteca di Scienze Moderne. La scelta è stata fatta inizialmente perché in tutti i volumi, circa 680 di entrambe le collane, le copertine sono illustrate da grandi disegnatori attivi in Italia fino ai primi anni ’40 del Novecento».

L’archivio, poi, è arricchito dal primo volume di ogni serie edita e da piccole collane come Romanzi Occulti, con la prima edizione italiana completa di “Dracula”, di Bram Stoker, del 1945. La Fratelli Bocca Editori si è infatti distinta per fiuto editoriale, dando alle stampe volumi diventati classici imprescindibili: nel 1878 “L’uomo delinquente” di Cesare Lombroso, per esempio; nel 1899 il libro dello psicoanalista Sante De Sanctis, “I sogni: studi psicologici e clinici di un alienista” (che sarà citato da Sigmund Freud ne “L’interpretazione dei sogni” e anche da Théodule-Armand Ribot e Carl Gustav Jung). A seguire, la pubblicazione delle memorie di Silvio Pellico, “Le mie prigioni”, e, nel 1910, di “Così parlò Zarathustra”, quando ancora la lettura critica di Nietzsche era acerba e diffidente.

Il catalogo conta più di 36 mila titoli, ma nessuno poteva immaginare che una piccola libreria riposasse su una storia così vasta e profonda. Giacomo Lodetti ricorda la scoperta: «Quando ne prendemmo la gestione, le prime notizie che trovai sul suo passato venivano da un catalogo di vendita all’asta di libri antichi nel 1930. Trovai anche in fotocopia un testo che ne raccontava la storia dal 1885. Rinvenimmo, all’archivio della Camera di Commercio di Milano, un altro documento che registrava la vendita della libreria nel 1829 da Giuseppe Bocca a Luigi Dumolard; il Bocca l’aveva aperta nel 1800. Scoprimmo anche che avevano avuto librerie a Parigi, Firenze, Roma e Torino».

 La Naja.

Gli scrittori alle prese con la noia della... naja. D'Annunzio e Simenon, Schnitzler e Freud: ecco come è stato il loro servizio militare, fra illusioni e lamentele. Stenio Solinas su Il Giornale il 28 Febbraio 2023

La noia-naja, il marmittone, gli imboscati, i riformati, il pernotto, le latrine, il Car, la fureria, la sussistenza, le manovre, le grandi manovre, il poligono, il sergente, il signor tenente, la fidanzata del signor tenente, la moglie del capitano... Finché è esistito il servizio militare con la sua tradizionale visita di leva, andare sotto le armi in tempo di pace è sempre stato un dovere forzato e raramente un piacere. Ragazzi di ogni estrazione si trovavano da un giorno all'altro precipitati in un universo chiuso fatto di regole tutte proprie e da dove era bandita la dialettica, agli ordini di chi, militare per scelta, vedeva più con fastidio misto a disprezzo che con professionalità, i civili lavativi da trasformare, almeno per un po', in soldati. A volte li vedeva addirittura con rancore, se quella loro scelta si era nel tempo rivelata infelice. In un classico di metà Ottocento, Servitù e grandezza militare, Alfred de Vigny, che era stato per vent'anni sotto le armi, ma non aveva mai visto una battaglia campale, condenserà «nella noia e nella scontentezza i tratti comuni al volto militare», «una specie di gendarmeria» che prendeva il posto di quella che sarebbe dovuta essere una vocazione, il mestiere delle armi come un convento laico, «convento di uomini, convento nomade dove si adempiono felicemente i voti di Povertà e di Obbedienza».

Una sorta di romanzo militare sui generis è quello che adesso Giuseppe Scaraffia ci presenta nel suo Scrittori in armi (Neri Pozza, pagg. 202, euro 13,50), andando a ricercare nella moltitudine di coscritti di tutte le estrazioni sociali e di tutte le gradazioni ideologiche, quella particolare categoria più genericamente intellettuale da un lato, dall'altro più squisitamente legata a una condizione sentita come propria, anche se spesso ancora in fieri: romanziere, poeta, filosofo... Lo fa focalizzandosi su un arco di tempo che dagli anni Ottanta del XIX secolo arriva alla Prima guerra mondiale (con però un'appendice che giunge a toccare la Seconda...), sufficientemente lungo quindi e coincidente con quel quarantennio che da Sedan a Sarajevo vide la pace nel Vecchio continente e quindi il mestiere delle armi privato comunque della sua materia prima, un po' come era successo al povero de Vigny, che aveva indossato la divisa sull'onda seduttiva delle imprese napoleoniche per poi ritrovarsi a fare il cane da guardia della Restaurazione prima, della monarchia borghese di Luigi Filippo dopo, un secondino, non un guerriero...

Il parterre selezionato da Scaraffia è imponente, da Nietzsche a Proust, da d'Annunzio a Thomas Mann, a Jünger, a Zweig, a Rilke, a Freud, per non dire di Hemingway e di Scott Fitzgerald, e pieno di sorprese.

Prendiamo per esempio Marcel Proust, ovvero la summa del dandismo e dello snobismo. Nella sua scelta di andare già diciottenne sotto le armi, c'era comunque un calcolo: quando nel 1899 si arruolò poteva ancora beneficiare della legge, destinata a scadere l'anno dopo, che consentiva ai volontari di fare soltanto dodici mesi sotto le armi, rispetto ai cinque anni di prammatica. Erano i cosiddetti «Soldati semplici di lusso», una sorta di allievi ufficiali, però senza mostrine, il cui mantenimento e relativa divisa era a carico della famiglia. Il suo soffrire d'asma gli aveva permesso di dormire in albergo e non in caserma e di non partecipare alle adunate mattutine... Ogni domenica, da Orléans, dove era di stanza, andava in permesso a Parigi e lo stesso faceva a ogni licenza... Rispetto all'affettuosa rete di regole che dominavano in casa la sua vita da civile, in fondo Proust aveva trovato la disciplina militare per nulla opprimente: era bastata una caduta da cavallo, per esempio, perché venisse esonerato dal salto degli ostacoli... Avere una vita calma e regolare gli si confaceva, «perché in essa il piacere ci accompagna con più naturalezza dato che non si ha mai il tempo di sfuggirgli cercando di rincorrerlo».

Durante i permessi, racconta Scaraffia, la sua apparizione nei salotti «faceva uno strano effetto, con il cappotto militare sbottonato e la giubba troppo larga. L'alto copricapo della fanteria stonava irrimediabilmente con l'ovale perfetto della sua faccia da giovane assiro».

Nonostante la sua buona volontà, in realtà l'esercito non sapeva cosa fare di lui. Avevano provato con il lavoro d'ufficio al Quartier generale, ma la sua smania calligrafica aveva esasperato i superiori; l'idea di farlo attendente di qualche ufficiale si era scontrata con il fatto che aveva difficoltà nel rifare i letti... Alla fine era risultato trentacinquesimo dei trentasei che con lui avevano fatto il corso, il che accende la curiosità di sapere chi fosse l'ultimo in classifica... Ciononostante, aveva persino cercato di prolungare la ferma, anche se solo di qualche mese: «Al reggimento, finito il mio periodo, mi amavano tanto e sentivo di essere talmente utile che non volevo andarmene». Come nota Scaraffia, «quell'esperienza era stata un ultimo tentativo per rientrare nella normalità sfuggendo a un destino ancora imprecisato, ma già incombente».

Dandy e snob era anche Gabriele d'Annunzio, che però a differenza del Proust diciottenne, di anni ne aveva già ventisei ed era appena reduce dal successo di Il piacere. «Diciotto mesi in caserma!» aveva scritto angosciato a un amico, ovvero «una visione terribile della vita che mi aspetta: non sarò più un uomo, ma un bruto come il mio cavallo, tra i bruti!».

Le lettere di d'Annunzio militare suo malgrado sono una litania di imprecazioni miste a sconforto: «Il mio peggior nemico non avrebbe potuto immaginare per me un supplizio più feroce, più disumano... Io sono schiavo. Ho perduto ogni libertà, ogni dignità d'uomo».

Il problema principale, chiosa Scaraffia, era che poteva vedere solo di rado la sua amante Barbara Leoni, Barbarella, nonché essere costretto «all'inevitabile, incessante, presenza degli altri», ovvero «l'orrore provato fin dai primi anni d'età, dell'odore del prossimo, dell'aspetto del prossimo, della vicinanza e del contatto di un estraneo».

Il bello è che nel reggimento dei Cavalleggeri d'Alessandria dove prestava servizio, d'Annunzio era divenuto prima caporale e poi sergente, superando i relativi esami, tanto da congedarsi infine come sottotenente. E tuttavia, il colpo di grazia gliel'aveva dato un superiore proprio nel promuoverlo: «Bravo! Continuate a studiare. Forse un giorno potrete diventare uno scrittore come Edmondo de Amicis. La stoffa c'è». De Amicis a lui? C'era da impazzire...

Quello degli odori, meglio, delle puzze del servizio di leva, è comunque una costante. Come elenca Scaraffia, Hofmannsthal si lamentava di quello infetto delle camerate. Il fetore delle brande teneva sveglio Paul Valéry. Tutto contribuiva a creare quelle tipiche esalazioni ricordate da Giorgio De Chirico: «Appena mi approssimavo a una caserma avevo subito le narici gradevolmente stuzzicate da un puzzo che giungeva a zaffate e in cui in una bella sinfonia si mescolavano l'odore delle gavette unte, dei piedi non lavati, dell'acido fenico, della creolina e del caffè tostato». Era una condanna a cui non sfuggivano nemmeno i più azzimati, come Georges Simenon, per esempio, che si era fatto fare dei pantaloni di lucida gabardine di seta e aveva una divisa tagliata su misura, opera di un sarto alla moda di Liegi. Il fatto è che passando le sue giornate nelle scuderie in quanto palafreniere, anche in libera uscita e tutto profumato, «non si accorgeva del sentore insopportabile di letame che lo seguiva dovunque».

In alcuni degli scrittori raccontati da Scaraffia, l'essere medici, è il caso di Freud, di Schnitzler, aveva attutito il colpo: in fondo la loro uniforme restava il camice bianco... Per quelli che avevano una concezione della vita più avventurosa che sognatrice e/o contemplativa, i Rimbaud, gli Jünger, l'arruolarsi, specie nella Legione straniera, aveva soprattutto senso nel preparare la successiva diserzione, l'attrazione dell'ignoto per definizione, mentre per uno come Jean Genet era un modo per uscire dal carcere, uscire dalla Francia, andare oltremare, arruolarsi, disertare, riarruolarsi...

Il miglior riassunto della naja è in una poesia di Drieu La Rochelle, uno che quando poi ci sarà la guerra, farà coraggiosamente il suo dovere di soldato, con tanto di ferite e di decorazioni. Non a caso la poesia si intitola Caserma odiata: «Là dentro abbiamo agonizzato e odiato/ abbiamo dubitato e disperato/ abbiamo sciupato la nostra giovinezza/ Ci siamo annoiati».

Diego Pretini per ilfattoquotidiano.it il 10 luglio 2023.  

(…)

Il teatro accomuna l’Italia lasciandola divisa” scrive Alberto Mattioli nell’apertura di gioco di Gran Teatro Italia, il suo ultimo libro pubblicato con Garzanti (16 euro, 192 pp.), alla seconda ristampa dopo meno di un mese. Mattioli, pazzo per l’opera confesso, ormai alla soglia veneranda delle 2mila recite da spettatore, scrive di lirica su vari giornali (La Stampa, Il Foglio, Amadeus) e in parecchi libri, tutti di successo a dispetto del fatto che non ci sono dei morti ammazzati dentro se non per finta (quelli delle opere). 

L’unico giallo da risolvere, semmai, è come riesca, ancora una volta in Gran Teatro Italia così come negli altri libri dedicati all’opera (Anche stasera e Meno grigi, più verdi due titoli tra gli altri) a unire il rigore nell’illustrazione delle informazioni e la freschezza dell’esposizione, il peso di una tradizione che affonda in qualche secolo e la leggerezza del racconto. Insomma: il sacro graal della divulgazione.

In questo caso il pretesto per parlare di opera per Mattioli è la storia – grande e piccola, collettiva e sua personale, basate entrambe su una sterminata aneddotica – dei teatri italiani, dalla Fenice al San Carlo, dal Regio di Torino all’omonimo di Parma, dalla Scala al Massimo, passando per l’impressionante affollamento di palchi e sipari delle Marche. “I teatri in generale, e quelli d’opera in particolare, esistono in tutto il mondo – scrive – Però soltanto in Italia sono diventati qualcosa di più di un luogo di spettacolo. 

Sono il fulcro della vita non soltanto musicale, ma anche mondana sociale, civile: il centro del centro cittadino. Come la piazza o la cattedrale. Fra la città e il suo teatro d’opera c’è una simbiosi, un’attrazione, una corrispondenza d’amorosi sensi che hanno forgiato l’identità di entrambi: la città è così perché così è il suo teatro e viceversa”.

Il primo colpo d’occhio che resta del viaggio compiuto di teatro in teatro è che un mondo che nell’immaginario collettivo viene descritto pigramente come un po’ bollito, sorpassato dal presente, destinato all’estinzione, prodotto da dinosauri a beneficio di dinosauri è di una vivacità che altri presunti totem tricolore (ogni riferimento al moribondo campionato di calcio è azzeccato, per dirne una) se le sognano la notte. 

Basta fermarsi a un solo esempio dei tanti possibili: poiché il teatro è soprattutto chi ci si siede dentro peraltro a pagamento, è l’eterna e deliziosa guerra armata e senza esclusione di colpi sulle regie, portata avanti in particolare da chi pretende che il Rigoletto rimanga in calzamaglia nei secoli dei secoli e la Violetta traviata strippata nel corpetto, con gonnellone e fiore tra i capelli (ormai celebre la jihad dell’indomito Mattioli contro il nutrito partito del “povero Verdi“) a dispetto del fatto che le storie della lirica sono spesso enormi specchi che raccontano storie e caratteri di oggi, cioè di sempre (amore e potere, avidità e tradimenti, sopraffazioni e ingiustizie, piccolezze e bassezze morali e eccezioni eroiche).

E’ il miracolo dell’opera: “Un teatro – la definizione è di Mattioli – così difficile, elitario, basato sull’assurda convenzione di gente che discorre cantando, in un italiano letterario che non esiste se non sulla carta, che nessuno parlava e molti non capivano, in forme musicali spesso complesse, diventa però patrimonio e passione e coscienza comune per colti e ignoranti, ricchi e poveri, patrizi dei palchi e plebei del loggione”. Attrezzisti, sarte, violinisti. “Ci sono soltanto due paragoni possibili, nella storia del teatro he è poi quella della civiltà: l’Atene di Pericle e la Londra di Shakespeare. E’ l’utopia realizzata, la grande arte per tutti e di tutti, il teatro come identità, comunità, partecipazione“. 

Certo, dal libro di Mattioli si capisce bene che poi tra il dire e il fare ci sono di mezzo le fondazioni lirico-sinfoniche con sovrintendenti e relativi tic, fissazioni e magari padrini politici. Del coma del Maggio Fiorentino questo giornale ha scritto in un lungo e in largo: è “come se nel teatro si riflettesse – riflette Mattioli – la contraddizione di una comunità su cui grava un passato infinitamente più importante del suo presente, e non sa o non vuole ripensarsi o reinventarsi”. Ci sono esempi di segno opposto, come la rinascita da studiare al Cnr del Teatro dell’Opera di Roma e la gestione geniale, forse semplicemente perché sinonimo di siciliana, del Massimo di Palermo (“Una città e un teatro che sono sempre o più avanti o più indietro rispetto a quel che è ‘normale’ fuori, quindi affascinantissimi”). 

Chi teme di finire in un trattatello storico-accademico con date, stili architettonici, dibattiti sulla progettazione può deporre subito gli ansiolitici. Gran Teatro Italia è anche un libro sulla storia dei teatri perché, sì, certo tratteggia nascite, crescite, spesso incendi, quindi rinascite, fallimenti, belles époques. Ma ha soprattutto la levità di un piccolo drone che girella nelle sale dei teatri e in quel tragitto riesce ad attraversare i secoli e le biografie, si affaccia ai palchetti, si mette a curiosare nei retropalco e nei ridotti, che diventano macchine del tempo. Racconta episodi memorabili che certo avranno come protagonisti Rossini, Verdi, Toscanini e Gronchi con la sua celeberrima gropponata presidenziale nel palco reale della Scala poi giustamente uccellata da Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello (i quali come noto furono cacciati dalla Rai: e no, a quel tempo non potevano nemmeno offrirsi a Discovery).

Ma c’è anche Pippo Baudo che prende a pedate due malcapitati imputati di aver contestato Katia Ricciarelli durante una Luisa Miller nel 1989, proprio nel teatro milanese e tra l’altro non c’era neanche bisogno dell’intervento del piedone di SuperPippo perché Ricciarelli si è sempre saputa difendere da sola: durante una scena – racconta Mattioli – si era inginocchiata sul palco, si era segnata e aveva dedicato al loggione fischiante un sonoro “Dio vi maledica!“.

La storia dei teatri svela molto anche di com’è cambiato il rito della fruizione degli spettacoli negli ultimi duecento anni. Oggi all’ora X diventa tutto buio pesto, sì è sequestrati in sala, sì può essere liberati solo dal Gis dei carabinieri, si pretende il silenzio di un camposanto, l’applauso è regolato da un manuale alto così di leggi non scritte, si maledice l’intero albero genealogico di chi fa cigolare troppo una poltrona perché ha cambiato l’accavallamento della gamba.

Nel Settecento e nell’Ottocento, invece, a dispetto di qualsiasi immaginario, a teatro si faceva un casino dell’ottanta, cioè si faceva di tutto e ascoltare la musica era il penultimo o terzultimo dei pensieri. Una specie di JustCavalli solo più sguaiato: si mangiava, si beveva, si passeggiava al posto della platea che allora non c’era, ci si nascondeva dietro le tendine dei palchi per fare l’amore e per giocare d’azzardo (alla Scala le bische erano pure un ramo d’azienda e Alessandro Manzoni frequentava volentieri). Insomma il centro della vita sociale. 

Si trova online una cronaca di Francesco Milizia, un intellettuale pugliese del Settecento, su una serata all’opera al San Carlo: “Chi discorre, chi gira il capo in qua e in là, chi legge, chi sbadiglia, e v’è anche chi dorme. Il contorno è in gran parte da fondo a cima tutto bucato di cellette e in ciascuna è annicchiata almeno una donna circondata da un ronzio d’uomini armati tutti di telescopi che servono loro come di bussola per saltare da cella in cella, cicalando, mangiando sorbendo, giuocando”.

E le situazioni potevano presto prendere una piega anche peggiore, come racconta Mattioli in Gran Teatro Italia nel capitolo dedicato a Venezia: “Dai palchi i patrizi gettano tranquillamente sulla plebe della platea avanzi di cibo, moccoli di candela e sputi“. Arthur Young, economista inglese di passaggio in Italia per la solita moda del gran tour, annota nel 1787 che “da un palco di lato della sala un nobile in piedi ad un tratto abbassò la brachetta per orinare sulla testa di un orchestrale”. “Nessuno all’infuori di me se ne meravigliò” verbalizzò mister Young. 

(…) 

E, insomma, alla fine qual è il primo teatro del mondo? Mattioli fa rispondere Giuseppe Verdi: “Io ne conosco cinque o sei di questi primi teatri ed è proprio in quelli dove più di frequente si fa cattiva musica!” in una delle sue lettere. E’ il San Carlo, il più antico teatro d’opera in attività? E’ la Scala che guida nello spirito ogni nuova stagione con il suo Sant’Ambroeus? E’ la Fenice nella Venezia che ha lanciato Rossini e coccolato verso il tramonto Wagner? Mattioli non risponde e non per furbizia. Preferisce tracciare una via, una specie di possibile “teologia della lirica”, e chi deve capire si metta in ascolto: “Dal punto di vista artistico i momenti migliori della storia del teatro sono quelli in cui si innova, si rischia e si vince” (frecciatina alla Scala).

Di più: “Il pubblico non va solo assecondato, va anche educato, traghettandolo con prudente fermezza nel futuro, prima che scopra che quel che vede è irrimediabilmente ancorato al passato. Il tempo fugge, e quello perduto non si recupera più”. Regola d’oro che per un centinaio di arti, mestieri e professioni (fino alla politica, alla tv, al giornalismo) dovrebbe essere scolpita nel marmo. E al contrario al momento – come dimostra in maniera lampante il titolo di questo articolo – è trafitta a morte dalla tirannia dell’algoritmo.

Estratto dell’articolo di Paolo Di Paolo per “la Stampa” il 23 gennaio 2023.

Reparto Traumatizzati in overbooking! Il principe Harry espone e vende – alla grande – il suo trauma. Monsignor Gänswein accampa il proprio, non metabolizzato nel lungo decennio fra le sconcertanti dimissioni di Benedetto e la sua morte. Steven Spielberg lo ha dissotterrato a 76 anni compiuti. Le opere più in vista, tra cinema e letteratura, espongono la ferita. Perfino un (finto) duro come Bret Easton Ellis […] torna per rimettere a posto i cocci (The Shards) della propria stessa lacerata giovinezza.

Un lungo articolo del New Yorker sulla sovrabbondanza di traumi […] nella narrativa contemporanea, alla distanza, si può rileggere come una diagnosi inappuntabile. […] nelle classifiche italiane trionfa The Spare (Mondadori); e appena sotto […] resta il romanzo bestseller del 2022, Fabbricante di lacrime (Salani) di Erin Doom, l'italiana misteriosa che sulla capacità di raccontare anime traumatizzate con romantico-gotica delicatezza ha costruito la sua fortuna editoriale.

E poi, c'è Niccolò Ammaniti: dopo otto anni, è tornato con La vita intima (Einaudi); e riparte con acume dal più contemporaneo dei traumi. […] c'entra con il confine sempre più labile fra privato e pubblico. […] È un trauma vero, un trauma presunto; o c'è una generale inclinazione ad auto-traumatizzarsi?

Lo studioso Daniele Giglioli, in un saggio di un decennio fa, Senza trauma, aggiornato e ristampato l'anno scorso per Quodlibet, manifestava una certa legittima insofferenza per «ogni possibile trauma immaginario sfruttato al fine di rendere ancora rappresentabile una forma di vita resa ormai immeritevole anche solo di essere detta a causa degli strati geologici di cliché che la comunicazione le va sversando quotidianamente addosso».

 […] Nel mondo pluralistico e pericoloso di cui parla Giglioli, lui vede anche una folla di conigli autocondannati all'inazione. Ma forse può aggiungere anche un bel branco di marmotte sentinella: «Vuoi vivere? Datti un Leviatano artificiale».

Vuoi scrivere o girare film? Fai lo stesso! Tra la ginestra e il Vesuvio, conviene tifare per il Vesuvio, dice ancora Giglioli. O quantomeno scrutare il vulcano sperando di esserne paralizzati-traumatizzati abbastanza, anche solo in prospettiva. Votarsi al «trauma a venire» è una trovata epocale. […]

L’ortografia è una cosa seria. Quando la virgola diventa una questione di vita o di morte. Maurizio Assalto su L’Inkiesta il 6 Febbraio 2023

Quella tra soggetto e predicato è uno degli svarioni ortografici più diffusi, addirittura dilaganti, quasi assurti a regola. Perché non servono solo a prendere fiato: hanno una precisa funzione nell’architettura del testo scritto

«Io, sono nato qui». Non tutti se ne saranno resi conto, a Torino, ma la scritta al neon che fino a qualche settimana fa si accendeva di sera sulla facciata dell’ospedale ostetrico Sant’Anna, dove è venuta al mondo una buona parte dei torinesi, era un’installazione artistica: una new entry nelle “Luci d’artista” che dalla fine degli anni Novanta illuminano il Natale subalpino. Chissà quanti avranno altresì fatto caso che, oltre a essere un’opera d’arte, era anche un esempio, o almeno l’indizio, di un diffuso errore di punteggiatura. Perché quella virgola dopo “io” (peraltro ribadita in un segmento della stessa scritta sopra una porta d’ingresso dell’ospedale: “Io,”)?

Le virgole sono la croce senza delizia del linguaggio scritto – italiano ma non solo, ma soprattutto: testi che ne sono infarciti al limite dell’illeggibilità oppure che ne difettano, con il medesimo risultato; incisi e subordinate che si aprono senza chiudersi o che si chiudono senza essersi aperti; sparse come capita, quando ci si ricorda, un po’ sì e un po’ no.

La virgola tra il soggetto e il predicato, come nella frase da cui siamo partiti, al pari della virgola tra il predicato e il complemento oggetto, è uno degli svarioni ortografici più diffusi, addirittura dilaganti, quasi assurti a regola, come si può constatare quotidianamente sfogliando a caso un giornale, leggendo un post sui social o anche i libri dei migliori editori, ma in generale ogni tipo di testo scritto. Anche un’installazione artistica: a meno che l’autore, Renato Leotta, non intendesse in questo modo isolare il soggetto per conferirgli una maggiore enfasi: ossia non per informare tranquillamente che “io sono nato qui” ma per rivendicarlo sottolineando la parola “io”, così da riprodurre l’andamento tonale del parlato – una possibilità ortograficamente discutibile ma ammessa (anche quando a essere isolato dal verbo è l’oggetto) e con illustri esempi letterari («Voi, mi fate del bene», Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”).

L’uso scorretto della virgola è particolarmente frequente, se non senz’altro maggioritario, in presenza di “soggetti espansi”. Ecco un paio di occorrenze: «Porre l’accento sull’urgenza della restituzione [soggetto], si dimostra una strategia fallace» (esempio tratto da un lavoro universitario); «ciò che viene indicato sotto forma di complemento oggetto in una frase semplice [soggetto], può infatti essere espresso con un’intera frase» (da Wikipedia, sub voce “proposizione oggettiva”). Ma non sfuggono allo scivolone neppure gli scrittori più famosi, maestri di stile. Come Cesare Pavese: «Il profluvio di parole con cui la bionda mi aveva strappata al sofà [soggetto], non m’impedì di sentirmi anche qui un’intrusa» (Tra donne sole, Einaudi, 1949; la voce narrante è femminile). Oppure Italo Calvino: «Un giudizio di Claudio Gorlier […] sulla traduzione di Passage to India di E.M. Foster pubblicata da Einaudi [soggetto], mi spinge a scrivere questa lettera» (lettera del 10-15 ottobre 1963, in Lettere 1940-1985, Mondadori, 2000).

Gli ultimi due esempi sono citati nel libro di Leonardo G. Luccone “Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto” (Laterza 2018). L’autore immagina che Pavese – e lo stesso discorso può valere per Calvino – «abbia messo quella virgola perché, almeno in prima battuta, aveva avuto la sensazione che la frase fosse troppo lunga e elaborata e abbia perso la cognizione di aver costruito un soggetto espanso». Si tratterebbe in questo caso di una “virgola prosodica”, ossia ricalcata sull’articolazione vocale del testo, che non regge però all’analisi logica.

Le virgole non servono infatti a prendere fiato (un equivoco che «ha già prodotto abbastanza danni», osserva ancora Luccone), ma, come in genere tutta la punteggiatura, hanno una precisa funzione nell’architettura del testo scritto: servono a strutturare la frase secondo un ordine gerarchico, isolando una proposizione da una coordinata o una proposizione subordinata da quella principale, gli incisi, le apposizioni (“Vitruvio, l’autore del De architectura”), i vocativi («Silvia, rimembri ancora…»), nonché le singole parole e proposizioni in una enumerazione. Sebbene, come anche ricordava Luca Serianni, nel complesso delle norme che regolano la scrittura, quelle relative alla punteggiatura siano le meno codificate, alcuni punti fermi (nel nostro caso, virgole ferme) è possibile fissarli, e doveroso rispettarli.

Le virgole sono una cosa seria. Anche di vita o di morte, come nel celebre responso della Sibilla al soldato che l’aveva consultata: ibis redibis non morieris in bello, che a seconda di dove si fa cadere la virgola può voler dire «andrai, tornerai, non morirai in guerra», oppure «andrai, non tornerai, morirai in guerra». Questo ovviamente è un caso limite: non sempre la situazione è così drammatica, ma spesso è drammaticamente impossibile capire il senso di una frase se la virgola non sta al posto giusto.

Bruno Migliorini e Gianfranco Folena, nella loro “Piccola guida di ortografia” (1954, ristampata da Apice libri nel 2015), riportavano due frasi quasi identiche, tranne che per quel minuscolo ma dirimente paragrafema. «Gli impiegati della ditta X che non guadagnano abbastanza si lamentano» significa che a lamentarsi, tra gli impiegati, sono solo quelli che non guadagnano abbastanza; mentre se scriviamo «gli impiegati della ditta X, che non guadagnano abbastanza, si lamentano» intendiamo che a lamentarsi sono tutti gli impiegati.

Già Aristotele, nella Retorica, richiamava all’esigenza che «il discorso scritto sia facile da leggere e da pronunciare» e alla carenza di punteggiatura attribuiva la proverbiale oscurità di Eraclito. Lo sviluppo dell’interpunzione è un processo lungo e tortuoso, cominciato più o meno tremila anni fa (la prima attestazione in una stele moabita del IX secolo a.C.), che ha conosciuto un momento importante, sia pure ancora limitato alla funzione prosodica e non a quella “architettonica”, intorno al 200 a.C. con Aristofane di Bisanzio, grammatico della Biblioteca di Alessandria, autore di un sistema di notazione drammatica tripartito a uso degli attori, che indicava quando e quanto occorresse inspirare prima di un brano lungo, medio o breve.

Il brano breve, indicato da un segno apposito distinto dagli altri, si chiamava in greco kómma (“pezzetto, frammento”, dal verbo kópto, “taglio”), e comma è ancora oggi il nome inglese della virgola. La parola italiana, invece, viene dal latino virgula, diminutivo di verga, in quanto è simile a un bastoncino ricurvo: una forma consacrata da Aldo Manuzio nell’edizione del 1496 del “De Aetna” di Pietro Bembo. In quello scritto il cardinale umanista, tra esperienza diretta e reminiscenze classiche, raccontava la sua ascensione sul vulcano durante un’eruzione: un’impresa difficoltosa, compiuta con cautela, misurando i passi, come la punteggiatura nel suo testo. Per chi avesse voluto emularlo, seguendone il resoconto, una virgola fuori posto, come per il soldato dell’ibis redibis, avrebbe potuto rappresentare la differenza tra vivere o morire.

Analfabeti con tre teste. Divagazioni sul grande gossip letterario di fine 900, svelato da Andrew Wylie. Guia Soncini su L'Inkiesta il 28 Novembre 2023

«Moglie di amico di famiglia si scopa sia il padre sia il figlio» è una storia abbastanza popolare, ma siccome riguarda degli scrittori, gli Amis e Barnes, e l’ha raccontata un agente letterario in una favolosa intervista, non incuriosisce un pubblico abituato a cercatori di consenso e non a portatori di talento

Tanto per cominciare, vorrei chiedere scusa a Decca Aitkenhead, che due giorni fa ha intervistato Andrew Wylie per il Sunday Times. Ma, poiché conosco i limiti del mio pubblico, che di certo non legge il Sunday Times per il quale serve, nientemeno, pagare un abbonamento, di certo non ha memoria storica delle polemiche degli anni Novanta, e di certo ha come orizzonte culturale nella migliore delle ipotesi Ilary Blasi e nella peggiore Francesco Lollobrigida, servirà un po’ di contesto.

A metà degli anni Novanta, Martin Amis – secondo la definizione data da lui stesso, unico romanziere ereditario d’Inghilterra: figlio di Kingsley – pubblica quello che è l’indiscusso capolavoro letterario di fine Novecento, “L’informazione”.

«Indiscusso» in un mondo ideale in cui la gente sappia di cosa parla. Mentre cerco di capire con quanto ritardo Einaudi lo pubblicò in Italia, sulla pagina Amazon del romanzo vedo la singola stellina che gli ha lasciato Concetta Aversa, con la motivazione «impossibile da leggere oltre la trentesima pagina, se ci si arriva alla trentesima perché è veramente difficile da seguire». Poi ci torniamo, alle Concetta Aversa del mondo, e a me che riconsidero le mie idee sulla libertà d’espressione.

Martin Amis si era appena rifatto i denti (se avete letto “Esperienza”, sapete che quello coi denti è stato il suo rapporto più problematico; se non l’avete letto, non capisco perché perdiate tempo con me), aveva speso un sacco di soldi, e si chiedeva cos’era a fare il più promettente quarantaequalcosenne della letteratura inglese se poi non lo coprivano di soldi.

La sua agente, Pat Kavanagh, era la moglie di Julian Barnes (nell’Inghilterra dotta si conoscono tutti), ed era una signora perbene di quelle che non fanno richieste economiche spropositate. Entra in scena Andrew Wylie, che noialtri ventenni dell’epoca non avevamo mai sentito nominare, e che a mia memoria è uno dei due unici casi in cui un agente diventa un personaggio (l’altro sarà Ari Emanuel, agente della William Morris, fratello del Rahm che fu braccio destro di Obama, e ispiratore del personaggio di Ari Gold nella serie “Entourage”).

Poiché non avevamo TikTok, per ripiego andavamo in edicola, e in edicola c’erano pagine culturali non fatte da cinquantenni disperati la cui massima ambizione è non perdere il treno di TikTok, e quindi quelle pagine culturali ci raccontavano cose che altrimenti non avremmo mai saputo, come il fatto che Andrew Wylie, da lì in poi detto Lo squalo, aveva ottenuto per Martin Amis un anticipo di cinquecentomila sterline, ma all’uopo Amis aveva dovuto tradire la moglie dell’amico e insomma era praticamente una puntata di “Santa Barbara”, ma coi letterati.

Da allora Andrew Wylie non è mai uscito dall’immaginario mio e di molte persone che frequento, lui e la sua convinzione che gli editori vadano fatti pagare caro perché solo se pagano caro il tuo libro poi lo promuoveranno adeguatamente, lui e i millecinquecento o giù di lì scrittori che rappresenta e di cui non riesco a capire come faccia a ricordarsi anche solo i nomi, lui e il suo essere l’agente di quasi solo giganti del pensiero e dell’azione.

Forse non se li ricorda, i nomi. Un paio di settimane fa il New York Times l’ha intervistato, ed era un’intervista piena di meraviglie, tra le quali l’ovvietà che però nessuno dice mai che l’intelligenza artificiale può rubare il lavoro solo agli scarsi. La mia preferita delle meraviglie, davanti alla quale chiunque abbia mai pubblicato un libro si sloga il collo annuendo, è quella sulle prove di copertina.

L’editore ti manda delle prove di copertina, e sono d’una bruttezza da vergognarsi, tu (tu Andrew Wylie) lo fai presente, e loro ti rispondono: qui in casa editrice piace a tutti. «Il numero di volte che ho ricevuto questa risposta è osceno».

Mi sono un po’ consolata, perché credevo che la totale mancanza di senso estetico fosse esclusiva italiana, una specie di contrappasso per aver avuto il Rinascimento. Ma no, è solo che noi non abbiamo degli Andrew Wylie che dicano agli editori «questa la diamo al gatto», e quindi qui i libri escono con le copertine orrende che in casa editrice piacciono a tutti, nella tradizione «buona la prima» che caratterizza la nazione in cui non si può perder troppo tempo a lavorare, c’è da fare aperitivo.

Ma la parte che mi fa pensare che non ricordi i nomi è quella in cui spiega che, se lui dice di avere per le mani un’opera di genio, gli credono, perché lui il genio lo frequenta, lui rappresenta, tra autori ed eredi, Salman Rushdie e Calvino e Borges e Nabokov. E poi all’improvviso, in questa lista di formidabili geni, cita Sally Rooney. Tu sei l’agente di Yasmina Reza. Sei l’agente di Chimamanda Adichie. E, se devi citare una femmina vivente il cui genio letterario sia fuori discussione, citi Sally Rooney. Non può essere altro che smemoratezza e l’immancabile «aspe’, fammi dire una donna».

Ma stavamo parlando – non ve ne sarete già dimenticati solo perché ho fatto centododici divagazioni – del grande scandalo letterario di fine Novecento, di Martin Amis e del suo anticipo. Il Sunday Times vede l’intervista degli americani, si dice «maledizione, perché non ci abbiamo pensato noi», e manda la Aitkenhead a incontrare Wylie.

Ne esce una seconda intervista stupenda, nella quale ci sono più domande su Amis (che ha vissuto gli ultimi decenni della sua vita a New York, ma era comunque un patrimonio nazionale inglese, oltretutto patrimonio ereditario), e in cui Wylie fa due rivelazioni pazzesche su quell’anticipo.

Una è che a lui i soldi non interessano (vabbè), che a lui interessa che gli autori siano ben pagati per stare in una stanza a scrivere senza preoccuparsi, e che quindi, visto che Martin aveva questo rapporto così stratificato con la Kavanagh, lui fece la trattativa per fargli avere mezzo milione di sterline, ma lasciò che a prendere il dieci per cento di commissione fosse lei. Che è «tipico: chi non sa ottenere un risultato poi è lieto d’essere pagato per il lavoro che non ha saputo fare», e che all’epoca non aveva reso noto questo dettaglio, accettando che gli dessero dell’avido squalo, per non umiliarla (Pat Kavanagh è morta nel 2008).

L’altra rivelazione è la ragione per cui Martin era restio a mollare la collaborazione con Pat. Martin Amis gli aveva detto, riferisce Wylie, che non poteva revocarle il mandato perché se l’erano scopata sia lui sia Kingsley. La rivelazione non mi stupisce più di tanto, neppure la colgo come tale, giacché negli anni ho letto abbastanza di quel giro da avere chiaro che non solo si conoscevano tutti, ma tutti andavano a letto con tutti.

Però Decca Aitkenhead rimarca che questa è una notizia, che in tutti i pettegolezzi letterari di quegli anni questa cosa non era mai stata detta, e io penso ma figurati, ma non è possibile. E quindi, avendo il vantaggio di avere oltre a un account TikTok anche una biblioteca piuttosto fornita, riprendo la biografia di Kingsley, ottocentoespicci pagine uscite nel 2008, e delle quali ovviamente ricordo pochissimo.

Pat Kavanagh era tra le fonti dell’autore Zachary Leader. Gli raccontava dell’amicizia sua e del marito con gli Amis, di Kingsley che a un certo punto litiga con Julian a proposito di “Il pappagallo di Flaubert”, di vari aneddoti ma mai, mai, buttava lì: e poi abbiamo scopato, anzi per la precisione mi sono scopata pure il figlio.

Ho passato la domenica pomeriggio a pensare a Zachary Leader, che per “The Life of Kingsley Amis” fu pure finalista al Pulitzer, e che diciassette anni dopo apre i giornali la domenica mattina (Leader è del 1946, farà colazione leggendo i giornali invece di controllare le tendenze su TikTok come la mia disperatissima generazione) e scopre che dalle sue ottocentoefischia pagine mancava un succulento dettaglio.

«Moglie di amico di famiglia si scopa sia il padre sia il figlio» è una storia abbastanza popolare da attecchire anche presso Concetta Aversa (non vi sarete già dimenticati di lei), se raccontata con parole semplici e giri di frase non troppo raffinati.

Ma non la puoi far apprezzare – su Chi, o su TikTok – a Concetta Aversa, perché non riguarda calciatori o tronisti o concorrenti di Sanremo; riguarda scrittori, una categoria di cui in questo secolo non si capisce più il senso: chi ha bisogno di autori, se posso accendere la telecamera del telefono e raccontare una storia con parole mie?

La risposta a questo interrogativo la dava sul New York Times proprio Wylie, che si picca di vendere libri colti, mica grandi successi di massa. Diceva che «l’obiettivo dei miei clienti non è essere Beyoncé, non è direttamente connesso alla popolarità. Diciamo che inviti un po’ di gente a casa per cena: vuoi che arrivino tutti? O vuoi un selezionato numero di persone intelligenti che ti divertano e che capiscano di cosa parli? Ci sono delle persone che non voglio alla mia cena. Hanno il diritto di vivere, ma non c’è bisogno che vengano a cena a casa mia».

Wylie, come poi ha ribadito l’altroieri al Sunday Times, non frequenta i social, e probabilmente è questo ad averlo reso immune alla più orrenda degenerazione del nostro tempo: la sostituzione del talento col consenso. Consenso che però si monetizza più del talento, e infatti l’intervistatore del NYT obiettava che però gli editori vogliono l’affollamento, e Wylie conveniva che sono avidi, che cercano di allargare – di abbassare – il più possibile perché tra i tuoi lettori ci siano proprio tutti.

«E alla fine chi ti legge? Analfabeti con tre teste. Vuoi passare la giornata con loro? Io no, grazie». Non bisogna essere snob con le masse, obiettava l’intervistatore, sembrando me quando cercavo di convincere i politici di sinistra a imparare i nomi dei tronisti (chissà se avrà modo di pentirsene quanto me).

Wylie concludeva che è un limite suo, non è il tipo che va a Disney World, l’intrattenimento di massa non fa per lui. E io da giorni penso a una Concetta Aversa con tre teste, uno spaventevole mostro della porta accanto di quelli che ci vorrebbe Shirley Jackson per raccontare.

Botte, stupri, omicidi e burle feroci. Quei cattivi ragazzi del Rinascimento. Da Michelangelo ad Artemisia, i geni dell'epoca sono personaggi a tinte forti. E l'editoria se n'è accorta. Alessandro Gnocchi il 23 Novembre 2023 su Il Giornale.

Firenze, tra XV e XVI secolo, fu una fucina di talenti. Artisti, architetti, scrittori, filosofi, filologi, senza dimenticare generosi committenti, misero a fuoco il Rinascimento, l'epoca più gloriosa dell'espressione geografica nota come Italia. Il sistema politico era stabile, o quasi, grazie all'egemonia dei Medici, interrotta principalmente tra il 1494 e il 1512. Machiavelli, in questo intervallo, maturava le esperienze che lo porteranno a rivoluzionare le scienze politiche con Il principe. Lorenzo il Magnifico morì giovane: se fosse stato più fortunato, forse sarebbe riuscito a federare l'Italia e a liberarla dalla funesta influenza delle potenze straniere. Marsilio Ficino rifondava la filosofia platonica e apriva uno scorcio non irrilevante sull'esoterismo in compagnia di Pico della Mirandola. Architetti, pittori e scultori inimitabili ornavano la città con le proprie opere, spinti anche dalla munificenza delle famiglie più ricche, dai Medici, ovviamente, ai Rucellai.

Il genio si accompagna spesso alla sregolatezza. Il luogo comune dimostra la sua efficacia proprio in quella Firenze al massimo dello splendore. Partiamo dalle origini del Rinascimento.

Filippo Brunelleschi (1377 1446) è forse il primo architetto moderno. Inutile elencare le sue opere immortali. Ci limitiamo a citare la cupola di Santa Maria del Fiore, che ha modificato per sempre il profilo del capoluogo toscano. Un altro grande architetto, Giovanni Michelucci, morto a Firenze nel 1990 e autore, tra le altre cose, della Stazione di Santa Maria Novella, ha scritto un saggio su Brunelleschi mago (pubblicato nel 2011 da Medusa) in cui sottolineava l'anti-classicismo di Brunelleschi, uso a ricorrere a strumenti non tradizionali. Ma Brunelleschi era anche famoso per le sue burle spietate. Una entrò nella storia della città ma anche della letteratura. Brunelleschi, insieme con altri amici, riuscì a convincere un malcapitato ebanista di essere... un'altra persona. La vicenda fu raccontata nella Novella del Grasso legnaiuolo, un capolavoro della prosa del Quattrocento e una fonte d'ispirazione per la saga cinematografica di Amici miei. La versione più famosa è quella a cura di Antonio Manetti, architetto e biografo del Brunelleschi.

Dalle origini, passiamo all'apice del Rinascimento. Michelangelo Buonarroti (1475 - 1564) era un'autentica rockstar ante litteram. La sua grandezza fu immediatamente compresa. Michelangelo era un intoccabile anche da vivo. Oddio, intoccabile. Si dice che Michelangelo avesse il naso storto a causa di una rissa con Piero Torrigiani nella chiesa del Carmine dove entrambi andavano a imparare dalla cappella del Masaccio. Michelangelo, secondo il Torrigiani, si faceva beffe di tutti i disegnatori che si trovava accanto. Il Torrigiani, un vero marcantonio, non gradì e sfondò la faccia di Michelangelo. Un giorno, se ne vanterà con la persona sbagliata: Benvenuto Cellini, scultore, malvivente e adoratore di Michelangelo. Ma ci arriveremo.

La lezione, comunque, non fu utile a Michelangelo, che rimase un provocatore e un uomo assai orgoglioso di se stesso. Dipingere in Vaticano era un onore riservato a pochi. I fortunati non potevano certo trattare il Papa, cioè il committente, come un rompiscatole. Non potevano? Beh, uno poteva: Michelangelo. Che siano leggendari o meno, ci sono aneddoti comunque significativi. Un esempio. Durante la stesura degli affreschi della Cappella Sistina, Michelangelo non volle scocciatori prima di aver concluso. Giulio II, che non era un agnellino ma un pontefice guerriero, rimase fuori dalla porta chiusa a chiave.

Vittorio Sgarbi ha appena pubblicato il suo Michelangelo. Rumore e paura (La nave di Teseo). Il libro sfata il mito dell'unicità di Michelangelo, mostrando come la ricerca dell'artista fiorentino non fosse isolata ma ben inserita nel tessuto dell'arte «contemporanea» (a Michelangelo). Ma l'arte è sempre contemporanea, in un certo senso, e Sgarbi mostra imprevedibili analogie e relazioni con opere successive di secoli a quelle michelangiolesche, dalla Origine del mondo di Gustave Courbet all'Urlo di Edvard Munch. Insomma, il Michelangelo di Sgarbi scavalca il tempo e giunge fino a noi, mediato anche da un autentico culto, mai venuto meno e rilanciato, ad esempio, da Gabriele d'Annunzio.

Michelangelo pose le basi del manierismo e del Barocco. Benvenuto Cellini (1500 - 1571) volle partire da dove il maestro aveva finito. L'abbiamo già citato poco sopra. A lui, Torrigiani raccontò di aver rotto il naso a Michelangelo. Cellini diede in escandescenze. L'autobiografia La Vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze, stampata postuma a Napoli nel 1728, è un capolavoro che si dipana tra pugnali, vendette, veleni, risse, fughe, accuse di sodomia e la celebre evasione da Castel Sant'Angelo. Cellini era, a dir poco, una testa calda, meglio: rovente. Aveva appena superato i vent'anni quando dovette scappare da Firenze per una condanna a morte. Cellini aveva preso a pugnalate un orafo suo rivale e già che c'era anche un terzo uomo intervenuto nella lite. La Vita è un «romanzo» picaresco tra i più divertenti mai scritti in lingua italiana o meglio volgare. L'editore Neri Pozza manda in libreria in questi giorni una frizzante Vita maledetta di Benvenuto Cellini scritta da Alessandro Masi, storico dell'arte. Ve la consigliamo anche se avete il coraggio di affrontare direttamente il volgare del 1500.

Infine, un caso diverso da quelli esposti fino a qui. Spostiamoci a Roma e prendiamo in esame la vicenda di Artemisia Gentileschi (1593 - circa 1652). Pittrice di valore, studiò con Agostino Tassi «lo Smargiasso», virtuoso della prospettiva. Tassi stuprò Artemisia. Il caso fu denunciato dal padre di Artemisia quando tramontò ogni speranza che il Tassi sposasse la ragazza. Lo Smargiasso fu condannato al termine di un lungo processo, estremamente umiliante per Artemisia. Tassi prese cinque anni di carcere commutabili in esilio perpetuo da Roma. Scelse la seconda strada e se ne andò. Di recente, gli Oscar Mondadori hanno ripubblicato il romanzo Artemisia (1944) di Anna Banti (1895 - 1985). È il libro che ha fondato il mito di Artemisia. L'autrice, Anna Banti, era scrittrice e critica d'arte. Moglie di Roberto Longhi, maestro della critica d'arte e «inventore» di Caravaggio, ne condivise gli interessi e le iniziative, dirigendo, ad esempio, l'importante rivista Paragone, palestra di più generazioni di scrittori (Bassani, Testori, Pasolini e moltissimi altri) ed esperti d'arte.

Non c'è bisogno di spiegare l'attualità di Artemisia, motivo per cui la ristampa è doppiamente importante: perché ricorda la Gentileschi, simbolo della violenza sulle donne; perché celebra Anna Banti, una grande intellettuale.

Estratto dell'articolo di Caterina Soffici per “la Stampa” il 26 giugno 2023. 

«Il problema di essere una moglie è essere una moglie».

È stato (e rimane, per la gran parte) un problema di tutte le mogli, da quando la funzione del matrimonio era di legare le donne agli uomini come una forma di proprietà e di proteggere le linee di sangue producendo prole legittima. Se questo è valido più o meno per tutte le coppie (anche nelle fluidità odierne uno dei due è elemento dominante e soggiogante), nelle coppie letterarie aggiungete alla quotidianità altri non trascurabili ingredienti. Tipo: narcisismo, ego smisurato, ambizione senza freni, infedeltà, alcolismo, disturbi dell'umore e psicosi di varia natura. 

Ecco la ricetta di una miscela tonante ed ecco la spiegazione di come le unioni tra scrittori famosi siano state spesso burrascose, brevi e reciprocamente distruttive. «Le mogli letterarie sono una razza unica, una genia che richiede una forza d'animo particolare» scrive la poetessa e studiosa americana Carmela Ciuraru in un divertente e succoso saggio che si intitola appunto: Lives of the Wives.

Five Literary Marriages e dove racconta, spesso per aneddoti, le movimentate vicende di cinque famosi matrimoni letterari. L'assunto è che anche l'uomo più colto e raffinato non sfugge alla regola del privilegio maschile della celebrità e tende a succhiare linfa vitale alla consorte per nutrire la propria creatività, nel migliore dei casi. Mentre nel peggiore la vuole semplicemente annientare ed è geloso fradicio se la consorte ha più successo di lui. 

«Per mia esperienza, nessuno rinfaccia a un uomo la brutalità nei confronti della moglie» scriveva la critica Elizabeth Hardwick. Oppure, per usare le parole di Elsa Morante: «Le coppie letterarie sono una piaga».

Elsa Morante e Alberto Moravia sono uno dei cinque matrimoni letterari raccontati da Ciuraru. Nel caso di Elsa e di Alberto il rapporto è talmente complicato che il problema non è neppure la famosa stanza tutta per sé rivendicata da Virginia Woolf. Quella Moravia non la negò alla Morante. 

Anzi, con signorilità altoborghese, appena ebbe un po' di soldi le comprò una pelliccia e uno studio in via Archimede a Roma, dove Elsa poteva andare a scrivere lontano dalla rumorosa e feconda personalità del marito. E a casa la munì di cuoca e cameriera di colore in divisa nera e grembiulino. 

Tra loro fu una relazione intellettuale strettissima e tossica, a tratti patologica, sfociata in un matrimonio di comodo: si sposarono nell'aprile del 1941 perché Moravia era stufo di tornare la sera a casa dei genitori e vivere sotto lo stesso tetto di Elsa semplificava le cose. Non fu mai innamorato della Morante, ma piuttosto molto attratto dalla sua personalità così forte e originale.

La prima litigata la sera del matrimonio, un giorno che Moravia ricorda come «non felice». Teresa, la madre di Alberto, invita la coppia a cena e tenta di dare qualche consiglio alla novella nuora. Finisce in litigio e le due donne non si vedranno mai più. Commento glaciale di Moravia: «Elsa avrebbe dovuto usare meglio la sua intelligenza e capire che mia madre era solo una signora borghese e lasciarla perdere». 

Una relazione costellata di litigi, di alti e bassi, dove Elsa ha sempre il terrore di essere identificata come la moglie di lui, ormai già una celebrità. Lei insicura, paranoica, ossessionata dall'essere riconosciuta come scrittrice, a prescindere dal marito. Se li invitavano a cena insieme lei si arrabbiava, pensando che volessero lui tramite lei. Il modo giusto di invitarli era dire: vieni e se Alberto è libero porta anche lui.

Mentre lei scriveva lentamente e partoriva un libro ogni dieci anni, con blocchi e crisi di ogni genere, lui sfornava successi a getto continuo, lavorando tutti i giorni dalle nove a mezzogiorno. Il pomeriggio andava al cinema e la sera uscivano. Lei invece era incostante, passava da periodi di apatia totale ad altri di lavoro compulsivo. Non si scambiavano mai consigli e non si leggevano a vicenda. 

Paradossalmente quello dei nove mesi di esilio a Sant'Agata nel 1943, quando Moravia era a rischio in quanto mezzo ebreo, e scapparono in montagna rifugiandosi in una sorta di catapecchia, fu il periodo di maggiore intimità tra i due. «Senza carta igienica finimmo per usare le pagine di Dostoevskij» ricorda Moravia: «Pericolo, devozione, sacrificio, disprezzo per la vita: Elsa era tra i suoi elementi».

E poi l'amicizia con Pasolini, i litigi, l'infatuazione non corrisposta per Luchino Visconti, gli scatti di ira, le fissazioni e le mattane. Se Elsa non fosse scappata con il giovane pittore americano Bill Morrow, poi morto suicida giù da un grattacielo di New York - considera la Ciuraru - forse Moravia non si sarebbe innamorato di Dacia Maraini. Chissà. Due persone che, comunque, erano fatte per farsi del male e rendersi infelici a vicenda. 

Peggio va a Elizabeth Jane Howard, l'autrice della saga dei Cazalet e di altri bellissimi romanzi come Il lungo sguardo (in Italia da Fazi), che fu la seconda moglie del mammasantissima delle lettere inglesi del dopoguerra Kingsley Amis, padre di Martin. Quanto sia stata bullizzata dal marito è riassunto in questa semplice frase: «Non potevo scrivere molto quando ero sposata con lui perché avevo una casa molto grande da mantenere e Kingsley non era uno che bolliva un uovo, se capite cosa intendo». Ovviamente il matrimonio finì in un divorzio turbolento.

(...)

Le altre tre storie sono di personaggi meno noti in Italia. Dette in breve: Kenneth Tynan, leggendario critico teatrale inglese incoraggia la moglie americana Elaine Dundy a scrivere e poi è roso dalla gelosia quando diventa autrice di bestseller. Roald Dahl, l'autore di libri per bambini al centro di recenti polemiche per il suo antisemitismo, si crogiola nel bagliore riflesso della moglie, la famosa attrice Patricia Neal, per poi detestarla perché più ricca e famosa di lui («Patricia Neal sposa uno scrittore» scrisse il New York Times). 

E poi la relazione tra due donne Una Troubridge e Radclyffe Hall, che si cornificano e si lasciano e si riprendono, ma sono la coppia in fondo più convenzionale di tutte. Insomma, quando pensate a una grande donna, pensate sempre che tra lei e il successo, da qualche parte c'è sempre un letto da rifare.

Notizie tratte da: Maria Luisa Agnese, “Anni Sessanta. Quando eravamo giovani” (Ed. Neri Pozza), selezionate da Giorgio dell’Arti per “il Fatto quotidiano” l'1 maggio 2023.

Lungagnona. “Cinquant’anni spaccati fa, una lungagnona col vestito da cocktail sottratto di nascosto alla madre saliva sul palco traballante di una balera lombarda. Si ricorda che l’abito era blu e bianco. Lucido. Si ricorda che dopo aver cantato la prima canzone – il titolo? no, è troppo – si arrabbiò perché la gente applaudiva. ‘Io canto per me. Cosa c’entrano loro?’. 

Non aveva le idee chiare. O forse era troppo lucida. Si ricorda che alla fine di quella primissima esperienza scappò via perché i genitori non sapevano... non volevano. A diciott’anni era d’obbligo ubbidire. Ma non l’aveva fatto. E doveva correre a rimettere l’abito a posto il più in fretta possibile. Si ricorda che poco dopo, dietro le sue insistenze, il padre aveva convinto la madre a lasciarla fare: ‘Tanto, cosa vuoi, durerà qualche settimana questa follia. Lasciamola fare’” (Mina, che racconta in terza persona il suo debutto).

Collegio. Monica Guerritore, il primo giorno della prima media, se ne andò in piazza di Spagna a infilare perline nelle collane che vendevano i marocchini sulla scalinata di piazza di Spagna. “Mi piaceva da impazzire”. E poi? “All’una e mezza precisa tornai a casa. Trovai mia madre che parlava al telefono, e mi chiede: ‘Com’è andata a scuola?’. E io: ‘Benissimo!’. E lei: ‘Vai in camera, prepara la valigia, perché abbiamo il treno prenotato’. E io: ‘Per andare dove, mamma?’. ‘In collegio’. Aveva saputo che avevo fatto sega”. 

Rape. “Ci davano da mangiare sempre quello che più odiavamo. Credo che facesse parte della nostra educazione britannica. Dovevamo finire tutto quello che ci veniva messo nel piatto. Se uno non finiva tutto quello che aveva nel piatto, se lo ritrovava davanti al pasto seguente. Il mio incubo erano le rape e la carne, nella quale apparivano nervi bianchi ed elastici” (Susanna Agnelli).

Seicento. “Studiavo con lentezza arboriana. Ogni tanto facevo un esame. Un giorno dissi a mio padre: ‘Quanto mi dai se faccio cinque esami?’. Lui rispose: ‘Trecentomila lire’. Io feci tre esami veri e due falsi. Presi i soldi e andai con i miei amici al Circolo polare artico in Seicento” (Enrico Vaime). 

Svezia. Tra i giovani maschi “il grande mito del tempo era la Svezia, la ragazza nordica, come ha ben illustrato Gianni Boncompagni, che in Svezia rimase dieci anni e tornò con due figlie”.

Moravia. “Moravia contrasse l’abitudine estiva di Sabaudia, che significava: accanirsi sui tasti della Olivetti fino verso le undici della mattina, quindi scendere alla spiaggia e intraprendere una lunga passeggiata con l’acqua alla vita tirando su dalla rena le telline, che apriva a infallibili colpi d’unghia e succhiava. 

Di pomeriggio diceva: ‘Vado a comperare un bel pescione’. Il proprietario della pescheria sulla piazza del mercato lo ricorda ancora con che lena frugasse i pesci sul banco di marmo per verificarne la freschezza. Si fermava poi per un gelato al bar di fianco al Comune, e tornava a casa.

Facevamo gare di cucina. Alberto amava lavare i piatti trattando l’acqua bollente a mani nude come se le avesse coperte di pesanti guanti di caucciù. Tutti eravamo ghiotti dello sformato di patate e mozzarella di Laura Betti” (Enzo Siciliano). Saint-Tropez. “A Saint-Tropez si poteva fare apertamente e in modo sfacciato tutto quello che si faceva segretamente a Parigi” (Françoise Sagan).

Estratto dell’articolo di Roberta Scorranese per “il Corriere della Sera” l'1 maggio 2023.

Sì, è vero, ci sono «i francesi che si incazzano» perché la segretaria di Stato Marlène Schiappa ha deciso di posare per «Playboy» in piena crisi sociale sulle pensioni. Ma il servizio (dodici pagine) dedicato alla quarantenne incaricata dell’Economia sociale, solidale e ambientale nel governo di Elisabeth Borne, ha sbendato un termine che pareva mummificato e sepolto nei primi Anni Duemila: sapiosexual. 

Così si è dichiarata Schiappa nell’intervista, facendoci calare subito nel clima surriscaldato di Sex and The City, quando Kim Cattrall-Samantha Jones discettava di «intelligenza erotica». Perché il termine vuol dire proprio questo: attrazione sessuale per i cervelli. Non è il semplice apprezzamento per l’intelligenza di un uomo o di una donna — a prescindere dall’aspetto fisico —, ma è l’esserne più prosaicamente «accesi». 

[…] «Precisiamo: io mi sento attratta dal talento, più che da un vago concetto di intelligenza», dice Nancy Brilli, che alla bellezza unisce il senso dell’umorismo. E che è stata con un artista come Ivano Fossati. «Intelligente, ma soprattutto uomo di talento, cosa che ha fatto scoppiare un amore profondo, complicato, assoluto». 

Però, «Ivano aveva una propensione, diciamo, al flirt con le altre» e in questo caso allora spesso scompare il «sexual» e resta solo il «sapio», perché il cervello ci suggerisce di scappare verso lidi più sereni.

Alba Parietti ha fatto così, ma non tanto perché gli intellettuali a cui si è legata in passato erano propensi al tradimento, quanto piuttosto perché «l’intelligenza maschile può diventare contorsionismo mentale, qualcosa di fine a sé stesso, sterile». 

Insomma, una di quelle spettacolari esibizioni di narcisismo che una donna ha certamente visto da vicino almeno una volta nella vita. «Hai presente quelli che hanno bisogno di un pubblico adorante per esistere?», dice Brilli, la quale, però, precisa che nessuno degli intellettuali a cui lei si è legata in passato sono stati così ferocemente egocentrici. Il suo primo marito, Massimo Ghini, per esempio, «era spiritosissimo e ancora oggi siamo buoni amici». 

[…]  «Oggi assieme a Fabio (Adami, manager di Poste italiane, suo attuale compagno, ndr) sto scoprendo un’intelligenza maschile differente: non è quella puramente teorica, ma è un’intelligenza pragmatica, di un uomo che, per dire, ti aiuta a risolvere un problema». 

Mica come certi intellettuali che quando arriva una bolletta del gas la guardano come se fosse il papiro di Artemidoro. Parietti è stata in passato con Stefano Bonaga, filosofo ma anche gran tombeur de femmes, «uno che incantava uomini e donne». […] 

La scrittrice Carmen Llera, che prima di diventare la moglie di Alberto Moravia è stata anche con il suo ex professore di filosofia, afferma che «l’intelligenza autentica è quella che nutre rispetto, comprensione, interesse verso il compagno o la compagna».

Molti ricordano la tenerezza un po’ bambina con la quale Moravia (di 46 anni più vecchio di lei) andava a prenderla all’università con un’auto modesta. Non solo. «Era curioso nei miei confronti, mi faceva domande sul mio paese, la Spagna, discutevamo di storia e letteratura». Au pair, insomma. 

[…] «Incontrai Alberto al mare, in vacanza — continua Llera — cominciammo a parlare di Buñuel, quindi ci mettemmo a discutere di cinema e libri. E, semplicemente, abbiamo continuato a farlo per tutta la vita». […]

Per Carmen Llera è una questione di apertura mentale: «Non ho mai visto rivali in altre donne, con Dacia (Maraini, ndr) per esempio, ho un ottimo rapporto». Dunque, sentirsi attratti dal cervello altrui richiede (moltissimo) cervello anche da parte di chi desidera. «Sennò sai che fatica», chiosa Brilli, la quale confessa che il suo primissimo amore, da bambina, è stato per una donna. 

Il domandone finale non può che essere questo: ma davvero si può pensare di essere attratti da una persona prescindendo dal corpo? «Il corpo è tutto», diceva una grande poeta come Patrizia Cavalli. «Mai stata con qualcuno solo per il suo fisico, non riesco», dice Llera. Eppure dietro un corpo c’è un orizzonte che sconfina in molto altro.  […]

Estratto dell’articolo di Carmelo Caruso per ilfoglio.it il 20 marzo 2023.

Maneggiare denaro era un’offesa e guidare l’automobile un disonore. Giulio Einaudi e Italo Calvino erano pessimi guidatori ed Einaudi, il “Napoleone” della casa editrice, il fondatore, un grandissimo spilorcio. Riuscì a raggirarlo, con intelligenza, solo Mario Soldati (uno che “aveva sempre le mani bucate e due mutui da saldare”). Un giorno, a Torino, insieme a Nico Orengo, entrarono in un negozio d’abbigliamento. Einaudi provò una “morbida giacca di cachemire” e Soldati un “montone”. L’errore di Einaudi fu dire: “Ma le sta benissimo!”, l’abilità di Soldati rispondere: “Grazie, lo considero, un omaggio!”.

A tirare fuori il libretto degli assegni fu Orengo. C’era pure chi, come Bobi Bazlen, avrebbe preferito passare l’intera vita, nella sua piccola casa di Roma, a via Margutta, semplicemente con un solo maglione, quello “norvegese e di colore marrone”. Solo quello e i suoi libri. Di inquieti la letteratura è piena. Eugenio Montale avrebbe desiderato fumare le sue Muratti e scomparire come scompare il fumo. Aveva scritto molte delle sue poesie su buste, biglietti del tram e pacchetti di sigarette. Sull’elenco telefonico, di Milano, figurava come “giornalista”. Gli amici non sapevano come chiamarlo: “Professore, maestro?”.

Evitava in tutti i modi, lui che era il poeta, Nobel, di parlare di cose difficili. Quando qualcuno ci provava, solitamente in trattoria, Montale lo interrompeva e diceva: “Ma assaggi un po’ di queste cipolline e questi sottaceti”. Ernesto Ferrero li ha assaggiati tutti, anzi, li ha “saggiati” e infatti su tutti loro ha scritto ricordi, libri e pure necrologi. Ha cominciato nel 1963. Da allora barattoli di editori, scrittori, agenti letterari, sono finiti nella sua dispensa. Nel suo Album di Famiglia, “Maestri del Novecento ritratti dal vivo (Einaudi) li cataloga come le confetture.

 (...)

Di Sciascia, a cui aveva commissionato di redigere la voce Pirandello per le sue Garzantine, riuscì perfino a dire: “Sarà anche un grande scrittore, ma come redattore è un cane”.

 (...) Di Inge Feltrinelli, Ferrero, restituisce invece il sapore di fragola, la gioia, e pure le delusioni. Al contrario del marito Giangiacomo dovette capire che il comunismo si riduceva al banale aneddoto su Fidel Castro: “Teneva le galline in terrazzo e accanto il canestro per giocare a basket”. In alto, nello scaffale, inaccessibile, poggia ancora il barattolo Goffredo Parise, “sempre di corsa, in agitazione”. Giosetta Fioroni, che lo ha amato per venticinque anni, gli aveva perdonato pure il vizio della fuga a lui che era “prepotente”, “egoista”, “capriccioso”. La sua casa, sulle rive del Piave, l’aveva arredata con un tavolo da osteria. Si vantava, anche con Ferrero, di conoscere ristoranti. Era solo una rivincita del Parise bambino povero, un inquieto, sì, che cumulava donne, odori, malinconie. Era incosciente e temerario. Ha vissuto e se n’è andato in questo modo: “Giocando con la vita stupidissimamente”.

Estratto dell'articolo di Chiara Gatti per “il Venerdì di Repubblica” il 4 marzo 2023.

(...)

Giorgio de Chirico. Scritti 1910-1978. Romanzi, poesie, scritti teorici, critici, tecnici e interviste è l'Odissea del suo pensiero. E lui è l'Ulisse che rema controcorrente nell'oceano delle avanguardie e del modernismo.

 (...) Alle curiosità di Leonardo Sciascia sul suo rapporto con la Sicilia risponde infastidito, a monosillabi. A un giornalista sprovveduto di Oggi che lo interroga sul numero esatto delle sue opere, sbuffa «che razza di domande!».

 A un altro malcapitato che gli chiede Chi è il più grande artista del Novecento? «Sono io» risponde secco. E Chagall? «Non mi piace» E Dalí? 

«Non mi piace». L'articolo punteggiato di risposte caustiche esce su Epoca il 19 luglio del 1978 con un titolo lapidario: Giorgio de Chirico. Sono ancora il più grande di tutti.

Inutile dire che l'appellativo con cui firma in calce testi e dipinti, il famoso "pictor optimus", va di pari passo con la convinzione di essere l'ultimo immortale. Un genio della pittura che ha cambiato le sorti del Novecento veleggiando nei territori fino ad allora inesplorati del sogno e dell'enigma tradotti in un equilibrio lucido di architetture auree e oggetti ibridi, allegoria di una convivenza possibile fra quotidianità e mito, mescolata ad archetipi indelebili: infanzia, viaggio, approdo.

Temi che il libro tocca per capitoli, mettendo in fila i manoscritti parigini degli anni Dieci, il Piccolo trattato di tecnica pittorica del 1928, il celebre quanto ostico Hebdòmeros del 1929, sperimentazione letteraria dal ritmo cinematografico. E poi, gli Scritti metafisici e la Commedia dell'arte moderna del 1945, prismatico gioco di ruolo del provocatore mascherato, cui seguono, con un cambio di passo ancora una volta depistante, le poesie struggenti della maturità («Si sentono morire dolcemente le onde sulla marina...») insieme alle pagine dei giornali: L'Europeo, Gente, Gioia, persino Playmen e Playboy dove, nell'agosto del ‘73, il critico Giorgio Soavi lo definisce "Un ragazzaccio di 85 anni" e lui, alla domanda Lei che giudizio dà di Picasso? risponde «Mai sentito».

Fluttuando nella sua geografia liquida, mediterranea e germanica, parigina e ferrarese, l'armonia degli opposti emerge in ogni documento scovato dagli archivi, grazie al chirurgico lavoro di indagine condotto dall'editore in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico. E si capisce perché il bambino che costruiva aquiloni («Ne fabbricavo di bellissimi, con carte colorate»), da far volare sulle spiagge dei centauri, abbia abbracciato il simbolismo nordico negli anni di studio a Monaco finendo per tradire le sue radici negli amplessi orfani fra manichini e statue elleniche, paladini con elmi di cartone che abortiscono ogni virilità, muse inquietanti per sciarade irrisolte.

Si capisce pure il motivo del suo conflitto coi contemporanei, coi colleghi francesi, con le avanguardie o con «le scemenze dei cosiddetti modernisti». Unica eccezione, suo fratello Alberto Savinio, costruttore di miti altrettanto potenti, fra metamorfosi e creature meticce. Al ciondolare celibe – e a tratti distopico – dei surrealisti, risponde con il mordente della ragione e il conforto del sentimento. Logos e pathos. La collisione con André Breton è ovviamente feroce. Due giganti agli antipodi. Roberto Longhi (che lo aveva stroncato non capendolo) vede invece la sua vendetta scagliarsi contro Caravaggio «issato sopra un piedistallo ove non riesce a stare». Anche Le Corbusier conquista il suo odio sincero per aver restituito al mittente alcuni articoli che il Pictor "acidus" chiede di pubblicare su L'Esprit Nouveau. Ma il vecchio "Le Corbu" non si lascia intimorire dai suoi strali. Ne intuisce il guizzo. Quello dell'indipendente. «Un anarchico moderato» dice a Paese Sera nel 1978.

 (...)

Helmut Failoni per “la Lettura - Corriere della Sera” il 4 marzo 2023.

I grandi compositori del passato fra di loro si comportavano da gentiluomini? Si direbbe decisamente di no a leggere le quasi cinquecento pagine di Una storia dilettevole della musica. Insulti, ingiurie, contumelie e altri divertimenti (Marsilio) di Guido Zaccagnini (1952), storico della musica per decenni voce (roca, colta e ironica) di Rai Radio3, scomparso nello scorso dicembre improvvisamente all'età di 70 anni

 Ci troviamo di fronte a un libro diverso e anche importante. Per svariati motivi. Innanzitutto perché il suo contenuto - dal taglio volutamente divulgativo, con tanto di schede di approfondimento molto accessibili - può comunque spiazzare e sorprendere, oltre che il semplice appassionato, anche il più fine intenditore di faccende musicali legate al mondo della classica.

Non crediamo infatti che in molti sappiano, giusto per fare uno fra numerosissimi esempi riportati nel libro, che Felix Mendelssohn - sì proprio il grande compositore romantico e fautore della Bach-Renaissance - ebbe a dire di Hector Berlioz: «La sua orchestrazione è un orribile guazzabuglio, un tale pasticcio sconnesso che una persona, dopo aver avuto una sua partitura tra le mani dovrebbe lavarsele». Non fu da meno Gaetano Donizetti: «Berlioz? Pover' uomo, ha fatto un'opera e fu fischiata, fa delle sinfonie e si fischia. Fa degli articoli e si ride. Tutti ridono e tutti fischiano».

 Attenzione, però, perché anche il signor Berlioz aveva la lingua avvelenata. Di Franz Joseph Haydn disse: «I suoi assoli di flauto e tutte le sue bonomie mi danno le contrazioni e la voglia di uccider qualcuno». E poi, insieme a Robert Schumann - fra i musicisti più invidiosi, secondo Zaccagnini - Berlioz puntava il dito contro i compositori italiani, rei di aver colonizzato l'Europa: ovunque andasse si trovava sempre qualche compositore italiano di troppo.

La storia dilettevole di Zaccagnini, in seconda battuta, è anche un libro che racconta la storia della musica da una prospettiva inedita. Originale. Che non è solo quella - dichiarata sin dal titolo - delle maldicenze, delle invidie e dei risentimenti fra persone, compositori nella fattispecie, che vivono invece da sempre nel nostro immaginario come esseri puri, intoccabili, circondati da un'aura di sacralità, ma svela anche gli errori di valutazione commessi da valentissimi compositori su opere (anche profetiche) scritte da loro colleghi.

 Prendiamo l'esempio del più cattivo di tutti, Igor Stravinskij: non a caso il capitolo a lui dedicato si intitola Come essere amico del mondo intero ma di nessun musicista. Senza troppi giri di parole, Stravinskij diceva: «Detesto Beethoven e le ultime Sonate e i Quartetti più di ogni altra cosa». Dei sedici quartetti firmati dal compositore tedesco, l'autore della Sagra della primavera attaccò, fra l'altro, soprattutto gli ultimi tre, considerati invece universalmente dei capolavori assoluti. Il russo, definiva così il (meraviglioso) Quartetto in la minore opus 132: «Due fette di minuetto e tre di inno fanno un cumulo che somiglia a un sandwich a cinque strati, salvo che gli strati di inno e quelli di minuetto non reagiscono l'uno con l'altro».

Non meno tenero con Beethoven fu Franz Joseph Haydn, quando disse che «non verrà mai fuori niente da quel giovane». È un circolo vizioso, dove tutti attaccano e vengono attaccati. Zaccagnini ha intrapreso la scrittura del libro solo dopo essersi reso conto di quante informazioni aveva raccolto negli anni, anche casualmente, attraverso la lettura di autobiografie, memorie, epistolari, recensioni, saggi, interviste e quant' altro.

 Il libro, corredato da una preziosa bibliografia di cinquanta pagine, è suddiviso in trenta capitoli, ad ognuno dei quali corrisponde un compositore: il primo è dedicato a Georg Friedrich Händel, l'ultimo a Stravinskij, ma la cronologia dei musicisti citati nel volume è molto più ampia e parte da Guillaume de Machaut (1300-1377) per arrivare a Sofija Gubajdulina (1931). Non si può negare infine che questo volume, risvegliando quell'innocuo e sano cinismo che alberga in (quasi) tutti noi, sia anche piuttosto divertente. Perché leggendolo si entra in un mondo inaspettato, dove crollano tante certezze sui nostri miti musicali. Ma si ride anche.

Suicidi, demoni, leggende. Il lato oscuro della musica. Filippo Facci indaga sulla morte di Ciajkovskij, Wagner e Hitler, la vita maledetta di Paganini...Piera Anna Franini il 15 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Nel libro Misteri per orchestra (Marsilio) il giornalista Filippo Facci indaga i lati controversi delle vite di Mozart, Paganini, Rossini, Wagner e Ciajkovskij. Giusto un assaggio, la lista dei misteri e curiosità d'artista sarebbe lunghissima, per questo il volume di Facci è lo sprono a leggere le biografie dei musicisti: veri e propri romanzi segnati da svolte, sorprese, ribaltamenti, scioglimenti che di nuovo conducono alla stasi, sorpresa e via discorrendo. Esistenze tumultuose che si riversano in composizioni intense, traboccanti di vita, lungi dalla polvere associata alla cosiddetta classica, a dire il vero generata da un mondo parallelo e via via mummificato che nei decenni si è venuto a creare attorno alla sostanza primigenia, quella da sempre vibrante: la musica.

Facci si mette sulle tracce dei cinque compositori frugando tra scritti, che confronta con lo spirito di uno Sherlock Holmes. Vaglia indizi, prove, ipotesi, tesi e argomentazioni anche con la consapevolezza che «molti misteri non sono misteri per niente: sono solo dei miti che hanno sedotto l'ingenuità popolare». Prendiamo la causa della morte di Pëtr Il'ic Ciajkovskij. Assunse veleno o bevve l'acqua contaminata? Se sì: la bevve per togliersi di mezzo così da non compromettere ragazzi, e rispettive famiglie, con cui aveva relazioni? Una cosa è certa, ricorda l'autore: se fu suicidio, non è nel peccato (così allora) d'omosessualità che va ricercato il movente, perché se è vero che per questo si poteva finire in Siberia è altrettanto comprovato che la corte chiudeva uno e pure due occhi. E così è interessante riandare alle varie ricostruzioni, ma per la prova inconfutabile più che alle fonti della musicologia dovremmo affidarci a un RIS d'ultima generazione. L'interesse del libro sta dunque nel fatto che vengono riferiti in un sol colpo i lati intriganti e pure godibili - su tutti, quelli riferiti a Rossini - di vite rocambolesche: note ad appassionati e addetti ai lavori, ma poiché la musica è ormai uscita dalle programmazioni scolastiche è novità per tutti gli altri.

Nel capitolo su Richard Wagner e corollari, l'autore ripercorre l'albero genealogico che promana dal compositore. Sosta quindi sulla figura di Gottfried, classe 1947, pronipote del musicista e con gli anni diventato l'Harry (dei Reali d'Inghilterra) della situazione: vedi l'indice costantemente puntato contro la famiglia, che dunque lo ripudiò. Si riporta l'episodio in cui un Grottfried fanciullo entra nella «stanza segreta che era posta sopra il laboratorio dei pittori di scena. C'era un enorme quadro a olio che raffigurava quel tizio, Hitler, che teneva al guinzaglio un grosso cane lupo. C'erano dei pesanti libroni che parlavano di razze umane. C'erano anche delle fotografie: la nonna, papà, lo zio. Tutti insieme a Hitler». A sciogliere gli interrogativi del bimbo ci pensò il portiere del teatro, «Il Führer era stato spesso a Bayreuth e amava molto la famiglia Wagner». Poi, al giovane si aprì un mondo. Comprese perché la nonna «usava quella misteriosa sigla Usa che peraltro pronunciava soprattutto ogni 20 aprile, nel corso di un'incomprensibile festa: Usa stava per Unser Seliger Adolf, il nostro caro estinto Adolf, e il 20 aprile era il compleanno di Hitler». Venne a sapere che «zio Wieland era stato messo a comandare il campo di concentramento di Flossenbürg» mentre l'unica zia antirazzista non ebbe altra scelta che l'esilio. Grottfried ha tentato varie vie professionali, e ormai da decenni «vive a Cerro Maggiore. Ha un figlio di nome Eugenio, un cane e una vecchia Audi. È l'unico discendente che ha lo stesso naso a becco d'aquila del bisnonno».

La morte di Wolfang Amadeus Mozart è davvero un mistero? s'intitola un capitolo. Risposta a freddo, «nel tempo si è rivelata una clamorosa esercitazione per ciarlatani», seguono spiegazioni. Certo, il quadro è stato peggiorato dal film Amadeus di Milo Forman sulla scia del quale «milioni di persone pensano che Mozart sia morto perché l'invidioso Antonio Salieri cospirò sino a commissionargli un requiem fatale che voleva spacciare per suo». Così come il film Shine, aggiungiamo noi, ha contribuito a divulgare l'immagine del pianista-individuo perennemente sull'orlo di una crisi di nervi mentre stando al film Tar, in questi giorni al cinema, pare che un direttore d'orchestra, uomo, donna o fluido, sia un dittatore dimorante sul podio: la realtà è che è un leader e, come spiega il termine, per professione è chiamato a «guidare», a decidere, ad ascoltare. E «chi comanda è solo», per dirla con Sergio Marchionne.

Sulla vita maledetta di Paganini sono state scritte pagine e pagine. Facci le ripercorre e riesce a volgere in commedia la tragedia della morte del grande virtuoso, sempre perseguitato. Anche da morto.

Gregorio Moppi per “la Repubblica” l’11 dicembre 2023.

È imprudente sbirciare sotto le lenzuola dei compositori classici, potrebbero venir fuori situazioni imbarazzanti.

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Schubert, con il suo aspetto da fanciullone sognatore, era uno dalla sessualità esuberante che bazzicava anche travestiti, mentre Händel frequentava i popolosi serragli maschili delle corti cardinalizie romane e dei circoli nobiliari londinesi.

A enumerare questi e altri casi di cancellazione, omissione, ridimensionamento dei sentimenti dei compositori per persone dello stesso sesso attuato da una musicologia prudentemente omofobica è ora il libro “Non tocchiamo questo tasto: musica classica e mondo queer” di Luca Ciammarughi (edizioni Curci). Se l'autore - pianista, critico, conduttore radiofonico, attivista per i diritti Lgbtq+ - fruga nell'intimità dei musicisti, non lo fa per gusto gossipparo.

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E se la Russia non può negare che Cajkovskij, pur vergognandosene, adorasse i giovinetti - per averne adescato uno di troppo fu costretto da un giurì d'onore a suicidarsi bevendo acqua infettata dal colera e con un pizzico d'arsenico - almeno che non lo si dica a voce alta. Tanto più che provò a emendarsi sposandosi con un'allieva, salvo poi dar di matto la prima notte di nozze per la repulsione di dover toccare una donna.

Più ambiguo il caso di Chopin, padre della patria polacca. Finora a garanzia della sua ortodossia sessuale stava la liaison con George Sand, la scrittrice che si abbigliava da maschio.

 Tuttavia a rimetterla in discussione è arrivata un'inchiesta della radio svizzera condotta l'anno scorso dal pianista e giornalista Moritz Weber: vi è emerso che nelle traduzioni dal polacco all'inglese delle lettere del compositore sia stata compiuta una deliberata sostituzione dei pronomi maschili in femminili e sottovalutato l'afflato affettivo per l'amico Tytus Woyciechowski, destinatario di frasi quali "amami, ti prego" e "un solo tuo sguardo dopo ogni concerto varrebbe per me più di qualsiasi lode di tutti i pianisti".

(…)

Estratto dell'articolo di Alessandra Cenni per “La Stampa – TuttoLibri” il 28 gennaio 2023.

Cenni «Le parole sono tutte usate. Una sola risponde alla realtà e pur non mi appaga: ti penso. Sempre, sempre, sempre, intendi? Ed è terribile. Mancava alla mia esperienza questa lucida follia: questa gioia senza causa e senza scopo, questo dolore nato non so come è che non so come morirà.

 Ciò che è in me di crudele è soddisfatto una volta ancora: ancora, posso sopportare la vita, non la vita che tutti intorno vivono, ma quella violenta, tempestosa, abbagliante, che si è compiaciuta di tormentarmi lasciandomi, per la dolcezza altrui, un volto di serenità: ancora sono più forte dell'onda che mi solleva contro il cielo» (Da una lettera di Sibilla Aleramo a Lina Poletti, 1909) La storia d'amore tra Sibilla Aleramo, scrittrice trentenne già celebre e ammirata e Cordula Poletti, giovane intellettuale scapigliata di Ravenna è una sorta di coup de foudre nell'Italia provinciale della Belle Epoque, quando ancora le donne non avevano diritto di disporre dei propri beni né votare.

 Si tratta della prima storia d'amore tra due donne - due letterate impegnate nel movimento femminista agli esordi - di cui ci sia documentazione in Italia. 

(...)

Il suo compagno, lo scrittore piemontese Giovanni Cena, con cui viveva a Torino, non riesce ad accettare la presenza ingombrante di Lina nella loro vita, armoniosamente condivisa tra libri, studi e nobili imprese sociali.

 Il rapporto decisamente si spezza, quando Lina si sposerà con il suo amico Santi Muratori, il bibliotecario della Classense di Ravenna, intellettuale integerrimo che fu per lei un «compagno-scompagno» - così lui stesso si definisce - aiutandola da lontano in ogni contingenza. Gli anni degli esperimenti triangolari dell'emancipata Bloomsbury, di Virginia Woolf e Vita Sakville West, erano ancora di là da venire ed eravamo in Italia.

 Lina entrò poi in contatto con Eleonora Duse che diventerà il suo secondo grande amore e con la quale vivrà a Roma e a Venezia, frequentando Rilke e Hoffmansthal, prima di unirsi nel più lungo «matrimonio» della sua vita con la nobildonna imprenditrice Eugenia Rasponi, andando ad abitare con lei nella Rocca di Sant'Arcangelo di Romagna. Mentre Sibilla è una delle scrittrici più apprezzate del nostro Novecento, gli scritti di Lina sono andati praticamente dispersi, a parte quel poco che fu pubblicato in vita, così le lettere e persino le foto ritratto. Le ultime tracce di lei si perdono a Sanremo, dove morì sola senza lasciare eredi.

Lettera di Sibilla Aleramo a Lina Poletti, tratta dalla raccolta “Lucida Follia” (ed. Castelvecchi)

 Sibilla a Lina (1910)

 Lina, Lina, sai tu il sogno ch'io avevo fatto quando presi ad amarti? Io avevo pensato che tu, donna, ti saresti avvicinata più d'ogni altra alla mia, e forse, forse si sarebbe compiuto il miracolo di una fusione assoluta… Era un'idea folle, ma sono felice tuttavia che abbia attraversato sfolgorante il mio cielo. Dopo, ho compreso l'anima tragica dell'amore, di ogni amore. Tu non mi hai fatto male, no. Forse che la vita stessa, con tutte le sue violenze e con tutti i suoi torpori fa del male all'uomo?

 Tanta parte di vita ch'io non conoscevo ancora tu m'hai rappresentata. Sei stata e sei, adorabilmente, la giovinezza, ch'io non ho mai avuta, e sei stata e sei la passione, forza distruttiva e creativa insieme, uragano, incendio, e aurora sopra il rinnovato mondo.

Non mi hai fatto del male.

Ti si è almeno palesata l'avidità fondamentale della mia natura? Niente voglio che mi sia risparmiato, né la sommità della gioia né la sommità del dolore. Ma non cerco, sai! Ogni cosa è sempre venuta a me, alla sua ora, e mi ha trovata pronta. Non c'è nella mia vita l'affanno disordinato di chi si lancia incontro alle esperienze e ai pericoli, per provare. I miei rari avvenimenti si staccano vividi sul fondo del tempo e ciascuno ha il suo spontaneo profondo significato. E ogni volta tutto il mio essere è impegnato e io vivo come se fossi nata per quella volta solo. Oh, bimba! Vuoi che determini, nevvero?

 Questa volta, dunque, io ho conosciuto il Desiderio. Ho desiderato dapprima di conoscere il tuo mistero e con un'intensità già superiore a quella che m'aveva guidata nello scoprire in amore il mistero d'anime virili: eri la prima donna che amavo.

Ma in breve fui paga. Ti ho vista, Lina, ti ho conosciuta intera, e ti ho amata nel tuo mistero svelato, che era poi un mistero anche più grande. Un giorno ti dirò e vedrai che il mio occhio non falla. Poi, ho desiderato te, l'involucro tuo…Ah! Determiniamo, determiniamo: l'anima intanto sorride, dietro il suo velo.. Sono stata innamorata della tua persona. Non sapevo che cosa volesse dire il fascino di due occhi, di un volto, di una pura linea: non lo sapeva il mio cuore, né il mio sangue. E tu sei venuta. Non m'hai fatto male.

 Ma il desiderio, Lina, il desiderio non m'ha più lasciata. E che cosa vuoi dunque che ti dica ora? Vuoi che le mie labbra ti dicano ch'esse desidereranno pur sempre le tue?

Io non rinunzierò mai a te, ecco che cosa ho sentito in questi giorni di tragico scandaglio (...) Io ti desidererò sempre. Tu sarai sempre la sola creatura del mio desiderio, la sola a cui il mio sangue e il mio cervello han detto la divina parola dell'ebbrezza e della gioia.

Lettera di Lina Poletti a Sibilla Aleramo, tratta dalla raccolta “Lucida Follia” (ed. Castelvecchi)

 Lina Poletti a Sibilla Aleramo Ravenna, 7 maggio 1908 Salute, Sibilla, e poi che Voi mi rinnovate l'invito a scriverVi mi faccio coraggio e Vi lancio il grido della mia fraternità dolorosa Ho riletto con commozione profonda, ora che Vi ho conosciuta, il Vostro romanzo; e ogni volta che tra le membrature un po' slegate e neglette dello stile ho visto profilarsi soavemente altero il tipo della novissima ribelle, santificata dal martirio in vista dell'avvenire, la rimembranza del Vostro volto che ho ammirato le tante volte sulle tele quattrocentesche delle gallerie di Firenze mi ha percosso il cuore con un rimescolamento improvviso, radicandomisi sempre più nel cervello la persuasione che molto della Vostra vita sia nel Vostro romanzo

E vedo ora dalla cartolina che mi mandate l'amore che non poteva mancare in Voi per le immense distese pianeggianti gravide di silenzio e di mistero, deserte sotto il cielo infinito: anch'io, Sibilla, dalla mia pianura sconfinata che si protende al mare inghirlandata di pini, anch'io dalla tragica dolcezza di certe ore che ruinan lente su anta mole di reliquie del tempo antico affannosamente cerco il perché della malvagità umana e urlo la mia rivolta vana contro tutti i soprusi le violenze le mostruosità della nostra vita civile. E nel sentimento di una dignità che non si lascia vilipendere, che sfida con sereno occhio la malignità e la malafede universale per affermare davanti al vizio o alla miseria il proprio diritto all'ascesi del perfezionamento, io Vi saluto sorella; o dolce e fiera Albunea, Sibilla tiburtina.

Sulla fotografia. Il dolore degli altri e i pornografi delle immagini di guerra. Guia Soncini su L'Inkiesta il 13 Ottobre 2023

È veramente necessario vedere i video dei bambini israeliani decapitati per comprendere la gravità dei crimini compiuti da Hamas?

Se permettete partiamo da un verbo. Il verbo che, nel 1973, Susan Sontag utilizza per parlare del rapporto tra la fotografia di qualcosa e le prove di quel qualcosa. Sì, è il 1973, non mi sfugge che fosse cento epoche fa: poi ci arriviamo. Prima il verbo.

Il 18 ottobre del 1973, tra una settimana sono cinquant’anni giusti, Sontag pubblica sulla New York Review of Books “Photography”, il primo dei saggi che poi verranno raccolti nel libro che più amano citare coloro che vogliono parlare del peso delle immagini, e che sono abbastanza novecenteschi da pensare sia importante avere una bibliografia: “Sulla fotografia” (in Italia lo pubblica Einaudi).

Il mondo delle immagini è, in cinquant’anni, cambiato così radicalmente che qualunque cosa scriva Sontag cinquant’anni fa ha, per decodificare l’attualità, il valore che può avere un trattato sulla guerra scritto prima dell’invenzione delle armi da fuoco.

Era cambiato abbastanza, a Sontag ancora viva, da farle trent’anni dopo, vent’anni fa, pubblicare le sue mutate opinioni sulle immagini di guerra in “Regarding the pain of others”; e comunque anche vent’anni fa sono duecento, per il nostro rapporto con le immagini. Ma non vi sarete già dimenticati del verbo.

Quando parla di cosa aggiungano le immagini ai fatti, Sontag dice che le fotografie «furnish» le prove, un verbo che in seconda media avreste tradotto senza esitazione con «forniscono», ma poi in terza vi hanno regalato il vocabolario dei false friends e avete scoperto che può voler dire «arredano».

Il disordine m’impedisce di trovare dentro casa la traduzione italiana, e quindi non so per che sfumatura abbia optato il traduttore; ma, poiché era Susan Sontag e non Bellicapelli Giambruno, azzardo che la sua scelta d’una parola ambigua non fosse accidentale.

Tutta questa premessa dovrebbe sfociare in qualcosa tipo «sarà superata Sontag, ma ancora più superato è Tesich», ma prima di arrivarci vorrei fare una pausa nel culturale per dire l’unica cosa che davvero m’interessi dire in questa paginetta, ovvero: ma siete scemi?

Ma veramente da giorni vi state accapigliando sul tema «hanno davvero decapitato dei neonati, e di questi neonati decapitati esistono delle foto»? Siete veramente così masochisti da voler vedere foto di bambini decapitati? (Poi per forza aumenta esponenzialmente la vendita di benzodiazepine).

E voialtri, non pensate vi stia assolvendo: siete veramente così melodrammatici da pensare che il ricatto emotivo «hanno decapitato dei neonati» vi faccia vincere la discussione social? Dov’è il confine? Se hanno decapitato dei trentenni è meno grave? Se hanno ucciso neonati senza decapitarli è peccato veniale?

Ho visto gente altrimenti intelligente dibattere a colpi di «L’ha detto Biden», «L’ufficio stampa della Casa Bianca ha ritrattato», «Forse li hanno ammazzati senza decapitarli», e altre posizioni da seconda media tutte figlie d’un tempo così fondato sui posizionamenti che non è ammesso dare nulla per scontato: se non scrivi chiaramente che disapprovi la decapitazione di neonati, ci viene il dubbio che per te sia un hobby come un altro.

L’altro giorno il padre di Daniel Pearl ha twittato che il figlio avrebbe compiuto sessant’anni. Mi sono resa improvvisamente conto che ne sono passati ventuno dalla sua decapitazione, e che io già allora mi volevo abbastanza bene da non guardare mai certe immagini. In “Davanti al dolore degli altri” Sontag scriveva che il video era stato tagliato per farla sembrare una decapitazione senza contesto invece che un manifesto politico, e io sono più che sazia dell’aver letto la sua interpretazione: non mi servono le illustrazioni, grazie.

Alcune scuole ebraiche americane, riferiscono, avrebbero mandato ai genitori una circolare raccomandando ai genitori di disinstallare TikTok dai telefoni dei figli per evitare che vedano le immagini più truculente di torture ed esecuzioni postate da gente abbastanza bestiale da essere in guerra (una volta che sei così disumanizzato da trucidare il nemico, la riproduzione per immagini fa qualche differenza?).

Vastissimo programma, quello d’impedire a ragazzini con un telefono in casa e connessioni ovunque l’accesso alle immagini (neanche serve precisare che qualunque ragazzino con sane pulsioni di curiosità vorrà tanto più vedere quello snuff movie che sono le immagini di guerra quanto più glielo vieti: la guerra è il nuovo porno, assai più desiderabile visto che nessuna scuola raccomanda di disinstallare YouPorn – almeno credo).

Steve Tesich è l’autore di “Karoo”, un romanzo la cui prima metà è stupenda e che dovreste recuperare se non l’avete mai letto (lo pubblica Adelphi, non c’entra niente con questo discorso, o forse sì visto che il protagonista lavora nel luogo che è stato principale produttore d’immagini nell’ultimo secolo: Hollywood).

È anche quello che, più di trent’anni fa, usò per la prima volta in modo contemporaneo un concetto che già avevano approcciato alcuni venerati maestri, da Hannah Arendt in giù: quello della post-verità. Solo che allora post-verità significava una cosa più facile e che potevamo illuderci fosse curabile: non c’importava più cosa fosse vero e cosa no.

Gli scandali avevano smesso di scandalizzarci, se non per il quarto d’ora in cui li tenevamo in caldo (cosa fu Tangentopoli, se non lo scandale du jour d’una fine secolo più lenta di questi anni qui: un paio d’anni d’indignazione, e poi si riparte dal via dopo aver ritirato le ventimila).

Adesso, centoventi slittamenti semantici più tardi, viviamo nella post-verità non perché non c’interessi la verità (che comunque non c’interessa); ma perché ci è proprio impossibile conoscerla. Quando opinavano Sontag e Tesich, non esistevano i deep-fake, non esisteva l’intelligenza artificiale, le uniche falsificazioni iconografiche avvenivano per omissione. Sontag cinquant’anni fa scriveva che il pubblico americano non sarebbe stato così a favore della guerra in Corea se avesse visto le immagini della devastazione delle vite dei coreani.

Ma oggi osserverebbe – non perché io pretenda di sapere cosa scriverebbe Sontag, ma perché è un’osservazione così ovvia che riesco a farla persino io – che le immagini dei bambini decapitati, se venissero infine diffuse (speriamo di no), verrebbero liquidate come un probabile falso da chi tifa di là; così come le immagini di quel disastro istituzionalizzato che è la quotidianità nei territori occupati verrebbero attribuite a una sofisticata falsificazione da chi tifa di qua.

C’entra la propaganda bellica, certo: ma ai tempi di Leni Riefenstahl un falso era grossolano; quest’anno, abbiamo passato giorni a commentare le foto del papa in piumino da sci, essendosi la tecnologia evoluta abbastanza da produrre immagini tecnicamente perfette, e la nostra intelligenza naturale essendo regredita abbastanza da aver smarrito i parametri del verosimile.

Ho salvato una storia Instagram d’un giornalista italiano, qualche giorno fa. Diceva così: «Ho notato una cosa. Sabato mattina mentre succedevano cose orribili c’erano video e foto in diretta su Telegram. Su Instagram il meccanismo automatico di censura non fa vedere nulla. C’è il rischio di restare intrappolati in un universo fatto di borseggi in metro e ricette con il pistacchio».

Se non lo vedi non esiste? Siamo sicuri? Siamo una generazione (il giornalista è non molto più giovane di me) rovinata da Vermicino? E, se abbiamo bisogno del visual anche noi grandi, che speranze possono esserci per una generazione cresciuta con le telecamere nel telefono e abituata a documentazioni per immagini di qualunque cosa succeda?

Era così anche prima? Forse sì: Orwell un secolo fa doveva vedere il soldato che scappava reggendosi le braghe, per capirne l’umanità, era l’immagine che cambiava la percezione. E da Sontag saranno passati pure cinquant’anni, ma le sue riflessioni sulle immagini partivano da quell’esaustiva intuizione di duemila e quattrocento anni fa sulle immagini alle quali crediamo più di quanto crediamo alla realtà: le ombre sulle pareti della caverna di Platone.

Le dinamiche umane son sempre le stesse, certo. Però fa comunque impressione vedere la diatriba che arreda questa settimana i social; quella tra i pornografi del «fatemi vedere le foto dei bambini decapitati se volete che vi creda, e anzi se me le date in 3D mi metto gli occhialetti da film Marvel per guardarle meglio», e gli altrettanto pornografi del «se non credi ai bambini decapitati significa che tutto sommato non ti dispiace l’idea che vengano trucidati, e anzi sono abbastanza certo che tu la notte faccia dei sabba augurandoti che ci sia sempre una guerra con cui sollazzarsi».

Fotoromanzi, quando le grandi dive italiane posavano per le riviste. Il fotoromanzo è un genere popolare nato in Italia e diffuso con successo in gran parte del mondo. Nel corso degli anni sono tantissimi i volti noti che vi hanno partecipato. Tommaso Giacomelli l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Dall'Italia a mezzo mondo

 I volti dei fotoromanzi

 Dalla crisi a oggi

Tenere in mano quelle pagine voleva dire sfogliare un sogno, fantasticare con tutti quei volti veri e reali, impressi su carta con delle foto professionali scattate su set concreti. La sua funzione però era anche più nobile, perché nell'Italia del dopoguerra i "Fotoromanzi" non sono stati soltanto un mezzo di comunicazione per svagare le persone, per sollazzare le menti e rilassare i corpi, ma sono stati un veicolo di alfabetizzazione. In un Paese uscito con le ossa rotte da un conflitto bellico combattuto aspramente anche in casa, con cicatrici virulente lungo tutto il territorio nazionale, serviva sì dare un balsamo per l'animo ma anche una spinta alla società, per crescere e ripartire. In entrambe le missioni, i fotoromanzi hanno centrato gli obiettivi. Gli anni Cinquanta del secolo scorso hanno visto un boom esponenziale di questi contenitori di storie, con una circolazione di 1 milione e 600 copie al mese, ma soprattutto hanno garantito a tante ragazze di imparare a leggere.

Dall'Italia a mezzo mondo

Il fotoromanzo è un fenomento italiano, infatti nasce nel Belpaese con la paternità attribuita tanto a Cesare Zavattini quanto a Damiano Damiani. Il primo riuscì a persuadere il proprio editore, Arnoldo Mondadori, a pubblicare un giornale basato su dei fumetti, ma diverso da tutti gli altri poiché fotografici, chiamato "Bolero Film"; mentre il secondo allestì i set nei quali vennero realizzati i fotoromanzi della rivista "Il mio sogno". Siamo nel maggio del 1947, un'epoca lontana, ma quelle idee avrebbe avuto terreno fertile e sarebbero arrivate fino ai giorni nostri. Un anno prima nelle edicole sbarcava "Grand Hotel", un settimanale che offriva (e offre tutt'ora) anch'esso dei romanzi, anche se all'epoca soltanto disegnati, poi trasformati in foto sull'onda di un crescente entusiasmo e di una diffusione degli scatti su pellicola sempre più capillare. Dall'Italia il fotoromanzo si armò di passaporto per raggiungere nazioni vicine e lontane, dalla Francia alla Spagna, passando per il Portogallo, il Belgio e la Grecia, sbarcando persino in Sud America, attecchendo con favore in Brasile, Argentina, Cile e Venezuela.

I volti dei fotoromanzi

Spesso le protagoniste delle vicende sono delle donne povere, romantiche e un po' sognatrici, ma altrettanto risolute e armate di coraggio per conquistare i propri desideri. Le lettrici spesso potevano immedesimarsi in queste eroine, immerse in vicende comuni e in una quotidianità fatta di piccole cose. Perdersi dentro a un fotoromanzo dava speranza e faceva sognare, due ingredienti essenziali per non farsi fagocitare da un mondo spesso troppo crudo e ostile. Nei primi tempi, le storie venivano tratte da film, con fotogrammi recuperati dal cinematografo, poi le cose cambiarono e i racconti divennero inediti, ma sempre con i famosi volti del grande schermo a prestare le proprie sembianze. Ed ecco che arrivarono le dive Sophia Loren e Gina Lollobrigida, ma anche tanti attori che tramite queste riviste trovarono il proprio trampolino di lancio: Claudia Rivelli, Nuccia Cardinali, Adriana Rame, Michela Roc, Katiuscia, o Alex Damiani, Franco Dani e Sebastiano Somma. Negli anni Settanta le copie settimanali delle varie riviste toccava quota 8 milioni e mezzo, il suo apice maggiore.

Dalla crisi a oggi

Nella seconda metà degli anni Ottanta il fotoromanzo cala in appeal e segue un percorso di lenta ma costante decrescita. Nonostante tutto, sulle pagine delle varie riviste trovano ancora posto celebrità come: Raffaella Carrà, Orietta Berti, Ornella Muti, Franco Califano, Barbara De Rossi, Laura Antonelli, Francesca Dellera, Massimo Ciavarro e tanti altri ancora. Dopo quarant'anni sulla breccia dell'onda il calo è fisiologico, ma i suoi meriti restano intoccabili. Oggi, il fotoromanzo continua a essere presente in edicola, appuntamento fisso per tante persone affezionate a questo genere che, seppure il mondo della comunicazione sia radicalmente cambiato, a certi sogni non rinuncerebbero mai.

Perché è buona cosa evitare di mettere foto dei figli piccoli sui social. Gloria Ferrarisu L'Indipendente il 27 aprile 2023.

Si chiama sharenting (dall’inglese share, condividere, e parenting, genitorialità), ed è l’abitudine che molti genitori hanno di mettere assiduamente online contenuti che riguardano i propri figli (foto mentre mangiano o dormono, video del primo giorno di scuola, ecografie, storie sulle attività che svolgono, e così via). Secondo l’ultimo studio della Società Italiana di Pediatria (SIP), pubblicato sul Journal of Pediatrics, ogni anno i genitori postano in media 300 foto dei figli sui social – prima del quinto compleanno ne hanno già condivise quasi 1.000 – spesso senza essere consapevoli dei rischia cui, così facendo, espongono il bambino.

La ricerca dice che le prime tre destinazioni di queste foto sono Facebook (54%), Instagram (16%) e Twitter (12%), piattaforme che non eccellono di certo nella tutela delle immagini e neppure nella riservatezza dei dati personali. E se apparentemente tutto sembra filare liscio e – a parte qualche like – non sembra accadere nulla di preoccupante, in realtà i contenuti che ritraggono i minori possono anche finire, nei casi più gravi, nel giro della pedopornografia (un’indagine condotta dall’eSafety Commission australiana ha evidenziato come circa il 50% del materiale presente su questi siti provenga dai social media).

Motivo per cui già lo scorso novembre la Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, Carla Garlatti, aveva richiesto che allo sharenting fossero applicate le stesse disposizioni previste in materia di cyberbullismo, e che tra l’altro consentono ai minorenni – certo, quando l’età gli permette di avere una certa consapevolezza – di chiedere direttamente la rimozione dei contenuti che li riguardano.

Stando ai dati a cui la SIP ha avuto modo di accedere, in media l’81% dei bambini che vive nei paesi occidentali ha una qualche presenza online già prima dei 2 anni: il 33% finisce online addirittura dopo poche settimane dalla nascita e un quarto di loro ancora prima di venire al mondo (negli Stati Uniti il 34% dei genitori pubblica abitualmente ecografie online, percentuale che in Italia si attesta al 15%). Come si è arrivati a questo punto?

“Nella maggior parte dei casi gli intenti dei genitori che condividono foto online dei figli sono innocui”, si legge nello studio. Tuttavia, anche se le immagini che ritraggono il bimbo in attività di vita quotidiana, o in momenti speciali (come compleanni e feste) sembrano del tutto prive di rischi, come ha spiegato Pietro Ferrara, uno dei curatori della ricerca, «non va sottovalutato però che questa pratica può associarsi ad una serie di problematiche che principalmente ricadono sui bambini». Prima fra tutte, il furto di identità: meglio omettere informazioni come la localizzazione o il nome completo del minore. «Dettagli intimi e personali, che dovrebbero rimanere privati, oltre al rischio di venire impropriamente utilizzate da altri, possono essere causa di imbarazzo per il bambino una volta divenuto adulto o possono inavvertitamente togliere ai bambini il loro diritto a determinare la propria identità».

Su questo fronte il nostro ordinamento offre una certa tutela, seppur contraddittoria. Se da una parte l’immagine della persona è protetta da diverse norme – come la legge sul diritto d’autore per cui nessun ritratto della persona può essere esposto senza il suo consenso, o l’articolo 10 del codice civile, che consente la richiesta di rimozione di un’immagine che leda la dignità di un soggetto – dall’altra, nel caso l’interessato sia un minore, è il suo rappresentante legale a dover decidere per lui. Cioè proprio il genitore.

A questo punto non rimane che sensibilizzare sul tema quanti più adulti possibili, visto che a loro è affidato il potere – in parte- di determinare la vita altrui. Un compito di cui potrebbero farsi carico i pediatri che, secondo la Presidente SIP Annamaria Staiano, «dovrebbero supportare le mamme e i papà, bilanciando la naturale inclinazione a condividere con orgoglio i progressi dei figli con l’informazione sui rischi connessi alla pratica dello sharenting», senza sottovalutarne i potenziali pericoli e tutto ciò che comporta in generale.

Costruire il “dossier digitale” di un bambino, senza il suo consenso e senza che lui ne sia a conoscenza, significa di fatto precludergli una libertà di scelta importante tanto quanto quelle che non appartengono al mondo virtuale. Lo dice la Costituzione e pure la Convenzione Internazionale su diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, per cui gli interessi e la dignità del minorenne valgono molto più di qualche like. [di Gloria Ferrari]

Dal selfie all'autoritratto: cosa c'è dietro il successo della fotografia. Le nuove tendenze, le tre caratteristiche per sfondare, lo status artistico e il ruolo del “fattore umano” nella fotografia d’arte. L’analisi della gallerista Alessia Paladini. Martina Piumatti il 21 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tutti fotografiamo e condividiamo immagini. Fiumi di istantanee delle vite degli altri ci ipnotizzano ad ogni ora dai feed dei nostri profili Instagram. Più ne vediamo, più ne scattiamo, più né postiamo. Ma è proprio quando il mezzo fotografico pare più inflazionato che la fotografia rivendica con maggior forza il suo status artistico. Di questa contraddizione, apparente, - di cosa trasforma una semplice fotografia in arte e del perché non ne possiamo più fare a meno - abbiamo parlato con Alessia Paladini, titolare dell’omonima gallery milanese, che fa del mix tra fotografia al femminile e grandi artisti storicizzati la sua cifra.

Mezzo inflazionato nella vita di tutti i giorni, la fotografia viene sempre più riconosciuta come arte. Va forte e lo dimostra il successo di MIA Fair, alla sua XII edizione. Perché non ne abbiamo mai abbastanza, delle immagini?

Ritengo che la fotografia sia il medium artistico di più immediata comprensione e fruizione, ed è per questo che la sua popolarità si amplifica costantemente. Il suo successo tra i collezionisti di arte e la sua “promozione” a forma d’arte a tutto tondo è da attribuire a diversi fattori, tra i quali credo il più importante sia l’ingresso della fotografia nei musei, il proliferare di mostre fotografiche in spazi espositivi istituzionali di grande prestigio e in collezioni pubbliche e private importanti, le aste internazionali dedicate alla fotografia. Questo rassicura il potenziale collezionista e lo spinge a guardare alla fotografia come oggetto di collezione”.

Qual è lo scarto che fa di una foto una foto artistica?

Difficile dirlo, per quanto mi riguarda trovo sia importante la capacità evocativa e comunicativa di uno scatto, la progettualità dell’artista che ha scattato”.

Alessia Paladini

Deve esserci per forza un intervento tecnico, qualcosa di aggiunto o tolto, per parlare d’arte, o anche una fotografia che aderisce alla realtà può essere arte?

Direi proprio di no. Raramente, quando un’opera fotografica mi colpisce ragiono sul fatto se sia post prodotta o meno, se sia uno scatto “reale” o no, quello che mi interessa è il risultato finale, non come sia stato ottenuto. Anche perchè la fotografia non è mai una riproduzione oggettiva e fedele della realtà, ma è la trasposizione del punto di vista del fotografo”.

Mi fa un esempio?

Sono molti gli esempi di artiste e artisti che non usano aggiungere o togliere, ad esempio Rebecca Norris Webb e Lynn Saville, due artiste che presenterò a MIA quest’anno, e naturalmente i grandi maestri italiani quali Gianni Berengo Gardin e Piergiorgio Branzi, di cui esporrò una preziosa selezione di opere vintage”.

Gianni Berengo Gardin, Ortisei, 1957

Intercettare in anticipo le tendenze fa parte del fiuto del gallerista. Dove sta andando la fotografia?

Credo che un’ambito da tenere molto d’occhio sia la fotografia al femminile, ci sono moltissime artiste eccezionali che ancora non hanno avuto un adeguato riconoscimento. Poi, l’autoritratto, sulla scia del dilagare dei meno “nobili” selfie, gli interventi sulle foto anonime e le photo trouvée”.

Tre caratteristiche che deve avere oggi un fotografo per avere successo?

Studiare molto, vedere molte mostre, trovare una propria cifra espressiva”.

A proposito di tendenze, sui social la realtà viene ritoccata per apparire meglio di quello che è. Anche la fotografia oggi rispecchia questo abuso del filtro o è 'più sporca'?

Non credo sia possibile generalizzare, ci sono fotografie molto post prodotte ed altre no”.

Se dovesse scegliere un’immagine che condensa quello che 'tira' di più oggi, quale sceglierebbe?

Non riesco ad individuarla!”.

MIA Fair tra dieci anni: che immagini ci saranno?

Ci saranno immagini di grande qualità e contenuto, le uniche che possono sopravvivere”.

Prima o poi ci stancheremo delle immagini o sarà l’intelligenza artificiale a scattarle?

La sperimentazione con le nuove tecnologie sicuramente contamina la fotografia e può portare a risultati estremamente interessanti, ma io credo che il fattore umano sia imprescindibile, l’interpretazione emotiva non eliminabile”.

Come dare forma ad una narrazione visiva: intervista a Daria Scolamacchia. Federico Giuliani su Inside Over il 4 Gennaio 2023. 

La Masterclass di foto e videogiornalismo organizzata da The Newsroom Academy si avvicina. Il vincitore World Press Photo 2021 Antonio Faccilongo e la redazione di InsideOver sono pronti ad inaugurare un corso unico nel suo genere che, nell’arco di 90 ore di formazione (qui il programma completo), fornirà ai partecipanti tutti gli strumenti necessari per realizzare un reportage fotografico e video.

Tanti gli ospiti che accompagneranno gli studenti durante le lezioni, che condivideranno con loro gli strumenti del mestiere e che li aiuteranno ad elaborare una strategia individuale per rendere la passione per la fotografia una professione.

Tra questi troviamo Daria Scolamacchia, photo editor e visual consultant. Scolamacchia è coordinatrice del dipartimento di Fotografia dello IED (Istituto europeo di Design) di Roma, dove insegna Metodologia della progettazione e Fenomenologia delle arti contemporanee. L’abbiamo intervistata per avere una piccola anticipazione della Masterclass.

Qual è l’importanza della Masterclass di The Newsroom Academy di InsideOver?

Questa Masterclass mette insieme lezioni frontali con esperienze più laboratoriali, e cerca di dare un senso a cosa si può fare con l’immagine attraverso le fotografie e il video. Essendo sostenuta da InsideOver, c’è anche la presenza di un committente reale, che non è sempre facile individuare, soprattutto all’inizio di un percorso. Avere a che fare con un professionista come Antonio Faccilongo, che si muove all’interno di una redazione, può fornire agli iscritti una esperienza diretta di come può essere costruita una storia, soprattutto per un possibile committente. Per i più meritevoli, inoltre, c’è l’opportunità di un avere output attraverso la pubblicazione di un reportage. Per tutti, vedere come una storia può prendere una forma editoriale. 

Perché hai scelto di partecipare come ospite al corso di InsideOver?

Insegno da tanti anni e mi piace seguire degli studenti nella ideazione e nella definizione concreta di una narrazione visiva. Parte del mio lavoro riguarda proprio la possibilità di seguire giovani e meno giovani nella realizzazione del loro lavoro, nell’individuazione di un tema da trasformare a livello fotografico e visivo. 

Perché a tuo avviso in Italia ci sono pochi corsi del genere?

L’insegnamento della fotografia si è espanso molto in anni recenti. Un tempo era più difficile formarsi, perché non c’erano tante realtà fotografiche. 

Cosa ti ha colpito di questa Masterclass? E perché è unica nel suo genere?

La particolarità di questo corso è che è stato definito da un fotoreporter pluripremiato che ha deciso di costruirlo insieme ad una realtà editoriale che ha voluto appoggiarlo. In questo senso è un corso particolare. The Newsroom Academy ha individuato ospiti che vengono da storie ed esperienze diverse. La varietà delle persone coinvolte può rappresentare un punto di forza di questa Masterclass. È fondamentale per chi vuole lavorare con video e foto conoscere punti di vista diversi, in modo da cercare di definirne uno proprio. La realtà è complessa e variegata. Un unico punto di vista rischia di appiattirla.

Puoi spiegarci meglio?

Trovo audace la scelta per una realtà editoriale come InsideOver di voler appoggiare un corso del genere, perché significa che ci sono persone e soggetti che ancora credono nell’importanza dell’immagine per il racconto di ciò che accade.

Come ci si prepara per realizzare un video/foto reportage? Quali sono le caratteristiche più importanti?

Sicuramente l’impegno e la dedizione sono tratti fondamentali per un reporter. Il fotoreporter deve inoltre essere mosso da grande curiosità. Deve studiare, leggere, viaggiare, entrare in contatto con realtà diverse. Scavare e approfondire, senza fermarsi ad una lettura superficiale delle cose. Cercare delle storie.

Che consiglio ti sentiresti di dare per chi si approccia a questo mestiere?

Una cosa molto utile potrebbe essere leggere le cronache locali. È chiaro che ciascuno deve essere mosso dalla propria sensibilità. Ma anche occuparsi di ciò che gli accade intorno può essere un modo per iniziare. L’unico consiglio che mi sento di dare: studiare, approfondire, leggere.

Qual è la parte più difficile dell’editing?

Avere l’intelligenza di saper rinunciare a qualcosa. L’editing ha a che fare con la scelta e con la selezione. È un lavoro di scrittura. Più si asciuga e si va al cuore delle cose e più un racconto per immagini, una narrazione visiva, diventa efficace e viva. Per un fotografo la parte più complicata consiste nel togliere e selezionare.

FEDERICO GIULIANI

Perché nelle vecchie foto non sorrideva nessuno? Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 3 Gennaio 2023.

Dentature non impeccabili, criteri estetici, ragioni sociali. Nei ritratti le prime espressioni felici si diffusero solo dopo un secolo, con l’abbattimento dei costi di produzione

La fotografia è apparsa per la prima volta nei primi anni dell’Ottocento, precisamente nel 1822, quando avvenne la produzione di immagini con la prima sostanza fotosensibile. Nei decenni successivi i primi ritratti, spesso di famiglia, non vennero però contraddistinti dal sorriso dei protagonisti, ma sempre da volti molto seri e austeri, quasi seguendo un criterio completamente diverso da quello delle fotografie scattate oggi in forma digitale, tanto dalle reflex quanto dagli smartphone. Solo un secolo dopo, tra gli anni Venti e Trenta del Novecento nei ritratti iniziarono a prevalere i sorrisi o comunque delle espressioni che dovevano esprimere in qualche modo felicità. Ma a cosa erano dovuti i criteri iniziali e a quali ragioni il cambiamento delle espressioni fotografate?

Tante teorie

Tra le tante ragioni, per presupposti completamente diversi a quelli attuali, secondo i quali non sorridere è sinonimo di infelicità, molti credevano in passato che mostrare i denti fosse segno di stupidità o comunque di scarsa eleganza, senza escludere il fatto che l’igiene orale, in particolare lo stato dei denti, fosse al tempo drasticamente peggiore di quella attuale. Altri, come Angus Trumble, ex direttore della National Portrait Gallery di Canberra da poco scomparso, ritengono invece che le foto prive di sorrisi fossero invece dovute a una ragione tecnica. I tempi di esposizione necessari per scattare, con i soggetti immobili, erano talmente alti che sarebbe stato impossibile per i singoli mantenere la posa sorridente così a lungo. Nel corso del primo Ottocento potevano essere necessari fino a trenta minuti di posa per una fotografia in particolari condizioni di luce. Un’eternità se confrontata con gli attimi necessari a un selfie qualsiasi oggi. C’è chi però non è convinto di questa ragione, dal momento che negli anni Sessanta del XIX secolo la tecnologia dell’epoca permise di ridurre i tempi di esposizione fino a pochi secondi di posa. Per altri studiosi si tratterebbe quindi di una questione estetica, motivata, più che per le dentature, per la convinzione che il sorriso peggiorasse il volto e l’aspetto dei soggetti. Secondo altre teorie l’assenza di sorrisi rappresentava invece una vera e propria ragione sociale. Dal momento che solo le persone più facoltose potevano permettersi una foto all’epoca, ne deriva che queste dovessero necessariamente mantenere uno status altero e capace di intimorire gli spettatori, esattamente come avveniva per alcuni ritratti di potenti in periodi storici precedenti. Sorridere avrebbe rappresentato informalità e scarsa professionalità, non particolarmente accettata da chi voleva mantenere una determinata reputazione, al contrario di un sorriso che veniva associato spesso ai beoni, ai pazzi o ai dissoluti.

La svolta

Nel Novecento l’inversione di tendenza va di pari passo con la maggiore accessibilità alla fotografia, per via di un abbassamento dei costi relativi ai materiali e alle tecnologie utilizzate. I sorrisi divennero più frequenti da quando le persone ebbero modo di farsi scattare più di una fotografia, quindi del semplice disporre di un’alternativa alla foto seria e «classica» che era andata per la maggiore fino a quel momento. Un processo che portò gradualmente a una caduta dei tanti stereotipi che condizionavano negativamente i volti sorridenti dei soggetti fotografati. Con la nascita di tanti fotografi amatoriali, non più condizionati quindi alla foto in studio o necessariamente professionale, anche l’approccio alla macchina fotografica è diventato più informale, tanto da rendere più naturale una posa sorridente che cogliesse l’attimo, quindi non più una posa austera come quelle delle foto realizzate ad hoc in laboratorio. Dagli anni della Seconda guerra mondiale in poi sorridere davanti all’obiettivo è di fatto diventato la norma, un’azione che crea naturalmente maggiore empatia anche agli occhi dello spettatore. Al tempo stesso i sorrisi rivelano una funzione sociale della fotografia completamente diversa da quella dei presupposti che la caratterizzavano negli anni immediatamente successivi alla sua nascita, sempre più rivelazione di un attimo nel quale trasmettere felicità e gioia è certamente meglio di qualsiasi altra emozione, o dell’assenza delle stesse.

(ANSA-AFP il 20 aprile 2023) - Uno scheletro composito di T-Rex, realizzato con le ossa di tre esemplari, è stato venduto all'asta in Svizzera per circa 5,6 milioni di euro. Si tratta di Trinity, il cui valore - secondo la casa d'aste Koller, che ha condotto la vendita - era stimato tra i 5 e gli 8 milioni di franchi svizzeri. 

Lo scheletro è stato battuto per 4,8 milioni di franchi svizzeri e il prezzo finale è stato di 5,5 milioni di franchi svizzeri (5,6 milioni di euro), ha reso noto il portavoce della casa d'aste, Karl Green. 

Lo scheletro, alto circa 3,9 metri e lungo 11,6 metri, è formato dalle ossa di tre T-Rex trovati tra il 2008 e il 2013 negli Stati del Montana e del Wyoming, negli Stati Uniti nord-occidentali. Proprio in questi siti sono stati scoperti altri due importanti scheletri di T-Rex: nel 2020, Stan è stato venduto per 31,8 milioni di dollari (29 milioni di euro), battendo il precedente record stabilito da Sue, venduto nel 1997 per 8,4 milioni di dollari. 

Trinity è il terzo T-Rex venduto all'asta al mondo e il primo in Europa: apparteneva a un collezionista americano ed è stato acquistato da un collezionista europeo di dinosauri e arte moderna.

Lucio Luca per “Robinson - la Repubblica” il 2 aprile 2023.

«La prima cosa che farei, se fossi il familiare di un collezionista compulsivo, sarebbe togliergli la carta di credito. Provvedimento severo, ma giusto». Ride Francesco Crescimanno, nella sua eccentrica casa nel centro di Palermo dove a fatica intravedi un letto, la cucina e il bagno. Tutto il resto, infatti, è letteralmente invaso da fumetti che conserva e cataloga "maniacalmente" da quando aveva sette o otto anni.

Tex, Batman, Superman, manga. Ma anche Topolino, Geronimo Stilton e la sua grande passione, Dylan Dog. Edizioni italiane, certo, ma persino copie raccattate - chissà come - in Vietnam, Brasile e nell'isola di Tonga: «Beh, adesso con il web è tutto più semplice - spiega - ma l'importante è non farsi prendere la mano e stabilire un budget mensile da non superare. Altrimenti, dico sul serio, meglio farsi interdire».

Ecco perché, per chi ha la mania di raccogliere e conservare di tutto, l'appuntamento con Lucca Collezionando diventa imperdibile. Il Festival vintage-pop primaverile organizzato da Lucca Comics & Games dedicato al fumetto ed allo slow entertainment è sicuramente il luogo ideale per completare la propria collezione, trovare le ultime uscite editoriali, quelle che sembravano perdute per sempre, e per incontrare i propri artisti preferiti.

 Un weekend a misura di appassionati nel quale immergersi in mezzo alle tavole originali e alle statue da collezione, stand di editori, collezionisti, negozi specializzati e associazioni. Quest' anno Lucca Collezionando celebra anche la tradizione del manga e l'immaginario dei videogiochi a gettone anni '80 per scoprire e riscoprire le proprie passioni con un tempo diverso, fra nuove proposte e contenuti del passato.

«Se ogni passione confina con il caos, quella del collezionista confina con il caos dei ricordi - scrisse Walter Benjamin a proposito della sua incredibile biblioteca ricolma di libri accumulati da lettore seriale - Cos' altro è questo possesso se non un disordine con cui la consuetudine ha preso tale familiarità da poter apparire come ordine?

 Epoca, paesaggio, impresa, proprietario da cui proviene: tutte queste cose - spiegava Benjamin - per il vero collezionista, si uniscono insieme in ogni singolo pezzo della sua proprietà fino a diventare un'enciclopedia magica, che nella sua quintessenza è il destino del suo oggetto».

Chi, nella sua vita, ha collezionato qualcosa, almeno per qualche tempo, sa di cosa stiamo parlando. E sicuramente si è chiesto cosa lo abbia spinto ad accumulare articoli rari - preziosi o dozzinali non importa - e perché abbia perso intere giornate a rimetterli in ordine, aggiornando in un quadernetto (oggi magari sul computer) la lista delle cose possedute e quelle da "conquistare" sperando in un colpo di fortuna a Porta Portese o in un mercatino rionale.

Alberto Bini, per esempio, ha collezionato per una vita fiammiferi serigrafati, oggetti molto diffusi negli Stati Uniti ma molto meno dalle nostre parti. Ha più volte raccontato di aver letteralmente setacciato Ebay, la sua collezione conta più di tremila pezzi: «Ogni volta che a casa arriva un pacco, spesso da New York o dalle altri grandi metropoli americane, è una festa», ha spiegato ai tanti stupiti da questa sua passione. «Immagino sia lo stesso per chiunque collezioni oggetti più o meno strampalati, shampoo degli alberghi o copie rare della Divina Commedia che siano».

Ebay, come detto, ma anche centinaia e centinaia di altri siti ormai diffusi nel mondo, hanno sicuramente contribuito ad alimentare un fenomeno che sta assumendo proporzioni impressionanti. Secondo una recente ricerca proprio di Ebay Italia, nel nostro Paese i collezionisti sono oltre sette milioni.

 In pratica un italiano su otto raccoglie e conserva qualcosa: adesivi, i classici francobolli, persino le tessere telefoniche in un epoca nella quale i più giovani non sanno nemmeno cosa siano le vecchie cabine con gli apparecchi a gettoni. Certo, a volte la passione sconfina e diventa patologia. I neurologi dicono che il collezionista ha certamente una disfunzione cerebrale che lo porta a riempire la propria casa di oggetti per lo più inutili. Una malattia mentale, insomma, che alimenta il desiderio di possesso e la voglia di perfezionismo.

Perché spesso non conta più nemmeno l'oggetto che si sta acquistando quanto il fatto che, con quel pezzo in più, la collezione diventa ancora più ricca. Più perfetta, insomma, se solo si potesse dire. Secondo Ipsos, gli oggetti più collezionati sono le monete (16%) davanti a francobolli (12%) e, a pari merito, modellini e bambole (11%).

Poi, va da sé, ci sono anche le raccolte più strane: nel 2008 un pensionato di Carpenedolo, in provincia di Brescia, entrò nel Guinness dei primati per la sua incredibile collezione di preservativi: quasi 2.500 pezzi tra cui alcuni rarissimi condom americani dell'Ottocento in budello di pecora. Ma nel libro dei record sono finiti altri italiani come Alessandro Benedetti per la sua collezione di vinili colorati e dalle forme improbabili e Lorenzo Pescini per le sue etichette di bottiglie di acqua minerale provenienti da tutto il mondo.

Per dire che, alla fine, si riesce a raccogliere e conservare davvero di tutto, trasformando un hobby in ragione di vita. Forse hanno davvero ragione i neurologi. Ma da certe malattie, alla fine, fa persino piacere non guarire.

Storia, potere e ricchezza sui francobolli. Massimo Sideri su Il Corriere della Sera il 15 Febbraio 2023.

In Gran Bretagna il «Penny Black», primo francobollo adesivo della storia, fu un segno di modernità e costava caro. Oggi la e-mail ha battuto la posta, ma in alcuni Paesi i francobolli sono ancora simboli di prestigio

Il 2023 sembra essere iniziato con una piccola finestra sul Novecento. Mentre un attacco informatico veniva sferrato qualche settimana fa alla gloriosa ma non più affidabile come una volta Royal Mail, uno dei gioielli della corona fino a pochi decenni fa, in Corea del Nord si preparava l’uscita di una serie di francobolli celebrativi con tanto di missile balistico con al centro il dittatore Kim Jong-un davanti al solito bagno di folla. Sebbene nel caso inglese l’obiettivo fosse chiaramente la logistica del commercio elettronico, da cui dipendiamo sempre di più, le due notizie oggi si trascinano un sapore di sufficienza. Lettere, cartoline e francobolli sono specie in via di estinzione. Eppure non va dimenticato che è proprio in Gran Bretagna che è nato il primo francobollo adesivo della storia: il «Penny Black» con l’immagine della regina Vittoria del primo maggio 1840.

Introdotto da Rowland Hill per aiutare le famiglie povere, ebbe un successo enorme: ne vennero emessi oltre 68 milioni, una cifra enorme per l’epoca. La posta esisteva già, chiaramente. Le reti di distribuzione dei messaggi risalivano all’Impero romano che ne aveva compreso l’importanza per il controllo del territorio e per la gestione amministrativa e bellica. Solo che nella Gran Bretagna dell’Ottocento, come in molte altre parti del mondo, il pagamento del servizio del General Post Office era demandato al destinatario. E costava caro. Per completare la beffa sociale la posta era un diritto acquisito e gratuito per i Lord. Il postino nell’Ottocento era sinonimo di sventura, non per le notizie che poteva portare, ma per il pagamento richiesto. I poveri avevano sviluppato una sorta di alfabeto segreto con ingegnosi segni che venivano apposti sopra la busta, in maniera tale che il destinatario potesse cogliere con uno sguardo furtivo il messaggio del mittente. E lasciare il postino a becco asciutto. Fu in questo contesto che il «Penny Black» giunse, funzionando egregiamente fino all’arrivo di una @.

Antonio Riello per Dagospia il 5 gennaio 2023.

Per il suo alto gradiente simbolico il sangue umano è sempre stato corteggiato dagli artisti contemporanei. La violenza, la corporeità, la vitalità, il coraggio, la sofferenza, la discendenza, l'identità biologica: per l'artista-vampiro sono davvero tante le buone ragioni per cadere in tentazione.

L'Azionismo Viennese ne ha fatto un proprio elemento caratteristico, sia Rudolf Schwarzkogler (1940-1969) che Hermann Nitsch (1938-2022) ne hanno impiegato parecchio. In realtà Nitsch nei suoi numerosi emo-dipinti ed emo-installazioni faceva uso di sangue di animali precedentemente "sacrificati" allo scopo. Le denuncie e lo scandalo dei "benpensanti" hanno saldamente accompagnato il suo lungo percorso creativo.

Sempre negli anni '60, in un ambito concettuale leggermente diverso, l'artista Italo-Francese Gina Pane (1939-1990) in alcune sue celebri performance si ferisce iniziando poi a sanguinare copiosamente. In seguito, anche la straordinaria (e prematuramente scomparsa) artista Cubana Ana Mendieta (1948-1985) farà largo uso del prezioso fluido nelle sue opere. E così pure l'Anglo-Italiano Franko B (1960), coraggioso performer di radicale temperamento.

Un impiego più complesso ed affascinante è quello escogitato dal Britannico Marc Quinn (1964) che con il progetto "SELF" (iniziato nel 1991 e tuttora in corso) realizza una serie di autoritratti, in forma di busto, utilizzando solo il proprio sangue (circa 5 litri per ciascuna scultura). Un ambiente ad alta refrigerazione permette che le opere rimangano solide e si conservino nel tempo. La National Portrait Gallery di Londra nel 2006 ha acquistato uno dei suoi emo-busti.

Ma in India, negli ultimi anni, l'uso del sangue per realizzazioni artistiche (o comunque ritenute tali) sta diventando una pratica sempre più diffusa. La setta Shaheed Smirti Chetna Samiti (la Società per mantenere la Memoria dei Martiri) ha fatto dipingere dai suoi adepti più di 250 tele usando proprio quella specie di "inchiostro rosso" che scorre nelle arterie. Lo scopo è sostenere il senso patriottico dell'Identità Indiana, in questo caso il sangue come metafora di lealtà e sacrificio.

Il fondatore della setta, Ravi Chander Gupta, ha donato sangue per più di 100 opere e il suo successore si sottopone regolarmente a donazioni ematiche per fornire materiale agli artisti-patrioti. La figura eponima di questo gruppo è Subhas Chandra Bose, un nome molto noto nell'immaginario politico Indiano. Un eroe muscolare dell'indipendenza dal giogo coloniale Britannico, ma certamente non privo di lati oscuri (grande sostenitore di Hitler, arruolò diverse centinaia di Indiani nelle legioni naziste).

Lo stesso Gandhi era (in maniera meno truculenta) ossessionato dal sangue.  Il termine ricorreva molto spesso (e volentieri) nelle sue conversazioni private e pubbliche, non mancava inoltre di misurarsi pubblicamente la pressione arteriosa più volte al giorno. Il sangue del popolo Indiano per il Mahatma era una sorta di simbolo anti-colonialista.

 Non mancano i ritratti dell'attuale Primo Ministro Narendra Modi realizzati dai suoi fanatici sostenitori con trasfusioni estemporanee. Ma soprattutto nel paese sta diventando virale scrivere lettere con il proprio sangue: suppliche, proteste o semplici attestati di devozione e/o solidarietà. Molti partiti organizzano e strombazzano delle campagne propagandistiche per dimostrare, attraverso la pratica della donazione di massa, la fedeltà dei propri elettori. 

Il sangue però è anche, da sempre (naturalmente non solo nel subcontinente Indiano), un sinistro sinonimo di "purezza" per gli aspiranti nazionalisti e ovviamente per i razzisti più beceri. Insomma l'anticamera della discriminazione che facilmente sfocia nella violenza settaria. Il sangue mestruale è, d'altra parte, un elemento costante di quelle tradizioni che considerano la donna un essere "impuro". Un antico e furbo pretesto (comune peraltro a molte religioni) per penalizzare/sfruttare il genere femminile.

 Nel 2019 Jabob Copeman e Dwaipayan Banerjee hanno scritto un libro su questo particolarissimo risvolto della vita politica Indiana: "HEMATOLOGIES: The Political Life of Blood in India". Gli autori raccontano che il gesto di donare il sangue ha anche un risvolto politico concreto: il Partito Comunista Indiano ha chiesto ai propri iscritti di donare il sangue per poterlo poi vendere e con il ricavato finanziare progetti di pubblica utilità. Un modo pratico e sicuro per recuperare fondi. Speriamo solo non venga in mente qualcosa del genere a qualche politico italiano troppo "creativo" (al momento, per fortuna, il libro è disponibile solo in lingua inglese).

Altro che di autori anonimi questi sono pezzi pregiati. Un'opera di Giovanni Domenico Lombardi e una (inedita) del Maestro di Fontanarosa. Vittorio Sgarbi il 31 dicembre 2022 su Il Giornale.

Le storie dei quadri sono appassionanti. Essi si nascondono e appaiono d'improvviso senza annuncio. È inutile cercarli. A un certo punto si affacciano, riemergono da un lungo sonno e rivelano mondi sconosciuti e imprevedibili. Anche l'archeologia, se si pensa ai bronzi di San Casciano Bagni, riserva sorprese, ma la ricerca archeologica è fatta di metodo e di scavi in aree di cui abbiamo memoria storica. Invece, impazziti, i dipinti hanno girato il mondo, e oggi appare più facile fare scoperte in Svezia, in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti che in Italia, dove ancora sopravvivono rari insediamenti collezionistici storici. A partire degli anni Sessanta, si è determinato un diffuso collezionismo di importazione che rende più facile fare scoperte sul mercato straniero, soprattutto nelle aste di Londra e di Parigi.

L'ultimo dipinto di Caravaggio è apparso in una piccola asta di Madrid, così come a Parigi è stato acquistato presso Drouot il dipinto di Artemisia Gentileschi che è ora alla National Gallery di Londra. I dipinti a tema biblico in Italia sono sempre più rari: forse il solo che potrebbe veramente arricchire le nostre collezioni è la Conversione di Saulo di Caravaggio, nella collezione Odescalchi. Altri capolavori, come i due Canaletto della collezione Giulia Maria Crespi, sono destinati a costituire il patrimonio di una Fondazione o di una raccolta privata, nello spirito che guidò le imprese del Fai. Nel frattempo molte fondazioni sono diventate musei aperti al pubblico. Penso, solo a Parma, alle raccolte di Franco Maria Ricci, o di Luigi Magnani, con intense attività espositive. Sono molto potenziate le collezioni di arte contemporanea in una prospettiva internazionale, mentre l'arte antica è rimasta una riserva in cui si muovono cacciatori esperti e curiosi che hanno rigenerato e trasformato la figura dell'antiquario tradizionale.

Io ne ho conosciuti molti e, dopo alcuni leggendari della mia giovinezza, da Mario Bigetti a Fernando Peretti, a Fabrizio Lemme, mi accorgo che il campo dei ricercatori si è ristretto, mentre si è allargata la credibilità di alcuni giovani che ho visto crescere, come Fabrizio Moretti e Marco Voena che hanno scelto di muoversi sul mercato internazionale. Nello scambio continuo di immagini con storici dell'arte e conoscitori, si affacciano dipinti che sono spesso destinati a grandi obiettivi, nell'avanzamento della conoscenza. Scambi frequenti di immagini sono con Tommaso Ferruda, Umberto Giacometti, Giuseppe D'Angelo, Gianluca Berardi, Diego Gomiero. Può capitare che, a una cena in una trattoria toscana, passino immagini delle prossime grandi aste e anche dipinti sommersi che trovano nuova vita grazie a occhi attenti e sensibili.

Così, qualche sera fa, ho visto apparire due opere intorno alle quali c'è stata una piccola competizione: una scena di genere di Giovanni Domenico Lombardi, e una storia biblica dell'anonimo Maestro di Fontanarosa, due artisti rari e curiosi, proposti come anonimi in aste minori e fatti riemergere grazie alla precisione e alla velocità dell'occhio di alcuni degli esperti che ho ricordato. Recentemente si è avuto modo di vedere il primo alla mostra che ho curato a Lucca su «I pittori della luce. Da Caravaggio a Pietro Paolini». In quell'occasione si è potuta verificare la singolare attitudine del Lombardi, nato nel 1682, che, dopo la prima fase classicista, con grandi dipinti di soggetto religioso, si dedicò alla pittura di genere, con spirito commemorativo.

In questo campo l'artista guardò ai modelli elaborati nella Lucca del XVII secolo da Pietro Paolini, rasentando in taluni casi la vera e propria contraffazione, come nel Concerto con vecchio che suona il violone e due giovani cantanti e nella Giovane donna che suona il liuto con bambino e vecchio addormentato, già sul mercato antiquario romano, o ancora nell'Allegoria dell'udito e della vista, pubblicata da Contini come opera di Paolini. Ma, più in generale, ripropose temi cari alla pittura di genere di spirito caravaggesco, con soldati e giocatori, concerti e allegorie delle stagioni, delle arti e dei cinque sensi. In due Scene di corteggiamento per villa Sardi a San Martino in Vignale verso il 1739-40, riconosciute dalla Betti e in altre quattro in collezione fiorentina - ma anch'esse originariamente nella stessa sede - con la buona ventura e giocatori di dama, di carte e di morra, l'esasperazione caricaturale delle fisionomie, la gestualità scomposta e l'andamento schematico e lineare dei panneggi fanno intendere chiaramente che il Lombardi sospende il tempo per tornare ai primi decenni del Seicento. Il dipinto ritrovato dovrebbe essere quello della burla o dello scherno di due ragazzi verso una vecchia vanitosa che si acconcia davanti allo specchio.

L'altro artista che qui si propone in un'opera inedita è il Maestro di Fontanarosa, pittore napoletano recentemente identificato in Giuseppe di Guido sul quale si sono recentemente applicati studiosi come Giuseppe Porzio, Francesca De Luca, Giovanni Papi, ravvisandone le affinità con Filippo Vitale, Battistello Caracciolo, Francesco Guarino, Massimo Stanzione, il gotha dei caravaggeschi napoletani. Il pittore prende il nome da una Ultima cena conservata nella chiesa parrocchiale di San Nicola Maggiore a Fontanarosa, in provincia di Avellino. Il suo carattere fortemente espressionistico lo avvicina anche a Ribera e Mattia Preti. Nel largo panneggiare il maestro mostra carattere e temperamento, contrapponendo la figura di Mosè a quella dell'umile donna del popolo che lo guarda come un'apparizione.

Ho scelto due esempi di riemersione per indicare come la curiosità e la ricerca ci consentano di ampliare le nostre conoscenze storiche grazie alla passione di alcuni che stanno ai margini, ma sono nel vero centro, e colpiscono con precisione. Credo nel passato infinitamente presente. Il resto sono dogmi di una falsa dottrina pigra e imperfetta.

Genova, tutti i misteri del Rubens sequestrato a Palazzo Ducale: sulla tela restaurata dagli indagati spunta una seconda Madonna. Alessandro Fulloni e Giulia Mietta su Il Corriere della Sera l’1 gennaio 2023.

Il blitz dei carabinieri nelle sale della mostra. Acquistato da una famiglia genovese a 300mila euro come appartenente alla scuola fiamminga e poi autenticato a Praga. Quotazione milionaria. Dopo la radiografia e il restauro, spunta una seconda Madonna

Non volendolo — o forse sì, ancora non è chiaro — i proprietari del Rubens sequestrato venerdì a Palazzo Ducale a Genova, e finiti sotto inchiesta per riciclaggio ed esportazione illecita, loro malgrado hanno aperto un tema non da poco, destinato ad appassionare chi segue l’arte, sia pure da lontano. Infatti solo grazie al restauro commissionato dai due collezionisti che acquistarono l’opera nel 2012 — indagati assieme a un commercialista e al figlio, loro complici nei passi truffaldini predisposti per portare il quadro fuori dai nostri confini — è emerso il «pentimento» avuto dal pittore fiammingo davanti alla sua tela. Il «prima» della sua tela su olio — 184,5 per 150 centimetri — vede ritratti unicamente una Madonna sulla sinistra accanto a Gesù che la guarda da destra. Scena che però non doveva avere del tutto convinto Rubens. Tanto da inserire nella prospettiva, non si sa se nell’immediatezza o in tempi successivi, un’altra Madonna, posizionata tra le due figure precedenti ma poi, chissà perché, ricoperta.

Appunto: nell’arte è il «pentimento», quel ripensamento in corso d’opera che un pittore o uno scultore mettono in atto, mascherando la versione precedente non ritenuta soddisfacente per i più svariati motivi. A confermare il dietrofront del fiammingo non è solo una fonte giudiziaria, ma la scheda del quadro fornita da Palazzo Ducale. I proprietari — un sardo e un toscano, evidentemente ben addentro ai segreti dell’arte — disposero una radiografia, che è solitamente il primo passaggio diagnostico che consente di vedere se esiste qualcosa sotto ciò che si vede in superficie. Poi, nel 2015 un restauratore in Italia rimosse gli strati superiori pittorici facendo emergere la seconda figura della Madonna, quella visibile a Palazzo Ducale nella mostra dedicata a Rubens e che, già prima del sequestro, stava riscuotendo un enorme successo di pubblico.

Da subito, già da ottobre, all’inaugurazione, la scoperta del «pentimento» nell’opera esposta in anteprima mondiale aveva acceso il dibattito: giusto o no ricoprire, in vista di future esposizioni, la seconda Madonna, riportando il quadro alla prospettiva voluta da Rubens? «Dubbi che non investono certo la nostra indagine» taglia corto, sia pure divertito e interessato, un carabiniere del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale di Genova che ha condotto l’indagine. Agli atti dell’inchiesta coordinata dalla pm Eugenia Menichetti e affidata agli investigatori dell’Arma diretti da Alessandro Caprio ci sono documenti falsificati, società di comodo create nell’Est europeo, vendite fittizie. E quotazioni milionarie, destinate a salire vertiginosamente. Il raggiro — del quale, va detto chiaramente, Palazzo Ducale è parte lesa, avendo anche collaborato «fattivamente all’inchiesta» — ha preso corpo nel 2012, quando gli eredi di una famiglia nobile di Genova decide di mettere in vendita il capolavoro del fiammingo.

Ma a questo punto è il caso di fare un lungo passo all’indietro, per approdare agli anni tra il 1600 e il 1608, quelli del soggiorno di Rubens in Italia. Quando vi si stabilisce per un lungo periodo, quello del pittore verso la Superba è amore a prima vista. Tra carruggi e creuze, il fiammingo dipinge il possibile, dai ritratti della nobiltà locale alle pale d’altare. Fonti attestano il «Cristo risorto» a Genova nel 1818, poi transita in due dimore dei Cambiaso, tra cui Palazzo Pitto, inserita nel circuito dei Rolli (i palazzi storici, destinati, tra l’altro, all’accoglienza di re, imperatori e papi, e dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco). Gli eredi avevano provato a vendere il quadro, ben sapendo che fosse un Rubens, inizialmente senza riuscirci. Nel 2012 riescono a «piazzarlo» ai due collezionisti indagati, «accontentandosi» di 350 mila euro. I nuovi proprietari fanno uscire il dipinto dall’Italia dichiarando falsamente, all’ufficio esportazione della Sovrintendenza di Pisa, che era di un anonimo autore fiammingo e che valeva 25 mila euro.

Aiutati da un commercialista e dal figlio, dopo una serie di passaggi a società estere il quadro —nel frattempo attribuito ufficialmente a Rubens dopo delle perizie affidate in Belgio ai massimi esperti, estranei anch’essi all’inchiesta — è stato prestato per la mostra, dopo averlo assicurato per un valore di quattro milioni. L’esposizione a Genova avrebbe consacrato l’opera in tutto il mondo contribuendo ad aumentare a dismisura il valore del «Cristo risorto appare alla madre» in vista di successive mostre previste nel Nord Europa. Anna Orlando, curatrice della mostra, precisa: «Sotto inchiesta non è il quadro, ma sono le vicende che lo hanno riguardato, passaggi di proprietà che risalgono a molti anni fa quando l’opera era sconosciuta a tutti. Ma bisogna essere molto chiari nel dire che non stiamo parlando di un falso. L’opera è autentica ed è stata esposta con tutte le cautele e le spiegazioni in un settore della mostra dove abbiamo deciso di esporlo come opera di Rubens e bottega, e c’è una parete intera che spiega il perché di questa decisione, che coinvolge più strutture e più studiosi».

Da Palazzo Ducale, sede della mostra, parlano di «piena e assoluta collaborazione con i carabinieri» e ribadiscono come la richiesta di prestito dell’opera sia avvenuta nel pieno rispetto delle normative vigenti: «E non potrebbe essere altrimenti, considerato il ruolo che la Fondazione svolge non soltanto a livello cittadino», sono le parole della direttrice Serena Bertolucci. Ma ora? Mentre la mostra continua ad essere frequentatissima il Cristo di Rubens resta sotto sequestro, impossibile per ora ammirarne luci e colori. Da Palazzo Ducale l’appello è che venga disposto il dissequestro prima del termine dell’esposizione previsto il 5 febbraio. Ma il «pentimento» sarà ricoperto di nuovo come volle Rubens? Nessuno si sbilancia. Staremo a vedere.

Pablo Picasso, il postribolo segreto: la scoperta a luci rosse. Libero Quotidiano il 27 dicembre 2022

Una lettura avvincente, come capita spesso con la saggistica anglosassone: la storia dell'arte spiegata attraverso lo studio, il luogo di riflessione e di lavoro che nel presente si definisce prevalentemente come un cubo bianco, con pochi segni, essenziale e pratico. Per ogni epoca, e in ogni latitudine, c'è stata una diversa idea e funzione dello studio, da bottega artigiana a pensatoio, da stanzino sacrale a postribolo, da spazio di rappresentanza e vendita a rifugio dalla banale vita domestica. "Lo studio d'artista. Una storia culturale" di James Hall, critico e storico dell'arte inglese, docente all'Università di Southampton, collaboratore di diverse testate e autore di numerosi volumi, è uno di quei libri perfetti da regalare per un Natale di qualità. Lo pubblica Einaudi e costa 36, non troppo se consideriamo la quantità di illustrazioni e le quasi 300 pagine.

Il racconto parte dall'antica Grecia, quando gli studi erano botteghe per artigiani capaci di lavorare ferro e bronzo. In quel lontanissimo tempo non esisteva una parola per definire un artista ma i più abili e versatili, come Fidia, Prassitele, Lisippo e Apelle, vendevano a prezzi sostenuti le loro creazioni. Nel Rinascimento si compie la trasformazione da laboratorio a bottega e Cennino Cennini, nel Libro dell'arte, rivela indicazioni precise su come lavorare i diversi materiali. A quel punto lo studio diventa un luogo non più ordinario e gli artigiani ci stanno concentrati come fossero impegnati con la teologia o la filosofia: gli spazi sono ridotti, monacali, ogni tanto compare qualche finestra in alto, unica sorgente di luce naturale.

E Leonardo? «Sottolinea l'importanza dello studio per la proiezione dell'identità artistica» in particolare quando deve dipingere, meglio se in posizione seduta per i quadri grandi. Lavora contemporaneamente su parecchio materiale e riceve le visite dei committenti; essendosi spostato più volte lo troviamo ospite nelle stanze di bei palazzi. Tra i personaggi attivi nel tardo manierismo compare Lavinia Fontana, bolognese tra le prime pittrici "professioniste" che ricevette diverse commissioni per pale d'altare e ritratti nonostante ben undici gravidanze. Episodio interessante, citato da Hall, perché rovescia almeno in parte il luogo comune sulla scarsa presenza delle donne negli studi, che diventa molto più consueta dopo il 1600: mogli, amanti, muse, modelle, mecenati, artigiane e artiste stesse.

IL RUOLO DELLE DONNE

Soprattutto le prime partecipano alla vita dello studio, gestiscono gli affari, si occupano della casa, allevano i figli, qualche volta posano superando così il disagio della gelosia. «Le donne non solo cucivano o filavano, ma disegnavano e dipingevano, leggevano e scrivevano» ed è proprio quello il tempo in cui acquistano credito anche grazie a personalità forti come Artemisia Gentileschi, prima donna a essere ammessa all'Accademia di Firenze o Elisabetta Sirani, così popolare a Bologna da ricevere l'omaggio di un catafalco cimiteriale in cui è ritratta mentre dipinge. Con l'800 lo spazio si fa incontaminato, reazione allo studio traboccante di oggetti, decorazioni, confort e arredi che facevano pensare a un luogo più mondano che di lavoro. Caspar Friedrich, il pittore romantico per eccellenza, era severissimo, il suo studio assomiglia alla cella di un monaco, per lavorare usa pochi strumenti e uno di questi è la riga a T per maggior precisione. Picasso, invece, usa lo studio sì per la pittura ma senza negarsi il piacere del sesso come è noto dai racconti delle sue modelle e amanti.

Il '900 vede l'abolizione del cavalletto, il superamento delle tecniche accademiche e lo studio si trasforma in laboratorio o fabbrica. Prima di giungere alla rivoluzione della Factory di Andy Warhol, in cui si faceva di tutto, anche e soprattutto vita sociale alternativa, la vera svolta la diede la Bauhaus che ridefinisce la natura dell'arte. A Dessau, con l'edificio progettato da Gropius, divenne il complesso di laboratori più visitato al mondo, non senza una precisa idealizzazione del medioevo e di quelle opere realizzate per la comunità. Qui lo studio si trasforma in scuola, luogo da vivere giorno e notte, laboratori open space, talora freddi, che condizionano ancora il gusto contemporaneo, nonostante la definitiva chiusura avvenuta nel 1933. Tutto questo in un mondo dove l'artista oggi non ha più bisogno di grandi spazi perché le opere si progettano, come sempre, con l'aiuto degli artigiani e degli specialisti, figure di cui si parla troppo poco nella storia dell'arte e che invece Hall rimette al centro nel processo della creazione.

 Da lastampa.it il 21 agosto 2022.

Disegnare sei ritratti di celebrità, in modo realistico, a memoria in contemporanea, usando mani e piedi. Ha dell’incredibile la performance artistica di Rajacenna Van Dam che ha filmato il suo progetto di quattro ritratti nel suo studio d'arte a Rotterdam, nei Paesi Bassi. Ha scelto quattro personaggi, Angelina Jolie, Harry Potter, Shakira, Wonder Woman e Billie Eilish disegnando i quattro con le mani e al contrario e contemporaneamente ha realizzato altri due disegni con i ritratti di due dei quattro personaggi disegnando con i piedi. 

La passione dell'artista, che è anche presentatrice tv e cantante, per il disegno è iniziata quando aveva 16 anni e presto ha iniziato a condividere le sue fantastiche creazioni sui social media, attirando l’attenzione internazionale.

Dopo 400 anni due quadri diventano uno solo: mistero risolto da una copia di antiquari-detective. Delitti, indizi e un incidente probatorio ai raggi X. La tela del seicentesco Antiveduto Gramatica divisa, all'epoca, per fare un affare. Marina Paglieri su La Repubblica il 4 giugno 2022.

Il "Suonatore di Tiorba" di Antiveduto Gramatica, capolavoro seicentesco della Galleria Sabauda, potrebbe incontrare di nuovo la fanciulla e il giovane dediti alla spinetta e al flauto nella metà del dipinto di cui si erano perse le tracce. E' l'ipotesi suggestiva, ma fondata, che emerge dalla scoperta dei giovani antiquari torinesi Massimiliano Caretto e Francesco Occhinegro della parte mancante.

"Così i Cro-Magnon dipinsero per millenni le cattedrali di roccia". Matteo Sacchi il 3 Giugno 2022 su Il Giornale.

La celebre guida della grotta di Lascaux ci racconta i segreti degli artisti preistorici. Gwen Rigal, autore di "Il tempo sacro delle caverne", ripercorre la vicenda millenaria dell'uomo.  

Gwenn Rigal per molti anni è stato guida e interprete nella celeberrima grotta di Lascaux. Poche persone sono esperte quanto lui di pitture rupestri preistoriche. Ora è arrivata per i tipi di Adelphi la traduzione del suo Il tempo sacro delle caverne (pagg.300, euro 32). Un mirabolante viaggio nei millenni per scoprire i segreti degli artisti preistorici. Gli abbiamo chiesto di raccontare a Il Giornale questa iconografia misteriosa, e sviluppata per migliaia di anni.

La storia delle pitture rupestri preistoriche è molto lunga. È possibile tracciare una linea evolutiva? O linee evolutive più distinte?

«Ci sono milioni di opere rupestri preistoriche nel mondo. Se limitiamo il nostro studio all'arte parietale del Paleolitico superiore europeo, tra circa 41000 a.C. e 11000 a.C., è difficile osservare una chiara evoluzione. Ciò che colpisce soprattutto sono le invarianti: animali di profilo e simboli, uso frequente di rilievi naturali, nessun elemento contestuale, né oggetti né paesaggi. Prima della scoperta della grotta Chauvet in Ardèche, gli specialisti vi avrebbero parlato di inizi segnati da un'arte del contorno, dotata di pochi dettagli interni. I segni erano piuttosto essenziali e le estremità (corna, zoccoli) spesso rappresentate frontalmente. Qualche migliaio di anni dopo, i segni e i dettagli interni si moltiplicano, le estremità passano ad essere rappresentate di tre quarti. Una tendenza che si conferma man mano che ci avviciniamo alla fine della glaciazione, che segna anche la fine di quest'arte: le grotte più recenti mostrano spesso animali più naturalistici e le maggiori concentrazioni di segni. Ma la scoperta della grotta Chauvet nel 1994, con date che la collocano all'inizio dell'arte rupestre, intorno al 36000 a.C., ha messo in discussione questa visione evolutiva. Con Chauvet, ci rendiamo conto che il naturalismo, la prospettiva e gli effetti di sfocatura sono padroneggiati fin dall'inizio. Gli artisti preistorici non hanno perfezionato la loro arte nel tempo, hanno semplicemente fatto scelte culturali. Che alla fine rimase sorprendentemente stabile se consideriamo i 30mila anni che durò questa (pre)storia».

Cosa ci dicono questi dipinti su come interpretavano il mondo i nostri antenati Cro-Magnon?

«Ciò che colpisce è, soprattutto, la rarità della rappresentazione umana. Abbiamo molte parti del corpo umano, mani in negativo e vulve, in particolare. Ma i corpi interi sono rari. E quando sono rappresentati, sono le mani, i piedi e i volti che non lo sono. Le rappresentazioni femminili sono più numerose di quelle maschili, con caratteristiche sessuali spesso esagerate. Sono le famose veneri preistoriche. Quando sono gli uomini a essere rappresentati, a volte sono animalizzati e con il sesso in erezione. Tutto ciò suggerisce una visione del mondo in cui i confini tra natura e cultura, o tra umanità e animalità, non sono così netti come nelle nostre società attuali. L'uomo preistorico probabilmente non si vede padrone e possessore della natura, tenderebbe piuttosto a fondersi in essa. Inoltre, non mostrano mai nessuno, in particolare, nessun essere umano è chiaramente identificabile, il che potrebbe corrispondere a una società in cui l'individuo è invitato a ridimensionarsi a beneficio del gruppo. Non implica però necessariamente che fossero delle società egualitarie, alcune sepolture riccamente dotate che ci invitano a essere cauti su questo argomento. Infine, vulve e veneri ci mettono sulle tracce di artisti motivati da preoccupazioni per la fertilità. È una richiesta di rinnovamento della preda, questioni legate alla sopravvivenza del clan o anche miti che raccontano l'origine del mondo? La questione resta aperta».

Noi oggi abbiamo un'idea precisa dell'arte come ricerca della bellezza. Questi dipinti possono essere considerati arte? O sono, in un certo senso, strumenti magici principalmente religiosi?

«Attenzione all'etnocentrismo. L'arte non è un concetto universale. Tra i cacciatori-raccoglitori, l'arte è quasi sempre utilitaristica e spesso soprannaturale. Se ai nostri occhi queste persone sono artisti, non sono affatto sicuro che loro si considerassero tali. La magia è ovviamente una delle ipotesi più frequentemente avanzate per spiegare l'arte delle caverne: magia della caccia, magia della pacificazione, magia qualificante, magia della distruzione... Ma le prove mancheranno sempre».

Abbiamo un'evidente difficoltà culturale nell'interpretare certi miti o racconti nelle grotte. Qualcuno di essi potrebbe aver raggiunto, anche in forma mutata dai secoli i tempi storici?

«È illusorio sperare di decifrare un mito svanito a partire dai disegni sulle pareti di una grotta. E quasi altrettanto difficile immaginare che i miti preistorici possano esserci sopravvissuti, visti i molteplici episodi migratori che ci separano dai tempi glaciali e l'apparente fragilità delle nostre tradizioni orali. In modo del tutto controintuitivo, potrebbe tuttavia essere che certi miti della creazione, presenti in tutti i continenti, abbiano effettivamente un'antichità glaciale. I mitologi Jean-Loïc Le Quellec e Julien d'Huy hanno quindi lavorato molto sui miti dell'emersione, una versione molto antica dei quali doveva assomigliare a questa: All'inizio dei tempi, l'uomo e gli animali non erano ancora completamente separati l'uno dall'altro e vivevano nel sottosuolo. Fino al giorno in cui decisero di risalire in superficie seguendo le fratture della roccia. Quando emersero (attraverso buchi nel terreno o ingressi di caverne) apparve la morte. E poiché all'inizio dei tempi la roccia era ancora morbida, il loro passaggio da un mondo all'altro ha lasciato tracce sulla pietra. Una storia di questo tipo è abbastanza compatibile con molta arte rupestre europea».

Le pitture rupestri e le incisioni sono state conservate, ma è possibile che ci fossero molte altre forme di creatività di cui abbiamo perso le tracce?

«Certo. A causa della conservazione differenziale, che vuole che le vestigia diventino rare man mano che si sale nel tempo, si ha oggi l'impressione che Cro-Magnon dipingesse o incidesse solo sul fondo delle grotte. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Sappiamo oggi che gli uomini di Cro-Magnon non hanno esitato a marcare il loro ambiente. Ad esempio, il rifugio roccioso Cro-Magnon in Dordogna (sotto il quale fu ritrovato il primo scheletro con lo stesso nome) era scarlatto 27mila anni fa. Deve essersi visto da lontano! Ma abbiamo dovuto usare un microscopio e un software di elaborazione delle immagini per capirlo. La maggior parte di ciò che veniva prodotto all'aperto o su materiali deperibili è ormai scomparso. E non sto solo pensando alla loro arte; la loro lavorazione del legno e delle fibre vegetali era senza dubbio molto più sviluppata di quanto comunemente si immagini. Quanto ai pochi strumenti musicali rinvenuti (flauti, rombi, raschietti, litofoni, ecc.), se confermano l'esistenza della musica preistorica, ci lasciano solo immaginare».

Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 16 gennaio 2021.  

Chiunque può dipingere o scrivere un libro, non c'è al mondo un albo ufficiale che distingua pittori e romanzieri professionisti dai dilettanti. Se poi nella vita ti dedichi a "cose" di cultura, ben presto verrai raggiunto da richieste tipo "quando vieni a vedere i quadri di mia cognata?" oppure "mio cugino ha raccolto la storia della sua famiglia, davvero commovente". Ognuno usa il proprio tempo libero come meglio crede. Decenni fa politici quali Amintore Fanfani e Ottaviano Del Turco si dedicarono alla pittura e nel caso del sei volte presidente del consiglio anche con una certa ricercatezza. Ai vip, infatti, piace moltissimo dilettarsi con colori, tele e pennelli, quasi che l'arte offra loro una sorta di "upgrade" che mestieri più popolari non consentono. 

Ricchi annoiati a cui tutto è concesso manco fossimo in un film di Luca Guadagnino? Ogni caso fa storia a sé e non bisogna avere troppi pregiudizi. Cognomi altisonanti, genitori ricchi e famosi possono aiutare e al contempo destare qualche perplessità. Si sta parlando proprio in questi giorni del giovane pittore Rhed, 21 anni senza particolare curriculum: quadri abbastanza stucchevoli e dallo stile espressionista tipico di chi non sa dipingere costano già oltre 30 mila sterline. Nell'high society se ne parla perché è il figlio di Madonna (ottima collezionista) e di Guy Ritchie. Durerà? Improbabile.

MOSTRE Chi la passione per la pittura l'ha sempre avuta, anche prima del successo come attore, è Sylvester Stallone che per i suoi 75 anni ha ricevuto in regalo due mostre in altrettanti musei a San Pietroburgo e Nizza. I suoi quadri, decisamente carichi, sono un incrocio tra l'astrazione alla Pollock e la figurazione anni '80, stroncati dalla critica e dai colleghi, in diretta tv l'artista pop Mark Kostabi li definì un'autentica schifezza e Rocky non la prese affatto bene. 

L'esatto contrario è Bob Dylan di cui parlar male è impossibile perché il menestrello di Duluth qualsiasi cosa tocchi la trasforma in oro. Ha cambiato la storia della musica, ha vinto il Nobel per la letteratura, nel mondo dell'arte visiva è talmente accreditato da essere stato esposto persino da Gagosian, una delle gallerie più importanti al mondo, e in pianta stabile dalla Halcyon Gallery di Londra.

Rispetto agli altri i suoi quadri convincono perché sinceri, autentici, immagini del paesaggio americano, dei suoi stereotipi, di impatto e atmosfera. Senza scomodare il compianto Don Van Vliet, già Captain Beefheart nel giro di Frank Zappa, diversi rocchettari hanno deciso che la pittura sarebbe stata qualcosa di più di un hobby domenicale. Paul Stanley, la "star" dei Kiss, dipinge prevalentemente ritratti di icone della musica e dello spettacolo - Jimi Hendrix, Robert Johnson, Marilyn Monroe - con stile casereccio e naif. Paul Simonon, ex bassista dei Clash, è invece appassionato del mondo biker, dei giubbotti di pelle nera e delle vecchie Triumph, mentre Ron Wood ha immortalato gli altri Rolling Stones imitando, nientemeno, lo stile di Picasso.

E in Italia? Da noi questa particolare "isola dei famosi" è popolata soprattutto da presenze femminili. Pare che la passione per la pittura abbia raggiunto Romina Power fin da ragazzina e che l'abbia aiutata nei momenti più difficili. Come giudicare i suoi quadri? Volenterosi esempi di paesaggismo senza tempo con venature esotico-hippie, stucchevoli ma meno imbarazzanti dei ritrattoni di Amanda Lear che (purtroppo) venne avvicinata all'arte dal suo mentore Salvador Dalì. Convinta di sfruttare la luce riflessa del Maestro e ormai scomparsa dal mondo della canzone, il mito dell'ambiguità sessuale anni '80 ha continuato imperterrita a dipingere senza che nessuno abbia avuto il buon senso di dirle di lasciar perdere. 

Nel kitsch ci naviga da tempo Gina Lollobrigida e le sue sculture tardissimo-barocche. Marisa Laurito invece racconta universi da commedia dell'arte e maschere napoletane che a tratti sembrano la parodia della pittura figurativa di Fiume, Migneco, Brindisi, artisti molto amati nel dopoguerra e oggi dimenticati.

Tra i vip canori italici se la cava senz' altro meglio Tricarico, il cantautore milanese di Vita tranquilla, ma attenzione i suoi grovigli di segni, colori e immagini celano scene erotico-porno che lasciano ben poco all'immaginazione. In questa carrellata di dilettanti di lusso, non va certo dimenticato il principe Carlo d'Inghilterra, acquarellista di valore, dall'impianto tradizionale e raffinato. Una passione trasformatasi in discreta fonte di reddito, ma non avendo particolari necessità economiche talora devolve in beneficenza le somme guadagnate. A giudicare dalla placida dolcezza dei paesaggi sembra proprio che Carlo usi la pittura come antistress dalla vita familiare, complicata per tutti pure per un reale.

Estratto dell’articolo di Elvira Naselli per repubblica.it il 15 Giugno 2023.

Diverse segnalazioni di patologie provocate da inchiostri per tatuaggi contaminati da patogeni, patogeni poi trovati anche nelle boccette di colore e per questo la Fda americana interviene con una guida per i produttori e i distributori perché siano in grado di riconoscere gli inchiostri potenzialmente contaminati e pericolosi per la salute. […] 

Tra il 2003 e il 2023 negli Usa ci sono stati 18 richiami di inchiostri per tatuaggi contaminati con microrganismi in grado di causare infezioni molto serie tanto che nel 2019 la Fda aveva emanato un primo Safety alert che metteva in guardia consumatori, tatuatori e produttori dopo aver individuato negli inchiostri Pseudomonas aeruginosa e Bacillus cereus. 

Adesso l'agenzia va oltre e propone una bozza di indicazioni per le aziende, in attesa di arrivare poi a un documento definitivo. Un documento che va letto come suggerimento e raccomandazione per i produttori, specifica l'agenzia, per prodotti che, considerati cosmetici negli Usa, essendo però iniettati sottopelle hanno un impatto - e un rischio - maggiore. 

[…]

E in Europa e in Italia che regole ci sono? "I tatuaggi non sono dispositivi medici - premette Norma Cameli, responsabile di Dermatologia correttiva e laserterapia agli Ifo Irccs di Roma e membro Estp, la Società europea tatuaggi e inchiostri - e quindi non sottostanno alle normative che disciplinano questa categoria di prodotti. Ma non sono neppure cosmetici, visto che non vengono applicati sulla pelle ma nel sottocute. Inoltre i legislatori europei hanno predisposto una proposta di restrizione d’uso di sostanze pericolose negli inchiostri ai sensi del regolamento REACH (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals). Non sono per atti vincolanti ma raccomandazioni". 

Che gli inchiostri possano essere contaminati è più che una eventualità. "E infatti l'Istituto superiore di Sanità ha evidenziato ad esempio la presenza di cromo esavalente (noto cancerogeno) in quantità superiori ai livelli ritenuti sicuri nel 90% dei campioni esaminati. Con un rischio tossicologico evidente perché i prodotti di decomposizione degli azocoloranti […] per frammentazione passano in circolo e possano essere tossici e carcinogenetici".

[…] I sintomi più comuni di infezioni legate agli inchiostri vanno da eruzioni cutanee nel sito di iniezione ad altre lesioni, compresi granulomi e vesciche, alcuni dei quali diventano cicatrici permanenti. "Sono possibili infezioni tardive - continua Cameli - come micobatteriosi e tubercolosi, ma anche verruche e altre infezioni da HPV. E infezioni acute come follicoliti, impetigine, erisipela e dermoipodermiti, Herpes, Mollusco contagioso fino al Tetano. Per questo è sconsigliato farsi tatuare in casa, o in ambienti non controllati".

Tutti i segreti dei tatuaggi. Matteo Carnieletto il 27 Aprile 2023 su Il Giornale.

Oggi tutti (o quasi) si tatuano. Ma pochi sanno il significato di ciò che decidono di rappresentare sulla propria pelle.

C’è tatuatore e tatuatore. Così come c’è tatuaggio e tatuaggio. Oggi incidersi la pelle è di moda, come tutto del resto. Eppure non è sempre stato così. Le persone hanno sempre cercato di differenziarsi esteriormente e interiormente. Tra gli uomini primeggiavano i più forti, i più coraggiosi. Che non necessariamente erano i più belli in volto, ma avevano qualità intime e pubbliche palesi. Che spesso venivano rese evidenti anche con dei marchi: i tatuaggi, appunto.

I maori, popolo antico e a noi contemporaneo, usavano i tatuaggi per indicare la propria appartenenza a una casta, per raccontare le proprie imprese in battaglia, per affermare chi erano i genitori che li avevano messi al mondo. Erano, i tatuaggi, una sorta di carta d’identità che si poteva leggere sulla pelle. Un basso rilievo della propria vita. Tra la fine degli anni Novanta e l'inizio dei Duemila, la gente impazzì per i tatuaggi maori. In Italia, a migliaia si fecero tribali ovunque, senza conoscerne davvero il significato. E così, ancora oggi, portano sulla pelle quei marchi (quasi) indelebili.

"Se ti è cara la pelle, allora tatuati", dice Gianmaurizio Fercioni, il primo tatuatore in Italia, a chi entra nel suo studio. Se ti è cara la pelle. Ovvero: se sei disposto a portare il peso di ciò che hai deciso di rappresentare sulla tua epidermide per tutta la vita. Ed è anche il motivo per cui i vecchi tatuatori non raffiguravano nulla su mani e viso: perché il tatuaggio non doveva (e non deve) togliere libertà. Non doveva (e non deve) essere uno stigma. Ma il ricordo, o l'affermazione, di un qualcosa o di un qualcuno. Un messaggio che pochi intimi - o in alcuni casi nessuno - possono vedere e comprendere davvero.

Oggi tutti, o quasi, si tatuano (l'Italia è il Paese con il maggior numero di tatuati in Europa). Eppure, solo pochi sanno cosa si disegnano sulla pelle. Per aiutare a comprendere davvero l'importanza di quello che è un vero e proprio rito, la casa edtrice L'ippocampo ha pubblicato Il linguaggio dei tatuaggi. 130 simboli e i loro significati. Nel volume non viene rappresentato e spiegato un solo stile, ma diversi, con un occhio di riguardo al cosiddetto old school, la vecchia scuola che affonda le proprie radici nella storia marinaresca e militare, e alla tradizione giapponese.

Sfogliando il libro è possibile ripassare (e in alcuni casi conoscere) quelli che sono dei veri e propri topoi del tatuaggio. La stella nautica, per esempio, che indica la lacerazione continua dei marinai, combattuti "fra desiderio e nostalgia, fra la vertigine del viaggio e il sogno di un ritorno a casa. Chi cerca il significato della stella nautica dovrà rivolgersi a questa apparente aporia: ispirato alla stella polare e alla rosa dei venti, è un amuleto contro i rovesci del destino e una guida per tornare sani e salvi da un viaggio che si spera lungo e avventuroso, per fare infine ritorno a un porto calmo e sicuro". La stella indica allo stesso tempo una direzione da seguire e un angelo custode sulla pelle. La Rose of no man's and, la crocerossina dallo sguardo malinconico che nasce dal sangue delle trincee della Prima guerra mondiale. Indica "grazia e coraggio". E pure la speranza: quella di chi, colpito e ferito, sa che qualcuno, magari dagli occhi verdi e dalle labbra melograno, si prenderà cura di lui. Magari si innamorerà pure e insieme godranno, dopo le brutture della guerra, la bellezza della vita. La nave, il più classico dei tatuaggi marinareschi. I velieri "rappresentano metaforicamente il grande mare della vita: un risveglio spirituale che prelude a una nuova partenza, e a un viaggio che si spera abbia sempre il vento in poppa". A chi si tatua la nave, il tatuatore chiede: quanti gabbiani vuoi che disegni? Sono le persone che si vuole portare con sé. E, spesso, sono poche. Perché l'amore vero, quello pieno e appagante, è per pochi. Come per pochi sono i tatuaggi. Quelli veri, che portano un significato profondo.

Da “la Stampa” il 27 aprile 2023. 

Pubblichiamo, per concessione dell'editore Bollati Boringhieri, un estratto da "Filosofia del tatuaggio. Il corpo tra autenticità e contaminazione", il saggio di Federico Vercellone, ordinario di Estetica all'Università di Torino, in libreria da domani. Un'analisi approfondita di un fenomeno antico che dura nel tempo 

Colui il quale si tatua è anche qualcuno che sceglie una prova dolorosa, e la attraversa per affermare se stesso. Tatuarsi significa accettare una prova eroica, una prova personale, che attraversa le culture. A questo proposito vanno presi in considerazione non solo i tatuaggi, ma anche le scarificazioni, che sono – come ci insegna Francesco Remotti – il loro pendant.

Le scarificazioni sono ancora più penose del tatuaggio, in quanto, soprattutto per le tribù che le praticano, si tratta di sollevare la pelle e di inserire l'inchiostro nella parte interna della cute per creare uno sfondo di contrasto efficace con la superficie scura. La pratica è dunque ancora più dolorosa di quella del tatuaggio. 

 A emergere è una sorta di improrogabile auto-posizione dell'Io che supera ogni frangente e ostacolo, addirittura quello rappresentato dal proprio stesso corpo. Per altro verso, tramite quest'atto di ricreazione del proprio corpo si rinnova proprio quella superficie che ne istituisce lo spazio relazionale, di contatto con il mondo. 

Si diventa così se stessi anche a costo di dispiacere al mondo, e dunque di provocare in esso una sorta di disgusto. Questo aspetto affratella il tatuaggio agli altri fenomeni di quella che, per convenzione, si è definita mostruosità. Il soggetto, in tutti questi casi, è a suo modo unico e irripetibile. È l'iperbole senza confini di un io che si auto-crea a scapito del mondo e talora forse anche di se stesso. 

In più abbiamo a che fare con un modello di bellezza acquisito tramite la sofferenza.

Quando mai potremmo dimenticare che proprio questo modello è una mimica, ovvero una ripetizione del modello cristiano della creatura dolorosa della quale Dürer ci ha resi edotti sulla base di un famosissimo testo biblico, Isaia, II, 55. È un modello di bellezza anticlassica, quasi una sua parodia, come nel caso della "Creatura del dolore" düreriana.

Nella Croce si rinnova così – del tutto paradossalmente – l'ideale estetico, che non è più un ideale di serenità ed equilibrio, bensì accoglie la smorfia del dolore e il rischio del brutto. Essa prelude al tatuaggio che ne costituisce una singolare perversione. 

In ambito medico e antropologico il tatuaggio e il corpo tatuato divengono un variegato ed eccentrico spettacolo. Si avvia un processo di spettacolarizzazione del corpo che ne destituisce la valenza ideale, propria delle poetiche classicistiche: il corpo non svolge più una funzione di modello figurativo e ideale e diviene invece una superficie pittorica disponibile alle più diverse rappresentazioni. 

Esso diventa una superficie che media nuovi mondi, uno spazio dell'immaginario che supera di gran lunga i due paesaggi cui il corpo nudo ci aveva abituati, quello della spettacolarizzazione della sofferenza e quello dell'incanto e della fascinazione della bellezza. La tendenziale attuale scomparsa del nudo e la ricorrenza sempre più intensa di corpi segnati ci mette dinanzi alla prospettiva di un corpo spurio che allude al posthuman, a una forma di umanità che non riconosciamo più con i nostri canoni abituali.

A questo proposito c'è da chiedersi cosa significa modificare il corpo proprio e quanto la pelle stessa – non solo quella reale, ma anche quella "metaforica" – sia estesa. Entriamo qui in un più ampio discorso, che è quello della comunità. La comunità è in questione come sistema di riconoscimento, laddove il corpo segnato evidenzia un'appartenenza; appartenenza che deriva per altro da un rovesciamento, e che da negativa (da simbolo di segregazione: il corpo del carcerato o del folle) può divenire positiva, aprendo lo spazio in direzione di una ribellione.

Il corpo segnato diviene così il principio della comunità degli esclusi o di coloro che si autoescludono. Questo ci conduce in direzione di un altro discorso che riguarda la vera e propria estensione della pelle. 

Quello che si vuole suggerire è che potrebbe essere legittimo – ci si passi il paradosso – considerare la comunità stessa come una seconda pelle, come una pelle aggiuntiva che si somma a quella del corpo proprio e che fa da intercapedine e da elemento comunicativo tra interno ed esterno. 

Da questo punto di vista proprio le sottoculture, così come tutto l'ambito delle modificazioni anche chirurgiche del corpo, ma anche per certi versi lo stesso Slow Food, divengono motivi centrali del mondo globale, di un market universale che restituisce capitalisticamente quell'identità intatta che l'alienazione capitalistica aveva sottratto. 

Anche il New Age fa parte di tutto questo ambito; il che rinnova, magari in maniera un po' sorprendente, il legame del contemporaneo con l'arcaico già scoperto a suo tempo dalle avanguardie storiche, in particolare dall'espressionismo tedesco e dal cubismo.

In questo processo, la pelle si esteriorizza sempre più. La sua funzione è sempre meno quella (pur indispensabile) di coprire, proteggere e avvolgere il corpo, e viene invece sempre più esaltato il momento del significato comunicativo della superficie cutanea, che diviene un linguaggio sostanzialmente immediato ed empatico votato a creare approvazione o disgusto.

Forse nella storia non c'è altro simbolo che sia giunto più prossimo a una dimensione di questo genere della Croce, la quale rappresenta nuovamente l'ideale di una bellezza sofferente, e dunque il veicolo di reazioni opposte: di disgusto (Nietzsche) dinanzi all'idea che la mortificazione e il dolore possano farsi bellezza, o al contrario di esaltazione di questo passaggio apparentemente negativo nei confronti della vita e del suo fiorire, di laudatio quella che Paolo chiama la "follia della Croce" (Cor.1, 10-4,13).

Estratto dell’articolo di Federica Nannetti per corriere.it il 2 aprile 2023.

Un tatuaggio sul dorso del piede, fatto a 16 anni, le è costato la carriera che sognava da sempre. Per Karen Bergami, la 34enne bolognese che nel 2018 è stata esclusa alle selezioni della scuola superiore di Polizia a causa di quel marchio sulla pelle, ora si è chiuso un cerchio: la Cassazione ha infatti dichiarato inammissibile il suo ricorso, portato avanti per tutti questi anni dopo aver rimosso il tatuaggio «scomodo» con il laser.

La sua richiesta di rivedere l'ammissione è passata prima attraverso il Tribunale amministrativo regionale, che l'ha accolta; poi il Consiglio di Stato ha ribaltato il parere, respingendola. Ora è intervenuta la Corte suprema che ha reso insindacabile il secondo giudizio.

 La vicenda di Bergami ha avuto inizio nel 2018, con il primo tentativo da parte della ragazza di entrare nella scuola di Polizia. Nel corso delle visite mediche è stata «bloccata» per il tatuaggio sul piede: il disegno era in una posizione eventualmente non coperta dall’uniforme. È da quel momento che Bergami ha deciso di rimuoverlo con il laser, nella speranza di poter riprovare le selezioni con successo l’anno successivo.  […]

Il giudice amministrativo di secondo grado ha sottolineato e confermato come il tatuaggio non risultasse coperto dall’uniforme e che fosse irrilevante l’impossibilità di indossare calze durante la visita medica (indumento non assimilabile ai capi di abbigliamento ai quali si riferiscono le norme, quali pantaloni e giacche). […]

Alberto Francavilla per "blitzquotidiano.it"

Karen Bergami è stata esclusa dalla Scuola superiore di Polizia per un tatuaggio sul dorso di un piede. Un tatuaggio fatto a 16 anni e nel frattempo rimosso. Lo ha deciso il Consiglio di Stato che ha accolto il ricorso del ministero dell’Interno. Il Tar del Lazio aveva inizialmente dato ragione al commissario.

 Karen Bergami esclusa dalla Scuola di Polizia per un tatuaggio

Karen, 32 anni, originaria di Bologna, è stata dimessa dal corso, dopo aver frequentato 16 su 18 mesi complessivi. E rischia di veder svanire il suo sogno di una carriera in Polizia.

La giovane a dicembre 2018 partecipò al concorso per 80 posti, ma la commissione medica l’aveva dichiarata inidonea per il tatuaggio “in zona non coperta dall’uniforme”. Nonostante la candidata avesse già iniziato la procedura di cancellazione, con il laser, con l’ultima seduta circa un mese prima.

 Il Tar aveva accolto il ricorso di Karen

Il Tar prima accolse il ricorso cautelare (e venne riammessa con riserva al concorso e poi ai corsi) poi anche nel merito, a febbraio 2020. Nel frattempo Karen Bergami aveva prestato giuramento di fedeltà alla Repubblica. E la Scuola l’aveva scelta come rappresentante delle donne della Polizia di Stato in un calendario benefico.

Otto mesi dopo la decisione del Tar, con i termini prorogati dal Covid, il Viminale ha fatto ricorso e il Consiglio di Stato ha accolto la sospensiva, a novembre e poi si è pronunciato nel merito, l’8 giugno, dopo un’udienza a marzo.

 La bolognese aveva presentato una perizia medico legale per dimostrare che già all’epoca il tatuaggio era rimosso e ha chiesto un’ulteriore valutazione all’ospedale militare di Roma, come accaduto in altri casi. Ma per i giudici “non ha rilievo il fatto che il tatuaggio sia stato completamente rimosso in un momento successivo all’accertamento concorsuale”.

Karen Bergami farà ricorso

A nulla sono valse le obiezioni di poter coprire la zona in questione con un collant. Ora Karen Bergami, difesa dall’avvocato Silva Gotti sta valutando di fare ricorso in Cassazione, di chiedere la revocazione del giudizio amministrativo, o di rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Estratto dell'articolo di Valeria Arnaldi per “il Messaggero” l’1 aprile 2023.

[...] Sono tanti i tatuaggi che si cerca di rimuovere.  Anzi, sono sempre di più. [...]. Negli Stati Uniti, secondo quanto riportato dal Guardian, tre adulti su dieci hanno almeno un tattoo, con un rialzo del ventuno per cento rispetto a dieci anni fa. E l'otto per cento, dunque milioni di persone, oggi rimpiange di averlo fatto. Un fenomeno in crescita anche in Europa.

 Si stima che il mercato globale del settore delle cancellazioni arriverà a ottocento milioni di dollari nel 2027. Erano cinquecento milioni nel 2019. Il quaranta per cento è concentrato negli Usa, ma il trend si registra anche in Europa. E in Italia.

 [...]Pentiti non mancano tra i personaggi noti. Johnny Depp ha fatto ritoccare ad arte quello dedicato a Winona Ryder, all'epoca del fidanzamento, dal 1989 al 1993, ma non ha imparato la lezione e ha replicato tatuaggio e poi cancellazione per Amber Heard.

Angelina Jolie ha fatto coprire quello per Billy Bob Thornton, realizzato ai tempi del loro matrimonio. Melanie Griffith ha cancellato quello dedicato ad Antonio Banderas, Heidi Klum quello per Seal. C'è perfino chi, come Pharrell Williams, ricorre a innesti di pelle per dimenticare. E così via. Casi ci sono anche nel nostro Paese. Federica Pellegrini ha cancellato, trasformandolo, quello per Luca Marin. Belén Rodriguez ha documentato sui social la rimozione del tatuaggio fatto con Stefano De Martino, che poi ha cancellato alcuni dei suoi.

Non mancano i pentiti del ripensamento: «Asia Argento - racconta il suo tatuatore Marco Manzo, autore di molti tatuaggi di nomi noti - ha rimosso quello sulla pancia, con l'angelo, ma poi mi ha chiesto di rifarglielo». Insomma, il fenomeno c'è e si vede, o forse sarebbe meglio dire, non si vede più. [...]

Estratto dell'articolo di Federico Vercellone per “La Stampa” il 30 gennaio 2023.

Nessuno se n'è ancora accorto, ma il nudo non esiste più. Dopo millenni in cui la nudità ha occupato il campo come soggetto erotico, ideale e artistico, spesso addirittura come tutte le tre le cose insieme, è scomparsa. È mai possibile che nessuno se ne accorga?

 […]

 Il problema è che siamo sempre più dinanzi a corpi che, anche quando si palesano senza indumenti, non sono tuttavia affatto proprio come mamma li ha fatti: spesso o spessissimo sono coperti di segni di ogni genere e tipo. […] Nella calca ci si palesano disinvolti corpi segnati, disegnati, in breve tatuati.

Sembra quasi che molti debbano dirci subito chi sono, vestendosi di simboli che mettono da parte ogni riservatezza e mistero. Loro e forse anche noi godiamo immediatamente di una garanzia e di una rassicurazione: colui che abbiamo dinanzi può amare le cose più diverse, ma quelle le ama davvero, che si tratti del cane, di una minoranza etnica, del sadomaso, della squadra di calcio del cuore, di Martin Heidegger, della fidanzata o del fidanzato o di entrambi, quando si vuole strafare.

 Si iscrivono i simboli sulla nostra pelle per esprimere la nostra verità, che è un nostro modo di essere autentici. […] L'imperativo – a riprendere il titolo di un famoso libro di Peter Sloterdijk – è Devi cambiare la tua vita per essere davvero, schiettamente, te stesso. In altri termini devi essere autentico, unico, l'iperbolico artefice della tua vita che non riconosce dipendenze da nulla e da nessuno.

 […]

 Ognuno tende ad appartenere sempre più – anche prescindendo dal fenomeno, sia pur molto significativo, del tatuaggio – a una comunità in conflitto con la società, con i suoi obblighi e i suoi doveri. […]

 È evidente che questo costituisce uno scivolamento tragico nella costruzione dell'identità collettiva e individuale. La riflessione filosofica può aiutarci molto a capire questo fenomeno, come testimonia il bel libro di Elio Franzini, Filosofia per il presente. Simboli e dissidi della modernità, comparso da Morcelliana.

Qui, a fronte della crisi che condividiamo, e che l'esempio del tatuaggio illustra efficacemente, si ricorda che quelle del corpo sono in realtà energie simboliche grazie alle quali si costruisce una comunicazione che non è e non deve essere idiosincratica e pertanto legata al relativismo del punto di vista, come tanto (non tutto) postmoderno ci aveva insegnato. Certo, dobbiamo rintracciare uno spazio nuovo e, quantomeno da questo punto di vista, i tatuaggi ci orientano nella direzione giusta.

Si tratta – come indica Franzini rifacendosi a Edmund Husserl – di apprendere il senso delle cose, immergendoci nel mondo della vita e nelle sue forme, imparando a riconoscere quell'intenzionalità non espressa ma chiara, «fungente», quel palpito di esigenze e pensieri che circolano nella comunicazione sociale come un basso profondo che definiamo, a posteriori, opinione pubblica. Essa lega gli individui in modo insieme consapevole e inconsapevole, un po' come accade quando ci accorgiamo di appartenere, insieme a chi ci circonda, non a una folla ma a un'atmosfera comune.

Proprio a questo proposito un filosofo laico come Franzini ci fornisce un'importante indicazione, attingendo al lessico religioso. […] Ci dice che nella selva dei simulacri del nostro tempo, nella miriade di identità frammentate, polimorfe e disperse, dobbiamo riuscire a rintracciare un unico tema, un punto di riferimento affidabile anche se non monolitico o assoluto, una struttura analoga a quella del sacro antico e moderno.  […]

Da ilmattino.it il 7 settembre 2022.

Becky Holt è una star di OnlyFans britannica, che afferma di essere «la donna con la vagina più tatuata al mondo». A 34 anni, ha speso più di 42mila dollari per tatuarsi dalla testa ai piedi, in ogni parte del corpo, comprese quelle più private, si legge sul "New York Post". 

Dopo aver coperto tutte le parti visibili, Becky (che sui social ha più di 70mila follower), ha deciso di passare alla zona pubica: «Avevo un dolore incredibile. È piuttosto imbarazzante avere un tatuatore tra le gambe, ma dovevo farlo perché voglio che il mio corpo sia completamente ricoperto», le sue parole ad Ark Media. 

Quasi un mese dopo la sua vagina è «ancora gonfia» e per questo non riesce ancora a fare con il suo compagno. «Non saremo in grado di essere intimi finché la guarigione non sarà completata, il che sarà difficile per entrambi poiché abbiamo una vita sessuale molto attiva. Per il momento ci limitiamo ai preliminari per lui», ha raccontato.

La donna afferma di essere una delle poche donne al mondo ad avere le pieghe vaginali tatuate e dice che gli ammiratori l'hanno elogiata per aver sopportato il doloroso processo. «Mi dicono che sono stata davvero coraggiosa a farlo», si vantava. «Non sono sicura di quante persone al mondo abbiano questo tatuaggio, ma immagino di essere uno dei pochissimi».

I pentiti del tatuaggio: Sylvester Stallone copre il ritratto della moglie con quello del cane. Dalla star di Rocky - che ha voluto ricordare il suo fedele animale a scapito di Jennifer Flavin (e già girano rumors su una crisi di coppia) - fino a Britney Spears, Justin Bieber, Angelina Jolie o Johnny Depp, sono sempre più numerose le celebrità che trasformano o cancellano i propri tattoo. Come tre su quattro italiani, i più tatuati al mondo. Silvia Luperini su La Repubblica su il 24 Agosto 2022.

Sylvester Stallone ha un nuovo tatuaggio: un tributo al suo cane Butkus a cui era molto affezionato e che l'ha accompagnato nella saga di Rocky. Però il nuovo ritratto sostituisce quello dedicato alla moglie Jennifer Flavin. La nuova opera, esibita senza dare spiegazioni, ha scatenato i rumors sui social. In molti si sono chiesti se la coppia fosse in crisi, gossip smentito subito dall'addetta stampa della star Michelle Bega che si è affrettata a scrivere che "Il signor Stallone ama la sua famiglia con la quale sta girando un reality show che presto debutterà in streaming".

Incisi nell'entusiasmo dell'inizio relazione, i tatuaggi si rivelano spesso imbarazzanti, soprattutto quando l'ex continua a farsi ricordare con il suo volto, il nome o la data di nascita incisi sul corpo. O quando un'amicizia sparisce o crolla un mito. Spesso i tattoo si trasformano in un diario, accessibile a tutti, della propria intimità rivelando amori, passioni, desideri e aspirazioni che poi non si vogliono più ricordare.  Ci si fa disegnare addosso quasi di tutto: il giocatore o il simbolo della propria squadra di calcio, simboli tribali, motti in indiomi esotici e persino i simboli di partiti politici,  E così uno su tre cambia idea e si presenta dal medico estetico per fare "scomparire il passato".

L'Italia resta il paese più tatuato del mondo, con il 48 per cento della popolazione "marchiato" seguita dalla Svezia (47 per cento) e dagli Stati Uniti (46 per cento) e sono in crescita costante i pentiti. Secondo gli esperti, già dopo il primo anno, a cambiare idea sarebbero quasi il 25 per cento dei tatuati. A cominciare dai più esposti, i vip. 

Ne sa qualcosa Johnny Depp. Il suo primo tatuaggio sulla spalla destra, "Winona Forever", era dedicato alla fidanzata dell'epoca, Winona Ryder. Con un'iniziativa non proprio brillante, alla fine della loro storia, il divo si era fatto togliere le ultime due lettere del nome con il risultato che le due parole rimaste sono diventate Wino Forever, vino per sempre. Evidentemente sbagliare non insegna. Al culmine dell'amore con Amber Heard aveva scelto il luogo più visibile, le dita delle mani, per scolpire all'inchiostro il soprannome dell'attrice e poi ex moglie Slim, che significa magra rimaneggiato in Scum che in Inglese, feccia. 

Anche Angelina Jolie, con cinque sedute di laserterapia, ha eliminato il drago inciso sulla spalla sinistra insieme al nome dell'ex marito Billy Bob Thornton ricoprendolo con le coordinate geografiche dei luoghi di nascita dei suoi sei figli. 

Poi è stata la volta dell'ideogramma giapponese del coraggio, fatto insieme all'ex marito Johnny Lee Miller, diventato la scritta in arabo "determinazione". Tra i tanti tatuaggi, sono stati eliminati anche il simbolo giapponese della morte sulla spalla destra che ora è una preghiera cambogiana mentre la piccola finestra incisa sul fondoschiena è stata nascosta dalla coda di una tigre del Bengala. 

Dopo il divorzio anche Britney Spears ha fatto sparire il tattoo che le ricordava l’ex coniuge Kevin Federline. Come Charlie Sheen che si è tolto dal polso il nome dell’ex moglie Denise Richards coperta dalla scritta "winning", affettuosità ricambiata dall'ex consorte, immortalata, fuori da un laboratorio di tatuaggi con una fatina al posto della scritta Sheen.

Invece di sottoporsi a lunghe e dolorose sedute al laser, Malin Åkerman ha risolto con astuzia la questione della Z, come l'inizio del cognome dell'ex marito Roberto Zincone, aggiungendo semplicemente la S del figlio Sebastian.

Più laborioso il prima e dopo di Kaley Cuoco, per rimuovere dalla memoria e dal corpo, il divorzio da Ryan Sweeting l'attrice della sitcom The Big Bang Theory ha coperto la data delle nozze che troneggiava dietro al collo con una grande falena. Idem per Eva Longoria, che ha detto addio all'unione con il campione francese di basket Nba Tony Parker cancellando dal polso la data del matrimonio.

E Justin Bieber? L'attore s'è tolto dalla testa, e dal polso, Selena Gomez poco prima del sì a Hailey Baldwin. 

Invece di rimuovere un amore del passato Megan Fox ha spodestato un suo idolo dando un colpo di spugna al volto di Marilyn Monroe che si era fatta imprimere sull’avambraccio destro:  “La sto eliminando",  ha confidato l'influencer, "perché Marilyn è un personaggio negativo, soffriva di disturbi della personalità, era bipolare. Non voglio attrarre questo tipo di energie negative nella mia vita”.

Infine la coppia che ogni tanto scoppia: Belen Rodriguez e Stefano De Martino. Allo scoccare della scintilla si erano fatti tatuare lui un angelo con il volto della showgirl e lei un marinaio e una pin-up che si baciavano appassionatamente, contornati da un cuore e dalla scritta “Io e te”. Poi entrambi, dopo il divorzio, l'hanno fatto sparire. Che succederà ora che sono tornati insieme?

Lo dicono le statistiche: nel 2014 sono state circa 12 mila le operazioni di rimozione di tatuaggi (fonte Associazione Italiana di Chirurgia Plastica Estetica) spesso con esiti incerti. Ma quali sono i tatuaggi che più spesso vengono modificati dagli italiani? Al primo posto si piazzano i nomi o le iniziali di ex fidanzati (58%) di cui si vuole cancellare ogni ricordo. Proprio come fanno spesso le star. Da Johnny Depp ad Angelina Jolie, da Federica Pellegrini a Eva longoria, tutte riunite in questa gallery. Quando si è innamorati  sembra un gesto romantico tatuarsi il nome del partner sulla pelle ma poi quando la storia finisce che si fa? Si cancella. O meglio ancora si trasforma il tatto in qualcos'altro. Johnny Depp ci è (ri)cascato con il tatuaggio dedicato alla ex moglie Amber Heard che aveva sulle dita della mano destra: il soprannome dell'attrice Slim, che significa magra, snella, è diventato infatti Scum che in Inglese vuol dire rifiuto, feccia. L'interprete dei Pirati dei Caraibi è recidivo visto che aveva già fatto trasformare il tatuaggio Winona Forever, dedicato all'ex Winona Ryder in Wino Forever, a celebrare un ben più duraturo legame con l'alcool. Johnny Depp non è però un caso isolato. Il trend del tattoo-changing ha da tempo preso piede tra le star di Hollywood. Ma torniamo alle persone comuni. Dal Quanta System Observatory, spiegano: "Le maggiori richieste di rimuovere un tatuaggio provengono  da coloro che lo hanno eseguito in età adolescenziale e poi, invecchiando, non lo considerano più consono al loro modo di essere. Oggi la tecnologia ci viene incontro e il metodo più sicuro ed efficace da proporre ai pazienti è il trattamento laser" sottolinea il Dottor Matteo Tretti Clementoni, specialista di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva presso l'Istituto Dermatologico Europeo di Milano (sistema Discovery Pico), "una  metodologia efficace, rapida e con meno possibili effetti collaterali. Oggi all'avanguardia". Il 54% delle donne tatuate e il 48% degli uomini ha dichiarato di volere rimuovere o cambiare un tatuaggio sulla propria pelle. La maggior parte dei “pentiti” ha tra i 30 e i 40 anni (68%). Al 2° posto nella classifica delle rimozioni, dopo gli ex, ci sono le citazioni celebri o tratte da film (45%), al 3° i grossi disegni tribali che ricoprono braccia e gambe (41%). Al 4° i tattoo fatti con le ex amiche del cuore (37%). 5° posto, i tatuaggi venuti male (35%); 6°: lo stemma della squadra del cuore (31%); 7°: i tatuaggi considerati troppo evidenti o impressi su una parte del corpo esposta (25%), 8° quelli ritenuti imbarazzanti come un lecca lecca o una pin-up (19%); 9°: quelli con riferimenti politici o ideologici (15%). Al 10°: i tattoo troppo infantili come i personaggi dei cartoni animati (12%).

Il tatuaggio, «segno» del criminale. Dario Basile su Il Corriere della Sera il 3 aprile 2022.

Lombroso decide di studiarli, fotografa i detenuti tatuati, analizza i segni dell’inchiostro sui corpi e riproduce quegli uomini in grandi disegni. 

In Italia ci sono 6,9 milioni di persone tatuate, ovvero il 12,8% della popolazione italiana, percentuale che sale al 13,2% se si considerano anche gli ex-tatuati, ce lo dice un’indagine svolta dall’Istituto superiore di sanità (Iss). Chi si tatua nel nostro Paese lo fa prevalentemente come decorazione, ornamento e abbellimento del corpo. Gli uomini preferiscono tatuarsi braccia, spalla e gambe, le donne invece soprattutto schiena, piedi e caviglie. Oggi il tatuaggio è, dunque, una pratica molto comune, ma tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si diffonde soprattutto in ambiente carcerario. La questione incuriosisce Cesare Lombroso, fondatore dell’antropologia criminale, che individua nel tatuaggio una prova della primitività del delinquente. Come evidenziato da Cristina Cilli e Silvano Montaldo, Lombroso descrive i criminali tatuati accomunandoli alle popolazioni dell’emisfero australe, come gli aborigeni e i maori. Facendo un confronto con le popolazioni cosiddette «selvagge», Lombroso crede di aver individuato un’analogia. Come le popolazioni «primitive» i criminali non rispettano la proprietà privata, le regole civili, la vita altrui e si tatuano. I criminali – riflette Lombroso – incuranti del dolore che può provocare questa pratica, imprimono indelebilmente sul proprio corpo disegni, simboli e scritte che evidenziano la loro diversità antropologica. Decide di studiarli, fotografa i detenuti tatuati, analizza i segni dell’inchiostro sui corpi e riproduce quegli uomini tatuati in disegni di grandi dimensioni. Lombroso usa quei cartelloni in occasione di incontri pubblici e per le sue lezioni.

Il fondo fotografico del Museo di Antropologia criminale dell’Università di Torino conta un centinaio di fotografie di detenuti tatuati, provenienti nella maggior parte dei casi dal carcere «Le Nuove» di Torino, oltre che da prigioni francesi, tedesche e spagnole. Lombroso inizia a interessarsi dei tatuaggi negli anni Sessanta dell’Ottocento quando, in qualità di ufficiale medico, visita centinaia di soldati e osserva che molti di loro, perlopiù provenienti dalle classi disagiate, avevano uno o più tatuaggi sul corpo. Il criminologo decide di approfondire questo tema e dopo avere osservato migliaia di individui si sente di affermare che il tatuaggio sia una marca che: «tende a decrescere fra gli uomini non delinquenti e prende proporzioni vastissime nella popolazione criminale, sia militare sia civile». In quegli anni il tema del tatuaggio si affaccia alla curiosità delle opinioni pubbliche europee. Le ricerche medico-criminali si sovrappongono alla cronaca nera, alla fascinazione dei bassifondi, alle indagini di polizia e a processi sensazionali. Lombroso, come medico delle carceri di Torino e come perito giudiziario, entra in contatto con numerosi detenuti. Grazie a questa sua attività inizia a raccogliere immagini a figura intera di persone tatuate. Nell’archivio del Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso» di Torino, sono conservate diverse tipologie di documenti e di reperti. Oltre alle fotografie, si possono trovare dei disegni a matita o a inchiostro che mostrano singoli tatuaggi o gruppi di tatuaggi su porzioni di corpo. Ci sono poi dei designi realizzati su velina, prodotti tramite calco direttamente sulla pelle dei tatuati. Ma vengono conservati anche trentasei frammenti di pelli tatuate, asportate durante le autopsie. Tra questi reperti c’è anche uno dei rari casi di tatuaggio appartenuto ad una donna.

Come ricorda Alessio Petrizzo, sembra che gli studiosi dell’epoca prestassero particolarmente attenzione ai tatuaggi di soggetto pornografico, o realizzati sui genitali, così come ai simboli e ai messaggi di contenuto minaccioso o violento. Lombroso assegna infatti il massimo rilievo agli indizi di attitudini criminali. Con la rappresentazione del genere criminale, Lombroso sembra voler rendere iconica l’immagine del delinquente tatuato. Nelle immagini si vedono corpi denudati di disertori, delinquenti comuni, camorristi, scelti tra coloro che apparivano tatuati nei modi più sorprendenti e vistosi. Secondo Lombroso esistono anche persone «normali» che si tatuano ma, a differenza dei delinquenti, in nessuno di questi individui appaiono disegni o scritte nelle parti «pudende» o nella schiena. I criminali usano invece il loro corpo come fosse una lavagna dove scrivere la propria storia. Come Francesco Spiteri, «esempio di “delinquente nato, atavico”» che presenta sul proprio corpo un totale di 105 disegni tatuati. Tra le foto dei tatuati delle carceri di Torino c’è quella di M.S., detto “Materìa”, piemontese condannato ripetutamente per furto, rapina e associazione a delinquere. Un personaggio piuttosto conosciuto a Torino, tanto da essere citato in un libro di Emilio Salgari. Tra i tatuaggi presenti in tutto il suo corpo si può notare un lungo serpente che si avvolge su braccia, tronco e gambe e che, ha detta del recluso, simboleggiava la Questura «dai cui lacci non può sciogliersi».

Perché i tatuaggi a colori non scompariranno. Eleonora Mureddu il 19 dicembre 2021 su Today. L'allarme tra gli amanti dei tattoo circola da giorni, alimentato da alcune news imprecise. Ecco perché l'Ue ha imposto una stretta (per la salute), ma non l'obbligo del "bianco e nero". "Dal 2022 i tatuaggi in Europa saranno solo in bianco e nero". È questa, in sintesi, la notizia che sta circolando da giorni su media e social, alimentata da notizie forse un po' imprecise, titoli e post forzati (o scarsamente informati). Il tutto condito dalla classica accusa all'Unione europea e ai suoi vincoli, dato che il presunto addio ai colori sulla pelle è frutto di una normativa varata da Bruxelles nel dicembre del 2020. Ma come stanno realmente le cose?

Stando alle norme che entreranno in vigore a partire dal prossimo gennaio, in tutta l'Ue sarà vietato utilizzare per i tatuaggi 25 pigmenti (legati alla produzione di diverse tonalità di rosso, arancione e giallo) e verranno introdotti limiti massimi di concentrazione nei colori per alcune sostanze come coloranti azoici e ammine aromatiche cancerogene, idrocarburi policiclici aromatici (IPA), metalli e metanolo. In altre parole, molti inchiostri diventeranno non conformi e quindi legalmente inutilizzabili secondo i regolamenti Ue. Poi, a partire da gennaio 2023, saranno vietati anche altri pigmenti, relativi al blu e al verde. Questo avrà inevitabilmente un impatto su molti altri colori, ottenuti mescolando diverse tonalità. Fino a questo momento non esisteva nessuna normativa che regolamentasse questo settore, ma solo linee guida, stilate in due risoluzioni (una del 2003 e una del 2008) che indicano i criteri di valutazione per la sicurezza negli inchiostri per tatuaggi. Recenti studi scientifici hanno però dimostrato che in tanti inchiostri per tatuaggi in commercio sono presenti sostanze che "oltre ad allergie e problemi della pelle", spiega la Commissione, "possono causare altri effetti negativi sulla salute, come il cancro". Ma questo significa la fine dei tatuaggi colorati? In realtà, hanno spiegato diversi esperti, si tratta di una mezza bufala. Già oggi, esistono degli inchiostri alternativi che possono essere usati nel rispetto delle nuove norme Ue e che non contengono le sostanze messe al bando. I professionisti dovranno adattarsi e trovare nuove tonalità di colore con le sostanze disponibili sul mercato. Secondo quanto riportato alla Rtbf da Davy D'Hollander, amministratore delegato di TekTik, il principale fornitore belga di materiali e inchiostri per tatuaggi, questo divieto non rappresenta un vero problema in quanto esistono "altri pigmenti che daranno gli stessi colori e che non sono sulla lista delle sostanze vietate". Gli unici due colori per cui non esiste una valida alternativa sono il Pigment Blue 15:3 e il Pigment Green 7. Ma per questi colori, l'Ue ha concesso un anno in più per consentire ai produttori e ai tatuatori di trovare delle soluzioni. Il bando di queste sostanze, del resto, non è arrivato dall'oggi al domani. La storia è iniziata nel 2015 quando l'Ue ha chiesto all'Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa) di valutare i rischi per la salute delle sostanze contenute negli inchiostri. Dopo cinque anni di lavoro l'ente ha concluso le sue ricerche proponendo che le sostanze che già erano vietate nei cosmetici vengano vietate anche negli inchiostri, che vengano messe al bando tutte le sostanze considerate come tossiche o cancerogene e che per le sostanze irritanti o corrosive venga fissata una soglia dello 0,1 per cento.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 21 novembre 2021. Quante ne ha viste, nella sua carriera, il criminologo Vincenzo Mastronardi, «una volta - racconta - andai persino a fare un corso agli esorcisti». Una vita, la sua, passata a studiare il male, spesso barcamenandosi tra grandi demoni e poveri diavoli. L'ultimo degli oltre trenta libri che ha scritto s'intitola I segreti dei tatuaggi criminali ed è il risultato di una ricerca partita nel 2013 quando era direttore del Master in Scienze Criminologiche all'università La Sapienza. Una ricerca sui tatuaggi di 80 detenuti, uomini e donne, reclusi a Regina Coeli e nella sezione femminile di Rebibbia, compiuta insieme a Giovanni Passaro, un ispettore di polizia penitenziaria con oltre 20 anni di duro servizio nelle carceri.  «Era un mio vecchio pallino - dice Mastronardi - Già nel '74, infatti, da universitario mi avventurai in una ricerca sui tatuaggi dei tossicodipendenti e notai subito la differenza a seconda che si facessero di droghe pesanti o leggere. Chi assumeva eroina o cocaina si tatuava addosso perlopiù coltelli, fucili, pistole. Chi fumava la marijuana, invece, sceglieva simboli eterei: uccellini, madonne».  E oggi? «Oggi assistiamo alla sindrome dell'uomo illustrato - dice Mastronardi - In cella c'era uno tutto tatuato: un serpentello sul pene, una lettera alla madre sulla spalla sinistra, il volto della fidanzata su quella destra. In pratica, una psicobiografia incisa sulla pelle. Perché il tatuaggio è un mezzo di affermazione personologica e nel detenuto avvia un meccanismo di fuga intrapsichica, un'evasione all'interno di sé, per uscire dal rischio dell'autodisistima. È come se grazie al tatuaggio il detenuto dicesse: io non sono il numero della mia cella, io sono la tigre, il serpente che ho su di me. Non sono un corpo ma un uomo con la sua storia». Ma la «sindrome dell'uomo illustrato», chiediamo, si può ravvisare anche in chi non è recluso? «I tatuati alla Fedez, per capirci? - risponde il prof - Non conosco Fedez, di sicuro molti di loro hanno bisogno di fare di più per sentirsi normali». Quelle di 50 anni fa, inoltre, erano scarificazioni piuttosto incerte, ottenute «col vecchio pennino a campanile», ricorda il criminologo. «Oggi invece - interviene Giovanni Passaro - i detenuti smontano il lettore cd mp3 con cui in cella ascoltano le canzoni. Il motorino del lettore, alimentato con le batterie del telecomando tv, lo collegano poi col fil di ferro al tubicino trasparente di una penna Bic, riempito con l'inchiostro liquido dei pennarelli colorati che comprano allo spaccio. Infine, applicano al tubicino un ago preso dalle siringhe dell'infermeria e avviato il motorino comincia il lavoro. Poiché i tatuaggi in carcere sono vietati, di solito c'è un detenuto a fare da "palo" fuori (di giorno le celle restano aperte) e si alza al massimo il volume della tv per coprire il ronzìo». I tatuaggi in carcere sono vietati perché ci si può infettare, contrarre l'HIV o l'epatite. Ma come si vede, chi lo vuole lo ottiene, magari scambiandolo con due pacchetti di sigarette. La ricerca è stata svolta su un campione di 50 uomini e 30 donne, in prevalenza italiani e dell'est Europa. In copertina, campeggia un'enorme farfalla tatuata sul collo taurino di un detenuto: «Un segno di libertà - dice Passaro - Così come il serpente simboleggia l'odio o la vendetta. Le croci, le madonne, i volti di Cristo servono a confortare, ma c'è anche chi si sente Dio! Una lacrima vicino a un occhio vuol dire che si è commesso un omicidio, due lacrime due omicidi». I detenuti di maggior spessore criminale, invece, i tatuaggi li evitano: con le città piene di telecamere, l'icona di un coltello può farti arrestare. «Ma pure le donne - conclude Passaro - portano tatuaggi violenti: una quarantenne italiana, dentro per traffico di droga, sfoggiava all'altezza della coscia il disegno di un reggicalze con la pistola. È tipico poi tra le detenute immortalarsi sui polsi o sulle caviglie i nomi dei genitori, dei figli, del marito. Durante la pandemia, quando i colloqui erano sospesi, i tatuaggi mostrati durante le videochiamate volevano comunicare proprio questo: l'indistruttibilità del loro legame». 

Dagotraduzione dalla Cnn il 19 ottobre 2021. Ötzi, l'Uomo venuto dal ghiaccio, è rimasto nascosto al mondo per millenni fino a quando, 30 anni fa, due turisti tedeschi l'hanno scoperto in un ghiacciaio nelle Alpi italiane. Questa mummia che ha 5.300 anni non è solo la mummia più famosa d'Europa, ma anche uno dei reperti più significativi per coloro che studiano la storia globale dei tatuaggi. Ötzi è stato decorato con 61 tatuaggi incredibilmente preservati dal clima glaciale. Il significato di quei tatuaggi è stato dibattuto sin dalla sua scoperta da parte dei due escursionisti. molti dei tatuaggi di Ötzi sono risultati essere linee disegnate lungo aree come la parte bassa della schiena, le ginocchia, i polsi e le caviglie, zone in cui le persone più spesso avvertono dolore continuo mentre invecchiano. Alcuni ricercatori ritengono che questi tatuaggi siano un antico trattamento per il dolore. Varie erbe note per avere proprietà medicinali sono state trovate nelle immediate vicinanze del luogo di riposo di Ötzi, conferendo ulteriore credito a questa teoria. Ma non tutti i tatuaggi di Ötzi sono in luoghi solitamente colpiti dall'usura della vita quotidiana. Ötzi sfoggiava anche dei tatuaggi sul petto. Secondo gli esperti questi tatuaggi, scoperti nel 2015 utilizzando nuove tecniche di imaging, possono essere frutto di agopuntura, di un rituale di guarigione, oppure indicare l’appartenenza a un gruppo religioso. Naturalmente, l'idea che i tatuaggi di Ötzi possano aver avuto un profondo significato culturale o religioso per lui e per il suo popolo non è al di là della ragione. In tutto il mondo antico e fino ai tempi moderni, i tatuaggi sono stati storicamente usati in cerimonie di guarigione, riti religiosi e per mostrare l'appartenenza a gruppi culturali e religiosi. In Egitto, i resti mummificati di alcune donne mostrano tatuaggi risalenti al 2000 a.C. Inoltre, nei rilievi tombali sono state trovate piccole statuine raffiguranti donne con tatuaggi che risalgono al 4.000-3.500 a.C. In entrambi i casi, i tatuaggi erano una serie di punti, spesso applicati come una rete protettiva sull'addome di una donna. Sulla parte superiore della coscia di una donna è stato anche trovato un tatuaggio della dea egizia Bes, la protettrice delle partorienti. Questi antichi tatuaggi erano considerati una sorta di talismano di protezione per le donne che stavano per partorire. Il primo storico greco Erodoto ha discusso di come gli schiavi fuggiaschi a Canopo si fossero tatuati volontariamente per coprire il marchio eseguito su di loro dai loro padroni e per devozione religiosa. Questi uomini e queste donne mostravano così di non essere più a servizio da un padrone terreno, ma di essersi affiliati a un certo dio o una certa dea. Nella Bibbia, Paolo, il primo apostolo cristiano dice: «D'ora in poi nessuno mi disturbi, perché porto nel mio corpo i segni del Signore Gesù». La parola originale usata per "segni" era la parola "stigmate", che è stata spesso vista, riferendosi a Erodoto, come il termine usato per descrivere le pratiche di tatuaggio. Diversi studiosi ritengono che i tatuaggi di Paolo avessero lo scopo di mostrare la sua devozione a Cristo. I tatuaggi avrebbero anche aiutato altri cristiani, che hanno affrontato la persecuzione dell'impero romano, a identificarlo come credente. Il popolo Maori della Nuova Zelanda pratica da secoli l'arte del tatuaggio di Ta Moko. Questi tatuaggi, praticati ancora oggi, hanno un profondo significato culturale e storico. I tatuaggi non solo trasmettono lo stato sociale, l'identificazione familiare e le realizzazioni della vita di una persona, ma hanno anche un significato spirituale con disegni che contengono talismani protettivi e appelli agli spiriti per proteggere chi li indossa. Molte tribù di nativi americani e delle prime nazioni del Nord America hanno una lunga storia di tatuaggi sacri. Nel 1878, il primo antropologo James Swan scrisse numerosi saggi sul popolo Haida che incontrò intorno a Port Townsend, Washington. In un uno di questi saggi ha spiegato che i tatuaggi erano più che ornamentali, e che ogni disegno aveva uno scopo sacro. Ha anche raccontato che coloro che eseguivano i tatuaggi erano visti come leader spirituali o persone sante. L'antico dio azteco del sole, del vento, dell'apprendimento e dell'aria, Quetzalcoatl, è spesso raffigurato negli antichi rilievi con alcuni tatuaggi. Lo stesso popolo azteco praticava il tatuaggio religioso, e i loro sacerdoti erano spesso incaricati di varie forme di body art. Nazioni dell'Africa occidentale come il Togo e il Burkina Faso hanno utilizzato e continuano a utilizzare tatuaggi e modifiche rituali del corpo come sacri riti di passaggio. Nei tempi moderni, si possono ancora vedere persone in tutto il mondo che portano tatuaggi sacri con significato religioso. Cosa significassero per Ötzi i tatuaggi che adornano suo il corpo mummificato rimarrà almeno in parte un mistero. Ma Ötzi è un importante promemoria del fatto che i tatuaggi sono stati, e continuano ad essere, una parte sacra di molte culture in tutto il mondo.

Adriana Marmiroli per “la Stampa” il 12 aprile 2021. Opere d'arte su pelle, i tatuaggi. Segni che rimandano a culture e devozioni, e risalgono alla notte dei tempi. In Italia il primo tatuato è Ötzi: gli studiosi che l'hanno analizzato gliene hanno trovati non pochi. Simboli esoterici o disegni curativi, si sono chiesti. Forse entrambe le cose. Parte con il cacciatore di Similaun e le analisi delle sue spoglie il libro “Marchiati” di Cecilia De Laurentiis (Momo Edizioni) che, in pagine dense di rimandi bibliografici e riferimenti documentali, percorre per la prima volta la storia del tatuaggio in Italia. Anzi, del «marchio». «Il tatuaggio come lo intendiamo noi oggi, anche come nome, risale all'800, quando fummo colonizzati da questa "cultura" di origine anglosassone e circense», ci spiega lei. «Da noi storicamente era tutt' altro: segno di devozione o appartenenza, piuttosto elementare nella costruzione e - dati i tempi - fatto solo con la tecnica dell'ago o del pennino che graffia, intinto nel nerofumo diluito in qualche tipo di distillato alcolico. I disegni erano semplici, talvolta rudimentali, sempre di colore turchino». Ma non così rari come si potrebbe pensare. Nel Medioevo si «marchiavano» i Crociati e i pellegrini: era il segno della loro fede. Non a caso uno dei centri più importanti sarà sino ad anni recenti Loreto. Lo si chiami marcatura o tatuaggio, comunque, dall'antichità ai giorni nostri la tradizione di disegnarsi la pelle si è sempre mantenuta, seppure segreta e nascosta. Sant'uomini, quindi, ma anche carcerati, marinai, criminali. Amanti, al più. Era legato a luoghi segregati e sottintendeva l'appartenenza a un gruppo ristretto. Superati i millenni, è nel Novecento che arrivano i «tempi bui»: Lombroso elegge il tatuaggio a segno inequivocabile di devianza criminale e atavismo regressivo; pubblica studi oggi considerati ben poco scientifici ma che allora ebbero rilevanza internazionale, diventarono parametro di riferimento in tutto il mondo occidentale (e tali ancora sono) e di fatto condannarono questa pratica (Torino, che ospita il Museo e l'Archivio Lombroso, per i materiali che conserva continua a essere uno dei maggiori centri di studio del tatuaggio a livello mondiale). Il fascismo arriverà a proibirli, pur tatuandosi orgogliosamente le camicie nere coi i truci simboli del movimento e il faccione del Duce. Negato, condannato, proibito, vituperato, solo in tempi molto recenti il tatuaggio ha smesso di essere considerato segno di emarginazione e infamia, ma è ornamento da esibire e vantare. Una moda che ha portato con sé anche esagerazioni. «Fino a ieri "arte degenerata", il tatuaggio fa parte a pieno titolo della cultura contemporanea. È un gesto importante e non scontato. In quelli che ho, c'è la mia vita: non la sua narrazione, ma un preciso clima esistenziale. Sono un memento. Sbagliano quei genitori che lo permettono ai figli adolescenti. Il tatuaggio va pensato. Vivrà con te, sulla e con la tua pelle, invecchierà con te. Farlo su impulso significa banalizzarlo. E invece è magia: il sangue che esce, il dolore, la ritualità del gesto». Nipote di uno scultore, la famiglia attraversata da una non sotterranea vena artistica, malgrado appartenga alla generazione che ha fatto del tattoo una pratica di massa esibita sempre meno ribelle, Cecilia De Laurentiis a tatuarsi è arrivata relativamente tardi: più che ventenne, ormai iscritta alla facoltà di Storia dell'Arte. Un percorso che l'ha portata ad approcciarsi alla sua passione in modo accademico da una parte e con una prospettiva artistica dall'altra: ricercatrice universitaria e studiosa, tatuata e tatuatrice. «Frequentavo la scena underground romana: non potevo ignorare questo fenomeno e i suoi artisti». Ma all'inizio c'era un certo timore. «Il passaggio da punk a tatuato sembrava obbligato. Ma io rifiutavo l'idea di un disegno che avrebbe segnato la mia pelle per sempre. Poi ho compreso che era tutto legato a come vivevo il mio corpo». Superato il blocco, «mi sono fatta io stessa un cuoricino piccolissimo su una gamba. Sono stata la cavia di me stessa». È stato il primo dei tanti disegni che ha su tutto il corpo: sempre più complessi e colorati, ne ha perso il conto. Non li fa più da sola, ora. Le piace, ci confessa, «farli fare a quegli artisti di cui amo il tratto e lo stile». Il corpo trasformato in una personale galleria d'arte, in un piccolo museo a fior di pelle.

Giampiero Mughini per Dagospia il 23 aprile 2023.

Caro Dago, non ho capito bene com’è andata la faccenda dell’intervista che una rivista tedesca aveva spacciato come una vera intervista a Michael Schumacher e invece si trattava di un elaborato dell’intelligenza artificiale. Faccenda che si è conclusa con il licenziamento in tronco della giornalista che faceva da caporedattore delle pagine in cui è apparsa l’intervista.

Premesso che date le potenzialità dell’intelligenza artificiale ne vedremo delle belle in futuro, non ho capito se la rivista tedesca lo avesse detto fin dal primo momento che si trattava di un artefatto e non di un reale colloquio giornalistico, o se invece a tutta prima lo aveva spacciato come tale per poi dire la verità. Non ho capito insomma se si trattava di un’operazione di dubbio gusto o di un tentato falso. Grave la prima ipotesi, grave la seconda.

Il fatto è che il limite tra il falso e il vero non esiste più da tempo nel mondo della comunicazione di massa, dominata com’è da ciò che avviene online. Dove passa di tutto e di più. Beninteso non che un misirizzi come me attenga al clamore connesso alla persona e al destino di Schumacher. 

Detto questo ammetterete un certo mio disappunto, alcuni anni fa, nell’apprendere che online esistevano ben tre account a mio nome, nei quali e dai quali sembrava fossi io a rivolgermi a dei potenziali followers. Tre account falsissimi, non meno dell’intervista a Schumacher. Ne individuai uno, mi recai alla sede della Polizia Postale a viale Trastevere, sporsi denuncia. Quel falso account lo gestiva uno che mi pare abitasse ad Acireale, un qualche mentecatto di cui non sapevo e non so nulla.

Dopo un paio d’anni mi arrivò la comunicazione che si sarebbe svolta una certa udienza al tribunale di Catania. Alla quale ovviamente non andai. Poi più nulla, saranno passati adesso quattro o cinque anni. Non so se il mentecatto di Acireale (o altri suoi compari) continuano ad avvalersi del mio nome. Probabilmente sì. E del resto se cammini per strada - come facciamo tutti - è inevitabile che le tue scarpe calpestino dello sterco. Resta il fatto che dicevo prima. Che nella odierna comunicazione di massa la linea divisoria tra il vero e il falso s’è fatta labile. 

Se poi parliamo del linguaggio della satira e più precisamente ancora della satira a mezzo di vignette pubblicate sui giornali, quella linea divisoria non esiste e non è mai esistita. Non esiste nel caso di Natangelo, non esisteva nel caso del mio caro amico Giorgio Forattini che nei giornali su cui firmava in prima pagina le sue vignette di colpi negli stinchi a Giulio Andreotti e a Bettino Craxi ne sferrava a man bassa. Ma anche, in una certa occasione a un Enrico Berlinguer che appariva infastidito dal fracasso di un corteo operaio che stava passando sotto casa sua.

Non so se in quell’occasione Berlinguer gli scrivesse a chiedergli l’originale della vignetta, quel che Andreotti faceva costantemente. Forse no. (Tra parentesi. Ho intervistato molti politici nella mia vita. Una volta ho intervistato in campagna elettorale Giulio Andreotti ed era la prima volta che lo incontravo. Ne sarebbe risultata una intervista molto lunga e articolata, che lui non mi richiese di rileggerla come facevano quasi tutti i suoi colleghi. Dopo la pubblicazione mi mandò due righe di ringraziamento.)

Per tornare alle vignette satiriche, no, non c’è un limite tra quello che si può disegnare e quello che non si deve disegnare. Se Natangelo ha superato quel limite nel mettere sotto le lenzuola quei due personaggi, di cui uno è la sorella nostro premier, una signora alla quale va tutta la mia simpatia? Ma non diciamo sciocchezze. Ci sarà chi ha riso a proposito di quella vignetta e chi non ha riso. Io non ho riso, tutto qui. Non dimenticatevi che a suo tempo ci furono delle persone perbene che disapprovarono le vignette di Charlie Hebdo che costeranno la vita a dodici fra i suoi collaboratori e redattori.

Ilaria Proietti ha firmato sul Fatto di oggi una intelligente intervista a Andrea Aloi, che era stato l’ultimo direttore del Cuore, un giornale che usava la satira come un’arma da guerra stando a come trafiggeva a forza di disegni i personaggi che i loro elettori odiavano politicamente. Alla vetta di quell’odio c’era il personaggio che settimanalmente veniva eletto “lo scemo della settimana”. Un onore che una settimana toccò a me. Che cosa avevo fatto di talmente rilevante. Secondo Cuore avevo dichiarato che nella elezione a sindaco di Roma dove si fronteggiavano Francesco Rutelli (sinistra) e Gianfranco Fini (destra) avrei votato il secondo.

Cosa che non potevo aver fatto dato che reputavo e reputo Rutelli il miglior sindaco che abbia avuto Roma, e sono anche il padrino di suo figlio Giorgio. Duecento volte si fosse votato per eleggere il sindaco di Roma, 200 volte avrei votato Rutelli. Quella del Cuore era una falsità, punto e basta. Al che telefonai a Serra ululando contro la porcata che mi avevano attribuito.

Lui pubblicò la mia precisazione aggiungendovi che Rutelli non doveva essere contento di avere il voto di un figuro quale il sottoscritto. Se in ragione di quelle sue righe di allora mi riprometto di far fare a Serra il giro di Piazza Navona a forza di calci nel culo? Ma nemmeno per idea. Il Serra di oggi lo leggo sempre con grande piacere e condivisione. E’ molto più simile al me stesso di quarant’anni fa che non al Serra di allora. Anzi, colgo l’occasione per salutarlo.

Estratto dell'articolo di Gad Lerner per "Il Fatto Quotidiano" il 23 aprile 2023.

Talmente sessista e volgare era la vignetta di Natangelo di ieri che quasi tutti i giornali di ieri si sono affrettati a pubblicarla, anziché censurarla. Immagino le risate nelle varie redazioni, prima di registrare la capriola dello straordinario moto di servilismo innescato dalla presidente del Consiglio stessa, che per prima ha voluto pubblicizzare attraverso i social cotanta ignominia. 

[…] Così, grazie al can can sollevato a bella posta da Palazzo Chigi, la contemporanea esibizione d’ignoranza del marito Lollobrigida (“ho parlato di sostituzione etnica senza sapere chi usa quel termine abitualmente”), quella se la sono bevuta tutti. 

[…] Preferisco ricordare l’unica volta in cui mi resi responsabile della censura di una vignetta, ai tempi di Lotta Continua. Era in corso il sequestro Moro e Vincino mi portò la foto dell’ostaggio in maniche di camicia che reggeva una copia di Repubblica con dietro il simbolo delle Brigate Rosse. La didascalia recitava: “Scusate, abitualmente vesto Marzotto”.

La reputai impubblicabile, e non me ne pento […] Lo scherno rivolto a una persona che sta soffrendo è l’unico limite che porrei alla libertà di satira. […] Nell’attesa che il governo emani, dopo quello per le Ong, anche il “codice di condotta” per gli autori di satira, accontentiamoci dell’autosatira in cui si è cimentata la stessa Meloni proclamando: “Più sono circondata da questa ferocia, più sono convinta di dover far bene il mio lavoro”. Però, circondata di ferocia la Meloni? Ahahahahah….

Estratto dell'articolo di Ottavio Cappellani per mowmag.com il 23 aprile 2023.

A Oscio sai che c’è? Hai rotto er cazzo. E stacce. Se è vero, come è vero, quanto scritto da Luca Bottura, che “la politica che spiega alla satira cosa è la satira non è mai uno bello spettacolo” è ancor più vero che la satira che spiega alla satira cosa è la satira fa un po’ cagare. 

Ed è proprio questa cagata che Federico Palmaroli, in arte Osho, compagno di merende della famiglia Meloni, ha giustappunto fatto in relazione alla MERAVIGLIOSA vignetta di Natangelo, esprimendosi con tali scagazzanti parole: “La vignetta di Natangelo fa un’allusione molto grave” con un carico di “cattiveria” che “si poteva evitare”. Ma che davero davero Oscio pensa che Natangelo, con la sua vignetta, stava seriamente dando la notizia che Arianna Meloni se ne sta a scopicchia’ coi neri? Maddai, certo che non lo pensa! Nessuno lo pensa, neanche Arianna Meloni per dire.

Che poi tutti a menarcela che la vignetta se la sarebbe pigliata con la sorella della Meloni in quanto sorella della Meloni e moglie di Lollobrigida, quando la verità è che di Arianna Meloni a nessuno gliene fotte una strabeatissima minchia, la moglie di Lollobrigida poteva essere chiunque, anche la mia tabaccaia o il mio gommista (che non po’ esse che Lollobrigida se sposa un gommista se je pare?), e dopo la sparata del ministro sulla “sostituzione etnica” era giusto e benedetto rappresentare la sua (o il suo) compagna/o a letto con un uomo di colore.

[…] Solo la malafede può fare dire che la battuta di Natangelo sia contro Arianna Meloni, che, sinceramente, è una che passava da lì per caso e che per caso è moglie di Lollobrigida (che per caso è ministro) e che è il vero obiettivo della BELLISSIMA vignetta.

Ma quello che fa più incazzare, e non solo con la politica, ma anche coi giornalisti che sono corsi a intervistarlo, è questo inedito ruolo di Palmaroli/Osho come satiro di regime, che sentenzia, giudica, pontifica: questa battuta se po’ fa ques’artra no. Sai che c’è, Osho? Ma vattela a pijia in der culo (metaforicamente e satiricamente, è ovvio). Er satirico laureato, er satirico ufficiale, ma anche no.

E stacce.

 Se a sinistra l'insulto si chiama arte. Non fa ridere, non fa riflettere, non provoca e non ha niente a che fare con l'arte. Fa schifo. Punto e basta. Francesco Maria Del Vigo il 16 Aprile 2023 su Il Giornale

Non fa ridere, non fa riflettere, non provoca e non ha niente a che fare con l'arte. Fa schifo. Punto e basta. Parliamo del quadro - ammesso che si possa chiamare così una roba del genere - esposta nella Zona rossa del Torino comics. Rossa perché vietata ai minori ma, evidentemente, anche per passione politica.

Scusate il linguaggio, più consono alla descrizione di un video di Youporn, ma è necessario per descrivere il contenuto e la levatura dell'opera: un fallo che eiacula sul viso di Matteo Salvini mentre fa un saluto romano. Capite bene che più che nel campo artistico siamo in quello psichiatrico. L'illustrazione è di tale Luis Quiles, disegnatore spagnolo semi sconosciuto e del quale non sentivamo la mancanza. L'immagine è stata rilanciata sui social network, con più che legittima indignazione, dallo stesso ministro dei Trasporti che la ha commentata così: «Opera "d'arte" esposta a Torino. A me, con tutto il rispetto, pare solo una schifezza disgustosa. Direi penosa». Poco dopo arriva la controrisposta del pittore che si compiace beotamente della reazione del vice primo ministro.

Il problema è ovviamente tutto politico. Non se ne può più di questi presunti artisti di sinistra che pretendono che tutte le loro frustrazioni diventino provocazioni, che le loro ossessioni psichiatriche si trasformino in capolavori. Erano, sono e resteranno delle mediocri schifezze. Ed è ancora più irritante che proprio quella parte politica che sventola in continuazione la propria superiorità morale, squaderna i sacri testi del politicamente corretto e finge di difendere tutte le possibili minoranze poi faccia esplodere la sua violenza bestiale e volgare contro i politici di destra. Sono gli alfieri di un falso e viscido buonismo che poi diventano cattivissimi con chi non la pensa come loro. E, in particolare, con Matteo Salvini che è diventato il parafulmine di tutte le isterie progressiste.

Tutto ciò pressocché nell'indifferenza generale e, peggio ancora, col silenzio assenso del mondo intellettuale. Perché se c'è un cretino che ha deciso di fare quell'opera, ce n'è anche un altro che ha deciso di esporla. Pensate cosa sarebbe successo se al posto della faccia di Salvini ci fosse stata quella di un politico di sinistra? O peggio ancora di una donna di sinistra? Molto probabilmente, sarebbe crollato il cielo del perbenismo radical chic e sarebbero partite petizioni, raccolte firme e financo sit in per rimuovere l'opera. Ma non succederà mai, perché dubitiamo che qualche artista di destra possa mai partorire una simile spazzatura spacciandola per cultura. Questo è ancora un primato della sinistra.

Estratto dell’articolo di Paolo Travisi per “il Messaggero” il 27 gennaio 2023.

Chi non ha difetti. Fisici o caratteriali che siano, deriderli può essere un gesto ironico se si è tra amici o in grande confidenza, ma se non si condivide intimità, il buon senso (e evidentemente anche la legge) prevede di non farlo.

 I social hanno trasformato il privato in pubblico, tutto può essere esposto nell'agorà digitale ed in questa cornice, prendersi in giro, può facilmente divenire un gesto di body shaming. Deridere una persona per qualsiasi sua peculiarità fisica, dall'essere troppo alto al troppo basso, con troppi capelli o pochi capelli, muscoloso o in sovrappeso, può essere un atto diffamatorio: un reato, commesso anche banalmente con un emoji, una di quelle faccine che si usano sempre più spesso tra messaggini e commenti social.

E infatti una recente sentenza della Corte di Cassazione, la 2251 del 2023, ha considerato diffamatorio il post condito da una emoji di troppo e scritto da un uomo che sui social «offendeva la reputazione» di un imprenditore di lombardo perché commentando un post dedicato ai problemi di viabilità del Comune di Luino, faceva espresso riferimento ai suoi deficit visivi» corredando la frase con l'emoticon di una risata. E proprio qui, in quella faccina, si evidenzia, secondo i giudici, la diffamazione. […]

In appello, infatti, i giudici avevano stabilito che si trattasse piuttosto di un'ingiuria, una differenza che può sembrare sottile, ma che ha un peso giuridico decisamente diverso: l'ingiuria ossia l'offesa pronunciata direttamente nei confronti della vittima, e quindi in sua presenza è stata depenalizzata per cui l'offeso può solo rivalersi in sede civile per ottenere il risarcimento economico di eventuali danni.  […]

Retequattrismi. L’ambigua (in)tolleranza della destra per le due vittime della gogna mediatica. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 24 Aprile 2023

La vignetta sulla sorella di Meloni ha suscitato scandalo non solo per l’allusione alla relazione extra coniugale, ma anche perché a letto c’era un africano. Invece è stato accettato senza patemi che un giornalista conservatore sia omosessuale, ma a patto che continui a rinnegare ai gay il diritto di adottare bambini 

A me pare che sia stata anche poca e anche insufficientemente motivata la solidarietà rivolta alla sorella di Giorgia Meloni. Quelle della vignetta, infatti, non erano allusioni, come la presidente del Consiglio, per compostezza istituzionale e comprensibile ritegno, le ha definite: erano attribuzioni esplicite di almeno due fatti specifici, posti sinergicamente a definire un dispositivo diffamatorio di gravissima portata lesiva. E cioè non solo che la sorella della madre bianca e cristiana avrebbe coltivato una riprovevole relazione extra-coniugale, ma che il sinallagma peccaminoso si sarebbe formulato nell’accoppiamento con un portatore di malattie, fruitore della pacchia, finto profugo, rapinatore del lavoro dei figli della patria, insomma un negro.

Qui c’era ben più e ben peggio che la gratuita berlina per una persona senza profilo pubblico: c’era l’inammissibile vilipendio del diritto di una donna di non essere passata per adultera o per quella che si accoppia con uno che per carità va rispettato, anche io ho tanti amici di colore, per carità anche tra loro ci sono persone perbene, lo dice anche Retequattro, per carità tutti gli uomini sono uguali, ma insomma deve stare al suo posto. E il suo posto non è il letto di una sorella della nazione.

Passa qualche giorno e che ti succede? Ti succede che questa volta la berlina tocca a un figlio di quella nazione, uno di cui si dice che è omosessuale senza tuttavia considerare ciò che evidentemente lo assolve da quel suo peccato, e cioè che è di destra. Per fortuna gli è giunto, con solerte unanimità, il dovuto e solidale abbraccio dell’Italia tollerante e inclusiva: cioè quella di destra, inclusiva nel senso che include il frocio a patto che rinneghi ai gay il diritto di adottare bambini e tenga bordone al leghismo in farfallino che vuole mettere in carcere le assassine, cioè le donne che abortiscono. 

Ma ecco – e tu vedi che bel Paese civile nel suo complesso? Tu vedi che la vera tolleranza è trasversale? Tu vedi che su certe cose, per fortuna, non si transige né a destra né a manca? – ecco, dicevo, che alla vittima dell’outing arriva la solidarietà anco puro della sinistra, che vabbè che quello è un po’ fascista ma se è gay vuol dire che ha cominciato il processo di transizione e magari diventa democratico: ché invece se rivelavano che gli piacciono quelle con le tette grosse restava un fascista e basta.

Chissà che casino al quadrato se una vignetta riunisse in uno stesso letto di castità le due separate vittime della gogna.

Estratto dell'articolo di Laura Mantellini per corriere.it il 23 aprile 2023.

«A testa alta, insieme, da sempre e per sempre»: parole su Facebook della premier Giorgia Meloni. Nel post una foto che la ritrae con la sorella Arianna. Un attestato di stima e vicinanza che ribadisce il legame fra fortissimo fra Giorgia e Arianna, ritratta qualche giorno fa in una vignetta con modalità che hanno irritato non solo la presidente del Consiglio. 

All'origine delle polemiche, la frase di Francesco Lollobrigida, che a proposito di natalità in calo in Italia e migranti ha parlato del rischio di «sostituzione etnica». È seguita una vignetta, pubblicata sul Fatto quotidiano in prima pagina, che, riprendendo le parole del ministro, titolava  «Obiettivo incentivare la natalità». Nel disegno satirico di Natangelo era rappresenta la camera da letto di Lollobrigida, sposato con la sorella di Giorgia Meloni. Nel letto della camera padronale un uomo di colore e una donna bianca.

Nella nuvoletta l'invito a star tranquilli, tanto il marito (Lollobrigida, ministro dell'Agricoltura) è «tutto il giorno fuori a combattere la sostituzione etnica». Alla bufera conseguente, Marco Travaglio, direttore del Fatto quotidiano, ha replicato all’Ansa: «Non posso passare il mio tempo a spiegare le battute a chi non le capisce». 

È evidente come il post domenicale della premier sia una reazione a freddo, ribadendo un legame familiare come noto saldissimo. «Siamo sempre state dinamite, insieme. Lei, semplicemente, fino alla nascita di mia figlia Ginevra è stata la persona più importante di tutta la mia vita» ha scritto la premier nella sua autobiografia. Ancora: «Non c’è segreto che non le confessi, consiglio che non le chieda, e se non ci parla al telefono almeno una volta al giorno mi manca qualcosa». [...]

Vignetta su Arianna Meloni e Lollobrigida, la premier accusa: «Allusioni indegne». Franco Stefanoni su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2023

Il Fatto quotidiano ha pubblicato una vignetta satirica legata alla frase del ministro del governo Meloni. Il centrodestra è insorto. La Russa: «C’è un limite a tutto, anche all’indecenza». Travaglio: «Non posso passare il mio tempo a spiegare le battute a chi non le capisce» 

Dopo la frase di Francesco Lollobrigida, che a proposito di natalità in calo in Italia e migranti ha parlato del rischio di «sostituzione etnica», sollevando più di qualche critica, nuove polemiche sono nate da una vignetta pubblicata sul Fatto quotidiano in prima pagina, che riprende le parole del ministro. Intitolata: «Obiettivo incentivare la natalità», ha come sfondo la camera da letto di Lollobrigida, con un uomo nero e una donna bianca, corredata da una frase in cui si dice che c’è da star tranquilli poiché il marito è «tutto il giorno fuori a combattere la sostituzione etnica». Alla bufera conseguente, Marco Travaglio, direttore del Fatto quotidiano, ha replicato all’Ansa: «Non posso passare il mio tempo a spiegare le battute a chi non le capisce».

La vignetta è stata contestata in primis da Giorgia Meloni, in difesa della sorella, che nella vita privata è la moglie del ministro Lollobrigida: «Quella ritratta è Arianna - scrive la premier in un post -. Una persona che non ricopre incarichi pubblici, colpevole su tutto di essere mia sorella. Sbattuta in prima pagina con allusioni indegne, in sprezzo a qualsiasi rispetto verso una donna, una madre, una persona la cui vita viene usata e stracciata solo per attaccare un governo considerato nemico... ma se qualcuno pensa di fermarci così, sbaglia di grosso».

In serata interviene la stessa sorella della premier: «Lo sanno queste persone che dietro alle loro cattiverie esistono persone? Persone con i loro problemi, le loro angosce, con i loro sentimenti, con le loro paure? Ma soprattutto con le loro famiglie, i loro amici, i colleghi di lavoro e i loro figli? Lo sanno, ma per loro attaccare l’avversario vale anche la destabilizzazione della vita delle persone e delle loro famiglie».

«C’è un limite a tutto, anche all’indecenza», è stato l’intervento di Ignazio La Russa, presidente del Senato, «quella pubblicata dal Fatto quotidiano non è una vignetta divertente, non è satira, è solo spazzatura dalla quale tutti dovrebbero prendere le distanze. Solidarietà sincera ad Arianna e Francesco Lollobrigida».

Gennaro Sangiuliano, ministro della Cultura: «Sono scandalizzato dalla vignetta pubblicata in prima pagina sul Fatto quotidiano. Siamo abituati alle critiche e continuiamo a lavorare a testa bassa per il bene della Nazione ma oggi si è superato il limite: mi auguro che da parte del direttore Marco Travaglio arrivino scuse immediate e che tutte le forze politiche esprimano la loro indignazione. A partire dalla segretaria del Partito democratico Elly Schlein, che sono certo vorrà prendere le distanze e condannare con fermezza questa indecenza». 

«Il Fatto quotidiano dimostra, ancora una volta, di avere problemi seri con la satira», è stato il commento di Tommaso Foti, capogruppo di FdI alla Camera, «la vignetta pubblicata oggi, squallida, volgare e sessista, non fa ridere e oltrepassa qualsiasi limite di decenza. In attesa di una condanna unanime da parte di tutte le forze politiche - Pd, 5Stelle e altri -, dei benpensanti e del mondo femminista, il direttore Travaglio assuma la responsabilità di quanto il suo giornale pubblica e chieda scusa».

Anche per Maurizio Lupi, capo politico di Noi moderati: «La vignetta del Fatto quotidiano è disgustosa e volgare, offende non solo Arianna e Francesco Lollobrigida, ma tutte le persone che credono nella politica come confronto sui temi e come servizio al Paese. Questa vignetta è solo l’ultimo caso di una degenerazione del dibattito pubblico, sempre più centrato sugli attacchi personali, incapace di affrontare i progetti reali. Stiamo attenti, tutti, perché questa deriva allontana sempre di più i cittadini dalla politica e dall’impegno pubblico. Ci piacerebbe ora che quella sinistra,sempre così solerte nel puntare il dito contro chi, magari in buona fede, esprime concetti giusti con parole sbagliate, difendesse Francesco ed Arianna e fosse capace di indignare anche quando la volgarità si rivolge contro il centrodestra».

«Non condivido una parola di ciò che ha detto Lollobrigida ma questa vignetta del Fatto quotidiano è disgustosa», sono state le parole di Maria Elena Boschi di Italia viva, «è il solito vergognoso stile del giornale di Travaglio che aggredisce le persone e le famiglie». E quelle di Carlo Calenda, leader di Azione: «La vignetta del Fatto fa schifo. Né più, né meno. La satira in questo caso non c’entra proprio nulla. Si tratta di volgarità pura e semplice. La mia solidarietà e quella di Azione alla presidente del Consiglio e a sua sorella Arianna».

Sulla stessa falsa riga il commento di Matteo Renzi a capo di Italia viva: «Il Fatto quotidiano ha come marchio di fabbrica l’aggressione. E oggi aggredisce Arianna Meloni e la sua famiglia, cui va la mia totale solidarietà. L’aggressione mediatica alla persona, alla famiglia, soprattutto alla donna: oggi è la Meloni, ieri eravamo noi, domani saranno...».

Vignetta choc, lo strano silenzio di Schlein e Boldrini. La leader e la deputata dem, solitamente in prima linea nella lotta contro il sessismo e gli stereotipi, non hanno proferito parola sulla triviale vignetta che alludeva alla sorella della Meloni. Che strano. Marco Leardi il 21 Aprile 2023 su Il Giornale.

Due, quattro, sei ore. Otto, dieci e così via. Da stamani, i giri d'orologio sono trascorsi accompagnati da un emblematico silenzio: quello di Elly Schlein sul caso mediatico del giorno. La leader Pd, infatti, non ha stranamente proferito favella sulla volgare vignetta comparsa in prima pagina sul Fatto Quotidiano e divenuta oggetto di accese polemiche. E pensare che qualche parolina sul degradante fumetto avrebbe anche potuto spenderla, se non altro in virtù delle proprie battaglie femministe e in difesa delle donne. Già, perché al centro di quella vergognosa "ironia" c'era proprio una donna (la sorella del premier Meloni), peraltro dileggiata ricorrendo ai più triviali stereotipi. Forse la paladina del progressismo e dei diritti non se n'è accorta.

Il silenzio della femminista Elly

Mentre scriviamo, infatti, non si registrano reazioni o commenti sull'episodio da parte di Schlein. Al contrario, dal Pd non sono fortunatamente mancate espressioni di condanna da parte di alcune esponenti donne. Ci riferiamo alle condivisibili esternazioni indignate di Simona Malpezzi, Debora Serracchiani e Michela De Biase. Il fatto però non giustifica la leader di partito, che anzi - a rigor di logica - avrebbe dovuto essere la prima a stigmatizzare quella vignetta. Invece niente. Davvero strano, visto che Elly è sempre stata in prima linea nelle lotte in difesa delle donne e della loro dignità. E si è sempre dichiarata contraria agli stereotipi, alla visione maschilista del mondo, al sessimo (reale e presunto) riscontrabile nella società odierna. Guai poi a sbagliare le declinazioni al maschile o al femminile: grave oltraggio ai diritti di tutti. Anzi, di tuttə.

La strana distrazione di Schlein

"Abbiamo una visione intersezionale che combatte qualsiasi forma di discriminazione, quelle razziste, quelle sessiste, quelle abiliste, quelle omobilesbotransfobiche", aveva assicurato Schlein prendendo la tessera del Pd. E lo aveva ribadito poi, ricevendo la corona di nuovo segretario dem. Stavolta la leader piddina era però probabilmente distratta, al punto da silenziarsi sulla vignetta che alludeva alla moglie del ministro Lollobrigida, nonché sorella di Giorgia Meloni. Mentre quest'ultima esprimeva la propria amarezza per quel disegno, seguita dall'indignazione bipartisan di molti colleghi, Elly era forse impegnata a gestire le frizioni interne al proprio partito. Oppure a preparare un discorso per il suo 25 aprile "di lotta e mobilitazione". Magari stava pensando come spiegare alle femministe il proprio sostegno all'utero in affitto. Chissà.

La taciturna Boldrini

E chissà invece cosa stesse invece facendo Laura Boldrini, dalla quale pure non si sono udite parole sulla vicenda. Per il momento, anche l'ex presidente della Camera non ha espresso alcun commento ma in compenso ha attaccato il governo per la ramanzina sui diritti Lgbt arrivata dall'Europa su esortazione della sinistra. Anche in questo caso, l'insolito silenzio è parso in contrasto con l'abituale solerzia della deputata dem nel condannare il sessismo e le offese alle donne. Forse la vignetta di Natangelo era trascurabile perché alludeva alla sorella del premier Meloni? Non vogliamo crederlo. Piuttosto, se un simile disegno avesse ritratto qualche donna di sinistra, cosa sarebbe accaduto?

In ogni caso, attendiamo ancora che Schlein e Boldrini sciolgano gli indugi e ci facciano sapere cosa pensano sul disegno di cui tutti stanno discutendo. Quanti giri d'orologio passeranno ancora?

(Adnkronos il 20 aprile 2023) - Scintille tra maggioranza e opposizioni in aula alla Camera. A scatenarle la vignetta del 'Fatto quotidiano' sulla sorella di Giorgia Meloni, Arianna, e il marito Francesco Lollobrigida, ministro dell'Agricoltura. 

"Si interrompa questa campagna di fango fondata sul nulla e si interrompa il silenzio che, altrimenti, è complice", ha detto la deputata di FdI Augusta Montaruli stigmatizzando la vignetta e chiedendo solidarietà a tutta l'aula mentre i deputati di Fratelli d'Italia sottolineavano con una standing ovation le sue parole. Poco dopo, sull'intervento di Marco Grimaldi l'atmosfera di solidarietà si è però incrinata.

Dopo le prime parole il deputato di Avs è stato interrotto dal rumoreggiare e dalle proteste provenienti dai banchi della maggioranza. Lo stesso Grimaldi ha quindi esclamato: "Non ti vergogni a dire 'sei scemo', ma come ti permetti!". E' stata la presidente di turno dell'aula, Anna Ascani (Pd), a richiamare all'ordine Marco Perissa (FdI), evidentemente autore dell'epiteto offensivo verso Grimaldi.

"Porti rispetto verso la presidenza", ha detto Ascani. Calmata l'aula, Grimladi ha ripreso il suo intervento: "Sono d'accordo con la solidarietà, ma mi sarei aspettato la stessa solidarietà verso congiunti dei parlamentari 'denudati' davanti all'opinione pubblica", ha spiegato rivolgendosi alla maggioranza.

(Adnkronos il 20 aprile 2023) - Grimaldi ha concluso: "Siamo d'accordo con la collega Montaruli, sull'uso strumentale delle donne e del loro corpo, ma dico a tutti di stare attenti". 

A questo punto Federico Fornaro (Pd) è intervenuto per spiegare: "Non abbiamo mai avuto nessuna difficoltà a stigmatizzare e condannare vignette o espressioni volgari, vignette come queste alimentano l'odio. Anche la parole vano pesate. Ma dove eravate quando su alcuni esponenti del Parlamento si parlava di bambole gonfiabili?".

 Fornaro ha chiesto di portare all'attenzione della presidenza l'episodio con le parole di Perissa verso Grimaldi e la seduta si è chiusa con un impegno in questo senso preso dalla Ascani.

Dagospia il 20 aprile 2023. Post di Giorgia Meloni su Facebook

Quella ritratta nella vignetta è Arianna. Una persona che non ricopre incarichi pubblici, colpevole su tutto di essere mia sorella. Sbattuta in prima pagina con allusioni indegne, in sprezzo di qualsiasi rispetto verso una donna, una madre, una persona la cui vita viene usata e stracciata solo per attaccare un Governo considerato nemico. 

E il silenzio assordante su una cosa del genere, da parte di quelli che dalla mattina alla sera pretendono di farci la morale, dimostra plasticamente la malafede della quale siamo circondati. 

Ma se qualcuno pensa di fermarci così, sbaglia di grosso. Più sono circondata da questa ferocia, più sono convinta di dover fare bene il mio lavoro. Con amore. La cattiveria senza limiti la lasciamo agli autoproclamatisi "buoni".

(Adnkronos il 20 aprile 2023. ) - "C'è un limite a tutto, anche all'indecenza. Quella pubblicata dal Fatto Quotidiano non è una vignetta divertente, non è satira, è solo spazzatura dalla quale tutti dovrebbero prendere le distanze. Solidarietà sincera ad Arianna e Francesco Lollobrigida". Così il presidente del Senato Ignazio La Russa.

Giorgia Meloni e la sorella Arianna, legatissime fin da piccole: «È la persona migliore che abbia conosciuto». Monica Guerzoni su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2023

Le due sorelle Giorgia e Arianna Meloni sono andate avanti «senza aiuti, anzi con molti ostacoli» dopo l'abbandono del padre. Di lei la premier dice: «Fino alla nascita di mia figlia Ginevra è stata la persona più importante di tutta la mia vita» 

Legate a doppio filo (di Arianna). Simbiotiche, indissolubili. Le sorelle Meloni si raccontano come Frodo e Sam, lo hobbit protagonista del Signore degli Anelli e il suo devoto e leale compagno. Fino alla fine del romanzo epico di Tolkien, che la premier ama e compulsa da sempre per essere «una straordinaria metafora sull’uomo e sul mondo», Samvise detto Sam resta al fianco di Frodo Baggins, spalla, ombra, braccio destro e sinistro dell’amico, così come Arianna lo è della leader della destra. La sorella maggiore, classe 1975, è di due anni più grande e per capire la premier e le sue reazioni bisogna cominciare da lei, magari sfogliando il capitolo Piccole donne dell’autobiografia Io sono Giorgia. «Siamo sempre state dinamite, insieme. Lei, semplicemente, fino alla nascita di mia figlia Ginevra è stata la persona più importante di tutta la mia vita». 

Così scrive l’autrice e rivela che «non c’è segreto che non le confessi, consiglio che non le chieda» e se non ci parla al telefono almeno una volta al giorno sente che le «manca qualcosa». Quando il padre commercialista abbandonò la moglie Anna e la famiglia, Arianna e Giorgia erano ancora bambine. «Siamo arrivati dove siamo senza aiuti, anzi con molti ostacoli», ha ricordato la lunga traversata verso Palazzo Chigi la moglie del cognato-ministro Francesco Lollobrigida. Sorella, amica e consigliera, sul piano personale e su quello politico, Arianna c’è sempre ed era anche a Milano pochi giorni fa, durante la visita della presidente del Consiglio al Salone del Mobile. 

Quando erano bambine toccava alla più grande raccontare le favole alla piccola di casa per farla addormentare e la premier non dimentica: «Non le dirò mai grazie abbastanza per l’amore che mi ha regalato... Perché lei, Arianna, è la persona migliore che abbia conosciuto su questa terra». Anche con queste parole, stampate in tiratura record, si spiega la rabbia con cui la premier ha reagito per difendere la sorella dalle «allusioni indegne» della vignetta del Fatto quotidiano, che entra nella camera da letto di casa Meloni-Lollobrigida dopo le parole (improvvide) del responsabile dell’Agricoltura sul rischio di sostituzione etnica. «Se qualcuno pensa di fermarci così sbaglia di grosso», avverte la fondatrice di Fratelli d’Italia. Arianna potrebbe dirlo con le parole di Sam al padron Frodo: «Ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest’ombra. Anche l’oscurità deve passare. Arriverà un nuovo giorno». 

 "Dementi", "fascisti" e ministri "maiali". Il vizio della sinistra di insultare i nemici. Paolo Bracalini il 21 Aprile 2023 su Il Giornale.

Il complesso di superiorità legittima le offese più volgari. E il body shaming è sdoganato

C'è una lunga e consolidata tradizione dietro la vignetta sulla sorella della Meloni. La base di partenza è l'inferiorità morale della destra, che autorizza espressioni altrimenti considerate insulti, intollerabili se fatte a parti inverse. Molto recente il «demente» affibbiato dall'ingegner De Benedetti alla premier, senza suscitare particolari reazioni. Da sinistra il disprezzo per l'avversario politico rasenta volentieri l'odio, legittimando attacchi violenti anche sul personale. Senza rievocare la stagione antiberlusconiana e lo sdoganamento delle ingiurie ai suoi ministri (vedi Brunetta, ferocemente sfottuto per la statura) e ministre (normalmente ritratte come sgualdrine), ci si può limitare a tempi più recenti. Il Fatto è una delle più affermate palestre per colpi bassi, con i suoi manganellatori per mezzo di matita Vauro, Natangelo, Mannelli e affini. Uno dei soggetti preferiti è Matteo Salvini, accostato di volta in volta a escrementi, parti del corpo poco nobili, animali tipo asini o maiali (vignetta di qualche tempo fa: si vede il leader della Lega con le sembianze del porco e la scritta «Peste suina focolaio a Roma»). In un'altra Salvini è una «metastasi». In un'altra ancora, di Vauro, è direttamente un «coglione», e via così. Vauro ha trovato ispirazione sempre dal gabinetto per commentare l'elezione del leghista Lorenzo Fontana a presidente della Camera lo scorso ottobre: un enorme escremento fumante da cui spunta la testa di Fontana, titolo: «Mancava la ciliegina sulla torta».

Le donne sono soggetti facili, vulnerabili sul piano sessuale. C'è stato un periodo in cui era in voga Maria Elena Boschi, che per quanto di sinistra, essendo renziana è considerata di destra, quindi trattabile con le stesse maniere. Sempre una vignetta sul Fatto, quand'era ministra, la ritrae con le gambe accavallate, il testo recita «Riforme: lo stato delle cos(c)e». Poi ovviamente la Meloni, rappresentata come una burina fascista, o anche peggio (in una vignetta del solito Natangelo sul tema «bonus facciata» lei si è rifatta il viso, a forma di sedere). Di mezzo ci è finita anche Elly Schlein, raffigurata come un mostro con il naso adunco, evidente riferimento alle origini ebraiche.

Frequente è anche l'appellativo «pescivendola» per la Meloni, metafora usata per esempio dal giornalista Alan Friedman in tv per commentare un discorso della leader Fdi («Urla come una pescivendola»), che poi per risposta fece un video con una cassetta di pesce per dire che non lo riteneva affatto un insulto, anche se l'intento era quello. Lo scrittore Roberto Saviano ha dato del «mediocre» e «servo» al ministro Gennaro Sangiuliano, giornalista di destra ed ex direttore del Tg1. Niente in confronto al «bastarda» dato alla Meloni (fatto per cui è stato querelato per diffamazione dalla premier). In difesa di Saviano è arrivata la scrittrice Michela Murgia, che ha paragonato la Meloni addirittura alla camorra, perché entrambe minacciano l'autore di Gomorra. Al programma «Otto e mezzo» la filosofa Rosi Braidotti ha parlato della «faccia rabbiosa e cattiva» della Meloni, mentre la conduttrice Lilli Gruber ha preso in giro Mario Giordano per la voce, imitandola su un palco, e dicendo di non sentirsi una sua collega. Insulti e body shaming che, se fossero avvenuti al contrario, sarebbero costati la radiazione dall'albo. Sulla vignetta sessista contro Arianna Meloni la condanna è un po' più ampia, ma neanche troppo (vedi i grillini che solidarizzano con il Fatto). I vignettisti del Fatto si parano dietro il diritto di satira e addirittura l'articolo 21 della Costituzione. «Siamo già nel fascismo», dice uno di loro. E te pareva.

Marco Travaglio per "il Fatto quotidiano” il 24 aprile 2023.

Quante cose ha svelato Natangelo in 6x5,5 cm di vignetta: lo stato comatoso del governo, della maggioranza, della cosiddetta opposizione di centro e presunta sinistra, ma soprattutto della fu informazione. 

Giorgia Meloni scambia la sorella per il bersaglio della vignetta e per una piccola fiammiferaia senza rilievo pubblico, mentre da mesi l’Arianna troneggia sui media in quanto prima consigliera della premier e moglie del ministro-cognato Lollobrigida.

Denuncia il “silenzio assordante” assordata dalla canea che si leva tutt’intorno contro il vignettista e il Fatto. Dimentica i suoi tweet per la libertà di satira: “Ezio Greggio... smonta la deriva politicamente corretta che vorrebbe mettere il bavaglio sulla comicità. Viva la libertà di satira” (29.5.2021). 

I fanatici del politicamente corretto come al solito non gradiscono la comicità libera e partono all’attacco di Checco Zalone, con esponenti politici che chiedono le scuse o che venga ‘corretto il tiro’ della sua satira. Che tristezza. Viva Zalone e la comicità libera e pungente (23.2.2022). 

E proclama, pancia indentro e petto infuori, che “se qualcuno pensa di fermarci così, sbaglia di grosso”, come se qualcuno avesse mai pensato di fermare chicchessia con una vignetta. Come può uno scoglio arginare il Lollo. 

[…] Renzi, parlandone da vivo, commenta nel suo italiano malfermo (è madrelingua saudita): “Non è solo una vignetta ma un clima per cui se fai politica puoi essere mostrificato anche nella tua sfera privata, per cui la cultura del sospetto è il filo conduttore di presunti opinionisti televisivi, per cui si scambia la satira con l’odio”. 

Per cui se fai ammazzare e dissecare con la sega circolare un giornalista dissidente sei un principe del Rinascimento e un impareggiabile finanziatore, se invece fai una vignetta è “odio”. Per cui la Boschi dice al Giornale: “Non mi rassegno allo stile Travaglio”, da sempre “misogino”. 

Ma questa è satira, come la frase di Osho: “La satira dev’essere libera, senza paletti, ma in questo caso si è esagerato”. Ergo i paletti esistono. Li decide lui, previo consulto con la famiglia Meloni.

[…] Su La7, Mentana fa il Mentana: “Dovremmo anche parlare di quello che ha monopolizzato di più, nei corridoi dei palazzi della politica, l’attenzione di maggioranza e opposizione: una vignetta pubblicata dal Fatto sulla vicenda Lollobrigida e la sostituzione etnica, con implicazioni che riguardano la vita privata di persone non politiche. Non vogliamo mostrarla... per non scendere al livello molto basso sia della vignetta sia dei commenti e proteste che poco hanno a che fare con la politica nel senso più alto. Scusate se sembra uno slalom rispetto al problema: è una brutta vignetta, è giusto non farla vedere”. 

Siccome non vale la pena di parlarne, ne parla. E siccome non gli piace, non la mostra così nessuno capisce se è bella o brutta. Però sono brutte anche le reazioni. Brutti i censori e brutto il censurato. Come chi assiste a un linciaggio e rimane neutrale perché il linciato porta una brutta cravatta.

Marco Damilano, il vispo ex direttore dell’Espresso che sbatté in copertina la foto ritoccata della Raggi per imbruttirla e invecchiarla, ora è su Rai3 e solidarizza con la povera Arianna vittima di una “logica tribale”. Qualunque cosa significhi, una leccatina ai nuovi padroni della Rai può sempre servire. Il sederino è salvo, la dignità uno non se la può dare.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per "il Fatto quotidiano” il 24 aprile 2023. 

[...] Lo zanzarologo. “L’ho detto nella “variante parenzo” di Radio24 news di oggi e in più occasioni: le 'vignette' del Fatto non fanno ridere! Farebbero bene ad abbandonare il tentativo di fare satira e dovrebbero dedicarsi solo alle manette. Solidarietà alla Famiglia Francesco Lollobrigida” (David Parenzo, Twitter, 21.4). Minchia, l’ha detto nella “variante parenzo” e in più occasioni: e adesso come facciamo? [...]

Da Amatrice a Ischia, passando per Lollobrigida: tutte le vignette choc di Natangelo. Mario Natangelo cerca in tutti i modi di imitare la satira di Charlie Hebdo, forse per raccogliere le stesse attenzioni mediatiche ma inutilmente. Francesca Galici il 21 Aprile 2023 su Il Giornale.

La vignetta di Mario Natangelo pubblicata su Il Fatto Quotidiano ha suscitato indignazione bipartisan, perché una simile volgarità contro una donna non può essere rubricata sotto l'insegna della satira, che è ben altra cosa. Per colpire il ministro dell'Agricoltura, Francesco Lollobrigida, si è colpita sua moglie, Arianna Meloni, madre dei loro figli, che non ha alcun incarico pubblico e non ha rilasciato alcuna dichiarazione pubblica. A difendere Natangelo è sceso in campo Vauro ma non c'era da aspettarsi niente di diverso, visto che i due si muovono spesso sulla stessa lunghezza d'onda.

"Volgare e sessista". Scoppia la bufera sulla vignetta choc del Fatto

È facile offendere qualcuno trincerandosi dietro lo schermo del diritto di satira come qualcuno, anche se oggettivamente in numero irrilevante, sta cercando di fare in queste ore con Natangelo che, per altro, non è nuovo a simili cadute di stile. La satira e lo humor nero, campi sui quali il vignettista ama giocare, possono essere più impervi di quanto non possa apparire ed è facilissimo, se non si ha la massima dimestichezza dell'argomento, inciampare in vergognose offese, com'è accaduto di recente. Ma non solo. Infatti, chi ha un po' di memoria sulle polemiche legati al mondo delle vignette a sfondo politico non potrà certo dimenticare quell'altro fulgido esempio di clamorosa buca che è stata la vignetta realizzata in supporto di Charlie Hebdo, modello che per altro il nostro cerca di rincorrere ma senza aver lo stesso successo. Addirittura, quando il sindaco della cittadina rasa al suolo dal terremoto del 2016 annunciò di voler sporgere denuncia per tutelare la sua cittadinanza dalla satira violenta dei francesi, che associarono i morti sotto le macerie alle lasagne, lui tradusse quella stessa vignetta in italiano per contestare il sindaco laziale.

Il fango contro Lollobrigida e le verità nascoste dalla sinistra

Ma senza andare così indietro nel tempo, in occasione della devastante frana di Casamicciola Terme realizzò una vignetta in cui la morte annunciava di essere a Ischia "per i fanghi come sempre". Il sindaco della località ischitana annunciò querela e lui, tra l'offeso e il moralmente superiore, tentò di dare lezioni a un sindaco che stava difendendo l'onore della sua città, dicendo che i soldi era meglio usarli per altro e non per denunciarlo per una vignetta. A questi soggetti piace vivere nell'impunibilità, convinti di poter dire tutto sempre e comunque, senza però considerare che esistono limiti ed esistono sensibilità, e che queste esistono sia a destra che a sinistra, non solo in un senso. Anche i satiri più arguti dell'antichità sapevano dove fermarsi, a differenza di molti che tentano di imitarli senza padroneggiare il mezzo.

Satira politica o libero insulto? Giorgia Spitoni, Giornalista, su Il Riformista il 20 Aprile 2023 

Fa di cognome Meloni, eppure stranamente oggi non è Giorgia il bersaglio delle malelingue della sinistra. A finire sui giornali è Arianna, sua sorella. Moglie del Ministro all’Agricoltura e Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida. Ritratta in una vignetta de Il Fatto Quotidiano, adagiata sul letto in déshabillé in compagnia di un altro uomo. Il colore della pelle, infatti, non lascia alcun dubbio: non è il Lollo. E proprio attorno al colore della pelle s’inserisce insidiosa la satira, prendendo di mira l’ultima dichiarazione del braccio destro del Premier che, a proposito di calo della natalità e crisi migratoria nel Paese, ha parlato di sostituzione etnica.

Un’espressione infelice a dir poco, che rimanda al frasario della destra anni ’30, riecheggiando un passato col quale Fratelli d’Italia, in realtà, ha fatto i conti da un pezzo e che, tuttavia, è sempre pronto a tornare alla ribalta ogni qual volta un esponente di partito apre la bocca ‘e gli dà fiato’. L’ignoranza non ammette scuse, si sa, ma se è vero – come disse Nanni Moretti – che le parole sono importanti, la regola vale da ovest a est, da nord a sud, passando per il terzo polo. Qui, invece, va di moda sventolare la bandiera del politicamente corretto a seconda di dove soffi il vento, finché soffia, per poi scaraventarla a terra con la forza del diritto. Il diritto di satira. Il diritto, cioè, che difende quella forma di libera manifestazione del pensiero che differisce dalla cronaca, e bypassa la critica, facendo leva su sarcasmo, ironia, provocazione e trasgressione.

Un sacrosanto strumento di denuncia sociale, da proteggere con le unghie e con i denti, a patto che non superi due limiti. Il primo riguarda la notorietà del soggetto, per cui c’è da chiedersi se Arianna Meloni possa considerarsi davvero un personaggio pubblico, tale da sacrificare la tutela della propria riservatezza in nome del ben più nobile interesse collettivo, per il semplice fatto di essere sorella di Tizio o moglie di Caio. Il secondo ha a che vedere con la notizia in sé, e la sua capacità di trasformazione in una gratuita denigrazione del prossimo e, quindi, nella lesione dell’altrui dignità. Ciò prescindendo dal linguaggio, che la Giurisprudenza tende a svincolare dal campo della continenza, bensì guardando allo scopo, che nel caso di specie è sin troppo chiaro. Il quotidiano di Travaglio si scaglia su Arianna per colpire Giorgia e, con lei, tutta la compagine di governo che da settembre scorso fa fatica a digerire. Del resto, la vendetta è un piatto che va servito freddo e a essere ingordi si finisce per scottarsi la lingua.

Estratto dell'articolo di Mattia Feltri per “La Stampa” il 21 aprile 2023.

La vignetta pubblicata ieri dal Fatto raffigura la sorella di Giorgia Meloni e moglie di Francesco Lollobrigida a letto con un nero, e lo rassicura: il marito è fuori tutto il giorno a scongiurare la sostituzione etnica. 

[…]  ho preso dalla libreria le raccolte di Cuore, giornale satirico fondato e diretto da Michele Serra una trentina d'anni fa, e che noi divoravamo, fossimo comunisti o leghisti o democristiani. È un florilegio di testicoli, chiappe, donne con enormi tette e uomini con piselli minuscoli, e per dire: ho trovato una Sandra Milo debordante di carni e coperta d'uno straccetto lapidata per la colpa d'essere socialista.

La satira fa ridere e il problema è se non fa ridere, fine, per il resto fa cassazione Ronald Knox, che pure era teologo: l'umorista corre con la lepre, il satirista insegue coi cani. 

[…] mi sembra più interessante il declino di una società quando è indisposta a ridere, o a sorridere, o a cambiare pagina se non gli viene né da ridere né da sorridere, perché troppo impegnata a coltivare depressione e rabbia. 

Ma una società del genere è destinata a produrre un'autosatira involontaria: il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, ha salutato gli studenti ferraresi dell'istituto Vittorio Bachelet, che ha pronunciato Bàkelet. Una sola parola, Bàkelet, ha squadernato un intero mondo come non avrebbe potuto la più magnifica delle vignette.

Estratto dell'articolo di Luca Bottura per “La Stampa” il 21 aprile 2023.

La politica che spiega alla satira cos'è la satira non è mai un bello spettacolo. Anche in presenza di satira disgustosa. Forse soprattutto: altrimenti si è Charlie solo quando qualcuno arma il Kalashnikov. […] 

È che in democrazia ciò che non è diffamatorio, è permesso. Anche al netto del nitore artistico o persino morale della vignetta. E cosa sia diffamatorio lo stabilisce un giudice, non la seconda carica dello Stato coram populo. 

Così, il disegno contro la sorella di Giorgia Meloni, anzi: soprattutto contro suo marito, apparso ieri sul Fatto Quotidiano, può legittimamente apparire greve, irricevibile, sessista, eccetera. Ma non è il Parlamento il luogo per discuterne. Non è la sede di partito il posto giusto per indignarsi. Non è, l'opposizione, il Malaussène virtuale che deve scusarsi per ciò che non ha commesso, facendosi schiacciare come sempre nella narrazione che la vede colpevole delle guerre puniche, del terrorismo, forse anche dei 15 punti restituiti alla Juve.

[…] 

Fratelli d'Italia, la Lega, la Destra italiana tutta, compresi, per primi, i Cinque Stelle a trazione Casaleggio, utilizzano nei confronti degli avversari politici una logica di fideismo Qanonista che prevede lo strepitio contro qualcuno, categoria o persona: basta che non possa difendersi, come volàno del consenso. Per quella discutibile vignetta prendono cappello gli stessi che hanno crocifisso "la Boldrina", chi ne esibiva la bambola gonfiabile sui palchi, quelli che davano degli oranghi agli avversari di colore, quelli per due voti parlano per anni di sostituzione etnica e poi dicono che non sapevano e che si riferivano al ristorante indiano sotto casa.

Di più: Arianna Meloni è comprensibilmente risentita per l'improntitudine grossier applicata alle cose di famiglia, ma oltre che dell'agguato satirico è vittima di una società dello spettacolo che le è toccato cavalcare "autodenunciandosi" per smentire gossip conosciuti solo nell'inner circle del generone romano. 

E da quell'informazione che ha accompagnato il populismo con gli stessi toni, la maggioranza berciante che ciancia di "giornaloni" e intanto canta in un coro in cerca di allodole cui spacciare informazione per satira, e viceversa. In una sorta di cortocircuito in cui vale tutto e per questo non vale niente.

[…] Casomai bisognerebbe chiedersi cosa siano gli organi di partito camuffati, persino quelli pagati con fondi pubblici, persino quelli che lo Stato ce l'hanno come editore, che usano la pernacchia – senza l'utopia moralista di chi rischia facendo battute – per nascondere la loro contabilità del consenso. 

Ma se così fosse, gli indignati di Palazzo dovrebbero chiedersi come sono arrivati fin lì. Con quale modello culturale. E chi li ha sospinti. Vasto programma, praticamente infinito.

 Sallusti contro Travaglio: "Mezzi uomini che perdono la testa e passano al rutto in faccia". Libero Quotidiano il 21 aprile 2023

Si chiama Arianna, è la sorella di Giorgia Meloni e la moglie del ministro Lollobrigida, a occhio non ha altre colpe. Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio per colpire Giorgia Meloni e suo cognato ha messo in prima pagina una vignetta in cui Arianna è a letto con un uomo nero. Sai che ridere, ma questi si difendono: diritto di satira al quale un personaggio pubblico non può sottrarsi. Vero, solo che Arianna non è un personaggio pubblico, la maggior parte delle persone non ne conosce neppure l’esistenza tanto lei si tiene lontana dalla ribalta. Quando chi ha potere – un giornale – mette in mezzo chi non ne ha – mogli e sorelle di – non è mai un bel giorno per la libertà di informazione né per la democrazia.

Ma di che satira parliamo? È un po’ come se io in un dibattito con Travaglio chiamassi in causa suo figlio e sua moglie, sbeffeggiandoli o insultandoli, e accennassi ai loro gusti sessuali. Ma si sa, anche nel giornalismo e nella satira ci sono uomini, mezzi uomini e quaquaraquà, come diceva Leonardo Sciascia a proposito della società mafiosa le cui dinamiche in questo caso coincidono con quella dell’informazione. E allora è chiaro cosa sta succedendo: i mezzi uomini stanno perdendo la testa, impazziscono all’idea di avere perso il potere e di non rivederlo più per anni, quindi dalla critica passano al rutto in faccia – la mafia alle vendette trasversali - ai parenti dei vincitori perché loro hanno il diritto di satira.

Estratto dell'articolo di Ottavio Cappellani per mowmag.com il 21 aprile 2023. 

E’ curioso che la Montaruli, acquirente e lettrice di Sexploration, pensi che una donna che scopa sia una poco di buono. 

No, aspettate, ma la Augusta Montaruli, che oggi si è scagliata contro la vignetta di Natangelo pubblicata da “Il Fatto Quotidiano” (che ritrae la sorella di Giorgia Meloni, Arianna, moglie del ministro Francesco Lollobrigida, a letto con un uomo di colore che chiede: “E tuo marito?”; mentre Arianna risponde: “Tranquillo, sta tutto il giorno fuori a combattere la sostituzione etnica”) infatti è la stessa Montaruli condannata per essersi comprata – con soldi pubblici - il libro erotico “Sexploration, giochi proibiti per coppie”.

Io non sono certo moralista e bacchettone e secondo me la Montaruli ha fatto bene sia a comprare il libro che a comprarlo coi soldi pubblici (nel senso che ci sono i bonus libri e quindi va bene che lo Stato favorisca la lettura, se di romanzi erotici ancora meglio), ma la coerenza però quella ci vuole.

Data l’indignazione furibonda e supermoralista della Montaruli nel suo intervento al parlamento, e per completezza di ricerca, mi sono scaricato il libro in questione “Sexploration, giochi proibiti per coppie /1”, leggendo le recensioni online viene il sospetto che il volume “/2” lo dobbiamo proprio alla pubblicità indiretta che la Montaruli ha fatto a questa pubblicazione altro che erotica, proprio porno. 

(...)

Adesso: una Montaruli che legge, e giustamente, questi libri, può indignarsi per una vignetta che ritrae due persona che hanno appena scopato?

La Montaruli ha detto: 1) che la vignetta è un attacco ai diritti delle donne. Mi sembra che la Montaruli sia un po’ e confusa e anche forse un po’ ipocrita: credo che sia un diritto delle donne andare a letto con pare a loro, e anche cornificare il marito (che poi la cosa possa portare a un divorzio o a una ricomposizione o addirittura a un ritrovato entusiasmo fa tutto parte della sfera della libertà in cui i diritti non sono per nulla lesi). 2) La Montaruli ha detto che la vignetta è misogina. Ohibò: da quando rappresentare una donna che scopa o che ha appena scopato è misoginia? E io che ero convinto che la misoginia fosse il contrario. O la Montaruli pensa che ogni donna che scopa è una puttana? Perché, a quanto ne so, la misoginia è proprio questa. O il problema era proprio che l’uomo nella vignetta fosse di colore?

Il Fatto contro la sorella della premier. Vignetta di Natangelo contro Arianna Meloni è fascismo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Aprile 2023 

Ieri “Il Fatto” di Travaglio ha pubblicato una vignetta in prima pagina nella quale è disegnata la sorella di Giorgia Meloni a letto con un africano di pelle scura. L’africano le chiede: “E tuo marito?”. Lei risponde: “Tranquillo, è fuori a combattere la sostituzione etnica”. Il titolo della vignetta è: casa Lollobrigida. Le allusioni sono chiarissime. La sorella di Giorgia Meloni è anche la moglie del ministro Lollobrigida che nei giorni scorsi ha parlato del problema della sostituzione etnica.

Su questo giornale abbiamo scritto parole molto dure contro di lui, accostando la sua uscita all’ideologia del manifesto sulla razza del regime fascista. La sorella di Giorgia Meloni però non è un personaggio pubblico. La vendetta trasversale, sui parenti, non ha niente a che fare con le persone civili. La vignetta del Fatto non è satira: è un distillato osceno di volgarità e di odio, di razzismo e di sessismo.

A me fa venire in mente solo lo stile polemico di una volta: quello dei Farinacci e dei gerarchi fascisti più volgari. Piena solidarietà alla signora Arianna Meloni.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Estratto da ilsecoloxix.it – 6 maggio 2013

Quasi 500 vignette alcune «decisamente forti, un libro solo su di lui “Andreacula”, mai una querela. «Giulio Andreotti è stato uno statista che nel bene e nel male ha segnato la vita del paese, dotato di grandissimo senso dell’umorismo. Oggi la satira in Italia è morta, i quotidiani hanno paura di pubblicarmi». 

Giorgio Forattini, […] da quasi 40 anni un foglio e una matita sono la sua arma per sbeffeggiare i politici italiani, collezionando querele ricorda così interpellato dall’Ansa uno dei suoi bersagli preferiti Giulio Andreotti: «Ogni volta mi chiedeva gli originali delle mie vignette, era un autentico collezionista. Quando mi capitava di incontrarlo per strada nel centro di Roma la scorta mi bloccava lui invece mi veniva incontro sorridente, lui può passare è un mio amico...».

Andreotti, insiste Forattini «l’ho rappresentato in mille maniere, alcune vignette erano proprio cattive, e non mi ha mai querelato. Ricordo che per i suoi 90 anni, durante una trasmissione, qualcuno gli chiese cosa ne pensasse di me, lui replicò: «Io sono stato inventato da Forattini!». 

Ha disegnato vignette per le principali testate giornalistiche italiane da Paese Sera, a La Repubblica, La Stampa, Panorama solo per citarne alcune «ma oggi pubblico le mie vignette solo su internet e nei libri. I quotidiani sono terrorizzati dalle querele». […]

"Nessun rispetto per le donne. Io non mi rassegno allo stile Travaglio". La parlamentare di Italia viva: "Pur di attaccare un politico non gradito si arriva a mostrificare in modo vergognoso i suoi familiari". Pier Francesco Borgia il 21 Aprile 2023 su Il Giornale.

Volgarità, misoginia e un corrivo utilizzo della sfera privata e familiare per attaccare i politici poco graditi, sono armi non convenzionali che la satira si trova a usare con estrema disinvoltura in questi ultimi tempi. E in maniera peraltro sempre più frequente. Ne parliamo con Maria Elena Boschi, parlamentare di Italia viva.

L'ultima vignetta del Fatto quotidiano contro la Meloni l'ha indignata, onorevole Boschi, e su Twitter ha commentato con parole durissime.

«Continuo a non rassegnarmi allo stile Travaglio: pur di mostrificare un politico che non gli piace passa sopra a tutto e tutti e attacca in modo ignobile anche familiari che non c'entrano nulla. Lo ha fatto stavolta con la sorella di Giorgia Meloni, glielo abbiamo già visto fare con altri, a cominciare da me, Renzi e le nostre famiglie. Quando è toccato a noi in pochi hanno avuto il coraggio di criticare Travaglio, ma io non resterò in silenzio anche se riguarda una parte politica diversa dalla mia».

L'opinione pubblica torna a dividersi. E c'è chi difende comunque la libertà di satira appellandosi all'esempio della rivista parigina Charlie Hebdo, irriverente con tutti e tenero con nessuno. Insomma l'eterno dilemma tra censura del dileggio e libertà di espressione.

«Nessuno mette in discussione la libertà di satira, ma esiste anche un diritto a tutelare il proprio nome. A prescindere dalle leggi c'è un limite dato dal rispetto delle persone che dovrebbe farci sentire tutti indignati. Oggi il Fatto quotidiano attacca Lollobrigida e Meloni in modo vergognoso, domani può toccare a chiunque non vada a genio al direttore».

Dietro la vignetta del «Fatto quotidiano» c'è anche un attacco politico al ministro Francesco Lollobrigida. Alla fine, tuttavia a essere prese di mira sono sempre le donne, persino quando si attacca un uomo.

«Le parole del ministro Lollobrigida sono agghiaccianti e l'ho criticato pubblicamente. La vignetta però non è contro il ministro, è un attacco a sua moglie che non c'entra nulla. Travaglio è un misogino e non lo scopriamo oggi».

Nel dibattito politico resiste un deciso body shaming nei confronti delle donne. Come si esce da questa odiosa condizione?

«Intanto, cominciando ad evitare di fare lo stesso in Parlamento. Chi oggi si indigna in passato non sempre ha fatto di meglio. Penso alle aggressioni verso Laura Boldrini o a colleghe del Pd o di Forza Italia. E, poi, non smettendo di indignarci. L'offesa personale non è l'altra faccia della medaglia per chi fa politica. È vergognoss e basta».

Da quando è stata eletta segretario del Partito democratico anche la Schlein ha subito la gogna di una satira che esula dalle sue posizioni per sottolineare questioni personali e affettive.

«Verso Elly Schlein e la sua compagna c'è stata una forzatura ancora maggiore rendendo pubblica una relazione riservata. È partita una campagna d'odio che nulla ha a che vedere con le sue idee e, guarda caso, con Travaglio in prima linea».

La sua prima reazione alla vignetta contro la famiglia della premier Meloni è arrivata sui social (Twitter). Quanto queste nuove arene mediatiche contribuiscono a indebolire il senso della misura su cosa si può e cosa non si può dire?

«Purtroppo, dalle folle inferocite del Colosseo alle piazze esultanti sotto ai patiboli, l'aggressività umana si ripete. Oggi i social contribuiscono, spesso grazie all'anonimato, a sfogare una violenza verbale senza filtri che non si avrebbe il coraggio di manifestare senza uno schermo davanti. Le persone frustrate commentano con cattiveria la vita degli altri, quelle soddisfatte vivono la propria».

Satira libera (per tutti). Ma se fa ridere. Libera vignetta, in libero Stato. Se è vero che in nome della satira vale tutto, l'unica cosa che non si perdona alla satira è di non far ridere. E questa non fa ridere. Valeria Braghieri il 21 Aprile 2023 su Il Giornale.

Libera vignetta, in libero Stato. Se è vero che in nome della satira vale tutto, l'unica cosa che non si perdona alla satira è di non far ridere. E questa non fa ridere. Nell'illustrazione «umoristica» sulla prima pagina de Il fatto quotidiano, a firma Natangelo, ci sono due persone a letto: una donna bianca (che poi si capirà essere Arianna Meloni, sorella della premier Giorgia e moglie del ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida) e un presumibilmente dotatissimo uomo nero (perché è noto lo stereotipo sull'equipaggiamento genitale afroamericano, fa il paio col «ritmo nel sangue» e «l'eccellenza negli sport»). Beh, sotto al titolo «Obiettivo incentivare la natalità. Intanto, in casa Lollobrigida...», i due si trovano nudi sotto alle lenzuola e si interrogano sull'opportunità del round iniziale: «E tuo marito?» chiede il dubbioso ma motivato amante. «Tranquillo, sta tutto il giorno fuori a combattere la sostituzione etnica» risponde l'annoiata consorte fedifraga. Ora, spiegare le battute di spirito è più triste di un pentolino di latte dimenticato sul fuoco, ma quelle di cattivo gusto diluiscono l'effetto comico e quindi sezionarle è d'obbligo. Evidentemente, secondo il vignettista, una degli effetti paradossali del provvedimento proposto da Fratelli d'Italia, è quello di rinunciare un primato «riproduttivo» (quello degli immigrati) con una loffia, noiosa, arrancante prestazione nostrana. E per di più, per farlo, si «usa» la povera Arianna che oltre al gomitolo di lana allungato a Teseo nella mitologia, non ha mai cercato visibilità storica dal momento che non ricopre alcun incarico pubblico come fa notare la ben più famosa e infastidita sorella. Ma lei è la sorella, appunto e per carità, come dice il comico Ricky Gervais: «Soltanto perché sei offeso, non significa che hai ragione». Noi ci guardiamo bene dal condannare la libertà di satira. Abbiamo difeso il ben più controverso Charlie Hebdo, solo per fare un esempio. E ci guardiamo bene persino dal farne una questione di genere: la parità femminile passa anche dalla spietatezza delle vignette. Non si può pensare di rimanerne al riparo solo in quanto donne. Ma il (solito) rammarico che ci spegne il già tiepido sorriso davanti all'infelice vignetta e al solito auto osannarsi della sinistra (Vauro è corso a sperticarsi in complimenti ed eccitati risolini cartacei con l'enfant prodige Natangelo) è: ma cosa avrebbe fatto l'opposizione se sulle pagine del Giornale ci fosse stata una vignetta della Schlein a letto anche «solo» con Lollobrigida?!

 "Fascisti, cialtroni, pezzenti". Insulti al governo nel salotto di Formigli. Christian Raimo offende senza freni il ministro Lollobrigida e l'intero esecutivo a Piazzapulita: Italo Bocchino lo mette a tacere in pochissimi secondi. Lorenzo Grossi il 21 Aprile 2023 su Il Giornale.

Sono passati ormai tre giorni da quella frase, ma l'espressione "sostituzione etnica" - usata da Francesco Lollobrigida nel corso di un ragionamento sulla denatalità in Italia – continua a tenere banco. Anche nei "salotti" buoni della televisione. Corrado Formigli non poteva assolutamente perdere un'occasione per attaccare per l'ennesima volta il governo. E così, anche durante l'ultima puntata di Piazzapulita, andata in onda ieri sera su La7, si è dedicata buona parte della trasmissione per attaccare a spron battuto il ministro dell'Agricoltura e della Sovranità alimentare e l'intero esecutivo. Anzi: oltre che a dure critiche, sono andati in diretta tv dei veri e propri pesanti insulti all'indirizzo della coalizione di centrodestra che sta governando in questo momento l'Italia. Ma andiamo con ordine.

Formigli "censura" Italo Bocchino

Dopo il classico monologo di Formigli, un servizio ripropone - con sapienti taglia e cuci - la settimana politica appena trascorsa, mettendo naturalmente in evidenza la frase del ministro Lollobrigida e ponendola in relazioni a vecchi discorsi di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Si rientra in studio e il direttore del Secolo d'Italia, Italo Bocchino, tenta di difendere l'esponente di FdI dagli attacchi del conduttore del programma: "Avete preso un pezzo del ragionamento di quattro minuti di Lollobrigida, con due frame da 15 secondi ciascuno, per impiccarlo. Ma lui ha fatto un intervento a favore dell'immigrazione regolare". E, proprio nel momento in cui sta citando le frasi testuali del ministro, ecco che Formigli lo interrompe bruscamente: "Va bene, ora ha finito".

Il fango contro Lollobrigida e le verità nascoste dalla sinistra

Dopo gli interventi di Stefano Cappellini e di Aldo Cazzullo, tocca allo scrittore Christian Raimo dire la sua, senza alcun tipo di freno. "La leggerezza, ignoranza, cialtroneria, oltre che un razzismo plateale del ministro è fa impressione". Ma è solo l'inizio della sua escalation delirante. "Abbiamo visto all’opera un governo che non è soltanto chimicamente fascista, ma è un governo cialtrone e pezzente da un punto di vista culturale". Le motivazioni delle sue affermazioni raggiungono vette altissime.

"Delinquente, immorale, sfruttatore". Raimo insulta l'imprenditore

"Il curriculum di Francesco Lollobrigida è un foglio bianco. In vita sua non ha fatto niente – sostiene Raimo -. Ha quel posto lì semplicemente perché ha militato in piccoli gruppetti neofascisti. Non è la questione degli underdog, ma dei parvenu: che non hanno studiato, non hanno lavorato, non hanno fatto nulla in vita loro. Solo militanza in piccoli gruppuscoli neofascisti e stanno al potere da 20 anni". Nel pochissimo tempo che ha a disposizione, Bocchino si riprende la parola e distrugge dialetticamente Raimo in dieci secondi scarsi: "Siamo in democrazia e la sovranità appartiene al popolo. Se ti candidi tu contro Lollobrigida, lui prende 100mila voti e tu 100 e basta". Sipario.

L’alba della caricatura: a Venezia in mostra i ritratti grotteschi. GIAN ANTONIO STELLA su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

Apre il 28 gennaio a Palazzo Loredan un’esposizione promossa dalla Fondazione Ligabue in un percorso storico che da Leonardo arriva a Francis Bacon, suo erede nel Novecento

Carlo Lasinio (1759-1838), «Due teste grottesche di donna e uomo anziani», 1790-1800 circa, Castello Sforzesco, Ente Raccolta Vinciana

«Andando un prete per la sua parrocchia il sabato santo, dando, com’è usanza, l’acqua benedetta per le case, capitò nella stanza d’un pittore, dove, spargendo essa acqua sopra alcuna sua pittura, esso pittore, voltosi indirieto alquanto scrucciato, disse perché facessi tale spargimento sopra le sue pitture». Se Leonardo da Vinci parlasse di sé stesso, in quella sua «facezia», raccontando quanto il padrone di casa vittima dell’intrusione si fosse infuriato con il chierico invadente che con l’aspersorio aveva spruzzato qua e là senza riguardo, non è chiarissimo. Certo è che il micidiale ritrattino di 45 millimetri per 65, molto meno di una odierna carta di credito, è considerato dallo storico dell’arte Pietro Marani, uno dei massimi studiosi del tema, come «una delle poche originali prove di Leonardo che possano veramente definirsi “caricature”. A cominciare dalla testa della figura, con capelli e tonsura, e osservando poi il naso adunco, il mento sfuggente e la bocca semiaperta, tratti che conferiscono al volto, con pochi veloci tratti di penna e macchie di inchiostro, sembianze quasi di uccello rapace...»

Leonardo da Vinci (1452-1519), Caricatura di un chierico, 1510-1516 circa

Un capolavoro piccolo piccolo di divertita ferocia. Ma sufficiente, con altri «ritratti caricati» perché così erano chiamati all’epoca, a fare dello scienziato, filosofo, architetto, pittore, scultore, disegnatore, trattatista, scenografo, anatomista, botanico, musicista, ingegnere e progettista toscano (sintesi Wikipedia) l’inventore anche della caricatura come la intendiamo da qualche secolo in qua. Un’arte che ancora oggi, in certi giorni di morale ammaccato, riesce a strapparci un sorriso.

Giovanni Agostino da Lodi (1495-1520), Testa maschile, 1500-1505 circa, Staatliche Kunstsammlun-gen Kupferstich-kabinett, inv. C 1923-14

Oddio, le irresistibili caricature leonardesche non sono le prime in assoluto nella storia. Le più antiche, tradizionalmente, sono considerate le figure del Papiro Satirico-Erotico conservato al Museo egizio di Torino. Una specie di Kama Sutra del XIV secolo avanti Cristo, con tutte le varietà degli incroci sessuali. Per carità, niente di pornografico. Altri tempi, altre culture. È divertente, piuttosto, il contrasto tra i vari partecipanti alle scenette: mentre le giovani donne (verosimilmente cantanti, spiega la guida museale) sono tutte giovani e belle i maschi sono al contrario bruttini, storti, sciatti, stempiati, calvi e così spropositatamente super-dotati da essere grotteschi.

La copertina del catalogo della mostra

E altri «antenati» delle caricature si ritroveranno a Roma nella Domus Aurea, a Pompei nelle terme della casa di Menandro, ad Avignone nella statuetta bronzea di un venditore di focacce con le sembianze deformate di Caligola e via così. Al punto di far dire a Quintiliano, a dispetto della cultura greca che rivendicava la primogenitura su quasi tutto, «Satura quidem tota nostra est»: certo tutta nostra è la satira. Per non dire, nei secoli a venire, delle gargolle medievali (parti terminali delle grondaie) dalle «facce» mostruose. O delle tesi illustrate nel De Humana Physiognomia da Giovanni Battista Della Porta per il quale uomini dal lungo pelo e lungo muso che gli ricordavano una pecora dovevano avere davvero l’anima di una pecora e così altri l’anima d’un leone, una scimmia o un rospo e via così... Senza dimenticare la Passione di Cristo dove Hieronymus Bosch disegnò quelli che assediavano Gesù coi volti stravolti, le bocche sdentate, gli occhi dementi: la bruttezza fisica saldata alla malvagità. Un’idea antica che spingerà il filosofo svizzero Johann Kaspar Lavater, anticipando un po’ Cesare Lombroso, a esclamare: «Quanti crimini si potrebbero impedire se solo gli uomini potessero leggere il vizio sui volti!» Derive pericolose...

Francis Bacon (Dublino 1909 - Madrid 1992), Three Studies for a Portrait of Isabel Rawsthorne (1965), olio su tela, Sainsbury Centre of Visual Arts, Norwich, Regno Unito © The Estate of Francis Bacon

Tornando però alla caricatura propriamente detta, cioè la capacità di leggere i volti e ricavarne con pochi tratti «caricati» l’immagine folgorante di un uomo, tutto è tranne che un’arte minore. O peggio secondaria. Lo testimonia la mostra De’ visi mostruosi e caricature. Da Leonardo da Vinci a Bacon, aperta da domani a Palazzo Loredan-Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue e intitolata al geniale imprenditore veneziano del catering che, laureatosi alla Sorbona in paleontologia, diventò una specie di Indiana Jones (avventure spericolate comprese) e finanziò col National Geographic centinaia di scavi e spedizioni scientifiche in tutto il mondo.

Che c’entrano le caricature con spedizioni come quella alla ricerca dell’armata di Cambise sparita nel Sahara? C’entrano, risponde il figlio Inti che della fondazione è presidente: «Al centro dei nostri interessi resta sempre l’uomo. La curiosità, la sete di sapere, l’amore per la cultura e l’arte, il desiderio di “conoscere e far conoscere”». Non bastasse, appartiene alla «Ligabue» uno dei diciotto irresistibili «ritratti caricati» leonardiani esposti a Venezia, quella Testa grottesca di donna in copertina sul catalogo Marsilio curato da Pietro Marani coi contributi di Rosalba Antonelli, Paolo Cordera, Laura Corti, Enrico Lucchese e Calvin Winner.

Obiettivo? Ricostruire, con riferimenti al «naturalismo, la fisiognomica, il ritratto grottesco, l’esasperazione dei tratti, l’identificazione e la “classificazione” di tipi umani nei disegni di Leonardo e dei grandissimi artisti lombardi, emiliani ma soprattutto veneti e veneziani che si sono cimentati in questo genere», un percorso diverso dai soliti. «Imperniato sulle “teste grottesche” e sulla “caricatura” nell’Italia settentrionale».

Un percorso, per i non specialisti, pieno di sorprese. Come la scoperta del mondo settecentesco di Anton Maria Zanetti descritto da un biografo, Alessandro Bettagno, come popolato di «abati, preti, pittori amici (…), camerieri, nutrici e gastaldi, e gente di teatro come cantanti, ballerine, attrici, suonatori, suggeritori, copisti, autori e tutto quel mondo insomma che gravitava e viveva sul boom del melodramma». O l’altra faccia di Giovan Battista Tiepolo, forse il pittore più importante del Settecento veneziano, autore di opere come Il Martirio di san Bartolomeo ma anche di un delizioso Pulcinella a braccetto di una dama disegnato (pare) per il figlioletto Giandomenico o dell’irridente Caricatura di frate con occhiali e chiave in mano. Senza dimenticare Agostino Carracci e suo fratello Annibale, di cui è esposta la Testa di giovane ridente. O le varie Coppie di teste grottesche di Carlo Lasinio, mariti e mogli invecchiati e imbruttiti che si guardano senza tanto entusiasmo scambiandosi però buoni sentimenti in rima.

E Bacon? Che ci fa, a cesello della mostra, il pittore irlandese Francis Bacon che diceva di voler rendere «la brutalità dei fatti»? «Una fuga in avanti», risponde Ligabue: «Abbiamo voluto chiudere con un richiamo emblematico e straordinario all’arte contemporanea a dimostrazione che la tradizione non si è interrotta, che la fisiognomica, l’esasperazione dei caratteri, il deforme tornano nell’arte figurativa tanto più in un’epoca di crisi esistenziale e di fragilità psicologica come il Novecento». Spiccano i Tre studi per il ritratto di Isabel Rawsthorne. Duri. Rossi. Neri. Chissà cosa ne direbbe Giovan Battista della Porta...

La mostra e il catalogo

La mostra «De’ visi mostruosi e caricature. Da Leonardo da Vinci a Bacon», promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue, apre il 28 gennaio a Venezia, presso Palazzo Loredan-Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Il catalogo della mostra è pubblicato dalla casa editrice Marsilio di Venezia a cura di Pietro Marani e contiene contributi di alcuni studiosi di storia dell’arte: Rosalba Antonelli

Paolo Cordera, Laura Corti, Enrico Lucchese e Calvin Winner.

26 gennaio 2023 (modifica il 26 gennaio 2023 | 21:31)

"I writer? Sono delle associazioni a delinquere". Il giudice Salvini: "Altro che cani sciolti, agiscono con una tattica quasi militare". Luca Fazzo il 10 Agosto 2023 su Il Giornale.

Altro che cani sciolti. Dietro imprese come l'imbrattamento a Milano della Galleria Vittorio Emanuele si muovono gruppi organizzati attivi a livello internazionale, a volte coordinati tra loro, a volte in competizione: il risultato è sempre lo stesso, l'innalzamento del livello degli obiettivi da colpire. Eppure nei casi - non frequenti - in cui vengono individuati e incriminati, quasi sempre se la cavano con la condanna per i singoli episodi, come se si trattasse di reati occasionali. L'accusa di associazione a delinquere, ipotizzata dalla polizia giudiziaria, viene fatta cadere dagli stessi pubblici ministeri.

É quanto per esempio accade appena tre anni fa, all'esito della inchiesta più importante condotta dalla polizia locale di Milano su una serie interminabile di imprese ai danni dei mezzi della metropolitana, che venivano presi di mira dai graffitari appena consegnati all'azienda. Dietro quasi tutte le imprese, secondo le indagini, si muoveva la stessa banda, denominata Wca: ovvero We can all, «Possiamo tutto». Ma la Procura il 10 maggio 2019 aveva chiesto il proscioglimento di tutti gli indagati dall'imputazione di associazione a delinquere sostenendo che gli accertamenti della polizia «non avevano fornito elementi per sostenere l'esistenza di un gruppo organizzato» dedito ai graffiti vandalici.

La richiesta di proscioglimento era però andata a cozzare contro il rifiuto del giudice preliminare Guido Salvini, secondo cui proprio il materiale acquisito durante le indagini e sequestrato nei computer degli indagati dimostrava che «le principali azioni erano programmate in modo metodico e con una precisa ripartizione dei ruoli. Alcuni si occupavano di trasportare un gran numero di bombolette, altri controllavano la zona, altri si occupavano di bloccare la chiusura delle porte dei treni o di sradicare gli allarmi anche mediante chiavistelli. Subito dopo altri ancora intervenivano materialmente e in sincronia occupandosi in genere ciascuno di comporre un singolo carattere o disegno di ogni grande scritta. Altri soggetti infine avevano il compito di filmare l'intera azione. Inoltre nel corso delle perquisizioni sono state rinvenuti disegni e schizzi molto precisi che raffigurano il luogo dell'azione con la posizione delle telecamere e dei sensori di allarme e il percorso da seguire per giungere alla linea della metropolitana e sganciarsi ». I gruppi di graffitari agivano con una tattica quasi militare, «in questo modo si riusciva in pochi minuti a comporre graffiti lunghi anche decine di metri con l'estensione di centinaia di metri quadrati».

I writers del gruppo Wka si muovevano d'altronde in buona parte d'Europa, utilizzando le indicazioni logistiche fornite dalle sezioni locali. Tra i sedici indagati ci sono argentini, svedesi, olandesi, belgi, spagnoli, marocchini, brasiliani oltre al gruppone degli italiani capitanati dal 39enne siciliano Stefano Malavigna detto «Siko». Scrive il giudice Salvini, disponendo l'imputazione per associazione a delinquere, che «gli appartenenti al gruppo si frequentavano stabilmente come risulta dai fermi e dai controlli di due o più dei loro componenti, compresi i soggetti stranieri (...) ugualmente frequentissimi, nel numero complessivo di migliaia, erano tra i componenti del gruppo i contatti telefonici come risulta dall'acquisizione dei tabulati». La Procura si rassegnò, chiese il processo ma con così poca convinzione che un altro giudice assolse tutti. E Wca continuò a imbrattare.

Milano pulisce la sua Galleria. A Tolosa un graffito identico. Già sistemato il frontone. Simboli uguali fotografati in Francia, la rete di imbrattatori è internazionale. Massimo Arcangeli il 10 Agosto 2023 su Il Giornale.

Da studioso di scritte metropolitane di ogni tipo ne ero sicuro. L'avevo già vista la tag principale, quella vergata in corrispondenza dell'arco, delle tre che hanno imbrattato l'ingresso in piazza Duomo della galleria Vittorio Emanuele II. L'avevo vista, sì, ma dove? Ho cercato a lungo nel mio archivio di graffitari italiani, ma niente. Quella tag verde e celeste disegnata con una bomboletta spray sul frontone rettangolare della galleria, sopra la dedica dei milanesi al re, non voleva proprio uscire. Quando però è spuntato il nome di Tolosa, e subito dopo è apparsa la firma stilizzata (14A7) di uno degli imbrattatori che riconduceva alla città francese, più precisamente a un muro ferroviario all'altezza del Théâtre du Chien Blanc, ho finalmente capito dove andare a cercare. Tempo un'ora e spunta fuori da un ampio repertorio d'immagini di graffiteurs transalpini la tag che ricordavo.

La firma di cui parliamo è composta di un 4, di una «a» minuscola e di un simbolo che assomiglia a una croce (o a un 7), con un prolungamento zigzagante verso l'alto (con fuga a sinistra) e una freccia, che allunga il braccio destro del simbolo - o del numero -, sormontata da una stella a cinque punte. Un autografo praticamente identico a quello del mio archivio, che avevo a suo tempo tratto da qui: tlsesouslesbombes.com. Il dominio abbrevia il titolo campeggiante sulla home page del sito («Toulouse sous les bombes») e la foto, postata nell'aprile scorso con molte altre, mostra una tag con tre sole differenze rispetto a quella riprodotta sulla facciata della galleria milanese: la «a» è maiuscola; la stella a cinque punte è in basso e a sinistra del 4; la freccia che allunga il braccio della croce (o del 7) è assente, anche perché il muro dell'edificio su cui la firma compare non concedeva altro spazio. Ora i tre delinquenti vestiti di nero che lunedì scorso, fra le 22 e le 22.30, hanno vandalizzato la facciata della storica galleria milanese dovranno pagarla cara. Intanto ieri, la Galleria è stata ripulita. E sempre ieri, la psicoterapeuta Maria Rita Parsi, nel salotto del Tg1 Mattina Estate delle 7.30, ha parlato di un «segnale appassionato» proveniente da giovani che non sarebbero ascoltati a sufficienza. Subito dopo il conduttore, Alessio Zucchini, ha chiesto all'esterrefatto critico d'arte interpellato, come se la cosa potesse essere dubbia, se l'azione commessa fosse arte o un atto vandalico.

I tre delinquenti di cui stiamo parlando non hanno nulla a che fare con Jean-Michel Basquiat, Keith Haring o altri artisti di strada rivoluzionari o controcorrente. Sono invece tre balordi dai quali hanno preso le distanze gli stessi writers: I monumenti - come le chiese o i cimiteri - non si toccano. Forse la bellezza non salverà il mondo, ma proviamo almeno a salvare lei dai criminali. Senza se, senza ma, senza bah. Che si tratti di imbrattatori senza scrupoli oppure dei lanzichenecchi - questi possiamo chiamarli senz'altro così - che hanno distrutto una statua di Enrico Butti in una lussuosa residenza del Varesotto per farsi un video e postarlo poi in rete. Sei giovani tedeschi, di età compresa fra i 25 e i 30 anni, fra i quali l'influencer Janis Danner. Con quel cognome era già tutto un programma. 

"Togliamo anche l'altra scritta". La cancel culture di sinistra sulla Galleria. Sui social la surreale proposta di un'esponente milanese di Sinistra Italiana: oltre alla scritta degli imbrattatori, "togliere anche quella in basso". Ovvero la dedica della Galleria a Vittorio Emanuele II. Marco Leardi l'8 Agosto 2023 su Il Giornale.

L'indignazione per l'atto vandalico compiuto la scorsa notte da alcuni writer ai danni della Galleria Vittorio Emanuele II è stata unanime. Per quanto ignobile e irrispettoso del pubblico decoro, il gesto ha sollevato critiche bipartisan e reazioni sdegnate da parte dei cittadini. Tutto comprensibile, tutto condivisibile. Poi, però, c'è chi si è spinto pure oltre. Sui social, infatti, ci siamo imbattuti nel surreale post di un'esponente milanese di Sinistra Italiana, già candidata alle recenti regionali lombarde con il medesimo partito. Commentando il deprecabile imbrattamento della Galleria, la militante ha paventato una proposta a dir poco strana: quella di cancellare, oltre ai deturpanti graffiti, anche la sottostante dedica al fu Re d'Italia.

"Già che, prima o poi, si andrà su a cancellare la scritta in alto, io ne approfitterei per togliere anche quella in basso", ha scritto la simpatizzante di Sinistra Italiana, Elena Comelli. Via la scritta con l'intitolazione a Vittorio Emanuele II, insomma: qualcuno penserà a una boutade, a una battuta di spirito. E in effetti risulta difficile interpetare diversamente una simile ipotesi. Tuttavia, la militante della gauche milanese è sembrata piuttosto convinta delle proprie ragioni in una sua successiva replica a chi la criticava. Il post in questione, infatti, ha innescato una valanga di commenti a dir poco scettici. "Non esageriamo. La Storia è Storia", ha ad esempio scritto un commentatore. E un altro: "Ma seriamente? E quindi vuoi cambiare il nome alla galleria e al corso?".

In un successivo commento, l'ex candidata di Sinistra Italiana è stata incalzata così: "Non sapevo fossi filoaustriaca". E lei, in tutta risposta: "E se, più semplicemente, pensassi che una roba dedicata a Vittorio Emanuele sia ridicola?". A stretto giro, la donna ha quindi rivendicato nei commenti la propria libertà di esprimere quel pensiero e infatti è giusto che ciascuno possa dire la propria; ci mancherebbe altro. Tuttavia, la sola ipotesi di cancellare quella scritta in cima all'ingresso della Galleria ci sembra assurda. Quella intitolazione - che certo può piacere o meno - fa parte della storia di Milano e di quella dell'opera architettonica in questione. Nel marzo marzo 1865, fu proprio Vittorio Emanuele II a porre la prima pietra per la realizzazione della Galleria a lui dedicata. Nel settembre 1867, l'allora Re d'Italia presenziò all'inaugurazione dell'imponente struttura diventata poi il "salotto di Milano".

Per questo pensiamo che non abbia senso accostare, magari anche solo per provocazione, lo scarabocchio degli imbrattatori notturni a quella scritta storica apposta in tempi non certo recenti. Simili proposte somigliano a certe battaglie promosse, soprattutto oltreoceano, in nome della cosiddetta cancel culture, la nuova e deleteria moda che espone la storia alla gogna degli attuali orientamenti ideologici.

La sorella di Mozart e le altre: donne scordate dalla musica. Storia di Laura Zangarini su Il Corriere della Sera martedì 22 agosto 2023.

Bisognerà aspettare il 2025 per vedere in scena sul palco del Teatro alla Scala la prima opera scritta da una donna, Silvia Colasanti. Del resto, lirica e musica classica offrono tradizionalmente un’immagine quasi esclusivamente maschile. Eppure, come ricorda la giornalista specializzata in musica classica Aliette de Laleu, autrice di Mozart era una donna. Storia della musica classica al femminile (Odoya), in ogni epoca le donne ci sono state. E non solo come muse.

Il saggio offre l’occasione per scoprire la carriera di Barbara Strozzi, nota compositrice dell’Italia barocca, nata nel 1619 a Venezia, che poté vivere della sua attività musicale pur essendo madre single di quattro figli. O quella di Clara Haskil, una delle più grandi musiciste del Novecento che dovrà però attendere la fine della Seconda guerra mondiale perché al suo talento venga riconosciuto il giusto valore.

Maria Anna Mozart, Nannerl per familiari e amici, maggiore di cinque anni del fratello Wolfgang, uno dei compositori più noti al grande pubblico, è stata un prodigio musicale. Dopo il matrimonio impostole dal padre sparì dalle scene – e di conseguenza dai libri e dalla storia. Risultato: nessuno si ricorda di lei.

Quanti possono dire di conoscere Cassia di Costantinopoli (IX secolo), celebre sia per le sue composizioni che per la sua prosa, unica donna a essere citata fino al XVI secolo tra i grandi innografi della Chiesa bizantina? O Ildegarda di Bingen, religiosa medievale tedesca autrice di più di sessanta opere sacre? O, ancora, Élisabeth Claude Jacquet de La Guerre, cresciuta alla corte di Luigi XIV, il Re Sole, e geniale clavicembalista, autrice della prima opera, Céphale et Procris, scritta da una donna per l’Académie Royale? Rimanendo in Francia, non si può non ricordare Hélène de Montgeroult, tra le pianiste più famose del XVIII secolo: sfuggita alla ghigliottina grazie al suo virtuosismo, è l’autrice uno dei più importanti metodi di insegnamento pianistico della storia.

Ci sono poi compositrici riconosciute più per le relazioni amorose che per la loro musica. Come Clara Schumann, moglie di Robert: lui ne ammira il lavoro ma non vuole che quest’ultimo le porti via troppo tempo, né che lei occupi troppo spazio. Alla morte di Schumann, a 46 anni, l’ultima parte dei quali rinchiuso in manicomio, Clara si dedica a una vita da concertista e insegnante, nonché a mantenere in vita la musica del defunto marito.

Al talento delle compositrici Alma Mahler e Fanny Mendelssohn hanno fatto ombra rispettivamente il marito e il fratello. Prima di sposare Alma, Gustav scrive una lettera di venti pagine alla fidanzata in cui le chiede di smettere di comporre per evitare all’interno della coppia una rivalità che sarebbe stata «ridicola e degradante»; non è da meno Felix Mendelssohn: alla sorella pianista e compositrice, in potenza una delle figure più eminenti del Romanticismo tedesco, proibisce severamente di esercitare la sua arte.

Come mette in chiaro de Laleu, «per una donna, una vita da musicista è possibile solo se si rispettano alcune condizioni: un elevato status sociale, l’indipendenza economica, nessun marito che ostacoli la carriera». E conclude: «Se la storia dei capolavori e dei “geni”, quella degli uomini, può continuare a esistere, deve però ora includere anche le donne».

Dario Salvatori per Dagospia il 19 marzo 2023.

C’è stato un momento, negli anni Novanta, in cui il giro di affari di   tutta la discografia globale era di 40 miliardi di dollari (oggi siamo a 25). La grande spinta arrivò con l’arrivo dei cd, ovvero il “grande imbroglio” ai danni dei consumatori. Le major una volta tanto si coalizzarono, sostenendo che i dischi in vinile fossero ormai decrepiti e sorpassati (talmente decrepiti che proprio nel 2022 hanno superato in fatturato i cd ormai calanti,  strappando il primato sia in Usa, Inghilterra e Italia), al punto da convincere gli appassionati a riconvertire le loro discoteche: i vinili  in bacheca o negli scatoloni, i cd ritenuti pratici e”fedeli”, sia in auto che a casa. Era come ricomprarsi tutti  dischi che già avevamo, con un fatturato alle stelle.

Tenevano botta le musicassette. Nate nel 1963, commercializzate nel 1965 dalla Philips, le musicassette  conquistarono un pubblico alla ricerca dei successi in un piccolo formato. Il boom arrivò nel 1979 con il walkman, un marchio Sony. Perfetti per jogging e segreterie telefoniche che all’epoca duravano almeno tre minuti, con la classica intro di “Also Sprach Zarathustra”. 

Il boom si estese alle cassette vergini. Ognuno aveva in casa un cartone di cassette pronto per regalare una sua compilation alla fidanzata o agli amici. La domanda tipo era “Era sentito l’ultimo disco di Elton John? No, tranquillo, te la faccio io.” Non se ne poteva più. Per la serie siamo tutti d.j.. Una passione che raggiunse  i meno giovani, coloro che un disco potevano comprarlo tranquillamente, ma tanto per fare. I più bravi impararono anche a montare e ad equalizzare. I discografici accusarono il colpo ed era proprio il caso di dire che la musica stava cambiando.

Il film “Mixed by Erry” racconta la Napoli degli Ottanta, fra lo scudetto di Maradona e la pirateria discografica. I fratelli Frattasio lavoravano a Forcella e da lì distribuivano a Napoli, la Campania e gran parte dell’Italia. Il film, diretto da Sydney Sibilia (“Smetto quando voglio”), racconta pirateria e antipirateria.

Nessuno riusciva a capire  come queste musicassette arrivassero sulle bancarelle a duemila lire prima ancora che uscissero quelle originali. Per esempio sotto Sanremo. Enrico, uno dei fratelli Frattasio, che voleva fare il d.j., firmava le cassette “by Erry” e già quello costituiva un marchio di “qualità”. Non solo, ma Erry presentava queste canzoni con la sua voce.

Sono in molti a giurare che tra poco arriverà il boom degli Stereo 8, un formato meno felice, pesantissimo, al posto delle due facciate quattro piste con i brani che ripartivano in sequenza, legati in testa e in coda, come un anello di montaggio. Perfetti per il guidatore, efficaci per il sesso in auto.

 Prevalevano gli Stereo 8 strumentali: James Last, il Guardiano del Faro, Ray Conniff, Johnny Sax. Ma il n.1 era Fausto Papetti, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Nato a Viggiù, Papetti nasce jazzista, sax baritono nell’orchestra di Gorni Kramer, presente anche nei dischi di Max Springher e Chet Baker.  Nel 1959 uscì il film di Valerio Zurlini, “Estate violenta”, l’autore della musica era Mario Nascimbene, che interpretò  la morbidezza del linguaggio del regista vincendo il Nastro d’Argento. Papetti riprese il tema conduttore del film in un 45 giri,ottenendo più successo dell’intera colonna sonora. Da allora iniziarono le sue  note “Raccolte” con le ragazze copertina: due uscite l’anno. Puntualissime. L’ultima fu “50° Raccolta” nel 1996, tre anni prima della sua morte.

Dario Salvatori per Dagospia il 13 marzo 2023.

Arriva “Il Salvatori 2023”, ormai giunto alla decima edizione, con oltre 20.000 schede di canzoni e per ognuna titolo, autori, anno di pubblicazione, storia e aneddoti con tutti gli interpreti che l’hanno registrata. Più un ampio commento storico-critico.

 Canzoni di tutti i tempi e di ogni nazionalità, che vanno a formare un dizionario di una vastità enorme. La prima opera “reference” ad abbracciare l’intero ciclo della musica registrata. Un dizionario utile come strumento di consultazione ma anche un appassionante libro di lettura. Un viaggio attraverso le canzoni che hanno cambiato la nostra vita.

 Dall’introduzione: “L’idea di un reale archivio musicale, di una library definitiva è decisamente affascinante. Chi riuscirà a farlo avrà sicuramente gloria e vasti riconoscimenti economici. Il problema è organizzare i brani, conservarli in diverse copie di backup e poi renderli accessibili online a sessanta milioni di esseri umani.

 Ovviamente una sola copia di tutto il database non basta per tutte queste persone, ma neanche riprodurlo in sessanta milioni di copie avrebbe senso. Pagare la banda di connessione, spedire dati su internet, significa lanciarsi senza rete, ovvero attività molto costose per un’azienda digitale. Facebook non somma le culture, le separa. Milioni di utenti che stanno diventando ingestibili: comunicando con i social non si impara a conoscersi, ma a diffidare.

Anche la musica, tutta la musica, vive in una situazione da dilettanti allo sbaraglio 2.0. Si è generata una nebulosa che ingloba tutto  e il vero problema è che tutti vogliono emozionare. Credono di saperlo fare e lo pretendono.  Questa dovrebbe essere l’epoca d’oro della musica: se ne produce, distribuisce e si ascolta più di quanto sia mai successo.

 Forse questo è il perché Bob Dylan, Sting, Neil Young e Bruce Springsteen hanno deciso di vendere il loro patrimonio autoriale. Forse perché ancora non hanno estinto il mutuo? Ma lo hanno fatto tutti insieme, magari per paura di vedere il loro repertorio depauperato. Una decisione degna di Wall Street dei tempi d’oro. E’ così che devono finire le didattiche e mitologiche liriche di Bob Dylan  “amico, la risposta è nel vento”? O quelle di Springsteen difensore dei mezzadri, dell’America che “corre” ma non dimentica il passato, degli umili, dei “red neck” e soprattutto di certi presidenti?

Del resto la musica pop unisce due impulsi, di solito in contrapposizione fra loro. Da una parte ci sono format, che abbinano un gruppo di canzoni a un gruppo di persone, e i cui promotori si concentrano sulla creazione di un pubblico nuovo e alla scoperta di ciò che la gente vuole ascoltare. Dall’altra parte ci sono i generi, che combinano le canzoni con gli ideali e considerano la musica come espressione artistica, dichiarazione di gruppo e coerenza nel tempo.

 L’incorporazione dei generi da parte dei format ha avuto  un grande successo dagli anni Settanta ai Novanta, quando le categorie musicali mainstream si sono moltiplicate. Il problema era che tutti questi suoni erano controllati da un gruppo sempre più ridotto da multinazionali, a cui alla fine degli anni Novanta si è aggiunta una serie di grandi network radiofonici. Era autentica diversità o solo una simulazione?

La verità è che le radio, così a lungo disprezzate dalla critica, dagli addetti ai lavori e alle volte dagli stessi ascoltatori, anche per validi motivi, hanno chiuso molte porte ma ne hanno aperte altrettante. E di fatto nella situazione attuale la radiofonia costituisce ancora il vettore più rapido per mettere in orbita i futuri successi.

 Durante alcune delle presentazioni della prima edizione di questo libro, “Il Salvatori 2013”, l’interesse dei relatori è andato sovente al rapporto tra informazione e web. Naturalmente per informazione si intende anche un libro come questo. In pratica la domanda era: “Che bisogno c’era di raccogliere la storia di dodicimila canzoni (oggi ventimila) in un libro quando con un click si può avere lo stesso tipo di informazione oltretutto senza pagare?”.

 Fra tante recensioni, articoli, presentazioni e interviste questa è stata  in assoluto la domanda che più mi ha irritato. Ma anche quella che mi ha fatto vincere molte scommesse. Già, perché erano in molti a ritenere che il dizionario fosse comunque espressione di quanto pubblicato in vari siti. Magari. Avrei faticato molto di meno e sarei stato più veloce. In realtà i principali siti contengono informazioni e dati sulle canzoni imprescindibili, i classici, soprattutto del Novecento, le hits internazionali ma pochissimo o nulla su tutto il resto.

Al contrario, il nostro dizionario, pur lontano da ogni parvenza di completezza, scova nelle pieghe della storia della canzone internazionale di tutti i tempi, esaltando i brani che ricorderemo per sempre ma anche i temi di seconda e terza fascia, quelli ingiustamente dimenticati, i sottovalutati e qualche volta anche i mediocri. Tutto questo senza entrare in conflitto o peggio ancora in rivalità con lo sterminato mondo della rete, che svolge a mio parere comunque un’opera di divulgazione, anche se molto spesso le fonti, la veridicità, le asserzioni, la documentazione, la competenza e la forma  italiana lasci molto a desiderare.

Pentagramma e moschetto. La musica ha accompagnato (o denunciato) le guerre di ogni epoca. Carlo Piccardi su L’Inkiesta il 3 Gennaio 2023

Armonie e ritmi di ogni genere hanno rappresentato, sostenuto e anche contestato i conflitti armati. Il critico musicale Carlo Piccardi rintraccia il legame tra due mondi solo apparentemente distanti dai tempi di Machiavelli fino a oggi

Al gennaio del 1788 risale La battaglia K 535, contraddanza composta da Mozart un mese prima che Giuseppe II dichiarasse guerra ai turchi. Il clamore della percussione «alla turca» e il penetrante suono dell’ottavino che attraversano le trame di questa svagata musica da ballo, destinata proprio a quell’imperatore, ne erano quindi il preannuncio, tant’è che la Wiener Zeitung ribattezzò la modesta composizione mozartiana col titolo L’assedio di Belgrado.

Era infatti quello il «grosser Schall» che si era impresso minacciosamente nella memoria dei viennesi fin dall’assedio subìto dalla capitale asburgica nel 1529, quando le cronache riferivano della presenza fragorosa nell’esercito ottomano di una banda di trombe, zampogne, tamburi, piatti, campanelli e triangolo.

Trombe, pifferi e tamburi sono sempre stati in prima fila nelle armate a incitare i soldati all’assalto. Niccolò Machiavelli non mancò di considerare tale componente nel trattato intitolato L’arte della guerra, in cui Fabrizio, dialogando con Cosimo, afferma:

«Vorrei che ciascuno connestabole avesse la bandiera e il suono. Sarebbe pertanto composto uno battaglione di dieci battaglie, di tremila scudati, di mille picche ordinarie, di mille estraordinarie, di cinquecento veliti ordinarii, di cinquecento estraordinarii; e così verrebbero ad essere seimila fanti, tra quali sarebbero mille cinquecento capidieci e, di più, quindici connestaboli con quindici suoni e quindici bandiere, cinquantacinque centurioni, dieci capi de’ veliti ordinarii, e uno capitano di tutto il battaglione, con la sua bandiera e il suo suono.

[…] Vuolsi adunque che la prima e ultima fila d’ogni centurie sieno capidieci; il connestabole con la bandiera e con il suono stia nel mezzo della prima centuria degli scudi; i centurioni in testa d’ogni centuria ordinati».

In tale trattato, stampato nel 1521 e dedicato al cardinale Giulio de’ Medici, queste considerazioni si collegano allo sfoggio di sapienza umanistica, tanto da riprendere pari pari dalle antiche testimonianze il racconto degli inverosimili effetti prodotti dalla musica nelle contese:

«Deono adunque i fanti camminare secondo la bandiera e la bandiera muoversi secondo il suono; il quale suono, bene ordinato, comanda allo esercito; il quale, andando con i passi che rispondano a’ tempi di quello, viene a servare facilmente gli ordini. Onde che gli antichi avieno sufoli, pifferi e suoni modulati perfettamente; perché, come chi balla procede con il tempo della musica e, andando con quella, non erra, così uno esercito, ubbidendo nel muoversi a quel suono, non si disordina.

E però variavano il suono, secondo che volevano variare il moto e secondo che volevano accendere o quietare o fermare gli animi degli uomini. E come i suoni erano vari, così variamente gli nominavano. Il suono dorico generava costanzia, il frigio furia; donde che dicono che, essendo Alessandro a mensa e sonando uno il suono frigio, gli accese tanto l’animo, che misse mano all’armi. Tutti questi modi sarebbe necessario ritrovare; e quando questo fusse difficile, non si vorrebbe almeno lasciare indietro quegli che insegnassono ubbidire al soldato; i quali ciascuno può variare e ordinare a suo modo, pure che con la pratica assuefaccia gli orecchi de’ suoi soldati a conoscerli. Ma oggi di questo suono non se ne cava altro frutto in maggiore parte, che fare quel rumore».

Al di là dei dotti riferimenti, vi risalta l’importanza che Machiavelli attribuiva alla musica nella funzione simbolica, in combinazione con il vero simbolo rappresentato dalla bandiera. Oltre al ruolo incitante nel combattimento, essa era chiamata quindi a costituire un emblema in cui riconoscersi, da cui trarre la forza di sentirsi uniti per raggiungere un fine comune.

Nel prosieguo delle sue argomentazioni egli entra anche nel dettaglio, a differenziare in modo stupefacente vari tipi e gradi di interventi sonori. Così nel dialogo di Fabrizio con Luigi leggiamo: «E, perché l’importanza di questo comandamento dee nascere dal suono, io vi dico quali suoni usavano gli antichi. Da’ Lacedemoni, secondo che afferma Tucidide, ne’ loro eserciti erano usati zufoli; perché giudicavano che questa armonia fusse più atta a fare procedere il loro esercito con gravità e non con furia. Da questa medesima ragione mossi, i Cartaginesi, nel primo assalto usavano la citera. Aliatte,re de’ Lidi, usava nella guerra la citera e i zufoli; ma Alessandro Magno e i Romani usavano i corni e le trombe, come quelli che pensavano, per virtù di tali istrumenti, potere più accendere gli animi de’ soldati e fargli combattere più gagliardamente.

Ma come noi abbiamo, nello armare lo esercito, preso del modo greco e del romano, così nel distribuire i suoni serveremo i costumi dell’una e dell’altra nazione. Però farei presso al capitano generale stare i trombetti, come suono non solamente atto a infiammare l’esercito, ma atto a sentirsi in ogni romore più che alcuno altro suono. Tutti gli altri suoni che fussero intorno a’ connestaboli e a’ capi de’ battaglioni, vorrei che fussono tamburi piccoli e zufoli sonati, non come si suonano ora, ma come è consuetudine sonargli ne’ conviti. Il capitano adunque, con le trombe, mostrasse come quando si avesse a fermare o ire innanzi o tornare indietro, quando avessono a trarre l’artiglierie, quando muovere gli veliti estraordinarii, e, con la variazione di tali suoni, mostrare all’esercito tutti quegli moti che generalmente si possono mostrare; le quali trombe fussero di poi seguitate da’ tamburi. E in questo esercizio, perch’egli importa assai, converrebbe assai esercitare il suo esercito. Quanto alla cavalleria, si vorrebbe usare medesimamente trombe, ma di minore suono e di diversa voce da quelle del capitano».

Per quanto oggi siamo poco propensi a comprendere e ad accettare tale tipo di teorizzazione, non possiamo sottrarci alla constatazione ne del fascino dei suonatori scozzesi di cornamusa segnalati fin dal XIV secolo, nella Battaglia di Bannockburn. Di quelle antiche teorie, nella concreta dimostrazione di una capacità motivante al combattimento, essi sono infatti più di un riflesso. Li ritroviamo a Waterloo e nella guerra di Crimea a incitare i soldati all’attacco con effetto galvanizzante.

Nella Prima guerra mondiale non solo furono presenti nella sanguinosa offensiva della Somme, ma comparvero su tutti i fronti in cui era impegnato l’esercito britannico, sia su quello occidentale sia in Russia, in Macedonia, in Turchia, in Egitto, in Palestina, in Mesopotamia e perfino in India, con un tributo di sangue che ne vide 500 uccisi e 600 tra feriti e invalidi, provenienti, sì, dai reggimenti scozzesi ma anche dai numerosi battaglioni anzacs (giunti da Australia, Nuova Zelanda, Africa e Canada).

La diramazione coloniale della Gran Bretagna fece sì che troviamo le pipe bands anche nelle truppe di filiazione scozzese che facevano capo ai sikh, ai gurkha, ai pathan e droga al servizio della corona. Nella Seconda guerra mondiale intervennero a El Alamein, a Dieppe, sulle spiagge della Normandia e nell’attraversamento del Reno. Persino nella Seconda guerra del Golfo in Iraq (2003), quando lo spazio acustico della battaglia era saturato dai suoni meccanici dell’arsenale tecnologico e dall’assordante scoppio delle bombe, nelle compagnie scozzesi c’era ancora posto per l’accompagnamento di pungenti cornamuse.

Era quella in fondo anche la declinazione occidentale della banda dei giannizzeri, procedente di pari passo con stragi di teste tagliate e terra bruciata, che fu per l’Europa il terrorizzante annuncio sonoro di barbarica invasione. Si tratta di una fama radicata e testimoniata a vari livelli.

Da “Il suono della guerra” di Carlo Piccardi, Il Saggiatore, 688 pagine, euro 36,00.

Al microfono. Il fenomeno delle radio universitarie, fucine di voci e talenti. Riccardo Piccolo su L’Inkiesta il 30 Dicembre 2022

Per alcuni è un modo di vivere l’ateneo anche fuori dalle aule, per altri si tratta di un vero e proprio trampolino di lancio per lavorare nel campo anche dopo gli studi

Non fosse stato per le radio universitarie, oggi non avremmo i R.E.M o i Talking Heads, divenute band di culto alla fine degli anni Ottanta grazie alle intuizioni di giovanissimi radiofonici dei college americani, che preferivano dare spazio a musica più ricercata rispetto a quella “mainstream” cha passavano le grandi emittenti.

Da quegli anni, molte cose sono cambiate ma anche l’Italia ha raccolto l’eredità di quella libertà, freschezza e sperimentazione comunicativa che è una caratteristica comune di molte radio universitarie. Oggi, nel nostro Paese si contano oltre una trentina di emittenti negli atenei, molte delle quali fanno capo a RadUni, la più importante associazione degli operatori radiofonici universitari che, dal 2006, permette alle singole radio di raggiungere eventi di respiro nazionale e internazionale altrimenti irraggiungibili. Come si dice, l’unione fa la forza.

In questa direzione, va anche l’esperienza di Europhonica. Un progetto nato nel 2015 dalla collaborazione tra i circuiti delle radio universitarie italiane, francesi, spagnole e portoghesi, a cui poi si sono aggiunte le reti radiofoniche universitarie tedesche, greche, slovene e di altri Paesi Ue, con l’obiettivo di aiutarsi a vicenda creando un network sovranazionale per provare a imprimere una maggiore collaborazione a livello europeo.

Imparare a fare la radio

In Italia, la prima radio universitaria nasce nel 1998 da un’idea di un professore di Comunicazione dell’Università di Siena, che la chiama Facoltà di Frequenza e trasmette in Fm. Ma ai tempi le frequenze disponibili erano poche e i finanziamenti dell’ateneo ancora meno. Nel frattempo, Internet, che stava prendendo il sopravvento, permise di trasmettere a costi molto più bassi delle Fm.

Il decennio 2000-2010 ha visto nascere una dopo l’altra le web radio universitarie. Quando si cominciò a trasmettere online, tramite i siti web.

In queste effervescenti realtà universitarie, a ideare e produrre programmi, podcast e palinsesti ancora oggi sono studenti o ex studenti affezionati. Per alcuni è un modo di vivere l’ateneo anche fuori dalle aule, per altri si tratta di un vero e proprio trampolino di lancio per lavorare nel campo anche dopo gli studi. Quest’ultimo è il caso, ad esempio, di Massimo Lo Nigro, speaker radiofonico di RTL 102.5 News, che ha cominciato la sua carriera radiofonica proprio in una di queste fucine di talenti, Radio Iulm.

«Radio Iulm è nata nel 2015 e, a differenza di altre radio universitarie che scelgono di costituirsi come associazioni, è un organo dell’Università Iulm di Milano. Dopo un primo anno di attività in cui il palinsesto radiofonico prevedeva una sola trasmissione in diretta, la buona volontà di professori e studenti ha portato all’ingrandimento dell’organico e della varietà dei programmi», racconta Lo Nigro.

In pochi anni, questa piccola realtà è diventata un progetto molto più ampio cui partecipano attualmente più di un centinaio di studenti iscritti all’ateneo milanese, organizzati in un sistema semi-professionale, molto più strutturato. Ogni incarico, dallo station manager al direttore artistico, dal responsabile delle risorse umane ai diversi caporedattori, è coperto da uno studente, in modo da simulare un vero e proprio organigramma aziendale.

«Lo scopo della radio universitaria è tanto semplice quanto complesso», spiega Lo Nigro, «cioè quello di unire la funzione di servizio – sia di informazione, che di intrattenimento – nei confronti degli ascoltatori dell’ateneo, ma al contempo quella di svolgere una funzione didattica e di preparazione al mondo del lavoro per gli studenti che vi partecipano».

Quello che è stato creato con Radio Iulm è un vero e proprio laboratorio di formazione per tutti gli studenti. «Noi puntiamo molto sulla formazione tra pari (peer-to-peer). Ad esempio abbiamo una trasmissione appositamente pensata per far fare la gavetta ai nuovi arrivati, che non hanno mai aperto bocca davanti a un microfono», spiega Lo Nigro. In questo programma, chiamato “Quarto piano”, i nuovi arrivati sono coadiuvati da Lo Nigro e dai compagni che hanno condotto la trasmissione prima di loro. In questo modo, gli studenti che si laureano e concludono il percorso in radio lasciano il testimone ai nuovi arrivati, che a loro volta saranno in grado di continuare l’attività mantenendo una certa continuità con il passato.

«Una volta ogni sei mesi, poi, si cambiano le cariche quindi ognuno degli studenti prova in un ambito diverso», in modo da avere una preparazione a 360 gradi del mestiere radiofonico che comprende, oltre allo speakeraggio, anche la scrittura, il montaggio e l’organizzazione.

Quanto ai finanziamenti, la situazione varia molto a seconda delle forme giuridiche dei media: dalle associazioni culturali, ai mezzi di comunicazione dell’ateneo e alle testate registrate, fino a enti e fondazioni o a gruppi informali di studenti, come è il caso di Uradio, nata nel contesto dell’università di Siena, da cui però si è staccata per formarsi come associazione indipendente con tanto di presidenza e di statuto. Invece, «se la radio è gestita dall’ateneo», spiega Lo Nigro, «è più semplice dal punto di vista burocratico, perché è l’ateneo che pensa a te, ma ci sono anche bandi europei o fondi a disposizione. Per esempio il Fondo Antonio Megalizzi, in onore del reporter morto a Strasburgo nel 2018, dove si trovava in qualità di reporter universitario».

Estratto dell'articolo di Laura Larcan per corriereadriatico.it domenica 5 novembre 2023.

Gli archeologi lo definiscono «il più ricco e vasto giacimento di monete del tardo impero mai rinvenuto prima». Un autentico tesoro di quasi 50mila monete di bronzo risalenti alla prima metà del IV secolo d.C. rimasto per millenni sui fondali del mare di Sardegna, al largo del territorio di Arzachena, sulla costa Nord dell'isola. La storia è degna di un film.

A scoprire i reperti, infatti, è stato un residente di Arzachena per puro caso, durante un'immersione. Metti un filo di fortuna che non guasta, ma soprattutto l'occhio abile dell'esperienza in quelle acque, ed ecco intercettare un dettaglio strategico. Tra i movimenti del manto sabbioso del fondale ecco spuntare dei resti metallici a poca profondità, non molto distanti dalla costa. […]

Di qui l'allarme. Il giorno dopo è partita la spedizione in forze. Gli esperti archeosubacquei della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Sassari e Nuoro insieme con i sub dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale della Sardegna. L'esplorazione ha dato i suoi frutti, in un grande spiazzo di sabbia che si apre tra la spiaggia e la posidonia. 

Stavano lì, concentrate in due macro giacimenti: eccole, grandi monete di bronzo che ad una prima stima si aggirerebbero tra i 30.000 e i 50.000 esemplari. Un ricco deposito complessivo di "follis" risalente alla prima metà del IV secolo d.C. «Sono molte di più, quindi, di quelle rinvenute nel 2013 nel Regno Unito, a Seaton, quando riemersero 22.888 follis», fanno sapere dal Ministero della Cultura che si sta occupando ora di seguire con tutto il suo staff l'operazione di recupero e conservazione dei reperti. […]

Estratto dell'articolo di leggo.it martedì 7 novembre 2023.

Da qualche anno è stato scoperto il luogo di affondamento del galeone spagnolo San Josè, che naufragò nel 1708 con un tesoro di circa 18 miliardi di euro. La volontà di riesumarlo è quasi certa, ma la proprietà è contestata. Tra i primi a volersi accaparrare la grande fortuna c'è la Colombia.  

Il galeone spagnolo affondò nel 1708 durante una battaglia con gli inglesi nella guerra di successione, con la nave andarono sul fondo anche tesori d'oro, argento e smeraldi. La posizione del relitto, però, rimase ignota per diversi secoli, fino al 2015, quando il governo colombiano annuncIò il ritrovamento in fondo al Mar dei Caraibi.

[…] La Colombia vorrebbe estrarre la nave dal fondale entro il 2026, ma i progetti sembrano essersi interrotti a causa di contestazioni sulla proprietà.

La società americana Glocca Morra afferma di aver scoperto la posizione del relitto nel 1981 e di aver fornito le coordinate al governo colombiano, stipulando un accordo che prevedeva di ottenere la metà del tesoro una volta recuperato.

I colombiani sostengono invece che quando hanno cercato il relitto con le coordinate fornite dalla società americana, non hanno trovato niente.

Il tesoro recuperabile è attestato valere tra i 4 e i 18 miliardi di euro.

Estratto dell’articolo di Karima Moual per lastampa.it domenica 5 novembre 2023.

Nella città medievale di Chellah a Rabat, dopo mesi di ricerche iniziate a metà marzo, si è arrivati finalmente a un'importante scoperta archeologica, che ridisegna ancora una volta la storia di un paese come il Marocco ma anche quella dell’impero romano in Nordafrica. 

La scoperta riguarda il rinvenimento di una città di epoca romana non lontano dal sito iconico dell'antica e medievale città di Chellah a Rabat. Ma perché è così importante questa scoperta? Innanzitutto - come spiega bene Abdeljalil Bouzouggar, Direttore dell’istituto nazionale delle scienze dell’archeologia e del patrimonio marocchino - siamo di fronte a dimensioni molto importanti e alla prima città portuale scoperta nel Marocco.

La dimensione stimata di questa antica città è infatti di circa 300 ettari, probabilmente costruita nel II secolo d.C. E’ la prima volta che viene scoperto un porto di una città mauretano-romana, un fatto di grande importanza non solo per la storia del Marocco ma anche per quella del Mediterraneo. 

Nel sito, aperto per la prima volta alla presentazione della conferenza stampa di presentazione si intravede, un quartiere portuale, un grande stabilimento termale pubblico di almeno 2000mq, come il ritrovamento di elementi scultorei che un tempo adornavano le camere termali, tra cui una grande statua in marmo rappresentante una probabilmente una divinità femminile. Vi è poi un'antica area funeraria (necropoli) con tomba a nicchie (colombario), anch'essa costruita nel II secolo d.C.

Tra gli importanti resti architettonici vi è poi una vasta area pavimentata accompagnata da vasche, un colonnato e altre strutture. Insomma, c’è molto materiale per una storia da ricostruire e raccontare e non a caso, presenti alla presentazione di questa scoperta, oltre al Ministro della gioventù, della cultura e della comunicazione Mohamed Bensaid, anche il consigliere del Re Mohamed VI André Azoulay, oltre alla non casuale presenza dell’ambasciatore italiano Armando Barucco, unico rappresentante diplomatico straniero presente in prima fila.  […] 

Al momento è in corso di negoziazione un nuovo e più ambizioso Accordo di conversione del debito, che oltre a focalizzarsi su interventi per la gestione delle risorse idriche darà continuità alla progettualità sviluppata negli anni per la conservazione e il restauro del patrimonio storico marocchino. La scoperta degli oltre 300 ettari di nuovo sito archeologico romano a Chellah darà sicuramente ulteriore impulso alle attività archeologiche in Marocco, che potrebbero beneficiare dell’expertise italiana nell’ambito dei progetti previsti dal nuovo Accordo. […] 

Da adnkronos.com il 3 novembre 2023. 

Nel giardino di un cottage di Stirling, in Scozia, spunta un'antica strada romana costruita circa 2000 anni fa. Secondo la Bbc, la strada è stata realizzata dall'esercito guidato dal generale Giulio Agricola e risale all'epoca del I secondo dopo Cristo. 

La via è spuntata negli scavi nel sottosuolo di giardino di una residenza privata, l'Old Inn Cottage, un'antica locanda per mandriani costruita nel 1600: ora nella tenuta vive una famiglia a dir poco sorpresa dalla scoperta. La strada, si ipotizza, sarebbe stata utilizzata dalle legioni romane per invadere i territori dell'attuale Scozia durante le epoche degli imperatori Antonino e Severo. 

Dagli studi dell’archeologo Murray Cook, infatti, molte delle figure storiche che hanno avuto un ruolo chiave nella storia scozzese e britannica avrebbero utilizzato quella strada per campagne militari, data la sua importanza strategica per attraversare il fiume Forth e raggiungere le Highlands, nonché la sua vicinanza a Stirling, l'ex capitale della Scozia. 

"Questo incrocio sarebbe stato usato dai romani, dai vichinghi, da Guglielmo il Conquistatore, Oliver Cromwell e da ogni re e regina di Scozia, inclusi MacBeth, Kenneth McAlpin e Robert the Bruce" ha detto Cook parlando ai giornali locali scozzesi, che hanno definito la scoperta "la più importante della storia scozzese". Secondo Cook "la strada non fu più sottoposta a manutenzione quando i romani se ne andarono, ciò che abbiamo trovato è la superficie erosa della strada". Jennifer Ure, che vive nel cottage con il marito e i due figli, è a dir poco sorpresa: "È stupefacente pensare che personaggi come Guglielmo il Conquistatore e Re Enrico VIII abbiano attraversato il luogo in cui si trova ora il nostro giardino - non molte persone possono dirlo".
 Estratto dell’articolo di Anna Laura de Rosa per repubblica.it lunedì 21 agosto 2023.

Una stanza assegnata agli schiavi, che racconta attraverso gli arredi e la presenza di tre roditori le condizioni igienico sanitarie e la gerarchia che c’era nella servitù della villa romana di Civita Giuliana. [...] Siamo a circa 600 metri dalle mura dell’antica Pompei, in questo scavo strappato ai tombaroli che ha regalato reperti unici al mondo come il carro cerimoniale e una stalla con un sauro bardato, è stato ritrovato anche l’arredo di questa camera assegnata agli schiavi che denuncia una situazione di precarietà e subalternità.

Mobili e tessuti, corpi di vittime dell’eruzione del 79 d.C., sono stati coperti dalla nube piroclastica, divenuta poi terreno solido mentre la materia organica decomposta ha lasciato un vuoto nel terreno: un’impronta che, riempita di gesso, ha rivelato la sua forma originaria. Un’immagine di quasi 2000 anni fa, realizzata con la tecnica dei calchi, esistente solo a Pompei e dintorni. [...] Quello che è emerso adesso fa pensare a una precisa gerarchia all’interno della servitù. Mentre uno dei due letti trovati in queste settimane è della stessa fattura di quelli del 2021, estremamente semplice e senza materasso, l’altro è di un tipo più confortevole e costoso, noto in bibliografia come “letto a spalliera”.

Nella cinerite sono ancora visibili le tracce di decorazioni color rosso su due delle spalliere. Oltre ai due letti, nell’ambiente recentemente scavato ci sono due piccoli armadi, anch’essi conservati parzialmente come calchi, una serie di anfore e vasi di ceramica e diversi attrezzi, tra cui una zappa di ferro. Il microscavo di vasi e anfore provenienti dall’ambiente “C” ha nel frattempo rilevato la presenza di almeno tre roditori: due topolini in un’anfora e un ratto in una brocca, posizionata sotto uno dei letti e dalla quale sembra che l’animale cercasse di scappare quando morì nel flusso piroclastico dell’eruzione.

Dettagli che sottolineano ancora una volta le condizioni di precarietà e disagio igienico in cui vivevano gli ultimi della società dell’epoca. L’esplorazione archeologica della villa di Civita Giuliana, già oggetto di scavi nel 1907-‘08, è cominciata nel 2017 grazie a una collaborazione tra il Parco Archeologico di Pompei e la Procura della Repubblica di Torre Annunziata, che insieme ai Carabinieri aveva scoperto un’annosa attività di scavi clandestini nell’area della Villa, sgominata e perseguita sia penalmente che civilmente.

"Quanto ricostruito – dichiara il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano -conferma la necessità di proseguire la ricerca scientifica in un luogo che, grazie all’opera della magistratura e dei Carabinieri, è stato strappato al saccheggio e al traffico illecito di beni archeologici per raccontare momenti notevoli della vita quotidiana dell’antichità. [...]".

"Sappiamo che i proprietari usavano diversi privilegi, tra cui anche la possibilità di formare una famiglia, seppure senza alcuna tutela legale, per legare alcuni schiavi più strettamente alla villa, anche con la finalità di averli come alleati nel sorvegliare gli altri - spiega il direttore del Parco Archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel - Quello che emerge qui è la struttura sociale della servitù che doveva impedire fughe e forme di resistenza, anche perché mancano tracce di grate, lucchetti e ceppi. Pare che il controllo avveniva principalmente tramite l’organizzazione interna della servitù, e non tramite barriere e vincoli fisici [...]".

Estratto dell’articolo di Giulia Torlone per “la Repubblica” su Il Corriere della Sera sabato 29 luglio 2023

Un mondo sommerso che racconta secoli di storia. Fatto di navi mercantili che, sulla rotta del Mediterraneo, sono affondate cariche di anfore e vasellame e che ora giacciono sui nostri fondali. Anno dopo anno stanno tornando alla luce, come nel caso del relitto trovato ieri al largo di Civitavecchia, a 160 metri di profondità, risalente al I o II secolo a. C.

Un ritrovamento complesso, in cui si sono attivati i carabinieri subacquei di Genova e Civitavecchia, in sinergia con la Sovrintendenza. «L’elemento interessante di questo ritrovamento — spiega Barbara Davidde, a capo della Sovrintendenza per il patrimonio culturale subacqueo — è che in questo caso le anfore trovate nella stiva della nave sono ancora impilate e perfettamente conservate. Questo ci permetterà di ricostruire molto dei traffici commerciali del primo o secondo secolo dopo Cristo ».

Dopo la nascita, nel 2021, di una Sovrintendenza dedicata, il patrimonio archeologico sottomarino sta colmando la grande differenza con quello terrestre. Si contano, ad oggi, 1200 siti italiani archeologici subacquei già schedati, ma ci si aspetta che altrettanti siano ancora da scoprire[…] 

Ma come si arriva a scoprire l’esistenza di un reperto a metri e metri di profondità? «La ricerca può partire per il ritrovamento fortuito da parte di un sub che lo segnala alla Capitaneria di Porto, oppure dopo uno studio preliminare fatto da istituti di ricerca. Spesso sono le fonti antiche, la letteratura, che ci spingono a cercare in un determinato luogo» continua Davidde. 

Sul posto, una volta ipotizzata la presenza di un relitto, si attivano i sommozzatori dei Carabinieri. «Con l’ausilio dei rov (piccoli robot subacquei, ndr) riusciamo ad arrivare in profondità e a mappare precisamente il sito archeologico, in sinergia con la Sovrintendenza» racconta Paolo Salvatori, Comandante della Sezione Archeologia del Reparto operativo dei carabinieri.

 «Al di là del ritrovamento, il nostro lavoro è anche quello di controllare che ogni reperto trovato sul fondale non sia preda dei cosiddetti “tombaroli” che potrebbero rubarli» conclude Salvatori. Molto spesso, i reperti vengono portati in superficie e restaurati. […] . «Dal 2011, grazie alle nuove tecniche ideate da Roberto Petriaggi, siamo in grado di restaurare direttamente sul posto.La nuova creazione di malte, i sacchi in tela idrorepellente ci hanno permesso di lavorare in profondità » conclude Barbara Davidde. E queste città sommerse, insieme ai relitti di vecchie navi, sembrano essere la nuova frontiera di un turismo subacqueo, con visite guidate e sommergibili turistici. […]

Estratto dell'articolo di ilmessaggero.it il 21 giugno 2023.

[…] Gli archeologi - quelli reali - hanno trovato un'antica città nella giungla. Gli studiosi messicani hanno scoperto i resti di un'antica città maya nelle profondità della giungla della penisola dello Yucatán. 

Cosa è stato scoperto

Gli esperti hanno trovato diverse strutture piramidali di oltre 15 metri di altezza. Le ceramiche rinvenute nel sito sembrano indicare che fu abitato tra il 600 e l'800 d.C., un periodo noto come Tardo Classico. Gli archeologi hanno chiamato il sito Ocomtún (colonna di pietra in lingua maya). […] 

Questi ultimi resti sono stati rinvenuti in una riserva ecologica nello stato di Campeche, un'area così densa di vegetazione da essere poco esplorata.

Le colonne cilindriche in pietra che hanno spinto i ricercatori a chiamare il sito Ocomtún erano probabilmente ingressi a stanze nelle parti superiori degli edifici. […] il sito ha probabilmente subito notevoli cambiamenti tra l'800 e il 1000 d.C. prima di essere vittima del crollo della civiltà Maya di pianura nel X secolo.

Estratto dell'articolo da tg24.sky.it il 18 giugno 2023.

I primati di 40 milioni di anni fa si masturbavano. A sostenerlo è una nuova ricerca pubblicata su The Royal Society e citata oggi da The Guardian. I risultati dello studio sono emersi da quello che gli scienziati ritengono sia il più grande set di dati mai compilato sull’argomento.

“Quello che ora possiamo confermare è che questo comportamento era già presente circa 40 milioni di anni fa, nell’antenato comune di tutte le scimmie”, ha detto Matilda Brindle, la ricercatrice dell’University College di Londra a capo dello studio. “Non è che alcune specie si sono svegliate e da un giorno all’altro hanno iniziato a farlo. Questo è un tratto antico ed evoluto”, ha aggiunto. 

[…]. È emerso come storicamente gli studi biologici abbiano trascurato la masturbazione del sesso femminile a dispetto di quella maschile. Le analisi degli scienziati hanno trovato supporto all'idea che la masturbazione maschile aumentasse le possibilità di mettere incinta la compagna. L’atto avrebbe anche potuto aiutare i maschi a liberarsi del vecchio sperma, lasciandoli con uno sperma più fresco e più competitivo. “[…]

 Estratto dell'articolo di Matteo Liberti per focus.it il 18 giugno 2023. 

Il celebre faraone bambino Tutankhamon che salì al trono a soli dieci anni e dominò l'Antico Egitto tra il 1333 al 1323 a.C. circa, fu imbalsamato con il pene in (finta) erezione per motivi di natura politico-religiosa […] La scelta […] mirava a contrastare la rivoluzione religiosa messa in atto da suo padre, Akhenaton. 

Sul trono prima di lui, questi aveva introdotto in Egitto una forma di monoteismo legata al culto di Aton, dio raffigurato dal disco solare, e nel far ciò aveva mandato in pensione le varie altre divinità del cosmo egizio, anche togliendo importanza alle figure sacerdotali che le rappresentavano. Un po' troppo, per i tempi. 

Così, dopo la morte del padre, Tutankhamon promosse un ritorno al politeismo, additando Akhenaton come eretico. In nome di questa contro-rivoluzione, dispose di essere imbalsamato con il pene eretto in omaggio a Osiride, dio della fertilità, tra le divinità che erano state messe in ombra dalla riforma del padre. 

Estratto da tg24.sky.it il 28 maggio 2023.

A Saqqara, in Egitto, sono stati scoperti i "due più grandi e completi laboratori di imbalsamazione" egizi mai rinvenuti finora". Lo ha annunciato il ministero delle Antichità egiziano specificando che un laboratorio era dedicato agli esseri umani mentre l'altro agli animali. Si trovano entrambi nella necropoli di Saqqara, situata a 30 chilometri a sud del Cairo, "una delle più grandi necropoli reali d'Egitto che ospita il più antico edificio in pietra della storia, la Piramide a gradoni di Djoser", spiega il ministero.

[…] Nel comunicato viene precisato che i due laboratori risalgono alla 30esima dinastia e al periodo tolemaico mentre le due tombe ricadono nell'Antico e nel Nuovo Regno.

Il laboratorio esseri umani ha "una forma rettangolare ed è suddiviso all'interno in diverse stanze dotate di letti di pietra dove il defunto veniva adagiato per la mummificazione. Ogni letto è lungo due metri e largo 50 cm", si legge nella nota del ministero. Sono tutti e due "ricoperti di gesso e terminano con canali di scolo". Dentro ogni stanza del laboratorio è stata portata alla luce "una collezione di vasi di argilla, tra cui quelli utilizzati per la mummificazione, nonché una collezione di strumenti" e "vasi rituali".

Anche l'altro laboratorio, quello destinato all'imbalsamazione di "animali sacri", ha "forma rettangolare" ed è "fatto di fango con pavimenti in pietra". È formato da un gruppo di stanze all'interno delle quali anche è stata trovata "una collezione di vasi di argilla e di sepolture per animali insieme a strumenti di bronzo utilizzati nel processo di mummificazione".

Estratto dell’articolo di Gimmo Cuomo per corriere.it il 29 maggio 2023.

Pompei non smette mai di stupire. Immagini inedite di alcuni ritrovamenti effettuati nelle scorse settimane nell’insula X della Regio IX all’interno del Parco archeologico - come scheletri perfettamente conservati - vengono diffuse oggi e confermano le potenzialità che ancora nasconde il sito, come ha sottolineato il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ospite del sito archeologico. Lo scavo che riguarda gli ultimi ritrovamenti, avviato nello scorso gennaio e proseguito con ulteriori lavori tra febbraio e marzo, copre la più vasta area da un secolo a questa parte.

Gli scheletri venuti alla luce apparterrebbero a due donne adulte e ad un bambino tra i 3 e i 4 anni, uccisi  per il crollo del soffitto di un ambiente in cui avevano cercato scampo al terremoto del 79 d.C. che ha accompagnato l’evento eruttivo. Due di loro, dopo il ritrovamento, sono stati riparati altrove per studiarli più approfonditamente. Nell’atrio dell’abitazione, con forno annesso, sono riemersi due cubicoli affrescati con scene del mito: Poseidone e Amimone nel primo, Apollo e Dafne nel secondo (...)

Il «corsivo» nei papiri di Ercolano. Le nuove scoperte sul lavoro degli scribi. Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 4 maggio 2023.

Lo studio dei papiri bruciati durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. offre nuove rivelazioni sullo stile di scritture che era inclinato a destra per motivi estetici 

Continuano a raccontarci segreti e meraviglie i Papiri di Ercolano, la più grande testimonianza dell’età ellenistica carbonizzati dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., recuperati nel Settecento e adesso decifrati grazie a un lavoro straordinario dei ricercatori dei progetti europei e del ministero, «GreekSchool» e «EpicureanPolemic» coordinati dal professor Graziano Ranocchia, docente di Papirologia al Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’università di Pisa. Gli studiosi sono infatti riusciti grazie all’uso di tecnologie innovative e leggerli completamente e a capire i loro segreti.

La scrittura inclinata a destra

L’ultima scoperta, pubblicata anche su Nature, riguarda lo stile di scrittura (i Papiri di Ercolano sono scritti in lingua greca) che, grazie a una vera e propria impaginazione che gli antichi usavano, ha un’estetica inclinata a destra. Che per gli scribi di allora evidentemente era la migliore possibile per appagare non solo la mente ma anche la vista. Insomma, se vogliamo fare un paragone scherzoso, un po’ come la Torre di Pisa, straordinario capolavoro che però grazie alla sua inclinazione ha moltiplicato l’interesse del visitatore. La nuova scoperta è stata presentata all’università di Pisa.

Le tecniche

«Anche gli scribi antichi che esercitavano la loro arte sui papiri di Ercolano utilizzavano diversi tipi di griglie per delimitare lo specchio di scrittura, – spiega il professor Ranocchia – una tecnica che si ipotizzava ma adesso per la prima volta abbiamo una conferma scientifica». I ricercatori hanno utilizzato tecniche di riproduzione iperspettrale che consente di visualizzare tutte le bande visibili e non visibili dell’infrarosso e dell’ultravioletto, la scansione Terahertz e l’Ocp, tecnologie che permettono di penetrare nella materia e raccogliere informazioni sul testo nascosto da strati multipli o sovrapposti. I papiri di Ercolano sono una straordinaria collezione filosofica di matrice epicurea che coprono l’intera età ellenistica, dal 300 a. C. sino all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. – spiega il professr Ranocchia -. Un tesoro scoperto nel Settecento ma che soltanto oggi è possibile decifrare completamente grazie un sistema integrato di tecnologie e ricerca filologica».

Quell'«Ufo» nel dipinto della Madonna di Palazzo Vecchio a Firenze: la storia e la spiegazione. Mauro Bonciani su Il Corriere della Sera il 3 maggio 2023.

Un «tondo» molto curioso dell'epoca rinascimentale che si trova nella sala Ercole di Palazzo Vecchio a Firenze: la storia della cosiddetta «Madonna dell'ufo»

Chissà quanti di coloro che visitano Palazzo Vecchio a Firenze si sono fermati di fronte al «tondo» della Madonna col bambino e San Giovannino esposto nella sala di Ercole. 

Il quadro della seconda metà del XV secolo è unico al mondo: se si guarda attentamente in alto a destra, un pastore, con il braccio teso sopra gli occhi, osserva in cielo un oggetto misterioso, mentre il suo cane abbaia furiosamente all’«alieno».  

L’Ufo galleggia nel cielo, con una specie di torretta al centro, e raggi di luce partono da tutta la sua superficie. 

Un Ufo a tutti gli effetti, insomma, anche se forse rappresenta solo la nuvola dorata su cui l’angelo fa l’Annunciazione. 

Eppure gli Ufo furono avvistati anche nel Medio Evo. A Firenze ne parlano Dino Compagni e Giovanni Villani, mentre Benvenuto Cellini nella sua autobiografia ha lasciato testimonianza oculare di una «trave di fuoco» apparsa nel cielo sopra la città.

Svelato un nuovo mistero sulla Gioconda: il ponte Romito sullo sfondo della Monna Lisa. Dopo una ricerca coordinata dallo storico Silvano Vinceti sono emersi nuovi dettagli sulla Gioconda. Svelato il ponte sullo sfondo dell’opera d’arte. Cristina Balbo il 3 Maggio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La nuova scoperta

 Le altre tesi

Emerge un'altra ipotesi su una delle opere d’arte che da sempre alimenta misteri e enigmi, la Gioconda di Leonardo. Secondo una ricerca coordinata dallo storico Silvano Vinceti, presidente del Comitato nazionale per la valorizzazione dei beni storici, culturali e ambientali e già autore in passato di altre importanti scoperte sul ritratto più famoso del mondo, sarebbe il ponte Romito di Laterina in provincia di Arezzo, quello che il grande Leonardo dipinse nel paesaggio della Monna Lisa. Stando a questa ricerca, infatti, vi sarebbero pochi dubbi e in questo modo, si porrebbe fine ad uno dei misteri che più ha aleggiato negli anni sulla Gioconda, alimentando anche diverse dispute.

La nuova scoperta

Grazie alla nuova ricerca, resa possibile anche per la collaborazione dell'associazione culturale La Rocca e basata su comparazioni tra fotografie attuali (scattate anche con il drone) e quanto raffigurato nel dipinto, e sullo studio di nuovi documenti storici, sono state identificate le arcate che appaiono sullo sfondo nella parte destra della Gioconda. Si tratterebbe quindi, del ponte Romito costruito dai Romani per collegare la via Cassia Vetus alla Cassia Adianea, in un punto in cui l'Arno scorre nella stretta gola costituita dalla Valle dell'Inferno. Sebbene adesso del ponte sia rimasta soltanto un’arcata, nel periodo tra il 1501 e il 1503, come spiegato da Vinceti, era un ponte molto frequentato come testimonia un documento ritrovato negli archivi di Stato di Firenze. D’altronde, tutto corrisponderebbe dal momento che Leonardo in quel periodo si trovava proprio in Val d’Arno, al servizio di Cesare Borgia prima, e poi di Pier Soderini, il gonfaloniere della Repubblica di Firenze.

Le altre tesi

Negli anni, sono state tante le ricerche e tante le ipotesi che sono venute a galla; in particolare, tra le tesi più sostenute quelle che hanno suscitato più clamore rinviano al ponte medievale di Bobbio, in provincia di Piacenza, e al ponte a Buriano in provincia di Arezzo. Tuttavia, il ponte Romito aveva quattro arcate, invece, quello di Bobbio più di sei arcate, e quello di Buriano sei. Quindi, secondo Vinceti - come spiegato nel corso di una conferenza stampa nella sede della Stampa Esteria a Roma - non vi sarebbero dubbi: "Quello raffigurato da Leonardo è a nostro parere il ponte di origine etrusco-romano Romito o ponte di Valle”.

Poi lo storico ha chiarito ulteriormente la sua posizione e così, ha proseguito: "Diverse sono le corrispondenze che intercorrono fra il ponte Romito, le particolari morfologie dell'Arno in quel tratto di territorio e quanto riportato da Leonardo nel paesaggio alla sinistra della nobildonna raffigurata nel famoso dipinto”. Inoltre, Vinceti ha anche ipotizzato che nella parte bassa a sinistra della Gioconda sia raffigurato un complesso di balze o piramidi di terrà che Leonardo avrebbe visto, lasciandosi ispirare, nel Val d'Arno superiore, nell'attuale territorio di Castelfranco Piandiscò, comune dell'Aretino a stretto confine con la provincia di Firenze. Cristina Balbo

Estratto dell'articolo di Pierluigi Frattasi per fanpage.it il 2 maggio 2023.

Nella città sommersa di Baia è stato individuato il grande Tempio dei Nabatei. L'antico popolo di mercanti mediorientali, che aveva a Petra la sua capitale, aveva un'enclave anche nei Campi Flegrei. Le recenti scoperte archeologiche di due altari in marmo nabatei di età romana, databili alla prima metà del I secolo d.C., hanno consentito di inquadrare il sito del grande Tempio dei Nabatei sotto il mare del Golfo di Pozzuoli, oggi sommerso per effetto del bradisismo.

“Si tratta di un risultato straordinario – commenta il Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano – […] L’antica Puteoli rivela un altro dei suoi tesori, la cui esatta collocazione finora era ignota, che testimonia la ricchezza e la vastità degli scambi commerciali, culturali e religiosi nel bacino mediterraneo nel mondo antico. […]”.

[…]

Il Tempio di Dusares a Pozzuoli

I Nabatei, popolazione dedita al commercio tra l’Oriente, l’Oceano Indiano e Roma, erano stanziati nelle aree desertiche della Penisola Arabica, ma avevano, sin dalla prima età imperiale, impiantato una loro base all’interno del porto puteolano, il più grande scalo commerciale del Mediterraneo romano. Di questa enclave mercantile, l’unica al di fuori della madrepatria, si conoscevano finora basi e lastre iscritte con dediche – in latino – al dio tutelare Dusares, rinvenute sui fondali di Pozzuoli a più riprese tra il XVIII secolo e gli anni Ottanta del Novecento, e poi confluite nelle collezioni dei Musei di Napoli e del Castello Aragonese di Baia. 

Rimaneva approssimativa la collocazione del santuario di riferimento, oggi individuata con strumenti topografici di precisione che hanno consentito di inserire il Tempio nel quadro topografico più ampio del vicus Lartidianus. 

[…]

La localizzazione definitiva degli altari […] consente oggi di comprendere meglio l’articolazione di questo complesso settore del porto puteolano, in cui gli edifici sacri delle comunità di stranieri si ergevano a strettissimo contatto con le lunghe file di magazzini destinati a stoccare le tante merci in transito nello scalo, pronte a essere smistate verso la Campania o reindirizzate direttamente a Roma.

Ingannare il tempo. L’ansia di futurista di “riscrivere la storia” dopo ogni scoperta archeologica. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 2 Maggio 2023

Statue, fossili, scheletri. Ogni volta che viene alla luce un reperto storico si grida al cambiamento epocale. Ma già il giorno dopo, della cosa non si parla più

C’è in giro una gran voglia di riscrivere la storia. No, non è l’influenza postuma di Ernst Nolte: è uno dei più logori e cretini tra i molti luoghi comuni del giornalismo. Ogni volta, o quasi, che è annunciata una scoperta riguardante il passato più o meno lontano, ci viene assicurato che «farà riscrivere la storia» di qualche cosa. Può essere una scoperta in campo archeologico, artistico, epigrafico, paleontologico (in questo caso si tratterebbe di riscrivere la preistoria), oppure il ritrovamento di un libro, di un documento o di una parte di documento mancante. Una volta si sarebbe parlato di «scoperta del secolo», ma, considerato che ogni anno salta fuori una scoperta del secolo, è ora in costante aumento la schiera degli aspiranti riscrittori.

In genere tutto nasce da un comunicato stampa; agenzie, giornali e televisioni pedissequamente si accodano. Come è accaduto a metà di questo mese, quando tutti gli organi di informazione si sono occupati degli straordinari reperti venuti alla luce negli ultimi mesi nel piccolo tempio dorico di inizio V secolo avanti Cristo rinvenuto a Paestum nel 2019: uno «scavo unico» che, come ha dichiarato all’Ansa la direttrice del Parco archeologico Tiziana D’Angelo, leggermente variando la formula consacrata, permette di «cambiare la storia conosciuta dell’antica Poseidonia» (il nome greco della città, sub-colonia sibarita). Come e perché andrà cambiata non si è capito bene, la direttrice non l’ha spiegato e presumibilmente nessuno glielo ha chiesto – tutti paghi di avere lo spunto per il titolo “revisionista”.

Pochi mesi prima, novembre 2022, il ritrovamento di ventiquattro statue bronzee etrusche nel sito archeologico di San Casciano, in Toscana, entusiasmava il coordinatore dello scavo Jacopo Tabolli: «Una scoperta che riscriverà la storia e sulla quale sono già al lavoro oltre 60 esperti di tutto il mondo», assicurava. Aspettiamo fiduciosi.

Questi sono soltanto gli episodi più recenti. Ma se si va a rovistare in rete, immettendo su Google la stringa di ricerca «farà riscrivere la storia», i casi si moltiplicano. A centinaia.

Nell’autunno del 2020 la storia si sarebbe dovuta riscrivere in seguito al ritrovamento, in una grotta nei pressi di Johannesburg, di un cranio di ominide vissuto due milioni di anni fa, appartenente alla specie Paranthropus robustus. Anche in questo caso, quale storia e come e perché riscriverla restò un mistero per chi apprese la notizia dai giornali, che con squisito senso della discrezione si astennero dal domandarlo agli scopritori della Washington University di St. Louis.

Uno scheletro intero, vecchio di circa novemila anni e ritrovato nel 2011 in Sardegna, località Su Pistoccu, dalla geoarcheologa Rita Melis, era invece meno reticente, nonché più preciso: prometteva di far riscrivere la storia del popolamento dell’isola. Ok, fateci sapere.

E cambiando isola, una grotta elbana reinterpretata in anni recenti come tomba etrusca (reinterpretazione successivamente smentita dal ministero della Cultura) avrebbe dovuto, secondo la soprintendenza di Pisa, «far riscrivere la storia dell’Elba preromana e delle sue relazioni con il mondo mediterraneo». Perbacco.

Potevano le smanie riscrittorie risparmiare l’antico Egitto? E no che non potevano. E infatti il vento revisionista ha preso a soffiare quando, nel gennaio del 2021, una squadra di archeologi locali guidata dal baldo Zahi Hawass ha riportato alla luce a Saqqarah una cinquantina di sarcofagi del Nuovo Regno, databili tra i 3500 e i 3000 anni fa. Come è andata a finire con questa riscrittura? Siete curiosi di saperne di più? Chiedetelo a Zahi Hawass, o, se non vi risponde, al suo modello cinematografico Indiana Jones.

A un’epoca di oltre un millennio più antica, inizi del III avanti Cristo, risale l’officina per la lavorazione dei metalli scavata alla fine degli anni Novanta nei pressi del villaggio cipriota di Pyrgos da un’équipe del Cnr diretta da Maria Rosaria Belgiorno, che (vai a sapere perché) avrebbe dovuto far riscrivere la storia della metallurgia. Un altro balzo all’indietro, nientemeno al “12.500-12.800” avanti Cristo, con il fantomatico CISREI (Centro internazionale di studi e ricerche etnografiche italiano) che così retrodatando le piramidi di Giza pretendeva di far riscrivere la storia tout-court: non risulta che ci sia riuscito, in compenso ha alimentato i vaniloqui della fantarcheologia e contribuito al conto in banca di schiere di romanzieri furbacchioni.

L’elenco sarebbe lungo e divertente, ma per non tediare – citando alla rinfusa – possiamo limitarci a rilevare che l’onore (senza onere) di far riscrivere la storia è toccato agli scheletri di dinosauro ritrovati nei pressi della città di Balde de Leyes, in Argentina; a un fossile di Megachirella riaffiorato sulle Dolomiti, che più modestamente doveva far riscrivere la storia di lucertole e serpenti; a una mostra londinese sullo straordinario (quanto misconosciuto) pittore Pordenone Montanari, la cui scoperta avrebbe dovuto far riscrivere la storia dell’arte italiana del dopoguerra; e così via riscrivendo. Il luogo comune è divenuto così logoro che addirittura lo si trova chiamato in causa in un sito di cucina, nella descrizione di un panino che, grazie alla «combinazione del cheddar al rafano, del ketchup, del polpettone e della crosta croccante della cipolla, ti farà riscrivere la storia».

Naturalmente, a parte gli usi ironico-iperbolici, come quest’ultimo, in tutti gli altri casi citati, e in centinaia di casi non citati, la riscrittura è rimasta un verbo da coniugare rigorosamente al futuro che aspetta ancora di diventare presente. Ma in genere non si cruccia nell’attesa, perché già il giorno dopo della cosa non si parla più. Un grande avvenire dietro le spalle.

Così Alessandro diventò il demone della battaglia. Gastone Breccia ricostruisce lo scontro di Isso in cui il macedone colse la sua più grande vittoria. Matteo Sacchi su Il Giornale il 30 Aprile 2023

Uno stretto pianoro, incassato tra le montagne che cingono il golfo di Isso, dove scorre il fiume Pinaro. Lì, nel novembre del 333 a.C., le vedette macedoni scoprono l'esercito di Dario III radunato in massa, alle spalle delle truppe di Alessandro Magno che stavano avanzando verso Sochi. Dove le forze del Re dei Re erano state segnalate in precedenza. Dario, che aveva radunato le sue forze da tutto l'Impero, si è mosso con rapidità, sorprendendo il giovane condottiero. Avanzando alle sue spalle ha anche massacrato i malati e i feriti che Alessandro aveva lasciato nella città di Isso.

C'è rabbia e stupore nel campo macedone, che sino a poco prima è stato flagellato dalla pioggia. Con l'armata di Dario alle spalle, che tagliava la via del ritorno verso l'Ellade, la sconfitta poteva avere esiti disastrosi. Eppure la manovra persiana non era priva di falle. A Sochi i persiani disponevano di un campo di battaglia molto ampio, dove sfruttare a pieno la loro superiorità sui Macedoni e sui loro alleati greci. Schiacciati sulla costa, la loro superiorità di manovra e la possibilità di dar vita ad un fronte ampio per i macedoni era azzerata.

Mandata una triacontera in esplorazione, Alessandro reagì con grande velocità. Fece levare il campo ai suoi uomini, ordinando di marciare velocemente verso la piana e il fiume. Si fermò soltanto nel pieno della notte: per farli riposare in un punto della strada costiera da cui non potessero scorgere la vastità dell'accampamento nemico. Un modo di limitare la paura. All'alba li fece ripartire, ordinando che le truppe, appena possibile, si schierassero in ordine di battaglia, raggiunta la piana. La manovra fu eseguita alla perfezione consentendo ai macedoni di schierare al meglio il loro esercito composito. Era pensato per eseguire fondamentalmente una sola manovra: un feroce attacco di cavalleria sul fianco destro che avrebbe schiacciato l'esercito nemico contro le lunghissime sarisse della falange. Una manovra a incudine e martello che sfruttava le armi combinate che erano la specialità in cui nessuno era in grado di eguagliare i macedoni e i loro alleati: fanteria leggera per arrestare il nemico e provocarlo, fanteria pesante armata di spada e scudo e cavalleria pesante per travolgerlo al fianco, una falange irta di lance lunghissime per inchiodarlo frontalmente e portarlo alla distruzione finale. Se eseguita correttamente questa manovra era inarrestabile per qualsiasi forza tradizionale, soprattutto per i persiani che avevano molta fanteria armata alla leggera, a parte i mercenari greci e i cardaci (l'imitazione persiana degli opliti). A Dario a quel punto restavano solo due vantaggi. Il primo, che il fiume fosse particolarmente difficile da attraversare e fosse tra lui e i Macedoni. Il secondo, di essere riuscito a mandare in avanscoperta, sul lato più lontano dal mare della piana, delle truppe che avrebbero potuto interferire con la manovra d'attacco di Alessandro. Il secondo vantaggio venne subito eliminato da un pronto contrattacco della fanteria leggera macedone accompagnata da alcuni degli uomini scelti della cavalleria di Alessandro. A quel punto, dopo questa schermaglia che i persiani non seppero sfruttare, ebbe inizio una delle battaglie più famose della storia, quella che in pratica ha spalancato ad Alessandro le porte dell'Asia e ha decretato la nascita della civiltà ellenistica creando alcuni degli equilibri secolari tra Europa e Medioriente. Per penetrarla in profondità, capirne il senso, sia dal punto di vista strategico che politico, niente di meglio del nuovo libro di Gastone Breccia: Il demone della battaglia. Alessandro a Isso (Il Mulino, pagg. 214, euro 16).

Breccia - che è uno dei più brillanti studiosi di storia militare antica in Italia, ma ha condotto anche studi sul campo sui conflitti contemporanei - mette in luce, con magistrale chiarezza, tutte le innovazioni militari che Filippo di Macedonia riuscì a implementare nel suo esercito. Per poi trasmetterle al figlio Alessandro, che le usò con enorme genio e spregiudicatezza. Filippo dotò i macedoni di reparti altamente specializzati: una fanteria leggera i peltasti in grado di muoversi più velocemente delle tradizionali truppe oplitiche; gli Hypaspisti, una fanteria pesante d'elite attrezzata con scudo e spada per attaccare le fanterie nemiche ai fianchi; i pezeteri, i fanti che componevano la temibile falange dalle lunghe lance che inchiodava frontalmente il nemico. E infine la rivoluzionaria cavalleria pesante macedone composta dagli hetàiroi, i nobili più vicini al monarca.

A Isso Alessandro farà funzionare alla perfezione tutti questi ingranaggi bellici.

Dopo un lento dispiegamento che i persiani non intervennero a bloccare perché contavano sugli argini del fiume su cui avevano piantato anche pali acuminati, i macedoni colpiscono con violenza sul fianco dei persiani, mentre più lentamente e faticosamente la falange avanza al centro e sul lato sinistro del fronte il resto della cavalleria e delle forze macedoni si limita a contenere ogni tentativo di reazione persiana. Dove Alessandro ha lanciato il suo assalto le forze persiane vengono rapidamente annichilite. Diverso è quel che accade al centro del campo di battaglia. Dove la falange stenta a superare il centro del fiume e lo scontro si trasforma per entrambi gli schieramenti in un bagno di sangue. Ma è esattamente in quel momento che Alessandro afferra per la coda il demone della battaglia, dimostra il suo genio tattico. Non esita e lancia la sua cavalleria pesante direttamente contro il carro di Dario che troneggiava nel mezzo dello schieramento persiano. È una decisione che prende in un lampo. La cavalleria persiana comandata da Oxatre, il fratello del re, prova, disperatamente, a sbarrargli la via. Ma è una cavalleria diversa da quella macedone, fatta per attacchi veloci a colpi di giavellotto. In questa mischia compressa può solo farsi massacrare, mentre Dario si dà alla fuga, abbandonando il suo carro. Proprio l'immagine resa famosa dal mosaico della Casa del Fauno di Pompei. Tattica perfetta mista ad una volontà di rischio personale, Alessandro combatteva sempre in prima linea ed era stato sul punto di essere ucciso alla battaglia del Granico. Breccia analizza questa duplice veste di Alessandro, ovvero il condottiero accorto che convive con il fanatico del mito di Achille. E l'equilibrio si trova alla fine in quello che poteva anche essere un calcolo preciso. Per motivare i greci e i macedoni serviva un condottiero che facesse rivere il mito della guerra di Troia. Altrimenti l'impresa di attaccare l'Impero persiano non avrebbe potuto mai riuscire. E di quell'impresa la Vittoria di Isso divenne il punto di non ritorno. Dopo Isso non venne più dato a Dario alcuno spazio di trattativa.

Ma interessante è anche la tesi con cui Breccia spiega la scelta di Dario di abbandonare la posizione vantaggiosa di Sochi per correre incontro al suo avversario. Il suo enorme esercito drenava troppe risorse e la logistica non consentiva probabilmente di farlo stanziare troppo in un posto. A quel punto spostarsi alle spalle di Alessandro diventava la sola opzione possibile. E così in un giorno solo Alessandro passò dallo spazio degli uomini allo spazio del mito. Pagandone poi anche il terribile prezzo.

Estratto dell'articolo di rainews.it il 7 marzo 2023.

Una missione archeologica egiziana annuncia il ritrovamento di una statua in pietra calcarea, a forma di sfinge, il cui volto raffigurerebbe un imperatore romano, molto probabilmente Claudio. La testa della scultura è coperta da un nemes, il copricapo indossato nell’antichità dai sovrani egizi.

 La scoperta è avvenuta nel Governatorato di Qena, lungo il corso del Nilo, nel sud dell’Egitto. La statua si trovava all’interno di una costruzione romana riportata alla luce durante gli scavi nei pressi di un tempio – anch’esso di epoca romana – dedicato al dio Horus. […]

Claudio regnò dal 41 al 54 dopo Cristo. Come altri imperatori romani, non visitò mai l’Egitto, ma è noto che autorizzando e incoraggiando il proprio culto legittimarono il comando sul Nilo e sulle regioni desertiche del nordafrica, riuscendo a mantenere la stabilità politica di questi territori.

I sacerdoti egizi raffigurarono infatti gli imperatori come faraoni sin dal momento della conquista romana, compiuta da Ottaviano Augusto nel 31 a.C. […]

Pompei, orrori e sprechi: tutti archiviati per il teatro. Storia di Gian Antonio Stella su Corriere della Sera il 19 maggio 2023.

«C». Fedele all’antico adagio il tribunale di Torre Annunziata, quattordici interminabili anni dopo lo scandalo che indignò gli archeologi di mezzo mondo, ha deciso giovedì che gli stupratori del teatro di Pompei, perché d’uno stupro storico, edilizio e culturale si trattò, vadano prescritti. Un colpo di scopa e via. Sia chiaro: è probabile che le motivazioni della sentenza, quando arriveranno, raccoglieranno il consenso dei giuristi. Di più: diamo pure per scontato che dopo tanti anni di verbali, ispezioni, istruttorie, deposizioni, udienze, rinvii, ricorsi, controricorsi, carte e scartoffie senza arrivare a un traguardo (ci misero meno tempo i greci a costruire e decorare il Partenone: undici anni) i giudici non avessero altra scelta che chiuderla lì. L’impunità per la scellerata ristrutturazione del teatro, costata tra l’altro dodici volte di più di quanto era stato previsto, lascia comunque la bocca amara. Amarissima.

Il commissario

Era rimasto per secoli e secoli così com’era, il teatro di Pompei devastato come il resto della città romana dal terremoto del 79 dopo Cristo. Unico intervento, quello deciso poco meno di un secolo fa dal grande archeologo Amedeo Maiuri: una struttura leggera sui gradoni consumati dal tempo. Quando era in programma uno spettacolo ci posavano sopra delle tavole, finito quello le toglievano e tutto tornava come stava. Finché nel febbraio 2009 il ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi, allora tra i più fedeli collaboratori di Silvio Berlusconi, decise di mandare a Pompei, uno dei tesori più preziosi del nostro patrimonio, un commissario ad hoc. Si chiamava Marcello Fiori, aveva lavorato all’Acea di Roma, non sapeva praticamente nulla di archeologia ma passava per uno, come dire, sveglio ed energico. Quanto all’inesperienza di scavi o reperti greci o romani, lo stesso Bondi spiegò alla Camera che non era poi così importante: «I soprintendenti svolgono davvero un lavoro straordinario e dobbiamo essere loro grati, perché se l’Italia ha mantenuto ed ha potuto tutelare il patrimonio storico-artistico in questi ultimi decenni lo si deve quasi esclusivamente al loro lavoro. La loro formazione e la loro missione, tuttavia, non è quella di gestire i musei e le aree archeologiche, come avviene in tutti gli altri Paesi del mondo...». Auguri.

Le ruspe

Poco più di un anno dopo il : «Già il rumore non lascerebbe dubbi: i martelli pneumatici producono quelle vibrazioni perforanti inequivocabili. Ma poi basta scavalcare una piccola recinzione ed ecco che sì, diventa complicato credere ai propri occhi. I martelli pneumatici diventano quasi un dettaglio nel terribile cantiere del Teatro Grande di Pompei, invaso da betoniere, bob kart, ruspe, cavi, levigatrici...». Dove si dovrebbe lavorare prudentemente con scalpelli e cazzuole, spiegava, «gli operai si muovono in mezzo alle rovine come elefanti in una cristalleria».

L’accusa

Nella scia della denuncia, l’architetto Antonio Irlando, presidente dell’Osservatorio archeologico pompeiano scriveva al ministero mettendo sotto accusa «lavori definiti nella tabella-cantiere “Restauro e sistemazione per spettacoli del complesso dei teatri in Pompei Scavi” che hanno sin qui comportato evidenti stravolgimenti dello stato originario» soprattutto della cavea, che a confronto della documentazione fotografica precedente «risulta completamente costruita ex novo con mattoni in tufo di moderna fattura». Di quelli che si usano sull’Appennino centro-meridionale per tirar su gli ovili. Mattoni posati su vistosi cordoli di cemento armato. Ma non bastava: per ospitare la «prima» rappresentazione in quello che era stato l’antico teatro e veniva oggi ripresentato come una specie di «Arena di Verona del Mezzogiorno», ecco dietro la scena degli enormi container metallici per le attrezzature e i camerini dell’orchestra o degli eventuali attori. Container destinati a restare vergognosamente lì per anni e anni fino alla loro rimozione decisa infine da Massimo Osanna, il soprintendente archeologo protagonista (col generale dei carabinieri Giovanni Nistri sul versante del ripristino delle regole) della rinascita dello straordinario sito archeologico, oggi affidato a Gabriel Zuchtriegel.

(C)Ave Canem

Orrori culturali e costruttivi a parte, doveva costare 449.882 euro più Iva, sulla carta, quel teatro rifatto. Ne costò, come fu accertato dalla Corte dei Conti, 5.778.939. Uno sproposito. Che si andò ad aggiungere ad altre spese stupefacenti di quella stagione. Come i 102.963 euro buttati per il censimento (il progetto si chiamava «(C)Ave Canem») di 55 cani randagi che gironzolavano tra gli scavi lasciando le loro puzzolenti tracce anche sui mosaici: 1.872 a cane. Oppure i 55 mila spesi per farsi piantare tra le domus delle vigne «antiche» così da produrre dalla cantina Mastroberardino mille bottiglie di vino targate «Villa dei misteri Igt» ritrovate dalla successiva soprintendenza nei magazzini. Per non dire di un indimenticabile video per «Pompei viva» dove si vedeva un ragazzino inquadrare un affresco della Villa dei Misteri dove una meravigliosa mulier attaccava a muovere la bocca e cantare una cover (in inglese) di Gloria Gaynor.

L’indagine

Sembrò che dovesse essere punito severamente, quel costosissimo stupro al teatro. E parallelamente all’inchiesta aperta dalla magistratura partì un’ indagine della Corte dei Conti che a fine aprile del 2019 condannò Marcello Fiori a pagare 400 mila euro di danni riconoscendolo responsabile, con altri, di essere «passato sopra tutto, sopra le regole stabilite dalle stesse ordinanze di Protezione Civile, sopra le norme in materia di appalti, sopra il codice dei Beni Culturali, sopra le competenze e le preoccupazioni della commissione generale d’indirizzo e coordinamento, sopra i principi generali che comunque presiedono all’impiego di risorse pubbliche anche in regime derogatorio, sopra la prudenza»...

La sentenza

La sentenza, a proposito della pretesa «valorizzazione» del nostro patrimonio artistico, paesaggistico e monumentale, fissò anche un principio: «La valorizzazione del bene culturale non può essere assimilata al mero “sfruttamento” dello stesso per fini di natura imprenditoriale-commerciale, né deve in alcun modo alterare le caratteristiche fisiche del bene o ridurne la fruibilità pubblica, posto che il bene culturale, e soprattutto quello archeologico che cristallizza la nostra storia, resta sempre il bene pubblico per eccellenza». Pareva allora che anche il processo per truffa ai danni dello Stato, frode e abuso d’ufficio potesse arrivare a compimento. Macché. Tutto prescritto.

I papiri di Ercolano: quando Platone morente fece suonare il flauto e si infuriò. Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 6 Marzo 2023

Le nuove scoperte sulle vite dei filosofi nei testi ritrovati dei papiri di Ercolano, letti grazie a nuove tecniche di rilevamento. Il progetto dell’Università di Pisa e del Cnr

Quelle lettere invisibili all’occhio umano ci stanno raccontando una storia straordinaria e inedita. Descrivono, come uno scoop millenario, il destino di un Platone ridotto in schiavitù dal tiranno di Siracusa, deportato in un’isola da un mercante e poi miracolosamente riconosciuto, riscattato e liberato da un suo ex allievo. E, riga dopo riga, narrano la storia mai letta fino ad oggi dell’Accademia (la scuola fondata dal filosofo) e i momenti mai raccontati prima della morte di Platone. Ma anche il destino indegno e un po’ imbroglione di alcuni dei suoi allievi. E ancora, da quei frammenti millenari, ecco arrivare nuove notizie sulla sepoltura pubblica di Democrito, il pensatore che primo tra tutti descrisse il mondo come agglomerato di atomi. E’ uno scrigno di tesori ciò che ci stanno regalando i papiri millenari di Ercolano, carbonizzati dall’eruzione del Vesuvio (siamo proprio nel fatidico 79 d.C.). Stanno affiorando notizie inedite, capitoli ignorati della storia della filosofia. E tutto questo accade grazie a «GreekSchool» e «EpicureanPolemic», i due progetti di ricerca coordinati dal professor Graziano Ranocchia, docente di Papirologia al Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’università di Pisa e associato all’istituto di Scienze del Patrimonio culturale del Cnr, che hanno come obiettivo lo studio e l’analisi tramite tecnologie innovative dei papiri carbonizzati di Ercolano. Un programma finanziato da Commissione europea e dal ministero dell’Università e della Ricerca.

Le tecniche per leggere i papiri

«I papiri di Ercolano sono una straordinaria collezione filosofica di matrice epicurea che copre l’intera età ellenistica, dal 300 a. C. sino all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. – spiega il professor Ranocchia -. Un tesoro scoperto nel Settecento ma che soltanto oggi è possibile decifrare completamente grazie un sistema integrato di tecnologie e ricerca filologica». I ricercatori stanno utilizzando, per esempio, la riproduzione iperspettrale che consente di visualizzare tutte le bande visibili e non visibili dell’infrarosso e dell’ultravioletto. E ancora si scava nel tempo con la scansione Terahertz e con l’Oct, tecnologie che permettono di penetrare nella materia e raccogliere informazioni sul testo nascosto da strati multipli o sovrapposti. «La nostra conoscenza delle scuole filosofiche greche è in gran parte basata sulle “Vite dei filosofi” di Diogene Laerzio (III secolo d.C.) – continua Ranocchia -. Tra le fonti a cui quest’opera attinge figura la monumentale “Rassegna dei filosofi” del filosofo epicureo Filodemo di Gadara (110-post 40 a.C.), scritta alla fine dell’età ellenistica tra il 75 e il 50 a.C. Da questo trattato, trasmesso dai papiri carbonizzati di Ercolano, è dunque possibile ricavare un resoconto sistematico della storia delle scuole filosofiche greche storicamente più attendibile e cronologicamente più vicino alle figure e ai fatti narrati».

La morte di Platone

Innumerevoli le scoperte. «Da quei testi fino ad oggi invisibili siamo riusciti a leggere che mentre stava per morire, Platone fece suonare il flauto a una schiava tracia – spiega il docente – ma dopo aver ascoltato le prime note l’accusò di usare melodie e ritmi completamente sbagliati e ostili all’orecchio greco. Spiegando poi che questo accadeva perché i barbari (in questo caso la schiava tracia) non hanno la percezione del fondamento razionale della musica». Dalla lettura arrivano poi notizie inedite degli allievi di Platone. Cherone, per esempio, divenne un tiranno feroce della sua città e sottomise i suoi concittadini. Ed Eraclide corruppe la Pizia, la profetessa del Tempio di Apollo di Delfi, per farsi dare un responso falso sulla carestia in corso nella sua città. Una profezia che lo fece premiare ingiustamente come benefattore. Una novità assoluta anche la notizia della nascita della nuova Accademia platonica che sorse non ad Atene, come si pensava, ma ad Alessandria. Altre scoperte saranno rese note più avanti. Come il modo di impaginare il rotolo di papiro come in un giornale moderno. E chissà quali altri segreti millenari riusciranno a stupirci.

Estratto dell’articolo di Marino Niola per “il Venerdì di Repubblica” il 4 marzo 2023.

La gondola non nasce per fare l'amore ma la guerra. L'imbarcazione romantica per eccellenza, di cui Thomas Mann in una celebre pagina di Morte a Venezia fa il simbolo dell'attrazione fatale, in realtà era un'imbarcazione da combattimento.

 Lo rivela uno studio storico del ricercatore Dario Camuffo dell'Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima del Cnr, appena pubblicato sulla rivista Mediterranée. Journal of Mediterranean Geography.

Il simbolo della laguna prende la sua forma attuale nel Cinquecento per esigenze di battaglia. La Serenissima ne fa l'arma segreta per risolvere a suo vantaggio il conflitto con Francia, Spagna e Sacro Romano Impero, uniti nella Lega di Cambrai allo scopo di ridimensionare drasticamente la potenza veneziana.

 È allora che la gondola diventa un mezzo d'assalto, manovrabile in spazi ristretti e in entrambe le direzioni senza doversi girare. E viene dotata dei caratteristici ferri acuminati sia a poppa sia a prua. […] Finita la guerra arriva il turno dell'amore. Ma anche del turismo, che è una continuazione della guerra con altri mezzi.

Scoperto nuovo corridoio nella piramide di Cheope in Egitto. Rilevato con una scansione, si trova sopra l'ingresso principale della struttura. CorriereTv su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2023

(LaPresse) Un lungo corridoio è stato scoperto all'interno della piramide di Cheope in Egitto, o Grande piramide di Giza. La scoperta è stata annunciata dall'archeologo egiziano Zahi Hawass e dal ministro del Turismo Ahmed Eissa, alla base della piramide. Il corridoio, che misura 9 metri per 2 metri, è il primo ad essere stato trovato sul lato nord della struttura; si trova sopra l'ingresso principale della famosa struttura ed è stato rilevato con una scansione.

La funzione della camera è attualmente sconosciuta e tali corridoi spesso portano a ulteriori scoperte archeologiche. La camera è stata scoperta dal progetto Scan Pyramids, un programma internazionale che utilizza scansioni per esaminare sezioni inesplorate dell'antica struttura. La piramide si trova a circa 17 chilometri dal centro del Cairo. Cheope, faraone della IV dinastia che regnò dal 2509 al 2483 a.C., ne volle la costruzione. L'antica struttura fu costruita come camera funeraria reale circa 4.500 anni fa. Gli esperti sono divisi sulle modalità di costruzione di questa e delle altre piramidi, quindi anche le scoperte relativamente minori suscitano grande interesse. (LaPresse)

Egitto, scoperto nuovo corridoio nella piramide di Cheope. L’egittologo Hawass: «Potrebbe portare alla vera tomba del faraone». Carlotta Lombardo su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2023

Oggi, al Cairo, il Ministero del Turismo e delle Antichità egiziano ha svelato le prime immagini di un condotto vicino all’ingresso principale della Grande Piramide scoperto alcuni anni fa nell’ambito del progetto Scan Pyramids. Per l’archeologo-star è «la scoperta del secolo»

«Oggi, grandi importanti segreti sono stati svelati dalla tecnologia per la prima volta con la scoperta di un tunnel dietro l’ingresso principale della Grande Piramide. Questa scoperta ci rivelerà molti fatti importanti su Cheope e la sua piramide». L’archeologo egiziano Zahi Hawass, insieme al ministro del Turismo Ahmed Eissa, annuncia così quella che per gli archeologi potrebbe essere «la scoperta del secolo»: un tunnel nascosto lungo 9 metri, largo 2,10 e alto 2,3 all’interno della Piramide di Cheope, la più grande, antica e iconica delle tre piramidi di Giza al Cairo, e che potrebbe svelare nuovi segreti sull’antico Egitto. Per la comunità scientifica si tratta della pubblicazione di due studi che precisano esatte dimensioni, collocazione e forma del finora misterioso spazio vuoto “Sp-Nfc” individuato nel 2016. Ma, secondo l’archeologo-star egiziano Zahi Hawass potrebbe essere la strada che porta alla tomba del faraone e rappresentare quindi «la scoperta del secolo».

Il tunnel rilevato da un endoscopio

Il corridoio è il primo ad essere stato trovato sul lato nord della struttura, la piramide di Cheope in Egitto, o Grande piramide di Giza. Si trova sopra l’ingresso principale della famosa struttura, è caratterizzato da monoliti che formano un soffitto spiovente ed è stato rilevato con una scansione. La cavità del lato nord della grande piramide è stata infatti filmata da una sonda giapponese, una sorta di «endoscopio introdotto attraverso una fessura di pochi millimetri», come ha spiegato Hany Helal, il coordinatore e manager del progetto ScanPyramids che ha fatto la scoperta, sottolineando che quelle diffuse oggi durante la conferenza stampa tenuta sotto un tendone proprio ai piedi dei 139 metri della più vetusta ma meglio conservata delle sette meraviglie del mondo sono le prime immagini della misteriosa camera. Si tratta di immagini che mostrano qualcosa che è stato nascosto alla vista di tutti per circa 4.500 anni, data a cui risale la costruzione del monumento nella necropoli di Giza. «Non chiedetemi perché questo corridoio sia qui», ha detto poi Helal, alimentando il mistero dopo che Hawass aveva comunque previsto che «porterà a svelare altri segreti». «Crediamo che qualcosa sia nascosto sotto», ha detto l’ex-ministro delle antichità egiziano formulando una propria opinione: «la tomba di Cheope dovrebbe essere sotto quel tunnel e quella appena annunciata credo (...) possa essere la scoperta più importante del secolo».

La piramide voluta da Cheope

La funzione della camera, scoperta dal progetto Scan Pyramids, un programma internazionale in corso da otto anni che utilizza tecniche non-invasive come la «radiografia muonica» (quella che nel 2016 rilevò lo «ScanPyramids North Face Corridor» (Sp-Nfc) di cui ora sono state precisate le caratteristiche) per esaminare sezioni inesplorate dell’antica struttura, è attualmente sconosciuta. La piramide si trova a circa 17 chilometri dal centro del Cairo e a volerne la costruzione fu Cheope, faraone della IV dinastia che regnò dal 2509 al 2483 a.C. L’antica struttura fu costruita come camera funeraria reale circa 4.500 anni fa. Ora, con la scoperta del corridoio, si apre un nuovo capitolo.

Il segreto del tunnel

La forma a «v rovesciata» del soffitto del corridoio appena scoperto, detta «tecnica dello chevron», fu introdotta per la prima volta proprio nella piramide di Cheope e serve a proteggere «grandi stanze dal considerevole peso sovrastante»: uno scarico di forze a tutela di quella che, secondo Hawass, sarebbe la tomba del faraone della IV dinastia. «Ho sempre pensato che la camera funeraria del faraone Cheope non sia stata ancora scoperta — ha detto —. E credo che ci sia una grande possibilità, ed è certo, che il tunnel stia proteggendo qualcosa. Secondo me, sta proteggendo la vera camera funeraria del re Cheope».

Estratto dell'articolo di Paolo Travisi per leggo.it il 29 gennaio 2023.

[…] Sarebbe in Romania, il sepolcro che custodisce i resti di Attila, rinvenuto durante i lavori per la realizzazione di un'autostrada nel paese dell'Europa orientale.

Secondo l'analisi degli studiosi, il luogo del rinvenimento potrebbe essere compatibile, con quello che è stato tramandato dalla storia sul seppellimento di Attila, morto nel V secolo dopo Cristo, sotterrato in una fossa scavata dagli schiavi, vicino al letto di un fiume[…]

Gli operai che stavano lavorando alla costruzione dell'arteria stradale ad alta velocità, hanno portato alla luce una tomba ricca di tesori, insieme ai resti umani di un guerriero e del suo cavallo. […]  armi, oggetti ricoperti di oro e gioielli con pietre preziose oltre a decine di manufatti, tra cui una spada di ferro, punte di freccia e una maschera d'oro che probabilmente un tempo copriva il volto di Attila.

[…] Ancora non è nota l'etnia del presunto Attila, ma la ricchezza del corredo funerario suggerisce che fosse un membro ricco dei cavalieri nomadi, originari dell'Asia centrale che occuparono l'estremo oriente dell'Europa[…]

Estratto dell’articolo di Daniela Lauria per blitzquotidiano.it il 4 febbraio 2023.

Un raffinato reperto dell’antica Roma, una personificazione della Città Eterna, è stato recentemente scoperto durante gli scavi della metro C di Roma, presso la stazione di Porta Metronia.

 Si tratta del primo caso al mondo in cui questo tema iconografico è stato trovato su un vetro dorato. La funzionaria archeologa della Soprintendenza speciale di Roma, Simona Morretta, descrive il reperto come “straordinariamente fine nella sua esecuzione”.

 “Già un vetro dorato è un reperto molto raro – spiega all’Ansa – ma questo non ha confronto allo stato attuale degli studi. Non si era mai trovato un vetro dorato con la personificazione della città di Roma”.

Il reperto non appartiene alla caserma trovata negli scavi. La struttura militare fu abbandonata alla metà del III secolo, e in seguito rasata, i muri tagliati, le macerie buttate all’interno e tutto ricoperto di terra. Il vetro dorato è emerso proprio da questi strati di interro, ed è posteriore: “Da questo primo studio – aggiunge l’archeologa – ci sembra un manufatto degli inizi del IV secolo”.

 Ora vivrà un’altra vita, “quella che gli daremo noi, rendendola di fruizione pubblica: avrà una teca dedicata nella stazione-museo della metro di Porta Metronia”.

Archeologia, due scheletri di epoca romana sulla battigia di Porto Cesareo: emersi dopo la mareggiata. Biagio Valerio su La Repubblica l’11 gennaio 2023.

I resti di una mandibola trovati insieme alle altre ossa sulla battigia 

Ritrovamento, segnalato da alcuni cittadini, avvenuto nell'area di una necropoli romana. La Soprintendenza ha messo in sicurezza la zona

Un ritrovamento archeologico considerato molto importante sul lido sabbioso di Porto Cesareo, in località Belvedere, fra le più conosciute del Salento. Si tratta di alcune sepolture di probabile epoca romana riemerse grazie a una mareggiata. Al momento gli archeologi hanno individuato due scheletri umani e le relative tombe. L'area è già nota, sin dagli anni Sessanta, per essere una antica necropoli e i rilievi del 2019 ne danno piena conferma: una relazione dell'archeologa di Unisalento Rita Auriemma parla di ritrovamenti di sarcofagi, fondazioni di strutture murarie, frammenti ceramica.

Porto Cesareo, mareggiata riporta alla luce tombe e scheletri.

Gli ispettori hanno provveduto ad allertare la Soprintendenza che ha disposto subito la messa in sicurezza delle tombe. L’area è monitorata giorno e notte. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l’11 Gennaio 2023

Due scheletri umani e le relative tombe sono stati individuati sulla battigia di Porto Cesareo, in Salento, nell’area di una necropoli romana. A riportarli alla luce sarebbe stata una mareggiata. Ad accertare la presenza degli scheletri sono stati gli ispettori ambientali dopo la segnalazione di un cittadino.

Gli ispettori hanno provveduto ad allertare la Soprintendenza che ha disposto subito la messa in sicurezza delle tombe. L’area è monitorata giorno e notte. Non si tratta del primo ritrovamento: dopo le mareggiate già in passato sono emerse testimonianze dell’antico insediamento romano.

DAGONEWS il 13 gennaio 2023.

 Secondo quanto riportato da Phys, gli archeologi hanno scoperto i resti di quello che ritengono essere il tempio di Poseidone nei pressi di Samikon, in Grecia.

 I resti sono stati portati alla luce e sono oggetto di ricerca da parte dell'Istituto Archeologico Austriaco, insieme a ricercatori dell'Università Johannes Gutenberg di Mainz, dell'Università di Kiel e dell'Eforato delle Antichità di Elis.

 Il luogo di ritrovamento dei resti corrisponde all'area citata dallo storico greco Strabone, che descrisse il santuario circa 2.000 anni fa.

 L'area, che si trova vicino alla costa del Peloponneso, è nota per essere stata colpita da molteplici tsunami in epoca preistorica e storica.

 I resti sono stati trovati per la prima volta nel 2021, ma solo pochi mesi fa gli archeologi hanno capito che probabilmente si trattava di ciò che restava di un tempio di Poseidone.

È necessario condurre ulteriori ricerche sulla struttura e nei prossimi anni sono previste approfondite analisi archeologiche, geoarcheologiche e geofisiche per comprenderne meglio la struttura e la sua storia.

 Nella mitologia greca, Poseidone è il dio del mare, dei terremoti e dei cavalli.

È il fratello di Zeus, dio del cielo, e di Ade, dio degli inferi, e i tre sono considerati gli dei più importanti delle 12 principali divinità greche.

 È tradizionalmente raffigurato con un tridente che si ritiene usasse per incanalare i suoi poteri.

DAGONEWS il 13 Gennaio 2023.

La Stele di Mesha, chiamata anche Pietra Moabita, è una lastra di basalto che ha fornito a storici e linguisti la più grande fonte della lingua moabita fino ad oggi. Solo ora i ricercatori hanno potuto verificare con un notevole grado di certezza che la stele contiene riferimenti espliciti al re Davide.

 La stele fu scoperta in frammenti nel 1868 a circa 15 miglia a est del Mar Morto e attualmente si trova al Museo del Louvre di Parigi.

Sebbene sia stata danneggiata nel 1869, un'impronta di cartapesta dell'iscrizione è stata presa prima che si verificasse il danno.

 Sulla lastra è inciso un lungo racconto del re Mesha di Moab che entra in guerra con Israele. Gli eventi descritti corrispondono, anche se in modo impreciso, a un resoconto simile in 2 Re, capitolo 3.

 Il testo contiene allusioni al dio israelita, alla "Casa di Davide" e all'"Altare di Davide".

Tuttavia, fino ad oggi, gli studiosi non potevano essere del tutto sicuri che questi riferimenti al re Davide venissero decifrati correttamente.

 In un articolo della fine del 2022 intitolato "Mesha's Stele and the House of David" (La stele di Mesha e la casa di Davide), pubblicato nel numero invernale della Biblical Archeology Review, i ricercatori André Lemaire e Jean-Philippe Delorme hanno riesaminato le prove.

Nel 2015, un'équipe del West Semitic Research Project dell'University of Southern California ha scattato nuove fotografie digitali sia della stele restaurata che della spremitura della carta.

 Il team ha utilizzato un metodo chiamato “riflettanza” Transformation Imaging (RTI), in cui vengono scattate numerose immagini digitali di un manufatto da diverse angolazioni e poi combinate per creare un preciso rendering digitale tridimensionale dell'opera.

 «Questo metodo è particolarmente prezioso perché il rendering digitale consente ai ricercatori di controllare l'illuminazione di un manufatto scritto, in modo da rendere visibili incisioni nascoste, deboli o usurate».

Più recentemente, nel 2018, il Louvre ha preso queste nuove immagini ad alta risoluzione e ha proiettato su di esse la luce proveniente direttamente dalla carta, risalente a 150 anni fa.

In questo modo, i ricercatori sono riusciti a ottenere un'immagine molto più chiara degli antichi documenti. 

 L'Enciclopedia Britannica ha definito la relazione tra il moabita e l'ebraico del suo tempo come una differenza "solo dialettica".

Secondo il libro di Dearman e Jackson del 1989 Studies in the Mesha Inscription and Moab: «È probabile che il moabita e l'ebraico fossero, per la maggior parte, reciprocamente intelligibili».

Paolo Conti per “La Lettura – Corriere della Sera” il 4 gennaio 2023.

Ingresso della mostra con colpo di teatro: il Discobolo Lancellotti, la migliore copia romana marmorea di età antonina del perduto originale greco bronzeo di Mirone del V secolo avanti Cristo, e dietro una foto di Adolf Hitler. Cupa e criminale incombenza storica: è il Führer, nel 1938, a ottenerne la vendita forzata da parte del principe Lancellotti.

 Diventa un dono del dittatore nazista al popolo tedesco, esposto nella Glyptothek di Monaco di Baviera in vista del delirante progetto del Führer museum a Linz, in Austria, che non avrebbe mai visto la luce. La spoliazione è spalleggiata dallo stesso Mussolini, da Galeazzo Ciano e dal principe Filippo d'Assia, genero tedesco di Vittorio Emanuele III, vincendo la resistenza del ministro dell'Istruzione, Giuseppe Bottai: l'opera è vincolata ma ogni divieto cade di fronte allo strapotere di Hitler.

 La mostra Arte liberata 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra, allestita al le Scuderie del Quirinale di Roma, offre un doppio registro narrativo. Grandi capolavori (col Discobolo anche la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, perno espositivo di luminoso splendore, la Dande di Tiziano, gli spartiti autografi di Gioacchino Rossini, e poi Lorenzo Lotto, Carlo Maratta, il Guercino ma anche Medardo Rosso) e poi le storie di chi, prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale e fino alle restituzioni nel dopoguerra, salvò la parte più significativa del nostro patrimonio culturale.

 Spiega Mario De Simoni, presidente di Ales-Scuderie: «Raccontiamo l'eroica lungimiranza di donne e uomini fedeli servitori dello Stato, storici dell'arte e funzionari di soprintendenze, che riuscirono nell'impresa davvero epica di proteggere gran parte dei nostri beni artistici prima dalle esportazioni forzate richieste da Hitler e da Hermann Göring, poi dai bombardamenti e, dopo 18 settembre, dalle depredazioni naziste».

I curatori Luigi Gallo e Raffaella Morselli, con la ricerca scientifica di Anna Mattirolo, hanno costruito un viaggio storico-artistico tra capolavori messi in sicurezza, strategie adottate sulla spinta dell'emergenza, documenti scritti e audivisivi di fortissimo impatto emotivo e spettacolare: la visita di Hitler a Roma nel 1938, l'immagine di Göring che ostenta con arroganza nel giardino della sua tenuta privata di campagna il Cerbiatto di Ercolano strappato dal Museo Archeologico di Napoli, i sacchi di sabbia che proteggono dai bombardamenti ampie porzioni del Palazzo Ducale di Urbino, le centinaia di casse piene di tele destinate ai ricoveri, e anche spezzoni del documentario Olympia realizzato da Leni Riefenstahl per le Olimpiadi di Berlino del 1936 in cui il Discobolo Lancellotti già compare come archetipo di vigore ariano destinato a trasformarsi in un atleta in carne e ossa.

 In più le mappe dei tragitti compiuti dalle colonne di camion carichi di capolavori. Affascinano le storie di donne e uomini al servizio dello Stato e del nostro patrimonio, antieroi che nel dopoguerra riprenderanno silenziosamente il loro lavoro. Svetta Pasquale Rotondi, soprintendente alle Gallerie delle Marche, individuato da Giulio Carlo Argan, ai tempi Ispettore della direzione generale Belle Arti al ministero dell'Istruzione, come l'uomo giusto per operare strategica mente nel centro Italia.

 Tra le sue mani passano quasi 10 mila opere d'arte: è lui a individuare i nascondigli di Sassocorvaro, del palazzo dei Principi a Carpegna, a organizzare l'invio in Vaticano grazie proprio ad Argan, custode unico dei beni italiani ricoverati nella Santa Sede con il via libera di Bartolomeo Nogara, direttore dei Musei Vaticani, e del futuro Paolo VI monsignor Giovanni Battista Montini, sostituto della Segreteria di Stato.

Poi Emilio Lavagnino, funzionario prepensionato perché antifascista che riprende il suo posto spontaneamente perché gli sembra «onesto e doveroso», e organizza 18 viaggi da e verso Roma con convogli pieni di opere cercando benzina sul mercato nero, ma a fari spenti per non attirare i bombardieri.

E la storia di Aldo de Rinaldis alla Galleria Borghese, del grande salvatore di biblioteche nazionali Luigi De Gregori, di Bruno Molajoli a Napoli. Colpisce 'agguerrita pattuglia di don- ne. Palma Bucarelli che viaggia di notte da sola su un camion per salvare le opere della «sua» Galleria Nazionale di Arte Moderna, tra Roma e Caprarola. Fernanda Wittgens a Brera, nel 1940 prima donna al vertice di un grande museo italiano, che organizza avventurosi traslochi e chiede per le tappe «una casa di contadi ni, con un po' di latte e polenta»: il sindaco della Milano liberata, Antonio Greppi certifica che «il suo implacabile dinamismo terrorizza la burocrazia del ministero».

 Jole Bovio Marconi, direttrice del Museo nazionale di Palermo, che riesce a far trasportare via le monumentali Metope di Selinunte e restano nei suoi uffici anche durante i bombardamenti del- l'aprile 1943. La mostra ci spiega insomma che se i nostri musei espongono ancora e intatte tante meraviglie, lo dobbiamo a loro. Il creativo allestimento con pareti di compensato di Francesca Elvira Ercole, archi tetto interno delle Scuderie, trasforma lo spazio in un'immensa cassa da imballaggio. Come quelle che salvarono il nostro patrimonio.

DAGONEWS l’1 gennaio 2023.

Quest'anno è stato un anno importante per le scoperte archeologiche: eccone alcune che hanno lasciato a bocca aperta gli studiosi. 

Rari volti dell'antico Egitto

All'inizio di dicembre, secondo il governo egiziano, sono stati scoperti i ritratti di due mummie.

Gli archeologi egiziani hanno fatto la scoperta nel sito di scavo di Gerza a Fayoum, in  Egitto , che si trova a circa 120 chilometri a sud-ovest del Cairo. 

Le due opere d'arte a colori, note anche come "ritratti di Fayoum", sono le prime nel loro genere a essere scoperte in oltre un secolo. Per questo motivo, sono tra le "più importanti scoperte archeologiche dell’ultimo anno", secondo il ministero del turismo egiziano. 

Sarcofago rosa della "Città dei morti"

A settembre, un raro sarcofago rosa è stato scoperto dagli archeologi nella famosa necropoli di Saqqara al Cairo. È stato trovato vicino alla piramide del re Unas nella necropoli di Saqqara, altrimenti nota come la "Città dei Morti", vicino al Cairo. Risalente a 3.300 anni fa, si dice che la bara di granito appartenesse a un importante politico vissuto durante il regno del re Ramses II. 

Sul sarcofago sono state trovate incisioni in granito rosa che riportavano il nome del suo proprietario, "Ptah-M-Wiah". Secondo i geroglifici incisi, gestiva un tempio che Ramesse II aveva fatto costruire nell'antica città di Tebe. 

Lingue di mummia d'oro

Alla fine di novembre, i ricercatori hanno scoperto antiche mummie con lingue d'oro. La scoperta è stata effettuata presso la necropoli di Quweisna, situata nel governatorato di Menoufiya, nel delta centrale del Nilo, a nord-ovest del Cairo.

Sono stati portati alla luce anche amuleti funerari di pietra, scarabei e vasi dei periodi tolemaici e romani. Pare che gli antichi egizi credessero che le lingue d’oro aiutassero i morti a navigare nell'aldilà. 

I più antichi fossili di dinosauri africani

Il più antico dinosauro africano è stato scoperto in Zimbabwe lo scorso settembre. Soprannominato Mbiresaurus raathi, un team di ricercatori internazionali ha portato alla luce il dinosauro a Pebbly Arkose nel nord  dello Zimbabwe .

Il nome di battesimo del dinosauro "Mbire" si ispira alla dinastia Shona che un tempo governava la regione.

Mbiresaurus raathi è classificato come sauropodomorfo, un predecessore dei sauropodi dal collo lungo.

Alto circa 1 metro e 80 centimetri, il dinosauro aveva un collo lungo e pesava dai 9 ai 29 chili. 

Raro fossile di dinosauro

All'inizio di questo mese, i ricercatori hanno scoperto i resti di un piccolo mammifero nel fossile di un Microraptor. I microraptor erano piccoli dinosauri a quattro ali che vagavano per la Terra durante la prima formazione di Jiufotang del Cretaceo, tra 125 e 120 milioni di anni fa.

Se è vero che i ricercatori hanno già scoperto fossili e campioni di Microraptor, questa nuova scoperta fa luce sulla loro dieta. 

Il paleontologo dei vertebrati Hans Larsson della McGill University ha affermato che la scoperta è stata una vera sorpresa: «All'inizio non potevo crederci.  C'era un minuscolo piede di mammifero simile a un roditore lungo circa un centimetro perfettamente conservato all'interno di uno scheletro di Microraptor. Questi reperti sono l'unica prova solida che abbiamo sul consumo di cibo di questi animali estinti da tempo».

Markalada, l'America prima di Colombo. Uno studioso italiano ha trovato le prove: nel '300 c'era già il Nuovo mondo...Luigi Mascheroni il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.

La scoprì Cristoforo Colombo (non nel senso che ci arrivò per primo, ma che primo la mise al centro delle rotte marittime e la collegò all'Europa cambiando la storia del mondo). Il nome glielo diede Amerigo Vespucci, navigatore e mercante. Fu di certo toccata - ben prima del 1492 - da molti altri popoli: i vichinghi, quasi di sicuro i baschi, i cinesi (che vi arrivarono da Ovest). Ma soprattutto, molto prima della «scoperta» di Colombo, si chiamava Markalada, che corrisponde alla «Markland» di cui parlano anche le saghe norrene per indicare una regione a ovest della Groenlandia: mark land, la «terra dei boschi».

E la storia di Markalada è la storia dell'America prima dell'America. Non se ne sapeva nulla fino a pochi anni fa, quando uno studioso italiano, Paolo Chiesa, professore di Letteratura latina medievale e Filologia mediolatina all'Università Statale di Milano, chiese al legittimo proprietario, un danaroso collezionista americano che lo aveva acquistato a un'asta nel 1996, di visionare un manoscritto del frate domenicano Galvanus Flamma - Galvano Fiamma (1283-1344) - domenicano, cappellano di Giovanni Visconti e cronachista milanese. Sino a quel momento si credeva che il manoscritto fosse una copia di un'opera già nota, il Chronicon maius. Paolo Chiesa invece capì che si trattava di un testo del tutto sconosciuto, una inedita Cronica universalis, in cui a un certo punto Galvano, accanto a tante notizie ampiamente conosciute - ed ecco la vera scoperta - dà conto di qualcosa di cui gli storici non avevamo mai sentito parlare. E cioè che i marinai che viaggiavano nei mari del Nord (e la cosa Galvano la raccoglie da fonti orali genovesi) riferiscono di una «terra que dicitur Marckalada», una terra ricca di alberi e animali, dove si trovano edifici in pietra e vivono uomini giganti, situata a ovest della Groenlandia, in quella parte della costa atlantica americana corrispondente all'incirca all'odierno Labrador. Una notizia sensazionale: è la prima menzione del continente americano nell'area mediterranea, un secolo e mezzo prima del viaggio di Colombo.

La storia delle due scoperte - quella del manoscritto sconosciuto e della prima citazione dell'America - Paolo Chiesa l'ha rivelata nel 2021 in un articolo scritto per la rivista internazionale Terrae incognitae. E ora - fra Storia, filologia, geografia fantastica e purtroppo solo un accenno al cosiddetto pre descubrimiento, cioè le scoperte dell'America prima di Cristoforo Colombo - la racconta nel saggio Marckalada. Quando l'America aveva un altro nome (Laterza). Oggi nessuno dubita più che navigatori del Nord Europa abbiano raggiunto l'attuale Canada attorno all'XI secolo: ci sono prove di insediamenti vichinghi a L'Anse aux Meadows e ci sono i racconti della Saga dei Groenlandesi e della Saga di Eirik il Rosso che parlando di Helluland, di Markland e di Vinland, «la terra del vino». Ma che la «terra dei boschi» fosse già conosciuta in Italia, forse proprio a Genova, già nel '300... Beh, eccola la scoperta che vale l'America.

Alessandra Baldini per l'ANSA venerdì 20 ottobre 2023.

Una lettera di Cristoforo Colombo del 1493 in cui il navigatore genovese racconta le sue impressioni su un gruppo di isole che afferma di aver da poco scoperto è stata venduta all'asta da Christie's per quasi 4 milioni di dollari. L'epistola De Insulis Nuper Inventis indirizzata da Colombo a re Ferdinando II di Spagna e alla regina Isabella è rimasta per quasi un secolo in una collezione privata svizzera e la casa d'aste afferma di aver fatto il possibile per assicurare che non sia un falso o che sia stata rubata come più volte successo in passato per documenti dello stesso tipo.

La stima di partenza era tra uno e 1,5 milioni di dollari e il prezzo finale è svettato nell'ultima mezz'ora dell'asta nonostante la reputazione di Colombo, soprattutto negli Usa, recentemente sia stata sottoposta a una profonda rivalutazione. Del documento di otto pagine in latino furono stampate a Roma molteplici copie con l'obiettivo di diffondere in Europa la notizia del viaggio di Colombo: studiate dagli esperti e concupite dai collezionisti di libri rari, non stupisce che abbiano tentato ladri e falsari nel corso degli anni.

La scorsa estate una versione dell'incunabolo sottratta alla Marciana decine di anni fa e finita in buona fede nelle mani di un collezionista di Dallas è stata restituita all'Italia grazie alla collaborazione tra i carabinieri del nucleo Tpc e l'autorità giudiziaria degli Stati Uniti. "Abbiamo seguito una serie di indizi e linee di indagine, nessuna delle quali ha portato ad alcunchè di sospetto", ha assicurato, nel caso della lettera di Christie's, Margaret Ford, la specialista di libri e manoscritti della casa d'aste. Nella lettera, Colombo afferma di essere sbarcato su isole dell'Oceano Indiano.

Descrive la bellezza della zona, il canto degli uccelli, le palme, le grandi montagne e i fiumi e parla anche degli indigeni "timidi e paurosi", dicendo di averne portati alcuni in Spagna. Il testo - l'equivalente di un comunicato stampa del 15/o secolo - era stato originariamente scritto in spagnolo e la corte di Madrid lo inviò a Roma per farlo tradurre in latino e stampare massimizzandone la diffusione.

In un paragrafo introduttivo si rende omaggio a Colombo come a un uomo "a cui il nostro tempo deve un grande debito". Del testo spagnolo originario almeno una copia è sopravvissuta al passare dei secoli ed è attualmente conservata alla New York Public Library. Della edizione venduta da Christie's circa 30 esemplari sono in musei e solo una o due in mani private, rendendo quella passata oggi di mano "un documento di grande rarità", ha detto Ford.Sono tutte storie? Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente il 4 marzo 2023.

La storia non è l’insieme dei fatti accaduti nel passato ordinati cronologicamente. La storia è la loro ricostruzione. Di conseguenza è sbagliato ritenere che il passato non si possa cambiare. Se il passato non lo si conosce, o meglio se non ci sono strumenti di controllo della attendibilità delle fonti e del materiale che è servito per la sua ricostruzione, chiunque può arrivare a dire che le cose sono andate in un modo o nell’altro. 

Scrivere storia è come fare un processo ai fatti, interrogarli come imputati, chiarirne i moventi, cioè gli ipotetici vantaggi ricercati, gli orizzonti possibili, la coerenza degli eventi. Ma soprattutto l’indagine storica, come quella della realtà delle cose, è saper lanciare ipotesi, vagliare le possibilità alternative, interrogarsi sullo sviluppo di ciò che è avvenuto.

Ma ci sono i documenti che parlano chiaro. I documenti parlano, è vero, ma bisogna stare attenti ai loro margini di errori, al fatto che, anche nella loro ufficialità, nascondono o esibiscono un punto di vista. Perfino gli atti notarili, ad esempio quelli di compravendita, rappresentano la conclusione di un accordo, la raccolta di documenti a suffragio non il risultato di una accurata indagine a partire da zero. 

Ecco allora farsi strada l’interpretazione, il lavoro intelligente sulle relazioni che intercorrono tra i fatti e le persone, sulla riduzione ai minimi termini della indeterminazione. La fisica quantistica ha mostrato che la verità dipende dai sistemi di riferimento e che questi possono modificare gli oggetti in esame. La nostra posizione sui fatti deve quindi necessariamente essere aperta, tenere conto di differenti punti di vista: una ricerca efficace non si limita ad accertare gli eventi ma a produrre nuova conoscenza, a partire soprattutto da dettagli, particolari, dati trascurati.

Benedetto Croce scriveva nel 1938 che l’opera della storia non consiste nella conservazione degli equilibri sociali e nell’eliminare i fatti che li turbano. Essa è invece “perpetua creazione di nuova vita e formazione di equilibri sempre nuovi” (La storia come pensiero e come azione, Laterza 1966, p. 172).

D’altra parte la storia non è soltanto il risultato dell’azione delle forze produttive, dello scontro fisico tra potenze, dei risultati di un inesorabile progresso. Radicalmente, secondo Nikolaj Berdjaev (Il senso della storia, 1922) “la storia non è un dato empirico oggettivo, la storia è un mito” (trad.it. Jaca Book 1971, p. 30). Nella storia, in altri termini, è presente un mistero, una concezione del tempo che non è fatta di semplici date, cause ed effetti, interessi in gioco ma di una logica speciale che si innesta nella ricorsività, nella irrazionalità della ripetizione di errori, nella dimensione metafisica, nelle tensioni ideali, nel bisogno insieme di certezze e di cambiamenti.

In ogni ‘oggi‘ il passato sembra definitivamente trascorso, il futuro non ancora nato e noi siamo chiusi nell’istante del nostro dubbioso presente.  Così osservava cent’anni fa Berdjaev, sottolineando che una grande forza, spirituale e materiale, può derivare dalla memoria, la forza che sprigiona azioni sul tempo e che conserva il nostro legame con i padri, con una tensione verso un ideale infinito. 

Nella storia non esiste una sola verità, un solo modo di agire e muoversi verso il destino che le forze imperanti hanno determinato, nei nostri giorni sempre di più in modo univoco, inesorabile.

Stare nella storia significa uscire dal determinismo imposto, ammettere e difendere la possibilità di sviluppi differenti, di soluzioni totalmente al di fuori del sistema dominante.

Stare nella storia significa scriverla, tentare di orientarla, agire, anche oscuramente, negli orizzonti di piccola durata per preparare alternative nella lunga durata. [di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Usurai.

Il Futurismo.

Il Nobel.

L’Oscar.

La Resistenza all’Omologazione.

Le Università.

Francesco Coniglio.

Teresa Cremisi.

Achille Mauri.

Liberilibri.

Adelphi.

Giangiacomo Feltrinelli.

Ginevra Bompiani.

Mondadori.

Gian Arturo Ferrari.

Rizzoli.

Einaudi.

Castelvecchi.

Il Premio Strega.

Scrittori fantasma.

Il cinema mantenuto.

La biblioteca della sinistra.

Il Partito unico del Libro.

Il partito unico del Cinema.

Il partito unico dei musei.

Il Partito unico delle Sagre.

Usurai.

Ultimo, si stampi. Gli editori irritabili e l’effetto Fontana di Trevi del commercio librario. Guia Soncini su L'Inkiesta il 21 Agosto 2023.

Se l’editoria non è in bancarotta è solo perché con gli autori ha il rapporto economico che gli usurai hanno coi giocatori di poker, eppure tutti fingono di vivere ancora ai tempi d’oro

«Intanto mi va di parlare di libri, in un momento in cui non sembra più così importante dirsi quali sono belli e quali no, litigarne un po’, pronunciarsi. Più facile che lo si faccia coi film, o con la politica. Eppure i libri sono ancora lì, a migliaia, e continuano a declinare una civiltà di piaceri pazienti che in modo piuttosto prezioso collabora a ridisegnare l’intelligenza e la fantasia collettive».

È il novembre del 2011 quando Alessandro Baricco inaugura su Repubblica una rubrica che durerà un anno, si chiama Una certa idea di mondo. Ogni domenica racconterà un libro che ha letto nei precedenti dieci anni, anche se la premessa con cui apre il primo degli articoli dice, appunto, che i libri sono un oggetto – o un tema di conversazione – un po’ démodé.

Il primo libro di cui parla s’intitola “Open”, adesso anche quelli che leggono solo i bigliettini dei baci Perugina e i messaggi WhatsApp della chat di classe sanno di cosa si tratti, ma all’epoca era la biografia d’un tennista, sì ben scritta, sì con un premio Pulitzer per autore-ombra, ma insomma. Tra l’edizione del 2011 e quella economica, “Open” vende mezzo milione di copie. Era dodici anni fa, in termini di evoluzione dei consumi culturali dodici secoli.

Come avete passato il sabato? Io a prendermi insulti da gran parte degli editori che conosco, che quando si parla del declino dei numeri dei libri reagiscono come le suocere d’una volta quando a tavola qualcuno era così cafone da mettersi a parlare di soldi o di sesso.

Avevo scritto, sabato, che i libri non contano più niente, non vendono più niente, non li legge più nessuno. Capisco il malumore. È molto antipatico dover contestare una lettura delle cose senza poter utilizzare un dato fattuale che sia uno. Nessuno che si occupi di editoria vi dirà mai un numero attendibile, e non lo dico per dire «io invece eroica mi sacrifico a urlare che il re è nudo», macché: anche io mi guardo bene dal dirvi i numeri veri, se riguardano me.

Lascio, come tutti, che le pubblicità dei miei libri siano fatte con le cifre delle tirature e non con quelle del venduto. Lo facciamo tutti, alcuni con più ragioni di altri. Ricordo ancora il favoloso momento in cui l’autore d’un certo bestseller venne intervistato da un settimanale che riportò un dato di vendita che non era né la tiratura (cioè: il numero che compariva nelle pubblicità pagate dall’editore) né quello dei Gfk (cioè: la rilevazione ufficiale del venduto di quel libro).

Chiesi all’intervistatrice dove avesse preso quel numero, mi disse che gliel’aveva detto l’autore. Un’altra volta apriamo la questione «giornalisti che riportano quel che dice l’intervistato come fossero Mosè cui vengono dettate le tavole della legge», oggi vorrei soffermarmi su quel che ci dice questa storia: i numeri non contano più niente, e quindi puoi tirarli da qualunque parte.

Non tutti quelli che mentono sono romanzieri parecchio venduti che mentono per vanità, la maggior parte di noi mente per non deprimere sé stessa e quei quattro lettori rimasti. Se vi svelassero che il saggio del momento, quello cui le pagine culturali dedicano centinaia di righe definendolo cogente e necessario, ha venduto tremila copie in tre mesi, voi non avreste l’impressione che allora tanto valesse occuparsi del libro autopubblicato da mio cugino?

Al cui proposito. In questi giorni ho letto gente – gente per cui tremila copie in tre mesi sono un obiettivo ambizioso – sbruffoneggiare dicendo che il generale incontinente le sue memorie se l’è dovute pubblicare perché non ha trovato uno straccio di editore. Gente che prende l’otto per cento di royalties da editori che ai suoi libri neanche tolgono i refusi si sente superiore a uno che ha fatto l’unica cosa ragionevole e non complessata che si possa fare scrivendo un libro oggi: darlo ad Amazon, che ti lascia il settanta per cento del prezzo di copertina.

L’ultima volta che ho fatto questa conversazione ho dovuto bloccare su WhatsApp un editore che mi voleva convincere, con tanto di apposite slide, che gli editori in realtà non guadagnino nulla dai nostri libri e siano generosissimi a concederci quelle miserevoli percentuali che arrivano al quindici nei casi più ricchi.

Nella slide, usata per insegnare a non so che corsi universitari (se penso che alcuni di voi pagano quelle università ai figli, mi viene da piangere), c’era il conto d’un libro, conto costruito in un modo che in confronto la vendita di Totò della Fontana di Trevi era da Nobel per l’economia.

Ogni libro ha, secondo quella slide, un costo fisso redazionale di seimila euro, il che – considerato che in Italia si fanno più libri che talk-show, e che ogni redazione produce decine di libri al mese – implica che ogni redattore prenda uno stipendio di, non so, cinquantamila euro al mese.

Ora, considerato che la bozza «visto si stampi» – cioè quella corretta dai redattori rivista dai correttori e certificata con bollino blu – del mio ultimo libro, da me rivista perché conosco i miei polli, aveva nel testo uno splendido «il sms», avrei una domanda. Il redattore che, quando dico «cambiamo questo “messaggio” in “sms”», non ritiene di cambiare l’articolo determinativo, questo genio del purissimo presente quanto prende di stipendio?

Non voglio licenziarlo per prendermi io il settanta per cento, per carità: lo suggerisco per far avere un margine maggiore a questi poveri editori che con vocazione al sacrificio si ostinano a fare un mestiere per il quale non guadagnano niente. Come, d’altra parte, la maggior parte degli autori.

L’altro giorno ho visto su Instagram l’annuncio della presentazione d’un libro che non sapevo la titolare di quell’Instagram avesse scritto. Sono andata a controllare. È uscito lo scorso novembre. Da allora ha venduto milleduecento copie. Perché, disperata ragazza mia, ti sbatti a presentare un libro che ha venduto milleduecento copie in nove mesi? Per esistere? Possibile che siamo così novecentesche da pensare che dirsi autrici sia prestigioso?

Tuttavia, persino la disperatamente invenduta del caso contribuisce all’effetto Fontana di Trevi del commercio editoriale. Gfk mette, di fianco alle copie vendute, il lordo: prezzo di copertina moltiplicato per numero di copie. Ogni volta vederlo è un colpo al cuore. Persino il libro da milleduecento copie che la tapina si andrà a presentare con un treno di terza classe e il panino con la frittata al sacco, persino quello ha comunque fruttato all’editore ventimila euro (seimila dei quali sappiamo essere andati a un redattore che avrà aggiunto ghiotti refusi).

Quando gli editori s’innervosiscono e sibilano che l’editoria è un settore fiorente, che fattura più del cinema (primeggiare su un settore morto: che sogno), che non so di cosa parlo, devo fare appello a tutta la mia continenza per non dire che, se l’editoria non è in bancarotta, è solo perché ha con gli autori il rapporto economico che gli usurai hanno coi giocatori di poker.

La principale obiezione che mi è stata fatta, rispetto all’articolo di sabato, è che mi sarei sognata l’età dell’oro (parole loro, io sono meno propensa degli editori alle frasi fatte) in cui i libri si vendevano di più. Guarda “Zivago”, mi dicono, non lo sai che vendeva quarantamila copie ed erano considerate tantissime?

Sì, amore della mamma, ma all’epoca neanche c’era l’obbligo scolastico. I libri popolari d’un’epoca in cui l’Italia era analfabeta vendevano quanto i libri popolari di oggi che anche il mio fruttivendolo ha un PhD.

Tra allora e oggi, ci sono stati i decenni in cui siamo cresciuti. Non dico gli anni Settanta in cui si vendeva a vagonate persino Foucault (non che fosse un bene). Non dico la fine del secolo scorso, quella in cui un milione di copie lo faceva la Tamaro ma pure Umberto Eco.

Ma vogliamo paragonare i numeri d’un successo di oggi – non so: Murgia, Ammaniti – ai numeri degli stessi autori dieci anni fa? Il milione di copie di Gramellini con “Fai bei sogni”, o quello di Paolo Giordano con “La solitudine dei numeri primi”, oggi chi lo fa?

Fabio Volo pubblica un libro ogni due anni, e ogni due anni è primo in classifica. Solo che nel 2009 essere primo in classifica valeva seicentosettaquattromila copie, nel 2021 centonovantaquattromila: fa meno d’un terzo, ve lo dico perché vi so deboli in matematica.

Nel frattempo quel che è successo è che, mentre stare a casa a leggere un libro diventava un’attività residuale e questi numeri qui inevitabilmente si contraevano, i numeri di tutto ciò che si può esibire si moltiplicavano.

Sabato un editore si è pubblicamente stizzito perché il paragone tra libri e concerti gli è parso improprio. Colpa mia: do sempre per scontato che i lettori conoscano il mondo in cui vivono, non tengo mai conto dei lettori culturalmente più svantaggiati, cioè gli editori.

Mi spiego meglio. Le tre sere in cui Ultimo (chiunque egli sia) riempie lo stadio di Roma, citate sabato, non servono a fare un paragone tra scrittori e rockstar (che peraltro si potrebbe fare e sarebbe parecchio più interessante dell’attuale dibattito su chi possa dirsi intellettuale).

Servono a dire che dieci o quindici anni fa, quando Gramellini vendeva quel milione di copie che oggi chiunque si sogna, un concerto in uno stadio italiano era una cosa che facevano in tre al mondo. Vasco. Madonna. Springsteen. E nessuno di loro per tre volte nello stesso stadio: era impensabile.

Adesso, persino Ultimo – che continuo a non aver capito chi sia – macina centinaia di migliaia di spettatori che sono disposti a pagare (nonostante si percepiscano in miseria) per andare a fare le storie di Instagram allo stadio, ma non a pagare (una frazione del costo di quel biglietto) per leggere lo scrittore di cui su Instagram è à la page dirsi fan.

Poi i libri sono ancora lì, come diceva Baricco all’epoca, e magari sopravviveranno persino ai telefoni con la telecamera. Lo auguro agli editori irritabili, ma soprattutto a me stessa, che non ho mai imparato a fare i video.

Il Futurismo.

Estratto dell'articolo di Nicola Mirenzi per “il Venerdì - la Repubblica” venerdì 7 luglio 2023.

«Il futurismo di destra? Ma per favore. Non scherziamo». Pittore, scultore, disegnatore, pioniere del graphic novel, Pablo Echaurren possiede – insieme alla moglie, la storica Claudia Salaris – la più completa collezione al mondo di riviste, volantini, manifesti e dischi del futurismo. 

«La prima cosa che faccio appena mi sveglio, al mattino, è cercare su internet uno dei ventuno pezzi che mi mancano». Militante nell'area creativa del movimento del '77, membro degli Indiani metropolitani, Echaurren ha cominciato ad appassionarsi al Futurismo in quegli anni roventi d'ironia, baldoria e furore politico, quando un collettivo marxista ortodosso scrisse un volantino contro di lui all'università di Roma, scagliandogli il Futurismo addosso come un'onta. 

(...)

Sotto il segno di un analogo riflesso condizionato, il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha inaugurato il cantiere contro l'egemonia culturale della sinistra consigliando al Museo archeologico di Napoli di fare una mostra sul Futurismo, perché ha «un'idea di modernità che viene dall'antico, dal passato». 

Ha poi detto che, insieme al Maxxi, diretto da Alessandro Giuli, il governo sta costruendo il «nuovo immaginario italiano» acquisendo allo Stato la casa del pittore futurista Giacomo Balla, a Roma, sottintendendo che, con la destra al governo, il Futurismo è finalmente libero dalla cappa della sinistra. «Ma in realtà gli studiosi più importanti del Futurismo in Italia», dice Echaurren, «non sono mai stati conservatori, ammesso che sia giusto classificare uno studioso in base alle categorie politiche anziché alle sue qualità critiche». 

Lei però subì il pregiudizio di sinistra.

«Finita la guerra, il Futurismo venne considerato un cascame del fascismo e chi aveva opere, riviste, materiali di quel movimento se ne liberò, come fossero cianfrusaglie. Nell'estrema sinistra degli anni Settanta il luogo comune e l'ignoranza operava ancora, ma anche a destra non c'è mai stato entusiasmo per il Futurismo: credo perché, da quelle parti, agli aeroplani hanno sempre preferito le vanaglorie delle aquile imperiali». 

(...)

«Perché il Futurismo fu una baraonda inclassificabile, ha sfasciato tutte le gabbie mentali del passato. Ha inventato il canone dell'essere contro, che modellerà l'intero Novecento, non solo artistico, ma anche politico, fino ai giorni nostri».

Ebbe anche un rapporto con il fascismo, però.

«Chi lo nega? Ma non sono due movimenti sovrapponibili. Anzi. Boccioni al fronte rivide le sue posizioni politiche e Marinetti nel 1920 si allontanò dal fascismo, accusandolo di guardare al passato. Dall'altra parte, Antonio Gramsci scrisse su Ordine Nuovo che Marinetti era un "rivoluzionario" perché "non ha paura che il mondo caschi se un operaio fa errori di grammatica"». 

Vuol dire che era di sinistra?

«No. Ritengo che, al netto di alcune figure irregolari, l'Italia sia un Paese sostanzialmente conservatore. Impaurito dall'esplorazione e dall'ignoto. Attaccato irrimediabilmente alla statua dell'eroe a cavallo». Ma che cosa prova quando legge l'elogio futurista della guerra? «Il desiderio di contestualizzare. Erano altri tempi. Anche Guillaume Apollinaire fu affascinato da certi proclami. E poi penso: "Quante stronzate avrò detto nella mia vita?". Ecco, sarà capitato anche a Marinetti di dirne qualcuna».

Fa bene Sangiuliano a suggerire una mostra sul Futurismo?

«Ma le grandi mostre sul Futurismo sono già state fatte. 1986: Palazzo Grassi, Venezia. 2014: Guggenheim, New York. Il Futurismo è ormai riconosciuto universalmente. Non ha bisogno di ministri della Cultura che lo promuovano come un prodotto tipico nazionale. È già molto oltre. Sarebbe miseramente provinciale restringerlo all'identità italiana o, peggio, a una parte politica, per di più la destra identitaria di oggi».

Perché?

«Perché il Futurismo era libertario, dai costumi esagerati, per la sperimentazione sessuale, l'emancipazione della donna, era insofferente a ogni categoria, qualsiasi confine, era cosmopolita, figurarsi che c'entra con il piccolo mondo antico del sovranismo».

Il Nobel.

5 scrittori che hanno rifiutato il premio Nobel per la letteratura. Da Jean Paul Sartre a Bob Dylan, sono molti gli scrittori che hanno rifiutato il Nobel per la Letteratura, uno dei premi più ambiti al mondo. Roberta Damiata il 5 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Verrà assegnato oggi, 5 ottobre, il premio Nobel per la letteratura, l'onoreficienza più ambita da tutti gli scrittori del mondo. Tra questi però ci sono delle eccezioni e nella storia del premio, più di uno scrittore ha detto "no" rifiutandolo per le motivazioni più diverse. Alcuni per protesta, altri perché obbligati. Non sono mancate neanche le ragioni morali o addirittura i conflitti d'interesse.

Erik Axel Karlfeldt

Il primo a rifiutare il Nobel per la Letteratura è stato il poeta svedese Erik Axel Karlfeldt nel 1918. Essendo Membro dell'Accademia la sua onestà intellettuale lo indusse a denunciare un conflitto d'interesse. Le venne però conferito ad honorem, il giorno dopo la sua morte, avvenuta nel 1931.

George Bernard Shaw

Dopo aver saputo della sua vittoria, nel 1925, rifiutò i soldi pur accettando il premio per intercessione della moglie. "Posso perdonare Alfred Nobel per aver inventato la dinamite, ma solo un demone con sembianze umane può aver inventato il Premio Nobel", furono le sue parole pronunciate durante la premiazione.

Boris Pasternak

Nel 1958, il poeta e scrittore russo Boris Pasternak, autore de Il dottor Zivago, avvertito del riconoscimento telefonò alla segreteria del premio esternando la sua gioia: “Immensamente grato, commosso orgoglioso, meravigliato, confuso. Pasternak“. Queste parole crearono in patria un vero putiferio e lo scrittore venne definito un "traditore". Minacciato dal Kgb si vide costretto a rifiutare il premio motivando la sua scelta per: “Il significato che a questo premio è stato dato dalla società alla quale appartengo“. L'Accademia pur prendendo atto della sua decisione, durante la cerimonia di premiazione rispose al no dello scrittore: “Questo rifiuto non comporta naturalmente nessuna modifica per quanto riguarda la validità della sua assegnazione“.

Jean Paul Sartre

Nel 1964 a vincere il Nobel per la letteratura fu lo scrittore e filosofo francese Jean Paul Sartre per "la sua opera ricca di idee e piena di spirito di libertà e ricerca della verità“. Sartre però lo rifiutò proprio in nome della libertà. “Ho rifiutato il premio Nobel per la letteratura perché rifiuto che qualcuno consacri Sartre prima della sua morte. Nessun artista, nessuno scrittore, nessun uomo merita di essere consacrato da vivo, perché ha il potere e la libertà di cambiare del tutto”. In realtà il rifiuto era una sorta di evento annunciato, perché quando il suo nome cominciò a girare, lui scrisse una lettera mai recapitata all'Accademia, che suonava come una sorta di avvertimento.

Da alcune informazioni di cui ora sono venuto a conoscenza, avrei qualche possibilità, quest’anno, di ottenere il premio Nobel. Benché sia presuntuoso discutere di una votazione prima ancora che abbia avuto luogo, mi prendo la libertà di scriverle per dissipare o evitare un malinteso. Intanto, signor Segretario, le assicuro subito la mia profonda stima per l’accademia svedese e per il premio con cui ha onorato tanti scrittori. Tuttavia, per alcune ragioni del tutto personali e per altre che sono più oggettive, non desidero comparire nella lista dei possibili candidati e non posso né voglio né nel 1964 né dopo, accettare questa onorificenza“. Nonostante questo l'Accademia decise comunque di assegnargli il premio che lui, fedele al suo credo, rifiutò.

Bob Dylan

Altro nome prestigioso è quello di Bob Dylan che il 13 ottobre 2016 venne annunciato come vincitore del Premio Nobel per la Letteratura, dopo che per anni il suo nome circolava nei corridoi. L'Accademia lo premiò per: "Aver creato una nuova espressione poetica nell'ambito della tradizione della grande canzone americana". Dylan però non rispose, rifiutando anche le telefonate della Segreteria, creando una sorta di mistero intorno alla sua accettazione. Alla fine ritirò il premio il 1° aprile 2017, in una cerimonia piccola e privata, tenutasi in una camera d'albergo. Non ricevette subito il premio in denaro, legato al tenere un discorso alla cerimonia di premiazione, anche se solo registrato.

Il 6 giugno, dopo l'arrivo del premio in denaro, tenne fede alla sua promessa, tenendo un discorso di 27 minuti in cui citò i musicisti e i libri che lo avevano ispirato. Durante il suo intervento però ci fu una sorta di "rifiuto del premio" quando parlando delle canzoni in generale disse: "Sono vive nella terra dei vivi. Le canzoni non sono letteratura. Devono essere cantate non lette. Le parole delle commedie di Shakespeare devono essere recitate sul palco. Proprio come le parole delle canzoni che devono essere cantate e non lette sulle pagine".

La vita raccontata oltre il Nobel: sette premiati si confessano. Nicola Santini su L'Identità il 4 Maggio 2023.

Che cosa succede ai vincitori di un premio Nobel, quando la cerimonia è finita e loro tornano alle proprie vite?

Il giornalista curatore di questa raccolta lo ha chiesto a se stesso, e ha deciso poi di domandarlo direttamente a loro.

Le interviste raccolte vanno molto oltre il commento ufficiale da conferenza stampa: ciò che emerge è una vera meditazione sul tema del destino dell’individuo dopo il conferimento di un’onorificenza tanto prestigiosa e “ingombrante”.

I contributi dei vincitori (due Nobel per la Pace e cinque scienziati) rispondono a questioni profonde come i misteri dell’Universo: che cosa succede all’equilibrio personale, di fronte a un evento del genere?

Come si gestisce la responsabilità nei confronti del futuro del Pianeta e delle giovani generazioni?

È difficile mantenere una coscienza intellettuale integra quando ci si trova una somma del genere a disposizione?

Dalla prefazione: «In questo senso, credo di essere rimasta molto colpita dal dialogo con Frederik de Klerk, predecessore di Nelson Mandela alla presidenza della Repubblica sudafricana, con il quale vinse il premio Nobel per la pace e senza la cui collaborazione l’apartheid non avrebbe potuto essere eliminata. De Klerk, dopo aver cambiato il corso della storia, analizza tristemente le manipolazioni contrarie all’abolizione e crea un’organizzazione di ex presidenti e primi ministri, disposta – dopo aver lasciato il potere – a meditare e trasmettere ai successori l’esperienza e le lezioni, spesso amare, tratte dal proprio incarico.

Ma al di là delle idee e dei sentimenti, al di là dei ricordi e degli aneddoti, delle analisi e delle conclusioni, relative al compimento tra il loro destino e la storia del mondo a cui il premio Nobel ha dato loro accesso, al di là delle sorprese, delle emozioni e dei fasti dell’evento più spettacolare, che segna un “prima” e un “dopo” nelle loro vite, ciò che mi ha commosso profondamente, quando ho letto questo libro, è stato il modo in cui tutti e sette i vincitori concludono la loro riflessione sulla propria vittoria; riferendosi al debito che essa impone verso gli altri, nel tempo, verso chi verrà dopo di loro, i meno fortunati. Dal medico congolese che torna nel suo paese devastato dalla guerra e dalla barbarie all’ebreo polacco che ha percorso l’intera scala dell’esperienza umana, dal campo di lavoro nazista all’accoglienza del re svedese; dall’australiano, naturalizzato americano, che torna in patria per passare di università in università, a cui ha potuto dedicare la sua vittoria, e agli scienziati che non avevano lasciato i loro laboratori fino alla “favola svedese” e che, dopo quell’evento, hanno voluto fermare la ricerca e impegnarsi in campagne di raccolta fondi perché i loro nomi potessero essere utilizzati negli studi di futuri scienziati; tutti questi vincitori hanno sentito il bisogno di donare tempo e ricchezza agli altri per rendere il mondo più luminoso. Quando ho promesso di scrivere la prefazione a questo libro, non pensavo che avrei imparato così tanto».

Tanto per fare nomi e cognomi, nel libro troviamo intervista a Roald Hoffmann, Nobel per la chimica 1981; intervista a Frederik de Klerk, Nobel per la pace del 1993 insieme a Nelson Mandela; intervista a Richard John Roberts, Nobel per la medicina 1993; intervista a Peter Charles Doherty, Nobel per la medicina 1996; intervista a Paul Maxime Nurse, Nobel per la medicina 2001; intervista a Denis Mukwege, Nobel per la pace 2018; intervista a Didier Patrick Queloz, Nobel per la fisica 2019.

Emiliano Tognetti, autore del testo è nato a Pontedera, in Toscana. Giornalista, psicologo, psicoterapeuta e progettista sociale attualmente collabora con Enti del Terzo Settore e con varie riviste locali o nazionali.

Ha la passione per le interviste che pubblica sul magazine online 7Gifts.org dell’associazione Mamre, di cui fa parte assieme ad alcuni amici.

Con Graphe.it editore di questo volume, ha pubblicato il libro La bellezza della fede.

L’Oscar.

Oscar 2023, la carica dei soliti noti. Per l’Italia il corto di Alice Rohrwacher. Fabio Ferzetti su L’Espresso il 24 Gennaio 2023.

Nomination senza sorprese. Undici candidature per “Everything everywhere all at once”, grande attenzione per l’inclusività e poco Netflix. Bel riconoscimento per “Pupille”

Poche sorprese quest'anno per le candidature agli Oscar. Il solito gruppetto di titoli si spartisce il grosso delle nomination. I titoli più originali o stravaganti vengono del tutto ignorati, come “Crimes of the Future” di Cronenberg, o confinati in categorie minori (come “Babylon”, che si candida solo per le scenografie, ci mancherebbe, i costumi e per la bellissima colonna sonora).

Tra attori e attrici l’inclusività  trionfa, il che si traduce in un gran numero di candidati/e di origini afro e soprattutto asiatiche, ogni anno ha le sue mode, ma l’affermazione dell'Estremo Oriente quest'anno era vistoso già nei cast di molti successi annunciati a partire da “Everything Everywhere All at once”, che con 11 potenziali statuette è il titolo più presente tra le nomination.

Quasi del tutto assente l'Italia (“Nostalgia” di Martone non era entrato nemmeno nella shorlist), ma per fortuna tra i corti c'è il bellissimo “Pupille” di Alice Rohrwacher, un segnale di grande importanza per un'autrice di grande valore ma ancora poco nota nei circuiti internazionali, e con un nuovo film in arrivo.

I 10 candidati al premio più ambito, quello per il miglior film, sono “Tar” e “Gli spiriti dell'isola” (cioè The Banshees of Inisherin), visti a Venezia ma ancora inediti, “Elvis; Everything Everywhere All At Once”; “The Fabelmans”; “Top Gun: Maverick”; Triangle of Sadness; “Avatar, la via dell'acqua”; “Niente di nuovo sul fronte occidentale” (unico titolo Netflix, dettaglio importante), l'ancora inedito “Women Talking”.

La rosa dei registi si stringe ai soli Mc Donagh ("Gli spiriti dell'isola”), Spielberg (“The Fabelmans”), Todd Field (“Ta”r) Kwan e Scheinert (“Everything Everywhere All At Once”), per chiudere con lo svedese Ostlund (“Triangle of Sadness”), già Palma d'oro a Cannes, che incassa anche una nomination come miglior sceneggiatura confermandosi una delle poche sorprese di questi Oscar 2023, ma staremo a vedere se le candidature si tradurranno in premi.

Fra i candidati all'Oscar per il miglior film straniero sopravvivono il belga “Close”, il nostro favorito, Argentina 1985, altra bella sorpresa, il polacco “EO” del grande Skolimowski, il tedesco “All Quiet on the Western Front”, una delle sorprese di quest'anno, l'irlandese (e imminente) “The Quiet Girl”, mentre escono di scena film di grandissimo interesse come il francese “Saint Omer”, il danese (ma di regista iraniano) “Holy Spider”, il coreano “Decision to Leave”, tutti presenti nella shortlist. Fra i documentari spiccano i bellissimi “Fire of Love” e soprattutto il coraggioso “All the Beauty and the Bloodshed” di Laura Poitras, Leone d'oro a Venezia, presto nelle sale in Italia.

Il resto è talmente scontato che Variety, la bibbia dello show business (mai etichetta fu più meritata), aveva azzeccato la quasi totalità delle previsioni. Anche se quest'anno si registra un'affluenza record: pare che i 9.579 membri dell'Academy distribuiti in 80 paesi abbiano votato in una percentuale senza precedenti, evidentemente il clima internazionale così teso favorisce un ritorno ai riti e al loro significato simbolico. Un segnale incoraggiante, per quel che vale.

Quanto al resto, le linee guida sono purtroppo le solite: massima attenzione ai successi, ovvero scarsa considerazione per chi non ha conquistato il botteghino (ancora “Babylon”, flop clamoroso e immeritato in patria), sensibilità pronunciata per le prestazioni più vistose, tra gli interpreti come in altre categorie (montaggio, scene, trucco e via dicendo). Tra le poche sorprese significative segnaliamo la candidatura di Judd Hirsch a non protagonista in “The Fabelmans” (è il vecchio zio del piccolo Fabelman/Spielberg), e quella a miglior canzone di “RRR”, blockbuster indiano.

Ma tra i titoli d'animazione va sottolineata anche la presenza dell'affascinante “Pinocchio” di Guillermo Del Toro, ambientato nell'Italia fascista, un altro dei non molti titoli Netflix presenti fra le nomination del 2023.

Marco Giusti per Dagospia il 26 Gennaio 2023.

Ci risiamo. Dopo le nominations agli Oscar che hanno sollevato parecchie polemiche in America per la totale mancanza di registi afro-americani e la scarsa attenzione agli attori afro-americani, le nominations per i Césars, gli Oscar francesi, provocano invece le proteste delle registe francesi. Possibile che fra i cinque migliori registi della cinquina finalista, Cédric Klapisch (“En corps”), Cedric Jimenez (“Novembre”), Dominik Moll (“La nuit du 12”), Louis Garrel (“L’innocente”), Albert Serra ("Pacifiction”), non ci sia nemmeno una donna?

Non basta la presenza di “Forever Young” (“Les Amandiers”) diretto da Valeria Bruni Tedeschi tra i cinque migliori film dell’anno, assieme a “L’innocente” di Garrel, “Pacifiction” di Serra, “La nuit du 12” di Moll, “En corps” di Klapisch, se poi non viene inserita tra i migliori registi. Tutti maschi. E non basta nemmeno rinchiudere la Alice Diop regista di “Saint Omer”, già premiata in tutto il mondo, tra le migliori opere prime. Dove sono i riconoscimenti a Mia Hansen Love per “Un beau matin”, a Rebecca Zlotowski per “I figli degli altri”, a Alice Winecour per “Revoir Paris”.

In tanti anni di Césars solo una volta è stato dato un premio a una regista , a Tonie Marshall. Troppo poco. E in Francia lavorano ben 80 donne registe. In tutto questo fa la parte del leone “L’innocente” di Louis Garrel, che trovate in sala da noi in questi giorni, con 11 nominations e 4 sono per tutti i suoi 4 protagonisti, seguito da “La nuit du 12” di Dominik Moll con Bouli Lanners con 10 nominations e dal più complesso “Pacifiction” di Albert Serra con 9, a pari merito di “En corps” di Klapisch, seguito da “Novembre” di Cedric Jimenez con 7, e una è per Jean Dujardin, il protagonista, a caccia dei terroristi dopo gli attentati del 13 novembre del 2015 a Parigi.

“Saint Omer” di Alice Diop ha solo 4 nominations. Ma film come “Un bel mattino” di Mia Hansen Love con Léa Seydoux, appena uscito in Italia non ne ha nessuna e lo stesso “I figli degli altri” di Rebecca Zlotowski con Virginie Efira. Tra i migliori film stranieri brillano nella cinquina anche ai Césars “Eo” di Jerzy Skolimowski, “Triangle of Sadness” di Ruben Ostlund “Close” di Lukas Dhont, ma trovano spazio anche “La cospirazione del Cairo” di Tariq Saleh e “As bestas” di Rodrigo Sorogoyen. Ovviamente Cannes trionfa. I vincitori si sapranno il 24 febbraio. Ma le polemiche non cesseranno.

Un'altra resa al buonismo e al mercato asiatico. La miglior sintesi della serata degli Oscar numero 95 è stata la faccia di Angela Bassett che, davanti alla assegnazione per la statuetta alla Miglior attrice non protagonista, finita alla sua grande rivale, Jamie Lee Curtis, non ha applaudito, né sorriso. Alice Sforza il 14 Marzo 2023 su Il Giornale.

La miglior sintesi della serata degli Oscar numero 95 è stata la faccia di Angela Bassett che, davanti alla assegnazione per la statuetta alla Miglior attrice non protagonista, finita alla sua grande rivale, Jamie Lee Curtis, non ha applaudito, né sorriso. Con tanto di hashtag #robbed (rubato) diventato subito virale su Twitter. Rubato, a dire il vero, è il fil rouge di tutta la premiazione, dove i migliori sono usciti senza premi e con ben 7 Oscar consegnati a un film pessimo come Everything Everywhere All at Once. Del resto, nel 2022 l'Academy aveva premiato un filmetto come I segni del cuore Coda, a dimostrazione che non è più, da tempo, la qualità a fare la differenza, ma l'opportunismo e il pallosissimo politically correct. E con un mercato asfittico come quello cinematografico del Nord America, che continua a collezionare segni negativi dopo la pandemia, cosa c'è di meglio, per l'Academy, che stendere un ponte con quello, ricco, asiatico? Con un occhio, in particolare, a quella Cina che è il primo mercato al mondo della settima arte. Del resto, Hollywood, pur di sbancare i botteghini asiatici, cinesi in primis, si è autocensurata da tempo, stravolgendo non solo le sceneggiature, ma anche i riferimenti geopolitici. Per non parlare della propria ideologia, perché tutto ha un prezzo. E pazienza, allora, se ci si è dovuti turare il naso (almeno, lo speriamo) per votare un film dove, con la scusa del Multiverso, viene buttato tutto alla rinfusa, in un coacervo di situazioni nonsense, pop e demenziali (e anche volgari), montate peggio (infatti, ha vinto l'Oscar anche per questo), confusionarie e incomprensibili al grande pubblico (andate a leggervi le recensioni di chi ha pagato il biglietto). Se lo aveste perso, da oggi è di nuovo in sala. Eppure, ha vinto 7 Oscar, tanti quanti La stangata e Schindler's List, per capirsi, perché è la storia di una donna cinese in America, interpretata dalla premiata Michelle Yeoh, star di Hong Kong, che ha un marito cui dà volto il premiato vietnamita Ke Huy Quan, attore arrivato negli Usa con barcone, storia che ha commosso anche il tuttologo Matteo Renzi («Da un barcone alla statuetta, una storia vera e bellissima»), figuriamoci quelli dell'Academy. In pratica, tutto gli ingredienti giusti per far trionfare, ancora una volta, il buonismo imperante, così da mettere a posto la coscienza dei membri dell'Academy e sistemare il portafoglio vuoto. E, in tanto che ci siamo, diamo anche la miglior canzone a un film indiano, RRR, che anche da quelle parti il mercato non scherza. Un Oscar, poi, che strizza l'occhio alle nuove generazioni, vista la struttura da videogioco del trionfatore Everything Everywhere All at Once. Insomma, per la vetusta Academy, il cinema non è più un «paese per vecchi» o per gli Spielberg, che è il grande defraudato di questi Oscar 2023, con il suo meraviglioso The Fabelmans, votato, per dire, da Dante Ferretti. Almeno, come Miglior attore protagonista, hanno reso giustizia allo straordinario Brendan Fraser di The Whale, così come all'ottimo tedesco Niente di nuovo sul fronte occidentale, tra le pellicole straniere. Come animazione, ha vinto anche Pinocchio, ma nella personale versione antifascista di Guillermo del Toro, con buona pace di Collodi. Poteva l'Academy farsi scappare un simile soggetto?

Estratto dell’articolo di Andrea Palazzo per “il Messaggero” l’11 marzo 2023

«Come una corsa di cavalli ma, soprattutto, un'orgia auto-celebrativa di gente ricca e famosa che si prende troppo sul serio». A poche ore dalla cerimonia degli Academy, Michael Schulman, giornalista del New Yorker, descrive l'evento più scintillante di Hollywood nel suo Oscar Wars pubblicato negli Usa da Harper. «Una lotta continua tra chi detiene il potere e chi va all'assalto della cittadella dorata», […]

 «È un mondo costruito sull'egocentrismo e l'insicurezza - aggiunge Schulman - gli artisti hanno bisogno di continue rassicurazioni: che c'è di meglio di un premio?». La cerimonia serve anche a far risonare i temi più controversi che attraversano cinema e società. […]

L'Academy era nata nel '27 in risposta agli scandali che avrebbero ispirato Babylon e per consolidare il suo potere emarginava i talenti più eccentrici. […] Con l'avvento della Tv, gli Oscar si aprirono al cinema della controcultura per sopravvivere. Nel 1970 vinse un film vietato ai minori, Un uomo da marciapiede e tra le attrici arrivò la radical chic Jane Fonda, che salutava col pugno chiuso vestita Chanel, parlando apertamente di sesso […]

  Nei '90 le lotte di potere diventavano sempre più dure e il produttore Harvey Weinstein ne divenne il campione. Tanti […] Gwyneth Paltrow continuò a lavorare con lui anche dopo le molestie subite e vinse con Shakespeare in Love, che rubò la statuetta persino a Salvate il soldato Ryan di Spielberg. Schulman ricorda come la campagna #OscarsSoWhite sia servita all'Academy per rincorrere i cambiamenti culturali […]

Secondo l'autore, «rispetto alle crisi passate, le incognite ora sono maggiori. Mancano i grandi film mainstream come Forrest Gump, al cinema funziona solo la Marvel e gli indipendenti si vedono in streaming sul pc o sul telefonino«. […]

La Resistenza all’Omologazione.

"La Resistenza non è monopolio dell'Anpi". E i partigiani rossi attaccano Valditara. L'Associazione nazionale partigiani d'Italia critica il ministro dell'istruzione in merito alla proposta di estendere il protocollo per la promozione della Resistenza nelle scuole anche ad altre associazioni. Stefano Gigliotti su Il Giornale il 19 Settembre 2023

Con il centrodestra al governo diverse cose sono destinate cambiare. Anche la promozione dei valori resistenziali nelle scuole, per anni evidentemente appannaggio di una sola parte politica. "Si rilassino i professionisti della polemica politica. I valori dell'antifascismo sono anche i miei e la Resistenza è un valore prezioso", ha tranquillizzato il ministro dell'istruzione Giuseppe Valditara, spiegando che "la Resistenza non è monopolio dell'Anpi e i valori resistenziali devono essere patrimonio di tutti".

Nei giorni scorsi l'Associazione nazionale partigiani d'Italia - in una lettera alla premier Giorgia Meloni e al presidente della Repubblica Sergio Mattarella - aveva lamentato il mancato rinnovo di un protocollo d'intesa Anpi-Ministero dell'Istruzione, attivo dal 2014, per lo studio della Resistenza nelle scuole. In realtà, l'accordo non è stato cancellato ma esteso a "tutte le associazioni partigiane e non con una soltanto" perché "la Resistenza non l'hanno fatta solo i comunisti, ma anche i cattolici, i liberali, gli azionisti e perfino i monarchici", ha aggiunto Valditara.

Parole di buon senso ma non per l'associazione di partigiani rossi guidata da Gianfranco Pagliaruolo. "Fulminato sulla via di Damasco, dopo quasi un anno di silenzio il ministro Valditara scopre l'importanza del protocollo dichiarandosi impegnato a costruire una convenzione con tutte le associazioni partigiane" - ha ribattuto Pagliarulo - "Sappia però che non solo siamo già informati sul fatto che la Resistenza è stata opera di tante forze politiche, ma che l'Anpi stessa, che conta 141.500 iscritti, è un'associazione pluralista che accoglie nelle sue fila persone con diversi orientamenti politici, purchè antifascisti".

Polemiche anche dai paritti di sinistra che si ritengono gli unici depositari della lotta al fascimo. "Valditara ha ingaggiato una crociata contro l'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia" - fa notare il capogruppo dell'Alleanza Verdi e Sinistra Peppe De Cristofaro - "Altra ossessione di Valditara è il comunismo. La destra tenta di imporre una nuova matrice culturale eliminando ciò che viene considerato contrario, ostile, alla loro propaganda. E lo fanno cercando di distruggere l'esistente". Mentre per il Partito Democratico si tratta di una "polemica strumentale ed inutile del ministro Valditara contro l'Anpi", affermano Sandro Ruotolo e Andrea De Maria.

La scelta di Valditara è stata difesa da Cristina Olini, vice presidente dell'Associazione Nazionale Partigiani Cristiani. "La Resistenza non è stata fatta soltanto dai partigiani dell'Anpi, dai partigiani all'epoca comunisti, ma anche dai cattolici, dai repubblicani, dal clero" - viene ribadito - "Credo che ampliare la convenzione sia un'ottima scelta in modo tale che le organizzazioni possano riunirsi in comune accordo".

Non sono riviste, sono opere d’arte: la carica dei magazine indipendenti: «La carta non è morta». Grafica ricercata. Contenuti curati. E argomenti per tutti i gusti. I periodici prodotti dai piccoli editori sono più vivi e numerosi che mai. E danno appuntamento ai collezionisti a Bologna, a Mag to Mag. Margherita Marvasi su L'Espresso il 4 Maggio 2023

Ci sono riviste che sono vere e proprie opere d’arte: carta, grafica, immagini, impaginazione, tutto è estremamente curato. Le prendi in mano e ne ricavi un piacere quasi carnale. Sono creature preziose, lontane da logiche di mercato mainstream, esteticamente impeccabili, per palati raffinati. Oggetti di nicchia, con una tiratura che va dalle trecento alle duemila copie, sono prodotti da editori indipendenti che spesso fanno altri mestieri e non si avvalgono neppure di una vera e propria redazione. Perché l’obiettivo non è fare soldi ma creare bellezza: grazie all’entusiasmo di nomi emergenti o di professionisti già noti, disposti a collaborare per passione. Gli argomenti sono i più disparati, dalla moda all’arte, dall’illustrazione alla fotografia, dal cibo al cinema, l’architettura, la letteratura. Una produzione che scatena il collezionismo: i cacciatori di prime edizioni possono arrivare a spendere anche duemila euro (i prezzi di copertina si aggirano sui 30/50 euro) pur di sostenere contenuti che non scadono mai e hanno un’estetica eccezionale. Questo universo alternativo sarà in mostra a Bologna il 6 e 7 maggio (Sala Borsa) per “Mag to Mag”: il primo festival in Italia dedicato ai magazine indipendenti e da collezione. Cinquanta gli espositori selezionati tra i migliori editori in Europa, con l’aggiunta di riviste made in Singapore, Cina e Stati Uniti. Un evento che si propone di mettere in connessione queste realtà tra masterclass e incontri con ospiti di spicco.

«Vogliamo smentire chi sostiene che la carta stampata è morta», dice Anna Frabotta, promotrice dell’iniziativa organizzata da Frab’s Magazines: «Rappresentiamo un mercato giovane, interessato a sperimentare con i contenuti e con le grafiche, per uscire dagli schemi e dalla ripetitività del web, che ha dei limiti forti. Sulla carta non ci sono limiti. Il festival risponde all’esigenza di raccogliere le tante energie, idee e turbolenze, che gravitano tra gli amanti delle riviste di qualità e creare sinergie nuove, amplificando il suono della carta e il rumore pulito che può fare. Perché da soli è dura produrre e distribuire, ma insieme, scambiandosi idee ed esperienze, si diventa più forti». Anna Frabotta è giornalista e docente di Editoria della Moda allo Ied di Milano e ha fondato Frab’s Magazines insieme al business manager Dario Gaspari, con l’intento di selezionare e fare cultura del magazine indipendente. La loro avventura è cominciata nel 2019 con uno shop online (frabsmgazines.com) e oggi è punto di riferimento italiano, con un negozio a Forlì che offre un catalogo di seicento titoli.

Inoltre curano il magshop della galleria romana Contemporary Cluster e hanno all’attivo vari Pop Up Mag per l’Italia. “Mag to Mag” l’hanno pensato per scambiarsi opinioni e visioni, dare al settore un evento di riferimento e strumenti pratici per superare il guscio della piccola nicchia. «Quello che manca, spesso, sono le conoscenze giuste su come comunicare prodotti così delicati», aggiunge Frabotta. Nascere indipendenti non vuol dire rimanere di nicchia. Lo dimostrano testate come l’inglese i-D, su moda e intrattenimento, fondata da Terry Jones nel 1980 e ora rivista patinata del gruppo Vice. Altro esempio storico è Wallpaper*, fondata da Tyler Brulé nel 1996 e acquistata dal gruppo di Time. Brulé ha bissato il successo con Monocle, moloch delle riviste indipendenti. Il segreto? Frabotta lo sintetizza così: «Le riviste indipendenti sono intrise di quotidiano e al tempo stesso ci indicano dove questo quotidiano porta».

La cultura moderna? Nata dagli editori pirata. Lo storico Robert Darnton nel nuovo saggio ricostruisce la lotta per il diritto d'autore. Matteo Sacchi su Il Giornale il 6 Maggio 2023 

C'è stata un'epoca (felice?) in cui editoria faceva rima con pirateria e coi libri ci si poteva arricchire, più spesso rovinare, di sicuro finire in galera se si stampava un titolo troppo scomodo per lo Stato, le chiese o il potente di turno.

Quest'epoca è il Settecento, il secolo dei lumi, ma anche della trasformazione del mercato librario da fatto di nicchia a fenomeno, se non di massa, di media diffusione nella media borghesia sempre più vogliosa di informarsi e di divertirsi.

È l'epoca che racconta lo storico americano Robert Darnton, professore emerito ad Harvard, nel suo nuovo saggio pubblicato in Italia per i tipi di Adelphi e intitolato, appunto, Editori e pirati (pagg. 492, euro 38). Darton è uno dei più importanti studiosi della storia della cultura e ha indagato il versante librario della Rivoluzione francese nonché la diffusione delle idee illuministe. Ha messo in luce come più dei ponderosi saggi dei filosofi à la Voltaire abbiano pesato, nel diffondere le idee libertarie, i pamphlet di basso rango o la letteratura erotica come il pruriginoso romanzo Thérèse philosophe, basti ricordare il suo Libri proibiti. Pornografia, satira e utopia all'origine della Rivoluzione francese (Mondadori). O come la censura sia stata un fatto più complesso o articolato di quanto ci si potesse aspettare: si veda il suo I censori all'opera (Adelphi).

Con questo suo nuovo lavoro vira con forza verso la ricostruzione del versante imprenditoriale della grande rivoluzione culturale settecentesca, una rivoluzione in cui far girare o stoppare i torchi da stampa contava moltissimo. E in cui se non ci fossero stati editori disposti a violare le leggi, librai interessati a vendere libri clandestini e a violare ogni embrionale diritto d'autore difficilmente si sarebbe vista la fine dell'ancien régime.

Ovviamente in questo clima complesso - dove tra Olanda e Svizzera era tutto un fiorire di edizioni clandestine per invadere quello che allora era il mercato più fertile della cultura europea, quella in lingua francese - ci son svariati piani. Il primo è un piano da philosophes in cui si discute di cosa sia il diritto d'autore, quello che gli editori cercavano sempre di farsi confermare con un privilegio dal monarca di turno. I campioni della discussione alta furono da un lato Diderot e dall'altro Kant. Diderot si mise subito dalla parte dello scrittore professionale: «Quale proprietà apparterrà mai a un uomo se un'opera del suo ingegno, il frutto unico della sua istruzione, dei suoi studi, delle sue veglie, del suo tempo, della sua ricerca, delle sue osservazioni... se i suoi stessi pensieri, i sentimenti del suo cuore, la parte più preziosa del suo essere, quella che non perisce, quella che lo rende immortale, non gli appartiene». Kant (nella Metafisica dei costumi) storceva il naso su questa idea di proprietà e vedeva il libro come «l'espressione dei pensieri di un autore che li professa per iscritto attraverso la facoltà della libertà di parola».

Al piano di sotto della discussione? Da un lato gli editori parigini, molto ligi al pubblicare soprattutto testi permessi dalla censura e con relativo privilegio. Dall'altro gli editori e i librai di periferia che preferivano libri vietati e piratare abbattendo i costi quello che veniva stampato con privilegio. Un bel danno anche per gli autori ma anche un indubbio volano per la diffusione della cultura verso il basso. Rompendo anche le regole della censura. E rompendo anche le regole della letteratura perché alla fine quello che gli editori volevano erano lettori paganti. Come scrive Darnton: «A prescindere dai loro personali convincimenti, gli editori erano uomini d'affari e il loro scopo era soddisfare la domanda crescente di libri libri di ogni tipo, non solo quei pochi che la posterità ha accolto nelle storie della letteratura».

Ed è così che si entra nella parte più divertente del volume, quella che ricostruisce le vite dei singoli editori e si avventura nella microstoria. Si incontra di tutto, truffe, torchi sequestrati, editori che invitano a cena l'autore di cui hanno appena piratato l'opera, censori che dicono agli enciclopedisti dove nascondere i volumi per non farseli sequestrare... E molte vedove agguerrite che, armate del titolo di maestro stampatore appartenuto al marito erano, spesso, le più spregiudicate nel provare il colpaccio editoria.

Sembra tutto un romanzo in stile Le illusioni perdute di Balzac, invece è storia compulsata con precisione dagli archivi. In particolare Darnton ricostruisce la storia della Société typographique de Neuchâtel, casa editrice la cui documentazione vastissima è un vero e proprio scrigno del tesoro per capire un'epoca. E alla fine viene da dire: grazie, pirati del libro. Sarete stati anche spietati affaristi disposti a stampare sia il diavolo che l'acquasanta (per parafrasare un altro libro del Nostro) ma alla fine ci avete regalato un bel pezzo di libertà, anzi ce l'avete venduto in sedicesimo, senza note ma con lo sconto.

La Resistenza Civile degli italiani come Ugo Mattei. Damiano Mazzotti (sito) martedì 30 agosto 2022 su agoravox.it

Il noto professor Ugo Mattei ha scritto un libro fondamentale per poter affrontare in modo civile questo sfortunato periodo storico: “Il diritto di essere contro. Dissenso e resistenza nella società del controllo” /Piemme, 2022, Milano, 240 pagine, euro 18).

 In Europa sembra quasi tutto finito, ma in Italia ci troviamo ancora davanti a una strana forma di epidemia sociale burocratizzata, e alla nostrana guerra in Ucraina, che grazie ai soliti burocrati politicizzati sottrae molte risorse ai cittadini italiani. Mattei è un giurista italiano esperto e sa benissimo che abbiamo ancora davanti a noi le solite “dichiarazioni di emergenza incostituzionali, le stesse mistificazioni: soprattutto lo stesso terrore per il dissenso nazionale” (premessa).

Il famoso Karl Kraus scrisse che “una delle malattie più diffuse è la diagnosi”. E Ugo Matteo ha dichiarato (senza i soliti giri di parole all’italiana): “sono politicamente contro il green pass che non ho mai scaricato. Lo considero l’equivalente funzionale di una tessera di adesione a un “regime di dispotismo irrazionale”, perfino duale, che fa della sorveglianza la cifra del suo esistere ” (premessa).

Per capire meglio il mondo della medicina affaristica di oggi ricordo che il vincitore del premio Nobel per la Medicina del 1937 disse che “ogni scoperta consiste nel vedere ciò che tutti hanno visto e nel pensare ciò a cui nessuno ha mai pensato”. Non a caso il premio riguardava le ricerche sulla vitamina C, uno dei migliori “farmaci” naturali insieme alla vitamina D.

Comunque in Italia bisogna sempre ricordare che “Nessun obbligo può essere imposto al di fuori di stretti limiti di costituzionalità, coerenti con il Codice di Norimberga e con le molte altre carte internazionali che, dopo gli orrori del nazismo, considerano un crimine contro l’umanità la sperimentazione di trattamenti sanitari senza il consenso dell’interessato” (premessa).

In effetti il diritto “ha un rapporto sempre ambiguo con il potere (a volte funge da scudo contro il potere, a volte è la clava del potere), ma certamente esso non è il potere” (p. 22). La perdita dei poteri invalicabili del Diritto e la crescita decisamente incivile dei poteri di fatto sono indiscutibili: “l’impoverimento del ceto avvocatizio, il declino di prestigio della magistratura e il servilismo del ceto accademico sono tutti sfaccettature dello stesso fenomeno di sottomissione del diritto alla mera logica del potere di fatto” (p. 27). Del resto il controllo algoritmo (e i vari controlli dei dispositivi di sorveglianza), costa meno rispetto al controllo giuridico, e “spinge prepotentemente per lasciare la frontiera online e conquistare anche l’economia reale e i rapporti sociali materiali” (p. 29). E l’Italia sembra il posto ideale per sperimentare “offline la logica dell’online” (p. 30).

Il giurista Mattei è un grande studioso di sistemi sociali governati dal diritto e “il tasso di democraticità di una organizzazione sociale non è funzione del principio di maggioranza… ma è legato alle modalità di rispetto delle minoranze e dei dissidenti, coloro che apportano critica, non obbligatoriamente costruttiva, al pensiero dominante: quelli dalla parte del torto, che molto spesso tuttavia è la parte giusta della storia” (p. 13). Quindi bisogna continuare a garantire a tutti i costi, “il diritto di essere contro” e la “protezione costituzionale di natura qualitativa della minoranza dissenziente” (p. 30).

Di solito oggi si considera la storia in maniera distorta, ambigua e controproducente. “Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, per esempio, anche nell’ideologia occidentale dominante il dopoguerra, quella angloamericana, si è cominciato a confondere la nozione di opposizione con quella di slealtà, attraverso una torsione di senso che ha prodotto un arretramento democratico che ha allineato l’Occidente all’ideologia giapponese dell’era Meiji” (p. 14). Però il pensiero critico è un bene comune “capace di contribuire davvero alla produzione di intelligenza collettiva al servizio del miglioramento delle condizioni di tutti”. Il narcisismo sociale è deleterio quanto quello personale (p. 31 e p. 32).

A quanto pare certe questioni sono chiare solo per chi vuole vederci chiaro. “Il pensiero neoliberale impostosi come pensiero unico alla fine della Guerra Fredda si è tramutato in un vero e proprio dispotismo occidentale, travolgendo ogni principio giuridico. Un oligopolio mondiale di poche corporation controlla, con complessi sistemi di scatole cinesi, praticamente ogni potere globale estraendo immensi profitti” (conclusioni finali).

 Ugo Mattei è professore emerito di Diritto internazionale presso l’Università della California, e Ordinario di Diritto civile all’Università di Torino. Essendo un avvocato cassazionista, ha patrocinato per due volte il referendum sui beni comuni presso la Corte Costituzionale. Inoltre ha pubblicato oltre venti libri, che sono stati tradotti in molte lingue. 

Nota aforistica e non solo – Come disse Napoleone, “Le persone difendono più i loro interessi, che i loro diritti”; “A nessun uomo libero dovrà mai essere escluso l’uso delle armi. Il motivo più forte per cui mantenere il diritto delle persone di possedere armi è come l’ultima risorsa per proteggere sé stessi contro la tirannia del governo” (Thomas Jefferson, 1743-1826, politico e scienziato). Quindi, “Se vogliamo continuare l’avventura della conoscenza, aspettiamoci l’inatteso” (Eraclito), ma “Il crimine lo ha fatto colui a cui giova” (Seneca). Senza ombra di dubbio appare quindi che “La verità è sempre rivoluzionaria” (Antonio Gramsci, p. 44).

Nota chiarificatrice – Il professor Mattei è contro “un farmaco che notoriamente non difende contro il contagio delle attuali varianti, facendomi tuttavia correre rischi non trascurabili per la salute… l’amministrazione universitaria torinese non ha alcun titolo per chiedermi nulla e avrebbe dovuto rispettare la mia privacy sanitaria” (premessa).

Nota legale – Purtroppo “Larga parte dei magistrati, per opportunismo o mancanza di pensiero critico, si adegua, pur di fronte alla scempio palese di principi che pur continua a professare” (p. 220). E “Il lettore dotato di qualche cultura ben sa che sul frontespizio del celebre Leviatano di Hobbes, intorno al mostro ci stanno i medici della peste, a imperituro ricordo di come l’epidemia determini la cessione della sovranità di ciascun individuo al potere assoluto” (p. 236).

Le Università.

Così l'università è diventata il regno del conformismo. L'ex tempio della ricerca oggi è ormai un'istituzione ideologica al servizio delle battaglie "corrette" e "verdi". I progetti di ricerca? Tutti di sinistra. Carlo Lottieri il 20 Agosto 2023 su Il Giornale.

Qualche giorno fa, in un programma televisivo, la biologa Antonella Viola (già messasi in mostra nel biennio pandemico) s'è presa la licenza di negare credibilità scientifica ad Antonino Zichichi per le sue tesi sul cambiamento climatico. Che ne può sapere di tali questioni chi studia linfociti e membrane cellulari? Nulla, ma in questo come in altri casi probabilmente era necessario allinearsi alle parole d'ordine prevalenti. Perché uno dei tratti essenziali di chi oggi di professione fa lo studioso sta proprio nella sua vocazione a rimanere nel gregge.

Le ragioni sono note. Ogni sistema di potere poggia sul controllo della forza, ma al tempo stesso il ricorso alla violenza deve essere limitato. Per conseguire questo risultato è indispensabile che vi siano istituzioni prestigiose che legittimano lo status quo agli occhi dei cittadini. In altre parole, ogni regime politico ha bisogno di apparati ideologici al proprio servizio e oggi le università sono in larga misura proprio questo.

Nate in età medievale quali spazi di ricerca gestiti direttamente dagli studenti oppure dai docenti, nel corso dei secoli le università hanno perso in larga misura la loro indipendenza per diventare apparati statali: anche quando sono formalmente private (e questo perché ricevono fondi pubblici, pure negli Stati Uniti, e sono sottoposte a una rigida regolamentazione). È allora comprensibile che in una serie di questioni culturali e scientifiche non vi sia quasi discussione, e che anzi vi sia la metodica repressione delle voci discordanti.

Le origini di tale disastro sono remote. Nel pieno della Rivoluzione francese la Convenzione diede vita all'Institut de France, con l'idea di creare un vero «parlement du monde savant» (parlamento del mondo intellettuale). Le élites giacobine ritenevano indispensabile legare a sé artisti, letterati e scienziati, conferendo loro prestigio e prebende. Quell'operazione fu la rielaborazione di quanto già i monarchi in precedenza avevano realizzato, dato che l'Institut mise assieme accademie preesistenti: tra cui l'Académie Française (creata nel 1635 dal cardinale Richelieu, primo ministro di Luigi XIII) e l'Académie des Sciences (creata nel 1666 dal cardinale Mazzarino). Già la monarchia, d'altro canto, aveva assorbito le università e limitato alquanto l'autonomia della ricerca.

Le conseguenze del crescente controllo che i sovrani hanno saputo esercitare su idee e istituzioni culturali saranno rilevanti. Lo stesso Voltaire, scrittore per altri aspetti assai polemico, dopo avere passato un anno alla Bastiglia e dopo esser stato esiliato, sarà accolto all'interno dell'Académie française anche grazie a una sorta di campagna elettorale che il letterato stesso organizzò con efficacia: così da garantirsi una sinecura.

Pure nel dibattito italiano post-unitario, la visione dell'istruzione pubblica che s'impose fu basata sull'idea, per citare Francesco De Sanctis, che la missione dello Stato «è veramente di essere il capo, la guida, l'indirizzo dell'educazione e dell'intelligenza del Paese». Ben prima dei regimi autoritari e totalitari (prima di Andrei Zhdanov, Giuseppe Bottai e Joseph Goebbels) il potere sovrano aveva insomma compreso la necessità di controllare la cultura: a partire dalle università, naturalmente. L'operazione non è mai stata troppo difficile dato che, a loro volta, gli intellettuali hanno spesso subito il fascino dell'autorità.

Il servilismo degli intellettuali non è allora qualcosa che caratterizzi in maniera esclusiva il nostro tempo. È comunque vero che nelle società occidentali, grosso modo equamente divise tra progressisti e conservatori, l'accademia è quasi interamente schierata a sinistra. I motivi sono vari, ma certamente molto dipende dalla struttura degli atenei e dalle modalità che presiedono all'ingresso in università e al progresso della carriera.

Oggi chi voglia avere successo in università deve realizzare progetti di ricerca. Il risultato è che uno studioso è ormai ritenuto valido non tanto se scrive volumi o articoli innovativi e importanti, ma invece se ottiene finanziamenti da istituzioni ritenute prestigiose. Il guaio è che nei bandi di questi concorsi si pensi a quelli che dai noi sono probabilmente i più importanti, quelli Horizon Europe si trovano quasi sempre gli stessi temi: e naturalmente si tratta delle questioni care a chi comanda e al mainstream (genere, riscaldamento globale, razzismo e inclusione, ecc.). Le classi politiche finanziano la ricerca, ma nel farlo l'indirizzano verso esiti a loro favorevoli: che permettano un'espansione del controllo che esercitano su di noi. D'altra parte, quando nei bandi si focalizza sempre e soltanto l'attenzione su alcuni argomenti si sta già predefinendo l'esito delle ricerche stesse.

La situazione attuale è quindi caratterizzata da una ben precisa gestione politica della scienza: al punto che perfino un premio Nobel della fisica che avanzi perplessità sull'origine antropica del riscaldamento globale può essere censurato (com'è successo a John Clauser). Va poi aggiunto che ormai sappiamo che durante la pandemia funzionari dell'Fbi si recavano negli uffici di Twitter per accordarsi con i manager di quell'azienda in merito alle misure da assumere: con il risultato che perfino alcune ricerche pubblicate dal prestigioso British Medical Journal hanno subito una sorta di censura. Perché oggi il potere non è confinato nei palazzi governativi, ma conta su tutta una serie di tentacoli gestiti dagli uomini di affari e dagli intellettuali.

È insomma chiaro che ormai il mondo accademico non solo è uniforme nei propri valori e nei propri orientamenti culturali, ma è pure sotto scacco: con il risultato che pure chi volesse dissentire troverebbe numerosi ostacoli dinanzi a sé. In effetti, un giovane che voglia diventare professore deve prima entrare in un programma di dottorato, poi ottenere una posizione da ricercatore e infine diventare prima associato e poi ordinario. In genere concluderà questo percorso dopo avere compiuto cinquant'anni e in tutto questo periodo avrà dovuto evitare ogni contrasto con il proprio barone accademico, con il dipartimento in cui si trova a lavorare e con l'intera disciplina in cui si colloca (se studia diritto costituzionale, ad esempio, con l'insieme dei costituzionalisti più affermati). Il rischio è che alla fine, dopo decenni di necessarie autocensure, sia più un pollo da allevamento che non uno studioso determinato a seguire scienza e coscienza.

Che fare? La questione istituzionale è cruciale ed è quindi necessario che lo Stato si ritragga il più possibile dalle università. Ma è egualmente cruciale che ovunque anche fuori dalle cittadelle universitarie, se necessario s'imponga un modo di studiare e insegnare che abbia quale criterio soltanto la ricerca della verità, e che muova da un più che giustificato scetticismo verso tutte le parole d'ordine imposte dalla presente alleanza tra la politica, gli affari e le idee.

C-cultura. Ma il pensiero forte è sempre stato anti-accademico. Leopardi, Croce, Montale: è lungo l'elenco di chi ha fatto a meno della laurea...Giancristiano Desiderio il 20 Agosto 2023 su Il Giornale.

La storia della filosofia non riguarda l'università ma il carcere. La cosa può suonare strana ma l'origine stessa del pensiero come libertà e critica non è proprio la galera? Eh sì, Socrate, che è il filosofo per eccellenza, creò la filosofia come pensiero della vita libera rifiutandosi di dare l'anima al potere. Platone fu ridotto in schiavitù dal tiranno e Aristotele lasciò Atene per disse «evitare che pecchiate una seconda volta contro la filosofia». Questo in Grecia. In Italia? Sappiamo come e perché morì Giordano Bruno «academico di nulla academia» - mentre Tommaso Campanella passò più tempo dentro che fuori e Galileo Galilei abiurò per aver salva una vita che passò in gattabuia. Ma ecco il punto che vale la pena sottolineare nessuno di loro sapeva che farsene di carte e titoli di studio. Il padre della scienza sperimentale non era laureato: studiò a Pisa ma non riuscì ad ottenere una borsa di studio e solo grazie al padrino di battesimo del fratello Michelangelo riuscì a seguire i corsi. Poi lasciò Pisa per Firenze e quindi il padre lo rispedì a Pisa per fargli studiare medicina e invece lui seguì lezioni di matematica e di fisica e ne ricavò, autonomamente e contro gli studi accademici, quella che noi oggi chiamiamo scienza moderna. Il tutto senza laurea. Ma davvero c'è da meravigliarsi? Se la scienza per venire al mondo avesse dovuto attendere l'università non avrebbe fatto mai giorno, come diceva più o meno il poeta Rocco Scotellaro che, naturalmente, non era laureato. Tralasciamo Giacomino Leopardi le cui «sudate carte» e lo «studio matto e disperatissimo» non hanno nulla a che vedere con l'accademia e soffermiamoci di passata su Eugenio Montale. Forse, il maggior poeta italiano del secolo scorso che in Ossi di seppia diceva: «Codesto solo oggi possiamo dirti/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Sembra quasi un programma per tenere in non cale gli studi organizzati, istituzionalizzati, burocratizzati che tutto sono tranne che conoscenza. Infatti, Montale che fu poeta e critico e giornalista e tant'altro, non era laureato. Come non lo era Federico Fellini. Né Vittorio De Sica e per questa strada si potrebbe continuare a lungo.

Ed eccoci al punto: l'organizzazione statale degli studi, soprattutto in chiave monopolista, non va d'accordo con la libertà di pensiero che è per natura come si è ricordato con Socrate a guardia della libertà civile. Il maggior filosofo italiano del Novecento, Benedetto Croce, non solo non era laureato ma teorizzò con lucida consapevolezza la necessità di dar vita a un movimento di pensiero extra-accademico perché e lo diceva in una lettera del 1903 all'hegeliano Sebastiano Maturi «la filosofia richiede animi liberi» e non è roba da professori. Il sapere nasce fuori dalla cittadella accademica e l'università serve a replicare solo il già noto. Per tutta la vita Croce tenne fede a questa fondamentale esigenza di libertà e non confuse mai ciò che è pensiero e filosofia e scienza con le cattedre, le dispense, le carriere professorali. Quando, ai primi del Novecento, difese Giovanni Gentile che l'università di Napoli teneva alla porta, scrisse un opuscolo Il caso Gentile e la disonestà e nella vita universitaria italiana in cui arrivava ad accusare l'università di Napoli di camorra. Poi Gentile, si sa, riuscì ad entrare e fece carriera nell'università, forse anche troppa arrivando a sovrapporre filosofia e istituzione, pensiero e stato; tuttavia, anche la vita filosofica di Gentile, soprattutto per come morì, non la si può ridurre alla sua professione di professore di filosofia. In Croce, per altro, vi era proprio la netta distinzione tra filosofo e professore e, anzi, riteneva che il filosofo di professione, il filosofo puro, appunto, il professore di filosofia non poteva fare altro che cedere il passo al filosofo-storico ossia al filosofo che, forte delle sue esperienze reali riguardanti ora la poesia, ora la politica, ora l'economia, ora la morale, era in grado di giudicare gli atti umani concretamente senza cadere in vaniloqui o nella retorica e la pedanteria che sono tipiche espressioni dell'accademia italiana. Non deve essere per nulla un caso che un allievo di Gentile, che lo seguì a La Sapienza di Roma, è oggi riconosciuto come un importante filosofo italiano ma mai si laureò: Andrea Emo. Era veneziano, scrisse senza pubblicare e solo nel 1986 i suoi Quaderni finirono tra le mani di Massimo Cacciari che si rese conto del valore del suo pensiero che per statuto è anti-accademico. E Manlio Sgalambro? Non imparò di certo l'arte di pensare all'università. Si iscrisse pure a giurisprudenza ma «la filosofia la coltivavo già autonomamente. Mi piaceva il diritto penale e per questo scelsi giurisprudenza». Ma basta leggere uno qualunque dei libri di Sgalambro, a partire da La morte del sole per trovarsi dinanzi uno spirito che riguarda il mondo e non il mondo accademico. Del resto, l'ispiratore di Sgalambro è stato Schopenhauer che - amato da Anacleto Verrecchia, altro spirito anti-accademico, e da Sossio Giametta, anche lui estraneo al circuito dei professori senza filosofia nell'Ottocento fu un feroce critico dell'università, arrivando a dire che è la morte del pensiero. Arthur era invidioso di Hegel (che non era filosofo in quanto professore ma professore in quanto filosofo). Ma questa, come si dice, è un'altra storia. Giancristiano Desiderio

Ancora una volta l'ateneo è ostaggio dei "collettivi". I movimenti impedirono anche la visita di Ratzinger. E a pagare il conto sono i veri studenti. Francesco Giubilei il 4 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Mentre gli anarchici compiono attentati in giro per l'Italia colpendo commissariati, incendiando auto della polizia, minacciando le istituzioni e prendendo di mira le sedi diplomatiche all'estero, nella principale università pubblica italiana va in scena un'assemblea contro lo Stato. I movimenti Cambiare Rotta, Osa e gli anarchici hanno occupato la facoltà di Lettere e Filosofia de La Sapienza di Roma per solidarietà con Alfredo Cospito esponendo uno striscione sulla facciata: «Lettere occupata. Al fianco di Alfredo contro 41bis, ergastolo e ostatività».

«È stato detto che lo Stato non si arrende ma è solo grazie alla mobilitazione che siamo riusciti ad avere qualche cosa» ha affermato uno dei componenti dell'assemblea aggiungendo: «Gli anarchici non fanno trattative con lo Stato. Alfredo non fa trattative con lo Stato».

Non solo i veri studenti non hanno potuto utilizzare gli spazi dell'università perché occupati, ma addirittura è avvenuta un'assemblea in cui, a finire sul banco degli imputati, non è stato chi ha realizzato due attentati contro i Carabinieri e gambizzato l'Ad di Ansaldo nucleare, ma le istituzioni. Addirittura l'università è stata tappezzata di manifesti con la scritta «Chi sono gli assassini di Alfredo Cospito» e le foto, tra gli altri, di Mattarella, Cartabia, Nordio, Meloni. Invece di rappresentare un luogo di dibattito e confronto, in questi anni la Sapienza è stata spesso oggetto di occupazioni ed episodi di censura.

Il caso più eclatante riguarda Joseph Ratzinger. Nel 2007 papa Benedetto XVI fu invitato dal rettore a inaugurare l'anno accademico dell'Università ma, a causa delle proteste dei collettivi e di alcune associazione studentesche che occuparono la sede del Senato accademico e il rettorato, il pontefice fu costretto a rinunciare al suo intervento. Più di recente, a ottobre dello scorso anno, fu impedito lo svolgimento di una conferenza di Azione Universitaria sul capitalismo con ospite, tra gli altri, il giornalista Daniele Capezzone, accusato di fascismo. Al grido di «fuori i fascisti dalla Sapienza» sono avvenuti negli ultimi anni numerosi episodi: dai volantini strappati alle minacce dei collettivi «dovrei accoltellarti solo perché sei di FdI».

Chi siano i «fascisti» è presto detto: chiunque non sia d'accordo con i collettivi e sia contrario alle occupazioni. Se ogni scusa è buona per occupare (a marzo dello scorso anno il motivo era la guerra in Ucraina), questa volta si è superata una linea rossa che non andrebbe mai varcata ma che testimonia il carattere antidemocratico dei collettivi. Chi ci rimette, ancora una volta, sono tutti gli studenti costretti a sottostare ai diktat di chi non perde occasione per prendere in ostaggio le università addirittura solidarizzando con chi compie attentati. È ora di finirla.

Rigurgiti rivoluzionariterroristicoanarchici alla Sapienza di Roma. Federico Novella su Panorama il 7 Febbraio 2023.

Un microfono ha registrato le parole delle assemblee nella facoltà di lettere all'università di Roma, occupata dagli anarchici e dagli studenti che ripetono slogan cari agli anni di piombo. E da cui la sinistra non si è ancora dissociata come dovrebbe

Che cosa sta montando all’interno del mare magnum anarchicorivoluzionario? Vale la pena indagare, anche considerando cosa è riuscita a mandare in onda ieri sera la trasmissione “Quarta Repubblica” , su Rete4. Nell’ambito delle manifestazioni proCospito, i microfoni sono entrati in incognito all’interno di un’assemblea universitaria alla Sapienza di Roma. I proclami che ne sono usciti, al riparo dalle telecamere, hanno dell’inquietante. Ignari della registrazione, gli studenti hanno inneggiato ai terroristi rossi. “Alfredo Cospito è un caso esemplare – si sente dire dall’interno dell’università – E come lui sono stati ricordati i compagni delle Br che sono in carcere da 40 anni. Quello che è stato fatto negli anni ’70 e ’80 ha avuto tale valore che ancora adesso lo Stato” maledice “quelli che chiamano Anni di Piombo e che invece sono stati anni rivoluzionari”. E ancora: “Se Alfredo morirà sappiamo chi sono i responsabili. In quel caso la lotta continuerà, non finirà certo con la sua morte e sarà ancora più determinata. Chi sta dall’altra parte deve rendersene conto”. che una certa politica appoggia Queste sono le parole in libertà carpite tra i collettivi studenteschi, mentre è in corso un attacco anarchico internazionale alle ambasciate italiane. E su mentre Cospito si infiamma la polemica politica, dopo gli attacchi di Donzelli e la visita in carcere della delegazione Pd. Parole che pesano come pietre, e che si saldano a una galassia neo-rivoluzionaria pronta a tutto per scardinare le regole del 41 bis. Il punto è che di questa galassia non conosciamo ancora i contorni. E’ una miscela culturale intrisa di fanatismo e giustificazionismo, che trova sponde, spesso inconsapevoli, tra le file degli intellettuali che nei confronti del detenuto anarchico pretenderebbero l’indulgenza delle istituzioni. Servirebbero prese di posizione chiare, prima che la faccenda sfugga di mano. Strizzare l’occhio alla sinistra estrema è un gioco pericoloso. Chi dialoga con quel mondo? Chi ha rapporti con l’estremismo universitario? Chi è considera Cospito “un compagno che sbaglia” , un po’ come i brigatisti dei tempi d’oro del terrorismo? Anziché perdersi nelle polemiche di bassa lega del palazzo, esiste un universo politico-culturale che ha bisogno di un esame di coscienza. Deve guardarsi dentro, per capire se al suo interno ci sono ancora parassiti rivoluzionari che ancora nel 2023 non hanno studiato la storia più cupa del nostro Paese. E ancora oggi non sanno ciò che dicono.

Sapienza di Roma, ma cosa insegnano? È sempre Sessantotto. Corrado Ocone su Libero Quotidiano il 05 febbraio 2023

Dagli anni della contestazione ad oggi è passato mezzo secolo, il mondo ha cambiato volto. Tuttavia, il “lungo Sessantotto” italiano continua ancora. Almeno così vanno le cose alla Sapienza di Roma, la più grande università italiana. Oggi, come allora, un piccolo ma violento gruppo di studenti della sinistra estrema è in grado di tenere in scacco l’intero ateneo indirizzandone l’attività didattica e la stessa ricerca. Il tutto, va detto, con l’acquiescenza, che a volte è addirittura complicità, forse di una parte dei vertici e sicuramente degli stessi docenti (non di rado a loro volta attardati e nostalgici sessantottini). 

Il repertorio è quello classico, di sempre: occupazioni, sospensione delle lezioni, assemblee, atti di intolleranza e intimidazione nei confronti di chi pretenderebbe varcare il cancello dell’Ateneo pur non rispondendo a pieno ai rigidi canoni ideologici ammessi. Tante le vittime illustri a cui non è stato permesso di partecipare a dibattiti o di esporre serenamente le loro idee. Il caso più clamoroso di ostracismo resta quello che, nel gennaio 2008, impedì all’allora papa Benedetto XVI di tenere una prolusione (quella volta a fianco degli studenti e contro “l’antiscienza” -sic!- di Ratzinger scesero in campo ben 67 docenti, fra cui il futuro Nobel Giorgio Parisi). Come non ricordare poi, solo tre mesi fa, la squadristica operazione “antifascista” che ha impedito di prendere la parola in un dibattito ad un liberale doc come Daniele Capezzone?

RICATTI E INTIMIDAZIONI

Suona perciò ridicolo il nome “Cambiare rotta” di una delle due as sociazioni che, insieme ai collettivi anarchici, hanno in questi giorni risfoderato il loro vetusto armamentario occupando le aule universitarie in di fesa di un terrorista acclarato come Alfredo Cospito. Così come ridicolo, oltre che minaccioso ed inquietante, è stato il titolo del dibattito organizza to ieri mattina nell’aula 1 di Lettere occupata: «Il tempo delle parole è fini to». Il tutto condito da esecrabili mani festi contro i vertici dello Stato. Ma, giovani rivoluzionari immaginari, che rotta volete cambiare se giocate ancora a fare i trasgressivi e non vi accorgete di essere invece maledettamente conformisti, senza un mini modi spirito critico? Conformisti violenti e intolleranti, per giunta, fautori di un “pensiero unico” che vorreste semplicemente sostituire a quello che secondo voi dominerebbe la nostra società capitalistica. Le Università nacquero e si svilupparono nel tardo Medio Evo rivendicando, ed ottenendo, autonomia e indipendenza dal potere. 

Lo fecero per essere un luogo ove le idee potessero confrontarsi liberamente col dialogo e nessuna potesse imporsi con la forza? Qui ora l’autonomia e l’indipendenza vengono rivendicate invece per presidiare quasi militarmente i luoghi fisici dell’Ateneo e impedire alle Forze dell’ordine di ristabilire un minimo di normalità democratica. La pretesa è quella di costituirsi come una comunità chiusa e intollerante in lotta contro le leggi dello Stato democratico.

Da qui i ricatti, le intimidazioni, l’imposizione di un canone di fanatismo e intolleranza. La grande assenza ancora una volta è quella del corpo docente, che non ha avuto in tutti questi anni e non ha ora il coraggio di dire una parola chiara ed univoca in difesa dell’Università come luogo di libertà e palestra di democrazia, nonché dello Stato che garantisce oggi in Italia questi beni inalienabili. Non si tratta però solo di una mancanza di coraggio, ma anche di una certa comprensione delle azioni di questi facinorosi, dell’appartenenza che non pochi docenti sentono nel profondo (anche se non esplicitano) ad un comune brodo di coltura, o si si preferisce ad una stessa famiglia.

BENZINA SUL FUOCO

In molti ancora oggi sono convinti che anarchici e sovversivi vari siano solo compagni che sbagliano metodo di lotta. E in molti giudicano le Forze dell’ordine non espressione della Repubblica ma di un presunto italico “fascismo eterno”. Che quello che dico non sia esagerato lo si capisce frequentando un po’ le aule universitarie, oppure semplicemente dando una scorsa ai programmi di studio di molte facoltà umanistiche. Il problema è che, come la storia degli “anni di piombo” ci insegna, la situazione può all’improvviso degenerare. Alla vigilanza dello Stato, dovrebbe unirsi l’unità delle forze politiche in sua difesa. L’impressione, purtroppo, è che l’opposizione, pur di colpire il governo, stia in questi giorni contribuendo a gettare benzina sul fuoco. Non è un buon segno.

Gli universitari italiani non stanno con Cospito. Di Filippo Mosticone su Culturaidentità il 3 Febbraio 2023

Giovedì sera i collettivi di Sinistra hanno occupato la facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza di Roma in solidarietà di Alfredo Cospito.

Al fianco di Alfredo contro 41bis, ergastolo e ostatività”. Così recita lo striscione appeso sul muro dell’edificio, insieme a graffiti con scritte che parlano di “stato assassino”, dicendo che “tutta La Sapienza è contro il 41bis”. Resteranno fino a Sabato, quando usciranno per il corteo che a Roma riunirà organizzazioni della sinistra extraparlamentare e dei centri sociali.

A raccogliere la voce degli studenti che non si sentono rappresentati dai soliti compagni che, spalleggiati da una sinistra complice, continuamente abusano delle Università come fossero la loro zone franche, è il Presidente di Azione Universitaria Nicola D’Ambrosio:

Stamattina gli studenti sono stati privati dei loro spazi a causa dell’ennesimo abuso degli attori di una sinistra a cui, al contrario di come professa, poco realmente sta a cuore il loro interesse.

Ad occupare la facoltà di Lettere della Sapienza in solidarietà dell’attentatore e gambizzatore anarchico Alfredo Cospito, sono gli stessi “studenti” che mesi fa, a pochi metri da lì, tentarono di forzare un blocco della Polizia al grido “fuori i Fascisti dall’Università” per impedire un convegno regolarmente autorizzato da Azione Universitaria. 

Le stesse sigle che rivendicano sui social gli assalti alle nostre iniziative in Sapienza, si arrogano la presunzione di imbrattare i muri della città universitaria scrivendo, come recita una delle tante oscenità apparse, che ‘La Sapienza è contro il 41bis’: noi di Azione Universitaria, che invece di giocare a fare la rivoluzione viviamo l’Ateneo a diretto contatto con i nostri colleghi, possiamo testimoniare con certezza che non tutti gli universitari sono a favore dell’occupazione ed, anzi, si tratta della iniziativa di una sparuta minoranza di soliti noti. 

La stragrande maggioranza della comunità universitaria, come noi, è convinta che gli atenei debbano rimanere luoghi liberi da imposizioni politiche, aperti al confronto e al dialogo accessibili a ogni tipo di pensiero.  Ciò che gli studenti chiedono a gran voce sono i mezzi che garantiscano il diritto allo studio e premi al merito che stimolino l’impegno, non di certo la liberazione di un criminale anarchico incitatore della violenza a oltranza, cosa che nulla ha a che fare con i loro quotidiani problemi. Davanti a questa ipocrita violenza ci aspettiamo la ferrea presa di posizione da parte delle istituzioni, di tutto il corpo accademico e di quegli esponenti della sinistra sempre pronta a dichiararsi paladina di libertà e giustizia, il loro silenzio sarebbe sintomo di complicità”.

Questa ed altre vicende testimoniano che gli inviti incitanti alla violenza oltranzista che negli anni Cospito ha lanciato dal carcere agli anarchici di tutto il mondo, rivendicati più volte, pare siano stati recepiti: a Bologna i telefoni delle redazioni squillano con annunci di attentati, le nostre diplomazie all’estero sono prese d’assalto. 

Solo questo basterebbe a mettere a tacere gli appelli al ministro Nordio degli artisti e dei deputati della Sinistra (solo ora all’opposizione stranamente interessatisi al caso) che millantano la sproporzione della misura, volta ad impedire che il detenuto possa manovrare l’organizzazione criminale dal carcere.

Bene ha fatto il Presidente Meloni a ricordare a questi soggetti che, per fortuna, viviamo in un paese in cui la decisione sulle sorti di un detenuto spetta alla giustizia, non al governo, e che un paese serio non può arretrare di un centimetro alle azioni premeditate e autoinflitte di un criminale dichiaratamente in lotta aperta con lo Stato, che non ha colore politico.

Gli attori di questa Sinistra sconfitta farebbero bene a non confondere le sorti della loro fazione a quelle della Nazione.

La protesta e le parole della docente Donatella Di Cesare. La prof della Sapienza: “I miei studenti hanno fatto bene a occupare, questo governo specula sugli anarchici”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 5 Febbraio 2023

«Sto con i miei studenti». Donatella Di Cesare, titolare della cattedra di filosofia teoretica a La Sapienza, plaude all’occupazione di Lettere a La Sapienza di Roma e affida al Riformista un appello alle opposizioni, perché tornino a far sentire la loro voce contro l’anacronismo odioso del 41bis.

Veniamo alla sua Sapienza, alla sua facoltà. Cosa sta succedendo?

Gli studenti stanno occupando la facoltà di Lettere. E io sono con loro. Protestano per come lo Stato sta trattando Alfredo Cospito e hanno ragione. Stanno dando un segnale molto positivo, stanno rispondendo con la loro mobilitazione e la loro sensibilità a uno Stato che fa giustizia con l’ingiustizia. E con loro dico: non si fa giustizia in questo modo.

Una occupazione episodica o tutto è destinato a diventare un movimento?

È una partecipazione diffusa, un desiderio di farsi ascoltare di questa generazione che nello spazio pubblico non ha possibilità di esprimersi. Sento un fermento, una energia che fanno ben sperare.

Va abolito il 41bis?

Basta con queste sigle: con 41bis le persone non sanno bene cosa si intende. Murare viva una persona, seppellirla, ridurla a oggetto deumanizzato è una forma di tortura bianca. Una forma di tortura violentissima e ignominiosa per lo Stato che la esercita. Va detto chiaro e tondo: con 41bis non si parla di carcere ma di un modo di deumanizzare i detenuti che è inconcepibile nell’Italia del 21mo secolo. Ed è una misura eccezionale, nata come provvedimento temporaneo per contrastare le stragi di mafia del 1992. E siamo nel 2023.

Anche se la mafia non fa stragi, è ancora viva e vegeta. Come si conciliano diritti e contrasto alla criminalità organizzata?

A proposito di mafia: io penso che questo modo di combattere la mafia, pensando che il 41 bis sia uno strumento, è sbagliatissimo. A mafia e ‘ndrangheta non si deve fare la guerra con il carcere duro ma con l’educazione, la cultura e il lavoro. I modelli repressivi non hanno mai portato a nulla di buono.

E nel caso specifico di Alfredo Cospito?

Cospito non merita in nessun modo il 41bis. È assurdo che sia stato messo in quel regime, chi può lo revochi con urgenza. Altrimenti dobbiamo pensare che Cospito viene punito in questo modo non perché è pericoloso ma perché è anarchico. Non vorrei pensare che si voglia alzare solo un polverone contro la galassia anarchica, che si voglia fare degli anarchici il nuovo mostro.

Lei ha scritto tanto sulla polarizzazione necessaria a mantenere il potere. È il caso del governo Meloni?

Questo governo a me sembra che voglia polarizzare moltissimo, spaccare l’opinione pubblica, radicalizzare le posizioni dividendo in bene e male. Anziché affrontare i tanti problemi veri del Paese cosa si fa? Si parla di fantomatici nemici, di pericoli immaginari, perfino mettendo in una unica alleanza anarchici e mafiosi. Grottesco. E irricevibile.

Il nuovo nemico pubblico, diceva, sono i gruppi anarchici?

Sì, oggi gli anarchici sono il nemico pubblico. Come i migranti. Sono una incarnazione del nemico che serve a rinsaldare il consenso di chi ha il potere. Ed è molto inquietante, tenendo presente anche il precedente che va dalla fine degli anni Sessanta agli anni Settanta. Per questo ritengo che Cospito vada liberato dal 41bis e che venga ricondotta la dialettica alla civiltà dello stato di diritto. In questo Cospito sta compiendo un gesto politico, perché protestando per l’ingiusto 41bis solleva un caso che riguarda molti.

Il disegno politico quale sarebbe? A chi giova il martire Cospito, se non a esacerbare i toni dello scontro?

Credo che si sia sottovalutata la spietatezza e una certa dose di sfrontatezza di questo centrodestra e del partito che sostiene Giorgia Meloni in particolare. Non hanno la finezza politica di capire che se rinfocolano la rabbia è difficile tenerla sotto controllo. Viene da chiedersi se in fondo non credano in questo modo di avere un ritorno di consenso, facendo leva sulla paura in chiave di repressione di un pericolo immaginario.

Un problema che le opposizioni affrontano con debolezza?

Sono sconfortata in particolare dalla tiepida reazione del Pd. Che sul 41bis non riesce a far apprezzare una differenza sostanziale dalla destra. Ed è una cosa che mi dispiace molto. Spero che vogliano farsi sentire, che Pd e opposizioni vogliano unire le loro voci a chi chiede diritti e giustizia vera. Non è questa, in fondo, la ragion d’essere della sinistra?

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Così il conformismo di sinistra si è preso le università italiane. Per gentile concessione della casa editrice Lindau pubblichiamo un estratto del nuovo libro di Giulio Meotti, I nuovi barbari. Giulio Meotti il 19 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Per gentile concessione della casa editrice Lindau pubblichiamo un estratto del nuovo libro di Giulio Meotti, I nuovi barbari (128 pagine, prezzo €14.00)

Una volta Gustav Herling, lo scrittore polacco che visse in Italia, autore di Un mondo a parte, straordinario resoconto del Gulag staliniano, disse: «La dittatura culturale, dittatura tout court, c’è stata in Polonia. In Italia ha prevalso la tranquillizzante abitudine alla reticenza. Basta fare il vuoto attorno, non parlarne. Un clima omertoso che nasconde ugualmente tratti odiosi».

Nelle nostre università dilaga la moda anglosassone degli «studi postcoloniali e di genere», il fiore all’occhiello dell’ideologia woke. L’Orientale di Napoli ha un Centro studi ad hoc, l’Università di Bologna ha corsi e dipartimenti, la Sapienza di Roma ha un Osservatorio scientifico sulla ricerca di genere, all’Università di Catania c’è il Centro interdisciplinare studi di genere, c’è il Centro di ricerca culture di genere all’Università di Milano, il Centro interdipartimentale di ricerca studi di genere all’Università di Padova e il Centro studi interdisciplinari di genere all’Università di Trento, solo per citarne alcuni. La Bicocca di Milano ha organizzato un ciclo di seminari dal titolo Decentrare i saperi. Un’introduzione al pensiero decoloniale. E alla Cattolica di Milano (che di cattolico ormai ha solo il nome) si tengono cicli di conferenze a favore di Black Lives Matter. L’esito di questo avanzo di cultura si può vedere, se non si vuole arrivare in America, in Francia, dove nel giugno del 2022 è stato organizzato un convegno su «Giovanna d’Arco icona transgender e liquida».

Abbiamo anche visto l’Università Bicocca cancellare un corso su Dostoevskij. La cancel culture divampa anche nel mondo della musica classica italiana. Il soprano Tamara Wilson si è rifiutata di tingersi il volto di nero per interpretare il ruolo della principessa etiope Aida all’Arena di Verona. Al Maggio fiorentino hanno cambiato il finale della Carmen di Bizet, che si ribella e spara a don José, in omaggio al movimento americano #MeToo. Al Macerata Opera Festival l’Aida è stata reinterpretata come «lotta contro il colonialismo occidentale». A Trapani hanno optato per un Moro bianco per l’Otello di Verdi. Il Lago dei Cigni è stato cancellato a Vicenza, Napoli e Ferrara, la Dama di picche a Bari e Firenze.

Rotolano le teste dei docenti. Ha pagato caro la cancel culture il fisico Alessandro Strumia, che in un workshop al Cern di Ginevra ha detto: «C’è una cultura politica che vuole sostituire competenza e merito con una ideologia della parità». Strumia aveva fatto un attacco alla diversity americana. Si è visto sospendere dall’Istituto italiano di fisica nucleare (Infn), che ha così argomentato: «L’Infn ha deciso di procedere alla sospensione immediata con la motivazione che il professor Strumia ha fatto, per di più in un contesto pubblico internazionale, affermazioni lesive dell’immagine dell’Ente».

Misura disciplinare analoga contro Strumia da parte del Cern. Anche l’Università di Pisa, dove insegna, ha disposto un «procedimento etico» contro il fisico. Ha ragione Strumia quando scrive che «c’è un’industria di attivisti che lavorano sui media per dipingere la loro ideologia come scienza».

Cosa aspettarsi? Un’editoria che coltiva la piaggeria intellettuale, una università sempre più prona ad accogliere parole d’ordine e idee del mondo anglosassone, meschine persecuzioni contro chi dimostra troppa libertà di carattere e pensiero, campo aperto per le forme di censura sperimentate all’estero.

Perché dobbiamo tutti dimostrare di pensare come gli altri, così prendiamo in prestito parole d’ordine che saranno viste come segni di mobilitazione e fedeltà al regime. Anche chi devia discretamente dall’ortodossia deve prima praticare la genuflessione davanti alle parole d’ordine (clima, migrazioni, inclusione, diritti), denunciare ritualmente i nemici del regime. Ciò che ha fatto la nostra civiltà non è più difendibile se non passando per «conservatori» o «reazionari».

Francesco Coniglio.

(ANSA venerdì 7 luglio 2023) -  È morto Francesco Coniglio, editore, curatore editoriale e noto esperto di fumetti, per i quali aveva anche fondato una delle prime scuole, a Roma, il Laboratorio del Fumetto. Genovese di nascita era cresciuto a Roma, dove viveva, aveva 66 anni. 

Nel 1977, con altri appassionati di cinema, ha dato vita a Roma all'Officina Filmclub. Tra le tante attività, nel 1989 ha fondato a Roma, con il fumettista Silver, la casa editrice Acme, che ha pubblicato varie testate da edicola fra cui Lupo Alberto, Cattivik, Splatter, Mostri e Torpedo.

Poi con Blu Press e con il mensile Blue, in cui ha proposto opere a fumetti di argomento erotico e dove appaiono lavori di artisti come Milo Manara, Paolo Eleuteri Serpieri, Massimo Rotundo, Filippo Scozzari, Massimo Mattioli, Roberto Baldazzini, Giovanna Casotto, Laura Scarpa e Gipi. 

Dal 1997 al 2000 è stato condirettore della casa editrice Castelvecchi (fondata nel 1993 da Alberto Castelvecchi) - (RPT Dal 1997 al 2000 è stato condirettore della casa editrice Castelvecchi (fondata nel 1993 da Alberto Castelvecchi) - che ha lanciato autori come Aldo Nove, Isabella Santacroce e il collettivo Luther Blisset.

Nel 1998 è stato poi fra i promotori di Macchia Nera, con cui viene pubblicato, tra l'altro, Lupo Alberto, I Simpson e Strangers in Paradise, e di Mare Nero e che ha editato il mensile X Comics e titoli di fumettisti come Riccardo Mannelli, Franco Saudelli, Carlos Trillo, Georges Wolinski e Ralf König. Nel 2002 ha quindi fondato la Coniglio Editore, il cui catalogo conta, oltre a svariati volumi a fumetti, decine di titoli di narrativa, poesia e saggistica, con un deciso occhio di riguardo per la musica leggera italiana. 

Riccardo Mannelli per il “Fatto quotidiano” il 10 luglio 2023.

Appena sveglio stamattina presto scrivo di getto: Francesco. Una montagna di umanità. La mia montagna incantata con cui ho giocato per quasi mezzo secolo... Poi, quando già le mie parole rimbalzano sui social ripenso al mio amore per la montagna che ho sentito fin da bambino; un sentimento totale, miscuglio misterioso di ammirazione, rispetto, stupore, invito all’avventura e nello stesso tempo alla tranquillità. 

La tranquillità perfetta che ti invade quando la naturalità ti sovrasta: sei annullato in un abbraccio, sei protetto. Francesco lo conosco appena arrivo a Roma in pianta stabile, nel ’78. Viene a trovarmi per propormi subito di fare qualcosa insieme mettendomi in mano qualche copia del giornalino che già editava, L’URLO; io sono ancora scombussolato dai primi turbolenti mesi romani che mi hanno portato a lasciare la redazione del MALE, cioè il motivo principale per cui sono venuto qui... insomma colgo subito l’occasione per avere altre prospettive.

Il fatto è che Francesco mi conquista subito, per la qualità dei giudizi, per la competenza con cui descrive l’ambiente editoriale, non solo romano – per me ancora molto nebbioso e imperscrutabile – e soprattutto per la sua capacità di iniziativa. Ao’, ma sto ragazzo non ha ancora vent’anni e mi propone ’na montagna de robba. Dopo un po’, forse a una delle prime cene, fra le duecentomila fatte insieme, viene fuori anche una montagna di musica, Beatles in vetta. È fatta.

Con Francesco condivido tutta la mia vita adulta, per me un punto di riferimento umano, culturale e professionale, condividendo l’idiosincrasia per il termine “professionale” e preferendo “passionale”. Francesco è riuscito a essere la stessa cosa per centinaia di persone che gli vogliono bene per gli stessi motivi; ha la calma irrefrenabile del visionario, la determinazione tranquilla di chi ha contezza delle proprie capacità. Ci seguiamo, per qualche anno anche a distanza, e lo vedo accendersi sempre di più, allargare le sue braccia per accogliere tutte le sue curiosità. 

Coniglio Editore e tutte le altre derivazioni accolgono e anticipano sempre tutte le diavolerie d’arte che salano la nostra terra. Ogni artista, ogni scrittore, ogni musicista, ogni sgangherato passionale gli deve qualcosa e lo riconosce senza imbarazzo. Non sono enfatico, sono innamorato. Della montagna, caro Francesco. 

Teresa Cremisi.

Estratto dell'articolo di Chiara Valerio per lastampa.it il 3 Febbraio 2023.

Teresa Cremisi è nata ad Alessandra d’Egitto, prima che il Canale di Suez fosse nazionalizzato […] Alla fine degli anni Ottanta lascia Milano per Parigi, dove dirige prima Gallimard e poi Flammarion. È attualmente, o è stata in passato, nei consigli d’amministrazione di importanti istituzioni francesi e italiane (penso alla Biblioteca nazionale di Francia, al Centro nazionale per la cinematografia, al Teatro La Fenice di Venezia), oggi è presidente della casa editrice Adelphi.

 Dal 2018 tiene una rubrica settimanale su Le Journal du Dimanche. Nei mesi scorsi sono stati ripubblicati il suo romanzo La Triomphante (Adelphi, traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala) e Il processo di condanna di Giovanna d’Arco da lei curato e tradotto (nel 1977) per Marsilio.

[…]

Il primo libro che ha scritto, Strangolata con un portacenere (Bompiani, 1974), è una raccolta di titoli di giornale ritagliati dal ’70 al ’73. Sia nelle rubriche che nei ritagli rivela un certo gusto per l’assurdo e l’inaspettato.

«Non ho mai avuto ben chiari i fili che legano le cose l’una all’altra».

 […]

 Ritagliare i giornali?

«Avere occasione di ritagliarli. Per una ragione che ancora mi è oscura ricevevamo tutti i giornali, e devo dire che, a parte le grandi notizie, nelle pagine interne si sviluppava una specie di sarabanda di storie una più strana dell’altra, il gatto nascosto sotto l’altare in chiesa, la donna sfuggita a quattro assassinii... E la cosa più divertente erano i titoli dati dai direttori che forse non leggevano nemmeno gli articoli, prendevano tre o quattro elementi e sunteggiavano. Sunteggiate, le notizie assumevano una dimensione di puro Ionesco».

 La divertivano?

«Sì, ed evidentemente ero la sola perché nessuno, mi pare, protestava per la stranezza di quei titoli. Mentre facevo il mio lavoro, leggevo e ritagliavo, e dopo quattro anni mi sono ritrovata con buste intere di fogli di giornale. Ho buttato via quelli che alla rilettura erano meno impressionanti e ho cominciato a immaginare di farne un libro».

Una storia?

«Chiesi consiglio a Umberto Eco che all’epoca non aveva la fama ottenuta negli anni, ma era un grande semiologo ed era editore da Bompiani. Si entusiasmò e disse: “Non c’è bisogno di scrivere niente, ti faccio io la quarta di copertina e basta”. E così nacque Strangolata con un portacenere che non ebbe alcun successo».

 Un libro di culto, come molti nella varia Bompiani di quegli anni, penso a Come farsi una cultura mostruosa di Paolo Villaggio, del 1972.

«Dice?».

 […]

 Quindi?

«Ci pensi, non c’è niente di più comico di ciò che ci capita nei momenti che dovrebbero essere tragici. Certi autori, come Kundera, Yasmina Reza o Kafka, riescono a far ridere ai funerali. Mi divertono cose di questo genere».

 […]

 La complessità impone mediazione. Eppure le agenzie di viaggio sono sparite e quelle immobiliari pure. C’è l’home banking. Si va su Internet, si cerca, si trova, oppure no. L’editoria è un mestiere dove la mediazione ha ancora una funzione. Esiste l’autopubblicazione, ma è diverso: gli editori sono le agenzie di viaggio che ce l’hanno fatta.

«L’editore è un mestiere che è difficile definire, tant’è vero che io non riuscivo nemmeno con i miei figli. Una volta, cercando di fare a gara con i suoi amici che dicevano “mia madre è chirurgo”, “mia madre è avvocato”, mio figlio ha provato a spremersi le meningi e alla fine ha detto: “mia madre parla al telefono”. Tramite, filtro e agente lo sono anche i galleristi, i producer musicali; l’editoria ha qualcosa in più perché non crea solo il contatto tra l’artista e il luogo dove verrà esposto, ma anche un oggetto. E questo oggetto ha qualcosa di eterno. Ha qualcosa dell’eterno come la perfezione di una tazza: può deformare il manico, allargarla, ma una tazza è sempre una tazza e un libro è sempre un libro».

 Ritagliare giornali, selezionare episodi e scriverne settimanalmente, curare libri e autori, la tazza è sempre una tazza e il libro è sempre il libro e ha le pagine. Lei toglie dal flusso, dà ordine a ciò che pesca nell’insensatezza del mondo? Perché ha fatto l’editore?

«Lei è sulla strada sbagliata, non sono diventata editore per mettere ordine nell’insensatezza del mondo, ma perché le uniche persone che mi affascinano sono gli artisti e gli scienziati, e siccome non mi sentivo assolutamente capace di essere un artista o un grande scienziato, né Proust né Eratostene, ho pensato di vivere nel luogo dove potevo incontrare artisti e scienziati, la mia è una scelta di umiltà».

Non le sembra che mettersi al confronto con Proust ed Eratostene sia il contrario dell’umiltà?

«Se l’immagina uno che con un bastone, un’ombra e un pozzo misura la circonferenza della Terra? Non mi sono data pace dall’età di 11 anni per la disperazione di non essere così intelligente».

 […]

 L’Italia ad aprile sarà ospite d’Onore al Festival du livre a Parigi. Lei ha fatto l’editore in Francia per 35 anni. Differenze tra editoria italiana ed editoria francese?

«Una differenza macroscopica. La popolazione è più o meno la stessa, ma l’editoria francese pesa più di 4 miliardi di euro e quella italiana a stento due. Significa più del doppio, che vuol dire poi la possibilità di fare dei tascabili a 6, 7, 8 euro, di avere cioè una cultura del tascabile, per cui è molto più facile, molto più piacevole essere editore in Francia che in Italia. In compenso, e non so spiegarmi perché, l’editoria italiana permette nicchie di alta cultura, e ha un pubblico sapiente, tra le 6 e le 15mila persone, che possono comprare libri di saggistica di studio, scienze, di altissimo livello […]

Cosa pensa delle discussioni sull’inclusività della lingua?

«Nelle università statunitensi si costruiscono i bagni per chi non si sente né maschio né femmina. Nell’altra metà del pianeta gli uomini osano coprire le donne di veli neri, costringerle a lavori massacranti, ammazzarle di gravidanze, quando non le appendono a un cappio o non le lapidano. Cose che ci sono sempre state, ma si sono acuite. Io ho conosciuto bene il Medio Oriente, la vita delle donne era già infernale ma non così, è terribilmente peggiorata.

 Da un lato, dunque, si corre dietro alla lingua per farsi perdonare di avere impedito la nascita di geni femminili e dall’altro si riduce a mera sopravvivenza la popolazione femminile. Di solito la lingua segue, farla precedere è una forzatura. La lingua deve seguire. Allora lasciate che le bambine studino scienze, possano diventare grandi artiste e poi cambierà la lingua. Il contrario è una garbata illusione».

 Esiste una mistica della maternità?

«È una vera avventura quella data alle donne. L’idea di vedere questo essere che era te stesso e non lo sarà mai più, beh è folgorante. Io capisco benissimo che una neo-madre si spaventi, non lo voglia più, voglia rimandarlo indietro, rimetterlo nel limbo. Questa incredibile novità fa paura, ma le capisco. Se invece tutto va bene è una folgorazione. Io, nonostante le fatiche, nonostante la voglia di buttarli dalla finestra qualche volta, etc. li ho molto amati e mi hanno portato, credo, una vera conoscenza del mondo. Detto questo bisogna essere preparati, quando si è madri, dopo aver schiacciato sull’acceleratore della maternità, a togliere il piede dall’acceleratore e ad avere una vita normale».

 […]

 Qual è il suo rapporto col tempo che passa?

«Proficuo. Mi ha liberato dai sensi di colpa, continui. Da una impressione di inadeguatezza e illegittimità; ogni volta che mi proponevano un aumento di stipendio, un avanzamento professionale, un benefit di qualche tipo, mi affrettavo a rispondere no, no, non son degna. Era ossessione, non virtù. Da questo senso di illegittimità e dalla paura di assumere ogni volta un ruolo – di cui accettavo le responsabilità intellettuali, ma non i vantaggi – mi ha liberata il tempo».

Si è mai pensata una donna bella?

«No. Assolutamente. Anzi, quando ero carina cercavo di imbruttirmi, è più facile la vita per le donne non troppo belle».

Grazie Teresa Cremisi per non aver risposto a nessuna delle mie domande. 

Achille Mauri.

Estratto dell'articolo di Michele Serra per “la Repubblica” il 12 gennaio 2023.

 «Con lui non ci si annoiava mai». Essendo impossibile il resoconto, anche sommario, delle mille vicende editoriali, culturali e artistiche che lo hanno visto protagonista, valga come epitaffio di Achille Mauri - morto in Argentina a 83 anni al termine di una vita lunga almeno il doppio per quantità e qualità - questa breve frase del nipote Stefano.

 Ultimo dei cinque figli di Umberto Mauri e Maria Luisa Bompiani, Achille è stato l'esponente più irrequieto e avventuroso di una delle più importanti dinastie culturali italiane, nelle cui disponibilità fanno spicco la grande distribuzione libraria di Messaggerie Italiane e uno stuolo di case editrici (quasi venti, dalle grandi alle piccole), cognomi illustri e molto milanesi intrecciati in un impareggiabile viluppo parentale e imprenditoriale, Mauri-Bompiani-Spagnol- Ottieri-Zanuso, sperando di non avere dimenticato nessuno.

In un'intervista di pochi anni fa su Robinson , Antonio Gnoli lo definì «la pecora smarrita e ritrovata, la deviazione dall'algoritmo ». Ma a leggere le sue note biografiche il rischio di smarrirci è solo nostro. Dall'editoria al cinema, dalla scrittura alla produzione televisiva, dai documentari alle arti visive, non c'è esperimento che Achille Mauri abbia voluto trascurare, come se nessun aspetto della seconda metà del Novecento fosse inutile o immeritevole, dalla neoavanguardia letteraria del Gruppo 63 (fu molto legato ad Angelo Guglielmi e Nanni Balestrini) al Festival rock del Parco Lambro (fu tra gli organizzatori), dall'introduzione del chroma key nel varietà televisivo ai primi audiolibri, dai documentari sull'Africa (fu un grande viaggiatore) alla strenua valorizzazione dell'opera del fratello Fabio Mauri, uno dei grandi protagonisti dell'avanguardia italiana. Come se la cultura fosse una sola, nonché la sola cosa per la quale valesse la pena vivere, e battersi. Dovunque fosse necessario inseguirla. (...)

In piena crisi dell'editoria, una decina di anni fa, al seminario veneziano della Scuola Librai Umberto ed Elisabetta Mauri, della quale Achille era presidente, Umberto Eco prese la parola per dire che il colpo d'occhio era molto rinfrancante. Difficile parlare di crisi in quei luoghi (la Fondazione Cini, l'isola di San Giorgio) e godendo di un'ospitalità così sontuosa. Gli dissero altri della famiglia Mauri, dopo il suo intervento: tu non conosci Achille, la sua ospitalità sarebbe identica anche se fossimo sull'orlo della bancarotta Niente a che vedere, insomma, con la giudiziosa conta che tocca fare ai manager, o con il calcolo che fa da guida a qualunque scelta. Achille Mauri è stato uno degli ultimi editori/artisti, o imprenditori/intellettuali, del paesaggio culturale italiano.

«Achille non ha mai detto di no a nessuno», ricorda chi lo conobbe bene, «anche quando non c'erano le condizioni materiali per dire di sì». Straordinario per accoglienza, generosità, apertura mentale, aveva un ottimismo di fondo irriducibile, quasi un'ingenuità, ed è questa la sua sola attitudine che lo rendeva meno contemporaneo, essendo i tempi pesantemente segnati dal pessimismo.

Andava molto d'accordo con un'altra grande milanese d'adozione, Inge Feltrinelli, teoricamente sua "concorrente", nella vita sua amica e sodale, con la quale condivideva la passione per la mondanità e per l'incontro, l'energia vitale, l'idea (folle?) che cultura e bellezza avrebbero comunque avuto la meglio su qualunque congiuntura, e sorpassato qualunque sprofondo. Mancherà molto, a chi lo ha conosciuto, questa sua fondamentale, irresistibile ingenuità novecentesca, nata in un secolo nel quale tutto era considerato possibile.

 Achille Mauri ha scritto (per Bollati Boringhieri) due libri: Anime e acciughe e Il paradosso di Achille. Leggerli, o rileggerli, sarà il modo migliore per accompagnarlo. Tutto, in lui, parlava di vita.

Liberilibri.

Nicola Porro acquisisce (in società) la Liberilibri. Matteo Sacchi il 28 Aprile 2023 su Il Giornale. 

Se c'è una casa editrice italiana che negli ultimi anni ha favorito la diffusione del pensiero liberale è la piccola, ma combattiva e curatissima nelle sue edizioni, Liberilibri.

Liberilibri è nata nel 1986 su iniziativa di Aldo Canovari, imprenditore nel settore energetico e grande liberale. Avvertendo una cultura egemonizzata dalla sinistra, Canovari avviò un'impresa da mecenate per portare in Italia classici, del pensiero libertario, fino ad allora mai tradotti in italiano a partire dal Discorso sul libero pensiero di Anthony Collins. In più di trent'anni di attività, ha dato vita ad un corposo e prezioso catalogo di oltre 300 volumi. Tra i suoi principali autori si annoverano: Ayn Rand, Étienne de La Boétie, Voltaire, Edmund Burke, Carl Menger e Murray Rothbard. E anche grandi liberali italiani come Bruno Leoni, Antonio Martino, Francesco Cossiga, Carlo Nordio. La mission della casa editrice resta la stessa anche ora che, dopo la morte Canovari, è stata acquisita da un gruppo di amici della Liberilibri, tra i quali il vicedirettore de Il Giornale e giornalista televisivo Nicola Porro. In questo nuovo contesto l'amministratore e direttore editoriale della casa editrice rimane Michele Silenzi che ricopre questo ruolo da 5 anni. Il nuovo presidente del cda è Luigi Scarfiotti. La novità è che Liberilibri invita i suoi lettori ad aderire a un nuovo progetto editoriale giocando la carta dell'abbonamento. Per chi lo sottoscrive dieci novità all'anno spedite direttamente a casa e il 30% di sconto sull'intero catalogo. Insomma un ingresso privilegiato alla cultura della libertà a chi si attiva per sostenerla.

Come spiega Nicola Porro: «Si tratta sia di un classico abbonamento sia di un modo per sostenere con un'azione di mercato una casa editrice che ha fatto della battaglia per il libero pensiero e per la libera azione degli individui la propria cifra distintiva. Una battaglia che richiede mezzi maggiori per essere proseguita e ampliata ma che richiede soprattutto il coraggio e la curiosità di servirsi della propria intelligenza contro il conformismo dilagante. Un conformismo che ha i tratti di un totalitarismo bonario».

E aggiunge a Il Giornale: «Vediamo delinearsi l'inquietante ombra di un'ideologia unica che mina la libertà di parlare e, quindi, di pensare. L'ultimo baluardo sono i libri. Per questo quando Aldo Canovari, già molto malato mi ha chiesto di entrare nella casa editrice l'ho fatto. L'idea è di creare una community attorno a queste idee».

Adelphi.

Estratto dell'articolo di Mario Baudino per la Stampa il 27 aprile 2023.

Fu Guido Davico Bonino a fornire – in un ricordo per un convegno della Fondazione Mondadori i cui atti furono nel 2004 col titolo “L’agente letterario da Erich Linder a oggi” – una di quelle immagini chiave che segnano e riassumono al di là di molte analisi storiche il successo e anzi la centralità dell’Adelphi. Erich Linder è stato l’agente letterario più importante d’Italia, e come disse Roberto Calasso, «forse del mondo», e finché visse fu molto vicino alla casa editrice, visto che era uno di famiglia. 

Aveva infatti, per così, dire ereditato l’Ali, l’agenzia letteraria fondata da Augusto, padre di Luciano Foà: e cioè di uno dei due creatori, «fratelli» appunto, l’altro era il triestino Bobi Bazlen, del marchio editoriale, nel 1962. Ma torniamo all’Einaudi, negli Anni Ottanta, dove Davico Bonino, segretario generale, ha la brutta notizia (da Linder) che Alberto Arbasino cambierà editore. «Da voi non farà mai niente» si sente dire, e ci resta male. «Ma scusi - prova a replicare -, è un nostro amico, l'abbiamo preso volentieri». «Sì, sì... – è la risposta definitiva - ma voi non siete abbastanza snob per venderlo».

Aveva ragione, commenta Anna Ferrando in un corposo volume edito da Carocci, titolo “Adelphi, Le origini di una casa editrice (1938 – 1994)”. Le date indicano una gestazione molto lunga, 24 anni: la studiosa ricostruisce infatti quella sorta di preistoria in cui, dall’amicizia tra Foà e Bazlen, nacque a poco un’idea che non pareva così nuova, ma si rivelò di enorme successo molto tempo dopo. E’ quella che riassume bene Roberto Calasso (del quale, ricordiamolo, è appena uscito un nuovo libro postumo, L’animale della foresta, dedicato al giovane Kafka) precoce e ancora giovanissimo direttore editoriale, in “L’impronta dell’editore”: «Quando Bazlen mi parlò per la prima volta di quella nuova casa editrice che sarebbe stata Adelphi – posso dire il giorno e il luogo, perché era il mio ventunesimo compleanno, maggio 1962 - accennò subito all’edizione critica di Nietzsche e alla futura collana dei Classici.

E si rallegrava di entrambe. Ma ciò che più gli premeva erano gli altri libri che la nuova casa editrice avrebbe pubblicato: quelli che talvolta Bazlen aveva scoperto da anni e anni e non era mai riuscito a far passare presso i vari editori italiani con i quali aveva collaborato, da Bompiani fino a Einaudi. Di che cosa si trattava? A rigore, poteva trattarsi di qualsiasi cosa». In concreto dovevano essere «libri unici». Assolutamente necessari. 

Il programma di Bazlen era molto semplice: «Pubblicheremo solo libri che ci piacciono moltissimo».  

(...)

Snobismo di massa? Perché no: un nuovo pubblico «post-ideologico» non aspettava altro. Ma è stato questo uno degli effetti non previsti né cercati, almeno quando, con l’edizione critica delle opere di Nietzsche (a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari) che Einaudi non voleva pubblicare, Luciano Foà se ne andò da Torino e decise di lanciare una nuova casa editrice a Milano. L’Adelphi guardò subito ad autori e testi spesso definiti irrazionalisti e considerati con grande sospetto dalla cultura di sinistra, anche se poi cedette gratis due racconti di Joseph Roth al quotidiano di Lotta Continua – e Linder si infuriò, si fece pagare i danni per cessione abusiva di copyright e pronunciò giudizi feroci e sprezzanti sul gruppo politico in questione (chissà se Calasso li condivideva, si chiede la Ferrando). La sinistra criticava e pure leggeva, rapita. In altre parole, molti intellettuali non sapevano bene cosa pensare, di questa strana casa editrice che rompeva i tabù ideologici. 

Sulle vie additate da Bazlen (morto nel ’64) Adelphi si era addentata nella cultura mitteleuropea, ma nello stesso tempo guardava a Oriente, ai classici del pensiero e del mito per esempio indiano. 

(...)

Ma c’erano i grandi romanzi: da Kundera, divenuto come si ricorderà un caso letterario con L’insostenibile leggerezza dell’essere grazie al tormentone di Roberto D’Agostino in “Quelli della notte”, la trasmissione di Arbore, a Simenon; da Joseph Roth a Arthur Schnitzler, da Maray a Maugham, da Muriel Spark a, poniamo, Emmanuel Carrère, «catturato» a Francoforte (come racconta divertito e ironico, senza farne il nome, Matteo Codignola in Cose da fare a Francoforte dopo che sei morto) grazie a un gioco sardonico di nascondimento e avvicinamento, visto che lo scrittore francese era seccato con l’Einaudi – ma l’agente non voleva affermarlo in modo esplicito e insomma non si capiva bene come intavolare la trattativa, fra detto e non detto. Finì con Calasso chiuso una sgabuzzino che preparava l’offerta borbottando, sempre secondo Codignola, «è enorme»: né è dato sapere se si riferisse al prezzo dell’anticipo o all’evento editoriale in sé. 

L’aneddotica sull’Adelphi è infinita. Anna Ferrando non la trascura, ma ovviamente approfondisce l’aspetto storico. Si ferma al ’94 perché quello fu in un certo senso il punto di svolta: quando la casa editrice «refrattaria a ogni cornice di contesto» aveva ormai un’immagine indiscussa e un centralità nel mondo dei libri praticamente inscalfibile, in altre parole aveva conservato la sua identità pur conquistando il mercato. Venne coinvolta in polemica durissima e un poco buffa, da parte della destra cattolica, che mai si era scagliata con tanta energia contro un editore. Altro che snobismo di massa, piovvero frementi accuse di satanismo, forse, chissà, si celebrarono esorcismi: per la gioia dei media – e dei conti editoriali.

Giangiacomo Feltrinelli.

Chi era Giangiacomo Feltrinelli raccontato da Davide Serafino per sottrarlo al gossip giornalistico. Nel libro Gappisti, Davide Serafino descrive la figura di Giangiacomo “per sottrarlo al gossip” e ricostruisce la storia del gruppo armato fondato dall’editore. Frank Cimini su L'Unità il 3 Novembre 2023

“Un modo per sfatare la vulgata che lo vede come un personaggio tra il romantico e il grottesco, tra il patetico e il velleitario e per restituire un’identità politica a una figura complessa, certamente non esente da incoerenze ma mai banale”. In 280 pagine editore DeriveApprodi, 20 euro, il ricercatore storico Davide Serafino parla di Giangiacomo Feltrinelli “per sottrarlo al gossip giornalistico e in alcuni casi anche storiografico e provare a ‘riconsegnarlo’ alla storia del suo tempo”.

Il lavoro di Serafino va anche oltre la novità fattuale e storica contenuta nel libro a causa delle parole dell’ingegner Vittorio Battistoni, oggi 85enne, il quale svela di essere stato lui a consegnare all’editore l’esplosivo poi utilizzato al traliccio di Segrate dove “Giangi” per imperizia e sfortuna trovò la morte la sera-notte del 14 marzo del 1972. La ricerca dal titolo Gappisti ricostruisce per la prima volta la storia del gruppo armato fondato dall’editore, “un gruppo atipico e forse nemmeno un gruppo vero e proprio, senza una struttura organizzata, i vari Gap presentavano molte differenze tra loro”.

Feltrinelli finanziò l’acquisto di basi e di armi, riviste, una rete logistica a disposizione di una intera area rivoluzionaria, ma non lo fece “nel modo ingenuo, fondamentalmente stupido, che molti vogliono far credere”. L’intento della ricerca non è quello di scovare questo o quel nome ma sempre individuare in quali contesti sociali, politici i GAP attinsero per costruire la propria rete. Del resto la lotta armata di sinistra è stata un fenomeno pienamente politico.

Erede di una famiglia dalle possibilità economiche sconfinate, Feltrinelli da ricchissimo borghese si macchiò della colpa peggiore per la quale non venne mai perdonato, cioè l’avere tradito, questo ricorda il ricercatore, con tutte le contraddizioni del caso la propria classe di origine. Fu “Giangi” uno dei più importanti editori italiani che sfidando la guerra fredda pubblicò Il dottor Zivago, scopriva Il Gattopardo, creava una moderna catena di librerie oltre a editare i testi dei rivoluzionari di mezzo mondo.

E, dulcis in fundo, l’uso di vecchie ricetrasmittenti da parte dei Gap per interrompere radiogiornali e tg della Rai, anticipò di molti anni prima le radio libere e poi addirittura le tv commerciali di Silvio Berlusconi. Ricorda Oreste Scalzone: “Io non lo frequentavo per il patrimonio o per la casa editrice e avevo pure scarso interesse per le sue idee che venivano giù direttamente da semplificazioni cominterniste e fochiste. Ho avuto invece molto affetto per la persona, curiosità e rispetto per le sue scelte, complicità con alcuni suoi sogni”.

Franco Piperno con molto affetto manifestò il dissenso dalle idee di Feltrinelli sintetizzando: “Non solo non siamo alla guerra civile ma non possediamo neanche una teoria adeguata dei processi sociali e quindi delle forme organizzative. Solo spunti e frammenti”. Piperno spiegava di non considerare Feltrinelli un finanziatore ma “un compagno che stava costruendo un anello decisivo della lotta”.

Potere Operaio fu l’unico gruppo, sfidando sia gli altri extraparlamentari sia la sinistra tradizionale, ad affermare “un rivoluzionario è caduto” senza cedere di un millimetro davanti alle dietrologie nate subito dopo il fatto di Segrate. Anche Vittorio Battistoni si dice convinto che dietro la morte di Feltrinelli non c’è nessun mistero. “Le cose andarono esattamente come descritte da chi era con lui quella notte e poi da altri autori”.

Per il PCI invece la morte di Feltrinelli rappresentava “l’ennesima provocazione anticomunista”, le forze reazionarie avrebbero organizzato il tutto. Il giorno prima era iniziato il congresso che avrebbe eletto segretario nazionale Enrico Berlinguer. Fu anche il battesimo di una dietrologia che passando per Moro e via Fani dura ancora oggi, pur di non prendere atto della realtà, e che continua a fare danni. Frank Cimini 3 Novembre 2023

Vittorio Battistoni: «Consegnai a Giangiacomo Feltrinelli la bomba che lo uccise». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera venerdì 13 ottobre 2023.

La mattina del 14 marzo 1972, poche ore prima che Giangiacomo Feltrinelli saltasse in aria, fu lui a consegnare all’editore rivoluzionario l’esplosivo che lo uccise: «Quando sui giornali uscì la notizia con la sua foto lo riconobbi e mi sentii in colpa; non tanto per avergli dato la dinamite, ma perché se fossi stato lì, come mi aveva chiesto in altre occasioni, non sarebbe morto».

Seduto sul divano di una casa affacciata sul golfo del Tigullio, ospite di amici, un signore di 85 anni racconta i retroscena della fine di Feltrinelli e di alcuni episodi agli albori della lotta armata in Italia. Si chiama Vittorio Battistoni, originario di Chiavari, ingegnere meccanico in pensione, iscritto in gioventù al Partito comunista ma con tendenze anarchiche che lo portarono, dopo il 1969, ad avvicinarsi ai Gruppi di azione partigiana fondati dall’editore milanese e alle prime Brigate rosse, in cui non ha mai militato. Con i Gap, invece, ci fu una collaborazione durata un paio d’anni, nei quali è stato anche l’autista di Feltrinelli accompagnandolo negli spostamenti segreti in Italia e all’estero, mentre da clandestino tentava di organizzare l’offensiva antigolpista e rivoluzionaria della quale è rimasto vittima.

La testimonianza di Battistoni, emersa dopo mezzo secolo di anonimato, costituisce il cuore di Gappisti (DeriveApprodi), il libro dello storico Davide Serafino che ricostruisce la parabola della rete tessuta da Feltrinelli, contemporanea alla nascita di altre bande armate, dal gruppo genovese XXII Ottobre alle Br.

«Ho conosciuto Feltrinelli a casa dell’avvocato Lazagna — racconta l’ingegnere dalle tendenze anarco-comuniste —, poco tempo dopo la strage di piazza Fontana». Giambattista Lazagna, genovese, già comandante partigiano e dirigente del Pci in Liguria, fu arrestato in un paio di procedimenti per terrorismo, e in seguito scarcerato e assolto.

«Feltrinelli — continua Battistoni — era convinto che avrebbero tentato di tirarlo dentro la storia delle bombe neofasciste attribuite agli anarchici, così come dei progetti di colpo di Stato che erano ben visibili dietro quegli attentati; non era l’unico a parlarne, in quel periodo, ma il solo intenzionato a fare qualcosa di concreto per evitarlo. Per questo accettai di aiutarlo. Tramite Lazagna mi fece avere i soldi per comprare una Fiat 850 celeste con la quale l’ho portato tante volte a Roma, Firenze, Bologna, Milano, ma anche all’estero, in Austria e Germania. Lui per un certo periodo spariva, poi tramite intermediari mi fissava un appuntamento e io mi facevo trovare lì. In macchina, più che parlare, leggeva e scriveva. Arrivato a destinazione incontrava persone, ma io non assistevo ai suoi colloqui, né chiedevo chi avesse visto e che cosa si fossero detti. Qualche volta ho avuto l’impressione che avesse consegnato dei soldi, ma non facevo domande».

Battistoni descrive un uomo generoso e immerso in un’attività segreta che, affiancata a quella pubblica di editore, rappresentava anche l’occasione di emanciparsi rispetto alla sua condizione di privilegiato: «Non era certo un esaltato, né le sue analisi sbagliate. Io ero affascinato dalla sua personalità, dai racconti sull’infanzia vissuta in un una sorta di mondo dorato durante il fascismo e la guerra, dalla volontà di riscatto di cui si fece carico quando un contadino che lavorava nella tenuta di famiglia in Toscana gli aprì gli occhi parlandogli di giustizia e di socialismo. Voleva restituire almeno in parte ciò che aveva avuto. Dopodiché penso pure che guidare una rivoluzione non fosse un compito adeguato a lui; con i soldi e le disponibilità che aveva, avrebbe potuto finanziare e agevolare tanti progetti, fornendo un contributo alla causa più che pretendere di diventarne la guida».

Le prime azioni a cui Battistoni ha partecipato furono i comunicati di «Radio Gap», diffusi via etere sovrapponendosi alle trasmissioni radio e tv. Nell’aprile 1970, grazie a una ricetrasmittente e a un alimentatore forniti dall’anarchico tedesco Wolfgang Mayer e sistemati su un’auto presa in affitto, in alcuni quartieri di Genova la voce di Feltrinelli registrata con un mangiacassette interruppe un programma televisivo condotto da Tito Stagno, invitando i cittadini a una mobilitazione antifascista. Alla guida dell’auto c’era l’ingegnere: «Su un piccolo raggio d’azione riuscivamo a trasmettere con una potenza superiore a quella dei segnali Rai, e così potevamo intrometterci. Purtroppo quella prima audiocassetta con la voce di Feltrinelli non l’ho conservata, ma ne ho altre quattro registrate da compagni diversi».

Dopo i proclami lanciati via radio, replicati in varie città, qualcuno disse che sarebbe stato utile disporre di esplosivo e Battistoni si offrì per recuperarne una discreta quantità: «Dalle parti di casa mia stavano costruendo una strada utilizzando la dinamite per tagliare la roccia; per due o tre giorni mi appostai sulla montagna, e col binocolo verificai che di notte nel deposito dove tenevano i candelotti non rimaneva nessuno di guardia. Andammo in quattro o cinque, aprii la porta con un piede di porco e prendemmo due quintali di esplosivo già stipato nelle scatole. Ce lo siamo divisi io e Lazagna; io una buona metà la diedi al tedesco, il resto lo conservai in cantina».

A marzo del 1972, quando Feltrinelli decise di far saltare un traliccio alle porte di Milano per oscurare la città in risposta a una manifestazione della «maggioranza silenziosa», quella dinamite tornò utile. «Dopo — ricorda Battistoni — capii che voleva un’azione eclatante per proporsi con più forza ad altri gruppi coi quali era in contatto, come le Br o Potere operaio. Una volta a Voghera parlammo di aspetti tecnici, io da appassionato di orologi gli proposi di usarne uno da polso per costruire un timer, e a Feltrinelli l’idea piacque molto. Poi il 14 marzo 1972 mi diede appuntamento alla stazione di Lambrate, dove io arrivai con venti chili di esplosivo chiusi in una valigia. Mi aspettava con un furgoncino e insieme siamo andati a Segrate per un sopralluogo, è sceso per guardare il traliccio e dopo un po’ siamo ripartiti. Mi ha lasciato a una stazione della metro perché aveva fretta: “Oggi ho i minuti contati”, diceva. Io gli avevo spiegato come confezionare il timer, con tanto di disegno, pur sapendo che era meglio una sveglia o qualunque altro meccanismo; usare l’orologio da polso facendo un buco da un millimetro sul vetro senza toccare il quadrante era inutilmente rischioso».

Secondo la ricostruzione di Battistoni, la fretta e l’inesperienza furono fatali a Feltrinelli che, tornato la sera a Segrate con altri complici, saltò in aria per un «incidente sul lavoro» di cui l’ingegnere venne a sapere dai giornali: «Su “l’Unità” c’era la notizia della morte di un dinamitardo accanto a un traliccio, mentre sul “Corriere della Sera” era uscita anche la fotografia, e lo riconobbi immediatamente. Io non ero con lui perché contrario a quel tipo di azioni, ero più favorevole a iniziative come il sequestro-lampo di un dirigente della Sit Siemens compiuto dalle Br un mese prima, ma vedendo com’era andata piansi per il rammarico. Se avessero seguito le mie istruzioni, tutto avrebbe funzionato; se avessi realizzato io il timer, non avrebbe provocato l’innesco prima dell’ora fissata; se fossi stato lì sarei salito io sul traliccio e nessuno si sarebbe fatto male».

Al funerale Vittorio Battistoni non andò — «troppi fotografi, come alle manifestazioni» — e il cruccio di aver contribuito, sia pure inconsapevolmente, alla morte dell’editore non l’ha abbandonato per molto tempo. A casa sua non bussarono mai né inquirenti né investigatori, solo due militanti dell’estrema sinistra incaricati di una sorta di «inchiesta interna» sulla fine del compagno editore: «Ho riferito tutto, spiegando che non c’erano complotti o misteri dietro quell’incidente, solo un po’ d’imprudenza e di imperizia».

Cinquantuno anni dopo, il «caso Feltrinelli» è chiuso e racchiuso nella storia dei Gap, da cui adesso affiora la figura di Battistoni (mentre altre preferiscono restare nell’ombra) per rendere testimonianza di una vicenda contemporanea al terrorismo nero e prodromica di quello rosso. «Un fenomeno minore ma significativo nel contesto della lotta armata in Italia — commenta l’autore del libro Davide Serafino —, che ha fatto da apripista a scelte future di altri, ed è utile conoscere al di là della figura del suo fondatore».

Giangiacomo Feltrinelli. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Giangiacomo Feltrinelli di Gargnano, soprannominato «Osvaldo» (Milano, 19 giugno 1926 – Segrate, 14 marzo 1972), è stato un editore e attivista italiano.

Partecipò molto giovane alla Resistenza; fu fondatore della casa editrice Feltrinelli e, nel 1970, dei GAP (Gruppi d'Azione Partigiana), una delle prime organizzazioni armate di sinistra della stagione degli anni di piombo.

Biografia

Infanzia e giovinezza

Giangiacomo Feltrinelli, soprannominato «il Giangi» (durante la lotta armata assumerà poi il nome di battaglia di «Osvaldo»), nacque a Milano il 19 giugno del 1926 in una ricca famiglia aristocratica originaria di Gargnano (in provincia di Brescia), tra le più facoltose della storia d'Italia. Il titolo nobiliare ereditario è quello di marchese di Gargnano. Feltrinelli era cugino per parte materna dell'attrice Cecilia Sacchi (moglie dell'attore Vittorio Mezzogiorno e madre dell'attrice Giovanna).

Il padre, Carlo Feltrinelli – il cui progenitore, quantomeno stando a quello che la stessa madre dell'editore ebbe a dichiarare in vita, sarebbe stato un commerciante di legname veneto, tal Guido da Feltre (da cui per l'appunto, tramite la locale forma dialettale feltrinèi, deriverebbe il loro cognome) - fu un imprenditore di successo, presidente di numerose società, tra cui il Credito Italiano e l'Edison, oltreché proprietario di aziende come la Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali (l'attuale Bastogi S.p.A), la società di costruzioni Ferrobeton S.p.A. e la Feltrinelli Legnami, quest'ultima capofila nel settore del commercio di legname con l'Unione Sovietica.

Alla morte del padre, avvenuta nel 1935, la madre Giovanna Elisa Gianzana, detta «Giannalisa», sposa in seconde nozze, nel 1940, il giornalista Luigi Barzini junior, storico inviato del Corriere della Sera.

Durante la seconda guerra mondiale, la famiglia si trova costretta ad abbandonare la magione di famiglia sulle sponde del Lago di Garda, a Gargnano, che diventerà poi la residenza di Benito Mussolini quando questi istituirà con l'ausilio degli alleati nazisti la Repubblica di Salò, ritirandosi di conseguenza nella villa La Cacciarella, all'Argentario, realizzata su progetto degli architetti Pozzi e Lancia, e dove il giovane Giangiacomo trascorrerà con la famiglia il periodo che va dall'estate del 1942 alla primavera del 1944.

Da ragazzo, Giangiacomo simpatizza per il regime fascista, al punto tale, nella fase iniziale del conflitto, da tappezzare le pareti di casa con manifesti inneggianti alla vittoria delle Potenze dell'Asse; nel 1944, però, a seguito d'un colloquio con il giornalista e critico d'arte Antonello Trombadori, futuro deputato per il Partito Comunista Italiano, muta drasticamente posizione politica, decidendo conseguentemente di prendere attivamente parte alla Resistenza, arruolandosi nel Gruppo di Combattimento Legnano, con il quale combatté la guerra di Liberazione in ausilio della V Armata statunitense.

La militanza comunista

Al termine del conflitto, datasi dunque la sua adesione piena ed incondizionata all'idee marxiste, Feltrinelli s'iscrisse al Partito Socialista Italiano, dove conobbe la sua prima moglie, Bianca Dalle Nogare, con la quale infatti convolerà a nozze con rito civile nel luglio del 1947, al compimento della maggiore età. Dinnanzi poi alla fortissima e paralizzante crisi che investì il Partito in quello stesso anno, culminata con la scissione - passata alle cronache per l'appunto come la scissione di Palazzo Barberini - di tutta la sua ala destra per la costituzione d'un soggetto politico più moderato, il PSDI, entrambi i coniugi scelsero di passare al PCI, che Feltrinelli arrivò a sostenere anche con ingenti contributi finanziari.

Nel 1948, nella martoriata Europa dell'immediato secondo dopoguerra, si mobilitò con celerità per raccogliere documenti e materiali informativi vari sulla storia del movimento operaio e delle idee dall'Illuminismo ai giorni nostri, gettando così le basi per la biblioteca di uno dei più importanti istituti di ricerca sulla storia sociale. Nascerà così la Biblioteca Feltrinelli, in seguito Fondazione Feltrinelli, a Milano.

La casa editrice

Alla fine del 1954, fondò la casa editrice Giangiacomo Feltrinelli Editore, di cui il primo libro edito fu l'autobiografia dell'allora Primo ministro indiano Jawaharlal Nehru, e che già nel corso di quello stesso decennio ebbe modo di pubblicare bestseller di grande rilievo internazionale, come Il dottor Živago di Boris Pasternak (terminato dall'autore nel 1955 e pubblicato in assoluta prima mondiale dallo stesso Feltrinelli) e Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. L'editore milanese entrò in possesso del romanzo di Pasternak nel 1956, durante un suo viaggio di lavoro a Berlino, e affidò la sua traduzione in italiano a Pietro Zveteremich. Il libro fu pubblicato il 23 novembre del 1957 e tre anni dopo, nell'aprile del 1960, raggiunse le 150 000 copie vendute. Per il 50º anniversario della fondazione della casa editrice, è uscita in libreria una ristampa della prima edizione.

Intanto Giangiacomo, separatosi da Bianca Dalle Nogare nel 1956, nel frattempo trasferitasi in Svizzera dove aveva anche ottenuto legalmente il divorzio, omologato in Italia l'anno seguente, conobbe e sposò Alessandra De Stefani, detta Nanni, figlia del commediografo Alessandro. Il loro matrimonio, però, venne in seguito annullato, a causa dell’infedeltà di lei, da una sentenza del Tribunale svizzero di Bucheggberg Kriegstetten il 9 settembre del 1964.

Il dottor Živago porterà Pasternak al Premio Nobel nel 1958, benché le autorità sovietiche lo avessero spinto, dietro fortissime pressioni e minacce, a fargli rinunciare formalmente al suo effettivo ritiro. Il PCI, appoggiato e sostenuto finanziariamente dal governo dell'Unione Sovietica, condusse di conseguenza una strenua campagna diffamatoria nei confronti del libro, esercitando fortissime pressioni nei confronti dell'editore, soprattutto tramite la persona di Pietro Secchia, affinché non fosse pubblicato in Italia. Il Partito, vista però l'impossibilità di farlo desistere dall'appoggiare l'opera d'un dissidente del regime sovietico, decise alla fine di ritirargli la tessera d'appartenenza. Il 14 luglio del 1958, Feltrinelli conobbe la fotografa tedesca Inge Schönthal, sua futura terza moglie (morta a Milano nel 2018). Dalla loro unione nacque poi il figlio Carlo. Dal 1967 la sua compagna si presume sia stata Sibilla Melega.

Nel 1964, si reca a Cuba, dove incontra il leader della vittoriosa Rivoluzione cubana Fidel Castro, attestatosi all'epoca come uno dei principali sostenitori dei movimenti di liberazione sudamericani ed internazionali, con cui stabilirà una lunga amicizia. Nel 1967, Feltrinelli si reca in Bolivia, ufficialmente per impegni di lavoro, in realtà per poter incontrare Régis Debray, un giornalista francese che aveva attivamente preso parte alle azioni di guerriglia coordinate da Che Guevara nel Paese, al fine di offrirgli una qualche forma di supporto logistico. L'editore è pero tratto in arresto assieme alla quarta e ultima moglie Sibilla Melega dalle autorità locali, coadiuvate dalla CIA, venendo in seguito scarcerato dopo soli due giorni. L'ufficiale responsabile del suo fermo è nient'altri che il colonnello Roberto Quintanilla, che poco tempo dopo presenziò all'amputazione delle mani del cadavere di Che Guevara.

Intanto, Castro gli affida l'opera di Che Guevara, Diario in Bolivia, che racconta degli undici mesi di operazione politico-eversiva condotta dal celebre rivoluzionario argentino nella sua ultima avventura in Bolivia, e del quale il líder maximo v'era entrato in possesso mediante il futuro Presidente del Cile Salvador Allende (a quel tempo ricoprente la carica di Presidente del Senato cileno), che l'aveva recuperato a sua volta da alcuni superstiti della spedizione guevariana proprio in quel momento rifugiatisi in Cile, divenendo in breve tempo uno dei principali best seller della casa milanese. Feltrinelli entra poi in possesso di Guerrillero Heroico, la celeberrima ed ormai iconica fotografia scattata al Che da Alberto Korda il 5 marzo del 1960, in occasione delle esequie delle vittime dell'esplosione della fregata La Coubre.

Per la pubblicazione del romanzo Il dottor Živago e per la famosa immagine di Ernesto Che Guevara esistono due versioni sui diritti d'autore: secondo alcuni, Feltrinelli non fu costretto a pagarli, mentre, secondo Sergio d'Angelo e Indro Montanelli, vi furono controversie in relazione alla pubblicazione del romanzo di Pasternak. A sostegno di questa tesi, c'è anche la testimonianza di un collaboratore di Feltrinelli, Valerio Riva, il quale raccontò di una conversazione telefonica intercorsa tra l'editore e Ol'ga Ivinskaja, vedova dello scrittore, in cui la donna, all'epoca versante in ristrettezze economiche, premeva insistentemente affinché le fosse elargita la somma spettantele dai diritti di pubblicazione del manoscritto del marito e Feltrinelli, innervosendosi sempre più, inventava qualsiasi scusa pur di non concederle quanto richiesto.

Oltre alla pubblicazione di opere letterarie di grande successo, la casa editrice incominciò ad occuparsi della pubblicazione di opuscoli e saggi documentaristici concernenti le tattiche e strategie di guerriglia adoperate da svariati movimenti ed organizzazioni rivoluzionarie in America Latina, con testi firmati dai Tupamaros, dallo stesso Che Guevara e da Camilo Torres Restrepo. Negli anni successivi, questi volumi verranno consultati da molti gruppi di lotta armata italiani, come testimoniato dal ritrovamento di almeno uno di queste particolari pubblicazioni in ogni covo delle Brigate Rosse.

La spedizione sardista

Nel 1968, stando a quanto emerso dai documenti della Commissione Stragi del 1996, Giangiacomo Feltrinelli si recò in Sardegna con il preciso scopo di prendere contatto con gli ambienti dell'estrema sinistra e dell'indipendentismo isolani; nelle intenzioni di Feltrinelli, vi era il progetto di trasformare la Sardegna in una sorta di Cuba del Mediterraneo, avviandovi dunque un processo rivoluzionario sulla falsariga di quello di Che Guevara e Fidel Castro nel Paese caraibico.

Tra le idee dell'editore c'era quella di affidare la gestione e coordinamento delle truppe ribelli al bandito Graziano Mesina, al tempo latitante per i suoi svariati sequestri di persona e per le sue rocambolesche evasioni carcerarie, che però rifiutò all'ultimo la sua offerta. Secondo alcuni, ciò fu possibile grazie all'intervento del SID, più precisamente nella persona di Massimo Pugliese, che riuscì a far saltare completamente l'iniziativa.

Attività clandestina

Il 12 dicembre del 1969, ascoltata alla radio la tragica notizia della strage di Piazza Fontana, Feltrinelli, che al momento si trovava in una baita di montagna, decise di tornare subito a Milano. Apprese, però, che diversi agenti in borghese delle forze dell'ordine presidiavano l'esterno della casa editrice e, temendo che potessero essere fabbricate prove su qualche sua implicazione nella tragedia, considerando anche il fatto che nel frattempo si era mobilitato nella formazione dei primi gruppi armati di estrema sinistra (avrà anche contatti con Renato Curcio e Alberto Franceschini, in seguito fondatori delle Brigate Rosse), decise dunque di passare alla clandestinità.

In una lettera inviata allo staff della casa editrice, all'Istituto ed alle varie librerie legate alla casa, così come in un'intervista concessa alla rivista Compagni, spiegò le ragioni di tale decisione, ritenendo inoltre che dietro agli allora recenti attentati dinamitardi a Milano ed a Roma non vi fossero, come tutti sospettavano (compreso il PCI dell'epoca), gli anarchici, bensì dei gruppi eversivi d'estrema destra coadiuvati - se non addirittura pilotati - dallo stesso Stato italiano, risultando tra i primi ad adoperare, in quella specifica occasione, il termine strategia della tensione.

La sua conseguente riflessione politica lo portò dunque a scelte estreme, fondando, nel 1970, i Gruppi d'Azione Partigiana (GAP), riprendendo la sigla dei Gruppi di Azione Patriottica della Resistenza italiana. I GAP erano un gruppo paramilitare d'ispirazione guevarista che, come altri al tempo, riteneva che Palmiro Togliatti avesse ingannato i partigiani, prima promettendo la Rivoluzione comunista, per poi all'ultimo tradirli, il 22 giugno del 1946, bloccando qualsiasi moto rivoluzionario in Italia. Ma, a differenza dei successivi gruppi eversivi di sinistra e, in generale, della moda imperante all'epoca in quegli ambienti, non prendeva le distanze dall'URSS in nome di «una rivoluzione più rivoluzionaria», ma, piuttosto, riteneva che nonostante tutti quelli che potevano essere i lati oscuri dell'Unione Sovietica (egli stesso si dichiarava anti-stalinista e pubblicò difatti Pasternak, scrittore dissidente), essa stessa fosse l'unica speranza per il successo della rivoluzione nel mondo.

Più in generale, Feltrinelli ipotizzava un «esercito internazionale del proletariato», composto da molteplici «avanguardie strategiche rivoluzionarie», ispirandosi in questo al Vietnam, alla Corea del Nord, alla Cina (definita dallo stesso editore quale «prima riserva strategica rivoluzionaria») e agli Stati socialisti del Patto di Varsavia.

Sempre nei riguardi dell'attività clandestina, Oreste Scalzone, ex-membro di Potere Operaio, nel 1988, affermò che Feltrinelli poteva essere stato l'organizzatore dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi: per quel delitto furono condannati Adriano Sofri e altri ex militanti di Lotta Continua, mentre contro l'editore non ci furono prove al riguardo.

Una pistola di proprietà di Feltrinelli fu utilizzata per assassinare nel 1971, in un ufficio del consolato boliviano di Amburgo, Roberto Quintanilla, console dello Stato sudamericano presso l'allora Germania Ovest, oltreché ex capo della polizia segreta di La Paz e uno dei responsabili della morte di Che Guevara: l'arma fu usata da una ragazza chiamata Monika Ertl.

Successivamente all'omicidio di Che Guevara, lo stesso console aveva partecipato, nel 1969 a La Paz, alla cattura, alla tortura ed alla brutale uccisione di Inti Peredo, nuovo comandante dell'ELN, in diretta successione al ruolo di comando ricoperto dal Che per la rivoluzione in Bolivia. Questi, era uno dei pochi superstiti della disfatta di Vallegrande del 1967, a seguito della quale si stava riorganizzando per rilanciare le operazioni di guerriglia.

La morte 

Giangiacomo Feltrinelli morì il 14 marzo del 1972 tentando d'installare una bomba in un attentato terrorista presso un traliccio dell'alta tensione a Segrate (in provincia di Milano). Il corpo fu trovato da un contadino, Luigi Stringhetti, che si trovava a passeggiare in zona col suo cane. Subito arrivarono i Carabinieri e, in un secondo momento, il commissario Luigi Calabresi, direttamente mandato in loco dalla Questura.

I funerali si svolsero il 28 marzo presso il cimitero monumentale di Milano, posto praticamente in stato d'assedio dalle forze dell'ordine, con i giovani che intonavano L'Internazionale e lanciavano slogan contro la «borghesia assassina».

Il processo e le condanne

I documenti rinvenuti addosso all'editore erano intestati ad un tale Vincenzo Maggioni e la prima ipotesi formulata dagli inquirenti era che fosse morto mentre cercava di far saltare un traliccio ma, ventiquattro ore dopo il ritrovamento del corpo, si scoprì che i documenti erano contraffatti e che si trattava in realtà di Feltrinelli, riconosciuto ufficialmente all'obitorio di Milano dalla moglie Inge Schönthal..

Le dichiarazioni registrate di "Gunther" * (vero nome Ernesto Grassi operaio in una fabbrica di Bruzzano, con un'esperienza di partigiano in Valtellina, faceva parte dei Gap di Feltrinelli e la tragica sera del maggio 1972 era davvero con l'editore e doveva occuparsi del traliccio di Gaggiano) rinvenute all'interno della documentazione delle "inchieste di Robbiano di Mediglia" e una successiva intervista concessa da questi all'Espresso nel 1974, ove vennero ribaditi i concetti già espressi, convinsero i magistrati di Milano della volontarietà della presenza di Feltrinelli sotto il traliccio di Segrate e dell'inconsistenza delle voci che lo avevano voluto trascinato lì contro la sua volontà, cioè legato o drogato. L'istruttoria si chiuse nel 1975 e nel giugno del successivo 1976 una sentenza-ordinanza del giudice Antonio Amati avallò la tesi dello scoppio accidentale, rinviando a giudizio 33 persone e prosciogliendo «Gunther» in quanto soggetto "rimasto ignoto". Ben 65 indagati vennero invece prosciolti: alcuni per non aver commesso il fatto, altri per insufficienza di prove.

Il processo di primo grado si svolse dal 15 febbraio al 31 marzo del 1979. Nell'ultima udienza, prima che i giudici entrassero in camera di consiglio, alcuni brigatisti (tra cui Renato Curcio, Giorgio Semeria e Augusto Viel) lessero un comunicato (il quarto in due mesi) in cui c'era scritto:

«Osvaldo non è una vittima, ma un rivoluzionario caduto combattendo. Egli era impegnato in un'operazione di sabotaggio di tralicci dell'alta tensione che doveva provocare un black-out in una vasta zona di Milano; al fine di garantire una migliore operatività a nuclei impegnati nell'attacco a diversi obiettivi. Inoltre il black-out avrebbe assicurato una moltiplicazione degli effetti delle iniziative di propaganda armata. Fu un errore tecnico da lui stesso commesso, e cioè la scelta e l'utilizzo di orologi di bassa affidabilità trasformati in timers, sottovalutando gli inconvenienti di sicurezza, a determinare l'incidente mortale e il conseguente fallimento di tutta l'operazione»

Gli imputati brigatisti smentirono così in via definitiva la tesi dell'omicidio, aggiungendo anche che la loro era una commemorazione dell'editore terrorista, delle sue idee politiche e della sua buona fede comunista, e, allo stesso tempo, una critica rivolta a tutti coloro, negli stessi ambienti della sinistra extraparlamentare, che avevano cercato di negarle.

Il fatto che fossero rifluiti sulla versione dell'incidente anche coloro che avrebbero avuto tutto l'interesse a cavalcare la tesi dell'omicidio politico non mancò di impressionare i giudici di primo grado. Così il processo si concluse con 11 condanne, 7 assoluzioni, 2 prescrizioni e 9 amnistie, sentenza poi in gran parte convalidata in appello nel 1981, seppur con qualche lieve modifica (ad esempio Giambattista Lazagna, condannato in primo grado a 4 anni e 6 mesi per detenzione d'armi ed associazione sovversiva, fu assolto con formula piena dalla prima accusa, mentre il secondo reato fu coperto da amnistia). La motivazione della sentenza conteneva severe critiche alle forze dell'ordine, e in particolare all'Arma dei carabinieri, accusati di aver pilotato le confessioni di Marco Pisetta, operazione da cui erano derivati un grande spreco di risorse umane e di denaro pubblico, nonché l'incriminazione di un centinaio di persone poi risultate innocenti.

Contemporaneamente la Procura della Repubblica di Roma veniva esortata ad approfondire la posizione dei colonnelli Michele Santoro e Angelo Pignatelli, sospettati di aver depistato le indagini della magistratura.

Le speculazioni e le ipotesi sul decesso

Nei giorni vicini alla morte di Feltrinelli era previsto a Milano il XIII Congresso del PCI, che avrebbe dunque nominato quale segretario nazionale Enrico Berlinguer. Il Movimento Studentesco tenne presso l'Università Statale di Milano una conferenza, durante la quale l'avvocato Marco Janni lesse una dichiarazione in cui si affermava di come la tesi della morte accidentale dell'editore nel mezzo di un'azione di sabotaggio non fosse per nulla convincente, sebbene non fossero stati ancora chiariti e resi pubblici tutti i dettagli e gli aspetti materiali della morte di Feltrinelli, mentre un gruppo di intellettuali, capeggiato da Camilla Cederna, diramò un comunicato in sostegno della medesima tesi.

Nel testo c'era scritto:

«Giangiacomo Feltrinelli è stato assassinato. Dalle bombe del 25 aprile 1969 si è tentato di accusare l'editore milanese di essere il finanziatore e l'ispiratore di diversi attentati attribuiti agli anarchici. Il potere politico, il governo, il capitalismo italiano avevano bisogno di un mandante... La criminale provocazione, il mostruoso assassinio, sono la risposta della reazione internazionale allo smascheramento della strage di Stato, nel momento in cui si dimostra che il processo Valpreda è stato costituito illegalmente e dalle indagini della magistratura di Treviso emergono precise responsabilità della destra. Così si capisce perché sei o sette candelotti possono esplodere in mano a Feltrinelli lasciandone integro il volto per il sicuro riconoscimento»

L'appello era firmato, oltreché dalla stessa Cederna e dall'avvocato Janni, da Luca Boneschi, Francesco Fenghi, Giampiero Brega, Michelangelo Notarianni, Anna Maria Rodari, Claudio Risé, Giulio Alfredo Maccacaro, Vladimiro Scatturin, Marco Fini, Marco Signorino, Sandro Canestrini, Maria Adele Teodori, Carlo Rossella e Giampiero Borella, mentre Eugenio Scalfari e Paolo Portoghesi smentirono l'adesione. Anche i dirigenti comunisti erano convinti, almeno all'apparenza, che Feltrinelli fosse stato vittima di un complotto, ordito con molta probabilità dalla CIA, mentre Potere Operaio, giornale dell'omonimo movimento della sinistra extraparlamentare, commemorò Feltrinelli per la sua militanza in un gruppo terroristico rivoluzionario, rendendogli omaggio come «un rivoluzionario caduto nella guerra di liberazione dallo sfruttamento».

Sulla morte dell'editore le Brigate Rosse condussero una delle loro inchieste interne, trovata nel 1974 registrata su nastro nel covo di Robbiano di Mediglia dai carabinieri del gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa. Personaggio chiave per capire la vicenda – perché, pur avendo capeggiato il commando inviato a minare un secondo traliccio dell'alta tensione a San Vito di Gaggiano, si era fatto raccontare tutto dai due compagni dell'editore sopravvissuti allo scoppio – era un certo "Gunther" (o "Gunter"), nome di battaglia di un collaboratore di Feltrinelli per lungo tempo identificato con Ernesto Grassi, un ex partigiano milanese deceduto nel 1977. Sulla base di un riconoscimento avallato, tra gli altri, da Alberto Franceschini e da Augusto Viel, uno studioso padovano ha recentemente ipotizzato che dietro ai criptonimi di «Gunther» e "Grassi" - tratti rispettivamente dal nome e dal cognome del celebre scrittore tedesco Gunter Grass, un intellettuale di sinistra con un lontano passato nelle SS hitleriane - si celasse Berardino Andreola, un giovanissimo volontario della Repubblica Sociale di Mussolini, esperto di esplosivi e maestro nell'assunzione di false identità. Spacciandosi per ex partigiano, membro della Volante rossa e maoista, costui era riuscito ad accaparrarsi la fiducia dell'editore milanese che proprio per il passato fascista, a lui non celato, potrebbe avergli suggerito di assumere quei nomi di battagli.

Dopo lo scoppio di Segrate, mentre i suoi compagni si erano dati alla macchia terrorizzati, «Gunther» aveva contattato Renato Curcio e Alberto Franceschini facendoli accedere ai covi GAP e proponendo l'adesione alle Brigate Rosse sua e dei compagni superstiti. Successivamente, per dissipare i sospetti alimentati dal suo passato fascista, egli si attivò in diversi modi per accreditare la tesi di un Feltrinelli rimasto vittima di un'esplosione accidentale. È infatti sua la voce narrante incisa nel nastro magnetico trovato nel covo brigatista di Robbiano di Mediglia, che conteneva un resoconto dettagliato dell'impresa di Segrate e sostanzialmente confermava la tesi sostenuta dall'Arma dei carabinieri. Esso affermava:

«All'inizio Osvaldo ha i candelotti di dinamite (della carica che serviva a far saltare il longherone centrale) in mezzo alle gambe... Si trova impacciato nella posizione, impreca. Sposta i candelotti, probabilmente sotto la gamba sinistra e, seduto con i candelotti sotto la gamba, in modo che li tiene fermi, sembra che prepari l'innesco, cioè il congegno di scoppio. È in questo momento che quello a mezz'aria sul traliccio sente uno scoppio fortissimo. Guarda verso l'alto e non vede nulla. Guarda verso il basso e vede Osvaldo a terra, rantolante. La sua impressione immediata è che abbia perso entrambe le gambe. Va da lui immediatamente e gli dice: "Osvaldo, Osvaldo...". Non c'è... è scoppiato...»

La maggioranza di coloro, tra giornalisti, intellettuali e militanti vari, che a caldo avevano criticato gli organi di polizia, non dissero nulla dopo le rivelazioni dei brigatisti, con poche eccezioni: L'Espresso ammise che «a poche ore di distanza dalla morte di Feltrinelli l'intellighenzia democratico-progressista e l'intera sinistra iniziarono un'operazione di rimozione radicale dei fatti, ritardando la nostra presa di coscienza della realtà».

Viceversa la verità emersa nelle aule dei tribunali è stata messa in discussione da Alberto Franceschini dapprima davanti alla Commissione parlamentare stragi (1999) e poi in un libro autobiografico uscito nel 2004 (Che cosa sono le BR). In queste sedi ha esternato i suoi sospetti su «Gunther», da lui incontrato tre volte dopo lo scoppio di Segrate, ma sparito dalla circolazione dopo aver intascato cinque dei dieci milioni di lire avuti con la promessa di un rifornimento di armi. Ha poi invitato a riflettere sul fatto che l'orologio Lucerne, usato da Feltrinelli come timer, fosse stato privato della lancetta delle ore anziché di quella dei minuti (intervento che riduceva di dodici volte il tempo a disposizione dell'attentatore). Soltanto in un altro attentato era stato usato un orologio di quello stesso tipo, cioè in quello presso l'ambasciata statunitense di Atene il 2 settembre del 1970 per opera della giovane milanese Maria Elena Angeloni e di uno studente greco-cipriota. Quella bomba, come nel caso di Feltrinelli, funzionò male, tanto che a rimanere uccisi furono gli stessi attentatori. I due erano partiti da Milano, così come l'esplosivo. Quell'attentato era stato organizzato da Corrado Simioni, deus ex machina del Superclan e più tardi collegato alla struttura Hyperion di Parigi, una presunta scuola di lingue fondata nel 1977, sospettata di collegamenti con diverse organizzazioni terroristiche e con la stessa CIA.

Facendo leva sui dubbi manifestati da Franceschini, sulla corrispondenza tra lo scoppio di Segrate del 14 marzo 1972 e la "contro-azione al processo" richiesta dal neofascista veneto Giovanni Ventura, allora ristretto nelle carceri di Treviso, nonché su una nutrita serie di documenti e indizi, uno studioso padovano recentemente ha nuovamente ipotizzato che la morte di Feltrinelli sia stato un omicidio su commissione, inquadrabile nelle strategie della tensione e della distrazione. Incalzato dal giudice istruttore Giancarlo Stiz e dal pubblico ministero Pietro Calogero, che di lì a poco avrebbero spiccato mandato di cattura contro di lui, Franco Freda e Pino Rauti, alla fine del febbraio 1972 Ventura aveva infatti richiesto ai suoi complici di attivare una "contro-azione al processo" capace di riconfermare, agli occhi dell'opinione pubblica, la vocazione dinamitarda dell'estrema sinistra, in modo da ridare credibilità alla declinante pista rossa per la bomba del 12 dicembre 1969. Feltrinelli costituiva il bersaglio ideale, perché amico di anarchici, finito subito al centro dei sospetti dell'Ufficio politico della questura di Milano e bersaglio di diverse montature già note agli storici. In effetti le due ultime - imperniate sulle opportunistiche rivelazioni di Roberto Fabbi e di Vito Truglia – furono lasciate cadere proprio all'indomani dello scoppio di Segrate.

Elogi e critiche

Sulla figura di Giangiacomo Feltrinelli si sono spesi elogi e critiche da parte dell'opinione pubblica. Leo Valiani lo apprezzò e rispettò la scelta di aderire alla clandestinità dicendo: «Feltrinelli agiva in perfetta buona fede e con disinteresse totale, che meritano il massimo rispetto, nella sua evoluzione politica cospirativa, sbocciata nel sacrificio personale di un uomo che credeva nell'imminenza di una reazione fascista in Italia».

Fu invece negativo il giudizio di Indro Montanelli, che lo descrisse come un padrone delle ferriere divorato dalla smania di primeggiare, oltre a definirlo «il rampollo [di famiglia] che imparava poco o nulla... ma voleva fare molto e subito» e un rivoluzionario «da burletta», degno rappresentante della contestazione italiana.

Cultura di massa

Nel 2013 il progetto musicale Neon Neon gli ha dedicato un concept album intitolato Praxis Makes Perfect.

Il personaggio di Feltrinelli compare in due film, Faccia di spia (1975) di Giuseppe Ferrara e in Romanzo di una strage (2012) di Marco Tullio Giordana, dove in quest'ultimo è interpretato da Fabrizio Parenti.

Viene citato nei film Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio e I cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana

Opere

Persiste la minaccia di un colpo di stato in Italia! Milano, Libreria Feltrinelli, 1968.

Estate 1969. La minaccia incombente di una svolta radicale e autoritaria a destra, di un colpo di Stato all'italiana, Milano, Libreria Feltrinelli, 1969.

Contro l'imperialismo e la coalizione delle destre. Proposte per una piattaforma politica della sinistra italiana, seguite da saggi e tesi su problemi specifici dello sviluppo capitalistico, Milano, Edizioni della libreria, 1970.

Testo di Marco Meier pubblicato da il “Corriere della Sera” martedì 19 settembre 2023. 

(...)

Inge inizia a farfugliare, cerca di intavolare una conversazione, nella speranza che prima o poi venga pronunciata la parola magica: «Picasso». Tutto inutile. Madame Roque insiste perché Inge accetti le stampe. Ma all’improvviso si palesano sull’uscio due persone che poco prima Inge ha visto passare in corridoio. 

Si tratta dell’editore e collezionista spagnolo Gustavo Gili Esteve e di sua moglie. Dicono di avere un appuntamento con Picasso, desiderano consegnargli di persona il volume che hanno appena pubblicato su di lui e le sue opere. Madame Roque li prega di attendere un attimo, deve vedere se è già alzato e vestito, perché a volte dipinge fino a tarda notte.

«E se invece fosse ancora in pigiama, sarebbe un problema per voi?». 

Rimasta sola con l’editore spagnolo e sua moglie, prego i due di portarmi con loro da Picasso. Si mettono a ridere e dicono di sì; io in cambio prometto loro una foto bellissima insieme a Picasso. Madame Roque torna, porta via i due e invece lascia me lì. «Un momento, per favore», mi dice. Ci vuole un bel po’ prima che tornino. A quel punto penso, o me ne vado o passo all’attacco. E così, senza tanti giri di parole, chiedo a madame Roque: «Le potrei fare una foto insieme al maestro?». Lì per lì la sua reazione è di leggero spavento, poi però dice: «Vado a chiedere», e scompare. Questa volta torna dopo poco, si infila una bella giacca di pelle celeste e mi conduce da basso nel «sancta sanctorum». Lo spazio è composto da tre grandi stanze tra loro collegate, che danno sul giardino.

Entrando rimango di stucco, non voglio credere ai miei occhi: non è possibile che Picasso viva in queste tre stanze, tra questo indicibile ammasso di cose. Non può essere! Non ci voglio credere! Ma ben presto ne ho la certezza. In questo spazio gigantesco, tinteggiato di bianco e oro, con una quantità esagerata di orribili stucchi il maestro mangia, dorme e crea. Farsi strada attraverso questo caos è un’impresa. Il pavimento è ingombro di casse e cassettoni, vasi, piastrelle, bottiglie, ossa di animali, sculture in bronzo, modelli, cavalletti, giornali, lampade, quadri — alcuni finiti, altri incompiuti —, una vecchia sedia a dondolo e libri. In una grande ciotola ci sono carte, nacchere, banconote scadute, conchiglie, sassi, un accendino da pescatore, maschere. Una roba mai vista! 

Di mobili invece non ce ne sono quasi. Solo due armadi antichi, un tavolo, qualche poltrona di midollino rotta, uno strano letto e poco altro. Non ho mai visto un caos così pittoresco in vita mia. E nel bel mezzo di questa confusione siede un signore gracile, con indosso un paio di pantaloni scozzesi, una camicia a righe e pantofole bizzarre: Pablo Picasso. Faccio una sorta di inchino di corte, al che lui, sorridendo amabilmente e mettendosi la mano sul cuore, fa a sua volta un profondo inchino spagnolo.

Simonetta Fiori per “la Repubblica” - Estratti martedì 19 settembre 2023. 

Per un biografo è una gran fortuna avere tra le mani il diario del suo personaggio, i taccuini annotati con una formidabile memoria visiva, anche le lettere d’amore. E leggere frasi come queste: «Darling, mio adorato Giangiacomo, vorrei essere la tua fidanzata». 

E lui che le risponde: «Liebe Fräulein Inge, a che cosa servono dieci fantastiche unghie e dieci dita finalmente ben curate se non possono carezzare il tuo viso, le tue labbra?». Amore, sensualità, promessa. Siamo già all’incontro tra l’impertinente fotoreporter di Göttingen e l’editore rivoluzionario di Zivago, gli anni Cinquanta sfumano sullo sfondo per lasciar posto alla caotica modernità dei Sixty. 

(...) E il suo compagno di viaggio è Giangiacomo, “l’uomo nuovo” che una notte di settembre del 1958, due mesi dopo averla conosciuta a casa Rowohlt, sceglie il francese per scriverle le più belle parole d’amore: «Je te prends par la main et ensemble on part pour un long voyage — le voyage de notre vie».

Sideralmente lontana dal luccichio della mondanità, l’unione di “due sistemi caotici” si nutre di compassione, fragilità, cura reciproca delle ferite. «Mai prima ho sentito il tuo amore e la tua protezione in modo così forte e intenso, e provo già una grande nostalgia di te», le scrive Giangiacomo dopo il primo viaggio di Inge a Milano, sul finire del novembre del 1958. «Ti ringrazio amore mio per l’incredibile tenerezza e felicità che mi doni». Sono stati giorni meravigliosi, « the beginning of a wonderful life ». 

Sembra quasi di sentire la tromba di Armstrong, ma non è tutto favola nella costruzione di un amore, specie quando dalle energie tumultuose di entrambi nasce qualcosa che prima non c’era, non solo nella dimensione privata ma anche in quella pubblica. 

È questo il loro segreto, o meglio “complotto” come lo chiama Giangiacomo, l’inteamwork che mescola passione e progetto. «Ma la vera intimità richiede tempo», le scrive lui quando lei sembra sopraffatta dalle resistenze del compagno. «Se tutto combacia troppo in fretta e troppo perfettamente c’è il pericolo che un attimo dopo ciò che appariva meraviglioso diventi una illusione». La vita è continuo cambiamento, due persone che si amano scelgono di cambiare insieme. Inge è pronta per questa trasformazione?

Lei gli risponde con una cartolina raffigurante La macchina cinguettante, un’opera del 1922 di Paul Klee. E se fossi troppo ambiziosa? Lui avrebbe dato spazio a tutta la sua energia? Una volta Giangiacomo le aveva attribuito un “sophisticated ego”. Ora lei era disposta a metterlo al servizio di una idea. E di una causa, culturale e politica. Ancora qualche tentennamento e presto l’editore le avrebbe spalancato le porte di via Andegari, consapevole che Ingelein, “my queen”, avrebbe avuto un ruolo centrale in casa editrice. Forse anche più di una semplice “spalla”, piuttosto un catalizzatore di energie che terrà in vita la Feltrinelli ben oltre la morte del suo fondatore. 

(...)

Sono tante le pagine di Ingemaus che portano a propendere per un irresistibile istinto di sopravvivenza. Il rifiuto del padre Siegfried Schönthal è una di queste. L’incontro avviene un pomeriggio del 1952 a New York, Hotel Commodore, 42esima strada. Aveva otto anni, Inge, quando lo salutò per l’ultima volta, ora ne ha 22 e lo abbraccia con tutta la forza del rimpianto. 

Ma è immediata la percezione di una distanza: nella nuova vita americana di Väti — così lo chiama — non c’è spazio per lei. Chiunque vi avrebbe dedicato decenni di analisi, lei preferì liquidarlo in Inge film con una battuta tombale: in fondo è stata la mia fortuna, sarei diventata una noiosissima signora della middle class americana. Era la lezione della madre Traudl, traumi e ferite profonde non devono essere mai esibiti, meglio dare un taglio netto al passato più cupo. Lo stesso vale per la violenza subita da due uomini sul taxi diretto a Key West, in Florida: Inge non ne ha mai parlato, scegliendo di concentrarsi sull’esito di quel viaggio cubano, la celebre fotografia con Hemingway che avrebbe cambiato la sua vita. Sempre guardare in avanti, sempre inseguire l’impossibile.

(...)

Ginevra Bompiani.

Ginevra Bompiani: a ottant'anni volto pagina e mi butto in politica. Dopo una vita dedicata ai libri la scrittrice, traduttrice ed editrice si candida in Europa per "la sinistra". "L'età non è certo un problema, semmai lo è l'immutabilità del potere. Di Maio è giovane, no?" Concetto Vecchio su La Repubblica il 24 maggio 2023.

Rimpianti?, chiediamo a Ginevra Bompiani, mentre si distende sulla poltrona del salotto con in mano una tazza di tisana di rooibos, arancia e zenzero. "Da ragazza non ero male fisicamente, ma non ne ho mai fatto uso" risponde. Ottant'anni ad agosto, figlia del grande Valentino Bompiani, scrittrice, traduttrice, editrice di Nottetempo, amica di tutti i giganti del Novecento, da Calvino a Manganelli, ora scende per la prima volta in politica: candidata alle Europee per La Sinistra. 

Cosa significa che non ha mai usato la bellezza?

"Che non l'ho sfruttata, come in genere fanno le donne, senza esagerare s'intende". 

Come se non avesse avuto contezza di essere bella?

"Proprio così". 

Perché ha deciso di schierarsi alle elezioni?

"Ero a Parigi.

Ginevra e la sua battaglia. Forse è vero. Per far deflagrare l'Occidente, ha fatto notare qualcuno, non servono nemici. Luigi Mascheroni il 18 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Forse è vero. Per far deflagrare l'Occidente, ha fatto notare qualcuno, non servono nemici. Bastano i talk show e un paio di Ginevra Bompiani. Anche una sola... va'.

Ginevra Bompiani, figlia di troppo padre e maestrina della più infida sinistra intellettuale, quella che appoggia le peggiori cause appellandosi ai migliori sentimenti, ha un onorevole pedigree in fatto di opinioni televisive. Sul leader cinese Xi Jinping («una luce di speranza»), su Zelensky («un grande manipolatore»), sul governo Meloni («nazisti»), sugli scafisti («sono dei poveri cristi», che è un po' come condannare i trafficanti di droga scagionando i pusher), su Netanyahu («è molto peggio di Hamas»)...

Difficile dire se Ginevra Bompiani - nome dolce e carattere acido - pecchi maggiormente in livore, indottrinamento, prosopopea o protervia. Forse in incapacità di lettura della realtà. O mancanza del senso del ridicolo.

L'altra sera, passando da La7 a Rete4 con quella disinvoltura tipica degli idèologues che hanno lasciato Karl Marx in soffitta e si sono presi un attico nel Ghetto, ha accusato Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, di avere padri spirituali che furono complici dell'Olocausto. Il suo padre carnale, Valentino, invece, fu complice del progetto finanziato da Mussolini: quello di pubblicare, anno fascistissimo 1934, il Mein Kampf di Adolf Hitler, tradotto con il titolo La mia battaglia. Dalla casa editrice Bompiani.

Ebbe anche un discreto successo. Luigi Mascheroni

Sallusti da Porro, scontro con la Bompiani: "Destra patriarcale? Ma basta!" Libero Quotidiano il 05 settembre 2023

Alessandro Sallusti e Ginevra Bompiani sono stati ospiti di Nicola Porro a Stasera Italia, su Rete 4, nella puntata del 5 settembre. La scrittrice, che è dichiaratamente di sinistra attacca: "La destra è un movimento patriarcale, così come è patriarcale questo governo". A questo punto il direttore di Libero sbotta: "Ma basta! Ma basta!". 

Al che la Bompiani ribatte: "Dopo parlerà lei e io penserò ma basta ma non glielo dirò. Benissimo. Come dire, in Italia c'è anche un disprezzo, continua ad esserci un disprezzo per le donne". E prosegue ancora, la scrittrice: "Lo hanno dimostrato persino il fidanzato della premier (Andrea Giambruno, ndr) e alcuni magistrati che hanno detto cose terribili".

"Che erano donne però, scusi se la interrompo", interviene il conduttore.  

Ginevra Bompiani. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Ginevra Bompiani (Milano, 5 agosto 1939) è una scrittrice, editrice, traduttrice, saggista e accademica italiana.

Biografia

Figlia di Valentino Bompiani, per la cui casa editrice ideò la collana di letteratura fantastica “Pesanervi”, ha trascorso diversi anni a Parigi e a Londra per poi trasferirsi a Roma e nei dintorni di Siena. Ha insegnato per una ventina d'anni letteratura inglese all'Università di Siena.

Come traduttrice ha lavorato su opere di Antonin Artaud, Louis-Ferdinand Céline, Gilles Deleuze, Leonora Carrington e Marguerite Yourcenar.

Ha fondato nel 2002, con Roberta Einaudi (nipote di Giulio Einaudi), la casa editrice nottetempo, con sede a Roma, di cui è stata direttrice editoriale e presidente fino al 2016.

Mondadori.

 ARNOLDO MONDADORI (1889-1971) Angelica Basile su diacritica.it

Arnoldo: da Ostiglia alla vetta del successo.

Arnoldo Mondadori nacque a Poggio Rusco il 2 novembre 1889 da Domenico Secondo, calzolaio, ed Ermenegilda Cugola, terzo di sei fratelli. La famiglia si trasferì nel 1897 ad Ostiglia – sempre nel mantovano – poiché Domenico aveva deciso di aprirvi un’osteria. Arnoldo, fin dalla giovanissima età, si cimentò nei lavori più disparati e diversi, dal venditore ambulante all’annunciatore delle didascalie dei film muti, fino ad approdare a quello di garzone tipografo, che sarebbe stato il preludio per la sua futura attività:

Si potrebbe addirittura dire che il futuro di Mondadori è già tutto qui: certamente ci sono qui le premesse di un forte desiderio d’emancipazione, che troverà nella tipografia e nell’editoria il suo campo e i suoi mezzi di realizzazione. L’aspirazione all’egemonia nel mercato editoriale e alla personale promozione culturale, in sostanza, avranno per Arnoldo avranno anche il significato comune di un riscatto dalle origini[1. G. C. Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Torino, Einaudi, 2004, p. 10.].

La prima tappa del percorso che vide Mondadori rapportarsi alla politica fu tracciata in quegli anni: divenne ben presto militante socialista, in un momento in cui nella sua zona d’origine, il mantovano, era acceso lo scontro tra riformisti e sindacalisti rivoluzionari. E proprio a quest’ultima fazione aderì il giovane Arnoldo, il quale fin da subito si dimostrò attivo e desideroso di agire concretamente al fine di un’azione più radicale e polemica nei confronti della Direzione nazionale del partito. Proprio all’esperienza socialista s’incrociò quella del lavoro in tipografia: con l’obiettivo di stampare un foglio di propaganda e proselitismo insieme ad alcuni suoi compagni, ma non avendo i fondi necessari a disposizione, si offrì come garzone in una vecchia tipografia ostigliese. Grazie a questo espediente uscì ben presto «Luce», attivo tra il 1907 e il 1908. Il giornalino ottenne l’attenzione di un ricco anziano del luogo, il quale – stupito dalla tanta voglia di fare dimostrata da Arnoldo – decise di finanziare economicamente la prima piccola impresa mondadoriana: «La Sociale». Quest’ultima venne utilizzata sia come libreria sia come tipografia/cartoleria e il giovane di Ostiglia vi mise talmente tanto impegno e passione che decise di lasciare la militanza politica per sposare completamente il nuovo mestiere.

La prima commissione editoriale arrivò da un personaggio assai famoso ad Ostiglia: Tomaso Monicelli, drammaturgo, giornalista, socialista e sindacalista rivoluzionario prima, nazionalista ed antigiolittiano poi, futuro padre del celebre regista Mario, che tra il 1911 e il 1912 chiese ad Arnoldo la pubblicazione dei racconti Aia Madama, il primo volume edito con il marchio Mondadori [2. Cfr. E. Decleva, Arnoldo Mondadori, Torino, UTET, 1993, pp. 3-15.].

La casa editrice nacque in questo modo, dimostrando un’ottima qualità dei testi e delle illustrazioni fin dall’inizio, tanto che ottenne ben presto l’attenzione di molti, anche fuori dal limitato territorio di Ostiglia. Dopo che l’azienda cominciò a occuparsi anche della stampa di opere scolastiche, nel 1917 si ampliò con un nuovo stabilimento, andando poi a unirsi con un’altra importante ditta proprietaria di numerosi impianti nel veronese, la Franchini. Fu, dunque, creata la nuova società denominata «Stabilimenti Tipo-Lito-Editoriali A. Mondadori già “La Sociale” e Gaetano Franchini».

Furono, quelli, anni complessi, con il Paese in guerra, che si dimostrarono il primo vero campo di espansione dell’imprenditore Arnoldo. Infatti, l’esercitò cominciò a commissionargli edizioni scolastiche per gli istituti speciali destinati ai soldati; inoltre, Mondadori seppe approfittare anche della temporanea espansione del genere della narrativa, che nell’immediato dopoguerra sembrava essere una risposta e una rivalsa alle tragedie appena vissute. Nel 1919, infatti, fondò la «Casa editrice A. Mondadori» con sede sempre a Ostiglia e amministrazione a Roma. Il programma era quello di «partecipare alle correnti più vive del pensiero e della vita nazionale con un contributo editoriale informato a novità e arditezza» [3. «Giornale della libreria, della tipografia e delle industrie affini», 7-15 marzo 1919, p. 85.].

Non v’era, dunque, l’intenzione di rivolgersi a un pubblico ben preciso o di occuparsi di un genere in particolare (a differenza di quanto fecero i grandi editori a cavallo tra ’800 e ’900 come Treves e Sonzogno). Al contrario, Arnoldo Mondadori voleva coprire il più ampio spettro di conoscenza possibile, prendendo come destinatario un lettore medio, a cui proporre libri di narrativa e di saggistica, italiani o stranieri, e poi ancora gialli e fumetti. Per questi motivi egli viene comunemente definito come il primo editore industriale del nostro Paese [4. Cfr. M. Panetta, Panorama storico-critico dell’editoria italiana del Novecento, in «Bibliomanie. Ricerca umanistica e orientamento bibliografico», n. 24, gennaio/marzo 2011].

Un altro fattore che contribuì in buona parte al successo mondadoriano fu l’intuizione dell’editore di trovarsi in un periodo di svolta verso una progressiva industrializzazione dell’editoria, nella quale era necessario un piano di alleanze e sostegni economici, per potersi dire competitivi sul mercato e per diversificare l’offerta. Fu in questo senso che il lungimirante Arnoldo cercò, infatti, l’appoggio del finanziere e industriale Senatore Borletti, il quale fu per un periodo anche presidente dell’azienda [5. Cfr. N. Tranfaglia, A. Vittoria, Storia degli editori italiani, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 38.].

Gli anni Venti furono quelli della svolta per il self-made man di Ostiglia: fu allora che egli si dedicò ad ottenere il monopolio nel campo dei libri di consumo, il cui punto di riferimento era stato fino ad allora Treves. Riuscì a sottrarre all’editore triestino moltissimi autori, primo fra tutti Gabriele d’Annunzio, seguito da Federigo Tozzi, Luigi Pirandello, Ada Negri, Marino Moretti e molti altri.

Passò nelle sue mani anche la gestione del quotidiano «Il Secolo», simbolo e portavoce della democrazia radicale lombarda e a lungo di proprietà di Sonzogno. Dopo aver attraversato crisi finanziarie e cambi di rotta, il quotidiano nel 1923 venne rilevato dal finanziere Cesare Goldman e, appunto, da Borletti che ne assunse la presidenza. Le vicende intorno al «Secolo» sono assai significative in quanto fu proprio questo quotidiano il primo punto di contatto tra Mondadori e il fascismo.

Mondadori e il regime

La nuova direzione del «Secolo» venne assunta su designazione di Mussolini in persona, mentre i collaboratori del quotidiano nel suo periodo di caratterizzazione democratica lasciarono “spontaneamente” la redazione. Il Programma del giornale, firmato da Borletti, dichiarava l’aperto fiancheggiamento al regime, per dissipare gli ultimi dubbi al riguardo. Il mutamento di direzione assunse, quindi, un carattere spiccatamente politico, e fu funzionale anche alla contrapposizione con «Il Corriere della Sera», diretto da Albertini, contro il quale vennero lanciate dal «Secolo» violente campagne denigratorie.

Arnoldo Mondadori non figurava in questo quadro solamente come collaboratore di Borletti, ma si era bensì dichiarato fedele alle intenzioni politiche del Duce. Nel febbraio del 1924 il direttorio del PNF (o Partito Nazionale Fascista), sezione di Verona, lo aveva iscritto in quanto cittadino di provata fede politica fascista. Già nei mesi che precedettero la marcia su Roma del ’22, l’editore si era personalmente incaricato di stampare i manifestini che incitavano i soldati a rifiutarsi di osteggiare l’avanzata dei militanti.

Nel giugno del 1923 vide la luce L’uomo nuovo, scritto da Antonio Beltramelli, con appendice di Marinetti, ed edito, appunto, da Mondadori. È considerato il capostipite del genere apologetico su Mussolini [6. Cfr. E. Decleva, Arnoldo Mondadori, op. cit., pp. 70-75.], continuato dall’editore già nel 1926 con la pubblicazione della biografia del dittatore, di Margherita Sarfatti, con prefazione dello stesso Mussolini, apparsa con il titolo Dux prima nella collana «Politica e guerra» e poi in «Scie». Uscirono sotto questa collana, dopo il 1945, testi come i Diari di Ciano, La mia vita con Benito di Rachele Mussolini e ancora i ricordi di Badoglio e di Goebbels.

Assai interessanti le vicende intorno alla pubblicazione di un testo come Colloqui con Mussolini, scritto da Emil Ludwig e pubblicato nel 1927, dopo aver ovviamente ricevuto il lasciapassare del dittatore [7. Cfr. N. Tranfaglia, A. Vittoria, Storia degli editori italiani, op. cit., p. 306.]: innanzitutto, l’editore vedeva nel volume la possibilità di portare a compimento quel processo – iniziato con L’uomo nuovo e Dux – che avrebbe dovuto associare la casa editrice al nome di Mussolini. In secondo luogo, Emil Ludwig era stato scelto in quanto si era dimostrato abile scrittore di biografie di uomini del passato (da Napoleone a Lincoln) ed era in cerca di una figura di dittatore da ritrarre. Dopo essersi occupato di Stalin, aveva concentrato la propria attenzione proprio su Benito Mussolini e Mondadori aveva intravisto la possibilità di un grande successo. Ma già dai primi incontri tra l’autore e il Duce a palazzo Venezia erano sorti problemi: il protagonista della biografia apportava continuamente modifiche al contenuto delle bozze. Eliminava intere frasi, ritrattava quanto detto, soprattutto nel caso in cui si fosse lasciato troppo andare a causa del tono confidenziale instauratosi con Ludwig. Quando si era trovato a parlare dell’origine del suo potere sulle masse, delle sue tecniche per accrescere il consenso, dei problemi di convergenza con il Vaticano, Mussolini era andato troppo oltre. Così l’entourage del dittatore si occupò personalmente di apportare alle nuove edizioni che via via venivano stampate numerosi cambiamenti, fino a quando Mussolini non decise di ritirare i Colloqui dal mercato nel 1938, a seguito della svolta delle leggi razziali, poiché lo scrittore, essendo ebreo tedesco, perseguitato dai nazisti, era fuggito dal proprio Paese [8. Cfr. E. Decleva, Arnoldo Mondadori, op. cit., pp. 166-172.].

Nel 1926 ci fu un altro momento importante per il rapporto tra Mondadori e il Duce, quando fu siglato l’accordo per la pubblicazione degli Opera Omnia di d’Annunzio. Furono fondamentali le figure di Monicelli e di Borletti (legato al poeta Vate da un’amicizia iniziata con la condivisione dell’esperienza fiumana) e come risultato dell’accordo si ebbe la costituzione dell’Istituto nazionale per l’edizione di tutte le opere di d’Annunzio, patrocinato da Vittorio Emanuele III, con presidente onorario Benito Mussolini, presidente il ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele, Borletti vicepresidente e Mondadori amministratore delegato. I primi volumi furono particolarmente apprezzati da d’Annunzio e costituirono anche un ottimo affare commerciale, destinato a concludersi solo nel 1936 con l’uscita del volume degli Indici.

Sempre a partire 1926, l’editore strinse rapporti sempre più stretti con il ministro Alessandro Casati, il quale gli affidò la stampa degli Annali della Pubblica Istruzione, che permise a Mondadori di divenire il primo editore italiano per la produzione di libri scolastici [9. G. Pedullà, Gli anni del fascismo: imprenditoria privata e intervento statale, in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, a cura di G. Turi, Milano, Giunti, 1997, pp. 341-382, cit. a p. 349.]. Tale posizione privilegiata venne confermata quando, nel 1928, fu creato un Provveditorato di Stato con il compito di realizzare opere di carattere culturale e scientifico in linea con le volontà del regime e, soprattutto, quando venne anche imposto il libro unico per le scuole elementari. E proprio Mondadori fu colui il quale riuscì a trarne un vantaggio maggiore, poiché la sua azienda ottenne il monopolio nazionale della stampa del libro di Stato.

Intanto, nel 1928, in redazione era arrivato Luigi Rusca, il quale sarebbe stato una figura assai importante per l’iter dell’azienda mondadoriana. Lo studioso di letterature classiche e contemporanee era già stato precedentemente nell’ambito editoriale, ricoprendo la carica di vice-segretario generale del Touring Club Italiano, dal quale fu licenziato dopo aver rifiutato di iscriversi al PNF. Quest’ultimo episodio non era ben visto da Arnoldo, e infatti Rusca fu assunto in casa editrice per volontà unica di Borletti, il quale gli affidò il compito di dare una scossa all’azienda, che viveva un periodo di flessione a livello economico. Rusca consigliò prontamente un taglio delle spese della Direzione generale e del personale, nonché un riesame dei conti dei singoli autori. Sotto la spinta di questo rinnovamento, nel 1929 nacquero varie collane divenute poi celebri come «Libri gialli» (che divenne a tal punto un modello di riferimento che il colore delle copertine è passato a indicare in pochi anni la letteratura poliziesca in generale), «Libri azzurri» (con romanzi italiani), «Libri neri» (con i romanzi di George Simenon), «Libri verdi» di impronta storica. Inoltre, tra il 1930 e il 1938, sempre grazie a Rusca videro la luce «Biblioteca Romantica», «Romanzi della Palma», «Medusa» e «Omnibus» [10. Cfr. A. Cadioli, G. Vigini, Storia dell’editoria italiana dall’Unità ad oggi, Milano, Editrice Bibliografica, 2004, p. 66.].

Ad ogni modo, è assai interessante notare come la presenza di Rusca in casa editrice avesse attratto la partecipazione di molti autori o personaggi di dichiarata fede antifascista, come i due ex-collaboratori di Gobetti, Arrigo Cajumi e Luigi Emery, o Giuseppe Marus, anch’egli antifascista, e ancora Barbara Allason, gobettiana, a cui vennero affidate numerose traduzioni, prima che fosse pubblicato un suo volume, Vita di Silvio Pellico, nel 1933. Lo stesso si poté dire per Luigi Salvatorelli che nel 1935 fu inserito tra gli autori della Storia d’Italia illustrata.

Tutto questo significò un cambio di rotta per una delle case editrici più vicine al regime e a Mussolini? Ovviamente no: Rusca poteva portare in azienda quanti collaboratori voleva, ma l’ultima parola spettava inevitabilmente al capo Arnoldo, il quale fu sempre ben attento a non stuzzicare troppo la pazienza del Duce. I volumi che uscivano con la sigla Mondadori non potevano essere neppure sospettati di dissociazione o di non allineamento [11. Cfr. E. Decleva, Arnoldo Mondadori, op. cit., pp. 139-141.].

Forte della sua particolare condizione di gregario devoto [al regime: n. d. r.], o devotissimo, come amava definirsi e firmarsi, Mondadori si riteneva semmai autorizzato a rivendicare personalmente una sorta di naturale funzione di garante dei prodotti messi in circolazione, da considerare al di sopra di ogni sospetto per il solo fatto di uscire sotto le sue insegne [12. Ivi, p. 142.].

Gli anni Trenta videro in Italia un importante dinamismo editoriale, seppur con nette differenze tra Nord e Sud del Paese. La letteratura di consumo fu sicuramente quella che più ebbe successo nel periodo, anche perché andava incontro a un nuovo pubblico in espansione, formato da gruppi sociali emergenti; insegnanti, impiegati, professionisti, commercianti motivarono l’affermazione di tutti quei settori editoriali in cui la Mondadori eccelleva: in primo luogo, proprio i gialli, di cui abbiamo visto essere precursore l’editore Arnoldo, ma anche i fumetti e la fantascienza.

Nel periodo di regime la posizione degli editori italiani era di sostanziale allineamento, salvo rari casi, come quelli di Laterza, Guanda, Formiggini ed Einaudi. Con la costituzione del Ministero per la Stampa e la Propaganda nell’ottobre 1935, poi divenuto nel 1937 Ministero della Cultura Popolare, il controllo sulle pubblicazioni divenne più serrato.

Dopo aver tracciato questo quadro, possiamo collocare senza molti dubbi l’azienda Mondadori al fianco del regime, ma d’altra parte non possiamo ridurre la sua produzione editoriale nel ristretto ambito della propaganda fascista o in quello della ricerca del consenso al regime. L’appoggio del Duce e della sua cerchia, comunque, ci fu, anche sotto forma di facilitazioni finanziarie, come quando nel 1934 l’IRI concesse alla Mondadori un mutuo quindicinale di 4 milioni e mezzo al 6%.

Analizzando i 1.700 titoli pubblicati dalla Mondadori tra il 1933 e il 1940, si può notare come quelli direttamente collegati al fascismo fossero poco più di un centinaio. Questa cifra basta comunque a identificare la Casa come quella più vicina al regime, anche se toccò a Hoepli pubblicare gli Scritti e discorsi di Mussolini, certamente uno dei libri più importanti in tal senso. Molti testi erano riferiti alla guerra in Etiopia, come La marcia su Gondar di Achille Starace, segretario del PNF e luogotenente generale della Milizia.

D’altra parte, però, la presenza di numerosi collaboratori antifascisti, portati in casa editrice da Rusca, e il fatto che la maggior parte dei testi – soprattutto letterari – avessero uno stile e un contenuto antitetici alla retorica e alla chiusura provinciale promossa dal regime faceva di Mondadori una sigla comunque non schiava della dittatura [13. Cfr. N. Tranfaglia, A. Vittoria, Storia degli editori italiani, op. cit., p. 308.].

Un ultimo fatto va considerato di questo periodo: l’introduzione da parte dell’editore in Italia di molti autori europei e americani attraverso una collana che rivoluzionò il mondo del libro nazionale: «Medusa».

«Medusa»

Il progetto di una collana che portasse i grandi romanzi stranieri nel Bel Paese bolliva in pentola già nel 1931, ma le numerose collane sorte nei primi anni Trenta lo posero in secondo piano. L’occasione fu creata, comunque, nel 1933, quando il primo volume della collana fu dato alle stampe. Si trattava del libro Il grande amico di Alain-Fournier, venduto al prezzo di 9 lire. Nel progetto della «Medusa», Arnoldo mise tutta l’esperienza di editore acquisita negli anni e, in particolare, quella di poco precedente maturata per conto delle edizioni Albatross, per cui egli si era fatto editore di molti testi inglesi e americani in lingua originale. La collana in questione si chiamava «Albatross Modern Continental Library», fu inaugurata con un’edizione di Dubliners di Joyce e i volumi in essa contenuti non furono rivoluzionari tanto per il contenuto quanto per la veste grafica, considerata un vero e proprio modello per i paperbacks (o ‘libri tascabili’). Il progetto Albatross non ebbe gran fortuna e fu questo uno di quei casi in cui l’allievo supera il maestro: l’allievo in questione fu proprio «Medusa», che guardò alla collana anglosassone soprattutto per il formato, che rimase oblungo, seppur con dimensioni maggiori, riproducendo quasi alla lettera i caratteri dei nomi e dei titoli, nonché l’aspetto elegante e maneggevole. Mondadori portò, dunque, nella casa editrice l’esperienza della sua “gita fuori porta”, e fu una mossa assolutamente vincente [14. Cfr. E. Decleva, Arnoldo Mondadori, op. cit., pp. 186-188.].

Dietro al nome della collana non si celano grandi significati: esso fu scelto quasi per caso e fu di conseguenza disegnato il simbolo del mostro con la testa in versione stilizzata e le ali che spuntavano dietro di essa, inserita nella copertina bianca e verde con il bordo nero. Il tutto sarebbe diventato iconograficamente un modello da imitare, per eleganza e qualità, nonché simbolo delle migliaia di titoli che nei decenni sarebbero usciti nella collana. Solo nei primi tre anni vennero stampati più di sessanta titoli, molti dei quali scritti da Premi Nobel e autori celebri.

«Medusa» rappresentò, dunque, una svolta verso la modernità e, inoltre, fu con la creazione di essa che l’editore riuscì ad aggirare il vincolo posto dal fascismo, che si proponeva la creazione di una letteratura autarchica fatta da soli autori nazionali. Mondadori, invece, con il proprio progetto culturale, portò gli italiani a conoscere molti importanti scrittori stranieri, che sarebbero rimasti altrimenti sconosciuti almeno fino al 1945. Mondadori aggirò l’ostacolo posto dal divieto fascista innanzitutto richiamando i meriti della Casa nella diffusione delle opere italiane e affermando il fatto che la cultura «oltre all’alimento interno», necessitasse, «per essere veramente vitale, di contatti esteriori» [15. Per la rivendicazione d’italianità cfr. la Nota dell’Editore, in Almanacco della «Medusa», Milano, Mondadori, 1934, pp. 9-11; si legge anche in E. Decleva, Arnoldo Mondadori, op. cit., p. 188.]. In secondo luogo, l’editore seppe abilmente girare a proprio favore le parole dello stesso Mussolini, il quale aveva dato come direttiva quella di non limitare gli scambi con gli altri paesi, laddove le opere in questione fossero di arricchimento per il patrimonio artistico e culturale italiano. Con una forzatura alquanto azzardata, Mondadori rivendicò con forza il progetto di «Medusa» di portare in traduzione i libri degli scrittori stranieri più degni di nota. L’operazione, secondo lui,

costituiva un’alta opera di italianità, contribuendo efficacemente a liberare il nostro paese dalla soggezione verso altre lingue europee attraverso le quali il pubblico era solito conoscere, sovente con grande ritardo e dubbi criteri di scelta, i libri pubblicati nel mondo [16. Ibidem.].

Nella realtà, com’è ovvio, l’editore intendeva difendersi preventivamente dalle accuse del regime, così da non rischiare d’incrinare in nessun modo i rapporti di privilegio che con esso aveva stretto. Concretamente l’operazione di «Medusa» andava nella direzione diametralmente opposta a quella di esaltazione nazionale. E questo non sfuggiva certamente agli intellettuali italiani: Pavese – ad esempio –, a guerra conclusa, dichiarò che quello della collana mondadoriana era stato un «primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non tutto nella cultura del mondo finisce coi fasci» [17. C. Pavese, Ieri e oggi, in «l’Unità», 3 agosto 1947, rist. in Id., La letteratura ed altri saggi, Torino, Einaudi, 1971, p. 194.].

L’operazione della collana riuscì soprattutto per quanto riguardava titoli anglosassoni, mentre i testi francesi continuavano a essere letti principalmente in lingua originale da un pubblico colto e ristretto. Ma il fenomeno assai più importante legato alla «Medusa» fu che in essa trovarono spazio testi di autori tedeschi e austriaci, i quali, per motivi politici o perché ebrei, erano dovuti fuggire dal proprio paese. Allo stesso tempo, fu fondamentale per i giovani cresciuti sotto il fascismo ma che non si riconoscevano in esso scoprire la letteratura americana, la quale permetteva loro un ampliamento di orizzonti non indifferente. Herman Hesse, Thomas Mann, Arnold Zweig, David Garnett furono solo alcuni degli autori che resero celebre la collana, anche grazie a traduzioni di pregio, affidate a Eugenio Montale, Corrado Alvaro, Cesare Pavese, Elio Vittorini [18. Cfr. N. Tranfaglia, A. Vittoria, Storia degli editori italiani, op. cit., p. 316.]. Molti di questi scrittori si trovarono per la prima volta nella veste di traduttori proprio lavorando per «Medusa», tanto che si è soliti affermare che Arnoldo Mondadori abbia inventato il mestiere del traduttore letterato.

Possiamo, inoltre, notare come molti di quegli scrittori fossero legati, in modo più o meno stretto, al PCI e come tale fatto non fosse propriamente prevedibile da un editore allineato ai dettami del fascismo, quale Mondadori si era più volte dichiarato.

Ad ogni modo, nel 1938, con l’emanazione delle leggi razziali e della circolare che imponeva il nulla osta preventivo del Ministero della Cultura popolare per gli autori stranieri, fu compilato anche un registro di tutti gli scrittori che non erano graditi al regime. Mondadori fu, in conseguenza di ciò, costretto a modificare di molto il proprio catalogo: una parte degli autori presente in esso era ebrea, e non c’erano più gli estremi affinché si potesse continuare a pubblicare. Venne, ad esempio, impedita l’uscita di Vita di Chateaubriand di Maurois, appunto perché l’autore era ebreo.

Si decise, allora, per un ritorno alla letteratura nazionale, con una particolare attenzione per gli autori nuovi, giovani, esordienti. Nel 1940, per iniziativa del figlio di Arnoldo – Alberto – e di Arturo Tofanelli, fu creata la collana «Lo Specchio», in cui comparvero per la prima volta i nomi di Bontempelli, Dessì, Manzini e, soprattutto, di Alberto Moravia, Salvatore Quasimodo e Giuseppe Ungaretti.

Va, infine, aggiunto che nel 1935 videro la luce anche «I Quaderni della Medusa» e che nell’immediato dopoguerra nacque la «Medusa degli italiani», che venne creata con l’obiettivo di portare dalla propria parte autori nuovi ed emergenti, e che restò in piedi fino al 1961.

Gli anni Quaranta e Cinquanta: la guerra, le riviste

Nel 1940, in piena guerra, l’Annuario dell’Associazione delle società italiane per azioni indicava che erano presenti sul territorio nazionale solo ventiquattro aziende editoriali, dopo l’epurazione ad opera fascista avviata nel 1938. Mondadori vi figurava al primo posto per capitale sociale e l’unica che sembrava in grado di poterle tenere testa era la UTET. Durante lo svolgimento del conflitto, l’editore si riconfermò abile interprete delle tendenze degli italiani: pubblicò numerosi volumi di stampo propagandistico, nonché una vasta raccolta di testi consolatori o di evasione, destinati ai combattenti italiani al fronte [19. Cfr. G. Pedullà, Gli anni del fascismo: imprenditoria privata e intervento statale, in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, a cura di G. Turi, op. cit., p. 379.].

«Tempo»

Arnoldo divenne, a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, editore di «Topolino», con un’operazione commerciale (lo strappò alla Nerbini) che anticipò l’acquisto di molti altri periodici, come «Grazia», «Novellissima» e soprattutto «Tempo». Quest’ultimo arrivò in edicola alla fine del 1939, ponendosi come l’antagonista principale del rizzoliano «Oggi», e venne diretto dal primogenito di Arnoldo, Alberto, allora venticinquenne. Della redazione facevano parte nomi celebri come Ezio Levi, Mario Monicelli, Tullio Cimadori e molti altri. Alberto portò in «Tempo» i rudimenti di giornalismo che gli erano stati dati da Cesare Zavattini, quando si era unito alla redazione di «Settebello» nel 1937. Alberto «politicamente era un fascista “di sinistra”, entusiasta e sensibile alle seduzioni bottaiane» [20. E. Decleva, Arnoldo Mondadori, op. cit., p. 240.] e per la formula da adottare guardava al modello statunitense di «Life»: si proponeva di creare una rivista di cultura, di arte e divulgazione, non indirizzata a un pubblico di élite, bensì a uno molto più ampio. Inoltre, sempre dal capostipite americano «Tempo» aveva ereditato l’attenzione per lo spazio riservato ai servizi fotografici e alle immagini in generale, portando – tra le altre cose – il colore in una rivista per la prima volta in Italia.

Fin da subito, «Tempo» si pose come un elemento di rottura rispetto alla tradizionale impostazione italiana e impose una svolta verso la modernità: per questo attirò l’attenzione dei tanti periodici concorrenti. Un episodio esemplare fu l’attacco lanciatogli da «Tevere», giornale dell’antisemita Telesio Interlandi, quando venne pubblicata la foto di due signori che tenevano in mano una copia di «Tempo» e una di «Life» e sotto veniva riportata la didascalia «Preferite i prodotti nazionali che non hanno nulla da invidiare ai più celebrati prodotti stranieri» [21. A. Palinuro, Cose lette. Esterofagia, in «Il Tevere», 7-8 giugno 1939.]. Mondadori non fece attendere la propria risposta, forte anche dell’appoggio di Mussolini, sotto il cui vaglio era già passato il progetto di «Tempo».

Nel periodo del secondo conflitto mondiale, veniva ribadita da parte di Alberto Mondadori la volontà di far coincidere gli interessi culturali italiani e tedeschi, tanto che nel novembre 1940 egli si recò di persona a Berlino per incontrare il ministro hitleriano della propaganda Goebbels. Ciò coincise anche con la decisione di stampare in più versioni in lingua straniera «Tempo»: il primo Paese cui fu destinata l’operazione commerciale fu proprio la Germania e venne registrato un tale successo che tra il 1941 e il 1942 furono create le versioni in spagnolo, croato, greco, romeno, albanese, francese e ungherese [22. E. Decleva, Arnoldo Mondadori, op. cit., pp. 256-259.].

Dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943, «Tempo» passò sotto la direzione di Arturo Tofanelli, il quale era sempre stato considerato – tra i componenti della redazione ˗ quello meno vicino al fascismo.

Mondadori editore dei periodici fascisti

Più palesemente schierati di «Tempo» furono altri periodici mondadoriani editi all’inizio degli anni Quaranta. Innanzitutto, Arnoldo si assicurò la pubblicazione, per conto del PNF e della GIL (o Gioventù Italiana del Littorio) del settimanale «Il Balilla» e dei quindicinali «Passo romano» e «Donna fascista».

Inoltre, nel 1940 vide la luce «Primato», quindicinale letterario e artistico voluto da Giuseppe Bottai, l’allora ministro dell’Educazione nazionale. La volontà dietro «Primato» era quella di un interventismo culturale, di radunare una serie di intellettuali che potessero reggere il confronto con quelli stranieri, in particolare europei. In concomitanza con ciò, venne creata la collana «Lo Specchio», nella quale trovò spazio il volume Il Tesoretto, una miscellanea antologica di brani di molti autori, la maggior parte dei quali collaboratori proprio di «Primato». Non era affatto una coincidenza, dal momento che una comunità di intenti univa l’editore al ministro: alimentare la diffusione di autori più o meno nuovi per la formazione di un’Italia fiera dei propri mezzi, tanto da non aver motivo alcuno di provare invidia per le opere straniere. Bottai guardava a «Primato» come allo strumento per far uscire il fascismo da una crisi che andava via via sempre più profilandosi all’orizzonte, avendo il periodico, secondo lui, le potenzialità per la creazione di una cultura nazionale [23. Cfr. N. Tranfaglia, A. Vittoria, Storia degli editori italiani, op. cit., p. 313.].

La fine della guerra e il confronto tra Arnoldo e Alberto

Nell’ottobre del 1942 iniziarono i bombardamenti inglesi su Milano; Arnoldo Mondadori prese la decisione di spostare gli uffici amministrativi a Verona e, dopo qualche tempo, ad Arona in provincia di Novara. Intanto, Rusca – dopo essere stato spiato e giudicato colpevole dalla polizia di regime – venne internato e, dopo la notizia dell’armistizio e la successiva assunzione di controllo del Nord del Paese da parte della Germania, il Comando tedesco requisì lo stabilimento di Arona per esigenze di propaganda. Allora, Giorgio e Alberto – figli di Arnoldo – ripararono in Svizzera e, poco dopo, l’editore stesso decise di raggiungerli.

Alla caduta mussoliniana, seguì un cambiamento di rotta in casa Mondadori, nella quale acquistarono maggior peso le idee filosocialiste di Alberto, che si erano già fatte valere per il solo avvio di un periodico come «Tempo» e per la caratterizzazione data alla collana «Lo Specchio». A tal proposito, è interessante citare una lettera da lui scritta al padre nel febbraio del 1945, in cui Alberto prevedeva la conquista del potere da parte delle sinistre, con le quali sarebbe stato giusto collaborare. Erano quelli gli anni in cui il figlio dell’editore si era iscritto al PSIUP e l’idea che aveva maturato era quella di far ripartire da lì la pulizia della Mondadori dall’ingombrante passato fascista. La proposta di Alberto trovò la netta opposizione del padre, che non voleva vedersi identificato con una parte politica in particolare. Arnoldo concluse affermando: «I miei metodi, in qualunque regime, sono i soli che possano dare la sicurezza di vittoria» [24. Cfr. Alberto al padre, 9 febbraio e 3 marzo 1945, e Arnoldo al figlio, 28 febbraio 1945, in Alberto Mondadori, Lettere di una vita 1922-1975, a cura di G. C. Ferretti, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori-Arnoldo Mondadori Editore, 1996, pp. 88-112; citato anche in G. Turi, Cultura e poteri nell’Italia repubblicana, in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, op. cit., pp. 383-448, cit. a p. 383.]. Alle suggestioni politiche del figlio, che trovavano il loro naturale proseguimento nella divulgazione saggistica, l’editore rispose continuando a orientare la produzione della casa editrice soprattutto sulla narrativa, nazionale e straniera.

Nel giugno del 1944, Rusca aveva potuto far ritorno dal soggiorno obbligato con l’accusa di antifascismo e aveva preso la gestione della filiale romana della casa editrice. Sotto la sua direzione, la Mondadori capitolina istituì una politica editoriale sicuramente più aperta rispetto alla casa madre, che era rimasta sotto la Repubblica di Salò. Questi due elementi insieme ci permettono di tracciare un quadro della Casa del dopoguerra in cui agirono da più parti spinte verso un mutamento di rotta. Il tutto si concretizzò nelle scelte editoriali legate a due nuove collane: quella letteraria «Il Ponte», che fu inaugurata nel 1946 con Addio alle armi di Hemingway, e «Orientamenti», fondata nel 1944 da Rusca e che si proponeva la diffusione di testi politici e sociali che potessero indagare i vari svolgimenti del mondo contemporaneo.

Nel 1949, inoltre, un viaggio negli Stati Uniti di Giorgio Mondadori inaugurò il periodo di rinnovamento tecnico degli impianti che coincise anche con l’imposizione della linea di Arnoldo su quella del figlio. La spaccatura preannunciata tra padre e figlio avvenne concretamente nel 1958, quando Alberto fondò la casa editrice Il Saggiatore, tentando di «realizzare un’esperienza completamente autonoma, dopo la lunga storia di conflitto con il padre-presidente» [25. G. C. Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, op. cit., p. 97.]. Nella realtà, ciò non si verificò subito, poiché la nuova casa editrice dipese economicamente per moltissimo tempo dai prestiti elargiti da Mondadori. Tuttavia, fu interessante l’operazione commerciale di Alberto, il quale – costruendo un’attività propria – poteva finalmente esprimere l’idea di produzione libraria che da più di dieci anni tentava di imporre nella Casa madre.

Nella concezione del libro come mezzo di crescita culturale e soprattutto civile, nella quale non manca un’influenza marxista, Il Saggiatore riunì un folto gruppo di intellettuali specializzati nei più diversi settori: dal critico Giacomo Debenedetti – che dirigeva la collana «Le Silerchie» ˗ all’archeologo Ruggero Bianchi Bandinelli, dallo storico dell’arte Giulio Carlo Argan al musicologo Fedele D’Amico, al filosofo Remo Cantoni. Così le più varie discipline trovavano spazio e voce in un progetto editoriale che si proponeva anche di svecchiare la cultura italiana, puntando a un pubblico nuovo e moderno [26. Cfr. A. Cadioli, G. Vigini, Storia dell’editoria italiana dall’Unità ad oggi, op. cit., p. 107.].

Sul finire degli anni Quaranta, precisamente nel 1948, vide la luce la collana «Biblioteca Moderna Mondadori», nella quale venne collocata la monumentale opera di Winston Churchill sulla Seconda guerra mondiale. Nello stesso anno, Arnoldo conquistò definitivamente l’esclusiva di Hemingway. Negli anni Cinquanta si puntò moltissimo su questa collana, che concretamente fece da concorrente alla fortunatissima «BUR».

Gli anni Cinquanta di «Epoca» tra filoamericanismo e DC

Gli anni Cinquanta confermarono la Mondadori come uno dei due poli industriali del mondo editoriale italiano, assieme a Rizzoli. Si affacciarono importanti mutamenti all’orizzonte, con l’intensificarsi dei rapporti tra la casa editrice e gli Stati Uniti, dopo il viaggio inaugurale di Giorgio, cui si è accennato. La strada percorsa da Arnoldo fu quella dell’ottenimento dei crediti agevolati nell’ambito degli aiuti americani dell’epoca, ovvero all’interno del Piano Marshall. Fu durante i viaggi oltreoceano organizzati ad hoc che l’interesse dell’editore per gli USA crebbe vertiginosamente. Una delle sue fonti di orgoglio era proprio quella di aver contribuito a diffondere le opere di scrittori statunitensi come il già citato Hemingway. Inoltre, negli intermezzi americani, Arnoldo era solito incontrarsi con Walt Disney ed Henry Luce, proprietario di «Life», periodico modello per «Tempo». Oltre a sottolineare come grazie agli aiuti finanziari statunitensi l’azienda avesse potuto ampliarsi e migliorarsi (nel 1957 furono inaugurate le nuove officine grafiche a Verona), preme in questa sede far notare come le scelte mondadoriane in direzione degli USA avessero un preciso significato politico in epoca di Guerra fredda: basti solo pensare al diverso atteggiamento di Feltrinelli negli stessi anni verso l’Urss.

Ad ogni modo, i viaggi negli Stati Uniti furono utili anche a livello prettamente editoriale: la Casa milanese si impose negli anni Cinquanta per la produzione di periodici, continuando una tradizione iniziata in epoca fascista, ma che, proprio grazie all’influenza dei modelli USA, poté fare un salto di qualità. Tra tutti il più importante fu senza dubbio «Epoca», quello che maggiormente guardava al modello di «Life».

Il 14 ottobre 1950 usciva a Milano il primo numero del periodico, recando come sottotitolo «Settimanale politico di grande informazione» e con le pagine di apertura affidate a Cesare Zavattini, scrittore, giornalista, sceneggiatore e commediografo tra i più celebri del periodo. Numerose vicissitudini lo portarono a passare dall’essere un autore associato a Rizzoli a uno associato a Mondadori: nello specifico, aveva chiesto di essere iscritto al sindacato giornalisti e in cambio aveva ricevuto una lettera di licenziamento. Arnoldo non si lasciò sfuggire l’occasione e assunse prontamente “Za” per 30.000 lire l’anno. Quando Rizzoli si rese conto dell’errore commesso, gliene propose 100.000 annue, ma Zavattini rifiutò. Questo aneddoto fa capire molto della personalità dello scrittore [27. Cfr. S. Cirillo, Cesare Zavattini: senza di lui non si muoveva paglia!, in Parola di scrittore. Letteratura e giornalismo nel Novecento, a cura di C. Serafini, Roma, Bulzoni, 2010, pp. 199-208, in particolare le pp. 203-204.]. Zavattini aveva da molto tempo proposto all’editore la pubblicazione di un giornale di attualità, che potesse sottoporre quesiti al popolo italiano su problemi vari. Il progetto non fu realizzato ma confluì in quello di una rubrica, chiamata Italia domanda, che fu il fiore all’occhiello di «Epoca». Le domande erano le più disparate: potevano riguardare il peso del cervello femminile o il motivo per cui l’operazione di appendicite lasciasse oramai segni quasi impercettibili. Za seguì i primi quattro numeri del periodico, per poi ˗ nel gennaio del 1941 – decidere di lasciare non solo la rubrica ma la Mondadori in generale. Le vicissitudini intorno a questa rottura sono assai significative: i motivi che portarono lo scrittore a chiudersi la porta alle spalle furono – infatti – puramente ideologici e vennero scatenati da un articolo comparso su «Epoca», giudicato filoamericano e firmato da Alberto Mondadori, direttore del giornale [28. Ivi, p. 206.].

L’articolo in questione fece affermare a Za che «Epoca» era «sotto la lapide degli americani» [29. L. Leonelli, Quando Zavattini fece «Epoca», in «Il Sole 24 Ore», 19 settembre 2010.]. Che il rotocalco si fosse da sempre posto come centrista, anticomunista e filoatlantico era ben noto: l’editore voleva infatti mantenere intatti i rapporti con gli USA, pur restando distante dalle destre sia interne sia internazionali (Augusto Guerrieri, il quale curava il commento di politica estera, ad esempio, fu da sempre ostile a McCarthy) [30. Cfr. E. Decleva, Arnoldo Mondadori, op. cit., p. 404.]. Tuttavia, per Za, l’articolo di Alberto Mondadori in cui egli affermava che i Soviet avevano preso il posto dei governi colonialisti dell’Ottocento era davvero troppo. Ricordiamo che stiamo parlando degli inizi degli anni Cinquanta, quando la concezione politica del figlio di Arnoldo non aveva ancora preso i contorni ben definiti che lo avrebbero poi portato a lasciare la casa editrice paterna per fondarne una propria. Ad ogni modo, dopo questo articolo Zavattini dichiarò «Io non sono comunista, ma è ancora più certo che non sono anticomunista» e si congedò [31. L. Leonelli, Quando Zavattini fece «Epoca», art. cit.].

La vicenda fa comprendere come «Epoca» riflettesse in toto la posizione politica della Mondadori. Va, inoltre, precisato che il rotocalco fu una vera e propria rivoluzione nel genere, con la grafica ancora una volta curata da Munari ma profondamente rinnovata: il largo uso del colore, l’ampio spazio riservato alle fotografie, il tipo di carta (lucida) di altissima qualità dimostrarono i passi avanti fatti rispetto a «Tempo», il quale per primo aveva ricalcato il modello americano. Vennero rinnovati anche grafica e contenuti, tenendo conto delle nuove esperienze e suggestioni provenienti dalla lezione neorealista e da quella dei grandi fotografi americani (come Robert Capa) e francesi (Henri Cartier Bresson). I resoconti di viaggio occupavano ancora uno spazio importantissimo, in particolare quelli di Lamberti Sorrentino, atti alla creazione di un ritratto della miseria italiana, e quelli di Michel Gordey sull’URSS, quelli di John Phillips sulla Jugoslavia di Tito, e ancora quelli di Ronald Bachelor sulla Cina.

Ad ogni modo, nel 1953 Arnoldo decise di affidare la direzione del rotocalco a Oriana Fallaci, poiché il figlio Alberto si era dimostrato incapace di gestire il giornale, soprattutto a livello economico, dato che si parlava di un prodotto assai dispendioso a partire dai costi della carta. Vennero assunti Enzo Biagi come redattore capo, e come redattori Indro Montanelli, Guido Piovene, Giorgio Fattori, Nando Sampietro. Ma il vero “colpo” fu la pubblicazione a puntate del romanzo Premio Nobel Il vecchio e il mare di Hemingway nel 1952.

Per mantenere intatti i rapporti con gli ambienti dell’editoria americana, l’editore affidò a Natalia Danesi Murray il compito di fare da corrispondente a New York, segnalando tutti i servizi che avrebbero potuto essere di interesse per «Grazia» e – soprattutto – per «Epoca».

Il più diretto controllo di «Epoca» da parte di Arnoldo Mondadori significò non solo una riconferma della posizione della Casa rispetto agli equilibri della Guerra fredda, ma anche la possibilità di stabilire rapporti più stretti con alcuni esponenti della politica italiana. Fino al 1953, il rotocalco appoggiò la linea degasperiana praticamente su ogni fronte, a partire dalla nuova legge elettorale fino alla denuncia del pericolo comunista e – in egual misura – di quello che arrivava dalla destra. In questa direzione, andò – ad esempio – l’articolo dell’esordio mondadoriano di Indro Montanelli uscito su «Epoca» il 26 luglio 1953, il quale metteva in guardia da quelli che sarebbero potuti essere i reali effetti di una presa di potere da parte del PCI. «Epoca» continuò ad appoggiare la linea centrista e di governo anche dopo gli eventi che seguirono le consultazioni di quell’anno (il tentativo di un governo monocolore DC, il governo d’affari presieduto da Pella, la questione triestina dibattuta tra americani e inglesi con la reazione di Tito, le tensioni con la Jugoslavia) [32. Cfr. E. Decleva, Arnoldo Mondadori, op. cit., pp. 419-420.]. La solidarietà a De Gasperi non venne meno neanche quando egli non ottenne la fiducia parlamentare. Alla morte del leader DC, Mondadori mantenne la propria linea, sostenendo – sulle colonne di «Epoca» ˗ il governo Pella, poi quello Fanfani e Scelba. E sempre utilizzando il tramite del rotocalco – ormai forte di un enorme successo di pubblico – l’editore si fece caldo fautore del «Piano di sviluppo della scuola», avviato da Moro (allora ministro della Pubblica Istruzione) nel governo Fanfani del 1958. Fu una mossa studiata per riprendere il controllo di un genere editoriale che era stato uno dei punti di forza ai tempi della fondazione della casa editrice: quello scolastico.

Nel 1956, Mondadori pubblicò De Gasperi e il suo tempo di Giulio Andreotti, a conferma della posizione politica ormai chiara, espressa dalle scelte in fatto di libri da parte dell’editore. Alla fine degli anni Cinquanta risale anche l’accordo stipulato con Einaudi per la cessione di molte opere della Casa torinese, allora oberata dai debiti.

Gli anni Sessanta: la rivoluzione degli «Oscar», l’equilibrio centrista

Gli anni Sessanta registrarono importanti novità in casa Mondadori: venne sviluppata maggiormente la saggistica e, soprattutto, due importanti intellettuali arrivarono a dirigere le collane di punta. Elio Vittorini venne ingaggiato come lettore prima e come direttore della «Medusa» e, soprattutto, Vittorio Sereni ˗ con un’esperienza giornalistica maturata nella redazione di «Milano Sera» ˗ venne chiamato a ricoprire il ruolo di direttore letterario. Si ricordi che Sereni era stato molto vicino sia al PSI sia al PCI, anche perché era stato allievo di Antonio Banfi, senatore del Partito comunista. Niccolò Gallo fu il terzo intellettuale ingaggiato da Mondadori, che gli affidò la direzione dei «Narratori italiani» e della «Medusa degli italiani»: era un critico letterario, anch’egli legato al PCI. Che la connotazione politica di questi nuovi collaboratori mondadoriani significasse un cambio di rotta per la casa editrice? Ovviamente no: gli intellettuali furono scelti per le loro indubbie qualità, e l’apertura dell’editore a nuovi fronti della collaborazione era solo frutto di una presa di coscienza del mutamento dei tempi, della necessità di un inevitabile rinnovamento per continuare a essere competitivi. Un caso letterario del periodo fu senza dubbio l’Ulisse di Joyce, uscito nel 1960 grazie alla mediazione di Vittorini, che portò alle stampe anche autori come Ivo Andrić, Heinrich Böll e soprattutto Nabokov (che con la sua Lolita nel 1959 registrò un altro grande successo editoriale).

Ad ogni modo, Gallo si allontanò ben presto dalla Mondadori e Vittorini morì nel 1966: in seguito a ciò si andò precisando il quadro dei ruoli direttivi settoriali, sempre dipendenti da Sereni: Alcide Paolini per la narrativa italiana, Roberto Fertonani per quella straniera, Marco Forti per la poesia e Donato Barbone per la saggistica. Tre importanti iniziative vennero varate da Arnoldo Mondadori al di fuori della direzione di Sereni: nel 1962 il mensile «Panorama», nel 1963 L’Enciclopedia della Scienza e della Tecnica e soprattutto nel 1965 la grande operazione degli «Oscar» [33. Cfr. G. C. Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, op. cit., p. 178.].

Questi ultimi uscirono in edicola prima ogni settimana e, poi, ogni mese: il formato era quello dei pocket. L’avvento di tale formato determinò la spaccatura del mercato editoriale su un doppio binario: da una parte la saggistica e la letteratura sperimentale, il cui veicolo di vendita restava la libreria; dall’altra parte i volumi indirizzati a un pubblico eterogeneo, stampati a livello industriale, che trovavano nell’edicola il luogo prediletto di distribuzione. Solo negli anni Settanta, quando la collana fu ristrutturata, ci fu un generale rilancio del tascabile, questa volta nel circuito delle librerie [34. Cfr. M. Panetta, Panorama storico-critico dell’editoria italiana del Novecento, art. cit., pp. 7-8.]. Il primo volume uscito con gli «Oscar» fu Addio alle armi di Hemingway e la maggior parte dei titoli pubblicati sotto la celebre collana erano romanzi del Novecento letterario straniero: tra i primi cinquanta titoli, trentotto erano stati scritti da autori americani, francesi, tedeschi, russi (Sartre, Bernanos, Mauriac), mentre tra gli italiani si possono citare Buzzati, Verga, Fogazzaro, Vittorini, Pavese [35. Cfr. A. Cadioli, G. Vigini, Storia dell’editoria italiana dall’Unità ad oggi, op. cit., p. 115.].

Intanto, un cambio di direzione venne registrato all’interno di «Epoca»: durante il periodo in cui il ruolo di redattore capo era ricoperto da Biagi, il settimanale aveva avuto grande successo, puntando sull’attualità e accentuando la carica polemica. Tale impostazione cominciò a essere criticata nei primi anni Sessanta, soprattutto da Giorgio Mondadori, figlio di Arnoldo e fratello di Alberto. La rottura ci fu nel luglio 1960, in concomitanza con le infuocate giornate che portarono alla caduta del governo Tambroni. Non era un caso: nelle settimane precedenti su «Epoca» era stato denunciato il clima equivoco e pericoloso che si stava creando. Anche per questo Biagi fu allontanato: l’editore non poteva rischiare di turbare l’equilibrio politico con il referente di maggiore interesse, la DC, e con buona parte del proprio pubblico, quella più cauta e timorata. Biagi aveva anche scritto, all’indomani degli scontri a Genova per impedire il congresso del MSI, di come tali eventi potessero essere stati previsti, date le molte avvisaglie antecedenti che indicavano recrudescenze di squadrismo fascista. L’articolo con cui si congedò dal settimanale si intitolava Dieci poveri inutili morti con riferimento ai disordini dei mesi precedenti e veniva chiamata in causa proprio la DC, che secondo il giornalista aveva il dovere di prendere una posizione netta [36. Cfr. E. Decleva, Arnoldo Mondadori, op. cit., pp. 468-470.].

Il posto di Biagi venne, dunque, preso da Nando Sampietro, già direttore di «Grazia» e «Storia illustrata». Un nuovo genere di attualità trovò posto, negli anni Sessanta, all’interno della collana «Scie», di cui si è parlato già in questa sede: il reportage giornalistico, che andò ad affiancare la memorialistica. Vennero pubblicati autori statunitensi che si occuparono di vicende di pubblico interesse come quella della morte di John F. Kennedy, o ancora di drammi collettivi come la guerra in Vietnam, la protesta dei neri americani, il silenzio dei governi di fronte allo sterminio degli ebrei [37. Cfr. G. Turi, Cultura e poteri nell’Italia repubblicana, in Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, op. cit., pp. 383-448, specie p. 435.]:

Anche se Casa Mondadori continua a essere protagonista in questa fase, il bilancio complessivo delle nuove iniziative appare inadeguato alle sue ambizioni, mentre in generale la sua politica d’autore risente dell’agguerrita concorrenza di altre Case, nel quadro di un progressivo invecchiamento del suo ricco parco-autori [38. G. C. Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, op. cit., p. 181.].

Il nuovo assetto societario e la morte di Mondadori

Dal 1968 il ruolo di presidente venne ricoperto da Giorgio Mondadori, mentre quelli di vicepresidenti passarono ad Alberto e a Mario Formenton, marito della figlia dell’editore, Cristina. Tuttavia, ben presto Alberto si allontanò definitivamente dall’azienda paterna, non accettando il ruolo di subalternità che gli era stato conferito e, soprattutto, non riuscendo a superare i dissapori che da sempre lo dividevano da Arnoldo e, di conseguenza, da Giorgio, che era il diretto continuatore delle scelte paterne. Così, mentre Alberto tornava a occuparsi completamente del Saggiatore, la carica di vicepresidente restò appannaggio di Formenton, che era anche amministratore delegato. Di fatto, questo nuovo assetto societario comportò «la complessiva crisi di quell’equilibrio tra azienda e cultura, profitto e qualità, logiche commerciali e prospettive lungimiranti, che ha avuto il suo stratega e garante nel grande Arnoldo» [39. Ivi, p. 250.].

L’editore lasciava l’azienda nelle mani della famiglia, ma in qualità di presidente onorario continuò sempre a lavorare e a dare il proprio contributo, fino alla morte, sopraggiunta nel giugno 1971 all’età di 88 anni.

La morte di Arnoldo Mondadori fu anche la fine di uno degli «editori protagonisti» (secondo la nota definizione di Ferretti) più importanti per lo sviluppo stesso del settore. Essa precedette di poco la scomparsa di Valentino Bompiani, Angelo Rizzoli e, poi, di Giulio Einaudi e segnò anche il passaggio da una gestione ancora di tipo artigianale delle imprese editoriali a una industriale e manageriale.

A conferma di quanto appena detto, ci furono gli eventi che tra gli anni Settanta e Ottanta portarono la Mondadori a divenire proprietà di Silvio Berlusconi.

Arnoldo, l’innovatore

Tentando di lasciare da parte le ultime vicissitudini di un’azienda che oggi è a tutti gli effetti espressione dell’industrializzazione italiana, concludiamo sottolineando quanto un uomo come Arnoldo Mondadori abbia significato per il settore editoriale e non solo. A lui dobbiamo l’intuizione di voler allargare il pubblico del libro, che è divenuto sempre più vasto, meno differenziato, sempre più di massa.

È stato un self-made man che dalla provincia mantovana è arrivato “sul tetto del mondo”, creando una realtà in cui poterono convivere intellettuali di diversa provenienza e soprattutto con un’idea complessiva della cultura e dell’impegno politico assai eterogenea. Ciò assume un significato ancora più importante dal momento che il marchio Mondadori ha affiancato, durante il proprio iter, in un modo o nell’altro una parte politica: dal socialismo dell’inizio si è passati, infatti, all’appoggio al fascismo e poi all’essere vicini alla DC negli anni del centrismo [40. Questo contributo è la rielaborazione di un capitolo della tesi di laurea magistrale in “Editoria e scrittura” dal titolo I grandi editori italiani del ’900 e la politica: i libri e le idee, da me discussa nel luglio del 2015 presso la “Sapienza Università di Roma” (cattedra di “Storia dell’editoria”, relatrice prof.ssa Maria Panetta, correlatore prof. Carlo Serafini).].

Breve bibliografia di riferimento:

C. PATUZZI, Mondadori, Napoli, Liguori, 1978;

G. TURI, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, Il Mulino, 1980;

Catalogo storico Arnoldo Mondadori Editore 1912-1983, a cura di P. Moggi Rebulla, M. Zerbini, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1985;

E. EISESTEIN, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, trad. it. di d. Panzieri, Bologna, Il Mulino, 1986 (ed. orig. 1979);

Arnoldo Mondadori: abnegazione e costanza, Mostra itinerante, progetto e studio di E. Carboni, testi di V. Sereni, realizzazione di G. Colombo, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1987;

E. GARIN, Editori italiani fra Ottocento e Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1991;

E. DECLEVA, Arnoldo Mondadori, Torino, UTET, 1993;

M. SANTORO, Storia del libro italiano. Libro e società in Italia dal Quattrocento al Novecento, Milano, Editrice Bibliografica, 1994;

Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, a cura di G. Turi, Firenze, Giunti, 1997;

G. C. FERRETTI, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Torino, Einaudi, 2004;

N. TRANFAGLIA, A. VITTORIA, Storia degli editori italiani, Roma-Bari, Laterza, 2007;

L. LEONELLI, Quando Zavattini fece «Epoca», in «Il Sole 24 Ore», 19 settembre 2010;

Parola di scrittore. Letteratura e giornalismo nel Novecento, a cura di C. Serafini, Roma, Bulzoni, 2010.

(fasc. 4, 25 agosto 2015)

di Angelica Basile • categoria: Profili

Dagospia il 2 maggio 2023.Estratto da “Storia confidenziale dell’editoria italiana”, di Gian Arturo Ferrari, ed. Marsilio

 I profitti maggiori degli hardcover Mondadori (la bizzarra " divisione Ame", di cui sono a capo) vengono da due linee editoriali, la Narrativa straniera e la Varia. Quest'ultima, nella programmatica indefinitezza della sua denominazione, si occupa in realtà di libri leggeri, in prevalenza saggistici. La sua fortuna dipende dall'aver saputo cogliere un mutamento profondo nei gusti del pubblico, che si è stufato di predicozzi e meditazioni e vuole onestamente divertirsi.

A guidarla è Paolo Caruso che di meditazioni si è nutrito, specialmente sulla fenomenologia, essendo stato allievo di Enzo Paci. Il passaggio alla leggerezza lo ha effettuato per gradi, traversando prima il marchese de Sade (ne ha curato il "Meridiano") poi Georges Bataille, per approdare infine a nomi meno illustri ma più potabili. 

Ha ripreso le forme dell'editoria di una volta, manuali pratici e vademecum, ma interpretate con gusto e ironia. Nella sua collana "Comefare", con il Bon Ton di Lina Sotis ha offerto agli italiani una via di fuga dalle rozzezze e volgarità degli ultimi due decenni. La sua maggiore impresa editoriale è stata la fondazione della "Bum", "Biblioteca

umoristica Mondadori", ironica fin dalla sigla e baciata da grande successo.

Ha occhio per gli autori, soprattutto quelli che escono dagli schemi e non portano i colletti inamidati che le altre linee editoriali esigono. Scova così tra i rifiuti della Narrativa italiana di Alcide Paolini un ingegnere dell'Ibm, napoletano di origine e milanese di adozione, Luciano De Crescenzo. È un uomo molto bello (idolo delle segretarie che si incollano il ritratto sulla scrivania) ed estremamente spiritoso. 

Una volta si sente dire dalla sua fidanzata Isabella Rossellini (ventiquattro anni meno di lui): «Tu sei la persona più vecchia con cui io sia mai stata», e le risponde subito: «Anche tu per me.» Gioco, partita, incontro. Quel che più conta, De Crescenzo l'umorismo lo sa scrivere, come si vede da Così parlò Bellavista, suo memorabile esordio.

Il titolo paranicciano non è casuale, il talento di De Crescenzo è congiungere la filosofia, in particolare quella antica, a un modo di affrontarla sorridente e all'apparenza facile. Questo fa sì che uno dei più raffinati editori di lingua tedesca, Daniel Keel della Diogenes Verlag di Zurigo, ne faccia uno dei suoi autori di punta e di più larga diffusione. Sicché il De Crescenzo trattato dall'intellighenzia italiana con fastidio e sufficienza diventa in Germania

- dove di filosofia se ne intendono - un classico del come si può fare buona ed efficace divulgazione. 

La fortuna italiana del Bellavista dipende anche in larga misura da Maurizio Costanzo, importatore in Italia con Bontà loro del talk show. Ospite di una delle prime puntate, De Crescenzo, bello e spiritoso, spopola. Come nel caso di Kundera la televisione si sta rivelando, non solo per i detersivi ma anche per i libri, il più potente veicolo promozionale.

Una volta chiarito però che in televisione non basta andarci, bisogna anche saperci stare.

Tuttavia persino i ridenti cieli della Varia non sono esenti da nubi e potenziali temporali. Mi telefona Roberto D'Agostino, il promotore di Kundera, tutto allarmato e serio.

(Quelli che sanno far ridere sono spesso persone molto serie, a volte cupe.) 

Il fatto è che Caruso gli ha commissionato un libro, lui gliel'ha scritto e adesso, alla vigilia della pubblicazione, lo stesso Caruso vorrebbe cambiargli il titolo. Anche qui, come sempre, risentimenti e minacce di portare il libro a un altro editore. Il titolo in questione è Come vivere – e bene – senza i comunisti. 

Il toro preso per le corna, come si usa dire. Caruso si agita sulla sedia, sorride di sbieco, imbarazzato e allusivo. Insomma.. un grande partito... un così gran peso... soprattutto nelle nostre cose... nella cultura... e poi quell'inciso " - e bene - ...offensivo... come si fa? 

Gli dico di non preoccuparsi troppo. Questi sono fatti dell'autore, il punto è che noi vorremmo cambiare il titolo, in sé un bellissimo titolo, molto efficace, non per ragioni editoriali ma per ragioni in senso lato politiche. E questo non va bene. Caruso non demorde, spara anzi con i suoi più grossi calibri. E i sindacati? I sindacati interni? Come reagiranno? 

C'è il concreto rischio di agitazioni, di scioperi. Per ultimo cala l'asso. Il presidente, cioè. Mario Formenton, è contrario, non ne vuole sapere. A me del significato politico interessa poco. Penso che il Partito comunista sia più intelligente e accorto di quel che crede Caruso e penso anche che l'editore debba sempre stare accanto all'autore, dalla sua parte. Soprattutto a me il titolo piace, si fa vedere, spicca, può riscattare un libro un po' sminuzzato, non un granché.

L'asserita opposizione del presidente è un altro paio di maniche, rischia di trasformare la faccenda nell'ennesimo scontro tra una Mondadori anticomunista e una Mondadori filocomunista. Lo chiamo subito, appena uscito Caruso. 

Formenton è un uomo cordiale, sintetico, per nulla complimentoso. Quando mi aveva ricevuto dopo la mia nomina a direttore dell'hardcover si era limitato a dire: «Lei si renderà conto che adesso è responsabile di un centro di profitto.» Punto. Del titolo non ha mai sentito parlare, «Ah però... non male» dice, a malapena sa chi sia D'Agostino. «Fate voi, fate voi» aggiunge, «ma le pare che io voglia intromettermi sui titoli dei libri? Va benissimo così.»

Estratto dell'articolo di Ottavio Cappellani per mowmag.com l'8 maggio 2023.

Gian Arturo Ferrari, ex mega direttore generale di Mondadori (si dice che avesse l’acquario con gli scrittori che ci nuotavano dentro), forse ancora come riflesso pavloviano, si dà sempre ragione, ma c’è un passo, nella sua “Storia confidenziale dell’editoria italiana”, pubblicata da Marsilio nel 2022, su cui avrei da ridire, col Suo permesso, umilmente, devoto, che riguarda uno dei libri che mi hanno formato, “Come vivere – e bene – senza i comunisti” di Roberto D’Agostino, pubblicato nel 1986 e che, nelle categorie del mio pensiero, fa il paio con “Ai comunisti – lettere da un traditore”, di Giuliano Ferrara, pubblicato da Laterza nel 1991, e che insieme formano il dittico letterario dello sgretolamento del PCI. 

(...)

Il passo dell’altrimenti piacevolissimo libro di Gian Arturo Ferrari (si dice che avesse un pouf di pelle di scrittori, in ufficio) che vorrei criticare è riportato nell’aneddoto riguardante proprio il titolo (“Come vivere – e bene – senza i comunisti), titolo al quale, nel racconto del megadirettore Ferrari, si opposero sia Caruso, l’editor, sia Formenton, della famiglia Mondadori in persona.

Gian Arturo Ferrari, nel suo memoir, si prende il merito di avere salvato il titolo (prendersi il merito, o procurarsi il merito, o parlare del proprio merito, o raccontare specifici fatti che dimostrano come il merito sia di Ferrari, è una caratteristica del Ferrari stesso – ho avuto la fortuna di incontrare questo gigante, en passant, per un breve periodo della mia vita, purtroppo un periodo fatto di lotte interne, di possibili fusioni – che poi porteranno a Rizzoli/Mondadori) di tagliate di faccia - metaforiche - di gossip e di tutto il cucuzzaro) senza però rinunciare a una critica al volume di Roberto: “Un libro un po’ sminuzzato, non un granché”. E no. Con tutto il servile rispetto che si deve a Gian Arturo Ferrari: e no! Il libro era sminuzzato come sminuzzata sarebbe divenuta la nostra civiltà, era sminuzzato come le “stories”, era sminuzzato come gli “slogan” delle campagne elettorali che hanno preso il posto della grande retorica, era sminuzzato come i mattoni del muro di Berlino e come i Booktoker su TikTok.

La sminuzzazione di “Come vivere – e bene – senza i comunisti” era profetica in senso assoluto, come “Del Pensare Breve”, di Manlio Sgalambro, pubblicato da quell’Adelphi che forse mai ha riconosciuto a Dago la consacrazione ufficiale a casa editrice immagine, e dunque instagrammabile, grazie al cazzeggio meraviglioso sull’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera, che in mano di Dago diventò tormentone (oggi, le case editrici, supplicherebbero perché un loro titolo diventasse un tormentone come quello sui social). Questo era quanto dovevo affidare alla scrittura per ricordare un’epoca strana e meravigliosa, per ricordare due libri strani e meravigliosi, quello di D’Agostino e quello di Ferrara, in cui ancora si frequentava un pensiero adesso scomparso nelle micronarrazioni – come predetto, appunto, da Dago.

Gian Arturo Ferrari.

Estratto dell’articolo di Alberto Alfredo Tristano per formiche.net il 21 febbraio 2023.

Pappagalli e canarini, variamente colorati, divertiti dai loro stessi segreti sussurrati: è il ‘select committee’ che in copertina custodisce e cinguetta questa “Storia confidenziale dell’editoria italiana” stesa da Gian Arturo Ferrari. Chi è Ferrari, è presto detto: la Mondadori – per dire la più grande delle case editrici che ha guidato – per molto tempo ha avuto la sua faccia e parlato con la sua voce. Chi finge di essere, è molto più divertente: il Dart Fender della nostra editoria. Guerre stellari, altro che Segrate. Wikipedia ci informa che secondo una classifica Dart Fener (o Darth Vander nell’originale) è il terzo cattivo più cattivo della storia del cinema, dopo due psycho come Hannibal Lecter e Norman Bates. Pericolosissimi, ma pur sempre umani. DF, no: lui è di un’altra galassia.

 Ferrari, ma davvero lei è così cattivo?

Cosa vuole? Bisogna pure che qualcuno faccia quella parte lì. Purtroppo è necessaria…

 (...)

L’editoria, lei dice, è un Giano bifronte: il Dio della cultura sta con il Mammona del denaro. Ma alla fine prevale l’uno o l’altro?

Il capitalista propende per il secondo, l’editoriale per il primo. Ma il bello del mestiere è proprio tenere insieme questi opposti, conciliare l’inconciliabile.

L’editore, chiunque egli sia, esattamente cosa fa per un libro? Di suo – riprendo la citazione che lei fa di Valentino Bompiani – “l’editore ci mette l’amore”. È così? E cos’è questo amore?

È di sicuro il motore primo. Dopotutto non si decide di dedicarsi all’editoria senza avere una passione originaria, meglio se cieca, per i libri, senza amare i libri profondamente, più di ogni altra cosa. Aggiungerei, però, che noi editoriali ci sentiamo come Julien Sorel, cerchiamo ricompensa perché la nostra intelligenza è ben superiore a quanto la fortuna e la società ci abbiano inizialmente dato…

 (...)

E l’errore più grande?

È difficile, gli errori fanno parte del lavoro, sono parte integrante della quotidianità… Comunque, forse non aver preso Harry Potter.

Lei dice che il libro è dell’autore, ma fino a un certo punto. Per metà è dell’editore. Che vuol dire?

L’autore certamente il libro lo scrive, ma il modo in cui esso arriva sul mercato, come è percepito dal pubblico, cosa il libro diventa quando non sta più solo nel cassetto dello scrittore ma è a disposizione del mondo, questo è responsabilità in larghissima misura dell’editore.

Qual è il più grande colpo dell’editoria italiana?

Dopo la Bibbia, pare che il libro più venduto al mondo sia il Pinocchio di Collodi, edito dai fiorentini Bemporad. Poi “Il nome della rosa” di Umberto Eco che nella Bompiani aveva anche un importante ruolo editoriale. Aggiungerei “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che Feltrinelli decise di pubblicare dopo molti rifiuti. In quel caso l’atto di editare quel libro è molto più che una semplice pubblicazione.

Equivale cioè alla scrittura stessa? Dovremmo dire che “Il Gattopardo” è un libro di Tomasi di Lampedusa e di Feltrinelli?

Per molti versi, sì. E poi devo dire che ha un titolo straordinario.

A proposito di titoli, lei gioca su un paradosso: meglio un buon titolo e niente libro che un buon libro e niente titolo.

Un paradosso che vuol puntare l’attenzione su uno dei tre elementi che accendono l’interesse su un libro, insieme alla copertina, che cattura lo sguardo del possibile lettore, e insieme al nome dell’autore. Il titolo è il grande negoziato tra l’autore e l’editore. E ha sue regole. La regola aurea del titolo è l’indefinitezza. Prendiamo il più bel titolo di tutti i tempi: “Via col vento”, persino più bello in italiano dell’originale “Gone with the wind”. “Via col vento” non vuol dire niente, non dice nulla del romanzo della Mitchell. Ma fa il libro. I grandi titoli non sono esplicativi, ma suggestivi. Altro grande titolo: “L’insostenibile leggerezza dell’essere”: non indica qualcosa, ma costruisce un sentimento sulla storia di Kundera. 

Salman Rushdie, pochi mesi fa vittima di una grave aggressione, è tornato in libreria con “La città della vittoria”. Lei dedica un capitolo alla pubblicazione dei “Versetti satanici”, che gli costarono la fatwa di Khomeini. Il traduttore italiano di quel libro, Ettore Capriolo, fu vittima di un attentato per fortuna non mortale, il traduttore giapponese fu invece assassinato… La pubblicazione di un libro può essere un atto di coraggio?

Un libro non è una categoria dello spirito, è una manifestazione dell’umano, può contenere il bene e il male, la viltà e il coraggio… Sono contrario alla santificazione del libro, gli va tolta l’aura sacrale che è pura retorica. Peraltro spesso si confondono i libri con la letteratura. I libri sono la massa di quello che arriva sul mercato, per varie ragioni e diverse circostanze. Il sedimento fisso di questa materia, il sedimento che sa superare la prova del tempo, è la letteratura.

La Rizzoli che cade in mano alla P2. La guerra di Segrate per Mondadori. L’Einaudi che finisce in amministrazione controllata. L’editoria italiana è stata un vero campo di battaglia. Perché un professore di Storia del pensiero scientifico come lei sceglie di andare a combattere?

Proprio per il gusto della battaglia! Per il piacere che dà stare sulla linea del fronte, così lontano dalle comodità accademiche… Mai mi sono divertito nella vita come quando ho guidato la Mondadori, anche se il momento imperiale, l’apice del potere, è stato il governo del continente formato da Mondadori, Einaudi, Sperling & Kupfer…

 “La berlusconiana Mondadori”, come la definisce ripetute volte con un vezzo. Lei al riguardo dice: Berlusconi aveva l’intelligenza di affidarsi a chi di libri ne capiva più di lui.

Non che non ne capisse, direi che aveva una concezione scolastica dell’editoria, non credo che nell’editoria abbia trasferito quello che davvero sentiva, non c’era quell’amore di cui parlava Bompiani. Tuttavia, fu uno dei primi campi, diciamo in senso lato, in cui si cimentò da giovane: faceva le dispense dei corsi universitari che seguiva e poi le vendeva.

Se un ricco imprenditore venisse da lei e le chiedesse di mettere in piedi una casa editrice, che farebbe come prima cosa?

Beh, intanto, se è davvero ricco, comincerei col chiedergli un bel po’ di soldi.

Milano è la capitale dell’editoria, ma il fermento degli indipendenti è a Roma.

Milano continua a mantenere la sua primazia, è la città dove l’editoria ha saputo evolvere in grande industria, Milano si è mangiata anche Torino… L’industria culturale a Roma è storicamente legata al cinema. Poi si è aggiunta la Rai, e poi altre imprese televisive, e poi “la Repubblica”, il quotidiano italiano più influente sul mondo della cultura. Insomma, Roma è cresciuta, tantissimo. Ha molte realtà di tutto rispetto e grande successo. Penso che il punto più alto dell’editoria romana sia Stile Libero, che ha volato tuttavia sotto l’ala prestigiosa dell’Einaudi.

Perché in Italia si pubblica molto ma si legge poco?

Si pubblica molto perché è un Paese in cui c’è un oggettivo fermento. Ma si legge certamente poco, io credo per due motivi. Primo: la lettura è stata spesso fatta passare come attività signorile, un otium riservato a chi non lavora, a chi può permetterselo. C’è poi il peso di una certa cultura cattolica: nella prima edizione dell’Indice dei libri proibiti, c’era la Bibbia in volgare. Perché la Bibbia, che non è un libro ma una collezione di libri, secondo la Chiesa andava letta solo in latino, cioè solo dal clero. Dubito fortemente che l’Altissimo direttore editoriale potesse essere d’accordo…

Ferrari, per chiudere, perché in copertina questa “Storia” è presentata come romanzo?

Perché volevo presentarla come un succedersi di vicende romanzesche… Ci sono molti modi di scrivere una storia dell’editoria: quello che volevo evitare assolutamente era il modo barboso, accademico, impettito. E allo stesso tempo ho voluto evitare di infilare pettegolezzi e ciarle… Una storia è come la verità: non c’è quella assoluta. La verità è una questione di livelli, dipende da te a quale altezza raccontarla.

Rizzoli.

Estratto dell'articolo di Paola Manciagli per “Oggi” l’11 dicembre 2023.

Con i suoi aneddoti, Ljuba Rizzoli fa rivivere un mondo che lascia a bocca aperta: «Il mio primo marito Ettore Tagliabue (ramo petroli) mi portò in luna di miele a Montecarlo. Appoggiammo le valigie sul Christina O, lo yacht di Onassis. C’era anche Churchill, che mi invitò al casinò: “Madame, veut faire un tour?, facciamo un giro?” Adorava giocare: “Ho vinto la guerra, ma non riesco a vincere al gioco”, mi ripeteva. Era la sua ossessione». A questo mondo di ricchezze e nomi che fa impressione pronunciare nella stessa frase, apparteneva anche il suo secondo marito, Andrea, primogenito del “Commenda” Angelo Rizzoli.

 Ljuba, 90 anni, è una delle ultime a poter raccontare in prima persona delizie e croci della grande azienda di famiglia che lanciò anche il nostro settimanale. «Mi chiama dalla redazione di Oggi? Che emozione», dice al telefono dalla sua casa di Montecarlo. «Nel nostro primo giro in Alfa Romeo, Andrea mi portò proprio alla Rizzoli in via Civitavecchia a Milano. Mi mostrò gli uffici, il bar, il comprensorio per gli impiegati». […]

Ljuba ricorda benissimo Angelo, «tra il prepotente, il tiranno e il buono da morire», tenta la somma. «Era nato poverissimo, cresciuto al collegio dei Martinitt». Ed era riuscito a costruire un impero. «Pensi, magari finiva il prosciutto, e poi la carta la tirava bene, la tagliava quadrata, la spillava e ci faceva i quaderni per scrivere. Erano altri tempi, e il Commenda era geniale». […]

 Ma ai tempi di Parigi, il rampollo e Ljuba vivevano a mille all’ora. «Andammo ad abitare in Costa Azzurra, a Cap Ferrat. Casa nostra era sulla punta, circondata dal mare. Gianni Agnelli la adorava, diceva: “Io ho girato il mondo, ma questa casa ha la posizione più bella di tutte”». Un’ala era riservata ad Angelo.

Attraccava con il suo yacht, il Sereno, a Cannes e arrivava con i divi al seguito: «Gina Lollobrigida si presentò con un mazzo di gladioli, sa quei fiori che sembrano degli asparagi? Io li odio. Glieli avevano dati sul palcoscenico a Sanremo e lei avrà detto: “Ma portiamoli a ’sta Rizzoli, va”. Così arrivò con questo mazzo di fiori che era più grande di lei. Entrò in casa, non disse né buongiorno né niente, e nemmeno mi diede i fiori, li appoggiò su una panchetta. Poi si fermò, guardò su, guardò giù ed esclamò: “Ahò, Rizzò, ma quanto t’è costata ‘sta casa?!”».

La sera andavano al casinò. Abiti lunghi, privè, inchini: «Ho passato più tempo ai tavoli che a letto a dormire. Ma quando hai dei mariti che giocano, come fai a non prendere il vizio? I Rizzoli giocavano tutti, anche il Commenda. Si portava un rotolo di banconote. Quando le finiva, mollava. E quando vinceva, regalava tutto».

 Ljuba ricorda che c’era sempre De Sica: «Che simpatico, Vittorio. Quando finiva i soldi, passava il tempo in piedi dietro agli altri per portare iella. Una sera mi disse: “Ljuba, mi sono giocato tutto. Mia moglie e i due bambini sono dalle 5 del pomeriggio sui divani dell’Hotel de Paris perché dovevamo partire, ma adesso è mezzanotte, e io non voglio tornare, devo recuperare. Aiutami, chiedi ad Andrea di farmi un contratto per un film, così lo porto alla cassa e mi gioco il compenso”».

 Divenne amica anche di Soraya, quando finì con lo Scià: «Ci ritrovavamo allo stesso tavolo, mi diceva: “Sai perché gioco? Perché così non penso”». Accompagnò Farah Diba a casa di Chagall. «L’imperatrice voleva comprare i suoi quadri per la Fondazione. Gli aveva portato in dono un tappeto, ma c’era tutta una cerimonia da fare, passarci sopra, inginocchiarsi, baciarlo. Chagall si innervosì e prese Farah in antipatia. Lei comprò 11 quadri, ma lui non le dedicò neanche uno schizzo. Presa dalla rabbia, pensando che fosse un maleducato, gli portò via dei pennelli dal tavolo!».

Nella biografia Io brillo (Cairo), scritta con Tiziana Sabbadini, c’è un intervento di Alberto, figlio di Andrea. Sosteneva che il padre si fosse esposto tanto con l’acquisto del Corriere della Sera anche perché Ljuba lo faceva vivere fuori dalla realtà: «Io gli dissi di non comprare, aveva già guai di salute. Ma Andrea ripeteva: “Mio padre voleva un quotidiano, e io voglio fargli vedere che avrò il Corriere”. E: “Non voglio che i miei figli arrivino a 50 anni ancora stipendiati, com’è successo a me. Voglio dar loro la presidenza”. La sera si addormentava seduto sul letto in preda all’indecisione. Alla fine lo comprò, e quando i figli finirono in prigione per bancarotta, non resse». […]

La figlia di Ljuba e Andrea Rizzoli si uccise nel 1987. «Ci misi quattro anni per riprendermi, mi fecero pure gli elettrochoc. Poi tornai al casinò, il solo posto dove dimenticavo il dolore». Ha rimpianti? «Non mi metto mai a pensare al passato. I ricordi arrivano da soli, magari guardo il mare e penso che sono andata a fare il bagno a Corfù o a vedere la corrida di Dominguin in Spagna. Non lo so, forse sono più felici quelli che lavorano, piuttosto che stare in un mondo così, senza speranze, senza saggezza. Io non so come sia arrivata fino ai 90 anni. So che vivo pensando a Isabella, sempre. Mi ha fatto un brutto scherzo ma va bè, la perdono».

Einaudi.

La storia dell’Einaudi, prima dell’apocalisse dei best seller. Giulio Einaudi con il padre Luigi. LUCA RICCI su Il Domani il 25 novembre 2023

Esattamente novant’anni fa, nel novembre del 1933, nasceva una delle nostre più appassionate e spericolate imprese editoriali: la casa editrice Einaudi. Un gruppo di ragazzi del liceo classico Massimo d’Azeglio, a Torino, si riunì sotto l’insegna dell’antifascismo, il resto è un pezzo importante della storia italiana del novecento, e non solo

Esattamente novant’anni fa, nel novembre del 1933, nasceva una delle nostre più appassionate e spericolate imprese editoriali: la casa editrice Einaudi. Un gruppo di ragazzi del liceo classico Massimo d’Azeglio, a Torino, si riunì sotto l’insegna dell’antifascismo, il resto è un pezzo importante della storia italiana del novecento, e non solo. 

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta Giulio Einaudi è già alla ricerca di un finanziamento da parte di qualche istituto bancario, di una boccata d’ossigeno che consenta alla sua casa editrice di sopravvivere.

Enrico Cuccia in una lettera gli risponde così: «Ritengo doveroso, per evitarLe un ulteriore disturbo, di comunicarLe subito che una Sua richiesta di finanziamento avrebbe assai scarse possibilità di venire accolta». E, quasi con uno sbeffeggiante eufemismo, il capo di Mediobanca conclude così: «Spiacente che non vi sia possibilità di venire incontro alle esigenze finanziarie del Suo interessante programma editoriale».

Ma come, l’editore più influente d’Italia, il figlio del primo Presidente della Repubblica, trattato alla stregua di un questuante?

UNA STORIA ITALIANA

Questo perché la storia di Giulio Einaudi (e inevitabilmente della sua casa editrice) non è quasi mai come appare. Di Einaudi s’è detto che era un accentratore, che amava tenersi il potere tutto per sé. In realtà fino al 1944 lo spartisce volentieri con Leone Ginzburg, prima che quest’ultimo muoia nel carcere romano di Regina Coeli, torturato dai tedeschi. E non c’è nessuno che ami il dibattito più di Einaudi, un dibattito che spesso si traduce anche in violente discussioni simili a duelli. Spesso però la piega che prendono le sue relazioni coi redattori è canzonatoria, e quest’ultimi non si fanno certo intimorire dal loro capo.

Nel 1942 Cesare Pavese lo apostrofa così, in una celebre missiva che è un gigantesco scherzo: «Avendo ricevuto n. 6 sigari Roma – del che Vi ringrazio – e avendoli trovati pessimi, sono costretto a risponderVi che non posso mantenere un contratto iniziato sotto così cattivi auspici. Succede inoltre che i sempre rinnovati incarichi di revisione e altre balle che mi appioppate, non mi lasciano il tempo di attendere a più nobili lavori. Sì, Egregio Editore, è venuta l’ora di dirVi, con tutto il rispetto, che fin che continuerete con questo sistema di sfruttamento integrale dei Vostri dipendenti, non potrete sperare dagli stessi un rendimento superiore alle loro possibilità».

Un despota avrebbe mai accettato di sedersi a un tavolo ovale ogni benedetto mercoledì? Di quelle riunioni sono stati svelati i misteri nel volume curato da Tommaso Munari I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali 1943-1952 (Einaudi 2011), errori marchiani compresi: il Comitato rifiuta per ben due volte Se questo è un uomo di Primo Levi, riserva un tiepido entusiasmo per l’opera di Mircea Eliade, ostacola la divulgazione di Friedrich Nietzsche (per offrire ai lettori italiani il pensatore nichilista ci volle lo scisma che nel 1962 portò alla fondazione da parte di alcuni einaudiani della Adelphi).

IL COMUNISMO

S’è detto che la casa editrice per troppo tempo sposò con sussiego la linea culturale dettata dal Pci. Certo fa specie sapere che nel 1949 l’idea di Elio Vittorini riguardo a “un volume fatto da scrittori che, pur accettando il comunismo, fanno le loro obbiezioni” non vedrà mai la luce (nonostante le insistenze di Balbo e Calvino che ripudiavano il concetto di casa editrice come biblioteca di partito).

Ma già nel 1933, quando Einaudi riunisce alcuni amici del Liceo D’Azeglio di Torino attorno alla rivista del padre “La riforma sociale”, sono cominciate le persecuzioni fasciste, i confini, le temporanee fughe all’estero di Vittorio Foa, Massimo Mila, Carlo Levi, Norberto Bobbio e Cesare Pavese…  E quella postbellica è un’epoca manichea, zuppa d’ideologia, in cui si deve assumere una posizione politica netta: se non ti schieri da una parte sei iscritto d’ufficio all’altra.

L’UMORALE

S’è detto che Einaudi nei confronti del catalogo era troppo umorale, che poteva amare e poi detestare un titolo nello spazio di un mattino. Ma in fin dei conti sono gli autori i primi a volersi fare corteggiare, capricciosi come bambini e vanesi come prime donne (Michel Foucault si fa inseguire fino a Tunisi per la cessione di un libro che non avvenne mai; Henry Miller se la prende per una sconfitta a ping pong).

In questo senso, tre titoli ristabiliscono meglio di altri il rapporto tra editore e scrittori: Tutti i nostri mercoledì libro intervista a cura di Paolo di Stefano (Casagrande 2001), Alfabeto Einaudi di Guido Davico Bonino (Garzanti 2003), I migliori anni della nostra vita di Ernesto Ferrero (Feltrinelli 2005).

Così, scopriamo che nel fondo dei temutissimi occhi glaciali di Giulio Einaudi non smette mai di brillare una scintilla di passione per i libri. E che, come per magia, quel suo atteggiamento urticante e severo (nato più che altro per nascondere un complesso d’inferiorità che veniva dai suoi studi irregolari, al cospetto di collaboratori che di volta in volta potevano chiamarsi Gianfranco Contini, Giorgio Manganelli, Ruggiero Romano) sprigiona un fascino irresistibile.

Giulio Einaudi al di là di una megalomania di facciata conosce bene i suoi limiti e si affida spesso agli altri. Un’intuizione su tutte: l’aver coinvolto nell’ideazione delle copertine un genio assoluto del design come Bruno Munari. In questo modo si arriva ad esempio alla collezione di poesia con i versi su sfondo bianco. E a fare di quel minimalismo immediatamente riconoscibile il biglietto da visita della casa editrice.

IL NOBILE FALLIMENTO

Negli anni Ottanta la contabilità salta per aria definitivamente. Giulio Einaudi viene travolto da una tempesta finanziaria e subisce l’onta di un’inchiesta giudiziaria. Proprio lui, che di certo non si era messo a fare i libri per arricchirsi.

Dopo un commissariamento, la casa editrice viene rilevata da un gruppo che fa capo alla Electa e poi, ma questa è storia recente, acquisita dalla Mondadori. D’altronde, come ebbe a dire Giulio Bollati riguardo alla spericolata gestione economica del suo capo: «Einaudi è un capitalista di tipo speciale. Non mira ad accumulare profitti: accumula prestigio».

Dichiarazione forse paradossale ma significativa, visto anche l’andazzo dell’editoria odierna. Un’editoria che ha smesso di ragionare per collane e che discute di libri solo per sviscerarne le potenzialità commerciali. Giulio Einaudi al contrario ha lavorato bene: perlomeno è fallito.

L’EREDITÀ 

Se pensate che la cultura bestsellerista mai come oggi abbia vita facile, che la tecnica abbia scalzato lo stile, che in un rigurgito rancido di politicamente corretto il “cosa” abbia fagocitato il “come”, che le saghe e l’iper-romanzesco ci abbiano lasciato come unica prospettiva lo storytelling, che il giallo e le scritture di genere siano il nuovo midcult, che tutto venga ossessivamente ridotto a una somma (vendite e canoni), che i giornali siano totalmente asserviti a queste dinamiche offrendo copertine, aperture, speciali e interviste al mass market, che molti premi stiano abdicando al ruolo elitario di riconoscere la qualità e cerchino – viva la democrazia progressista! – i libri più “chiacchierati”, allora non vi potrà dispiacere ciò che ha rappresentato e continua a rappresentare la casa editrice dello Struzzo, il cui motto è da tenere a mente: Spiritus durissima coquit, ossia lo spirito digerisce le cose più dure.

LUCA RICCI. Nato a Pisa nel 1974, vive a Roma. Ha scritto, tra l’altro, Gli autunnali (2018), Trascurate Milano (2018) e Gli estivi (2020), pubblicati da La Nave di Teseo.

Da “Posta e Risposta – la Repubblica” martedì 5 settembre 2023.

Caro Francesco, i maoisti di un tempo non sarebbero stati tali se gli intellettuali italiani si fossero impegnati contro le dittature e le menzogne. Nel 1957 una sinologa poco più che trentenne, Edoarda Masi, andò in Cina. Scrisse un libro in cui denunciava i campi di rieducazione, le torture e le violenze di cui poco si sapeva in Europa. 

Nel 1960 consegnò il libro all'Einaudi e si formarono due schieramenti, uno con a capo Franco Fortini, che era per la pubblicazione, e l'altro di cui i più vivaci sostenitori furono Giulio Einaudi e Italo Calvino. Sostenevano che pubblicarlo avrebbe fatto “il gioco della reazione”. E il libro, che avrebbe fatto discutere, messo al corrente i giovani di quello che accadeva in Cina e scosso le coscienze, non fu pubblicato. Mirella Serri 

Risposta di Francesco Merlo:

Cara Mirella, il bilancio delle esecuzioni sommarie della Rivoluzione culturale va dai 750 mila al milione e mezzo di morti. Il libretto rosso è il libro più venduto dopo la Bibbia: 5 miliardi di copie in 40 lingue. Per non fare “il gioco della reazione” Einaudi pubblicò le opere di Mao: “Delle Contraddizioni tra il Popolo” e poi “Rivoluzione e costruzione.

Scritti e discorsi”. Edoarda Masi (1927 – 2011) ha insegnato cinese nelle università di Torino, Venezia, Roma, Urbino, Trento e, soprattutto, all'Orientale di Napoli. Ha insegnato all'università di Shangai e la sua biblioteca, più di duemila volumi, è stata acquisita dalla Biblioteca Braidense.

Giulio Einaudi Editore. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

«Spiritus durissima coquit» «Lo spirito digerisce le cose più dure» (Motto della casa editrice)

La Giulio Einaudi Editore, nota anche più semplicemente come Einaudi, è una casa editrice italiana fondata nel 1933.

Storia

Anni trenta

Fu fondata a Torino il 15 novembre 1933 da Giulio Einaudi, figlio del futuro presidente della repubblica Luigi Einaudi, all'epoca ventunenne e da un gruppo di amici, studenti del Liceo classico Massimo d'Azeglio, tutti allievi di Augusto Monti. Sin dall'inizio è possibile intravedere quelli che saranno gli ideali fondanti dell'esperienza editoriale di Einaudi e dei propri collaboratori, cioè la commistione di impegno civile e politico ma anche intellettuale e formativo. Il clima politico-sociale dell'Italia negli anni trenta influisce sul carattere stesso della casa, che si caratterizza per una chiara impronta antifascista, e per questo numerosi esponenti furono colpiti dal regime. La casa editrice venne presa di mira dal regime: nel 1935 Einaudi fu prima arrestato e poi inviato al confino.

Nel 1934 pubblica "La Riforma Sociale" e "La Rassegna Musicale" di Guido Maggiorino Gatti, e "La Cultura" la cui direzione viene affidata a Cesare Pavese. La casa editrice si avvalse di collaboratori come Cesare Pavese, Giaime Pintor, Elsa Morante, Massimo Mila, Norberto Bobbio, Elio Vittorini, Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Leone Ginzburg; quest'ultimo, di fatto il primo direttore editoriale della casa, venne assassinato dai nazisti nel 1944 a Roma, nelle carceri di Regina Coeli, in seguito a torture.

Il primo numero di La Cultura anche ultimo elaborato di Leone Ginzburg viene pubblicato nel marzo del 1934 subito dopo l'arresto dello scrittore.

Anni quaranta

Durante gli anni quaranta la casa editrice è attiva in varie città italiane, la redazione romana e torinese viene affidata a Cesare Pavese e quella milanese a Elio Vittorini. Sarà quest'ultimo a dare continuità all'intreccio politico-culturale della casa editrice, facendo nascere la rivista «Il Politecnico». In questi anni, si può riscontrare anche la pubblicazione delle opere di Antonio Gramsci.

Sempre in questi anni la casa editrice arricchisce la sua produzione di saggistica (aprendosi all'antropologia e alla psicanalisi) diventando punto di riferimento anche per la narrativa italiana e straniera e per i classici, con le collane dei «Coralli», dei «Supercoralli» e dei «Millenni».

Anni cinquanta

Dopo la morte di Cesare Pavese avvenuta nel 1950 la casa editrice, coordinata da Luciano Foà, inizia a promuovere nuovi autori italiani come Giuseppe Fenoglio, Franco Lucentini, Ottiero Ottieri, Graziella Romano, Mario Rigoni Stern, Anna Maria Ortese e Leonardo Sciascia.

Pubblicò nel dopoguerra i Quaderni e le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci. Dopo aver affrontato gli intensi anni della guerra, la casa torinese si prepara al periodo della ricrescita, vivendo gli anni cinquanta come un periodo di pieno fermento ed intensa attività editoriale, in cui l'Einaudi rafforza la propria immagine culturale a dispetto dell'idea di casa editrice “di partito” che aveva dato all'inizio della propria attività, politicamente schierata a sinistra. Tuttavia i grandi progetti del fondatore dovettero sottendere il confronto continuo con i dati economici poiché la volontà di imprimere al catalogo una ricchezza intellettuale costrinse l'editore a attingere a fondi privati, delineando un precario equilibrio finanziario.

Anni sessanta

Durante gli anni sessanta il settore editoriale assunse sempre più i tratti di un ambito industriale in cui agiscono marcate forze imprenditoriali e si cominciò a parlare, in senso strettamente commerciale, di mercato e pubblico.

Se Elio Vittorini e Italo Calvino guidano la ricerca letteraria attraverso le collane di narrativa e la rivista Il menabò (1959-1967), Giulio Bollati coordina l'insieme delle proposte saggistiche e le collane di classici. Nel 1965, nascono due collane il Nuovo Politecnico e La ricerca letteraria, nel 1968 Serie politica e un anno dopo la collana Einaudi Letteratura.

Anni settanta

Gli anni Settanta la casa editrice amplia il suo pubblico e i risultati di diffusione. Nella narrativa ottiene ottimi risultati il bestseller La storia di Elsa Morante, che vende circa un milione di copie. Sempre in questi anni vengono pubblicate le collane «Gli struzzi» e le «Centopagine» di Calvino. Nasce inoltre l'Enciclopedia in 15 volumi (1977-1982), diretta da Ruggiero Romano, in collaborazione di importanti studiosi di tutto il mondo.

Anni ottanta

Le politiche editoriali all'interno di Giulio Einaudi Editore si pongono obiettivi e priorità differenti rispetto al passato, non si attua più una politica centrata sull'autore bensì si predilige la politica del best seller che permette successi copiosi ed immediati. Ciò ha condotto la casa torinese a una forte crisi identitaria. Infatti ebbe un periodo di forte crisi negli anni settanta e ottanta, che videro una collaborazione con la casa editrice francese Gallimard per proporre sul mercato italiano le celebri edizioni della Bibliothèque de la Pléiade. In particolare il 1983 è stato un anno chiave per la storia della casa editrice torinese in cui coincisero tre eventi che sarebbero già rilevanti se considerati singolarmente: la ricorrenza dei cinquant'anni di vita, la pubblicazione del catalogo storico e la crisi finanziaria. L'anno 1983 registra anche l'assegnazione, da parte del comune di Zafferana Etnea, del premio letterario Brancati.

Dagli anni novanta

Nel 1994, Giulio Einaudi Editore fu acquistata dal Gruppo Mondadori.

Nel 1998 ha rilevato Edizioni di Comunità.

Nel 1999 Giulio Einaudi muore a Magliano Sabina. Gli succede alla guida della casa editrice Roberto Cerati che condusse la casa editrice fino alla morte, avvenuta nel novembre 2013. Nell'aprile 2014 fu nominato presidente lo storico Walter Barberis.

Editoria è conoscenza degli uomini: Giulio Einaudi e l’egemonia culturale. ERNESTO FERRERO su Il Domani il 12 gennaio 2023

«Editoria è conoscenza degli uomini», recita un aforisma di Giulio Einaudi. E lui è il re dei Curiosi. Tutto quello che è nuovo, diverso, singolare, irregolare,  mette in moto la sua fantasia, gli incendia desideri assoluti

L’einaudianità è anzitutto una categoria estetica. Sobrietà, rigore, essenzialità, in tutte le cose, nella grafica di un libro, nell’arredamento di una casa, nella scelta di un cibo

Questo articolo si trova sull’ultimo numero di FINZIONI – il mensile culturale di Domani. Per leggerlo abbonati a questo link o compra una copia in edicola

Un’estate degli anni Sessanta, in mezzo all’Egeo. Uno yacht arranca tra altissime onde sospinte da un furioso meltemi, e lo skipper, abbarbicato alla ruota del timone, fatica a tenere una rotta che consenta di limitare i danni.

A bordo ci sono ospiti illustri: Giulio Einaudi, Giovanni Pirelli (che è uscito dall’azienda di famiglia per meglio dedicarsi alle sue passioni intellettuali), Dante Isella critico e filologo, con le rispettive consorti. A metà del pomeriggio, Einaudi chiede il solito tè alla moglie dello skipper che funge da marinaio. La signora lo guarda sbalordita, i presenti abbozzano un sorriso tra gli spruzzi.

Einaudi ripete la richiesta con una fermezza appena irritata. Non sarà certo la prospettiva di un naufragio imminente a fargli rinunciare al rito del tè. Il tè verrà servito acrobaticamente, e lui se lo sorbisce come se fosse seduto nel suo ufficio torinese, all’angolo tra via Biancamano e corso Re Umberto, con vista di ippocastani e palazzi mansardati alla parigina, e davanti un mucchietto di ritagli dell’Eco della Stampa da piluccare, la pipa, una scatola di tabacco Balkan Sobranie e le bellissime tazze bianche di Rosenthal per il tè.

I «vecchi» della casa editrice e noi ragazzi di bottega sappiamo bene che se si mette in testa qualcosa non c’è modo di resistergli o, peggio, di fargli cambiare idea. Come per Napoleone, il solo fatto di ammettere che nei vocabolari esiste la parola «impossibile». sinonimo di incapacità grave, oltreché di scarso attaccamento alla Causa. Così lui è abituato a chiedere l’impossibile, e i suoi a fare i salti mortali per accontentarlo. Nessuno protesta. Nessuno sospira.

TRANQUILLO IMPERIO 

L’anno che esce Il portiere di notte della Cavani la redazione esprime giudizi severi (il film sembra politicamente scorretto, anche Primo Levi avanza dure critiche), ma l’editore si dichiara incantato dal fascino di Charlotte Rampling, torbida eroina del film. Decide che deve conoscerla, e mette in movimento i suoi. Tramite amicizie romane viene a sapere che la Rampling dovrà girare qualche scena di un nuovo film dalle parti del Parco del Ticino.

Vengono avviate indagini, interrogati a tappeto i sindaci della zona, le tenenze dei carabinieri, i marescialli di paese, le loro mogli. Finalmente si viene a sapere che il set è dalle parti di Vigevano…

Nel frattempo lui ha cambiato miraggio. Il suo carisma funziona anche con chi non lo conosce. Un’estate scendiamo dal Col Chécrouit dopo una lunga gita tra cespugli di rose canine, e arriviamo in un ristorante verso le quattro del pomeriggio. Le cucine sono spente da un pezzo e il cuoco sta facendo la pennichella a casa sua. Lui chiede di mangiare qualcosa con la solita aria di tranquillo imperio, come se chiedesse la cosa più ovvia del mondo e gli altri fossero tenuti a obbedirgli; ed ecco che per magia il ristorante si rimette in movimento.

Usa lo stesso tono con le grandi banche romane, lasciando intendere che dovrebbero essergli grati, perché li ha invitati a collaborare alla costruzione del Partenone. Qualcosa che potrà riverberare sui vili mercanti di denaro.

CARTACCIA BISUNTA

Di soldi in casa editrice non ce ne sono mai stati, ma questo non sembra un gran problema. Mai la casa editrice è stata così creativa come nei difficilissimi anni Cinquanta, segnati da una crisi finanziaria che Einaudi risolve in parte lanciando una campagna di azionariato popolare a mille lire per azione, e convincendo gli autori a trasformare in azioni i loro crediti (aveva acconsentito anche Hemingway con cinque milioni, la metà del suo credito). Siamo tutti dei volontari, o quasi: autori, traduttori, collaboratori, dipendenti.

Felici di esserlo, orgogliosi di lavorare per la casa più prestigiosa dell’epoca, la vera università degli italiani. Quando Beppe Fenoglio chiede all’amico Calvino il pagamento d’un vecchio anticipo, poche decine di migliaia di lire, perché dovrebbe pagare le rate della macchina da scrivere, quasi se ne vergogna. Se uno chiede i soldi che gli spettano alla casa editrice è perché dev’essere proprio disperato.

Lui stesso, l’editore, gira senza soldi. A Torino ci sono soltanto lui e l’Avvocato a girare senza soldi (le carte di credito non si sa ancora cosa sono). I soldi – cartaccia bisunta – gli fanno un po’ schifo e poi c’è sempre qualcuno che provvede per lui. Ma una volta accade che qualcuno lo batte sul suo stesso terreno. È quell’altro incantatore di serpenti e grande impunito, Mario Soldati.

Siamo a metà degli anni Settanta, si presenta a Bologna un volume della Storia d’Italia con grande concorso di star culturali, che si producono in memorabili performance affabulatorie: sulla musica popolare, sulle «culture materiali» del paese ecc. Tra loro c’è anche Soldati. Finito lo show, lui e Einaudi vanno in giro per i portici, e finiscono in un lussuoso negozio d’abbigliamento. Einaudi sceglie una morbida giacca di cachemire, Soldati adocchia un giaccone di montone con risvolti di pelliccia, lo prova, si pavoneggia allo specchio, tutti gli dicono che sta benissimo.

E lui prontamente: «Grazie, lo considero un omaggio!» I due escono contenti, tocca a Nico Orengo, enfant chéri dell’editore, tirar fuori il libretto degli assegni. Naturalmente l’editore non guida. Aveva tentato a prendere la patente negli anni Cinquanta, con Franco Lucentini come volenteroso insegnante. Erano andati in collina a provare, un disastro. Finivano sempre nei prati. D’altronde anche Calvino era un pessimo guidatore. Quando partiva per Parigi con l’auto carica di pasta De Cecco tutti tremavano.

IL RE DEI CURIOSI

«Editoria è conoscenza degli uomini», recita un aforisma dell’editore. Lui è il re dei Curiosi. Tutto quello che è nuovo, diverso, singolare, irregolare, giovane, mette in moto la sua fantasia, gli incendia desideri infantili, e come tali assoluti. Per far credito a un giovane talento è disposto a mettere in crisi rapporti consolidati. Diceva Orengo: a lui interessavano le persone, i libri erano semplicemente uno strumento per raggiungerle.

Gli interessavano i creativi, ivi comprese le piante. Anche in fatto di botanica era intransigente. Doveva avere sempre il meglio. Le sue rose erano le più belle e rare, anzi introvabili. Immagino la sofferenza che deve avergli procurato la vista delle meraviglie del parco di Villar Perosa, in occasione del suo unico incontro con l’Avvocato. Sì, Donna Marella aveva la moyesii, la Dorothy Perkins e una gigantesca roxburghii, una rosa che potrebbe prendere l’Oscar come migliore attrice protagonista, secondo Paolo Pejrone. Ma lui…

Detestava tutto quello che è esotico, che fa moda, che è lezioso: le «piante da signora», l’ordine ottocentesco, così prevedibile. Immettere la flora mediterranea (bougainvillee, plumbago, oleandri) nel severo codice botanico del Piemonte gli sembrava, più che una forzatura, una caduta di stile. Difatti a Dogliani piantava ciliegi da fiore, sorbi, piante da bacche; rose e rosmarini in abbondanza. Niente ortensie: troppo ordinate, insipide: «noiose». In generale non amava le piante docili, senza forte personalità. Cercava la sfida anche in giardino. Si intestardiva con i rododendri su quelle colline troppo calcaree. Non a caso, gli amici più fidati erano legati alla terra: Nuto Revelli a Cuneo, Mario Rigoni Stern ad Asiago, Bartolo Mascarello a Barolo. E suo fratello Roberto, l’ingegnere, insuperabile campione di stile e generosità, a Milano.

COLTIVARE TALENTI

Figlio di un padre sapiente, fratello di due primi della classe, sul terreno degli studi non poteva batterli. Allora li ha sfidati per interposta persona, diventando direttore d’orchestra, ricorrendo ai talenti altrui, organizzandoli, inventando un progetto culturale: una casa editrice per il postfascismo, degna di un paese che sarebbe dovuto diventare moderno.

Ci voleva un bel coraggio anche fisico, all’inizio degli anni Trenta, pensare al dopo, e difatti fioccarono intimidazioni, arresti, condanne pesanti. La sua sola fortuna fu quella di pescare in un mazzo, quello torinese, dove stavano le intelligenze più vive: Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Vittorio Foa, Carlo Levi, Franco Antonicelli… Quelli del D’Azeglio, i «piccoli Bruti» spregiatori della tirannide allevati dal professor Augusto Monti.

Di solito i grandi si circondano di yes-men, esecutori ubbidienti che non danno ombra. Lui voleva il contrasto, lo scontro dialettico, sempre. L’aggettivo che usava con maggior disprezzo era «servo». Non voleva dei servi, a bordo. Voleva delle teste forti che dessero il meglio di sé a un’impresa comune.

Certo, lui usava la loro intelligenza, ma non a fini di asservimento personale. Uomo di poche letture (perché impegnato a far altro), aveva il dono di capire qual era il valore di novità d’un libro senza nemmeno aprirlo. Soprattutto sapeva scegliere i collaboratori. Era fiero e non geloso delle intelligenze altrui –  tratto rarissimo nei condottieri. Guardava con occhi umidi di ammirazione gli exploit del giovane Daniele Del Giudice.

La noia era il suo principale e unico nemico. Altro insulto massimo, oltre a «noioso» e «burocrate», era «erudito». Detestava lo specialismo accademico fine a sé stesso. Se invece ti dava del verme, voleva dire che sì, avevi sbagliato, ma ti potevi ancora riscattare. Peggio delle parole erano i silenzi. Allora era proprio finita. Di certo appena un collaboratore accennava a sedersi, a rifiatare un attimo, lui agitava la frusta.

È arrivato con un fisico asciutto e una testa di ragazzo fino a ottantasette anni con la pratica sportiva. Montagna, sci, nuoto, lunghe passeggiate, almeno cinque chilometri al giorno, mani dietro la schiena, la spalla sinistra un po’ più in alto della destra. Di lui si raccontava con ammirazione che a sessant’anni s’era rotolato nudo in un nevaio della Val di Rhêmes, come l’eroe di una saga nordica.

MAI STANCO

Erano poche, le sue parole. Si esprimeva con il suo modo di guardarti, i movimenti delle mani, i sogghigni, qualche sbuffo nasale. Seduceva con i comportamenti, le scelte, le assenze, non con la retorica verbale. Le sue apparizioni pubbliche erano calcolate accuratamente. I messaggi che lanciava erano trasversali, «cinesi», di trasparenza simbolica. Non amava ringraziare, né essere ringraziato.

L’essenzialità di un rapporto stava nei gesti. Si svegliava con l’idea che quel giorno doveva essere memorabile, soprattutto per incontri, come se fosse l’ultimo. La giornata proseguiva senza soluzioni di continuità nella serata. Rubrica telefonica alla mano, si precettavano amici, emergenti in ogni campo, artisti, musicisti. Una sera portai a casa Einaudi il giovane Enzo Jannacci in una delle sue prime tournée.

Stava lì in abito grigio come un impiegato meridionale, con la pesante montatura nera degli occhiali, legnoso e stralunato come Il palo della banda dell’Ortica. Provò a raccontare una barzelletta. Non gli venne molto bene, ma tutti decretarono che era straordinario. Uomo del fare concreto, Einaudi amava frequentare soprattutto artisti.

Giulio Paolini, il più einaudiano di tutti, con le sue sottigliezze concettuali. Di Penone lo intrigavano le tecniche: come faceva a scortecciare i suoi alberi, a portarli giù dal bosco (una volta per trasportare in città un albero dal suo laboratorio collinare aveva mandato a cercare un trattore da un contadino). E poi Salvo, Mainolfi, Merz, Mondino. Le sue prime copertine gliele avevano dipinte Menzio, Ajmone, Guttuso. Non era capriccioso, come spesso si diceva.

Era un uomo che non conosceva stanchezza fisica o mentale, che impiegava la sua forte energia vitale per inseguire molte prede contemporaneamente, cambiando spesso direzione di caccia. Detestava il già visto, la routine. Il suo ristorante editoriale non usava precotti, cibi riscaldati, fornetti a microonde. Tutto viaggiava espresso, il riso doveva essere sempre al dente, un piatto ottimo e ormai pronto veniva buttato via per essere sostituito da un altro ancora migliore.Nel portafoglio dei titoli si allungava l’elenco dei libri che un giorno avevano destato le sue passioni, e adesso giacevano malinconicamente abbandonati, in waiting list per chissà quanti anni, scalzati da altri più fascinosi, più autenticamente nuovi.

LA RIGOROSA EINAUDIANITÀ

L’einaudianità è anzitutto una categoria estetica. Sobrietà, rigore, essenzialità, in tutte le cose, nella grafica di un libro, nell’arredamento di una casa, nella scelta di un cibo. È lo stile di famiglia, asciutto, nordico, altoborghese, che non esclude il calore della home. L’eleganza degli Einaudi consiste nel non farsi notare come tale. Per anni, casa di vacanza in affitto a Bocca di Magra, una campagna semplice e appartata, tra fiume e mare, dove andavano anche Vittorio Sereni e Franco Fortini; poi la scabra Filicudi. A tavola bene il pinzimonio, le frittate, i «cibi poveri». Niente sughi e fritti, meno che mai l’esibizionistica nouvelle cuisine dei nuovi ricchi. In casa (e nelle copertine), molti spazi bianchi, che dettano i ritmi, valorizzano pochi oggetti. Un minimalismo zen. Sdegno dell’editore per il sovraccarico, per le case inzeppate di troppi oggetti, per tutto quello che non risponde a una funzionalità rigorosa. Se una cosa non gli piace lo dice con un ghigno beffardo.

Provoca per educare. Non ha atteggiamenti didascalici, non ha niente da insegnare direttamente. Fa domande, ascolta molto. Ti fa sentire complice non di un sapere, ma di un atteggiamento verso il mondo. Ti fa suo per sempre. Anche quando te ne vai (quante partenze e ritorni…) sa che un giorno tornerai. Non porta rancori, è un maestro anche nell’arte del ricupero, l’idea di tornare a sedurti dopo tanto tempo lo diverte. Aveva detto bene Goffredo Parise: tratto caratteristico dell’editore è la femminilità. Tutt’altro che femmineo, si comporta da grande diva, prende e lascia imprevedibilmente. Generazioni di autori e collaboratori si esaltano e soffrono, in ogni caso non possono farne a meno. Lo amano perdutamente.

Ancora adesso, per valutare persone, cose e situazioni, in casa abbiamo un metro: questo è einaudiano, questo non è einaudiano. Funziona.

Il testo è un estratto da Album di famiglia (Einaudi 2022, pp. 328, euro 21) di Ernesto Ferrero

Castelvecchi.

Così Alberto Castelvecchi fondò la "Cia" dell'editoria. A partire dal 1993 mise in piedi un progetto folle finanziariamente. Però ha cambiato il mercato. Massimiliano Parente su Il Giornale l’11 Gennaio 2023

«Underground overground internazionale giusto?». «Giusto, Paulo». Era la fine 2001, l'inizio della fine, ma esattamente trent'anni fa, tra il 4 e l'8 gennaio del 1993, fu fondata in una cucina la Castelvecchi Editoria & Comunicazione, ossia la Castelvecchi, la casa editrice più innovativa degli ultimi trent'anni.

A farlo furono Alberto Castelvecchi e la compagna Alessandra Gambetti. Ma la mente, ovviamente, era Alberto. La storia è lunga e tempestosa, la Castelvecchi rinnovò l'editoria con saggi d'avanguardia dalle copertine pop, da Tommaso Labranca a Gianluca Marziani (il critico più importante della sua generazione, che oggi oltre a curare centinaia di mostre scrive bellissimi reportage di mostre su Dagospia intitolati «Un Marziani a Roma»), e sulla narrativa ne beccò diversi, dagli esordi Aldo Nove a Isabella Santacroce, da Nicola Lagioia e perfino a me, pubblicando il mio secondo romanzo sull'incesto, più estremo di De Sade, intitolato Mamma, e come sottotitolo il perfido Alberto aggiunse «romanzo d'amore», facendolo uscire per la Festa della mamma, con il risultato che molti ragazzini lo regalarono alle mamme e a molte mamme prese un colpo, volevano denunciare me, la Castelvecchi, tutti. Divenne un caso.

Io e Nicola Lagioia ci trovammo insieme a lavorare lì, per circa un anno, l'ultimo anno, entrambi assunti in seguito a due nostri primi romanzi, ma la Castelvecchi si era espansa al massimo, era fallita e risorta dalle sue ceneri: la maggioranza fu prima acquistata da Francesco Coniglio, altro geniale editore, e da lui poi rivenduta per liberarsi di Alberto, che lo denunciò per estorsione, non sopportava che la Castelvecchi andasse in mano di altri, già non sopportava Coniglio.

Ma a un certo punto Alberto si presentò da Coniglio con un miliardario tedesco stranissimo, un gigante di due metri, Paulo Von Vacano, che mise piede nella sede di Coniglio indossando stivaloni da cowboy e soprattutto mise il cash e da lì si aprì la nuova sede a Roma in Via Severano, dove ci ritrovammo io e Lagioia e una manica di pazzi che Alberto aveva visto bene a selezionare. In Via Severano, proprio nella ex sede di Theoria di Paolo Repetti, che nel frattempo aveva fondato Einaudi Stile Libero e si era messo pure con la Gambetti, la compagna di Alberto. Ma a Alberto non interessava, a lui interessava solo la Castelvecchi.

Non era più una casa editrice, era la CIA, il manicomio della CIA. Io e Lagioia stavamo al piano di sotto con la redazione, ma nessuno poteva entrare senza l'autorizzazione del piano di sopra, perché chiunque avrebbe potuto carpire i «segreti industriali». Al piano di sopra c'erano Alberto e Paulo Von Vacano e la sala riunioni e altre sotto-galassie come Castelvecchi Arte o Enola, la collana gay di Antonio Veneziani, poeta gay allievo di Dario Bellezza che era stato allievo di Pasolini, una matrioska di allievi gay.

Occupavamo tutte le pagine dei giornali, riunioni ogni giorno con Alberto, che non era un editore, era un guru. Pelato, magro, sempre vestito di nero, emanava un misticismo che non sapevi mai se eri in una setta o con Steve Jobs incrociato con il Dalai Lama. Paulo Von Vacano aveva il biglietto da visita con su scritto Presidente, era così che aveva convinto la mamma ricca (o meglio l'aveva convinta Alberto, che con le donne ci sapeva fare) a dargli i soldi, e di soldi lì dentro ne finirono tanti (alla fine pare ci abbia lasciato due miliardi di lire).

Ogni riunione era un progetto strategico, alla conquista del mondo. Alberto parlava, tutti ascoltavano, poi ognuno poteva dire la sua. Von Vacano, con il suo biglietto da visita da presidente più costoso del mondo, alla fine faceva sempre lo stesso commento: «Underground, overground, internazionale, giusto?». «Ovviamente Paulo» lo rassicurava Alberto. Un giorno partirono per Londra, per capire come aprire la Castelvecchi London, essendo già in programma la Castelvecchi Deutsche e la Castelvecchi New York.

Di certo, in quel delirio, Alberto in dieci anni aveva cambiato la storia dell'editoria. I libri erano colorati, ognuno con suo colore sgargiante di fondo, e riconoscibilissimi. Se ne facevano tanti, troppi, per occupare spazio in libreria e sfidare i grandi editori come mai prima, ma nessuno era un libro stupido, tutto era sempre innovazione, anticipazione. Si pubblicavano anche i libri che non esistevano. Io mi occupavo delle relazioni con la stampa. Un giorno mi capitò una giornalista di Sette, del Corriere della Sera, che voleva l'anticipazione di un libro che stava per uscire, un saggio sui vecchi computer, ma io e Lagioia ci accorgemmo che il libro non era mai stato consegnato, l'autore era sparito, o morto di overdose, chi si ricorda.

Alberto ci guardò e ci disse: «E allora? Vendetegli l'anticipazione». «Ma non c'è niente». «Scrivete una scheda e una prefazione finta e gliela diamo». Così facemmo, e uscirono tre pagine di Sette su un libro inesistente. Ma tanto non importava, perché Alberto sfruttava anche questo: i giornali avevano talmente l'ossessione dell'anticipazione che gli potevi anticipare tutto, anche quello che non c'era, tanto poi chi se lo ricordava.

Era anche un circo bellissimo. Nel sacro ufficio di Alberto, per esempio, era sempre appeso il calendario dei carabinieri, ma quando arrivava Toni Negri il calendario spariva. Appena Toni Negri se ne andava, Alberto rimetteva il calendario. Nel 2012, poco prima che fallisse, noi dipendenti facemmo causa alla società, e ancora oggi su Wikipedia c'è scritto «perché non pagava i dipendenti». Non è vero, ci ha sempre pagato e bene, e se gli abbiamo fatto causa anche io e Lagioia è perché siamo stati trascinati alla Cgil da Nicoletta Sereggi, la redattrice più brava ma anche la più comunista che arringò alla folla di noi quindici dipendenti come Lenin prima della rivoluzione d'Ottobre. Ci accodammo perché temevamo arrivasse il Kgb.

In fondo l'unico a rimetterci è stato Paulo Von Vacano, o meglio ci ha rimesso la mamma di Von Vacano. Ma non penso ci abbia davvero rimesso, ha dato vita a una realtà editoriale che ha cambiato il provincialismo dell'editoria italiana. Underground, overground, internazionale, come aveva imparato a dire Paulo. L'altro giorno ho chiamato Alberto perché volevo intervistarlo, ma ha cominciato a parlarmi di zen e farmi una lezione di spiritualità, e mi sono messo a sbadigliare. Sentivo il disprezzo per me: non gli sono mai piaciuto, non si è mai fidato di me. Dal suo punto di vista, anche qui, come dargli torto.

Il Premio Strega.

Il riconoscimento. La storia dello Strega: fondazione, albo dei vincitori e curiosità del Premio letterario. Antonio Lamorte su L'Unità il 15 Maggio 2023

Il Premio Strega è un riconoscimento letterario tra i più importanti assegnati in Italia. È stato istituito a Roma, nel 1947, dalla scrittrice Maria Bellonci e da Guido Alberti, il proprietario della casa produttrice del Liquore Strega, prodotto dall’azienda di famiglia. Il Premio nacque in seno al gruppo degli Amici della domenica, un corpo elettorale oggi composto da quattrocento persone attive nella cultura italiana. Il Premio fu annunciato il 17 febbraio 1947. Viene assegnato in due votazioni: la prima in casa Bellonci a giugno, la seconda al Ninfeo di Villa Giulia a Roma, ai primi di luglio.

“Già da tempo cominciavo a pensare ad un nostro premio – si legge nella dichiarazione d’intenti di Bellonci sul sito ufficiale – , un premio che nessuno ancora avesse mai immaginato. L’idea di una giuria vasta e democratica che comprendesse tutti i nostri amici mi sembrava tornar bene per ogni verso; confermava il nuovo acquisto della democrazia”. L’intenzione era proprio quella di raccontare il Paese e di documentarne la lingua, i cambiamenti e le tradizioni. Quello che divenne il gruppo degli Amici aveva cominciato a radunarsi nell’inverno e nella primavera del 1944, piena Seconda Guerra Mondiale, dopo il ventennio della dittatura fascista. Erano amici, giornalisti, scrittori, artisti, letterati.

Il primo Strega fu vinto dallo scrittore romano Ennio Flaiano, con Tempo di uccidere. La prima donna a vincerlo è stata Elsa Morante nel 1957. Al 2021 sono undici in tutto le donne ad aver vinto, 64 gli uomini: statistica che continua a suscitare dibattito. Paolo Volponi è stato il primo a vincerlo due volte, soltanto Sandro Veronesi è riuscito a uguagliare il record. Alcuni romanzi vincitori dello Strega hanno segnato la storia della letteratura italiana come Il nome della Rosa di Umberto Eco e Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il riconoscimento, in forma onoraria, venne attribuito nel 2006 anche alla Costituzione della Repubblica Italiana. L’ultimo a vincerlo, nell’edizione 2022, è stato Mario Desiati, con Spatriati.

Gli Amici della Domenica suggeriscono un titolo, con un breve giudizio critico e il consenso dell’autore. Il Comitato Direttivo sceglie “con decisione inappellabile dodici opere ammesse a partecipare” che diventeranno la cinquina finalista – anche se in otto edizioni sono state sei, con l’aggiunta da regolamento di un libro pubblicato da un editore medio-piccolo, e nel 2022 sono stati sette con due ex aequo e un libro di un editore medio-piccolo. Gli Amici della Domenica votano l’opera vincitrice in una cerimonia nel ninfeo a Villa Giulia a Roma che viene trasmessa di solito in diretta in televisione. L’opera che ottiene più voti vince il Premio, non senza scatenare dibattito o vere e proprie polemiche. Dal 2023 è stato istituito anche il Premio Strega Poesia.

A partire dal 2014, grazie alla collaborazione tra Fondazione Bellonci, Casa delle Letterature, Letterature Festival Internazionale di Roma e Rappresentanza in Italia della Commissione Europea venne fondato il Premio Strega Europeo durante il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea. Anche questo riconoscimento è assegnato annualmente, a un autore europeo che ha vinto un premio nazionale rilevante nel Paese in cui è stato pubblicato per la prima volta. Al vincitore è corrisposta una somma di tremila euro, al traduttore 1.500.

L’Albo dei vincitori del Premio Strega:

1947: Tempo di uccidere, Ennio Flaiano

1948: Villa Tarantola, Vincenzo Cardarelli

1949: La memoria, Giovanni Battista Angioletti

1950: La bella estate, Cesare Pavese

1951: Quasi una vita, Corrado Alvaro

1952: I racconti, Alberto Moravia

1953: L’amante fedele, Massimo Bontempelli

1954: Le lettere da Capri, Mario Soldati

1955: Un gatto attraversa la strada, Giovanni Commisso

1956: Cinque storie ferraresi, Giorgio Bassani

1957: L’isola di Arturo, Elsa Morante

1958: Sessanta racconti, Dino Buzzati

1959: Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa

1960: La ragazza di Bube, Carlo Cassola

1961: Ferito a morte, Raffaele La Capria

1962: Il clandestino, Mario Tobino

1963: Lessico famigliare, Natalia Ginzburg

1964: L’ombra delle colline, Giovanni Arpino

1965: La macchina mondiale, Paolo Volponi

1966: Una spirale di nebbia, Michele Prisco

1967: Poveri e semplici, Anna Maria Ortese

1968: L’occhio del gatto, Alberto Bevilacqua

1969: Le parole tra noi leggere, Lalla Romano

1970: Le stelle fredde, Guido Piovene

1971: La spiaggia d’oro, Raffaele Brignetti

1972: Paese d’ombre, Giuseppe Dessì

1973: Allegri, gioventù, Manlio Cancogni

1974: La morte del fiume, Guglielmo Petroni

1975: A caso, Tommaso Landolfi

1976: Le quattro ragazze Wieselberger, Fausta Cialente

1977: La miglior vita, Fulvio Tomizza

1978: Un altare per la madre, Ferdinando Camon

1979: La chiave a stella, Primo Levi

1980: La vita ingenua, Vittorio Gorresio

1981: Il nome della rosa, Umberto Eco

1982: Sillabario n.2, Goffredo Parise

1983: Il Natale del 1833, Mario Pomilio

1984: Tolstoj, Pietro Citati

1985: L’armata dei fiumi perduti, Carlo Sgorlon

1986: Rinascimento privato, Maria Bellonci

1987: Le isole del paradiso, Stanislao Nievo

1988: Le menzogne della notte, Gesualdo Bufalino

1989: La grande sera, Giuseppe Pontiggia

1990: La chimera, Sebastiano Vassalli

1991: La strada per Roma, Paolo Volponi

1992: Nottetempo, casa per casa, Vincenzo Consolo

1993: Ninfa plebea, Domenico Rea

1994: La casa del padre, Giorgio Montefoschi

1995: Passaggio in ombra, Mariateresa Di Lascia

1996: Bella vita e guerra altrui di Mr. Pyle, gentiluomo, Alessandro Barbero

1997: Microcosmi, Claudio Magris

1998: I bei momenti, Enzo Siciliano

1999: Buio, Dacia Maraini

2000: N., Ernesto Ferrero

2001: Via Gemito, Domenico Starnone

2002: Non ti muovere, Margaret Mazzantini

2003: Vita, Melania Mazzucco

2004: Il dolore perfetto, Ugo Riccarelli

2005: Il viaggiatore notturno, Maurizio Maggiani

2006: Caos calmo, Sandro Veronesi

2007: Come Dio comanda, Niccolò Ammaniti

2008: La solitudine dei numeri primi, Paolo Giordano

2009: Stabat mater, Tiziano Scarpa

2010: Canale Mussolini, Antonio Pennacchi

2011: Storia della mia gente, Edoardo Nesi

2012: Inseparabili: il fuoco amico dei ricordi, Alessandro Piperno

2013: Resistere non serve a niente, Walter Siti

2014: Il desiderio di essere come tutti, Francesco Piccolo

2015: La ferocia, Nicola Lagioia

2016: La scuola cattolica, Edoardo Albinati

2017: Le otto montagne, Paolo Cognetti

2018: La ragazza con la Leica, Helena Janeczek

2019: M. Il figlio del secolo, Antonio Scurati

2020: Il colibrì, Sandro Veronesi

2021: Due vite, Emanuele Trevi

2022: Spatriati, Mario Desiati

di: Antonio Lamorte - 15 Maggio 2023

 Estratto dell’articolo di Gian Paolo Serino per mowmag.com l’1 aprile 2023.

Il critico Gian Paolo Serino ha assistito, come tutti, alla pubblicazione della rosa dei 12 candidati al Premio Strega per la narrativa, ma qualcosa non torna. E non solo a partire da questa edizione, ma da (quasi) sempre. Così Serino lancia la provocazione attraverso MOW, e lancia l’idea: facciamo vincere tutti, anche chi non è candidato…

 Il Premio Strega ha i suoi “12 campioni”. 

 (...)

Quest’anno a contendersi la vittoria saranno Gian Mario Griffi, rivelazione di quest’anno editoriale con Ferrovie del Messico (Laurana), Rosella Postorino con il suo Mi limitavo ad amare te (Feltrinelli), Silvia Ballestra con La Sibilla. Vita di Joyce Lussu (Laterza), Maria Grazia Calandrone con Dove non mi hai portata (Einaudi), Andrera Canobbio con La traversata notturna (La Nave di Teseo), Ada d’Adamo e il suo Come d’aria (Eliot), Vincenzo Latronico con Le perfezioni (Bompiani), Romana Petri per il suo Rubare la notte (Mondadori), Igialba Scego con Cassandra a Mogiadisco (Bompiani), Andrea Tarabbia e il suo Il Continente bianco (Bollati Boringhieri), Maddalena Vaglio Tanet con Tornare dal bosco (Marsilio) e Carmen Verde per il suo Una minima infelicità (Neri Pozza). Ma per Serino i nomi che dovrebbero “vincere a pari merito” sono molti altri, ognuno perfettamente integrato alle dinamiche delle vetrine letterarie.

Comunque se fosse stato per me avrei già dato il premio oggi a tutti, pari merito. A Silvia Ballestra, che sono 30 anni che ce la mena per colpa di quel talent discount di Tondelli. A Igiaba Scego per aver scritto il 150esimo libro sul colonialismo attuale senza aver mai cambiato una virgola della realtà. A Crocifisso Dentello oltre che per pietas per il suo lavoro critico dove elogia tutti perché almeno elogiano lui. A Francesco Musolino che avendo tanti da elogiare non fa articoli ma pagine intere dov’è ficca dentro tutti. A Teresa Ciabatti per non aver scritto un libro. A Niccolò Ammaniti per aver resistito stoicamente a 200 interviste. A Nicola Lagioia per aver rivalutato attraverso i suoi romanzi persino la Duna Fiat. A Francesco Piccolo che è un genio: porta nel cognome la sua bravura e riesce a trasformare anche “La bella confusione” in una metafora della sinistra anni ‘60. Ogni volta che lo leggo mi spiace: perché poteva essere il Baricco della nuova generazione.

A Marco Da Milano perché il suo romanzo è la sua carriera: meno di zero ma cambiando sempre opinione lo ritroviamo sempre. Non ha bisogno di difendere chi naufraga: è lui stesso un naufrago scampato. A Silvia Avallone perché dopo Acciaio, più che un romanzo una bara senza maniglie, scrive ancora libri ormai domopack. A Chiara Gamberale che ormai è più coerente di Emanuele Trevi quando scrive di libri. A Walter Veltroni con l’ennesimo giallo perché almeno sta lontano dai suoi film. E infine a Ennio Flaiano “un marziano a Roma” tanto nessuno dei giurati si accorgerebbe che è morto.

Si è spenta ad aprile. Chi è Ada D’Adamo, la vincitrice del Premio Strega con ‘Come d’aria’: la malattia e la storia della figlia Daria. Redazione Web su L'Unità il 7 Luglio 2023

Da poche ore aveva avuto la notizia che il suo libro dal titolo “Come d’Aria” era stato selezionato tra i dodici finalisti del Premio Strega quando si è spenta. Ada D’Adamo aveva 55 anni, è morta nella sua casa romana il primo aprile. Non ha fatto in tempon a sentire il suo libro proclamato vincitore per l’edizione 2023. Non ha potuto nemmeno ritirare il prestigioso premio. Lo ha fatto il marito Alfredo Favi che commosso è riuscito solo a dire: “Un premio inaspettato e meritato” e Loretta Santini, editrice della Elliot, ha ringraziato “tutti quelli che hanno creduto in questo libro” rifiutato da molti editori.

La storia di Ada ha conquistato subito il cuore di tutti. Quella che racconta nel libero e con la sua vita è una grandissima storia di amore. Amore per la vita, per la danza, per il marito e per sua figlia, disabile dalla nascita. Il suo è un invito totale a vivere ogni istante come un dono. Nel libro ha raccontato la sua malattia, che l’ha spenta piano piano e del rapporto con la figlia Daria che ha accudito per tutta la vita. Il libro è la voce forte e autentica di una madre che ha lottato contro un brutto tumore, la sua malattia, e racconta alla figlia disabile la loro storia. In seguito alla notizia della scomparsa dell’autrice, l’organizzazione del Premio Strega ha annunciato che “Come d’aria” sarebbe rimasto comunque in gara; così facendo, è stato possibile assegnare il premio postumo. Alla sua memoria è stato istituito, nell’ambito della Festa della danza di Roma, il Premio Ada d’Adamo.

Ada era nata ad Ortona il primo settembre 1967, si era trasferita a Roma dove si è diplomata al Corso di Avviamento dell’Accademia nazionale di danza, oltre ad aver conseguito due lauree: una in Lettere, all’Università “La Sapienza”, e una in Discipline dello Spettacolo. Ha scritto numerosi saggi sulla danza e a sostegno delle arti teatrali. Nel 2005 è diventata la mamma di Daria. Dopo la nascita alla bambina è stata diagnosticata un’oloprosencefalia, malattia caratterizzata da una grave malformazione cerebrale e che l’ha resa completamente invalida.

Nel 2008 scrisse una lettera di sfogo a Corrado Augias in cui raccontava tutte le difficoltà vissute come famiglia di una bambina disabile e auspicava l’introduzione di leggi che garantissero il diritto all’aborto, ammettendo che lei stessa avrebbe interrotto la propria gravidanza se fosse stata a conoscenza della condizione della figlia prima della nascita. Poi la nascita del libro autobiografico oggi Premio Strega, Come d’aria, nato dagli appunti buttati giù in anni di vita accanto alla figlia sotto consiglio di una psicoterapeuta. Una storia dolorosa e vera che è un inno alla vita.

Dagoreport sabato 8 luglio 2023.

Il direttore della fondazione che organizza la competizione capitolina, Stefano Petrocchi, ha fatto rivoltare nella tomba Victoria Amelina la scrittrice ucraina morta dopo essere stata ferita in un raid su Kramatorsk. Proprio lei che negli ultimi anni si era impegnata tanto per documentare i crimini di guerra di Mosca nei territori occupati è stata chiamata dal direttore “russa”. 

Un lapsus, certo, ma qualcuno poteva correggerlo. Geppi Cucciari ha preso in castagna il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano che ha dichiarato di non aver letto i libri del premio Strega pur essendo un votante. Però il ministro è stato sincero. Da anni vige la consuetudine che ministri, sottosegretari, sindaci e funzionari vari che sono pure giurati non sfoglino nemmeno i tomi in gara. Di solito hanno delegato questo onere alle mogli: le più zelanti preparavano addirittura schede o piccoli riassunti.

Un guaio dunque per i single e per i politici privi di partner-consulenti. Per rimanere però nell’ambito della non lettura dei politici è bene rilevare che di recente la segretaria del Pd Elly Schlein ha dichiarato che la sera per rilassarsi gioca alla playstation oppure vede le serie televisive. Un libro sul comodino? No? E’ necessario invitarla al prossimo Strega.

Redazione Web 7 Luglio 2023

Estratto dell’articolo di Antonio Dipollina per repubblica.it venerdì 7 luglio 2023.

“Proverò a leggerli” rischia di diventare la frase simbolo dell’estate. La dice il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano a Geppi Cucciari in diretta tv, su Rai3, alla premiazione dello Strega, riferendosi ai romanzi finalisti. C’è un problema: il ministro quei libri li ha votati, fa parte della giuria.

Quando la conduttrice Geppi Cucciari abbozza un: “Quindi non li ha…. Non li ha letti?”, Sangiuliano realizza la gaffe torrenziale e scava ancora di più: “Nel senso che li approfondirò”. Poteva andar peggio, avrebbe potuto dire “Aspetto che escano i film” ma le battute di Cucciari (“Magari andando oltre la copertina…”) e chiamando un bell’applauso al ministro hanno diradato pochissimo la coltre di imbarazzo scesa su tutto quanto.

DAGOREPORT sabato 8 luglio 2023. 

Un vecchio grande caporedattore Cultura di un quotidiano italiano si difendeva dai collaboratori che gli proponevano recensioni di libri con uno storico adagio: “Non l’ho letto e non mi piace”.

Credo che il ministro Sangiuliano abbia ben altro da fare che leggere i libretti (con rispetto per i librettisti) selezionati per il Premio Strega e sia quindi stato elegante nell’apprezzarli avendoli solo sfogliati. Se li avesse letti, come a noi è capitato, dubito che avrebbe potuto apprezzarli. Specie quello vincitore che, al netto della tragica e struggente vicenda umana che a tutti strappa il cuore, è un libro di mera captatio benevolentiae. 

Vorrei indicarvi alcuni passi di questo “romanzo” (?) di esibiti occhiolini all’ambiente giusto romano, al “sono dei vostri”. Due o tre a caso: p.39 “In quegli stessi giorni lèggevo d’un fiato il bel libro di Valeria Perrella Lo spazio bianco”; p.77 “potrei fare come il protagonista di Caos Calmo” di Sandro Veronesi (e fratello regista); p.95 “Francesco Piccolo scrive su La Repubblica di un nuovo groviglio…” ecc ecc ecc. Ma questa è la lingua di un romanzo o un elenco di citazione di gente giusta? Oppure scrivere: “i principi ispiratori della Legge 517 del 1997 sull’inclusione scolastica si scontrano…” ecc ecc è stilisticamente accettabile in Letteratura?

Allora possiamo considerare che lo Strega premi un caso umano estremo. E mi chiedo: quanti di tanto illustri Amici della domenica sostengono, ad esempio, “Idea vita”, l’associazione che si occupa di casi come quelli del figlio della povera Ada d’Adamo rimasti orfani e non autosufficienti? Quanti di loro hanno letto i libri di Lella Manzoni, Marianna Mastronicola e Marisa Paolucci “A casa come va?” (FrancoAngeli, 2022)o di  Valentina Perniciaro “Ognuno  ride a modo suo” (Rizzoli, 2022) che di questo parlano? Quanti di loro si occupano di Welfare? Quante persone hanno condotto e stanno conducendo una vita simile a quella della d’Adamo, hanno scritto (meglio) pure dei libri e hanno avuto il solo difetto di non essere morti o di non essere amici dei succitati?

L’amichettismo post mortem, più che il pregio morale della nobiltà del ricordo di chi non c’è più assume qui la sgradevole sensazione di un esercizio di potere di gente alla quale, in fondo, frega di loro stessi e non della povera d’Adamo, sfortunata scrittrice non eccelsa e con grande desiderio di aggregazione a quelli che contano. La testimonianza è quella di coloro che vanno tutti i giorni a mettere le mani nella merda di quelle situazioni e non il culo sulle sedie del ninfeo a fare i maestrini al ministro. Ministro: non li legga. Io l’ho letto e non mi piace… ma penso ogni giorno a come fare per tutti i figli come quello della d’Adamo. Facciamo una iniziativa culturale in quegli istituti anziché leccare Parrella, Piccolo, Veronesi e compagnia bella.

Il caso del ministro. La gaffe di Sangiuliano e l’egemonia culturale della destra che zoppica ancora. Non c’è niente di male a votare per lo Strega senza avere letto i libri finalisti. Solo che non bisognerebbe confessarlo, per sbaglio, in diretta Tv. Fulvio Abbate su L'Unità l'8 Luglio 2023

L’egemonia culturale della destra, sebbene sembrasse ormai cosa fatta con l’arrivo orgogliosamente identitario del governo Meloni, è invece ancora da “approfondire”. Ne dà garanzia il ministro preposto Gennaro Sangiuliano. Possibilmente, insieme ai libri in concorso quest’anno al Premio Strega. La buona volontà di impegnarsi e riparare ogni limite in un futuro “settembre” comunque, si sappia, non manca.

Sia tuttavia lode all’umanissimo comprensibile candore del Ministro, ci sarà modo di colmare ogni lacuna, sia lode alla sincerità inerme delle sue risposte, pronunciate l’altro ieri al Ninfeo di Villa Giulia durante la più significativa cerimonia dell’Urbe letteraria, in attesa, assai fiacca, della proclamazione del vincitore. Sarebbe comunque bastato essere un po’ più “scafati”, persone di mondo, per rispondere in maniera opportuna, con le armi della piccina comprensibile menzogna, all’intervistatrice Cucciari, cui era affidata la diretta per Raitre, a lei che, gli occhi al “gobbo” compilato con perizia ordinaria dagli autori, chiedeva lumi di circostanza sui libri dal Ministro apprezzati, dunque votati; sulle ragioni delle sue scelte di “lettore” titolato.

Ninfeo di Villa Giulia: la maledizione etrusca forse ad aleggiare, poi l’afa, il generone romano presente ai tavoli numerati, le narratrici e i narratori maestrini d’amichettismo a cinguettare convinti, le ragazze dei Parioli, Vigna Clara e Vigna Stelluti in abiti da cresima, le bottiglie mignon del liquore storico sponsor in dono nelle shopper, i taccuini degli editori interessati alla conta, gli occhi sulla lavagna con i nomi dei partecipanti, Vittorio Sgarbi come Don Chisciotte accanto al tavolo riservato a Sangiuliano, postura invece da Sancio Panza…

Poi, improvvisa, in diretta, la domanda sulla qualità e la sostanza dei libri in concorso, e qui il Ministro, compitamente, ammette di averli, sì, avuti tra le mani “con interesse”, meglio, di “avere ascoltato le storie che sono, come dire, espresse in questi libri, sono tutte storie che ti prendono, che ti fanno riflettere, ecco proverò a leggerli”. Gli occhi sgranati e dubbiosi della conduttrice davanti a tali tentennanti ancora ufficiali parole, ammissioni poco aderenti al testo, cui Sangiuliano aggiunge, quasi implorando comprensione, che “sì, li ho letti, ma voglio appunto approfondire”.

Struggente ammissione di disinteresse verso le maiuscole letterarie? Impegni gravosi che impediscono ogni vero diletto romanzesco all’Uomo di Governo assediato da altro genere di faldoni? Delitto ammesso, delitto del tutto condonabile se compiuto dal cittadino strafottente, dai semplici cognati lontani da ogni tentazione culturale, dall’imbucato, colpa invece inemendabile, sanguinante, se una simile inerme sincerità viene pronunciata, ammessa dal titolare del dicastero della Cultura.

La Fondazione Bellonci, si sappia, cerimonialmente onora da sempre le figure eminenti del Palazzo, in questo caso culturale, con l’ambito titolo di “Amico della domenica”, costui, almeno sulla carta, avrebbe l’obbligo di impegnarsi nella lettura dei titoli della cinquina finalista per poi formulare il proprio voto, la preferenza; la critica del gusto, direbbe Galvano della Volpe.

Di fronte allo sconfinato candore di Sangiuliano la conduttrice insinua ancora che forse l’uomo, anzi, Gennaro, potrebbe avere “guardato semplicemente la copertina”, o forse, immaginiamo, d’essersi fatto indirizzare dai risvolti, le alette. Candore che diventa, nella precisazione ulteriore di Sangiuliano, macchia, colpa, tragicomico imbarazzo, rattoppo sul blazer ufficiale di una destra la cui egemonia culturale resta ancora incompiuta, “a carissimo amico”, ovviamente, trattandosi del Premio Strega, “della domenica”. Ancora “da approfondire”, appunto. Fulvio Abbate 8 Luglio 2023

Estratto dell'articolo di Filippo Facci per “Libero quotidiano” domenica 16 luglio 2023. 

Fatela finita col ministro della Cultura che non legge i libri: rischiate di vilipendere il primato di Sua Maestà, del solo e unico e inimitabile Paolo Mieli, l’uomo che ha fatto dell’ostentata non-lettura dei libri durante le presentazioni (dei libri) un mito tra intellettuali e pennivendoli. Era l’aprile 2015 - a Perugia, fuori dall’Hotel Brufani, lui e noi allievi straccioni – quando finalmente decise di elargire qualche brandello del rito iniziatico e leggendario. 

Devi giungere alla presentazione – disse -  col libro rigorosamente mai aperto, o preferibilmente ancora avvolto dal cellophan, quindi sederti coi relatori e spacchettare il volume di nascosto; ergo, giunto il tuo turno, appoggiare il libro sul tavolo, aprirlo assolutamente a caso e puntare il dito altrettanto a caso su un punto qualsiasi di una pagina, prima di dire seriosamente alla platea: «Mi ha colpito particolarmente questo passaggio, dove vedo scritto che».

[…] Il risultato […] era comunque assicurato: se avevi individuato un passaggio rilevante, tutto a posto, e se il dito invece ti era caduto su una pagina insignificante, […] beh, meglio ancora, perché l’autore lo traduceva in una […] dovizia di lettura tale da aver notato dei dettagli sfuggiti ai più e non alla portata di tutti. Noi allievi estasiati.

Splendida cornice. La gran commedia dello Strega, il premio letterario che non parla italiano.

Guia Soncini su L’Inkiesta il 31 Marzo 2023

La presentazione dei dodici romanzi semifinalisti è un insieme di aberrazioni linguistiche, sociali, umane. Sul palco non c’è uno tra organizzatori e sponsor che si sappia esprimere correttamente

Come ogni anno, non ho letto neanche uno dei libri candidati allo Strega. Prometto di porre rimedio, se qualcuno sa indicarmi un libro candidato allo Strega che racconti i limiti di questo derelitto paese con la precisione con cui essi venivano ritratti ieri mattina durante la diretta dal tempio di Adriano (che ci hanno spiegato non essere in realtà tale: abbiamo le quote rosa retroattive a millenovecento anni fa, e ora è il tempio di Vibia Sabina e Adriano) per comunicare i dodici semifinalisti.

Come da regola di Mike Nichols, l’inizio ci dice subito qual è il nucleo della storia: qui nessuno parla italiano. Siamo nel tempio della cultura delle lettere della rava e della fava, e non ce n’è uno che non parli come un oste romano che ti sta elencando i piatti del giorno.

Il primo a parlare – che come tutti non si presenta, ma dice d’essere della camera di commercio – invita a non applaudirlo «perché in platea c’è mia moglie, e non mi devo allargare», e il tono del racconto è subito stabilito: siamo, come sempre, in un film dei Vanzina.

Il signore ha una dizione degna di Er Cotica, di cui è però consapevole: a un certo punto dice «la borsa, con la esse, perché noi romani abbiamo un difetto lessicale per cui diventa borza». Hai un difetto lessicale per cui credi che l’enunciazione sia lessico, ma non cavilliamo.

Si passa poi all’assessore alla cultura, che non sarò così crudele da dire sia della corrente trippa al sugo del Pd; ma sarò così crudele da sottolineare che dice davvero «la splendida cornice di Valle Giulia», costringendo noi duecentotrenta spettatori della diretta Facebook a chiederci: ma se leggere libri non basta neanche a non essere gente che nel 2023 dice senza alcuna coloritura ironica «splendida cornice», a cosa diamine servono i libri? Non faremmo prima a dare lo Strega alla più colta schermata di Candy Crush?

(Successivamente, dopo avere sbagliato a illustrare i metodi di selezione dei dodici titoli, il nostro eroe avrà una nuova cornice da lodare, «il vincitore potrà godere dell’eccezionale cornice del Foro Palatino», e le mie ginocchia potranno godere d’un secchio in cui venire munte).

Poi arriva il presidente della fondazione Bellonci che, giuro, parla uguale preciso a Verdone in quella gag in cui faceva il politico «sempre teso al rinnovamento». I libbbri, dice. A un certo punto dice «abbiamo di nuövo», e io a quel punto non so più di cosa stia parlando perché sono concentrata a pensare a come traslitterare quella «o» che non ha nulla d’italiano, nella splendida cornice culturale in cui si svolge questa splendida ora di celebrazione delle belle lettere.

Quando arriva il presidente di Strega Alberti (quelli del liquore) mi chiedo, orrida razzista che non sono altro, com’è possibile che la cosa più simile all’italiano la parli un tizio di Benevento; mi rispondo che le remote province sono più consapevoli, rispetto alla provincia compiaciuta che è Roma, che un conto siano i dialetti locali che parli a casa tua coi tuoi cari, e un conto l’italiano che parli nelle occasioni ufficiali. Certo, poi dice «Latsa batta not list» (intende: ultimo, ma non meno importante), ma non si può avere tutto.

La quota rosa arriva al microfono dicendo «siamo in una cornice magica» (chissà se poi pubblicano un catalogo di aggettivi possibili per le cornici), e spiega che «siamo conosciuti un po’ come banca che sa leggere» (la signora è in rappresentanza d’uno sponsor), ma poi dice «siamo vicini al premio Strega e a tutte le iniziative che sono ad esse connessa», e io non credevo si potessero sbagliare così tante concordanze in una sola frase, e allora lo vedete che ho ragione: la banca che sa leggere non sa però esprimersi.

Infine arriva Petrocchi – nel Novecento si sarebbe detto: il patron della kermesse – che evoca, ringraziando lo sponsor che fa arrivare i libri ai giurati in giro per il mondo (sia mai che evitiamo d’inquinare inutilmente mandando dei pdf), una delle peggiori disgrazie che capitino a chi riceve libri: lo scatolone vuoto. Ogni volta che mi arriva uno scatolone grande come quelli dei traslochi con dentro un solingo libro che, per non sbattere troppo in un contenitore non a sua misura, è circondato da una quantità di plastica anch’essa da trasloco, ogni volta penso a Greta Thunberg e piango.

Passati i video degli autori candidati al premio Strega europeo, che sembrano in parti uguali presi da Only Fans e dai tg che mandavano i filmati di Bellini e Cocciolone, torna Petrocchi a spiegarci che, su ottanta libri italiani selezionati, quarantacinque sono di donne (e i trans? Mica sarete transfobici. E i non binari?), molti dei quali addirittura candidati da uomini. Che generosi. Torna in mente quella Aspesi d’una volta: di fronte al maschio femminista, su le mutande e via.

E a dirci che «La lettura è lo strumento principale per fare esperienza del mondo»: Petrocchi è l’unico italiano più passatista e novecentesco di me. «Dove voglio arrivare?», ci chiede a un certo punto mentre illustra dei grafici preparati da gente che non ha la più pallida idea di come si facciano i grafici, torte che dovrebbero darci informazioni avvincenti quali quanti editori che non avevano mai partecipato prima concorrano allo Strega ogni anno.

In platea, nel tempio che fu d’un maschio patriarcale ma adesso è di coppia, sospetto vogliano, come ogni platea romana d’evento culturale, arrivare al buffet. Ma mancano ancora tutti i candidati. Siamo molto fortunati, noi con la diretta Facebook, che possiamo versarci da bere senza aspettare tutti e dodici i semifinalisti. (Coi loro libri nei quali, ci diranno poi, «si muore molto». Allegria!, avrebbe detto quello strumento di esperienza del mondo che era Mike Bongiorno).

Scrittori fantasma.

Mario Baudino per “La Stampa” il 9 gennaio 2023.

La migliore definizione di critica letteraria - e anche la più semplice - è probabilmente quella che Cesare Garboli offriva in Scritti servili, distinguendo tra lo scrittore-scrittore e lo scrittore-lettore (il critico letterario fa evidentemente parte di questa categoria): il primo «lancia le sue parole nello spazio, e queste parole cadono in un luogo sconosciuto», il secondo «va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo».

Le capre sono oggi innumerevoli rispetto al mito greco, e per di più sono spesso fantasmi di capre, storielle scritte benino e tutte eguali, Vespero ha sempre più problemi. Ma continua a fare il suo mestiere di pastore, con passione e spesso competenza. Che cos' è del resto un critico letterario se non un lettore più competente, dotato di un bagaglio di conoscenze tali da potersi confrontare col piacere della lettura e (è un'idea antica, di Vladimir Nabokov) di provare a spiegarlo?

Tutto ciò è stato discusso bene e con intelligenza negli interventi che si sono susseguiti su questo giornale. Resta un interrogativo: c'è un modo di "forzare" un universo dove gli scrittori hanno difficoltà a farsi leggere da un numero sufficiente di lettori, né più né meno di quanto accade ai critici? È un universo per il quale potrebbe valere la teoria del caos, che analizza i sistemi complessi e in larga parte imprevedibili, quella secondo cui il battito d'ali di una farfalla in Brasile potrebbe scatenare un tornado in Texas, immagine divulgata da un fisico americano nel '72 e ripresa da Jorge Luis Borges.

 È possibile, e lo dimostra il caso di J. R. Moehringer, scrittore di vaglia che balzò agli onori della fama e dell'attenzione critica quando si seppe che era l'autore della meravigliosa autobiografia del tennista Agassi (e ora ha «firmato» quella del principe Harry, infondendole un notevole valore aggiunto).

Moehringer sfidò il mondo dei lettori e dei critici evitando di apparire, facendo l'oscuro riservatissimo lavoro del ghost-writer, quello che scrive per gli altri e per contratto ed etica professionale è tenuto al segreto. Salvo eccezioni: Peter Benchley, ad esempio, autore dell'acclamatissimo bestseller Lo squalo dal quale fu tratto il film omonimo del 1975, si mise al lavoro solo nel 1971, dopo essere stato il ghost-writer di Lyndon B. Johnson, allora presidente degli Stati Uniti.

 Molti bestelleristi di lingua inglese non fanno mistero di avere collaboratori efficienti e discreti. Un famoso professionista, Andrew Crofts, sostiene probabilmente a ragione di essere il più pagato e ricercato al mondo in questo genere di lavoro. In altre parole, essere un fantasma è una sfida (o un utilizzo) possibile alla teoria del caos? Forse sì, ma bisogna essere un fantasma di successo.

 Lo hanno dimostrato amabilmente Doris Lessing, che si vide respingere dall'editore abituale due romanzi quando li mandò firmandosi Jane Sommers - e non dimentichiamo che per arrivare alla critica bisogna pur pubblicare; e Stephen King, che inventò un altro da sé firmando cinque romanzi come Richard Bachman. Non ebbero particolare risalto e lui, scoperto infine da un astuto libraio, fece morire di cancro il povero pseudonimo rendendo piena oltre che sarcastica confessione.

Firmarsi con uno pseudonimo è in fondo diventare il ghost-writer di se stessi, situazione piacevolissima se per esempio si è ostili all'esposizione mondana o mediatica come E.I. Lonoff in Lo scrittore fantasma (The Ghost Writer) di Philip Roth, che se ne sta rinchiuso in casa e non accetta premi, interviste, visite e inviti, «come se associare il suo viso alla sua opera - scrive Roth - fosse una ridicola irrilevanza». Ma Lonoff è autore venerato. L'apprendista fantasma, invece, si mette in gara con una folla di altri sconosciuti esordienti.

 Partita persa? No, qualcuno ce la fa. Il caso della nostra Elena Ferrante ne è una dimostrazione planetaria: quando esordisce con L'amore molesto, nel '92, riceve un'adeguata attenzione (premi e critica, oltre alla trasposizione cinematografica), e subito si crea un'enorme curiosità, una volta capito che l'autrice si firma con uno pseudonimo, per quanto riguarda la sua identità «vera»; il che porta negli anni a una valanga di saggi e analisi dove la tessitura testuale viene scandagliata senza sosta alla ricerca di indizi, fino al grande successo internazionale partito dagli Stati Uniti - dove secondo una leggenda che gira nell'ambiente, molti pensarono che l'autore fosse proprio la traduttrice, Anne Goldstein, e questo abbia aiutato.

Ma un caso simile si era già dispiegato con grande clamore in Francia, quando quell'immenso scrittore che fu Romain Gary si tolse la vita, il 2 dicembre 1980, non prima d'aver consegnato all'editore l'ultimo manoscritto, con la sua storia vera degli ultimi anni. Vita e morte di Émile Ajar raccontava di come all'indomani del '68, quando forse temeva di essere considerato un autore cui era rimasto poco da dire, Gary inventò a sessant' anni (era il '74) il suo doppio, il giovane Émile Ajar, pseudonimo con cui firmò ben quattro romanzi (uno dei quali vinse il Goncourt) senza che nessuno sospettasse davvero di lui.

 Già per Mio caro pitone, il primo, si ammirò l'opera «matura» e si ipotizzò che si trattasse di un autore importante, ma si fecero i nomi di Aragon o di Queneau, andando fuori bersaglio. Gary-Ajar riuscì a dimostrare, quando ancora esisteva una società letteraria con i suoi valori e i suoi rituali, come la critica abbia tuttavia un gran bisogno di choc. Oggi quel mondo (erano i tempi in cui in Italia una recensione di Geno Pampaloni poteva cambiare il destino di un autore) è finito, i numeri lo rendono impossibile. L'intuizione di Gary è però attualissima, visto che viviamo esattamente nell'era dello choc.

Ci vogliono libri e soprattutto idee efficaci. I critici - i buoni critici, quelli che sanno sorprenderci e non sono pochi, lasciamo perdere chi invece racconta paro paro la trama di un libro - chiedono a loro volta di essere sorpresi per non naufragare nella routine. Elena Ferrante l'ha capito bene. E il fatto che, letto al contrario, Ajar dia come risultato Raja, ossia il cognome di una importante traduttrice e consulente di e/o, (editore appunto della Ferrante) in cui generalmente si tende a riconoscere ormai da anni la vera identità della scrittrice misteriosa, ebbene, questa non può che essere una - curiosissima, ma forse significativa - coincidenza.

Estratto dell'articolo di Francesco Musolino per “Il Messaggero” l’1 gennaio 2023.

Mai organizzare presentazioni letterarie la domenica, o il mercoledì. Guardatevi bene dal farla coincidere con la partita di calcio della Nazionale o la Champions League e ovviamente, anche il traffico e persino il vento possono giocare tiri mancini. Se per un autore l'incubo peggiore è quello di non venir pubblicati, in seconda posizione c'è il buco nell'acqua ovvero l'evento letterario con zero lettori, fra le sedie vuote e tanto imbarazzo. […]

 E può capitare a tutti, compresi il Premio Strega Paolo Giordano e lo scrittore romano Paolo Di Paolo che ce lo hanno raccontato. La scintilla è arrivata via social. Pochi giorni fa, Chelsea Banning, un'autrice americana piuttosto sconosciuta, ha condiviso in tweet tutta la propria delusione poiché al firma copie per il suo libro si sono presentati solo due amici. E lo sguardo della donna vagava fra le sedie vuote, con disperazione. Ma il web tanto biasimato, talvolta ci regala grandi emozioni. 

E così, replicando alla Banning, Stephen King ha svelato che il primo firmacopie de Le notti di Salem (correva l'anno 1975) è andato completamente deserto, tranne un ragazzino che gli ha chiesto a bruciapelo: «Ehi amico, sai dove ci sono dei libri nazisti?». E per incoraggiare la Banning, ha twittato, «Benvenuta nel club» […]

Ecco Margaret Atwood («al mio firma copie non è venuto nessuno, tranne un ragazzo che voleva comprare una bottiglia di liquore e pensava che io fossi un'addetta alle vendite»), Neil Gaiman, Jonathan Coe e Dave Nicholls che ha ricordato quel giorno in cui «il personale della libreria prese posto per non lasciare tutte le sedie vuote», aggiungendo calorosamente: «Non scoraggiarti! È un rito di passaggio». […] 

E in Italia? Nel Belpaese in cui molti scrivono, leggere è una rarità. Basta dire che delle circa 70mila novità annue che invadono gli scaffali, appena il 4% supera le mille copie. Noi abbiamo contattato dieci autori di prima fascia che hanno ricordato quel giorno sfortunato in cui c'erano 2-3 persone fra il pubblico ma soltanto due scrittori si sono spinti oltre, senza timore di rovinare il proprio status.

«Una sala vuota, le zero presenze sono un'esperienza formativa che non si può non fare», racconta al Messaggero il 40enne torinese Paolo Giordano, vincitore del Premio Strega e del Campiello Opera Prima con La solitudine dei numeri primi. «Ricordo un reading a Paestum qualche anno fa, con una parte musicale di accompagnamento, piuttosto complessa, suonata dal vivo. Non è venuto nessuno. Non ho mai capito perché».

E le consuete giustificazioni di rito? «Faceva un freddo anomalo ed era un evento all'aperto, vero, ma il freddo può non far venire proprio nessuno?», si domanda l'autore tornato recentemente sugli scaffali con il suo nuovo romanzo, Tasmania (Einaudi): «In ogni caso, lo abbiamo fatto tutto. Un reading davanti a cinquecento sedie di plastica vuote. Le rivedo tutte, come se fosse ora». 

È successo anche al 39enne romano Paolo di Paolo che ammette con candore, «sia con i primi libri che più di recente, perché può sempre capitare la congiuntura sfavorevole». E nello specifico - l'autore de Lontano dagli occhi, vincitore del Premio Viareggio Rèpaci 2020 - rammenta: «Nel 2003 ad un evento milanese, non arrivarono nemmeno i libri e non venne nemmeno la presentatrice, che a sua volta diede buca perché mancavano anche i suoi».

Il cinema mantenuto.

Soldi pubblici agli amici per pellicole da flop. Da Veltroni a Salvatores e Rubini: ai registi della gauche fiumi di denaro per film che il pubblico spesso boccia. Domenico Di Sanzo il 25 Novembre 2023 su Il Giornale.

Premessa: il finanziamento pubblico delle opere cinematografiche è una giungla. Un rompicapo enigmatico in cui a vincere sono stati troppo spesso autori schierati a sinistra. Soprattutto durante la gestione di Dario Franceschini al ministero della Cultura. Un groviglio burocratico, tra Tax Credit, contributi selettivi, riconoscimento di eleggibilità culturale e contributi automatici. Chi più ne ha più ne metta. Tante opportunità, di cui non ha usufruito la pellicola «C'è ancora domani» di Paola Cortellesi. Un grandissimo successo al botteghino, senza bisogno di ottenere prebende ministeriali.

Nel viaggio delle mancette pubbliche agli autori progressisti è quasi obbligatorio partire da Walter Veltroni. Ex sindaco di Roma, primo segretario del Pd, ministro dei Beni Culturali e tante altre cose. Ora anche giornalista e regista cinematografico. Difficile trovare una sua opera che non sia stata finanziata con contributi pubblici. Almeno quanto è complicato rintracciare un suo film di successo. Partiamo dalla coda. L'ultimo film di Veltroni, Quando, in sala a marzo del 2023, è stato finanziato con un contributo del Mibact e anche della Regione Lazio, governata fino a febbraio di quest'anno da un altro ex segretario del Pd: Nicola Zingaretti. Aiuti pubblici e riconoscimento di «eleggibilità culturale», a fronte di un film considerato noioso da gran parte della critica e con un incasso al Box Office di 618mila euro. Un altro flop. Come tutti gli altri. Anche quelli finanziati con le casse pubbliche. Da La scoperta dell'Alba del 2013 all'oscuro docufilm del 2022 Ora tocca a noi! su Pio La Torre, considerato di «interesse culturale» dal Mibact. Completamente diverso lo spessore di uno dei film che hanno goduto dello stesso finanziamento diretto negato a Cortellesi. Parliamo di Rapito di Marco Bellocchio. Unica cosa in comune con Veltroni? L'appartenenza politica e culturale alla sinistra. Identità mai rinnegata da Gabriele Salvatores, ex militante di Lotta Continua, che di recente ha dichiarato di essere tornato a votare il Pd in occasione delle ultime primarie per scegliere Elly Schlein. Il film Comedians di Salvatores, del 2021, è stato finanziato dal Ministero della Cultura. Ma per quanto riguarda il regista di Mediterraneo, bisogna sottolineare il caso de Il Ritorno di Casanova, uscito a marzo del 2023. Il film di Salvatores ha ricevuto 3 milioni e 269mila euro di contributi pubblici dal Ministero, a fronte di un incasso al botteghino in Italia di 760mila euro.

Comunque meglio de I fratelli De Filippo di Sergio Rubini, ex marito di Margherita Buy, pure lui saldamente schierato a sinistra. Il film del 2021 sui due teatranti napoletani Eduardo e Peppino ha ottenuto quasi 5 milioni di euro di contributi ministeriali complessivi. Solo che l'opera è stata in sala per soli tre giorni e ha incassato quasi 98mila euro. Il film è stato poi mandato in onda su Rai 1 il 30 dicembre del 2021. Scorrendo l'elenco dei finanziamenti del Mibact degli ultimi anni non si contano i titoli sconosciuti e i flop clamorosi, «meritevoli» di contributi altrettanto clamorosi. Soprattutto se il cuore del regista o del produttore batte per la sinistra.

Cortellesi, scontro sui fondi bocciati per il suo film. Sangiuliano: fu ai tempi di Franceschini. Storia di Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera venerdì 24 novembre 2023.

«Io il film l’ho visto, mi è molto piaciuto, anzi lo raccomando. Stimo Paola Cortellesi da anni e dico anche che mi piacerebbe un giorno fare qualcosa insieme a lei per promuovere la cultura italiana», dice in serata al Corriere il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Parole che arrivano al termine di una giornata densa di polemiche tra lui e il suo predecessore, Dario Franceschini (Pd), intorno al film della Cortellesi, C’è ancora domani, campione d’incassi (oltre 21 milioni di euro) e trionfatore alla Festa del Cinema di Roma.

Eppure, incredibilmente, il 12 ottobre 2022 il film fu «bocciato» dai tecnici del ministero: la quarta sottocommissione di esperti (tra cui Rita Borioni, già nel Cda Rai in quota Pd) esclusero la pellicola dai «contributi selettivi» al cinema italiano in quanto «progetto di opera non giudicata di straordinaria qualità artistica in relazione a temi culturali, a fatti storici, eventi, luoghi o personaggi che caratterizzano l’identità nazionale». Questa la singolare motivazione.

«Ma in quella data io non c’ero ancora, giurai da ministro il 22 ottobre», obietta Sangiuliano, che in una nota diffusa ieri mattina aveva anche affermato: «Se fosse dipeso da me, il film della Cortellesi, diventato il simbolo della lotta delle donne contro la violenza di genere, sarebbe stato in cima alla lista delle opere finanziate. Per fortuna che a breve, nel pieno rispetto della normativa, ci sarà una nuova commissione». E lo ribadisce pure al telefono col Corriere: «Fossi stato io uno dei commissari, quel giorno non avrei avuto dubbi».

Va detto che i commissari del 12 ottobre 2022 (che poi diedero l’ok al finanziamento pubblico per i film Rapito di Marco Bellocchio, Comandante di Edoardo De Angelis e Confidenze di Daniele Luchetti) erano stati tutti nominati sotto l’amministrazione del precedente ministro, Dario Franceschini. Il quale, ieri, pur condividendo la passione per il film di Cortellesi («É splendido») ha reagito però con durezza alla nota di Sangiuliano: «Parole preoccupanti le sue» in quanto «un ministro che interferisce nelle decisioni di una commissione che eroga finanziamenti con valutazioni personali o politiche commette un reato». E puntuale, allora, è arrivata pure la controreplica di Sangiuliano: «Comprendo il tentativo di lanciare la palla in tribuna, ma Franceschini non giochi con le parole. Un ministro non può di certo interferire nei lavori di una commissione, ma ha il dovere di scegliere commissioni autonome, indipendenti e autorevoli. Ed è esattamente quello che intendo fare». Sangiuliano, poi, al telefono aggiunge: «A me non interessava fare una polemica con Franceschini, ci tenevo però a far sapere che quando il film della Cortellesi fu bocciato, io non mi ero insediato. E anzi, nella riforma per l’accesso ai finanziamenti pubblici per il cinema ora è prevista proprio una corsia preferenziale, un meccanismo di punteggio superiore, per quei prodotti che si concentrano sul rispetto delle donne. Più chiaro di così».

Tutti i classici film italiani citati da Paola Cortellesi in “C’è ancora domani”. Set, scene, personaggi: la storia in bianco e nero di Delia, sposa umiliata alla vigilia della proclamazione della Repubblica, pesca e omaggia diversi capolavori. CRISTIANO VITALI su iO Donna il 15 novembre 2023

Ne avrete sentito parlare di certo. C’è ancora domani di Paola Cortellesi sta incassando molto bene (ad oggi il bottino ha raggiunto 14 milioni). Si ride, ci si commuove, si prova rabbia e sollievo. Soprattutto si applaude allo schermo, dai cinema arrivano cronache di scrosci e probabili standing ovation. A scuola, invece, come fossimo negli anni quaranta del film, gli insegnanti caricano sui pullman le classi: direzione multisala (chissà se con sequestro degli smartphone per non interrompere l’emozione).

Insomma, questo film s’ha da vedere, anche più di una volta (dalle cronache arrivano anche visioni multiple). Contano poco le voci critiche (poche) e quelle a favore (tante), l’onda di consenso ormai è un fiume di passaparola che sottolinea con piacere i “per una volta”. Per una volta al cinema c’è un film italiano che funziona, che non è sguaiato, scosciato, triviale, senza trama o pretenzioso, cioè con il messaggione.

Il messaggio, a dire il vero, ce l’ha anche C’è ancora domani. Peraltro già contenuto nel titolo che ricorda il mantra di Rossella O’Hara. Ma in quella forma partecipativa che mescola commedia, melodramma, musical, slapstick, occhiaie e panni cenciosi, Paola Cortellesi lo fa arrivare con grazia e familiarità. Ritardando e depistando tra fuga d’amore e dovere, e buttandoci dentro mezzo cinema classico italiano. Perché se guardare avanti fa una paura folle, tanto vale sfruttare i fondamentali del cinema civile che sapeva intrattenere, e fare male.

Per trovare nuove strada alla narrazione, c’è ancora domani, appunto. Intanto, si campa di nostalgia in bianco e nero, trend inaugurato nel 2011 da The Artist, e più che mai vitale. Morta la commedia romantica, morta – se non in terapia intensiva – la Marvel, il serbatoio delle storie è ancora e ancora l’umanesimo novecentesco prima di ogni crollo (del Muro di Berlino, della privacy, dell’educazione, delle ideologie, della destra al governo).

Solo che per farlo funzionare, questo umanesimo pre-postmoderno, per toccare insomma i colossi Visconti, Scola, Rossellini degli anni Quaranta e Cinquanta (e di fine Trenta girati nei Settanta), bisogna essere bravi. Cortellesi lo è. Le si può rimproverare una certa schematicità, l’assenza di qualche taglio, per riverenza, perché era l’opera prima. Ma ogni frammento che descrive la vita di Delia – maritata con Ivano (Valerio Mastrandrea) che la mena e con una figlia da sposare e due maschietti che la ignorano – forma un nucleo sincero e originale.

C’è ancora domani: tutti i film citati da Paola Cortellesi

Bellissima di Luchino Visconti (1951)

Del film con Anna Magnani mamma della pupa di cui sogna (e fa di tutto) per garantire un futuro nel cinema, C’è ancora domani recupera la casa seminterrata. Con i ragazzini che spiano dalle persiane, i muri mangiati dall’umidità, i mobili recuperati. Come Maddalena Cecconi, poi, Delia è un’infermiera improvvisata (ma non solo) che va a fare iniezioni a domicilio.

Diversamente da Maddalena, invece, che spende tutti i soldi del marito, è più oculata nella gestione dei soldi. Settant’anni in anticipo, Delia è una specie di Gone girl che accumula denaro in vista di strategia, e questo rassicura lo spettatore. Restano comunque due personaggi molto diversi, che si toccano ancora (sembrerebbe) in un capo di abbigliamento, la camicetta.

Quella confezionata da Delia con il tessuto a pois comprato in merceria ha infatti tutta l’aria di un omaggio a una di quelle indossate da Magnani (che però avevano una fantasia geometrica).

La Ciociara di Vittorio De Sica (1960)

L’estratto dal film Oscar come Migliore attrice a Sophia Loren è il vecchio amore tutt’altro che sepolto. Ma difficile da ravvivare, in ogni caso presente, di sostegno: Giovanni e Nino. Interpretati da Raf Vallone e Vinicio Marchioni. Se Giovanni è un burbero buono di pochissime parole, stordito dalla bellezza di Cesira (Loren) e ancora offeso che lei si sia sposata un vecchio ricco; Nino è dolce e quasi remissivo.

Entrambi offrono aiuto. Giovanni promette di controllare la bottega di alimentari mentre Cesira e la figlia si rifugiano dalle bombe in Ciociaria; riesce inoltre a rubare un momento di intimità prima della fuga di Cesira e figlia in Ciociaria. Nino, scartato da Delia che lo guarda con occhi incantati a favore di Ivano (il film però non ne spiega il motivo), propone alla donna di andare con lui al nord. Si rifaranno una vita; intanto, davanti all’officina nemmeno un bacetto.

Una giornata particolare di Ettore Scola (1977)

È il film che viene citato di più tra quelli di ispirazione a C’e ancora domani. Sì, la scena dei panni stesi sulla terrazza è proprio come quella vista nel film di Scola. Sì, Delia e Antonietta (Loren, di nuovo) sono donne di casa stremate da un marito (e figli) tutto «non vali niente e sei stato tutto il giorno da sola in casa e questa è la cena». Ma a parte panni e famiglia, vivono due avventure diverse.

Antonietta, moglie di un fascista che accompagna i figli alla grande adunata in occasione della visita di Hitler a Roma, è una sempliciotta che s’innamora del vicino omosessuale. Che la incanta e imbarazza con facezie e attenzioni, solo e disperato com’è, e un minuto prima di suicidarsi. Delia si corrode dal di dentro, come confidente ha solo Marisa (Emanuela Fanelli) che la fa ridere e incita, e fa il tifo per lei.

È abbattuta come Antonietta, ma nei momenti decisiva si scopre risoluta. Per esempio, senza sapere una parola di inglese, riesce a chiedere a un soldato alleato se gentilmente le piazzerebbe una bomba nel negozio dei potenziali consuoceri. Altro che staffetta partigiana.

Paisà di Roberto Rossellini (1946) 

Qua il ripescaggio riguarda Napoli, episodio del film che ne contiene sei e che sta all’interno della storia come il secondo film della Trilogia della guerra antifascista. Uno dei vertici del cinema neorealista. Yonv Joseph, attore e musicista afroamericano con domicilio italiano che interpreta il soldato William in C’è ancora domani è chiaramente modellato su Dots Johnson; in Paisà a sua volta nel ruolo del soldato nero delle truppe alleate: Joe.

Cambiano i loro referenti. William battezza Delia «Ciao, Devo-annà» (perché c’ha sempre fretta), le regala una tavoletta di cioccolata (una scena simile ma corale, con il lancio di caramelle dai carri armati, c’era anche in La Ciociara) e poi le fa quel grosso piacere dell’esplosivo. Joe, mezzo ubriaco, si fa fregare le scarpe da Pasquale, uno scugnizzo che ascolta tutte le sue storie e che poi, vedendolo addormentato, gli sfila gli stivali.

Trovato il ragazzino in mezzo a un gruppo di senzatetto, Joe si volta affranto capendo che il ragazzino non ha famiglia, morta sicuramente sotto un bombardamento.

L’onorevole Angelina di Luigi Zampa (1947)

Ancora Anna Magnani. Ma con il film in cui Nannarella è una popolana carismatica che guida un’occupazione abusiva di immobili, e che tutto il quartiere vorrebbe perciò in Parlamento, Delia-Cortellesi ha poco a che fare.

Angelina non sta affranta in fila per la pasta come Delia e le altre disgraziate, assale e svuota il magazzino del proprietario del negozio di alimentari che dice che non ha scorte. Mena e finisce in prigione. E chissà cosa avrebbe fatto se avesse conosciuto un soldato come William: minare Montecitorio? iO Donna

Carmine Saviano per Il Venerdì di Repubblica - Estratti lunedì 20 novembre 2023

Poche volte l'esergo iniziale, il motto scelto dall'autore per sintetizzare lo spirito della sua opera, è stato così efficace. «Non vado più a vedere i film con Maria Grazia Cucinotta, perché oltre al biglietto mi tocca pagare l'Ici, la tassa sugli immobili: lei ci prova pure, a recitare, è il suo viso che si rifiuta».  

Le parole gentili sono di Roberto D'Agostino, l'opera in questione è Filmacci di Filippo Morelli e Cesare Paris in uscita il 24 novembre per le edizioni Bibliotheka. 

Si tratta di un dizionario degli orrori. Gli autori, con encomiabile spirito di sacrificio e di sopportazione estetica hanno selezionato i 100 peggiori film italiani a partire dal 2000 fino ad oggi. Un lavoro che – con ironia ovviamente – vuole "scuotere dall'indolenza emotiva" somministrata da gran parte della nostra critica cinematografica, avverte Boris Sollazzo nella prefazione di un libro che basta sfogliare per restare atterriti, vittime del mal-di-Scorsese o di un altro cineasta a caso. Proviamo a sistematizzare.

Gli imbucati Parecchie posizioni sono occupate da quei film in cui del protagonista nessuno sentiva la mancanza sul grande schermo. Come non partire da Alex l'ariete, regia di Damiano Damiani con Alberto Tomba-la-bomba che salva Michelle Hunziker in un film dal «montaggio bipolare, musiche che sono un tormento e location scelte 'ndo cojo cojo». 

Oppure Troppo Belli da un'idea di Maurizio Costanzo con Costantino quello-di-Maria-De-Filippi e Daniele Interrante, quest'ultimo dotato di «un'incapacità recitativa talmente intensa da rovesciare qualsiasi legge cinematografica». O Belli ciao, "quintessenza del cinema da multisala", con Pio e Amedeo diretti dal "James Cameron di Bari", quel Gennaro Nunziante a cui si rimproverano, tra l'altro, "idee striminzite". 

(...)

Cenno anche per Scarlet Diva della quasi diva Asia, film tra l'altro diffuso di libri che «la regista ci teneva abbestia a farci sapere che ha letto, come quando i ragazzini scoprono Bukowski e lo lasciano sulla scrivania sperando che un ospite lo noti» .

Poi i Muccino's. E se quello di Gabriele è un mondo «strano, in cui le persone comunicano come se hanno appena corso per dieci chilometri e stesso chiedendo l'autoambulanza ad un operatore sordo», il cosmo di Silvio è abitato da personaggi che conducono vite vuote «che tradotto in silviomuccinese significa che partecipare a feste del tutto civili ma magari spostare un tavolo, rovinando tutto il feng shui di un ambiente, e non gliene importa nulla!». 

I re della comicità In una selezione che vede chi in sala incassa milioni – Leonardo Pieraccioni, Fabio De Luigi, Alessandro Siani e via sulla strada dei big della comicità pop – i Vanzina e il "mamma mia che ridere le corna, vero?!" la fanno da padroni. E tra i tanti cinepanettoni scandagliati, Filmacci offre anche la possibilità di una nemesi storica.

Sì, perché quasi vent'anni fa i Vanzina, forse, hanno superato i limiti imposti dall'ordine naturale con Il ritorno del Monnezza. E quello che voleva essere un omaggio "a un certo tipo di cinema" si trasforma in un prodotto "che dopo cinque minuti è come avvolto da un'assenza". La stessa che avvolge tutti i tentativi di riproporre in chiave attualizzata i classici della comicità degli anni Ottanta.

Basti pensare a un altro "abominio cinematografico", quel secondo capitolo de L'allenatore nel pallone in cui Lino Banfi fa quello che può per salvare un «film mortuario, sciatto, con titoli di testa che sono talmente avvilenti e pauperistici da concorrere al primo posto per essere i più brutti della storia del cinema». 

Quelli che non ti aspetti E Filmacci, in nome e per conto della settima arte, non fa sconti a nessuno. Nemmeno ai mostri sacri, nemmeno agli Autori o chi si prodiga tanto per esserlo. E si va dal "fellinismo incontrollato di Veltroni" al "gavettone da 900 chili di provincialismo" somministrato da un film a caso di Luciano Ligabue. 

Anche il premio Oscar Roberto Benigni è presente in lista con il suo Pinocchio, in cui «sembra di partecipare a una convention di furries insieme a Michael Jackson» e dove «avere costantemente davanti questo cinquantenne nei panni di un bambino, che pigola sciocchezze infantilmente sgrammaticate , è una sofferenza». 

E che dire di Melissa P. di Luca Guadagnino tratto da Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire? Questo: «Tutto è all'insegna del trasgressivo corretto, del perverso innocuo, dell'oltraggio programmato a tavolino. Insomma, cento sbadigli prima di andare a dormire». Le cento schede di Filmacci, al contrario, non fanno per niente sbadigliare. Anzi: ricordano quanto è necessario, a volte e anche al cinema, essere consapevoli e integerrimi scugnizzi. 

Gianmaria Tammaro per Dagospia lunedì 16 ottobre 2023.

Decidere di produrre un film, di ascoltare uno sceneggiatore o un regista, di mettere in piedi una macchina costosa come quella di un set, di investire credendo in un’idea non è mai facile. Mai, lo ripetiamo. Le storie più belle e interessanti del nostro cinema, probabilmente, appartengono al dietro le quinte dei grandi film: com’è nata, per esempio, La dolce vita di Fellini. Che cosa ha dovuto fare Monicelli per girare L’armata Brancaleone, e cosa, poi, ha guadagnato. Chi ci ha rimesso di più, come sono nate alleanza, co-produzioni e così via.

Il produttore non è una figura estranea al processo creativo (sembra di sì, ci diciamo di sì, ma no). Spesso – non sempre, ecco – è la figura chiave che porta al successo, o all’insuccesso, di un film. (Stiamo parlando solo di cinema, in questo caso: lo precisiamo onde evitare incomprensioni con le varie categorie di settore). E quindi? Quindi dobbiamo restare in sospeso, tra due fuochi, un piede di qua, nel tumultuoso mondo delle riunioni, delle chiamate a tarda notte, delle litigate furiose e delle intuizioni geniali, e l’altro di là, nell’ordinato disordine – si fa per dire – dei set, dei casting, delle ossessioni di registi, attori e sceneggiatori.

Il punto, però, è un altro. E sicuramente non è la figura del produttore, come qualcuno potrebbe pensare. Ma è il nostro cinema. Che è cambiato, è diverso, ha attraversato nel giro di pochi anni innumerevoli fasi e innumerevoli rivoluzioni strutturali, che si è prima visto inondato di investimenti e soldi (benvenute, piattaforme streaming) e che poi ha scoperto – sulla propria pelle – che non è tutto oro quello che luccica, che ogni accordo ha il suo prezzo e che la sala, con i suoi limiti e i suoi punti di forza, merita un altro tipo di approccio.

Insomma, il mondo è andato avanti. Gli spettatori, volenti o nolenti, hanno gusti e sensibilità differenti. Quando vediamo il successo dei blockbuster americani, ci limitiamo a una pigrissima alzata di spalle e a un laconico “vabbè, ma so’ americani”. E invece no. Non è solo questo. È come entrare nella vita e nella testa delle persone. È come muoversi per rendere tutto più appetibile e, soprattutto, più interessante. Non basta staccare la spina all’enorme catena di montaggio che è stata messa in piedi in questi anni, dove ogni film veniva seguito da altre due, tre, quattro copie della stessa storia.

Bisogna fare i conti con la realtà. E bisogna farlo onestamente. Siamo rimasti indietro. Noi, come industria. Come gruppo. Innanzitutto perché non siamo un’industria. Non una vera e propria. Non una che è formata da player – si dice così, scusateci – pronti ad aiutare chi è in difficoltà e a sostenere la competizione. Da noi, questa cosa non c’è. Le figure chiave sono sempre le stesse. Chi ha la voce più grossa è sempre lo stesso individuo. Chi produce, e produce tanto, non sembra nemmeno vederlo, il problema. Perché si trova in una situazione particolare, unica. 

La colpa – rieccoci: quanto ci piace distribuire le colpe – è della tax credit? No. O meglio: non è mai il mezzo, preso singolarmente, a portare a determinate conseguenze; è chi quel mezzo lo usa. E dunque ciò che manca, e che manca a tutti i livelli, è la consapevolezza. Non c’è un interruttore da schiacciare. Non c’è un panel da organizzare e in cui parlare per cambiare magicamente il nostro cinema (sì, stiamo parlando ancora di cinema). Se un film viene prodotto, se riceve – come si dice – luce verde, deve avere qualcosa di più di un nome convincente, del grande autore o delle aspirazioni internazionalistiche.

Deve essere accolto, e coccolato e cresciuto, nel grembo materno dell’industria – questa benedettissima industria. E deve essere presentato in un certo modo. Perché noi abbiamo titoli che vale la pena vedere, li produciamo; c’è gente che, per essi e dietro di essi, ha perso tempo, salute ed energie. Ma il pubblico non lo sa. Gli spettatori non vengono tenuti minimamente in considerazione. Rimane un dialogo ai massimi livelli, nel blu dipinto di blu, e chi poi deve pagare il biglietto non sa niente. Per carità: in un rapporto, anche il pubblico ha le sue responsabilità. Ma spesso non viene messo nelle condizioni di poter partecipare, di poter – con la sua presenza – fare la differenza. 

Forse è la parola “industria” che ci ha confuso; forse ci siamo convinti che “industria”, anche nel caso del cinema, voglia dire: io produco, tu compri. Fine dei giochi. E invece no; invece siamo in un borgo, ogni produzione-distribuzione è una bottega, e il cliente, il signor cliente, va coinvolto. Dal momento 0, quando un determinato film riceve luce verde, al momento 10, quando lo stesso film arriva nelle sale. 

Domanda: quanto tempo ci mettiamo, di solito, per annunciare il cast di un lungometraggio? E quanto tempo, poi, ci mettiamo per pubblicare il poster, il trailer e qualche clip? Di più: come li confezioniamo, questi materiali? A chi ci rivolgiamo? Ci sono professionisti che meritano molta più fiducia e a cui, invece, si dice “si deve vedere la faccia del protagonista, si deve leggere il nome; sì, ma deve essere tipo Rai, chiaro, immediato, semplice: la gente non capisce”.

Trattiamo gli spettatori – e suddetti professionisti che montano trailer e confezionano poster – come se fossero degli idioti. L’abbiamo già detto l’altra volta, sempre su queste pagine, ma lo ripetiamo di nuovo: è fondamentale rischiare. È fondamentale, perciò, avere fiducia nel pubblico, credere che capirà quello che gli diciamo. E gli esercenti? Quando ci sono gli incontri dedicati alla presentazione dei nuovi listini, gli esercenti diventano il pubblico. Guardano i trailer, ascoltano le presentazioni e decidono – esattamente in quel momento – se essere o meno interessati a un particolare titolo. 

A volte, puntano sul “sicuro” (che sicuro, ahinoi, non è mai): e chiedono la commedia, il film per tutta la famiglia, la storia con il grande attore commerciale. Altre volte, invece, vorrebbero saperne di più, capire di più, e dall’altra parte trovano un muro: “ma figurati se v’interessa…”. E invece ce lo dobbiamo figurare. Immaginiamolo. Sono stati impiegati mesi, talvolta anni, per finire un film: cosa sarà un’ora in più nella sua presentazione?

Il cinema italiano non è il cinema francese, non ha quelle regole, non ha quell’impostazione e – diciamocela tutta – non ha quella serietà. E non è nemmeno il cinema americano, per fortuna. È un’altra cosa, con un’altra storia. Ci siamo convinti di sapere tutto, di sapere cosa le persone vogliono, e abbiamo smesso di ascoltare. Il mondo è andato avanti, l’abbiamo detto; e noi – tutti noi: produttori, distributori, artisti, giornalisti, esercenti – siamo rimasti indietro. 

Il sistema non esiste? Costruiamolo. La nostra industria vacilla? Diamole un sostegno. Dove sono i tavoli di discussione al di fuori dei festival e dei mercati? E dov’è la sincerità nei proclami e nei comunicati ufficiali? “Abbiamo vinto un premio”: sì, ma quanto avete incassato, poi, grazie a quel premio? Quanta gente siete riusciti a coinvolgere? Il cinema italiano è pieno di sfumature, pieno. Non sono gli attori, come è stato detto, a non partecipare – e per questo a boicottare – la promozione dei film. Alcuni, se non protagonisti, non vengono nemmeno invitati alle anteprime: rendiamoci conto.

Dobbiamo ripartire. Se non da zero, quasi. 

E dobbiamo rieducare – e rieducarci – al cinema. Se c’è una cosa che le piattaforme streaming hanno capito (piccolo inciso: perdonateci, associazioni di categoria) è che l’offerta deve essere personalizzata. Io parlo con una persona, e quella persona deve sentirsi chiamata in causa. Non parlo con il mucchio. 

Non banalizzo, non vado veloce; non uso frasi a effetto. Non siamo Giorgio Mastrota – con tutto il rispetto, ovviamente, per Giorgio Mastrota. Abbiamo bisogno di Alberto Angela per raccontare il nostro cinema. Tutto quello che pensavamo di sapere vale e non vale; le professionalità non si costruiscono sulle solide certezze (non stiamo vendendo divani, suvvia). Si costruiscono sulla capacità di fare autocritica, di ascoltare i consigli e i suggerimenti altrui. E sull’istinto al cambiamento. O ti adatti o muori, come si dice. Ma qui non stiamo parlando di vita o di morte e quindi permetteteci di riformulare: o ti adatti o floppi.

Quel cinema militante che ora non piace neppure ai militanti. Nel libretto di Goffredo Fofi la cronistoria di critiche inspiegabili e ideologiche a film poi diventati classici. Claudio Siniscalchi il 14 Ottobre 2023 su Il Giornale.

A Goffredo Fofi saggista, giornalista e critico cinematografico, nato a Gubbio nel 1937 (quindi ha raggiunto gli 86 anni!) va dato atto di aver mantenuto, nel corso della sua lunga e operosissima attività intellettuale e di militante delle cause perse, una coriacea coerenza. Chi ne vuole una tangibile dimostrazione può sfogliare l'agile libretto appena editato da Fofi, Breve storia del cinema militante (Elèuthera, pagine 144, 15 euro). Da sempre l'autore è stato un fervente sostenitore del cinema militante. Fofi viene da lontano. Dal fatidico Sessantotto. Anzi, la contestazione l'ha addirittura anticipata, varando nel maggio 1967 una rivista ultra-militante, Ombre rosse. Realizzata a Torino, austera, pochi numeri, pochi collaboratori. Molta grinta. Troppa grinta.

Contro il cinema italiano si rivela un vero e proprio plotone di esecuzione. Non guarda in faccia nessuno. La prima copertina lascia pochi margini di errore: vi appare il profilo di Burt Lancaster, protagonista del film I professionisti (1966) di Richard Brooks. Imbraccia un fucile. Che quelle pagine saranno uno strumento di battaglia, lo testimonia anche il logo della testata: sotto al nome quattro revolver a tamburo e canna lunga. Nell'editoriale di apertura Fofi annuncia lo stile da tiro al bersaglio. Infatti, sopra alla tabella che stila la classifica dei film visionati, campeggia un titolo: I 400 colpi. Rimanda ad un grandissimo film d'autore di François Truffaut. Ma i colpi sono veri. Si spara. Ad ogni singolo film vengono assegnate delle palline. Fori di proiettile su un bersaglio. Più ce ne sono più l'opera è infima. Vengono sforacchiati così i «mostri sacri» della cinematografia nazionale. Sergio Leone subisce un pestaggio coi fiocchi. Il buono, il brutto, il cattivo, (1967) è considerata la peggiore fra le opere di Leone, ultimo atto del declino di un autore promettente. Un film noioso che addirittura scatena il mal di testa allo spettatore. Al cinema convenzionale nazionale e internazionale viene preferito il cinema militante. Una ricerca d'autore assommata all'ideologia, ovviamente rivoluzionaria e giovanil-sinistrorsa. Sin dalla solfurea giovinezza di critico, Fofi non ama le mezze misure. Preferisce l'invettiva. L'assalto all'arma bianca. Gli piacciono le scomuniche. In un suo saggio, Cinema italiano. Servi e padroni (Feltrinelli, 1973), attacca con estrema brutalità Elio Petri, ai suoi occhi espressione di destra. Destra assolutamente immaginaria.

I decenni trascorrono. E Fofi non solo non ha nessuna voglia di abbandonare questo atteggiamento da fustigatore (ne ha tutto il diritto, ovvio). Il suo profilo richiama quello del Savonarola della critica cinematografica, sempre pronto a far sentire rumorosamente la propria voce. Gli acciacchi del tempo lo obbligano a dotarsi di un bastone. Spesso roteato minacciosamente quando si scalda nel corso di una disputa intellettuale. Un personaggio del genere il giovane Filippo Tommaso Marinetti lo avrebbe immediatamente reclutato nella banda futurista. Qualità di parola, di scrittura e desiderio di rovesciare tavoli. In Breve storia del cinema militante Fofi raccoglie mezzo secolo di riflessioni. Mai ovvie, banali, sciatte. Anzi, il contrario. Leggere Fofi è un piacere. Nelle sue pagine, non ingiallite dal tempo, si ritrova la spiegazione della decadenza della cultura cinematografica in Italia. Il cinema che ha amato (e tuttora ama) Fofi è certamente degno di rilievo. Ma è del tutto insignificante, marginale. Può esserlo per una storia del cinema ad uso e consumo di un «cane sciolto» (con tutto il rispetto), intraprendente e originale quanto si vuole, innamorato pazzo di un modo di utilizzare le immagini come arma di combattimento, politica e sociale. Nelle pagine emerge la considerazione di Fofi per il desiderio avanguardista di cogliere il reale del sovietico Dziga Vertov; per il Vietnam del francese Chris Marker; per l'indignazione civile dell'argentino Fernando Solanas; per l'underground americano impegnato a immortalare Woodstock e la ribellione californiana nei campus; per la militanza tra loro difforme di Ettore Scola, Marco Bellocchio e Jean-Luc Godard. Pagine nelle quali si riassume, nitidamente, l'itinerario del principale protagonista di una generazione che non ha saputo fare i conti, innanzitutto, con la storia del cinema. Fofi offre al lettore un approccio davvero semplice: l'onnipotente industria delle immagini, pur con il suo planetario successo, non è riuscita a frenare l'inarrestabile decadenza della «settima arte». Oggi il cinema agonizza, vampirBizzato da altre forme di espressione e comunicazione. Come opporsi all'estinzione, ormai certa? Attraverso la militanza, percorso di possibile salvezza. Anzi, unica alternativa possibile. Da tempo Fofi guarda con simpatia la galassia sgonfiata e spompata del mondo cattolico. Il quotidiano dei vescovi volentieri gli apre le porte. Osservandolo attentamente, Fofi nella vecchiaia ha assunto il profilo del Patriarca. Barba bianca e folta. Invita i superstiti credenti del cinema militante a riunirsi nelle catacombe della cinefilia, vecchie e nuove, luogo dove praticare il culto delle immagini. Solo lì il cinema, ricordando il suo passato e meditando sul presente, può tornare a respirare e rinvigorirsi con linfa nuova. Il Patriarca, da buon e saggio predicatore della buona novella, ha messo nero su bianco un vero e proprio breviario del cinema militante. Una Bibbia in forma ridotta della vera cinematografia. Tutto il resto non esiste. Giunti alla conclusione, vogliamo augurare lunga e buona vita al Patriarca Goffredo. Non ne ha azzeccata una. Però, imperterrito, non si è mai perso d'animo.

I David di Donatello e quei ringraziamenti dal parentado ai colleghi. Il “Corriere della Sera” l'11 maggio 2023.

Quando Carlo Conti ha premiato Marco Bellocchio per la migliore regia ero convinto di aver sbagliato programma, di assistere a «I migliori anni della nostra vita», la trasmissione della nostalgia («Nostalgia» è anche il film di Mario Martone). E invece era la cerimonia dei David di Donatello, i premi Oscar che il cinema italiano si può permettere (Rai1).

Per tutto il corso della trasmissione, la mia attenzione è stata calamitata dai ringraziamenti. Ai premi si usa ringraziare, dal parentado ai colleghi, magari facendo buon uso dell’elenco telefonico per non dimenticare nessuno ed è curioso che a inaugurare questa «tabella di gratitudine» sia stata Emanuela Fanelli, forse in ricordo del delizioso delirio di Valeria Bruni Tedeschi. Per fortuna, la vera festa dei David si svolge al Quirinale, al mattino nella sala degli Arazzi, protagonisti assoluti il presidente Sergio Mattarella e Geppi Cucciari, che ha iniziato così: «Buongiorno come ogni giorno, a nome di tutti gli italiani. È sempre una grande emozione essere qui, in questa modesta magione, ampio cortile, molto luminosa, discreta armocromia, libero. Libero tra cinque anni. Mancano cinque anni, quasi sei: otto anni, sei governi, cinque presidenti del Consiglio, 180 giri di consultazione e una sola espressione (stacco sul volto del presidente), quella, la tenga».

Video correlato: Mattarella e i David di Donatello: "Cinema, storia e futuro dell'Italia": (RaiNews)

Poi, con grande semplicità, ha risposto il presidente: «Il cinema è immaginazione e storia, emozione e cultura. È anche svago, sogno, libertà». Ho notato con piacere che si riferiva al cinema in generale, non a quello di una singola nazione. Dopo il doveroso omaggio a Gina Lollobrigida (lontana parente di Francesco Lollobrigida, cognato di Giorgia Meloni), è intervenuto Enrico Vanzina che, intervistato dalla stessa Cucciari, ha ricordato, per non fare arrabbiare ulteriormente la sua di cognata, come il David sia un premio «alla mia famiglia che ha amato molto il cinema e lo ha fatto. Scola diceva che la commedia è un grande ritratto dei vizi italiani, ma sempre con rispetto e osservazioni affettuose. La leggerezza spesso non è superficialità». Questo cinema di santi, di poeti, di navigatori, di cognati... (semicit.)

Estratto dell'articolo di Daniele Luttazzi per “il Fatto quotidiano" il 27 dicembre 2022. 

E ora, per la serie "La mia abilità indiscussa di fare terra bruciata intorno a me", la posta della settimana. 

Caro Daniele, volevo andare al cinema a vedere qualche film italiano e mi sono reso conto che non ce n'era uno che mi attirasse. Come mai?

(Luciano F.)

Se un'automobile non vende, viene tolta dalla produzione e si cercano progettisti innovativi. Da anni continuano a calare gli incassi del cinema italiano, e ciò nonostante si continuano a fare i soliti film con i soliti attori, tanto Stato e regioni finanziano la baracca. Il cinema italiano deve spiegare, a questo punto, perché il pubblico dovrebbe uscire di casa per andare a vedere i film della solita compagnia di giro. 

Favino, Servillo, Abatantuono, De Sica, per dire, li ha già visti: la loro gamma emotiva quella è, da anni non hanno altro da aggiungere; e così sullo schermo non vedi più i personaggi di un film, ma gli attori Favino, Servillo, Abatantuono, De Sica, ecc. ecc.

 ….l'altra pecca degli attori italiani che monopolizzano i film italiani: si vede benissimo che si credono 'sto cazzo. Poi c'è lo scadimento del resto, che rispecchia quello della società italiana.

Lo Stato ha dato 1,3mld di euro per la produzione di film italiani (che nessuno vede). Simona Santoni su Panorama il 3 Gennaio 2023.

Gli stanziamenti pubblici per la produzione cinematografica sono in costante aumento dal 2017 a oggi. Tanti film made in Italy che in pochi hanno visto in sala. Ecco i dati che fotografano la crisi

Da sempre il governo, tutti i governi, di tutte le coalizioni, hanno dato fondi al cinema italiano; denaro utilizzato per produrre centinaia di film ed elargito in modi diversi al punto che è difficile capire a quanto ammonti questo piccolo grande tesoro.

Snocciolando i dati degli ultimi anni fornitici dalla Direzione generale cinema e audiovisivo del Ministero della Cultura, è impressionante il numero delle opere finanziate dallo Stato con i diversi strumenti messi a disposizione dalla nuova legge cinema e audiovisivo (legge n. 220 del 2016) a partire dal 2017 a oggi, tra contributi automatici e selettivi e tax credit. Alcuni di questi film, tra l’altro, sono ghosting: se ne sono perse le tracce, mai passati al cinema e neanche acquisiti da tv o piattaforme digitali. Invisibili. La cifra che ne esce è comunque davvero rilevante: siamo infatti vicini al miliardo e trecento milioni di euro in sei anni: soldi utilizzati per realizzare un altro numero difficilmente quantificabile di opere; i dati a disposizione sono infatti limitati al periodo 2017-2020 per un totale di 820 film sovvenzionati. Ma le richieste erano state molte di più Gli stanziamenti pubblici per i film dal 2017 a oggi Gli stanziamenti pubblici per lo sviluppo e la produzione di film hanno avuto un incremento costante negli ultimi anni, con un picco nel 2021 dovuto alle misure straordinarie per contrastare gli effetti della pandemia sul settore cinematografico. Nel 2017 ammontano a 90.080.000 euro i fondi pubblici per lo sviluppo e la produzione cinematografica, a cui si aggiungono 20.960.000 di altri fondi stanziati anche per le opere cinematografiche (qui rientrano varie tipologie di opere tra cui, ad esempio, l’animazione). Nel 2018 i fondi totali sono stati 154.600.000 (124.080.000 più 30.520.000); nel 2019 oltre 197 milioni (172.480.927,24 più 24.534.384,96); nel 2020 si sale a 219.400.000 (183.000.000 più 36.400.000). Nel 2021 ecco il picco dovuto al Covid con 335.300.000 (283.200.000 più 52.100.000). Fino all’oggi, al 2022, con oltre 277 milioni di euro (203.200.000 più 73.842.448,07). PUBBLICITÀ 04/01/23, 08:07 Lo Stato ha dato 1,3mld di euro per la produzione di film italiani (che nessuno vede) - Panorama https://www.panorama.it/lifestyle/cinema/soldi-stato-film-italiani 4/10 La marea di film prodotti La produzione di lungometraggi cinematografici in Italia continua a salire di anno in anno, aumento che però non implica un rafforzamento del settore bensì, spesso, una fumosa dispersione di energie e risorse. «La tax credit ha facilitato e incoraggiato i produttori a fare i film nella quantità e non nella qualità», aveva osservato Pupi Avati quando l’abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del suo Dante. Tanti i film italiani prodotti e finanziati dallo Stato, pochissimi gli spettatori che andranno a vederli in sala, se arriveranno al cinema. Nel 2017 sono stati 235 i film che hanno ricevuto dal Ministero il nullaosta per la proiezione in pubblico: di questi 62 non hanno attivato le procedure che consentono di beneficiare di aiuti economici, quindi 173 gli effettivi. Nel 2018 ammontano a 273, di cui 84 non ammissibili, quindi a tutti gli effetti 189. Sono 325 i film nel 2019, da cui sottrarne 78. 252 i film prodotti nel 2020 del Covid, di cui 41 non ammissibili. «Il ruolo importante dei finanziamenti pubblici statali è mantenere in vita la varietà dei prodotti cinematografici e dare la possibilità di produrre film che non rispondano solo a criteri commerciali, ma anche a criteri puramente artistici», ci aveva detto Paolo Genovese commentando la crisi del cinema italiano. «Ma i finanziamenti devono essere mirati, non a pioggia, con capacità di leggere le sceneggiature e capirne le potenzialità artistiche». La crisi del cinema in Italia Indicativo il Report Swg del Ministero della Cultura ''Gli italiani e il cinema'' presentato a settembre: oltre il 60% della popolazione non si è mai recato al cinema nel 2022, almeno fino ad allora. Poi è arrivato il ciclone Avatar 2, che attendavamo da tredici anni e che in questi giorni sta dando una flebo ricostituente agli asfittici botteghini italiani (uscito il 14 dicembre, in 16 giorni di programmazione ha incassato oltre 25 milioni di euro, secondo dati Cinetel). E accanto al colossale frontrunner c’è anche Il grande giorno, il film di Natale di Aldo, Giovanni e Giacomo che il 26 dicembre con oltre 1,1 milioni di euro e 154mila presenze è stato il miglior risultato giornaliero per un film italiano da marzo 2020. Eppure confrontando i numeri di questi dì di festa con le cifre del prepandemia c’è poco da sorridere: a Santo Stefano gli incassi sono stati di 5.711.880 di euro contro gli 8.812.906 del 2019. A Natale 2.897.874 di euro contro i 5.251.555 di tre anni fa. L’incasso totale del weekend natalizio? 7.121.000 euro con 884mila presenze, ovvero quasi il 50% in meno dello stesso fine settimana della media degli anni 2017-2019. Se nel 2020 di chiusure dall’alto e nel 2021 di mascherine in sala le cifre non potevano che essere penose, oggi ancora non scocca l’attesa scintilla della ripresa più volte invocata vanamente, dopo Festival di Cannes, Mostra di Venezia, rilascio di titoli di grido come Crudelia o Top Gun 2. La pandemia ha accelerato una certa disaffezione verso la sala, incoraggiando la visione su mega tv in casa a portata di piattaforme digitali: per uscire dal comodo salotto domestico e recarsi al cinema lo spettatore ha bisogno di stimoli forti. E di qualità. Le parole del ministro Sangiuliano «La crisi del cinema sarà al centro del mio lavoro», ha promesso il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Una crisi del cinema profonda e tutta italiana, legata soprattutto ai film tricolori, che spesso mancano di qualità e vasto respiro: nella top ten dei migliori incassi del 2022 non compare neanche un film italiano. Il candidato all’Oscar 2023 al miglior film internazionale per l’Italia, Nostalgia di Mario Martone? Ovviamente già fuori dalla shortlist degli Academy Awards. Eppure nel 2021 ben 301 opere di finzione, 165 documentari e 15 film d'animazione hanno chiesto e ottenuto dal Mic il credito di imposta agevolato. «Basta con i fondi dati solo ai film di sinistra», la stoccata a inizio mandato di Sangiuliano, che vorrebbe riformulare i finanziamenti statali per il cinema. «Bisogna riformare il fondo unico per lo spettacolo, il Fus, e riformare la burocrazia relativa alla raccolta e all’uso dei finanziamenti pubblici», ha detto. Che non significa fare un passo indietro sul fronte intellettuale, perché «lo Stato è fondamentale quando si parla di cultura», ma cambiare la visione delle istituzioni pubbliche verso «una mentalità più attiva, più intraprendente».

La biblioteca della sinistra.

Storia e storiografia: la dittatura del pensiero unico. Di Spartaco Pupo su Culturaidentita.it il 7 Aprile 2023

Il crollo del muro di Berlino il 10 novembre dell’89 configura la fine del comunismo.

Seguirono la riunificazione tedesca, libere elezioni in Polonia, Ungheria, Bulgaria e Cecoslovacchia, un trapasso violento in Romania e l’esplodere di guerre nazionalistiche in Iugoslavia. Poi nel ’91 fu la fine dell’URSS.

Ma ciò che avvenne allora non fu che la diretta conseguenza di quanto già era maturato sul piano ideologico, economico e politico, perché quel modello non si era dimostrato in grado di competere con le democrazie.

«La rivoluzione — aveva scritto anni prima Augusto Del Noce — doveva coincidere con la soppressione dello Stato e doveva avere un carattere mondiale», ma è successo tutt’altro! Lo slancio palingenetico si è tramutato in serratura totalitaria, in arroccamento della rivoluzione su se stessa, in arresto della storia. Un’elefantiasi di Stato si è insediato e la burocrazia ha sovrastato gli individui. La società è stata imprigionata in una morsa ideologica. Per mezzo di una coercizione brutale è implacabile è stata imposta l’uniformità e sono state conculcate le più elementari libertà, tant’è che si doveva pensare e agire allineati a quei canoni e si era pregiudicati se non lo si faceva.

Ne è derivato un conformismo peggiore del passato, nella misura in cui quello era«un conformismo delle risposte, mentre questo risultava da una discriminazione delle domande per cui le indiscrete erano paralizzate quali espressioni di “tradizionalismo”, di “spirito conservatore”, “reazionario”, “antimoderno”» (Del Noce). Pertanto, si è reso impossibile il dissenso «non per vie fisiche, ma per vie pedagogiche» (Eric Voegelin).

Quando già la crisi era palese e la rivoluzione si era rivelata un obbiettivo mancato, una perfezione sfuggita marchiata però da una violenza reale, si è imposta una sorta di “obbligo alla menzogna”. Perché di fronte al fallimento la storiografia marxista non ha potuto far altro che falsificare il passato, come il presente.

L’intransigentismo rivoluzionario è divenuto allora intransigente innanzitutto storiograficamente. Ne andava del prestigio del comunismo. Sarebbe stato infatti come ammettere che la prassi, su cui quello aveva gettato l’onere della prova, non può salvare e che la storia è consegnata ad una regia superiore, oltre le verità di circostanza e le menzogne politiche, in direzione di una libertà personale che spezza ogni totalità.

Il post-comunismo

Riguardo a quanto avvenuto dopo, Giuliano Vassallo ha scritto che «l’esperienza storica ha screditato l’ideologia, ma non ha scalfito il potere alienante che l’illusione ha esercitato su coloro che avrebbero dovuto confutarla e contrastarla». Questo significa che oggi, seppure screditata, l’ideologia “progressista” sopravvive a livello culturale. Cosicché un potere di sacerdoti strettamente osservanti del suo mito continua a presidiare università e scuola, a governare giornali, ad influenzare case editrici e a condizionare emittenti televisive.

Sono i censori del politically correct, quelli che tagliano il mondo a fette e si sentono in diritto di selezionare le fonti della storiografia. Orfani della rivoluzione, sono senza futuro, ma tanto più si avvinghiano al passato rivendicando di esserne gli unici interpreti legittimi. Quindi è un progressismo senza novità. Perché è chiaro ormai che la rivoluzione futura, in nome della quale i loro sodali internazionali hanno perpetrato i peggiori crimini, non si realizzerà. La storia ha preso una direzione diversa e oggi si ritrovano contro i pifferai populisti che attirano i popoli nella voragine del regresso morale e della degradazione politica. La pancia si insubordina all’intellighenzia. I popoli rivogliono la sovranità e pretendono di autodeterminarsi.

Da qui ne viene quell’arroccarsi su presunte posizioni di superiorità morale con il conseguente atteggiamento di distacco snob che connota i radical chic.

Ma più si tenta da parte di questi illuminati in ritardo di costringere la realtà all’interno di quelle categorie e di quegli schemi logori, di imbracarla nelle maglie strette del pensiero unico, più questa sfugge, sorprende, resiste. Il moto reale degli eventi, delle volontà, delle riflessioni supera il potere di previsione dei sondaggi e le alchimie di un rivoluzionarismo impiantato su posizioni di potere culturale.

Cosicché non c’è da sorprendersi se oggi il rivoluzionario senza rivoluzione si rivela affatto conservatore quanto a interpretazione storica e pretende di imbalsamare la storia secondo le sue vetuste categorie: fascista/antifascista, progressista/retrogrado, liberale/reazionario etc.. Né può essere altrimenti, dal momento che egli «difende il puro esistente, sia pure nella sua crescitache si identifica col progresso, separato non soltanto dalla tradizione che ha negato, ma anche da un futuro reale» (Del Noce).

Ma la sua è una corsa senza direzione, verso la decostruzione fine a se stessa dell’esistente, verso il nulla.

Il futuro della politica. Alla cultura di sinistra serve Gramsci, altrimenti brancola nel buio. Michele Prospero su Il Riformista il 22 Marzo 2023

Come postilla a quanto già egregiamente scritto domenica scorsa da Corrado Augias, a proposito di un discutibile tira e molla che è intercorso tra governo e opposizione con riferimento alla semplice possibilità di citare nel dibattito pubblico una figura intellettuale come quella di Ernest Renan, è forse il caso di rammentare il ruolo assai rilevante che il saggista francese assume in alcune pagine dei Quaderni. La celebre formula gramsciana della “riforma intellettuale e morale” (come sviluppo dinamico del nesso “Riforma protestante + Rivoluzione francese”) è per l’appunto rubata dal libro La Réforme intellectuelle et morale di Ernest Renan che Gramsci cita nell’edizione del 1929. L’oblio dei Quaderni nella cultura politica (purtroppo anche della sinistra) è tale che si azzardano prove mediterranee di cancel culture senza un minimo di supporto filologico-critico.

Attraverso l’esempio di pensatori come Renan, Gramsci riflette sulle modalità attraverso cui “il grande scrittore si particolarizza”. Egli cioè esplora come dalla cultura generale un prodotto creativo della mente penetra nello specifico nazionale. L’occasione del confronto teorico è per lui utile al fine di smontare “l’equivoco del nazionalismo”, senza però rinunciare all’identità civile di un paese. Riferendosi a Goethe, Stendhal e appunto, in diversa misura, a Renan, Gramsci precisa che la loro opera consente di stabilire in maniera trasparente che “nazionale, cioè, è diverso da nazionalista. Goethe era «nazionale» tedesco, Stendhal «nazionale» francese, ma né l’uno né l’altro nazionalista”. Rammentando “l’ammirazione di Sorel per Renan”, i Quaderni cercano di impostare in termini nuovi il problema della nazione e, con esso, la questione del rapporto tra cultura e popolo, tra élite e massa, tra classe e filosofia. La “scienza politica” creata dalla filosofia della praxis, secondo Gramsci, per uscire da una certa arretratezza cognitiva (il pensiero critico del suo tempo gli sembra incollato alla “sua fase popolaresca” ovvero stretto come un “aspetto popolare dello storicismo moderno”) deve risolvere un rapporto problematico toccato anche da Renan: l’eredità del Rinascimento, della Riforma e della Rivoluzione francese nella gestazione del moderno.

La fortuna di Renan in Italia era legata al recupero, tra gli esponenti di spicco della storiografia laica, di una sua tesi centrale: è impensabile una moderna civiltà politica liberale senza una precedente riforma religiosa. Escludendo che il problema italiano sia di teologia politica, e quindi riconducibile alle manovre per la sostituzione del vecchio dettato religioso con un credo riformato, Gramsci se la prende proprio con “i puri astrattisti” alla Missiroli che aspettano “una riforma religiosa in Italia, una nuova edizione italiana del calvinismo”. Non è però la mancanza di categorie care al protestantesimo il cuore dell’arretratezza italiana. Su queste basi, i Quaderni avvertono che “la posizione del Missiroli sulla quistione del «protestantesimo in Italia» è una deduzione meccanica dalle idee critiche del Renan e del Sorel”. Il confronto critico con il laicismo liberale, che dalla progettualità della politica si trasferisce al terreno teologico, suggerisce a Gramsci di annotare: “A proposito del protestantesimo in Italia, ecc. Riferimento a quella corrente intellettuale contemporanea che sostenne il principio che le debolezze della nazione e dello Stato italiano erano dovute alla mancanza di una riforma protestante, corrente rappresentata specialmente dal Missiroli. Il Missiroli, come appare, prese questa sua tesi di peso dal Sorel, che l’aveva presa dal Renan (poiché Renan una tesi simile, adattata alla Francia [e piú complessa] aveva sostenuto nel libro La riforma intellettuale e morale)”.

La Riforma protestante, luterana e calvinista, in alcuni paesi generò in effetti anche un mutamento delle coscienze e delle concezioni etico-politiche con salde radici “nazionali-popolari”, diventando in tal modo la radice della modernità capace di saldare élite e popolo. In Italia, invece, la sensibilità protestante rimase una mera tendenza di élite. Ma la debolezza del modello politico e sociale italiano per Gramsci non si cura certo con un cambiamento di confessione religiosa che sostituisca la predicazione del clero romano. Anche in Francia, dopo la “vittoria apparente” riportata dai cattolici nelle guerre di religione, si sviluppò una “grande riforma intellettuale e morale del popolo francese”. Prima di penetrare nella società, l’impulso etico e teorico fu certamente un fenomeno di “alta cultura”, che si segnalò con i grandi prodotti sfornati nel campo della “scienza politica nella forma di scienza positiva del diritto”. La filosofia divenne però cultura e infine si tradusse anche in una politica effettuale. Per questo Gramsci rammenta a più riprese “il valore storico reale e non astratto che il giacobinismo aveva avuto come elemento creatore della nuova nazione francese”.

Per quanto concerne l’Italia, i Quaderni rimarcano la fragilità del teorema di Proudhon e di Renan secondo cui alla filosofia si dedicano le classi alte, mentre ai parroci di campagna tocca l’impresa di educare alla meglio un popolo ammorbato dal pregiudizio. Tra filosofia e popolo Gramsci introduce la nozione di cultura intesa come fenomeno collettivo, costruzione di un senso pragmatico. Come eredità-compimento della cultura moderna (Rinascimento, Riforma, calvinismo, Illuminismo, Rivoluzione francese, nascita dell’economia politica, liberalismo laico e storicismo), la filosofia della prassi avrebbe dovuto costruire per lui la mediazione tra idee e passioni, ragione e sentimento. Impregnato ancora di “pregiudizio e superstizione”, il marxismo appare invece troppo in ritardo nel “sollevare continuamente nuovi strati di massa ad una vita culturale superiore”.

Mentre accanto a Renan anche i tradizionalisti cattolici e gli astratti laici negano la possibilità stessa di favorire un senso critico diffuso tra i ceti popolari e predicano il rispetto dovuto al sentimento comune staticamente venerato, il socialismo è un movimento reale che deve scavalcare il sentire immediato in vista della costruzione di una prospettiva critico-sistematica. È evidente anche dalla stucchevole querelle sul presunto razzismo-nazionalismo di Renan che negli ultimi tempi la qualità del ragionamento in Italia è incredibilmente regredita iniettando, nel popolo e nelle pretese élite politiche, dosi massicce di pregiudizi e superstizioni postmoderne. L’abbandono delle ceneri di Gramsci al loro destino ha prodotto solo dei visibili fenomeni degenerativi contrassegnati da cenni di barbarie politico-culturale. È sempre più chiaro che, se non “torna Gramsci”, la cultura politica di sinistra brancola nel buio e viene agevolmente infilzata dalle credenze della più improvvisata reazione ideologica. Michele Prospero

Il processo a Eichmann visto da Horkheimer. Filippo La Porta su Il Riformista il 25 Gennaio 2023

Scusate se insisto sempre sullo stesso punto, e cioè la assenza di qualsivoglia biblioteca nei nostri partiti attuali. Nessuno riuscirebbe a immaginarla. Un’assenza che alimenta la confusione attuale sui confini tra destra e sinistra. In particolare la sinistra, orfana di tutto, non sa più riconoscere le proprie tradizioni, e a volte sembra perfino che se ne vergogni. Ora, bisogna scegliersi la tradizione giusta e saperla – saggiamente – riattualizzare. Nel Novecento la Scuola di Francoforte – Adorno. Horkheimer, Marcuse… – è una di queste tradizioni, perfino con il suo pessimismo su come va il mondo e sulle cosiddette sorti progressive.

Prendiamo Max Horkheimer, formatosi su Hegel e su Schopenhauer, oltre che su Marx. Nei suoi Taccuini 1950-1969 (Marietti 1989) – preziosi per chiunque intenda oggi rilanciare il bagaglio etico della sinistra – ci invita non tanto a contrapporre progressisti e conservatori quanto a distinguere in ogni singola persona tra l’uomo-massa (conformista, omologato, egoista, pronto a obbedire al capo), cui importa esclusivamente di se stesso, e il vero individuo singolo. Ora questo individuo singolo “si riconosce unito agli altri non tanto nel perseguimento degli interessi immediati, quanto piuttosto nella miseria di coloro che sono esclusi, di quelli che sono malati, perseguitati, condannati, proscritti, ciascuno dei quali è ‘singolo’ in un senso doloroso e disperato”. Perché mai dovrebbe riconoscersi nella miseria degli esclusi? Non per un sentimento umanitario o per una specie di dover-essere cattolico né perché gli esclusi liberando se stessi libereranno tutti, ma perché è in gioco la propria parte “esclusa”, esposta sempre al caso e alla sventura. Insomma la propria paura, che opportunamente vagliata al lume della ragione può fondare quella solidarietà senza cui il singolo non è pensabile.

E ancora: qualche giorno fa ho prodotto alcuni argomenti a favore del garantismo appellandomi perfino alla tradizione ebraica della Mishnà e alla figura di Aronne, molto amato perché incapace di giudicare. Ora, Horkheimer, che era ebreo anche se non si appassionò allo stato di Israele (che per lui sta all’ebraismo come la chiesa cattolica sta al cristianesimo), scrive che l’origine del comportamento morale è dovuto alla mimesi: in particolare, nell’infanzia i gesti della generosità, dell’amore, della “libertà dalla vendetta” sono oggetto di una esperienza così intensa da diventare un elemento permanente del comportamento. Si diventa “morali” imitando, da piccoli, quei gesti, almeno se ci è stato possibile farlo. Così come i cristiani auspicavano la imitazione di Cristo, mentre regole e dogmi sono del tutto secondari. Ma da qui, dalla “libertà dalla vendetta” andiamo al nucleo forse più scandaloso, e certo discutibile, di questi Taccuini. Nel 1961 Horkheimer intende prendere le distanze dalla cattura e dal processo, da lui considerato illegittimo, ad Eichmann (che non ha ucciso in Israele): “I processi penali per calcolo politico appartengono all’arsenale dell’antisemitismo, non a quello del popolo ebraico”.

Il pensatore tedesco manifesta la sua profonda diffidenza per il concetto stesso di espiazione, che per lui implicherebbe qualcosa di tenebroso, evocante i primordi della storia germanica e dell’Inquisizione. Qui introduce una distinzione. Da una parte capirebbe una volontà dichiarata di fare vendetta: se cioè uno avesse perso padre e madre sotto Hitler e avesse scovato il boia in Argentina, ammazzandolo sulla pubblica strada, “come uomo tutti lo avrebbero capito”. Però dall’altra il processo istituito in Israele, con la volontà di “fargli del male” tradisce secondo lui “sentimenti volgari”. Aggiunge che nessun popolo ha sofferto più di quello ebraico – della sofferenza ha fatto il suo elemento di coesione, impedendole di generare cattiveria – : “Gli ebrei non sono ascetici, essi il dolore non l’hanno adorato, bensì subito”. Proprio perciò se un ebreo trovasse naturale di fronte a Eichmann vederlo soffrire, allora contraddirebbe alla sua religione e a tutto il retaggio della sua storia. La punizione di Eichmann “avrà solo il risultato di fargli un po’ di quel male che ha nobilitato i morti”.

Ora, sappiamo che in realtà Eichmann non fu maltrattato né torturato – anzi lo stato di Israele gli pagò l’avvocato (tedesco) -, e nel processo, formalmente ineccepibile dal punto di vista del diritto internazionale, non vi era spazio per ritorsioni. Personalmente continuo a ritenere quel processo legittimo, storicamente e giuridicamente, tuttavia mi colpisce l’atteggiamento di Horkheimer (simile a quello di Martin Buber, e di una parte stessa dell’opinione pubblica di Israele in quel momento): veder soffrire qualcuno non può essere fonte di soddisfazione non solo per un ebreo ma per nessun essere umano. Forse così Horkheimer nega uno strato arcaico della nostra psiche (insomma chiede troppo all’essere umano), e un poco disinnesca quel meccanismo della giusta vendetta che sottende i film d’avventura che ci appassionano. Però se davvero ci si riconosce in coloro che soffrono – per essere stati esclusi – allora non si può godere della sofferenza neanche di chi pure fu un carnefice.

Infine, un aforisma che ribalta un luogo comune diffuso, e che mette radicalmente in discussione la mentalità calvinista che informa di sé la nostra società capitalista, invitandoci a qualche riflessione sulla recente querelle intorno alla meritocrazia. Si intitola: “Felicità senza merito”, e dice così: “Un tale eredita molti soldi. Che bello possa vivere così, senza nessun merito né lavoro né sofferenza! E la gente strilla ‘Com’è ingiusto!’. Ma non vedete che si tratta di quel poco di giustizia che è rimasta in questo mondo? Una felicità – senza merito?”. Pensateci bene: in un certo senso la ricchezza di uno che semplicemente l’ha avuta inaspettatamente in eredità, che non ha fatto nulla per conquistarla e meritarsela, ha qualcosa di meravigliosamente utopico. Mica dobbiamo “meritarci”la felicità, no? La vita non è tanto un compito o una performance quanto un dono. Ecco, credo su questa utopia del “non merito” difficilmente una destra potrebbe acconsentire. Filippo La Porta

Il Partito unico del Libro.

Antonio Giangrande: Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno.

L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Lorenzo Castellani per “Domani” - estratto sabato 26 agosto 2023.

In certi circoli della destra si era diffusa una certa grandeur dopo la vittoria elettorale dello scorso anno. Pareva finalmente propizio il momento per la costruzione di una élite di destra, un distillato culturale di conservatorismo dalle sfumature eleganti. Ci si aspettava una fioritura di fondazioni, centri culturali, case editrici, riviste, pamphlet raffinatissimi, [...]

E invece, nemmeno un anno dopo, il libro di destra più venduto è quello autoprodotto del generale Vannacci e i presunti protagonisti della nuova egemonia culturale sono ridotti alla difesa dell’autore col coltello tra i denti. 

Non si tratta certo di proteggere D’Annunzio, Montale, Prezzolini o Ratzinger dalla censura della sinistra, ma di rivendicare le tesi estremistiche, la prosa incespicante, i concetti sempliciotti e tribali, il lessico da caserma, la posa da deep web di un alto ufficiale il cui comportamento, sul piano istituzionale, suscita più di un dubbio.

Insomma dell’alta cultura, e dell’organizzazione ad essa necessaria, per combattere l’egemonia del gramscismo con i suoi stessi mezzi nemmeno l’ombra. Siamo lontani persino dalla più radicale, ma sempre presa a modello, Francia: a Parigi signori come Zemmour, Onfray, Finkielkraut e Bellamy dimostrano di saper scrivere e padroneggiare concetti storici e filosofici. 

Invece la compagnia della destra culturale italiana cede subito al richiamo della foresta e si immola per un generale che vuole fare politica e che, per altro, mette anche in difficoltà le forze della maggioranza con i suoi argomenti brutali. Allora cosa resta del progetto della contro egemonia culturale dei conservatori? Qualche posto in televisione, un manipolo di nomine nei musei e negli enti culturali, qualche denaro per le fondazioni. Non rimane, insomma, che l’ordinaria amministrazione del potere.

[...] Sarebbe stato più onesto che tentar di nobilitare il caso Vannacci come parte di un progetto di contro egemonia o come reazione alla tendenza censorie della sinistra. La destra pertanto torni a ciò che sa fare: rivendicare e alimentare la cultura popolare, scagliarsi contro i progetti dirigisti e pedagogici del progressismo, ma lasci perdere i progetti intellettuali di grande ambizione.

In primis perché nei circoli vicini ai partiti della maggioranza mancano quantità e qualità per realizzare un progetto di quel tipo e in secondo luogo perché all’elettorato di destra non interessa nulla dell’egemonia culturale. A quella porzione d’Italia basta il bestseller fatto in casa del generale Vannacci. Con buona pace dei gramsciani di destra.

Il pozzo confermativo. Il declino della conversazione e il pubblico che vuole solo annuire forte. Guia Soncini su L'Inkiesta il 12 Giugno 2023 

Qualcuno che ci dà ragione e ci fa i complimenti è il modo più rapido di diventare noiosissimi (e perdere elezioni e lettori). Non servono a niente i «maggiùra» di chi non ascolta, né ribadire l’ovvio. Imparare da Kureishi in ospedale, ma anche da Piccolo a Bologna

Meno male che Francesco Piccolo c’è, e fa le cose che una volta facevano gli intellettuali: concedersi il lusso di concetti che non chiamino facilmente applausi e cuoricini, e fornirti parole per quel che ci avresti messo cento righe a mettere a fuoco (cento righe che neppure avrebbero racimolato gran cuoricini).

Meno male che Concita De Gregorio c’è, anche quando la do per scontata e – sessista che sono – mi accorgo che ha ragione solo quando i concetti li ripetono i maschi.

Meno male che Hanif Kureishi c’è, e ha le giuste priorità anche quando voi e io le perderemmo di vista. Meno male che sabato mattina arriva Francesco Piccolo, e m’inquadra il venerdì sera. Venerdì sera ho conosciuto un tizio che, in una scala della scarsezza conversatoriale, si colloca al gradino più alto, quello denominato M.

Meno male che sabato pomeriggio Hanif Kureishi scrive su Twitter che ogni giorno a mezzogiorno sua moglie arriva in ospedale da lui e se ne va la sera e tutto il tempo parlano, e un amico gli ha chiesto che argomenti abbiano visto che lui è chiuso in ospedale da mesi, ma ne trovano sempre e nessuno dei due è mai noioso.

Ora dovrei spiegarvi da dove prenda il nome la scala della scarsezza conversatoriale, e quindi – non avendo il nitore espressivo di quelli cui basta una frase – mi perderò in centosette divagazioni. Portate pazienza.

Il mio amico M è il peggior conversatore del mondo. Non dice una cosa interessante mai, non ascolta l’interlocutore mai, non coglie un tono mai.

Il mio amico M ha cambiato molti lavori, ma una sola è rimasta sempre la sua vocazione e la sua occupazione principale: essere amico della gente famosa (credo d’essere l’unica eccezione, l’unica persona cui non chiedano autoscatti per strada e di cui egli ogni tanto utilizzi il numero di telefono).

Al mio amico M piace la gente famosa, e questa non è una caratteristica di spicco: a quasi tutti piace la fama, nel secolo in cui essa è la valuta più inflazionata e tuttavia più valutata che ci sia. Ma la gente famosa, quando vede arrivare M, non cambia marciapiede. E la ragione è proprio quella: che M è il peggior conversatore del mondo.

È molto rassicurante, se hai un ego fragile come quello della gente che di mestiere sta sul palcoscenico, avere a che fare con un conversatore scarso. Non avendo egli mai un guizzo, una battuta, un punto di vista originale, si rifugerà nella tipologia di dialogo più cara a chi abbia un ego fragile: i complimenti.

Per M il tuo ultimo film è sempre un capolavoro, le tue canzoni sono sempre le sue preferite, il tuo romanzo gli ha sempre cambiato la vita. M è compiacente come gli entourage che i famosi pagano per dar loro ragione, e in più è gratis.

M, come tutti i conversatori scarsi, non sa ascoltare; e quindi, anche quando gli dici il contrario di ciò che ha appena sostenuto o di cui è convinto, la sua risposta sarà immancabilmente: sono assolutamente d’accordo, stavo proprio per dire la stessa cosa. Se hai l’ego fragile, è un balsamo senza controindicazioni.

Cosa c’entra M col tizio di venerdì sera? Niente, penso in principio, se non che non credevo ci fosse uno incapace d’essere un conversatore interessante quanto M, prima di venerdì. Venerdì sera osservavo questo disgraziato incapace di dire una cosa degna d’essere ascoltata, e mi chiedevo se il mio fastidio fosse invidia: io, se tornassi a casa sospettando che quelli che hanno passato la serata con me stanno pensando «quella tizia mi ha steso di noia», morirei di vergogna.

L’idea di risultare noiosa, che evidentemente non sfiora mai né M né il tizio di venerdì, mi terrorizza come le trentenni bellocce sono terrorizzate all’idea di venire taggate in una foto in cui sono venute male. È chiaro che sono invidiosa: pensa che vita riposante, non porsi mai il problema d’essere interessanti.

Mi balocco con questo vezzo dell’invidia per i noiosi per meno di ventiquattr’ore, poi sabato pomeriggio arrivano i tweet di Kureishi, e cedo, e ammetto che uno che non si pone il problema d’esser noioso lo soffocherei con un cuscino alla prima occasione. Apprezzo invece tantissimo i (pochissimi) Kureishi del mondo, che anche mentre avrebbero moltissimi altri cazzi di cui preoccuparsi stanno attenti a non diventare conversatori scarsi.

Come si sia formato un ceto medio riflessivo – mica gente che ha i campi da arare e altro cui pensare che la civiltà della conversazione – che non sa essere brillante me l’aveva, in realtà, già spiegato Concita De Gregorio proprio venerdì. Dal palco di Repubblica delle idee, in piazza Maggiore a Bologna, a pochi metri da dove avevo conosciuto il tizio che non somiglia a Kureishi, mi aveva spiegato cos’avessero in comune lui e M.

Non so neanche di cosa stessero parlando, sul palco, perché ero lì sotto che origliavo Elly Schlein e Matteo Lepore che parlavano di spazzatura (una specie di scena primaria), ma a un certo punto ho sentito distintamente Concita dire: «Sì, e su questo siamo certamente tutti d’accordo, in questa piazza, ma forse dobbiamo porci il problema di parlare a quelli che non sono in questa piazza».

Ecco com’è successo, il declino della conversazione di M e di quel tizio e di tutti: parlandosi tra gente la cui idea di dialettica è dirsi «sono assolutamente d’accordo, stavo per dirlo io».

Quindi arriva il sabato mattina, e Francesco Piccolo è su un palco dentro all’Arena del sole, e una giornalista di Repubblica – che non ha letto o non ricorda quel solito paragrafo del “Desiderio di essere come tutti” che ho citato circa cento milioni di volte – ha l’ingrato compito di alzargli la palla chiedendogli dello scrivere sui giornali; e a quel punto Piccolo fa, con grazia e una certa qual voluttà, quella cosa che fa spesso anche Michele Serra: dire, nel contesto d’un giornale la cui idea di dialettica è «stavo proprio per dirlo io», che non serve a niente darsi ragione, non serve a niente ribadire l’ovvio, non serve a niente compiacere i lettori (non serve neanche ad avere lettori).

«Quando pensi che i tuoi lettori leggendo faranno sì con la testa, allora non devi scrivere. Quando pensi che i tuoi lettori potranno pensare “non sono d’accordo” oppure “m’inquieta”, allora ha un senso». Piccolo lo chiama, quello da evitare, «il pezzo confermativo»: l’articolo in cui dici che non bisogna portare un coltello a scuola e accoltellare i professori (io lo chiamo: maggiùra).

La sventurata sul palco, tentando disperatamente di difendere la sbrindellata trincea di giornali che vivono nel terrore di alienarsi il pubblico costringendolo alla fatica di pensare invece che al riposo di dire «stavo proprio per dirlo io», obietta che però potrebbe, Piccolo, scrivere «di chi è la colpa» se i ragazzi vanno a scuola coi coltelli (degli arrotini? Dei genitori che non mettono lucchetti ai cassetti della cucina? Del patriarcato? Della Montessori? Della scarsa cultura delle armi da fuoco in questo derelitto paese? Dei TikTok dei cuochi di sushi?).

Lui non infierisce, perché è un gentiluomo, ma ribadisce che il pezzo confermativo «è una necessità dei giornali, ma è una necessità che io cerco di scansare». Io penso che meno male che Piccolo c’è, però poi esco dal teatro col dubbio che questa mia fissa per la conversazione sia un tic elitario: mica tutti guardano “Succession” o hanno letto Yasmina Reza o hanno un repertorio d’argomenti avvincenti.

Poi per fortuna arrivano i tweet di Kureishi. «La conversazione è inutile nel miglior senso della parola. È anticapitalista: non la monetizzi, non c’è niente da guadagnare, tranne quel che viene scambiato sul momento. C’è solo il puro piacere di sedersi con un altro essere umano, e ascoltarlo; e dello scambio effimero che non ha significato a parte il piacere che temporaneamente si condivide».

Una lista dei suoi argomenti di conversazione in ospedale include: la calvizie di Pep Guardiola; il figlio autistico d’un amico; l’attaccante che dovrebbe comprare il Manchester United; una conversione all’Islam; il cane di famiglia e la sua passione per i viaggi in metrò. (Se siete gente che, non sapendo fare conversazione, non sa neanche leggere, la lista significa: se sai parlare, puoi parlare di qualunque cazzata, e ti ascolterò).

Conosco una persona così brava a fare conversazione che la ascolto quando parla di calcio. Non dice mai mai mai «stavo proprio per dirlo io». Sono negata in similitudini sportive, ma una persona che sa fare conversazione è un allenamento indispensabile per restare buoni conversatori; qualcuno che ci dà ragione e ci fa i complimenti è invece il modo più rapido di diventare noiosissimi (e perdere elezioni e lettori).

«Non c’è dubbio che alcune persone siano più portate per la conversazione di altre. Si potrebbe dire che quest’abilità è più importante della bellezza e del talento, giacché parlare è una cosa che passiamo la maggior parte delle nostre vite a fare». Forse Kureishi ha ragione. O forse ormai è tutto perduto.

Mi resta, questo dubbio, da sabato mattina, dall’Arena del sole che prorompe in un applauso pavloviano alle parole «pornografia del dolore». Lo riconosco, è il fischio per cui noi cani medi riflessivi ci scandalizziamo. Diceva quello lì che non c’è gusto, in Italia, a essere intelligenti. Se solo avesse immaginato quanto poco ce n’era, a sinistra, a provare a far ragionare platee che vogliono solo annuire forte.

Se l'intellettuale di destra viene asfaltato dai talk di Rete4. Con Serra, Perina e Rossi, "Meloni ha vinto con Letta ad Atreju". Emanuela Giampaoli su La Repubblica l'11 Giugno 2023  

"Meloni underdog? Meno balle". "Basta con la guerra civile tra desta e sinistra". "Il dibattito identitario interessa a chi scrive, per nulla al cittadino medio". Il confronto sulla natura 'dell'egemonia culturale della destra', condizionata irrimediabilmente da Berlusconi

"Finalmente parliamo di destra, dopo 40 anni in cui parlo dei mali e delle divisioni della sinistra" esordisce Serra nell'intro dell'incontro  "Cercasi destra disperatamente" con Michele Serra, la giornalista Flavia Perina e l'ideatore dell'associazione Buona destra Filippo Rossi in sala de Berardinis all'Arena del Sole, ancora una volta sold out. 

"Vorrei fare una piccola premessa personale - continua Serra - io vengo da una famiglia borghese, mio padre era liberale, mia mamma monarchica, votava Stella e Corona. Sono cresciuto con un'idea di destra molto austera, affatto populista. Una parola che all'epoca nemmeno esisteva. E tutto avrei potuto immaginare fuorché dalla destra potesse scaturire qualcosa di così inquietante. Come è possibile che la destra di governo sia così distante da un modello conservatore e liberale?".  È la domanda con cui il giornalista di Repubblica sollecita Perina e Rossi. "Fermo restando che in Italia la destra liberale non è mai stata prevalente - osserva Perina - è vero però che prima prevaleva un'estetica borghese, un modello diverso. Poi è arrivato Berlusconi. Non dimentichiamo che chi oggi fa parte della destra di governo era adolescente quando il Cavaliere ha fatto il suo ingresso nella vita politica italiana. Sono cresciuti con quell'idea di consenso. La destra italiana è muscolare, d'altronde ha vinto le elezioni con questa modalità, scordiamoci che cambi. Poi io credo sia anche una conseguenza del bipolarismo, se polarizzi lo scontro, alimenti la contrapposizione".

Per Rossi invece la colpa è della sinistra. "La sinistra, che per lungo tempo ha mantenuto l'egemonia culturale nel Paese, ha disegnato la destra 'sporca, brutta e cattiva'. E quelli di destra si sono allineati all'immaginario di sinistra, all'idea che 'non ci sia un'altra destra possibile'. Così chi non è di sinistra, finisce comunque per votare Meloni. Quando hai una egemonia culturale hai una responsabilità anche in questo senso". 

"E speravi in Renzi e Calenda?" chiede Serra, sottolineando che è una battuta ma fino a un certo punto. Rossi: "No, non si può pensare che nasca un centro-destra liberale da gente che esce dal Pd, non per ragioni ideologiche, ma di marketing politico". 

Perina insiste sul peso di Berlusconi e delle sue tv nella creazione dell'attuale immaginario della destra di governo. "L'immigrazione - osserva - diventa il primo punta dell'agenda della destra italiana non per Salvini ma per i talk show di destra. Salvini ha compreso che funzionava e ci si è buttato". Tutti concordano sul ruolo della comunicazione, dei giornali, delle tv di destra. 

"Possibile che nei media di destra ci sia un giornalismo così facinoroso e violento?" Chiede Serra. Risponde Perina: "Quel giornalismo fa ascolti. Io sono stata direttrice de 'Il secolo d'Italia', abbiamo cercato di mischiare un po' le carte e mostrare una destra capace di ragionare, discutere con gli altri, incuriosirsi degli altri. Ma questo lavoro non serve alla causa del consenso. Al consenso servono di più le trasmissioni di Rete 4". Rossi sottolinea che ha compreso che Meloni avrebbe vinto le elezioni quando Enrico Letta è salito sul palco di Atreju, la festa dei giovani di FdI. "È stato un calcolo politico, sbagliato, ma un calcolo politico. Voleva legittimare l'estremismo di Meloni pensando che avrebbe vinto lui e invece non è così che si vince". 

"Ma allora come se ne esce?" si interroga Serra in chiusura. Rossi sostiene che bisogna uscire dalla "guerra civile tar destra e sinistra". Per Perina andrebbe intanto "abbandonato il dibattito identitario che interessa a intellettuali e giornalisti ma non al cittadino medio. Alla fine è utile alla destra per coprire le cose che non riesce a fare".

A questo proposito Serra conclude dicendo che una strada potrebbe essere quella di smettere di mentire, a sé e agli altri. "Meloni - sottolinea il giornalista di Repubblica - afferma di essere un'underdog, eppure - dice a spanne - 'a 25 anni' era un ministro della Repubblica. Se invece vedo un tema che ci compatta tutti è l'anti-berlusconismo. Augurando lunghissima vita al Cavaliere ricoverato, il suo metodo ha creato problemi all'Italia che perdurano ancora. Bisognerebbe però uscire dalla logica dei like, dell'elettore cliente per tornare a essere cittadini".

Al Colosseo comandano ancora i bagarini: «Trovare biglietti sul sito ufficiale è impossibile». I rivenditori acquistano i ticket in massa e li offrono a prezzo maggiorato. Indaga anche l’Antitrust. Ma non succede solo a Roma: il secondary ticketing è una piaga per il turismo italiano. Chiara Sgreccia su L'Espresso l'1 Agosto 2023

Caterina arriva alla stazione Colosseo della metropolitana. Frastornata dalla corsa per prendere il treno della linea B, pieno di persone, e dalla temperatura che si avvicina ai 40°, in una delle settimane più calde per Roma. È venerdì 21 luglio, ora di pranzo: nell’euforia di impiegare le poche ore libere per visitare il più grande anfiteatro romano del mondo ha dimenticato di mangiare. Pensa a un gelato, ma appena fuori dai tornelli un cono costa 6 euro e novanta. 

«Per saltare la fila venite con me», dice un uomo a un gruppo di giovani che si avvicina all’ingresso del Colosseo. Caterina incuriosita chiede informazioni all’operatore, che sulla camicia ha appuntato un cartellino con scritto «tourist information». Per evitare l’attesa alla biglietteria, che è per buona parte sotto il sole, si può accedere alla visita per gruppi: 50 euro. «Ma vorrei visitare il Colosseo da sola», controbatte Caterina. «Non c’è problema, vieni».

Nel piazzale all’uscita della metropolitana, dove i turisti aspettano che la guida avvii i tour, un altro uomo la informa che per 30 euro avrà il ticket singolo senza passare per la biglietteria. «Posso pagare col bancomat?». «Chiamo la responsabile». Dopo un paio di telefonate, la soluzione è entrare con il gruppo e poi, «una volta dentro ti stacchi, fai come ti pare».

Secondo il regolamento di polizia urbana di Roma capitale, sarebbe «vietata l’attività di intermediazione e promozione di tour turistici, la vendita di biglietti per musei, teatri ed eventi culturali e turistici, in luoghi pubblici o aperti al pubblico». Eppure davanti al Colosseo, uno dei siti più visitati al mondo, la compravendita procede senza timore per le autorità che sorvegliano l’area. Anche dentro la stazione, in un ufficio che sembra dedicato al cambio della valuta, un operatore offre i biglietti con «accesso prioritario a 35 euro». l ticket per l’Anfiteatro Flavio, il Foro romano e il Palatino, però, ne costano 18, se acquistati sul sito di CoopCulture, la cooperativa che gestisce la biglietteria e il bookshop: «Peccato che sia molto difficile trovarli». 

Come spiega Isabella Ruggiero, presidente dell’Agta, Associazione Guide turistiche abilitate, da marzo a giugno è stato impossibile: «Finivano non appena rilasciati. Da luglio qualche biglietto c’è, perché siamo alla fine dell’alta stagione. Non perché il problema si stia risolvendo. Succede che grandi agenzie comprino migliaia di ingressi attraverso i bot, sistemi automatici di acquisto, per rimetterli in vendita sulle loro piattaforme. O semplicemente a prezzo maggiorato o aggiungendo servizi». Che, però, che in tanti casi sembrano inseriti  per giustificare l’aumento del prezzo del biglietto più che per offrire un benefit concreto al visitatore. Come la proiezione di video multimediali (della durata di 25 minuti circa) da guardare fuori dal Colosseo, prima di iniziare il tour. O il giro in bus per la città che poco ha a che fare con l’ingresso all’anfiteatro.

Ma il visitatore, costretto ad acquistare i biglietti dai rivenditori secondari visto che sul sito ufficiale non ci sono più, non ha scelta: «CoopCulture sembra non aver predisposto sistemi idonei a evitare l’accaparramento dei biglietti messi in vendita da parte di rivenditori alternativi, privando così i consumatori della possibilità di acquistare i titoli di accesso al prezzo ordinario», si legge nell’istruttoria avviata dall’Agcm, Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, lo scorso 18 luglio anche nei confronti delle piattaforme dei grandi operatori d’intermediazione Musement, GetYourGuide, Tiqets e Viator.

Come spiega Lorenzo Soave, direttore del master in Gestione dei Beni culturali all’Università degli Studi Link, «il fenomeno del secondary ticketing nasce per permettere a chi ha acquistato un biglietto per un evento di rivenderlo senza perdere i soldi qualora non possa più andarci. Si è trasformato, invece, in una fonte di guadagno per i rivenditori. A penalizzare i consumatori, anche la mancanza di trasparenza: spesso le piattaforme di rivendita non indicano il costo base del biglietto, né quello dei servizi aggiuntivi. Così chi compra non sa cosa paga. E questo non succede solo per il Colosseo, ma per tante delle più famose attrazioni turistiche italiane».

Basta scrivere su Google: «Acquista biglietti nome attrazione turistica» per rendersi conto che i siti che si accaparrano i ticket da rivendere a prezzi maggiorati sono i primi che appaiono nella ricerca. E che quasi sempre hanno disponibilità per date e orari che risultano già occupate per chi tenta l’acquisto dai rivenditori ufficiali. Ma non solo: ci sono anche aziende che registrano domini simili a quelli dell’attrazione turistica, ingannando il visitatore, o per vendere biglietti falsi, o a costo più alto. O per i click e i ricavi pubblicitari che seguono. A danno sia del consumatore sia degli enti gestori dei monumenti o musei. 

Ignoranza uguale e contraria. Il degrado dell’Italia è ben rappresentato dallo scarso livello culturale di destra e sinistra. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 5 giugno 2023.

Due angolature diverse, eppure entrambe dannose per il Paese: da un lato i retequattristi che non hanno mai aperto un libro, dall’altro quelli che leggono i libri contro l’odio e si compiacciono del mondo cazzon friendly 

Al degrado culturale del Paese contribuiscono in modo rispettivamente diverso la destra e la sinistra: questa è ignorante abbestia senza averne neanche il più pallido sospetto; quella lo è senza farsene nemmeno il più tenue cruccio.

Dice: ma tu generalizzi. Non generalizzo (fermo restando che generalizzare è una figata): discuto di un fatto generale. E generalmente al bifolco di destra che non legge nessun libro si giustappone il citrullo di sinistra che legge i libri contro l’odio; per l’uno, impassibile al mondo mentre si gusta la Gasætta (è la Gazzetta in subalpino), c’è l’altro tutto soddisfatto del mondo cazzon friendly che ritrova nel giornale di sinistra. Uno vota Francesco Lollobrigida, ma con l’impegno rimesso a tirare un rutto; l’altro vota per il marito di Nunzia De Girolamo nell’adempimento della mission democratica che celebra la competenza, dio santissimo. Uno è un profugo delle cene eleganti, e finisce lì; l’altro ha cominciato trent’anni fa a fare girotondi e ancora non l’ha finita.

Quale dei due arrechi più danno è discutibile, ma è appunto apprezzabilmente diversa l’angolatura identicamente strapaesana del loro giudizio, chiamiamolo così. Uno deplora la destituzione dei principati democratici del servizio pubblico e assiste disperato al rinsecchimento delle fonti culturali cui si abbeverava l’Italia contro l’odio (sì, Christian Rocca, mi spiace, sempre quella); l’altro manco ha bisogno di compiacersene, che tanto c’è Retequattro.

La realtà è che un’asineria giustifica e aggrava l’altra: e tanto più il bruto di destra si riscatta nella legittimazione che gli offrono i suoi al governo, quanto più lo scioccherello di sinistra si compiace nell’opporgli la cultura contro l’odio (pardon), che non per caso ma pour cause si manifesta nell’analfabetismo del ddl Zan, nell’analfabetismo della giustizia climatica, nell’analfabetismo dell’antimafia, nell’analfabetismo dei valori della Resistenza, nell’analfabetismo della Costituzione antifascista. Tutta la polta immonda – e appunto non se ne esce – cui la destra trogloditica saprebbe rinfacciare qualcosa se le avessero imparato che per mettere insieme quattro idee e un discorso decente vale la pena di dedicarsi a questa pratica un po’ strana che è aprire qualche libro.

Estratto dell’articolo di Romina Marceca per “la Repubblica - Edizione Roma” il 17 luglio 2023.

«That’s incredible», è un’esplosione di meraviglia quella di una turista americana che si affaccia dal secondo livello del Colosseo. Sotto l’arena, tutt’intorno i colonnati. È così incredible l’Anfiteatro Flavio che chi passa da qui vuole lasciare il segno. Letteralmente. In meno di un mese sono stati bloccati due ragazzi e una ragazza che hanno inciso la loro firma sul travertino. Il terzo, l’ultimo, quel monumento voleva sbranarselo. Tanta era la voglia di portarsi appresso un pezzo del monumento più visitato di Roma. E ha scavato con le mani nella pietra per portarsi via un po’ di polvere di storia. 

Venticinquemila turisti al giorno e anche oggi con la tempesta di caldo portata da Caronte i tre livelli aperti al pubblico sono strapieni. C’è chi cerca riposo sulle colonne adagiate a terra nonostante i cartelli tondi e rossi — a dir vero poco visibili per dimensioni se non fosse per il colore — avvertono “ Vietato arrampicarsi e scrivere sulle strutture”. L’ultima bravata è di sabato: un diciassettenne tedesco, in gita con la scuola, ha scavato una parte del basamento. È stato segnalato e anche per lui, come per i suoi predecessori, è scattata la denuncia per “deturpamento”. […] 

Alessandro è guida turistica da diversi anni al Colosseo e allarga le braccia al termine di un tour. «Qui prima, al piano terra, era tutto aperto e non c’erano le inferriate. Le scritte risalgono agli anni Ottanta. Ogni guida prima della visita avverte i turisti del comportamento giusto da tenere ma ne riprendiamo a decine ogni settimana. Soprattutto i giovani, che vogliono lasciare il loro autografo sulla pietra». 

Il caldo insopportabile, intanto, ha fatto cadere come marionette mollate all’improvviso dal loro burattinaio diversi visitatori. I vigilantes del Parco del Colosseo girano come trottole tra il primo e il secondo livello per coordinare i soccorsi e allontanare i curiosi dall’ultimo uomo finito sulle scale per un malore. 

«Siamo otto in tutto oggi — dice uno di loro, trafelato — per l’intero Colosseo. Calcoli due per ogni livello, due in ufficio e due all’entrata. Ci vorrebbero almeno altri venti di noi (invece sono 100 per tutti i 40 ettari del Parco archeologico, ndr). Così non si può andare avanti e più volte abbiamo chiesto un incremento del personale. Oggi non sappiamo se qualcun altro si è dilettato a scrivere sui muri perché siamo in emergenza e in contatto continuo con le ambulanze». 

[…] Invece sabato mattina è stato proprio uno dei vigilantes a bloccare la ragazza svizzera di 17 anni che ha inciso la “N”, iniziale del suo nome, al primo livello. «Ai genitori ho detto se avrebbero mai fatto lo stesso al loro Paese», racconta il vigilante. La coppia lo ha ignorato e ai carabinieri ha spiegato che «era solo una ragazzata». 

«Entro 60 giorni — spiegano i carabinieri — i tre vandali dovranno versare 400 euro al Comune di Roma per avere violato il regolamento comunale. Dal punto di vista penale sarà un giudice a decidere sulla reclusione tra 6 mesi e 3 anni ma anche sull’aspetto pecuniario da 1.500 a 10mila euro. […] 

Dalla direzione del Parco assicurano che ci sono stati diversi tavoli per discutere degli atti vandalici e che si è arrivati alla conclusione: « Più se ne parla e più emulazione c’è. Si tratta di ragazzini che cercano visibilità sui social » . Come dire, ignoriamo i fatti sperando che non accadano più. […]

Paolo Di Paolo per “la Repubblica - Edizione Roma” il 17 luglio 2023.

Mamma, papà, ciao, il viaggio a Roma è stato bellissimo: ho portato un souvenir che non vi aspettereste mai. Un pezzo di Colosseo. Un pezzo di Colosseo? Sì, ho sradicato un segmento del rudere! Mamma, papà, ciao, volevo lasciare un segno del mio passaggio fra le rovine della città caput mundi e ho pensato bene di firmare sulla pietra. 

Come in una barzelletta che non fa ridere, il tedesco, la svizzera e il bulgaro-inglese – il personal trainer che qualche settimana fa «non sapeva» che l’Anfiteatro Flavio fosse antico. O così ha detto quando gli hanno fatto notare che incidere il suo nome e quello della fidanzata non è considerato un gesto ortodosso. E che, anzi, viene severamente sanzionato. 

La tentazione paternalista moralista bacchettona è difficile da aggirare, tanto più se papà e mamma della ragazzina svizzera sopra citata assolvono la figlia con un’alzata di spalle. Non è grave, su, state esagerando! Rischiano di pagare una multa salata che tuttavia, a quanto pare, non basterà a capire il punto. E forse è proprio questo l’aspetto grave: che circoli, nel ventunesimo secolo dopo Cristo, sul pianeta detto Terra gente adulta non in grado di cogliere un’evidenza tanto semplice. 

Che il Colosseo, uno dei siti archeologici più noti al mondo, non è un parco giochi, non è una scenografia, un set da cinema, un souvenir gigante fatto per essere smembrato. O, per l’appunto, un distributore automatico di ricordini. 

È difficile arrivare a una conclusione sicura: capire se si tratta di inconsapevole e smargiassa, anche un po’ inquietante, ignoranza. O se invece è qualcosa di più sottile e anche più perniciosa: direi così, un certo modo di stare nel presente. Con una disinvolta – e in apparenza innocente – prepotenza. Lo spirito di chi, dal proprio piccolo, sente di poter dominare il mondo come se fosse la camera o la cameretta da letto. Tanto più con le ciabatte ai piedi. […] 

Ho voglia di un panino: mangio. Ho voglia di ciabattare: infradito dappertutto. Ho voglia di lasciare il mio nome come sul banco di scuola: fatto. Anche se è il Colosseo. Ho voglia di portare con me qualcosa che non sarebbe lì per essere portata via: me la prendo lo stesso. Un’esuberante indisciplina che rende alcuni simpatici turisti meno simpatici predoni, quasi in senso letterale. Si può, volendo, proiettare la similitudine su un orizzonte più ampio: e restituirebbe una dimensione invadente del peggior turismo contemporaneo mordi e fuggi, usa e getta, che ciascuno di noi talvolta ha incarnato. C’è modo di difendersi? Su larga scala non so. […]

Socci e la ragazza che sfregia il Colosseo: cosa c'è dietro questo gesto. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 18 luglio 2023

Sabato scorso uno studente tedesco è stato denunciato per aver “grattato” una parete del Colosseo, provocando il distacco di un piccolo frammento. Alcuni giorni fa altri due turisti vi avevano inciso delle scritte. Tre casi in pochi giorni. Speriamo che non diventi la moda dell’estate. Si può minimizzare riducendo tali episodi a semplici esempi di maleducazione da multare. Ma purtroppo i monumenti e i beni artistici italiani, da decenni, collezionano sciocchi graffiti, con nomi, disegni, date e idiozie varie. Che cosa può spingere una persona a deturpare il Colosseo, o un altro monumento, per far sapere al mondo che egli esiste o che ama qualcuno, oppure per informare i posteri che lui è passato di lì un certo giorno (come se fosse Napoleone o Garibaldi)? Anzitutto si tratta di povertà culturale. Uno di questi scribacchini si è giustificato: non sapeva che il Colosseo fosse antico. Forse è una banale e comica scusa, trattandosi di un turista venuto appunto a visitare Roma. Ma non sarei così sicuro che tutti i turisti che arrivano all’Anfiteatro Flavio sappiano che cosa stanno guardando. Una guida romana ha riferito che qualche visitatore le ha chiesto perché avessero costruito quel monumento così vicino alla stazione della metropolitana.

D’altronde, deturpare beni artistici – o non salvaguardarli, non averne cura - è uno dei tanti esempi della disperante perdita di memoria storica della nostra epoca: siamo i moderni, gente di sconfinata sicumera e di smisurata povertà culturale e spirituale. Forse avremmo bisogno della pietà di qualcuno (padri o maestri o monaci o saggi) disposto a prendere per mano la nostra generazione e a farle scoprire e capire cos’è la terra in cui viviamo e di che lacrime grondi e di che bellezza e di quale ricchezza umana. Una seconda ipotesi. Potrebbe esserci, negli scribacchini, la (più o meno inconscia) illusione che scrivere il proprio nome su un monumento millenario, che sfida i secoli ed è ammirato da tutti, perpetui pure la memoria di chi lascia inciso il suo nome (come se ne fosse lui l’autore). In questo caso – che voglio sperare non sia reale – viene in mente la poesia di Trilussa: “La lumachella de la Vanagloria,/ ch’era strisciata sopra un obbelisco,/ guardò la bava e disse: Già capisco/ che lascerò un’impronta ne la Storia”. 

C’è un terzo caso possibile: il cafone strafottente, un po’ megalomane, che se ne frega di tutto e di tutti e vuole semplicemente fare una bravata senza curarsi di danneggiare un bene pubblico che è patrimonio dell’umanità. Non mancano, in giro, esemplari di questo tipo, ma penso – e voglio sperare - che frequentino altri luoghi e non siano fra coloro che pagano un biglietto per vedere un monumento antico o delle opere d’arte. In ogni caso, qualunque sia il motivo per cui si lasciano queste scritte, ci sono due contromisure da prendere: la prima è un’accurata vigilanza che prevenga e che multi salatamente chi compie atti vandalici, anche di questo tipo. La seconda contromisura consiste nel dovere delle pubbliche amministrazioni di prendersi cura delle nostre città. Sappiamo infatti da molti studi che sui comportamenti individuali ha una grande incidenza l’ordine o il disordine visibile di un certo contesto. Per esempio: è psicologicamente più facile, viene più spontaneo (magari senza rifletterci), buttare in terra una cartaccia se si sta camminando su una via sconnessa, sporca, piena di monnezza e di erbacce. Se invece ci si trova all’interno di un museo o di una grandiosa basilica, bella, pulita e ordinata, scatta una sorta di auto-proibizione interiore. Pure se nessuno ci vede.

RISPETTO MANCATO

Dunque, se consideriamo in quali condizioni si trova Roma, che peraltro sarebbe di per sé un’opera d’arte a cielo aperto, difficilmente possiamo illuderci che scatti, nelle masse di turisti, l’idea del rispetto sacrale dei luoghi. Probabilmente molti di loro sono indotti a pensare che gli italiani non ci tengono così tanto alle loro città e alle loro meraviglie. Un’ultima considerazione: forse, in qualche caso, questa voglia di lasciare una traccia di sé è, in realtà, il sintomo di un’insicurezza esistenziale, a volte rabbiosa. Potrebbe manifestare il bisogno di essere in qualche modo vivo e presente per qualcuno. Anche una solitudine individuale di questo tipo è parte dello smarrimento collettivo che connota la decadenza della civiltà. Proprio come antidoto a questa notte dell’occidente è necessario aver cura e amore per le tracce materiali della nostra storia e della nostra cultura. 

CERONETTI E BASSANI

Mi capita spesso di citare una pagine di “Viaggio in Italia” di Guido Ceronetti, che è particolarmente lucida: “Finché esisteranno frantumi di bellezza, qualcosa si potrà ancora capire del mondo (...). Questo grande rottame naufrago col vecchio nome di Italia è ancora, per la sua bellezza residua, un non pallido aiuto alla pensabilità del mondo”. Poco oltre lo scrittore si chiede retoricamente: “Che cos’altro si può essere in un Paese come questo se non disperatamente conservatori?”. E spiega: “C’è solo da conservare: pietre animali fiori erbe colline angoli profili muri volte voltoni logge giardini tombe statue pitture finestre orti umidità stalattiti palme ulivi salici lecci ombre luci stagioni libri metope stucchi tavolini cassapanche mestieri proverbi linguaggi cucina utensili fogli di lettera cartoline stazioni, costringendo le istituzioni a servire principalmente a questo disperato scopo, impegnando una lotta assurda e fantastica contro il Tempo e la Necessità”. Qualche anno fa è uscita, da Feltrinelli, una raccolta di scritti di Giorgio Bassani, “Italia da salvare (Gli anni della presidenza di Italia Nostra 1965-1980)”. Lo scrittore ferrarese fu un fondatore di “Italia Nostra”. In una delle citazioni iniziali del libro si legge: “L’Italia è un Paese sacro non soltanto per noi, ma per il mondo intero... Bisogna che noi, per noi stessi innanzi tutto, ma anche per il mondo intero che deve aiutarci, riusciamo a salvare, a conservare il patrimonio artistico e naturale italiano... siamo dei conservatori, perché siamo dei progressisti”. 

Turista imbratta il Colosseo? La frase choc dei genitori: "Cosa ha fatto di male?" Libero Quotidiano il 16 luglio 2023

Il caso della turista di 17 anni che ha imbrattato il Colosseo fa parecchio discutere. La ragazzina, mentre si trovava in visita a Roma con la famiglia, ha pensato bene di incidere la sua iniziale, la "N" sulle mura del Colosseo. Il tutto davanti agli occhi stupiti degli altri turisti e delle guide che hanno fortemente criticato il gesto con un applauso ironico. Proprio una delle guida turistiche presenti sul posto ha filmato tutto e di fatto ha consegnato il video ai carabinieri.

Ora la ragazzina non solo rischia un procedimento, ma anche 15mila euro di multa. Ma a stupire è stata la reazione dei genitori. Forse non si sono resi conto del gesto della ragazza e così la reazione è stata furente: "Ma cosa ha fatto? Non ha fatto nulla di male, è una ragazzina", hanno affermato. Insomma il caso del Colosseo non si chiude e di certo la frase dei genitori è una ulteriore umiliazione contro il nostro Paese e soprattutto verso il nostro patrimonio artistico e culturale. Intanto un altro turista, un tedesco, è stato fermato mentre stava grattando le mura del Colosseo. Il turismo selvaggio e vandalo mette a rischio le bellezze del nostro Paese, ma di certo le multe salatissime per chi sgarra potrebbero rappresentare in futuro, dopo questi casi, un ottimo deterrente.  

(ANSA il 16 luglio 2023) - Poco prima delle 18 di ieri, un altro turista, uno studente tedesco di 17 anni, accompagnato da un insegnante, é stato denunciato dai Carabinieri del Comando di Piazza Venezia per deturpamento al Colosseo. I Carabinieri, su richiesta del personale di vigilanza "Parco Archeologico del Colosseo" sono intervenuti, denunciando e sanzionando amministrativamente il turista 17 enne tedesco il quale era stato poco prima era stato sorpreso e fermato mentre grattava su una parete del piano terra del monumento, deteriorando una parte del laterizio. Si tratta del terzo caso in poche settimane.

Estratto dell’articolo di Mario Ajello, Valeria Di Corrado per “il Messaggero" il 5 Luglio 2023.

Lo sfregiatore si pente. Ma il mea culpa del turista che ha aggredito il Colosseo, incidendo con una chiave nel marmo il suo nome e quello della sua fidanzata, per dimostrare al mondo che "Ivan+Hayley 23" si amano, nella sua lettera di scuse alla Procura di Roma, al Sindaco e al Comune ha sfregiato di nuovo il buon senso e ha applicato il vandalismo anche alla propria intelligenza che palesemente non abbonda. 

Una missiva surreale quella firmata, dopo circa due settimane dalla bravata ai danni dell'Anfiteatro Flavio, da Ivan Danailov, trentunenne di origini bulgare residente in Inghilterra. «Consapevole della gravità del gesto commesso - scrive - desidero con queste righe rivolgere le mie più sentite e oneste scuse agli italiani e a tutto il mondo per il danno arrecato a un bene che, di fatto, è patrimonio dell'intera umanità». 

E cerca una carezza «in particolare» di Gualtieri e del Campidoglio per il pentimento di cui sopra. Loro sì che «con dedizione, cura, sacrificio custodiscono l'inestimabile valore storico e artistico del Colosseo». Mentre lui confessa e si autoassolve nel passo più esilarante di questa lettera che suscita il dubbio "ma ci fa o ci è" e fornisce contemporaneamente la risposta che è la seconda:

«Ammetto con profondissimo imbarazzo che solo in seguito a quanto incresciosamente accaduto ho appreso dell'antichità del monumento». Può esistere al mondo uno che non sa che cos'è il Colosseo? Se esiste, questo è il Danailov e una grande Capitale, con tanti problemi che ha, deve pure fronteggiare un tipo così e altri turisti stranieri che, come lui, già in passato hanno sfregiato i monumenti romani (compreso il Colosseo), tornandosene poi a casa impuniti. 

Il bizzarro mea culpa ma l'ignoranza non va colpevolizzata (il che non è vero se l'ignoranza diventa colposa come in questo caso) è l'assurda morale della lettera. Vuole rabbonire i giudici il trentunenne inglese, visto che la sua bravata gli può costare da 2 a 5 anni di reclusione e una multa tra i 2.500 e i 15.000 euro. Racconta l'avvocato Alexandro Maria Tirelli, presidente Camere Penali Internazionali, nominato da Danailov difensore di fiducia insieme a Maria Valentina Miceli […]

Estratto da “il Messaggero” il 5 Luglio 2023.

L'esempio più lontano nel tempo lo racconta Stendhal, nelle sue "Passeggiate romane". Nel primo Ottocento, un inglese a cavallo fa il suo ingresso nel Colosseo, vede degli operai che restaurano un muro e dice: «Mi piace questo edificio, sarà magnifico quando sarà finito». Sono passati due secoli, Roma non si gira più a cavallo, semmai in monopattino, ma i commenti di chi visita per la prima volta la città più bella del mondo non sono cambiati. «Fanno domande incredibili» testimonia Roberta Bernabei, esperta di storia dell'arte che da anni lavora come guida turistica e tutti i giorni accompagna i turisti per Roma.

«I peggiori sono gli americani, e gli australiani. C'è chi davanti ai Fori esclama "ma sono tutti rotti, perché non li aggiustano?". C'è chi è convinto che il fiume di Roma sia il Tigri. Nella Cappella Sistina un turista mi chiese se è lì dentro che durante i conclavi vengono bruciati i papi». Gli stranieri che arrivano qui hanno una visione approssimativa, distorta, anacronistica di Roma e dell'Italia in generale.

«Più di una volta - continua la Bernabei - mi è capitato che volessero sapere dove teniamo gli etruschi, o gli antichi romani, in quale riserva: nella loro testa se li immaginano come gli indiani d'America, relegati in qualche area isolata del Paese. E non parlo solo di gente ignorante».

La guida ricorda quando accompagnò ai Musei vaticani una signora che si era presentata come artista e studiosa di storia dell'arte. «La portai a vedere le Stanze di Raffaello, e lei mi chiese: Raffaello chi? Più di recente, davanti alla Basilica di San Pietro, mentre indicavo le statue dei santi sul colonnato del Bernini, un cliente voleva che gli mostrassi la sezione con i santi recenti, quelli fatti da poco». […]

Estratto dell’articolo di Caterina Soffici per “la Stampa” il 2 giugno 2023.

Alain de Benoist, 80 anni, scrittore e filosofo francese […] In Italia è appena uscito La scomparsa dell'identità (Giubilei Regnani). 

[…] «[…] In Francia, la divisione orizzontale destra-sinistra viene gradualmente sostituita da una divisione verticale che contrappone il popolo alle élite. Mi considero un comunitario, persino un socialista conservatore […] Il mio principale nemico è il capitalismo liberale. […] l'attuale governo italiano non è né populista né sovranista, e ancor meno post-fascista. È un governo conservatore-liberale molto classico. La grande domanda per i conservatori è cosa vogliono (e possono) mantenere».

Da anni la destra denuncia l'esistenza di un pensiero unico dominante di sinistra, che coincide grossomodo con il politicamente corretto. Lei ha qualcosa contro il politicamente corretto?

«L'ideologia dominante è un misto di progressismo, che combina ciò che resta dell'ideologia del progresso con l'inflazione dei diritti individuali e il monoteismo del mercato. Il politicamente corretto è la "novellistica" di cui parla Orwell in 1984, che mira a cambiare il significato delle parole per trasformare le menti delle persone. Eufemizzando il linguaggio per non urtare i sentimenti di nessuno, aggiunge l'autocensura alla censura e trasforma la società in un cumulo di sensibilità». 

[…] «[…] cercare di discutere oggi sulla base del fascismo o dell'antifascismo equivale a comportarsi come i dinosauri. L'evoluzione non è stata gentile con i dinosauri». 

Avrà notato che uso «ministra» e non «ministro». Anche di questo si è discusso molto in Italia. Meloni vuole essere chiamata «il presidente» e non «la presidente». Lei si è occupato di identità, e qui siamo di fronte a un caso tipico di declinazione identitaria: perché la cultura della destra non riconosce che la funzione si declina col genere?

«La grammatica francese vieta la femminilizzazione della maggior parte dei sostantivi funzionali, in quanto rientrano nel cosiddetto "neutro maschile". L'idea che il genere grammaticale e il sesso biologico siano collegati è una finzione linguistica (né l'inglese moderno né il turco hanno un genere grammaticale). Le innovazioni linguistiche sono legittime quando sono sancite dall'uso, non quando sono decretate per legge».

La destra italiana sembra avere paura del futuro. Ha sempre uno sguardo rivolto al passato, sembra che non riesca ad affrontare i temi posti da una società che cambia. […]

«Nell'era dell'intelligenza artificiale, delle prospettive transumaniste, dei disastri climatici e delle crisi finanziarie globali, la paura del futuro è meno irrazionale della paura del passato. Una novità non è buona solo perché è nuova o perché soddisfa i gruppi di pressione. È buona se contribuisce al bene comune. Detesto l'omofobia, ma il desiderio di matrimonio tra persone dello stesso sesso mi sembra derivare principalmente da un desiderio di normalizzazione borghese. Questa è anche l'opinione della maggior parte dei miei amici gay».

C'è un altro tema che accomuna le destre in Europa in un asse sovranista che va da Le Pen a Orban: la paura del diverso, del migrante. Perché?

«Non ho mai smesso di criticare la concezione "sovranista" della sovranità, concepita come indivisibile e assoluta secondo il modello di Jean Bodin. Da parte mia, sono favorevole a una sovranità distribuita, basata sul principio di sussidiarietà definito da Johannes Althusius. Ma più importante della sovranità nazionale è la sovranità popolare, che è il fondamento della democrazia». 

Noi tutti siamo degli ibridi. Fin dai tempi dell'Impero romano siamo figli di un miscuglio di incroci e di migrazioni. Perché oggi fanno paura?

«È una questione di proporzioni. Le popolazioni miste sono sempre esistite, ma l'ibridazione diffusa che porta all'indistinzione è un'esclusiva dell'Occidente contemporaneo». 

Le migrazioni sono fenomeni globali e incontrollabili. Non sarebbe meglio inglobare e dare dignità ai cittadini stranieri - migranti economici / rifugiati politici / richiedenti asilo - piuttosto che cercare di respingerli o rinchiuderli nelle banlieue dove poi scoppiano rivolte? O diventano un problema sociale mentre potrebbero essere una risorsa di fronte al calo demografico?

«Andate a dire ai giapponesi o ai cinesi che la migrazione è fuori controllo! La politica pubblica non può basarsi sulla moralità o sulla generosità individuale. Deve dare la priorità al bene comune. Personalmente sono ostile all'immigrazione, ma non certo agli immigrati.

La stragrande maggioranza degli europei (il 75% in Francia) è altrettanto ostile, perché le persone non vogliono sentirsi straniere nel proprio Paese, vogliono preservare la propria socievolezza, non vogliono che il loro diritto alla continuità storica sia minato e vogliono mantenere il controllo delle condizioni della propria riproduzione sociale». 

Per lei cosa è l'identità nazionale?

«Semplice: l'identità di un popolo è la sua storia». 

Ha senso parlare di «sostituzione etnica»?

«Venga a Parigi e si guardi intorno». 

Lei è contrario alle teorie del genere. Perché?

«Perché si basano sull'idea che il genere non abbia nulla a che fare con il sesso biologico, il che è una falsità. E perché invece di promuovere le donne, nega l'esistenza stessa delle differenze tra uomini e donne e contribuisce alla guerra tra i sessi, alimentata dal neopuritanesimo imperante».

Perché non si può sostenere che «ognuno è ciò che vuole essere»? Chi lo deve decidere, se non l'individuo?

«L'individualismo di ispirazione borghese e liberale è una delle cause principali della scomparsa dei legami sociali e della disgregazione delle società. Ma anche da questa prospettiva, l'ideale del self-made man è irraggiungibile. Non si può mai costruire se stessi dal nulla». 

Nel suo libro paragona una donna con la barba, una lesbica nera in transizione, una donna senza utero, un uomo provvisto di vagina a una vacca da latte e a un canarino. Che problema ha la destra con identità che non sono canoniche? (e anche con le vacche da latte e i canarini?)

«A prescindere dal nostro orientamento sessuale, i sessi saranno sempre e solo due. Si possono fare trattamenti ormonali o mutilazioni genitali, ma i cromosomi sessuali saranno sempre XX o XY».

Lei parla anche di «neorazzismo identitario». Ci può spiegare cosa significa?

«Il neorazzismo identitario, praticato dai sostenitori dell'ideologia "postcoloniale", consiste nell'accusare un immaginario "razzismo sistemico" argomentando sulla base della nozione di razza. In realtà, non si tratta più del contrario del razzismo, ma di un razzismo in senso opposto. È anche un buon pretesto per perdere interesse nella rabbia sociale e nella lotta contro l'alienazione del lavoro da parte dell'ideologia del profitto». 

[…] La accusano di essere un putiniano. È vero?

«Non sono né putiniano e né zelenskiano. […] Poiché l'Ue non ha alcun interesse esistenziale in Ucraina, avrebbe dovuto offrire subito una mediazione. Mi dispiace che si sia unita al campo dei guerrafondai, con il rischio di portare a un'estremizzazione di cui pagheremo tutti il prezzo». 

C'è un certo machismo in giro. Perché la cultura della destra non ha ancora superato il patriarcato e il paternalismo? Li reputa dei valori da difendere?

«Per me, il valore da difendere è quello dell'uguaglianza di genere. Non sono convinto che il modo migliore per uscire dal patriarcato sia quello di sostituirlo con il matriarcato». […]

Una vecchia inchiesta del 1997. Lungo viaggio attraverso il revanscismo culturale della destra. Christian Rocca su L'Inkiesta il 3 Giugno 2023

Una serie di ventisei anni fa sul Foglio, ripubblicata integralmente qui, dimostra come le attuali rivendicazioni dei meloniani contro l’egemonia della sinistra siano la solita solfa mal posta e senza alcuna speranza di reale successo, tanto più che gli odierni protagonisti sono decisamente meno attrezzati dei loro predecessori. Con il parere di Malgieri, Panebianco, Vertone, Romano, Gentile, Rusconi, Tarchi, Solinas, Battista, Ricossa, Buttafuoco, Marramao, Mughini. Mettetevi comodi, la situazione è molto peggiorata

Inchiesta “La cultura della destra” pubblicata originariamente sul Foglio in tre puntate del 10, 11, 12 marzo 1997

Gennaro Malgieri, direttore del Secolo d’Italia e deputato di Alleanza Nazionale, ha tre libri nel cassetto. Trovare un editore che glieli pubblichi non è più un’utopia come un tempo, ma a tre anni da quel 27 marzo del 1994 che ha segnato lo sdoganamento politico della destra post fascista, è pur sempre impresa difficile. Le grandi case editrici non pubblicano testi di autori così marchiatamente di destra, sia pure moderata e moderna come Malgieri.

Filippo Facci, in una lettera al Foglio che ha aperto il dibattito sulla cultura di destra e sui pochi spazi culturali disponibili per chi non è di sinistra, l’aveva scritto: «Mondadori sostiene che per gli autori di destra non c’è mercato». Insomma se sdoganamento politico c’è stato, per quello culturale c’è ancora da attendere. E i tre testi di Malgieri sono destinati a rimanere nel cassetto ancora un po’, in attesa di momenti migliori.

Alle parole di Facci, Malgieri sul Foglio del 4 marzo ha risposto con una provocazione: se nessuno si è accorto della rigogliosa cultura della destra di questo secolo, la colpa, dice, è di un «ostracismo intellettuale» perpetrato dalla cultura conformista nei confronti di tutto ciò che non era strettamente di sinistra. «Vigeva un pregiudizio illuministico – continua il direttore del Secolo – e si praticava l’egemonismo culturale come arma per la grande battaglia della ricerca del consenso. Hanno vinto loro, non c’è dubbio: il gramscismo applicato e il pensiero unico cattocomunista».

Ma se egemonia di sinistra c’è stata, anche e soprattutto in termini di occupazione di posti nelle case editrice e nei giornali, l’ambasciatore e politologo Sergio Romano ricorda che quando una cultura è feconda riesce ad emergere «In Unione Sovietica, per fare l’esempio limite, il sistema era molto caricaturale: bastava che si citasse Lenin alle prime righe per tenere buona la censura. Poi si poteva scrivere tutto».

Romano fa fatica a distinguere una cultura di destra da una di sinistra: «Certo De Maistre non è democratico né liberale, e Panfilo Gentile è liberale ma non democratico mentre la sinistra è democratica. Questa può essere una distinzione che vale solo per i pensatori politici o per gli storici. Ma ci sono molti altri autori ai quali è impossibile dare un’etichetta, soprattutto perché parlano e scrivono d’altro. Chi l’ha detto che John Tolkien, Lewis Carroll o Joseph Kipling erano di destra? oppure, come mai si dà per scontato che l’Ulisse di James Joyce sia di sinistra solo perché l’intellighenzia progressista considera tutte le avanguardie e gli sperimentalismi roba sua?».

Emilio Gentile, storico ed erede della cattedra di Renzo De Felice alla Sapienza, concorda con Romano nel non essere sicuro di poter «qualificare un autore come di destra o di sinistra. Il fascismo, per esempio, era di destra o di sinistra? Giuseppe Prezzolini che si autodefiniva di destra ma era un anarchico-conservatore emarginato anche dalla destra, come lo si può definire? E un personaggio come Ignazio Silone, emarginato per il suo anticomunismo, non era forse di sinistra?». 

Si può parlare, dunque, di cultura della destra senza distinguere tra il filone post fascista e quello liberale? Senza dimenticare, aggiunge Gian Enrico Rusconi, professore di Scienza della Politica a Torino ed editorialista della Stampa, «che c’è anche la grande tradizione democristiana. Il pensiero più nobile della cultura italiana di destra è quello di Augusto Del Noce, cattolico antifascista snobbato dall’Msi. In Italia se c’era una destra che poteva diventare seria era proprio quella di Del Noce che ha trovato ascolto solo in Comunione e Liberazione. È stato emarginato da tutti, tranne che dalla parte più moderna della Dc. Pensate ai meeting di Rimini sul Mito (1985, “La bestia, Parsifal e Superman”, ndr), cos’erano se non la la modernizzazione della mitologia del Graal?».

C’è poi l’ala liberale della cultura di destra, anche se per Sergio Ricossa, economista dell’Università di Torino, «il liberalismo più avanzato non è né di destra né di sinistra». Karl Popper è stato pubblicato con oltre vent’anni di ritardo da un piccolo editore, Armando Armando, e a cura di Dario Antiseri; lo stesso si può dire delle opere di Frederik Von Hajek e della scuola viennese di economia. Scontavano, così come Del Noce e Silone, il tabù anticomunista più che il pregiudizio antifascista di certa cultura conformista.

Per Romano, l’occupazione dei posti culturali da parte della sinistra più che censura ha prodotto una specie di linguaggio conformista, «una koiné» e certe liturgie egemonizzate dalla sinistra. «Ipocrisia conformista delle sezioni Pci», la definisce Saverio Vertone, germanista e senatore di Forza Italia, secondo il quale «in questi 50 anni il conformismo della cultura di sinistra è stato tale che oggi, contro ogni evidenza, si arroga la rappresentanza e il primato di un mutamento in senso liberale e liberista».

Tanto che, aggiungono Ricossa e Gentile, oggi siamo arrivati al paradosso che non ci si può dichiarare anti popperiani. Malgieri, facendo l’elenco di autori e intellettuali di destra che per essere considerati tali non hanno avuto spazi, cattedre e giornali dove farsi conoscere e apprezzare, cita personaggi degli anni Trenta e spesso non italiani. Forse anche perché la destra italiana nata durante il fascismo ha visto emigrare le sue migliori leve verso i lidi antifascisti.

Numerosi intellettuali di sinistra parteciparono in gioventù ai Littoriali, le olimpiadi culturali degli universitari fascisti, prima di trasmigrare tra il 1941 e il 1943, senza eccessiva angoscia e magari servendosi del comodo ombrello della «sinistra fascista», nel partito comunista. «È stato un fenomeno abbastanza diffuso, anche se non sempre dettato da opportunismo», ricorda Ricossa. Un continuismo fascismo-antifascismo che potrebbe aver contribuito alla mancanza di una cultura di destra forte nel nostro paese. Si è trattato, dice il condirettore di Panorama Pierluigi Battista, di «un trapasso di massa ben descritto da Ruggero Zangrandi nel suo “Lungo viaggio attraverso il fascismo”.

Stenio Solinas, capo delle pagine culturali del Giornale, lo spiega così: «Persa la guerra e crollato il fascismo, chi non aveva fiducia nel sistema liberale prendeva dal comunismo quegli ideali più vicini all’anima rivoluzionaria di 30 anni prima. Ma i più integri, come Ardengo Soffici o Giovanni Papini, non cambiarono bandiera e vissero come dei grandi sopravvissuti nell’Italia repubblicana». Malgieri ricorda, invece, Marco Ramperti: «Un giorno Angelo Rizzoli senior gli diede un assegno. “Scriva lei la cifra”, gli disse. Ramperti lo stracciò e “Non posso scrivere per chi ha cambiato casacca”. Morì pezzente».

«La cultura di destra è così elevata che è più facile spiegare il Capital di Karl Marx a un metalmeccanico piuttosto che ‘Essere e Tempo’ di Martin Heiddeger a un bottegaio», così Pietrangelo Buttafuoco, un irriverente della destra postfascista, descrive le difficoltà incontrate dalla cultura di destra a imporsi nel nostro paese. «Abbiamo sbagliato – continua Buttafuoco – nel tentativo di scimmiottare la sinistra. Come si fa a dire che anche la nostra cultura è importante se l’operazione che si compie è quella di contrapporre Friedrich Nietzsche a Marx, Mario Bernardi Guardi (editorialista del Secolo, ndr) a Massimo Cacciari, oppure Marcello Veneziani a Ralf Darhendorf?».

La destra, in questi ultimi anni, si è pianta addosso per l’ostracismo subito dal dopoguerra a oggi. E probabilmente a ragione. L’economista Sergio Ricossa invita però a non lamentarsi per essere stati trattati male «bisogna dimostrare di essere superiori».

Eppure per qualcuno è difficile non recriminare. Stenio Solinas, capo della redazione culturale del Giornale, sa che «l’ostracismo c’è stato» e pensa sia «ridicolo che si dica che non è vero». Solinas si è laureato in modo rocambolesco nel ’73 alla Sapienza di Roma. Dirigente del Fuan, organizzazione universitaria dell’Msi, chiese, e alla fine ottenne, una tesi su Giuseppe Prezzolini, mentre il consiglio di Facoltà dibatteva se cacciarlo o meno dall’Università perché studente non democratico. Il giorno della discussione della tesi, fuori dall’aula gli studenti di sinistra organizzarono un corteo. Intervenne la polizia, Solinas non riuscì nemmeno a discutere la tesi e la commissione gli diede solo due punti. Uscì dall’aula solo alla sera, scortato dalle forze dell’ordine e accompagnato da Alberto Asor Rosa nel ruolo di garante della sua incolumità.

Il clima era quello, impedire a uno studente fascista di laurearsi non era reato e, aggiunge Solinas, «gli autori di destra non erano ritenuti degni di essere studiati, a meno che lo studio non venisse dalla stessa area che li riteneva indegni». Anche con queste cose si può spiegare il deficit culturale della destra italiana: «È vero, gli elettori dell’ex Msi sono ignoranti come bestie, ma mentre si prendevano calci in bocca, chi poteva avere tempo per studiare?», dice Buttafuoco.

A destra si cita sempre l’esperienza della casa editrice Rusconi e del suo direttore Alfredo Cattabiani che tra il ’69 e il ’79 ruppe il muro del silenzio su autori e opere rimaste ai margini dei circuiti culturali. «Il termine destra veniva omologato automaticamente al fascismo – dice il filosofo di sinistra Giacomo Marramao, presidente della Fondazione Basso – e invece se si guarda alla politica editoriale della Rusconi si vede che anticipava il filone portato al successo da Adelphi». Cattabiani ricorda i “cordoni sanitari” che la sinistra voleva stringere intorno alla Rusconi: «Ho pubblicato autori di una grande ala della cultura europea messa al bando dal conformismo. Quando uscì il ‘Signore degli anelli’ di Tolkien, ottenne una sola recensione, sul Tempo. Eravamo ignorati e demonizzati e io porto ancora dentro di me quel trauma».

«Quello che uccideva, era il silenzio – conferma Solinas – eravamo un mondo di paria intellettuali, espunti dal dibattito culturale. Eppure, il filone di destra, nazionalista, nichilista e di critica alla modernità, quello di Ernst Jünger e di Carl Schmitt e della rivoluzione conservatrice è il grande pensiero della destra non liberal-capitalista». Fu il socialista Walter Pedullà, ex presidente della Rai e docente di Letteratura a Roma, a coniare l’espressione ‘cordone sanitario’: «Intendiamoci, finché si parla di una cultura di destra moderna, che stimola e dà l’idea di grande vitalità, è un conto; ma quando, come nel caso di Cattabiani, si compie una operazione nostalgica, arcaica, e di restaurazione di un modello che non serve a nessuno, il discorso cambia».

I grandi pensatori di destra di questo secolo, secondo Angelo Panebianco, professore di Scienza della politica a Bologna, «rappresentano un filone minoritario che è un bene sia stato nel ghetto». L’editorialista del Corriere si chiede a cosa possa servire la critica da destra al liberalismo: «Schmitt e Junger sono autori illiberali: bastano e avanzano le tante critiche che provengono da sinistra. Chi si piange addosso perché ghettizzato rappresenta idee che non meritano indulgenza. Quanto all’egemonia culturale della sinistra, è l’effetto e non la causa di un pensiero liberale minoritario. Con la nascita dei partiti di massa, le vecchie elite liberali sono state scalzate dalle elite dc e pci che hanno ereditato lo Stato fascista. In futuro, se il bipolarismo non verrà travolto potrebbero crescere e affermarsi anche le idee liberali».

Saverio Vertone non si stupisce per il predominio di una cultura di sinistra: «In questo secolo, in Europa si è costituito lo Stato sociale e in questa situazione è stato difficile per una cultura di destra affermarsi. In Italia poi, la ventata anarchica del ’68 unita a un cattolicesimo post conciliare e a un marxismo già disorientato dalla crisi dell’Urss, ha consolidato un conformismo dalla struttura di cemento armato impossibile da perforare. Ora, invece, si avverte uno spostamento della bilancia a favore di chi vuole riformare il Welfare e si aprono spiragli per chi sta a destra».

Marco Tarchi, ricercatore di Scienza della politica a Firenze, è considerato una delle menti più lucide della destra italiana, anche se da tempo si è allontanato dall’Msi e oggi è vicino ai Verdi. Negli anni 70 ha diretto la rivista “La voce della fogna” ed è stato uno degli animatori della Nuova Destra sulla scia dell’esperienza francese di Alain de Benoist. Tarchi ha coniato, per chi come lui ha vissuto da destra quegli anni, l’espressione di “Esuli in patria”: «L’egemonia di stampo gramsciano ha fatto emergere l’impressione che dopo il tracollo dei fascismi la destra non avesse espresso niente di rilevante culturalmente. E il mondo neofascista italiano ha fatto poco per produrre una cultura autonoma. Sono emersi una serie di personaggi che definisco calligrafi e imitatori della solita lezione tradizionalista alla Joseph de Maistre e di richiamo a un’identità culturale precisa senza svolgere un ruolo evolutivo e autocritico». Il tentativo della nuova destra fu proprio quello di «sottoporre la destra a un bagno di innovazione», ma venne ostacolato in particolare dalla destra politica.

A sinistra un gruppo di intellettuali come Massimo Cacciari e Marramao cercò un dialogo con la nuova destra: «Se vogliamo capire una serie di contraddizioni delle democrazie di massa multiculturali e multimediali – dice Marramao – raramente possiamo trovare una diagnosi nei teorici democratici, dobbiamo, piuttosto, ricorrere ad autori di destra come Junger e Schmitt. La grande cultura di destra è riuscita a giungere a una definizione spietata dei termini costitutivi del potere e dei meccanismi che determinano l’asservimento di massa. La sinistra, invece, è rimasta ferma alla divisione di classe».

E se la cultura di destra fosse stata ostracizzata dalla destra stessa più che dal conformismo di sinistra? È noto, infatti, che la parte politica di derivazione post fascista, Msi prima e An poi, abbia avuto un rapporto tribolato con la cultura e gli intellettuali. Non a caso chiunque tentasse di infrangere il muro dell’isolamento culturale finiva sempre vittima del reducismo dei nostalgici e delle paure dei vertici del partito. Nel vecchio Msi non c’è mai stata simbiosi tra personale politico e intellettuale, il partito era chiuso in se stesso, faceva continui richiami all’appartenenza e alla tradizione e ogni tentativo di dibattito era visto come un tradimento o un cedimento al nemico. «La classe dirigente del Movimento sociale – ricorda il politologo Marco Tarchi, allora giovane intellettuale di area – era incapace di confrontarsi con la modernità».

Conservatorismo di maniera, nazionalismo, collettivismo e un po’ di esoterismo evoliano erano i filoni culturali entro i quali si muoveva l’Msi. «Ci accusavano – dice Stenio Solinas, oggi capo della redazione culturale del Giornale e allora uno degli intellettuali di Nuova Destra – di voler mettere in discussione l’eredità del Ventennio e di esserci venduti ai socialisti, invece volevamo semplicemente uscire dal tunnel del neofascismo, fare un esame disincantato del dopoguerra e respingere ogni ipotesi totalitaria».

Così, quando negli anni 70, è emersa la proposta politica della Nuova Destra di Marco Tarchi, Gennaro Malgieri e Stenio Solinas si creò una frattura drastica tra l’establishment politico dell’Msi e coloro che, considerati come perditempo o fomentatori di discordia interna, volevano sottoporre il partito a un bagno di innovazione. «A quel punto – continua Tarchi – si è capito che non esisteva più la prospettiva di una cultura di destra impegnata nel dare risposte ai problemi della modernità».

C’è da dire, però, che anche a sinistra chi intraprese un dialogo con gli intellettuali della Nuova Destra non fu visto di buon grado. E non era solo Ferdinando Adornato, oggi direttore di Liberal e allora capo delle pagine culturali dell’Unità, a scagliarsi contro Massimo Cacciari, Giacomo Marramao e gli altri intellettuali che decisero di partecipare ad alcuni convegni del gruppo di Tarchi. Non si perdonava loro di aver legittimato un’area culturale impresentabile e venivano accusati di irrazionalismo e di pericolosa e ingovernabile eresia. Questi settori della sinistra, dice Marramao, non si rendevano conto che «il modo migliore per creare miti è proprio la strategia del silenzio».

Ma se la sinistra, tutto sommato comprensibilmente, non vedeva di buon occhio queste contaminazioni, l’errore della destra politica fu la mancanza di fantasia e di coraggio del suo ceto dirigente e intellettuale. Se ghetto c’è stato, così come oggi lamenta Malgieri, la responsabilità è anche di chi per anni è stato essenzialmente nostalgico, incapace di dialogare con altri filoni di pensiero accontentandosi di godere di una rendita politica di posizione.

«La cappa di piombo del nostalgismo – dice Tarchi – ci escludeva dal mondo esterno». Eppure c’era molta vivacità: decine di riviste, convegni (sia pur snobbati dlla cultura «ufficiale»), c’era in moto «un tentativo di ricollocarsi nel proprio tempo» come dice Tarchi. Ma nel partito prevaleva la logica di nicchia e si puntava su un’identità nostalgica. «C’era un elemento psicologico di accettazione del ruolo di rappresentazione del mondo dei vinti», dice il condirettore di Panorama, Pierluigi Battista. Era la linea di Giorgio Almirante, contro la quale all’interno del partito, in quello stesso periodo, ci fu il tentativo fallito di Pino Romualdi, Ernesto Di Marzio e Beppe Niccolai, ma anche la stessa area rautiana rappresentava un’isola di elaborazione culturale.

Dopo il successo elettorale del marzo 1994 è stata dunque sdoganata una realtà rimasta nell’ombra per decenni. Con molta furbizia, che in politica non è detto sia cosa negativa, l’Msi ha modificato la ragione sociale e, come dice Solinas che la scorsa estate è stato protagonista di una polemica con il gruppo dirigente di An, ha buttato a mare il proprio retroterra culturale senza compiere una revisione storica. Si è tolta la camicia nera e ha indossato un abito liberale. «Un’operazione di facciata, la definisce Solinas, anche perché la classe dirigente finiana era la più conservatrice e immobilista nei confronti dell’identità fascista». 

A parte la «destra sociale» che si riunisce intorno a due riviste Area e Pagine libere, gli eredi dell’Msi oggi si dichiarano liberali. Ed ecco che sulle pagine culturali del Secolo compaiono recensioni ammirate di due libri del capofila degli anarco-liberisti americani, Murray Rothbard ma non una riga su Enzo Erra che due anni fa ha pubblicato Le radici del fascismo. «È l’ennesima frattura tra essere e dover essere – commenta Tarchi – c’è una corsa a impossessarsi di filoni culturali estranei, quelli che la sinistra non prende, per darsi una patente di credibilità».

Un complesso di inferiorità culturale, che Tarchi definisce «imbarazzante e deplorevole», culminato nel seminario di San Martino al Cimino dove la classe dirigente finiana si è fatta bacchettare dai professori liberali di Forza Italia. Quando, poi, la destra post fascista assimila all’emarginazione dei propri autori quella subita dai liberali, compie un’operazione di legittimazione politica della linea di Alleanza nazionale che stride con la realtà, anche perché gli avversari più irriducibili delle analisi per esempio della Rivoluzione conservatrice, sono proprio loro: i liberali.

L’ostracismo e l’occupazione degli spazi culturali da parte della sinistra è un dato di fatto, ma questo grande agitarsi della destra politica potrebbe nascondere l’ambizione di mettersi in fila essa stessa per partecipare alla spartizione dei posti di potere prima negati. 

«Il punto è un altro – dice Gian Enrico Rusconi, politologo e editorialista della Stampa – che cosa aspettano, ora che non sono più perseguitati, a tirare fuori nuovi autori? Mi sembrano scandalosamente assenti sul piano della produzione culturale. Circolano sempre gli stessi quattro o cinque nomi e non c’è niente di originale. La censura c’è stata, ma adesso? Perché hanno aspettato che fosse la rivista di sinistra Limes a riprendere il concetto di geopolitica?».

È la stessa amichevole critica che fa notare a Giampiero Mughini come la destra in questi anni non abbia saputo dire nulla e, a parte qualche talento giornalistico – dice il giornalista che qualche anno fa con Galli Della Loggia e Battista diresse Pagina, rivista che curiosò su quel mondo – non abbia prodotto niente di rilevante «né un libro né una vignetta né un film né una puttana».

Il caso dello scrittore. La destra si lagna dell’egemonia culturale della sinistra, ma dove sono i loro Calvino? Quando Italo Calvino rifiutava la pubblicazione de Il comunista di Guido Morselli, negava al patrimonio comune del Paese la disponibilità di un libro notevole. Iuri Maria Prado su L'Unità il  2 Giugno 2023 

Lo stracco dibattito sulla cosiddetta egemonia culturale della sinistra, non casualmente riattivato nel contrapporsi di nobilissime idealità sui grandi argomenti dello spirito nazionale, cioè i canoni di spartizione del poltronificio Rai, si sviluppa nella solita giostra di nomi negletti (Dante Alighieri compreso) posta a dimostrare alternativamente che quell’egemonia non c’è o, se c’è, è semmai dovuta a una specie di ingiusta cospirazione ostracizzante.

Ma varrebbe la pena di intendersi. Quando Italo Calvino (lo si veda ne I libri degli altri, un epistolario pubblicato se ben ricordo all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso) rifiutava la pubblicazione de Il comunista di Guido Morselli, allegando fumosamente che il manoscritto non rappresentava in modo fedele la verità delle cose del Partito comunista italiano, ebbene negava al patrimonio comune del Paese la disponibilità di un libro notevole: e lo faceva perché la pubblicazione di quel testo avrebbe imbarazzato fortemente (non certo per mancanza di verità) le gerarchie del partito e messo in luce certe movenze non proprio difendibili cui esse si abbandonavano.

Ma era censura? No: era il lavoro editoriale di un grande autore comunista che, per conto di una casa editrice legittimamente (ma neppure inflessibilmente) orientata, decideva di non rendersi responsabile della pubblicazione di un libro ritenuto scomodo. Ma se Guido Morselli non fu pubblicato allora e se solo successivamente, dopo il suo suicidio, le sue opere, tra le quali appunto Il comunista, furono rese accessibili, la responsabilità dov’è? Nell’impedimento calviniano o nell’assenza di un altro Calvino, in campo diverso o opposto, dotato dei mezzi culturali e della sensibilità intellettuale capaci di divulgare il lavoro letterario di un importante autore del Novecento?

Ho citato l’esempio di questo caso appunto perché mi sembra esemplare. Perché tu puoi ben dolerti che a sinistra non passi qualcosa, ma prima di denunciare una temperie di ostracismo dovresti domandarti come mai quella cosa non passa altrove: dovresti domandarti se il problema non stia piuttosto nella mancanza di un altrove culturale coltivato secondo ispirazioni diverse e diversamente inseminato.

Ma tu capisci che non fai molta strada se a Italo Calvino opponi Lando Buzzanca o l’evidenza destrorsa della Divina Commedia.

La realtà è che la cosiddetta egemonia culturale della sinistra si è prodotta e persevera perché quella tradizione ha sempre concepito l’azione politica in modo, per così dire, conglomerato: e produrre e divulgare e imporre cultura era parte essenziale, direi costituzionale del multiforme lavorìo di accreditamento civile e sociale di quella parte. L’erudizione democristiana era affidata a una pratica che aveva poco di comunitario, poco di sistematico, e il proletario o il piccolo borghese cattolico che pur accedeva agli studi alti o che autonomamente li coltivava non lo faceva, né era richiamato a farlo, per cambiare la società che li istituzionalizzava, ma per parteciparvi e per fare manutenzione di un ordinamento di classe, del lavoro, della produzione e insomma, appunto, della società, dopotutto accettabile anche secondo il criterio cattolico.

Non così il comunista, il quale studiava, e al quale si richiedeva di studiare, per acquisire gli strumenti buoni a inquadrare una società diversa, e diversa innanzitutto in quanto partecipata dalla diversità comunista. Sul fronte opposto, non era davvero la povertà di risorse, né tanto meno la mancata disponibilità di strutture adeguate a impedire all’altra tradizione di farsi egemone nei luoghi della produzione culturale: era l’idea che fosse la messa, non la scuola di partito, l’angelus, non l’Unità, il luogo opportuno della forgiatura sociale, la sede privilegiata in cui il cittadino, il lavoratore, l’elettore trovava le ragioni del proprio riconoscimento collettivo.

Ed era un’idea non necessariamente perdente, ma che condannava quella tradizione a farsi recessiva altrove e cioè nelle case editrici, nel cinema, nel teatro, nei giornali. La dissoluzione del sistema politico della Prima Repubblica non ha revocato quell’andazzo, anzi ormai trent’anni di legittimazione al potere della non-sinistra hanno dimostrato che l’avversa egemonia culturale trova causa in rinnovate e moltiplicate mancanze di quelli che lamentano di subirla o – peggio – la rinnegano chiamando a ridicola testimonianza la solita serqua di nomi che comporrebbe il profilo equiparabile della “cultura di destra”. Attenzione.

È ben vero che una patente – tanto per intendersi – di sinistra può aver consentito pubblicazioni immeritevoli e collocazioni di potere senza addentellato di merito, così come è vero che la mancanza di quella licenza può aver ostacolato ingiustamente le possibilità di diffusione di qualche contributo degnissimo e pregiudicato carriere altrimenti spianate.

Ma se alla pervasività di sinistra di cui ti lagni contrapponi l’esclusività di Drive In e del talk show populista vuol dire che fai una scelta, e hai poco da recriminare quando ti prendono in giro perché lo scrutinio del candidato cade sull’appropriatezza da telecamera del tono di azzurro della camicia anziché su questa cosa noiosa che è l’aver letto qualche libro. Poi alla rinfusa butti lì D’Annunzio e Longanesi e Sironi, ma intanto ti tieni il giovanotto che scambia l’imperatore romano per il presidente jugoslavo. L’egemonia culturale si ottiene, si esercita, si combatte, si contesta facendo cultura: facendola, non disprezzandola.

Iuri Maria Prado il 2 Giugno 2023

Estratto dell’articolo di Caterina Soffici per “La Stampa” il 2 giugno 2023.

Giordano Bruno Guerri […], […] dice Nicola Lagioia che l’egemonia culturale della destra è un’ossessione della politica, non di chi si occupa di cultura. Esiste o no, questa egemonia?

«È un fatto storico, non si può neppure discutere. Subito dopo la guerra la Dc ha deciso di disinteressarsi della cultura, lasciandola a Togliatti, e rivendicando per sé il controllo di altri fenomeni sociali importanti. Così il Pci si è impossessato della cultura. Gli intellettuali non sono leoni. Sappiamo bene da dove vengono, dal Rinascimento stipendiati da un signore. Lavorano dove si può lavorare». 

Quindi?

«Quindi quelli di destra si sono rattrappiti, hanno avuto difficoltà a trovare ruoli nella università, giornali, televisione, radio. Gli altri intanto andavano a gonfie vele. Quindi il sistema ha funzionato da solo. Chi voleva lavorare, anche se non era di sinistra, ha dovuto atteggiarsi come se lo fosse». 

Ma nel 1994 è andato al potere un signore che si chiamava Silvio Berlusconi, che per un periodo ha controllato tutta la tv (Mediaset e Rai), Mondadori e addirittura Einaudi. Come si fa a dire: adesso tocca a noi, basta con l’egemonia di sinistra.

«Berlusconi ha fatto tacitamente un accordo come De Gasperi con Togliatti. Lui si è tenuto le televisioni e la cultura di massa. Il resto lo ha lasciato alla sinistra. Non ha mai usato Mondadori o Einaudi a fini politici».

Perché?

«Perché a lui non interessava. Sarebbero stati strumenti formidabili. Anche sotto Berlusconi la cultura alta di destra è rimasta orfana. […] È un dato indiscutibile che ci sia stata questa egemonia e che duri tuttora, perché il sistema è rimasto lo stesso».

Mi pare che la cultura di destra abbia un problema a rapportarsi con la modernità. Fa convegni su Prezzolini. Perché non c’è uno Zerocalcare, una Murgia, un Fazio, un Saviano di destra?

«È vero. Lo abbiamo detto: perché l’egemonia sta dall’altra parte. L’obiettivo per me non è strappare il potere alla sinistra, col motto adesso arriviamo noi. Ma allargare il campo a voci diverse». 

La cultura passa anche per Sanremo, per l’arte astratta, per le serie tv. Lì si plasma l’immaginario. La destra ha qualche idea?

«La destra è per la maggior parte conservatrice, quindi tende a muoversi lentamente. È rimasta indietro». 

Al pubblico evidentemente piacciono certi temi, che la destra non bazzica. La destra ha una cultura elitaria, rifugge la massa. È anche un problema di argomenti, allora?

«[...] Mi sembra che l’orientamento stia cambiando. Stanno nascendo dei nuovi personaggi. Osho, per esempio, è estremamente popolare e non è di sinistra. E se questo governo dura dieci anni, come io credo, ne salteranno fuori in tanti […] ». 

Nomi?

«Anche se l’avessi non li farei». 

Walter Siti ha scritto che a destra ci sono più poltrone che culi. È vero?

«Sostanzialmente sì. Bisogna formare i culi. Non è una cosa che si improvvisa. Perché quando occupi una poltrona e sbagli, provochi un danno ancora maggiore alla tua parte». 

[...] Lei è stato ostracizzato?

«Io vengo considerato molto a destra perché mi sono occupato di fascismo. Nel libro su Bottai, scritto nel 1976 e che dopo 47 anni ancora si trova in libreria negli Oscar, per la prima volta si è detto che era esistita una cultura durante il fascismo. 

E questo mi ha provocato questo marchio di essere di destra, se non addirittura fascista. E sono cose che si pagano. Io le ho pagate».

In che termini le ha pagate?

«Certamente sarebbe stata una cosa diversa. Perché io ho scritto questi libri per l’unico motivo nobile per cui si scrivono libri di storia, cioè per cambiare una vulgata sbagliata. Il che non significa che il fascismo sia una buona cosa. Io detesto il fascismo. Sarei stato un furioso antifascista durante il regime. Ma la storiografia è un’altra cosa. Bisognava ristabilire una giustizia storiografica su Marinetti, su Bottai, su D’Annunzio». 

Parliamo di D’Annunzio (a cui è dedicato anche il suo ultimo libro “La vita come opera d’arte”, Rizzoli). Per esempio, ne “I cani del nulla” Emanuele Trevi si ispira a una poesia di D’Annunzio sui suoi cani e sostanzialmente lo definisce un fascista.

«È un tic che io combatto da anni. Gli storici sanno da sempre che D’Annunzio non era fascista. Prendeva in giro Mussolini, chiamava le camicie nere camicie sordide. Però quando sono arrivato al Vittoriale fuori c’erano bancarelle con paccottiglia varia, i gagliardetti, gli Eia Eia Alalà, i manganelli, le magliette con la scritta Me ne frego. Prima gli imposi di vendere anche le magliette con Che Guevara. Quando è scaduta la concessione sono riuscito a far rimuovere le bancarelle e a Gardone non si trova più un accendino con il duce. Per questo mi sono inimicato un sacco di gente a destra, prima di tutti Casa Pound». 

[…] Da quando Meloni è al governo, la parola fascismo è tornata ad essere molto usata. Esiste un pericolo autoritario?

«La parola fascismo appartiene alla storia. Non si dovrebbe usarla se non in quel contesto. […] ».

Ignazio La Russa, presidente del Senato, seconda carica dello Stato, esibisce un busto di Mussolini e non perde occasione di rivendicare la sua appartenenza – anche simbolica – a quella cultura.

«È una provocazione. Viene da una sua nostalgia personale […]. Certo non sono contento che si faccia fotografare con il busto del Duce. Ma la democrazia l’ha messo lì. Non ci è piombato con una marcia su Roma». 

Anche Hitler è stato eletto.

«Vorrebbe dire che la democrazia è una cosa sbagliata? Se La Russa impedisse la discussione in Senato sarebbe un’alta cosa. Non mi pare l’abbia ancora fatto». 

Esiste il “fascismo degli antifascisti”?

«Non esiste. Un’altra occasione dove la parola fascismo è usata a sproposito». 

Come giudica lo spoils system in Rai? Fazio è un Bello Ciao o una risorsa persa? Lucia Annunziata?

«Mi sembra legittimo e normale non rinnovare il contratto a Fazio, dopo vent’anni. La Annunziata ha presto una posizione politica. Legittima anche quella». 

Diciamo la verità: a destra ci sono persone veramente impresentabili che usano l’ostracismo per giustificare il proprio insuccesso e la propria irrilevanza.

«Chi è bravo davvero il successo lo ottiene. Ma questa figura c’è anche a sinistra. Gente di estrema sinistra che pensa di essere appestata. È una condizione umana marginale e triste”.

Ecco i nuovi fascisti, così ci impongono il pensiero unico. Michel Dessì il 26 Maggio 2023 su il Giornale.

Dai militanti del salone del libro alla drag queen nelle scuole a Bari: scopriamo chi sono

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Il fascismo c’è, vive. E non sta certo nei palazzi della politica, anzi. Lo abbiamo visto al salone del libro di Torino quando, uno sparuto gruppo di ragazze con fare squadrista, ha impedito al ministro della Famiglia Eugenia Roccella di parlare. Lo vediamo nelle pubblicità, nei film, nei cartoni animati riscritti per le nuove generazioni con un solo intento: imporre un pensiero. Imporre il pensiero, quello unico Lgbtq etc etc… attraverso la propaganda. Una nuova narrazione fatta in nome dell’uguaglianza.

Così tutto cambia, persino il vocabolario da usare. Il sindaco diventa “sindaca”; l’ingegnere si trasforma in “ingegnera” e così via. Per non parlare, poi, di chi si ostina ad usare addirittura la schwa, la “e” capovolta per intenderci, storpiando la lingua italiana. Sì, perché c’è chi vuole annientare il genere. Non più l’uomo e la donna ma l’individuo. Non più il padre e la madre ma il genitore. Uno e due se necessario. Una prepotenza fatta in nome dell’ideologia. Se questo non è fascismo. Così la “ə” diventa il manifesto degli squadristi del pensiero. Già, perché i militanti della “ə” non si accontentano di fare propaganda ma si spingono oltre. Imponendolo il pensiero, a volte con la violenza. Anche verbale.

È ovvio, la situazione ci sta sfuggendo di mano. Basta accendere la TV per vedere due uomini sposi che diventano famiglia (con tanto di bambino), basta andare al cinema per vedere la nuova Sirenetta (presto nelle sale anche in Italia) per accorgersene: protagonista nera (o di colore) con il padre bianco e una storia ingarbugliata. Una forzatura “perché bisogna adattarsi ai tempi” dicono, ma siamo noi a dettarli. Siamo noi i protagonisti di questo tempo, del nostro tempo. Ma non solo, oggi l’ideologismo entra anche nelle scuole materne o, peggio, negli asili come accaduto a Bari dove, una drag queen, Cristina Prenestina, con tanto di parrucca colorata e abito paillettes, e collana di perle, ha raccontato ai piccoli (ignari) una fiaba particolare. Deviata.

Eccolo il fascismo. Bambini trasformati in piccoli balilla che, nonostante la tenera età, vengono plagiati. Che fretta c’è di imporre un pensiero? Nessuna. Basta crescere ed essere ben educati (da una madre e un padre) per scoprire il mondo. Quello delle drag queen e non solo. Eppure no. Perché per Francesco Pierri, in arte Cristina, “è giusto raccontare un mondo nuovo, avere una narrazione che non si faccia alle favole che andavano bene per una società contadina con una morale patriarcale, ma che possa dare un immaginario nuovo alle nuove generazioni. Le identità, le famiglie stanno cambiando è giusto dare respiro anche alle favole” dice. Imponendole. Viva la libertà

Estratto dell’articolo di Francesco Rigatelli per “la Stampa” il 25 Maggio 2023

«Sono un indipendente, che giudica lo spartiacque tra destra e sinistra inadeguato a capire e affrontare i problemi della nostra epoca». Così sì definisce oggi Marco Tarchi, 70 anni, docente di Scienze politiche all'Università di Firenze, a lungo ideologo della nuova destra fino all'espulsione dal Msi nel 1981 per un articolo di satira. 

[…] dell'uso continuo dei termini fascismo e antifascismo che ne pensa?

«Da decenni mi batto contro questa guerra tra ombre del passato. Sarebbe il caso di fare un passo avanti. Anche perché questa contrapposizione interessa sempre meno il pubblico». 

Saviano invece parla di rischio autoritarismo, è esagerato o profetico?

«Esageratissimo, come si addice al personaggio, che suona sempre la stessa stucchevole musica».

L'egemonia culturale della sinistra è un'ossessione della politica dice il direttore del Salone del libro Lagioia, ha ragione?

«Ha torto. Ed è merito di una classe intellettuale formatasi dentro o attorno il Pci di averla costruita, mettendo in pratica la lezione di Gramsci. Naturalmente, perché l'egemonia sia efficace bisogna negarne l'esistenza. Sempre e comunque». 

C'è una grande ricerca di intellettuali di destra in questo momento, ci sono?

«Chi li cerca? I giornali "indipendenti"? Gli organizzatori dei festival culturali? Le istituzioni accademiche? Direi proprio di no. Li cercano solo i conduttori di talk show di parte avversa, nella speranza di far fare loro una brutta figura. Comunque ce ne sono, ma pochi.

E non tutti di alto livello». 

[…] Ma non è una contraddizione chiedere spazio proprio ora che sono al potere?

«E perché? Non mi pare che ne abbiano avuto granché in passato. Se ne avranno ora, mostreranno quello che valgono». 

Che consiglio darebbe al ministro Sangiuliano?

«Di riconoscere la qualità culturale, da qualunque parte provenga». 

[…] Poche donna tra i nominati, strano con una premier?

«Almeno si evita un uso strumentale delle quote rose. Che è un'altra forma di discriminazione». 

Lei potrebbe andare al posto di Augias?

«A me piace insegnare, scrivere articoli e libri. Non mi attrae l'istrionismo televisivo.

Mi basterebbe che, un giorno, un editore importante fosse disposto a pubblicare qualche mia riflessione non solo strettamente politologica. Al momento, sono fra gli infrequentabili». 

Lei teneva contatti col filosofo De Benoist tanti anni fa, oggi che ne pensa?

«Ho iniziato nel 1973 e non ho mai smesso. Lo stimo come intellettuale e come persona. Mi rattrista leggere falsità sul suo conto e articoli che lo dipingono in modo diverso da come è. Ha intrapreso un percorso coraggioso di superamento dello steccato tra destra e sinistra e prodotto analisi penetranti. Ed è stimato da molti intellettuali considerati di sinistra: da Michel Onfray a Massimo Cacciari. Si insiste ad attaccargli addosso etichette che non merita, mentre bisognerebbe leggere quel che scrive».

Come può Fdi far coesistere a livello europeo il sovranismo col bisogno dell'Italia di rimanere alleata con Francia e Germania?

«Che sovranismo è quello di chi si appiattisce sulle direttive Nato e Usa e si dimostra, più che un alleato, un servitore fedele? Meloni prometteva una pari dignità che per ora è tale solo nella retorica. Quanto all'Ue, per adesso della sua riforma radicale per anni auspicata e reclamata non si vede traccia. Ma c'era da aspettarselo: andando al governo, gli incendiari indossano la divisa dei pompieri».

Secondo lei che destra servirebbe all'Italia?

«Una che sapesse concretizzare alcune delle istanze conservatrici che a parole sostiene, per incrinare la cappa di piombo del politicamente corretto e di un progressismo che è di fatto l'involucro di un esasperato individualismo, camuffato dalla retorica dei "diritti". E che al contempo virasse nettamente a sinistra sul piano delle politiche sociali, senza piegarsi, per convenienza o per convinzione, agli interessi dei grandi gruppi economici e delle piccole clientele bottegaie. Ma, di nuovo, sono sogni». […] 

Se il caso Murgia rivela cos'è la cultura italiana. Opere "contingenti" come estensione della lotta politica e infinito scambio di favori. Massimiliano Parente il 25 Maggio 2023 su il Giornale.

«Dopo aver parlato della mia malattia, i miei nemici mi rendono un tributo con slancio e entusiasmo che io frenerei, non mi sento di associarmi! Pregheranno che io non abbia un giorno in più, perché ho intenzione di usare tutti i giorni che mi restano per fare quello che ho sempre fatto: rompere le scatole» ha detto la femminista Michela Murgia alla femminista Daria Bignardi. Di fatto, al momento dell'annuncio, è vero che tutti i suoi «nemici» le hanno dedicato un necrologio in vita pelosissimo, apotropaico, quasi esorcistico, insomma una dice di avere un tumore al quarto stadio e il detrattore si sente in colpa, e il senso di colpa gli fa pensare: oh, non è che ora viene anche a me?

Io, come scrittore, l'ho sempre stroncata, lei in compenso ha organizzato una raccolta firme per boicottare la pubblicazione dei miei libri (che non ha mai letto, troppo difficili) e La Nave di Teseo e Mondadori sono state sommerse di lettere di femministe invasate che hanno risposto all'appello del mullah Murgia. A me non verrebbe mai in mente di boicottare nessuno, casomai se fosse in mio potere organizzerei un appello per boicottarle il tumore, ma a lei come a tutte le persone malate, a lei non meno che alle altre.

Nel suo ultimo libro, Tre ciotole, edito da Mondadori, Murgia mette molto dentro della sua malattia, direttamente o in senso traslato, sulla precarietà delle nostre vite, con dodici storie in cui la vita dei protagonisti è sconvolta da un evento improvviso, come un tumore appunto, ma anche un licenziamento, un amore che finisce e che dilania. Infilandoci dentro un sacco di rituali, perché è sarda, dice.

È un libro che viene definito «romanzo» ma la stessa Murgia non sa cosa sia un romanzo, però è sicuramente un libro di raccontini intrecciati come un uncinetto di una nonna sarda, e tutti, all'unisono, si sono precipitati a scrivere che è bellissimo. Per la Bignardi, che si crede una scrittrice anche lei, ne è uscito un «lavoro letterario» (rispetto ai romanzi della Bignardi sicuramente), ma la Murgia dichiara una cosa interessante: «Io sono refrattaria alla scrittura letteraria perché mi considero una persona troppo politica e quindi legata al contingente». Questo spiega molte cose: perché non abbia mai fatto letteratura, perché abbia lanciato una fatwa contro di me, perché centinaia di invasate le siano andate dietro. Ha sempre fatto politica, si è sempre occupata del contingente, il che letterariamente significa che niente resterà.

Tuttavia lasciatemi dire: «Il tumore è una malattia molto gentile», un cazzo. «È un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale», anche qui un cazzo. Lo dico per tutte le persone malate, lo dico per tutti coloro che hanno perso una persona che amavano, come io mio padre, assistendole in atroci sofferenze.

L'idea, alla Murgia, gliel'ha data il suo oncologo, spiegandole che agli organismi unicellulari non vengono i tumori, «ma un'ameba non può scrivere i suoi libri», per cui si è resa conto di essere qualcosa di complesso, pur non avendo mai scritto niente di complesso. Oltretutto cosa c'entrano le amebe, anche a uno scimpanzé, a un cane, a una giraffa, a una balena vengono i tumori, e non scrivono libri.

Per cui la cosa interessante del libro è tutta extradiegetica, come direbbe un critico se esistesse ancora la critica: parlare del cancro per lanciare messaggi politici. Raparsi i capelli in diretta Instagram, andare al Salone del libro con copricapi alla Amelié Nothomb, con l'inseparabile Valerio Chiara. Sperando, ha detto, di morire dopo aver visto la caduta del governo Meloni. In questo la invidio: ti restano mesi di vita e pensi alla Meloni. Intorno al cancro della Murgia si sono aperte le danze di tutto il giro amichettistico e presenzialistico del mainstream culturale per casalinghe di Voghera: Valerio, appunto, e la suddetta Bignardi, e la gioiosa Tagliaferri moglie di Lagioia. A proposito di Lagioia, l'altro giorno mi ha detto: «Mi è piaciuto molto quello che hai scritto su Twitter a proposito della Murgia, sei stato l'unico non ipocrita». «Ma dai, e perché non hai commentato o ritwittato?». «Vabbè te lo sto dicendo adesso».

È questo l'amichettismo, è questo il tumore del mondo della culturina italiana che vive presentandosi i libri a vicenda e succhia le cellule di un tumore vero per preservare le proprie carriere politiche mancate. Una volta ho chiamato la Murgia, lei ha detto «Chi parla?», io «Massimiliano Parente», lei «Cosa? Per carità» e clic. Un'altra volta ho chiamato la Valerio, e lei «Cosa? Per carità», e clic. Devono avere un protocollo comune, i contingenti di chi esiste nel contingente. Le malignità le dicono in privato, non sia mai prendere una posizione scomoda, meglio tenersi il posto nel salotto comodo. Ma la Murgia, che spero viva altri cinquant'anni e sopravviva anche a me che tanto ho le mie opere per sopravvivere dopo di lei, ha comunque svelato questa cosa importante: sono tutti impegnati nel contingente. Proprio come le amebe, che però sono meno rumorose e no, fanno il loro lavoro e hanno anche il buon senso di non scrivere libri.

Estratto dell'articolo di Silvia Stucchi per Libero Quotidiano il 28 maggio 2023.

 La dichiarazione di Susanna Tamaro, che, forse colta alla sprovvista, ha parlato dell’opportunità, nelle scuole, di abbandonare lo studio di Verga in favore di testi del Novecento, fra i quali il suo Va’ dove ti porta il cuore, al di là del polverone sollevato, può offrirci anche una proficua occasione di riflessione, a partire, per esempio, dal limpido comunicato del Consiglio Scientifico della Fondazione Verga di Catania. 

In esso si ammette che, certo, va dato più spazio, nella prassi dell’insegnamento della letteratura italiana, al Novecento (e perché no? anche ai primi anni Duemila, direi, se il tempo non fosse tiranno, e chi lavora a scuola lo sa bene, soprattutto a maggio); ma è pur vero che, senza una buona conoscenza dei classici della nostra storia letteraria, concentrarsi sul Novecento sarebbe come costruire sulla sabbia, senza le fondamenta. Soprattutto, però, la letteratura, con la sua capacità di astrarre e universalizzare, rappresenta in forma potente anche le brutture degli uomini e l’inferno che hanno dentro: così sottolinea la Fondazione Verga, portando ad esempio le opere di Dante, Shakespeare e, appunto, dell’autore dei Malavoglia.

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Susanna Tamaro "cancella" la letteratura italiana? "I ragazzi studino me, non Verga". Silvia Stucchi su Libero Quotidiano il 24 maggio 2023

La dichiarazione di Susanna Tamaro, che, forse colta alla sprovvista, ha parlato dell’opportunità, nelle scuole, di abbandonare lo studio di Verga in favore di testi del Novecento, fra i quali il suo Va’ dove ti porta il cuore, al di là del polverone sollevato, può offrirci anche una proficua occasione di riflessione, a partire, per esempio, dal limpido comunicato del Consiglio Scientifico della Fondazione Verga di Catania. In esso si ammette che, certo, va dato più spazio, nella prassi dell’insegnamento della letteratura italiana, al Novecento (e perché no? anche ai primi anni Duemila, direi, se il tempo non fosse tiranno, e chi lavora a scuola lo sa bene, soprattutto a maggio); ma è pur vero che, senza una buona conoscenza dei classici della nostra storia letteraria, concentrarsi sul Novecento sarebbe come costruire sulla sabbia, senza le fondamenta. Soprattutto, però, la letteratura, con la sua capacità di astrarre e universalizzare, rappresenta in forma potente anche le brutture degli uomini e l’inferno che hanno dentro: così sottolinea la Fondazione Verga, portando ad esempio le opere di Dante, Shakespeare e, appunto, dell’autore dei Malavoglia.

Da studentessa non ho potuto non restare folgorata dalle sventure della famiglia Toscano, o di fronte all’ansia di accumulo e riscatto culminata nella morte squallida e solitaria di Don Gesualdo Motta; sono stata stregata da novelle belle e terribili, come Rosso Malpelo, che spiega l’esclusione e il pregiudizio, la solitudine e la ferocia dell’uomo verso l’uomo come centinaia di pagine di sociologia e psicologia; o come la strepitosa Libertà, le cui poche pagine condensano l’incapacità anche solo di capire che cosa significhi essere cittadini e di leggere il mondo («Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti», si ripetono gli abitanti del paesino, con le mani sporche di sangue dell’eccidio). E poi, Verga analizza i mali del suo tempo, che è anche il nostro, in fondo: catanese vissuto a lungo al nord, nelle sue novelle meno note, ma non per questo meno potenti, racconta la solitudine nella grande città industriale (si veda L’ultima giornata, che ricostruisce genialmente le ultime ore di un suicida alla stazione di Sesto); oppure, mette in scena le spietate dinamiche del branco (cfr. Tentazione!, che narra di una aggressione nelle campagne alla periferia est di Milano).

Sono ardui questi testi? Spesso, sì. E piacciono agli studenti, come piace loro Dante, che semplice non è, come piace il forte sentire di Foscolo, come affascina la combattiva disperazione di Leopardi; come in piena prima ondata di CoVid vedevo dallo schermo occhi attentissimi mentre spiegavo la peste del 1630 in Manzoni. A corollario di questa modesta riflessione, un’aggiunta doverosa, da parte chi, come me, con ragazzi dai quattordici ai vent’anni ci lavora da qualche lustro: forse, visto che viviamo in un tempo in cui (almeno sulla carta) si dà sempre maggior peso alla competenza – nei suoi vari ambiti-, sarebbe il caso di lasciare che le proposte in ordine a ciò che è opportuno o non opportuno fare a scuola venissero da chi a contatto con gli studenti ci lavora, ne conosce avendone direttamente il polso gusti, bisogni, difficoltà, e cerca tutti i giorni di costruire insieme a loro qualcosa di bello e duraturo. 

Strani gramsciani. Agile vademecum per aspiranti tessitori di nuove narrazioni egemoniche. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 25 Maggio 2023

Il ricorrente dibattito sulle ambizioni culturali di Fratelli d’Italia e degli intellettuali di area post-missina è minato alla base da una contraddizione irrisolvibile: non si può andare contemporaneamente sia avanti sia indietro

Non avendo potuto evitare il termine «egemonia» nel titolo, giuro solennemente di risparmiare al lettore, perlomeno, ogni dissertazione storico-lessicale sulla genealogia del concetto, dalla guerra del Peloponneso ai Quaderni del carcere, passando per Marx, le masse, la lotta di classe, gli studi gramsciani, e vado subito al pratico. Perché, al di là delle questioni teoriche su cui pure ci sarebbe qualcosa da eccepire, in tutto questo ricorrente dibattito sulle aspirazioni egemoniche della destra post-missina è proprio l’aspetto pratico che mi pare il più gravemente sottovalutato.

Il fatto è che l’egemonia è un po’ come il senso dell’umorismo: non si può autocertificare e non si dovrebbe nemmeno preannunciare, men che meno spiegare. È tale se funziona da sé. Trattandosi, in sostanza, della capacità di imporre agli stessi avversari le proprie categorie, il proprio lessico, la propria visione del mondo, potremmo dire anzi che è l’esatto contrario dell’elenco di fiction, programmi tv, mostre e convegni sovranisti, tutti con il bollino del ministero della Cultura o della televisione pubblica o comunque del governo, di cui parlano questi strani discepoli di Gramsci (il gramscismo di destra è del resto un filone antico, che risale almeno a Pino Rauti). Quelle si chiamano direttive, e sono un’altra cosa.

Non a caso l’egemonia comunista sul mondo della cultura ha iniziato a entrare in crisi proprio alla fine degli anni settanta, quando il Pci votava i governi di unità nazionale ed era sempre di più percepito, e contestato, come parte del sistema (si potrebbe anzi discutere di quanto larga parte dei registi, scrittori e accademici indebitamente accreditati all’egemonia del Pci sulla cultura non abbiano al contrario spianato la strada all’antipolitica e all’egemonia populista che domina ancora oggi il discorso pubblico, ma sarebbe un lungo discorso).

Nelle lamentazioni vittimiste di una parte della destra oggi al governo c’è però una contraddizione più profonda, e forse più interessante, che mina alla base l’intera discussione. Il punto è che tocca decidersi: o Fratelli d’Italia sceglie la strada della destra di governo, liberale, europeista, occidentale, oppure sceglie di fare qualcosa di analogo all’operazione riuscita nel dopoguerra a Palmiro Togliatti. Sapendo però benissimo che, anche qualora scegliesse questa strada, non potrebbe mai percorrerla fino in fondo: perché Togliatti, nel dopoguerra, poteva fondare la sua operazione culturale sulla pubblicazione delle lettere e dei quaderni di Antonio Gramsci, fondatore del partito comunista (almeno secondo la storiografia ufficiale); mentre nessun dirigente di Fratelli d’Italia oggi si sognerebbe mai di pubblicare le opere di Benito Mussolini (che pure, ancora nei primi anni novanta, un orgoglioso Gianfranco Fini esibiva davanti alle telecamere di Piero Chiambretti) e nemmeno quelle di Rauti.

Non mi interessa qui affrontare la noiosissima diatriba circa la legittimità della diversa considerazione riservata alla cultura comunista (o post-comunista) e a quella fascista (o post-fascista). Mi limito a registrare il dato di fatto. E osservo, banalmente, che non si può andare contemporaneamente sia avanti che indietro: o si cerca di diluire e far dimenticare le proprie origini, o le si rivendica come fondamento della propria alterità. Ma non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca: il tentativo di rivendicare orgogliosamente una tradizione, presentandone però all’occorrenza una versione decisamente edulcorata, è destinato a fallire anzitutto sul piano pratico, e qualunque artista, intellettuale o sceneggiatore televisivo sia chiamato a darne prova finirà inevitabilmente per risultare o fasullo o fanatico (o peggio: entrambe le cose assieme).

Estratto dell'articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 24 maggio 2023

Basta con la cultura di sinistra, basta con l’egemonia rossa sull’arte e la letteratura, basta con gli intellettuali tutti da una parte, e i film pure, e i saloni del libro non ne parliamo. Ogni volta che la destra vince le elezioni riparte il piagnisteo, e non si offenda nessuno, il termine piagnisteo lo usò lo scrittore e giornalista Pietrangelo Buttafuoco, fascista tendenza Islam, ed era il luglio 2002, convegno sulla cultura di destra organizzato da Maurizio Gasparri per cavalcare il Berlusconi bis a Palazzo Chigi. 

Censura, boicottaggio, conformismo, le accuse sono sempre quelle come le domande senza risposta: e perché non c’è un Moretti di sinistra? E perché non c’è stato un Gramsci sovranista? E allora Giuseppe Berto? Non solo è identico lo schema – il piagnisteo, appunto – ma pure i nomi che intonano il canto dolente.

C’era e c’è Marcello Veneziani a rivendicare il valore e l’ampiezza del pantheon destrorso, c’era e c’è Luca Barbareschi a coprire il fronte provocazioni mediatiche, c’era e c’è Giordano Bruno Guerri che almeno è l’unico che non si lamenta mai e ancora pochi giorni fa, ai Fratelli d’Italia in cerca di glorie intellettuali, ha sussurrato con eleganza un’obiezione: ma ce li avete nomi buoni da proporre? 

Che è poi ciò che dice da sempre un altro libero pensatore di area, Umberto Croppi, già protagonista della stagione eretica e tolkeniana dei campi Hobbit insieme al politologo Marco Tarchi: «Qualcuno – chiede Croppi – è in grado di fare un nome di un regista o di uno scrittore che non ce l’ha fatta in quanto di destra?». Lo stesso Tarchi, animatore di una rivista che ha fatto epoca nell’area, La voce della fogna , non ci gira troppo intorno: «La destra ha un complesso di inferiorità verso la cultura di sinistra».

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A un certo punto nella destra a caccia di intellettuali spuntò anche l’opzione campagna acquisti. Trent’anni fa i Gabbiani, la corrente del Msi-An in cui militava Giorgia Meloni, fecero i manifesti con Pasolini e Che Guevara. Vent’anni fa l’allora deputata forzista Gabriella Carlucci dichiarava il sogno di portare Riccardo Muti nella Casa delle libertà, mentre Ignazio La Russa puntava addirittura a Francesco De Gregori.

Ma, a parte i desideri irrealizzati di Carlucci e La Russa, anche la corsa alla cooptazione ha il mugugno incorporato: e che facciamo, ci prendiamo i loro anziché valorizzare i nostri? Sì, risponderebbe Guerri, ma i nostri chi?

Estratto dell'articolo di Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 24 maggio 2023.

L’unico difetto di Nicola Lagioia – Lui, che ha salvato il Salone del Libro e lo ho moltiplicato in stand, appuntamenti e visitatori: ieri il solito dato record e alla fine l’edizione 2023 arriva alla cifra monstre di 215mila entrate - è che quando parla si crede un romanzo. 

Ultimamente è in fase guru: funghetti, il Bosco degli amichetti Scrittori nella campagna romana, psichedelia e sciamanesimo. Qualche settimana fa, durante una lectio sul rapporto tra Vita e Letteratura all’Università Cattolica di Milano, ha trascinato il pubblico al vertice della tensione fino a che, così dice Lagioia, una studentessa è scoppiata in un pianto irrefrenabile di gioia (con la minuscola).

La sua più che una carriera intellettuale è la via spirituale di un Maestro.

Da sempre. Impose le mani sulla piccola casa editrice minimum fax, e ne fece il santuario del Dipartimento per l’agitazione e la propaganda del partito comunista-capitolino, poi fiancheggiatore della fazione einaudiana romana e per estensione torinese (da cui il celebre grido «Dentro i faxisti nel Salone!»).

Elevò l’Einaudi col suo personalissimo vangelo, La ferocia, e vinse lo Strega.

Ha toccato il Salone di Torino e lo ha guarito da tutti i suoi mali, sanandolo dal fallimento, respingendo l’attacco frontale della fiera concorrente di Milano, superando con coraggio e una buona dose di fortuna l’incubo pandemia e esorcizzando tutte le destre possibili, procedendo dal basso ad Altaforte. 

E infine ha benedetto santa Annalena Benini, su intercessione di Alain Elkann, e lei è stata eletta direttrice. E l’intellighenzia tutta elevò il suo Inno. A Lagioia. Poi però, ma è solo una scivolata, dopo averci riconsegnato il Salone sette volte migliore e più grande di quando se l’è preso, l’altro giorno - travolto dal caso Roccella e scacciato dai golpisti rossi d’Ultima generazione - è scappato come il peggiore degli antieroi. 

(...)

Lui è quello che tutti gli intellettuali vorrebbero essere. Famoso, ricco («Con tutti i soldi che guadagna») e potentissimo, in particolare sull’asse Repubblica-Einaudi-RadioTre-Esquilino. Ed è persino di sinistra. 

A sinistra dei dem-centristi e un po’ a destra di Christian Raimo, Nicola Lagioia è partito da Bari, periferia incancrenita di via Bitritto, concerti al Pellicano e l’ambizione di suonare la batteria alle feste di paese, laurea in Legge e poi via subito dalle Puglie prima che diventassero il posto più cool del Sud Italia. Lui voleva Roma, e soprattutto scrivere. 

Parte da Castelvecchi alla fine degli anni ’90, lavorando nella casa editrice e pubblicando il suo primo libro: un romanzo a più mani che esce sotto il nome collettivo di «Aldo Dieci», un po’ meno di un flop, un po’ più dell’amico cannibale Antonio Centanin.

Titolo: Route 66. Da qui parte la sua personalissima strada della gloria, passando per minimum fax, dove dirige la collana di narrativa italiana «nichel», primo nucleo editoriale di quella famiglia allargata, un po’ setta un po’ comune - Pascale, Pacifico, Valeria Parrella, Laura Pugno e i fratelli Grimm del Terzo Municipio: Christian&Veronica Raimo che poi tappa dopo tappa, dall’Einaudi al Lingotto, e dopo anni di riviste, vecchi clan e Nuovi Argomenti, festival, premi, Saloni, radio e programmi condivisi, si riaggregherà nel falansterio queer di Michela Murgia&Co., una bolla autoreferenziale dove Paola Belloni, la compagna di Elly Schlein, si fa tatuare sul braccio il logo di Morgana, il podcast-libro della Murgia e di Chiara Tagliaferri, la moglie di Lagioia, in una koinè di Potere, Amichettismo e Ostentazione. E poi tutti a cena ai Parioli a casa di Claudio Baglioni. L’intellettualità italiana come un allegro dopo-festival.

È vero, il Salone del Libro non è un festival ma una fiera. E lui l’ha fatta benissimo. Determinato, carrierista che non fa niente per caso, grande capacità comunicativa (sa sfruttare tutte le sue conoscenze e l’arma della propaganda) e straordinaria abilità nel puntare a un obiettivo preciso senza farlo trasparire, Nicola Lagioia aveva tutte le caratteristiche del Direttore Perfetto. 

Pedigree politico purissimo, un cerchio magico romano di consulenti fidati e la predisposizione a muoversi senza refusi fra le righe della politica. Chiamato alla direzione del Salone per l’edizione del 2017 dall’allora Presidente della Fondazione per il Libro, Massimo Bray, e sponsorizzato dal ministro della Cultura Dario Franceschini e dal governatore Sergio Chiamparino (quando vigeva l’infallibile metodo che prende il suo nome: «Io pago, io comando, io decido»), Lagioia è stato capace di restare ai vertici del Salone con chiunque governasse il Comune di Torino e la Regione Piemonte: il Pd, i CinqueStelle, Forza Italia e l’avrebbe potuto fare anche con Giorgia Meloni, se avesse voluto. Una cosa che in una città come Torino, peraltro, può riuscire solo a un predestinato o a un funambolo.

Amico di tutti, critici e scrittori (persino di Melissa P.), amato da tutti, editori e lettrici, iroso per istinto ma capace di dominarsi (quando l’ex amico Massimiliano Parente scrisse sul Giornale un memorabile «Inno a Lagioia», la sera stessa Nicola andò sotto casa sua con una mazza da baseball, ma poi desistette), se c’è una virtù in cui eccelle, bisogna dargli il merito, è quella di sapere smussare i contrasti. Da cui il suo motto: «Mai attaccare di fronte, sempre aggirare il nemico». E anche l’amico se necessario (per colpirlo alle spalle, aggiungono i maligni). Ed ecco il soprannome di “Ciriaco De Mita” del Salone.

Camaleontico, fluido, anima democristiana - Realpolitik e tartine - è stato l’uomo per tutte le stagioni e di tutti i Saloni: nascostamente più faziano di un Fabio Fazio, apparentemente meno fazioso dell’ala movimentista dei suoi pretoriani à la Raimo. E ieri, chiuso il suo settennato dei record fatto di qualche inevitabile polemica e centinaia di migliaia di biglietti venduti, San Nicola di Bari, portato in processione da Roma a Torino, andata senza più ritorni, si è pure tolto la soddisfazione di lasciare dietro di sé una trionfale dichiarazione lastricata di pluralismo e indipendenza. In letteratura si dice autofiction. 

Ora, visti i successi, sarà dura per chi gli succede. Bisognerà fare - almeno come lui. Intanto Annalena Benini, che negli anni d’oro del Foglio guidò con Giuliano Ferrara la battaglia in difesa dell’embrione, ieri ha detto che sul caso Roccella avrebbe fatto la stessa cosa di Lagioia. Chissà se è vero. 

(...)

Nicola Lagioia: «Il Salone del Libro non è la Rai, comandano solo i lettori». Dal 18 al 22 maggio torna la rassegna internazionale dedicata alla lettura. Duemila eventi, grandi ospiti. E spazi nuovi, come la Pista 500 sul tetto del Lingotto. Parla il direttore, alla sua ultima edizione prima dell’arrivo di Annalena Benini. Sabina Minardi su L'Espresso il 16 maggio 2023.

Quando arriva a Roma, a minimum fax, è lo “Straniero” proprio come la rivista fondata da Goffredo Fofi e il premio letterario che si aggiudica nel 2001: si è laureato in Legge a Bari, scrive, fa il ghostwriter, ma appena si ritrova a dirigere la casa editrice la trasforma in un punto di riferimento nella ricerca letteraria.

Un riconoscimento dopo l’altro Nicola Lagioia vince nel 2015 il premio per eccellenza, lo Strega, con il romanzo “La ferocia”, che dedica, chiamandola sul podio come Rocky Balboa la sua "Adrianaaa”, alla moglie Chiara: la scrittrice Chiara Tagliaferri. E anche se nel frattempo dirige collane, conduce alla radio, seleziona film per la Mostra del cinema di Venezia, quando viene nominato direttore del Salone del libro, nel 2017, torna a essere uno straniero. Riprende la valigia e si trasferisce a Torino: per capire bene i meccanismi della manifestazione e di quella politica che vuole dire la sua, ricorda ora, alla vigilia della 35° edizione del Salone.

L’ultima da direttore, con un consenso cresciuto anno dopo anno. E un pubblico che ha rafforzato l’amore per la rassegna: da 144 mila presenze nel 2018 a oltre 168 mila nel 2022. Ma per lo straniero Lagioia la vittoria è un’altra: «Mi auguro che oggi il Salone non sia più considerato solo dei torinesi, ma un evento italiano e internazionale». 

Dopo mesi di polemiche e fumate nere, sarà Annalena Benini a prendere il suo posto dal prossimo anno. Non ha avuto la tentazione di restare? Ernesto Ferrero...

«È rimasto in carica 18 anni, certo. Ma erano tempi diversi. Ho vissuto grandi sfide: quando sono arrivato, nel 2016, il Salone praticamente non esisteva più, migrato a Milano con Tempo di libri. Non c’era quasi più un nucleo di lavoro. Abbiamo riportato il Salone al Lingotto, ma ci siamo ritrovati a fare i conti con il fallimento della Fondazione. Eravamo trionfanti, ma senza contratto. Siamo andati avanti lo stesso, finché non c’è stata l’acquisizione da parte dei vecchi fornitori, gli attuali proprietari, che si sono ripresi il marchio. Ricominciando da zero».

Nel 2019 fu al centro di proteste per l’annunciata presenza di Altaforte, casa editrice vicina a Casapound, esclusa dopo la defezione di molti autori. Poi l’epidemia.

«Sostenere tutto ciò, anche dal punto di vista psicologico, non è stato facile. Quando mi proponevano di restare dicevo: ma prima posso prendermi una pausa di un paio d’anni? Poi magari ritorno».

Quanto ha avvertito in questi anni l’influenza della politica?

«Premessa: il Salone non è la Rai, il Salone è per il 60 per cento dei privati, per il resto del Comune di Torino, la Regione, la Compagnia di San Paolo, il Ministero. La politica prova a influenzare. Ogni tanto arrivava qualche proposta di consulenza, ma è importante far capire subito che “non attacca”. Una volta fui convocato dalla Regione Piemonte con l’accusa di fare un Salone troppo di sinistra. Risposi con una lezione di editoria. Lo sapete che cos’è la Gfk, domandai. Sapete che una “fiera” del libro è diversa da un “festival”? A una fiera vanno gli editori, che pagano gli stand e vogliono rientrare dell’investimento. Facciamolo questo gioco cretino di destra e di sinistra: leggiamo i 5.000 titoli più venduti e collochiamoli da una parte e dall’altra. Il fatto che Zerocalcare riempia l’Auditorium non lo decido io, lo decide il pubblico. E se il 90 per cento degli scrittori è di sinistra, o non gliene importa di schierarsi, è un fatto. Questa è una fiera da almeno 100mila persone. Se si fanno certe scelte non è per un capriccio del direttore».

Insomma, rivendica neutralità?

«Rivendico qualità. E pure quantità. Michel Houellebecq è ritenuto reazionario: è venuto al Salone. Idem per Cormac McCarthy: magari venisse! Se il pensiero conservatore è interessante merita ascolto».

Regali alla neodirettrice una cosa che ha imparato stando al comando del Salone.

«C’è solo un consiglio che posso darle: avere chiaro che il referente di un direttore non è né la politica né la proprietà. Sono gli editori, le autrici e gli autori, il pubblico. Con loro dalla tua parte, nessuno può condizionarti. Le faccio ancora un esempio su cos’è il Salone: andai a trovare Roberto Calasso per convincerlo a tornare. Ero emozionato, avevo i suoi libri in mano. Le assicuro che non abbiamo parlato un istante delle “Nozze di Cadmo e Armonia”. Già nell’accogliermi sventolava i rendiconti delle edizioni passate, i soldi persi e quelli guadagnati. Se si conoscesse di più come funziona l’editoria si perderebbe meno tempo a parlare di destra e di sinistra».

Perché c’è un’industria culturale in gioco, obbligata a pensare alla sua sostenibilità.

«Certo, noi esercitiamo un filtro, ma non puoi pretendere autori solo secondo il tuo gusto. Perché il pubblico viene al Salone per vedere Rachel Cusk, ad esempio, ma anche Alberto Angela. E tu chi sei per dire no? Il Salone del libro è una festa popolare, per lettori forti ma anche per chi non comprerebbe un libro in un anno e ne acquista qualcuno proprio lì. Devi avere rispetto di tutti. Abbiamo la classe politica che legge meno d’Europa e che ignora la diversità tra lettori, la difficoltà di leggere nei paesini di provincia, la vivacità dei gruppi di lettura».

Lei ha sempre valorizzato il lavoro di squadra, mettendone su una con nomi molto apprezzati.

«Ho seguito diversi consigli a Torino. Uno ho voluto ignorarlo: concepire il Salone come una struttura piramidale. Manco morto, ho detto: io non lavoro così. Le strutture reticolari funzionano meglio. Contare su un gruppo di consulenti così valido è stato bello e complicato: non è facile tenere testa a scrittrici come Valeria Parrella, Helena Janeczek, Loredana Lipperini, Claudia Durastanti, solo per fare qualche nome. Però, una volta allineati, ogni difficoltà ha avuto alle spalle una forza incomparabile».

Mi dica di getto un incontro che conserva nel cuore?

«Quello con Bernardo Bertolucci. Intervistato da Luca Guadagnino con Elena Stancanelli, nel bel mezzo dell’incontro si fermò e ci propose di metterci a meditare. Fu incredibile, calò il silenzio in un istante, a dimostrazione della magia che si può creare con le parole. Un altro incontro straordinario fu con Edgar Morin. Lo invitammo pensando che non sarebbe venuto, aveva già 99 anni, invece si presentò e fu grandissimo. E poi ho tanti ricordi legati al Salone Off: il tango di notte; il concerto di Iosonouncane, seguitissimo alle 5 del mattino. Un’altra cosa stupenda mi accadde nel 2017: in un clima di incertezza, all’improvviso mi sentii abbracciare alle spalle: era Inge Feltrinelli, gioiosa, con quella sua energia incredibile che mi fece sciogliere di emozione».

Un rimpianto, invece: chi non è riuscito a portare?

«Camilleri. Era sul punto di venire, ma non fece in tempo. Il momento più brutto? La pandemia: ricordo una riunione drammatica per decidere se andare avanti. Decisi di scommettere che la campagna vaccinale sarebbe andata bene: il contrario era un pensiero contro il futuro. “D’accordo”, dissero: “Cosa siete disposti a rischiare?”. Lavorammo gratis per mesi. L’audacia fu premiata».

Il Salone può crescere ancora?

«Dovrebbe continuare a essere com’è. Però poi agire da agenzia culturale e organizzare eventi in tutta Italia».

Un Salone itinerante?

«No, il Salone è a Torino e lì deve restare. Ma ha sviluppato un tale know-how, è in contatto con tutti gli scrittori del mondo, ha così tanta capacità di attrarre pubblico che potrebbe dare vita ad altro. Sarebbe bello se diventasse una scuola di formazione».

Lagioia, c’è una guerra terribile a due passi da noi. Non le viene il dubbio che mettere in scena dialoghi e parole sia cosa inutile?

«L’arte c’è sempre stata sotto le bombe. La poesia europea ha avuto una svolta proprio durante la Prima guerra mondiale, quando Ungaretti cominciò a scrivere versi dal fronte. È assolutamente sensato ritrovarci in un Salone, significativamente aperto da Svetlana Aleksievič. Certo non dà un contributo alla fine della guerra. Ma serve a restare umani: rinunciare a occasioni così vuol dire impoverirsi. C’è bisogno di comunità».

E magari di promuovere davvero la lettura.

«Ecco il punto. L’editoria è uno dei pochi mondi culturali che si sostiene da solo, diversamente dal cinema che vive di finanziamenti. Non penso a provvedimenti di assistenzialismo, ma di aiuti al settore sì, con una legge che colleghi editori, librai, bibliotecari, scuole. Questo mi aspetterei dalla politica che invitiamo ogni anno. Abbiamo traduttori tra i migliori del mondo e i peggio pagati d’Europa. L’Italia sarà ospite a Francoforte nel 2024: come sfrutteremo l’occasione? La politica di questo dovrebbe occuparsi: di librerie che chiudono per affitti alle stelle, di editori che resistono, di scuole che vorrebbero fare di più ma sono disastrate: mettiamo tutto questo a sistema».

Dal profilo facebook di Nicola Lagioia – 21 maggio 2022

Circa vent'anni fa, sollecitato da un blogger che mi chiedeva un commento su "Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire", il romanzo d'esordio di Melissa P., feci un commento violento, sessista e molto stupido. 

Subito dopo andai a scusarmi di persona con Melissa Panarello. Non avevo la consapevolezza che ho oggi, capii di aver sbagliato. Melissa accettò le scuse, ma ci mise un po' – giustamente – per assorbire il colpo. Discutemmo ancora (aveva ragione lei: ovvio). Abbiamo poi preso a vederci sporadicamente, adesso lo facciamo con più frequenza. Siamo diventati amici. Ci lega un rapporto di stima e di affetto. Quando si sbaglia, è bene chiedere scusa e provare a riparare. 

Ecco che però, 20 anni dopo, le telecamere di "Striscia la Notizia", in occasione del Salone del Libro, si sono avventate su Melissa per chiederle conto dei fatti di allora, e hanno sollecitato con la stessa prepotenza altre scrittrici e personalità della cultura chiedendo di commentare quella frase (il più delle volte tacendo che fosse stata pronunciata quasi 20 anni fa in quelle circostanze, mistificando, manipolando come fa spesso la trasmissione).

Le telecamere di Striscia sono venute lo scorso anno al Salone del Libro, il servizio è stato mandato invece in onda solo alla vigilia di quest'ultimo Salone per cercare di recare più danno possibile. Subito dopo la prima messa in onda, non essendo scoppiata la polemica che speravano scoppiasse, le telecamere di Striscia sono tornate alla fiera anche quest'anno, hanno ripreso la loro operazione. 

Poiché diverse scrittrici interpellate mi conoscono e conoscono il mio lavoro, si sono mostrate prima sorprese e incredule. Quando hanno capito l'inganno, molte di loro hanno protestato, sentendosi aggredite hanno cercato di sottrarsi alle telecamere per non stare al gioco, alcune hanno denunciato sui loro canali l'accaduto. Le loro proteste sono state ignorate, tagliate dal montaggio. Melissa, nei confronti della quale l'aggressione è stata vergognosa, ha denunciato l'accaduto sui suoi canali social. Naturalmente la sua replica non è stata riportata da "Striscia", che invece in trasmissione ha preso ad attaccarla accusandola di connivenza. Ha attaccato me provando a innescare una campagna d'odio il cui esito è stato, per fortuna, fallimentare. 

La frase per cui avevo chiesto scusa 20 anni fa, e che all'epoca era stata pubblicata su un piccolo blog che non esiste più da tanto tempo, è stata rilanciata più volte da Striscia con una violenza moltiplicata. È stata addirittura volantinata al Salone da persone molto aggressive (peraltro in modo illegale, visto che per volantinare ci vuole un'autorizzazione).

Più la campagna d'odio di Striscia la Notizia andava avanti, più non veniva raccolta. La gente sa ormai come lavora quella trasmissione. Nel 2009 osai criticarla pubblicamente. Da allora, partono ogni tanto campagne mediatiche contro di me. Stamattina ho parlato con uno dei loro inviati, mi sono presentato a lui e alle telecamere senza attendere che mi facessero il classico agguato. 

L'inviato ha cercato di buttarla in caciara, mi ha detto che si tratta di una trasmissione satirica e che bisogna prenderla a ridere. Ma non c'è tanto da ridere, se il desiderio in fondo è quello di arrecare sofferenza alle persone. Commetterò sicuramente in futuro degli errori (per chi interviene su temi pubblici la possibilità di errore non è bassa): verranno usati strumentalmente in questo modo? Vent'anni fa chiesi scusa a Melissa Panarello, sarei pronto a rifarlo mille volte. La mia solidarietà a lei è totale. Gli autori della trasmissione sono pronti a scusarsi per la loro violenza mediatica? Ringrazio il gruppo di lavoro del Salone per il sostegno di questi giorni.

Ringrazio tutte coloro e tutti coloro che stanno esprimendo solidarietà per l'accaduto.

Estratto da amp.torinotoday.it il 22 maggio 2023.

"Con lei c’è una sola cosa da fare. La prendi. La metti a novanta appoggiata a un tavolo. Poi prendi Lolita di Nabokov. Strappi le pagine. Gliele infili una per una nel culo. Dopo un po’, per osmosi, qualcosa assimila per forza": questo era quanto Lagioia aveva scritto su un blog e che è stato ripescato da Bezzaz e da Striscia. L'inviata chiede poi un commento sull'accaduto a scrittrici presenti al Salone, Lidia Ravera, Simonetta Agnello Hornby, Chiara Gamberale, Myrta Merlino, e Laura Boldrini: soltanto la terza ricorda che si tratta di una faccenda avvenuta anni fa. Infine, viene raggiunta Melissa Panarello, che si rifiuta di rispondere alle domande. 

Allora l'inviata le ricorda che "su internet si trova ancora tutto", comprese le sue risposte contro Lagioia. Nel finale viene instillato il dubbio che Panarello si rifiuti di prendere una posizione contro Lagioia in quanto ora lavora con la moglie di quest'ultimo (hanno un podcast insieme): "Quando entri nella famigghia...", dice sibillina Bezzaz.

"Feci un commento violento, sessista e molto stupido - ricorda Lagioia -. Subito dopo andai a scusarmi di persona con Melissa Panarello. Non avevo la consapevolezza che ho oggi, capii di aver sbagliato. Melissa accettò le scuse, ma ci mise un po', giustamente, per assorbire il colpo. Discutemmo ancora (aveva ragione lei: ovvio). Abbiamo poi preso a vederci sporadicamente, adesso lo facciamo con più frequenza. Siamo diventati amici. Ci lega un rapporto di stima e di affetto. Quando si sbaglia, è bene chiedere scusa e provare a riparare".

Estratto da open.online il 22 maggio 2023.

Il Salone Internazionale del Libro di Torino precisa, in una nota, che «è, è sempre stato, e continuerà a essere tutt’uno con la propria direzione editoriale e con l’intera squadra di lavoro. Chi attacca la direzione e la squadra di lavoro attacca il Salone, attacca l’istituzione. Il Salone è la casa dell’intero mondo editoriale che è di per sé garanzia di pluralismo, libertà, indipendenza». Dopo due giorni di polemiche, arriva la posizione definitiva dell’ente sulla querelle che ha visto protagonisti il suo direttore, Nicola Lagioia, e la ministra per la Famiglia, Eugenia Roccella. 

(...) 

La ricostruzione di Lagioia, a due giorni dallo scontro

Ospite di Agorà su Rai3, Lagioia è tornato a commentare quel che è successo durante la protesta: «I contestatori della ministra Roccella non volevano il dialogo perché per loro la ministra è anti abortista e con una firma può rovinare le nostre vite, può cambiare le loro vite, dovrebbe essere lei, prima di fare delle leggi, a far sì che queste leggi siano il risultato di un dialogo. “Se lei legifera direttamente con delle leggi che incidono in maniera molto violenta sui nostri corpi e sulle nostre vite, noi ci sentiamo violate”. Per loro la ministra ha un potere enorme sui loro corpi e può legiferare. Come si fa a trasformare il conflitto in un dialogo? La politica e le istituzioni diano il buon esempio e cerchino una strada». 

(...)

Il direttore del Salone, giunto alla sua ultima edizione, ha anche argomentato il senso del suo intervento durante la contestazione nei confronti della ministra: «Io non sono il servizio d’ordine del Salone e non sono la polizia. Ho detto ai ragazzi: eleggete un vostro delegato e trasformiamo questa contestazione in un dialogo. Loro mi hanno detto di no. Hanno rifiutato questa mediazione. È un peccato, ma è legittimo da parte loro. Il mio metodo è quello del dialogo, non del manganello». Infine, Lagioia ha espresso un giudizio generale sull’operato del governo: «Questo governo può avere una virata autoritaria, che non vuol dire fascismo, ma un’altra cosa. Restrizione della libertà, restrizione dei diritti, nel momento in cui c’è una ministra che è anti abortista io capisco che le donne si sentano minacciate».

Caso Roccella, Gruber spiazza Lagioia: "Quanti soldi ha preso?". Ecco la cifra. Il Tempo il 22 maggio 2023

Nella puntata di lunedì 22 maggio di Otto e mezzo si torna a parlare della contestazione subita dalla ministra Eugenia Roccella al Salone del libro di Torino. Tra gli ospiti di Lilli Gruber c'è il direttore della kermesse, lo scrittore Nicola Lagioia, accusato dal centrodestra e non solo per non aver saputo o voluto evitare la censura, di fatto, dell'esponente di governo. Lo scrittore ha esordito riservando, dal canto suo, un attacco al governo idi Giorgia Meloni accusandolo di derive autoritarie. "Stamattina mi hanno chiesto se questo è un governo fascista. Ho risposto di no ma ci sono cose che mi danno da pensare. Per esempio, è un governo i cui ministri parlano in modo disinvolto di sostituzione etnica mentre oggi il presidente Mattarella ha detto che deve essere la persona e non l’etnia a essere protetta", afferma Lagioia.

"Un governo che considera chi non la pensa come esso un nemico da epurare, da aggredire verbalmente o da irridere quando vengono mandati via", afferma. Il riferimento, ovviamente è al suo ruolo di direttore del Salone. Per Lagioia l'esecutivo vuole mettere in discussione diritti acquisiti: "Un governo che può mettere in discussione alcuni diritti acquisti come l’aborto. Alcuni cittadini hanno paura di questo governo e non dovrebbe essere così. Si dovrebbe confrontare con più serenità. Ogni governo deve essere sottoposto a verifica e non vedo perché non dovremmo farlo anche con questo. Un po' attento starei".

Dopo aver cercato, piuttosto tiepidamente, una mediazione con i contestatori dei movimenti ecologisti e femministi che hanno bloccato la presentazione del libro di Roccella, Lagioia è stato attaccato dall'esponente di FdI Augusta Montaruli che gli ha gridato: "Vergogna, con tutti i soldi  che prendi". "Ma questi soldi li guadagnava", chiede allora Gruber con Lagioia che risponde: "Ho preso 120mila euro lordi a partita iva", afferma. Una cifra di tutto rispetto, insomma. Ma lo scrittore rivendica tuttavia che i ritorni per il Salone sono stati molto superiori. 

Il Salone del Libro più politico di sempre ha mostrato lo scontro culturale che sta vivendo l’Italia. L’edizione appena conclusa dell’evento di Torino, l’ultima diretta da Nicola Lagioia, è stata scandita da contestazioni, polemiche, solidarietà, tifoserie. Prova generale di un conflitto tra visioni del mondo di destra e di sinistra. Sabina Minardi su L'Espresso il 22 maggio 2023. 

«Com’è andata? Bene, si sono incazzati tutti!», ha detto al telefono Nicola Lagioia, direttore del Salone internazionale di Torino, a Vittorio Sgarbi. Che non ha perso tempo per raccontarlo a tutti, in apertura dell’incontro su “Scoperte e Rivelazioni. Caccia al tesoro dell’arte”, edito da La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi.

E se la sorella ha voluto inneggiare a Lagioia per la fine del suo settennato dedicandogli una divertente e affollata festa con tanto di concerto degli Extraliscio, Sgarbi senior, sceso dal palco, ne ha criticato l’equidistanza di fronte alle contestazioni della ministra Eugenia Roccella: «Non c’erano due parti in gioco. La parte qui è solo una, quella del libro. E il libro deve essere sempre libero. Non si censurano gli autori», ha detto. Tanto per aggiornare la polemica d’apertura del Salone: la richiesta di dimissioni del presidente degli editori Ricardo Franco Levi, commissario del governo per la Buchmesse, per aver disinvitato dalla fiera di Francoforte il fisico Carlo Rovelli. 

Giusto il tempo di ammettere la figuraccia che la parola censura ha ricominciato a circolare. E i corto circuiti hanno fatto saltare di continuo la corrente, come era prevedibile dall’istante in cui il presidente del Senato Ignazio La Russa, inaugurando il Salone, ha auspicato «contaminazione, assenza di steccati» ideologici: da Matteo Renzi contro il fascismo degli antifascisti al ministro della cultura Gennaro Sangiuliano che cita il pensiero di Piero Gobetti ma apprezza anche l’immagine dei “giornalisti poliziotti” del filosofo della destra radicale Alain de Benoist, autore di un libro con l’ideologo di Putin Alexander Dugin.

È stato un Salone più politico del previsto questo appena concluso: con le voci del dissenso di piazza decise a farsi sentire, dai ragazzi di Extinction Rebellion in gommone contro i disastri ambientali alle donne di Non una di meno fino al no vax che assalendo l’immunologa Antonella Viola ci ha riportati di colpo al cospetto di quel virus appena rimosso. Dal consigliere del ministro Francesco Giubilei che si rivolge a distanza ad Annalena Benini, dicendo di aspettarsi da lei, il prossimo anno, una direzione più pluralista di quella attuale, alla polemica culturale degli autori che protestano sulla scarsa considerazione del lavoro intellettuale nel nostro Paese: il sasso l’ha lanciato lo scrittore Vincenzo Latronico, ma la polemica ha circolato di incontro in incontro: solo noi, gli scrittori, non guadagniamo nulla, hanno detto in coro.

Gli editori, al contrario, esultano: le vendite si sono moltiplicate per tutti, in questa trentacinquesima edizione del Salone che, tra record di biglietti staccati e disagi da pioggia incessante, ha mostrato anche i suoi limiti fisici: difficilmente potrà crescere oltre l’attuale capienza, nonostante lo sforzo di dilatarlo verso l’alto, con l’apertura di Pista 500 sul tetto del Lingotto.

«Il Salone non si lottizza», ripetono gli autori, e come non essere d’accordo. Ma gli spazi cambiano, le geometrie si ridefiniscono, tra attacchi e solidarietà, tra soliti noti e nuovi protagonisti, il Salone somiglia a un poligono che sta già curvando i suoi lati.

E questa edizione del Salone è stata la prova generale di uno scontro culturale a cui assisteremo sempre più spesso nei prossimi mesi: tra visioni del mondo di destra e di sinistra. E un’agorà allargata che ha ora, prima di tutto, il dovere di difendere le regole democratiche del confronto, non di promuovere hooligans della cultura.

«È responsabilità del poeta mettersi agli angoli delle strade e distribuire volantini scritti, è responsabilità del poeta entrare e uscire da torri d’avorio, bilocali sulla avenue e campi di grano saraceno e accampamenti militari, è responsabilità del poeta dire la verità al potente…», scandiva Grace Paley in “Piccoli contrattampi del vivere”, a proposito di onestà e libertà del lavoro intellettuale. E ha ragione lo scrittore Javier Cercas quando, sottolineando il bisogno di voci critiche nella società, ripete al Salone ciò che aveva anticipato all’Espresso: «La politica è troppo importante per lasciarla solo ai politici».

Anche il libro è troppo importante per lasciarlo solo alla politica. E alle tifoserie.

Eugenia Roccella, ministra contro i diritti. Compreso quello di contestarla. La ministra della Famiglia è da sempre contraria all’aborto, alla procreazione assistita, alle tutele per gli omosessuali, all’eutanasia. È diventata simbolo di una politica che mette le mani sul corpo delle donne. Le proteste al Salone del Libro di Torino non possono stupire. Simone Alliva su L'Espresso il 22 maggio 2023.

Bisogna avere lo spirito, la calma eversiva e l’eleganza di Nicola Lagioia per spiegare le ultime ore che hanno scosso il Salone del Libro di Torino e la politica italiana: «È anti abortista e con una firma può rovinare le nostre vite, può cambiare le loro vite, dovrebbe essere lei prima di fare delle leggi, a far sì che queste leggi siano il risultato di un dialogo».

Il soggetto è Eugenia Roccella che prima ha chiesto il dialogo di fronte alle contestazioni all'Arena Piemonte al Salone contro la sua politica antiaborto (presente nel lessico, ancora incerta nelle leggi), poi smentisce sé stessa e dichiara a Il Tempo: «Lagioia non ha ritenuto di prendere una posizione chiara ed esplicita contro chi nega il diritto di parola». Ma lo scrittore e direttore uscente del Salone del Libro avvisa che il governo «può avere una virata autoritaria, che non vuol dire fascismo ma un'altra cosa: restrizione della libertà, restrizione dei diritti, nel momento in cui c'è una ministra che è antiabortista io capisco che le donne si sentano minacciate».

Per capirlo, in effetti, bisognava essere lì sabato, tra cori, urla e ragazzi e ragazze che si stendono sul pavimento, non solo le donne attiviste di Non Una Di Meno ma anche attivisti Lgbt del Coordinamento Torino Pride, genitori di Famiglie Arcobaleno, giovani di Extinction Rebellion, attivisti per i diritti dei migranti. È un’onda che si solleva contro chi per tutta la sua vita politica ha cercato di limitare il diritto all’autodeterminazione delle donne e mortificare le conquiste civili. Una protesta che salda generazioni e istanze, identità e classi sociali. La voce di chi non ha, come la ministra, studi televisivi, predellini, ministeri ma può disporre solo – invece – di quel momento per farsi sentire, avanzando la capacità di resistere e andare avanti contro la ministra alla Famiglia, alla Natalità e alla Pari Opportunità del Governo Meloni: bolognese, classe 1953, "interrotta” proprio mentre prendeva il microfono per presentare il suo libro "Una famiglia radicale".

Figlia del fondatore del partito Radicale, con una storia politica che arriva ad un punto in cui fa un giro completo e annulla sé stessa: negli anni ’70 milita accanto alle femministe, entra nel Movimento di liberazione della donna e nel 1975, scrive il libro “Aborto, facciamolo da noi” (prefazione di Adele Faccio). È in prima linea nelle manifestazioni per l’interruzione di gravidanza, contro la violenza di genere e per le pari opportunità. E nel 1979 si candida con i Radicali (non eletta). 

Passano 20 anni, qualcosa succede: Roccella torna sulla scena a fianco di Silvio Berlusconi. Eletta con il Pdl, fa la sottosegretaria al Welfare (2008) e alla Salute (2009). Poi nel 2013 aderisce a Ncd, prima di passare nel gruppo Misto dove è tra le fondatrici di “Identità e azione” (Idea) guidato da Gaetano Quagliariello.

È portavoce del Family day (2007) ed è artefice del primo comitato contro l’utero in affitto (2013). Nel 2011 firma una lettera aperta ai cattolici con Roberto Formigoni perché sospendano il giudizio su Berlusconi e il caso Ruby. La sua entrata in Fratelli d’Italia può sembrare l’ultima conversione ma è in realtà un percorso naturale, che la porterà nuovamente in Parlamento dopo che proprio dentro il partito erede del Msi cresce la fronda antiabortista, ultracattolica fondamentalista.

Crociate che non possono non disturbare (e non preoccupare) gli attivisti e le attiviste per i diritti e che rischiano di diventare leggi. Sulla questione dell’interruzione volontaria di gravidanza, infatti, Roccella non ha mai nascosto le sue posizioni, dietro un refrain che è stato assorbito subito dalla leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni: la legge 194 non si tocca, è il copione recitato da entrambe. A “Otto e Mezzo”, di fronte a una Laura Boldrini incredula disse: «Sono femminista e le femministe non hanno mai considerato l’aborto un diritto. L’aborto è il lato oscuro della maternità».«Ma quale femminismo? I femminismi sono tanti», insisteva l’onorevole Laura Boldrini, in studio, attonita. Negli ultimi anni la ministra si è distinta per una difesa ostinata dei “medici obiettori di coscienza”, arrivando a sostenere che non sono un ostacolo all’attuazione della legge 194 negli ospedali. Contraria da sempre alla pillola dei cinque giorni dopo, da sottosegretaria alla Salute la definì «un farmaco con molte ombre, basti pensare alle 29 morti, 5 in Gran Bretagna, di cui non si è scritta una riga» ed è stata tra le prime a opporsi all’aborto farmacologico, definendolo un mezzo «per smantellare attraverso una prassi medica la legge 194» e arrivare «all’aborto a domicilio». Negli ultimi anni la ministra è diventata una colonna del movimento anti-abortista e anti-lgbt Pro-Vita. Presente in ogni conferenza stampa, nel 2018 senza mezzi termini paragonò l’aborto a un omicidio. 

Sulla procreazione assistita Roccella ha sostenuto, che «la libertà di scelta di “quando e se” essere madri, sta diventando sempre più una libertà di scelta sul figlio: la libertà di “chi” essere madri, attraverso la selezione genetica». Nel 2010, invocava una modifica della 194: «Perché ha 30 anni e va adattata ai nuovi fenomeni».

Anti-abortista ma non solo, anche da sempre contraria ai diritti delle persone Lgbt, nel 2018 promise di battersi «per abolire o cambiare profondamente tutte le leggi approvate dalla sinistra che hanno ferito la famiglia» riferendosi alle unioni civili: «Per la sinistra leggi come questa portano verso il preteso progresso; per noi, vanno verso la fine dell'umano». Contraria anche al fine vita, tra le ultime dichiarazioni: «C’è un obiettivo politico: arrivare all’eutanasia come opzione facile e libera. C’è un obiettivo culturale: distruggere l’idea di intangibilità della vita».

Oggi siede al governo e la missione del suo ministero è dichiarata: «Vorrei prima di tutto occuparmi delle donne e della maternità. Penso che ci sia molto da fare per ridare alla maternità il prestigio e la centralità che le spettano».

Aborto, un diritto in ostaggio della destra. Negare, eludere, ridimensionare: la maggioranza di Giorgia Meloni non affonda il colpo ma gioca per sottrazione. Smentisce la rilevanza dei medici obiettori. E continua a criminalizzare la Ru486. La legge sull’interruzione di gravidanza ha 45 anni. Ma non è ancora uguale per tutte. Susanna Turco su L'Espresso il 18 maggio 2023.

Non sempre l’attacco ai diritti ha il passo pesante da King Kong. In quest’era meloniana ha la sottigliezza dell’ambiguità, è subdolo come lo svolazzare di un pipistrello. Preferisce andare di riflesso, di rimbalzo. Trascurare, disapplicare, complicare. Assai più che affermare, cambiare, imporre. Le conseguenze non sono meno gravi: è più difficile però vederle arrivare. Si prenda ad esempio lo stop alle trascrizioni all’anagrafe dei figli di coppie omogenitoriali: è bastata una circolare prefettizia, combinata con il no del Senato alla proposta di adottare un certificato europeo di filiazione, a fare il risultato.

Una linea politica costruita per sottrazione, in cui si evita di riconoscere quello che c’è (i figli di coppie omogenitoriali), per privilegiare come «modello antropologico» la famiglia «dove ci sono ancora un papà e una mamma» negando persino di produrre una discriminazione: «Non c’è alcuna differenza tra i bambini», ha avuto l’ardire di sostenere la ministra della famiglia, Eugenia Roccella, subito dopo aver spiegato però che i figli delle coppie omo - a differenza di quelle etero - avranno due genitori soltanto previo ricorso al giudice per ottenere una «adozione per casi particolari».

Grossolani e facili, al confronto, i tempi di Silvio Berlusconi, quelli in cui, per fermare la volontà di Eluana Englaro, il Cavaliere tentava la via del decreto, con tanto di urla in Aula, scontro con il Quirinale, assunzione - se non altro - di una qualche responsabilità.

Nell’era di Giorgia Meloni prevale quello che Roberto Saviano chiama «l’estremismo dell’ambiguità». Una espressione che si presta bene a vestire l’atteggiamento nei confronti dell’aborto e della legge che lo regola, la 194 del 1978, approvata il 22 maggio di 45 anni fa.

A partire dall’ambiguità con cui ne ha parlato Giorgia Meloni a cavallo tra la campagna elettorale e la formazione del governo. Assicurare infatti che non si cambierà la legge ma che si vuole applicarla meglio - però solo per la parte che riguarda la prevenzione - può significare tante cose, in alcuni casi opposte, non tutte rassicuranti. Tanto più se chi lo dice è capace di negare le difficoltà di applicazione della 194, quando invece - hanno ricordato le attiviste di “Non una di meno” sfilando in piazza ad Ancona il 6 maggio - «in tutta Italia vediamo come l’aborto sia ostaggio dell’obiezione di coscienza».

Una pietra sull’accesso all’interruzione di gravidanza confermata dagli ultimi dati disponibili al ministero della Salute (risalgono al 2020): in Italia gli aborti continuano a calare (-9,3 per cento sul 2019), ma i medici obiettori sono sempre numerosi, mediamente il 64,6 per cento dei ginecologi, un numero che al Sud sale al 76,9, più di tre su quattro (con punte dell’83 in Abruzzo, 82 in Molise, 81 in Basilicata).

Un quadro che i dati disaggregati mostrano più chiaramente: l’inchiesta giornalistica “Mai dati”, condotta con l’Associazione Luca Coscioni da Chiara Lalli e Sonia Montegiove, ha evidenziato come alla fine del 2021 ci fossero 22 tra ospedali e consultori con il 100 per cento degli obiettori e 72 ospedali dove la percentuale di chi non pratica aborti è tra l’80 e il 100 per cento. Insomma ci sono luoghi in Italia dove non si può abortire - in tutto il Molise lo fanno due ginecologi e mezzo - ma per Giorgia Meloni vale quel che disse a Mezz’ora in più. Quando le fu chiesto come avesse in mente di affrontare la questione, come applicare non solo la prima (prevenzione), ma anche la seconda parte della 194 (l’accesso all’interruzione), rispose che il problema non c’era: «Non ho mai conosciuto una donna che non abbia potuto abortire in Italia».

Negare la questione aiuta a non risolverla, come sanno nelle Marche di Francesco Acquaroli dove il rifiuto di applicare, per due anni, le nuove linee guida per l’utilizzo della Ru486 ha portato la sua regione ad essere una specie di esperimento pilota: percentuali di aborto più basse della media nazionale, ricorso all’aborto farmacologico ridotto a un terzo, ospedali come quelli di Jesi e Fermo dove c’è l’obiezione di struttura (cioè non si fanno aborti), una regione che magari interrompe dopo quarant’anni la convenzione con l’Aied (è accaduto a gennaio, per Ascoli), ma patrocina gli eventi dei pro-vita (ad aprile, a Macerata).

Sul piano generale si tratta, per adesso, soprattutto di un clima. Non a caso, nelle tante resurrezioni operate da questo governo che vede le associazioni pro-life pimpanti come non mai, Giorgia Meloni ha riportato in auge, in posti chiave, un certo genere di personaggi, magari rimasti per qualche anno confinati nelle retrovie.

Uno dei più influenti è senz’altro Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, tra i membri di Alleanza cattolica, tradizionalista di destra, contrario all’eutanasia, al ddl Zan, alle coppie genitoriali, e ovviamente alla gestazione per altri. Un giurista che, sia pure molti anni fa, aveva scritto proprio sull’aborto parole che ancora campeggiano sul sito di Alleanza Cattolica, immaginando per la 194 una «prospettiva di riforma» che di fatto mandasse all’aria la legge stessa perché «va affermato senza incertezze che l’essere umano è tale dal concepimento, e quindi da quel momento ne va garantita l’intangibilità: l’articolo 1 della legge n. 194 tutela la vita umana “fin dal suo inizio”, ma trascura di riconoscere quando si ha quell'inizio», e quindi «si deve ripensare a misure, anche penalistiche, che dissuadano dalla pratica abortiva: non ha senso proclamare l’intangibilità della vita e ometterne la tutela sotto questo profilo».

Il ritorno di Mantovano ha portato con sé il ritorno - in quanto consulente per le politiche antidroga - del neurochirurgo anti-gender Massimo Gandolfini. Il leader del Family day era in piazza a San Giovanni anche un anno fa, per «contrastare tutte quelle derive legislative, normative che feriscono, annullano la vita dal concepimento alla morte naturale: le leggi che favoriscono l'aborto, il suicidio assistito, l'eutanasia, la morte volontaria e quella medicalmente assistita». Adesso agisce da consulente di Palazzo Chigi.

A loro si aggiunge un’altra grande protagonista, almeno sin dai family day dell’era ruiniana: Eugenia Roccella, oggi ministra della Famiglia, ieri sottosegretaria al Welfare e alla Salute, l’altroieri militante radicale e volto del referendum che considerava la 194 un compromesso al ribasso. Una biografia che si può riassumere con una parziale bibliografia dei suoi scritti: il primo fu “Aborto: Facciamolo da noi”, tra gli ultimi figurano “Eluana non deve morire”, “La favola dell’aborto facile”, “Fine della maternità” (dedicato all’eterologa).

Mentre il ministro della Salute Orazio Schillaci si guarda bene anche solo dal dire «194», Roccella in questi mesi è di fatto la portavoce del governo per i temi come questo. In ultimo, intervistata dopo la presentazione del suo libro ad Ascoli Piceno, ha ricordato come la 194 non abbia «nessuna difficoltà di applicazione». Né c’è un problema di «obiezione di coscienza», dice: «perché il carico di lavoro per i medici non obiettori è un aborto a settimana, quindi non c’è sovraccarico». Ecco la sottigliezza: Roccella cita il dato medio nazionale, non le singole realtà disaggregate e, in questo caso, presenti anche nella relazione depositata in Parlamento (strutture dove si fanno 9, 10, anche 16 aborti a settimana, ad esempio).

La parte più interessante delle sue posizioni è però quella che riguarda la pillola abortiva, la Ru486, che rappresenta la maggiore novità sul punto. Commercializzata in Italia nel 2009, imbrigliata nelle linee guida emanate dal Consiglio superiore della sanità proprio negli anni in cui al ministero c’era anche Roccella (inizialmente si obbligava a tre giorni di ricovero), la Ru486 è cresciuta costantemente nel suo utilizzo: il 20 per cento nel 2018, il 32 nel 2020. Fino ad avere un balzo nel quarto trimestre di quell’anno: 42 per cento. In agosto, motivate anche dalle necessità indotte dalla pandemia, entravano in vigore le nuove linee di indirizzo relative alla pillola abortiva, che - allineando l’Italia ad altri Paesi europei - ne rendevano possibile la somministrazione fino a 9 settimane (anziché 7) e la somministrazione anche in ambulatori e consultori e non solo in ospedale.

Bene: quello che per il resto del mondo sarebbe un’evoluzione, per Roccella è il male assoluto. E non da oggi. «Si vuole arrivare all'aborto a domicilio, con la pillola Ru486, abolendo l'obiezione di coscienza e l'obbligo di legge di eseguire gli interventi in strutture pubbliche», aveva detto a ottobre, in una intervista a governo appena insediato. Le stesse parole da sottosegretaria alla Salute, nel 2010: «Siamo di fronte ad un nuovo attacco, più subdolo, che è quello della pillola abortiva. Un metodo che porta all'aborto a domicilio se non viene adottata una governance attenta».

Secondo Roccella, infatti, «si crea una situazione di fatto che scavalca la 194 e impedisce obiezione e prevenzione». In effetti, con l’aborto farmacologico, il raggio d’azione del ginecologo è ridotto alla scelta di consegnare o non consegnare la pillola (niente più «ostaggi»), per il resto le statistiche del ministero raccontano di casi comunque seguiti dall’inizio alla fine, senza alcuna complicazione nel 97 per cento dei casi.

Ma sulla questione anche Meloni la pensa come Roccella: «Non si può dire che è una conquista di civiltà abortire da sole a casa con una pasticca che produce contrazioni ed emorragie solo perché bisogna sostenere per forza la tesi che abortire è facile» ha scritto in “Io sono Giorgia”.

Insomma, mentre tutti dicono che non ci sono problemi, come in un film di Quentin Tarantino, ciascuno ha preso la mira e ha il dito sul grilletto. Chissà da dove partirà il primo colpo.

(ANSA il 22 maggio 2023) - "Spero anch'io che non accadano più cose come quelle che sono successe. Ci sono state polemiche in passato, può darsi ce ne siano in futuro e le gestiremo, ci comporteremo nel miglior modo possibile", ha detto Annalena Benini, neodirettrice del Salone del Libro. 

"Lagioia ha il mio totale sostegno. Se avrei fatto la stessa cosa? Assolutamente sì. Non temo per l'indipendenza del Salone, assolutamente no. La garanzia dell'indipendenza è la squadra di lavoro, il sostegno di tutti e credo che sia anche il mio pensiero, la mia personalità. Non mi sembra proprio che ci sia mancanza di pluralismo. C'è spazio per tutti e ce ne sarà sempre".

Lagioia, l'amico di tutti e il nemico di molti. Finisce un'epoca: il Salone è come il suo direttore ormai ex. Pluralista sì, ma solo con chi pare a lui. Luigi Mascheroni il 23 Maggio 2023 su Il Giornale.

L'unico difetto di Nicola Lagioia Lui, che ha salvato il Salone del Libro e lo ho moltiplicato in stand, appuntamenti e visitatori: ieri il solito dato record e alla fine l'edizione 2023 arriva alla cifra monstre di 215mila entrate - è che quando parla si crede un romanzo. Ultimamente è in fase guru: funghetti, il Bosco degli amichetti Scrittori nella campagna romana, psichedelia e sciamanesimo. Qualche settimana fa, durante una lectio sul rapporto tra Vita e Letteratura all'Università Cattolica di Milano, ha trascinato il pubblico al vertici della tensione fino a che, così dice Lagioia, una studentessa è scoppiata in un pianto irrefrenabile di gioia (con la minuscola).

La sua più che una carriera intellettuale è la via spirituale di un Maestro. Da sempre. Impose le mani sulla piccola casa editrice minimum fax, e ne fece il santuario del Dipartimento per l'agitazione e la propaganda del partito comunista-capitolino, poi fiancheggiatore della fazione einaudiana romana e per estensione torinese (da cui il celebre grido «Dentro i faxisti nel Salone!»). Elevò l'Einaudi col suo personalissimo vangelo, La ferocia, e vinse lo Strega. Ha toccato il Salone di Torino e lo ha guarito da tutti i suoi mali, sanandolo dal fallimento, respingendo l'attacco frontale della fiera concorrente di Milano, superando con coraggio e una buona dose di fortuna l'incubo pandemia e esorcizzando tutte le destre possibili, procedendo dal basso ad Altaforte. E infine ha benedetto santa Annalena Benini, su intercessione di Alain Elkann, e lei è stata eletta direttrice. E l'intellighenzia tutta elevò il suo Inno. A Lagioia. Poi però, ma è solo una scivolata, dopo averci riconsegnato il Salone sette volte migliore e più grande di quando se l'è preso, l'altro giorno - travolto dal caso Roccella e scacciato dai golpisti rossi d'Ultima generazione - è scappato come il peggiore degli antieroi.

Ma a suo modo, per essere un eroe, Nicola Lagioia è un eroe. Un po' per come porta senza imbarazzo quelle camicie finto hawaiane, t-shirt Pink Communist, occhiale d'avanguardia Jacques Durand sempre accanto alla moglie-musa, lui un po' il Brian Ferry di Capurso, lei Jane Birkin versione cubista. Un po' perché Lui fa tutto, o lo ha fatto, con successo: il ghostwriter, l'autore, l'editor, il direttore editoriale, il romanziere, il saggista, il giornalista, il conduttore radiofonico, il presentatore, il direttorissimo. Guru e trino, è la grande superstar del piccolo mondo dei lettori, che per sette anni ha radunato, applaudendo e leggendo, al Salone del libro di Torino. Lui è quello che tutti gli intellettuali vorrebbero essere. Famoso, ricco («Con tutti i soldi che guadagna») e potentissimo, in particolare sull'asse Repubblica-Einaudi-RadioTre-Esquilino. Ed è persino di sinistra.

A sinistra dei dem-centristi e un po' a destra di Christian Raimo, Nicola Lagioia è partito da Bari, periferia incancrenita di via Bitritto, concerti al Pellicano e l'ambizione di suonare la batteria alle feste di paese, laurea in Legge e poi via subito dalle Puglie prima che diventassero il posto più cool del Sud Italia. Lui voleva Roma, e soprattutto scrivere. Parte da Castelvecchi alla fine degli anni '90, lavorando nella casa editrice e pubblicando il suo primo libro: un romanzo a più mani che esce sotto il nome collettivo di «Aldo Dieci», un po' meno di un flop, un po' più dell'amico cannibale Antonio Centanin. Titolo: Route 66. Da qui parte la sua personalissima strada della gloria, passando per minimum fax, dove dirige la collana di narrativa italiana «nichel», primo nucleo editoriale di quella famiglia allargata, un po' setta un po' comune - Pascale, Pacifico, Valeria Parrella, Laura Pugno e i fratelli Grimm del Terzo Municipio: Christian&Veronica Raimo - che poi tappa dopo tappa, dall'Einaudi al Lingotto, e dopo anni di riviste, vecchi clan e Nuovi Argomenti, festival, premi, Saloni, riviste, radio e programmi condivisi, si riaggregherà nel falansterio queer di Michela Murgia&Co., una bolla autoreferenziale dove Paola Belloni, la compagna di Elly Schlein, si fa tatuare sul braccio il logo di Morgana, il podcast-libro della Murgia e di Chiara Tagliaferri, la moglie di Lagioia, in una koinè di Potere, Amichettismo e Ostentazione. E poi tutti a cena ai Parioli a casa di Claudio Baglioni. L'intellettualità italiana come un allegro dopo-festival.

È vero, il Salone del Libro non è un festival ma una fiera. E lui l'ha fatta benissimo. Determinato, carrierista che non fa niente per caso, grande capacità comunicativa (sa sfruttare tutte le sue conoscenze e l'arma della propaganda) e straordinaria abilità nel puntare a un obiettivo preciso senza farlo trasparire, Nicola Lagioia aveva tutte le caratteristiche del Direttore Perfetto. Pedigree politico purissimo, un cerchio magico romano di consulenti fidati e la predisposizione a muoversi senza refusi fra le righe della politica. Chiamato alla direzione del Salone per l'edizione del 2017 dall'allora Presidente della Fondazione per il Libro, Massimo Bray - sponsorizzato dal ministro della Cultura Dario Franceschini e dal governatore Sergio Chiamparino (quando vigeva l'infallibile metodo che prende il suo nome: «Io pago, io comando, io decido»), Lagioia è stato capace di restare ai vertici del Salone con chiunque governasse il Comune di Torino e la Regione Piemonte: il Pd, i CinqueStelle, Forza Italia e l'avrebbe potuto fare anche con Giorgia Meloni, se avesse voluto. Una cosa che in una città come Torino, peraltro, può riuscire solo a un predestinato o a un funambolo.

Amico di tutti, critici e critici (persino di Melissa P.), amato da tutti, editori e lettrici, iroso per istinto ma capace di dominarsi (quando l'ex amico Massimiliano Parente scrisse sul Giornale un memorabile «Inno a Lagioia», la sera stessa Nicola andò sotto casa sua con una mazza da baseball, ma poi desistette), se c'è una virtù in cui eccelle, bisogna dargli merito, è quella di sapere smussare i contrasti. Da cui il suo motto: «Mai attaccare di fronte, sempre aggirare il nemico». E anche l'amico se necessario (per colpirlo alle spalle, aggiungono i maligni). Ed ecco il soprannome di Ciriaco De Mita del Salone.

Camaleontico, fluido, anima democristiana - Realpolitik e tartine - è stato l'uomo per tutte le stagioni e di tutti i Saloni: nascostamente più faziano di un Fabio Fazio, apparentemente meno fazioso dell'ala movimentista dei suoi pretoriani à la Raimo. E ieri, chiuso il suo settennato dei record fatto di qualche inevitabile polemica e centinaia di migliaia di biglietti venduti, San Nicola di Bari, portato in processione da Roma a Torino, andata senza più ritorni, si è pure tolto la soddisfazione di lasciare dietro di sé una trionfale dichiarazione lastricata di pluralismo e indipendenza. In letteratura si dice autofiction.

Ora, visti i successi, sarà dura per chi gli succede. Bisognerà fare - almeno - come lui. Intanto Annalena Benini, che negli anni d'oro del Foglio guidò con Giuliano Ferrara la battaglia in difesa dell'embrione, ieri ha detto che sul caso Roccella avrebbe fatto la stessa cosa di Lagioia. Chissà se è vero.

E per quanto riguarda Nicola - cinquant'anni un mese fa, gattaro, affamato di visibilità come un lupo - è già pronto a dedicarsi a nuove sfide, editoriali e magari politiche. Qualsiasi cosa sceglierà, Auguri. Come il messaggio (un po' imbarazzante) che gli ha dedicato il suo staff: «Son 50 candeline di letture sopraffine, per chi anche nel cognome porta gioia in ogni dove! Quindi oggi, con calore: tanti auguri, direttore!».

Anche da parte nostra.

Dagoreport il 23 maggio 2023.

Il prode Nicola Lagioia, direttore uscente del Salone del Libro di Torino più noto forse per le sue galanterie nei confronti della collega Melissa Panariello («Con lei c’è una sola cosa da fare. La prendi. La metti a novanta appoggiata a un tavolo. Poi prendi Lolita di Nabokov. Strappi le pagine. Gliele infili una per una nel culo. Dopo un po’, per osmosi, qualcosa assimila per forza»

ha così spiegato ad Agorà, Rai3, il fatto di non avere saputo o voluto garantire diritto di parola alla ministra Eugenia Roccella ospite della kermesse letteraria: le contestatrici di Roccella “non volevano il dialogo perché per loro è antiabortista e con una firma può rovinare le vite. Per loro” ha detto delle imbavagliatrici “la ministra ha un potere enorme sui loro corpi e può legiferare. Come si fa a trasformare il conflitto in un dialogo?”.

Tolto il fatto che non sono i ministri a legiferare ma il Parlamento (dettagli, per carità); tolto anche che come racconta nel suo libro “Una famiglia radicale” Roccella si fece 15 giorni di sciopero della fame in sostegno all’approvazione della legge 194 e che insieme a Giorgia Meloni ha più volte ribadito che la legge non si tocca; è da segnalare l’amorosa vicinanza a Nicola Lagioia della sua successora Annalena Benini: "Lagioia ha il mio totale sostegno. Se avrei fatto la stessa cosa? Assolutamente sì. Non temo per l'indipendenza del Salone, assolutamente no”. 

Quindi anche Benini non avrebbe impedito l’imbavagliamento di Roccella “in quanto antiabortista”? Si tratta della stessa Annalena Benini che nel 2008 fu convintissima sostenitrice della lista “Aborto? No, grazie”, pazza invenzione politica di Giuliano Ferrara che chiedeva una “moratoria sull’aborto”? E che annunciò pubblicamente che avrebbe votato per “Aborto? No, grazie” alla Camera?

Quindi l’antiabortista chi è? Roccella, che volle e continua fortemente a volere la legge 194, o la neodirettora del Salone del Libro Benini che intendeva abolirla? Non Una di Meno andrà a imbavagliare pure lei? Pop corn a tonnellate!

Giampiero Mughini per Dagospia il 23 maggio 2023.

Caro Dago, il fatto è che pur essendo io uno che di mestiere scrive libri (ne ho scritti una decina negli ultimi dieci anni) detesto le presentazioni di libri con annessi Saloni del libro e tutto. E difatti pur avendo molti amici che scrivono libri, e il più delle volte dei gran bei libri, non ci vado mai alle loro presentazioni: Tutte le volte che posso, quei libri li scelgo, li compro, li leggo. 

Oltretutto le presentazioni non servono a nulla per chi come me non ha un pubblico di lettori acquisito e fedele, com'è soprattutto degli scrittori che si fanno sacerdoti del bene, quelli che spasimano nel difendere una Causa -  i diritti delle donne, la lotta alla mafia - , quelli che  si vantano apertamente di essere "di sinistra" o "di destra", due contrapposte e similari panzane. Quanto a me i miei quindici lettori li raggiungo di volta in volta a uno a uno, e va bene così. 

Nei sette anni che è durato Nicola Lagioia alla testa del Salone del libro di Torino, mai una volta sono stato invitato e di questo lo ringrazio perché sarei andato di malavoglia e solo per far piacere al mio editore. L'ultima volta che sono andato al Salone di Torino è stato nel 2011, e lo feci per far piacere alla mia bravissima editrice, Elisabetta Sgarbi, lei che  aveva appena pubblicato il mio In una città atta agli eroi e ai suicidi, un libro che nessun editore fino a quel momento aveva voluto. "Ma perché vuoi fare un libro su Trieste?", mi chiese sbigottito uno di loro.

Quella volta a Torino del 2011 avevano messo me e un altro scrittore triestino su un palchetto che era separato dal (ridottissimo) pubblico dal corridoio lungo il quale si muoveva il pubblico che andava girovagando per il Salone. Noi parlavamo mentre vedevamo scorrere la gente innanzi ai nostri occhi. Non mi sono alzato e me ne sono andato solo per rispetto ad Elisabetta. Ricordo che vendetti un paio di copie e non una di più. Per vendere le quali avevo fatto un viaggio andata e ritorno da Roma a Torino, una giornata e mezza persa. 

E difatti ancor oggi vado a presentare un mio libro solo se mi pagano, altrimenti non ne vale la pena. Ai miei quindici lettori ci arrivo per altre vie e ammesso che oggi ci siano vie per arrivare ai lettori a parte Tik Tok.

Quindici anni fa presentai un libro alla trasmissione di Fazio. All'indomani e giorni seguenti se ne vendettero 2000 copie. Un paio d'anni fa Fabio mi ha invitato ancora. All'indomani della mia chiacchiera su Rai3 di quel libro se ne sono vendute 200 copie, forse qualcuna in più. 

I libri oggi ci sono e non ci sono, purtroppo è così. Ripeto, ringrazio ancora Lagioia di non avermi mai scocciato in questi sette anni. Non l'ho mai incontrato, mi piacerebbe trovarmelo di fronte da quanto ho trovato penosa la sua difesa a mezza voce del ministro Eugenia Roccella, che era stata aggredita da un pugno di invasate. Perché c'è di questo di sacro e inviolabile, che i libri, tutti i libri, vanno accolti e discussi e ragionati. Che tra tutte le porcherie che esistono al mondo, quella di dare addosso a un libro e al suo autore è forse la più schifosa. La più ripugnante. Fossi stato presente a quel fatale scontro con la Roccella, sarebbe finita a cazzotti.

 Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per lastampa.it il 23 maggio 2023.  

È il fascismo degli antifascisti. […] anche la ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Eugenia Roccella prende in prestito la tesi di Pier Paolo Pasolini per descrivere la contestazione di due giorni fa al Salone del Libro nello stand della Regione Piemonte dove avrebbe dovuto presentare il suo ultimo libro.

È un’accusa pesante che i contestatori considerano «ridicola». Per “Non Una di Meno - Torino” accetta di parlare Lara, una delle attiviste che hanno partecipato alla contestazione di due giorni fa. «Fascisti, noi? Crediamo che sia la ministra che l'assessore abbiano già tantissimi, troppi, palchi per accusarci di omicidio perché abortiamo o per istigare all'odio verso di noi in quanto persone Lgbtqia+. Riteniamo che abbiano a disposizione strumenti legislativi, possibilità di finanziare economicamente le loro politiche, potere mediatico. Infatti sui giornali è stata pubblicata la sua versione dei fatti con lunghe interviste. Averla fatta rimanere in silenzio per qualche ora è nulla rispetto alla violenza che viviamo tutti i giorni a causa delle loro politiche, che non ci permettono neppure di curarci o di accedere a diritti fondamentali».

«Fascismo? Stavamo difendendo una posizione politica», risponde Annalisa Gratteri di Extinction Rebellion, l’altro gruppo che ha partecipato alla contestazione. «[…] Non stavamo contestando una scrittrice ma una ministra che sta rendendo più difficile la vita a persone che non si conformano all’unica visione di famiglia che secondo il governo esiste. In democrazia questo tipo di contestazioni sono giustificate anche per la disparità di potere di comunicare fra noi e lei. Infatti il nostro parere non è stato pubblicato sulla gran parte dei giornali mentre la ministra ha avuto grande spazio per raccontare la sua versione. Noi, sempre attraverso la stampa, abbiamo saputo di essere stati denunciati ».

[…] «Vogliamo i fatti (e soprattutto i soldi) - risponde Lara di Nudm- Torino - perché delle parole e del dialogo istituzionale non ce ne facciamo più nulla. Per noi democrazia non è affatto far parlare chiunque e dare spazio anche ad opinioni lesive dei diritti, ma, anzi, è riequilibrare l'abuso di potere che ogni giorno viviamo sulle nostre vite». […]

Ecco chi ha difeso Roccella e perché i radical chic dovrebbero prenderli a esempio. Lorenzo Grossi il 23 Maggio 2023 su Il Giornale.

Politici, scrittori, giornalisti, intellettuali: sono in tanti gli appartenenti a un mondo che (sicuramente) non si può definire di destra a criticare ferocemente le modalità delle proteste al Salone del Libro 

C'è forse solo un minuscolo elemento positivo da potere trarre sugli sviluppi dell'atteggiamento illiberale e antidemocratico dei manifestanti contro Eugenia Maira Roccella a Torino: è la netta presa di posizione di alcuni rappresentanti politici o della società civile - per niente di centrodestra - che hanno chiaramente espresso durissimi biasimi nei confronti di coloro che hanno impedito fisicamente al ministro della Famiglia di potere presentare il libro proprio nel Salone di Torino dove era stata invitata apposta.

Il Salone dell'odio e dell'intolleranza

I vari Saviano, Murgia, Lagioia, Schlein e Appendino avrebbero molto da imparare da persone che, se non proprio tutti di sinistra, certo non sono per nulla afferenti all'area politica dell'attuale governo. Tra sindaci, senatori, ex deputati, giornalisti, scrittori e intellettuali, il risultato che ne consegue è una vera e propria lectio magistralis impartita a tutti quei radical-chic in malafede o con le fette di salame sugli occhi. Fa quindi piacere constatare come l'onestà intellettuale non sia stata smarrita tra chi, anche recentissimamente, non ha mancato di lesinare delle (stra-legittime) critiche all'operato dell'esecutivo presieduto da Giorgia Meloni e alle politiche adottate dal ministro Roccella.

Il discorso perfetto del sindaco Lo Russo

Il primo a intervenire severamente contro l'azione indegna degli attivisti è stato il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, eletto un anno e mezzo fa tra le fila del Partito Democratico. Il suo giudizio, espresso 24 ore dopo l'accaduto, dovrebbe quasi essere scolpito all'esterno del Lingotto in occasione delle prossime edizioni della Fiera. "Il Salone del Libro è un luogo bipartisan dove trovano spazio da sempre tutte le opinioni, anche quando queste opinioni possono risultare scomode. È questa l'essenza stessa del Salone, un luogo in cui si produce cultura e si confrontano idee. La contestazione, quando avviene in modo pacifico, è sempre legittima e chi fa politica e soprattutto chi ha ruoli istituzionali è obbligato, in una Repubblica democratica in cui esiste la libertà di pensiero e di parola, a tollerare la contestazione -. Ma, aveva poi commentato Lo Russo - quando questa contestazione travalica e rende invece impossibile esprimere il proprio pensiero si sconfina in una dimensione che è antitetica al concetto stesso di libertà, impedendo quello che è il valore stesso del dialogo e del confronto di idee".

Renzi e Violante contro le manifestazioni a Roccella

Matteo Renzi è stato altrettanto chiaro sul caso Salone e lo esprime apertamente in un editoriale del suo Riformista. "Alla ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, è stato impedito di parlare. È stato impedito il confronto al grido di "via i fascisti dal salone'". "Ma chi è un fascista oggi? - si chiede il numero uno di Italia Viva -. Uno che prova a dire quello che pensa o uno che nega agli altri il diritto di parola? Chi ha impedito a Eugenia Roccella di parlare non ha manifestato un diritto: ha negato il diritto democratico di un'altra persona".

“Zittire un ministro è da fascisti”. Renzi smonta i deliri di Saviano e Murgia

Sempre restando sulla politica, anche l'ex presidente della Camera Luciano Violante (dell'allora Pds) non accetta concessioni di alibi a quei ragazzi. Loro "non hanno spostato niente, nessuno ha saputo che cosa chiedevano. È grave che, dopo aver letto un documento, si siano rifiutati di dialogare con la ministra che invece aveva chiesto un civile confronto. Questo rifiuto del dialogo è inaccettabile". Secondo Violante, i manifestanti "non si sono preoccupati di espandere i loro punti di vista, ma si sono inchiodati nella propria auto-referenzialità perdendo l'occasione di fare politica, di persuadere, di spostare forze".

"Grave...". La lezione di Violante alla sinistra

Un po' a sorpresa (ma nemmeno troppo) c'è una Emma Bonino che respinge ogni giustificazione di comodo. Rispetto alle contestazioni a Roccella, commenta: "Questo episodio mi ha fatto rabbia e molta pena. La mia cultura liberale non violenta e radicale mi avrebbe spinta a comportarmi in modo diverso. Mai e poi mai avremmo impedito a qualcuno di parlare. Condivido la frustrazione e la rabbia di chi ha portato avanti la contestazione ma questa reazione ha reso la ministra un'eroina e le ha permesso di parlare a reti unificate a milioni di ascoltatori".

Gli intellettuali (non di destra) senza l'anello al naso

Poi, a essere in buona fede, ci sono anche alcuni scrittori che non risultano essersi iscritti negli ultimi mesi a qualche sezione di Fratelli d'Italia. Sul Corriere della Sera, Aldo Cazzullo risponde così a una lettera di una lettrice che gli chiedeva se avessero fatto bene o meno a non fare presentare il libro alla Roccella: "Non occorre esserci stati per sapere che al Salone del Libro si presentano i libri e se ne discute. Impedire una presentazione e una discussione è un fatto di inciviltà, che a mio avviso non può essere difeso. Servire la propria causa in questa maniera significa renderle un pessimo servizio".

Salone del libro, caso Roccella: gli aggressori pretendono pure le scuse dagli aggrediti

Non meno ferreo si dimostra Antonio Padellaro sul Fatto Quotidiano. "A Torino, in una sala gremita di persone, è stato materialmente impedito di ascoltare quanto la ministra della Famiglia aveva da dire. E, anche, possibilmente, di contestare in maniera civile e non con l'uso prepotente delle invettive la visione reazionaria dell'aborto e della maternità surrogata". Un ragionamento che porta alla stoccata finale contro la Schlein, dalla quale "era lecito attendersi almeno una netta presa di distanza dagli utili idioti che fanno solo male alla sinistra. Che non c'è stata (ma forse pretendiamo troppo)".

Giampiero Mughini lancia una vera e propria invettiva nei confronti delle responsabilità degli organizzatori del Salone, in particolar modo del direttore uscente Nicola Lagioia: "Ho trovato penosa la sua difesa a mezza voce del ministro Eugenia Roccella, che era stata aggredita da un pugno di invasate - scrive in una lettera a Dagospia -. Perché c'è di questo di sacro e inviolabile, che i libri, tutti i libri, vanno accolti e discussi e ragionati. Che tra tutte le porcherie che esistono al mondo, quella di dare addosso a un libro e al suo autore è forse la più schifosa. La più ripugnante".

"Contestazioni a Roccella? Risposta a provocazioni". Delirio totale di Saviano

Infine, merita una più che meritata menzione la merita la lucidissima riflessione di Monica Lanfranco, giornalista e formatrice sui temi della differenza di genere e sul conflitto, che collabora con MicroMega (la storica rivista che ha come sottotitolo "Le ragioni della sinistra"). "La censura, in particolare, su un libro, ha echi pericolosi legati a doppio filo alla cultura totalitaria - scrive Lanfranco -. Se non sei d'accordo prima leggi il testo, ti prepari, poi intervieni anche duramente, ma a ragion veduta. A Torino con la contestazione a Roccella questo non è successo. E nel caotico mettere insieme critiche ai dirigenti della regione Piemonte, questione climatica e proclami in difesa della legge 194 (che la ministra sostiene e che difende) la contestazione ha mostrato la sua inefficacia. Dissentire è una parola importante nella pratica di opposizione: nella sua radice c'è l'ascolto, il sentire appunto. Come si può dissentire, onorando il senso dell'agire conflittuale costruttivo, se nemmeno si conosce e si ascolta l'avversaria?". 

E adesso pretendono pure le scuse da chi è stato aggredito. Lagioia torna ad attaccare: "Questo governo può avere una virata autoritaria". Sulla stessa linea pure Schlein, Saviano e Appendino. Siamo al ribaltamento della realtà. Andrea Indini il 22 Maggio 2023 su Il Giornale.

Badate bene: non troverete mai uno di loro che se ne esce allo scoperto dicendo che no, il ministro Eugenia Roccella non ha diritto di parola. E nemmeno che gli esagitati di Extinction Rebellion e Non una di meno hanno fatto bene a far saltare l'incontro perché al Salone del libro di Torino certe persone non dovrebbero entrare manco per la porta di servizio. Però, badate bene, il senso dei distinguo, delle puntualizzazioni, delle accuse è esattamente lo stesso. Nei vari "se la sono andata a cercare", "hanno un problema col dissenso" e "la conflittualità è necessaria" si nascondono (neanche troppo bene) l'antipatia, la repulsione e finanche l'odio per quella destra che dalla scorso 25 settembre devono sopportare al governo e che in questi giorni si sono trovati nei loro salotti. L'hanno vissuta come una inaccettabile invasione di campo. Tanto che glielo hanno fatto capire in tutti i modi che lì non erano bene accetti.

Partiamo da Nicola Lagioia, direttore (uscente) della kermesse piemontese. Dopo aver accuratamente evitato di prendere le difese del ministro sul palco, ha addirittura detto che le contestazioni, per una divisiva come la Roccella, "vanno messe in conto". Non solo. Dopo aver detto di essere stato "quasi cacciato dal palco", cosa peraltro non vera e smentita da diversi filmati, se l'è presa con la deputata di Fratelli d'Italia Augusta Montaruli. "È stata un'aggressione molto violenta", ha detto ieri in un'intervista alla Stampa. E poi oggi, a rincarar la dose, ai microfoni di Agorà: "Questo governo può avere una virata autoritaria". Può avere, cioè: non ce l'ha ma è sulla strada buona. E, infatti, poi specifica: "Il mio metodo è quello del dialogo, non del manganello". Che, sotto sotto, richiama il concetto del Roberto Saviano pre scontro, quando al Domani ha detto che la Meloni parla "la lingua del picchiatore", o l'invettiva di Selvaggia Lucarelli contro i "destroidi camuffati" a cui su Twitter ha spiegato che "la conflittualità è necessaria".

Ma rimaniamo su Saviano. Che ai distinguo preferisce sempre le testate alla Zinédine Zidane. Per lui la colpa è tutta dei ministri e dei politici che "sono venuti al Salone a provocare". Dopo tutto cos'altro avremmo potuto aspettarci da uno che esprime il proprio dissenso politico insultando pubblicamente gli avversari. Purtroppo, però, non è l'unico a vederla in questo modo. Luca Sofri, direttore del Post, se ne è uscito così su Twitter: "Roccella poteva benissimo parlare. Ha preferito il vittimismo, l’arma di questi tempi, ma nessuno le ha 'impedito' niente". Per non parlare di Ezio Mauro che oggi su Repubblica ha tirato in ballo il "sovranismo culturale". E, poi, ancora: Chiara Appendino, ex sindaco pentastellato di Torino, anziché stigmatizzare quanto accaduto, è andata a prendersela con la Montaruli. Ha parlato di "toni e frasi irricevibili" e "abisso di ignoranza".

Ma la numero uno in assoluto in questo gioco al massacro è senza alcun dubbio Elly Schlein che a caldo ha subito accusato il governo di avere problemi con il dissenso. "Noi siamo per il confronto duro", ha detto. E poi: "È surreale che ministri e deputati si siano messi ad attaccare Lagioia. Non so - ha, quindi, concluso - come si chiama la forma di un governo che attacca le opposizioni e gli intellettuali ma quantomeno mi sembra autoritaria". E arriviamo così al ribaltamento totale della realtà. Con gli aggrediti che finiscono sul banco degli imputati, quasi a dover chiedere scusa ai propri aggressori.

Annamaria Bernardini de Pace: "Roccella zittita, sono loro i veri squadristi". Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 22 maggio 2023

«Io una cosa del genere non l’avevo mai vista, ma neanche Pol Pot». Al Salone del Libro di Torino, ieri pomeriggio, il ministro per la Famiglia Eugenia Roccella doveva essere presentata dall’avvocato Annamaria Bernardini de Pace. Doveva, perché il suo intervento è finito nel modo che sappiamo: è finito e basta. Non è riuscita, Roccella, a dire manco mezza parola. «Quella di “Non una di meno” e di “Extinction Rebellion” è stata una manifestazione volgare e arrogante», dice Bernardini de Pace, «nonché aggressiva. Alla faccia della democrazia, si è trattato di una violenza enorme. Di uno stupro verbale e mentale». 

Dottoressa, addirittura?

«Guardi, io sono una persona pluralista e non mi scandalizzo facilmente. Ma come altro si può definire chi impedisce a qualcuno di parlare e gli rende impossibile anche solo aprir bocca? Lo sa come li ho apostrofati, a un certo punto, quei ragazzi?».

Come?

«Ho detto che erano dei fascisti. Perché è quello che fa il fascismo, mette il bavaglio a chi non è d’accordo».

E loro?

«Per una frazione di secondo sono rimasti in silenzio, poi hanno ripreso a inveire ancora di più. Si sono arrabbiati. Chi urlava per il clima, chi per l’aborto. Non si capiva niente. Però il momento più brutto è stato un altro». 

Quale?

«Quando il ministro ha invitato una di questi attivisti a salire sul palco. Lei è venuta, ha letto un comunicato di due paginette scritte, se posso permettermi, anche male e poi se ne è andata». 

Così, senza un confronto?

«Io mi son detta: adesso si apre un dibattito su posizioni differenti, una discussione civile. Macché. Ha girato i tacchi e se n’è andata». 

Della serie “io con te neanche ci parlo”?

«Della serie maleducazione. Per fortuna che il ministro è di tutt’altra pasta». 

Perché? Come si è comportata?

«È stata squisita. Premesso che io non faccio parte di Fratelli d’Italia, io sono iscritta al Partito radicale: Roccella è stata straordinaria. Tutto il contrario di quei ragazzi. Ha chiesto alle autorità che non li portassero via, per esempio. E quando ha realizzato che per recuperare l’intervento avremmo dovuto scalzare chi veniva dopo di noi ha rifiutato».

Se ne è andata da Torino senza presentare il suo libro, quindi?

«Sì, perché altrimenti, in un certo senso, avremmo fatto noi ad altri quello che invece abbiamo subito. La correttezza è una cosa seria».

Che libro dovevate presentare?

«Una famiglia radicale, edito da Rubbettino. Tra l’altro racconta una storia che, se questi ragazzi l’avessero ascoltata, avrebbero imparato qualcosa».

La butto là, visto il riferimento radicale. La lezione di Pannella, quella del dialogo e del “con-vincere”e non solo del vincere, a proposito di violenza?

«Appunto. Invece abbiamo assistito a una brutta manifestazione di arroganza. Il ministro non se lo meritava. In un contesto del genere, poi».

Il Salone del Libro, intende?

«Certo, uno spazio di cultura. E non c’è niente che metta tutti sullo stesso piano come la cultura».

Occupy Pd’ ha invaso il Nazareno. Il dissenso alla ministra Roccella è la cultura gruppettara di Schlein, Pd tra “facciamo casino” e la parabola Tsipras. Phil su Il Riformista il 22 Maggio 2023 

Laura Boldrini, da Presidente della Camera e successivamente da deputata del Pd, è stata contestata sonoramente tantissime volte. Ed il rituale preveda un minuto dopo, il mail bombing di parlamentari dem indignati, che sulle agenzie si dicevano certi della matrice fascista delle aggressioni verso la collega. In quel caso, il dissenso non era una funzione essenziale della democrazia ma per l’appunto becero squadrismo, voglia di chiudere la bocca.

Cambiamo scenario: Salone del libro a Torino, la ministra delle Pari opportunità Eugenia Roccella viene invitata a presentare il suo ultimo libro, ‘una famiglia radicale’, tenero ricordo di suo padre, Franco, che fu un combattivo fondatore del Partito Radicale ed in seguito deputato socialista. La ministra, come è ampiamente noto, viene contestata da una trentina di manifestanti che di fatto le impediscono di parlare.

Commenta a caldo Elly Schlein: “In una democrazia si deve mettere in conto che ci sia il dissenso. È surreale il problema che ha questo governo con ogni forma di dissenso”. Sulla stessa falsariga della segretaria, decine di dichiarazioni dello stesso tenore di esponenti del Pd. In pratica nessuna condanna dei contestatori, che paiono aver solo incarnato il legittimo diritto al dissenso, impedendo alla ministra di parlare.

Un giudizio se non altro estremista che però delinea la fisionomia di un partito. Che da Torino, così come con gli imbrattatori di Ultima Generazione, manda un messaggio fondamentale ai suoi sostenitori: ‘Facciamo casino’. L’equivalente dell’Aventino scelto nelle camere parlamentari. Ovvero facciamo casino nelle piazze, ed usciamo dalle Aule in Parlamento.

Calato nella vita reale del Paese, è esattamente il messaggio opposto di quello che arriva dalla giornata in Romagna del governatore Stefano Bonaccini e della presidente Giorgia Meloni. E a voler essere certosini, opposto anche alla ricetta di sempre del Pci, che organizzava le piazze e collaborava in Parlamento. Che Pd ha in mente Elly Schlein? “Prevale una cultura gruppettara’, hanno detto nelle settimane scorso all’unisono alcuni fuoriusciti del Pd.

Dal Piemonte sembrerebbe giungere una conferma. È come se ‘Occupy Pd’, nel frattempo, avesse invaso il Nazareno. Ironia del destino è che i fatti di Torino anticipano solo di qualche ora la parabola greca di Alexīs Tsipras, già manifesto vivente della sinistra anche a casa nostra, praticamente doppiato nelle elezioni di casa sua.

Il Pd che fa casino di Elly ha questo obiettivo? Phil 

Lo psicanalista al Salone del Libro. Salone del Libro, Recalcati: “Sì alla lotta per la difesa dei diritti ma attenzione al fascismo di sinistra”. Redazione su Il Riformista il 22 Maggio 2023 

Massimo Recalcati, psicanalista, 63 anni, milanese, è stato intervistato allo spazio La Stampa dal direttore Massimo Giannini, entro gli eventi del Salone del Libro.

Lo psicoanalista – partendo dal suo ultimo volume – “A pugni chiusi” (Feltrinelli), cui sottotitolo è “Psicoanalisi del mondo contemporaneo, dal Covid alla guerra in Ucraina, dalle disuguaglianze alla politica italiana” – affronta i temi di più stringente attualità.

Recalcati si apre, raccontando che, nel suo lavoro, non affronta solo le questioni personali dei suoi pazienti, ma anche quel che ci riguarda tutti: la crisi economica, il terrorismo islamico, il Covid, conflitti tra cui quello in corso e l’incertezza del destino del nostro Paese.

E, nel contesto dei fatti d’attualità, Recalcati dà il suo parere sulle critiche sollevate da Roberto Saviano verso le istituzioni, accusate di cercare un nuovo sistema autoritario, in una fase populista italiana potrebbe portare a forme più o meno velate di autoritarismo o autarchia. “Credo  – dice Recalcati – che il populismo con Trump, la Brexit e l’Europa orientale ci abbia già mostrato una sua componente autoritaria che in Italia si è vista di meno, perché i Cinque stelle hanno portato una serie di istanze legittime che la sinistra non rappresentava più. Se mai abbiamo avuto il berlusconismo che però, più che tendenze autoritarie, rappresentava il neolibertinismo del nostro tempo”.

Del salvinismo, invece, dice Recalcati: “è stato un fenomeno differente, anche se pur sempre anti-istituzionale, cioè senza il pensiero dello Stato. Meloni al contrario ce l’ha e questa è una delle ragioni della sua vittoria elettorale”.

Secondo Recalcati, non è in atto un progetto restrizioni di stampo autoritario: “allo stesso modo durante la pandemia mi lasciavano dubbioso le posizioni di alcuni intellettuali che parlavano di dittatura sanitaria. Per un senso di responsabilità civile dunque non enfatizzerei questo rischio democratico“.

“Anche perché  – prosegue Recalcati – essere democratici è una fatica, uno sforzo, pure per me che sono di sinistra. Il filosofo Deleuze diceva che per essere veramente antifascista bisogna occuparsi del fascista che ognuno porta con sé. In questo senso, la democrazia comporta il lutto del pensiero unico e la faticosa accettazione del pluralismo. Garantire il pluralismo è stato

un problema storico dell`antifascismo”

Recalcati torna agli anni della sua gioventù: “All’epoca solo Pannella o Pasolini ebbero il coraggio intellettuale dell’anticonformismo. In quegli anni chi diceva qualcosa di diverso veniva considerato un infame. Venendo all’attualità penso per esempio che le ragazze che a Roma hanno strappato i manifesti elettorali di Meloni abbiano compiuto un atto fascista”.

Della contrapposizione tra fascisti e antifascisti, Recalcati dice “Quello del manifesto è stato un atto intollerante e non educa alla democrazia, che è uno sforzo etico. Certo non mi piace quel manifesto e sono vicino a quelle ragazze, ma pure io a Milano ho sopportato la pubblicità di Gallera, che non ha avuto il senso del ridicolo di non ripresentarsi”.

“Il diritto alla contestazione – conclude Recalcati – è uno dei fondamenti della democrazia”, che aggiunge “purtroppo vedo ancora il fascismo nel cuore di tanti democratici“.

Le opinioni degli altri. Zittire un Ministro è da fascisti non è democrazia: il caso Roccella e i cattivi maestri. Matteo Renzi su Il Riformista il 23 Maggio 2023. 

Per me la cultura è la vera carta d’identità del Paese. Quando sento parlamentari dire che “con la cultura non si mangia” avrei voglia di regalare loro un weekend nella mia Firenze. Poi ci rifletto e dico che non ne vale la pena: se non hanno ancora capito che l’Italia deve smettere di considerare i beni culturali come argomento “sfigato”, non lo capiranno mai. Occorre piuttosto investire sulla nuova generazione e porre la cultura al centro della sfida educativa.

Mi hanno preso in giro quando ho proposto di investire in cultura dopo un attentato. Era il Novembre 2015 e gli estremisti islamici avevano preso di mira il Teatro Bataclan dove era in corso un concerto, uccidendo oltre cento persone e seminando il terrore. Pensai: hanno voluto colpire un concerto? Rispondiamo investendo in cultura. Ironizzavano: usiamo i carri armati, non i libri, contro questi assassini. E ovviamente servono anche le armi, certo. Ma usai l’esempio dei fiorentini del Rinascimento che per pagare la porta del Paradiso del Ghiberti investirono l’equivalente del budget annuale della difesa della città.

Bene, dissi, anche noi per ogni euro investito in sicurezza investiamo un euro in cultura. I fiorentini lo facevano col Ghiberti. Qualcuno mi prese per matto. Abbiamo i terroristi alle porte e tu pensi alle biblioteche. Sì. Anche alle biblioteche. Perché se devi difenderti, è la tua cultura che devi mettere in salvo. La tua identità, i tuoi valori. Non è un caso se le culture autoritarie, nazismo in testa, bruciano i libri: è una forma brutale di cancel culture, un rogo e addio.

Il Salone del Libro di Torino è una colonna delle istituzioni di questo Paese. Lo abbiamo seguito, introducendolo con un pezzo di Elisabetta Sgarbi. Ne abbiamo apprezzato il messaggio universale: la cultura salva il mondo. Poi però è arrivato il fattaccio. Alla Ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, è stato impedito di parlare. Femminista storica, radicale, oggi impegnata in una battaglia pro life su posizioni conservatrici, a Roccella è stato impedito il confronto al grido di “via i fascisti dal salone”.

Ma chi è un fascista, oggi? Uno che prova a dire quello che pensa o uno che nega agli altri il diritto di parola? Pasolini – che era Pasolini e che ci aveva visto lungo – titolò un suo libro proprio così: “Il fascismo degli antifascisti”. Chi ha impedito a Eugenia Roccella di parlare non ha manifestato un diritto democratico: ha negato il diritto democratico di un’altra persona. Mi sembra così semplice. Tu hai tutta la libertà di dire la tua o di criticare gli altri. Ma non hai nessun diritto di zittire l’altro con la violenza verbale. E non c’entra nulla la vergognosa esibizione di Augusta Montaruli, parlamentare di Fratelli d’Italia che ha sbraitato contro il direttore del Salone, Nicola Lagioia, attribuendogli la responsabilità dell’evento.

Il fatto, semplice, è che una ministra è stata zittita. Pensavo tutti potessimo trovarci d’accordo nella condanna. Invece alcuni maestri del pensiero contemporaneo, cattivi maestri si sarebbe detto una volta, hanno spiegato che “la contestazione alla Roccella è quanto di più sano possa avvenire in una democrazia” (Roberto Saviano) e che “quello che tu hai fatto e che è scritto e teorizzato in questo libro ha reso la mia vita peggiore, quindi io qui non ti lascio parlare: non ne hai il diritto” (Michela Murgia).

Poi mi ha scritto uno dei bravissimi ragazzi della scuola di formazione “Meritare l’Europa”, Jacopo. E ho visto che il messaggio dei Saviano-Murgia passa nelle corde delle persone molto più di quanto io immaginassi. Mi ha scritto Jacopo: “No, Matteo, non sono d’accordo. In democrazia il dissenso è tutto. (…) La Roccella stava dicendo cose aberranti sulla dignità della donna ed è stata fermata”.

Jacopo è un giovane talentuoso e sono convinto che abbia un bel futuro in politica. Ma se noi non partiamo dal dire che nessuno ha il diritto di fermare chi non la pensa come noi, anche se dice cose che sono giudicate aberranti (che poi che siano aberranti, chi lo decide?), rischiamo di essere travolti da una slavina in cui l’evento culturale smette di essere palestra di libertà e diventa occasione di odio ideologico. Pensiamoci bene. Perché è inutile gridare al fascismo se non siamo disponibili ad ascoltare le opinioni degli altri. Soprattutto quelli con cui non siamo d’accordo. Matteo Renzi

Estratto dell’articolo di Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 21 maggio 2023.

«Quanto accaduto al Salone del Libro di Torino è inaccettabile e fuori da ogni logica democratica. Altrettanto inaccettabile è l’operazione dei soliti noti di capovolgere i fatti, distorcendo la realtà e giustificando il tentativo di impedire a un ministro della Repubblica di esprimere le proprie opinioni. Come al solito, chi pretende di darci lezioni di democrazia non ne conosce le regole basilari». 

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è tranchant. Condanna in poche righe la contestazione di ieri nei confronti della ministra Eugenia Roccella ma anche la difesa dei contestatori da parte di Partito democratico e Movimento 5 Stelle, schierati dalla parte del direttore del Salone, Nicola Lagioia, che aveva definito «legittima» la protesta.

Ospite di In Onda, su La7, la leader del Pd Elly Schlein aveva detto: «In una democrazia si deve mettere in conto che ci sia il dissenso. Sta nelle cose, non riguarda mica solo chi sta al potere. Noi siamo per il confronto duro, acceso, ma è surreale il problema che ha questo governo con ogni forma di dissenso. È surreale che ministri e deputati si siano messi ad attaccare Nicola Lagioia. Non so come si chiama la forma di un governo che attacca le opposizioni e gli intellettuali ma quantomeno mi sembra autoritaria». 

[…]

Tutto il governo comunque ha fatto quadrato: «Non permettere a un autore, chiunque esso sia, di poter presentare liberamente il suo libro ed esprimere il proprio pensiero perché bloccato da un gruppo di violenti è un atto antidemocratico e illiberale», le parole del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. 

Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha twittato: «Le è stato impedito di esprimere le proprie idee da persone che pensano di difendere la libertà privando gli altri della loro. Persone pericolose, antidemocratiche e prevaricatrici, camuffate da attiviste». 

[…]

E la maggioranza, infatti, stringe i tempi proprio sulla maternità surrogata come reato universale. La proposta di legge dovrebbe approdare in Aula a giugno, mentre già a partire da mercoledì prossimo verranno votati i 20 emendamenti dell’opposizione proposti in Commissione, volti a recepire la proposta dei sindaci di centrosinistra che chiedono di poter procedere alla registrazione dei figli di coppie omogenitoriali. L’unica proposta di modifica della maggioranza proviene da Forza Italia e aumenta le pene previste per il ricorso alla maternità surrogata all’estero, prevedendo il carcere da uno a tre anni.

Estratto dell’articolo di Claudia Luise per “La Stampa” il 21 maggio 2023.

Non è contraria alla contestazione «tutti hanno il diritto di manifestare». Ma la ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, si scaglia contro le modalità di coloro che le hanno impedito di presentare il suo libro e contro il direttore del Salone del Libro, Nicola Lagioia, che non ha sottolineato quanto fosse «antidemocratico» impedirle di parlare. 

Ministra, cosa è successo con Lagioia?

«Capisco che Lagioia sia uno scrittore e quindi lavori di fantasia, ma mi sembra un po' eccessivo cercare di far passare una discussione accalorata con l'onorevole Montaruli per un'aggressione subita da lui, mentre nel Salone da lui diretto veniva impedita la presentazione di un libro».

Come mai ha chiesto l'intervento del direttore?

«Perché non trovo corretto che nel Salone che dirige possano accadere queste cose senza che lui prenda una posizione chiara a difesa del diritto di parola di chiunque». 

[…] 

Proprio oggi ricorrono i 45 anni dall'approvazione della legge sull'aborto. Va modificata?

«Sull'aborto non c'è nessuna battaglia. C'è una legge che viene rispettata. L'obiezione di coscienza non impedisce affatto l'accesso all'interruzione di gravidanza e infatti il carico di lavoro per i medici non obiettori è di un aborto a settimana. Dopo 45 anni è una legge che è stata applicata, quindi non mi sembra necessario intervenire. Ricordo che i punti nascita in Italia sono meno dei punti dove si può abortire. C'è semmai un problema di libertà delle donne di fare figli se vogliono, anche se sono in condizioni di bisogno. Ed è questo su cui si dovrebbe intervenire. Piuttosto c'è una battaglia sull'utero in affitto: chi ha a cuore l'inviolabilità del corpo femminile e la non mercificazione dovrebbe capire che è questa "la battaglia"».

[…] 

La settimana scorsa si sono ritrovati a Torino molti sindaci per chiedere al Parlamento di legiferare sul matrimonio egualitario e sulle trascrizioni per le coppie omogenitoriali. Il governo pensa di intervenire?

«No, c'è il Parlamento che sta discutendo sulla perseguibilità del reato di utero in affitto anche quando commesso all'estero. Ovviamente non si tratta di arrestare le persone che rientrano in Italia ma di rendere efficace la sanzione, perché questa pratica in realtà non è stata mai perseguita. La sinistra cerca di spostare il dibattito dall'utero in affitto, di cui non vuole parlare, alla questione dei diritti dei bambini. Ma in realtà i bambini hanno tutti i diritti fin dal primo momento, con la registrazione immediata del genitore biologico» […]

Estratto dell'articolo di Irene Famà e Claudia Luise per lastampa.it il 20 maggio 2023.

Contestazione degli attivisti di Extinction Rebellion, femministe di Non una di Meno, comitato EssenNon, all’Arena Piemonte del Salone del Libro dove la ministra delle Pari Opportunità Eugenia Maria Roccella presenta il suo libro “Una famiglia radicale”. I manifestanti, una cinquantina, si sono sdraiati per terra urlando «vergogna! Vergogna», «Sul mio corpo decido io, ma quale Stato, ma quale Dio». 

La ministra ha invitato alcune attiviste a salire sul palco: «Non posso accettare che venga portata via nessuno, vista che la protesta dei sit in ha fatto parte del mio percorso e anche io sono stata cacciata in diverse occasioni». 

[…]

Una decina di attivisti sono stati identificati dalla Digos. Dal pubblico sono iniziati dei cori contro i manifestanti: «Per favore fateci seguire, fateci seguire». La loro risposta: «Per favore fateci abortire». E in platea si creano capannelli di discussione. 

«Non violenza e diritto di parola devono essere garantiti. Volete solo impedire agli altri di parlare», dice Roccella. La ministra ha chiesto l'intervento del direttore Lagioia per parlare con i contestatori. Sul palco è salito il presidente del Circolo dei Lettori, Giulio Biino.

Dura la ministra: «E’ grave che nel Salone che presiede non ci sia neanche la sua presenza – dice-. Lo abbiamo cercato, lo stiamo cercando. Non sappiamo dove sia». «È una pagina buia per il Salone, c'è una responsabilità politica e la direzione ne dovrà rispondere. Volevamo presentare un libro, invece si procede per slogan e ci è stato impedito» commenta l'assessore regionale Maurizio Marrone che aggiunge: «questa non è la società civile ma incivile». 

Poco dopo l’intervento di Lagioia: «Il Salone è un gioco democratico e nelle democrazie la contestazione ne fa parte ma perché non trasformare questa occasione in un dialogo tra uno di voi e il ministro?» chiede dal palco per cercare di mediare ma i contestatori rispondono: «Noi del loro pensiero ce ne freghiamo».

E ancora: «Questo è un incontro nella programmazione della Regione, non del Salone. Ho detto solo che finché la contestazione non è violenta sono legittime. Mi ha sorpreso l'attacco delle persone vicine al ministro, Montaruli mi ha inveito contro. E quindi anche loro devono mettersi d'accordo. Montaruli ha iniziato a urlarmi vergogna nelle orecchie». […]

Un video lo smentisce, ma Lagioia continua a far la vittima. Marco Leardi il 21 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il direttore del Salone del Libro di Torino torna sulla deprecabile contestazione al ministro Roccella e quasi minimizza: "Da mettere in conto...". Poi dichiara di essere stato lui l'aggredito

Nicola Lagioia insiste. Il giorno dopo le deprecabili contestazioni subite dal ministro Roccella al Salone del Libro di Torino, il direttore dell'evento ribadisce di essere stato lui la vittima di una presunta aggressione. In un'intervista rilasciata alla Stampa, lo scrittore barese è tornato sulla vicenda puntando il dito contro la deputata di Fratelli d'Italia Augusta Montaruli, che lo aveva rimproverato ad alta voce per non essere riuscito a placare gli attivisti anti-Roccella. "Mi ha gridato contro con un atteggiamento veramente molto violento", aveva lamentato lui. Ma un video aveva mostrato come in realtà non ci fosse stata nessuna aggressione, bensì solo un animato scambio di battute (il clima non era certo dei più distesi) risoltosi in pochi istanti.

E il ministro "imbavagliato" dai soliti bravi ragazzi? Secondo Lagioia - parafrasiamo - certe critiche sono da mettere in conto. "Contestazioni ce ne sono state anche in passato, per esempio nei miei stessi confronti, su una presunta distrazione rispetto alle tematiche ambientali. In questo caso, però, si dirigono verso un politico, che di suo un po' deve aspettarsele, e soprattutto se è divisivo come la ministra Roccella sono da mettere in conto", ha affermato il direttore del Salone del Libro di Torino. Un po' come aveva fatto Roberto Saviano, secondo il quale gli esponenti del governo Meloni erano andati lì per "provocare". Dunque, quella aggressione faceva parte (sempre a suo avviso) della "dialettica".

Alla Stampa, Lagioia ha poi riferito la propria versione dei fatti. "Io arrivo al palco e, auspicando ovviamente che possa parlare, intervengo e dico ai contestatori: dialogate con la ministra attraverso un vostro delegato. Il tentativo di mediazione purtroppo non riesce. Poso il microfono e mi avvio verso la platea per capire che cosa si possa fare, e a questo punto l'onorevole Montaruli comincia a gridarmi addosso: vergognati, con i soldi che ti sei preso", ha affermato. E ancora: "È stata un'aggressione molto violenta. Ma, aggiungo, è anche assurdo che uno scrittore venga considerato un avversario politico. Io ho fatto il possibile perché la ministra potesse parlare".

Certo, i toni concitati di quei momenti non erano quelli di una sala da tè. Ma parlare di "aggressione molto violenta" è forse eccessivo, anche perché - come si evince da un video realizzato in quegli attimi - lo stesso Lagioia aveva tentato di replicare alla Montaruli, facendosi avanti senza timore. "Ma che vuoi? Ma chi sei?", aveva risposto, mentre qualcuno lo invitava a desistere. "Spero che sia archiviabile come un momento colorito del Lingotto. Siamo umani, anche l'intemperanza è parte di noi. Se si è trattato di uno sfogo, pazienza. Ma se invece è un comportamento politico, ebbene allora siamo davvero di fronte a qualcosa di preoccupante", ha aggiunto lo scrittore. Posizioni legittime, ci mancherebbe. L'unica contestazione apertamente politica vista al Salone è stata proprio quella degli attivisti anti-Roccella, sopraggiunti con l'obiettivo di impedire al ministro di parlare.

"Ho detto e ripetuto: fatela parlare; ho tentato di trasformare la contestazione in dialogo. Che avesse diritto di presentare il suo libro è ovvio, lapalissiano", ha argomentato infine lo scrittore. Ma quel suo tentativo di mediazione era stato giudicato poco incisivo da parte di Fratelli d'Italia ed è proprio su questo punto che si è scatenato il successivo diverbio. "Non potevo fare anche il servizio d'ordine, c'è la polizia per questo", si è giustificato Lagioia, rivelando però di avere poi avuto un "dialogo civile" di confronto con Roccella.

Giampiero Mughini per Dagospia il 21 maggio 2023.

Caro Dago, data la mia veneranda età ho una qual certa esperienza di chiacchiere in pubblico, e questo a partire dai primissimi anni Sessanta, da quando si era appena spenta l'eco delle fucilate del luglio 1960 che uccisero dei civili a Reggio Emilia e a Catania, la città in cui sono nato. 

Ebbene ti confesso che a vedere le facce le espressioni il furore del drappello di visitatrici del Salone del libro di Torino che si sono scagliati contro il ministro Eugenia Roccella, sto piuttosto dalla parte del ministro. Non delle sue idee, che non sono le mie, ma dell'atteggiamento con cui ha accolto le offese che le venivano fatte a voce alta e rauca.

A furia di offese a voce alta e rauca, era questo il modo in cui ci affrontavamo nelle assemblee dei primi Sessanta noi "di sinistra" e loro "i fascisti". Tra noi era odio odio odio e soltanto odio, e ne verranno i terroristi dell'una e dell'altra sponda che insanguineranno le piazze e le strade italiane dei Settanta. Così come ricordo con gioia le prime volte che alcuni di noi e alcuni di loro prendemmo a confrontarci civilmente. Mi rammento di Marco Tarchi, di Stenio Solinas, di Giuseppe Del Ninno. Ne abbiamo fatto da allora di cammino in direzione della civiltà, del fatto che si possono avere idee e valutazioni diverse ma che non per questo ci si debba scannare.

Piuttosto mi ricordo di una serata degli anni Settanta per me triste al Circolo culturale Mondoperaio allora presieduto dal mio amico Paolo Flores d'Arcais. Era una serata dedicata al seguente argomento: se nei gruppi terroristici le donne fossero più garbate degli uomini quando c'era da scegliere le maniere forti. A quel dibattito erano state invitate quattro o cinque donne, tutte di valore. Paolo volle che fossi io a rappresentare la voce maschile.

Lo feci al modo mio solito, senza cercare nemmeno per un attimo di essere piacione. E dunque dissi papale papale che quanto ai gruppi terroristici le donne vi si comportavano con la stessa ferocia degli uomini, né più né meno. Adriana Faranda (più tardi divenuta una mia cara amica) non c'era a via Fani, ma non era stata meno impetuosa in un assassinio all'università di Roma. Né al tempo in cui erano due criminali politici (oggi sono anch'essi dei miei cari amici) Francesca Mambro era più "morbida" di Giusva Fioravanti. Sì e no avevo parlato cinque minuti, quando la platea femminile insorse a volermi togliere la parola.

Nessuna delle donne sedute accanto a me bisbigliò che mi lasciassero parlare salvo poi esprimere le loro idee diverse dalla mia. Le forsennate in sala non ne volevano sapere. Non potevano uccidermi, quello no, ma azzittirmi quello sì. Lasciai perdere, e non dissi più una parola ed è stata la sola e unica volta nella mia vita: che non potessi far uso delle parole. Avevo per quelle signore furibonde solo disprezzo intellettuale, e ce l'ho a tutt'oggi per tutti i forsennati che intendono il confronto delle opinioni alla maniera di uno scontro pugilistico. Di uno scontro in cui l'avversario lo devi lasciare esanime sul tappeto

Sallusti, "ecco che cosa è la sinistra": svelata la violenza rossa. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 21 maggio 2023

Immaginate cosa sarebbe successo se ieri l’altro nei saloni della Fiera del Libro in corso a Torino qualcuno del pubblico avesse contestato fino a impedire loro di parlare Michela Murgia o Concita De Gregorio. Possiamo solo immaginarlo perché non è avvenuto né mai accadrà, non è nel dna della destra italiana infilarsi nelle fila dell’avversario per fare casino e zittirlo. È invece accaduto che ieri, nello stesso luogo, un nutrito gruppo di fascisti di sinistra - ambientalisti e fanatici delle teorie Lgbtha impedito a un ministro della Repubblica, Eugenia Roccella, di presentare il suo libro “Una famiglia radicale”. Non c’è da stupirsi più di tanto: il Salone del libro è il fiore all’occhiello della cultura di sinistra, e la cultura di sinistra è esattamente questa cosa qui, intollerante, falsa, settaria e all’occorrenza violenta. La sinistra è una casta che si mobilita per difendere un miliardario, Fabio Fazio, che in realtà ha deciso liberamente di andare a guadagnare ancora più soldi lasciando la Rai, ma che non muove un dito per permettere a una ministra di esporre le sue opinioni a casa loro dopo averla invitata.

Questi sono quelli che i morti di Covid sono colpa della Regione Lombardia, quelli di Cutro del governo Meloni ma guai a segnalare i ritardi della regione rossa Emilia Romagna- cioè del presidente Bonaccini e della sua vice Schlein, numeri due e uno del Pd - nella prevenzione di disastri ambientali perché altrimenti sei “uno sciacallo”. Un salone del libro dovrebbe essere un luogo di libertà e confronto, Torino si è dimostrata luogo di incultura comunista in balia di teppisti e provocatori nonostante i non pochi finanziamenti pubblici di cui gode. «Il dissenso è legittimo», ha dichiarato il direttore della rassegna, lo scrittore Nicola Lagioia, che però un minuto dopo si smentisce piagnucolando per il dissenso nei suoi confronti espresso dalla deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli, che gli ha detto in faccia «vergognati, con i soldi che prendi...». Ecco, Lagioia è la perfetta immagine del fango in cui nuotano lui e i suoi amici di sinistra: contestare la ministra Roccella è il sale della democrazia, contestare lui è da fascisti: un concetto neppure troppo vagamente fascista. 

Saviano contro Roccella: "Venuta al Salone del Libro a provocare". Libero Quotidiano il 20 maggio 2023

"In realtà questi ministri e politici sono venuti qui a provocare, non ribaltiamo la verità": Roberto Saviano ha commentato così le proteste contro Eugenia Roccella al Salone del libro di Torino. La ministra è stata contestata da alcuni attivisti del movimento ambientalista Extiction Rebellion e del collettivo femminista Non una di meno. Questi ultimi hanno impedito il suo intervento e per questo la Roccella, che a un certo punto ha anche provato a dialogare ma senza successo, alla fine ha deciso di andare via. 

"Le parole di La Russa e Sangiuliano e le parole della ministra Roccella sono vere e proprie provocazioni e quindi la contestazione entra in questa dialettica", ha poi aggiunto lo scrittore nel suo intervento a margine della presentazione del podcast "Chi chiamerò a difendermi. Giovanni Falcone, la vita".  

"Anche quello dell'utero in affitto è un tema che non va demonizzato ma regolamentato - ha proseguito Saviano -. Regolamentazione significa far rientrare nel diritto una pratica che, condivido, se non regolamentata, diventa esposta a una manipolazione criminale, esposta a contraddizioni importanti. Quindi la mia risposta è di smettere di provocare, che significa arrivare con una loro propaganda a far passare per pensiero, per opinione, quelle che sono vere e proprie aberrazioni".

Roccella contestata al Salone: “Ecco cosa avrei spiegato a quei ragazzi sulla surrogata”. Il dialogo del Dubbio con la ministra della Famiglia dopo le proteste al Salone del Libro: «Se l’aborto è un diritto? Nessuno ha intenzione di toccare la legge 194». Servizio di Francesca Spasiano su Il Dubbio il 20 maggio 2023

«Il corpo non può essere né in vendita né in affitto». Dopo le contestazioni che l’hanno costretta a lasciare il Salone del Libro, la ministra della Famiglia Eugenia Roccella difende, dialogando in diretta Facebook con Francesca Spasiano del Dubbio, la scelta del governo di rendere quello della maternità surrogata un reato universale. E lo fa escludendo qualsiasi possibilità di fine altruistico dietro la scelta di condurre una gravidanza per altri, trattandosi di un «contratto» e, dunque, di «un mercato». 

Maternità surrogata reato universale

Alcune pratiche, più che di procreazione assistita, sono tecniche di «spezzettamento del corpo» e, dunque, una pratica di mercato. In Commissione Giustizia è incardinata una proposta di legge per rendere la maternità surrogata un reato universale. «Si tratta di perseguire il reato, perché per la legge italiana è un reato, non è mai stato perseguito. Anzi, in qualche modo è sempre più legittimato – ha sottolineato la ministra -. Ci sono persone famose che raccontano del fatto di aver fatto ricorso alla maternità in un altro Paese e sono tornati facendo servizi sui rotocalchi raccontando di quanto sia stata una esperienza felice. Sicuramente lo è stata per loro, non so quanto lo sia per la donna che ha firmato il contratto e mi farebbe piacere che le persone sapessero con altrettanta dovizia di particolari e di sensibilità per i sentimenti della donna cosa significa la maternità surrogata, quali i contratti, quali sono le condizioni per una donna deve rispettare».

«Mi sembra un orizzonte abbastanza angosciante – ha aggiunto – quello di una maternità che entra nel mercato. Tanto che ci sono le fiere su questo, non solo quella di Milano, ma in tutte le capitali Europee. Il corpo materno viene fatto a pezzettini e immesso all’interno di un sistema di marketing. La maternità è per contratto e mi sembra un orizzonte molto grave». 

Guarda l’intervista alla ministra Roccella:

Il diritto all’aborto

«C’è una legge, la 194, che dà le regole, le norme per l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza. Questa si applica da 30 anni e questo governo non ha mai avuto intenzione di toccare questa legge. Lo abbiamo detto in maniera ossessiva, perché ce lo chiedono in maniera ossessiva», ha spiegato la ministra. «La relazione che ogni anno viene trasmessa al Parlamento sull’attuazione della legge 194 e questa relazione racconta che non ci sono problemi di accesso all’aborto. Il carico di lavoro per i non obiettori è di un aborto a settimana – ha sottolineato – e quindi evidentemente il problema non è, come a volte si pensa, la percentuale totale di obiettori, ma il rapporto tra chi fa gli aborti e il numero di aborti richiesti. Quindi se non c’è un carico di lavoro eccessivo per chi fa gli aborti vuol dire che l’obiezione non è un problema per l’accesso all’aborto».

Marco Zonetti per Dagospia il 21 Maggio 2023.

Le contestazioni alla ministra per la Famiglia Eugenia Roccella al Salone del Libro, per opera di un gruppo di attivisti che le hanno impedito di presentare il suo libro "Una famiglia radicale", hanno scatenato un putiferio mediatico e istituzionale che sta infiammando questo fine settimana. 

I manifestanti hanno messo sotto accusa la Roccella per le sue posizioni antiabortiste, e 29 di loro sono stati denunciati dalla Digos. E chissà se Eugenia Roccella, in quei giovani, ha riconosciuto una sé stessa ventunenne, quando cioè nei primi anni Settanta lei stessa manifestava a favore dell'aborto - all'epoca non ancora legalizzato - e, membro del gruppo femminista MLD, pubblicava addirittura un libro dal titolo "L'aborto fatto in casa". 

Il contenuto del libro, i cui dettagli non lasciavano spazio all'immaginazione, viene descritto dalla stessa Roccella in un'intervista rilasciata all'epoca a Paola Fallaci, sorella di Oriana, riesumata anni fa dal sito radiospada.org. 

L'allora giovanissima Eugenia, "studentessa alla facoltà di lettere di Roma, due incriminazioni a Palermo per «incitamento a delinquere» poiché in un comizio invitò le donne ad autodenunciarsi per aborto, spiegava: «II libro non vuole affatto che la singola donna si metta in bagno a farsi l’aborto da sola. oltre che da incoscienti, sarebbe una cosa impossibile. 

Alla singola donna vuole dare soltanto informazioni e indirizzi giusti. Indirizzi dove troverà gruppi di donne, i “Self Help”, che le praticano l’aborto secondo la tecnica moderna, sicura e indolore. La nostra proposta è solo un momento della lotta, non ci sogniamo neanche di seguitare per tutta la vita a fare gli aborti in queste condizioni”.

E quindi precisava ulteriormente: «La mammana cos’è? È l’unica che abbia offerto un po’ di solidarietà alle donne. E non per arricchirsi come certi medici che noi trattiamo con molto rispetto, dimenticando che loro, “i dottori”, avevano i mezzi per evitare alle donne le stecche d’ombrello, i decotti e i gambi di prezzemolo, ma non li hanno mai voluti usare. Non siamo noi le mammane, ora. Noi usiamo metodi moderni e sicuri». 

Paola Fallaci ricordava quindi alla giovane Roccella che nel libro si parlava di “pompe di bicicletta”, e l'intervistata ribatteva: «La pompa di bicicletta è soltanto lo strumento che può utilizzare chi non ha l’aspiratore elettrico, difficile da procurarsi e molto costoso. Non c’è nulla di stregonesco in questo, né di anti-igienico, né di agghiacciante: è un procedimento meccanico, molto più ambiguo a descriverlo che a vederlo fare. Certo, da come parli tu, sembra che una donna debba infilarsi la pompa nel corpo e mettersi furiosamente a pompare! Non è mica così». 

«Ma tu lo faresti un aborto con la pompa di bicicletta?» domandava Fallaci, al che Roccella replicava: «Sicuramente non lo farei con il raschiamento. E andrei da un gruppo di donne proprio per l’appoggio morale e la garanzia che mi darebbero». 

«Ma non sarebbe meglio tenervi un medico vicino?» s'informava a quel punto l'intervistatrice. E la risposta di Eugenia Roccella era che: «Magari! Vorrebbe dire che avremmo già vinta la battaglia per l’aborto, vorrebbe dire cioè che i medici accettano di fare aborti a basso prezzo e ad alta garanzia». 

Interessante che, nel momento in cui da tempo è diventato realtà ciò che si augurava da giovane Eugenia Roccella e le donne hanno ottenuto il diritto all'aborto, la stessa venga contestata pubblicamente da giovani poiché contraria a quelle stesse posizioni. 

Altrettanto peculiare che chi la contesta sia denunciato così come la stessa Roccella negli anni Settanta veniva incriminata sempre per lotte pro aborto. L'Italia e le sue istituzioni sono davvero un mondo che nessuno scrittore di science fiction potrebbe mai ipotizzare.

Salone del Libro: cosa dicono i social? Roccella e Lagioia si prendono Twitter, l’analisi in esclusiva di Domenico Giordano. Redazione su Il Riformista il 21 Maggio 2023 

Il Salone del Libro si è appena concluso. Tra presentazioni, autori e incontri non sono mancate polemiche e contestazioni che hanno letteralmente preso la scena del salone torinese. Un dato confermato dal flusso di interazioni registrate sui social e analizzate in esclusiva per il Riformista da Domenico Giordano, Social strategist di Arcadiacom.it.

Sulla polemica che ha coinvolto la ministra Roccella Il dato del parlato della rete evidenzia subito come non siano più le keyword fascista o fascismo – per esempio – a coinvolgere gli utenti in rete. La tematica storico-politica alla fine sembra non interessare più a nessuno.

Ciò che ha generato coinvolgimento sono stati proprio i protagonisti della vicenda, con le loro storie personali, che hanno spinto gli utenti ad intervenire e prendere parte al dibattito in corso. 

Il confronto tra le due linee temporali delle menzioni e dell’engagement, nelle ultime 24h, mostra in modo evidente che la keyword ” fascista OR fascismo “ che ha incassato il 30% delle citazioni complessive è di fatto una keyword fredda dal punto di vista del coinvolgimento

A contendersi il primato dell’engagement infatti sono le keyword di contesto e dei protagonisti di quanto accaduto ieri a Torino. La comparazione delle torte delle menzioni e dell’engagement ci conferma che l’innesco che ha spinto gli utenti a intervenire nel dibattito non è stato certo il tema del fascismo, quanto al contrario gli stessi protagonisti e le diverse visioni politiche.            

Le due keyword Roccella e Lagioia si prendono su Twitter la quota più ampia di parlato tra tutte le chiavi di ricerca. Mentre Salone del Libro incassa un 6% su Instagram e Fascista or Fascismo dilaga su Facebook.

Il dibattito su Twitter ha coinvolto, come plasticamente evidenziato dalla tagcloud degli account , un nucleo di opinion maker composto per lo più da attori e giornalisti interessati al dibattito politico in via esclusiva. 

Mentre su Facebook e Instagram , la Top10 degli account e delle pagine dei politici, che hanno scelto di intervenire sulla vicenda e che hanno incassato una quota consistente di interazioni, è guidata da Matteo Salvini

Soloni del libro. Il caso Roccella e l’intolleranza alternata dei fan di destra e sinistra. Iuri Maria Prado su l'Inkiesta il 22 Maggio 2023.

Da una parte ci si scandalizza perché a Torino la ministra non è stata accolta con gli applausi per le sue tesi antiabortiste, dall’altra si loda la polizia morale che limita la libertà di parola. In mezzo, anzi: altrove, c’è la ragione di chi diffida degli uni e degli altri 

Mica ci voleva un genio per immaginare come si sarebbero posizionati gli schieramenti degli opposti mentecatti a proposito del “Caso Roccella”, l’ex radicale radicalizzata in involuzione Family Day che l’altro giorno, a Torino, ha subìto la contestazione di un gruppo di balordi che si è messo di mezzo per mandare in vacca la presentazione del libro della ministra.

E che doveva succedere? L’ovvio, appunto. Da destra strilli contro lo squadrismo rosso, e da sinistra la celebrazione del popolo che resiste al fascismo dilagante a Torino. La realtà (e la decenza), in mezzo: anzi altrove. Perché, per un verso, almeno per ora non esiste il diritto di un ministro a una platea composta in silenzio nella convinzione che la donna che abortisce è un’assassina e che i figli dei genitori omosessuali crescono scostumati. E perché, per altro verso, non esiste, anche se essi lo pretendono, il diritto dei manipoli democratici di trasformare il Salone del libro nella terza Camera del ddl Zan.

La verità è che il gregge affidato alle cure della madre bianca e cristiana crede sinceramente che la vittoria elettorale sia il presupposto di una restaurazione del consenso tramite decretazione Dio-Padre-Famiglia con accredito in Rai o appunto al salone torinese, mentre la mandria sinistra ritiene che ogni ambito del discorso pubblico debba essere presidiato, pena il collasso del sistema democratico, dalla sorveglianza della polizia morale antifascista che sgombera i soprammobili del presidente del Senato e controlla che i libri in commercio siano provvisti della dovuta fascetta 25 aprile.

Checché ne abbiano detto in contrario, ai destri non dava fastidio l’intendimento oggettivamente sopraffattorio di quella contestazione, ma il fatto che “l’aria nuova” di una manifestazione finalmente sottratta al giogo comunista non fosse destinataria dell’entusiasmo monopolizzante che si deve alle decisioni irrevocabili. E per quanto i sinistri abbian fatto mostra, assolvendo quegli urlatori, di appellarsi al neutro canone liberale e costituzionale secondo cui il potere deve sopportare di essere contestato, la verità è che essi proteggevano non il fatto in sé, ma soltanto l’orientamento di quei berci e, sotto sotto, l’idea che la nobiltà democratica della contestazione risiedesse nell’impresentabilità democratica di chi dopotutto si meritava l’incursione.

Due belle culture a confronto. 

Estratto dell’articolo di Sara Strippoli per repubblica.it il 21 Maggio 2023.

Zerocalcare è "un cretino" e Michela Murgia "sfrutta la sua malattia per dire che il governo è fascista". Al Salone del libro di Torino, nella sala Rosa del Lingotto, si trovano gli intellettuali di destra. La contestazione alla ministra della Famiglia Eugenia Roccella è appena avvenuta e loro bollano i manifestanti come "fascisti".

All'incontro, intitolato "La destra e la cultura", ci sono il consulente del ministro Sangiuliano Francesco Giubilei, Ferrante De Benedicitis, che è presidente di Nazione Futura, il vicedirettore de La Verità Francesco Borgonovo, oltre a Giordano Bruno Guerri.

Il giudizio su Murgia è di Luca Beatrice, critico d'arte ed ex presidente del Circolo dei lettori, che attacca la scrittrice per l'intervista in cui ha definito fascista il governo Meloni: "Sfrutta un problema grave come la malattia per dare del fascista a chiunque la pensi in maniera diversa da lei".  

Quello su Zerocalcare appartiene invece a Borgonovo, che definisce il fumettista "un cretino" perché "ha detto che Alain De Benoist è un ispiratore dei neonazisti". Mentre De Benedictis dice: "Per decenni abbiamo vissuto l'incubo della cultura di sinistra".

[…] 

Tra le varie riflessioni, c'è anche spazio per l'autocritica. Francesco Giubilei ritiene che il centrodestra sia stato troppo timido: "Quando il centrodestra vince un Comune nomina nelle partecipate uno di sinistra perché dice che ha maggiore esperienza. In questo modo nessuno si farà mai esperienza". […]

La Regione Piemonte difenda il Salone del Libro di Torino dalla finta superiorità della sinistra. Lorenzo Castellani su Panorama il 21 Maggio 2023.

 Le contestazioni al ministro Roccella sono colpa degli organizzatori ma anche di chi governa la Regione che sull'evento ha modo di intervenire. Come dovrà fare già dal prossimo anno.

Non c’è molto da girarci intorno: se un ministro, invitato dagli organizzatori, non riesce a parlare ad un evento la colpa è degli organizzatori. La contestazione da parte di attivisti della sinistra ai danni del ministro Roccella al Salone del Libro di Torino evidenzia le responsabilità della direzione dello stesso che non è stato in grado di trovare un modo per far parlare un ospite. Lo scrittore Nicola Lagioia, chiamato all’improbo ruolo di manager del Salone, ha fatto una figura barbina. Ha balbettato senza successo sul palco per cercare di far parlare il ministro della famiglia, e poi si è dileguato, con rapidità e poco coraggio, senza riuscire a dare l’impressione di stare con l’ospite oppure con i manifestanti. Ma qui, al di là dei fallimenti organizzativi e di gestione politica, la questione a monte è un’altra: se il Salone di Torino si considera una roccaforte della sinistra nell’organizzazione e nella direzione, espressione di una sinistra che non tollera ne riconosce dignità all’avversario politico, perché invitare i ministri del governo di destra per poi contestarli, impedirne i discorsi e passare per intolleranti e autoreferenziali? Sul piano politico sono degli errori dilettanteschi, che conducono a scene ridicole come quelle a cui si è assistito sabato. Sono le stesse baruffe a cui assistiamo da anni per la scelta della direzione, per le case editrici considerate di destra che non dovrebbero partecipare, per la scelta degli ospiti e così via. Baruffe che vengono lautamente finanziate dai contribuenti perché il Salone del Libro si regge su una associazione privata che vive anche e soprattutto di finanziamenti pubblici, regionali in particolare. Ma su questo punto ci sono pure le colpe del centrodestra.

La Regione Piemonte siede, con proprio assessore, nel comitato direttivo del Salone del Libro. La Regione in sede di Comitato direttivo ha proposto come nomi di direttore del Salone, in sostituzione di Lagioia, tutte figure legate alla sinistra per venire incontro alla maggioranza del Comitato. Inoltre, la Regione Piemonte sostiene il Salone del libro, essendo il socio unico della Fondazione Circolo dei lettori che eroga contributi all’Associazione culturale Torino che dal 2018 è subentrata alla precedente Fondazione, non priva di problemi di sostenibilità del bilancio. La Regione Piemonte, come moltissime altre Regioni, contribuisce anche a sostenere gli stand degli editori e dei librai presenti. Essa, dunque, finanzia indirettamente l’associazione che gestisce il Salone. Viene da chiedersi perché una regione amministrata dal centrodestra non si opponga ad una associazione che, non da ieri, politicizza, esclude, impedisce l’espressione di una parte politica e culturale che oggi è maggioritaria per altro in Piemonte e nel paese. Insomma, perché continuare a riversare contributi pubblici, di tutti, nelle casse del Salone? La loro abolizione farebbe chiarezza perché si aprirebbero due scenari. La sinistra potrebbe essere in grado di realizzare privatamente, senza soldi dei contribuenti, il suo Salone autogestito e autoreferenziale. A quel punto nessuno porterebbe rivendicare un problema politico e l’organizzazione sarebbe libera da ossequi a ministri sgraditi e da relative contestazioni. Oppure, se l’associazione non fosse in grado di sostenersi da sola, essa sarebbe costretta ad aprirsi a sponsor e a partecipazioni associative di aziende ed editori vari, non tutti riconducibili ad una certa area culturale. A quel punto un po’ di sano capitalismo privato, anche nell’organizzazione della governance dell’associazione, riporterebbe probabilmente anche un po’ di pluralismo politico e culturale. Il messaggio di fondo è infine chiaro e semplice: basta offrire certi teatrini politici e certe manifestazioni di giacobinismo con i soldi di tutti i cittadini.

Il Salone dell'odio e dell'intolleranza. Murgia, Saviano e Zerocalcare contro la destra al potere. Ma le violenze del Salone del libro svelano chi sono i violenti. Andrea Indini il 20 Maggio 2023 su Il Giornale.

E per fortuna che, giusto ieri, Michela Murgia al Salone del libro puntava il dito contro quelli che a suo dire sono i "fascisti" da combattere. E cioè Giorgia Meloni e il suo governo. Perché a guardare quello che è successo oggi pomeriggio, sempre a Torino, verrebbe da pensare l'esatto contrario. E cioè che i fascisti non sono affatto quelli dell'esecutivo ma i violenti che hanno impedito al ministro per le Pari opportunità e la Famiglia Eugenia Roccella di parlare. Guarda un po', ancora una volta l'odio militante e l'intolleranza, che sfocia in manifestazioni di violenza fisica e ideologica, portano la firma dei soloni dell'antifascismo, disposti a tutto pur di imporre la propria ideologia.

E per fortuna che, giusto questa mattina, in una intervista a tutta pagina sul Domani, Roberto Saviano spiegava che "questa destra (quella al governo, ndr) è violentissima", che la Meloni parla "la lingua del picchiatore" e che il suo paradigma è "spaventoso" perché impedisce a "chi ha un'altra visione" di realizzarsi. Perché oggi pomeriggio, proprio a Torino, ci verrebbe da dire che è successo l'esatto contrario. A parlare "la lingua del picchiatore" non è stata certo la Roccella, che anche dopo l'aggressione ha invitato al dialogo, ma un gruppetto da sempre abituato a impedire a "chi ha un'altra visione" di esprimerla e a incassare il buffetto compiaciuto di quegli stessi progressisti che poi vanno sui giornali a pontificare. A muovere le mani sono stati, infatti, gli ecocretini di Extinction Rebellion e le femministe di Non una di meno. Hanno unito le forze, formando un inedito branco di intolleranti, per dire chiaramente chi ha diritto di parola e chi no, al Salone del libro di Torino come in tutta Italia.

E ancora. Per fortuna che, sempre questa mattina, dalle pagine di Repubblica, Zerocalcare rinfacciava alla sinistra di essersi fatta (letterale) "soltanto i cazzi propri" e di non aver determinato alcuna egemonia culturale. Perché a vedere il menefreghismo con cui i vertici del Salone del libro hanno accolto la cacciata di un ospite, che per di più è un ministro della Repubblica, saremmo spinti a pensare tutt'altro. E cioè che una "egemonia culturale" c'è (eccome!) e, guarda un po', non solidarizza con la povera Roccella. Anzi. Siamo spinti a credere, così su due piedi, che questa "egemonia culturale" simpatizzi più con gli scalmanati, che urlavano con la schiuma alla bocca, che con la democrazia.

E questo dovrebbe spingere tutti (anche il direttore uscente del Salone del libro, Nicola Lagioia) ad accendere un campanello d'allarme. Perché, quando il dialogo e il confronto vengono messi a tacere con la prepotenza, ebbene lì finisce la libertà. E non solo quella della Roccella e delle persone (poche o tante non importa) che volevano ascoltare quello che aveva da dire, ma anche quella di tutto il nostro Paese. Che oggi, con buona pace della Murgia, è un po' meno democratico e più fascista. E non certo per colpa della Meloni.

Rai e Salone del Libro di Torino, così si scoprono i veri fascisti. Davide Vecchi su Il Tempo il 21 maggio 2023

Ieri al Salone del libro di Torino un drappello di fascistelli travestito da compagnucci ha impedito al ministro per le pari opportunità, Eugenia Roccella, di presentare il suo libro «Una famiglia radicale». Scandendo lo slogan «fuori i fascisti dal salone» hanno vietato un confronto pubblico. Roccella ha invitato i contestatori a spiegare le loro ragioni, dando una lezione di stile. Ma di ragioni non ne avevano né quindi hanno saputo spiegarle. L’intervento del direttore del Salone, Nicola Lagioia, caldeggiato per calmare gli animi, ha ottenuto il risultato opposto. Del resto Lagioia invece di invitarli a lasciar parlare ha legittimato la contestazione per poi andarsene accompagnato da doverosi insulti. Un comportamento vergognoso. Ma domani, dopo ben sette anni, il suo incarico scade e quindi non ha più interesse a mostrarsi rispettoso del ruolo che svolge, preferendo schierarsi con un gruppetto di barbari, prepotenti e stupidi. Dunque fascisti. Lui stesso ha definito il fascismo come «una scala crescente di barbarie, prepotenza, paura e stupidità». Ma ormai è noto: la vittoria elettorale del centrodestra ha mostrato con chiarezza il fastidio per i principi basici della democrazia da parte di quanti democratici si autodefiniscono senza esserlo.

Lo abbiamo visto in Rai, dove i miracolati dalle lottizzazioni si sono quasi incatenati pur di non lasciare lo strapuntino. Lo vediamo in alcuni giornali che non avendo nulla di concreto da usare contro chi governa (e chi è vicino al governo) mischiano e agitano fango con menzogne nel tentativo di screditare i «nemici». E lo abbiamo visto ieri a Torino dove è stato impedito a una persona (prima che ministro) di esprimersi. Sono i fascisti di oggi. Censori e supponenti, capaci di tutto pur di difendere i diritti. I loro. Ché tutti devono poter parlare ma può parlare solo chi è autorizzato. Da loro, i veri fascisti.

Squadristi camuffati. I veri estremisti sono a sinistra: un gruppo di attivisti impedisce l’intervento del ministro Roccella a Torino. Il centrodestra: "Attacco illiberale". Denunciati in 29. Augusto Minzolini il 21 Maggio 2023 su Il Giornale.

Si può essere o meno d'accordo con le posizioni di Eugenia Roccella sull'utero in affitto, i diritti Lgbt o quant'altro. Non è questo il punto se si vuole esprimere un giudizio sull'orrenda gazzarra che ieri ha impedito al ministro della Famiglia e delle Pari opportunità di parlare al Salone del libro di Torino, quello che dovrebbe essere il tempio della cultura, del dialogo e del confronto. L'episodio appare, infatti, come un tuffo indietro nel tempo, negli anni '70. Solo che si tratta di una nostalgica parodia di ciò che fu, non di una sua riedizione: sparite almeno sulla carta le ideologie del secolo scorso (nel '68 in qualche modo la cultura c'era), ieri sono stati reiterati solo i comportamenti. È andato in scena uno strano gioco di specchi in cui uno strambo coacervo di pseudo-ambientalisti, pseudo-femministe, pseudo-comunisti che ha tolto la parola alla Roccella alla fine si è rivelato per quel che era: un gruppo di fascisti camuffati. Squadristi non nel pensiero ma, appunto, nei comportamenti. Il che è peggio. Assertori di poche idee, estremamente confuse, che per imporsi debbono ridurre gli interlocutori al silenzio. Con i rituali del passato magari imparati a memoria in qualche pellicola polverosa da cinema d'essai: proclami, accuse, slogan e cori da stadio e la portavoce che sul palco legge un comunicato dal significato ermetico, con una prosa da assemblea liceale. E meno male che era il Salone del libro! Gli estensori di quel ciclostile, pardon di quella paginetta scritta sul pc, di libri ne debbono aver letti ben pochi. Tant'è che danno vita ad una pagina della commedia dell'assurdo: denunciano un clima da regime, parlano di svolta a destra autoritaria, insomma paventano l'avvento di un nuovo fascismo come hanno fatto in questi mesi i loro fratelli maggiori, ma agiscono esattamente secondo logiche che nell'immaginario collettivo richiamano allo squadrismo. Un testacoda intellettuale, sempreché questa volta l'intelletto c'entri in qualche modo.

Eh sì, perché che cosa c'è più di intellettuale, di intrigante sul piano culturale, di un confronto tra diversi? Nulla. A meno che a qualcuno non piaccia la cappa da pensiero unico, quella che impongono le dittature, i regimi. Dittature che non debbono essere per forza politiche, ma possono anche essere solo culturali. In fondo è la pretesa che hanno sempre avuto certi salotti di sinistra, circoli ristretti che si atteggiano a liberal ma in fondo non accettano un altro punto di vista qualunque esso sia: si nutrono della religione del rispetto del «diverso» ma il «diverso» da rispettare è solo quello che scelgono loro; quello che, invece, non la pensa come loro è «out», diventa di botto un fascista. E non c'è nulla di più tragico, di più pericoloso di chi si sente depositario di una verità, di chi non coltiva insieme alle proprie convinzioni pure la categoria del dubbio. È tutto qui il seme velenoso dei totalitarismi. È la grande contraddizione di chi si atteggia a liberal e poi aspira a cancellare il passato. Di chi non accetta neppure l'idea che qualcuno possa pensarla al contrario. Di chi non rispetta la libertà di pensiero e paventa il ritorno del fascismo comportandosi da fascista. E fa una certa impressione scoprire al Salone del libro di Torino che per una certa sinistra anche quella vecchia frase attribuita a Voltaire dalla scrittrice Evelyn Beatrice Hall, stracitata addirittura da un antifascista come Sandro Pertini, sia finita in soffitta: «Non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo».

Salone del Libro, la sinistra scopre che c'è cultura a destra. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 18 maggio 2023

Inaugura oggi il Salone del Libro nell’era della destra e noi, beatamente storditi, usciti da mille Salon des Refusés, entriamo nell’antro torinese come tanti piccoli D’Annunzio attraversati dal fuoco dell’impresa di Fiume. Respireremo l’aria sanamente polverosa dei conservatori al potere. Caleremo come unni gentili tra gli stand progressisti che ancora dominano la scena artistica e editoriale. Brandiremo al cielo come arma L’egemonia culturale di Antonio Gramsci, il Sun Tsu della conoscenza: non a caso pubblicato dall’Historica editrice di Francesco Giubilei quel saggio segna oggi il record di vendita tra i lettori di destra, consci del fatto che per instaurare una nuova narrazione Gramsci è un livre de chevet. «Gramsci aveva capito che, oltre alla forza materiale, una classe per diventare dominante doveva impadronirsi di un bene più immateriale, cioè della capacità far apparire indiscutibili le proprie idee e i propri valori agli occhi della maggioranza», dice Walter Siti intellettuale su cui si può dir tutto tranne che sia di destra.

GUERRI E GLI ALTRI

Sicché, nonostante il Salone del Libro nell’ultima edizione di Nicola Lagioia resti astutamente progressista, siamo legittimati al leggero cambio di passo culturale. Non a caso il primo convegno in cui c’infileremo, tra i mille incastonati nelle kermesse, sarà La vita come opera d’arte, sottotitolo: «Un viaggio nell’inimitabile vita di Gabriele d’Annunzio con Giordano Bruno Guerri, storico e presidente del Vittoriale degli Italiani». Poi passeremo all’Omaggio a Benedetto Croce Filosofo liberale e conservatore con la nostra Lucia Esposito e Corrado Ocone. Transiteremo dalle parti di Eugenia Roccella che racconta Una famiglia radicale (Rubbettino): cioè la sua famiglia; da dove, forse in reazione all’educazione laica e libertaria impartitale da mamma e papà, la Ministra si è riconvertita ad un ultracattolicesimo di granito. E faremo una capatina alla presentazione dei mondi di Eliade (Omaggio a Mircea Eliade - I nuovi libri e i nuovi studi), storico delle religioni da sempre nel cuore della destra anni 70. E se proprio dovessimo abbeverarci a un solipsismo romantico, be’, ecco il ricordo pubblico dell’Avanguardia letteraria di Andrea Pinketts, noirista assoluto, uno che gli intellettuali fighetti alla Sartre li prendeva a testate. Questo per dire che, usciti dalla sindrome di accerchiamento, sanati i complessi d’inferiorità spesso emergenti dalla lettura del cult Fascisti immaginari di Lanna & Rossi; e trascorsa- vivaddio l’epoca infiammata del sovranismo e della reazione; be’, arrivati a questo punto, ecco dunque la folla dei meloniani nuovi e che avanza proponendo un Pantehon rimescolato. Certo: identità e difesa delle lingua madre, Dio, patria e famiglia, “rivoluzione dolce” restano i cardini della narrazione. Ma a scolorirsi sono via via, i vecchi miti del Movimento Sociale, a cominciare da Alain De Benoist che il 21 maggio presenterà al Salone il volume, La scomparsa dell’identità, la cui opera ci lascia completamente indifferenti, annoiati e talora irritati dall’eccesso di putinismo; ma privarlo della dignità di parola sarebbe un eccesso di fasciocomunismo. 

DENTRO E FUORI

E il suddetto Pantheon, appunto, è tutto un Grand Hotel, gente che va e gente che viene: fuori Evola, Tolkien, Junger, Prezzolini, Longanesi, Mishima e dentro Fusco, Bianciardi, Fellini, Flaiano finanche Pasolini e lo spiritualissimo Buzzati. Guareschi e Montanelli si confermano un classico, Ansaldo arretra. Tra le giornaliste Oriana Fallaci su tutte ma anche Gianna Preda e Ilaria Alpi hanno il loro perché. Roger Scruton resta adattissimo per difendere l’ecologia da destra, senza passare da Greta Thunberg, Bonelli & Fratojanni. E si potrebbe andare avanti all’infinito, seguendo il sentiero della follia verso il palazzo della saggezza tracciato dalla convention di Fratelli d’Italia dell’aprile 2022. Laddove Meloni lanciatasi dal trampolino delle svariate anime culturali toccò, dal 4%, il 30% dei consensi. La destra ha preso il passo gramsciano, ma dalla parte opposta della barricata. L’unico rischio è quello che Andrea Morigi nel prossimo pamphlet Conservatori Storia e attualità di un pensiero politico (Ares), discettando amabilmente di Edmund Burke e dei conservatori americani chiama del “fusionismo”. Ossia la Torre di Babele delle ideologie. Ma si tratta d’un rischio calcolato. È già una conquista poter parlare nel tempio della sinistra editoriale di una cultura di destra al Salone, senza complessi di sorta, senza ritrovarti gli anarchici allo stand, e con lo sguardo volto alle stelle. Ps. Mentre accade tutto ciò la senatrice Fdi Paola Ambrogio cita un laboratorio di lettura organizzato dal mondo Lgbt e denuncia che al Salone si veicola l’ideologia gender per i bambini. A proposito di egemonia...

Giampiero Mughini per Dagospia il 9 aprile 2023.

Caro Dago, da lettore fedelissimo del Fatto sto seguendo la polemica se sì o no il libro dedicato alla guerra in Ucraina da una delle firme del quotidiano romano, il professor Alessandro Orsini, sarà presentato alla corrente edizione del Salone del libro di Torino. Cerco di capire se sì o no c’è stata da parte di chi dirige quella manifestazione una sorta di censura nei confronti di Orsini, uno le cui tesi sono vivamente deprecate dalla larga parte dello schieramento politico/intellettuale italiano favorevole a un appoggio senza riserve agli ucraini aggrediti da quella che una volta chiamavamo l’Armata Rossa.

Il gran capo del Salone di Torino, Nicola Lagioia (l’anno prossimo sarà sostituito da Annalena Benini), ha detto che non c’è e non ci sarà nessunissima recensione, solo che al Salone c’è posto per tre libri e non uno di più tra quelli dei collaboratori del Fatto e che quei tre libri erano stati già accettati. Tutto qui. Ne sta parlando uno che non è d’accordo con le posizioni espresse da Orsini ma che legge attentamente i suoi articoli ogni volta che ne compare uno sul Fatto. E ci mancherebbe altro che leggessi solo quello che condivido dalla a alla z.

Quanto alle presentazioni di libri, e dei noiosissimi cerimoniali annessi e connessi, confesso che non ne sono un frequentatore. I libri vanno comprati, letti, io ne ho bisogno quanto dell’aria che respiro. Le presentazioni di solito sono quanto di più prevedibile, un inesausto osanna all’autore presente che ne sorride soddisfatto. Mai un “presentatore” che per arrivare al pubblico usi tre parole anziché dieci, che parli dieci minuti anziché venticinque. Mai. E dunque meglio di no, meglio non esserci.

 Estendo questa linea di condotta ai libri di cui sono l’autore, nel senso che le loro rispettive case editrici sanno bene che non gradisco l’andare di qua o di là a fare presentazioni che non servono a niente e che non aumentano di nulla l’area di quindici lettori che costituisce il pubblico dei miei libri.

Quando su Dagospia vedo le foto dei tanti i quali _ogni giorno che Dio manda in terra _ accorrono estatici alle presentazioni del libro ora di questo ora di quello, mi chiedo se poi nel chiuso della loro stanzetta professionale ne aprono una pagina del libro alla cui presentazione sono accorsi e purché in favore di fotocamera. Le presentazioni sono eventi mondani, tutto qui, e dunque invisi a uno come me che non ama i luoghi dove si affollano più di sei persone.

Semmai andrei di corsa alla presentazione del libro di un qualche autore derelitto se non maledetto, e di cui vorrei saperne di più e meglio, che so?, ad esempio di un Pitigrilli, per dire di uno scrittore che tra le due guerre fu uno dei più venduti in Europa e non soltanto in Italia e che oggi passa unicamente per un’ex spia dell’Ovra. Un personaggio dalle cui valenze sono ossesso da tempo, e da tempo accumulo i libri suoi o che lo riguardano. (Ne sta parlando uno legato da affetto filiale verso Vittorio Foa, l’antifascista torinese che Pitigrilli contribuì a far mandare in una cella fascista, dove Fora rimase più di otto anni.)

Ecco, è un’idea che fornisco gratis alla mia prelibata Annalena, che avevo conosciuta ventunenne a una cena in casa di Pierluigi Diaco. Ossia fare l’anno prossimo al Salone di Torino una presentazione/resurrezione di Pitigrilli. Del resto venti e più anni fa lo fece a modo suo Umberto Eco, per dire di uno che se ne intendeva. Quella chiacchiera sì, quella sarebbe da leccarsi i baffi. Ma quei poveracci del politically correct non saranno d’accordo, direte. Per l’appunto, e chi se ne frega di questi aurei imbecilli del nostro tempo?

Estratto dell'articolo di Giuliano Ferrara per “il Foglio” il 4 aprile 2023.

Parigi perde le sue trottinette, a noi il monopattino. Annalena Benini o se volete Annalena, campione di leggerezza e libertà letteraria, dirigerà la nostra Francoforte sul Po, il salon des salons, il tempio torinese del libro. 

 (...)

 Benini, rigorosamente senza l’articolo determinativo che non usa più, nasce beneducata nella migliore provincia italiana, quella di Micòl Finzi-Contini; nasce capace di scrivere con una facilità complicata e commovente, l’analitica delle emozioni con un tocco sdrucciolevole e ilare; nasce bella di una bellezza tradizionale sognata anche dai colonnelli dell’Esercito in pensione; nasce con una grinta maliziosa che la libera dalla necessità di esibire un curriculum banale, che la lega ai figli all’amore alla casa e al lavoro come una mamma e come una serpe di campo che sa stare sulla riva del fiume senza sgambettare e sgomitare.

 (...) Annalena è unica. (...) Per una macchina infernale come il Salone di Torino è sulla carta una benedizione.

(...)

 Con Giuli al MAXXI, Annalena Benini al Salone e Buttafuoco al solito segnale orario, da lui sempre sognato, viene naturale pensare anche a un cambio di stile, che magari non piacerà a tutti ma avrà qualcosa da dire, specie dopo il late style o stile del sublime senile che ci ha un po’ afflitto negli ultimi decenni di arte, cinema, musica e letteratura, con tutti i suoi meriti, le sue bellurie e le sue bellezze. Da qui inevitabile un sornione e garbato tributo di gratitudine al nuovo regime, che per fortuna e astuzia si rivela fatto della solita vecchia pasta nazionale ma con un minimo di inventiva e di audacia in più, ah! la Nazione e il tempo che passa. Si dice che i premi letterari bisogna evitare di meritarseli, ecco. Una kermesse di editoria e feste librarie non è un premio letterario, ma è consolante che vada in braccio a una scrittrice che non l’ha meritata.

Estratto dell'articolo di Massimo Novelli per “il Fatto quotidiano” il 4 aprile 2023.

 Il Salone del Libro di Torino ha una nuova direttrice per il prossimo triennio: è Annalena Benini, giornalista e scrittrice. Prenderà il posto, dalla fine di maggio, di Nicola Lagioia. Ferrarese, classe 1975, scrive per Il Foglio, dove si occupa di cultura e cura un inserto settimanale.

 È sposata con il giornalista Mattia Feltri, che, una volta, ha scritto di lei: “Era alla redazione di Roma del Foglio, io a Milano. Era entrata come stagista grazie all’interessamento di sua zia Daria Bignardi e di Luca Sofri”.

Si dice sia vicina a Comunione e Liberazione. La sua nomina è arrivata a sorpresa ieri pomeriggio. Una scelta, quella di Benini, che fa seguito alle polemiche e alle querelle dei mesi scorsi, che avevano trasformato la questione della direzione della kermesse del Lingotto in una vicenda di ordinaria tentata spartizione dei posti.

 Qualche settimana fa, infatti, lo scrittore Paolo Giordano, il candidato allora favorito per guidare il Salone, aveva deciso di uscire di scena per le troppe ingerenze politiche locali e romane, a cominciare da quelle del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Ingerenze, in particolare, sugli “amici” graditi alla destra da inserire nel comitato direttivo della kermesse: da Pietrangelo Buttafuoco a Giordano Bruno Guerri. Paolo Giordano, inoltre, piaceva poco a Sangiuliano e soci in quanto ritenuto troppo di sinistra, e forse anche troppo indipendente.

La nomina di Benini è frutto di un vero coup de théâtre, degno dei più consumati capocomici: nel caso sono Alberto Cirio, presidente di centrodestra della Regione Piemonte; il sindaco di Torino Stefano Lo Russo, centrosinistra, e Silvio Viale, presidente dell’Associazione Torino Città del Libro, detentrice del marchio della manifestazione.

I tre hanno annunciato la nuova timoniera, sebbene si fosse detto fino alla noia che la scelta sarebbe giunta solo dopo il Salone, quello del maggio prossimo. La loro mossa è una replica in chiave neanche troppo postmoderna dei vecchi consociativismi destra-sinistra della Prima Repubblica. Una sorta di compromesso storico, insomma, quello che fu caro alla Dc e a certo Pci.

 Accontenta tutti e va persino in controtendenza, in ogni caso, rispetto alle politiche settarie del governo Meloni. Che Torino sia ancora una volta una città laboratorio? 

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La mia sconosciuta preferita. Le cinque risposte che ho dato a tutti sulla nuova direttrice del Salone del Libro Annalena Benini. Guia Soncini su L’Inkiesta il 5 Aprile 2023

In un mondo di mitomani, lei è una di cui non sai niente pur parlandoci quasi tutti i giorni. Di certo, però, finge di essere indolente, ha fatto la gavetta scrivendo le previsioni del tempo e ora va a comandare in tangenziale con i tacchi

«Mortacci di voi che leggete. Solo io posso leggere!». Il messaggio è di due settimane fa, quando Annalena Benini aveva già letto circa cinquantasette versioni del mio nuovo libro, e io neanche un rigo del suo, che mi aveva promesso di mandarmi circa trecentotredici volte, come le vere seduttrici abili a farti credere materassi che non hanno intenzione di mantenere.

Stavamo parlando del Salone del Libro, quello di quest’anno, di che giorni fossero le varie presentazioni, di chi avrebbe appunto presentato il suo libro (che esce la settimana prossima e poi ne parliamo). Lei mi ha detto il nome del fortunato presentatore e io ho fatto (malissimo, come sempre) la parte dell’offesa: ah, quindi l’ha letto anche lui, solo io figlia della serva no.

Solo io posso leggere, puntesclamativo. Ho pensato che era il messaggio più annalenico che mi avesse mai scritto, specialmente perché seguiva uno scambio in cui – ero a Londra – lei mi scriveva «Non mi hai neanche detto cosa fai lì», e io mi precipitavo a raccontarle ogni dettaglio dei miei spostamenti e delle di essi ragioni. Truman Capote diceva che, per farsi raccontare qualunque cosa da Marlon Brando, gli aveva spiattellato tutti gli affari propri, e a quel punto quello si era sentito in dovere di dire qualcosina di sé. Annalena fa il contrario.

Quando condividevamo un open space, vent’anni fa, avevamo silenziosamente convenuto che la gag comica che più la rappresentava fosse quella di Luciana Littizzetto che, per fare una gatta morta, miagolava e poi, «stump!», si accasciava sulla scrivania di Fabio Fazio. Appena qualcuno – ingenuo o spericolato – cercava di far scoprire Annalena su qualcosa, di ottenere da lei una qualsivoglia reazione, il nostro lessico famigliare era «miao, stump».

«Miao, stump» e «Solo io posso leggere» mi sono tornati in mente ieri verso le quattro del pomeriggio, quando il telefono ha iniziato a riempirmisi di messaggi che volevano da me, illusi che Annalena confidasse qualcosa a qualcuno, conferme della notizia: ma veramente la tua amica è la prossima direttrice del Salone? Mi sono trattenuta dal rispondere «amica a chi, ahò»: ormai vivo nel terrore del travisamento dei toni, come tutti.

L’unica sveglia, tra le mie amiche, dopo avermi mandato l’agenzia di stampa che riportava la notizia, e dopo che le avevo risposto «Ma ti rendi conto che ci ho parlato due ore fa e non mi ha detto niente?», ha concluso: «È così che si diventa capi del mondo».

Quella che meno la conosce mi ha fatto molto ridere, perché senza neanche dire «pronto» ha esordito con sicumera: «Tu lo sapevi e non mi hai detto niente». Non sa, la tapina, che Annalena sta all’essere omertose come Grace Kelly stava al portare lo chignon.

Tra quelle di cui non so niente, Annalena è la mia persona preferita. Lo so, lo so: penserete che lo dica per tenermi buona la mandarina che ci possiamo permettere, penserete ci tenga moltissimo ad andare in una fiera alla periferia di Torino a dire a gente che o si è già comprata il mio libro o non se lo comprerà comunque quanto esso sia un’opera pregevole e istruita. Ma invece è proprio la mia sconosciuta preferita.

Dico: avete presente quant’è raro, in un mondo in cui tutti smaniano per dirti di sé, che ci sia qualcuno di cui non sai niente pur parlandoci quasi tutti i giorni? Avete presente quant’è raro – in un mondo di mitomani che ti raccontano incarichi che poi per l’invasione delle cavallette non riceveranno mai, ma che tutti li starebbero supplicando di accettare – avere in rubrica il numero di una i cui incarichi riescono a sorprendere tutti?

Ci sono, ovviamente, anche quelli che sono perplessi dalla scelta; alcuni dei quali hanno chiamato me, essendo convinti ch’io sappia cose – illusi. Ho dato le stesse cinque risposte a tutti.

La prima è: ahò, ma è una fiera (l’editoria è chissà perché convinta che il Salone di Torino sia una via di mezzo tra l’Angelus e Sanremo, e richieda investiture, competenze, e chissà che altro).

La seconda è: io non mi chiedo perché il Salone abbia chiamato lei, mi chiedo chi gliel’abbia fatto fare a lei di accettare. (Se Annalena non fosse la reginetta delle omertose, glielo chiederei. Ma tanto so che svicolerebbe senza guastarsi lo chignon).

La terza è: come tutte le rassegne, il Salone richiederà innanzitutto capacità di avere a che fare con gli esseri umani, e Annalena ha un talento ineguagliato per l’avere a che fare con gli umani, per far sentire la persona con cui parla importante, stimata, preziosa, interessante. Miao, stump.

La quarta è: può imparare, sa imparare, imparerà a far tutto. Quando condividevamo un open space faceva le previsioni del tempo. Giuro. L’avevano messa a scrivere le righe di previsioni del tempo che riempivano uno spazio sotto la gerenza del Foglio. Adesso che tutti (pure quelli che si chiedono se sappia dirigere una fiera) sono concordi nel considerarla la miglior critica culturale italiana, a me viene il sospetto che sia l’unica persona che (non) conosco ad aver fatto la più classica delle gavette: era la stagista delle previsioni del tempo. (Su «La stagista» poi ci torniamo quando parleremo del suo libro: considerate questo paragrafo un teaser della seconda stagione).

La quinta risposta che ho dato a tutti è: sottovalutate la capacità di Annalena di macinare lavoro sempre sembrando una che non ha mai lavorato un minuto in vita sua. La prima cosa che ho fatto, quando mi è arrivato il suo libro, è stata cercare la parola con cui da sempre la sento definire da maschi veneranti: indolente. C’è due volte, perché non si diventa capo del mondo senza assecondare ciò che il mondo crede d’aver capito di te, e quindi Annalena alimenta la menzogna della sua indolenza. Direi che in ciabatte in tangenziale va a comandare, ma sarebbe inesatto: tutto questo lo fa pure, come Ginger Rogers, coi tacchi a spillo. Delle donne cui non somiglierò neanche tra sette vite, hanno scelto la più mirabolante.

Salone Libro, Vittorio Feltri: «Mia nuora direttore, con me e mio figlio siamo tre in famiglia, troppi». Redazione online  su Il Corriere della Sera il 4 aprile 2023.

Lo scrive su twitter il fondatore di Libero commentando ironicamente la nomina di  Annalena Benini a direttore della Fiera Internazionale del libro 

«Mia nuora Annalena Benini è diventata direttrice del Salone del Libro di Torino, mio figlio Mattia è direttore di un giornale, io pure da molti anni. Tre in una sola famiglia sono troppi da sopportare». Lo scrive su twitter Vittorio Feltri, commentando ironicamente la nomina della nuora Annalena Benini a direttore del Salone del Libro di Torino.

Chi è Annalena Benini, la nuova direttrice del Salone del libro di Torino. Alla fine il nome è arrivato: sarà la scrittrice e giornalista del Foglio a succedere a Nicola Lagioia per il triennio 2024-2026. Il Dubbio il 3 aprile, 2023

L’annuncio della nomina di Annalena Benini come nuova direttrice del Salone Internazionale del Libro di Torino è arrivato a sorpresa questo pomeriggio. E mette fine alle attese degli ultimi tre mesi, dopo il passo indietro dalla corsa di Paolo Giordano, su cui c’erano le convergenze dei più, che lamentava però un problema di ingerenza politica. E il declino anche dell'ipotesi del tandem Giordano-Culicchia circolata per un po’. L'accordo è stato finalmente raggiunto su Benini: sarà lei a succedere a Nicola Lagioia per il triennio 2024-2026.

Laureata in Giurisprudenza, è nata a Ferrara nel 1975 e vive a Roma. Sposata con Mattia Feltri, figlio del noto giornalista Vittorio Feltri, ha due figli, dal 2001 scrive di cultura per Il Foglio. Ha fondato e cura l'inserto settimanale “Il Figlio” e la rivista culturale “Review”. Ha pubblicato diversi libri, tra cui “La scrittura o la vita. Dieci incontri dentro la letteratura” (Rizzoli nel 2018). Per la Rai ha scritto e condotto i programmi televisivi “Romanzo italiano” e “Pietre d'inciampo”. Per Einaudi ha curato l’antologia I racconti delle donne (2019). Il suo ultimo libro, in uscita in questi giorni, è il romanzo “Annalena” (Giulio

Einaudi Editore).

La nuova direttrice, come hanno reso noto Alberto Cirio, presidente della Regione Piemonte, Stefano Lo Russo, sindaco della Città di Torino e Silvio Viale, presidente dell'Associazione Torino Città del Libro, detentrice del marchio della manifestazione dal 2018, sarà in carica per il triennio 2024-2026. Benini succede al Nicola Lagioia, autore di libri, tra gli altri come La ferocia, Premio Strega e premio Mondello nel 2015 e La città dei vivi, che ha diretto il Salone del libro di Torio a partire dal 2016. Nel novembre dello scorso anno, Lagioia aveva annunciato la sua intenzione di non ricandidarsi alla guida della kermesse. Guiderà la manifestazione torinese fino all'edizione 2023.

Le mani della destra sulla cultura: nel mirino ora c’è il Salone del libro. Paolo Berizzi il 3 Febbraio 2023 su La Repubblica.

Dopo il Maxxi affidato a Giuli, gli uomini di Giorgia Meloni, da Giubilei a Sangiuliano, sono a caccia di rivincita sull’egemonia storica della sinistra

L’ultima offensiva l’hanno lanciata sul Salone del Libro di Torino, aprendo il nuovo fronte della scelta della direzione: la vogliono loro. O meglio, hanno già detto chi non vogliono come direttore. A termine la gestione Nicola Lagioia - “mi fermo qui”, ha annunciato lo scrittore a novembre (chiuderà con l’edizione 2023 affiancato dal suo successore) -, FdI ha posto un veto su Paolo Giordano.

Il Salone del Libro di Torino: dignità e politica. Marco Castelnuovo su Il Corriere della Sera il 16 Febbraio 2023.

Paolo Giordano ha mantenuto un atteggiamento lontano anni luce da chi ha partecipato al teatrino che sta rendendo ridicola Torino davanti al Paese

Dovevamo aspettarcelo. Paolo Giordano, torinese classe 1982, Premio Strega nel 2008 e ancora oggi ai vertici delle classifiche dei libri più venduti (e più tradotti) con il suo recente «Tasmania», si è chiamato fuori dalla corsa alla direzione del Salone del Libro, anche se, ancora l’altra sera, era il candidato più forte. Poi sono intervenuti poteri evidentemente troppo forti: non è bastato avere dalla sua la maggior parte di chi doveva decidere. Francamente nessuno sa se fosse la scelta migliore. Ma già la reazione che Giordano ha avuto, ponderata, non urlata ma non per questo meno netta, denota che aveva le caratteristiche giuste per succedere a Lagioia. A partire dalla dignità nei confronti di chi pensa che il Salone sia una delle tante poltrone da occupare. Inoltre, particolare non secondario, è sì nato e cresciuto a Torino, ma a Torino non vive più da anni. È fuori dunque da quello striminzito circolino fatto dalle solite cinquanta personalità che si scambiano le poltrone in città. 

Giordano ha mantenuto un atteggiamento — quello sì sabaudo — lontano anni luce da chi ha partecipato in questi ormai lunghi mesi al teatrino che sta rendendo ridicola Torino davanti al Paese. Chi legge sempre il Corriere della Sera avrà trovato i suoi articoli sui contagi da Covid 19. È stato infatti il principale intellettuale che ha affrontato la pandemia. Ha dimostrato così il coraggio di sapersi porre le domande giuste alle sfide del nostro tempo. Altra caratteristica che il direttore del Salone del Libro che vorremmo, deve avere. A fare una brutta figura è Torino nel suo insieme, incapace di trovare una quadra dopo aver deciso una road map rivelatasi carta straccia. Spiace per tutti coloro che si sono candidati sperando in un percorso trasparente. Spiace per chi pensa che le cose a Torino funzionino diversamente dalle altre nomine di carattere nazionale. Spiace pensare che questa lotta di potere si faccia sul Salone del Libro, unico tesoro culturale della città assieme al museo Egizio. Un Salone che ha dimostrato di resistere ai soldi di Milano, ma che non è detto possa altrettanto resistere di fronte a famelici appetiti.

Estratto dell'articolo di Mirella Serri per “la Stampa” il 25 febbraio 2023.

«Vittorini se n'è ghiuto e soli ci ha lasciato!». Così, in un celebre corsivo, Palmiro Togliatti attaccò, sarcastico, lo scrittore quando nel 1951 dichiarò pubblicamente che non era più comunista. Era il punto di arrivo di uno scontro drammatico che si era consumato tra il romanziere siciliano e il segretario del più grande partito comunista d'Europa sulle pagine de Il Politecnico, una delle più belle riviste del Dopoguerra, diretta da Elio Vittorini, legata al Pci e finanziata dall'Einaudi.

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Alle mazzate dei dirigenti comunisti Vittorini rispose che la letteratura non poteva «suonare il piffero della rivoluzione»: la rivista uscì dalla polemica a capo chino, rifilata e censurata, prona al diktat della politica, e poco dopo morì. Non aveva più ragione di esistere: testimoniava così che la cultura non si può occupare a colpi di dirigismo politico e di ordini su cosa la letteratura, l'arte, il cinema e i giornali debbano fare.

La storia stranamente si ripete. Di recente allo scrittore Paolo Giordano è stato chiesto dalla politica, questa volta di destra-centro, di "suonare il piffero" alle richieste dei suoi partiti. Il narratore, in procinto di tagliare il traguardo della direzione del Salone del libro di Torino, ha denunciato: «Sono state fatte richieste specifiche per dei nomi da includere nel comitato editoriale, aspetto su cui non avrei potuto negoziare. La cultura, e il Salone del libro, non meritano di essere lottizzati dal partitismo».

 La pressione esercitata dal partitismo è arrivata sotto forma di richiesta di "affiancare" alla direzione di Giordano quattro intellettuali di area di centro-destra.

Il tentativo di assaltare la cittadella del Salone torinese non è un fenomeno isolato: si manifesta come un ulteriore, per il momento non riuscito, escamotage degli "uomini nuovi" di scalare il mondo della cultura. Emerge ancora una volta il desiderio degli underdog intellettuali della nostra destra di uscire dalla marginalità e di sostituirsi a quella che considerano l'egemonia culturale della sinistra. L'ambizione si è manifestata fin dalle prime sortite del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Neoeletto, ha subito annunciato di voler programmare «il recupero dell'identità della nazione, soprattutto come identità culturale, oltre che linguistica e geografica». In questo contesto è arrivata la sua rivelazione della scoperta di Dante «fascio», come scherzosamente ha detto il vignettista Osho, o in camicia nera o comunque come esponente di una cultura di destra.

A Sangiuliano si è accodato il ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara che ha esortato a «ripartire da noi stessi, ad amare di più la nostra gente, il vicino di casa, la nostra cultura» e ha progettato per gli scolari lo studio del folclore e delle realtà locali. Poi è arrivata la battaglia per la cancellazione del bonus cultura per i giovani: un modo, anche questo, per far la voce grossa e rimettere in riga ragazzi orientati verso consumi assai poco legati alla "nazione" e molto esterofili o "cosmopoliti" che dir si voglia.

Come dimostra il caso del Politecnico - o come appare dalle tormentate vicende della cultura novecentesca schiacciata dai regimi dittatoriali - la produzione intellettuale non si può completamente irregimentare, si può soffocare e noi possiamo in emergenza ricorrere ai samizdat e affini. È l'egemonia culturale di sinistra che fa gola alla destra? Come è nata? E come si è affermata?

 La sinistra ha conquistato ampi spazi nel Dopoguerra e ha favorito la produzione di film, spettacoli, libri, riviste e giornali soprattutto sostenendo battaglie per la libertà. Il Pci, dopo il maldestro tentativo di mettere il bavaglio a Vittorini, per decenni si è scagliato contro la Dc, i bigotti e i conservatori e si è messo a capo di moltissime proteste per favorire la libertà di espressione: ha difeso gli artisti che ironizzavano su Pio XII o che ne denunciavano la connivenza con il nazismo, ha combattuto contro la censura de La governante di Vitaliano Brancati considerata "scabrosa" e "contraria alla morale" in quanto parlava di omosessualità femminile e, tanto per continuare negli esempi, ha sposato la causa di Pier Paolo Pasolini, attaccato dai giovani di estrema destra. Ma si potrebbe continuare a lungo.

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Lettera di Luigi Mascheroni a Dagospia il 25 febbraio 2023.

 Caro Dago,

ho letto l’articolo dell’amica e collega Mirella Serri sul presunto “assalto” della  destra al Salone del Libro di Torino. Spiace, ma si tratta di un pezzo fazioso, e va bene; ma soprattutto disonesto. Non esiste alcun assalto al Salone (così come non esiste alcun fascismo in Italia, peraltro).

È stato il Salone del libro - attraverso il suo responsabile delle Relazioni istituzionali - a chiedere un incontro col ministro della Cultura perché si provasse a risolvere la situazione di stallo che si era creata nella nomina del prossimo direttore della manifestazione. E il ministro ha agito benissimo, sciogliendo l’impasse; ha dato l’ok a Paolo Giordano, voluto soprattutto dai privati. Fine.

 Era tutto risolto. E poiché attualmente i consulenti del direttore del Salone sono ben 17, ha suggerito (non imposto) di coinvolgere anche tre persone  (ripeto: 3, non 17) che fossero di area culturale/politica diversa rispetto al blocco dei consulenti (che attualmente è una sorta di congresso ombra del Pd, corrente massimalista…). Tutto qui.

Poi Paolo Giordano, che è un ragazzino che non sa stare a tavola, oltre che scrittore inadatto a organizzare alcunché, si è messo a frignare, minacciando di andarsene con il pallone perché l’arbitro della partita non lo poteva decidere lui. Ed è saltato tutto. Poi la sinistra dei giornaloni democratici e antifascisti ha fatto il resto, montando la cagnara e i piagnistei. Cui Mirella Serri si è accodata. Tutto prevedibile, scontato e - se permetti - un po’ noioso.

Grazie per l’ospitalità

Salone del libro, la cultura è libera solo se gestita da compagni. Luca Beatrice su Libero Quotidiano il 18 febbraio 2023

Il Salone del libro di Torino edizione 2024 non ha ancora un direttore designato e questo potrebbe non essere un grave problema visto che per quest’anno è ancora saldo al comando San Nicola Lagioia. Per il prossimo, invece, tutto è da rifare per via, come è noto, del rifiuto di Paolo Giordano il quale ha dichiarato senza mezzi termini che lui i consulenti proposti dal ministero proprio non li vuole perché il loro appartenere all’ala destra li squalifica automaticamente. Al definitivo no si somma l’aver storto il naso per la co-direzione affidata a Elena Loewenthal, che di destra non è ma persona per bene convinta, lei sì, che la cultura sia di tutti.

Se la sinistra non è più la regina delle librerie

QUATTRO QUESTIONI

Con garbo istituzionale, sconosciuto al suo predecessore, ieri il ministro Gennaro Sangiuliano ha precisato il proprio pensiero in quattro punti.

1. Il Ministero della Cultura non ha nessuna posizione nel cda del Salone, da cui il rispetto nei confronti dello statuto.

2. La richiesta di collaborazione è arrivata direttamente dagli organizzatori del Salone stesso.

3. E dopo tale richiesta il Ministero ha proposto alcuni nomi nel comitato consultivo (va specificato, non è un organo di governo ma consultivo) per garantire un pluralismo che nei fatti non c’è mai stato.

4. il più importante, Giordano dovrebbe spiegare perché non può collaborare con intellettuali del calibro di Pietrangelo Buttafuoco, Alessandro Campi e Giordano Bruno Guerri.

Ne è seguita una nota dell’Associazione Torino, la Città del Libro, proprietaria del marchio Salone Internazionale del libro, che liquida così la vicenda: per noi Giordano resta il candidato, al momento il tavolo si ferma qua e se ne riparlerà magari a giugno. Non proprio un atteggiamento propositivo. A commento, partiamo da quest’ultimo dato: se il direttore individuato è Giordano (se ne parla fin dall’estate scorsa), perché non nominarlo direttamente invece di allestire un bando (costoso) e prendere in giro gli altri 50 candidati? Bisogna ammetterlo, tocca rimpiangere il metodo Sergio Chiamparino che in accordo con l’ex ministro Massimo Bray scelse Lagioia senza alcuna procedura. Poiché non siamo né ideologici né prevenuti, ammettiamo che sia andata bene. Merito della politica è scegliere, demerito è far finta. Per l’edizione 2023 il direttore Lagioia si avvale della collaborazione di ben 17 consulenti editoriali: ad eccezione di Giuseppe Culicchia, laico nel suo tirarsi fuori dalle parti, gli altri, e tra questi Mattia Carratello, Claudia Durastanti, Helena Janeczek, Loredana Lipperini, Valeria Parrella, sono tutti ascrivibili a sinistra. Il loro lavoro ha fatto sì che non vi fosse nessuna possibilità di ascolto o dialogo per autori di diversa area. Cosa temeva Giordano, l’arrivo dell’armata delle tenebre?

  Cosa avrebbero potuto fare tre consulenti “ministeriali” al cospetto di un fronte così compatto? Di sicuro non saremmo andati verso la parità tanto auspicata... Esiste inoltre un equivoco di fondo sul ruolo dell’intellettuale, la cui indipendenza dalla politica si richiede solo a destra, abituato a volare alto, a vivere nel proprio mondo e atterrare solo quando fa comodo. Uno scrittore messo a capo di una struttura organizzativa così complessa non può essere altro che un provvisorio prestatore d’opera: il Salone serve perché dà prestigio, titoli sui giornali, visibilità, insomma fa gola a tanti, anche al Giordano renitente che l’avrebbe impostato sullo stile monarchico assoluto di Lagioia e invece si è trovato a dover fronteggiare la nobile arte (politica) del compromesso senza averne né il fisico né le capacità. A Torino, città piena di intellos, lo stanno già martirizzando, raccontando in giro una falsissima verità, che antidemocratico è chi suggerisce gente che la pensa in maniera diversa e non chi la rifiuta per partito preso, come si usava negli ani ’70, «i fascisti (ma quali?!) non devono parlare».

Nella serata di ieri il comunicato della Regione Piemonte e la dichiarazione del sindaco di Torino: procedura chiusa e tutto rinviato a dopo il Salone 2023 quando si cercherà di individuare una figura condivisa per il triennio successivo, e senza la “farsa” del bando che possa riscattare la figuraccia di palta, ridisegnando gli equilibri interni tra sfera pubblica e privata, nominare una nuova governance a partire dal presidente. E con il Ministero più coinvolto a cui la Regione sembra voler chiedere uno sforzo per acquistare il marchio. Unica buona notizia, aver scongiurato Giordano che si sente “unto dal Signore”, indisponibile a considerare gli altri, neppure esistesse solo lui. Almeno per ora.

Estratto dell’articolo di Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 18 febbraio 2023.

Un matrimonio consanguineo tra Radio 3 e un centro sociale ha dato vita al Salone del libro di Torino e ai suoi tanti fratelli minori, [...]. Questo lo stato della cultura italiana che sarà difficilissimo scalfire o cambiare, anche se questa volta l’impegno c’è.

 Personalmente detesto parlare di discriminazione, termine lagnoso abusato dalle categorie presunte deboli, però tanti episodi innescano una casistica e a ripercorrere la storia recente del Salone tocca ribadire la totale egemonia della sinistra nella costruzione del racconto, nella scelta di temi e ospiti, nell’organizzazione di spazi e dibattiti.

Atteggiamento che è si radicalizzato proprio quando il Paese reale chiedeva altro.

Il primo episodio fu forse il più grave. Correva il 2008, quarto governo Berlusconi da poco insediato, Israele venne scelto come Nazione ospite, e conoscendo la grandezza di autori quali Oz, Yehoshua, Grossman e Nevo non avrebbe dovuto esserci alcun dubbio.

 E invece la sinistra radicale non ci stette e inscenò manifestazioni vergognose per le strade di Torino, tirandosi dietro il plauso di parecchi intellettuali filopalestinesi. I comunisti italiani parlarono di scelta vergognosa, ci fu addirittura un allarme bomba a mettere in allarme la questura mentre i cosiddetti antagonisti sfilarono indisturbati per la città.

Era quello il tempo del duo Picchioni–Ferrero, presidente e direttore del Salone, e nessuno ne avrebbe messo in discussione il potere. Rolando Picchioni, intelligentissimo democristiano maestro nell’arte del compromesso, accettò la mia proposta di curare un paio di incontri sulla cultura di destra in Italia, affidandomi una sala gratis e questo fece la differenza perché mentre l’editore che paga può invitare chi vuole a sue spese, nel programma culturale del Salone, quello a invito insomma, non c’è traccia di autori di destra che siano ospitati dall’organizzazione.

Diktat: non si mettono soldi per chi non è di sinistra. Fu un evento in qualche modo eccezionale cui parteciparono tra gli altri Marcello Veneziani, Pietrangelo Buttafuoco, Alessandro Giuli, Stenio Solinas, Luigi Mascheroni e Angelo Crespi. Collocazione pomeridiana senza dar troppo nell’occhio e senza pubblicizzare oltremodo l’evento, già eravamo stati invitati e andava bene così.

 Con l’arrivo alla direzione di Nicola Lagioia, supportato da un komintern su posizioni da ultrà del pensiero post-marxista, i minimi spazi di dialogo si sono chiusi.

Un esempio? Paola Mastrocola mai più invitata in quanto sostenitrice di una scuola troppo conservatrice e contro le menate di certi educatori lassisti. Un’autrice che non faceva fatica a riempire una sala da 200 posti, depennata e mai più riammessa.

 Nel 2019 la polemica montò a più parti, quando il quotidiano la Repubblica si accorse che l’editore Altaforte presentava nel proprio stand la biografia di Matteo Salvini scritta da Chiara Giannini, collaboratrice de Il Giornale, scortata dalla digos per entrare al Lingotto.

 […] Di come vanno le cose a Torino è sintomatica Biennale Democrazia (del Pd), la cui impostazione culturale è gemella del Salone. Nell’ottobre 2021 fu strombazzato il dibattito «Chi dice cancel culture» organizzato dal Salone stesso con la partecipazione di Marco Damilano, allora direttore de L’Espresso, la scrittrice Helena Janeczek e Adriano Ercolani de Il Fatto Quotidiano.

 Tutti e tre sulla stessa identica posizione, cancellare è giusto, censurare ancora di più in nome del politicamente corretto. Nessun parere contrario era stato previsto, se la cantarono e suonarono da soli, facendo passare il consueto messaggio: la verità è quella che vogliamo noi, non ne esiste nessun’altra.

Sono solo alcuni degli esempi tra i tanti che spiegano come si costruisce un meccanismo di diffusione culturale di massa, quali sistemi persuasivi vengano usati e che spazio si possa riservare a chi la pensa in modo diverso. Sarebbe sufficiente sgombrare il campo da un equivoco: la cultura non è indipendente dalla politica ma è un fatto politico, visto che la sinistra lo mette in pratica da decenni. Cambiare questo sistema sarà più difficile che vincere cinque elezioni di fila, non provarci sarebbe però l’ennesimo atto di grave rinuncia culturale.

Piagnistei e vittimismi. Per la sinistra il Salone "è sempre roba mia". Il Pd ha deciso per anni direttori e consulenti. Ora che non ci riesce, denuncia "interferenze". Luigi Mascheroni il 17 Febbraio 2023 su il Giornale.

Sebbene i festival siano il regno delle tartine, la Cultura non è un pranzo di gala. È una guerra. E gli intellettuali, notoriamente, sono peggio dei barbari e dei mercenari. Ecco perché ciò che sta accadendo a Torino, per quanto umiliante per la città, è molto interessante dal punto di vista non tanto della abusata egemonia, ma dell'antropologia culturale.

Cosa succede? Proviamo a spiegarlo.

Nonostante mesi di valutazioni e proposte, tutte peraltro squisitamente politiche (i candidati che hanno partecipato alla manifestazione di interesse, una cinquantina, non sono mai stati incontrati dai selezionatori né si è chiesto loro un progetto o un'idea) il Comitato direttivo del Salone del Libro non riesce scegliere il direttore per il triennio 2024-2026, ossia colui che sostituirà Nicola Lagioia, per il quale l'edizione del prossimo maggio sarà l'ultima avventura (salvo ripensamenti, chissà). Ora. Il comitato direttivo è composto da sette persone, sei delle quali (unica eccezione è l'assessore alla Cultura della Regione Piemonte) di indirizzo democratico, nel senso di Partito. I «privati», coloro che detengono il marchio del Salone e pesano di più nelle decisioni, hanno sempre spinto Paolo Giordano, scrittore dall'immacolato pedigree progressista, spocchiosetto quanto basta, che non ha mai organizzato neppure una presentazione in libreria ma è il perfetto «azionista» alla torinese. Invece la Regione, amministrata dal centrodestra e che mette parte dei soldi, non è mai entrata in partita. Il suo motto - tragico - è: «Lasciamo che decidano loro».

Alla fine «loro», non hanno deciso niente. Ieri il sindaco di Torino ha ufficialmente dichiarato chiusa la procedura di selezione del direttore con un nulla di fatto: si riparte da zero. Paolo Giordano, il maggior candidato alla direzione, ha dichiarato di tirarsene fuori perché avrebbe ricevuto pressioni dalla politica, e non può accettare limitazioni alla sua autonomia (eccoli gli antifascisti da salotto, i partigiani da Salone che si credono Gobetti e sono solo eroi del vittimismo, dell'ideologia e del protagonismo...). L'ingerenza sarebbe la richiesta di inserire nel gruppo dei suoi consulenti (attualmente 17 persone, una sorta di congresso ombra del Pd nominato all'epoca da Lagioia), tre persone di «area di destra». Ed è subito scoppiato il piagnisteo.

Giordano, come un ragazzino capriccioso, ha puntato i piedi e se n'è andato a casa, portandosi via il pallone, visto che gli piacciono le metafore calcistiche. La sinistra torinese, e anche nazionale, ha pavlovianamente gridato allo scandalo (in prima fila c'è Peppe Provenzano, vicesegretario del Pd: «Davvero il Governo vuole occupare il Salone del Libro?»), scoprendo che quella lottizzazione di cui la sinistra abusa da trent'anni può essere double face; del resto Lagioia, che ora si fa bello dichiarando che la politica non deve metterci becco, è lì perché lo decise Massimo Bray, all'epoca presidente del Salone, con l'assenso di Dario Franceschini, ministro alla Cultura (parentesi: ed è così si deve fare, secondo l'infallibile «metodo Chiamparino»: pago, comando, decido).

In più si sono messi anche a litigare Silvio Viale, a capo dell'associazione che è proprietaria del marchio del Salone, e Giulio Biino, Presidente del Circolo dei Lettori che materialmente organizza l'evento: il secondo ha fatto notare che in fondo non sarebbe stato un attentato alla Costituzione se Paolo Giordano avesse accettato un minimo di pluralismo dentro il gruppo dei suoi consiglieri; il primo ha invece agitato le solite parole d'ordine: «autonomia» e «indipendenza» (ma indipendenti da chi? Non dai soldi delle fondazioni bancarie e da quelli pubblici).

Eppure in tutto ciò - quando fino a ieri nessuno a Torino alzava un sopracciglio se le nomine, tutte le nomine, le faceva il Pd - sembra che la colpa sia del governo Meloni. Pura fiction.

Comunque, per fare chiarezza. Uno: il Ministero della Cultura non è nella governance del Salone del libro e non ha alcun potere sulla manifestazione. Gennaro Sangiuliano lo sa e non è mai intervenuto. Due: la richiesta di collaborazione con il Ministero è arrivata direttamente dagli organizzatori del Salone: è stato il responsabile delle Relazioni istituzionali del Lingotto a chiamare il Ministero per organizzare un incontro a Roma. Tre: in tale occasione il ministro ha proposto alcuni nomi da inserire nel comitato editoriale per garantire un pluralismo che nei fatti non c'è stato in passato (e chi scrive si ricorda bene le edizioni militarizzate e a senso unico per temi, programmi, inviti, polemiche...). Quattro: Paolo Giordano, o chi per lui, dovrebbe spiegare perché non può collaborare con intellettuali del peso di Pietrangelo Buttafuoco, Alessandro Campi e Giordano Bruno Guerri. Cinque: troviamo ridicolo che la sinistra, ormai residuale a Torino come in Italia, ora che non può più dare le carte, ossia nomine e poltrone, si alzi in piedi a dire che la partita è truccata. Sei, una domanda: se lo spoil system ha funzionato così bene negli anni scorsi - quando per un incarico non si sceglieva il migliore in assoluto ma il migliore della propria parte politica - perché ora non va più bene? Per citare un esempio extra Salone: a Giovanna Melandri, all'epoca, non fu affidata la Presidenza del Maxxi, che ora è di Alessandro Giuli, perché era la persona migliore in assoluto in Italia per quel posto; ma perché era la migliore che Veltroni aveva a disposizione in quel momento. Eppure nessuno parlò di ingerenze, censure, spartizioni... Sette: cosa succederà ora? Risposta: si andrà per nomina diretta. E delle due l'una: o si ripescherà proprio Paolo Giordano, con le stimmate dell'eroe; oppure si punterà su un nome davvero condiviso. Speriamo la seconda.

Se la sinistra resta senza cultura. Camillo Langone il 4 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Invidio Vittorio Feltri perché tempo addietro risolse il problema Paolo Berizzi con un vaffa. Io purtroppo non posso permettermelo, non sono Vittorio Feltri e poi appartengo a quei conservatori un tantino snob o forse un tantino rigidi che il turpiloquio cercano di evitarlo. Quindi niente vaffa contro un grossolano giornalista di Repubblica che ha sempre mostrato di confondere nazismo con fascismo e, peggio, fascismo con destra, insomma uno che fa di tutti gli intellettuali non di sinistra un fascio, proprio quel fascio lì. E che ha scritto un articolo apparso ieri, appunto sul quotidiano di John Elkann, in cui si pretende che gli eventi editoriali rimangano per sempre, nei secoli dei secoli, in appalto alla consueta fazione: «Le mani della destra sulla cultura / nel mirino c'è il Salone del libro». Perché il punto è Torino. Dopo la gestione di Nicola Lagioia la sinistra vorrebbe continuare con l'analogo Paolo Giordano ma la Regione Piemonte (che finanzia il Salone) preferirebbe un pizzico di novità, proporrebbe altri nomi a Berizzi sgraditi e chissà perché. Elena Loewenthal, scrittrice ebrea che ha dedicato tutta la vita e tutta la bibliografia alla tradizione ebraica, nazifascista proprio non mi sembra. Giuseppe Culicchia ha dedicato un libro al cugino Walter Alasia, terrorista delle Brigate Rosse, e però evidentemente non basta. Chissà cosa avrebbe scritto l'antifascistissimo giornalista se il bravissimo scrittore torinese avesse dedicato un libro che so, a un cugino generale degli alpini... Culicchia aspirante golpista, emulo di Edgardo Sogno, cose del genere. Che poi, Paolo Giordano. Il successo di quest'altro scrittore torinese, secondo me meno bravissimo ma ovviamente son gusti, venne così spiegato da Tommaso Labranca: «I lettori di Giordano sono di entrambi i sessi e attenti seguaci della moda. Non sanno nemmeno di che tratti il libro. Hanno visto la fascetta Premio Strega e l'hanno comperato d'impulso, lasciandolo poi intonso sul tavolino del salotto». Berizzi non ci prova nemmeno a dire perché la Loewenthal o Culicchia non sarebbero degni di guidare il Salone del Libro, e ci non prova perché non ci riuscirebbe. Allora si mette a dileggiarne gli ipotetici sponsor. Il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano che «cita Prezzolini». Grave colpa! E grande fastidio. Secondo quell'insopportabile libero pensatore «i cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi». Chiaramente i furbi sono i conformisti che in quegli anni Venti erano i fascisti (costrinsero Prezzolini all'esilio, bisogna ricordarlo sempre) e in questi anni Venti sono gli ambientalisti (l'ultimo libro di Paolo Giordano è guarda caso un romanzo ambientalista). Poi Beruzzi se la prende col consigliere del ministro, il nostro Francesco Giubilei che avrebbe fatto meglio a non scrivere contro le vie italiane dedicate all'ammazzaitaliani Maresciallo Tito: le vie Tito non sono poi così tante! la solita destra pressapochista e revanscista! Più furbo Giordano che con le vittime delle foibe non perde tempo, siccome argomento desueto e divisivo, e che anziché Istria intitola il suo romanzo Tasmania carezzando il cosmopolitismo che della sinistra contemporanea è un totem. Giordano è l'autore perfetto per la lettrice che sogna viaggi esotici e Berizzi il giornalista ideale per il lettore convinto che Dante fosse un progressista. Tutto è cultura, perfino loro, ma certo non soltanto loro (che poca cosa sarebbe).

Un Salone, sette candidati e un Partito unico del Libro. A Torino si sta giocando la partita del nuovo direttore. Le diverse sinistre litigano, e la destra sta a guardare. Luigi Mascheroni il 27 Dicembre 2022 su Il Giornale.

A proposito di egemonia culturale, di «contro egemonia» e del fatto che il nuovo Governo debba estendere o meno la propria influenza nei posti chiave della Cultura, cosa peraltro normalissima: si chiama spoil system e ha sempre funzionato benissimo. Infatti la sinistra quando poteva lo ha applicato magnificamente, ora però che è il turno della destra diventa un peccato capitale. Ecco, a proposito di tutto ciò un caso da manuale è la nomina del prossimo direttore del Salone del Libro di Torino, che affiancherà fino a maggio Nicola Lagioia e dopo lo sostituirà, restando in carica dal 2024 al '26. Una partita da cui la destra è esclusa. Il ministro Gennaro Sangiuliano, peraltro appena arrivato, non ha potere nella nomina e molto correttamente non interviene (anche se il suo precedessore, Franceschini, indirettamente si faceva sentire, eccome). Mentre il governatore del Piemonte, Alberto Cirio, pur essendo la Regione socio unico del Circolo dei Lettori, ossia il braccio operativo del Salone, preferisce lasciare alla sinistra locale ogni scelta. Un po' per disinteresse verso la Cultura, un po' per un malinteso timore reverenziale nei confronti della sinistra, un po' per concordia istituzionale fra Regione e Comune. Così è.

Il Salone dal 1998 al 2016 è stato diretto da Ernesto Ferrero, poi nel 2017 fu scelto, con nomina diretta, lo scrittore Nicola Lagioia. Ora invece per dare una parvenza di trasparenza si è indetta una manifestazione di interesse e nominato un Comitato direttivo che sceglierà fra le candidature arrivate (una cinquantina quelle significative). Adesso fate attenzione. Il Comitato è composto da sette persone: il coordinatore Giulio Biino, che è anche presidente della Fondazione Circolo dei lettori, in prima fila nell'organizzazione del programma del Salone; Marco Pautasso, segretario Generale del Salone del Libro; Vittoria Poggio, assessore alla Cultura della Regione, in quota Lega; Rosanna Purchia, assessore alla Cultura del Comune di Torino, molto vicina a Franceschini; e, con tre votanti, l'associazione Torino Città del Libro (cioè i proprietari del marchio, quelli che nel recente passato hanno salvato il Salone dal fallimento).

La prima riunione del direttivo è stata la scorsa settimana, ed è servita ad annusare le varie posizioni (per la nomina servono sei voti su sette). L'11 gennaio ci sarà l'appuntamento chiave, per decidere. I candidati veri sono sette, tutti ascrivibili all'area di sinistra. Se fosse un congresso per decidere il Segretario si parlerebbe di correnti; qui di sfumature, ma cambia poco. Vediamo i nomi. Considerato favorito, c'è Paolo Giordano, scrittore e premio Strega, come Lagioia; ma è un fisico, non un letterato. È torinese, e la cosa conta parecchio. Non ha mai organizzato nulla, neppure una presentazione in libreria, ma la cosa non preoccupa nessuno. Gli ultimi due pezzi che ha scritto sono anti Salvini e anti Meloni, quindi perfetto per Torino. E soprattutto è un nome pop, commerciale (motivo per cui piace molto all'associazione Torino Città del Libro, cioè i privati, che sono quelli che rischiano di più) e poi essendo firma nobile del Corriere della sera e della Lettura, trasformerebbe i giornali di via Solferino, più di quanto già non siano, nell'house organ del Salone, che ha già alle proprie dipendenze Repubblica grazie al comune orientamento a sinistra, e la Stampa, che per tradizione e per torinesità da sempre spinge la kermesse come ufficio stampa ombra, accanto a quello ufficiale della manifestazione. E poi Giordano, espressione più fedele della linea Saviano-Einaudi-Fazio, piace alle professoresse democratiche col cerchietto e le scarpe basse che affollano il Salone.

Poi c'è Elena Loewenthal (invisa alla Città del Libro): già consigliere regionale di +Europa, è la direttrice del Circolo dei Lettori, il cui presidente, Giulio Biino, è il coordinatore del Comitato che sceglierà il direttore del Salone. Tutto in famiglia, insomma. Ma non è neppure questo. Da giorni a Torino molti si chiedono, ma nessuno lo scrive, se è opportuno che la Loewenthal si sia candidata in qualità di direttrice di un ente che riceve da Città e Regione finanziamenti che sono utilizzati per la gestione della programmazione del Salone del Libro. Ma i conflitti di interesse, si sa, sono solo quelli di Berlusconi. Ah: la Loewenthal sta muovendo fiumi e prealpi per ottenere appoggi di ogni tipo. Su Repubblica ha avuto l'endorsement di Elisabetta Sgarbi (che è la sua editrice...), e due giorni fa quello di Angelo Pezzana, il fondatore nel 1988, assieme a Guido Accornero, del Salone del Libro e figura di riferimento della Comunità ebraica: «Loewenthal è la miglior scelta possibile», ha scritto.

Poi c'è Gianni Oliva: torinese, storico, intellettuale di sinistra duro e puro, già consigliere comunale nelle fila del Pci a Coazze e a Giaveno e poi assessore in Provincia e in Regione nelle fila del Pd. Ottima persona. Ma mettere Oliva alla guida del Salone è come candidare Giachetti a Roma. Zero standing e appeal solo presso il funzionariato Pd regionale.

Quindi tre outsider. Bruno Ventavoli, responsabile di Tuttolibri (persona dal carattere difficile ma troppo colta per dirigere il Salone, e ovviamente non ce la farà); Oliviero Ponte di Pino (l'uomo del successo di Bookcity a Milano, ma la domanda è: visto che tempo fa si tentò, senza riuscirci, di portare il Salone di Torino a Milano, non è che così si vuole portare direttamente Milano a Torino?), e Loredana Lipperini: giro Repubblica-Murgia-Radio3, anche se forse mettere a capo del Lingotto una che difende ancora con orgoglio il terrorista, criminale e scrittore Cesare Battisti è troppo anche per Torino.

Resta Giuseppe Culicchia, scrittore, torinese, da anni dentro il Salone, di cui conosce benissimo i meccanismi, l'ala più moderata della sinistra intelligente, lontano da fanatismi che in un vicino passato, fra programmi a senso unico e espulsione di editori non graditi, hanno percorso il Salone; uno che anni fa non ebbe paura di invitare - fra i mugugni di tanti salottieri - l'allora ministro della Gioventù, Giorgia Meloni. Ma l'equilibrio, si sa, da quelle parti non è una virtù.

Il partito unico del Cinema.

Dai ladri di biciclette a Fantozzi. Come il cinema italiano ha raccontato i lavoratori. ANNA MANISCALCO su Il Domani il 27 ottobre 2023

Uomini in marcia di Peter Marcias, in calendario alla Festa di Roma, ricostruisce la storia degli scioperi nel paese. Si inscrive in una corrente di film che tra finzione e documentario hanno parlato di operai, contadini e impiegati, dal Neorealismo a oggi

«Abbiamo deciso di rinunciare a un giorno di lezione e venire qui e dimostrare che anche se siamo giovani ci preoccupiamo dei problemi». Sono le voci di studenti, figli dei lavoratori nelle miniere del Sulcis, Sardegna, che si uniscono alla protesta dei genitori. Così si apre Uomini in marcia, di Peter Marcias, in programma alla Festa del cinema di Roma: una ricostruzione della storia delle lotte sindacali e dei lavoratori in Italia, dalla repressione nel sangue di manifestazioni come quella dei minatori di Monteponi (1920) ai giorni nostri. 

Il racconto è affidato a Gianny Loy, professore di diritto del lavoro, ma gli fanno eco testimonianze e filmati di archivio. «Ciò che è cambiato negli ultimi due decenni, tre decenni, è che fino a poco tempo fa pensavamo che se non avessimo vinto questa volta, avremmo vinto la prossima o quella dopo ancora o tra 20 anni, 50 anni. Un giorno vinceremo. Ora non abbiamo questo lusso», dice il regista inglese Ken Loach, tra gli intervistati. Alle sue spalle il manifesto di Bread and Roses, titolo di un suo film ma anche slogan dei movimenti operai. 

Che dietro «la magia» del cinema ci siano dei lavoratori, si è ricordato in questi mesi di scioperi di sceneggiatori e attori; ma il lavoro è anche dentro la narrazione cinematografica, che in Italia ha più volte scelto di raccontare le storie di operai, contadini, impiegati, spesso in contrasto con quella che si proponeva come l’immagine reale del paese.

I NEOREALISTI CONTRO LA DC

Il 1948 è l’anno in cui entra in vigore la Costituzione, con l’articolo 1 che statuisce come l’Italia sia «una repubblica democratica, fondata sul lavoro». In quello stesso anno sono quasi due milioni e mezzo i disoccupati. Sempre nel 1948, esce Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, uno dei capolavori del Neorealismo, sceneggiato da Cesare Zavattini. Segue la storia di Antonio Ricci, disoccupato che trova lavoro come attacchino comunale: prerequisito fondamentale è possedere una bicicletta, ma gli viene rubata il primo giorno.

Le autorità non sono di alcun aiuto al povero Ricci nel ritrovarla, e senza quella il lavoro sparisce. Due anni dopo sarà Giuseppe De Santis in Non c’è pace tra gli ulivi a proporre la condizione di un pastore ritornato dal fronte. Ha perso il suo bestiame e solo nella solidarietà di classe può sperare di trovare un riscatto.

Nel 1952, di nuovo Vittorio De Sica apre il suo Umberto D. con una manifestazione di pensionati scacciati dalla polizia. È una rappresentazione cruda della condizione del popolo italiano e non va giù ai politici di allora.

Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo tra il 1947 e il 1954, stronca Umberto D. su Libertas,  sostenendo che si trattava di «un pessimo servizio alla sua patria». Qualche anno prima, lo stesso Andreotti aveva presentato una legge, emanata nel 1949, per promuovere la crescita del cinema italiano. Per accedere ai finanziamenti pubblici, la sceneggiatura andava sottoposta a una commissione statale. Sono gli anni in cui si dice che «i panni sporchi si lavano in famiglia».  

Accanto ai film di finzione, esistono anche i documentari. Michelangelo Antonioni sempre nel 1948 realizza un corto che si intitola N.U.-Nettezza urbana: «Gli spazzini fanno parte della città come qualcosa di inanimato eppure nessuno più di loro partecipa alla vita cittadina», dice la voce narrante all’inizio, mentre la camera inquadra gli uomini che puliscono la scalinata deserta di Piazza di Spagna a Roma all’alba. Altri ne realizza Vittorio De Seta negli anni Cinquanta, sul proletariato nelle isole e sulle vite dei pescatori. 

L’INDUSTRIALIZZAZIONE

Con il boom economico la disoccupazione tocca il suo minimo storico: nel 1963 è al 4 per cento. Eppure, scrive Manfredi Alberti su Etica Economia, rimane «sostanzialmente irrisolto il tradizionale problema del dualismo», riferendosi a una spaccatura tra il nord e il sud. Nel 1960 esce Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti: una famiglia lucana raggiunge il figlio maggiore a Milano, dove ci sono possibilità di lavoro. Il fascino del benessere economico cittadino corrompe in maniera irreparabile uno dei fratelli. 

Di nuovo, si assiste a uno scontro tra la verità del cinema di finzione, e il filtro che si vuole applicare alla realtà. La provincia di Milano aveva infatti ostacolato la lavorazione del film: anche qui c’era lo zampino di un democristiano, Adrio Casati, che considerava il film «denigratorio».

Allora presidente del Consiglio provinciale, Casati non aveva voluto dare il permesso di girare alcune scene all’Idroscalo. «Noi pensiamo che stia per diventare il polmone della città: un luogo per gente sana, sportiva, per i giovani. Non desideriamo che se ne offra una diversa interpretazione», aveva scritto. 

La vita propriamente industriale è invece al centro di La classe operaia va in paradiso (1971), di Elio Petri, dove Gian Maria Volonté è un operaio entusiasta del suo lavoro a cottimo, finché un incidente non lo lascia infortunato e si rende conto di quanto il sistema sia indifferente all’essere umano, chiamato a essere dedito solo alla produzione.

La rivista Birdmen ricorda che Petri e Volonté incontrarono i lavoratori della Demm, un evento molto partecipato che «rappresentò la possibilità di una militanza reale contro quella retorica della sinistra parlamentare». Il film ha vinto a Cannes ed è stato un grande successo di pubblico.

DA FANTOZZI AI PRECARI

È con il ragionier Fantozzi, personaggio creato dal comico Paolo Villaggio, che la macchina da presa arriva dentro gli uffici, dipingendo il ritratto più iconico dell’impiegato, nelle sue disavventure quotidiane all’interno della Megaditta, tra una disastrosa attività aziendale, che oggi si chiamerebbe team building, e l’altra. È il simbolo del lavoratore dopo il boom economico: ma non c’è nessuna gioia nelle sue giornate. «L’italiano medio si è riconosciuto nell’infelicità di Fantozzi», ha spiegato Paolo Villaggio nel 1975.

Il posto fisso di Fantozzi oggi è sempre più raro: dai dati Eurostat raccolti da Sky Tg 24, il 13,5 per cento in Italia è precario. I giovani non inseriti in un percorso di formazione con un contratto a tempo determinato sono il 43,6 per cento, il doppio della media europea. Il Neorealismo è finito, non rimane che la commedia. Ovosodo (1997) e Tutta la vita davanti (2008) di Paolo Virzì, a distanza di dieci anni raccontano con toni agrodolci i sogni non realizzati prima e la vita precaria poi. 

«Siete due latinisti di fama internazionale e fate i benzinai di notte per un cingalese che vi paga a nero», sbotta invece Pietro, interpretato da Edoardo Leo, in Smetto quando voglio (2014), primo titolo della trilogia di Sydney Sibilia, scritta con Valerio Attanasio.

Un gruppo di ricercatori e professori a contratto decide di mettere le proprie conoscenze a frutto in un settore che saprà premiarli meglio del mondo del lavoro: la produzione e lo spaccio di droghe intelligenti. E qua siamo alle prese con una paradossale flessibilità e una grottesca riconversione. Un film di oggi che non dimentica le lezioni dei classici, proponendo un’eco degli scalcagnati Soliti ignoti di Mario Monicelli.

Era il 1958. La Cgil aveva appena perso Di Vittorio e molte cose nel lavoro in Italia cominciavano a cambiare. Solo cinque anni prima, Alberto Sordi aveva fatto un famoso gesto dell’ombrello ai «lavoratooriiii» ne I Vitelloni. E la censura stava per tagliarlo. 

ANNA MANISCALCO. Laureata in Giurisprudenza e diplomata in cinema. Frequenta la Scuola di giornalismo Walter Tobagi di Milano

Estratto dell'articolo di Giuseppe Candela per lfattoquotidiano.it mercoledì 23 agosto 2023.

“È possibile che un partito stimato al 27% non abbia nemmeno un sostenitore nel mondo dello spettacolo? È perché dichiarare simpatie di destra gli impedirebbe di lavorare nel mondo dello spettacolo? È questa la democrazia?”, si era sfogata Giorgia Meloni a settembre 2022  [...] già al tempo di quell’affermazione, Meloni aveva trovato estimatori nel mondo dello spettacolo, oltre al suo amico ventennale Pino Insegno [...]

Pierluigi Diaco con cui aveva condotto un programma in radio fino a Morgan che raccontava urbi et orbi la loro messaggistica (“Sto dando consigli per il programma elettorale”). Non solo: aveva entusiasmato Enrico Ruggeri (“Giorgia al governo? La vedrei bene”), Iva Zanicchi (“Faccio il tifo per lei”), ottenuto aperture dalla fu coscialunga della sinistra Alba Parietti (“Guardando alle prossime elezioni dico speriamo che sia femmina”) e dall’attore Giorgio Pasotti (“Accanimento barbaro contro Meloni”). Non era mancato l’endorsement di Beatrice Venezi e meriti erano stati riconosciuti da Valeria Marini, ora fidanzata con Gimmi Cangiano, deputato di Fratelli d’Italia.

Quasi un anno dopo la leader di Fratelli d’Italia siede a Palazzo Chigi e il clima è cambiato con una improvvisa riscoperta, quella della discrezione. La nuova Rai ha quasi raso al suolo Rai3, spinto a destra le altre reti e concesso opportunità, come accade di fatto a ogni cambio di governo, a volti vicini alla maggioranza. “A Giorgia mi lega un sentimento di profonda amicizia e affetto, come tutti i rapporti profondi non intendo parlarne pubblicamente“, ha dichiarato il mese scorso Pierluigi Diaco al Corriere della sera. Pino Insegno, ora conduttore di due programmi di punta in Rai, sceglie la strada del silenzio.

Ma i sostenitori vip di Giorgia Meloni sono aumentati. Hanno trovato il coraggio che mancava, di cui parlava la premier? Bieco opportunismo? Solo un riconoscimento per il lavoro svolto? Sia chiaro, l’apprezzamento o un ragionamento non per forza critico, non corrisponde all’endorsment. Non per forza c’è la volontà di schierarsi. Ma nelle ultime settimane, negli ultimi mesi, c’è chi ha scelto di mostrare in pubblico il proprio gradimento. “Giorgia Meloni è straordinaria, è veramente straordinaria”, ha dichiarato Albano al Giornale. [...] Restando nel campo musicale, Povia, che sogna di tornare a Sanremo, ha rassicurato tutti: “Mi piacciano il governo Meloni e la nuova Rai”, ha spiegato a Libero. [...] 

“Giorgia Meloni mi piace perché ha molta cazzimma. Le sue idee sui diritti Lgbtq+? Non sono aperte, ma se certe cose le vengono spiegate con pazienza e amore, può portarci ad alti livelli”, avevano fatto discutere le parole pronunciate da Arisa a “La Confessione“, il programma in onda su Nove condotto da Peter Gomez. La cantante, che lascerà “Amici” per sbarcare in Rai in giuria a “The Voice Kids“, aveva parlato del comportamento della premier sui diritti “come una mamma molto severa e molto spaventata”.

Elisa Isoardi, ex compagna del vicepremier Salvini, ha promosso il lavoro di Meloni [...] Il suo ritorno su Rai1, assicura, non è dovuto al nuovo vento di destra a viale Mazzini: “Sono ritornata in Rai con il governo precedente, che non mi sembrava di destra”. E la showgirl Rossella Brescia si sente rappresentata? “Diciamo che mi fa molto piacere che la premier sia una donna come Giorgia Meloni. La conosco bene, è un’amica da anni”, ha confidato a Il Messaggero. Brescia, va detto, ha rifiutato la conduzione del programma in onda alle 14 su Rai1, al posto di Serena Bortone, fascia poi affidata a Caterina Balivo, dopo il no di Lorella Cuccarini.

[...] la premier incassa i complimenti anche de Il Volo [...]

Nei giorni scorsi nel mirino era finita anche Sabrina Ferilli: “È un capo di un governo di destra, e quello è, quello fa. Io sto a sinistra e su tanti temi sono molto distante. [...] »Tornando alla domanda iniziale. “È possibile che un partito stimato al 27% non abbia nemmeno un sostenitore nel mondo dello spettacolo? È perché dichiarare simpatie di destra gli impedirebbe di lavorare nel mondo dello spettacolo? È questa la democrazia?”, si era chiesta Giorgia Meloni. I tempi sono cambiati. I sostenitori vip sono ormai numerosi e dichiararsi di destra non chiude le porte. Quasi le spalanca. Quasi.

Le mani della Destra sul cinema: a chi il potere? A noi! Dal caso del Centro Sperimentale a Cinecittà passando per le nomine della Biennale di Venezia, il governo è impegnato in un’occupazione sistematica dei posti di comando. E in una regressione dei basilari presupposti di indipendenza. Gloria Riva e Carlo Tecce su L'Espresso il 4 Agosto 2023

La notizia più sottovalutata in questi nove mesi di governo di destra è che il governo di destra, intestato senza indugi a Giorgia Meloni e però con una vasta koinè spirituale, vuole offrire un modello culturale agli italiani per smuovere antiche convinzioni e diffidenze, pensano loro. In attesa di capire quale modello culturale vogliano offrire o per meglio dire, imporre, il governo è impegnato in un’occupazione sistematica dei posti di comando e in una regressione dei basilari presupposti di indipendenza, con una particolare predilezione per l’audiovisivo - dove ogni impresa è un compromesso fra cronaca e finzione - e per la sua più alta manifestazione: il cinema. Ovvero il Centro sperimentale di Cinematografia, la Biennale di Venezia con le sue arti, l’Istituto Luce di Cinecittà.

Il “soggetto attuatore” di cotanto programma, per protocollo, dovrebbe essere Gennaro Sangiuliano, il ministro della Cultura, ma attribuire un disegno così articolato e politicamente stratificato, e impregnato di sentimenti e risentimenti, a un mite navigatore come Sangiuliano sarebbe eccessivo, nonché irriguardoso.

Questa è una fase luculliana che si ripete con i governi di qualunque targa e lo si è visto di recente con i Cinque Stelle durante il governo di Giuseppe Conte versione gialloverde e i leghisti alleati. L’ex sottosegretario pentastellato Stefano Buffagni, che per un breve periodo ha maneggiato quel tipo di potere romano che Gianni Letta esercita da trent’anni, per l’appunto, sublimò questa fase luculliana richiamandosi agli stereotipi della Prima Repubblica: «Noi abbiamo più poltrone che culi». La carenza di materia umana li accomuna ai Fratelli d’Italia, però con una sostanziale differenza: il governo Meloni, le poltrone, non le distribuisce a caso e per caso, pretende quella fedeltà che in politica è un concetto di valore opposto alla lealtà.

Ha scritto il regista Nanni Moretti: «La violenza e la rozzezza con cui il governo ha fatto fuori la dirigenza del Centro Sperimentale di Cinematografia. Del resto, è la destra italiana, questo è il suo ceto politico e giornalistico».

I dispetti al Centro Sperimentale sono iniziati mesi fa, come dimostra il bilancio preventivo del 2023, che serve a prevedere il budget a disposizione per la formazione nell’anno corrente: alla voce contributi statali, la presidente Marta Donzelli indica zero a fronte dei 2,050 milioni di euro elargiti dal governo Draghi l’anno precedente. Un ammanco tutt’altro che irrilevante, praticamente un ottavo delle risorse a disposizione del Centro. L’obiettivo, però, nei piani dell’attuale governo non è soffocare l’ente. Né Meloni né Sangiuliano o tantomeno la viceministra leghista Lucia Borgonzoni, che pure si agita parecchio per difendere la sua quota parte, hanno invaso il Centro Sperimentale di Cinematografia con vagonate di lanzichenecchi che sono i protagonisti di quest’estate, ma hanno riformato l’intelaiatura giuridica del Centro e si sono spinti fino a dove, e non è un riflesso sinistrorso, neanche Benito Mussolini e Galeazzo Ciano osarono nel 1935 quando lo fondarono.

Il governo non si limiterà più a eleggere i componenti del Consiglio di Amministrazione, ma si spingerà a scegliere anche quelli del Comitato Scientifico. Il Cda dimissionario, del resto, era abitato da pericolosi comunisti del calibro di Marta Donzelli, il compianto Andrea Purgatori, l’attrice Cristiana Capotondi e l’avvocato Guendalina Ponti. Così facendo viene meno quella barriera igienica che teneva la politica distante dal Centro.

D’ora in poi il Comitato Scientifico sarà lottizzato dal governo che designerà il presidente, mentre i componenti saranno nominati dal ministero della Cultura e uno ciascuno per i ministeri dell’Economia, dell’Istruzione, dell’Università. Per guidare il Centro, da settimane, va avanti il ballottaggio tra Pupi Avati e Giancarlo Giannini.

Memori di Buffagni, l’organico culturale di Meloni aveva sin dalla campagna elettorale due fantasisti che certamente avrebbe schierato per le competizioni migliori: Alessandro Giuli, che infatti da qualche mese dirige il museo di arte contemporanea Maxxi; e Pietrangelo Buttafuoco, che presto sarà nominato presidente della Biennale di Venezia, incarico che assumerà ufficialmente in primavera. Buttafuoco è un giornalista, scrittore, intellettuale di destra e non di un partito di destra. Ha una formazione politica chiara, mai rinnegata, e una identità complessa, meditata, non ostentata, spesso male interpretata.

Buttafuoco ha davvero amici estimatori di sinistra. Come l’ex magistrato e politico Luciano Violante, fra i saggi informali di Meloni, presidente della Fondazione Leonardo-Civiltà delle Macchine. Fu il comunista Peppino Caldarola, proprio con Buttafuoco, a riportare in vita la rivista Civiltà delle Macchine. Dicevamo, la nuova sfida di Buttafuoco sarà la Biennale di Venezia, tra le istituzioni culturali più note e prestigiose al mondo, che brilla soprattutto grazie alla settembrina Mostra del Cinema in laguna, il festival cinematografico più antico del mondo, luogo in cui si danno appuntamento le star mondiali. Starne al vertice non sarà un compito facile, se non altro perché la Biennale è reduce da un triennio di risultati economico-finanziari eccezionali, ottenuti dal presidente in scadenza Roberto Cicutto. È il fondatore di Mikado Film, Aura Film (con cui nell’88 vinse il Leone d'Oro per La Leggenda del santo bevitore di Ermanno Olmi) e, insieme a Nanni Moretti e altri, ha creato la Sacher Distribuzione, compagnia italiana che ha generato Palombella Rossa, Caro Diario, Il Caimano.

Può essere che Cicutto sia stato un presidente fortunato, grazie al desiderio di partecipazione agli eventi dal vivo che ha fatto registrare un record di presenze alla Biennale. Per intenderci, storicamente il bilancio della Biennale si chiudeva in passivo l’anno della mostra di Architettura e in attivo in quello dell’Esposizione d’Arte. Invece la mostra di Architettura del ’21 ha registrato un attivo di 6,7 milioni di euro rispetto a una previsione in perdita di 2,5 milioni. Increduli persino gli amministratori della Biennale: «Non crediamo che questi risultati possano considerarsi come acquisiti per sempre. Per questo abbiamo costituito una riserva che metta al riparo la Fondazione da possibili difficoltà». Insomma Buttafuoco parte avvantaggiato con le ricchezze accumulate da Cicutto, che è espressione di quel “giro” della cinematografia messo all'indice dal governo. Un mondo che, allargato agli sponsor, ha sostenuto sempre la Biennale anche durante i mesi della pandemia. Sarà interessante capire come si posizionerà quel “giro” col cambio forzato di colore politico: collaborazione oppure ostruzionismo?

Del resto Buttafuoco, sprovvisto di qualità dirigenziali necessarie per una struttura societaria come la Biennale, è però la sintesi di ciò che per Meloni e il suo governo è cultura. A Buttafuoco il dovere di esplicitarlo da una postazione di prestigio.

I vertici di Cinecittà, invece, non sono mai stati in discussione. La presidente Chiara Sbarigia fu supportata presso l’allora ministro Dario Franceschini dalla leghista Lucia Borgonzoni. L’amministratore delegato, Nicola Maccanico, selezionato dal governo di Mario Draghi e proveniente dal settore privato, gode di stima trasversale e dell’inequivocabile successo dei risultati: ha infiocchettato il 2022 con 39 milioni di euro di fatturato, più che raddoppiando il giro d'affari e, con un anno d’anticipo sulle previsioni, ha riportato Cinecittà in utile per 1,8 milioni. Il rilancio è merito degli investimenti fatti sui teatri e della capacità di attrarre a Roma produttori internazionali come Prime Video, Netflix e Sky. Per Maccanico, però, la prova più ardua viene ora che dovrà consolidare i numeri in un mercato, quello del cinema, esposto alle flessioni cicliche: la sua squadra è a caccia di nuovi contratti con altre case di produzione.

Cinecittà ha la sicurezza di accordi preziosi con Sky, Netflix, Peacock, The Apartment Pictures (che produrrà Queer di Luca Guadagnino) ed è pronta a correre realizzando cinque nuovi teatri e ristrutturandone altri quattro con i 220 milioni messi a disposizione del Pnrr. E ha superato indenne la revisione del governo Meloni: nella versione draghiana del Piano nazionale di ripresa e resilienza, i milioni per Cinecittà erano 262 perché includevano l’ampliamento degli studi all’interno dell’area di Torre Spaccata di proprietà di Cassa Depositi e Prestiti (coinvolta con una sua parte immobiliare di edilizia popolare). Questo capitolo Cassa Depositi e Prestiti è stato eliminato perché troppo stringenti erano i vincoli archeologici su quel terreno, allo stesso modo è evaporata l’ipotesi di far entrare Cdp nell'azionariato di Cinecittà. Arriva la destra sullo schermo. Buona visione.

DAGOREPORT giovedì 3 agosto 2023.

Le roventi polemiche sul Centro Sperimentale di Cinematografia, alimentate sui giornaloni da quel mondo di cineasti che vede polverizzarsi la cuccagna di finanziamenti statali di cui hanno goduto finora i loro filmetti, merita di rispolverare la poetica frase del filosofo romano Stefano Ricucci: ‘’So’ tutti bravi a fare i froci con il culo degli altri”.

Massì, finiamola di prenderci per le chiappe: la nomina del presidente della Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia è sempre stato il lavoro preferito dal Ministro della Cultura, e su quella politica (di centrosinistra) è stata improntata l’organizzazione di progetti e l’individuazione di responsabili e collaboratori.  

Del resto, quando nel 2016, governo Renzi, il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, nominò alla scadenza del mandato Felice Laudadio, non certo uno di destra, alla presidenza del CSC, il noto sceneggiatore Stefano Rulli mica la prese tanto bene la mancata riconferma: scrisse una lettera agli studenti in cui si dichiarava particolarmente incazzato.

L'emendamento al Decreto Legge Giubileo, firmato dai deputati della Lega non è ‘’un atto che stravolgerebbe le caratteristiche fondanti dell'istituzione’’: se qualcosa stravolge è solo il sistema del potere del cinemismo chiagne e fotti. Tanto c’è lo Stato che finanzia filmetti allegri zeppi di Crisi dei Valori, Perdita del Centro, Disagio della Civiltà, Eclissi del Sacro, Crepuscolo della Sinistra, Fine dell'Umanesimo, Agonia dell'Individuo, Deriva della Cultura, Scacco della Ragione, Fallimento della Storia, Reificazione della Vita.  

Ma in realtà tutte queste cifre concettuali sono soltanto alibi pretestuosi per mascherare incassi ridicolmente miseri e mantenere in piedi la baracca dell’amichettismo de’ noantri. E per lanciare l’accusa di lottizzazione occorre davvero non avere uno specchio in casa che rifletta la propria faccia. “Il CSC è indipendente come la Rai”, scrive giustamente oggi Il Foglio (vedi pezzo a seguire).

Se poi apre la boccuccia pure Nicola Zingaretti (“Un'altra vergogna di una maggioranza ossessionata dalle poltrone, che disprezza l'autonomia delle istituzioni pubbliche’’), cioè colui che ha riempito di milioni (della Regione Lazio) il suo amico del cuore Valerio Carocci, zar del Cinema America, allora, per dirla alla Nanni Moretti, "La messa è finita".

A proposito dell’uscente Marta Donzelli, già in partenza molti dubbi si fecero sulla nomina, sempre firmata dal duplex Franceschini-Nastasi (marzo 2021, governo Draghi). Come ha dichiarato Pupi Avati in un’intervista al Foglio: “Un tempo al CSC c’erano Roberto Rossellini, Giuseppe Rotunno, Virgilio Tosi. Io la direttrice che c’è adesso ho dovuto cercarla su Google per sapere chi fosse”.

Uno dei dubbi maggiori era il fatto che Donzelli abbia a suo tempo posto la condizione di continuare a svolgere il suo lavoro di produttrice cinematografica alla Vivo Film. Condizione che Franceschini ha accettato. Ciò, al di là di possibili evidenti conflitti di interesse, non può darle il tempo necessario da dedicare al CSC, dove si reca non più di due volte a settimana.  

Inoltre la sua decisione di accentrare tutto, facendo passare ogni minima decisione al vaglio del consiglio di amministrazione (che si riunisce in media una volta al mese e non sempre ha il tempo di affrontare tutti gli argomenti all’ordine del giorno) ha creato lentezze e incertezze che hanno ingolfato non solo la nascita di nuovi progetti ma anche l’ordinaria amministrazione.

L’aggiunta in organico di una figura inedita, quella di vice direttore generale, teoricamente necessaria per meglio congiungere le due realtà del CSC, la Scuola (la sede di Roma indice le selezioni per n. 84 posti) e la Cineteca, ha creato in effetti una poltrona e uno stipendio in più e parecchie sovrapposizioni e fibrillazioni.  

Il reclutamento è stato fatto con un bando ad hoc, modellato su una persona già individuata. In questi due anni e mezzo ci sono state inoltre notevoli turbolenze sindacali, alcune richieste di accesso agli atti e annunci di cause per demansionamento.

I due grandi progetti annunciati, l’acquisto della sala cinematografica Fiamma (per un costo, compreso il restauro, di 6,5 milioni), e la realizzazione di una piattaforma di e-learning (costo 7,5 milioni, non paghi del fallimento della franceschiniana Netflix de’ noantri, Its Art), non sono mai partiti; nel primo e nel secondo caso si attende ancora l’avvio dei lavori, nel terzo si sono alternate svariate ipotesi, rivelatesi tutte inconsistenti o non praticabili.

La rassegna di film “XX secolo”, organizzata al cinema Quattro Fontane di Roma, è uno dei fiori all’occhiello della presidenza, avendo ottenuto un numero di biglietti staccati superiori alle medie dei normali cinema di prima visione, ma il prezzo da pagare è letteralmente altissimo: la rassegna viene infatti realizzata prendendo in affitto la sala, noleggiando film quasi sempre stranieri (utilizzando quindi pochissimo i film italiani conservati dalla Cineteca) e pagando a caro prezzo dei consulenti esterni per scelte che il personale specializzato interno avrebbe potuto fare gratis e con competenza non certo inferiore. 

È interessante sapere che ogni anno vengono selezionati da tutta l'Italia solo 14 allievi nel corso di recitazione, 8 in quello di sceneggiatura, 6 in quello di regia (notevole la presenza di "figli d'arte"). E sapete quanto versa il ministero della Cultura al Centro per la formazione e le varie attività ogni anno? 14 milioni e 500 mila euro. Inoltre la Direzione Generale Cinema e Audiovisivo ha approvato con decreto anche l'assegnazione di 37.200.000 di fondi straordinari PNRR. Quindi una bella somma da gestire e assegnare in questi anni. 

Di qui, la decisione di accompagnare all’uscita Donzelli e i suoi cari, con un anticipo di due anni dalla data prevista, nel marzo 2025.

Lettera aperta da Il Foglio - Estratto giovedì 3 agosto 2023. 

Cari ragazzi che avete occupato il Centro Sperimentale di Cinematografia, vi scriviamo una lettera aperta anche noi, come quella di Marco Tullio Giordana su Repubblica. …….. 

Suvvia. Sin dalla sua benemerita fondazione fascista, le nomine del Centro Sperimentale sono sempre state espressione della politica. Quest'improvviso richiamo all'“indipendenza” lascia un po' perplessi.

Il CSC è indipendente come la Rai. 

La Fondazione che lo presiede è indipendente come il Cda di Viale Mazzini. Se, per esempio, cari ragazzi andate sul sito del Centro Sperimentale dove voi studiate, sotto ogni nome del CdA vedrete che c'è scritto, giustamente, “incarico di stampo politico”. Vale anche per il comitato scientifico. Più chiaro di così.  

Veniamo alla norma incriminata e ora stracciata: “Il testo sopprime di fatto la figura del direttore generale della fondazione, aumentando i membri del Comitato scientifico da tre a sei e facendoli diventare di nomina diretta di tre ministri”. Sarebbe questo il passaggio da un CSC libero e indipendente (ma dove?) a uno “occupato della destre”? 

Avete paura che Sangiuliano vi metta a fare film tratti dai suoi libri, o una serie di spin-off tolkeniani (a saperli fare)? Indipendente nel senso che intendete voi, il Centro Sperimentale non lo è mai stato e mai lo sarà. Non si capisce insomma la differenza rispetto ad ora, se non, in caso, lo spavento per membri nominati magari da un governo di destra, come successo in Rai, appunto. Il caro Marco Tullio Giordana rimpiange addirittura Mussolini (dice che Sangiuliano sta facendo peggio). Un po' c'è da capirlo. 

………….

 Vieni oggi. Guardate però che differenza con Hollywood: lì si protesta contro le insidie dell'Intelligenza Artificiale, qui contro nomine, contronomine, destra, sinistra. Siamo vecchi.

Sarebbe stato bello se da questa norma cavillosa così discussa, se da questa occupazione sicuramente sentita e partecipata, fosse nato invece un bel dibattito sul senso di certe istituzioni.  

A cosa serve oggi il Centro Sperimentale? Siamo sicuri che con questo nome dannunziano sia davvero “sul pezzo”, come dicono i giovani? (Veltroni aveva provato a cambiarlo nella Scuola Nazionale di Cinema, poi si è tornato alle radici mussoliniane). Il cinema, la tv, i media cambiano a una velocità sconcertante e travolgono tutto ciò che è vecchio. Solo le istituzioni dinamiche riescono a stare al passo.  

E' dinamica un'istituzione statale sballottata sempre dalla politica di qua o di là? Non servirebbe forse un Centro Sperimentale che prima che nominato da destra o da sinistra avesse un po' meno burocrazia, un po' meno Stato dentro? 

Sarebbe anche il caso di ricordare che il Centro Sperimentale non è solo una scuola, ma il luogo dove si conserva la memoria del cinema italiano (film, archivi, documenti, tutto). Sono cose ben diverse. Un conto è formare cineasti che registrati vedersela con ChatGpt. Altro è conservare, preservare, diffondere nel modo più capillare possibile il nostro patrimonio cinematografico nel mondo. 

Invece tutto qui è ammassato nello stesso baraccone statalizzato e politicizzato, dove tutto pare dipendere dalla forma dei vertici, più che dalle idee messe in gioco. Non fatevi fregare dalla battaglia per le nomine. Non si hanno notizie di capolavori di storia del cinema diventati tali grazie alla nomina di un Cda o dal gioco delle correnti di partito.

L'arte soffocata. Storia della censura della Dc ai film: da Brando a Pasolini tra tagli, sequestri e repressione. Nella Penisola si è scatenata la polemica contro la fatwa scagliata da Putin su due opere Lgbt italiane. Ma nel cinquantennio dell’egemonia democristiana sono state mutilate decine di capolavori. Chiara Nicoletti su L'Unità il 2 Luglio 2023 

È difficile non ricordare la fine del film premio Oscar Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore e il suo protagonista, da solo nella sala cinematografica, a guardare il contenuto della bobina di pellicola che il suo amico Alfredo (Philippe Noiret), il proiezionista del paese dov’è nato, gli ha lasciato prima di morire: un montaggio di tutte quelle scene che erano state censurate dalle proiezioni del cinema di quartiere, per volere del parroco.

Baci su baci che emozionano, commuovono e ricordano la magia delle immagini in movimento. Il bianco e nero di quelle scene e l’ambientazione di quel film fanno pensare a qualcosa di lontano, un mondo antico le cui regole ferree, come quella della censura, erano retaggio di un’epoca o soltanto di un paesino chiuso e retrogrado. È invece notizia di pochi giorni fa, proprio a chiusura del mese del Pride che il garante delle comunicazioni della Russia di Putin ha ufficialmente attaccato e multato due prodotti italiani come la serie Made in Italy con Margherita Buy e il film campione di incassi di Paolo Genovese, Perfetti sconosciuti, perché violavano la “legge sulla propaganda Lgbt” che vieta di promuovere in pubblico “rapporti sessuali non tradizionali”.

Nel primo caso, la serie ambientata nella Milano della moda negli anni 70, mette in scena una relazione gay tra due personaggi, il grafico di una rivista (Maurizio Lastrico) e un modello (Saul Nanni). Nel secondo, come tutti ricordiamo, verso la fine della cena scopri-segreti, il personaggio di Giuseppe Battiston confessava finalmente la propria omosessualità agli amici di una vita. I distributori russi di entrambe le opere sono stati accusati di violazione delle norme sulla “tutela dei minori dalle informazioni dannose”. Duole constatare che tutto ciò sembrerà assurdo e inconcepibile soltanto a chi, in Italia, ignora o ha semplicemente dimenticato che la censura nei confronti dell’audiovisivo è cessata di esistere nel nostro paese nel vicinissimo 2021 per mano di un decreto firmato da Dario Franceschini e che i vari governi italiani, in primis quelli del cinquantennio 1944-1994 dominato dalla Democrazia Cristiana, hanno fatto spesso uso della cesoia per deturpare, modificare o impedire a grandi opere di raggiungere la sala oppure di accedervi integrali come erano state concepite.

Per tornare indietro con la memoria e ricordare che c’è stato un tempo molto vicino in cui in Italia accadevano cose persino peggiori della ghigliottina anti-lgtbq+ russa, racconteremo i casi più eloquenti ed eclatanti di censura cinematografica di casa nostra tra tagli e veri e propri sequestri di pellicole. Gli anni 70, come si può facilmente immaginare, sono stati i più caldi da questo punto di vista e un bel po’ di esempi emblematici vengono proprio da questa decade, a partire da uno dei più famosi e di certo chiacchierati, fino ad oggi: Ultimo Tango a Parigi, film del 1972 che ha consacrato Bernardo Bertolucci dopo Il Conformista e ha reso celebre l’attrice francese Maria Schneider in coppia con Marlon Brando. La mostra digitale permanente del Ministero Della Cultura, CineCensura.com, a cui attingiamo, che ripercorre la storia della censura cinematografica in Italia con un censimento, definisce questo titolo come “Film simbolo del conflitto tra censura e libertà di espressione artistica”. Di questo film si è scritto, detto tutto e ancor più di tutto.

Nonostante il successo incredibile nella sua prima di New York, elogiato dal New Yorker come “il più potente film erotico mai fatto che può rivelarsi il film più liberatorio mai realizzato”, a Ultimo tango a Parigi fu proibito, dalla Commissione censura, il nulla osta per la proiezione in pubblico poichè Bertolucci non aveva acconsentito a dei tagli. Una volta convintosi a tagliare, il regista riuscì a vedere il suo film uscire nelle sale per pochissimo tempo, per poi venir sequestrato per “esasperato pansessualismo fine a se stesso” e offesa al comune senso del pudore. Nel 1976 la Cassazione dispose addirittura la messa al rogo del film e dunque la distruzione del negativo. Dobbiamo rendere grazie alla copia conservata in Cineteca se oggi possiamo ancora vedere quest’opera. Si dovrà aspettare solo il 1987 e il cambiamento nelle norme a regola del “comune senso del pudore”, per il dissequestro definitivo. Solo nel maggio del 2018, grazie al restauro in 4K a cura della Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia, con la supervisione di Vittorio Storaro per l’immagine e di Federico Savina per il suono, il film ha ritrovato la sala cinematografica.

Ma i guai con questo film non sono finiti per Bertolucci, poiché qualche anno fa Maria Schneider svelò che la famosa scena del burro non era prevista in sceneggiatura, che fu un’idea di Brando con la complicità di Bertolucci e che pur essendo simulata, la fece sentire in estremo disagio psico-fisico. Dal 2013 in poi, questa controversia è tornata ogni tanto a galla, tra smentite, scuse del Maestro e varie versioni della storia. In due momenti poi la diatriba si è fatta particolarmente accesa, nel periodo post #Metoo e in seguito alla scomparsa del regista.

Tornando ai primi anni 70, mentre Bertolucci non se la passava bene, i film stranieri non subivano di certo un trattamento più blando. Clamoroso fu I Diavoli di Ken Russell, del 1971, film che entrò per la prima volta nell’intoccabile area della religione, osando mettere preti e suore in posizioni scomode, non guidati dalla vocazione ma da interessi e passioni personali, a partire da una Vanessa Redgrave madre superiora deforme e accecata dall’ossessione per un parroco.

I Diavoli sconvolse letteralmente la Mostra di Venezia di quell’anno, causando quasi il licenziamento del direttore artistico di allora, Gian Luigi Rondi. Uscito nelle sale cinematografiche il 9 settembre 1971, il film venne subito sequestrato poiché alcune sequenze erano “estremamente oscene, anzi di pura pornografia, non giustificate né dallo scorrere del racconto, né dall’assunto ideologico”. Dissequestrato, fu riproposto con il divieto ai minori di 18 anni. Ad oggi ancora censurato in vari paesi, secondo il critico Adam Scovell, è ancora impossibile vederne la versione originale voluta dal regista.

Pochi anni dopo, nel 1975, si verificò il caso, forse ricordato da tutti, di Salò o le 110 giornate di Sodoma, film postumo di Pierpaolo Pasolini, presentato al pubblico, ad un festival, poche settimane dopo il suo omicidio e che viene da molti considerato come una sorta di testamento del regista e scrittore italiano. Arrivato nelle sale italiane nel 1976, fu subito bandito dalla circolazione per quasi tre anni, per poi essere rimesso nel circuito distributivo nel 1978. Più di ogni altro film o opera del regista, vedi Accattone (1961) o Teorema (1968), Salò generò un’ondata di critiche che coinvolsero in pieno il suo produttore, Alberto Grimaldi, sotto processo per oscenità e corruzione di minori.

Ambientato alla fine della Seconda guerra mondiale e basandosi sul libro del Marchese de Sade, Le 120 giornate di Sodoma, contiene scene di sesso esplicito, coprofagia, stupro e sodomia, come vuole il titolo e rimane, fatta eccezione per alcuni titoli italiani di minore intensità, quasi un unicum nel panorama del cinema di casa nostra e difficilmente replicabile. Nel 2015, alla 72ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il lungometraggio fu presentato restaurato dalla Cineteca di Bologna e dal Centro sperimentale di cinematografia (come era stato per Ultimo Tango), in collaborazione con Alberto Grimaldi e ricevette il premio per il miglior film restaurato.

Arrivano gli anni 80 ma la commissione censura non si rilassa ed ecco che sotto la sua scure cade, nel 1980, l’opera prima di Renzo Arbore, Il pap’occhio, distribuito per sole tre settimane nei cinema italiani a settembre per poi essere attaccato dalla stampa cattolica e sequestrato “per vilipendio alla religione cattolica e alla persona di S.S. il Papa”. Decaduto il sequestro per un’amnistia e archiviata la denuncia nel 1982, il film è stato nuovamente distribuito nel 1998 seppur privo di un monologo, quello di Roberto Benigni sul Cristianesimo. Grande smacco alla censura e soddisfazione per Arbore, gli interpreti, tra cui anche Manfred Freyberger, Isabella Rossellini, Diego Abatantuono, Luciano De Crescenzo (anche autore della sceneggiatura), Mariangela Melato, ed i produttori: dato che gli incassi furono altissimi, nonostante la brevissima permanenza del film in sala, Il pap’occhio ottenne il Biglietto d’Oro, premio degli esercenti cinematografici.

Nel 1981, ci fu un altro episodio meno ricordato di censura tranchant, quello ai danni de Il Leone del deserto di Mustafa Akkad che non vide mai le sale e subì un procedimento penale poiché considerato “lesivo all’onore dell’esercito italiano” secondo il presidente del consiglio di allora, Giulio Andreotti. Fuori dal periodo di governo della Dc ma comunque caso da annotare, è quello di Totò che visse due volte, pellicola del 1998 scritta e diretta dal duo Ciprì e Maresco.

Come recita Cinecensura.com, la Commissione di revisione cinematografica espresse parere contrario al rilascio del nulla osta per il film in quanto “anti-religioso e offensivo del buon costume”. Il film fu giudicato “degradante per la dignità del popolo siciliano, del mondo italiano e dell’umanità”. In appello la pellicola verrà autorizzata con divieto di visione per i minori di anni 18.

I tagli

Ci sono i film sequestrati, come abbiamo appena letto, e poi ci sono quei titoli che in sala ci sono andati e hanno fatto tutto il percorso, ma tagliati, edulcorati, modificati nella loro interezza così come concepiti dai loro autori, proprio a causa della Commissione censura. È il compromesso che dovette accettare Goffredo Lombardo della Titanus, produttore di Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, che, a quanto pare, all’insaputa delle stesso regista, accettò di effettuare dei tagli per permettere l’uscita in sala del film.

La versione reintegrata è stata restaurata e presentata al Festival di Cannes nel 2015 e poi in Italia, nel luglio dello stesso anno, alla rassegna Il Cinema Ritrovato di Bologna. Nel 2013 intanto, i più cinefili e fan del cinema horror, si saranno ricordati di Ruggero Deodato e del caso del suo Cannibal Holocaust, grazie all’omaggio che Eli Roth gli fece in The Green inferno. Quando si parla di cannibalismo al cinema, infatti, non ci si può esimere dal fare riferimento al regista, maestro del genere a livello mondiale. Uscito con importanti tagli e un divieto ai minori di 18 anni, Cannibal Holocaust ha fatto guadagnare grande fama a Deodato che ha collezionato polemiche, cattivissime recensioni, denunce e persino un arresto.

La scena di una donna nuda impalata dai cannibali fu percepita come talmente vera che il regista fu incriminato per omicidio tanto che per scagionarsi, dovette dimostrare al giudice che i suoi attori erano vivi e che aveva utilizzato dei sofisticati effetti speciali per ricreare un effetto il più reale e documentaristico possibile. Tutti questi problemi non permisero al film di godersi il successo che meritava e al regista di far arrivare il vero messaggio: un atto d’accusa contro i mass media. Chiara Nicoletti 2 Luglio 2023

DAGONEWS il 6 giugno 2023.

Volete garantire il successo a un film? Parlatene male. Le recensioni dei film da parte dei critici indirizzano il pubblico sì, ma in senso diametralmente opposto.  Secondo i ricercatori dell'Università della California-Davis, le recensioni negative spesso annunciano successi mentre le recensioni positive segnalano che un film sarà un flop. 

Gli autori dello studio hanno analizzato sia i commenti pre-uscita che i ricavi al botteghino del fine settimana di apertura per giungere alle conclusioni. 

I ricercatori hanno analizzato numerose recensioni di film pre-uscita scritte da critici cinematografici su Rotten Tomatoes. Più specificamente, si sono concentrati sullo scoprire se potevano prevedere il successo di un film. 

«È interessante notare che quando questi critici hanno scritto recensioni positive prima dell'uscita, alla fine il film è stato un flop – afferma l'autore principale dello studio, Pantelis Loupos, assistente professore di marketing e analisi aziendale per il Graduate School of Management - Al contrario, le loro recensioni negative lasciavano intendere che il film sarebbe stato un successo. Più forte è il sentimento in entrambe le direzioni, più forte è il segnale predittivo».

Ad esempio, film come "Baywatch" e "Tomb Raider" hanno ricevuto recensioni positive prima dell'uscita, ma sono andati molto male al botteghino durante i fine settimana di apertura. In particolare, questo modello ha resistito anche tra i critici più importanti. Secondo il Prof. Loupos, questi risultati suggeriscono che la competenza non sempre porta a previsioni accurate.

Estratto dell'articolo di Christian Raimo per “la Repubblica – ed. Roma” l'1 giugno 2023.

Ieri sono usciti i risultati del bando biennale dell’estate romana. Dei 40 progetti finanziati con circa 35-40 mila euro l’uno, nove sono nel primo municipio; in molti municipi di periferia viene finanziato un solo progetto, spesso a soggetti che non hanno la loro base sul territorio. 

Al primo municipio, il più ricco di Roma, quello che da mesi è invaso da turisti, quello in cui ci sono la maggior parte dei musei cittadini, quello che vive di una solida possibilità di economie private, andranno per il 2023/2024 altri 600mila e passa euro, mentre le economie ordinarie di municipi di periferia sono, nella maggioranza dei casi, sotto i 60mila euro annuali. 

Ma questa non è la macchia più grossa nella distribuzione dei fondi pubblici sulla cultura per la prossima estate. L’eccezione che squalifica le regole sono i soldi concessi senza bando alle tre arene del cinema America: 250mila euro su 300mila richiesti, o meglio pretesi, per piazza san Cosimato, Casale la Cervelletta e Ostia.

Il budget è in linea con i finanziamenti delle precedenti edizioni, che erano sostenuti – anche lì, senza bandi – dalla regione Lazio, oltre che dal ministero della cultura e da numerosi sponsor privati, dalla gadgettistica del cinema America, e dallo scollettamento. 

Questi fondi regionali, con la nuova giunta di centrodestra, era previsto che non sarebbero arrivati, ma nel frattempo Valerio Carocci, presidente dell’associazione, e i cosiddetti “ragazzi del cinema America” hanno comunque messo su un programma ampio, di alto livello e quindi presumibilmente molto costoso. 

Il cinema America è una realtà ormai affermata, tanto da gestire un cinema come il Troisi, e da dichiarare un paio di settimane fa l’offerta di 2 milioni e mezzo di euro per acquistare la vecchia sede del cinema America. 

La domanda davvero elementare sarebbe: perché il cinema America, che oggi è una fondazione con molte risorse – che addirittura le può impegnare per comprare una seconda sala cinematografica –, deve avere soldi pubblici, e senza bando? Ma anche qui questo non è il nodo più problematico della vicenda. 

Ieri c’è stata una conferenza stampa in cui Valerio Carocci c’ha tenuto a chiarire che le voci per cui avrebbe occupato il Campidoglio e telefonato ai dirigenti del Pd per forzare quest’assegnazione di fondi sono false. È la parte meno interessante e squalificata della vicenda, mentre è molto singolare il suo ragionamento pubblico: “Il costo umano per noi è stato troppo elevato significa paura, ansia, stress. La consapevolezza di avere organizzato una spesa e di non vedere le tempistiche rispettate”.

Carocci parla, oltre che di costo umano, anche di una promessa che gli era stata fatta da parte del sindaco Gualtieri di un finanziamento. Che cosa significa, “promettere” dei soldi? 

E perché da parte del cinema America non c’è stata una battaglia verso la Regione per avere continuità del finanziamento e invece si è preferito battere cassa in modo insistente con il comune? 

E questo vuol dire che il Comune rinuncia alla sua prerogativa di indirizzare un pezzo importante delle sue politiche culturali e le dà in appalto a un privato?

Dagospia 31 maggio 2023 Comunicato Stampa 

“L’inaccettabile ricatto a cui si è piegato il sindaco Gualtieri risponde a tutti i requisiti della sinistra di lotta e di governo. Occupi palazzi speculando sull’assenza di case invece di aumentare offerta alloggiativa? Il sindaco fa la sanatoria. Occupi intere aree dismesse spacciando droga e vendendo cibo e alcool evadendo le tasse? Il sindaco tollera e non interviene. 

Occupi la sala consiliare pretendendo i fondi per autofinanziare le tue campagne cinematografiche? Il sindaco ti regala in contanti 250 mila euro. Poi è bello sentirli parlare di legalità e rispetto della legge. Che per gli altri si applica per gli amici s’interpreta. Sulla legittimità di questo atto, mi auguro ci sia un’indagine della Corte dei Conti per danno erariale mentre sul fronte nazionale chiederò un’audizione del sindaco Gualtieri in commissione e presenterò un’interrogazione parlamentare al ministro Piantedosi”. E' quanto dichiara il vicepresidente della Camera dei deputati Fabio Rampelli di Fratelli d'Italia.

(ANSA 31 maggio 2023)- Scontro politico per i fondi alle arene del Cinema America. Fdi definisce il finanziamento "inaccettabile". "Stiamo andando a affidare direttamente senza bando, a una fondazione che occupa uno spazio privato, 250mila euro dopo che qualcuno ha minacciato il sindaco di Roma? La Digos ha persino verificato che fosse tutto a posto. È inaccettabile", ha detto nel corso della commissione capitolina Cultura il consigliere di FdI Stefano Erbaggi. 

"Sull'aspetto del finanziamento al Piccolo America noi andremo avanti da ogni punto di vista - ha proseguito - dalla commissione Trasparenza che verificherà sia l'affidamento diretto sia le eventuali minacce, sia alla Corte dei Conti, sia a livello di pubblica sicurezza". Erbaggi annuncia che farà una segnalazione "per verificare che non sia accaduto l'incontro", riportato da organi di stampa, in cui esponenti del Cinema America avrebbero preteso il finanziamento. 

"Ma che siamo matti? Così, diretto. E pure in fretta e furia, e mi raccomando altrimenti si arrabbiano. Allora facciamo l'elenco di chi fa iniziative belle in città, no? Qui non diciamo se l'iniziativa è bella o brutta. Qui parliamo di legalità e la legalità qui non esiste", ha concluso Erbaggi, Perplessa anche l'ex sindaca Virginia Raggi: 'Prima l'aggressione, poi subito i fondi?', si domanda. 

(Adnkronos 31 maggio 2023)- ''Il rilancio della cultura e il sostegno agli eventi che riguardano la vita della città non possono prescindere dal rispetto delle regole. Il via libera della Commissione capitolina, in tempi record, a ad un finanziamento di 250mila euro per i ragazzi del CINEMA AMERICA per sostenere la nona edizione del 'CINEMA in piazza' è del tutto incomprensibile. 

Non c'è uno studio, nessuna valutazione su costi e spese, non un bando. Uno schiaffo nei confronti tanti operatori economici, dei piccoli CINEMA e dei teatri della Capitale che durante tutto l'anno assolvono ad una funzione sociale, ludica e formativa indispensabile per la vita cittadina''. 

Così in una nota il consigliere capitolino della Lega e segretario romano del partito Davide Bordoni. ''A tutto questo, si aggiunge il fatto che dietro all'impegno del Campidoglio ci sarebbe stata una chiara minaccia e un'occupazione delle stanze del Comune durata un'intera notte da parte del 'frontman' dei ragazzi del CINEMA AMERICA. Se fosse vero, sarebbe inaccettabile, al punto da sconfinare in un mondo dell'illegalità che siamo intenzionati a contrastare con ogni mezzo.  

Se qualcuno pensa di usare simili mezzucci per intimidire le istituzioni, non può averla vinta. Siamo convinti che la cultura sia un settore vitale per la nostra città, ma siamo altrettanto certi che debbano prevalere gli imprenditori che onestamente lavorano, contribuendo al rilancio della nostra capitale. Su questa vicenda, la Lega chiederà al Campidoglio che venga fatta chiarezza il prima possibile'

Estratto dell’articolo di Valerio Valeri per romatoday.it l'1 giugno 2023.

Dopo la lunga trattativa andata in scena lo scorso venerdì 26 maggio nell'ufficio del capo di gabinetto di Gualtieri, i ragazzi del Cinema America ottengono il tanto atteso finanziamento da parte del Comune: 250.000 euro per sostenere una buona parte delle spese (già anticipate) per realizzare la nona edizione del "Cinema in piazza". 

La commissione cultura, presieduta dalla dem Erica Battaglia, si è espressa positivamente sulla delibera di giunta che nel pomeriggio del 31 maggio darà definitivamente il via libera a due finanziamenti: uno da 198.000 euro per la partecipata Fondazione Cinema per Roma, ente di diritto privato in controllo pubblico e 250.000 euro per la Fondazione Piccolo America, ente privato nato a dicembre 2022 dall'esperienza decennale dei ragazzi che nel 2012 occuparono il Cinema America e oggi gestiscono anche la Sala Troisi a Trastevere. 

La riunione del 31 maggio, convocata nel tardo pomeriggio del 30, arriva a pochi giorni da quella che in molti hanno definito come una vera e propria occupazione degli uffici del sindaco Gualtieri da parte di Valerio Carocci, presidente della Fondazione e "frontman" dei ragazzi del Cinema America.  […] 

Così, dopo l'uscita dello stesso Carocci che all'indomani della lunga trattativa in Campidoglio ha riferito del rinnovato impegno da parte di Gualtieri, la commissione cultura si è riunita in tempi stretti (come ammesso in apertura anche dall'assessore Miguel Gotor) a 48 ore dall'inizio dell'edizione 2023 del Cinema in Piazza, permettendo alla giunta di dare l'ok definitivo al finanziamento. […] 

Il consigliere Stefano Erbaggi (FdI) ha votato contro: "Non concepisco una convocazione del genere che unisce due argomenti opposti - ha detto - perché da una parte c'è una realtà istituzionale e inattaccabile, mentre dall'altra c'è una fondazione composta da persone che occupano abusivamente uno spazio privato e alle quali affidiamo, senza bando, 250.000 euro di soldi pubblici, addirittura dopo che qualcuno di loro avrebbe minacciato il Sindaco, fatto tra l'altro non smentito da nessuno. […]".

Anche l'ex sindaca Virginia Raggi ha condiviso le perplessità del centrodestra: "Abbiamo dovuto leggere i documenti di notte - esordisce - tra l'altro incompleti. Non c'è una comparazione di spese, non sappiamo se la cifra decisa per il Cinema in Piazza sia consona rispetto a quella stabilita per la Fondazione Cinema per Roma". 

Francesca Barbato (FdI), che non ha partecipato al voto, ha definito la commissione del 31 maggio "una trappola politica, perché si è messo tutto insieme nello stesso calderone, continuando a legittimare situazioni di illegalità e abusivismo".  

DAGOREPORT l'1 maggio 2023.

Fiato alle trombette! ‘’Costruiamolo insieme, questo cinema specchio di mondo. Facciamo entrare chi bussa. Rinunciamo alle nostre certezze, quando il nuovo compare inatteso e fuori norma”, così esorta Concita De Gregorio nel suo retoricamente pipponico editoriale di presentazione del sito-rivista The Hollywood Reporter (hollywoodreporter.it ). 

Ciak! Ciak! Avanti con la grancassa: “Sarà fonte di lavoro, di ricchezza – sarà dunque utile – ma soprattutto sarà giusto: sarà la cultura diffusa e direzione di marcia del prossimo secolo. Il tempo nuovo. Avrà avuto un senso, il nostro stare nel tempo, se saremo stati capaci di sentir arrivare quello che arriva. Di dire a chi ha qualcosa da dire accomodati, questi sono i nostri ferri del mestiere, eccoli: magari non ti serviranno, forse invece sì. Comunque. Vengono da molto lontano, li abbiamo custoditi per te, fanne buon uso”.

Il cinema sarà pure "una proiezione dell'immaginario collettivo", ma quando il diavolo creò lo star-system non pensava davvero di far partire l’embolo poetico di Concita. Per fortuna, il diavoletto fa le pentole e non i coperchi. Così a sinistra della testata brilla un link criptico: “Non dirlo a nessuno”.

Curiosi, clicchiamo e scopriamo che Concita è l’erede di Mata Hari, già pronta a prendere il posto di Elisabetta Belloni a capo degli 007 de’ noantri. Anzi, visto le figuracce recenti con Wagner e Uss, la Ducetta dovrebbe al volo nominarla a capo dei nostri servizi segreti. Dopo la dolce domandina: “Avete una segnalazione per The Hollywood Reporter?”, Concita si trasforma in “De Gregorio il guardiano del pretorio” (antico carosello del 1959 di Terital Rhodiatoce), squadernando le istruzioni per diventare una adeguata spia dei nostri tempi, delatrice a prova di intercettazioni. 

Bene, prendete carta e penna, qui inizia l’avventura di ‘’chi non spia, non è figlio di Concita’’.

“Se volete condividere informazioni in merito a situazioni, fatti, notizie o indiscrezioni da portare alla pubblica opinione che abbiano a che vedere con l’industria dell’intrattenimento, fatelo sapere a The Hollywood Reporter. 

In altre parole: in questo spazio potete portare alla nostra attenzione segnalazioni di informazioni non conosciute, ma anche di comportamenti errati, discriminazioni, scorrettezze e altre forme di illecito, in modo da poter a nostra volta procedere ad indagini o verifiche.

Ecco come potete condividere con noi le vostre vicende in modo facile, sicuro e, se volete, confidenziale.

Siete pregati di non inviare comunicati stampa. 

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Chi indaga su una fuga di notizie potrebbe essere in grado di scoprirvi.

Non dite a nessuno che siete una fonte”. 

E così con una manciata di righe Concita cestina “cinema specchio di mondo“, fotte Hollywood e mette nel sacco Cia, Fbi, Mossad messi insieme: non è un fenomeno?

Il partito unico dei musei.

Estratto dell’articolo di Giovanna Vitale per repubblica.it l'1 luglio 2023.

Inaugurazione dell’Estate al Maxxi, il museo del XXI Secolo guidato da Alessandro Giuli, intellettuale di destra cui nel novembre scorso il ministro Gennaro Sangiuliano ha affidato una delle più importanti istituzioni culturali d’Italia.

È la sua prima kermesse estiva e il novello presidente ci tiene a far bella figura. Perciò venerdì 21 giugno, serata d’apertura, Giuli invita sul palco Morgan – il cantautore che non ha mai nascosto le sue simpatie sovraniste – a conversare con Vittorio Sgarbi. 

E lì accade quel che era facile immaginare: parolacce e volgarità a gogo, in un crescendo che sul finale culmina in battutacce e aneddoti pesanti sulle donne, raccontate come pezzi da collezionare, meri strumenti di piacere in mano a maschi voraci – attori, scrittori e capi di Stato –, contate a migliaia per vantare le loro conquiste.

Talmente imbarazzante che a un certo punto la videoregistrazione dello show viene amputata, come si evince dal taglio netto alla clip pubblicata su Youtube: al minuto 49 e 38 secondi, zac, la parola si spegne e si cambia scena. Forse perché si era andati troppo oltre?

La protesta dei dipendenti

Uno shock per il personale del Maxxi, in prevalenza femminile. Prima ne discutono fra loro, quindi decidono di fare qualcosa mai accaduta prima. In 43 su 49 registrati in pianta organica, una quarantina dei quali donne, prendono carta e penna e sottoscrivono una lettera di protesta al presidente della Fondazione. La formula prescelta è quella della “riservata personale”, a dimostrazione di un intento non finalizzato a menare scandalo, bensì a interrompere una deriva degradante per il Museo dedicato alla creatività contemporanea fra i più importanti d’Europa. 

La lettera

“Gentile presidente, con riferimento alla serata inaugurale dell’Estate al Maxxi, con rammarico sentiamo di rappresentarle il nostro dispiacere per i contenuti degli interventi del sottosegretario prof. Vittorio Sgarbi che in nessun modo collimano con i valori che da sempre hanno contraddistinto il nostro lavoro all’interno di questa istituzione, luogo di cultura libera, inclusiva e critica nei confronti di pregiudizi e luoghi comuni”, scrivono i dipendenti all’indomani dello show. “Siamo certi che la governance saprà individuare le modalità più idonee per esprimere il proprio dissenso e per il futuro evitare di esporre l’istituzione tutta a simili gravi intemperanze”. 

La reazione di Giuli

Giuli evidentemente si preoccupa. E incarica la segretaria di spedire una mail di risposta a ciascuno dei firmatari per comunicare che “se vorrai, il presidente è disponibile a riceverti per un colloquio personale”, indicando data e ora della convocazione ad personam: il 27 giugno nella fascia oraria 16,30-17. Non è chiaro in quanti si siano presentati al cospetto del presidente. Quasi tutti, stando a quanto trapela da fonti interne. Ai quali Giuli chiede in pratica di ritrattare. Di ritirare la lettera, o almeno la singola adesione. Il tutto in un clima divenuto all’improvviso pesante, tanto da far temere possibili ritorsioni. 

L’elogio del pene

D’altronde il capo della Fondazione, da giornalista esperto qual è, si era ben accorto dell’esondazione triviale dei suoi due ospiti, coi quali ha condiviso il palco. Iniziata con un’ode di Morgan a Sgarbi, definito in rima “Vittorio, amico mio, del vaffanculo il Dio”, e condita da una serie di provocazioni tutt’altro che culturali. 

Tra uno “sfrattiamo Amadeus da Sanremo” e una telefonata ricevuta da un numero sconosciuto – “Pronto? Chi cazzo sei? Cornuto” – la serata finisce con un elogio dell’organo genitale maschile, la conta delle conquiste sgarbiane e varie amenità di contorno. 

“Hai letto più libri o fatto l’amore con più donne? Qual è il tuo record?” è la domanda miccia che, dopo tre quarti d’ora di chiacchiere, scatena il sottosegretario. “Houellebecq dice che c’è un momento della vita in cui noi conosciamo un solo organo: il cazzo”, esordisce Sgarbi. “Il cazzo è un organo di conoscenza, cioè di penetrazione, serve a capire”, insiste mentre Giuli interviene, nel tentativo di arginarlo: “Sta citando Moravia, non è una cosa volgare”.

Ma il critico prosegue: “Poi, dopo i 60 anni, scopri che ci sono anche altri organi, c’è per esempio il colon, il pancreas, la prostata. Io non sapevo che cazzo fosse ‘sta prostata, mai incontrata, a un certo punto sui 67 appare la prostata e tu devi fare i conti con questa troia puttana di merda che non hai mai incontrato in vita tua. Il cazzo se ne va e arriva la prostata”. 

Donne da collezionare

Non è che l’inizio della valanga. “Quante donne hai avuto?” insiste Morgan. E Sgarbi, a valanga: “Ti posso rispondere con Califano. Il Corriere fa un’inchiesta perché si scopre che quello che nel mondo ha avuto un patrimonio più ampio di conoscenze femminili si chiama Warren Beatty: 12.500”. E Morgan:  “Ma cosa sono rispetto a te? Nulla, un’inezia”. 

Sgarbi continua a contare: “Il secondo è Simenon 10mila, ma a lui non importava se fossero libere o puttane. Poi va avanti e arrivi a Julio Iglesias 7mila; Jack Nicholson 6mila; Juan Carlos 2mila; Mitterand 1.500; Kennedy mille. Poi si arriva all’Italia, e dice, voi in Italia cosa fate? Beh, io non ho un contatore all’uccello – dico - quindi non lo so, però posso risponderle con il mio amico Califano: ma tre al mese me li vuoi dare? Sono proprio una media piccola piccola”. 

Non pago, si vanta: “Gli osservatori dell’Osce, nel momento in cui ero attivo, valutava anche 9 al mese. Quindi venne fuori 1.500, che era una quota minima di servizio”. Non si ferma più, il sottosegretario alla Cultura, racconta pure una storiella su Berlusconi, che gli rivelò di aver avuto meno di 100 donne, “una tragedia”. 

Quindi, il colpo di teatro, virato in chiave politica: “Io però ho fatto una ricerca, e sembra che il campione del mondo sia un altro statista insigne che non ha avuto inchieste, Fidel Castro: 35mila. Viva il comunismo!” urla. 

Il pubblico ride, Sgarbi si bea e ammette di aver “ormai smesso”. Altri applausi e poi zac, al minuto 49 e 38 secondi, la registrazione si interrompe. Una censura che tuttavia non basta a chi lavora al Maxxi. Se è questa l’egemonia culturale che la destra vuole imporre al Paese, c’è poco da stare allegri.

Sgarbi: “Parolacce al Maxxi con Morgan? Polemica fasulla”. By adnkronos su L'Identità l'1 Luglio 2023

(Adnkronos) – Vittorio Sgarbi risponde alle critiche e alle accuse nei suoi confronti per il linguaggio usato al Maxxi di Roma, nella serata del 21 giugno, in una serata a cui ha partecipato il cantautore Morgan. Il 'caso' è scoppiato oggi complice la diffusione di un video, pubblicato per alcune ore anche su YouTube. "Le polemiche scoppiano quando accadono… Leggo la data del 1 luglio, con sorprendente ritardo: l'episodio è del 21 giugno. E' una polemica strumentale, a scoppio ritardato, fasulla", dice Sgarbi, sottosegretario al ministero della Cultura, in un lungo video su YouTube. Sgarbi è finito nella bufera per il linguaggio usato nella serata, in particolare per alcune espressioni. L'episodio è stato stigmatizzato da alcuni dipendenti del museo. "L'ospite in realtà era Morgan, che mi ha fatto alcune domande – spiega Sgarbi -. Abbiamo una componente scherzosa in cui entrano argomenti in cui si sfiora il sessismo, ma nessuno si è scandalizzato, nessuno ha protestato e tutti hanno applaudito". Sgarbi lamenta il fatto che 46 dipendenti del Maxxi abbiano scritto una lettera al presidente Alessandro Giuli, "dicendo che io dico le parolacce… le dico e le dirò ancora e continuerò a dirle! In realtà io ho risposto alle domande che mi faceva Morgan. Evidentemente, chi si è scandalizzato ha dovuto pensarci molto… io confermo tutto. Non si può dire 'cazzo'? non si può dire, altrimenti si dicono le parolacce! Ma non è una parolaccia, è un organo". E poi, "quante donne ho avuto? Non ho fatto io la domanda, io ho risposto giocando con la memoria. Tutto era fatto all'impronta e in quell'impronta, in quel divertimento, c'erano anche le provocazioni di Morgan. Che facciamo? Censuriamo il 'Don Giovanni' di Mozart? Censuriamo Franco Califano? Censuriamo Lucio Battisti? Volgari e sessisti? Non è accaduto niente, abbiamo giocato: dovremmo vergognarci? Abbiamo giocato: era divertimento, era teatro, era gioco e io rivendico tutto. Firmate pure lettere: tutto finirà e voi finirete nel nulla da cui siete partiti", conclude Sgarbi. "Il laido show di Sgarbi al Maxxi è semplicemente irricevibile. Ed è ancora più grave perché messo in scena in un luogo di Cultura tra i più importanti del paese. Vicinanza dunque a tutti i lavoratori del Maxxi che hanno deciso di mettere un limite all’indecenza e di protestare formalmente con il direttore del polo Giuli. Il quale, invece che metterli sull’attenti, dovrebbe scusarsi con loro per questo deprecabile episodio". A sostenerlo sono i parlamentari M5s delle commissioni Cultura di Camera e Senato, in una nota congiunta. Quanto a Sgarbi, "riteniamo che non sia più consono che un personaggio noto per il cronico sessismo e per la tendenza ad utilizzare un linguaggio da balera di quart'ordine ricopra il suolo di sottosegretario alla Cultura. A tal proposito, chiediamo un intervento della premier Meloni. Comprendiamo che la sua squadra abbia ormai una conclamata tendenza a gaffes, pasticci e comportamenti fuori luogo. Ma in questo frangente si è decisamente passato il segno", affermano i parlamentari M5s. "Se questa è 'cultura'. Insulti, machismo e violenza verbale al Maxxi. Non si può accettare da nessuno, men che meno da chi rappresenta le istituzioni italiane. Sgarbi si vergogni e si dimetta subito. Presidente Meloni ha nulla da dire?”. Così su Twitter Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra. "Prendiamo atto delle dichiarazioni dei dipendenti del Maxxi, che avevano affidato al loro presidente Giuli una lettera riservata, nella quale manifestavano il loro disagio per la performance volgare e sessista del sottosegretario Vittorio Sgarbi". Lo afferma in una nota Sandro Ruotolo, responsabile informazione e cultura della segreteria Pd. "Il presidente Giuli, col quale ho parlato personalmente, mi ha assicurato che non avrebbe intimidito le dipendenti e i dipendenti del Maxxi. Restano però vere e gravi le battute volgari e sessiste del sottosegretario Sgarbi".

Sgarbi al Maxxi, i dipendenti del museo difendono Giuli: "Strumentalizzati". Il Tempo il 01 luglio 2023

L'inaugurazione dell'estate al Maxxi è finita sotto gli occhi di tutti. Il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi, invitato in quell'occasione a dialogare con Morgan dal presidente del museo del XXI secolo di Roma Alessandro Giuli e stuzzicato dalle domande del cantautore, ha dato il via a una serie di interventi volgari. Il turpiloquio del saggista è stato condannato dai più ed è finito sui media, scatenando uno tsunami di critiche. In particolar modo, ad attirare l'attenzione dell'opinione pubblica è stata una lettera scritta dai dipendenti e indirizzata proprio a Giuli.  

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"Con rammarico sentiamo di rappresentarle il nostro dispiacere per i contenuti degli interventi del sottosegretario Sgarbi che in nessun modo collimano con i valori che da sempre hanno contraddistinto il nostro lavoro all’interno di questa istituzione, luogo di cultura libera, inclusiva e critica nei confronti di pregiudizi e luoghi comuni", avevano scritto i lavoratori del museo romano. Ora si aggiunge un tassello al caso che sta scuotendo il web e non solo. Le dipendenti e i dipendenti della fondazione Maxxi esprimono la propria "solidarietà al presidente Alessandro Giuli, per la strumentalizzazione mediatica e politica di una lettera riservata e personale in cui si esprimeva una riflessione collettiva". Alla lettera, riferiscono, "è seguita con immediatezza la risposta del presidente, con l’invito a un incontro importante e significativo". 

Contemporaneamente, anche Vittorio Sgarbi ha rivendicato le sue affermazioni e spiegato di non pensare alle dimissioni. Secondo il saggista, la polemica sorta è frutto di una "censura intollerabile, è un'azione intimidatoria inventata da alcuni dipendenti che hanno sollevato uno scandalo che non esiste, a ben dieci giorni di distanza da una serata accolta da applausi e divertimento". "Giuli non c'entra nulla, sono responsabile di quello che ho detto e l'ho detto in totale libertà", ha chiarito il critico d'arte. "Era uno spettacolo con due attori, uno che faceva le domande, Morgan, e l'altro che rispondeva, io. Morgan mi ha chiesto quante donne avevo avuto e ho risposto, citando poi il discorso di Houellebecq per la laurea honoris causa. Ho parlato della prostata e del mio cancro. È libertà di parlare", ha continuato.

Quindi ha rincarato la dose: "Allora censuriamo Petrolio di Pasolini, Houellebecq, Dieci ragazze per me di Battisti, Mozart, Lorenzo da Ponte o chiediamo a Manzoni di ritirare Merda d'artista, uno dei capolavori del '900? Non capisco di cosa parli Calenda o chi come lui polemizza. È una strumentalizzazione ridicola, non ho mai letto niente di più idiota". 

Vittorio Sgarbi, il ministro Sangiuliano: inammissibili sessismo e turpiloquio. Il Tempo il 02 luglio 2023

È bufera per le parole di Vittorio Sgarbi che si è lasciato andare a volgarità durante un evento al Maxxi di Roma il 22 giugno scorso. Il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, ha scritto una lettera al presidente del museo Alessandro Giuli, per chiedere spiegazioni su quanto accaduto. E ha affidato a una nota le sue considerazioni sulle esternazioni del  sottosegretario: "Sono da sempre e categoricamente lontano da manifestazioni sessiste e dal turpiloquio, che giudico sempre e in ogni contesto inammissibili e ancor più in un luogo di cultura e da parte di chi rappresenta le Istituzioni. Il rispetto per le donne è una costante della mia vita. Per me essere conservatori significa avere una sostanza, uno stile e anche un’estetica di comportamento", le parole di Sangiuliano. 

"La libertà di manifestazione del pensiero deve essere sempre massima e garantita a tutti, ma trova il suo limite nel rispetto delle persone - aggiunge il ministro - anche le forme dell’espressione non devono mai ledere la dignità altrui. Le istituzioni culturali, e so che Alessandro Giuli è d’accordo con me, devono essere aperte e plurali ma lontane ma lontane da ogni forma di volgarità. Chi le rappresenta deve mantenere un rigore più alto di altri". 

MAXXI, il presidente Giuli chiede scusa ai dipendenti. Cosa dice sul caso Sgarbi. Francesco Forgione su Il Tempo il 02 luglio 2023

Il sottosegretario alla cultura Vittorio Sgarbi, ospite, insieme a Morgan, al Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma ha scatenato le polemiche a causa del turpiloquio e le frasi infelici pronunciate dal noto critico d’arte. Mentre sedeva sul palco insieme a Morgan, Sgarbi ha creando imbarazzo negli ospiti e nei dipendenti del museo. L’episodio è diventato virale e ha irritato moltissime figure politiche oltre che il Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano che ha condannato fermamente l’accaduto e ha detto: “Ho scritto una lettera ad presidente del Museo nazionale delle arti del XXI secolo Giuli per avere chiarimenti anche se lo conosco e penso che anche lui sia categoricamente distante da forme di sessismo e volgarità”.

La risposta del presidente del MAXXI non si è fatta attendere. Intervistato dal Tg1, Alessandro Giuli ha dichiarato: “Non ho alcuna difficoltà a dirmi rammaricato e a chiedere scusa anche alle dipendenti e ai dipendenti del MAXXI con i quali fin dall’inizio ho condiviso questo disagio. Quindi sono scuse che il MAXXI fa a se stesso innanzitutto e a tutte le persone che si sono legittimamente sentite offese da una serata che nei presupposti doveva andare su un altro binario”. Le scuse di Giuli sono proseguite con altre dichiarazioni: “Tutto nasceva con presupposti diversi, doveva essere una libera e mite conversazione tra un artista e un sottosegretario. Durante la circostanza, la discussione ha preso una piega diversa di fronte alla quale io, per quanto possibile, ho cercato di contenere gli esiti di quel possibile disagio che poi ne è nato". Il presidente del MAXXI Alessandro Giuli, conclude il suo intervento al Tg1 rispondendo ai chiarimenti chiesti dal Ministro Sangiuliano sulle offensive frasi di Vittorio Sgarbi: “In questo momento io mi sento di sottoscrivere completamente e convintamente le osservazioni del ministro Sangiuliano. E cioè: il turpiloquio e il sessismo non possono avere diritto di cittadinanza nel discorso pubblico e in particolare nei luoghi della cultura”.

Vittorio Sgarbi, la sceneggiata al Maxxi? Non in nostro nome. Luca Beatrice su Libero Quotidiano il 02 luglio 2023

Seriosi no, seri ci vorrebbe. È questo il principale limite della destra quando sale al potere, sta bene, cresce nei sondaggi, piace agli italiani. Uno strano meccanismo di autoimplosione fa sì che quando le cose girano al meglio scatti l’incontinenza verbale, la frase senza senso o senza pensarci, fuori contesto e fuori scala. Da parte di parecchi. Basta un niente per strumentalizzare dichiarazioni fuori portata, ecco perché non va bene prestare il fianco a critiche preventive che preventive non sono se non riusciamo a frenare gli eccessi quando proprio non ce ne sarebbe bisogno. Intendiamoci: a Vittorio Sgarbi voglio veramente bene, la stima nei confronti dello storico, del prosatore d’arte, del fine dicitore (il più bravo e competente in Italia) è fuori discussione.

Però frasi come quelle pronunciate al Maxxi non vanno bene e lui lo sa benissimo. Il museo, pur non essendo una chiesa, ha qualcosa di laicamente sacro e inviolabile come ogni luogo di cultura, va trattato con rispetto e sensibilità, la stessa che lui mette in pratica ogni qualvolta si fa aprire un sito a tarda notte perché irresistibilmente attratto dalle opere. Buttarla in caciara può essere simpatico, in fondo il comico Luca Bizzarri ha presieduto il Palazzo Ducale di Genova, ma il turpiloquio così insistito, il riferimento costante agli organi sessuali, l’insulto al più fesso che malcapitato in una serata pubblica nel principale museo d’arte contemporanea d’Italia proprio no. Al Maurizio Costanzo Show avrei riso come un pazzo, al Maxxi, perdonami Vittorio, mi ha dato fastidio così come i risolini del comprimario Morgan, mentre era visibile l’imbarazzo del presidente Alessandro Giuli, cui è stata indirizzata una lettera indignata firmata da 43 dipendenti su 49 per chiarire l’accaduto. 

Perché poi la questione va oltre: la sinistra, che in teoria sarebbe ridotta ai minimi termini, subito pontifica sull’inadeguatezza della destra in campo culturale, che se questo è lo specchio di una nuova egemonia allora siamo messi male. Temo che siamo ancora una volta ai limiti dell’autolesionismo. Nelle istituzioni ci sono persone che lavorano benissimo cercando di fare meglio di chi è venuto prima. Noi dovremmo essere giudicati per il lavoro vero sul campo e non vorremmo finire travolti, come già successo in passato, per la nostra attitudine a fare sempre casino, invece di acquisire in serietà e autorevolezza. 

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per repubblica.it lunedì 3 luglio 2023.

Cristina Comencini, regista, scrittrice, lei il 4 luglio deve presentare il suo libro Flashback al Maxxi.

“Sì, ma ho deciso che non lo farò. Non me la sento più dopo aver sentito un sottosegretario alla Cultura parlare in quel modo delle donne”.

(...) 

L’aveva invitata il presidente Giuli?

“No, mi era stato proposto dal mio editore, Feltrinelli. Ed avevo accettato con entusiasmo. Il Maxxi è bellissimo, ed è anche mio, ci vado spesso. Francesca De Sanctis aveva accettato di presentarlo, Lunetta Savino di leggere delle parti. Ma non è più il caso”.

Cosa la colpisce della vicenda?

“I protagonisti di quel video erano lì in una veste istituzionale, non erano tre amici al bar: quel sottosegretario e quel presidente rappresentano quindi anche me. E le donne rappresentano il 50 per cento dell’umanità, non è che ci sono più opzioni per parlarne, l’unica lingua, in quel luogo, non può che essere quella del rispetto”. 

Perché non li chiama per nome?

“Perché è in quanto istituzione che è stata commessa l’offesa. Anche quando denunciavamo il comportamento di Berlusconi con ‘Se non ora quando’ lo chiamavano sempre “il presidente del Consiglio”. 

Le dipendenti del Maxxi si sono ribellate.

“E io mi sento di solidarizzare con loro: sono state colpite come cittadine italiane”.

La destra ha più volte denunciato l’egemonia culturale della sinistra. Le sembra un buon inizio?

“Si diano da fare, se vogliono fare conoscere la cultura di destra. Certo, se è questo il livello che propongono come alternativa… Per il resto aspettiamo con fiducia”. 

Sgarbi si dovrebbe dimettere?

“Non mi compete. Non faccio politica. E’ giusto che lo chiedano, se lo ritengono, i partiti in Parlamento”. 

C’è una morale?

“E’ stata commessa un’offesa non solo alle donne, ma anche alla cultura e alle istituzioni italiane. E’ triplice”. 

Estratto dell’articolo di Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” lunedì 3 luglio 2023.

Personaggio assoluto, molto amato e molto discusso, ostinato a restare sempre il bilico sul filo teso della provocazione politica e intellettuale […] lo scorso 21 giugno Vittorio Sgarbi è scivolato ed è venuto giù in un tonfo di volgarità, battute sessiste e insulti blaterati di colpo al cellulare con uno sconosciuto e davanti a un microfono aperto […] È accaduto a Roma, sul palco in cui si inaugurava l’attesa stagione estiva del Maxxi[…]

Accanto al neopresidente Alessandro Giuli, […] il cantante Morgan e […] Sgarbi, critico d’arte sublime e sottosegretario alla Cultura, sindaco di Arpino, prosindaco di Urbino e assessore alla Bellezza del comune di Viterbo. Perché questo sarebbe poi il suo vero, strepitoso talento primordiale: portarti dentro il bello di un’opera, di un affresco, svelartene i misteri profondi […]

Adesso, però, restano misteriose le ragioni per cui Sgarbi […] decida di andare oltre Sgarbi, oltre il proprio peccato originale, esibendosi in un’inaccettabile sequenza di parolacce e di allusioni pecorecce, incurante del luogo, del suo incarico istituzionale, della sua magnifica biografia, sporcata da un miscuglio di bassezze […] Visto e rivisto, rinunciando a ogni ipocrisia e indulgenza, la domanda che resta è: Vittorione, ma perché?

Estratto dell'articolo di Tommaso Rodano per il “Fatto quotidiano” martedì 4 luglio 2023.

Da almeno trent’anni, Vittorio Sgarbi fa Vittorio Sgarbi: usa le sue capacità retoriche per trasformarsi in una macchietta indemoniata e demenziale, a beneficio di autori televisivi senza fantasia e un pubblico senza pretese. Il suo contributo abituale è di urla, insulti, minacce, incontinenze verbali e fisiche. 

Oltre al folklore, ci sono le diffamazioni: dal 1996 al 2001 si è meritato il record assoluto delle richieste di autorizzazione a procedere respinte; 78 votazioni alla Camera, di cui 70 per dichiararlo insindacabile. Solo nel 2006, poi la Giunta per le autorizzazioni è stata costretta a occuparsi di lui 6 volte, sempre per aver offeso magistrati (da metà delle imputazioni è stato graziato ancora con l’insindacabilità). Sgarbi è sempre stato questo, e questa è una piccola parte di ciò che ha offerto al dibattito pubblico. 

Mani pulite. “Di Pietro, Colombo, Davigo e gli altri sono degli assassini che hanno fatto morire della gente (...). Vadano in chiesa a pregare per tutta quella gente che hanno fatto morire”; “I giudici di Mani pulite vanno arrestati, sono un’associazione a delinquere con licenza di uccidere che mira al sovvertimento dell’ordine democratico” (Sgarbi quotidiani, Canale 5, luglio 1994)

Montanelli. “È un vigliacco, un pavido, un uomo che ha tradito, che è stato fascista, razzista, antisemita, sempre fascistissimo, nero come la pece!

Ha sempre espresso banali stupidità, un modesto giornalista, il più mediocre storico italiano” (Sgarbi quotidiani, dopo le critiche lanciate da Montanelli sulla Voce alle prime mosse di Berlusconi, fresco di vittoria elettorale, 31.3.1994) 

Caselli. “Qualche mese prima di essere ucciso, don Pino Puglisi mi disse angosciato: ‘Caselli, contattandomi e facendomi contattare continuamente dai suoi uomini, ha fatto di me consapevolmente un sicuro bersaglio’. (...) E così è stato: Caselli per aumentare il suo potere ha avuto la sua vittima illustre” (Sgarbi quotidiani, 7.4.1995, a proposito dell’assassinio di don Giuseppe Puglisi, per additare addirittura il procuratore Gian Carlo Caselli come il mandante morale di quell’orrendo delitto. Piccolo dettaglio: Caselli non ha mai incontrato in vita sua don Pino Puglisi: non gli ha mai parlato, neppure al telefono).

(...)

Cecchi Paone. “Ateo bastardo! Ateo fasullo! (...) Pensi solo all’esibizione della tua oscena bisessualità. Ridicolo sei! (…) Capra ignorante! Quello è! Rispetta! (...) Legga Dante, legga Manzoni, impari quella capra! Non portarmi dei fasulli… che fanno i laici del cazzo… il cazzo gli piace! Quello gli piace!” (Markette, La7, 8.2.2007) 

Travaglio. “Sei un pezzo di merda, un pezzo di merda puro!” (Annozero, Rai2, 1.5.2008); “Mi correggo. Travaglio non è un pezzo di merda. È una merda tutta intera” (Domenica 5, Canale5, ospite di Barbara D’Urso, dopo la condanna per il precedente insulto, 13.12.2009) Barbacetto. “Capra, bestia ignorante, (...) faccia di merda (...), merda secca, tu e il tuo giornale (...) Tu cachi merda, non parole. Tu e quella camicetta rosa da finocchietto” (Vero Tv, 11.9.2012)

(...)

Carfagna. “Mi hanno cacciato dal Parlamento per 15 giorni, con la Sor-cagna, con la Carfagna, la Sorcagna, che dice: ‘Ha cercato anche di negare di avermi insultata’; ma come posso insultare una che non esiste, ma vaffanculo” (Facebook, giugno 2020) 

Lobby gay. “Il governo è pieno di cripto-checche ed è una catena che parte da Conte e si diffonde come un polipo” (Stasera Italia, Rete 4, 24.7.2019) 

Lobby gay bis. “Casalino è una checca inutile” (Stasera Italia, Rete 4, 30.1.2020).

Non è compatibile con la funzione istituzionale che ricopre. Perché Sgarbi deve dimettersi: un uomo delle Istituzioni non può parlare così in pubblico delle donne. Irene Manzi su Il Riformista il 4 Luglio 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio alla polemica su Vittorio Sgarbi e le sue parole al Maxxi: deve dimettersi? Lo abbiamo chiesto al diretto interessato che spiega: “Si può ironizzare su tutto, perfino su un brutto male: l’arte infrange i tabù“. Favorevole alle dimissioni invece la deputata del Pd Irene Manzi: “Un uomo delle Istituzioni non può parlare così in pubblico delle donne”.

Qui il commento di Irene Manzi:

Vittorio Sgarbi ama gli eccessi verbali e le provocazioni che assumono, troppe volte, le fattezze di una volgarità banale e ridonante che ha spesso ad oggetto le donne. È uno stile che non mi appartiene e che non dovrebbe avere cittadinanza nelle istituzioni, soprattutto, quando prende le sembianze di una misoginia che racconta le donne come pezzi da collezione o meri strumenti di piacere.

E non mi sorprende lo sdegno con cui le dipendenti e i dipendenti del MAXXI – a cui va la mia solidarietà – hanno accolto questo spettacolo sguaiato, volutamente ed eccessivamente volgare: perché le donne che abitano quel luogo di cultura e che ne rappresentano tante altre fuori, dovrebbero essere giudicate per le loro competenze, la passione con cui svolgono il loro lavoro e non certo per le battutacce misogine. Battutacce pronunciate da chi? E qui sta la questione principale. Un sottosegretario alla cultura può parlare in quel modo senza che accada nulla? Può farlo senza che qualcuno gli chieda conto delle volgarità pronunciate? Può farlo senza che qualcuno gli ricordi che rappresenta le Istituzioni di un Paese dove il tema della violenza, degli stereotipi e dei pregiudizi di genere è problema nazionale, talmente forte da rendere complessa ogni azione per scardinarlo? Sgarbi ha pronunciato quelle parole in un museo progettato da una donna, Zaha Hadid, creando uno iato insostenibile tra la banalizzazione delle donne e un luogo iconico frutto del genio femminile.

Se Sgarbi nel suo privato può fare ciò che vuole, non può pensare di lasciare libero sfogo a questo torrente sfrenato di volgari turpiloqui sul palco di una delle più prestigiose istituzioni culturali del Paese: ed è risibile agitare argomenti come la cancel culture o la censura radical chic. Qui si tratta di banalissime volgarità che avrebbero potuto pronunciare alcuni amici al bar. Ma Sgarbi e Giuli, che ha moderato l’incontro, senza sentire il dovere di mettere un freno a quelle insolenze, rappresentano ognuno di noi in virtù del ruolo che ricoprono. Non sono amici al bar. E allora, non sarebbero sufficienti le dichiarazioni perentorie e la presa di distanza del Ministro Sangiuliano se si dovessero trasformare in scuse “doverose” ma senza conseguenze: si tratterebbe del trionfo della più becera ipocrisia.

Al Maxxi non c’è stata nessuna censura. Si tratta molto più banalmente del decoro che dovrebbe accompagnare chi rappresenta le Istituzioni. Perché il grado di libertà di un intellettuale non si misura dalla quantità di volgarità che riesce a pronunciare, ma dalla forza con cui le sue idee smuovono le coscienze; dalla capacità che ha di far pensare e riflettere sulle cose del mondo. Ecco, l’elaborazione del pensiero critico non ha nulla a che fare con le volgarità che Sgarbi ha pronunciato sul palco del Maxxi tra risate imbarazzate e gomitate cameratesche tra relatori.

Il personaggio Sgarbi non è compatibile con la funzione istituzionale che ricopre e che richiederebbe uno stile, un equilibrio, una compostezza che gli sono totalmente avulsi. Se ciò non bastasse, e basterebbe in qualunque Paese, a maggior ragione dopo che il suo stesso Ministro ha marcato la fine di ogni rapporto di fiducia, avremmo la chiara dimostrazione che l’Italia è un paese che ha un problema con le donne, con il rispetto a loro dovuto, che non tiene nella giusta considerazione la solennità delle istituzioni e ciò che rappresentano.

L’educazione verso i più giovani parte innanzitutto dall’esempio e le istituzioni sono le portatrici di un messaggio, di qualche cosa in cui identificarsi e riconoscersi. Vorremo sapere cosa pensa di tutto ciò la premier Meloni. Se ritiene che Sgarbi possa continuare a rappresentare le istituzioni, nonostante quello che ha messo in scena nei giorni scorsi, offendendo le donne sul palco di una delle più importanti istituzioni italiane. Se così non fosse, da domani, il sottosegretario Sgarbi non dovrebbe ricoprire più il suo incarico.

Irene Manzi

Amanti di censure e repressioni. Dimissioni Sgarbi? Ho parlato del mio tumore in modo ludico, vittima della retorica del sessismo: quando lo fa Benigni è divertimento. Vittorio Sgarbi su Il Riformista il 4 Luglio 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio alla polemica su Vittorio Sgarbi e le sue parole al Maxxi: deve dimettersi? Lo abbiamo chiesto al diretto interessato che spiega: “Si può ironizzare su tutto, perfino su un brutto male: l’arte infrange i tabù“. Favorevole alle dimissioni invece la deputata del Pd Irene Manzi: “Un uomo delle Istituzioni non può parlare così in pubblico delle donne”.

Qui il commento di Vittorio Sgarbi:

Al Maxxi io non ho mai pronunciato parole “sessiste”, ma ho semplicemente scherzato su una grave malattia che mi ha purtroppo colpito e che chiederebbe rispetto da chi lo invoca, a parole, per donne offese e molestate, non certo da considerazioni confidenziali, in un palese divertimento teatrale fra due amici (come è stato il clima di tutta la serata, senza alcuno scandalo), al MAXXI.

Per dire, tra i presenti, questo è il commento di una donna: “Ciao. Ho visto la tua serata al Maxxi con Morgan, carina e divertente, ma tu sei un uomo troppo simpatico oltre che coltissimo. Tanto simpatico tu, quanto poveri di spirito coloro che hanno avuto da ridire, quanta tristezza fanno”. Appunto, tristezza. A distanza di giorni dall’accaduto e di ore dalle polemiche pretestuose che ne sono seguite, leggo di molti che parlano, senza il dovuto rispetto, dell’unico tema introdotto da una domanda di Morgan a me: senza farne oggetto di commiserazione, ho parlato del mio tumore in modo ludico, citando un grande scrittore come Houellebecq in una lezione all’Università Kore, per il conferimento di una laurea honoris causa.

Rivendico il diritto a scherzare su me stesso senza offendere nessuno. Vedo invece alcuni che si offendono e invocano, contro di me, l’intervento ora del ministro, ora del presidente del Consiglio. Amanti di censure e repressioni. Ma la politica non ha niente a che fare con lo spettacolo al MAXXI: era una serata teatrale, nella quale io mi sono confessato di fronte a Morgan, con il divertimento e l’ilarità di tutti, con applausi prolungati, selfie, autografi, anche dopo lo spettacolo, senza che alcuno obiettasse, a caldo, qualcosa. Abbiamo giocato, su mille registri, con Morgan.

Parolacce e battute fanno ridere, e vanno intese in modo scherzoso, senza scandalizzarsi. Il sottosegretario non c’era, stava preparando un intervento solenne per il Centro europeo per lo studio dei Normanni (certamente sessisti). Dunque, senza polemiche e anche senza provocazioni. La mia è stata una confessione provocata da Morgan, in lingua “volgare”. Come quella di Benigni. O ci sono parolacce buone e parolacce cattive? A Rai 1 Benigni che palpeggia, e inveisce ironicamente sulla Carrà, con un diluvio di parolacce, è divertimento. E il mio racconto sessismo? Che Calenda, Bonelli, e altri soggetti, dopo dieci giorni, strumentalizzino e alimentino una sorprendente caciara sulle parole irridenti, ilari, strafottenti, ma giocose di un malato di cancro, senza umana comprensione per la malattia, è la misura della loro miseria umana oltre che della loro inesistenza politica.

Il loro unico strumento di discussione è la repressione. Io, al Mart, dove sono presidente (non al Maxxi, dove non ero presente come Sottosegretario, ma come attore, comprimario di Morgan, per recitare), ho fatto il mio dovere fino in fondo. Vengano a vedere le mostre, i miei detrattori, invece di invocare punizioni o rimozioni. Io ho tante querele per parole che colpiscono chi compie misfatti. Oggi sono vittima della retorica del “sessismo”. No. Era l’aria di Leporello nel Don Giovanni di Mozart:

Madamina, il catalogo è questo delle belle che amò il padron mio; un catalogo egli è che ho fatt’io; Osservate, leggete con me. In Italia seicentoquaranta;

In Alemagna duecento e trentuna;

Cento in Francia, in Turchia novantuna;

Ma in Ispagna son già mille e tre.

V’han fra queste contadine,

Cameriere, cittadine,

V’han contesse, baronesse,

Marchesane, principesse.

E v’han donne d’ogni grado,

D’ogni forma, d’ogni età.

Nella bionda egli ha l’usanza

Di lodar la gentilezza,

Nella bruna la costanza,

Nella bianca la dolcezza.

Vuol d’inverno la grassotta,

Vuol d’estate la magrotta;

È la grande maestosa,

La piccina è ognor vezzosa.

Delle vecchie fa conquista

Pel piacer di porle in lista;

Sua passion predominante

È la giovin principiante.

Non si picca – se sia ricca,

Se sia brutta, se sia bella;

Purché porti la gonnella,

Voi sapete quel che fa”.

Vittorio Sgarbi

Dal “Fatto quotidiano” lunedì 3 luglio 2023.  

"Il cazzo è un organo di conoscenza, serve a capire", dice Sgarbi infilando la testa in un preservativo.

Lettera di Anna Coliva a Dagospia lunedì 3 luglio 2023.

Caro Dago

dopo quarant’anni e passa di servizio istituzionale tra soprintendenze e musei credo di sapere, forse meglio di chiunque sia sinora intervenuto sull’argomento, quanto l’istituzione richieda un suo stile, contenuto e rispettoso. 

Ma ora che sento scatenarsi tutto questo uragano di indignazione repressiva contro Sgarbi al MAXXI, con proteste di indegnità morale e civile, per gravi insulti alla sensibilità e alla correttezza richiesta nelle istituzioni, alle donne, ai dipendenti e a quant’altro, beh… Sono andata a cercarmi il video dello spettacolo.

E l’ho trovato. Ebbene: di un baraccone e cafonal come pochi, soprattutto perché ring di una ipertrofia dell’io che è proprio l’opposto -ma l’opposto diametrale- di tutto ciò che ritengo naturale nel modo di intendere e agire la cultura e farne il proprio mestiere. Però quel baracconismo…! di una tale disarmante umanità e verità umano-individuale, di una tale messa a nudo proprio di quell’io che per mia indole conterrei, di un così sincero sbracamento tardo istrionico nel deteriorare ogni misura di spettacolarità, che tocca il cuore e mette a nudo il mattatore. 

Perché l’unica vittima è sempre l’istrione che si mette a nudo.  Tanto che io Sgarbi -e perfino Morgan- fossi stata lì, l’avrei applaudito con qualche lagrima agli occhi, come si deve ad ogni messa in scena di un viale del tramonto ben congegnato. 

E le proteste? E il ditino burocratese, sindacalese, istituzionalese, femministese alzato?

E il tentativo autoritario, come dicono, di farlo abbassare? Ma Sgarbi era stato invitato per il suo istrionismo o come Sottosegretario di Stato della Repubblica Italiana, autorevole rappresentante delle Istituzioni, civil servant? Era forse un convegno? Con Morgan???? Ma ci faccia il piacere! come direbbe Totò, unico esegeta ammissibile in questo contesto. 

Se si ricerca l’attrattiva mediatica di Sgarbi se ne devono prendere anche i rischi e Sgarbi su di un palco è rischioso e lui è, soprattutto, uomo di spettacolo. Perché di questo si tratta, di un palcoscenico su cui va in scena lo spettacolo di sé, in questo caso. 

Era un ‘monologo accompagnato’ da due comparse, due personaggi-spalla, il Direttore e il Cantante, in cui l’attore parla di sé e per questo è struggente e ha tutto il diritto di essere libero, indipendentemente dalla professione che esercita -politico, militare, prete, ricamatrice- perché è l’attore che agisce. A noi l’ipertrofia dell’ego non piace, noi pedanti preferiamo parlare di Pinturicchio Gessi Giotto Siciolante e Pacchiarotto (copyright Zeri). Ma lì si trattava di uno spettacolo di varietà, non di un dialogo accademico.

Come al MAXXI si fa lo yoga si fa varietà culturale. Come si fa a sentirsi offesi da un varietà? Da un grand -guignol ? Se poi lo spettacolo non piace si esce, come si è sempre fatto ma non si censura. Il palcoscenico non è forse il campo sacro all’attore e del suo testo, quale che sia, nella finzione scenica? Sì, l’istrione, in scena, l’avrei applaudito dalla platea con emozione, anche dove m’avesse insultata oppure offesa, per lo struggente, incontenibile spettacolo di sé che ha voluto dare e per tutte le sapienze che possiede e che sotto la baracca non esita a travolgere per un piacere irrefrenabile ad esibire decadenza. Ma soprattutto per la fedeltà dovuta alla libertà del palcoscenico. Anna Coliva

Vittorio Sgarbi "non merita la gogna, chi è davvero": la lettera della fidanzata. Sabrina Colle su Libero Quotidiano il 04 luglio 2023

Caro direttore, leggo con stupore e nello stesso tempo con fastidio il tiepido e incerto pezzo di Luca Beatrice. Dal critico d’arte e saggista che ha persino pubblicato un libro dal titolo Sex: Erotismi nell’arte da Courbet a YouPorn, mi aspettavo un punto di vista originale e spiazzante, ma posso capire che la difesa di Vittorio Sgarbi potrebbe diventare pericolosa. E così anche Luca Beatrice, con il suo tentennante e per nulla convincente articolo, entra a far parte del gruppo triste che si raccoglie solerte per godersi lo spettacolo della gogna pensando di conquistare una ricompensa, abbandonando “l’amico Sgarbi al quale voglio veramente bene” al solito ruolo che Vittorio ricopre da anni, e cioè quello di eroe solitario e vittima solitaria di tutti i conformisti e i puritani che vorrebbero bandirlo.

Beatrice accenna timidamente a qualcosa di laicamente sacro (il museo Maxxi), dimenticando quanto Sgarbi si sia speso per difendere lo spirito dei luoghi che il tempo ha reso sacri, poiché ci ha sempre insegnato che il bene più prezioso - e proprio per un luogo - sia l’integrità, il suo essere stato quello che è stato. E, nella contemporaneità, soprattutto il luogo delle provocazioni. Dieci giorni fa eravamo tutti al Maxxi, il regno dell’arte contemporanea, a festeggiare l’inizio dell’estate, con tanti giovani che hanno ascoltato una conversazione intelligente su Carlo Michelstaedter e Giacomo Leopardi e l’hanno apprezzata almeno quanto i muri storti del Maxxi, “imperfetti” per appenderci dei quadri, ma perfettissimi per ogni conversazione non scontata, non imbalsamata, giocosa, irriverente, divertente, libera dalle protesi ortopediche del politicamente corretto, insomma “storta” e “imperfetta” come i muri del Maxxi. Sgarbi rappresenta, paradossalmente, sempre sé stesso: ironico e a tratti autolesionista. L’arte è anche rottura e provocazione, uso libero del linguaggio nel tempo della riproducibilità dell’opera d’arte e Vittorio si è presentato come un’opera d’arte e si è commentato come altro da sé. Dal ventre alla parola e la parola questa volta è stata veramente penetrante.

* * * Niente affatto, cara Sabrina Colle, Vittorio Sgarbi non si abbandona ma si critica, esattamente come lui fa con gli altri senza risparmiare nessuno. E credo che egli peraltro sia in grado di difendere in persona le proprie posizioni. Non mi trova d’accordo la sua replica soprattutto per il ridondante dannunzianesimo: Sgarbi non è opera d’arte, ma storico e critico dell’arte, non è altro da sé ma sempre se stesso e se sbrocca gli va detto e gli va scritto. Chi si proclama conservatore, peraltro, sente il bisogno di maggior serietà e sobrietà nei comportamenti e nelle parole.

Vittorio Sgarbi: «Chiedermi le dimissioni sarebbe censura e fascismo». Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura. Il critico d’arte si giustifica: «Il mio era uno spettacolo, era provocazione. C'è stato un profondo equivoco». Il Dubbio il 3 luglio 2023

«Se mi venissero chieste le dimissioni per una cosa del genere, il ministero della Cultura dovrebbe chiudere le porte per sempre. Sarebbe censura, vero fascismo. Le osservazioni di Sangiuliano sono condivisibili in tutto e per tutto, ma se riferite al comportamento in società o in sedi istituzionali: ad esempio, è chiaro che al Quirinale io non mi metto a dire parolacce. Ma il mio era uno spettacolo, era provocazione. C'è stato un profondo equivoco». Così il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi, in un colloquio con il Corriere della Sera, in merito alle polemiche sulle sue parole all'inaugurazione di Maxxi Estate.

Estratto dell’articolo di Claudio Bozza per corriere.it il 2 luglio 2023.

«Se mi dimetto? Ahahahah, ma non scherziamo. Anzi rivendico tutto quello che ho fatto e detto. Se dovessi accettare il ricatto di alcuni dipendenti del Maxxi staremmo freschi». Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura, è finito sotto il fuoco incrociato delle opposizioni, […] 

Sgarbi, non sono proprio «alcuni dipendenti» come dice lei, bensì 43 su 49 totali, ad aver firmato una lettera in cui si chiedono chiarimenti al presidente del Maxxi Alessandro Giuli...

«E come mai se ne vengono fuori 10 giorni dopo? […] siccome Giuli è di destra, questi signori radical chic ne hanno approfittato per strumentalizzare questa cosa». 

Però lei ha usato parolacce a profusione. Non si sente di chiedere scusa?

«E a chi? Era uno spettacolo. C’era goliardia: ho fatto Amarcord, Amici miei... Allora censuriamo anche Mozart, Lorenzo Da Ponte, Lucio Battisti, Franco Califano... Anche alcune delle rispettive opere e canzoni sono piene di riferimenti sessuali e altro». 

Anche i partiti di opposizione chiedono che lei si dimetta.

«Ho letto di Calenda. Perché la sua politica non è pornografia? Prima ha fatto un accordo con il Pd e Letta dandosi bacini e abbracci. Poi è andato da Renzi, da cui è poi stato ripudiato. Poi con chi mi devo scusare? Con Bonelli dei Verdi? Quello che sostiene la devastazione dell’Italia con tutte queste c... di pale eoliche. E c’è pure il Pd: si fot... pure loro. Poi mi lasci dire una ultima cosa, che ho da fare...».

La dica...

«Questa è cancel culture, sulle donne. Chi contesta le mie parole è un ignorante. Ho parlato del mio cancro, alla prostata. E per raccontare della mia malattia, scoperta quando avevo 67 anni, ho spiegato di aver scoperto solo in quel momento dell’esistenza di quest’organo, che è differente dal c...».

Il Maxxi, il pene e le donne: Sgarbi distrugge il “peloso moralismo”. Bufera per l’intervento al Maxxi di Sgarbi e Morgan. Il critico d’arte risponde a tono: “Calenda, vergognati”. Vittorio Sgarbi su Nicolaporro.it il 2 Luglio 2023.

Antefatto. Vittorio Sgarbi e Morgan vengono invitati da Alessandro Giuli al Maxxi di Roma per l’inaugurazione dell’Estate al Museo del XXI Secolo. Dal palco il critico d’arte e il cantante dibattono di tutto, come facile immaginarsi in maniera del tutto fuori dagli schemi. Apriti cielo. Per alcune battute sul pene e la prostata, oltre ad un siparietto giocoso sul numero di donne avute, Repubblica, il Pd, il M5S Angelo Bonelli e Carlo Calenda saltano sulla sedia chiedendo al ministro Giuliano Sangiuliano di riferire in Parlamento e a Sgarbi di dimettersi da sottosegretario.

Anche alcuni dei dipendenti del Maxxi hanno preso carta e penna per scrivere al Presidente della Fondazione una lettera in cui esprimono il “rammarico” per “i contenuti degli interventi del sottosegretario” che “in nessun modo collimano con i valori che da sempre hanno contraddistinto il nostro lavoro all’interno di questa istituzione”. Poi la politica: “Chiediamo un intervento del premier Meloni”, scrive il M5S. “Il Maxxi non può essere oggetto di questa deriva degradante”, incalza il Pd. “Che vergogna”, insiste Calenda. Mentre per Bonelli, deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Sgarbi dovrebbe “dimettersi subito”.

Dal canto suo Vittorio Sgarbi a dimettersi non ci pensa “affatto”. E in un video risponde per le rime a chi lo critica: “Mi vergogno per Calenda. Mi vergogno che un personaggio così finto possa scrivere” quello che ha scritto nel suo Tweet attaccando Alessandro Giuli. “Questo peloso moralismo ridicolo contro chi non ha fatto niente. Io ho parlato, non Guli, in uno spettacolo salace, libero. Non dovevo rispondere alla domanda di quante donne ho avuto? Ho giocato. Non si può giocare? Ci sono stati applausi e divertimento, ma dopo 10 giorni qualcuno se la prende con Giuli. Ho parlato del mio cancro, caro Calenda. Ha paura della parola ‘cazzo’?”. E ancora: “Giuli era lì con due persone che non hanno limiti, e forse è un errore. Ma allora non leggiamo Pasolini. Non lodiamo i Gay Pride e la libertà del sesso”. Infine l’affondo su Calenda: “Mi vergogno io per te. Capisco perché non ti vota più nessuno. Usi delle armi meschine per attaccare Giuli che non ha fatto niente: attacca me, che voglio la libertà di parlare. Ho detto cose che erano scherzo, che erano amici miei, che erano Amarcord, che erano il divertimento, che erano Lucio Battisti: ‘Dieci ragazze per me, posson bastare…’. Dobbiamo cancellare tutto?”.

(ANSA il 5 Luglio 2023) -  Il Sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi commenta il "question time" di oggi alla Camera sulle polemiche seguite allo spettacolo con e di Morgan andato in scena al Maxxi di Roma lo scorso 21 giugno. 

«Condivido pienamente la posizione del ministro Sangiuliano e mi dispiace con chiunque si sia offesa per parole che non riguardavano nessuna persona se non me e il mio cancro alla prostata.

Ringrazio tutte le donne e gli uomini che non si sono offesi per un uso del linguaggio che non ha alcun riferimento con i comportamenti descritti, ma si esaurisce nel circuito delle parole, secondo una consuetudine verbale che oggi ha caratterizzato in Senato anche l'intervento dell'onorevole Misiani, che ha parlato di "persone che si fanno un m… così". 

Spero che le mie scuse con chi si è sentito turbato stabiliscano adesso una tregua. Ricordo che oggi su un quotidiano nazionale sono stato definito "handicappato" (insultando me e i portatori di handicap); non mi pare di aver letto parole di condanna''.

Il Partito unico delle Sagre.

Gli assessori alle sagre: dagli “sbronzi di Riace” al “tesoro di Talarico” (di Gian Antonio Stella). GIAN ANTONIO STELLA su Il Corriere della Sera il 24 Maggio 2023

Dagli «sbronzi di Riace» alla Festa del radicchio rosso, si guarda più al folclore che alla salvaguardia dei tesori. Il nostro patrimonio trascurato e svilito dalle scelte «culturali» delle Regioni

Ma come vengono scelti gli assessori regionali alla Cultura? La «scuola» salernitana di Vincenzo De Luca è sancita da anni: «Non proporremo mostre d’arte contemporanea che vi strizzano i perpendicoli. Tantomeno eventi di altissima cultura destinati a dodici pinguini riuniti in un salotto. Costoro, questi intellettuali di peso, considerino che esiste anche una cultura popolare non meno dignitosa di altre forme ed espressioni artistiche». Quella è la sua rotta, quella segue. Assegnato quindi l’assessorato a chi più stima, cioè sé stesso, il presidente delega da anni a «istruire le pratiche culturali» un consigliere. Partito col filosofo Sebastiano Maffettone, ha poi optato per Patrizia Boldoni, la terza (ex) moglie di Corrado Ferlaino, dama dei salotti, curriculum zeppo di immobiliari e un «infortunio» (la condanna in primo grado per evasione d’un paio di milioni) pagato con un breve purgatorio prima del rientro…

Se una delle accuse al governatore campano è d’accentrare tutto tenendosi stretto lo scettro luccicante di assessore alla Cultura, libero di tagliare i fondi al San Carlo o al Mercadante, salvando Verdi e le Luci d’artista a Salerno, va detto che non è il solo. Si è tenuto la Cultura, dopo l’iniziale investitura a Massimo Bray, il governatore pugliese Michele Emiliano. Se l’è tenuta quello toscano Eugenio Giani, che sul sito ufficiale ricorda d’essere «autore di numerosi saggi e libri su vari argomenti di carattere sportivo e culturale», da Firenze e la Fiorentina a Festività fiorentine… Se l’è tenuta quello della Basilicata Vito Bardi, un militare della Finanza salito dalla Nunziatella al grado di generale di Corpo d’Armata. In compenso, di assessori, nella provincia autonoma altoatesina, ne hanno tre, con la delega anche all’istruzione: uno alla cultura tedesca, uno a quella italiana, uno a quella ladina. Risultato? Boh… Il trilinguismo integrale immaginato dai sognatori come Alex Langer si sta risolvendo in una pigrizia quotidiana che Arnold Tribus, il direttore della «Südtiroler Tageszeitung», fotografa così: «Ognuno parla la propria lingua e bada alla propria bottega».

Non solo sulle Dolomiti, ovvio.

La bottega politica calabrese, per dire, più che alla cultura come potevano intenderla Alberto Ronchey o Giovanni Spadolini, è interessata agli «attrattori culturali». Pezzi d’arte o paesaggio per acchiappar turisti. Dopo i Bronzi di Riace, già esaltati come «feticci del nostro “marketing culturale”» (copyright Salvatore Settis), sfruttati via via per gli spot più demenziali, dalla pubblicità delle uova reggine («uova grandissime!») alle feste della birra («Gli sbronzi di Riace») fino alle «bambole gonfiabili erotiche di tipo giapponese con le sembianze dei Bronzi», ecco dunque i «marcatori identitari»: «Scilla e Cariddi», il «Bue di Papasidero», il «Teorema di Pitagora» o il «Tesoro di Talarico». Scusate, ha chiesto con sulfurea ingenuità l’archeologo Battista Sangineto, il re dei Visigoti non era Alarico senza la T? Fa niente: magari verrà qualche turista yankee confondendolo con Steven Tyler, il celeberrimo frontman rock d’origine crotonese, per i compaesani Stefano Tallarico.

È una fissa quella dei «marcatori» o «attrattori» culturali. E la tutela? Il recupero dei tesori in degrado? La salvaguardia dei patrimoni a rischio? Boh… In un Paese che si pavoneggia d’avere un fantastilione di siti Unesco e li affida ad assessori geometri o odontotecnici, col massimo rispetto per i loro lavori, la nostra ricchezza storica e culturale è troppo spesso svilita a un recupero di generiche tradizioni identitarie legate in larga maggioranza alle sagre. «Val più una salsiccia di un libro, verrebbe da pensare», ha scritto mesi fa Francesco Jori sul «Mattino di Padova», «a scorrere l’elenco dei contributi ad hoc erogati dalla Regione per finanziare la “divulgazione e valorizzazione del patrimonio culturale su cui trova fondamento l’identità veneta”». Due esempi? «L’intera rete bibliotecaria di Venezia area metropolitana si vede assegnare poco più di 12 mila euro, tanti quanti l’evento “Prealpi in festa” di Cordignano», quella dell’intera provincia di Belluno «poco meno di 11 mila: quanti quelli concessi a Rio San Martino per iniziative culturali ed eventi gastronomici e conviviali in occasione della Festa del radicchio rosso» e via così, compreso un contributo alla sagra di Solighetto dove spicca un’avveniristica «corsa delle carriole». Oddio, nel 2023 dovrebbe andare un po’ meglio, ma in totale alle 742 biblioteche venete andrebbero 400 mila euro (compresi musei e archivi) contro il milione e 200 mila (il triplo) messi per le proprie dal Piemonte. Stessi partiti, scelte diverse.

Tema: c’è da essere ottimisti all’ipotesi che il disegno di legge Calderoli con le «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata» lasci alle Regioni la possibilità di impossessarsi ciascuna della propria fetta del patrimonio culturale e paesaggistico? «L’eccezionale patrimonio artistico italiano costituisce un tesoro nazionale, e come tale va affidato alla tutela ed al controllo di un organo centrale», spiegò Concetto Marchesi alla Costituente. E ricordò che la stessa Accademia dei Lincei davanti al rischio di future deleghe alle Regioni scongiurava che «non (fossero) sottratti al controllo nazionale i grandi centri di scavo e di restauro ai monumenti». Tirò in ballo anzi la «sua» isola amata: «La Sicilia è tutta quanta un grandioso e glorioso museo, onorevoli colleghi, e noi non dovremo permettere che interessi locali, che irresponsabilità locali abbiano a minacciare un sì prezioso patrimonio nazionale».

La storia gli ha dato ragione. Con i suoi nove «bollini» Unesco (due immateriali) dalla Valle dei Templi alla Val di Noto, la Sicilia ne ha la metà di Paesi carichi d’arte e paesaggi come Grecia o Turchia ed è alla pari, da sola, con altri come la Norvegia. Ma come li usa, ammesso che l’obiettivo sia «usarli»? Dal teatro greco di Eraclea Minoa eroso dall’incuria agli scavi semi-abbandonati di Morgantina, dalle rovine di Tindari alla Villa Romana di Piazza Armerina coi mosaici calpestati dai turisti senza manco una protezione, dal castello Eurialo infestato dalle sterpaglie al teatro di Siracusa tutto imballato nel legno per ospitare la stagione teatrale, ma più ancora una quindicina di concerti rock, il panorama è desolante. Eppure l’assessore alla cultura della Regione Siciliana Francesco Paolo Scarpinato, in un recente forum al «Quotidiano di Sicilia», gonfiava il petto come un gallo cedrone: «Il 25 per cento dei beni culturali al mondo è nella nostra regione…». Bum! «E così tre quarti dei beni riconosciuti dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità!» Bum bum!

Ma ha idea, l’ineffabile, di quanti siano questi beni sparsi per il pianeta, dalla muraglia cinese ai siti Incas, dalle piramidi egizie al santuario neolitico di Stonehenge? 1.157. E aumentano di continuo. Sottufficiale, esperto in missioni all’estero, medie superiori all’istituto alberghiero, il nostro è stato dirottato alla Cultura perché al Turismo dove stava, nella giunta di Renato Schifani, si era impantanato nell’appalto senza gara da 6 milioni di euro (poi revocato in autotutela per arginare inchieste giudiziarie) alla società lussemburghese Absolute Blu per l’evento «Sicily, Woman and Cinema 2023» al Festival di Cannes. D’altra parte che può saperne di numeri, lui che ha appena estromesso Italia nostra e Legambiente dall’Osservatorio sul Paesaggio, in un assessorato che non mette online il numero di visitatori e gli incassi ai vari siti museali (evviva l’autonomia e la trasparenza!) dal lontano 2018?

«Uffa, la solita Sicilia…», sospirerà qualcuno. Sarà. Ma l’assessorato alla Cultura della regione italiana più ricca di «bollini» Unesco (dieci, propri o condivisi) e cioè la Lombardia, è andato alcune settimane fa a Francesca Caruso. Meriti? Aver fatto parte dello studio legale di Ignazio La Russa? No, ha rassicurato: «Affronterò questo mio nuovo ruolo con umiltà, ma la cultura l’ho respirata un bel po’. Mia nonna era la sorella di Fausto Papetti». Un fenomeno, con la tromba.

Copyright dell’arte: caos e polemiche. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 3 maggio 2023. 

Intervento pasticciato e caotico del ministero, scoppia una vera e propria rivolta della Federazione delle Consulte Universitarie di Archeologia con l’Associazione Italiana Biblioteche e una miriade di enti, associazioni, scienziati, storici e cultori delle belle arti firmatari di furenti lettere di protesta

A chi appartengono i Bronzi di Riace? Ai calabresi, risposero i calabresi, certissimi che il ritrovamento delle due statue coinvolte in un naufragio nelle acque davanti alla loro costa ne marcasse il definitivo ed eterno possesso al punto di rivendicare il diritto di usarle per gli spot più demenziali, da quello per le uova reggine ai fumetti porno intitolati Sukia. Un delirio. Imitato in tempi più recenti dal video agghiacciante per pompeiviva.it in cui una matrona dipinta nella Villa dei Misteri si metteva a cantare in inglese una cover di I Will Survive di Gloria Gaynor e giù giù fino alla Venere pizzaiola di Botticelli lanciata da Daniela Santanchè.

Basta, dice oggi il Ministero della Cultura: le immagini del grande patrimonio artistico, paesaggistico, monumentale italiano non possono essere a disposizione di tutti, così, a capriccio. Un tanto al chilo. Il guaio è, purtroppo, che l’intervento a gamba tesa del governo è così pasticciato e caotico da azzannare, prima ancora di chi da anni sfrutta il «marchio» di questa o quella opera d’arte a volte per le più insensate campagne pubblicitarie, gli studiosi che a questo patrimonio hanno dedicato la vita. Prova ne è la vera e propria rivolta contro il decreto 161 dell’11 aprile 2023 che, per dirla con la Federazione delle Consulte Universitarie di Archeologia, «attenta all’art. 9 della Costituzione e alla libertà di ricerca». Un’accusa condivisa dall’Associazione Italiana Biblioteche e da una miriade di enti, associazioni, scienziati, storici e cultori delle belle arti firmatari di furenti lettere di protesta. Punto di partenza, la denuncia in un blog di Huffington Post dell’archeologo Giuliano Volpe: «Il vero nodo riguarda l’uso delle immagini, cioè di un bene immateriale, di cui il ministero si considera unico proprietario. Ora, infatti, la scure si abbatterà anche sulle pubblicazioni scientifiche: i ricercatori dovranno pagare canoni salati per pubblicare in un proprio articolo in una rivista scientifica o in un libro, con prevedibili ripercussioni soprattutto sui giovani ricercatori».

Quanto saranno fatte pagare queste immagini? Il prezzo dipenderà dalla tiratura? Dagli editori? E le tesi? E le foto scaricate da siti stranieri? E quelle fatte in proprio? Boh... Le tabelle sui prezzi, come troppo spesso capita quando ci si mette di mezzo la burocrazia, sono imperscrutabili. E lasciano aperti spazi vischiosi a interpretazioni di ogni genere. Su una cosa sembrano d’accordo un po’ tutti: è meglio un ritiro immediato del decreto e «la riformulazione del tariffario in coerenza con i contenuti già espressi nel Piano Nazionale Digitalizzazione». Col copyright, quando è in ballo un patrimonio comune, occorre andarci cauti.

Patterson: "Il Nyt trucca le classifiche". James Patterson contro il New York Times. Uno dei più grandi bestselleristi al mondo contro la classifica di libri per eccellenza. Redazione il 4 Aprile 2023 su Il Giornale.

James Patterson contro il New York Times. Uno dei più grandi bestselleristi al mondo contro la classifica di libri per eccellenza. L'accusa non è da poco: secondo Patterson, il quotidiano simbolo di serietà «trucca le classifiche dei libri più venduti». Le «cucina», come si usa dire delle cifre nei libri contabili truccati. E questo perché il nuovo romanzo di Patterson, Walk the Blue Line, che secondo i suoi calcoli avrebbe venduto più di tutti gli altri quindici titoli in classifica, ad eccezione di tre di essi (come ha spiegato in una intervista a Fox News), inizialmente non figurava nemmeno nella Top 15. Il romanzo si occupa di forze dell'ordine e contiene storie e testimonianze di numerosi poliziotti. Un tema caldissimo in America. Per protesta contro l'esclusione, Patterson ha scritto una lettera al New York Times, che però non l'ha pubblicata; e così ha deciso di raccontare l'intera vicenda su twitter, dove vanta un pubblico da 141 milioni di fan.

La replica del quotidiano è che le loro classifiche non si basino sui «meri numeri», e che le cifre siano rielaborate; ma certo ha fatto scalpore l'accusa di pubblicare classifiche «imprecise» non da parte di uno sconosciuto in cerca di pubblicità, bensì nientemeno che da parte del «re dei bestseller», che detiene il record del maggior numero di romanzi finiti al primo posto, proprio nella classifica del New York Times. Nella sua carriera, con oltre trecento romanzi ha venduto 400 milioni di copie; secondo i dati resi noti da Longanesi, editore italiano di Patterson, è stato addirittura l'autore più venduto al mondo nell'ultimo decennio, con 84 milioni di copie, in formato cartaceo e digitale, dal 2010 al 2019.

Arte trafugata al Metropolitan Museum di New York: nel museo statunitense oltre mille opere rubate anche in Italia. Nel suo catalogo compaiono 1.109 statue, vasi e reperti archeologici che appartenevano a collezionisti e mercanti incriminati o condannati per furti e ricettazioni. Più di 300 sono esposti. L’inchiesta dell’Espresso con il consorzio Icij e altre testate internazionali. Paolo Biondani e Leo Sisti su L’Espresso 20 marzo 2023.

Oltre mille opere presenti nel catalogo ufficiale del Metropolitan Museum di New York nascondono una storia giudiziaria imbarazzante: a possederle in passato erano collezionisti o mercanti che risultano incriminati o condannati per presunti furti e traffici clandestini di reperti archeologici e preziosi pezzi d’arte antica. Su un totale di 1.109 opere di provenienza sospetta, ben 309 sono tuttora in mostra nelle sale del prestigioso museo americano. E più di 800 erano di proprietà di un unico mediatore internazionale, che era stato indagato in Italia, ma è stato salvato dalla prescrizione.

A svelare questi retroscena del mercato mondiale dell’arte è un’inchiesta giornalistica chiamata Hidden Treasures (Tesori nascosti), durata cinque mesi e coordinata dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij) in collaborazione con L’Espresso (in esclusiva per l'Italia), il sito investigativo Finance Uncovered e altre testate internazionali. Una ricerca che solleva pesanti dubbi sulle procedure di verifica e controllo del Met, considerato il più importante museo americano, con le sue gallerie piene di tesori provenienti dall'Italia e da molte altre nazioni, dalla Grecia all’Egitto, dall’India al Nepal, dal Medioriente alla Cambogia. Collezioni che richiamano schiere di appassionati e influenzano molti altri musei in tutto il mondo.

Un collezionista di New York, Jonathan P. Rosen, è il «mister 800» di questa storia. Professione: banchiere. E investitore immobiliare. Segni particolari: ricchissimo. Il suo nome è ripetuto molte volte nelle 1.500 pagine della sentenza del tribunale di Roma che alla fine del 2004 ha condannato un suo fornitore italiano, Giacomo Medici, come uno dei più grandi trafficanti internazionali di reperti archeologici trafugati. Con la sua Atlantis Antiquities di New York, il banchiere Rosen si mette in società, negli anni ‘80 e ’90, con Robert Hecht, altro raffinato esperto d’arte e mercante americano. La sentenza ricostruisce i primi affari italiani di Rosen. Nel 1987, in particolare, la sua società cede al Getty Museum della California, per 80 mila dollari, un tripode etrusco, insieme a un antico candelabro di bronzo da 65 mila, dichiarando che erano stati esportati legalmente dall’Italia e quindi acquistati regolarmente due anni prima a Ginevra. Sono bugie clamorose. I due reperti, come si accerta nelle successive indagini e processi, erano stati rubati dalla collezione di famiglia del marchese Guglielmi.

I due soci americani, Rosen ed Hecht, vengono quindi indagati nel 1997 dalla Procura di Roma per furto e traffico internazionale di opere d’arte. Con l’italiano Medici, secondo l’accusa, formano un trio specializzato nel business dei reperti archeologici. In primo grado, nel marzo 2005, il giudice di Roma Guglielmo Muntoni, al termine di un processo svoltosi con rito abbreviato, ha condannato Medici a 10 anni di reclusione: una pena poi ridotta in appello a 8 anni e quindi confermata in via definitiva dalla Corte di Cassazione.

Sempre il giudice Muntoni, in udienza preliminare, si è espresso sulle posizioni di Hecht e della ex curatrice delle antichità del Museo Getty, Marion True, che erano accusati di associazione per delinquere e ricettazione di beni archeologici trafugati da tombaroli. Il 7 luglio 2005 li ha rinviati a giudizio davanti al tribunale di Roma. Il processo, lentissimo, si è chiuso diversi anni dopo con un proscioglimento all’italiana: entrambi, tra il 2010 e il 2012, hanno ottenuto la prescrizione dei reati.

Quanto a Rosen, il fornitore del Getty non è mai stato giudicato, come ha spiegato all’Espresso lo stesso giudice Muntoni, per la stessa ragione: «A differenza di Hecht e True, il signor Rosen era stato incriminato solo per ricettazione, non per associazione per delinquere. Gli episodi a lui attribuiti risultavano commessi prima del 1987 e, quindi, erano vicinissimi alla prescrizione già quando era stato aperto il procedimento a suo carico. Per questo motivo, Rosen non è mai stato rinviato a giudizio e di conseguenza non è stato sottoposto al processo». Intanto il tripode e il candelabro che risultavano trafugati sono stati restituiti dal Museo Getty all’Italia.

In passato Rosen era stato chiamato in causa anche per un altro scandalo, che riguarda 10 mila antiche tavolette mesopotamiche, donate dalla sua famiglia alla Cornell University. Era stato il Los Angeles Times, nel 2013, a ipotizzare, citando il parere di alcuni esperti, che quei reperti fossero stati saccheggiati dall’Iraq dopo la prima guerra del Golfo del 1991. Sul caso aveva aperto un’indagine la procura federale degli Usa. Alla fine, le tavolette sono state restituite a Baghdad. Rosen, tramite un avvocato, ha precisato che le tavolette erano state «acquistate legalmente» e che «nessuna prova di illeciti» era mai emersa dall'inchiesta americana.

Ma c'è anche un altro personaggio italiano collegato alla società Atlantis Antiquities di Hecht e Rosen: è Gianfranco Becchina, un mercante d’arte di Castelvetrano. Che ha fatto diversi affari trattando personalmente con Hecht. L’Espresso ha pubblicato il 29 gennaio scorso un primo articolo («Ruba l'arte e mettila al museo») che ha rivelato, grazie al parere di alcuni archeologi, come almeno sette opere di provenienza furtiva, ora ritrovate al Met, provenivano dalla sua galleria svizzera, chiamata Galerie Antike Kunst Palladion. In questi anni Becchina è stato bollato dalla Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi come un uomo d’affari «vicino sia alla famiglia mafiosa di Campobello di Mazara sia a quella di Castelvetrano», che è risultata «attiva nel commercio illecito di reperti archeologici provenienti da scavi clandestini nell'area di Selinunte», con «interessi facenti capo a Matteo Messina Denaro e, prima ancora, a suo padre Francesco». Becchina si è sempre proclamato innocente. Ma per gli stessi presunti legami si è visto sequestrare il patrimonio dai giudici del tribunale delle misure di prevenzione. 

Questo allarme viene ora confermato ai giornalisti di icij anche da Bruce McNail, ex partner di Robert (Bob) Hecht, fornitore del Met fin dagli anni ’50: «Non penso che Bob rivelasse in modo specifico al museo da dove provenivano quelle cose. Mi chiedete se io sapevo che arrivavano da siti illegali? No, ma lo intuivo». McNail, che oggi è pentito di quegli affari, fa dichiarazioni ancora più esplicite sui fornitori iniziali di quelle opere d’arte, in Italia e Turchia: «È un business gestito dalla mafia, bisogna stare molto attenti. Questa è gente dura. Io mi sono sempre detto: "Se la veda Bob, non voglio avere niente a che fare con persone del genere”».

Parole pesanti. Che trovano riscontro anche in un libro di memorie scritto da Thomas Hoving, direttore del Met dal 1967 al 1977. Nel saggio, Hoving si vanta di aver trasformato il Met in un museo di caratura mondiale per il livello delle opere contenute. Sono stati, racconta, dieci anni di transazioni spericolate. Essere complici di trafficanti, scrive lui stesso, era necessario per il ruolo che ricopriva. Hoving rivela tra l’altro di aver approvato l'acquisto di grandi collezioni di antichità indiane e cambogiane, anche se già sospettava che fossero state contrabbandate. E quando le autorità turche gli chiesero la restituzione di presunti reperti trafugati, l’allora direttore del Met lo ammise, dichiarando al curatore di un museo greco: «Sappiamo tutti che quel materiale è stato scavato illegalmente… Per l'amor di Dio, se i turchi troveranno delle prove, finirà che dovremo restituiremo il tesoro dell’arte greca antica. Questa è la politica. Abbiamo corso dei rischi facendo quegli acquisti».

Secondo Erin Thompson, docente di Art Crime al John Jay College of Criminal Justice di New York, il problema è l’ambizione al primato globale. «Il Met è stato fondato per essere in competizione con i maggiori musei del mondo, quindi voleva avere di tutto». Alla fine del suo mandato al Met, lo stesso Thomas Hoving ha tuttavia cercato di cambiare le pratiche di acquisto. All'inizio degli anni Settanta, ha preso parte alle sessioni dell'Unesco sulle antichità saccheggiate. E si è subito reso conto che «l'era della pirateria era finita». Per questo, poco dopo, ha deciso di modificare i criteri e i metodi seguiti dal Metropolitan Museum per creare le sue collezioni. Nonostante queste riforme interne, però, il numero delle opere di provenienza sospetta è continuato ad aumentare.

I giornalisti di Icij hanno chiesto all’attuale direzione del Met un commento su tutte queste notizie. Il portavoce Kenneth Weine non ha smentito i dati, ma ha risposto così: «Il Metropolitan Museum è impegnato nel collezionismo responsabile di opere d'arte. Si impegna a fondo per garantire che gli acquisti degli oggetti della sua collezione siano conformi alle leggi e alle politiche più rigorose in vigore al momento dell'acquisizione. Le linee guida del collezionismo sono mutate nel tempo. Quindi, sono cambiate anche le politiche e le procedure del Museo. Oggi il Met effettua continue ricerche sull’origine delle sue collezioni, in collaborazione con esperti di tutto il mondo».

Questo articolo è il frutto del lavoro collettivo dei giornalisti dell'Espresso e di altre testate internazionali, in particolare di Spencer Woodman (Icij), Malia Politzer (Finance Uncovered), Delphine Reuter (Icij), Namrata Sharma (Nepal, Free Lance), Emilia Díaz-Struck (Icij), Karrie Kehoe (Icij), Jelena Cosic (Icij), Agustin Armendariz (Icij).

Estratto da tgcom24.mediaset.it il 9 marzo 2023.

Un pensionato insospettabile di Bologna aveva in casa una refurtiva da 6 milioni di euro: l'uomo, 70 anni, è stato denunciato a piede libero dalla polizia, che ha sequestrato nella sua casa diamanti e orologi di marca, armi e divise antiche, fossili del Neolitico e un dente di mammuth.

Un vero e proprio tesoro che era nell'abitazione del pensionato, condivisa con la moglie, ma anche in altri tre appartamenti tra Bologna e il Ravennate, e ancora in alcune cassette di sicurezza dove sono stati rinvenuti almeno 100mila "pezzi" della collezione.

Buona parte dei beni sarebbe riconducibile a furti commessi negli ultimi 20 anni, in appartamenti e a bordo di treni, ma anche a truffe, scippi e borseggi. Il pensionato […] avrebbe acquistato la merce direttamente dagli autori dei "colpi".

"Acquisti" che non erano fatti al fine di rivendere la refurtiva, ma per pura passione di collezionare e accumulare gli oggetti preziosi. […] Gli agenti hanno trovato anche 330mila euro in contanti nascosti in un finto libro.

Per sequestrare materialmente la merce, la polizia si è dovuta avvalere di una ditta di traslochi, che ha utilizzato 65 casse per trasportare tutto. Finora è stato possibile restituire ai proprietari un decimo della refurtiva, valore circa 600mila euro[…]

Rischia fino a 21 mesi di carcere. Chi è Filippo Bernardini, il “ladro di libri” che ha beffato le case editrici con una mail. Redazione su Il Riformista l’8 Marzo 2023

Certo si tratta di furto o di truffa, ma la storia di Filippo Bernardini ha qualcosa di romantico, di magico. Filippo Bernardini è conosciuto oramai in tutto il mondo come il “ladro di manoscritti” ed è in attesa di sapere quanto gli è costato rubare libri. Il Tribunale di New York si esprimerà ad aprile. Bernardini inviava migliaia di email alle case editrici grandi e piccole di tre continenti diversi (Europa, America e Asia). Aveva provato a portare avanti diversi furti anche in Italia, prendendo di mira impiegati di varie case editrici e scrivendo loro email fasulle fingendosi qualcuno del settore che conoscevano e che avrebbe potuto richiedere il pdf di un manoscritto in lavorazione e quindi non ancora sugli scaffali delle librerie.

Come hanno spiegato alcune case editrici, era difficile insospettirsi, anche perché la richiesta di manoscritti è piuttosto usuale nell’ambiente e nessuno si faceva troppi problemi a inviarli. Ma chi è il ladro di manoscritti? Bernardini ha trent’anni, viene da una nota famiglia di Amelia, in provincia di Terni (il padre, medico, è stato candidato sindaco con il PD prima di passare a una lista civica) e fino al momento dell’arresto lavorava nell’ufficio diritti della filiale londinese della prestigiosa casa editrice statunitense Simon & Schuster. Un ragazzo giovane, anche talentuoso e con un lavoro gratificante.

Ma allora perché rubare manoscritti? A leggere le motivazioni si rimane increduli: non per soldi, ma per la smania di avere tra le mani un libro prima degli altri. Per il bisogno di leggere quel manoscritto prima che diventasse di tutti. Perché Bernardini non avrebbe mai diffuso online i manoscritti o chiesto riscatti agli autori.

Una passione singolare e che gli ha creato non pochi problemi. Dopo diversi di questi tentativi di frode, infatti, molte case editrici in tutto il mondo hanno cominciato ad adottare molte più precauzioni nell’invio di manoscritti via mail.

Nel mondo dell’editoria il “ladro di libri” era diventato un problema serio e diffuso. Ora Bernardini rischia molto, la Procura Federale di New York lo ha indagato e poi arrestato il 5 gennaio dello scorso anno per essere entrato in possesso, in maniera illecita, di più di mille manoscritti. Bernardini ha confermato le accuse della Procura americana, confessando i numerosi furti. Oltre che per frode telematica Bernardini era anche accusato di furto d’identità per aver registrato circa 160 indirizzi email falsi e molto simili a quelli di persone esistenti realmente nel mondo dell’editoria. La sentenza definitiva e la condanna sono previste per il mese di aprile. Nel frattempo, i legali del “ladro di libri” hanno fatto sapere che si sono accordati con la procura in modo che la condanna di Bernardini sia compresa fra i 15 e i 21 mesi di carcere, e preveda una multa non superiore a 75mila dollari.

Papiri, lingotti e persino un sarcofago: ma la tomba egizia era un falso. Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2023.

La scoperta a cento chilometri dal Cairo, poi le analisi degli storici: tutto è stato fabbricato pochi mesi fa. Le vittime dell’archeo-bussines e gli imbrogli storici

La palma, il leone, la mano distesa, il piede poggiato: ma sì, un abecedario dei geroglifici si trova dappertutto, che ci vuole a rifarli tali e quali? Anche i colori: su qualunque bancarella del suq di Khan al Khalili, è facile trovare il blu d’Amon o il verde d’Osiride. Poi, basta avere un po’ di tecnica: disegnare i volti di profilo e i corpi di fronte, le teste ad angolo retto, gli schiavi più piccoli dei faraoni…

La piccola tomba di Ben Suef, cento chilometri dal Cairo, spuntata nel deserto fra l’antica Eracleopoli e la necropoli di Meidun, era facile da raggiungere e per un po’ è stata visitata da tutti. Qualche turista s’avvicinava incredulo, ad ascoltare i ciceroni del nulla. Qualche riccone americano s’aggirava incuriosito, tra tombaroli fasulli che promettevano affari meglio di Totò alla Fontana di Trevi. Il primo dubbio è venuto a un ricercatore d’una delle tre università della zona: troppo ben conservate, quelle statue regali; troppo linde, le pareti; troppo ordinato, il sito. Ed è bastata una telefonata al Consiglio Supremo delle Antichità, una rapida ispezione e no, non la si fa a uno con l’occhio del professor Omar Zaki: l’archeologo principe, il rais delle piramidi, l’Indiana Jones che qualche anno fa scoprì nel deserto la mummia-bambina, è sceso lui in persona nello scavo e ci ha messo un attimo a guardarsi intorno e a sentenziare «muzayaf», tutto falso.

O più vero del vero: la beffa di Beni Suef entra di diritto nel museo storico dei Grandi Imbrogli. Quasi quanto gli ossari patacca di Giacomo a Gerusalemme, le archeo-balle giapponesi di Fujimura, le teste di Modì fatte a Livorno col Black&Decker, i diari di Hitler scritti a biro, le pietre peruviane d’Ica scolpite l’altroieri, il busto tarocco di Nefertiti… Dice un proverbio egiziano che la verità è una bugia che non è stata ancora scoperta e il nilotico, si sa, è fatalista: chissà quanti reperti farlocchi brillano da anni nelle teche di preziose collezioni americane ed europee. Nella finta tomba di Beni Suef hanno replicato antichi cimeli, rotoli di papiri, lingotti dorati, statue di gesso, perfino un sarcofago che ora, esaminati da un laboratorio, si rivelano paccottiglia fabbricata poco più d’un anno fa. Non si sa bene da chi. Il materiale è stato in gran parte distrutto dalla polizia, la magistratura egiziana ha aperto un’inchiesta. I sospetti circondano un gruppo di trafficanti d’opere archeologiche, piccoli truffatori che abbindolavano i turisti proponendo l’affare della vita: qualche migliaio d’euro in comode rate e ti recapitiamo in albergo un Ramses unico, un autenticissimo Horus, un Micerino d’annata. Qualche anticipo era stato già versato lontano da occhi curiosi, in centro città, dalle parti della piazza del Sukhoi.

L’archeo-business è roba seria, in Egitto. Lontani i tempi di Sadat, che le mummie non voleva nemmeno disseppellirle. Zittiti i Fratelli musulmani, che non hanno mai amato le piramidi e quel che vi gira intorno. Il piccolo faraone Abdel Fattah Al Sisi ha creato mesi fa la Pharaons Parade, traslocando i resti degli antichi re in mondovisione e tra mille fanfare. E l’egittologo Zahi Hawass ha trasformato in una guerra santa la caccia alle memorie sparse nei musei di mezzo mondo, dall’Hemiunu di Berlino all’Anchhaf di Boston, per non dire dei tesori esposti al Museo Egizio di Torino. Tanta fame d’arte attira altrettanti affamati di soldi e famelici curiosi. A gennaio, su YouTube, è comparso un video di 28 minuti (un milione e 700mila visualizzazioni in una settimana, con tanto di pubblicità inserite) che annunciava il ritrovamento della «vera tomba di Osiride» dalle parti di Luxor. Trattandosi della divinità deputata all’aldilà, sui social s’era mobilitato un popolo d’apocalittici, terrapiattisti, superstiziosi che come Sadat imploravano di non toccare il sacro sepolcro: «È un presagio di catastrofi!» (su Instagram), «lasciate che riposi in pace!» (su Twitter). Naturalmente, era una sacra bufala: le immagini venivano da scavi d’altre missioni archeologiche, compreso quello d’una squadra italo-spagnola. Lezione capita? Macché. Il falso piace anche più dell’autentico. Otto anni fa, il governo egiziano sostituì la tomba di Tutankhamen con una copia, per evitare che i troppi turisti la rovinassero. «Credevamo di perderci coi biglietti – ha raccontato l’archeologo Hawass — invece i visitatori sono quasi raddoppiati».

Estratto dell'articolo di Luigi Ferrarella per corriere.it il 29 gennaio 2023.

Ha fatto il giro d’Europa dal dopoguerra in poi, questo dragone alato di marmo di candoglia che stava sulla guglia numero 6 del Duomo di Milano, un «doccione» del peso di 250 chili per un metro e mezzo di altezza, una «gargolla» staccatasi a causa dei bombardamenti del 1943 e di cui da allora si erano perse le tracce.

 Ma i carabinieri del Nucleo tutela patrimonio culturale di Monza, in un’indagine della Procura di Milano che lo ha inseguito da ultimo in Olanda e Belgio, sono riusciti a trovarlo nelle Marche e lo hanno sequestrato in via preventiva al gallerista (ora indagato per ricettazione ed esportazione illecita di bene culturale) che intendeva venderlo alla Tefaf, la rinomata fiera d’arte e antiquariato di Maastricht in Olanda.

Davanti ai pm, difeso dall’avvocato Domenico Costantino, e anche davanti al Tar per difendere la titolarità del dragone alato e impedire venga restituito alla Veneranda Fabbrica del Duomo, il gallerista prospetta di averlo comprato in buona fede per 23.000 euro nel luglio 2018 da un antiquario, il quale a sua volta sarebbe stato all’epoca ignaro del fatto si trattasse di una statua del Duomo, provenienza di cui per la prima volta si sarebbe accorto un restauratore fiammingo in Olanda.

 All’antiquario, in questo gioco dell’oca a ritroso, lo aveva venduto un discendente di Giuseppe Torno, fondatore del colosso dell’ingegneria civile delle costruzioni, il quale lo aveva ereditato insieme ad altre opere custodite a Palazzo Torno, dimora storica di questa famiglia a Castano Primo (Milano). E il capostipite da dove lo aveva avuto?

La tesi della provenienza non illecita del dragone alato poggia sull’evocazione di una donazione del Duomo a Torno, a partire da due documenti del 30 settembre 1952 e del 27 agosto 1954 in un contesto storico nel quale — come la storica dell’arte Elisa Mantia ha spiegato agli inquirenti a proposito della dispersione di alcuni elementi decorativi della cattedrale a causa dei bombardamenti — poteva capitare che statue danneggiate venissero dismesse e regalate come simbolica riconoscenza a milanesi illustri benefattori del Duomo. […]

"Svenduto per scappare dai nazisti". Bufera sul Picasso esposto al Guggenheim. Storia di Clara Trevisan su Il Giornale il 25 Gennaio 2023.

Il Guggenheim è finito di nuovo nell'occhio del ciclone. Il 21 dicembre il museo di New York è stato citato in giudizio da una famiglia di origini ebree tedesche perché dal 1978 espone un Picasso appartenuto ai bisnonni, che erano stati costretti a svenderlo per fuggire dallo sterminio nazista. La faccenda ha risvolti legali e finanziari importanti dato che l'opera è valutata tra i 100 e i 200 milioni di dollari. E gli eredi sono convinti di avere tutto il diritto di riaverla indietro.

Come tanti altri che sono stati acquistati o venduti durante il periodo nazista, il quadro ha avuto una storia travagliata, che testimonia le persecuzioni del regime hitleriano. “La donna che stira” (“La repasseuse”) è stato dipinto da Pablo Picasso nel 1904, quando il talento del cubismo spagnolo aveva solo 22 anni. L’atmosfera di pesantezza e sacrificio che caratterizza la condizione dei lavoratori poveri è trasmessa dalle tonalità di blu che dominano la composizione, rimanenze del Periodo Blu che l’artista stava concludendo.

E di sacrificio parla anche la storia dell’opera stessa, che si lega per la prima volta al nome degli Adler nel 1916, quando Karl Adler la acquista dal gallerista tedesco Heinrich Thannhauser. Nel corso degli Anni Venti, mentre a Monaco di Baviera il giovane Adolf Hitler militava nelle fila del Partito Nazionalsocialista Tedesco ed elaborava la sua personale dottrina su razza, storia e politica, Karl Adler sedeva a Berlino nel consiglio d’amministrazione della più grande azienda manifatturiera di cuoio di tutta Europa e conduceva una vita agiata con sua moglie Rosi e i tre figli.

Le persecuzioni e l'esilio

Nel 1933 l’instaurazione del regime nazista in Germania ha mandato in frantumi le loro vite” si legge sui documenti del tribunale, con cui i pronipoti degli Adler raccontano come la rapida ascesa di Hitler abbia significato per i propri nonni la fine di una vita normale. Le leggi varate dal Fuhrer privavano gli ebrei dei loro possedimenti e li estromettevano dalla vita sociale ed economica del Paese, relegandoli nei ghetti. In quelle circostanze sempre più incerte, Adler aveva cercato di vendere il suo Picasso per la prima volta, ma alla sua richiesta di 14.000 dollari (che corrisponderebbero oggi a circa 300.000) non aveva trovato acquirenti e aveva scelto di tenersi l’opera.

Nel 1937 però, non riuscendo a mettere in salvo la sua famiglia in Sud America come avrebbe voluto, Adler comincia una fuga che lo rimbalza tra numerose città europee al costo di salatissime “tasse di volo” da pagare al Reich, oltre che di gravosi visti temporanei. È la vigilia della Seconda guerra mondiale quando Karl e Rosi si trovano obbligati a vendere il quadro per pagare l’esilio itinerante a cui la famiglia è costretta. Nel 1938 scelgono di vendere tutto ciò che possiedono per fuggire dall’Europa, ed è così che il Picasso torna nelle mani dei Thannhauser - questa volta del figlio, Justin - per la misera cifra di 1.552 dollari, corrispondenti a 32.000 del 2023, un prezzo di gran lunga inferiore al valore del quadro. Justin Thannhauser ha conservato gelosamente “La donna che stira” per tutta la vita, per donarla infine insieme a tutta la sua collezione alla Fondazione di Peggy e Solomon Guggenheim di New York nel 1976.

Il New York Post riferisce che i discendenti di Karl e Rosi hanno condotto delle ricerche indipendenti sui Thannhauser. Hanno così scoperto che i mercanti d’arte bavaresi hanno costruito parte della loro fortuna approfittando delle sventure di altri ebrei tedeschi, che cercavano di vendere preziose opere d’arte per fuggire dalle persecuzioni naziste. Nella citazione in giudizio depositata alla Corte Suprema di Manhattan, l’accusa sostiene che “Thannhauser conosceva bene il dramma degli Adler, e sapeva che se non fosse stato per la persecuzione nazista non avrebbe mai potuto mettere le mani su quel Picasso, tantomeno a quel prezzo”.

Il tentativo di restituzione dell'opera

I figli degli Adler non avevano mai immaginato di poter avanzare pretese sul dipinto, convinti che il modo in cui Thannhauser si era appropriato del quadro fosse legale. Tuttavia, quando nel 2016 il Congresso ha varato la Direttiva per la Restituzione di opere d’arte trafugate durante l’Olocausto, la famiglia ha trovato nuovo vigore nella rivendicazione del quadro. Nella recente azione legale mossa contro la Fondazione Guggenheim, i bisnipoti sono supportati da una decina di fondazioni non profit citate nelle volontà di uno dei figli di Adler.

L’accusa ritiene ingiusto che il museo continui a beneficiare del possesso dell’opera senza che questa sia stata acquisita tramite un giusto pagamento. Gli eredi precisano che Karl e Rosi sono stati costretti dalle persecuzioni a cedere l’opera a quel prezzo e che se non l’avessero fatto avrebbero subito una sorte tragica in mano ai nazisti. Pertanto, secondo gli Adler, è ora che il museo riconsegni l'opera ai legittimi proprietari.

Il Guggenheim rigetta l'accusa come priva di fondamento. Il museo afferma di aver condotto ricerche estensive sulla provenienza di “La donna che stira” e ricorda che già negli anni Settanta aveva contattato Eric Adler, figlio di Karl e Rosi, che però non aveva sollevato dubbi sulla legittimità della compravendita. Sara Fox, portavoce della Fondazione, si dice sicura che la transazione tra Karl Adler e Justin Thannhauser era legale, e che quindi l’opera, “unica e insostituibile”, rimarrà appesa nella sua sala a New York.

Solo l’anno scorso, lo Stato di New York ha approvato una legge in base alla quale i musei sono tenuti a dichiarare apertamente se le opere d’arte esposte sono giunte al museo tramite furto, confisca, vendita forzata o altri motivi involontari come risultato della persecuzione nazista. È questo il caso di altre due opere di Picasso, “Ragazzo che conduce un cavallo” e “Il Moulin de la Galette”, entrambi passate per le mani di Thannahuser. Dopo aver raggiunto un accordo nel 2009 con l’erede che le rivendicava, le opere sono rimaste esposte rispettivamente al MoMa e al Guggenheim di New York.

I beni culturali in Italia sono realmente un bene pubblico? L'Indipendente il 21 gennaio 2023.

Negli scorsi giorni Gennaro Sangiuliano, Ministro della Cultura dell’attuale Governo Meloni, è stato duramente criticato per aver appoggiato la scelta del direttore degli Uffizi, uno dei musei più famosi del mondo per le sue straordinarie collezioni di dipinti e di statue antiche, di aumentare il prezzo del biglietto d’ingresso del museo di Firenze, da 12 a 25 euro (a partire dal primo marzo 2023). «Se una cosa ha un valore, deve anche essere un po’ pagata», ha ribadito il deputato. Una visione che a molti addetti al settore è sembrata piuttosto classista: come se dei beni culturali, in altre ...

Caterina Soffici per “la Stampa” il 9 gennaio 2023.

Un genio o un pazzo? Un maniaco ossessivo o un burlone? Il mistero del ladro di manoscritti di libri è risolto, ma solo a metà. Il colpevole ha confessato. Negli ultimi cinque anni ha rubato oltre mille manoscritti di libri non ancora pubblicati, di Margaret Atwood e Stieg Larsson, Ethan Hawke e Sally Rooney, ma anche di sconosciuti.

 Ha provato perfino a violare la rete di sicurezza della segretissima Elena Ferrante, ma la casa editrice e/o l'ha scoperto in tempo. Alla Tila (Claire Sabatie Garat e Marco Vigevani) ha provato a rubare il manoscritto di Woody Allen. Alla Marsilio il quinto capitolo della saga di Millennium. Filippo Bernardini, 30 anni, italiano originario di Terni, lavorava nella sede londinese della casa editrice americana Simon & Schuster.

 Era stato arrestato dall'Fbi il 5 gennaio dell'anno scorso appena atterrato al JFK di New York per una vacanza. Da allora è nelle mani della giustizia americana. Venerdì si è dichiarato colpevole confermando l'accusa della procura di New York e sarà processato ad aprile. C'è il colpevole, ma ancora manca il movente, che è la cosa più affascinante di questa storia. Perché l'ha fatto?

Il Lupin dei libri ha creato qualcosa come 160 falsi account da cui mandava mail, cambiando una lettera o il dominio. Una m con una rn, un .com con un .it, le q sostituivano le g (@wylieaqency.com). Le mail avevano il corpo e il font giusto del reale mittente, anche il tono personale, il linguaggio tecnico adeguato. Il manoscritto era "ms", come si abbrevia in gergo.

 Editor, traduttori, agenti, scout, giudici del Man Booker Prize: il gotha dell'editoria internazionale di tre continenti è finito nella sua rete. Qualche volta è riuscito a impossessarsi del manoscritto, altre è rimbalzato nei sistemi di sicurezza e nei doppi controlli che vengono fatti per autori molto importanti.

Ma perché? Perché rischiare 20 anni di carcere (questo il massimo della pena per frode telematica secondo la Bbc) per impossessarsi di manoscritti senza poi farne niente Bernardini infatti non ha mai chiesto un riscatto, non li ha divulgati nel dark web, non li ha diffusi sulle piattaforme di sharing dei file illegali, quindi non c'è un motivo economico, non ci ha mai guadagnato un euro e non ha danneggiato le case editrici, né gli autori, né influenzato le aste editoriali.

 Allora perché? Non si sa. E questo è il bello di una storia che altrimenti sarebbe simile a mille altre storie di hackeraggio, di piccole truffe online, di ricatti. Un bravo sceneggiatore tirerebbe (tirerà? chissà che dalle parti di Netflix non ci stiano già lavorando) fuori una serie con i fiocchi, da questo schema inventato da Bernardini. Pensate alla follia. O alla genialità, che poi in letteratura il confine è sempre labile.

 Bisogna ammettere che il nostro Lupin dei libri ha fatto un lavoro gigantesco, vantando una conoscenza minuziosa degli ingranaggi dell'editoria dei bestseller oltre che un patrimonio di informazioni e di competenze incredibile. Solo per leggere per primo? Se fosse stato solo quello il movente?

 Un Lupin solitario e ossessivo, che non voleva aspettare e condividere con altri il piacere della scoperta. L'idea dell'esclusività, che è motore di tanto affannarsi contemporaneo: c'è chi spende migliaia di euro per una bistecca al sale, chi per essere sparato nel cosmo con un razzo. E perché la lettura non potrebbe essere un'esperienza irripetibile? Perché negarsi il piacere di leggere in anteprima un libro che attendono milioni di persone? Non sarebbe bellissimo se la vera motivazione di Bernardini fosse questa?

 O invece voleva solo farsi beffe dell'intero sistema? Voleva dimostrare a qualcuno che era capace di farlo? Tante ipotesi sono state sprecate. Qualcuno aveva pensato che fossero i servizi segreti russi o il governo cinese, per destabilizzare il sistema culturale occidentale.

E già un'ipotesi del genere la dice lunga sull'ego smisurato di certi personaggi nel mondo editoriale. Altri più praticamente avevano fatto notare che rubare un manoscritto, pure di un autore che vende milioni di copie, non è propriamente un'operazione di spionaggio industriale o tecnologico di alto livello. Non è il vaccino contro il cancro, insomma.

 Alla Fiera di Francoforte e di Londra, quando si era parlato del tema, qualcuno aveva buttato lì l'ipotesi che il ladro fosse uno scrittore frustrato a corto di idee, altri un produttore di Hollywood che voleva scopiazzare o intervenire in anteprima su un soggetto. Tutte ipotesi bellissime, l'ambiente è creativo, pettegolo e fantasioso. Invece niente, niente russi, niente complotti internazionali, niente riscatti.

Nell'agosto del 2021 sul New York Magazine era uscita una lunga e dettagliatissima inchiesta dal titolo The Spine Collector firmata da Reeves Wiedeman e Lila Shapiro. Leggetela se vi capita, è un vero thriller. I due seguono varie piste, interpellano ogni fonte possibile, indagano sugli scout editoriali (all'epoca i principali sospettati). "«pionaggio? Vendetta? O una completa perdita di tempo?» si chiedevano dopo un anno di lavoro che non li aveva portati né al nome del ladro né tantomeno alla motivazione. Dove non sono arrivati i due giornalisti è arrivata l'Fbi dopo 5 anni di indagini.

Ora è tutto confermato. L'autore è davvero lui, Filippo Bernardini, un oscuro (ora non più) impiegato di trent' anni che si è divertito a prendere per il naso il mondo editoriale e chissà se questi mille e rotti manoscritti se li poi è letti o semplicemente si è divertito a riempire le memorie dei suoi computer di materiale proibito. Il paradosso (o la morale o la beffa, decidete voi) di tutta questa storia è che in genere la sfida per la maggior parte dei manoscritti è di convincere qualcuno (agenti, editor, scout) a leggerli. Qui è il contrario. Forse era questa la vera sfida del Lupin dei libri?

Mario Baudino per "la Stampa" il 9 gennaio 2023.

Il terrore degli editori internazionali, l'uomo che almeno dal 2017 sottrae abilmente i romanzi più attesi prima che vengano pubblicati, è stato identificato e arrestato all'aeroporto di New York dall'Fbi, come in una serie tv. E, sorpresa, (così passiamo a un film di Verdone) il Fantomas dei libri è pure italiano. Filippo Bernardini, funzionario della Simon & Schuster londinese, dovrà ora rispondere di diverse accuse, dal furto d'identità alla frode. Le sue vittime sono centinaia di persone, in pratica una buona fetta del mondo editoriale americano, europeo e non solo.

 Sarebbe, in altre parole, il ladro misterioso che, spacciandosi per importanti addetti ai lavori (avrebbe avuto oltre 200 account falsi), inviava mail ingannevoli alle persone giuste chiedendo i pdf delle opere in visione. Era chiaro fin dall'inizio che si trattava di qualcuno che conosceva benissimo l'ambiente, ma al di là di questo restava un oscuro fantasma, inafferrabile, e ormai un po' mitologico. Un Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri del web? Non proprio.

Ma neanche un Ghino di Tacco 2.0, semmai un impeccabile dottor Jekyll, col suo doppio Mr. Hyde: 29 anni, dal 2009 alla casa editrice statunitense - che ora lo ha sospeso, dichiarando il proprio rincrescimento e stupore per un vicenda così imbarazzante - e negli ultimi anni coordinatore per i diritti stranieri, quindi al crocevia di tutti gli accordi per le traduzioni importanti, vanta un altissimo profilo culturale: laureato alla Cattolica di Milano, master in editoria alla Ucl di Londra, poliglotta, traduttore dal cinese. I nostri editori lo conoscono bene, non solo per i contatti professionali: con Feltrinelli ha firmato la versione italiana di Noi siamo la rivoluzione, il libro del leader studentesco Joshua Wong, sulla lotta per la democrazia a Hong Kong, e per La Nave di Teseo il romanzo La nostra storia, di Rao Pingru.

 Sul profilo Linkedin, cita «l'ossessione per la parola scritta e per i linguaggi» e il gusto per un lavoro che «assicura ai libri la possibilità di essere letti e apprezzati in tutto il mondo in molte lingue». Circa l'ossessione, se le accuse saranno provate, non ci sarebbe altro da aggiungere. Non è una forma di bibliofilia vera e propria (lui si muoveva nell'immateriale e raccoglieva file, niente carta) ma certamente di bibliofollia, affezione che taluni ritengono immaginaria, e che può portare in certi casi non solo al furto ma anche al delitto - o al delirio -, almeno nella fantasia romanzesca dei bibliofili (dal giovane Flaubert, poniamo, a Charles Nodier) e qualche volta nella realtà: come pare sia accaduto a Johann Georg Tinius, pastore protestante nato nel 1764 in Sassonia e condannato nel 1813, se pur con qualche dubbio, a 12 anni di prigione per una serie di omicidi commessi per soddisfare un'insaziabile brama di libri.

 Non ammise mai i delitti di cui era accusato. Quella di Bernardini, più facilmente confessabile, è forse la sola, irresistibile ossessione, anche perché non sembra abbia ricavato denaro dai furti (al momento, almeno, non è accusato di questo). Negli anni, il mondo editoriale, vittima di e-mail credibilissime, aveva pensato che dietro questa trappola ci fosse una grossa organizzazione.

L'indirizzo del mittente sembrava quello del personaggio giusto, che poteva avere un logico interesse a leggere il libro in anteprima ma con la sostituzione o l'aggiunta di una letterina, che passava spesso inosservata. E il linguaggio usato, le abbreviazioni e lo stile erano quelle comuni all'inglese editoriale di tutto il mondo.

 Una garanzia di autenticità, non certo un rozzo phishing. Persino la Fiera di Francoforte aveva lanciato un allarme, nel 2017. A quanto pare, c'era invece un ladro solitario e, vista l'assenza di risvolti venali, pure gentiluomo. I romanzi piratati in anticipo rispetto all'uscita, sul web e nel dark web, sono molti, non è verosimile imputarglieli tutti.

 Resta però indubbio che il nostro intraprendente connazionale è destinato a restare l'indiscusso artista, diremmo l'eroe, di questi furti acrobatici, il Fantomas mascherato cui molti davano la caccia, e al quale sono stati ricondotti gli episodi più eclatanti di questi anni: dal piratamento di Margaret Atwood (è stata la prima a postare su twitter la notizia dell'arresto, si direbbe piuttosto compiaciuta) a quello recentissimo di Houllebecq. Ora però non resta che inchinarsi al suo genio (italico?).

Napoleone inventò i musei rubando i nostri capolavori. Ecco la vera storia delle spoliazioni di Bonaparte che cambiarono il patrimonio culturale dell'Italia. Matteo Sacchi il 15 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Napoleone Bonaparte è al centro di una aneddotica quasi infinita. Di certo tra le sue più grandi imprese ci fu quella di trasformare l'Armée d'Italie, che nel 1796 era sostanzialmente un'accozzaglia male armata e mal vestita (di addestramento non ha nemmeno senso parlare), in una temibile macchina militare che penetrò nella penisola con spietata efficienza.

Per ottenere questo risultato, oltre a spiccate caratteristiche logistiche e tattiche, il generale corso dimostrò una certa dose di cinismo spiegando da subito alla truppa che l'Italia era il non plus ultra della possibilità di fare bottino. Il risultato fu un saccheggio sistematico che divenne leggendario. E infatti nell'aneddotica c'è anche una sorta di favoletta che viene a seconda dei casi attribuita ad un dialogo tra Napoleone e Canova o Napoleone e un alto prelato italiano. Al futuro imperatore lamentante del fatto che gli italiani eran tutti ladri per natura sarebbe stato risposto in modo piccato e giustificatissimo: «Non tutti... ma Buona-parte sì». Andando oltre questo scambio di battute, reale o fittizio che sia, una cosa è certa: al di là dei comportamenti della soldataglia che lottava per riempirsi la pancia, Bonaparte portò avanti una spoliazione sistematica del patrimonio artistico italiano. Una spoliazione che è ben raccontata da Giorgio Enrico Cavallo nel suo Napoleone ladro d'arte (D'Ettoris Editori, pagg. 110, euro 14,90, prefazione di Roberto Marchesini).

Fu un saccheggio scientifico, ponderato, con finalità politiche e che ebbe conseguenze sul lungo periodo e che ha sostanzialmente cambiato la storia. Giusto per fare un esempio, la nostra moderna idea di museo deve moltissimo, nel bene come nel male, al Musée Napoléon che è alla base del moderno Louvre. Ma andiamo con ordine, fino all'Illuminismo, i musei veri e propri erano pochissimi. Esistevano le gallerie d'arte o le Kunstkammer dei principi, che utilizzavano l'arte per magnificare la potenza propria e quella della propria famiglia. Esisteva poi tutta l'arte sacra che si portava dietro una funzione essenzialmente edificante e didattica.

L'Illuminismo si portava dietro due idee: la prima era quella di spazzare via la cultura precedente, considerata come superstiziosa e inferiore. La seconda: trasformare la cultura in qualcosa di universale e fruibile da tutti, anche se ovviamente ammannito dall'alto. Ecco che allora il museo si trasforma in un luogo dove il bello, ammassato, può stupire ed educare il popolo. Per gli illuministi radicali, per usare le parole della prefazione di Roberto Marchesini: «Questo è il grande obiettivo della modernità, che in Italia si è presentata con i colori giacobini e guidata dal generale corso: eliminare, estirpare la metafisica. La realtà non ha più due facce, una materiale e una spirituale; tutto è pura materia. Da essa si può trarre solo un guadagno economico e un piacere sensoriale».

Nel caso poi della discesa napoleonica all'ideologia si aggiunse anche la mera volontà di potenza e la volontà di portare a Parigi tutto il portabile. Come spiega Cavallo, Napoleone voleva: «Una dimostrazione della superiorità intellettuale della Francia, unico Paese che poteva conservare l'arte e goderne». Così per la penisola vennero sguinzagliati esperti e commissari di una rapacità mai messa in atto prima da nessun esponente del pur criticabilissimo Ancien Régime. Nominare tutte le opere sottratte nei vari Stati della penisola dagli emissari francesi richiederebbe ben più spazio di questa pagina e si trasformerebbe in uno sterile elenco telefonico del capolavoro trafugato. Ma giusto per rendere l'idea presero la via della Francia: la Mensa Isiaca, il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci, Le nozze di Cana del Veronese, l'Assunzione della Vergine di Tiziano, l'Apollo del Belvedere, la Maestà del Louvre di Cimabue, i Cavalli di San Marco (che i veneziani avevano saccheggiato secoli prima a Costantinopoli)... E poi ci fu il trattamento riservato a molti pezzi minori, ben raccontato da Monaldo Leopardi, il padre del grande poeta: «Le cose più sacre e i lavori più ricercati si pestavano con le mazze, e posti in grandi cassoni si trasportavano a satollare la rapacità della Repubblica Madre, e dei Cittadini Commissari suoi figli».

I capolavori invece finirono quasi tutti sotto l'autorità di uno dei più ingegnosi e colti cortigiani dell'Impero, Dominique Vivant (1747-1825) che con le opere italiane saturò il Louvre e poi anche i musei dipartimentali. Come Museo, il Louvre soddisfaceva un desiderio di accumulo enciclopedico «ad incrostazione», dove le opere non erano contestualizzate e spesso erano svuotate di senso ma soprattutto era un completo successo di immagine per la Francia. Anche nel pieno delle ostilità con l'Inghilterra, che incontrò in Napoleone il più grande ostacolo al suo dominio mondiale, si creò un traffico ininterrotto di turisti. Tra cui anche Maria Cosway (1760-1838) che realizzò dei celebri disegni che ci hanno dato esatta traccia dei capolavori esposti e della loro collocazione.

Il libro di Cavallo dà poi conto anche di come molte delle opere sottratte siano tornate nei territori a cui originariamente appartenevano. Ma fu tutt'altro che un processo facile, persino Luigi XVIII rimesso sul trono dopo la caduta di Napoleone manifestò la volontà di tenersele: «I capolavori delle arti ci appartengono da questo momento con un diritto più forte del diritto di guerra». E visto quanto era debole il nuovo regno del così detto - per stazza e difficoltà a deambulare - Re Poltrona la Francia venne trattata con i guanti di velluto.

Solo quando Napoleone tentò il fallimentare colpaccio dei «Cento giorni» si decise di operare in maniera più decisa su Parigi. Un gran numero di opere d'arte rimase comunque in Francia; il rientro fu ostacolato dalla dimensione dei capolavori, dalla loro fragilità, dall'ostinazione di Vivant... Il fatto che molto ritornò al suo posto è stato comunque un miracolo. Miracolo a cui contribuì anche Antonio Canova che si spese moltissimo per il ritorno delle opere dello Stato pontificio e che proprio per questo venne insignito dal Papa del titolo di «marchese d'Ischia» e iscritto nel libro d'Oro del Campidoglio.

Di certo però dopo quelle spoliazioni era cambiato il mondo. Molto era andato disperso e venduto, nel contempo era nata l'idea di museo moderno. Con molto del suo male e molto del suo bene. Nel volume Giorgio Enrico Cavallo pone l'accento soprattutto sul male, ovvero sul fatto che il museo, soprattutto quando non è pensato strappa l'oggetto dal contesto. Dall'altro il museo può essere, quando pensato, anche un luogo che valorizza e restituisce senso, i musei di oggi non sono, o non dovrebbero più essere, solo l'accumulo di bonapartesca memoria.

Di certo Napoleone di suo non avrebbe restituito nulla, come molti potenti, seppur di genio, voleva ingoiare il mondo, farlo suo. Non lasciare che la bellezza restasse libera e vicina alla gente. Del museo amava lo stupore reverenziale che generava. Uno stupore che non lascia vera memoria del bello.

I protettori (senza armi) dei capolavori dell'Italia. Così Bottai e un gruppo di "eroi civili" salvarono il nostro patrimonio culturale dai nazisti. Luigi Mascheroni il 15 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ecco quello che ci saremmo persi. Il Discobolo Lancellotti, un marmo del II secolo d.C., copia romana del celebre bronzo di Mirone, oggi primattore del Museo Nazionale Romano; la Danae (1544-45) di Tiziano, che riposa sicura al museo di Capodimonte, a Napoli; la lunetta con l'Annunciazione (1534 circa) di Lorenzo Lotto, pezzo imperdibile della collezione dei Musei Civici di Palazzo Pianetti a Jesi. E poi, ancora: la tela con Santa Palazia (1658) del Guercino, il ritratto di Alessandro Manzoni lasciatoci da Francesco Hayez e quello di Enrico VIII di Hans Holbein il Giovane; e un numero considerevole di capolavori oggi custoditi nella Galleria nazionale delle Marche di Urbino: la Crocefissione di Luca Signorelli, l'Immacolata Concezione del Barocci, la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca...

Ce li saremmo persi tutti, durante gli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale per le spoliazioni dei gerarchi nazisti, per i bombardamenti, per i saccheggi... se non fosse stato per l'abnegazione, anzi la devozione, di un gruppo di eroi civili che rischiando la carriera e a volte la vita salvarono un pezzo del patrimonio artistico italiano. È grazie a loro se possiamo ancora vedere quelle opere, qui, oggi. E non per caso sono di compensato grezzo, come enormi casse da imballaggio, le pareti e i pannelli che creano lo spazio della grande mostra Arte liberata, 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra aperta fino al 10 aprile alle Scuderie del Quirinale a Roma.

Curata da Luigi Gallo e Raffaella Morselli (l'allestimento è dall'architetto Francesca Elvira Ercole), la mostra è insieme tre cose. Prima di tutto è un'inedita esposizione di oltre cento opere prestate da ben quaranta musei italiani, oltre a fotografie e filmati d'epoca (c'è la foto di Hermann Göring che posa nella sua casa di campagna con il Cerbiatto di Ercolano che fece requisire al Museo archeologico di Napoli, ma anche la scena del film Paisà di Roberto Rossellini in cui si vede il Corridoio Vasariano degli Uffizi ancora ingombro di casse di opere d'arte). Poi la mostra è un omaggio istituzionale - tributato dall'Italia repubblicana attraverso le Scuderie del Quirinale a coloro che nel dramma della guerra, coscienti dell'universalità dell'arte, senza armi e con mezzi limitati, si schierarono in prima fila per conservare un tesoro artistico a rischio: storici, sovraintendenti, funzionari alcuni rimasti famosi, altri dimenticati come Giulio Carlo Argan, Palma Bucarelli, Emilio Lavagnino, Vincenzo Moschini, Pasquale Rotondi, Fernanda Wittgens, Noemi Gabrielli (sono molte le donne protagoniste), Aldo de Rinaldis, Bruno Molajoli, Francesco Arcangeli, Jole Bovio o l'agente segreto e futuro ministro plenipotenziario incaricato delle restituzioni Rodolfo Siviero. Molti di loro affiancarono gli uomini del «Monuments, Fine Arts, and Archives Program», la task force composta da professionisti dell'arte provenienti da tredici diversi Paesi e organizzata dagli Alleati per proteggere i beni culturali nelle zone di guerra.

Ma Arte liberata, 1937-1947 è soprattutto una mostra di storie. Come quella del Discobolo Lancellotti (il pezzo forte che apre il percorso espositivo, con alle spalle una gigantografia di Hitler), statua per fama pari solo all'Apollo del Belvedere, o al Laocoonte, e di una bellezza assoluta. Quando Adolf Hitler la vide, durante il suo viaggio a Roma nel maggio 1938, riconoscendo nella perfezione fisica dell'atleta il mito della razza ariana, decise di portarsela in Germania. Chiese a Mussolini di concedergliela, ma il Consiglio superiore delle Scienze e delle Arti si oppose, e così Hitler mandò avanti Hermann Göring che la acquistò tramite compravendita privata col principe Lancellotti (prezzo: 5 milioni di lire). Essendo un'opera notificata alle Belle Arti, vincolata dal 1909, la sua esportazione era tuttavia vietata, ma grazie alle pressioni del ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, alla fine riuscì ad arrivare in Germania nel giugno 1938. Fu esposta nella Gipsoteca di Monaco di Baviera in attesa che si compisse il progetto mai realizzato del più grande museo d'arte del mondo, il «Führermuseum», che Hitler sognava a Linz, e che avrebbe dovuto contenere tutte le opere acquistate, confiscate o rubate dai nazisti in Europa. Il Discobolo tornò in Italia nel '48, nonostante molte opposizioni, ricorsi giuridici e svariati ritardi da parte della Repubblica federale tedesca, dopo che Rodolfo Siviero riuscì a convincere il Governo militare alleato che l'opera era stata razziata dai nazisti.

Oppure la storia di Pasquale Rotondi, il giovane soprintendente delle Marche che fu incaricato di organizzare un piano di salvataggio e che nei depositi appositamente allestiti nella Rocca di Sassocorvaro nel Montefeltro, a Palazzo dei Principi di Carpegna e nei sotterranei della Cattedrale e del Palazzo Ducale di Urbino, nascose capolavori di Giorgione, Bellini, Piero della Francesca, Paolo Uccello, Tiziano, Crivelli, Carpaccio, Mantegna e Raffaello provenienti da Venezia, Milano, Urbino e Roma. Alla fine furono quasi diecimila le opere sotto la sua custodia (qui ad esempio c'è la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca, che rimase a lungo nascosta sotto il letto matrimoniale di casa sua...). L'intera vicenda venne alla luce solo negli anni Ottanta.

E soprattutto la mostra racconta la storia diversa da certa vulgata - di Giuseppe Bottai, ministro dell'Educazione nazionale dal '36 al '43, uomo coltissimo e figura critica del Ventennio. Non rinnegò mai l'essere stato fascista, intuì subito la deriva totalitaria di Mussolini (avversò ferocemente l'alleanza con Hitler, cercò di temperare la durezza delle leggi razziali) e fu colui che studiò con largo anticipo e organizzò le operazioni di messa in sicurezza del patrimonio artistico, con la conseguente elaborazione del piano per lo spostamento delle opere, scegliendo uomini come Argan o Pasquale Rotondi. «Contro mio nonno c'è stata una lunga campagna di stampa racconta al Giornale Angelo Polimeno Bottai, caporedattore del Tg1, nipote del gerarca, sul quale sta scrivendo un libro ma in realtà fu la spina nel franco di Mussolini, la sua coscienza critica. Si oppose a Hitler, marcò la differenza tra fascismo e nazismo, e fra coloro che il 25 luglio votarono l'Ordine del giorno Grandi che mise in minoranza il Duce fu l'unico che poi nel '44 si arruolò come soldato semplice nella Legione straniera e andò a combattere i nazisti. Ma soprattutto Giuseppe Bottai, il quale vedeva quanto Hitler e Göring fossero famelici di arte antica, nel giugno 1939 emanò la famosa legge per la tutela delle opere di interesse artistico e storico, così da rendere più difficile l'esportazione dei nostri tesori disciplinando così per la prima volta la conservazione dei beni culturali. Così, partì il suo piano di messa in sicurezza del patrimonio artistico: stilò tre liste, a seconda dei livelli di importanza delle opere, e poi individuare i rifugi, i trasporti, gli edifici a rischio...».

La legge Bottai, e il suo programma di salvataggio, non riuscirono a difendere tutto il Duce e il Führer erano più forti di qualsiasi legge ma a proteggere molto. E tanto di quel molto, oggi, è qui.

Ecco opere e maestri chiusi nei depositi dei musei. In Italia nei magazzini ci sono 5 milioni di "pezzi": Tiepolo, Guercino, tanti Macchiaioli, Boccioni...Vittorio Sgarbi il 15 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Scantinati, sottoscala, magazzini, cantine sono alcuni dei nomi che chi ha poca esperienza attribuisce ai depositi dei musei che sono, come nel corpo dell'uomo, le interiora. Ovvero organismi vitali, come il cuore, il fegato, i polmoni, il pancreas. Dell'uomo si vede l'involucro, dei musei si vedono le parti esterne che spesso corrispondono al carattere dei direttori.

Non sempre le opere sono nei depositi per necessità. Il caso più clamoroso è quello della Gnam, la Galleria nazionale di arte moderna di Roma che mostra ai visitatori il volto dei suoi direttori, nel caso, e singolarmente, piuttosto direttrici. Con la moderna edificazione la Galleria nazionale, che primamente era nel Palazzo delle esposizioni, fu trasferita nell'attuale sede di via Belle arti, concepita dall' architetto Cesare Bazzani. Il primo vero direttore, all'epoca soprintendente, fu Palma Bucarelli, nominata nel 1941 e resistente fino al 1975. Dopo Margherita Sarfatti la personalità più influente per l'arte moderna italiana. E guida e riferimento dei principali critici del tempo, a partire da Giulio Carlo Argan, infinitamente a lei vicino e autore di commoventi lettere d'amore che ne hanno svelato la condizione umana oltre che culturale. Intorno alla Bucarelli furono Nello Ponente, Giovanni Carandente, Corrado Maltese, Maurizio Calvesi, Giorgio De Marchis. Io li ho conosciuti tutti e, con loro, il successore della Bucarelli, Italo Faldi. Tutti morti. Alla Bucarelli si deve l'allontanamento dall'Ottocento che è parte fondamentale del museo. Il gusto della Bucarelli era il gusto moderno internazionale. Anche nella integrazione dei servizi che oggi sono considerati indispensabili per una struttura museale moderna: sezione didattica, biblioteca, caffetteria, libreria, attività di presentazione di libri, incontri con gli artisti.

I primi depositi cominciano con la seconda guerra mondiale. Per salvare le opere d'arte dai pericoli della guerra in corso la Bucarelli le accompagnò segretamente nel Palazzo Farnese di Caprarola e a Castel Sant'Angelo. Dopo la liberazione di Roma (4 giugno 1944) si poté procedere alla riapertura della Galleria. Seguirono anni di grandi mostre che permisero di conoscere artisti che il regime aveva deciso di nascondere. Nel 1953 si ebbe una grande mostra su Picasso, nel 1956 su Mondrian, nel 1958 su Pollock, nel 1959 vi fu l'esposizione del grande sacco di Burri che destò scandalo, nel 1971 con la mostra di Piero Manzoni Palma Bucarelli rischiò il posto. Nel 1973 giunsero i finanziamenti statali per un ulteriore ampliamento della Galleria, su progetto di Luigi Cosenza, realizzato nel 1988.

Dopo Faldi fu notevole la direzione di Giorgio De Marchis. Nel momento in cui inizia il consumo delle mostre di massa, De Marchis pose l'accento sull'attività espositiva museale come produzione culturale. Le numerose mostre organizzate in quel periodo sono contributi, di notevole impegno, sulla storia dell'arte del Novecento (De Chirico, l'Arte Astratta, Leoncillo), sulla storia del museo e delle collezioni, sulla situazione contemporanea (Arte e critica, 1980 e 1981), anche con le proposte della decisiva collezione Panza di Biumo (1980).

La Galleria ritorna alla guida femminile con Augusta Monferini, dal 1982 al 1994, in continuità con le precedenti conduzioni. Segue la direzione di Sandra Pinto, che veniva dall'esperienza della Galleria d'arte moderna di Palazzo Pitti, con una riorganizzazione razionale delle collezioni, che restituisce rilievo all'Ottocento, immaginando un coordinamento con il Maxxi. Della sua straordinaria impresa non rimane nulla, se non nei depositi, dopo l'arrivo di Cristiana Collu. Non c'è più traccia di Andrea Appiani, di Faruffini, di Tranquillo Cremona, di Camuccini, di Palagi, di Segantini, di Bernardo Celentano. Così non vi è più spazio per i Macchiaioli, come per Domenico Induno, Antonio Fontanesi, Giuseppe Carnovali detto «il Piccio», di Ippolito Caffi, di Michele Cammarano, dei Palizzi e della pittura di paesaggio a Napoli. In deposito anche i veneti come Giacomo Favretto, Angelo Dall'Oca Bianca, Pietro Fragiacomo e poi Lorenzo Delleani, Giovanni Segantini, fino a Giulio Aristide Sartorio, e Vittorio Grassi. Nei depositi anche i divisionisti Armando Spadini e Plinio Nomellini. La rivoluzione di Cristiana Collu ha portato a sospingere la Gnam verso le avanguardie del secondo Novecento, a immagine e somiglianza della direttrice e curatrice.

Naturalmente molto diverso è il caso degli Uffizi in cui il processo impresso dal direttore Eike Schmidt è stato l'opposto. Sono stati restaurati quasi 2000 metri quadrati distribuiti in otto sale dell'ala di ponente, e in 14 sale al piano terra dell'ala di levante oltre ad altre 21 nel piano interrato. Oggi i depositi sono in larga parte occupati dalla collezione degli autoritratti, prima esposti nel Corridoio Vasariano. Il principale deposito degli Uffizi fu invenzione di un altro soprintendente-direttore, Antonio Paolucci, il quale volle il museo della Natura morta, con dipinti degli Uffizi, nella Villa Medicea di Poggio Caiano. È l'antefatto di uno dei desideri manifestati dall'attuale Ministro Gennaro Sangiuliano: «Il 90% delle opere o dei reperti è nei depositi, così come nel resto del mondo: il problema è che in Italia il patrimonio è talmente diffuso che nei depositi dei soli musei afferenti alla Direzione generale sono custoditi circa cinque milioni di opere/reperti, mentre ne vengono esposti all'incirca 480mila Si può pensare a una strategia di lungo periodo che può portare alcuni grandi musei a generare nuovi spazi espositivi, magari anche in altre città, come hanno fatto musei internazionali», ha aggiunto il ministro. «Ne ho parlato con il direttore degli Uffizi e con il direttore del Museo nazionale archeologico di Napoli: alcuni musei per la quantità di reperti che conservano nei loro depositi si possono duplicare. Possiamo pensare agli Uffizi Due o a Firenze o in un'altra città della Toscana, o sul fronte internazionale, come ha fatto il Louvre. Possiamo pensare a un'altra sede del MAN a Palazzo Fuga, dove poter esporre tutti quei reperti che sono nei depositi. Sarebbe un'opera utile».

A continuare la ricognizione, molte notevoli opere non sono esposte alla Pinacoteca di Brera: dall'autoritratto di Boccioni all'Ofelia di Arturo Martini, dalla Samaritana al pozzo di Battistello Caracciolo ai bozzetti di Tiepolo e Giuseppe Maria Crespi, dalla Pietà di Tintoretto ai Pascoli di primavera di Giovanni Segantini.

A Bologna sono nei depositi le opere di Aspertini, Guercino, Cagnacci, Ludovico Carracci, Cantarini, Franceschini, Gandolfi, ma il dialogo con le opere esposte è vivo, in una turnazione favorita anche dalle mostre delle collezioni. Molto ricchi e agibili sono i depositi della Galleria dell'Accademia di Venezia. Per i lavori di allestimento sono temporaneamente non esposte opere di Bartolomeo Vivarini, di Alvise Vivarini, di Andrea Previtali, di Boccaccio Boccaccino, di Benedetto Diana, di Gentile Bellini, di Cima da Conegliano, di Giovanni Gerolamo Savoldo, di Jacopo Bassano, di Jacopo Tintoretto, di Marco Basaiti, di Vittore Carpaccio, alcune stabilmente, alcune in attesa di ricollocazione dopo il restauro.

Insomma i depositi non sono l'inferno delle opere d'arte. Sono, per diverse ragioni e per diverse motivazioni, il fondo per nutrire una idea di museo universale o di tendenza, lo spirito di una collezione o il gusto di un curatore. Tra i musei che hanno il maggior numero di opere esposte, tra sale e depositi attrezzati, c'è la Galleria Borghese, che valorizza lo spirito collezionistico di Scipione Borghese e anche la sua intuizione di uno spazio per contenere le opere cercate. Tutto quello che è dentro la villa può esser visto anche in fase di restauro.

Firenze, individuati gli autori che hanno imbrattato il Corridoio Vasariano. Il Tempo il 23 agosto 2023

"Nell'ambito delle indagini avviate a seguito dell'imbrattamento del colonnato del corridoio vasariano, i carabinieri del Nucleo Operativo della Compagnia di Firenze e della Stazione Carabinieri Uffizi, analizzando più filmati di videosorveglianza, sono riusciti ad individuare due soggetti che, alle 5.20 di stamattina, hanno danneggiato l’importantissimo sito artistico. Gli stessi sono stati monitorati fino al loro ingresso all'interno di un'abitazione ubicata in piazza della Signoria. I militari hanno quindi fatto accesso all'interno della citata abitazione rinvenendovi ben 11 giovani studenti di nazionalità tedesca, tutti nati tra il 2002 e il 2003. E’ stata effettuata una perquisizione nell’appartamento esito della quale sono state trovate due bombolette di vernice spray del tipo usato per l'imbrattamento, oltre a parte dell'abbigliamento indossato dai due sospettati. Sono in corso le attività di compiuta identificazione dei giovani, tramite fotosegnalamento anche finalizzato a comparare le loro impronte digitali con quelle che verranno rinvenute sulle due bombolette sequestrate". Questa la nota dei Carabinieri che hanno individuato i responsabili dell'atto vandalico nel capoluogo toscano.

Imbrattato il Corridoio Vasariano: i vandali sono due turisti tedeschi. Stando alle indagini, si trovavano in vacanza insieme ad altri nove connazionali. Uno di loro indossava ancora la maglietta che portava mentre imbrattava il monumento. Cristina Balbo il 23 Agosto 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’accaduto

 L’identificazione degli autori dell’atto vandalico

 Il ministro Sangiuliano: “Tolleranza zero”

Sono stati individuati i fautori dell’atto vandalico ai danni del Corridoio Vasariano – uno dei gioielli del capoluogo toscano - che, nella notte tra martedì 22 agosto e mercoledì 23, è stato imbrattato con alcune scritte. Si tratta di due persone appartenenti ad un gruppo di turisti tedeschi.

Blitz dei vandali a Firenze: imbrattate le colonne del Corridoio Vasariano

L’accaduto

Stamattina ci siamo svegliati con questo vergognoso gesto vandalico sulle colonne del Corridoio Vasariano. Abbiamo immediatamente avviato un’indagine con la polizia municipale”. È questo il messaggio lanciato questa mattina dal sindaco di Firenze, Dario Nardella, attraverso un post su Facebook. Il primo cittadino ha fatto immediatamente sapere di voler adoperare tutti gli strumenti a disposizione per individuare i colpevoli dello sfregio; è proprio grazie alle telecamere, infatti, che sono stati individuati i vandali. Questi ultimi hanno imbrattato le colonne del corridoio Vasariano con una scritta inneggiante a una squadra di calcio tedesca militante in terza divisione.

L’identificazione degli autori dell’atto vandalico

I due sono stati identificati a seguito dell’analisi delle videoregistrazioni e sono stati rintracciati dalle forze dell’ordine in un appartamento a Firenze dove si trovavano in vacanza insieme ad altri nove connazionali. Uno di loro aveva ancora indosso la stessa maglietta che portava la notte scorsa mentre imbrattava il monumento; nonché quella della squadra di calcio di terza serie tedesca a cui dovrebbe ispirarsi anche la sigla apparsa sul Corridoio Vasariano: DKS 1860. Nell’abitazione dove alloggiavano gli 11 turisti tedeschi sono state rinvenute – a seguito della perquisizione – anche due bombolette di vernice e parte dell'abbigliamento indossato dai due sospettati. Al momento, l’intero gruppo è stato portato in caserma al comando provinciale dei carabinieri in borgo Ognissanti per l’identificazione e per probabili denunce e, secondo quanto si apprende, dopo il foto-segnalamento, le impronte digitali saranno comparate con tracce rinvenute sulle bombolette spray.

Il ministro Sangiuliano: “Tolleranza zero”

Il ministro della Cultura Sangiuliano si è espresso a tal proposito, chiarendo che non ci sarà tolleranza nei confronti di quanto accaduto: "Saremo inflessibili nel far rispettare le leggi. Dopo l'ultimo imbrattamento di uno dei tesori del patrimonio italiano sarà 'tolleranza zero' e su questo tutte le istituzioni dovranno fare ciascuna la propria parte”. Poi ha aggiunto: "Chi ha colpito il Corridoio Vasariano o ogni altro monumento italiano ha inflitto una ferita a luoghi simbolo dell’identità nazionale e va punito di conseguenza". 

I vandali dell'arte. Imbrattato il Corridoio Vasariano a Firenze. I casi di Milano e Roma. Il ministro: «Pignorare i beni di chi sporca». Ecco i costi per lo Stato. Il nodo delle sanzioni. Enza Cusmai il 24 Agosto 2023 su Il Giornale.

Comincia a farsi troppo lungo l'elenco degli atti vandalici contro i nostri monumenti che tutto il mondo ci invidia. Oltre alle azioni dimostrative di attivisti di Ultima generazione (fontana di Trevi, Palazzo Vecchio, Senato...) e alle azioni dimostrative di turisti irriverenti (graffiti al Colosseo), ora si ripetono a distanza ravvicinata atti vandalici di graffitari che sprecano le vacanze estive a imbrattare storici monumenti. A luglio hanno deturpato il frontone della Galleria Vittorio Emanuele a Milano, l'altra notte hanno pasticciato le colonne del Corridoio Vasariano a Firenze «disegnandole» con vernice a spray indelebile (pare si tratti di tifosi del Monaco 1860). Due eventi dello stesso gruppo di vandali? Italiani o stranieri? I carabinieri e gli inquirenti stanno lavorando sulla matrice di questi atti offensivi e sugli autori di questi gesti dementi. Nel frattempo, prevale uno sdegno corale. «Basta con le punizioni simboliche e con attenuanti fantasiose! Qui ci vuole il pugno duro della legge. Chiaramente non si tratta del ghiribizzo di un ubriaco ma di un atto premeditato sbotta il Direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt - e ricordo che per casi di questo genere negli Stati Uniti è previsto il carcere fino a cinque anni». Gli fa eco il sindaco di Firenze Dario Nardella: «Un gesto vergognoso. Useremo tutte le telecamere e gli strumenti disponibili per individuare questi individui spregevoli per punirli adeguatamente». Parla di «Un altro atto di vandalismo gravissimo perché colpisce uno dei luoghi simbolo del patrimonio nazionale» anche il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano che ribadisce: «Fino ad ora c'è stato un certo lassismo nel pensare che queste fossero solo cosucce. D'ora in poi i responsabili saranno immediatamente individuati e sanzionati. Costoro devono capire che anche un piccolo graffio sarà perseguito perché questi gesti arrecano sempre un danno economico» (circa 60mila euro al metro quadro in media per la rimozione dei graffiti ndr). Ed è per questo che nel nuovo ddl anti-vandali già approvato dal Senato, sarà inserita una norma «che punta a far pagare ai responsabili gli ingenti costi degli interventi di ripristino. La novità spiega il ministro - è nel fatto che la sanzione pecuniaria verrà comminata dai prefetti, dunque saranno sanzioni rapidissime e chi non paga si vedrà pignorare i beni per l'ammontare della sanzione. Quelle penali, invece, restano riservate all'autonoma valutazione della magistratura». Per il momento valgono le regole (di lentissima applicazione) del codice penale che prevede fino a 3 anni di carcere e una multa fino a 10 mila euro per chi «deturpa o imbratta beni culturali o paesaggistici propri o altrui o destina beni culturali a usi incompatibili con il loro carattere storico o artistico». E sulla base di queste norme, l'ingegnere saudita che nel maggio scorso ha intaccato i gradini scendendo dalla scalinata di Trinità dei Monti con un Suv preso a noleggio, sarà processato per distruzione e deturpamento solo nel 2025. È vero che rischia 5 anni di carcere, ma quei 50 mila euro di danni saranno, forse, sganciati solo a fine processo.

E quando sarà la volta del serafico inglese che, in nome di un gesto romantico, ha deturpato il Colosseo, incidendo il suo nome e quello della fidanzata? Il ragazzo rischia una maximulta da almeno 15mila euro e il carcere fino a 5 anni, Ma sarà davvero così? O si risolverà tutto con un'ammenda e una condanna cartacea di tre mesi? Vincente è solo l'immediatezza della reazione dello Stato. E proprio Sangiuliano vuole fra trasmettere al mondo un nuovo chiaro messaggio: chi oltraggia il nostro patrimonio ne risponda in prima persona anche dal punto di vista patrimoniale. Dice: «Chi danneggia paga».

Il Bestiario, l'Ambientaligno. Giovanni Zola il 25 Maggio 2023 su Il Giornale.

L’Ambientaligno è un animale leggendario di “ultima generazione” imparentato con le specie delle Gretigne, delle Sardigne e delle Tendigne.

L’Ambientaligno è un animale leggendario di “ultima generazione” imparentato con le specie delle Gretigne, delle Sardigne e delle Tendigne.

L’Ambientaligno è un essere mitologico che non esiste in natura, in quanto solo un Dio crudele e beffardo avrebbe potuto crearlo. Esso è infatti il prodotto di una serie di innesti genetici di laboratorio. Gli scienziati si sono resi conto che incrociando un radical chic isterico, con un ambientalista dal quoziente intellettivo basso, si otteneva una creatura più fastidiosa e inutile della zanzara tigre in una notte umida d’agosto senza aria condizionata. Un ottimo risultato dal punto di vista militare, tanto che la Nato pensò di inviare l’Ambientaligno in Ucraina come arma letale di difesa, ma dato il pericolo di una escalation apocalittica, il progetto venne in seguito abbandonato optando invece per l’invio di sottomarini atomici.

L’Ambientaligno è un animale disarmante e contraddittorio, tanto che diversi etologi ne abbandonarono lo studio dopo essere stati colti da attacchi di panico. Per fare un esempio, per attirare l’attenzione sulle problematiche dell’inquinamento, l’Ambientaligno non si prodiga per ripulire parchi, spiagge e quant’altro, ma, contraddicendo se stesso, sporca, imbratta e inquina monumenti, opere d’arte, palazzi e fontane, rendendosi ridicolo e antipatico a chi assiste alle sue sozze dimostrazioni. Il massimo dell’insopportabilità, l’Ambientaligno lo raggiunge quando, muovendosi in branco, occupa nelle ore di punta le corsie di strade e tangenziali bloccando il traffico già difficile. E’ in questa circostanza che l’Ambientaligno mette a dura prova la pazienza degli italiani che dimostrano un alto senso di responsabilità trattenendosi dall’utilizzare il crick per liberare il passaggio per recarsi al lavoro.

L’Ambientaligno è un animale leggendario sempre in evoluzione. Le sue tecniche di disobbedienza sociale si vanno raffinando rapidamente in una sorta di evoluzione darwiniana della specie. Negli ultimi avvistamenti, l’Ambientaligno femmina, utilizza la nudità come gesto di ribellione passivo aggressivo talvolta ricoprendo i propri corpi di fango dimenandosi come in una lotta erotica. È per questo motivo che un gran numero di adolescenti si sta iscrivendo tra le file dei volontari con la mansione di spostare le ragazze nude sollevandole di peso.

L’Ambientaligno in se stesso è un essere insignificante. Ciò che preoccupa sono i suoi sostenitori politici che lo fomentano abbassandosi al suo stesso livello, ma grazie a Dio, senza spogliarsi in piazza.

Dagospia 3 Luglio 2023. Dall’account Instagram di Marino Bartoletti

Non c'è nulla di più stupido, di più volgare, di più irrispettoso, di più "ignorante" e di più osceno - per "proteggere" l'ambiente - che interrompe una manifestazione di sport (nel totale, folle disprezzo dei sacrifici di chi si prepara a una gara). 

Oltretutto di uno sport purissimo e "fragile" come l'atletica leggera. È accaduto alla "Diamonds League" di Stoccolma durante la prova dei 400 ostacoli. Cosa vogliono dimostrare questi infelici vigliacchi? È questa la strada per risvegliare le coscienze?

Da eurosport.it 3 Luglio 2023 

Tre manifestanti falsano il finale della 400 ostacoli maschile nella tappa della Diamond League di Stoccolma: a tagliare il traguardo per primo è primatista mondiale, il norvegese Karsten Warholm, seguito da Kyron McMaster (British Virgin Islands) e Rasmus Magi (Estonia); un po' di delusione per Alessandro Sibilio, quarto. 

Finale assurdo nella finale dei 400 ostacoli maschili durante la tappa di Stoccolma di Diamond League: a circa 10 metri dall'arrivo tre manifestanti con tanto di striscione hanno impedito che la gara si potesse concludere in maniera normale. 

A tagliare il traguardo per primo è primatista mondiale, il norvegese Karsten Warholm, seguito da Kyron McMaster (British Virgin Islands) e Rasmus Magi (Estonia); un po' di delusione per Alessandro Sibilio, che stava per concludere la sua gara nei primi posti ma poi si deve accontentare del quarto posto finale. E' lui stesso a provare a descrivere l'accaduto ai microfoni della Rai: "A 10 metri dal traguardo è apparso questo striscione: per quando riguarda la mia gara, non è andata bene poi verso il finale mi sono quasi fermato perché mi sono fatto male".

La gara - seppur deturpata da questo arrivo atipico - non viene ripetuta: certamente non uno spot per gli addetti alla sicurezza di questa tappa della Diamond League.

Nuovo blitz a Firenze di Ultima Generazione: preso di mira il Battistero. Per fortuna la Porta del Paradiso non ha subito danni: la salsa di pomodoro è stata lavata via dal selciato antistante il celebre monumento. Federico Garau il 3 Luglio 2023 su Il Giornale.

Si sono messi a petto nudo dinanzi al Battistero di Firenze, ricoprendo il proprio corpo con salsa di pomodoro ed esponendo uno striscione con su scritto "Non paghiamo il fossile": i cinque attivisti di Ultima Generazione che stamani, lunedì 3 luglio, hanno preso di mira Piazza del Duomo sono stati tutti denunciati. Pur non avendo colpito direttamente il celebre monumento, i rimostranti hanno comunque imbrattato la pavimentazione esterna.

"Non paghiamo il fossile"

Il nuovo blitz a Firenze del gruppo di attivisti fa seguito a quello dello scorso marzo, divenuto oramai celebre, oltre che virale sul web, per la cinematografica corsa con cui il primo cittadino Dario Nardella bloccò i rimostranti che avevano sporcato con della vernice un muro di Palazzo Vecchio.

"Che c... fate?". Nardella difende Palazzo Vecchio dagli eco-vandali

Quattro dei protagonisti del gesto odierno sono stati condotti immediatamente presso il comando della polizia municipale di via delle Terme, mentre il quinto ha tenuto la propria posizione, sedendosi a gambe incrociate e quindi distendendosi dinanzi al Battistero: anche quest'ultimo, il quale, come riferito da Ultima Generazione,"effettuava resistenza passiva non violenta", è stato infine allontanato dai vigili.

Sul posto è intervenuta prontamente una squadra di tecnici restauratori dell'Opera del Duomo: per fortuna nessun danno alla meravigliosa Porta del Paradiso, originariamente realizzata dallo scultore e orefice Lorenzo Ghiberti tra il 1425 e il 1452. Gli esperti hanno rilevato che la sostanza utilizzata dagli attivisti doveva essere della semplice salsa di pomodoro, poi rimossa dalla pavimentazione antistante il monumento. Il blitz è avvenuto dinanzi a numerosi turisti che già affollavano la Piazza del Duomo, uno dei luoghi più celebri e ammirati del capoluogo toscano.

La rivendicazione

Ultima Generazione ha rivendicato il blitz attraverso i suoi canali social: "Oggi versiamo sui nostri corpi questa vernice rossa, metafora del sangue del martirio, perché davanti alla crisi climatica scegliamo la vita", hanno scritto gli attivisti.

Dopo l'intervento della polizia municipale di Firenze, i cinque protagonisti sono stati tutti denunciati per manifestazione non autorizzata. Uno di essi, tuttavia, è stato segnalato anche per il mancato rispetto del daspo urbano: si trattava, infatti, di uno di coloro che avevano preso di mira Palazzo Vecchio lo scorso marzo. Pur avendo ricevuto un foglio di via, che gli impediva di tornare in città, l'uomo ha preso parte anche a questo secondo blitz contravvenendo alla limitazione impostagli dalle autorità. Le operazioni di pulizia, effettuate con acqua e sapone, sono state effettuate dal personale di Alia.

Il commento del sindaco

"Credo che la battaglia sull'emergenza ambientale sia una battaglia da fare tutti insieme, cittadini istituzioni e società civile", commenta il primo cittadino del capoluogo toscano, come riportato da La Nazione. "Tuttavia credo che attaccare anche solo simbolicamente, senza danni materiali a differenza di quanto accadde con Palazzo Vecchio, il patrimonio culturale sia un messaggio sbagliato", aggiuinge.

"La natura e la cultura sono due sorelle", prosegue Nardella, "mettere in discussione una per proteggere l'altra è un messaggio che secondo me non porta consenso dei cittadini e dell'opinione pubblica". "Rilancio l'appello ai dimostranti di Ultima generazione: mettete da parte queste forme di protesta e sicuramente ci saranno le condizioni per un dialogo costruttivo e per lavorare tutti insieme", precisa in conclusione il sindaco, "però non si può offendere, anche solo simbolicamente, il patrimonio culturale per mettere in luce un problema vero che è quello dell'emergenza climatica".

 La rete di eco-delinquenti è radicata in tutta Europa. Ultima generazione è solo la punta dell'iceberg. Queste associazioni sono ovunque e hanno una gerarchia. Francesco Giubilei su Il Giornale il 17 Aprile 2023

L'indagine della Digos di Padova che ha portato all'accusa di associazione a delinquere per i militanti di Ultima Generazione, si è basata sulla motivazione che le loro attività sono state «blitz organizzati», discussi e vagliati da una gerarchia interna. Perciò non si è trattato di azioni casuali o di iniziative di singoli attivisti ma di una vera e propria organizzazione che opera su tutto il territorio nazionale. Eppure, la rete degli ambientalisti (e animalisti) radicali, non si limita all'Italia ma opera in tutti i paesi europei e occidentali.

Ultima Generazione fa infatti parte di un network internazionale chiamato «rete A22» che si definisce «un gruppo di progetti interconnessi impegnati in una folle corsa: provare a salvare l'umanità». Se l'obiettivo è ambizioso, lo sono meno le modalità con cui vengono condotte le loro azioni tra monumenti imbrattati, strade bloccate ed edifici vandalizzati. Non a caso, già dalla loro descrizione, emerge una finalità messianica tipica delle religioni a cui l'ambientalismo ideologico ambisce a sostituirsi.

Oltre al gruppo italiano, fanno parte di A22 numerose organizzazioni, da Declare Emergency negli Stati Uniti a Restore Passenger Rail in Nuova Zelanda, fino a Stop Fossil Fuel Subsidies in Australia. La maggior parte dei gruppi si trova in Europa come Dernière Rénovation in Francia, Aterstal Vatmarker in Svezia, Just Stop Oil in Gran Bretagna, Lezte Generation in Germania e Austria, Renovate in Svizzera e Stopp Oljeletinga in Norvegia. Nel manifesto di A22 si legge infatti «ci stiamo mobilitando nelle nostre molte nazioni e culture» per poi aggiungere «ci stiamo mobilitando nelle nostre molte nazioni e culture».

Rispetto a questi movimenti, Fridays for Future si è progressivamente spostato su posizioni più concilianti e, pochi giorni fa, il gruppo italiano si è espresso contro la scelta del governo tedesco di chiudere le centrali nucleari.

La realtà più strutturata degli ambientalisti radicali a livello internazionale, rimane Extinction Rebellion che si definisce un movimento nato «dal basso» e «nonviolento». Extinction Rebellion è stato «fondato in Inghilterra in risposta alla devastazione ecologica causata dalle attività umane, basato sui risultati scientifici. Il movimento chiama alla disobbedienza civile nonviolenta per chiedere ai governi di invertire la rotta che ci sta portando verso il disastro climatico e ecologico». Attivo anche in Italia, da Extinction Rebellion è nata una costola animalista chiamata «Animal Rebellion». Anche nel caso dell'animalismo radicale, le associazioni italiane Lega Anti Vivisezione e l'associazione Lega per l'Abolizione della Caccia non sono sole ma l'internazionale animalista è ben nutrita.

Proprio ieri la polizia britannica ha arrestato 118 animalisti all'ippodromo di Aintree a Liverpool che hanno manifestato per i diritti degli animali ritardando l'inizio di un'importante corsa di cavalli, il percorso a ostacoli del Grand National. Si trattava di militanti del gruppo Animal Rising, una delle tante sigle animaliste come l'Animal Liberation Front e il 269 Liberation animale che ha realizzato occupazioni anche in Italia come al mattatoio di Torino.

Negli ultimi anni è avvenuta una radicalizzazione ed estremizzazione delle battaglie ambientali e animaliste al punto che nel 2019 l'unità antiterrorismo della polizia del sud est dell'Inghilterra ha inserito Extinction Rebellion tra le organizzazioni estremiste. La scelta è stata poi revocata dopo le polemiche scaturite ma è sintomatica della crescente attenzione che questi gruppi suscitano anche tra le forze dell'ordine a causa dell'illegalità delle loro azioni. Gli ambientalisti e gli animalisti radicali sono l'emblema di come rendere tematiche nobili come la tutela dell'ambiente e la difesa degli animali, asservite a un'ideologia dogmatica.

Vittorio Feltri e gli eco-vandali: "Greta sparita, chi resta ora". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 24 maggio 2023

Che fine ha fatto Greta Thunberg? A soli 20 anni è uscita di scena, scomparsa come la luna a mezzogiorno. Per un paio d’anni era riuscita a imporsi sui media di mezzo mondo e all’improvviso è stata dimenticata anche da chi l’aveva esaltata quasi fosse una profetessa sia pure di sventura. Parlava lei e tutti la ascoltavano come se le sue previsioni sui destini del globo fossero verità rivelate. Diceva che il pianeta stesse per arrostirsi, ucciso dall’inquinamento. Lei che poverina litigava con gli studi al punto di avere interrotto pure la frequentazione del liceo. Aveva ragione chi la considerava una povera ignorante presuntuosa, ma questo concetto era contraddetto da una folla che la lodava invitando il popolo a seguirne gli insegnamenti.

Questa ragazza un po’ infantile era diventata addirittura un simbolo adorato dagli ecologisti, poi all’improvviso è stata avvolta dall’ombra, oscurata, ignorata. Era ora. Rimane da capire come mai fosse riuscita a salire per un certo tempo alla ribalta, ascoltata e perfino coccolata. E come mai si sia eclissata all’improvviso. La spiegazione di questo fenomeno, abbastanza strano per non dire ridicolo, consiste nella caducità delle mode. Per un certo periodo la fanciulla è stata sponsorizzata alla grande dagli ecologisti da strapazzo, che poi hanno trovato in fretta altri idoli da portare in palmo di mano.

Mi riferisco in particolare a quei dementi che deturpano i monumenti e vìolano le fontane storiche nonché palazzi antichi i quali godono della simpatia della sinistra più sgangherata, quella che rompe l’anima con la siccità e il cambiamento climatico. Tutta roba ispirata da scienziati digiuni di scienza e cavalcata da politici incapaci di inventarsi modelli di opposizione più consistenti. La povera Meloni è così costretta a combattere anche contro gli studenti cretini oltre che con i progressisti più avventati.

A Giorgia mancava solo l’alluvione in Romagna per complicarle la vita. Ora deve trovare i fondi per aiutare i poveracci che stanno a bagnomaria, come fosse facile recuperare miliardi da un bilancio pubblico già disastrato. Speriamo almeno che avendo l’Italia con l’acqua alla gola i soliti saccenti la smettano di rompere le scatole con la siccità che contraddice la realtà. Purtroppo non abbiamo speranza che i predicatori del surriscaldamento del pianeta la smettano di frignare. Portiamo pazienza.

Il mood online degli ambientalisti. Attivisti Ultima generazione amplificati dai media: iniziative non conquistano social e 90% reazioni sono negative. Redazione su Il Riformista il 22 Maggio 2023 

Gli attivisti a difesa dell’ambiente di Ultima generazione generano quasi il 90% di reazioni negative sul web e sono principalmente amplificati dai media che piuttosto che dal mondo dei social. network. E’ quanto emerge dai dati raccolti da Domenico Giordano, spin doctor per l’agenzia di comunicazione Arcadiacom.it.

Sulla polemica che ha coinvolto la ministra Roccella, il dato del parlato della rete aveva evidenziato subito come non siano più le keyword fascista o fascismo – per esempio – a coinvolgere gli utenti in rete. La tematica storico-politica alla fine sembra non interessare più a nessuno.

Il mood on-line

Negli ultimi dodici mesi, dal 15 maggio 2022 al 15 maggio 2023, la chiave di ricerca “Ultima Generazione AND attivisti” ha raccolto in Rete un totale 7.850 menzioni di cui 7.260 con un chiaro ed univoca indicazione di opinione qualitativa. L’88,34% degli utenti che online si sono relazionati con la keyword specifica di ascolto hanno manifesto un comportamento negativo, mentre appena il 6,33% di contro hanno rilasciato un atteggiamento positivo.

La linea temporale dell’engagement

In questo periodo sono state diverse le incursioni degli attivisti di “Ultima Generazione” che hanno generato in Rete un coinvolgimento, ma i picchi più significativi di coinvolgimento, che hanno superato abbondantemente il milione di interazioni, sono invece circoscritti a tre diversi periodi.

Il primo picco è del novembre 2022, quando si registrano ben quattro incursioni: gli otto kg di farina lanciati sulla Bmw dipinta da Andy Warhol ed esposta alla Fabbrica del Vapore di Milano, l’imbrattamento della sede della Cassa Depositi e Prestiti a Roma e quello vetro che protegge il dipinto di Van Gogh, “il Seminatore” sempre in mostra a Roma a Palazzo Bonaparte e, infine, l’incursione al Leopold Museum di Vienna per “sporcare “Morte e Vita di Gustav Klimt.

Il secondo picco è invece di gennaio di quest’anno e a trascinare l’engagement è l’azione di imbrattamento di Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica, avvenuta la mattina del 2 gennaio.

Infine, il terzo picco si registra a cavallo tra il mese di marzo e quello di aprile. Si parte il 17 marzo con l’imbrattamento di Palazzo Vecchio a Firenze e quello dell’acqua della Fontana della Barcaccia a piazza di Spagna a Roma del 1° aprile.

Le fonti del parlato

La torta dei territori digitali che hanno ospitato il parlato sviluppato dalla keyword “Ultima generazione AND attivisti” ci mostra una prima significativa particolarità: il 40%

circa del dibattito online è stato prodotto dai siti di news e se a questa quota aggiungiamo quella dei blog, siamo complessivamente al 53,26%. Al contrario, invece, la

fetta di parlato che si è dipanata sui tre principali social network raggiunge “solo” il 44,24% (Facebook, Twitter e Instagram).

Ciò, mette in luce un aspetto non secondario, che più della metà del dibattito sulle incursioni degli attivisti ha ottenuto audience unicamente grazie ai legacy media che hanno ripreso e amplificato la cronaca delle iniziative. Al contrario, sui social le iniziative di “Ultima generazione” non ha poi coinvolto più di tanto gli utenti.

Gualtieri, non condivido la tua decisione di costituirti parte civile. Gli attivisti di Ultima Generazione non sono criminali: danno voce alle ragioni della Scienza. Angelo Bonelli su Il Riformista il 23 Maggio 2023

Sul recente blitz di Ultima Generazione avvenuto lo scorso weekend nella Fontana di Trevi a Roma, abbiamo chiesto nel nostro “Si&No” al sindaco di Roma Roberto Gualtieri e al leader dei Verdi Angelo Bonelli se gli attivisti di Ultima Generazione sono solo dei vandali?

Questa la visione del deputato di Europa Verde:

Caro sindaco Gualtieri, non condivido la tua decisione di costituirti parte civile contro i ragazzi di Ultima Generazione e ti spiego perché. Disapprovo alcuni metodi utilizzati dalle ragazze e dai ragazzi di Ultima generazione come ad esempio i blocchi stradali, perché dal mio punto di vista danneggiano i settori sociali più deboli e allontanano simpatie piuttosto che conquistarle. Alexander Langer diceva: “La transizione ecologica deve essere socialmente desiderabile”. Queste cose le ho dette e continuerò a dirle ai ragazzi e ragazze di Ug. Quello che manca alla politica tutta, è la volontà di ascoltare le loro ragioni, le loro preoccupazioni. In poche parole nessuno ha parlato con loro e ci si vuole confrontare, classificandoli incredibilmente come dei criminali, che per me non sono.

Ho incontrato i ragazzi di ultima generazione svariate volte e molto prima delle ultime elezioni politiche insieme alla mia collega co-portavoce di Europa Verde Eleonora Evi. Portavano e portano richieste che sono le stesse che provengono dalla comunità scientifica internazionale e nazionale, come passare alle energie rinnovabili per liberarci dalla dipendenza delle fonti fossili ed eliminare i sussidi ambientalmente dannosi che sottraggono 41 miliardi di euro di soldi pubblici. Quello che ho constatato è che tutti i partiti e rappresentanti delle istituzioni non li hanno mai ricevuti. I ragazzi e ragazze di Ug hanno fatto scioperi della fame, ricordo quello lungo e preoccupante di Alessandro, ma nessun partito li ha incontrati e voluti incontrare.

Hanno prodotto atti non violenti di disobbedienza civile e ora che colorano di carbone vegetale le fontane l’attenzione si è concentrata su di loro. Come possiamo trattare da criminali o addirittura definire eco-terroristi chi chiede di ascoltare le ragioni della scienza per salvare il pianeta, migliorare le condizioni di vita della popolazione e difendere una parola troppo abusata che si chiama “futuro”? L’Italia sa bene cos’è stato il terrorismo: bombe, morti e attentati. Non stiamo vivendo questo, eppure a questi ragazzi la procura di Padova ha contestato l’associazione delinquere che prevede una dura pena di carcere a sette anni.

Siamo in piena crisi climatica e le immagini che abbiamo visto dall’Emilia Romagna dimostrano la violenza di questi cambiamenti: 14 vittime e danni per circa cinque miliardi di euro secondo quanto denunciato dal presidente della Regione Bonaccini. Cos’è criminale i disastri climatici che dobbiamo commentare ogni volta o le azioni di questi ragazzi e ragazze? L’Italia è un paese in cui la desertificazione è aumentata considerevolmente secondo il Cnr e questo influirà sulla produzione di cibo, l’acqua potabile sarà sempre meno disponibile e l’inquinamento in Italia secondo l’agenzia europea per l’Ambiente provoca ogni anno in Italia oltre 52 mila decessi con costi economici e sociali elevati.

Il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin invece di spiegare le ragioni per cui l’Italia non ha un piano di adattamento climatico ed un piano energia e clima come previsti dalla Ue, attacca gli ambientalisti ma non dice però che i danni solo da eventi metereologici estremi negli ultimi 40 anni in Italia ammontano a 100 miliardi euro. Intanto il negazionismo climatico condiziona le scelte politiche come dimostrano le irresponsabili dichiarazioni del presidente del gruppo di FdI al Senato Malan.

Caro sindaco Gualtieri, al tuo posto invece di costituirmi parte civile, io i ragazzi e le ragazze di Ug li avrei incontrati, ascoltato le loro ragioni e cercato di costruire un dialogo. Ma fare come ha fatto il presidente del Senato La Russa non mi piace, anche perché il governo deve spiegare a tutta Italia perché non si è costituito parte civile contri gli stragisti di piazza della Loggia a Brescia e invece lo fa con dei ragazzi e ragazze che usano carbone vegetale i cui effetti spariscono dopo poche ore. Angelo Bonelli

Il clima è cambiato (per gli estremisti). Il clima è cambiato, è vero. Ma, soprattutto, nei loro confronti. Ormai non li sopporta più nessuno e le loro pagliacciate sono divenute una vera e propria forma di inquinamento politico e sociale. Francesco Maria Del Vigo il 22 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il clima è cambiato, è vero. Ma, soprattutto, nei loro confronti. Ormai non li sopporta più nessuno e le loro pagliacciate sono divenute una vera e propria forma di inquinamento politico e sociale. Ieri gli attivisti di Ultima generazione - a sorpresa! - hanno versato del liquido nero all'interno della Fontana di Trevi a Roma. L'ennesima, prevedibile, urticante e stanca provocazione che non provoca più nulla, se non una maiuscola irritazione tra gli italiani di ogni genere, compresi quelli che sono sensibili alle tematiche ambientali. Infatti la notizia non è più che abbiano, ancora una volta, danneggiato (seppure in modo non permanente) un monumento, ma è la rivolta scattata tra i presenti, che hanno fischiato i sedicenti contestatori e acclamato le Forze dell'ordine che li hanno sgombrati. Una maggioranza silenziosa che ieri ha deciso di fare un po' di chiasso e mettere al suo posto una minoranza facinorosa. La stessa minoranza che, sempre ieri, alla faccia dei gufi, non è riuscita a contestare la premier Giorgia Meloni in Emilia Romagna. Due buone notizie in un giorno solo che marcano la distanza siderale tra il Paese reale e certi estremismi e certa sinistra.

Perché questi eco-vandali non servono a nulla: danneggiano le opere d'arte, infastidiscono i cittadini, interrompono la viabilità - con il risultato paradossale che creando ingorghi aumentano lo smog - e, soprattutto, rendono invisa ai più una tematica importante come quella dell'ambiente. Insomma, danneggiano tutti senza favorire neppure la loro causa: rientrando perfettamente nella terza legge della stupidità umana di Carlo M. Cipolla.

Rimangono a reggergli bordone solo i vecchi arnesi della sinistra più radicale come Achille Occhetto che, sabato, a InOnda su La7 ha sostenuto che il Signore ha mandato un'alluvione sulla Romagna perché nessuno ascolta i ragazzi che gettano la vernice. Per fortuna nessuno ascolta lui. Forse solo Elly Schlein che, presente alla trasmissione, non ha trovato nemmeno una manciata di secondi per prendere le distanze da questo delirio ambientalista. Ma d'altronde è la stessa segretaria che ha giustificato le attiviste che volevano zittire il ministro Roccella al Salone del Libro di Torino. E le due cose vanno di pari passo, perché gli eco-gretini e le talebane del femminismo sono due facce della stessa medaglia: l'estremismo e lo squadrismo ideologico dei soliti gruppetti di prevaricatori che possono muoversi all'ombra di un Pd compiacente e di una folta schiera di finti intellettuali giustificazionisti alla Saviano. E meno male che il problema era il ritorno del fascismo...

Tagadà, Vittorio Sgarbi svela chi finanzia Ultima Generazione. Giada Oricchio su Il Tempo il 23 maggio 2023

Gli attivisti di Ultima Generazione si sono presentati davanti a Palazzo Madama, sede del Senato, hanno gettato acqua sulla facciata e si sono cosparsi di fango per protestare contro il presidente Ignazio La Russa che li aveva invitati ad andare a spalare il fango in Emilia Romagna anziché imbrattare opere d’arte e monumenti per richiamare l’attenzione sulla crisi climatica. E’ il secondo blitz dopo quello alla Fontana di Trevi. Il tema è stato dibattuto a “Tagadà”, talk pomeridiano su La7. Il critico d’arte Vittorio Sgarbi ha condannato questi gesti: “Sono vandalici e punibili. Chi li compie però si sta rendendo conto di non essere popolare. Non è certo buttando il nero (carbone vegetale, nda) nella fontana di Trevi che ottieni il consenso. Sono impopolari, non creano simpatia”. Poi il sottosegretario al ministero della Cultura ha rivelato chi c’è dietro Ultima Generazione: “I miliardari li finanziano e loro eseguono gli ordini come se fossero picciotti così da consentire alla grande industria delle rinnovabili di andare avanti”.

La conduttrice Tiziana Panella, con tono di voce sbalordito, lo ha incalzato: “Ma chi sono questi finanziatori miliardari?” e Sgarbi: “Uno è Getty, è accertato. I carabinieri devono risalire alla cupola che li comanda. Gli attivisti non sono lì in maniera spontanea, sono indirizzati da una strategia europea, se non mondiale, per colpire alcuni luoghi simbolo. Siamo davanti a un piano di una vera e propria cupola che ha in mente un’azione per favorire il business delle rinnovabili”.

Estratto da liberoquotidiano.it il 23 maggio 2023.

"Non ho parolacce a sufficienza per definire questi ecoteppisti": Vittorio Feltri lo ha detto a Stasera Italia su Rete 4 a proposito dell'ultimo blitz di Ultima generazione. Alcuni attivisti ieri hanno gettato del liquido nero nella Fontana di Trevi a Roma per richiamare ancora una volta l'attenzione delle persone sulla crisi climatica in corso. Parlando di questo tema, il fondatore di Libero ha fatto un appunto: "Il problema è che facendo questi atti, facendo queste aggressioni ai monumenti non si risolve assolutamente niente. Non è che a un certo punto tutti gli italiani diventano ecologisti scatenati".

Tornando alla protesta di Ultima generazione di ieri, domenica 21 maggio, gli attivisti avevano anche uno striscione per la campagna "non paghiamo il fossile" e hanno urlato: "Il nostro paese sta morendo", tra gli insulti dei passanti e dei turisti. Un rimprovero è arrivato anche dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri, il quale ha parlato di "un’assurda aggressione al patrimonio artistico. Invito gli attivisti a misurarsi su un terreno di confronto senza mettere a rischio i monumenti". 

"L'intervento costerà tempo, impegno e acqua, perché questa è una fontana a riciclo d’acqua. Ora noi la dovremo svuotare, si butteranno via 300 mila litri d’acqua, che è la capienza della fontana. Tante persone dovranno lavorare per rimuovere la vernice, appurarsi che non ci siano danni permanenti, come noi speriamo. È sempre un rischio che corrono i monumenti. Gli interventi di ripristino sono sempre costosi e hanno un impatto ambientale significativo", ha spiegato Gualtieri.

Da open.online il 23 maggio 2023.

Nuovo blitz degli ambientalisti di Ultima Generazione davanti al Senato: nove attivisti stanno manifestando davanti a Palazzo Madama e due di loro si sono cosparsi di fango. La polizia è intervenuta e li ha fermati.

«L’alluvione dell’Emilia-Romagna era un disastro annunciato. Portiamo il fango della politica nel palazzo della Politica», ha urlato una delle ragazze di Ultima generazione che ha dato vita all’azione a Palazzo Madama. L’attivista, a seno nudo e cosparsa di fango, è stata fermata dalle forze dell’ordine assieme agli altri attivisti. Gli attivisti hanno anche inviato alcune foto che li ritraggono a Palazzo Giustiniani.

Roma, nuovo blitz degli ambientalisti: liquido nero dentro la Fontana di Trevi. Giulio Pinco Caracciolo su Il Riformista il 21 Maggio 2023 

Nuova azione di protesta del gruppo ambientalista Ultima Generazione. Gli attivisti per l’ennesima volta hanno versato del liquido nero all’interno della Fontana di Trevi, nel centro di Roma. Il blitz e’ stato interrotto dagli agenti della polizia locale ma ci si chiede se siano sufficienti le forze dell’ordine a disposizione.

Un gruppo composto da una decina di militanti ha versato una sostanza scura, del carbone vegetale, nel bacino della Fontana di Trevi, situata nel cuore di Roma.

Con uno striscione per promuovere la campagna “Non paghiamo il fossile”, i giovani ambientalisti si sono posizionati all’interno della fontana, urlando e gridando frasi come “il nostro paese sta morendo”, malgrado le offese rivolte loro da passanti e turisti. Il riferimento era alle recenti vicende che hanno sconvolto la Romagna. 

Le reazioni  – “Gli attivisti di Ultima Generazione non si fermano. Per difendere l’ambiente continuano a organizzare forme di protesta discutibili oltre a imbrattare monumenti e sedi istituzionali. Ma davvero c’è qualcuno convinto che questi gesti servano a tutelare il pianeta?“ E’ quanto afferma Stefano Pedica, segretario regionale del Lazio di +Europa, in merito al blitz di alcuni attivisti di Ultima Generazione, che hanno gettato un liquido nero nella Fontana di Trevi, a Roma.

“Detto questo, alla luce dell’episodio di oggi – aggiunge Pedica – sarebbe il caso di aumentare i controlli in una città’ che ancora una volta si è presentata vulnerabile”. 

Giulio Pinco Caracciolo

(ANSA il 6 marzo 2023) - Alle 15 quattro persone legate alla campagna "non paghiamo il fossile", promossa da Ultima Generazione, hanno versato carbone vegetale diluito in acqua nella fontana dei Quattro fiumi a piazza Navona per lanciare l'allarme sul futuro nero che attende l'umanità e che si sta già manifestando con siccità e alluvioni sempre più frequenti. All'arrivo delle Forze dell'ordine gli attivisti hanno fatto resistenza passiva e sono stati allontanati e portati via dagli ufficiali di Polizia intervenuti. 

"Il nostro futuro è nero come quest'acqua: senza acqua non c'è vita e con l'aumento delle temperature siamo esposti alla siccità, da un lato, e alle alluvioni, dall'altro. Acqua che manca per coltivare il cibo, acqua che cade tutta insieme distruggendo le case. Ci aspettano anni difficili, ma se non azzeriamo le emissioni subito saranno terribili. Il collasso è già in atto e non possiamo più fermarlo: ne sono prova gli eventi estremi sempre più frequenti e devastanti, come l'alluvione in Emilia Romagna pochi giorni fa. 

Per questo chiediamo al governo di disinvestire immediatamente i miliardi che spende nei combustibili fossili, causa principale di queste tragedie, e utilizzarli per prendere misure urgenti per proteggere italiane e italiani dalle conseguenze di bombe d'acqua, siccità estrema, ondate di calore mortali", ha dichiarato Anna, una delle attiviste di Ultima Generazione.

Estratto da repubblica.it il 6 marzo 2023

Un altro blitz di Ultima Generazione nel cuore di Roma. Sono sei gli attivisti che questa mattina hanno bloccato via del Tritone. Legati assieme con delle catene, i giovani si sono seduti a terra semi nudi sulle strisce perdonali prima di Piazza Barberini, alla fine della via, con scritto sulla schiena 'stop fossile". Gli attivisti sono stati poi fermati dalla polizia arrivata sul posto.

A seno nudo le ambientaliste tornano a bloccare il cuore di Roma: "Diranno forse che siamo oscene. Ma io mi chiedo. Siamo oscene? Osceno è quello che è successo ieri in Emilia Romagna e il Governo, che sa che questi eventi estremi continueranno a succedere e nonostante ciò continua a investire nelle fonti fossili", dice Eos in merito al blitz. Legati assieme con delle catene, i giovani si sono seduti a terra semi nudi sulle strisce pedonali. […] 

Estratto dell’articolo di Viola Giannoli per “la Repubblica” il 6 marzo 2023

Via la maglietta, a seno nudo, in mezzo a via del Tritone, sulla schiena la scritta Stop fossile, una catena in vita per restare legata ai suoi compagni. Anna, 31 anni, Milano, due lavori, attivista di Ultima Generazione da un anno, è scesa giovedì a Roma per l’ultima protesta.

«Se serve questo per urlare più forte che la nostra casa sta bruciando, allora io lo faccio». 

Usare il corpo nudo come mezzo di protesta?

«Perché no? Non siamo i primi. Sono molto colpita nel vedere che quattro paia di tette abbiano scatenato un caos. C’è una sola cosa positiva: ci fa capire il potere che abbiamo. Anzi io vorrei dirlo a tutte le associazioni, i movimenti: osate di più».

[…] E invece?

«Invece ci s’indigna tanto per un corpo nudo in strada e non per i soldi spesi in combustibili fossili, non per la disperazione degli agricoltori senza acqua, non per le urla di dolore dei familiari che hanno perso i loro cari in eventi estremi, non per i processi e l’inasprimento delle leggi contro gli ambientalisti che hanno solo imbrattato un palazzo. Di quanti altri disastri c’è bisogno?». 

Perché spogliarsi stavolta?

«Per mostrarci vulnerabili. Vulnerabili davanti agli automobilisti arrabbiati, vulnerabili davanti al pericolo di essere investiti dalle macchine, davanti agli insulti e alle maldicenze. Esattamente come siamo nudi e vulnerabili davanti al collasso climatico». 

È preoccupata o arrabbiata?

«Entrambe. Preoccupata perché è terribile pensare che tra pochi anni saremo spacciati in modo irreversibile, ci saranno 50 gradi, ci saranno morti per i colpi di calore. Arrabbiata perché la politica non sta facendo nulla e continua a trattare la questione clima e quel che facciamo come un’opinione. […]». 

E per se stessa? È spaventata?

«Non è facile mettere in gioco la vita, la carriera, la sicurezza, ma qualcuno deve farlo. È una responsabilità, significa vedere il collasso eco-climatico, farsene carico, smettere di essere negazionisti come tutti, capendo che il disastro impatta sulle nostre vite. Lo vediamo nell’alluvione in Emilia Romagna, negli incendi, nella siccità, nei laghi e nei fiumi che scompaiono». 

[…]

Al governo cosa chiede? 

«L’ho scritto sul mio corpo: stop fossile. Non investire più un centesimo in gas, petrolio e carbone. E usare quei soldi in azioni urgenti per fermare il collasso».

Quanto (ci) costa ripulire la statua in piazza Duomo? 200 mila euro. Una ditta specializzata, selezionata appositamente con un bando dal Comune, dovrà scalare il monumento per ripulirlo dalla vernice, dietro un lauto compenso. Serena Coppetti su Il Giornale il 17 Aprile 2023

Di «lavabile» ormai non hanno più neanche la coscienza. Perché fatti due primi conti, anche un po’ sommari, pare che per rimediare alla «bravata» (se proprio la vogliamo trattare alla loro maniera) ci vorranno circa 200mila euro di soldi pubblici (quindi anche nostri). Tanto servirebbe infatti per ripulire la statua di Vittorio Emanuele II in piazza Duomo a Milano dalla vernice gialla utilizzata il 9 marzo scorso da Martina e Riccardo, una coppia di attivisti di «Ultima generazione» convinti che l’imbrattamento dei monumenti sia il modo migliore per ripulire il mondo. E già qui, qualcosa suona stonato.

Ma quel che è peggio è che mentre l’Ultima Generazione si dilunga anche attraverso comunicati stampa post imbrattamento con allegate foto e file di orgogliosi video, in appassionate disquisizioni sulla crisi climatica e sui combustibili fossili, pare che abbia banalmente frainteso la parola «lavabile». Insomma che la vernice non sia per niente cancellabile e sia necessario un discreto impegno, pure economico da sborsare dalle casse del Comune. Così dopo essersi arrampicati sul monumento di piazza Duomo fino ad arrivare (per fortuna) soltanto sotto alla coda del cavallo, ora si devono arrampicare sulla semantica per tentare di giustificarsi. «La vernice è identica a quella utilizzata per imbrattare la Scala e il Dito di Cattelan in piazza Affari», si sono affrettati a ricordare come fosse una giustificazione. «Non è di sicuro un imbrattamento permanente», hanno aggiunto tentando così di fare breccia nella comprensione di non si sa più bene a chi, a questo punto. Non è «permanente», come dicono loro, perché una ditta specializzata, selezionata appositamente con un bando dal Comune, dovrà scalare il monumento per ripulirlo dalla vernice, dietro un lauto compenso appunto di circa 200mila euro.

Tanto che anche il sindaco Sala che sicuramente strizza almeno un occhio all’ambientalismo si è affrettato a dire l’altro giorno che questo «è uno sfregio alla città». Intanto però si fa la gara (pubblica), per pagare (con i soldi pubblici) quello che non è né più né meno che un danneggiamento. Nel frattempo, il disegno di legge proposto dal ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, che prevede da 10mila a 60mila euro di multa per chi vandalizza monumenti, è stato approvato dal consiglio dei ministri martedì. Ma gli attivisti pare che non rischierebbero le multe, ma potrebbero rispondere in Tribunale dei danni causati al monumento, soprattutto visto l'inevitabile lievitamento dei costi per la ripulitura. E il Comune di Milano potrebbe proporsi come parte civile per recuperare almeno in parte quanto speso. Ma il tempo è ancora al condizionale...

Estratto dell’articolo di Luca Sablone per ilgiornale.it il 14 aprile 2023.

Gli eco-vandali non solo si scagliano contro le sedi istituzionali e i monumenti italiani, ma tra di loro c'è anche chi rivendica di non avere intenzione di pagare le multe ricevute e di conseguenza di accumulare i debiti. […]

 Chloe Bertini, attivista di Ultima Generazione intervistata da Corrado Formigli a Piazzapulita su La7, non si è nascosta e ha confessato di essere finita recentemente al centro di una sanzione da 1.400 euro e di non voler provvedere al relativo pagamento.

Non solo: ha svelato anche altri precedenti, confermando sempre lo stesso modus operandi. "Non pagherò. Ho fatto dei blocchi, ho tante multe, ho dei debiti. Pagano i miei genitori? No, sono debiti che si accumulano", ha dichiarato con grande nonchalance.

 La ragazza ha riconosciuto che probabilmente il tutto avrà un impatto sul suo futuro, ma al tempo stesso ha sfoderato un ritornello per spostare l'attenzione su altro e ridimensionare il suo modo di agire: "C'è il rischio di non avere da mangiare. Ho sempre voluto avere figli ma non so se potrò averli, non so se ha senso averli. Un quinto dell'Italia è a rischio desertificazione".

[…] Chloe Bertini non ha dato segni di ripensamenti e ha rilanciato il tutto: "La protesta deve essere insopportabile, impossibile da ignorare. Penso di continuare a fare tutto quello che è necessario in maniera non violenta per ottenere un cambiamento".

Nei giorni scorsi il governo ha confermato il pugno duro contro gli ambientalisti d'assalto: è prevista una sanzione amministrativa compresa tra 20mila e 60mila euro per chi distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte inservibili o non fruibili beni culturali o paesaggistici propri o altrui. […]

Il governo Meloni inventa un nuovo reato per reprimere gli ambientalisti. Stefano Baudino su L'Indipendente il 5 Aprile 2023

La maggioranza lancia ufficialmente il guanto di sfida contro gli attivisti per il clima. Al Senato è infatti partito l’esame di un provvedimento, ideato dalla Lega di Matteo Salvini, che amplierebbe la possibilità di arresto in flagranza degli ambientalisti in caso di imbrattamento di beni culturali o paesaggistici. Dall’altra parte della barricata, l’organizzazione di disobbedienza civile nonviolenta contro la crisi climatica Ultima Generazione, che da due anni compie azioni dimostrative estremamente divisive (di recente, i suoi membri hanno imbrattato la Barcaccia di piazza di Spagna, palazzo Vecchio a Firenze e il Senato: abbiamo parlato direttamente con loro di tali pratiche in un’intervista) – manifesta sdegno per la nuova mossa della maggioranza e chiede un tavolo di confronto con il governo.

La proposta della Lega, giunta ieri in Commissione Giustizia al Senato, prevede nello specifico l’introduzione del reato di danneggiamento di beni culturali e artistici e l’inserimento dei reati di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni che appartengono al patrimonio artistico e culturale tra quelli che prevedono l’arresto facoltativo in flagranza.

Il testo, che ha visto la luce lo scorso novembre e porta la firma del senatore leghista Claudio Borghi, punta a intervenire sull’articolo 518 duodecies del codice penale, introducendo una nuova fattispecie di reato che punisca con la reclusione fino a un anno e una multa fino a 1.500 euro chi venisse colto ad imbrattare beni culturali, consentendo il suo arresto in flagranza. Oggi, infatti, l’arresto può scattare solo in caso di accusa di danneggiamento, mentre per l’imbrattamento – accusa che molto più frequentemente viene rivolta agli attivisti per il clima – ciò non è ancora previsto.

In Commissione, il disegno di legge è stato preso in carico dalla presidente ed ex ministro Giulia Bongiorno, che ne sarà relatrice. Allegata al testo vi è una relazione in cui si legge che, essendo necessario “prevenire il reiterarsi di nuovi atti di vandalismo nei confronti del patrimonio artistico culturale italiano”, si vuole “rispondere a una precisa scelta di politica criminale: rafforzare ulteriormente la tutela, anticipando la soglia di punibilità, del bene giuridico protetto dalla norma, ossia la conservazione del nostro inestimabile patrimonio culturale”.

Sentita dall‘Indipendente, Maria Letizia Ruello, attivista di Ultima Generazione e Ricercatrice in scienze e tecnologie dei materiali presso l’Università Politecnica delle Marche, ha detto: «Commento i fatti con una mitica frase di Ghandi, che da sempre ci guida: “prima ti ignorano, poi i deridono, poi ti reprimono, e poi vinci”. Questo passaggio segna l’inizio della repressione, mescolata a tanta derisione». Rispetto ai rapporti con il mondo partitico e istituzionale, Ruello tiene a sottolineare come Ultima Generazione «continuerà a rivolgersi ai decisori politici con richieste concrete e realizzabili, sulle quali il governo si è impegnato a mettere mano ma alla fine non ha fatto nulla. Chiediamo un incontro a Giorgia Meloni, un tavolo di trattativa finalizzato alla riduzione dei finanziamenti alle fonti fossili e al no a nuove centrali a carbone e a nuove trivellazioni».

Dunque, dopo il “decreto Rave” e il “decreto Cutro“, il centro-destra sembra voler perseguire su un binario ormai nitidamente tracciato: la costante creazione di nuove fattispecie di reato. Oltre al disegno di legge contro l’imbrattamento del patrimonio pubblico, infatti, la maggioranza ha intenzione di proseguire nel suo percorso con nuove proposte: da quella contro le occupazioni e l’omicidio nautico a quella contro l’istigazione all’anoressia, da quella contro la maternità surrogata all’estero a quella contro i cellulari in carcere.

Eppure, a stonare nella narrazione “legge e ordine” del governo, ci sono ad esempio la proposta per l’abolizione del reato di tortura – concepita al fine di andare incontro agli elementi delle forze di polizia che si trovano a ricorrere a mezzi di coazione fisica – e i 12 condoni entrati nella Legge di Bilancio 2023, che favoriranno invece gli evasori fiscali. Insomma, a prescindere da quel che si possa pensare sul merito delle condotte degli attivisti per il clima, non sempre foriere di giudizi positivi da parte dell’opinione pubblica, il governo pare sapersi scegliere bene le categorie contro cui utilizzare il suo pugno di ferro. [di Stefano Baudino]

Estratto dell’articolo di Enrico Tata per fanpage.it l’1 aprile 2023.

Blitz degli attivisti di Ultima Generazione, che nella mattinata di oggi, sabato 1 aprile, hanno versato della vernice nera nella fontana della Barcaccia a piazza di Spagna, nel cuore di Roma. L'acqua all'interno della fontana è attualmente colorata di nero. Gli attivisti spiegano che si tratta di liquido a base di carbone vegetale.

Se vedere quest’acqua nera vi sconvolge è perché, come noi, riconoscete quanto sia prezioso quello che stiamo perdendo. […]", si legge in una nota di Ultima Generazione.

"C’è un solo modo per frenare questa corsa verso il suicidio collettivo: interrompere le emissioni legate ai combustibili fossili. Con questa azione vogliamo chiedere al Governo di smettere di investire in sussidi dannosi per l’ambiente. Con questa azione vi invitiamo a non rassegnarvi a questa condanna a morte”, hanno dichiarato gli autori del blitz. […]

Per la Procura di Padova Ultima Generazione è un’associazione a delinquere. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 16 aprile 2023.

La Procura di Padova ha deciso di iscrivere nel registro degli indagati per associazione a delinquere dodici attivisti di Ultima Generazione, al centro del dibattito pubblico per gli imbrattamenti a diversi edifici privati e storici con vernice lavabile. Il pubblico ministero Benedetto Roberti ha dato seguito a delle indagini svolte dalla Digos nel 2020, formalizzando una serie di accuse che spaziano dall’interruzione di pubblico servizio all’ostacolo della libera circolazione, passando per il deturpamento di beni culturali e l’imbrattamento di luoghi. Gli inquirenti hanno fatto leva sulla struttura gerarchica dell’associazione, ai cui vertici vengono «organizzati, discussi e vagliati» i blitz, per avanzare l’aggravante dell’associazione a delinquere, e gli ecovandali sono così diventati ecocriminali.

Come recita l’articolo 416 del Codice Penale, si parla di associazione a delinquere “quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti”. Negli ultimi tre anni Ultima Generazione si è resa protagonista di azioni “che stanno antipatiche a tutti”, come recita il titolo dell’intervista de L’Indipendente a un’attivista dell’associazione. I cittadini e le istituzioni hanno spesso risposto con denunce e multe, ma nessuna procura si era spinta a ipotizzare Ultima Generazione nei termini di un’associazione a delinquere, mettendola di fatto sullo stesso piano della criminalità organizzata. Le accuse sono giunte a distanza di qualche giorno dall’approvazione, in Consiglio dei ministri, di un disegno di legge che sanziona con multe fino a 60mila euro chi imbratta o distrugge i beni culturali. Una sorta di potenziamento del reato di “danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale”, disciplinato ai sensi dell’articolo 733 del Codice penale. La norma in vigore prevede l’arresto fino a un anno o l’ammenda non inferiore a 2.065 euro. Se approvato dal Parlamento, il nuovo ddl proposto dal governo aumenterà la soglia minima delle sanzioni: chi imbratta i beni culturali rischierà una multa da 10 a 40mila euro, con il limite massimo portato a 60mila euro nei confronti di chi li distrugge. Una stretta che mette in chiaro le priorità dell’esecutivo, intenzionato a stroncare le azioni dimostrative di ragazzi che chiedono interventi urgenti alle istituzioni e – seppur utilizzando metodi discutibili – conducono le loro azioni usando vernice lavabile, senza aver quindi intenzione di danneggiare realmente nessun bene culturale.

Ultima Generazione ha commentato la decisione della Procura di Padova rilanciando prima una citazione del relatore speciale ONU sui difensori dei diritti umani Michel Forst («Le azioni illegali a volte sono legittime. E quelle degli attivisti climatici lo sono»), «per poi aggiungere che dei cittadini nonviolenti sono stati trattati come se fossero dei mafiosi». Non è la prima volta che dagli ambienti giudiziari rimbalza il collegamento tra associazione a delinquere e delitto politico, sintomo della virata verso una gestione sempre più restrittiva dei movimenti di protesta. Lo scorso luglio, ad esempio, la magistratura torinese è andata all’attacco del centro sociale Askatasuna, considerando i suoi esponenti come dei membri di un’associazione a delinquere. Un castello accusatorio smontato poi a dicembre dalla Cassazione, non ritenendo sufficienti le motivazioni fornite in sede di riesame dai pm per giustificare il reato. [di Salvatore Toscano]

"Associazione a delinquere". Inchiodati gli eco-vandali. Indagati per i blitz 12 attivisti veneti e milanesi. La Digos: sono azioni decise da gerarchie interne. Francesco Giubilei il 16 Aprile 2023 su Il Giornale

Dopo mesi di azioni vandaliche con monumenti imbrattati, opere d'arte prese di mira, strade bloccate e altre azioni illegali, finalmente è in atto una stretta contro gli eco-vandali di Ultima Generazione. Pochi giorni fa l'azione del governo con l'aumento delle sanzioni con maxi multe verso chi danneggia il patrimonio culturale, mentre ieri è arrivata la notizia che gli attivisti di Ultima Generazione sono indagati per associazione a delinquere. Si tratta di dodici attivisti tra i 21 e i 57 anni residenti a Padova, Treviso, Venezia, Vicenza, Verona e Milano. Il pm Benedetto Roberti ha accolto il canovaccio investigativo e inviato gli avvisi di garanzia con le accuse di interruzione di pubblico servizio, ostacolo della libera circolazione, deturpamento di beni culturali e imbrattamento di luoghi.

Secondo la Digos di Padova che ha condotto le indagini, le manifestazioni di disobbedienza civile erano «blitz organizzati», discussi e vagliati da una gerarchia interna e con questa motivazione è riuscita a chiedere l'aggravante dell'associazione a delinquere.

La Digos indaga già dal 2020 quando fu eseguita la prima perquisizione a casa di uno dei promotori del gruppo responsabile di varie azioni contro i monumenti della città euganea. Nonostante negli ultimi anni siano avvenuti blocchi stradali e imbrattamenti di edifici privati e storici, la Digos è riuscita a impedire a settembre 2022 l'imbrattamento con vernice spray della sede regionale della Lega. Le indagini sono iniziate quando comparvero nelle vetrine di alcuni negozi di grandi catene dell'abbigliamento nel centro di Padova manifesti firmati da Extinction Rebellion in cui si criticavano gli investimenti sui «grandi affari distruttivi».

Dopo la prima perquisizione a uno dei promotori ed organizzatori di Ultima Generazione, la Digos ha individuato, anche monitorando le riunioni avvenute in un parco pubblico di Padova, gli altri membri padovani del gruppo ambientalista.

Oltre a vari blocchi alla circolazione stradale, il 21 agosto dello scorso anno è avvenuto il gesto più eclatante con quattro militanti che si sono incatenati all'interno della Cappella degli Scrovegni dove si trova il delicato e prezioso ciclo di affreschi di Giotto. In quel caso la Polizia è intervenuta tagliando con cesoie le catene e trascinando a forza i manifestanti fuori dalla cappella. Ultima azione in ordine di tempo è stata quella di tre eco vandali aderenti alla campagna «Non paghiamo il fossile» che hanno bloccato una via vicino ai dipartimenti di Matematica ed Economica dell'Università.

Commentando la notizia dell'indagine, il vicepremier Matteo Salvini ha affermato: «Giusto così. Chi vandalizza opere e blocca strade commette reati e va perseguito con durezza».

Senza dubbio bisognerà attendere l'esito dell'indagine ma il fatto che le loro azioni nascano non su iniziativa di singole persone ma attraverso un coordinamento è evidente. In ogni caso l'indagine rappresenta un segnale importante per dimostrare che gli eco teppisti non sono al di sopra della legge. Troppo spesso le loro azioni hanno goduto di un clima di accondiscendenza, non certo da parte dei cittadini ma da alcuni ambienti politico-culturali che hanno cercato di renderli delle icone. Da troppo tempo però hanno superato il limite e, visto che loro stessi sostengono di volersi assumere la responsabilità delle proprie azioni, ora potranno farlo anche di fronte alla giustizia.

Simone Ficicchia, lo studente di Ultima Generazione: «Greta non mi bastava, pronto alla galera per il pianeta». Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2023 

Attivista per l'ambiante, 21 anni, è tra gli indagati per i blitz contro l'arte a Padova: «Non vogliamo piacere alle persone, ci basta che riflettano»

Certo che mi preoccupa l’inchiesta della procura di Padova. Ho solo 21 anni e mi ritrovo indagato...». Appunto, ha 21 anni. Sapeva che si stava cacciando nei guai... «Non me ne pento. Se lo scotto da pagare per evitare un disastro planetario è di ritrovarmi con la fedina penale sporca, o perfino di finire in prigione, ne vale la pena». Simone Ficicchia, studente dell’Università di Padova, è uno dei dodici attivisti di Ultima Generazione indagati per reati che vanno dall’interruzione di pubblico servizio all’imbrattamento, compiuti nel corso delle proteste messe in atto nell’ultimo anno in provincia di Padova. Nel mirino degli investigatori finisce così la falange veneta del collettivo che da tempo si rende protagonista di blitz clamorosi, bloccando le strade, incatenandosi ai musei o sporcando le opere d’arte. Simone e gli altri undici indagati si sono rivolti all’avvocato Leonardo De Luca, che avrà il difficile compito di smontare le accuse della procura, a cominciare dalla più grave (che riguarda solo cinque di loro): l’associazione per delinquere. «Un gruppo di giovani che saltuariamente ha condotte di modesta gravità o inoffensive, non è automaticamente un sodalizio criminoso» ribatte il legale. «Ci paragonano ai mafiosi, ai terroristi. Francamente non mi sento un criminale», dice Simone, che era già finito nei guai lo scorso anno: la questura di Pavia aveva chiesto per lui la sorveglianza speciale per essersi incollato alla Primavera del Botticelli. «Il tribunale di Milano ha poi respinto la richiesta. Anche lì mi sono difeso spiegando che le ragioni per le quali protestiamo si fondano su studi scientifici. Farò lo stesso a Padova».

Andiamo con ordine. Come è diventato uno dei portavoce nazionali di Ultima Generazione?

«Mi interesso di tematiche ambientali fin da quando ho 14 anni. A 17 sono entrato nel movimento Fridays For Future, ma poi ho capito che limitarsi a fare dei cortei colorati non portava a nulla. Servono azioni più incisive. Così due anni fa ho aderito a Ultima Generazione: per dedicarmi completamente alla causa ho momentaneamente messo da parte gli esami alla facoltà di Storia e il mio sogno di diventare professore».

I suoi genitori che ne pensano?

«Dicono di condividere la mia preoccupazione ma non le modalità con cui portiamo avanti la battaglia. Temono che, a furia di denunce, finirò per rovinarmi il futuro».

E lei cosa risponde?

«Che se nessuno fa qualcosa, il futuro non esisterà».

Il futuro si cambia lanciando vernici colorate contro le opere d’arte? Il blitz a Palazzo Vecchio, a Firenze, ha causato 30mila euro di danni...

«Sono iniziative choc, che spingono giornali e tivù a parlarne. In questo modo vogliamo costringere i politici a riflettere sulle tematiche che portiamo avanti. In fondo anche l’arte rischia di soccombere a causa del cambiamento climatico: Venezia sta affondando, le piogge acide danneggiano i monumenti...».

Bloccare il traffico impedisce alle persone di andare al lavoro.

«Mi dispiace per gli automobilisti. Ma se non si interviene, molti di noi non avranno un lavoro».

Non è troppo giovane per essere così catastrofico?

«Lo dicono gli scienziati: mi rifaccio ai report diffusi dalle Nazioni Unite e accessibili su internet».

Gli scienziati sono preoccupati ma non dicono che il mondo è sull’orlo dell’estinzione. Piuttosto, le modalità delle vostre proteste vi stanno inimicando l’opinione pubblica...

«Non ci interessa piacere alle persone, ci basta che riflettano. Maggiore è la visibilità, più sono coloro che condividono i timori diffusi da Ultima Generazione».

Voi puntate ai politici. Perché invece non partire dal basso, spingendo le persone ad adottare comportamenti virtuosi, come fanno altre associazioni ambientaliste?

«Arrivati a questo punto i comportamenti dei singoli individui non bastano a limitare gli effetti della crisi climatica. Occorre che siano i potenti a intervenire».

Come finirà?

«Prima o poi i politici capiranno. Spero solo che non sia troppo tardi».

PiazzaPulita, Chloe Bertini: "La protesta deve essere insopportabile". Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 16 aprile 2023

«Il monumento apre le braccia e ti stringe contento/il monumento è la parola nel vento», cantava il talentoso Peppe Voltarelli. Il quale, sulla scia di Jacques Brel, si cullava in un’Italia gravida di 3.400 musei, 2.100 parchi archeologici e 43 siti Unesco. Ecco. Dovremmo chiedere a Corrado Formigli di far ascoltare Il monumento di Voltarelli, inno alla nostra bellezza, a tal Chloe Bertini. Ossia a quell’attivista giovane dalle sinapsi aggrovigliate quanto le trecce, dura e pura del collettivo anarcoide Ultima generazione, che in diretta a Piazza Pulita ha dichiarato guerra al patrimonio artistico italiano.

Bertini, ospite nel talk di La7, è una di quelle iene combattenti tinte di verde che, di mestiere, imbrattano a bella posta siti, statue, palazzi, quadri nei musei. Lo fanno per protestare contro i cambiamenti climatici, i governi inerti verso l’inquinamento ed altre amenità di cui mi sfiggono i dettagli ma saranno senz’altro importantissime. La ragazza, alla notizia delle super-multe fino a 60mila euro varate dal nuovo decreto governativo ha pensato bene, in diretta, di confessare di aver violato la legge e di voler continuare a farlo: «Ho preso una multa per le mie azioni a piazza di Spagna. Non ho pagato. Non pagheranno i miei genitori. So che questi debiti avranno un impatto sul mio futuro. Ma quale futuro avremo?». Alché il conduttore Formigli, preoccupandosi giustamente più del presente che del futuro, le ha fatto notare che esistono altri modi per protestare e raccontare le proprie posizioni. «D’altronde le persone si incazzano nel vedervi rovinare le nostre opere», ha commentato Corrado. Eccezione dalla logica inoppugnabile.

 PROTESTA INSOPPORTABILE

Ma Chloe s’è inalberata: «La protesta non deve essere sopportabile. Deve essere impossibile da ignorare. Chiedo alle persone di silenziare questa polemica sul metodo. Continuerò a fare tutto quello che è necessario per ottenere un cambiamento». E di solito qui, ogni militante green che si rispetti, per un riflesso pavloviano spacciato per libero pensiero, cita o Gandhi, o la lotta delle «suffragiste» (in era per-politically correct le chiamavamo «suffragette») ola sfida di Rosa Park sugli autobus dei bianchi in Alabama: ché non si capisce bene cosa c’azzecchino con lo sfregiare l’arte, ma detto così suona molto figo. Comunque la Chloe poi precisa a Formigli: «Farò tutto quello che è necessario in maniera non violenta per ottenere un cambiamento, ci stanno togliendo la cosa più preziosa che abbiamo, la vita».

Intanto però gli attivisti nelle ultime settimane hanno tolto vita, dignità e bellezza: alla Barcaccia e Palazzo Madama a Roma, al Palazzo Vecchio di Firenze, alla statua equestre di Vittorio Emanuele davanti al Duomo di Milano. Quest’ultima è stata striata di vernice indelebile. Per un danno da più di 50mila euro che ovviamente pagherà il Comune di Milano, cioè noi; a meno che il sindaco Beppe Sala, che so pure lui incazzatissimo, non sfidi la parte sinistra dei suoi elettori e non si costituisca parte civile.

Tutti questi monumenti, ma anche i precedenti e i prossimi, vengono imbrattati vergognosamente in atti teppistici che nulla hanno d’eroico e assomigliano più a quelle challenge via Internet in cui si lasciano cadere ragazzetti cretini spesso di buona famiglia.

Punire chi imbratta la cosa pubblica è un’azione che dovrebbe essere trasversale nella sua banalità. Eppure, oplà, ecco che l’ideologia è pronta a saltare in testa e imbrattare i pensieri. Il portavoce del collettivo Ultima generazione Simone Ficicchia afferma che tutti sono rimasti: «Molto sorpresi nel vedere una maggioranza che invece di occuparsi della crisi climatica è sempre più attiva nel promuovere leggi ad hoc per punire azioni non violente da persone preoccupate per il futuro di tutti». E afferma che continueranno ad imbrattare, finanche dal carcere.

Il Movimento 5 Stelle la giudica una mossa frutto della propaganda. Debora Serracchiani del Pd, invece di mazzuolare gli eco-vandali, parla di «grottesca» azione del governo: «Peccato che a inizio 2022 sia entrato in vigore il ddl Franceschini-Orlando che ha introdotto nuove fattispecie di reato contro il patrimonio culturale e che, in particolare, punisce la distruzione, la dispersione, il deterioramento, il deturpamento, l’imbrattamento e l’uso illecito di beni culturali o paesaggistici». Vero. Ma peccato che le nuove fattispecie non abbiano funzionato. Come non si applicano a dovere l’art 518 cp, e il 639 cp che prevede una multa fino a 100 euro per chi «deturpa o imbratta cose mobili o immobili altrui». Non hanno sortito grandi effetti. Quindi, forse, serviva un deterrente ulteriore e più veloce (e perché no? Più propagandistico: gesto contro gesto).

DASPO CULTURALE

Ora, il problema è di giustizia sociale oltre che di assolutezza giuridica. La suddetta Chloe afferma fieramente di voler violare la legge in una «protesta che dev’essere insopportabile»? Ok. Ma allora dev’essere insopportabile anche la pena. E, data l’incertezza – e l’inadeguatezza- dei soggiorni carcerari, quella pecuniaria resta la più insopportabile possibile: «Da 20 a 60 mila euro», più sanzioni penali, per quanti distruggano, disperdano, deteriorino o rendano «in tutto o in parte inservibili o non fruibili beni culturali». Come dice il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, «chi danneggia deve pagare in prima persona». Il Foglio, sottolinea che «il ddl, ove mai venisse convertito in legge, potrebbe istituire anche una specie di Daspo culturale, un distanziamento sociale per i molestatori seriali di monumenti». Il Foglio ironizza, ma è un’ottima idea. Gli idioti potrebbero assottigliarsi e non sarà il monumento «parola del vento»...

Pd in tilt sugli eco-vandali. Gualtieri condanna, Schlein li giustifica ancora. Pietro De Leo su Il Tempo il 02 aprile 2023

Di nuovo, il doppio binario. C’è la linea dei sindaci, che vivono il territorio, tutti i giorni hanno a che fare con il degrado (con alterne fortune) la cura dei monumenti, l’impatto di ogni gesto umano sulla città. E poi c’è lei, Elly Schlein, nella sua bambagia ideologica "inclusiva" fatta di buonismo e de-responsabilità. Ieri gli attivisti di Ultima Generazione si sono esibiti a Roma, in Piazza di Spagna, gettando nella fontana della Barcaccia un liquido a base di carbone vegetale. Un atto di vandalismo che costituisce l’ultimo capitolo di una serie ormai troppo affollata di casi. Il primo cittadino di Roma, Roberto Gualtieri, Pd, ha condannato il gesto con parole dure e inequivocabili. «Hanno compiuto un atto illegale, dannoso e sbagliatissimo. Bisogna essere severi – ha spiegato - non bisogna colpire il nostro patrimonio. Condividiamo i temi della sensibilizzazione dei cittadini sul rischio dei mutamenti climatici ma questo non è il metodo giusto. Non è rischiando di danneggiare il nostro patrimonio che si aiuta l’ambiente». E ancora, l’iniziativa contro la Barcaccia, secondo il sindaco «suscita una collera generale, il tema della difesa dell’ambiente è importante e non va perseguito con azioni stupide e per rimediare alle quali è richiesto uso di acqua, energia e quindi sono in contraddizione con la difesa dell’ambiente». Posizioni nette, da parte di chi ha il polso del territorio. Poi arriva lei, Elly Schlein, che invece lascia un margine di perdonismo. «Non sono metodi che condivido. Detto questo, però, ho visto da parte delle istituzioni dei toni che cercano di spostare l’attenzione dalla luna al dito: le mobilitazioni che abbiamo visto in queste anni, dal primo sciopero di Greta Thunberg, indicano una luna che dobbiamo guardare tutte e tutti». E ancora: «Quella rabbia si sta manifestando perché c’è una frustrazione per la mancanza di risposte dalla politica. Io sono lì per cercare queste risposte».

Insomma, vandalizzare un monumento, secondo la segretaria Pd, è del tutto secondario. Un doppio registro che si era già osservato in occasione dell’imbrattamento della facciata di Palazzo Vecchio, sempre da parte degli attivisti di Ultima Generazione. Il sindaco Dario Nardella (Pd anche lui) che, trovandosi sul luogo, si lancia per fermare uno dei due vandali, apostrofandolo in maniera comprensibilmente dura. E poi Schlein che «al di là del metodo scelto» sfoderava, anche lì, la storiella del dito e della luna. «Loro -disse degli attivisti - stanno solo chiedendo di ascoltare la scienza. Perché se non l’abbiamo fatto sulla pandemia non lo facciamo sul clima?». Insomma, quasi come se gli imbrattatori fossero i virologi dell’ambiente. In quella che è una presa di posizione inspiegabile se non con un buonismo equilibrista fino all’autolesionismo, in realtà c’è una chiave di lettura ben precisa. Identitaria, nello specifico. Elly Schlein appartiene a quel progressismo contemporaneo che ha il suo tratto distintivo nella liquidità assoluta, anche culturale. Nella demolizione delle differenze qualsiasi esse siano. Una sinistra autocensoria che fa dell’autoincolpazione il suo mantra, dell’ideologia woke lo stendardo da innalzare per la conquista del mondo. Una ideologia che si nutre di «qui ed ora», di «futuro» ma aborrisce il passato. Per questo, l’indignazione di fronte al monumento deturpato viene vista come un qualcosa da trogloditi, un «guardare al dito», un limite. Loro, di monumenti, non hanno bisogno. Anzi, dove possono, li buttano giù anche, perché costruiti in epoche senza democrazia, utilizzando il lavoro di schiavi o manovalanze senza diritti. Per questo, i vandali di Ultima Generazione sono costola, per nulla incrinata, di questa nuova sinistra.

(ANSA il 17 marzo 2023) - Imbrattamento a edifici di rilevanza culturali o paesaggistici, manifestazione non autorizzata e mancato rispetto del foglio di via emesso dal questore per tre anni: questi i reati per i quali sono stati denunciati i due attivisti di Ultima generazione, un 32enne e una 23enne, che stamani hanno imbrattato con vernice arancione la facciata in pietra di Palazzo Vecchio.

Lo rende noto Palazzo Vecchio: i due sono stati fermati dalla polizia municipale insieme al sindaco Dario Nardella. I due attivisti, secondo quanto appreso, a Firenze avevano già preso parte, il 12 febbraio scorso, all'azione contro il palazzo del Consiglio regionale toscano, in via Cavour, imbrattato con vernice giallo e rossa.

Estratto dell’articolo di Marco Leardi per ilgiornale.it il 17 marzo 2023.

Quando gli eco-vandali hanno iniziato a imbrattare la facciata di Palazzo Vecchio a Firenze, Dario Nardella ha avuto un sussulto. Non si è trattenuto. Il sindaco della città toscana, che fortuitamente si trovava poco distante per un sopralluogo ai restauri, si scagliato di peso contro uno di essi. "Ma che c... fai!", ha strillato. Poi gli spintoni, l'arrivo degli agenti della municipale e i fischi dei turisti, infuriati anch'essi per la follia dell'oltranzismo ambientalista che tutto danneggia in nome dell'ideologia.

"Quando ho visto i due agenti della polizia municipale correre in direzione dell'arengario, mi sono girato e mi sono lanciato anche io. Abbiamo visto questi due individui che stavamo praticamente devastando tutta la facciata del Palazzo con la vernice. D'istinto mi sono buttato su uno dei due per cercare di bloccarlo, loro non hanno opposto violenza", ha raccontato Nardella. Un filmato documenta l'assalto degli eco-vandali e la successiva reazione d'impeto del sindaco, accorso per fermare uno degli attivisti che stavano imbrattando Palazzo Vecchio.

"Siamo stati molto fortunati: eravamo con tutti i restauratori sui vari ponteggi quindi avevano spazzole e spugne, gli idranti, ci siamo messi tutti a lavorare subito perché la prima cosa da fare era bagnare immediatamente la facciata", ha aggiunto il primo cittadino, messosi poi ad aiutare gli inservienti nel lavaggio della facciata sfregiata dalla vernice. "Ci hanno spiegato che va subito tolta per evitare danni bisogna lavarla via subito: io mi sono messo e l'ho lavata"

[…]"Questi sono dei barbari, degli incivili, perché non è così che si manifestano le proprie idee, non è violentando il patrimonio culturale, la bellezza: loro dovrebbero proteggere la civiltà, la bellezza, non insultarla e deturparla. A Firenze non ci sarà mai spazio per l'inciviltà", ha tuonato il sindaco Nardella, ammettendo di aver insultato uno degli attivisti durante la sua reazione istintiva.

"Sono degli ignoranti e meschini che usano il patrimonio culturale e la bellezza della città per esibizionismo", ha continuato il sindaco. Poi ha concluso: "Per fortuna sono intervenuti tutti, anche dei comuni cittadini si sono messi con le spazzole, gli Angeli del bello, l'assessore Bettini, la polizia municipale e poi i vigili del fuoco e Alia: ci siamo tutti buttati per pulire immediatamente, è stato un miracolo perché avevamo già l'attrezzatura sul posto altrimenti tutto il mondo avrebbe visto per settimane una situazione devastante". […]

Ma cosa cazzo fai, cretinetti. Nardella e i coppini ai dementi in cerca di 15 secondi di celebrità. Guia Soncini su L’Inkiesta il 18 Marzo 2023

Il sindaco di Firenze ha reagito come un padre di una volta di fronte al ragazzino che imbrattava con «vernice lavabile» Palazzo Vecchio. Così è diventato eroe del mio cuore e salvatore dell’Italia

Scusami, Dario. Tu non mi conosci, e ti starai chiedendo perché mi scusi. Io neppure ti conosco, e fino a ieri non m’era parso un problema: ho idea dell’esistenza e del profilo Instagram di fin troppi sindaci, abbastanza da avere deciso che i sindaci di sinistra simboleggiano il disastro culturale in cui grufoliamo.

Sindaci che si mettono la mascherina rosa in pandemia così capiscono cosa significa essere donne, sindaci che suonano la chitarra in tv, sindaci che si fanno fotografare mentre leggono libri scritti da loro stessi. La cosa che dico più spesso è che sogno una città il cui sindaco non s’instagrammi e in cui venga raccolta la spazzatura: non ne ho ancora trovata una che unisca le due qualità, perlopiù i sindaci delle città italiane s’instagrammano moltissimo e puliscono pochissimo.

Non so come sia la situazione dell’immondizia a Firenze, e sul tuo Instagram sono stata per la prima volta ieri, quando avevo già deciso che sei l’unica speranza dell’Italia (mi perdonerai se ti do del tu ma, quando si decide che qualcuno è l’unica luce in fondo al disastro dell’infantilizzazione collettiva, non si può perdere tempo in formalità).

I fatti li conoscono tutti quelli che sono passati dai social ieri. Degli ordinari dementi ordinariamente determinati a finire dentro a un telegiornale si sono messi a imbrattare con lo spray Palazzo Vecchio. E qui, prima di proseguire nella cronaca, mi urge una divagazione che poi divagazione non è.

Vi vedo. Sono mesi che vi osservo. Intellettuali, artisti, gente di buoni studi, alcuni pure amici miei. Ogni volta che si dà notizia di qualche ragazzino imbecille che imbratta un quadro, voi – terrorizzati di sembrare gente che ha a cuore la legalità, e quindi di destra, giacché lasciare ordine e legge alla destra è il modo più sicuro per ottenere il risultato cui più tiene la sinistra: perdere le elezioni – ogni volta voi riportate la notizia usando due parole per le quali io vorrei prendervi a coppini.

Quelle due parole sono: vernice lavabile. Lo dite contando sull’ambiguità, sul lettore distratto che dirà «ah ma quindi si può lavare via, tanto rumore per nulla». Lo dite come non foste adulti normodotati che sanno che «lavabile» è quella vernice con cui si pittano i muri delle stanze dei bambini, così puoi pulirli senza che la vernice si scrosti.

«Lavabile» non significa «butta pure un po’ di colori sulla Gioconda, poi le diamo una passata di detersivo e torna nuova», e voi – con tutto quel che hanno speso per farvi studiare – lo sapete, ma avete deciso che tenete più a posizionarvi dalla parte dei giovani ribelli (altrimenti vi dicono «boomer» e ci rimanete male) che alla verità. Oppure non lo sapete, e allora dovete trovarvi un impiego meno di concetto di quanto lo sia commentare la cronaca. Fine della digressione, che poi digressione non è.

Insomma tu, Dario Nardella, sindaco di Firenze e del mio cuore e salvatore dell’Italia e probabilmente unico non imbecille della generazione più imbecille di tutti i tempi, cioè la mia, sei lì vicino che stai dicendo qualcosa a una telecamera, e ti segnalano che ci sono appunto i soliti dementi che come al solito imbrattano.

L’immagine fissa che hanno commentato tutti è il placcaggio dello spruzzatore di vernice. Sembra finta. Sembra un Caravaggio. L’hanno già notato tutti (storia dell’arte è nei programmi della scuola dell’obbligo), non sto dicendo niente di nuovo. Potrei giusto aggiungere che non sembra neanche giovanissimo, il cercatore di telecamere, ma ormai l’assemblea d’istituto dura ben oltre i quarant’anni e i gesti da liceali sono propri di quelli che una volta erano adulti.

L’immagine in movimento che hanno commentato tutti è quella di te che interrompi il tuo monologo, ti volti, vedi il malfattore, e felino scatti a placcarlo: il Tom Cruise che ci possiamo permettere, o forse il Bruce Willis dei tempi di Die Hard.

E poi ci sono le immagini del dopo, quando – un po’ presidente operaio – ti metti lì con spazzola e olio di gomito a sgurare (scusa il bolognesismo) il palazzo prima che la vernice si asciughi (ora si moltiplicheranno i «lavabile», già mi sembra di sentirli).

Ma io vorrei parlare dell’altro filmato, quello che mi ha acceso il cuore. Quello in cui tu, Dario, arrivi dal cretinetti, e gli dici quel che gli avrebbe detto una persona normale. Non un cinquantenne che voglia dire che è importante ascoltare le proteste non violente nell’illusione di sembrare più simpatico ai giovani. Non un giovane così fesso da credere davvero che non sia poi così grave imbrattare i monumenti. Una persona normale, di quelle che pensavo fossero sparite dalla sinistra italiana.

Tu, Dario, arrivi dal cretinetti e, spintonandolo come i padri di una volta facevano coi figli così coglioni da renderli increduli, gli dici «Ma che cazzo fai?». Quello si mette in posa da supereroe (essere privi di senso del ridicolo è riposantissimo, per forza poi non vogliono crescere) e parte col suo discorso da assemblea d’istituto permanente: abbiamo deciso di sanzionare un palazzo del potere.

E tu: «Ma cosa sanzioni?». Non l’hai preso a coppini perché poi ti toccava trovarti un avvocato, ma i coppini erano nel tono. Poi vabbè, i cretinetti si sono buttati per terra, acciocché i loro quindici secondi di celebrità durassero almeno mezzo minuto. (C’è da rivalutare chi, per essere al centro dell’attenzione, si cambia i pronomi: almeno non tocca pagare dei restauratori perché aggiustino il danno).

Insomma, Dario, io volevo dirti che se ti candidi a qualcosa ti voto. Per una sinistra che, di fronte alle demenze da gruppettari che parlano per slogan e cercano disperatamente d’attirare l’attenzione degli adulti, abbia una sola, programmatica risposta: ma cosa cazzo fai, cretinetti.

"Una regia internazionale dietro gli eco-vandali: usano le stesse tecniche del Kgb". Andrea Indini su Il Giornale l’11 Gennaio 2023

L'ex presidente Rai, Marcello Foa, svela in un libro Il sistema (in)visibile che governa nel mondo l'attivismo estremo, come quello degli ultrà ambientalisti

Attacchi alle opere d'arte, raid nei musei, vandalismo contro i Palazzi del potere. L'ultimo episodio, a Capodanno, ha colpito il Senato. È la violenza green. Eco-cretini che, dietro sigle per lo più sconosciute, danno sfogo alla propria intransigenza ideologica. «Questi movimenti non agiscono da soli, c'è una regia». Marcello Foa, ex presidente Rai e firma storica del Giornale, è recentemente tornato in libreria con Il sistema (in)visibile (Guerini e Associati). Nel libro svela le logiche e i metodi dell'attivismo estremo, come quello degli ultrà ambientalisti, metodi che corrispondono a quelli elaborati un tempo dal Kgb.

Foa, in Italia il movimento più attivo è Ultima Generazione. È legato alle sigle che operano negli altri Paesi?

«Assolutamente sì. Dietro di loro si muove un movimento internazionale, l'A22, che lavora per unire i manifestanti di molti Paesi».

E dietro ad A22 chi c'è?

«Per capirlo basta seguire i soldi. I finanziamenti arrivano dal Climate Emergency Fund, gruppo fondato nel 2019 da un ex collaboratore di Bill Gates, Trevor Neilson e Rory Kennedy,».

Con chi abbiamo a che fare?

«Tra gli sponsor ci sono gli eredi Getty e Disney. Dal 1999 a oggi il gruppo ha finanziato 94 organizzazioni, addestrato 22mila attivisti del clima e mobilitato oltre 1 milione di persone. Solo nel 2022 ha sostenuto 43 movimenti con 5,3 milioni di dollari».

Come si muovono?

«Nel 1984 fu un'ex spia, Yuri Bezmenov, a spiegare come si destabilizza una società: cambiando la percezione della realtà attraverso un mega lavaggio del cervello».

Come ci riescono?

«Agiscono sui giovani che reclamano un cambiamento. Li rieducano incolpando le istituzioni e generando una frattura generazionale. Il movimento è solo in apparenza spontaneo e produce effetti nell'arco di qualche anno».

Quindi l'ecologia è solo una scusa?

«In parte. I giovani sono gli agenti inconsapevoli di questo processo, credono davvero nella loro causa. Ma a spronarli è l'agente di influenza, che a sua volta agisce per conto di chi finanzia».

È paradossale: i manifestanti pensano di agire contro il potere ma finiscono per fare i comodi di un altro tipo di potere. Anche Greta Thunberg è un prodotto di questa pianificazione?

«Sia chiaro: non è un complotto ma un sistema, un metodo piuttosto efficace. I ragazzi pensano di agire contro i cattivi' ma non si rendono conto di essere pedine di un disegno più articolato. Anche Greta rientra in queste logiche, infatti è riverita all'Onu e al World Economic Forum».

La sinistra italiana si è schierata subito con loro...

«Dal crollo del muro di Berlino la sinistra mainstream ha perso la vocazione originaria - difendere il proletariato e le classi disagiate - ed è diventata l'alfiere della globalizzazione trovando una giustificazione morale in battaglie come l'immigrazione, i diritti Lgbtq e l'ecologismo».

Il fatto che questi movimenti si rafforzino proprio ora che c'è la destra al governo è pura casualità?

«A livello internazionale il movimento è in corso da tempo. In Italia è particolarmente forte anche perché traspare il desiderio di boicottare un governo non allineato su certe logiche. L'attivismo diventa uno strumento politico; infatti sono ricomparse pratiche che sembravano dimenticate, come l'occupazione dei licei, e slogan che ricordano la sinistra più estrema degli anni '60».

È un caso che queste sigle ambientaliste agiscano allo stesso modo delle Ong che operano in mare?

«Stesso sistema, stessi obiettivi. La destabilizzazione delle società tradizionali e dei poteri nazionali viene conseguita anche attraverso l'immigrazione incontrollata. Anziché avere una sola organizzazione-ariete, si mobilitano e si finanziano più soggetti. La somma di queste piccole associazioni, che hanno lo stesso fine, genera una grande forza d'urto, che risulta peraltro più difficile da contrastare. L'hanno studiata bene».

Da corriere.it il 20 febbraio 2023.

Nuova azione di protesta degli attivisti per il clima di Ultima generazione. Bloccata per quasi un'ora la strada con uno striscione contro l'utilizzo delle fonti fossili. La rabbia degli automobilisti costretti ad attendere l’arrivo della polizia.

 Gli attivisti sono stati portati via di peso e poi denunciati. I Carabinieri del Nucleo Informativo del Comando Provinciale di Milano hanno deferito in stato di libertà 5 giovani del movimento. I 5 manifestanti sono stati denunciati per manifestazione non autorizzata, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio.

Perché facciamo cose che stanno antipatiche a tutti: intervista a Ultima Generazione. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 13 Febbraio 2023.

Dagli imbrattamenti delle opere d’arte ai blocchi stradali su importanti arterie del traffico automobilistico: le azioni messe in atto da Ultima Generazione, gruppo di attivisti per il clima nato da una costola di Extintion Rebellion, hanno rapidamente guadagnato visibilità per via del generale sentimento di spiazzamento (e anche antipatia) generato in una buona fetta dell’opinione pubblica. Ma qual è il senso delle loro iniziative e del loro modo di fare attivismo? Ne abbiamo parlato con Maria Letizia, attivista di Ultima Generazione impegnata nell’organizzazione dei gruppi di discussione e nella diretta preparazione di specifiche azioni di disobbedienza non violenta.

Per non dare per scontato cosa sia Ultima Generazione, vorrei chiederle di parlarmi del vostro movimento e del perché avete deciso di staccarvi da Extintion Rebellion.

Si tratta di due realtà fortemente collegate, alcune persone continuano a lavorare su gruppi di lavoro da una parte e dall’altra e in tante occasioni ci si trova a solidarizzare. Ultima Generazione (UG) è un progetto che nasce all’intero di Extintion Rebellion (XR) e si sviluppa autonomamente, ma non parlerei di scissione come quella che si intende solitamente in riferimento ai partiti. È un processo diverso: diciamo che è un progetto al quale hanno aderito molte persone di XR, anche perché è nato da loro, e ora in UG stanno confluendo persone che non sono mai transitate su XR. Quindi sì, UG è un progetto autonomo che fa parte di una rete internazionale, A22 – dalla data in cui è stato annunciato, ovvero lo scorso aprile 2022. Si tratta di una realtà che coinvolge anche Paesi extraeuropei, i cui gruppi hanno tutti le medesime modalità di azione. Lavoriamo con il metodo della disobbedienza civile non violenta e con richieste ai governi nazionali che ruotano tutte intorno alle fonti fossili e allo stravolgimento climatico anche se, poiché ogni governo ha delle sue responsabilità specifiche, le richieste possono differenziarsi.

Partiamo dalle vostre modalità di azione, perché si tratta forse dell’aspetto più controverso della vostra attività: non credete che iniziative quali bloccare il traffico e simili vi portino a infastidire le persone più che avvicinarle alla vostra causa?

Le nostre iniziative portano a polarizzare l’opinione pubblica, perché generano conflitto e disturbo. Chi si trova bloccato nel traffico o assiste all’imbrattamento, non sapendo che è temporaneo, rimane disturbato. Questo disturbo crea polarizzazione, non solo tra chi lo subisce ma anche tra chi lo vede narrato. Il conflitto produce questo. Se dobbiamo guardare i risultati di questi pochi mesi di azioni di questo genere, la risposta non può essere che positiva rispetto all’interesse che si è aperto sul problema e la discussione messa in atto e anche al numero di persone che stanno solidarizzando o entrando nel progetto attivamente, disposte anche loro a disobbedire. È cresciuto anche il numero di persone che collaborano dietro le quinte, nei tanti gruppi di lavoro che sono necessari per mantenere un’attività del genere. Lo vediamo anche nelle prese di posizione nei confronti di questa campagna. Il tutto come da previsione, in realtà, perché così ci dicevano gli studi di sociologia politica riferita agli eventi della storia del passato. Anche i processi in atto o addirittura le carcerazioni sono momenti in cui si cresce, perché le persone capiscono la sproporzione che c’è nel fatto che viene punito chi chiede giustizia e non chi effettivamente sta commettendo quell’ingiustizia, ovvero i governi che ci stanno condannando al genocidio o ad un futuro di fame, di immigrazioni, di povertà, di distruzioni, di morte. Nessuno riesce a negare il problema. E allora in occasione di questa repressione le persone comuni capiscono dov’è la vera ingiustizia.

Tra le modalità che si può scegliere di adottare, perché proprio quella di incollarsi alle opere d’arte o imbrattarle? 

Non ce lo siamo inventato noi. Già le suffragette, il cui movimento oggi è del tutto interiorizzato e dato per giusto, hanno squarciato col coltello le tele. Non è qualcosa di lavabile (come la vernice, la farina o la zuppa) o reversibile come incollarsi sul vetro di un’opera. Le motivazioni che di volta in volta cerchiamo per costruire una narrativa, le scegliamo per migliorare l’impatto di quell’azione. Le persone che le compiono subiscono multe, processi e così via: non ci succede certo quello che succede in altre parti del mondo, ma fanno comunque un piccolo sacrificio. Quindi è bene che almeno abbia impatto, no? L’imbrattamento del Dito in Piazza Affari ha avuto valore simbolico, come quella, alla quale ho partecipato, di lanciare la farina sull’auto dipinta da Andy Warhol ed esposta a Milano.

Ultimamente avete sempre più messo in campo obiettivi politici: penso all’imbrattamento al MEF, al Senato, al Dito in Piazza Affari. È in atto un cambiamento nella vostra strategia, volta a prendere obiettivi concreti tra i decisori? 

No, non c’è un cambio nelle modalità. Le nostre attività sono iniziate proprio con l’imbrattamento al ministero della Transizione ecologica, grazie al quale siamo riusciti ad ottenere l’incontro pubblico con Cingolani. Sono stati fatti incatenamenti alle sedi dei partiti mentre erano in campagna elettorale per chiedere che inserissero degli impegni nei loro programmi elettorali rispetto alle richieste del movimento. Non ci hanno ascoltati con una catena di scioperi della fame a Milano e quindi si finì per imbrattare la porta della sede del PD, a incatenarsi fuori dalla sede della Lega. Le istituzioni sono i principali interlocutori perché le richieste che si fanno sono richieste al governo italiano.

In quanti aderiscono al progetto e quanto è eterogenea la composizione? Sono per la maggior parte giovani o c’è anche varietà di età e di provenienza in questo senso? 

Diciamo che siamo al rovescio rispetto alla composizione demografica italiana. In Italia la maggior parte della popolazione è ultrasessantenne, mentre nel movimento gli ultrasessantenni ci sono ma non sono la maggioranza. Siamo una realtà ampiamente diversificata dal punto di vista demografico, di genere, di professione e di appartenenza geografica (sbilanciata rispetto al nord-est perché è lì che è nata, ma ormai ci sono gruppi locali in tutta Italia, compresi Meridione e Isole). Se uno guarda le scene degli imbrattamenti e dei blocchi stradali si vedono anche persone più in là con gli anni, anche se i giovani sono una percentuale più alta. Poi c’è tutto il dietro le quinte, ovvero i gruppi di lavoro di chi dedica un po’ del suo tempo a fare telefonate per chiedere raccolta fondi, per curare il sito internet eccetera.

Come funziona l’organizzazione? Chi decide qual è il target, come si indirizzeranno le prossime azioni? Avete, a livello regionale o provinciale, dei gruppi di lavoro separati?  

No, è tutto centrale. A livello locale dove esistono dei gruppi forti, come in Toscana, che ha messo in atto azioni proprie. Stiamo programmando azioni nelle Marche, alle quali io parteciperò. Però è sempre tutto coordinato a livello nazionale. I gruppi di lavoro hanno un una persona che li coordina e l’insieme di queste forma un gruppo di coordinamento generale che elabora le proposte. Quindi non c’è una strategia regionale, anche perché le richieste poi sono a livello nazionale. La strategia è quella e non cambia per gruppi di lavoro.

Voi pensate che in Italia ci sia sensibilità e margine di discussione riguardo il tema del cambiamento climatico o siete scettici? 

Se guardiamo alle politiche di questo governo, che ricalcano quelle del precedente, con sussidi ambientalmente dannosi (più di 20 miliardi all’anno), la vedo molto nera. Su questi sussidi non abbiamo informazioni: ne siamo tutti vittime, noi diamo i nostri soldi perché ci venga fatto del male e non ne abbiamo consapevolezza perché non ci viene detto come vengono distribuiti a livello regionale, nazionale ed europeo. Chi li studia ha difficoltà a tracciarli. Sono tutte stime, neanche il governo lo sa. La Exxon già negli anni ’70 aveva commissionato studi che avevano fornito un modello matematico sulle conseguenze delle attività dell’azienda e che descrivono molto bene quello che sta accadendo ora, e che avremmo potuto risparmiarci. Se Exxon non avesse tenuto nascosti quegli studi, come sarebbe diversa la nostra vita adesso? Quale prospettiva diversa avremmo davanti? Quante morti e migrazioni avremmo risparmiato? Quello che succede qui è nulla rispetto a quanto avviene in Africa, dove le guerre causate dallo stravolgimento climatico sono in atto da decenni. Sono ottimista perché vedo che le persone si stanno attivando, ma abbiamo pochissime chance di riuscire a non andare al genocidio. La sensibilità c’è ma tra questa e l’interiorizzazione del problema ce ne passa. Purtroppo (o per fortuna) la specie umana non si è evoluta per dover fronteggiare problemi globali, l’umanità si è evoluta per agire su una scala locale. Se anche capiamo a livello razionale un problema di tale portata, la nostra specie non ha gli strumenti per poterlo affrontare. La sfida grossa ora non è della climatologia, ma della psicologia, della sociologia, degli educatori, perché devono crescere persone in grado di reagire.

Lei crede quindi che a livello di società civile, al di là delle politiche, ci sia un po’ più di dibattito?

Sì, c’è, e secondo me il fatto di avere fatto azioni disturbanti aiuta, perché bisogna puntare molto sull’emotività per smuovere le persone. Perché sui convegni, sui paper, sui libri ci hanno già lavorato in tanti, tuttavia si assiste al convegno e si va a casa felici. Invece se guardi una scema che sta seduta per terra, un ragazzo prendersi gli sputi dai passanti ha più impatto, ti chiedi cosa sta succedendo.

Chi sono i finanziatori di UG? Sul sito ho letto che la maggior parte dei finanziamenti proviene dal Climate Energy Fund (CEF), che viene a sua volta fondato e finanziato dalla controversa figura di Aileen Getty, ereditiera del petrolio. Nonostante abbia dimostrato sensibilità per il tema della crisi climatica, non avete paura che finanziatori di questo tipo possano portare le persone a credere che dietro di voi vi sia un certo interesse finanziario? Tutti possono finanziare UG o esiste un filtro etico di qualche tipo?

Noi non conosciamo chi finanzia, perché i finanziamenti internazionali sono anonimi. I gruppi a cui arrivano parte di questi soldi, che vengono poi distribuiti tra i vari gruppi nazionali, non sanno chi li ha forniti. Quindi non possiamo essere influenzati e questa è la garanzia principale. Poi quello è solamente una parte del finanziamento. Molto viene dal crowdfunding nazionale. E poi raccolte fondi vengono fatte in occasioni delle presentazioni in presenza. Si tratta di tanti piccoli finanziamenti.

Altre organizzazioni del movimento ecologista e ambientalista italiano (come Fridays For Future) hanno dato vita negli ultimi tempi ad alleanze con movimenti che si battono per i diritti dei lavoratori (GKN e altre) e la giustizia sociale, sostenendo che senza di questa non vi è nemmeno giustizia climatica. Siete d’accordo con questa linea o ritenete che il focus sia sempre e solo la questione climatica? 

Non è possibile separare le due cose, vanno declinate in un’unica narrazione. Fridays For Future da un paio di anni ha molto rafforzato la narrazione rispetto gli aspetti di giustizia sociale. Adesso si vedrà anche l’evoluzione della crescita di UG, ma è chiaro che giustizia climatica e giustizia sociale non sono aspetti separabili. Non a caso hanno entrambe la parola giustizia.

Voi ponete la transizione ecologica come questione centrale per porre fine al cambiamento climatico, ma come vedete il fatto che questo porti a nuove pratiche di sfruttamento come l’estrazione del litio e delle terre rare, pratiche di neocolonialismo nei Paesi del sud del mondo? La transizione ecologica è la soluzione definitiva al cambiamento climatico o ci sono delle sfumature anche su questo?

È il ministero ad avere il nome “della Transizione ecologica”. Noi chiediamo giustizia. Non si può pensare che con le auto elettriche si risolva il problema. Ci sono interessi molto radicati nel nostro modello di sviluppo economico da dover intaccare e abbandonare per poter arrivare a una soluzione. Non se ne trova tanto traccia nella narrazione che c’è stata fin qui di UG, perché abbiamo deciso di concentrarci sulle richieste con una narrazione semplice ed impattante, ma con la campagna primaverile questa verrà arricchita.

Qual è la vostra strategia nel lungo periodo? Vi concentrerete solo sull’Italia o avete intenzione di espandervi? 

Abbiamo già messo in atto delle azioni coordinate: il blocco del Monte Bianco, per esempio, coordinato con il gruppo francese. Il giorno in cui abbiamo imbrattato l’opera di Andy Warhol a Milano era una giornata nella quale in tutti i Paesi della rete le opere d’arte sarebbero state un target. Per il resto, ci piacerebbe avere una strategia nel lungo periodo, ma il nostro successo deve essere ora. Le nostre campagne di aprile e maggio vedranno un’intensa mobilitazione a Roma e in altre parti d’Italia.

[di Valeria Casolaro]

Teppisti nel metodo. Ignoranti nel merito. Francesco Maria Del Vigo il 16 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ci mancava solo quest'ultima cretinata di quei geni di Ultima Generazione: imbrattare la statua "LOVE" di Maurizio Cattelan in piazza Affari, più comunemente chiamato il "ditone"

Ci mancava solo quest'ultima cretinata di quei geni di Ultima Generazione: imbrattare la statua «LOVE» di Maurizio Cattelan in piazza Affari, più comunemente chiamato il «ditone». Che, per esser chiari non è un pollicione come quello dei like di Facebook, ma un gigantesco medio che manifesta tutto il suo disdegno nei confronti dell'edificio antistante, cioè Palazzo Mezzanotte, cioè la Borsa.

Ieri, questi sciamannati che per salvare il mondo dalla catastrofe ecologica nel frattempo lo imbrattano con le loro ecologicissime vernici, hanno pensato bene di dedicare le loro attenzioni all'opera di piazza Affari. Tra l'altro, in questo caso, hanno pure sbagliato bersaglio: hanno preso di mira un'opera d'arte che a sua volta prende di mira il sistema capitalistico, cioè, secondo gli eco-estremisti, uno delle principali cause scatenanti del climate change.

Gli attivisti sono stati prima bersagliati dai passanti, che li hanno apostrofati con parole consone, e poi accompagnati in questura. Il caso, ovviamente, non è solo penale. In un Paese nel quale si fa fatica a tenere dietro alle sbarre chi uccide, violenta o ruba, è improbabile mettere in gattabuia chiunque commetta questo tipo di reati. Però gli estremisti dell'ecologia sono dei fanatici che, in qualche modo, vanno fermati: con multe esemplari e, magari, costringendoli a ripulire ciò che hanno sporcato. Non si combattono le troppe emissioni, nè si frena il cambiamento climatico, lanciando vernice o passato di verdura contro i quadri di Klimt o di Van Gogh e men che meno bloccando le strade e i passanti autostradali, anzi si ottiene l'effetto opposto: si creano code di automobilisti - spesso pendolari che stanno andando al lavoro - che, fermi nel traffico, inquinano ancora di più; e in secondo luogo, con gesti così disturbanti, si allontana ancora di più l'opinione pubblica da tematiche serie e importanti. «Cui prodest?», si chiedevano i latini, «A chi giova?». A nessuno, come dicevamo prima neppure all'ambiente. Noi, più pedestremente, rispondiamo con le parole che l'acutissimo Carlo Maria Cipolla utilizza nella terza legge della stupidità: «Una persona stupida è una persona che arreca danno a un'altra persona o gruppo di persone senza ottenere, allo stesso tempo, un vantaggio per se stesso, o addirittura ottenere una perdita». Loro, nomen omen, sono convinti di essere l'ultima generazione che può intervenire sul clima prima dell'estinzione e della catastrofe. Noi siamo convinti del contrario, ma se la prossima generazione dovesse essere peggio di questa, beh, allora siamo sempre pronti a ricrederci.

I giudici assolvono l'attivista del 2018: "Azione motivata da alti valori morali". Per i magistrati ha risarcito le spese di pulizia del Comune e ha agito per sensibilizzare sulla violenza contro le donne. Manuela Messina il 16 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Non ce la fanno proprio a lasciare in pace il «Dito». Figuriamoci se a dare ragione agli imbrattatori si mettono di mezzo anche i giudici, che oltre a dettare sentenze si prendono la briga di stabilire il «valore morale» di questo o quell'intervento. Sì perché l'opera L.O.V.E. di Cattelan era già stata presa di mira due anni prima dell'ultima trovata degli eco-attivisti di Ultima Generazione, che ieri hanno gettato vernice arancione e verde sulla statua in piazza Affari. Quella volta da un altro artista, di minor fama - occorre dirlo - di Maurizio Cattelan. Era stato Ivan Tresoldi, street artist noto in città per le sue «poesie sui muri» e già condannato a una multa (la pena era stata sospesa) per imbrattamento nel 2018.

Il 5 marzo 2021 Tresoldi aveva dipinto di rosa l'unghia del dito medio della statua. Un gesto compiuto con un intento, per carità, ammirevole: sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema della violenza sulle donne. «Perché ogni uomo si ricordi sempre che se è vivo, lo deve sempre e comunque a una donna. L.O.V.E. assai», le parole di Tresoldi, difeso nell'indagine dall'avvocata Angela Ferravante.

Ebbene, visto che al di là della nobiltà degli scopi, pur sempre il granito era stato imbrattato, il «buon» poeta di strada era stato denunciato. Dal comune, proprietario dell'opera, in primis. E poi anche dalla Lega, in particolare da Alessandro Morelli, già direttore di Radio Padania.

Passano quindi due anni, la vicenda ripiomba nel silenzio. E così, sorpresa, proprio pochi giorni prima che il «Dito» ritorni sulle prime pagine dei giornali grazie agli eco-attivisti, il gip decide di archiviare l'inchiesta per imbrattamento e accogliendo così la richiesta di archiviazione della Procura. Come mai? Scorrendo la richiesta della pm Pirotta al giudice, è stato preso in considerazione il risarcimento da 1.796 euro bonificati dallo stesso Tresoldi al comune di Milano che quindi - incamerati i denari per la riparazione del danno - ha deciso di rimettere la querela.

«La condotta riparatoria dell'indagato - scrive la Procura - non solo ha eliminato le conseguenze dannose del reato ma ha confermato l'intento soggettivo che lo aveva motivato, ossia l'effettiva sensibilizzazione sul tema dei diritti in genere per esprimere, con un messaggio effimero, solidarietà in occasione della ricorrenza dell'8 marzo Giornata internazionale dei diritti della donna». D'altronde era stato lo stesso Cattelan a commentare così la verniciatura rosa di Tresoldi: «Il vandalismo quando è gratuito è violenza, ma se posso dare un dito a qualcuno per sensibilizzare su un tema importante come il rispetto delle donne mi dispiace allora che manchino le altre quattro».

«Il fine dello street artist non era sicuramente quello di danneggiare, men che meno di imbrattare o deturpare l'opera di Cattelan - scrive ancora la Procura - ma solo quello di veicolare un messaggio di valore morale e di sensibilizzazione culturale e sociale attraverso il linguaggio artistico, concretizzandolo in una installazione temporanea, che non ha intaccato né deteriorato l'opera, né nella sua interezza né sulla porzione interessata dalla pittura». Insomma: imbrattatori, accomodatevi.

Il carabiniere impassibile davanti all'imbrattatore. Domenico Cacopardo su Italia Oggi il 3 gennaio 2023.

Certo, s'è trattato soltanto di vernice lavabile e quindi, dai danni limitatissimi. Ma, della bravata di qualche ambientalista (ma che ambientalista è colui che per essere ripreso e citato da giornali e televisioni, imbratta muri storici come quelli di Palazzo Madama?), rimane impressa una foto, soltanto una: quella del carabiniere di guardia al Senato nell'atto di camminare giù dal marciapiedi di corso Rinascimento mentre un giovanotto o una giovanotta stanno imbrattando le mura vicine dall'ingresso. Una foto che rappresenta un danno reputazionale all'istituzione Senato e agli stessi carabinieri.

M'ero domandato, infatti, come fosse stato possibile che questi ambientalisti danneggiassero sia pure lievemente Palazzo Madama, visto che la vigilanza esterna - di cui sono incaricati i carabinieri - è assidua e intensa, come avevo sperimentato ai tempi in cui lavoravo in questa prestigiosa istituzione. E il carabiniere solitario a passeggio di servizio davanti al Senato è stato a suo tempo istruito sul come comportarsi in situazioni del genere?

Nulla di grave, solo un buco nella vigilanza, una disattenzione o una sottovalutazione da parte dei militi dell'Arma. Ai tempi, il personale delle forze di polizia che operava per il Senato, riceveva dallo stesso una speciale indennità. Un riconoscimento. Si sappia. cacopardo.it

Palazzo Madama, imbrattato dagli attivisti di “Ultima Generazione”. La sede del Senato lasciata priva di alcuna difesa e controllo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Gennaio 2023

Vedendo il filmato e le foto in realtà si vede un solo Carabiniere presente sul posto che non poteva fare nulla per bloccare l'azione di protesta. (In verità dal filmato si vede il carabiniere, come nelle barzellette, che poteva fermare l’imbrattatore, ma non ha voluto o non è stato capace di farlo, cadendo nel ridicolo n.d.a.). Normale chiedersi: ma è così che si tutela la sede della seconda istituzione dello Stato ?

Questa mattina, lunedì 2 gennaio intorno alle 8, un gruppo di ambientalisti, appartenenti a “Ultima Generazione“, con fotografo al seguito, ha imbrattato la facciata di Palazzo Madama sede del Senato della Repubblica, a Roma, con della vernice di colore rosso utilizzando degli estintori. La vernice ha coperto alcune finestre del piano terra ed il portone centrale di accesso di Palazzo Madama. I cinque attivisti che hanno imbrattato palazzo Madama fermati dei Carabinieri con l’ausilio di appartenenti alle forze dell’ ordine in borghese che passavano per caso in motocicletta, sono stati poi identificati e condotti in questura negli uffici della Digos.

Alla base del gesto, la disperazione che deriva dal susseguirsi di statistiche e dati sempre più allarmanti sul collasso eco-climatico, ormai già iniziato, e il disinteresse del mondo politico di fronte a quello che si prospetta come il più grande genocidio della storia dell’umanità”, si legge nel comunicato di Ultima generazione, pubblicato nel loro sito insieme ad alcune immagini della loro azione di protesta incivile.

In tre sono stati arrestati per danneggiamento aggravato, altri due sono stati denunciati per lo stesso reato. Si tratta di un’attività congiunta dei poliziotti della Digos della Questura di Roma e militari del Nucleo informativo dell’Arma dei Carabinieri del Comando Provinciale di Roma.  Per gli arrestati dovrà essere svolta l’udienza per direttissima davanti al giudice del tribunale di Roma.

Vedendo il filmato e le foto si vede un solo Carabiniere presente sul posto, il quale ha fatto il possibile, non potendo bloccare da solo l’azione di protesta effettuata da cinque attivisti di Ultima Generazione. Legittimo chiedersi: ma è con un solo (incolpevole) Carabiniere che si tutela la sede della seconda istituzione dello Stato ?

Il blitz ha preoccupato il ministro dell’ Interno Matteo Piantedosi che ha deciso di intensificare l’attività di prevenzione e di controllo del territorio. A tal proposito, fin da subito (anche se in ritardo !) è stato disposto un rafforzamento del dispositivo di sicurezza nell’area del Parlamento anche con agenti in borghese. È quanto si apprende da fonti del Viminale.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha condannato il gesto “oltraggioso e incompatibile con qualsiasi civile protesta“. In mattinata c’è poi stato un colloquio telefonico tra il presidente del Senato Ignazio La Russa e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Dal titolare del Viminale solidarietà e massima disponibilità ad aumentare il livello di sicurezza di Palazzo Madama.

Il presidente del Senato Ignazio La Russa dopo l’ inaccettabile atto vandalico, è furente : “Nessun alibi, nessuna giustificazione per un atto che offende tutte le istituzioni e che solo grazie al sangue freddo dei Carabinieri non è trasceso in violenza. Il Senato è stato vigliaccamente scelto perché a differenza di Palazzo Chigi, della Camera dei deputati e di altre istituzioni, non ha mai ritenuto fino ad ora di dover creare un area di sicurezza attorno all’edificio. Ho convocato immediatamente per domani alle ore 15 il Consiglio di presidenza del Senato per ogni opportuna decisione“. 

Per il capo gruppo di Fratelli d’Italia al Senato, Lucio Malan, “è grave quanto accaduto questa mattina, purtroppo con regolare puntualità si ripetono questi incivili atti vandalici nei confronti del patrimonio artistico, che evidenziano peraltro una ideologia malata per la quale è lodevole devastare inutilmente il patrimonio comune se si afferma di farlo per un confuso concetto di ambiente. Un approccio auto giustificativo tipico del pensiero totalitario dove il fine giustifica i mezzi. In questo senso va raccolta e rilanciata la proposta del ministro Sangiuliano per ripensare e rinforzare i livelli di protezione a presidio del nostro patrimonio artistico e culturale; così come va considerato un aumento delle pene per i devastatori ai quali va ovviamente addebitato il costo per riparare il danno consistente anche nel tempo per il quale l’opera resta deturpata. Peraltro, il gesto compiuto su Palazzo Madama è ancora più odioso perché non più di un anno fa era terminato il restauro della stessa facciata. Mi auguro che i responsabili siano giudicati con severità e rispondano del danno patrimoniale arrecato“. 

Immediatamente sono stati attivati dei restauratori che hanno rimosso la vernice, pulendo la facciata ed il protone d’ingresso di Palazzo Madama. “Chi vandalizza un palazzo delle istituzioni pensando di difendere l’ambiente capisce poco. Chi giustifica i vandali che imbrattano dimostra di capire ancora meno Senato”. Lo scrive sui social network Matteo Renzi a proposito dell’imbrattamento del Senato da parte degli ambientalisti di ‘Ultima Generazione‘.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 4 gennaio 2023.

 […] Fermo restando che questi atti dimostrativi di Ultima Generazione sono, a nostro avviso, sacrosante nel merito ma controproducenti nel metodo […]

 Estratto dell’articolo di F. Malf. per “il Messaggero” il 4 gennaio 2023.

«Noi continueremo». Appena prima che il giudice per le direttissime del tribunale di Roma convalidasse gli arresti per i tre giovani eco-vandali (Davide Nensi, Alessandro Sulis e Laura Paracini) che hanno imbrattato la sede del Senato nei giorni scorsi - disponendone poi la scarcerazione - una delle portavoce di Ultima generazione (la sigla ambientalista responsabile dell'attacco) già prometteva nuove azioni: «Seguiamo una disciplina rigorosamente non violenta.

 Durante l'imbrattamento il Senato era vuoto, non volevamo colpire il Presidente come accusa Ignazio La Russa. Ennesima risposta grottesca della politica. Ma noi continueremo».

 Una linea d'azione che, non tenendo conto del reato di danneggiamento aggravato di cui dovranno rispondere […]  sembra piacere non poco ad alcuni politici italiani.

 È il caso ad esempio del co-portavoce dell'alleanza Sinistra-Verdi Andrea Bonelli che ieri, intervenendo in una trasmissione su La7, si è lanciato a difesa degli ambientalisti.

«Non sono assolutamente dei criminali. Sono azioni che non condividiamo, ma definirli criminali è un fatto che non sta né in cielo né in terra», ha commentato il deputato. Anzi, Bonelli è andato anche oltre e ha ammesso di aver in passato preso parte ad analoghe azioni di disobbedienza civile in nome dell'ambiente.

[…] Idem per l'altro portavoce di Avs Nicola Fratoianni che ritiene «sproporzionata» più che la protesta «che può non piacere» ma è stata compiuta con «vernice lavabile», la «violenza verbale e giustizialista con cui la politica sta rispondendo a queste forme di protesta, non pare proporzionata».

 […] Nonostante all'estero, dopo una lunga sequela di azioni che hanno ispirato gli attivisti italiani, anche Extinction rebellion stia cambiando direzione sostenendo l'inutilità di questo genere di azioni, non si fatica a trovare forme assolutorie nei confronti degli attivisti nostrani anche tra i cinquestelle.

 Pur parlando di un «atto da condannare», in una nota diffusa in serata a firma Mariolina Castellone, vicepresidente del Senato, Pietro Lorefice e Marco Croatti, viene infatti difeso il gesto in quanto tentativo di «mettere al centro dell'agenda politica il tema del cambiamento climatico», rivendicando di aver chiesto di «evitare controproducenti prove di forza che rischiano di strumentalizzare l'accaduto e di allontanare ancora di più le istituzioni dai cittadini».

D'altro canto ieri anche il sociologo Domenico De Masi, da sempre vicinissimo a Beppe Grillo, non ha lasciato tanto spazio a interpretazioni diverse: «Vanno elogiati. Chi non ha a disposizione i telegiornali e i grandi organi di stampa, che cosa può fare? Degli atti eclatanti che non fanno male a nessuno. Hanno usato della vernice lavabile, sono passato stamattina davanti al Senato e non c'era più nulla».

Ida Artiaco per fanpage.it il 4 gennaio 2023.

 Dopo Roma, Parigi: un gruppo di attivisti del clima, appartenenti al collettivo ecologista Dernière Rénovation, ha gettato oggi, mercoledì 4 gennaio, intorno a mezzogiorno della vernice arancione sulla facciata d'ingresso del palazzo Matignon, sede del governo francese. 

L'obiettivo della protesta è quello di mettere in guardia sulle conseguenze del riscaldamento globale e allertare il primo ministro francese Elisabeth Borne, denunciando "l'inerzia climatica del governo". Il tutto mentre il presidente Emmanuel Macron riuniva il primo Consiglio dei ministri del 2023. 

La polizia ha effettuato due arresti, ha spiegato il giornalista Rémy Buisine sul social network. Si tratterebbe di ragazzi tra i 20 e i 22 anni d'età, i quali indossavano una maglietta con la scritta: "Chi è colpevole?". 

Il gruppo ambientalista, pochi minuti dopo l'azione di protesta, ha pubblicato un tweet in cui ha confermato che "2 cittadini che sostengono Dernière Rénovation hanno gettato vernice spray contro Matignon. Sono entrati nella resistenza per costringere ad agire un governo doppiamente condannato dalla giustizia francese".

L'esecutivo aveva tempo fino al 31 dicembre 2022 per dimostrare il suo impegno a favore dell'ambiente, dopo che il tribunale amministrativo di Parigi aveva dichiarato colpevole lo Stato francese per aver derogato ai suoi obiettivi di lotta al riscaldamento globale.

 Una protesta simile si era verificata nei giorni scorsi anche in Italia, quando sempre attivisti del collettivo Ultima Generazione avevano lanciato della vernice sempre arancione conto Palazzo Madama, sede del Senato, a Roma, dando vita ad una serie di polemiche.

 Le azioni di questo genere si stanno moltiplicando negli ultimi mesi e in tutto il mondo: si tratta del tentativo di gruppi di attivisti di sensibilizzare sull’emergenza climatica. "Nel 2022, gli eventi climatici estremi sono aumentati del 55% provocando miliardi di danni e 29 morti. Nel 2021, il governo italiano ha destinato oltre 48 miliardi di investimenti pubblici ai combustibili fossili, molto più di quello che destinano alla transizioni verso fonti pulite e alla salute dei cittadini – avevano dichiarato gli attivisti italiani, chiedendosi cosa ci aspetta nel 2023 – Per questo oggi abbiamo sanzionato il Senato. La vernice arancione servirà a ricordare ai passanti che lì dentro vivono i colpevoli e i responsabili di molti morti e disgrazie".

Estratto dell’articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 3 Gennaio 2023.

Frattura nell'ambientalismo radicale britannico. Extinction Rebellion, il movimento più famoso, ha annunciato di voler rinunciare alla lotta dura, ossia alla disobbedienza civile e ai blocchi cittadini che negli ultimi anni hanno esasperato centinaia di migliaia di londinesi. La missiva di inizio 2023 ai propri seguaci si intitola con l'eloquente " We quit ": usciamo di scena.

La rinuncia di Extinction Rebellion è eclatante, visto che le sue azioni radicali, per cui centinaia di membri sono stati arrestati negli anni, sono sempre state il fiore all'occhiello del movimento: metropolitane, strade, aeroporti, ponti di Londra occupati e bloccati da proteste senza preavviso; attivisti che si incollavano letteralmente ai cancelli dei ministeri e delle multinazionali dell'energia, o inondavano le loro facciate di vernice - come visto ieri anche al Senato a Roma - attirando così l'attenzione di media e pubblico.

Eppure, secondo i responsabili di Extinction Rebellion - struttura orizzontale, non c'è un vero e proprio capo - tutti gli sforzi del movimento sono serviti a poco o niente.

Perché «quasi nulla è cambiato», scrivono. «Nonostante il nostro attivismo, le emissioni nocive continuano a crescere e la Terra ha accelerato la sua corsa verso l'autodistruzione, a causa del sistema finanziario e dei politici che mettono i profitti davanti a tutto». […]

Mar.Ber. per “la Stampa” il 3 Gennaio 2023.

Come i tre dei cinque militanti che ieri hanno imbrattato la sede del Senato con vernice lavabile e sono stati arrestati, anche lui ha subito lo stesso trattamento per aver preso di mira edifici dell'Eni. «Ho avuto un processo per direttissima. Il pm chiese per me l'obbligo di firma tre volte al giorno, ma ho avuto modo di parlare per 12 minuti, davvero un onore la concessione del giudice. Per 12 minuti ho parlato con dati precisi di quanta gente sta morendo e di quanta ne morirà secondo le previsioni attuali. E il giudice ha deciso che potevo andare a casa».

Quindi è finita?

«No, ci sarà il processo e credo che patteggerò per una diminuzione della pena. Non è la prima volta che prendiamo di mira i palazzi del potere».

 Ma il Senato è un'altra cosa. Non correte il rischio di creare rigetto per la vostra battaglia nell'opinione pubblica?

«Conosce uno studio di sociologia che lo dimostra? Io conosco studi che dimostrano il contrario. Oggi su Twitter l'espressione "climate change" è tra le prime tre più cercate.

Non era mai successo in Italia. I motori di ricerca confermano quanto stia aumentando la ricerca sul cambiamento climatico.

 E l'altra cosa che sta aumentando è il numero di cittadini che sono preoccupati per la crisi climatica. Un recente sondaggio dice che oltre i 90% delle persone vorrebbe maggiori investimenti nelle rinnovabili. Il nostro obiettivo è far diventare una priorità le nostre richieste».

 Cosa chiedete?

«No gas e no carbone. Nell'Adriatico ce ne è pochissimo, se anche facciamo cento pozzi risolviamo il problema del nostro fabbisogno, forse, per un anno. Bisogna attivare il solare e l'eolico. Il governo si è impegnato ad attivare nove centrali nei prossimi mesi, datecene altre dieci e ci fermiamo immediatamente».

Il vostro gruppo è formato da ragazzi molto giovani?

«Ci sono anche anziani e persone in pensione».

 Avete intenzione di diventare un partito politico?

«Ultima generazione no. Se qualcuno vorrà farlo come un progetto autonomo potrà essere una buona idea, ma è troppo presto: ora l'obiettivo è mettere al centro l'ambiente e avere risposte concrete dalla politica. I movimenti ambientalisti crescono ovunque in Europa e credo che in parte dipenda anche dalle azioni di protesta. Noi siamo disperati».

Perché?

«L'Onu ha messo nero su bianco che un quarto dei bambini del pianeta sarà a rischio per le risorse idriche. E questo vuol dire che, da qui al 2040, un quarto dei bambini potrà morire di sete. E voi giornalisti dovreste ribellarvi perché anche per colpa vostra la gente morirà di fame e di sete.

 I suoi figli e i suoi nipoti creperanno di sete perché l'Italia sarà desertificata per più di un quinto entro 25 anni. Non ci sono scuse. Può scrivere questo nell'articolo? Non basta dire sono contrario al fossile bisogna impegnarsi sul serio. Coprite solo l'1,5 % delle notizie, secondo i dati Greenpeace».

Siete non violenti? Le vostre azioni lo sono?

«Noi abbiamo due chiari limiti: uno è che non faremo mai male fisicamente a nessuno, due non offenderemo mai nessuno. Le vernici sono lavabili. Poi qualcuno scrive che facciamo azioni terroristiche».

 Quello di ieri è stato un attacco alle istituzioni?

«Sì, abbiamo imbrattato la facciata del Senato con vernice lavabile. E abbiamo raggiunto almeno l'obiettivo che si parli della drammatica crisi ambientale in atto. La politica deve dare risposte ai cittadini preoccupati per quello che sarà il più grande genocidio della storia umana».

Avete una rete di avvocati?

«Sì. E negli ultimi mesi diversi avvocati si sono fatti avanti dicendo di condividere le nostre battaglie e volerci difendere. Sta crescendo intorno a noi un consenso passivo, gli intellettuali stanno cominciando a dare segnali di attenzione».

Ma cosa vogliono quelli di Ultima Generazione e perché imbrattano il Senato. «La vernice è il dito, il collasso eco-climatico è la luna. E tutti si concentrano sul dito. Abbiamo chiesto di parlare con le istituzioni, senza successo». Dialogo con gli attivisti protagonisti dell’ennesima azione dimostrativa. Simone Alliva su L’Espresso il 2 Gennaio 2023

«Le verniciate sui palazzi e sui vetri delle opere dei musei sono il dito che indica la luna. Il collasso eco-climatico è la luna. Ma la politica sceglie il dito che la indica». Ecco, questo in sintesi. Tommaso ha 29 anni, fa parte del collettivo di attivisti di Ultima generazione che qualche mese fa avevano ricoperto di vernice la teca dove è contenuto "Il seminatore" di Vincent Van Gogh in mostra temporanea a Roma.

Questa mattina hanno colpito con un getto di vernice arancione la facciata principale di Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica. Tutti e cinque gli autori del gesto sono stati fermati, identificati, trasferiti negli uffici della Questura e denunciati. Poco importa, dicono: il tempo per fermare il collasso eco-climatico è scaduto – o meglio manca poco - è l'inerzia di fine corsa. «Questo gesto indica la disperazione che deriva dal susseguirsi di statistiche e dati sempre più allarmanti sul collasso eco-climatico, ormai già iniziato, e il disinteresse del mondo politico di fronte a quello che si prospetta come il più grande genocidio della storia dell'umanità - spiega Laura, una delle protagoniste dell'azione - sono i governi e le istituzioni ad avere il potere decisionale per avviare una transizione energetica effettiva, per modificare e regolare le produzioni di energia e di beni e il sistema dei trasporti, per arginare concretamente le cause della crisi climatica».

Vernice contro il Senato: il blitz degli attivisti di Ultima generazione

«Dopo tanti mesi in cui gli automobilisti ci dicevano andate davanti ai Palazzi del potere, lo abbiamo fatto - racconta a L’Espresso Tommaso, portavoce di Ultima Generazione - Guardiamoci intorno, è primavera e siamo a gennaio. C’è qualcosa di profondamente sbagliato. Le conseguenze sono reali. Sono un operaio agricolo. Mi occupo di alberi di ulivo. Quest’anno i problemi del raccolto sono stati importanti, così come lo scorso anno. Vale per gli alberi da frutta e non solo. A catena la siccità provoca problemi spaventosi. In Francia spegnevano le centrali nucleari quest’estate perché non potevano raffreddarle. È un problema di sicurezza pubblica. Ma quando puntiamo il dito, guardano la vernice sotto l’unghia invece della luna».

Il mondo si sgretola, arde e si prosciuga. Lo scorso anno gli eventi meteo-idrogeologici sono aumentati del 55 per cento rispetto al 2021: 310 fenomeni meteorologici che hanno provocato danni e 29 morti. «Tutti abbiamo davanti agli occhi le drammatiche immagini della Marmolada, delle Marche e di Ischia». Le soluzioni ci sarebbero, bisognerebbe metterle in agenda: attuarle prima che sia troppo tardi. Le richieste di Ultima Generazione: interrompere immediatamente la riapertura delle centrali a carbone dismesse e cancellare il progetto di nuove trivellazioni per la ricerca ed estrazione di gas naturale; procedere a un incremento di energia solare ed eolica di almeno 20GW immediatamente e creare migliaia di nuovi posti di lavoro nell’energia rinnovabile, aiutando gli operai dell'industria fossile a trovare impiego in mansioni più sostenibili. Tutte politiche concrete e applicabili che non fermeranno i cambiamenti climatici, ma potrebbero limitarne gli effetti.

Per Ultima Generazione la politica ha deciso anche oggi di voltare le spalle alla sopravvivenza del pianeta. «Prendono le nostre azioni e le riempiono del loro vuoto. Le guardano in obliquo. Non ascoltano. Abbiamo chiesto un’infinità di incontri con le forze politiche. Questo autunno il nostro Alessandro ha fatto 26 giorni di sciopero della fame di fronte al Parlamento, soltanto per discuterne. Nessuno, a parte una parlamentare dei Verdi, è sceso per chiedere ma “perché non mangi da 26 giorni?”. Non c’è stata disponibilità all’ascolto e al dialogo. Il nostro gesto oggi smaschera un certo grado di ipocrisia della politica. Siamo costretti a fare quello che abbiamo fatto oggi, per decenni la politica non è stata in grado di fare nulla. Attaccano noi ma sono loro la vergogna delle istituzioni».

Arresti e processi: lo stato prova a fermare gli attivisti del clima. DAVIDE MARIA DE LUCA E LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 03 gennaio 2023

Arresti in flagranza, processi per direttissima, sorveglianza speciale e la possibilità di ricevere di anni di carcere: sono alcuni dei rischi che corrono gli attivisti per il clima.

Tre ragazzi che hanno partecipato all’azione in Senato sono stati arrestati in flagranza e già processati per direttissima. Dopo la prima udienza che ha convalidato l'arresto sono in libertà in attesa della prossima a maggio.

In tutta Italia magistratura e polizia hanno usato la mano pesante con gli attivisti, che ora rischiano multe da migliaia di euro, anni di carcare e di sorveglianza speciale.

Arresti in flagranza, processi per direttissima, sorveglianza speciale e la possibilità di ricevere di anni di carcere: sono alcuni dei rischi che corrono gli attivisti per il clima su cui in questi giorni si sta abbattendo la mano pesante della repressione statale. 

IL BLITZ AL SENATO

Si parte con i tre attivisti del movimento Ultima generazione, Davide Nensi, Alessandro Sulis e Laura Paracini, che lunedì hanno gettato vernice arancione contro la facciata del Senato. Arrestati in flagranza mentre attendevano l’arrivo della polizia, sono stati processati per direttissima martedì mattina e rimessi in libertà. Il tribunale ha convalidato l’arresto e il procedimento dei tre, accusati di danneggiamento aggravato, proseguirà il prossimo 12 maggio. Per ora non è stata prevista nessuna misura cautelare nei loro confronti.

Il gesto, che non ha prodotto danni permanenti alla facciata dell’edificio, ha ricevuto la condanna unanime da parte di tutte le forze politiche. «Sono vicina al presidente del Senato e a tutti i senatori e condanno il gesto oltraggioso, incompatibile con qualsiasi civile protesta», ha fatto sapere ieri la presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha annunciato che la sua camera si costituirà parte civile nel processo contro i tre ragazzi. Il Movimento 5 stelle è stata l’unica forza politica a dichiararsi contraria alla decisione.

ALTRI FERMI

Per esprimere solidarietà agli attivisti arrestati, Ultima generazione aveva organizzato un presidio a piazzale Clodio, di fronte al tribunale di Roma, poi annullato. Gli ecologisti hanno fatto sapere di aver scelto di annullare l’evento dopo che uno di loro, Simone Ficicchia, già in attesa di un’udienza per l’imposizione della sorveglianza speciale fissata per il prossimo 10 gennaio, è stato fermato dalla polizia mentre si dirigeva a Saxa Rubra per partecipare alla trasmissione di Rai3 Agorà.

Durante la trasmissione, l’attivista che lo ha sostituito, Michele Giuli, ha spiegato la vicenda: «Non dovrei neanche essere qui. Doveva venire Simone Ficicchia, un altro ragazzo che sta venendo posto, probabilmente, sotto sorveglianza speciale, che è una misura che andrebbe applicata ai mafiosi e ai terroristi. Stamattina è stato portato via dall’hotel in cui stava dormendo perché doveva venire qua, in questo studio». Agorà ha anche mostrato l’immagine di Ficicchia che veniva portato via di peso da tre agenti della polizia.

In un video, gli ambientalisti spiegano che la protesta al Senato «è stata, come sempre, pacifica e non violenta, non avrebbe mai potuto né voluto portare il minimo danno alle persone. Il semplice imbrattamento è considerato punibile dal codice penale con un reato specifico».

LE ACCUSE

Per Ultima generazione, i dettami della legge sono stati disattesi: «Nonostante la previsione di legge e nonostante gli attivisti siano rimasti sul posto in attesa dell’intervento delle forze dell’ordine, nel pieno rispetto dei principi della non violenza, sono stati trattenuti e verranno processati per direttissima con l’accusa ben più grave di reato di danneggiamento».

L’accusa, in ogni caso, secondo Ultima generazione è fuorviante. «Il reato di danneggiamento, oltre a non essere stato commesso, trattandosi di semplice imbrattamento, comunque non prevede l’arresto in flagranza, ma la semplice denuncia a piede libero. Siamo quindi di fronte all’ennesimo abuso, a un’azione volta a intimorire e criminalizzare chi sta cercando di portando l’attenzione sul vero crimine che questo governo sta commettendo».

Gli attivisti rischiano multe da migliaia di euro e condanne alla reclusione che possono arrivare anche a cinque anni. Non è l’unico caso in cui magistratura e forze di polizia hanno adottato metodi duri contro gli attivisti climatici. Tre membri di Ultima generazione che avevano imbrattato la sede dell’Eni store di Roma sono in attesa della prima udienza del processo con l’accusa di violenza privata, danneggiamento e possesso di armi. Due attiviste che avevano lanciato della zuppa contro la copertura in vetro di un quadro di Van Gogh rischiano una condanna fino a cinque anni di carcere. Sei attivisti che avevano bloccato il ponte della Libertà a Venezia sono già stati condannati a pagare una multa da 1.333 euro e sono in attesa di processo. Anche loro, per via dell’inasprimento delle pene previsto dai decreti Sicurezza, rischiano anni di carcere.

Gretini.

Michel Dessì il 6 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ecco chi difende gli eco-vandali in Parlamento

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Settimana movimentata tra i palazzi della politica, e non perché i deputati siano alacremente al lavoro. No, loro sono ancora in vacanza. Tanto è vero che tra i banchi dell’opposizione non si è visto nessuno durante la discussione sul “milleproroghe”, un provvedimento importante, dove si possono inserire norme rimaste fuori dalla finanziaria. Mica male. Eppure, non si è visto nessuno. Forse troppo occupati sulle piste da sci di Cortina. Ah, beati loro.

A movimentare i palazzi e a far lavorare i poveri colleghi giornalisti ci hanno pensato gli attivisti del clima. Si, i gretini che, muniti di estintore caricato a vernice arancione, hanno imbrattato tutta la facciata di Palazzo Madama. Del Senato della Repubblica per intenderci. Qualcuno di voi dirà: “Ma che sarà mai, una bravata”. Eh no, quel Palazzo è il Palazzo di tutti noi, è la nostra casa. Il tempio della democrazia. Magari ci può stare antipatico chi lo abita ma non certo quello che rappresenta. Per ognuno di noi. Per ogni italiano.

E mentre tutti erano intenti a condannare (soprattutto a destra) il gesto qualcuno li ha giustificati. Chi? I grillini ovviamente. Come la deputata Patty L'Abbate, vicepresidente della commissione Ambiente e Infrastrutture della Camera che, sui social scrive: "Il gesto di questi ragazzi che hanno lanciato vernice sulla facciata del Senato non è giusto, ma non li state ascoltando! Dobbiamo ascoltarli!". Noi l’abbiamo contattata e si è detta disponibile. Peccato, però, che non appena le abbiamo chiesto conto (via sms) delle sue dichiarazioni è sparita. Non ha mai più risposto al telefono. Che coraggio eh, dei conigli.

Ma la grillina, purtroppo, non è la sola a difenderli. Anche tra le fila del Partito democratico qualcuno ha avuto l’ardire di schierarsi dalla parte degli eco-vandali. Uno su tutti Matteo Orfini che su Twitter ha scritto: "Su questa storia della vernice (lavabile) tirata sul Senato mi pare si stia esagerando. Tre arresti e dichiarazioni che nemmeno di fronte ad atti terroristici". E ancora: "Le istituzioni, quando sono forti, rispondono col dialogo anche alle provocazioni e alle proteste più dure". "Le responsabilità di chi guarda passivamente all'evolversi dei mutamenti climatici sono note. Delle destre nel mondo. Atti di disubbidienza civile non devono pregiudicare le giuste battaglie. Ascoltare i giovani è però un dovere morale e civile", gli fa eco, sempre su Twitter, Stefano Vaccari, deputato del Pd.

Insomma, per alcuni democratici è giusto colpire uno dei simboli più importanti della nostra democrazia. Ma volete arrabbiarvi? I tre gretini arrestati sono stati subito rilasciati. Pronti a colpire ancora.

Senato imbrattato, la sinistra trasforma gli ecoimbecilli in eroi. Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano il 06 gennaio 2023

Non si può certo dire che la sinistra non sia coerente. Siccome è da sempre intollerante nei confronti degli avversari politici che provvede a demonizzare elevandoli al rango di potenziali ergastolani ma a dir poco giustificazionista con la feccia rappresentata da vandali, black bloc, violenti dei centri sociali o scalmanati amanti dei rave, ha scelto di schierarsi in favore degli attivisti di Ultima generazione che lunedì hanno imbrattato il Senato con vernice rossa. Già il giorno dopo, i tre salvatori del pianeta Davide Nensi, Alessandro Sulis e Laura Paracini, erano stati scarcerati dal giudice per le direttissime del tribunale di Roma dopo la convalida dell'arresto in vista del processo stato fissato per il 12 maggio. Giusto il tempo per farli diventare degli eroi. Illoro "istinto creativo" è stato premiato da politici, giornalisti e pseudo-intellettuali che non vogliono perdere il supporto dei prodotti scemi del gretinismo (anche perché votano). La vicedirettrice della Stampa, Annalisa Cuzzocrea, ad esempio li difenisce in prima pagina «ecoguerrieri che lo Stato vuole in carcere», attirandosi molto sfottò in Rete. Tra i minimizzatori c'è anche il dem Matteo Orfini, che ha ricordato che i poveri attivisti abbiano avuto la decenza di utilizzare vernice lavabile. Lavabile da chi? Non certo da loro. E lavabile con cosa? Con la stessa acqua che già viene sprecata per mancanza di infrastrutture decenti alla faccia di chi vive nella siccità perenne.

DIFESA IMBARAZZANTE

Ancor più deciso Stefano Feltri, direttore di Domani: «Hanno ragione loro, quelli di Ultima generazione che hanno sporcato di vernice il Senato per chiedere meno energie fossili e più rinnovabili. Sotto sotto lo sanno anche quelli che si indignano. Lo sanno ma non lo possono ammettere». Quello che possono ammettere di sicuro è che Feltri sia a corto di idee. L'ex firma del Fatto ha infatti la stessa linea del foglio di Travaglio, che con una serie di approfondimenti riservati agli abbonati non solo difende gli attivisti ma accusa il "sistema" di trattarli «come i brigatisti» visto che il Tg1 ha scelto di non mostrare il video del loro rivoluzionario blitz vandalico al Senato per evitare il rischio emulazione: «All'epoca anche i comunicati delle Br "oscurati" dai tg pubblici», si legge.

BRAVI RAGAZZI

Almeno dai romani ci si sarebbe dovuta aspettare una critica unanime, e invece no. Persino dall'assemblea capitolina è arrivata una voce di sostegno e solidarietà agli ordo-ambientalisti: quella di Michela Cicculli, consigliere di Sinistra Civica Ecologista. Anche perché i supereroi in questione sono gli stessi che bloccano il Raccordo e imbrattano le sedi di partito in giro perla Capitale creando disagi a tutti. Ma Cicculli, ex assessore dell'VIII municipio e con l'elezione in aula Giulio Cesare diventata anche presidente della commissione pari opportunità, ha scelto di parlare da mamma chioccia: «Sono ragazzi che reclamano un futuro con gesti di protesta dimostrativi e non violenti e devono trovare ascolto». Condanna il gesto ma non le ragioni pure l'ex senatrice Pd Monica Cirinnà, una che, va ricordato, non è stata rieletta alle ultime politiche del 25 settembre perché candidata dai dem in un collegio «non in linea con le sue battaglie politiche». Quelle, cioè, lontanissime dai problemi reali dei cittadini esattamente come la difesa degli imbrattatori: «Le ragioni della disobbedienza civile di Ultima Generazione sono tutte condivisibili», ha commentato in un tweet, aggiungendo che se facesse ancora parte di Palazzo Madama avrebbe chiesto subito che l'associazione fosse ricevuta. Proprio il motivo per cui nonne fa più parte.

Elisabetta Pagani per lastampa.it il 5 gennaio 2023.

«Apri la tua bocca in favore del muto». Cita una frase del libro dei Proverbi contenuto nella Bibbia, Erri De Luca, per esprimere quello che sente essere il suo «compito civile». Scrittore, poeta e traduttore, per De Luca l’impegno politico e civile è da sempre centrale, dalla militanza in Lotta continua negli Anni Settanta alla battaglia contro la Tav, nell’ambito della quale è stato processato e assolto per le sue dichiarazioni a sostegno del sabotaggio dell’opera. 

Su vari fronti, dice, «oggi i muti sono quelli che gridano le loro ragioni» senza essere ascoltati. Dei blitz contro i palazzi del potere e contro l’arte che gruppi ambientalisti ripetono in questi mesi, e giorni, lo scrittore condivide «gli argomenti e la necessità di promuoverli».

 Dai quadri di Leonardo e Van Gogh, protetti dal vetro, imbrattati fino alla vernice lavabile lanciata su Palazzo Madama, la protesta ambientalista ha alzato il tiro. Manifestare in piazza non basta?

«Definirle forme di protesta è per me riduttivo. Sono ordini del giorno che riguardano la vita del mondo che ci ospita e l’epoca presente. Le manifestazioni in piazza sono forme consumate di testimonianza politica. Servono gesti espliciti, comunicativi e innocui. Ne stiamo discutendo perché riescono a richiamare l’attenzione della cronaca».

 Il bene di una causa giustifica qualsiasi forma di protesta, anche violenta, o ci sono limiti da non valicare?

«Non qualsiasi, ma quella adatta e calibrata. Sono stato incriminato e assolto dal reato di istigazione. Quella causa, la lotta della Val di Susa, andava difesa in quel modo. Oggi su queste forme di lotta politica di Ultima Generazione mi limito a constatare che sono ragionevoli e misurate sulla sensibilità attuale così attenta alle superfici. Schizzarle di vernice lavabile suona scandaloso alle epidermidi di chi non fa niente di niente per ridurre i danni ambientali».

La politica ha condannato il blitz al Senato e il vicepremier Salvini dice che «i vandali che lo hanno imbrattato rischiano una pena da 1 a 5 anni». Questi gesti ottengono l’obiettivo di risvegliare le coscienze sul tema climatico o sono controproducenti nell’opinione pubblica?

«I vandali fanno leggi che ostacolano i salvataggi di chi sta affogando in mare. C’è un vandalismo in corso sui rincari delle bollette energetiche. Invocare manette è una forma di impotenza. Ma gioca a favore delle ragioni dei gesti simbolici».

 «Gli intellettuali cominciano a dare segnali di attenzione», ha detto un attivista di Ultima Generazione. È così?

«Gli intellettuali andrebbero identificati, si tratta di singole persone e non di una categoria. Non sono ottimista guardando in giro. Ma gli italiani sono imprevedibili. Si sono astenuti in massa alle politiche di settembre, sta a vedere che sta covando uno schieramento ambientalista che farà saltare il banco del Casinò politico».

«Per me, da scrittore e da cittadino, la parola contraria è un dovere prima di essere un diritto» ha scritto in La parola contraria (Feltrinelli), uscito poco prima del processo Tav. Che ruolo hanno o devono avere gli intellettuali nelle proteste del nostro tempo? E cosa sente di dover fare lei?

«Uno scrittore ha l’ambito della parola e allora il suo compito è difenderla dalle contraffazioni, dalle falsificazioni di chi per esempio dice che gli emigranti sono invasori. Un verso del libro dei Proverbi ordina: “Apri la tua bocca per il muto”. Oggi i muti sono quelli che gridano le loro ragioni e nessuno li ascolta. Il mio compito civile è di amplificare il loro segnale, farmi strumento della circolazione delle loro parole, a Taranto per esempio dove una città subisce intossicazione volontaria e continuata. E poi c’è una guerra dentro questo piccolo continente europeo.

Allora con un furgone e un amico faccio viaggi di rifornimento di quanto ci viene richiesto da lì. Prima di Natale abbiamo portato due generatori a orfanotrofi che erano al buio. Non è un’attività che raccomando come linea di condotta. È solo quello che personalmente credo di dovere al mio tempo, alla fortuna di esistere».

 Paolo Cognetti, commentando il blitz al Senato, ha detto che «non riusciamo a vedere nella protesta un esercizio democratico: per noi la democrazia si esaurisce nell’urna. Invece prevede il diritto al dissenso e, per chi governa, il dovere di ascoltare».

«D’accordo con Cognetti, ma queste forme di pubblica testimonianza non le vedo rivolte alle autorità, che sono inerti, sorde, inattuali. Sono rivolte all’opinione pubblica degli italiani, servono a smuovere coscienze, non a contrattare una diminuzione di CO2».

 Lei è un amante della montagna, che effetto le fa vedere lì le conseguenze dei cambiamenti climatici?

«La montagna è un luogo dove la nostra pressione umana scarseggia, si dirada, resta in minoranza. È il posto che per ora sopporta meglio l’alterazione climatica. Ci vado per la sua bellezza e per dimenticare quello che lascio a valle».

 Pensa che i giovani stiano combattendo per i diritti e per il futuro?

«Sì, sono avanguardia di prossime generazioni che approfondiranno metodi e invenzioni per produrre economie di riparazione, stili di vita pubblica e privata».

In Iran i giovani che protestano mostrano un enorme coraggio, rischiando carcere e morte. Lasceranno un segno nelle nostre coscienze?

«Stanno lasciando testimonianza, stanno condannando all’infamia i teocrati loro aguzzini. Una generazione in Argentina negli Anni 80 fu sterminata dalla dittatura militare. Chiamata desaparecida, scomparsa, in verità ha fatto scomparire i suoi assassini. Succederà in Iran».

Pasquale Napolitano, Alberto Giannoni per “il Giornale” il 5 gennaio 2023.

Il Domani, giornale di Carlo De Benedetti, rottama Bonelli, Soumahoro e i Verdi italiani.

Da giorni, dopo il blitz di Capodanno del movimento Ultima generazione con cui è stata imbrattata la facciata d'ingresso del Senato, la testata diretta da Stefano Feltri «caldeggia», a suon di articoli ed editoriali, la nascita di un nuovo ambientalismo in Italia, che possa archiviare la stagione dell'ecologismo ideologico di Pecoraro Scanio, Grazia Francescato e dei vari Fratoianni. Il sogno è un partito dei Verdi con Chiara Ferragni al timone. La realtà è un po' più triste. Il salto di qualità si è celebrato ieri del giornale di De Benedetti in un commento a firma di Gianfranco Pellegrino: eccola la chiamata alle armi.

«La disobbedienza (imbrattare le mura di Palazzo Madama) non basta più», scrive Pellegrino nel suo commento. Il passo successivo (e decisivo) deve essere l'ingresso nelle Istituzioni attraverso la strutturazione di un vero e proprio partito politico. Parole che mandano in pensione i Verdi di Bonelli, già spazzati via dallo scandalo delle cooperative di Soumahoro.

 Per De Benedetti, che si candida ufficialmente a essere la tessera numero uno, i tempi per la nascita di un «nuovo» partito ambientalista ed ecologista in Italia, sono maturi. Il modello a cui si guarda è quello tedesco. Un partito ambientalista liberal, sganciato da vincoli ideologici che possa dialogare sia con la sinistra che con la destra. Per la leadership servirebbe una figura come Chiara Ferragni, molto quotata suoi social. Ci sarà tempo per individuarla.

Intanto l'intelligentia di sinistra «molla» Bonelli e il suo partitino ambientalista. La spedizione degli attivisti di Ultima Generazione contro la facciata del Senato è stato il punto di rottura. Ora però serve creare le condizioni per liquidare Bonelli e dare la spinta al nuovo partito ecologista. Il Pd fiuta i movimenti in corso e cerca di

non restarne escluso: «Detto che imbrattare l'ingresso delSenato è un atto sbagliato destinato a ottenere un effetto esattamente opposto a quello cercato, io penso che i ragazzi di Ultima Generazione sarebbe giusto incontrarli, ascoltarli,

parlarci.

 E penso che dovremmo farlo noi» - commenta Gianni Cuperlo deputato del

Partito democratico e candidato a guida della segreteria Pd. E anche il M5S cerca di stare sul pezzo: «Si può essere d'accordo o meno con i metodi usati Ultima Generazione. Si possono anche considerare criticabili, dannosi e controproducenti. Ma la democrazia, che tanto amiamo, ammette il dissenso non violento.

 E la politica, piuttosto che alzare le barricate, dovrebbe ascoltarne le ragioni e accoglierne le istanze. Gli attivisti e le attiviste di Ultima Generazione sollevano una questione fondamentale, la catastrofe climatica, completamente estromessa dall'agenda di Governo.

Lo fanno attraverso atti simbolici, non attentati terroristici, che per qualche giorno portano il tema del clima sulle prime pagine dei giornali. Eppure noto più indignazione e alzate di scudi per alcuni ventenni che imbrattano di vernice lavabile un muro di quante ce ne siano nei confronti di evasori, corruttori e mafiosi. Come al solito, forti con i deboli» - ribadisce la deputata grillina Stefania Ascari. 

Intanto Palazzo Madama è stato ripulito a tempo di record. Mentre il 10 gennaio è in programma un nuovo blitz del movimento Ultima Generazione davanti l’ingresso del Tribunale di Milano per protestare contro le decisioni assunte dai giudici nei confronti del militante Simone Ficicchia, sottoposto alla sorveglianza speciale dopo l’azione dimostrativa

L’armata di sinistra che difende gli ecovandali: da Capanna a Berizzi, da Orfini a Stefano Feltri. Redazione su Il Secolo d’Italia il 3 Gennaio 2023. 

Perdonismo e buonismo a valanga per gli attivisti di Ultima generazione che hanno imbrattato il Senato con vernice rossa. Era lavabile, dice il dem Matteo Orfini, non esageriamo. Arrestarli addirittura! Poi c’è Paolo Berizzi, che gronda disagio da quando la destra ha vinto le elezioni. E che tira le somme: insomma ci sono i vandali ma i fascisti sono peggio: tenete a mente la lezione. Ecco il suo tweet giustificazionista: “Quelli che si indignano per i muri del Senato sporcati di vernice lavabile sono gli stessi che non riconoscevano la matrice della devastazione alla sede della Cgil guidata da chi in Senato è stato pure ricevuto. Tanto del clima ce ne freghiamo, giusto?”. Un po’ contorto, sì, ma sempre ascrivibile al filone perdonista.

E poteva mancare Mario Capanna? Certo che no. Eccolo dunque spiegare all’Adnkronos che “si può discutere sulle forme ma non hanno rotto i vetri di Palazzo Madama, se avessero colpito un lampione non ne avrebbe parlato nessuno”.  “Bisogna guardare qual è il loro obiettivo – aggiunge –  perché fanno queste manifestazioni come imbrattare opere d’arte o edifici come il Senato. Loro sostengono sia fondamentale lottare per bloccare i mutamenti climatici – per i quali praticamente non viene fatto nulla se non chiacchiere, con le centrali a carbone riaperte in seguito alla crisi energetica – e realizzare quanto prima e nel modo più ampio possibile le energie alternative. L’obiettivo è quindi indubbiamente giusto, tutti i meccanismi mediatici e di potere inducono le persone a non pensare ai mutamenti climatici. Dopo di che si può discutere sulle forme… ma non hanno rotto i vetri del Senato, divelto porte, hanno semplicemente lanciato della vernice per richiamare l’attenzione”.

Poi c’è Stefano Feltri, direttore di “Domani“, alla disperata ricerca di una qualche categoria da rappresentare col suo non brillante quotidiano. Hai visto mai che gli estremisti verdi se lo comprano? Così ecco la difesa a spada tratta di quelli che Il Giornale ha ribattezzato “ecocretini”. “Hanno ragione loro, quelli di Ultima generazione che hanno sporcato di vernice il Senato per chiedere meno energie fossili e più rinnovabili – scrive Stefano Feltri – sotto sotto lo sanno anche quelli che si indignano. Lo sanno ma non lo possono ammettere”.

Il giudice libera gli ambientalisti che hanno assaltato il Senato. I tre attivisti di Ultima generazione sono accusati di danneggiamento aggravato, il giudice ha rimandato l’udienza al prossimo 12 maggio. Il pubblico ministero aveva chiesto l'obbligo di dimora. Massimo Balsamo il 3 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Convalidati gli arresti dei tre ambientalisti di Ultima generazione che hanno compiuto martedì il blitz a Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica. Accusati di danneggiamento aggravato, Davide Nensi, Alessandro Sulis e Laura Paracini sono stati rimessi in libertà. Il giudice monocratico di Roma ha rimandato l’udienza al prossimo 12 maggio. Non è stata dunque accolta la richiesta del pubblico ministero, che aveva chiesto l’obbligo di dimora per tutti e tre i giovani coinvolti.

Gli ambientalisti tornano liberi

Nel corso dell’udienza di convalida di mercoledì mattina, i tre ambientalisti hanno ammesso i fatti rivendicandoli come un’azione dimostrativa. “Dopo aver visto il disastro della Marmolada ho paura per il nostro futuro”, la motivazione dell’eco-vandalo: “Ho aderito a Ultima Generazione perché propone un cambiamento, in particolare di fermare le emissioni di gas e puntare sulle energie rinnovabili”. Difesi dall’avvocato Ilaria Salamandra, i tre torneranno in aula tra quattro mesi e potranno valutare se ricorrere al rito ordinario o chiedere riti alternativi.

Adnkronos ricorda che i giovani coinvolti erano già stati denunciati: tutti e tre avevano partecipato ai blocchi stradali sul Grande Raccordo Anulare. Laura Paracini, inoltre, aveva preso anche parte al blitz contro il quadro di Vincent van Gogh esposto a Palazzo Bonaparte. Nonostante ciò, il giudice ha ritenuto opportuno rimettere in libertà, senza accogliere le richieste del pubblico ministero: niente misure cautelari personali e coercitive, neppure l’obbligo di dimora, previsto nei confronti degli imputati in attesa di giudizio quando c’è il rischio che possano scappare, inquinare le prove o commettere altri reati.

Ecocretini. "È un atto criminale"

Una decisione clemente nei confronti degli attivisti per l’ambiente, guidata come sempre dai principi di adeguatezza, proporzionalità e gradualità. Evidentemente, per il giudice non c’è il rischio di reiterazione del reato – nonostante non sia il primo atto vandalico firmato dai tre arrestati, anzi, il curriculum è piuttosto notevole nonostante la giovane età – oppure il rischio di fuga. Ciò che è certo è che il dibattito è destinato a riaprirsi a stretto giro di posta, considerando che i movimento radicali hanno intenzione di continuare a operare attraverso gesti plateali. “Noi continueremo”, è la promessa di Ultima generazione, che può contare sul sostegno e sulla difesa anche di parte della politica, Pd e M5s in testa.

Il Senato si costituirà parte civile

Nel corso della riunione del Consiglio di Presidenza, il presidente Ignazio La Russa ha reso noto che il Senato si costituirà parte civile nel procedimento contro i tre ambientalisti. La conferma è arrivata direttamente da dall’azzurro Maurizio Gasparri, vicepresidente di Palazzo Madama: “Spiace che, pur condannando tutti quanto accaduto, una forza politica non si è detta d'accordo con la proposta del presidente. Forse sono più interessati agli alberghi di Cortina...”, la stoccata nei confronti del leader grillino Giuseppe Conte.

"Un atto criminale da sanzionare: nessuna attenuante". Il sottosegretario all'interno Nicola Molteni: "Occorre la certezza della pena, chi sbaglia paga". Fabrizio De Feo su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

Chi commette questi gesti non ama affatto l'ambiente: è soltanto un incivile A Milano Nessun alibi per chi ha dato alle fiamme il manichino di un poliziotto Gesto indegno L'oltraggio alle istituzioni da parte degli ecoattivisti di Ultima Generazione che hanno imbrattato con la vernice la facciata di Palazzo Madama suscita rabbia e indignazione nel mondo politico e non solo. Una azione di «protesta» dalle modalità estremamente discutibili, se non del tutto incomprensibili, che ha già fatto scattare la reazione del Viminale con il possibile aumento del dispositivo di sicurezza attorno ai palazzi del potere romano, come racconta il sottosegretario all'Interno, Nicola Molteni.

Sottosegretario Molteni, cosa pensa dell'atto vandalico ai danni del Senato?

«Si tratta di uno sfregio alle istituzioni becero e inaccettabile. Nessuna motivazione ambientalista o ecologista ma puramente ideologica e di vandalismo. Siamo di fronte a un atto criminale che va sanzionato senza se e senza ma».

Si può definire «protesta» una azione di questo tipo? Esistono delle attenuanti o bisogna agire con la massima severità?

«Nessuna attenuante, nessuna giustificazione, nessun alibi. Così come nessuna attenuante per chi a Milano ha dato alle fiamme il manichino di un poliziotto. Si tratta di un gesto indegno verso una istituzione orgoglio del Paese: la Polizia di Stato. In entrambi i casi si impone solo la condanna del gesto che spero sia unanime. Mi auguro che non ci siano le solite frange ideologiche che anche solo indirettamente legittimano gesti che denotano inciviltà».

I responsabili di questa azione di vandalismo che ha colpito il Senato pagheranno per le conseguenze del loro gesto? È necessario inasprire le sanzioni?

«Chi imbratta, deturpa e danneggia monumenti, opere d'arte, musei o dà alle fiamme manichini di poliziotti deve pagare, è il minimo, l'impunità sarebbe un messaggio sbagliato e inaccettabile. Ma soprattutto devono ripristinare e ripagare quanto danneggiato. Serve la certezza della pena, chi sbaglia paga e paga tutto».

L'area del Senato finora non è stata soggetta a limitazioni, come al contrario avviene per quella attorno alla Camera. Anche se si tratta di misure che inevitabilmente finiscono per penalizzare anche i comuni cittadini è ipotizzabile una chiusura o una recinzione dell'area?

«Il Presidente del Senato ha convocato per domani (oggi per chi legge, ndr) un consiglio di presidenza e si adotteranno le misure idonee. Nel frattempo il Viminale ha rafforzato la vigilanza sia al Senato che nella stazione Termini di Roma. Due fatti gravissimi rispetto ai quali i dispositivi di sicurezza sono stati immediatamente potenziati. Un ringraziamento a Carabinieri e Polizia di Stato per l'immediato intervento contro il blitz al Senato».

Chi deturpa monumenti e beni culturali può davvero definirsi ambientalista?

«No, bisogna dirlo con chiarezza, chi commette questi gesti non è un ambientalista ma un incivile. Sia ben chiaro, nessuno di loro possiede il monopolio della tutela ambientale. Il contrasto ai cambiamenti climatici non si fa con la violenza o con la vernice, al contrario si tratta di gesti che delegittimano invece ogni loro istanza».

Offendiamoci tutti. Dallo "strumento sbagliato" alla "politica che deve prestare ascolto", in una certa sinistra l'assalto ambientalista a Palazzo Madama suscita a malapena un bonario rimbrotto. Gabriele Barberis su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

Dallo «strumento sbagliato» alla «politica che deve prestare ascolto», in una certa sinistra l'assalto ambientalista a Palazzo Madama suscita a malapena un bonario rimbrotto. Le dichiarazioni esprimono più imbarazzo che indignazione, più rammarico che rabbia. La vernice non ha mai ferito nessuno, ma sarebbe troppo assolutorio liquidare l'attacco al Senato come una bravata di «sciocchi irrispettosi» che rischiano di danneggiare la credibilità delle battaglie ecologiste.

Già in tutto il mondo sono state accolte con un misto di ironia e divertimento le imbrattature di opere d'arte nei grandi musei come forma di protesta creativa contro il degrado del clima. Arriva però anche il momento della fermezza quando queste performance mediatiche oltrepassano il confine del teppismo a bassa intensità. Non si passa per reazionari se si inquadrano questi episodi come frutto di una cretineria di tendenza, ammantata da battaglia sociale di valore elevato. Strana tutela dell'ambiente e della bellezza nazionale sporcare un palazzo storico del XV secolo e poi tacere su tante nefandezze, come le ottomila tonnellate di rifiuti tossici sotterrati sotto la strada regionale di Empoli nella Toscana rossa.

I fatti di Roma sono stati derubricati a un muro sporcato che in poche ore è stato ripristinato, quasi a cancellare con la rimozione della vernice anche il fatto stesso. Stupisce ancora una volta come la percezione dell'assalto sia differente a seconda dell'appartenenza politica, senza suscitare uno sdegno unanime. In molti casi è stata del tutto trascurata la valenza simbolica dell'offesa, portata al cuore della democrazia sotto forma della Camera Alta del Parlamento sovrano eletto a suffragio universale. La casa di tutti, l'epicentro della vita pubblica, non una caserma delle torture o un altro sinistro edificio di un regime dittatoriale. Non ci si può dividere quando per isterismo ecologista si decide di offendere l'intera Nazione.

Nell'opinione pubblica più indulgente, il blitz di Ultima Generazione viene giustificato con l'idealismo dei ragazzi che combattono per un mondo meno surriscaldato e più inclusivo. Ancora una volta, purtroppo, è la matrice politica dei dimostranti a creare una sorta di giustificazione, specialmente quando è riconducibile a un'ideologia progressista. Conoscendo le dinamiche del circuito mediatico di sinistra, diventa difficile immaginare condanne di circostanza se l'assalto al Senato della Repubblica fosse stato condotto da movimenti di estrema destra. Figurarsi i salotti radical chic che hanno evocato la marcia su Roma e il fascismo risorgente per la vittoria elettorale di Fratelli d'Italia...

Nel discorso di fine anno il presidente Mattarella ha elogiato l'Italia come «democrazia matura». Forse ci siamo, ma manca ancora qualcosina. Come sentirci tutti offesi allo stesso modo se qualche scellerato travestito da eroe si permette di vandalizzare Palazzo Madama.

La setta che vuole ritornare al Medioevo. I fanatici di Ultima Generazione dicono no a tutto, dal gas al nucleare. Francesco Giubilei su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

Il confine tra eco-ribelli ed eco-teppisti è labile e gli attivisti del movimento Ultima Generazione lo hanno superato da tempo. Dopo gli atti vandalici contro quadri e opere d'arte, il lancio di vernice verso il Teatro della Scala a Milano e i numerosi blocchi stradali, ieri mattina gli pseudo ambientalisti hanno imbrattato la facciata del Senato della Repubblica con della vernice rossa. Un gesto molto grave tanto sul piano materiale quanto su quello simbolico. Da un punto di vista materiale perché hanno deturpato un palazzo con un importante valore storico e culturale (Palazzo Madama è stato costruito nel XV secolo), da quello simbolico perché hanno colpito un luogo che rappresenta le istituzioni superando un limite che non andrebbe mai varcato.

I fautori di questi gesti si definiscono attivisti ma, a giudicare dalle loro azioni, sono fanatici che utilizzano l'ambiente come scusa per protestare. Alla base del loro operato c'è una grande contraddizione: come si può avere a cuore la natura se non si rispetta il prossimo e non si ha senso civico?

Le loro azioni si basano su toni apocalittici e la nota diffusa dopo aver imbrattato il Senato è su questa falsariga: «Alla base del gesto, la disperazione che deriva dal susseguirsi di statistiche e dati sempre più allarmanti sul collasso eco-climatico, ormai già iniziato, e il disinteresse del mondo politico di fronte a quello che si prospetta come il più grande genocidio della storia dell'umanità». Da qui la richiesta al governo italiano (definito «criminale» da uno dei ragazzi che ha partecipato al blitz) di «interrompere immediatamente la riapertura delle centrali a carbone dismesse e cancellare il progetto di nuove trivellazioni per la ricerca ed estrazione di gas naturale».

L'obiettivo di Ultima Generazione, come si legge dal loro sito, è tanto ambizioso quanto fallimentare nelle azioni con cui viene compiuto: «Fare qualcosa per determinare il futuro dell'umanità». Che il futuro dell'umanità passi dal blocco del Grande Raccordo Anulare è tutto da dimostrare, di sicuro però se i governi ascoltassero le loro richieste l'umanità piomberebbe in una condizione di povertà. Nel furore ideologico di Ultima Generazione non c'è spazio per proposte realistiche (salvo un generico aumento delle rinnovabili) ma solo per i no: no al gas, no al carbone, no al nucleare. Il movimento fa inoltre parte di una più ampia rete internazionale chiamata A22, «un network di campagne che usano la disobbedienza civile nonviolenta per chiedere ai rispettivi governi impegni concreti nel contrastare il collasso eco climatico a cui stiamo andando incontro».

Così come altre realtà che sostengono di «lottare per l'ambiente», anche Ultima Generazione ha un profilo ideologico ben definito testimoniato dal «linguaggio inclusivo» utilizzato per la loro comunicazione tra parole con l'asterisco al posto delle vocali finali e schwa.

Nonostante gli attivisti siano consapevoli che per i loro gesti «le conseguenze ci sono, e va bene così, le accettiamo», in realtà temono di incorrere nella legge come nel caso di un giovane che rischia la sorveglianza speciale per le sue azioni.

Il problema di fondo è che movimenti come Ultima Generazione da anni sono legittimati da una parte della politica che sposa una narrazione catastrofista sul clima facendo sentire questi ragazzi dei rivoluzionari senza comprendere che sono l'emblema del conformismo in un'epoca che non ama più la bellezza, disprezza le opere d'arte, i monumenti, la nostra storia e identità e confonde la lotta per l'ambiente con l'amore per la natura.

Assalto al Senato a colpi di vernice: arrestati 3 estremisti dell'ambientalismo. "Gesto oltraggioso". Tira una brutta aria per gli attivisti del clima. Ieri mattina, alle 7.45, cinque ragazzi di Ultima Generazione sono arrivati davanti alla sede del Senato, Palazzo Madama, imbrattandone la facciata con vernice color salmone. Massimo Malpica su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

Tira una brutta aria per gli attivisti del clima. Ieri mattina, alle 7.45, cinque ragazzi di Ultima Generazione sono arrivati davanti alla sede del Senato, Palazzo Madama, imbrattandone la facciata con vernice color salmone. I carabinieri hanno fermato quasi subito gli attivisti - tre sono stati arrestati, due denunciati - che come di consueto non hanno opposto resistenza, spiegando semmai a favore di telecamere i motivi del gesto di protesta ossia, per restare alla nota della stessa organizzazione di attivisti climatici, «la disperazione che deriva dal susseguirsi di statistiche e dati sempre più allarmanti sul collasso eco-climatico, ormai già iniziato, e il disinteresse del mondo politico di fronte a quello che si prospetta come il più grande genocidio della storia dell'umanità».

Non è la prima volta che Ultima Generazione entra in azione in Italia e a Roma. Un mese fa i suoi militanti avevano «colpito» con un'azione simile alla Scala di Milano, imbrattandone l'ingresso la mattina del giorno della «prima». Il 4 novembre, a Roma, avevano lanciato della zuppa di verdura sul Seminatore di Van Gogh esposto, e protetto da un vetro, a Palazzo Bonaparte. Nella capitale, come pure a Milano, Ultima Generazione ha anche spesso organizzato blocchi improvvisati del traffico, pure sul Grande raccordo anulare, stendendosi per terra e impedendo fisicamente alle auto di proseguire.

La nobiltà del movente, però, non attenua l'impatto dei gesti messi in scena dagli eco-attivisti. Che, per restare a ieri, si sono ritrovati soli contro tutti, con le forze politiche unite nel condannare l'attacco mattutino alla sede del Senato. Insomma, la visibilità c'è, ma non sembra che gli obiettivi degli attacchi militanti giochino a favore della causa ambientale. E le reazioni di ieri sembrano dimostrarlo. Tra i primi ad alzare la voce, il «padrone di casa», Ignazio La Russa. Il presidente del Senato ha subito convocato, per oggi, il Consiglio di Presidenza del Senato, annunciando misure più stringenti a tutela della sicurezza del palazzo. Per poi scagliarsi contro il gesto di protesta. «Il Senato è stato vigliaccamente scelto ha spiegato la seconda carica dello Stato - perché a differenza di Palazzo Chigi, della Camera e di altre istituzioni, non ha mai ritenuto fino ad ora di dover creare un'area di sicurezza attorno all'edificio». Insomma, «nessun alibi, nessuna giustificazione», conclude La Russa, «per un atto che offende tutte le istituzioni».

Anche dalla premier Giorgia Meloni nessuna indulgenza: «Gesto oltraggioso, incompatibile con qualsiasi civile protesta», commenta. Una «ferma condanna» arriva anche dal presidente della Camera, Lorenzo Fontana, mentre il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, che aveva già criticato il lancio della zuppa sul dipinto di Van Gogh, chiede sanzioni più severe per «chi danneggia il nostro patrimonio architettonico, artistico e culturale». C'è «ben poco di dimostrativo e molto di vandalico» nell'attacco al Senato secondo la ministra dell'Università Anna Maria Bernini. Pure secondo il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, «lanciare vernice contro il Senato non ha nulla a che vedere con la lotta al cambiamento climatico». Non va meglio nemmeno tra l'opposizione. Per Simona Malpezzi, capogruppo Pd a Palazzo Madama, quella di ieri mattina è solo una «azione stupida e incivile, contro il senso di appartenenza alla comunità». Duro anche il commento del Terzo polo, per bocca di Matteo Renzi, secondo il quale «chi vandalizza un palazzo delle istituzioni pensando di difendere l'ambiente capisce poco e chi giustifica i vandali che imbrattano il Senato dimostra di capire ancora meno». Anche i pentastellati prendono le distanze dall'attacco «ingiustificabile», con la capogruppo M5s in Senato, Barbara Floridia, che concede solo la necessità di prestare «maggiore attenzione» a un tema fondamentale.

Il blitz mette a nudo i limiti della sicurezza del centro storico della capitale. Anche il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi si dice «preoccupato» nella telefonata con La Russa. E annuncia che a breve saranno intensificati i controlli nelle stazioni delle grandi città» e alle sedi istituzionali. Occorre, secondo Piantedosi, aumentare l'attività di prevenzione e di controllo del territorio. Massimo Malpica

Assalto al Senato: cosa c'è dietro il blitz dei "coraggiosi" ambientalisti. A differenza di Palazzo Chigi, Palazzo Montecitorio e altre istituzioni, Palazzo Madama non prevede un’area di sicurezza attorno all’edificio. Massimo Balsamo su Il Giornale il 2 Gennaio 2023

L’ultimo orripilante show degli ambientalisti di Ultima generazione è andato in scena a Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica. Quattro giovanotti non hanno trovato di meglio da fare che imbrattare una facciata dello storico edificio con un getto di vernice arancione, utilizzando degli estintori.“Alla base del gesto, la disperazione che deriva dal susseguirsi di statistiche e dati sempre più allarmanti sul collasso eco-climatico, ormai già iniziato, e il disinteresse del mondo politico di fronte a quello che si prospetta come il più grande genocidio della storia dell'umanità”, la scusante. Ma la scelta di Palazzo Madama come luogo della dimostrazione non è casuale. E non cela grandi virtù, anzi.

Le ragioni del blitz al Senato

Già protagonisti sul GRA e in diversi musei, gli ambientalisti hanno intrapreso il cammino delle proteste-show. Il mezzo ideale per rendere note le loro richieste e soprattutto per avere un minimo di visibilità. E la visibilità piace, tanto da alzare sempre l’asticella. I ragazzi di Ultima generazione hanno spostato il mirino su un simbolo della democrazia per il risalto mediatico, non vi sono dubbi. Ma perché il Senato della Repubblica? La risposta è arrivata direttamente dal suo presidente, Ignazio La Russa: “Il Senato è stato vigliaccamente scelto perché non ha mai ritenuto fino ad ora di dover creare un’area di sicurezza attorno all'edificio”.

Gli ambientalisti hanno avuto dunque la possibilità di agire pressoché indisturbati e di poter compiere il gesto simbolico. Ma si sono ben guardati dal tentare il blitz presso altre istituzioni, da Palazzo Chigi a Palazzo Montecitorio: in quel caso avrebbero dovuto fare i conti con un sistema di sicurezza difficile da scavalcare. Perché complicarsi la vita, dunque? Non un coraggio da leoni, insomma. L’importante era avere spazio e (discutibile) gloria sui media e sui social network, missione riuscita.

Il livello di sicurezza sarà aumentato

Immediatamente dopo il fattaccio, il presidente del Senato Ignazio La Russa ha avuto un dialogo telefonico con il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Il titolare del Viminale ha espresso solidarietà e vicinanza per l’accaduto, confermando la piena disponibilità ad aumentare il livello di sicurezza di Palazzo Madama. Una contromossa necessaria per evitare il ripetersi di gesti simili. E difficilmente i valorosi giovanotti di Ultima generazione si faranno rivedere da quelle parti.

Estratto dell’articolo Stefano Bartezzaghi per “Il Venerdì - la Repubblica” venerdì 10 novembre 2023.

“Trend", "Matrimonio a pezzi", "Fuori di testa", "Kitsch". Sono alcune fra le espressioni che in Palombella Rossa inducono Michele Apicella – il personaggio ideato e interpretato da Nanni Moretti – a schiaffeggiare una giornalista che le usa, quindi parla male, quindi pensa male, quindi vive male. Il film è del 1989 e chissà che non sia stato proprio in seguito alla sua visione che Gillo Dorfles decise di ripubblicare la sua strepitosa «antologia del cattivo gusto». Intitolata Il Kitsch, a ragione è ritenuta responsabile della diffusione in Italia del termine tedesco. Ma chi dice «Kitsch» pensa male e vive male?

[…] Oggi la riedizione del 1990 torna in libreria grazie a Bompiani e si può così ripercorrere quel tracciato di immagini con cui in Italia abbiamo cominciato a configurare il Kitsch. La confezione leonardesca della Robiolina Gioconda e quella delle calze Mona Lisa Duralon. I cataloghi americani che offrivano una Venere di Milo, magari normodotata di braccia, oppure una testa di Asclepio da tenere in giardino. Un fumetto un po' stile Diabolik in cui la Monaca di Monza, sventurata, risponde a Egidio: "Voi... voi siete impazzito!" e poi "Mio Dio! Mio Dio! Devo aver perso la testa! Quello che sto facendo è orribile!". 

Un souvenir veneziano costituito da un Cristo in plastica crocifisso sui dorsi di quattro conchiglie, una Tour Eiffel che macina il pepe, il dipinto di una donna nuda che suona il violino in riva al mare (già promettente copertina della prima edizione), sino al pornokitsch presentato da Volli (soft il porno, hard il Kitsch) e infine i nani da giardino destinati a diventare stemma universalmente riconosciuto del Kitsch più terra terra.

"Spazzatura artistica": così, sia pure in nota, Dorfles sintetizzava la definizione primaria, in linea con gli studiosi che costituivano le sue fonti teoriche: innanzitutto Ludwig Giesz e Hermann Broch. Quattro anni prima, nel 1964, Umberto Eco aveva pubblicato la sua Struttura del cattivo gusto, dove analizzava brani kitsch di autori come Ernest Hemingway e Giuseppe Tomasi di Lampedusa, infine sostenendo che «si sarebbe potuto essere molto più cattivi di così».

Cattivi contro il cattivo gusto o contro chi non lo distingue da quello considerato "buono"? In ogni discorso sul Kitsch si può presentare l'equivoco, infatti Dorfles dai suoi precursori tedescofoni mutuava la terribile categoria dei "Kitsch-Mensch", gli "uomini-Kitsch": «si tratta di individui che credono che dall'arte si debbano trarre soltanto impressioni gradevoli, piacevoli, zuccherate; o, addirittura, che l'arte serva come "condimento", come "musica di fondo", come decorazione, come status-symbol, magari, come mezzo per fare bella figura in società, e non certo come cosa seria, esercizio faticoso, attività impegnata e critica...».

[…] All'epoca Dorfles non si faceva tanti scrupoli a dividere l'umanità tra coloro che sapevano apprezzare per le giuste ragioni le belle arti e il pubblico preda inerme degli spacciatori di "spazzatura artistica" ("surrogato", "contraffazione", "appiglio sentimentale", "grossolanità e pacchianità"). Ma all'altezza del ‘68 il già cinquattottenne Dorfles includeva nel novero dei fenomeni "pseudo-artistici" anche i fumetti in blocco e i Beatles, a cui pure concedeva di essere simpatici giovanotti e autori di alcune canzoni «da non disprezzare».

Nel 1990 rileggere queste pagine fece quindi un effetto un po' strano, tanto più che Dorfles non ritoccò il testo ma, assieme a Mazzotta, aggiornò l'iconografia. I suoi commenti di 22 anni prima (un secolo, per l'industria culturale) furono così illustrati anche da una foto scurrile della giovane Madonna Ciccone, da una pubblicità delle Clarks "Sgarbi di piede", con un sardonico Vittorione, e simili. Eppure l'acuto Dorfles già nel ‘68 si era accorto che il Kitsch stava cessando di essere il nemico giurato delle arti – come voleva la critica marxista di Greenberg – e che i suoi segni dozzinali erano inclusi negli alfabeti della Pop Art e del concettuale.

Nuove categorie si affacciavano: il Camp ha incluso la rivalutazione ironica del Kitsch, il Trash si disinteressa di qualsiasi aspirazione elevata. Nel 2023, mettendo in prospettiva storica la relativa altezzosità di Dorfles, si finisce per sfogliare la sua antologia con un crescente e allucinato sospetto sulla sua preveggenza. Vediamo i temi di alcuni capitoli. Trasposizioni, cioè la Monaca di Monza in fumetto: cioè tutta la crossmedialità, multimedialità, intermedialità odierna. 

Politica, con Mussolini che suona il violino e Hitler che bacia la bambinetta bionda tirolese: noi, con "Yo soy Giorgia", Renzi corridore, Schlein chitarrista (per non dir di Trump in ogni sua manifestazione), cosa dovremmo pensare? Seguono il Kitsch su nascita e famiglia, sulla morte, sulla religione (capitolo intitolato col nome francese del bigottismo e dei suoi ammennicoli: la bondieuserie), nel turismo, nella pubblicità, nel cinema, nel porno...

Con poche lacune (per esempio, la tv) pare un catalogo della comunicazione corrente. A parte qualche aristocratico del gusto, chi oggi si porrebbe il problema del Kitsch? Si vuole evitare il cheap o il trash (e mica sempre), ma quella categoria che Dorfles considerava animata dal patetico movente del "vorrei ma non posso" sembra oggi travolta dalla valanga di comportamenti che configurano un "potrei anche, forse, o no: ma è che non voglio". […]

Dorfles […] Nel 2012, ormai centenario, scrisse un testo per il catalogo di una mostra della Triennale che intendeva rileggere il concetto di Kitsch alla luce dell'arte contemporanea: e allora non poté che dichiarare decaduta ogni gerarchia del gusto. Eppure. Il cattivo pensiero del Kitsch continua a tormentarci e a dimostrarlo è stato un ingente numero della rivista Riga (editore Quodlibet), curato nel 2020 da Marco Belpoliti e Gianfranco Marrone, con il proposito di interrogarsi di nuovo sul Kitsch. In particolare su quale valore possa avere ancora quella veneranda etichetta di fronte alla «volgarità, la contraffazione, il sentimentalismo, l'autoritarismo, il dilettantismo» che ne sono elementi costitutivi e che ritroviamo tanto pervasivi nella nostra contemporaneità.

Antonio Giangrande: E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Luca Beatrice per “Libero quotidiano” venerdì 25 agosto 2023.  

Abdicare all’opera. Dalla letteratura all’arte, appare questa l’inedita condizione del presente. Scrittori trasformati in opinionisti polemici, artisti che si dedicano all’attivismo come militanti qualsiasi. E i romanzi, i dipinti, le installazioni, dove sono finiti? [...] 

Oggi per l’intellettuale e l’artista l’opera risulta un surplus, se non del tutto inutile. La filosofia prevalente premia chi interviene sul tema caldo, chi colleziona retweet, chi usa il linguaggio della polemica. Il paradosso è che gli scrittori non scrivono, gli artisti non producono eppure sono riconosciuti come tali se non dalla comunità almeno dal contesto, e a noi tocca giudicare le intenzioni in assenza di elaborati.

L’ORIGINE Parlando di letteratura, la fine del ‘900 era stata addirittura iperproduttiva, poi gli addetti hanno scoperto che di soli libri non si vive e come nella musica il live conta di più del disco ecco il proliferare di festival, premi, saloni dove gli scrittori se non hanno la novità in promozione sono chiamati a intervenire sull’attualità, ritagliandosi così il ruolo di saggi interpreti della società e della politica, mirando ad aumentare il pubblico per le loro dichiarazioni contro, non certo per ciò che scrivono. La moda comincia nel 2006, quando Roberto Saviano pubblicò Gomorra.

Ecco, lì l’opera c’era, infatti ha venduto tantissimo, è diventata un film e una serie tv. Poi basta, a Saviano passa l’ispirazione, non esiste nella sua bibliografia un secondo libro degno di tale nome, e allora il mestiere di scrittore può attendere, anzi essere sostituito dalla tv, dagli articoli sui giornali peraltro mal scritti, dalla polemica quotidiana. L’intellettuale organico 2.0 si schiera con le ong, insulta ministri e leader politici, insistendo sulla figura del veggente perseguitato. Tocca ammettere che Gomorra inteso come libro non fu affatto male, però tutte le cartucce sono state sparate al primo colpo e Saviano, a tutt’oggi, è uno scrittore finito.

Altri, invece, non hanno mai cominciato, però non manca giorno in cui non ci imbattiamo nei loro brillanti pezzi incentrati sull’attualità. Una su tutte Chiara Valerio, che nel mondo dell’editoria qualcuno ha soprannominato “vanesio”, pubblica tantissimo, di matematica, religione (già, perché questo argomento è molto sentito, si sentono cattoliche ma a modo loro, con interpretazioni a dir poco originali), politica, femminismo, è direttrice artistica, consulente editoriale, conduttrice radiofonica, ma il romanzo ancora non c’è, almeno quello buono, quello per cui uno andrà ricordato. Destino che la equipara a Michela Murgia, purtroppo scomparsa, cui non bastò nel 2009 l’apprezzamento per Accabadora e nel tempo preferì dedicarsi all’attivismo su temi che davvero appaiono studiati a tavolino.

Prevedibile, quando finirà l’ondata emotiva per la morte prematura, che i suoi numerosi scritti non resistano allo scorrere del tempo. Persino in un mondo superficiale come il nostro un romanzo non può essere sostituito da un blog, anche se Murgia credeva molto in questo strumento e lo portava avanti insieme a Chiara Tagliaferri che scrittrice è stata promossa per questioni di famiglia. 

Nel suo caso l’opera proprio non c’è, mentre suo marito Nicola Lagioia è riuscito, nonostante il gravoso impegno al Salone del libro di Torino durato sette anni, a implementare la propria bibliografia con un nuovo romanzo, La città dei vivi.

Il problema è che se fai il manager culturale e l’articolista non è che poi ti rimanga troppo tempo per scrivere. Di doppi, tripli incarichi, però si vive e pazienza se a rimetterci è la scrittura e la concentrazione.

Se la letteratura piange, l’arte non ride, soprattutto in Italia che infatti è scomparsa dal giro delle grandi mostre internazionali. [...] meglio parlare d’arte che farla. Dai convegni ai blog, è tutto un confrontarsi e l’artista è stato ormai sostituito da un generico personaggio informato sui fatti, allarmato dall’emergenza climatica, solidale con i migranti, insomma un attivista capace di organizzare reti di contatto internazionale, ma non osate chiedergli qual è la sua opera perché non c’è, a meno che non si tratti di didascaliche rappresentazioni di Street Art cominciate anche queste agli inizi degli anni 2000 con Banksy e i suoi imitatori. [...]

Merenda letteraria. Gli scrittori pezzenti, il melone già tagliato e gli uomini come nuove fighe. Guia Soncini su L'Inkiesta l'1 Dicembre 2023

Mi sono ritrovata a una cena con persone che non hanno fatto nemmeno finta di voler pagare il conto, una di quelle cose che noi signore del Novecento diamo per scontate. Poi ho scoperto che gli autori da vetta delle classifiche fanno anche di peggio, tipo la schiscetta

Questa è una storia di meloni che non sono solo meloni, ma possenti allegorie. Questa è una storia di scrocconi e letterati. Questa è una storia di cose che accadono e sono come domande, e poi passano mesi e quasi te n’eri dimenticata ma la vita risponde. Questa è una storia di catene, bastonate, e tirchieria sperimentale.

Tutto comincia a un festival letterario, a una cena cattiva come lo sono le cene nei posti in cui offrono i festival, a un tavolo al quale decido che passi mangiare male, ma bere male proprio non si può. Di fronte a me è seduto uno scrittore pubblicato da casa editrice scicchissima. Lo chiameremo d’ora in poi: lo Scrittore Dichiaratamente Pezzente.

Esistono, lo sappiamo tutti, due tipi di valuta. Una è quella della conversazione: se sei brillante, se intrattieni la tavolata, se sei l’anima della festa, puoi non fare neanche il gesto di pagare il conto. Se sei avvincente come la pittura che asciuga – espressione bolognese che indica il fatto che più appassionante di te è persino la mano di bianco sul muro – allora sarà meglio che tu sia munifico.

Ho avuto per anni un amico sgradevolissimo, con un carattere persino peggiore del mio, e che, nonostante fosse al corrente di moltissimi pettegolezzi, per etica professionale non poteva mai riferirli. Per scusarsi della sua fastidiosa inutilità, egli pagava tutti i conti. Era un po’ il minimo.

Dunque siamo a questo festival, davanti a me lo SDP, e io chiedo al cameriere due bottiglie di un vino che mi piace. Il cameriere si preoccupa, questi intellettuali poi sono insolventi, lo rassicuro: possiamo permettercelo. Quel vino normalmente costa intorno ai quaranta euro.

Per tutta la cena lo SDP non dice mai niente. Né lui né l’amico che si è portato, muti. Mentre io e uno scrittore al mio fianco intratteniamo loro due e altre due signore nostre commensali, e tutti si versano allegramente da bere.

A fine cena vado alla cassa, inseguita dalle signore che dicono «Ma no, paghiamone una a testa». Faccio la splendida, a parte il piccolo problema cardiologico quando scopro che, in questo posto dove non manderei a mangiare neanche la servitù di casa, quel vino è a cento euro a bottiglia. Ma che problema c’è, pago duecento euro, sono una signora, una con tutte stelle nella vita.

Le signore si profondono in ringraziamenti, lo SDP neanche mi dice «Crepa». È in quel momento che mi ricordo dei miei ex vicini di casa. Ho abitato per anni davanti a un supermercato. Tornavo coi sacchetti, tentavo di tenerli in equilibrio mentre con una terza mano ravanavo le tasche alla ricerca delle chiavi, e in quel momento arrivava sempre qualcuno che apriva il portone e lasciava che mi si chiudesse in faccia senza offrirsi di reggerlo.

Erano – sempre, senza eccezioni, ogni volta – uomini. Uomini che sono evidentemente le nuove fighe, uomini convinti tu sia tenuta a offrire loro il vino, uomini cui non viene minimamente in mente di doverti reggere il portone, o cedere il posto in metrò, o fare una qualunque di quelle cose che noi signore del Novecento ci ostiniamo a dare per scontate.

A un certo punto, esasperata dal portone in faccia, ho iniziato a reagire sempre nello stesso modo. Loro non reggevano il portone, e io urlavo: vi deve cascare il cazzo. Che è quel che penso alla cassa dei ricaricatori di vino, mentre lo SDP e il suo amico se ne vanno col loro bravo barrique nello stomaco: vi deve cascare il cazzo. Non urlo, perché ci manca oltre al danno dei duecento euro la beffa d’essere la pazza che ha dato spettacolo alla cassa.

Avanzamento veloce alla mattina dopo. Siamo, io e l’altro intrattenitore della tavolata, a fare colazione, e nella sala colazioni c’è anche lo SDP, e io sto bofonchiando ma ti rendi conto, ma gli deve cascare il cazzo, quando a un tavolo vicino al nostro si siede un noto nome da cima delle classifiche di vendita. Lo chiameremo d’ora in poi: lo Scrittore Inaspettatamente Pezzente.

Dopo un po’ il mio commensale gli dice qualcosa, lui risponde, io mi volto, e noto che, mentre parla, lo SIP sta rovesciando due scodelle riempite al buffet dentro due tovaglioli. Ma ti stai facendo la schiscetta?, domando con un certo divertimento. Lui dice di sì senz’alcun imbarazzo apparente, così mangia in treno, parte un paio d’ore dopo. Abbiamo lo stesso treno, scopro, e faremo scalo nella stessa città. Me ne dimentico un attimo dopo, ma me ne ricordo all’arrivo nella città dove entrambi dobbiamo prendere la coincidenza.

Arrivo alla sala d’attesa Frecciarossa, le cui porte si aprono col codice del biglietto di prima classe o della carta oro. Lui probabilmente non si è pagato la prima classe (figurati se te la pagano i festival che ti mandano a cenare con vini imbevibili), e lo trovo lì davanti che non riesce a entrare.

Che problema c’è, apro io, annuncio garrula, lieta di avere un nuovo interlocutore cui raccontare che ho pagato il vino allo SDP e che gli deve cascare il cazzo (dal primo treno ho chiamato praticamente tutta la rubrica telefonica per raccontare quello che ancora per qualche minuto sarà il mio aneddoto preferito di quei giorni).

Entro e vado dritta in bagno. Quando ne esco, lo SIP sta tornando alla sua poltroncina. Viene da una visita al buffet. Ha tre cofane di cibo impilate, e si accinge a infilarle nello zaino. Ma di nuovo?, esalo, improvvisamente sospettando che non sia il conversatore adatto per condividere l’indignazione che nessuno abbia detto dei duecento euro di vino «ma per carità, faccio io».

Lo SIP mi dice certo, così faccio merenda, però temo non basti fino a stasera, quando arrivo mi tocca comprare qualcosa per cena. È in effetti disdicevole che non ci sia un festival, un’azienda di trasporti, un qualcuno o qualcosa cui scroccare anche la cena, penso.

Cosa vendi centinaia di migliaia di copie a fare, se poi vivi di cibi da buffet su cui hanno sputato viaggiatori sconosciuti? Cosa sei uno scrittore di successo a fare, se poi vivi come un’iscritta al gruppo Le econome di Facebook? A cosa servono tutti quei posti in classifica, se senti ancora le ferite di quand’eri poco ricco? Sono domande che per giorni faccio a qualunque persona con cui parli, narrando il mio nuovo aneddoto preferito (i festival sono inutilissimi per vendere libri, ma preziosi per far cascina di aneddoti).

Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde. Risponde dal Minnesota, dove la settimana scorsa sono morte due persone, e ne sono state ricoverate un centinaio. Contagio di salmonella da melone già tagliato, dicono i giornali locali.

Il melone già tagliato è stato per anni il mio grande senso di colpa, lo compro sempre e fischietto sempre quando le mie amiche ecologiste fotografano indignate le confezioni al supermercato chiedendosi chi siano mai gli insensibili che mettono in circolo tutta quella plastica per non sbucciarsi il melone.

L’insensibile in me ci aveva pensato, all’ecologia, anche nel vedere il melone tagliato che lo SIP metteva nel tovagliolo, e poi il melone tagliato in cofana di plastica che infilava nello zaino centinaia di chilometri più in là, all’ecologia.

Adesso, che quei favolosi giorni di scrittori scrocconi hanno riformato il mio immaginario, il melone tagliato mi fa pensare solo allo SIP. E quindi l’unica cosa che vorrei sapere, e che i giornali americani non mi dicono, è: in Minnesota ci sono festival letterari, o la salmonella si prende a pagamento?

"Scrittori finti ribelli e veri conformisti". Il critico letterario pubblica un saggio al vetriolo su "Splendori e miserie dell'impegno". Luigi Mascheroni il 18 Novembre 2023 su Il Giornale.

Sembra un paradosso. Mai c'è stato così poco impegno a fronte di un numero così alto di intellettuali: oggi basta un social, o un talk show, per dire la propria idea sul mondo. E allora forse - è una delle possibili conclusioni a cui è arrivato Filippo La Porta «Meglio un onesto disimpegno di un impegno inautentico». Per molto meno, un tempo, gli intellettuali veri - quelli engagés - lo avrebbero espulso dalla Repubblica delle Lettere. Oggi sono costretti a dargli ragione.

Letterato, critico che una volta si diceva «militante», 71 anni, romano della più bella Roma editorial-culturale, firma della miglior sinistra giornalistica - la Repubblica, l'Unità, Left Filippo La Porta è da lungo tempo che ragiona su ruolo, contraddizioni e sopravvivenza dell'intellettuale. Chiedendosi: c'è ancora spazio per un pensiero critico nei tempi caotici del conformismo mediatico? Esistono ancora uomini di cultura (sì, sì, per carità, anche donne) capaci di tracciare una rotta, «come sentinelle della verità»? Nell'era della correttezza morale e politica, l'impegno civile non rischia di diventare una posa, «una strategia di marketing»? Le risposte le ha consegnate al suo nuovo pamphlet, Splendori e miserie dell'impegno (Castelvecchi).

Lei gli intellettuali, attraverso i loro libri o di persona, li frequenta da parecchio. Come sono cambiati?

«Innanzitutto non sono più i tempi di Pasolini. Oddio non che abbai nostalgia dell'intellettuale come coscienza critica della nazione, però non esiste più l'intellettuale profetico, la guida morale. Siamo tornati l'idea aristotelica per cui ogni persona è un intellettuale, ognuno di noi ha la capacità di elaborare la propria esperienza, fare cultura, diffondere opinioni. Oggi il cosiddetto pensiero critico, anche grazie ai social, è diluito nei tanti Socrate dispersi nella folla».

Cos'è l'impegno?

«Una cosa troppo seria per lasciarla agli scrittori impegnati. Uno scrittore può sentire il proprio cuore vibrare per i migranti o per il disastro climatico, e va benissimo la passione civile. Ma ciò lo riguarda come cittadino, non specificamente come scrittore. Come scrittore ha il solo compito cioè l'impegno di scrivere bene. L'ha detto Flaubert: Se una cosa è scritta male è falsa».

Che vuol dire...

«Non che i sentimenti dello scrittore siano falsi. Ma che se una pagina è scadente dal punto di vista linguistico, approssimativa, incolore, quella pagina è falsa. E se lo scrittore non trova l'equivalente sul piano della scrittura delle sue passioni, anche fossero le migliori del mondo, significa che ha fallito. Heinrich Boll dice: Più un autore si crede impegnato, meglio dovrebbe scrivere».

Non basta che l'intellettuale dica la verità.

«Purtroppo no. Serve una scrittura che dica il vero con precisione e rigore. Una volta chiesero a Moravia se credesse in Dio. Lui rispose: Tutto ciò che ho scritto su Dio non è né originale né personale, quindi significa che non credo in Dio. Se uno non riesce a parlare di una causa nobile con una lingua originale e personale, forse a quella causa non crede molto».

Lei esamina varie tipologie di impegno.

«Manzoni ci propone un'idea di letteratura come impegno etico: se leggi La colonna infame sei orgoglioso che ci sia qualcuno che abbia combattuto l'intolleranza, il complottismo, i burocrati nel male. Matilde Serao nel Ventre di Napoli scrive sì una grande inchiesta sociale che documenta una realtà, ma anche un grande libro, realistico e visionario, degno di stare accanto a Grandi speranze di Dickens. D'Annunzio invece - un immenso comunicatore più che un poeta, un anticipatore di Andy Warhol - era il primo a cui non interessava nulla dei buoni sentimenti. A lui contrappongo Gramsci, un lettore straordinario che metto nella famiglia dei grandi saggisti del '900. La triade neoilluminista Moravia, Sciascia, Calvino, resta un monumento della cultura laica e del pensiero critico del dopoguerra, anche se oggi tenderei a valorizzare Moravia, con un'intelligenza più fresca rispetto a Calvino e meno cavillosa rispetto a Sciascia. E poi c'è l'impegno scanzonato dei Flaiano e dei Savinio i quali non hanno mai firmato un manifesto ma hanno messo tutto il loro impegno dentro la scrittura: per loro la critica del mondo prende la via del gioco, dell'apologo, della satira. Il loro equivalente pop sono Gaber e Jannacci».

Lei denuncia il neo-impegno di oggi, qualcosa fra moda e marketing, un'autocertificazione di nobiltà morale, un modo per mettersi aprioristicamente dalla parte giusta.

«Lukács distingueva fra le idee che uno scrittore professa e quelle che vengono fuori dai suoi libri. Balzac era reazionario ma dalla Commedia umana esce un'ideologia rivoluzionaria. Bene. Oggi tanti scrittori che si dichiarano a sinistra scrivono libri che sono consolatori, rassicuranti, che ci confermano che loro sono dalla parte giusta... Invece la letteratura nega l'ovvietà, che interroga, che spiazza».

I grandi intellettuali impegnati italiani di questi anni sono Saviano e Murgia.

«Di Saviano ammiro le battaglie e rispetto la vita da recluso. Ma lui sottovaluta l'importanza dello stile, la qualità della scrittura, che non è un vacuo estetismo, ma è tutto. Sciascia rimane perché nei suoi libri oltre l'impegno civile c'è una scrittura altissima. L'affaire Moro è un vero saggio di filosofia morale, un pometto in prosa. E poi Saviano è disturbante solo con i propri nemici, coi camorristi e i narcotrafficanti. Pasolini invece era disturbante con tutti, anche con la propria parte. Non indossava una maschera che lo nobilitasse ma rispondeva solo a sé e ai propri sentimenti».

Murgia?

«Lei rimarrà più come intellettuale militante che come scrittrice. Anche il suo miglior romanzo, Accabadora, ha più un valore antropologico che letterario. Mi sono fatto l'idea che la vera lingua di tutti i grandi sardi sia il silenzio, e lei negli ultimi mesi di vita, pur con tutti i suoi interventi pubblici, abbia voluto proteggere quelle pochissime parole che ognuno di noi dice a se stesso di fronte al grande mistero della Morte. Nell'intervista a Aldo Cazzullo, quando gli chiede come vorrà essere ricordata, lei risponde spazientita: Ma ricordatemi come vi pare. Voleva custodire quello spazio che Nicola Chiaromonte - il mio vero eroe culturale, un critico della realtà libero dalla ideologie - chiama la dimensione dell'indicibile».

Uno scrittore-intellettuale che Le piace, oggi?

«Luca Doninelli: in lui c'è un impegno sia nella scrittura perché si prende cura delle parole, sia un impegno di tipo etico perché critica il conformismo delle idee dominati».

Lei sembra, a volte, preferire il disimpegno.

«Colui che io ritengo una delle massime voci poetiche del '900, Carlo Bordini, ha composto una sola poesia brutta. Sui migranti. In questo senso meglio un onesto disimpegno di un impegno inautentico, recitato...». 

Intellettuali di destra, guardate queste altre. A volte sono conservatrici. E non bisogna snobbarne l'immaginario. Vittorio Macioce il 12 Novembre 2023 su Il Giornale.

Questo è poco più di un gioco e parte con una domanda: gli intellettuali di destra stanno trascurando alcuni eroi dell'immaginario contemporaneo? Qui non si parla di «classici», che pure avrebbero molto da dire. Non ci sono Frodo e Aragorn. Non c'è Dagny Taggart, incarnazione di Ayn Rand, in La rivolta di Atlante. Non c'è D-503, il protagonista di Noi, il romanzo di Evgenij Zamjatin, che svela l'inganno della rivoluzione bolscevica. Non ci sono Bastiano e Atreiu che lottano contro l'avanzare del Nulla nella Storia infinita. Non c'è neppure Winston Smith di 1984. Si potrebbe parlare di alcuni personaggi di Clint Eastwood, con quella frase presa da I ponti di Madison County che in poche battute segna un sentimento: «I vecchi sogni erano bei sogni. Non si sono avverati, comunque li ho avuti». È che delle ragioni di Clint se ne sono bene o male accorti tutti e no, non è banale e non è razzista, ma è solo uno che ci tiene parecchio alla propria libertà e si sente scomodo nella retorica di questo secolo che già comincia a invecchiare.

Allora chi? Per esempio Katniss Everdeen. È la ragazza di fuoco del dodicesimo distretto, che porta il nome dell'erba saetta, che alza il canto della rivolta con al petto il simbolo della ghiandaia imitatrice e sopravvive al tributo di sangue degli Hunger games. Non lasciatevi ingannare dalle apparenze. Katniss combatte contro un Occidente che ha rinnegato se stesso, quel mondo di Panem dove non c'è più una repubblica ma un Super Stato aristocratico, che assomiglia a certe piattaforme oligarchiche e private, dove ogni cosa appare virtuale tranne la fame e la morte e non si crede a nulla se non al quarto d'ora di celebrità. Il mondo messo su da Suzanne Collins, l'autrice della saga distopica, è un futuro possibile, si spera iperbolico, ma che rappresenta il tradimento dei diritti universali dell'umanità, per la miopia di chi avrebbe dovuto garantirli e li ha invece barattati per una società che ha fatto del nichilismo uno spettacolo attimo per attimo. «Immagino che non ci siano più regole su ciò che una persona può fare a un'altra persona». Hunger Games è il rimpianto che avremo un giorno per la liberal-democrazia, sacrificata sull'altare del nulla o di qualche bugiarda utopia.

Allora chi? Beatrice «Tris» Prior. È la ragazza divergente, che le macchine e la scienza non riescono a ingabbiare in nessuna definizione. Il suo spirito non ha caselle. Non è candida, non è pacifica, non erudita, non abnegante, non intrepida. Non riesce, per natura e vocazione, a appartenere a un genere, a un circolo, a una casta. È per tutti e per nessuno. Tris vive in una Chicago di un futuro imprecisato, dove i muri sono l'unica sicurezza che ti resta, e a governare sono i filosofi che basano la loro saggezza solo su loro stessi. È l'incubo che nasce dall'antico inganno della Repubblica di Platone, con la ricerca di una perfezione sociale che porta direttamente all'inferno. La saga di Veronica Roth è un omaggio a tutti i cani sciolti, quelli che il sistema considera un'anomalia da estirpare.

Allora chi? Gli Stark di Grande Inverno, la casata del Trono di Spade che non si sottomette ai sotterfugi e ai veleni della politica e tiene fede ai principi della tradizione, che non è il peccato degli ottusi, ma la forza di chi non scappa dai doveri e dalle responsabilità. Non crede agli azzeccagarbugli e ai venditori di buoni sentimenti, non pensa che tutto si possa comprare con il denaro e non si tira indietro quando c'è da difendere terra e valori. «Credi che la mia vita sia così preziosa per me? Credi che scambierei il mio onore per qualche altro anno di cosa? Tu sei cresciuto con gli attori, hai appreso la loro arte con scaltrezza. Ma io sono cresciuto coi soldati, ho imparato molto tempo fa come si muore».

Allora chi? La famiglia Weasley. Tutta l'avventura magica di Harry Potter è un manifesto del conservatorismo aperto, che non si rifugia nel passato, ma non lo rinnega. È la profondità del tempo che ti permette di non lasciarti ingannare dall'oscurità. Arthur e Molly Weasley, i genitori di Ron, il migliore amico di Harry, sono il simbolo di un ceto medio che cerca di sopravvivere in un mondo dove non c'è più spazio per chi vive del proprio lavoro con dignità. È la famiglia di maghi che in fondo più ricorda l'origine borghese di Joanne K. Rowling, dove K sta per K, e in fondo ne segna anche l'insofferenza di un certo politicamente corretto, povero soprattutto di buon senso.

Allora chi? Frank Gallagher, il padre sciagurato di Shameless. A suo modo è epico. Certo, è una famiglia di nullafacenti ai limiti della società e con un certo talento a tirare avanti, ma dove lo trovi un altro «senza vergogna» che ti piazza un monologo di Ayn Rand. Lo Stato sono loro, i liberal fuori dal ghetto.

Dagospia martedì 7 novembre 2023. ANCHE SENZA LA LETTERA-APPELLO L’AVEVAMO CAPITO CHE NON CI STAVATE A CAPI’ PIU’ UNA MINCHIA: NON DA ADESSO, DA TEMPO! – DA MONI OVADIA A CHIAMBRETTI, DIECI SEDICENTI INTELLETTUALI (HANNO VINTO UN CONCORSO PER DEFINIRSI TALI?) CAPITANATI DAL FILOSOFO STEFANO BONAGA (LA CUI OPERA MIGLIORE E’ STATA METTERSI CON ALBA PARIETTI) CI SBOMBOLLANO CON UN APPELLO CHE SI CONCLUDE CON UN INVITO “ALL’ESERCIZIO TRISTE DEL SILENZIO” DI FRONTE A UNA REALTA’ CHE NON RIESCONO A COMPRENDERE E ALLA RINUNCIA “AD OGNI ATTEGGIAMENTO SUPPONENTE” (NON MALE PER UN AUTOPROCLAMATOSI "CLUB" DI INTELLO') - “LE GOCCE HANNO ORMAI SCAVATO LA NOSTRA PIETRA FINO IN FONDO” (COME ERA LA STORIA DELLA GOCCIA, DELL’ACQUA E DELLA PIETRA? CHIEDETE ALLA MELONI)

Stefano Bonaga per mowmag.com martedì 7 novembre 2023.

Dieci intellettuali italiani affidano a MOW il loro appello per aderire all’ultimo dei pensieri possibili di fronte al caos che stiamo vivendo: il “Club di quelli che non capiscono più una minchia del presente”. 

Potrebbe sembrare una resa, ma a leggere i 12 punti dello statuto ci accorgiamo che nelle cause elencate ci sarebbero anche le soluzioni per uscire da questa confusione in cui si è cacciato il mondo che ci circonda e che non riusciamo più a interpretare: la scienza divisa sul Covid, il ritorno delle guerre e dei morti civili (come tra Russia e Ucraina o tra Israele e Hamas), l’informazione ormai impazzita (...) il declino della famiglia, della scuola e della Chiesa. 

Ecco perché a chi credeva di saper interpretare la realtà non resta che “l’esercizio triste del silenzio”. I firmatari sono: Stefano Bonaga, Natalia Aspesi, Franco Berardi, Piero Chiambretti, Francesco Dal Co, Moni Ovadia, Leonardo Piccinini, Elena Stancanelli,

CLUB DI QUELLI CHE NON CAPISCONO PIU’ UNA MINCHIA DEL PRESENTE

Statuto: 

1 Noi siamo fra quelli che pensavano di essere abbastanza intelligenti per capire almeno qualcosa del mondo che ci circondava. 

2 Esso ci appariva nella sua varietà di gioie e di tristezze, di ingiustizie diffuse e di lampi di giustizia realizzata.

3 Il mondo del sapere si presentava a basso tasso di informazione sugli eventi globali e a discreto tasso di informazioni locali e tematiche.

4 La globalizzazione dei data media ci ha aperti a una complessità spaziale che rende potenzialmente accessibile una tale quantità di eventi che l’esistere non riesce più a sopportare. 

5 Per millenni gli uomini sono nati uno, ed ora, da cinque anni in poi, sono diventati due: essi stessi e i loro smart phone. 

6 La responsabilità potenziale è divenuta insopportabile: incombono su di noi milioni di domande a cui rispondere, indipendentemente dall’esercizio effettivo delle risposte. Comunque una condanna alla selezione quotidiana che implica un’occupazione mentale e una dipendenza allo stato irreversibili. 

7 La atomizzazione dell’esperienza è ingannata da una finta socialità. Il socius, l’altro della relazione umana, si è trasformato nell’altro qualsiasi del nuovo imperante telegrafo e teleicono: circolazione di scrittura e immagini a distanza. Chiunque può diventare un socius anonimo o coperto, esattamente il contrario dell’esperienza individuante dell’incontro face-to-face.

8 L’età dell’esercizio della ragione come imperativo è ormai sostituita dall’età dell’imperativo del gradimento. La sentenza famosa di Nietzsche secondo la quale il vero signore non vuole né piacere né convincere è vilipesa da una moltitudine di individui che aspirano a convincere solo piacendo. 

9 Il mondo conosciuto da noi di età avanzata, che nelle sue, peraltro relativamente recenti istituzioni internazionali, sembrava organizzato per garantire la pace, è occupato ovunque da pratiche e tragedie indifferenti allo scopo proposto come vincolante di tali istituzioni. 

10 Il panorama attuale delle tragedie globali, guerre, terrorismo, immigrazione, povertà diffusa, fino alla sottrazione di sempre più cittadini alla partecipazione politica, rappresentano per noi qualcosa che assomiglia alla nozione di sublime kantiano nella nuova versione di sublime etico: qualcosa che l’intelletto non può governare.

Da Pasolini a Zero Calcare. C'erano una volta gli intellettuali di sinistra Zerocalcare. Federico Novella su Panorama martedì 7 novembre 2023.

C'erano una volta gli intellettuali di sinistra Un tempo depositaria della cultura del paese, oggi è una cupola di egocentrismo composta da attori, cantanti e personaggi del piccolo schermo o dei social che con spocchia si ergono a paladini delle cause sociali C’era un tempo in cui la sinistra era depositaria della cultura di questo paese. C’era un tempo in cui quella parte politica esprimeva le intelligenze più profonde nel campo delle arti e della letteratura, mentre a destra erano più impegnati a occupare i consigli di amministrazione. Cosa abbiamo fatto di male per passare da Pasolini a Fedez? Chi ha bombardato il pantheon culturale democratico seppellendo Chomsky, Alberto Asor Rosa, e piazzando al loro posto Damiano dei Maneskin? A causa di quale catastrofe siamo passati, anche in ambito televisivo, dal genio di Angelo Guglielmi alla canottiera di Zoro?

I tempi, lo sappiamo, cambiano in fretta. La sinistra politica si è prosciugata, il bacino operaio non esiste più (e quello che rimane vota a destra), le ridotte elettorali coincidono con le isole pedonali dove si gira con la porsche elettrica targata Lugano. Ma possibile che persino i mostri sacri della cultura democratica siano tramontati per sempre? Perché quando senti illustri esponenti del Pd ripararsi sotto l’ombrello intellettuale di Zero Calcare, il fumettista che diserta il Lucca Comic Festival per via del patrocinio di Israele, viene da chiedersi che brutta fine abbiamo fatto tutti. Costretti a inchinarci a Nanni Moretti, meglio quando c’era lui, un gigante in confronto agli idoli progressisti di oggi. Se prima a incitare alla Resistenza era Togliatti, oggi è Francesca Michielin. Come si sono, ci siamo ridotti? Sì, parlavamo della cultura di sinistra come una cupola di egocentrismo, ed è vero. Un fortino inespugnabile, per decenni. Però dentro il fortino, se non altro, ci trovavi dei cervelli che il mondo ci invidiava: ci trovavi comunque un Pennacchi, un Camilleri, un Bobbio, uno Scalfari. Oggi ci trovi al massimo Fedez e Ferragni, una manica di influencer fluidi, e per il resto Luciana Littizzetto e Fabio Fazio. Grandi professionisti sicuramente, ma per carità non facciamo tristi paragoni con il glorioso passato che non c’è più. Non che dall’altra parte si navighi meglio: ma al complesso di inferiorità della destra ci siamo abituati. Lì la cultura è sempre stata semiclandestina, incline al populismo, spesso agitata da monadi in guerra tra loro. Gli intelligenti, i colti, gli artisti, i grandi registi, scrittori, pensatori, sono sempre stati a sinistra, con l’aggiunta di una buona dose di spocchia (spesso giustificata). Oggi le menti eccelse non ci sono più: resta solo la spocchia. E la convinzione di aver sempre ragione.

Perché l’intellettuale è contro il sistema. Chi fa della conoscenza il principale cardine dell’esistenza ha come valore la gratificazione che deriva dal riconoscimento della superiorità culturale: perché il fine ultimo resta il pensiero. Francesco Fimmanò su L'Espresso il 26 giugno 2023.

Qualche anno fa Rainer Zitelmann nel libro “La forza del capitalismo: un viaggio nella storia recente di cinque continenti”, per rispondere alla domanda sulle ragioni storiche dell’approccio così diffuso nella cosiddetta intellighenzia non favorevole all’economia di mercato, affermava che ciò che conduce ad assumere questo atteggiamento starebbe sul piano sociologico nel non riuscire a farsi una ragione del fatto che qualcuno dotato di una «cultura« o persino di un «intelletto» inferiore finisca comunque col guadagnare molto di più di un uomo di pensiero. In buona sostanza, gli intellettuali si sentirebbero offesi nel loro senso di giustizia e riscattati dalla convinzione che ciò debba essere colpa dell’economia di mercato, tanto da essere necessaria una «riparazione» attraverso una corposa redistribuzione della ricchezza.

È una visione assolutamente parziale in quanto pone al centro del modello della gratificazione il valore denaro. Chi fa della conoscenza il principale obiettivo dell’esistenza pone più spesso al centro del proprio sistema di valori la gratificazione derivante dal riconoscimento della superiorità culturale, nel senso che il fine ultimo resta il pensiero. Credo, per esempio, che nessuna archistar si indispettisca se una società di engineering ha un profitto cento volte maggiore nel costruire il ponte progettato, come nessun giurista, che passi la vita a studiare le evoluzioni ordinamentali, possa invidiare i grandi studi legali dai nomi esotici (o esoterici) e dall’approccio industriale che sviluppano fatturati mostruosi. Piuttosto, l’uno o l’altro possono indispettirsi se viene giudicato il livello della competenza o della conoscenza sul piano della diversa capacità di produrre reddito. L’attribuzione del primato del pensiero è il vero tema valoriale (e quindi sociologico) alla base della questione. E la ricorrente impostazione, un po’ narcisistica, in senso fisiologico, dell’uomo di pensiero non ha alcuna correlazione col mito di Narciso, ma piuttosto, in psicologia, con un sano amor proprio da cui deriva il profondo bisogno di sentire l’approvazione altrui e la gratificazione derivante dal riconoscimento della superiorità del proprio sapere da parte della comunità di riferimento.

D’altra parte, un vero intellettuale può essere un appassionato di sport senza sentirsi minimamente offeso dai guadagni miliardari dell’atleta che mentre allenava il corpo non ha mai allenato la mente.

E questo è esattamente lo stesso problema che si pone nel rapporto tra intellighenzia e appartenenza politica. In questi mesi di nuovo governo è infatti ritornata in auge la vecchia polemica sul rapporto tra intellettuali ed ideologia, che più o meno ripete lo schema visto per l’economia. Per cui si afferma erroneamente che non esisterebbe una vera classe intellettuale conservatrice per le medesime ragioni valoriali. E, dall’altro lato, si risponde che molti intellettuali sarebbero degli opportunisti che si comportano come i cortigiani di Alessandro Magno.

Al contrario è quanto mai esemplificativo proprio il celebre aneddoto relativo all’incontro tra Alessandro Magno e Diogene di Sinope nella versione di Plutarco, secondo cui, visto che tutte le élite erano andate da Alessandro per congratularsi con lui, questi pensò che anche Diogene, che era a Corinto, lo avrebbe fatto. Ma dal momento che il filosofo continuò il suo otium nel sobborgo di Craneion, Alessandro allora si recò a fargli visita, lo trovò disteso al sole e gli chiese se avesse bisogno di qualcosa. Diogene rispose: «Sì, stai un po’ fuori dal mio sole perché mi fai ombra». Alessandro fu così ammirato dalla grandezza del filosofo che disse ai suoi cortigiani che ridacchiavano: «Davvero, se non fossi Alessandro vorrei essere Diogene». Probabilmente se Diogene avesse ascoltato il commento avrebbe cambiato atteggiamento verso Alessandro fino, forse, a elaborarne il pensiero politico.

L’espressione intellighenzia è riferibile alla classe di intellettuali, di origine nobile o borghese, che in Russia, dai primi dell’Ottocento fino al 1917, dette vita al movimento avverso al feudalesimo zarista e dal quale maturò la rivoluzione d’ottobre. Così, quando Lenin creò il suo governo volle che la scienza fosse posta sopra ogni cosa nel nuovo Stato socialista. Trovò la maggior parte degli eminenti scienziati del Paese contro di lui. Ma anche i più contrari, tanto famosi, finirono col rimanere al loro posto grazie alle lusinghe di cui furono oggetto.

Una parte dell’imprenditoria e della politica oggi sono poco attrattive per gli intellettuali che non avvertono il riconoscimento della loro superiorità culturale. Quindi è vero che talora la cosiddetta egemonia rispetto alla intellighenzia è figlia di opportunismi e di retaggi ideologici, ma in larga parte è dovuta a questa indifferenza. Se un archistar non si sente riconosciuta superiore rispetto a un appaltatore dei lavori o un maestro del Diritto rispetto ai compilatori di contratti pagati a peso per i famosi deal tutti uguali, ce lo troveremo tendenzialmente contrario ad un certo sistema. D’altra parte se solo guardiamo le cosiddette nomine in certi ambiti, al di là delle persone, troveremo nelle scelte una quantità completamente diversa di intellettuali. Occorre che un certo mondo dell’economia o della politica per cambiare lo status quo faccia autocritica e si chieda, se per assurdo esistessero solo intellettuali liberali (quindi ora liberisti ora statalisti in base alle esigenze di quel determinato momento storico), da quale delle due parti continueremmo a trovare l’intellighenzia in ruoli chiave? E ancora più brutalmente una certa parte di quel mondo si è mai chiesta se riconosce la superiorità del pensiero come fine ultimo o, viceversa, uno vale uno? In tal caso la cosiddetta egemonia diventa un fatto inevitabile. E se pensiamo, dato il momento, a Silvio Berlusconi, il passaggio dalla prima fase di imprenditore-politico alla seconda è stato caratterizzato dalla progressiva e deliberata rinuncia agli uomini di pensiero.

Cos’è la sindrome di Stendhal? Sintomi e cura del disturbo. Sintomi, significato e cura della sindrome di Stendhal: in cosa consiste la patologia? Tutti i dettagli sul disturbo. Ilaria Minucci su Notizie.it il 8 Luglio 2023

Quali sono i sintomi e come si cura la sindrome di Stendhal? Tutti i dettagli sul disturbo che prende il nome dal famoso scrittore.

Sindrome di Stendhal, cos’è

La sindrome di Stendhal prende il nome proprio dallo scrittore che fu il primo a parlarne. La patologia, nota anche come sindrome di Firenze (città in cui si è registrato il maggior numero di casi), è un disturbo psicosomatico molto singolare. Le persone che vengono colpite dalla sindrome sono inclini a provare un’emozione forte, quasi di estasi, quando si trovano di fronte a maestose opere d’arte o architettoniche, anche se non sono esperti di arte.

I sintomi della patologia possono variare da soggetto a soggetto e avere anche una diversa gravità. È noto, tuttavia, che il disturbo colpisca maggiormente gli uomini di età compresa tra i 24 e i 40 anni, amanti dell’arte e dotati di un buon grado di istruzione.

Sintomi e cura

La sindrome di Stendhal non è una malattia psichiatrica ma un disturbo psicosomatico transitorio. I suoi principali sintomi sono:

·      Attacchi di panico;

·      Dispercezione del mondo esterno;

·      Depersonalizzazione (sensazione di sentirsi fuori dal proprio corpo);

·      Derealizzazione (vago senso di irrealtà);

·      Sensazione di malessere;

·      Tachicardia;

·      Sudorazione;

·      Agitazione;

·      Pianto;

·      Nausea e vomito;

·      Vertigini;

·      Svenimento;

·      Confusione;

·      Allucinazioni;

·      Difficoltà nel respirare;

·      Euforia o depressione;

·      Dolore epigastrico.

È come se il soggetto colpito dalla patologia perdesse la percezione e il contatto con la realtà e con se stesso per lasciarsi andare a un’estasi contemplativa dell’opera d’arte che ha di fronte. Solitamente, i sintomi della sindrome scompaiono dopo essersi allontanati dall’opera d’arte ma, in alcuni casi, possono durare anche ore o addirittura giorni. In questo caso, è possibile che lo specialista consigli l’assunzione di medicinali come tranquillanti, ansiolitici, antidepressivi, stabilizzatori dell’umore o neurolettici.

DAGOREPORT mercoledì 26 luglio 2023.

A Roma, a un certo punto degli anni Settanta, sbocciò una moda intellettuale che, ancor oggi, attizza la scena dei salotti: il ”rimorchio culturale”. 

Si tratta di una pratica che ”consiste nel puntare la preda e trafiggerla attraverso lunghi ragionamenti alti’” oppure ”tramite citazioni librarie” ma anche pose da sapientone, insensatezze profonde e concettose, pause studiate che diano al seduttore culturale la possibilità di spingere la preda a cadere più velocemente nella trappola.

Come maestri del ”rimorchio culturale”, nel corso del tempo, hanno fatto scintille  Umberto Eco, Valentino Zeichen, l’ex direttore di Rai3 Angelo Guglielmi, il ”pensatore’’ Stefano Bonaga, il filosofo Massimo Cacciari. 

Ma nessuno, della conventicola dei dongiovanni colti, snob e chic ha riscosso più successo di Alain Elkann, colui che sposò la figlia dell’Avvocato Agnelli, padre di John, Lapo e Ginevra. 

Anche se la fine del matrimonio con Casa Agnelli non fu un episodio tra i più piacevoli per il bel tenebroso. Margherita, dopo aver prodotto cotanta figliolanza, perse la testa per la carismatica bacchetta del fascinosissimo Claudio Abbado. 

Ma Alain, di chiudere il rapporto con la rampolla dell’Avvocato, non riusciva a ficcarselo in testa. Fino a che, un bel giorno, di ritorno da un viaggio, l’irriducibile marito entrò in casa, aprì la porta della camera e al posto del letto coniugale si ritrovò davanti un pianoforte… Vero, falso, verosimile? Ah, saperlo… 

Il cuore farfallone di Alain Elkann ha sempre funzionato come una caldaia, specializzato però nella conquista di signore ben stagionate, immancabilmente sedotte e abbandonate, dopo aver ricevuto in dono la collezione completa dei suoi libri con uscita trimestrale e un vezzoso barboncino (da Elkann al cane, di solito è tutto quello che resta alle ex fiamme).

Alcune Alain-victim: dalla marchesa Sandra Verusio a Benedetta Fumi ex principessa Lanza di Scalea, dall’ex moglie di Philippe Leroy, Emma Bini all’antiquaria Alessandra Di Castro, dalla zarina di “Vogue” Franca Sozzani a Rosi Greco, che riuscì nell’impresa di portarlo all’altare. L'unica a sfancularlo fu Irene Ghergo, la Madonnina dei Parioli, che un bel giorno lo mise alla porta con un definitivo  "Quanto sei noioso…". 

Dotato di lingua sciolta, l’aria ispirata e un’eleganza su misura Caraceni, magari un po’ stropicciato dagli anni, sempre con l’ascella ripiena di libri. Tutto il contrario di un pappagallo da strada. 

Ma per il ”rimorchio culturale”, la “maschera” conta poco. Anzi, a volte rischia l’effetto contrario. Il vero grimaldello per l’incanto è cerebrale: contano più le sinapsi dell’appariscenza. Lo capii bene tanti anni fa durante una festa in casa tampinando, come uno 007, il bel tenebroso Alain alle prese con una fascinosa signora. 

Approfittando della calca, mi attaccai alle spalle di Alain e captai la prima regola: parlare con un filo di voce, un volume bassissimo che costringe il volto di lei ad avvicinarsi agli occhi del conquistador. Peggio di una bestemmia qualsiasi apprezzamento fisico, Alain accende il fuoco sospirando frasi del tipo: ‘’Volevo dirti che hai un talento naturale… un’emotività lontana… devi trasformare la tua fragilità…’’. 

E qui sussurra la prima citazione assassina. ‘’Secondo Holderlin, "l’uomo è un dio quando sogna e un pezzente quando riflette…". Ecco l’affondo: hai una Moleskine sul comodino? al mattino trascrivi i tuoi sogni, le fantasticherie del dormiveglia, gli incubi che attanagliano la tua anima… e poi mi scrivi una lettera. Io ti risponderò. Perché sento che possiedi un talento letterario… la tua anima è forte…”.

Nessun prosaico appuntamento carnale da arrapato, al massimo un "Sembri uscita da un quadro del Boldini....", ma installare in lei l’idea di essere una Virginia Woolf ancora da scoprire, fino al colpo finale: l’impegno a intrecciare una corrispondenza di amorosi sensi, alla maniera del Laclos di “Relazioni pericolose”. Dalle lettere al letto, il passo è breve. 

Ecco: per le donne abituate a sentirsi dire “quando se magna?... che stai a fa’, lo yoga?... sabato, scopiamo?’’, il rimorchio culturale, soprattutto il più fasullo, è il più irresistibile afrodisiaco. E nella dura tenzone della seduzione, gli alainelkann vinceranno sempre perché sanno che il punto “G” è nella testa. Chi lo cerca più in basso non è un Alain…

I nuovi snob, quelli che vivono disconnessi. Detestano il controllo. Odiano le perdite di tempo. Sono in cerca di emozioni autentiche. Crescono i cultori di un’esistenza senza social e collegamenti. Fuori da Instagram, Facebook e TikTok. Perché il vero lusso oggi è anti-social. Ginevra Leganza su L'Espresso il 7 luglio 2023

Invidiabili, inimitabili. In un mondo di spioni, o di gente perennemente online, gli sconnessi sono i nostri nuovi snob. Forse perché snobbare il social è anzitutto costume da ricchi o da hollywoodiani. A parte i tycoon del tech, i Musk o gli Zuckerberg – twittatori e instagrammiani per lavoro – nel mondo del lusso il social non usa.

Bernard Arnault (presidente e AD di LVMH, la multinazionale proprietaria di Louis Vuitton, Bulgari, Fendi, Céline, Loro Piana e altri settanta marchi d’alta moda, orologi, vini, editoria), il re dei miliardi che quest’anno ha superato il ceo di Tesla, odia persino mandare mail. Così Sandra Bullock, che detesta la vita online dove «tutti giocano a essere migliori». L’attrice vede Hollywood in ogni account: divismo al ribasso con tramonti e sciabolate di champagne. Sarà che Bullock s’è persa per strada i ballerini di Tik-Tok-Tak (non sa che più di riccanza e culo alto adesso è gara allo sbraco). Comunque, il punto è un altro. Perché la posa sprezzante dell’attrice a lungo più pagata al mondo (Forbes 2010, 2011, 2013) – come la ritrosia di Arnault – spiega l’esatta filosofia degli sconnessi. Ovvero di tutti gli anti-social, certo non ricchi e non hollywoodiani, che dicono addio alla vita online. 

«Senza social Parigi è più bella»

Se fra gli adolescenti cresce l’ossessione per TikTok, con Instagram e Whatsapp che rimangono stabili – uso pressoché universale: 90 per cento l’uno, 98 l’altro (secondo il Laboratorio Adolescenza dell’Istituto di ricerca Iard su un campione di oltre 10.500 studenti italiani tra i 13 e i 19; anno 2021) – e se il Web 2.0 è ancora forte, chi si sottrae non posta Vuitton ma nell’anima è Arnault.

«Non mi interessa degli altri». È questa la frase più ricorrente nel nostro piccolo viaggio offline. In che senso non t’interessa? «Non voglio sapere cosa fanno gli altri, dove sono», dice una dottoranda di letteratura francese che solo qualche anno fa compulsava Instagram postando quasi una foto al giorno (i maligni sospettavano persino acquistasse follower). Il suo feed era bello, radioso. Di pitagoriche simmetrie: architetture urbane e campi di lavanda nelle trasferte-studio in Provenza. Clara, che adesso fa ricerca a Parigi, di vita da mostrare ne avrebbe eccome vista la vocazione oleografica del social con Torri Eiffel, la croque-madame, Amélie e qualsivoglia tic produttore di like. Ma lei non lo fa. Dice che Instagram occupa «tempo senza guadagno» e deconcentra la ricerca. Prima andava nei parchi quasi solo per scattare foto ai libri (che avessero un buono sfondo). Si sentiva artefice di un’auto-narrazione, racconta. Ma l’auto-narrazione è fondamentale per vivere, esiste anche senza social. «Sì, e infatti vivere Parigi senza social è difficile. Ma più bello».

In effetti – narrazione per narrazione – “Parigi senza social” sembra un romanzo. Lontani dalla Torre, già spira vento di Ménilmontant. Di quartieri multietnico-bohémien – quartieri che lei frequenta – dove il mondo è una musica indie, dove è tutto «un po’ hipster», e dove non avere social è perfetto per raccontarsi storie alternative. Con un io narrante snob che certo invidiamo – noi vincolati all’Instagram per lavoro (ché se no ci sfugge il mondo). 

In un articolo di qualche anno fa, il Guardian parlava dell’allora 25 per cento di millennials sconnessi: nota comune agli intervistati americani era la consapevolezza di poter fare a meno dei social per una compiaciuta predilezione di libri e giornali. Oggetti di culto come il vinile: must-have per chi ami distinguersi.

Non controllare, non essere controllati

Dopo l’auto-narrazione il neosnobismo pone poi il tema del controllo, che da Gwyneth Paltrow alle nostre amiche è molto sentito. Paltrow, ospite lo scorso gennaio al Late Late Show, rimpiangeva gli anni Novanta. Ovvero gli anni in cui una «New York senza social» poteva «parlare di cocaina, andare nei bar e ballare sui tavoli senza smartphone (…) uscire e andare a casa con qualche sconosciuto senza che nessuno lo sapesse». Per inciso: caposaldo dello snobismo è una melliflua indulgenza in tema di vizi e aberrazioni (Camilla Cederna, La snob). In questo senso, gli anni Novanta furono il canto del cigno dell’umanità. Soprattutto se pensiamo che oggi, sempre sui social, le rockstar non bevono e non si drogano: niente vizi e aberrazioni. Piuttosto sfoggiano vite da statali, amori da contabili.

Per non suscitare invidia

Il capo dei Maneskin, per dire, rassicura che la droga non sa dov’è di casa. Per non parlare dell’ormai ex Donna Maneskin, di cui – sempre a mezzo social – teniamo il conto delle mestruazioni: Giorgia Soleri, in alternanza alle sue poesie, fa cronaca dei crampi causati dall’endometriosi. Ebbene, gli sconnessi sembra odino le star che fanno i contabili e i contabili che si atteggiano a star. E più in generale, odiano il dover rendere conto di tutto per un senso etico di condivisione del proprio lifestyle che in un lungo piano sequenza dalle vacanze transoceaniche finisce dritto nelle mutande. Scelgono insomma di non salire su quel che considerano un mezzo pubblico della fama. Una specie di torpedone per il successo pieno zeppo di disperati dove – spiega la dottoranda della Sorbona – «non si vive, ma si è vissuti». Da che cosa si è vissuti? «Dal desiderio di mostrare, dall’ansia di controllare… Come quando si controlla il profilo di Chiara Ferragni».

Ed ecco il bersaglio: la ragazza di Cremona (con le altre Chiare: Biasi, Nasti ecc.), che con le sue borsette è l’anti-snob del Bel Paese, la provinciale elevata al mondo. Ferragni – genio di suo – intanto ha spiazzato Andy Warhol: perché sul social, meglio che in tivù, chiunque può esser famoso per più di un quarto d’ora. Il suo successo ha dunque provato che il social è anti-snob per natura. Perché dà l’illusione a tutti di essere socialite. Sia pure dal proprio sofà. Ma in questa sospensione d’incredulità collettiva, per cui ci si sente famosi oltre i mille follower, c’è chi non la beve. E alle influencer preferisce la trasparenza.

«Perché dovrei guardare il profilo della Ferragni?», si domanda un’altra donna aziendalista che prima ha cancellato dai social ogni foto in bikini e poi ha direttamente estinto il profilo. «Nessuno dei suoi follower potrà mai permettersi quell’armadio o quelle vacanze. E forse neanche quel fisico. Il social serve solo a suscitare invidia. Io non voglio farne parte». Ed ecco venir fuori lo stigma giusto e inclemente della signorina snob. Con la superiorità antropologica nei confronti di chi s’imbambola per pupi e borsette.

L’imbambolato per le vite da sogno resterà sempre un povero diavolo, vuoi dire questo? «È una forma di masochismo, sono vite fuori dalla nostra portata. Pensa poi a quelle che controllano di continuo i like di chi le corteggia o di chi le ha mollate». E qui s’apre un tema. Perché gli sconnessi con cui parliamo non sono vanaprastha indù che si ritirano nella foresta. Né mistici o padri del deserto. Sono appunto signorine snob in mezzo a noi. Che come noi amano, mangiano, bevono. Si accoppiano senza Tinder e senza l’ansia di sapere lui dov’è, cosa fa. Coltivano distacco dal giudizio altrui. Godono come tutti o come l’Epicuro del “vivi nascosto” che è la radice di tutti carismi e sintomatici misteri. E, a proposito di snob, riadattano il canone Gianni Agnelli. Che ai tempi del primo cellulare diede il suo in consegna all’autista. O di Umberto Eco, che lo affidò all’assistente secondo il principio per cui in amore, come nel lavoro e nella vita, vince chi fugge (almeno per un po’).

Gli sconnessi oggi cambiano i codici allo snobismo. Tradizionalmente esibizionista, centrato sull’abito e sul pensiero altrui, oggi lo snob ha capito che in un mondo in mutande bisogna mettersi gli occhiali da sole. Per potersi coprire, per poter sparire. Per avere più carisma, appunto, e sintomatico mistero.  

Estratto dell'articolo di Giuseppe Fantasia per ilfoglio.it martedì 29 agosto 2023.

Se Capalbio si spopola nelle due settimane con ferragosto di mezzo (Eolie e Grecia le mete preferite e per l’appunto anche la Puglia), qui la movida non smette mai 

[…] Capalbio, in confronto […] sembra morta e non è detto che non sia un bene. […] pochissime cene, tra cui quella di Paola Sturchio del ristorante romano La Barchetta di Prati, con Margherita Buy, Lucrezia Lante della Rovere, lo shoe designer Diego Dolcini e il portavoce del sindaco Gualtieri, Luigi Coldagelli. 

Non c’è stata la festa dell’architetto Tommaso Ziffer (“la faccio ogni due anni”), né i grandi parties dalla produttrice Maria Carolina Terzi dove potevi incontrare ancora, nella stessa serata, Barbara D’Urso (scatenatissima nelle danze) e Myrta Merlino con Marco Tardelli, Jas Gawronski e Chicco Testa, Pigi Battista, Roberto D’Antonio, Barbara Palombelli con o senza Rutelli, Iaia Forte e moltissimi altri. 

Sono rimaste attive, almeno per ora, Jacaranda Caracciolo – con special guest l’ex curatore del Padiglione Italia alla Biennale d’Arte di Venezia Milovan Farronato, avvolto da abiti con scritte Gucci ovunque (l’eleganza) – e Monica Cirinnà, che non esce mai e fa la contadina di lusso nella sua fattoria con la famosa cuccia dove furono trovati i 24mila euro. Il migliore resta sempre Paolo Sorrentino che ha casa lì, ma non frequenta nessuno, se non chi dice lui. Una scelta da Oscar. 

[…] si preferisce Spongano […] Tazio Puri Negri, ad esempio, la cui famiglia è proprietaria delle Terre di Sacra (esclusivi casali in affitto ed esperienze glamping nella riserva di Burano), che ogni anno, per il suo compleanno, vi organizza nei paraggi un rave party di tre giorni con musica fino all’alba infischiandosene degli uccelli e degli altri animali che la popolano. […]

Se qualcuno, poche sere fa, ci avesse portato con una benda sugli occhi in quella che è stata poi definita la migliore festa salentina post ferragosto e ce l’avesse tolta, avremmo pensato di essere in una villa qualsiasi di Capalbio. “Con la differenza che qui ci sono meno camicie bianche”, ci suggerisce Giovanna Pancheri, poco distante da un ricco buffet home made ben adagiato su tovaglie colorate di Lisa Corti (“le riconoscete in tre”).

Al buio e tra luci soffuse incontriamo la sceneggiatrice preferita da Nanni Moretti Francesca Marciano e Livia Azzariti, l’artista Giuseppe Ducrot e la cantautrice Chiara Civello, gli scrittori Chiara Valerio, Elena Stancanelli, Emanuele Trevi, Giancarlo De Cataldo e Federica De Paolis, la conduttrice Monica Giandotti con il marito Stefano Cappellini.

[…] 

Valeria Golino c’è stata, Maria Grazia Chiuri di Dior pure, anche perché nella Sartoria Calabrese (ma pugliese) fa realizzare il tessuto delle sue celebri borse. Da dietro un cespuglio spunta persino Paolo Repetti, fondatore di Stile Libero Einaudi con il compianto e amatissimo Severino Cesari e ci fa: “Ma state tutti qui?”.

Decidiamo di prenderci un secondo gin-tonic e finiamo – complice il buio, tanto chic ma non aiuta in certi casi - nelle braccia di Carlo Fuortes, bagnandolo. […] Seduta su un divano in giardino, troviamo Barbara Alberti avvolta da un abito bianco e nero, elegantissima. […] Spongano sembra Capalbio? O lo è sempre stata e nessuno ce l’aveva detto? Le chiediamo. “Un po’ sì, non vi è dubbio”, fa lei. “Stasera ho perso il conto della gente che c’è”.

[…] 

Dalla Boldrini a Elly, lo "spin" delle radical chic. Francesco Curridori il 2 Luglio 2023 su Il Giornale.

Cos'hanno in comune Elly Schlein e Laura Boldrini? La loro fallimentare strategia comunicativa ha un nome e un cognome: Flavio Alivernini

Cos'hanno in comune Elly Schlein e Laura Boldrini? La loro fallimentare strategia comunicativa ha un nome e un cognome: Flavio Alivernini. Portavoce della Schlein per tutta la campagna congressuale, recentemente promosso a responsabile comunicazione del Pd, è stato nello staff di Laura Boldrini, a cui nel 2019 ha dedicato il libro La grande nemica. Il caso Boldrini.

I migranti, i diritti civili, l'ecologismo spinto, l'antifascismo militante e il pacifismo sono i cavalli di battaglia sia della Boldrini sia della Schlein. Entrambe hanno collezionato una serie di gaffes incredibili. È impossibile dimenticare quando la Boldrini descrisse i migranti come delle «risorse», ma quelle della Schlein sono ancor più gravi perché lei parla in quanto segretaria del Pd. L'intervista rilasciata a Vogue in cui la Schlein parla della sua armocromista è emblematica. «In quel caso, però, il problema non erano i colori, ma tutte le altre risposte che erano molto vaghe», spiega il sondaggista Renato Mannheimer secondo cui il grave difetto dello stile comunicativo della Schlein è quello di parlare troppo di diritti civili e troppo poco di diritti sociali. «Il suo spirito è proteso più verso i diritti umani. Basta guardare con che gioia va alle manifestazioni degli Lgbt, mentre osserva ancora Mannheimer - è meno forte sulle questioni sociali anche perché il Pd è spaccato sulle posizioni di Landini». Una prospettiva condivisa anche da Fabio Torriero, spin doctor e docente di comunicazione politica alla Lumsa, che sentenzia: «La Schlein, sostituendo il dna storico della sinistra con i diritti civili, sta commettendo lo stesso errore della Boldrini, trasformando così la sinistra che difende i lavoratori nella sinistra fucsia che difende i diritti civili». La verità, secondo Mannheimer, invece, è che «per la Schlein è difficile virare sui temi economici perché su quelli il Pd è molto diviso». Anche l'accostamento tra la morte dei miliardari che hanno fatto parte della spedizione del Titan con la tragedia che ha colpito i 750 migranti morti davanti alle coste della Grecia lascia alquanto interdetti. «È una comunicazione populista che punta alle emozioni primarie del suo popolo e a mobilitarle associando due immagini che tra loro sono, in realtà, lontane», spiega il politologo Luigi Di Gregorio che aggiunge: «Da un leader di un importante partito ci si aspetta una riflessione un po' più approfondita anche perché il mondo non stava giustificando la scelta di quelle persone, ma l'opinione pubblica si lascia sempre catturare da un evento dal finale ignoto». Anche secondo Torriero si tratta di un errore comunicativo grave: «Dietro queste analisi c'è un problema di invidia sociale e, quindi, la ricchezza equivale al male e chi è povero, come il migrante, rappresenta il bene». La bocciatura dell'esperto è netta: «Le estati militanti sono schemi da anni '70 che non c'entrano niente con la realtà e sono minoritari nel Paese».

I radical snob e i social "normalizzati". Francesco Maria Del Vigo il 20 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Attenzione, attenzione: la notizia che stiamo per comunicarvi potrebbe urtare la vostra sensibilità.

Attenzione, attenzione: la notizia che stiamo per comunicarvi potrebbe urtare la vostra sensibilità. Concita De Gregorio ha intenzione di abbandonare i social network. Anzi, in realtà vorrebbe che tutti voi, cioè tutti noi, ce ne andassimo dalle reti sociali. Noi, con le nostre discussioni prosaiche e pedestri, i nostri status poco radical e per niente chic e a volte, magari, quasi di destra. Ohibò. E poi quella dannata e meschina ricerca della visibilità: «Tendenza. Che parola assurda, senza l'indicazione di un approdo. Verso cosa tende, esattamente, questa tendenza? Che trappola. La reputazione, la popolarità», scrive la sacerdotessa della sinistra più à la page che, a dirla tutta, non è esattamente un'eremita: ha diretto giornali, conduce programmi in tv e scrive costantemente sulle pagine di quotidiani nazionali. Una vita ricca di pubblicistica e quindi pubblicissima, costellata di successi. Ma, ripetiamo, il problema non è lei, il problema sono gli altri: le frotte noiose e omologate che infestano il web con le loro porcherie. Certo, Facebook, Instagram e anche Twitter (specialmente da quando è di Musk!) non sono il catalogo della Adelphi, è piuttosto evidente a tutti, ma da una vessillifera dell'inclusività e da una ambasciatrice della tolleranza ci si aspetterebbe un po' più di umana comprensione verso il popolo della strada digitale. E invece no, la De Gregorio affonda il colpo senza esitazione, emana la condanna senza alcuna possibilità di appello, esprime con straordinaria ed esemplare franchezza tutto il suo disprezzo: «Le persone migliori che conosco non sono sui social(...). Però ripeto: statisti, inventori, poeti, navigatori, gente che pensa e scrive e lavora a costruire mondi (...). Non sono sui social». Insomma il messaggio è chiaro: il web è troppo democratico, troppo simile al mondo reale e quindi voi, buzzurri che non siete altro, «fate presto e uscite dai social», così la sinistra potrà trasformarli nell'ennesimo privè radical chic.

Madame vaccino, che libidine il disagio radical chic. La cantante regina di fluidità nella bufera per l’indagine sui falsi vaccini. Giornali in imbarazzo. Max Del Papa il 27 Dicembre 2022 su Nicolaporro.it.

Di questo passo, salta fuori un Madamgate, tipo Qatar. Anche perché, vedi caso, la faccenda, tanto per cambiare, si gioca tutta a sinistra. Riassunto della puntata precedente: una apprendista cantante, certa Francesca Calearo da Vicenza, in arte Madame, 20 anni, viene pompata secondo lo schema classico di questo business miserabile, alla Maneskin: poca sostanza, tanta tracotanza, compreso il vezzo di maltrattare i fan (i fan? Madame ha i fan?), “che cazzo volete, non vedete che sto mangiando”. Secondo la regola di Eugenio Finardi: “La gente si innamora sempre della gente convinta”. E vagamente stronza. Tu tiratela come fossi la Callas, e i pirla ci crederanno.

Vale anche nel giornalismo, oh, se vale… Questa Madame fa la non allineata, la non binaria e in due anni mette in fila due Sanremi, come tutti quelli iscritti fin da piccoli alla società dello spettacolo di regime, però col cipiglio: oh, io sono bisessuale, non facciamone una cosa, eh. No, guarda, stai facendo tutto tu, tipo la Lucarelli con le palette o la Murgia con la complessità cristiana. Poi viene fuori che la medica della Madame finisce in galera perché fingeva di vaccinare i pazienti, forse compresa la Madame, non binaria anche in senso sanitario e perciò indagata. Sai, quando le piccole ribelli escono fuori come le più conformiste. Ma ci arriviamo tra un attimo.

Oggi, e siamo all’attualità fresca come un uovo di giornata, si viene a sapere che la signorina è stata assoldata dal comune di Roma per il solito spettacolo di piazza di fine anno insieme ad altri ribelli quali la ribollente Elodie, una che quanto a finezza c’è solo da consolarsi (anche lei pare abbia preso a umiliare i fan, dall’alto dei suoi 4 tormentoni penosi), Franco 126, Sangiovanni (eh?) e tutta la pletora dei falsi indie, tutti belli pilotati, indottrinati, conformizzati. E qui scatta la libidine, perché nel frattempo è emersa la storia della Madame. E la farsa è splendida, venendo la festa organizzata da una amministrazione del partito che del regime vaccinale ha fatto la sua ragione di sopravvivenza, fin che gli è riuscito. Ma come, tu sei il partito degli sgherri di Draghi, quello che solo oggi ammette che le sue alchimie servivano a ricattare i cittadini – dopo averlo negato per quasi due anni: si chiama cialtronaggine – e poi tiri dentro una che potrebbe essersi vaccinata per finta?

Difatti l’imbarazzo, come si usa dire in figuredemmerda come questa, è palpabile. Bocche cucite in comune, cucita a doppio ricamo quella della Madamin. Per forza, che deve dì? E, questa volta, passare da martire traumatizzata, bullizzata, ghettizzata, insomma fregarli tutti, è complicato. Business for dummies, cretinetti che la difendono a prezzo di umiliare la loro intelligenza.

Francamente, si fatica a seguire la logica di chi dice: ah, c’era la dittatura, lei ha fatto solo che bene. Davvero? Ma così è troppo facile. Il regime si combatte denunciandolo: cercare di fregarlo con mezzucci squallidi significa non combattere il regime, ma rafforzarlo a tutto scapito dei povericristi che, magari, si ritrovarono ricattati e senza via d’uscita. C’è chi si è compromesso, nell’informazione, pochissimi, nello spettacolo, meno ancora; c’è chi, dopo essersi sierato, è uscito allo scoperto, prendendosi minacce e maledizioni ma senza rinunciare a raccontare effetti collaterali e disastri accessori. C’è chi si è messo frontalmente dalla parte del torto, siccome tutti gli altri posti erano occupati (vero Pelù, Svacco Rossi, e tutta l’armata Brancaleone dei cosiddetti artisti piddini plurimascherati e plurisierati, almeno a loro dire?). E poi ci sono le Madamette che, se confermate le accuse, pare facessero le furbette: avrebbe porto la spalla alla patria, ma per finta, non ha detto una parola contro un sistema del quale pare non fosse convinta, però l’ha sfangata o almeno così credeva (a margine: se era irregolare già l’anno scorso, la sua partecipazione a Sanremo, trasformato per l’occasione in un hub vaccinale con tanto di spot del ciambellano di regime Amadeus e vergognosi siparietti del compare Fiorello, è stata o non è stata truffaldina?).

No, signori belli: la signorina Calearo da Vicenza non si è salvata le chiappe meritoriamente: ha preso in giro tutti noi e tutti voi che magari vi state sputtanando da due anni per combattere, nel vostro piccolo, un andazzo di stampo cinese. Non è neppure vero che la ragazzina non ci speculi: sulla faccenda del gender in apparenza non si è spesa fino alla militanza, essendo consigliata da volpini & volponi, ma non ha mai perso occasione per parlare di sé, di sé e ancora di sé, secondo la regola aurea dell’egolatria social, ma sempre, comunque e in ogni luogo con implicazioni ferroviarie, cioè sono non binaria, ho la fidanzata, non facciamone un dramma, come nella scena dei dentisti neri in “Scappo dalla città”.

Non ha praticato la militanza di partito, ma ha esasperato la propaganda personale così da farsi adottare idealmente dal Partito. Difatti la prendono dappertutto, Sanremo, Primomaggio e Capodanno. Certo, con ribelli così chi ha bisogno dei conformisti. Solo che a questo punto il Sanremo è a rischio: in modo grottesco, perché la punizione è sproporzionata al fatto, questo è certo. Ma siamo, restiamo nel moralismo di sinistra che ha sostituito il Dio della complessità cristiana, in cui non ha mai creduto, con l’idolo, il totem, la siringa: dunque, se bestemmi in chiesa, cioè a Sanremo, i mammasantissima in Rai e altrove si trasformano seduta stante in talebani. Lo stesso, par di capire, per il concertone di San Silvestro, officiato sempre dagli stessi e al servizio degli stessi. Ma chi si vota alla causa piddina, lo deve sapere: questi sono spietati, ti infilano ovunque ma se caschi in disgrazia, se ti fai beccare, non ti hanno mai conosciuto. Funziona se ti chiami Panzeri, perfino se ti chiami Soumahoro e sei moro, o meglio, morto al mondo per loro. Figuriamoci se non funziona per una che si crede Janis Joplin. Tutto va mal, Madame la marchesa. Max Del Papa, 27 dicembre 2022

Lo strano silenzio dei radical chic, l'incubo Covid e Madame: quindi, oggi...Quindi, oggi...: l'assemblea della Juventus, Mattarella senza Covid e il Qatargate. Giuseppe De Lorenzo su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

 Lele Adani racconta di aver avuto un accordo "verbale” con la Rai per commentare la finale dei mondiali in Qatar qualora non ci fosse stata l’Italia. E spiega come mai alla fine è andata diversamente. Sintetizzo a modo mio: è cambiata la direzione Rai, hanno comunque mandato in onda quell’orrore che chiamano Bobo Tv, quindi meglio tenerseli amici per il futuro. Forse sono stato un po’ brusco, ma il senso dell’auto-celebrazione odierna di Adani (“sono un signore”, “Se sei giusto e semini comportamenti corretti, riceverai correttezza”) è questo: meglio farseli amici che nemici.

- L'assemblea degli azionisti della Juventus, riunita all'Allianz Stadium, ha approvato il bilancio 2021/2022, chiuso con una perdita di esercizio di oltre 238 milioni di euro. Mi spiegate quale azienda resterebbe in piedi e, soprattutto, quale potrebbe permettersi di pagare i propri “operai” una decina di milioni all’anno di salario?

- Piccola segnalazione al Corriere: in questo Paese c’è avversione al pagamento delle imposte per due motivi. Primo, perché sono troppo alte. Secondo, perché non forniscono servizi adeguati. E se papà spreca risorse in prebende inutili e bonus a pioggia, sarà permesso ai figli almeno di dissentire?

- Basti pensare a due delle tasse più odiose. Quella di successione e l’Imu. La prima va letta così: dopo aver pagato le imposte sul reddito, crepi e lo stato come ultimo saluto ti sottrae soldi tuoi già tassati. La seconda è simile: dopo aver acquistato un bene, e averci pagato l’Iva, lo Stato si cucca altri euro per il solo fatto di possedere quel bene. E poi mi volete dire che non ci sarebbe di che lamentarsi?

- In Cina milioni di casi Covid e forse pure migliaia di morti. A Malpensa obbligo di tampone allo sbarco. Qualcuno chiede almeno 5 giorni di quarantena per i cinesi. La domanda è: perché siamo così preoccupati se siamo protetti dal vaccino?

- Fa bene il governo a mantenere la barra dritta sulla dicitura padre e madre sulla carta di identità. In fondo, a meno di affitti di utero o di spermatozoi, non c’è alternativa alla biologia: si nasce dall’unione di un uomo e di una donna. La cosa mi pare fattuale.

- Fatemi capire: una delle “prove" dell’inchiesta sul Qatargate sarebbe un video che mostra come una valigia nelle mani di Panzeri “sembra più piena” di quando era entrata qualche ora prima. E quindi se ne deduce che dentro ci fossero dei soldi. Spero per i pm belgi ci sia dell’altro, perché questa “prova” reggerebbe in aula da Natale a Santo Stefano.

- Sia chiaro, non sto dicendo che Panzeri, Kaili e il marito siano innocenti. Però tutto questo rimestare nelle ipotesi e nelle supposizioni di certi giornali, sempre abili a leggere le carte dell’inchiesta, mi ricorda metodologie da prima e seconda Repubblica italiana che non mi piacciono per nulla. Tipo, leggete qui. Scrive Repubblica: “Gli inquirenti sottolineano un elemento: i biglietti aerei sono stati emessi da una agenzia di viaggio di Doha. Una circostanza che fa supporre che siano stati quindi pagati dal governo qatarino”. “Fa supporre” mi pare un tantino vago.

- Si dice che l’evasione sottrae al Fisco 100 miliardi di euro all’anno. Visto come li usa, siamo sicuri di volerli affidare allo Stato?

- Mattarella torna negativo al Covid. Bene, siamo felici per lui. E nulla ora potrà esimerci dall’ascoltare l’ottavo predicozzo natalizio del Capo dello Stato a reti unificate.

- La cantante Madame è solo indagata per falso ideologico a causa delle presunte false vaccinazioni per ottenere il green pass. Essendo solo all’inizio, è innocente. Quindi la sua partecipazione a Sanremo non deve essere in discussione. Punto.

- Resta il fatto che la notizia sia di quelle dirompenti: parliamo in fondo della trasmissione più vista della Tv nazionale, una sorta di rito collettivo. Eppure, chissà come mai, una partecipante indagata all'interno di un'inchiesta per falsi greenpass non merita per il Corriere neppure un richiamino in prima pagina. Lo stesso dicasi per La Stampa, che non riporta proprio la notizia, e Repubblica, che nasconde un pezzettino invisibile nell’angolo basso di pagina 31. Il silenzio dei radical chic - così amanti della fluidità di Madame - è di quelli imbarazzanti: avessero indagato qualcun altro, un Djokovic qualunque, l'avrebbero sotterrato di critiche.

- Franceschini, re delle correnti del Pd, sale sul carro della Schlein che con le correnti non voleva aver nulla a che fare. E nel benedire la candidata, dice al rivale: “La generazione del Pd mia e di Bonaccini ha guidato il partito ai vari livelli dal 2007 ad oggi e ora è giusto che lasci il passo”. Ma soprattutto invita Elly a “cambiare tutto”. Ecco: io inizierei a cambiare da chi è stato segretario dem, sottosegretario e ministro più volte negli ultimi anni. Ovvero rottamerei per primo Dario Franceschini.

- Mi fa però godere “come un riccio appena nato” (cit. Tik Tok) l’atteggiamento della stampa tutta, di Amadeus, del Festival e di tutto il resto nei suoi confronti. Da due giorni, tutti zitti. Nessun pezzo scandalizzato se non qualche cronaca colorita sul suo essere “fuori dagli schemi”. A questo serve essere “nel sistema”, capite? Questa rubrica ricorda infatti il trattamento riservato a Novak Djokovic che scelse di non vaccinarsi. Lo trattarono da appestato, da infame, da reietto. Eppure tra chi come Novak decide di non immunizzarsi alla luce del sole, pagandone le conseguenze, e quelli che per restare nei palazzi ovattati “dei buoni” hanno cercato di esibire un finto green pass, beh: non ho dubbi. Molto meglio Djokovic.

- Va bene, Amadeus ha ragione. È vero che Madame è innocente finché non viene dichiarata colpevole. Però allora questo principio lo dobbiamo applicare a tutti, non solo alla Messa di Sanremo. Un politico viene inquisito per corruzione? Lo si lasci candidare. Un manager viene indagato per aver intascato delle mazzette? Che nessuno osi chiederne le dimissioni. Voglio dire: mi spiegate perché Eva Kaili dovrebbe stare in carcere e invece Madame a cantare a Sanremo? Dal punto di vista legale, sono nella stessa identica posizione.

Natale, il sogno della sinistra: un 25 dicembre senza religione. Renato Farina su Libero Quotidiano il 25 dicembre 2022

Vicino alla basilica di San Petronio, dove tra poche ore si celebra la Notte Santa, le luminarie compongono i versi che annullano il Natale, il suo senso, la sua storicità. Niente Gesù. Lo privano di carne e ossa, nessun vagito di bimbo. L'amministrazione comunale di Bologna scandisce con le lampadine nella strada centrale dei negozi le due frasi di John Lennon (ispirate dalla sua musa e moglie, Yoko Ono) che affermano la religione del post cristianesimo: «Imagine there' s no heaven... and no religion too», cioè «immagina che non ci sia il paradiso e non ci sia neanche la religione». Il senso è: sarebbe fantastico, allora sì nascerebbe il mondo nuovo. Non ci sarebbero nazioni, nessuna identità particolare, ma un cosmopolitismo che darà all'uomo la pace senza bisogno di cercare Dio.

LA PROTESTA

Informato della faccenda per fortuna un vescovo si è inalberato. Monsignor Antonio Staglianò, presidente della Pontificia Accademia di Teologia, ha qualificato questa operazione come «insulsa provocazione anticlericale». E lo ha fatto su Avvenire, con ogni evidenza con la benedizione del cardinale Matteo Zuppi, che da questa città capeggia i vescovi italiani, e ha personalmente voluto evitare la polemica. C'è un problema. Qui non si tratta da parte dei citazionisti di Lennon di un uso distorto e fedifrago di «un meraviglioso Inno alla pace», come sostiene il prelato siciliano, il quale trasforma il fondatore dei Beatles in una sorta di precursore di Papa Francesco. Su, un po' di lealtà con gli autori, chieda pure alla artista giapponese che a 89 anni opera ancora tra noi: quelle frasi vogliono dire proprio quel che dicono. Nascono da un'opera di Yoko Ono, non c'è bisogno di nessun Salvatore per arrivare a pace e felicità.

Trattiamo perciò la faccenda per quello che è: non un tradimento del vero Lennon, il quale ha già miliardi di cultori del suo mito, ma un episodio nostrano e sfacciato di cancel culture. Il quale rivela di quale ideologia si nutra la sinistra anche oggi, soprattutto adesso: un'ideologia dove si mescolano ateismo e panteismo, nichilismo e utopia, negando l'essenza stessa della nostra identità di popolo e nazione.

Abbiamo rintracciato un antecedente. La Grande Enciclopedia Sovietica, che a Bologna negli anni '50 valeva più della Bibbia. Essa evidentemente fa ancora scuola. Ovvio, senza le rudezze della propaganda staliniana, ma il concetto è lo stesso: a Natale non è nato nessuno. Nella prima edizione, della colossale opera in 65 volumi, tra le 65mila voci, c'era infatti pure quella dedicata a Gesù Cristo. Tutto un fuoco d'artificio di scienza e di cultura marxista per arrivare alla verità-tà-tà: Gesù detto il Nazareno non è nato in alcun luogo, il personaggio narrato nei Vangeli è un'invenzione, un mito creato per abbindolare le masse popolari. I comunisti pur di impedire che qualcuno osasse porsi la domanda su chi fosse Gesù, troncarono il problema alla radice, negandone non solo morte e resurrezione (come il Corano) ma pure la nascita. Stalin fece insomma con Cristo un lavoro di sbianchettamento come se i Vangeli fossero il dossier Mitrokhin.

ADDIO AL FESTEGGIATO

E così siamo al Natale 2022. Per festeggiare il compleanno di Gesù niente di meglio che far sparire il festeggiato. Idea geniale del Minculpop del soviet municipale: niente Bambinello, zero stella cometa, figuriamoci Madonna e San Giuseppe.

Non che li si neghi apertamente. Non siamo davanti a gente volgare, ma a creature acculturate come volpini - direbbe Ezio Greggio - : fini lettori dei tempi. Nessuno striscione dunque tipo: «Gesù? No grazie». Neppure ci si sogna di emulare anche solo pallidamente la militante di Femen. (Nessun giornale o tg lo ha raccontato: nella chiesa di santa Maddalena a Parigi questa signora del movimento ceco ha mimato l'aborto del Messia, indi orinato sull'altare. Condannata in Francia, è stata considerata vittima dalla Corte europea dei diritti dell'uomo come eroina della libertà di espressione: sul serio, ottobre scorso). L'amministrazione degli Asinelli (nessuna allusione al presepe per carità, è il caso ci querelino) ha deciso, in occasione di quell'evento che pure conta qualcosa nella storia dell'umanità, forse addirittura più di Yoko Ono, di appendere luminarie dove Gesù è consegnato alla muffa degli spettri scaduti. Come voleva il compendio della cultura comunista sopra citato, si tratta di un mito superato, una leggenda ingannevole. Il titolo del Natale post-comunista e post-cristiano di Bologna, ma in piena aderenza all'idiozia dominante (citazione di Lars von Trier), potrebbe essere: dimenticare Betlemme. Noi ci ricordiamo, alla faccia vostra.

Andrea Morigi per “Libero quotidiano” il 27 dicembre 2022.

 «Venite, adoriamo», andrà bene per i personaggi del presepe, ma Michela Murgia e Roberto Saviano pretendono di avere l'ultima parola anche davanti alla grotta di Betlemme. Ce lo spiegano loro com' è andata 2022 anni fa. E all'improvviso, è come se vagonate di opere dei padri della Chiesa si estinguessero di fronte a tanta sapienza.

È la giusta punizione terrena per noi cristiani, che non abbiamo ancora capito che l'Italia è una terra di missione dove ormai la predicazione va fatta come nei Paesi di prima evangelizzazione, cioè in partibus infidelium. 

Come penitenza non ci si può sottrarre nemmeno a una meditazione sul significato del Natale così come ci viene proposta sulle pagine della Stampa e su Twitter, anche se affrontare le omelie degli intellettuali laici sulle pagine evangeliche significa prepararsi a riedificare dalle fondamenta l'edificio di una cultura esegetica di cui ormai si è perduta la consapevolezza in larga parte dell'Occidente ex cristiano.

IL MISTERO

Per spiegare il mistero dell'Incarnazione, e della conseguente Natività di Gesù Cristo, si dice che molti bambini siano diventati re, ma che nell'arco di tutta la storia umana solo un re è diventato bambino. In più occorrerebbe premettere che la scelta di incarnarsi in un infante è unicamente frutto della volontà di Dio. 

Così come anche la decisione di vivere nel nascondimento, rimandando l'inizio della vita pubblica fino all'età di trent' anni. Negli Esercizi spirituali di sant' Ignazio, il prologo della vicenda è spiegato in tre scene: «Le tre divine Persone osservano tutta la superficie o rotondità di tutto il mondo piena di uomini»; «vedendo che tutti scendevano all'inferno, decidono nella loro eternità che la seconda Persona si faccia uomo, per salvare il genere umano»; «e così, giunta la pienezza dei tempi, inviano l'angelo san Gabriele a nostra Signora».

Alla Murgia, critica nei confronti della tradizione cattolica e della «infantilizzazione» di Dio, a suo modo di vedere non fondata sulla Sacra Scrittura, non si può peraltro contestare, come fanno molti commentatori delle sue parole, di non essere in possesso di una formazione teologica. 

Qualsiasi contadina analfabeta sarda del Medioevo, abituata però a pregare tanto, ne avrebbe saputo più di lei, che sembra avere studiato parecchio pur non avendo capito nulla. Ne sarà sorpresa, ma ci sono anche altre fonti della divina rivelazione, come la tradizione della Chiesa. E anche il magistero, cioè l'insegnamento dei Papi e dei vescovi.

D'altra parte, malgrado lo scetticismo della scrittrice, non è nemmeno necessario conoscere a fondo la Parola di Dio per avere qualche informazione in più sull'attesa che traspare in molti passi dei profeti - nei confronti di un Messia. Tant' è che ci sono ebrei messianici convinti che il Salvatore debba ancora arrivare. 

IL CONDOTTIERO

Alcuni nel popolo d'Israele speravano perfino che si trattasse di un condottiero che li avrebbe affrancati armi in pugno dalla dominazione dell'impero romano. 

A loro, e a quanti s' immaginano un Cristo-Guevara, eroe della lotta o della teologia della liberazione, si presenta un neonato inerme, che non vuole scatenare una Rivoluzione facendo leva sulle contraddizioni sociali, ma sanare ciò che le causa. Eppure, allo scrittore Roberto Saviano è parso di dover ricordare «a chi blatera in loro nome» che «Maria, Giuseppe e Gesù sono stati profughi».

Quel che lo «emoziona» è «che si cerchi redenzione in una famiglia stretta intorno a un bambino la cui innocenza lo proclama re». Innanzitutto, la genealogia del Redentore degli uomini, rintracciabile dalla prima riga del primo libro del Vangelo di San Matteo, spiega che proviene da una stirpe di monarchi risalente al re Davide, che decisamente non fu sempre innocente. 

E poi, siccome insegnare agl'ignoranti è una meritoria opera di misericordia spirituale, l'autore di Gomorra merita di essere corretto almeno su un altro punto. Quello che lui definisce «un bambino perseguitato» e «costretto alla fuga insieme alla sua famiglia per salvarsi la vita», non fu mai «respinto ai confini» o «arrestato insieme a chi lo avesse aiutato ospitandolo». Nacque in una provincia dell'Impero romano, la Giudea, poi si spostò in un'altra, l'Egitto, per evitare la strage degli innocenti voluta da re Erode nei confronti dei figli del suo stesso popolo. Infine fu crocifisso, certamente non in quanto straniero, ma in quanto Dio. Poi risorse. Ma ne riparleremo a Pasqua con Murgia e Saviano.

Sinistra umanitaria, Sallusti: fanno i buoni, ma non gratis. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 24 dicembre 2022

È Natale, dobbiamo essere tutti più buoni. Ci sto, a una sola condizione: non passare per fessi, che nel mio mestiere significa andare appresso ai furbi che si fanno passare per saggi, o se preferite ai furbi che intrallazzano facendosi scudo con "l'aiuto umanitario", pratica nobile ma scivolosa. E non è un caso se a scivolare sono soprattutto esponenti della sinistra comunista nel cui pantheon ci sono solo figure che all'umanità hanno fatto più male che bene. Nessuno in queste ore ha il coraggio di mettere in fila tre fatti di cronaca e dimostrare che il vero problema non sono le singole storie ma la cultura comune che le ha generate, per l'appunto la cultura comunista.

Proviamoci. Antonio Panzeri, regista dello scandalo Qatar, è stato un potente segretario della Cgil, poi membro della direzione dei Ds, deputato europeo del Pd e infine socio di Articolo 1, il partito di Speranza, D'Alema e Bersani. A Bruxelles è stato presidente della sottocommissione europea per i diritti umani e ha fondato l'Ong umanitaria Fight Impunity che oggi sappiamo essere un bancomat di famiglia (ieri gli hanno sequestrato altri 240 mila euro di provenienza sospetta).

La storia di Panzeri è molto simile a quella della famiglia Soumahoro, l'immigrato adottato dagli intellettuali di sinistra e portato da Nicola Fratoianni, leader di Sinistra Italiana, a sedere in Parlamento come paladino degli ultimi. Oggi sappiamo che anche l'Ong, ovviamente umanitaria, dei Soumahoro era un bancomat personale che ha dissipato milioni di soldi pubblici.

E arriviamo alla terza storia. Anche in questo caso ci sono di mezzo Fratoianni, Sinistra Italiana e una Ong va da sé umanitaria, specializzata nel soccorso di naufraghi. Fratoianni è infatti l'ultimo padrino politico di Luca Casarini, già attivista no global e comunista a tempo pieno. Il tribunale di Ragusa ha disposto ieri il sequestro di 125 mila euro che l'Ong di Casarini aveva intascato da un armatore danese per liberarlo dalla scocciatura di avere a bordo 27 immigrati casualmente intercettati in mare aperto. L'accusa è di favoreggiamento di immigrazione clandestina, un taxi del mare alla modica cifra di 4600 euro a immigrato. Ma quanto sono umanitari 'sti comunisti? Ma soprattutto, quanto sono fessi i non pochi che ancora gli tengono bordone?

*** Ps. Con affetto e riconoscenza buon Natale a tutti voi lettori. Libero, come tutti i quotidiani, tornerà in edicola martedì 27 dicembre. 

Estratto dell'articolo di Alberto Fraja per "Libero quotidiano" il 22 febbraio 2023.

Quando si discute di pubblicità, la prima disputa da conciliare è la seguente: di cosa stiamo parlando? […] Di qua, c’è chi alla pubblicità non riconosce dignità estetica siccome lo stigma utilitaristico che le deriva dall’essere un’attività al servizio degli interessi di chi la propizia e la finanzia non può conferirle lo statuto del dono.

Di là c’è addirittura chi come Emanuela Gabrielli, esperta del ramo, considera i consigli per gli acquisti addirittura l’Undicesima Arte. […]

Ciò accade quando capita che non pochi fuoriclasse della letteratura e del giornalismo hanno prestato il proprio genio alla pubblicità coniando slogan, curando cataloghi, addirittura sceneggiando spot. Sulla vexata quaestio, uno stimolante spunto di riflessione potrebbe offrirlo il libro Pubblicità d’autore (Castelvecchi, 164 pagine, 20 euro) di Paola Sorge.

Il volume è una sorta di sorprendente elenco di insospettabili copywriters usciti da una antologia di letteratura. Sapevate per esempio che il grande Giovanni Pascoli, per celebrare l’Olio Sasso, sciolse un Inno all’ulivo? E che Matilde Serao, per quei pochi che lo ignorassero la prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano, Il Corriere di Roma, esperienza ripetuta con Il Mattino, nel 1901 realizzò un catalogo in cui celebrava ciprie, pomate e creme per il viso della Venus Bertelli dal titolo Fascino muliebre?

Massimo Bontempelli dedicò addirittura un romanzo (Racconto di una giornata) alla nuova auto nata in casa Fiat, la 522, e scrisse due righe deliziose per la Roberts & C. dal titolo Duiblar. Del d’Annunzio creatore di slogan pubblicitari si sa già tanto. Egli fu il più geniale e pagato celebratore di biscotti, profumi, liquori, penne, inchiostro e chi più ne ha più ne metta. […] Egli partorì idee reclamistiche applicate tanto a obiettivi militari quanto alle merci, al volantinaggio su Fiume come ai biscotti Saiwa.

Formidabile copy fu anche il poeta romano Carlo Alberto Camillo Salustri, in arte Trilussa. Suoi i versi dedicati alla Pasticceria del Re Sole. […]

Tommaso Filippo Marinetti spenderà parte del suo talento esaltando le innovazioni chimiche della Soia Viscosa mentre Luciano Folgore cantò le lodi dell’Idrolitina. Davide Campari ebbe la fortuna di incappare in un genio come Fortunato Depero, disegnatore dell’iconica bottiglietta con il primo aperitivo monodose "pronto da bere".

Nel dopoguerra venne sviluppandosi una filosofia della réclame diversa, "non autoritaria" come la definì Elio Vittorini presentando una raccolta di stampe Olivetti. Non a caso il marchio di Ivrea avrà come eccellenti scrittori di pubblicità gente come Dino Buzzati, Giovanni Giudici, Franco Fortini e Vittorio Sereni.

Luigi Malerba fu un infaticabile ideatore di spot e perfino producer per Carosello: nel suo carnet di creativo figurano campagne per Agip, le caramelle Dofour e la birra Beck. A vergare suggerimenti commerciali furono anche Mario Soldati (ricordate? Degustava una fetta di Bel Paese Galbani in favore di telecamera), Dacia Maraini, Aldo Busi e gli insuperabili Fruttero&Lucentini che nel 1998 scrissero brevi storie per un brand del lusso come Bulgari.

Anche il ruolo da testimonial di alcuni intellettuali giocò a favore dello scambio tra autori e merci. Charles Dickens lo fu della penna Brandauer, Mark Twain spese il suo prestigio a favore di penne stilografiche, tabacco e automobili mentre Oscar Wilde, durante una tournée in America, non si fece pregare due volte alla richiesta di pubblicizzare sigari newyorchesi e financo marche di tappeti. Ernest Hemingway, nel 1951, affiancò la sua bella immagine a una pagina manoscritta in cui intonava un peana alla birra Ballantine.