Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

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ANNO 2023

LA CULTURA

ED I MEDIA

TERZA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Covid: sembrava scienza, invece era un…calesse.

L’Umanità.

I Benefattori dell’Umanità.

Le Invenzioni.

La Matematica.

L’Intelligenza Artificiale.

La Digitalizzazione.

Il PC.

I Giochi elettronici.

I Robot.

I Chip.

La telefonia.

Le Mail.

I crimini sul web.

Al di là della Terra.

Gli Ufo.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Da Freud all’MKUltra.

I Geni.

I Neuroni.

La Forza della Mente.

Le Fobie.

L’Inconscio.

Le Coincidenze.

La Solitudine.

Il Blocco Psicologico.

La Malattia.

La Depressione.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scrittura.

La Meritocrazia.

Le Scuole al Sud.

Le Scuole Private.

Il Privatista.

Ignoranti e Disoccupati.

Ignoranti e Laureati.

Decenza e Decoro a Scuola.

L’aggiotaggio scolastico.

La Scuola Alternativa.

La scuola comunista.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’onestà e l’onore.  

Il Galateo.

Il Destino.

La Tenacia.

La Fragilità.

Body positivity. Essere o apparire?

Il Progresso.

Le Generazioni.

I Baby Boomer.

Gioventù del cazzo.

Il Linguaggio.

I Bugiardi.

L’Ipocrisia.

I Social.

Influencer.

Le Classifiche.

L’Amicizia.

Il fastidio.

L’Invidia.

L’Odio.

Il Mostro.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Moda.

Le Auto.

I Fumetti.

I Giochi da Tavolo.

L’Architettura e l’Ingegneria.

Il Restauro.

Il Podcast.

L’Artista.

La Poesia.

La Letteratura.

Il Teatro.

Le Autobiografie.

L’Ortografia.

Intrecci artistici.

La Fotografia.

Il Collezionismo.

I Francobolli.

La Pittura.

I Tatuaggi.

Le Caricature.

I Writer.

La Musica.

La Radio.

Le Scoperte.

Markalada, l'America prima di Colombo.

La Storia.

La P2 culturale.

Ladri di cultura.

I vandali dell'arte.

Il Kitsch.

Gli Intellettuali.

La sindrome di Stendhal.

Gli Snob.

I radical chic.

La Pubblicità.


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Alberto Asor Rosa.

Alberto Moravia.

Aldo Nove.

Alessandro Manzoni.

Alessia Lanza.

Aleksandr Isaevic Solzhenicyn.

Andy Warhol.

Andrea Camilleri.

Andrea Pazienza.

Anna Premoli.

Annie Duchesne Ernaux.

Anselm Kiefer.

Antonio Delfini.

Antonio Riello.

Artemisia Gentileschi.

Benedetta Cappa.

Barbara Alberti.

Beethoven.

Banksy.

Camillo Langone.

Caravaggio.

Carlo Emilio Gadda.

Chiara Gamberale.

Cristina Campo.

Curzio Malaparte.

Dacia Maraini.

Dante Alighieri.

Dante Ferretti.

Dario Fo.

Dino Buzzati.

Domenico "Ico" Parisi.

Eduardo De Filippo.

Elena Ferrante.

Eleonora Duse.

Emanuel Carnevali.

Emmanuel Carrère.

Émile Zola.

Emilio Isgrò.

Ennio Morricone.

Enrico "Erri" De Luca.

Erin Doom.

Eugenio Montale.

Eve Babitz.

Ezra Pound.

Fabio Volo.

Federico Fellini.

Federico Palmaroli: Osho.

Friedrich Nietzsche.

Filippo Tommaso Marinetti.

Francesco Alberoni.

Francesco Piranesi jr.

Franco Cordelli.

Franco Ferrarotti.

Franz Kafka.

Fulvio Abbate.

Gabriele D'Annunzio.

Gaetano Bonoris.

Gaetano Salvemini.

George Orwell.

Georges Simenon.

Giacomo Leopardi.

Giacomo Puccini.

Giampiero Mughini.

Gianfranco Salis.

Gianni Vattimo.

Gianrico Carofiglio.

Gioachino Rossini.

Giordano Bruno Guerri. 

Giorgio Manganelli.

Giovanni Testori.

Giovanni Verga.

Giovannino Guareschi.

Giuseppe Prezzolini.

Giuseppe Verdi.

Hanif Kureishi.

Italo Calvino.

Jago sta per Jacopo Cardillo.

Jacques Maritain.

Jean Cocteau.

Jean-Jacques Rousseau.

John Ronald Reuel Tolkien.

Johann Wolfgang von Goethe.

J. K. Rowling.

Jorge Luis Borges.

Julius Evola.

Lara Cardella.

Laura Ingalls Wilder.

Lee Miller.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lina Sotis.

Luigi Illica.

Luigi Vanvitelli.

Luis Sepúlveda.

Louis-Ferdinand Céline.

Ludovica Ripa di Meana.


 

INDICE SESTA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Marcello Marchesi.

Marcello Veneziani.

Marina Cvetaeva.

Mario Vargas Llosa.

Mark Twain.

Martin Scorsese. 

Massimo Rao.

Matilde Serao.

Maurizio Cattelan.

Mauro Corona.

Michel Houellebecq.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarroti.

Michelangelo Pistoletto.

Michele Mirabella.

Michele Rech: Zerocalcare.

Milo Manara.

Oliviero Toscani.

Oriana Fallaci.

Pablo Neruda.

Pablo Picasso.

Paul Verlaine.

Pier Paolo Pasolini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Pietro Cavallini.

Pietro Citati.

Primo Levi.

Robert Capa.

Roberto Ruffilli.

Roberto Saviano.

Salman Rushdie.

Sergio Leone.

Sergio Pautasso.

Sibilla Aleramo.

Stefania Auci.

Susan Sontag.

Suzanne Valadon.

Sveva Casati Modignani.

Tim Page.

Truman Capote.

Tullio Pericoli.

Umberto Eco.

Umberto Pizzi.

Wolfang Amadeus Mozart.

Vasco Pratolini.

Veronica Tomassini.

Virginia Woolf.

Vitaliano Trevisan.

Vittorio ed Elisabetta Sgarbi.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

Controinformazione e contraddittorio.

Lo ha detto la Televisione…

L’Opinionismo.

L’Infocrazia.

Rai: Il pizzo e l’educatrice di Stato.

Mediaset: la manipolazione commerciale.

Sky Italia.

La 7.

Sportitalia.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le fake news.

I Censori.

Il Diritto d’Autore e le furbizie di Amazon.

La Privacy.

L’Oblio.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

Wikipedia, l’enciclopedia censoria.


 

INDICE NONA PARTE


 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Se questi son giornalisti!

Gli Uffici Stampa.

Il Corriere della Sera.

Avanti!

Il Fatto Quotidiano.

La Gedi.

L’Espresso.

Il Domani.

Il Giornale.

Panorama.

La Verità.

L’Indipendente.

L’Unità.

Il Manifesto.

Il Riformista.

I più noti.

Alberto Dandolo.

Alberto Matano.

Alda D’Eusanio.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Amedeo Goria.

Andrea Scanzi.

Angela Buttiglione.

Angelo Guglielmi.

Annalisa Chirico.

Antonello Piroso.

Antonio Caprarica.

Antonio Di Bella.

Augusto Minzolini.

Attilio Bolzoni.

Barbara Costa.

Barbara Palombelli.

Bruno Vespa.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carmen Lasorella.

Cesara Bonamici.

Claudio Sabelli Fioretti.

Clemente Mimun.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Corrado Formigli.

Cristina Parodi.

David Parenzo.

Donatella Raffai.

Enrico Mentana.

Enrico Varriale.

Enzo Magistà.

Fabio Fazio.

Federica Sciarelli.

Ferruccio Sansa.

Filippo Facci.

Flavia Perina.

Franca Leosini.

Francesca Barra.

Francesca Fagnani.

Francesco Borgonovo.

Francesco Repice.

Furio Focolari.

Gennaro Sangiuliano.

Gian Antonio Stella.

Gian Marco Chiocci.

Gianni Riotta.

Gigi Marzullo.

Giovanni Minoli.

Hoara Borselli.

Indro Montanelli.

Italo Cucci.

Ivan Zazzaroni.

Jas Gawronski.

Laura Tecce.

Lirio Abbate.

Lucia Annunziata.

Luisella Costamagna.

Malcom Pagani.

Manuela Moreno.

Marco Travaglio.

Mario Sechi.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Massimo Gramellini.

Maurizio Mannoni.

Mia Ceran.

Michele Cucuzza.

Michele Santoro.

Milena Gabanelli.

Myrta Merlino.

Natalia Aspesi.

Nicola Porro.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Flores d'Arcais.

Riccardo Iacona.

Roberto D’Agostino.

Roberto Poletti.

Romana Liuzzo.

Rula Jebreal.

Salvo Sottile.

Selvaggia Lucarelli.

Serena Bortone.

Sigrido Ranucci.

Tancredi Palmeri.

Tiberio Timperi.

Tiziano Crudeli.

Tommaso Cerno.

Valentina Tomirotti.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.


 

LA CULTURA ED I MEDIA

TERZA PARTE


 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’onestà e l’onore.  Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente il 25 marzo 2023.

Le etimologie sono d’aiuto. Il fatto che onestà e onore siano parole con analoga etimologia fa pensare. Che cos’hanno davvero in comune? Le società umane che cosa riconoscono di valido ad ambedue i termini?

Andando per intuito sembra che l’onestà, rispetto all’onore, abbia un significato positivo più generalizzato, più profondo ma anche più astratto, mentre l’onore riguardi di più il rapporto del singolo con la collettività che gli riconosce di aver agito rispettando le regole.

Nell’Antica Roma si era anche edificato un tempio dedicato congiuntamente a Onore e Virtù ma prima di tutto erano la Fiducia e la Concordia a fondamento del buon andamento della collettività e della salute pubblica, come ricorda Georges Dumézil nei suoi studi. E tutte queste erano le divinità a protezione della buona fede, del rispetto delle promesse e dei patti. L’onore, nel suo senso arcaico (corrispondente al greco géras), viene riconosciuto dall’insieme dei membri di un gruppo sociale, in rapporto al buon esito della spartizione del bottino, ad esempio a seguito del saccheggio di una città. Queste sono le considerazioni di Emile Benveniste a proposito di un passo dell’Iliade di Omero. Rimane comunque frequente l’insoddisfazione di qualcuno, in questo caso Achille, nel risultato della suddivisione. E dunque inevitabili le lotte sanguinarie che ne conseguono. Pensiamo a tutti i film in cui i complici litigano sul bottino, perché qualcuno, a buono o cattivo titolo, vuole impadronirsi della parte degli altri.

Niente di nuovo dunque sotto il sole: l’onore è una faccenda che può degenerare se è connessa a un atto di violenza, o per gli eccessi di qualcuno o per il mancato riconoscimento del merito e dei diritti di ciascuna parte in gioco in rapporto alle altre. L’onore dunque attiene alla socialità e alla posizione che qualcuno pensa di poter assumere esercitando un diritto che ritiene gli provenga dalla natura o dalla tradizione. In questo senso si evidenzia il significato antropologico dell’onore, la sua forza ancestrale, quasi totemica, apparentemente irrazionale. L’etnologo Salvatore D’Onofrio parla dell’onore come di “un capitale simbolico che l’intera società o parti di essa chiedono all’individuo di non disperdere con atti ritenuti contrari al sistema di valori dominante”. Tragicamente tipico il cosiddetto delitto di onore, quando erano ancora sopravissuti, nel ruolo maschile delle relazioni tra uomo e donna, valori distorti quasi totalmente superati dai tempi. E ancora il concetto di onore si collega all’infedeltà nelle raffigurazioni corporee della vergogna e del dileggio, come ad esempio le corna, simbolo noto in tutta Europa e non soltanto nel nostro Paese. Dove l’ironia interviene soltanto a patto che si rinunci alla violenza e il dramma si consumi soltanto sul piano verbale dell’insulto, dello scherzo e della derisione.

Dunque l’onore dal posto altisonante di grande virtù scende al basso corporeo e si può trasformare, in seguito al mancato rispetto dell’amicizia obbediente e della pretesa fiducia reciproca, in movente di delitti. L’onore, dunque, al di fuori del potere sembra che non possa esistere.

Con il suo contraltare emotivo: la paura, il sentimento del ricatto. Come scriveva Leonardo Sciascia ne Il giorno della civetta (1960), “la paura gli stava dentro come un cane arrabbiato: guaiva, ansava, sbavava, improvvisamente urlava nel suo sonno; e mordeva, dentro mordeva, nel fegato e nel cuore”. Perché “niente è la morte in confronto alla vergogna”.

Onestà, parente stretta di onore, in quanto ambedue parole derivanti dal latino honor, sembra invece sfidare quasi il potere e mostrare una tenacia originaria, una trasparenza, l’ambizione di farsi riconoscere, di non aver nulla da nascondere. L’onestà è ambiziosa, percorre l’azzardo di chi vuole “ancora una volta scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia” (L. Sciascia, Una storia semplice). L’onesto, come scriveva Dostoevskij, non ha paura di rivelare, di denunciare il male per affermare il bene. L’onestà non è soltanto un principio ma un progetto, è proiettata non come l’onore in un riconoscimento ma nell’ammissione, da parte di ognuno, dei propri limiti e delle proprie colpe che spetta soprattutto a chi è giudice. Come scrive, quasi paradossalmente, nei Fratelli Karamazov, “se io fossi davvero giusto, forse non ci sarebbe neppure quel delinquente che ora sta davanti a me”. Dunque l’onestà corre il rischio di farci sbagliare e per questo è direttamente connessa alla responsabilità individuale di ciascuno.

Onore allora contro onestà? Potere contro responsabilità? Sui limiti e gli incroci di questi due concetti si gioca molto del dramma umano e della felicità pubblica.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Fedeltà, fiducia, fede. Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente l’8 aprile 2023.

La vita di ciascuno di noi ha uno stampo tipicamente relazionale. L’identità personale, l’individualità stessa non può venire pensata al di fuori di una gamma multiforme di rapporti con gli altri. Con gli altri esseri viventi, intendo, ma anche con le cose, con gli oggetti reali e percepibili, e così pure con le entità che non conosciamo direttamente, perché sono lontane da noi o perché pensiamo che esistano anche senza averle mai incontrate.

Ma la relazione, le relazioni funzionano anche quasi come una richiesta di essere, di esserci che ci perviene dall’esterno, una domanda che riguarda, in fondo, lo spazio, il valore che noi attribuiamo a ciò con cui siamo in rapporto.

Qual è appunto la qualità di questo rapporto? Si tratta di qualcosa di unilaterale o di alternante, ammette la reciprocità o la subordinazione, è persistente o è transitorio, è di tipo progettuale o si trova già definito, e infine quale altra forma di legame e affinità prevede?

Questi interrogativi investono soprattutto una speciale area di attività simbolica, immaginativa che è attinente, nella accezione più generale e arcaica, alla fedeltà personale, nella forma in cui l’ha presentata Emile Benveniste nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee (trad.it. Einaudi 1976). L’origine remota è quella di una società guerriera, di un ordine militare, e dunque dipendente dal legame fra chi deteneva una autorità e colui che gli era sottomesso per un impegno personale. Ma indica anche una amicizia guerriera tra pari oppure quella tra ciascuno e la truppa di cui fa parte.

L’espressione per eccellenza, nota Benveniste, della nozione di fedeltà è espressa dalla parola latina fides ‘fede’ che contiene anche accezioni di confidenza, obbligo e promessa. Interessante l’evoluzione che, dai vincoli militari, scivola verso aspetti morali, comportamentali, dove, se si traduce fides con ‘fiducia’, emergono nelle testimonianze antiche due distinte prospettive: la fiducia che qualcuno ha verso di me, da un lato, e dall’altro la fiducia che io sono in grado di ispirare. E tutto ciò in analogia col concetto di credito, nello specifico il credito di cui si gode presso il partner, oppure, in un altro caso, la fiducia che sono in grado di suscitare da parte di un interlocutore, quindi la mia affidabilità.

Il credere, il credito, la credibilità sono dunque la posta in gioco nel campo della fedeltà, della fiducia e anche della fede. Ecco pertanto emergere in pieno il concetto di relazione e di reciprocità, per cui la fiducia e/o la fedeltà nascono nello scambio, nella specularità di un atteggiamento.

Questa specularità diventa perfino curiosa nel campo della fede, assume un sapore teologico, perché la fede non è allora soltanto un sentimento gettato nell’ignoto, alimentato da una speranza trascendente, ma fa parte anche di un paradosso, quasi che Dio dovesse avere fede in me perché io possa avere fede in lui. Da un punto di vista cristiano, interessante notare che il fedele debba rivolgersi al Signore perché sia lui a rafforzargli la fede, ma questo fa parte di uno di quei rovesciamenti di prospettiva richiesti proprio al fedele, per cui non si può avere fede se non si ha “una profonda fiducia nella grandezza della vocazione umana” (così affermava Giovanni Paolo II).

In ogni caso, qualunque sia la prospettiva entro la quale scegliamo di agire, qualunque sia l’ambito del nostro credere o non-credere, la conversione vera e propria, suggerisce Benveniste, è quella che l’umanità ha incontrato nel proprio sviluppo storico, e precisamente quella che consiste non più nella fiducia che uno risveglia in qualcun altro ma nella fiducia che noi mettiamo in qualcuno. Di conseguenza fedeltà, fiducia, fede, ma anche la parente stretta ‘confidenza’, non sono qualcosa che ci dobbiamo attendere ma qualcosa che dobbiamo suscitare. In gioco c’è la nostra iniziativa, la nostra volontà di provocare determinate reazioni, l’esempio che offriamo perché ci venga restituito, scambiato come in un dono. Fedeltà, fiducia, fede come doni dunque per cui si attende una ricompensa, una reciprocità, quanto meno una risposta.

L’evoluzione, la conversione a cui abbiamo accennato riguarda la conoscenza di se stessi: bisogno che nasce in Occidente circa mille anni orsono, l’idea cioè di una singolarità umana, di una specificità di ciascuno di noi che si va poi a misurare nello scambio, nell’incontro, nell’attesa. A parere di Colin Morris, autore de La scoperta dell’individuo (trad. it. Liguori), questa novità si era avvertita con la nascita della scrittura autobiografica di cui era stato antesignano Agostino di Ippona, all’inizio del V secolo. “Se tu non conosci te stesso, mettiti in viaggio”, annotava Guglielmo di Saint Thierry intorno al 1130.

In effetti, come ha mostrato la ricerca glottologica, fides è parente del verbo latino credo, l’aver fiducia è strettamente legato al credere: al credere in se stessi, al credere in qualcuno all’insegna della interdipendenza e del bisogno scambievole. In effetti fides, la fede, è parola collegata al greco péithomai, ‘obbedire’, ‘persuadere’, ‘pregare’. Essa ha a che fare con una promessa, un convincimento che determina un obbligo. Gli aspetti giuridici, psicologici, perfino religiosi, diventano quindi strettamente legati. L’avere fiducia raffigura una pratica nutrita di principi quasi mistici, imponderabili. Ma non vorrei trascurare un altro aspetto, che accenna al fondamento naturale del provare e dimostrare fiducia.

In conclusione, non posso fare a meno di ricordare le pagine di un piccolo libro, per certi versi superato: E l’uomo incontrò il cane (trad.it. Adelphi 1973), del fondatore dell’etologia moderna, Konrad Lorenz, il quale nota qualcosa che assomiglia molto alla dimensione guerriera di cui abbiamo parlato all’inizio. Una forte ragione dell’attaccamento di un cane risiede nella fonte istintuale che lega il cane selvatico alla figura del capo branco ma anche nell’affetto personale che unisce fra di loro i compagni di branco.

Se poi passiamo dall’attaccamento alla fedeltà, cioè al rapporto di affezione del cane con un determinato padrone, le parole con cui Lorenz chiude quel libro sono quasi commoventi. “Per ragioni di ordine naturale, l’uomo non può restare fedele a un solo cane ma certo può esserlo alla sua stirpe. È nella legge della natura che questa sia per lui più importante dell’individuo e che, di conseguenza, il cane sia più fedele dell’uomo. Quando per silenziosi sentieri in mezzo ai prati, su polverose strade di campagna, oppure in città la mia Susi mi cammina alle calcagna con tutti i sensi tesi a non perdermi, allora lei è tutti i cani che mai abbiano trottato alle calcagna del loro padrone: una somma incalcolabile di amore e di fedeltà!”.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Darsi del tu o del lei? Il caso di Agnelli e Romiti. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2023.

Caro Aldo, gradirei conoscere il suo parere su chi ha ragione tra Umberto Eco, che ha affermato che «darsi sempre del tu è una finta familiarità che rischia di trasformarsi in insulto», e il vezzo di alcune presentatrici di dare il tu ai loro interlocutori senza curarsi, a non dir d’altro, della differenza di età, dell’incarico pubblico ricoperto e della posizione sociale. Giuseppe Costarella

Caro Giuseppe, François Mitterrand, leader socialista, consentiva il tu solo ai commilitoni con cui aveva diviso la prigionia al tempo della seconda guerra mondiale. Jacques Chirac, suo successore all’Eliseo, dava del voi alla moglie Bernadette. Gianni Agnelli e Cesare Romiti si sono dati del lei per tutta la vita. La sua mail, gentile signor Costarella, ha fatto riaffiorare un ricordo della mia infanzia: la nonna che bacia sulle guance una sua coetanea, mentre si dicono in piemontese «dumse du ti», diamoci del tu; credo si conoscessero da sempre, ma solo in quel momento ruppero la formalità che aveva segnato il loro rapporto (e comunque nel Piemonte di cinquant’anni fa mai due uomini si sarebbero baciati sulle guance, neanche fossero stati fratelli). In realtà, si può avere un rapporto di familiarità e financo di complicità con una persona cui si dà del lei, e avere un rapporto freddo e distante con una persona cui si dà del tu. È abbastanza normale che ci si dia del tu tra colleghi e in genere tra persone della stessa generazione. È scortese che una persona più giovane dia del tu a una persona più anziana, o che un cliente dia del tu a un cameriere, o dare del tu a una persona che ci dà del lei. La confidenza non concessa è una forma di maleducazione. Diciamo che se tornassimo a considerare il «lei» come la forma base della conversazione, apprezzeremmo di più il «tu».

Pizzini sanremesi Il nuovo galateo contemporaneo non passa l’esame Soncini. Guia Soncini su L’Inkiesta il 6 Febbraio 2023

Il New York Magazine dedica la copertina al bon ton e a ciò che serve per comportarsi bene in un’epoca in cui tutto è cambiato. Ma in realtà è solo una lista di cose insensate o più vecchie del Festival

Se siete gente che mi frequenta, potete saltare queste prime righe, in cui dico cose che già saprete: che sono la più formidabile cafona che si possa incontrare, che sto seduta con posture che ricordano più Vito Corleone che Kate Middleton, che mangio con le mani e mi soffio il naso nel tovagliolo.

Tutta questa premessa per dichiarare il mio conflitto di disinteresse rispetto al bon ton. Su Instagram seguo Elisa Motterle, serissima docente di questa disciplina a me aliena, e quando vedo suoi follower chiedere il permesso di usare il coltello se stanno mangiando una pietanza per la quale lei ha detto che si può usare solo la forchetta, ma in quel caso la cottura le dà la consistenza d’una scarpa e con la forchetta proprio non riescono, mi si stringe il cuore.

La vita, per chi vuol essere educato, dev’essere faticosissima – e ve lo scrivo seduta tra un piano e l’altro del mio palazzo, sulle scale dove mi sono accasciata per sfilarmi il reggiseno che m’infastidiva troppo per resistere fino a casa. Credo che non sia previsto da alcun bon ton denudarsi sul pianerottolo, ma vorrei invocare un’attenuante: io almeno non scrivo prontuari sul nuovo galateo.

Il New York Magazine, invece, con la disperazione di chi deve fare decine di copertine l’anno e mica può farsi venire sempre buone idee, ha deciso di dedicare la sua ultima copertina al nuovo galateo, quello di cui c’è bisogno (si fa per dire) in un’epoca in cui tutto è cambiato, e le preoccupazioni, a guardare la copertina, spaziano dallo sbagliare i pronomi a qualcuno all’aver attaccato il Covid al capufficio.

All’interno, tuttavia, le regole spaziano tra i generi. Ci sono quelle assai discutibili: non si può chiedere «che lavoro fai» (è, secondo loro, classista e noioso: vivranno tutti di rendita, con l’hobby del giornalismo); in compenso è raccomandato chiedere quanto il tizio che ci hanno appena presentato paghi d’affitto: i compilatori paiono convinti che gli affitti alti di New York siano un tema che cementa grandi amicizie e favorisce l’empatia.

Ma soprattutto ci sono quelle che non si capisce perché vengano catalogate come «nuove»: «non svegliare la persona con cui stai neanche se sei insonne e vuoi chiacchierare» è una regola cambiata da poco tempo? Voialtri prima non facevate volare dalla finestra chiunque si azzardasse a svegliarvi? Io, che degli ex in genere non ricordo neanche che faccia abbiano, giro con l’identikit del tizio che quasi vent’anni fa mi svegliò e poi si girò dall’altra parte e si riaddormentò, in cerca da quasi due decenni d’un sicario che mi vendichi a tariffe popolari.

La lista è stata rimproverata dai giornalisti d’altre testate americane d’essere troppo piena di regole che attengono alle frequentazioni delle celebrità: ci possiamo aspettare altro, in un’epoca in cui la principale preoccupazione degli intervistatori è autoscattarsi con gl’intervistati per dire all’Instagram «ehi, uno famoso mi ha parlato»? È sicuramente un pizzino per gli inviati a Sanremo l’invito a non dirsi ammiratori di qualche persona famosa che s’incontra per la prima volta, «perché questo disumanizza le persone e alimenta la competitività che distrugge la società» (anche meno, eh). Ma a me sembra non prevalga il galateo dell’approcciare i famosi, bensì la parte «era così pure prima, e comunque non si tratta di galateo ma di semplice buonsenso».

Per esempio: «in una conversazione, prestate attenzione al fatto che potreste star parlando solo voi». Ho avuto per quattordici anni una vicina di pianerottolo alla quale non dovevo chiedere «come sta?» se non volevo che mi dettagliasse l’elenco delle sue sfighe facendo slittare d’un quarto d’ora la mia uscita dal palazzo. In quattordici anni, non c’è stata una volta in cui mi abbia chiesto «e lei?». Dov’era il New York quando avevo bisogno d’un ritaglio di galateo da attaccarle alla porta?

Oppure: se sei un adulto, il giorno del tuo compleanno non sei autorizzato a fare capricci. O anche: a una festa, non guardarti intorno cercando qualcuno di più figo con cui parlare piantando lì la sfigata con cui stai facendo conversazione. Lo so che lo fanno lo stesso (io sono sempre, sempre, sempre la sfigata piantata lì), ma non è mica una raccomandazione recente, essù. Avrebbe potuto già scriverla Edith Wharton o Louisa May Alcott.

O ancora: se la padrona di casa si mette a lavare i piatti, è ora che gli ospiti se ne vadano. O: se perdi qualcosa che t’hanno prestato, ricompralo. O persino: non spettegolare al lavoro circa cose che non dovresti sapere. Forse potevano raccoglierle sotto un’unica regola: cerca di avere un po’ più d’uso di mondo di quanto ne avesse Mowgli cresciuto nella giungla.

(Io, che sono abbastanza Mowgli, ho molto riso alla regola 104: «in ufficio, tieni le scarpe». Ricordo con gran divertimento quel paio d’anni in cui ho lavorato in una redazione, in un’epoca in cui mi ostinavo a portare i tacchi e ovviamente li calciavo via a metà mattina e restavo scalza, con gran sdegno d’una stagista che chiamava la madre lamentandosene: non capisco come al New York possano non sapere che certe cose le fai non perché non sai che sono inopportune, ma proprio perché lo sai e vuoi che la tua prepotenza si noti).

Tra i divieti che non si capisce perché dovrebbero essersi evoluti negli ultimi anni, ma soprattutto sono incomprensibili, c’è quello di dire a qualcuno che somiglia a qualche persona famosa: se mi dici che somiglio a un’attrice che reputo brutta, potrei offendermi. «Potenzialmente insultante, e razzista». Americani, dovete darvi una grossa calmata.

Sono personalmente offesa, semmai, dalla regola 20: «non descrivere i TikTok, è più noioso che descrivere i sogni». Ma come vi permettete. Un’abbondante metà delle mie conversazioni consiste in descrizioni di meraviglie che ho visto su TikTok (l’altra metà sono riassunti di Stendhal e Tolstoj).

Inviterei chi ha compilato la 110 («non si fa la spia se qualcuno salta i tornelli del metrò») a smetterla di cercare di far assomigliare l’America all’Italia: ci si sono già avvicinati moltissimo con Trump, ora basta emularci.

Capisco lo scoraggiare i commenti al fatto che qualcuno porti ancora la mascherina, ma «chiedere a qualcuno come ha preso il covid è come chiedergli come ha preso la clamidia» è una scemenza. Vi svelo un segreto segretissimo: la clamidia so già come l’hai presa.

Apprezzo assai la conclusione della regoletta su chi paga agli appuntamenti romantici ora che abbiamo deciso di far finta che l’eterosessualità non sia affatto più diffusa delle alternative, e insomma vai a sapere chi fa l’uomo: «se penetri, paghi». Ma è un evidente pizzino sanremese (un altro, dopo gli autoscatti coi famosi) che ha attirato la mia attenzione e mi ha fatto perdonare la redazione del New York per la quantità d’insensatezze contenute in questa lista.

A un certo punto delle molte regole nell’avere a che fare coi famosi, il giornale raccomanda di non chiamare DeNiro «Bobby»: non importa quanto siate intimi, non ostentate confidenza coi famosi. Mentre leggerete questo rigo, sarà in corso la prima conferenza stampa di Sanremo. Non vedo l’ora di contare quanti giornalisti si rivolgeranno al conduttore chiamandolo «Ama», e poi di telefonare al New York per fare la spia.

Fame di destino. Alessandro D’Avenia su Il Corriere della Sera il 6 Marzo 2023.

Qualche giorno fa lo scrittore e amico Daniele Mencarelli è venuto a dialogare con gli studenti della mia scuola. Daniele appartiene agli autori che non scrivono della «realtà» ma del «reale». La realtà è l’insieme delle abitudini che rendono tutto sempre uguale e sicuro, il reale è invece ciò che si manifesta quando un evento apre una finestra nel ripetersi di giorni e opere, imponendo un risveglio: malattia, innamoramento, lutto, nascita... Quando Lucio Fontana tagliò una tela lo rese evidente: la superficie uniforme della realtà squarciata da una ferita ci mette faccia a faccia con il reale, rivelando che il fondamento delle nostre certezze è a volte uno sfondo di cartapesta. Per rimanere nella realtà si può anche dormire, tutto va avanti e si vive per sentito dire o per procura; per stare nel reale, invece, occorre essere prima svegli e poi coraggiosi. Gli scrittori che si occupano del reale non cercano premi, ma scrivono per gli uomini e per il loro destino. Li riconosci perché attorno alle loro parole si crea una comunità, non una massa o una bolla di consenso. I ragazzi, creature affamate di reale, hanno posto infatti tantissime domande a Daniele, «destati» dai suoi libri pongono domande di «destino» (esser desti è condizione per avere destino): è tutto qui o c’è dell’altro? Che cosa c’è fuori dalla gabbia della realtà? Dove trovo il coraggio di uscirne? Domande che potrebbero porre a noi maestri, ogni giorno, ma se non lo fanno c’è un motivo. Quale?

La trilogia scritta da Mencarelli: La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza, Sempre tornare, è il racconto autobiografico di un giovane che, deluso dalla realtà, precipita nelle dipendenze (alcol e droga) ma non smette di cercare salvezza e la trova grazie alla propria madre e ai bambini dell’ospedale Bambin Gesù di Roma dove lavorava temporaneamente come addetto alle pulizie. I ragazzi sentono nei libri di Mencarelli la stessa fame di destino che ha salvato lui, e si aggrappano a un testimone del «reale», che non ha rinunciato, nonostante le cadute, a se stesso. Proprio come dice il diciassettenne Daniele, in Sempre tornare, mentre lavora in un campo per guadagnarsi da vivere durante il mese di fuga in autostop da cui inizia la sua crisi: «La fame di destino mi perseguita da sempre. Ci penso sempre al destino...

L’uomo di fede lo chiama provvidenza, gli attribuisce una volontà precisa, un dispiegamento di fatti che obbedisce a un disegno. Uno per ognuno di noi. L’uomo che non crede a niente lo chiama caso, un caotico avvenire dove a regnare è il nulla, dove vita e morte, vittoria o sconfitta, sono un po’ come gli spicchi della Ruota della fortuna. L’uomo che vive a metà strada fra i primi due lo chiama fato, non ha sufficiente fede per abbandonarsi alla religione, né altrettanto nichilismo per lasciarsi andare al caos. Per quel che mi riguarda, oscillo. Per sperare veramente ci vuole in certi momenti una forza disumana. Lo stesso dicasi per disperare. Di un dato, però, sono abbastanza certo. Per la parte di destino che dipende da me, faccio e farò sempre di tutto per conoscermi al meglio. Ogni giorno di più. A partire dal talento che mi vive dentro e che ho il dovere di scoprire. Fin da ragazzino, piccolissimo, una sicurezza è venuta spesso a visitarmi: «Io so fare qualcosa». Il problema è scoprire qual è la cosa.

Nessuno mi toglie dalla testa che ognuno di noi nasca con una dote precisa, con una bravura nascosta che chiede di essere scoperta. A me piace molto scrivere, lo sento stranamente importante, non posso non sperare, quindi, di aver trovato quello che so fare veramente. Potrei fare il poeta di notte e il contadino-fattore di giorno. Comunque, ognuno nasce per qualcosa. È questa, in fondo, la mia definizione di destino».

I ragazzi oggi sono consunti dalla «fame di destino», e sono le agenzie educative a poter rispondere a questa fame. A scuola, per esempio, non è ingozzandolo di nozioni slegate tra loro e dalla sua originalità che un ragazzo trova il gusto del reale, come canta bene il rapper Ernia in Tutti hanno paura: «A scuola mi chiedevo perché essere bravo/ Se la diagnosi era quella di un destino precario/ Mi hanno fatto leggere Goethe, Kant e autori simili/ Ma a me la vita poi è sembrata più i piccoli brividi». La scuola si sta riempiendo di retoriche di destino (soft skills, educazione civica, sessuale, stradale...), che, per quanto utili, sono spesso caratterizzate da imposizione di comportamenti più che scoperta di talenti.

Per riformarla bisogna darle la forma che le spetta, cioè mettere un ragazzo in condizione di avere destino: scoprire per che cosa è nato. Per riuscirci o la scuola diventa dinamica e comincia a ruotare attorno a ciò che ogni ragazzo è venuto a portare al mondo (il suo talento) o continuerà a essere una catena di parcheggio/montaggio anziché una fucina di vocazioni. Ogni studente ha diritto di uscire dalla scuola dell’obbligo sapendo leggere, scrivere e far di conto, cioè stare di fronte alla realtà senza farsi manipolare, ma potendo dire anche: «Io sono nato per questo».

Poi sarà affar suo mettersi in gioco o tradirsi, ma a quel punto non avrà l’alibi dell’ignoranza di sé e del mondo. Certo è che il Daniele diciassettenne che intuiva di essere nato per scrivere, se ha da poco pubblicato un nuovo romanzo (Fame d’aria), è perché, nonostante abbia provato a tradirsi, è riuscito, grazie all’aiuto di altri e della scrittura, a rimanere fedele al suo destino, e così si è salvato. Non è un caso che in quest’ultimo libro la salvezza di un padre (gli adulti) sia affidata a un figlio (le nuove generazioni) malato: non una retorica del nuovo che salva semplicemente perché è nuovo, ma il grido del «reale» che buca la «realtà», e ci risveglia e chiama a una vita nuova. Sapremo ascoltare?

Se non uccide, fortifica. Perché il fallimento può salvare la vita nei momenti più difficili. Costica Bradatan su L'Inkiesta il 23 Settembre 2023

Risucchiati dal vortice del successo, quando qualcosa va storto, subentra spesso uno stato di vuoto. Costica Bradatan nel libro “Elogio del fallimento” (il Saggiatore) scrive di come a volte essere imperfetti e fuori sincrono rispetto al mondo e agli altri possa essere una grande fortuna e condurre verso l’umiltà

Dopo il culto così diffuso del successo, la reputazione di cui gode il fallimento è ridotta ai minimi termini. Pare non ci sia niente di peggio al mondo che fallire – la malattia, la sfortuna, persino la nostra stupidità congenita sono nulla al confronto. Eppure il fallimento merita di più. In effetti, c’è molto di cui tessere l’elogio. Fallire è fondamentale per la nostra natura di esseri umani. Il modo in cui ci relazioniamo col fallimento ci definisce, mentre il successo è accessorio e fuggevole, e non ha granché da dire. Possiamo vivere senza successo, ma vivremmo invano se non scendessimo a patti con la nostra imperfezione, precarietà e mortalità: tutte epifanie del fallimento. Quando si verifica, il fallimento frappone una distanza tra di noi e il mondo, e tra di noi e gli altri.

Tale distanza ci trasmette la netta sensazione di non accordarci, di essere fuori sincrono con il mondo e gli altri, e che ci sia qualcosa di sbagliato. Tutto ciò ci fa mettere seriamente in discussione il nostro ruolo primario. E potrebbe trattarsi della cosa migliore che ci sia capitata: questa presa di coscienza esistenziale è proprio quello che ci serve se dobbiamo capire chi siamo. Non c’è nessuna forma di guarigione, se non preceduta da un processo del genere. Se vi dovesse capitare di sperimentare il fallimento e di essere colti da simili sensazioni di inadeguatezza e di spaesamento, non opponete resistenza – assecondatele. Vi diranno che siete sulla strada giusta. Magari ci troviamo in questo mondo, ma non siamo di questo mondo. Il fatto di capirlo è l’inizio della presa di coscienza che pone il fallimento – per quanto possa essere modesto – al centro di un’importante ricerca spirituale. Vi starete chiedendo: il fallimento, quindi, può salvarmi la vita? Sì, purché ne facciate buon uso.

[…] 

A prescindere dalle classi sociali, le caste, la razza o il genere, siamo tutti nati per fallire. Ci dedichiamo al fallimento per l’intera durata della nostra esistenza e poi lo passiamo alle generazioni successive. E proprio come il peccato, anche il fallimento può essere disonorevole, fonte di vergogna e imbarazzante da ammettere. E perché non definirlo «brutto»? Il fallimento è pure brutto – brutto come il peccato, come si suol dire. Può essere violento, odioso, devastante come la vita stessa. Ma proprio per la sua universalità, generalmente viene sottovalutato, trascurato o rifiutato. O, peggio ancora, trasformato in un fenomeno di tendenza da guru del self-help, maghi del marketing, amministratori delegati in pensione con troppo tempo a disposizione. Hanno finito tutti per ridicolizzare il fallimento cercando – senza la minima ironia – di etichettarlo in maniera diversa e rivenderlo semplicemente come un trampolino di lancio verso il successo.

[…]

Qualsiasi successo di solito implica una «successione» di stati o eventi (la parola deriva dal latino succedere, «venire dopo»). Quando qualcosa va storto, tale successione non ha luogo, e subentra un senso di vuoto. Fallimento è qualsiasi esperienza di sconnessione, rottura o sofferenza, provata nell’ambito delle nostre interazioni codificate con il mondo e con gli altri, ogni volta che qualcosa smette di essere, operare, avvenire come ci aspettavamo.

[…]

E tale condizione è il miglior punto di partenza per ogni percorso che conduca all’autorealizzazione. Abbiamo assolutamente bisogno di questa esperienza complessiva di sconnessione, rottura e sofferenza, se vogliamo scendere a patti con la nostra prossimità al nulla. Perché solo se passeremo la prova di una simile esperienza potremo arrivare all’umiltà, e avere così l’opportunità di guarire dalla hýbris e dall’egocentrismo, dall’illusione e dall’autoinganno, nonché dalla nostra scarsa capacità di adattamento alla realtà circostante. Passare progressivamente attraverso questi quattro gironi non è un viaggio qualsiasi: è un percorso catartico. Se resterete turbati dalla lettura di questo libro, vorrà dire che non avrò completamente fallito il mio compito. Perché quella del fallimento è un’esperienza profondamente disturbante – proprio come la vita stessa. Di tutti i viaggi, quello alla ricerca di noi stessi è il più complicato, il cammino più lungo da compiere. Ma non preoccupatevi troppo: avete buone possibilità di farcela, dal momento che avete accettato di farvi guidare dal fallimento. Del resto, non è forse questo l’insegnamento che da sempre ci danno i bravi medici? Ciò che non ti uccide, ti fortifica. Il veleno del serpente è letale ma ha anche un potere curativo. 

Da “Elogio del fallimento – quattro lezioni di umiltà” di Costica Bradatan, il Saggiatore, 352 pagine, 24 euro

Errare humanum est. Il successo sta nel saper scegliere la cosa giusta su cui perseverare. Annie Duke su L'Inkiesta il 26 Agosto 2023.

Siamo abituati a considerare la tenacia come l’esatto opposto della rinuncia. In realtà sapere mollare quando è necessario è una grande virtù, scrive Annie Duke nel suo saggio “Lascia perdere” edito da Egea

Siamo abituati a considerare la tenacia come l’esatto opposto della rinuncia. D’altra parte, o si persevera o si rinuncia. Non si possono fare entrambe le cose contemporaneamente e nella battaglia tra i due comportamenti il secondo ha evidentemente la peggio. Mentre la perseveranza è considerata una virtù, l’atteggiamento di chi molla il colpo, di chi abbandona, è visto come vizioso. Il consiglio elargito da tutti coloro che sono assurti a leggenda per il successo raggiunto si riduce spesso a un messaggio di questo tipo: insisti, applicati, persevera e avrai risultati. Per citare Thomas Edison: «La nostra più grande debolezza sta nel rinunciare. Il metodo più sicuro per avere successo è sempre quello di provare una volta ancora». Un sentimento cui ha fatto eco, a oltre un secolo di distanza, una leggenda del calcio femminile come Abby Wambach: «Per non mollare mai, indipendentemente dalle circostanze che devi affrontare, non basta soltanto essere competitivi: servono anche capacità». Consigli e stimoli di questo tipo sono attribuiti ad altri grandi campioni e allenatori sportivi, come Babe Ruth, Vince Lombardi, Bear Bryant, Jack Nicklaus, Mike Ditka, Walter Payton, Joe Montana e Billie Jean King. Troverete citazioni quasi identiche da parte di imprenditori aziendali assurti al mito nel corso dei secoli, da Conrad Hilton a Ted Turner fino a Richard Branson. Tutte queste celebrità, e innumerevoli altre, marciano compatte scandendo una qualche variazione del motto: «Un vincente non molla mai/Chi si arrende è perduto».

È raro trovare citazioni popolari che esaltino la scelta di mollare la presa, a eccezione di quella attribuita a W.C. Fields: «Se non riesci al primo tentativo, prova e riprova. Dopo di che, molla. Non ha senso fissarsi stupidamente». Fields non era certo un modello, visto che i suoi personaggi amavano bere, odiavano i bambini e i cani e tiravano avanti vivendo ai margini della società. Non si tratta dunque di un gran contrappeso… e, d’altra parte, quella frase non è neppure di Fields, in realtà!

Per definizione, chiunque abbia avuto successo in qualcosa ha dovuto perseverare. È una constatazione di fatto, sempre vera con il senno di poi. Ma non significa che sia vero il contrario, ovvero che se perseverate in qualcosa alla fine avrete successo.

In prospettiva, non è vero e non è nemmeno un buon consiglio. In effetti, a volte è addirittura distruttivo.

Se siete stonati, non importa per quanto tempo vi impegnerete: non diventerete mai Adele. Se a cinquant’anni vi mettete in testa di andare alle Olimpiadi come ginnasti, non ci sarà impegno o determinazione in grado di aiutarvi. Pensarla diversamente è assurdo come leggere uno di quegli articoli sulle abitudini dei miliardari e, una volta appreso che si svegliano prima delle quattro del mattino, immaginare che alzarvi allo stesso orario farà di voi dei miliardari. Non dobbiamo cadere nell’errore a cui ci inducono questi aforismi, ovvero confondere il senno di poi con la lungimiranza.

Le persone perseverano sempre nelle cose in cui non riescono granché, a volte sulla base della convinzione che perseverare abbastanza a lungo porterà al successo. A volte perseverano perché un vincente non molla mai. In un modo o nell’altro, sono in molti a battere la testa contro il muro e a soffrire pensando che ci sia qualcosa di sbagliato in loro, piuttosto che nel consiglio.

Il successo non sta nel perseverare in qualcosa. Sta nel saper scegliere la cosa giusta su cui perseverare e lasciar perdere il resto.

Quando il mondo vi dice di desistere è sempre possibile, ovviamente, che voi vediate qualcosa che il mondo non vede, e che questo vi induca a persistere giustamente anche là dove altri al posto vostro abbandonerebbero la causa. Ma quando il mondo vi urla a squarciagola di lasciar perdere e voi vi rifiutate di dargli ascolto, la tenacia può diventare stoltezza.

Troppo spesso ci rifiutiamo di ascoltare. Questo può essere in parte dovuto al fatto che mollare ha una connotazione negativa quasi universale. Se qualcuno vi prendesse per rinunciatari, lo considerereste un complimento? La risposta è ovvia. Lasciar perdere significa fallire, capitolare, darsi per vinti. Denota mancanza di carattere. Chi rinuncia è un perdente (tranne nel caso, naturalmente, in cui la rinuncia riguardi qualcosa di palesemente negativo come il fumo, l’alcol, la droga o una relazione violenta).

Anche il linguaggio mostra le sue preferenze per la determinazione riservando, a chiunque mostri di non mollare, termini positivi come proattivo, costante, incrollabile, risoluto, coraggioso, audace, impavido. Di una persona così, diciamo che ha gli attributi, che ha fegato, che ha spina dorsale, tempra, tenacia o persistenza. Con la stessa rapidità vengono in mente i termini negativi per riferirsi a quelli che si arrendono, termini che racchiudono tutti l’idea che costoro siano dei falliti che non meritano la nostra ammirazione. Recalcitranti, smidollati, disfattisti, disertori, rinunciatari, scansafatiche, pappamolla e inetti. Gente che si arrende e lascia le cose a metà, gente che tentenna e vacilla. In genere, riteniamo che questi individui siano privi di una direzione nella vita; li consideriamo codardi, incostanti, capricciosi, volubili e persino inaffidabili. Dei voltagabbana, per usare un termine politicamente tossico.

Non è tanto che non esistano parole negative per riferirsi a chi mostra determinazione (come rigido o testardo) o parole positive per l’atteggiamento di chi lascia una strada per un’altra (come agile o flessibile). Ma se provaste a riempire una tabella con termini positivi e negativi per entrambi i concetti, non tardereste a cogliere gli squilibri. Sul versante della perseveranza, lo sbilanciamento in favore dei termini positivi (su quelli negativi) rispetto al concetto di determinazione emergerebbe con grande evidenza. Sbilanciamento che si rifletterebbe nella predominanza di termini negativi riferibili a chi molla. A differenza di quanto avviene per la tenacia, dunque, non ci sono molte parole positive per l’atteggiamento di chi si arrende, come evidenziato dall’assenza stessa di sostantivi per descriverlo.

Uno degli indizi più evidenti di come i favori della lingua siano tutti per la tenacia è che tra i suoi sinonimi troviamo termini come coraggio, audacia e persino eroismo. Quando pensiamo alla perseveranza, in particolare di fronte al pericolo, immaginiamo l’eroe che davanti a una minaccia mortale affronta l’abisso e prosegue là dove gli altri si arrenderebbero. Allo stesso modo, chiunque desista è un codardo. In un mondo in cui la perseveranza è considerata quasi universalmente come la strada per l’onore e il successo, la tenacia è vista come il personaggio protagonista. La resa, invece, è l’antagonista (un ostacolo da superare) o, più spesso, una comparsa (uno di quei personaggi che nei titoli di coda figurano come «Terzo scagnozzo» o «Soldato vigliacco»). 

Tratto da “Lascia perdere – L’importanza di capire quando è meglio abbandonare le proprie posizioni” (Egea), di Annie Duke, pp. 288, 29,90€.

Era di fragilità. E di consulenti. Storia di Luigino Bruni su Avvenire il 4 marzo 2023.

Cammin facendo ho acquistato la convinzione che la nostra educazione soffre di una carenza enorme per quanto concerne un bisogno primario del vivere: ingannarsi e cadere nell’illusione il meno possibile.

Edgar Morin, Insegnare a vivere

Siamo dentro una grande trasformazione della cultura d’impresa che, iniziata nell’ultimo scorcio del XX secolo, oggi conosce una stagione di grande sviluppo e di vasto consenso. Ma come accade in tutti i grandi processi sociali, è proprio nel momento del suo massimo successo che in questo nuovo umanesimo aziendale iniziano a evidenziarsi i segni del declino, le prime crepe che minacciano e prefigurano il possibile crollo dell’intero edificio. Senza accorgercene, nell’arco di circa mezzo secolo la grande impresa da luogo paradigmatico dello sfruttamento e dell’alienazione è divenuta icona dell’eccellenza, del merito, del benessere e persino della fioritura umana, e in quanto tale imitata e importata in tutti gli ambiti del sociale, fino a includere, recentemente, il mondo non-profit e persino delle comunità spirituali.

Partiamo da una parola che sembra lontana dal mondo del business: fragilità. Le generazioni precedenti avevano saputo trasmetterci la capacità di far fronte alle difficoltà dell’esistenza, e pur tra molte contraddizioni avevano creato nelle persone un capitale interiore fatto di religione, di saggezza e pietà popolare e poi dei valori delle grandi ideologie di massa che erano anche narrazioni collettive sul senso della vita, del dolore e della morte. E questo perché le culture di ieri erano umanesimi dell’imperfezione; quindi ponevano al centro il limite, la fatica, l’incompiutezza, il sacrificio, e la felicità era vissuta come un intervallo breve tra due lunghe infelicità. La vita era dura, povera, breve, e l’arte di formazione del carattere consisteva nel rendere quella vita dura una vita possibile e sostenibile, magari un poco migliore per i figli senza illudersi e illuderci che sarebbe stata troppo migliore. Nessuno avrebbe mai pensato, nel mondo dei nostri nonni, di educare i giovani alla cultura del successo, incoraggiandoli a diventare “vincenti”, perché tutti sapevano che sarebbe stata la via perfetta per condurre una vita da frustrati e incattiviti. La partita della vita finiva bene se si portava a casa un buon pareggio, in un eterno catenaccio.

Con il passaggio di millennio, dall’umanesimo dell’imperfezione siamo velocemente passati a quello della ricerca della felicità e del successo. “Guai ai vinti e agli infelici!” è diventato il motto. Ci siamo progressivamente e velocemente dimenticati l’antico mestiere del vivere e la fatica della democrazia e ci siamo innamorati della facile meritocrazia, facile perché immaginaria. La fine delle grandi ideologie e (in Occidente) l’indebolimento della religione ha operato grandi cambiamenti antropologici. È finito un mondo morale e il suo posto lasciato vacante non è stato occupato da qualcosa di nuovo e di altrettanto robusto.

E quando la realtà vera ci fa incontrare anche oggi il limite, l’insuccesso e il fallimento, che non sono scomparsi solo perché abbiamo deciso di non vederli più, i giovani e ormai anche gli adulti si trovano sprovvisti delle antiche virtù collocate tra i ferri vecchi della società, riposte nell’armadio impolverato accanto al cappello del nonno e al macinino del caffè a chicchi.

Questa indigenza di equipaggiamento etico si manifesta in ogni ambito della vita sociale - famiglia, politica, scuola -, ma non è ancora percepita in tutta la sua gravità: lo sarà presto, quando questa insostenibilità relazionale ed emotiva sarà evidente. Quando però questa fragilità è arrivata nella grande impresa e ha raggiunto e superato una soglia critica è iniziato qualcosa di nuovo. Perché nel nostro mondo liquido l’impresa resta ancora qualcosa di solido che vive grazie all’azione collettiva, e ha quindi bisogno di lavoratori capaci di virtù cooperative che consentono loro di portare avanti operazioni complesse che si svolgono in mezzo a conflitti, difficoltà, frustrazioni e fallimenti, dove tutte le emozioni entrano in gioco e richiedono una specifica educazione e manutenzione per rendere possibile e sostenibile la buona vita in comune. Per decenni, per secoli, le imprese non si erano preoccupate della formazione del carattere dei lavoratori né delle loro virtù cooperative, si limitavano alla formazione professionale e tecnica. Le persone entravano nei cancelli della fabbrica già fornite di quel capitale relazionale che consentiva loro di cooperare con gli altri, un’arte che avevano appreso e riapprendevano ogni giorno in famiglia, nel villaggio, nelle mietiture, nelle vendemmie, nell’uccisione del maiale, in processioni, funerali, matrimoni e feste patronali.

Le imprese del Novecento erano infatti cresciute grazie al capitale spirituale ed etico delle loro persone, e la crisi di quell’universo morale è diventata immediatamente crisi dell’universo produttivo. Le imprese, il business, anticipano il futuro, sanno vedere più lontano – speculare vuole dire anche questo. E così, quando il clima morale è cambiato, il primo luogo che ha avvertito la crisi è stata l’azienda, in particolare quella grande e globale, e ha cercato subito di rispondere.

La prima risposta è stata l’evoluzione del vecchio management, che ha trasformato la fabbrica da comunità a luogo artificiale e razionale, dove le relazioni umane venivano addomesticate, “ridotte” e operazionalizzate in modo da poter essere facilmente gestite dai nuovi manager, ormai concepiti come leader e non più dirigenti, trasformati nei nuovi protagonisti delle grandi imprese. Le relazioni umane venivano semplificate, ma restavano ancora gestite all’interno dell’azienda in una co-gestione suddivisa tra imprenditori e manager.

Questa nuova cultura delle relazioni d’impresa ha funzionato per due-tre decenni, finché le imprese hanno vissuto di rendita consumando quel che ancora restava del capitale etico che i loro lavoratori avevano accumulato nelle comunità esterne all’impresa, senza più riprodurlo al loro interno. Fino a quando, sull’inizio del nuovo millennio, con l’uscita di scena delle ultime generazioni figlie dell’etica novecentesca, questo capitale di virtù civili si è (quasi) esaurito.

A questo punto le aziende hanno dovuto innovare ancora, e hanno cercato una nuova soluzione: ricreare loro stesse le risorse umane di cui avevano bisogno. È la terza svolta: il management capisce che il nuovo capitale etico necessario si trova ancora al di fuori dell’impresa, e che gli stessi manager sono dentro la stessa fragilità dei loro lavoratori, sebbene difficilmente lo dichiarino. Vanno fuori, ma non nei vecchi luoghi di vita e delle comunità – famiglia, Chiesa, case politiche – che nel frattempo si stavano desertificando o erano emigrate sui social. Capiscono che le risorse sono ancora fuori, ma ora a offrirle è il mercato, un mercato for-profit che si stava già attrezzando per produrre e vendere nuove figure professionali che stanno diventando i veri protagonisti delle imprese.

Attorno ai manager sta infatti crescendo una foresta molto biodiversificata fatta soprattutto di consulenti sfornati dalle grandi società di consulenza, insieme a psicologi del lavoro, manager della felicità e del benessere lavorativo, filosofi pratici del senso, della mission e dello scopo (purpose), ma anche sacerdoti, suore ed esperti di meditazione trascendentale per l’accompagnamento e la formazione alla spiritualità d’azienda, per non parlare delle nuove figure di coach e counselors che si presentano come la professione del futuro. Mezzo secolo fa a guidare le imprese erano gli imprenditori; poi sono arrivati i manager, infine i consulenti. Così un’impresa di cinquanta dipendenti si ritrova popolata da dieci, quindici o venti di queste figure varie di accompagnatori. La nuova classe dirigente viene assistita e affiancata e sempre più sostituita da figure ancillari stanno diventando re e regine.

Si sta verificando una sorta di outsourcingdelle emozioni, un appalto ad agenzie esterne della gestione della manutenzione, cura e accudimento delle relazioni umane dentro le aziende. I dirigenti non riescono più, con gli strumenti tradizionali (gerarchia, coordinamento, incentivi, sindacati), a gestire le emozioni e le relazioni di lavoratori sempre meno dotati di virtù essenziali, e nuovi fornitori esterni le gestiscono su loro mandato. La gestione delle emozioni sta diventando qualcosa di simile alla gestione della mensa aziendale o delle pulizie. E più i lavoratori sono fragili, più cresce la richiesta di questi servizi relazionali ed emotivi: e il Pil cresce. Anche perché la presenza di professionisti delle relazioni svolge la funzione di certificare dall’esterno questa nuova forma di qualità. Alla certificazione dei bilanci si aggiunge una certificazione delle relazioni nell’azienda, che rassicura dirigenti insicuri.

Perché – qualcuno potrebbe chiedersi – tutto ciò dovrebbe rappresentare un problema? Tutto evolve, tutto cambia. Perché è possibile appaltare la manutenzione degli impianti e non la manutenzione delle emozioni? In realtà i problemi ci sono, e alcuni sono molto seri.

Uno importante riguarda l’estensione crescente di questi fenomeni al di fuori del mondo delle imprese. Se, infatti, l’appalto esterno della gestione di molte dimensioni delle relazioni umane riguardasse soltanto il mondo della grande impresa o finanza capitalistica, sarebbe qualcosa sempre di importante ma comunque limitato a una sfera della vita con le sue necessarie tipicità – come lo sport o l’esercito. Ma questa esternalizzazione della manutenzione delle relazioni si sta estendendo fino a raggiungere le organizzazioni non-profit, le comunità e le chiese, anche perché le società di consulenza sono percepite come i “medici” di ogni forma di organizzazione umana, tecnici per risolvere nuovi problemi. Ma cosa diventano i rapporti dentro un movimento spirituale o una comunità religiosa se i responsabili delegano la gestione di molte dimensioni delle relazioni umane (crisi, fatica, critiche...) a professionisti esterni all’impresa? Cosa diventano quelle relazioni la cui qualità è cuore e radice di futuro? Quali dimensioni, allora, si possono delegare fuori e quali invece devono necessariamente restare dentro, gestite dalle nostre imperfezioni e fatiche?

Le figure esterne, pur necessarie in certi casi specifici, diventano facilmente una perfetta forma di immunità, uno schermo che i responsabili usano per proteggersi dal contagio delle relazioni e dalla “ferita dell’altro”. Inoltre, mentre il mondo della grande impresa globale sta già avvertendo l’insufficienza di questi appalti esterni (lo vedremo), le organizzazioni non-economiche stanno scoprendo questi strumenti in ritardo e li vivono come una grande novità di salvezza. Anche in questo caso esistono fenomeni di dumping verso i “poveri”: stiamo attenti che il mondo del sociale e delle chiese non diventi presto un nuovo mercato rifugio di società di consulenza in cerca di nuovi mercati perché si stanno esaurendo i vecchi...

Nelle prossime settimane ci porremo poi altre domande: dove si trova, nel rapporto tra dirigenti e consulenti, il confine tra affiancamento e sostituzione? I modelli e le teorie esterne sono abbastanza sussidiari, nascono cioè dall’ascolto e dalla vita che c’è già in quella azienda prima di cercare di migliorarla? E se una relazione imperfetta ma interna fosse più generativa e umana di una meno imperfetta ma esterna? Siamo sicuri che le virtù più importanti possono essere create e curate dal mercato o, forse, hanno ancora oggi bisogno di quell’ingrediente essenziale che si chiama gratuità?

Estratto dell’articolo di Alberto Fraja per “Libero quotidiano” il 4 marzo 2023.

[…] Camminare è anche il gusto della ricerca e dell’attesa, è il modo migliore per tendere il proprio respiro verso l’infinito, i grandi orizzonti, il trascendente. «La vita inizia dove finisce il divano», dice Veronica Benini. E non solo per mere questioni di buona salute.

 Al camminare come ricerca, pellegrinaggio, mistico iter hierosolymitanum, ricerca di qualcosa che trascenda l’io, padre Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della Casa Pontificia, dedica un agile saggio dall’eloquente titolo calembour Camminando si impara a camminare (La Ricerca Editrice, 133 pagine).

Nel volumetto, Sapienza concentra una raccolta di scritti, aforismi e riflessioni sul cammino come argine alla fretta e come riflessione sul carattere polisemantico del verbo. Tredici titoli che tracciano un cammino di ricerca, di scoperta, di consapevolezza, di rinnovato impegno e di ritrovata speranza. […]

 «L’individuo che cammina sceglie di perdere tempo, almeno per un certo periodo di tempo - scrive l’autore -. Diventa, in un certo senso, un rivoluzionario che vuole riprendere in mano la sua vita; prendere le distanze dai suoi problemi personali e ritrovare il ritmo del mondo». Camminare aiuta a riflettere, continua Sapienza. Ha ragione Le Breton: «Andare a piedi cambia la percezione di sé e del mondo. Cammini. E poiché cammini, sei una persona diversa».

La società in cui siamo immersi ci costringe a vivere correndo. Si va sempre di corsa, affannosamente inseguendo non si sa bene cosa. Ci spendiamo agitati per far fronte alla montagna di impegni di cui ci siamo caricati. Un’occhiata all’agenda, un’altra all’orologio, per non dimenticare nulla.[…]

 L’anima vive di pause. Dove non c’è pausa non c’è ordine, non c’ è pace, non c’è uomo. Di qui l’invito di padre Sapienza a comprendere tutta la saggezza di chi invita a fare l’esperienza del camminare, «intesa non tanto come una tecnica anti stress (e già sarebbe tanto, ndr), quanto piuttosto come igiene dell’anima». Il vivere affannoso ci impedisce di accorgerci che la vita è ciò che accade mentre ci occupiamo di altro. Siamo distratti. Di qui l’invito racchiuso in questa piccola ma preziosissima antologia: fermiamoci. […] Fermate il mondo, questo mondo di matti: voglio scendere e farmela a piedi. Solo con me stesso.

Estratto dell'articolo di Sofia Mattioli per “la Stampa” il 2 marzo 2023.

Un inno all'amore per se stessi formato XL, il messaggio arriva a caratteri cubitali. Speciale. La supereroina del pop Lizzo, 4 Grammy e una trasformazione in superwoman con un costume nel video che accompagna il brano, stasera porta al Mediolanum Forum la sua miscela vincente. […] «La canzone che dà il titolo all'album è per me la più importante - dice Lizzo - mi aiuta, il mondo può essere così crudele».

 La genesi del testo? «Avevo avuto una brutta giornata e sui social continuavo a vedere cose che non mi piacevano, ho scritto così una canzone che mi ricordasse quanto fossi speciale e amata anche quando sono triste. Il brano è un reminder per tutti, non sei mai solo. Sei amato e speciale. Se nessuno te l'ha detto oggi sei speciale».

Il fenomeno Lizzo, al secolo Melissa Viviane Jefferson, ha dimensioni titaniche[…] «Voglio dedicare questo premio a Prince - ha detto ritirando il Grammy -. Quando è scomparso ho deciso di dedicare la mia vita a fare musica, musica positiva. Pensavo: non importa se la mia allegria vi disturba. Era un momento in cui la musica ispirata a messaggi motivazionali e positivi non era mainstream. Non mi sentivo per niente capita ma sono stata coerente con me stessa perché volevo rendere il mondo un posto migliore ma dovevo essere io quel cambiamento».

«[…] Ho sofferto su di me i peggiori insulti e so di cosa parlo quando canto "sei speciale". Nessuno si deve sentire male solo perché è obeso, troppo magro o ha un fisico che non rispetta i canoni della normalità. Tutti siamo speciali e non ci sono difetti di cui vergognarsi, ma pregi di cui prendersi cura. Sento che il mio compito è quello di urlarlo al mondo».

 […] «Instagram, lo sappiamo tutti, è la app delle immagini... Mi piace molto scattare foto del mio culo e postarle, ora sono anche tornata su Twitter. Non mi interessa nient'altro, non penso agli hater, sono diventata più brava a leggere commenti negativi perché in realtà sono stupidi. […]»

La libertà si scrive sui corpi: imperfetti o rifatti, benvenuti nel tempo dell'autodeterminazione. Gli interventi estetici schizzati a livelli record da una parte, le campagne contro ogni pregiudizio sulla fisicità e la body positivity dall’altra. E i nuovi parametri estetici della Generazione Z rilanciati dall’uso massiccio dei social. Come cambia il rapporto con quel che di noi si vede. Simone Alliva su L’Espresso l’1 marzo 2023.

Dentro questo tempo sempre acceso, scandito dalla “guerra dei giusti” su libertà, diritti, autodeterminazione e tutti quei temi che sembrano fatti di luce ma che nascono sempre dall’oscurità: sono i corpi che tornano al centro della scena. Si è detto, spesso, che era la parola ad alimentare questo tempo. Gli hashtag indignati, schwa e asterischi inclusivi. Convinti di un cambio di passo sonoro, è in realtà il metro della vista a permetterci di capire dove stiamo andando. L’affermazione popolare del movimento body positive nato dal “fat activism” degli anni Settanta ha riscritto i canoni della bellezza, tempo fa ridotti a una gabbia che bruciava chiunque non rispettasse caratteristiche che non facevano altro che rafforzare sessismo, razzismo, ageismo.

Prima erano accettati solo corpi performanti, incapaci di invecchiare. Poi è arrivata la Generazione Z che ha scardinato gli standard etero patriarcali, i ruoli di genere, la norma. Basti pensare al progetto “Belle di Faccia” nato grazie all’illustratrice Chiara Meloni (in arte Chiaralascura) e all’autrice attivista femminista Mara Mirabelli che dal 2018, come profilo Instagram, ha lo scopo di valorizzare i corpi grassi, con particolare focus sulla Fat Acceptance e Fat Liberation. Oppure all’irruzione sulle scene di corpi non conformi come quello della campionessa Bebe Vio, di Winnie Harlow attivista canadese e top model con la vitiligine. Le serie tv presentano personaggi ispiranti come Plum in Dietland o Kat in Euphoria (la citazione di quest’ultima: «Non c’è niente di più potente di una ragazza grassa che se ne fotte di tutto e di tutti»). Nel panorama musicale domina Lizzo, artista internazionale pluripremiata ai Grammy Awards: «Sono un’icona del corpo. Penso di avere un corpo davvero sexy. So di essere grassa. Non mi dà fastidio. Mi piace essere grassa, sono bella e sana». È una rivoluzione che corre anche sui social: Sasha Louise Pallari, modella e make-up artist britannica ha lanciato l’hashtag #filterdrop fondando un movimento social, ribattezzato Acne Positivity e dedicato nello specifico ai molteplici cosiddetti “inestetismi” della pelle. In Italia, Cristina Fogazzi, conosciuta come l’Estetista Cinica è la popolarissima imprenditrice bresciana che si rivolge al pubblico in modo schietto promuovendo la consapevolezza che oli creme e trattamenti aiutano ma non fanno i miracoli millantati dagli spot.

Eppure è dentro questa galleria di figurine luminose che scatta il collasso generale, il cortocircuito. Per capirlo leggiamo i numeri: secondo le stime attualmente a disposizione, i trattamenti di chirurgia plastica ed estetica nel periodo primaverile del 2021 sono aumentati del 20 per cento. In generale, si stima che le richieste siano aumentate del 67 per cento rispetto al 2019 e ben del 130 per cento rispetto al 2020. Sono sempre i più giovani ad avvicinarsi alla chirurgia estetica in questa ricerca costante di un aspetto «migliore» per sentirsi «a posto». Ma di che posto si parla? Del nostro o di quello dello sguardo degli altri? Tra le ragazze il modello di riferimento è quello della cosiddetta “Rich girl face” (quella di Kylie Jenner per intenderci: naso piccolo, occhi grandi, pelle liscia, labbra carnose). Testa e viso, chirurgia palpebrale e blefaroplastica gli interventi più richiesti. «Ci sono ragazze che non hanno bisogno di aumentare le labbra a 24 anni ma lo fanno in modo eccessivo con volumi fuori dal comune. L’eccesso è quello che ci preoccupa», spiega Francesco Stagno d’Alcontres, presidente della Società italiana di chirurgia plastica ricostruttiva-rigenerativa ed estetica.

Eccesso è la parola chiave che riaggiorna un fenomeno non nuovissimo. La storia ci ha sempre insegnato che gli interventi estetici dovevano essere sottili, invisibili, privati, che si trattasse di Cleopatra che scivolava via per fare il bagno nel latte d’asina o della regina Elisabetta I che si tamponava il viso con una miscela tossica di aceto e piombo. Adesso tutto sembra cambiare. Certo, resistono i tatuaggi ma temporanei, durano quanto la viralità di un reel su Instagram. Di recente L’Oreal, l’azienda dedicata al beauty più estesa del mondo, ha acquisito una quota minoritaria di un’azienda coreana di nome Prinker Korea, che ha inventato un congegno capace di stampare un tatuaggio temporaneo direttamente sulla pelle a partire da un archivio di 12.000 tatuaggi selezionabili e personalizzabili attraverso una app dedicata.

Il cambio di passo è visibile nella mescolanza dei confini tra maschile e femminile, nel make up, negli abiti, negli accessori e anche nella bellezza dei corpi. Ragazzi e ragazze giocano a confondere la propria immagine e identità, indossando vestiti associati tradizionalmente all’altro sesso. La cura del sé legata alla sfera del maschile è visibile. Unghie laccate vengono sfoggiate da celebrità internazionali e italiane – da Fedez a Harry Styles, da Damiano dei Maneskin a Rosa Chemical. Un tempo un simbolo di ribellione e controcultura, oggi la “Mencure” (gioco di parole tra manicure e men) è la norma. Su questa scia, molte aziende di bellezza stanno cercando di intercettare i desideri di una nuova clientela introducendo sul mercato linee di cosmetici genderless. I make-up artist o gli influencer di trucchi più noti sono maschi. Lo youtuber James Charles è stato il primo testimonial del brand americano di make-up Cover Girl, che contiene la parola «girl». In Italia Christian Filippi, in arte Damn Tee, a solo 18 anni, con i suoi 215 mila follower su Instagram e quasi 325 mila su Youtube, è uno dei più seguiti vlogger italiani portabandiera di una bellezza che va oltre le differenze di genere.

Per capire questo tempo è utile posare lo sguardo sul volto orgoglioso ostentato ai Grammy dalla Regina del Pop, Madonna oppure affacciarsi al mondo dell’hip hop dove artiste e sempre più appassionate del genere si sottopongono a pericolose sedute chirurgiche per avere glutei, il cosiddetto Brazilian Butt Lift, come Nicki Minaj o Cardi B. Siamo circondati da un’estetica ricca, vistosa, sovrannaturale che deve essere esibita. A questo si lega il fenomeno per cui moltissimi giovani si presentano dal chirurgo con un selfie a cui hanno applicato filtri di bellezza. Chiedono una realtà più aderente al digitale. Giovanna Cosenza, semiologa, allieva di Umberto Eco, sempre precisa e attenta nel leggere i fenomeni che ci attraversano, da 18 anni dirige un corso monografico sulla rappresentazione del corpo alla magistrale di Semiotica nell’Università di Bologna: «Adesso abbiamo la body positivity e alcune controtendenze interessanti. Ma pesa ancora l’omologazione». Il fenomeno non è assolutamente nuovo, precisa: «La rappresentazione del corpo con una foto ritoccata c’è da quando c’è Photoshop. Siamo alla fine degli anni ’90. Così come le controtendenze. Pensiamo che la prima campagna promossa da Unilever per il suo marchio Dove denunciava l’uso di Photoshop con la rappresentazione del corpo femminile già nel 2004, un case-study dal punto di vista della virilità online».

Sembra ieri, sono passati quasi 20 anni, il tempo di mezzo di una vita. Nel frattempo, sottolinea Cosenza, c’è stata la diffusione di massa del digitale. E per questo è importante parlare di «massa». «Perché l’abbassamento dei costi rende più accessibile a più persone gli interventi sul proprio corpo». L’ostentazione, l’orgoglio di un corpo totalmente ricostruito e allo stesso tempo la rivendicazione dei corpi imperfetti si adeguano e convivono all’unisono, il volto di Madonna, battezzato dal New York Times come una «brillante provocazione» è l’esempio perfetto. «Maria Luisa Veronica Ciccone – analizza Cosenza — sta facendo della sua esposizione della chirurgia estetica una valorizzazione. È geniale. Questo però non incide sulle ragazzine. Ma sulle adulte. Ricordo che in Europa la fascia di età dai 40 ai 70 è maggioritaria, siamo una popolazione adulta e anziana. La vera massa è lì. I giovani sono in minoranza. Soprattutto in Italia secondo Paese al mondo più anziano dopo il Giappone. La comunicazione di Madonna andrà a moltiplicare la chirurgia estetica delle signore over 50. Ed è una comunicazione molto precisa: è un pezzo del mio corpo e faccio quello che voglio. Non c’è niente di più volontario che decidere di operarsi: comporta tempo, investimento economico, superamento delle paure». A incidere sulla popolazione più giovane immersa nel suo smartphone è sicuramente molto più Chiara Ferragni.

Cosenza la inserisce nel filone delle influencer che sulla bellezza portano avanti un discorso di controtendenza. «Certo, non si riprende con le peggiori luci ma anche l’autenticità più autentica è sempre abbastanza filtrata. Eppure Ferragni, pur non essendo una sbandieratrice della body positivity, è nella controtendenza, grazie alla sua rappresentazione quotidiana, vive naturalmente il proprio corpo». È il mondo che stiamo andando ad abitare. «Un mondo che consente una maggiore varietà, i social permettono una moltiplicazione di influencer e micro-influencer. Questo per la rappresentazione dei nostri corpi, vari e diversi, è una buona notizia. Se si moltiplicassero le controtendenze, ognuno troverebbe la sua. Mi auguro che si possa andare verso una moltiplicazione dei canoni estetici anche grazie alla moltiplicazione dei contro-influencer. Del resto la rete è fatta di tante nicchie che valgono tanti piccoli mercati». Bisogna solo concedersi la libertà di essere: ascoltarsi e trovare

Non c’è da stupirsi. È mai possibile che nel 2023 ci sia ancora qualcuno che dice «possibile che nel 2023…»? Maurizio Assalto su Linkiesta il 25 Settembre 2023

Il presupposto è l’ingenua convinzione comune che la Storia umana sia una linea retta puntata al progresso. Quel che cambia è soltanto l’anno, il resto dello stereotipo rimane invariato e si ripropone, logorando la sorpresa e svuotando di senso (anche retorico) la domanda

Chissà quante volte capita di ascoltarlo o anche leggerlo: è un semplice, innocuo modo di dire, che forse però, nel suo profondo, custodisce qualche cosa di più di quel che appare in superficie. «È possibile che nel…»; segue l’anno in corso (qualche volta il secolo, o addirittura il millennio); segue la proposizione soggettiva con il verbo (più correttamente) al congiuntivo, sovente condita con l’avverbio «ancora»; conclude il punto di domanda.

Nella formulazione più generica: «È possibile che nel [poniamo] 2023 succedano ancora queste cose?». Certe volte il verbo «essere» iniziale può essere omesso («possibile che nel…?»), ma quando è presente può essere seguito dall’avverbio «mai» che precede la parola «possibile» e rafforza il senso retorico della domanda: «è mai possibile che nel…».

Variante investigativa: «come è possibile che nel…». Sub-variante sconcertata: «ma come è possibile che nel…». Volendo proprio strafare (sub-variante esasperata), «ma come è mai possibile che nel…».

La domanda è retorica perché non è una vera domanda ma un’affermazione che vuole esprimere stupore, incredulità, se non addirittura scandalo, nel rilevare che nei fatti avviene esattamente quello che a rigor di logica, di buon senso, di senso della giustizia non sarebbe, non dovrebbe essere possibile.

Ha senso che le cose vadano così? No, non ha senso, eppure accadono. Possibile quia absurdum, si potrebbe dire ispirandosi a Tertulliano. Ma fino a che punto è logicamente – e gnoseologicamente – motivato questo stupore, questa incredulità, questo scandalo?

Il presupposto inespresso che sottende tali stati d’animo, e la domanda che ne scaturisce, è l’ingenua convinzione comune che la Storia umana sia una linea retta teleologicamente puntata alla realizzazione delle magnifiche sorti e progressive. In termini baconiani, un idolum fori.

Ma non è necessario condividere il pessimismo cosmico di Leopardi per constatare che non sempre e non indefettibilmente è così: basta conoscere un poco la Storia, o anche soltanto essere avvertiti della cronaca, per verificare che il progresso, nelle sue diverse espressioni, passa attraverso fasi evolutive e fasi involutive, il suo divenire è una linea zigzagante che in certi momenti e per periodi più o meno lunghi interrompe l’ascesa e sembra annullare le acquisizioni precedenti.

Nel corso del Novecento ci eravamo convinti che la luce della ragione avesse definitivamente sconfitto le tenebre del fanatismo, e invece i fondamentalismi stanno contaminando anche il vecchio, compassato, disincantato, cinico Occidente. Dopo la Seconda guerra mondiale, per tre quarti di secolo abbiamo pensato che nessun conflitto avrebbe più potuto insanguinare l’Europa, ed eccoci serviti: oggi ogni giorno alla periferia del Continente si contano i morti, e la cosa ormai ci pare persino normale, non sorprende e non scandalizza.

Soltanto il progresso scientifico e tecnologico procede implacabile senza battute d’arresto, sebbene non senza ricadute a volte anche pesantemente negative.

Per questo, dire per esempio, come effettivamente è stato detto in riferimento al disastro ferroviario di Brandizzo, «come è possibile che nel 2023 accadano questi incidenti?» non è una pura manifestazione di ingenuità retorica, perché con i rilevatori e i sistemi di controllo automatici oggi disponibili, più sicuri (anche se non sostitutivi) di laboriose comunicazioni telefoniche, non dovrebbe accadere che cinque operai vengano travolti da un treno mentre stanno lavorando sulle rotaie (certo, se poi le disposizioni per la sicurezza sono disattese, è un altro discorso): in questo caso lo scandalo è ben motivato, la domanda ha il valore di una denuncia.

Ma è davvero così sorprendente e incredibile, tanto da domandarsi se sia possibile, che (citiamo alcuni esempi recuperati in rete) nel 2023 «ci siano aree della città, anche in pieno centro, off limits per una ragazza?», «ci sia ancora chi considera l’omosessualità una malattia da curare», «esistano strade così mal ridotte?», «ci sia ancora tanta ignoranza e maleducazione», o che «nel Terzo millennio esistano delle persone che credono ancora alla magia»?

Perché tutte queste cose non dovrebbero più essere possibili nel 2023, o nel Terzo millennio, come se il 2023 e il Terzo Millennio fossero il culmine della storia? E infatti le medesime domande similmente formulate, e tritamente stupefatte, possono essere risuonate nel 2022, 2021, 2020 eccetera o negli ultimi secoli del Secondo millennio.

Allora forse non c’è tanto da stupirsi. Quel che cambia è soltanto l’anno, il resto dello stereotipo rimane invariato e si ripropone stancamente ogni volta come nuovo. La reiterazione della sorpresa logora la sorpresa, e svuota di senso (anche retorico) la domanda. Ciò che può stupire è semmai il fatto che ci sia sempre chi si stupisce. Possibile che nel 2023 ci sia ancora qualcuno che dice «possibile che nel 2023…»?

Il paradosso del mito del progresso? Ci ha resi incapaci di pensare al futuro. Magnoli Bocchi indaga il senso di impotenza che attanaglia l'Occidente. Luigi Iannone il 26 aprile 2023 su Il Giornale.

Ne Il mito del progresso (Carocci, pagg. 200, euro 22) Giovanni Battista Magnoli Bocchi compie un viaggio nel senso di impotenza e inutilità di questa vocazione ossessiva e lo inaugura con una operazione maieutica di cui ne svela subito gli approdi. Descrive infatti la prima lezione di ogni anno accademico in cui ripercorre la biografia di Alessandro Magno il quale, poco più che ventenne, pur agitandosi fra tormento, incoscienza e ribellione, sfida l'ignoto e si muove con un esercito alla conquista dell'Asia. Infine, rivolgendosi a uno dei suoi studenti, conclude con la medesima domanda: «E tu che progetti hai?».

Da quando Prometeo donò il fuoco, gli uomini si sono sempre mossi fra parole d'ordine e adorazione fanatica del futuro trasformando a poco a poco la forza attrattiva di questo modello in una omologante sintassi planetaria. Ma l'utopia dell'avvenire, partendo da un fondo di realtà e di radicamento, arricchiva e non ingarbugliava i singoli avanzamenti, perché sempre stretti nell'antico legame tra memoria storica e futuro. Odisseo, per esempio, l'eroe che più di tutti volge lo sguardo al futuro, pur bramando la scoperta e il superamento di ogni limite, è avvinto dal desiderio del ritorno a Itaca. Non siamo di certo alla fine degli accadimenti, ma qualche ingranaggio della trionfante narrazione pare essersi inceppato e Bocchi conduce l'interlocutore verso questa verità. Le grandi scoperte, la gestione dell'energia naturale, la contrazione dello spazio e del tempo connessa allo sviluppo delle reti informatiche e la planetarizzazione dell'economia segnalano traguardi collettivi che hanno mutato in meglio il nostro vivere, soprattutto quando queste forme di avanzamento sono diventate generali e distributive e hanno sollecitato un'armonizzazione egualitaria sul fronte sociale.

Ma la condizione straniante di una hybris che assume prerogative divine, che pone gli umani di fronte all'idea di un progresso infinito, ha fatto dimenticare che esistono dei costi e pure degli imprevisti. E così è in crisi l'idea stessa di progresso. In crisi perché contaminata da un astratto giudizio di valore positivo che abbiamo visto sgretolarsi quando sono spuntate emergenze dal nulla (quella pandemica, le crisi finanziarie e la guerra su suolo europeo). Nell'indefinibile ma inebriante spazio postumo del futuro esse hanno evidenziato non solo un senso di impotenza ma la messa in crisi dei processi democratici, di talune sicurezze e libertà individuali. Peraltro, se il futuro viene solo avvertito come fonte di opportunità efficaci e produttive, cresce l'aspettativa, e nel momento in cui queste situazioni inaspettate rallentano la corsa prospera un fattore ansiogeno.

Per rappresentare l'ingovernabile Jünger utilizzerà l'allegoria del Titanic dove «l'hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo comfort con la distruzione, l'automatismo con la catastrofe». Ancor prima, nel 1818, il manifesto dolente del Frankenstein di Mary Shelley e poi, le denunce profetiche arrivate nei decenni successivi fino alla distinzione pasoliniana tra sviluppo e progresso perché la discrepanza tra ciò che è miglioramento misurato attraverso una sedimentazione nel tempo e ciò che invece rovina nella teleologia, ha radici profonde e antiche. Ce lo ricorda Berdjaev: non abbandonando mai la dimensione mitica e simbolica, l'adorazione fanatica del futuro diventa religione, una sorta di teoria darwiniana dello sviluppo.

Ciò accade perché la grande e inebriante stagione del progresso si trova di fronte ad un cambio radicale di prospettiva dove la storia non è più magistra vitae, il passato rischia di divenire sempre meno rilevante e, come scrive Hans Jonas, tutto inizia a ruotare intorno «ad una forza senza precedenti e ad un impulso incessante» provocati dal binomio scienza-economia che non di rado «crea disequilibrio e insicurezze». Non è un cambio di prospettiva recente. Reinhart Koselleck colloca questo crinale fra il 1750 e il 1850. Altri, al tempo della rivoluzione scientifica. Taluni, al fermento sociale e politico di fine ottocento, ai nuovi modi di pensare con la psicoanalisi e alla teoria della relatività dove il futuro viene proiettato in una straordinaria dimensione e l'escatologia rivoluzionaria riscrive l'antico rapporto di temporalità.

Bocchi rimarca il definitivo screditamento di questo rapporto e lo pone al centro dell'equivoco della modernità perché senza Filippo non ci sarebbe stato Alessandro Magno, e senza ciò che è stato non sarebbe stata possibile la storia successiva. Ma per tirarci fuori dal ripiegamento della storia e dalle reiterate citazioni sul tramonto dell'occidente e la morte di Dio, bisogna elaborare il lutto del «mito del progresso».

Le Generazioni spiegate - Promemoria per orientarsi. Da biscioneassociati.it 

Quando si parla di tendenze socioculturali e di mercato, il concetto di generazioni aiuta a leggere i comportamenti e le attitudini delle persone.

Una generazione identifica il gruppo di individui che, vissuti nello stesso periodo e segnati dagli stessi eventi, condividono l’esperienza del presente e la prospettiva sul futuro.

Ecco, in ordine di prossimità, le generazioni di questi nostri anni.

Generazione Z (anche iGen, Post-Millennials, Centennials, o Plurals) — nati intorno al 1995/2010

È la generazione degli adolescenti d’oggi: ogni definizione è quindi provvisoria. Sono nativi digitali, Internet regola il loro rapporto con la realtà. Globali, saggi, multiculturali, hanno un concetto di genere meno rigido delle generazioni precedenti. 

Millennials (anche Generation Y, Generation Next o Net Generation) — nati intorno al 1980/1995

Sono cresciuti con Internet e computer (rivoluzione informatica). Guardano al futuro con ottimismo. Sono tolleranti e individualisti, e a volte narcisisti, considerano favorevolmente ambizione e competitività.

Generazione X — nati intorno al 1963-1980

Una generazione piccola, di cui manca un profilo definito. Spesso descritti come cinici, scettici e senza valori, sono una generazione molto intraprendente e tecnologica. A loro si deve l'espansione di Internet.

Baby Boomers — nati intorno al 1945/1964

Sono moltissimi, perché sono la generazione dell’esplosione demografica. Ottimisti, individualisti e consumisti: hanno fiducia nella prosperità economica. Fanno debiti e acquisti a rate, sono attenti alla forma fisica, amano il lavoro.

Tradizionalisti (Maturi, Veterani) — nati intorno al 1925/1945

Sono ancorati a valori e usi di tradizione: famiglia, matrimonio e lavoro. Ancorati all’esperienza della guerra, amano poco tecnologie e non hanno troppa fiducia nel cambiamento. Potendo, pagano in contanti.

Baby boomers, X, Y e Millenials: e tu a che generazione appartieni? Scoprilo con noi

Spesso attribuiamo un attuale 15enne ai Millennials o un 30enne alla Generazione X. Ma sbagliamo. Ricordate: le generazioni non sono legate a un’età, ma a un anno di nascita. Il Corriere della Sera il 5 aprile 2018.

I Baby Boomers

Sono i figli del “baby boom”, coloro che hanno vissuto il periodo della ripresa economica e del boom demografico successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Sono i nati tra il 1945 ed il 1965 (dai 73 ai 53 anni oggi). È la generazione delle rivoluzioni culturali, delle lotte per i diritti civili, del movimento hippie, della rivoluzione sessuale, del pacifismo, del femminismo e del rock. Sono orientati al lavoro e alla carriera, ambiziosi, con redditi mediamente elevati, ma anche con una grande predisposizione al risparmio.

È la prima generazione attenta alla forma fisica ed ai «rimedi» contro la mezza età. Generazione che, secondo gran parte dell’opinione pubblica, ha rovinato i propri figli, crescendoli nel mito del “puoi avere tutto quello che vuoi”, senza capire che il mondo nel frattempo era cambiato, che lea certezza si è trasformata in precarietà. Oggi hanno una nuova vita social: il 75% di loro è su Facebook.

La Generazione X 

Sono i nati tra il 1965 ed il 1980 (età compresa tra i 53 e i 38 anni) che hanno vissuto eventi storici epocali come la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda. L’espressione “X” nasce nel 1991 da Doug Coupland nel famoso romanzo Generazione X. Vengono dopo i Boomers e restano “schiacciati” tra il sogno americano e l’incubo delle Torri gemelle.

La Generazione X costituisce il segmento più grande dell’attuale popolazione, sono persone cresciute in piena recessione. Rispetto alla generazione precedente hanno un’apertura mentale maggiore verso le “differenze” di genere, razza, sessuale e sono i primi ad esser cresciuti con le nuove tecnologie. È una generazione un po’ “indefinita”, “ponte” tra la sicurezza della precedente e la totale precarietà della successiva. Li si taccia di fannulloneria, ma probabilmente sono solo più concreti e meno sognatori dei Boomers. Del resto, è questa la generazione che ha dato il via all’era di Internet e ha ideato i suoi “giganti”, da Yahoo a Google.

I Millennials 

Con i termini Generazione Y, Millennial Generation o Net Generation si indicano i nati tra il 1980 e il 2000 (38-18 anni oggi). Questa generazione è caratterizzata da un maggiore utilizzo e una maggiore familiarità con la comunicazione, i media e le tecnologie digitali. È la generazione che ha familiarità con le nuove tecnologie e la rete, ma è anche la generazione della precarietà, il che li ha spesso visti classificati come “bamboccioni” che vivono ancora con la famiglia.

I Millennials sono stati teorizzati dagli storici William Strauss e Neil Howe alla fine degli anni ’80. La Generazione millenaria è la prima ad affrontare la crisi economica a cavallo tra il 2007 e il 2010. In Europa i livelli di disoccupazione giovanile sono molto alti e i Millennials sono quelli che ne hanno risentito maggiormente.

La Generazione Z 

Sono i nati da fine anni ’90 al 2010 e sono la prima generazione nativa digitale, con diffuso utilizzo di Internet sin dalla nascita. I membri della Generazione Z sono considerati come avvezzi all'uso della tecnologia e i social media, che incidono per una parte significativa nel loro processo di socializzazione. Sono il target del futuro, quello che nei prossimi anni influenzerà di più le strategie di digital marketing delle aziende.

È la prima generazione mobile-first della storia. Sono la “social e selfie – generation”: uno studio del GlobalWebIndex mostra che il 97% degli appartenenti alla Generazione Z possiede uno smartphone e che per 7 utenti su 10 questo rappresenta il mezzo prediletto per collegarsi a Internet. Da mobile i giovanissimi passano connessi quasi 3 ore e 40 minuti, 50 minuti in più della media globale.

 I Baby Boomer.

 (ANSA venerdì 7 luglio 2023) - Il numero stimato di ultracentenari raggiunge il suo più alto livello storico, sfiorando, al 1° gennaio 2023, la soglia delle 22 mila unità, oltre duemila in più rispetto all'anno precedente. Gli ultracentenari sono in grande maggioranza donne, con percentuali superiori all'80 per cento dal 2000 a oggi. Lo dice l'Istat nel suo rapporto annuale. Gli scenari demografici prevedono un consistente aumento dei cosiddetti "grandi anziani": nel 2041 la popolazione ultraottantenne supererà i 6 milioni; quella degli ultranovantenni arriverà addirittura a 1,4 milioni.

Estratto dell’articolo di Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” il 27 giugno 2023.

Siamo i più anziani d’Europa, secondi nel mondo solo al Giappone. Abbiamo 187 anziani ogni 100 giovani, quello che in statistica viene definito la piramide rovesciata. Ma abbiamo anche un altro record europeo: siamo il Paese con la più alta aspettativa di vita alla nascita. È la fotografia del rapporto «Noi Italia» dell’Istat.

Nel 2022, la speranza di vita alla nascita della popolazione residente italiana è di 80,5 anni per i maschi e di 84,8 per le femmine. […] Un altro dato salta agli occhi: in Italia più di uno studente su dieci tra i 15 e i 19 anni, oltre l’11%, abbandona gli studi superiori. L’altro numero, subito dopo, è che quasi un giovane su cinque tra i 18 e i 24 anni (il 19%) appartiene alla categoria dei cosiddetti neet, ovvero ragazzi che non studiano e non lavorano.

Aggiungiamo: nel 2022 la quota di adulti tra i 25 e 64 anni con al massimo la licenza media è di quasi il 40% (37,4%). E sono di più gli uomini (40,1%) che le donne (34,8%). L’investimento nell’istruzione rispetto al prodotto interno lordo è sotto la media europea: 4,1%, il nostro, contro una media del 4,9%. […]

Perdiamo il 42% dell’acqua. Lo 0,1% della popolazione residente (quasi 65 mila abitanti) abita in 15 Comuni in cui è, addirittura, completamente assente il servizio pubblico di distribuzione dell’acqua potabile. […]

Perché gli anziani spesso perdono la voglia di vivere: cosa dobbiamo ricordare. Steno Sari su Libero Quotidiano il 19 giugno 2023.

Recita il comandamento del decalogo mosaico: “Onora tuo padre e tua madre”. Ma cosa significa mostrare onore? Secondo gli studiosi la parola ebraica kavòhdh significa letteralmente “pesantezza”. Il termine è legato al concetto di gloria e preziosità. Chi viene onorato è considerato una persona di un certo peso o di una certa importanza. Alla radice dell’onore c’è il rispetto. Nel nostro caso riguarda la maniera in cui trattiamo i nostri genitori, rispettando la loro dignità, ascoltando il loro punto di vista, essendo pronti a soddisfare le loro richieste ragionevoli. Questo vuol dire provare sentimenti pieni di calore e apprezzamento anche per gli anziani in generale. Non a caso nel Levitico è scritto: «Alzatevi con rispetto davanti a un vecchio» (19,32, Tilc).

Anche se l’onore implica qualcosa di più di una semplice formalità, vi risulta che oggi la maggioranza dei giovani aprano la porta alle persone anziane? O che cedano il posto agli anziani in un ascensore pieno? Quando è l’ultima volta che avete visto lasciare il posto alle persone anziane sull’autobus o su un treno affollato? Mentre il numero delle persone molto anziane aumenta in modo vertiginoso, il problema di come prendersi cura di loro si fa sempre più difficile. È vero, gli anziani hanno i loro acciacchi, e si può capire se a volte sono lamentosi e capricciosi o se non sono sempre amabili e allegri. Assolvere questo compito può essere davvero un problema gravoso, un lavoro enorme. Questo spiega perché nel frenetico mondo d’oggi è facile che gli anziani vengano messi da parte e che alcuni siano portati a pensare che siano d’intralcio, che non servano più.

La nostra società attribuisce grande valore alla gioventù, all’indipendenza, alla produttività e alla velocità, proprio quelle cose che con gli anni diminuiscono. Non sorprende che molti anziani perdano la voglia di vivere. Molti finiscono in case di riposo dove non hanno nient’altro da fare che starsene seduti a giocare a carte e guardare la Tv. Per regolare i rapporti umani dovremmo saperci mettere nei panni degli altri, vedere come vorremmo essere trattati se fossimo al loro posto. Ricordiamoci che anche gli anziani che hanno perso gran parte della loro lucidità possono capire se viene rispettata la loro dignità e che meno sono rispettati più precocemente deperiscono sia dal punto di vista fisico che mentale.

Quando osservo mio padre che va verso i 97 anni e mia madre verso i 92, mi capita di passare in rassegna la mia infanzia e mi tornano in mente i sacrifici che hanno fatto per me, come mi assistevano quando ero malato, come mi portavano in giro per farmi divertire con quel poco che avevano. Tutto ciò mi rammenta qual è la cosa migliore da fare per soddisfare le loro necessità. Anche se la posizione delle persone anziane nella famiglia e nella società sta cambiando, non per questo esse devono perdere la gioia di vivere ed essere emarginate. Avere il sostegno di figli, amici e parenti è molto importante per loro, li fa sentire vivi, perché così possono condividere esperienze e piaceri. Ricordiamoci che anche noi, mentre leggiamo questo articolo, stiamo invecchiando...

Il grande inganno della bella vecchiaia. PAOLO D'ANGELO, filosofo, su Il Domani il 15 maggio 2023

Negli ultimi mesi sono apparsi parecchi libri sulla vecchiaia, perché i vecchi sono sempre di più. I libri sono molto diversi tra loro, perché ci sono molti modi di invecchiare e ancor più di pensare la vecchiaia. Una cosa in comune però questi libri ce l’hanno: danno della vecchiaia un’immagine opposta rispetto a quella dei libri scritti anche solo quaranta, cinquant’anni fa.

Nei libri di Jean Améry o di Simone de Beauvoir, scritti alla fine degli anni Settanta, la vecchiaia era inevitabilmente pensata come declino, decadimento, delusione. Oggi Lidia Ravera parla di Age Pride e protesta contro l’ageism, la discriminazione delle persone in base all’età.

In questo rovesciamento degli stereotipi, tuttavia, non bisogna esagerare, come fa Vittorino Andreoli nella sua Lettera a un vecchio, mettendo la vecchiaia, addirittura, sotto il segno della speranza e del desiderio. Non solo perché così non si ottiene un modello, ma una caricatura, ma anche perché non sarebbe giusto dimenticare che molti anziani vivono in condizioni economiche precarie, e soffrono di solitudine, più di quanto accada in altre età della vita.

Che negli ultimi anni siano apparsi parecchi libri sulla vecchiaia si spiega facilmente con la statistica. Stanno diventando vecchi (tra i settanta e oltre) i boomer; quindi, una classe di età in cui è lecito aspettarsi ci siano più scrittori che nelle generazioni precedenti e successive. Ma soprattutto ci sono più vecchi, molti più vecchi in giro.

E un libro sulla vecchiaia lo leggerà solo un vecchio, non certo un giovane e nemmeno, anzi soprattutto, un cinquantenne o una cinquantenne (perché dovrei leggerlo? Sono forse vecchio?). Per altro il genere è tutt’altro che nuovo, ed era discretamente praticato anche quando di vecchi (nel nostro senso anagrafico, ovviamente: nulla è variato di più nella storia che la percezione dell’età, e un tempo si poteva essere vecchi a cinquant’anni, una donna lo era di sicuro) ce n’erano in giro davvero pochini.

Il capostipite, come è ben noto, è il De senectute e Cicerone scrisse a sessantadue anni. Quello che interessa dunque non è il dato quantitativo. Piuttosto le differenze, marcate, tra i libri recenti sull’argomento e quelli scritti da chi diventava vecchio quaranta-cinquanta anni fa.

Un esempio eclatante, e che ha destato qualche reazione, è il modo in cui, nel suo Invecchiare con saggezza, una notissima filosofa americana, Martha Nussbaum, attaccava l’immagine della vecchiaia fornita da un’altra famosa filosofa di due generazioni precedenti, Simone De Beauvoir. Quest’ultima notava che si diventava vecchi quando si cominciava a percepire una distanza tra il modo in cui ci autoconsideriamo e l’immagine che ci rendiamo conto di avere.

È l’esperienza che, in modo brillantissimo, aveva riassunto Georg Simmel: vediamo casualmente la nostra immagine riflessa in un vetro, magari stando in piedi sull’autobus, e per un istante pensiamo: guarda quel vecchio, salvo capire un attimo dopo che quello siamo noi.

Nulla di tanto strano, dunque, ma per Nussbaum quella idea della differenza era lo stigma di una considerazione discriminante delle persone vecchie. Una discriminazione che in lingua anglosassone ha già il termine per designarla, ageism, coniato chiaramente sul modello di sexism o racism: un termine che da noi non ha ancora un corrispondente, e forse non lo avrà mai perché con buona pace della proposta di legge presentata da un parlamentare di FdI, che vuole multare l’uso di parole straniere, impareremo presto a usare il termine inglese.

In America, per esempio, è ageism costringere le persone ad andare in pensione ad una età prestabilita, quando vorrebbero decidere autonomamente di continuare a lavorare. Quest’ultima cosa è abbastanza impensabile in Europa (Macron ha rischiato grosso per molto meno), ma la sensibilità per la discriminazione anagrafica verso i vecchi, e insomma la denuncia dell’ageism, sta rapidamente avanzando anche da noi.

AGE PRIDE

Una presa di posizione contro l’ageism è, fin dal suo titolo, il libro di Lidia Ravera appena apparso da Einaudi: Age pride, come Gay pride, rivendicazione orgogliosa di quello che fino a poco tempo fa era un marchio da allontanare da sé, verdetto sociale emarginante. Sei vecchio, dunque in declino, fuori dalla produzione e dunque fuori dalla società.

Ravera, al contrario, vede nella vecchiaia, come conseguenza dei tanti cambiamenti quantitativi e qualitativi cui è andata incontro negli ultimi decenni, uno stadio nuovo della vita, una condizione che dobbiamo inventare e che in qualche misura possiamo plasmare «come creta morbida». Perfino il temine vecchio le sembra pregiudicato, anche nel cliché di saggezza che gli si è appiccicato addosso da millenni. Meglio chiamarli «grandi adulti», i vecchi, in modo da non segnare irrimediabilmente la cesura rispetto all’età precedente.

A Vittorino Andreoli, invece, il termine vecchio piace, gli sembra una qualifica da rivendicare, tanto che nella sua Lettera a un vecchio (Solferino 2023) lo reitera: Lettera a un vecchio da parte di un vecchio. Così impegnato com’è ad allontanare una visione negativa della vecchiaia, Andreoli, nella foga di ribaltare gli argomenti che di solito vengono usati per biasimarla, finisce per dipingerla in modo poco credibile. Va bene reagire contro una visione cupa e deprimente della vecchiaia, ma forse presentarla come l’età del «desiderio» e della «speranza» è un po’ troppo.

Andreoli, probabilmente, non ha letto il libro di Sandra Petrignani Vecchi (non a caso un libro di parecchi anni fa), nel quale per troppi anziani la perdita della speranza era vissuta in modo dilaniante, e molti di loro confessavano di consumarsi nell’attesa di nulla.

RIBALTARE LUOGHI COMUNI

I vecchi pieni di speranze di Andreoli sono anche, ovviamente, belli, perché «ormai la bellezza non è più coniugata all’età»; e sono perfino generosi, perché la vecchiaia sarebbe l’età del «distacco dall’ossessione del danaro». Ora, va bene non acquietarsi dell’immagine del vecchio avaro consacrata da mille commedie e incarnata da Uncle Scrooge alias Zio Paperone; va bene denunciare i limiti di un’idea di bellezza costruita solo sui corpi giovani.

Ma dire, come fa Andreoli, che invecchiando si diventa migliori, o che donne e uomini ormai vivono l’invecchiamento allo stesso modo non risolve i problemi, si limita a nasconderli. Ravera ha osservazioni molto meno concilianti, e molto più vere, sia sulle differenze nel modo di percepire e rappresentarsi la vecchiaia di uomini e donne, sia sulla questione della generosità.

Nega recisamente che invecchiando si diventi più buoni, anche se respinge lo stereotipo dei vecchi che danno buoni consigli perché non possono più dare cattivi esempi (frase che tutti credono sia di De André, mentre è un moralista francese del Settecento, La Rochefoucauld).

Ribaltare luoghi comuni, evidentemente, non basta, e un po’ più di considerazione sociologica del problema forse aiuterebbe, ricordandoci che un numero troppo grande di anziani vive oggi in Italia sotto la soglia di povertà (basta guardare gli importi delle pensioni minime, che riguardano oltre due milioni di pensionati), o che la percentuale di persone che vivono sole è più alta tra gli ultrasessantacinquenni che nelle altre classi di età, quasi il 40% (e molte di loro sono donne).

UN SOLO MODO

Un libro di Jean Améry (l’autore di Intellettuale ad Auschwitz), scritto, badate bene, a cinquantacinque anni e apparso nel 1968, più o meno in contemporanea al libro di De Beauvoir contro il quale polemizza Nussbaum, si intitolava Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare. I termini detrattori non erano solo nel titolo: era tutto un presentare l’ultima parte della vita sotto il segno del decadimento, della rinuncia, della delusione, della diminuzione e dell’affievolimento. È cosa buona e giusta che oggi si faccia tutto il possibile per non sottostare a questa immagine deprimente. Ma bisogna farlo con giudizio e anche con moderazione, altrimenti si ottiene non un modello, ma una caricatura.

La vecchiaia non è entusiasmante, ma l’unico modo di evitarla rimane, purtroppo, morire prima, il che lo è ancora meno. Non per nulla le cose più brutte sulla vecchiaia le hanno scritte poeti destinati a morire giovani. Come Dario Bellezza: «Fugace è la giovinezza/ un soffio la maturità/avanza tremenda vecchiaia/ e dura un’eternità» (Bellezza è morto a 52 anni).

Appunto: il dato saliente è che ormai la vecchiaia dura molto più di un tempo. Una volta si andava in pensione prima e si moriva, se andava bene dieci anni dopo; oggi si va in pensione più tardi e si muore, sempre se va bene, anche trent’anni dopo. In questo Andreoli ha ragione: la vera novità, alla fine, è che ormai la vita è divisa quasi perfettamente in tre periodi ciascuno di trent’anni circa, e che dunque vanno vissuti tenendosi lontani dal lamento e dalla rinuncia.

E tuttavia La sua Lettera a un vecchio si chiude con un capitolo sulla malattia, che pare sconfessare tutto il resto del suo scritto e sembra evocare, quella conclusione vagamente iettatoria ma purtroppo inconfutabile che una grande filosofo del Novecento, Carl Jaspers riassumeva nella frase: comunque vada, alla fine c’è il naufragio.

Meglio allora volare più basso. Accettare l’incompiuto come raccomanda Enzo Bianchi nel suo La vita e i giorni, cioè non arrovellarsi per quello che non siamo riusciti a fare, o ancor meglio, come raccomandava Colette, ritrovare anche nel declinare una forma di «chic supremo». 

PAOLO D'ANGELO, filosofo. Professore ordinario di estetica presso l’Università di Roma Tre dal Settembre 2001. Dopo la laurea presso l’Università di Roma “La Sapienza”, ha ottenuto il dottorato di ricerca in Estetica presso l’Università di Bologna. Ha insegnato come professore associato di Estetica presso l’Università di Messina dal 1992 al 2000.  È stato Direttore del Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dal 2013 al 2018. È  stato vicepresidente della Società Italiana di Estetica dalla fondazione di quest’ultima nel 2001 al 2014.

Chi va in pensione più tardi vive meglio e più a lungo. Milena Gabanelli e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 15 Maggio 2023.

Vuoi vivere a lungo e in salute? Non smettere mai di lavorare! Detta così è un po’ brutale, ma gli studi scientifici dimostrano che ritardare il pensionamento rallenta il declino cognitivo e consente di sfuggire all’isolamento sociale. La ricerca più esaustiva, pubblicata nel 2015 sulla rivista «CDC Preventing Chronic Disease», è stata svolta su un campione di 83 mila persone: gli over 65 che lavorano hanno tre volte più probabilità di stare meglio fisicamente rispetto a chi è inattivo e il 50% di probabilità in meno di contrarre patologie serie, come cancro o malattie cardiache. Dunque, escludendo i lavori usuranti, quando si entra in questa fascia di età sarebbe saggio pensarci due volte prima di abbandonare definitivamente il proprio mestiere. 

Tra i popoli più longevi al mondo

A guardare i numeri noi italiani stiamo già bene così: nel 2023 l’aspettativa media di vita è di 84,2 anni (86,1 per le donne e 82,1 per gli uomini). Tra i grandi Paesi solo il Giappone fa meglio, ma come vedremo più avanti le differenze sono sostanziali. 

Dai dati Ocse mediamente gli italiani trascorrono 24 anni in pensione, e da un’analisi di Bloomberg tra i 16 e i 18 anni sono trascorsi in buona salute.Una lunga vita è un dato positivo e allo stesso tempo una sfida. L’Italia è infatti il Paese più anziano d’Europa (età media 48 anni contro i 44,4 della Ue). Gli over 65 hanno superato i 14 milioni (il 24% dell’intera popolazione) e secondo le proiezioni Istat nel 2050 diventeranno 20 milioni (34,9%). Come conservare l’attuale tenore di vita ed evitare aumenti della spesa sociale insostenibili? Tra le strategie più innovative adottate negli ultimi anni da Paesi che ci assomigliano demograficamente ci sono il contrasto alle misure che incentivano l’uscita anticipata dal mercato del lavoro (vedi Quota 100-103) e la promozione dell’occupazione degli over 65. 

Età pensionabile e posticipo dell’assegno

La riforma Fornero del 2011 prevede che l’età standard per andare in pensione sia 67 anni, ma grazie alle varie norme sull’uscita anticipata l’età effettiva resta tra i 62 e i 63 anni (dati OCSE e Itinerari Previdenziali). I dipendenti pubblici che hanno maturato i diritti alla pensione devono obbligatoriamente uscire a 65 anni e solo alcune limitate categorie professionali (magistrati, medici, docenti) possono posticipare l’età limite a 70 anni. Nel privato, invece, in accordo con l’azienda, si può restare al lavoro fino a 71 anni. Chi decide di posticipare la pensione deve rinunciare temporaneamente all’assegno, ma al momento dell’uscita ne incasserà uno più corposo non solo grazie all’aumento degli anni di contribuzione, ma anche perché si è elevato il coefficiente di trasformazione che determina l’ammontare dell’assegno. Ad esempio, nel 2023 una persona che esce dal lavoro a 65 anni e che ha accumulato 300 mila euro di contributi beneficerà di un coefficiente di trasformazione di 5,352% e di una pensione annuale di 16.056 euro. Se però va in pensione a 70 anni, con 350 mila euro di contributi e un codice di trasformazione annuale di 6,395% avrà una pensione di 22.382 euro. Poco più di 500 euro al mese.

I pensionati italiani che continuano a lavorare

A differenza dei lavoratori autonomi, i dipendenti devono obbligatoriamente chiudere il rapporto di lavoro per ottenere la pensione. Una volta incassato il primo assegno, possono stipulare un nuovo contratto, anche con l’ex datore di lavoro. In Italia sono 444 mila i pensionati italiani che continuano a svolgere un’attività (Qui il documento). Di questi, gli over 65 sono 383.600, e quasi la metà raggiunge i 70 anni. Non gravano sulle finanze pubbliche anche se incassano la pensione perché continuano a versare i contributi. Coloro che scelgono «l’invecchiamento attivo» sono di solito uomini (78,4%), vivono al Nord (65%) e svolgono un lavoro indipendente (86,3%). Molto bassa invece è la quota dei lavoratori dipendenti (13,7%), fra le ragioni il fatto che il cumulo dei redditi da lavoro e da pensione comporta una tassazione più alta, mentre gli autonomi possono applicare la flat tax. 

Gli over 65 attivi nel mondo

Negli ultimi dieci anni gli over 65 attivi in Italia sono quasi raddoppiati, passando da 372 mila a 705 mila ( il numero include chi incassa già la pensione e chi no), ma rappresentano solo il 5,1%, mentre la media Ocse è del 15%. In cima alla lista ci sono sia i Paesi più longevi e anziani come Giappone e Corea del Sud che impiegano rispettivamente il 25,1% e il 34,9% degli over 65, sia Paesi relativamente giovani come Stati Uniti e Australia con il 18,9% e il 14,7%. Percentuali alte anche nel Nord Europa: Svezia (19,2%), Norvegia (15,2%), Finlandia (12,1%). I numeri precipitano invece in Francia (3,4%), Spagna (3,1%) e Grecia (4,4%). In media nella Ue resta alta la componente dei lavoratori che hanno tra 65 e 69 anni (13,2%), e nella maggior parte dei casi scelgono un lavoro part-time. 

La strategia in Giappone, Usa e Svezia

Il Giappone è il Paese con il maggior numero di over 65 al mondo: circa il 30% della popolazione. L’età per andare in pensione è 65 anni, ma già dal 2019 il governo ha invitato le grandi aziende a trattenere in organico anche gli impiegati settantenni. Secondo una ricerca del 2022, su 230 mila aziende con più di 21 dipendenti, almeno il 25,6% ha seguito la raccomandazione. In generale lo Stato offre agli over 65 che posticipano l’uscita dal mercato del lavoro ogni mese un aumento dello 0,7% sulla futura pensione. Significa che chi ritarda l’addio al lavoro di 5 anni vedrà l’assegno aumentare del 42%. Dopo i 70 anni, il pensionato lavoratore non verserà più i contributi. Negli Stati Uniti l’età per la pensione è 66 anni, ma chi vuole restare beneficia di un incremento annuo sulla pensione dell’8%. Inoltre la legge federale «Age Discrimination in Employment Act» protegge i lavoratori dalle discriminazioni legate all’età. La Svezia è uno dei Paesi europei che già dagli anni ’90 ha iniziato a contrastare il pensionamento anticipato (nel 2023 si può richiedere dai 63 anni, nel 2026 dai 64). Non esiste una norma che fissa l’età per la pensione, ma la maggior parte delle persone sceglie di ritirarsi a 65 anni. Tuttavia la Svezia è anche il Paese Ue con il tasso più alto di 70enni (10,8%) e 75enni (6,9%) che lavorano. Nel corso degli anni sono aumentati incentivi economici e benefit. Per esempio: gli autisti di bus che restano al lavoro fino a 70 anni hanno un aumento di stipendio e visite mediche annuali e gratuite. 

Tolgono lavoro ai giovani?

Non si è sempre detto che per far posto ai giovani bisognava mandare i lavoratori in pensione prima? Guardando le statistiche si direbbe il contrario: dove è maggiore l’occupazione degli over 65 è minore la disoccupazione giovanile. Ad esempio in Giappone e Corea viaggia intorno al 4-8%, negli Usa si ferma al 7,5% , mentre dove l’occupazione anziana è marginale la percentuale dei giovani senza lavoro è a doppia cifra: 17% in Francia, 22% in Italia, 29% in Grecia e Spagna. Poi ci sono le eccezioni: in Svezia, dove gli anziani sono incentivati da più tempo, la disoccupazione giovanile supera il 20%; oppure in Germania, dove gli over 65 occupati sono poco più del 7%, i giovani disoccupati sono solo il 5,7%. A dimostrazione del fatto che non c’è nessun automatismo.

Il dato certo è che l’invecchiamento della popolazione segnerà il mercato del lavoro e le politiche di welfare dei prossimi decenni. Considerate quindi tutte le ricadute positive e tutelando chi svolge lavori usuranti, non c’è nessuna ragione per non trattenere al lavoro gli over 65 che lo desiderano, offrendo smart working, part-time e orari flessibili, in un quadro di formazione e riqualificazione permanente, soprattutto tecnologica. Mentre i professionisti più qualificati andrebbero trattenuti il più a lungo possibile, proprio per trasmettere quel sapere che si matura solo con l’esperienza e che invece va irrimediabilmente perduto.

Estratto dell’articolo di Riccardo Bruno per il “Corriere della Sera” il 26 febbraio 2023.

A che anno si diventa vecchi? E che senso ha indicare uno spartiacque, prima si è ancora adulti e il giorno dopo scocca la terza (o quarta) età? Da tempo la Società italiana di gerontologia e geriatria ha invitato ad alzare la soglia ufficiale della vecchiaia a 75 anni. […]

 L’aspettativa di vita è aumentata di 20 anni rispetto agli inizi del ‘900, l’Istat stima che nel 2050 potranno esserci 160 mila centenari, si distingue ormai tra «giovani anziani» (tra 64 e 74 anni), anziani (75-84) e «grandi vecchi». Si vive di più, ma il punto è come.

«La mancanza della famiglia e della comunità sono fattori di invecchiamento, la solitudine è la peggior nemica dell’anziano — analizza il professor Marco Trabucchi, presidente dell’Aip —. Chi è solo è soggetto maggiormente a malattie cardiovascolari, endocrine, cerebrali».

 Il professor Trabucchi ha appena ascoltato il presidente americano Biden in Ucraina. «Ha 80 anni, ha rischiato le bombe, ha fatto un discorso di grande forza, ha ritrovato energie che non avrebbe avuto in altre circostanze. Di fronte a questo esempio, non ha senso parlare di età, esiste invece la scelta della donna e dell’uomo di rispondere alle esigenze della vita in modo adeguato». […]

Estratto dell’articolo di R. Bru. per il “Corriere della Sera” il 26 febbraio 2023.

Si sente anziano?

«Oggi, che ho un fastidioso dolore alla costola che mi rende triste e sconsolato, direi di sì. Ma ieri, e spero domani, no». Risponde con ironia Giuseppe De Rita, 90 anni, sociologo, fondatore e presidente del Censis. […]

 Nella nostra società ci sono sempre più anziani, e questo è un bene, ma anche sempre più persone da sole.

«È il frutto di vent’anni di rotture delle relazioni. Senza voler fare polemiche politiche, è la conseguenza della stagione del “vaffa”. Ma anche degli atteggiamenti rancorosi. In un contesto così come possiamo immaginare che un singolo possa stare bene? Definirei la solitudine come assenza di tempo. […]».

Il Diritto e la Pretesa.

La gioventù e la vecchiaia sono facce della stessa medaglia. In entrambe le fasi della vita c’è qualcuno che dipende da un altro, che se ne prende cura.

I giovani sono mantenuti, istruiti ed educati dai vecchi.

I vecchi sono mantenuti dai giovani.

Cosa vuol dire e qual è la differenza.

Vuol dire che c’è un obbligo giuridico a carico di giovani e vecchi.

La differenza è che i giovani non possono scegliere, né pretendere, ma solo, eventualmente, recriminare. A loro viene dato il mantenimento, l’istruzione e l’educazione secondo i canoni familiari di appartenenza, che la fortuna gli ha riservato, e da lì dipende il loro futuro. Lo Stato interviene ove la famiglia manca fisicamente o per incapacità, ma non è sempre un giovamento. Spesso l’intervento è tardivo, o mancante, o nocivo. Ergo: essi non si discostano dalla falsa riga culturale ed economica di appartenenza.

I vecchi, invece, possono scegliere. Si diceva: i giovani sono i bastoni della vecchiaia dei genitori. E i genitori questo dogma l’hanno preso alla lettera, tanto che si creavano più di un bastone: famiglie con tanti figli. Figli che erano bastoni anche della gioventù dei genitori, perché lavoravano per loro.

Gli odierni vecchi sono persone che hanno usufruito del pensionamento in tenera età e si son goduti la vita. Si sentono giovani e non hanno nessuna voglia di morire. Hanno una bella pensione, spesso aggiunta a quella di reversibilità del coniuge. Quindi, non hanno bisogno di mantenimento, come per legge. E lì finisce l’obbligo dei figli nei loro confronti.

Invece, ad un certo punto i vecchi, però, fanno i capricci. Vogliono l’assistenza!!! Perché così fan tutti.

Fa niente se sono stati cattivi genitori e non la meritano: loro la pretendono.

L’assistenza, secondo i vecchi, è che i figli li devono accudire come bambini: averli presenti fisicamente notte e giorno con loro. Come moderni schiavi. Fa niente che questi hanno la loro famiglia ed il loro lavoro: i loro obblighi verso i loro figli.

I vecchi pensano solo per loro. Non vogliono lasciare la loro casa per stare, per comodità, con i figli. Spesso non dormono la notte e non fanno dormire i presenti, perché hanno paura di morire nel sonno o hanno delle allucinazioni, come le apparizioni di persone care defunte. Mentre di giorno poltroneggiano, di notte si mettono a camminare in casa. Vogliono essere accompagnati al bagno, per paura di cadere, o imboccati quando mangiano, per paura di sporcarsi. Voglio essere accuditi come malati, con medico ed infermiera al seguito. Medicine e visite mediche periodiche non devono mancare. Vogliono essere ascoltati. Parlano e parlano, dicendo sempre le stesse cose. Le loro opinioni sono incontestabili. Quindi, non sono persone incapaci, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a sé stesse. E quantunque fosse, lo Stato offre l’intervento dei Servizi Sociali, la possibilità dell’accompagnamento e dell’esenzioni mediche, oltre che delle agevolazioni della legge 104. Tra pensioni ed accompagnamento si ha la possibilità della Residenza per anziani o della badante. Ma loro vogliono i figli senza pagare.

Eppure, se non fai come loro pretendono, ti minacciano di diseredarti per qualcosa che non hai ancora avuto, o ti rinfacciano qualcosa che ti hanno dato. Fosse anche niente, ma per loro è tantissimo. Comunque, non mi sembra che nell’aldilà qualcuno abbia portato le cose terrene con sé.

Insomma, alla fine, riescono a rovinare tutto quel di buono vi era stato nei rapporti in famiglia.

Io spero di non diventare come loro e, magari, di morire prima…anche se vecchio già lo sono.

I Genitori.

Art. 30 della Costituzione:

E’ dovere dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio.

Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede che siano assolti i loro compiti”.

Dispositivo dell'art. 147 Codice Civile (R.D. 16 marzo 1942, n. 262):

Codice Civile LIBRO PRIMO - Delle persone e della famiglia Titolo VI - Del matrimonio  Capo IV - Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio

Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l'obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315 bis Dispositivo dell'art. 315 bis Codice Civile

Codice Civile LIBRO PRIMO - Delle persone e della famiglia Titolo IX - Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio Capo I - Dei diritti e doveri del figlio

Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.

Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.

Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.

Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa.

I Figli.

Articolo 433 Codice Civile (R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

Codice Civile LIBRO PRIMO - Delle persone e della famiglia Titolo XIII - Degli alimenti

All'obbligo di prestare gli alimenti sono tenuti, nell'ordine:

1) il coniuge;

2) i figli;

3) i genitori e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi; gli adottanti;

4) i generi e le nuore;

5) il suocero e la suocera;

6) i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali.

Dispositivo dell'art. 591 Codice Penale:

Codice Penale LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare Titolo XII - Dei delitti contro la persona Capo I - Dei delitti contro la vita e l'incolumità individuale

Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

Alla stessa pena soggiace chi abbandona all'estero un cittadino italiano minore degli anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro.

La pena è della reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte.

Le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall'adottante o dall'adottato.

L'obbligo di assistenza ai genitori anziani. Da studiolegalecastagna.it il 12 gennaio2023

I dati demografici degli ultimi anni, come noto, mostrano un progressivo invecchiamento della popolazione che pone spesso di fronte al problema di anziani in stato di bisogno che vivono soli o che possono essere a tutti gli effetti considerati genitori abbandonati dai loro figli.

All'interno del nostro codice civile, come è noto, è previsto l'obbligo dei genitori di prendersi cura dei propri figli e mantenerli sino al raggiungimento della loro completa autonomia economica.

Tuttavia, meno conosciuto ma non meno importante, potrebbe essere il corrispondente obbligo dei figli, nei confronti dei propri genitori, i quali si trovino in stato di bisogno e incapacità a provvedere al proprio mantenimento, sancito dall'art. 433 c.c.

Inoltre, se i genitori ormai anziani vengono lasciati a sé stessi, i figli e/o i nipoti potrebbero rischiare di incorrere nel reato previsto dall'art. 591 c.p., il quale sanziona l'abbandono di persone incapaci.

Per sapere quando questo reato sussista, occorre partire dall'articolo stesso del codice penale, secondo cui: chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

Tali pene vengono aumentate se il fatto è commesso dal genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge, ovvero dall'adottante o dall'adottato.

Tale fattispecie è stata più volte interpretata dalla Corte di Cassazione, il cui precedente orientamento, prevedeva che ai fini della sussistenza del reato di abbandono di persone incapaci, era necessario accertare in concreto l’incapacità del soggetto passivo di provvedere a sé stesso.

A differenza dei bambini, che a prescindere vengono considerati incapaci fino al compimento dei 14 anni, per quanto riguarda gli anziani va valutato caso per caso, in quanto l'età avanzata, di per sé, non può essere considerata motivo invalidante.

Con la conseguenza che, non essendoci presunzione di incapacità per la vecchiaia, in quanto condizione non patologica, abbandonare il genitore anziano senza malattie specifiche, non poteva costituire reato.

Con la sentenza n. 44098/2016 la Corte cambia orientamento: il caso trattava di un anziano, padre della ricorrente, il quale trovandosi in uno stato di precaria salute e sostanzialmente abbandonato dalla figlia, sarebbe stato posto in pericolo.

La ricorrente era, infatti, stata condannata per abbandono di incapace dal tribunale di primo grado, con sentenza confermata anche dalla Corte d’appello di Bari.

La donna tuttavia si rivolgeva alla Corte di Cassazione lamentando un'errata applicazione dell’art. 591 c.p., poiché il pericolo per l’incolumità fisica derivante dall’inadempimento dell’obbligo di assistenza, non poteva sussistere, in quanto il padre non era mai stato affidato alla sua custodia. In aggiunta, precisava che l'impossibilità di assistere il padre derivava dalla necessità di accudire i propri figli.

La Cassazione ha ritenuto tutti i motivi presentati dalla ricorrente infondati, sancendo che: "l’elemento oggettivo del reato di abbandono di persone minori o incapaci è integrato da qualsiasi condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura (o di custodia) gravante sul soggetto agente, da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità dei soggetto passivo"; sottolineando, inoltre, come dalle precedenti sentenze, soprattutto di primo grado, il Giudice abbia ampiamente motivato sul tema del dovere giuridico, oltre che morale, di cura ravvisabile in capo all’imputata verso il padre.

Tale motivazione viene fondata sull'interpretazione sistematica di diverse norme, sia di livello costituzionale, che riguardano il riconoscimento della famiglia come società naturale, il suo inquadramento tra le formazioni sociali ove si svolge la personalità dei singoli e l’adempimento dei doveri di solidarietà sociale (artt. 3 e 29 Cost.), sia di quelle del codice civile che impongono il dovere di rispetto dei figli verso i genitori, che diventa concretamente stringente in caso di stato di bisogno ed incapacità del singolo a provvedere al proprio mantenimento ( art. 433 c.c.).

La Corte di Cassazione si sofferma infine sul dovere di cura gravante sulla donna, sancendo che chi lascia il proprio genitore anziano da solo, in condizioni di grave incapacità fisica o mentale, anche senza una patologia specifica ma semplicemente per vecchiaia, risponde del reato di abbandono di persone incapaci, così come previsto dall'art. 591 c.p., sancendo che l’obbligo di accudire i genitori non è più unicamente morale, ma stabilito per legge, grazie anche ai rinvii operati alla Costituzione e al codice civile.

Legge 104 assistenza genitori anziani: come funziona? Da epicura.it 3/2/2023

Indice

1. Assistenza genitori anziani da parte dei figli

2. Legge 104: a chi spetta?

3. Legge 104 e permessi: come funziona?

4. Legge 104: come fare domanda?

5. Assistenza genitori anziani: due anni di congedo retribuito

In Italia, più di 14 milioni gli anziani necessitano di cure e assistenza continua perché non più autosufficienti.

Negli ultimi anni, infatti, la figura di Caregiver familiare ha assunto un ruolo di primaria importanza. Con questo termine, s'intende "colui che si prende cura”, ovvero tutti i familiari che assistono un loro congiunto ammalato o disabile.

Tuttavia, ad oggi chi svolge questa attività di assistenza non è ancora formalmente tutelato da un quadro normativo.

L'unica modalità concessa dallo Stato Italiano è rappresentata dalla Legge 104 per l'Assistenza di Genitori Anziani, ovvero riconoscimento per un familiare che accudisce un parente anziano, con copertura da parte dello Stato dei contributi maturati durante l'assistenza e il lavoro svolto prendendosi cura del soggetto, equiparandoli a quelli che si maturano come lavoro domestico.

Assistenza genitori anziani da parte dei figli

Un genitore, per quanto possibile, desidera trascorrere il resto della sua vita nella casa dove ha visto nascere e crescere la propria famiglia. Si sente più tranquillo e sereno se a occuparsi di lui è un figlio o comunque una figura familiare, con la quale ha confidenza e intimità.

Prendersi cura di un genitore anziano è un atto meraviglioso, dettato dall’affetto e dalla necessità di garantirgli il necessario benessere emotivo, mentale e fisico.

Un desiderio legittimo, a cui segue, però, un'attenta riflessione sul rovescio della medaglia. Si tratta di un impegno che richiede nervi saldi, tempo, lavoro e qualche sacrificio in più perché le attività da svolgere sono tante e onerose.

E se il familiare da assistere non fosse autosufficiente o affetto da gravi patologie?

In questo caso, si può usufruire dei permessi e degli strumenti descritti nella Legge 104 per l’Assistenza ai Genitori Anziani.

Legge 104: a chi spetta?

La Legge 104 si applica a qualsiasi lavoratore dipendente, con un contratto a tempo indeterminato o determinato e con a carico un familiare affetto da una grave disabilità.

I soggetti che non hanno diritto alla 104 sono i lavoratori autonomi, quelli a domicilio, i lavoratori agricoli a tempo determinato occupati a giornata e chi svolge lavori domestici e familiari.

Legge 104 e permessi: come funziona?

Le agevolazioni previste dalla legge 104 / 92 per l’Assistenza dei Genitori Anziani sono di natura fiscale, economica e lavorativa.

Uno degli aiuti più importanti stabiliti dalla Legge 104 sono i giorni di permesso. La legge stabilisce che chi ha un familiare con patologia invalidante o handicap grave, ha diritto a 3 giorni al mese di permessi retribuiti. Inoltre, è possibile frazionarli in ore purché non si superi il triplo delle ore lavorative giornaliere.

Una recente sentenza della Cassazione ha stabilito che è possibile richiedere il permesso anche se il familiare è ricoverato in una struttura residenziale, a patto che sia una casa di riposo e non una RSA dove è garantita un’assistenza sanitaria continua.

A questa agevolazione, ha diritto chi è in possesso di 3 requisiti specifici ovvero:

l'assistito deve avere più di 65 anni

il grado di parentela deve essere al massimo entro il terzo grado

il lavoratore deve essere convivente o comunque abitare vicino al familiare anziano

L’assistenza esclusiva dei genitori anziani da parte dei figli prevista dalla Legge 104 stabilisce che il permesso possa essere richiesto da un solo lavoratore dipendente che diventa a tutti gli effetti un referente. Nel caso in cui una persona debba assistere più familiari contemporaneamente, può usufruire di più permessi.

Sarà necessario, inoltre, programmare un piano accurato con le assenze previste da consegnare all’amministrazione. L’INPS o datore di lavoro sono chiamati a effettuare dei controlli finalizzati all’accertamento della presenza dei requisiti richiesti dalla normativa.

Per quanto riguarda la sede lavorativa, la Legge 104 dispone che il lavoratore abbia la facoltà di scegliere quella più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso. Allo stesso modo, è possibile rifiutare di lavorare in orari notturni (7 ore consecutive a partire dalla mezzanotte) se si tratta di un familiare non autosufficiente.

Legge 104: come fare domanda?

Innanzitutto, bisogna richiedere un certificato medico per attestare l’intera storia clinica del genitore anziano da assistere. A compilarlo è il medico di base che, una volta visitato il paziente, è tenuto a inviare telematicamente all’INPS l’intera documentazione e a rilasciare il numero di protocollo.

Una volta in possesso del numero di protocollo, bisogna inviare la richiesta della Legge 104 alla sede dell'INPS che, una volta visionata l’anamnesi del medico di base, convocherà l'assistito per essere visitato dalla commissione medica della ASL di appartenenza.

Se la diagnosi non è sufficientemente chiara, la commissione potrà richiedere altri accertamenti.

In caso di esisto positive, si provvederà al rilascio del verbale in cui sarà indicato in maniera chiara e inequivocabile il grado di handicap grave ai sensi della Legge 104 articolo 3 comma 3.

Assistenza genitori anziani: due anni di congedo retribuito

I lavoratori dipendenti pubblici o privati possono usufruire anche di un’altra importante agevolazione, ovvero il congedo straordinario biennale, frazionato o continuativo, da richiedere nell’arco della vita lavorativa.

Il congedo è retribuito sulla base dell’ultimo stipendio percepito, dà diritto alla tredicesima ed è coperto dai contributi ai fini pensionistici.

Il requisito per richiedere tale congedo è che l'assistito non sia ricoverato a tempo pieno e che non presti attività lavorativa per il biennio in esame.

E se il figlio non fosse convivente?

A chiarire la questione, è intervenuto l’articolo 42 del D.Lgs. n.151/2001 che ha definito "non prioritario il requisito della convivenza a patto che suddetta convivenza abbia luogo entro l’anno dalla richiesta di congedo straordinario e sia conservata per l'intera durata dello stesso".

La Legge 104 in materia di Assistenza ai Genitori Anziani dispone che il figlio, se in possesso di 20 anni di contributi, possa richiedere la pensione anticipata. L’assegno mensile in questo caso non dovrà superare il tetto massimo di 1.500 euro lordi.

Tra i diritti stabiliti dalla Legge 104 per l’Assistenza dei Genitori Anziani da parte dei figli, c'è la possibilità di richiedere:

Indennità di accompagnamento

Agevolazioni che spettano per l’acquisto di attrezzature e accessori come le poltrone speciali destinate ai non deambulanti

Detrazioni fiscali per l’assunzione della badante, per l'acquisto di farmaci o per l’eliminazione delle barriere architettoniche.

Alla base di quanto descritto, la legge 104 rappresenta quindi un quadro normativo importante al quale fare riferimento per agevolare la vita degli assistiti e dei loro figli.

In conclusione, occuparsi di un caro non autosufficiente non è semplice: per questo è fondamentale vagliare tutte le opzioni per trovare la soluzione che garantisca la serenità alla persona anziana e a tutta la sua famiglia.

Figlio si occupa da solo della madre malata, può chiedere il rimborso al fratello?

Il figlio che cura gli anziani genitori adempie ad un’obbligazione naturale (articolo 2034 del codice civile). Di Marcella Ferrari, Avvocato, Pubblicato il 19/03/202 su altalex.com

 Nelle famiglie, capita spesso che uno dei figli si occupi, in via esclusiva, degli anziani genitori (o di uno solo di essi) e che il fratello, vivendo in un’altra città, se ne disinteressi. Il figlio che ha sempre assistito il genitore, che ha pagato le cure e ha investito il proprio tempo nella gestione della casa, può chiedere un rimborso all’altro?

Prima di rispondere al quesito, analizziamo gli obblighi gravanti sui figli in relazione all’assistenza degli ascendenti.

Sommario

L’obbligo degli alimenti a carico dei figli

L’obbligo di assistenza ai genitori

Le somme spese per i genitori e l’obbligazione naturale

Un figlio che si disinteressa dei genitori è indegno a succedere?

L’obbligo degli alimenti a carico dei figli

Qualora gli anziani genitori versino in stato di bisogno, poiché, ad esempio, la pensione non è sufficiente per pagare tutte le spese o perché malati, grava sui figli l’obbligo di alimenti (art. 433 c.c.). La legge richiede che il soggetto non sia in grado di sopportare le spese fondamentali, come il vitto, l’alloggio, il vestiario e i medicinali.

È irrilevante che lo stato di bisogno sia imputabile al genitore che, ad esempio, ha dilapidato il proprio patrimonio senza pensare al futuro. Il Codice civile indica un elenco di soggetti obbligati a versare gli alimenti. Primo tra tutti, l’altro coniuge (art. 433 n. 1 c.c.), anche se separato. Vi sono poi i figli e i discendenti (art. 433 n. 2 c.c.) chiamati a fornire un aiuto qualora non vi sia un coniuge o questi non possa soddisfare l’obbligo alimentare. Il diritto agli alimenti è limitato allo stretto necessario ed è proporzionato alle condizioni economiche dell’onerato.

Se il genitore ha più di un figlio, tutti sono obbligati a concorrere alla prestazione in base alle proprie capacità (art. 441 c. 1 c.c.).

Se il figlio non intende versare alcuna somma, può ospitare in casa propria il genitore, in tal modo adempiendo all’obbligo di legge (art. 443 c. 1 c.c.).

L’obbligo di assistenza ai genitori

Il Codice penale sanziona chi fa mancare i mezzi di sussistenza agli ascendenti con il reato di “violazione degli obblighi familiari” punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da 103 a 1032 euro (art. 570 c.p.).

I mezzi di sussistenza sono quelli indispensabili a soddisfare le necessità essenziali della vita, come il cibo, l’abitazione e i medicinali. Inoltre, costituisce reato l’abbandono di una persona incapace di provvedere a se stessa, per malattia o per vecchiaia, o per altra causa, della quale si debba avere cura; la fattispecie di reato è punita con la reclusione da 6 mesi a 5 anni e le pene sono aumentate se il fatto è commesso dal figlio (art. 591 c. 4 c.p.).

Dalla norma penale emerge un generale dovere in capo ai figli di assistere i genitori.

Le somme spese per i genitori e l’obbligazione naturale

Torniamo ora alla domanda iniziale: il figlio che aiuta economicamente il genitore può chiedere il rimborso al fratello?

La risposta è negativa.

Il figlio che cura gli anziani genitori adempie ad un’obbligazione naturale (art. 2034 c.c.). Con tale espressione, ci si riferisce alle somme versate spontaneamente in esecuzione di doveri morali e sociali. Si tratta di doveri imposti dal principio di solidarietà e il loro inadempimento comporta la disistima sociale. Ebbene, simili prestazioni non sono ripetibili, ossia non è possibile chiederne la restituzione.

Allora, cosa può fare il figlio che accoglie il genitore nella propria abitazione per farsi aiutare dai fratelli?

Come abbiamo visto, tenere in casa il soggetto bisognoso rappresenta un modo in cui adempiere all’obbligazione alimentare, pertanto, il genitore, in qualità di legittimato attivo, può chiedere agli altri figli di versare gli alimenti, come prescritto dal Codice civile e, in caso di loro rifiuto, rivolgersi al Tribunale per ottenere una condanna in tal senso.

Molto spesso, il figlio che ha accudito il genitore pensa di aver diritto ad una quota maggiore dell’asse ereditario. Anche in questo caso, la risposta è negativa. Infatti, la circostanza che uno dei figli si sia occupato in via esclusiva del genitore anziano o malato, non incide sulle quote del patrimonio ereditario.

Un figlio che si disinteressa dei genitori è indegno a succedere?

La morale e il diritto non sempre vanno di pari passo. Infatti, anche se eticamente è biasimevole la condotta noncurante di un figlio, non è possibile considerarlo giuridicamente come indegno a succedere. L’istituto dell’indegnità (art. 463 c.c.) riguarda casi tassativi come, ad esempio, l’ipotesi in cui un figlio attenti alla vita del genitore. Solo in tale evenienza egli può essere escluso dall’asse ereditario, perché l’indegnità rappresenta una causa di esclusione dalla successione. Al di fuori di tali casi limite, tutti i figli succedono ai genitori in base alle quote stabilite per legge in assenza di testamento.

Quindi, il genitore che intende “ricompensare” il figlio che si è preso cura di lui può farlo tramite una disposizione testamentaria. Infatti, oltre alla quota di legittima, che spetta di diritto anche all’altro figlio, il testatore è titolare di una quota disponibile che può lasciare a chi desidera.   

L’obbligo alimentare dell’art 433 codice civile. Studio Legale degli Avv.ti Berti e Toninelli. Articolo pubblicato: 17 Febbraio 2022

Chi e come deve versare gli alimenti ex art 433 codice civile

L’obbligo alimentare dell’art 433 codice civile per chi versa in stato di bisogno

Nel Titolo XIII, del primo libro del Codice Civile è contenuta la particolare disciplina inerente gli obblighi alimentari: dell’art 433 codice civile all’art. 448 bis codice civile si parla delle obbligazioni alimentari (conosciute anche come c.d. diritto agli alimenti) alle quali alcuni soggetti sono tenuti, in virtù dell’esistenza di vincoli familiari.

Presupposto del diritto agli alimenti è lo “stato di bisogno”. Una delle ipotesi più frequente è, ad esempio, quella del mantenimento genitore anziano non economicamente autosufficiente.

Il fondamento delle obbligazioni alimentari è individuato nei principi costituzionali di solidarietà e assistenza.

L’art. 433 codice civile indica i soggetti chiamati a prestare gli alimenti, secondo il principio del grado, sulla base della intensità del legame personale con il soggetto beneficiario.

In base all’elenco dell’art 433 codice civile, il primo degli obbligati è il coniuge del beneficiario. In sua assenza, sono obbligati i figli, gli ascendenti prossimi, i generi/nuore, i suoceri ed infine i fratelli/sorelle. Obbligato è altresì il donatario, cioè chi ha ricevuto una donazione dal beneficiario, ma nei limiti del valore “residuo” della donazione ricevuta.

Dopo una breve analisi generale sull’obbligazione alimentare, l’articolo si sofferma sui presupposti, sulle cause di modifica e cessazione dell’obbligo e sui soggetti obbligati.

Viene approfondita soprattutto l’obbligazione nei confronti del coniuge e dei parenti affini: l’articolo esamina se in caso di separazione consensuale gli alimenti continuano ad essere dovuti, e qual è la sorte degli alimenti dopo il divorzio (se cioè sono dovuti o meno gli alimenti al coniuge divorziato).

Viene esaminata anche la dimensione processuale: in che modo il beneficiario può richiedere il diritto agli alimenti. L’azione alimentare deve essere intrapresa dal beneficiario, oppure dal suo tutore, curatore o amministratore di sostegno (nominato tra i parenti e affini entro il quarto grado, oppure esterno alla famiglia), previa autorizzazione del Giudice Tutelare

Questi sono gli argomenti trattati:

Cos’è l’obbligo alimentare ex art 433 codice civile?

L’art 433 codice civile e le altre fonti delle obbligazioni alimentari

Quali sono i presupposti dell’obbligazione alimentare ex art 433 codice civile

Art 433 codice civile: cosa si intende per “stato di bisogno”

Gli alimenti nei confronti del fallito: art 433 codice civile e dlgs 14/2019

Chi sono i soggetti obbligati in base all’art 433 codice civile

Quando i figli (n. 2 dell’art 433 codice civile) sono obbligati al mantenimento del genitore anziano

Quando si è obbligati al mantenimento del suocero o della suocera (n. 4 dell’art 433 codice civile)?

Quale differenza tra alimenti e mantenimento

In caso di separazione consensuale gli alimenti sono dovuti?

Devono essere corrisposti gli alimenti dopo il divorzio?

Quando gli alimenti sono dovuti nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto

Perché il donatario precede tutti i soggetti indicati all’art 433 codice civile

Quali sono le caratteristiche dell’obbligazione alimentare

Art 433 codice civile: come si calcola l’assegno alimentare

Art 433 codice civile: come devono essere versati gli alimenti

Come si richiedono gli alimenti ai soggetti ex art 433 codice civile

Gli alimenti urgenti e provvisori ex art 433 codice civile

Art 433 codice civile: quando si modifica e si estingue l’obbligazione alimentare?

Cosa si rischia per l’inadempimento ex art 433 codice civile

COS’È L’OBBLIGO ALIMENTARE EX ART 433 CODICE CIVILE?

Nel codice civile non viene fornita una vera e propria definizione di obbligo alimentare. Si tratta dell’obbligo di garantire, ad una persona che versa in “stato di bisogno”, le risorse economici sufficienti a soddisfare i bisogni primari, quali il vitto e l’alloggio.

Tale obbligo può sorgere sia in base ad una disposizione di legge, ed è il caso dell’art 433 codice civile, sia in base ad un testamento, sia infine in base ad un contratto, quale la donazione in primis.

In via generale, i caratteri distintivi dell’obbligo alimentare sono:

Lo stato di bisogno del beneficiario: questo deve essere privo di risorse economiche sufficienti a soddisfare i bisogni primari della persona e nella impossibilità oggettiva di procurarseli.

Il particolare legame che lega l’obbligato ed il beneficiario: può trattarsi di un vincolo di famiglia (obbligati in base all’art. 433 del codice civile sono il coniuge, i parenti e gli affini più prossimi) o meramente giuridico (la donazione, oppure un diverso contratto, oppure ancora un lascito testamentario). Secondo una recente pronuncia di merito (Trib. Lecce, sentenza 1418/2020) il legame particolare può sostanziarsi anche nella convivenza di fatto (da non confondere con la mera coabitazione) intesa quale vincolo affettivo.

L’entità della prestazione deve essere commisurata alla situazione personale (non solo sul piano economico, ma anche di età, salute, capacità lavorativa …) di chi la richiede ed alle condizioni economiche di chi è tenuto a tale obbligo. Non può comunque superare alcuni limiti, identificabili in base alla posizione sociale dell’alimentando e ciò che appare necessario ai fini del suo sostentamento.

Nei prossimi paragrafi saranno approfonditi i requisiti richiesti per procedere ex art. 433 codice civile all’identificazione dell’obbligato, nonché altri aspetti tecnici dell’obbligo alimentare.

L’ART 433 CODICE CIVILE E LE ALTRE FONTI DELLE OBBLIGAZIONI ALIMENTARI

Nel nostro ordinamento sono previste diverse fonti da cui può sorgere l’obbligazione alimentare.

Come anticipato la fonte principale dell’obbligo alimentare è l’art. 433 codice civile, e cioè la legge, la quale muove dal principio di assistenza e di solidarietà familiare.

La fonte dell’obbligo alimentare può altresì essere di natura convenzionale, nel rispetto del principio dell’autonomia contrattuale. Quindi è possibile, ad esempio, far sorgere un’obbligazione alimentare anche con contratto (prevedendo ad esempio un vitalizio alimentare) sulla base del principio dell’autonomia dei privati. Unico contratto previsto espressamente (articoli 437 e 438 codice civile)  è la donazione, tanto che “il donatario è tenuto, con precedenza su ogni altro obbligato, a prestare gli alimenti al donante”, con esclusione della donazione fatta in riguardo di un matrimonio e della donazione remuneratoria.

Infine, l’obbligo alimentare può essere imposto per testamento: l’art. 660 codice civile stabilisce che “Il legato di alimenti, a favore di chiunque sia fatto, comprende le somministrazioni indicate dall’art. 438, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto.”

QUALI SONO I PRESUPPOSTI DELL’OBBLIGAZIONE ALIMENTARE EX ART 433 CODICE CIVILE

Concentrandoci sull’obbligazione alimentare di fonte legale ex art. 433 codice civile e successivi, i presupposti essenziali sono:

l’oggettivo ed incolpevole stato di bisogno dell’alimentando, che deve trovarsi in una condizione tale da non poter provvedere autonomamente al proprio sostentamento. Ad esempio, sono dovuti gli alimenti per il mantenimento del genitore anziano che percepisce un reddito complessivo (ad esempio la pensione oppure altre indennità o rendite) insufficiente per il vitto e l’alloggio;

lo stato di bisogno deve essere, secondo una valutazione prognostica, non provvisorio. Il soggetto deve versare nella impossibilità oggettiva di procurarsi i mezzi necessari alla sussistenza. Ad esempio, sono dovuti gli alimenti per il mantenimento del genitore anziano che non può svolgere alcuna attività lavorativa;

Anche il soggetto obbligato al versamento degli alimenti deve presentare alcune caratteristiche. Questo deve essere il donatario o un familiare stretto del beneficiario/donante e deve risultare capace di far fronte alla prestazione economica degli alimenti, ovvero avere una posizione economica tale da potervi provvedere senza sacrificare i propri bisogni primari.

ART 433 CODICE CIVILE: COSA SI INTENDE PER “STATO DI BISOGNO”

Lo stato di bisogno dell’alimentando è il presupposto per far sorgere l’obbligazione oggetto d’esame: ai sensi dall’art. 438 codice civile “gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento”. Per poterne dare una definizione più precisa, viene in aiuto la giurisprudenza che, in modi diversi, ha fornito specifiche indicazioni sul punto.

Nel 2013 la Cassazione ha affermato che per stato di bisogno va fatto riferimento ad uno stato di “impossibilità per il soggetto di provvedere al soddisfacimento dei suoi bisogni primari, quali il vitto, l’abitazione, il vestiario, le cure mediche, e deve essere valutato in relazione alle effettive condizioni dell’alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga, compresi i redditi ricavabili dal godimento di beni immobili in proprietà o in usufrutto, e della loro idoneità a soddisfare le sue necessità primarie” (Cass., sent. 25248/2013).

Lo stato di bisogno richiede poi una valutazione prognostica sulla impossibilità, per il futuro, di ricevere fonti di reddito, quale l’attività lavorativa in primis. Questa è la parte più difficile da accertare, in concreto, poiché non si limita all’aspetto economico, ma coinvolge tutti gli aspetti della persona del beneficiario: l’età, lo stato di salute, financo il grado di istruzione.

Oltre che oggettivo, lo stato di bisogno deve essere incolpevole. Questo vuol dire che la causa della impossibilità di provvedere autonomamente ai propri bisogni deve essere non imputabile al beneficiario.

Inoltre il beneficiario deve aver tentato, in ogni modo ragionevolmente possibile, di provvedere autonomamente ai propri bisogni.

GLI ALIMENTI NEI CONFRONTI DEL FALLITO: ART 433 CODICE CIVILE E DLGS 14/2019

L’art. 147 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, riprendendo l’art. 47 della “vecchia” legge fallimentare, stabilisce che “Se al debitore vengono a mancare i mezzi di sussistenza, il giudice delegato, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, può concedergli un sussidio a titolo di alimenti per lui e per la famiglia.”

Anche se la disposizione si riferisce agli “alimenti” condizionati alla mancanza dei mezzi di sussistenza, si tratta di qualcosa di diverso dall’istituto previsto dall’art 433 del codice civile.

Il sussidio a beneficio del debitore fallito e della sua famiglia, viene “concesso” dal giudice. Non si tratta quindi, in questo caso, di un diritto soggettivo, ma rimesso alla discrezionalità del giudice delegato. Inoltre, il sussidio viene attinto dal patrimonio dello stesso beneficiario, pur se destinato alla soddisfazione dei creditori.

CHI SONO I SOGGETTI OBBLIGATI IN BASE ALL’ART 433 CODICE CIVILE

Come già anticipato, soggetti obbligati a versare gli alimenti sono i familiari stretti e il donatario, cioè colui che in passato ha ricevuto una donazione da parte di chi, successivamente, si è trovato in stato di bisogno.

L’art. 433 codice civile, fornisce una elencazione tassativa dei soggetti obbligati a versare gli alimenti al familiare in difficoltà, indicandoli in ordine di “affezione” parentale. Infatti, l’art. 433 del codice civile stabilisce che all’obbligo di prestare gli alimenti sono tenuti, nell’ordine:

il coniuge;

i figli, anche adottivi (sono inclusi tutti i figli adottivi, sia quelli adottati dopo il compimento della maggiore età, sia i soggetti adottati nei c.d. casi particolari),

i discendenti prossimi (in mancanza di figli);

i genitori. Come stabilito dall’art. 436 codice civile, il genitore adottante è obbligato prima del genitore del beneficiario;

gli ascendenti prossimi (in mancanza dei genitori);

gli adottanti;

i generi e le nuore;

il suocero e la suocera;

i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali.

Si applica il principio del grado: la possibilità dell’adempimento da parte di chi è più prossimo al beneficiario, esclude che l’obbligo ricada su chi è meno prossimo. In altre parole, solo se il coniuge non è in grado di provvedere al pagamento degli alimenti, l’obbligo del mantenimento del genitore anziano ricade sui figli o sui nipoti, e così via.

Il primo dei chiamati agli alimenti è l’eventuale donatario, che ai sensi dell’art. 437 codice civile precede ogni altro obbligato, salvo che si tratti di una donazione obnuziale o remuneratoria.

Nel caso vi siano più persone nello stesso grado (fratelli, sorelle, figli…) o di grado diverso (coniuge e figli) chiamate congiuntamente a corrispondere gli alimenti (ad esempio per il mantenimento del genitore anziano), l’obbligo viene tra essi diviso in proporzione alle condizioni economiche di ciascuna (art. 441 codice civile). Si tratta di una obbligazione parziaria, in base a cui ciascuno risponde in proporzione alle proprie sostanze, ma ai sensi dell’art. 443 codice civile, in caso di urgente necessità, l’autorità giudiziaria può porre temporaneamente l’obbligazione degli alimenti a carico di uno solo tra quelli che vi sono obbligati, salvo il suo diritto di regresso nei confronti degli altri. Peraltro, come sancito dalla giurisprudenza di legittimità, “qualora i bisogni dell’avente diritto agli alimenti sono soddisfatti per intero da uno solo dei condebitori ex lege, questi può esercitare l’azione di regresso, senza la necessità di una preventiva diffida ad adempiere” (Cassazione civile, sentenza n. 4883/1988)

Ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 441 codice civile, i coobbligati possono accordarsi sulla misura, sulla distribuzione e sul modo di somministrazione degli alimenti. In mancanza di accordo, provvede l’autorità giudiziaria secondo le circostanze.

QUANDO I FIGLI (N. 2 DELL’ART 433 CODICE CIVILE) SONO OBBLIGATI AL MANTENIMENTO DEL GENITORE ANZIANO

Quando i figli sono chiamati al mantenimento del genitore anziano?

In caso di un genitore anziano i doveri dei figli sono indicati all’art. 315 bis del codice civile: “il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”.

Indipendentemente dalla convivenza, i figli devono occuparsi del mantenimento del genitore anziano, quando ricorrono alcune condizioni:

il genitore anziano si trova in uno stato di bisogno, come ampiamente descritto nei paragrafi precedenti (art. 438 codice civile);

i soggetti chiamati in via principale (il coniuge del genitore anziano, nonché un eventuale donatario, se esistenti), sono impossibilitati totalmente o parzialmente ad adempiere (art. 433 del codice civile);

i figli hanno risorse economiche sufficienti a provvedere, almeno in parte, ai bisogni elementari del genitore (art. 441 capoverso del codice civile).

Al verificarsi di queste condizioni, i figli sono obbligati al mantenimento del genitore anziano, ciascuno in proporzione alla propria capacità economica.

QUANDO SI È OBBLIGATI AL MANTENIMENTO DEL SUOCERO O DELLA SUOCERA (N. 4 DELL’ART 433 CODICE CIVILE)?

La prestazione alimentare ex art 433 codice civile coinvolge anche gli affini, ed in particolare gli ascendenti prossimi del coniuge.

È quindi possibile che il genero o la nuora siano chiamati al mantenimento del suocero o della suocera in stato di bisogno.

Rispetto all’ipotesi precedentemente descritta, tuttavia, per poter configurare la sussistenza dell’obbligo, occorre che:

il suocero o la suocera versino in stato di bisogno;

siano impossibilitati a mantenerli, in tutto o in parte, i rispettivi coniugi, i loro figli o nipoti, i loro genitori o ascendenti prossimi, nonché eventuali donatari;

Il genero o la nuora abbiano risorse economiche sufficienti per provvedere, almeno in parte, al mantenimento dei suoceri.

QUALE DIFFERENZA TRA ALIMENTI E MANTENIMENTO

In caso di separazione giudiziale o separazione consensuale gli alimenti sono dovuti? Per rispondere a questa domanda, occorre distinguere tra mantenimento ed alimenti, sebbene nel linguaggio comune tali espressioni vengano spesso confuse ed utilizzate come sinonimi.

L’obbligo di mantenimento investe una serie di situazioni diverse, tutte riconducibili al contesto dei rapporti endo-familiari. Si parla dell’obbligo di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli (art. 147 codice civile), dell’imprenditore nei confronti del collaboratore familiare (art. 230 bis codice civile), del coniuge separando nei confronti dell’altro (art. 156 codice civile).

Come anticipato nei paragrafi precedenti, l’obbligazione alimentare è finalizzata ad assicurare a chi si trovi in “stato di bisogno”, la possibilità di provvedere al proprio sostentamento ed è dovuta in proporzione al bisogno di chi li richiede ed alle condizioni economiche di chi deve somministrarli.

Diversamente, il mantenimento che il soggetto economicamente “forte” versa all’altro, è una prestazione economica di portata molto più ampia di quella alimentare, finalizzata ad assicurare al soggetto “debole” non solo il minimo indispensabile per i bisogni vitali, ma anche un adeguato tenore di vita.

C’è quindi una differenza qualitativa e quantitativa.

IN CASO DI SEPARAZIONE CONSENSUALE GLI ALIMENTI SONO DOVUTI?

Fatta questa preliminare distinzione, alla domanda se in caso di separazione giudiziale o separazione consensuale gli alimenti sono comunque dovuti, occorre dare risposta affermativa.

Nel sistema italiano, la separazione dei coniugi non determina il venir meno del vincolo coniugale, ma solamente la sospensione di alcuni obblighi endo-familiari (come l’obbligo di coabitazione e di fedeltà tra i coniugi). Pertanto, anche in pendenza di separazione, al verificarsi dei presupposti il coniuge in stato di bisogno ha diritto a ricevere la prestazione alimentare dall’altro coniuge, e ciò a prescindere dall’eventuale addebito.

Inoltre, in materia di separazione, l’addebito (ne abbiamo parlato in questo articolo ) esclude il diritto al mantenimento, ma non quello agli alimenti.

In materia di successione, l’art. 548 comma 2 codice civile stabilisce che “Il coniuge cui è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio se al momento dell’apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto. L’assegno è commisurato alle sostanze ereditarie e alla qualità e al numero degli eredi legittimi, e non è comunque di entità superiore a quella della prestazione alimentare goduta.”

DEVONO ESSERE CORRISPOSTI GLI ALIMENTI DOPO IL DIVORZIO?

Sono dovuti gli alimenti dopo il divorzio? Se la separazione costituisce una fase di “crisi” del ménage matrimoniale, il divorzio ne segna il definitivo scioglimento, e con esso la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ivi compresi tutti gli obblighi reciproci dei coniugi indicati all’art. 143 del codice civile.

Con la sentenza di divorzio, il “coniuge” cessa di essere tale. Perde quindi il diritto agli alimenti il coniuge divorziato, che tuttavia può ricorrere agli altri soggetti indicati dall’art 433 codice civile.

Lo stesso può dirsi in caso di annullamento del matrimonio, che a differenza del divorzio, lo cancella come se non fosse mai esistito.

Tuttavia, l’art. 5 comma 6 della legge sul divorzio n. 898 del 1970 stabilisce che “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale (…) dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Anche in questo caso, occorre soffermarsi sulla differenza tra obbligo alimentare ed assegno divorzile, il quale ha funzione assistenziale, perequativa e compensativa (SS. UU. sent. n. 18287/2018). L’assegno divorzile ha la funzione di assicurare all’ex coniuge l’autosufficienza economica (Cass., sent. n. 11504/2017) e viene stabilito sulla base non solo dello stato di bisogno, ma anche su altri fattori, quali il contributo dato dall’ex-coniuge al nucleo familiare ed al patrimonio, alla durata del matrimonio, al nesso causale tra le scelte operate dagli ex coniugi in costanza di matrimonio e la loro situazione attuale (Cassazione, ordinanza n. 1786/2021).

QUANDO GLI ALIMENTI SONO DOVUTI NELLE UNIONI CIVILI E NELLE CONVIVENZE DI FATTO

L’art. 433 codice civile nulla dice in merito alla possibilità di poter considerare, alla stregua del coniuge, anche il soggetto convivente di fatto o unito civilmente. Orbene, l’art. 1 comma 65 della legge “Cirinnà” (legge n. 76/2016) afferma che in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice adito stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti, qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento.

Peraltro il Tribunale di Lecce (sentenza n. 1418 del 18.06.2020) ha interpretato l’art. 1 comma 65 della legge 76/2016 applicandolo anche alle coppie di fatto more uxorio non registrate. Pertanto, il convivente more uxorio, anche in assenza del contratto di convivenza, ha diritto agli alimenti “qualora sia accertato lo stato di bisogno del richiedente e questi non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell’art. 438, co 2 c.c., in proporzione cioè del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli“.

La maggiore differenza rispetto alla disciplina “ordinaria” contenuta all’art 433 codice civile sta nella durata dell’obbligo: gli alimenti devono essere versati dall’unito civilmente per un periodo di tempo determinato dal giudice, che sia proporzionale alla durata della convivenza intercorsa e nella misura determinata ai sensi dell’articolo 438, secondo comma, del codice civile.

Per quanto riguarda la “posizione” nella gerarchia dell’art. 433 del codice civile, la L. 76/2016 obbliga l’unito civilmente con precedenza su fratelli e sorelle, ma in subordine al coniuge, ai figli, ai discendenti, ai genitori, agli ascendenti prossimi, agli adottanti, ai generi e nuore, ai suoceri.

PERCHÉ IL DONATARIO PRECEDE TUTTI I SOGGETTI INDICATI ALL’ART 433 CODICE CIVILE

Come abbiamo visto nei precedenti paragrafi, l’art. 437 codice civile prevede che il donatario (colui che ha ricevuto una donazione) sia obbligato, con precedenza su ogni altro soggetto, a prestare gli alimenti al donante.

La ratio alla base è ben individuabile nel rapporto tra donante e donatario.

Quando la donazione viene fatta per assoluto spirito di liberalità, cioè in modo totalmente gratuito e fine a sé stesso, la legge ravvede nella posizione del donatario, un dovere di riconoscenza.

Tanto è vero che, ai sensi dell’art. 801 del codice civile, la donazione può essere revocata “per ingratitudine”, se il donatario rifiuta indebitamente di versare gli alimenti dovuti.

L’obbligo del donatario precede quello dei familiari, perché sarebbe irragionevole che il donatario si arricchisca, mentre la famiglia del donante, che pur ha risentito gli effetti sfavorevoli della donazione, debba provvedere al suo mantenimento. Viene tuttavia temperato nel quantum: l’art. 438 codice civile stabilisce che questo è obbligato nei limiti del valore della cosa donata, che residua al momento in cui nasce l’obbligazione alimentare.

Viceversa, laddove la donazione non sia animata da una liberalità “pura”, il donatario è escluso dall’elenco ex art 433 del codice civile e dai soggetti chiamati. È il caso delle donazioni remuneratorie ex art. 770 codice civile, cioè quelle effettuate per ricompensare il donatario di qualche merito, e quelle obnuziali ex art. 785 codice civile, effettuate in relazione alla celebrazione del matrimonio del donatario. Sono escluse anche le donazioni elargite in virtù di usi e consuetudini, e quelle di modico valore.

Rimane invece discusso se possano essere o meno escluse le donazioni indirette.

QUALI SONO LE CARATTERISTICHE DELL’OBBLIGAZIONE ALIMENTARE

Il c.d. diritto agli alimenti di cui agli art 433 codice civile e seguenti ha carattere strettamente personale. Ai sensi dell’art. 447 codice civile, il credito alimentare è indisponibile: non può essere ceduto, né usato per compensare i debiti del beneficiario ed è intrasmissibile agli eredi.

È irripetibile (non ne può essere richiesta la restituzione) e inalienabile, non potendo neanche essere sottoposto a rinuncia o transazione.

Il carattere di indisponibilità non riguarda invece l’obbligo alimentare sorto per convenzione (Cass. civ. n. 10362/1997).

Le somme dovute a titolo di alimenti non possono essere pignorate, ai sensi dell’art. 545 comma 1 codice di procedura civile, tranne che per cause di alimenti.

Infine, è escluso dalla massa fallimentare, nei limiti di quanto necessario al fine di garantire il sostentamento del fallito e della sua famiglia .

ART 433 CODICE CIVILE: COME SI CALCOLA L’ASSEGNO ALIMENTARE

Gli alimenti sono dovuti “in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli” (art. 438 codice civile).

Il giudice determina il quantum dell’obbligo alimentare, considerate diverse circostanze, sia oggettive che soggettive.

Occorre valutare sia la situazione economica effettiva nella quale versa l’alimentando, comprese le fonti di reddito derivanti o derivabili da diritti reali che gli consentirebbero di sopravvivere dignitosamente, sia quella di coloro i quali sono chiamati ad adempiere la prestazione alimentare.

La Suprema Corte ha precisato che, per poter individuare il quantum del diritto agli alimenti, “il raffronto fra le rispettive condizioni economiche va effettuato con riferimento alla situazione in atto, e, quindi, deve prescindere da vicende future, quale la probabile riscossione di crediti, le quali potranno avere influenza, al loro verificarsi, per un’eventuale revisione di dette statuizioni, ai sensi dell’art. 440 c.c.” (Cass., sent. n. 9432/1994).

Tra fratelli e sorelle, gli alimenti sono dovuti nella misura dello stretto necessario (a prescindere dalle condizioni economiche e sociali del beneficiario) e possono comprendere anche le spese per l’educazione e l’istruzione, se l’alimentando è minorenne.

Il variare delle condizioni economiche dell’obbligato e/o del beneficiario, giustifica una variazione dell’importo da versare. Ai sensi dell’art. 440 codice civile “se dopo l’assegnazione degli alimenti mutano le condizioni economiche di chi li somministra o di chi li riceve, l’autorità giudiziaria provvede per la cessazione, la riduzione o l’aumento, secondo le circostanze.”

L’obbligo alimentare non può eccedere quanto necessario per la vita dell’alimentando, mentre un limite specifico è previsto per l’obbligo del donatario, per il quale l’importo da versare non può superare il valore attuale e residuo della donazione accettata.

ART 433 CODICE CIVILE: COME DEVONO ESSERE VERSATI GLI ALIMENTI

In base all’art. 443 codice civile, “chi deve somministrare gli alimenti ha la scelta di adempiere questa obbligazione o mediante un assegno alimentare corrisposto in periodi anticipati, o accogliendo e mantenendo nella propria casa colui che vi ha diritto. L’autorità giudiziaria può però, secondo le circostanze, determinare il modo di somministrazione.”

Pertanto l’assegno alimentare, di regola versato mensilmente, può essere sostituito dall’accoglimento nella propria casa dell’alimentando, provvedendo così alle sue spese, garantendogli vitto, alloggio, assistenza (si pensi al mantenimento del genitore anziano) e cure mediche ove necessarie.

Nel caso in cui la scelta della convivenza non sia condivisa dal beneficiario, egli può chiedere che ai sensi dell’art. 443 comma 2 codice civile, sia l’autorità giudiziaria a determinare le modalità di somministrazione degli alimenti, anche prevedendo soluzioni alternative a quelle indicate al primo comma, come ad esempio la fornitura periodica di beni in natura, la messa a disposizione di una rendita, la stipulazione di un contratto di comodato abitativo di un immobile.

La prestazione alimentare è dovuta dal momento della domanda giudiziale o dal momento in cui si effettua la costituzione in mora dell’obbligato, se entro sei mesi dalla stessa viene iniziato il giudizio.

COME SI RICHIEDONO GLI ALIMENTI AI SOGGETTI EX ART 433 CODICE CIVILE

Per poter ottenere la prestazione alimentare, l’interessato deve rivolgersi al proprio legale di fiducia, al fine di instaurare un procedimento avanti al Tribunale competente.

Nel caso in cui al beneficiario sia affiancato un tutore, un curatore o un amministratore di sostegno, nominato tra i parenti ed affini entro il quarto grado, oppure esterno alla famiglia, è necessaria l’autorizzazione del Giudice Tutelare (art. 374 codice civile).

La domanda giudiziale, nella forma dell’atto di citazione (art. 163 codice procedura civile), instaura un giudizio ordinario di merito, nel quale il richiedente deve dimostrare il proprio stato di bisogno e l’impossibilità di provvedere al proprio sostentamento, nonché il vincolo (familiare o contrattuale) che lo lega al soggetto chiamato.

In merito al riparto dell’onere della prova, si evidenzia come sull’obbligato gravi la dimostrazione del suo stato di impossibilità economica a provvedere ai bisogni del parente in difficoltà, e/o la esistenza di altri soggetti, tra quelli indicati all’art 433 del codice civile, che lo precedono nell’obbligo del versamento.

Il deposito della domanda giudiziale segna anche l’inizio della debenza degli alimenti, che tuttavia retroagisce al momento della messa in mora dell’obbligato, se l’azione viene intrapresa entro i sei mesi successivi (art. 445 codice civile).

La sentenza che accerta l’esistenza del diritto e condanna l’obbligato è pronunciata “sic rebus stantibus”, cioè al permanere della situazione di fatto e di diritto attuale. Questo quindi non preclude la possibilità di una futura modifica della misura degli alimenti (sia in aumento, che in riduzione) o della cessazione dell’obbligo, al sopravvenire di nuove circostanze di fatto e di diritto.

GLI ALIMENTI URGENTI E PROVVISORI EX ART 433 CODICE CIVILE

Considerato che i lunghi termini del procedimento giudiziario non consentirebbero, nelle more della sua definizione, una tutela effettiva del richiedente, l’art. 446 codice civile prevede che il Presidente del Tribunale disponga, su richiesta ed in via provvisoria, la corresponsione di un assegno.

Inoltre, in base all’art. 443 codice civile, pur in presenza di più coobbligati (si è detto, in maniera parziaria, ciascuno in proporzione delle proprie capacità economiche), l’obbligo può essere temporaneamente posto interamente a carco di uno solo di essi, salvo il diritto di regresso nei confronti degli altri.

La giurisprudenza si è spesso interrogata sulla natura del provvedimento urgente e provvisorio emesso dal giudice e sulla possibilità che lo stesso possa essere reso in altri modi diversi dall’introduzione del giudizio di merito, cioè evitando la causa vera e propria in caso di disaccordo tra le parti. L’orientamento prevalente ritiene che sia necessario istaurare il giudizio di merito, non essendo possibile ottenere il provvedimento provvisorio in via cautelare, ad esempio tramite un provvedimento ex art. 700 c.p.c. (in tal senso, v. Trib. Milano ord. 3 aprile 2013; Trib. Venezia ord. 28 luglio 2004; Trib. Catania ord. 22 marzo 2005). Tuttavia, parte della giurisprudenza di merito invece ritiene ammissibile la tutela d’urgenza prima dell’inizio della causa vera e propria (v. Trib. Catania 22 marzo 2005; Trib. Trani 9 gennaio 2012).

ART 433 CODICE CIVILE: QUANDO SI MODIFICA E SI ESTINGUE L’OBBLIGAZIONE ALIMENTARE?

Come tutte le obbligazioni, anche quella alimentare può subire modifiche o estinguersi al verificarsi di svariate situazioni.

L’art. 440 codice civile stabilisce che, se le condizioni economiche di chi somministra o chi riceve gli alimenti mutano dopo la sentenza, occorre nuovamente rivolgersi al giudice per richiedere una modifica dell’importo da versare.

Tipicamente, un motivo di richiesta di modifica è la inflazione monetaria, anche se nella prassi, la misura dell’obbligo alimentare viene legata alla rivalutazione economica.

Inoltre, la prestazione alimentare può subire riduzioni anche al verificarsi di una condotta disordinata o riprovevole dell’alimentato, ad esempio, quando alimentando non utilizzi le somme di denaro corrisposte a titolo di alimenti in maniera coscienziosa. In questi casi, i parenti e gli affini entro il quarto grado possono richiedere la nomina di un amministratore di sostegno, che si occupi della gestione economica dei beni dell’alimentando.

Inoltre, è possibile chiedere la cessazione dell’obbligo in capo ai soggetti ex art. art 433 codice civile nel caso in cui vengano meno i presupposti previsti dall’art. 438 codice civile.

L’estinzione dell’obbligo alimentare si verifica anche con la morte dell’alimentando o dell’alimentante (v. art. 448 c. c. caso di estinzione per morte dell’obbligato).

Sono poi previste ipotesi speciali di cessazione dell’obbligo:

per il figlio (o i suoi discendenti prossimi) cessa l’obbligo nei confronti del genitore per il quale sia stata pronunciata la decadenza della responsabilità genitoriale (art. 434 codice civile);

per i suoceri (e del genero e della nuora) cessa l’obbligo quando il beneficiario è passata a nuove nozze; e quando il coniuge, da cui deriva l’affinità, e i figli nati dalla sua unione con l’altro coniuge e i loro discendenti sono morti (art. 448 bis codice civile). Come da pacifica giurisprudenza, la sentenza di divorzio non determina l’automatica caducazione del vincolo di affinità fra un coniuge e i parenti dell’ex coniuge: di tale vincolo viene meno, in base all’art. 78 comma 3 codice civile, solo in caso di nullità del matrimonio. Quindi, il divorzio non fa venir meno l’obbligo alimentare tra affini, che resta disciplinato dall’art. 434 c. c.: la sentenza, mentre determina la caducazione dell’obbligo alimentare tra gli affini solo ove l’avente diritto passi a nuove nozze e se non siano vivi i figli nati dal matrimonio o loro discendenti, peraltro può giustificare soltanto una richiesta di revisione dell’obbligo medesimo, ove essa sentenza si traduca, anche in relazione alle statuizioni patrimoniali conseguenziali al divorzio, in un mutamento della situazione in base alla quale gli elementi siano stati riconosciuti e liquidati (in tal senso Cass., sent. n. 2848/1978).

per il donatario, in caso di revoca o nullità della donazione;

per il coniuge, che perde il diritto agli alimenti dopo il divorzio o in caso di annullamento del matrimonio.

COSA SI RISCHIA PER L’INADEMPIMENTO EX ART 433 CODICE CIVILE

L’inadempimento dell’obbligo alimentare comporta una duplice responsabilità, sia sul piano civile che su quello penale.

Sul piano civile, l’inadempiente potrebbe subire un procedimento di esecuzione forzata, con conseguente pignoramento dei propri beni.

Sul piano penale, l’art. 570 codice penale, rubricato “obblighi di assistenza familiare”, punisce con la reclusione sino a un anno, ed una sanzione pecuniaria che va da 103 a 1.032 euro, chi fa mancare i mezzi di sussistenza agli ascendenti (…ai discendenti di età minore, inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa…).

Inoltre, l’art. 388 comma 2 del codice penale (mancata esecuzione dolosa del provvedimento del giudice) punisce con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032, chi “elude l’ordine di protezione previsto dall’articolo 342-ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero ancora l’esecuzione di un provvedimento del giudice civile, ovvero amministrativo o contabile, che concerna l’affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito”.

Lo Studio Legale degli Avv.ti Berti e Toninelli opera presso i Tribunali di Pistoia, Prato, Lucca e Firenze ed in tutta Italia tramite i servizi online. Si trova a Pistoia, in Piazza Garibaldi n. 5.

Accompagnamento anziani: cosa è, a chi viene dato e come richiederlo. Da Seremy. Finalmente un pò di chiarezza sul tema dell'accompagnamento anziani, molto importante per chi si prende cura di un genitore avanti con gli anni.

Non tutti sanno esattamente cosa sia esattamente l’accompagnamento anziani, chi ne abbia diritto e a quanto ammonti la somma percepita. Per questo abbiamo deciso di fare chiarezza sul tema, molto importante per chi si prende cura di un genitore avanti con gli anni.

Chi ha diritto all’accompagnamento anziani?

La richiesta può essere fatta da tutti coloro che hanno un’età minima di 67 anni, ma non basta l’età anagrafica per ottenere l’accompagnamento anziani. In questo caso è fondamentale avere un’invalidità al 100% riconosciuta in modo permanente dall’INPS, ente nazionale di previdenza sociale.

Si tratta quindi di un beneficio che va a favore di chi ha difficoltà a compiere le attività quotidiane e necessita di costante assistenza.

Come fare domanda di indennità di accompagnamento?

Per ottenere l’accompagnamento anziani è importante avere un certificato di invalidità al 100% rilasciato dall’INPS. Successivamente il patronato correda questo documento con la dichiarazione dei redditi del richiedente e l’ASL di riferimento contatta il cittadino per la visita medica che ne certifichi il grado di invalidità.

Oltre all’invalidità al 100% è importante sapere che si deve avere un reddito inferiore a 17,340,17 euro all’anno per richiedere l’importo dell’accompagnamento anziani. Se la procedura di richiesta va a buon fine l’anziano riceve la somma dal mese successivo al recepimento del verbale.

A quanto ammonta l’assegno di accompagnamento?

Pochi sanno a quanto ammonti l’assegno di accompagnamento per anziani. Nel dettaglio si tratta di un sussidio di importo pari a 530,27€ mensili per un totale di 12 mensilità annue e che a differenza dell’indennità di invalidità civile non prevede la tredicesima.

Quali sono le differenze tra accompagnamento e invalidità?

Oltre all’importo erogato ci sono altre differenze tra accompagnamento e invalidità civile. La domanda di invalidità civile riguarda tutti coloro che – dai 18 ai 67 anni di età – sono affetti da gravi patologie o deficit fisici e psichici. La richiesta viene fatta anche dagli invalidi al 100% oltre i 67 anni di età e non più autosufficienti e bisogna rispettare alcuni requisiti di reddito.

In alcuni casi l’accompagnamento è rivolto anche ai minori di 18 anni con gravi patologie, anche in questo caso sulla base di requisiti di reddito.

In ogni caso in Italia le persone invalide hanno diritti ad un assegno di mantenimento che permette loro di vivere in modo adeguato e coprire le spese per un eventuale servizio di badante.

Vittorio Puglisi se n’è andato.

Non è ritornato a Catania in Sicilia, sua terra natia, per rinchiudersi in un ospizio, come aveva preventivato di fare. No! E’ morto.

E ad Avetrana, suo paese ospitante, nessuno ne sa niente. Nemmeno un manifesto funebre per avvisare la popolazione, eppure era conosciuto e beneamato da molti.

Non può essere che se ne vada così senza che di lui non vi rimanga un ricordo.

Era di Catania. Era un agente di commercio trasfertista, poi domiciliatosi nel barese. Era sposato con due figli.

Dopo che si era trasferito lasciò la moglie a Catania per la sua segretaria di Erchie (Br) con due figlie, che lui crebbe ed istruì. Una di loro è diventata Avvocato e poi Parlamentare.

La famiglia di Catania recise ogni rapporto con lui.

Da pensionato si trasferì con la nuova famiglia a Manduria e poi comprò casa in un condominio a San Pietro in Bevagna.

Con la seconda moglie le cose non andarono bene, tanto che lei, malata, lo lasciò per trasferirsi in una casa di riposo per anziani, fino alla sua morte. Anche le figlie di lei recisero ogni rapporto con Vittorio, salvo mantenere una lite giudiziaria per degli immobili comprati dai coniugi, ma in possesso delle figlie e non resi come quota ereditaria a Vittorio. Gesto che indusse Vittorio, per ripicca, a donare ai figli di Catania la sua casa al mare.

Lui rimase comunque solo, ultrasettantenne.

Su consiglio di un personaggio, che si autodefiniva guardiano dei condomini della litoranea in cambio di regalie, si trasferisce ad Avetrana, in un appartamento vicino al suo, affinché non fosse da solo a svernare sulla marina. Si scoprì poi che la ragione del gesto era di poter affittare l’appartamento ed intascare i soldi, senza che Vittorio ne sapesse niente.

Vittorio diventa mio vicino, spalla a spalla.

La casa vecchia presa in locazione, con lui si trasforma tutto a vantaggio del proprietario.

È autonomo, giovanile e distinto e voleva affrancarsi dai figli, assoggettandosi ad un estraneo. Non è acculturato e non riesce a capire che l’estraneo è limitato dalla legge nelle decisioni che lo riguardano, tantomeno non vi era alcun incentivo con la donazione modale, avendo dato tutto ai figli.

Lui fa amicizia con tutti quelli che si rapportano con lui.

Un giorno dalla mia cucina sento un tonfo dall’altra parte del muro divisore, con conseguenti gemiti.

Mio figlio Mirko, prima chiama il suo nome e poi, non ricevendo risposta, salta il muro e va a vedere cosa fosse successo.

Vittorio era caduto in bagno. Era scivolato nella vasca, aveva battuto la testa e si era rotto l’anca e non aveva la forza di chiedere aiuto.

Chiamammo l’ambulanza che lo ricoverò all’ospedale di Manduria. Durante la sua decenza lo assistemmo, io e la mia famiglia, e pagai le spese correnti, in quanto lui non poteva prelevare il denaro.

Gli consigliai di chiamare i figli, per l’assistenza e per poter prendere decisioni. Lui lo fece.

Loro rimasero solo un giorno, lasciando il malato da solo a letto, impossibilitato a muoversi.

Io chiamai l’OSS e l’assistente sociale di Avetrana. Non potevo assistere un malato con la spada di Damocle della circonvenzione di incapace. Io, per autotutela, rifiutai ogni forma di donazione di riconoscenza, cosa che altri, forse, non fecero dopo il mio allontanamento. Perché lui era prodigo con tutti, vantandosi della sua capacità di intendere e volere.

L’assistente sociale ed i carabinieri mi supplicarono di provvedere a Lui, ma non potevo. Non avevo la legittimità di agire dei figli o di un rappresentante legale.

Denunciai i figli per abbandono di incapace. Vittorio non poteva muoversi dal letto per l’operazione all’anca e non vi era nessuno ad aiutarlo, nemmeno per mangiare. La denuncia fu rigettata.

Vittorio sapeva della denuncia e ne rimase male. Lui voleva molto bene ai figli e soffriva per il fatto che l'amore non era ricambiato.

In questo modo Vittorio era rimasto solo, salvo la presenza della cagnolina. Comunque io non ho mai negato ogni aiuto urgente e necessario, o che altri non fossero capaci di dare.  

Vittorio in cerca di qualcuno che gli facesse compagnia, cercò la sponda in un altro vicino di casa.

Intanto con me festeggia le festività e il 2 giugno 2023 festeggia con me i miei sessant’anni in famiglia.

Dopo pochi giorni vende la casa, con la firma dei figli donatari. Questi rimangono poche ore, giusto il tempo della firma: ricevono i soldi e vanno via.

Agli inizi di luglio 2023 muore la cagnolina, sua compagna per 19 anni.

La sua routine giornaliera era regolare. Incombenze casalinghe e passeggiate con la cagnolina.

E così è andato avanti, fino a che nell’ultimo anno si sentiva stanco ed affaticato. Era un po’ sordo ed aveva la prostatite. Aveva fatto l’operazione della cataratta agli occhi ed altri esami di routine. Eppure arriva un giorno che, per l’ennesima volta, chiamo insieme a lui il medico, perché era un po’ di giorni che non andava al bagno. Lei arriva, lo visita, legge le analisi fatte giorni prima e chiama l’ambulanza. Il pronto soccorso di Manduria dopo un’ora mi chiama per riprenderlo, perché gli hanno dato l’uscita. Era il 25 luglio 2023: entrata ore 16-uscita ore 18. Gli danno come cura un placebo: degli integratori che io provvedo a comprare in farmacia.

Dopo tre giorni di cura inutile, uso di purghe varie e della peretta, nulla succede, Vittorio va nuovamente al pronto soccorso con un amico. Dopo ore di attesa senza che venga visitato, ritorna a casa debilitato.

Il 31 luglio 2023 alle ore 4 del mattino Vittorio si fa riaccompagnare al pronto soccorso di Manduria dallo stesso amico coetaneo.

Questa volta lo tengono in osservazione e lo ricoverano. Solo adesso si accorgono che Vittorio ha tutti i sintomi visibili della Leucemia ed i valori dei globuli bianchi sono sfalsati. Tutto visibile da un anno a questa parte. Tanto che il medico, che lo cura in reparto dell’ospedale, si spinge a dire: come mai nessuno si era accorto prima della malattia, nonostante i reiterati esami, omettendo l’accusa ai suoi colleghi del pronto soccorso.

Il Medico, stante la situazione, dice a Vittorio di chiamare i figli.

Loro vengono e nello stesso giorno vanno via, portandosi con sé la sua Mercedes pagata qualche mese prima 16mila euro.

L’11 agosto 2023 alle ore 18.00 Vittorio muore all’ospedale di Manduria. Aveva 86 anni.

I figli ritornano e il giorno dopo vanno via.

Vittorio è rimasto ancora una volta da solo nella camera mortuaria del cimitero di Avetrana, dall’11 al 17 agosto 2023, giorno della sua cremazione a Foggia, come lui ha sempre voluto.

Il proprietario della casa di Vittorio ne prende possesso.

Delle cose di Vittorio site nella sua dimora nulla più si saprà; delle sue volontà depositate dal notaio, nulla si sa.

Questo resoconto affinchè di Vittorio non rimanga solo cenere ed oblio.

Ciao Vittorio, ci ricorderemo di te…

Facebook. ZeroGas: Organizzazione di tutela ambientale

COME MUORE UN ANZIANO OGGI?

Muoiono in OSPEDALE.

Perché quando la nonna di 92 anni è un po’ pallida ed affaticata deve essere ricoverata. Una volta dentro poi, l’ospedale mette in atto ciecamente tutte le sue armi di tortura umanitaria. Iniziano i prelievi di sangue, le inevitabili fleboclisi, le radiografie.

“Come va la nonna, dottore?”. “E’ molto debole, è anemica!”.

Il giorno dopo della nonna ai nipoti già non gliene frega più niente!

Esattamente lo stesso motivo (non per tutti, sia chiaro!) per il quale da diversi anni è rinchiusa in casa di riposo.

“Come va l’anemia, dottore?”. “Che vi devo dire? Se non scopriamo la causa è difficile dire come potrà evolvere la situazione”.

“Ma voi cosa pensate?”. “Beh, potrebbe essere un’ ulcera o un tumore… dovremmo fare un’ endoscopia”.

Chi lavora in ospedale si è trovato moltissime volte in situazioni di questo tipo. Che senso ha sottoporre una attempata signora di 92 anni ad una gastroscopia? Che mi frega sapere se ha l’ulcera o il cancro? Perché deve morire con una diagnosi precisa? Ed inevitabilmente la gastroscopia viene fatta perché i nipoti vogliono poter dire a se stessi e a chiunque chieda notizie, di aver fatto di tutto per la nonna.

Certe volte comprendo la difficoltà e il disagio in certi ragionamenti.Talvolta no.

Dopo la gastroscopia finalmente sappiamo che la Signora ha solamente una piccola ulcera duodenale ed i familiari confessano che la settimana prima aveva mangiato fagioli con le cotiche e broccoli fritti, “…sa, è tanto golosa”.

A questo punto ormai l’ ospedale sta facendo la sua opera di devastazione. La vecchia perde il ritmo del giorno e della notte perché non è abituata a dormire in una camera con altre tre persone, non è abituata a vedere attorno a sé facce sempre diverse visto che ogni sei ore cambia il turno degli infermieri, non è abituata ad essere svegliata alle sei del mattino con una puntura sul sedere. Le notti diventano un incubo.

La vecchietta che era entrata in ospedale soltanto un po’ pallida ed affaticata, rinvigorita dalle trasfusioni e rincoglionita dall’ambiente, la notte è sveglia come un cocainomane. Parla alla vicina di letto chiamandola col nome della figlia, si rifà il letto dodici volte, chiede di parlare col direttore dell’albergo, chiede un avvocato perché detenuta senza motivo.

All’inizio le compagne di stanza ridono, ma alla terza notte minacciano il medico di guardia “…o le fate qualcosa per calmarla o noi la ammazziamo!”. Comincia quindi la somministrazione dei sedativi e la nonna viene finalmente messa a dormire.

“Come va la nonna, dottore? La vediamo molto giù, dorme sempre”.

Tutto questo continua fino a quando una notte (chissà perché in ospedale i vecchi muoiono quasi sempre di notte) la nonna dorme senza la puntura di Talofen.

“Dottore, la vecchina del 12 non respira più”.

Inizia la scena finale di una triste commedia che si recita tutte le notti in tanti nostri ospedali: un medico spettinato e sbadigliante (spesso il Rianimatore sollecitato di corsa per “fare di tutto”)scrive in cartella la consueta litania “assenza di attività cardiaca e respiratoria spontanea, si constata il decesso”.

La cartella clinica viene chiusa, gli esami del sangue però sono ottimi. L’ospedale ha fatto fino in fondo il suo dovere, la paziente è morta con ottimi valori di emocromo, azotemia ed elettroliti.

Cerco spesso di far capire ai familiari di questi poveri anziani che il ricovero in ospedale non serve e anzi è spesso causa di disagio e dolore per il paziente, che non ha senso voler curare una persona che è solamente arrivata alla fine della vita.

Che serve amore, vicinanza e dolcezza.

Vengo preso per cinico, per un medico che non vuole “curare” una persona solo perché è anziana. “E poi sa dottore, a casa abbiamo due bambini che fanno ancora le elementari non abbiamo piacere che vedano morire la nonna!”.

Ma perché?

Perché i bambini possono vedere in tv ammazzamenti, stupri, “carrambe” e non possono vedere morire la nonna? Io penso che la nonna vorrebbe tanto starsene nel lettone di casa sua, senza aghi nelle vene, senza sedativi che le bombardano il cervello, e chiudere gli occhi portando con sé per l’ultimo viaggio una lacrima dei figli, un sorriso dei nipoti e non il fragore di una scorreggia della vicina di letto.

In ultimo, per noi medici: ok, hanno sbagliato, ce l’hanno portata in ospedale, non ci sono posti letto, magari resterà in barella o in sedia per chissà quanto tempo. Ma le nonnine e i pazienti, anche quelli terminali, moribondi,non sono “rotture di scatole” delle 3 del mattino.

O forse lo sono. Ma è il nostro compito, la nostra missione portare rispetto e compassione verso il “fine vita”. Perché curare è anche questo, prendersi cura di qualcuno.Anche e soprattutto quando questo avviene in un freddo reparto nosocomiale e non sul letto di casa.

di Carlo Cascone (belle persona conosciuta per caso da ZeroGas) 

11 ore in attesa di ricovero Covid: la precisazione del Marianna Giannuzzi. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. Francesca Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 27 novembre 2020. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. A narrare l’esperienza, era stato il figlio del paziente, l’avvocato Mirko Giangrande in un’intervista rilasciata al Nuovo Quotidiano di Taranto, in cui lamentava, appunto, la lunga attesa a cui erano stati sottoposti a causa di un affollamento di ambulanze nel piazzale dell’ospedale. La direzione medica, in base alle notizie pervenute dal responsabile del Pronto Soccorso, racconta che all’arrivo del signor Giangrande in ospedale, l’assistito era stato visitato, eseguito il tampone naso-faringeo per verificare l’eventuale positività al Covid-19 e somministrata la terapia adeguata. In seguito, all’esito della positività del tampone, veniva fatto accomodare nell’area attrezzata all’osservazione breve fino a 48/72 ore e alle ore14:00 del giorno successivo, ricoverato nel reparto Medicina Covid, occupando il primo posto letto disponibile. «Al signor Giangrande non sono mai mancate le cure di cui ha avuto necessità in una giornata tuttavia congestionata per l’arrivo contestuale di numerose ambulanze del 118.», chiarisce la responsabile, riconoscendo l’imprevisto. Della stessa opinione anche la direzione Asl di Taranto che rivolge le proprie scuse al signor Giangrande ed al figlio, ribadendo che al paziente era sempre stata assicurata la massima sicurezza grazie all’esemplare competenza di tutti gli operatori sanitari presenti. Francesca Dinoi

Parla il figlio dell'uomo rimasto 11 ore in ambulanza prima del ricovero al Giannuzzi. L’avvocato Mirko Giangrande racconta in un’intervista al Nuovo Quotidiano di Taranto il calvario del padre ricoverato al Giannuzzi dopo un’attesa di 11 ore in ambulanza. La Redazione de La Voce di Manduria martedì 24 novembre 2020. Un calvario di 11 ore. Tanto è durata l’attesa in ambulanza di un uomo di Avetrana domenica scorsa. A raccontare l’incredibile vicenda al Nuovo Quotidiano di Taranto è il figlio del povero malcapitato, Mirko Giangrande. I particolari che l’avvocato riferisce hanno dell’incredibile. Il paziente, positivo già da diversi giorni, è stato prelevato dalla sua abitazione dopo aver effettuato una cura anti-Covid domiciliare. Giunto nel piazzale dell’ospedale Giannuzzi, dopo le prime ore, l’uomo - provato dall’attesa ed in evidente stato di agitazione - ha allertato il 112 ed il 113 addirittura dall’interno dell’ambulanza. Le comunicazioni con la famiglia avvenivano tramite whatsapp, visto l’affaticamento respiratorio e la difficoltà nell’effettuare chiamate vocali. Intorno alle 16.30, gli è stato effettuato un prelievo di sangue, ma il povero malcapitato – già da più di 4 ore all’interno dell’ambulanza – non dava segni di miglioramento e la febbre continuava ad aumentare. Il racconto del figlio del pover’uomo si fa sempre più inquietante: «Io vivo fuori, mi sono sentito impotente oltre che angosciato. In più – aggiunge l’avvocato – la cura intrapresa a casa si era interrotta durante le ore in ambulanza. Aveva solo l’ossigeno a sua disposizione e la febbre continuava a salire. Non sapevo cosa fare così, ormai stravolto, ho contattato il consigliere regionale Renato Perrini che si è adoperato a denunciare all’Asl di Taranto quanto stava accadendo» riferisce Giangrande. Stando a ciò che ha raccontato lo stesso avvocato durante l’intervista, sarebbero state ben cinque le ambulanze in coda per ore, così come riferitogli dal padre. L’avvocato non ci sta e promette di andare a fondo sulla vicenda: «Mi preme evidenziare che questo è accaduto ad un uomo di 57 anni in grado di comunicare con l’esterno e di mantenere lucidità. Ma se fosse capitato ad un uomo anziano? Non si può correre il rischio di morire in attesa di essere ricoverati. Questi inconvenienti potevano essere comprensibili a marzo, ma non a novembre perché, come cittadini, ci saremmo aspettati una maggiore organizzazione» aggiunge Giangrande, che poi conclude: «Tenere bloccate le ambulanze per così tante ore è inconcepibile. E se dovessero servire per un’emergenza? Non ho parole».

Verso mezzanotte, dopo la previsione di spostarmi all’Ospedale di Castellaneta, a 100 km di distanza, e la mia forte opposizione (ho preso la valigetta e stavo per scendere dall’ambulanza per recarmi al pronto soccorso), mi introducono in Pronto Soccorso. Qui mi rifanno il tampone e la radiografia. Fino alle 4 nel corridoio, poi in una stanzetta. Il ricovero effettivo in reparto avviene il giorno, 23 novembre 2020, dopo alle 14.00».

La situazione del presidio continua ad essere drammatica. Primario chirurgo in ferie, niente interventi al Giannuzzi, pazienti trasferiti altrove. La Redazione de la Voce di Manduria, giovedì 17 agosto 2023

Dal 12 agosto e sino al 21, all’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria non si fanno interventi chirurgici perché il primario Rocco Lomonaco è in ferie. In questo periodo dunque il pronto soccorso non accetta più patologie che necessitano di intervento di natura chirurgica, neanche quelli di estrema urgenza come emorragie interne di qualsiasi natura. Quelli che capitano che vengono trasferiti altrove.

Lo ha comunicato la responsabile della direzione sanitaria del presidio ospedaliero messapico, la dottoressa Irene Pandiani, in una circolare indirizzata al pronto soccorso e alla centrale operativa del 118 che dal 12 scorso dirotta le ambulanze con i pazienti potenzialmente chirurgici negli ospedali di Taranto, Martina Franca e Castellaneta. «Considerate le note carenze di dirigenti medici nella struttura complessa di chirurgia generale – si legge -, è possibile inserire in turno un solo chirurgo reperibile e logicamente – aggiunge la nota -, non potranno essere effettuati interventi chirurgici da un solo chirurgo». L’organico interno è quello che è: tre specialisti di cui uno con limitazioni funzionali oltre al primario Rocco Lomonaco che è in vacanza. L’alternativa sembra essere scontata per chi dirige il Giannuzzi e per la stessa Asl ionica che lascia fare: «trasferire i pazienti chirurgici agli ospedali limitrofi in assenza del primario». 

In effetti a tutte le postazioni del 118, informato del caso, è stato impartito l’ordine di bypassare il Giannuzzi e portare i pazienti con accertata patologia chirurgica come primo step a Taranto e, in caso di indisponibilità di posti letto, negli altri presìdi della provincia. E per chi si reca in pronto soccorso con mezzi propri con disturbi di natura chirurgica, la storia non cambia perché, altro ordine impartito dalla direzione medica del Giannuzzi, prima di essere ricoverati tutti i pazienti devono essere valutati dall’unico chirurgo reperibile che deciderà se tenerlo o farlo trasferire altrove se i disturbi fanno prospettare una possibile implicazione di natura operatoria. 

I disagi sono sotto gli occhi di tutti con ambulanze che dai comuni del versante orientale della provincia fanno su e giù a Taranto e viceversa con gli immancabili intasamenti davanti al pronto soccorso del Santissima Annunziata che si deve far carico dell’utenza «servita» dalla struttura periferica chiusa per le ferie del primario. E attendere il proprio turno, a volte lungo anche diverse ore, significa lasciare scoperta la propria area di competenza con il rischio, quasi quotidiano per la centrale operativa, di dover attivare ambulanze di altre postazioni distanti decine di chilometri dal luogo della chiamata. Questo sia per i codici di piccola o medie gravità ma anche per i codici rossi che devono anche loro attendere l’arrivo della prima ambulanza disponibile spesso distante 15 o 20 chilometri, oppure «prestata» dalla centrale operativa 118 della provincia di Brindisi o Lecce.   Ovviamente questo crea disagi anche ai reparti di chirurgia degli altri ospedali il cui organico, seppure più fornito del Giannuzzi, risente sempre del calo della disponibilità dovuto allo stesso diritti delle ferie che deve essere garantito.

Il caso sancito dal codice civile: “revocabilità della donazione per ingratitudine”. Zio presta 800mila euro al nipote, 20anni dopo gli fa causa: “È stato ingrato e non li merita, li restituisca”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 13 Febbraio 2023

Una brutta lite familiare che finisce in tribunale. Uno zio venti anni fa ha donato al nipote una cifra pari a 800mila euro per aiutarlo a risolvere dei problemi. Ora li richiede indietro e gli fa causa. Il motivo? “Non ho avuto alcuna riconoscenza per quello che ho fatto per lui”. E fa appello all’articolo del codice civile che prevede la “revocabilità della donazione per ingratitudine”.

A raccontare la vicenda è il Mattino. Secondo la ricostruzione fatta lo zio, a 20 anni da quella onerosa donazione, ha notato “un distacco da parte di mio nipote, evitava qualunque tipo di frequentazione, evitava anche il minimo contatto telefonico. Anche quando ho vissuto un momento di difficoltà economica e chiesto un prestito di 5mila euro per le spese correnti mio nipote mi ha risposto di no, mi ha ingiuriato, deriso e offeso con amici, parenti e conoscenti comuni, sino a isolarmi completamente, evitando qualsiasi contatto telefonico”.

Il quotidiano riporta che il nipote in questione rimanda al mittente ogni accusa. Ha sottolineato come invece si sia speso molto in suo favore, “tutto ciò in maniera disinteressata, mosso solo da grande affetto e devozione, rifiutando persino eventuali regalie e godendo profonda stima per lui”. Un affetto “assolutamente reciproco”. I due parenti dunque dichiarano posizioni molto distanti che hanno messo nero su bianco. Sarà poi il giudice a stabilire chi ha ragione.

Certo è che il codice civile spiega il significato di “ingratitudine” e “Ingiuria grave”: “Qualsiasi atto o comportamento il quale leda in modo rilevante il patrimonio morale del donante, e palesi per ciò solo un sentimento di avversione da parte del donatario”. Quando cioè “il donatario manifesti un sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastante con il senso di riconoscenza e di solidarietà che, secondo il comune sentire, dovrebbe invece improntarne l’atteggiamento”. E in questi casi una donazione può essere revocabile.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Gallipoli, oltre un miliardo di lire donato al nipote: l’ex senatore Barba vuole tutto indietro. Potrebbe ben essere l’inizio di una vera e propria saga familiare. Giuseppe Albahari su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Febbraio 2023

Potrebbe ben essere l’inizio di una saga familiare, quella che sta contrapponendo il senatore Vincenzo Barba con uno dei suoi nipoti. Gli elementi ci sono tutti: uno zio che poteva permettersi, correva l’anno 2000, quella che dichiara essere una donazione di oltre un miliardo e seicento milioni di lire; un nipote che vive e lavora lontano da Gallipoli, contesta in primo luogo proprio che si tratti di una donazione; un rapporto tra loro che, quasi filiale, si deteriora fino al punto che ora la partita si giocherà nelle aule giudiziarie. I loro racconti, va detto subito, sono estremamente divergenti. Da una parte, il senatore sostiene che nel 2000, venuto a conoscenza di problemi economici legati all’attività lavorativa del nipote, emetteva in suo favore il fatidico assegno. Per vent’anni, la vicenda ha rappresentato un capitolo chiuso. Fino al 2020, quando il senatore avrebbe chiesto al nipote 5mila euro perché si trovava in difficoltà economiche, «legate - spiega - al blocco di tutti i suoi beni, conti correnti compresi, in relazione al tracollo della squadra di calcio di cui era stato presidente e nel quale era stato chiamato in causa dalla curatela fallimentare». Il nipote gli avrebbe opposto un deciso rifiuto.

Da qui, la decisione di revocare la donazione per ingratitudine. La quale si sarebbe esplicitata non solo nel rifiuto, ma anche deridendolo e ingiuriandolo ripetutamente in pubblico, facendo così venire meno i sensi di generosità e di stima che gli avevano suggerito di aiutare il nipote. Per quest’ultimo, non è stato ripianato alcun suo debito. Ci fu, nel 2000, un errore della propria Banca, che acquisto 12.000 azioni, invece delle 1.200 richieste e che era nelle sue possibilità pagare. Lui propose che i titoli azionari fossero acquisiti dalla Banca, ma la stessa, conoscendo il senatore Barba non solo come suo congiunto, ma anche come uno dei propri principali correntisti, titolare di immobili e liquidità tali da potere facilmente affrontare un simile esborso, gli proposte di acquistare le azioni. Lui accettò, benché fosse al corrente del rischio, e gli atti dimostrano che non si trattava di donazione, ma dell’acquisto di azioni; le quali persero successivamente ogni valore. In atti, il nipote nega pertanto d’avere mai ricevuto una richiesta di 5.000 euro dallo zio e fa soltanto notare che nel 2020 la fase di difficoltà economica era già stata superata e il suo tenore di vita dimostra che non aveva certo bisogno di una somma così modesta. Fallito un tentativo di conciliazione, la decisione passa ora al Giudice che valuterà racconti e documenti forniti tanto dal senatore, rappresentato dagli avvocati Gabriele e Anna Maria Ciardo, quanto dal nipote, difeso dall’avvocatessa Anna Panico.

Estratto dell’articolo di Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 15 febbraio 2023.

Merce rara, la gratitudine. Com’è che diceva Aristotele? «È un sentimento che invecchia presto». […] Vincenzo Barba è un imprenditore che, a Gallipoli, in provincia di Lecce, lo conoscono tutti. Se non altro perché è stato senatore per Forza Italia e magnate del petrolio, nonché proprietario della squadra di calcio della sua città (che ha persino portato in Serie B).

 Oltre vent’anni fa, cioè intorno al 2000, Barba è sulla cresta dell’onda e dona, a un suo nipote, un miliardo e seicento milioni di vecchie lire. Son soldi (seppur del passato conio) sonanti. […] Solo che, dopo il versamento andato a buon fine sull’Iban in questione, dice Barba, con quel nipote il rapporto s’è incrinato. Non si telefonano nemmeno più, adesso: neanche una breve chiacchierata.

Quando poi, all’ex azzurro, capita di cadere in disgrazia e i ruoli s’invertono (cioè è Barba che ha bisogno di soldi, tanto da domandare un prestito di 5mila euro per le spesucce correnti), nisba. Si sente evitato, offeso, messo ai margini. Così decide di riprendersi una rivincita (e di riprendersi pure la vecchia donazione) facendosi sponda col codice civile. Perché è possibile, articoli alla mano: ma ci arriviamo dopo.

Barba bussa alla porta dello studio legale Ciardo, a Lecce, e poi a quella del tribunale civile. Perché il procedimento sarà discusso a maggio dato che un tentativo di mediazione è stato fatto, ma è finito come si può facilmente intuire: con un nulla di fatto. Circa 800mila euro, è quanto richiede (ora) l’ex senatore.

Sarà cambiata la valuta, ma il corrispettivo è quello: vuole indietro, insomma, Barba, la donazione fatta a inizio secolo, e la rivuole per «ingratitudine». […] il nipote, sostiene una diversa versione: e cioè che «sono stato sempre attivo, anche dopo la donazione, in tutte le campagne elettorali e mi sono speso in suo favore in maniera disinteressata, mosso solo sa grande affetto e devozione, rifiutando persino eventuali regalie e godendo profonda stima per lui». Come a dire, ingrato-io?-Mica-vero. Chi la spunterà […] lo deciderà un giudice, ma lo deciderà sulla base dell’articolo (ci siamo arrivati) 801 del codice civile.

È rubricato, l’articolo 801, “revocazione per ingratitudine”: e non ci vuole una laurea in giurisprudenza per capire cosa significa. […] Il donatario, cioè colui che riceve, spiegano gli avvocati, se ha commesso comportamenti particolarmente gravi (come un omicidio o la calunnia o l’ingiuria grave o l’aver rifiutato indebitamente gli alimenti al donante, cioè colui che dà, quando versava in stato di bisogno o l’aver manifestato «un sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità contrastante con il senso di riconoscenza e di solidarietà secondo il comune sentire», specifica la Cassazione nel 2016) può subire la revoca della donazione, che altri non è che l’obbligo di restituire quanto precedentemente ottenuto […]

GLI OCCHI DEL BOOMER. Adolfo Spezzaferro su Redazione L'Identità il 17 Gennaio 2023

Siamo lusingati dal gran parlare sui boomer quali noi siamo per via della trasmissione della rediviva Alessia Marcuzzi Boomerissima. Un contest (come si dice oggi, ché gara è troppo antico e troppo italiano, dantesco oseremmo dire) che vede fronteggiarsi i 40enni (e oltre) con i millennial (nati dal 2000 in poi). La presentatrice, da showgirl provetta, balla e ce la mette tutta. Il programma è andato benino in termini di ascolti, ma è stato stroncato da più parti. E’ scritto male, non è all’altezza del secondo canale nazionale, è la sagra del déjà vu. Ancora, è il solito espediente a trucco per dare visibilità a illustri sconosciuti – hanno detto – e via criticando. Ma perché ve ne parliamo? Non perché stasera andrà in onda la seconda puntata: non ve lo stiamo consigliando. Ma per un piccolo appunto: la gara contrappone nuovi e vecchi volti noti (tra tv, cinema, musica e social) che propongono il meglio delle decadi di appartenenza per convincere chi/quale è migliore. Ebbene, a nostro avviso non c’è partita. Prendiamo la musica dei boomer… possiamo definire tale, in confronto, quella dei millennial? Suvvia. Viceversa, quanto sarebbe gustosa una sfida tra decenni dei boomer? Noi saremmo lì in poltrona a tifare come matti per il nostro decennio preferito. A intonare a pieni polmoni gli inni generazionali, a rivivere con gli occhi lucidi la moda, il costume, i drink, la luce e i colori di quegli anni pre filtri Instagram. Dove il bello era bello e il brutto era brutto. E i millennial? Non guardano la tv. Al massimo gli estratti video su TikTok. Ma potrebbero essere stati già trasformati in meme. Quale noi siamo. Con orgoglio.

Estratto dell'articolo di Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 16 gennaio 2023.

Massimo Fini da alcuni anni scrive per il Fatto Quotidiano e confesso di leggerlo sempre anche se non condivido neanche una riga dei suoi articoli. […]

 Fini ieri ha sostenuto in un pezzacchione che i vecchi tutto sommato debbano pentirsi di essere tali perché sono un disturbo per se stessi e per la società. […]

 Fini sostiene che l'allungamento della vita, avvenuto gradualmente seguendo l'evoluzione della scienza medica, si è rivelato un boomerang, non solo per le persone che crepano dopo gli ottanta anni, creando e creandosi problemi gravi, ma anche per le famiglie che devono accudirle e per l'intera società.

Evidentemente in queste stralunate teorie c'è qualcosa di vero, ma solo qualcosa. La questione per me è un'altra. Stare al mondo spesso è una fatica e pure una rottura di scatole anche per la gente giovane e di mezza età. Ma è fatale che chi mette piede sulla terra poi ci voglia restare a tutti i costi, tranne rare eccezioni.

 Noi umani siamo fatti così, in maggioranza campiamo male o almeno maluccio, tra sofferenze, sacrifici e disagi, ma appena ci becchiamo l'influenza cerchiamo di curarci per paura di aggravarci e di tirare le cuoia. Se uno a quaranta anni è colpito dal tumore si preoccupa come un ottantenne, perché la morte fa paura, come ogni mistero, a qualsiasi essere vivente, animali compresi.  […] Il trapasso spaventa tanto i giovani quanto i nonni, non c'è differenza.

L'istinto di conservazione è come la sete e di matusalemme come noi che vanno dal medico ogni dieci minuti a tirarla per le lunghe, ma dei ragazzi che si fanno mantenere dai candidati alla tomba e li ricambiano odiandoli, saccheggiando i loro risparmi, mettendo a soqquadro i centri abitati, rapinando chi capita loro a tiro e talvolta uccidendoli per alleggerirli di qualche euro. […]

 Io amo i vecchi forse perché sono vecchio anche io, e detesto chi strilla, chi protesta, interrompe il traffico sulle autostrade per imporre al governo di lottare contro i cambiamenti climatici che ci sono sempre stati e non hanno mai ammazzato nessuno.

Caro Massimo o vai nell'aldilà quando ti avvicini alla cinquantina o sei condannato a incanutire. Preferisco la seconda ipotesi.

Estratto dell’articolo di Maurizio Tarantino per “il Messaggero” il 14 gennaio 2023.

Lascia un'eredità da tre milioni di euro per creare un nuovo ospedale e ricordare i suoi fratelli. La storia di Vita Carrapa sembra quella di un romanzo, in cui il lieto fine è vicino a compiersi. La pensionata, nata e vissuta a Maglie (Lecce) […] aveva programmato […] che i beni di famiglia, accumulati in 95 anni di vita, avrebbero dovuto essere impiegati «per aiutare chi aveva più bisogno […]».

 Così Vita aveva scelto di destinare il cospicuo patrimonio alla realizzazione di una struttura d'eccellenza nel Salento […] Ultima di una famiglia modesta di Maglie, aveva due sorelle, Maria Antonietta e Maria Nicolina e un fratello, Paolo […] che […] si era dedicato ad investire il patrimonio familiare entrando in società impegnate nell'estrazione del marmo dalle cave di Carrara. Scelta oculata e molto redditizia […] A contribuire all'incremento delle ricchezze, anche lo stile di vita molto parco dei quattro. Nel corso della loro esistenza […] utilizzavano solo la pensione sociale per i loro bisogni […] la Asl ha intenzione di […] portare a termine entro cinque anni la costruzione dell'ospedale tra Maglie e Melpignano […]

In Puglia anziani ricoverati in ospedale più del dovuto: nessuno può assisterli a casa. L'indagine di Fadoi, la società scientifica di medicina interna. Per la Regione significa un costo extra di 83 milioni di euro. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Gennaio 2023

In Puglia un anziano su due è ricoverato in ospedale per più di 5 giorni oltre il dovuto perché in casa nessuno lo assiste. Per la Regione questo significa un costo extra di 83 milioni di euro.

È quanto emerge da un’indagine di Fadoi, la società scientifica di medicina interna, condotta su 98 strutture ospedaliere sparse lungo tutta Italia. Nel report viene specificato che dalla data di dimissioni indicata dal medico a quella effettiva di uscita in Puglia la metà degli anziani ricoverati passa da 5 a 7 giorni più del dovuto in ospedale, oltre 7 giorni in un altro 25% terzo di casi.

Il 54% degli anziani pugliesi verrebbe ricoverato perché non ha nessun familiare o badante in grado di assisterli in casa, mentre per il 18% non ci sono strutture intermedie sul territorio. Viene stimato dalla società scientifica che in Puglia le giornate di ricovero inappropriate siano circa 116 mila.

«La dimissione difficile - dichiara il presidente di Fadoi Puglia, Anna Belfiore - rappresenta una problematica che è aumentata notevolmente negli ultimi anni a causa dell’aumento dell’età media dei soggetti ricoverati. Tali pazienti, spesso non autosufficienti, necessitano di supporto socio-assistenziale che spesso le famiglie non sono in grado di fornire». «Inoltre le strutture residenziali - aggiunge - non hanno posti disponibili per tutti i pazienti in dimissione. Per questi motivi si allunga la degenza media ed aumentano i rischi iatrogeni legati al prolungamento del ricovero. L’attivazione del DM 77 richiederà tempo e, a mio avviso, moltiplica i setting assistenziali senza garantire personale adeguato di copertura». 

Lavinia Capritti per “Oggi” il 9 gennaio 2023.

«È bella la parola "vecchio" non "longevo", non "terza età", la usi la parola: vecchio». Vittorino Andreoli la pronuncia così, scandendola con molta forza, vecchio, sì, che soddisfazione. Per lui la vecchiaia sembra essere uno stato di grazia, d'altra parte spiega che essere vecchi vuol dire «che si è vivi, che si sta vivendo».

 Potrebbe essere una frase scontata, ma lui la trasforma - mentre pronuncia con passione quel «vivendo» - in una rivelazione, perché chi davvero si sofferma a pensarci? E già che c'è, si aumenta gli anni. Ne ha 82, ma per tutto il corso dell'intervista se ne attribuisce 83. Il 10 gennaio uscirà con un nuovo libro sulla vecchiaia, Lettera a un vecchio (da parte di un vecchio), e su questo indaghiamo.

 Come le è venuto in mente? Non tutti amano affrontare questo argomento.

«Ci sono due motivi. Il primo: la vecchiaia di oggi è una novità assoluta nella storia dell'antropologia; le ricordo che fino al secondo Dopoguerra l'età media dei maschi era di 48 anni e oggi il 22 per cento della popolazione italiana è vecchia. Il secondo è che io sono vecchio, sono nell'83esimo anno di età, e quindi posso parlare».

 Sicuro che tutti vivano la vecchiaia come lei?

«Mi scusi, ma lei è sicura che tutti gli adulti vivano serenamente? Il problema sa qual è? Che la vecchiaia è legata alla morte, ma le garantisco che questa è l'ultima preoccupazione dei vecchi».

 Lei quando ha percepito il suo cambiamento, diciamo, di status?

«Quando sono andato in pensione. Molti ci rimangono male ma è per questo che ho scritto questo libro: per dire che debbono prepararsi a fare altro. Certamente ho avvertito delle variazioni sia dal punto di vista del corpo sia della psiche, ma le ho avvertite a qualunque età.

Se lei vuol farmi dire, però, che c'è un momento preciso che tutti incontrano, che è la sessualità, ebbene le racconto che è una balla. C'è una vecchiaia dell'organo così come c'è una vecchiaia del cuore, ma l'eros cambia semplicemente modalità, finché c'è la vita esiste».

 Ma a una certa età si inizia a percepire un certo decadimento fisico e la sensazione di non aver più il mondo ai propri piedi.

«Non è niente vero, c'è un decadimento fisico che è proporzionale al tipo di attività che uno svolge. Detto questo se la Società non richiede nulla al vecchio, che rimane seduto dalla mattina alla sera, certamente avrà la percezione della solitudine. Ma l'errore nasce dalla condizione in cui viene posto il vecchio».

 E lei cosa chiederebbe alla società e al governo?

«Semplicemente di ricordare che un uomo vecchio, avendo vissuto a lungo, può vedere le cose in maniera diversa. Esiste una politica immatura, stolta, dove domina la lotta, il potere. Tutti argomenti per i quali il vecchio non prova interesse. Quando lei dice: ma per lei, professore, quando è cambiata la sua vita? Dal giorno in cui non ho più timbrato il cartellino, pensi che meraviglia. Sono meno condizionato dall'economia, ho meno desideri. Si diventa saggi».

Mi sembra un po' ottimista.

«È stato dimostrato che i neuroni di un cervello vecchio si moltiplicano nonostante l'età. Che cos'è questa idea della candela che lentamente si spegne? Una sciocchezza. E guardi che io non sono un fenomeno, sono un vecchio. E non sono un giovanilista che vuole essere quello che non è. Io sono un po' curvo nelle spalle e cerco di esserlo un po' di più, mi piace. Sono un vecchio nudo».

 Ecco, quando si guarda allo specchio nudo che cosa vede?

«Vedo Vittorino Andreoli e mi diverte molto a pensare come ero. Ho una fotografia di quando avevo tre anni e mi piace metterla vicino all'uomo di 83 anni, realizzare che sono sempre io».

Pensa alla morte?

 «Odio la morte perché vorrei continuare a esserci ancora un minuto e un altro minuto, avrei ancora qualcosa da fare e vorrei poter dare più attenzione a chi non l'ho data. Ma il fatto che odii la morte può essere visto nella maniera giusta: che amo vivere.

 Mi piacerebbe che la popolazione italiana avesse la consapevolezza della bellezza di arrivare a 80 anni, 90 anni e poter vedere il mondo con quegli occhi lì, che hanno funzionato per 90 anni. Magari indicando ai giovani dove posare lo sguardo invece che su quell'orrendo telefonino che rende vecchi anche gli adolescenti».

Dove va posato lo sguardo?

«Sull'uomo, che è un mistero. Sa scrivere versi oppure, come Donato Bilancia, uccidere 17 persone in sei mesi».

 Nel suo libro scrive: «Il saggio non lotta perché conosce che nella lotta si produce dolore».

«Esatto. La vita come la intende Darwin, una lotta, a me non piace più. Ormai non ho da difendere che la serenità».

OK, boomer. Lo scontro tra generazioni esisteva pure prima di internet, ma riconciliarsi è possibile. Diego Martone su L’Inkiesta il 31 Dicembre 2022.

Chi oggi critica Millennials e Gen Z da giovane ha subìto la stessa dinamica: lo sviluppo armonico della società richiede però collaborazione. Un saggio di Egea fotografa le famiglie anagrafiche del nostro Paese e ciò che le accomuna

Lamentarsi delle nuove generazioni, in particolare durante il periodo dell’adolescenza e della prima età adulta, è una prerogativa delle generazioni più anziane praticamente da sempre. Se in questa fase Baby Boomers e parzialmente anche la Gen X vedono in modo molto critico Millennials e Gen Z, non va quindi assolutamente dimenticato come cinquant’anni fa la situazione era analoga, ma a essere l’oggetto delle critiche erano coloro che adesso sono saliti sul palco a criticare.

Si tratta spesso di dinamiche che partono dal rapporto genitori/figli, ma si estendono anche ad altre aree (insegnanti/allievi, allenatori/giocatori ecc.). Tipicamente le accuse riguardano la scempiaggine (o stupidità) dei più giovani, declinata su più piani, che vanno dalle abitudini quotidiane al rapporto con la cultura, dalle relazioni con i propri coetanei al linguaggio, includendo anche altri aspetti.

Questa tendenza appare fin dagli albori della civiltà, potendo risalire ad Aristotele (IV secolo a.C.) quando a proposito dei giovani espresse un pensiero tagliente: «Pensano di sapere tutto, e ne sono sempre abbastanza sicuri». Il fenomeno è stato recentemente studiato ed etichettato come «Kids These Days» («i giovani d’oggi»), ovvero come una tendenza consolidata in cui giocano un ruolo fondamentale due processi cognitivi.

In primis si tratterebbe di un bias mnemonico, che farebbe in modo che gli più giovani, anch’essa riscontrabile in molte epoche e individuabile in tutte le manifestazioni di rivolta rispetto alla struttura valoriale e comportamentale della società dominante in quel momento (si pensi al movimento del 1968 quale esempio più evidente).

La novità relativamente recente, tuttavia, è rappresentata dalle possibilità che si manifestano all’interno delle conversazioni sui canali digitali, luogo in cui, a differenza del passato, ormai tutte le generazioni hanno la possibilità di interagire in modo costante, immediato e senza particolari confini spazio-temporali. Celebre è il meme partito nel 2018, ma reso famoso nel 2019 da un articolo sul New York Times a seguito di uno scambio tra due persone appartenenti a generazioni diverse.

La storia è presto detta: un uomo con i capelli bianchi, un cappellino da baseball e una polo afferma: «The Millennials and Generation Z have the Peter Pan syndrome, they don’t ever want to grow up» (i Millennials e la Gen Z hanno la sindrome di Peter Pan, non hanno alcuna intenzione di crescere). Il video diventa virale e famosissimo, in quanto in grado di scatenare sulla piattaforma che lo ospita (TikTok e a seguire su tutte le altre) le risposte dei Gen Z e dei Millennials che rispondono aggiungendo la formula provocatoria «OK, Boomer».

Questo epiteto, teso a zittire nello specifico l’autore del video, ma di lì in poi chiunque sopra a una certa età si produca in dichiarazioni di biasimo verso i giovani, diviene una pietra miliare della contrapposizione digitale e non tra generazioni (in particolare Boomers vs Millennials ma anche Gen X vs Gen Z).

La vitalità dell’espressione è enorme, aiutata anche da veri e propri progetti artistici a essa collegati, divenendo in breve tempo una sorta di marchio di fabbrica della rivolta. Ogniqualvolta un giovane vuole sottolineare l’inadeguatezza o la contrarietà a un’opinione formulata da qualcuno di più anziano, scatta la risposta che in due parole racchiude un significato molto più ampio. A farne le spese, tra gli altri, l’ex Presidente degli Stati Uniti Donald Trump che ha ricevuto valanghe di risposte a suoi tweet con questa espressione.

La rivolta attinge alle condizioni in cui il pianeta si trova dal punto di vista climatico (si pensi a Greta Thunberg e al movimento dei Fridays for Future che ne è conseguito in tutto il mondo), dal punto di vista economico e del mondo del lavoro. Il conflitto che ne risulta si limita (per ora) alla contrapposizione di opinioni che trovano nell’incomunicabilità e nella chiusura rappresentata dall’espressione «OK, Boomer» l’ancoraggio di un discorso, come detto, molto più corposo.

Dietro a questa espressione trova sostanza una critica molto precisa che le nuove generazioni muovono a quelle precedenti: il fatto che il potere in loro possesso è stato sproporzionato e usato male, viste le attuali condizioni del pianeta e in considerazione di quanto potrà accadere in futuro, con i prezzi più alti da pagare che cadranno sulle spalle di chi è giovane in questi tempi.

Ma perché proprio adesso emerge all’orizzonte il tema del conflitto generazionale? Si tratta solo di una diretta conseguenza della crisi mondiale degli ultimi anni culminata con la pandemia e le convivenze forzate imposte dai lockdown oppure siamo davanti a una dinamica che era già presente nel tessuto della società e che ha trovato un’accelerazione improvvisa e imprevista? Per rispondere a questo quesito vale la pena forse inquadrare meglio e più in profondità le generazioni coinvolte.

Da “Senza età” di Diego Martone, Egea, 160 pagine, euro 18,50.

Vecchia Italia. Eleonora Ciaffoloni. L'Identità il 16 Dicembre 2022

Una fotografia impietosa quella che emerge dall’ultimo Censimento dell’Istat: un’Italia sempre più vecchia e più spopolata a testimonianza di una crisi ormai latente nel nostro Paese. La terza edizione del report sui cittadini fa registrare non solo un nuovo record minimo delle nascite (400mila), ma anche un elevato numero di decessi (701mila), con un saldo naturale in decrescita, pari a -301mila unità nel 2021. La popolazione censita al 31 dicembre 2021 ammonta a 59.030.133 residenti, in calo dello 0,3% rispetto al 2020, quando già si era assistito a un calo di 335mila persone. Il decremento della popolazione riguarda in maniera omogena quasi tutta la penisola, con il saldo naturale negativo registrato in tutte le regioni, eccetto la Provincia autonoma di Bolzano con un +193 e una natalità più alta della media. A infierire sul calo, è ancora l’elevato impatto del numero di morti da Covid-19 con un totale di 701.346 decessi che, seppure minore di 39mila unità rispetto al 2020, rimane nettamente superiore alla media registrata nel quinquennio 2015-2019 (+8,6%). Non si discosta dal dato, l’andamento delle nascite, che registra un -1,1% in tutto il Paese, con i valori più alti nel meridione, al -2,7%. Una tendenza che riprende gli ultimi due mesi del 2020 e fa notare i primi effetti della pandemia sulle nascite anche nei primi due mesi del 2021, con un calo del 13,2% di gennaio tra i più ampi mai registrati. Pertanto, il crollo del trimestre tra le due annate può quindi rispecchiare i mancati concepimenti della prima ondata pandemica, con un aumento progressivo nel corso dell’anno. Pochi nati che rendono il nostro Paese ancora più vecchio: in dieci anni, dal 2011, l’età media si è alzata di tre anni, da 43 a 46. Inoltre, nel 2021 per ogni bambino si contano 5,4 anziani, mentre dieci anni fa se ne contavano 3,8 anziani. Di conseguenza, l’indice di vecchiaia (rapporto tra la popolazione di 65 anni e più e quella con meno di 15 anni) è notevolmente aumentato e continua a crescere, con un 187,6% del 2021. Un’altra causa della diminuzione della popolazione, sempre derivante dagli effetti dell’epidemia di Covid, è il calo della popolazione straniera. Gli stranieri censiti sono 5.030.716 (-141.178 rispetto al 2020), con un’incidenza sulla popolazione totale di 8,5 stranieri ogni 100 censiti. Di questi, quasi la metà, circa il 48%, proviene dall’Europa, il 22,6% dall’Africa, circa il 20% dall’Asia e il 7,3% dall’America. Nel Paese rimane quindi maggiormente rappresentato il continente europeo, mentre seguono l’Africa del nord e l’Asia centro meridionale. Tuttavia, nel complesso la popolazione straniera censita diminuisce del 2,7% rispetto all’anno precedente, con il calo che va a interessare tutte le collettività, ma con maggiore accentuazione per quella cinese che perde circa 30mila unità. Anche in questo caso, si immagina una possibile correlazione con la pandemia di Covid-19. Eppure, nonostante la nuova fase endemica della pandemia, il trend di decrescita non sembra fermarsi. A fare da traino, in negativo, la crisi energetica ed economica, l’inflazione crescente e l’aumento della disoccupazione e quindi dell’incertezza. Anche nel 2022 infatti, secondo le previsioni dell’Istat, la popolazione italiana dovrebbe registrare un ulteriore calo, che potrebbe addirittura essere irreversibile da qui al 2070.

Ode e lode alle zie, scrigno di cose belle. Il collezionismo conservativo delle generazioni passate: dalla scatola dei lacci inservibili ai quaderni neri con laccio rosso. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Dicembre 2022.

Lodo le zie. Intendiamoci, apprezzo anche gli zii, ma elogio soprattutto le zie. le zie sono state importanti per generazioni, hanno costituito, come generosa alterità materna, una falange benemerita di memorie storiche e un giacimento insostituibile di ricordi, piccola pedagogia, buon senso, rassicurazioni. E ricette. Con l’affermarsi della voga dei figli unici, la figura declinerà nel panorama antropologico italiano, così come quella dei cugini, insostituibili compagni di giochi e di apprendistati di ogni risma e la sparizione dei cognati, magnifici dispensatori di riguardi e di aneddoti, sfidanti a scopone e di mangiate e bevute.

La zia di un mio amico teneva nell’armadio una scatola bianca, di quelle, una volta sobrie e robuste, che custodivano le scarpe, una scatola legata con uno spago che recava una scritta: «Lacci inservibili». Ho detto la zia di un mio amico, ma avrei potuto dire mia zia, perché l’aneddoto si sovrappone all’aneddoto, il vecchio racconto alla citazione e via scrutinando nel «sembra ieri» che affascina spesso il nostro malinconico attardarci nella memoria. La signora godette ottima salute anche in una lunga vecchiaia e questa circostanza ha, forse, a che fare con la sua mentalità provvida e prudente che prima di buttar via qualcosa, rifletteva, titubava, aspettava. Al mio paese, Bitonto, si dice stip ca’ truv che vuol dire «conserva che troverai». Una filosofia.

Chi sa se la zia, non mette conto di dire di chi, custodiva davvero lacci inservibili in quella scatola bianca. Non lo sapremo mai. Per anni abbiamo, il mio amico ed io, riso di quella stramberia e non ci siamo curati di capire quale ragione avesse la signora per conservare dei lacci inservibili. Adesso lo so.

Sarà l’età, sarà l’esperienza, chi sa, ma di certo ho imparato il sottile piacere del conservare. Un piacere che, evidentemente, fa bene alla salute fisica e mentale. Ed è prezioso ausilio per la Storia. Non si tratta dell’altezzosa passione dell’archeologia o dell’astuto calcolo dell’antiquariato, si tratta proprio del piacere di conservare o, meglio, della scaramanzia verso il futuro oscuro e indecifrabile. Il bello è che conservo non solo quanto posso o quanto proprio non mi fa schifo di quello che arriva dal supermercato del consumismo quotidiano, ma, soprattutto, cerco, recupero, archivio e custodisco il passato recente che, al momento, avevo dilapidato in un giovanile furore di rinnovamento quotidiano.

Questa seconda frenesia mi è assicurata dalla frequentazione accanita e deliziosa dei mercatini dell’usato e del trovarobato dove è possibile reperire la paccottiglia meravigliosa di una recherche minuscola e ludica: non solo dischi e libri, ma, anche, soprammobili, giocattoli, vecchie radio, dischi di vinile, indumenti, cappelli, cravatte, gilet, figurine e tutto il bric-à-brac reperibile nel mercato delle pulci compresi televisori che pochi anni fa giudicavamo modernissimi. Cosa c’è dietro questa meticolosa e piccola follia? La voglia, forse, di disvelare che il Tempo regola la nostra storia di uomini, da un canto, distruggendo tutte le opere del nostro breve destino, anche quelle più ingegnosamente pensate e, dall’altro, mettendo a nudo la verità concordemente col suo trascorrere implacabile. E, allora, dopo le mareggiate del tempo trascorso, restano sulla battigia il rudere austero e la testimonianza solenne, il rottame e il reperto, qualche nota, qualche verso, alcune parole sparse.

Ma resta anche il quotidiano ricordo di tutto quello che ci ha aiutato a vivere, a sopravvivere, ad amare e soffrire, a patire il tempo, a tirare avanti: l’oggettistica della vita di tutti i giorni, non importante, non catalogata nelle istruzioni per l’uso della professione, del lavoro, della fatica alta di vivere, ma l’attrezzeria semplice del tirare a campare. Il collezionismo conservativo e non affaristico e speculativo prende avvio dalla voglia struggente di riordinare le idee e i ricordi che sono rintracciabili nelle Grandi Opere nostre o di altri passeggeri transitati sulla terra, quest’«atomo opaco del male» per citare il Pascoli, grande raccoglitore anche di infime, ma sempre sublimi schegge del quotidiano tempo umano. E questa ansiosa collezione di historiae cordis archivia, per la storia che il futuro scriverà, il mondo in cui ci è stato dato di tirare a campare, ma anche le piccole prove di abilità e di praticità nel renderci la vita meno complicata o meno amara. O, addirittura, felice.

Nella vetrinetta troveremo, così, un temperino a più lame, il quaderno nero col bordo rosso, la trombetta, dei pennini, la pupa di Lenci, un abbecedario, una trottola, un vecchio ventilatore di bachelite funzionante, la foto della scuola elementare, lo spremilimoni di alluminio, un uovo di legno per rammendare, una scatola di «Cucirini cantoni», il manuale del perfetto aggiustatore, la macchina fotografica del nonno, un libro di fiabe e frammista alla vetusta biblioteca una costatazione di V. Hugo nella prefazione al Cromwell: «I tempi primitivi sono lirici, i tempi antichi sono epici, i tempi moderni sono drammatici». E troveremo anche, perché no, i lacci inservibili di nostra zia.

Generazioni: quei nati dal 1946 al 1964, «Baby boomer» per sempre. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 17 Dicembre 2022

Diane Keaton e gli altri (e, soprattutto, le altre). L’eterna giovinezza di chi, dopo una cavalcata nei trend di oltre mezzo secolo, si ritrova testimonial di un’autorealizzazione ora più rilassata e disimpegnata. Comunque di potere. A cui guarda (da lontano) la platea Millennial

Si sdraia nel lettino della macchina del tempo e risponde alla domanda del guru: chi sei nel profondo del tuo cuore? «Sono una donna di 70 anni intrappolata nel corpo di una trentenne che ha soltanto bisogno di un minuto di riposo». Succede in un film plurigenerazionale, Mack & Rita di Katie Aselton, dove la Millennial è l’attrice Elizabeth Lail che dopo essere andata con grande stress, chiusa in un paio di stivaloni pitonati a tacco di 12 centimetri, all’addio al nubilato della migliore amica, organizzato con attrazioni varie, balza fuori dal lettino, libera finalmente di vivere la propria vita, trasformata nella versione settantenne di sé, la Baby Boomer Diane Keaton. Vestita da Diane Keaton, ma anche lei con gli stessi stivali pitonati ai piedi.

L’immaginazione al potere, slogan propulsivo

Un incrocio a distanza fra età diverse che nasconde il comune bisogno di rallentare, di non soccombere alle pressioni della contemporaneità, sempre più sentito e accelerato dal lockdown e dalle crisi economiche, geopolitiche e identitarie. Insomma il sogno del down-shifting , delle grandi dimissioni da un lavoro che perde appeal e da una vita troppo carica di ambizioni. Urgenza che paradossalmente ha regalato nuova ed eterna giovinezza a quella generazione nata fra il 1946 e il 1964 che, dopo una cavalcata positiva in tutti i trend degli ultimi sessant’anni, si ritrova ora a fare da nuovo faro e testimonial di una autorealizzazione più rilassata e disimpegnata per i Millennial in fuga dal diktat della competizione. È la generazione dei Baby Boomer, acchiappatutto e giovani per sempre, che non si arrende e che, dopo avere inventato l’immaginazione al potere quando era giovane, ci è anche andata al potere per quanto con meno immaginazione ed esiti diversi da quelli sognati. Ma che nonostante tutto non rinuncia alla forza propulsiva di quello slogan vincente sull’immaginazione e che proprio lì trova la spinta per reinventarsi e riprodursi all’infinito come modello di idee e di vita per i più giovani, prolungando l’onda lunga ispirazionale.

I BABY BOOMERS IN ITALIA SONO 14 MILIONI, HANNO OGGI FRA I 58 E I 76 ANNI: DI LORO, CIRCA QUATTRO MILIONI E MEZZO SONO ANCORA NEL MONDO DEL LAVORO

La consapevolezza della terza età

Qualcuno si lamenta per questa occupazione di spazi anche mentali, ma se le cosiddette generazione post Baby Boomer non producono idee nuove e riciclano i Beatles e la moda e le mode anni Sessanta/ Settanta in un circuito vintage senza fine, che colpa hanno loro? L’immaginazione non è andata al potere, non ha fatto la rivoluzione, ma è passata nel mercato con le sue idee. E nel mercato ci sguazza. E adesso arriva la nuova ondata, quella della terza età: nel film Diane Keaton diventa la profetessa non tanto dell’ ageing con grazia, dell’invecchiare senza stress, ma piuttosto di una consapevolezza di sé stessi: «Non volevi essere vecchia, volevi soltanto essere te stessa, dimostrare al mondo chi sei» dice l’amica alla neo ragazza di 70 anni che esce trasformata dal lettino. E non è un caso che l’interprete ideale di questa cavalcata generazionale sia proprio Diane Keaton, nata con il debutto dei Baby Boomer, il 5 gennaio 1946. Lei che nella vita le svolte dei B.B. le ha tutte impersonificate con intuito anche estetico.

DOPO AVER INVENTATO «L’IMMAGINAZIONE AL POTERE», ORA I B.B. TROVANO PROPRIO IN QUELLO SLOGAN LA SPINTA PER RIPROPORSI ALL’INFINITO

TikTok over 65

Da musa di Woody Allen con i pants extralarge, versione glamour dell’hippismo, fino a diventare nel tempo icona estetica delle coastal grandmother , trend imperante sulle coste e nei luoghi di vacanza Usa, look decontratto e amplissimo, fatto di maglioni color corda, pantaloni di lino, occhialoni e cappelli flosci, tovaglie bianche e blu, fiori sparsi. Un look nei colori dell’Oceano sperimentato da Diane al debutto del Millennio nel film Tutto può succedere (Something’s Gotta Give) con Jack Nicholson, e poi reinterpretato con vena personale negli anni. Ora lo stile è virale sul web, compreso TikTok (che è l’ultima frontiera tecnologica conquistata dagli Over 65), dove va forte anche il video con Jimmy Fallon e Jane Fonda, altra immarcescibile testimonial Baby Boomer, per quanto più ideologicamente esplicita e un po’ più anziana, anche se non pare, essendo nata nel 1937. Nel video, lui cantando, lei indossando e parodiando, prendono in giro il trend delle coastal grandma che nell’estate 2022 ha dominato da Monterrey a Cape Cod agli Hamptons: «Solo tu puoi indossare 18 sfumature di beige e navy» dice Jimmy a Jane.

KEATON: «NON DICO NIENTE ALLE TRENTENNI. SOLO QUELLO CHE RIPETEVA MIA MADRE: DI VOLARE VIA E SENTIRSI LIBERE DI ESSERE QUEL CHE SONO»

In un’intervista alla Abc per l’uscita del film Keaton ha accolto sorridendo l’idea di essere la testimonial di quell’onda lunga ispirazionale che emana dai Baby Boomer e ne dà anche un’interpretazione personale: «Mia madre, che era una persona speciale, mi ha sempre detto: vai avanti e sii libera. Mi ha dato l’opportunità di fare delle scelte. E io ho fatto quello per tutta la vita. Per questo non dico niente alle trentenni. Solo di regalarsi la possibilità di volare via, di non sentirsi costrette. Di essere quel che sono». Ed è proprio questa forza che affonda le radici in una libertà a 360 gradi, quella a cui si appellano le giovani Millennial e a cui ancora una volta i Baby Boomer non si sottraggono a fare da modello. E a riuscire a esserlo per sempre, cambiando pelle e riuscendo a capire come rabdomanti, con antenne sempre accese, i nuovi sentimenti e i nuovi trend. Perché è questa forse l’anima più genuina dell’essere nati in quel periodo dove tutto cambiava e accelerava vertiginosamente, e dove le opportunità erano nell’aria e bisognava saperle cogliere al volo, in quel decennio vorticoso: gli Anni Sessanta, nati senza carta igienica e finiti con l’uomo sulla Luna.

SONO IL 60 PER CENTO IN MENO I BAMBINI NATI IN ITALIA NEL 2020 (404.104) RISPETTO AI BAMBINI NATI IN ITALIA NEL 1964 (1.016.120)

I maschi attaccati alle poltrone

E oggi, le donne più dei maschi, sembrano pronte a vivere un nuovo patto fra generazioni. Mentre i maschi, ora che sono intorno ai 70 anni, rimangono attaccati alle poltrone esattamente come quelli della generazione precedente: sarà un caso che i contendenti democratici alle primarie per l’ultima presidenza americana erano due pre Baby Boomer, Joe Biden e Bernie Sanders, e che un bel gruppo di altri 70 enni, da Putin a Draghi a Xi Jinping sono ancora in zona comando, sulla scena o dietro le quinte come Clinton e Obama? Ora che quei posti li hanno conquistati non li vogliono mollare, resistendo a qualsiasi tentativo, velleitario, per quanto pervicace, di rottamazione. Le donne invece che da questo potere sono state tenute lontane senza riuscire ancora a sfondare nessun soffitto e nessun muro (d’altra parte già nella contestazione del ‘68 erano relegate a fare gli angeli del ciclostile) sono più pronte a questo nuovo adattamento.

Una rivoluzione incompiuta

Qualche tempo fa una scrittrice femminista e docente universitaria americana, Susan Douglas, aveva teorizzato questa rivincita delle Baby Boomer in un libro, In Our Prime (nel fiore degli anni), sottotitolo: How Older Women are Reinventing the Road Ahead , come le donne Over stanno reinventando la strada per andare avanti. Bisogna, incita Douglas, realizzare finalmente la rivoluzione incompiuta. C’è un vuoto che i maschi della nostra generazione non hanno saputo colmare: «Coetanee, riempiamolo, questo vuoto. E proviamoci insieme alle ragazze che vengono dopo di noi. Facciamo la nostra parte nei loro confronti, diamo la sveglia anche a loro». L’esperienza delle prime, fatta anche di fallimenti dolorosi e di altalenanti stop and go, va oggi a incrociare le vite delle trentenni che da quelle esperienze vogliono prendere il meglio senza ripeterne possibilmente gli errori più brucianti. E trova un terreno comune in quella realizzazione di sé che, come dice Keaton, affonda le radici nella libertà di scegliere, di rallentare se necessario, di non subire la competizione sfrenata, di non farsi dettare le regole dal di fuori. Ci riusciranno, o sarà l’ennesimo scacco dell’immaginazione al potere?

Patriarcali.

Gli “Hikikomori”.

I bamboccioni.

Il Gergo.

Incompresi.

Il Male di vivere.

Indolenti.

Social-dipendenti.

Ritoccati.

Viziosi.

Drogati.

Ubriachi.

Violenti.

Ansiosi.

Ignoranti.

Maleducati.

Patriarcali.

I giovani italiani sono i più sensibili all'uguaglianza fra donne e uomini. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 30 novembre 2023

È che siam sempre lì, magari pure col ditino alzato, signora-mia-ma-questi-ragazzi-di-oggi-come-stanno-crescendo? Oppure con le ultime manifestazioni, fiumane di persone in piazza, giustamente scandalizzate perché la violenza di genere è uno schifo e poi cosa-stiamo-insegnando-ai-giovani? O ancora indignati, preoccupati, risentiti: troppi social, troppo bullismo, troppo razzismo. Colpa (il leitmotiv della settimana) del patriarcato, di quella cultura maschilista che ti tira su così, con una scala di valori inaccettabile per un Paese occidentale del 2023. E abbiamo torto. Torto marcio. Non perché la violenza di genere non sia uno schifo (lo è), non perché il patriarcato non esista (in una certa misura esiste, assieme alla cultura maschilista che in alcuni casi è dura a smorzarsi), non perché siano da negare (giammai) bullismo e razzismo: ma perché i nostri ragazzi, gli adolescenti, i tredici e quattordicenni dell’Italia moderna, dell’Italia di oggi, sono molto più aperti di noi. Se c’è qualcuno che impartisce lezione, al massimo sono loro. 

Lo dice chiaramente l’ultima indagine di Iea Iccs (che poi è l’International civic and citizenship education study) la quale ha coinvolto 22 Paesi nel mondo (quindi non solo il nostro), 224 scuole italiane, 2.400 insegnanti e circa 4.900 studenti delle scuole medie. Si tratta di uno studio, approfondito, quello di Iea Iccs, tra l’altro nuovo di zecca perché non era mai stato condotto prima, almeno non con una platea di riferimento così ampia, sull’educazione civica e la cittadinanza. Uno studio che fotografa per bene come gli studenti italiani siano più favorevoli (e parecchio) della media internazionale dei loro coetanei quando si parla di uguaglianza di genere. Oibò. Il punteggio mediano dei 22 Stati presi in considerazione, infatti, è di 52: l’Italia arriva a 56 (come la Francia e la Svezia), meglio di noi fa solo Taiwan (58). Tutti gli altri ottengono meno (ottiene meno la Spagna che si ferma a 55 assieme alla civilissima Norvegia; ottiene meno la Croazia che staziona attorno a 54 come Malta; ottiene meno, ossia 46, che è anche il dato più basso in assoluto, la Bulgaria).

Gli studenti italiani, poi, sono tra i pochi che rispetto all’ultima rilevazione del 2016 aumentano la loro performance di 0,3 punti. E attenzione: c’entra niente l’impegno delle manifestazioni di questi giorni, gli appelli in tivù e nei cortei, il tam tam (sacrosanto) sulle ultime vicende di cronaca che si è mangiato spazi nei talk e pagine su Facebook. I numeri, questi numeri, sono riferiti a sondaggi effettuati nel 2022. Insomma, i nostri ragazzi la pensavano così anche prima. Pensavano, cioè, che tra donne e uomini di differenze ci siano solo quelle biologiche, che ciò che conta, alla fine, non sono le parti anatomiche ma una persona, che femmina o maschio è uguale. Vivaiddio se hanno ragione. Vivaiddio se è questa la strada giusta. Tracciata, non a caso, dalle nuove generazioni: quelle col cellulare in mano e internet sempre connesso, e allora che male c’è? Hanno pure più a cuore di noi le sorte dei migranti, gli adolescenti. Pensano che «i figli degli immigrati dovrebbero avere le stesse opportunità di studio degli altri bambini» e che «gli immigrati dovrebbero avere gli stessi diritti delle altre persone» e che «dovrebbero avere l’opportunità di conservare i propri usi e costumi» nonché se «vivono da diversi anni in un Paese, l’opportunità di votare alle elezioni».

Abbiamo giovani che s’intendono di politica, e questa anche è una bella scoperta. Li immaginavamo solo con le cuffiette alle orecchie ad ascoltare la trap, e salta fuori che l’83% degli studenti italiani (contro il 75% di quelli mondiali, l’aumento è evidente) è d’accordo sul fatto che la democrazia sia «ancora la forma migliore di governo per il proprio» Stato. È già qualcosa, coi tempi che corrono. Dicono, i nostri adolescenti, che sono propensi a partecipare alle elezioni, un po’ meno rispetto al passato ma un po’ più dei loro coetanei all’estero. Non piacciono loro, tuttavia, i media tradizionali (che perdono il 15% della loro fiducia) e non piace loro nemmeno la compagine parlamentare, intesa in senso lato (che sforbicia di un significativo meno 13%). Sono preparatissimi in educazione civica, specialmente le ragazze e nonostante il Covid, uno su due (il 47%) discute di politica a casa con i propri genitori. E lo fa frequentemente. S’interessa, s’informa, ragiona. Il canale di informazione preferito resta quello televisivo (il 50% dei quattordicenni lo utilizza almeno una volta a settimana: anche se questa percentuale si taglia di sei punti rispetto al periodo pre-pandemico del 2016), seguito dal maremagnum del web (valido nel 29% dei casi) e molto più staccata è la lettura dei giornali, compresi quelli digitali e on-line (21%). Dobbiamo prenderne atto ed esserne anche un po’ orgogliosi: perché non facciamo che ripeterci che sono loro la società del futuro. Ed evidentemente sono una società più aperta di quel che viene dipinta. 

Gli “Hikikomori”.

Il ritiro sociale degli adolescenti italiani: in 54mila sono “Hikikomori”. Iris Paganessi su L'Indipendente il 3 Marzo 2023.

In Italia i ragazzi che si definiscono Hikikomori sono 54.000. A riferirlo è l’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Ifc) che ha condotto il primo studio nazionale volto a fornire una stima quantitativa dell’isolamento volontario nella popolazione adolescente.

Hikikomori” (traducibile come “ritirati sociali”) è un termine giapponese che indica la tendenza nei più giovani a non uscire di casa, smettendo di frequentare scuola e amici, per chiudersi nelle proprie stanze e limitare al minimo i rapporti con l’esterno, mantenendo i contatti prevalentemente attraverso Internet.

Stando a quanto emerso, il 2,1% dei ragazzi contattati attribuisce a sé stesso questa definizione. La ricerca ha coinvolto 12.000 giovani ma il dato, se proiettato sulla popolazione studentesca compresa tra i 15 e i 19 anni, arriva a coinvolgere circa 54.000 studenti.

Il dato ha suscitato una grande preoccupazione, tant’è che ora il fenomeno si trova al centro di un nuovo studio, promosso dal Gruppo Abele in collaborazione con l’Università della Strada, volto a definire una prima stima quantitativa attendibile.

La ricercatrice del Cnr-Ifc, Sabrina Molinaro, ha commentato così quanto emerso: «Questo dato appare confermato dalle risposte sui periodi di ritiro effettivo: il 18,7% degli intervistati afferma, infatti, di non essere uscito per un tempo significativo, escludendo i periodi di lockdown, e di questi l’8,2% non è uscito per un tempo da 1 a 6 mesi e oltre: in quest’area si collocano sia le situazioni più gravi (oltre 6 mesi di chiusura), sia quelle a maggiore rischio (da 3 a 6 mesi). Le proiezioni ci parlano di circa l’1,7% degli studenti totali (44mila ragazzi a livello nazionale) che si possono definire Hikikomori, mentre il 2,6% (67mila giovani) sarebbero a rischio grave di diventarlo».

L’età più sensibile e soggetta al fenomeno è quella dai 15 ai 17 anni, mentre le differenze di genere si rivelano nella percezione della condizione e nell’utilizzo del tempo: i maschi sono la maggioranza fra i ritirati effettivi e tendono a sostituire la vita sociale con il gaming; le femmine, invece, si attribuiscono più facilmente la definizione di Hikikomori e passano il proprio tempo a dormire o a leggere e guardare la tv.

La principale causa dell’isolamento dei più giovani si ritrova nel senso di inadeguatezza rispetto ai compagni: «L’aver subito episodi di bullismo, contrariamente a quanto si possa ritenere, non è fra le ragioni più frequenti della scelta. Mentre si evince una fatica diffusa nei rapporti coi coetanei, caratterizzati da frustrazione e auto-svalutazione» ha affermato Sonia Cerrai (Cnr-Ifc). «Un altro dato parzialmente sorprendente riguarda la reazione delle famiglie: più di un intervistato su 4, fra coloro che si definiscono ritirati, dichiara infatti che i genitori avrebbero accettato la cosa apparentemente senza porsi domande. Il dato è simile quando si parla degli insegnanti».

Il Gruppo Abele non intende fermarsi ai dati ed è per questo che – come riportato nella nota – ha ideato un seminario per operatori, educatori e insegnanti, che si terrà a Torino il 5 maggio prossimo. Oltre a questo nuovo progetto il gruppo prosegue anche quello iniziato nel 2020, denominato Nove ¾. Come spiega Milena Primavera, responsabile del percorso «Il progetto (vincitore di un premio dell’Accademia dei Lincei che ha finanziato anche lo studio in oggetto) si è fatto finora carico di una quarantina fra ragazzi e ragazze le cui famiglie non trovavano risposta alla chiusura e all’isolamento dei loro figli. Per loro si è attivato un affiancamento a domicilio, con la possibilità di frequentare un centro laboratoriale dedicato, dove si svolgono attività individuali o in piccolo gruppo con “maestri di mestiere” a partire dagli interessi espressi dai ragazzi. Ai genitori è offerto, in parallelo, un sostegno psicologico volto ad acquisire maggiori strumenti per gestire le difficoltà dei figli. Una prima sperimentazione, in rete con il sistema scolastico e i servizi socio-sanitari, per tentare di accompagnare i ragazzi isolati dal mondo a un diverso progetto di vita». [di Iris Paganessi]

I bamboccioni.

Vado a vivere da solo. Perché al Nord Europa i giovani escono prima di casa. Enrico Varrecchione su L'Inkiesta il 23 Settembre 2023

Guardando i dati, cominciano a lavorare a un’età in media più bassa dei loro coetanei (italiani ma non solo). Oltre ai fattori culturali, incidono anche la disponibilità di alloggi a prezzi non proibitivi e soprattutto l’assistenza durante gli anni dello studio

La scena in cui Jerry Calà si siede su un water fiammeggiante è quasi certamente la più celebre del film di Marco Risi “Vado a vivere da solo”. Il film uscì nel dicembre del 1982: Italia campione del mondo in carica, al governo c’è il Pentapartito e ci rimarrà per un decennio, ci si prepara all’epoca della Milano da bere. Secondo una stima Istat, all’epoca gli uomini italiani, in media, lasciavano l’abitazione dei genitori poco dopo i ventotto anni, le donne poco dopo i ventisei.

Passano quarant’anni, la nazionale non si qualifica ai mondiali per due volte di fila, i governi si colorano e si alternano come contrade del Palio di Siena e le insegne luminose attorno a Piazza del Duomo sono state smontate già da un quarto di secolo. Gli italiani lasciano l’abitazione dei genitori sempre più tardi: nel 2022 la media era 30,9 per gli uomini e ventinove per le donne.

I dati e il ruolo del lavoro

La statistica fotografa un’Europa dove la differenza fra i numeri italiani e quelli della Svezia (il Paese con l’età media più bassa) è di quasi dieci anni. Gli altri paesi sul podio Ue sono la Finlandia (21,2) e la Danimarca (21,3). La Norvegia non aggiorna le statistiche dal 2009, quando i giovani norvegesi, in media, lasciavano la casa dei genitori a 19,3 anni.

Un’analoga indagine del 2019 mostra variazioni in senso opposto fra i primi tre Stati: la Svezia, nel periodo in questione, ha visto l’età media aumentare di 1,2 anni (quattro anni fa era addirittura inferiore alla maggiore età), in Danimarca è rimasta identica, mentre in Finlandia è calata da 21,8 a 21,2.

Se nella trama del film Jerry Calà chiede di andare via di casa, può permettersi di farlo solamente attraverso il contributo dei genitori ed è ragionevole immaginare che il discorso non sia cambiato più di tanto. Funziona così anche nel Nord Europa? I freddi numeri direbbero di no. D’altronde, è sufficiente fare una passeggiata in una capitale nordica d’estate per comprendere come l’età media, fra chi lavora a contatto con il pubblico, sia decisamente bassa.

L’equivalente norvegese dell’Istat dice che il sessantasette per cento dei norvegesi fra i quindici e i ventiquattro anni ha svolto un lavoro estivo durante il 2021. Fra i quindici e i diciannove anni la percentuale era del cinquantadue per cento. Valori molto simili anche fra gli svedesi nella fascia d’età che va dai sedici ai diciotto anni (dato del 2017), mentre la Confindustria danese stima al quaranta per cento la percentuale di giovani danesi con un lavoro estivo nel 2023 fra i tredici e i diciassette anni. Quattro studenti finlandesi su cinque lavorano durante le vacanze estive secondo un’indagine della tv di stato Yle del 2020.

La situazione, in Italia, è radicalmente opposta. L’Istat rilevava che nel 2021, indipendentemente dal periodo dell’anno, aveva lavorato solamente il 17,5 per cento dei giovani fra i quindici e i venticinque anni, in una statistica che include, quindi, anche chi ha interrotto gli studi per dedicarsi al lavoro. Nel 2004 la percentuale era del 27,3 per cento ed è scesa fino al 2014 quando si è toccato il minimo del 15,5 per cento. Da allora, i giovani con un lavoro di qualche sorta sono tornati a salire (con l’eccezione del 2020 causa Covid). Enormi le variazioni regionali: si va dal 27,9 per cento del Nord-Est al 13,2 per cento del Mezzogiorno.

Il secondo fattore: trovare casa

Dopo il lavoro, il secondo tassello che permette ai giovani di poter lasciare l’abitazione dei genitori è la disponibilità di un appartamento, e se è vero che per chi lavora a tempo pieno valgono le logiche del mercato al pari di ogni altro adulto, per chi studia la faccenda è più complicata.

Per le università nordiche, è comune mettere a disposizione propri appartamenti, oppure soluzioni abitative convenzionate con gli enti locali. Prendiamo in considerazione le prime tre università scandinave del QS University Ranking: l’Università di Copenhagen, con trentaseimila studenti e circa settemila nuove matricole ogni anno, si appoggia all’ente Studieboliger che dichiara di offrire l’accesso a oltre undicimila abitazioni nella capitale. Oltre a Studieboliger, esiste anche la Kkik che raccoglie una trentina di fondazioni sotto lo stesso tetto per circa seimilaseicento abitazioni.

Più piccola è la Aalto University di Espoo, cittadina confinante con Helsinki. I suoi dodicimila studenti si appoggiano alla Ayyy (l’associazione degli studenti dell’università) che gestisce abitazioni per circa un quarto degli iscritti all’ateneo, mentre l’ente abitativo Hoas dichiara diecimila appartamenti, che però sono destinati anche agli studenti di altre università della capitale.

Complicato il discorso per l’Istituto Reale di Tecnologia di Stoccolma (settantatreesimo posto, tredicimila iscritti). Si appoggia all’ente Sssb (Abitazioni Studentesche di Stoccolma), che al momento offre solo quarantotto abitazioni disponibili su 8.352 in tutta la città a fronte di migliaia di nuove matricole. Per un appartamento centrale (quarantanove metri quadri in centro, ottocento euro al mese), la persona in cima alla graduatoria è in attesa da millesettecento giorni, ma in media gli appartamenti richiedono un’attesa di circa un anno e si va dai trecento ai seicento euro mensili. Questo, però, rappresenta un caso limite legato alla profonda crisi abitativa che colpisce Stoccolma e le principali città svedesi.

Una caratteristica comune a queste tre università è la semplicità con cui si può fare richiesta per un’abitazione: la registrazione avviene online e gli strumenti sono piuttosto intuitivi. Fra i primi atenei italiani, solo il Politecnico di Milano ha a disposizione appartamenti propri (1.568 per quarantaseimila studenti) e un sistema di assegnazione online, mentre Bologna offre seicento borse di studio da mille euro l’anno per i fuorisede. Per il resto, l’ostacolo principale delle università italiane è il labirinto di bandi regionali e burocrazia attraverso i quali destreggiarsi.

Il terzo fattore: sostegno agli studi

L’ultima partita, forse quella fondamentale, è quella del sostegno agli studi. Le università del Nord Europa sono pubbliche e gratuite (per chi arriva dall’Ue), mentre quelle statali, in Italia, hanno rette variabili a seconda del reddito.

Attraverso siti dedicati, è possibile calcolare l’ammontare del sostegno offerto dallo Stato agli studenti.

Poniamo il caso di uno studente a tempo pieno, che desidera abitare in affitto, non lavora e non ha familiari a carico: in Danimarca riceverebbe 882 euro lordi al mese a fondo perduto; in Norvegia 4800 euro annui a fondo perduto e 7200 in prestito (senza interessi); in Svezia 306 euro a fondo perduto ogni quattro settimane e, qualora desiderasse il prestito, 700 euro con interessi allo 0,59 per cento; in Finlandia sono 270 euro al mese a fondo perduto e 650 di prestito.

In generale, i requisiti sono la cittadinanza o la residenza permanente, la partecipazione attiva agli studi e l’assenza di altre fonti di reddito. Anche qui, il sistema di richiesta è informatizzato, leggero e intuitivo.

A spiegare cosa favorisce la precocità degli svedesi nello spiccare presto il volo dal nido e quali problemi, invece, si possono presentare, ci pensa Viktorija Pesic, presidentessa delle Associazioni studentesche riunite di Stoccolma: «La Svezia ha una forte cultura individualista molto diversa dai Paesi del Sud Europa, io stessa provengo da una famiglia di origini balcaniche e ho notato la differenza. I numeri sono particolarmente bassi perché diversi giovani nelle aree rurali o nel nord, vanno via di casa addirittura per frequentare le scuole superiori, specie se l’indirizzo preferito non è disponibile nelle vicinanze».

Anche per questo, l’indipendenza inizia già durante gli anni della formazione: «Molti lavorano già durante gli anni delle superiori, ad esempio d’estate. Chi studia all’università cerca di pagarsi gli studi lavorando nei bar, oppure come baby-sitter». E le difficoltà maggiori? «La questione abitativa è molto pressante. Nelle grandi città, specie nella capitale, la popolazione studentesca è in gran parte composta da giovani nativi, questo perché perfino gli affitti di seconda mano sono carissimi. Secondo i nostri studi, molti giovani che non riescono a spostarsi dalla casa dei genitori, contribuiscono pagando l’affitto, mentre chi arriva da fuori spesso deve rinunciare perché non può trovare un’abitazione decente. E questo vale anche per gli studenti internazionali», chiude Pesic.

È facile comprendere anche l’entusiasmo di chi arriva dall’Italia. Stefano Natali, un neo papà trentaseienne ora residente a Stoccolma, è stato studente di robotica e per lungo tempo nel coordinamento per gli studenti Erasmus dell’Università di Örebro, nella Svezia centro-meridionale. Per lui, anche la qualità dell’educazione è stata una svolta dal punto di vista economico.

«Mi sono ritrovato a studiare lì dopo che l’Università di Roma 3 non mi aveva convalidato gli esami dati in Erasmus facendomi perdere quasi un anno intero. E così sono passato dal dover fare avanti e indietro in treno da casa a Roma e pagare a mie spese gli strumenti su cui lavorare, a un’università dotata di campus e laboratori gratuiti a disposizione». Hai avuto accesso al sostegno economico? «No, perché bisogna avere la cittadinanza, ma non pagavo la retta e la stanza al campus costava solo duemila corone al mese (circa duecento euro, ndr), alla fine mi conveniva economicamente».

E in una città più piccola rispetto alla capitale, la crisi abitativa non crea troppi grattacapo: «Gli studenti Erasmus che assistevo non avevano difficoltà dal punto di vista economico. Al massimo, se la borsa di studio era troppo ristretta, dovevano fare qualche sacrificio sulle uscite o sulla spesa settimanale, ma la grande differenza sta nel fatto che, a Örebro l’università ha direttamente in gestione una serie di appartamenti in accordo con l’ente cittadino e può distribuirli fra gli studenti, mentre a Stoccolma i prezzi sono molto gonfiati».

Estratto dell’articolo di Carlo Rimini per il “Corriere della Sera” il 23 Febbraio 2023.

Due sentenze depositate nei giorni scorsi consentono di dire che neppure i «bamboccioni» hanno più le sicurezze di una volta. Fino a qualche anno fa, i giudici italiani erano fra i più tolleranti al mondo nei confronti dei figli maggiorenni che chiedevano di essere mantenuti dai genitori. […]

 Il Tribunale di Foggia ha affrontato il caso di una ragazza ventenne che, dopo la separazione dei genitori, ha deciso di vivere con il padre, un operaio. Questi ha quindi chiesto al Tribunale di obbligare la madre, bracciante agricola, a versare un assegno di mantenimento per la figlia.  […]

Il Tribunale ha rigettato la domanda, osservando che i figli maggiorenni sono responsabili delle loro scelte. Terminati gli studi, obbligare i genitori a mantenere i figli significherebbe alimentare «forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani».

 La stessa impostazione è confermata anche dalla Cassazione, con l’ordinanza n. 3769 del 2022 secondo cui, per tutta la durata legale del corso di studi, il figlio ha diritto a mantenere il tenore di vita dei genitori. Completati quindi gli studi, rilevante è solo la «capacità lavorativa del figlio, desunta dal titolo di studio da lui eventualmente conseguito e dalla sua qualificazione professionale». Il figlio non ha più alcun diritto a vivere con il medesimo tenore che i genitori gli avevano garantito. […]

Presuntuosi. Estratto dell’articolo di Fulvia Caprara per “la Stampa” il 20 febbraio 2023.

[…] La sua generazione, quella dei millennial, deve vedersela con boomers invadenti, che non fanno passi indietro. Si sente in qualche modo penalizzata da queste presenze ingombranti?

«Viviamo in una gerontocrazia, questo è un dato di fatto. Tra noi giovani ci sono un sacco di talenti, abbiamo molta consapevolezza e partecipazione, un pensiero preciso su quello che vogliamo, dobbiamo sistemare un sacco di cose, salvare il pianeta, sotto tanti punti di vista, ma ce la faremo, perché siamo bravi». […]

Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per “la Stampa” il 20 febbraio 2023.

Se i giovani sono così bravi come sostengono, lo dimostrino. Giuseppe De Rita – sociologo, uno dei fondatori e poi presidente del Censis – risponde all'attrice Benedetta Porcaroli che in un'intervista pubblicata ieri su LaStampa analizzava il difficile rapporto tra giovani e anziani nella società italiana.

 Viviamo in una gerontocrazia, questo è un dato di fatto, sostiene l'attrice Benedetta Porcaroli.

«Il problema non è il rapporto fra vecchi e giovani ma chi c'è intorno. Mancano le seconde schiere. A 80 e 90 anni si può ancora girare, se si hanno intorno persone che girano. […]».

 Quindi non è una questione di età ma di organizzazione del potere?

«Al potere manca effettivamente una generazione. È saltata quella di chi ha tra i 50 e i 60 anni. Non hanno avuto la forza o l'opportunità di creare un'oligarchia di potere. Però il problema è un altro».

 Quale?

«L'Italia è un Paese policentrico, ha bisogno di un potere che faccia sintesi e crei posizioni intermedie. Se mancano le posizioni intermedie, il potere resta isolato, si svuota, e mette in difficoltà anche chi è bravo. […] per gestire il potere non basta l'emotività». […] «[…] La mia generazione non ha mai fatto valutazioni personali e non si è mai innamorata tanto di sé stessa da dire "faccio tutto io". Siamo stati in seconda linea, eravamo nascosti, e intanto ci siamo formati».

 Che devono fare i giovani per farsi strada nella gerontocrazia italiana?

«Se la generazione dei giovani fosse intelligente come la mia, invece di andare alla ricerca del potere alto e di fare politica con l'obiettivo di vincere le elezioni, dovrebbe avere la modestia di occuparsi della dimensione intermedia del potere, coltivando la cultura sindacale, l'amministrazione locale. In Italia, invece, domina il meccanismo perverso che verticalizza tutto e impedisce che si crei una classe dirigente».

Le parole di Benedetta Porcaroli non sono riferite solo alla politica e al potere, ma anche ad altri settori come lo spettacolo.

«Il discorso è valido ovunque ci sia la tendenza a dare rilievo al potere di vertice».

 Tra i giovani ci sono tanti talenti, sostiene ancora Benedetta Porcaroli. Devono sistemare molte cose – ad esempio salvare il pianeta – ma ce la faranno perché sono bravi.

«Lo dimostrino, allora. Non bisogna volere essere bravi, non è questo che conta. Conta la cultura del potere che purtroppo manca. L'esempio è Greta Thunberg. Dopo di lei che cosa è successo? Ci sarebbe stato bisogno di persone della sua generazione in grado di fare una politica dell'ambiente, ma non ci sono. È accaduto lo stesso con i virologi, professionisti seri, preparati, competenti, ma per gestire il potere è necessario avere il senso della complessità. […]».

Il Gergo.

Le parole della Gen Z, un vocabolario per intendersi senza sembrare ‘cringe’. Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2023.

Dalle paure ai desideri, dalla sensibilità per i diritti di tutti alla fluidità dell’amore, senza etichette. Il significato di dieci espressioni che gli adolescenti utilizzano oggi sui social per raccontarsi e fare gruppo

Ci sono delle parole che possono raccontare come la Gen Z vede noi adulti, come si informa, come vive le relazioni amorose intermediate dai social, in che cosa crede, come esprime gli stati d’animo, come affronta la realtà che gli abbiamo consegnato che probabilmente le fa abbastanza schifo (ed è difficile darle torto) e che cosa in fin dei conti le sta a cuore. Sono parole di uso frequente soprattutto sui social di cui spesso noi mamme e papà, ma anche insegnanti, politici e giornalisti, non conosciamo il significato: come possiamo poi pensare di relazionarci con loro? L’obiettivo del glossario che segue è non solo farci comprendere che cosa i ragazzi vogliono dire, ma anche aiutarci a capire attraverso dieci termini il modo di essere e di vivere della Generazione Z, gli adolescenti di oggi. La sfida dopotutto è doppia: capire il loro linguaggio per conoscerli e conoscerli per tentare di capire cosa gli frulla in testa quando come spesso accade ci fanno dannare.

CRINGE

La parola entra nel famoso vocabolario dell’Accademia della Crusca l’11 gennaio 2021. L’ambito di origine: Rete, social media. Se usato come sostantivo è «il fenomeno del suscitare imbarazzo e, in particolare, le scene, le immagini, i comportamenti che causano tale sensazione». È quello che noi boomers rischiamo di essere tutte le volte che vogliamo essere brillanti e sorprendenti per conquistare la simpatia dei giovanissimi. È fondamentale conoscere il significato del termine per non chiedere mai a un Gen Z che cosa vuol dire: il fatto stesso di chiederlo risulta tremendamente cringe .

SKIPPARE

Dall’inglese to skip , il significato letterale del verbo è “saltare”: gli adolescenti lo fanno in continuazione sui social per filtrare i contenuti. Non solo saltano a piedi pari ciò che non gli interessa, ma spesso capita che anche dei video che gli piacciono vedano solo il momento più gettonato dalla comunità social. Lo possono facilmente individuare grazie alla barra che indica il frame con più visualizzazioni. È il gesto con cui convivono e che è in grado di condizionare il loro modo di informarsi, pensare e alla fine essere. Ciò non vuole dire, però, che sia una generazione superficiale: anche solo pensarlo è cringe .

CATFISH

Letteralmente è il pesce-gatto. Lo fa una persona che crea una falsa identità sui social fingendosi un’altra persona. Nell’epoca in cui il primo contatto tra due adolescenti avviene di frequente su Instagram, il termine è utilizzato anche per schernire chi dal vivo è diverso da come appare sui social: «È uno/a che fa catfish!». Così all’hype dell’incontro può seguire la fregatura, rischio frequente visto l’uso smodato dei filtri con cui vengono scattate le foto o girati i video da pubblicare. Conoscersi di persona e piacersi è l’ardua impresa di far nascere un amore fuori da uno schermo di TikTok. Se succede c’è una crush , che sta ad indicare che si sono presi una sbandata per qualcuno/a.

GHOSTARE

Ghostare è l’unione di ghost (fantasma), con il suffisso -are: sta ad indicare quando qualcuno in una storia d’amore sparisce. Ciò che al netto del catfish può iniziare virtualmente, virtualmente può finire: la Gen Z non ha il problema di bloccare il numero di cellulare perché difficilmente lo usa per sentirsi, basta non rispondere più ai messaggi, non mettere più like ai video, oppure interrompere la streak su Snapchat, ossia fare spegnere il simbolo del fuocherello che appare vicino al nome della persona se per tre giorni consecutivi si scambia un messaggio, ma che scompare se per 24 ore non si comunica. Il Milanese imbruttito la definisce una bastardata.

FLUIDO

È l’aggettivo che accompagna la parola amore. Dai discorsi degli adolescenti la possibilità di essere banalmente etero o omosessuali sembra un’eresia. L’hanno sostituita con la fluidità al motto: «Noi non ci innamoriamo di un maschio o di una femmina, ma della persona!». Ne è la prova Alessia Lanza, l’influencer 23enne seguitissima dalla Gen Z, che in una recente intervista su Instagram a 7 dice: « Coming out ? Sono una che preferisce non etichettarsi. Sono sempre Alessia Lanza comunque». È anche il segnale dell’attaccamento alla battaglia Lgbtq+. Sulle spalle indossano le borse di stoffa arcobaleno a raccontarci di una generazione che vede il sesso in modo fluido, detesta le etichette e, già in prima linea per la difesa dell’ambiente, non sopporta le discriminazioni.

N-WORD

È il termine impronunciabile: per evitare di dire «nero», i Gen Z l’hanno trasformato in un acronimo. L’attenzione è rivolta alla causa del Black Live Matter, «le vite nere contano». Altro segnale dell’attenzione ai diritti civili. Una sensibilità da non sottovalutare mai quando da genitori parliamo con un adolescente. La sfuriata altrimenti è assicurata insieme alle porte che si chiudono.

POV

È la scritta che appare sopra i video di TikTok che sta per Point of View , ovvero “punto di vista”. Gli adolescenti si immedesimano nei panni di una persona e raccontano quel che pensa e prova. Di recente la linguista Vera Gheno mi ha spiegato: «Il Pov richiama il mondo dei videogiochi in cui tu sei in 3D e guardi attraverso il personaggio. È una forma intermediata per parlare di sé, ma senza usare la prima persona. Una sorta di proiezione del mio punto di vista facendolo passare per quello di una persona X». È il modo scelto dagli adolescenti per esprimersi senza ricondurre tutto all’Io.

DISTOPICO

È l’aggettivo che accompagna di solito i romanzi che leggono gli adolescenti. La Mondadori, casa editrice di numerosi bestseller distopici, spiega sul suo sito: «Se l’utopia vuol descrivere un mondo perfetto e ideale, la distopia ne mette in scena uno indesiderabile e spaventoso». Le vicende sono ambientate in una società del futuro prossimo che è la peggiore possibile: schiavitù, povertà, discriminazioni. Non ci sono come nei fantasy invasioni aliene o creature sovrannaturali: la colpa della devastazione è dell’uomo, artefice del proprio destino. Ma anche il peggiore dei mondi possibili può essere cambiato. Così la passione dei Gen Z per i distopici può svelarci la loro voglia di rivoluzione e di cambiamento. All’insegna, ancora una volta, degli ideali. 

MULTIVERSO

Nella versione social è un mondo/universo parallelo che co-esiste concettualmente con quello in cui i Gen Z vivono e dove le cose possono andare meglio: «Se il Multiverso esiste spero che l’altra me non abbia bisogno di trattenere le lacrime ogni volta che qualche adulto mi risponde male». Una delle cose più cringe che un adulto possa fare in questo momento, dopo la vittoria di 7 Oscar di Everything everywhere all at once , è confonderlo con Metaverso che è invece un mondo virtuale in 3D frequentato con avatar.

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WATTPAD

È un’app a cui ci si può anche abbonare, ma che di base non costa nulla, dove chiunque può scrivere e leggere in tutte le lingue. Qui gli adolescenti diventano scrittori e lettori, uniti soprattutto dalla passione per Harry Potter, Percy Jackson, Hunger Games, Divergent, ecc.: l’opera originale viene presa come spunto per raccontare e leggere da fan nuove avventure. Nascono così le fanfiction dove i protagonisti vengono shippati, ossia i loro nomi vengono uniti un po’ come avviene per i Ferragnez: Hinny per dire è la fusione di Harry Potter e Ginny Weasley. Quel che conta è il senso di appartenenza, la community. A riprova che il virtuale è reale.

Incompresi.

«Gli adulti non si mettono mai in discussione. E non ascoltano»: cosa pensano gli adolescenti dei genitori. La prima indagine basata sull’ascolto diretto dei ragazzi mostra due mondi che non riescono a comunicare. I risultati in anteprima su L’Espresso. Chiara Sgreccia su L'Espresso l'8 giugno 2023.

«Più di un terzo dei genitori dichiara di aver notato la tendenza dei figli a evitare con scuse la scuola, le uscite o altre occasioni di socialità. Con un forte incremento dell’ansia e della depressione». Così si capisce dai risultati della doppia indagine condotta dall’impresa sociale Con i Bambini insieme a l'Istituto nazionale di ricerche Demopolis, che incrocia il punto di vista degli adulti con quello degli adolescenti tra i 14 e i 17 anni.

Ci provano. Ma i genitori, gli insegnanti, gli educatori non capiscono i ragazzi. E guardano con ansia al loro futuro: quasi 7 su 10 dicono di avere paura per il domani lavorativo dei giovani. Il 56 per cento teme violenza e bullismo, il 48 per cento l’uso di droghe, alcool e la crescita dei disagi psicologici. Il 65 per cento è pessimista in generale quando pensa all’avvenire degli adolescenti. Anche per questa ragione, il mondo adulto si dichiara prevalentemente inadeguato per far fronte al disagio dei ragazzi che cresce. Quasi un intervistato su due sottolinea che sarebbe necessario aumentare le opportunità di socializzazione, amplificare la possibilità dei più piccoli di accedere a attività sportive, ludiche e culturali, anche per tutelare il benessere psicologico. 

Dall’altra parte gli adolescenti si dicono, invece, ottimisti quando pensano alle sfide che dovranno affrontare. Sostengono di guardare al futuro con positività: famiglia e amici sono segnalate come priorità della vita, l’impegno politico è all’ultimo posto. Sono soddisfatti delle relazioni con gli amici, del modo in cui trascorrono il tempo libero e quello in famiglia. Meno della situazione economica, della vita sentimentale e di quella scolastica. 

Anche secondo i ragazzi, però, gli adulti non sono in grado di comprendere quello che vivono: «Non si mettono mai in discussione», «sono distratti» e «fanno continui paragoni con il passato» senza capire «che viviamo in un periodo storico diverso da quello in cui sono cresciuti loro». Anche a causa della rete e dei social: «non riescono a capire il rapporto che abbiamo con internet». Come chiariscono gli intervistati, ad essersi trasformata, soprattutto dopo il Covid-19, è la scuola. È aumentato l’utilizzo di dispositivi tecnologici ma soprattutto sono cresciute la difficoltà nel socializzare (35%), lo stress dei docenti (34%) e la timidezza di alcuni compagni (33%). 

«Dopo la pandemia, un’esperienza non vissuta, a loro tempo, da genitori né nonni, abbiamo voluto ascoltare direttamente gli adolescenti», spiega Marco Rossi-Doria presidente di Con i Bambini a proposito di “Come stai?”, la prima ricerca sugli adolescenti italiani basata sull’ascolto diretto. «Per capire come stanno dopo questo lungo periodo di difficoltà, per conoscere il loro punto di vista su sé stessi e il rapporto con il mondo adulto. Da questa doppia indagine emerge uno spaccato diverso e parallelo, con i giovani più ottimisti e molto attenti alla dimensione relazionale della loro vita e gli adulti molto più distratti, per loro stessa ammissione, ma consapevoli che occorre prestare ascolto alle giovani generazioni».

Come conclude Doria, la risposta alla sensazione di malessere delle nuove generazioni va costruita con cura da tutta la comunità educante. Sostenendo un nuovo protagonismo dei ragazzi. Per questo il bando pubblicato sul sito di Con i Bambini dedicato al benessere psicologico e sociale degli adolescenti, mette a disposizione 30 milioni di euro nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, con l’obiettivo di promuovere il benessere psicologico e sociale di ragazzi e ragazze di età compresa tra gli 11 e i 18 anni, a fronte della diffusione sempre più accentuata di situazioni di disagio psicologico soprattutto in contesti di marginalità sociale. «La sfida consiste nella sperimentazione di modelli di intervento comunitari, integrati e sistemici per la prevenzione e la cura della salute psicologica di ragazze e ragazzi».

La Rosa e i suoi fratelli. Luis Sal, Damiano e l’assurdità di trattare i ventenni come se fossero adulti. Guia Soncini su L'Inkiesta il 10 Giugno 2023

In una società in cui i vegliardi si comportano come adolescenti esibizionisti pretendiamo che i giovani abbiano quella continenza che perfino sant’Agostino è dovuto arrivare alla mezz’età per invocare

Marina La Rosa aveva ventitré anni, all’altezza del primo Grande Fratello. Forse è cominciata lì. Forse è lì che il meccanismo si è inceppato. C’erano sempre stati ventenni famosi, ma erano famosi per quel che facevano sul palcoscenico o nei dintorni. John Lennon aveva ventitré anni quando diceva che erano più famosi di Gesù Cristo, ma se limonava in discoteca nessuno lo veniva a sapere, e non ci sono dichiarazioni quotidiane con uno stillicidio di opposte versioni dei fatti quando si sciolgono i Beatles, che pure sono i Beatles.

Ieri, quando la fu ragazza di coso dei Maneskin ha chiesto il solito rispetto per il solito momento difficile e i soliti sentimenti privati espressi al solito in pubblico, e la sua richiesta era formulata con parole che ricordavano Marina La Rosa quando rivendicava il loro essere «persone vere con sentimenti veri», ho iniziato a chiedermi come sia successo che, nell’epoca in cui anche i sessantenni hanno vent’anni, ai ventenni non sia più concesso avere vent’anni.

Il tizio che faceva il podcast col marito della Ferragni, e che adesso ha smesso di farlo e per questo da trentasei ore guardiamo i video di loro che s’insolentiscono con molta più passione di quella con cui chiunque abbia mai ascoltato il loro podcast, quel tizio compie ventisei anni tra una settimana. Sì, lo so che a ventisei anni Orson Welles fece “Quarto potere”, ma noi no.

Noi ventisei anni ce li abbiamo avuti, e dovremmo ricordarci quanto fossero irrisori. Noi ventisei anni ce li abbiamo avuti, e sappiamo che a stento ti si è finito di formare il cervello. Noi ventisei anni ce li abbiamo avuti, e sappiamo che è folle che un ventiseienne possa votare e guidare la macchina e prendere decisioni, perché un ventiseienne, beh, ha ventisei minuscoli anni.

Certo, diranno i miei piccoli lettori, è importante che la corteccia prefrontale si sia finita di formare e ti permetta di governare gli impulsi, ma allora come la mettiamo con Italo Bocchino che di anni ne ha cinquantacinque e racconta i fatti suoi ai giornali come neanche i quindicenni? Come la mettiamo con tutti gli adulti anagrafici che poi non si comportano da tali?

È proprio questa l’assurdità. In una società che ha abolito l’età adulta, e non ride in faccia a noi vegliardi trasformati – dalla telecamera del telefono e dal resto – in adolescenti esibizionisti, in una società che non tratta nessuno come fosse un adulto, quelli che abbiamo deciso di trattare da adulti sono proprio i ventenni. Ventenni dai quali pretendiamo quella continenza che perfino sant’Agostino è dovuto arrivare alla mezz’età per invocare.

Ventenni per i quali ci indigniamo se limonano una in discoteca pochi giorni dopo aver mollato la fidanzata: capisco se ne indignino i ventenni di oggi, una generazione abbastanza imbecille da aver inventato il concetto di «ghosting» e da pensare che lasciarsi a vent’anni richieda chissà quale liturgia, ma noialtri come facciamo ad aver dimenticato gli ormoni dei vent’anni, le mutande lasciate nei divani degli sconosciuti dei vent’anni, l’intrinseca zoccolaggine dei vent’anni?

Ventenni che giudichiamo severamente se, sceme com’è giusto essere a vent’anni, scrivono che sono dispiaciute l’ex si sia fatto vedere a limonare prima del comunicato previsto per ieri. Ah!, trasecoliamo sentendoci pure intelligenti, aveva programmato il comunicato, fa tanto la spontanea e poi. Ma tu pensa, una che vive d’immagine aveva pianificato una questione d’immagine. Ma tu pensa, una con gli strumenti culturali dei ventisette anni è così sprovveduta da dire che aveva pianificato un comunicato al netto video del limoneto.

Marina La Rosa è stata la paziente zero di questo esperimento feroce. La disintermediazione. Iniziata prima della telecamera nel telefono, prima dei social, prima che andasse tutto in vacca. Prima di allora c’erano i giovani famosi, certo che c’erano, ma intorno avevano degli adulti e dei mass media strutturati. Mica Boncompagni lasciava che Ambra, uscita dallo studio televisivo, raccontasse le proprie corna a un giornale.

Abbiamo cominciato così, mettendo dei ventenni davanti alle telecamere accese senza l’intermediazione degli autori. Abbiamo proseguito inventando i social e i telefoni con la telecamera, abolendo quindi anche le intermediazioni ulteriori: degli agenti, degli uffici stampa, anche solo dei genitori (che hanno a loro volta esibizionismi e telefoni: ieri la suocera della Ferragni ha detto all’Instagram che sua madre aveva ragione; sua madre è quella che, nella prima stagione della serie I Ferragnez, pronosticò il tradimento del socio di podcast; la signora che dà ragione alla nonna ha sessant’anni: alla Casa di Pony erano dialetticamente mature, in confronto).

Ed è finita come doveva finire: col rimbecillimento collettivo, e coi ventenni che ormai sono i nostri figli essendoci noi fatti anziani; e, non volendo nessuno ammettere d’aver generato degli imbecilli, è finita che invece di dire ma sì, sono scemi, è fisiologico, cresceranno, invece di ragionare da adulti, prendiamo sul serio qualunque puttanata, ci facciamo sopra titoli seriosi all’inseguimento d’un pubblico sempre più analfabeta, ci mettiamo sul loro piano come fossimo coetanei.

Cesare Cremonini ha diciannove anni quando esce “50 Special”. Probabilmente non è più stato e non sarà più famoso così, con l’impatto e la portata che aveva la sua celebrità in quegli anni (probabilmente nessun diciannovenne di oggi può diventare così ecumenicamente famoso come accadeva prima della frammentazione).

Eppure io non credo d’aver visto più di due interviste televisive di quelle in cui si dicono puttanate a ruota libera, del giovane Cremonini. Lo teneva al riparo un manager? I genitori? C’erano meno giornali e tv, e meno disperati, e non ci attaccavamo alla popolarità di quelli che piacevano ai ragazzini?

Oggi, d’un diciannovenne che canta il successo dell’anno, vedrei come minimo: cinquecento video di Instagram o di TikTok in cui il diciannovenne razionale come un diciannovenne racconta cose di cui poi si pentirà; trecento interviste a Cavalli e segugi assortiti che le pagine devono pur riempirle e se il cantante del momento racconta che si è mollato con la fidanzata o che spera di restare orfano o che gli fanno schifo gli spaghetti al dente saranno per un giorno la testata del momento; venticinque autoscatti instagrammati da venticinque tizie per i cui letti è passato il diciannovenne. Quando pubblica l’autoscatto a letto con Salvini, Elisa Isoardi ha trentacinque anni. E noi pretendiamo adultità dai ventenni.

 Dialogare con la generazione Z, la futura classe dirigente. Andare oltre i giovani-vecchi di Ultima generazione e i boomer della sinistra: il futuro è talento e fiducia. La rubrica “L’umanista” di Alessandro Chelo, esperto di leadership e talento. In qualità di executive coach, ha formato centinaia di manager dei principali gruppi industriali e ha lavorato al fianco di alcuni fra i più affermati allenatori di calcio e pallavolo. Alessandro Chelo Il Riformista il 5 Giugno 2023 

Il nuovo tempo, l’epoca 4.0, si è presentato senza bussare e ha squadernato la vita di tutti noi. La nuova epoca porta con sé nuovi paradigmi in ogni campo, richiede nuove competenze e nuovi approcci. La digitalizzazione e la globalizzazione, assi della nuova era, offrono opportunità fino a ieri insperate, ma richiedono di superare alcune garanzie che hanno caratterizzato il tempo passato. Mentre le garanzie ci venivano regalate, le opportunità dobbiamo andarcele a prendere. Anche questo libera energia, intelligenza e intraprendenza. Da questo punto di vista, siamo tutti più precari, ma tutti più liberi di dare una direzione alla nostra emancipazione.

Per queste ragioni, con l’avvento dell’epoca 4.0, si è fatto strada in molti di noi un senso di incertezza e precarietà, quasi come se si vivesse in uno stato di crisi permanente. Molti non si sentono di giocare questa partita e adottano un atteggiamento complottista, come se il nuovo tempo fosse in realtà l’effetto di un’iniziativa ordita dai potenti della terra. Così prende vita un atteggiamento populista, fondato sull’idea che il popolo sia di per sé buono e il potere sia di per sé malvagio. Tale atteggiamento attecchisce in modo trasversale rispetto al vecchio schema destra/sinistra e questo spiega l’insorgere del fenomeno del cosiddetto rossobrunismo. L’avversione nei confronti della globalizzazione rappresenta il collante di questo nuovo fronte.

Gli innovatori del nostro tempo sono dunque chiamati a contrapporre alla visione complottista e oscurantista dei populisti di ogni colore, una visione fiduciosa, aperta al nuovo, fondata su una concezione ottimistica della natura umana, volta alla promozione delle capacità degli individui. Per vivere questo nuovo tempo, ognuno deve accedere al proprio talento, rinunciarvi rappresenta un torto verso se stessi e verso il mondo. Non serve più sistemarsi, bisogna mettersi in gioco. Oggi il lavoro non si perde e non si trova, semplicemente si cambia ed è proprio dalla molteplicità e mutevolezza delle esperienze professionali che deriva una più consistente e potente possibilità di apprendimento continuo. Imparare e crescere vale più di ogni vecchia garanzia.

I ragazzi della generazione z, quelli nati nel primo decennio degli anni 2000, lo sanno bene. Loro saranno i veri artefici del consolidamento della nuova epoca. Bisogna guardare a questi giovani del nuovo millennio con sorridente fiducia, senza quella polverosa spocchia che adottano alcuni boomer nel giudicare le nuove forme di comunicazione e rivendicare il loro bel tempo andato. Anche i richiami all’impegno sociale, al recupero di quei valori che sembrerebbero perduti, appare, bisogna dirlo, patetico. L’impegno sociale della generazione z è meno esibito, meno presuntuoso, meno ideologico, meno pretestuoso rispetto al passato, in compenso è ispirato da un atteggiamento profondamente laico, non appartenente. Non a caso chi invece adotta schemi e linguaggi vecchi, gli stessi dei rivoluzionari novecenteschi, alludo ad esempio agli ambientalisti di Ultima Generazione, ci appaiono come giovani che rivendicano un tempo nuovo, ma ricalcano in effetti le modalità che furono dei loro nonni e non a caso proprio questi giovani-vecchi contestatori sono guardati con spirito parternalisticamente benevolo da molti vecchi boomer di sinistra. I giovani che sanno vivere il loro tempo hanno invece fiducia nella scienza, nella tecnologia e nell’innovazione e non cercano rifugio nel complottismo che indica nemici, perché non presumono un’illusoria comprensione più veritiera.

Gli innovatori del nuovo tempo sono chiamati a mettere la loro esperienza a disposizione della generazione z, ma, se lo vogliamo fare con spirito davvero propositivo, dobbiamo porci con l’umiltà di chi non ha totem da difendere, di chi, all’ingresso in campo, portando il secchio verso la panchina, sussurra un’ispirante parola al giovane campione che cammina al suo fianco. Ci sentiremo forse rispondere “bella zio” e potremo essere lieti di aver assolto al nostro compito: spolverare la linea di partenza. Quando tra dieci o vent’anni, questi ragazzi saranno classe dirigente, allora la transizione al nuovo tempo sarà davvero compiuta. Sarà un tempo migliore, sarà un mondo migliore.

Alessandro Chelo. Esperto di leadership e talento, ha pubblicato diversi saggi con Sperling & Kupfer, Guerini e Feltrinelli, alcuni dei quali tradotti in più lingue fra cui il coreano e il giapponese. In qualità di executive coach, ha formato centinaia di manager dei principali gruppi industriali italiani e ha lavorato al fianco di alcuni fra i più affermati allenatori di calcio e pallavolo.

Il Male di vivere.

Quando il corpo accusa il colpo. Che cos’è il Cutting, il comportamento di autolesionismo che può diffondersi tra i giovani come un’epidemia. Emanuele Caroppo su Il Riformista il 16 Luglio 2023 

Oltre ai chili di troppo, all’incremento dei casi di ansia, depressione, diabete e ad altri effetti collaterali, la pandemia (o meglio, sindemia) da Sars-Cov2 ha anche lasciato – e questo prevalentemente tra ragazze adolescenti – un incremento di quei comportamenti caratterizzati dal tagliarsi la pelle, soprattutto braccia e gambe, con oggetti taglienti di varia natura. È il «Cutting», comportamento di autolesionismo «superficiale/moderato» (secondo la classificazione del DSM-5) episodico o abituale che, anche grazie ai social, può arrivare ad attivare fenomeni di emulazione diffondendosi come un’epidemia tra i più giovani.

Ogni essere umano è capace sin dalla nascita di usare il proprio corpo per comunicare: come un neonato riesce a esprimere i propri bisogni senza proferire parola, così molti adolescenti di oggi non usano le parole e continuano a usare le modificazioni della superficie della propria pelle (punto di contatto tra il me e il mondo) come un mezzo per reclamare il controllo del proprio corpo e per «segnalare» senza equivoci disagi potenziali e sofferenze interiori.

Ogni taglio degli adolescenti è uguale solo a se stesso e per cercare di comprenderlo bisogna decodificare la complessità rintracciandone i significati diversi che potrebbe assumere tanto in relazione all’individuo quanto al suo gruppo, cultura e ambiente di appartenenza e provenienza.

Quando mancano le parole viene meno la possibilità di verbalizzare le emozioni e di immagazzinarle nella memoria. Viene quindi meno la possibilità di essere narrazione. E allora la pelle diventa un diario su cui incidere le emozioni per costruire una memoria di sé e ritrovarle in futuro.

Certo è che maggiori sono le aree e il numero dei tagli, maggiore sarà la sofferenza sottostante: quel corpo che doveva garantire sicurezza diviene invece una pellicola avvolgente che conserva dolore e sofferenza al punto che può essere odiato, negato e attaccato (anche con azioni gravi) come fosse altro da sé. Tra le varie le funzioni che il Cutting può svolgere per gli adolescenti c’è anche quella che considera il tagliarsi come un modo per sottrarsi alla fisiologica passività adolescenziale, divenendo attivi grazie ad azioni volontarie e controllabili. In adolescenza, infatti, è il corpo a imporre le trasformazioni che il giovane subisce senza poterle controllare.

Ma, a ben considerare, in ogni fase e ad ogni età della vita il nostro corpo è soggetto a fisiologiche trasformazioni che ci rendono passivi rispetto al passare del tempo. Sebbene ci siano diverse abilità, anni di studio e di pratica clinica a distinguere le mani di un chirurgo plastico da quelle di un adolescente che impugna una lama affilata, va considerato se il fine non sia forse simile: un bisturi per opporsi alla passiva trasformazione dei corpi viventi nel tempo? Il Cutting degli adolescenti potrebbe essere la più giovane spia di una ben più diffusa e adulta incapacità contemporanea di tollerare la frustrazione della passività e il lutto per il corpo perduto al passare delle diverse fasi di vita? Noi non siamo il corpo che abbiamo, noi siamo il corpo che siamo. Emanuele Caroppo

Il male di vivere. Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023.

Da una parte noi che chiediamo il massimo - massimo profitto sul rettilineo che ai nostri occhi dovrebbe fondere studio/lavoro e nel frattempo massima felicità. Dall’altra loro che non riescono a rispondere alle nostre preoccupazioni, alla nostra dedizione. Abbiamo provato a indagare in sei puntate attorno al gorgo di senso e sogni che sta consumando le energie di chi dovrebbe invece spingere la società: i giovani. Con l’aiuto di Scrittori, psicologi e medici, abbiamo provato a fermare lo sguardo su quell’antico e nuovo “male di vivere” che stringe ora due generazioni, una che si dibatte già alle medie minacciando di chiudersi in casa e l’altra che allunga braccia sfinite verso la soglia dei 40 anni senza riuscire ad abbandonarla, quella casa. Abbiamo attraversato insieme - in un’esplorazione aperta, al largo di tesi da rivendicare - quattro campi d’azione possibile. La psicoterapia, la scuola e l’università, i social media, la famiglia

Il male di vivere. La prima puntata - Adolescenti, non sanno chi sono, non “appartengono” a nessuno. Ma la via per esserci, e crescere, c’è. Alessandro D’Avenia Il Corriere della Sera il 20 marzo 2023.

I ragazzi di oggi non sono né migliori né peggiori di quelli di ieri e quando gli adulti decino di esserci, in corpo e spirito, loro fioriscono. Perché, come ogni germoglio curato, hanno trovato terra in cui metter radici e nutrirsi di vita buona

Nel pomeriggio del Natale scorso sette ragazzi sono fuggiti dal carcere minorile Beccaria di Milano. Infilandosi in un passaggio dei lavori in corso nella struttura, hanno improvvisato la fuga sul momento. Un’evasione naïf, infatti in poche ore li hanno ritrovati tutti. Dove? A casa delle famiglie a festeggiare il Natale, al parco o sul divano con gli amici... non certo luoghi di latitanza preparati da una rete organizzata. È la scena icastica per raccontare i ragazzi di oggi, perché anche quelli che vivono “fuori” si sentono “dentro”: la realtà assomiglia a una prigione di narrazioni contraddittorie e disperanti, da cui, se hanno ancora un po’ di fame d’aria, tentano di fuggire in cerca di legami capaci di farli sentire “parte” della vita e di avere una “parte” nella vita.

Da anni si parla di emergenza educativa usando il sostantivo per giustificare infinite analisi che rimangono inefficaci sino a che non restituiamo alla parola “emergenza” il suo significato: ciò che affiora dall’indistinto dell’abitudine e degli schemi rassicuranti, ciò che diventa talmente evidente che non si può più ignorare, ciò contro cui si va a sbattere.

Causa ed effetto

L’emergenza educativa è l’unico luogo reale per poter oggi educare: non è paradossale che nell’epoca di maggior produzione nella storia umana di sussidi educativi si faccia così fatica a educare? Il punto è allora altrove: non guardiamo l’emergenza, che è la spinta di qualcuno che vuole nascere, perché la vita di prima non basta più. E che cosa emerge? Una fragilità di cui la pandemia è stata un acceleratore e non la causa, una fragilità dovuta a due povertà più antiche: relazioni buone e cultura della vita (che ispira destini e vocazioni, da non confondere con il dilagare delle retoriche della vita, ideologie che si illudono di far cultura, ma in realtà propongono/impongono solo comportamenti).

IL 52 % DEI GIOVANI FRA 14 E 19 ANNI DICHIARANO ELEVATA SODDISFAZIONE PER LA LORO VITA NEL 2021. E’ L’UNICA FASCIA DI ETA’ IN CALO RISPETTO AL 2020 (QUANDO ERA IL 55%)

Da queste povertà dipende la mancanza di speranza sul futuro e quindi la paralisi sul presente, resa possibile dalla dolcezza anestetizzante dell’eterno presente dei social, che ci fanno dimenticare di avere un corpo per vivere, amare, soffrire, crescere, offrendoci una vita “schermata”, disincarnata, e quindi insipida. Ma noi più simili a una pianta che alle macchine a cui vogliamo assomigliare, se non apparteniamo, se non abbiamo terra, se non siamo curati, se non affrontiamo le stagioni, non produciamo lo stelo, non riceviamo il nostro destino, venire alla luce, e non possiamo dar frutto.

Polvere di nulla

Nel mio dialetto quando non si conosce una persona, si chiede in giro: «A chi appartiene?». Il cappellano del carcere da cui sono fuggiti i ragazzi a Natale, don Claudio Burgio, che ha fondato una comunità (Kayros) per il loro recupero (quello che oggi spesso manca è la “comunità ristretta” che offre appartenenza e cultura della vita), ha raccontato che a differenza di quelli di qualche anno fa, gli attuali minorenni carcerati delinquono quasi per caso o per noia, non sanno chi sono, hanno bisogno di ansiolitici e antidepressivi, in balia della loro emotività, il sé non è neanche liquido, è un pulviscolo emotivo, polvere di nulla, altro che stelle. Molti si aggrappano al rap o lo producono loro stessi, un genere musicale che, con le sue sonorità convulse e provocatorie, mette in scena la ricerca tutta adolescenziale della propria forma. Il rap è la musica di un carcerato a cui non resta che odiare, se ne ha ancora la forza, la vita-prigione in cui è finito. Nella canzone significativamente intitolata, come un foto generazionale, Tutti hanno paura , il rapper Ernia canta infatti: «Verrà la notte su di me/ E nell’ombra io cercherò la via/ Stringimi e poi resta con me/ Oramai, oramai/ Tutti hanno paura, sai/ Di quello che sarà/ Certezze io non ho/ Non so più difendermi/ Troverò una via/ Per uscire da me/ Senza più difendermi».

8,9% DELLE 14-17ENNI E’ POCO O PER NULLA SODDISFATTA DELLE RELAZIONI FAMIGLIARI, A FRONTE DEL 5,1% DEI MASCHI DELLA STESSA ETA’. NELLE RELAZIONI DI AMICIZIA L’INSODDISFAZIONE RAGGIUNGE IL 16,1% FRA LE RAGAZZE, TRE PUNTI IN PIU’ DEI COETANEI

Una preghiera di essere salvati, appartenendo a qualcuno, dalla propria selva oscura, dove conduce la paura di non esistere o di non voler più esistere dentro se stessi in giornate in cui il dolore, un misto di noia e ansia, dura quasi 24 ore. Si spera di poter evadere dal carcere (elevato) a vita e di non dover più “difendersi”, cioè non essere sempre corazzati contro tutto e tutti pur di esistere, divorati ora dall’ansia indotta da standard irraggiungibili ora dalla noia dei soliti surrogati di esistenza (possesso, potere e piacere) offerti dal successo, scambiato per felicità. Invece di poter essere, avere una vita autentica e sempre nuova, si oscilla tra i due personaggi intuiti da Italo Calvino come nostri antenati: Agilulfo, il cavaliere tutto armatura ma senza corpo, e il suo scudiero Gurdulù, tutto corpo ma nessuna consapevolezza di sé.

Darsi un nome

L’emergenza educativa è innanzitutto povertà di appartenenza (qualità delle relazioni). Chi non appartiene a nessuno non può poi essere per nessuno, il vuoto dell’origine impedisce di essere originali, senza radici non può maturare il frutto che solo noi possiamo dare (le dipendenze sono una risposta all’inappartenenza: quando non si appartiene a qualcuno non resta che appartenere a qualcosa). Ma chi può rimanere in piedi se deve lottare con le vertigini date dal vuoto di una vita senza fondamento? Ulisse, di fronte ai mostri della vita, poteva salvarsi dicendosi Nessuno, perché sapeva chi era. Qui ci sono dei nessuno che devono lottare fino a sfinirsi per darsi un nome, un nome che non hanno ricevuto e cercano di procurarsi con energie che non bastano mai. O sei self made , l’uomo/donna che “si fa da solo” (l’ambiguità lessicale con l’uso di sostanze è tragicamente ironica) o sei hikikomori, chiuso in camera e impaurito dall’esistenza. Ernia lo riassume così: «Alcuni adolescenti giocano a far la paranza/ Al polo opposto altri non escono dalla stanza/ Il clima, il virus, la guerra fredda che si riscalda/ Stephen King in confronto ha scritto solo libri per l’infanzia/ Non vedo ‘sto futuro rose e fiori/ Salvate almeno i bimbi dai genitori”» Uno scenario horror in cui chi ti ha messo al mondo è colpevole di averlo fatto, e non resta che la violenza o la fuga. La canzone si chiude con una carneficina: «A breve sarò anch’io fuori dai venti/ I grandi mi tengon sotto, i piccoli crescon svelti/ Dovrei donare ai primi la fine che fa Saturno/ Ed ingoiare i secondi per rimandare il mio turno/ È forte perché forte è la vita, ed è spaventosa/ Ognuno se non le ha, lotta con le armi che trova/ Sono solo un middle child che non riposa/ Che non sa che scelte fare perché tutti hanno paura di qualcosa». Uccidere Saturno, gli adulti, e diventare Saturno, divorando i nuovi, pur di rimanere in scena: fare deserto, farsi da soli, farsi qualcuno, tanto la vita non è che un mostro che non dà tregua alla paura e alla rabbia.

Qualcosa che manca

Il quadro potrebbe sembrare cupo, ma ho cercato di narrare “l’emergenza in purezza”, cioè dove è più “emergente”: gli adolescenti in fuga dal carcere per cercare il Natale e la lingua della paura e della rabbia, il rap. Ciò che “emerge” è, come dice il titolo di un’altra canzone dello stesso disco di Ernia, Qualcosa che manca , e che cosa è? «Cerco qualcosa di grande, qualcosa che resti». Ecco il punto: abbiamo smesso di dare qualcosa di grande, una visione di mondo appassionante, una cultura della vita, e abbiamo smesso di dare qualcosa, anzi di essere qualcuno, che resta. Tutto si consuma, perché tutto deve essere consumabile. Eppure il disco del rapper si intitola Io non ho paura : come fa a non averne? La strategia di Ernia è un doping esistenziale che però non tutti possono permettersi: «Prove di coraggio tolgono all’amore i forse/ Più che il salto nel vuoto, è il prendere la rincorsa./ Io non ho paura, è un modo per farsi forza».

9,5% GLI STUDENTI CHE NEL 2021 HANNO CONCLUSO LA SCUOLA SUPERIORE CON COMPETENZE DI BASE INADEGUATE

Ma non basta, non basta mai. Ripetersi di non aver paura è retorica o illusione, come il tentativo del barone di Münchausen di salvarsi dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli. Dall’assenza di fondamento ci tira fuori solo un altro che ha i piedi “piantati” sulla terra, qualcuno a cui appartenere, qualcosa che resta. Solo così il sintomo è già cura, la domanda è già risposta, l’emergenza è approdo. E l’approdo è l’adulto a cui viene urlato: «Dimmi perché sono nato, dimmi come nascere ancora e aiutami a farlo». Insomma quello che serve è che le agenzie educative (famiglia e scuola innanzi tutto) facciano sentire “figli” questi “orfani” che hanno tutto per vivere tranne che il perché farlo, tanto da poter dire nell’età fatta a questo scopo: «Io sono nato per questo, questo è quello che sono venuto a portare al mondo, questo è ciò che solo io posso essere e fare». Il coraggio di esistere lo ha solo chi tiene aperte le due direzioni della vita: da e per. Solo se sono “da” qualcuno, posso essere “per” qualcuno. Direzioni sbarrate dal consumismo, dal nichilismo, dall’individualismo: quel combinato virale che chiamo il CONIND dell’anima.

Il male di vivere. La seconda puntata - Noi genitori come abbiamo educato i ventenni e trentenni? Gli adulti alla radice della crisi. Chiara Maffioletti Il Corriere della Sera il 24 marzo 2023.

Intervista alla psicoterapeuta Stefania Andreoli, autrice di un nuovo saggio sui giovani che diventano protagonisti delle proprie vite: «Da tre, quattro anni a questa parte li ho visti arrivare in massa nel mio studio. Tutti con le stesse istanze, le stesse domande»

Non è semplice provare a definire chi non è ancora riuscito a definirsi. O meglio, a compiersi. Perché per Stefania Andreoli, psicologa e psicoterapeuta con una fanbase da rockstar, una delle caratteristiche dei giovani adulti — per intenderci, la fascia d’età che va dai 20 ai 30 anni, principalmente, ma anche dai 30 ai 40 — è proprio quella di essere disperatamente in cerca di sé stessi, della loro essenza. Non riuscendo a trovarsi, si sentono spesso vuoti, privi di significato.

IL MALE DI VIVERE - «FATICANO AD ANDARE AVANTI DA SOLI PERCHÉ NON VORREBBERO ROTTAMARCI NELLE PERIFERIE DELLA SOCIETÀ»

Questo dato, unito alla convinzione che in realtà i giovani adulti siano quasi una forma più alta (e al contempo infinitamente più profonda) di chi un adulto lo è da parecchi anni, ha spinto Andreoli a dedicare a loro il suo nuovo libro - attesissimo (primo già nella classifica dei preorder) - Perfetti o felici - Diventare adulti in un’epoca di smarrimento.

Il suo interesse verso i giovani adulti ha radici lontane. Perché?

«Da tre, quattro anni a questa parte, nella mia stanza delle parole (così chiama il suo studio, ndr) sono iniziati ad arrivare in massa venti, trentenni. Avendo avuto il privilegio di ascoltarli, mi sono resa conto che nel loro sentirsi soli, nel loro non riconoscersi con gli altri singoli, avevano in realtà le caratteristiche del movimento. Ogni volta, ognuno di loro definiva i contorni dello stesso fenomeno. Non sapevano di avere la compattezza dell’esercito, quando invece tutti portavano le stesse istanze, le stesse domande». 

Quali?

«La portata della loro richiesta di aiuto è altissima, sofisticatissima, molto psicanalitica. Sono molto sofferenti, gravati di questo senso dell’esistere che intuiscono però essere fondamentale. Le loro sono domande più filosofiche che psicologiche, che interrogano il sé, il concetto di identità, lo scopo dell’esistenza. Domande che l’uomo si è sempre posto, ma attraverso la letteratura, la filosofia, consegnandole di fatto ai vecchi saggi...».

Ora i vecchi saggi sono diventati i giovani?

«Beh, hanno una capacità di analizzare che mi ha prima strabiliata e poi umiliata. Il mio contro transfert al loro cospetto era di una piccolezza, ho vissuto una vera riduzione delle mie dimensioni. Le loro riflessioni hanno una portata edificantissima che, secondo me, meritava di essere conosciuta. Io voglio fare da megafono, provare a propagare il loro punto di vista come fossi un mezzo».

AMBRA: «I MIEI NON SONO FELICI. CREDO CHE TROVINO LA QUESTIONE DELLA FELICITÀ UN TEMA PUERILE PERCHÉ IN FONDO NON È ALLA LORO PORTATA, NON LI SFIORA PERCHÉ NON LA SFIORANO. AL LORO POSTO MI CHIEDEREI SE DAVVERO È TUTTO QUI» 

Eppure, scrive nel libro, la comunicazione con questa generazione risulta difficile per i più grandi. L’effetto finale è una sorta di Babele in cui nessuno si sente capito.

«Anche per me, alle volte, la sensazione era capire i basilari — come quando si viaggia in un Paese straniero di cui conosci la lingua ma non la padroneggi — senza però avere la fluidità con cui avrei voluto rispondere alla magnificenza del loro messaggio. Eppure siamo noi, gli adulti, che ci ostiniamo a detenere il ruolo di chi dà le indicazioni e i suggerimenti per come vivere il futuro, senza renderci conto che siamo diventati meno titolati a farlo».

Perché, allora, non iniziano a farlo i giovani?

«Questo, volendo, è anche uno dei motivi per cui vengono irrisi. Uno dei fraintendimenti che inviterei ad aggirare è che non vogliano agire. Loro per primi hanno le spalle curve sotto il peso di tutte queste domande che sentono levarsi dentro di loro, ma è come se accettassero di doverlo un po’ subire, quasi occorresse loro per richiamare l’attenzione. Si fanno carico, con tutta questa serietà a volte anche eccessiva, di questioni che sono solo apparentemente minori ai nostri occhi e che, in questo modo, cercano di non farci ignorare. L’ambiente, l’attenzione a come si parla, gli asterischi... è come se dicessero: se noi diventiamo così pesanti forse vi rendete conto che c’è un motivo. Portano avanti delle battaglie e hanno tolleranza zero avendo capito che in questo periodo storico serve ripartire da un abc che non è stato dato loro in partenza».

«DOVREMMO RINUNCIARE A FRASI FATTE, PROVERBI, STEREOTIPI: TROVARE ALTRE PAROLE PER UN MONDO CHE È CAMBIATO» 

Scrive: non sanno chi sono ma sanno esattamente chi non vogliono essere.

«Non vogliono essere come gli adulti che vedono e ne sono certi. Sono cresciuti in un regime edonista, falsamente orientato al raggiungimento della felicità. Sono stati eccessivamente liberi di crescersi da soli, con famiglie che inseguivano il messaggio che sarebbe andato bene tutto quello che avrebbero deciso di diventare. Ma, posto che poi delle indicazioni implicite arrivano comunque, loro stanno dicendo che di fatto l’essere umano va educato e per educarci dobbiamo darci un codice. Sono scrupolosi ma al servizio di tutti. Stanno riprendendo le redini che noi abbiamo lasciato a briglia eccessivamente sciolta. Per questo, spesso, ci risultano così scomodi».

In altre parole, la sofferenza di questa generazione è una responsabilità di quella che li ha cresciuti?

«Capisco sia una prospettiva sfidante per un genitore, che richiama a una sorta di mea culpa. Però è così: per loro è così difficile afferrare l’esordio nel campionato degli adulti perché noi non siamo un buon modello».

Ma forse neanche i nostri genitori lo sono stati del tutto, no?

«Intanto si capiva bene chi fossero gli adulti. Capivi che erano diversi, avevano quello che tu potevi quindi desiderare, il potere: per questo speravi arrivasse anche il tuo momento di afferrarlo. Oggi gli adulti sono i primi ad essere sbrindellati, il potere che detengono è più di investitura che non di fatto. Insomma, il modello di adultità che proponiamo non è più così appetibile: ci vedono confusi, spaventati all’idea di mollare un po’ di quello che abbiamo».

VALERIO: «ADESSO CHE CI PENSO, IO FORSE NON DICO GRANCHÉ DI VERO A PROPOSITO DI ME RIGUARDO A NESSUN ARGOMENTO. NON SO COSA GLI ALTRI POTREBBERO PENSARE. MI SEMBRANO TUTTI COSÌ SICURI DI SÉ STESSI» 

Se avvertono tutto questo, che cosa impedisce loro di essere migliori, dunque?

«Fanno una vita a ostacoli. Iniziano a lavorare ma hanno ancora la mamma che vuole ricevere un messaggio tutte le sere quando tornano a casa o il papà che vieta alla figlia di usare la macchina per andare alla cena aziendale perché è buio. Non possiamo non renderci conto che la loro grande fragilità dipende da noi. Sono spesso figli di madri e padri eccessivamente ansiosi e perfino un po’ depressi. E quindi loro, i giovani, ci provano eccome a prendersi la loro vita, ma giocano su molti tavoli. A questo punto diventa comprensibile perché siano così sfiancati, affaticati da chi dovrebbe sostenerli. Dalla famiglia alla politica».

Le troppe attenzioni delle famiglie hanno finito per creare un corto circuito?

«L’attenzione eccessiva sul destino del figlio finisce per non garantirgliene uno. Lo stesso è successo con la politica, che apparentemente li mette al centro, ma di fatto è solo un modo per non toglierla da sé. Pensiamo di conoscere molto bene chi sono i giovani, di saperli raccontare, perché sono i nostri figli, “ti ho visto nascere”. Invece dovremmo solo accettare che sono degni di fiducia. Andrebbe lasciato loro campo aperto, perché i più competenti in materia di contemporaneità sono loro: non la devono imparare perché l’hanno conosciuta da quando sono venuti al mondo. La maneggiano senza tracotanza».

Eppure, anche il rapporto dei giovani con il lavoro non è semplice.

«Avrei potuto scrivere tutto il libro su questo aspetto viste quante sono le storie che mi hanno raccontato. Parlando di lavoro si vede il divario insanabile di fronte al quale constatiamo la grossa differenza tra noi e loro. Dobbiamo rinunciare a usare le frasi fatte, i proverbi, gli stereotipi che sono valsi per noi: andrebbe proprio celebrato il loro funerale, solo che non lo facciamo per paura di dover reimparare da capo un mondo che non è più quello che abbiamo conosciuto noi, per cui ci aggrappiamo alle cose dette tanto per dire pur di non smettere di avere qualcosa da dire. La realtà è che non è vero che i giovani non abbiano voglia di lavorare, anzi. Loro hanno voglia di tornare ad abbellire, migliorare le cose».

«NOI ADULTI DOVREMMO SCANSARCI E SODDISFARCI DA SOLI, SMETTENDO DI CHIEDERE CHE LO FACCIANO LORO... SMETTIAMOLA DI FAR FINTA CHE STIAMO BENE E RIPARTIAMO DALL’AUTENTICITÀ»

Sostiene che spesso godano di una pessima pubblicità: abbiamo paura del loro potenziale e quindi li raccontiamo male.

«Basta uno sguardo che abbia voglia di uscire dal proprio imbuto per rendersi conto dalla qualità di queste persone. Si parla del loro uso eccessivo dei social, ad esempio. Eppure chi ne fa un cattivo uso non sono loro, ma gli adulti, le persone più grandi. Andare a cena con un Millenial ti permette di avere a disposizione un compendio fatto di podcast da ascoltare, libri giusti, serie da non perdersi, musica da sentire: sanno muoversi nel mondo con una destrezza che i più grandi non hanno. Nonostante questo continuiamo a costruire attorno a loro un tetris da cui è difficile uscire. Ci continuiamo a frapporre tra loro e il domani che non vedono l’ora di vivere».

Altri stereotipi falsi?

«Che siano rinunciatari: in realtà soffrono moltissimo, per questo finiscono per sentirsi incapaci e avvertono come verosimile il racconto che li vuole così. Finché noi saremo eccessivamente leggeri su questi aspetti, sarà sempre necessaria la loro pesantezza».

Qual è, quindi, la soluzione?

«Bisogna vivere: non stiamo più vivendo. Gli adulti sono in difficoltà e fingiamo non sia così. La nostra responsabilità è di essere inautentici. Su questo, i giovani si arrovellano e non si riconoscono. Si nevroticizzano nel tentativo di farci calare la pesantissima maschera di Agamennone che ci siamo messi: smettiamola di far finta che stiamo bene e ripartiamo dall’autenticità. Sulla carta sembra facile, non lo è. Si potrebbe partire dal racconto falso e dai titoli fuorvianti che proponiamo di loro. Stiamo continuando a descriverli come una cattiva notizia quando invece questi ragazzi sono portatori di una notizia strabiliante. Facciamo fatica a dare loro retta perché ci svelano che il re è nudo».

Nel suo saggio parla anche del timore del giudizio che accomuna i giovani adulti e l’insicurezza che ne deriva.

«Loro scavano, si mettono nella posizione di cercare, motivo per cui hanno invaso le stanze degli psicoterapeuti. Fanno domande sul senso, come se quello che vedono non fosse abbastanza per nutrire i loro interrogativi, complice anche il fatto che hanno saltato l’adolescenza. Sono il risultato di quello che hanno vissuto e di cui, evidentemente, siamo noi i responsabili. Ora stanno dimostrando come sono fatti e se sono ancora chiusi in casa, è perché stanno cercando di completare la stesura della loro carta d’identità. Non sanno di poter costruire davvero un fronte compatto per muoversi tutti assieme contro i modelli di efficienza che gli sono stati proposti, che se pure esistessero, sono patologici. Se non li raggiungono, come è normale, diventano fragili. Ma resto convinta che sia un tentativo dei più grandi di bloccarli per non farli salire sugli scranni».

Perché, per uscire da questa logica, hanno bisogno allora degli adulti?

«Il motivo è altissimo: non vogliono lasciarci indietro. Loro, a differenza degli adolescenti, sono più grandi: mentre i più piccoli pretenderebbero di essere capiti, loro perfino rinunciano ad avere ragione ma fanno fatica ad andare avanti da soli, perché non vorrebbero rottamarci, relegandoci nelle periferie della società. Ma noi non siamo disposti a renderci conto di che meraviglia sono diventati, nonostante sia stato così difficile per noi trasmettere dei messaggi di trasparenza e di verità. Loro però li hanno imparati lo stesso: non sono interessati per niente all’apparenza e non hanno paura di quell’approfondimento, di quegli abissi di cui vanno anzi alla ricerca».

C’è poca spensieratezza anche nella musica che ascoltano, nelle serie che più amano...

«Sono molto coraggiosi e, volendola leggere in chiave simbolica, credo sia l’esorcismo alla nostra eccessiva ciarlataneria. Vanno a cercare altrove quello che non riescono a condividere con noi. Ma ci salveremo solo insieme».

È fiduciosa?

«Sì, a patto che gli adulti si scomodino e lascino la sedia a loro. Continuando a contribuire, ma non più dalla prima fila».

Almeno si può avere la speranza che un giorno saranno genitori migliori di noi?

«È un’idea che in pochi frequentano. Non si immaginano necessariamente genitori. Tra le loro riflessioni c’è piuttosto quale sia il senso di mettere al mondo altri esseri umani su un pianeta sovraffollato... che coté genitoriale raffinato. Sono genitori nel pensiero e nel chiedersi se esserlo un giorno. Sono genitori di un progetto, genitori di un futuro per garantire il quale potrebbero anche rinunciare all’idea di diventarlo, il che li rende genitori eccezionali. Si tratta della generazione meno egoista di sempre e non l’hanno certo imparato da noi. Come fare a non essere ottimisti?».

Loro, invece, cosa dovrebbero mettere a fuoco?

«Che sbagliando non si sbaglia, si fa solo una azione tra le tante che ti permette poi di affrontare le prossime con più cognizione. O anche no. Ma si chiama vita e va sempre bene. Non sono piccoli ma sono giovani e considerando quanto fatichino ad agguantare la loro esistenza, non possiamo aspettarci che si autorizzino da soli a prendersi il loro futuro. Non serve che venga loro chiesta esplicitamente, in famiglia, la perfezione rispetto alla loro felicità perché è il mondo che abbiamo creato per loro che lo chiede: è qualcosa di propagato nell’aria. E il terrore del giudizio è lo Stige dentro cui annegano».

Un consiglio per gli adulti per permettere il compimento dei più giovani?

«Oltre a scansarci un po’, la “soluzione” è che noi adulti ci riappropriamo della nostra soddisfazione, autenticità e salute (mentale) così che non debbano essere i nostri figli (in questo caso quelli ormai grandi, ma vale sempre, a ogni età) a farsene garanti, rinunciando alla loro vita e alla loro felicità per una esistenza di perfezione che lasci falsamente tranquilli noi. Io, da 44enne, mamma, oggi più che mai bado a me, mi occupo di me, vado a prendermi quello mi fa stare bene e mi auguro che tutti i giovani inizino a fare lo stesso con la loro vita: che badino alla loro felicità senza pensare alla nostra, suffragati dalla nostra volontà di compiere questa operazione di messa al servizio dell’evoluzione dei nostri ragazzi».

Il male di vivere. La terza puntata - Gli studenti chiedono la presenza di uno psicologo a scuola. Allarme per la crescita del disagio giovanile. Orsola Riva su Il Corriere della Sera il 31 marzo 2023.

Il 91% dei ragazzi ritiene opportuna la presenza di un terapeuta all’interno dei loro istituti superiori o universitari. Si sentono inadeguati e soli, in una società sempre più competitiva. E i genitori sono i primi a non saper accettare gli insuccessi dei figli

«Siate realisti, chiedete l’impossibile», gridavano i nonni quando avevano la loro età sull’onda del Maggio francese. «Più aule, meno tasse», si accontentavano di chiedere i genitori cresciuti in pieno edonismo reaganiano.

«Ci meritiamo di stare bene», hanno scritto loro - i nostri figli e nipoti - sullo striscione con cui un paio di settimane fa sono scesi in piazza per protestare contro una società che predica il merito ma pratica una competizione sfrenata che li fa sentire perennemente inadeguati, sbagliati e soprattutto soli. Nelle foto della manifestazione somigliano ai ragazzi del ‘68 e a quelli dell’85: forse solo meno arrabbiati, sicuramente più tristi. Ma come si è arrivati in poco più di cinquant’anni dalla «fantasia al potere» a «uno psicologo in ogni scuola», come recitava il secondo striscione srotolato davanti al ministero della Salute in occasione della giornata nazionale contro i disturbi del comportamento alimentare? E siamo proprio sicuri che quelli fragili siano solo loro e non anche noi adulti?

IL GOVERNO NON HA RICONFERMATO LO SPORTELLO PSICOLOGICO A FAVORE DI «DOCENTI TUTOR»

Disturbi alimentari e autolesionismo

I numeri parlano chiaro: il 28 per cento dei giovani ha sperimentato una qualche forma di disturbo alimentare (senza arrivare all’anoressia o alla bulimia, uno dei fenomeni più diffusi è quello del binge eating: abbuffarsi fino a stare male), il 14,5% dice di aver compiuto atti autolesionistici, come per esempio farsi dei tagli sulle braccia, il 10,3% ha fatto esperienza di sostanze psicotrope, il 12 ha abusato di alcol.

ADEN ARABIA’ È IL PRIMO ROMANZO DELLO SCRITTORE FRANCESE PAUL NIZAN DAL CELEBRE INCIPIT: «AVEVO VENT’ANNI, NON PERMETTERÒ A NESSUNO DI DIRE CHE QUESTA È LA PIÙ BELLA ETÀ DELLA VITA»

Non sempre ci va di mezzo la salute mentale ma il benessere, quello sì. Forse anzi è questo il dato più sconcertante dell’indagine Chiedimi come sto, condotta dall’Istituto di Ricerche Economiche e Sociali dell’Emilia-Romagna su quasi 30 mila studenti medi e universitari di tutta Italia: la fatica di «avere vent’anni» oggi ( oggi e sempre, se solo qualcuno a scuola gli avesse mai fatto leggere Paul Nizan: «Avevo vent’anni, non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita»).

Poco felici, molto insicuri

È vero che lo studio in questione risale all’anno scorso e quindi risente dell’effetto moltiplicatore della pandemia. Ma le risposte degli intervistati parlano di un disagio profondo e diffuso che il Covid ha solo accentuato e forse in parte sdoganato, nel senso che «con la scusa» dell’emergenza sanitaria i ragazzi si sono sentiti più liberi di parlare dei loro problemi. Tre quarti degli studenti si definiscono poco felici o infelici del tutto; più di uno su quattro ha pensato di lasciare gli studi; quando immaginano il futuro si sentono insicuri se non addirittura impauriti; quanto al loro rapporto con gli adulti, li giudicano responsabili ma poco determinati e per nulla sinceri. Risultato: il 91 per cento degli intervistati ritiene utile la presenza di uno psicologo a scuola e più di un terzo di loro vorrebbe usufruirne.

Sportello psicologico, aperto e richiuso

Nell’autunno del 2020 il ministero dell’Istruzione aveva sottoscritto un protocollo d’intesa con l’Ordine degli Psicologi per far fronte alle situazioni di crisi scatenate dalla pandemia. Nel giro di pochi mesi il 70 per cento delle scuole (5.662 su 8.183, dati Miur) aveva attivato uno sportello psicologico: alcune lo avevano già prima, ma più della metà (3.178) lo hanno istituito ex novo grazie ai fondi a disposizione. Peccato che il governo non abbia ritenuto utile rifinanziare questo servizio nell’ultima legge di Bilancio, preferendo puntare sulla nuova figura del docente tutor, che grazie a un corso sprint di 20 ore dovrebbe riuscire nell’impresa di far recuperare ai ragazzi delle ultime tre classi delle superiori i loro ritardi di apprendimento. Costo totale dell’iniziativa: 150 milioni di euro.

«Ma l’apprendimento va di pari passo col fatto di stare bene. Quando c’è malessere, si impara anche male», dice David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi (Cnop). «Visto il successo dello sportello psicologico durante il Covid, poteva essere l’occasione buona per scrivere una legge quadro che istituisse una volta per tutte la figura dello psicologo scolastico, inteso non come un servizio a gettone ma come una presenza fissa, parte del personale di ciascun istituto. Nel resto d’Europa è già così. E invece, dopo aver investito circa 60 milioni in due anni, hanno chiuso i rubinetti».

LAZZARI (ORDINE PSICOLOGI): «SAREBBE IMPORTANTE GARANTIRE A TUTTI UN SERVIZIO MINIMO»

Serve un aiuto contestualizzato

Il ministero continua naturalmente a portare avanti tantissime iniziative per la promozione del benessere psicofisico, la prevenzione delle dipendenze, la lotta al bullismo e al cyberbullismo. «Ma quello che manca è un approccio sistemico», nota Lazzari. In Parlamento giacciono almeno quattro disegni di legge che andrebbero in questa direzione: il primo, firmato tra gli altri anche dall’onorevole Giorgia Meloni, risale al 2018 e prevede di garantire a tutte le scuole la presenza di almeno uno psicologo (due o tre in quelle più numerose) per un minimo di 36 ore settimanali. Costo stimato: la bellezza di 1,2 miliardi di euro l’anno. Gli studenti si accontenterebbero di molto meno: cento milioni, questo il costo della proposta di legge che hanno presentato la settimana scorsa alla Camera. «L’importante è garantire a tutti un servizio minimo», continua Lazzari. «Non possiamo continuare a perpetuare la discriminazione fra ricchi e poveri, con le scuole delle aree più benestanti che si pagano il servizio con il contributo delle famiglie e le altre che restano a secco».

Le insicurezze degli insegnanti

È vero che l’emergenza sanitaria è finita ma - come nota Cristina Costarelli, preside del liceo scientifico Newton di Roma e presidente dell’Anp Lazio, il sindacato dei dirigenti scolastici - «per riassorbire l’ematoma ci vorrà tempo». Nel suo liceo il servizio era attivo già prima: sei ore alla settimana, quattro di sportello più due in classe. «Sullo psicologo scolastico c’è un dibattito aperto», continua Costarelli. «Alcuni ci vedono il rischio di una medicalizzazione della scuola, io più pragmaticamente ritengo utile avere una figura di riferimento competente con cui i docenti possano confrontarsi quando si accorgono che uno studente tende a isolarsi o fa fatica a tornare a scuola - e sono tanti i ragazzi e le ragazze in questa situazione, soprattutto dopo il Covid - o anche solo per costruire un gruppo classe affiatato». Sono gli insegnanti stessi a dire che a fronte di una buona preparazione disciplinare si sentono invece molto insicuri dal punto di vista psicopedagogico e didattico.

Nell’ultimo rapporto Talis sui docenti di 48 Paesi dell’Ocse, l’80 per cento dei professori italiani si dichiara forte nella propria materia ma quando si passa alla pratica d’aula sei su dieci denunciano un senso di inadeguatezza. Il problema è noto: mentre per fare la maestra d’asilo o delle elementari da almeno vent’anni è richiesta una laurea specifica, per insegnare alle medie e alle superiori non esiste un percorso ad hoc. Fino all’autunno scorso bastava aggiungere alla laurea 24 crediti universitari presi anche per corrispondenza.

TRA I RAGAZZI CRESCE LA FRAGILITA’, SONO INCAPACI DI ACCETTARE LE FRUSTRAZIONI. TRA GLI INSEGNANTI, LA STANCHEZZA

Una prima classe preoccupante

A giugno la Camera ha approvato in via definitiva una riforma che prevede un percorso più strutturato, corrispondente a 60 crediti formativi di cui almeno 20 di tirocinio. Sono passati dieci mesi e dei decreti attuativi che permetterebbero alle università di attivare i nuovi corsi non c’è l’ombra: tutto fermo. Mentre chi è già di ruolo, continua a stare in trincea. Anna Rosa Besana insegna da più di 35 anni nella stessa scuola, l’istituto Greppi di Monticello (Monza e Brianza) che comprende un liceo scientifico, un liceo delle scienze umane, un istituto tecnico-chimico e un tecnico-informatico: «Mai visti tanti ragazzi così deprivati, immaturi e turbolenti come quelli che sono entrati in prima quest’anno. Fare lezione non è mai stato così faticoso: non è solo che non riescono a stare attenti, faticano anche a relazionarsi fra loro. Io ho già organizzato due incontri con la psicologa scolastica». Non è solo colpa del Covid. Sono anni ormai che la professoressa e i suoi colleghi sperimentano una crescente fragilità dei ragazzi.

Gli errori, gravi, dei genitori

«Sono incapaci di accettare le frustrazioni: un brutto voto diventa una tragedia». E non solo per loro, anche per i genitori che spesso sono i primi a non riuscire ad accettare gli insuccessi dei figli. «Piuttosto che guardare in faccia la realtà, preferiscono farsi fare delle diagnosi che certifichino un qualche disturbo specifico di apprendimento, anche quando non c’è. O all’opposto ci spiegano che se il figlio va male a scuola è perché ha un quoziente di intelligenza altissimo e in classe si annoia». Il fenomeno sta dilagando anche in Francia tanto che il settimanale L’Obs qualche settimana fa ha dedicato la sua copertina all’ossessione HPI, che sta per haut potentiel intellectuel (alto potenziale intellettuale). Conclusione: «Siamo stanchissimi e frustrati. Spesso mi chiedo: ma io cosa sto facendo? Non riesco ad aiutare chi è in difficoltà, fatico a portare avanti gli altri. E intanto dal ministero arrivano sempre più richieste. Lo so anch’io che ci vorrebbe un approccio personalizzato: ma con prime da trenta alunni come si fa?».

La paura di deludere i genitori

Lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini è presidente della Fondazione Minotauro, che da quasi quarant’anni fa ricerca sugli adolescenti e promuove progetti di prevenzione e intervento nelle scuole. «La pandemia ha solo esacerbato disagi che già c’erano. Disturbi alimentari, autolesionismo, abuso di psicofarmaci, tentati suicidi: il corpo è diventato il megafono di una sofferenza che non trova altre forme di espressione». In termini clinici si chiama acting out: è una specie di cortocircuito in cui l’azione, per esempio farsi un taglio, sostituisce le parole che non riescono a uscire. Lancini non fa sconti al mondo degli adulti: genitori e insegnanti. «Se i ragazzi faticano a esprimere il dolore è perché non vogliono farci sentire in colpa o deluderci», spiega. «In un certo senso sono loro che si fanno carico di noi, delle nostre fragilità, non il contrario. Una volta, se ti andava male un esame all’università, temevi la reazione furibonda di tuo padre. Oggi i ragazzi mentono (secondo un recente sondaggio di Skuola.net lo fa un ragazzo su tre; ndr) per non dover gestire l’angoscia dei genitori». Che ci sia un problema di comunicazione lo dicono un po’ tutti. «La mia sensazione è che soprattutto dopo il Covid si sia creata una distanza assoluta fra noi e loro», dice Patrizia Cocchi, preside del liceo scientifico Vittorio Veneto di Milano.

«Ci considerano responsabili di quanto è accaduto, di non aver saputo gestire l’emergenza e di averli chiusi in casa. Sono cortesi, ma non ci ritengono degli interlocutori credibili. Quando l’anno scorso hanno deciso di occupare la scuola, non c’è stato nessun confronto: lo hanno fatto e basta. Potevo usare la leva dell’autorità, ma sarebbe stato controproducente. Ho preferito dormire qui a scuola. Vedendoli ballare tutta la notte mi sono resa conto che avevano solo voglia di stare insieme, era quello che gli era mancato di più».

La responsabilità può aiutare

Cocchi è fresca reduce da due giorni di autogestione che non esita a definire splendidi: «Noi li abbiamo supportati, ma devo riconoscere che loro sono riusciti a gestire una comunità di 1.500 studenti in modo egregio, organizzando una serie di collettivi sull’omosessualità e sull’aborto, temi che sentono molto vicini, come l’ambiente e più in generale l’ansia per il futuro. E su cui ritengono noi adulti, docenti, genitori, decisori politici, totalmente impreparati». Forse proprio da qui si dovrebbe ripartire: cercare un nuovo canale di ascolto incentrato invece che sul controllo sulla responsabilizzazione. «In fondo», dice Lancini, «tutti i ragazzi chiedono una sola cosa: di essere amati da mamma e papà e dai loro insegnanti per quello che sono». Sarebbe imperdonabile dover dare ancora ragione a quel tale che diceva: «Durante i miei nove anni di scuole superiori non sono mai riuscito a insegnare niente ai miei professori». Era Bertolt Brecht, un secolo fa.


 

Il male di vivere. La quarta puntata - Adolescenti: manipolazione, porno, derisione. Le relazioni pericolose della generazione senza scudo. Daniele Mencarelli Il Corriere della Sera il 7 Aprile 2023

Quarta puntata dell’inchiesta sul male di vivere: il poeta e scrittore Daniele Mencarelli analizza - partendo dal film «Mia», di Ivano De Matteo - la condizione dei giovani nell’era del «più grande scatto tecnologico, culturale, evolutivo». Come per ogni altro fenomeno che riguardi il presente e le nuove generazioni, non si può che partire dalla premessa che noi, i genitori, i grandi, dimentichiamo di porci e porre costantemente. Tra la nostra gioventù — chi scrive è nato a metà degli Anni 70 ed ha vissuto la sua gioventù nei 90 — e la presente c’è di mezzo una rivoluzione epocale, per molti, la rivoluzione che da qui a trent’anni diventerà a tutti gli effetti il più grande scatto tecnologico, culturale, evolutivo della razza umana.

Dall’analogico al digitale

La responsabilità è sempre degli adulti. Mai dei ragazzi. Noi abbiamo costruito il mondo dove ora loro vivono da nativi, noi gli abbiamo dato, e tolto, tutta una serie di strumenti ed esperienze sostituendole con il web prima e i social successivamente. Loro vivono nel mondo che gli è stato dato. Come sempre fanno le nuove generazioni rispetto alle precedenti. Questa rivoluzione digitale, ancora in corso, come un cavallo che corre senza sapere bene verso dove, non poteva non avventarsi anche sul rapporto più naturale che lega l’umanità, la perpetua.

Il sesso: luoghi, vittime, viralità

Nel giro di trent’anni il rapporto tra l’individuo, soprattutto occidentale, e il sesso si è modificato in modo radicale. Dai luoghi d’incontro, oramai in percentuale dominante affidati ad applicazioni, chat, sino alle nuove forme di violenza e coercizione, con esiti spesso tragici. Perché c’è un dato fondamentale che differenzia la vittima di reati a sfondo sessuale tra la vecchia era analogica e la nuova digitale. La viralità, la diffusione in tempi frenetici, disumani, del gesto, spesso corredato con foto, video. La vita di una persona, sempre o quasi sempre di sesso femminile, da adulta a giovanissima, travolta da una tempesta perfetta, con il proprio corpo esposto, deriso, con tutti i giudizi che esplodono, senza rispetto, sparati senza pensarci due volte come sempre avviene sui social. Terribile. Da ieri è nei cinema l’ultimo film di Ivano De Matteo, un regista vero, che non insegue i temi proposti dalla cultura dominante ma propone i suoi, come sempre si dovrebbe.

IL REGISTA DE MATTEO IN «MIA» RACCONTA UNA 15ENNE SCHIACCIATA DALLA VIOLENZA PSICOLOGICA DEL FIDANZATO

Ivano De Matteo, 57 anni, romano, attore, regista e sceneggiatore, nelle sale con Mia

Il film si intitola «Mia». La storia è quella di tante famiglie per bene, semplici, legate da un amore profondo, che viene letteralmente sconvolta dalla relazione della figlia quindicenne, Mia, con un ragazzo poco più grande di lei che inizia, pezzo a pezzo, a smontarle la vita, vivendola come un proprio possesso. Il padre della ragazza, interpretato da un indimenticabile Edoardo Leo, e la madre, Milena Mancini, altrettanto straordinaria, non possono che vedere la loro amatissima figlia, sino a quel momento piena di vita e passioni, sfiorire, schiacciata dalla violenza psicologica del suo fidanzato. Parlando con Ivano De Matteo, padre prima che regista, è emersa con forza quella preoccupazione che oramai vivono tutti i genitori riguardo la vita, sessuale e non solo, dei propri figli.

Il gaslighting

E’ gaslighting il termine, coniato per quel tipo di manipolazione psicologica che un individuo esercita su un altro, mettendo in discussione la sua vita, il suo vissuto, facendo dubitare la persona della sua stessa memoria, intelligenza. «Tutto parte da una vicenda accaduta a un’amica di mio figlio anni fa, da lì è nato il desiderio assieme alla mia compagna, Valentina Ferlan, che è la cosceneggiatrice del film, di dare voce a fatti simili». De Matteo guarda con occhio speciale alla realtà, e di questo film, Mia, se ne parlerà tanto, perché è giusto così, perché questo dovrebbe fare ogni disciplina artistica: rivelare il presente, testimoniarlo, offrire uno sguardo più ampio su quello che si vive, e vivrà. «Perché l’adolescenza è quel bivio in cui il futuro dei ragazzi può prendere una piega inaspettata e può influire in buona parte su tutto quello che verrà dopo».

La gioventù così diversa dalla nostra memoria

Nessuno che sia stato giovane può eccepire nulla rispetto a queste parole di De Matteo. Perché la gioventù, fase della vita che tanto rimpiangiamo nelle rievocazioni adulte, è ben altro rispetto al racconto che produce la nostra memoria. Perché essere giovani è difficile. Lo è stato e lo sarà per sempre». Dal primo romanzo che ho pubblicato nel 2018 ( La casa degli sguardi ) a ieri, è questa la frase che ripeto a ogni incontro con scuole superiori di ogni parte d’Italia. Ho incontrato settantamila ragazzi, dai quindici ai diciotto anni. «Essere giovani è difficile, non vorrei mai tornare indietro, è più facile vivere da adulti, io sono un sopravvissuto alla gioventù». Questo, di solito, il refrain completo. Partire da un’affermazione di questo tipo sorprende, provoca la platea di ragazzi che ho di fronte. Intossicati dalle narrazioni, giudicati più che ascoltati, non sono abituati a sentirsi dire una cosa del genere. Eppure, è un dato di fatto indiscutibile.

Una scena dal film «Mia», il film di Ivano De Matteo, con l’attrice esordiente Greta Gasbarri nei panni della protagonista , una ragazza 15enne

La fase delle grandi recite

La gioventù è la fase delle grandi recite, tanto in famiglia quanto nel proprio branco sociale, è l’età del conformismo assoluto, dal vestire al cosa pensare, mangiare. È, o meglio dovrebbe essere, anche il periodo in cui iniziare a costruire un dialogo con la propria natura, provare a conoscersi, a esprimere quello che ci sta veramente a cuore, che ci fa soffrire, che ci terrorizza. Tutte prove che spesso non si riescono a portare a termine perché a prevalere è l’animale sociale, recitante. È in questa fase della vita, non a caso, che irrompe spesso il disagio di tipo psicologico. A queste difficoltà congenite alla gioventù si aggiungono oggi tutti quei cambiamenti introdotti dalla rivoluzione premessa in apertura. Essere giovani nel mondo digitale ha mutato comportamenti millenari, l’accesso a miliardi di informazioni, immagini, video, senza un reale controllo possibile ha di fatto trasformato l’uomo e le sue abitudini. A partire dalle abitudini sessuali.

L’allarme di psicologi e psichiatri

Rispetto a pochi anni fa, è forte oggi la voce di psicologi e psichiatri che mettono in allarme rispetto alla possibilità dell’adolescente, se non del bambino, di attingere a immagini e video pornografici senza difficoltà alcuna. Questa disponibilità ha di fatto modificato il rapporto delle nuove generazioni con il sesso. Un rapporto divenuto drammaticamente sovrapponibile a quello della pornografia, del gesto meccanico che si sostituisce alla lenta costruzione di un immaginario erotico che attingeva dalla realtà e dalla fantasia. Anche su questo tema, gli adulti, i genitori sono superficiali, spesso disattenti. La differenza tra questo presente che offre pornografia senza controllo e il passato produce il più delle volte constatazioni insignificanti, condite di nostalgia, come se il flusso digitale che ci sommerge fosse di fatto un evento al di fuori della portata umana, che si subisce senza poter attuare nulla di oppositivo, contrario. Avere come paradigma la pornografia ha portato i giovani a due forme di relazione antitetiche con il sesso, naturalmente questa suddivisione offre una visione per difetto, come sempre succede quando si parla di umano.

La via di fuga, la sottrazione

Anche questo è un dato di cui si parla con sempre maggiore attenzione. Una percentuale importante dei nostri figli vive il sesso in modo inattivo, sembra quasi priva di pulsioni sessuali da inseguire e soddisfare. Questa distanza, spesso paura, nasce spesso proprio dalla sovrapposizione della finzione pornografica alla realtà. Come per un gesto atletico, una performance, tanti giovani sentono di non riuscire a competere con quello che vedono sullo schermo. Per l’universo maschile, questa insufficienza percepita è spesso di natura fisica, ovvio se il parametro è quello di un uomo, di mestiere pornoattore, che ricorre a sostanze più o meno legali per arrivare a quelle prestazioni. Per l’universo femminile, invece, il paradigma che propone la pornografia è semplicemente repellente perché fa della donna un corpo che prova piacere tanto più se maltrattato, offeso.

RAPPORTI MALATI E PRATICHE ESTREME. OGGI È PIÙ PRESENTE LO STUPRO DI GRUPPO, ALTERAZIONE TERRIBILE DEL SESSO DI GRUPPO NORMALIZZATO DAL PORNO

Gli ipersessualizzati

A questa prima categoria di giovani va contrapposta la seconda. Quella ipersessualizzata, che accoglie come modello aspirazionale quello della narrazione pornografica. Giovanissimi che non esitano ad assumere Viagra, spesso assieme ad altre sostanze, pur di arrivare a determinate prestazioni, che vedono come normali pratiche di fatto estreme. A riguardo, è impressionante notare come si sia modificata la dinamica della violenza carnale. Oggi è sempre più presente lo stupro di gruppo, alterazione terribile del sesso di gruppo oramai normalizzato dalla pornografia. Una particolarità salta agli occhi. Queste due macrocategorie hanno in comune un fattore che le rende simili, che in un certo senso le omologa. Che si pratichi o meno, il sesso è uno dei grandi temi di cui si discute. Una discussione per teorie, spesso ideologizzata, che parte dal mondo LGBTQ con una serie di temi nuovi che sono al centro del dibattito culturale e civile del nostro tempo.

Fluidità di genere e pansessualità

Sia chiaro, questo dibattito ha introdotto conquiste importantissime riguardo l’affermazione della nostra natura sessuale e la possibilità di viverla liberamente, come sempre dovrebbe essere. Forse, con uguale passione e presenza, il dibattito culturale citato poc’anzi dovrebbe interrogarsi su una forma di educazione sessuale, tema da sempre scivoloso, aggiornata al nostro tempo digitale. Non si tratta di censurare, ma di introdurre elementi di dialogo e confronto comune, per salvaguardare quel bene che da sempre ha spinto l’uomo al piacere del sesso, con tutte le implicazioni del caso, dal rispetto alla soddisfazione reciproca, sino all’amore e alla perpetuazione della specie.

Il male di vivere. La quinta puntata - Il male di vivere. Adesso anche social e serie tv raccontano le sofferte vite dei giovani in crisi. Micol Sarfatti su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2023

Quinta puntata dell’inchiesta di 7 su adolescenti e giovani. Disturbi alimentari, depressione, corpi «travolti dagli psicofarmaci», bullismo e speranza (grazie alla ‘psi’): il malessere emerge senza filtri dentro le sabbie mobili dell’auto-racconto dei ragazzi. Svelare gli inciampi della vita non è più uno stigma

Carlotta piange dietro la cascata di riccioli biondi: «Raga, sto male, non voglio nascondervelo. Ho sconfitto i disturbi alimentari, ma questo non vuol dire che stia sempre bene». Federica balla un trend di TikTok per ringraziare la famiglia e il fidanzato che l’hanno sostenuta in un periodo buio. Miriam racconta con spontaneità, tra un tutorial di trucco e l’altro, come gli psicofarmaci abbiano stravolto il suo corpo. Eleonora mostra con orgoglio il piano alimentare della sua “nutri”, la nutrizionista che l’ha aiutata ad uscire dall’anoressia. Oggi ha mangiato tutto: hamburger vegetale, verdure, un dessert proteico alla vaniglia. Sorride. Marco soffre di un disturbo dell’umore, alle medie lo bullizzavano, lo hanno picchiato. La psicoterapia lo sta facendo rifiorire, dice: «Adoro la mia “psi”. Se state soffrendo dovete chiedere aiuto». Edoardo spiega in dettaglio il suo percorso di transizione e si rivolge a chi potrebbe stare attraversando il guado che lui ha superato: «Scrivetemi, anche in privato. Sono qui per voi».

Cuoricini sulle video confessioni

Accanto ai loro video l’approvazione è certificata da migliaia di cuoricini e da commenti di sostegno e gratitudine. Il dolore dei giovani corre anche, soprattutto, sui social. È vero, le piattaforme, su tutte Instagram, TikTok e Youtube, sono spesso le prime imputate nel processo sul malessere dilagante di adolescenti e ventenni. Però sono anche il mezzo d’espressione d’elezione di ormai quasi due generazioni, la porta attraverso cui ragazze e ragazzi entrano nel mondo: sia il loro microcosmo di amicizie e relazioni, sia quello degli adulti. Sono lo specchio in cui si guardano per ritrovarsi o costruire la propria identità, magari completamente “altra”, da quella reale. Sono lo schermo che fissano per ore ogni giorno, inutile negarlo - l’utilizzo dello smartphone nella fascia 14-29 anni è aumentato dell’83,3% negli ultimi tre anni - in cui vedono scorrere il loro tempo e a cui chiedono ispirazioni e risposte.

I NETWORK GIOVANILI COME ANCORA DI SALVEZZA: «SHARING IS CARING», «CONDIVIDERE È PRENDERSI CURA», RIPETONO A GRAN VOCE I NUOVI PROTAGONISTI DELLA RETE

Sono stati l’ancora di salvezza nei mesi lunghissimi dei lockdown, quando il loro volo si è interrotto e si sono ritrovati chiusi in casa, lontani dagli amici e troppo vicini a famiglie con cui non sempre avevano un rapporto lineare. Ai ragazzi di oggi va riconosciuto il merito di aver scardinato il tabù della salute mentale. Un’impresa riuscita anche grazie, o nonostante obietterebbe qualcuno, le piattaforme. Fino a poco meno di un decennio fa la psicoterapia, il dolore, gli inciampi della vita giovane erano vissuti come uno stigma. Oggi spopolano i creator che raccontano il malessere senza filtri. Le difficoltà non vanno più nascoste, ma condivise. «Sharing is caring», «Condividere è prendersi cura», ripetono a gran voce i nuovi protagonisti della Rete.

Non sono più creature ultraterrene, abbellite dai filtri e protagoniste di vite perfette, fatte di amore, agio e opportunità, ma ragazzi normali, normalissimi, spesso acciaccati, ma non per questo decisi a nascondersi. Lo scenario è complesso. L’ammissione del dolore a mezzo web può essere positiva, addirittura catartica. Può far suonare un campanello d’allarme nei coetanei che non hanno ancora identificato i motivi della propria crisi, o non sanno come farsi aiutare. Ma non è priva di insidie. Il rischio è ritrovarsi con risultati opposti: la mercificazione, a favore di trend topic, e la banalizzazione del proprio malessere o una sovraesposizione difficile da gestire, ancor più se si sta attraversando un momento difficile.

LO PSICOTERAPEUTA PELLAI: «ESPORRE IL PROPRIO DISAGIO PUÒ ESSERE UTILE SOLO SE È STATO FATTO UN VERO PERCORSO DI ELABORAZIONE»

Dal diario allo schermo

«Siamo davanti a un passaggio epocale», spiega lo psicoterapeuta, specializzato in età evolutiva, e saggista Alberto Pellai. «Il racconto del proprio disagio è una modalità che i ragazzi hanno sempre messo in atto durante quella terra di mezzo tra infanzia e età adulta che è l’adolescenza. Un tempo però era affidato al diario. Scrivere era un modo per trovare le parole per dirsi, definirsi, ma anche mettere ordine dentro il proprio mondo interiore. Riflettere sulle definizioni da dare al proprio dolore, piccolo o grande che sia, significa dargli forma e iniziare ad affrontarlo. Oggi questa pratica è quasi estinta e si è passati dalle parole, nascoste agli altri, della carta, all’immagine, condivisa, dei social». Il dolore dei ragazzi non è più solo una questione privata. Diventa terreno di confronto con i coetanei, ma anche, potenzialmente, con gli adulti e con chiunque si imbatta nel loro profilo.

Comunicare per essere visti

«La comunicazione del proprio dispiacere sulle piattaforme può avere uno scopo duplice», precisa Pellai, «può esserci lo sfogo e il bisogno reale di esternare, ma può anche essere il modo di esprimersi di una persona con una particolare fragilità narcisistica. In questo caso diventa il mezzo per appropriarsi di una identità funzionale a compiacere l’aspettativa altrui: svelo qualcosa di disfunzionale per soddisfare il mio bisogno di essere visto. Nell’auto racconto sui social coesistono due dimensioni: quella di chi sta male per davvero e quella di chi intercetta un bisogno di attenzione».

«ORMAI GLI ADOLESCENTI TENGONO IN PIEDI UNA DOPPIA VITA: QUELLA VIRTUALE E QUELLA REALE. NON SEMPRE COINCIDONO»

I rischi della condivisione

Qualche mese fa ha fatto discutere il caso di Leila Kaouissi, 18enne milanese di origine marocchina che racconta su TikTok, dove ha quasi mezzo milione di follower, la sua lotta contro l’anoressia, la bulimia e la depressione. Leila condivide video, spesso struggenti, va detto, sulle sue giornate, i suoi piccoli progressi, ma anche le ricadute e i ricoveri. Lo scorso gennaio è scappata di casa, dopo l’ennesima dimissione da un centro specializzato. La madre ha raccontato tutta la vicenda con tanto di dirette Instagram. La fuga, il ritrovamento, l’apprensione: tutto è stato documentato sui social, con una drammatica sovraesposizione. «L’autonarrazione può far esplodere ulteriormente la debolezza e togliere al ragazzo che la porta avanti la capacità di riflettere davvero su di sé», prosegue Pellai. «Quando i contenuti social legati al disagio diventano dominanti è necessario ricondurre il malessere in un percorso di psicoterapia e affrontarlo con una persona competente. La questione non è solo raccontare, ma metabolizzare. Se si condividono le difficoltà senza averle affrontate si genera un pericoloso gruppo di auto aiuto virtuale in cui nessuno ha le risorse giuste per superare la crisi».

Sprofondare insieme nelle sabbie mobili

«È come sprofondare tutti insieme dentro le sabbie mobili. Tornare a raccontare sui social il disagio dopo averlo elaborato e discusso con chi davvero sa dare una mano può essere utile anche agli altri. Ormai gli adolescenti tengono in piedi due vite: quella virtuale e quella reale. Non sempre coincidono e la prima sembra spesso più facile e premiante. Si rischia di sprecare troppe energie in un’esistenza che, di fatto, non c’è ». Raccontarsi, o almeno provare a farlo, ma anche essere raccontati. Dal piccolo schermo-specchio dello smartphone a quello più grande della tv. Mai come negli ultimi tempi l’Italia ha conosciuto una fiorente produzione di serie dedicate al mondo teen e young adult che non ha più niente da invidiare a quella americana.

Le serie dedicate agli adolescenti

Il racconto della giovinezza e dei suoi guai è stato per decenni totale appannaggio di produttori e registi d’Oltreoceano, che hanno segnato l’immaginario di intere generazioni. I ragazzi di oggi, invece, possono ritrovarsi nei protagonisti di serie tv con un’ambientazione e un racconto della società totalmente italiani: Skam, Prisma, entrambe dirette da Ludovico Bessegato, Tutto chiede Salvezza, tratta dal romanzo omonimo di Daniele Mencarelli e Summertime, sono solo alcuni esempi. L’ultimo successo adolescenziale, ma non solo, è Mare Fuori, diretto da Carmine Elia, Milena Cocozza e Ivan Silvestrini. Racconta le vicende di un gruppo di ragazzi tra i 16 e i 20 anni detenuti in un penitenziario minorile a Napoli. È partita quasi in sordina su Netflix per poi passare a RaiPlay e approdare alla prima serata di Rai2 con un successo senza precedenti: oltre 200 milioni di visualizzazioni sulla piattaforma streaming del servizio pubblico, di cui quasi l’80% nella fascia 15 /35 anni. I protagonisti sono ormai gli idoli dei loro coetanei. Qual è il sentimento intercettato così bene da questa serie?

LO SCENEGGIATORE: «MARE FUORI PARLA DI SPERANZA,UN MESSAGGIO IMPORTANTE PER UNA GENERAZIONE SEGNATA DAL COVID»

Il caso «Mare fuori»: grande umanità

Prova a rispondere Michele Zatta, produttore di Mare Fuori, sceneggiatore e scrittore con il romanzo, entrato nella prima selezione del Premio Strega 2023, Forse un altro (Arkadia) . «Abbiamo indagato un mondo particolare, quello del carcere, basandoci anche su storie vere e facendo ricerca. L’ambientazione ha un peso drammaturgico importante perché permette di raccontare ragazzi che hanno sbagliato, ma conservano una grande umanità e, grazie alla giovane età, possono ancora sperare e crearsi un nuovo inizio», spiega. «Questo è un messaggio importante per una generazione segnata dal Covid, dall’assenza di prospettive e da una mancanza di fiducia nel futuro». I protagonisti di Mare Fuori appartengono a contesti sociali difficili, sono nati in famiglie legate alla Camorra e, spesso, i loro sogni sfumano a un metro dal traguardo. «Si piange molto, è vero», ammette Zatta, «ma la vita è così. C’è un messaggio importante legato all’amicizia e alla solidarietà, le uniche vere armi per resistere ai contraccolpi del destino. Credo però il vero segreto del successo di questi personaggi sia la loro capacità di farsi amare a prescindere dagli sbagli e, paradossalmente, il loro essere liberi».

Se il carcere ti affranca dalla famiglia sbagliata

«Sono rinchiusi in un carcere, ma lì non ci sono genitori né costrizioni sociali. Così possono essere loro stessi e relazionarsi con gli altri come se si fossero affrancati completamente dalle famiglie di provenienza, in molti casi all’origine dei loro dolori. Questo è uno degli elementi dello storytelling che ha avuto più presa sul pubblico giovane». A breve inizieranno le riprese della quarta stagione di Mare Fuori, ma in autunno andrà in onda su Rai2 Io sono leggenda, nuova serie prodotta da Zatta sul disagio giovanile con una chiave narrativa inedita nella fiction italiana: quella dei super eroi.

Skam e Prisma

Un altro cantore dell’adolescenza formato tv è Ludovico Bessegato. Ha diretto Skam, giunta alla 5 stagione, che racconta le vicende di un gruppo di liceali romani attraversando temi come i disturbi alimentari, il revenge porn, la micropenia, la salute mentale, e Prisma, ambientata nella provincia di Latina e incentrata sulla scoperta dell’identità sessuale e i turbamenti che ne conseguono. Due grandi successi, prodotti da Cross Productions, costruiti con un rigoroso metodo di indagine sul campo. «Abbiamo studiato, intervistato e ascoltato tantissimi ragazzi», ha spiegato Bessegato. «Non volevamo correre il rischio di essere superficiali o offensivi su argomenti delicati. Alcuni personaggi sono stati ispirati proprio dagli incontri fatti. Abbiamo avuto una grande opportunità narrativa e siamo felici che i diretti interessati l’abbiano apprezzata».

L’importanza della realtà

Anche il dottor Pellai riconosce l’importanza delle serie nella narrazione e immedesimazione dei giovani, ma avverte: «È fondamentale che la rappresentazione televisiva delle difficoltà giovanili non diventi mai “esotica”, cioè troppo artefatta e lontana dalla vita reale. I ragazzi hanno bisogno di rivedersi in chi si dibatte in un disagio fisiologico, concreto. Solo così possono trovare uno stimolo per reagire».

Il male di vivere. La sesta puntata - Le vostre storie: paure e speranze, tra slanci coraggiosi e rinunce ai sogni. Valeria Locati Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023.

Si conclude con questa sesta punta l’inchiesta di 7 dedicata al male di vivere dei giovani. Una psicologa cerca di sintetizzare, attraverso alcune delle centinaia di vicende narrate da chi ha scritto via social, le trame emotive. Immobilità, “data di scadenza”, paura di strappare, fughe in avanti... raccontarsi è già cambiare 

Michael White, rivoluzionario psicoterapeuta che ha dedicato la sua vita professionale allo studio delle relazioni familiari, sosteneva a gran voce il potere trasformativo della narrazione come mezzo di comunicazione tra gli individui. Narrare una storia, raccontare il proprio punto di vista è da sempre il mezzo che abbiamo a disposizione per descrivere chi siamo, ciò che temiamo, ciò che vorremmo gli altri sapessero di noi. Con questa inchiesta sul malessere dei giovani, sono arrivate alla redazione del giornale moltissime storie, da parte di giovani adulti, insegnanti, genitori e anche operatori del settore che, a vario titolo, si occupano del benessere dei futuri adulti a cui affidiamo le nostre speranze.

Nel mio box domande di Instagram del sabato, appuntamento ormai fisso e con il quale ho la possibilità di maneggiare non solo il dolore, ma anche le trame emotive di chi segue il mondo della psicologia, ho raccolto altrettante visioni puntuali e illuminanti sul mondo dei giovani. Se avete avuto l’occasione di seguire l’inchiesta fino a qui, avrete senza dubbio colto quanto sia difficile definire il target di riferimento circoscrivendolo in termini di età. Ci muoviamo in un range che spazia dalle scuole secondarie di secondo grado, passando per gli universitari, fino ad arrivare ai giovani trentenni. Non escluderei dal novero della questione anche chi viaggia verso i quaranta, in termini di risonanza, ma anche di strascico emotivo a cui sono indirizzati spesso moniti che sanno di epoche antiche (dalla maternità non realizzata, alla distruzione del concetto di famiglia classica, all’adattamento forzato a un ruolo professionale volto solo al guadagno e non alla soddisfazione).

IL POTERE DELLE STORIE, DICEVA MICHAEL WHITE, È QUELLO DI PROPORRE UNA NUOVA VISIONE DELLA SITUAZIONE, DEL PROBLEMA. IL VANTAGGIO NON È SOLO DI CHI RACCONTA, MA DI CHI LEGGE, RICORDA E UN GIORNO MAGARI METTERÀ IN PRATICA

Ma quali sono queste storie, qual è il percepito dei lettori e della popolazione in generale dopo i punti di vista proposti settimana dopo settimana nell’inchiesta? In prima linea torreggiano i giovani adulti alle prese con le famiglie di origine. Il tema dello svincolo familiare, della ricerca del proprio posto nel mondo, del passaggio dalla dimensione filiale a quella dell’autonomia, del desiderio insito in ogni essere umano di definirsi e di dare a sua volta definizione a ciò che ogni giorno lo circonda è un motore in grado di muovere mondi. Non solo per allontanarsi, ma per sperimentare.

Sono centinaia le storie che hanno questo sapore, giunte allo scopo di comprendere “come” si faccia a non sentirsi in colpa, come si possa vivere con l’idea di abbandonare il proprio nucleo familiare senza averlo magari soddisfatto in termini lavorativi. Gli esempi più rappresentativi hanno a che fare con il ritardo negli studi universitari, con la paura di deludere i genitori, con l’angoscia di lasciarli soli a sopportare malattie, comunicazioni difficili con l’altro genitore, età che avanza. Come se il compito del figlio fosse quello di traghettare l’adulto verso la fase finale del suo ciclo di vita e non la gioia di partire, scoprire cosa si cela dinnanzi a sé, in una danza di andate e ritorni utili a condividere e raccontare.

SONIA CHE NON SA DOVE ANDARE

Questo è il racconto di Sonia, studentessa di 25 anni di lettere classiche: «Sono fuori corso da tre anni. Non studio, non guido, non lavoro. I miei genitori sono preoccupati per me e ogni giorno mi chiedono conto di ciò che faccio. Quando penso di voler lasciare l’università provo liberazione, ma poi ripenso alla loro delusione di avere una figlia non laureata». Nella mia stanza di terapia, nelle risposte su Instagram, nei dialoghi con i genitori e i docenti che incontro nel mio lavoro lo sottolineo sempre: svincolarsi non è recidere, andarsene non significa strappare. Eppure spesso pare così e il terrore della perdita si impadronisce di tutto. Della stessa forma fluida ed evanescente è il tema del lavoro e quello conseguente del futuro incerto.

«SONO SEGRETARIA, HO SCELTO IL LAVORO SICURO SPINTA DAI GENITORI, CON IL RISULTATO DI AVERE RINUNCIATO AI MIEI SOGNI. PERCHÉ NON RIESCO A DECIDERE PER ME?» (Clarissa, 28 anni)

Clarissa, 28 anni, ci scrive così: «Sono segretaria in uno studio medico da otto anni, ma ho una laurea in Chimica e tanta frustrazione nel cuore. Ho scelto il lavoro più sicuro spinta dai miei genitori, con il risultato di guadagnare poco, accettare la pressione di un capo che non sopporto e rinunciare tutti i giorni ai miei sogni. Perché non riesco a decidere per me?».

Ci muoviamo in un contesto in cui, al di là della pressione familiare, ciò che si trova all’esterno, dalla stabilità illusoria alle condizioni poco remunerative, non permette certo di scoprire quella dimensione del sé che ha a che fare con la gioia di essere efficaci, di vivere una vita piena di stimoli e di desideri di collaborare alla realizzazione di uno scopo comune. Il lavoro non è più il punto di arrivo, ma viene percepito come un trampolino per le possibilità di fare altro, di realizzare sé stessi anche dal punto di vista umano. Ecco perché il dialogo con gli adulti è così spigoloso, perché non vi è stata possibilità di un passaggio graduale di questa prospettiva. La pandemia ha accelerato il tutto, ha avuto un effetto di immobilità e di improvvisa spinta in avanti.

FRANCESCO, PADRE PREOCCUPATO

Che il futuro sia incerto è un dato di fatto anche per chi il percorso professionale lo deve ancora intraprendere ed è alle prime armi anche dal punto di vista formativo. Un papà ci scrive questo: «Mio figlio ha 13 anni, l’anno prossimo frequenterà il liceo. Ho il timore che non ci sia un salto di maturità, un impegno verso lo studio». (Francesco, 47 anni, dirigente). Tutta la preoccupazione di questo genitore corrisponde alla forza del disorientamento in cui versano i più giovani oggi. È da loro che possiamo partire per seminare e lasciarci guidare, per accompagnare e farci spettatori di un futuro che possiamo sostenere, ma di cui, dobbiamo ammettere, sappiamo poco. Molte delle storie giunte in redazione hanno avuto al centro il dibattito della presenza dello psicologo nelle scuole.

«C’È UN MONDO NUOVO NEI GIOVANI, ACCOGLIENTE, CURIOSO, CHE DOVREMMO INVIDIARE. INVECE NE SIAMO IMPAURITI, È UN’ENERGIA SCONOSCIUTA DA GESTIRE» (Daniela, 40 anni)

I genitori hanno paura di cedere lo scettro ad altri adulti, ma al contempo ne sono ne sono sollevati, vivendo e mostrando quella dimensione di ambivalenza che il ruolo che rivestono conferisce loro. Basterebbe molto poco, se ci pensiamo: uno spazio di accoglienza, un momento di confronto, un dialogo volto a co-costruire significati. Con la sola differenza che i veri saggi, coloro che sono esperti della materia umana di cui si tratta, sono i ragazzi stessi. Di materia umana e di fragilità è intriso il capitolo delle storie di giovani donne, tra i venticinque e i trent’anni, che sentono sulle spalle una sorta di “data di scadenza”.

CRISTINA CHE NON HA NIENTE

Un esempio su tutti è il messaggio di Cristina, 25 anni appena compiuti: «La data del mio compleanno è stata per me una sorta di deadline , giunta alla quale avrei dovuto avere un compagno e un anello per sposarmi. Non ho né l’uno, né l’altro, e sento di avere poco tempo per realizzare i miei sogni». A lungo si è detto di quanto la possibilità odierna di viaggiare, scoprire, spostarsi anche solo con la mente e il digitale possa mettere al riparo da imposizioni cha hanno il sapore di un tempo passato e di un retaggio culturale patriarcale. Eppure questo tranello è sempre in agguato, sbaraglia ogni forma di progresso, riaggancia stuoli di giovani donne alle prese con la ricerca dello proprio senso nelle relazioni e nel mondo. È anche per questo che i modelli familiari osservati e appresi giocano un ruolo fondamentale nella crescita dei figli e nella posposta di un futuro sostenibile e gratificante. Chiudiamo questo meraviglioso viaggio con il messaggio di Daniela, 40 anni, communication manager per l’editoria: «C’è un mondo nuovo nei giovani, accogliente, curioso e aperto al diverso che dovremmo sapere invidiare. Ne siamo invece molto impauriti, io lo sono a volte, perché è un’energia sconosciuta da gestire».

Osservare i giovani è un privilegio, averci a che fare una sfida che regala non solo energia, ma vitalità. Non sono osservabili e definibili tout court . Parlare di adulti che guardano i giovani o di giovani che si differenziano dagli adulti è diverso dall’avere a che fare con i sistemi che implicano la presenza di entrambi. Lavorare con genitori e figli è profondamente diverso dal lavorare con le famiglie. Lo stesso accade per ogni contesto in cui sono inseriti. Se ne vogliamo parlare, capiamo dove ci collochiamo rispetto a loro. Capiamo che relazione abbiamo con loro. Guardiamoli in evoluzione. Il segreto è scegliere di accompagnarli stando loro accanto, non davanti a illuminare la strada e a far pulizia, né dietro a correggere la direzione. Il potere delle storie, come diceva White, è quello di proporre una nuova visione della situazione, del problema. Il vantaggio non è solo di chi racconta, ma di chi legge, di chi ricorda, di chi un giorno metterà in pratica.

Adolescenti, cambia la percezione del disagio psicologico: «Non è da deboli». Maurizio Tucci Il Corriere della Sera il 19 Aprile 2023.

Prigionieri della paura

Una volta un bambino orfano venne cacciato da scuola per il suo comportamento ingestibile. Tutti si raccolsero per rendere pubblica l’espulsione. La maestra di un’altra classe, Marija Judina, una delle più grandi pianiste russe del ‘900, vedendo la scena, si mise a piangere per l’umiliazione inferta dagli adulti a un bambino che, quando la vide in lacrime, le corse incontro, abbracciandola e promettendole che sarebbe stato buono «per sempre». Gli fu data un’ultima possibilità. Nei giorni successivi rimase sempre attaccato a quella maestra e il suo cambiamento fu repentino e totale, tanto che la donna gli chiese perché non lo avesse fatto prima. Il bambino rispose: «Nessuno aveva mai pianto sulla mia vita». La parola “cattivo” viene dal latino captivus , che significava prigioniero, cattivo è il prigioniero della paura di non valere nulla, di non esistere per nessuno, invece “liberi” in latino erano i figli, coloro che potevano ricevere l’eredità. È libero solo chi appartiene, chi diventa figlio di qualcuno. Questa generazione è fragile perché non appartiene, sono ragazzi generati biologicamente e materialmente ma non esistenzialmente e culturalmente, la loro vita non vale per sé stessa, serve a soddisfare i desideri di altri: oggetti di aspettative (carriera, prestazioni, risorse umane) e non soggetti di possibilità (destini inediti, doni per il mondo).

Il senso del limite

Una volta don Claudio ha chiesto il nome a uno dei nuovi ospiti del carcere Beccaria, che gli ha risposto: «Cazzi miei». Da quel giorno il cappellano ha cominciato a chiamarlo proprio così, finché quel ragazzo ha iniziato a fidarsi di lui e gli ha chiesto scusa per quella risposta, precisando: «Volevo capire se te ne fregasse veramente di me». Mi viene in mente il professore di religione del mio liceo, don Pino Puglisi, di cui quest’anno ricorre il trentesimo dell’assassinio mafioso. Quando, durante il processo, chiesero al killer, divenuto collaboratore di giustizia, perché avessero deciso di ucciderlo, rispose: «Si portava i picciriddi cu iddu (portava i bambini con lui)», una pericolosissima minaccia per il meccanismo di potere mafioso. I bambini, attraverso il gioco, la bellezza, lo studio e gli amici, facevano esperienza di una vita più attraente, e trovavano la forza di “liberarsi” dal padrino, perché erano diventati “figli” di un padre, non “picciotti” ma “figli”. Solo chi appartiene si può sporgere con coraggio sulla vita, solo chi riceve vita ha vita da fare. Per questo il mio professore fu ucciso, e non conosco altra strada educativa che quella di far sentire amati, dove il verbo amare non è un’emozione ma l’azione creativa di chi si impegna a far fiorire la vita di un altro. Il dolore che ci provoca questa generazione è dolore di parto, l’occasione per nascere noi stessi prima che far nascere loro, perché solo l’essere educa, cioè tira fuori: fa nascere. Se un ragazzo non legge ci si può chiedere quanti libri gli abbiamo letto, raccontato, o quanti ce ne siano sul nostro comodino e sulla nostra bocca. E così anche nella vita: i ragazzi sono chirurgici nel chiederci conto, con le loro provocazioni o storture, dell’autenticità della nostra vita. Ci lamentiamo dell’uso che fanno dei cellulari, e siamo noi che glieli abbiamo regalati quando erano bambini o che ne facciamo esattamente lo stesso uso. Non esiste l’educatore perfetto, ma solo l’educatore che usa come risorsa creativa “l’emergenza”, senza lasciarsi ingabbiare dal senso di colpa, che non è mai creativo ma punitivo. Creativo è solo il senso del limite: quando lo sperimentiamo siamo infatti invitati dalla vita stessa a trovare una soluzione inedita e soprattutto a chiedere aiuto.

Fame d’aria

Di recente lo scrittore Daniele Mencarelli ha scritto un romanzo dal titolo Fame d’aria , quella fame che provano i ragazzi rinchiusi nella vita-carcere, anche se apparentemente sembrano avere tutte le libertà e le sicurezze, come il protagonista di The Truman Show . In questo libro è un padre a esser salvato dal figlio, e non per la solita stucchevole retorica dei giovani che salveranno gli adulti, del nuovo che è buono solo perché è nuovo. No, il padre è salvato dal figlio perché il figlio è malato: è il limite, è l’emergenza d’amore che salva. Il padre, con l’aiuto di altri che non si aspettava, impara a fare ciò che non sapeva o non aveva la forza di fare: amare. Questo è quello che l’emergenza educativa chiede. Se vogliamo una vita nuova, dobbiamo indirizzare le energie che dedichiamo ad analisi e sensi di colpa, a far venire del tutto alla luce questa vita “emergente” e quindi “nascente”: offrire tempo, presenza, cultura a ognuno di questi orfani, perché diventino figli, cioè liberi, capaci di ricevere in eredità un destino per trasformarlo nella loro unica e irripetibile destinazione. I ragazzi di oggi non sono né migliori né peggiori di quelli di ieri, e allo stesso modo gli adulti. Semplicemente là dove gli adulti decidono di esserci, in corpo e spirito, lì i ragazzi fioriscono, perché, come ogni germoglio curato, hanno trovato terra in cui metter radici e nutrirsi di vita buona. Il resto lo farà l’energia che loro stessi hanno, e la luce, tutta quella luce che c’è fuori di prigione. Fuori dagli schemi, fuori dagli schermi. Ma noi siamo dentro o fuori?

Indolenti.

La meglio gioventù. Fare la rivoluzione? È una parola! Stefano Pistolini su L'Inkiesta il 9 Maggio 2023

Quando pensate ai sedicenni, non dovete credere alla “generazione-apocalisse” di cui raccontano i media. La tormenta digitale ha ormai scaricato a terra il suo potenziale centripeto e i teenager stanno imparando a comunicare tra loro e a pensare in modo collettivo

Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2023 in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia da oggi in edicola. E ordinabile qui.

E se si ricominciasse a parlare? La parola, finalmente. Ma la conversazione espressiva, oltre la misura dell’ansia o la definizione della propria affermazione. Oltre l’io e i suoi spasmodici bisogni. Si tratti di un auspicio o di una prospettiva, è incoraggiante assistere a una circostanza: tra i ragazzi d’oggi – gli studenti delle superiori, ad esempio – parlare solo di denaro, economie, insicurezze, paure e frustrazioni legate alla condizione economica, sovente è giudicata una debolezza, la negazione dell’autentica possibilità di comunicare.

Ciò che un tempo veniva definito come l’imbarazzo borghese nel “parlare di soldi”, riprende forma tra gli eredi di quella borghesia, interpreti di un’inattesa compostezza. Eppure la questione delle disponibilità finanziarie, della collocazione di ciascuno nella scala delle economie – e l’infinito indotto che ne discende – costituisce il motivo dominante dell’informazione, il cardine dei dibattiti pubblici, a cominciare da quelli televisivi, sia come oggetto del discorso sia come causa scatenante delle problematiche connesse. È la “cosa che conta”, la sostanza, la definizione del benessere nella modernità.

Sempre e comunque, si parla di soldi – che non ci sono, che bisogna trovare, senza i quali ogni sviluppo nella qualità della vita è precluso. Il resto è accessorio, risucchiato nella sfera del superfluo. La materia prima sono i quattrini e il riconoscimento transita attraverso premi in denaro. Le cose si possono fare o non fare, a condizione di poterle pagare. Dirazzare dal discorso procura critiche d’irrealtà, d’incapacità di raziocinio e giudizio.

È un mantra amministrato ovunque, al quale esponiamo i figli che crescono. Il motore del mondo è la disponibilità economica: ecco il messaggio da trasmettere, per prepararli alle sfide – il resto è suscettibile di valutazioni secondarie. Poi però si va a vedere, e si scopre che il comandamento non trova ovunque la stessa osservanza. Frequentando un liceo o venendo a contatto con una comunità giovanile, magari non troppo intossicata da social e influencer (ce ne sono: non dovete credere alla “generazione-apocalisse” immortalata dai media), stando silenziosamente a contatto con i ragazzi italiani di oggi, si hanno sorprese, se non agnizioni.

La tormenta digitale pare aver ormai scaricato a terra il suo potenziale centripeto, quel gorgo che ha risucchiato le attenzioni dei teenager per un decennio. L’atmosfera appare diversa, improntata a desideri e tensioni di pasta ben più analogica o, per dirla diversamente, a dimensione umana. Un termine ha preso a circolare, assumendo i crismi dell’idea condivisa: conversazione. 

Possiamo ipotizzare che stia ricominciando (mezzo secolo dopo l’ultima volta?) un’epoca della parola? Confronto, dibattito, scambio culturale, contrapporsi d’intelligenze. I temi in circolo – probabile che li sentiate risuonare nelle case, acquattati dietro la scarsa convinzione d’essere ascoltati – sono quelli essenziali per i ragazzi del xxi secolo: la nuova dimensione collettiva, la ricerca di forme di giustizia sociale sepolte, gli sforzi del singolo e quelli della comunità, la responsabilità come dato primario del ridisegno della civiltà, la politica come strumento di cui ridefinire cause ed effetti, la rivalutazione di tanti schemi precostituiti. E poi, sì, anche l’economia e i soldi, ma come analisi dei beni necessari alla migliore esistenza possibile, e per tutti.

Siete scettici? Date per scontato che la testa di un sedicenne sia proiettata solo verso il nuovo smartphone onnipotente? Che avere le tasche piene e fare una vita da trapper sia l’obbiettivo diffuso? Che disporre, ordinare e possedere siano le parole d’ordine? Significa che avete ricongiunto il dilagante immaginario con l’accumulo dei sintomi della rappresentazione consumistica, quella che bombarda di segnali che fanno dell’io l’unico significante e relegano nella retroguardia delle illusioni ogni enfasi sull’empatia. È un messaggio facile da smascherare, ad averne voglia. Ma nei circoli giovanili si vanno ristabilendo forme di comunicazione, interazione, integrazione che somigliano ad altre che furono in passato, oggi rimosse.

Si coltiva il piacere della prossimità, della fisicità. Tanti sono rimasti impigliati nella rete del vivere a distanza, le recenti sciagure hanno reso più complesso il quadro, ma i ragazzi hanno capito che nella concertazione tra business e intrattenimento, la merce in vendita sono loro, gli utilizzatori finali. Che la matrice “comunque economica” della nostra vita – piccole economie personali e grandi economie collettive, tutte sottomesse a volontà impalpabili e destini foschi – costituisce lo stato mentale diffuso, nell’infinita attesa d’un miglioramento che potrebbe non arrivare mai. Che, soprattutto, gli scenari possibili non sono solo quelli descritti dai media e che il lanciarsi verso il traguardo del successo è solo un’opzione – allettante per alcuni, trascurabile per altri. Che la vita è di chi la spende per ciò in cui crede. Ciò che gli dà piacere e senso. Ascoltate cosa si dicono i ragazzi d’oggi, tra loro, qui in Italia: scoprirete che il vivere economico è la porzione minoritaria di un’esperienza più affascinante, di cui gli adulti sembrano essersi dimenticati. Ma che da giovani è lì, a portata di mano.

Per il 2023, in tempo di guerre, pandemie e timori come cifre condivise – chi non ha paura è uno scriteriato! – questo può diventare un proposito, fino a disciogliersi in una previsione. Il tecno-mondo di Elon Musk, di Sam Bankman-Fried o di Mark Zuckerberg, l’ipotesi di avatar attraverso cui godere di ciò che noi “primari” non abbiamo, è imbottita di panzane, come le cryptomonete, gli Nft e le innumerevoli dimensioni esoteriche in cui sprofondano i poveri consumatori sperduti. La forza dei ragazzi potrebbe configurarsi come la prossima, incruenta rivoluzione. Sospinta da coloro che trovano attraente chi sappia ricercare, rifiutandosi di diventare strumenti di servizio. Torna in mente l’atmosfera mitica della scuola di Aristotele, dove il pensiero era la guida della vita. Ma per carità, non facciamoci sentire: quel nome potrebbe intimorire chi sente di slancio la voglia di farsi da solo la propria strada, pavimentandola insieme alle persone che più gli sono care.

Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2023 in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia da mercoledì 28 dicembre. E ordinabile qui.

Social-dipendenti.

Il narcisismo social ha peggiorato tutto: l'analisi di Feltri. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 27 agosto 2023

 Gli ultimi fatti di cronaca relativi alle violenze sessuali di gruppo avvenute sia a Palermo che a Caivano impongono riflessioni e provvedimenti urgenti che, a mio avviso, non possono consistere nella castrazione chimica, misura che incontra un largo consenso popolare ma che pure ha il carattere della vendetta e non realizza quel principio della giustizia riparativa sul quale dovrebbe poggiare il nostro ordinamento. Sarebbe più utile intervenire sul piano educativo e culturale, iter sicuramente più lungo e complicato, ma anche più efficace per costruire una società in cui le nostre figlie e le nostri nipoti non siano mai più adoperate alla stregua di oggetto sessuale da parte di un branco di delinquenti, sempre più spesso minorenni, il che è alquanto inquietante.

Si tratta di un fenomeno di epoca recente e lo posso confermare io stesso, avendo alle spalle ben sessant’anni di attività all’interno delle redazioni, dove cominciai occupandomi dapprima di musica e cinema e subito dopo proprio di cronaca nera. Nel Novecento e agli albori del nuovo millennio questi crimini compiuti dal gruppo, dove ciascun individuo – è opportuno specificarlo – ha una responsabilità penale individuale che non può assolutamente scaricare sulla comitiva, erano rarissimi. Negli ultimissimi anni, invece, il loro susseguirsi è incalzante, tanto che è anche lievitato il numero dei minorenni autori di questo genere di delitti i quali si trovano all’interno delle comunità sparse sul territorio nazionale. Insomma, lo confermano dati e statistiche, non è semplicemente una nostra percezione.

Mi sono chiesto, dunque, per quale ragione oggi si verifichino più di ieri. Il dilagare della pornografia, secondo me, non è una motivazione determinante, quantunque sia naturalmente convinto che certi contenuti possano deviare la sessualità di creature in sviluppo e, quindi, l’accesso tramite il telefonino ai siti vietati ai minori dovrebbe essere reso impossibile, ma sappiamo che, al contrario, esso è molto agevole.

C’è un dato ricorrente, se ci pensiamo bene, al di là della condivisione del delitto e della violenza di carattere sessuale, nonché di quello della giovanissima età sia delle vittime che degli stupratori: l’elemento che emerge con prepotenza ritengo che sia la natura prettamente esibizionistica dell’azione criminale. 

E' su questo che dovremmo focalizzarci per comprendere le cause che ci hanno condotto ad una simile deriva umana e civile e di qui eliminarla. Si stupra per filmare l’abuso e per poi fare girare il video sugli iPhone degli amici o per caricarlo sui social network. E' questo l’obiettivo fondamentale della violenza in sé, cosa agghiacciante, in quanto ne deriva che i soggetti autori della tortura non nutrono la benché minima consapevolezza della assoluta gravità delle loro azioni, tanto che queste rappresentano un motivo di vanto, di riconoscimento sociale, la prova del loro valore e non della loro miseria, la dimostrazione del loro essere maschi e non l’inconfutabile segno di mancanza di virilità, dal momento che chi ricorre alla forza non è per ciò stesso più uomo bensì per ciò stesso meno potente, ovvero un vigliacco, la realizzazione dell’esatta antitesi del concetto di mascolinità.

L’esibizionismo imperante, alimentato dai social network dove ciascuno quotidianamente tenta con ogni mezzo di apparire e farsi notare per godere del suo momento di popolarità, che sia negativa o positiva poco importa, è divenuto tanto malato da indurre sempre più frequentemente i ragazzi a macchiarsi di reati così orribili come la violenza sessuale di branco. Basti considerare che il minorenne accusato di avere partecipato allo stupro di Palermo che, nel frattempo, ha compiuto i 18 anni, è stato dapprima scarcerato in quanto il Gip ne aveva sottolineato la resipiscenza, ovvero una sorta di lucida coscienza del proprio errore unita alla volontà di intraprendere un percorso di rieducazione, e poi arrestato di nuovo proprio perché il neo-maggiorenne in questione ha caricato su TikTok numerosi video in cui si compiaceva di avere preso parte alla sevizia. 

Uno studio fa luce sul legame tra social media e disturbi alimentari nei giovani. di Raffaele De Luca su L'Indipendente il 14 Aprile 2023

L’utilizzo dei social media da parte dei giovani potrebbe accrescere il rischio che questi ultimi soffrano di disturbi alimentari: è quanto si evince da uno studio recentemente pubblicato dal PLOS Global Public Health, che ha fatto luce sul legame tra i social media e tali patologie. Con il lavoro scientifico – precisamente una revisione – sono stati esaminati 50 studi condotti in 17 differenti paesi nei confronti di individui di età compresa tra i 10 ed i 24 anni, e ad essere emerso è stato il fatto che i social media potrebbero far aumentare il confronto sociale o ossessioni quali quella per l’esercizio fisico. È proprio per tali motivi, dunque, che l’uso dei social media sembra generare “preoccupazioni relative all’immagine corporea, disturbi alimentari/alimentazione disordinata e cattiva salute mentale”. A correre i rischi maggiori, inoltre, sarebbero le giovani donne con un indice di massa corporea elevato e problemi di immagine corporea già esistenti, visto che più di chiunque altro potrebbero essere influenzate dai contenuti presenti online.

Gli stessi, a quanto pare, potrebbero essere altamente dannosi in ottica disturbi alimentari. Cinque studi trasversali analizzati, infatti, “hanno prodotto associazioni statisticamente significative tra l’uso dei social media e vari disturbi alimentari clinici“, che “andavano dalla sindrome da alimentazione notturna, al disturbo da alimentazione incontrollata, alla bulimia nervosa”. Altri 11 studi, poi, hanno trovato “associazioni statisticamente significative tra l’uso dei social media e comportamenti alimentari disordinati quali abbuffate, purghe, uso di lassativi e diete estreme”, mentre da uno studio si è evinto che per il 97% dei 499 partecipanti con disturbi alimentari clinici/subclinici i social media avevano ostacolato la guarigione, essendo gli stessi stati utilizzati «per trovare la motivazione a non mangiare per un po’ di tempo in più». Ultimi ma non meno importanti, infine, 33 studi da cu sono emerse “associazioni significative tra l’uso dei social media e l’insoddisfazione dell’immagine corporea”: un problema di certo non da poco, siccome cinque degli studi appena citati hanno ipotizzato che essa “abbia preceduto la successiva patologia del disturbo alimentare”.

Come anticipato, però, i disturbi alimentari non sono le uniche patologie associate all’utilizzo dei social, sembrando gli stessi legati anche ad una cattiva salute mentale in generale. Sebbene quest’ultima non costituisse l’obiettivo principale della ricerca, non si può non precisare come “nove studi hanno rivelato associazioni significative tra l’uso dei social media, i problemi dell’immagine corporea o la patologia alimentare disordinata e la cattiva salute mentale”, la quale inevitabilmente merita di essere menzionata. Dagli studi, infatti, sono emersi risultati degni di nota, essendo stati rilevati problemi quali “umore basso, ansia e sintomi depressivi”.

Tornando però ai disturbi alimentari, ovvero al principale oggetto di interesse dello studio, bisogna precisare che il legame emerso fra gli stessi ed i social media rappresenta solo un’associazione e non un nesso di causalità. Infatti, “l’insoddisfazione dell’immagine corporea e l’alimentazione disordinata” potrebbero verificarsi “a causa dell’uso dei social media” ma anche preesistere, “incoraggiando il coinvolgimento in determinate attività online” e poi “traducendosi in esiti clinicamente significativi sfavorevoli”. In altre parole, i social media potrebbero non far sviluppare disturbi alimentari in tutti i giovani ma solo in quelli più vulnerabili ai loro “effetti deleteri”, con un “ciclo di rischio che si autoalimenterebbe”.

Anche in tal caso, però, non si tratterebbe certo di una notizia tranquillizzante. Essendo i social media utilizzati da “circa il 60% dei giovani di tutto il mondo”, un’ampia percentuale di essi “potrebbe essere esposta” al ciclo sopracitato, motivo per cui il problema dovrebbe essere comunque affrontato come un “problema emergente di salute pubblica globale”. Una richiesta, del resto, legittima: basterà ricordare quanto sottolineato sul sito dell’UCL Institute for Global Health (cui appartengono gli autori dello studio), il quale ricorda che le persone affette da disturbi alimentari “sono a rischio di malattie cardiovascolari, ridotta densità ossea e altre condizioni psichiatriche“. «È imperativo pensare al benessere e alla sicurezza degli adolescenti e dei giovani sulle piattaforme dei social media», ha dunque affermato il coautore Komal Bhatia, augurandosi che il problema «riceva maggiore attenzione e che la preoccupazione si traduca in azioni concrete». [di Raffaele De Luca]

Estratto dell’articolo di V.G. per “la Repubblica” il 7 febbraio 2023.

Davanti alla scuola elementare c’è un gruppetto di quattro bimbi, hanno tra i sei e i nove anni, tre di loro hanno lo sguardo basso e tra le mani uno smartphone. Il cellulare per navigare, chattare, condividere foto, guardare video, spiare i social o leggere arriva sempre prima.

 Il 75% degli under 9 lo usa abitualmente, talvolta con i genitori accanto che ammettono di concederlo come premio se i figli sono agitati o arrabbiati. Dai dieci anni in su lo hanno praticamente tutti (96%). È la fase in cui mamme e papà raccontano di aver stipulato patti sui tempi, gli orari e i momenti nei quali i bambini possono usarlo con il parental control per limitare app e siti. Un terzo dei ragazzini delle medie, però, naviga già in totale autonomia, lontano dai genitori, ben prima dell’adolescenza.

Eppure quegli stessi genitori dicono che sì, i giovani passano troppo tempo davanti allo smartphone, l’abuso non è una favola per quanto nera: esiste ed è riconosciuto da tutte le generazioni. A cominciare dagli adulti che anzi sostengono pure che ragazzi e ragazzini non sono affatto consapevoli dei danni che l’attaccamento perenne al cellulare provoca loro.

Conseguenze che vanno dall’alienazione alle difficoltà a socializzare, empatizzare ed esprimersi, dalla scarsa autostima all’irascibilità, dalla depressione all’ansia e allo stress.

Questa e altro rivela una ricerca condotta da Swg per Italian Tech, l’hub del gruppo Gedi, e Telefono Azzurro, che sarà presentata oggi alla Camera in occasione dell’Internet Safer Day, la giornata mondiale per la sicurezza in rete. […]

Ritoccati.

Estratto dell’articolo di Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 27 Novembre 2023

Com’è odiosa la tv speculare: tocca persino scrivere critiche che si assomigliano, si rispecchiano.

Se ho sostenuto che «Io canto. Generation» suscita un’infinita tristezza perché mostra bambini offerti come caricature di adulti, specie quando interpretano testi di canzoni che li costringono allo scimmiottamento, ora dovrei rincarare la dose per la seconda edizione di «The Voice Kids».

 Che, da questo punto di vista, è ancora peggio: la caricatura è più smaccata. E poi il programma prevede anche la messa in scena della famiglia (tutta trepidante per l’esibizione dei pargoli, speranzosa che un giorno sfondino nello showbiz) e lo fa su Rai1, cioè sul servizio pubblico.

Non è che invoco il ritorno alla tv dei ragazzi, ci mancherebbe, dove il denominatore comune della programmazione era l’intento educativo […]

«The Voice Kids» è la versione junior del più noto talent show ed è condotta da Antonella Clerici (si può ancora fare ironia sugli abiti senza offendere la persona che li indossa?). In giuria i «veterani» Loredana Bertè (sempre imbronciata), Gigi D’Alessio, Clementino e la new entry Arisa. Quello che sconcerta è constatare come l’infanzia stia scomparendo.

Quella magica linea d’ombra che segnava il confine tra fanciullezza ed età adulta si fa sempre più esile: oggi i bambini appaiono meno infantili rispetto alle origini della tv, per linguaggio, modo di vestire e comportamenti. Il minore è come una bambolina perennemente protesa verso l’età successiva […] Sarebbe bello che la tv rispettasse l’autonomia e la spontaneità dei ragazzini e non mettesse il cappello su ogni loro gesto immaginando figure e forme extra large.

Estratto dell'articolo di Francesca Ferri per repubblica.it/moda-e-beauty l'1 maggio 2023. 

Baby botox, foxy eyes, russian lips: sono i nuovi codici di bellezza di Millennial e Gen Z, sempre più spesso dipendenti dalla chirurgia estetica. Si inizia con qualche iniezione di botulino o acido ialuronico per levigare le prime rughe o rimpolpare le labbra, per finire a lasciarsi sedurre dalla tentazione di ridefinire il volto come gli influencer seguiti su Instagram e TikTok.

[…] nel 2019 i pazienti tra i 18 e i 34 anni che hanno fatto ricorso alla chirurgia estetica sono stati, per la prima volta, più dei 50-60enni. Sulla base di questa osservazione allarmante, Elsa Mari e Ariane Riou, giornaliste di Le Parisien, hanno condotto un’indagine appena pubblicata nel libro Génération Bistouri (JC Lattès). […]. Hanno ascoltato madri e figlie ritoccate, ma anche ragazzi attratti da “prezzi scontati”. […]«Per chi soffre di un complesso profondo, un’operazione estetica su cui ha riflettuto bene può aiutare ad accettarsi», spiegano le autrici. «Noi denunciamo la banalizzazione, l’industrializzazione della chirurgia della bellezza e un sistema che spinge i giovani a rifarsi. Non è più una moda ma una questione di salute mentale, un lavaggio del cervello, un business organizzato». 

Le immagini di questo servizio sono di Julien Langendorff, artista visivo francese specializzato nel collage fatto a mano. […] 

Com’è avvenuto il sorpasso in fatto di chirurgia estetica delle 18-34enni rispetto alle 50-60enni?

A.R.: «È iniziato nel 2019, poi si è amplificato durante i lockdown. Le cause sono molteplici, ma credo che i social siano i principali responsabili. I giovani sono i più esposti, ogni giorno trascorrono ore davanti a foto di donne e uomini ritoccati, attraverso filtri e app, che rimandano a un ideale di bellezza falso e raggiungibile solo attraverso la chirurgia estetica (vedi servizio a pagina 104, ndr.). Le immagini modificate creano una confusione tra fantasia e realtà, oltre che complessi. Negli ultimi 5-6 anni, poi, c’è stata una crescita della pubblicità dei chirurghi estetici, anche attraverso influencer».

E.M.: «I filtri e le foto ritoccate ti portano a guardare al tuo corpo in modo diverso. Creano un desiderio, un bisogno di chirurgia estetica che ha generato un business sulla pelle dei giovani». 

La chirurgia estetica può diventare un’ossessione?

A.R.: «È un circolo vizioso, chi ci entra sa che si tratta di un’ossessione, ma non riesce in nessun modo a resistere».

E.M.: «Ci sono due categorie di persone. Quelle che hanno un difetto profondo e ricorrono al bisturi per risolverlo. E quelle che iniziano a rifarsi il seno e poi trovano sempre nuovi aspetti da correggere».

Un’ossessione che deriva da altre ossessioni?

E.M.: «Sì, per esempio da quella per il corpo, propria della società dei selfie. I giovani si fotografano, diventano l’oggetto della foto e attraverso questa oggettivazione scoprono quello che non gli piace. Abbiamo conosciuto giovani con l’ossessione della simmetria o vittime della dismorfofobia: a 25 anni vanno dai medici a chiedere di cancellare rughe che hanno notato attraverso la fotocamera del cellulare. Non si guardano più allo specchio, ma attraverso strumenti che deformano l’immagine».

 […]Qual è l’ideale di bellezza della Generazione Bisturi?

A.R.: «Il modello è Kim Kardashian: seno prosperoso, vita sottile, glutei prominenti. Le ragazze che escono dalle cliniche sono dei cloni». 

Quali sono gli interventi più richiesti?

E.M.: «La rinoplastica, la liposuzione e l’aumento del seno. Dieci anni fa in Francia erano richiesti dal 10% dei giovani, ora parliamo del 50%».

A. R.: «Ecco perché chiediamo che le autorità sanitarie svolgano il loro ruolo di garante della sicurezza e definiscano delle regole con i professionisti della salute, in modo che i ragazzi non cadano in trappola». 

Non sempre si finisce in buone mani?

A.R.: «I social sono pieni di falsi medici estetici pubblicizzati da alcuni influencer. Non hanno diplomi, né qualifiche e fanno iniezioni in salette nascoste e studi affittati su Airbnb. Abbiamo parlato con vittime di questi medici clandestini, persone che rimarranno deformate a vita». 

[…]Cosa vi ha colpito di più della vostra inchiesta?

A.R.: «Non immaginavamo fino a che punto medicina e chirurgia estetica fossero diventate un’industria. A Marsiglia, c’erano ragazze che si facevano regalare naso o glutei dai genitori per la maturità. Ci hanno colpito i giovani in Turchia che per la moda del sorriso perfetto si fanno limare i denti e applicare faccette, ignorando il rischio di perderli a 50 anni. O la madre e le due figlie in Provenza che si sono rifatte insieme la bocca perché poi sarebbe diventata più bella con il rossetto». 

Viziosi.

«Per molti giovani oggi il sesso non è un tabù. Il vero tabù è amare ed essere gentili». «Vogliono farlo e basta e prima è e meglio è. Spesso cercando una escort che li traghetti alla vita adulta oppure restano online intrappolati in un autoerotismo difensivo. Con una pornografia che sta facendo danni enormi». Parla la sessuologa Valeria Randone. Francesca Barra su L'Espresso il 05 ottobre 2023 

Il dibattito sulla violenza in questi giorni si sta soffermando sugli adolescenti e sul bisogno di prevenire con una nuova educazione sentimentale. La sessuologa Valeria Randone mi spiega che è come se avessero smarrito i modelli di comportamento, ciò che è giusto fare e ciò che non lo è. Ciò che si posta e ciò che si tiene privato. Manca la totale differenza tra intimità ed extimità. 

Secondo lei i giovani parlano di sesso in modo più disinibito o è un tabù?

«Tabù non è più stuprare, filmare i fatti, condividere, essere gongolanti delle proprie gesta amatorie, assumere dei farmaci pro-erettivi da giovanissimi per essere performanti, ubriacarsi e usare l’alcol come disinibitore. Tabù è amare, essere gentili, rispettosi, contro corrente».  

Per rimediare quanto potrebbe fare la scuola?

«C’è una confusione di fondo tra il fare educazione affettiva e sessuale e fare terrorismo psicologico (“Mettiti il preservativo così non metti incinta nessuno oppure non ti contagi le infezioni sessualmente trasmissibili”).  La promozione del benessere affettivo, amoroso e sessuale è veicolata da un linguaggio diverso: sono parole gentili, non giudicanti e risolte, da parte di un adulto gentile, non giudicante e risolto, che insegni l’arte di amare. Un’arte antica che va ben oltre l’incontro ginnico e circense tra due genitali, oltre la semplice durata del rapporto sessuale spesso ego-centrato che non tiene conto del piacere femminile, oltre le presunte misure che calcano le orme del porno. Amare è ben altra cosa. Anche da giovani, anche per una sola notte».  

Che idea hanno i ragazzi del sesso? 

«Si fa e basta e prima è e meglio è. E se non si fa non si pongono il problema delle eventuali paure, fobie, fragilità, altro, cercano una escort che li traghetti alla vita adulta oppure restano online, soli, intrappolati in un autoerotismo difensivo». 

Perché i medici che fanno “terapie” online sono così seguiti anche su questi temi e quanti danno fanno?

«Sono così seguiti perché rappresentano la scorciatoia, la non assunzione di responsabilità da parte di chi li sceglie - ma spesso si fanno scegliere - del disagio provato. Tra il clinico e il motivatore o venditore c’è una grande differenza. La terapia non è una semplice prescrizione di presunte pillole e pillole di saggezza o aforismi presi e incollati come sotto testo a video imbarazzanti e tutti uguali con tanto di imdici sventolati al vento. La terapia è una magia, un percorso unico che segue e mai precede la diagnosi andro-sessuologica: un lavoro sfaccettato e poliedrico che necessita dello studio del paziente, del suo cuore e corpo, delle sue fantasie e paure, e della sua coppia».  

Cosa pensano del corpo i ragazzi? 

«Che sia una vetrina di narcisistica memoria, da postare, modificare con i filtri, scolpire in palestra, strizzare in vestiti smilzi e stressanti; spesso non lo ascoltano, non lo conoscono, non lo rispettano, non ne fruiscono.  Il corpo è, invece, contenitore e contenuto». 

Pornografia: bisognerebbe mettere delle regole sull’accesso? 

«Assolutamente si in funzione dell’età».  

Quanto fa male? 

«Tanto. Il rischio è di interiorizzare quei modelli e di riproporli tra le loro lenzuola. Promiscuità. Aggressività. Aspettative elevate. Donne urlanti e sottomesse. Assenza di gradualità e di rispetto. Non conoscenza della sessualità femminile. Verbalizzazioni aggressive e svalutanti e tanto altro». 

Come si possono distogliere da quella visione? 

«Proponendogli altri modelli: fare l’amore da innamorati e più trasgressivo di così tanta confusione tra il fare e il sentire».

Simone Alliva per “L’Espresso” il 27 maggio 2023.

In principio era il sesso. Una forza potente, libera e primitiva. Presenza originaria, ingombrante per le religioni, che spesso tentano di incanalarla, controllarla e regolamentarla. Il sesso esiste e resiste da sempre. Eppure, oggi la mancanza di libido ed erotismo si estende davanti a noi come un inatteso arcipelago arido. È un tempo nuovo, molto diverso da quello che ci lasciamo alle spalle. In passato l’assenza di un argomento dalla conversazione, dal discorso pubblico, indicava in realtà una presenza molto forte. 

Oggi è il contrario. Viviamo un’epoca di post-modernismo: le pensose riflessioni sulla definizione della propria identità sessuale non coincidono necessariamente con l’esperienza diretta della propria sessualità. «Ho pazienti giovanissime e giovanissimi che riflettono con competenza sulla loro identità, ma non hanno mai neppure dato un bacio», racconta a L’Espresso lo psicoanalista e psichiatra Vittorio Lingiardi. 

Siamo indotti a credere che viviamo in un’epoca sessualmente liberata eppure la sessualità umana contemporanea, quella della generazione Z soprattutto, ribolle di verità sommerse. «Il conflitto tra ciò che la società ci impone di sentire e ciò che sentiamo realmente è probabilmente la principale fonte di confusione e sofferenza del nostro tempo», racconta Leo, 21 anni.

Il desiderio, l’intimità, il sesso sono in crisi. E già gli esperti parlano di “recessione sessuale”. Un fenomeno che arriva da lontano.

In America, dal 1991 al 2017, il Centers for Disease Control and Prevention’s Youth Risk Behavior Survey ha rilevato che la percentuale di studenti delle scuole superiori che avevano avuto rapporti sessuali era scesa dal 54 al 40 per cento. In altre parole, nello spazio di una generazione, il sesso era passato da qualcosa che la maggior parte degli adolescenti ha sperimentato a qualcosa che la maggior parte non fa più. 

Poi il 2020, l’arrivo del Covid-19 e il crollo inevitabile dei rapporti sessuali. L’Italia ha registrato in quell’anno un calo della libido dell’83 per cento, come ha affermato una ricerca promossa da Durex nell’ambito della campagna globale “Safe is the new normal”, realizzata in collaborazione con Anlaids, associazione per la lotta contro l’Aids. C’era già stato un tempo, molto simile, in cui il sesso libero (sempre consenziente, piccolo dettaglio ma non superfluo) aveva conosciuto una frenata.

Era un’altra pandemia, quella dell’Aids. Oggi è invece un insieme di fattori a portare al ritiro dell’intimità, come spiega Vittorio Lingiardi: «Innanzitutto la vita online, che per molte persone, giovani o meno, si è mangiata buona parte della vita offline. Il fatto che la vita di molti si sia virtualizzata e il contatto con “la brutalità delle cose”, per citare un’espressione usata dalla psicoanalista Lorena Preta, si sia rarefatto, rende probabilmente più ritrose, insicure e vulnerabili, anche narcisisticamente, molte persone». 

Un fenomeno che si inserisce in maniera sottile in un tempo fatto di incertezze sociali e sanitarie: «In generale», continua Lingiardi, «penso che, rispetto per esempio alla mia giovinezza, oggi la maggior esposizione dei corpi, e quindi la loro assenza dalla scena misteriosa e anche trasgressiva della loro esplorazione, li abbia paradossalmente resi meno “desideranti”. Potremmo dire, in modo un po’ provocatorio, che l’intellettualizzazione della sessualità l’ha resa più intelligente ma meno desiderante. A questo va aggiunto il capitolo sanitario, che ha un peso notevole.

Se già l’HIV può avere contribuito a frenare lo slancio sessuale, certo la pandemia e il conseguente distanziamento fisico hanno fatto la loro parte. Soprattutto in alcuni adolescenti, magari già portati a una posizione di “ritiro”, il distanziamento sociale da pandemia può avere avuto una ricaduta negativa sulla capacità di costruire un’intimità. Consegnarsi all’intimità, del resto, non è mai stato semplice: si apprende a piccoli passi esplorando e mettendosi in gioco nelle relazioni. Il recente e sventurato, ancorché circoscritto, affacciarsi sulla scena del monkeypox ha poi ulteriormente incupito la scena».

Nella scena, come la definisce Lingiardi, fa capolino sotto il cono di luce una comunità sempre più consapevole, rappresentata dall’ultima lettera nella sigla Lgbtqa, ma pochissimo raccontata: quella delle persone asessuali. Su di essa c’è una ricerca italiana dal titolo “Studio di validazione Sexual Desire and Erotic Fantasies nella popolazione asessuale” realizzata dallo stesso Vittorio Lingiardi e Filippo Maria Nimbi del Dipartimento di Psicologia Dinamica dell’Università La Sapienza di Roma.

La prima sulla comunità asessuale in Italia e che L’Espresso racconta in anteprima: «Lo scopo di questa ricerca è stato quello di esplorare possibili differenze nell’espressione del desiderio sessuale e delle fantasie erotiche in termini di contenuti, emozioni e frequenza tra le persone che appartengono allo spettro asessuale», spiega il dottor Nimbi: «Parola che include asessuali, demisessuali, grey-sessuali e questioning, cioè persone che si stanno interrogando rispetto al proprio orientamento asessuale». 

Lo studio ha coinvolto 1.041 persone italiane che dichiarano di appartenere allo spettro asessuale reclutate tramite internet e i social network. L’età dei partecipanti è tra i 18 e i 25 anni, in prevalenza donne (69 per cento) e persone non binarie (14,7 per cento), seguite da persone che si stanno interrogando rispetto alla propria identità di genere (8,5) e uomini (7,8). I partecipanti definiscono il proprio orientamento sessuale come demisessuale (31,8), asessuali (28,5), grigio-asessuali (11,9) e questioning (27,8). Quasi il 60 per cento riporta di essere single. 

Le persone asessuali riportano più bassi livelli di desiderio di masturbazione e di attività sessuale con un partner rispetto a tutti gli altri gruppi, una minore frequenza di fantasie se confrontati con altri gruppi. Questa differenza non viene vissuta in maniera ostile dalle persone asessuali, le quali non riferiscono disagio o emozioni negative riguardo alle proprie fantasie. Come spiega Nimbi: «All’interno dello spettro asessuale c’è un mondo di esperienze diverse con la sessualità e può essere riduzionistico considerare una persona asessuale come semplicemente non attratta dal sesso». 

Che non sia una categoria omogenea lo conferma la stessa comunità. Becks ha 22 anni e il suo approdo alla comunità “Ace” (abbreviazione fonetica di “asexual”) arriva in piena adolescenza: «Avevo 14 anni, stavo con il mio primo e unico ragazzo ma qualcosa non andava. Non ho mai amato molto il contatto fisico. Solo abbracci, tenersi per mano, darsi baci a stampo. Tutto il resto non mi interessava, pensavo di essere sbagliato. Poi ho fatto una ricerca e ho scoperto tramite il web tutte le definizioni delle sessualità. Ho deciso che per un anno avrei continuato a conoscere persone per capire se c’era attrazione fisica e sessuale. Non c’era. A 15 anni ho iniziato a identificarmi come asessuale. Sto bene così. Ho una libido ma non è rivolta agli altri e se ho desideri li soddisfo da solo». 

Non è così per Samuele che ha 21 anni: «Moltissime persone asessuali sentono la loro libido e la soddisfano da soli, io invece ho anche una libido molto bassa. Mi sono sempre sentito sbagliato, sin dall’adolescenza. Fingevo di provare qualcosa che non avevo. Poi ho conosciuto il mondo dell’asessualità e mi sono ritrovato». Oggi Samuele è fidanzato con una ragazza, non asessuale. «Ma ci sono molti modi di essere intimi con una persona: io creo intimità parlando, condividendo attività, tenerezze».

Alice, che di anni ne ha appena 18, insiste: «Ci sono molte cose che vanno oltre le relazioni sessuali che ci vengono vendute come se fossero il centro della società. La nostra identità non finisce soltanto con il desiderio». Sembra farle eco Andrea, 24 anni: «L’asessualità più diffusa di quello che si pensa. Ci sono donne che fanno sesso con il compagno semplicemente per accontentarlo ma non trovano soddisfazione nell’atto in sé: anche quella è una forma di asessualità».

Ma quanto l’approdo sull’arcipelago del mancato desiderio è frutto di pensieri lunghi e autocoscienza? «Sono stato tentato a fermarmi un attimo e pensare il perché di questa mia mancanza», risponde Samuele: «Poi sono arrivato alla consapevolezza che poco importa. Lascio questa ricerca alle persone più esperte, agli studiosi, sperando che riescano a tenere gli occhi aperti sulle esperienze delle persone e del loro sentire. Io per adesso sto bene così». 

Proprio sul tema il panorama scientifico resta diviso. Per Lori Brotto, psicologa clinica e sessuologa ricercatrice presso la University of British Columbia, l’asessualità è un orientamento sessuale al pari dell’eterosessualità, dell’omosessualità e della bisessualità. «E va distinta dall’astinenza sessuale, che è la decisione consapevole di non fare sesso anche in presenza di desiderio sessuale. Negli individui asessuali, il desiderio di sesso non esiste né è mai esistito».

Per altri, e tra questi Vittorio Lingiardi, «il ritiro o il disinteresse per la vita sessuale può rimandare a molti e diversi percorsi di sviluppo e di personalità. Provo a elencarne alcuni, che ovviamente possono intrecciarsi: un temperamento biologicamente poco propenso alla ricerca sessuale, la timidezza, l’insicurezza o l’evitamento come tratti caratteristici della propria personalità o del proprio sistema di meccanismi di difesa, oppure come conseguenze di precedenti esperienze spiacevoli o addirittura traumatiche. Detto questo, lo spettro dei comportamenti cosiddetti “asexual” è molto ampio, dal disinteresse all’indifferenza alla repulsione. 

Un’altra riflessione che un buon clinico dovrebbe fare, di fronte a queste tematiche, riguarda il rapporto tra la vita fantasmatica (desideri e fantasie) e l’esperienza nella vita reale. A questo aggiungerei una riflessione sul ruolo svolto dalla sessualità online (anche ma non necessariamente dalla pornografia) nella vita di un individuo. È un fenomeno segnalato, inevitabilmente auto-etichettato, amplificato online, su cui è utile sia sociologicamente sia psicologicamente, avviare una riflessione».

Il dibattito resta aperto. Le nuove generazioni camminano alla ricerca di un’identità tra le lettere di una sigla che diventa sempre più lunga – bisex, gay, lesbica, etero, pansessuale, asessuale... – e che punta a comunicare chi siamo e cosa desideriamo: «Anche se va detto che non esiste un vero asessuale. Se vi sembra una parola utile, usatela. Quel che importa è quanto a fondo capiamo noi stessi, e non in che misura corrispondiamo a chissà quale idea platonica del nostro orientamento. Termini come asessuale sono solo strumenti per aiutare le persone a capirsi meglio». Proprio come sostiene David Jay, l’attivista asessuale di maggior rilievo al mondo, ritenuto il fondatore del movimento asex. 

DAGONEWS il 12 maggio 2023.

Gli studenti delle scuole superiori hanno meno rapporti sessuali. Questo dicono gli studi. Ma questo non significa che facciano meno sesso. Il linguaggio dell'amore e le azioni dietro di esso si stanno evolvendo. E il cambiamento non viene adeguatamente colto negli studi. 

Per anni, gli studi hanno mostrato un calo del numero di studenti delle scuole superiori americane che fanno sesso. Tale tendenza è continuata, non a caso, nei primi anni della pandemia, secondo un recente sondaggio dei Centers for Disease Control and Prevention. Lo studio ha rilevato che il 30% degli adolescenti nel 2021 ha affermato di aver mai fatto sesso, in calo rispetto al 38% nel 2019 e un enorme calo rispetto a tre decenni fa, quando più della metà degli adolescenti ha riferito di aver fatto sesso.

IL SIGNIFICATO DEL SESSO

Per cominciare, qual è la definizione di sesso? «Hmm. Questa è una buona domanda», dice Rose, 17 anni, una studentessa di una scuola superiore del New England.

Ci ha pensato per 20 secondi, poi ha elencato una serie di possibilità di sesso eterosessuale, sesso orale e relazioni tra partner dello stesso sesso o LGBTQ. Nel suo campus, i rapporti a breve termine, noti come "situazioni", sono in genere a basso impegno e ad alto rischio sia dal punto di vista della salute che da quello emotivo.

Per gli adolescenti di oggi, la conversazione sulla sessualità si sta spostando da una situazione univoca a uno spettro, così come il tipo di sesso che le persone fanno. Alla domanda "hai mai avuto rapporti sessuali?" «Onestamente, questa domanda fa un po' ridere - dice Kay, 18 anni, che si identifica come queer e frequenta una scuola superiore pubblica vicino a Lansing, nel Michigan - Probabilmente ci sono molti adolescenti che dicono, “No, non ho mai avuto rapporti sessuali, ma ho fatto altri tipi di sesso”»

L'IDENTITÀ SESSUALE È IN EVOLUZIONE

Diversi esperti affermano che i risultati del CDC potrebbero segnalare un cambiamento nel modo in cui si sta evolvendo la sessualità adolescenziale, con la fluidità di genere che diventando più comune insieme a una diminuzione dello stigma sull'identificazione come non eterosessuale. 

Indicano un'altra scoperta nello studio di quest'anno che ha rilevato che la percentuale di ragazzi delle scuole superiori che si identificano come eterosessuali è scesa a circa il 75%, in calo rispetto a circa l'89% nel 2015, quando il CDC ha iniziato a chiedere informazioni sull'orientamento sessuale. Nel frattempo, la quota di persone che si sono identificate come lesbiche, gay o bisessuali è salita al 15%, rispetto all'8% del 2015. 

MENO TEEN SEX È UNA BUONA NOTIZIA?

Ci sono una moltitudine di teorie sul motivo per cui i tassi riportati di sesso nelle scuole superiori sono costantemente diminuiti e cosa potrebbe dire sulla società americana.

«Immagino che alcuni genitori si rallegrino e altri siano preoccupati, e penso che probabilmente ci sia una buona ragione per entrambe le fazioni» afferma Sharon Hoover, condirettore del National Center for School Mental Health presso l'Università del Maryland.

Il calo di quest'anno, il calo più netto mai registrato, ha chiaramente avuto molto a che fare con la pandemia, che ha tenuto i ragazzi isolati. Ma, anche quando la vita ha iniziato a tornare alla normalità, molti giovani si sono sentiti a disagio a interagire e hanno scoperto che le loro capacità di comunicazione verbale erano diminuite.

Diversi adolescenti intervistati hanno affermato che quando le scuole hanno riaperto, sono tornati con un'intensa ansia sociale aggravata dalla paura di contrarre il COVID. Ciò ha aggiunto un nuovo livello di ansia alle preoccupazioni pre-pandemia sui rapporti sessuali come rimanere incinta o contrarre malattie sessualmente trasmissibili.

Un'altra causa del calo dei tassi di sesso potrebbe essere il facile accesso al porno online, affermano gli esperti. All'età di 17 anni, tre quarti degli adolescenti ha visto dei porno, con l'età media della prima esposizione a 12 anni, secondo un rapporto di quest'anno del Common Sense Media. 

C'È UNA DEFINIZIONE IN EVOLUZIONE DI CONSENSO?

Diversi esperti hanno affermato di sperare che il declino possa essere in parte attribuito a una più ampia comprensione del consenso e a un aumento dell'educazione sessuale "completa" insegnata in molte scuole.

A differenza dei programmi in cui si parla solo di astinenza, le lezioni includono discussioni sulla comprensione delle relazioni sane, sull'identità di genere, sull'orientamento sessuale e sulla prevenzione delle gravidanze non pianificate e sulle infezioni sessualmente trasmissibili. Contrariamente a quanto pensano i critici, i giovani avrebbero maggiori probabilità di ritardare l'inizio dell'attività sessuale se hanno accesso all'educazione sessuale.

Ma c’è chi pensa che il declino sia solo temporaneo e che gli adolscenti si daranno da fare per recuperare gli anni persi.

Estratto da leggo.it il 23 aprile 2023.

Si chiama "Sex roulette" l'ultima moda dei giovanissimi sui social. Stavolta l'obiettivo di ragazzi e ragazze che si cimentano nella folle sfida è provare a non incappare in una gravidanza, facendo sesso senza protezioni e contraccettivi. 

Nessuno però ha intenzione di tenere i bambini, la vicenda si conclude con un aborto. Su questi episodi sta indagando la procura di Brescia, dipartimento soggetti deboli, che ha competenza distrettuale anche sulle province di Bergamo, Cremona e Mantova, riporta BresciaToday. […]

Estratto dell'articolo di leggo.it il 23 aprile 2023.

Una notte di follia in vacanza a Tenerife, molti drink di troppo, l'incontro casuale con un ragazzo finito a letto, e la scoperta - poco dopo - di essere rimasta incinta. Di uno sconosciuto. Ora la trentenne Sarah-Jayne Snow, che ha scelto di tenere il bambino ed è prossima al parto, ha scelto TikTok per provare a rintracciare il padre 19enne. 

Il video pubblicato sulla piattaforma social ha ottenuto rapidamente più di due milioni di visualizzazioni e potrebbe aver contribuito a dare un risvolto drammatico alla vicenda: secondo alcuni utenti il ragazzo - 19 anni - sarebbe morto in un tragico incidente.

 […] Dopo aver fatto sesso, entrambi consenzienti, per una scelta comune non si sono scambiati i numeri di telefono né tantomeno detti i loro nomi. Poco dopo la giovane donna, che oggi ha 30 anni, ha scoperto di essere incinta […] Secondo quanto racconta, ha solo una foto del ragazzo, che ha scattato mentre faceva una videochiamata con la sorella. Inoltre, ricorda che il giovane lavorava nel centro commerciale Braehead di Glasgow.

Sex roulette, se è arrivato il momento di dire stop allo scempio della gioventù. Redazione su L'Identità il 30 Aprile 2023 

DI CATERINA COLLOVATI

Come sono lontani i tempi in cui il divertimento di noi giovani ragazzi era rappresentato dallo scambio delle figurine e la trasgressione era la corsa in motorino dietro a quel bel ragazzo del liceo o la sigaretta rubata al pacchetto di Marlboro rosse di papà. Ebbene oggi da quella cloaca a cielo aperto che è il mondo social, arriva un’altra forma di divertimento, o meglio di passatempo per giovani che non sanno riconoscere il disvalore di determinate azioni, si chiama “sex roulette”. Prende il nome dalla letale roulette russa, con la sola differenza che non uccide. Apparentemente non uccide, sostanzialmente riduce a mero oggetto con conseguenze spesso irreparabili.

Si tratta di un gioco di sesso senza protezione, perde chi rimane incinta. Una sfida insulsa e pericolosa, ideata da ricchi e amorali milionari di Belgrado, mutuata rapidamente attraverso il Regno Unito fino al nostro Paese. Nel passaggio tra i vari Stati, anziché arrestarsi si è divulgata con varianti sempre più aberranti. La novità ora consiste nell’inserire un soggetto sieropositivo nel gruppo. La gravidanza indesiderata non è quindi l’unico rischio che corrono le giovanissime che, senza alcun senso critico , si buttano nella mischia. Possono contrarre malattie sessualmente trasmissibili. La gamma è ampia, si va dalla gonorrea, alla sifilide, al sempre temuto Aids senza dimenticare il trauma dell’aborto, per chi perde la sfida, che non è mai una passeggiata.

Che la dignità non fosse più un valore ce ne eravamo accorti da tempo, ma che il buonsenso si fosse dileguato così rapidamente è fatto assai sconcertante. Il percorso sentimentale dei giovani non è più lineare come un tempo. La scelta di un partner sulla base delle affinità caratteriali, estetiche e intellettive non vale più. Non esiste più la capacità di coltivare un rapporto per farlo sbocciare poi in relazione duratura, da qui la denatalità che preoccupa sempre più. Il sesso poi, soprattutto a due, è noia, non dà stimoli, non attrae più. Un’epoca sciagurata con esseri umani alla deriva sempre più stupidi, acritici e autolesionisti.

La domanda appare banale, ma non smetteremo mai di chiederci di chi è la colpa se una ragazza senza apparenti disagi si lancia in queste sfide? Sotto accusa sono i genitori degli adolescenti che oggi non sanno fare i genitori. Sono a loro volta immaturi, privi di responsabilità e di capacità di discernere i pericoli che possono incontrare i figli sui social, poiché di quei social sono loro le prime vittime. Li usano quanto i figli, se non di più. Diffondono le foto dei pargoli fin da piccoli, anzi che dico, fin da quando i figli stessi sono ancora in pancia, ignari che quelle foto resteranno alla mercé di chiunque e soprattutto rappresenteranno il primo insegnamento per quei bambini, nativi digitali, che cresceranno con l’idea che per essere “ fighi” occorre apparire, mostrarsi, esibirsi, non importa come, basta esserci.

Bene ha fatto la Procura di Brescia insieme al Dipartimento Soggetti Deboli ad indagare su questa scellerata challenge. Perché se un genitore non si chiede cosa stia facendo un figlio al di là di quello schermo del computer, se un padre e una madre non sono in grado di inculcare principi morali alla prole, se non insegnano più la differenza tra il bene e il male, forse è arrivato il momento di dire stop allo scempio della gioventù.

Drogati.

Da nytimes.com domenica 10 settembre 2023.

È stata "l'estate del girl power", con case da sogno rosa, canzoni e paillettes, Barbie, Taylor Swift e Beyoncé hanno sostenuto l'economia e fatto impennare la fiducia delle donne. 

Quindi mi sono sentito triste, parlando con gli amici che lasciavano le figlie al college, sentendo parlare di ansia dilagante, campus inondati di Prozac e Lexapro - e lunghe attese per la terapia. 

È un argomento importante tra le mamme: le figlie alle prese con l'ansia o gli effetti dei farmaci anti-ansia, che possono includere aumento di peso e perdita di libido. Molte giovani universitarie fanno ping pong tra l'ansia, senza pillole, e l'intorpidimento e l'insicurezza corporea, se le assumono.

Queste giovani donne sembrano avere tutto, eppure non sono in grado di godersi appieno un periodo della loro vita che dovrebbe essere pieno di avventure e promesse. 

«Il ritorno a scuola è sempre stato un momento di eccitazione per la direzione in cui era diretto il futuro: nuovi quaderni, nuove provviste - rifletteva un'amica, madre di una figlia adolescente - Ma sembra che le persone stiano sprofondando nella tristezza. Tutti cercano uno strizzacervelli invece di una matita appuntita».

La canzone di Billie Eilish nel film “Barbie”, “What Was I Made For?”, è diventata l'inno delle giovani donne ansiose e depresse, in parte perché Eilish ha parlato apertamente delle sue difficoltà tra i 12 e i 16 anni, dei suoi pensieri suicidi, autolesionismo e dismorfismo corporeo. 

In superficie, i testi parlano di una bambola che si trasforma in un essere umano, ma Eilish, 21 anni, dice che riflettono anche il suo viaggio. 

Prima galleggiavo, ora cado e basta

Lo sapevo ma ora non ne sono più sicuro

Per cosa sono stato creata …

Non so come sentirmi

Ma un giorno, potrei. …

Quando è finito? Tutto il divertimento

Sono di nuovo triste, non dirlo al mio ragazzo

Non è quello per cui è fatto

La disperazione adolescenziale è stata ampiamente analizzata negli ultimi anni: i danni derivanti dai social media, gli algoritmi di microtargeting che pompano l’invidia, i conflitti e le politiche divisive, le sparatorie senza fine nelle scuole, il lockdown con il Covid, un pianeta divorato da fiamme e inondazioni, una conquista del “mai abbastanza” e del consumismo, adulti ansiosi che creano un’atmosfera nervosa, una società connessa digitalmente ma emotivamente disgiunta e spiritualmente disancorata. 

«I giovani acquisiscono molte informazioni allarmanti e, grazie ai dispositivi digitali, loro, come molti di noi, raccolgono informazioni tutto il giorno, tutti i giorni» dice Lisa Damour, autrice di “The Emotional Lives of Teenagers”.

Una situazione che va oltre i giovani. Il “Wall Street Journal” ha pubblicato un articolo in prima pagina sul “Business in forte espansione dell'ansia americana” che iniziava così: «Una ricerca per 'sollievo dall'ansia' su Google fa apparire collegamenti ad integratori sotto forma di pillole, cerotti, caramelle gommose e spray per la bocca. Ci sono dispositivi vibranti che ti appendono al collo e "tonificano il tuo nervo vago", animali di peluche, palline antistress e libri da colorare che pretendono di portare calma». 

La copertina di Newsweek racconta “una generazione colpita dall’ansia climatica”, “Non perdere la speranza”. L’app Calm ha aggiunto meditazioni e conferenze sull’ansia, tra cui “Felt Piano for Anxiety”, in cui il pianista aggiunge del feltro tra i martelli e le corde per un suono più rilassante. 

Anche la commedia romantica ne risente. In un'anteprima di "What Happens Later" con Meg Ryan e David Duchovny, il personaggio di Duchovny condivide: "Mi è stata diagnosticata un'ansia anticipatoria".

Laurence Steinberg, autrice di “You and Your Adult Child”, ha affermato che l’ansia aumenta notevolmente tra le donne nella prima metà dei vent’anni, quando il cervello è ancora plastico. Ha detto che le giovani donne e gli uomini sono sconvolti dal costo degli alloggi, dal cambiamento climatico, dal razzismo e dai pregiudizi, e che le giovani donne sono anche colpite dalle minacce alla loro salute riproduttiva. (Lo storico Adam Tooze dice che il mondo è in “una policrisi”.)

«Molti dei miei amici con figli adulti hanno dovuto entrare in terapia perché erano molto stressati a causa dei problemi dei loro figli - ha osservato Steinberg - Non penso che dovremmo limitarci a distribuire pillole pensando che questo risolverà il problema». 

Forse le donne vengono colpite più duramente perché sono più legate alle emozioni e più concentrate sulla conversazione, sulle relazioni, sull'intimità, sull'educazione e sulla comunità femminile, come vediamo dai tempi dei romanzi di Jane Austen fino a "Real Housewives".

La figlia 19enne di un'amica, che ha preso Prozac per un certo periodo, ha spiegato: «Il Covid è arrivato proprio mentre stavamo entrando nel mondo e iniziavamo a vederci per la prima volta come esseri sessuali. Tutto quello che siamo riusciti a fare è stato farci ossessionare da TikTok, che è pieno di disinformazione. Fuori il mondo era apocalittico, mentre a casa anche il nostro mondo era un po’ apocalittico perché stavamo perdendo il senso di noi stessi». Ma poi ha mandato un messaggio a sua madre venerdì: «Staremo bene. Le donne tendono a farcela».

Estratto dell’articolo di Maddalena Loy per “la Verità” il 17 luglio 2023.

Cocaina e cannabis, ma anche antidepressivi (Fluoxetina), calmanti (Quetiapina), sonniferi (Stilnox) e benzodiazepine (Xanax): sono questi gli psicofarmaci assunti dalla ragazza che ha accusato Leonardo La Russa di violenza sessuale. Caso isolato? Affatto: gli ultimi dati disponibili sul consumo di psicofarmaci tra i ragazzi sono sempre più allarmanti.

Nell’ultimo anno quasi 300.000 adolescenti ne hanno fatto uso senza prescrizione medica. Secondo uno studio del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), il 10,8% della popolazione tra i 15 e i 19 anni, un giovane su dieci, ricorre a psicofarmaci per «uso ricreativo». 

Non sono, dunque, medicine prescritte dal medico per curare patologie specifiche o disturbi emotivi, ma «psicofarmaci dello sballo» dedicati ai momenti di evasione e spesso consumati insieme con alcool o cannabis per amplificarne gli effetti. I giovani li consumano anche per aumentare le performance scolastiche e la soglia di attenzione, migliorare l’aspetto fisico e l’autostima, sentirsi in forma e ottimizzare sonno e umore.

[…] È quasi raddoppiato anche il numero di adolescenti che ne fanno un uso abituale: dall’1,1% del 2021 all’1,9% dello scorso anno. Una vera dipendenza, associata anche ad altre sostanze psicoattive (tabacco, energy drink, benzodiazepine e sostanze stupefacenti) che favoriscono lo sviluppo di comportamenti pericolosi. La tipologia di psicofarmaci senza prescrizione medica maggiormente utilizzata è quella dei farmaci per dormire (5%), seguita da quelli per l’umore e le diete (1,7%) e dalle medicine per l’aumento dell’attenzione (1,2%). Ma dove e come si riforniscono i ragazzi?

Secondo lo studio, il 42% di loro dichiara di rifornirsi dall’armadietto dei medicinali di casa. Un problema tutto italiano, poiché in molti Paesi europei i medicinali sono venduti esattamente secondo ricetta medica: su prescrizione di 10 compresse, il farmacista vende blister da 10. In Italia, invece, anche se il medico prescrive 10 compresse, le farmacie vendono di default scatole da 20 o 40 compresse. Risultato, le confezioni spesso restano nell’armadietto quasi piene, fino a scadenza.

Il 28% dei giovani le cerca anche su Internet: i ragazzi comprano online psicofarmaci e sciroppi a base di codeina o antistaminici e li mischiano con bevande energetiche come la taurina per preparare «cocktail da sballo» come il purple syrup. Il 22%, infine, li trova «per strada», dove si è sviluppato una sorta di mercato nero che sfugge al controllo di adulti e medici.

Una conferma alle dinamiche di approvvigionamento degli psicofarmaci da parte degli adolescenti era già emersa nel corso del processo per lo stupro di Capodanno 2020 a Roma, nel quartiere di Primavalle. Nelle chat diffuse in aula, una delle ragazzine, prima di recarsi alla festa, comunicava alle amiche di non trovare il Rivotril (farmaco benzodiazepinico). 

L’amica quattordicenne la rassicurava: «Le pasticche di Xanax e Rivotril ve le regalo, tanto è Capodanno. Le ho portate da casa, senza dire altro».  […]

Ubriachi.

Estratto dell’articolo di Alex Corlazzoli per ilfattoquotidiano.it mercoledì 9 agosto 2023.

“Un Governo serio non può proporre taxi gratis per chi beve in discoteca. Ho chiesto lumi anche al Governatore del Veneto, Luca Zaia che stimo seriamente ma non mi ha risposto: è forse imbarazzato per l’iniziativa del suo leader Matteo Salvini?”. 

A parlare è Paolo Crepet, sociologo, psichiatra, scrittore che è su tutte le furie per l’esperimento voluto dal ministro leghista dei Trasporti e delle Infrastrutture […]. […] 

“L’idea di per sé è quasi offensiva per la signora che deve fare la chemio e deve pagarsi il taxi. Tutto il resto è roba da osteria. Il messaggio è chiaro”, dice Crepet ironicamente a FQMagazine: “Ubriaconi di tutto il mondo unitevi, per fare la parodia di Marx. Vorrei capire la ratio, siamo noi a dover pagare questi taxi”.

Lo psichiatra non risparmia nulla al Governo: “Si fanno tagli sulla salute, alle scuole, poi a qualcuno viene l’ideona di pagare il taxi a una famiglia che ha la Porsche sotto il sedere“. Se la prende persino con i propri lettori […]: “Tutti i genitori sono d’accordo? Io che riempio le piazze, mi chiedo fuori dall’ironia: cosa ci vengono a fare ad ascoltarmi se questo è il risultato? Se leggessero davvero i miei libri, riderebbero […]. Mi interessa parlare non solo del proponente ma del silenzio compromettente del genitore che fa il pusher nel dare cento euro al figlio sapendo che vanno in Spritz e quant’altro e pretende che paghiamo la sua incapacità educativa”.

Estratto dell’articolo di A. Oss. da “la Repubblica ed. Roma” il 25 febbraio 2023.

Dopo l’ennesima fuga della figlia che si è allontanata da casa per andare a una festa, il padre si è rifiutato «di farla entrare in casa», lasciandola alla fermata della metropolitana, dove è stata notata dai carabinieri che hanno denunciato il genitore per «abbandono di minore». Il giudice però lo ha assolto: «il fatto non costituisce reato».

 Adesso padre e figlia, che nonostante i trascorsi hanno ricostruito un buon rapporto, possono lasciarsi la vicenda alle spalle, provando a dimenticare quanto accaduto il 15 novembre del 2020 “a pochi passi dalla stazione della metropolitana di via Lucio Sestio”. […]

La quindicenne si sarebbe ubriacata e poi, di notte, avrebbe chiesto di poter tornare in casa suscitando la ferma reazione del padre, una risposta che è costata un processo all’uomo da cui tuttavia ne è uscito indenne. […]

Estratto dell’articolo di Paolo Russo per la Stampa il 5 febbraio 2023.

 Non hanno nemmeno l'età per guidare un motorino, frequentano ancora le medie o addirittura le elementari, ma circa un milione di bambini e ragazzini tra i 10 e i 14 anni già si sbronza. E il 66% lo ha fatto tra i 15 e i 17 anni, quando la somministrazione di alcolici sarebbe ancora vietata. Rintanati in casa negli anni bui della pandemia, giovani e giovanissimi tornano a socializzare ma tra loro cresce la generazione dei «baby alcol», fotografata da uno studio «Espad» ancora inedito, condotto dall'Istituto di fisiologia clinica del Cnr. Un alzare di gomito in età sempre più precoce che ha effetti disastrosi per la salute ma anche nella vita familiare e affettiva di questi adolescenti.

A diciassette anni Mario è già un alcolista con un passato in una comunità di recupero. Giacomo ha quattro anni in più e il lunedì, dopo la sbornia, si sente «in colpa» perché nel weekend appena trascorso ha «picchiato mamma mentre il cervello era alterato dal gin». A quindici anni Vincenzo si ubriaca ogni sabato sera «per farsi accettare dal gruppo di amici, che bevono tutti». Storie di giovanissime vite rubate dall'alcol. «Negli ultimi 15 anni l'età di chi si rivolge a noi è calata moltissimo: è scesa di 10 anni», racconta Pasquale M., coordinatore di Alcolisti Anonimi Campania.

Secondo lo studio Espad il 46,1% degli studenti ha assunto per la prima volta bevande alcoliche tra i 12 e i 14 anni. Il 15,2% lo ha fatto persino prima degli 11 anni. «Fortunatamente nella maggior parte dei casi si tratta di approcci, tipo il nonno che fa assaggiare lo champagne a Capodanno, ma non sempre è così», spiega Sabrina Molinaro, ricercatrice del Cnr e responsabile dello studio. «Dal 2019 osserviamo infatti un aumento della percentuale di under 11 e di 12-14enni che hanno fatto abuso di alcol».

A conferma sciorina i dati dello studio: la fetta di chi consuma alcolici sotto 11 anni di età dal 2019 ad oggi è salita dal 10,5 al 15,2%, mentre ad ubriacarsi è l'1,2%. Quota che sale però al 28% quando si passa alla fascia di età 12-14 anni, dove a sbronzarsi è oltre il 5% in più rispetto a soli tre anni fa. In percentuale non sembra granché, ma considerando che tra i 10 e i 14 anni si contano oltre 2,8 milioni di ragazzini, significa che un milione di loro ha già provato l'effetto dell'ubriacatura.

Sbronze a parte, ad allarmare è soprattutto la percentuale di chi fa abuso di alcol, bevendo 20 o più volte nel corso di un mese.

 Oramai lo fa il 6,1% di ragazzi e ragazzini, «la percentuale più alta mai registrata in Italia», specifica la dottoressa Molinaro. La quale rimarca anche un'altra novità del 2022: il sorpasso delle ragazze (il 78,6%) sui ragazzi (76,7%) che tra i 15 e i 19 anni hanno fatto uso di bevande alcoliche, «più frequentemente di cocktail, che per la presenza di zuccheri e per l'alta gradazione sono anche maggiormente pericolosi delle birra, prediletta dai maschi». A bere di più sono soprattutto le giovanissime tra i 15 e i 16 anni, «tra le quali è anche diffuso il fenomeno del bere e non mangiare per evitare di ingrassare. Pratica che ovviamente aumenta gli effetti deleteri dell'alcol», rivela ancora la ricercatrice del Cnr.

 Ad aggravare ancor di più la situazione c'è poi il mix con energy drink e droghe varie assunte per attenuare gli effetti dell'alcol. Lo ha sperimentato almeno una volta un ragazzo o un'adolescente su tre mentre uno su dieci lo fa frequentemente. Sono facilmente immaginabili gli effetti devastanti sulla salute.

 «Per rendersi conto della gravità del fenomeno basta fare due chiacchiere con i tassisti che nelle notti di venerdì e sabato riaccompagnano a casa tantissimi bambini stravolti dall'alcol dopo serate nei chioschetti e nei locali», conferma Alberto Villani, responsabile di pediatria generale e malattie infettive all'ospedale romano Bambino Gesù ed ex Cts. Il quale poi cita il dato dell'Osservatorio dipendenze di Palazzo Chigi, che tra i ricoverati in pronto soccorso per intossicazioni alcoliche ha rilevato un 17% di under 14.

 «Chi ha questo tipo di problema - prosegue Villani - sono bambini ricchi e poveri, maschi e femmine, non c'è differenza.

 Generalmente soggetti che vivono una profonda solitudine esistenziale. Non praticano sport, non suonano strumenti, hanno una vita vuota che riempiono con vino, birra e superalcolici».

(…)

Violenti.

Estratto dell’articolo di Alberto Giulini per corriere.it il 29 novembre 2023.

Pestato a sangue da tre persone per essersi fermato col semaforo rosso. È successo intorno alle 12.30 di venerdì a Marco Nebiolo, agente immobiliare di 47 anni, membro del collegio edile dell’Api di Torino e del consiglio direttivo della Fimaa. 

L’uomo si trovava in corso Unità d’Italia a bordo di una Fiat Grande Punto quando […] è stato tamponato da una Citroen Xsara. Da quest’ultima sono scese tre persone: inferocite per lo stop al semaforo, hanno iniziato a battere contro i finestrini della vettura di Nebiolo. 

[...] Il 47enne è stato aggredito ed è caduto a terra, sbattendo violentemente la testa sull’asfalto. Trasportato al Cto, Nebiolo si trova attualmente ricoverato in prognosi riservata nel reparto di neurochirurgia con una frattura al cranio, due grandi ematomi, diversi focolai emorragici ed escoriazioni in diverse parti del corpo.

«Ricorda tutto alla perfezione ma non il momento dell’aggressione – racconta la moglie Manuela Mareso -. [...]». Non ha invece alcun dubbio del fatto che a bordo della Citroen ci fossero tre persone, probabilmente padre e madre accompagnati dal figlio. Il conducente del veicolo è già stato identificato dai vigili, intanto la famiglia di Marco […] è alla ricerca di testimoni e vuole comprendere a fondo le dinamiche del pestaggio. […] 

Il 47enne aveva intuito le intenzioni tutt’altro che pacifiche dei tre aggressori. «Ho tamponato, ho chiamato i vigili, volevano menare» recita infatti il messaggio inviato alle 12.53 alla moglie, allarmata dal successivo silenzio: «Quel “volevano” all’imperfetto mi ha fatto subito pensare a una questione chiusa, poi però è stato strano non sentire Marco per un po’ di tempo.

Al telefono non rispondeva, allora l’ho cercato attraverso i suoi collaboratori dell’agenzia immobiliare. Quando mi hanno detto che non si era presentato all’appuntamento con il commercialista, ho capito che lo avevano picchiato e dovevo cercarlo in ospedale». 

Quindi la chiamata al 112 e la corsa al Cto. «Non sapevo in che condizioni lo avrei trovato, ma almeno era vivo. Non riesco ancora ad essere arrabbiata perché questa vicenda poteva finire molto peggio. Marco guarirà, ma io voglio capire chi siano le persone capaci di fare una cosa del genere. […] Oggi le abbiamo incontrate noi, un domani chissà… […]». […]

Estratto dell'articolo di Alberto Giulini per il “Corriere della Sera” il 30 novembre 2023. 

Pestato a sangue in pieno giorno dopo un tamponamento a Torino. È successo venerdì scorso a Marco Nebiolo, agente immobiliare di 47 anni e volto noto in città: […] L’uomo stava percorrendo corso Unità d’Italia verso il centro cittadino quando, allo scattare del semaforo giallo, si è fermato all’altezza del Museo dell’Automobile. 

Alle sue spalle una Citroën Xsara, guidata da una guardia giurata torinese di 36 anni, non ha fatto in tempo a inchiodare e a evitare l’impatto. Quello che sembrava un piccolo incidente stradale, peraltro senza gravi conseguenze, è degenerato in pestaggio. […] . Secondo le prime ricostruzioni dei carabinieri, un ragazzo di 15 anni (denunciato), in auto con la madre, sarebbe quindi sceso dall’auto e avrebbe colpito Nebiolo con un violento pugno al volto. Il 47enne sarebbe quindi caduto a terra, sbattendo la testa sull’asfalto e perdendo conoscenza. Dopo l’aggressione, i tre si sarebbero invece allontanati senza prestare soccorso.

[…]. L’uomo non è in pericolo di vita, ma è attualmente ricoverato nel reparto di neurochirurgia con una frattura al cranio, due grandi ematomi, diversi focolai emorragici ed escoriazioni in diverse zone del corpo. Dell’aggressione non ricorda nulla e poi ha commentato: «Mi spiace per chi mi ha fatto male, evidentemente sono persone che nella vita sono state più sfortunate di me», come riporta Torino Cronaca .

[…] «Ho tamponato, ho chiamato i vigili, volevano menare», recita infatti l’ultimo messaggio inviato alla moglie Manuela Mareso, allarmata dal silenzio del marito. «Quel “volevano” mi ha fatto subito pensare a una questione chiusa, poi però è stato strano non sentire Marco per un po’ di tempo», racconta. «Al telefono non rispondeva, allora ho contattato i suoi collaboratori dell’agenzia immobiliare. Quando mi hanno detto che non si era presentato all’appuntamento con il commercialista, ho capito che lo avevano picchiato e dovevo cercarlo in ospedale», prosegue, ripercorrendo quanto accaduto dopo il pestaggio. Quindi la chiamata al 112, la conferma che il marito era ricoverato al Cto. «Non sapevo in che condizioni lo avrei trovato. Questa vicenda poteva finire molto peggio. Spero che queste persone rinsaviscano e si rendano conto di quello che hanno fatto».

Nebiolo picchiato al semaforo a Torino, la madre dell'aggressore ragazzino: «Mio figlio vorrebbe scusarsi, ha dato quel pugno per paura». Alberto Giulini per corriere.it il 2 dicembre 2023.

«Mio figlio mi ha detto che è stato provocato e che ha ricevuto uno spintone. Aveva paura di essere colpito.  Ma non siamo scappati. Vorrei andare in ospedale a trovarlo, ma ho paura di essere inopportuna»

«Mio figlio sta ancora male per quanto accaduto, ma quando si sbaglia si può solo chiedere scusa». È passata settimana dall’aggressione a Marco Nebiolo, eppure la madre del sedicenne che ha colpito l’agente immobiliare con un pugno al volto fa ancora fatica a ripercorrere quanto avvenuto. La voce è rotta e quasi commossa, la consapevolezza di aver sbagliato è evidente. Ma c’è anche la volontà di ribattere e smentire alcune ricostruzioni degli ultimi giorni.

Come state lei e suo figlio?

«Mi sono subito spaventata, ho pianto e non sto ancora bene . Vorrei chiedere scusa, anche mio figlio è mortificato. Vorrei parlare con la moglie di Nebiolo per dirle che mi dispiace e che non siamo una famiglia aggressiva. Ma non so come comportarmi, non vorrei presentarmi in ospedale e passare per inopportuna».

Suo figlio quindi è dispiaciuto per l’accaduto?

«Sta ancora male, negli ultimi giorni non è andato a scuola: si è reso conto della gravità della cosa».

Gli era già capitato di reagire violentemente?

«No, anzi. L’anno scorso un anziano gli ha tirato uno schiaffo, i suoi amici erano attorno a lui e lo riprendevano con i cellulari incitandolo a reagire. Eppure non lo ha fatto, nonostante i telefoni puntati contro e gli amici che lo incalzavano. Se questa volta è esploso, deve essere successo qualcosa».

Tornando a quel venerdì, qual è stata la dinamica dell’incidente?

«Eravamo in corso Unità d’Italia quando, al semaforo, l’automobile davanti a noi ha accelerato in un primo momento per inchiodare subito dopo. Una cosa che non andrebbe fatta: o si passa, o non si fa finta per poi frenare pochi istanti più tardi».

A quel punto è andata a colpire l’automobile di Nebiolo?

«No, assolutamente no. Ero ovviamente arrabbiata e sono scesa in strada, ma non ho mai colpito i vetri. Ho aperto la portiera del passeggero e gli ho urlato contro, chiedendo se si rendesse conto di che cosa aveva appena fatto. Anche mio figlio ha fatto la stessa cosa».

La situazione è subito degenerata?

«No, anzi. Nebiolo e il conducente dell’auto su cui viaggiavo insieme a mio figlio hanno parlato tranquillamente e posizionato il triangolo in strada per segnalare l’incidente».

Ma allora perché suo figlio ha colpito Nebiolo con un pugno?

«Non lo so, stavamo per andarcene quando mi sono girata e ho solo visto la scena del colpo al volto. Mio figlio mi ha detto che è stato provocato e che ha ricevuto uno spintone. Aveva paura di essere colpito, allora l’ha fatto per primo. Mi spiace, gli ho sempre insegnato che le mani non si usano: abbiamo la bocca, bisogna parlare per chiarirsi. Non lo giustifico, ma forse un adulto avrebbe dovuto  interagire diversamente».

Un testimone ha detto che siete subito fuggiti in taxi.

«No, non ci sono testimoni. Ma soprattutto noi non siamo scappati. Io avevo già chiamato un taxi perché avevo litigato con l’uomo che stava accompagnando me e mio figlio. Era già arrivato quando l’ho chiamato per andare via, mi sono girata e ho visto la scena del pugno. L’ho preso con me e siamo partiti, avevo paura che Nebiolo potesse alzarsi e reagire. Nella testa mi sono detta “adesso succede il finimondo”, pensavo potessero ammazzarsi. Ma non è assolutamente vero che lo abbiamo abbandonato: con lui c’era il conducente della nostra auto. Siamo andati in taxi in ospedale, poi il giorno successivo mi sono presentata alla polizia municipale per raccontare tutto». 

Estratto dell'articolo di Alberto Giulini per corriere.it venerdì 1 dicembre 2023.

La vicenda di Marco Nebiolo , pestato a Torino per un banale incidente, ha colpito nel profondo una famiglia molto attiva nel sociale. Accanto all’agente immobiliare, che per oltre dieci anni si è dedicato a giornalismo d’inchiesta sulla criminalità organizzata, anche la moglie Manuela Mareso ha condiviso le stesse attività. Giornalista ed esperta di comunicazione, è stata per anni la direttrice di Narcomafie, la rivista fondata dal Gruppo Abele e ricercatrice per il progetto europeo Synthetic Drugs trafficking in Three European Cities.

Ora sta trascorrendo giorno e notte all’ospedale, sempre a fianco del marito che resta ricoverato in prognosi riservata nel reparto di neurochirurgia del Cto di Torino. […] 

[…]

Lei come ha saputo quanto avvenuto?

«Mi aveva mandato un messaggio su Whatsapp, “Ho tamponato, ho chiamato i vigili, volevano menare”. Quel “volevano” all’imperfetto mi ha fatto subito pensare a una questione chiusa, […]Quando mi hanno detto che non si era presentato all’appuntamento con il commercialista, ho capito che lo avevano picchiato e dovevo cercarlo in ospedale». 

«[…]Marco guarirà, ma io voglio capire chi siano le persone capaci di fare una cosa del genere. Presenteremo querela e non solo per la gravità del fatto ma anche perché sappiamo che ci sono persone del genere in giro. Oggi le abbiamo incontrate noi, un domani chissà… speriamo rinsaviscano e si rendano conto di quanto accaduto».

L’aggressore di suo marito ha solo 15 anni.

«Provo una tristezza infinita a sapere che è stato un ragazzo così giovane. Mi chiedo che razza di genitori abbia e in quale degrado sia cresciuto. Mi sono occupata per anni di volontariato con minori a rischio di devianza, quindi non riesco a esprimere un giudizio. Una persona dipende in larga parte dal contesto in cui vive, mi viene solo da pensare al degrado morale in cui deve essere cresciuto questo ragazzo. […] La notizia non mi stupisce ma mi addolora. Diciamo sempre che i giovani sono il futuro, ma se i giovani sono questi allora la situazione è davvero brutta». 

Il ragazzo comunque non era da solo.

«Mi chiedo perché i due adulti che erano sulla macchina siano rimasti a guardare, senza neanche provare a fermarlo. Il ragazzo è minorenne, ma attorno a lui c’erano degli adulti. Non risponderanno di nulla? È una situazione molto triste, non si può definire altrimenti. Non sono neanche arrabbiata, sono solo affranta perché è una situazione di degrado bassissima».

[…]

«Mio figlio tredicenne perseguitato dai bulli. Li ho denunciati cinque volte ma nessuno li ferma». Davide Maniaci su Il Corriere della Sera il 4 ottobre 2023.

Il ragazzino preso a sassate nel centro di Pavia. «È da marzo che lo tormentano. Adesso ha paura a uscire di casa da solo» 

Questo padre non si dà pace. Di origine egiziana, 55 anni, cittadino italiano, qui da 26 anni, non riesce a spiegarsi come sia possibile che il figlio 13enne venga preso di mira in modo brutale, continuo. Da sette mesi il branco lo tormenta e lo picchia. Cinque denunce da marzo e già due ricoveri in ospedale. Traumi psicologici non facili da superare. L’ultima aggressione risale a domenica pomeriggio in strada Nuova, il cuore di Pavia. La via dove vanno gli studenti, dove si passeggia. Era con due amici. Lo hanno visto, riconosciuto, circondato, provocato, preso a calci e pugni e colpito alla testa con una pietra raccolta dal selciato. Cosa avrebbero potuto fare i coetanei che erano con lui? Quasi nulla. Infatti ha telefonato al padre, che è arrivato di corsa e lo ha portato al policlinico San Matteo. Trenta giorni di prognosi per il trauma cranico. 

Lunedì era ancora sotto osservazione, anche se le sue condizioni non sono gravi. Mentre il papà, elettricista, che si spacca la schiena alzandosi presto ogni mattina per non far mancare niente alla moglie e ai due figli, raccontava la storia al Corriere, il gruppetto di bulli era sotto casa sua e lo osservava, con la musica a palla. Come se lo controllassero.

Perché proprio suo figlio? Chi sono i gli aguzzini?

«Se mi chiede il motivo, non ne ho idea. Mio figlio è un ragazzo buono, ha 13 anni, fa già la prima superiore perché ha iniziato le scuole anzitempo: è integrato, parla quasi solo italiano anche con noi. Io so chi sono quegli altri: due italiani, un africano. Quindi il razzismo non c’entra. Non posso entrare nella loro testa e capire cosa ci sia di divertente in quello che fanno. La persecuzione è iniziata a marzo. Era già stato in ospedale, con sette giorni di prognosi. Ora sono trenta. Abbiamo passato un’estate infernale».

Avevate paura?

«Certo. Quando lui era a casa da scuola e io al lavoro, non usciva più. Mi aspettava e andavamo fuori insieme, io non mi cambiavo nemmeno. Si può dire che lo scortassi e l’ho fatto spesso anche dopo. Quindi viveva di sera, andava fuori solo se c’ero anche io. Di giorno televisione e videogiochi. Anche domenica all’ospedale sono rimasto lì tutta la sera con ancora le scarpe da lavoro. Quasi dormivo in piedi. Ho denunciato cinque volte. Mi chiedo se i genitori di questi ragazzi siano al corrente di come passano il tempo i loro figli. Appena lo vedono lo prendono di mira. Lo cercano. Davvero, non so spiegarmelo. Di certo mio figlio non va a procurarsi grane».

Cosa gli dirà quando verrà dimesso dall’ospedale?

«Che lo proteggerò costi quel che costi, come farebbe ogni padre. Mi sento scoraggiato perché non ho mai avuto riscontri dopo le mie innumerevoli telefonate alle forze dell’ordine e le denunce. La legge è uguale per tutti, lo sento ripetere spesso: lo è anche per noi, quindi, e questi ragazzi stanno sbagliando e stanno compiendo dei reati gravi senza che per ora ci sia stata una punizione. Mi addolora vedere che spesso nessun testimone fa niente. Tirano dritto. Posso capire la paura, ma sicuramente chi viene picchiato in quel momento ne ha di più».

Cosa vorrebbe dire a chi perseguita suo figlio?

«Non lo so. Dovrei trovarmeli faccia a faccia. Forse di smetterla e lasciarci in pace. Che devono capire che stanno prendendo una strada sbagliata e pericolosa, perché se non hai scrupoli a malmenare un bambino che non ti ha fatto niente, allora potresti fare ben di peggio in futuro. Mi sfogo in modo più ampio: sappiamo tutti che nonostante sia vietato vendere alcol ai minorenni, è facilissimo procurarselo. C’è l’amico di 18 anni che lo compra per tutti, o c’è qualche venditore che fa finta di niente. Le storture di questa società sono tante, non spetta a me cambiarle. Io e la mia famiglia vorremmo solo trovare una serenità che adesso manca. Vede, anche adesso: noi chiacchieriamo e questi qui mi osservano, come se fossi io a dover giustificare qualcosa. Comunque voglio chiarirlo. Sono una persona perbene, ma sono anche disposto a proteggere mio figlio in ogni modo».

Estratto dell’articolo di Giovanna Maria Fagnani e Pierpaolo Lio per corriere.it l'1 ottobre 2023.

Una folla di giovanissimi (secondo stime ufficiose, almeno 2 mila) che ballano di notte, in via Respighi, davanti all’ingresso del Liceo Leonardo da Vinci. È uno dei tanti «reprise party», le feste studentesche abusive e autogestite, che si susseguono in queste settimane, per celebrare l’inizio della scuola. 

Solo sabato notte ce n’erano tre in contemporanea. Ma a quella del Leonardo da Vinci («Leofest»), come già successo in passato, qualcosa va storto. Ufficialmente queste feste sono pensate per  gli studenti del «Leo» e per i loro amici, ma la voce gira ed è difficile fermarla. Così accade che si presentino anche compagnie esterne. E alla fine qualcuno spruzza dello spray al peperoncino, con l’obiettivo di scatenare il panico, allentare l’attenzione e riuscire a rubare qualcosa, che siano catenine o portafogli. E così è successo […]. 

Lo spray ha causato un fuggi fuggi, ma si parla anche di principi di rissa e di una ragazza portata via in ambulanza per eccesso di alcolici. Si ipotizza una irruzione degli ormai noti «maranza».

Non è la prima volta che dei violenti provano a rovinare la festa del Leonardo. Anche nel 2021 il «Leofest» era degenerato fra risse e malori. Ancora più grave l’episodio nel 2021 fuori dal Liceo Vittorio Veneto, dove una banda incappucciata di giovanissimi […] aveva aggredito alcuni studenti, lanciando bottiglie di vetro: una di queste aveva colpito al volto un giovane ferendolo gravemente e provocandogli uno sfregio permanente. Tre minorenni erano stati arrestati dalla Polizia, perché ritenuti responsabili di questo episodio. 

Per circa un anno e mezzo, a seguito di queste aggressioni, i comitati studenteschi hanno deciso di organizzare queste feste in locali, ma ora è tornata la moda delle feste autogestite. […]

Estratto dell'articolo di Pietro Tosca per corriere.it lunedì 2 ottobre 2023.

Si sono arrampicati sui teli che coprono il fieno, tagliandoli, hanno liberato le mucche dalle stalle e poi danneggiato l’impianto elettrico di un trattore. Un vero e proprio raid che ha preso di mira una cascina di Calvenzano ed è terminato con lo sversamento in un campo di una latta di olio esausto, a cui poi è stato dato fuoco. 

Protagonista, un gruppo di giovanissimi del paese. Nonostante abbiano tutti tra i 12 e i 13 anni, risulta difficile credere che potessero considerare quei vandalismi un semplice gioco. A metterci un punto sono stati i carabinieri.

Nel mirino è finita l’azienda agricola di Nadia Mapelli, specializzata nell’allevamento di bovini da latte. La fattoria è situata all’incrocio tra via Caravaggio e via Roma, l’estrema periferia a est dell’abitato. A nord l’azienda agricola confina con un parcheggio comunale. Nonostante da anni i proprietari della fattoria abbiano presentato richiesta per installare una recinzione, finora l’accesso dall’area di sosta è libero. Proprio per questo la banda di ragazzini, in parte italiani e in parte di origine straniera, ha scelto quel lato per accedere comodamente.

Il gruppo, superata un’area incolta, ha raggiunto il silos a trincea, un vascone rialzato in calcestruzzo, dove viene stivato il fieno trinciato che poi viene protetto con dei teli in plastica a loro volta fermati con dei vecchi pneumatici. «Si sono arrampicati là sopra — racconta il compagno della titolare — fino ad un’altezza di 4 metri. 

Meglio non pensare a cosa sarebbe potuto succedere se qualcuno di loro fosse caduto. Hanno iniziato a lanciare giù i copertoni. Poi, non contenti, hanno praticato dei tagli nei teli. Un vero disastro perché se il trinciato si inumidisce, va a male e va buttato. Abbiamo dovuto riparare i teli con del nastro adesivo alla meno peggio». 

La salita sul silos a trincea però non è stata l’azione più spericolata messa a segno dal gruppo di ragazzini. «Dopo, la loro attenzione è caduta sul trattore — continua il compagno della titolare —, era fermo perché è senza una ruota che è in riparazione. Nonostante questo, sono montati in cabina e lo hanno messo in moto. Per fortuna non l’hanno mosso. Se il mezzo si fosse ribaltato, qualcuno di loro avrebbe potuto finire schiacciato».

[…] Il raid però non era ancora finito perché nel girovagare tra stalle e rimesse il gruppo di minorenni ha messo le mani su un bidone da 5 litri utilizzato per raccogliere l’olio esausto. Il bidone è stato portato nel parcheggio e da lì sversato in un campo attiguo e incendiato. Fiamme che i ragazzini si sono accorti però rischiavano di propagarsi nell’erba alta oltre ogni loro aspettativa. Ma a quel punto qualcuno li aveva notati e aveva già chiesto l’intervento di una pattuglia di carabinieri. 

I militari hanno rintracciato due componenti della banda nascosti dietro un’auto nel parcheggio mentre i compagni d’avventura erano spariti. Messi alle strette, i due minori hanno ammesso le loro responsabilità indicando anche i nomi del resto del gruppo. Sul posto sono stati chiamati i genitori che sono caduti dalle nuvole. […]

Stupri, risse e rapine. Le baby gang d'Italia adesso fanno paura. "Sempre più violente". Il fenomeno nel primo (e unico) studio sulle bande giovanili. Ma arriva anche il report del Servizio analisi criminale ministero della Giustizia: "I reati commessi dai minori sono in continuo aumento". Serena Coppetti l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Sono sempre più piccoli, quasi bambini. Sempre più numerosi e ora hanno alzato il tiro. Con quella violenza esagerata che ha (quasi) mai una risposta davanti alla domanda «ma perché lo hai fatto?». Agiscono in gruppo per diventare più cattivi, spesso così, un po' a caso, senza un motivo e quel che è ancora più grave senza averne neanche la consapevolezza. Né prima né dopo. Sono i primi «aggiornamenti» della fotografia delle baby, anzi «teen» gang del nostro paese. Lo scorso anno il Servizio Analisi Criminale ha realizzato, in collaborazione con il centro di ricerca Transcrime dell'Università Cattolica e con il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, il primo report di monitoraggio a livello nazionale. Numeri, dati e anche una mappa (la vedete nel grafico a fianco). Già lì erano chiare, fra tante, tre cose. Uno: definirle gang è comodo ma sbagliato. «Specie al nord - spiega Marco Dugato, ricercatore di Transcrime - perché non sono organizzate in una struttura. Si tratta di ragazzi che si ritrovano non necessariamente con finalità criminali, ma che in alcuni casi finiscono per compiere azioni violente». Azioni spesso estemporanee «non pianificate e senza una finalità economica», conseguenza di un impeto che tracima oltre misura. Due: dentro ci sono sia ragazzini che provengono da contesti difficili, sia giovanottini di buona famiglia specie al nord. Tre: la spacconata che degenera ha bisogno sempre più di essere alimentata da cellulari e social.

Il nuovo «scatto» realizzato dal servizio Analisi Criminali pronto entro ottobre aggiunge due elementi: il numero dei reati commessi dai minori è cresciuto ed è aumentata la violenza che li accompagna. I fatti di cronaca degli ultimi tempi parlano da soli. Caivano, Palermo sono solo i più clamorosi. «Nei singoli episodi assistiamo a una violenza efferata, gratuita e immotivata - commenta Stefano Delfini, direttore del Servizio Analisi Criminale - Certo la violenza non è mai motivata ma talvolta c'è un uso smodato, anche nei casi di violenza sessuale, e una assoluta mancanza di empatia con la vittima, quindi anche una incapacità a relazionarsi con gli altri». Basta pensare «alla frase pronunciata da uno degli autori delle violenze sessuali di Palermo mi sono rovinato la vita, nessun pensiero è stato dedicato alla vittima, si è concentrati esclusivamente su se stessi». Non solo. «Un altro fattore che è emerso da questo approfondimento e che continua a essere molto rilevante in queste dinamiche è anche l'utilizzo dei social, con il pericolo di emulazione, e una mancanza di educazione all'uso della rete e di consapevolezza dei rischi e delle possibili conseguenze».

La riflessione da fare per Delfini riguarda anche i modelli che circolano sulla rete «ai quali i ragazzi spesso si ispirano e che molto difficilmente sono modelli realmente positivi. Pensiamo a tanti artisti trap che inneggiano al mancato rispetto delle forze di polizia o delle istituzioni, o che si fanno vedere mentre esaltano l'uso di sostanze stupefacenti o con mazzette di banconote - dice - Sono modelli che non aiutano chi non ha una maturità tale da riuscire a distinguere quello che è virtuale, anche se ormai non si parla più di online e offline ma di onlife, dove finisce il fisico comincia il virtuale, non esiste più un confine netto». Così come era da intuire il male si sta trasformando in peggio. «Nel 2022, rispetto all'anno precedente, abbiamo registrato un aumento sia della percentuale di segnalazioni di reati commessi da minori sia un aumento dei reati che denotano violenza, come percosse, lesioni, rissa. In misura minore aumentano anche furti e rapine». Cosa fare? Reprimere. Certo. Ma curare prima. Nel report che uscirò a ottobre, sono andati a capire chi c'è dietro quei numeri e dove si è inceppato il meccanismo. Per intervenire, fin dalle elementari dicono, perché ormai i segni di disagio sono già nei bambini.

Estratto di Silvia M.C.Senette per corriere.it mercoledì 27 settembre 2023.

Punta alla Map (la messa alla prova che, con esito positivo, comporta l’estinzione del reato) il team di legali che sta collaborando nella difesa congiunta dei dodici ragazzi di Canazei, tutti minorenni all’epoca dei fatti, responsabili del danneggiamento da 130mila euro di un’abitazione privata nel dicembre 2020. La casa di villeggiatura in Val di Fassa della famiglia bolognese Roncari-Tamburini era stata presa di mira in altre due diverse occasioni, tra il dicembre 2020 e l’aprile 2021, da un gruppo di giovani della «Canazei bene».

I ragazzi coinvolti, tutti di 16 anni tranne un quattordicenne, sono infatti figli di famiglie in vista della ridente località turistica: imprenditori, politici locali e stimati dipendenti pubblici che oggi, increduli e disperati, si affidano ai loro legali per la migliore difesa possibile dei figli chiamati a rispondere dell’accaduto di fronte al Tribunale dei minori di Trento. 

[…] i dodici imputati torneranno in aula il prossimo 16 febbraio 2024 quando avrà finalmente inizio il processo che li vede, a vario titolo, accusati in concorso di danneggiamento e di invasione di terreni ed edifici in concorso. Capi di imputazione che prevedono pene pesantissime; la detenzione da 6 mesi a tre anni. […]

L’abitazione devastata dalla furia degli adolescenti — dalla porta d’ingresso scardinata a mobili e arredi distrutti, fino a piatti, vetri, lampadari, porte e finestre in frantumi e persino un frigorifero, il televisore e l’affettatrice buttati dal balcone — risale agli anni ‘70 e, secondo i difensori dei ragazzi, la stima fatta dalla parte lesa non andrebbe a risarcire il reale danno arrecato, ma a sostituire con infissi e arredi moderni quelli devastati nei tre «raid», oltre che a ripristinare impianto elettrico e idraulico. 

[…]

I difensori riferiscono di genitori affranti e delusi per quanto emerso sui figli, quasi tutti studenti incensurati, incastrati da un selfie della «bravata» postato sui social. I ragazzi, pur con le contraddizioni delle varie versioni e le accuse reciproche, concordano nel parlare di «una festa ad alto tasso alcolico in cui si è perso controllo» di cui oggi conservano «ricordi confusi». Le famiglie, intanto, sono profondamente dispiaciute. Molti genitori hanno ammesso di fronte ai legali che non si aspettavano un comportamento del genere dai loro figli. La frase più comune? «L’ho tirato su bene, non immaginavo che si sarebbe infilato in questo casino».

Canazei, i party alcolici e la casa devastata: «Tra i 12 minori imputati c’è anche il figlio di un notissimo politico». Silvia M.C. Senette su Il Corriere della Sera venerdì 29 settembre 2023. 

Val di Fassa, gli indagati andranno tutti a processo. Tra le prove una foto dell'immobile distrutto pubblicata su Instagram 

«A Canazei lo sanno tutti, da anni. Le foto di quei festini alcolici sono rimbalzate sui cellulari di tutti i ragazzi del paese e tra i giovani coinvolti, studenti dell’istituto alberghiero di Tesero, c’è anche il figlio di un notissimo politico della zona». L’avvocata Karol Pescosta, titolare dello studio legale di Pozza di Fassa, difende uno dei dodici teenager trentini che devono rispondere a vario titolo di danneggiamento e invasione di terreni ed edifici in concorso di fronte al Tribunale dei minorenni di Trento.

Le feste durante il lockdown

Il fascicolo prende il via dalla denuncia del 12 giugno 2021 presentata ai carabinieri di Canazei dalla nipote dei proprietari di un’abitazione privata: la baita della famiglia bolognese Roncari-Tamburini era stata presa di mira in tre diverse occasioni, tra il dicembre 2020 e l’aprile 2021, da un gruppo di giovani della «Canazei bene». Le feste ad alto tasso etilico, avvenute tra un lockdown e l’altro al termine di sciate fuoripista, si erano concluse con arredi sfasciati, impianti divelti, porte scardinate, mobili distrutti e velux in frantumi. Persino un frigorifero, il televisore e l’affettatrice finiscono fuori dal balcone, mentre i materassi diventano orinatoi di gruppo. Danni per 130 mila euro che ora i genitori dei ragazzi coinvolti, imprenditori, politici in vista e stimati dipendenti pubblici della località turistica, dovranno risarcire.

Le foto su Instagram

Il 16 febbraio 2024 avrà inizio il processo. Per alcuni, intanto, si è già aperto il capitolo dei lavori socialmente utili. Quello che viene definito «il capobranco», minorenne ancora per un mese, è già noto alle forze dell’ordine e, parallelamente, deve difendersi da un’altra denuncia legata a detenzione e spaccio di stupefacenti, di cui sarebbe assuntore abituale. Una vicenda nella quale avrebbe coinvolto altri minori e dalla quale emergerebbe l’influenza che aveva sui coetanei. «Era riuscito a convincerli che la casa era dello zio e prossima alla demolizione — spiega l’avvocata Pescosta —. E l’incoscienza lo aveva portato a postare su Instagram una foto dell’immobile devastato: così i carabinieri hanno potuto stringere il cerchio delle indagini. Nell’immagine, che lo ritraeva in un atteggiamento poco dignitoso mentre imbrattava una stanza, si vedeva chiaramente un armadio verde che i militari hanno riconosciuto come sfondo della baita di Canazei ridotta a brandelli».

La denuncia

Ma gli inquirenti stavano già battendo la pista giovanile. Nella denuncia della proprietà, infatti, si elencavano rifiuti e «ingenti confezioni» di junk food — accompagnati da scontrini di un supermercato di Canazei — residui di bagordi adolescenziali: patatine, pop-corn, bibite energetiche, brioches, merendine e caramelle. E, ovviamente, molto alcol. «Tanto che una minorenne era stata trascinata di peso fuori dalla casa in stato di incoscienza e quasi in coma etilico — spiega la legale —. I genitori della ragazzina, allertati dal gruppo, erano andati a prenderla in macchina a breve distanza dalla casa oggetto di devastazioni, ma quell’episodio non pare averli insospettiti». Eppure, garantisce l’avvocata, «tutti in paese sapevano e parlavano, almeno dalla seconda festa di gennaio 2021. È una brutta storia — ammette — in cui i ragazzi, che ora danno versioni contrastanti scaricandosi a vicenda le responsabilità, non ne escono bene. Ma neppure gli adulti».

Dl Caivano: l’inasprimento delle pene è davvero la soluzione al disagio giovanile?  L'Indipendente domenica 10 settembre 2023.

I recenti stupri avvenuti a Caivano e Palermo hanno acceso i riflettori mediatici e politici sulle condizioni in cui versano le periferie italiane e su diverse tematiche collegate ai problemi sociali di questi luoghi, come la dispersione scolastica e la criminalità giovanile. Il Governo Meloni ha cavalcato subito il sentimento del discorso pubblico ed ha messo in campo delle disposizioni che vanno ad inasprire le pene per i minori e così, il 7 Settembre, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri un decreto-legge (Decreto Caivano), contenente “misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile”

In sintesi, con il nuovo decreto-legge, (che in quanto tale sarà approvato come misura d’urgenza all’interno del Consiglio dei ministri, senza essere discusso e votato dal Parlamento), si rende più facile l’accesso al carcere per i minori, si estende l’applicabilità del cosiddetto daspo urbano ai maggiori di 14 anni, aumenta di 1 anno la durata massima del foglio di via obbligatorio, si potenzia la facoltà di arresto in flagranza e la pena per il reato di spaccio di stupefacenti di lieve entità. Le altre misure repressive introdotte riguardano la possibilità del questore di vietare l’utilizzo dei cellulari ai soggetti di età superiore ai 14 anni, la reintroduzione della custodia cautelare per i minorenni imputati che tentano la fuga o anche semplicemente in via precauzionale perché potrebbero fuggire, ed infine si introduce una nuova fattispecie di reato che prevede il carcere fino a 2 anni per i genitori che non mandano a scuola i figli in età di obbligo scolastico.

In buona sostanza si cerca di rendere più dura la pena anche per i minori di 18 anni, rendendola più simile a quella degli adulti, una visione sintetizzata dalle parole di Matteo Salvini: «Se un ragazzo spara deve pagare come un adulto». Ma queste misure sono realmente necessarie per contrastare dei fenomeni delicati e complessi che – è dimostrato – sono legati al disagio dei giovani e alla loro precarietà, non solo lavorativa, ma del loro intero progetto di vita?

Secondo quanto dichiarato dalla Garante dei diritti per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti al Sole 24 Ore, l’inasprimento delle pene non è la soluzione perché «non è un deterrente e non può combattere il problema della recidiva». Secondo la Garante, invece, servirebbero «degli interventi educativi massicci», mentre il carcere per i genitori che non mandano i figli a scuola «potrebbe essere addirittura una misura controproducente, soprattutto per determinate categorie di reati, perché gli autori provengono già da famiglie che appartengono ad un contesto marginale, e la circostanza che il genitore o i genitori vadano in carcere potrebbe gettare la famiglia in una situazione ancora peggiore».

Ci sono molti studi empirici, inoltre, che evidenziano la stretta relazione, anche in termini causali, tra disuguaglianza nella distribuzione dei redditi e criminalità. Uno studio pubblicato da ricercatori della Banca Mondiale nel 2022 su The Journal of Law and Economics, per esempio, ha individuato una relazione positiva tra disuguaglianza e criminalità, sia all’interno delle nazioni che tra diversi paesi. Da un punto di vista teorico, i risultati empirici trovano conforto in molti orientamenti che derivano dalle teorie dell’economista Gary Becker, che teorizza come la disuguaglianza nei redditi sarebbe uno dei maggiori vettori della criminalità. 

Anche in Italia sono stati condotti degli studi per indagare la relazione tra squilibri distributivi e criminalità, come quello di Fabio Clementi e Enzo Valentini dal titolo Disuguaglianza, povertà e criminalità. Una ricognizione in ambito italiano. L’analisi, condotta utilizzando l’Archivio Unico degli Indicatori Regionali dell’ISTAT e i dati sulla distribuzione del reddito di Banca d’Italia per gli ultimi decenni, fornisce numerosi elementi di riflessione. Infatti, specialmente per le regioni del Sud e le isole maggiori, emerge che le variabili che interpretano la criminalità presentano una correlazione positiva con la disuguaglianza di reddito: peggiore è la distribuzione del reddito, maggiore è l’incidenza di fatti criminali.

Ci sono anche molte analisi che dimostrano l’inefficacia della pena detentiva rispetto alla recidività del reo. Il libro Abolire il carcere, scritto a più mani da ricercatori ed esperti in diritto penale, sociologia e filosofia, sostiene che “il carcere non costituisce un efficace strumento di punizione, dal momento che quanti vi si ritrovano reclusi sono destinati in percentuali elevatissime, più del 68%, a commettere nuovi delitti”. Nel libro vengono inoltre analizzati altri ordinamenti in cui la reclusione non ha la centralità indiscussa e non è utilizzata come strumento principale per rieducare il colpevole. 

In Italia, l’82,6% dei condannati sconta la pena in carcere e l’indice di recidiva è molto alto, mentre in Paesi come Francia e Inghilterra la percentuale dei colpevoli reclusi scende addirittura al 24%, e con essa la recidività, soprattutto grazie al lavoro fatto all’esterno e alle pene non detentive. Come si può pensare, allora, che questo sistema punitivo e carcerario possa funzionare con i giovani più poveri ed emarginati?

Inoltre, rispetto all’abbandono scolastico, sarebbe giusto iniziare a fare una riflessione più profonda sul fatto che la scuola, ed il futuro in generale, non retroagiscono più come promessa e motivazione, come affermano diversi psicoanalisti dell’infanzia e dell’adolescenza tra cui Galimberti e Benasayag, i quali criticano il modello della scuola attuale incentrato su logiche imprenditoriali e della performance. Il problema culturale di fondo – ritiene una parte cospicua di teorici ed educatori – è che la società e la scuola dovrebbero prima di tutto educare e non istruire. Il filosofo e psicanalista Umberto Galimberti afferma ad esempio che i sentimenti non sono innati, ma sono un prodotto culturale, e quindi si imparano. In questa ottica servirebbe quindi imparare a sentire sé stessi e gli altri, e la scuola dovrebbe proprio coltivare la soggettività e la personalità dei bambini e dei ragazzi, non distruggerla.

Visto in questa ottica, il dl Caivano del governo appare quindi una misura che punta a risolvere con la repressione e l’inasprimento delle pene un problema che invece ha radici prettamente sociali, economiche ed educative. [di Gioele Falsini]

Agenda dettata dai fatti di cronaca. Da lockdown al carcere, gli anni terribili dei minori grazie a una politica senza visione. Andrea Ruggieri su Il Riformista l'8 Settembre 2023 

La pigrizia di chi davvero fa l’agenda politica in Italia (cioè i giornalisti televisivi) smarca i politici dall’obbligo di confrontarsi sulle riforme serie che possono, quelle si, cambiare la vita dei cittadini e volgerla a facilità, dall’inferno che è oggi.

Il Governo (nemmeno la maggioranza, perché il Parlamento è nullo) continua a fare norme sulla scia di quanto propone la cronaca, e anche quando sbaglia (come sull’obbrobrio degli extraprofitti, sul divieto di cellulare ai minori o sulla ‘comunistata’ di mettere un tetto ai prezzi degli aerei che rispondono dicendo: “Benissimo, tutti a terra”) si trova la ridotta di Capalbio targata Pd e i figli di Ruggero di Un Sacco Bello (‘ravanelli, piselli, love love love’) targati Cinquestelle ad andargli dietro: un’assicurazione sulla vita, come mettere un pippone a marcare Leo Messi anche se è in giornata no e sembra più John Fashanu.

A un anno dal nuovo Governo non c’è nessuno che paghi un grammo di tasse in meno, nessuno che grazie a tagli della burocrazia delle tristemente famose 70 autorizzazioni possa dire quanto disse a me a Miami un commerciante a margine di un convegno, indicando un negozio sfitto su Lincoln Road: “La differenza tra me e te è che io li posso aprire un negozio domani sera, e incassare dal giorno dopo, tu apri forse tra un anno, e intanto paghi affitto e tasse senza incassare un euro”, e nessuno che possa dire: “Ma sai che c’è? Non ho un ghello, i tassisti non bastano, mi metto a fare il driver di Uber e guadagno”. Io so che non è facile, e non do la croce addosso a nessuno. Ma voglio esortare il Governo a indicare una road map di qui a quattro anni per fare e credere nella creazione di nuove opportunità e valore.

I ragazzi ci guardano, e temono di doversene andare dove queste cose si sono fatte e si fanno, dove si pensa al futuro facendo cose serie, e non solo gli opinionisti su fatti di cronaca che illuminano trasmissioni pigramente a caccia di ascolti.

Tutti lamentano che i ragazzi sembrano sversare maggiore aggressività, (anche se i reati sono per fortuna in calo), ma nessuno ricorda che sono frutto di chi li cresce e che negli ultimi anni hanno sofferto la reclusione da lockdown e coprifuoco durante cui hanno avuto meno libertà dei cani (quelli potevano uscire per fare pipì, i ragazzi per dissetarsi della loro sete di vita, no). Stiamo vedendo, e vedremo ancora, i frutti di quell’orrore di reclusione che fu peggio del carcere (dove almeno puoi socializzare con altri detenuti, a casa da solo no). Grazie che poi sviluppano dipendenza da social.

Perciò, e anche perché capiscano che li guardiamo e aspettiamo protagonisti sani accanto a noi, portiamo la piena imputabilità a 16 anni. La società cambia, e con essa devono farlo le leggi. Oggi la criminalità organizzata sa che se affida la manovalanza ai minorenni non solo li fidelizza, ma anche che se li beccano gli fanno poco più di una carezza. La nostra pancia chiede meno opinione e gossip, e più concretezza e crescita.

Andrea Ruggieri

Genitori o capi di in clan? Così si rinuncia ai propri doveri. Storia di Luciano Fontana su Il Corriere della Sera l'11 settembre 2023.

Caro Direttore, pomeriggio di venerdì 8 settembre; me ne stavo tranquillamente seduto, all’ombra sotto una pianta, su una panchina di un piccolo parco sul lungomare di Bordighera, limitrofo a un’area giochi attrezzata per bambini, quando ho assistito a una rissa verbale tra genitori scatenata da questo episodio banalissimo. Una bambina di 5 anni ha graffiato un’altra più piccola. La mamma di questa allora le dice: «Se vieni a casa mia ti drizzo». La bimba di 5 anni corre ad avvisare la mamma. Il padre di questa sente, si alza di scatto ed esclama: «Cosa ti ha detto?». Quindi si rivolge alla moglie e le dice: «Chiama la pattuglia». Alla fine lo fa davvero: «Tutti qui mi conoscono». Intanto la moglie si è spostata dalla parte opposta dei giochi e si mette a litigare con una terza madre, la quale le urla: «Siete degli attaccabrighe». E così via. La pattuglia dei carabinieri giunge davvero, sono in due agenti, prendono nota dei nominativi. Probabilmente la ragione scatenante è l’isteria, sono tutti un po’ nervosi. Povere maestre che avranno a che fare con questi genitori, penso tra me. Che educazione danno ai loro figli? Non era meglio prenderli da parte e insegnare loro a fare pace, stringendosi la mano? Senza mettere di mezzo, per così poco, le forze dell’ordine? Non mi sorprende che certi giovani diventano poi teppisti abituati come sono da piccoli ad avere sempre ragione. Qui la colpa è di genitori immaturi. Ricordo ancora le parole del nostro preside salesiano, don Dante Caprioglio, quando in collegio rivolto ai papà e alle mamme esclamava: «Noi facciamo di tutto per educare i vostri figli, ma se poi manca l’appoggio della famiglia, di voi genitori e dei nonni, allora serve a poco». Stefano Masino

Caro Masino, Lascio gran parte dello spazio di questa rubrica al suo racconto perché mi sembra davvero istruttivo. Scene simili ne abbiamo viste a scuola, con genitori che contestano duramente, se non passano alle mani, i professori: per una nota, un brutto voto, una bocciatura. È come se si abdicasse alla propria funzione di padre e madre per diventare capi di un clan familiare in cui si ha sempre ragione contro il resto del mondo. Le relazioni che dominano al tempo dei social spingono tantissimo questa logica del «bianco o nero», «con me o contro di me». Si rinuncia al ruolo di genitori comprensivi ma severi in caso di sbaglio, si fanno crescere i figli con la convinzione che tutto è permesso, si aumentano le liti, anche giudiziarie, e si fa sprecare tempo, come in questo caso, alle forze dell’ordine. C’è da preoccuparsi.

Esibizionisti e violenti: chi sono i minori che stuprano e sparano in cerca di follower. Sono 13.800 i giovani in carico alla giustizia. Due i nemici da combattere per recuperarli: la spettacolarizzazione dei reati sui "social" e la dispersione scolastica, mai così alta. Maria Sorbi il 7 Settembre 2023 su Il Giornale.

Lo stupro di gruppo di Caivano è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il limite è stato ampiamente superato in una miriade di altre occasioni: il clochard picchiato a morte a Pomigliano d'Arco, il bambino ucciso per una stupida sfida in Lamborghini a Casal Palocco, le rapine in pieno giorno, le armi usate come fossero giocattoli, lo spaccio.

La microcriminalità giovanile ha raggiunto picchi inaccettabili: nel 2022 i reati di gruppo sono aumentati del 14%, i minorenni e giovani adulti in carico alla giustizia minorile sono arrivati a quota 13.800, di cui circa 4mila tra i 14 e i 15 anni. In parte sono finiti negli Ipm, tipo quello raccontato dalla serie tv Mare Fuori, in parte in comunità di recupero o risultano in «messa in prova» a casa. Gli Ussm (uffici di servizi sociali per minorenni) con maggior carico di lavoro sono a Bari, Brescia e Roma, con circa mille casi l'uno, segue Napoli, poco sotto.

Ma al di là dei numeri, è l'impennata di violenza (spesso gratuita) a spaventare. Le baby gang non sono più solo quelle che rubano le Jordan al compagno di classe o che bullizzano le compagne. Ora è un attimo che sfoderino pistole e coltelli, che prendano a calci un poveretto fino ad ammazzarlo, che abusino sessualmente a turno di una compagna senza che nessuno si ponga lo scrupolo e fermi gli altri. Il pentimento? Si, forse davanti al gip, sotto suggerimento dell'avvocato. Ma mai nelle chat con gli amici - come nel caso degli stupratori di Caivano - dove l'atto di violenza è sempre e comunque motivo di vanto.

Il decreto in Consiglio dei ministri nasce una convinzione: le misure adottate finora non bastano più, né come deterrente, né come punizione, né come rieducazione. Si abbassa l'età della «gioventù bruciata», aumenta il numero delle femmine che partecipano alle baby gang. E che magari filmano il crimine-live.

Perché è questo il vero nemico da combattere: la spettacolarizzazione della violenza. Se ne rende ben conto Ernesto Savona, direttore di Transcrime, il centro di ricerca sulla criminalità dell'università Cattolica: «Non possiamo sottovalutare l'importanza che i microcriminali danno a social e telefoni. Ormai il reato è indissolubilmente legato alla sua esibizione. Lo scopo è farsi vedere, rivedersi, collezionare followers: così nella corsa folle a bordo delle auto per le sfide di TikTok, o negli stupri. La spettacolarizzazione della violenza va oltre la paura della punizione. E se non capiamo questo, non argineremo le baby gang». Quindi la scelta di requisire profili e cellulari ai condannati potrebbe essere un deterrente giusto.

«Le baby gang - spiega l'associazione italiana Criminologi - ruotano intorno al meccanismo della deresponsabilizzazione e dell'effetto branco perché nel gruppo è come se ci fosse una divisione della responsabilità, la condivisione di ciò che viene fatto aumenta anche la portata e la potenziale gravità delle azioni commesse. Ci si sente meno colpevoli e ciò che viene fatto in gruppo con elevata probabilità non si farebbe mai da soli». Per questo, oltre che sulla punizione, è necessario agire anche sulla prevenzione. «Cominciamo a farlo a scuola, limitando i numeri della dispersione e preparando i prof che in certi istituti non sono in grado di gestire i ragazzi maleducati e violenti» chiede Savona.

I numeri dei ragazzi che ciondolano per strada anziché andare a scuola è imbarazzante: in base ai dati del ministero dell'Istruzione, molla gli studi un ragazzo su 5 e tra i giovanissimi il ministero dell'Istruzione calcola che uno studente delle medie ogni tre classi non si iscrive alle superiori e passa anni a non lavorare, andando poi a incrementare le fila dei cosiddetti neet, i 19enni che non fanno sulla dal mattino alla sera: sono uno su 4 (poco meno del 25%) una quantità più alta rispetto alla media europea e che deve far riflettere.

Avere un progetto, un percorso e, se non altro, una giornata impegnata, potrebbe levare molti ragazzini dai «brutti giri», soprattutto al Sud dove i numeri delle baby gang e dei giovani che non studiano sono più elevati.

Un tassello importante della prevenzione della microcriminalità arriverà quindi anche dagli interventi sulla scuola, già strutturati dal ministro Giuseppe Valditara: niente cellulari in aula, niente sospensione per i bulli ma ore socialmente per ripagare i danni, un'offerta scolastica più adatta. Una responsabilizzazione per farli diventare (e non solo sentire) grandi. Maria Sorbi

Estratto da ilfattoquotidiano.it il 7 Settembre 2023

Lo stop all’uso del cellulare per i minori condannati finito nella bozza che approderà in Consiglio dei ministri non piace anche dentro la maggioranza. Il decreto baby gang […] viene stroncato nella sua parte più controversa dall’altro vice-premier, Antonio Tajani. Che dice quasi un’ovvietà […]. 

“Lo stop ai cellulari? Non è una questione risolutiva. Certamente per un giovane è un segnale forte ma non è che si risolve perché poi, magari, se lo fanno prestare dal fratello o trovano il modo di usarlo”, ha detto il ministro degli Esteri e vicepremier bocciando la misura contenuta nel decreto per contrastare le baby gang.

“È uno strumento aggiuntivo – ha detto ancora – Io penso sempre che l’aspetto fondamentale sia la rieducazione in carcere, per questo è giusto che gli istituti di detenzione minorile ci puntino ancor più degli altri”. Il giudizio del segretario di Fi assomiglia molto a quello affidato dall’ex procuratore minorile di Napoli, Giandomenico Lepore, a Il Fatto Quotidiano: “Non servono misure di polizia. Sono quelle cose di cui ci si riempie la bocca per apparire molto severi, ma all’atto pratico difficili da applicare. Bisogna cambiare il carcere”.

[…] Tajani è poi stato interpellato direttamente sullE parole di Salvini, riguardo ai minorenni che meritano il carcere se si macchiano di reati gravi. “Un 14enne che uccide, rapina o spaccia deve pagare come paga un 50enne”, aveva detto il numero uno della Lega. “Non possiamo che considerare un 14enne che gira armato un criminale – risponde Tajani – Detto questo, ci sono le carceri minorili che devono lavorare per la rieducazione. Non dobbiamo mai rinunciare alla possibilità di far sì che questi giovani si allontanino dal mondo del crimine”. 

È “ovvio”, ha specificato il vicepremier forzista, che “un giovane criminale debba pagare per le sue colpe perché è già nell’età della ragione”. Ma “deve essere sempre, nell’ambito dell’esecuzione della pena, considerato un soggetto che può redimersi”. […]

Nella bozza lasciata filtrare alla vigilia del Consiglio dei ministri si prevede che il questore possa convocare anche i ragazzi tra i 14 e i 17 anni per un avviso orale e se il soggetto al quale è stato notificato l’avviso risulta condannato, anche con sentenza non definitiva, per delitti contro la persona, il patrimonio ovvero inerenti ad armi o droga, il questore può proporre al tribunale il divieto di utilizzare “piattaforme o servizi informatici e telematici specificamente indicati nonché il divieto di possedere telefoni cellulari”. 

 Un’idea quantomeno illusoria se non irrealizzabile, che il governo vorrebbe approvare per provare a mettere un freno al fenomeno delle baby gang e contrastare il disagio giovanile. O almeno una parte dell’esecutivo, visto che se la Lega sta cercando di intestarsi il provvedimento, la terza gamba della maggioranza, attraverso le parole del suo numero uno, ha smontato la misura più “pop” contenuta nel decreto.

Estratto dell'articolo di Mattia Feltri per “La Stampa” il 7 Settembre 2023

Siccome a mettere in galera immigrati, tossici, innocenti vari, ad aumentare le pene e a buttare le chiavi alla lunga viene noia, la Lega ha pensato di tirarsi un po' su proponendo di mettere in galera pure i bambini. Per tramite di Giulia Bongiorno [...] si suggerisce di abbassare l'età imputabile sotto i quattordici anni, il limite oltre il quale davanti a un giudice e in reclusione oggi non si va. 

Il noto filosofo del diritto Matteo Salvini l'ha illustrata così: se un ragazzino rapina e spaccia come un cinquantenne, allo stesso modo la deve pagare. Non so con quali gesti spiegare a Salvini che se un cinquantenne vota, guida l'auto e paga le tasse e un ragazzino no, è perché qualche differenza esiste, e la si può intuire anche a occhio nudo. 

Ma del resto Salvini è un onesto ammiratore dello stato di diritto di stampo putiniano e nordcoreano, e non per caso l'ultimo paese a portare da quattordici a dodici anni il limite dell'imputabilità è stata la Cina, due anni fa: la scuola è quella lì.

E infatti, tornando a Giulia Bongiorno, la sua chiosa è stata folgorante: «Oggi i ragazzi crescono molto in fretta». Quindi mettiamoli in fretta dietro le sbarre. Mi ha ricordato di quando l'Unione sovietica di Iosif Stalin deliberò di estendere la pena di morte fino ai dodicenni e, allo sdegno del mondo occidentale, il partito comunista francese obiettò che le democrazie erano arretrate e non potevano capire: l'Urss è una società così sviluppata, sostenne, che lì i bambini diventano adulti prima. Ecco dove siamo tornati. Con una conquista in più: oggi gli adulti restano bambini e li mandiamo al governo.

Cdm, via al Decreto contro la criminalità minorile. Andrea Soglio su Panorama il 07 Settembre 2023

Carcere più facile ma al momento niente abbassamento dell'età per la punibilità e niente stop all'accesso ai siti porno. Meloni: «Ci mettiamo la faccia. Un'alternativa alla criminalità esiste»

Il Consiglio dei Ministri ha approvato il Decreto contro la criminalità minorile. Un provvedimento che contiene elementi nuovi ma anche qualche mancanza rispetto alle voci della vigilia. Nessun abbassamento invece dell'età per la punibilità, come avrebbe richiesto il leader della Lega, Salvini. E niente stop all'accesso dei siti porno per i minori come proposto dal Ministro Roccella. «Volevo essere qui perché penso che il lavoro che abbiamo portato oggi in Cdm sia fatto di norme importanti su alcune materie in cui in passato lo Stato ha preferito di occuparsi di altro, ha dato il segnale che su alcune questioni era meglio non entrare e metterci la faccia perché pericoloso. Io penso che quello di oggi è un segno di uno Stato che decide di mettere la faccia in materie complesse e difficili da risolvere» così in conferenza stampa post cdm la premier Giorgia Meloni. "Il lavoro" per riqualificare Caivano "durerà qualche anno con una presenza cadenzata del governo, ho detto ai ministri che ognuno di loro deve andare per portare i propri 'mattoni'. Inviamo un commissario che possa parlare con tutti gli attori ed insieme facciano un lavoro che durerà molto tempo. La seconda leva che abbiamo utilizzato è una stretta sulla criminalità minorile, tutti i fatti di cui parliamo vedono protagonisti dei minori. E le norme che abbiamo approvato sono frutto di una interlocuzione avviata con la visita a Caivano».

COSA CONTIENE IL DECRETO «Repressione dei crimini e percorso rieducativo», ha detto il Ministro della Giustizia Nordio «agendo anche sui genitori ove risiede molto spesso nella scarsità di senso civico la radice dei problemi». È previsto che nei casi di associazione a delinquere che coinvolgono un minore, anche solo come vittima della situazione, il pm può segnalare la situazione di disagio per interventi nei confronti dei genitori arrivando alla perdita della capacità genitoriale. Rafforzate le sanzioni contro i genitori che abbandonano i figli, togliendoli dalla scuola dell'obbligo. Oggi da sanzione si passa al reato. Viene confermato l'abbassamento da 9 a 6 anni della soglia di pena per cui applicare la custodia cautelare a cui viene unita anche la condizione del pericolo di fuga, che prima non esisteva. Nessun intervento sull'età della responsabilità penale che resta a 14. «È contrario all'utilità ed all'etica» ha detto Nordio. Per chi maggiorenne che si trova a scontare la pena in un carcere minorile con presupposti, comportamenti e reati gravissimi verso i minori, è previsto il trasferimento in un carcere ordinario. Sarà il magistrato di sorveglianza la decisione caso per caso. Il Daspo urbano viene esteso dai 18 ai minori a partire dai 14 anni. Niente stop ai siti porno per i minori La Ministra Roccella ha chiesto ai produttori di telefoni che «inseriscano parental control gratuito». Il porno online "produce danni alla salute perché crea dipendenza e l'età di primo accesso a questi siti è ormai di 6-7 anni. Vogliamo sollecitare e sostenere la responsabilità educativa della famiglia, implementando il parental control. Ci sono app che però non sono usate. Vogliamo che in prospettiva il parental control sia offerto gratuitamente in tutti i device, con un'icona immediatamente riconoscibile. Diamo tempo ai produttori di inserirla", ha detto il ministro.

Per quanto riguarda Caivano per prima cosa verrà ripristinato il famoso centro sportivo, una volta luogo di aggregazione, ora discarica nelle mani della criminalità. FAbio Ciciliano è stato nominato Commissario alla riqualificazione di Caivano

Don Patriciello: «Grazie a Meloni e no al buonismo. Chi fa reati gravi a 17 anni è già scafato». Storia di Simona Brandolini su Il Corriere della Sera giovedì 7 settembre 2023.

«Fino a una settimana fa non c’erano né i 30 milioni di euro per Caivano, né il commissario, nulla, niente di niente. Quindi per ora siamo contenti». Eppure don Maurizio Patriciello, sacerdote del Parco Verde di Caivano ha un rammarico: «Non c’è la stretta sull’accesso ai siti porno per i minori. Un vero peccato, mi addolora. Ma ci devono arrivare».

La premier Giorgia Meloni ha spiegato che è materia tecnicamente complessa. «Non lo metto in dubbio, ma dobbiamo aiutare questi bambini. Non possiamo lasciarli soli con i telefonini in mano. È una priorità. Mi rendo conto che io sono solo un piccolo prete di periferia, ma diceva lo scrittore Corrado Alvaro: a domande vere bisogna dare risposte vere. Io dico: a domande complesse bisogna dare risposte complesse».

Arresto per i minori in flagranza, lavori utili, Daspo, multe e arresto per i genitori inadempienti, cosa pensa del decreto Caivano? «Accanto alle norme bisogna mantenere i piedi per terra e la voglia di andare incontro a questi bambini, di comprendere il disagio. Se mancano i genitori lo Stato se ne deve far carico con insegnanti, vigili, assistenti sociali. Ben vengano poliziotti e carabinieri e chi dice il contrario sbaglia. Ma non si può credere che siano la soluzione a tutto. Domani a Caivano torna il ministro dello Sport. Oggi gioiamo per quello che abbiamo ottenuto».

L’ex procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, in un’intervista al Corriere ha detto: basta con il «buonismo deleterio». È d’accordo? «Ha ragione Riello e lo ringrazio. Buonismo significa stendere un velo pietoso sui problemi, chiudere gli occhi. I problemi si affrontano. Sono per una lettura vera della realtà. Ho sentito tante cose in questi giorni su Parco Verde, ma da chi non conosce a fondo la realtà. Dobbiamo calarci in questo disagio, talvolta è un grido di aiuto. Ma i poveri danno fastidio, diciamocelo, non abbiamo voglia di affrontarli. Non ci facciamo prossimo. Non li amiamo: queste persone si sentono ghettizzate, costrette in questi quartieri perché altrove non potrebbero andare. Una famiglia di Parco Verde non potrebbe andare via. Caliamoci senza buonismo, con la carità nella verità».

Altro tema molto delicato riguarda la soglia di imputabilità dei minori: la abbasserebbe? «È un dibattito aperto, ma delicato appunto: non servono slogan. Ho sempre pensato che bisognerebbe abbassare la maggiore età dinanzi a reati gravi come per esempio l’omicidio di Giovanbattista Cutolo: cioé a 17 anni sono uomini scafati. Per il resto sono anche questioni tecniche: sono convinto che servano pene certe, ma la repressione va accompagnata sempre dal sostegno alle famiglie, all’educazione, al lavoro».

Prima la visita di Giorgia Meloni, poi un blitz delle forze dell’ordine, ora un decreto. «Significa che il governo ha volto lo sguardo su questa realtà, vediamo come verrà realizzato. Caivano ha subito tanta ingiustizia, per questo oggi devo solo ringraziare Giorgia Meloni».

Estratto dell'articolo Valeria Costantini e Aldo Simoni per il “Corriere della Sera” giovedì 31 agosto 2023.

«Fuori i nomi». C’è persino un hashtag che gira sui social, un invito a dare la caccia ai ragazzi che hanno massacrato la capretta nell’agriturismo di Anagni, in provincia di Frosinone. Il clima a Fiuggi, città dove vivono i giovanissimi coinvolti, è molto teso. Troppa l’indignazione per quel video in cui l’animale viene ucciso durante una festa di compleanno: una serie di calci e, in sottofondo, le risate. 

Una violenza brutale e le grida di incitamento a colpirla riprese dagli smartphone e poi il video postato sui social. […]  Ed è proprio sul web che ora i ragazzi sono diventati bersagli, come anche nella città termale che conta appena diecimila persone. Tutti si conoscono. Non si parla d’altro e si è scatenata la caccia ai responsabili.

Insulti, accuse e minacce di morte sono rimbalzate nelle chat della località ciociara. Ore di paura e recriminazioni tra le famiglie coinvolte che adesso temono conseguenze – non solo giudiziarie – per i propri figli. «Ogni famiglia sta cercando di capire il grado di coinvolgimento dei ragazzi», dice preoccupato Alioska Baccarini, sindaco di Fiuggi, nonché avvocato. 

[…] In un canale social chiamato «non ci sono problemi», sono presenti proprio gli stessi giovani del video con l’uccisione della capretta che pubblicizzano le loro scorribande, mostrandosi mentre contano banconote da 50 euro o quando inseguono auto dei carabinieri.

«Eravamo ubriachi, non ci siamo resi conto di quello che stavamo facendo. Non pensavamo che l’animale morisse...». Hanno tentato di giustificarsi così i due ragazzi minorenni, indagati per i maltrattamenti dopo aver ucciso la capretta. I militari dell’Arma di Anagni stanno ascoltando diversi testimoni della cena di compleanno nell’agriturismo Sant’Isidoro di Anagni: il pm della procura per i minorenni di Roma Maria Teresa Leacche ha disposto verifiche sui titolari per l’eventuale somministrazione di alcolici ai minorenni. 

[…] 

«Noi eravamo al tavolo, non ci siamo accorti di nulla», ha detto Stefania Cinti, madre della 18enne festeggiata e comandante dei carabinieri forestali del vicino paese di Filettino. «Nessun genitore vorrebbe che accadesse una cosa simile, ma c’è un’inchiesta in corso quindi preferisco non entrare nel merito». Il papà della ragazza attacca: «Tutti bravi a criticare ma vedrete che la realtà è ben diversa e presto la conoscerete». […]

Capretta uccisa a calci: “Gogna pubblica per i colpevoli. Figli violenti di politici e poliziotti”. Animalisti in piazza con nome e foto dei 12 ragazzi. Marco Carta su La Repubblica il 2 settembre 2023. 

La duplice protesta attraverserà Anagni, dove si trova l’agriturismo e Fiuggi. “Per i reati sugli animali pene sono troppo basse”. Ma la scelta è estrema. L’attivista Rizzi: “Pronto ad assumermi tutte le conseguenze”. Sale a 12 il numero di denunciati, di cui 5 minorenni

“I responsabili meritano la gogna pubblica. Tutti devono sapere chi ha ucciso la capretta”. A Fiuggi - mentre sale a 12 il numero di denunciati, di cui 5 minorenni, per le violenze sulla bestiola - è arrivato il momento della vendetta e della giustizia fai da te. A prometterla sono gli animalisti che questo pomeriggio manifesteranno per sensibilizzare l’opinione pubblica.

È stata ribattezzata “Fuori i nomi” la duplice protesta che attraverserà prima Anagni, dove si trova l’agriturismo in cui domenica scorsa è stata uccisa la capra, e poi Fiuggi, città di origine dei giovanissimi protagonisti del massacro.

È qui che saranno esibiti cartelli con il nome e le foto di chi ha picchiato e ucciso l’animale durante una festa di compleanno.

Una scelta estrema, ai limiti della legalità, per la quale uno degli organizzatori della protesta, l’attivista Enrico Rizzi, è pronto ad assumersi tutte le conseguenze. “Per i reati sugli animali nessuno va in carcere perché le pene sono troppo basse. Dal momento che lo stato è assente vogliamo che tutti sappiano chi è il responsabile. Tu maltratti un animale e, visto che lo stato non ti punisce come si deve, è giusta la gogna pubblica. Tutti devono sapere il nome e il cognome”.

Il primo appuntamento è alle 17 in piazza Cavour ad Anagni. Poi è prevista una passeggiata a Fiuggi. La decisione di questa protesta, annunciata con anticipo, è anche quella di rompere il silenzio intorno alla vicenda.

“Soprattutto a Fiuggi ci siamo ritrovati di fronte un muro di omertà”, aggiunge Rizzi. Molti dei protagonisti, che hanno partecipato alla festa di 18 anni della figlia della comandante della Forestale di Filettino, il maresciallo Stefania Cinti, sono i figli della ‘Fiuggi bene’".

Tra gli oltre 50 invitati, infatti, c’era anche il figlio dell’assessora alle Politiche educative, servizi per l’infanzia, sport e giovani del Comune di Fiuggi, Laura Latini e il figlio di un altro dirigente comunale. Ma non solo.

Uno dei due minorenni denunciati dai carabinieri di Anagni alla procura dei minori per il reato di maltrattamento agli animali è figlio di un poliziotto. Mentre almeno 4 maggiorenni sono indagati per istigazione a commettere un reato. I carabinieri li hanno individuati interrogando i presenti e vagliando il video del massacro, che uno dei ragazzi ha diffuso su Instagram.

“Forza, colpitela!”. Nel filmato sono diverse le persone che incitano i protagonisti ad andare avanti. 

Nell’agriturismo Sant’Isidoro, dove è avvenuto il fatto, intanto regna ancora l’incredulità. Nessuno sa darsi una spiegazione di quello che è accaduto. Di certo tutti sono sicuri che la capra non fosse “già agonizzante”, come ha scritto in una lettera la madre di uno dei ragazzi che hanno partecipato alla festa.

L’area dove si vivono gli animali da cortile, come caprette e asinelli, è separata da quella in cui si trovavano gli ospiti. Il titolare della struttura, che ha sporto denuncia, ieri è stato ascoltato di nuovo dagli inquirenti per ricostruire meglio lo scenario della festa, a cui hanno partecipato più di 50 persone. Un diciottesimo come tanti, che si è concluso però in maniera drammatica.

“È stato un gesto inqualificabile e ignobile - commenta Daniele Natalia, sindaco di Anagni - l’idea più preoccupante è che una violenza del genere oggi è su un animale, ma domani potrebbe essere contro una persona. Bisogna fare una riflessione e aiutare queste nuove generazioni, che vivono in un mondo particolare. Siamo arrivati al punto che si fanno le cose solo per poi mostrarle in rete. Le nuove generazioni hanno bisogno di punti fermi, delle guide. Se un figlio arriva a fare certe cose il primo che si deve interrogare è il genitore”.

La "questione giovanile". Stupri a Caivano e Palermo: per salvare il Sud meno retorica e musei antimafia. Violenze, bullismo, aggressioni: la gioventù sotto il Garigliano risente di politiche educative fallimentari, di cui il giustizialismo è il perfetto simbolo. Alberto Cisterna su L'Unità il 29 Agosto 2023

C’è nei fatti orribili di Palermo e Caivano qualcosa che si colloca oltre l’evidenza di un rapporto sempre più malato e deteriorato tra adolescenza e sessualità. È chiaro che questa è la chiave di interpretazione più diretta, e anche più semplice, per comprendere l’aggressione in branco di vittime inermi.

Tuttavia la giungla dei social, l’affievolimento delle relazioni parentali (con genitori, talvolta, ancora più dispersi e disorientagli dei figli nella costruzione di stabili punti di riferimento emotivi e sentimentali) non può bastare per spiegare perché anche il Sud d’Italia sia sempre più di frequente attraversato da fenomeni di aggressione a sfondo sessuale da parte di gang di ragazzini alla ricerca di crude conferme delle proprie devianze educative. Il Mezzogiorno del paese, soprattutto le regioni un tempo largamente controllate dalla criminalità mafiosa, necessitano urgentemente di un potente intervento pubblico che prenda in esame proprio la formazione delle giovani generazioni, i loro destini educativi e lavorativi.

In gran parte la “questione giovanile” al Sud può dirsi archiviata e dichiarata fallita dal clamoroso, incessante esodo dei ragazzi verso i poli universitari e le sedi lavorative del Nord e, in modo massiccio, del resto d’Europa. Ad andar via da due decenni ormai sono i giovani di tutte le classi sociali, alla disperata ricerca di un futuro che al Sud promette solo assistenzialismo, clientelismo, redditi di cittadinanza e bassa qualità dell’istruzione e del lavoro.

È una sfida, ripetesi in gran parte persa e di cui sono un doloroso riscontro il crollo dei mercati immobiliari nelle città meridionali, la rarefazione delle iscrizioni universitarie disseminate (per ragioni clientelari) in un pulviscolo di micro facoltà con un numero di docenti sproporzionato rispetto a quello degli studenti, il fallimento dei bonus immobiliari che solo l’insipienza di un ceto politico accecato dal giustizialismo ha potuto dirottare verso gli immobili “regolari” dei ricchi potentati, anziché verso la bonifica delle tante Beirut dell’incompiute dell’abusivismo edilizio. Un territorio devastato in cui, per la prima volta, la cronaca giudiziaria è cronaca di giustizia minorile.

Una svolta probabilmente inattesa per fronteggiare la quale si assiste ancora alla riedizione della patetica politica di allontanare bambini e ragazzi dalle famiglie in odor di mafia, mentre nelle nuove banlieue, assediate dallo spaccio a tappeto delle droghe, le genie si contaminano, i rampolli dei boss bullizzano e violentano insieme ai figli del nuovo proletariato assistito e marginalizzato. Palermo e Caivano, come le risse di strada a Catania o a Reggio Calabria, gli scontri coltello alla mano nei vicoli di Bari o di Napoli ci consegnano un quadro imprevisto e in parte incontrollabile con gli strumenti oggi a disposizione dello Stato.

Avviata alla vittoria la battaglia contro le mafie – messe all’angolo da una repressione capillare e senza tregua – le istituzioni scoprono tragicamente che l’assistenzialismo demagogico ha solo inseminato e fatto da volano a una generazione di adolescenti e di ragazzi vocati alla violenza, disincantati verso la scuola, privi di fiducia per l’avvenire che predano la società e danno la caccia ai più deboli, spesso fragili coetanee, se non bambine. Come agnelli in mezzo ai lupi i più esili soccombono, scompaiono, fuggono quando possono, abbandonando le macerie di una società che ha smarrito ogni condiviso progetto sociale, ogni prospettiva di crescita collettiva per affidarsi a una primordiale legge della giungla.

I predatori si aggirano nelle strade, nelle scuole, nei bar abbandonati a sé stessi, capaci di commettere ogni genere di gesto violento, ogni tipo di sopraffazione. C’è l’urgenza di una profonda riconversione anche degli apparati di polizia e giudiziari dello Stato nel Mezzogiorno d’Italia. Commissioni parlamentari e regionali, comitati, associazioni e tutto il variegato mondo che si occupa (e solo talvolta si preoccupa) della condizione giovanile al Sud pongano attenzione al rafforzamento delle istituzioni incaricate di prevenire e anche reprimere le devianze giovanili e lo Stato (con il suo ormai vacillante e sbrindellato Pnrr) destini fondi veri a questo scopo.

Si lascino pure marcire i beni di mafia (simulacri di macerie di cui la società spesso non sa che farsi, con il rischio di alimentare il solito assistenzialismo antimafia di una certa politica che dispensa stipendi e sistemazioni per quieto vivere) e si destinino quei fondi al rafforzamento delle politiche educative e scolastiche al Sud. Il Mezzogiorno non ha bisogno di retorici musei delle mafie, ma di gesti concreti che tentino almeno di evitare un’ecatombe generazionale. Forse si sono strappati i figli alle grinfie insanguinate delle cosche per lasciarli soccombere nella disperazione delle gang.

Alberto Cisterna 29 Agosto 2023

Le Caivano d'Italia, periferie a rischio. Linda Di Benedetto su Panorama il 2 Settembre 2023

Non solo il quartiere napoletano finito nelle cronache per gli ultimi episodi. Ci sono tante zone nelle città italiane in cui lo Stato fatica a far rispettare le proprie leggi

In Italia non esiste solo Caivano. Lo stupro delle due cuginette balzato su tutti i Tg nazionali ha mostrato soltanto una delle tante periferie d’Italia lasciate in mano alla criminalità dove lo Stato sembra aver rinunciato ad entrare. Ghetti in cui sono costrette a vivere in condizioni estreme migliaia di persone, stipate in palazzoni senza servizi e dove a dettare legge è la criminalità che sì è sostituita allo Stato. Sacche di degrado che rappresentano il fallimento delle politiche abitative per le fasce più deboli, asserragliate in casa per sopravvivere, ad abusi, omicidi, montagne di rifiuti, scarsa igiene, assenza di trasporti, ma soprattutto alla paura di essere aggrediti o addirittura uccisi. Un mondo sospeso quello delle periferie “maledette” che ritroviamo in tutte le regioni italiane. Le Caivano d’Italia Partendo dal Sud uno dei quartieri più degradati è il Librino a Catania noto alle cronache per lo spaccio di stupefacenti ed il traffico di armi. Sempre in Sicilia un altro simbolo del degrado è il quartiere Zen di Palermo che ospita 16mila abitanti. Lo Zen è una vera e propria centrale di spaccio. A Reggio Calabria invece ad essere “famosi” per criminalità, prostituzione, furti, immondizia e spaccio di droga sono i quartieri di Arghillà nord e di Archi cep denominati ghetti “enclave della ndrangheta”. In Puglia la situazione non migliora e nel quartiere Candelaro a Foggia sparatorie, omicidi e spaccio sono all’ordine del giorno. Sono nel 2022 ci sono stati 12 omicidi in stile narcos messicani ma non c’è stato nessun clamore mediatico.

Mentre in Campania non sono più Scampia e Secondigliano a preoccupare ma il quartiere Ponticelli con continui agguati, vendette e l'uso frequente di bombe. A Ponticelli infatti non è raro assistere a deflagrazioni nella notte in più punti del quartiere che costringono i cittadini a vivere nella paura. Anche nella capitale la situazione è critica. In alcuni quartieri di Roma la criminalità ha preso il controllo del territorio e da mesi è in atto una guerra tra clan per aggiudicarsi le piazze di spaccio che ha causato già diversi morti. Tra i quartieri più tristemente noti c’è Corviale che ha al suo interno l’edificio del Serpentone, luogo simbolo dedicato alle attività della camorra e della criminalità organizzata romana. Altra zona critica è il quartiere di Tor Bella Monaca in cui è possibile trovare ogni tipo di droga e dove il prete anti spaccio Don Coluccia solo pochi giorni fa, stava per essere investito a causa del suo impegno contro la criminalità. In Lombardia, Quarto Oggiaro, nella periferia di Milano, è da sempre nota per essere la sede delle principali attività criminose del capoluogo lombardo. E negli anni, nonostante i vari sforzi fatti, la situazione non è mutata completamente e sembra che proprio in questa zona la vendita della metanfetamina sia ai suoi massimi livelli. In Piemonte alle Vallette c’è lo “sfortunato” quartiere di Torino epicentro della delinquenza giovanile e di tante situazioni sociali difficili, di disagio e povertà economica. Mentre in Liguria il quartiere Begato di Genova è stato ribattezzato come il “Quartiere dei morti ammazzati” con il record di avere 1.723 persone seguite dai servizi sociali.

Non solo Caivano. Dal Nord al Sud: ecco i fortini dei clan che devono cadere. Periferie di Palermo, Torino, Foggia e pure Aosta: le zone dove le forze dell'ordine non entrano sono note ma adesso si promette un giro di vite Il ruolo delle mafie, delle baby gang e dei trapper. Massimo Malpica l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.

Dal Nord al Sud, da Est a Ovest. Non c'è solo Caivano tra le zone franche alle quali Giorgia Meloni ha dichiarato guerra. Ogni angolo del Bel Paese ha le sue piazze di spaccio, i suoi angoli dove fervono attività illecite alla luce del sole, le sue strade dove si muore ammazzati nonostante lo Stato. Su tutto, ovviamente, c'è spesso il cappello delle mafie italiane - sia quando giocano in casa sia quando proiettano i propri interessi in territori un tempo vergini, come prova la crescente presenza della ndrangheta in Valle d'Aosta e delle organizzazioni criminali straniere. Del tutto intenzionate a mantenere questi pezzi di Italia fuori dalla portata delle forze dell'ordine e della legge.

Luoghi dove tutto è gestito in proprio da chi si è assicurato il controllo del territorio. Come accade nella borgata di Ciaculli, periferia Sud-Est di Palermo, famosa per il suo pregiato mandarino tardivo. Qui lo Stato è assente, in tutti i sensi: un singolo autobus collega il quartiere alla città. La mafia invece qui è stata di casa da tempi remoti: è del 1963 la «strage di Ciaculli», quando un'Alfa Romeo Giulietta ripiena di tritolo esplose uccidendo sette carabinieri. Anche se ora la borgata ospita il «giardino della memoria», dedicato alle vittime di mafia, appena un anno fa un blitz antimafia ha rivelato che qui le cosche si occupavano di governare tutto: oltre a spacciare droga, infatti, vendevano mascherine (rubate) durante l'emergenza Covid, imponevano la propria intermediazione ben retribuita nelle compravendite immobiliari del quartiere, e rivendevano anche l'acqua agli agricoltori della Conca d'oro per irrigare i campi, naturalmente dopo averla rubata agli acquedotti pubblici.

Anche la «quarta mafia», la «società foggiana» in forte ascesa, sa controllare il «proprio» territorio. Se il capoluogo è insanguinato da anni dagli omicidi della guerra tra clan, le sue piazze di spaccio sono spesso inaccessibili e «invisibili» per lo Stato. Pochi mesi fa, solo il lavoro di due agenti sotto copertura ha permesso di scoprire le decine di locali blindatissimi dedicati allo smercio degli stupefacenti nella vicina San Severo. Dove la droga veniva venduta in quartieri dai nomi eloquenti come «Fort Apache» - anche in «coffee-shop» dove i clienti potevano consumarla in loco, senza alcun timore che le forze dell'ordine potessero interrompere la «festa». Che, ovviamente, continua indisturbata altrove. Il tutto per non citare i «ghetti dei migranti» nella Daunia, vittime del caporalato e stipati in queste baraccopoli dove, parola della Dia, «è persistente una situazione di diffusa illegalità, caratterizzata da una costante commissione di delitti di varia natura, talvolta di estrema gravità».

E non c'è solo il Sud, non c'è solo la mafia. Anche la Dia ha sollevato l'allarme per le baby gang, per i comportamenti criminali messi in atto da ragazzi che spesso imitano i comportamenti dei boss e agiscono convinti che il branco garantisca l'impunità, come anche la storia di Caivano conferma. Di zone così, però, ce ne sono ovunque. Anche a Nord, a Torino, Borgo Vittoria. Quartiere settentrionale segnato da risse, furti e appunto dalle violenze delle baby gang, che anche l'ultima relazione della Dia indica come particolarmente attive «in Lombardia e Piemonte». Qui abitano, in un gruppo di case popolari considerate «off limits» per la polizia, anche alcuni dei minori arrestati per aver lanciato, a gennaio scorso, una bici elettrica su Mauro Glorioso, ragazzo palermitano finito in coma per quell'aggressione, e che non hanno mai nemmeno chiesto scusa per il folle gesto.

Ma sono tanti altri i luoghi dove lo Stato è ancora assente. Se davvero non devono esistere zone franche, come dice la premier, in queste aree la legalità dovrà rimettere piede. Per fermare gli orrori e l'omertà di Caivano, ma anche le gang di salvadoregni, di aspiranti baby-camorristi, di trapper italiani, lo spaccio e gli agguati a colpi di pistola in pieno giorno, in Sicilia come in Brianza, e gli affari di una ndrangheta sempre più radicata in tutto il Paese.

Estratto dell'articolo di Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” mercoledì 23 agosto 2023.  

Gli ultimi arrivati, moda dell’estate 2023, sono gli occhialoni da ciclista.

Lenti a specchio dai colori cangianti. D’inverno si passa al «balaclava», passamontagna leggero. L’abbinata però è sempre la stessa, con marsupio (rigorosamente a tracolla sul petto) o meglio ancora la sacoche , il borsello.

E poi scarpe Nike Tn squalo e in versione seral/estiva ciabattoni con rigoroso calzino a contrasto. La moda nasce dalla strada e oggi — dopo che anche Vogue s’è occupata del fenomeno «maranza» — molte griffe del lusso sfoggiano capi ispirati allo street style di questi ragazzi di prima e seconda generazione arrivati dal Nordafrica. 

Furti e pestaggi Loro sono giovani, giovanissimi, e rivendicano — migliaia i video sul social di riferimento TikTok — l’orgoglio maghrebino. Anche se a volte le loro vite raccontano storie di integrazione difficile. A Milano, come a Brescia e Torino, sono spesso l’incubo di negozianti, baristi e, soprattutto, ragazzini. Perché, anche se chi commette reati è solo una piccola minoranza, i maranza sono stati protagonisti di assalti, pestaggi e rapine a coetanei.

Tra i Navigli, corso Como e l’Arco della Pace, il novanta per cento delle aggressioni a giovanissimi è opera loro.

Nelle denunce la descrizione è sempre identica: un gruppo di ragazzini nordafricani che circonda la preda e, partendo dalla richiesta di una sigaretta, la colpisce con calci e pugni prima di scappare con cellulare, portafoglio o catenina. 

Molti degli arrestati in questi mesi da polizia e carabinieri, hanno esperienze di disagio alle spalle: piccoli furti, fughe dalle comunità, carcere minorile, famiglie disagiate. O solo un posto letto in condivisione nell’appartamento messo a disposizione da qualche lontano cugino. Non è un caso se solo il Comune di Milano ha in carico oltre 1.300 minori stranieri non accompagnati, l’ultima frontiera dell’immigrazione dal Mediterraneo. Dalle periferie Le compagnie sono miste: marocchini ed egiziani su tutti, ma anche tunisini e algerini. Alcuni hanno cittadinanza francese o spagnola, altri sono nati in Italia.

Ma non è raro trovare nel melting pot slavi, sudamericani anche ragazzi italiani. Tutti uniti dall’unica vera esperienza comune: la periferia. Quando dopo il Covid ci sono state mega risse e «rivolte» aizzate da trapper emergenti, la polizia ha guardato preoccupata ai venti che si levavano dalle periferie milanesi. Analisi e studi hanno concluso una sola cosa: zero collanti politici o religiosi, nessun rischio banlieue , ma un disagio sociale ed economico in forte crescita. 

Nel bene e nel male

Sull’etimologia del termine maranza ci sono scuole di pensiero diverse. I paninari degli anni Ottanta rivendicano la fusione tra «marocchino» e «zanza», piccolo ladruncolo in milanese. Il termine quindi è tutt’altro che nuovo e nasconde un certo razzismo. Loro però rivendicano con orgoglio l’essenza dell’essere maranza , nel bene e anche nel male (furti e rapine), tra video social con consigli d’abbigliamento, racconti di risse e balli sull’inno della generazione maranza : la canzone «Alicante» di Gambino, trapper magrebino di Marsiglia...

Estratto dell’articolo di Cesare Giuzzi per corriere.it lunedì 21 agosto 2023.

 I tavolini dei locali sono territorio esclusivo dei molti turisti agostani. Chissà se qualche ristoratore che ha scelto di abbassare la serranda anche qui si starà mordendo le mani? Non c’è la folla, ma neppure il deserto di certi anni fa. Sabato notte nella serata dei Navigli però i protagonisti (o meglio i sorvegliati speciali) sono altri. Gli autentici padroni, numericamente parlando, delle notti milanesi. Li chiamano (e si chiamano orgogliosamente) «Maranza». 

Il termine arriva, con un retrogusto un po’ razzista, dagli anni Ottanta milanesi: unione di marocchino e zanza. Non proprio un complimento. Ma oggi i maranza sono quello che la sociologia definisce una subcultura urbana. Di loro s’è occupata perfino Vogue, perché lo stile è arrivato fino alle passerelle con tute acetate e inguardabili marsupi e borselli a tracolla. 

Oggi basta aprire TikTok per vedere quanto il look di questi ragazzi from Nordafrica di prima, e soprattutto seconda generazione, abbia contagiato cantanti e influencer nostranissimi. Dai barbieri milanesi il taglio maranza — capelli cortissimi ai lati e riccioli di permanente in testa — è ormai una richiesta fissa. Non solo per gli originali.

Per molti ragazzini, però, il «maranza» si può trasformare nell’incubo numero uno di ogni uscita. In metropolitana, fuori dai locali, soprattutto lungo il tragitto di ritorno verso casa. 

A guardare i dati delle aggressioni e delle piccole rapine tra giovanissimi, i responsabili 90 volte su cento sono proprio loro. Reati molto «micro» ma che hanno un impatto fortissimo sulla percezione di sicurezza. Anche perché per molti l’essenza dell’essere maranza ha anche una deriva «criminale»: aggredire coetanei, fregare collanine e cellulari, oppure (in gruppo) picchiarli anche solo per sfida. 

Chi ha figli adolescenti è preoccupato, anche se guardando più in profondità spesso nelle compagnie di maranza non ci sono solo giovani nordafricani (marocchini ed egiziani su tutti) ma italiani, africani, sudamericani, slavi. Un melting pot che però ha un minimo comune denominatore: le periferie, contesti familiari turbolenti, a volte anche esperienze di comunità per minori o carcere. Non tutti, sia chiaro. Ma il fenomeno c’è, tanto da aver conquistato le prime pagine la scorsa estate con la mitologica presa di Peschiera del Garda dopo una chiamata alle armi via social.

Nonostante i trenta gradi molti indossano la tuta. Altri, di contro, girano a torso nudo. Mai soli, mai meno di cinque o sei. Qualcuno corre in monopattino lungo la Darsena. Non si capisce bene con quale direzione. Ciascuno la legge come vuole: movimenti frenetici di spacciatori di hashish o semplici ragazzate. L’hashish e l’erba sono un altro denominatore comune. In realtà vale per quasi tutti, non solo per i maranza. 

(…)

Non sono bande organizzate. Spesso i ragazzi fermati o arrestati sono «fluidi» nelle loro scorribande. Ci si unisce a compagnie sempre diverse. C’è chi rapina per sfida, chi per necessità. Diversi, specie i più giovani, sono appena arrivati a Milano dopo viaggi infiniti per mare e per terra. Minori non accompagnati che hanno cugini di quarto o quinto grado che si occupano solo di un posto per dormire.

La Darsena-maranza è in realtà la Darsena di quelli che restano a Milano, triste e malinconica. Ma è anche immagine del futuro della città. Di cui, nonostante accenti e devianze, questi temutissimi maranza sono figli legittimi. In attesa che la Milan col coeur in man si accorga anche di loro, oltre gli stereotipi.

Il branco la bullizza, lei lo denuncia, ma la Procura chiede l'archiviazione. È successo in una terza media di Latina, dove l'unica punizione inflitta agli stalker minorenni, promossi a pieni voti, è stato un 6 in condotta. Linda Marino il 2 Agosto 2023 su Il Giornale.

Un anno scolastico pari a un viaggio in un girone infernale. È quello che ha vissuto una giovane studentessa di una terza media di Latina, umiliata e derisa da tre compagni di classe fino allo scorso giugno, al termine delle lezioni. Alla fine, loro sono stati promossi a pieni voti. Ma non è tutto, perché lei li ha denunciati, ma la Procura dei Minori di Roma ha chiesto l’archiviazione, vista la giovane età dei ragazzini. I suoi coetanei, che l’avevano persino soprannominata “Ebola”, per prendersi gioco di lei avevano creato un gruppo Whatsapp dove proseguire con gli atti di derisione, con tanto di indicazioni sulle modalità per irriderla, quasi come se fosse una "challenge", una gara di quelle che le nuove generazioni intraprendono sui social.

Secondo le indagini, pare che ci fossero delle regole precise in questo gioco al massacro contro questa studentessa: bisognava passarle accanto senza toccarla, altrimenti si rischiava di uscire dal gruppo, oppure imitare il suo modo di camminare e gesticolare. “Suicidati, se muori non se ne accorge nessuno”. E ancora: “Se non hai amici, fatti una domanda”, oppure: “Per quanto sei grossa, non passi dalla porta”, questi sono solo alcuni dei messaggi scritti contro di lei in una chat che all’inizio era segreta e che a un certo punto è stata condivisa con la stessa “vittima”.

La giovane studentessa sarebbe diventata oggetto di scherno per il suo aspetto fisico, una situazione difficile da sopportare, che l’avrebbe portata a isolarsi sempre di più e a considerare la scuola un inferno, un luogo ostile nel quale voleva trascorrere meno tempo possibile. Per evitare di incontrare quei bulli che le stavano rendendo la vita sempre più difficile, la studentessa tendeva a isolarsi o a entrare spesso in ritardo a scuola. Poi, un giorno, sopraffatta dal dolore, ha trovato il coraggio di raccontare tutto a sua madre che, a quel punto, ha sporto denuncia per istigazione al suicidio e stalking.

Nonostante un anno scolastico difficile, la giovane studentessa non ha perso la tenacia e ha portato a termine il corso di studi, riuscendo a superare gli esami con una media vicina al 10. Intanto, pare che nessuno le abbia ancora chiesto scusa. I suoi bulli non hanno ricevuto pesanti sanzioni: hanno ottenuto la promozione, alcuni anche con ottimi voti, e l’unica punizione è stato il 6 in condotta.

L'inchiesta giudiziaria rischia di concludersi con un'archiviazione, vista la giovane età dei ragazzi, tutti sotto i 14 anni e dunque non imputabili. La mamma della ragazzina non si arrende, tant’è che ha intrapreso una seconda via, quella della "giustizia riparativa", che consiste nel richiedere per i bulli il coinvolgimento in percorsi rieducativi di volontariato, basati sui valori della correttezza e del rispetto. Alternativa, quest’ultima, rifiutata a priori dai genitori dei ragazzi indagati, alcuni dei quali si sarebbero giustificati dicendo che per loro era solo un "gioco". Dopo la richiesta d'archiviazione della Procura dei Minori di Roma, adesso si attende che si pronunci il Gip.

Le ragioni dell'adolescenza violenta. Cristina Brasi su Panorama il 31 Maggio 2023

Il 16 enne che ha accoltellato la sua professoressa a scuola è solo l'ultimo episodio di una lunga lista di fatti dietro i quali ci sono spiegazioni sociali e non solo

La sensazione comune è quella che vi sia un crescendo di comportamenti aggressivi, fortemente disturbanti o violenti ad opera di adolescenti. In realtà condotte prepotenti e impetuose sono sempre state presenti, quanto è cambiato concerne le modalità con cui questi agiti si manifestano e, soprattutto, come questi vengono percepiti dal contesto sociale. Si pensi semplicemente alla lotta o al gioco della guerra, modalità che consentono al bambino l’acquisizione di abilità sociali anche più complesse affini all’ordine morale, quali il bene e il male, il rispetto reciproco o di ordine puramente collettivo, quali il riconoscimento dell’ordine gerarchico e il rispetto dei ruoli. Tali modalità di gioco, in grado di consentire anche uno scarico dell’aggressività e la possibilità di un confronto tra pari, vengono percepite dal contesto sociale come condotte di natura violenta, quando in realtà sono momenti di coeducazione, di scambio reciproco e di negoziazione di significati tra pari. I giochi di combattimento svolgono un ruolo importante nella formazione del bambino, consentendogli di mettersi alla prova, attraverso la finzione, in esperienze di confronto, di socialità, di gestione regolata dell'aggressività. Limitarsi a inibire questi giochi, ritenendoli semplicemente violenti non è una buona azione educativa. Il problema dell'aggressività infantile non è transitorio, il suo sviluppo appare relativamente stabile, non casuale e continuo nel tempo. Considerare tali comportamenti inaccettabili o da correggere immediatamente, può recare danno allo sviluppo sociale del bambino.

La situazione si aggrava se si pensa alla sempre più frequente esposizione dei bambini alla violenza passiva e alla impossibilità di poter gestire in modo diretto l'aggressività, così come avviene nel gioco motorio. Il gioco è per sua natura educante, in tutte le sue forme simboliche, drammatiche, individuali, costruttive, scientifiche e assume una valenza pedagogica determinante nel processo di sviluppo del bambino. Togliendo anche parte di queste possibilità si nega al bambino la possibilità di acquisire competenze sociali in ordine alle competenze che riguardano il proprio grado di sviluppo cognitivo ed emotivo. I bambini non possiedono un adeguato linguaggio simbolico ed emotivo, è proprio l’attività del gioco a consentirgli un confronto con la realtà immaginaria conservando una relazione con la vera realtà, ma consentendogli contemporaneamente di distaccarsi dalla prima. Il gioco è un autentico spazio potenziale utile non solo allo sviluppo psicologico, ma anche a quello emotivo e conoscitivo, a partire dall’intelligenza creativa, ovvero la capacità di inventare, produrre eventi e risolvere i problemi. Il gioco è quindi uno spazio che offre al bambino infinite possibilità per la formazione della sua personalità. Il diniego dinnanzi a determinate condotte ludiche, perché erroneamente associate dall’adulto contemporaneo alla violenza, non farà altro che portare ad un aumento della rabbia che verrà espressa a livello verbale. Nel bambino però la competenza verbale, intesa come la padronanza dei registri comunicativi corretti, è in fase di acquisizione, per cui ciò porterà inevitabilmente ad un aumento della rabbia, in quanto sarà costretto ad utilizzare un canale non adeguato che lo farà percepire come inadeguato. Tutto ciò va ad inserirsi in un contesto educativo e sociale del tutto particolare, basato sul soddisfacimento immediato dei bisogni individuali e sempre meno collettivi, in un surplus di beni di facile accesso e in cui i genitori non sono in grado di tollerare la frustrazione dei propri figli. Molto genitori, difatti, non accettano liberamente le manifestazioni emotive dei propri figli senza intervenire e senza offrire loro indicazioni di comportamento. Sono permissivi e non pongono regole nella convinzione sbagliata che i bambini debbano crescere liberi da qualsiasi vincolo. Questi bambini cresceranno con un fragilissimo senso di onnipotenza che andrà in frantumi alle prime difficoltà, con il risultato di trasformarsi in un profondo e diffuso senso di angoscia e di inadeguatezza. L’accesso a un surplus di beni materiali concorre alla formazione di un Sé grandioso che poco riesce a mediare con le asperità del quotidiano. L’avere tutto e subito non consente di sviluppare il desiderio, di tollerare l’attesa, di progettarsi nel futuro, di darsi obiettivi e di trovare soluzioni anche creative per il raggiungimento degli stessi. La tendenza che andrà a svilupparsi sarà quella del consumo scevro da emozioni, con la conseguenza di far sentire i figli da una parte padroni del mondo e, dall’altra, di essere anestetizzati a causa del bombardamento sensoriale che va ad inibire il processo di rielaborazione delle informazioni. Questi bambini si sentiranno pertanto vincolati dal tutto e subito correndo il rischio di divenire dei piccoli narcisisti fragilissimi, incapaci di assaporare la gioia delle cose e ancor più incapaci di tollerare la frustrazione della perdita e del conflitto. I figli, per costruirsi un’identità integra, necessitano di imparare a conoscere, riconoscere, gestire e modulare i propri stati emotivi. Senza questa decodifica rimarranno in balia di quanto provato, ma, al contempo, saranno anche spinti alla realizzazione immediata. Il problema non concerne quindi solo l’avere troppo, con conseguenze importanti anche sull’impossibilità di sviluppare capacità decisionali, ma quanto è pregnante è che essi sentono poco. I figli sentono poco il limite della gratificazione, la validità di una relazione significativa e la forza di un buon contenimento affettivo ed emozionale. Se non si abituano i bambini all’attesa non si consente loro di affrontare le frustrazioni e di trovare degli strumenti per gestirla. Se non permettiamo loro di stare da soli senza sentirsi soli, imparando ad utilizzare la creatività per sopperire alla noia, il rischio sarà quello di avere degli adolescenti non in grado di sopportare anche le più piccole sensazioni disturbanti. L’effetto sarà quello di dar luogo a quei comportamenti violenti indicati in apertura. Nell’aggressione i giovani tentano di percepire un’identità con la sopraffazione dell’altro, nel tentativo di modulare le proprie risposte emotive senza riuscirci. Attraverso l’atto violento tentano di attenuare il sospetto della rappresentazione di un Sé percepito come inadeguato e che si vergogna dei propri limiti e delle proprie paure. Un comune denominatore della rabbia adolescenziale è rappresentato dal forte bisogno di esprimere e comunicare dolore, sofferenza, angoscia, paura dell’abbandono. Spesso non si sentono capiti e questo non fa altro che rafforzare la convinzione di inadeguatezza e la conseguente paura a cui, in difesa, si risponde con rabbia ed agiti anche di natura violenta.

Estratto da leggo.it il 17 aprile 2023.

Si chiama "Sex roulette" l'ultima moda dei giovanissimi sui social. Stavolta l'obiettivo di ragazzi e ragazze che si cimentano nella folle sfida è provare a non incappare in una gravidanza, facendo sesso senza protezioni e contraccettivi. 

Nessuno però ha intenzione di tenere i bambini, la vicenda si conclude con un aborto. Su questi episodi sta indagando la procura di Brescia, dipartimento soggetti deboli, che ha competenza distrettuale anche sulle province di Bergamo, Cremona e Mantova, riporta BresciaToday. […]

Estratto dell’articolo di Sarah Martinenghi per repubblica.it il 9 aprile 2023.

L’hanno chiusa in camera durante l’ultimo litigio, le hanno legato mani e piedi con un foulard impedendole di uscire dopo che lei ha disubbidito per l’ennesima volta, tornando a casa, a 14 anni, troppo tardi la sera. La ragazzina urlava, piangeva, si disperava. La scena che la polizia si era trovata davanti, entrando in un appartamento nel quartiere Aurora a Torino il 1 aprile, sembrava lasciar spazio a pochi dubbi, tanto che i due genitori, di origine marocchina erano stati arrestati con l’accusa della pm Lisa Bergamasco di maltrattamento e persino di sequestro di persona.

 Ma all’udienza di convalida è emersa una realtà molto più complessa che ha portato il giudice a scarcerare immediatamente la coppia che avrebbe, pur sbagliando nei modi, solamente tentato di arginare i comportamenti difficili di una figlia adolescente parecchio ribelle. Pochi giorni prima la ragazzina era stata arrestata per aver partecipato in gruppo alla rapina di un coetaneo.

Pur non avendo compiuto atti violenti, si trattava di un fatto che aveva preoccupato i genitori che avevano cercato di limitare le possibilità che la figlia si mettesse nei guai, frequentando cattive compagnie. […] lei avrebbe preteso una libertà di spostamenti e orari, saltando la scuola, rientrando anche a tarda sera. Arrivando a insulti e botte, ma reciproci.

 Fondamentali sono state infatti le immagini mostrate al giudice […] In un caso infatti aveva spaccato gli occhiali alla madre, in un video la si vedeva afferrare un coltello in cucina e minacciare i genitori. Anche il fratello aveva detto: «Da novembre 2022 lei non ascolta i miei genitori, non li rispetta, non ubbidisce, non collabora in casa[…]». Più volte era stata la ragazzina stessa a chiamare la polizia e aveva anche infranto vetri e rotto le porte di casa. […]

Per il giudice «si tratta di una minore problematica che rivendica anche con violenza un grado di libertà e autonomia che appare mal conciliarsi con i suoi appena 14 anni». Metodi «inadeguati ma correttivi»: per qualsiasi genitore, infatti, il reato di rapina contestato sarebbe stato «un serio allarme rispetto agli amici frequentati dalla figlia» e se l’hanno legata è stato solo «per arginare una figlia furiosa e fuori controllo».

La giovane trasferita in una comunità. Figlia ribelle legata al letto, genitori scarcerati: “Volevano educarla, rivendica autonomia ma ha 14 anni”. Redazione su Il Riformista il 9 Aprile 2023

Per punire ed evitare che la figlia 14enne uscisse di casa, l’avevano legata mani e pedi al letto con un foulard, chiudendo anche la porta di casa a chiave per non farla uscire. Una storia raccapricciante quella scoperta dalla polizia a Torino, allertata dai vicini di casa della famiglia di nazionalità marocchina, preoccupati dalle urla provenienti dall’abitazione.

La giovane presentava sul corpo anche lividi e per i genitori è scattato il fermo con l’accusa di maltrattamento e sequestro di persona. Ma, così come riporta il Corriere.it, il fermo non è stato convalidato in arresto dal Gip del Tribunale di Torino perché per il giudice il comportamento dei due genitori ravvisava comunque un intento educativo seppur manifestato in modo sbagliato.

Un gesto estremo dettato, secondo i genitori, da una situazione diventata ingestibile. La ragazza infatti si era ribellata e aveva dato in escandescenza rompendo oggetti e urlando violentemente contro la madre e il padre. L’avvocato che li difende ha fatto riferimento a un’adolescente che esigeva livelli di autonomia e libertà incompatibili con l’età: poca scuola, frequentazioni con ragazzi accusati di rapina, nessun rispetto degli orari indicati da genitori per il ritorno a casa la sera.

Sei un uomo di me…”, rispose in un’occasione la 14enne rivolgendosi al padre. E poi: “Mi fai schifo, spero tu muoia“. Fino all’ultima sfuriata, quella dell’1 aprile scorso, quando i genitori si oppongono alla volontà della figlia di uscire, lei reagisce: “Va bene, Vediamo”. Il battibecco degenera al punto che la 14enne viene rinchiusa in camera da letto.

Ogni volta che nasceva una discussione, la figlia reagiva spaccando mobili o altri oggetti presenti in casa e insultando la madre e il padre. Il pm aveva chiesto lo stesso di mantenere in carcere la coppia ma il gip non ha convalidato l’arresto e i due sono stati scarcerati.

Per quanto il compendio d’indagine evidenzi dati apparentemente allarmanti – si legge nell’ordinanza del Gip -pare nondimeno che il contesto di riferimento sia quello di una minore significativamente problematica, anzitutto rivendicante, anche con violenza, un grado di libertà e autonomia che appare mal conciliarsi con gli appena 14 anni della stessa”. E poi: “Risulta evidente, alla base dei fatti di percosse, una finalità di natura correttiva, per quanto scorrettamente manifestatasi”. In sintesi, il giudice contesta il metodo educativo ma “assolve” il genitori.

Genitori che restano indagati mentre la ragazzina è stata allontanata da casa e trasferita in una comunità. “Non voglio tornare dai i miei genitori, – ha spiegato – perché se torno mi chiuderanno in casa e mi faranno andare solo a scuola accompagnandomi e rivenendomi a prendere”. La famiglia verrà seguita dai servizi sociali.

Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per “la Stampa” il 15 marzo 2023.

«Non bisogna meravigliarsi se ragazzine appena entrate nell'adolescenza uccidono a coltellate una loro coetanea», avverte Paolo Crepet. «[…] si diventa grandi molto più rapidamente e […] violenti molto più rapidamente», […] «[…] Episodi di violenza di ragazzini ci sono stati lo scorso fine settimana a Napoli e da tempo si ripetono in varie città d'Italia. […] Le età sono cambiate e ancora non s e n'è accorto nessuno. I dodicenni attuali sono i sedicenni di trent'anni fa».

 Da che cosa dipende?

«Il problema è che sembra che nessuno abbia difficoltà a lasciare che a 12 anni escano, bevano, abbiano accesso alle droghe o a qualsiasi social. Ci fa comodo che i ragazzi vivano, comprino, consumino sempre prima. Adesso non si può più definire bambina una ragazza di 13 anni. C'è un padre o una madre in Italia che griderebbe allo scandalo se a 13 anni delle ragazze fanno sesso?»

Beh, direi di sì. Non mi sembra che i genitori siano felici se a 13 anni i figli fanno sesso.

«Non credo. Basta andare a vedere i simboli sessuali esteriori, come si pongono a quell'età sui social. […] Oppure vogliamo parlare delle baby gang? Quando non ci sono regole non si può poi dire siamo andati oltre. […]».

 […] «[…] l'infantilizzazione dei figli è dovuta all'infantilizzazione precoce dei genitori. Se a 40 anni ci si comporta come dei sedicenni non si può sperare che i figli vengano su bene. In questo caso non sto parlando del delitto ma del processo a monte».

Dunque figli diventano adolescenti troppo rapidamente e i genitori restano adolescenti?

«Esatto. Abbiamo una regressione dei genitori e una indisponibilità a crescere. Alla fine restano tutti ragazzini e ciò crea degli alibi molto comodi. Se ho 40 anni ma penso di averne 20 posso anche non dare delle regole, non dire i no che servirebbero se, per esempio, i miei figli bevono alcolici. C'è una deresponsabilizzazione in atto, è il frutto dell'idea di una società senza dolore, di genitori incapaci di dire di no ai figli per evitare pianti, liti. I figli crescono in una sorta di anestesia, senza dolore e senza regole». […] «[…] L'educazione non è democratica, sono i genitori che comandano. […]».

Il mondo nascosto della delinquenza giovanile femminile. Andrea Soglio e Cristina Brasi su Panorama il 15 Marzo 2023.

Dalla Germania all'Italia la cronaca ci sbatte in faccia una realtà che poco conosciamo, ma le cui dimensioni meriterebbero ben altra attenzione e considerazione.

Il corpo di una dodicenne scomparsa sabato 11 marzo è stato ritrovato a Freudenberg, in Germania. Ad ucciderla, con numerose coltellate, sarebbero state due ragazze di 12 e 13 anni. Il 25 febbraio, a Castelberforte una tredicenne era stata picchiata e colpita a forbiciate da due coetanee compagne di classe. Abbiamo chiesto alla nostra profiler, la dottoressa Cristina Brasi, di analizzare il fenomeno della delinquenza giovanile femminile. Il fenomeno è molto complesso ed è ancora oggetto di studio. Non vi è ancora una spiegazione dello stesso in quanto, l’incremento di tale tipologia di delinquenza, è di epoca recente. Per comprendere quanto sta accadendo è necessario partire dall’analisi del “gender gap” , ossia la differenza tra il numero di reati commessi dagli uomini e dalle donne, dal concetto di “generalizzabilità” , ovvero la possibilità, o meno, di utilizzare le stesse spiegazioni criminologiche per gli uomini e per le donne e, infine, dalla differenza nella tipologia di reati commessa dai maschie dalle femmine. Le ricerche a riguardo sono state condotte prevalentemente negli Stati Uniti, e si dividono principalmente in due filoni. Una corrente minoritaria riterrebbe che sia in corso un cambiamento negli stili di vita e comportamentali delle donne che le renderebbe più propense al crimine. Questa teoria si articolerebbe in due ulteriori varianti, una che vedrebbe le donne più libere, emancipate, assertive e propense all’aggressività e l’altra che riterrebbe che il cambiamento nel comportamento delle donne sia dovuto a un maggior numero di conflitti e difficoltà, oltre che a una femminilizzazione della povertà, che farebbero sfociare i comportamenti nella devianza. La seconda corrente riterrebbe che la donna sia semplicemente più spesso vittima di maggiori controlli da parte delle forze dell’ordine, ipotesi del “net widening enforcement”. Questo concetto è stato introdotto in criminologia a partire dagli anni ‘80 quando ci si accorse che il ricorso alle misure alternative alla detenzione non aveva comportato una riduzione degli accessi al carcere, al contrario aveva dato luogo a un’espansione del sistema di vigilanza, di controllo e di sanzionamento che si sarebbero concentrati in particolare su crimini minori. In questo modo si sarebbe intercettato un maggior numero di persone di sesso femminile. In parallelo, si colloca la prospettiva di coloro che imputerebbero la riduzione del “gender gap” al cambiamento della criminalità maschile, cioè alla sua riduzione, fenomeno che porta il nome di “ameliorative perspective”. Quanto rilevo però di maggior interesse sarebbe il fatto che, studi recenti, indicherebbero la mancanza di una specificità femminile nel comportamento criminale, soprattutto se osservata con riferimento alla storia di vita e alle esperienze di vittimizzazione. In altri termini, le donne che commettono reati non apparirebbero più traumatizzate o svantaggiate. I fattori di rischio alla base della condotta deviante sarebbero gli stessi che, a partire da differenti prospettive, vengono individuati per gli uomini, vale a dire basso autocontrollo, modelli genitoriali carenti, svantaggi economici, delinquenza dei coetanei. I dati più attendibili relativi alla delinquenza giovanile emergerebbero dell’indagine ISRD3 (International Self Report Deliquency 3) sulla delinquenza autoriferita condotta in 26 Paesi dal 2012 al 2016 che ha rilevato il numero e la tipologia di condotte devianti affidandosi direttamente alle dichiarazioni dei giovani coinvolti. Ciò avrebbe consentito di accedere a informazioni importanti non gravate dalle distorsioni legate alle fonti secondarie, quali ad esempio il numero di denunce o gli arresti. Dai risultati presentati emergerebbe che la delinquenza giovanile sarebbe ancora caratterizzata dalla differenza di genere, più intensa nelle forme più gravi di coinvolgimento nei comportamenti devianti. Si confermerebbe tuttavia la riduzione nel corso degli ultimi anni di tale differenza, che andrebbe imputata più alla diminuzione dei comportamenti devianti maschili che all’aumento di quelli femminili; non sarebbe quindi in corso una sorta di “maschilizzazione” delle ragazze, piuttosto, al contrario, il comportamento maschile tenderebbe ad avvicinarsi maggiormente a quello femminile per quanto riguarda la devianza e il crimine.

Perché in Italia quando si parla di baby gang lo si fa spesso a sproposito. Ci sono gruppi strutturati come clan con leader e fini economici. Ma anche gruppi fluidi caratterizzati da disagio e rivalsa. Uno studio dell’Istituto di scienze forensi a Milano spiega le enormi differenze tra i fenomeni. Massimiliano Carrà ed Edoardo Prallini su L'Espresso il 12 Maggio 2023. 

Una realtà a due facce dove accanto a vere gang organizzate sul modello dei clan giovanili delle altre metropoli internazionali emerge un fenomeno diverso e più sfumato, definito bullismo da strada. È la fotografia aggiornata dell’universo, sbrigativamente liquidato dai media sotto l’onnicomprensivo cappello di “baby-gang”, della realtà minorile milanese scattata dall’Istituto di scienze forensi nel lavoro “Criminalità minorile, non solo baby gang. Analisi del fenomeno dello street bullying” nell’area metropolitana di Milano. L’Espresso ha potuto consultarla in anteprima. La ricerca evidenzia il fenomeno emergente dello street bullying. In qualche modo più fluido e per questo sfuggente e non meno insidioso delle baby gang vere e proprie.

I sodalizi organizzati, strutturati, hanno infatti caratteristiche precise: tre o più membri con un’età compresa tra i 12, sporadicamente anche al di sotto di questa soglia, e i 24 anni, un nome, simboli d’identificazione, dal modo di comunicare e di vestire. E soprattutto un leader oltre che un territorio da marcare e controllare, in rapporto ad attività delinquenziali che producono vantaggi economici. Elementi identificativi di un fenomeno che non si ritrovano nello street bullying, verso il quale la devianza può non corrispondere a quella normata dal codice penale.

Qui si tratta di gruppi di ragazzi che hanno come unico scopo quello di affermare la propria autorità attraverso la prepotenza, l’arroganza e a volte la violenza, senza alcun fine economico e senza un’organizzazione criminale alle spalle.

Distinguere è fondamentale: «Si rischia altrimenti di considerare tutti i comportamenti devianti, alcuni tipici tra gli adolescenti, come la provocazione nei confronti degli adulti o il poco rispetto verso l’autorità dei genitori o dell’insegnante, come necessariamente delinquenziali», spiega Hillary Di Lernia, responsabile del Centro di ricerca dell’Istituto di scienze forensi. In fenomeni come questi l’aspetto criminale è meno marcato e non ci sono le dinamiche da gruppo consolidato: «Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, ad agire sono gruppi fluidi, senza un leader e soprattutto senza alcun obiettivo economico», spiega Di Lernia.

In soccorso dell’analisi arrivano, del resto, anche i dati dell’ultima ricerca del 2022 del dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità. Smentiscono l’aumento di reati compiuti dai giovani. L’ultima ricerca del 2023 del dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità smentisce l’aumento di reati. Il numero di minorenni e giovani adulti in carico agli uffici di servizio sociale dal 2007 al 2022 è pressoché stabile (addirittura nel 2016 erano più dei 21.551 registrati nel 2022). Ciò non significa che non esista un problema sociale o che non esistano baby gang in Italia, bensì che la percezione del problema, a fronte di un allarme sociale indiscriminato, debba essere trattata in modo diverso. Conoscere, insomma, per comprendere e, se è possibile, intervenire in modo adeguato.

Durata complessivamente un anno – da aprile 2022 ad aprile 2023 – la ricerca condotta dal team dell’Istituto si è concentrata esclusivamente su Milano. Un territorio che nel 2022, secondo quanto evidenziato da uno studio de Il Sole 24 Ore realizzato sulla base dei dati forniti dal dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, è primo in Italia per criminalità, con quasi seimila reati ogni 100 mila abitanti. La ricerca ha indagato sul campo la situazione nelle nove circoscrizioni in cui è diviso il comune. Nel quadro restituito spicca la presenza di un gruppo in particolare, che sembra incarnare tutte le caratteristiche di una baby gang. Gli investigatori dei carabinieri del comando provinciale della città la identificano con il nome di Barrio Banlieue.

Composta da gruppi misti di ragazzi e ragazze, per la maggior parte provenienti da famiglie di migranti di cui sono la seconda generazione, con un’età media che oscilla tra i 15 e i 22 anni, con alcuni esponenti in età preadolescenziale (al di sotto dei 10 anni), la Barrio Banlieue controlla e opera in Zona 1, quella più centrale di Milano, esattamente nel punto nevralgico della città: il Duomo. La sua base si trova in Piazza dei Mercanti, già conosciuta per diversi episodi violenti di accoltellamenti e rapine per mano di giovani, oppure per la maxi-rissa che si è verificata tra 50 ragazzini nel giugno del 2021.

«A differenza di tutti gli altri gruppi di giovani che compiono atti criminali nelle diverse zone di Milano, la Barrio Banlieue incarna tutte le caratteristiche di una baby gang. Fin dai primi appostamenti, infatti, abbiamo potuto notare il coinvolgimento di adulti di oltre 30 anni, la presenza di un sistema piramidale e quindi di un leader, e soprattutto il fine economico, attraverso la redistribuzione del giro d’affari creato con la merce rubata e la vendita di droghe, che avviene sia all’esterno sia all’interno della fermata della metro Duomo», spiegano i ricercatori.

Ma non è tutto. Oltre a essere molto attenti a ciò che li circonda e a situazioni sospette nell’ambiente nella loro zona di azione, la Barrio Banlieue sembra tenere sotto controllo gli ingressi dell’entrata secondaria di una nota catena di fast food, proprio in piazza dei Mercanti. «Dopo aver visto che molti di loro stazionavano all’interno, abbiamo provato a entrare da quell’ingresso. Ma è accaduto qualcosa di strano: il bodyguard ci ha guardati e ci ha detto: non vi ho mai visto, incoraggiandoci a non entrare. Inoltre, una volta finiti gli appostamenti, siamo stati pedinati per una parte del nostro tragitto», racconta Di Lernia.

Se la Barrio Banlieu risulta una delle baby gang presenti a Milano, contestualmente sono diversi i gruppi di giovani ragazzi che acuiscono il fenomeno del bullismo da strada. Tra le zone più calde ci sono San Siro – un quartiere dalle due facce – Calvairate, Corvetto, Quarto Oggiaro, NoLo, Giambellino e Lorenteggio. Quelle zone in cui, come evidenzia la stessa ricerca, si riscontra una forte presenza di abitazioni Aler e di case occupate. In due parole, povertà e disagio sociale. «La precarietà delle condizioni abitative spinge i più giovani a cercare un luogo dove possa instaurarsi la socializzazione con i coetanei. E dato che ciò non può avvenire all’interno delle mura domestiche, la strada, o meglio il quartiere, assume una funzione formativa», sottolinea Di Lernia. A tal punto da incarnare un tratto distintivo, “familiare” con il quale identificarsi. Basti pensare che spesso i gruppi prendono il nome dal proprio quartiere di riferimento, della via, oppure ancora dal cap. Come nel caso di Z4, il gruppo di via Zamagna, una delle vie del quartiere San Siro considerate più problematiche. Per compiere atti criminali, i componenti decidono però di spostarsi al di fuori del proprio quartiere. Anche di poco, soprattutto dal momento che le criticità e il disagio «si scontrano quotidianamente con le condizioni di benessere e agio delle vie limitrofe».

È proprio la rabbia sociale, infatti, a guidare le azioni di questi gruppi. Una rabbia dettata «dall’eccessiva ricchezza circostante, da un senso di ingiustizia sociale» e che si scatena «verso coloro che non appartengono alla loro stessa comunità». La stessa collera che incontra don Claudio Burgio, collaboratore di don Gino Rigoldi come cappellano dell’Istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano e fondatore della comunità Kairos: «Accogliamo una cinquantina di ragazzi, la maggior parte dei quali arriva dal penale minorile. Nei loro racconti notiamo diverse forme di rabbia contro le istituzioni, l’avversione nei confronti dello Stato, delle forze dell’ordine. Questa rabbia si estende laddove lo Stato, per educare, sceglie la linea più repressiva. È come se volessero dire: esistiamo anche noi, abbiamo una nostra dignità e questa educazione di tipo punitivo non la riconosciamo più. Rifiutano l’esercizio dispotico di potere».

Tuttavia l’aggressività spesso non viene esercitata, ma solo esibita, specialmente sui social media e attraverso la musica, soprattutto di genere Trap. Su Instagram, TikTok e su YouTube circolano numerosi video nei quali vengono mostrate armi da taglio e da sparo, soldi e ci si esibisce in gesti che emulano le gang. «La musica viene usata come strumento di riscatto economico, sociale, d’immagine», continua don Claudio Burgio. «Non si tratta solo di una passione, ma di un mezzo di denuncia sociale, attraverso il quale consolidare e trasmettere al pubblico l’appartenenza al quartiere». Uno strumento per scagliarsi contro un sistema che non guarda al minore ma al reato. Per questo la stessa ricerca suggerisce approcci differenziati ai fenomeni che tengano conto delle possibilità offerte dalla giustizia riparativa, dalla scuola e dalle politiche giovanili che rispondano a esigenze reali.

Baby gang: «A 15 anni ero ricco come un re, incassavo 5 mila euro a settimana». Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2023

Le conversazioni captate tra i componenti della banda che rapinava e taglieggiava tra Vigna Clara e i Parioli

Il frame di un filmato di un pestaggio

Da poco ha 19 anni, è il “leader” di una gang dedita allo spaccio e all’intimidazione di minorenni tra Grottaferrata e Vigna Clara, ma Federico parla già come un vecchio bandolero stanco pieno di nostalgia del suo passato. Da criminale. «C’avevo 15 anni (…), dice, intercettato, il 6 giugno del 2022, poche settimane prima dell’arresto della procura di Velletri che ne ha chiesto il rinvio a giudizio - Ti giuro guarda che tempi. Sembravamo i re, io Alin e Manfredi. A quei tempi se ne facevano 5, 6 mila euro a settimana. Non era male, eh?».

 «Macino soldi da quando sono bambino»

I rimpianti del tempo che fu, li confida alla ex ragazza di Tommaso - uno della gang, indagato, con qualche difficoltà economica - che rivela a Federico: «Gli rodeva perché non potevamo andare a cena fuori». È allora che Federico promette aiuto, da vero capo: «Lo faccio lavora' un pochetto a Tommaso, perché deve fare i soldi. Io è da quando sono bambino che macino soldi. Tommaso non è da tanto che lavora, saranno 4 o 5 anni. In quel periodo lavorava per me, andava forte».

«Giravano 5-6 mila euro a settimana»

 I ricordi affiorano come macigni: «Lo trattavo bene a Tommaso. Quelli erano tempi. Io avevo 15 anni, lui due di più. I soldi giravano a Frascati. Facevo 5, 6mila euro a settimana. A Tommaso gli davo 500 euro a settimana. Alla fine del mese, erano 2.500 euro. Guadagnava bene con me», dice orgoglioso Federico, difeso dall’avvocato Pierfrancesco Mandeo.

 Le piazze della droga

Il cuore stringe: «C’avevamo quattro piazze a Frascati. Se non mi fossi fatto arrestare (messa in prova tribunale dei minori, ndr), avevo un impero. Spogliavamo la gente». Comunque il presente del leader della gang è pieno di impegni. Il 2 giugno del 2022 Federico si traveste per entrare in condominio e controllare se una persona (non identificata) è, come racconta, agli arresti domiciliari. Chiama Alin, il suo amico d’infanzia e membro della gang, verso le 14,00: «Sto con Marco (un tassista, 40 anni, altro componente della gang, indispensabile perché scarrozza ovunque il leader, privo di patente, ndr). A via Aurelia. Capisci?». 

Trucchi e travestimenti

Alin domanda che sta facendo. Questo è l’attimo in cui gli rivela il travestimento: «Sto con il vestito da postino, con Marco». Alin è, notano gli inquirenti, «esterrefatto»: «Ma che vai a suonare a fare? Che problemi hai? Apre a te?». Federico, da leader (definito così dalla squadra mobile, ndr), fa capire perché comanda: «Prima di rompere, chiedi. Secondo te gli dico, ciao sono Federico? Gli suoniamo come postini. Al postino non gli apre, secondo te?». Suoneranno, ma quella persona non è in casa. Federico ha un braccio destro: Manfredi Morra, 19 anni, liceale, arrestato ad aprile del 2022 perché sorpreso a spacciare a Corso Francia. Morra dal carcere spedisce – secondo la squadra mobile – lettere a Federico con linguaggio criptico, riferendosi al «codice di Call of duty (il videogioco)». La parola è scritta in verticale. Qual è il codice? A cosa serve? Impossibile saperlo: la lettera l’ha fatta sparire la fidanzata di Morra.

Baby gang, la violenza frutto di una «gabbia» che blocca gli adolescenti. Già nel 1960 lo storico Philippe Ariès in “Padri e figli nell’Europa medievale e moderna”, ricordava che nel Medio Evo e per tutto l’ancien regime i bambini andavano a confondersi con gli adulti all’età di 8 anni circa. Bruno Marchi su La Gazzetta del Mezzogiorno l’11 Febbraio 2023

Le “baby gang”, la violenza giovanile, l’aggressività di ragazzi sempre più giovani verso coetanei e adulti, è sempre più in cronaca. Il dibattito sulle cause e sui rimedi è aperto e diversi sono i contributi tra le cui righe si legge la preoccupazione degli adulti per quanto sta accadendo e lo sforzo di comprendere chi è molto più distante di quanto il gap generazionale lascerebbe intendere.

Una riflessione sull’adolescenza, per comprenderla meglio, potrebbe aiutare.

Già nel 1960 lo storico Philippe Ariès in “Padri e figli nell’Europa medievale e moderna”, ricordava che nel Medio Evo e per tutto l’ancien regime i bambini andavano a confondersi con gli adulti all’età di 8 anni circa.Gli eserciti, fino al 1700, reclutavano adolescenti. Oggi certamente non ci piacerebbe.

La capacità d’amare, non solo di fare la guerra, era ritenuta conforme ai ragazzi: Romeo aveva 14 anni e Giulietta non li aveva ancora compiuti eppure, ancora oggi, la loro storia, resa immortale dal Bardo, è considerata il vero archetipo dell’amore.

Dal 1800 in poi, l’adolescenza cominciò ad avere un senso simile a quello che oggi le attribuiamo. Gli stabili sistemi sociali dell’epoca prevedevano il transito dall’infanzia all’età adulta attraverso riti di passaggio che definivano ruoli, attribuzioni e definizioni di genere.

L’istruzione elementare obbligatoria, introdotta da Federico II di Prussia nel 1768, affidò ai pubblici poteri la cura e l’educazione dei bambini e degli adolescenti privandoli, però, della libertà di cui prima godevano, della promiscuità con le altre generazioni, della possibilità di fare esperienze nella vita di tutti i giorni. La scuola somministrò un’educazione, più che altro un addestramento militaresco, che richiedeva rigore e disciplina attraverso metodi molto spesso duri e maltrattanti. Ma in collegio ci finivano i figli della borghesia mentre bambini e ragazzi delle classi povere vivevano una vita di stenti e quasi sempre da sfruttati.

Con il dilatarsi di questa fase intermedia, che dall’infanzia portava all’età adulta per accedere alla quale occorreva l’istruzione, la “civiltà” ebbe bisogno di assoggettare e controllare gli adolescenti privandoli, di fatto, della loro libertà e, con il passare del tempo sempre più, proponendo loro senza soluzione di continuità oggetti da consumare in una sorta di ipnosi di massa. Infatti, i giovani sono il primo oggetto di pubblicità, i primi consumatori di musica, di abbigliamento, di editoria, d’intrattenimento, di TV, di elettronica, di mezzi di comunicazione, di computer. Rappresentano un vasto mercato che più si assoggetta, ed in qualche maniera si mantiene nell’ignoranza, e più è redditizio. Una logica di mercato che induce al consumo che non tutti possono permettersi ed in questa chiave possono anche essere letti gli episodi di violenza consumata in gruppo ai danni di chi viene rapinato: mi prendo con la forza quello che non mi posso comprare.

Questa ipnotica abbondanza di beni offerta agli adolescenti comporta la perdita, l’esproprio, della soggettività che viene ridotta del suo potenziale non consentendo loro di evolvere nel quotidiano, cioè di tracciare una linea di demarcazione tra adolescenza ed età adulta essendo venuto a mancare il senso profondo di quei riti di iniziazione che, a volte, purtroppo vengono sostituiti da azioni di gruppo violente e, in non pochi casi, a sfondo sessuale. Un fenomeno sociale che, tra le altre cose, contribuisce alla demonizzazione culturale dell’adolescente e al distanziamento dal mondo adulto.

La differenza tra gli adolescenti di oggi e quelli del passato può riguardare la legge e, più in generale, le convenzioni sociali, ma si riduce, fino ad annullarsi, di fronte alla capacità di esprimersi negli affetti, nelle azioni, nella procreazione, nell’apprendimento e via discorrendo: gli adolescenti di oggi, dal punto di vista psicobiologico sono gli stessi di ieri. La variabile interveniente, e che fa la differenza, è quella culturale. I loro geni e la loro potenziale maturità non trova libera espressione trovandosi, gli adolescenti, in una segregante costrizione dove le esigenze e le potenzialità psicobiologiche, anche quelle geneticamente iscritte, le stesse dei loro coetanei di due o trecento anni fa, sono inibite se non represse.

L’adolescente, pertanto, è come se si trovasse in una gabbia esistenziale dalla quale disperatamente, e per reazione, tenta di uscire sempre più spesso attraverso atti violenti, eterodiretti ed autodiretti, oppure nella quale si rifugia alimentando un ritiro di natura depressiva. È noto, per esempio, il fenomeno sociale e psicopatologico degli hikikomori: adolescenti che si chiudono, letteralmente, nella loro camera ed interagiscono con il mondo soltanto attraverso la finestra della world wide web.

Ci troviamo di fronte ad una drammatica dicotomia tra l’evoluzione culturale e l’evoluzione psicobiologica rimasta pressocché immutata che genera, pertanto, gli stessi esseri desideranti di qualche secolo fa. I ragazzi e le ragazze di oggi, quindi, devono conformarsi ad una realtà socio-culturale che non riconosce il loro specifico evolutivo trattandoli, a seconda delle convenienze, da bambini o da adulti in miniatura e di fatto trattenendoli in una condizione infantilizzante poiché più gestibile dal punto di vista dell’assoggettamento e più redditizia dal punto di vista dei consumi.

Stando così le cose il prodotto secondario è la condizione di prigionia di un essere biologico maturo che, tuttavia, non può essere autonomo e narrare, narrandosela, la propria soggettività; un essere che non trova altri esseri adulti disposti a riconoscere ed ascoltare la sua soggettività. Chi si occupa di adolescenti dovrebbe avviare un processo di reale avvicinamento, cercando di ricordare quanto più possibile la propria adolescenza.

Estratto dell’articolo di Romina Marceca per “la Repubblica – Edizione Roma” l’11 Febbraio 2023

La scuola nel mirino di una baby gang di tredici ragazzine e ragazzini tra studenti e ex allievi. […] Tutto per un brutto voto o per noia. Sono le due ipotesi degli investigatori. «Ancora cerco una risposta […] Sono venuti a chiedermi scusa ma solo quando hanno saputo che erano stati scoperti», è affranta Giuseppina Guarnuto, la dirigente dell’istituto comprensivo Don Milani di Guidonia Montecelio. 

 Nel suo ufficio conta ancora i danni che ammontano a oltre duemila euro tra porte sfondate, muri imbrattati, sedie rotte e materiale didattico andato al macero […]Otto di loro sono stati identificati dai carabinieri della compagnia di Tivoli e sono accusati di danneggiamento aggravato e invasione di edifici. […]. «Ho provato dolore e delusione nel vedere i miei ragazzi in quelle immagini. Proprio due di loro stavano seguendo un percorso di recupero» , è ancora incredula l’insegnante.

La procura per i minorenni deciderà se chiedere o meno il processo per la gang che ha leader e gregari: conta due giovanissime studentesse di 14 anni, gli altri ne hanno 15 e 16. […] «Si è riunita la commissione disciplinare e i nostri due studenti sono stati sospesi per 16 e 25 giorni. A tutti e due è stato chiesto il risarcimento del danno» , spiega la dirigente Guarnuto.

[…]. «Per me è noia. Non c’è tantissimo qui ma le attività si possono anche cercare. […] » , è quanto sa la dirigente. […] La dirigente ha presentato altre due denunce: una alla finanza e una in polizia. «I genitori hanno scoperto tutto quando li ho convocati. Erano sgomenti e mortificati. Gli ho assicurato - conclude la dirigente - che a scuola studieremo gli interventi con lo sportello d’ascolto per recuperare i loro figli».

Le relazioni dei Procuratori generali. Reati dei minori, è allarme: tutte le colpe della scuola. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 9 Febbraio 2023

Le relazioni dei Procuratori Generali in occasione della inaugurazione dell’Anno Giudiziario non sono sempre del tutto inutili. Accanto alla solita litania sulla insufficienza dei mezzi messi a disposizione della Giustizia e sulla inadeguatezza del legislatore, specializzato nel complicare il lavoro dei magistrati, e agli anatemi contro ogni possibile ipotesi di “perdono” collettivo, quali potrebbero essere l’amnistia o l’indulto, è possibile, spesso, trovare le tracce di quali cambiamenti profondi stia attraversando la società italiana.

Nelle recenti relazioni dei Procuratori Generali, vi è un dato che le accomuna quasi tutte: l’esplosione dei reati commessi dai minorenni. Si tratta di un fenomeno caratterizzato prevalentemente da quattro aspetti: spesso si tratta di reati che sono diretta ed esclusiva espressione del male di vivere e dell’incapacità di guardare con speranza al futuro, come avviene nei frequenti episodi di risse collettive, convocate a mezzo social per il solo gusto di menare le mani; sono consumati nello spazio pubblico e in pieno giorno, come ad esempio le rapine nelle strade della movida milanese, con l’impudenza di chi si sente ormai pronto a violare qualsiasi tabù; un ruolo prevalente hanno, nelle bande organizzate, gli immigrati di seconda generazione, a conferma che il processo di integrazione è spesso restato al livello di sole buone intenzioni (e il pensiero non può non andare allo sfacelo delle banlieue parigine); vi è una crescita esponenziale degli stupri, commessi facendo assumere inconsapevolmente alla vittima droghe, crescita che appare direttamente proporzionale alla sempre maggiore incapacità di avere sane relazioni umane e sociali.

È un dato che mette necessariamente, sul banco degli imputati, la scuola. Esso, del resto, appare perfettamente coerente con altri dati che, in questi ultimi anni, sono costantemente emersi, assolutamente omogenei tra di loro e di estrema gravità, anche se poi spesso relegati nei trafiletti di cronaca. Basta citarne alcuni a caso: i numerosi episodi di violenza contro docenti da parte di genitori che non avevano sopportato che i loro figli fossero oggetto di rimproveri o di cattive valutazioni; la vicenda della professoressa colpita con dei proiettili di gomma da un’intera classe, con una nota comica che ha mosso l’addebito alla stessa professoressa di non essere evidentemente stata capace di essere in sintonia con i suoi allievi; i risultati delle analisi Invalsi, i quali danno conto di un complessivo degrado del processo formativo in Italia, addirittura maggiore nei territori più disagiati, quali quelli del Mezzogiorno; l’esito della correzione degli scritti in un recente concorso in magistratura, il quale ha fatto emergere che la maggior parte dei candidati, sebbene laureati, non era neppure capace di scrivere in un corretto italiano; la lettera ai giornali di una famiglia finlandese che, trasferitasi a Siracusa, ha poi deciso di lasciare l’Italia per la necessità di proteggere i figli da un sistema educativo del tutto insufficiente.

L’esplosione dei reati dei minori, messa in luce dalle relazioni dei Procuratori Generali, non può, dunque, costituire una sorpresa. Neppure può essere spiegata facendo esclusivo riferimento al prezzo, che i minori in particolare hanno dovuto pagare, in termini psicologici e di mancata socializzazione, per i lockdown determinati dalla pandemia Covid19. Si tratta di un processo che ha radici lontane e che la pandemia ha solo aggravato. È, occorre aggiungere, un processo che è stato colpevolmente ignorato e nascosto sotto il tappeto per molto, troppo tempo da un buonismo peloso e irresponsabile. Il contenuto dele relazioni dei Procuratori Generali indica che continuare a perdere tempo significherebbe condannare le nuove generazioni alla irrilevanza. Ha scritto Walter Veltroni, sul Corriere del 29 gennaio “Per gli adolescenti di oggi il futuro non è passato, semplicemente non esiste. Si sentono l’ultima generazione e non capiscono il disinteresse del mondo a proposito del proprio ultimo destino. Possibile che gli adulti non capiscano il dolore che sale dai comportamenti, dalle parole, dai silenzi, dalle porte chiuse dei ragazzi del nostro tempo?”.

Veltroni ha perfettamente ragione. L’Italia ha alle spalle anni nei quali la scuola è stata la cenerentola dei servizi pubblici e si è fatto di tutto per togliere dignità, autorevolezza e prestigio ai docenti. Se questo non fosse successo, il tema della formazione sarebbe probabilmente restato estraneo ai progetti di autonomia regionale. Al tempo stesso, il dibattito sulla immigrazione, almeno sotto l’aspetto che qui rileva, è stato del tutto avulso dalla realtà. Nessuno, a cominciare dai “buoni”, si è dato carico della circostanza che l’immigrazione, senza un adeguato sforzo di integrazione, finisce con l’essere un fattore di disgregazione della società e, per gli stessi immigrati, il punto di partenza di un cammino fatto di vessazioni e di sofferenze, destinate a colpire, ancora più duramente, le nuove generazioni.

Il Governo Meloni ha il merito di avere, attraverso il Ministro Valditara, rimesso, al centro del dibattito politico, la scuola e, attraverso di essa, almeno alcuni aspetti della questione giovanile in Italia. Non è questa la sede per dare un giudizio sulle soluzioni proposte. Occorre, qui, sottolineare che non si è affatto in presenza di una questione marginale: le relazioni in occasione delle inaugurazioni dell’Anno Giudiziario indicano che si tratta di una questione vitale e urgente per il futuro prossimo del Paese. Astolfo Di Amato

Rapine, risse e omicidi: la carica di violenza dei ragazzi post Covid. Giuliano Foschini e Fabio Tonacci su La Repubblica il 27 Gennaio 2023.

Dati quasi raddoppiati rispetto al periodo pre virus, crescono anche i reati commessi in branco. Di recente l'aggressione nel market a colpi di pietra e lo studente spinto sotto un treno. Marzio Barbagli: "Non solo il lockdown, la crisi economica come detonatore"

La sindrome post-Covid è uscita dagli ospedali e non è più solo materia per dottori. È in sella a uno scooter che a Napoli investe il carabiniere che sta provando a fermarlo. È nelle mani dei due minorenni che alla stazione di Seregno spingono un coetaneo contro il treno che sta arrivando. È nella bicicletta che, lanciata senza motivo, spacca la testa di un ragazzo che sta entrando in un locale dei Murazzi a Torino. Appare la sera del 10 gennaio davanti agli occhi del cassiere di un minimarket di Anagnina colpito con 29 sassate da due studenti romani. È ogni giorno nei mattinali quotidiani di carabinieri e polizia, nella cronaca dei giornali, nei racconti dei professori delle scuole (superiori certo, ma arrivano denunce anche dalle elementari). Ed è, infine, nelle statistiche 2022 del Viminale che raccontano incontrovertibilmente un dato: i reati commessi dai minori sono in costante e preoccupante crescita. 

L'avevano previsto nel 2020. Durante le riunioni del Comitato tecnico scientifico in cui si discuteva del lockdown e delle altre misure d'emergenza per contenere il virus, si era già consapevoli che chiudere gli adolescenti in casa, condannarli alla socialità virtuale delle call di gruppo, privarli dei contatti che a quell'età formano la persona e l'accompagnano nella fascia degli adulti, non sarebbe stato indolore e privo di conseguenze. Tre anni dopo i dati dimostrano che si era trattato di una previsione corretta nei numeri, seppur probabilmente più complessa nelle motivazioni. Per alcune fattispecie di reato, come le rapine, siamo quasi al raddoppio rispetto a quando il contagio non c'era. 

I dati, dicevamo. Pur nella loro asetticità, le tabelle della Direzione centrale della polizia criminale diretta dal prefetto Vittorio Rizzi sono chiarissime. Fino al 31 ottobre del 2019 - il mondo di prima quando solo gli epidemiologi sapevano cos'è e come si diffonde un coronavirus - i minori denunciati e arrestati in Italia erano stati 25.261. Gli under 18 avevano compiuto 13 attentati, 17 omicidi volontari, 43 tentati omicidi, erano stati protagonisti di 2.382 episodi di lesioni, 390 percosse, 1.693 rapine di cui quasi 1.200 non in appartamenti ma per strada. Esattamente tre anni dopo, qualsiasi indicatore della microcriminalità giovanile è schizzato in alto. Omicidi: + 35,3 per cento (23). Tentati omicidi: +65,1 per cento (71). Percosse: + 50 per cento (585). Rapine: + 75,3 per cento (2.968). Le rapine per strada segnano addirittura un incremento del 91,2 per cento. E, rispetto al 2019, i minorenni denunciati e arrestati sono 28.881.Il 14,3 per cento in più.

Hanno 14 e 15 anni i due studenti romani, accusati di rapina aggravata, che due settimane fa sono entrati un market in zona Anagnina con la scusa di comprare una bottiglietta d'acqua e hanno rubato l'incasso (300 euro), pestando con i sassi il bengalese che era al banco. E hanno 14 e 15 anni anche i due che a Seregno hanno spinto un quindicenne contro il treno perché aveva mandato dei messaggi a una ragazza. Prima hanno tentato di rubargli una felpa, poi lo hanno rincorso e buttato contro il convoglio in transito, facendogli sbattere la testa contro le lamiere di una carrozza. La vittima è caduta sul binario, rimanendo incastrata tra la banchina e le ruote. Ha una caviglia fratturata. I due minorenni sono accusati di tentato omicidio e sono ora nel cpa di Torino.

"Diversi studi hanno evidenziato come la recente pandemia da Covid-19 abbia avuto un forte impatto sulla quotidianità dei ragazzi, causando un peggioramento delle condizioni oggettive e soggettive di benessere personale", si legge nell'ultimo dossier di Transcrime sulle gang di minorenni, realizzato in collaborazione con l'Università cattolica del Sacro Cuore, il Viminale e il ministero della Giustizia. "Questa situazione si innesta in un contesto già critico, con significativi livelli di abbandono scolastico e difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro". Ed è proprio alla scuola, ma non solo, che si è rivolto il capo della Polizia, Lamberto Giannini: "Serve l'aiuto del sistema - ha spiegato - Senza un impegno grosso della società pre creare una serie di strutture che possano offrire dei momenti e dei punti di aggregazione ai ragazzi". Marginalità, dunque. Ma anche l'efferatezza della violenza gratuita, l'analfabetismo delle emozioni, la crescita esponenziale dei reati commessi in branco, in particolare in Puglia, Emilia-Romagna, Trentino, Salerno e Messina. Nel 2019 erano 107 i giovani presi in carico dagli Uffici dei servizi sociali, nel 2021 sono aumentati a 186. Stando al dossier di Transcrime, le gang sono composte da meno di 10 individui, in prevalenza maschi di cittadinanza italiana e di età compresa tra i 15 e i 17 anni. Risse, percosse, lesioni, vandalismo e bullismo sono i crimini più frequenti. Meno frequenti e di solito commessi da gruppi più strutturati lo spaccio e i reati appropriativi. 

"I numeri però vanno letti nella loro complessità" ragiona Marzio Barbagli, tra i più importanti sociologi italiani e professore emerito a Bologna, "non bisogna cedere, come troppo spesso si fa, al lato più semplice. È vero: il Covid ha cambiato le carte in tavola. Ma dietro le motivazioni di certi reati non ci vedo rabbia bensì disperazione". Il sociologo così argomenta: "Se crescono dell'80 per cento le rapine commesse da minori il motivo va ricercato non nel fatto che siano stati chiusi per due anni in casa e debbano per questo sfogarsi, ma perché, probabilmente, dopo gli anni di pandemia hanno bisogno di soldi. Si rapina per denaro, non perché si è arrabbiati. Ecco perché penso che nelle statistiche, nell'aumento di quei reati, si debba leggere prima di tutto la crisi economica a cui, anche e forse soprattutto, il Covid, ci ha costretto. Come sempre avviene in questi casi, colpisce per primi i più deboli. Dunque i più giovani".

Estratto dell'articolo di repubblica.it il 26 gennaio 2023.

Un ragazzino di 15 anni è ricoverato in ospedale, dopo essere stato spinto contro un treno in movimento [...] alla Stazione di Seregno, in provincia di Monza.

 A quanto emerso, il minore stava aspettando il treno quando è stato aggredito dalla banda che voleva strappargli la felpa di marca: ma lui, che era in compagnia di un amico, si è rifiutato di dare la sua felpa [...] Dopo essere stato spinto [...] il 15enne ha urtato con lo zainetto contro il treno in movimento, per poi venire trascinato dal convoglio e risucchiato dal vortice di aria e cadere. Miracolosamente non è finito sotto il treno.

Ha riportato varie ferite ma non è in pericolo di vita. [...] Da ansa.it il 26 gennaio 2023.

È stata una ragazza contesa e un messaggino "di troppo" a scatenare l'aggressione ad un quindicenne brianzolo, spinto contro un treno ieri pomeriggio a Seregno (Monza), e che ha portato al fermo di due minorenni italiani, di 14 e 15 anni, accusati di tentato omicidio.

 È quanto emerso dalle indagini della Squadra Mobile della Questura di Monza, partite subito dopo quella che sembrava una rapina violenta e che invece si è rivelata una vera e propria spedizione punitiva nei confronti del 15 enne, 'colpevole' di aver mandato dei messaggini ad una ragazza contesa. Il ragazzo ferito è stato ricoverato in ospedale ma fortunatamente non è in gravi condizioni. I due giovani sono stati portati dai poliziotti al Cpa di Torino.

La vicenda è stata ricostruita grazie alle testimonianze e alle immagini delle telecamere di videosorveglianza raccolte dalla Polfer e dalla Squadra Mobile di Monza. Intorno alle 14.30 il 15enne è stato accerchiato dai due minori, insieme ad altri coetanei, con i quali ha avuto un'accesa lite. Dopo averlo colpito ripetutamente per strappargli di dosso la felpa, il gruppo lo ha inseguito, mentre il ragazzo cercava di allontanarsi, dirigendosi verso il binario 2 della Stazione ferroviaria, in attesa in attesa del treno per tornare a casa.

Quindi l'aggressione è ripresa e, quando la vittima ha reagito, è stata spinta proprio mentre un convoglio stava transitando in stazione. Il quindicenne ha sbattuto la testa ed è caduto sui binari, rimanendo incastrato tra la banchina e le ruote della carrozza. Soccorso, è stato trasportato all'ospedale San Gerardo di Monza, con una ferita alla testa e una sospetta frattura a una caviglia. I due aggressori sono stati identificati e fermati in serata: il primo è stato bloccato vicino alla stazione di Seregno, il secondo in caserma dai carabinieri a Desio dove era andato a costituirsi accompagnato dalla nonna mentre i poliziotti erano nel frattempo arrivati nella sua abitazione.

"Purtroppo questi ragazzi ormai non sono più abituati a pensare, agiscono, credono di vivere in una canzone o in un film e perdono il contatto con la realtà". E' quanto dichiara all'ANSA il procuratore per i Minorenni Circo Cascone, in merito all'aggressione di due ragazzi a un 15enne spinto sotto un treno ieri alla stazione di Seregno (Monza) per una lite dovuta a una ragazzina 'contesa' e poi a un tentativo di rapina.

"Pensano di essere in un reality - ha proseguito Cascone - di poter risolvere una questione apparentemente banale, come la contesa di una ragazza, un contesto culturale che dovremmo aver superato, perché quella ragazzina è una persona e non un oggetto, con una spedizione punitiva". Secondo il procuratore le questioni fondamentali in vicende come queste sono diverse.

"La donna come oggetto di contesa, una visione distorta della realtà, caratteristiche del mondo adulto autocentrato che loro replicano - ha spiegato - dove io mi sento offeso e ho colpito, senza rendermi conto di avere davanti una persona e non un ostacolo che posso buttare sotto al treno". Comportamenti come questi si ripetono da anni, e se accade, ha aggiunto Cascone, è perché "da qualcuno li apprendono questi modelli", ma non si parla "solo della famiglia, che a volte è inerme sì", ma di "modelli esterni amplificati dai social, e vent'anni fa non accadeva perché non c'era il palcoscenico".

Estratto dell'articolo di Federico Berni per il “Corriere della Sera” il 27 gennaio 2023.

Il risentimento che cova per alcuni messaggi inviati a una ragazzina. Cose da adolescenti, che dovrebbero essere superate in fretta. Difficilmente sarà così per un ragazzino brianzolo — 15 anni da compiere a giugno — vittima di una spedizione punitiva che per poco non lo vede farsi stritolare da un treno in transito alla stazione di Seregno, in provincia di Monza.

 […] «È stato molto fortunato», dicono gli investigatori della Squadra Mobile di Monza e della polizia ferroviaria, che all’alba di ieri hanno eseguito un fermo nei confronti di altri due giovanissimi, finiti al carcere minorile di Torino con le accuse di tentato omicidio e tentata rapina. Hanno 14 e 15 anni. E sempre ieri è tornato a casa il ferito. I medici dell’ospedale San Gerardo lo hanno dimesso con dieci punti di sutura alla testa, una distorsione a una caviglia e varie contusioni.

Con lui c’era la madre, una 41enne di origine romena, che non si dà pace: «Me lo potevano ammazzare, e solo per una questione di ragazzine». […] Dalle indagini emerge che viene avvicinato da una dozzina di giovani (gli accertamenti sono in corso per le identificazioni). Lo colpiscono più volte, e tentano di portargli via la felpa bianca marca Lacoste che indossava.

Il 15enne riesce ad allontanarsi e si porta al secondo binario, in attesa del suo treno. Qui, però, viene nuovamente attaccato. Alla sua reazione, uno dei due arrestati (il rivale, appunto) lo spinge contro un treno in transito, facendogli sbattere il capo contro una carrozza, e facendolo scivolare sotto il convoglio. […]

 Secondo quanto riferito, uno di loro, per sviare le indagini, si cambia i vestiti utilizzati durante l’assalto, e pubblica immagini su un social network con gli abiti diversi. […] I due indagati sono in carcere. Li difende d’ufficio l’avvocato Francesco Cerchia: «Devo ancora prendere visione degli atti e confrontarmi con loro. Posso dire che, però, si è trattato di un’azione andata oltre le intenzioni. Non avevano intenzione di spingerlo sotto un treno. Sono loro i primi che vanno a soccorrerlo».

Ansiosi.

Quasi due milioni di adolescenti italiani sono ad alto rischio dipendenze. Dal cibo (quella più diffusa), dai social, dai videogiochi. La prima indagine condotta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’Istituto Superiore di Sanità fotografa la difficile situazione della salute mentale dei più giovani. Chiara Sgreccia su L’Espresso il 28 marzo 2023

La tendenza a mangiare in maniera incontrollata cibi ricchi di zuccheri o grassi coinvolge più di un milione e 150 mila studenti tra gli 11 e i 17 anni. Sono per la maggior parte ragazze: 750 mila. Secondo l’indagine condotta per la prima volta dal Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità sarebbero 271.773 gli studenti delle scuole medie e 485.413 delle superiori a rischio dipendenza da cibo. Quelli che manifestano un rischio grave (il 9,3 percento del totale), e che hanno un’età compresa tra gli 11 e i 13 anni, hanno più alte probabilità di soffrire di depressione o ansia.

Ma non c’è solo il rapporto malsano con il cibo. I giovani della Generazione Z sarebbero anche a rischio dipendenza da videogiochi e da social media. L’internet gaming disorder, cioè la partecipazione a videogiochi online spesso con altri giocatori in maniera compulsiva, coinvolge circa il 12 percento degli studenti, 480 mila, soprattutto maschi e durante le scuole medie. Chi è dipendente da videogiochi rischia anche di soffrire con più probabilità di depressione e di ansia sociale.

Gli adolescenti che passano troppo tempo sui social media, in maniera incontrollata tanto da compromettere altri ambiti di vita quotidiana, sono quasi 100 mila. Il 2,5 percento del totale. Percentuale che sale al 3,1 percento nelle studentesse che hanno tra 11 e 13 anni. E al 5,1 percento nelle studentesse tra i 14 e i 17 anni.

Dallo studio “Dipendenze comportamentali nella Generazione Z” emerge anche che sono proprio gli adolescenti con il più alto rischio di dipendenza quelli che dichiarano di avere maggiori difficoltà nel parlare con i genitori di cosa li preoccupa. Hanno problemi di comunicazione con la famiglia soprattutto gli studenti che presentano una tendenza rischiosa al ritiro sociale. Lo dichiara il 78 percento di chi frequenta le superiori che soffre di questo disagio. E il 72 percento di chi frequenta le medie.

«L’utilità della ricerca è che non è uno sforzo di tipo accademico, che pure sarebbe apprezzabile, ma che potrà essere opportunamente utilizzata. Può essere uno strumento ottimo di conoscenza e identificazione delle fragilità. A disposizione innanzitutto degli operatori, poi della scuola e poi della famiglia», ha dichiarato il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano durante la presentazione del report dell’Iss e della della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Per Marcello Salvato, sottosegretario alla Salute, «far tornare nella scuola una figura chiave come quella del medico o quella dello psicologo» potrebbe essere una soluzione per alleviale il malessere. Perché, come ha dichiarato il presidente dell’Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro è evidente che una parte degli under18 ha delle fragilità che devono essere conosciute e intercettate: «L’Italia ha una durata media di vita tra le più alte, abbiamo 17.700 ultra-centenari. Però la qualità della vita per arrivare a quell’età passa per le scelte, per la prevenzione e per la promozione della salute a partire dalla gestazione e dai primi anni di vita».

(ANSA il 28 marzo 2023) - Quasi 2 milioni di adolescenti in Italia presentano caratteristiche compatibili con una dipendenza comportamentale: 1,2 milioni di dipendenza dal cibo, quasi 500mila da videogiochi; circa 100mila da social media. Sono oltre 65 mila, invece, i ragazzi che fuggono dai rapporti sociali (il cosiddetto Hikikomori).

 È quanto ha rilevato lo studio 'Dipendenze comportamentali nella Generazione Z', frutto di un accordo tra il Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell'Istituto Superiore di Sanità, presentato oggi all'Iss. La ricerca, realizzata con EXPLORA Addiction Research Division, ha coinvolto più di 8.700 studenti tra gli 11 e i 17 anni e 1.044 genitori.

È quella dal cibo la dipendenza più diffusa: coinvolge 1.152.000 studenti tra gli 11 e i 17 anni, la gran parte femmine, specie delle scuole superiori. Quasi 1 su 10 presenta un rischio grave. Tra questi, nella fascia di età 11-13 anni, il rischio di soffrire di depressione moderatamente grave o grave è 11,62 volte più alto. Tra i comportamenti a rischio dipendenza, il gaming è al secondo posto: riguarda il 12% degli studenti.

In questo caso, il fenomeno è soprattutto maschile: tra i maschi delle secondarie di primo grado ne soffre quasi 1 su 5 (il 18%); il fenomeno tende ad attenuarsi all'aumentare dell'età. Un ragazzo su 40 (il 2,5%) ha invece un comportamento compatibile con la dipendenza da social media; la percentuale è più alta nelle ragazze tra i 14 e i 17 anni, che, insieme alla dipendenza, presentano un rischio 10,2 volte più alto di soffrire di ansia sociale grave o molto grave e 5,5 volte più alto di avere un carattere di alta impulsività. 

Anche se i numeri sono più contenuti, preoccupa il fenomeno dell'isolamento sociale (o Hikikomori). Gli studenti di 11-13 anni che hanno indicato di essersi isolati tutti i giorni negli ultimi 6 mesi sono stati l'1,8% (circa 30.175), mentre la percentuale degli studenti 14-17 anni è del 1,6% (circa 35.792). L'età più critica sono i 13 anni.

(ANSA il 28 marzo 2023) - È la mancanza di comunicazione con i genitori uno dei tratti che più accomuna i ragazzi a rischio dipendenze comportamentali. Segnala difficoltà comunicative con i genitori il 75,9% degli 11-13enni con un rischio di social media addiction, il 58,6% dei ragazzi con dipendenza da videogiochi, il 68,5% di quelli che soffrono di una dipendenza grave da cibo e il 77,7% dei ragazzi delle scuole superiori con una tendenza rischiosa al ritiro sociale (il cosiddetto Hikikomori).

Sono alcuni dei dati rilevati dallo studio 'Dipendenze comportamentali nella Generazione Z', frutto di un accordo tra il Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell'Istituto Superiore di Sanità, presentato oggi all'Istituto Superiore di Sanità. La ricerca, realizzata con EXPLORA Addiction Research Division, ha coinvolto più di 8.700 studenti tra gli 11 e i 17 anni e 1.044 genitori.

Oltre ai problemi di comunicazione, lo studio mette in luce la difficoltà dei genitori di percepire i comportamenti a rischio dei figli, con atteggiamenti che oscillano dalla scarsa attenzione all'eccessiva preoccupazione. Tra i genitori che non notano nei figli problemi con i videogiochi, vi è un 8,6% che ha un figlio con rischio di gaming addiction.

 Anche tra i genitori che dichiarano di "non osservare comportamenti di assunzione incontrollata di cibi poco salutari nei loro figli" si ritrova quasi un 20% di ragazzi con dipendenza da cibo, nel 5,2% dei casi grave.

Specularmente, nel 75,9% dei genitori che indica una preoccupazione per i comportamenti del figlio legati al gaming, lo studio non ha rilevato nessuna dipendenza. Mentre tra i genitori che dichiarano una "assunzione incontrollata di cibi non salutari" da parte dei figli, il 55,8% dei ragazzi non presenta nessun rischio di food addiction.

«Lo dico da madre». Cari papà femministi, insegniamo ai figli il coraggio per evitarci una generazione di piagnoni. Assia Neumann Dayan su L’Inkiesta il 25 Marzo 2023

Dubito che si possano crescere esseri umani decenti se gli leviamo il gusto della rivincita sulle cose orrende che la vita fa

Il femminismo ha fallito. L’unico modo a disposizione degli uomini per fermare le donne era quello di diventare madri e mogli, e adesso eccoli qua questi mariti con la Naspi, con i congedi obbligatori, con i profili da influencer dove sponsorizzano il detersivo per i piatti, la paternità femminista, il femminismo paternalista, il latte vegetale e i programmi per perdere peso. Vivono a casa nostra e ci vogliono rubare il lavoro, non chiediamoci più perché nessuno vuol mai parlare del proprio matrimonio: il futuro sarà dei separati in casa, basta che non si sappia in giro, se no poi come le vendiamo le nostre vite. 

Quello che è chiaro è che nessuno ha più voglia di lavorare, ma soprattutto: nessuno ha più voglia di soffrire. Questo sturm und drang a gettone si consuma in una continua richiesta di cancellazione: cancelliamo i compiti, cancelliamo le feste, cancelliamo le gite, cancelliamo il lavoro, cancelliamo il merito, la vergogna, l’umiliazione, cancelliamo tutto quello che può portare a una crisi isterica. La mia conclusione è solo una: se noi cancellassimo tutti i mali del mondo, che bisogno ci sarebbe di avere coraggio? Il coraggio è quella cosa che raddrizza la civiltà, e se la civiltà non ne ha bisogno, che si fa? 

Io dubito che si possano crescere esseri umani decenti se gli leviamo il gusto della rivincita sulle cose orrende che la vita fa. Grazie a Dio questo non succederà mai e potremo continuare a pensare ai nostri figli come a quelli che faranno la rivoluzione, anche se tra le teste da tagliare probabilmente sceglieranno la nostra. 

C’è stato il molto apprezzato video della mamma che urlava contro i compiti e le insegnanti su TikTok perché il bambino doveva studiare e non poteva giocare a pallone o fare sport, e poi però c’era un video vecchio dove il ragazzino non riusciva a contare con le dita fino a otto. E poi la notizia di un istituto tecnico che ha abolito le gite di più giorni perché ci sono famiglie che non possono permetterselo, e i lavoretti per la Festa del Papà che non vengono fatti perché ci sono gli orfani o i bambini con due mamme o con due papà, insomma, mi pare di capire che nessuno voglia rompere né la campana di vetro, né il soffitto di cristallo. 

L’empatia è quella cosa che ci divide dai serial killer, insieme al tagliare le code a gatti e lucertole e ad appiccare incendi: purtroppo, però, nessuno ha mai scritto una grande storia grazie all’empatia che gli è stata riservata da bambino, semmai il contrario. È anche vero che di scrittori ce ne sono fin troppi, e nessuno che abbia uno straccio di storia. «Lo dico da madre» e «lo dico da padre» sono le qualità morali e umane che possiamo permetterci: non esistono più i professionisti, perché nessuno ha più voglia di lavorare. 

Vogliamo far passare l’idea che essere genitori sia un lavoro non retribuito? Se non è retribuito parliamo di beneficenza, e lo dico da madre. È arrivata la circolare Inps che dice che i papà possono, esattamente come le mamme, dimettersi entro l’anno del figlio e ricevere la Naspi. Lo dico da madre: non è che adesso ci tocca andare a lavorare per colpa dei papà femministi? O realizzeremo il grande progetto di vivere solo con i bonus? O è davvero questa la parità? 

Sento in continuazione queste voci di corridoio che dicono che il “lavoro di cura” del neonato deve essere paritario, questa favola che mamma e papà sono totalmente intercambiabili, e mi sono un attimo allarmata. Dobbiamo buttare Freud? È la fine della psicanalisi? 

E poi c’è la questione borseggiatrici incinte e bambini in galera. Lo dico da madre: se ci fosse questa parità allora i papà borseggiatori dovrebbero andare in carcere con i bambini. Non esistono papà borseggiatori? La paternità in questo caso non è paritaria?

Sono giorni che leggo che la gravidanza è un’aggravante per chi delinque: pare che le mamme certe cose non le facciano. La girano come una tutela del nascituro, e per tutelarlo lo mettono in galera: mi sento di dire che ci sono un po’ troppi buchi di sceneggiatura, se continuate così Netflix mica lo compra lo spin off di “Mare fuori” ambientato a Milano con le ladre incinte. 

La cosa che più mi sbalordisce è che il senso tutto italiano de «la mamma non si tocca» e «i bambini non si toccano» sia stato in questo caso eliminato: è evidente che ci deve essere una rivoluzione culturale in atto e nessuno ci ha avvisato. Ho sempre ritenuto che il dire «non sei madre e non puoi capire certe cose» fosse un pensiero corretto, forse l’unico ragionamento identitario con una sua logica. 

Quello che però dobbiamo ammettere è che esistono pessime madri e pessimi padri, e che l’essere madre o padre non fa di te una persona migliore: fa di te una persona diversa. Non migliore, non peggiore: diversa. So che non sta bene dirlo, ma è così, certe cose da genitore ti straziano più di altre, non ci si può far proprio niente, anche se sono tutti azzurri di sci. 

La cosa però più curiosa è che quelli che gridano allo scandalo nel dirsi madre e parlare in quanto madre siano gli stessi che dicono agli altri di cosa possono o non possono parlare: sei un uomo e non puoi parlare delle donne, se non hai vissuto una violenza non puoi parlare di violenza, e così via, fino alla fine delle parole. Chissà se tagliavano la coda alle lucertole anche loro.

DOLESCENTI E DISAGIO ORA è ALLARME SUICIDI. Ivano Tolettini su L’Identità il 25 Marzo 2023

Un altro adolescente in Veneto che in preda al malessere di vivere, per altro in apparenza non manifestato a scuola e in famiglia, decide di togliersi la vita. I congiunti e una classe liceale sprofondano nel dolore e il preside si interroga con franchezza: “Se noi educatori scolastici non siamo in grado di capire certe situazioni di disagio vuol dire che stiamo guidando un’automobile con gli occhi bendati”. Succede a Vicenza, dove il 16enne Roberto, che frequentava il liceo scientifico Quadri, martedì sera è caduto dal balcone di un appartamento al settimo piano di un condominio. A scoprirlo al suolo il padre, che non vedendolo in casa si è preoccupato e dopo un po’ ha fatto la terribile scoperta. Il magistrato di turno, Jacopo Augusto Corno, ha aperto un’inchiesta per l’ipotesi di istigazione al suicidio. Qualcuno ha parlato anche di una possibile sfida maturata in ambito social. Ma sono supposizioni cui per ora manca il vaglio investigativo. Troppo presto, dunque, per giungere ad apprezzabili conclusioni. I carabinieri hanno sequestrato il telefonino e il personal computer della vittima. A breve sarà nominato un consulente per rispondere alle domande che gli porrà il sostituto procuratore Corno. Ogni giorno in Europa, secondo l’ultimo rapporto dell’Unicef, tre adolescenti tra i 10 e i 18 anni si danno la morte. Ed è la seconda causa tra gli adolescenti. Nelle stesse ore si apprende che sempre a Vicenza la Procura della Repubblica sta concludendo le indagini su un altro ragazzo suicida, il 18enne Matteo di Bassano del Grappa, che si era tolto la vita bevendo il veleno durante un forum in diretta. In questo secondo caso i genitori hanno avviato una battaglia legale contro il sito, perché “ciò che è successo al nostro Matteo non deve più accadere ad altri”. Della tragica vicenda si è occupato anche il New York Times in un’indagine sul “dark web”, quei siti che invogliano gli adolescenti a provare emozioni sempre più radicali fino a misurarsi con la morte. Nel caso di Matteo, egli ha ingerito il veleno acquistato sul web e sono emersi altri due casi in Italia riconducibili ad un’analoga modalità. Provarlo, però, non è agevole ai fini giudiziari perché ci troviamo in questo caso in presenza di un maggiorenne ed ecco perché non è escluso che nella tragedia di Bassano del Grappa la magistratura chieda l’archiviazione del fascicolo.

LA PROVA

L’adolescenza è in assoluto il periodo più difficile dell’esistenza – spiega lo psicologo e psicoterapeuta Lino Cavedon, per molti anni responsabile del Consultorio familiare dell’Ulss di Thiene-Schio, nel vicentino, consulente del Tribunale dei minori di Venezia e spesso chiamato nelle scuole superiori per parlare agli adolescenti – perché è una fase di transizione in cui il minore deve conquistare alcuni tratti specifici. Siamo nella fase in cui per lui è fondamentale prendere distanza dai genitori perché c’è l’esigenza di mettersi alla prova. Il giovane ha il bisogno di transitare da un’identità tipica del bambino a una nuova, tipica di un ragazzo”. La complessità del tempo che viviamo è acuita dagli incontri che i ragazzi possono fare nel mondo virtuale. Una realtà spesso sconosciuta, popolata da individui pericolosi, veri e propri criminali, che possono approfittare delle fragilità di un individuo in fase di formazione. Così può accadere che anche adolescenti dal buon profitto scolastico, che non manifestano apparenti segnali di squilibrio, vengano fagocitati in un vortice di emozioni che portano alla disperazione.

IL CORPO

Spesso quando un adolescente si trova in gravi difficoltà comincia a manifestare dei segnali anche a livello psicosomatico. Non sempre è facile leggerli, ma “problematiche nel rapporto con il cibo e con il sonno – aggiunge Cavedon – sono indicatori importanti, perché ad esempio dobbiamo essere allenati a individuare che il corpo narra quello che un ragazzo non sa esprimere con le parole. Ecco che sapere leggere i disturbi psicosomatici è importante per individuare dei disagi latenti”. Accade che quando un adolescente sente di aver provato tutte le strade e avverte una grave difficoltà interiore, “nel momento in cui percepisce di non essere aiutato – prosegue lo psicologo – piò immaginare nella sua immaturità che il modo di far tacere il dolore è quello di darsi la morte come soluzione in grado di zittire il disagio. Il fatto è che l’adolescente ha il sacrosanto diritto di sentirsi imperfetto, proprio perché egli è in un viaggio di trasformazione”.

UMORE E WEB

Sia Roberto che Matteo erano seguiti con amore dalle rispettive famiglie. L’aspetto che interroga profondamente è che entrambi avevano un positivo profitto scolastico. “L’umore di un adolescente è un fattore indicativo – sottolinea Cavedon – perché può essere un elemento di preoccupazione e di rischio. Faccio l’esempio del ragazzo che rimane troppo in casa. Questo può essere problematico, addirittura inquietante in certi casi, perché non sviluppa la dimensione dell’alterità, della relazione con gli altri. Questo può voler dire che l’adolescente ha delle insicurezze importanti, perché non accetta il rischio di confrontarsi con il mondo esterno”. Ecco che allora i social per molti adolescenti e ragazzi, “diventano un luogo di rifugio, ma è un’illusione virtuale che non richiede la fatica di misurarsi con gli altri, perché manca la gioia di un abbraccio, di una serata trascorsa assieme agli amici con i quali ci si confronta”. Le emozioni, dunque, sono una cartina di tornasole importante dello stato di salute degli adolescenti e il Covid-19 ha provocato caos nelle vite di tanti ragazzi mettendo a rischio il loro stato di salute mentale.

Milano, la studentessa suicida: il paradosso dei nostri figli, sazi e disperati. Libero Quotidiano il 15 febbraio 2023.

La notizia è subito sparita, travolta da quelle su Sanremo, il terremoto in Siria e Turchia e la guerra in Ucraina. Parliamo della studentessa di vent’anni che si è suicidata a Milano all’interno della sua università. Ai genitori ha lasciato un biglietto con poche strazianti parole: “Scusate per i miei fallimenti”.

Quali fallimenti si possono imputare a una ragazzina? Ritardo degli esami? Percorso universitario sbagliato? Colpisce anche l’ambiente dove è avvenuto il gesto. Per gli studenti l’università dovrebbe essere una vera e propria casa dove sentirsi tutelati. Secondo l’OMS i suicidi sono la seconda causa di morte nella fascia di età trai 15 e i 29 anni. La Federazione Italiana Medici Pediatri lancia l’allarme sull’incremento avvenuto negli ultimi due anni (+55%). Complice la pandemia e le misure restrittive imposte per legge in Italia il numero complessivo dei decessi per suicidio è salito a 4000 l’anno. Per non parlare dell’aumento esponenziale di manifestazione di disagio giovanile come comportamenti autolesionistici, isolamento, fobia sociale, senso di solitudine, attacchi di panico, depressione, difficoltà relazionale, disturbi alimentari e uso di alcool o di sostanze stupefacenti.

FRAGILITÀ

La psicologa Elisa Caponetti spiega: «Uno stato di profondo malessere accomuna ormai intere generazioni, vittime di una crescente frustrazione. Assistiamo ad una crescente fragilità e debolezza psicologica accompagnata da un disimpegno e disorientamento degli adulti. I giovani vivono sempre più soli riempiendo il loro vuoto con l’utilizzo dei social o del web. Esistenze caratterizzate spesso da assenza di entusiasmo e slanci emozionali, in cui appare una totale contrapposizione tra la vita reale e quella virtuale rappresentata immaginariamente sui social».

Ecco tornare alla ribalta il ruolo devastante dei social per i più giovani. Caponetti: «I social sono pervasi da una falsa felicità perché vengono riprodotte situazioni artefatte e perfette, immagini di sé completamente artificiali e alterate. Vite talmente manipolate e contrapposte da far emergere una totale scissione. Ed è così che vengono postate foto solo filtrate, in cui occorre necessariamente e in modo ossessivo mostrare di essersi conformati ad un modello di bellezza ispirato dai tanti influencer, dove ciò che conta è soltanto la rappresentazione visiva, tutto il resto non necessita di essere mostrato. Tutto è ricerca di apparente perfezione, un corpo da mostrare senza alcuna presenza di un minimo difetto o caratteristiche proprie. Tutto è omologazione».

BONUS

In un simile contesto non meraviglia la richiesta da parte di David Lazzari, Presidente del Consiglio Nazionale degli Psicologi, di inserire nel “decreto milleproroghe” un bonus psicologico. Afferma Lazzari: «I problemi psicologici sono sotto gli occhi di tutti e l’aiuto psicologico non può essere un lusso per i pochi che possono permetterselo economicamente». Illuminante, inoltre, l’analisi del filosofo Stefano Zecchi che indica due responsabili: la società che tratta i giovani come una categoria astratta e le famiglie sempre più deboli o divise. Zecchi: «È necessario specificare che i giovani in questione sono i nostri figli e che i genitori hanno gravissime responsabilità. In pochi decenni», osserva, «siamo passati dal padre padrone al padre coglione, cioè un padre assente, deresponsabilizzato, incapace di dire di no».

Estratto dell’articolo di Luca Ianniello Valentina Lupia per “la Repubblica - Edizione Roma” il 25 Gennaio 2023.

Benzodiazepine e gocce di fiori di Bach contro l’ansia da prestazione a scuola, per superare un compito in classe o un’interrogazione senza rischiare un attacco di panico. È il nuovo metodo dei liceali per approcciarsi a una verifica senza agitarsi e andare nel pallone. Il fenomeno degli “aiutini” è scoppiato dopo il lockdown, quando i giovani sono tornati a fare lezione in presenza dopo mesi di isolamento nella loro cameretta (ammesso che ne avessero una) e di didattica a distanza.

 Oggi, a circa tre anni di distanza da quella fase, sono sempre di più gli adolescenti che ricorrono a queste sostanze per trascorrere serenamente una giornata a scuola. A testimoniarlo sono sindacati studenteschi, farmacisti, medici, testimonianze social e addirittura i video in rete. Su TikTok, il social preferito degli adolescenti, ce ne sono diversi.

[…] «Ho provato varie terapie farmacologiche, tutte differenti tra loro. Ma poche, purtroppo, hanno portato a miglioramenti effettivi». E così alla fine Marco è stato costretto a iniziare con le benzodiazepine, sostanze per le quali ha «sviluppato una forte dipendenza fisica e mentale» e che «per la maggior parte del tempo» lo fanno sentire «solo “ drogato”». Rita è una studentessa maggiorenne dell’Albertelli.

 «Ho iniziato a prendere le gocce di fiori di Bach un anno e mezzo fa per l’ansia a scuola. Le prendo quattro volte al giorno. È un rimedio omeopatico — prosegue — ma comunque riesce a rilassarmi, ormai sono convinta che dal momento in cui le prendo mi tranquillizzo».

Per l’acquisto di queste goccine, facilmente reperibili anche online, non serve ricetta medica. «Ad acquistarle sono anche adolescenti o genitori per i propri figli — spiega Giuseppe Longo, dell’omonima farmacia in piazza Vittorio all’Esquilino — Coi fiori si possono formulare diverse composizioni a seconda delle necessità, con o senza alcol, e le richiedono anche anziani o persone per i propri animali.  […]

Estratto dell'articolo di Ottavio Cappellani per mowmag.com il 24 gennaio 2023.

È stata diffusa sui social la locandina che annuncia l’avvio di un “corso per principesse” a Rho, in Lombardia, con lezioni destinate a studenti tra i sei e i nove anni, che si terranno da aprile 2023, dove verranno insegnate le basi di galateo, bon ton, dizione, trucco, acconciatura e portamento per camminare sui tacchi. Le polemiche, come sempre, non sono mancate. E cosa ci sarebbe di male? Meglio imparare fin da piccole un po’ di stile, alla faccia di tutte le diciottenni su Instagram tette precettate e culi in perizoma o su Onlyfans dove spesso vengono “sfruttate” dai fidanzati

 (..)

Corso per principesse

Il corso propone galateo, bon ton, dizione, trucco, acconciatura e portamento sui tacchi

Non che questa non possa avvenire per libera scelta, ma la scelta, appunto, per essere tale, libera dev’essere, e cosciente, e – come si dice – consapevole e consenziente. E quando vorreste fare diventare consapevoli le vostre figlie se non cominciando dall’inizio, cominciando dalle favole e dagli archetipi? È vero, sono d’accordo: il principe, prima di baciare la bella addormentata nel bosco, avrebbe dovuto svegliarla e chiedere il consenso: non tutte le fiabe ci azzeccano. Ma quante volgari addormentate abbiamo sui social che nessuno si prende la briga di svegliare?

Sono convinto che il corso per principesse sia non solo “femminista” ma anche che chi lo critica ha capito poco del femminismo, della dignità, del valore e della libertà.

 Solo un consiglio: tra una treccia, un uso corretto delle posate a tavola e il sapere salutare in tutte le lingue del mondo, aggiungete il corso “come dare un calcio nelle palle a chi vi promette di farvi diventare principesse”. Perché principesse già lo siete. Imparare a esprimerlo, male, non può farvi.

Mi raccomando il calcio nelle palle.

Ignoranti.

Lotta di classica. Le domande sceme dei giovani e il dovere di noialtri Luminari Culturali di mezz’età. Guia Soncini su L'Inkiesta il 6 Ottobre 2023

È difficile avere vent’anni e non fare ragionamenti imbecilli, ma per gli adulti dovrebbe essere facile ridere delle ridicolaggini 

Vorrei cominciare questo articolo dicendo che Adriano Sofri aveva vent’anni, l’età alla quale si è stupidi davvero, ma le fonti della storia divergono sull’anno di quella primavera: il 1963 o il 1964? Comunque: ne aveva venti o ventuno, di sicuro era abbastanza giovane da essere scemo.

A tenere una conferenza alla Normale c’era Palmiro Togliatti, settantenne o settantunenne. Togliatti stava raccontando d’un generale americano che si era meravigliato che il Pci non volesse fare la rivoluzione.

Dice la leggenda – una leggenda che non riesce neanche a stabilire univocamente l’anno dei fatti, ma alla quale voglio credere comunque – che dalla platea si levasse la voce di Sofri che stronzeggiava più o meno così: «Ci voleva l’ingenuità d’un americano per pensare che un partito che si chiama comunista volesse il comunismo».

Dice la leggenda – una leggenda che mi fa credere in un tempo in cui gli adulti fossero meno imbecilli di ora, e meno terrorizzati che i ventenni non li considerassero simpatici compagni di giochi, e meno smaniosi di far di tutto perché di loro non si dicesse «boomer» – che Togliatti rispondesse più o meno: «Devi ancora crescere: provaci tu, a fare la rivoluzione».

È stata quella, sessant’anni fa, l’ultima volta in cui un adulto non ha avuto paura di ricordare a un giovane cretino il suo essere giovane e quindi cretino? Forse no, forse in mezzo tra quando i settantenni avevano dei ventenni la giusta considerazione – quella di sbarbati che devono imparare a stare al loro posto – e oggi, che noialtri vegliardi viviamo nel terrore di essere disprezzati dai ventenni, forse in mezzo c’è stato un declino graduale.

Un paio di settimane fa m’hanno raccontato un episodio successo quella mattina. Un direttore d’orchestra inglese che viene intervistato nel corso d’un festival. Nel temibile momento in cui si apre alle domande del pubblico, alza la mano una ventenne. Che chiede senza traccia d’ironia se non sia il caso di porre rimedio al nome discriminatorio che ha la materia di studio e di lavoro del tizio cui sta rivolgendo la domanda. «Classical music», spiega tutta seria la rappresentante della generazione «nun sape mai nu cazz’», contiene il concetto di «class».

A quel punto ci dividiamo, noi adulti, in due gruppi. Gli infelici molti che hanno figli, e più di tutto temono che questi figli li considerino relitti del Novecento superati dalla modernità, e quindi diranno certo, piccina, hai ragione, cambiamo nome a questa musica classista. Certo, piccina, non dirò più «gli abbonati alla stagione lirica», il maschile sovresteso è un sopruso, d’ora in poi dirò «le persone abbonate», per distinguerle dalle piante abbonate.

E i felici pochi cui viene in mente “Tár”, un film che vi consiglio di correre a recuperare se ancora non l’avete visto, invece di perdere tempo coi miei articoli (è su Sky). Per gli infelici molti che non hanno visto Cate Blanchett nel ruolo di Lydia Tár, direttore d’orchestra alle prese coi primi ventenni non abituati a veder liquidare la loro scemenza, copio qui un paio di righe d’un articolo strepitoso quanto il film, scritto da Zadie Smith sulla New York Review of Books.

«Ora Lydia Tár si trova a parlare a una generazione diversa. La generazione che dice cose come: non è che questo Bach mi convinca granché. Tali affermazioni hanno lo scopo calcolato di ridurre in stato d’isteria i Luminari Culturali di mezz’età». Ce l’hanno? È un calcolo fatto per épater? (Il saggio di Zadie Smith è meraviglioso, e io non sono d’accordo con quasi niente di quel che sostiene).

Non sarà che noialtri Luminari Culturali (chiedo scusa a Lydia Tár per essermi messa sul suo piano, dal quale mi scaccerebbe con una schicchera e uno sguardo schifato) diventiamo isterici non perché al ragazzino non piaccia Bach, ma per le motivazioni che dà? «In quanto persona pangender e di colore, direi che la vita misogina di Bach mi rende impossibile prendere sul serio la sua musica».

Zadie Smith ne fa una questione di meriti artistici, di vita distinta dall’opera, di dovere dei Luminari Culturali d’insegnare ai giovani imbecilli a valutare le cose. «Può un accordo in La minore essere misogino?», si chiede, passando poi a dire che la differenza, tra noi e loro (tra loro che hanno vent’anni oggi, e noi che li avevamo trent’anni fa), è che noi innanzitutto ci chiedevamo se l’opera fosse interessante, non se Chaucer fosse misogino o Virginia Woolf razzista.

È una delle molte interpretazioni con cui non sono d’accordo. Il punto è che «in quanto persona pangender di colore» è una premessa imbecille, qualunque sia la sua conclusione, fosse pure una critica alla musica di Sandy Marton o di Cristina D’Avena.

Il punto è che è difficile avere vent’anni e non fare ragionamenti imbecilli, ma dovrebbe essere facile per gli adulti ridere delle analisi ridicole. E invece il direttore d’orchestra inglese dice alla ragazzina per cui la musica classica è classista che la sua è un’osservazione importante, perché non vuole che poi quella scriva su qualche social che lui è un boomer.

Oggigiorno c’è, dice Zadie Smith, un divario temporale enorme tra chi ha vent’anni e chi ne ha cinquanta: sembra che la distanza non sia mai stata maggiore. Da quando mi sono data della Luminare Culturale mi sono montata la testa, e quindi: non sono d’accordo neanche su questo.

Non siamo mai stati così posticciamente simili: mettiamo le stesse magliettecollescritte, ascoltiamo le stesse canzoni, ci interessiamo agli stessi personaggi pubblici dei ventenni. Vedo le mie coetanee lanciare mutande a Blanco o a Timothée Chalamet e mi chiedo che effetto mi avrebbe fatto se le amiche di mia madre avessero mostrato friccichi ormonali per Miguel Bosé o John Taylor. Per fortuna questo trauma mi è stato risparmiato.

In questi giorni ho assistito al bisticcio su Instagram tra una donna e una ragazzina sul tema del sexting. È andata così. La donna ha detto, in una conferenza, che bisogna farsi furbe e, per esempio, mandare foto in cui non si veda la faccia, così il giorno che il tuo ex vuole farti un dispetto mandando in giro le tue foto nuda nessuno può essere certo che quelle tette siano le tue.

L’ha detto partendo dal principio che mandare le tue foto nuda in giro sia un inviolabile diritto, che già mi pare abbastanza lunare. L’ha detto perché, se hai figlie ventenni o se di lavoro vendi qualunque cosa alle ventenni, non puoi permetterti di essere intelligente: puoi solo dar loro ragione. (Chi te lo vieta, d’essere intelligente comunque, si chiederanno i miei piccoli lettori; me lo chiedo anch’io, temo che ce lo vietiamo da sole, contando i cuoricini di chi asseconda il mercato al ribasso).

La ventiequalcosenne che ha deciso di polemizzare con questo blandissimo invito a tutelarsi era indignata non perché bisognerebbe, semmai, insegnare alla sua generazione che, se pure uno pensa di fare lo stronzo mandando in giro le tue foto nuda, non ti sta in realtà affatto sputtanando: siamo tutte nude, sotto i vestiti, che sorpresa sarebbe?

Non perché sia una ventenne particolarmente sveglia, e quindi in grado di capire che «impara a badare a te stessa» sia l’unico insegnamento sensato, persino se ammetterlo ti costringe a dar ragione a Bellicapelli Giambruno, e l’idea che qualcuno dica alle ragazzine che hanno il dovere di non far nulla per tutelarsi, ché dev’essere il mondo a rispettarle e mica loro a fare attenzione, è un’idea non so se più imbarazzante o più criminale.

La ventiequalcosenne si è messa lì e, col cervello che non ha completato lo sviluppo d’una ventiequalcosenne, ha spiegato che «l’esperienza sessuale on line è un diritto, non un vezzo» (sta tra l’acqua potabile e l’istruzione), e che «la nostra salute sessuale digitale è un diritto, non un capriccio» (la salute sessuale digitale è quando la candida ti viene se non funziona il wifi, immagino).

Nel mio mondo ideale l’adulta, a quel punto, avrebbe detto ma sai che c’è, io torno a far l’adulta, ché tanto il consenso delle ventenni non è un obiettivo sensato. Avrebbe detto cara mia, se uno volantina le foto nuda che gli hai mandato da fidanzati è un criminale, ma tu che ti fidanzi con uno di cui non c’è da fidarsi sveglissima non sei.

E invece siamo nel mondo post-togliattiano in cui l’adulta ha passato giorni a cercare di spiegare, a giustificarsi, a dire che certo, è una violenza che le donne debbano tutelarsi e gli uomini no, e la ventenne ha ragionissima a ritenere tra i diritti fondamentali del genere umano il fotografarsi le tette.

E invece è finita come al solito, con pochissimi Luminari Culturali e moltissimo traffico per le piattaforme dedite all’appiattimento del pensiero in comode slide. Provateci voi, a fare la rivoluzione nel secolo in cui siamo tutti determinati a non crescere.

Maleducati.

 Estratto dell’articolo di Giulio De Santis per il “Corriere della Sera” sabato 9 settembre 2023.

Dà un ceffone a Giorgia (un nome di fantasia), la figlia di 12 anni, dopo aver scoperto che aveva mandato scatti sexy su Instagram a uno sconosciuto. Schiaffo che provoca alla ragazzina un graffio sul mento, con una leggera perdita di sangue. Lei B. C., 40 anni, è stata condannata ieri a un anno e sette mesi di reclusione con l’accusa di maltrattamenti in famiglia. La sentenza è stata pronunciata dai magistrati del collegio della prima sezione penale del Tribunale presieduti da Alfonso Sabella.

I giudici hanno subordinato la sospensione della pena a un percorso di recupero da parte della donna, che dovrebbe forse iniziare nei prossimi mesi. Il pubblico ministero Eugenio Albamonte, al termine delle requisitoria, aveva chiesto una condanna più esemplare nei confronti della madre violenta: aveva sollecitato i giudicio a condannarla a ben tre anni di carcere. 

[...] «Ma davvero è possibile giudicare maltrattamento uno schiaffo dato alla figlia perché invia foto osé a uno sconosciuto?» si è domandato, durante l’arringa, il difensore dell’imputata, chiedendo l’assoluzione dell’assistita.

Oltre all’episodio del ceffone, alla madre è contestato il peso psicologico addossato a Giorgia sulla necessità di occuparsi dei fratellini e della nonna, visto che l’imputata trascorreva la maggior parte delle giornate lontana da casa, al lavoro. 

Sia la Procura che il tribunale hanno ritenuto che i maltrattamenti siano terminati nel 2019 con l’apertura dell’inchiesta. Indagini che sono state avviate in seguito a una segnalazione inviata a piazzale Clodio dagli esperti dei servizi sociali. Va precisato che l’imputata, non avendo mai potuto fare affidamento sul padre dei figli, ha cresciuto i tre ragazzi da sola, costretta ad adattarsi a ogni tipo di attività lavorativa.

Era il febbraio del 2016, quando la madre - secondo l’accusa - ha preso il cellulare della figlia e controllato il profilo Instagram scoprendo che ha inviato numerose foto in pose sexy a un ragazzo. Un giovane mai individuato la cui età era di 19 anni. La donna venne sopraffatta dalla rabbia. Prima rimproverò la figlia dicendo che certe cose non le doveva fare, poi le mollò uno schiaffo, colpendola sulla bocca così forte da provocarle un graffio e qualche goccia di sangue. E la ragazzina si mise a piangere. L’episodio, insieme ai richiami della madre fatti di parole umilianti per il mancato aiuto nelle faccende domestiche, Giorgia lo racconterà nel 2019 agli assistenti dei servizi sociali. Da qui, l’inchiesta e il rinvio a giudizio. [...]

Punita per un ceffone. Se lo Stato condanna chi vuole educare i figli. La 12enne manda foto osé a uno sconosciuto, la mamma le dà uno schiaffo. Un anno e 7 mesi di pena. Valeria Braghieri il 10 Settembre 2023 su Il Giornale.

In una situazione tutta sbagliata, lo schiaffo era l'unica cosa giusta. C'è una famiglia di Roma alla quale manca qualche pezzo, che versa nel degrado e nel caos, una figlia dodicenne (chiamiamola Camilla) costretta ad occuparsi dei fratellini più piccoli, una nonna (peraltro ormai scomparsa) che bada a se stessa in qualche modo, una mamma (le sue iniziali sono B.C.) di 40 anni, che tira avanti come può. E ci sono i servizi sociali, ovviamente. Che si innestano nella dinamica famigliare nel 2012 quando, a loro dire, sarebbero iniziati i maltrattamenti della mamma sulla ragazzina. Sembra che B.C. rimproverasse la figlia per non aiutarla a sufficienza nelle vicende domestiche e pare che le liti tra le due fossero all'ordine del giorno e che Camilla versasse in una condizione di disagio psicologico per le angherie della mamma. Una situazione orrenda, come si diceva. Ma folle è anche il «pretesto» con cui i giudici hanno deciso di condannare la donna a un anno e sette mesi di reclusione (la pena è stata sospesa a favore di un percorso di recupero) per l'accusa di maltrattamenti. Risale al 2016 (ma Camilla ha trovato il coraggio di denunciare l'accaduto solo nel 2019) lo schiaffo che la madre ha assestato alla figlia dopo aver scoperto che la ragazzina aveva inviato sue foto osè a uno sconosciuto di diciannove anni. Non si sa come quel giorno a B.C. sia venuto in mente di controllare il profilo Instagram della figlia, sta di fatto che scorrendo il cellulare ha scoperto le immagini inviate. Ha iniziato a urlare, a pronunciare parole «umilianti» secondo i servizi sociali e i giudici, all'indirizzo della ragazzina e infine le ha rifilato un ceffone così forte da ferirle il mento. Ora, è evidente che non siamo qui a fare l'elogio del schiaffo, specie quando è piazzato talmente forte da procurare un'escoriazione. Ma sinceramente ci sembra l'intervento più sano che sia uscito da quella situazione malsana. Specialmente in mezzo a quel degrado, delle foto simili spedite da un cellulare avrebbero potuto passare in sordina, non scandalizzare più di tanto, essere drammaticamente sottovalutate. La rabbia della madre, invece, è stata una reazione di spavento scomposto ma anche di protezione. È stata la reazione che qualunque genitore terrorizzato avrebbe potuto avere in un mondo in cui ogni giorno se ne legge una quando non sono tre: stupri, branchi, aggressioni, revenge porno... Scoprire che una bambina di dodicenne, la tua bambina, tua figlia, ha talmente frainteso tutto da mettersi potenzialmente nelle mani di un orco reale o virtuale, spaventa così tanto, lascia talmente disarmati da giustificare un'aggressione di impotenza. E stupisce che lo Stato sia tanto scisso, doppio, bifronte da avere da un lato la pretesa di educare i genitori ad educare (attraverso la scuola e le istituzioni) e dall'altro da punire (attraverso i giudici), quegli stessi genitori che tentano di imporsi sui figli. Due Stati in uno che non sono in grado di parlarsi e di conciliare le loro anime e le loro missioni. Il dl Caivano, il parental control gratuito sui cellulari, la sensibilizzazione contro le baby gang e poi non trova modo migliore per «ripulire» una famiglia infelice che condannare l'unico gesto diretto nella direzione giusta. Ci sembra impossibile educare finché si è disorientati.

 Due cose sulla libertà. So che qualche liberale duro e puro ha storto il naso di fronte ai provvedimenti decisi dal governo per punire la criminalità giovanile e l'abbandono scolastico. Alessandro Sallusti il 9 Settembre 2023 su Il Giornale.

So che qualche liberale duro e puro ha storto il naso di fronte ai provvedimenti decisi dal governo per punire la criminalità giovanile e l'abbandono scolastico (carcere per i genitori) oltre che regolamentare l'accesso di minorenni a servizi on line ritenuti pericolosi quali ad esempio i siti di pornografia. Capisco che in punta di principio ogni limitazione della libertà è odiosa, ma a questi amici ricordo che non c'è nulla di più odioso che ritrovarsi un figlio in qualche modo menomato per eccesso di libertà, sua o dei genitori, a volte in modo irreparabile.

Mettiamoci d'accordo su un punto: le libertà devono essere commisurate alla capacità di comprenderle e gestirle, altrimenti sono altra cosa: un bambino di due anni non ha la libertà di maneggiare un coltello affilato, una di quattro di buttarsi in piscina da sola, uno di sette purtroppo accade - di navigare a piacimento su siti porno perché poi crescendo potrebbe convincersi di essere come Rocco Siffredi e di poter usare a suo piacimento il corpo delle donne, non cogliendo che quelle che vede sono adulte consenzienti e a volte disperate.

No, le libertà o sono consapevoli e noi consapevoli pure di trasgredire - o non sono. Quindi va da sé che un genitore che non manda i figli a scuola non è consapevole del danno che sta procurando ad altri e quindi giustamente va richiamato con le buone o con le cattive al rispetto dei doveri che si è assunto mettendo al mondo una creatura. Tutto questo è illiberale? Non credo proprio che siamo di fronte a una «repressione per decreto» come ha titolato ieri La Repubblica, tantomeno che la Meloni «mostra il pugno duro della legge e fa brillare sulla porta di Palazzo Chigi la stella da sceriffi d'Italia», come si legge sullo stesso giornale. Qui non c'entra il liberismo esasperato, questo è il classico fallo di reazione di chi per far dispetto alla moglie (la Meloni) è disposto a tagliarsi gli attributi, nel senso di negare anche ciò in cui immagino si creda, nella fattispecie il fatto che i bambini e gli adolescenti vanno protetti e guidati a navigare in un mondo che sappiamo non essere il paradiso terrestre, che le libertà poi verranno da sole e noi siamo qui per difenderle a spada tratta.

Estratto dell'articolo di Gabriele Romagnoli per “la Stampa” il 26 giugno 2023.

Una storia universale è quella dei genitori ultrà di Seregno. Come una ola antisportiva la loro condotta si propaga: da Abbiategrasso a Rovigo, da Roma al resto del mondo, Russia, America, per finire sul fondo dell'oceano. Comincia un pomeriggio di giugno dopo le 18. 

[…] Non ci sono per fortuna telecamere nell'oratorio Sant'Ambrogio dove si gioca una partita tra due squadre di calcio composte da bambini sotto i 9 anni. Una è la locale Polisportiva San Giovanni Paolo II, l'altra la formazione dei Lions di Muggiò. 

[…] I genitori dei ragazzini tifano come neppure a un derby al Meazza. Una decisione dell'arbitro scatena la contestazione, poi la rissa tra chi la subisce e chi se ne avvantaggia. Volano pugni e schiaffi, perfino una signora ne riceve (e ne dà).

In campo si fermano, attoniti. Un dirigente della squadra di casa sale sugli spalti per frenare lo spettacolo, così poco istruttivo. Viene colpito con un calcio, alla schiena, e cade. Non vede l'aggressore, ma riesce a rialzarsi e fotografare la targa dell'auto con cui si allontana. La sera stessa andrà all'ospedale di Desio dove gli verranno diagnosticati lo spappolamento di un rene e lesioni alla milza. Operazione, asportazione dell'organo ormai distrutto, terapia intensiva, denuncia per lesioni aggravate. Rintracciato il colpevole: 47 anni, incensurato.

Nel libro Mio figlio è un fenomeno il giornalista cesenate Fabio Benaglia racconta molte storie simili, riferite da fonti (allenatori e dirigenti) che pretendono l'anonimato «o siamo finiti». Padri e madri che vedono nei ragazzi la fonte di futuro guadagno e l'onore della famiglia, che istituiscono premi partita di 20 euro, che chiedono di togliere il bambino dalla barriera durante le punizioni avversarie, che istigano al fallo durante l'incontro. E per i quali l'arbitro è nel giusto solo se fischia a favore. 

Un conto sono i genitori tifosi, un altro quelli ultrà, che non guardano neppure la partita, ma solo il proprio ragazzino, verso il quale tutti gli altri commettono sempre fallo. Tutti: direttori di gara, allenatori, insegnanti. È davvero una specie universale. 

La trovi a Rovigo dove durante una lezione un ragazzo porta la pistola a pallini, un altro "spara" alla professoressa, un terzo filma e ventuno assistono. Su ventiquattro, uno solo e relativo genitore chiedono di essere perdonati per l'errore commesso. I tre vengono promossi, il voto in condotta è 9.

La trovi a cinquanta chilometri da Seregno, ad Abbiategrasso, dove uno studente tira sei coltellate alla professoressa di storia («lo irritavano le materie umanistiche, voleva fare l'ingegnere»), viene espulso e bocciato, ma i genitori prima non mandano una lettera di scuse, un biglietto di solidarietà alla docente, poi fanno ricorso, «almeno contro la seconda parte del provvedimento». 

C'è chi ha riconosciuto loro qualche ragione. Quale? Il merito non è mai disgiunto dal comportamento. È un concetto che lo sport dovrebbe aiutare a comprendere.

[…] È vero, come ha scritto Antonio Polito sul Corriere, che siamo passati dalla generazione dei doveri (in cui i padri e le madri davano per principio torto ai figli e ragione alle istituzioni) a quella dei diritti in cui si è rovesciato l'onere della prova. Non è però da nostalgici frenare, non si incarna per questo la fattispecie dell'incendiario divenuto pompiere. 

A ben vedere chi dissente era contro i padri di ieri e contro quelli di oggi, non ha mai smesso di usare la testa. Perché questi coetanei non hanno fatto nessuna rivoluzione copernicana, non sono diventati progressisti o permissivi dopo aver abbracciato un ideale: sono gli indifferenti dei banchi di mezzo, cresciuti senza evolversi. Il loro leader è "Papo", quello che bacia il cofano della Ferrari appena presa a noleggio e la guida senza cintura, dicendo in video una battuta da film dei Vanzina: «Bianca! Cabriolet! En plein air!».

A riprenderlo è il figlio seduto al suo fianco. Tempo dopo si troverà con gli amici a bordo della Lamborghini che investirà, uccidendolo, un bambino di cinque anni. Reazione dei "responsabili": «Tranquilli, daremo un sacco di soldi alla famiglia e sistemeremo tutto». 

[…] 

In famiglie di ogni genere, latitudine, rilievo sociale, si stringe un patto generazionale di mutuo soccorso e protezione che poco ha a che vedere con l'affetto e niente con la legalità.

Nell'intreccio fra affetto e interesse si nasconde anche una speranza, non troppo segreta. Quella di ricevere dai discendenti l'assoluzione finale, quali siano stati i peccati: averli schierati, come una barriera atta a respingere la punizione, nel primo banco di una chiesa affollata, mentre un sacerdote pronuncia un'omelia double-face. Difensori postumi, continuatori della tradizione, portatori dell'eredità. Vincolati in nome e per conto corrente.

Alla fine l'immagine che tutto tiene deriva ancora una volta dalla cronaca recente. È quel sottomarino improbabile, sceso nella profondità inaccessibile dell'oceano per vedere da vicino un relitto, finendo per emularlo. A bordo, cinque passeggeri. Tra questi: un padre e un figlio. Per allargare l'esperienza dell'altro, farsi un regalo, compiacersi, andare oltre, insieme. Oltre il confine prestabilito dal buonsenso, e perdersi.

Volergli bene, pregare e...Youtuber e caso Lamborghini, i figli devono sperimentare la stupidità e andare oltre i genitori-talebani. La rubrica “L’umanista” di Alessandro Chelo, esperto di leadership e talento. In qualità di executive coach, ha formato centinaia di manager dei principali gruppi industriali e ha lavorato al fianco di alcuni fra i più affermati allenatori di calcio e pallavolo. Alessandro Chelo su Il Riformista il 26 Giugno 2023 

Ognuno è fatto a suo modo e ognuno è libero. Ogni individuo possiede le risorse per andare oltre i condizionamenti sociali ed educativi.

Ormai si è spenta l’eco della bravata dei giovani YouTuber in Lamborghini, ma per giorni e giorni quasi non si è parlato d’altro. I commenti che si sono sprecati erano perlopiù all’insegna del “signora mia, non c’è più religione”. Le declinazioni del concetto erano fondamentalmente due, quindi la frase poteva proseguire sostanzialmente in due modi: “ormai i giovani vivono attaccati al cellulare” o “ormai i genitori non educano più i figli”.

Queste due visioni hanno qualcosa in comune: per entrambe, infatti, le cause principali del comportamento degli individui vanno ricercate all’esterno degli individui stessi, nei condizionamenti sociali, nei modelli educativi. Ma è davvero così? Io credo di no. Credo che ogni individuo possieda le risorse per andare oltre i condizionamenti sociali ed educativi e che, per quanto si faccia, la natura, l’indole e le attitudini degli individui, finiscano per prevalere.

Quelli che criminalizzano internet e vorrebbero limitare l’uso dei social, sono gli stessi che pensano che le TV di Berlusconi abbiano rincoglionito le gente. Ma loro stessi non sono “gente”? Eh no, loro sono l’avanguardia che ha capito tutto. Sognano un mondo serioso, con un’unica TV in bianco e nero, programmi educativi dove intellettuali di sinistra dispensano presunzione e un’unica auto (grigia) prodotta da una FIAT finalmente di Stato.

E gli altri, quelli che colpevolizzano i genitori? Il moralismo è analogo, come lo è la presunzione di superiorità, anch’essi agitano corrucciati l’indice, anch’essi interpretano le relazioni all’insegna dello schema genitore/bambino. Che i genitori debbano educare i figli, si sa, ma attenzione, anche i talebani educano i loro figli ed è lo stesso per nazisti e comunisti. Non sarebbe meglio se non lo facessero? In fondo siamo tutti talebani in pectore. Come d’altronde si comporta da “talebano” chi pensa di dover normare per legge le parole che si possono usare e quelle che non si possono usare (alludo ad esempio al disegno di legge Zan) oppure chi pensa che si debba normare l’uso che un individuo fa del proprio corpo, magari sparandola grossa, proponendo niente meno che il reato universale.

In realtà gli individui scelgono liberamente, ogni giorno, in ogni momento, scelgono che programma televisivo guardare, che auto acquistare (anche i SUV sono normalmente messi all’indice da parte dell’avanguardia), come vestirsi, in sostanza, come vivere. Un’autentica visione liberale, non può che fondarsi su una posizione esistenziale umanistica, fondata su un’interpretazione ottimistica della natura umana e sulla convinzione che siano gli individui a dare le comunità e non le comunità a dare gli individui.

Con questo spirito, possiamo interrogarci sul comportamento dei nostri figli adolescenti. Si esprimono con un linguaggio molto povero, pronunciando ogni due parole termini come frà, bro, zio, scialla? Non hanno mai sostituito il rotolo di carta igienica in bagno, ma sempre solo appoggiato il nuovo rotolo su un ripiano? Lasciano diversi vasetti di yogurt aperti contemporaneamente nel frigo? Ripongono in dispensa scatole completamente vuote? Ascoltano musica alle nostre orecchie inascoltabile? Bene, molto bene! Non siate preoccupati, stanno solo sperimentando la stupidità nell’età in cui è sano sperimentarla. É del tutto probabile che prima o poi sarete orgogliosi di loro.

I vostri figli sono invece dei perfettini, impegnati, convinti di cambiare il mondo? Ascoltano de André e Guccini e disprezzano la musica del loro tempo? Non siatene troppo orgogliosi, forse sperimenteranno la stupidità più avanti negli anni, quando si renderanno conto di aver vissuto la vita di un altro. Non ci sono regole fisse.

E allora che fare? “La soluzione” non c’è, ma, dal mio punto di vista, pensando ai nostri figlioli, tre cose possono fare la differenza. La prima è volergli bene, la seconda è pregare, la terza ve la dico fra un po’.

La prima. Voler bene. Sempre e comunque. Qualunque cosa facciano, pensino, dicano.

La seconda. Pregare. Sì, pregare. Ognuno a modo proprio, ma pregare. Senza vergogna, senza pudore, con l’umiltà di chi ringrazia senza chiedere. Forse quell’energia sarà raccolta dai nostri figlioli.

Ok, voler bene e pregare, bene, ma qual è la terza cosa che fa la differenza? Culo, ci vuole anche culo.

Alessandro Chelo. Esperto di leadership e talento, ha pubblicato diversi saggi con Sperling & Kupfer, Guerini e Feltrinelli, alcuni dei quali tradotti in più lingue fra cui il coreano e il giapponese. In qualità di executive coach, ha formato centinaia di manager dei principali gruppi industriali italiani e ha lavorato al fianco di alcuni fra i più affermati allenatori di calcio e pallavolo.

Crepet: «Il virtuale è spietato con i nostri ragazzi. E oggi i genitori vogliono essere più giovani dei figli». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 19 Giugno 2023.

Lo psichiatra: «Gli ex contestatori sono servi dei figli». La Pandemia? «È stato un big bang. Ha prodotto disagio per il modo in cui è stata gestita» 

Paolo Crepet è uno degli analisti più attenti dello stato della condizione giovanile. Sta per uscire un suo volume, per Mondadori, intitolato Prendetevi la luna .

Come vedi l’esplodere del disagio tra i ragazzi del nostro tempo?

«Coesistono due fenomeni: da una parte la tendenza all’autoisolamento, la diffusa perdita di speranze, la difficoltà di vedere il futuro. Ma non è solo questo, il senso di rinuncia convive con un atteggiamento opposto: la rabbia, la violenza, la prepotenza del bullismo. Non è un fenomeno nuovo, se ci si pensa. Negli anni in cui eravamo giovani una parte dei ragazzi precipitò, fino a morirne, nell’eroina, la cui improvvisa esplosione è un fenomeno mai indagato davvero, e un’altra nel terrorismo che, in fondo, era una forma di indifferenza e di cinismo nei confronti della vita altrui. E persino della propria. Se si vuole il racconto più drammatico di quella condizione di disagio bisognerebbe rileggere le lettere a Lotta Continua. In quel tempo esisteva, infatti, una diffusa e coinvolgente partecipazione politica e civile. Ciò che manca, oggi. Sia chiaro, comunque: un adolescente non inquieto è inquietante».

Quanto ha pesato la pandemia?

«È stato un big bang. Ha prodotto disagio per il modo in cui è stata gestita: chiusura delle scuole, didattica a distanza, conseguente chiusura in casa dei ragazzi, isolati dal contesto sociale. È stata dura per tutti, ma per loro è stata un’esperienza afflittiva. A scuola si va certo per imparare, certo perché è un dovere. Ma si va anche perché c’è un cortile, un corridoio, una ricreazione. Lì si trovano gli amici, gli amori, si costruisce la ragnatela fondamentale, la prima, dei rapporti sociali. I ragazzi sono stati rinchiusi nel loro cellulare. Quando una ragazza di un liceo di Bologna alla quale è stato tolto il cellulare ti dice, due settimane dopo, “Non è male, questo esperimento, finalmente siamo tornati a parlare” ci sta parlando di una possibilità. Se io prendo una ragazza di sedici anni e la chiudo con le cuffiette, con una visione del mondo che passa solo attraverso lo schermo, è chiaro che qualcosa in quella esperienza umana accade. Dovremmo studiarla bene».

Cosa pensi degli sviluppi tecnologici annunciati, come il visore Apple e l’intelligenza artificiale?

«Tim Cook ha ragione a dire che il visore sarà una rivoluzione. La terza tappa: il computer, l’Iphone, ora il visore. Ma il visore porta a un mondo prevalentemente virtuale. La prima cosa che mi viene in mente è la follia. Il mondo della psicosi è sempre stato descritto come un mondo altro, in cui tu costruisci una tua vita virtuale. Parli da solo, pensi da solo. È l’uomo sull’albero di Amarcord di Fellini. Mondi altri, costruiti per sfuggire a quello reale. Che inquieta, fa soffrire. Il virtuale è stare su quell’albero».

Il nostro tempo è causa di infelicità?

«Mi viene in mente il caso del “ragazzo selvaggio” magnificamente raccontato nel film di Francois Truffaut. Un adolescente trovato nel bosco dove aveva trascorso i primi dodici anni della sua vita che si cerca di riportare nel mondo civile. Siamo in pieno illuminismo e la domanda che si fanno i medici che lo curano è: la civiltà porta felicità?».

Nel caso del ragazzo la risposta è no. Non riuscì mai a integrarsi, morì infelice.

«Perché citare questo caso? Perché questo è il tema. E se le tecnologie, nel separarci e relegarci in un mondo virtuale costruissero la nostra infelicità? “Think different” diceva Apple: era un messaggio di libertà, di innovazione, era una promessa di libertà e di felicità. È stato davvero così? Gran parte del disagio giovanile nasce o si alimenta in relazione con questi strumenti. Torniamo all’illuminismo: libertè, egalitè, fraternitè. Cos’è la fraternitè, Facebook? E cos’è la libertè, il metaverso? Tutto questo crea appagamento, dipendenza o maggiore libertà? Forse è venuto il momento di ragionarne senza le catene dell’ovvio o del politicamente corretto imposte dallo spirito del tempo».

Cosa è del conflitto generazionale?

«Mia mamma non amava i Beatles. Ai genitori di oggi piacciono i Maneskin. Il conflitto è diventato una sorta di baratto. La rivoluzione dei ragazzi è stata taciuta dalla comunità, che l’ha avvolta in un conservatorismo estremo. Pasolini sarebbe molto preoccupato, la sua denuncia del consumismo si è inverata. Oggi il nonno compra le stesse cose dei suoi nipoti, non è mai successo nella storia umana. Quella cesura era un fatto salutare, ognuno viveva il tempo giusto della sua esistenza. Oggi i genitori vogliono essere più giovani dei figli, tutto questo appiattisce e amicalizza un rapporto che invece deve essere fondato sul riconoscimento dei ruoli. Non esiste più il capitano, il punto di riferimento. È forse il compimento del ‘68, dalla rivolta antiautoritaria. Ma ora una generazione che ha contestato i padri è diventata serva dei propri figli. Non è capace di dire i no, di orientare senza usare l’autoritarismo, ma l’esperienza. C’è un armistizio: io ti faccio fare quello che vuoi, tu non mi infliggi la tensione di un conflitto. Ma così si spegne il desiderio di autonomia, l’ansia di recidere i cordoni, l’affermazione piena della propria identità. Il conflitto generazionale è sparito. E non è un bene».

Ma ti sembra che si sia spento il desiderio, da quello sessuale a quello di cambiare il mondo?

«Se hai tutto, non cerchi nulla. Una delle applicazioni di intelligenza artificiale più usate dai ragazzi si chiama “Replica”. Non è assurdo? Ogni generazione ha cercato di creare, non di replicare. Si voleva non ribadire, ma stupire, non accettare il frullato di quello che c’è, ma l’invenzione del nuovo. Noi stiamo diventando soli e ne siamo contenti. Abbiamo smesso di parlarci. Nelle scuole, in famiglia, nelle sezioni, nelle parrocchie, nei circoli o nelle piazze. Se vogliamo salvarci dobbiamo disallinearci, dobbiamo rinunciare all’ovvio, vivere la vita da un punto di vista originale. Non dobbiamo replicare, dobbiamo inventare».

E la sessualità?

«Oggi è vissuta senza desiderio. I ragazzi che frequentano giovanissimi i siti porno aumentano la fruizione ma finiscono col banalizzare il meraviglioso mistero del sesso. L’erotismo è scoperta, non fruizione. Casanova diceva “L’erotismo è l’attesa” e invece ora è tutto spiattellato. Troppo e troppo presto. Celebriamo la libertà sessuale uccidendo l’erotismo».

È giusto, come ha proposto Ammaniti, non dare ai ragazzi il cellulare prima dei dodici anni?

«So per certo che bisogna far venire ai ragazzi la voglia di fare a meno di un uso parossistico del cellulare. Bisogna inventare altri interessi, il bisogno di relazione e di scambio. Possibile che la tradizione educativa italiana — Montessori, Lodi, Don Milani — non produca una cultura del desiderio di conoscenza e di profondità? Io ai ragazzi di quell’età non darei il cellulare, farei insieme a loro le ricerche per aiutarli a decifrare i codici della comunicazione digitale. Così come non capisco come si possa, da parte dei genitori, pensare di geolocalizzare i figli. Se ne comprime la libertà per placare le proprie ansie. Tutte ansie individuali. Bisogna fare insieme, non da soli».

Nell’esperienza delle generazioni precedenti l’unico momento di giudizio sociale era la scuola. Spesso duro ma contenuto nelle dimensioni. Ora ogni adolescente può essere destrutturato da un giudizio che diventa subito universale. Di qui il bisogno costante di conferme della propria autostima. È così?

«L’esposizione permanente, l’esistenza di un proprio pubblico, quello dei follower, il carattere virale di ogni forma di comunicazione costituiscono motivo di stress e di ansia. La scuola educava anche a conoscere le sconfitte, a far fronte a momenti di difficoltà e di delusione. La dimensione limitata del giudizio, quello delle mura di una classe, ti consentiva di ripartire, se eri caduto. Ora tutto è universale, rapido, spietato. Bisogna riconquistare una giusta dimensione del tempo, uscire dalla fretta del momento. Io credo che questa generazione smarrita cerchi ragioni per sognare e tornare a sperare. Dal buio si esce cercando la via. C’è bisogno di parole, di conflitti sani, di visioni che appassionino. Invece ci circonda il silenzio. Sembra, in questo tempo, che si possa solo aspettare Godot. Ma Godot non c’è».

Fine adolescenza mai. I genitori, l’equilibrio psichico dei loro puccettoni e la saggezza di Crepet. Guia Soncini su L'Inkiesta il 31 Maggio 2023

Gli adulti che dicono di imparare dai loro figli, che non sanno niente, stanno crescendo migliaia di pirla pronti a piagnucolare, come ci ricorda lo psichiatra torinese. Forse per temprare il carattere basterebbe fare come quelli della generazione di Gianni Agnelli: andare in guerra 

Giornate di stremanti interrogativi per gli ufficialmente adulti che, pur di non crescere, sono determinati ad avere un rapporto alla pari coi figli, figli ai quali non s’è completata la mielinizzazione del cervello ma lasciamo stare i termini scientifici: quel che è importante è dar loro il diritto di voto anche se non sanno allacciarsi le scarpe.

Dunque abbiamo da una parte un sedicenne che accoltella una professoressa, dall’altra una undicenne che lascia un commento a Chiara Ferragni su Instagram. Poiché non sappiamo come giustificare il primo – certo, possiamo dire che non l’abbiamo ascoltato abbastanza, ma ecco, l’accoltellamento appare comunque difficile da inserire nella nostra lettura «i giovani hanno sempre ragione e c’insegnano la vita» – decidiamo che il problema è la seconda.

Adulti perlopiù scemi ma in qualche caso persino normodotati si aggirano per i social chiedendosi con aria dolente «cosa ci fa una undicenne su Instagram, non ci può stare, non è giusto che ci stia». Le loro figlie avranno come minimo un OnlyFans su cui fanno vedere il contenuto delle mutande, senza che i genitori se ne siano mai accorti, ma non è neanche questo l’importante.

Il punto non è cosa diavolo farà tua figlia senza che tu te ne accorga se tu sei così stolido che ti sembra un’anomalia l’undicenne su Instagram. Il punto è che la domanda non è cosa ci faccia un’undicenne su Instagram: la domanda è cosa ci faccia tu, cinquantenne, su Instagram.

Tu che ogni giorno ci racconti che dai tuoi figli impari ogni giorno, da quei figli che interrompono ogni riunione, ogni conversazione, ogni cena tra adulti perché, in un’epoca in cui cianciamo di burnout e guai al lavoro che osi pretendere la nostra attenzione un minuto dopo l’orario d’ufficio, se il puccettone videochiama si molla tutto.

Elenco, non esaustivo e non di fantasia, di videochiamate in seguito alle quali ho visto correre genitori via da impegni adulti per salvare l’equilibrio psichico puccettonico messo a grave rischio.

«Mi avete lasciato in casa solo penne nere, io scrivo solo con penne blu». Madre e padre si passano il telefono con uno sguardo da rifugio antiaereo, poi uno dei due corre a casa abbandonando il mojito che il cameriere gli ha appena poggiato sul tavolo, cinque euro ogni foglia di menta. Scusate, ma dove la comprate una penna a quest’ora. No, ma a casa ci sono, è che lui s’infastidisce a cercarle.

«Mi hai comprato il libro sbagliato». La puccettona ha dato ordine alla madre di comprarle non so quale storia analfabeta che desiderava leggere, le ha dettato un titolo e la tapina ha eseguito, ma il titolo era sbagliato, e quindi comunque l’errore è dell’acquirente pure se si limitava a eseguire ordini. La tapina madre interrompe la riunione che dovrebbe presiedere per ovviare a questo increscioso errore, giacché sappiamo tutti che i desideri filiali funzionano come diceva Carrie Fisher: instant gratification takes too long.

«Devi venirci a prendere ma non devi parlare». Maschio altrimenti alfa, fino alla riproduzione considerato carismatico e brillante, abbandona il tavolo allo stellato che aveva prenotato tre mesi prima e di cui aveva per tre mesi studiato il menu perché figlia pretende di venire trasbordata con le amiche con cui sta festeggiando un compleanno da bar improvvisamente divenuto non di loro gradimento ad altro locale; l’adulto non è autorizzato a rivolger loro la parola per non rovinare l’atmosfera, né può dirle di chiamare Uber perché sennò poi la piccina si fa venire il deficit di accudimento.

Eccetera.

L’età non è importante, giacché sappiamo tutti che ormai l’adolescenza è un ergastolo ostativo, una pena che non finisce mai, uno stato anagrafico che copre anche la senilità, senilità durante la quale facciamo le smorfie alla telecamera del telefono salvo poi trasecolare se le fanno le undicenni, che almeno sarebbero giustificate a esser sceme.

La laureanda che frigna perché il padre osa preferirle la partita è figlia del suo tempo, e d’un padre che le avrà detto che da lei impara qualcosa ogni giorno, invece di dirle «ringrazia che ti pago gli studi». Figlia d’un tempo e d’una società che da tre anni le dicono che nessuna è mai stata traumatizzata quanto lei che ha fatto lezione su Zoom: cara grazia se non finisce ad accoltellare il relatore.

Se provi a dire che tutto ciò non è sano, vieni accusata d’invocare il ripristino delle punizioni corporali, punizioni corporali che peraltro nessuno di coloro che partecipano al dibattito ha conosciuto: siamo andati a scuola in anni in cui nessuno ci bacchettava e si cominciava persino a dar del tu alle maestre; ma, se oggi qualcuno osa dire che no, i sedicenni non hanno capito il mondo meglio di noi, non foss’altro perché non hanno avuto il tempo di capirlo, allora i giovanili, gli alleati dei giovani, gli interiormente sedicenni si poggiano il dorso della mano sulla fronte e sospirano: ah, quindi vuoi il ritorno del libro Cuore.

L’altro giorno, in un’intervista alla Stampa, Paolo Crepet ha detto che «i genitori di oggi rinunciano a educare i propri figli non perché vanno in miniera, ma a giocare a padel» (aggiungerei: chiedono ai figli di andarli a guardare giocare a padel, e sono tutti fieri se finiscono sul TikTok filiale; pur non avendo mai giocato a padel né figliato, sento di dovermi scusare a nome d’una generazione di scemi: non so cosa sia andato storto, forse le radiazioni di Chernobyl ci hanno interrotto la crescita).

Ha detto anche: «I disturbi mentali sono comunicazione: se parlo di depressione, allora avrò moltissimi depressi. […] Sentiamo in continuazione dire che gli studenti universitari sono stressati. Ma di cosa, vorrei sapere. Non ce la fanno più. Ma di che, di studiare? Quello devono fare, quello è il loro mestiere. Il problema è che molti gli danno pure retta. Così il rischio è di crescere migliaia di pirla, pronti ad andare a piagnucolare da schiere di psicoterapeuti che sono felici di avere un cliente in più». Ecco. La principale ragione per cui sono felice di aver installato TikTok è che è pieno di conferenze in cui Crepet dice queste cose, oasi di sanità in un mondo impazzito che chiede il bonus psicologo e sostiene senza mettersi a ridere che i giovani si suicidano perché l’alberghiero di Massa Lubrense è troppo performativo.

Ci sono quelli che raccontano l’università italiana, un posto in cui anche una pianta grassa può prendere 30, come fosse il Giappone, e poi c’è Crepet. «Tra le mail ricevute negli ultimi tempi ricordo quella di una professoressa. Mi ha scritto che i suoi studenti, otto volte su dieci, quando devono compilare il campo data e ora le chiedono che giorno è. Il registro elettronico, la chat dei genitori, la possibilità di geolocalizzare i figli sono potentissimi strumenti di deresponsabilizzazione. Ma poi cosa ci aspettiamo? Che a 25 anni vadano in Argentina in cerca di fortuna? Restano a casa, il loro futuro è mettere l’appartamento del nonno in affitto su booking, che per quello non servono competenze».

Ieri parlavo di Succession con amici, di come le seconde generazioni di ricchi siano sempre imbecilli: non ti sei mai dovuto guadagnare niente, come ti saresti potuto temprare. A un certo punto di queste conversazioni c’è sempre qualcuno che dice: eh ma Gianni Agnelli. Che in effetti era una terza generazione. Però una terza generazione che ha fatto una guerra mondiale. Ho idea che, per temprare il carattere, abbia funzionato più che guardare in tv Chernobyl, o le Torri gemelle, o la pandemia.

La povertà educativa in Italia è un problema, ma si potrebbe risolvere. Samyra Musleh su L'Indipendente il 16 Febbraio 2023.

In Italia poco meno di un sesto della popolazione è composto da giovani (fascia 0-18) e più del 30% di questi si trova in una condizione di disagio sociale ed economico. In queste percentuali c’è un fenomeno collaterale di emarginazione e privazione che mina il diritto all’infanzia e all’adolescenza: la povertà educativa. Sono 1,4 milioni i minori che vivono in uno stato di povertà assoluta, il triplo rispetto allo scorso decennio, mentre circa 2,2 milioni si trovano in una condizione di povertà relativa. Questi indicatori in termini economici sono diversi da Paese a Paese, in Italia la povertà assoluta è generata da un calcolatore messo a disposizione dall’Istat per determinarne il valore. In una famiglia di due adulti e due bambini (0-3; 4-10), ad esempio, è di circa 1500 euro. La povertà relativa è invece attribuita a chi percepisce e vive con un reddito del 50% in meno rispetto alla media nazionale. Un dato in netta crescita.

Queste analisi sono il frutto dell’ultimo rapporto pubblicato dall’Osservatorio sulla povertà educativa, che fa leva proprio su questo fenomeno parallelo, analizzandone la complessità multidimensionale e i fattori che stanno letteralmente zavorrando il futuro di una generazione.

«La povertà educativa è un bambino che vive in una città come Napoli e non ha mai visto il mare» – così esordisce il presidente Marco Rossi-Doria dell’Associazione Con i Bambini, fautrice insieme alla Fondazione openpolis della banca dati che sta facendo luce da anni su una questione che ancora non ha un indicatore nazionale ammissibile. Secondo l’Istat, infatti, l’IPE – Indice di Povertà Educativa, si definisce attraverso quattro dimensioni: Partecipazione, Resilienza, Capacità di intessere relazioni e Standard di vita; ma si riferisce solo a un target di giovani tra i 15 e i 29 anni. La mancanza di dati aggiornati a livello locale e il range, che non comprende tutte le fasce dell’età evolutiva, su cui si basano queste metriche, non ci fornisce un quadro completo.

La povertà educativa è certamente frutto di un contesto economico, familiare e territoriale ma investe anche la dimensione emotiva. Lo stimolo alla conoscenza, l’accesso alle risorse quotidiane quali sport, istruzione, gioco, cultura, informazione ed educazione, che sono a loro volta strumenti per la crescita personale e l’integrazione sociale, sono diritti imprescindibili di ogni bambino. E la scuola che si fa già carico di un triplice compito, dall’istruzione all’insegnamento di nuovi linguaggi fino all’educazione civica (intesa nel più ampio senso del termine) non può certo supplire da sola alle fragilità peculiari delle singole famiglie e dei bambini che, a onor del vero, se ne fanno carico.  

L’alternativa è possibile

Se si pensa che siamo la terza nazione in Europa con il più alto tasso di abbandono scolastico dopo la Romania c’è sicuramente un problema di sistema. Esiste però un’intera comunità educante attiva in modo distintivo sui diversi territori italiani, un ponte tra le opportunità e l’accesso a queste. Parliamo di centri di aggregazione, case famiglia e associazioni, microcosmi in cui i bambini possono permettersi di “crescere”.

Dal 2016 esiste un fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile in Italia, grazie a un protocollo d’intesa fra le Fondazioni di origine bancaria, l’ACRI (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio SpA) e il Governo, con la collaborazione del Forum Nazionale del Terzo settore.

Proprio questo settembre il fondo ha dato vita ad un progetto che durerà fino alla fine del 2025. Si chiama “Villaggio Educante” e coinvolge 17 Comuni del Friuli Venezia Giulia, 1200 bambini, 100 insegnanti ed educatori e oltre 50 operatori del settore. Un’opportunità per integrare 4 nuove strutture di asili nido ampliando scuole dell’infanzia esistenti e avviare laboratori permanenti con attività extrascolastiche come danza, arte, musica, inglese, psicomotricità e pet education, anche per i non iscritti. Sono previsti, inoltre, programmi di sostegno alla genitorialità in cui è anche possibile confrontarsi tra famiglie. Per i docenti, invece, sarà costituito un progetto di formazione continua multidisciplinare per sviluppare un modello operativo dinamico e coerente con gli obiettivi di contrasto alla povertà educativa.

Oggi anche 19,44 miliardi del PNRR sono destinati al potenziamento dei servizi di istruzione e a questi si aggiungono altri interventi trasversali attuati dal resto della comunità educante. I punti cardine saranno: più asili nido, risanamento dell’edilizia scolastica e riduzione dei divari educativi.

In un Paese con disparità territoriali profonde, un forte multiculturalismo di seconda generazione (sono circa 1,3 milioni i bambini stranieri o italiani per acquisizione) si auspica un intervento puntuale e ottimizzato, su strutture, personale e approcci. Non si tratta solo di risanare il giovane patrimonio umano in contesti periferici e creare un nuovo ecosistema di servizi per l’infanzia, adeguato alle nuove generazioni; occorre, come individuato dall’Osservatorio, considerare i giovani come risorse e non solo fasce da tutelare, attuare un cambiamento partecipativo e di ascolto, indirizzando i fondi alle reali necessità che chiede il “nostro futuro”. 

[di Samyra Musleh]

Scuole pessime e famiglie assenti con i giovani uniche vittime. Marcello Bramati su Panorama il 17 Gennaio 2023.

I recenti violenti episodi di cronaca riaprono il dibattito sul rapporto tra l’istituzione scolastica e i genitori, tra chi dice che non è più come una volta e chi vorrebbe i genitori fuori dalle scuole. Eppure istruzione e famiglia hanno obiettivi in comune e ruoli ben definiti che vanno svolti con impegno e riscoperti con fiducia

I genitori sono sempre meno disposti ad accogliere un giudizio, anche professionale, sui figli, e la scuola risulta l’ambiente più probante, perché giunge sempre a una valutazione sintetica e, inevitabilmente, a una promozione, a un rinvio, a una bocciatura. E così capita sempre più spesso che ci siano ricorsi su ricorsi per una decisione sgradita, liti accese a colloquio, toni inopportuni in riunione, mail di fuoco a ogni ora di ogni giorno. Recentemente è salita alla ribalta delle cronache il caso di una docente colpita in aula da proiettili di una pistola ad aria compressa durante la lezione, con tanto di denuncia, sospensione, reclamo dei genitori e revoca della sospensione. La scuola è arrivata a questo punto, ospitando incomprensioni quotidiane, un nervosismo crescente da parte di tutti, episodi di insubordinazione e mancanza di rispetto, battaglie a colpi di carte bollate, fino a incresciosi casi di cronaca nera. Si tratta di un clima avvelenato che non ha un solo responsabile, che non fa bene alla scuola, che non migliora le cose e anzi esaspera anche chi è ben disposto, ma soprattutto chi non sa da che parte girarsi e sceglie la strada dell’aggressività per difendere e per difendersi. Docenti, genitori e figli. Tutti loro ogni giorno fanno la scuola. Gli uni parlano con gli altri degli altri ancora, in un circolo costante che dà forma all’ambiente scolastico in cui ognuno di noi è immerso. Il ruolo dei docenti dovrebbe essere chiaro, sono loro i professionisti della scuola e lavorano mentre fanno lezione, gestiscono un intervallo, preparano un’uscita didattica, riprendono un comportamento, ne lodano un altro, valutano, promuovono, sospendono, bocciano. Altrettanto chiara è la parte che spetta agli studenti, che sono al centro dell’azione scolastica come protagonisti dell’apprendimento, e sono coloro per cui la scuola esiste. Poi ci sono i genitori, generalmente registi della crescita, dell’istruzione e dell’educazione dei loro figli da sempre e per tutta l’età scolastica, o per gran parte di essa. Pare strano che ruoli così chiari generino conflitti e incomprensioni forti come quelle di questi anni, anche perché tutte le persone coinvolte dovrebbero remare nella stessa direzione. Eppure, se oggi c’è chi invoca che i genitori siano lasciati fuori dalle scuole e se i genitori stessi non si fidano di ciò che avviene in classe, qualcosa è saltato.

In primo luogo, si parla sempre meno. I ricevimenti dei genitori non dovrebbero essere momenti di appesantimento, invece risultano un appuntamento delicato e temuto dai docenti che dovrebbero sintetizzare le impressioni sui singoli studenti avendo la serenità di essere accolti con la fiducia che spetta a un’azione educativa comune. Invece, quando da una parte si fa strada il sarcasmo di alcuni giudizi taglienti, dall’altra si fanno le pulci al mezzo voto e alla parola riferita a casa che talvolta trova riscontro, altre volte no, nella realtà delle cose. Le riunioni di classe poi spesso sono brevi e presentano adempimenti formali e moduli da completare, senza lasciare spazio alla riflessione educativa e culturale, al bilancio argomentato di cosa stia andando bene e cosa invece no, con motivazioni e spunti per migliorare. La scuola, senza questo dialogo, smette di essere un luogo virtuoso di crescita e di pieno sviluppo della persona, e quando viene meno il dialogo costruttivo succede che prevalgano prima il silenzio e i pregiudizi, poi il diverbio, infine lo scontro. Poi c’è il tema centrale che riguarda l’educazione familiare, sempre più spesso demandata perché richiede impegno, sacrificio, tempo, rinuncia. Fin da piccoli, i bambini sono avvertiti come un fardello in una cena tra amici, in un discorso tra adulti o per qualche ora di relax nel fine settimana, per cui al ristorante finiscono con il telefono in mano, a casa pure, in auto pure. La delega educativa è poi assegnata anche alla scuola, in toto, dai modi di fare allo svolgimento dei compiti, alle responsabilità, dalle elementari in avanti. Male che vada, sarà colpa della scuola. Gli smartphone e la televisione però non giudicano, mentre la scuola lo fa ed è lì che il banco salta. Delegare è più comodo ed esserci costa fatica, certo, ma è un investimento per il futuro, e un senso di colpa in meno quando qualcuno dirà che un figlio non ascolta, non è interessato, non riesce. Ben vengano i genitori a scuola, altro che esclusione, perché il loro ruolo educativo è utile per gli studenti e indispensabile per le generazioni impegnate sui banchi.

Ben vengano a patto però che ci siano la pazienza e il coraggio di ascoltare i docenti che per senso di realtà e con risolutezza si trovano a dover spendere parole anche dure sul metodo di lavoro, sul delicatissimo tema dei limiti cognitivi, sull’atteggiamento magari totalmente fuori luogo tenuto in aula e a scuola. E che se trovano ostilità, ricorsi e querele ad attenderli, forse la prossima volta saranno un po’ più ipocriti e diranno una verità in meno, per il quieto vivere e con buona pace della scuola italiana in fin di vita.

Estratto dell'articolo di Maria Novella De Luca per “la Repubblica” il 12 gennaio 2023.

 «La scuola è l'ultimo baluardo della socialità dal vivo poi per molti ragazzi non resta che Tinder per incontrarsi». Marco Ferrari, prof di Filosofia al liceo Malpighi di Bologna, tra i dieci migliori insegnanti d'Italia secondo il Teacher italian prize , dice che la solitudine degli adolescenti «è il tema del nostro tempo». […]

Qualcosa sta accadendo, la Generazione Zeta sta male. Depressione, autoisolamento, anoressia, bulimia, un'epidemia di malessere tra gli adolescenti. È di questi giorni la notizia che le scuole pubbliche di Seattle, negli Usa, hanno intentato una causa contro Meta (proprietaria di Facebook, Instagram, WhatsApp), Google (YouTube), TikTok (della società cinese ByteDance) e Snap (SnapChat). Motivo? I social, affermano, stanno avvelenando le menti delle nuove generazioni, sfruttando «i loro cervelli vulnerabili». Con un aumento del 30 per cento di studenti che rivelano di sentirsi «tristissimi o senza speranza».

[…] Se la generazione interconnessa ammette, per la prima volta, senza paura di apparire "sfigata", il proprio isolamento, confessa che oltre i like c'è poco altro, vuol dire che la bolla è scoppiata. Che la realtà virtuale è un'illusione e i social non sono la vita. Racconta Marco Ferrari: «I ragazzi di oggi non sono diversi dai ragazzi di ieri, sono affamati di vita vera, vogliono guardarsi negli occhi, esattamente come facevamo noi. Il senso di solitudine, poi, è connaturato all'essere umano. La differenza è che si sono rarefatti i luoghi di socializzazione, la piazza virtuale ha preso il posto della piazza fisica».

In questo senso la scuola, dove di fatto la socialità è garantita (il Malpighi è stato uno dei primi licei ad attuare la politica "no-cellulari") è un po' l'ultima spiaggia dell'adolescenza dove stringere amicizie "reali" che a volte, durano tutta la vita. «Diversi miei ex alunni mi raccontano di non sapere più dove incontrare fisicamente amicizie e amori e allora si affidano alla Rete. […] ».

[…]  Sentirsi soli nell'adolescenza è naturale, quello che non è naturale è sentirsi soli nella folla social, […] È il pensiero di Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta che ai "sempre connessi" dedicò un libro assai innovativo già nel 2009.

  «Non è colpa della Rete se i ragazzi si sentono senza amici, il vero problema, frutto anche della pandemia, è che i genitori hanno messo, in un certo senso, sotto sequestro il corpo dei figli. Nella demonizzazione del mondo esterno, hanno comunicato ai figli che è meglio la sicurezza della casa, magari genitori stessi come compagnia al posto di coetanei con cui si potrebbe trasgredire».

Lancini è categorico. «Gli adolescenti devono reagire con le proprie gambe e i genitori accettare che si sbuccino le ginocchia. Certo, quando non c'erano i social, alla disperazione della solitudine si reagiva uscendo, cercando fisicamente gli amici. I social creano invece l'illusione di avere delle relazioni, ma il vuoto resta identico». […]

La lingua più sexy del mondo.

Il Silenzio.

L’Ossimoro.

Perché il buio è «pesto»?

Perdere e…

L’Insulto.

Il Turpiloquio.

I Ventriloqui.

Poi ci sono vocabolari e vocabolari.

Cazzo.

Le Imprecazioni.

La distanza tra «astronauta» e «cosmonauta».

La differenza fra “flagrante” e “fragrante”.

Che differenza c’è tra etica e morale?

I neologismi.

Fenomeni temporaleschi.

L’itanglese.

Il Sovranismo della lingua.

Lessico per la vittoria.

Dalla “casta” ai “taxi del mare”.

La lingua più sexy del mondo.

Estratto dell'articolo di Lucio Luca per “la Repubblica” domenica 19 novembre 2023.

Ziad Fasah è nato a Monrovia, in Liberia, nel 1954. Insegna, ovviamente, lingue in Brasile […]. Dal 1991 è stabilmente nel Guinness dei primati come l’uomo che parla più lingue al mondo. Sono addirittura 59 […] La storia di Fasah è una delle otto che la piattaforma globale per l’apprendimento delle lingue Preply ha scovato per raccontare alcuni tra i più curiosi record linguistici, […]

E così scopriamo che il Paese che conta il maggior numero di lingue ufficiali è la Papua Nuova Guinea, con ben 840 idiomi su un totale di appena 7 milioni di abitanti. Purtroppo molte di queste lingue sono parlate da meno di un migliaio di persone e risultano tra quelle a rischio di estinzione. 

Eterno dilemma è quello della lingua più parlata: l’inglese o il cinese? Dipende dai punti di vista anche se a detenere il primato è proprio l’inglese, attualmente utilizzato da circa 1,5 miliardi di persone. Tuttavia, […] Tenendo conto dei madrelingua, infatti, non c’è proprio partita: il mandarino, in Cina, è parlato infatti da qualcosa come 1,1 miliardi di persone.

L’italiano, naturalmente, non può competere in questa graduatoria ma conquista ugualmente il mondo. Se Parigi è la città dell’amore, infatti, non è il francese la lingua più sexy del mondo. Il primato se lo aggiudica proprio l’italiano, come dimostra lo studio condotto da Preply che ha stilato la classifica misurando l’aumento della frequenza cardiaca dei partecipanti sottoposti all’ascolto di varie lingue. L’italiano ha registrato un incremento dei battiti al minuto del 23%. Secondo posto per il portoghese (20%), terzo per francese e greco (18%). 

Per quanto riguarda i numeri di vocaboli e lettere dell’alfabeto, la lingua che ne ha di più è senza ombra di dubbio l’arabo che vanta più di 12 milioni di parole presenti nel suo lessico. Segue l’inglese, con circa 500 milioni […] . La lingua con il numero di vocaboli più ridotto sembra essere il kusunda del Nepal, attualmente parlata fluentemente da una sola persona: appena 150 le parole conosciute.

Tra i record linguistici ce ne sono anche di negativi. Come nel caso dell’Australia, il paese con il più alto numero di lingue in pericolo critico: se ne contano infatti 133. L’Italia si trova al 35° posto, con alcune realtà linguistiche da monitorare con attenzione. Tra queste, il triste primato per il dialetto più a rischio, con soli 200 mila parlanti, va al vivaro-alpino, idioma della lingua occitana, parlato a Guardia Piemontese e in alcune valli della zona.

Il Silenzio.

Lo sviluppo neuro-cognitivo. La salute passa dalle parole: la regola dei 5 secondi è sempre un buon punto di partenza. Emanuele Caroppo su Il Riformista il 20 Agosto 2023 

Malattie e aspettative di vita non sono distribuite in modo equo nella popolazione a causa delle diverse condizioni sociali.

Le disuguaglianze di salute iniziano da bambini ben prima dell’età scolare: lo sviluppo neurale e le attività cerebrali, infatti, sono in relazione con fattori quali il reddito familiare, il livello di istruzione, le competenze e gli stili genitoriali. Opportuni interventi socio-sanitari e educativi possono ridurre alcuni di questi svantaggi ma il mancato raggiungimento del pieno potenziale di sviluppo neuro-cognitivo nei primi anni di età avrà invece conseguenze per tutto l’arco della vita, con costi individuali e sociali molto elevati. E lo sviluppo cerebrale è anche questione di parole.

I bambini che crescono in famiglie che fanno uso quotidiano di uno scarso numero di vocaboli avranno minori competenze cognitive rispetto ai bambini che, al contrario, crescono in famiglie in cui si dialoga di più e il lessico è più ricco e articolato. Tanto è importante la parola che addirittura nel Libro della Genesi al Dio spetta la creazione del mondo mentre è l’Uomo che gli dà un significato attraverso l’uso dei nomi. Le parole sono lo strumento con cui sperimentiamo le nostre emozioni e il veicolo per condividerle all’esterno e raccontarci. O perché il vocabolario è ridotto per via dell’ambiente nel quale si cresce, o per la scarsa abitudine al dialogo o per il prevalere della comunicazione visiva che arrugginisce le abilità narrative, il risultato non cambia: in assenza di parole per verbalizzarle, le emozioni non defluiscono e rimangono compresse dentro di noi.

Un magma informe nelle profondità di un vulcano che prima o poi potrebbe eruttare importanti acting out. Esprimere i propri vissuti emotivi attraverso l’azione piuttosto che con le parole ci espone a essere poco riflessivi e a non considerare i possibili effetti negativi delle nostre azioni. Mettere in parole le emozioni non è semplice emissione di fiato. Non è questione di contare le parole ma fare in modo che le parole contino nell’ambito della relazione che per mezzo di esse si costruisce. Usare le parole per scrivere un manifesto atto a colpire un partner che, a sua volta, ci ha ferito non serve a elaborare il dolore nel rispetto intimo dell’altro ma lo trasforma in pettegolezzo.

Perfetti sconosciuti ridotti a spettatori pro tempore: tutti a parlare superficialmente di tutti evitando così di parlare in modo profondo di loro stessi. Parlare delle nostre emozioni con le persone più care e vicine rinforza la gioia e ci aiuta a elaborare il dolore e a tollerarlo meglio. La spettacolarizzazione lascia invece il dolore tale e quale a come lo trova e pronto anche a colpire con cattiveria. Epperò, il problema degli spettatori è un problema importante se già Lucrezio aveva individuato quanto sia soave essere testimoni di un naufragio standosene sicuri sulla riva e, quindi, certi di essere esenti da quella sventura.

Il dialogo, quello vero, prevede sempre che chi presta orecchio sia realmente interessato ad ascoltare e condividere, non semplicemente disponibile a sentire o a controbattere. L’educazione dei sentimenti passa dalle parole che devono rappresentare elementi vivi della quotidianità e non vocaboli morti da risuscitare con l’aiuto di specialisti. Per la tutela della nostra salute mentale è bene usare tutte le parole a nostra disposizione e impararne costantemente di nuove. Per la tutela della salute mentale dell’altro è anche bene sapere usare le parole nel modo più giusto e nel momento più opportuno. La regola dei 5 secondi è sempre un buon punto di partenza. Far notare una cosa che non va bene solo se l’altro potrà porvi rimedio entro 5 secondi: hai qualcosa tra i denti è ben diverso dal dire ti trovo ingrassato. Le parole ci consentono di rimanere connessi alle vite degli altri e viceversa. Senza parole, oltre a soffrire di più, siamo tutti più soli. Il racconto della vita non è un tweet.

Emanuele Caroppo

L’Ossimoro.

Ossimoro, l’espressione dei contrari che nasce da due opposti. Storia di Paolo Fallai su Il Corriere della Sera il 18 luglio 2023. 

Questa settimana ci occupiamo di un termine antichissimo che disegna con precisione il nostro futuro. Siamo talmente immersi in una realtà dove con grande semplicità si dice una cosa e ci si affretta a fare il contrario, è come vivere in un eterno contemporaneo. Meno male che abbiamo uno figura retorica per esprimerlo, altrimenti avremmo dovuto inventarla. Come una elevazione a potenza. Un ossimoro è un ossimoro perfino nella sua nascita come parola. Cosa definiamo come ossimoro? Una breve frase che tiene insieme due termini che esprimono concetti contrari, spesso opposti. Gli esempi più usati sono «ghiaccio bollente», «lucida pazzia», il famosissimo latino «festina lente» (affrettati lentamente). Il nostro ossimoro deriva dalla parola greca oksýmōron, composta dall’unione di due termini oksýs che significa «acuto, pungente, acido» e mōrós, che significa «ottuso», ma anche «stolto, folle». Quindi è l’unione di due termini opposti che ci regala la parola per definire la figura retorica che comprende due termini opposti. Piccola digressione atmosferica. Non è la prima volta che incontriamo una parola composta che fa perno sul termine greco oksýs. Ci eravamo andati a sbattere cercando di raccontare l’avventurosa storia della parola ossigeno, inventata dal chimico francese Antoine Laurent de Lavoisier nel 1777 partendo da un presupposto sbagliato. È meglio affrettarsi a tornare (con calma) al nostro ossimoro. Ma a cosa serve? Se vi aspettate una risposta concreta, pragmatica, realistica e sostanziale, potete tornare a guardare i video sul telefonino. L’ossimoro è uno degli ingredienti fondamentali della poesia. È un’affettuosa e ideale sberla con cui il linguaggio pretende la nostra attenzione. La «viva morte» e il «dilettoso male» di Petrarca ci accompagnano nelle domande senza risposta sull’amore. E il «naufragar m‘è dolce in questo mare» consente a Giacomo Leopardi di abbandonarsi all’Infinito. E non abbiamo citato la lucida follia e il tacito tumulto di Giovanni Pascoli. Il luminoso grigiore di Praga. Parlando di ossimori è doveroso citare uno dei più famosi, proposti nel titolo «L’insostenibile leggerezza dell’essere» dello scrittore Milan Kundera, scomparso in questa estate 2023. Il romanzo ci offre i tormenti amorosi e personali di un gruppo di giovani nella Praga del 1968, tra le aspirazioni di libertà della «primavera» e la dura repressione dell’Unione sovietica. A quel romanzo fa esplicito riferimento Italo Calvino, nella prima delle sue lezioni americane, dedicata appunto alla leggerezza. Quel romanzo «è in realtà – scrive Calvino - un’amara constatazione dell’Ineluttabile Pesantezza del Vivere: non solo della condizione d’oppressione disperata e all-pervading che è toccata in sorte al suo sventurato paese, ma d’una condizione umana comune anche a noi, pur infinitamente più fortunati». Una struggente analisi dei sentimenti umani la ritroviamo anche in un altro romanzo (poi film), «Caos calmo» di Sandro Veronesi, vincitore del premio Strega nel 2006. Oltre la creatività. Gli ossimori pervadono ormai il nostro linguaggio quotidiano e quello della comunicazione, almeno da quando qualcuno tentò di farci capire qualcosa di più dei delicati equilibri della politica italiana, aprendo lo scenario delle «convergenze parallele». Taluni sostengono che il papà di questa espressione sia Aldo Moro, ma il primo ad usarla in un articolo sull’Espresso sarebbe stato Eugenio Scalfari. Ma proprio il contrasto, quello che dovrebbe accendere curiosità e senso critico ci abbandonano quando sentiamo discutibili frasi come «arma intelligente» con la quale si intende specificare la presunta precisione della stessa. A meno di non introdurre l’inedita espressione arma scema per quelle particolarmente imprecise. Un silenzio eloquente. È il titolo di un quadro ispirato all’antichità classica del pittore olandese Lawrence Alma Tadema. Forse non è un’opera indimenticabile, eppure nell’era della riproducibilità ha avuto una sua fortuna. D’altronde siamo tutti debitori di Voltaire che nel poema filosofico Le Mondain scrisse: «Il superfluo, cosa quanto mai necessaria». Aveva la vista lunga, Voltaire.

Perché il buio è «pesto»?

Quesiti linguistici. Perché il buio è «pesto»? Risponde la Crusca. Accademia della Crusca su L'Inkiesta il 12 Agosto 2023

Significa «condensato» o «compresso», richiamando l’immagine di altri elementi come la carta pesta, in cui la carta è stata compressa in modo così forte da diventare, con l’aiuto di una sostanza legante, una massa compatta

Tratto dall’Accademia della Crusca

L’espressione buio pesto, che usiamo quotidianamente senza tanto interrogarci sulla sua origine, ha suscitato la curiosità di alcuni lettori, che chiedono lumi sulla sua etimologia e sul suo significato preciso.

Risposta

Effettivamente l’aggettivo pesto in questa espressione polirematica non appare del tutto trasparente, né i vocabolari aiutano a capire meglio questo accoppiamento, limitandosi in genere a registrare l’espressione, figurata, sotto il lemma buio sost. m., o sotto il lemma pesto: pesto agg. vale pestato, come part. pass. del verbo pestare. Pesto attribuito al buio significa ‘fittissimo’, ‘impenetrabile’, ‘totale’, ‘senza la minima luce’. Potremmo in certo modo avvicinarlo anche a ‘condensato’ o ‘compresso’, richiamando, per quello che può valere questo paragone, il significato e l’immagine di altri elementi come la carta pesta o cartapesta, in cui la carta è stata compressa in modo così forte da diventare, con l’aiuto di una sostanza legante, una massa compatta. Il senso della compattezza che, pur in modo figurato, possiamo attribuire al sintagma buio pesto è reso anche da alcune espressioni sinonimiche usate in passato: buio che s’affetta, buio che si taglia a fette (espressione, questa, che si usa tuttora, ma con riferimento a termini come tensione o sim.). Nel significato di buio pesto è insito anche il riferimento alla difficoltà di orientarsi, segnalato da qualche dizionario (Devoto-Oli online: “buio pesto, buio fittissimo, oscurità assoluta [con particolare riferimento alla difficoltà di orientarsi]”). Nessuna vicinanza, invece, con il significato di pesto ‘ammaccato’, come in occhi pesti, o ‘indolenzito, fiaccato dalla fatica o da una malattia’.

Va rilevato inoltre che in alcuni testi e dizionari del passato si affaccia un altro risvolto semantico insito nel sintagma, quello dell’inutilità, che però non ne spiega l’origine: “Gli è buio pesto. È inutile come sarebbe pestare le tenebre. I Greci dissero in questo senso Batter l’acqua col pestello…” (Baldovini, Lamento, 1694); “Buio pesto, dicesi in modo proverbiale ad accennare che è tempo perduto, che non si può conoscere la cosa di cui si discorre” (Manuzzi, Vocabolario, 1859).

Nell’italiano contemporaneo l’espressione si usa tanto in riferimento all’oscurità fisica, alla mancanza totale di luce, quanto in senso esteso e astratto per indicare un’oscurità nella comprensione di qualcosa: ed è proprio questo secondo significato a dominare nell’uso del passato. Troviamo infatti documentata dal XVII secolo l’espressione buio pesto, che fino al XIX sembra, dalle attestazioni reperite, riferirsi solo all’oscurità nella comprensione di un testo o di un argomento, come mostrano questi esempi:

cotesti libri, che a ogni modo tu non gl’intendi, per te egli è buio pesto (burletta teatrale fiorentina Il filosofo maritato, 1743);

Tutto è buio pesto per me nella tua domanda, tanto il toscano, quanto il piemontese. Nel mio milanese non trovo nulla che ci somigli; e quindi per arrivare al francese, mi converrebbe andar dall’ignoto all’ignoto: metodo molto usitato, ma da non seguirsi (Alessandro Manzoni, lettera a Giovan Battista Giorgini, 1 luglio 1870).

Nei secoli dal XVII al XIX l’espressione, toscana, sembra essere caratteristica di testi comici o comunque non elevati, come dichiarato nella definizione della V edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca: “Buio pesto, dicesi in modo basso di una oscurità grandissima; e più spesso s’adopera in senso figurato”.

Dall’inizio del XX secolo il senso fisico appare più usato, come evidenziato dal Vocabolario nomenclatore di Palmiro Premoli, s.v. oscurità (1912) – “Oscurità grande, completa, fitta, impenetrabile, profonda: Buio fitto, che s’affetta, che s’affetta col filo, buio pesto” –, e dal primo esempio citato dal GDLI, di Aldo Palazzeschi: “giunto quella mattina a buio pesto”.

Seguendo il filo della cronologia, ci troviamo di fronte a risultati interessanti cercando la polirematica con lo strumento di Google Ngram Viewer: all’interno dei parametri cronologici offertici dal programma, 1800-2019, vediamo che fino al 1880 l’uso è molto basso, poi sale, con oscillazioni, fino al 2006, quando presenta una impennata in salita. Questo conferma che l’espressione, poco usata nell’Ottocento, ha nel Novecento e oltre conosciuto una diffusione decisamente maggiore.

Perdere…

Il contrario di perdere. Trovare o vincere?  Paolo Caprettin su L'Indipendente il 17 Giugno 2023

Un paradosso linguistico attraente – il contrario di perdere è trovare o vincere? – ci permette di riflettere e di spalancare orizzonti che giochino sull’alternativa o sulla reciprocità di questi termini.

Di conseguenza, il perdente, lo sconfitto, che si sente frustrato dall’insuccesso, dovrebbe mettersi alla ricerca di qualcosa che è stato smarrito e che, una volta trovato, è capace di dare nuovo senso, di compensare almeno in parte quanto gli è accaduto.

La sconfitta potrebbe essere mitigata dal rinvenimento di un oggetto, di un pensiero, di un sentimento, di una nuova conoscenza, di un diverso atteggiamento.

Quindi è anche vero che chi lo ha sconfitto gli ha sottratto qualcosa, lo ha messo in uno stato di mancanza, non soltanto di perdita, fosse anche semplicemente la mancata vittoria. Chi è perdente non soltanto non ha vinto ma si trova in uno stato di privazione, come se avesse subito un furto oltre che la sconfitta.

Al contrario chi ha perduto qualcosa, ad esempio la pazienza, dovrebbe sentirsi sconfitto, travolto da qualcuno o da un certo evento, spostando l’attenzione su qualcosa che gli è sfuggito. Chi ha perso del tempo, invece, può provare un senso di sconfitta, come fosse stato superato, scavalcato, sopravanzato. Ma tutto ciò, in questo caso, gli moltiplicherebbe l’ansia.

Chi ha subito una perdita non soltanto deve lottare per recuperare, se è possibile, quel che gli è stato sottratto ma deve elaborare una sua particolare strategia di vittoria, trasformando la mancanza sopravvenuta in una occasione di ulteriori superamenti.

Insomma i perdenti hanno smarrito qualcosa, i vincenti a loro volta sono tali perché sul cammino hanno provato la sensazione di aver trovato, di aver recuperato. Nel sentimento della vittoria (e dunque sia del non-perdere sia del trovare), c’è sempre un oggetto acquisito che la rappresenta, diciamo il premio. Nella condizione del perdere è come se, a fronte di una sopraggiunta assenza, dovessimo ricostruire un movente, individuare uno o più ladri, a meno che poi non siamo stati noi stessi ad averci sottratto qualcosa, noi ad aver rinunciato.

Vi invito ad aggiungere valutazioni, idee personali su questo gioco linguistico. Ogni gioco linguistico, infatti, scriveva Ludwig Wittengstein, è una forma di vita che ci fa uscire dal determinismo degli usi soliti del linguaggio, dagli automatismi dei luoghi comuni e ci mette alla guida di meravigliosi e liberatori motori logici e immaginari. [di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

L’Insulto.

Lucia Esposito per “Libero quotidiano” il 26 settembre 2020. La colpa è dell'amigdala. Se i vaffanculo e i coglione abbondano sulla vostra bocca, se date del cornuto all'automobilista che vi taglia la strada e urlate stronza alla vicina che vi molesta con l'aspirapolvere alle due di notte, dovete prendervela con l'amigdala che non è una parolaccia ma una struttura a forma di mandorla nascosta nel vostro cervello. È lei, l'amigdala, il grilletto che innesca la carica incendiaria e vi libera della rabbia che ribolle dentro. Quando, invece, vi mordete la lingua e ingoiate la parolaccia come un boccone amaro dovete ringraziare (o maledire) i gangli basali che si trovano sempre nel cervello ma funzionano come freni inibitori. Sono i grilli parlanti cerebrali che vi suggeriscono che è meglio tacere e mettono il silenziatore ai vostri pensieri più feroci. L'emisfero destro del cervello, infine, è quello che confeziona l'insulto e conferisce una forma verbale alla vostra rabbia: tra i mille improperi disponibili vi fa scegliere quello giusto. Dopo aver letto il saggio Insultare gli altri (Einaudi editore, pp.141, euro 12) del professor Filippo Domaneschi direttore del Laboratory of Language and Cognition dell'Università di Genova, non accuserete più di volgarità chi si lascia scappare un'imprecazione. Guarderete con una certa stima chi fino al giorno precedente bollavate come sboccato e scurrile. Scoprirete che insultare è un'ancòra di salvezza nelle giornate burrascose della vostra esistenza, un bel vaffa accompagnato dal dito medio è un argine contro lo straripare della rabbia. Sigmund Freud un secolo fa scrisse: «Il primo umano che scagliò un insulto al posto di una pietra fu il fondatore della civiltà». L'insulto è ammortizzatore della frustrazione che aiuta a rinviare e spesso a evitare lo scontro fisico, insomma dobbiamo ringraziare tutti i coglione che abbiamo detto per aver salvato la nostra fedina penale. Domaneschi definisce l'insulto «un'arte marziale che educa a contenere e a ritualizzare l'aggressività». Una parolaccia ben assestata umilia l'avversario, attrae l'attenzione e sprona qualcuno a fare qualcosa. Per questo l'autore fa notare che «una lingua deprivata delle ingiurie è condannata al disarmo, menomata di una sua capacità espressiva». E pensare di trovare dei sinonimi più socialmente accettabili, sostituire per esempio: sei un coglione con una perifrasi ridicola come sei una persona poco intelligente oppure sei un individuo che non brilla vuol dire rinunciare ad essere linguisticamente attrezzati ad affrontare le diverse situazioni conflittuali. La vita quotidiana impone versatilità, bisogna padroneggiare diversi registri, saper raggiungere vette liriche e poi essere capaci di sprofondare negli abissi. Saper insultare, possedere un vasto repertorio di parolacce ed offese tra cui scegliere significa saper stare al mondo. sallustio e cicerone Molti pensano all'antichità come a un'età in cui il linguaggio era forbito, i modi eleganti e l'eloquio ossequioso, in realtà parolacce e cattiverie fiorivano anche sulle bocche di Catullo, Sallustio e Cicerone. La differenza rispetto al passato è l'irruzione dell'offesa nell'agone politico: oggi l'insulto è usato come strumento per attirare consenso e delegittimare l'avversario politico. È molto interessante il capitolo del saggio dedicato agli insulti in politica in cui l'autore paragona le parole normalmente usate dalla sinistra progressista contro la destra e viceversa. Da una parte fascisti, ignoranti, trogloditi, rozzi, dall'altra professoroni, radical chic, buonisti e intellettualoni. Dal confronto è evidente che i primi sono asimmetrici, presuppongono cioè una superiorità gerarchica dell'insultatore sull'insultato sia di natura morale e civile (fascisti), intellettuale (ignoranti) o cognitiva (trogloditi). Insomma, ci si mette in cattedra e si bacchetta. «L'insulto populista, al contrario, è ecumenico. Chiunque può dare del professorone a qualcun altro»: l'autore sottolinea che quest' ultimo è un linguaggio che fa presa su un più largo numero di persone e ha maggiori chance di colpire. Per quanto tutti vorremmo un confronto politico più pacato e tollerante, la verità è che oggi la competenza denigratoria è diventata un elemento fondamentale di una comunicazione politica efficace. Non bollate l'insulto come espressione di un'incontinenza emotiva perché alcune offese raggiungono il bersaglio solo se ben ponderate e creative. Ci sono mille buoni motivi per leggere questo saggio. Il primo è che dopo averlo chiuso potrete insultare e arricchire il vostro arsenale denigratorio di nuove parolacce senza mai sentirvi scurrili.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2019. Caro direttore, io credo che questo continuo parlare di «odio» e queste «manifestazioni contro l' odio» possano sortire l' effetto di crearlo, e siano perciò pericolose. Credo pure che ad averlo inteso sia proprio Liliana Segre, che l' altra sera ha tentato di dirlo: «Siamo qui per parlare di amore e non di odio». E sarebbe bello: se non fosse che una manifestazione «contro» presuppone sempre qualcosa o qualcuno da fronteggiare, un convitato di pietra, ed è quello che si stanno inventando. Sotto processo non finisce solo il mancato unanimismo per certe commissioni che è lecito trovare superflue, oppure lo scrivere per giornali che simpatizzano per il centrodestra: ci finisce anche la verità, quando non utile. L' altra sera, a margine della manifestazione milanese «contro l' odio» (dove tutto è filato liscio, a quanto so) l' enciclopedia online wikipedia ha cancellato la notizia che i «200 attacchi social al giorno» contro Liliana Segre, a suo tempo denunciati da Repubblica, in realtà erano riferiti al corso dell' intero anno 2018, dunque «non ad un singolo giorno, e indirizzati non esclusivamente alla senatrice». Questo ha detto il rapporto ufficiale dell' Osservatorio sull' antisemitismo: ma, su wikipedia, qualcuno ha cancellato, e ha sostituito con la seguente dicitura: «La notizia è stata rilanciata da altre testate». Ecco: è proprio su internet, a proposito degli «anonimi leoni da tastiera», citati anche da Liliana Segre, che ho notato qualche nervosismo di troppo. Mi spiego. Durante una pausa della Prima della Scala, sabato sera, in un corridoio di accesso alla platea, sono uscito dal bagno e mi sono ritrovato Liliana Segre di spalle, davanti a me, che camminava molto piano (essendo anziana) con tre uomini di scorta che ostruivano il corridoio nel circondarla; dopo un po', nella situazione di stallo, sono riuscito a superarli uno alla volta, sfiorando la senatrice, dopodiché mi sono chiesto però a che cosa servisse la scorta, visto che eluderla sembrava così semplice. Questo ho scritto in rete. Un dubbio, si badi, tecnico, non una contestazione circa l'esistenza della scorta: vicenda su cui non ho informazioni sufficienti per esprimermi. Bene: non sto a dire gli insulti che ho ricevuto, ma anche, attenzione, i plausi. Brutta faccenda. Gli insulti, non sto a ripetermi, erano di gente rimbecillita che ormai vede odio dappertutto e che, oltre ad associarmi spregevolmente a Libero, non poteva concepire che Liliana Segre non fosse oggetto di adorazione messianica punto e basta; gli altri, i plaudenti, non erano leoni da tastiera o anonimi «haters», ma un misto tra i tradizionali «anticasta» (insospettiti perché Liliana Segre, sino a poco tempo fa, non l' avevano mai sentita nominare) e altri che reagivano più che altro all' odio degli anti-odio. Dunque, direttore, questo è il quadro che mi sono fatto: da una parte, una consueta minoranza di presunti «migliori» che ti mettono sulla lista dei sospettati solo perché non partecipi alle manifestazioni, o non santifichi a prescindere chicchessia, o, ancora, esprimi idee scorrette anche senza volerlo, come l' adorabile ottantenne Giorgio Carbone, che è stato lapidato per aver scritto che la Nilde Iotti della fiction è «grande in cucina e grande a letto, il massimo che in Emilia si chiede a una donna»; dall'altra, poi, eccoti un' altra minoranza che non sa bene chi sia o fosse Liliana Segre, salvo apprendere che dai 14 ai 15 anni fu segregata dai nazisti in un campo di concentramento, e che poi, senza una precisa professione, dopo decenni di anonimato, è passata al ruolo ufficiale di testimone e quindi a incassare premi, lauree, scranni da senatrice e canonizzazioni imposte da Repubblica, o altri fabbricatori di santi e di mostri. Queste due minoranze messe insieme, temo, compongono una maggioranza di «società civile» vanamente corteggiata da noi giornalisti, con evidenti e meravigliosi risultati.

Saviano e Grillo, il vizio di insultare. L'autore di Gomorra prende di mira Giambruno e per il comico a destra sono tutti ottusi. Domenico Di Sanzo il 13 Settembre 2023 su Il Giornale.

Ormai è l'opposizione dell'irrealtà. Partiti, giornali e maître à penser del progressismo si attaccano a tutto e non trascurano nulla. Una pesca a strascico quotidiana per irretire la maggioranza di centrodestra a colpi di pregiudizi, moralismo, tentazioni censorie. Tutto si tiene, nella narrazione distopica della sinistra in tutte le sue varie declinazioni. Andrea Giambruno e Roberto Vannacci. Marcello Foa (nel tondo) e il far west di Caivano. Grasso che cola, funzionale al racconto favolistico su una destra di lupi famelici e streghe cattive. Beppe Grillo e Roberto Saviano sparano fuori bersaglio da posizioni diverse. Lo scrittore usa il cognome del compagno della premier come se fosse un aggettivo, sinonimo di «pavido». Il comico ricorre a una strampalata concezione dell'antropologia, secondo cui chi è di destra sarebbe più propenso alla diffusione delle notizie false. Concetti da apartheid politica, distillati sul suo Blog in un articolo non firmato. Già il titolo è incredibile: «Le persone di destra sono più propense a diffondere le fake news». Ma non è una goliardata come quelle de Il Male. Il fondatore del M5s si appiglia a «un recente studio di un team di ricercatori provenienti da Australia, Inghilterra e Germania». Una ricerca su un campione di 2400 persone, per investigare la loro tendenza a cascare nelle bufale e a condividere le notizie false. Ebbene, «nel gruppo studiato, le persone più anziane e ad alto reddito erano più brave a individuare le fake news, in particolare le persone di sinistra». Grillo, il profeta del reddito universale, contro i poveri che non saprebbero distinguere le notizie vere dalle fake news. Chi l'avrebbe mai detto? Comunque l'Elevato preferisce concentrarsi sul fatto che i più creduloni del gruppo analizzato non sarebbero di sinistra. Basta questo per urlare che «le persone di destra sono più propense a diffondere le fake news». Il metodo di comunicazione di Grillo è proprio quello tipico di alcuni giornali on line specializzati nella propalazione di bugie e complotti. Infatti per anni i grillini hanno creduto alle scie chimiche. E addirittura l'ex sottosegretario pentastellato Carlo Sibilia era convinto che lo sbarco sulla Luna sia stata «una farsa». Ma magari è di destra pure lui.

Sicuramente non è di destra Saviano. L'autore di Gomorra, già noto alle cronache per avere dato della «bastarda» all'attuale premier Meloni, stavolta se l'è presa con Andrea Giambruno. Lo scrittore ancora cavalca le parole del compagno della presidente del Consiglio sulle ragazze e gli stupri. Meloni ha risposto in conferenza stampa, dando la sua interpretazione delle frasi strumentalizzate. Ma l'editorialista del Corriere della Sera approfitta di un'intervista a La Stampa per inventare un neologismo tutto dedicato al giornalista Mediaset. Parlando della causa per diffamazione per gli insulti a Meloni, Saviano si lancia in un'intemerata contro «il potere politico», che «usa l'arma della querela, costringendoti ad anni e anni di processo». «I pavidi diranno che te la sei andata a cercare», cesella lo scrittore. All'intervistatore non pare vero ed ecco l'assist: «Come le ragazze in minigonna». Saviano arriva finalmente al punto: «Sono un po' tutti Giambruno». L'insulto è servito. Tra il personale e il politico. La Stampa titola: «È il paese dei Giambruno».

Fiele riservato dai colleghi di sinistra anche a Marcello Foa. La sua colpa? Condurre un programma radiofonico su Rai Radio1. Giù la maschera è partito lunedì e ha già sollevato polemiche. Ha cominciato La Repubblica in occasione dell'esordio di Foa. «Rai, in onda Radio Salvini», la riflessione del quotidiano degli Elkann. Secondo cui Foa «è noto per un suo tweet contro Mattarella» e «perché il figlio bazzicò lo staff di Salvini». La Stampa ripete il ritornello. Eppure l'ex presidente della Rai è affiancato da Peter Gomez e Luca Ricolfi. Non proprio due salviniani. Andrea Vianello, già direttore del Gr Rai, su X accusa Foa di aver scritto «due volte una notizia falsa e diffamatoria» e dice di non accettare lezioni di giornalismo. Segue risposta velenosa di Luca Bottura, ex conduttore della trasmissione Forrest, non rinnovata nel nuovo palinsesto: «Beh, dai almeno non sono in russo». In cattedra.

 Giù le mani dalla ministra Bellanova (ma per favore anche da Di Maio). Angela Azzaro il 7 Settembre 2019 su Il Dubbio. La neo ministra all’Agricoltura Teresa Bellanova è stata presa di mira per il suo abbigliamento, il suo aspetto e perché il suo titolo di studio si ferma alla terza media. La fotografia del giuramento del nuovo governo è stata rovinata, tanto per cambiare, dall’odio social. La neo ministra all’Agricoltura Teresa Bellanova è stata presa di mira per il suo abbigliamento, il suo aspetto e perché il suo titolo di studio si ferma alla terza media. L’attacco all’aspetto della ministra è un mix, inquietante, di antico ma sempreverde sessismo e di una nuova forma di violento disprezzo che è connaturata all’acquario del web. Gli insulti e il non meno grave dileggio sono venuti da perfetti sconosciuti, i famosi leoni di tastiera, ma anche da qualche personaggio più in vista, come il giornalista de La Verità Daniele Capezzone, che dovrebbe avere molto più a cuore di tutti gli altri il rispetto, visto il delicato ruolo che svolge. Per fortuna la solidarietà è stata altrettanto bipartisan, dal Pd a Mara Carfagna, passando dal web, sono stati molti i messaggi di vicinanza rivolti a Teresa Bellanova che ha a sua volta replicato: «L’eleganza è rispettare il proprio stato d’animo». Non è un episodio da prendere sotto gamba, è al contrario la viva rappresentazione di quell’imbarbarimento collettivo a cui abbiamo assistito in questi anni. È una débâcle del sistema di relazioni e del modo che abbiamo di comunicare che deve essere assolutamente sconfitto, altrimenti rischiamo il collasso definitivo del sistema democratico. La neo ministra è stata pesantemente insultata anche per il suo titolo di studio. Poco importa che da giovane abbia lavorato nei campi come bracciante, che poi sia diventata una rappresentante sindacale e infine una parlamentare competente e combattiva. Fior fior di politici del passato venivano direttamente dalla fabbrica o dai campi, senza passare dall’università, e nessuno se ne stupiva. Adesso, proprio coloro che usano i social senza conoscerli e che scrivono in un italiano incerto usano il tema della mancanza di un diploma o di una laurea per screditare l’avversario. Non c’è infatti dietro un ragionamento, una critica argomentata ma la voglia di insultare, offendere, schiacciare l’altro. Freud avrebbe forse parlato in questo caso di pulsione di morte. Una ferocia distruttiva che si veicola contro l’altro e contro lo stesso consesso civile. Ma questa pulsione non riguarda solo la destra. Anche a sinistra spesso il dileggio e le accuse prendono il posto della critica. Il caso Bellanova arriva infatti dopo le prese in giro e gli insulti rivolti contro Daniela Santanchè, colpevole di essersi presentata in Senato con una acconciatura troppo audace. E che dire dei Cinque stelle i più feroci e sessisti nei confronti di Maria Elena Boschi. Ma anche Luigi Di Maio è spesso vittima del disprezzo della sinistra che non gli perdona di aver lavorato al san Paolo come, detto con disprezzo, “bibitaro”. Invece di valorizzare l’ascensore sociale che gli ha permesso di passare da un lavoro umile alla guida di un ministero, disprezzano un meccanismo, peraltro oggi molto in crisi, che proprio la sinistra dovrebbe promuovere. Le critiche a Di Maio vanno fatte, nel merito, sulla sua azione politica di oggi, non sul suo percorso o su i suoi titoli di studio.

Si può derubricare tutto questo a questione di costume, farsi qualche risata e andare avanti. Ma non è così. In una società in cui i simboli sono al centro del dibattito politico e mediatico, è pericoloso sottovalutare i pericoli che scaturiscono dagli insulti e dall’odio social. Lo sforzo per fermarli deve essere fatto da tutti. È vero infatti che in questi anni una parte della politica ha avvelenato i pozzi, aizzando le persone contro nemici spesso inventati. Ma lo sforzo non può essere quello di «costituzionalizzare i barbari» come detto da alcuni esponenti del Pd. In questo modo ci si mette sul piedistallo e soprattutto si scaricano tutte le responsabilità sugli altri. Il clima avvelenato che viviamo oggi richiede una auto critica da parte di tutti. Per esempio, la sinistra dovrebbe fare ammenda per un antiberlusconismo fondato sulla lotta politica vissuta come guerra al nemico, dovrebbe chiedere scusa per almeno venti anni di giustizialismo e di moralismo. Chi non ha peccato scagli la prima pietra, verrebbe da dire. Lo sforzo di uscire da questa inciviltà del linguaggio social e politico dovrebbe essere fatto da tutti. Lo scontro è tra civiltà e barbarie, ma i barbari non sono gli altri, siamo anche noi.

Il Turpiloquio.

Estratto dell'articolo di Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” l'11 giugno 2023.

[...] il turpiloquio irriverente segnala una visione rozza della lingua, blocca i ragionamenti e qualifica chi lo utilizza più di chi ne è bersaglio. È dirompente, offende, pretende qualcuno da colpire; ha la potenza di una sberla, un calcio o il significato di uno sputo. 

Aristotele notava che tra l'aischrologia (il modello greco di turpiloquium, termine del latino cristiano) e l'azione riprovevole il passo è breve. Ma a differenza di un'aggressione fisica, la parolaccia, beffarda e plebea, può ferire ridicolizzando.

Nonostante la loro pessima fama, le parolacce fanno bene. Sono liberatorie. Soprattutto per chi le dice. Possono essere una via di sfogo per l'aggressività e mitigare lo stress o il dolore. Non solo, possono persino aumentare le prestazioni fisiche e la credibilità di chi parla. In barba all'eleganza delle buone maniere e al bon ton che vieta ogni turpiloquio, la parola volgare al momento giusto può migliorare la propria condizione psichica. Secondo gli psicologi una piccola "quantità" di turpiloquio aiuta a controllare le emozioni.

[...] nel 1973 Reinhold Aman, ingegnere chimico di origine tedesca, fondò negli Stati Uniti la disciplina scientifica della "maledittologia", dal latino maledicere, insultare. E gli studi recenti sembrano timidamente voler sdoganare il turpiloquio se aiuta a stare meglio. 

Vi ricorrerebbero tutti gli strati sociali, ma alcune ricerche dimostrano che le persone di status socioeconomico più basso imprecano di più. Anche la personalità è rilevante: gli estroversi e i dominanti "insultano" più spesso. L'uso di parolacce è meno diffuso tra i religiosi e tra chi ha problemi col sesso, si legge in un articolo di Anna Lorenzen sul mensile di psicologia e neuroscienze Mind.

Le parole volgari proprio perché si alimentano della violazione dei tabù possono provocare ostilità e paura, ma avere anche effetti positivi sulla credibilità, come hanno dimostrato i "vaffa" di Beppe Grillo. 

Il leader del Movimento 5 Stelle ha ottenuto un mucchio di voti alle elezioni del 2013 (e ancor più nel 2018) proprio per il suo linguaggio grezzo e anticonvenzionale condito da espressioni gergali e insulti diretti agli avversari politici. E su questo le ricercatrici Nicoletta Cavazza e Margherita Guidetti dell'Università di Modena hanno fatto un esperimento presentando blog fittizi a 110 italiani tra i 20 e i 68 anni.

I volontari dovevano immaginare di informarsi in vista delle elezioni. Si è scoperto che quando i testi comprendevano parolacce, i partecipanti li consideravano più convincenti [...] 

Se da una parte l'uso scriteriato di certe espressioni colorite indica un problema di ordine sociale, perché mette in crisi un linguaggio pulito [...] dall'altra parte gli esperti si affrettano a trovare giustificazioni per alimentare quella comunicazione spicciola intrisa di rabbia, disprezzo, impazienza che spazza via le emozioni negative.

 Parole volgari eppure così utili al logorio della vita moderna, se urlate tra sé e sé sotto la doccia o al parco facendo jogging, o come un mantra ripetute al buio, prima di addormentarsi. Qualcuno prega, qualcuno impreca. Se bastasse. Ma non c'è gusto, la parolaccia, pretende un pubblico, qualcuno da colpire, una dimensione sociale.

[...] L'inglese Richard Stephens durante un esperimento ha chiesto a 64 studenti di immergere una mano nell'acqua gelata e tenerla a bagno il più a lungo possibile ripetendo una parolaccia a piacere. L'esperimento è stato ripetuto invitando i volontari a descrivere un tavolo con parole educate. 

Dal test è emerso che insulti e volgarità hanno aiutato a tenere la mano al freddo per un periodo maggiore rispetto ai termini gentili. Secondo Stephens l'effetto analgesico delle parolacce deriva dall'aumento dei livelli di aggressività scatenati dalle imprecazioni.

Arrabbiarsi aumenta la frequenza cardiaca, stimola la produzione di adrenalina e innalza la soglia di sopportazione del dolore. Lasciarsi andare a espressioni colorite sembra quindi essere una risposta fisica e non solo emotiva data dal nostro organismo quando si trova in difficoltà. Lo psicologo ha pure scoperto che il turpiloquio migliora le prestazioni fisiche: ha messo alcune persone su una cyclette e osservato che mentre imprecavano riuscivano a pedalare con una resistenza maggiore.

 Ma alcuni scienziati continuano a vedere dei paralleli tra il turpiloquio e i versi degli animali. Che nel corso dell'evoluzione possano aver rappresentato il punto di transizione tra le semplici vocalizzazioni e il linguaggio umano. Siamo passati per la proprietà lessicale e la convenienza stilistica. [...]

[...] Quando Machiavelli scrive latineggiando "cazzus" all'amico Vettori sa esattamente cosa sta dicendo. Non si è lasciato andare. Non dimostra mediocrità linguistica, e il suo discorso non ha perso logica o armonia. 

Ricorrere alla parolaccia, anche solo per colpire, riflette una visione rozzamente economica della lingua. Offendere la sensibilità e le convinzioni altrui con un'imprecazione può portare a situazioni imbarazzanti da "fuori onda". E danneggiarvi. Prima di dire una volgarità, pensateci. Se riuscite.

I Ventriloqui.

Confusione semantica. Se vi danno del ventriloquo di qualcun altro non offendetevi: non vuol dire niente. È un tipico caso di enantiosemia, ossia quel fenomeno linguistico per cui una parola assume nel corso del tempo un significato opposto a quello etimologico. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 24 Aprile 2023 

Uno spettro si aggira tra di noi, è lo spettro del ventriloquo. Più precisamente, del “ventriloquo di”. Nelle ultime settimane è tornato a trascinare le catene sotto le sembianze di Salvatore Baiardo, il gelataio piemontese amico dei boss mafiosi siciliani, unanimemente evocato come «ventriloquo dei Graviano». Ma, nel recente passato, il lenzuolo d’ordinanza ha rivestito le fattezze del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, «ventriloquo di Salvini» secondo la dem Simona Malpezzi; dell’allora presidente del Consiglio Draghi, «ventriloquo di Washington» per il cinquestelle eretico Di Battista; dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, «ventriloquo di Alessandro Di Battista» giusta un titolo di ItaliaOggi; e naturalmente non sono mancati avvistamenti dei «ventriloqui di Vladimir Putin» e di quelli di Volodymir Zelensky, e insomma chiunque può ritrovarsi a essere ventriloquo di qualcun altro. È accaduto perfino a Thomas Mann, “ventriloquo” (nientemeno) “di Dio” nel titolo di un vecchio saggio di Paolo Isotta.

Il senso, in tutti questi casi, è che c’è una persona (il ventriloquo) attraverso la quale parla un’altra persona: un veicolo passivo della voce (delle idee) altrui. Ma: è questo il vero significato della parola ventriloquo? Ventriloquo, dal latino tardo ventriloquus, composto di venter, ventris, ventre, e loquor, parlo, ossia – citiamo dal vocabolario Treccani – “persona che ha l’abilità di parlare a bocca chiusa e tenendo le labbra immobili, così da far sembrare che non sia lei a parlare ma che le parole siano pronunciate da altre persone, o da pupazzi, oppure che abbiano origine dal ventre”.

I meno giovani ricorderanno lo spagnolo José Luis Moreno nella televisione degli anni Ottanta con il suo Rockfeller (come la dinastia industriale americana, ma senza la “e” dopo “Rock”), il corvo antropomorfo in frac che spernacchiava i personaggi dell’epoca. I più anziani si spingeranno fino alle immagini in bianco e nero di Provolino, il pupazzo monodentato che nella tv degli anni Sessanta-Settanta battibeccava con Raffaele Pisu per infine prorompere nell’esclamazione che alla lontana ha ispirato il titolo di questa rubrica, “Boccaccia mia statti zitta!” (non una vera esibizione di ventriloquio, in realtà, perché la voce veniva prodotta fuori campo e l’attore si limitava a animare il fantoccio che reggeva sulla mano). In entrambi i casi, comunque, a parlare non era il pupazzo ma un individuo esterno in carne e ossa: era questo il ventriloquo, mentre il pupazzo, per così dire, “veniva parlato” – era, vorremmo poter azzardare, “ventrilocuto”, non fosse che loquor è un verbo deponente e quindi locutus sum non ha un significato passivo e si traduce “ho parlato”.

Cioè il vero, unico ventriloquo è l’esatto contrario di ciò che oggi viene abitualmente gabellato per tale. Ci troviamo di fronte a un caso di enantiosemia, ossia quel fenomeno linguistico per cui una parola assume nel corso del tempo un significato opposto a quello etimologico (un esempio tipico è l’aggettivo feriale, che deriva dal sostantivo ferie ma designa i giorni in cui si lavora), anche se le due accezioni al momento convivono e anzi è soltanto quella propria a essere registrata nei vocabolari, mentre l’altra, etimologicamente insensata, non si capisce come sia potuta un bel giorno sgorgare da una qualche mente insana.

Curiosamente, la parola ventriloquo è vittima di una confusione semantica simile a quella che ha colpito un’espressione a cui è imparentata per prossimità anatomica: “gola profonda”. Nell’uso corrente “gola profonda” è qualcuno che passa informazioni riservate, un informatore generalmente nascosto. Di “gole profonde” è affollata la cronaca quotidiana, ne spuntano ovunque. In Italia una delle prime, ancora scolpita nella memoria, ci riporta ai tempi tenebrosi della Prima Repubblica e dello scandalo Lockeed, nella seconda metà degli anni Settanta, quando da quelle profondità emerse l’insinuazione che a ricevere le tangenti dell’impresa aerospaziale americana, sotto il nome in codice di Antelope Cobbler, fosse stato, tra gli altri, l’allora capo dello Stato (al tempo dell’episodio corruttivo presidente del Consiglio) Giovanni Leone: un’accusa mai provata, e per la quale vent’anni dopo gli stessi accusatori (Marco Pannella e Emma Bonino) avrebbero fatto pubblicamente ammenda, ma che nel 1978 indusse il Presidente alle dimissioni. La madre di tutte le “gole profonde” nostrane.

Ma in origine Gola profonda (in inglese Deep Throat) era il titolo del celebre film porno di Gerard Damiano alias Jerry Gerard, uscito negli Stati Uniti nel 1972, con una caliente Linda Lovelace nei panni della protagonista che aveva il clitoride in fondo alla faringe ed era smaniosa di sesso orale. Di qui il termine composto deep-throating, per designare la pratica erotica in cui la penetrazione si spinge oltre l’epiglottide. Fu un altro scandalo a determinare la migrazione semantica, il padre di tutti gli scandali caratterizzati dal suffisso -gate (che non vuol dire scandalo ma cancello, porta, varco:). Nello stesso 1972 del film deflagrò negli Stati Uniti il Watergate, e fu il giornalista del Washington Post Bob Woodward, autore con Carl Bernstein dell’epocale inchiesta che nel giro di due anni avrebbe portato alle dimissioni del presidente Richard Nixon, a parlare per primo di deep throat, nel libro Tutti gli uomini del presidente, per coprire l’identità del suo informatore (rimasta segreta fino al 2005, quando Mark Felt, all’epoca dei fatti vicedirettore dell’Fbi, si decise a confessare).

A ideare lo pseudonimo, però, non era stato Woodward ma il direttore del Post Howard Simons, giocando sul titolo del film accostato all’espressione deep background, che nel gergo giornalistico anglosassone allude alle fonti testimoniali anonime. Una felice trovata comunicativa, destinata a diventare metafora obbligata, spesso abusata, che suggerisce l’idea di storie oscure custodite dall’informatore dentro di sé, fino al momento in cui comincia a estrarle, come l’acqua da un pozzo, per diventare un confidente. Anche se – è chiaro – le profondità faringo-laringee, senza il concorso degli altri organi e parti anatomiche che intervengono nella fonazione (lingua, labbra, palato, denti), da sole non sarebbero in grado di produrre articolate rivelazioni. Soltanto un ventriloquo potrebbe riuscirci: ma un ventriloquo vero, ventriloquente e non “ventrilocuto”.

Poi ci sono vocabolari e vocabolari.

Tutte le costruzioni mirabolanti di un Ingegnere della lingua italiana. Ecco le parole inventate dall'autore del "Pasticciaccio". Luigi Mascheroni il 19 aprile 2023 su Il Giornale.

Al Liceo, un professore al quale non saremo mai abbastanza riconoscenti - Giancarlo Landini - faceva tenere in classe una copia del «Devoto-Oli», il glorioso vocabolario di italiano, in due tomi: A-L e M-Z. E all'inizio di ogni lezione uno di noi studenti, a rotazione, sceglieva un lemma di cui non conosceva il significato e ne leggeva la definizione - con tanto di etimologia e esempi d'uso - all'intera classe. Così imparammo «lorica», «scanno» - o «stallo», o «scranno» - «luculliano», «catabasi», «metonimia»... Alcuni di noi, poi, con esiti grotteschi, facevano a gara a inserire quelle parole nel tema in classe della settimana successiva. Voto, di solito, fra il 4 e il 5.

Ma così alla fine, 4 o 5 parole nuove le abbiamo imparate. E ogni parola imparata è un'arma in più per combattere la guerra della vita: contro i nemici, ma soprattutto gli amici. La potenza di una discussione o di una pagina è nulla senza il controllo delle parole. Solo per dire il fascino e l'utilità della lettura del vocabolario.

Poi ci sono vocabolari e vocabolari. Uno dei più belli, tanto super specialistico quanto originale, è il Gaddabolario (Carocci), curato da Paola Italia, che raccoglie 219 parole - il numero civico del palazzo di via Merulana - che incarnano la quintessenza della lingua di Carlo Emilio Gadda (1893-1973), la quale a sua volta è la quintessenza della letteratura novecentesca italiana: dialettismi, latinismi, forestierismi, tecnicismi, neologismi e invenzioni lessicali varie, da «Abracadabrante» (aggettivo più che magico) a «Zoluzzo» (un Èmile Zola in sedicesimo, e padano). Beh... Per chi non ha mai letto Gadda, o lo ha letto poco, il Gaddabolario è un interruttore per riattivare alcuni tra i più fulminanti cortocircuiti verbali della nostra letteratura. Per chi invece lo legge e lo ri-legge, è un abbuffata lessicale in cui più si mangia più si ha fame. Ecco alcuni lemmi, a caso: piroscafi bananiferi; cinobalanico - dove «cino» è cane e «balanico» è glande - oppure eupeptico nella variante peptonizzazione, per dire di qualcosa favorevole alla digestione, oppure - termine che arricchisce di molto il vocabolario - locupletare. E vorremmo che l'elenco non finisse mai...

Uscito alla fine dello scorso anno e arrivato oggi alla seconda ristampa, curato assieme a 61 collaboratori da Paola Italia (regina dell'opera gaddiana per Adelphi e prima degli adepti di Gadda), e finalista al premio Costa Smeralda 2023, il Gaddabolario è un monumento al potere espressivo della lingua in tutte le sue declinazioni, sfumature, torsioni, allusioni; una galoppata nelle sterminate aree semantiche dei più diversi campi del sapere; una discesa, «a cavaturacciolo», negli abissi lessicali di un sofisticato Ingegnere della parola, da cui si riemerge - quando si riemerge - esausti e disorientati. Pronti poi a rituffarsi nel primo titolo a portata di mano - un saggio, un romanzo, una novella in fiamme - del Gaddus inimitabilis. 

Cazzo.

ELEMENTI DI “STICAZZI”. L’ostinazione dei milanesi a usare espressioni capitoline senza alcun bisogno. Il Romanese su L'Inkiesta il 8 Maggio 2023

Oggi il nostro (segretissimo) inviato romano trapiantato a Milano indossa i panni di un professore. L’obiettivo? Insegnare ai navigliesi che “sticazzi” non è un segno di approvazione, di ammirazione, di stupore, bensì una manifestazione di indifferenza, un “andiamo oltre”

Il Romanese ha una cattedra a Milano. Insegna quasi tutti i giorni. La materia è “Elementi di sticazzi”. Il magistero se l’è sono preso da sé, sentendosi quasi un Barone, ma il suo intento pedagogico è puro, nobile, idealistico e per questo quasi utopistico: insegnare da Romanese al milanese il corretto uso delle espressioni capitoline che gli abitanti della città-che-dorme-poco amano senza alcun manifesto bisogno. Perché, pensa il Romanese, vi ostinate a usare espressioni che non vi appartengono e che per di più non sapete utilizzare visto che ne ribaltate il significato?

Si tratta di un mistero buffo, tutto meneghino, che ha a che fare con il gusto dell’esotico (argomento di cui riparleremo) che i navigliesi coltivano senza ammettere che in ciò si manifesti una sorta di sudditanza emotiva. I milanesi fingono di detestare l’icasticità romana, ma poi amano attingere a quel registro di cui sono linguisticamente sprovvisti con lo stesso spirito con cui si appassionano ai tessuti di una stilista camerunense, per colorire la propria vita con le tinte di un’accoglienza che assomiglia a un paternalismo culturale. 

A ciò il Romanese guarda con sorniona sufficienza mista a insofferenza. E l’unica cosa che può fare è spiegare e rispiegare e ririspiegare che “sticazzi”, pronunciato con cadenza annoiata impigrendosi sulla “a”, non è un segno di approvazione, di ammirazione, di stupore, bensì una manifestazione di indifferenza, un “andiamo oltre”. 

Tutto il contrario per “me’ cojoni”, locuzione vicina anatomicamente alla precedente ma di considerevole distanza emotiva. Qui sì che si entra nel terreno del rilevante, del rimarchevole, dello sgomento procurato. Se insomma mi informi che tua nonna novantaquattrenne stamattina ti ha chiamato per sapere come stai è presumibile che la reazione sarà: «Esticaaaazzi!», proferito nel tempo di uno sbadiglio. Se invece mi metti al corrente che la stessa vegliarda ha fatto la maratona di New York in meno di quattro ore posso ragionevolmente uscire dalla mia comfort zone del disincanto e manifestare entusiasmo, sport nel quale i romani – va detto – non sono campioni.

Che poi esistono anche varie sfumature: uno “sticazzi” sbrigativo, pronunciato seccamente, mostrerà un vero, pratico disinteresse per la materia. Un “esticaaaazzi!” pronunciato come si deve, esibendolo, vorrà essere notato, mortificando un bel po’ l’interlocutore. Un “ma sai che c’è? Anche sticazzi” avrà un valore filosofico, hegeliano, cementerà il rapporto tra chi parla e chi ascolta. Un “esticazzi noo?”, con il fratello “esticazzi nun ce lo metti?”,  porrà l’accento sull’aspetto beffardo della notazione.

Il fatto è che quando si entra nel terreno lessicale i navigliesi sono così, un po’ “de coccio”. Fanno tenerezza, perché ostinandosi a usare un armamentario linguistico che non compete loro in fondo ci fanno un grande complimento, a noi romani e Romanesi. Diventano irritanti, però, quando così giustificano la loro incapacità di usare lo “sticazzi” per come dovrebbe essere: “Avrai pure ragione, ma ormai a Milano si usa così”. Di fronte a una simile manifestazione di spocchia, ci sarebbero tante risposte possibili, ma io di solito ne prediligo una: “Esticaaaaazzi!”.

Antonio Giangrande: LA PAROLA CAZZO NEL DIALETTO SALENTINO.

Nessuno se ne abbia a male se il contenuto di questo scritto è un po' volgare... nel nostro dialetto molti concetti, anche molto diversi, vengano riassunti da un'unica semplice parola: "cazzo" ....diciamo come i puffi sostituivano tutti i verbi con il verbo puffare. "Cazzo" in italiano è una brutta parola, ma nel nostro dialetto è molto importante in quanto insieme ad altre spiega chiaramente il senso della vita....In Italiano la parola CAZZO risulta volgare, nel dialetto salentino invece è usata comunemente per sottolineare e accentuare i concetti. Scopriamo degli esempi:

Non saprei = cce cazzu ne sacciu

Chi se ne importa = cce cazzu me na futtu

La situazione è grave = mo su cazzi

Sei proprio testardo = sinti propriu na capu de cazzu

Hai la faccia tosta = tieni la facci ti cazzu

Chi sei? = ci cazzu sinti?

Non ti ho mai visto prima = chi cazzu te canusce

Chi ti credi di essere = ci cazzu ti criti ca sinti?

Non valete niente = non baliti nu cazzu

Mi fai cadere le braccia = e cce cazzu

Grazie, ma lo sapevo già = grazie allu cazzu

Ti stai ponendo con aria un po’ troppo saccente = sta ‘rrivi bellu bellu cazzu cazzu

Chi ti autorizza a parlarmi in questo modo? = ma ci cazzu sinti tie?

Mi stai chiedendo qualcosa che io posso darti = ma cce cazzu vuej de mie?

Non dovresti interessarti ai fatti che non ti riguardano = fatti li cazzi toj

Sei una persona un po’ assillante = sinti propriu nu cacacazzi

Non ti stai impegnando a sufficienza = nnu ‘mbali nu cazzu

Non ti ho mai visto prima = chi cazzu te canusce

Dove sei? = addu cazzu stai

Dove sei stato? = a du cazzu si statu??

Dove sei andato? = addo cazzzu sisciutu

Con chi sei uscito? = cu ci cazzu si statu?

Non riesci a masticare? = non dai cazzu?

Hai un’ottima capacità di schiacciare (le noci con i denti) = Tei nu bellu cazzu

Schiacciare mandorle = addu fatichi allu cazzu e quanto guadagni 5 lire e lu cazzu francu

Non riesco a masticare = mi manca lu cazzu

Che disgrazia ci è capitata = Capu ti stu cazzu!!! Ce cazzanculu ca mu cappatu!!!!

Ti hanno fatto un bidone= hai piatu nu cazzunculu

Ti hanno fatto un regalo = ce cazzu ete? ci cazzu l'ave ndutu?

Mi hai pestato il piede = m'ha cazzatu lu pede

Che mangi oggi? = ci cazzu mangi osci?...

Non sono affari tuoi = nu su cazzi toi

E mo li rivedi i soldi prestati = Cu lu cazzu ca me tae li sordi

Niente di niente! = Cazzi ttaccati cu li mazzi

Caspita! Accipicchia! = Capu de stu cazzu

Adesso basta! = m'a cagatu lu cazzu?

Mi offenderei. Oltre al danno, La beffa = lu cazzu nun è ca te ncazzi...ete ca te toli

Con chi mi pare = cu ci cazzu me pare... e cu ci cazzu voiu

Non ho niente = No tegnu nu cazzu

Chi ti vuole = ma ci cazzu ti voli

Fatti i fatti tuoi- fatte li cazzi toi!

Non devi guardare proprio niente = no a uardare propriu nu cazzu

Dove andiamo? = a du cazzu amu scire???

Non abbiamo capito niente = imu kina nà casa de cazzi ma nn imu capitu nu cazzu!!

E ti pareva = e nà cazzuu!!

Oggi sarà dura = osce so cazzi amari

Questo sì che è un bel pasticcio = quistu si ca è nu bellu cazzunculu!

Che brutto tempo!! = Che cazzu de tiempu

Non abbiamo risolto niente = imu dittu missa allu cazzu

Non saprei che cosa fare = che cazzu aggiu fare?????

L'hai fatto male! = l'ha fattu a cazzu!

Quando lo si usa troppo la parola cazzo nel discorso = ma sempre cu lu cazzu m'ucca stai?!

Non prendermi in giro = lu cazzu ca te futte!!!!

Prendi quel coso =- piya du cazzunculu

Se mi arrabbio sono fatti tuoi = ci mi incazzu so cazzi toi

Relatore che continua a parlare fino a farti arrivare allo sbadiglio = sinceramente ma'ggiù ruttu lu cazzu

Persona che ti deride e maltratta = e basta mo ma'ggiu cacatu lu cazzu

Espressione di meraviglia = Stu cazzu!

Sono entusiasta se penso che la volgarità intesa come “vulgus” (dal latino: popolo, plebe, massa) rappresenta anche il lato più intimo di un popolo: il linguaggio. Ad oggi troppi volgari provano ad arrampicarsi sull’inutile montagna della raffinatezza o eleganza millantata. Ogni stile, cultura e usanza ci deve appartenere per rappresentarla al meglio, altrimenti è più rispettoso studiarla, ammirarla e rispettarla. Volgare non è qualcosa da evitare, ma da custodire, facendo in modo che non si mescoli facilmente con altri termini come maleducazione, ignoranza e menefreghismo. Per questo in Salento la parola cazzo è usata sempre: come il cacio su tutti i tipi di pietanza.

Estratto dell’articolo di Paolo Di Stefano per il “Corriere della Sera” il 7 febbraio 2023.

Era il 1994 e Giorgio Faletti stupì l’Italia benpensante portando a Sanremo una canzone in cui un carabiniere, stanco delle sue pessime condizioni di lavoro, ripeteva: «minchia, signor tenente».

 […] Quell’interiezione, pronunciata con esibito accento siciliano, in realtà era già diffusa non solo nei dialetti meridionali ma in tutta Italia e che la dicesse un carabiniere non doveva meravigliare. Ora però, sulla bocca del capomafia, è ben altra cosa, perché le «commemorazioni di ’sta minchia» erano quelle in onore di Giovanni Falcone.

Derivata dal latino medievale «mencla» proveniente dal latino classico «mentula» (organo sessuale maschile), la voce «minchia» è attestata per la prima volta in un antidotarium fiorentino del Duecento, formulario di ricette in cui si consiglia di applicare in zona un «olio mandragorato» per sedare i bollori.

 Presente due volte nel XIV secolo. Intanto, nell’epistola che Boccaccio indirizzò a un amico in dialetto napoletano: «che biene àiati ‘sta tia minchia» era una sorta di augurio goliardico. Poi nel trattatello di un certo maniscalco palermitano che segnala come curare (con burro di vacca) certi rigonfiamenti anatomici nelle bestie. In forma di quasi improperio viene inaugurata dal fiorentino quattrocentesco Luigi Pulci: «Che tu se’ tutto minchia, fava e sugo…». […]

Asterischi e Schwa.

Car* collegh*L’inclusività a tutti i costi partorisce un’antilingua di frasi barocche e prolisse. Le linee guida dei Musei Reali di Torino, invece di disincagliare il linguaggio dall’«eccesso di burocratizzazione», lo complicano e appesantiscono, o hanno effetti surreali, come la «stanza per chi allatta al seno». E chi sarà mai quest* «chi»? Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 8 Maggio 2023

È bastato che al Concertone del Primo maggio Ambra Angiolini dicesse una cosa sensata, tutto sommato innocua, per scatenare le reprimende delle maestrine dell’ortodossia politically correct (ne ha scritto Guia Soncini su Linkiesta del 3 maggio). «Avvocata, ingegnera, architetta», ha osato insinuare l’incauta, «tutte queste vocali in fondo alle parole […] ci fanno perdere di vista i fatti, e i fatti sono che una donna su cinque non lavora dopo un figlio, che guadagna un quinto in meno di un uomo che copre la stessa posizione» (corsivi miei).

Probabilmente la temeraria non sapeva – neppure le sue intemerate censore (plurale di censora) sapevano – che al fondo della sua arringa stava un’antichissima auctoritas, quella di un certo Misone, annoverato da Diogene Laerzio tra i Sette Sapienti dell’antica Grecia, noto per questa unica sentenza: «Non bisogna cercare le cose (i fatti: prágmata) a partire dalle parole (lógoi), bensì le parole a partire dalle cose: infatti, le cose non si producono per le parole, bensì le parole per le cose».

In effetti, chi si ricorda più di Misone – oltretutto un maschio e magari un maschilista che prima o poi andrà inchiodato alle sue imprescrittibili nefandezze. Non lo ricorda, in tutta evidenza, neppure il manipolo di venti intrepidi esperti (storici dell’arte, archeologi, architetti, archivisti, educatori museali, addetti all’accoglienza, impiegati amministrativi stretti a coorte intorno a una «linguista tutor»), messo insieme dai Musei Reali di Torino per produrre 64 pagine di “Linee guida per una comunicazione rispettosa delle differenze di genere al museo”.

Il volumetto, pubblicato da Editris 2000, è dichiaratamente destinato a un uso interno, con riguardo sia agli «atti amministrativi (denominazione dei ruoli, redazione di incarichi, lettere, circolari, etc.)», sia alla «comunicazione scientifica e divulgativa (sito web, newsletter, social media, testi in mostra…)». Non nasconde tuttavia l’ambizione di proporsi come modello in materia, sulla scia di analoghe iniziative sviluppate negli ultimi anni da diverse istituzioni culturali pubbliche in Italia.

In un’ampia sezione introduttiva che occupa quasi metà dell’opera la questione è impostata sul piano teorico con alati riferimenti alla Costituzione, ai gender studies e alla linguistica di genere, al movimento Black lives matter e alle Guerrilla Girls, nonché alla sacrosanta valorizzazione delle differenze. Quindi si passa alla parte pratica, un «prontuario con esempi e glossari» nell’ottica di «rendere il linguaggio più trasparente, disincagliandolo da un eccesso di burocratizzazione, così da evitare quell’effetto che Italo Calvino ben mostrava nel suo celebre racconto intitolato, emblematicamente, «L’antilingua»». Che poi non era un racconto, bensì un articolo uscito sul Giorno il 3 febbraio 1965, ma vabbè.

Vediamo piuttosto gli esempi. Trasparenza, si diceva? «A seconda della identità di genere cui ci si riferisce, si potrà scegliere tra: il ragazzo, la ragazza, lə ragazzə (o u ragazzu); il visitatore, la visitatrice, lə visitatorə: il custode, la custode, lə custode». Nel caso di una lettera ai «Cari colleghi» si potrà scegliere tra Car* collegh* (per indicare una o più persone senza esplicitarne il genere), Carə collegə (per indicare una persona senza esplicitarne il genere), Carз collegз (per indicare una pluralità di persone di diversi generi). Trasparente, vero? Ma fin qui è l’andazzo generale, nihil novi (ahinoi).

Scendiamo nello specifico. Nel ventaglio di eventualità comunicative dispiegato dalle «Linee guida» troviamo suggerimenti di correzioni piane, del tutto indolori («i visitatori» diventano «il pubblico», «le immagini dei bambini» diventano «i ritratti infantili», l’avvertenza «i visitatori devono prenotare il giorno prima» diventa «la visita deve essere prenotata il giorno prima»), altri del tutto opportuni (da «il direttore» a «la direttrice», da «il presidente» a «la presidente»), altri ancora un po’ risibili ma il riso fa bene (gli «uomini della Preistoria» si mimetizzano negli «esseri umani preistorici», «l’uomo della strada» si emenda in «la gente comune», l’ammonimento «a passo d’uomo» si demaschilizza in «a velocità ridotta», gli «uomini d’affari» si neutralizzano in «imprenditori e imprenditrici» – che non sono esattamente la stessa cosa ma pazienza).

Il buon paladino del linguaggio politicamente corretto non deve mai abbassare la guardia, deve essere reattivo, saper lavorare d’ingegno: perché l’insidia si nasconde ovunque. Anche in un subdolo «ciascuno», come nell’auspicio che «l’incontro con l’arte possa diventare per ciascuno una preziosa occasione di crescita», argutamente ripulito in questi termini: «L’incontro con l’arte possa diventare ogni volta una preziosa occasione di crescita». Ecco. Ma non sempre i difensori hanno la meglio, perché bisogna riconoscere che la pugna è ardua: tanto che, nell’esempio di un disciplinare di gara per prestazioni tecniche, «il progettista incaricato» si trasforma chissà perché nell’«operatore economico incaricato», ri-capitombolando così nel discriminatorio genere (grammaticale) maschile. Oibò, nell’intento di salvare in corner il difensore ha fatto autogol.

Ben presto, comunque, la via dell’inclusione si rivela accidentata: già a partire da un normale «bando per archeologi» che si dilunga in «bando per persone con laurea in Archeologia», mentre «i pittori» si reduplicano in «le pittrici e i pittori» (e quindi «gli scultori Camille Claudel e Auguste Rodin» saranno «la scultrice Camille Claudel e lo scultore Auguste Rodin»), e sulla stessa linea «i bambini» si ritrovano geminati in «bambini e bambine», il «coordinatore della sicurezza» si scompone in «coordinatrice o coordinatore della sicurezza», «gli anziani» si astrattizzano in «soggetti anziani» e «il richiedente» si smaterializza in «soggetto richiedente».

Le frasi si fanno prolisse, faticose, pesantemente barocche e mestamente burocratiche (ma non si trattava di disincagliare il linguaggio dall’«eccesso di burocratizzazione»?); si complicano, si intortigliano, si allontanano vieppiù dal concreto. «I docenti e gli studenti» sono rigenerati in un pedantesco «il personale docente e il corpo studentesco», «l’Ufficio si compone di restauratori, conservatori e assistenti tecnici» viene ripulito in «l’Ufficio si compone di personale addetto al restauro conservativo e all’assistenza tecnica», «un fotografo di comprovata esperienza» si purga dal suo peccato originale dissimulandosi come «persona di comprovata esperienza nell’ambito della fotografia», la frase «gli educatori museali accompagnano gli alunni, le famiglie e i visitatori adulti» si gonfia a rischio di scoppiare in «le educatrici e gli educatori museali accompagnano le classi, le famiglie e coloro che partecipano alle attività proposte». Il barocco inclina al rococò. E l’antilingua fa la ola.

Seriamente: è davvero immaginabile una visitatrice che, entrata nei Musei Reali per imparare e per godere dei loro straordinari tesori (fanno parte del sistema il Palazzo con l’Armeria Reale e la Cappella della Sindone, la Biblioteca Reale, la Galleria Sabauda, il Museo di Antichità e i Giardini Reali), possa sentirsi discriminata perché in un frettoloso cartello si menzionano genericamente «i visitatori»? O una bambina che metta il broncio perché non viene distinta dai «bambini»? Non stiamo parlando, beninteso, del modo in cui vengono presentati i pezzi delle collezioni, che giustamente deve essere rispettoso delle diverse sensibilità, ma di semplici, succinte consuetudini linguistiche in normali comunicazioni di servizio. Parole, non fatti (povero Misone…). Parole che, almeno in questi casi, non implicano alcun fatto lesivo per chicchessia.

Era invece un fatto che «le mamme che allattano sono da sempre benvenute». Lo sono sempre, ci mancherebbe, ma d’ora in avanti non saranno più le sole: «le mamme e i papà che devono allattare, così come, in generale, chi ha con sé bebè a cui badare, sono da sempre persone benvenute». Hai visto mai che un papà o una tata si sentissero discriminat* perché tagliat* fuori, o una donna conculcata perché sempre a lei sola è attribuita l’incombenza. Ma si noti bene: «C’è anche una stanza più riservata per chi allatta al seno». E chi sarà mai quest* «chi»? Visto che le balie sono ormai estinte, forse si poteva arrischiare il sostantivo «mamme».

"Avvocata e ingegnera". La lezione di Ambra Angiolini a Murgia & Co. Lasciando di stucco i radical chic del Concertone, l'attrice tira una bordata alle ultrà dello schwa che ogni giorno storpiano la lingua italiana. Giorgia Fenaroli il 2 Maggio 2023 su Il Giornale. 

Parole, parole, parole. Soltanto parole. Mina già lo cantava nel 1972, ma la lezione del brano sembra essere tornata utile sul palco del concertone del Primo Maggio. Ieri da piazza san Giovanni, a Roma, la conduttrice Ambra Angiolini si è scagliata contro quelle che in fin dei conti sono solo parole. "Avvocata, ingegnera, architetta: tutte queste vocali in fondo alle parole saranno armi di distrazione di massa?", ha detto l'attrice e cantante, lasciando forse di stucco la stuola di radical chic che gioivano nel vederla alla conduzione del carrozzone del Primo Maggio per la sesta volta. "Le parole ci fanno perdere di vista i fatti. E i fatti sono che una donna su cinque non lavora dopo un figlio, che guadagna un quinto in meno di un uomo che copre la stessa posizione", ha detto snocciolando i dati. 

Persino l'ex valletta di Non è la Rai sembra esserci accorta della contraddizione portata avanti da chi - Michela Murgia, Laura Boldrini e compagne in primis - vorrebbe farci credere che sia sufficiente non una parola, ma una sola vocale a cambiare tutto. Da chi non vede l'ora di storpiare la lingua italiana, facendola passare come una grande "conquista", convinti che tanto basti a risolvere finalmente la questione femminile e dare alle donne quello che meritano. Poco importa se poi, nella realtà, le donne continuino a essere pagate meno dei loro colleghi uomini o trovino più difficoltà a entrare nel mondo del lavoro: almeno potranno fregiarsi del gagliardetto di farsi chiamare avvocata, medica, sindaca. 

"Non lo diceva già la Costituzione nel 1948 che la donna doveva avere gli stessi diritti dell’uomo nell’art. 36? Che ce ne facciamo delle parole?", ha detto Ambra. Dal palco rosso per eccellenza, l'attrice ha tirato una bella bordata alle femministe "de sinistra" che pretendono di sapere cosa è meglio per tutte, impartendo una lezione ai fan della lingua di genere: le battaglie da combattere sono altre e ben più importanti di una vocale a fine parola. 

E se è vero che la lingua descrive la società, è anche vero che di certo non basta mettere una "a" alla fine della parola per cambiare il mondo. È solo un contentino che allontana il dibattito dalle cose serie. Oltre a creare una comprensibile irritazione nell'opinione pubblica, le femministe causano anche l'effetto opposto rispetto a quello che vorrebbero raggiungere: è di pochi giorni fa il sondaggio della Fondazione Bruno Kessler secondo cui farsi chiamare "avvocata" testimonia una minore affidabilità rispetto al maschile (e neutro) "avvocato". Ambra lo ha capito e non risparmia una frecciata finale ai cultori del politicamente corretto: "Voglio proporre uno scambio: riprendetevi le vocali in fondo alle parole al femminile, ma ridateci il 20% di retribuzione. Pagate e mettete le donne in condizione di lavorare. Uguale significare essere uguale. E finisce con la e".

Estratto dell'articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 20 marzo 2023.

Bando ad asterischi e schwa, no all’articolo davanti al nome (la Meloni, la Schlein), e no alle reduplicazione retoriche (i cittadini e le cittadine, le figlie e i figli), sì invece al plurale maschile non marcato «inclusivo», e soprattutto ai nomi di professione declinati al femminile (avvocata, magistrata, questora): l’Accademia della Crusca risponde così al quesito postole dal comitato pari opportunità del consiglio direttivo della Corte di Cassazione sulla scrittura negli atti giudiziari rispettosa della parità di genere.

[…]

Intanto, niente asterischi o schwa: «È da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico (”Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…). Lo stesso vale per lo scevà o schwa».

Poi, in una lingua come l’italiano che ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, «lo strumento migliore per cui si sentano rappresentati tutti i generi e gli orientamenti» non è per l’Accademia della Crusca «la reduplicazione retorica, che implica il riferimento raddoppiato ai due generi» (come in «lavoratrici e lavoratori», «impiegati e impiegate»); ma é «l’utilizzo di forme neutre o generiche (per esempio sostituendo “persona” a “uomo”, “il personale” a “i dipendenti”), oppure (se ciò non é possibile) il maschile plurale non marcato, purché si abbia la consapevolezza di quello che effettivamente è: un modo di includere e non di prevaricare».

E sempre il maschile non marcato si può usare quando ci si riferisce «in astratto all’organo o alla funzione, indipendentemente dalla persona che in concreto lo ricopra o la rivesta», ad esempio «il Presidente del Consiglio». Per il resto, l’Accademia suggerisce di «far ricorso in modo sempre più esteso ai nomi di professione declinati al femminile»,

[…]

Estratto dell'articolo di Selvaggia Lucarelli per “il Fatto quotidiano” il 3 maggio 2023.

Era difficile condurre un Primo Maggio e riuscire a fare solo cose profondamente di destra, ma Ambra Angiolini – incredibile a dirsi – ce l’ha fatta. Probabilmente, se accanto a Biggio ci fosse stata Daniela Santanchè, avremmo avuto un Primo Maggio più spostato a sinistra, ma ormai è andata. La conduzione inizia subito in maniera un po’ stonata. 

La conduttrice che parla di alternanza scuola-lavoro e di come sia stato ingiusto rubare il futuro a un giovane di 18 anni (Lorenzo, morto in alternanza scuola lavoro) che doveva solo andare a scuola. Considerato che Ambra ha iniziato a lavorare a Non è la Rai a 14 anni dalle 11 del mattino fino alle sei del pomeriggio, sarebbe stato più interessante ascoltare la sua esperienza più che la sua predica, ma poi sono saliti sul palco i genitori di Lorenzo con la loro incrollabile dignità e il momento è stato toccante.

Tra una canzone e l’altra, sotto la pioggia battente, è poi il turno del fisico Carlo Rovelli, il quale sul palco dice quello che ribadisce da tempo, e cioè che è contrario alla guerra: “Lo sapete che in Italia il ministro della Difesa è stato vicinissimo a una delle più grandi fabbriche di armi del mondo? Il ministero della Difesa deve servire per difenderci dalla guerra, non per fare i piazzisti di strumenti di morte”. 

(...)

Diamo a tutti la possibilità di parlare ma anche a tutti quella di rispondere e questa risposta è mancata. È un’opinione del professor Rovelli”. 

Ha fatto bene a chiarire questo ultimo passaggio perché pensavamo che sul palco Rovelli avesse portato un’opinione di Ornella Vanoni e invece era proprio sua, pensate che cosa bizzarra, ma detto ciò, la parte davvero anomala della precisazione è quel “ci dovrebbe essere un contraddittorio”. E certo, ogni volta che qualcuno esprime un’opinione su qualcun altro deve esserci anche l’altro. Un po’ macchinoso come metodo. 

Quindi ogni volta che in tv qualcuno cita Biden bisogna organizzare uno skype con la Casa Bianca. A questo punto se si cita Mussolini urge una seduta medianica in diretta per fargli dire anche la sua. Il ministro Crosetto poi fa molta fatica a trovare un pulpito da cui controbattere, pover’uomo.

E infatti, con immensa fatica, oggi su tutti i giornali del paese è stata riportata la sua risposta, della serie: “Rovelli faccia il fisico. Gli mando un abbraccio pacifico e lo invito a pranzo”. Tra parentesi, quando Fedez lanciò la sua invettiva da quel palco non ricordo la conduttrice Ambra pronta a cazziarlo perché mancava la controparte. Al Corriere della Sera che il giorno dopo le ha chiesto come mai avesse preso le difese di Crosetto, ha risposto: “È una questione di umanità”. 

Quindi esprimere un’opinione senza che l’oggetto dell’opinione sia presente è disumano. Io sto scrivendo questo articolo senza che Ambra sia seduta accanto a me, spero possa tollerare la mia dose di disumanità. 

E poi, siccome non era già abbastanza a destra, Ambra si sposta ancora un po’ più a destra. Per parlare di donne e lavoro le è parsa una buona idea leggere delle card con dei testi scritti sopra da qualcuno che poteva essere a) Giorgia Meloni b) Hoara Borselli c) Giorgia Meloni e Hoara Borselli a quattro mani. Il concetto sintetizzato era: inutile parlare di desinenze, accapigliarci per un avvocatO anziché avvocatA se tanto quando si parla di lavoro i nostri diritti sono ancora calpestati. Torniamo a occuparci della ciccia anziché parlare di vocali. Pagateci il giusto stipendio e tenetevi le vocali.

Insomma, secondo Ambra Angiolini le parole non sono importanti, basta il giusto stipendio. In effetti potremmo continuare a chiamare i lavoratori di colore “ne*ri”, l’importante è che ricevano il giusto salario. O ignorare la questione identità di genere e continuare a usare le desinenze maschili pure riferendoci a chi si sente donna e viceversa (e però Ambra non perde occasione per indossare il maglioncino o la spilletta arcobaleno). 

Nessuno le ha mai spiegato che l’inclusività passa prima di tutto attraverso il linguaggio, e che la prima forma di discriminazione e di rivendicazione del predominio maschile è proprio questa resistenza a consegnarci la nostra identità. Eppure fu proprio lei, anni fa, a raccontare quanto una parola di Aldo Grasso la ferì a morte, a spiegare alla sua generazione quanto le parole scrivano la realtà. Definiscano. Facciano vivere o sparire.

Insomma, davvero un brutto primo maggio quello di Ambra Angiolini, ma di sicuro IL presidente Meloni sarà contento. O contenta.

Decida Ambra.

 Apriti schwa. Concertone e Domenica In, la grande festa degli scandali scemi del Nuovo Asilo Italiano. Guia Soncini su L'Inkiesta il 3 Maggio 2023

Siamo arrivati a dare peso alle parole di chi non vive di parole proprie, fino al punto di far partire l’inquisizione digitale contro le attrici che dicono cose banali 

Comincerei dagli attori, e formerei due file ordinate. Da una parte chi non ha studiato niente, al massimo ha appreso da “Shakespeare in love” che una volta i ruoli femminili li interpretavano i maschi, e parla degli attori come fossero persone intellettualmente rilevanti. Dall’altra chi rimpiange i tempi in cui venivano sepolti in terra sconsacrata, e si chiede con sconforto come siamo diventati una società che domanda pareri a gente pagata per esprimersi con parole altrui.

Tra domenica e lunedì, grande festa alla corte degli scandale du jour, e tutta a base di attori, cioè appunto di gente che si è scelta un mestiere che le garantisca di non dover mai pensare a cosa dire. Ma questo non basta, nell’epoca in cui, pur di posizionarci dalla parte dei giusti, siamo disposti anche a prendercela con chi non vive di parole proprie.

Domenica In” ospita una coppia di attori. Sono marito e moglie, hanno fatto un film insieme, sono piuttosto bellocci. Non credo d’aver mai visto un film con lei, lui invece l’ho visto quando copulava con Rosy Abate in quel capolavoro kitsch che era “Squadra Antimafia”, serie di Canale 5 (parlando di Canale 5 da viva).

Mara Venier lo tratta come fosse Marlon Brando, ne loda la credibilità e il non essersi mai venduto (della signora invece lodano tutti in coro l’onestà intellettuale, qualunque cosa significhi). Del film che sono venuti a presentare lui fa la regia. Trascrivo le prime parole che ne dice: «Non è un film di caccia, “La caccia” è un titolo che rappresenta un po’ una sorta di metafora della vita, nel senso una caccia a volte anche contro sé stessi, contro le proprie anime».

A quel punto noialtre sul divano pensiamo «figlio mio, meno male che sei belloccio», sua moglie e la Venier invece si guardano e sospirano quant’è intelligente, un po’ tipo i Ferragni quando il figlio scarabocchia un foglio e volano i «bravissimo, amore!».

L’intervista prosegue con un lessico da non madrelingua. La coppia racconta d’un bisticcio perché al figlio un compagno di calcio aveva fatto fallo, lui dice «una cosa goliardica», non faccio in tempo a chiedermi cosa diavolo penserà voglia dire «goliardica», quando lei dice del marito «non mi aspettavo questo suo randagismo che a me piace molto perché io adoro essere gestita», e ci vuole fantasia a immaginare cosa intenderà mai con «randagismo» (autoritarismo? perentorietà? dogmatismo?).

È a quel punto che arriva lo scandale du jour, che mostra i due caratteri classici della dinamica degli scandale du jour: dici una cosa di cui nessuno si sarebbe scandalizzato dieci anni fa ma che può riempirci le giornate social oggi; nessuno di coloro che partecipano alla conversazione capisce come va il mondo (e infatti con la frase su RaiPlay ci fanno il titolo dell’intervista) e quindi l’inquisizione spagnola arriva, come sempre, inaspettata.

La frase dell’attrice riguarda la spartizione dei lavori domestici tra lei e il marito: «Io non tollero l’uomo che si mette a fare il letto, a dare l’aspirapolvere, non lo posso proprio vedere, sono antica in questo, rispetto i ruoli, non mi piace, mi abbassa l’eros, me lo uccide». Se fossimo una società di adulti, tratteremmo questa frase come ciò che è: l’affermazione di una che ha del personale di servizio in casa.

Siccome siamo un collettivo di dodicenni pronti a tutto per prendersi i cuoricini, ci costerniamo e ci indigniamo e americanizziamo la questione: non sei un’attrice che dice delle cose a caso in un programma della domenica pomeriggio, sei un modello comportamentale, e stai dicendo alle donne a casa che devono fare da serve ai loro mariti.

E le donne a casa ti ascolteranno, diamine, perché se c’è una cosa che accomuna le donne emancipate e quelle meno emancipate è che vivono come le attrici in tv dicono loro di vivere. (Il martedì, la poverina dovrà scusarsi. Scusarsi perché non le fa sangue che il marito passi l’aspirapolvere. Pensa se avesse detto che le piace farsi legare al letto, che espiazione le toccherebbe).

Il lunedì, per completare la ricreazione, il concerto del primo maggio viene condotto da un’altra attrice, che a un certo punto fa la sua brava tirata sul lavoro femminile e sul divario salariale. Che è un lamento propagandistico anche quello da cuoricini facili. Certo che ci saranno eccezioni, che sono appunto eccezioni; ma perlopiù esistono i contratti collettivi nazionali e non prevedono che io possa pagarti meno se hai le tette.

Perlopiù, i dati sul divario salariale che propagandisticamente vengono citati sono il risultato di comparazioni che non tengono conto dei ruoli: in generale le donne guadagnano meno degli uomini perché in generale le donne scelgono di fare le professoresse e lavorare diciotto ore a settimana e non di fare i cardiochirurghi e stare in sala operatoria dodici ore di fila.

La conduttrice sceglie – come chiunque stia su quel palco e non voglia farsi linciare – di dire che il divario salariale esiste, ma per farlo osa aggiungere un dettaglio, così la linceranno comunque ma per aver mancato di rispetto a un totem più piccino. La conduttrice dice che insomma, basta con questa scemenza delle vocali finali, paghiamo la donna che fa l’ingegnere quanto l’uomo, invece di preoccuparci che la chiamino «ingegnera». Apriti schwa.

Su Instagram una comica si mette le orecchie da persona seria e le fa la lezioncina: una volta, cara te, non c’era la parola «attrice» perché il tuo lavoro lo facevano gli uomini, se non ti suona «medica» è perché non sei abituata alle femmine con lavori di responsabilità. (Mistero misterioso perché in questi casi nessuna chieda la vocale giusta per la muratora che così spesso rischia la vita sulle impalcature).

Su Twitter, una tizia che in bio ha un ruolo nella segreteria Schlein e molti cancelletti le dice perentoria che non solo è molto grave non volersi occupare delle vocali, ma pure che «non si tratta col patriarcato». Signora, il patriarcato ci ha dato la pillola. Signora, il patriarcato per la mia liberazione – e pure per la sua – ha fatto parecchio più dei cancelletti.

Anzi, sa che le dico? Il patriarcato ci ha dato pure i cancelletti, cancelletti che oggi – in una società che ha risolto questioni quali i diritti dei lavoratori, l’acqua potabile, la sanità e la scuola gratuita, e altre bazzecole che nella vostra delirante abolizione delle gerarchie sono rilevanti quanto il 41 bis per gli uomini che non sparecchiano – ci permettono d’intrattenerci per interi pomeriggi posizionandoci dalla parte dei buoni e dei superiori.

Superiori a un’attrice che non vuole che il marito rifaccia i letti, e a un’altra che chiama «avvocato» gli avvocati con le tette. Avvocati con le tette nessuna delle quali vuol essere chiamata né col femminile italiano – avvocatessa – né con quello in neolingua (avvocata). Ma sono donne, e quindi non sanno ciò che vogliono: noi che siamo dalla parte dei buoni le costringeremo a non farsi chiamare avvocato e a non sparecchiare, e ancora una volta avremo salvato il mondo.

«Ambra Angiolini ha ragione: provocano noi donne sulle vocali, e poi ci ignorano sui numeri». Beatrice Dondi su L'Espresso il 3 maggio 2023. 

La distrazione di massa del monologo della conduttrice sul palco del Primo Maggio è l’arma impugnata da chi di quella desinenza (Avvocata, Architetta) non sa che farsene. E che alle donne nega senza fatica quel 20 per cento di retribuzione

Le parole sono importanti, ce l’ha insegnato Nanni Moretti, e lo abbiamo imparato sulla nostra pelle, giorno dopo giorno. Sì, le parole sono importanti. Ma alla fine le azioni lo sono almeno altrettanto. E purtroppo, accade spesso, l’attenzione riservata a quelle parole appunto importanti rischia di fagocitare tutte le altre attenzioni, come un aspirapolvere alla massima potenza che porta via tutto, dai riccioli di polvere di Stephen King al senso profondo delle battaglie di cui quelle parole dovrebbero essere il vestito.

Così è successo che incautamente Ambra, conduttrice del concertone del Primo Maggio, si sia lasciata andare a un monologo sul lavoro delle donne che anziché far sobbalzare gli astanti per il suo contenuto ha fatto indignare per la riflessione sul linguaggio.

Non è che stiamo sbagliando battaglia? Ha detto Ambra dal palco di San Giovanni «Negli ultimi tempi ci stiamo infatti accapigliando se una donna viene chiamata direttore d'orchestra o direttrice, avvocato o avvocata, come se il cambiamento (culturale e sociale) passasse solo da una qualifica. Tutte queste vocali in fondo alle parole sono, saranno armi di distrazione di massa?».

E qui la questione comincia a farsi seria. Perché ciascuna donna pretende a ragione la desinenza corretta, ci mancherebbe. E non è certo una concessione, si chiama molto semplicemente lingua italiana. Ma il problema su cui riflettere, scatenato dalla provocazione di Ambra è un altro. La distrazione di massa intravista da Ambra è l’arma impugnata da chi di quella desinenza non sa che farsene, è il punteruolo di chi i diritti delle donne li vede come una fase accessoria, un bigodino su una testa arruffata. E protesta contro queste “fissazioni al femminile” ben sapendo che la reazione (sacrosanta) arriverà puntuale. E a questo punto certo sì che ci si distrae. Se Meloni chiede di farsi chiamare Il Presidente è perché così è certa che per giorni si dibatterà su questa inezia, e non sul fatto che La presidente sino a oggi ai diritti delle donne non ha dedicato neppure una virgola. Si perdono di vista i fatti appunto e i fatti sono «che una donna su cinque non lavora dopo un figlio, che guadagna un quinto in meno di un uomo che copre la stessa posizione».

Certo, quando Ambra chiude il suo monologo proponendo lo scambio, « riprendetevi le vocali in fondo alle parole, ma ridateci il 20 per cento di retribuzione» fa un certo effetto. Nessuna donna vuole uno scambio perché non si cede un diritto in cambio di un altro. I diritti sono tali proprio perché sono per tutti. Ma fa ancora più strano che non si sia scatenato un putiferio su quel 20 per cento, che non è una parola, è un numero ma fa male da morire. Perché è vero che senza le parole non siamo, come ha scritto giustamente Loredana Lipperini su La Stampa. Ma la polemica è sempre portata avanti da chi pensa che uno stipendio ridotto solo a causa del nostro sesso non sia un tema. Tanto alla fine, meglio farci scaldare sulle vocali, così sulle consonanti in busta paga si può prendere tempo.

Le Imprecazioni.

Estratto da veneziatoday.it il 22 marzo 2023.

Qual è la città italiana dove si impreca di più? Non c'è ombra di dubbio, Venezia. La città lagunare, infatti, è il posto, in Italia, in cui vengono dette più parolacce, ben 19 al giorno in media. A dirlo è uno studio, fatto dalla piattaforma per l'apprendimento di lingue online, Preply che ha analizzato il parlato colloquiale delle diverse città italiane fino a eleggere Venezia come il luogo in cui vengono usate più imprecazioni.

 Secondo questa analisi, gli italiani imprecano in media 8,91 volte al giorno e sono più gli uomini a farlo rispetto alle donne con 11,6 volte contro il 6,3 delle donne. Inoltre, a utilizzare espressioni volgari e parolacce sono per lo più i giovanissimi, nella fascia d'età tra i 16 e i 24 anni con una media di 14 parolacce al giorno. La media, poi, diminuisce con l’innalzarsi delle fasce d’età: 8,5 volte tra i 25 e i 34 anni; 8,6 tra i 35 e i 44 anni (poco più degli under 34) e solo 3,9 tra gli over 55.

 Venezia è la città italiana che detiene il primato negativo sulle imprecazioni che arrivano a quasi 20 al giorno. Seguono altre città del nord Italia come Brescia, Padova e Genova che hanno ottenuto punteggi superiori persino a Milano e Roma (solo al 5° e 7° posto).

[…] Gli italiani imprecano soprattutto contro loro stessi (21,07%), oppure scagliano improperi senza un obiettivo preciso (17,27%) probabilmente facendone largo uso come intercalare nelle conversazioni più informali. Tra i “destinatari preferiti” spuntano poi gli amici (17,17%), i collaboratori (11,22%), i partner (10,83%), gli sconosciuti (9,17%), sorelle e fratelli (7,80%) e genitori (5,46%).  […]

La distanza tra «astronauta» e «cosmonauta».

Dubbi siderali. La distanza impercettibile tra «astronauta» e «cosmonauta» descrive in realtà di mondi lontanissimi Maurizio Assalto su L’Inkiesta il 6 Marzo 2023.

I prefissi astro- e cosmo- rimandano ai concetti di stella e spazio. Ma nella lingua russa kosmos rimanda anche all’accezione greca di ordine (opposto al caos): l’idea di un universo ordinato, perfettamente organizzato e programmabile ex ante, rimanda alla (fallita) utopia comunista che resiste nella Russia di oggi

Un aforisma citato spesso da Enzo Biagi sosteneva che è difficile capire un Paese dove la stessa cosa al Nord è chiamata uccello e al Sud pesce. Ampliando il discorso dal (Bel)paese al mondo, e dirigendo lo sguardo, anziché alle zone basse, al cielo stellato sopra di noi, potremmo dire che è difficile intendersi per due Paesi che chiamano la stessa persona in un caso astronauta, nell’altro cosmonauta.

Ci avete mai fatto caso? Sui mass media si parla di astronauti quando ci si riferisce ai viaggiatori spaziali americani (e occidentali in genere), di cosmonauti quando si parla di quelli russi (e prima sovietici). In realtà non è un capriccio dei nostri speaker e giornalisti, che si limitano a un quasi impercettibile adattamento all’italiano dei vocaboli utilizzati rispettivamente negli Stati Uniti e in Russia, ossia astronaut e kosmonavt: entrambe formazioni dotte, dal greco, con il suffissoide -nauta, da náutes (navigante, marinaio), che nel primo caso è stato attaccato al prefissoide astro-, da ástron e astér (astro, stella), nell’altro al prefissoide cosmo-, da kósmos che non ha bisogno di traduzione.

Ma le scelte lessicali, anche quando sembrano e verosimilmente sono del tutto accidentali, non sono mai anche del tutto innocenti. Sia pure senza volerlo, svelano qualcosa del carattere di chi sceglie.

La prima attestazione del neologismo astronauta è in un romanzo di fantascienza dello scrittore inglese Percy Greg, che nel suo “Across the Zodiac: The Story of a Wrecked Record”, pubblicato nel 1880, immagina un volo su Marte a bordo di una navicella spaziale chiamata, per l’appunto, Astronaut. Nei primi decenni del Novecento la parola si diffonde in campo scientifico, mentre un altro scrittore di fantascienza, il belga (naturalizzato francese) J. H. Rosny, pseudonimo di Joseph-Henri Honoré Boex, nel romanzo “Les navigateurs de l’infini” (1925) conia l’aggettivo (poi sostantivo) astronautique, sul modello di aéronautique.

Anche se l’origine del vocabolo non è americana, gli Stati Uniti se ne impossessano e lo impongono nell’uso corrente occidentale a partire dal 1961 con l’avvio del programma spaziale che porterà nel 1969 allo sbarco sulla Luna. Certo, sono facilitati dal fatto di trovarselo già pronto in lingua inglese; ma come sfuggire alla suggestione di quel primo elemento del composto, astro-, che nella sua radice proto-indoeuropea ster (qualche etimologista la vorrebbe connessa all’accadico Ishtar, nome della dea e del pianeta che noi chiamiamo Venere) evoca anche foneticamente le stelle della bandiera statunitense?

Da ster a star (e al tedesco stern) il passo è brevissimo (un po’ meno breve era stato nel latino stella, a cui si era arrivati, con assimilazione della consonante R alla L, attraverso il più antico sterla, forma sincopata di sterula, che era un adattamento diminutivo del greco astér). E l’immagine di navigare tra le stelle – sparse a caso nella volta celeste, anche se fin dai tempi più antichi le raggruppiamo in fantasiose costellazioni – suggerisce un’idea di apertura illimitata, un po’ Far West, un po’ Nuova Frontiera «ricca di sconosciute occasioni, ma anche di pericoli, di incompiute speranze e di minacce», come la tratteggiò John Fitzgerald Kennedy. Qualche cosa di indissolubilmente congeniale allo spirito di intraprendenza americano, felicemente individualista e insofferente dei limiti troppi stringenti.

A fronte dell’astronauta americano, una trasposizione spaziale di Ulisse volto a ogni avventura, il cosmonauta sovietico (ora russo) ha un orizzonte in un certo senso più ambizioso ma insieme anche più bloccato: non questo o quell’astro, tra gli innumerevoli che si accendono quando cala il sole, ma l’universo tutto quanto come insieme concluso (i vocaboli non tengono conto della legge di Hubble né della teoria dei multiversi) che esaurisce tutte le possibilità dell’essere. E che ha una caratteristica dirimente, rivelata dal nome.

Nella lingua russa kosmos significa semplicemente spazio, ma, ancora una volta, dagli strati più sotterranei della parola si riverberano le tracce della sua accezione primigenia nel greco antico, dove kósmos è essenzialmente l’ordine, ciò che è disposto, regolato, governato ordinatamente, e in quanto tale si oppone al cháos. Anche in questo caso si può risalire a una radice indoeuropea, kens (la stessa a cui si collega il latino censeo, “stimo, valuto, registro”), la cui impronta rimanda a un’idea di operazione compiuta con meditata autorità, che in greco servì dapprima a qualificare la disposizione ben regolata dell’esercito in campo e solo in un secondo momento, nell’ambito della speculazione pitagorica, fu applicata agli astri: di qui, per ulteriori traslazioni, il senso di armonia tra diversi elementi che, ridiscendendo nel mondo sublunare, ha dato origine al significato di ornamento e abbellimento trasfuso nella kosmetiké téchne, l’arte decorativa, per giungere infine alla nostra cosmetica.

Ma è all’accezione primaria che occorre guardare: l’idea di un universo ordinato, perfettamente organizzato e programmabile ex ante, internamente unificato da un’indefettibile armonia, è la medesima trascritta in termini storico-politici nella (fallita) utopia comunista, le cui opzioni lessicali, da cosmonauta a cosmonautica a cosmodromo, sopravvivono in Russia alla rovinosa caduta del regime sovietico. Non solo in Russia, però: tutti si adeguano, con rispettoso automatismo, quando parlano delle imprese spaziali di quel Paese. Se non fosse italiana ma russa, AstroSamantha sarebbe per noi CosmoSamantha.

La differenza fra “flagrante” e “fragrante”.

Incidente di discorso. La differenza fra “flagrante” e “fragrante” (che non vuol dire croccante). Maurizio Assalto su L’Inkiesta il 20 Febbraio 2023.

Questa coppia lessicale viene confusa sempre, ma i due termini non potrebbero essere più dissimili: uno deriva dal latino “flagro” e vuol dire lampante, nel senso di risplendere nella sua evidenza, mentre il secondo vuol dire sprigionare un intenso e gradevole profumo

Un caro amico, qualche giorno fa, mi decantava i pregi della “margherita” servita in una pizzeria che non frequentava da tempo: «Ottimi ingredienti, cornicione come si deve, cotta al punto giusto, fragrante…».

Fragrante? Certo che una pizza può essere fragrante, ma, gli ho domandato insospettito, che cosa intendi di preciso per «pizza fragrante»?

«Sì… ecco… croccante… leggera e croccante: ecco».

L’aggettivo fragrante e il connesso sostantivo fragranza sono tra le vittime più frequenti di quello svarione linguistico designato con il termine malapropismo (su cui cfr. “Linguaccia mia” dello scorso 7 novembre), ossia una forma decettiva di paronimia in cui lo scambio di parole che si somigliano nella forma ma differiscono nel significato non è un espediente retorico ma avviene del tutto involontariamente. Un “incidente di discorso” che non fa distinzioni socioculturali, come è confermato dal fatto che il mio interlocutore fosse un illustre cattedratico abituato a scrivere sui giornali.

Nel caso di flagrante/fragrante la coppia lessicale più assonante, quasi omofona, è in realtà flagrante/fragranza (dal latino flagro, “ardo, risplende: per cui un “reato flagrante”, ossia constatato nel momento stesso in cui viene commesso, “risplende” nella sua evidenza, come un fuoco che “arde” ancora nel momento in cui lo si guarda), ma la confusione è a livello di gag comica alla Nino Frassica. Nell’utilizzo più esteso, peraltro, flagrante vale come un sinonimo di “evidente, manifesto”.

Fragrante deriva invece da frago, “emano odore”, che può essere un odore buono o cattivo, ma nell’uso della parola è finito con il prevalere il senso positivo: infatti nelle confezioni delle boccette di profumo le descrizioni parlano di fragranze (floreali, fruttate, cipriate, o più nel dettaglio “di gelsomino”, “di bergamotto”, “di cannella” ecc.; a volte parlano anche di “note”, che è la stessa cosa ma più sottile). Una pizza fragrante è quindi una pizza profumata, o meglio che profuma. Profumo e fragranza sono di fatto sinonimi, anche se il secondo vocabolo sembra prestarsi meglio in relazione ai prodotti alimentari, in particolare quelli da forno consumati ancora caldi (tipicamente fragrante può essere infatti il pane, mentre per esempio delle fragoline di bosco si dice piuttosto che sono profumate).

Ma è davvero al profumo che si pensa quando si parla di pizza (o pane, torta, biscotto) fragrante? Prendiamo a caso un esempio (uno dei tanti) da internet, dal sito di un ristorante romano che encomiabilmente si incarica di dare qualche ragguaglio su come preparare la pizza in casa (probabilmente per lasciare a chi legge la conclusione che conviene andarsela a mangiare al ristorante): l’impasto va steso “rigorosamente con i polpastrelli, perché solo in questo modo rimarrà soffice e fragrante grazie alle bolle di gas formatesi con la lievitazione, che il mattarello schiaccerebbe via”.

Fragrante: cioè, l’impasto risulterebbe profumato grazie a questo lavoro di polpastrelli? A meno che non si tratti di polpastrelli poco puliti – nel qual caso però si ricadrebbe nel senso negativo dell’etimo, ossia non profumo ma cattivo odore – è ben difficile che la fragranza di una pizza derivi da questo modo di trattare la pasta e non piuttosto dalla qualità degli ingredienti. Infatti non è al suo profumo che si riferiva il amico, bensì, come mi ha spiegato, a quelle caratteristiche combinate di leggerezza e croccantezza che sono anche le più salienti in un preparato di questo genere. E la confusione è tanto più sorprendente in quanto vi incorrono persone che dimostrano di conoscere bene il significato di fragranza quando, per esempio, la usano riferita ai profumi per ambiente o persona.

Probabilmente, su un piano inconscio, agisce una vaga assonanza con la parola con cui è confusa, ossia croccante: foneticamente suggerita dalla presenza in entrambe della vibrante alveolare r a formare due gruppi consonantici dal suono piuttosto simile, gr e cr (ricordiamo che nella lingua latina più antica c e g erano la variante sorda e sonora della medesima lettera, resa con il segno C), che appunto conferiscono alla pronuncia una particolare vibrazione di echi onomatopeici. Senonché l’onomatopea è alla base unicamente dell’aggettivo croccante (anche sostantivo, quando designa un tipo di dolce fatto di frutta secca e zucchero caramellato), dal verbo francese croquer, formato sul rumore secco (“croc”) prodotto da certi alimenti, in genere (ma non solo) leggeri, quando vengono schiacciati tra le mani o sotto i denti.

In definitiva la croccantezza è una caratteristica che attiene al mondo del suono e delle sensazioni tattili, mentre la fragranza ha a che fare essenzialmente con l’olfatto. È pur vero che spesso le sensazioni si mescolano, per esempio quando addentiamo un toast ben cotto: non tanto però da non poter essere ricondotte ai rispettivi organi sensoriali e ai vocaboli più appropriati per renderne ragione.

E perciò, amico mio, se mi dici che quella tua pizza era fragrante, io ti credo e sono contento per te. Ma se poi mi aggiungi che era fragrante in quanto croccante, allora è flagrante: sei fuori strada.

Che differenza c’è tra etica e morale?

Che differenza c’è tra Etica e Morale?

Antonio Giangrande: Laddove il Diritto Soggettivo dei singoli si scontra con l’Interesse Pubblico e degrada in Interesse Legittimo nelle pretese contro i Burocrati della Pubblica Amministrazione, così l’Etica, come bene pubblico da salvaguardare, è il faro al quale la Morale del singolo si deve conformare, a pena di sanzione.

Propongo una distinzione fondamentale tra Etica e Morale. Silvano Agosti, regista, sceneggiatore, poeta e scrittore, su Indipendente domenica 10 settembre 2023.

L’Etica nasce con l’uomo per suggerire il conforto e i limiti in ogni aspetto del comportamento umano, mentre la morale semplicemente proibisce, inibisce e nega qualsiasi azione non prevista dalle “norme”. Nel corso dei secoli, uno dei tranelli più spietati, concepito e organizzato dalla cultura del Potere è stata la sostituzione dell’Etica con la morale. È così che il Normale, assediato dai divieti, crescendo accetta di sottomettersi alla morale, all’invisibile prigione del “questo non si può fare”, fino a subire una condizione di impotenza.

Così se l’Etica suggerisce e consente di ”rendere chiaro qualsiasi atto”, la morale si limita genericamente a suggerire ad esempio di “non commettere atti impuri”. È a causa di questa angoscia del questo non si può fare e la sottomissione di qualsiasi azione a un senso di colpa, che nel quotidiano proliferano disonestà, truffe, menzogne e malvagità. Un perfetto esempio di morale opposta all’etica me l’hanno offerto i “matti veri” mentre giravo il mio film La seconda ombra dedicato a Franco Basaglia. Stavo realizzando nel cuore della notte la scena madre dell’abbattimento del muro di cinta che circondava il manicomio e tra una picconata e l’altra un “matto vero” ha scandito il famoso comandamento della morale “non desiderare la donna d’altri” e subito la voce di una altro “vero matto” ha incalzato “è giusto, non desiderare la donna d’altri… a meno che non lo desideri anche lei.”

 Francobolli di storia. Nella vicenda drammatica di Ustica, osserviamo il lato oscuro della storia. La storia ci obbliga a confrontarci con le questioni universali, ci serve a combattere la peste del nostro tempo, presentismo e fake news, ma soprattutto la storia di serve a sconfiggere l’oblio. Senza passato non c’è idea di futuro. Riccardo Nencini su Il Riformista il 10 Settembre 2023 

Lo scrittore americano Don Winslow, in ‘Città in fiamme’, si avventura in questo dialogo fra due mafiosi. ‘Sai cos’è la storia?’, chiede il capomafia al picciotto. ‘Boh, il racconto del passato’, risponde il picciotto dopo averci pensato a lungo. Il capo lo guata: ‘No, è quel che la gente dice sia successo nel passato’. Il capomafia ha ragione. La storia la raccontano soprattutto i vincitori e, nel farlo, adattano, emendano, modificano, tacciono, esaltano.

Nella vicenda drammatica di Ustica, e non è l’unica, a questi elementi si mescola la ragion di Stato. Verità che vengono rivelate solo dopo anni e, spesso, solo parzialmente. La ragion di Stato, insegna Macchiavelli, proprio perché è legata a una ragione superiore, risponde a una morale diversa dalla morale comune. L’interesse statuale viene per primo, va tutelato anche a costo della verità se è utile alla comunità nazionale. Bene, ma chi stabilisce il limite che non si deve mai superare, come si fissano i criteri della conoscenza, è giusto occultare pezzi di verità di fronte a una tragedia di quelle proporzioni e, infine, era davvero in ballo la ragion di Stato?

La storia ci obbliga a confrontarci con le questioni universali, ci serve a combattere la peste del nostro tempo, presentismo e fake news, ma soprattutto la storia di serve a sconfiggere l’oblio. Senza passato non c’è idea di futuro. Con parole forti l’ha detto da par suo Faulkner: il passato non è mai morto, anzi non è mai passato. Ma se la narrazione del passato è un legno storto fatto di omissioni, di mezze verità, di acrobazie da circo, come può sulla menzogna costruirsi il futuro? Una società senza memoria collettiva ha un’identità sfumata, è più debole. Se omettiamo di raccontare passaggi decisivi della nostra storia, o li raccontiamo nascondendo non un particolare ma un evento importante, la domanda ‘chi siamo davvero?’ ti sorprende come un ladro nella notte.

Non sono così ingenuo da pensare che nel governo degli Stati tutto avvenga alla luce del sole, tuttavia è tempo di definire un diverso canone. Siamo davvero certi che sia stata detta tutta la verità, fin dal gennaio-febbraio del 2020, sull’origine del Covid e sul suo impatto o, per ragioni in larga parte economiche, si è aspettato un po’ troppo a rivelarne gli effetti? Quante volte si camuffa sotto la voce ragion di Stato l’interesse particolare di chi governa in quel dato momento?

Da millenni l’uomo è mosso dai medesimi sentimenti: potere, paura, passioni. Tucidide, Napoleone e il commissario Ricciardi creato dal genio di De Giovanni concordano. Se i sentimenti che condizionano l’umanità sono questi, è fuorviante immaginare che la ragion di Stato viva nell’empireo e non risenta invece della condotta dei singoli quando siedono nella stanza dei bottoni. Una ragion di Stato a misura d’uomo, non a tutela di una comunità. Proprio quello che non ci serve. Riccardo Nencini

Quesiti linguistici. Che differenza c’è tra etica e morale? Risponde la Crusca. Accademia della Crusca su L’Inkiesta il 18 Febbraio 2023

Nella lingua corrente, possono essere impiegate come sinonimi in molti contesti. Eppure, fin dall’italiano delle origini si rileva tra i due termini una differenziazione nell’uso che è bene conoscere per gestire le nostre scelte linguistiche con più consapevolezza

Tratto dall’Accademia della Crusca

Alcuni lettori ci chiedono quale sia la differenza tra etica e morale.

Risposta

Nei dizionari contemporanei troviamo etica messo a lemma come sostantivo femminile, e morale invece come aggettivo che può avere anche un uso sostantivato, sia al femminile che al maschile. Quello che interessa ai nostri lettori è il rapporto tra il significato del sostantivo femminile etica e quello di morale nel suo uso sostantivato femminile (la morale e non il morale, con cui invece si intende lo ‘stato d’animo’, la ‘condizione psicologica’, per esempio in contesti come “avere il morale alto”, “essere giù di morale”, Zingarelli 2022).

A ben guardare, anche etica nasce però da un aggettivo: per la precisione, etico ‘relativo all’etica’, a cui nei dizionari è dedicata un’entrata a sé stante, riproduce l’aggettivo greco ētikhós ‘relativo al carattere’, a sua volta riconducibile al sostantivo greco êthos, il quale può essere tradotto in molti modi: innanzitutto come ‘dimora, sede, abitazione, soggiorno’ ma, in senso esteso, anche come ‘consuetudine, uso, abitudine, costume, istituzione’ e come ‘carattere, indole, inclinazione, stato dell’animo’. Centrale, per comprendere il passaggio semantico, è il concetto di “abitudine”, che unisce idealmente l’idea dell’“essere a casa” (se vogliamo, il luogo sicuro, in cui mettiamo in atto i ritmi quotidiani a noi consueti) con quella dell’“avere un certo carattere” inteso come una serie di consuetudini e attitudini psicologiche, personali o comunitarie. Da êthos, per esempio, deriva anche la parola etologia, che è appunto lo ‘studio dei caratteri e dei costumi di un popolo’ e anche il ramo della biologia che studia il comportamento animale (Vocabolario Treccani online). E pure ethos è una parola presente nei vocabolari italiani, adottata dal greco in forma semplicemente traslitterata o al massimo, ma più raramente, come etos (privata della h, che dopo la t traslittera la lettera greca theta, che rende l’aspirazione della dentale sorda che manca alla tau, resa con la semplice t) e messa a lemma col significato attuale di ‘regola, norma di vita’ (Zingarelli 2022), oppure, come specifica il Vocabolario Treccani online, con un significato specialistico di ambito filosofico-sociologico e uno più ampio:

èthos <ètos> s. m. [traslitt. del gr. ἦϑος]. – Nel linguaggio filos. e delle scienze sociali, il costume, la norma di vita, la convinzione e il comportamento pratico dell’uomo e delle società umane, e gli istituti con cui si manifestano storicamente: è l’oggetto proprio dell’etica. In senso più generale, comportamento e abitudini di vita, riferito anche agli animali e alle piante (v. etologia […]).

Morale, similmente, è l’esito italiano dell’aggettivo latino moralis (moralem all’accusativo), da ricondurre a sua volta al sostantivo mos, moris, che – a differenza di êthos – non è passato come tale nei dizionari italiani. Anche mos, in latino, è una parola ricca di sfumature, che può essere tradotta come ‘maniera di comportarsi, modo d’agire, costume, usanza, abitudine, tradizione’, anche caratterizzandola in senso positivo o negativo (‘buoni costumi, moralità’ e ‘malcostume, corruzione’) o, al pari della cugina greca, come ‘carattere’ (in certi casi ‘volontà, desiderio, capriccio, arbitrio’) e, in determinati contesti, come ‘legge, regola, norma’.

Secondo Bruno Migliorini [Parole d’autore (onomaturgia), Firenze, Sansoni, 1975, p. 72], l’aggettivo moralis fu coniato da Cicerone ricalcando il greco ētikhós, dunque con un’operazione simile a quelle che facciamo oggi quando vogliamo “dire nella nostra lingua” una parola appresa da un’altra. Nell’incipit del De Fato si legge, infatti:

[…] dato che si riferisce al nostro comportamento, che loro chiamano ethos, mentre noi siamo soliti chiamare quella parte della filosofia “scienza dei costumi”; ma è il caso di chiamarla “filosofia morale”, se si vuole arricchire la lingua latina [quia pertinet ad mores, quod ethos illi vocant, nos eam partem philosophiae de moribus appellare solemus, sed decet augentem linguam Latinam nominare moralem] (Cicerone, Il fato, Roma, Carocci, 2014, p. 45 [De Fato, I])

Già nelle lingue da cui derivano, le parole che qui ci interessano funzionavano come aggettivi sostantivati. Al neutro plurale, tà ēthikà ‘le cose etiche’ (l’Etimologico, Tommaseo-Bellini) può essere inteso appunto come ‘l’etica’, ‘le opere morali’. L’esempio più luminoso di quest’uso si trova nei titoli delle opere aristoteliche di filosofia pratica nell’edizione di Andronico di Rodi, realizzata appunto raccogliendo tematicamente i vari trattati cosiddetti “acroamatici” attribuiti allo Stagirita: pensiamo per esempio agli scritti denominati Ēthikà Nikomácheia, in latino più tardi tradotti – al singolare – Ethica Nichomachea, e in italiano divenuti l’Etica Nicomachea.

Malgrado, come si è visto, in latino esistesse anche l’aggettivo ethicus prestato direttamente dal greco, un’altra raccolta aristotelica (o più probabilmente pseudo-aristotelica, e meno famosa) di opere morali, Ēthikà Megála, fu nota al mondo intellettuale latino come Magna Moralia (in cui moralia è neutro plurale, ‘le cose morali’). Neppure la fortuna di questo aggettivo sostantivato può essere messa in dubbio: moralia ricorre spesso nei titoli di opere antiche e moderne: basti pensare all’omonima raccolta di Plutarco (nel cui caso il titolo è di nuovo una traduzione tarda di tà ethikà) e, per citare un autore molto più recente, a Minima Moralia di Theodor W. Adorno, che fa eco proprio al titolo dell’opera aristotelica. Eppure, nel passaggio all’italiano, la posizione nei dizionari italiani contemporanei del sostantivo morale si mantiene più discreta rispetto a quella di etica, ossia, come si è visto, nidificata all’interno del lemma dedicato all’aggettivo.

Al di là di queste riflessioni preliminari, veniamo al significato, che è molto vasto sia per etica sia per morale. I dizionari ci aiutano a fare ordine nella materia, segnalando generalmente, per entrambe le parole, un’accezione tecnico-specialistica desunta dal lessico filosofico, accompagnata dalle marche di voce “dotta” o “tecnico-specialistica”, e un’altra più comune (cfr., per esempio, Zingarelli 2022, GRADIT, o Sabatini-Coletti, che per morale dà priorità all’accezione comune, e Garzanti, che lo fa per entrambe le parole). Prendiamo, per semplificare, le definizioni fornite dallo Zingarelli 2022; nel caso di morale per adesso riferendoci, come si è detto, solo ai significati associati all’uso sostantivato:

etica

1. Parte della filosofia che studia i problemi e i valori connessi all’agire umano: “la distinzione fra bene e male è propria dell’etica”; “l’etica kantiana”. Etica normativa (o precettiva), etica descrittiva, a seconda che si proponga, o meno, di raccomandare norme di comportamento.

2. Insieme di norme di condotta pubblica e privata seguite da una persona o da un gruppo di persone: “un’etica severa”, “la mia etica professionale”, “l’etica cristiana”, “l’etica di Giolitti”, “etica di De Gasperi”.

morale

1. Parte della filosofia che studia i problemi relativi alla condotta dell’uomo. SIN. Etica.

2. complesso di consuetudini e norme che regolano la vita pubblica e privata: m. individuale, m. collettiva; è un uomo senza morale.

Fin qui, le definizioni appaiono molto simili, quasi sovrapponibili. Effettivamente etica e morale sono sinonimi: ma, come sappiamo, in una lingua è molto difficile imbattersi in due sinonimi perfetti (situazione che si presenta quasi solo nel caso di parole con significato molto ristretto e preciso: per fare un esempio, peraltro non universalmente condiviso, le preposizioni tra e fra). Più frequentemente, due sinonimi condividono il significato fondamentale, per il quale risultano spesso sostituibili l’uno con l’altro, ma mantengono alcune differenze per cui risultano non interscambiabili, su altri piani semantici (le accezioni secondarie) o in relazione ad altre variabili della situazione comunicativa (pensiamo alla scelta del registro e alle differenti connotazioni: non in tutti i contesti in cui diciamo nubile potremmo dire zitella).

Tra questi sinonimi “imperfetti” figurano anche le nostre due parole. Nella prima accezione, etica e morale possono essere rimpiazzate l’una con l’altra senza alterare il messaggio: parlare di “etica kantiana” risulta, nella maggior parte dei contesti, pressoché identico a parlare di “morale kantiana”, se intendiamo riferirci alla parte dedicata al problema del giusto agire nel sistema filosofico di Immanuel Kant. La nostra sensibilità di parlanti ci rende meno sicuri di questa interscambiabilità già a partire dalla seconda accezione: possiamo ancora sostituire con la stessa serenità etica con morale in una frase come “Giulio ha un’etica severa”, o morale con etica in “Giulio è un uomo senza morale”? Le domande dei nostri lettori nascono proprio da perplessità di questo genere. La questione si complica ulteriormente in presenza di polirematiche come etica professionale: possiamo certo parlare di morale professionale, ma il significato non sembra esattamente preservato. Una sostituzione che mantenga intatto il significato veicolato diventa poi impossibile se prendiamo, per esempio, la terza accezione con cui lo Zingarelli registra morale:

3. la morale della favola: l’insegnamento che si può trarre da un fatto o da un racconto: la m. della favola è che hai sbagliato tutto | morale della favola (fig., anche scherzoso) in conclusione: perciò, m. della favola, ho pagato tutto io.

per la quale evidentemente morale non si può sostituire con etica, pena una perdita di significato.

Il fatto che i test di sostituzione sinonimica falliscano per le polirematiche non costituisce, ovviamente, una sorpresa. Un’espressione polirematica è una parola composta da più elementi il cui significato complessivo è indipendente rispetto a quello dei singoli costituenti e non semplicemente desumibile dal loro accostamento: un “qualcosa di più”, o “di diverso”, che usualmente non si mantiene intatto quando uno dei suoi elementi è rimpiazzato da un sinonimo (per esempio: bacchetta magica e *bastoncino magico). Le espressioni che abbiamo citato però, così come altre polirematiche in cui le nostre parole figurano come aggettivi (ce ne sono molte formate con morale), costituiscono ottimi esempi per aiutarci a considerare in quali “direzioni” il significato di etica e quello di morale si siano orientati e quali sfumature abbiano assunto, in certi casi fino a cristallizzarsi, in italiano. Allo stesso scopo è utile considerare le famiglie di parole legate a etica e morale, in relazione alle quali il rapporto di sinonimia che adesso analizziamo si fa più complesso.

Osserviamo per esempio gli aggettivi etico e morale, iniziando di nuovo dal vocabolario (anche in questo caso, per comodità, prendiamo a riferimento lo Zingarelli 2022):

etico

1. (filos.) che concerne l’etica o la filosofia morale.

2. che attiene all’agire umano valutato in relazione a principi di ordine morale | codice etico, insieme di principi di natura morale da osservare nell’esercizio di una specifica attività.

3. (gramm.) dativo etico, complemento che esprime la partecipazione affettiva con cui una persona segue l’azione espressa dal verbo (per es. mi in ‘stammi bene’ oppure in ‘che mi combini?’)

morale

AGG: 1. che concerne il comportamento umano in relazione alle categorie del bene e del male (giudizio morale, precetto, massima ecc.).

2. conforme ai principi di ciò che è buono e giusto (libro, discorso m.).

3. relativo al mondo dello spirito, della coscienza (forza, fiacchezza, aiuto m.).

Potremmo semplificare così: se nella definizione di etico (il solo fra i due aggettivi che appare legato alla filosofia, per lo meno in una accezione) i “concetti chiave” sembrano essere quello della direzione da dare all’agire (cfr. codice etico, che assomiglia all’espressione etica professionale), conformemente al significato che hanno i sostantivi etica e morale intesi in senso tecnico-filosofico, e quello della partecipazione emotiva a un’azione (come nel caso del dativo etico della grammatica), nell’aggettivo morale echeggiano invece “le categorie del bene e del male”, e dunque il giudizio di valore, o concetti fortemente caratterizzati in senso metafisico come quelli di “spirito” e “coscienza”. Abbiamo dunque, nella lingua che parliamo, una gamma di espressioni che va dalle più “neutre” come libertà morale (‘facoltà dell’uomo di agire con coscienza in modo indipendente dai valori comunemente approvati’ e ‘libero arbitrio’) e coscienza morale (‘consapevolezza della portata etica delle proprie azioni’) a quelle più marcate in senso assiologico (queste e le seguenti definizioni sono tratte dal Nuovo De Mauro). Ne citiamo alcune:

senso morale ‘capacità innata e istintiva dell'uomo di discriminare il bene e il male e di provare gioia nel compiere o nel veder compiere buone azioni’

vittoria morale ‘quella di chi, pur essendo stato materialmente sconfitto, può essere considerato il vero vincitore per motivi di ordine morale’

questione morale ‘nella pubblicistica italiana, dagli anni Settanta in poi, manifestazione della necessità di un impegno da parte dei partiti al rispetto dei principi di onestà e correttezza nella gestione del denaro pubblico’

responsabilità morale ‘responsabilità di chi non è estraneo ad atti illeciti per la posizione occupata, per le affermazioni fatte o per la condotta mantenuta’

riarmo morale ‘impegno collettivo assunto in vista di un rinnovamento morale della società; ‘denominazione di un movimento religioso ispirato alla predicazione del pastore americano Frank Buchman (1878-1961), basato sulla completa dedizione al Cristo, sull’onestà e sull’altruismo assoluti’

autorità morale ‘quella di chi, pur non avendo un effettivo potere, gode di prestigio derivante da stima e affetto’

E, per morale inteso nella terza accezione:

schiaffo morale ‘forte delusione, cocente umiliazione’

danno morale ‘danno che consiste nella lesione di un interesse non patrimoniale’

Tornando a un esempio con i sostantivi, la distinzione si fa sempre meno sottile quando prendiamo un’espressione come fare la morale (del tutto inaccettabile se sostituita con etica: *fare l’etica), che vale ‘impartire a qualcuno ammonizioni o biasimi, criticarne il comportamento con tono di superiorità’: la superiorità di chi si ritiene, appunto, “dalla parte del giusto”. E caratterizzate da una simile sfumatura, per lo più spregiativa, possono essere anche moraleggiante, moraleggiare, moralismo, moralista, moralistico, moralizzare, moralizzabile, moralizzatore: una sfumatura che non è partecipata invece dalla famiglia, meno numerosa, di parole legata a etica (ethos, eticamente, eticista, eticità…).

Per approfondire la questione, i lessicografi che hanno compilato il vocabolario Zingarelli propongono un utile prospetto denominato “Sfumature di significato”, al quale rimandano sia la definizione di etica sia quella di morale. Ne citiamo una parte:

Il complesso di consuetudini e norme che una persona o una collettività considerano come giuste e necessarie, e dunque accettano e propongono come modello da seguire nella vita pubblica e privata, in un’attività e simili si definisce morale. […] Un altro termine per identificare l’insieme delle norme di comportamento di un singolo o di un gruppo umano è etica. Nel linguaggio filosofico si tende a differenziare i due termini, preferendo il termine morale per indicare l’insieme di valori, norme e costumi di un individuo o di un gruppo, e riservando la parola etica alla speculazione filosofica sul comportamento umano, cioè alla morale intesa come disciplina (Zingarelli 2022).

Parafrasando: esiste una riflessione tecnica che tende a distinguere il concetto di morale, più direttamente legato al giudizio di valore su ciò che è giusto e sbagliato, da quello di etica, che richiamerebbe invece una dimensione teorica più astratta, capace di riflettere sulla morale stessa e farvi ordine concettuale. Il problema, nell’etica, non sarebbe più dunque quello assiologico di capire se qualcosa è giusto, ma quello ontologico di definire che cosa è giusto, o come in generale è possibile indirizzare l’agire.

Questa sistematizzazione, che ha il pregio di semplificare, ha anche il difetto di irrigidire in una distinzione indeformabile una questione che nel campo sterminato della riflessione filosofica, così come in quello ancora più aperto (e soprattutto plastico) della lingua che parliamo, resta molto complessa e articolata. Senza pretendere di addentrarci in caratterizzazioni specialistiche (per le quali un’utile introduzione per i non addetti ai lavori può essere la voce dell’Enciclopedia Treccani dedicata a etica), ci limitiamo a notare che la distinzione che abbiamo abbozzato, nei fatti, sussiste, anche se nella lingua non è sempre rispettata con rigore. Esistono moltissimi tipi di approcci all’etica: per molti di questi il fine della riflessione non è necessariamente legato al concetto di “Bene”, ma, per esempio, a quelli di felicità (l’etica eudaimonistica di Aristotele), di piacere (l’etica edonistica epicurea), di utile (l’utilitarismo di Jeremy Bentham): eppure non è infrequente imbattersi in contesti in cui per descrivere le stesse cose si usa la parola morale (il motore di ricerca Google restituisce 24 risultati per “morale eudaimonistica”, 967 per “morale edonistica” e 219 per “morale edonista”, 1380 per “morale utilitaristica” e 813 per “morale utilitarista”). Così come, nella raffinata giungla delle distinzioni specialistiche, è possibile veder chiamare morale + agg. l’etica normativa, l’etica descrittiva, le etiche applicate ecc. (in perfetto accordo, in fondo, con quanto espresso nei vocabolari sulla sostanziale sinonimia delle accezioni principali delle nostre due parole).

Tralasciando le distinzioni tra i concetti di etica e morale che valgono solo all’interno dei sistemi filosofici di singoli autori (come quella, la più famosa forse, di Hegel), familiari solo a chi parla la lingua dello specialista di quei pensieri, riportiamo un esempio tratto dalla traduzione italiana di Etica di William K. Frankena, che è invece una famosa introduzione di carattere descrittivo e generale allo studio della filosofia pratica. Per spiegare cosa si debba intendere per etica (disciplina sistematica che problematizza il livello dell’agire morale irriflesso, “acritico”), si usano comunque perifrasi che contengono l’aggettivo morale:

L’etica [Ethics] è una branca della filosofia, è la filosofia morale [moral philosophy] o il pensiero filosofico sulla moralità [morality], sui problemi morali [moral problems] e sui giudizi morali [moral judgements]. […] La filosofia morale comincia quando […] superiamo la fase in cui siamo diretti dalle norme tradizionali ed anche la fase in cui queste norme sono così interiorizzate da poter dire che siamo internamente-diretti e, giungendo alla fase in cui pensiamo da soli in termini critici e generali […], raggiungiamo una sorta di autonomia come agenti morali. (William K. Frankena, Etica. Un’introduzione alla filosofia morale, Milano, Edizioni di Comunità, 1981, p. 49 [ed. or. Id., Ethics, Englewood Cliffs, New Jersey, Prentice-Hall, 1973]; grassetti e originali tra quadre nostri)

Questa differenza concettuale, come si è iniziato a intuire, non si ripercuote solo sul linguaggio tecnico della filosofia: le sfumature di significato che abbiamo visto, per quanto, appunto, non sempre rispecchiate da una corrispondenza univoca con le parole etica (o etico) e morale, sono prontamente fotografate anche dalla lingua comune, e una riprova ne è per esempio l’alta disponibilità dell’aggettivo immorale, che fondamentalmente significa ‘cattivo’. Volendo essere più precisi, citiamo i sinonimi di immorale riportati dal Vocabolario Treccani Sinonimi e contrari: amorale, degenerato, degenere, depravato, impudico, pervertito, turpe, vizioso. E ancora, se riferito a una cosa: impudico, indecente, licenzioso, scandaloso, scostumato, turpe, vizioso. Il fatto che il contrario di etico, invece, si possa esprimere solo con locuzioni come poco etico, che peraltro non ha un significato ugualmente negativo, ci conferma una volta di più lo status assiologicamente marcato di morale.

Germi di queste differenti sfumature si rintracciano già nell’italiano delle origini, e sono forse da correlare al dato storico relativo alla fortuna medievale di Aristotele, che, dopo essere stata legata a una fama perlopiù indiretta e filtrata da traduzioni arabe, all’avversione di una parte della Cristianità dotta, alla concorrenza della tradizione platonica e neoplatonica, cresce enormemente nella seconda metà del XIII secolo. Da quel momento, le opere di quello che diviene il “filosofo” per eccellenza iniziano a circolare in molte nuove traduzioni latine e volgarizzamenti. Tra queste è compresa l’Etica Nicomachea, la più famosa delle tre opere dedicate alla filosofia pratica dell’edizione di Andronico. Il TLIO (Tesoro della Lingua Italiana delle Origini infatti lemmatizza etica, definendola ‘1. [Filos.] La parte della filosofia che si occupa dei valori e dei giudizi riguardanti il comportamento umano’ e, precisando con una seconda accezione, aggiunge significativamente: ‘1.1. Titolo di un'opera di Aristotele.’

In entrambe le accezioni, la parola è documentata dalla seconda metà del XIII secolo. Nel significato 1, la prima attestazione si rintraccia nella Rettorica di Brunetto Latini (1260-1261 ca.), nella quale l’etica è definita la “scienza” che insegna a “bene vivere e costumatamente, e dà connoscimento delle cose oneste e dell'utili e del lor contrario” (Brunetto Latini, La Rettorica, testo critico di Francesco Maggini, prefazione di Cesare Segre, Firenze, Le Monnier, 1968, p. 46). Il primo documento in cui invece si cita l’Etica aristotelica, opera tanto nota da diventare l’etica per antonomasia, è indicato come il volgarizzamento senese del De regimine principum di Egidio Romano: “Il filosafo dice, nel secondo libro dell'Etica, che dodici virtù sono di buone operazioni” (Del reggimento de' principi di Egidio Romano. Volgarizzamento trascritto nel MCCLXXXVIII, a cura di Francesco Corazzini, Firenze, Le Monnier, 1858, L. 1, pt. 2, cap. 3, p. 27).

Nel TLIO (attualmente in fase di compilazione) morale non è ad oggi lemmatizzata; consultando il Corpus OVI se ne trovano comunque attestazioni a partire dal 1268 (la prima appartiene al volgarizzamento di Andrea da Grosseto del Trattato della Dilezione, L. IV, cap. 50, cfr. Arrigo Castellani, Il Trattato della Dilezione d'Albertano da Brescia nel codice II IV 111 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, a cura di Pär Larson e Giovanna Frosini, Firenze, Accademia della Crusca, 2012, pp. 245-312). Oltre a comparire, come nel caso appena citato, in testi in cui descrive una parte della filosofia, quella pratica (la “filosofia morale”, la “scienza morale”, “la dottrina morale”, spesso abbreviata in “la morale”, cosa che lascia intravedere le radici di un progressivo processo di sostantivizzazione) e comportarsi dunque come sinonimo di etica, l’aggettivo morale appare in molti casi, fin da questi primi esempi, come marcato in senso assiologico. In uno dei più antichi, la traduzione del Trésor di Brunetto Latini già attribuita a Bono Giamboni (fine del sec. XIII), si legge per esempio:

Due sono le virtudi. L’una si è detta intellettuale, sì come è sapienza, scienza e prudenza. L’altra si chiama morale, sì come è castità, larghezza ed umiltà. Onde quando noi volemo laudare uno uomo di virtude intellettuale, diciamo: Questi è un savio uomo, intendente e sottile. E quando noi volemo laudare un altro uomo di virtù morale, cioè di costumi, noi diciamo: Questi è un casto uomo, umile e largo. (Il Tesoro di Brunetto Latini volgarizzato da Bono Giamboni, raffrontato col testo autentico francese edito da P. Chabaille, emendato con mss. ed illustrato da Luigi Gaiter, Bologna, Presso Gaetano Romagnoli, 4 voll., 1878-83, L. 6, cap. 7, p. 31)

Per chi abbia interesse a consultarli (e può farlo qui), seguono svariati esempi che ci mostrano l’aggettivo morale impiegato in questo senso: lo troviamo in espressioni come “virtù (o vertù, o vertude) morale”, “ovra [‘opera’] morale”, “morale nobilitate”, e anche usato in senso assoluto, come sinonimo di buono, onesto, giusto, casto, retto:

Epicuro fu solennissimo filosofo e molto morale e venerabile uomo a’ tempi di Filippo, re di Macedonia e padre di Alessandro. (Giovanni Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante, c. X, par. 10, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di Vittore Branca, vol. VI, Milano, Mondadori, 1965 [a cura di Giorgio Padoan], p. 515)

Non mancano testi in cui la questione del bene e del male, questione morale per eccellenza, è presentata con toni accesi fino al dramma:

Quale è la guerra morale? Il costume del mondo sozzo e laido: ruba colui, ruba quell’altro, uccidi colui, uccidi quell’altro. E così de gli altri mali. Quale è il mezzo che dà pace a questa guerra morale? È la giustizia e la legge. Questo mezzo mette in pace la guerra del costume, o la morale che si chiami […]. (Franco Sacchetti, Sposizioni Vangeli, 1378-1281, cap. 49, in Id., La battaglia delle belle donne. Le lettere. Le Sposizioni di Vangeli, a cura di Alberto Chiari, Bari, Laterza, 1938, pp. 113-288: 283)

Quella stessa sensibilità che induce i parlanti a caricare morale di sfumature assiologiche spiega anche il significato della già citata espressione morale della favola, che usiamo anche oggi. In molti di questi contesti antichi, l’interpretazione detta morale è quella che rivela, a partire da un racconto, un insegnamento allegorico indirizzato al “Bene” (anche Boccaccio la usava così, cfr. per esempio le Esposizioni sopra la Comedia di Dante, c. I (ii), par. 19). Da qui il verbo moralizzare ‘interpretare (uno scritto) traendone un insegnamento morale’ e l’aggettivo moralizzato ‘interpretato in chiave morale (detto di una favola)’, entrambi registrati nel TLIO come attestati per la prima volta nel Commento all’Inferno dantesco di Francesco di Buti (1385-1395). Per esempio:

Et intorno a questo è da sapere che Isopo è uno libello che si legge a’ fanciulli che imparano Grammatica, ove sono certe favole moralizzate per arrecarli a buoni costumi. (Commento di Francesco da Buti sopra la «Divina Commedia» di Dante Alighieri, a cura di Crescentino Giannini, 3 voll., Pisa, Nistri, 1858-62, vol. I., p. 590)

Quando, agli inizi del XVII secolo, le nostre parole approdano alla lessicografia, lo fanno in forma piuttosto sintetica. Nella prima impressione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), etica figura col significato di ‘scienzia de’ costumi’, corredata dei corrispondenti greci e latini (ἠθική e philosophia moralis); morale, a differenza che nei dizionari contemporanei, è lemmatizzata sia come aggettivo, col significato di ‘appartenente a costume. Lat. moralis’, sia come sostantivo, semplicemente come ‘costume. Lat. mos’, senza alcun riferimento a una “scienza” o “filosofia”. Significativa è anche la correzione della definizione del sostantivo della quarta impressione (1729-1738), che da ‘costume’ diventa ‘costume buono’.

Tutt’altro che sintetica è invece l’impresa ordinatrice compiuta nel Tommaseo-Bellini (1861), una sistematizzazione capace di ripercorrere e confermare tutte le suggestioni che abbiamo evidenziato, e di raccogliere anche nuove istanze semantiche, evidentemente accumulate in un secolo, il XIX, florido per la produzione filosofico-letteraria italiana di stampo cattolico. Ne citiamo alcune parti. Etica è, nella prima accezione, la ‘scienza de’ costumi’ e il ‘costume, in lato senso, onde anco Abito e Indole d’animali’. E ancora: “L'etica è la teorica de’ costumi, trattata secondo la semplice umana ragione. Morale intendesi anco secondo i principii e le tradizioni della teologia cristiana […]. E perchè Ἔθος ha senso meno espressam[ente] mor[ale] di quel che suol darsi a Morale, sarà più pr[oprio] Etica del piacere, dell’amor proprio, dell’utile”. La seconda e la terza accezione sono tutte dedicate ad Aristotele: “2. Dai libri così intitolati d’Arist., che nel gr. sono N. pl., e sottintendono Cose, o sim., vennero i tit. de’ Trattati d’etica, metafisica, e altri”; “3. Il Libro”.

Della voce morale (unica per aggettivo e sostantivo), il Tommaseo valorizza l’uso sostantivato tributandogli la prima posizione e richiamandosi espressamente ai valori del cristianesimo:

1. La Morale è il complesso de’ doveri e de’ consigli perfezionanti l’umana personalità. […] Nelle cose segnatam. della Chiesa cattolica discernonsi quelle che più direttam. concernono la fede, quelle che la morale, quelle che la disciplina […]. Morale religiosa, quella che fonda i suoi precetti sui principii religiosi. – Morale politica, quella che applica i generali principii di moralità alle faccende politiche […].

Soltanto dalla seconda accezione si definisce morale in senso “più generale”, ma comunque citando a più riprese il pensiero cattolico di Antonio Rosmini e di Alessandro Manzoni, che di Niccolò Tommaseo peraltro erano amici personali:

2. Più gen. che Scienza e Dottrina e sim. Tutto quel che concerne la volontà umana libera in quanto capace di merito e di demerito. (Rosm.) Forma della Morale, è l’atto della volontà col quale è posta quella stima a cui si congiungono le affezioni e le azioni dell’agente morale […].

La Morale evangelica, Le dottrine morali insegnate dal Vangelo, e la pratica di quegl’insegnamenti. Al. Manz. intitola un suo bel libro Della Morale cattolica, e in esso dimostra che la Morale cattolica non è diversa dalla Evangelica e dalla retta morale di tutte le coscienze, come voleva il Sismondi con leggerezza da francese del secol passato.

Si segnala la possibilità di sostituire etica con morale anche per identificare riflessioni non tese al perseguimento del “Bene”: “La Morale d'Epicuro è il piacere, non proprio la voluttà. – La Morale del Bentham è l’utile”. Addirittura, si fa coincidere l’idea di “Bene” con quella di “Vero”: “Una Morale del vero, parrebbe tautologia, perchè il vero e il bene non possono mai stare disgiunti”.

Seguono le accezioni “3. La Morale dell’uomo, dice I costumi, Il costume di lui” e “4. Quanto alla scienza. Dicesi Teologia morale agg., e Morale sost. – Studiar la Morale. – La Morale del…, il libro di tale o tal autore”, e il significato di alcune espressioni, tra cui morale della favola: ‘l’applicazione della finzione poetica a un morale insegnamento’, che è chiosato con la saggia e prudente considerazione “che talvolta, per vero, è poco morale”. La voce completa si trova qui.

Concludiamo. Con questa carrellata, che non ha alcuna pretesa di esaustività perché, intorno a parole e concetti così pregnanti, le questioni da approfondire e le precisazioni da fare sarebbero ancora moltissime, abbiamo provato a raccontare la storia delle nostre parole “fotografandone” il significato nel corso del tempo. Con questo speriamo di aver fornito alcuni strumenti utili a valutare la loro evoluzione e il loro posizionamento nell’italiano contemporaneo. Nella lingua corrente, in definitiva, etica e morale possono essere impiegate come sinonimi in molti contesti: da parlanti italiano in fondo lo sappiamo bene. Eppure, fin dall’italiano delle origini si rileva tra i due termini una differenziazione nell’uso che giustifica i dubbi dei nostri lettori. Gli spunti di riflessione offerti dalle loro domande, ancora una volta, ci offrono l’occasione per gestire le nostre scelte linguistiche con più consapevolezza: e qui, forse, sta la morale di questa risposta.

 Simona Cresti 15 febbraio 2023

L'uso dei neologismi per nascondere storture e ingiustizie.

La politica, i partiti, i sindacati, le associazioni e per ultimi ma non ultimi i media, quale vocabolario intendono usare? Quello vecchio o quello nuovo? Franco Neglia su La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 Febbraio 2023.

I neologismi di solito sono termini nuovi da inserire nel vocabolario per descrivere fenomeni e situazioni nuove, figlie del tempo che viviamo. E così è stato per «Nimby» (in inglese Not In My Backyard e cioè non nel mio giardino) per raccontare di coloro che riconoscono l’utilità di un inceneritore o un gasdotto ma non nel proprio territorio; oppure «Yolo» (in inglese You Only Live Once e cioè si vive solo una volta, la necessità di non sprecare il tempo che passa) o ancora «claustrofilia» per parlare dell’effetto lockdown che ci ha spinto a rimanere rintanati a casa. Ma molte altre volte i neologismi o i sinonimi servono per nascondere le contraddizioni, le storture e le disuguaglianze figlie del tempo che viviamo.

L’ho capito la prima volta che ho visto due file di pazienti in un ospedale: dietro una porta c’era una targa dove c’erano solo due o tre persone e c’era scritto «solventi», sull’altra, dove c’era una coda infinita c’era scritto «SSN», servizio sanitario nazionale, e così ho capito che la scritta «solventi» definiva quelli che pagavano o comunque avevano una assicurazione privata, venivano serviti prima e per le prenotazioni non c’erano problemi. Per gli altri, lunghe attese in lista per mesi.

Poi ho letto il termine «permacrisi» per descrivere il tempo che stiamo vivendo che è fatto di una crisi permanente del tipo energetico, sanitario, sociale , ma detto così fa meno impressione. E serve soprattutto per non ricordare che negli ultimi 30 anni in Italia abbiamo perso il 3% del nostro potere di acquisto mentre in Europa è cresciuto del 22,6%, gli affitti sono aumentati nel 2022 del 25% e i tassi sui mutui sono saliti dall’1,45% al 2,73%, per non parlare della benzina, del gasolio, del pane e della pasta.

Insomma, questi neologismi servono solo per non usare il vecchio vocabolario con le parole più vecchie ma più semplici. E per non dire che in questa società, oggi, le disuguaglianze sociali ed economiche sono aumentate a dismisura e che i poveri sono sempre più poveri e i ricchi sono sempre più ricchi.

Quando parliamo della necessità di rivitalizzare la democrazia attraverso una partecipazione più attiva, di come sia preoccupante il fenomeno crescente della disaffezione al voto, di come sia distante il linguaggio della politica dai problemi quotidiani che ci assillano, non c’è forse anche un problema di vocabolario da usare? La politica, i partiti, i sindacati, le associazioni e per ultimi ma non ultimi i media, quale vocabolario intendono usare? Quello vecchio o quello nuovo?

Uno spunto ci può venire dai sindacati francesi che in questi giorni stanno organizzando imponenti manifestazioni contro la riforma delle pensioni voluta dal presidente Macron. Lo slogan urlato è «la retraite avant l’arthrite!» (la pensione prima dell’artrite!). Più chiaro di così!

Fenomeni temporaleschi.

Le precipitazioni nebulose del gergo meteorologico in televisione. Maurizio Assalto su L’Inkiesta il 30 Gennaio 2023.

Il meteoburocratese è una diabolica forma di comunicazione che implacabilmente trasforma il concreto in astratto, smaterializza, complica, ingarbuglia, confonde, affumica, allontana invece di avvicinare

Sarà colpa del riscaldamento globale, come dicono, di sicuro non ci sono più le belle nevicate di una volta. Montagne spelacchiate, impianti di risalita fermi, addio sport invernali. Se almeno potessimo dire addio anche alle “precipitazioni nevose”! Che potrebbero essere pure “fenomeni nevosi” o nelle forme più leggere “fenomeni a prevalente carattere nevoso”.

È il linguaggio paludato delle previsioni meteorologiche, che come tutti i linguaggi paludati si industria a camuffare la “cosa stessa” (visto che si tirano in ballo i “fenomeni”, viene in mente un concetto ricorrente della filosofia fenomenologica) dietro una profusione di aggettivi, come il “Braghettone” Daniele da Volterra, in ottemperanza ai dettami tridentini, ricopriva di veli e foglie di fico le nudità michelangiolesche della Cappella Sistina.

Gli esempi sono molteplici (e talvolta esilaranti): le piogge non sono mai soltanto piogge ma “precipitazioni piovose” (per gli amici, anche solo “precipitazioni”) e, se brevi e intense, “a carattere (o prevalente carattere) di rovescio”, i temporali sono inevitabilmente “fenomeni temporaleschi” o in alternativa “manifestazioni temporalesche”, le Alpi diventano senza fallo “l’arco alpino”, l’inverno “la stagione invernale” (che va a fare compagnia alla “stagione primaverile”, alla “stagione estiva” e alla “stagione autunnale”). E naturalmente le previsioni non sono mai relative a oggi, ma alla “giornata odierna” – qui non ci soccorre più un ricordo filosofico, ma ci sembra di vedere il grande Totò, in piedi con i pollici nel giromanica del gilet, quando fa la parodia del burocratese: “In data odierna…” (in data odierna, vedi caso, sono appena passate al telegiornale le immagini di un funzionario di polizia che parlava di un delitto come di un “evento delittuoso”).

Ogni linguaggio settoriale ha i suoi tecnicismi, il suo gergo che lo rende immediatamente riconoscibile. Spesso anche difficilmente comprensibile – pensiamo a certe “spiegazioni” dei medici o degli avvocati. Il meteoburocratese ci è diventato comprensibile e addirittura famigliare in forza della sua ripetizione, sempre uguale, ogni giorno, più volte al giorno.

Un addetto ai lavori, Mario Giuliacci, già direttore del Centro Epson Meteo che quotidianamente continua a pubblicare le sue previsioni sul sito meteogiuliacci.it, ha messo insieme per divertimento un piccolo “stupidario meteorologico”: vi si trovano rotonde espressioni formulari ormai diventate tormentoni, come “nuvolosità alta e stratificata”, “alternanza di schiarite e annuvolamenti”, “nuvolosità irregolare”, “nuvolosità a tratti intensa”, “nubi a prevalente sviluppo cumuliforme”, “addensamenti nuvolosi pomeridiani (o mattutini) associati a locale attività temporalesca”, “al tramonto e nottetempo foschia nelle valli e lungo i litorali”, “temperatura senza notevoli variazioni”, “non si escludono occasionali precipitazioni”.

Un ordito di echi e automatismi che si attivano da soli, come se non fosse il meteorologo di turno a usare certe formule, ma le formule stesse a usare il meteorologo per riprodursi attraverso le sue corde vocali. Il risultato è un ennesimo saggio di quella piaga linguistica che è l’antitaliano, su cui già tanti anni fa aveva messo il suo dito purtroppo impotente Italo Calvino, e alla quale altre volte è capitato di richiamare in questa rubrica. Una diabolica forma di comunicazione che implacabilmente trasforma il concreto in astratto, smaterializza, complica, ingarbuglia, confonde, affumica, allontana invece di avvicinare, esclude invece di includere, in definitiva non comunica. La versione verbale del braghettonismo, che nasconde ciò che è (sarebbe) manifesto sotto i veli manieristici del pleonasmo. Ma la Chiesa, cinque secoli dopo, ha fatto ammenda e nella Sistina una buona parte dei veli è caduta. L’italiano di tutti i giorni, invece, continua a alzare muri.

L’itanglese che avanza nel linguaggio degli avvocati.

Da “call” a “mindset”: quell’irresistibile ascesa degli anglismi nella professione forense. Domenico Tomassetti su Il Dubbio il 19 dicembre 2022.

Caro Direttore,

Se c’è una cosa che è davvero cambiata negli ultimi (smemorati) 15 anni è l’uso invasivo della lingua inglese nella professione. Non mi riferisco agli avvocati che hanno rapporti con colleghi stranieri o società estere e che lavorano prevalentemente in inglese. Sto parlando della “irresistibile ascesa degli anglismi” di cui molti colleghi non riescono a far a meno. L’itanglese che avanza.

Tutto è cominciato con la locuzione “due diligence” che sarebbe, fonte Treccani, “la verifica di un potenziale investimento, finalizzata a confermare oppure a smentire tutti i fatti, gli elementi e le circostanze che attengono a una data operazione economica o commerciale”. Progressivamente tutto è diventato due diligence, anzi per tutto è necessaria una due diligence.

Una sera, a cena da amici, ho sentito una madre che sosteneva di aver fatto una due diligence per decidere a quale scuola iscrivere il figlio. Volevo chiamare il telefono azzurro. Mi hanno fermato che avevo già il cellulare in mano.

Poi sono arrivati gli acronimi: FYI, ASAP. Chi non ha ricevuto un “rispondimi asap”? Scrivere il prima possibile deve essere troppo faticoso. Oppure ti girano una mail e scrivono FYI. Non per tua conoscenza. Perché?

Improvvisamente - soprattutto dopo il “lockdown” (oddio anche questo è un anglismo, ma meno ansiogeno di confinamento), da quando le riunioni in presenza sono state progressivamente sostitute con le “conference call” – si è sdoganato un florilegio di definizioni più o meno comprensibili. Esempi: “facciamo un kick off meeting” che è l’esatto contrario di un “closing meeting” e si differenzia dal “brainstorming” dove puoi dire, più o meno, tutto quello che ti viene in testa (anche idee del cazzo che pure un pensionato in fila alle poste si vergognerebbe di esprimere). Peraltro, dire tutto quello che ti viene in mente (nel momento esatto in cui lo pensi) è la massima violazione della regola aurea dell’avvocato per cui - se non sai cosa dire o, peggio, non capisci cosa dicono gli altri – è meglio stare zitti e assumere una posa pensosa e intelligente che magari qualcuno ci casca.

I pareri sono diventati “opinion” pure se resi a un idraulico del Quarticciolo (quartiere romano limitrofo al GRA) e devono comunque far chiaramente comprendere il tuo “legal mindset”.

Se devi aggiornare l’agenda fai un “planning check”, se vuoi scaricare i termini di un adempimento giudiziario, li “scheduli” (che si pronuncia schegiuli, mi raccomando, altrimenti sgamano che non hai studiato a Eton).

Questa è la nuova frontiera: italianizzare termini inglesi per cui già esiste la parola italiana non solo corrispondente, ma anche più precisa.

Pochi giorni fa parlavo, pardon ero in call, con il legale (italianissimo, con vago accento bergamasco) di una società di smaltimento rifiuti che si è raccomandato: “Ti prego su questo aspetto serve una deep dive”. E, adesso, che significa “deep dive”? Momenti di panico malamente dissimulato on line.

Mi vengono in mente cose tipo spiaggia, mare… “diving school” c’era scritto sul cartello che campeggiava vicino alla postazione dei bagnini questa estate: immersione, profonda immersione. Questo qua mi sta dicendo che devo fare un serio approfondimento prima di dare il parere. Perché, che pensa? Che di solito scrivo la prima cosa che mi viene in testa?

Certo, figurati – rispondo – non intendevo rendere l’opinion at dog’s dick”.

Dallo sguardo perso ho percepito che era lui a non aver capito, per fortuna.

Scrivo il parere (con la richiesta “deep dive”, ovviamente) e glielo mando. Passano pochi giorni e il tizio mi scrive una mail: “Il Ceo deve ancora blessare tua opinion (notare che non usa gli articoli, ndr). Ho comunque fatto follow up per ottenere feedback asap”. Niente, è più forte di lui: ormai parla solo in itanglese e si sente pure fico. Evito di rispondergli con un romanglismo (tipo “these dicks”) perché devono ancora pagarmi la parcella.

Abbasso lo schermo del computer e mi ricordo di un vecchio film di Nanni Moretti, Palombella Rossa, più precisamente la scena in cui Michele Apicella dà uno schiaffo alla giornalista che aveva detto “trend negativo”. Fosse quella la soluzione? Colpirne uno per educarne cento. Perché, caro Direttore, “le parole sono importanti” - ce lo siamo già detti sulle pagine del Suo giornale – “chi parla male, pensa male”.

Con i più cordiali saluti, Andrea Armati

Dagospia il 30 dicembre 2022.

GENNY, MA CHE STAI A DI’? – CLAMOROSO CORTOCIRCUITO DEL MINISTRO DELLA CULTURA, GENNARO SANGIULIANO: PRIMA INVEISCE CONTRO L’ABUSO DELLE PAROLE STRANIERE NELLA LINGUA ITALIANA, POI INCIAMPA ANCHE LUI: “L’ABUSO DEI TERMINI ANGLOFONI APPARTIENE A UN CERTO SNOBISMO MOLTO RADICAL CHIC”. E SU TWITTER LO PERCULANO: “GIUSTO. USARE PAROLE STRANIERE È RADICAL CHIC, PER ESSERE TRENDY E MOSTRARSI JET SET. BISOGNA TORNARE A USARE IL PROPRIO SLANG, DI DEFAULT. SENZA SENTIRSI UNDERDOG, NO? OK!” 

Da “Posta e risposta – la Repubblica” il 31 Dicembre 2022.

Carissimo Merlo, il ministro Sangiuliano dice che usare parole straniere è "radical chic". È una contraddizione in termini? Mario Cosentini - Udine 

Risposta di Francesco Merlo:

Sì. Il pensiero del ministro è così rotondo ("round" di occhiali, testa e ideologia) da non accorgersi che "radical" e "chic" sono parole straniere.

La prima è inglese, la seconda francese. Insieme, formano una locuzione inglese inventata dall'americano Tom Wolf: radical chic, appunto. 

"Radicale scicche" sarebbe la corretta traduzione nell'italiano rotondo del ministro Sangiuliano, che alla prima della Scala, in smoking (abito da sera) e papillon (cravatta a farfalla), era più rotondo ancora, ma anche più "sciccoso".

Estratto dell’articolo di Ernesto Menicucci per “il Messaggero” il 30 dicembre 2022. 

[…] Anche a lei non piacciono le parole inglesi da usare al posto delle italiane, come ha raccomandato il premier Giorgia Meloni agli ambasciatori?

«Credo che un certo abuso dei termini anglofoni appartenga a un certo snobismo, molto radical chic, che spesso nasce dalla scarsa consapevolezza del valore globale della cultura italiana. E anche della sua lingua, che invece è ricca di vocaboli e di sfumature diverse». 

Ci può fare il primo esempio che le viene in mente, rispetto a questa problematica?

«Bé, proprio dal lavoro della Crusca nasce l'utilizzo dell'espressione lavoro agile in alternativa a smart working». 

Qualcuno potrebbe obiettare: in una società in cui il vero esperanto, la lingua comune, è diventata (e non certo da oggi) l'inglese, perché tutta questa attenzione per l'Italiano?

«Ma le due cose naturalmente non sono in contrapposizione. Valorizzare e promuovere la nostra lingua non significa ignorare il mondo che ci circonda. Non significa, cioè, in alcun modo che in un mondo globalizzato non si debbano studiare e apprendere bene altre lingue, a cominciare da quella inglese, come diceva Tullio De Mauro il multilinguismo ci aiuta a gestire la complessità del presente». […]

MULTE A CHI NON UTILIZZA L’ITALIANO: LA NUOVA PROPOSTA DI LEGGE DI FRATELLI D’ITALIA

Michele Crudelini l’1 Aprile 2023 su Bioblu.it

Dopo lo stop alla produzione e vendita di carne sintetica, ma solo per le aziende italiane, Fratelli d’Italia sembra intenzionato a porre un altro divieto destinato a suscitare polemiche.

La proposta di Fabio Rampelli

La proposta arriva dal vice presidente della Camera dei deputati, Fabio Rampelli, insieme ad altri venti parlamentari e riguarda la difesa della lingua italiana. Di cosa si tratta nello specifico? Con questa proposta di legge il partito di maggioranza sembra voler mettere un argine alla diffusa abitudine, in particolare della pubblica amministrazione, nell’utilizzo di vocaboli presi a prestito da altre lingue, spesso anglofone, invece del corrispondente termine italiano.

E infatti nella bozza della proposta all’articolo 1 si può leggere che: “La Repubblica garantisce l’uso della lingua italiana in tutti i rapporti tra la pubblica amministrazione e il cittadino nonché in ogni sede giurisdizionale”. Non sono coinvolti però solo gli uffici statali, ma anche i luoghi di apprendimento quali scuole e università, come si legge all’articolo 6, che prevede: “nelle università pubbliche italiane “le offerte formative non specificamente rivolte all’apprendimento delle lingue straniere devono essere in lingua italiana”.

Sanzioni fino a 100.000 euro

E cosa succede a coloro che, nonostante la legge, continueranno ad avvalersi di vocaboli dall’estero nei documenti ufficiali? Lo specifica l’articolo 8 che tratta il tema delle sanzioni: “La violazione degli obblighi di cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 5.000 euro a 100.000 euro”.

Si tratta di una proposta che tutela la sovranità del nostro Paese? È indubbio che vocaboli come “call”, “meeting, “skills” e molti altri sono entrati indebitamente nel vocabolario della pubblica amministrazione e anche di molte aziende. Termini che hanno degli effettivi corrispondenti in italiano e il cui utilizzo risulta quindi del tutto improprio al pari di un congiuntivo sbagliato.

Deriva esterofila che diventa ancora più infondata quando si riscontra in ambiente scolastico ed universitario, come dimostrano le linee guida per la didattica digitale integrata pubblicate dallo stesso Ministero dell’istruzione, dove abbondano termini come “device”, “know how” e molti altri. Tuttavia la repressione di queste pratiche attraverso sanzioni è la strada giusta?

Le contraddizioni del Governo

Se pensiamo che la lingua è una delle più immediate forme di espressione della cultura di un popolo, dobbiamo allo stesso tempo ammettere quanto sia difficile cambiare per legge un processo culturale. Soprattutto se dallo stesso partito di maggioranza, Fratelli d’Italia, arrivano segnali contraddittori sulla tutela dell’identità e, soprattutto, della sovranità italiana.

Perché i primi a ricevere l’eventuale sanzione per l’utilizzo di termini stranieri sarebbero proprio i componenti del Governo, in particolare chi ha deciso di cambiare la denominazione di Ministero dello sviluppo economico in Ministero delle imprese e del made in Italy. In questo caso è addirittura il nome della stessa nazione ad essere stato inglesizzato. Non solo.

Il divieto dell’utilizzo di termini esterofili appare del tutto in contrasto con la politica di completa accondiscendenza attuata dal Governo Meloni nei confronti di Paesi e aziende estere e strutture sovranazionali, come gli Stati Uniti e l’Unione europea.

Se da anni l’Italia ha deciso di interpretare il ruolo dello “yesman” rispetto a qualsiasi richiesta oltreoceano, anche quelle contrarie agli interessi nazionali, questo non può che ripercuotersi anche sulle abitudini linguistiche del Paese: lo schiavo alla fine finisce per parlare come il padrone. Non è quindi una sanzione amministrativa che può cambiare l’attitudine di un popolo, bensì l’atteggiamento della sua classe dirigente nei confronti di chi, pur venendo da fuori, si comporta da padrone in casa nostra.

Fabio Rampelli, il trionfo: "Lingua italiana a rischio", chi si schiera con lui. Massimo Arcangeli su Libero Quotidiano il 16 aprile 2023

Durante il secondo governo Berlusconi l’onorevole Andrea Pastore, nel lanciare la proposta di istituzione di un Consiglio Superiore della Lingua italiana (CSLI), aveva denunciato l’oscurità del burocratese, responsabile di una «sindrome di smarrimento» che colpiva stuoli di inermi cittadini. Il senatore stigmatizzava soprattutto l’impigrimento traduttorio, il quale, complice lo snobismo esterofilo, lasciava troppo spesso preferire l’inglese all’italiano. Niccolò Machiavelli – se è l’autore del Dialogo (o Discorso) intorno alla nostra lingua – aveva già compreso che una lingua, entro certi limiti, non viene danneggiata più di tanto dall’importazione di vocaboli stranieri. La sua visione del problema è lucidissima: i fondamenti di un idioma sono la pronuncia e le strutture fono-morfologiche (potremmo aggiungervi, ovvio, quelle sintattiche) più che i fatti di vocabolario: ciò vale a maggior ragione per il comparto dei sostantivi, che viaggiano in genere con gli oggetti e i concetti ai quali rinviano e ben sappiamo, quando l’oggetto del contendere è l’invadenza della lingua inglese, che l’obiettivo polemico sono in genere proprio le forme sostantivali (e aggettivali).

Se una lingua fa man bassa di voci forestiere può rischiare alla lunga di rovinare solo se è l’uso reale, quello della conversazione ordinaria fra persone “normali”, ad accoglierle. La più grande risorsa di una lingua è la sua forza assimilatrice, secondo Machiavelli (o chi per lui), che a un certo punto immagina di parlare con Dante. Vuole fargli ammettere che la Commedia è scritta in fiorentino e non in una lingua “curiale” e, dopo averlo messo alle strette, consuma così la sua vittoria sull’avversario: «Io voglio che tu consideri come le lingue non possono esser semplici, ma conviene che sieno miste con l’altre lingue. Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, ed è sì potente, che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro». Sebbene però, se si vuole esercitare un’efficace azione di “controllo” sul nostro idioma, serva a poco dichiarare di volersi sbarazzare di premier o question time, recovery fund o spending review, mission o lockdown, a tutto c’è un limite; lanciare sterili anatemi, bandire inutili crociate, attestarsi su indifendibili posizioni di retroguardia contro l’invasore inglese è un conto, denunciare l’abbondante superamento del livello di guardia della sua presenza è un’altra faccenda.

Quando poi la supina accettazione dell’anglo-americano, anziché la civetteria esterofila spesa in privato, impegna territori decisivi per gli equilibri linguistici interni di una nazione, o s’impone con l’invadenza di un discorso pubblico senza alternative, ci si dovrebbe equipaggiare di tutto punto per combattere lo straniero. Ha ragione Claudio Marazzini nel denunciare il rischio che la lingua italiana, in contesti istituzionali o “ufficiali” (un bando di concorso, una domanda di finanziamento o un corso universitario), possa essere progressivamente emarginata. L’italiano è una «lingua senza impero»: non ha avuto bisogno di bombardamenti, incursioni o invasioni per farsi largo tra le popolazioni e le nazioni con cui è entrata in contatto, e non ha dunque nulla da spartire con la lingua dei nostri cugini francesi e con la loro politica “interventista”, avviata dall’uso della langue du Roi in ambito amministrativo durante l’Ancien Régime. Una «lingua senza impero» ha però molto a che fare con la cultura, la civiltà, la coscienza, ed è proprio in nome di questi tre concetti che dovremmo cominciare a intraprendere azioni concrete a tutela del nostro idioma. La politica linguistica troppe volte disattesa o rinviata s’ha da fare. E, boutade su sanzioni pecuniarie a parte, s’ha da fare ora. 

In edicola con Repubblica. Come il fascismo ha cambiato la lingua italiana. Claudio Marazzini su La Repubblica il 10 aprile 2023

Pubblichiamo uno stralcio della prefazione scritta dal presidente dell’Accademia della Crusca sull’autarchia delle parole

 I testi di questo volume presentano in maniera chiara e scientificamente ineccepibile gli avvenimenti collocabili nel periodo della dittatura fascista, a essa legati per ragioni di ordine cronologico e per effetto di precise scelte del regime: si tratta di fatti che implicano ricadute linguistiche, cioè che toccano la retorica, l’oratoria, la propaganda, la comunicazione sociale e le sue applicazioni specifiche nella didattica scolastica, nella pubblica amministrazione, nelle associazioni giovanili, nell’organizzazione dello sport, nel cinema, nella radio, nei giornali, nella toponomastica e persino nell’onomastica (quanti italiani furono battezzati “Benito” durante il Ventennio? Certo molti, e si sono portati dietro quel nome per tutta la vita, anche dopo la caduta del fascismo).

Chi leggerà queste pagine troverà per esempio indicazioni sulla polemica contro l’uso dei dialetti e reperirà notizie interessanti sulla battaglia condotta dal fascismo contro le parole forestiere impiegate nella pubblicità e nel commercio, sui provvedimenti ostili e vessatori ai danni delle minoranze linguistiche. Questi ultimi, tra i tanti, sono due evidenti ambiti in cui si esercitò una politica linguistica orientata verso l’“autarchia”, parola tecnica di etimo greco, inizialmente limitata all’impiego specialistico da parte di filosofi e giuristi, ma dal 1936 diventata emblematica appunto come marchio della politica fascista. L’autarchia linguistica corrisponde perfettamente all’economia autarchica e consiste nel tentativo di isolare la lingua nazionale per renderla impermeabile o almeno refrattaria agli influssi esterni.

Il nesso tra autarchia economica e autarchia linguistica fu individuato anche allora. Nel maggio del 1940 Franco Natali, nome di battaglia “Index”, inaugurava le Edizioni di Bergamo fascista, organo di punta della Federazione dei Fasci di combattimento bergamaschi, con un volumetto intitolato Come si dice in italiano? Vocabolarietto autarchico. Nella prefazione del libretto si legge quanto segue: «L’autarchia, più che come soluzione di problemi interessanti l’industria e il commercio, dev’essere da noi considerata come una ben delineata forma mentale, come un atteggiamento di rivolta contro passati servilismi, filìe, acquiescenze nei rapporti con l’estero». Il passo citato può suggerire la portata delle ambizioni ideologiche di chi si batteva in quegli anni e in quel contesto (l’Italia era ormai quasi in guerra) per la sostituzione di termini stranieri. Quanto allo stile, non stupisca il grecismo “filìe”, utilizzato da Natali per indicare con disprezzo «discutibili ed equivoche amicizie»: è un ipercultismo di cui si rintracciano diverse occorrenze in quegli anni nella stampa fascista, anche in riferimento ai rapporti (che ovviamente erano scoraggiati) tra italiani ed ebrei, ormai nel tragico contesto delle leggi razziali.

Il fascismo combatté l’uso dei dialetti, oltre che le parole straniere. Nel caso della polemica contro i dialetti, però, le cose sono un po’ diverse, perché non si trattava più di autarchia, cioè del rifiuto di qualche cosa di esterno, delle lingue estere viste come nemiche e invasive, portatrici di costumi o di propaganda poco italiana, o addirittura ostili alla patria e corruttrici dei costumi. I dialetti rappresentavano una varietà linguistica interna all’Italia medesima, cioè incarnavano una vitalità popolare che avrebbe potuto essere accettata, e che infatti non dispiacque ad alcuni intellettuali vicini al fascismo, per esempio nell’ottica di Strapaese, un movimento culturale che auspicava una rivalutazione delle risorse della provincia italiana. Tuttavia, in questo caso, l’ostacolo stava in un’altra chimera molto cara al fascismo più ortodosso: il dialetto popolare, sebbene innegabilmente “nazionale”, disturbava la retorica magniloquente di un regime che spesso si ispirava ai grandi fasti della storia, riprendendo il mito di Roma antica, e dunque aspirava a un ideale di per sé imperiale della lingua che, per farsi degna dei radiosi destini, necessitava di elevatezza. Roma, più che Firenze, anche per la lingua italiana: ciò in parte spiega come mai fu tolto alla Crusca, nel 1923, il compito di redigere il vocabolario della lingua italiana, operazione che aveva svolto per secoli. Del resto il ritornello del canto fascista Giovinezza lo diceva chiaro:

"Nella pace e nella guerra,

Non mai stanca e non mai doma,

Solo Roma, solo Roma

Solo Roma eterna sta!

Eia! Eia! Alalà!".

Radiosi destini della patria e anche della sua lingua: effettivamente, negli anni del fascismo, l’italiano fu esportato all’estero con un certo vigore, ed ebbe più prestigio internazionale di quanto non ne abbia oggi, nell’Italia democratica. Si badi, però: l’Impero fascista coloniale e bellicoso, se lo rapportiamo all’intera storia italiana, considerata nel suo sviluppo complessivo, non fu il periodo di maggior fulgore della nostra lingua. La fase di apogeo resta sicuramente quella rinascimentale, i cui effetti di ricaduta internazionale durarono, seppure in maniera via via decrescente, fino al Settecento.

Il volume. Le parole del fascismo, nato in collaborazione con l’Accademia della Crusca, è scritto da due accademici Valeria della Valle e Riccardo Gualdo. Il volume è in vendita a 9,90 euro

Perché è sciocco vietare per legge le parole straniere. Giancristiano Desiderio l’1 Aprile 2023 su Nicolaporro.it.

Il deputato di Fratelli d’Italia Fabio Rampelli ha presentato una proposta di legge per la difesa e la tutela della lingua italiana. Si prevedono anche multe che vanno da un minimo di 5.000 euro a un massimo di 100.000 euro nel caso in cui le norme che obbligano alla traduzione dalla lingua straniera all’italiano non venissero rispettate.

Che dire? Beh, forse tre cose.

La prima l’intenzione potrebbe anche essere lodevole. Lo strumento utilizzato, cioè la legge, è sicuramente inadeguato. Le conseguenze oscillano tra la inutilità assoluta e addirittura forse l’effetto controproducente, con effetti collaterali anche tragicomici. Giacomo Leopardi, che nessuno credo vorrà tacciare di essere un nemico della lingua italiana, sosteneva che le parole straniere vanno accettate nel momento in cui, in italiano, non vi è una adeguata parola corrispondente capace di esprimere quel determinato concetto.

Ma è pur vero che la nostra povera italiana negli ultimi tempi è stata martoriata tanto dalla politica di sinistra quanto, ahimè, in questo caso dalla politica di destra. I progressisti, ad esempio, l’hanno del tutto massacrata con gli asterischi, con le desinenze, con la cosiddetta schwa. Insomma, sembra proprio che per l’italiano non vi sia pace.

Ma in questo caso vi è anche un altro elemento da mettere in luce e cioè la politica, soprattutto poi quando ricorre allo strumento legislativo, è un atto di volontà, ma la volontà nei confronti della lingua, che sia quella poetica o che sia quella ordinaria della nostra quotidianità, non può assolutamente far nulla, perché mentre l’atto legislativo è appunto una volontà, la lingua è del tutto spontanea, involontaria e dunque non si può far nulla se non avere l’accortezza di coltivare con amore un gusto per la bella parola, per il buon italiano e dunque avere un poco di amor proprio nell’esprimersi con gusto. Diceva Montanelli per scrivere bene bisogna pensare bene ed esprimersi meglio, per il resto davvero non si può far nulla. Non chiedeteci la parola che squaderni da ogni lato il nostro animo informe. Poetava Eugenio Montanelli. Giancristiano Desiderio, 1° aprile 2023

Rampelli (FdI), vicepresidente della Camera: «Tutelare l’italiano non è autarchia. Mangiare un croissant? Sì, si può». Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 2 aprile 2023.

Rampelli: la mia legge per garantire l'uso della lingua italiana vale per enti pubblici e privati, i cittadini devono capire

Qui si prova a sentire Fabio Rampelli (il sabato pomeriggio, per Fratelli d’Italia, è già quello che è; Ignazio La Russa sta per chiedere scusa: i tedeschi uccisi in via Rasella dai partigiani erano nazisti, e non «una banda musicale di semi-pensionati»).

Allora: all’inizio, lui, Rampelli, cortese ma un po’ sulle sue, diffidente.

Poi sciolto, e rassicurante.

Molto.

Giura che potremo continuare a dire «bar», e non per forza «caffè» («Anche se il bar più famoso di Roma è l’“Antico Caffè Greco”»). I cocktail restano cocktail: e non torneranno ad essere «bevanda arlecchina». Saremo ancora liberi di «flirtare», e non «fiorellare» (altro termine che Benito Mussolini impose agli italiani, quando — a partire dai primi mesi del 1923 — decise di vietare le parole straniere: infatti il Duce, con Claretta Petacci, come è noto, fiorellava).

Rampelli, vicepresidente della Camera, e storico esponente di FdI, spiega che la sua proposta di legge, messa a punto per disincentivare i termini stranieri usati al posto dell’italiano, vale solo ed esclusivamente per la pubblica amministrazione (con sanzioni previste da 5 a 100 mila euro). Però poi vedremo che pure Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del «Made in Italy», comunque, la scampa.

Alla domanda su Urso, in effetti, Rampelli ha risposto bruscamente. Nervoso? Abbastanza. Ma quel nervosismo da nervo scoperto, ecco. Un po’ sindrome da accerchiamento. E un po’ ansia tipo: non voglio infilarmi in altri casini, non voglio, non voglio. Perché la sensazione è che i Fratelli comincino a sentirsi addosso lo sguardo severo di Giorgia Meloni, la capa. Non proprio di buon umore (eufemismo) quando li vede costretti a smentire, precisare, scusarsi.

Certo: Rampelli è Rampelli.

Quello che Giorgia la incontra appena quattordicenne, ragazzina in bomberino e scarponcini Dr Martens con la passione per la politica, che comincia a fare politica nella sezione del Msi dove lui è segretario e guida un laboratorio di idee e militanza pop, stanzoni bui e umidi ricavati da una catacomba (solo a Roma, eh) dentro la pancia di Colle Oppio, grandioso panorama sul Colosseo e su una dimensione nuova e affascinante di destra: Rampelli tratteggia e indirizza schemi sociali e culturali inediti, già all’epoca di stampo ecologista, tra robuste dosi di situazionismo e visionarie sfumature tolkeniane.

Poi Giorgia è diventata Giorgia e lui — 62 anni, alla parete una laurea in architettura, le medaglie da azzurro di nuoto e tutt’ora un fisicaccio massiccio, un capoccione pelato, solo il mento un po’ troppo morbido — è stato a lungo l’uomo forte, di consenso, tessere e riconosciuta autorevolezza, della piazza destrorsa romana. Compiendo un percorso tondo e attraversando le esperienze di An e Pdl, per poi essere tra i fondatori di FdI. Adesso, risponde al telefono con il suo consueto garbo.

«È per un’intervista?».

No. È anche meno di un colloquio. Solo per capire se la domenica mattina possiamo ancora mangiarci, tranquillamente, un croissant.

«Mangi, sereno, il suo croissant. La proposta di legge per tutelare la lingua italiana interessa soltanto gli enti pubblici e privati».

Come nasce questa legge?

«Nasce da due considerazioni. La prima: i cittadini hanno diritto alla comprensione. Se non c’è, non c’è democrazia. Secondo: è evidente che i processi di globalizzazione mettono a rischio, quasi ovunque, le lingue madri».

Più che le parole straniere, però, il vero problema sembrano certi suoi colleghi parlamentari che sbagliano i congiuntivi. O l’incomprensibile, diffuso, burocratese.

«Concordo: le leggi devono essere facilmente interpretabili. A patto di non contenere forestierismi».

Urso, guidando il dicastero del Made in Italy, che multa rischia?

«E no… Così è impossibile! Lei è inquisitorio…».

Onorevole, ve lo siete inventati voi il ministero del Made in Italy. Non so, magari basta cambiargli nome.

«Uff… Scusi, è evidente: dalle sanzioni è escluso chiunque, rappresentando gli interessi economici dell’Italia all’estero, è costretto a usare termini stranieri… Nella mia testa non c’è una legge autarchica. Non voglio italianizzare le parole straniere. Ma se c’è un corrispettivo, beh, si deve usare. Mi sembra semplice. E invece voi avete sempre quel certo pensiero sospetto, come se noi volessimo guardare indietro…».

Può darsi sia un riflesso condizionato. Perché, va bene che ora ha chiesto scusa, ma intanto il suo collega di partito Ignazio La Russa aveva detto la cosa grave che sappiamo.

«Guardi, abbia pazienza: non voglio insudiciare la mia legge, per altro già presente in Paesi come la Francia, il Portogallo, la Spagna, con questioni storiche e revisionistiche».

La premier Meloni era informata di questa sua legge?

«No. Mica le deve vagliare tutte. Io, poi, se decido di presentare una legge, la presento. Punto».

(Qui eravamo ai saluti. Ma irresistibile, inevitabile un’ultima domanda: visto che Rampelli è stato clamorosamente escluso da qualsiasi incarico di governo e tagliato fuori dalla corsa a sindaco di Roma e alla poltrona della Regione Lazio).

Ancora una cosa: come vanno i rapporti con il potente ministro Francesco Lollobrigida?

«Perché?».

Gira voce che non siate in cordialità.

«Chieda a lui».

Una modesta proposta. L’Italia è il paese che ama non saper parlare italiano. Guia Soncini su L’Inkiesta il 3 Aprile 2023

Nessuno ha mai imparato a esprimersi correttamente, nonostante le migliori elementari del mondo eccetera. E c’è del genio nell’idea di multare chi si esprime con terminologie forestiere, perché magari così si risanano i conti pubblici

L’italiano è la lingua meno parlata in Italia. Non vi sembri un’iperbole: l’italiano non lo parla nessuno. Se sono romani parlano romano, se sono milanesi parlano quel che loro credono sia inglese, se sono laureati accentano i monosillabi sbagliati perché non stavano attenti durante le scuole dell’obbligo, se stavano attenti sono state loro insegnate assurdità quali «sé stesso non si accenta».

Giacché l’italiano non lo parla nessuno, non lo parlano di certo le maestre elementari o le prof di italiano delle medie, e quindi quelli che un tempo avrebbero zappato la terra e ora fanno i social media manager sono cresciuti senza nessuno che glielo insegnasse.

Guardavo le storie Instagram d’un conduttore televisivo non particolarmente ignorante. C’erano degli agghiaccianti «sù». Ho detto a una persona che lavorava con lui che ogni segno grafico del genere rischiava d’indurmi un ictus. Mi ha risposto: eh ma poverina, le fa la sua assistente. Assistente che ha finito le scuole elementari, le medie, il liceo, plausibilmente anche l’università, e con voti alti, senza mai imparare che le preposizioni non si accentano. Cosa potrà mai andar storto.

Tempo fa ho visto, in pagine culturali fatte da gente non completamente analfabeta, una sleppa di «sé stesso» senza accento. Ho chiesto a una persona che ci lavorava se fossero impazziti, e mi ha dato la risposta che mi ha più turbato in questo secolo. Mi ha detto che avevano fatto una riunione e avevano deciso di non accentare «sé stesso» perché i lettori di certo non sanno che è meglio accentarlo, di certo non si sono mai messi a ragionare sull’insensatezza della loro maestra elementare, di certo ignorano che per questo disgraziato paese è passato Luca Serianni, e quindi a ogni «sé stesso» avrebbero scritto alla redazione per dire come fate a essere così ignoranti, sé stesso si scrive senza accento, la mia maestra elementare si rivolta nella tomba, e loro non avevano tempo di rispondere, di rieducarli, di aprire questo fronte di guerra.

Per qualche ora, dopo questa conversazione, mi sono aggirata per le strade convinta che fosse tutto finito, che tra un po’ le pagine culturali avrebbero cominciato a scrivere «pò» perché i lettori lo vogliono e chi siamo noi per opporci, il livellamento verso il basso non era frenabile, eravamo rovinati.

Poi mi sono ricordata che ci sono giornali ai quali io da anni mando articoli che rigorosamente non contengano neanche un «sé stesso», perché so che mi toglierebbero l’accento, e anch’io evidentemente mi sono arresa: potrei discutere ogni volta, spiegare, raccomandare, ma mi sembra più semplice e svelto formulare le frasi in modo che «sé stesso» non serva.

L’italiano non lo parla più nessuno, e ovviamente non parliamo neanche l’inglese: non siamo riusciti a imparare la lingua che ci parlavano in fase di lallazione, figuriamoci se ne impariamo decentemente una straniera, oltretutto piena di vocaboli, noialtri così stolidi che qualunque nuovo vocabolo ci fa paura e ci percepiamo intelligenti perché rifiutiamo di adoperare «apericena».

Ci siamo in compenso inventati una lingua che non c’è, fatta di vocaboli inglesi per i quali (fatto raro) c’è un perfetto corrispondente italiano (avrete incrociato anche voi quelli che dicono «slur» convinti che significhi qualcosa di più sofisticato di «insulto»), o che nessun parlante anglofono nativo usa («blast»), o che comunque usano una frazione di quanto li usiamo noi («cringe»).

È una lunga tradizione, diranno i miei piccoli lettori ancora traumatizzati da quella volta che provarono a spiegare a un americano che dovevano noleggiare uno smoking, e quello li guardava chiedendosi di cosa diamine stessero parlando, prima di capire che per il tuxedo gli italiani avevano inventato una parola anglofona che gli anglofoni non capiscono.

Ma, un po’ come il poké (una ciotola di riso hawaiana – almeno così ho letto, ma mica ho verificato alle Hawaii, e sono ragionevolmente certa non abbia verificato nessuno di quelli che ne hanno scritto – che non avevamo mai sentito nominare fino a qualche anno fa), la tradizione è degenerata.

Così come ora a Milano ci sono più negozi dove mangiare il poké che dove farsi la manicure, allo stesso modo l’angloitaliano è fuori controllo. Milanesi (d’importazione, neanche lo specifico: a Milano i nati a Milano sono più rari dei ristoratori cortesi) che smaniano per sentirsi cosmopoliti ti spiegano con un certo sussiego che si dice make-up, non trucco. E tu dici: ma perché. E loro alzano gli occhi al cielo e ti dicono cos’è, sei così antiquata da dire «rimmel»?

E tu pensi che non ti sei mai posta il problema se si dica rimmel o mascara, ti pare si capiscano entrambi ma «rimmel» è più corto e «mascara» non ha uno straccio di canzone di De Gregori che ti ci leghi. Ah certo, concludono sbeffeggianti: ti metterai la terra. La terra, lo dico per i maschi etero (quei quattro rimasti), era una roba orrenda che noi ragazze degli anni Ottanta ci mettevamo in faccia per avere il colorito di Carlo Conti.

Quindi se non parli un inglese posticcio, fatto di non sapere davvero l’inglese ma di infilare delle parole a caso nella conversazione, se non dici «ho una call», se non sei il Celentano di Prisencolinensinainciusol, allora vuol dire che sei indietro quarant’anni e ti vesti con le spalline imbottite. (Sulla mia tomba ci sarà scritto «non disse mai “sono in call”»).

Ti viene voglia di sciorinare loro un monologo shakespeariano a casaccio, o anche solo un dialogo non doppiato di Fonzie, e stare a guardarli mentre non capiscono la lingua che pretendono di parlare, poi non lo fai perché bisogna avere un po’ di rispetto dei complessi altrui, e il complesso degli italiani è non sentirsi di provincia buttando lì parole con cui convincersi di sapere l’inglese.

Evitando così – non serve una squadra di specialisti viennesi per capire che ogni tic nevrotico serve a scansare un abisso doloroso – di rendersi conto di quanto non sanno l’italiano. Non sanno l’italiano al punto che se citassi Gadda o Arbasino ti chiederebbero di parlare più semplice. Non sanno l’italiano al punto da annunciare leggi che puniscano l’uso di parole straniere mentre si esprimono con parole straniere oltretutto imprecise.

Tuttavia, considerato che l’italiano non lo parla più nessuno, per distrazione o per dolo, per provincialismo o per sciatteria, ecco, io avrei una modesta interpretazione della proposta, e mentre sto per formularla mi viene in mente una polemica di non molti anni fa.

Una conduttrice di tg declinava al femminile «fine settimana», argomentando che sia «fine» sia «settimana» fossero femminili: diranno pure «weekend» per provincialismo; ma, soprattutto, lo dicono perché l’assenza di generi rende l’inglese più utilizzabile dagli analfabeti che siamo diventati.

La mia modesta interpretazione, dunque, è: non sarà che con le multe per l’utilizzo delle terminologie forestiere ripianiamo il debito pubblico in un fine settimana?

Lessico per la vittoria.

Andrea Greco per “Oggi” sabato 26 agosto 2023.

Sono state le parole a scandire l’ultimo secolo. Parole che hanno rincuorato e unito intere nazioni contro l’aggressore, o segnato la fine di una tirannia, o attirato l’attenzione di tutti su una ingiustizia. Tra mille discorsi meritevoli, ne abbiamo scelti sei. 

Winston Churchill Dopo aver sostituito Chamberlain, il 13 maggio 1940 Winston Churchill chiese la fiducia con un discorso duro e coraggioso e ottenne l’unanimità. «Non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore. Abbiamo davanti a noi un calvario del tipo più grave. Abbiamo davanti a noi molti, molti lunghi mesi di lotta e di sofferenza. Voi domandate, qual è la nostra politica? Vi dirò: è fare la guerra, per mare, terra e cielo, con tutta la nostra potenza e con tutta la forza che Dio può darci; fare la guerra contro una mostruosa tirannia, mai superata nell’oscuro deplorevole elenco dei crimini umani. Voi domandate, qual è il nostro obiettivo? Posso rispondere con una sola parola: la vittoria. La vittoria a tutti i costi. La vittoria nonostante tutto il terrore. La vittoria, per quanto lunga e difficile la strada possa essere, perché senza la vittoria non c’è sopravvivenza».

Fidel Castro Il 16 ottobre 1953, durante il processo per l’assalto armato alla caserma della Moncada, Castro trasformò la sua difesa in un atto d’accusa contro il presidente golpista di Fulgenzio Batista e concluse la sua arringa così: «Per i miei compagni morti non chiedo vendetta. Dato che le loro vite non avevano prezzo, non potrebbero pagarla con la loro tutti i criminali messi insieme. Non è con il sangue che si può pagare la vita dei giovani che morirono per il bene di un popolo; la felicità di questo popolo è l’unico prezzo degno che si può pagare per quelle vite… In quanto a me so che il carcere sarà duro come non lo è mai stato per nessuno, pieno di minacce, di vile e codardo rancore, però non lo temo... Condannatemi. Non importa. La storia mi assolverà».

Eleanor Roosvelt Il 27 marzo 1958, nel decimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, espresse la sua visione parlando all’Onu. «Dove iniziano i diritti umani universali? In piccoli posti vicino casa, così vicini e così piccoli che essi non possono essere visti su nessuna mappa del mondo. Ma essi sono il mondo di ogni singola persona; il quartiere dove si vive, la scuola frequentata, la fabbrica, fattoria o ufficio dove si lavora. Questi sono i posti in cui ogni uomo, donna o bambino cercano uguale giustizia, uguali opportunità, eguale dignità senza discriminazioni. Se questi diritti non hanno significato lì, hanno poco significato da altre parti». 

John Kennedy Nel 1963, due anni dopo la costruzione del muro che divise la città, John Kennedy a Berlino pronunciò il suo discorso più celebre. «Duemila anni fa, il più grande orgoglio era dire “civis Romanus sum”. Oggi, nel mondo libero, il più grande orgoglio è dire “Ich bin ein Berliner”. Ci sono molte persone al mondo che non capiscono, o che dicono di non capire, quale sia la grande differenza tra il mondo libero e il mondo comunista. Che vengano a Berlino… La libertà è indivisibile e quando un solo uomo è reso schiavo, nessuno è libero».

Nelson Mandela Dopo 27 anni di prigionia, l’elezione di Mandela e il celebre discorso del 1994 a Pretoria segnano la fine dell’apartheid. «Costruiremo una società in cui tutti i sudafricani, bianchi e neri, saranno in grado di camminare a testa alta, senza alcun timore nei loro cuori, certi del loro inalienabile diritto alla dignità umana. Una nazione arcobaleno in pace con se stessa e il mondo».

Malala Yousafzai Il 12 luglio 2013, giorno del suo sedicesimo compleanno, Malala Yousafzai commosse il mondo parlando all’Onu. «Cari amici, il 9 ottobre 2012, i talebani mi hanno sparato... Hanno sparato ai miei amici, anche. Pensavano che i proiettili ci avrebbero messi a tacere, ma hanno fallito. Anzi, dal silenzio sono spuntate migliaia di voci. I terroristi pensavano di cambiare i miei obiettivi e fermare le mie ambizioni. Ma nulla è cambiato nella mia vita, tranne questo: debolezza, paura e disperazione sono morte; forza, energia e coraggio sono nati. Io sono la stessa Malala. Le mie ambizioni sono le stesse. Le mie speranze sono le stesse. E i miei sogni sono gli stessi… Cari fratelli e sorelle, ci rendiamo conto dell’importanza della luce quando vediamo le tenebre.

Ci rendiamo conto dell’importanza della nostra voce quando ci mettono a tacere... abbiamo capito l’importanza delle penne e dei libri quando abbiamo visto le armi... Gli estremisti hanno paura dei libri e delle penne. Il potere dell’educazione li spaventa. Hanno paura delle donne. Il potere della voce delle donne li spaventa... Ricordo che c’era un ragazzo della nostra scuola a cui un giornalista chiese: “Perché i talebani sono contro l’educazione dei ragazzi?”. Lui rispose molto semplicemente: indicò il suo libro e disse: “I talebani non sanno che cosa c’è scritto in questo libro”».

Dagospia l’11 Marzo 2023. "STRUNZ!" - LA STAMPA TEDESCA CELEBRA I 25 ANNI DELLA LEGGENDARIA SFURIATA DI GIOVANNI TRAPATTONI AI TEMPI DEL BAYERN MONACO: "MESCOLANDO EMOZIONE, PATHOS E LEGGERA CONFUSIONE LINGUISTICA, TRAPATTONI HA CREATO QUALCOSA DI SPECIALE: HA CONTRIBUITO A PLASMARE IL LINGUAGGIO” - "È RIUSCITO IN QUALCOSA CHE GABRIELE D’ANNUNZIO (“MEMENTO AUDERE SEMPER!”), CESARE (“VENI, VIDI, VICI”) O ORAZIO (“CARPE DIEM!”) RAPPRESENTANO ALLO STESSO MODO: LA CREAZIONE DI NUOVI MODI DI DIRE…"

Da ilnapolista.it l’11 Marzo 2023

Strunz!”. La stampa tedesca festeggia oggi i 25 anni del mitico sfogo di Giovanni Trapattoni contro il suo Bayern Monaco. Era il 10 marzo 1998: la conferenza stampa – scrive la Süddeutsche Zeitung – si trasformò in un esemplare “sfoggio di grande retorica. Le vivaci formulazioni scelte da Trapattoni sono entrate da tempo nell’uso tedesco: «Strunz», «debole come una bottiglia vuota»…”.

Trapattoni se la prese con i suoi giocatori “piagnucoloni, i poveri Scholl, Basler e Strunz. Per la SZ “mescolando emozione, pathos e leggera confusione linguistica, Trapattoni ha creato qualcosa di speciale: ha contribuito a plasmare il linguaggio. In seguito avrebbe modestamente detto che non poteva essere orgoglioso di uno scatto d’ira in cui aveva commesso un mucchio di errori grammaticali, ma non è questo il punto”.

Quel suo perentorio “sono finito!” (commise un errore) è diventato talmente celebre in Germania da essere usato, ad esempio, sui manifesti elettorali socialdemocratici (con riferimento all’allora cancelliere Helmut Kohl). “Cosa vuole Strunz?” divenne il titolo di un programma televisivo, e lo stesso Trapattoni grazie alla “bottiglia vuota” divenne testimonial del sistema di resto dei vuoti di una catena di supermercati tedesca.

 Non solo, continua il quotidiano tedesco, il suo discorso è usato ancora oggi nei manuali di lingua tedesca della nota casa editrice Klett come esempio eccezionale di “varietà di transizione”. Ovviamente in Germania ricordano che il Trap è quello di “mai dire gatto se non ce l’hai nel sacco”.

 “A Monaco, tuttavia, Giovanni Trapattoni è riuscito in qualcosa che Gabriele D’Annunzio (“Memento audere semper!”), Cesare (“Veni, vidi, vici”) o Orazio (“Carpe diem!”) rappresentano allo stesso modo: la creazione di nuovi modi di dire. Se si trascura l’aspetto della lingua straniera, che non è del tutto impeccabile, resta la turbolenta dinamica di Trapattoni, che ricorda quella di Roberto Benigni agli Oscar del 1999, così come di altri grandi attori italiani come Totò”.

La Sz cita anche “la bellissima frase di Sergio Mattarella poco prima di un intervento televisivo in piena pandemia”, con il suo “Eh, Giovanni, dal barbiere non ci vado neanche io”.

 “In ogni caso – conclude la Süddeutsche – il discorso di Trapattoni non è affatto ridicolo. Al contrario: anche dopo un quarto di secolo è ancora vivo e rappresenta una cosa che sembra mancare sempre di più nel calcio professionistico tedesco: la vera passione!”

Dizionario dei nuovi termini introdotti dalla guerra in Ucraina. Matteo Castellucci su L’Inkiesta il 30 Dicembre 2022

I neologismi, le espressioni ironiche e le parole che abbiamo imparato in questi dieci mesi. Da «borscht» a «javelin» a «discoteca» come sinonimo dei bombardamenti andati a segno sui russi, fino agli «orchi di Mordor»

Vladimir Putin ci ha messo dieci mesi a chiamare la guerra con il suo nome. Le parole sono importanti, dopo il 24 febbraio ne abbiamo imparate di nuove. Così in Ucraina un invito in «discoteca» può significare qualcosa di diverso dall’andare a ballare, alle ragazze si regalano mazzi di cotone e San Javelin è un protettore laico. In questo nuovo lessico si intrecciano termini coniati nel 2014, l’antefatto dell’invasione, con i neologismi sbocciati dall’inventiva o dal senso dell’umorismo degli ucraini. Qui abbiamo riassunti i principali. Costituiscono una forma di resistenza, perché l’ironia è un’arma incruenta ma efficace come un missile Patriot.

Another Love”

In questo vocabolario, dove procederemo in ordine alfabetico, non può mancare la colonna sonora di chi lotta contro l’oscurantismo, a Kyjiv come a Teheran. Il brano del cantautore inglese Tom Odell risale al 2013, ma è stato riesumato sui social e in particolare su TikTok, dov’è diventata virale una versione corale di voci femminili a un concerto. Le strofe, struggenti e cariche di una sofferenza stanca che però non si arena nella rassegnazione, sono diventate l’inno di una generazione in lotta contro gli oppressori. Sono suonate anche in Iran. Una specie di nuova “Bella ciao”.

Appeasement

È una delle parole del Novecento che ci siamo sorpresi a (ri)pronunciare nel 2022. Le concessioni del primo ministro inglese Neville Chamberlain al Reich nazista non bastarono a disinnescare il Secondo conflitto mondiale. Anzi. Si è evocato lo «spirito di Monaco», dal nome della conferenza di pace che nel 1938 consegnò la Cecoslovacchia ad Adolf Hitler senza consultare il governo di Praga, di fronte al rischio di cedere a un altro fanatismo totalitario e imperialista, quello di Mosca. Ma «l’appeasament con la Russia non ha mai funzionato e mai funzionerà», come ha ammonito la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola.

Bavovna

Con «cotone», ci si riferisce ai bombardamenti ai danni del nemico. Quando Kyjoiv centra gli obiettivi, lo Stato maggiore e la propaganda del Cremlino si rifiutano di ammetterlo, provano a negare in modo surreale, parlando di generiche «esplosioni», boati o colpi molto forti. La parola è hlopok, ma è omofona e omografa a quella della fibra tessile, bavovna in ucraino. I liberatori hanno iniziato a chiamare così gli attacchi ai magazzini russi, a sfregio del negazionismo. Non fiori, ma cotone: va di moda regalare mazzi di questa pianta candida.

Borscht

È sinonimo di casa. Ogni famiglia custodisce e tramanda la ricetta di questa zuppa che dovrebbe diventare il terzo colore della bandiera ucraina. Gli ingredienti: patate, carota, barbabietola, cipolla, cavolo cappuccio, aglio, pomodoro, aromi, brodo di carne o di fagioli, cotti a fuoco lento per un’ora e mezza. Va trovato il giusto equilibrio tra il sapore aspro e dolce. Molto più di una semplice minestra, il piatto a luglio è diventato Patrimonio dell’Umanità. Era la pietanza regina nei libri di cucina dell’Urss, che provò invano ad appropriarsene. Proprio come con l’Ucraina.

Come va con i russi?

Spoiler: non bene. È una delle frasi più famose. «Rusnya» è un dispregiativo per intendere i russi: con «sho po rusni?» ci si chiede come stiano. La risposta è «rusni pyzda!», cioè «i russi si sono fanculizzati». Si stima siano morti centomila soldati della Federazione nell’operazione speciale fallimentare di Putin: dieci volte quelli dello sprofondo decennale in Afghanistan. Rimanda all’epoca sovietica anche lo slang per indicare i caduti, «duecento», dal peso in chili delle bare che tornavano dalla tomba degli imperi.

Chornobaity

È un verbo. Deriva dalla città di Chornobaivka, nella regione di Kherson. All’inizio della guerra, l’esercito russo si era attestato qui, istallando depositi di munizioni. Gli ucraini li hanno centrati una ventina di volte, ma nonostante le perdite il nemico rioccupava le vecchie posizioni. «Chornobaity» significa commettere di continuo lo stesso errore, pagandone le conseguenze.

Discoteca

Non si tratta di andare a ballare. Non in senso letterale, almeno. «Discoteca» è un sinonimo di azione militare. Un’altra immagine curiosa ma evocativa è «candelabro»: descrive un’esplosione al fosforo nel cielo, una specie di fuoco d’artificio bianco. «A zero» è la linea del fronte, mentre «il seminterrato» allude sarcasticamente a cosa succede a chi finisce nelle mani degli occupanti, che si sono lasciati dietro una scia di torture e massacri. A Bucha, a Irpin, ovunque siano passati.

Finlandizzazione

Il vocabolo, mutato dall’equilibrio di Helsinki durante la Guerra fredda, ipotizza(va) per l’Ucraina una condizione simile a quella del Paese scandinavo: neutrale e formalmente indipendente, ma esposto all’influenza di un vicino ingombrante (ieri l’Urss, oggi la Russia). Uno scenario del genere, che avrebbe sacrificato Kyjiv, piaceva ai russofili ansiosi di una trattativa arrendevole e di una resa disarmata. Lo hanno smentito i trionfi della controffensiva. Intanto la Finlandia ha abbandonato la neutralità storica per entrare nella Nato e la sua premier, Sanna Marin, ricorda l’unica formula possibile per la pace: la guerra si ferma solo se la Russia lascia l’Ucraina.

In-tre-giorni

La parola ucraina è «Затридні», si scrive tutto attaccato. Sfotte la boria degli invasori, convinti che la capitale sarebbe caduta «in tre giorni». Dieci mesi dopo, Kyjiv è sempre lì. Libera. Il nemico invece è stato ricacciato indietro. Oggi l’espressione condensa piani irrealistici, idee in cui qualcuno crede ciecamente destinate però a sgretolarsi al contatto con la realtà. Come la fantomatica potenza bellica di Mosca.

Koloradi

È il nome degli scarafaggi della patata del Colorado, un parassita funesto, deleterio per le coltivazioni. L’insetto ha un corpo striato di nero e arancione, i colori dell’ordine di San Giorgio che listano le Zeta e le divise degli invasori. Per estensione, vengono derisi così i separatisti filorussi al soldo del Cremlino. Un altro termine, appioppato soprattutto ai collaborazionisti, è «gauleiter». Rispolvera un lemma tedesco, era la carica degli ufficiali nazisti incaricati di governare le regioni occupate.

Javelin

Una divinità terrena e benigna è invece San Javelin. Meme e persino tatuaggi celebrano questi missili anticarro. Il lanciatore portatile è diventato un’icona profana, degna di una reliquia. Prodotti su larga scala dal 1997, sono stati una delle forniture degli alleati occidentali più apprezzate sul campo. La loro capacità di sfondare la corazza dei tank di Mosca è proverbiale. Sono un fenomeno culturale, con tanto di icona sacra, a effigie di una pagina social che raccoglie fondi per il Paese.

Macronita

Nelle interminabili settimane di escalation, il presidente francese Emmanuel Macron passava settimane al telefono con Vladimir Putin. A giudicare dai risultati, deve aver parlato con la segreteria telefonica. In Ucraina non hanno apprezzato il suo atteggiamento: un’apertura che sembrava fin troppo ansiosa di ascoltare le condizioni del dittatore, seguita da un’antologia di dichiarazioni controverse. Somiglia all’inquilino dell’Eliseo chi si mostra terribilmente preoccupato per qualcosa, ma poi non fa nulla di tangibile per aiutare. C’è anche una versione dedicata al cancelliere tedesco: fare come Scholz vuol dire promettere e promettere, ma non mantenere mai gli impegni. Un omaggio al ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, è invece «shoiguing», cioè fingere sul lavoro che tutto stia andando secondo i piani quando si è «nella merda fino al collo».

Nato

L’Alleanza atlantica non è mai stata così cool. Quanti non addetti ai lavori sapevano che faccia avesse il segretario generale Jens Stoltenberg prima del confitto? Oppure cosa fossero gli articoli 4 e 5 del Patto. Gli Stati membri hanno sostenuto gli sforzi bellici di Kyjiv, ma qui li citiamo per poter trascrivere una barzelletta stupenda raccontata dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky durante l’intervista di David Letterman.

«Due ebrei di Odessa si incontrano. Uno chiede all’altro: “Che si dice?”.

C’è la guerra.

Una guerra? quale guerra?

La Russia si scontra con la Nato.

Seriamente?

Ti dico di sì.

E come sta andando?

Beh, settantamila soldati russi sono morti. Le scorte di missili sono quasi esaurite e un sacco di equipaggiamento è danneggiato, distrutto.

E la Nato?

La Nato non è ancora arrivata».

Nave russa, vai a farti fottere.

D’accordo, non è una parola sola. Ma è già Storia la risposta della guarnigione dell’isola dei Serpenti, sul mar Nero, di fronte alle minacce di un incrociatore russo. Il nemico intimava la resa, altrimenti avrebbe bombardato. «Nave russa, vai a farti fottere» ribattono via radio i tredici soldati (poi liberati) che presidiavano quello snodo strategico. Stampato su adesivi e francobolli, il messaggio è assurto a slogan, simbolo – in un rinnovo del mito delle Termopili – del coraggio di opporsi a forze soverchianti. L’ammiraglia in questione, la Moskva, sarebbe stata affondata ad aprile dai missili Neptune sparati dagli ucraini. «Fare la fine della nave russa» è un modo di dire per cui non servono spiegazioni.

Non-ce-ne-sono

Anche qui, la grafia non prevede spazi. «Ihtamnetu» prende in giro, rovesciandola, una frase di Putin che negava la presenza di soldati russi in Donbas dopo il 2014. Era l’ennesima menzogna, a cui troppi media in Occidente hanno creduto per convenienza, connivenza o entrambe. Nonostante gli accordi di Minsk in due edizioni, il «conflitto congelato» nella regione era già costato quattordicimila caduti prima del 2022.

No fly zone

I leader ucraini hanno chiesto a più riprese agli alleati di aiutarli a «chiudere lo spazio aereo» sopra il Paese. Ricordate? Gli alleati hanno disatteso queste speranze, attenti a evitare quello che Mosca avrebbe interpretato come un coinvolgimento diretto nel conflitto, ma hanno inviato sistemi di contraerea vitali per intercettare le bombe russe e i droni kamikaze. Gli Stati Uniti hanno moltiplicato gli sforzi per impedire all’Iran di fabbricare gli ordigni, che in alcuni casi contengono componentistica occidentale.

Orchi di Mordor

Le truppe nemiche vengono chiamate così, come la mostruosa soldataglia al servizio del Male nella saga del Signore degli Anelli. In un caso la fanteria obbedisce a un signore oscuro e proviene da una terra desolata, imprigionata nelle tenebre di un passato che non passa e invidiosa dei progressi dei popoli confinanti; l’altra esiste solo nella fantasia di Tolkien. Sauron come Putin, insomma. Le armate di entrambi calano da Mordor.

Operazione militare speciale

È una delle distorsioni con cui il Cremlino ha provato a falsificare la realtà. Nello stesso sottogenere troviamo «mobilitazione parziale». Accostamenti ossimorici in assonanza con la «non belligeranza» che si era inventato Benito Mussolini, prima di trascinare pure lui un Paese al disastro. In Russia è vietato chiamare «guerra» l’invasione su larga scala di una nazione libera e sovrana. Recentemente Putin ha rotto il tabù, millantando come al solito di volere la pace. I comuni cittadini che avevano rigettato l’inganno semantico, invece, sono accusati di «screditare le forze armate» e puniti con pene fino a quindici anni di carcere.

Palyanytsia

Significa «pane fatto in casa». È una parola in codice. I soldati russi non riescono a pronunciarla, perché troppo difficile da articolare per chi non parli l’ucraino. Il 21 giugno è apparsa sul New York Times, come ha certificato l’account Twitter che tiene questa speciale contabilità.

Rascismo

È una crasi tra «Russia» e «fascismo». Racchiude crimini di guerra e volontà d’annientamento. Il suo simbolo è la zeta. Il 24 febbraio ha segnato uno spartiacque nella traiettoria della Federazione: non può essere più considerata “solo” un’autocrazia. È cominciato l’ultimo esperimento putiniano, la costruzione di un regime totalitario, fondato su questa ideologia aberrante. È la presunta superiorità «spirituale» di un nazionalismo razzista, una xenofobia claustrofobica, la conversione bellica dell’economia sotto sanzioni, l’imperialismo di matrice coloniale, l’idolatria della morte che – bollinata dal patriarca Kirill – darà «la vita eterna».

Slava Ukraini!

Anche leader e capi di Stato stranieri hanno adottato il motto. Si forgia nelle lotte per l’indipendenza del 1917-21, anche allora contro la spregevole dominazione russa che sarebbe sfociata nel genocidio dell’Holodomor. Traduzione: «Gloria all’Ucraina». Al grido si risponde con «Heroiam slava!», cioè «gloria agli eroi».

TikTok army

L’esercito di TikTok. Sono le bande cecene di Ramzan Kadyrov, iperattive sui social ma ridotte a carne da cannone sul campo di battaglia, alla stregua delle altre minoranze non etnicamente russe della Federazione. Non reggono il confronto con le truppe regolari e i loro upload su TikTok, intrisi di autocelebrazione, sono serviti agli ucraini per geolocalizzarli. E bombardarli.

Trattore

Tra le iconografie più memorabili della guerra c’è sicuramente questa. Un mezzo agricolo ucraino che traina un carro armato russo ridotto a rottame di lamiera. Online c’è una vera e propria compilation. Come per il manipolo dell’isola dei Serpenti, anche questo scatto è finito sui francobolli. Riproduce la caparbietà dei difensori, capaci di smentire tutti i pronostici. Proprio come un trattore, prezioso in tempo di pace, che sconfigge un tank foriero di morte. «Avviare il trattore» ora significa ricorrere a qualcosa di inaspettato, un’arma segreta per sbaragliare gli avversari.

Ucrainizzare

È il contrario di «denazificare», il pretesto delirante di Putin. Invece sono state le forze di Kyjiv a «ucrainizzare» l’esercito nemico. I nazisti, insomma, stavano a Mosca. Le colonne russe avrebbero dovuto marciare al contrario. I soldati ucraini, carichi di equipaggiamento all’avanguardia, sono soprannominati «cyborg», le loro divise «pixel» per la texture che le mimetizza. «Avatar», ispirato al film di Cameron, è invece un fante ubriaco.

Ultimo

Vietato dirlo. Era una superstizione dell’aviazione: mai parlare di «ultima riunione», per esempio. Porta male, è una premonizione di morte. Meglio usare «krajne», difficile da tradurre, ma meno assoluto e più vicino ai nostri «al limite», «sull’orlo». L’accorgimento si è diffuso nella società civile, dove tutti conoscono qualcuno al fronte. Più di semplice scaramanzia, è la commemorazione in vita di chi rischia di morire per noi.

Zeta

Nell’alfabeto cirillico non esiste, eppure campeggia sui carri armati e sui veicoli degli invasori. È diventata l’icona dell’«operazione militare speciale» e pure del rascismo (vedi sopra). Tra le ipotesi sulla sua adozione: la direzione dell’avanzata, verso Ovest (Zapad), e il nome di Zelensky, nemico pubblico numero uno del Cremlino. Le sfere militari russe hanno avvalorato «Za pobedu», «per la vittoria». In Ucraina circola una battuta: «È una mezza svastica, perché l’altra metà se la sono rubata in magazzino». Deride al tempo spesso la miseria dell’esercito nemico e la corruzione sistemica che ha contribuito a indebolirlo.

A questo dizionario, forse, manca una parola. Ci permettiamo di aggiungerla.

Ucraina, sinonimo di coraggio indomito e di libertà. 

(Si ringraziano per l’aiuto Yaryna Grusha Possamai e Kateryna Kovalenko)

Dalla “casta” ai “taxi del mare”.

Così il linguaggio uccide il dibattito e la democrazia. Fandando Libri

Com’è successo. Una repubblica in crisi, parola per parola” di Paola Di Lazzaro e Giordana Pallone. Federica Graziani su Il Dubbio il 14 dicembre, 2022

«Le faccende umane si trovano, per unanime consenso, in uno stato deplorevole. Questa peraltro non è una novità. Per quanto indietro si riesca a guardare, esse sono sempre state in uno stato deplorevole». Il giudizio impietoso è l’incipit di un libretto, “Le leggi fondamentali della stupidità umana” di Carlo M. Cipolla, che è diventato un classico per così tanti lettori da far dubitare che in un gruppo così esteso non si nasconda qualcuno che a quelle leggi sottostia, pur avendolo sui propri scaffali. Come sornione imbeccava qualche giorno fa Adriano Sofri, che ne recensiva la ripubblicazione, non rassegnandosi pure a suggerire la sensazione «che non si sia mai stati stupidi come oggi, e che domani lo si sarà di più, e così via».

A rispondere a tanta sconsolatezza sul presente in cui siamo immersi e sulla sua cronaca, che lo annebbia giorno dopo giorno nella rincorsa collettiva della novità quotidiana, torna utile il passato, in cui pure eravamo immersi ma che è oggi facile dimenticare. Per evitare le lusinghe dell’oblio, occorre rispolverare quegli strumenti che l’attualità pare così disabituata a frequentare: la critica e il dibattito. E la fortuna editoriale vuole che questo sia il caso di “Com’è successo. Una repubblica in crisi, parola per parola”, nuova pubblicazione di Fandango Libri a firma di Paola Di Lazzaro e Giordana Pallone.

È lunga la sfilza dei com’è successo che si chiedono le due studiose. Lunga e comune a tante conversazioni del millennio che viviamo: com’è che “politico” è diventato un insulto, come dirsi “né di destra né di sinistra” è diventato un valore in cui riconoscersi, come i diritti sociali sono diventati privilegi e la condizione di vulnerabilità una colpa, come uno sconosciuto all’opinione pubblica è diventato Presidente del Consiglio, come i tagli alla spesa pubblica e lo smantellamento dello stato sociale sono il destino ineluttabile delle politiche recenti?

La materia dell’indagine del saggio è l’avvelenamento dei pozzi della politica e dell’informazione, il metodo è quello archeologico. A tale frana di com’è successo si risponde «voltandosi indietro e cercando di rifare la strada al contrario, per capire questa trasformazione politica e culturale. E le tracce più evidenti sono da riconoscere nel linguaggio. E nei suoi mutamenti». E che non si sta davanti a un predicare vago, le due autrici lo dimostrano tenendo ferma una tesi limpida e insieme disorientante nel contesto di una comunicazione pubblica sempre più parossistica, com’è la nostra: che la semplificazione del linguaggio sia una semplificazione dei processi democratici e della vita pubblica. Seguiamo un loro esempio, su una parola che corre di bocca in bocca da almeno quindici anni e che è il precipitato lessicale perfetto del malcontento diffuso nei confronti della classe politica. “La Casta”, lemma fra i più illustri all’interno del vocabolario delle distorsioni dell’opinione pubblica, le cui vicende fortunate stanno a dimostrare «come siano minate l’autorevolezza, la funzionalità e il ruolo del sistema pubblico attraverso l’uso continuo di termini denigratori e spregiativi riferiti ai componenti le istituzioni e alle istituzioni stesse». Già, ma come? Ecco che il saggio lo illustra spostando le lancette dei suoi lettori indietro: «È il 18 ottobre 2011, gli italiani da qualche mese hanno imparato a convivere e a familiarizzare con un termine che sino ad allora era rimasto confinato nel perimetro ristretto degli addetti ai lavori: “spread”, una parola inglese che in gergo finanziario indica il differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato tedeschi e quelli dei vari paesi dell’Unione. Nei fatti, per l’opinione pubblica, quei numeretti equivalgono a un termometro e dall’inizio dell’estate 2011 quel termometro segna quota 200 punti base: una febbre medio- alta per i conti pubblici italiani. Lo spettro è quello del default, o per dirla con il pensiero comune di “finire come la Grecia”. Questa premessa è necessaria per capire come, nonostante l’economia mondiale e quindi anche italiana dal 2008 in poi fosse stata messa a soqquadro, in quel giorno di ottobre, poche settimane prima della crisi del governo Berlusconi IV, in una seguitissima puntata di Ballarò ( oltre 4 milioni di ascoltatori) il conduttore Giovanni Floris presentava i risultati di un sondaggio illustrando quale dovesse essere secondo gli italiani “l’intervento prioritario contro la crisi”. Ce ne sono di cose su cui dividersi, commenterà Francesco Costa sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore: “Spendere per rilanciare i consumi o tagliare la spesa per ridurre le tasse? Alzare o no l’età pensionabile? Privatizzare o nazionalizzare? Nessuna di queste ipotesi è in testa al sondaggio. Ottiene invece il 61% questa proposta: la riduzione del numero dei parlamentari. Un altro 10% sosteneva, invece, che per uscire dalla crisi bisognasse subito “abolire le province”».

E ancora: se i cambiamenti di esecutivo avvenuti senza scioglimento delle Camere sono “governi non eletti dagli italiani”, se la magistratura è “il covo delle toghe rosse” e la giustizia è “a orologeria”, se il mondo dell’informazione è dominato da “professoroni”, se l’immigrazione è “una pacchia da far finire”, le Ong del soccorso sono “taxi del mare” e i poveri sono “fannulloni sul divano”, se insomma - come nel saggio è ricostruito tanto dettagliatamente - è l’intero linguaggio pubblico che si è corazzato contro la realtà, che ne è della capacità di intenderla, quella povera realtà?

La diagnosi che consegna ai lettori il saggio è amara e chiarissima: se si forza il linguaggio pubblico sempre verso l’iperbole, si rimane senza parole per comprendere e quindi intervenire sulle vicende della vita collettiva. Come potrà succedere che una simile usura, che è oggi la nostra lingua dominante, torni in un gioco fertile, sottratto ai luoghi comuni e alle sette culturali, è la domanda che questo libro consegna ai suoi lettori. Se non si vuole una vita democratica stupida, o ancora più stupida, occorre rispondere.

Esistono i bugiardi patologici? Come riconoscerli (e aiutarli)? Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2022.

Raccontare menzogne su di sé può essere un disturbo psichiatrico e un impulso non controllabile. Esistono due tipologie di mentitori: il manipolatorio e l’insicuro. Smascherarli da soli è difficile: serve una rete

Sono storie da cronaca a volte con risvolti drammatici o storie intime di persone che vedono crollare il mondo che hanno costruito: parliamo delle vite dei mentitori seriali, una categoria che attira il biasimo generale, ma che comprende individui non sempre in malafede. Raccontare menzogne su di sé può essere un disturbo psichiatrico e un impulso non controllabile. Nella vita i mentitori seriali costruiscono una realtà fittizia che spesso viene smascherata e a quel punto di trovano soli. Eppure, andrebbero aiutati.

Le classificazioni

Nel 1891 lo psichiatra tedesco Anton Delbrück coniò il termine «pseudologia fantastica» per descrivere un gruppo di pazienti che, per impressionare gli altri, inventavano azioni stravaganti che li presentavano come eroi o vittime. Questo argomento è tornato in auge in un nuovo libro degli psicologi americani Drew A. Curtis e Christian L. Hart, di cui si parla in un articolo sul New York Times, che propongono di aggiungere al «Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali» un nuovo disturbo dal nome: «Menzogna Patologica». Questa categoria di mentitori, sostengono gli psicologi, potrebbe trarre beneficio da terapie comportamentali.

Due tipi di bugiardi

«Non c’è ancora una vera classificazione da manuale psichiatrico per questo disturbo – conferma Paola Mosini, psicoterapeuta di Humanitas Psico Medical Care —, il mentitore, però, può rientrare, con il suo comportamento, in alcune categorie di disturbi di personalità ben specifiche: ad esempio il disturbo narcisistico, il disturbo antisociale, il disturbo border line; con due distinzioni fondamentali che discendono dallo scopo delle bugie. C’è chi mente per proprio tornaconto (spesso anche tangibile o economico) e chi lo fa per abbellire la propria immagine. Nel primo caso si parla di un bugiardo manipolatorio, nel secondo di un bugiardo insicuro».

È consueto considerare i mentitori seriali definendoli «sfruttatori e calcolatori», ma gli psicologi hanno iniziato a fare alcune distinzioni: il secondo profilo non è in linea con il tradizionale inquadramento di questi soggetti. Questo mentitore, che si può chiamare per brevità, «insicuro» è un soggetto spesso bisognoso e desideroso di approvazione sociale, di solito senza precedenti penali o problemi legali, spesso afflitto da sensi di colpa e rimorsi.

Chi è insicuro

«Il “vero” bugiardo patologico è tendenzialmente un manipolatore, un antisociale, una persona sadica, non empatica, anaffettiva, spesso moralista – spiega Mosini —: questo è il profilo più problematico, che quasi mai arriva a essere consapevole della gravità delle sue azioni. Si tratta di una persona che inganna per avere un tornaconto personale. Anche il criminale seriale, con varie sfumature, ha questa personalità narcisista-maligna. Vede gli altri come vittime, persone da ingannare che devono semplicemente asservire a un interesse, in ambito di lavorativo, ma anche in ambito affettivo. Invece i bugiardi più “innocenti” e innocui, che fanno un danno soprattutto a livello di relazioni e spesso ne pagano un prezzo elevato, sono coloro i quali hanno la tendenza a mentire per bassa autostima, per il timore di deludere le aspettative». Si pensi ai casi di cronaca dei ragazzi che mentono sugli esami sostenuti all’Università. Mentire diventa un «meccanismo di difesa», qualcosa che si fa per calmare l’ansia da prestazione.

Impulso incontrollabile?

«In realtà il bugiardo è comunque una persona che ha una sua fragilità di fondo, che sia manipolatorio o no – osserva Mosini —. Il tipo non manipolatorio è un soggetto profondamente insicuro che “deve” iniziare a vendersi per quello che non è. In seguito, trova sempre più facile continuare a mentire piuttosto che dire la verità. Sono persone che si rendono conto delle menzogne, ma fanno fatica a uscire dal meccanismo. Spesso provano un profondo senso di vergogna rispetto e a quello che sono e a quello che raccontano».

Quello a mentire è davvero un impulso incontrollabile? «Ci sono sicuramente quadri dove la persona perde il concetto di confine con la realtà ed entra in questo mondo fantastico che ha costruito e da cui è sempre più difficile uscire. Quando la bugia viene smascherata, non è facile gestire il senso di vergogna che si può provare: può essere estremamente frustrante e doloroso».

Come intercettare i mentitori

Che cosa si può fare quando le menzogne vengono a galla? «Bisogna cercare di lavorare sulla motivazione interna e spingere queste persone verso un percorso psicoterapico – dice l’esperta —. È necessario un lungo cammino che arriverà anche alla ricostruzione della loro identità, perché un soggetto abituato a mentire da sempre ha costruito un altro se stesso e quindi deve ritrovarsi». A volte queste persone sono deluse da se stesse e preferiscono vivere nel mondo falso, ma abbellito, che si sono costruite, piuttosto che in quello meno scintillante e magari più difficoltoso che hanno intorno.

C’è un modo per capire di essere di fronte a un mentitore seriale? «A volte è veramente difficile, perché spesso sono persone molto intelligenti, dato che ci vuole una discreta energia intellettiva e una buona fantasia per costruire certe realtà parallele». Non è facile che le bugie emergano da sole, allora, spesso è la rete di conoscenze a insinuare qualche dubbio nei famigliari che poi iniziano a indagare. Classificare questo comportamento come sintomo di un disturbo di personalità, però, permette anche alle vittime delle bugie di comprendere e aiutare. A livello sanitario, la giusta identificazione del problema può favorire i trattamenti più pertinenti e scalfire il pregiudizio che queste persone «non cambieranno mai».

Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 5 dicembre 2022.

«Ci sono persone così dipendenti dall'esagerazione che non possono dire la verità senza mentire», sosteneva l'umorista americano Josh Billings, particolarmente sensibile all'arte dell'inganno tanto da suggerire: se non sai fingere, imbrogliare e rubare, rivolgi la tua attenzione alla politica e impara. 

Poiché «un buon politico è chi sa mentire, un grande politico chi finisce col credere alle proprie menzogne», direbbe Roberto Gervaso. In fondo che sarà mai una piccola inesattezza, anzi, talvolta ci risparmia tonnellate di spiegazioni, parafrasando lo scrittore inglese Hector Hugh Munro. La verità è che «la società può esistere solo su una base di cortesi bugie e a patto che nessuno dica esattamente quello che pensa», per usare le parole di Lin Yutang, autore dell'Importanza di vivere.

Siamo in un mondo in cui non sempre sono ben viste le idee che si discostano da quelle della maggioranza. Ecco perché la (sopravvalutata) sincerità oggi rischia di finire nel frullatore di una società pronta a criticare e deridere chi la pensa diversamente, chi non si allinea al pensiero comune. 

Una società che spinge a essere tutti un po' pinocchi, sudditi ideali e contenti di vivacchiare, portati a credere che proprio nella passività, che spesso coincide con la finzione, possano dare il meglio di sé. E allora perché rischiare l'isolamento, e non solo, per urlare: «Il re è nudo». 

In fondo si è predisposti alla menzogna. Si comincia a mentire intorno ai quattro anni, dicono gli esperti, anche se i più svegli iniziano a "imbrogliare" ancor prima, perché sviluppano in anticipo «la capacità di attribuire agli altri e a se stessi stati mentali oltre che intenzioni, conoscenze e desideri».

Nell'apprendere l'arte dell'inganno i bambini migliorano i processi mentali di ordine superiore, che sovrintendono ai comportamenti pianificati, orientati all'obiettivo ed efficaci. Insomma, si comincia a raccontare bugie appena si percepisce lo stato mentale della persona a cui sono dirette. 

All'inizio i piccoli nascondono il loro comportamento, nel tentativo di evitare conseguenze negative. Tuttavia, la capacità complessiva di ingannare gli altri «rappresenta un passo fondamentale nello sviluppo cognitivo e morale». I bimbi non mentirebbero solo nel proprio interesse, ma anche per altruismo. 

Crescendo, spiega la psicologa Mareike Heinrich che collabora con il Centro di ricerca sullo sviluppo cognitivo e culturale dell'Università di Amburgo, «i bambini tengono maggiormente in considerazione i sentimenti e i bisogni dei loro simili. Si prendono le colpe oppure mentono per non ferire i sentimenti degli altri, o per essere gentili. In questo modo sfruttano la bugia come strategia per agire sui rapporti sociali».

Quando il nipotino riceve dal nonno un regalo costoso che non è esattamente il gioco della Playstation tanto desiderato, sarebbe scortese non mostrare un minimo di felicità. «Le bugie prosociali si possono considerare un meccanismo adattivo grazie al quale i bambini apprendono importanti regole sociali della comunicazione interpersonale», aggiunge la Heinrich.

E crescendo le tecniche si affinano nella società dove «mente chi pensa una cosa e afferma con le parole o con qualunque mezzo di espressione qualcosa di diverso», come asseriva Sant' Agostino spiegando che la falsità dipende dall'intenzione, dal pensare una cosa e dirne un'altra. E dunque raccontare una "balla" essendo convinti che la ricostruzione storica sia quella giusta è sì una bugia ma non è da bugiardi.

A giustificare e sollecitare falsità ci ha pensato invece lo spregiudicato Niccolò Machiavelli con la sua sintesi lapidaria: «Il fine giustifica i mezzi». Un monito che vantano spesso e volentieri uomini (e donne) al comando. 

«Si mente per molte ragioni» dice la psicoterapeuta Emma Cosma «per difesa, per paura, per insicurezza. Di sicuro il bugiardo con esperienza ha in genere molto self control, in particolare non si tradisce dal comportamento del corpo e dunque guarda fisso negli occhi l'interlocutore, appare rilassato, tiene sotto controllo le mani, usa lo stesso tono di voce per tutta la conversazione e non sorride troppo». Ma si raccontano frottole anche quando la menzogna è più bella, più affascinante, più comoda o più conveniente della realtà. E allora sì che bisogna essere convincenti. Il pinocchio di turno ostenta una vita perfetta, si presenta come un vincente (ma fa fatica ad apparire empatico).

Mostra sicurezza, e si sente ricco di immaginazione e intelligenza, e spesso un filo (anche più di uno) sopra agli altri. Facile quando si è abituati a "recitare" e si è costruita una vita sulle fandonie. Un'abilità quella del contaballe che si apprende in fretta (se proprio ci tenete) con qualche tecnica. All'inizio, spiegano i bugiardi di professione, restate quanto più possibile aderenti alla realtà, mentendo solo su aspetti marginali che si confondono con la verità che ci costruite intorno.

E se vivete nel terrore di essere scoperti, allora non vi resta che affidarvi alla tecnica del suggerimento mentale, ossia autoconvincetevi che la bugia che raccontate non è una bugia, ma la verità (somiglia molto allo stile adottato in tempo di pandemia per rifilarci "balle"... quante ne abbiamo sentite...). Poi, concludono gli esperti, «ripetete nella vostra testa più volte la storia inventata, immaginando ogni scena, e infine ditevi che è accaduta veramente».

Sarete in grado di affondare la verità in un mare di falsità fino al punto che il vostro cervello si confonderà e non farà più distinzione fra realtà e finzione (buon divertimento). Così vengono istruiti anche certi venditori... Lo scrittore Albert Camus nel suo libro La Caduta (uscito nel 1956) divideva gli esseri umani in tre categorie: quelli che preferiscono non avere niente da nascondere piuttosto che essere obbligati a mentire, quelli che preferiscono mentire che non aver niente da nascondere e gli ultimi quelli che amano sia mentire sia nascondere. E voi a quale appartenete?

Laura Goertzel per nationalgeographic.it il 25 febbraio 2022.

Jamie Goldfarb aveva appena finito di leggere l'ultimo libro della buonanotte al figlio di tre anni, Kai, quando il piccolo le ha confessato di avere fame. 

La mamma, di Takoma Park, nel Maryland, era solita assecondare questo tipo di richieste, dal momento che Kai era un bambino difficile per l’alimentazione. Ma questa volta, mentre scendeva al piano di sotto per prendere una banana, lo aveva sentito sussurrare sottovoce: «È così che otterrai un quarto libro».

Goldfarb era rimasta sbalordita dal fatto che il suo dolce bimbo le avesse detto una bugia bella e buona, ma in questo caso gli esperti ci spiegano che Kai era semplicemente impegnato in un sofisticato ragionamento cognitivo al fine di ottenere la sua lettura extra. E, secondo gli studiosi, l’attività di mentire comincia non appena un bambino inizia a sviluppare empatia, ragionamento e autocontrollo. 

Verso l’età di due anni, infatti, i bambini iniziano a maturare un senso del sé, riconoscendo di essere indipendenti dagli altri. E questo significa che possono anche iniziare a comprendere le emozioni umane - e di conseguenza a manipolarle. Gli esperti definiscono questa dinamica "teoria della mente", ovvero la capacità di agire prevedendo le idee, i desideri e le azioni altrui.

«I bambini iniziano a comprendere di essere, almeno mentalmente, indipendenti dai loro genitori. Ad esempio - alla mamma piacciono i broccoli, a me la cioccolata», afferma Kang Lee, psicologo presso l'Università di Toronto che ha studiato il connubio bambini e bugie per oltre 30 anni. «Comprendere che persone diverse nutrono desideri diversi è molto importante. Da lì, un bambino può iniziare a pensare: “La mamma sa qualcosa che io non so, ma io so qualcosa che la mamma non sa”».

Sebbene possa spaventare i genitori, la capacità di mentire in realtà rappresenta un ottimo allenamento per lo sviluppo cerebrale. E man mano che il cervello di un bambino si sviluppa, lo stesso accade anche al tipo di bugie che i piccoli riescono a elaborare. Qui vi spieghiamo dove potrebbe trovarsi vostro figlio lungo la “classifica di Pinocchio” - e vi sveliamo alcuni consigli degli esperti su come affrontare i vostri piccoli bugiardi. 

La scienza delle bugie

Sebbene gli esperti concordino sul fatto che non ci sia un'area cerebrale specifica dedicata all’elaborazione delle bugie, esistono alcune regioni del cervello che sono impegnate durante la costruzione di una menzogna. «La corteccia prefrontale è coinvolta nell’esercizio dell’autocontrollo», spiega Lee. «Mentre l'area parietale è interessata nei ragionamenti sugli stati mentali delle persone».

Il cervello deve anche destreggiarsi tra emozioni, ricordi e conoscenza di un altro individuo, oltre a riflettere sui percorsi alternativi che quella bugia potrebbe prendere. Dunque, «si tratta di un'intera rete di interazioni complesse», afferma Mary Helen Immordino-Yang, professoressa di educazione, psicologia e neuroscienze presso la University of Southern California. 

Ed è per questo che la capacità di mentire si sviluppa nel tempo, di pari passo con lo sviluppo del giovane cervello. 

All’età di circa due anni, un bambino probabilmente racconterà la sua prima bugia per evitare di finire nei guai - e molto probabilmente non sarà granché bravo. (Ad esempio, con il viso ricoperto di cioccolata, insisterà nel dire di non averne mangiata). Sebbene i bambini a questa età possano percepirsi come individui autonomi, in realtà ancora non padroneggiano del tutto il controllo delle loro azioni. E, dunque, i bambini molto piccoli possono spifferare la verità o iniziare a ridacchiare di fronte a genitori che mettono in discussione la loro versione dei fatti. 

«Di fatto, bisogna inibire la verità per raccontare una bugia», afferma Lee. «Immaginate di chiedere a vostro figlio di mantenere un segreto. Semplicemente non sa farlo - il suo cervello non si è ancora sviluppato a sufficienza, e non può esercitare il pieno controllo». Ai bambini piccoli può accadere di iniziare a raccontare una bugia, per poi cambiare la storia a metà frase perché non hanno la padronanza - e la resistenza mentale - per sostenere quella finzione.

Questo è forse il motivo per cui Lee ha scoperto che, se incalzati, quasi tutti i bambini molto piccoli alla fine confessano la verità. Invece, meno della metà dei bambini di tre anni ammette la bugia, molto probabilmente perché a quell’età il cervello sta iniziando a sviluppare le capacità mentali necessarie per raccontare una storia credibile - e anche per capire quando non le ha. 

I bambini più grandi, in età prescolare, tendono a mentire al fine di sembrare migliori, una dinamica che gli esperti chiamano "Bugie per la gestione delle impressioni". 

«I bambini, a volte, si ritrovano a raccontare una bugia perché vogliono l'approvazione dei loro genitori», spiega Victoria Talwar, professoressa di psicologia educativa e comportamentale presso la McGill University e autrice del libro di prossima uscita The Truth About Lying. «Magari affermano di aver fatto qualcosa che in realtà non hanno fatto semplicemente perché vogliono la nostra approvazione, oppure esagerano perché desiderano che il genitore pensi, oh wow, sei davvero incredibile!».

Talwar sottolinea, inoltre, che i bambini molto piccoli non intraprendono facilmente questo tipo di bugie perché già ritengono di essere meravigliosi. 

Quando poi i bambini iniziano la scuola elementare, i loro cervelli più sviluppati sono in grado di dare vita a bugie più complesse. Ma a quell’età i bimbi cominciano anche a sviluppare un senso di empatia e altruismo, e questo è proprio il momento in cui di solito iniziano a comparire quelle piccole bugie bianche. 

«Questo tipo di bugie si raccontano quando si tengono da conto i sentimenti dell’altra persona, specialmente in un contesto culturale in cui essere schiettamente onesti può essere visto come scortese», spiega Talwar.

Come gestire le bugie di vostro figlio

I genitori potrebbero sentirsi come se la loro fiducia fosse stata violata, nello scoprire che i figli non sono stati sinceri, ma gli esperti consigliano di evitare di rimproverarli o sminuirli definendoli bugiardi. «Questa reazione non promuoverà, necessariamente, il comportamento che voi desiderate», afferma Talwar. 

Piuttosto, Talwar suggerisce ai genitori di concentrarsi sul comportamento che vorrebbero che il loro bambino mostri, e di utilizzare un linguaggio che incoraggi la verità. Ad esempio, se vostro figlio sostiene di essersi lavato i denti, ma il suo alito racconta un'altra storia, invece di dire: «Non mentire», i genitori possono piuttosto provare con: «Leggeremo una storia dopo che ti sarai lavato i denti». 

Quando, invece, si tratta di una menzogna più complessa, gli esperti consigliano di intavolare una conversazione diretta sulla questione, dopo che gli animi si saranno placati. «Dovete aiutare quel bambino a sciogliere le sue motivazioni, le sue emozioni e le implicazioni della bugia», afferma Immordino-Yang.

Per fare un esempio, il figlio di Immordino-Yang aveva deciso di farsi un taglio di capelli piuttosto brutto, sostenendo poi per quasi due settimane di non essersi mai tagliato i capelli. La studiosa racconta di averlo aiutato a gestire la sua bugia affrontandolo prima con le prove (un ciuffo di capelli e un piccolo paio di forbici nascosti nella sua camera da letto) e poi spiegando le implicazioni: anche se i capelli sarebbero ricresciuti, non era stato sincero con le persone che si fidavano di lui. Così, per aiutarlo ad assumersi le sue responsabilità, lo ha poi incoraggiato a scusarsi con tutti quelli a cui aveva mentito. Immordino-Yang afferma che il suo calvario è stato emotivo, e che suo figlio era veramente pentito. 

Per bugie più serie come imbrogliare e rubare, invece, gli esperti suggeriscono ai genitori di fare prima un respiro profondo, e poi di avviare un dialogo aperto per capire la causa di quella bugia. Successivamente, bisogna assicurarsi di prendere provvedimenti per evitare che la dinamica si ripeta. 

Il bambino ha imbrogliato perché è preoccupato di prendere un brutto voto? Concentrate la discussione su abitudini ed etica dello studio. Il bambino ha rubato per via di una sfida o perché voleva qualcosa che non poteva permettersi? Intavolate una discussione sulla pressione da parte dei coetanei o su come risparmiare denaro. Gli esperti consigliano quindi di fare mente locale su ciò che il bambino potrebbe fare in modo diverso all’occasione successiva. 

In ogni caso, per i genitori, il modo più significativo per minimizzare le bugie nei bambini è quello di essere modelli di veridicità. Ad esempio, rifiutare la richiesta di un biscotto adducendo come scusa che sono finiti potrebbe, lì per lì, evitare un capriccio. Ma una volta che il bambino si sarà reso conto che non siete stati onesti, spiega Immordino-Yang, inizierà a credere che mentire sia il modo migliore per indurre le persone a fare ciò che vogliamo.

Talwar aggiunge di rendere l’onestà parte integrante di una conversazione sempre in corso. «I genitori devono affrontare la tematica del “dire la verità” anche in altre situazioni, non solo quando si ha a che fare con la bugia di qualcuno», afferma la studiosa. Questo potrebbe includere elogiare un bambino per essere stato sincero in una situazione difficile o richiamare l'attenzione sull'onestà di qualcun altro. («Hai visto che quell'uomo ha restituito il denaro al cassiere quando gli ha dato troppo resto?»). Questo farà passare il messaggio che l'onestà è un valore intrinseco della vostra famiglia.

La capacità di mentire - e mentire bene - è una componente fondamentale dello sviluppo sociale ed emotivo di un bambino. Ma Lee sostiene che i genitori dovrebbero sempre restare in guardia in riferimento a quei segnali in grado di indicare che un bambino ha bisogno di aiuto. 

«Se un bambino mente molto, e male, dovreste essere particolarmente preoccupati», spiega. La mancanza di rimorso dopo essere stati scoperti a mentire è un altro segnale d’allarme. Per i bambini più grandi, il mentire può essere l’indizio del fatto che sta accadendo qualcosa di più serio. (Ad esempio, un bambino che mente sul fare i compiti potrebbe effettivamente significare che ha una difficoltà con un determinato argomento).

Le bugie possono mettere sia genitori che bambini in situazioni spiacevoli, ma Lee afferma che nel corso dei suoi studi ha notato una cosa che forse potrà rincuorare un po’ tutti gli adulti: «Ho visto quasi 10.000 bambini e fatto ricerca in tutto il mondo», afferma Lee. «E non ho mai incontrato un bambino che mentirebbe di proposito per mettere qualcun altro nei guai». 

Cesare Peccarisi per il “Corriere della Sera - Salute” il 26 dicembre 2021. Le vicende della fortunata serie televisiva «Lie to me», che possiamo parafrasare con «Se menti me ne accorgo», concordano con i risultati di uno studio appena pubblicato su Brain & Behaviour dai ricercatori della Icahn Mount Sinai School of Medicine di Manhattan che fornisce la prima conferma strumentale delle pratiche clinico-psicologiche formulate da Paul Ekman della California University di San Francisco, il quale, col supporto del Dalai Lama, ha pubblicato nel 2016 l'Atlante delle Emozioni, tuttora reperibile online in varie lingue (atlasofemotions.com) indicando come non ci siano differenze culturali nelle espressioni dei sei sentimenti base universali (paura, rabbia, tristezza, gioia, disgusto e sorpresa) che lo studioso ha ritrovato tal quali anche in una tribù isolata della Papuasia.  Su queste basi il regista Adam Davidson ha costruito la serie TV.

Gelosia e disgusto

Secondo Ekman la verità è scritta nel nostro volto e lo psicologo della polizia criminale Cal Lightman, protagonista di Lie to me riesce a leggere le cosiddette microespressioni involontarie della faccia, cioè i piccoli movimenti di 40-60 millisecondi che a nostra insaputa ci sfuggono svelando il nostro reale stato d'animo. 

Se siamo arrabbiati, anche se non vogliamo farlo vedere, a smascherarci sono le nostre labbra lievemente serrate, così come sono inconfondibili gli angoli della bocca e le sopracciglia abbassate quando siamo tristi. Gli occhi si chiudono per un attimo anche quando siamo davvero sorpresi, mentre la bocca aperta per la meraviglia è un segno che può essere anche mimato. Fra tutti i sentimenti solo su due non possiamo mai mentire: la gelosia e il disgusto.

La «seconda lingua»

Oltre all'espressione faciale parla anche il linguaggio del corpo, la seconda lingua muta pilotata dal tiro alla fune mentale fra cognitività ed emotività, di cui risentono anche il tono di voce, lo stile e il contenuto verbale, tutti particolari che parlano più di quanto non diciamo. 

 Ma per chi è abituato a leggerli come fa Lightman anche grattarsi il mento, ruotare il polso, corrugare il naso o deglutire possono indicare se un sospettato sta mentendo. Spesso aiutato dalla sua valida assistente ha infatti sviluppato una capacità di riconoscimento analitico infallibile che nella finzione filmica viene sottolineato con la tecnica della slow motion, focalizzata sul particolare del volto che sta osservando per capire se chi ha di fronte mente. 

Vediamo così che, ad esempio, per pochi secondi gli occhi del sospettato ruotano a destra in basso per ricordare l'evento su cui si basa il suo alibi o, viceversa, che restano fissi perché il suo inconscio sa bene che non c'è nulla da ricordare, nonostante lui affermi il contrario. 

 Le macchine della verità

Finora nella realtà queste valutazioni erano affidate al poligrafo, la famosa macchina della verità dell'Fbi, che però arriva a stento a una certezza dell'86% perché influenzata da variabili fisiologiche come pressione sanguigna, respirazione, stress, ecc.

Altrettanto inaccurato è il sistema di tipo comunicazionale messo a punto dallo stesso Paul Ekman chiamato Facs, acronimo di Facial Action Coding System che affina la nostra innata capacità di capire in meno di 100 millisecondi se possiamo fidarci di chi incontriamo per la prima volta. Nella realtà psicologi come Lightman sono ben difficili da trovare, ma i ricercatori della Mount Sinai School di New York hanno pensato a un sistema elettronico ben più preciso sia del poligrafo che del Facs.

Particolari placchette autoadesive sono state posizionate sul volto di 48 persone (35 erano donne) con età fra 18 e 30 anni in aree importanti per i micromovimenti delle bugie: i muscoli grande zigomatico e il corrugatore del sopracciglio. L'apparecchiatura si chiama sEmg , acronimo di facial surface electromyography , cioè elettromiografia della superficie faciale. Le placchette inviavano a un computer segnali a ogni minima attivazione del muscolo interessato smascherando menzogne di cui era difficile accorgersi a vista, a meno di non essere sul set di Lie to me.

I soggetti sono stati divisi in due gruppi: il primo riceveva in una cuffia un nome di tre lettere facili da ricordare (KAV o ETZ) e poi doveva decidere se ripeterlo correttamente al partner del secondo gruppo che non l'aveva sentito oppure se dirgliene uno sbagliato, mentendo. I componenti del secondo gruppo dovevano capire se il partner del primo gruppo aveva detto la verità o se aveva mentito.

I soggetti del primo gruppo erano esortati a mentire cercando di essere convincenti e quelli del secondo a capire se erano stati ingannati. Per migliorare le prove in una seconda fase della sperimentazione chi indovinava riceveva anche un piccolo premio in denaro. I partecipanti hanno mentito in oltre la metà (50,96%) delle 28 prove effettuate e il premio monetario non ha incentivato significativamente la capacità di riconoscere l'inganno.

Differenze

Se da un lato questo studio conferma appieno la linea di ricerca di Ekman e la serie TV ispirata ai suoi studi, dall'altra la migliora, evidenziando che i micromovimenti di alcuni gruppi muscolari del volto sono indubbiamente correlati alla menzogna, ma non tutti li fanno allo stesso modo e lo stesso soggetto può farli diversamente a seconda delle situazioni. Anche all'infallibile Cal Lightman potrebbe quindi sfuggire qualche bugia che non scappa invece alla sEmg.

Estratto dell'articolo di Alberto Mattioli per “La Stampa” mercoledì 9 agosto 2023.

L’ipocrisia è forse un vizio privato, ma di certo è una pubblica virtù. Di tutti i mali sociali, sicuramente il minore, a patto di maneggiarlo con una certa souplesse. Ma non c’è niente di più ipocrita che rigettare l’ipocrisia. La vita associata diventerebbe impossibile, se dicessimo sempre quello che pensiamo (poi, vabbè, i più non pensano quel che dicono, disabituati come sono alla riflessione: ma affrontiamo un problema per volta). 

[…]  dire la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità può risultare pericoloso in tribunale, figuriamoci nella vita di tutti i giorni.

Nella sfera privata, una certa dose di ipocrisia equivale, in sostanza, alla buona educazione. Nessuno può onestamente accusarci di essere dei farisei quanto flautiamo «No, non mi disturbi affatto» al molestatore telefonico che invece sì, disturba e pure molto. Né imbianchiamo molti sepolcri mostrandoci cortesissimi con chi in realtà detestiamo. Sarà pure dissimulazione, e forse nemmeno onesta, ma dire sempre la verità equivale a una condanna alla morte sociale. 

Semmai, qui giova una certa dose di ironia: le iperboli con cui esaltiamo con il diretto interessato articoli pessimi, libri illeggibili, outfit improbabili e comportamenti in realtà censurabilissimi dovrebbero fargli capire che c’è qualcosa sotto, che forse non è proprio così, che magari lo stiamo garbatamente prendendo per il beeep.

Ma quasi tutti hanno un ego così espanso da prendere per buoni apprezzamenti che risulterebbero esagerati per un premio Nobel vincitore anche dell’Oscar, del Pulitzer e della Coppa dei campioni. Forse i più intelligenti capiranno che qualcosa non torna, ma saranno comunque lusingati: «ed io fingendo di non capir le frodi / in coppa di bugie bevo le lodi», come canta la mezzana Arnalta nell’Incoronazione di Poppea di Monteverdi, contemporanea più o meno di Accetto. Anche qui, basta non esagerare. 

[…]  Diceva un principe Corsini del Settecento, svenato dalle spese per la beatificazione di un antenato: «Figli miei, siate virtuosi ma non santi. Costa troppo».

Ma naturalmente è il pubblico che ci interessa di più. Qui la democrazia ha le sue colpe. Una modica quantità di ipocrisia è necessaria per vincere le elezioni e indispensabile per governare. Nell’ancien régime, delle classi dirigenti dispensate per diritto di nascita dal consenso potevano praticare il cinismo senza nemmeno mascherarlo, a parte per qualche tardivo rimorso di coscienza: e allora abbiamo la pia Maria Teresa d’Austria che si commuove sulla sorte dei poveri polacchi che si era appena spartiti (chiosa di un altro spartitore, Federico il grande, che di scrupoli invece non ne aveva alcuno: «Piange, ma prende»). 

[…] Notava qualcuno che il congresso di Vienna, gestito da un pugno di aristocratici in splendida solitudine, senza minimamente consultare le popolazioni interessate, assicurò all’Europa un secolo senza guerre generalizzate; il trattato di Versailles, firmato in nome della democrazia, fu seguito da un’altra guerra mondiale dopo appena vent’anni.

Nemmeno il trionfo del politicamente corretto ha sconfitto l’ipocrisia. Anzi, l’ha rilanciata. Si parva licet, ricordo i festival di Cannes nella fase acuta del #metoo, con una continua, giusta denuncia dei soprusi maschili e la rivendicazione del talento femminile. Di giorno, simposi e incontri per dire che il corpo delle donne non è una merce; la sera, gran sfilata di bellone smutandate, lì appunto in quanto corpi, meri appendiabiti delle griffe più celebri.

La realtà è che senza una modica quantità di ipocrisia, possibilmente gestita con un minimo di eleganza, la società non sta in piedi. Anzi, quelle più solide sono, forse, anche quelle più ipocrite. Vedi l’Inghilterra vittoriana, dove nelle case dei bravi borghesi si coprivano di mussolina le gambe delle sedie. 

Nella sua deliziosa autobiografia, Agatha Christie - classe 1890 - raccontò di essere stata ripresa dalla sua bambinaia per aver parlato delle gambe della Regina: «La Regina non ha gambe». E cos’ha, nannie? «La Regina ha membra». In compenso, nessuno faceva un plissé per le ragazzine tredicenni che si prostituivano per le strade, anche se William Gladstone, primo ministro per quattro volte, usciva personalmente dal numero 10 di Downing Street per andare a redimerle con una Bibbia in mano.

E tuttavia questa società così ipocrita era straordinariamente coesa e creò il più grande impero di sempre, spedendo cannoniere in tutto il mondo a colonizzare e cristianizzare gli indigeni, naturalmente «per il loro bene». Del resto, come si sa, l’Inquisizione non ha mai bruciato un solo eretico o sodomita o giudaizzante: si limitava a condannarli e a passarli al braccio secolare, che provvedesse lui a farli flambé. Beata, anzi santa ipocrisia.

La Concorrenza.

Infocratici.

Cavallo di Troia.

Dannosi.

La Monetizzazione.

Pubblicare foto di minori.

I Selfie.

Legioni di Imbecilli (cit. Umberto Eco).

La Concorrenza.

 Abbiamo provato Threads, l'app con cui Meta vuole affondare Twitter. Alessio Caprodossi su Panorama il 06 Luglio 2023

Non disponibile in Italia sui canali tradizionali, l'ultima arrivata è un clone di Twitter che, nonostante alcune mancanze, ha accolto in poche ore oltre 10 milioni di curiosi

Più di 10 milioni di iscritti nelle prime 10 ore post lancio. Sono numeri importanti quelli che caratterizzano il debutto di Threads, l'applicazione con cui Meta si propone come alternativa a Twitter. La nuova app battezzata da Mark Zuckerberg è disponibile in 100 paesi ma non in Europa, dove è stata bloccata dal Garante della privacy irlandese, che nutre parecchi dubbi sulla quantità di dati raccolti e sul trattamento degli stessi da parte di Meta, in contrasto con le norme in voga nel Vecchio Continente, rispetto al più permissivo panorama statunitense. Threads nasce in simbiosi con Instagram, non a caso preferita a Facebook che continua a perdere interesse per i più giovani: una volta scaricata l'app, basta un tocco per accedere con il nome e l'immagine del profilo già in uso su Instagram. Poiché non disponibile in Italia se ricercata negli store digitali di Apple e Google, al download di Threads si può arrivare bypassando le mosse tradizionali, sia per chi possiede smartphone Android, sia per chi ha un iPhone, anche se la procedura è differente. Nel primo caso bisogna scaricare l'apk dell'app da store alternativi (come Apkpure), nel secondo è necessario cambiare la regione di appartenenza dell'ID Apple nell'App Store. Tanto basta per trovare Threads sullo store e cominciare a usarla, in quanto non ci sono blocchi geografici che ne limitano l'utilizzo.

Al primo impatto sembra di essere su Twitter ma con i profili che si seguono su Instagram. Anche perché oltre a poter impostare il proprio profilo come pubblico o privato, chi non vuole riempire l'ennesima biografia digitale, si ritrova la stessa che ha sul social fotograco. Come previsto Threads è un'app di testo, con il feed che restituisce un flusso pressoché identico alla sequenza di tweet che siamo abituati a trovare sulla piattaforma gestita ora da Elon Musk. La teorica indisponibilità in Italia rende scarna la presenza di connazionali, tuttavia muoversi all'interno di Threads suona familiare, anche perché nella parte bassa si susseguono le icone per aggiornare i contenuti pubblicati, la lente di ingrandimento per cercare qualcuno o ricevere suggerimenti su altri proli, poi c'è l'icona per scrivere un post, pardon un thread, che può contenere immagini e video oltre alle parole e non ha limiti di caratteri, poiché la divisione in più messaggi la gestisce direttamente l'applicazione. Infine non manca il cuore per scoprire le notifiche tra menzioni, risposte ai propri thread e la lista degli account seguiti e quelli che ci seguono, con l'icona per tornare al prolo personale che chiude l'elenco delle opzioni. Evidente è che sia ancora molto da fare, perché sono diverse le funzionalità che mancano all'appello. Non si può avere un feed circoscritto soltanto ai contatti che si seguono (che nella prima fase non è un problema, al contrario del futuro se e quando Threads diventerà molto popolata), non c'è l'applicazione per la versione web e per ora non c'è la possibilità di modificare i thread, con le Alessio Caprodossi Uno scambio di thread con Mark Zuckerberg opzioni per i post pubblicati che si limitano a indicare chi può rispondere, a rendere invisibile il numero dei like e all'eliminazione del messaggio. Non ci sono le Storie, anche se clip e foto pubblicate su Threads si possono condividere come storie su Instagram. Il neo più clamoroso, però, è l'attuale impossibilità di cancellare il proprio profilo sull'app: si può disattivare in qualsiasi momento, ma la cancellazione determina identico risultato anche per il profilo Instagram. Se a proposito di tutte le carenze elencate, Meta ha assicurato che arriveranno novità nelle prossime settimane, su quest'ultima la compagnia si è giustificata parlando del profilo di Threads come parte integrante dell'account Instagram, anche se in realtà Zuckerberg ha scelto di collegare le due anime per portare sulla nuova app buona parte degli entusiasti della social app, mantenendo alto al contempo il numero di download anche a fronte di eventuali successivi cali nell'utilizzo quotidiano di Threads.

Infocratici.

Alle origini della disinformazione su Facebook, sistemica e mai casuale. GIAMPIERO MUGHINI il 10 giugno 2023 su Il Foglio 

Max Fisher e la macchina dei like. "La macchina del caos" è il volumone di un team di ricercatori sul mondo dei social media che nel 2019 sono stati finalisti al Premio Pulitzer. Un libro spaventoso nel dirci in quali dannate mani siamo noi cittadini del terzo millennio 

Dato che di come funzionano i social e come interagiscono i loro utenti e come ne vengano ammaliati so solo che è il comparto della vita il più rilevante del presente – quando un americano medio controlla il proprio smartphone qualcosa come 150 volte al giorno e il più delle volte “aprendo” un social –, mi ci sono buttato a pesce sul libro appena edito da Linkiesta Books, La macchina del caos di Max Fisher, un reporter del New York Times che fa parte di un team di ricercatori sul mondo dei social media che nel 2019 sono stati finalisti al Premio Pulitzer. L’ho fatto venendo meno a uno dei miei princìpi, quello di scansare i volumi fin troppo massicci, e questo è un minaccioso tomone da 438 pagine. Solo che è un libro portentoso, dove tutto è informazione intelligenza sostanza. “Portentoso e spaventoso”, mi ha replicato via mail il mio vecchio amico Christian Rocca, il duca dell’attrezzata macchina informativa che ha nome Linkiesta. Sì, spaventoso nel dirci in quali dannate mani siamo noi cittadini del terzo millennio. Siamo l’ultima generazione a ricordarsi com’era il mondo prima dello strapotere dei social, ha detto tempo fa un ex ingegnere informatico appena fuoruscito da Facebook. Una rivoluzione, quella informatica, che a molti apparve come il naturale prosieguo della cultura la più innovante e libertaria dei Settanta. “Noi rifiutiamo: re, presidenti e voto. Noi crediamo in: consenso e codici”, aveva detto nel 1992 uno dei creatori del web. Nientemeno.

Ve la faccio breve. Nel 2006, quando il Facebook creato dall’allora ventiduenne Mark Zuckerberg era ancora giovane giovane, il colosso di Internet Yahoo gli offrì un miliardo di dollari per comprarlo. Era un’offerta allettante. Zuckerberg ci pensò a lungo e disse di no. Ma lasciamo la parola a Fisher: “Nel 2006, l’11 per cento degli americani era sui social. Tra il 2 e il 4 per cento di loro usava Facebook. Meno di dieci anni più tardi, nel 2014, quasi due terzi degli americani usavano i social network, tra cui Facebook, YouTube e Twitter. Quell’anno, a metà del secondo mandato di Barack Obama […], i 200 milioni di americani con un profilo Facebook attivo trascorrevano, in media, più tempo sulla piattaforma che a socializzare di persona (quaranta minuti al giorno contro trentotto). Appena due anni più tardi, nel 2016, quasi il 70 per cento degli americani usava piattaforme di proprietà di Facebook, passandoci in media cinquanta minuti al giorno”. Mai una dittatura politica del Novecento ha avuto una tale presa sul tempo e sulle anime della popolazione che la subiva. Non Benito Mussolini in Italia, non Adolf Hitler in Germania, non Francisco Franco in Spagna, e tanto per fare dei riferimenti. E quanto al suo valore in dollari, quello dell’azienda di Zuckerberg già nel 2017 superava il valore di banche e aziende leggendarie della storia statunitense, altro che il miliardo di dollari offerto da Yahoo.

Ne sta parlando uno che ha sì una carta d’identità ma non un account social, il vero marchio di quel che sei oggi al mondo; e mi stupisco che quando arrivo in un albergo, sapendo con chi hanno a che fare, mi chiedano la prima e non il secondo. Fisher racconta che in America c’era chi si presentava all’allora ventiquattrenne primo presidente di Facebook e si vantava di non stare sui social, al che quello gli ribatteva: “Vedrai che ti raggiungeremo”. E in effetti ne raggiungevano – ossia ne acciuffavano a farli diventare degli utenti – sempre e sempre di più, adoperando ad esempio quella sorta di “dopamina” che sono i like che si affollano a commentare una tua eventuale panzana su Facebook. Personalmente non essendo un tossicodipendente dei like, me ne sto via mail ai giudizi che ci scambiamo  con i dieci/quindici lettori dei miei articoli. E del resto sono talmente pochi gli argomenti su cui ho qualcosa da dire. Qualcosa che non sia uno schiamazzo “divisivo”, una frase ingiuriosa volta ad accendere un litigio, una qualche banalità appartenente alla gamma infinita del politically correct. E qui siamo al cuore della faccenda perché, come documenta a puntino il buon Fisher, proprio i commenti più “divisivi”, quelli che inducono gli utenti a bisticci ripetuti e furiosi, quelli che li sollecitano a intervenire a tutti i costi e pronunziare alta e forte la loro opinione sono i più graditi agli algoritmi che fanno muovere Facebook. Purché sempre più utenti per quanto sgangherati accorrano sulle piattaforme da utenti attivi o passivi e ci restino sempre più a lungo, questa è la filosofia guida di chi governa i social. Molto semplice. E difatti ai tempi più acri della pandemia da Covid, i commenti e i siti animati dai No vax avevano sui social una rappresentanza ben superiore al numero dei cittadini effettivamente paladini di quell’opzione. Con il risultato che negli istituti scolastici americani era andato abbassandosi il numero degli studenti che davvero si vaccinavano contro il morbillo o contro la pertosse, un numero talvolta inferiore al 30 per cento degli studenti totali. Potenza del web.

Fisher s’è confrontato a lungo con Renée DiResta, una donna americana laureata in Scienze informatiche e che di mestiere cerca occasioni di investimento nel web da suggerire ai suoi clienti. Nel girovagare su Google si era accorta di quanto forte fosse la presenza dei No vax sui social e più particolarmente come lei fosse continuamente indirizzata dagli algoritmi verso gruppi di disinformazione sanitaria tipo quelli convinti che lo Zika, un virus che andava diffondendosi negli Stati Uniti, fosse stato creato in laboratorio. Gente che definiva lo Zika “un complotto degli ebrei, un progetto per controllare la popolazione”. Gente il cui estremismo sembrava bene accetto dal web e da chi ne fissava le regole. Direte che è solo un caso. Non tanto, perché nel libro di Fisher di esempi consimili ne troverete caterve.

La macchina del caos. Come i social media hanno ricablato il nostro cervello, la nostra cultura e il nostro mondo. Max Fisher su L'Inkiesta il 24 Maggio 2023

In anteprima il prologo di uno dei saggi più importanti degli ultimi anni, scritto dal giornalista del New York Times Max Fisher e pubblicato in Italia da Linkiesta Books. In libreria dal primo di giugno, ma già disponibile su Linkiesta  

“La macchina del caos” di Max Fisher è acquistabile qui online.

Entrare nel quartier generale di Facebook dà la sensazione di mettere piede in Vaticano: è un centro di potere ammantato di una segretezza e di un’opulenza tali da far vergognare un oligarca russo. L’azienda ha speso 300 milioni di dollari solo per l’edificio numero 21, un arioso parco giochi d’acciaio e vetro fatto di giardini, verande e ristoranti gratuiti che ho visitato alla fine del 2018. Tra una riunione e l’altra mi perdevo sempre a osservare un murale a due piani che mi ricordava le opere di quel famoso artista cinese che di recente era stato esposto al Guggenheim. Chiesi all’addetta alle pubbliche relazioni che si occupava della mia persona se per caso non l’avessero intenzionalmente dipinto ispirandosi al suo stile. Lei si mise a ridere, sempre con garbo, e mi disse che non era una copia; avevano fatto venire l’artista in persona per esprimersi su quel muro della sede di Facebook. Lui come decine di altri. Tutto intorno a me, dei programmatori lautamente remunerati si affaccendavano lungo i corridoi decorati di murales dall’inestimabile valore.

Nella borsa, insieme ai taccuini, c’era il mio biglietto d’ingresso: più di 1.400 pagine di documenti interni provenienti dai quattro angoli del mondo, che smascheravano Facebook come la mano invisibile capace di definire i limiti di ciò che era accettabile, per quanto riguardava la politica e la libertà di parola, per due miliardi di utenti in tutto il globo. Per la fonte che me li aveva consegnati, quei documenti erano la prova della negligenza dell’azienda e delle scorciatoie che essa aveva percorso nel tentativo di arrestare le crescenti turbolenze globali che, a suo avviso, i suoi prodotti avevano esacerbato, se non addirittura causato. Per me, però, erano ben più di quello. Offrivano una finestra guardando attraverso la quale potevamo capire ciò che pensavano i leader di Facebook delle conseguenze della diffusione dei social media.

Come molti altri, anch’io, all’inizio, avevo immaginato che il vero pericolo legato ai social derivasse dal cattivo utilizzo che ne facevano certi attori ( propagandisti, agenti stranieri, diffusori di fake news ), e che, alla peggio, le varie piattaforme fossero un conduttore passivo dei problemi preesistenti della società. Ma, praticamente ovunque andassi nell’ambito delle mie inchieste, e qualsiasi tema raccontassi ( despoti di Paesi lontani, guerre e rivolte ), c’erano sempre eventi bizzarri ed estremi che continuavano a dimostrarsi legati, in qualche modo, ai social media. Una sommossa improvvisa, un neonato gruppo radicale, il diffondersi di una qualche assurda teoria complottista: tutte queste cose avevano un elemento in comune. Ed erano innegabili le somiglianze con ciò che stava accadendo in America, anche se lì le violenze non erano ancora esplose. Ogni settimana si sentiva di una nuova teoria cospirazionista che si era diffusa su Twitter e che era arrivata a influenzare la politica nazionale, di una sottocultura che si era sviluppata su Reddit e che era sfociata nel neonazismo, di qualcuno che era diventato dipendente da YouTube e che si è era poi trasformato in uno stragista.

E l’inaspettata vittoria di Donald Trump nel 2016? Anche quella fu attribuita, in parte, ai social media. Benché il ruolo giocato dalle piattaforme sia a tutt’oggi misterioso, all’epoca era già evidente come l’ascesa di Trump fosse stata agevolata da strani, neonati movimenti popolari e da interventi superfaziosi che prosperavano online – oltre che da agenti russi che avevano sfruttato le tendenze distorsive e permissive, a livello di identità, dei social media. Questo schema globale pareva indicare un qualcosa di fondamentale che aveva a che fare con la tecnologia, ma nessuno fu in grado di dirmi di che cosa si trattasse di preciso, perché fosse accaduto o che cosa significasse.

Dall’altra parte del mondo, un giovanotto che chiamerò Jacob, terzista per una delle grandi aziende di outsourcing sulle quali la Silicon Valley scarica il lavoro sporco, aveva i miei stessi sospetti. Aveva lanciato tutti gli allarmi possibili. I suoi capi l’avevano ascoltato, preoccupati e perfino compassionevoli, mi aveva detto. Avevano notato anche loro quello che aveva notato lui. Nel prodotto che gestivano c’era qualcosa di pericolosamente sbagliato.

Jacob, un intellettualoide magrolino, si era innamorato di Internet ed erano anni che smanettava con i computer. Le tecnologie sembravano rappresentare il meglio degli Stati Uniti. Ammirava in particolare i magnati del web come Mark Zuckerberg, ceo e fondatore di Facebook, secondo il quale un mondo connesso sarebbe stato senz’altro un mondo migliore. Quando Jacob aveva trovato lavoro in una società di outsourcing che revisionava i contenuti degli utenti di Facebook e di Instagram, una delle decine e decine che l’azienda ingaggiava in tutto il mondo, gli era parso di entrare a far parte della storia.

Ogni giorno la sua squadra spulciava migliaia di post di gente di ogni parte del globo, e segnalava quelli che infrangevano qualche regola o oltrepassavano un certo limite. Era un lavoro estenuante ma necessario, credeva Jacob. Per qualche mese, nel 2017 e 2018, Jacob e i suoi avevano però notato che i post si facevano sempre più carichi d’odio, più inclini alla cospirazione e più estremi. E avevano notato che, più i post erano incendiari, più le piattaforme li diffondevano. Era come se ci fosse uno schema ripetitivo, che veniva applicato nelle decine e decine di Paesi e di lingue che avevano il compito di controllare.

Inoltre ritenevano che il compito di tenere a bada l’odio crescente fosse reso ancora più gravoso da ciò che in teoria avrebbe dovuto aiutarli: gli elenchi composti da decine di regole segrete che stabilivano ciò che era permesso e ciò che invece andava rimosso dalle piattaforme. Per gli oltre due miliardi di utenti di Facebook, tali regole sono per lo più invisibili. Servono a mantenere civili e sicure le piattaforme, e definiscono nel dettaglio i limiti della libertà di espressione e dei movimenti politici consentiti. Ma se da un lato quelle regole si dimostravano inadeguate di fronte alle manifestazioni sempre più brutali degli utenti ( spesso generate dalla piattaforma stessa ) e se l’azienda si dimostrava manchevole nella sorveglianza di questa parte per nulla affascinante del business, dall’altro le linee guida si erano allungate fino a riempire centinaia di pagine, ed erano spesso confuse e contraddittorie. Alcune delle più importanti, ad esempio quelle per riconoscere i post con cui venivano reclutati i terroristi o quelle sulle elezioni controverse, erano piene di refusi, di errori fattuali e di palesi falle logiche. La superficialità e le lacune facevano pensare a una pericolosa noncuranza nei confronti di un lavoro che per Jacob era questione di vita o di morte, soprattutto in un periodo in cui le piattaforme erano invase da estremismi che infiltravano sempre più spesso il mondo reale. Appena pochi mesi prima, in Myanmar, le Nazioni Unite avevano formalmente accusato Facebook di aver permesso che la sua tecnologia contribuisse a provocare uno dei più estesi genocidi fin dai tempi della Seconda guerra mondiale.

Jacob aveva preso nota delle scoperte della sua squadra, e delle sue preoccupazioni in merito, per farle arrivare in cima alla catena di comando. Trascorsero mesi. La presenza degli estremismi online non faceva che peggiorare. Lui attendeva al suo terminale una risposta dal quartier generale, nella lontana America. Una risposta che non arrivò mai. Gli venne un’idea. Per metterla in pratica avrebbe dovuto hackerare i sistemi di sicurezza al lavoro, inviare file secretati all’estero e convincere i media a riprendere e a diffondere i suoi timori – il tutto con la speranza di farli arrivare sullo schermo di una sola persona: Mark Zuckerberg. Erano la distanza e la burocrazia, ne era certo, a impedirgli di mettersi in contatto con chi comandava. Jacob era sicuro che, se solo fosse riuscito ad arrivarci, chi comandava avrebbe sistemato le cose.

Jacob mi contattò per la prima volta nel 2018. Avevo lavorato ad alcune storie, indagando sul ruolo dei social media nella diffusione delle violenze di massa in luoghi come la piccola nazione asiatica dello Sri Lanka, e lui era rimasto colpito perché gli erano sembrate una conferma dei problemi che aveva notato al lavoro – problemi che avevano conseguenze sempre più gravi e, talvolta, letali. Ma sapeva che la sua parola non sarebbe bastata. Aveva bisogno di trafugare dal computer del suo ufficio le regole interne e i documenti che Facebook utilizzava per la formazione. Non era un compito facile, perché le macchine erano ben protette e gli uffici controllati. Tuttavia, era possibile: un anno prima qualcuno era riuscito a trasmettere alcuni file prima al « Guardian » e poi a « Vice News ». Jacob programmò un software per esportare i file, criptandoli e ripulendoli per eliminare le tracce digitali che potevano ricondurre al Paese in cui si trovava il suo ufficio o addirittura a lui. Me ne trasmise alcuni tramite un server sicuro. Qualche settimana più tardi salii su un aereo per prendermi il resto e per conoscerlo di persona.

I dirigenti di Facebook, quando vennero a sapere che avevo ottenuto quei documenti, mi invitarono nel loro elegante quartier generale e si offrirono di farmi parlare con una decina di policymaker aziendali. Erano tutti professionisti tenaci. Alcuni di loro, prima di buttarsi nella corsa all’oro della Silicon Valley, si erano fatti un’impeccabile reputazione a Washington D.C., in campi come l’antiterrorismo e la cybersicurezza. Di certo non assomigliavano agli hacker da scantinato e ai secchioni emarginati che un tempo governavano la piattaforma, sebbene in seguito mi fu chiaro che nei campus di Facebook le ideologie da dormitorio studentesco e i pregiudizi degli esordi erano ancora vigenti: venivano ancora osservati con una convinzione quasi religiosa e imprimevano la loro impronta sugli strumenti tecnologici che diffondevano nel mondo quegli stessi ideali.

Dai colloqui che ebbi presso la sede di Facebook emerse uno strano schema ripetitivo. Un dirigente mi raccontava quale sfida avessero dovuto affrontare quel giorno ( impedire ai terroristi di fare proseliti sulla piattaforma, battere gli hacker di governi ostili, capire quale combinazione di parole costituisse un incitamento inaccettabile alla violenza, eccetera ). Poi alle mie domande, per quanto puntuali potessero essere, ottenevo una risposta diretta e, per così dire, articolata. Quando un problema rimaneva irrisolto, lo riconoscevano. Nessuno doveva mai consultare alcun appunto per spiegarmi, ad esempio, la politica di Facebook sui gruppi indipendentisti curdi, o i metodi applicati dall’azienda per diffondere le regole contro l’incitamento all’odio in lingua tagalog.

Dopo un po’ mi ritrovai a pensare: se al comando ci sono persone così coscienziose e iperqualificate, allora come mai i problemi per i quali studiano risposte tanto ponderate non fanno che peggiorare? Perché quando le organizzazioni per i diritti umani avvisano Facebook di un pericolo imminente sulla piattaforma, l’azienda spesso e volentieri non prende provvedimenti in merito? Perché i giornalisti come me, che non hanno un osservatorio diretto sulle operazioni delle piattaforme e che dispongono di una frazione infinitesimale del loro staff, e del loro budget, non fanno che scoprire delle atrocità e dei culti nati su Facebook che ogni volta colgono di sorpresa l’azienda madre? Ma a un certo punto, in ciascun colloquio, quando chiedevo lumi sui pericoli che derivavano non dal cattivo uso della piattaforma da parte di qualche malintenzionato ma dalla piattaforma stessa, era come se quei dirigenti erigessero immediatamente un muro mentale.

« Non c’è niente di nuovo sul genere di abusi che menziona », mi disse la responsabile delle politiche globali quando le feci una domanda sulle conseguenze dell’attività di Facebook. « Quello che c’è di diverso è il potere amplificante di una piattaforma di social media ». « La nostra società è ancora all’inizio del processo di comprensione delle varie conseguenze dei social media », mi disse invece il capo della cybersicurezza dell’azienda, suggerendo che il cambiamento principale provocato dalla nuova tecnologia era stato meramente il ridurre l’« attrito » nella comunicazione, permettendo ai messaggi di viaggiare più in fretta e più lontano.

Si trattava di un quadro stranamente incompleto del funzionamento di Facebook. Molti, nell’azienda, sembravano essere quasi inconsapevoli del fatto che gli algoritmi e il design della piattaforma plasmassero deliberatamente le esperienze e le motivazioni degli utenti, e quindi gli utenti stessi. Eppure quelli erano elementi chiave del prodotto, erano il motivo per cui, mentre parlavamo, intorno a noi si stavano affannando centinaia di programmatori. Era come entrare in una fabbrica di sigarette e sentirsi dire dagli alti papaveri che non capivano come mai le persone seguitassero a lamentarsi degli impatti sulla salute di quelle scatoline di cartone vendute dalla loro azienda.

A un certo punto, parlando con due funzionari che sovrintendevano alla reazione alle crisi, uscii dal personaggio del giornalista per avvisarli di una cosa preoccupante che mi era capitato di vedere. Nei Paesi di tutto il mondo, su Facebook, girava una voce raccapricciante e, a quanto pareva, spontanea: dei misteriosi stranieri stavano rapendo dei bambini del luogo per trasformarli in schiavi sessuali e per rubare loro gli organi. Le comunità che erano esposte a queste voci reagivano in modi sempre più pericolosi. Ad esempio, quando la diceria si diffuse in Indonesia via Facebook e WhatsApp, gli abitanti di nove diversi villaggi si riunirono in bande che aggredirono dei passanti innocenti. Era come se quelle voci fossero un virus misterioso che tramutava delle normali comunità in orde assetate di sangue. Ed era come se venissero fuori dalle piattaforme stesse! I due funzionari mi ascoltarono annuendo. E non fecero domande. Poi uno di loro, una donna, commentò vagamente che sperava che un giorno un qualche ricercatore indipendente indagasse su cose del genere. Dopo di che passammo oltre.

Tuttavia su Facebook continuavano a emergere diverse varianti di quelle voci. Negli Stati Uniti se ne diffuse una, comparsa per la prima volta su 4chan sotto l’etichetta “ QAnon ”, che si infiammò poi su Facebook come una pozza di benzina a contatto con un fiammifero. In seguito, quando QAnon era ormai un movimento con decine di migliaia di seguaci, un rapporto interno dell’Fbi lo identificò come una minaccia di terrorismo interno. Nel frattempo, gli algoritmi di Facebook avevano promosso la visibilità del gruppo presso un enorme numero di utenti come se si trattasse solo dell’ennesimo club, aiutandolo quindi a diffondere le sue teorie complottiste e a raggiungere le dimensioni di un piccolo partito politico – e questo per nessun altro motivo se non la quantità di click che veniva generata dai contenuti di Qanon.

Entro le mura della sede di Facebook, però, la fede nel fatto che la piattaforma fosse una forza benefica rimaneva apparentemente incrollabile. L’ideale alla base delle aziende della Silicon Valley, secondo cui spingere le persone a passare sempre più tempo online arricchirebbe le loro menti migliorando il mondo, aveva preso piede in particolare tra gli ingegneri che davano forma al prodotto finito. « Man mano che aumenta la portata e abbiamo più persone coinvolte, l’asticella si alza », mi disse un’ingegnere senior riguardo al news feed di Facebook. «Ma penso anche che ci siano maggiori opportunità per le persone di ritrovarsi esposte a idee nuove». Qualsiasi rischio generato dalla piattaforma, e dalla sua missione di aumentare al massimo il coinvolgimento degli utenti, sarebbe stato mitigato dalle soluzioni tecnologiche, mi assicurò quella dirigente.

In seguito scoprii che, poco prima della mia visita, alcuni ricercatori che erano stati incaricati da Facebook di studiare gli effetti della sua tecnologia, dopo che si era sempre più diffuso il sospetto che il sito stesse esacerbando le divisioni politiche in America, avevano avvisato l’azienda che la piattaforma stava facendo esattamente ciò che i dirigenti, parlando con me, avevano escluso. « I nostri algoritmi sfruttano l’attrazione del cervello umano per gli argomenti divisivi », avevano affermato questi ricercatori nella loro presentazione del 2018, che successivamente trapelò e fu ripresa dal « Wall Street Journal ». Anzi, proseguiva il rapporto, i sistemi di Facebook erano progettati per mostrare agli utenti « contenuti sempre più divisivi per conquistare la loro attenzione e farli stare sempre più a lungo connessi ». I dirigenti avevano archiviato il rapporto e ne avevano ignorato le conclusioni, secondo le quali occorreva modificare i sistemi che sceglievano ciò che veniva mostrato agli utenti, in modo da farli stare meno tempo online. La domanda che avevo posto nei corridoi della sede centrale ( « Quali sono le conseguenze del diffondere una fetta sempre crescente di dati su politica, informazione e relazioni sociali tramite piattaforme online progettate specificamente per manipolare l’attenzione? » ) era un tabù.

I mesi successivi alla mia visita coincisero con quello che all’epoca fu considerato il contraccolpo peggiore che si fosse abbattuto sulla Silicon Valley in tutta la sua storia. I giganti dei social media dovettero affrontare delle audizioni al Congresso degli Stati Uniti, l’introduzione di nuove normative in altri Paesi, delle sanzioni multimiliardarie e delle minacce di spacchettamenti coatti delle loro società. E alcune figure pubbliche presero a riferirsi quotidianamente a quelle aziende come se si trattasse dei nemici più pericolosi del nostro tempo. Le aziende, in risposta, si impegnarono a ridurre i danni provocati dai loro prodotti, inaugurarono delle nuove unità operative che avrebbero dovuto impegnarsi a evitare impatti distorsivi sulle elezioni e aggiornarono le loro politiche di revisione dei contenuti. Ma il modello di business, ossia tenere la gente incollata alle piattaforme per quante più ore possibile, nonché la tecnologia impiegata per raggiungere tale obiettivo rimanevano perlopiù identici. E mentre i problemi che queste aziende avevano promesso di risolvere si aggravavano, esse facevano più soldi che mai.

Il nuovo decennio portò con sé un’ondata di crisi. La pandemia di Covid-19, i regolamenti di conti e i disordini di stampo razziale negli Stati Uniti, il rapido insorgere di un’estrema destra nuova e violenta e, infine, addirittura il tentativo di distruggere la democrazia americana. Ciascuna di queste crisi mise alla prova ( o, meglio: svelò ) l’influenza che avevano sul nostro mondo le piattaforme social, esponendone alla vista tutte le ramificazioni, che si erano estese nel corso degli anni.

Nell’estate del 2020 un’ispezione indipendente effettuata su Facebook e commissionata dalla stessa azienda, che subiva le pressioni dei movimenti per i diritti civili, concluse che la piattaforma era tutto il contrario di quello che i suoi dirigenti mi avevano detto. Le politiche da essa applicate creavano un’allucinante disinformazione, la quale poteva influire negativamente sulle elezioni. I suoi algoritmi e i suoi sistemi di suggerimento di contenuti spingevano « le persone in camere dell’eco dell’estremismo che si autoalimentavano », e le allenavano all’odio. L’accusa forse peggiore, secondo il rapporto, era che l’azienda non capiva in che modo i suoi stessi prodotti influissero su miliardi di utenti.

Eppure, alcuni osservatori questa cosa l’avevano capita eccome e, ben prima che molti di noi fossero pronti ad ascoltare, avevano tentato di avvisarci. Si trattava perlopiù di ex fanatici del settore, che erano stati dei “veri credenti” della tecnologia. Alcuni di essi abitavano nella Silicon Valley e questo li metteva in una posizione perfetta per accorgersi sin da subito che qualcosa non stesse andando per il verso giusto e per indagare e valutare le conseguenze di tutto ciò. Ma le aziende, che pure affermavano di aver bisogno proprio delle loro indagini, li ostacolavano poi in ogni modo, mettendo in dubbio la loro reputazione e minimizzando le loro scoperte – anche se poi, in molti casi, sono invece state costrette ad ammettere, anche se solo implicitamente, che quegli allarmisti avevano sempre avuto ragione. Questi ultimi avevano portato avanti il loro lavoro, almeno all’inizio, in modo indipendente gli uni dagli altri, impiegando metodi molto diversi per rispondere alla stessa domanda: quali sono le conseguenze di questa tecnologia? Questo libro racconta la “missione” di rispondere a questa domanda. E la ripercorre, in parte, attraverso le parole delle persone che l’hanno intrapresa.

Il giudizio tradizionale dei primi tempi – secondo cui i social media promuovevano il sensazionalismo e l’indignazione – seppur accurato si rivelò decisamente un eufemismo. Oggi esiste un corpus sempre più ampio di prove, raccolte da decine di studiosi, di giornalisti, di “talpe” e di cittadini preoccupati, che suggerisce che l’impatto dei social sia stato ben più profondo. Questa tecnologia esercita un’attrazione talmente forte sulla nostra psicologia e sulla nostra identità, ed è talmente pervasiva nelle nostre vite, da cambiare il nostro modo di pensare, di comportarci e di relazionarci con gli altri. L’effetto finale, moltiplicato su miliardi di utenti, è quello di cambiare la società stessa in cui viviamo.

Non è certo colpa della Silicon Valley il fatto che siamo così fragili psicologicamente da farci del male a vicenda o da agire contro il nostro interesse. Né il fatto che esista una profonda polarizzazione culturale, in America come altrove, che spinge gli utenti a trasformare questi nuovi spazi virtuali in luoghi di conflitto fazioso e a distruggere qualsiasi senso condiviso di benessere o di realtà. Nemmeno le aziende più grandi possono essere incolpate del modello di finanziamento del settore high-tech che le ha fatte crescere, un modello in base al quale si consegnarono finanziamenti multimilionari nelle mani di alcuni ventenni semidisadattati a cui vennero poi richiesti ritorni istantanei ed esponenziali, senza preoccuparsi degli incentivi distorti che tutto questo comportava.

Detto questo, tali compagnie hanno accumulato alcune delle più ingenti fortune economiche della storia sfruttando le tendenze e le debolezze di cui sopra e, nel farlo, hanno proiettato l’umanità in una nuova era. Le conseguenze – che, con il senno di poi, erano quasi certamente prevedibili, se solo qualcuno si fosse preso la briga di occuparsene – sono state oscurate da un’ideologia secondo cui più tempo online avrebbe creato anime più felici e libere, e da quel particolare tipo di capitalismo della Silicon Valley che consente che una sottocultura ingegneristica anticonformista, impudente e quasi millenarista gestisca aziende che tengono avvinte le nostre menti.

Quando quelle aziende sono state sostanzialmente costrette a comportarsi, quantomeno in teoria, come le istituzioni governative de facto che esse erano diventate, ecco che si sono ritrovate al centro della crisi politica e culturale di cui sono parzialmente colpevoli. Certo, il ruolo di mediatore in una democrazia che sembra avere una gran voglia di autodistruggersi potrebbe essere caritatevolmente definito come un compito ingrato. Ma non bisogna dimenticare che quelle aziende di cui parliamo hanno aspirato a tali posizioni di potere, hanno rifiutato di prendersi le loro responsabilità finché non sono state costrette a farlo dagli enti regolatori e hanno compromesso il benessere dei loro utenti per poter continuare a incassare miliardi ogni mese. E, visto che i colossi dei social media hanno pochi incentivi ad affrontare il costo umano dei loro imperi (un costo sostenuto da tutti gli altri, come nel caso di una città che si trovi a valle di una fabbrica che pompa fanghi tossici nelle acque che usano tutti), spetta a decine di outsider allarmati e di disertori della Silicon Valley farlo al posto loro. 

Cavallo di Troia.

Estratto dell’articolo di Milena Gabanelli e Simona Ravizza per il “Corriere della Sera” mercoledì 13 settembre 2023.

Tutti, almeno una volta, abbiamo avuto l’impressione che i social ci leggano nel pensiero, quasi ci spiassero. Per capire se, e come, questo è possibile abbiamo fatto un esperimento eseguito dagli esperti informatici di Swascan di Pierguido Iezzi, con la supervisione scientifica di Andrea Rossetti, docente di Informatica giuridica della Bicocca, e Stefano Rossetti, avvocato per la protezione dei dati personali di noyb.

L’esperimento su TikTok

Abbiamo preso due smartphone: uno nuovo, mai usato prima e che per semplicità consideriamo intestato a Gabanelli, e uno utilizzato abitualmente che identifichiamo come intestato a Ravizza. Entrambi vengono collegati alla stessa rete wi-fi. Con il telefono vergine apriamo un account TikTok, il social che in Italia oggi conta 14,8 milioni di utenti attivi al mese, e 1,2 miliardi a livello globale, di cui il 25% con un’età tra i 10 e i 19 anni.

Per aprire il nuovo account bisogna fornire i dati personali e creare una password. Età minima richiesta 13 anni, ma di fatto lo usano anche i bambini perché non c’è nessun tipo di controllo. Per continuare occorre accettare i termini d’uso e la policy privacy. 

[…] 

I termini d’uso

Le condizioni principali che accettiamo sono due, spiegate così da TikTok: 1) «Non devi pagare per l’uso della nostra Piattaforma, ma, in cambio, veniamo pagati da terzi affinché ti possano pubblicizzare o vendere prodotti»; 2) «Quando pubblichi un contenuto sulla Piattaforma, rimani il titolare dello stesso, tuttavia, (...) altri utenti potranno a loro volta utilizzarlo. Laddove tu decida di rimuoverlo successivamente, copie dello stesso realizzate da altri utenti potranno comunque essere visualizzate sulla Piattaforma». 

Con l’informativa sulla privacy invece autorizziamo TikTok a raccogliere tutti i contenuti che creiamo: fotografie, video, registrazioni audio, livestream, commenti, hashtag, feedback, revisioni, nonché i relativi metadati (fra cui, quando, dove e da chi è stato creato il contenuto). I testi dei messaggi e i relativi metadati (l’ora in cui il messaggio è stato inviato, ricevuto e/o letto, nonché i partecipanti alla comunicazione). Informazioni sugli acquisti. 

Ci sono poi le informazioni raccolte in modo automatico: modello del dispositivo, il sistema operativo, gli schemi o i ritmi di battitura, l’indirizzo IP e la lingua del sistema. Localizzazione. Contenuti visualizzati, durata e frequenza di utilizzo. Infine ci sono le informazioni dedotte: generalità dei soggetti con cui interagisco, nonché i nostri interessi.

Le conseguenze del consenso

Noi non lo vediamo, ma ogni volta che utilizziamo TikTok, come qualsiasi altro social, si generano migliaia di file di testo con tutte le informazioni di cui sopra. A chi vanno questi dati? Dall’analisi del traffico degli esperti di Swascan si vede che i file confluiscono nei server di proprietà di TikTok e in un’immensa rete di computer (CDN) che ri-distribuisce i contenuti. 

Da qui le informazioni che ci riguardano – lo sappiamo perché lo dichiara lo stesso TikTok – vengono inviate ai cosiddetti data broker, ossia società specializzate nelle operazioni di profilazione che classificano ogni singolo utente e lo collocano in una o più categorie. 

[…] 

Test numero 1

Sullo smartphone vergine di Gabanelli decidiamo di seguire 20 brand tra i più noti e seguiti come Adidas, Balenciaga, Gucci, Chiara Ferragni, ecc. Ebbene, su Instagram del telefono di Ravizza, dove non è stata eseguita nessuna ricerca, compare la pubblicità degli stessi brand di cui è diventata follower Gabanelli. 

È la conferma pratica che tramite i data broker almeno tre informazioni essenziali passano da TikTok di Gabanelli a Instagram di Ravizza: indirizzo IP, user agent e geolocalizzazione. Il risultato è che in base all’indirizzo IP che indica il wi-fi a cui io sono collegata, chi è vicino a me e collegato alla stessa rete, riceve pubblicità su quello che interessa a me.

Test numero 2

Sul telefono vergine cerchiamo su Google informazioni su un noto brand di tecnologia, Samsung, e accettiamo tutti i cookies. Su TikTok di Gabanelli compare in tempo reale la pubblicità di Samsung. Il perché sta nell’analisi del traffico dei dati: Samsung manda le informazioni alla società Sprinklr, che è partner di TikTok. 

Test numero 3

Su TikTok del telefono usato abitualmente da Ravizza compare la pubblicità di VGP, un’agenzia di videogames. Dall’analisi del passaggio di informazioni si vede che TikTok fornisce al data broker Adjust i dati degli utenti, che in base alla loro profilazione possono diventare giocatori. Siccome Adjust è anche socio di VGP, grazie alle informazioni ricevute può fare pubblicità mirata su TikTok individuando gli utenti più inclini a spendere soldi all’interno dell’app.

Ma come ha fatto Ravizza a finire classificata come potenziale giocatrice? È stato sufficiente fare qualche ricerca sulle società di game per un articolo. Ogni click viene registrato e diventa possibile protocollare l’intera vita. 

Le tracce digitali

Per dare un’idea della precisione dei dati raccolti su ciascun individuo, si può osservare il recente caso della «lista Xandr», uno dei principali data brokers. La lista permette di conoscere il grado di dettaglio con cui queste società operano. Per esempio, se utilizzate il vostro cellulare con una frequenza superiore alla media, sarete etichettati come «Mobile addicts». […] 

Poi ci sono le categorie sull’etnia, le classificazioni di classe («Sophisticated hispanic»), la situazione finanziaria («Very poor»), e lo stato di salute.  Le informazioni si stratificano nel tempo e non sono usate solo per le annunciate finalità pubblicitarie. Ma anche, solo per fare qualche esempio, per valutare il merito creditizio, nella ricerca del personale e per il microtargeting politico.

Il filosofo sudcoreano Byung-chul Han nel saggio Nello sciame la sintetizza così: «La società della sorveglianza digitale, che ha accesso all’inconscio collettivo, al futuro comportamento delle masse, sviluppa tratti totalitari: ci consegna alla programmazione psicopolitica e al controllo».

WhatsApp accede di nascosto al microfono dello smartphone. Chi si vuol fidare ancora? Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'11 maggio 2023.

Tutti possiamo verificare se e in quali casi WhatsApp ha avuto accesso al microfono del nostro smartphone. Normalmente la risposta è positiva; è possibile negare l’accesso se si è preoccupati per la privacy, ma in questo caso non sarà possibile registrare alcun suono in WhatsApp, quindi addio messaggi vocali e video

Foad Dabiri, ingegnere informatico di Twitter ed in passato a Google. ha pubblicao una schermata del suo smartphone da cui risulta che l’app di chat ha avuto accesso al microfono nove volte tra le 4:20 e le 6:53, mentre Dabiri dormiva, si è chiesto: “Cosa succede qui?” seguito da Elon Musk, che ha attaccato WhatsApp: “Non ci si può fidare”, ha scritto.

WhatsApp ha risposto sul suo account Twitter, spiegando che la causa è un “bug” sulla Privacy Dashboard di Android, che mostrerebbe dati non corretti. Ma in realtà il problema è ben noto da tempo e molti utenti di WhatsApp hanno riferito di aver visto il microfono attivato in background di recente. Intanto al thread di Dabiri si sono aggiunti i commenti più disparati, dall’account ufficiale di Whatsapp al Supporto Apple, fino a quello di uno dei padri dell’intelligenza artificiale moderna, Yann LeCun (che, incidentalmente, lavora per Meta, ossia l’azienda cui fanno capo Facebook, Instagram e WhatsApp). Ma anche di di migliaia di utenti di Twitter che hanno testimoniato la propria esperienza. 

È questa la seconda volta che Musk il Ceo di Twitter nel giro di poche settimane polemizza con il suo rivale Mark Zuckerberg, accusandolo di “parzialità” per aver sostenuto i democratici attraverso le sue donazioni elettorali. Musk è un maestro nel prendere la palla al balzo, e infatti poco dopo ha annunciato la possibilità di inviare messaggi diretti via Twitter non solo di testo, ma prossimamente anche audio e video. Tutto criptato, quindi sicuro e a prova di intercettazioni. Ma è una tecnologia che Whatsapp adotta da anni, quindi, anche se l’app avesse registrato dei suoni mentre gli utenti dormivano, tutti i file inviati sarebbero stati criptati e accessibili né da WhatsApp né da altri.

“Abbiamo chiesto a Google di indagare e porre rimedio”, ha scritto WhatsApp su Twitter. “Gli utenti hanno il pieno controllo delle impostazioni del microfono. Una volta ottenuta l’autorizzazione, WhatsApp accede al microfono solo quando un utente sta effettuando una chiamata o registrando una nota vocale o un video – e anche in quel caso, queste comunicazioni sono protette dalla crittografia end-to-end in modo che WhatsApp non possa sentirle“. La tesi è confermata anche da un portavoce di Google, che ha dichiarato: “Siamo consapevoli del problema e stiamo lavorando a stretto contatto con WhatsApp per risolvere“.

Una soluzione consigliata

Alcuni utenti “tecnologici” hanno suggerito di riavviare il dispositivo per risolvere il problema o toccare la scorciatoia di notifica di accesso al microfono per disattivarlo e quindi riaccenderlo. Intanto, però, tutti possiamo verificare se e in quali casi WhatsApp ha avuto accesso al microfono del nostro smartphone. Normalmente la risposta è positiva; è possibile negare l’accesso se si è preoccupati per la privacy, ma in questo caso non sarà possibile registrare alcun suono in WhatsApp, quindi addio messaggi vocali e video.

Su Android si fa così: 

Aprire l’applicazione Impostazioni.

Toccare App.

Toccare l’applicazione che si desidera modificare. Se non è visibile, toccare Vedi tutte le app. Quindi, scegliere l’app.

Toccare Autorizzazioni. Se sono state concesse o negate delle autorizzazioni per l’app, le troverete qui.

Per modificare un’impostazione, toccarla e scegliere Consenti o Non consentire.

Per le autorizzazioni del microfono, è possibile scegliere:

Consenti solo durante l’uso dell’app: L’applicazione può utilizzare l’autorizzazione solo quando si sta utilizzando l’applicazione.

Chiedi ogni volta: Ogni volta che si apre l’app, questa chiederà di utilizzare l’autorizzazione. Può utilizzare il microfono (o altro) fino a quando l’utente non ha terminato l’utilizzo dell’app.

Non consentire: L’applicazione non può utilizzare l’impostazione, anche quando si sta utilizzando l’app. 

Non sono stati segnalati casi di accesso al microfono non autorizzato sui dispositivi Apple. Tuttavia, chi ha un iPhone può accedere all‘App Privacy Report, che indica quali applicazioni accedono al microfono, alla fotocamera e ai servizi di geolocalizzazione. Redazione CdG 1947

TikTok è un pericolo per la sicurezza nazionale dei Paesi occidentali? Pietro Minto su L’Inkiesta il 14 Gennaio 2023

Il social cinese è accusato di spionaggio, violazione della privacy degli utenti e sorveglianza sospetta di alcuni giornalisti. In uno scenario geopolitico instabile, la piattaforma di proprietà di ByteDance somiglia sempre più a una minaccia per Europa e Stati Uniti

C’è una cosa che un colosso cinese già accusato di spionaggio e di trattamento non ineccepibile dei dati altrui, per giunta sotto osservazione da parte degli Stati Uniti e Unione europea, non dovrebbe fare, ed è spiare dei giornalisti. Secondo quanto riportato da Forbes poco prima di Natale, è proprio quello che TikTok avrebbe fatto, mettendo sotto sorveglianza Emily Baker-White, Katharine Schwab e Richard Nieva. La notizia ha scosso il settore tecnologico ma, vista la rilevanza di TikTok, anche quello politico, complicando ulteriormente la situazione del social network di proprietà di ByteDance, società cinese.

Pochi giorni prima della rivelazione, il magazine del New York Times aveva dedicato la copertina a TikTok, o meglio, al rischio che l’azienda corre nel corso del nuovo anno, visto che il Congresso statunitense, da anni cronicamente poco disposto a intervenire nel settore Big Tech, sembra ormai deciso a fare sul serio. Almeno con ByteDance.

Quanto sul serio? Abbastanza da aver unito – per un instante registrabile solo da apparecchi molto avanzati, ma è successo – democratici e repubblicani, che si ritrovano piuttosto d’accordo sull’esigenza di fare qualcosa su TikTok. Si è arrivati così all’incredibile: un senatore democratico ha ammesso, pur con mille cautele, che forse (forse, eh) Trump non aveva tutti i torti quando provò a vietare TikTok negli Stati Uniti.

È successo lo scorso novembre, quando Mark Warner ha puntato soprattutto sul pericolo che l’applicazione rappresenterebbe per i più piccoli. L’anno nuovo è anche iniziato con una nuova legge che vieta di installare TikTok negli apparecchi governativi statunitensi, una scelta che alcuni osservatori hanno definito un tiepido compromesso che «non farà nulla per proteggere gli interessi di sicurezza nazionale». Ciò nonostante, non sembra essere un segnale di pace.

Le cose non vanno meglio nell’altra sponda dell’Atlantico, dove l’Unione europea è da ormai anni la potenza più attenta e severa nella regulation dei giganti digitali (pochi giorni fa ha multato Meta per trecentonovanta milioni di euro). Per questo, lo scorso martedì, l’amministratore delegato di TikTok Shou Zi Chew, è volato a Bruxelles per incontrare la politica danese Margrethe Vestager, Commissaria europea alla concorrenza.

Ce n’è bisogno, di visite del genere, visto che, solo negli ultimi mesi, il presidente francese Emmanuel Macron ha attaccato l’app direttamente, definendola «ingannevolmente innocente» e una fonte di «vera dipendenza». Le accuse si inseriscono in un contesto politico delicato, nel quale il social cinese è interessato da due indagini e dovrà agire in fretta per adeguarsi alle nuove regole europee previste dal Digital Services Act, un severo pacchetto da poco approvato dall’Unione europea.

Come scrive Politico, TikTok è accusata di aver già violato la privacy dei suoi utenti tutelata dal Gdpr (la General Data Protection Regulation, norma europea per la sicurezza dei dati online: quella dei cookies nei siti internet, per dire), le cui multe potrebbero «arrivare fino al quattro per cento del fatturato globale dell’azienda». È solo l’inizio: quelle previste dal Digital Services Act, che entrerà in vigore a metà del 2023, sono ancora più alte.

È la tempesta perfetta, in cui un certo sospetto nei confronti dei rapporti tra ByteDance e il governo di Pechino si fonde con la necessità di proteggere gli utenti e certi interessi industriali. TikTok, infatti, ha enorme successo, tanto da influenzare la concorrenza statunitense, che si è adattata più o meno goffamente al nuovo corso, proponendo Reels, Shorts e altri formati di video verticali e brevi. Il social cinese è stato forse il principale agente di cambiamento per la Silicon Valley nell’ultimo anno.

Inchieste come quelle condotte dal sito BuzzFeed News hanno dimostrato che il quartiere generale cinese di TikTok, nonostante le rassicurazioni dei loro vertici, ha ancora accesso diretto ai dati degli utenti statunitensi ed europei. In uno scenario geopolitico instabile, l’ascesa strepitosa del social ha accesso anche i timori che un servizio tanto divertente e irresistibile possa essere un cavallo di Troia di Pechino – «per l’influenza cinese, per lo spionaggio o forse per entrambi», come scrive il New York Times.

Il quotidiano nota anche che lo stesso social «sia un prodotto dell’Occidente quanto lo è della Cina», raccontando come ByteDance sia nata dalla fusione di idee, risorse umane e capitali che molto hanno goduto dalle relazioni tra Stati Uniti e Cina negli ultimi cinquant’anni. «Gli Usa hanno cercato di corteggiare la Cina con il fascino del loro modello e i benefici dell’ordine internazionale esistente, nella speranza che un’economia di mercato liberalizzata portasse anche a riforme politiche interne. Non è successo, ovviamente, ma il settore tech cinese ha comunque imparato la lezione da quello statunitense. E anche piuttosto bene. Forse – è questo il timore crescente in Occidente – pure troppo.

Dannosi.

Il giubbotto anti-social. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 25 novembre 2023.

Che i social siano una pistola messa in tasca a un esercito di cecchini senza il porto d’armi è cosa risaputa. Resta da capire se, oltre alla pistola, venga dato in dotazione un giubbotto antiproiettile per proteggersi dalla cattiveria.

Di sicuro il signor Alberto Re quel giubbotto non lo aveva quando, dopo avere organizzato ad Agrigento un festival del cinema dall’esito fallimentare, è stato travolto dalle critiche e dai messaggi canzonatori. A 78 anni ha reagito all’ondata di bullismo con la cieca disperazione di un adolescente e, secondo la sua famiglia, è anche per questo che si è tolto la vita.

Al di là del caso di cronaca, resta il quesito di fondo: esiste un giubbotto mentale per salvarsi dal gregge di pecore con la criniera che gode al pensiero di ruggire a comando contro il capro espiatorio di turno? C’è chi suggerisce di non dare importanza al giudizio degli altri, di diventare cinici e disincantati, ma metterlo in pratica significa rinunciare alla propria umanità: la corda dell’empatia è una sola, se la stacchi per non sentire ciò che ti provoca dolore, ti condanni a non sentire più neanche il piacere.

C’è invece chi prova a difendersi con la rimozione. Scansa i social o ne scorre i commenti una riga alla volta, come il pokerista quando scopre la carta appena presa dal mazzo, promettendo a sé stesso che passerà oltre al primo accenno di cattiveria pur di poter continuare a illudersi che gli altri lo stimino o almeno lo capiscano. Purtroppo, non ci riesce quasi mai.

Morire per un flop. L’evento culturale senza pubblico e la fragilità umana travolta dall’odio social. Giacomo Di Girolamo su L'Inkiesta il 28 Novembre 2023

Un imprenditore si è tolto la vita dopo le pesanti critiche ricevute per aver organizzato male un evento culturale ad Agrigento. Un gesto estremo che deve farci riflettere sulla potenza devastante degli hater online

Con la cultura non si mangia, diceva un noto ministro di qualche anno fa. Però c’è chi, con la cultura tragicamente muore. Siamo ad Agrigento, città siciliana che ha vinto a sorpresa il titolo di capitale italiana della Cultura 2025. La sorpresa è data dal fatto che gli indici riferiti proprio alla lettura, alla fruizione di cinema, teatro, spazi culturali, collocano la città e la provincia agli ultimi posti in Italia. Ma è pur sempre la città della Valle dei Templi e di Luigi Pirandello. Solo che anche la cultura, qui, prende una piega inaspettata, gioca con la vita delle persone. Insomma, la corda pazza della città prende il sopravvento, ancora una volta.

Tutto comincia con una telecamera che entra a teatro. Il teatro è, appunto, il “Luigi Pirandello”. Muffa alle pareti, necessità urgente di manutenzione, ma pur sempre un bel teatro, rosso, luminoso, caldo. E vuoto. Non c’è nessuno. Solo l’addetto al service, un paio di vigili del fuoco. Eppure in quel teatro si dovrebbe celebrare il Festival del cinema sportivo “Paladino d’oro” che è giunto alla sua quarantatreesima edizione, e che fu fondato, addirittura, dal giornalista sportivo Sandro Ciotti. 

Come mai non c’è nessuno? Lo schermo è pronto e muto, proietta immagini e video come se nulla fosse, davanti a una platea assente. Siamo davvero dalle parti di Luigi Pirandello, e di quella novella, l’Eresia Catara, che racconta dell’anziano professore universitario che fa l’ultima lezione della sua vita, sui catari, appunto, convinto di avere, finalmente, il giusto tributo, e una sala piena di studenti ad ascoltarlo, non accorgendosi, invece, a causa della sua cecità parziale, che nella penombra non ci sono persone, ma solo cappotti, posati dai ragazzi che stanno seguendo un corso nella stanza accanto. 

E nel teatro Pirandello neanche i cappotti ci sono a seguire l’evento. Arriva uno degli organizzatori e spiega alla giornalista che in realtà l’inaugurazione è stata al mattino, con le scuole, che è tutto un malinteso, si arrampica sugli specchi, con un fazzoletto si asciuga il sudore. Alle sue spalle arriva infine un altro organizzatore, un signore d’altri tempi, sembra, mite, si chiama Alberto Re, settantotto anni, imprenditore in pensione, con la passione per gli eventi. 

Si presenta con un bacia mano, non sfugge alle domande della giornalista. «Ha ragione – le dice – abbiamo sbagliato qualcosa». Non c’è nessuno, in questa come in altre serate. Sono stati spesi soldi pubblici, trentacinquemila euro «Si – ribatte lui – ma abbiamo centocinquanta ospiti. Lasciateci terminare il festival domenica, e faremo il bilancio». Alla domenica, però, Alberto Re non ci arriverà. 

Le immagini del teatro vuoto diventano virali. Sui social è tutto un commentare. «C’era solo il vigile Pasquale e i vigili del fuoco» è una delle battute innocenti. Si chiedono, in tanti, come vengono spesi i soldi pubblici. C’è chi invoca gli unici procacciatori di giustizia (mediatica) in Italia, “Striscia” e le “Iene”. Da lì all’insulto il passo è breve, la critica lascia spazio alla gogna, il dubbio alla maldicenza. Finisce che Alberto Re, la sera di mercoledì 22 Novembre, lascia il Teatro Pirandello dopo le ultime proiezioni a vuoto. Torna a casa. Scrive una lettera dove dice di non riuscire a sostenere più le critiche e le offese. Si spara un colpo di pistola in testa. Muore in ospedale dopo qualche ora di agonia. 

«Alberto Re mai si è sottratto alla onestà intellettuale e sempre ha sorriso alle storture che possono capitare. Fino a qualche giorno fa. Poi l’onta che sale e che scalfisce, che non arretra e che violenta verbalmente una persona, ha consumato il vero danno», scrive adesso la famiglia in una lettera aperta inviata sabato 25 Novembre, il giorno dei funerali, alla stampa. 

Per i familiari, l’imprenditore «voleva contribuire a elevare il dibattito culturale della sua amata Agrigento, non gli è stato concesso, sui social viaggiano sentenze di condanna senza nemmeno il capo di imputazione, si legge nella nota. Si apra una riflessione su quello che è accaduto, lo si deve ad Alberto, perché mai più ci si possa trovare di fronte alla tempesta senza vestiti. Perché mai più ci si scaraventi contro un uomo con tale veemenza». Ancora: «È cruciale evitare il ripetersi di simili vicende, la critica politica e giornalistica legittima ha superato i confini dell’umanità. Tutti coloro che ricoprono ruoli amministrativi devono impegnarsi a prevenire simili disonori».

Ironia della sorte (si, sempre Pirandello, ma al cubo), la figlia di Alberto Re è anche lei imprenditrice, si chiama Natalia, è impegnata nel sociale e ha fondato il “Movimento per la gentilezza”, per promuovere il senso civico e il rispetto delle persone. Organizza ogni anno decine di eventi. «Mio padre è stata vittima di tutto ciò che io combatto. È un dolore che non so descrivere. Fino a quando non ti capita in prima persona, non capisci la potenza devastante dell’odio in rete». Che arriva anche a uccidere chi, come Re, non era abituato alla ferocia degli hater. 

«Era un linguaggio che non riusciva a decifrare, e pensare che alle critiche era abituato, sin da quando aveva organizzato i mondiali di ciclismo in Sicilia». Ma qui è qualcosa di diverso. Non sono state semplici critiche, ma qualcosa che lo ha travolto «fino a pensare – conclude la figlia – di aver perso per sempre la sua onorabilità, condannato a morte dalle sentenze sui social».

La Procura indaga per istigazione al suicidio. «Spero solo che questo enorme dolore serva a far parlare sulla violenza gratuita dei social, sui suoi effetti mortali», aggiunge Natalia Re. «Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti» scriveva Pirandello. Le maschere, e i volti. Non aveva ancora conosciuto la follia dei social network.

Imprenditore suicida, la figlia: «Stritolato da commenti disumani sui social, scritti sotto falso nome». Lara Sirignano sul Il Corriere della Sera sabato 25 novembre 2023.

Natalia, Alberto Re si sarebbe ucciso per il flop del festival che aveva organizzato. La figlia: «Era appena iniziato e la campagna contro era già partita. Era un uomo d’altri tempi, non ha accettato che l’accusassero di sperpero del denaro pubblico»

Col padre ha parlato fino al giorno prima del suicidio. L’ha sentito molto provato, ma mai avrebbe immaginato cosa sarebbe accaduto. «È stato ucciso da una gogna mediatica certamente sobillata da qualcuno». Parla Natalia Re , la figlia dell’imprenditore agrigentino Alberto Re che, travolto da critiche feroci sul presunto flop di un festival che aveva contribuito a organizzare, mercoledì si è tolto la vita sparandosi con una vecchia pistola di famiglia. Oggi sabato il padre è stato sepolto. La commozione è ancora forte… «Intanto voglio premettere che la manifestazione in cui mio padre non aveva alcun ruolo organizzativo, ma che semplicemente aveva contribuito a portare ad Agrigento, non è stata affatto un fallimento. E precisare questo non è solo una formalità, ma aiuta a comprendere le cose L’evento (il Paladino d’oro Sport film festival, una rassegna cinematografica internazionale di film a tema sportivo, ndr) era appena cominciato. I bilanci delle manifestazioni si fanno alla fine non all’inizio».

Ma lunedì scorso, serata inaugurale, il teatro Pirandello era vuoto…

«Le serate ufficiali sarebbero state venerdì e sabato. I giorni precedenti erano solo un’occasione per consentire alla cittadinanza e agli studenti, che hanno partecipato in tanti, di vedere le pellicole».

E allora perché media e social hanno parlato di fallimento?

«Ecco, la domanda da farsi è proprio questa. C’è stata una enfatizzazione strumentale, sicuramente ragionata da parte di chi ha voluto aizzare i social e li ha istigati all’odio usando in modo scelerato la comunicazione per fini propri. L’evento, di fatto, non era nemmeno iniziato e già la campagna era partita».

Ma chi aveva interesse a creare questo clima? E c’è secondo lei un collegamento con il fatto che Agrigento nel 2025 sarà capitale della cultura e girerà molto denaro?

«Gli inquirenti indagano per istigazione al suicidio, la polizia risponderà a questa domanda. Io voglio solo ricordare l’analisi del prefetto di Agrigento che ha una conoscenza precisa del tessuto sociale di questa città e che ha stigmatizzato certa critica politica. Sul resto non voglio rispondere. Certo il dubbio resta».

Cosa pensa abbia scosso suo padre tanto da spingerlo al suicidio?

«Intanto voglio dire che mio padre era un uomo solido, che affrontava le difficoltà della vita senza cedimenti. Però era una persona d’altri tempi. Quello che per noi è la norma, i toni oltraggiosi le parole sfottenti, le critiche disumane che sui social sono all’ordine del giorno, per lui, che non conosceva questo mondo, erano inaccettabili. Peraltro era lì a dare una mano visto il suo curriculum e lo faceva gratis. Pensi leggere i commenti di chi lo ha accusato di sperpero di denaro pubblico che effetto gli ha fatto».

Avete parlato di questo?

«Sì, martedì. Ho tentato di fargli avvertire il giusto peso che hanno certi commenti, spesso scritti da persone che usano nomi falsi. Ma davvero per lui, che faceva ancora il baciamano e si inchinava davanti a un sacerdote, era una realtà incomprensibile. Le parole lui le pesava».

Ma se il festival non era una sua creatura perché prendersela tanto?

«Intanto perché ci credeva e riteneva che per Agrigento fosse una opportunità importante. E poi era un generoso, si è fatto carico dell’evento peraltro a titolo gratuito. Lui era così, protettivo verso la famiglia, verso l’amministrazione comunale. Non a caso il sindaco ha detto che le critiche in realtà erano dirette a lui. Mio padre aveva aderito all’iniziativa perché voleva ridare dignità a questa città attraverso un evento di peso e perché, pur da pensionato, aveva visto questa opportunità come una chance per rimettersi in gioco. Davanti a commenti disumani e ingiusti si è sentito spento, senza difese. È stato stritolato. Io l’ho avvertito parlandoci, era impietrito davanti allo scempio comunicativo a cui aveva assistito. Ma mai avremmo pensato che avrebbe potuto togliersi la vita».

È stata sua madre a chiamare i soccorsi?

«Sì. Lei era in casa. Lui nello studio, che è nello stesso pianerottolo. È entrata e l’ha trovato morto. Pensi che in principio ha ritenuto stesse scherzando perché era un burlone. Poi ha capito».

È vero che ha lasciato una lettera?

«La polizia ha trovato una lettera in una busta chiusa. Nemmeno noi sappiamo cosa c’è scritto».

Cosa si aspetta dall’indagine?

«Che accerti se ci sono responsabilità dietro questo gesto. So che è stato sequestrato il cellulare di mio padre. Magari verranno fuori pressioni, fatti che non sappiamo».

Lei è la presidente del Movimento nazionale per la Gentilezza, un ruolo che tradisce una sensibilità per temi che sembrano antichi.

«E invece non lo sono. Io penso che al di là degli argomenti di cui si parla spesso giustamente, alludo al cyberbullismo, alla violenza di genere, siamo davvero tutti in pericolo se non cominciamo a occuparci delle conseguenze che certi eccessi, specie sui social, hanno sulle persone più fragili. Mio padre era un uomo forte e non è riuscito ad accettare di essere travolto dagli odiatori. Pensi cosa può accadere alle persone fragili…».

Il dramma. Teatro vuoto ad Agrigento: imprenditore si suicida. Si chiamava Alberto Re ed era uno degli organizzatori del 'Paladino d'Oro - Sport film festival'. Redazione Web su L'Unità il 24 Novembre 2023

Il teatro Pirandello ad Agrigento resta deserto senza neppure uno spettatore alla proiezione: le immagini della sala vuota fanno il giro dei social, con feroci critiche, vignette satiriche e polemiche di cui si occupano pure i giornali. Uno degli organizzatori del Festival, l’indomani, si toglie la vita sparandosi un colpo di pistola in testa e lascia un interrogativo terribile a una città che il prossimo anno sarà capitale italiana della cultura. L’uomo, imprenditore e tra gli organizzatori della 43esima edizione del “Paladino d’Oro – Sport film festival“, è Alberto Re. Quest’ultimo è deceduto dopo 24 ore di agonia.

Teatro vuoto ad Agrigento: imprenditore si suicida

A mettere in relazione le due circostanze sono i familiari con una lunga lettera aperta in cui accusano la ferocia dei social: “Alberto Re – hanno scritto – era un uomo prima che un padre, un marito e un nonno, un fratello e uno zio, un suocero, amante della vita, delle belle parole. Non amava infingimenti, ha fatto del garbo il suo stile di vita. Lui, che era un moderatore, che amava la pace, donandola, ha combattuto con gentilezza quell’ingrato giudizio sommario, senza alcun fondamento, che lo ha reso fragile. Alberto amava scherzare, conosceva la delicatezza della sua amata“.

Chi era Alberto Re

“Alberto Re mai si è sottratto alla onestà intellettuale e sempre ha sorriso alle storture che possono capitare. Fino a qualche giorno fa. Poi l’onta che sale e che scalfisce, che non arretra e che violenta verbalmente una persona, ha consumato il vero danno. Ringraziamo tutta Agrigento per l’affetto enorme che sta dimostrando nei confronti della nostra famiglia, quanti si stanno unendo al dolore perché conoscevano l’uomo e il suo spessore“. Lo scrive la famiglia Re dopo la tragedia che l’ha colpita. L, travolto sui social dalle polemiche dopo il presunto flop del festival con il teatro Pirandello vuoto in occasione dell’inaugurazione si è suicidato.

Alberto Re e il festival del Paladino d’Oro

“Alberto voleva contribuire ad elevare il dibattito culturale della sua amata Agrigento, non gli è stato concesso, sui social viaggiano sentenze di condanna senza nemmeno il capo di imputazione – ha proseguito la nota stampa diramata dalla famiglia Re – Si apra una riflessione su quello che è accaduto, lo si deve ad Alberto, perché mai più ci si possa trovare di fronte alla tempesta senza vestiti. Perché mai più ci si scaraventi contro un uomo con tale veemenza“.

Alberto Re: la lettera dei familiari

La famiglia Re ha ripreso, ringraziandolo per “la grande lezione“, e fatte proprie le parole del prefetto Filippo Romano: “È cruciale evitare il ripetersi di simili vicende, la critica politica e giornalistica legittima ha superato i confini dell’umanità. Tutti coloro che ricoprono ruoli amministrativi devono impegnarsi a prevenire simili disonori“. I funerali dell’imprenditore si terranno domani ad Agrigento alle ore 11, alla chiesa di Santa Lucia, in via Empedocle. Redazione Web 24 Novembre 2023

Estratto dell’articolo di Giuseppe Baldessarro per repubblica.it domenica 15 ottobre 2023.

Ora si scusano, chiedono perdono per quello che hanno fatto, dicono che non volevano arrivare a tanto. Ma così, cercando di giustificarsi, confessano di essere proprio loro gli hater che hanno scatenato la tempesta d’odio nei confronti di “Inquisitor Ghost”, nickname del tiktoker bolognese Vincent Plicchi morto suicida a 23 anni lunedì scorso. 

Vincent aveva flirtato con una ragazza che pensava fosse maggiorenne, messaggi e null’altro, neanche tanto espliciti, solo qualche apprezzamento. Non sapeva che dall’altra parte della chat c’era una diciassettenne che non ha esitato ad accusarlo ingiustamente di pedofilia, innescando una catena infinita di insulti e minacce.

Ora questa stessa accusatrice confessa le sue responsabilità in un post pubblicato da un profilo aperto soltanto per questo motivo. Dice: «Per scusarmi per quello che ho fatto». Dilan/AJ, così si firma la ragazza, chiama in causa anche i complici della diffamazione, che a loro volta si difendono sperando di essere risparmiati dalla bufera social che adesso ha messo loro nel mirino. 

Scrive ancora Dilan/DJ: «Non avevo intenzione di fargli del male, mi sono spinta troppo oltre. Non se lo meritava, so che è troppo tardi per scusarsi. Ma spero che un giorno mi potrete perdonare per le mie stupide azioni. Mi dispiace di aver coinvolto Tito (il suo ragazzo, ndr.), Keeganmask e Bravo 0-7. Non si meritano l’odio che ho generato».

E ancora: «Per favore, smettetela di mandare minacce di morte a chiunque abbia detto cose su “Inquisitor”. La cosa migliore da fare è non seminare odio. Una persona è morta. Per favore community di Cod, siate migliori di così. Io stessa sarò migliore. Riposa in pace Vincent». 

Parole tardive rispetto al dramma che ha travolto il tiktoker bolognese e la sua famiglia. E che hanno provocato anche la reazione di uno degli hater che ha contribuito a infangare la sua reputazione. Scrive infatti “Bravo 0-7”, unico italiano dei quattro: «Non c’è nessuna scusa che potrà mai giustificare la perdita di “Inquisitor”. Voglio iniziare dicendo che sono profondamente dispiaciuto per quello che gli è successo, e spero che la sua famiglia si riprenderà presto da questa perdita.

Sono stato manipolato da alcune delle ragazze che in principio hanno iniziato a diffondere questi rumors. È stato un mio errore credere totalmente a loro, senza conoscere niente di “Inquisitor”, credevo ingenuamente che le prove fossero vere dato che parlava con dei minorenni, anche se non diceva nulla di sessuale neanche lontanamente, come invece le ragazze descrivevano facesse». 

Bravo 0-7 svela anche il movente dell’attacco al ragazzo bolognese: «Proprio oggi ho avuto altre prove che confermano che lo hanno fatto solo per fare cancellare il suo profilo». E infine: «Io non sono quello da incolpare per questo. Non sto dicendo che non ho preso parte a questa cosa, ma i miei video non avevano lo scopo di indirizzare l’odio delle persone». L’italiano conclude affermando: «Non riuscivo a credere che se ne fosse andato. Non volevo credere che lo avesse fatto perché era appena tornato (sui social che aveva abbandonato per alcuni giorni, ndr.), e invece ha fatto una live per suicidarsi» […]

Casal Palocco, la banalità del nulla. Daniela Missaglia su Panorama il 17 Giugno 2023.

La morte del piccolo Matteo per una sfida social, la drammatica assenza di una qualsiasi spiegazione per il dolore e una generazione che si è smarrita tra noia e il senso di vuoto

Al Buddha si attribuisce il presente aforisma: «Se apriamo le mani, possiamo ricevere ogni cosa. Se siamo vuoti, possiamo contenere l’universo», ma non sono d’accordo. Se siamo vuoti non possiamo contenere alcunché di buono, solo un disorientante nichilismo che è ciò che incarnano quei quattro youtuber che, per cimentarsi in una sfida (challenge, in gergo) idiota, inutile e pericolosa, hanno schiantato e ucciso un bambino di cinque anni a Roma, mettendo in serio pericolo di vita madre e sorellina e, soprattutto, distruggendo una famiglia. Il tutto senza un perché. Drammaticamente senza un motivo plausibile che almeno possa fornirci un elemento cui aggrapparci. La mente umana cerca sempre una logica, nel bene o persino nel male, una spiegazione a qualsiasi gesto. Tant’è che esiste una branca del diritto e della psicologia, la criminologia, che studia gli autori di crimini ferali, ricostruisce le psicopatologie di cui sono affetti, i tratti ossessivi-compulsivi, le ‘tare’ che si portano appresso e scatenano la loro furia. Ma qui cosa c’è da studiare? Cosa c’è da capire, approfondire? Basta guardare – sgomenti – i video registrati prima della tragedia, scrutare le facce dei protagonisti, ascoltarne le frasi senza senso, prive di ironia, costrutto, contenuti. Il vuoto nel volto di quel ragazzo di vent’anni positivo alla cannabis che, con gli amici, affitta un bolide da 650 cavalli, troppo potente per i suoi vent’anni, troppo impegnativo per sinapsi che sanno solo sintonizzarsi sul numero di followers e si nutrono solo della dopamina che scatena un ‘like’ in più o in meno. 50 ore dentro una Lamborghini, per dimostrare il nulla. Rinunciamoci. Se persino in matematica lo ‘zero’ ha un senso, in questo caso è un’opera improba che ci affanna inutilmente riempiendoci di interrogativi senza una risposta. La noia e il progresso, anzi, la noia generata dal progresso ha creato questi vuoti pneumatici in canottiera e cappellino da baseball, supportati da genitori altrettanto vuoti e colpevoli che, di fronte alla morte di un bambino, si sono precipitati a rassicurare i loro pargoli sul fatto che – in fondo – si trattasse solo di una “bravata”, che si sarebbe risolto tutto. Non hanno torto: l’omicidio stradale non è una carezza ma nemmeno un pugno, prevedendo da 2 a 7 anni di reclusione che, verosimilmente, pagherà solo il conducente, salve ipotesi di concorso degli altri compartecipanti che presto gli avvocati smonteranno. Poi metteteci l’assenza di precedenti, le attenuanti del caso, gli sconti di rito, facile che le porte del carcere nemmeno si apriranno per alcuno di loro. Questo è disarmante, ma ci dobbiamo abituare. Perché i social e i gestori delle piattaforme alzano le spalle e si schermano dietro la libertà d’espressione: tanto attenti e spietati a oscurare i contenuti politici avversi e ‘bannare’ Trump, quanto inerti verso la stupidità. In fondo a dominare sono i logaritmi, i click, le view, finché c’è qualcuno che ti segue e si iscrive a un canale, chissenefrega del contenuto. Tutto fa brodo. Siamo passati dal sacro timore di Dio alla paura dell’insuccesso sui social, al calo dei follower, all’inferno di essere sopravanzati da altri ‘eroi’ che ti scalzino dal trono delle visualizzazioni. La mente evacua, il cuore si inaridisce, e non rimane più nulla, nemmeno quel gigantesco ‘perché?’ che oggi riusciamo a pronunciare ma che domani verrà risucchiato nel buco nero di una morale ormai talmente degradata che ci ha tolto persino la forza per indignarci. Una ‘bravata’, ma sì, cosa volete che sia…. Alla prossima challenge.

Estratto dell’articolo di Massimo Gramellini per Il “Corriere Della Sera” il 17 giugno 2023.

[…] nel far west della Rete accade che un canale di YouTube, dove degli svalvolati viaggiano per 50 ore di fila su un bolide messo a disposizione da un autonoleggio debitamente reclamizzato, possa accumulare centinaia di migliaia di «follower» senza che nessuno intervenga. 

Poi ci scappa l’incidente, muore un bambino e improvvisamente si scopre che bisognava fare qualcosa. Parliamo di un mondo, Internet, in cui sempre più spesso si viene censurati per avere espresso un’opinione politicamente scorretta, mentre chiunque può impunemente fornire modelli artigianali di distruzione a legioni di emulatori. 

Non credo che il web ci abbia peggiorati. Non ci ha neanche migliorati, però. Nelle caverne dell’età della pietra ci sarà stato più di un cretino che roteava la clava davanti a una tigre addormentata per fare colpo sui «follower» della sua tribù, ma prima o poi qualcuno lo avrà disarmato, altrimenti ci saremmo già estinti.

Poiché il web è una clava più potente, richiederebbe di essere maneggiata da esseri più evoluti. Nell’attesa (piuttosto lunga, temo) che ciò accada e soprattutto di capire come togliere la clava ai cretini, mi accontenterei che le aziende, grandi e piccole, smettessero di finanziarli.

Youtuber, superare i limiti e sfidare la morte: le sfide più pericolose sul web. Per una sfida social hanno ucciso un bambino di 5 anni in un incidente. Gli youtuber continuano a sfidare la morte per visibilità. Chiara Nava Pubblicato il 15 Giugno 2023 su Notizie.it.

I The Borderline hanno ucciso un bambino di 5 anni mentre filmavano una sfida a bordo di una Lamborghini, causando un terribile incidente. Gli youtuber si spingono sempre più in là e continuano a sfidare la morte per un po’ di visibilità.

Youtuber, pronti a sfidare la morte per visibilità: l’incidente a Roma

Nella giornata di mercoledì 14 giugno 2023 si è verificato un terribile incidente a Casal Palocco, a Roma. Un Suv Lamborghini ha completamente travolto e distrutto una Smart, a bordo della quale erano presenti una mamma di 29 anni con i suoi due figli, di 5 e 3 anni. Manuel Proietti, il bambino di 5 anni, ha perso la vita a causa dello schianto. Ad aggravare la situazione, il fatto che l’incidente è stato causato con tutta probabilità dalla distrazione dei giovani a bordo del Suv, il gruppo di youtuber The Borderline, che stavano girando un video in cui mostravano ai follower come riuscivano a trascorrere 50 ore su una Lamborghini affittata.

Una challenge pericolosa. L’ennesima che hanno portato in scena i The Borderline. E purtroppo non sono gli unici. Gli youtuber, gli influencer, i tiktoker, continuano a giocare con la loro vita e con quella degli altri. Pensano che per ottenere più visibilità e più follower devono continuare a superare i limiti, a spingersi oltre, a fare sempre qualcosa di più folle e pericoloso. Ed è così che in molte situazioni le loro sfide si trasformano in tragedie. Sembrano non aver paura di niente quando sono davanti ad una telecamera o ad uno smartphone. Il desiderio di diventare famosi, di ricevere like e visualizzazioni, di ottenere qualche follower in più, li spinge a sfidare la morte, come se ne valesse la pena. Ci sono state tante, troppe, morti causate da folli sfide sui social network. L’ultima è quella di Manuel Proietti, un bambino di soli 5 anni che era uscito dall’asilo ed era in macchina con la sua mamma e la sua sorellina. Il piccolo è morto perché ha incrociato la strada di questi youtuber che hanno messo davanti la loro visibilità rispetto alla loro sicurezza e a quella degli altri.

Youtuber, pronti a sfidare la morte per visibilità: le challenge più pericolose

L’assurda follia delle sfide social continua a farsi strada sul web, coinvolgendo sempre più giovani. Tra le prime sfide diffuse sul web ricordiamo la Blue Whale, Balena Azzurra, una prova estrema fatta di 50 regole, tra cui tagliarsi le vene, salire sul tetto di un palazzo e arrampicarsi al cornicione, inviando le immagini ad un “curatore” e condividendole in rete. Sfidare la morte per dimostrare il proprio “coraggio” a sconosciuti. Ci sono stati tantissimi decessi legati a questa challenge. Nel tempo si è diffusa anche la Knock out challenge, che consiste nel dare un pugno ad uno sconosciuto per strada, per il gusto di fare del male. Un’altra sfida si è ispirata al personaggio del film horror The Ring, Samara, e consisteva nell’andare in giro con una camicia da notte bianca e il volto coperto da lunghi capelli per spaventare le persone. Molte ragazze sono state aggredite e picchiate.

Andando avanti possiamo ricordare tutte quelle persone che hanno trovato eccitante appendersi a testa in giù come un pipistrello per la sfida Batmanning, o gettarsi la vodka negli occhi, per la sfida Eyeballing, oppure guidare un’auto senza guardare, per la sfida Bird box challenge. Nel 2020 è diventato virale anche il pericoloso gioco Skullbreaker challenge, che vede la vittima al centro e due ragazzi ai lati che fingono di saltare per poi sgambettare quello al centro, che cade con la schiena a terra. Nello stesso anno si è diffuso anche Jonathan Galindo, che spinge i giovani all’autolesionismo. Ci sono stati tanti decessi anche per la sfida di TikTok chiamata Hanging challenge, che prevede di legarsi una cintura intorno al collo e resistere più tempo possibile. I giovani di queste generazioni sono sempre più fragili. Spesso partecipano a queste sfide per farsi notare, per aumentare la loro autostima, per ottenere consensi e sentirsi parte di un gruppo, senza neppure rendersi conto che in gioco c’è la propria vita, ma anche quella degli altri.

Il sorpassato. La Berlusconeide, Black Mirror e la facilissima polemica contro gli youtuber. Guia Soncini su L'Inkiesta il 16 Giugno 2023

Non prendiamocela col Cavaliere. Da Bruno Cortona alle “challenge” sceme, il carattere degli esseri umani esibizionisti si è accentuato in questa epoca in cui ogni mediocre ha una telecamera nel telefono

Cosa resta di Berlusconi – al quinto giorno di berlusconeide, al quinto giorno di «Berlusconi in sé, Berlusconi in me», al quinto giorno di articoli di giornali stranieri che fanno tenerezza quando cercano di trovare un senso a un paese che un senso non ce l’ha – cosa resta?

Il mio dettaglio preferito è «Non ho mai ricevuto una telefonata». Con la voluttà con cui si precipitavano a dire che Gianni Agnelli li chiamava alle sei di mattina – sperando questo dicesse di loro che erano interlocutori interessanti – i giornalisti italiani, se lavorano o hanno mai lavorato per Berlusconi, ci tengono a dire che mai mai mai Berlusconi ha detto loro cosa mandare in onda o mettere in pagina – sperando questo dica di loro che sono così schienadrittisti che mai, altrimenti, avrebbero lavorato per lui.

Sono gli stessi giornalisti che poi però, se scrivono di Milan, spiegano in dettaglio quanto Berlusconi interferisse, desse consigli non richiesti, fosse un’ingombrante presenza. Sarà che gli allenatori non scrivono editoriali e quindi non possono ribadirci che neanche a loro mai, neanche a loro una pressione piccina picciò.

Quindi Berlusconi rompeva i coglioni alle signore dicendo loro come vestirsi (aneddoto analogo a quello che riferivo ieri della Palombelli, l’ha esposto a una telecamera Barbara D’Urso: Silvio e la sua vocazione da guardarobiera); e agli allenatori dicendo loro come allenare. Ma a tutti coloro con un tesserino dell’Ordine dei giornalisti, a quelli neanche un consiglio mai.

Sarà che non ce n’era bisogno? Sarà che poteva contare sui più realisti del re? Sarà che era tutto previsto, anche il dissenso, anche quello fa scena?

Una ribelle di quelle da social, di quelle che si sono premurate di scrivere che il lutto nazionale non è a loro nome, perché loro sono bambine speciali e i rituali collettivi li schifano, una di quelle, pubblicata da una delle case editrici di proprietà di Berlusconi (giacché, lo sappiamo da un secolo: il paese non è di destra o di sinistra, il paese è di Berlusconi), una di loro (più di una, plausibilmente) si è trovata nei commenti alla ribellione da vetrina velate minacce aziendaliste.

Ti dovrebbero stracciare il contratto (segue tag all’editore, giacché a quest’epoca piace moltissimo fare la spia con un clic: se si potesse taggare la Guardia di finanza quando non ci fanno la fattura, avremmo già azzerato l’evasione fiscale).

Di costoro – non delle ribelli, che vabbè: dei minacciosi delatori – mi chiedo sempre come ragionino: non lo sanno che quel mercato residuale che è l’editoria sta su grazie a un’illusione collettiva di controcorrentismo e liberalismo, e se un editore racimola qualche spiccio (qualche spiccio reputazionale, soprattutto) è perché pubblica gente che dice che quell’editore è un manigoldo?

Ieri sono uscite, su Netflix, le nuove puntate di Black Mirror. Black Mirror nasce come prodotto di Channel 4, l’altra tv pubblica inglese, quella che non è la Bbc. Netflix prima si limita a distribuirlo nel resto del mondo; poi, avendo solo sceneggiati uno più irrilevante dell’altro, copre di soldi Charlie Brooker, il suo ideatore, perché faccia le nuove stagioni in esclusiva per loro.

Questa è la quarta stagione che Brooker fa per Netflix (quattro stagioni più uno speciale: lo preciso non perché l’informazione abbia alcuna rilevanza ma perché sennò arriva di sicuro qualche lettore che vuole dimostrarmi che ha Google e mi corregge, e voi non sapete che lavoro usurante sia scrivere in un’epoca di lettori imbecilli smaniosi di dimostrarsi svegli; voi non sapete che fatica sia un pubblico di dodicenni ciucci e arroganti: Silvio lo sapeva, e mi manca moltissimo).

La prima puntata della quarta stagione del multimilionario contratto di Brooker con Netflix, la prima puntata della nuova stagione dell’unica serie di finzione rilevante che Netflix abbia mai avuto, la prima puntata ha come trama: Netflix è unammerda.

Sì, nella finzione non si chiama Netflix: si chiama Streamberry. Per toglierci ogni dubbio circa l’identità della multinazionale dello streaming dissimulata dietro il nome “Streamberry”, della multinazionale cattiva che non esita ad arrubbarsi le vite dei suoi abbonati approfittando delle clausole scritte in piccolo nelle condizioni di servizio che tutti approviamo senza leggere, della multinazionale orrenda da far sembrare Rete4 un cenacolo d’intellettuali, per toglierci ogni dubbio, il logo di Streamberry ha gli stessi caratteri di quello di Netflix, le schermate da cui i personaggi scelgono cosa guardare hanno la stessa interfaccia di Netflix, e insomma Brooker fattura per mettere in onda su Netflix una storia su quanto è distopica Netflix.

Però Brooker ha, credo, troppo senso del ridicolo per puntualizzare agli intervistatori che Netflix gli ha lasciato totale libertà creativa e non gli ha mai fatto pressioni.

Ieri mattina ho aperto i siti dei giornali aspettandomi di trovare in apertura il peschereccio con non so neanche più quante centinaia di morti e dispersi, e invece c’erano quattro scemi che pensavano di fare “Grease” con quarantacinque anni di ritardo (o “Gioventù bruciata” con sessantotto): facevano le corse con le macchine e sono andati addosso a una Smart e hanno ammazzato un bambino di cinque anni.

Non voglio fare una gerarchia delle tragedie (a quella ci pensa il numero di morti, non c’è bisogno la faccia io), voglio solo dire che una storia sulla quale non c’è niente da dire – cosa dobbiamo dire, che è disdicevole fare corse in macchina e ammazzare bambini? Dobbiamo disapprovare per distinguerci da chi? C’è forse un dibattito? C’è qualcuno a favore dell’ammazzare bambini per sbaglio e per like? – è la storia di cui tutti hanno parlato tutto il giorno, ieri. Perché era facilissimo.

Era facilissimo far finta che fosse una bravata da giovinastri, specie ora che la bravata la chiamiamo «challenge» (che tutti, tutti, tutti i giornali scrivono «challange», perché siamo un secolo che ha dimenticato l’italiano senza riuscire a imparare l’inglese); era facilissimo far finta che queste audaci imprese le avesse inventate YouTube, e che la commedia fondativa del carattere italiano contemporaneo, sessantun anni fa, non finisse proprio con Vittorio Gassman che correndo in macchina ammazzava Jean-Louis Trintignant per leggerezza e per esibizionismo.

Era facilissimo dire che avevano fatto una cosa molto brutta e che i giovani d’oggi non hanno proprio ideali (Gassman sì che aveva valori solidi, per non parlare di James Dean); era facilissimo indignarsi d’indignazioni astratte (contro la ricchezza facile, contro il mercato dei like: quelli che arrivano ai cretini che fanno le corse in macchina su YouTube, quelli che arrivano a noi che ci indigniamo sentendoci invece intelligenti); era facilissimo dire «quel bambino potrebbe essere mio figlio».

Quelli nel peschereccio in effetti sono a meno immediata identificazione: se Silvio fosse stato il tipo che telefonava ai suoi tg, avrebbe suggerito di mettere prima un bambino romano, la cui morte è infinitamente più straziante e immedesimabile di quelle di centinaia di bambini forestieri; per fortuna c’era Silvio in noi prima, e c’è anche ora che non c’è più Silvio in sé, e sappiamo da soli che gerarchia cliccabile dare alle notizie.

È stata una giornata istruttiva, per capire che non è mai esistito Berlusconi: è esistito ed esiste il carattere italiano, che poi forse è il carattere degli esseri umani mediocri ed esibizionisti che si accentua nell’epoca in cui ogni mediocre ha una telecamera nel telefono.

Esiste la predisposizione alle scorciatoie (non parlo dei ventenni che fanno i soldi su YouTube: parlo di noialtri che ci scegliamo sempre la causa più facilmente portatrice di cuoricini); esiste l’esibizionismo; esiste, in noi, il Bruno Cortona del Sorpasso, letale e megalomane in ogni scena, e assai più endemico e meno accidentale dei ragazzotti scemi di “Grease”, di “Gioventù bruciata”, di YouTube.

«Seguiamo i nostri ragazzi, ma è sbagliato “processare” youtube». Incidente mortale a Roma, parla Luca Poma, specialista in gestione di crisi e in digital strategy: «Il digitale è come un coltello da cucina: puoi utilizzarlo per tagliare il pane o per uccidere qualcuno». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 15 giugno 2023

YouTuber in azione provocano un incidente mortale a Roma. È stato sintetizzato così il grave episodio accaduto ieri a Casal Palocco, dove un suv lanciato a forte velocità ha travolto un’auto con a bordo una giovane mamma con i due figli di tre e cinque anni. Quest’ultimo è deceduto per le gravi ferite riportate. Alla guida della grossa Lamborghini alcuni giovani Youtuber della piattaforma “Bordeline” con più di 600mila follower online. Erano intenti a filmare una “challenge”: stare al volante per cinquanta ore di seguito. L’utilizzo degli strumenti digitali e dei social network può essere demonizzato in relazione all’incidente di mercoledì scorso? Ne abbiamo parlato con Luca Poma, professore in Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, e specialista in gestione di crisi e in digital strategy. «Il digitale – dice al Dubbio Luca Poma - è come un coltello da cucina: puoi utilizzarlo per tagliare il pane o per uccidere qualcuno. Quindi, nuovamente, il tema è quello della cultura e, di conseguenza, dell’uso consapevole e ragionato dello strumento stesso».

Professor Poma, l’incidente mortale di Roma, provocato da un’auto di grossa cilindrata, ha subito fatto scattare la ferma condanna di YouTube e di chi produce contenuti per la famosa piattaforma. Una semplificazione, come succede spesso in occasione di alcune tragedie?

Purtroppo, sì. Il clamore mediatico che accompagna dolorosissime tragedie di questo tipo non aiuta certamente le analisi razionali. YouTube diventa quindi il brand famoso da mettere sul banco degli imputati, il capro espiatorio per condotte sconvenienti e pericolose che con gli algoritmi e la cibernetica non hanno nulla a che fare e che sono invece più banalmente attribuibili alle miserie di noi esseri umani.

Si fa presto a definire YouTuber quei soggetti che più che contenuti utili sono intenti, come nel caso di Casal Palocco, solo a collezionare like per i loro video. Serve anche una educazione per l’utilizzo delle piattaforme social?

Serve eccome, e stupisce che il ministero dell’Istruzione in tutti questi anni ancora non abbia provveduto, nonostante i numerosissimi solleciti in tal senso da parte della comunità accademica, come anche dei comunicatori professionisti. Occorrono urgentemente corsi di educazione digitale nelle scuole italiane. A tal riguardo faccio appello alla sensibilità del collega professor Giuseppe Valditara. Lo conobbi e apprezzai in occasione della pubblicazione di “Lettera 150”, il documento da lui coordinato nel quale si prendeva costruttivamente posizione sulla gestione non ottimale della pandemia Covid da parte del Governo Conte. Spero che il ministro prenda senza indugi l’iniziativa, colmando un gap che esiste da ormai troppi anni e che espone le nuove generazioni ad un uso non ragionato di quello straordinario strumento che sono i Social network.

Cosa dovrebbero fare, secondo lei, i social media per regolare e approvare la presenza di certi contenuti?

Dovrebbero fare certamente di più. Questo è un dibattito accesissimo tra gli addetti ai lavori: non è più tempo di alzare le mani al cielo dicendo «noi siamo solo piattaforme che ospitano contenuti, se i contenuti sono inappropriati è colpa del singolo utente». I social e, in generale, le piattaforme web macinano utili miliardari grazie a quei contenuti, non sono una terza parte estranea all’equazione, e quindi il ruolo dovrebbe essere rivisto. Le nuove direttive europee sul digitale stanno facendo passi avanti in tal senso, ma anche una iniziativa da parte della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, con i ministeri competenti non sarebbe per nulla fuori luogo. L’Italia in passato è stata precursore si pensi, ad esempio, al dibattito e alle successive iniziative legislative sulla privacy. Perché non potremmo esserlo anche su queste delicate e attualissime tematiche?

Tragedie come quella di Roma rischiano ancora una volta di avviare inutili crociate contro le nuove forme di comunicazione che riguardano soprattutto giovani e giovanissimi?

Si, il rischio è evidente. Ma il digitale è come un coltello da cucina: puoi utilizzarlo per tagliare il pane o per uccidere qualcuno. Quindi, nuovamente, il tema è quello della cultura e, di conseguenza, dell’uso consapevole e ragionato dello strumento stesso. Non dobbiamo metterci il cappello dei luddisti e attaccare e demolire gli strumenti digitali, che hanno cambiato in meglio la nostra vita quotidiana in moltissimi modi, bensì porci il tema di educare i nostri ragazzi. In questo la famiglia ha un ruolo centrale, ma, ribadisco, le istituzioni devono far proprio il tema, sia per coinvolgere attivamente il mondo delle scuole, sia per obbligare le piattaforme ad essere più proattive nel far passare messaggi responsabilizzanti. Mi chiedo ad esempio: quante piattaforme social hanno attivi dei corsi di educazione digitale, rivolti ai giovani mediante tutorial e podcast? Il tempo del Far West online è finito. Ognuno deve fare la propria parte.

Siamo tutti colpevoli. L’inevitabile sparizione del pubblico colto nel Grande Indifferenziato. Guia Soncini su L'Inkiesta il 16 Maggio 2023.

L’instupidimento del ceto medio riflessivo ha messo sullo stesso piano gli spettatori di Succession, quelli di Beautiful, quelli di Fazio e gli iscritti al gruppi Facebook

E se il pubblico colto non esistesse più? Se restasse a malapena un pubblico istruito che, determinato a percepirsi colto, non fosse però in grado di comprendere i codici di ciò che vede, ascolta, legge?

È un sospetto che viene leggendo ciò che viene detto dei programmi di Fabio Fazio, certo; ma non solo. È un sospetto che mi ha tenuta sveglia all’alba di lunedì, quando dopo essermi svegliata a un’ora assurda sarei tornata a dormire, se non avessi fatto l’errore di aprire Twitter.

Su Facebook sono iscritta a un gruppo americano di fan di Beautiful. Beautiful da quelle parti non è quel che è qui, il consumo vezzoso di gente che si sente spiritosa e intelligente a guardare una cosa da massaie e a fare battute su resurrezioni e adulteri. Quel genere di pubblico lì in America guarda The Bachelor (in Italia noialtri con velleità culturali guardiamo sia Uomini e donne sia Beautiful, perché abbiamo più tempo da perdere).

Il gruppo Facebook è dedicato a una delle protagoniste giovani (la figlia di Taylor) e detesta la sua rivale (la figlia di Brooke), ma il dettaglio che qui ci interessa analizzare è che, esattamente come ci si aspetterebbe da un pubblico non sofisticato, non è in grado di capire che i personaggi di fantasia non esistono davvero.

Le tizie (sono tutte femmine, ma sento di poter dire che è un caso: la scemenza non conosce gender gap) che scrivono in quel gruppo inveiscono contro gli sceneggiatori, queste figure prepotenti che abusano dei personaggi assolutamente reali che, fosse per loro, si comporterebbero così e cosà, e invece quelli fanno fare loro il contrario.

Una volta – quando il cliente aveva sempre ragione, quando se il lettore non capiva era colpa di chi scriveva, quando esisteva la selezione all’ingresso d’ogni forma di comunicazione – l’obiezione sarebbe stata ragionevole. Se tu crei un personaggio che compie dieci azioni in quella direzione, poi non puoi fargli fare una cosa senza coerenza narrativa, non senza metterci di mezzo un trauma o altra deviazione: se lo fai, io cliente ti nego la mia sospensione dell’incredulità e cambio canale.

Ma adesso, nel gruppo che ritiene Steffy Forrester moralmente ineccepibile e Hope Logan l’incarnazione del male, l’accusa non è di scrivere personaggi incoerenti: è di abusare di quella povera ragazza facendole compiere azioni contro la sua stessa natura. Come fosse un essere umano esistente e non un prodotto dell’immaginazione di chi le fa compiere quelle azioni.

Quindi mi sveglio alle cinque di mattina, è lunedì e negli Stati Uniti è andata in onda da poco più d’un’ora la nuova puntata di Succession, e Twitter è monopolizzato da gente che, senza alcuna ironia, dice di soffrire di disturbo post-traumatico, e non importa se quella di stasera era una bella puntata, io non la rivedrò mai, e non dovevano infliggermi questa sofferenza, e non hanno rispetto di noi.

Se siete parte del pubblico imbecille di questo secolo, quello che ha inventato il concetto di «spoiler», smettete di leggere, perché sto per dirvi una cosa che non ha nessun impatto sulla vostra capacità di godervi Succession ma non voglio sentirvi strepitare e quindi vi avviso comunque.

Nella puntata andata in onda domenica in America (la trovate già su Sky e su Now, peraltro, ma sappiamo che ormai il concetto di spoiler vale fino a che non l’ha vista anche chi deve ancora recuperare Canzonissima), c’erano le elezioni presidenziali. Succession è ambientato in un universo scevro dalla cronaca e dai fatti d’attualità del mondo reale. Detta altrimenti: non è mai esistito Trump.

Alle elezioni di fantasia d’una serie di fantasia su dei ricchi cattivi di fantasia era candidato anche uno dei fratelli Roy, come indipendente; ma sapevamo tutti (tranne lui) che non aveva alcuna speranza. La gara era tra un democratico e un repubblicano.

Gli sceneggiatori della serie più sofisticata andata in onda negli ultimi anni, gli sceneggiatori dell’ultimo prodotto culturale non terrorizzato di non venire compreso, gli sceneggiatori di una roba in cui, in una scena di terapia familiare, il terapeuta cita Philip Larkin e la citazione neppure viene esplicitata, quegli sceneggiatori lì fanno vincere il repubblicano.

E il pubblico che si era probabilmente compiaciuto e sentito colto riconoscendo Larkin, il pubblico che è classe dirigente ma ragiona come le colf messicane che nelle case della borghesia statunitense guardano Beautiful, quel pubblico lì dice che no, c’è un limite a tutto, questa non me la dovevi fare, mi hai risvegliato il trauma di Trump e ora mi servono le goccine.

(Nel frattempo la Bbc produce un’inchiesta per dimostrare che la psichiatria è ormai disposta a certificarti qualunque cosa, in cambio d’una parcella. Loro si sono concentrati sul disturbo dell’attenzione, ma io aspetto analoghe inchieste sui bambini che i genitori portano a far dichiarare geni incompresi da appositi istituti – no signora, il suo puccettone non è molto maleducato, è solo intelligentissimo – o sulla disforia di genere. D’altra parte, se ti servono le goccine perché un’opera di fantasia ha un presidente repubblicano, vuoi che non ti serva la chimica per il disturbo dell’attenzione o perché ti piace metterti lo smalto benché maschio).

La sparizione del pubblico colto non è avvenuta in tre giorni, e non basterebbero trenta pagine a ricostruire questo disastro. È tutt’un complesso di cose: le telecamere nei telefoni, i videogiochi spacciati per equipollenti dei romanzi russi, il terrore di non sembrare moderni che ci spinge a dire senza metterci a ridere che i fumetti sono letteratura, gli inserti culturali che dedicano pagine al booktok, cioè alle adolescenti (che mai sfoglieranno un inserto culturale) che piangono sfogliando romanzi rosa, il Grande Indifferenziato in cui Erin Doom ed Emmanuel Carrère concorrono nello stesso campionato.

Fatto sta che siamo arrivati qui, a un mondo in cui io ieri ho detto in tv che la fa facile Landini a dire che bisogna rifiutare i contratti da mille euro, se quei mille euro ti servono magari non hai voglia di fare un gesto dimostrativo, e da ventiquattr’ore ricevo messaggi che mi accusano di propalare la retorica del sacrificio; siamo così abituati ai fumetti e ai podcast e alle forme semplificate di comunicazione che siamo diventati davvero il paradosso di Boncompagni: il pubblico della prima serata che non capisce parole più complesse di «cane, pane, minestrina col dado» – solo che non siamo il pubblico della prima serata: siamo la classe intellettuale e il pubblico che essa si merita.

Siamo, probabilmente, tutti colpevoli: lo sono io che dicevo che era uno scandalo che Livia Turco non sapesse chi era Fabrizio Corona, e non sapevo che Livia Turco era l’ultimo argine all’instupidimento del ceto medio riflessivo; lo è Fabio Fazio che vent’anni fa faceva una puntata intervistando Ottavio Missoni e Alberto Arbasino, e oggi sa di dover andare incontro all’inesistenza del pubblico colto e, per non fare il tre per cento, simula interesse per le memorie di Federica Pellegrini.

D’altra parte Arbasino è morto, Missoni è morto, e se devi continuare a mandare in onda un programma ti restano questi qua, alla portata della comprensione del pubblico più stolido nella storia della comunicazione, ma determinato a percepirsi colto.

Estratto dell’articolo di Mattia Feltri per “La Stampa” il 25 Gennaio 2023.

Confermo: i social sono dannosi come l'amianto. Non ci scrivo più da anni, però confesso di avere conservato il mio profilo Twitter perché, quando sono a corto di idee per questo spazietto, ci faccio un giro per vedere se da qualche politico o qualche giornalista o qualche testata o qualche persona interessante mi arriva uno spunto.

 Ma da un po' di tempo su Twitter è successa una cosa strana: non mi mostrano più i tweet dei profili che seguo ma, secondo arguti algoritmi, tweet di profili di cui ignoravo l'esistenza. Ieri, per esempio, mi sono stati inflitti: un panda immobile in cima a un albero, la foto del matrimonio della prozia di un certo Mario Marino, i più bei gol di Andrej Kanchelskis, tre cani che accusano un quarto cane del furto di un wurstel, un tizio che facendo il barbecue manda a fuoco la casa; un manto nevoso in Australia ma in realtà sono ragnatele, il rallenty di un palloncino gonfio d'acqua che cade su un pungolo e scoppia, la foto originale dell'omino Michelin, un'anatra che fronteggia una mucca senza arretrare, una donna vestita con una testa di leone, una sfida a palla avvelenata fra conigli di pezza;

 Luis Suarez che chiede un rigore perché il portiere ha preso la palla con la mano, tutte le volte in cui Spongebob è esploso, istruzioni per diventare miliardari partendo da una mela, una tizia inseguita e travolta da una valigia sulle scale mobili, uno tsunami fatto col lego, una poesia con la rima ragazzoni/canzoni/contrazioni, una petizione in favore dei cloni umani, così a sera non avevo la più pallida idea di che cosa scrivere, ma ho scoperto che su Twitter c'è anche roba intelligente.

USA: le scuole di Seattle fanno causa ai social media per i danni provocati ai ragazzi. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 14 gennaio 2023.

I social media hanno causato dei veri e propri danni alla salute mentale dei ragazzi, motivo per cui le società alle loro spalle devono essere ritenute responsabili: è questa la tesi sostenuta dalle scuole pubbliche della città di Seattle, che lo scorso 6 gennaio hanno intentato una causa contro i giganti della tecnologia proprietari di TikTok, Instagram, Facebook, Snapchat e YouTube. La cosiddetta “crisi della salute mentale” dei giovani americani – alle prese con disturbi quali l’ansia, la depressione e l’autolesionismo – si sarebbe nello specifico verificata a causa del modus operandi di tali società, che con l’obiettivo di far crescere le proprie piattaforme avrebbero attuato tecniche non di certo innocue per la psiche dei ragazzi.

La crescita dei social media verificatasi nell’ultimo decennio, infatti, sarebbe conseguente alle scelte fatte dalle aziende, le quali secondo le scuole pubbliche si sarebbero rifatte a metodi che “sfruttano la psicologia e la neurofisiologia” degli utenti con il fine di fargli “trascorrere sempre più tempo sulle loro piattaforme”: un problema a quanto pare importante per i ragazzi, essendo tali tecniche “particolarmente efficaci e dannose per il pubblico giovanile”. Non sarà un caso, quindi, il fatto che le scuole abbiano deciso di agire attraverso vie legali con l’intento di porre un argine ad un fenomeno che sembra essere notevolmente in aumento. Secondo coloro che hanno intentato la causa, infatti, “dal 2009 al 2019 c’è stato un aumento in media del 30%” del numero di studenti delle scuole pubbliche di Seattle che “hanno riferito di sentirsi così tristi o senza speranza quasi ogni giorno per due settimane o più di fila che hanno smesso di svolgere alcune attività abituali”.

Non c’è da meravigliarsi, dunque, se le scuole pubbliche di Seattle affermano che “tutto ciò influisce direttamente sulla capacità delle stesse di adempiere alla propria missione educativa”, con gli studenti aventi problemi psichici che ad esempio “ottengono risultati peggiori a scuola” ed “è meno probabile che la frequentino”. È per questi motivi, quindi, che le scuole chiedono ai giganti della tecnologia non di eliminare i social media, ma di “cambiare il modo in cui operano” assumendosi “la responsabilità dei danni causati dalle loro pratiche commerciali”. Del resto la sezione 230 del Communications Decency Act – che tutela i fornitori di servizi online – secondo coloro che hanno intentato la causa non protegge le società in questione, che sarebbero appunto responsabili di varie condotte quali la promozione di contenuti dannosi per i giovani. Con la causa intentata, dunque, si punta nello specifico da un lato a “fermare le pratiche intenzionali e dannose delle piattaforme di social media rivolte ai giovani” e dall’altro ad ottenere “le risorse aggiuntive necessarie per soddisfare i maggiori bisogni di salute mentale degli studenti delle scuole pubbliche di Seattle, causati degli impatti negativi dell’uso dei social media”.

A prescindere dal modo in cui la vicenda andrà a finire, però, le Big Tech sembrano essere consapevoli di dover apportare alcuni miglioramenti ai loro servizi. Ad esempio Snapchat – secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Reuters – non solo ha precisato che «il benessere della sua comunità rappresenta la sua massima priorità» ma ha anche fatto sapere di star lavorando «a stretto contatto con molte organizzazioni per la salute mentale con il fine di fornire strumenti e risorse in-app per gli utenti». Inoltre tramite una dichiarazione rilasciata lunedì alla CNN, il responsabile globale della sicurezza di Meta, Antigone Davis, pur sottolineando che già vi sono diversi strumenti in grado di tutelare gli adolescenti ha affermato che l’azienda continuerà ad «investire risorse per garantire che i suoi giovani utenti siano al sicuro online». Evidentemente, dunque, i giovani che utilizzano i social media non sono del tutto esenti da rischi. [di Raffaele De Luca]

La Monetizzazione.

Cristiana Lauro per Dagospia lunedì 6 novembre 2023.

Il nuovo trend del 2023, con radici in tempi non sospetti e ahinoi prevalentemente femminile, è la costruzione di un archivio fotografico di tutto rispetto che possa contare su contesti di lusso convincenti e rendersi disponibile all’occorrenza per story, post e quant’altro a uso e consumo social-profittevole per il soggetto. 

Spara-flasharsi mentre si è attovagliate presso un ristorante stellato o in una boutique di lusso di Via Monte Napoleone a Milano, magari con una bella borsetta da decine di migliaia di euro (ovviamente in prova), è diventata una specie di business card che man mano si sta sostituendo al buon gusto del biglietto da visita in carta Pineider. Al centro, ovviamente, è la rappresentazione sempre più finta di sé e del proprio aspetto fisico in un contesto di lusso sfrenato o brandizzato a livelli di alto rango.

Ma facciamo un passo indietro, come funziona nel dettaglio questa pratica così cafona? Mi spiego meglio, concentrandomi sul mondo dei ristoranti (che mi compete) e sorvolando su quello delle boutique di lusso, sulle quali si potrebbe aprire un altro meschinissimo capitolo. Veniamo a noi: ragazze dotate di buona carrozzeria e atteggiamenti sapientemente ammiccanti – ben graditi dal pubblico di pisquani che pasturano quotidianamente sui social – dopo aver prenotato un tavolo per due, si presentano sole al ricevimento che assegna loro un bel tavolo in attesa di un commensale fittizio. La tipa in questione ordina solo una mezza minerale e “scatta lo scatto”. 

Uno, due, dieci, cento scatti in tutte le pose possibili immaginabili nell’arco di mezz’ora, non di più. A quel punto quella che in un momento di entusiasmo definisco “signora”, controlla la qualità del materiale prodotto dal suo iPhone, posta una story in tempo reale e, se soddisfatta, chiama il responsabile di sala al quale, mortificata, racconta una balla clamorosa: purtroppo a causa di un imprevisto l’incontro è saltato a piè pari. Rinviato a data da definirsi (ma davvero?!).

Con garbo e grazia il professionista di sala libera il tavolo e con gesto elegante evita di farle pagare l’acqua minerale. Capita che sia tardi per riassegnare la prenotazione, ma chissenefrega! Intanto madame si è fatta i socialcazzi suoi e quello era l’obiettivo per il quale è partita da casa truccata e vestita di tutto punto con un paio di cambi di giacca in borsa ovviamente, perché si ripresenterà con lo stesso escamotage in almeno altri due o tre locali di lusso, o magari hotel etc. 

Si tratta di un vero e proprio trend in uso a chi sogna di diventare un’influencer e passare la vita a Dubai, spesso facendo altro, ma chi siamo noi per giudicare? Chiedo solo una cosa, gentili lettori: la prossima volta, fateci caso anche voi e, perché no, un bel vaffa tra i denti tirateglielo dietro!

L’Europa indaga sugli influencer per la pubblicità occulta.  Roberto Demaio su L'Indipendente il 6 Novembre 2023

In Europa circola sui social troppa pubblicità occulta che “condiziona e inganna i consumatori” e la colpa sembra essere principalmente degli influencer, le nuove celebrità di internet che hanno acquisito o sviluppato la loro fama grazie a queste piattaforme e a cui gli utenti dedicano tempo, seguito e clic, dunque soldi. In Italia circa il 71% degli utenti attivi sui social network segue almeno un influencer che spesso, appunto, influenza il proprio pubblico attraverso consigli, suggerimenti, moda e trend che vengono abitualmente ricompensati da sponsor e agenzie pubblicitarie. Per Bruxelles si tratta di veri e propri commercianti che, nonostante i regolamenti, troppo spesso divulgano gli annunci pubblicitari in modo non trasparente. La Commissione europea ha così lanciato un’indagine sui post online delle star dei social e i risultati potrebbero portare Bruxelles a prendere delle contromisure legali. In parallelo, è stata lanciata la piattaforma Influencer Legal Hub, dove i creatori di contenuti possono trovare informazioni che li aiuteranno a rispettare le regole.

La notizia arriva nello stesso momento in cui è stata pubblicata la nuova ricerca Italiani & Influencer, realizzata dall’istituto specializzato in sondaggi d’opinione BVA Doxa in collaborazione con Mondadori Media e Buzzoole, una piattaforma di marketing per influencer. Secondo le analisi, il 46% degli intervistati ha fatto almeno un acquisto suggerito da un creatore di contenuti e l’83% ne tiene in considerazione i consigli. Per la prima volta in assoluto è emerso che ci sono oltre 3 milioni di italiani che seguono un virtual influencer – ovvero un personaggio immaginario generato dal computer – e il 57% degli intervistati ha affermato di seguirne almeno uno ogni giorno. Solo il 5% non ha una frequenza abituale.

L’iniziativa è stata presentata dal commissario UE alla giustizia Didier Reynders, che ha sottolineato come questo mercato interessi anche fasce della popolazione che meritano un’attenzione particolare: «Il ruolo degli influencer è in espansione e molti consumatori, spesso giovani o addirittura bambini, credono nelle raccomandazioni lanciate attraverso la rete da queste persone che però, quando hanno una finalità commerciali, devono rispettare determinati obblighi legali. Quindi, anche gli influencer devono attenersi a pratiche commerciali corrette e i loro follower hanno il diritto a informazioni trasparenti e affidabili». La normativa europea sui consumatori stabilisce già che la pubblicità (comprese le partnership sui social media) deve essere ampiamente reclamizzata e nel momento in cui un influencer reclamizza un qualsiasi prodotto è tenuto a specificare che si tratta di una pubblicità a pagamento. La Commissione ha aggiunto infatti che il monitoraggio e l’esame dei post servirà anche a capire se è necessario procedere al varo di nuove regole che renderanno il mercato digitale sicuro almeno quanto i mercati tradizionali. L’operazione sarà lanciata nel giro di qualche settimana ma già da ora è attivo l’Influencer Legal Hub, una piattaforma che mira a garantire ai creators la possibilità di informarsi in maniera semplice sulle norme che devono essere rispettate quando conducono attività riconducibili al settore del commercio. L’Influencer legal hub, sottolinea la Commissione, «li aiuterà a imparare in particolare quando, dove e come devono uscire allo scoperto con le loro attività di pubblicità praticate sui social media».

La pubblicità occulta è illegale in UE e in molti altri Paesi e, come definito dall’articolo 2 del Decreto Legislativo 145/2007 è quella che «in qualunque modo, compresa la sua presentazione, è idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente». Nel caso degli influencer, si tratta principalmente di tutti quei casi in cui un post su un social network presenta un prodotto come se fosse un consiglio personale del creatore di contenuti, senza che venga però specificato che il suddetto sia una pubblicità retribuita. [di Roberto Demaio]

X vale meno della metà di Twitter: da 44 a 19 miliardi in un anno di Musk. Storia di Francesco Bertolino su Il Corriere della Sera martedì 31 ottobre 2023.

X vale meno della metà di Twitter. Il social network ha distribuito azioni ai dipendenti a un prezzo di 45 dollari, il che implica una valutazione di 19 miliardi per la piattaforma. E pensare che solo un anno fa Elon Musk aveva riconosciuto una valutazione di 44 miliardi all’ex Twitter, poi ribattezzata X al termine di una rocambolesca scalata finanziaria.

I problemi dell’ex Twitter

Non si può dire che sinora l’operazione Twitter sia stata un successo per Musk, perlomeno dal punto di vista economico. L’aumento dei tassi d’interesse ha fatto esplodere il costo del debito utilizzato dall’imprenditore per conquistare Twitter. Gli introiti da pubblicità si sono poi dimezzati, a causa non solo della riduzione del 7% degli utenti quotidiani del social, ma anche delle controverse posizioni politiche del fondatore di Tesla. Nonostante i risparmi consentiti da un drastico taglio dell’80% dell’organico, così, X prevede di chiudere l’anno ancora in negativo e di non tornare profittevole prima dell’inizio del 2024.

I rischi per le banche

Il crollo della valutazione e dei suoi ricavi potrebbe non essere un problema per Musk, che ha in Tesla la sua macchina da profitti e in X la sua tribuna personale. Rischia però di diventare un macigno per le banche che hanno finanziato la scalata con prestiti per 25 miliardi di dollari - Morgan Stanley, Bank of America, Barclays, Mufg, Bnp Paribas, Mizuho e Société Générale. E anche per gli investitori che hanno preso parte all’operazione fra cui figurano Larry Ellison, il co-fondatore della società di software Oracle, il fondo sovrano del Qatar, la cripto-borsa Binance e, in misura minore, la compagnia assicurativa italiana Unipol.

La garanzia di Tesla

A ben vedere, nel lungo termine le difficoltà finanziarie dell’ex Twitter potrebbero diventare un problema anche per Musk. Circa metà del debito contratto per l’acquisto di X è infatti garantito da azioni di Tesla: ciò significa che, in caso di mancato rimborso dei prestiti, le banche potrebbero diventare soci del costruttore elettrico, escutendo la garanzia. Un problema in più per il vulcanico imprenditore che ha tuttavia diverse frecce al suo arco: di recente, per esempio, la sua SpaceX ha raggiunto una valutazione di 150 miliardi di dollari, raccogliendo investimenti anche dalla banca italiana Intesa Sanpaolo.

Come guadagnare 2mila euro al mese con TikTok, Instagram, YouTube, OnlyFans e Twitch. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera mercoledì 1 novembre 2023.

Lo stipendio medio di un giovane in Italia tra i 18 e i 24 anni è poco più di mille euro al mese (dati Eurostat 2022 qui); a un anno dalla laurea sono 1.332 euro (se triennale) e 1.366 euro (se magistrale) (dati AlmaLaurea 2022 qui, pag. 12). Non stupirà se in tanti tentano di guadagnare con l’attività del momento: i social. Si tratta di pubblicare video e post sulle loro passioni: cosmesi, moda, videogiochi, food, diritti civili, sport, serie tv e anche un po’ di soft porno su OnlyFans. L’azienda specializzata in strategia di comunicazione e marketing sui social DeRev ci aiuta a capire come si può guadagnare 2.000 euro lordi al mese.

Premessa: i guadagni di un creator sono composti in una percentuale dai pagamenti diretti da parte delle piattaforme (per esempio per la pubblicità che scorre sul video), in un’altra percentuale da collaborazioni con i brand per la sponsorizzazione dei prodotti (la maglietta o il cappellino indossati, ecc.), in un’altra percentuale ancora dal sostegno dei follower (quando gli utenti pagano per abbonarsi al canale, o per mettere in evidenza i propri commenti nelle dirette streaming oppure fare regali virtuali convertibili poi in denaro vero). In ogni caso bisogna avere 18 anni di età o essere autorizzati dai genitori.

Quando si inizia a guadagnare su YouTube?

Su Youtube per guadagnare con la pubblicità inserita sul tuo video è necessario avere un minimo di 1.000 iscritti al canale e oltre 4 mila ore di visualizzazione negli ultimi 12 mesi o 10 milioni di visualizzazioni dei video da 60 secondi (short) negli ultimi 90 giorni. Se hai 3.000 follower sei un nano-influencer, tra 10 mila e 50 mila un micro-influencer: a queste condizioni il ricavo medio dalla pubblicità ogni mille visualizzazioni può essere di 2,80 euro che vuol dire che con circa 250 mila visualizzazioni puoi incassare 700 euro (35% dei guadagni); dalle collaborazioni con i brand che ti pagano per sponsorizzare un loro prodotto altri 1.200 euro per un solo contenuto (60% dei guadagni); dal sostegno di un centinaio di follower con abbonamenti a 0,99 euro possono essere ancora altri 100 euro al mese (5% dei guadagni).

Come vengono pagati i tiktoker?

TikTok, che ha un fondo per creator, può pagare dai 2 ai 4 centesimi per 1.000 visualizzazioni, dunque 20-40 euro per 100 mila visualizzazioni al mese, il minimo che devi avere per ricevere denaro (3% dei guadagni). Se hai 200 mila follower e un profilo specializzato in economia, food, moda, o quel che è, dai brand puoi prendere 1.800 euro a contenuto (87% dei guadagni); e con le dirette streaming dove rispondi alle domande, mostri come cucini, o ti trucchi, ecc., puoi ricevere monete virtuali che, quando convertite in denaro da TikTok, possono farti arrivare ad altri 200 euro al mese (10% dei guadagni).

Quanto si guadagna con un post Instagram?

Instagram invece attualmente non paga direttamente i creator. Con 150.000 follower puoi incassare dalla collaborazione con un brand 2.000 euro a video/post (98% dei guadagni); una seconda entrata economica molto residuale può provenire dal sostegno dei follower più fidelizzati all’interno delle dirette streaming (2% dei guadagni).

Quanti abbonati per guadagnare su OnlyFans?

Su OnlyFans si guadagna con il numero di abbonati al tuo profilo: con 500 abbonati disposti a pagare un canone mensile di 4,99 euro i ricavi arrivano a 2.500 euro al mese, da cui scalare la commissione del 20% della piattaforma. Magari uno ha dei bei piedi o una voce seducente e la sfrutta.

Come monetizzare con Twitch?

Su Twitch (Amazon, specializzata in contenuti sui videogiochi) sono sufficienti 300 abbonati al canale a 3,99 euro ciascuno per raggiungere i 1.200 euro lordi al mese, ma bisogna trasmettere per almeno 25 ore mensili per almeno 12 giorni, totalizzando una media di 75 spettatori simultanei (60% dei guadagni); se le dirette hanno una community più numerosa ti cercano i brand e puoi ottenere così altri 750 euro (35%), e la stessa diretta pubblicarla anche sul tuo canale YouTube e monetizzare anche lì. Terza e residuale fonte di incasso gli introiti pubblicitari per 50 euro al mese (5% dei guadagni): Twitch distribuisce quote delle entrate pubblicitarie (circa il 55%) generate dagli spot che vengono trasmessi sul canale del creator che stabilisce la durata e la frequenza delle inserzioni che possono comparire durante la riproduzione del video.

Alla fine, netti incassi quanto il tuo lavoro da impiegato o di più, e se hai talento puoi raggiungere cifre da capogiro.

Alla fine, netti incassi quanto il tuo lavoro da impiegato o di più, e se hai talento puoi raggiungere cifre da capogiro. In quanti ce la fanno? Il numero esatto lo conoscono solo le piattaforme, che non lo dicono. Però sappiamo che in Italia circa 200 canali YouTube hanno più di un milione di iscritti; 2.500 canali ne hanno più di 100 mila; e 19 mila canali più di 10 mila iscritti, tutti in crescita. È comunque utile sapere che si arriva a monetizzare dopo mesi, se non anni di lavoro duro e gratuito, e può bastare uno scivolone per perdere credibilità e follower. E le tasse? Sono soggetti con partita Iva: se non vengono superati gli 85 mila euro annui, è possibile rientrare nel regime forfettario che prevede un’imposta sostitutiva con aliquota al 5% per i primi 5 anni e successivamente del 15%. Certo, non tutte le prestazioni prevedono l’emissione di una fattura: molto gettonate le vacanze gratis in cambio di pubblicità per l’albergo o il resort.

Da Fedez a Zerocalcare, quando la guerra diventa strumento di visibilità personale. Uno ha disertato una convention di strumenti patrocinata da Israele, l'altro ha deciso quale sia la parte giusta: così la guerra diventa una vetrina personale per "gli artisti impegnati". Francesca Galici il 30 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Questa è stata la settimana degli "artisti impegnati". Ebbene sì, il conflitto tra Israele e Palestina ha fatto sentire in obbligo alcuni personaggi noti di dire la propria sulla questione, riuscendo a trasformare una convention di fumetti in una questione politica. Il primo è stato il fumettista Zerocalcare, un "prodotto" di quella galassia rossa che è Propaganda live su La7, che ha deciso di disertare il Lucca Comics perché patrocinato anche dall'Ambasciata di Israele. Niente di nuovo per la kermesse, visto che i patrocini delle ambasciate sono pressoché prassi. Ma a questo giro il fumettista ha deciso di montare la polemica in nome del suo sostegno alla Palestina.

I più maligni ipotizzano che Zerocalcare abbia più piuttosto abbracciato la filosofia morettiana di Ecce Bombo: "Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?". Avrebbe potuto comunque partecipare ed esprimere il suo dissenso invece di farei capricci da star e annullare la sua presenza, anche perché la manifestazione e alle porte e non è escluso che possano esserci appassionati del suo lavoro che abbiano acquistato i biglietti, oltre che prenotato l'alloggio e il trasporto, per vederlo. Più che fare un dispetto a Israele, Zerocalcare lo fa a se stesso e a chi lo segue. Vista l'eco ottenuta dal fumettista con la sua defezione, un altro collega ha ben pensato di accodarsi, forse con ancora più convinzione sulla scia di Ecce Bombo, vista la sua popolarità meno dirompente. E così, ecco che anche Maicol & Mirco (è il nome d'arte del fumettista) ha detto che lui non ci sarà. Anzi, lui se possibile ha espanso ancora di più il suo ego, perché nella nota in forma di fumetto condivisa nelle sue storie si è definito un "artista impegnato".

In tutto questo, poteva mancare Fedez? No, certo, quando si tratta di esporsi su temi acchiappalike che aumentano l'engagement lui c'è. È una certezza. Il rapper non ha fatto proclami contro l'Ambasciata di Israele al Lucca Comics, anche perché la sua presenza non era prevista. E se anche lo fosse stata probabilmente non gli sarebbe interessato, visto che il difensore dei diritti in salsa italica qualche tempo fa non si è posto il problema di fare una vacanza supplied, ossia pagata da altri, a Dubai.

Tuttavia, ci ha tenuto a far sapere che dall'alto della sua esperienza geopolitica e delle sue competenze sulle tematiche mediorientali, ha individuato la parte da cui bisogna schierarsi. Senza alcun dubbio e alcuna esitazione, il rapper di Rozzano convinto di essere oracolo ha sentenziato: "C'è una sola parte dove si può stare: ed è dalla parte dei bambini e dei civili, tutti innocenti, che a Gaza hanno perso o stanno perdendo la vita". Con tanti cari saluti ai bambini e ai civili israeliani vittime di Hamas, evidentemente non così innocenti per Fedez.

I disagiati.  Zerocalcare, i punti visibilità, e i capezzoli finti di Kim Kardashian. Guia Soncini su L'Inkiesta il 31 Ottobre 2023

I social sono pieni di gente che si scusa perché non parla di Gaza, di gente che viene strigliata perché non ne parla abbastanza, di gente che fino a ieri concorreva nei reality e oggi ci spiega la geopolitica, perché se non lo fa viene accusata d’ignavia

E quindi neanche oggi posso parlare dei capezzoli finti di Kim Kardashian, unico elemento culturale nuovo in questo 2023. Kim Kardashian ha messo in commercio della biancheria coi capezzoli finti così anche se c’è il riscaldamento globale potete averli fintamente turgidi, e a me tocca occuparmi di mitomanie social.

La convergenza del principale filone di mitomania di questo secolo, quello per il quale se non partecipi allo scandalo del giorno, alla tendenza del giorno, al tema del giorno ti viene il mal di testa, la convergenza avviene ovviamente sui social, all’incrocio tra la morte d’un attore americano e una fiera del fumetto.

Liquidiamo rapidamente coloro che partecipano al lutto del giorno dicendo «“Friends” è la serie che mi ha formato». A volte sono miei coetanei. Avevo venticinque anni, quando “Friends” arrivò in Italia. Non c’era in me più granché da formare, ma soprattutto la sera uscivo. Se a venti o trent’anni stavi in casa a vedere un telefilm, capisco perché a cinquanta tu stia sull’internet a sperare di renderti interessante sbracciandoti sul lutto del giorno.

C’è una parola che viene usata nella scomposizione dei dati d’ascolto televisivi. C’è una tipologia di programma (storicamente, per esempio, gli sceneggiati di Rai 1) che va fortissimo presso una specifica categoria commerciale di esseri umani.

Descrittivamente, sono cittadini meridionali poco istruiti. Tecnicamente, nei documenti d’analisi dello share, si chiamano «disagiati». (Oddio, spero che quest’informazione che chiunque sappia due cose di televisione già aveva non crei uno scandalo presso i critici televisivi della generazione nun sape mai nu cazz’).

Pubblico senile di “Friends” a parte, se posso arrubbare l’etichetta all’Auditel, mi pare che «disagiati» sia perfetto per coloro che per hobby fanno i juke-box di pareri: poiché ogni mese pagano una tariffa fissa all’operatore telefonico, devono ammortizzarla.

E quindi l’altroieri una fondamentale opinione su Gaza, ieri un dirimente parere su Matthew Perry, oggi un ficcante penzierino su Luccacomics, che tra le altre cose mi priva del privilegio di non sapere cosa fosse.

Ora ho un’informazione inutile in più, a occupare un neurone che potrebbe essere dedito all’apprendimento del punto croce: Luccacomics è una fiera dei fumetti, cioè una fiera dove vanno gli adulti troppo fessi per leggere pubblicazioni non illustrate. Sposta un sacco di soldi, giacché tra un po’ persino le pubblicazioni illustrate saranno considerate troppo sofisticate dall’unica vera ideologia del secolo, la pigrizia intellettuale. Sposta un sacco di soldi, ma è pur sempre una fiera.

Siamo forse in pieno boom economico? Abbiamo risolto tutti ma proprio tutti i problemi seri? Solo così si spiegherebbe il continuo polemizzare sulle fiere. Se non è il Salone del libro di Torino, sono i fumetti di Lucca. Ve lo dico: se riuscite a polemizzare pure sulla fiera delle profumerie o su quella dei motori io vi cedo il primato di chi ha più tempo da perdere di tutti, che finora detenevo imbattuta.

Quindi Zerocalcare – fumettista romano, casomai foste persino meno preparati di me sul settore – annuncia che non andrà a Lucca, a vendere migliaia di copie (il picchiatello tipo che compra un biglietto per entrare a una fiera di fumetti si fa pure ore di fila per farsi fare il disegnino personalizzato dal disegnatore sul libro di disegni, una versione con pretese culturali del liceale che si va a fare la foto con lo youtuber).

Non ci va perché, spiega nel post con cui annuncia la sua decisione, sul poster della manifestazione, disegnato da due disegnatori israeliani, c’è il logo dell’ambasciata d’Israele, come abitualmente avviene quando un disegnatore forestiero fa il poster di questa fiera.

Annuncia che non ci va perché conosce il suo pubblico e sa che «o Israele o me» è quello che vogliono sentirsi dire, persino più di quanto vogliano l’autografo? Annuncia che non ci va perché conosce il pubblico di questo secolo e sa che la complessità non è cosa e che se andasse a fare una conversazione coi disegnatori israeliani sull’importanza della convivenza scontenterebbe quelli che vogliono sapere in che curva di stadio ti siedi, cioè tutti? Annuncia che non ci va perché ha un contratto con Netflix ed è forse l’unico disegnatore italiano al quale gli incassi di Lucca non cambino granché?

Non lo so (come non lo sapete voi) e non ho intenzione di fare ipotesi (diversamente da voi). A poche cose tengo quanto all’essere una dei felici pochi che sanno che le persone intelligenti non si mettono a discutere di questione israelopalestinese neppure se è la moda del momento su Instagram: non lo fanno specialmente quand’è la moda del momento su Instagram.

Lo so che è una battaglia persa. Lo so che «ma cosa parlate di cose di cui non sapete niente» è una mozione d’irrisoria minoranza: ho Instagram pieno di gente che si scusa perché non ne parla, di gente che viene strigliata perché non ne parla abbastanza, di gente che fino a ieri concorreva nei reality, sciorinava sponsor, postava meme, e oggi ci spiega la geopolitica, perché se non lo fa viene accusata d’ignavia, e non ha letto né Claudio Giunta né Marcel Proust (e certo non può recuperarli ora che è impegnata a cercare Ramallah su Wikipedia) e quindi non sa organizzare una rapida arringa in difesa dell’ignavia.

Dire la tua sul tema del giorno non solo ti fa sentire con la coscienza a posto, non solo ti risparmia i cazziatoni degli engagé più engagé di te, ma fa anche punteggio-visibilità. I poveri fumettisti sono lì che soppesano il fatturato, mi si nota di più se rinuncio o se motivo la conferma, se vado e al firmacopie dico «Israele merda» o se non vado ma specifico di avere tanti amici ebrei e persino un paio di dvd di Woody Allen.

L’agitazione da posizionamento potrebbe essere un buon tema per un fumetto di Gipi (che non leggerei perché sono troppo grande per i disegni, ma quando ne parla mi sembra sempre d’intuire che la sua roba dica cose intelligenti: peccato le dica con le illustrazioni).

Ieri ha comunicato la sua rinuncia Fumettibrutti, e io lo so che per queste righe verrò iscritta d’ufficio ai nazisti dell’Illinois, ma Fumettibrutti è una disegnatrice trans. Significa che si è fatta tagliare da un medico degli organi sessuali perché ha deciso di non essere del sesso di cui l’aveva fatta la natura. Se pensate che sia un fatto non inerente alla questione mediorientale, beati voi.

Abbiamo prodotto una società in cui una persona così può illudersi che ci siano fondamentalismi religiosi con cui trovarsi più in sintonia di altri. Può pensare che le teocrazie non si dividano tra quelle che la considererebbero una reproba e quelle che la decapiterebbero persino più velocemente di quanto farebbero con Kim Kardashian, i cui capezzoli turgidi violano i precetti della teocrazia instagrammatica, più rigorosa degli ayatollah.

Vendiamo solide illusioni, avendo nel frattempo evidentemente risolto tutti i problemi concreti (a parte i posti negli asili, le liste d’attesa per la tac, e l’incapacità dei baristi romani di fare un cappuccino decente). Abbiamo creato il mondo dei sogni, e lo stiamo abitando. Cerchiamo almeno di non lamentarcene.

Twitter, polemiche e sorprese nel giorno della spunta blu a pagamento (Twitter). Alessio Caprodossi su Panorama il 21 Aprile 2023

 SOCIAL NETWORK21 Aprile 2023 Da oggi chi non paga torna a essere un comune mortale, con l'eccezione di alcuni volti noti cui Musk ha regalato l'abbonamento a Twitter Blue. E qualche vip non l'ha presa bene

Twitter ha fatto pulizia, via tutte le spunte blu prima gratuite e ora disponibili solo a chi paga. Un momento atteso che ha puntualmente regalato sorprese e polemiche, a partire da Papa Francesco. No, Bergoglio non ha protestato contro la politica della piattaforma anche se (qualcuno per lui) twitta ogni giorno. A far parlare è stata l'iniziale scomparsa del badge blu sui due profili @Pontifex e @Pontifex_It (il primo è in lingua inglese, il secondo in italiano), con Musk che ha poi rimediato con la spunta grigia simbolo di un account istituzionale. La stessa che caratterizza i profili Twitter di Giorgia Meloni e tutti gli altri presidenti e capi di governo in carica ed ex, da Macron a Biden, anche quest'ultimo con account istituzionale e personale. Una terza spunta color oro indica invece aziende e organizzazioni sportive e culturali, come la Serie A, la Fiat e il MoMa di New York. Il nuovo corso di Twitter ha lasciato parecchi insoddisfatti, tante reazioni e diversi colpi di genio nel puntare su un nuovo simbolo di riferimento. Antonella Clerici ha optato per l'emoticon di una stella, Barbara D'Urso ha salutato ironicamente Elon Musk e scelto come nuova spunta un cuore, mentre Fiorello ha scritto: “Mi hai tolto la spunta! Che tu sia maledetto Elon… Mi ha spuntato la miccia. Sappilo!”. E poi ha piazzato l'emoji del dito medio accanto al proprio nome. Tra tanti milioni di scontenti ci sono anche profili verificati a loro insaputa. Pubblicamente schieratisi contro il pagamento della spunta blu (Twitter Blue in Italia costa 9,76 euro al mese o 102,48 euro all'anno), personaggi influenti come LeBron James e Stephen King si sono ritrovati con la spunta blu, gentilmente offerta da Twitter, come confermato da Musk. Che non ha fornito spiegazioni su come abbia scelto i profili da contrassegnare, poiché se era scontata l'esclusione dalla lista di chi ha abbandonato Twitter, come Justin Bieber che, nonostante 113 milioni di followers, non ha più pubblicato un messaggio dal 1 dicembre 2022, sorprende il mancato badge regalato a volti noti come Cristiano Ronaldo o Kim Kardashian, rispettivamente 108 e 75 milioni di fan, che condividono messaggi con frequenza quasi giornaliera. Facendo una carrellata, è interessante notare chi ha deciso di pagare per mantenere la spunta blu e chi si è rifiutato. Ce l'ha Matteo Renzi ma non Carlo Calenda ed Elly Schlein, mentre Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giuseppe Conte condividono la spunta grigia. Dovrebbe aver messo mano al portafogli Novak Djokovic (a meno non sia tra gli eletti di Musk), mentre Rafa Nadal e Roger Federer sono tornati comuni mortali. Come loro, almeno per ora, la maggior parte dei calciatori e tante star di Hollywood. Più di qualcuno che ha provato Twitter Blue, come l'esperto digitale e social media manager Franz Russo, ha evidenziato che Twitter non richiede il documento d'identità per la verifica del profilo, al contrario di quanto successo fino all'arrivo di Musk. Adesso da norma basta il numero di telefono, anche se a in certi casi non serve neanche quello, almeno a sentire lo stesso Stephen King che, commentando la sua spunta blu, ha detto di non aver fornito alla società nessun numero di telefono.

Estratto dell'articolo di Mattia Feltri per "La Stampa" il 23 aprile 2023.

[…] la spunta blu non serviva a niente, se non a far sentire un po' più ganzi noi che l'avevamo. E infatti ieri c'è stata una specie di rivolta degli spuntati ormai ex spuntati, giornalisti, scrittori, star e starlette, sconcertati dalla privazione arbitraria del lignaggio digitale. Istituzioni e aziende hanno ricevuto una spunta grigia, cioè un declassamento cromatico, e gli altri ridotti sul lastrico. 

A parte qualcuno, ora sospettato di aver scucito il gruzzolo per conservare o conquistare lo stemma araldico, e già irriso come parvenu, i più si sono rifiutati di mercanteggiare un blasone conquistato sul campo. Io so' io, diceva quel marchese. Ma i tempi gloriosi della nobiltà twitterista sono ormai tramontati, di nuovo davanti all'incedere del capitale: ah, sa essere un macigno la mano della Storia! Fortuna che ci resta l'apericena.

Estratto dell'articolo di lastampa.it il 23 aprile 2023. 

Elon Musk ci ha ripensato e, dopo le proteste di celebrità più o meno note in tutto il mondo, ha deciso di ripristinare la spunta blu di Twitter sui profili di alcuni personaggi super-vip. Sui criteri di selezione non è arrivata alcuna indicazione specifica, ma secondo alcuni siti specializzati si tratterebbe di account con almeno un milione di follower. 

La spunta blu è rimasta gratuita fino a pochi giorni fa, ma oggi chiunque voglia arricchire il proprio profilo del segno che garantisce autenticità e fama deve pagare a Twitter 8 dollari al mese [...]

Meta e Siae non trovano l’accordo, la musica italiana fuori dai social. Walter Ferri su L'Indipendente il 16 marzo 2023.

Se siete iscritti a Facebook e Instagram potreste averlo già notato, ma certi video pubblicati da utenti e influencer risultano sospettosamente silenziosi. Nel corpo della descrizione viene riportato un lapidario «audio non disponibile», eppure i soggetti nelle immagini sembrano reagire a musica e parole. Ci sono buone possibilità che questi alienanti episodi siano il frutto della rottura tra Meta e la Società italiana autori ed editori (SIAE), un pasticcio contrattuale che impatta su tutte le entità il cui copyright è registrato in Italia. 

Fumata nera, insomma, per quanto riguarda il rinnovo della licenza sul diritto d’autore, scaduta il primo gennaio 2023. Per SIAE, il mancato accordo sarebbe da attribuire da una decisione «unilaterale e incomprensibile» adottata dal gigante statunitense, posizione che ha un fondamento di verosimiglianza, visto che nell’equazione è proprio Meta ad avere il coltello dalla parte del manico: con il tavolo saltato l’azienda si limiterà a incanalare i propri utenti verso altri contenuti, mentre l’agenzia dovrà rinunciare effettivamente a una fetta di introiti.

Difficile credere che il risultato attuale sia però destinato a rimanere immutato. «Abbiamo accordi di licenza in oltre 150 paesi nel mondo e continueremo a impegnarci per raggiungere un accordo con Siae che soddisfi tutte le parti», riporta sibillinamente Meta dando a intendere che la disponibilità della Big Tech sia fortemente condizionata dalle condizioni che le sono state proposte. Considerando che il CEO Mark Zuckerberg ha definito il 2023 come «l’anno dell’efficienza», ovvero quello dei tagli selvaggi, vien facile pensare che il problema sia di origine monetaria, tuttavia ciò potrebbe essere vero solamente in parte, poiché gli attriti tra SIAE e social si estendono su tematiche decisamente più spinose e interessanti.

«Viene richiesto di accettare una proposta unilaterale di Meta prescindendo da qualsiasi valutazione trasparente e condivisa dell’effettivo valore del repertorio. Tale posizione, unitamente al rifiuto da parte di Meta di condividere le informazioni rilevanti ai fini di un accordo equo, è evidentemente in contrasto con i principi sanciti dalla Direttiva Copyright per la quale gli autori e gli editori di tutta Europa si sono fortemente battuti», sostiene la società italiana. Ancor prima dello scoglio del vil denaro, insomma, c’è quello della gestione dei dati.

L’impresa californiana non è d’altronde certamente celebre per la sua trasparenza. Facendo leva sul segreto aziendale ha sempre agito al fine di offuscare la vista a chiunque cercasse di definire le sue verticalizzazioni nazionali, ovvero ha messo i bastoni tra le ruote a tutte le entità che han cercato di farle i conti in tasca. Il caso in questione non farebbe eccezione. SIAE avrebbe infatti domandato a Meta di quantificare i ricavi relativi alle colonne sonore registrate in Italia, richiesta che avrebbe voluto sanare il cosiddetto value gap, ma la cui approvazione avrebbe scoperchiato un importante vaso di pandora offrendo a legislatori e osservatori uno spaccato del reale giro economico di Meta.

Difficile che la Big Tech faccia un passo indietro, rischierebbe di creare un precedente emulabile all’estero, più facile che l’Italia si dimostri accomodante pur di incassare qualcosa. Nel frattempo Meta continuerà a far piazza pulita delle loro librerie musicali. Feed, storie e reel di Facebook verranno bloccati, mentre le clip di Instagram saranno incerimoniosamente silenziate o comunque saranno direzionate verso contenuti visti con favore dalla piattaforma. [di Walter Ferri]

Ecco tutte le novità in casa Meta. Nuovi strumenti a disposizione per monetizzare su Facebook e Instagram. Redazione Speciali su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Gennaio 2023.

In occasione della Creator Week 2022 di Londra, Meta ha annunciato agli sviluppatori di tutto il mondo nuovi strumenti a loro disposizione per monetizzare su Facebook e Instagram. Tra i nuovi strumenti presentati ai creator per facebook e instragram, arriva anche in Italia la possibilità di mostrare o condividere su Instagram gli NFT. Creator e collezionisti di avranno la possibilità di connettere il loro portafoglio digitale e postare i collezionabili digitali che avranno creato o comprato. Inoltre, sono più ampie le tipologie di NFT che sarà possibile mostrare su Instagram, come video o NFT animati. E sono già disponibili informazioni sulle raccolte i cui metadati sono stati implementati da OpenSea, come nome e descrizioni. Le blockchain supportate per mostrare gli NFT sono Ethereum, Polygon, Flow e Solana. I portafogli di terze parti compatibili includono Rainbow, MetaMask e Trust Wallet, Coinbase Wallet, Dapper e Phantom.

Recentemente è stato lanciato su Facebook un sistema di condivisione dei ricavi per la musica. Che offre ai creator e ai proprietari dei diritti musicali una nuova modalità per monetizzare dai video condivisi sulla piattaforma. Ogni volta che un creator utilizza una musica concessa in licenza nei propri video su Facebook, per 60 secondi o più, può monetizzare tramite annunci in-stream. E una quota delle entrate è destinata al titolare dei diritti musicali. Arriva, poi, la modalità professionale per profili Facebook. Una nuova impostazione del profilo che permette ai creator di tutto il mondo di costruire una presenza pubblica sulla piattaforma, senza rinunciare alla propria esperienza personale. La modalità Professionale per Profili Facebook offre ai creator e a tutte le persone maggiori di 18 anni che vogliano diventarlo, una serie di strumenti e di opportunità per iniziare a monetizzare. Attraverso: Facebook Stars, le inserzioni su Facebook Reels, le inserzioni in-stream, il programma bonus Reels Play. Inoltre, avranno accesso a sistemi di analisi dei contenuti e dell’audience. Oltre che a nuovi strumenti di formazione.

Riguardo a instagram si inizierà a testare gli abbonamenti con i creator nel Regno Unito, Australia e Canada. Per aiutarli a monetizzare e a consolidare il rapporto con i follower più affezionati. Dal lancio degli abbonamenti, fatto ad inizio anno negli Stati Uniti, creator come Cole Sprouse (@colesprouse), Alan Chow (@alanchikinchow) e Skai Jackson (@skaijackson) hanno cominciato a utilizzare la funzione per avvicinarsi ancora di più ai loro fan. Verrà semplificato l’uso della funzione Facebook Stars, abilitandola anche su contenuti pubblici dei creator, come i Reels. Le persone potranno così scoprire e utilizzare le Stelle in più contesti su Facebook. Per i creator che stanno già utilizzando le Stelle, verranno lanciate nuove funzionalità. Che permettano loro di guadagnare in modo più semplice attraverso le Stelle e di interagire con chi le invia. Da Party di Stelle a Reels: i Party di Stelle sono delle community challenge di Stelle che si concludono con un festeggiamento qualora il creator riesca a raggiungere i propri obiettivi. Nuovi set di regali virtuali con contenuti su misura: per esempio, se si guarda un Reel che mostra il cucciolo del pet creator preferito, si potrà inviare a quel creator un regalo a tema canino. Offrire ai creator più strumenti per interagire con chi invia Stelle. Come - ad esempio - aggiungere un filtro nella sezione Gestisci Commenti che mostra tutte le Stelle ricevute da un creator in un unico posto. In questo modo i creator potranno rispondere a più commenti in una volta sola. Aggiungere Stelle a contenuti pubblici non-video, come foto e post con testo.

OnlyFans, le storie dei creator che guadagnano fino a 20mila euro al mese. Michela Rovelli, Greta Sclaunich su Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2022.

Cos'è e come funziona OnlyFans, i rischi e il fatturato: l'analisi del successo della piattaforma

C'è chi, su OnlyFans, si sente perfettamente a suo agio: «Mi sento bene a condividere quella parte di me, la vivo come uno sfogo creativo e non come un lavoro. Sono un'esibizionista per natura». Chi, invece, la considera un mero hobby: «Se il mio lavoro e le altre attività che sto avviando andranno bene, la prima cosa che farò è chiuderlo». Ancora, c'è chi qui ha trovato un tesoro in termini di opportunità: «È la piattaforma perfetta per mettersi in gioco. Prima la snobbavo, poi è stato amore a prima vista». Tante storie, diverse nelle intenzioni e nelle ambizioni. Dietro e dentro a OnlyFans, sito nato nel 2016 per la condivisione e la monetizzazione di contenuti da parte di creator e sbocciato in modo esponenziale nel 2020 con la pandemia, c'è molto di più. Lo si scopre andando oltre alle notizie che creano dibattito negli ultimi mesi. L'ultima, in ordine di tempo, è quella che racconta la storia di Ilaria Rimoldi, che ha avuto problemi con il suo lavoro a Gardaland dopo che era stato scoperto il suo profilo su un social - potremmo definirlo anche così - dove a prevalere sono i contenuti erotici, a luci rosse, pornografici. Il nome è ormai noto, anche qui in Italia, e nasconde le più disparate dinamiche sociali. Viene sfruttato per i più disparati scopi e sta trasformando, grazie a una moderna versione della Gig Economy, anche degli interi settori economici.

Se volessimo trovare una prova concreta del successo di OnlyFans negli ultimi due anni, basterebbe guardare la crescita esponenziale di abitanti di questo nuovo (ennesimo) mondo digitale. Un mondo dove c'è un palcoscenico, calcato da oltre 1,5 milioni di creators, e una platea, dove siedono 188 milioni di utenti. Qualche dato su di loro: secondo il sito di analisi Civic Science, la stragrande maggioranza ha meno di 34 anni e per l'87 per cento si tratta di uomini. Questi, per accomodarsi in poltrona, devono avere soltanto una cosa a portata di mano: la carta di credito. Perché tutto, su OnlyFans, è a pagamento. I profili dei creator - sotto abbonamento, da un minimo di 5 dollari mensili a un massimo di 50 dollari - i singoli post, le foto, i video, le mance che volontariamente un utente può versare al suo creator preferito e soprattutto i contenuti «esclusivi», quelli che vengono distribuiti (sempre previo pagamento) via DM, alias «Direct Messages», la chat privata. Il vero segreto del successo di OnlyFans è questo. Il click diventa velocemente compulsivo, perché pagare è semplicissimo. Basta premere su grandi pulsanti blu ed ecco che in un secondo si sblocca il contenuto che aveva catturato la nostra attenzione attraverso le sapienti strategie di comunicazione messe in atto dai creator. Che nel 2021 hanno guadagnato complessivamente 4,8 miliardi di dollari. Le cifre però non sono uguali per tutti. In media i creator guadagnano 151 dollari al mese (ma i più noti arrivano a guadagnare anche milioni: l'uno per cento di loro si porta a casa il 33 per cento dei ricavi complessivi di OnlyFans). Per ogni transazione, la piattaforma trattiene il 20 per cento e lascia al creator l'80 per cento.

Una piattaforma per guadagnare

C'è chi davvero riesce a vivere in modo molto più che dignitoso con OnlyFans. Danila Cattani, 32enne, dopo averlo trasformato in un lavoro arriva anche oltre i ventimila euro mensili: «Avevo tante foto di shooting e alcuni fotografi mi hanno consigliato di provare a guadagnarci qualcosa - ci racconta la creator con oltre 50mila follower  - poi il lockdown mi ha reso un po' disperata. Avevo sempre curato il mio corpo e l'ho usato. E ho guadagnato più di quello che avrei immaginato». Laureata in Scienze Motorie, ha sempre lavorato nel mondo del fitness, che anche oggi prova a mantenere attivo - nella speranza presto di creare un proprio progetto - e che tiene ben separato dalla sua attività su OnlyFans, dove è «passata da semplici foto di vedo non vedo, nudo artistico, a video amatoriali espliciti erotici. Ho un prezzo di abbonamento molto basso, ma il vero ricavo arriva dalle chat. Con alcuni è una semplice compravendita di materiali, altri invece si affezionano proprio.  La mia utenza è molto varia, non potrei categorizzarla. Ci sono neomaggiorenni che cercano la parte più erotica, ma anche uomini di 60-70 anni che mi chiedono una videochiamata tutte le settimane». 

Bisogno di autenticità

Le differenze tra una generazione e l'altra si notano molto nel mondo digitale. Anche in questo caso, dove l'erotismo - e la pornografia - online è percepita in modo molto diverso dai più giovani, rispetto a chi ha qualche anno più di loro. Cosimo Marco Scarcelli è un ricercatore del dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università degli Studi di Padova. Insieme al suo team ha condotto uno studio per capire la visione della Generazione Z e dei Millennial di queste piattaforme: «Distinguono moltissimo questo genere di attività dal sex work che si può trovare, ad esempio, per strada. Perché manca il contatto col corpo. La mediazione della piattaforma ne ammorbidisce la visione. Poi se andiamo fuori dall'Italia l'opinione su OnlyFans è molto diversa, è qualcosa di socialmente accettato». Rappresenta un'evoluzione rispetto alla pornografia online più tradizionale: «Si è arrivati a un nuovo traguardo nel campo delle interazioni, si crea un rapporto ancora più intimo». La ricerca dell'autenticità, così dilagante sui social, ha invaso anche questo settore. «OnlyFans è una piattaforma molto interessante perché intreccia una serie di dinamiche. Quelle legate alla pornografia online e quelle più connesse ai social. Ci sono molti elementi rappresentativi delle dinamiche contemporanee». E questo è un esempio: «Raccontiamo sempre che i social sono una distorsione della realtà, però è un racconto un po' viziato. Anche nella vita quotidiana, reale, troviamo le stesse dinamiche. E la conseguente  richiesta di autenticità viene assorbita anche da OnlyFans».

Danila Cattani

Un gioco per esprimere se stessi

Se la storia di Danila Cattani sembra ben rispondere allo stereotipo di OnlyFans che compare in molte conversazioni, la realtà è che questa è solo una delle tante - svariate - tipologie di creator che troviamo sulla piattaforma. Per NuvoleRosse, alias Ilaria Cloblizch, è solo un «gioco. Non è il mio lavoro e non voglio che lo sia. È un passatempo, che però mi porta anche un riscontro economico. Il guadagno è molto altalenante, da un minimo di 300 a un massimo di 900 euro al mese». La giovane, che frequenta il Dams di Bologna e sogna un futuro a metà tra la carriera teatrale e l'impegno sociale, su OnlyFans posta essenzialmente foto di nudo «ma mai troppo esplicite, sono abbastanza soft. Guadagno più che altro coi contenuti extra. In DM mi chiedono anche cose assurde, come le recensioni di foto altrui! Ma in generale la mia regola è che faccio sempre in modo che se dovesse uscire qualcosa da OnlyFans, voglio che mi faccia sentire a mio agio». Per lei il segreto della piattaforma sta proprio nella creazione di un rapporto con gli utenti: «Le persone si affezionano, ed è assurdo se pensi che stanno solo vedendo foto del tuo corpo. È un meccanismo psicologico: mi sto avvicinando a una persona che potenzialmente potrei incontrare al bar». 

Anche per MyNameIsViva ciò che funziona è essenzialmente «essere se stessi». Lei su OnlyFans ci è sbarcata solo il 25 novembre, dopo un anno e mezzo di ragionamenti. L'idea era nata dopo che un video di un passante, che la ritraeva mentre festeggiava la vittoria degli Europei dell'Italia in topless seduta sul finestrino di una macchina, aveva fatto il giro del mondo: «Su di me aveva avuto un impatto fortissimo. Le persone, credo, mi hanno visto per quello che sono: una donna esuberante con un buon rapporto con la sua sessualità. Ho subito pensato a OnlyFans e c’è stata una rivolta attorno a me. Amici e parenti mi hanno bloccata». Ed ecco che, dopo aver chiuso tutti i vecchi profili social dove appariva il suo nome e creato un nuovo personaggio, MyNameIsViva, si è sentita pronta a esplorare questa piattaforma. Ma il suo obiettivo non è guadagnare, bensì trovare un luogo dove esprimere se stessa: «Il prezzo del mio abbonamento è molto più alto rispetto a quello degli altri, non ho interesse ad attirare una grande quantità di utenti. E mi consente di scremare, di creare una nicchia ristretta. Preferisco condividere i miei contenuti con poche persone che intuiscono qual è il mio senso di erotismo, non legato alla volgarità». In un mese e mezzo ha racimolato 43 abbonati paganti e tanto entusiasmo da parte dei «bambini, io li chiamo così», i suoi fan che l'hanno seguita da Instagram a OnlyFans. 

Usare OnlyFans è difficile

Si, perché - sveliamo un altro mistero a chi non ha mai provato ad iscriversi - senza le altre piattaforme,  OnlyFans non esisterebbe. «Ne è dipendente - assicura il ricercatore Cosimo Marco Scarcelli - OnlyFans è il posto dove monetizzare, le vetrine però sono altre. Instagram, Twitter, ma anche Telegram, in particolare i gruppi, e le app di dating come Tinder e Grindr. In questo caso si intercetta un pubblico che sta cercando relazioni anche occasionali, e gli si propone un'alternativa». Per esempio Francesco ha seguito la sua cosplayer preferita - la storia la raccontiamo nel prossimo paragrafo ed è un esempio di utilizzo artistico del mezzo - dagli eventi e da Instagram direttamente su OnlyFans: «Spendo 15 dollari al mese, solo per lei. Ha delle capacità artistiche straordinarie. Sono diventato un suo forte sostenitore durante la pandemia e quando lei ha deciso di iscriversi per estendere il suo lavoro di modella, l'ho seguita. Quando questa piattaforma viene stereotipata come luogo per prostituirsi io, da sostenitore di Giada, mi sento offeso». 

Oltre alla produzione di contenuti, è questo il lavoro più impegnativo dei creator. Costituire una fanbase e portarla lì attraverso le vetrine social: «Sono esperti di dinamiche mediatiche». Su OnlyFans non ci sono filtri, categorie, hashtag o tendenze. Anche se conosci il nome preciso del creator che vuoi seguire, è davvero difficile trovarlo. Ci si approda solo attraverso la sapiente arte di comunicazione dei creator stessi. Oppure attraverso elenchi di profili accumulati su altri siti o nei gruppi di Telegram. «Non so se OnlyFans abbia scelto in modo consapevole di renderla complicata - ragiona Scarcelli - o se è partita con una struttura differente, come "repository" di contenuti di qualcuno già noto. Ciò che è interessante è vedere come questo contribuisca ancora di più a creare una sensazione di esclusività». 

Un luogo anche per artisti e sportivi

Esclusività che non viene solo utilizzata per i contenuti «per adulti», indiscutibilmente primari protagonisti di OnlyFans. Ma non gli unici. Un esempio alternativo è il lavoro che sta portando avanti Giada Robin, che dopo una carriera di successo come cosplayer (coloro che si travestono da personaggi di cartoni animati o anime alle fiere e agli eventi) ha deciso di dedicarsi alla sua grande passione, la musica. OnlyFans, in questo, è stato cruciale: «Ho scoperto questa piattaforma che tutti snobbavano, soprattutto in Italia, perché era utilizzata da molte pornoattrici e modelli pornosoft. Invece ho visto che c’erano anche molti deejay, artisti, chef e personal trainer. È stato amore a prima vista: dà delle opportunità pazzesche». Grazie ai guadagni di OnlyFans - circa duemila euro al mese - ha potuto pubblicare il suo primo album: «Pubblico foto di backstage o di me mentre compongo. Poi tutorial. Faccio anche qualche scatto sexy - nei miei video ho degli outfit un po' particolari - ma non faccio nudo né contenuti pornografici». Anche lei sfrutta i DM, ma non molto «perché ho un bacino di utenza abbastanza grande. Mi chiedono tutorial per scaldare la voce o foto con un outfit particolare solo per loro. Molti mi chiedono di cantare la loro canzone preferita». Perché qualcuno dovrebbe pagare per ricevere questo tipo di foto o video? Lei una spiegazione ce l'ha: «OnlyFans ti dà l’idea di entrare nella vita delle persone che stai seguendo. Vedere cose diverse rispetto ai social, qualcosa di amatoriale: sembra di poter spiare qualcuno nel suo ambiente, c’è una sorta di rapporto intimo».

Giada Robin

Dei dubbi sul perché la gente la segua (circa 600 persone) ce li ha invece Rebecca Busi. Che di professione fa la pilota d'auto e l'anno scorso è stata la più giovane donna italiana alla Parigi Dakar. Lei sulla piattaforma ci è arrivata proprio per aiutare la sua carriera e per ottenere la sponsorizzazione dalla stessa azienda. «Ci tenevo però che non ci fossero immagini compromettenti. Essendo donna in una categoria a prevalenza maschile, devo essere molto professionale. Il mio canale è gratuito perché volevo passasse il messaggio che è di tutti: io non ci guadagno, lo uso per condividere contenuti sul mio lavoro e le mie gare». Può dunque assicurare con certezza che OnlyFans non è solo una piattaforma a luci rosse: «Molti vedono solo il lato porno di OnlyFans ma non è vero, se non fosse per questa piattaforma io non avrei potuto correre. Per quanto possa essere criticata io so che sta dando tante possibilità diverse».

Rebecca Busi

Intenzioni e azioni

Ed è proprio questa l'intenzione di Amrapali Gan, Ceo di OnlyFans dal dicembre del 2021. Trentasettenne, nata in India e naturalizzata americana, è il perfetto esempio della natura variegata di questa piattaforma. Dove il pubblico è per la quasi totalità maschile, mentre al vertice c'è una donna, che non si è fatta problemi ad aprire anche lei un profilo. Il suo obiettivo è quello di eliminare lo stereotipo che qui ci sia solo porno. In un'intervista al Time ha dichiarato: «È il creatore a decidere quali tipi di contenuti si sente autorizzato a condividere. Purché abbiano più di 18 anni e seguano i nostri termini di servizio, siamo orgogliosi di essere una casa inclusiva per una gamma di creatori, che comprende creatori per adulti, modelle glamour, artisti musicali, professionisti dello sport, in pratica tutti i tipi di contenuti, il che mi sembra molto bello». Per fare un po' di storia, Amrapali Gan è arrivata alla guida di OnlyFans dopo alcuni anni di gestione da parte di Leonid Radvinsky, imprenditore ucraino naturalizzato americano e forse responsabile di questo affondo nell'erotismo sulla piattaforma, essendo esperto del settore e avendo fondato il sito MyFreeCam, pensato per permettere la fruizione di video pornografici amatoriali. A lui vanno ancora la maggior parte dei proventi di OnlyFans - detiene il 75 per cento delle azioni - mentre ad aver creato il social, nel 2016, sono stati due fratelli inglesi, Timothy e Thomas Stokely, grazie a un finanziamento da parte del padre. Una piccola attività familiare che poi si è trasformata nell'ultimo fenomeno mediatico digitale ad aver conquistato milioni di persone.

E gli uomini?

Dicevamo che la maggioranza del pubblico su OnlyFans è maschile. E questo è un fatto. L'altro fatto è che la maggioranza dei creator è donna. Ma in questo gruppo, in realtà, gli uomini non mancano e rispondono prevalentemente alle esigenze degli utenti omosessuali. Paolo Patrizi è iscritto a OnlyFans dal 2020 e ci è arrivato per «una storia di coincidenze. Avevo partecipato a Bake Off Italia e un gruppo di ragazzi gay aveva scritto in un forum un articolo su di me titolato “Il bonazzo di Bake Off”. Su Instagram sono cresciuto tanto e molti mi dicevano di andare su OnlyFans. Alla fine ho unito le cose, con il lockdown del 2020. Sono un atleta, ho un team di freestyle per spettacoli acrobatici ed è stato tutto bloccato per anni. Mi sono iscritto, banalmente, per batter cassa». Il successo, che definisce «discreto» (circa 60 abbonati) è un buon modo per arrotondare. Ma per Patrizi questo non è un lavoro, soltanto un modo per fare qualche guadagno in più. «Sono circa 500 euro netti al mese. Ma io non faccio niente a livello privato. Se il mio lavoro e altre attività che sto avviando andranno bene, la prima cosa che farò è chiuderlo. Anche perché mi espone troppo: sono un insegnante di trial bike e faccio parte della federazione», precisa. 

Paolo Patrizi

Libertà o nuova prigionia?

Un social che è anche una piattaforma estremamente utile per promuoversi e monetizzare. Non è una piattaforma per il porno, non solo - e questo lo abbiamo raccontato. Ma il porno - o, più precisamente l'erotismo - è una parte molto importante di questa piattaforma. Secondo i dati di AdultCreator (sito che raccoglie informazioni sui profili OnlyFans) i contenuti «per adulti» sono il 98 per cento del totale. «Onlyfans non nasce per questo, ma per altre cose. Come molte piattaforme viene però "conquistata" da aspetti erotici. Chi fa altro intreccia un pochino l’estetica con il resto. Ma non è la stessa cosa  che succede su Instagram?» (Con tutte le restrizioni del caso, aggiungiamo). Dinamiche, come già detto, che rappresentano in piccolo la società digitale in cui abitiamo. Ma che, in questo caso, stanno facendo fare un passo più in là al settore della pornografia online. In che direzione? Ci sono pareri discordanti. Prosegue l'esperto Marco Scarcelli: «C'è chi dice che promuova la libertà, l'utilizzo del proprio corpo in modo consapevole, anche per accattivare il pubblico. Sfruttando le logiche mediatiche per capitalizzare. L'altro approccio ci vede un tranello del post femminismo, ovvero l'idea che tutto questo non abbia nessun collegamento con la vecchia società del patriarcato. Questo secondo approccio puntualizza come la libertà ritrovata sia comunque ancora imprigionata in una visione maschile del mondo. Quindi c'è libertà o un nuovo ingabbiamento dei corpi?».

Barbara Costa per Dagospia il 18 Dicembre 2022.   

Se c’è un settore in continua ascesa e espansione, è quello delle app porno amatoriali. Ne nascono a valanga, inseguendo il boom della più scaricata, OnlyFans. Se esteticamente sono suoi cloni, e se OnlyFans rimane al primo posto per numero di adepti e per i profitti che chi ci sa fare vi sa conquistare, app su app – e spesso pure col richiamo "fans" nel nome – si fanno avanti, toste. E sono app che, garantendo stessi sistemi e piaceri di eros via etere di OnlyFans, attraggono creator esigendo meno tasse. 

Se OnlyFans tassa al 20 per cento, vi sono app concorrenti che si accontentano di meno, come "AdultNode", o "Unlockd", che si trattengono il 15, e addirittura "Scrile Connect" che ne vuole… zero! E ci sono app che si prendono di più ma offrono più servizi interattivi, e app che non hanno i divieti di OnlyFans su show di sesso sadomaso particolarmente sadici.

Ci sono anche app che puntano verso un pubblico specifico come "Feet Finder", atta ai feticisti dei piedi, e "JustForFans", un’app porno per creator e abbonati in gran parte maschi gay (e che si pappa il 30 per cento di tasse), e "Skeeping", app porno italiana che richiama un pubblico di compatrioti. E a proposito di porno gusti italiani, le rilevazioni non mentono: tra le app di porno camming, da noi la più frequentata è "CAM4". Da tenere d’occhio la neo app "HeyPorn", le sue "HeyStars", che sono spesso celebri pornostar, nonché i suoi pagamenti in "HeyCoin". 

Tutte app che hanno preso a modello OnlyFans, e per insidiarla approfittando di ogni suo passo falso, e infatti: ricordate quando OnlyFans annunciò il bando dei sex creator sui suoi lidi? Seppur tale decisione rientrò in 24 ore – eh, troppi soldi si portano via, questi porno creatori! – non è mancato chi ha lasciato OnlyFans per passare alla concorrenza. La sex creator Romi Chase, appena OnlyFans ha annunciato il bando, l’ha mollata per "LoyalFans", portandosi appresso il suo folto e allupato seguito.

Fedelissimi e foraggianti p*pparoli che l’hanno accompagnata in una diaspora di quattrini che ha reso chiaro a OnlyFans che le curve delle sue performer smuovono ormoni, sì, ma pure denaro notevole! I soldi sempre e ovunque sono l’unico argomento che conta (altro che la moralità!) e LoyalFans è app che impensierisce OnlyFans per le strategie che dispiega: mirati premi e risalto dei creator che più vi guadagnano e più a LoyalFans fanno guadagnare: ogni mese un creator è posto in primo piano e seguito e intervistato per una pubblicità reciproca che ingrossa introiti per tutti.

E sono creator BDSM come la mistress AstroDomina, creator milf dalle chiappe contanti come Melody Jay, creator che attirano verso LoyalFans nuovi modelli e che spingono gli altri a pornare più e meglio per salire a Miglior creator del Mese. Non solo. LoyalFans organizza masterclass per istruire i suoi creator alla raccolta di sempre più abbonati, come mantenerli fedeli, come immettere correttamente il prodotto porno in social non porno, e in canali non porno come YouTube che però ammettono serial sul porno (come "Shameless in the South", che segue la vita vera dei sex creator del sud degli Stati Uniti, ovvero quello più religioso e conservatore). 

"ModelHub" è l’app porno dove trovi le pornostar le più famose e per questo motivo: è l’app "figlia" di Pornhub, funzionalmente a esso connessa, un marketplace porno che si bea dello sterminato bacino di utenza di Pornhub. Il quale non si è disperato quando a settembre Instagram gli ha chiuso l’account. Evidentemente chi guida Instagram può fare a meno delle entrate di una pagina da 13,1 milioni di followers, e certo Pornhub non ne ha risentito in social battage. Ci sono altri social che non cedono a paure e lagne di lobby religiose e di spaventati governi, e tra questi (ancora) c’è Twitter che consente di postare contenuti più che espliciti.

Che farà Elon Musk? Di sicuro lo sa che Twitter già c’ha (mal)provato a inserirsi nel turbinoso mercato delle app porno: mesi fa lanciò - in prova - l’opzione "Super Follow", in cui ogni maggiorenne che voleva poteva caricare materiale hard da vendere a maggiorenni in abbonamenti mensili a tre livelli (2,99 dollari, 4,99, e 9,99). Ricavi da cui Twitter sottraeva il 3 per cento per lordi sotto i 5 mila dollari, e il 20 per cento se superiori. 

Ma dopo soli 7 mesi Super Follow è stato stoppato: Twitter si è dichiarato incapace di monitorare con risultati efficaci le clip girate, di ben verificare la maggiore età dei venditori e dei clienti, e la consensualità di ogni atto. E però non è che i twittaroli in cerca di porno svago si sono ammosciati per il dietrofront: tra le app porno predilette (e con tante pornostar) spicca "ManyVids", e qui siamo oltre la basica porno app, perché ManyVids è una community di gran libertà, un paradiso virtuale di chat, webcam, e porno tube.

La mala-educazione di OnlyFans che non vogliono raccontare. Linda Di Benedetto su Panorama il 16 Dicembre 2022.

Sui giornali ormai compaiono storie di ragazze e ragazzi che fanno soldi sulla piattaforma simil porno. Lanciando messaggi pericolosi ai giovani

«Quella che viene fornita da OnlyFans è una patina di rispettabilità e di successo. Si ha l’illusione di toccare denaro esibendo se stessi ma in realtà è una mercificazione del proprio corpo, un comportamento prostitutivo che non viene decodificato, perché non è riconosciuto dal sentire comune nonostante l’evidenza schiacciante». Nelle parole del prof. Maurizio Fiasco, sociologo ed esperto dell'età giovanile, i mille problemi che nascono dall'impazzare sui mezzi di informazione di articoli su OnlyFans, notizie in cui viene raccontato quanto succede su questa piattaforma come un qualcosa di buono, giusto, anzi, vantaggioso, soprattutto dal punto di vista economico. Alla faccia della dignità OnlyFans è una piattaforma cresciuta a dismisura negli ultimi tre anni dove chiunque può creare foto e video e scegliere se pubblicarli gratuitamente oppure mostrarli solo a chi sottoscrive un abbonamento (da 5 a 50 euro al mese). Un business che vede una percentuale del 69% di donne che pubblicano foto e video e l’87% di uomini che pagano un abbonamento per guardarli. Un modello diseducativo per i giovani che ogni giorno sono tartassati da questa nuova industria che da l’illusione di potersi arricchire facilmente rinunciando alla loro sfera più intima. A veicolare questo messaggio sono anche le testimonianze di chi ha scelto come lavoro di esibirsi su OnlyFans come il caso di Ilaria Rimoldi licenziata da Gardaland perché posta foto erotiche su OnlyFans ma che ora guadagna 5mila euro al mese invece che mille. Uno dei tanti esempi che mostrano un volto della società a cui il sentire comune si sta adeguando

Cosa ne pensa delle storie di guadagni facili su OnlyFans apparse nelle cronache in questi giorni? «I grandi giornali riportano le notizie di persone, spesso giovanissime che guadagnano soldi facili esibendosi su OnlyFans ma senza fare un’analisi del fenomeno. L’intento principale dell’informazione sembra quello di stupire il lettore seguendo la logica di riportare una notizia di corto respiro, mentre ci sarebbe da fare un ragionamento strutturato di questo contenitore a cui si affida l’educazione sessuale e sentimentale dei giovani. È una forma moderna di alienazione, un disvalore che viene preso come esempio perché è stato sdoganato. Nessuno parla della banalità del comportamento prostituzionale che socialmente non viene assolutamente percepito. Ogni comportamento su OnlyFans é assoggettato al potere della situazione. Ad esempio la storia di Sonia Grey conduttrice di Uno Mattina che ha lasciato la Rai per fare il business su OnlyFans mi ha molto colpito. Questa cinquantenne attraverso la vendita delle sue rappresentazioni provocanti può ancora spendere del potere di condizionamento e fa parte di una minoranza che con questo modello esercita una sorta di dominio. Ma é un’illusione di potere che nasconde una frustrazione. Mentre nel caso dei più giovani OnlyFans è un ostacolo perché è il terminale di un processo che manipola profondamente la sfera dell’erotismo, della sessualità e della affettività facendo di conseguenza saltare una tappa dell’evoluzione sentimentale. È un contenitore che da la possibilità di rendere pubblica una sfera riservata dove il pudore si supera guadagnando denaro». Che messaggio stiamo dando ai nostri figli? «Il messaggio che viene veicolato è che siamo assolutamente incompetenti perché la loro educazione è completamente nelle mani delle industrie. Da molto tempo è stato rimosso dai modelli educativi il tema della sessualità, dell’erotismo che sono contigui anche se non necessariamente coincidono all’affettività. Noi affidiamo nella migliore delle ipotesi ai mass media l’educazione sentimentale dei nostri figli. Poi c’è anche da considerare che i genitori che si propongono come educatori prima dovrebbero guardare dentro se stessi e analizzare la qualità del rapporto con il proprio partner ma questo è un altro discorso che apre ulteriori spunti di riflessione». Qual è la soluzione? «L’unica soluzione praticabile è ricominciare dai fondamentali del rapporto tra le persone. I modelli da seguire non possono essere le fiction, la moda e i consumi che ci dicono come comportarci e che forma dare ai nostri sentimenti. Siamo diventati dei replicanti anche nella sfera più intima e questo è un deterioramento della società».

Estratto dell'articolo di Viola Giannoli per “la Repubblica” il 17 dicembre 2022. 

(…) la piattaforma britannica nata nel 2016 conta 1,5 milioni di creator (quelli che pubblicano video, foto, dirette) e 150 milioni di iscritti. Il 2021 è stato l'anno d'oro, ingrossato dalla crisi e dalla solitudine della pandemia: 433 milioni di dollari di profitti contro i 61 milioni del 2020. I creator ne hanno guadagnati 4 miliardi. Qualcosa sarà stato pure con cucina e yoga; la maggior parte per corpi e contenuti a pagamento Nsfw, Not suitable for work , meglio non vederli al lavoro.

«Le censure sono pochissime: sangue, animali, pratiche di dominazione, immagini di gente che dorme o è incosciente, animali, pipì», racconta Samuela Serena Gardin, 32 anni, trevigiana, ex barista che ora si dedica «al sex working 2.0: per me niente incontri privati né sfruttamento, anche se qui come altrove può esistere, ma foto, video e dirette, sola o con altri, che scelgo di fare per i 350 fan che mi supportano economicamente». Ogni centimetro di pelle e pizzo dovrebbe restare tra i confini dei fan, senza screenshot né download; talvolta però sfugge e le immagini circolano fuori da ogni regola. 

Ma com' è che funziona? «Per diventare creator - spiega Paolo Patrizi, campione di bike trial, sbarcato su OnlyFans dopo le richieste maschili dei follower Instagram - serve un documento, un selfie scattato dalla piattaforma, un'altra foto con la carta d'identità in mano (per dimostrare, almeno in teoria, di essere maggiorenni, ndr ) e un iban per incassare i guadagni».

L'80% finisce in tasca ai creator, il 20% è trattenuto dal sito. Capitolo tasse: la precarietà sessualmente creativa e potenzialmente altamente remunerativa di OnlyFans lavora a partita Iva. Agli utenti serve invece una carta di credito. Gli abbonamenti sono mensili o trimestrali, più ti abboni più c'è sconto, come in palestra. Il minimo sindacale è di 4,99 dollari (ma si fanno promozioni), il massimo di 49,99.

«Esistono anche le mance per i video su richiesta: intimo usato, collant, divise da infermiera. Il contenuto arriva sfocato, per vederlo bisogna lasciare una tip fino a 200 dollari. Così è stato per il mio compleanno», racconta Gardin. 

(…) Senza arrivare alle cifre stellari dei vip del porno si possono incassare anche 10-15 mila euro al mese. Poi ci sono le wishlist , «liste di desideri create su Amazon e condivise su OnlyFans. Chi vuole sceglie un regalo e lo spedisce. E su questo non si pagano le tasse».

Pubblicare foto di minori.

 Bambini social: foto e video di figli e neonati, postare o non postare? Il dilemma dello “sharenting”. Foto di bambini, neonati, ecografie, stories nel passeggino, in culla, mentre dormono o nudi. C’è chi è contrario, chi non ci trova niente di male, chi posta compulsivamente, chi copre il volto del pargolo con un’emoticon. Il dibattito dell'Unità che raccoglie osservazioni e pareri di esperti, artisti, professionisti. La rubrica: "Bambini social – Un giorno questo like sarà tuo". Antonio Lamorte su L'Unità il 24 Novembre 2023

Figli, bambini e bambine, neonati o neanche ancora nati, le ecografie perfino, le foto del pancione e quelle del parto, in culla, nel passeggino, mentre dormono, nudi o col vestitino. Se ne parla da anni ormai, lo studiano psicologi ed esperti di media e comunicazione. In inglese si indica con l’espressione “sharenting”: crasi tra share, “condividere”, e parenting, “essere genitori”. L’impulso irrefrenabile a scattare foto e postarle, droppare una storia sui social, raccogliere like e reazioni con le immagini dei pargoli.

Gli interrogativi sulla questione sono molteplici: lo sviluppo emotivo e psicologico dei bambini, la privacy, la sicurezza, l’opportunità di guadagnare. C’è chi è assolutamente contrario, chi invece non ci trova niente di male, chi posta contenuti compulsivamente, chi copre il volto del pargolo con un’emoticon: un cuoricino o uno smile nella maggior parte dei casi. Si parla di kidfluencer, si nutre un archivio, un diario digitale che non è un raccoglitore di foto da tramandare ai posteri o da sfogliare tra qualche tempo: si scatta e si posta, si condivide immediatamente. E schizzano in alto i “mi piace”, salgono le interazioni, si colorano di rosso i cuoricini perché si sa: i bambini sui social sono meglio anche dei gattini.

Eurispes – ente che opera nel campo della ricerca politica, economica e sociale – avvertiva nel 2020 che “pubblicare le foto dei figli sui social espone i minorenni a tante insidie e la prima e la più citata è quella del mancato rispetto della privacy. Non è detto, infatti, che in un futuro i figli possano essere felici delle storie social pubblicate dai genitori, delle loro immagini pubblicate senza che potessero essere d’accordo”. Lo stesso ente non escludeva la possibilità di esporre i bambini a malintenzionati e citava circuiti pedofili, fotomontaggi e video deepfake, furti d’identità. Sono soltanto due degli interrogativi che pone il tema.

L’Assemblea Nazionale Francese in primavera ha approvato all’unanimità un progetto di legge per “proteggere la privacy dei figli. In una società sempre più digitalizzata, il rispetto della privacy dei minori è ormai imprescindibile per la loro sicurezza, il loro benessere e il loro sviluppo”. Secondo il disegno di legge i bambini e le bambine sono “spogliati della loro vita privata” a causa dello sharenting. Un rapporto del Surgeon General degli Stati Uniti ha rilevato che nei bambini “l’uso frequente dei social media può essere associato a cambiamenti nell’amigdala (la zona del cervello che gestisce le emozioni) e nella corteccia prefrontale (importante per il controllo degli impulsi, la moderazione del comportamento sociale), e potrebbe aumentare la sensibilità alle ricompense e alle punizioni sociali”.

Bambini social – Un giorno questo like sarà tuo è una rubrica, un dibattito de L’Unità.it che accoglierà più voci sulla questione. Esperti, politici, artisti, professionisti, giornalisti, influencer. Un dilemma che ormai sembra riguardare più o meno tutti: postare o non postare le foto e i video di neonati, bambini e minorenni sui social?

L’intervento dell’artista Nicola Verlato – “Il mondo non è un Grande Fratello, i genitori devono costruire un’oasi”

Antonio Lamorte 24 Novembre 2023

  Estratto dell'articolo da open.online.it il 9 giugno 2023.

Instagram è il social più utilizzato dalle reti di pedofili per promuovere e vendere contenuti che mostrano violenze sessuali su minori. A rivelarlo è un’inchiesta del Wall Street Journal e dei ricercatori della Stanford University e dell’Università del Massachusetts Amherst. […] la piattaforma di Meta li promuove tramite i suoi algoritmi: «Instagram è attualmente la piattaforma più importante per queste reti a causa di funzionalità come algoritmi di raccomandazione dei contenuti e di messaggistica che aiutano i venditori a connettersi con gli acquirenti», spiegano gli studiosi.

E hanno scoperto come alcune pagine propongono determinati listini di prezzi per video di bambini che si fanno del male. O immagini di minori che compiono atti sessuali con animali. In alcuni casi, i piccoli vengono messi proprio in vendita per incontri di persona.Come funzionano i profili

Secondo il WSJ, una semplice ricerca di parole chiave [...] porta ad account che utilizzano questi termini per pubblicizzare contenuti che mostrano abusi sessuali su minori. Emerge poi che in molti casi i profili fanno spesso finta di essere gestiti dai bambini stessi. E usano pseudonimi apertamente sessuali con parole come «Piccola puttana per te».

Il Wsj ha aperto un account di prova per la ricerca ed è stato «inondato di contenuti che sessualizzano i bambini» dopo aver cliccato su alcuni contenuti simili. […]

La replica di Meta

«Lo sfruttamento dei minori è un crimine orribile. Lavoriamo con determinazione per combatterlo sia dentro che fuori le nostre piattaforme, e per sostenere le forze dell’ordine nei loro sforzi per arrestare e perseguire i criminali che ne sono responsabili», così un portavoce di Meta replica alla diffusione dell’inchiesta.«Gli adescatori cambiano costantemente le loro tattiche ed è per questo che abbiamo adottato politiche e tecnologie rigorose per impedire loro di individuare gli adolescenti sulle nostre app e interagire con loro», prosegue. Inoltre, fanno sapere di avere un team di specializzati che hanno l’obiettivo di comprendere come evolvono i comportamenti degli adescatori, così da poter eliminare le reti abusive.

«Tra il 2020 e il 2022 questi team ne hanno smantellate 27 e a gennaio 2023 abbiamo disattivato più di 490.000 account per violazione delle nostre politiche di sicurezza dei minori», aggiungono sostenendo che continueranno a fare «cercare di proteggere gli adolescenti e ostacolare i criminali».

Perché è buona cosa evitare di mettere foto dei figli piccoli sui social. Gloria Ferrarisu L'Indipendente il 27 aprile 2023.

Si chiama sharenting (dall’inglese share, condividere, e parenting, genitorialità), ed è l’abitudine che molti genitori hanno di mettere assiduamente online contenuti che riguardano i propri figli (foto mentre mangiano o dormono, video del primo giorno di scuola, ecografie, storie sulle attività che svolgono, e così via). Secondo l’ultimo studio della Società Italiana di Pediatria (SIP), pubblicato sul Journal of Pediatrics, ogni anno i genitori postano in media 300 foto dei figli sui social – prima del quinto compleanno ne hanno già condivise quasi 1.000 – spesso senza essere consapevoli dei rischia cui, così facendo, espongono il bambino.

La ricerca dice che le prime tre destinazioni di queste foto sono Facebook (54%), Instagram (16%) e Twitter (12%), piattaforme che non eccellono di certo nella tutela delle immagini e neppure nella riservatezza dei dati personali. E se apparentemente tutto sembra filare liscio e – a parte qualche like – non sembra accadere nulla di preoccupante, in realtà i contenuti che ritraggono i minori possono anche finire, nei casi più gravi, nel giro della pedopornografia (un’indagine condotta dall’eSafety Commission australiana ha evidenziato come circa il 50% del materiale presente su questi siti provenga dai social media).

Motivo per cui già lo scorso novembre la Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, Carla Garlatti, aveva richiesto che allo sharenting fossero applicate le stesse disposizioni previste in materia di cyberbullismo, e che tra l’altro consentono ai minorenni – certo, quando l’età gli permette di avere una certa consapevolezza – di chiedere direttamente la rimozione dei contenuti che li riguardano.

Stando ai dati a cui la SIP ha avuto modo di accedere, in media l’81% dei bambini che vive nei paesi occidentali ha una qualche presenza online già prima dei 2 anni: il 33% finisce online addirittura dopo poche settimane dalla nascita e un quarto di loro ancora prima di venire al mondo (negli Stati Uniti il 34% dei genitori pubblica abitualmente ecografie online, percentuale che in Italia si attesta al 15%). Come si è arrivati a questo punto?

“Nella maggior parte dei casi gli intenti dei genitori che condividono foto online dei figli sono innocui”, si legge nello studio. Tuttavia, anche se le immagini che ritraggono il bimbo in attività di vita quotidiana, o in momenti speciali (come compleanni e feste) sembrano del tutto prive di rischi, come ha spiegato Pietro Ferrara, uno dei curatori della ricerca, «non va sottovalutato però che questa pratica può associarsi ad una serie di problematiche che principalmente ricadono sui bambini». Prima fra tutte, il furto di identità: meglio omettere informazioni come la localizzazione o il nome completo del minore. «Dettagli intimi e personali, che dovrebbero rimanere privati, oltre al rischio di venire impropriamente utilizzate da altri, possono essere causa di imbarazzo per il bambino una volta divenuto adulto o possono inavvertitamente togliere ai bambini il loro diritto a determinare la propria identità».

Su questo fronte il nostro ordinamento offre una certa tutela, seppur contraddittoria. Se da una parte l’immagine della persona è protetta da diverse norme – come la legge sul diritto d’autore per cui nessun ritratto della persona può essere esposto senza il suo consenso, o l’articolo 10 del codice civile, che consente la richiesta di rimozione di un’immagine che leda la dignità di un soggetto – dall’altra, nel caso l’interessato sia un minore, è il suo rappresentante legale a dover decidere per lui. Cioè proprio il genitore.

A questo punto non rimane che sensibilizzare sul tema quanti più adulti possibili, visto che a loro è affidato il potere – in parte- di determinare la vita altrui. Un compito di cui potrebbero farsi carico i pediatri che, secondo la Presidente SIP Annamaria Staiano, «dovrebbero supportare le mamme e i papà, bilanciando la naturale inclinazione a condividere con orgoglio i progressi dei figli con l’informazione sui rischi connessi alla pratica dello sharenting», senza sottovalutarne i potenziali pericoli e tutto ciò che comporta in generale.

Costruire il “dossier digitale” di un bambino, senza il suo consenso e senza che lui ne sia a conoscenza, significa di fatto precludergli una libertà di scelta importante tanto quanto quelle che non appartengono al mondo virtuale. Lo dice la Costituzione e pure la Convenzione Internazionale su diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, per cui gli interessi e la dignità del minorenne valgono molto più di qualche like. [di Gloria Ferrari]

Pubblicare foto di minori online è legale? Cosa si rischia e cosa sapere. Le foto dei minori online sono argomento di leggi nazionali e sovranazionali e la risposta è meno scontata di quanto si possa credere. Le sanzioni possono essere pesanti. Ecco cosa sapere. Giuditta Mosca il 12 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Genitori orgogliosi che pubblicano online le foto dei primi passi dei propri figli o gli scatti fatti in occasione dei loro primi compleanni. Fotografie innocenti che immortalano momenti da ricordare e che, se pubblicate online, possono essere viste anche da amici e parenti lontani. Motivi validi per pubblicare le foto dei minori ce ne possono essere diversi, sulla loro legalità, però c’è da obiettare.

Sono diversi i testi di legge, le norme e i trattati che regolamentano la questione delle foto di minori online e, seppure convergano tutti verso la privacy, è un argomento che non si può dirimere soltanto nell’ottica del consenso ma include il buon senso.

Le foto dei minori online

Affrontando subito il discorso relativo alla privacy, occorre sottolineare che si tratta di un diritto la cui estensione copre tutti i cittadini a prescindere dalla loro età. Allo stesso modo, giacché è improponibile che un minore – soprattutto nei primissimi anni di età - abbia una propria sensibilità in materia di privacy e riservatezza, occorre spostare la responsabilità sugli adulti, tipicamente i genitori o i parenti più prossimi.

Il buon senso degli adulti è il perno attorno al quale si dipana l’intera faccenda, al cui proposito – anche prima che il web e i social network si diffondessero – il legislatore ha posto dei paletti.

Le norme attuali

Ci sono leggi imperative e regolamenti o discipline che sono puramente di indirizzo. Tra queste ultima figura la Convenzione delle Nazioni unite sui Diritti dell’infanzia (1989) che, di fatto, è una serie di raccomandazioni che gli Stati firmatari (tra i quali compare anche l’Italia) si impegnano a seguire.

Una sorta di strumento normativo che riconosce i diritti civili e sociali dei minori. Come facilmente immaginabile, non si sofferma in modo particolare sull’argomento della pubblicazione delle fotografie online, ma riconosce il diritto al consenso e il diritto di protezione di chi ancora non ha compiuto 18 anni.

Stringendo il focus sul diritto, l’articolo 2, comma 2, del Codice della privacy stabilisce che, giunto all’età di 14 anni, in Italia un minore può decidere da sé se pubblicare proprie fotografie online. Fino a quel momento, però, occorre il consenso di entrambi i genitori, anche in caso di divorzio. Se i genitori hanno opinioni divergenti, non è consentito pubblicare le foto dei minori online. A questa considerazione sono giunte diverse sentenze della Cassazione emesse tra il 2017 e il 2019,

Violazioni e sanzioni

Il consenso e la privacy sono le uniche letture possibili. Il legislatore quindi ha deciso che chiunque pubblichi fotografie di terzi, maggiorenni o minorenni, senza il dovuto consenso rischia la reclusione da 6 mesi a 3 anni, così come stabilisce l’articolo 167 del Decreto legislativo 196/2003, ossia il codice in materia di protezione dei dati personali.

Limitatamente ai minorenni, esiste un’aggravante che permette il ricorso cautelare e immediato al tribunale, così come disciplinato dall’articolo 700 del Codice di procedura civile. Una corsia rapida e preferenziale che impedisce il protrarsi di una condizione che potrebbe rivelarsi dannosa e che diventa prioritaria tanto per il legislatore quanto per l'apparato della giustizia.

Nel 2018, il tribunale di Roma (procedimento 39913/2015) ha sanzionato con un’ammenda di 10.000 euro una madre particolarmente attiva nel fotografare il figlio sedicenne per poi pubblicare gli scatti sulle piattaforme social. Una somma di denaro che il giudice ha riconosciuto al giovane a titolo risarcitorio.

I Selfie.

Sei bellissima. La copertina di Vogue, il nuovo femminismo e la società del ritocchino di massa. Guia Soncini su Linkiesta il 25 Agosto 2023

Oggi tutte usano i filtri su Instagram per far credere al mondo d’essere un po’ più fighe di come sono davvero. Non solo le supermodelle, ma anche le donne che fanno mestieri che non hanno a che fare con l’aspetto e che vivono in un secolo che avrebbe dovuto affrancarle dall’obbligo di essere belle

Verso la metà di Mad Men, quando a Matthew Weiner iniziano a sbriciolarsi i personaggi e non sembra saper più cosa farne, Betty Draper ingrassa. È, prevedibilmente, un dramma. Betty è stata una modella da giovane, e da adulta la moglie di due uomini importanti: essere decorativa è la sua valuta.

Sulla copertina del Vogue inglese del settembre 2023 ci sono Linda Evangelista, e Christy Turlington, e Cindy Crawford, e Naomi Campbell. Per chi ha la mia età, i cognomi sono superflui. Erano le donne più belle del mondo quando la bellezza era le uniche cose che può essere la bellezza: prescrittiva, intimidatoria, irraggiungibile, selettiva.

Betty Draper era nata negli anni Trenta del secolo scorso: quando alle donne americane era stato concesso da un decennio il diritto di voto, ma non ancora – né lo sarebbe stato per un bel pezzo – il diritto d’aprire un conto corrente senza la firma del padre o del marito. Certo che la bellezza era importante: che altro aveva mai, una massaia benestante nell’America degli anni Sessanta?

Il dibattito sulle quattro sulla copertina è inevitabilmente: sono ritoccate?, sono davvero così?, Linda Evangelista non aveva detto d’essere devastata dalla medicina estetica?, dobbiamo credere che le quasi sessantenni siano così?

È un dibattito che a me non verrebbe mai in mente di fare: sono cresciuta in anni in cui quelle che stavano in copertina erano altro da noi, non ti ponevi il problema del loro somigliare a loro stesse, tantomeno quello di ritrovare in loro qualcosa di tuo. Ma è anche un dibattito le cui risposte sono ovvie: è il loro lavoro essere belle, certo che per ottenere quello scopo sono disposte a fatiche che io mai mi accollerei.

Adesso però si ritoccano tutte. Mica le modelle sulla copertina di Vogue, che sarebbe ovvio: le impiegate delle poste sui loro social. Qualche tempo fa a una cena mi sono ritrovata a parlare con un gruppo di persone tra cui una tizia mai vista. Finché qualcuno non l’ha chiamata per nome, «tu cosa ne pensi, TiziaCaia», e io mi sono resa conto che sì che TiziaCaia l’avevo già vista: quella signora bruttina con cui stavo parlando era la ragazza carina che vedevo sull’internet.

Succede tutti i giorni, a me meno perché parlo poco con le sconosciute e noto poco l’aspetto di chi non m’interessa, ma succede in continuazione. Giorni fa un’amica mi ha notificato che la tizia che era nella sua stessa carrozza in treno, quella che vedevamo abitualmente su Instagram, non somigliava neanche vagamente agli accurati autoscatti di sé che sfogliavamo sul telefono: si era dovuta avvicinare per verificare che fosse proprio lei, e sì, lo era, ma «in versione baule» (ho amiche che non usano la parola «curvy», con mio grande scandalo).

La tizia non si mantiene certo essendo fotogenica, diversamente da Cindy Crawford, né ci si mantiene la tizia che avevo incontrato alla cena. Fanno mestieri che non hanno a che fare col loro aspetto, eppure ne dipendono più di Betty Draper. Perché? Da dove viene il dovere della bellezza nel secolo in cui ce ne saremmo dovute emancipare?

Che sia il risultato dell’esproprio della bellezza? La bellezza non appartiene più alle belle, siamo tutte belle, ognuna è bella a modo suo, ognuna ha diritto alla sua quota di «sei bellissima» sotto a quelle foto in cui si nota che non s’è neppure depilata.

Non esistono più i canoni estetici, diamine, quel cascame patriarcale: e allora perché, che si polemizzi sulla 194 o sulla Basaglia, sull’ergastolo ostativo o sul costo dei toast dimezzati, comunque arriverà qualcuno che ti dice che sei una cessa? Se non ho il dovere d’essere bella per sentirmi fare i complimenti sulla mia bellezza, come mai ho il dovere d’essere bella per fare la scrittrice, l’avvocato, la massaia, la deputata?

Quando accompagna la figlia al pullman che la porterà al college, Don Draper le dice: sei una bellissima ragazza, sta a te essere di più. Mancano a quel punto tre anni all’Equal Credit Opportunity Act, la legge che permetterà infine alle donne americane di aprire un conto corrente senza ia controfirma del marito o del padre. La figlia di Betty Draper diventa maggiorenne in un contesto in cui le serve un marito per aprirsi un conto corrente: meno male che è belloccia.

Quando Don Draper accompagna la figlia al pullman che la porterà al college, è il 1971. L’anno in cui Mike Nichols apre “Conoscenza carnale” con un dialogo al buio tra Art Garfunkel e Jack Nicholson, ognuno steso sul proprio letto nella stanza del college. «La bellezza non è tutto», dice Garfunkel. «Credi a me: la bellezza è tutto», risponde Nicholson.

Ieri mi è passato davanti un video in cui due tizie parlavano degli opprimenti standard di bellezza cui siamo sottoposte. Mentre dibattevano di quest’oppressione, le guardavo e non sapevo chi fossero. Erano due tizie in un teatro a parlare di criteri estetici, e io le vedevo per la prima volta. Finché qualcuno non mi ha detto no, guarda che l’Instagram di una delle due lo prendiamo in giro spesso, la vedi di frequente.

E io mi sono resa conto che questa tizia che ha fatto della militanza neofemminista il suo mestiere, che passa le giornate a dirci che siamo belle così come siamo, che la società non deve permettersi di giudicarci, e che gli addominali degli altri, in palestra, sono un portato dell’opprimente patriarcato, quella tizia lì queste belle teorie le espone avvalendosi d’un filtro che le toglie quindici chili e che me l’ha resa irriconoscibile.

Non me ne importa niente della mancata coerenza di una che parla di body positivity e poi trova intollerabile guardare sul proprio telefono l’aspetto che ha davvero. Quello che mi sorprende è quanta gente ci sia che è disposta a sacrificarsi per gli altri. L’aspetto che hai è un problema altrui: io mi posso turbare se vedo qualcuno di brutto, ma che aspetto ho è problema tuo che mi guardi, mica mi riguarda.

Mettermi un vestito d’un tessuto che mi piace è una cosa che faccio per me, che abbasso lo sguardo e vedo una cosa bella. Mettermi un vestito che mi faccia più magra e piacente è una cosa che dovrei fare per te che mi osservi da fuori, con una prospettiva che io non avrò mai a meno che non sia davanti allo specchio; e, egoista come sono, figurarsi se faccio ’sta fatica.

Quello che mi affascina è che la fatica sono disposte a farla in tantissime, tutte quelle che ogni giorno s’impegnano a far credere al mondo d’essere un po’ più fighe di come sono davvero. Il che, mi rendo conto, fa di me un’aliena: se tutte si sentono in dovere d’essere decorative, la strana sei tu che non capisci perché dovresti affannarti.

Negli anni Novanta comprai, in una libreria di Capri, un libro di cui ricordo ancora il titolo non esattamente rubato a Ceronetti: “Jemima J. che sarà magra nel 2000”. Ero ospite d’un’amica che quel fine settimana leggeva come minimo Saramago, e m’irrideva per il mio appassionarmi a questa storia di tizia grassa che si manda mail con uno che abita migliaia di chilometri più in là allegando foto ritoccate; e nel frattempo s’affanna a dimagrire per, il giorno in cui lo incontrerà, somigliare alla stessa falsificata.

Né io né la mia amica sapevamo che quello che a noi sembrava il solito romanzaccio di chick-lit era un trattato di sociologia del futuro, che prevedeva non solo le app da rimorchio ma anche un’intera rappresentazione pubblica di noi stesse in cui somigliare a chiunque tranne che a noi stesse (il tutto continuando a proclamare: sono sempre me stessa).

Betty Draper poi resta grassa non più di tre o quattro puntate, perché non scritturi un’attrice bella per farne una in caftani e complessi, e perché se non serviva alle spettatrici per dire «guarda che bei vestiti» cosa te ne facevi di Betty Draper.

Adesso, che anche se sei avvocato o scrittrice o deputata metti comunque le tue foto su Instagram, e sotto quelle foto fingi d’aspettarti che ti commentino «ottima la sua proposta di legge», ma sai che ti diranno come ti stanno i capelli, il tuo dovere è essere decorativa come Betty, pur potendoti aprire un conto corrente, pur non essendo la tua identità quella di moglie, pur essendo finito il Novecento. Anzi: proprio per quello.

 TikTok è TikTok. Lo stupro di Palermo, le scritte sulle mani e il nostro fesso esibizionismo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 24 Agosto 2023.

Nel secolo più stupido della storia dell’uomo, durante il quale non si distingue più tra una tragedia e un like, la fiaccolata e il cancelletto sono diventati la modalità espressiva per dissociarsi da chi commette un reato (come se non fosse ovvio disapprovare la violenza di uno stupratore)

Cosa dobbiamo fare per risolvere, o almeno attutire, la tendenza di questo secolo a trasformare tutto in puttanate socializzabili? C’è una cura, una via d’uscita, un modo per tornare a distinguere tra tragedie e like?

Mentre scrivo questo articolo, il sindaco di Bologna marcia in testa a una fiaccolata a un anno dall’uccisione di una poveretta ammazzata dal suo ex sotto casa. È una fiaccolata contro gli ex? È una fiaccolata per sconsigliare di mettersi con uomini che poi ti ammazzano? È una fiaccolata perché il comune di Bologna è specializzato in simbolismi gratuiti?

Ma non è mica solo il comune di Bologna. Mentre scrivo questo articolo, ho Instagram pieno di gente che si scrive sulle mani – speravo che questa imbarazzante trovatina di scriversi sulle mani l’avessimo esaurita col disegno di legge Zan – un cancelletto che dice «io non sono carne».

È la risposta (vabbè) della società civile (vabbè) alla trascrizione di uno degli stupratori di Palermo, che ha detto che faceva tutto un po’ schifo ma, oh, «la carne è carne». Sto cercando di immaginare i delitti d’un secolo meno scemo di questo affrontati in questo modo, gente che risponde, che ne so, alle frasi di Pacciani, di Unabomber, di Priebke, di un qualsivoglia brigatista tenendoci a dire al proprio pubblico che ah, no, io con questo criminale proprio non sono d’accordo. La notizia sarebbe se lo fossi, pulcino.

Naturalmente la fiaccolata e il cancelletto hanno un’altra cosa in comune, oltre a essere le modalità espressive del secolo più stupido della storia dell’uomo: rispondono a violenze dei maschi sulle femmine, che per qualche ragione esoterica non vengono mai trattate come reati ma sempre come interruzioni dell’equilibrio poetico.

Sono, anche, l’unico genere di reati in cui si torna a parlare di uomini (quelli che hanno per natura una muscolatura più possente, e quindi possono ammazzarti o violentarti se gli gira) e donne (quelle cui bisognerebbe far fare corsi di autodifesa fin dalle elementari, ma comunque sempre alla legge della giungla staremmo: il giorno che uno più forte decide di sopraffarti, lo fa).

Se in sette ne violentano una, o se uno ammazza la sua ex, come per magia ci dimentichiamo le adesioni fideistiche alle neoreligioni per cui non esistono uomini e donne ma solo percezioni, per cui una muscolatura maschile non è pericolosa se s’accompagna al gusto d’indossare i tacchi alti, per cui si usano senza mettersi a ridere parole da setta come «cis» e «trans».

Ha senso parlare dello stupro di Palermo? Me lo chiedo da giorni. Cosa dobbiamo dire? Cosa si può dire che non sia assurdo e non sia un cancelletto e non sia un’iperbole che butta tutto in vacca e non sia neanche uno di quegli inviti alla sensibilizzazione del maschio fin da piccino, come stessimo parlando di buone maniere e non di reati, come i reati uno li compisse perché non li sa tali?

Lo rimarco casomai servisse: non è normale che in sette violentino una ragazza. Non lo è in nessuna delle molteplici accezioni della parola «normale».

Non è normale perché non deve accadere, ma non è normale anche perché, di norma, non accade. È per questo che è una notizia: perché non succede abitualmente. Se la risposta è «noi donne non ci meravigliamo, perché abbiamo tutte paura di uscire la sera», se la risposta è una simulazione di persecuzione perpetua in cui ogni giorno c’è uno stupro di gruppo, non so bene che progressi pensiamo di fare. Ammesso che dei progressi siano possibili.

È colpa del porno sul telefono? Non ne ho idea (come tutti), ma il porno c’è sempre stato, anzi prima aveva il gusto del proibito, dovevi procurartelo di straforo, adesso ce l’hai in tasca a tutte le ore, l’eccesso di disponibilità non dovrebbe renderlo meno impattante sulla fragile psiche degli scemi, cioè dei ventenni?

Il porno c’è sempre stato ma non c’è sempre stato il telefono con la telecamera con cui tutti si riprendono, rapinatori e stupratori, spacciatori e fedifraghi, evasori fiscali e latitanti, tutti quelli che dovrebbero far di tutto per non lasciare tracce fanno di tutto per lasciarne, e questo forse dovrebbe spiegare in che modo essere perpetuamente su un palco a tariffa fissa mensile abbia guastato i cervelli degli abitanti di questo secolo.

Su TikTok c’è un ragazzo di Palermo che conosce i sette ma non è uno di loro. Non è uno dei due i cui account pare siano falsi ma, per ragioni che attengono all’esibizionismo in questo secolo, sembrano veri. Questo ragazzo non c’entra, e ha fatto un video per dirlo, per dire che li conosce ma non è uno di loro.

Sotto al video c’è un commento che lo scagiona, lo lascia una ragazza che ha lo stesso nome della vittima, dice «Lui non c’entra niente», e a quel punto il ragazzo fa un secondo video attorno al commento (su TikTok puoi tenere appiccicato in mezzo al nuovo video il commento cui stai rispondendo, lasciato da qualcuno sotto a un qualche video precedente).

E tutte le militanti (vabbè) che sull’Instagram ci spiegano la vittimizzazione secondaria e come vanno fatti i giornali, che non va pubblicata l’immagine della telecamera di sicurezza, che la poverina sarà sotto shock e non vorrà tutta quest’attenzione, tutte queste volontarie della sociologia un tanto al chilo non hanno neanche loro capito cos’è successo agli esseri umani, e che viviamo in un mondo in cui forse (sarà davvero lei?) una ragazza che è stata stuprata interviene nelle conversazioni social sul suo stupro, commenta i video di uno a torso nudo e col cappellino che ha per questo secolo scimunito la notiziabilità che una volta aveva un editoriale in prima pagina (e che adesso ha un cancelletto che ti scrivi col rossetto su una parte di corpo).

Gli account dell’ex minorenne, quello dei sette che parrebbe fare video sbruffoni ma pare siano video vecchi che qualcuno ripubblica facendoli sembrare nuovi, quegli account lì possono sembrare veri perché non hanno niente di diverso da come un diciottenne accusato di stupro si muoverebbe nel mondo di oggi. C’è un post in cui il forse millantatore, sempre conciato come ogni scemo della sua età (cappellino con visiera e sopra cappuccio della felpa), esorta a farlo arrivare a mille follower, così finalmente gli si attiva l’opzione di fare video in diretta e può spiegare com’è andata davvero. Neanche per un secondo mi sembra inverosimile che, nel 2023, un diciottenne accusato di stupro abbia come priorità fare la live su TikTok – e a voi?

In cima all’account che forse è della vittima c’è un post fissato, quello che resta sempre in cima alla pagina. È un video identico a milioni di video che milioni di ragazzine mettono on line: c’è lei che agita il culo in favore di telecamera. La me di qualche anno fa avrebbe pensato che fosse la prova che non era lei: vuoi che un avvocato, un genitore, un adulto qualunque non le dica di levarlo, ché di certo i difensori dei sette lo useranno come prova della di lei disponibilità?

La me del 2023 guarda quel video e pensa solo che, se scrivo che se accusi qualcuno di stupro è prudente non avere un account pubblico in cui ci sbatti il culo in faccia, arriveranno le militanti neofemministe a sbraitare che questo è victim blaming. Figlie del loro tempo: capaci solo di concentrarsi sulle puttanate.

 Esibizione del distacco. Teoria e tecnica del broncio dissociativo. Davide Burchiellaro su L'Inkiesta il 23 Agosto 2023.

Le celebrity della generazione Z si fanno i seflie imbronciati per protestare contro le foto in posa degli influencer adulti. Basta perfezione: è arrivata l’estetica lobotomica 

Il selfie come metodo per un glorioso futuro della ricerca psicologica sembra essere l’ultima scoperta americana. Un giochetto che sta tra il gossip e la scuola di psicologia comportamentale di Palo Alto. Ed ecco sotto la lente d’ingrandimento dei ricercatori la Generazione Zeta che offre l’assist per una definizione dal sapore accademico: il broncio dissociativo. Un fenomeno creato dalle celebrity e dalle influencer che si fanno selfie imbronciati per lanciare un messaggio dissidente alle generazioni dei trenta quarantenni, colpevoli di aver artefatto i propri ritratti per troppo tempo. Tra le eroine della tendenza c’è Billie Eilish che con questo stile ha detronizzato le pose photoshoppato e lucide delle signorine K (Kardashian).

L’incazzatura della Gen Z (in sintesi, i ventenni) era nell’aria già a fine pandemia ma la guerra in Ucraina e l’indignazione ambientale ne stanno aumentando il senso di ribellione. Lo dice il marketing generazionale, avvisando il mercato della cosmesi che è necessario adeguare le proprie linee alla nuova estetica definita lobotomy-chic.

Ma poi lo teorizza anche la giovanissima sociologa canadese Rayne Fisher Quann, intellettuale della Gen Z che in rete ha una lista assurda di definizioni: da deep state princess a critica culturale, da piccolo angelo del benessere a thinkfluencer. È lei a sbattere la verità in faccia alle icone Ig degli anni Dieci: basta perfezione, è arrivata l’estetica lobotomica, detta in modo più accademico, l’era del broncio dissociativo.

Sostiene Fisher Quann, intervistata da iD: «L’estetica predilige labbra imbronciate e gonfie, tese in un cipiglio disamorato». E la spiegazione è che l’obiettivo del broncio dissociativo si trova nell’«esibizione del distacco», la necessità di apparire il più disinteressate, insensibili e apatiche possibile. Nel mirino ci sono i modelli estetici dei millennial imperniati sul mostrarsi protagonisti di vite meravigliose, dorate, spericolate, euforiche, lussuose ma anche meticolosamente filtrate.

Tendenza virale, per quanto ne sappiamo, riscontrabile nei profili delle star più seguite su Tik Tok e Instagram: Amelia Gray Hamlin, Bella Hadid, Addison Rae e l’attrice di Euphoria Chloe Cherry. Basta scrollare i profili per notare i selfie imbronciati, gli occhi vitrei e lo sguardo vuoto tipico di un elettroshock definitivo.

Dalle celeb, si scende alla vita reale e il broncio dissociativo diventa cruccio per un sito autorevole dedicato ai fotografi di matrimonio (weddingphotography.com) che ha raccolto la tendenza alla ricerca della foto imperfetta tra i più giovani. In modo particolare gli sposini sarebbero stati sedotti dall’effetto blurry, ovvero sfocato. Qualcosa che si oppone all’estetica patinata degli hashtag #lovemyjob e via dicendo. 

Stesse conclusioni per PetaPixel.com che ha rilevato un’altra bizzarria del selfie, etichettato come selfie 0.5. Ovvero inquadrature che puntano a scatti dismorfici, con braccia lunghissime e fronte enorme sul modello di Mercoledì della Famiglia Addams.

Così finisce quella che, per oltre un decennio, è stata la regola K, che imponeva al selfie la tipica espressione a becco di papera, messa a punto dal clan Kardashian. La posa si ottiene succhiandosi le guance e increspando le labbra per creare un effetto ammiccante e allegro. Un esercizio che richiede un certo training.

Attendiamo una lettura italiana del fenomeno, anche se, in fondo, basterebbe seguire la via indicata dal compianto sociologo Giampaolo Fabris: la “regola” per cui, all’inizio di un decennio la cultura pop archivia malamente il decennio precedente e ripesca quelli prima. La Generazione Z è infatti affascinata dall’era Y2K, dagli anni Zero e dagli anni Novanta, come testimonia la celebrazione delle fotocamere Point-and-Shoot dei primi anni 2000 su Tik Tok. O della Lomografia, quella moda che sfruttava l’imperfezione delle macchine fotografiche russe Lomo. Ma anche da una certa estetica grunge. In attesa che il neorealismo del social network BeReal dia la testata definitiva. 

Anarchismo linguistico. Così il selfie è diventato sinonimo di fotografia. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 15 Maggio 2023

Il termine inglese per descrivere l’atto di farsi una foto è scivolato lentamente verso un ampliamento-indebolimento semantico che lo ha depauperato del suo specifico significato, banalizzandolo a semplice ritratto

“Linguaccia mia” si occupa di usi e abusi linguistici consolidati, sotto gli occhi – o piuttosto nelle orecchie – di tutti; questa volta, invece, prova a cogliere un uso nascente, poco più che allo stato germinale, che magari opportunamente abortirà prima di vedere la luce di un dizionario, oppure morirà nella culla, anche se mostra tutte le intenzioni di crescere e diventare adulto. Stiamo parlando della parola selfie. Cioè, non della parola in sé, ma di un certo modo insorgente di utilizzarla, che ne modifica sensibilmente – e, diciamolo, insensatamente – il significato.

Il neologismo deriva dall’inglese self, che significa stesso e compare unicamente come primo o secondo elemento nelle locuzioni o nelle parole composte (self-control, self-service; myself, yourself), con l’aggiunta del suffisso -ie (più raramente –y, di cui -ie è la forma ortografica scozzese che in questo caso ha prevalso) normalmente impiegato per formare diminutivi confidenziali e accattivanti (Susie, da Susan; doggie, cagnolino; sweetie, dolcezza, tesoro). Selfie è la forma sintetica e vezzeggiativa di self-portrait photograph, autoritratto fotografico, nell’accezione che si è cominciata a delineare una ventina di anni fa nell’inglese d’America, e che l’Oxford English Dictionary ha consacrato nel 2013, eleggendolo parola dell’anno dopo che in dodici mesi la sua frequenza era cresciuta del 17 mila per cento.

Dal vecchio autoritratto fotografico, però, il selfie si differenzia in quanto designa un autoritratto fotografico realizzato senza l’ausilio del temporizzatore, non con una semplice fotocamera ma con una fotocamera integrata nello smartphone, o anche nel tablet o nella webcam, puntata verso sé stessi o verso la propria immagine riflessa in uno specchio e destinata a essere condivisa sui social. Per ridurre la definizione all’essenziale, sono due gli elementi distintivi: lo strumento, che grazie anche all’introduzione della fotocamera frontale ha consentito di evitare le complicazioni dell’autoscatto, e la condivisione sui social.

Ed è proprio grazie alla presenza sempre più invasiva dei social nel nostro privato – e all’esondazione del privato nei social – che la parola selfie è diventata una delle più scritte e pronunciate, l’insegna della smania collettiva di apparire, a rischio anche della vita (purtroppo non si contano le vittime della follia di fotografarsi nelle situazioni più estreme), diffondendosi quasi in contemporanea da un lato all’altro dell’Atlantico, per approdare rapidamente anche in Italia, accolta con tutti gli onori nel 2014 sul prestigioso Zingarelli. Un caso tra i tanti di quella sostituzione lessicale avversata dalla maggioranza di centrodestra non quanto quella etnica, ma che già ha trovato un suo donchisciottesco campione.

Il fatto di essere sbarcato nel patrio vocabolario non ha tuttavia messo al riparo il neologismo da manipolazioni, travisamenti e usi creativi in cui si dispiega senza freni l’anarchismo linguistico del Belpaese. Perché, accanto al significato proprio, se ne sta discretamente differenziando uno improprio che affiora qua e là. Così illogico che chi ha avuto la ventura di imbattercisi potrebbe perfino credere di aver inteso male. O potrebbe pensare a un caso isolato, un hapax semantico. Senonché i casi non sono più tanto isolati, e messi insieme formano un indizio di enantiosemia.

«Stai lì che ti faccio un selfie». Oppure: «Aspetta, me lo fai un selfie?». O anche: «Scusi, ci farebbe un selfie?». In qualche caso c’è anche il timbro d’autore: in un post su Facebook, alcune settimane fa, sotto il titolo “A proposito di selfie” un celebre editor ha pubblicato (giustamente per deplorarla) la foto in campo medio-lungo – e quindi in tutta evidenza non scattata dal soggetto rappresentato – di una bella ragazza in posa sorridente sui binari davanti all’ingresso del Lager di Birkenau. L’episodio, che in realtà aveva coinvolto diversi altri studenti in beata gita scolastica nei luoghi dell’orrore, aveva fatto discutere in tutta Europa, e così, poco tempo dopo, se ne era tornato parlare in una trasmissione giornalistica della tv italiana, dove la (pure lei celebre) conduttrice aveva mostrato un’altra posa della medesima ragazza «che si fa fare un selfie davanti a Birkenau». Di recente qualcuno ha parlato di selfie anche a proposito del ragazzo che si è tuffato in un canale di Venezia dal tetto di un edificio di tre piani, filmato da congrua distanza dai suoi amici di un gruppo parkour inglese.

Insomma, mentre nel selfie propriamente inteso l’autore della foto e il suo soggetto (il fotografante e il fotografato) coincidono in tutto o in parte (nei selfie di gruppo uno solo dei fotografati è anche il fotografante), nel selfie malamente inteso i due si divaricano: e la parola, dal significato di «ritratto fotografico fatto a sé stesso da sé stesso (eccetera)», scivola verso un ampliamento-indebolimento semantico che lo depaupera del suo specifico banalizzandolo a semplice ritratto – non importa da chi realizzato, e non necessariamente condiviso – distinto dai panorami e dalle foto di oggetti o monumenti. E così la parola, che nell’uso corretto è giustificata dalla sua pregnanza, si riduce a gratuito forestierismo e vien quasi da dar ragione ai donchisciotteschi crociati dell’italiano a tutti i costi. Unico conforto: in questo estremo slittamento i “selfie” estremi saranno ancora estremi, ma, senza il problema di maneggiare lo smartphone, saranno forse un po’ meno letali.

Disposti a tutto per un viso da selfie: l’ossessione della Gen Z per una bellezza irreale. Simone Alliva su L’Espresso l’1 febbraio 2023.

Filtri e app dettano canoni falsi e conformisti, che non ammettono imperfezioni. E per i più giovani lo specchio è lo sguardo dei social. Mentre la chirurgia estetica conosce un boom senza precedenti

Un selfie non è mai una posa a perdere. Non ci si fotografa mai tristi, in disordine, non filtrati. È la regola per pesare nell’impero del piacere. Un impero che tutti abitiamo e che ha inevitabilmente finito per modellare il concetto stesso di bellezza.

Gli studiosi da tempo osservano il fenomeno che ha raggiunto il suo apice durante la pandemia tra riunioni online via Zoom, videochiamate e dirette Instagram, l’immagine dei nostri corpi è diventata un riflesso costante, lo specchio è lo sguardo degli altri. La spia è anche l’aumento delle procedure mediche cosmetiche e degli interventi di chirurgia plastica, che hanno registrato un trend in crescita costante nel mondo e anche in Italia. Utilizzando i dati forniti dall’International Society of Aesthetic Plastic Surgery (ISAPS) nell’anno 2021, si evidenzia che il nostro è il quinto Paese al mondo per numero di procedure di chirurgia estetica.

Negli Stati Uniti si parla di “Zoom-boom”, dal nome della popolare app di videocall. Direttamente legato alla voglia di vedersi più belli di fronte allo schermo: «Quasi 700mila sono le prestazioni mediche in Italia. Il totale delle procedure non chirurgiche è 385mila, quelle chirurgiche sono 238mila», spiega a L’Espresso il professor Francesco Stagno d’Alcontres, presidente della Società Italiana di Chirurgia Plastica Ricostruttiva-rigenerativa ed estetica (SICPRE): «Si interviene su testa e viso, in chirurgia palpebrale e blefaroplastica e per il miglioramento delle labbra. La rinoplastica è il terzo intervento più richiesto dai giovani».

Sono proprio i ragazzi e le ragazze i nuovi pazienti che si sottopongono a interventi di chirurgia estetica, quelli della Generazione Z (nati tra il 1995 e il 2010). Se un tempo le pazienti entravano nello studio medico con in mano le foto delle top model, oggi la richiesta si allinea allo spirito del tempo: per le ragazze il riferimento è spesso quella che gli americani chiamano “rich girl face” (faccia da ragazza ricca), ben promossa dalla famiglia Kardashian come Kim e Kyle Jenner, zigomi pronunciati e labbra gonfie. Ma spesso, come racconta il presidente del Sicpre, moltissimi giovani si presentano dal chirurgo con un selfie a cui hanno applicato filtri di bellezza. I filtri dei social diventano il modo in cui vediamo noi stessi o il modo in cui vogliamo vederci.

Una vera e propria ossessione per la perfezione che ci porta a vedere imperfezioni anche dove non ci sono e che, nelle situazioni più gravi, può portare a un disturbo: la dismorfofobia o dismorfismo corporeo, catalogato dal manuale DSM-5 tra i disturbi ossessivo-compulsivi. «Una patologia sempre più diffusa», conferma Stagno d’Alcontre: «Non ci si accontenta mai. Perciò è importante che lo specialista sappia dire di no e porre un freno. Ci sono ragazze che non hanno bisogno di aumentare il volume delle labbra a 24 anni e invece le vogliono ingrandire con acido ialuronico in maniera eccessiva, fino a raggiungere misure irragionevoli. L’eccesso è quello che preoccupa, soprattutto nelle giovanissime».

Il selfie è stato catalogato dall’Apa (Associazione Americana di Psichiatria) come nuovo disturbo mentale. L’Apa ha considerato la dipendenza da selfie come una conseguenza della dismorfofobia (paura di essere brutto o deforme): due terzi dei pazienti che soffrono di dismorfofobia coltivano regolarmente la pratica del selfie.

In Italia non abbiamo ancora ricerche specifiche sul tema ma possiamo guardare agli studi anglosassoni in materia: nel 2020, l’associazione inglese “Girlguiding” ha condotto un sondaggio proprio sull’uso dei “filtri di bellezza”, rilevando che il 34 per cento delle utenti intervistate tra gli 11 e i 21 anni non posta mai immagini di sé senza ricorrere a questi strumenti di alterazione artificiale. Mentre la rivista “MIT Technology Review” del Massachusetts Institute of Tecnology ha pubblicato uno studio sull’impatto dei filtri facciali su giovani e giovanissimi.

Claire Pescott, ricercatrice dell’Università del Galles, ha studiato il comportamento dei preadolescenti sui social media. Nei focus group, ha osservato una differenza di genere quando si tratta di filtri: i ragazzi li definiscono divertenti. Le ragazze li vedono come uno strumento per sentirsi più belle: «Dicevano tutte cose del tipo: “Ho messo questo filtro perché ho una pelle perfetta. Mi toglie cicatrici e macchie”. In realtà, si trattava di bambine di 10 e 11 anni. Alla domanda sulle caratteristiche perfette di un volto Instagram hanno risposto: naso piccolo, occhi grandi, pelle liscia, labbra carnose».

Come racconta Veronica, 19 anni: «Quando uso un filtro è perché ci sono cose di me che voglio cambiare. Se non mi sono truccata o penso di non essere al massimo, il “filtro bellezza” ti permette di correggere alcune parti di te». Veronica ha iniziato a usare i filtri per modificare le proprie foto quando aveva 14 anni. Le conseguenze sono serie. La funzione social non rischia di filtrare solo una foto, ma inghiotte la percezione della realtà, fino a farla perdere. Specie nella fase delicata della scoperta di sé.

«A partire dal mito, il narcisismo dovrebbe coltivare la nostra unicità. Oggi molti adolescenti sembrano coltivare la loro replicabilità, il conformarsi a una regola dell’immagine per essere accettati, che è comunque è un tema tipico dell’adolescenza», racconta a L’Espresso lo psicoanalista e psichiatra Vittorio Lingiardi, autore di “Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo” (Einaudi): «La credenza alla base dei selfie non è “mi vedo dunque sono”, ma “sarò visto dunque sono”. La tragedia dei selfie è di ritrarsi e ritoccarsi per riprodursi in migliaia di sé, da far rimbalzare sui social. Il bisogno di riconoscimento: per molti è proprio fame. Non di guardarsi, ma di essere guardati da migliaia di occhi. Dietro ogni fenomeno narcisistico c’è la speranza di essere notati, forse per essere amati. Dalla società, ma anche dalla famiglia. Molti adolescenti catturati dalle dinamiche narcisistiche portano sulle spalle il peso delle aspettative genitoriali. La tirannia narcisistica dell’essere notati ci costringe a comportarci come fossimo aquile. Per la paura di essere scambiati per passeri».

Esistiamo solo se sognati, diceva Danilo Dolci. La Generazione Z, tra selfie e video, chiede di meno: solo se filtrati.

Esibizionisti e narcisisti. Legioni di Imbecilli (cit. Umberto Eco).

Articolo del “New York Times” - dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” sabato 11 novembre 2023.

Un gruppo di 41 Stati e il Distretto di Columbia hanno intentato una causa martedì contro Meta, la società madre di Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger, sostenendo che l'azienda ha consapevolmente utilizzato le funzioni delle sue piattaforme per indurre i bambini a farne un uso compulsivo, anche se la società ha dichiarato che i suoi social media sono sicuri per i giovani. 

"Meta ha sfruttato tecnologie potenti e senza precedenti per attirare, coinvolgere e infine intrappolare i giovani e gli adolescenti", hanno dichiarato gli Stati nella loro causa depositata presso la corte federale. "Il suo scopo è il profitto". 

Le accuse contenute nella causa sollevano una domanda più profonda sul comportamento: I giovani stanno diventando dipendenti dai social media e da Internet? Cosa rende i social media così irresistibili?

Gli esperti che studiano l'uso di Internet sostengono che il fascino magnetico dei social media derivi dal modo in cui i contenuti giocano con i nostri impulsi e schemi neurologici, tanto che per i consumatori è difficile distogliere lo sguardo dal flusso di informazioni in arrivo.

David Greenfield, psicologo e fondatore del Center for Internet and Technology Addiction di West Hartford, Conn. ha affermato che i dispositivi attirano gli utenti con alcune tattiche potenti. Una è il "rinforzo intermittente", che crea l'idea che l'utente possa ottenere una ricompensa in qualsiasi momento. Ma il momento in cui la ricompensa arriva è imprevedibile. "Proprio come una slot machine", ha detto. Come in una slot machine, gli utenti sono attratti da luci e suoni ma, cosa ancora più potente, da informazioni e ricompense personalizzate in base agli interessi e ai gusti dell'utente.

Gli adulti sono suscettibili, ha osservato, ma i giovani sono particolarmente a rischio, perché le regioni cerebrali coinvolte nella resistenza alla tentazione e alla ricompensa non sono così sviluppate nei bambini e negli adolescenti come negli adulti. "I giovani consumatori sono tutti presi dall'impulso e non sanno controllare l'impulso stesso", ha detto il Dr. Greenfield.

Inoltre, il cervello degli adolescenti è particolarmente predisposto alle connessioni sociali e "i social media sono tutti un'opportunità perfetta per connettersi con altre persone". 

Meta ha risposto all'azione legale affermando di aver preso molte misure per sostenere le famiglie e gli adolescenti. "Siamo delusi dal fatto che, invece di lavorare in modo produttivo con le aziende del settore per creare standard chiari e adatti all'età per le numerose applicazioni utilizzate dagli adolescenti, i procuratori generali abbiano scelto questa strada", ha dichiarato l'azienda in un comunicato.

Compulsione equivale a dipendenza? Per molti anni, la comunità scientifica ha circoscritto la dipendenza a sostanze, come le droghe, e non a comportamenti, come il gioco d'azzardo o l'uso di Internet. Questa situazione è gradualmente cambiata. Nel 2013, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, il riferimento ufficiale per le condizioni di salute mentale, ha introdotto l'idea di dipendenza da gioco su Internet, ma ha affermato che erano necessari ulteriori studi prima che la condizione potesse essere formalmente dichiarata. 

Uno studio successivo ha esaminato l'ampliamento della definizione a "dipendenza da Internet". L'autore ha suggerito di esplorare ulteriormente i criteri diagnostici e il linguaggio, notando, ad esempio, che termini come "uso problematico" e persino la parola "Internet" sono aperti a un'ampia interpretazione, date le molte forme che possono assumere le informazioni e la loro diffusione.

Il dottor Michael Rich, direttore del Digital Wellness Lab dell'Ospedale pediatrico di Boston, ha dichiarato di scoraggiare l'uso del termine "dipendenza" perché Internet, se usato in modo efficace e con dei limiti, non è solo utile ma anche essenziale per la vita quotidiana. Preferisco il termine "uso problematico dei media su Internet", che si è diffuso negli ultimi anni. 

Il dottor Greenfield ha concordato sul fatto che esistono chiaramente usi preziosi di Internet e che la definizione di quanto sia eccessivo può variare. Ma ha detto che ci sono anche casi in cui l'uso eccessivo interferisce con la scuola, il sonno e altri aspetti vitali di una vita sana. Troppi giovani consumatori "non riescono a smettere", ha detto. "Internet è un gigantesco ipodermide e i contenuti, compresi i social media come Meta, sono gli psicofarmaci".

A proposito di comunicazione. Questo editoriale è autoreferenziale (ma parla soprattutto di TikTok). Anna Prandoni su L'Inkiesta l'11 Novembre 2023

Non sempre scegliamo noi a quali contenuti social dare maggior peso e rilevanza, ma con attenzione, consapevolezza e un atteggiamento proattivo possiamo fare buon uso anche di questi strumenti

Ieri l’Académie Internationale de la Gastronomie mi ha premiato con il Prix Multimedia 2023: un riconoscimento che mi onora, e che premia il lavoro giornalistico sull’enogastronomia che stiamo portando avanti con costanza dal 2020 su queste pagine e che condivido con la redazione, che sostiene con me questo progetto. Il fatto che insieme a me ci fosse uno degli studiosi della storia del cibo che è stato uno dei miei più grandi riferimenti, il professor Alberto Capatti, ha reso la cerimonia ancora più toccante e preziosa. La premiazione è stata l’occasione di riflettere su come stia cambiando la comunicazione del cibo. Una delle domande che ha infervorato di più la platea è stata su TikTok, e sull’impossibilità di trovare su quella piattaforma contenuti di valore, anche in ambito enogastronomico.

Come dico da quando sono arrivati i social network, e come dicono quelli più bravi di me nel settore digitale, il problema non è il mezzo in sé, ma il suo utilizzo e le persone che lo popolano. Ma è ancora così? Una recente storia del professor Michele Antonio Fino mi ha fatto ricredere su questo postulato. Con il cambiamento dei presupposti, e con i nuovi algoritmi creati ad arte per far monetizzare i proprietari, le cose non vanno esattamente come ci siamo sempre immaginati. «Quando sentite un qualunque -ologo dire che ormai la vita online è come la vita off line, che non c’è più confine tra reale e virtuale, potete farvi una crassa risata. Non è vero niente. La vita online è il cartonato che Zuck, Elon e compagnia accrocchiano per voi, in modo che sia maggiormente profittevole per loro, fuori da ogni controllabilità e autenticità. La vita offline, invece, offre ancora miliardi di possibilità di incontro e scontro, condivisione e dialogo, divergenza e lite, amore e odio, che virtualmente, quando pure paiono esistere, devono sempre lasciarci un dubbio: chi c’è dietro?».

È come se fossimo anestetizzati, dentro a un meccanismo che pensiamo sia reale e invece è solo e unicamente un surrogato. Il confronto dal vivo, anche acceso, ma anche le informazioni che ci scambiamo parlando, o facendo esperienze insieme agli altri, non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello che possiamo vivere online. Renderci conto di questa distanza diventa uno dei presupposti imprescindibili per rendere la nostra navigazione efficiente, e offrirci un’idea di mondo diversa da quella racchiusa dentro quella che consideravamo una bolla, e che invece è il risultato di una precisa azione ideologica e di marketing di chi manovra l’algoritmo.

Non c’è speranza? Forse sì, se impariamo a seguire le persone giuste, a cercare, invece di farci bastare ciecamente quello che ci compare in automatico. Potremmo iniziare da Kelsey Russell, 23 anni, che ha sempre avuto una passione per i media. Resasi conto di non essere tagliata per fare la giornalista, si è abbonata alla versione cartacea del New York Times ed è diventata una giornalista da TikTok. Ogni giorno, a colazione, riassume gli articoli del NYT, del Wall Street Journal o di USA Today per i suoi 85.000 abbonati, che intende convertire a questa pratica. Il conflitto israelo-palestinese, l’incriminazione di Trump, i migranti senza documenti nei cantieri olimpici: Kelsey non ha tabù su nessun argomento e il suo obiettivo è creare un ponte tra i diversi canali, cartacei e digitali, in modo che tutti trovino il loro mezzo ideale. Chissà se riusciremo a fare la stessa cosa anche per l’enogastronomia? Noi ci stiamo ragionando sopra.

Giampiero Mughini per Dagospia domenica 27 agosto 2023.

Caro Dago, e siccome succede che a breve parteciperò a una trasmissione televisiva seguita dal grande pubblico, ecco che una mia cara amica mi manda una mail: "Caro Giampiero, ti difenderò sui social". Ed è perfettamente affettuosa nel dirmelo, perché è sui social che si combatte la battaglia di Stalingrado che decide del destino massmediatico di ognuno di noi. 

L'ho capito ancor meglio quando ho letto della contesa tra Fabio Fazio e la Rai su chi dei due avesse la proprietà dei contenuti social relativi alla fortunatissima trasmissione fondata e governata da Fabio su RaiTre. Poche chiacchiere, erano là che stavano i segnali più significativi della storia televisiva di "Che tempo che fa". 

I commenti o magari gli insulti che a decine e decine di migliaia scaraventano sui social, e laddove quando io scrivo sul Foglio un articolo che mi è costato tre giorni di lavoro sono contentissimo se un paio di amici mi scrivono una mail a dirmi che lo hanno trovato interessante.

Non c'è più gara. A dire se esisti e come esisti, i social sono l'inizio e la fine di tutto. Quando entri in un albergo, non è la carta di identità che dovrebbero chiederti a identificare chi sei, e bensì il tuo account social. Ne sta parlando uno che non sa neppure che cosa siano esattamente Facebook e Instagram, uno che allibisce quando legge di due fidanzati vip che lei racconta sui social la loro storia momento per momento. Alla faccia dell'indiscrezione, alla faccia della petulanza, alla faccia del narcisismo, tutto della vita privata viene offerto alla degustazione di tutti.

Delle volte che io esco non dico con una mia amante ma con una mia amica  – con Sandra, con Chiara, con Simona, con Fiamma, con Barbara – neppure sotto tortura confesserei una sola delle cose che ci siamo dette e che appartenevano a noi e a noi soltanto. Possibile che i giovani in particolare non lo capiscano più che un solo silenzio vale più di cento schiamazzi? Che il meglio della vita non è il parteggiare alto e sonante per il Nero o per il Bianco e bensì cogliere le sfumature della vita di noi tutti esseri umani? 

Le sfumature, le ambiguità le contraddizioni, le ambivalenze, tutto ciò che è perfettamente antitetico alla musica dei social. Possibile non capiscano che nessuno può spingere il proprio narcisismo sino al punto da esaltare ogni spicciolo della propria esistenza quotidiana, da tempestare il prossimo tuo con una mitragliata di autoesaltazioni, di rimandi ai propri libri o ai propri articoli o agli spettacoli di cui sei il regista? Un po' di misura, almeno un poco, cari amici. Un po' meno di autoesaltazione, poco poco meno.

Per quanto mi riguarda ieri ho mandato due sms. Uno ad Alberto Mingardi che aveva scritto sul Foglio un magnifico elogio di Vilfredo Pareto, uno al mio vecchio amico Ernesto Galli della Loggia affinché comunicasse a sua moglie Lucetta Scaraffia quanto avessi letto con piacere il suo articolo di cattolica e femminista sul libro del generale Roberto Vannacci. Libro che purtroppo non leggerò mai e lo dico con la massima grazia possibile. Solo che è un libro che mi sembra poco incline alle sfumature e alle ambivalenze.

Il narcisismo social ha peggiorato tutto: l'analisi di Feltri. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 27 agosto 2023

 Gli ultimi fatti di cronaca relativi alle violenze sessuali di gruppo avvenute sia a Palermo che a Caivano impongono riflessioni e provvedimenti urgenti che, a mio avviso, non possono consistere nella castrazione chimica, misura che incontra un largo consenso popolare ma che pure ha il carattere della vendetta e non realizza quel principio della giustizia riparativa sul quale dovrebbe poggiare il nostro ordinamento. Sarebbe più utile intervenire sul piano educativo e culturale, iter sicuramente più lungo e complicato, ma anche più efficace per costruire una società in cui le nostre figlie e le nostri nipoti non siano mai più adoperate alla stregua di oggetto sessuale da parte di un branco di delinquenti, sempre più spesso minorenni, il che è alquanto inquietante.

Si tratta di un fenomeno di epoca recente e lo posso confermare io stesso, avendo alle spalle ben sessant’anni di attività all’interno delle redazioni, dove cominciai occupandomi dapprima di musica e cinema e subito dopo proprio di cronaca nera. Nel Novecento e agli albori del nuovo millennio questi crimini compiuti dal gruppo, dove ciascun individuo – è opportuno specificarlo – ha una responsabilità penale individuale che non può assolutamente scaricare sulla comitiva, erano rarissimi. Negli ultimissimi anni, invece, il loro susseguirsi è incalzante, tanto che è anche lievitato il numero dei minorenni autori di questo genere di delitti i quali si trovano all’interno delle comunità sparse sul territorio nazionale. Insomma, lo confermano dati e statistiche, non è semplicemente una nostra percezione.

Mi sono chiesto, dunque, per quale ragione oggi si verifichino più di ieri. Il dilagare della pornografia, secondo me, non è una motivazione determinante, quantunque sia naturalmente convinto che certi contenuti possano deviare la sessualità di creature in sviluppo e, quindi, l’accesso tramite il telefonino ai siti vietati ai minori dovrebbe essere reso impossibile, ma sappiamo che, al contrario, esso è molto agevole.

C’è un dato ricorrente, se ci pensiamo bene, al di là della condivisione del delitto e della violenza di carattere sessuale, nonché di quello della giovanissima età sia delle vittime che degli stupratori: l’elemento che emerge con prepotenza ritengo che sia la natura prettamente esibizionistica dell’azione criminale. 

E' su questo che dovremmo focalizzarci per comprendere le cause che ci hanno condotto ad una simile deriva umana e civile e di qui eliminarla. Si stupra per filmare l’abuso e per poi fare girare il video sugli iPhone degli amici o per caricarlo sui social network. E' questo l’obiettivo fondamentale della violenza in sé, cosa agghiacciante, in quanto ne deriva che i soggetti autori della tortura non nutrono la benché minima consapevolezza della assoluta gravità delle loro azioni, tanto che queste rappresentano un motivo di vanto, di riconoscimento sociale, la prova del loro valore e non della loro miseria, la dimostrazione del loro essere maschi e non l’inconfutabile segno di mancanza di virilità, dal momento che chi ricorre alla forza non è per ciò stesso più uomo bensì per ciò stesso meno potente, ovvero un vigliacco, la realizzazione dell’esatta antitesi del concetto di mascolinità.

L’esibizionismo imperante, alimentato dai social network dove ciascuno quotidianamente tenta con ogni mezzo di apparire e farsi notare per godere del suo momento di popolarità, che sia negativa o positiva poco importa, è divenuto tanto malato da indurre sempre più frequentemente i ragazzi a macchiarsi di reati così orribili come la violenza sessuale di branco. Basti considerare che il minorenne accusato di avere partecipato allo stupro di Palermo che, nel frattempo, ha compiuto i 18 anni, è stato dapprima scarcerato in quanto il Gip ne aveva sottolineato la resipiscenza, ovvero una sorta di lucida coscienza del proprio errore unita alla volontà di intraprendere un percorso di rieducazione, e poi arrestato di nuovo proprio perché il neo-maggiorenne in questione ha caricato su TikTok numerosi video in cui si compiaceva di avere preso parte alla sevizia. 

Estratto dell’articolo di Matteo Lancini per “la Stampa” sabato 12 agosto 2023.

«Hai visto il video di quello che alla festa del proprio matrimonio ha preso in mano il microfono e ha lasciato la futura moglie che lo ha tradito?». Subito dopo aver pronunciato questa frase a un mio amico, e sentito la sua risposta, ho iniziato a tormentarmi. Perché nonostante il video mi avesse reso irrequieto, fatto provare imbarazzo e confermato quanto vado dicendo da tempo sulla nostra società sempre più pornografizzata, mi sono spinto a promuoverne la visione? […]

[…] pur avendo formulato qualche ipotesi sul mio funzionamento affettivo e su quello dell’essere umano spesso attratto dalle disgrazie altrui e dal pettegolezzo, ha prevalso il mio interesse per le ricadute di questa vicenda sulle nuove generazioni, sul ruolo che noi adulti abbiamo nel proporre e promuovere modelli di identificazione che garantiscono visibilità.

Questa storia è emblematica di tutto ciò che non dovremmo continuare a proporre. Contiene in sé la sovraesposizione del privato, reso pubblico non solo alla “ristretta” cerchia degli invitati alla festa del non-matrimonio, ma ad una popolazione molto più ampia. Promuove l’idea che svergognare e umiliare l’altro pubblicamente, in maniera fragorosa, garantisca visibilità, anche a chi in teoria non ne avrebbe bisogno, elevandoti a “star” dell’estate.

Insegna che invece di accettare […] il dolore del fallimento, lo si può trasformare in una manifestazione di successo. La vendetta social-e, che probabilmente l’aspirante moglie e politica saprà riconvertire in un’occasione di visibilità mediatica, non ha risparmiato nemmeno la citazione dei figli dei non-sposi. Tutto ciò che non conoscevamo della vita di questi signori ora è pubblico […] Le verità affettive e degli accadimenti non contano, l’importante è che siano ripresi e postati.

Sempre più spesso prevalgono immagini di adulti che più la fanno grossa, più hanno successo. È la società di internet, delle telecamere-smartphone sempre pronte, sempre in mano a chiunque. Alla prossima challenge giovanile di successo, alla prossima rissa fuori da scuola non sedata dai presenti ma ripresa attraverso lo smartphone, alla prossima vessazione organizzata in classe per poter essere ripresa e pubblicata sui social, mi auguro che non parta il solito refrain sulla condizione giovanile odierna, sull’analfabetismo emotivo adolescenziale e la supposta dipendenza generazionale da internet, smartphone e social. […]

Il cambiamento. Cosa resterà ai politici di questi anni di Twitter: il recordman Gasparri e la terza Camera della Repubblica. E’ stata la scuola obbligatoria che i politici dovevano frequentare, molto spesso da soli e senza andare a ripetizione pomeridiana dal social media manager. Domenico Giordano su Il Riformista il 3 Agosto 2023 

Era il 1988 quando Raffaele Riefoli, in arte Raf, lanciò uno dei suoi successi più conosciuti dal pubblico. Stava per chiudersi un decennio di diffusa euforia, ma anche di profondi cambiamenti per l’Italia e per il mondo, e il cantautore di origini pugliesi cantava nelle piazze il suo “cosa resterà di questi anni Ottanta, ora che siamo alla fine, noi, di questa eternità”.

Il refrain di quel pezzo mi è tornato in mente proprio in questi giorni dopo che di Elon Musk ha mandato in soffitta il marchio storico di Twitter, sostituendo il passerotto blu con una X bianca su fondo nero. Sia chiaro, non mi interessa entrare nella disputa sull’opportunità della scelta grafica, del valore percettivo e reputazionale di un brand consolidato, sul valore della riconoscibilità. Ci sarebbe tanto da dire e discutere, ma qui e ora, invece, vorrei chiedermi altro, saccheggiando le parole scritte e cantate da Raf: cosa resterà ai politici italiani di questi anni di Twitter?

Twitter prima di Facebook è stato per i politici il social che li ha accompagnati nel debutto ufficiale nell’eco sistema delle piattaforme. Nei primi anni ha rappresentato il social network che gli consentiva di vivere in modo decisamente meno traumatico l’approdo in una dimensione totalmente nuova, non protetta, senza filtri e senza gerarchie, dove non c’erano più quelle regole universalmente accettate e rispettate che mediavano il rapporto tra i leader e i cittadini. I follower erano diventati a loro volta potenziali leader e come tali si comportavano sulla piattaforma.

Twitter molto più di Facebook è stata la scuola obbligatoria che i politici dovevano frequentare, molto spesso da soli e senza andare a ripetizione pomeridiana dal social media manager tuttofare, per prendere il diploma della disintermediazione. Così il twittare, inserito nel 2007 dall’Accademia della Crusca nell’elenco delle parole nuove, è diventato per i politici uno status di credibilità, il riconoscimento tacito ma prioritario di una autorevolezza, il passaporto essenziale per provare a dettare l’agenda del dibattito pubblico che intanto traslocava rapidamente dalla carta stampa e dalla televisione verso la rete.

La X che campeggia da qualche giorno sullo schermo dei nostri smartphone è la conferma di una trasformazione della natura di Twitter che è ancora tutta da scoprire e che ci costringerà a modificare radicalmente il modo in cui fino a ieri abbiamo popolato la piattaforma. Del resto, come postato appena ieri dall’account ufficiale la “visione attuale di X è stata sviluppata negli ultimi 9 mesi ma, all’orizzonte c’è molto di più”. Quindi, in attesa di nuovi sconvolgimenti, è lecito chiedersi cosa ci rimarrà di questi anni dei politici su Twitter?

Maurizio Gasparri, che ha aperto il suo account a marzo del 2011, ci lascia una corposa eredità fatta di 184.304 tweet, Matteo Salvini, dall’aprile del 2010 a oggi, ci consegna invece 55.658 tweet e Matteo Renzi, tra i primi a sbarcare su Twitter avendo aperto il proprio account a gennaio del 2009, di tweet ne ha collezionato in questi anni 14.502, mentre Giorgia Meloni negli ultimi tredici anni, dall’aprile del 2010, di tweet ne ha pubblicati 20.595. Numeri che raccontano plasticamente quanto Twitter fosse diventata per certi aspetti la terza Camera della Repubblica.

Domenico Giordano è spin doctor per Arcadia, agenzia di comunicazione di cui è anche amministratore. Collabora con diverse testate giornalistiche sempre sui temi della comunicazione politica e delle analisi degli insight dei social e della rete. È socio dell’Associazione Italiana di Comunicazione Politica. Quest'anno ha pubblicato "La Regina della Rete, le origini del successo digitale di Giorgia Meloni (Graus Edizioni 2023).

I social non hanno funzione educativa. Le foto di Chiara Ferragni mettono a nudo i difetti e danno coraggio ragazze imperfette. Jonathan Kashanian - Conduttore televisivo su Il Riformista il 3 Giugno 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio alla discussione sulla foto-scandalo della Ferragni: è sintomo di libertà? Fa bene a pubblicarla? Favorevole Jonathan Kashanian, conduttore televisivo ed ex partecipante del Grande Fratello, secondo cui la popolare influencer “ha il sacrosanto diritto di pubblicare tutto ciò che vuole”. Contraria invece la giornalista Mediaset Simona Branchetti che sottolinea: “Quello scatto altro non è che l’emblema di una nuova e ben più subdola schiavitù”.

Qui il commento di Jonathan Kashanian:

Chiara Ferragni ha il sacrosanto diritto di pubblicare tutto ciò che vuole. È questione di libertà, e di rispetto della funzione che ognuno di noi assolve su questo mondo. I social, come la TV, non hanno la funzione di educare nessuno: inutile attribuirgliela surrettiziamente; hanno semmai quella, sociale, di intrattenere.

In Italia -è ora di ammetterlo- abbiamo un difetto: siamo tutti avvocati dei nostri stessi comportamenti, ma giudici implacabili ed eccessivamente ingenerosi dei comportamenti altrui. Questo è un Paese meraviglioso ma talmente pieno di giudici e colorato di voglia di giudicare male gli altri, che se accendi la televisione osservi soltanto programmi con delle giurie che spietatamente (mal) giudicano gli altrui comportamenti. Chiara Ferragni non pubblica una foto che insegue la bellezza perfetta, non omaggia l’ideale edonistico e contemporaneo della perfezione, si mette a nudo rispettando le linee guida dettate da Instagram, e persino mostrando alcuni suoi difetti, lei che pur essendo bellissima non è una modella di professione né una donna perfetta.

Se però questa estate una ragazzina, magari un po’ bruttina, di qualche paesino sperduto, dove la piena emancipazione femminile è ancora un miraggio, troverà il coraggio di scattarsi e pubblicare una foto –perché no? – persino sexy o non avrà timore di mostrarsi in costume, la missione sarà compiuta: Chiara Ferragni avrà dato coraggio a delle ragazze imperfette. Il coraggio (e la sicurezza) di superare i propri limiti estetici. In un Paese che si trova a convivere con il Vaticano, e dove una suora, Cristina, va in televisione a cantare in un talent, e poi nel programma successivo dice che forse ha un’amante donna, davvero vogliamo scandalizzarci per una foto fatta da Chiara Ferragni? Lei è una brillante imprenditrice dedita a fare il suo lavoro: comunicare e fatturare. Non c’è nulla di volgare in tutto ciò. Anzi, fa bene a se stessa e, pagando le tasse, al Paese.

Infine, un pensiero malizioso: una bambina di undici anni riprende Chiara Ferragni contestandole che un domani la figlia dell’influencer, (‘Vitto’, così la chiama) finirà per vergognarsi della foto che oggi pubblica sua madre. Chiamare con il nomignolo una bambina che non si conosce, rivela intimità. È lecito domandarsi quindi se la bambina a cui viene chiuso il profilo giustamente- perché è 11 anni si dovrebbe avere altro a cui pensare che non Instagram- dimostra di seguire la vita della persona che critica. Ecco allora un corollario obbligato: i genitori hanno paura che i propri figli tra 10 anni possano pubblicare la stessa foto che oggi vedono scattare a Chiara Ferragni? Chiara, semplicemente, non va giudicata.

In un momento in cui tanti lamentano carenze di democrazia, anche in Italia ci sono strumenti democratici come il telecomando e il pollice per lo smartphone. Disapprovi, non condividi, non apprezzi? Cambia canale o fai scroll down. Il pollice, nell’era dei social, che -ripeto- non assolvono la funzione di educare nessuno, esattamente come non la deve avere la televisione, è e resta uno strumento di difesa della libertà e della democrazia.

I nostri aspiranti censori farebbero meglio a preoccuparsi dei Paesi dove una donna non può postare una foto simile perché altrimenti viene lapidata, anziché di quelli dove è possibile farlo.

Jonathan Kashanian - Conduttore televisivo

Stereotipi e meccanismi non sociali, ma social. Chiara Ferragni, quello scatto è l’emblema di una nuova e ben più subdola schiavitù. Simona Branchetti - giornalista Mediaset su Il Riformista il 3 Giugno 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio alla discussione sulla foto-scandalo della Ferragni: è sintomo di libertà? Fa bene a pubblicarla? Favorevole Jonathan Kashanian, conduttore televisivo ed ex partecipante del Grande Fratello, secondo cui la popolare influencer “ha il sacrosanto diritto di pubblicare tutto ciò che vuole”. Contraria invece la giornalista Mediaset Simona Branchetti che sottolinea: “Quello scatto altro non è che l’emblema di una nuova e ben più subdola schiavitù”.

Qui il commento di Simona Branchetti:

Serviva davvero l’ennesima foto desnuda di Chiara Ferragni? Forse sì, ma solo per scoprire quanto capace di dividere e far discutere, in un tempo in cui le donne -vi stupirò- non si sono mai sentite tanto “incatenate”. Le polemiche su opportunità e scopo di quello scatto rischiano infatti di non cogliere le ragioni malcelate di quella pubblicazione. Ci pensiamo libere, ma quella foto altro non è che l’emblema di una nuova, ben più subdola, schiavitù. Stereotipi e meccanismi non sociali, ma social, ai quali la coscienza collettiva è ormai piegata inconsapevolmente. Negli oltre 30 mila commenti c’è infatti un mondo.

Da Elena Guarnieri e Caterina Collovati, amiche e colleghe che le scrivono, l’una che “la foto le fa tenerezza”, e se davvero la faccia sentire “libera” o, invece, “prigioniera del suo personaggio”, l’altra, che si tratta di “mediocrità”, alla tifoseria di utenti divisi tra insulti e complimenti al suo fondoschiena… inteso in tutti i sensi. Perché, certo, di lato B ne ha avuto la Ferragni: ha costruito una fortuna su un mondo virtuale che le rende milioni in quello reale. Mi è anche sorto il dubbio che lo scatto potesse essere davvero, come sostiene la brava Sabrina Scampini, “un progetto di marketing”. Già, ma quale? Una clinica per la ricostruzione dei glutei? Una linea di perizomi? Ma sino rimasta attonita leggendo la condanna durissima di Nike Rivelli, una donna che da tempo galvanizza i suoi followers con scatti provocatori, dove l’essere solo nuda è quasi un dettaglio.

La Rivelli taccia di “volgarità” l’influencer, e imbastisce una veemente difesa della libertà violata della bimba di 11 anni che si è vista chiudere il profilo dopo aver redarguito mamma Ferragni sull’inutile ostentazione delle sue chiappe, chiedendole che messaggio trasmettesse una foto cosi. Un commento talmente genuino da non essere stato quasi notato fino a quando la madre di Giulia (il nome della bimba) le ha chiuso il profilo perché a 11 anni i bambini non possono maneggiare autonomamente i social. Eppure, le femministe del terzo millennio, quelle che “il corpo è mio e lo gestisco io” condannano la chiusura del profilo della bimba avviando una delle più feroci polemiche degli ultimi tempi tra paladine della libertà e moralizzatori. Senza scomodare filosofi o psicoanalisti, basterebbe ripartire dal messaggio di Giulia per capire dove siamo arrivati, quale genere di distorsione il nuovo specchio di Dorian Grey, Instagram, abbia prodotto nelle nostre menti. Apparire è il nuovo diktat a cui si sacrifica ogni buon gusto e buona educazione.

Una bimba accende un lumicino di saggezza nel buio di una giungla di adulti presi a fotografarsi, sempre più filtrati, nella speranza di aggrapparsi, anche nella vita reale, a giovinezza e bellezza che la vita consuma, ma nessuno se ne accorge. Da quell’album virtuale dove i like gonfiano e sgonfiano il nostro ego Giulia chiede un ritorno alla normalità, che pare scomparsa. Qualcuno le racconti come la Ferragni ha costruito la sua fortuna, invece che ostentarla e basta; le mostri le bellezze degli Uffizi invece che quel capolavoro del suo sedere.

Rita Levi Montalcini diceva che le poche donne che hanno fatto la storia non hanno dovuto mostrare nulla, se non la loro intelligenza: allora forse un’imprenditrice capace come la Ferragni, invece di salire sul palco di Sanremo da neo femminista con la t-shirt “pensati libera”, racconti alle ragazze che la libertà non passa da un corpo nudo di cui siamo saturi, dalla vacuità di parole buttate nell’etere senza senso, ma dalla concretezza del percorso suo e di quelle donne, troppo poche, che ci hanno insegnato chimica, scienza, stelle, politica. Un libro di 30 anni fa (titolo emblematico e contenuto attualissimo: “Il mito della bellezza” di Naomi Wolf) chiede: le donne si sentono libere?

Sfogliandolo, ci si accorge di come il 68 ci abbia liberato dalla prigione domestica ma catapultato in una gabbia invisibile con regole ancor più feroci, fino alle soglie di quello che la Wolf definiva una sorta di “terrorismo estetico”, oggi acuito dai social, che costringe a immolarsi sull’altare della bellezza-giovinezza, a inseguire una ‘bellezza senza difetti’. Una ricerca che opprime e condiziona la libertà. Una Dittatura della Bellezza che fa dell’estetica una prigione, dalla quale cara Chiara, vorremmo davvero finalmente “PENSARCI LIBERE”.

Simona Branchetti - giornalista Mediaset

Ciascuno vive ed esprime il disturbo con modalità e in circostanze diverse, ma apparentemente soffrono tutti dello stesso male. MICHELE MIRABELLA su La Gazzsetta del Mezzogiorno il 21 Maggio 2023

La fonte della citazione è la Vita di Alcibiade di Cornelio Nepote, scrittore latino: Beoti magisfirmitati corporis quam ingenii acumini serviunt. In italiano vuol dire che i Beoti apprezzano più la forza fisica che l’acume intellettuale. In antico, la stupidità dei Beoti era proverbiale: scemi al punto da esser conosciuti per preferire la firmitas corporis all’acumen ingenii dove la firmitas sta, sì, per forza fisica, ma considerato il clima culturale degli antichi greci investigati dal sobrio Cornelio Nepote che li considerava inclini alle esteriorità, merita, invece di salute, la più plausibile traduzione di bell’aspetto fisico.

Nel De Tranquillitate animi Seneca ci narra dell’amico Anneo Sereno che si è rivolto a lui in quanto medico dell’anima per trovare la causa del male che lo affligge: lievi attacchi di febbre e una costante sensazione di nausea. Seneca individua nella mancanza di euthymia ovvero «buona disposizione di animo», come lo stesso autore traduce dal greco, o nella mancanza di equilibrio psicologico la causa dei suoi disturbi.

Infatti, sono estremamente frequenti e diffuse le alterazioni fisiologiche temporanee determinate da particolari stati emotivi. Ciascuno vive ed esprime il disturbo con modalità e in circostanze diverse, ma apparentemente soffrono tutti dello stesso male. L’unica medicina, conclude il medico Seneca, consiste quindi nel riacquistare fiducia in sé stessi e l’agognata tranquillità. Il classico mens sana in corpore sano, pur valido come constatazione di fatto, può, dunque, essere esattamente capovolto affermando che il corpo risulterà sano solo se lo è la mente.

Sino da allora i sapienti compresero che nell’ottica psicosomatica certe malattie non solo traducono delle turbe emotive, ma esprimono in quel dato organo uno specifico disagio emotivo, proprio perché quell’organo e la sua funzione si prestano a rappresentare simbolicamente il disagio stesso. Per esempio ci si può ammalare all’apparato digerente, perché non si «digeriscono» certe situazioni o certe persone. Da qui la nausea di Anneo Sereno. E la nostra per certi contemporanei.

A me Mens sana in corpore sano, ricorda i professori educazione fisica che l’hanno sempre borbottato in Latino, forse, per riscattare la loro disciplina dalla poca attenzione che la scuola di un tempo le destinava e ammonivano con una traduzione ginnasiale che, appunto, occorre pensare, si, all’erudizione della mente, in questo sana, ma anche all’educazione del corpo che va mantenuto in buona forma.

Non tutti abbiamo praticato palestre efficienti e funzionali. Io, per esempio, ho frequentato troppe scuole per via della mia scarsa attenzione alla mens sana, a causa del mio essere discolo e del mio tentativo di ottenere il corpus sanum con giovanili passeggiate sostitutive delle lezioni, ma ricordo palestre con pertiche traballanti e cavalline scalcinate, nonché mazze a forma di birillo che nessuno usava mai. Comunque, appeso al muro, c’era il cartello che riportava, con eleganti lettere anellate, l’avvertimento in questione.

Visto, però, che ho declinato con correttezza quel “corpore” del motto, chi legge può desumere che non era lo studio ad annoiarmi, ma la scuola com’era fatta. E lo studio mi ha spinto sempre a cercare le ragioni di tutto e a non accontentarmi della «prima bottega», come ammoniva il professore di Latino spingendoci alla consultazione attenta del vocabolario Latino-Italiano.

Ed ecco che scopro chi proferì la frase e appuro anche che non era destinata a figurare appesa ad un muro di un’aula di ginnastica. Fu Giovenale, poeta latino vissuto a cavallo tra il I e il II secolo dopo Cristo a scrivere in lampante poesia Orandum est, ut sitmens sana in corpore sano(Satire, X, 356.) che vuol dire letteralmente: «Questo dobbiamo chiedere nelle preghiere: una mente sana in un corpo sano». Dal contesto e si capisce che il poeta invita a rivolgerci agli dei perché ci concedano un’anima forte in un corpo robusto e che ci diano la forza di sopportare le fatiche e di affrontare le malattie. Che, se poi questo ci consente anche di spiccare un bel salto in alto o di illustrarci nel lancio del giavellotto, non potrà che farci piacere.

La riflessione di Giovenale non credo escludesse le nostre personali attività di sostegno alle grazie erogate dalle divinità sempre benaccette dalle medesime che, più tardi, ispireranno a qualche Bertoldo di buon senso il perfetto «Aiutati che il ciel t’aiuta». A star bene, a star meglio, a guarire. Marziale, un altro poeta latino che non potrà non piacere ai lettori più curiosi coniò questo motto: Non vivere sed valere vita est. Saggissimo. Sta per «La vita non è vivere, ma star bene» letteralmente. Il motto è più adatto al tempo nostro se reso con un’integrazione che ci fa riconoscere che «La vita non è “solo” vivere, ma star bene». Pregati gli dei, consultati i medici, accontentati i professori di ginnastica, ascoltati i farmacisti non restiamo che noi, con la nostra responsabilità e la nostra prudenza che dobbiamo pensare a noi stessi, ad anima e corpo. E per dirla sempre in Latino: Faber est suaequisquefortunae. Traduci, lettore, non è difficile. Tradurre esercita la memoria e, quindi, fa bene alla salute.

L’ideale dell’Io. La famiglia narcisistica moderna crea bambini adultizzati e adolescenti infantili. Matteo Lancini su L'Inkiesta il 20 Maggio 2023

Come spiega Matteo Lancini in "Sii te stesso a modo mio"(Raffaello Cortina editore), i genitori di oggi caricano i figli di aspettative e ideali sulla loro vita presente e futura che l’arrivo dell’adolescenza, invece, costringe a ridimensionare

Il cardine della famiglia affettiva è diventata la relazione, tanto con i membri del nucleo familiare quanto con i coetanei. I bambini, come abbiamo visto, non sono più sottomessi a regole inflessibili, non sono più obbligati a fare i conti con dolore, frustrazione e senso di colpa; così il vuoto lasciato dall’autorità paterna, ormai destituita, viene riempito da un calendario serrato di eventi a cui partecipare e da una lista di esperienze da spuntare, nemmeno si trattasse di una collezione di figurine. Celo, celo, manca! E se manca occorre rimediare al più presto. I pigiama party diventano eventi mondani irrinunciabili già a tre anni; le feste di compleanno vanno organizzate con mesi di anticipo per trovare la location più suggestiva, con l’animazione migliore; i primi passi incerti dell’infante vengono accompagnati subito dall’acquisto di un paio di scarpine Air Jordan o similari, che nel migliore dei casi dureranno un paio di mesi appena.

Ma non solo: i bambini vengono iperstimolati ogni giorno a comportarsi come piccoli adulti, a dire sempre la propria. Sanno acquistare, senza ancora aver imparato a leggere, un’applicazione sul tablet, sono abituati a essere festeggiati per il raggiungimento di competenze e autonomie che rispondono alle esigenze di genitori e insegnanti, a essere continuamente ripresi e fotografati “offline” e, in alcuni casi, a essere sovraesposti sui social già dieci minuti dopo essere venuti al mondo – talvolta con l’emoji di una castagna sorridente a nascondere i loro volti. Siamo di fronte a un’anticipazione delle esperienze e a una precocizzazione dell’adolescenza e del debutto sociale di bambini profondamente adultizzati

(…)

In passato i bambini erano dominati dal Super-io, che si plasmava a partire dall’interiorizzazione di norme e valori etico-comportamentali degli adulti di riferimento. Era il Super-io a farli sentire, la maggior parte delle volte, inadeguati e colpevoli; era lui a limitare il manifestarsi del vero Sé ed era contro di lui che i bambini, una volta diventati adolescenti, lottavano, trasgredendo e opponendosi. Nella famiglia narcisistica, invece, il Super-io viene sostituito dall’Ideale dell’Io, un’istanza psichica non meno esigente. I bambini vengono caricati di aspettative e ideali sulla loro vita presente e futura che l’arrivo dell’adolescenza, invece, costringe a ridimensionare, con il rischio di un crollo psichico, a fronte delle trasformazioni del corpo e della mente, portate in dote dalla nuova fase di sviluppo, dalla “seconda nascita” adolescenziale, spesso intesa come peggioramento estetico, di prestazioni e capacità.

Di fronte a ciò che viene percepito come un fallimento, il senso di inadeguatezza sperimentato dai bambini della famiglia narcisistica diventa bruciante vergogna e sferzante delusione. Il brusco allontanamento da miti di bellezza, successo e affermazione di sé – che nel tempo hanno generato esigenze di riconoscimento e valorizzazione – provocano dolore e rabbia per non aver raggiunto quanto prefissato, o quanto i genitori e gli insegnanti avevano immaginato per loro.

A questo cambiamento che si verifica con l’arrivo dello sviluppo puberale e adolescenziale, si aggiunge la difficoltà, se non l’impossibilità, da parte dei genitori, di adattare a questa nuova fase della vita tutti quei modelli affettivi e educativi che avevano presidiato l’infanzia dei loro figli. A un’infanzia adultizzata segue un’adolescenza fortemente infantilizzata. Gli adolescenti vengono accusati di essere diventati irresponsabili, di curarsi solo del superfluo, di passare troppo tempo su Internet – nonostante siano stati i genitori ad averli avvicinati fin da piccoli alla rete e ad averli dotati di tutti i dispositivi per restare in contatto con i coetanei e non perdere le relazioni; si cerca di raddrizzarli a suon di limiti, paletti, punizioni, senza rendersi conto che gli adolescenti sono cresciuti adattandosi esattamente alle richieste e ai modelli educativi narcisistici della società in cui sono nati. 

“Sii te stesso a modo mio – Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta”, di Matteo Lancini, Raffaello Cortina editore, 208 pagine, 14 euro

Da Salvini a Di Battista, quando l’imbarazzo cancella un post. E c’è chi se la prende con gli hacker. Storia di Paolo Decrestina su Il Corriere della Sera il 21 maggio 2023.

«Tweets volant, screenshots manent». Il commento di uno degli utenti del social network dopo il clamore per il post di Matteo Salvini a poche ore dall’alluvione in Emilia-Romagna la dice lunga su quanto sia praticamente impossibile ormai uscire «indenni» da un passo falso compiuto in Rete. Figuriamoci poi se il diretto interessato è un politico. «Cuore e impegno (e telefono che squilla di continuo) dedicati ai cittadini di Emilia e Romagna che lottano con acqua e fango. Un Milan senza cuore, grinta e idee non merita neanche un pensiero», aveva cinguettato il vicepremier. Un’associazione nello stesso post (quella del dramma dell’alluvione e della sconfitta del Milan in Champions) che ha scatenato polemiche e critiche da parte della Rete e da tanti avversari politici. Salvini è «un po’ ministro, un po’ ultras», ha commentato Mara Carfagna di Azione. «Ancora una volta torna utile Umberto Eco e la sua riflessione sui social e gli imbecilli», ha detto Nicola Fratoianni di Sinistra italiana.

E il segretario leghista che ha fatto? Intanto, ha rimosso il tweet. Perché se è vero che «screenshots manent», e quindi che nessuno potrà mai far scomparire del tutto la frase incriminata, è altrettanto vero che nessun altro potrà leggerla più sul suo profilo ufficiale. E, perché no, in un futuro ritirarla fuori. Come a dire, «SOS!», riduciamo il rumore subito anche se l’eco continua a risuonare. Una scelta, quella dell’ «autorimozione forzata» di un post, che troviamo molto spesso nella politica «digitale». Tra i casi più noti sicuramente la schiera di tweet pubblicati e poi cancellati da Donald Trump, un andirivieni che ha portato fino alla sospensione della pagina social dell’ex presidente degli Stati Uniti.

Tornando alla politica italiana, e sorvolando su chi, qua e là, se l’è presa con gli hacker (come dimenticare il drammatico post contro Grillo che fece scoppiare in lacrime Paola Taverna o la storia sulla pagina ufficiale Instagram del premier Conte che invitava a iscriversi al gruppo «Manda a casa Renzi!»), c’è il caso di un altro tweet discusso (e poi rimosso) che nel 2019 fa discutere addirittura Difesa (ministra M5S Trenta) e Viminale (ministro leghista Salvini). La Difesa cinguettando si congratula per l’intervento della Marina militare a tutela di nove pescherecci italiani insidiati dai libici. La notizia è totalmente falsa e il post viene cancellato. Troppo tardi, però, per non innescare le polemiche del Carroccio. Il Viminale definisce la Trenta «disinformata» e attacca: «Faccia il ministro, i militari meritano di più». Gli esempi non mancano.

C’è Alessandro Di Battista, che nei giorni delle polemiche sulle nomine Rai nel novembre 2021 attacca i suoi ex colleghi 5 Stelle al governo: «Dicevate che dovevamo stare dentro per controllare adesso che nemmeno stiamo più dentro cosa rimaniamo a fare?». Il post viene pubblicato su Facebook e poco dopo rimosso dallo stesso ex grillino. E poi c’è il caso di Ettore Rosato. Il suo post per la morte di Donna Assunta Almirante scatena la bufera social: «Con lei scompare una testimone di rilievo dell’eredità morale e politica del marito Giorgio Almirante e del Msi». Una pioggia di critiche investe l’allora presidente di Italia viva, che, pur spiegando il suo pensiero, decide comunque di rimuovere il tweet. Cancellare insomma. Per ridurre il rumore.

Modulo-Quelo. I buoni, i cattivi e la tragicommedia dei politici con i social sempre accesi. Guia Soncini su L'Inkiesta il 18 Maggio 2023

Il tweet di Salvini non è poi tanto peggio di Lepore che s’instagramma di continuo. Nessuno dei due lavora, ma il sindaco di Bologna, in teoria di sinistra, dovrebbe preoccuparsi di cosa ne sarà di tutte quelle persone che dormono sotto i portici se da giorni la città è sott’acqua

E quindi voi pensate che il problema sia che Matteo Salvini, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, avesse messo nello stesso tweet – un tweet che poi ha cancellato, ma figuriamoci se in una giornata feriale noi non abbiamo avuto il tempo di fare degli screenshot sui quali poi indignarci in una seconda giornata feriale – la prestazione scadente della sua squadra di calcio e l’alluvione in Emilia Romagna.

E quindi voi pensate che se il tweet di Matteo Salvini avesse contenuto solo la prima parte – cioè: «Cuore e impegno (e telefono che squilla di continuo) dedicati ai cittadini di Emilia e Romagna che lottano con acqua e fango» – allora sì sarebbe stata cosa buona e giusta. Anzi, forse no: ma non sarebbe andato bene perché Salvini è uno dei cattivi, mica perché obiettiate al modulo.

Lasciate che, prima di venire all’identico modulo-Quelo applicato da buoni e cattivi, vi parli della sindrome rara e incurabile che mi affligge: sono produttiva. Sono una che se deve consegnare un lavoro lo manda in anticipo, sono una che si sbatte per fare le cose fatte bene anche se ci vuole più tempo e attenzione che per farle sciattamente, sono una che pensa che il lavoro che sei pagato per fare tu debba farlo senza che ti preghino di farlo, ti ricordino che va fatto, si organizzino pensando che magari ti distrai e non lo fai. Da uno studio dell’università di Tubinga, in Italia siamo afflitti da questa condizione in non più di tredici.

Tredici infelici circondati da avvocati che non fanno il lavoro per cui li paghiamo, cameriere che non fanno il lavoro per cui le paghiamo, commercialisti che non fanno il lavoro per cui li paghiamo, editori che non fanno il lavoro per cui incredibilmente continuano a venire pagati. Gli unici che assolvono zelanti al loro compito sono i polemisti che diranno che sono sessista perché al femminile ho messo solo le cameriere – e infatti gli zelanti nessuno li paga.

Volete sapere come trascorriamo le giornate noi tredici, oltre che lavorando? Ricevendo i vostri messaggi. Messaggi in cui, come quindicenni che pensano di poter far fesso il prof, tentate d’intortarci notificandoci una produttività inesistente. Un giorno scriverò il grande romanzo della cialtroneria, e conterrà notifiche di «domani chiedo un appuntamento al pm», «stasera ti arriva la bozza corretta», e altre politiche dell’annuncio con cui i fessi improduttivi da cui siamo circondati noi tredici s’illudono di lasciarci una buona impressione. Si ricorderà di ciò che le ho detto che stavo per fare, diamine, mica di ciò che non ho fatto.

I politici italiani, che sono identici all’elettorato, hanno capito che, se dicono di lavorare tantissimo, poi non servirà che lavorino anche pochissimo, e da anni ci ammollano il modulo-Quelo: ma tu lo sai a che ora mi sono svegliato io stamattina, la bambina ha vomitato. Abbiamo lavorato a Ferragosto, lavoriamo anche la domenica, abbiamo saltato le vacanze. È tutto così, con l’aiuto di quell’infernale produttore di perpetua imbecillità che sono i social.

Che un politico stia sui social per dire una cosa giusta o una cosa sbagliata, comunque sta perdendo tempo. Per dirla in populistese: non è pagato coi miei soldi per twittare, per farsi le foto, per dire quanto lavora o parlare della partita, due concetti che perde esattamente lo stesso tempo a esprimere e che solo degli imbecilli possono collocare in una graduatoria morale. Cos’avremmo pensato vent’anni fa d’un politico che passasse le giornate a fare conferenze stampa? Perché non pensiamo la stessa cosa di politici che producono più contenuti social di Chiara Ferragni?

In questi giorni in cui Bologna affoga, il sindaco Matteo Lepore s’instagramma in corso di preterizione («non farò polemiche», dice mentre si filma che polemizza con l’opposizione); s’instagramma mentre un elicottero salva tre rom che stanno affogando (che sfiga essere bolognese, che peccato: fosse il sindaco di Roma, sull’elicottero ci sarebbe come minimo Tom Cruise che gira “Mission: Impossible”); s’instagramma mentre ci dice che è sera ma lui ancora vigila sull’acqua che sì, sommerge via Saffi, ma è colpa d’un negozio che non ha chiuso un buco da cui entra l’acqua (giuro: fanno a chi tocca chiudere il buco, mentre i residenti devono uscire di casa con le pinne e i braccioli; dice che, se non lo chiude il negozio, tra cinque giorni provvederà il comune: cosa sono mai cinque giorni, quando hai le branchie).

Lepore, come Salvini, come tutti, pensa (sa) che non conta quello che fa ma quel che mostra di fare, che racconta di fare, che s’autoscatta facendo. Quando Berlusconi faceva campagna elettorale definendosi «presidente operaio» lo prendevamo per il culo, poi sono arrivati i telefoni con la telecamera e abbiamo smarrito il senso del ridicolo (poi sono arrivati questi esibizionisti in minore e abbiamo rivalutato Berlusconi, anche).

Venerdì sera sono arrivata a Bologna alle nove e mezza, in stazione non c’erano taxi, e ho deciso di andare a piedi. Sotto il portico di via Indipendenza, un chilometro di strada tra la stazione e piazza Maggiore, c’erano decine di persone che dormivano. Non mi ha stupito più di tanto: conosco Bologna abbastanza da sapere quanto sia la San Francisco italiana, piena di poveri, di disperati, di gente di cui nessuno si occupa perché la sinistra postmoderna è impegnata a baloccarsi con l’identità di genere.

Ho pensato che avrei dovuto scrivere l’ennesimo pezzo sull’inutilità d’una sinistra che si autocertifica progressista e accogliente e tutti gli altri fantastici primati che il sindaco Lepore attribuisce alla città che amministra, e poi non si cura di chi vive per strada; avrei dovuto, ma non l’ho fatto perché mi vengo a noia da sola.

Però sono quattro giorni che diluvia abbastanza da avere l’acqua invaso anche i portici, e io mi chiedo dove dormano quei disperati, e non è che Salvini può fare un tweet insultandoli, così finalmente qualcuno li difende, finalmente qualcuno si accorge di loro, finalmente qualcuno fa una cosa di sinistra? Poi, se funziona, abbiamo la conferma d’un altro problema – le cose di sinistra vengono fatte solo per far dispetto a Salvini – ma almeno intanto abbiamo trovato ai dimenticati dal comune di Bologna un posto in cui possano dormire pur senza avere le branchie.

I social fanno emergere problemi personali latenti. Il Domani il 27 aprile 2023

I giovani che soffrono di dipendenza dai social media sono quasi 100mila in Italia, di cui i più giovani hanno una probabilità dieci volte maggiore di avere un’ansia sociale grave.

Questo dicono i dati di una ricerca congiunta tra il Dipartimento Politiche Antidroga e l’Istituto Superiore di Sanità.

Sono dati del tutto coerenti con gli allarmi sul drammatico peggioramento della salute mentale dei giovani che vengono lanciati sempre più spesso dalle scuole e dagli ospedali.

I giovani che soffrono di dipendenza dai social media sono quasi 100mila in Italia, di cui i più giovani hanno una probabilità dieci volte maggiore di avere un’ansia sociale grave. Questo dicono i dati di una ricerca congiunta tra il Dipartimento Politiche Antidroga e l’Istituto Superiore di Sanità. Sono dati del tutto coerenti con gli allarmi sul drammatico peggioramento della salute mentale dei giovani che vengono lanciati sempre più spesso dalle scuole e dagli ospedali.

Molti sostengono che a causare il malessere tra i giovani non è la dipendenza dai social media, ma è un malessere preesistente, mentre l’uso intensivo dei social media è semmai una conseguenza. La questione è stata posta chiaramente da Andrea Casadio su questo giornale. Ma una recente notizia già complica la questione: il distretto scolastico dello stato di Washington accusa le Big Tech, come Facebook e Instagram, di sfruttare i cervelli vulnerabili di milioni di giovani, causando in tal modo una crisi di salute mentale giovanile.

La richiesta è di essere risarciti per i servizi sanitari aggiuntivi che le scuole devono organizzare per gli studenti, il cui costo sta ricadendo sui contribuenti. Dal punto di vista individuale, è ragionevole pensare che la dipendenza dai social media sia una conseguenza di problemi personali, famigliari o scolastici. Infatti, i social media sono solo un mezzo che può anche essere usato per scopi molto utili.

Ma da un punto di vista sociale, l’uso generalizzato e intensivo dei social media, qual è oggi, può rendere più problematici i rapporti con gli altri, a causa del cyberbullying, dell’odio online, della continua competizione sociale. Può cioè far emergere problemi personali che altrimenti rimarrebbero latenti, e far aumentare così il numero dei giovani che dicono di star male. Da problema personale diventa un problema sociale, con conseguenze economiche che possono diventare rilevanti per i costi di cura dei disturbi mentali, e per le perdite future nella formazione educativa e professionale.

A confermare questa dimensione sociale del problema, un recente studio pubblicato sull’American Economic Review dimostra che l’introduzione dei social media nei college intorno al 2005 determinò, negli anni successivi, un aumento del numero degli studenti con problemi di salute mentale. Questo risultato è robusto perché è ottenuto confrontando i college dove ancora non era possibile usare i social media con quelli in cui era stata introdotta questa possibilità, riproducendo così in ambito sociale la metodologia di indagine causale tipica della ricerca sperimentale.

Non solo, ma altri studi che adottano una metodologia analoga per paesi come l’Inghilterra, la Germania, l’Italia e la Spagna raggiungono lo stesso risultato, e cioè che l’uso dei social media (o più in generale di Internet) causa la diffusione del malessere tra i giovani. Talvolta il malessere è misurato dal numero di diagnosi di disturbi mentali con cui i giovani sono stati dimessi dagli ospedali. Si tratta quindi di misure affidabili perché non soggettive e basate su grandi campioni.

A questo risultato concorre la non-neutralità con cui sono costruiti i social media. Le Big Tech, infatti, li hanno costruiti con lo scopo di massimizzare il numero degli utilizzatori e il loro tempo trascorso sui social media. E non, quindi, di massimizzare il benessere delle persone. Anzi, allo scopo di fare profitti hanno sfruttato alcune ‘debolezze’ tipicamente umane, come quella di preferire le notizie che confermano le proprie convinzioni.

Oppure quella di preferire un video momentaneamente divertente ad una informazione impegnativa ma utile per il futuro. Ma in tal modo si alimenta la polarizzazione delle opinioni a discapito dell’informazione scientifica e documentata. E si compromettono attività volte a costruire un futuro individuale e sociale migliore, come lo studio e la partecipazione democratica, che stanno alla base di un solido benessere individuale e sociale.

Il problema del crescente malessere dei giovani andrebbe affrontato con più strumenti. Non soltanto con la cura individuale risalendo alle cause nella loro storia personale. E nemmeno basterebbe migliorare le condizioni del mercato del lavoro e quindi le prospettive future, essendo il malessere giovanile un fenomeno presente in paesi con condizioni assai diverse in quel mercato. Occorre anche contrastare il potere monopolistico che detengono le Big Tech su uno dei beni più importanti nella vita individuale e sociale: le modalità di comunicazione tra le persone.

Esibizionisti e narcisisti. Estratto dell’articolo di Mauro Masi, delegato italiano alla Proprietà Intellettuale, per “Milano Finanza” il 15 aprile 2023

Studi, ricerche e saggi vogliono metterci in guardia dalle distorsioni cognitive e comportamentali che può creare un uso abnorme della rete: […] anche magazine a grande diffusione come Time e Newsweek […] puntano il dito sulla malata dipendenza che può generare l’eccesso di presenza sui social.

 Anche da noi questi temi non sono una novità: di recente sono apparsi sulla stampa italiana articoli che hanno riportato brani di uno studio realizzato da un gruppo di lavoro della scuola di psicologia dell’Università di Firenze. La ricerca approfondisce la relazione tra «il tratto narcisista e l’uso di Internet».  Le conclusioni sono devastanti: selfie e followers stanno fomentando un narcisismo dilagante alimentato da uno “smodato culto della personalità”. […]

Quindi Internet non ci renderebbe solo più stupidi (come anche io ho scritto nel libro pubblicato già nel 2015 da Class Editori) ma anche sempre più esibizionisti e disadattati. Ma è davvero così? Non tutti sono d’accordo, anzi proprio negli stessi Stati Uniti già da qualche tempo si sta esplorando un terreno nuovo e sorprendente per l’utilizzo di quei terminali della Rete che sono gli Smartphones facendoli diventare addirittura uno strumento di psicoterapia.

 Uno studio dell’università di Harvard suggerisce infatti la possibilità che attraverso delle specifiche app lo smartphone possa aiutare a contrastare alcuni comportamenti negativi che, in certi contesti, può assumere inconsciamente il cervello umano. È […] il caso di coloro che soffrono di “ansietà sociale” una forma di forte e invalidante timidezza.

Questi soggetti tendono inconsciamente ad individuare in un insieme di persone quelle che sembrano avere il viso più ostile e “fissarsi” su di essi ignorando tutti gli altri e restandone paralizzati.

 Una delle applicazioni testate da Harvard […]  fa apparire sul telefono […] delle facce ostili insieme ad altre normali e, con un semplice meccanismo, abitua ad identificarle e scaricarle. Va ripetuta nel tempo e in ogni circostanza si voglia fino a farlo diventare – proprio come in un video-gioco – una sorta di comportamento “automatico” per la nostra mente. Gli studi sono solo agli inizi e tra gli addetti ai lavori si registrano grandi entusiasmi ma anche diffuse perplessità.

Troppe parole senza dire la verità. Storia di Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 28 gennaio 2023.

Fedez continua a fare battute infelici su Emanuela Orlandi: «Il Papa dice che è in cielo? Forse fa la pilota». Moni Ovadia si scaglia contro l’invito di Zelensky a Sanremo: «Basta umiliazioni a Putin». Gli fa eco Matteo Salvini, più sprezzante del solito: «Zelensky? Non so come canta, ho altre preferenze». Nevica a Ragusa? Il senatore Lucio Malan: «Fiocchi che imbiancano la città. Il riscaldamento globale non perdona». Ogni giorno registriamo ingiurie al silenzio. Tutti hanno accesso alla parola, e non è stata una conquista facile. Una volta acquisito il diritto, però, lo si è svuotato di valore. Perché si parla senza più dare peso alle parole? Qualcuno sostiene che è colpa della tecnologia: le dinamiche comunicative dei social trasudano dell’immediatezza tipica di un dialogo al bar. Per emergere da un contesto sempre più frenetico, per avere visibilità c’è poi bisogno della battuta a effetto. Qualcun altro sostiene che nel nuovo contesto mediale, così affollato, è venuta meno la passione per la verità: tanto nessuno più chiede conto di quello che si dice. «Tutte le parole sono logore e l’uomo non può più usarle». Con sorprendente «modernità» l’Ecclesiaste (1, 8) coglieva nel segno uno dei punti deboli della comunicazione umana giunta oggi, come non mai, alla sua fase parodica.

Barbecue e pettegolezzo, comicità e potere. Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico - su L'Indipendente il 28 gennaio 2023.

Vorrei iniziare con una curiosità: barbecue e pettegolezzo sono parole con qualche comunanza di significato. Barbecue è termine francese che indica una cottura della carne (meglio, dell’animale) sulla brace, dalla barba alla coda (e quindi al culo); pettegolezzo mescola, sempre in modo popolaresco e villano, in una etimologia immaginifica, la gola con l’aria del ventre e il derivante cattivo odore. In inglese rumor, per dire vociferazione, diceria, non si discosta troppo, pur richiamando l’aulico latino rumor populi (reputazione, voci che circolano). L’evocazione è di stampo barbarico, come il tempo in cui stiamo vivendo.

Il grande studioso russo Michail Bachtin si riferiva al basso corporeo, nel mondo medievale, come alla dimensione del carnevale con la sua variegata cultura comica popolare, dai divertimenti di piazza alle parodie, dalle ingiurie contro re e governanti alle varie forme del ridere e del gioco, con al centro la burla, il corpo, la sessualità; il tutto in opposizione alla cultura ufficiale, della chiesa e del mondo cavalleresco.

La carnevalizzazione, bisogna tuttavia sottolineare, veniva esercitata più come atto della vita che come spettacolo, più come follia che come alternativa, più come gioco che come rappresentazione. Ora, nei nostri anni, questa modalità è entrata a pieno titolo nell’arena del potere e nelle sue forme di celebrazione, comprese quelle dei media, tanto che si è potuto parlare di carnevale permanente.

Il grottesco appare come una forte chiave interpretativa, ma con le dovute precisazioni. Se infatti, in una prima fase della nostra cultura, nel Medioevo e nel Rinascimento, il grottesco si afferma in tutta la sua purezza e ambivalenza, e corrisponde alla grande tradizione del realismo comico e del comico popolare dove il riso ha una funzione eminentemente liberatoria (dalla paura della morte alla insofferenza delle gerarchie e del potere), nella fase moderna il grottesco si impone nella sua forza puramente critica e negativa e si avvicina alle forme del mostruoso, del raccapricciante, del gotico romantico, del noir, fino al tragico contemporaneo.

Il punto di snodo, tra queste due epoche, è proprio determinato, genericamente parlando, dalla cultura classicista e da quella illuministica che sembrano abbandonare ogni forma di ambivalenza in favore delle virtù del rigore e della ragione. Ma è proprio in questo snodo che si sviluppano le commedie della chiacchiera e le localizzazioni del pettegolezzo in nuove aree e luoghi sociali.

Anche le intercettazioni, con i loro casi intimi clamorosi – da clamor, parola latina ancora e Clio la sua dèa, padrona e sovraintendente della notorietà – con le vicende costruite sull’insinuazione e sulla maldicenza, backstage e fuori-onda rivelatori ecc. – vanno ricondotte ai loro retaggi ancestrali, alla attrazione per le disavventure altrui. Il tema esprime in modo inequivocabile quella potente miscela di anima e corpo, di pensiero e parola che presiede alla espressività umana, considerata dal suo lato più autentico.

Tutto ciò di cui stiamo trattando ha a che fare con la parola e con la verità. Dunque, la verità, in una concezione popolana, mediatica, non ha origini nobili bensì inquietanti modi di venire allo scoperto. E questo perché è stata occultata, perché è dura da digerire, da accettare.

La tradizione di stampo etnografico dice che la verità prorompe improvvisa e vani sono i tentativi di gestirla con gradualità e circospezione. E ha un’anima bastarda: la verità è linguistica, è dichiarativa, è nelle parole prima che nei fatti ma talvolta non ce la fa a esprimersi a dovere, e scaturisce sgrammaticata, senza controllo, corporea e non razionale. Spiritosa più che spirituale. Animale più che animosa.

Splendida la strepitosa apertura di Vanity Fair (La fiera della Vanità, 1848), romanzo di W. M Thackeray il cui nome è stato poi attribuito a un grande magazine di moda e scandalistico. L’ambiente mostra la scenografia di un’azione festosa ed è meravigliosamente precorritrice dell’attuale clima volgare dei social.

Godetevi dunque il parallelo con la rozzezza dei commenti on line.

Quando il capocomico si siede sul palco davanti al sipario a contemplare la fiera, osservando quel luogo brulicante di vita, viene travolto da un sentimento di profonda malinconia. E pieno di gente che mangia e che beve, che amoreggia e che si accapiglia, che ride e che piange, che fuma e che bara, che si azzuffa e che balla oppure suona il violino; e poi ci sono attaccabrighe che fanno gli smargiassi, bellimbusti che ammiccano alle donne, furfanti che rubano borsette, poliziotti sempre allerta, ciarlatani che strillano davanti ai baracconi, campagnoli che guardano estasiati le ballerine piene di fronzoli e i poveri vecchi saltimbanchi impiastricciati di belletto, mentre individui dalle agili dita gli svuotan le tasche. Sì, questa è la Fiera della Vanità: senz’altro un luogo né edificante, né allegro, anche se molto chiassoso. Ammirate il volto degli attori e dei pagliacci appena finiscono il loro numero; e Tom il buffone che dietro la tenda si leva il belletto prima di sedersi a tavola assieme alla moglie e ai suoi figlioletti. Tra poco si alzerà il sipario, e lui sarà lì a far capriole e gridare: – Ehi, voi, tutto bene?”

Come spiegava Totò, non si può far ridere gli altri se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffelatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma, non si può essere un vero comico senza aver fatto la guerra con la vita.

Potere e comicità, insomma, cioè miseria e nobiltà.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Maleducazione e cattiveria. Da Aristide a Michielin. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 27 gennaio 2023.

Ogni giorno c’è qualcuno che non ne può più. Ieri è toccato alla cantante Francesca Michielin, una delle persone più aggraziate e sensibili che conosco. Stufa di leggere i commenti di emeriti sconosciuti che discettavano sui suoi brufoli, è sbottata: «Non sappiamo più farci i c. nostri!». Ha ragione, ma non ce li sapevamo fare neanche prima. L’unica differenza è che prima la vittima non ne veniva quasi mai a conoscenza. Sarebbe rassicurante se la colpa fosse dei social che, dice la Michielin, «ci hanno portato ad avere una opinione su tutto e a convincerci di avere la verità in tasca». In realtà è la natura umana che ha la maldicenza e la saccenteria nel suo patrimonio genetico. Un motto della Firenze rinascimentale ammoniva: «Pensa sempre che gli occhi e gli orecchi del popolo siano cattivi». E, andando ancora più a ritroso, Plutarco racconta che quando ad Atene si mise ai voti l’esilio dell’onesto politico Aristide, un elettore analfabeta si avvicinò proprio a lui e, non riconoscendolo, gli chiese di scrivere sul coccio la sua approvazione. Aristide domandò: «Cosa ti ha fatto di male, questo Aristide?» E l’altro: «Nulla, ma mi sono rotto le scatole di sentir dire da tutti che è una brava persona!» Non oso pensare che cosa avrebbe combinato quell’elettore dell’Antica Grecia con un telefono in mano. Ma non sarebbe stato né migliore né peggiore dei «followers» della Michielin. Quando si tratta di sparlare degli altri, l’umanità manifesta una fiera renitenza all’evoluzione.

Alessandro Bertirotti il 23 Gennaio 2023 su Il Giornale.

È tutta questione di… sporcizia.

In effetti, nel leggere questa notizia è naturale produrre qualche considerazione.

Qualche decennio fa, per una serie di condizioni culturali relativamente positive nelle quali versava la nostra nazione, e forse l’intero mondo, esisteva e si poteva assistere all’espressione di uno stile comunicazionale ben diverso da quello odierno.

E questa è la prima considerazione che sorge spontanea, rispetto alla notizia che ho riportato e nei confronti degli attuali talk televisivi, i quali hanno, peraltro, un certo successo di ascolto.

Nasce dunque la domanda delle “domande”: cosa è accaduto nella storia del mondo e del nostro Paese, per far sì che il livello di educazione e lo stile comunicazionale siano caduti così in basso? Anche se è sempre difficile, e pressoché quasi inutile in ottica antropologico-culturale, trovare una causa specifica per l’avvento di comportamenti umani generalizzati e contingenti, penso che sia sempre utile, per una personale riflessione sul mondo, porsi la domanda sulle “cause” degli eventi e delle manifestazioni umane.

Dal mio punto di vista, si sono andate manifestando, esageratamente, due tendenze naturali e presenti nell’essere umano: a) la formazione di idee che semplificano esageratamente i comportamenti umani; b) la credenza di poter esprimere le proprie opinioni rifiutando, con relativa offesa, quelle altrui.

Da cosa dipendono questi due atteggiamenti?

Sempre dal mio punto di vista, dipendono dall’assenza di consapevolezza esistenziale, con il relativo aumento di un egocentrismo che sfocia in megalomania cognitiva, come se il proprio pensiero fosse talmente “vero” da dover giustificare la “necessità” di offendere l’altrui.

Ai miei tempi, ossia quando ero giovane io, se avessi dovuto parlare così in casa, con i miei fratelli e genitori, avrei certamente ricevuto ammende di un certo tenore, anche fisicamente espresse. In famiglia, come a scuola ed ovunque in luoghi pubblici, si doveva sempre tenere presente l’idea di “decoro ed opportunità”, in una parola di “educazione”.

Forse, aveva ragione Umberto Eco quando affermava: “Internet? Ha dato diritto di parola agli imbecilli: prima parlavano solo al bar e subito venivano messi a tacere. I social danno diritto di parola a legioni di imbecilli“.

Ecco, mi sembra che siano state sdoganate non solo l’imbecillità, ma la maleducazione e la cattiveria.

Fanno polvere. Consigli sonciniani sul perché dovete buttare subito tutti i libri che avete in casa. Guia Soncini su L’Inkiesta il 27 gennaio 2023.

Possedere una biblioteca personale non vi renderà persone più colte, né vi darà magicamente una personalità. E, soprattutto, sugli scaffali non mettete i Meridiani insieme

«Il titolo di quest’articolo è stato rettificato il 24 gennaio perché enfatizzasse maggiormente il punto centrale della tesi dell’elzeviro». Quando, tra cento anni, andranno in cerca del contrario del «combatteremo sulle spiagge» di Churchill, quando vorranno ricostruire le parole della resa, potranno rievocare questo rigo sul sito del Guardian.

Un rigo aggiunto quando, dopo ventiquattr’ore di suscettibilità e delirio, è stato chiaro che gli articoli (ve lo dicevo ieri) non li legge nessuno, e se li lasci tali e quali ma gli cambi il titolo la gente più stolida – cioè: gli istruiti che si sentono colti – smetterà d’indignarsi.

Il nuovo titolo è: Leggere è una bellissima cosa, ed è per questo che do via i miei libri. Il vecchio titolo era: Leggere è una bellissima cosa, ma santificare il fatto di possedere dei libri può essere una cosa da ceto medio presuntuoso.

Vi dirò: il vecchio titolo secondo me ci andava pure piano. Quando si poteva far l’ospite televisivo da casa, via Zoom, e io avevo un libro da vendere e non mi sottraevo certo alla promozione, una persona saggia mi segnalò la pagina Facebook di Joan Baez. Mi disse che faceva delle bellissime dirette dalla cucina, tra pentole e mestoli, almeno dietro non si vedono quelle pareti di libri che servono a dire: guardarmi, avevo buoni voti al liceo. Insomma: potevo collegarmi anch’io dalla cucina, risparmiando a tutti il velleitarismo di quei Supercoralli alle spalle.

Seguii il consiglio, ma – avendo ormai da decenni perso il controllo degli oggetti che riempiono le mie case – fallii miseramente: anche sui mobili della cucina, assieme ai biscotti e alle salse, alle pentole e alle reti di cipolle, anche lì c’erano pile di libri.

L’anno scorso ho affidato a una cameriera il compito di tirare fuori dagli scatoloni d’un trasloco i libri impolverati e di spolverarli. Mi sono raccomandata di metterli tutti per terra, poi a sistemarli nelle librerie ci penso io, e sono andata in altre stanze. La tapina non era di buone letture ma era di buon istinto: le era evidente che i libri sarebbero rimasti per terra per sempre.

Quando sono tornata in salotto li aveva messi sugli scaffali, e li aveva messi sugli scaffali come li metterebbero i velleitari che poi fanno la diretta con la libreria ordinata alle spalle: i Meridiani tutti insieme. Mi è quasi venuto un ictus, e per giorni ho citato a tutti quelli con cui parlavo quella scena dello Zio indegno in cui Giannini organizza la biblioteca di Gassman in ordine alfabetico, e quello dà fuoco a casa per rimediare.

Ma poi la pigrizia ha vinto sull’orrore e un po’ di Meridiani son rimasti lì, vicini e intoccati (i Meridiani sono fatti per quelli che non fanno le chiazze d’unto sulle pagine e ti dicono seri che non si sottolinea a penna). Qualche settimana fa ho messo un video su Instagram e, tra cento commenti sul disordine della libreria alle mie spalle (ognuno di quei commentatori si sentiva acuto osservatore, e aveva probabilmente una biblioteca senza neanche una Jackie Collins), ce n’era uno che si compiaceva dei Meridiani tutti vicini. Forse dare fuoco alla casa non è abbastanza, forse bisogna dare fuoco al ceto medio riflessivo.

Insomma il Guardian pubblica questo elzeviro, il cui sommario originale diceva «a volte butto i libri nella raccolta della carta» (io sempre: se devo cercare biblioteche cui donarli, diventa un lavoro), ma poi è stato emendato in «dono i miei libri a chi può averne più bisogno» (la versione midcult della famiglia Ferragni che dà in beneficenza la lattuga lanciata durante i festeggiamenti).

Elzeviro in cui una tizia dice sì che possedere una biblioteca viene considerato un sostituto dell’avere una personalità, ma dice anche cose ben più medioriflessive di quelle che direi io se dovessi parlare della borghesia aspirante colta che usa i libri per rappresentarsi. Per esempio, dice che ha iniziato a buttarli per liberarsi di quelli di cui si vergognava. Ne avrete anche voi, dice, e io penso: no, ho più di dodici anni e ho smesso di soffrire se gli altri bambini mi prendono in giro perché mi piace la cosa sbagliata.

Dice anche che feticizzava i libri, ma poi ha sposato un buddista che quando finisce un libro lo dà via. Quindi uno che i libri li compra e li legge, come facevo con gli Harmony comprati all’edicola della spiaggia negli anni delle scuole medie. Un’idea che non mi è mai aliena quanto lo è a gennaio, il mese degli sconti Adelphi.

Ogni gennaio io vado per comprare Adelphi scontati cercandoli tra i titoli che vuoi che prima o poi non legga, vuoi che prima o poi non mi servano, vuoi che prima o poi non; ogni anno, quest’intenzione s’infrange sul messaggio con cui Amazon mi umilia. È successo di nuovo tre giorni fa, cliccando sulle Interviste impossibili di Manganelli: «Hai acquistato questo articolo l’ultima volta l’8 febbraio 2015». L’elzevirista inglese, nel far imbestialire tutti i commentatori anglofoni, non affrontava il dramma di noialtri che per quanti libri buttiamo ne abbiamo comunque troppi per trovare quelli che ci servono, troppi per sapere quali non abbiamo, troppi perché siano di una qualsivoglia utilità.

Mentre ricompro in ebook tre libri che mi servono per scrivere una cosa, tre libri che già possiedo ma mica posso perdere tre giorni a cercarli, scorro i tweet indignati. «Che articolo orribile, io da piccola ero povera e i libri erano la mia via di fuga e i miei amici». «Ma come si permettono di dire che amare da una vita le parole e la conoscenza e la storia non è una personalità». «Se guardi gli annunci immobiliari in poche case ci sono libri».

E meno male, ragazza mia. Perché – glielo dico da una casa con migliaia di inutili volumi, e quattro Meridiani vicini vicini posizionati alle mie spalle, quello di Musil ancora col cellophane – lo sa cosa si ricava dall’avere una biblioteca in casa?

No, non l’avere una personalità. Sì, le domande dell’idraulico che vuol sapere se li hai letti tutti e se gli dici che tra i libri bisogna passeggiare chiama la buoncostume. Ma, soprattutto: se ne ricava polvere. C’è una cosa che accomuna noialtre che abbiamo in casa tantissimi di quei totem che lei chiama libri: che la messinpiega ci dura sette minuti, perché casa nostra è più polverosa d’una miniera. Quindi, date retta: come sfondo per le dirette su Zoom, mettete delle pirofile sui vostri scaffali.

Avete tutti torto. Siete noiosissimi, ma siete tutti materiale narrativo. Guia Soncini su L’Inkiesta il 26 Gennaio 2023

I deliri narcisistici, le banalità e le prediche online o sul treno mi servono moltissimo (anche per questo articolo). Ma mi chiedo: a leggere Vongola75 invece di Proust, finirò per disimparare a usare le parole?

Una volta avrei twittato. Avrei – in 140 battute nello scorso decennio, 280 più di recente – regalato a gente che non comprerebbe mai un mio libro il mio prezioso motteggio sui fatti del giorno. Le donne che lamentano le troppe opinioni maschili sulla gestione dei neonati in ospedale? Pronti, via: «Ma quindi esistono di nuovo le donne, non bisogna più dire “persone che mestruano”, questa tragedia a qualcosa è servita». La battuta del marito della Ferragni su Emanuela Orlandi? Eccomi: «Il punto non è se l’oggetto della battuta è drammatico, il punto è se l’esito della battuta non è comico».

Non credo che ci sia un fatto del giorno su cui una persona che lavora con le parole non sappia trovare parole, e questo al netto dell’illusione social per cui ogni Vongola75 si sente Karl Kraus. Una volta, in un punto imprecisato tra quel Nanni Moretti che scandì che le parole sono importanti, e l’oggi in cui ripetiamo la frase del film avendola svuotata d’ogni significato (e quindi smentendola), una volta avrei avuto voglia di dire cose.

Questo non è un articolo per dire che lascio i social. Lo specifico perché conosco i miei polli. I polli che, diciassette mesi fa, quando scrissi che mi ero rotta i coglioni dei social ma avevo come tutti la sindrome di Stoccolma, e come tutti ci restavo anche se mi facevano schifo, passarono settimane a twittare «beh? non doveva andarsene? come mai è ancora qui?» (mica potevano googlare “sindrome di Stoccolma”, devo imparare a metterla giù più facile).

I polli che da una settimana rispondono, in articoli e interviste, a un articolo della Stampa in cui Concita De Gregorio avrebbe annunciato il suo abbandono dei social. Solo che in quell’articolo lei non annunciava alcun abbandono. Lo so: i lettori leggono solo il titolo, e i giornali titolano l’articolo che gli avrebbe fatto piacere pubblicare al posto di quello che gli hai effettivamente mandato.

Questo è un articolo per dire che hanno tutti torto, come spesso accade. Quelli cui urge esprimersi sul tema del giorno, e quelli che li sgridano. Quelli che per dire che bisogna esprimersi meno scrivono duecentocinquanta righe (Time, che la settimana scorsa ha dedicato alla raccomandazione circa lo starsene zitti la copertina), e quelli che si contano i like e ritengono siano una dimostrazione che sono nel giusto. Hanno tutti torto, ma soprattutto sono tutti noiosissimi.

L’altro giorno una tizia mi ha parlato. Nessuno dei miei amici ci crede, quindi lo scrivo qui per renderlo ufficiale. C’è, a piede libero, una tizia in Italia che nota la mia amabile espressione e cambia posto per venirmisi a sedere di fronte e raccontarmi la storia della sua vita. Che è noiosissima, giacché in un ecosistema in cui non si preoccupa d’essere interessante la gente che inviti a cena figuriamoci se si pone il problema una sconosciuta in treno.

I miei amici non ci credono perché, quando provano a raccontarmi la storia della loro vita, io dico cose amabili quali «Lo sai, vero, che non sei un conversatore interessante» o «Sì, dai, raccontami per la quattrocentesima volta questo aneddoto, le prime trecentenovantanove mi ha così avvinta».

Non credono che sia rimasta lì, inerte, a subire i dettagli della tizia sul figlio iscritto a filosofia (ettepareva), la mancata intelligenza affettiva dei milanesi, la qualità della vita in Toscana, il part time che non le vogliono concedere ma lei ha diritto a tempo per sé. I miei amici non hanno ancora capito che certo che ascolto la tizia, certo che non me ne vado dai social: è tutto materiale.

La mediocrità degli esseri umani è materiale narrativo preziosissimo, e in una conversazione di brillante basto e avanzo io, ma nei momenti di malumore mi assale un dubbio: sarà contagioso? A leggere Vongola75 invece di Proust, finirò per disimparare a usare le parole?

Il dubbio che, a usarle gratuitamente, esse comunque si svalutino non ce l’ho: è una certezza. Perfino Hanif Kureishi, da un letto d’ospedale, dopo qualche giorno di degustazione del prodotto ha trasferito le sue cronache di degenza da Twitter a Substack, a pagamento. È paralizzato, mica dilettante.

L’altro giorno una persona che lavora in un giornale ha scritto su Facebook un ottimo editoriale sulla questione del neonato morto. Le ho detto: ma lo pubblichi sul giornale, vero? Mi ha risposto che no, sul suo giornale non pubblicano quel genere di pezzi (il genere interessante? il genere con subordinate?), ma stavano raccogliendo storie di parto. Mi è sembrato un eccellente bollettino del disastro in corso. Quelle che saprebbero scrivere sacrificano la loro prosa all’altare dell’arricchimento di Zuckerberg; e i giornali pubblicano il vissuto delle non professioniste, le quali dovrebbero comprare i giornali per leggere altre dilettanti come loro, che hanno esperienze e non opinioni, vissuto e non studi, emotività e non prosa.

Persino in un programma emotivo del sabato sera, “C’è posta per te”, hanno chiaro che le storie vanno raccontate dai professionisti, e quindi le ricostruisce Maria De Filippi e non il caso umano di turno, ma nei giornali no. Cosa potrà mai andar storto.

Dice Time che bisogna strologare meno sui fatti propri e lasciare un po’ di mistero. Che bisogna essere meno il principe Harry e più Dirty Harry. Gioco di parole intraducibile giacché il film sull’ispettore Callaghan in Italia non s’intitolava “Dirty Harry”. Ma anche battuta rispetto alla quale Vongola75 obietterebbe sì, ma le cinquecento pagine di fatti suoi del principe Harry hanno venduto settantanovemila copie nei primi sei giorni, col silenzioso carisma e il sintomatico mistero io come diavolo fatturo? Le si potrebbe rispondere con gli incassi di “Ispettore Callaghan”, ma era il 1971: gli italiani pagavano il biglietto per il cinema, invece di mettere gratis like alle gratuite opinioni social.

E poi ci sarebbe un’altra obiezione, che Vongola75 non è in grado di concepire ma io sì, solo che non sono poi in grado di scioglierla e infatti diciassette mesi dopo mi strazia nello stesso modo. “Ispettore Callaghan” devi saperlo scrivere, dirigere, recitare. È un’opera dell’ingegno, non della fama. Vongola75 non saprebbe concepirla, e quindi ripiega sui motteggi gratuiti; ma noialtri, che scusa abbiamo?

Non ho mai partorito, ma…Il dramma del metodo scientifico nel facinoroso mondo dei social. Guia Soncini su L’Inkiesta il 25 Gennaio 2023.

Il neonato morto in ospedale ha fatto emergere plotoni di picchiatelli che su Twitter e Instagram praticano epistemologia identitaria, mistica della maternità e se-non-sei-madre-non-puoi-capire

Non ho mai partorito, ma una volta, alle quattro di mattina, una neurologa che mi stava per fare una tac mi disse che lei non lo sapeva ancora, se avessi avuto un ictus, ma comunque non avrebbe potuto applicare il protocollo perché, acciocché sia efficace, quel protocollo di cura va somministrato entro tot ore, che erano più di quelle lungo le quali infermieri e dottori mi avevano mollata nella sala d’attesa del pronto soccorso.

Non ho mai partorito, ma alla vigilia d’un intervento (in clinica privata) per l’endometriosi ho detto all’anestesista (donna) che non volevo la spinale (mio padre era anestesista, e la sua storia del terrore preferita era la paralisi se ti sbagliano la spinale: grazie papà, tu sì che hai saputo lasciarmi i tabù giusti). Un attimo prima che entrassi in sala operatoria, la stronza è venuta a insistere, eh ma sennò poi devo farle più morfina, ma mi faccia la morfina e si faccia i cazzi suoi – che adesso lo dico perentoriamente ma lì singhiozzavo come chi è nella posizione di debolezza di una che ha paura pure dei prelievi di sangue e stanno per aprirle la pancia.

Non ho mai partorito, ma ho nel telefono dei filmati di una delle volte in cui sono stata in un pronto soccorso, nessuna delle quali per fortuna per cose letali. Ho dei filmati perché non c’era campo telefonico ma c’era il wifi (grande metafora di non so bene cosa), e agli amici preoccupati mandavo filmini della gente mollata assieme a me in una specie di deposito corpi non diagnosticati, molti (corpi) dei quali urlavano ininterrottamente.

Siete mai stati in un pronto soccorso? Urlano tutti, e nessuno fa quel che, se non sei mai stato in un pronto soccorso, ti sembra normale e naturale fare se qualcuno già malato urla: accorrere.

Medici e infermieri non accorrono perché sanno che sono falsi allarmi? Forse, ma poi ci sarà l’uno su mille che ha una vera emergenza (e pure se non ce l’ha: una volta una signora dall’apparente età di centoventi anni ha urlato che voleva l’acqua così a lungo che se ci ripenso mi sale la sete e l’angoscia e la voglia di prendere a schiaffi l’infermiera che poco più in là chiacchierava di linee di autobus con un’amica passata a trovarla).

Non accorrono perché se non hai tre dita di pelo sullo stomaco come diavolo fai a stare in mezzo a gente che sta male tutto il giorno e a non farti venire l’esaurimento? Forse. Mio padre, quando da piccola a cena mi lamentavo di qualcosa, rispondeva: che vuoi che sia, oggi abbiamo operato uno col cancro, l’abbiamo aperto e richiuso – e lo diceva col tono con cui io riferisco che Glovo mi ha portato il pranzo freddo.

E quindi questo non è un articolo sulla tizia il cui neonato è morto perché la mistica della maternità è persino più pervasiva di quella della bellezza, non lo è perché quel che c’è da dire sulle responsabilità del sistema l’ha già scritto Assia Neumann, ma soprattutto non lo è perché io non sono abbastanza sensibile da pensare al bambino morto: io penso alla madre viva, a una madre che ha per distrazione ucciso il figlio, al plotone di psicologi che spero le abbiano messo intorno, a una tragedia che persino Euripide o Sofocle avrebbero qualche remora a immaginare.

Non ho mai partorito, ma non è per questo che non parlo di come sarebbe meglio accudire le madri. Anzi, vi dirò: questa deriva dell’epistemologia identitaria non è la soluzione, è il problema.

Ormai siamo abituate, e quindi quasi non ci fa impressione la diffusa modalità per cui è autorizzato a parlare solo chi ha subìto il problema. L’altro giorno ho visto un filmato in cui una militante dell’Instagram sosteneva che se sei contrario all’aborto ti basta non abortire. Sotto, commenti d’entusiasta condivisione di questa miseria dialettica.

Non sarebbe un problema (il mondo è sempre stato costituito più da gente inabile dialetticamente di quanto lo fosse da Christopher Hitchens), non fosse che a quella militante lì la tv dà uno spazio per dire la sua sull’attualità, che per quella militante lì le case editrici stanno facendo un’asta per farle rilegare i suoi penzierini e farne un’intellettuale, una filosofa, una che legittimamente può sentirsi pensatrice di professione, una di quelle che gli americani chiamano pomposamente published author. Una che fa il mio stesso mestiere, che il dio del fare fatturato purchessia fulmini gli editori.

Quindi, se una troppo scema per capire che chi è contro l’aborto pensa si tratti di assassinio, e per questa metà della popolazione dire «e allora non farlo» è come dire che non servono leggi contro la pedofilia, «se sei contrario, non scoparti i bambini», se una così è una che io dovrei considerare interlocutrice alla pari, non è che possiamo prendercela con le disgraziate qualunque.

Disgraziate qualunque che ieri, a commento del dibattito sul neonato morto e le ostetriche stronze e le madri stanche e il sistema che non funziona, twittavano elogi ai loro ginecologi che ammettevano di non sapere niente del parto essendo (orrore) maschi che non l’avevano «vissuto per esperienza diretta».

Se non scartassi molti interventi social pensando «ma questo può essere un articolo» (e molti articoli pensando «ma questo può essere un libro»), avrei risposto alla signora che l’epistemologia identitaria, ovvero l’idea che il ginecologo conosca ciò che ha vissuto e non ciò che ha studiato, ci ha portate fin qui: alla mistica della maternità, del se-non-sei-madre-non-puoi-capire, dell’allattamento al seno che guai se non lo fai, come vivessimo nella foresta e al neonato servissero anticorpi a infezioni che il Napisan e gli antibiotici non conoscono.

Non ho mai partorito e non ho mai voluto figli, ma solo per caso non mi è capitato quel che accade a molte (saltate queste righe se la vostra identità di madri è una vocazione religiosa): d’innamorarmi di uno che i figli li vuole, e di assecondarlo.

In quel caso sono però abbastanza certa di come sarebbe andata, con la sicumera che ho quando non sono sul tavolo operatorio: li avrei adottati. Questo nella migliore delle ipotesi: ho un’amica di buoni studi e apparente equilibrio psichico che è quasi morta di parto perché, nonostante si sapesse che aveva molti problemi, il marito ci teneva troppo che il figlio avesse il suo dna per optare per l’adozione. Sì, in questo secolo.

Nell’ipotesi in cui anch’io fossi stata accondiscendente come la mia amica, e ridotta quindi alla gestazione, poi però cesareo e latte artificiale. Invece di pensare che la qualità della vita delle madri la faccia lo stipendio alle casalinghe, iniziamo a pensare che non è normale, nel ventunesimo secolo, farsi squarciare le innominabilità da quattro chili d’essere vivente e farsi sanguinare i capezzoli per nutrirlo. Si è sempre fatto così? Eh, si è anche sempre andati a cavallo e morti di vaiolo: ci si evolve.

Però. Però a me piacerebbe dire, come dice Eugenia Roccella, «Non credo che le donne siano deboli» – ma mentirei, considerata la mia amica che quasi muore perché il padre del feto vuole il sangue del suo sangue e le piume delle sue piume, considerate quasi tutte le donne che osservo da tutta la vita.

Credo invece che le donne siano abituate a considerare la debolezza uno strumento seduttivo, e che quindi i figli vengano lasciati con una madre esausta sì perché le linee guida sono una puttanata (ho solo dodici parole per voi: ma voi ve lo ricordate come l’Oms ha gestito la pandemia?), sì perché sono appunto esauste, ma anche per la ragione per cui le donne non chiedono più soldi al datore di lavoro: perché preferiscono essere benvolute che averla vinta. L’ha scritto ieri Assia, ed essendo mitomane sono convinta l’abbia capito osservandomi: il brutto carattere ti salva la vita (e il fatturato).

Sì, lo so che non posso liquidare l’Oms in quella parentesi. Lo so che c’è un problema di valutazione del principio di autorità, che nei secoli scorsi era dato dal fatto che i medici erano quelli che avevano studiato, e noi eravamo quelli che zappavano la terra e non avevamo gli strumenti culturali per metterli in discussione. In questo, di secolo, c’è stato un carpiato del dibattito culturale: siamo quasi tutti laureati, e tutti terrorizzati di dire che i medici sono incapaci. Un po’ perché la categoria è stata santificata dai sacrifici-fatti-durante-la-pandemia (cioè: dall’aver fatto né più né meno che il suo lavoro); un po’ perché nessuno vuole sembrare il picchiatello laureato all’università della vita che pensa di saperla più lunga di chi ha studiato la materia. Ma la materia sua l’ha studiata anche Orsini: nell’epoca in cui la laurea è più diffusa dei tatuaggi, mi pare evidente che non basta a certificare alcuna competenza (una laurea italiana, poi: un paese dove 30 può prenderlo anche uno che non conosce l’ortografia).

Oltretutto, diversamente dall’ingegnere che se progetta un ponte che poi crolla è proprio asino, il medico procede per tentativi: i metodi di cura cambiano nel tempo, e anche questo è un problema comunicativo. Meno di un anno fa l’ostetrica a capo del Royal college of Midwives si è scusata perché la linea-guida che pretendeva meno parti cesarei (negli ospedali inglesi fare più parti naturali faceva crescere la valutazione della struttura) aveva preso una deriva ideologica, non ti facevano il cesareo neanche se era l’opzione più sicura, e ne erano ovviamente derivati casi così agghiaccianti che non sto a descriverveli.

Il metodo scientifico è prendere una decisione, vagliarne i risultati, cambiare idea. Il metodo social è dire «no ma noi non abbiamo mai detto che i vaccini non vi avrebbero fatti ammalare», come gli archivi dei giornali non fossero a disposizione di tutti, perché ammettere che la medicina è una scienza inesatta – e che un vaccino progettato in tre quarti d’ora lo scopri vivendo che limiti ha, e cara grazia se ti evita di crepare – non appare una linea spendibile nell’epoca dei picchiatelli saperlalunghisti.

E quindi?, chiederanno coloro che non mi hanno mai letta e pensano di trovare risposte, oltre alle domande, in questo prolisso sproloquio. E quindi io mica lo so come se ne esce. So come non se ne esce: invocando epidurali fuori orario come se non servissero soldi per assicurarle (la polemica e le campagne elettorali, nel tempo che viviamo, sono due passatempi accomunati dal fatto che chi le fa non tiene mai conto del fatto che le risorse sono una quantità limitata). E so che per fortuna non ho mai partorito. Per fortuna ho sempre avuto un carattere così brutto che nessuno si è intestardito a volerlo far ereditare alla sua prole. Per fortuna, per il brutto carattere, non serve allocare un budget.

Riesi, Italia. Jacinda, Roccella, la bidella e l’era del chi l’avrebbe mai detto. Guia Soncini su L’Inkiesta il 23 Gennaio 2023.

In un’epoca stressante per finta, ci sono chiari i limiti del nostro mondo ed è più conveniente perorare le cause che danno solo vantaggi di posizionamento

Nei momenti di buonumore, sempre più rari, io mi convinco che la sindrome del «ma chi l’avrebbe mai detto» nasca a Riesi, provincia di Caltanissetta, secondo Google una decina di migliaia di abitanti, ma immagino che negli anni Cinquanta fossero di più.

Negli anni Cinquanta, quando Eugenia Roccella ci passa i primi cinque anni di vita e si convince che quello sia il centro del mondo: quando sei piccolo, è normale che i limiti del tuo sguardo siano i confini del mondo – la cosa grave è se continui a crederlo da grande.

A cinque anni – lo racconta in “Una famiglia radicale”, il suo memoir appena pubblicato da Rubbettino – la Roccella raggiunge i genitori a Roma, e scopre con incredulità che in città nessuno sa cosa sia Riesi. Peggio: usano «Caltanissetta» come metonimia di «luogo fuori dalla civiltà», stravolgendo le certezze della piccola Eugenia. Caltanissetta è «una splendente metropoli, con la Standa», mormora la piccina, mentre forse inizia a capire Schopenhauer.

Avanzamento veloce di qualche decennio, la Roccella è ministro del governo Meloni, ed è una delle più plastiche rappresentazioni del machilavrebbemaidettismo. La sindrome del «ma chi l’avrebbe mai detto», infatti, colpisce gli italiani dei social soprattutto rispetto al cattolicesimo, invero una bizzarra novità nella vita pubblica italiana.

Mai timorosi di sembrare discesi dalla montagna del sapone, i commentatori che si autocertificano intelligenti, sui social, non mancano mai di trasecolare quando un cattolico esprime posizioni cattoliche. Pensano che essere etero sia meglio che non esserlo: ma chi l’avrebbe mai detto. Sono a favore della riproduzione: ma chi l’avrebbe mai detto.

Quindi venerdì la Roccella va a promuovere il suo libro da Serena Bortone, nel pomeriggio di Rai 1, e quando la Bortone chiede se l’aborto sia una libertà delle donne risponde: «Purtroppo sì» (poi si spiega per due minuti, che nessuno posta sui social, naturalmente: la dialettica dei meme ha tempi più stretti di quelli televisivi). Twitter assume una dolente postura che sta a metà tra De Amicis che commenta il sorriso di Franti, e Manzoni che dà della sventurata alla monaca di Monza.

Leggo gente, non informata che l’alcol è cancerogeno, dire che un ministro che si esprime a sfavore di una legge dello Stato va licenziato. Immagino direbbero lo stesso se un esponente delle istituzioni statunitensi dicesse qualcosa contro la pena di morte.

E insomma per un quarto d’ora, nel fine settimana, lo scandalo è che una ministra cattolica non sia contenta che io possa liberarmi di quello che per me è un ingombro nel mio utero e per lei è un bambino. Ma chi l’avrebbe mai detto.

È stato un fine settimana fitto di sveltine dello scandalo, un altro quarto d’ora è stato occupato dal discorso di Jacinda Ardern, primo ministro (scusate, ma «prima ministra» sembra il nome d’una zuppa Knorr) della Nuova Zelanda, che ha scoperto – ma chi l’avrebbe mai detto – che governare un paese è più impegnativo che caricare la lavastoviglie. Poiché se c’è una specializzazione della società degli opinionisti è quella in sbagliatezza dell’angolazione dello sguardo, ci si concentra su concetti assurdi in lingue ignote.

Burnout, great resignation, quiet quitting e altri modi in cui fingiamo di credere che vivere nel tempo della lavasciuga e della cena a domicilio sia più stressante che vivere nel tempo in cui dovevi scaldare l’acqua in una pentola per lavarti. In quello che i superficiali liquiderebbero come refuso e che è invece un formidabile colpo di coda dell’inconscio, ho letto un articolo sulle dimissioni silenziose in cui esse non erano più «silenziose» ma «pressoché»: quite quitting.

È abbastanza ovvio che la tizia che dice «scusate ma non ce la faccio a governare il paese» sarà non un esempio di come l’equilibrio tra vita e lavoro vada ripensato – come credono le vieppiù fesse femministe dell’Instagram – ma un’arma per chi vuol teorizzare che le donne siano troppo pappemolle per avere incarichi di responsabilità: affidereste un consiglio d’amministrazione o una sala operatoria a una che poi vi frigna che ha il burnout?

Prima che – inevitabilmente – finisca così, vorrei mettere a verbale che non è la vagina a rendere Jacinda non all’altezza. Era una donna Margaret Thatcher. Era una donna Golda Meir. Era una donna Nilde Iotti. È una donna Angela Merkel. («Io non credo che le donne siano deboli», ha detto Roccella a Bortone in un passaggio così impopolare e vegliardo che nessuno l’ha postato sui social). Jacinda, prima che una donna, è una nata negli anni Ottanta, il decennio i cui nativi hanno inventato il piscialettismo strutturale.

Appartiene alla generazione la cui ontologia è il lamento, il cui profondo convincimento è che nessuno mai sia stato sfortunato quanto lei, vessato quanto lei, affaticato quanto lei. Generazione che – come quelle successive, entusiaste eredi del piscialettismo – vive in un tempo i cui adulti sono così terrorizzati di sentirsi dare dei boomer che non rispondono mai «ma cosa dici, ma vai a lavorare». E quindi – ma chi l’avrebbe mai detto – finisce così: che una che dovrebbe governare il paese dice «scusate, ma è faticoso», e nessuno le tira le uova.

C’è stato, per un quarto d’ora, anche lo scandalo della bidella pendolare tra MIlano e Napoli, che ha diviso in due fasi i polemisti postmoderni: prima quella «vedete, gli stipendi italiani sono troppo bassi»; un quarto d’ora dopo, quella «ho controllato sul sito di Trenitalia, e al lordo di questa woodwardiana impresa vi dico che il costo dei biglietti con cui pendolerebbe non torna». Ma chi l’avrebbe mai detto, il caso umano del giorno era una puttanata come molti dei casi umani del presente.

Nei momenti di malumore, sempre più frequenti, a me pare che la rivolta contro i giornali che hanno dato spazio a una derelitta sia tale e quale alla rivolta contro la ministra.

Non è che davvero pensiamo che ci sia il dovere del consenso entusiasta nei confronti delle leggi dello Stato, che non basti applicarle ma si debbano anche condividere; non è che davvero pensiamo sia grave credere a una bidella che la spara grossa, senza fare le verifiche che faremmo per un articolo su un furto di armi nucleari.

È che il direttore del giornale che scrive della bidella, così come la ministra d’un governo di destra, non ci faranno mai un contrattino piccino picciò. Non è che i limiti del nostro campo visivo siano tali da non permetterci di riconoscere un’opinione diversa dalla nostra, o una lagna infondata quanto le nostre. È che i limiti del nostro mondo ci sono chiari, ed è più conveniente intraprendere quelle polemiche che danno solo vantaggi di posizionamento, e che vedono il compatto consenso di tutti i nostri potenziali pagatori di fatture.

Chi mai, tra i presentabili nelle cui prebende possiamo sperare, ci rimprovererà per aver detto che l’aborto è un diritto, che gli stipendi sono bassi, che le notizie vanno verificate, che non è giusto che le donne debbano sparecchiare anche se hanno lavori impegnativi? Nessuno: mica siamo a Riesi.

Comunicazione 101. Ci volevano Fiorello, Jovanotti e Renzi per farci capire che sui social nessuno vuole acculturarsi. Guia Soncini su L’Inkiesta il 17 Gennaio 2023.

A “Viva Rai 2” si spiega finalmente che su TikTok non interessano i nostri contenuti, ma le nostre merende. E questo vale come recensione dei tentativi di creare programmi tv con velleità culturali e ricreative

Certe volte non so se a essere monotematica sia io o la realtà. In questo periodo, per esempio, mi sembra che la cronaca mi proponga solo avvenimenti che evocano un film di quarantasei anni fa, “Berlinguer ti voglio bene”.

In quel film lì, il tizio della festa dell’Unità fermava la tombola con l’annuncio «sospensione di’i ricreativo, principia avviare ir curturale», e io ormai ogni giorno mi chiedo: sì, ma questo benedetto culturale dove principia, in un mondo in cui pure gli spaghetti al dente sono ritenuti cultura-del-cibo, e pure ciò che non fa ridere nessuno è ricreativo?

No, non sto parlando della prevalenza dei latitanti, dell’Italia che l’altroieri discuteva d’un latitante di settecento anni fa (Dante Alighieri) e ieri discuteva d’un latitante dell’altroieri (Matteo Messina Denaro). Non sto neppure parlando della chat di Morgan e Sgarbi (che richiederebbe cinquecento righe tutte per lei, magari domani).

Potrei stare parlando di quella volta che usarono due ore di quelle di letteratura francese per portarci in un’aula con le tapparelle abbassate a vedere un film tratto da Victor Hugo con Gina Lollobrigida, che oggi sarebbe una cosa incoraggiata dai genitori perché mica si può fare la lezione frontale coi ragazzi moderni che hanno bisogno di stimoli diversificati.

Ho maggiore contezza dell’opera di Hugo perché ho visto il film a scuola? Certo che no: con la luce spenta e il vhs che andava, c’era chi limonava, chi faceva i cuori sul diario, chi dormiva. Nessun diciassettenne guardava la Lollobrigida che faceva Esmeralda, ma proprio nessuno.

Erano i genitori soddisfatti della didattica diversificata? Non so, all’epoca i genitori non s’interessavano di quel che facevano i figli la mattina, avevano occupazioni più adulte. Se l’avessero saputo, probabilmente avrebbero pensato quel che era ragionevole pensare: che gli insegnanti dovevano essere proprio disperati, per demandare alla riduzione cinematografica il compito d’istruirci se non su Hugo almeno sulla trama di uno dei suoi romanzi.

Era ricreativo o era culturale, guardare la Lollobrigida di mattina? La settimana scorsa è cominciato un programma televisivo di cui non farò il nome, perché in Italia ci conosciamo tutti e io mica posso farmi mettere il muso da gente cui oso muovere una critica. Il programma dovrebbe, a quanto ho capito, coniugare il ricreativo e il culturale.

Tra gli ospiti fissi c’è un tizio che dovrebbe segnalare gli errori di italiano in cui incappano i presenti. Sembra una gag ma temo non lo sia: la conduttrice gli dà la parola dicendo che il suo compito è segnalare gli errori fondamentali, basilari. La conduttrice dice «errori basici», il pubblico alfabetizzato ha un mancamento pensando «per distinguerli dagli errori acidi», e l’italianista risponde che no, non è stato commesso alcun errore. Poi ho spento: spero che con la parte ricreativa sia andata meglio.

In compenso ieri mattina è tornato Fiorello, che è così maramaldo da cominciare un programma a fine autunno e poi dire ah scusate ma è Natale, io ho da andare a Cortina, sospendiamo il programma per tre settimane. È tornato e aveva ospite Jovanotti e sembrava prendessero per il culo il programma di acidi e basi, perché Lorenzo diceva che gli abitanti di Gubbio mica si chiaman gubbiesi, e i due ridacchiavano che lì si faceva cultura – ma era certamente una coincidenza.

Ma non è per questo che mi è venuta voglia di scrivere per la duecentesima volta di Fiorello, la duecentesima benché da quando ha cominciato sia stato più sulle Tofane che in onda. E non è neanche per quei mirabili quattro minuti con, ebbene sì, Matteo Renzi.

Forse l’idea più riuscita di “Viva Rai 2” è “Belvo”, in cui Fiorello fa Franco Fagnani, parodia di Francesca Fagnani e delle sue domande scomode (nel senso degli sgabelli su cui si sta seduti nello studio televisivo). Ovviamente Fiorello è Fiorello: le celebrità fanno la fila per andare ospiti, e muore d’invidia chi lavora per altre trasmissioni e deve sbattersi a convincere gente famosa ad accettare un invito e in cambio deve prestarsi a fare da vetrina al prosciutto che ogni famoso ha da vendere. Insomma, gli altri hanno delle scusanti, delle giustificazioni, e un basilare nonché acido svantaggio: gli altri non sono Fiorello.

Però Fiorello fa andare Renzi a “Belvo”, gli dice «per non alimentare il suo ego la chiamerò con un nome anonimo di fantasia, Carlo Calenda», «Quarantotto anni: non si direbbe, sembra mio padre», quello gli dice «Vedo il sangue sulla sua giacca» e lui risponde «È il suo», gli chiede se il suo luogo del cuore sia Pontevecchio o l’autogrill – ma nessuna di queste cose meriterebbe menzione: è ovvio che Renzi sia abbastanza furbo da sapere che se vai da Fiorello devi farti prendere per il culo.

Il miracolo televisivo è che, quando si chiude lo spazio “Belvo”, Renzi non ricompaia. Ha registrato quello e basta (scusate la banalità: come fanno gli americani). Non torna acciocché Fiorello possa dire «abbiamo scherzato» (come fanno quelli che non sanno fare il ricreativo) o possa promuovere il suo libro (come fanno quelli che s’illudono di fare il culturale). Ha fatto una gag, in cambio non gli danno una vetrina. Certo, per avere la forza di farlo devi essere Fiorello. Ma se non hai la forza di farlo forse è meglio evitare la gag, annacquata viene una schifezza che non è ricreativa né culturale.

Non è per questo, dicevo cento righe fa, che mi è venuta voglia di dire che lezione di comunicazione sia il varietà del mattino che costa come un varietà della sera. È per quando Jovanotti racconta che ha messo su TikTok un video in cui mangia una papaya. È solo un video in cui mangio una papaya, dice, e ha fatto quattro milioni di visualizzazioni. E se metti una canzone?, gli alza la palla Fiorello. Tremila, schiaccia lui.

Fiorello, cui piace infierire sui deboli (cioè: sul Pd), consiglia video con papaye per le primarie di partito, ma mentre ci arricreavano quei due hanno svelato un’importante verità culturale che prima conoscevamo in pochi (cioè: io e i miei lettori): sui social a nessuno importa niente di acculturarsi. Vogliono ricrearsi. E non ritengono di poterlo fare col tuo prodotto culturale. Non vogliono il tuo libro, il tuo disco, il tuo film: vogliono la tua merenda. In questo identici ai diciassettenni che fummo, quelli che si ricreavano già mentre in fondo all’aula si proiettava un film culturale, ben prima della ricreazione vera e propria.

Aridatece vongola75. Viviamo in un mondo di scemi del villaggio e di spettatori delle loro inutili discussioni. L’umanità non è peggiorata rispetto al passato, ma almeno anni fa non mi sarei innervosita imbattendomi in conversazioni demenziali sul ruolo dei social. Guia Soncini su L’Inkiesta il 14 Gennaio 2023.

A quanti scemi ha diritto il villaggio globale, per svagarsi e non pensare alle bollette e alle corna e all’ora solare e al fatto che ancora non si sa chi sia la femmina di due su cinque delle serate di Sanremo?

Quanti scemi servono per l’equilibrio psichico collettivo, per fare di noi persone che si sentono forti a dire ma guarda quel cretino, che si sentono risolte a dire ma guarda quello che non dice mai la cosa giusta, che si sentono a modo gongolando per le brutte figure altrui che anche oggi non sono la nostra?

Giorni fa su Twitter m’è comparsa una discussione tra due sceme. M’è comparsa perché una mia amica dava ragione a una delle due, giacché uno degli effetti più terribili dei social è che non siamo più capaci di riconoscere un incontro al vertice tra imbecilli: ci sembra che, se c’è una contrapposizione, una delle due parti debba per forza aver ragione, e a noi tocchi schierarci.

La discussione tra le due partiva da un altro scontro tra scemi del villaggio, un titolo di giornale, un’intervista a un sedicenne che ha lasciato la scuola. Solo che al sedicenne mancano nove anni di sviluppo della corteccia cerebrale e puoi sperare migliori (peccato che Letta nel frattempo non possa dargli il diritto di voto: era un progetto così sensato); l’intervistatore che principia l’articolo dicendo dell’intervistato «16 anni portati con inconsapevole superficialità», lui come lo disintossichi da quella prosa? (Forse potrebbe prendere il posto a scuola lasciato libero dal sedicenne, male non può fargli).

Il giornale titola «Volevo imparare a fare soldi», e la prima scema è indignata (lo sono entrambe: sennò che sceme sarebbero?). Ella ritiene sia tutta colpa dei social (che chiaramente inventano l’umanità, mica la mettono in mostra così com’è: se siete abbastanza vecchi, vi ricorderete di quand’era tutta colpa di Maria De Filippi); social che ti fanno vedere che su Only Fans puoi spogliarti e guadagnare, su Instagram puoi fare la scema e guadagnare, soldi, soldi, soldi, e cosa credete verrà fuori da questo milieu? «Creerà generazioni di ragazzini che non vorranno più studiare ed acculturarsi, che crederanno che il guadagno e i soldi siano l’unica via per raggiungere il successo. L’ignoranza e la superficialità prevarranno sull’educazione e la cultura». Mentre una volta, signora mia, qua era tutta Bloomsbury, mica gente che faceva marchette peggio retribuite di ora e sanitariamente più rischiose.

Ah, no, una volta eravamo probi, era quando eravamo cinquanta milioni di partigiani, e ora guarda che disastro. Ora, pensa te, ci interessano i soldi. Lo so che quella cosa dei classici che sembrano sempre scritti ieri la ripeto ormai ogni giorno, ma mica è colpa mia se ogni giorno è vera: leggendo questa scema qui pensavo che sono più di quarant’anni da quando Alberto Arbasino pubblicò quel rigo che diceva «Ah, sognare di non essere i Malavoglia, essendo per l’appunto i Malavoglia», e potrebbe scriverlo domani e sarebbe puntuale.

La seconda scema, che ci tiene ad apparire moderna, obietta che l’internet è una cosa bellissima e che il problema è la scuola che, ci sto mettendo minuti interi a trascrivere questo penzierino perché nel frattempo rischio di soffocare dal ridere, non ti prepara ai lavori digitali. «Perché nel 2022 cachiamo ancora il cazzo alle persone sex worker e invece non aiutiamo all’orientamento i giovani per capire se magari quello seriamente che vogliono fare nella vita».

Maria Concetta, al secondo banco, tu cosa seriamente vuoi fare nella vita? Professore’, la mignotta, però detto americano, la persona sexuo’. Ah, perfetto, basta che è seriamente: la scuola sta qui per formarti.

Il fatto è che io una volta non le avrei mai incrociate, queste dibattenti: la tizia che pensa che le mignotte le abbia inventate Zuckerberg, e quella che le vuole emancipare chiamandole in inglese. La prima avrebbe fatto la supplente in una scuola di provincia e sarebbe stata un problema delle sue allieve, allieve che tanto da adulte sarebbero state destinate a zappare la terra come la seconda, e quindi al massimo le avrei viste da lontano nel weekend: in cucina c’è la contadina che ci ha portato l’olio buono, vorrebbe sapere se le puoi sintetizzare la dissoluzione dell’occidente così fa bella figura con le amiche il dì di festa, dille di ripassare domani ché ora ho il burraco.

Esattamente come una volta non avrei mai letto il confuso post con cui una cantante ventenne, esemplare incarnazione del fallimento dell’istruzione obbligatoria, dice che è pentita di non essersi vaccinata perché convive da sola. Una volta la cantante avrebbe fatto mandare un comunicato dal suo ufficio stampa, e io l’avrei cestinato senza leggerlo. Adesso siamo tutti convinti – persino io, che pure sono vertiginosamente più intelligente di voi – che tutto ci riguardi, che l’opinione d’un qualunque coglione sul mondo, poiché compare nel nostro telefono, esista davvero. E c’è di peggio. Di molto peggio delle tre derelitte finora citate.

C’è che il villaggio è globale e gli scemi spesso sono milionari, mica braccianti. Non è che perché sei ospite televisivo, proprietario di multinazionali, senatore, concorrente di Sanremo, tu non sia lo scemo del villaggio. E quindi io, ogni volta che qualcuno mi manda un video del professore universitario che si autocertifica una gestualità ipnotica, o un penzierino del proprietario di social network che twitta in continuazione come un utente isterico che voglia distrarsi dal problema del costo della mensa scolastica, o l’intervento parlamentare del senatore che posta soddisfatto del proprio romanesco il passaggio in cui invoca «Aridatece Mario», o quel diavolo di sproloquio sul falso green pass della cantante su cui tutti si stanno scaldando, ogni volta io m’innervosisco.

Non solo perché mi pare che l’analisi del carattere italiano fatta da Orson Welles – «La borghesia più ignorante d’Europa» – si sia estesa al mondo, e ormai più sono classe dirigente più sono scemi, e noi sempre schiavi dell’impossibilità di ignorarli giacché ci compaiono sul telefono, dell’impossibilità di illuderci che il proprietario della piattaforma su cui Vongola75 posta le foto delle vacanze sia più sveglio di Vongola medesima.

Ma perché ridere del milionario, del privilegiato, del cattedratico, del senatore, della cantante, ridere di quelli che dispongono accuratamente le bucce di banana in modo da scivolarci e intrattenerci, riderne mi risulterebbe più facile se non avessi in continuazione la sensazione d’essere quella crudele spettatrice che ride di gente che ogni giorno scende nell’arena convinta d’essere leone, e invece – e invece è questa roba qui: gente che sogna di non essere una riserva nella squadra di scemi del villaggio globale, essendo per l’appunto una riserva nella squadra di scemi del villaggio globale.

Non hanno un amico. Il dietologo romano, la dottoressa aggredita, lo specializzando che twitta il Campari e altri incontinenti social. Guia Soncini su L’Inkiesta il 12 Gennaio 2023.

Da uno studio compiuto nel mio tinello, serve arrivare almeno fino ai trentacinque anni per non essere completamente in balìa dei più scemi istinti. Tipo postare battute su Twitter, esibirsi in video deprimenti su Facebook e Instagram e mostrare radiografie di bottigliette dentro un corpo umano

Mi rimangio tutto quello che ho detto sulla presenza dei medici sui social. E no, non perché ho visto le foto della dottoressa aggredita durante un turno di guardia medica e quindi penso che i social siano utili a fare informazione. (Peraltro informarci che l’umanità è piena di malviventi aggressivi mi pare ridondante).

Mi pento e mi dolgo d’aver stigmatizzato l’esibizionismo dei dottori, ma la ragione è meno nobile. Portatemi le vostre copie di quel libro in cui irridevo le psicologhe che s’instagrammano in bikini o coi ringraziamenti ai fornitori di vestiti, come soubrette che scroccano abiti agli stilisti, e io ne strapperò le pagine. È tutta colpa dell’algoritmo cinese, della cui mancanza di privacy si occupano molto le persone serie, mentre io sono solo preoccupata che ci mettano la droga. Solo così si spiegherebbe l’effetto ipnotico di alcuni personaggi.

Il più ipnotico è un dietologo romano. Non credo nei dietologi: se sei una femmina adulta, sai abbastanza cose di alimentazione da non aver bisogno che un professionista ti dica che per dimagrire, col metabolismo della menopausa, devi mangiare un uovo e un finocchio scondito.

Poi è arrivato questo romano (romano, rendiamoci conto: guardo i video d’un romano) che prescrive diete chetogeniche (il modo in cui chiamano la Atkins in un mondo che ha bisogno di dare nuovi nomi ai vecchi passatempi). Sono così dipendente dai video del romano che, giuro, ho provato a prendere appuntamento per una consulenza on line.

Potrei dire che volevo far felice il mio cardiologo, che mi minaccia di morte imminente se non dimagrisco, ma la verità è che il dietologo di TikTok è irresistibile. Per fortuna il sito dice che non ha posto prima di febbraio: avrà il carnet di ballo affollato da ciccione come me che pensano di dimagrire con quello simpatico, che se ti leva i carboidrati lui allora soffri meno; per febbraio, spero che mi sarò disintossicata dai social e dai medici che lì sopra ti curano la psiche o la trippa o chissà che altro.

Per febbraio, chissà cosa sarà stato di M.S., lo scandale du jour di quattro giorni fa (che sull’internet contano come quattro secoli). S. – di cui non scrivo il cognome perché non voglio aiutarlo a fare ciò cui pare tenere tantissimo: sputtanarsi la carriera – è, a quel che dice la sua biografia su Instagram, uno specializzando impiegato presso il pronto soccorso di Ancona. Su Twitter, S. si chiama(va) la duchessa di York, cioè Sarah Ferguson, della quale ignoro cosa sappia un ventinovenne ma l’immagine del cui alluce ciucciato da un texano è cara a tutte noi vegliarde; ma ci volevano circa cinque secondi a risalire al suo nome su Instagram, e senza neppure il kit del piccolo detective.

L’altro giorno S., che su Instagram sta molto a petto nudo (molti anni fa mi spiegarono che questa esposizione della carne risponde al comandamento «chi mostra, vende»), ha pubblicato su Twitter due lastre. Chi ricorda lo scandale du jour che fu l’infermiere dell’hospice che aveva fatto un video simulando il vomito per il disgusto dell’aver dovuto cambiare un paziente, chi ha l’archivio degli scandali da un quarto d’ora l’uno già trema: quello fu l’unico che causò un vero licenziamento. Le lastre di S. mostra(va)no una sagoma di bottiglietta, inconfondibile anche per chi non fosse troppo esperto di design, all’interno d’un corpo umano.

Il testo che accompagna(va) dice(va): «Vita in Pronto Soccorso: stanotte giochi erotici finiti male (o meglio, in sala operatoria) ma che potevano finire peggio. [Paziente uomo, ultraquarantenne, durante rapporto con moglie la quale lo penetrava analmente con bottiglia di una certa marca]. La morale è: usate i sex toys conformi».

È una pigra domenica pomeriggio, il giorno successivo è il primo feriale dopo un’eternità: figuriamoci se l’internet non si precipita a chiedere la testa del colpevole d’indiscrezione a raggi x, che come minimo sarà già stato riconosciuto da un cognato (ah, ecco cos’era quella misteriosa sparizione, si stava facendo estrarre il Campari) e per i prossimi diciassette pranzi di Natale sarà lo zimbello della famiglia tradizionale.

S. (che mi auguro non si chiami davvero così, che mi auguro abbia un contratto a tempo indeterminato diversamente dall’infermiere dell’hospice) capisce tardi ma in fretta che si mette male (ma com’è che non ci pensate mai prima, benedetti ragazzi?), cancella il tweet e addirittura l’intero account.

Ed è a quel punto che è impossibile non farsi moltissime domande. La prima la rubo a Luca Bizzarri, volgendo in interrogativo l’affermazione che titola il suo podcast: non hanno un amico? Tutti questi geni del purissimo presente che pubblicano cose che li rendono il mostro del giorno, non hanno chat sulle quali di quelle cose ridere privatamente, come tutti noi?

Checché ne staranno ululando i moralizzatori che leggono quest’articolo, no, la differenza non è tra gli S. del mondo e chi ha la rigorosa etica, la sacra vocazione, e mai mai mai riderebbe d’un paziente: la differenza è tra chi è abbastanza furbo da farsi due risate in pausa sigaretta senza farsi linciare, e chi no.

La seconda è: siamo sicuri che quel dettaglio neurologico della corteccia prefrontale che finisce di formarsi a venticinque anni, età dopo la quale dovresti saper gestire gli impulsi, siamo sicuri di non volerlo rivedere? Da uno studio compiuto nel mio tinello, serve arrivare almeno fino ai trentacinque, per non essere completamente in balìa dei più scemi istinti.

La terza è: lo so che state pensando che voi no, non sperate che S. abbia un contratto a tempo indeterminato, voi sperate venga severamente punito. Ma siamo onesti: se a vent’anni ci avessero dato un telefono che faceva le foto, quanti ergastoli staremmo scontando?

L’ultima riguarda il dietologo di Roma, la psicologa in bikini, lo specializzando che twitta il Campari, un po’ tutti: certo, la divulgazione scientifica sui social può essere pericolosa per i pazienti più suggestionabili; ma è solo una mia impressione o quelli per cui presenta più rischi sono i medici che studiano dieci anni e poi, al primo telefono con telecamera, si scoprono incontinenti?

Histoire d’O al Lidl. La scemitudine delle ventenni (e trentenni) che si scandalizzano del paese reale in fascia protetta. Guia Soncini su L’Inkiesta il 10 Gennaio 2023.

Le attiviste di Instagram guardano “C’è posta per te” e invocano i tribunali per un uomo che è solo banalmente stronzo. Allora abbiamo tutte violato la legge tra i quindici e i trentacinque anni (i più spassosi delle nostre vite sentimentali)

La cosa più interessante che ho scoperto lo scorso fine settimana è che sull’instagram ci sono giovani donne italiane che, se si vedono riflesse in uno specchio, chiamano i gendarmi. Il che è comprensibile per chiunque sia stata una giovane donna: anch’io ogni tanto penso che ci sarebbe voluto un codice penale che m’impedisse d’essere scema, purtroppo l’ontologia della gioventù quella è: poi passa.

La cosa più interessante che ho scoperto lo scorso fine settimana è che sull’instagram ci sono giovani donne italiane i cui unici consumi culturali passano per l’instagram: solo così si spiega il loro lessico fatto di calchi in doppiaggese (gente che dice brand e non marchio, slur e non insulto); ma soprattutto il loro trasecolare ogni volta (accade circa ogni sei mesi) che passano davanti alla tv e ci vedono qualcosa di secondo loro impresentabile. Cioè: loro stesse.

Loro stesse se non avessero intravisto nell’instagram la possibilità di fatturare la militanza femminista, loro stesse se avessero assecondato la cugina di provincia che dorme un sonno leggerissimo dentro di loro, loro stesse se si fossero date la possibilità di partecipare a miss in gambissima, invece di far sfoggio di pretese intellettuali la cui espressione massima è non radersi le ascelle.

È accaduto che sabato, come ogni sabato d’ogni inverno d’ogni nostro discontento, Maria De Filippi conducesse “C’è posta per te”. Che è – lo spiego per chi passa di qui dall’instagram ma non ha consumi culturali che qualcuno fuori dall’internet capisca e condivida – un programma in cui qualcuno vuole recuperare il rapporto con qualcun altro, e allora racconta la sua in genere patetica storia alla redazione, e poi Maria De Filippi la riferirà al pubblico con tono da narratore di fiabe, e poi arriverà la persona convocata, e inizierà un tiremmolla «io ti rivoglio», «eh ma io no».

Sabato colei che implorava il ritorno era una tal Valentina, una trentenne scema quale siamo state tutte (le più sfortunate lo sono ancora). Valentina ha un marito che dalla descrizione dovrebbe essere come minimo Jeremy Irons (il Jeremy Irons cinquantenne: trentenne era cibo per gatti pure lui). Valentina – per bocca di Maria De Filippi, che il dio della sapienza televisiva ce la conservi a lungo – descrive i comportamenti di questo figuro, e noialtre che conosciamo un pochettino la vita annuiamo forte.

L’episodio forte (vabbè) nella descrizione della di lui inadeguatezza di marito moderno (di marito che lava i piatti lui, quale brama l’instagram), un episodio che fa sembrare gravissima la cameretta più grande di William rispetto a quella di Harry nell’autobiografia del momento, è quello delle patatine. Hanno amici a cena, cadono delle patatine, lui le dice di raccoglierle, lei dice raccoglile tu, lui le sbriciola e poi le dice: adesso le raccogli. Histoire d’O, ma ambientato al Lidl.

Lei lo rivuole a tutti i costi. Perché rivuoi uno schiacciatore di patatine? Perché la scemitudine della venti e trentennitudine non ha confini, perché le donne pur di non essere la zitella al pranzo di Natale si terrebbero in casa proprio chiunque, perché lui è uguale preciso al Mickey Rourke trentacinquenne e non ti vuoi perdere i migliori anni prima che si sfasci.

Quest’ultima ipotesi, indovinate un po’, è infondata. Il marito di Valentina entra in studio ed è, come d’altra parte lei, un uomo senza qualità. Senza qualità e col codino. Senza qualità e con le sopracciglia orrendamente disegnate tali e quali a quelle di Valentina. Senza qualità e senza contrizione: quando la De Filippi gli dice che, se ogni volta che va a trovare i bambini si scopa Valentina, evidentemente prova qualcosa (viene da ridere pure a lei, ma non lo dà a vedere), lui dice «e infatti cosa ti dico ogni volta?», e Valentina pronta: «Tanto non cambia niente».

Lei rivuole a tutti i costi un attrezzo col codino la cui idea di umiliazione simbolica è farle raccogliere le patatine e la cui idea di ambiguità seduttiva è dirle: guarda che anche se ti scopo non ti rivoglio come moglie. Lei, quando alla fine lo abbraccia e la De Filippi fa notare che gli ha sporcato di fondotinta la camicia, deve trattenersi per non dire: «La lavo io, a mano». E noi (noi trentenni dell’instagram), invece di togliere a lei il diritto di voto, chiediamo per lui il tribunale.

Giuro, c’era gente che invocava un tribunale che giudicasse non ho capito se Codino o Mediaset, e non ho capito per quali reati: sbriciolamento di patatine? Assenza di lessico da alcova adeguatamente seduttivo? Trasmissione di paeserealismo in fascia protetta? Sopracciglismo gabbianato?

Il dettaglio interessante è che la ragione per cui i due si sono lasciati è che lei l’ha tradito. A dimostrazione d’una cosa che gli adulti sanno e le trentenni dell’instagram no (e Codino neanche): che copulare con terzi la maggior parte delle volte non vuol dir niente, e quando vuol dire qualcosa non è certo che lo sbilanciamento degli equilibri di coppia è in tuo favore. (In questo caso vuol dire anche: stanno insieme da quando avevano sedici anni, la trentenne è ontologicamente scema ma avrà pure degli ormoni, dei desideri, delle curiosità; il trentenne pure, ma lui i tradimenti mica è stato così scemo da confessarli colmando il di lei apparente svantaggio etico).

Le trentenni semianalfabete con velleità culturali questo discorso lo chiamano victim blaming (colpevolizzare la vittima, ma in inglese chissà perché a queste benedette ragazze sembra suoni meglio). Quella di lui è violenza, diamine. «Raccogli le patatine» è violenza? Forse, se lei non le raccogliesse, lui le darebbe due schiaffi e avremmo finalmente un reato e qualcosa su cui agitarci davvero. Invece lei lo supplica di tornare: non vede l’ora di riprendere a raccogliere patatine da lui appositamente calpestate. Piange, implora, supplica di venire trattata come una sguattera un altro po’. È una pervertita? Certo. Non è intelligentissima? Certo. Il codice penale può proteggerla? Non mi pare: se è vietato stare con uomini banalmente stronzi, abbiamo tutte violato la legge perpetuamente tra i quindici e i trentacinque anni (incidentalmente: i più spassosi delle nostre vite sentimentali).

Ci sono tre notizie, care ragazze, una brutta e due belle. Quella brutta è che non dovete stare attente a non avere la vostra (inevitabile) fase di raccoglitrice di briciole. Dovete, e se vivete in provincia è un rischio più insidioso, evitare di fare di quella fase una vita: non sposarvi il tizio con cui state a sedici minuscoli e scemissimi anni, non farci dei figli legandovi a vita a un attrezzo col codino. 

Una bella notizia è che si può imparare, da subito, a non scambiare le storie per esempi: ho avuto trent’anni sotto l’egida di “Sex and the city”, ci vestivamo tutte come delle deficienti. Poi si cresce, si capisce la differenza tra satira e modello comportamentale, tra vicenda da stigmatizzare e vicenda da emulare; invece di pensare che le storie nere non vadano raccontate sennò le imitiamo.

L’altra bella notizia è che si cresce quasi tutte. Valentina sicuro, noialtre pure. Quelle dell’instagram, loro non sono mica sicura: inizio a sospettare che la militanza fatta coi cuoricini blocchi lo sviluppo. 

Estratto dell'articolo di Maria Novella De Luca per “la Repubblica” il 5 gennaio 2023.

[…] Paolo Ferri è docente di "Teoria e tecnica dei nuovi media" all'università Bicocca di Milano. A lui si devono (fin dagli albori) gli studi sull'impatto della Rete sulle menti dei più giovani.

 Adesso però che in Italia, così come in Inghilterra o negli Stati Uniti, una serie di ricerche rivelano quanto è diventata acerba l'età del possesso del primo smartphone, uno scenario inquietante è diventato realtà. È stata la Bbc, nei giorni scorsi, a rilanciare i dati Ofcom (Office of Communications) secondo i quali il 44% dei bambini inglesi di nove anni e il 91% dei ragazzini di undici anni, ha uno smartphone di sua proprietà. O quantomeno di proprio uso esclusivo.

«Attenzione, è la parola possesso che costituisce il campanello d'allarme ed è una diretta conseguenza della pandemia» avverte Paolo Ferri. «Prima del lockdown e della didattica a distanza, almeno nella fascia della scuola primaria, entro i nove, dieci anni, erano i genitori a dare il loro telefono ai figli, mantenendone in un certo senso il controllo.

 Nel 2020 è cambiato tutto. Con i bambini chiusi in casa, le lezioni a distanza, una vita spostata nella dimensione digitale, le famiglie hanno comprato lo smartphone anche ai più piccoli».

[…]  Se nel 2020 i bambini tra i sei e i dieci anni "possessori" di uno smartphone erano il 23,5%, questo numero sale addirittura al 58,4% nel 2021.

 Praticamente un bambino su due ha oggi nello zainetto uno strumento potentissimo con il quale navigare, entrare nei social, accedere a siti (ad esempio porno) in grado di turbarlo in modo profondo. E se nel 2020 erano il 9,2% i piccolissimi sotto i cinque anni con l'accesso a uno smartphone, questo dato sale al 14,5% nel 2021.

[…]  L'età giusta del primo cellulare sarebbe, suggerisce Paolo Ferri, tra i 12 e i 14 anni, «ma non illudiamoci che si possa tornare a questa scelta di saggezza».

 Sottolineando che in realtà ciò che veramente espone i giovanissimi al rischio è l'accesso precoce ai social. «Lì accade di tutto, lo sappiamo, dalla mistificazione della realtà al cyberbullismo. Contenuti che di certo un bambino non riesce a decodificare da solo». […]

Duello generazionale. L’ascesa dei social media, la crisi della verità e il nuovo disordine mondiale. Steven Erlanger su L’Inkiesta il 3 Gennaio 2023

L’autoritarismo cresce ovunque e l’immagine degli Stati Uniti si è molto deteriorata. Ma la sfida dei nostri tempi (e non solo in Occidente) è qualcosa di più complesso di una “semplice” battaglia tra le democrazie e le autocrazie

La democrazia sembra sotto attacco ovunque. E coloro che l’attaccano vanno dai populisti locali arrabbiati fino agli autocrati che sostengono che un potere statale senza ostacoli produca più benefici per i comuni cittadini e che le democrazie siano troppo rumorose e divise per combinare qualcosa di buono. E anche all’interno dell’Unione europea vengono lanciate delle vere sfide alla democrazia e allo Stato di diritto da parte della Polonia e dell’Ungheria, un Paese, quest’ultimo, riguardo al quale l’Europarlamento ha recentemente dichiarato che «non può più essere considerato una piena democrazia», bensì «un’autocrazia elettorale».

La vittoria della democrazia liberale, che Francis Fukuyama giustamente celebrò dopo il collasso dell’Unione sovietica, oggi può suonare come qualcosa di vacuo. O, quantomeno, essa è sottoposta a una severa minaccia da parte di autocrazie che vanno dalla Russia alla Cina alla Turchia passando per il Brasile e per i Paesi del Golfo ricchi di petrolio.

Secondo i dati del V-Dem Institute, che monitora la democrazia e le sue varianti, alla fine degli anni Novanta erano settantadue i Paesi che si stavano democratizzando ed erano soltanto tre quelli che stavano invece scivolando verso un maggiore autoritarismo. L’anno scorso, soltanto quindici Paesi stavano diventando più democratici a fronte di trentatré che stavano invece andando nella direzione opposta. Secondo V-Dem, le democrazie liberali sono al loro livello più basso degli ultimi venticinque anni: oggi nei Paesi che possono essere definiti così vive soltanto il 13 per cento della popolazione mondiale. Le “autocrazie chiuse” (e cioè assolute, ndr) governano sul 26 per cento della popolazione mondiale e le “autocrazie elettorali” sul 44 per cento.

Il “periodo unipolare” americano è quindi finito da un pezzo. E il disordine mondiale che sta emergendo sarà «complesso, frammentato e fluido, con dei contorni frastagliati disegnati da alleanze opportunistiche, patti plurilaterali e da confini che si accavallano», ha scritto Philip Stephens, contributing editor del Financial Times, in un suo saggio per l’Institut Montaigne. Gli Stati Uniti e i suoi alleati della Nato sono seriamente impegnati nell’aiutare l’Ucraina a respingere l’invasione russa e tutto ciò viene presentato come una lotta per la democrazia e contro il totalitarismo.

Ma ci potrebbe essere un fraintendimento sulla reale natura di questa guerra – e potrebbe essere troppo ottimistica la visione che si ha dell’Ucraina che, soltanto pochi mesi fa, ben difficilmente sarebbe stata presa come modello di democrazia o di trasparenza. Tuttavia, come sempre, la politica ha bisogno di slogan e “democrazia versus autoritarismo” è uno slogan che vende bene. Questa contrapposizione, promossa dal presidente americano Joe Biden, è però troppo semplicistica, dal momento che alcuni alleati della Nato, come l’Ungheria e la Turchia, così come gran parte del Sud globale, inclusa l’enorme e perlopiù democratica India, si sono rifiutati di unirsi all’Occidente nel sanzionare la Russia e considerano la guerra in Ucraina con una forma di guerra per procura tra Stati Uniti e Russia.

E le democrazie occidentali, alla disperata ricerca di energia per rimpiazzare il petrolio e il gas russi, hanno dovuto presentarsi con il cappello in mano presso alcuni dei leader più autocratici del mondo. Mentre la Russia e la Cina cercano di alterare, o addirittura di distruggere, l’ordine internazionale costruito dai vincitori democratici della Seconda guerra mondiale, «la competizione geopolitica che conta davvero non è quella tra le democrazie liberali e il resto del mondo», ha scritto Stephen, «ma quella fra lo Stato di diritto e la legge del più forte». Nell’ambito di questo scontro, la profonda polarizzazione della democrazia americana e la sua decadenza sono fattori importanti, che la rivoluzione digitale rende evidenti in ogni angolo del mondo. «Alla fine, gli Stati Uniti sono lo specchio nel quale osserviamo noi stessi», dice Arancha González Laya, che è stata ministro degli Esteri della Spagna ed è ora preside della Paris School of International Affairs di Sciences Po. «Per questo sono molto preoccupata. Tutto quello che accade negli Stati Uniti non si limita ai soli Stati Uniti ma viene analizzato e osservato in Europa e nel resto del mondo». Gianni Riotta, visiting professor a Princeton, aggiunge ulteriori elementi a questa riflessione.

Con lo scompiglio economico, l’aumento delle diseguaglianze, l’erosione dell’identità nazionale causata dalla globalizzazione e la dilapidazione di enormi sforzi militari in Iraq e in Afghanistan, «gli Stati Uniti e l’Occidente hanno perso il loro soft power», dice Riotta. «I nostri sforzi di promuovere la democrazia in Medio Oriente e in Afghanistan sono falliti». Per molti in Occidente, specialmente tra i giovani, aggiunge, «la democrazia è importante ma lo sono anche il clima e l’economia». Per la capacità di influenza sul mondo dell’America il fallimento in Iraq è stato un colpo peggiore della sconfitta nella guerra del Vietnam e anche il recente, umiliante ritiro dell’Afghanistan, dopo uno sforzo di oltre vent’anni per costruire la democrazia, ha fatto un gran danno, sostiene Stefano Pontecorvo, che è stato senior civilian representative della Nato in Afghanistan ed è stato uno degli ultimi a lasciare il Paese dopo la presa del potere da parte dei talebani.

Al picco della guerra, gli Stati Uniti spendevano miliardi di dollari all’anno, e tutto è finito in niente, dice Pontecorvo. «Il problema con l’esportazione della democrazia è che non è naturale in quei Paesi», aggiunge. «Non puoi imporre i tuoi valori. Devi adattarli ai valori che ci sono in quel Paese». Ma un rapido declino dell’America non è necessariamente auspicato neppure dal suo principale rivale strategico e ideologico, la Cina. O, perlomeno, non subito, come ha spiegato Huang Jing, uno studioso di politica sino-americano che insegna alla Shanghai International Studies University. In questi tempi difficili, la Cina è interessata alla stabilità, ha detto Huang Jing al Forum Ambrosetti di quest’anno.

La Cina e la Russia hanno «un’amicizia senza limiti», ma non un’alleanza a ogni costo. La Russia ha «una grande capacità di distruzione» dell’attuale ordine mondiale, ha spiegato, mentre la Cina, vedendo il marasma in Ucraina, «sta cercando di mantenersi nell’attuale ordine e di avere un ruolo da peacemaker che contribuisce al bene collettivo». «Un declino disordinato degli Stati Uniti è disastroso per noi e per l’economia globale», ha affermato Huang Jing. «La Cina ritiene che degli Stati Uniti stabili, coesi e prosperi siano un bene per la Cina, almeno per il momento». Niall Ferguson, storico della Stanford University, pone però l’attenzione sull’eccesso di sicurezza in se stessi dei cinesi. Stanno facendo lo stesso errore della Germania degli anni Trenta e della Russia degli anni Settanta: stanno sottostimando la straordinaria forza della democrazia, dice Ferguson. «Stanno credendo alle nostre autocritiche e alla nostra autoflagellazione e non stanno vedendo i loro stessi problemi e i loro errori».

Ma è chiaro che la Cina pensa che gli Stati Uniti e la loro democrazia siano in un declino terminale e per questo ha provveduto, in patria, a controllare o censurare tutte le cose che ritiene siano state il motore determinante di quel declino – e specialmente i social media e Internet. La digitalizzazione dello spazio politico e la confusione tra verità e menzogna hanno indebolito la democrazia, sostiene Bruno Le Maire, ministro francese dell’Economia, della Finanza e della Sovranità industriale e digitale. «La rivoluzione digitale non ha cambiato soltanto l’organizzazione delle nostre nazioni e delle nostre società, ma anche i nostri cervelli», ha detto in un’intervista. «Non ci può essere democrazia senza uno spazio comune per il dibattito. E qual è l’esito di un dibattito politico? Una maggioranza di persone che si ritrova intorno a delle verità condivise, a delle osservazioni condivise, a delle diagnosi condivise. Ma nell’era della rivoluzione digitale non c’è nulla di questo tipo». I social media sono «un diverso universo mentale» che non ha «una verità unica», mentre «alla base della democrazia c’è proprio la distinzione tra verità e menzogna», sostiene Le Maire. «E oggi è questa la questione politica più importante, perché le nostre democrazie liberali sono profondamente indebolite dalla rivoluzione digitale e dalla individualizzazione della società».

Bernard Spitz, avvocato e consulente del Medef, che è la più grande associazione francese dei datori di lavoro, è d’accordo sul fatto che la globalizzazione e la digitalizzazione abbiano alterato le società democratiche e che esse, «come tutte le rivoluzioni, possano portare le cose migliori e le cose peggiori» e quindi anche dei dubbi sulla bontà della democrazia e della stabilità, delle manifestazioni più visibili di estremismo e una «disillusione democratica». Ma, in combinato con il nuovo mondo digitale dei social media, c’è un’altra sfida alla democrazia che sta emergendo e che è generazionale. I giovani hanno più a cuore il cambiamento climatico, che considerano come una questione esistenziale, di quanto abbiano a cuore la democrazia liberale, dice Le Maire. «Per la generazione più giovane il tema centrale è il clima – la loro sensibilità politica è incentrata sul climate change». La democrazia è un duro lavoro e «va nutrita ogni giorno», dice l’ex ministro degli Esteri della Spagna, Arancha González Laya. E Riotta aggiunge che il reale pericolo ora non è il fascismo: «Il vero pericolo è la stanchezza della democrazia».

Big Misunderstanding Energy. Greta e questo tempo disgraziato in cui nessuno capisce più quel che legge. Guia Soncini su L’Inkiesta il 3 Gennaio 2023

Lo scambio di battute su Twitter tra la giovane attivista e il maschilista campione di kickboxing ha sollevato proteste fuori contesto, rivelando orde d’indignati che non capiscono le lingue né le figure retoriche eppure vogliono spiegarci il mondo

Che fine hanno fatto le parole? Cos’è andato storto e perché non le sappiamo più usare, capire, scegliere? Com’è successo che un tempo i cui abitanti passano le loro giornate a scrivere poi non capisca quel che legge? È colpa dei codici binari? Di Chernobyl o del Covid o di qualunque altra disgrazia cui vogliamo dar la colpa dell’averci lasciati tutti scemi? C’entrano i cellulari, i social, i buoni libri con cui c’instagrammiamo senza capirli?

No, non sto parlando di Renzi che dice a Natalia Aspesi che il fatto che Bettini sia considerato un intellettuale «dice molto della crisi del Partito democratico, oltre che della lingua italiana». Ha ragione – e mi piace sempre molto quando, cedendo al D’Alema che dorme in lui, si compiace delle proprie battutacce – ma la battuta che ha ucciso la precisione lessicale in queste festività è un’altra.

Oggi sono sei giorni da quando Greta Thunberg ha scritto un tweet, senza pensare – almeno credo – che quel tweet sarebbe diventato la pedina iniziale di quei video che si vedono su Tik Tok, un domino di cose in equilibrio che a migliaia vengono fatte cascare dando una schicchera al primo oggetto. Se avete passato le vacanze su Marte, breve riassunto del prologo.

Andrew Tate è uno che nessuna persona normale conosceva fino a sei giorni fa, già campione di kickboxing, già pare noto maschilista (che ormai pare sia una qualifica professionale), e forse già stupratore. Greta Thunberg è una ragazzina che il venerdì invece di andare a scuola protestava contro la disattenzione al cambiamento climatico (era prima che a tal scopo ci si desse al lancio di zuppe nei musei).

Tate – trentaseienne, quasi adulto, comunque meno lattante della Thunberg – ha il pisello abbastanza piccolo, e relativi complessi, da decidere sette giorni fa d’indirizzare alla Thunberg un tweet in cui fa benzina a una macchina che, mi perdonerete, non sono in grado di riconoscere, ma intuisco essere costosa. Ho un amico il cui padre rifiutava di far benzina da solo perché gli sembrava svilente, un po’ come gli ex aristocratici che digiunano pur di non servirsi a tavola da soli. Non ho la patente ma farei uguale: i libri da scemi che mandavo a memoria da piccina s’intitolavano “La vera donna non fa benzina da sola” e “Il vero uomo non mangia quiche”. Chissà se Tate mangia quiche. Ma non divaghiamo.

Alla foto è allegato un breve testo descrittivo di alcune delle trentatré automobili di sua proprietà (speriamo non debba rinnovare i bolli da solo); e la richiesta alla signorina Thunberg di fornirgli il di lei indirizzo per mandarle una lista completa della sua collezione d’automobili e delle di esse «enormi emissioni» (se non è cazzo piccolo questo).

Il giorno dopo, Thunberg risponde con un tweet destinato a monopolizzare la conversazione dell’internet in un periodo in cui c’è il panettone da digerire e mica ci si può applicare troppo intellettualmente. Dice che la mail gliela può mandare a smalldickenergy chiocciola getalife punto com. Perché la battuta fosse precisa avrebbe dovuto capovolgerla, qualcosa tipo «mandamela, e poi ti rispondo al tuo indirizzo sivedechehaiilcazzopiccolo chiocciola fattiunavita punto com», giacché messa così sembra che a fotografarsi col macchinone come diversivo dal contenuto delle mutande sia Greta stessa – ma è un’attivista adolescente, mica Chris Rock. E comunque la battuta va benissimo anche da imprecisa: si capisce quel che basta a intrattenere noi e innervosire Tate.

Che quindi le risponde con un delirante video durante la registrazione del quale gli portano due pizze, e forse dall’indirizzo della pizzeria (o forse no) viene rintracciato dalla polizia romena e arrestato perché c’era un mandato di cattura per stupro. Ma questa è la parte che riguarda i fatti, e qui ci interessano le parole.

Come ogni volta che qualcuna dice a qualcuno che ha il cazzo piccolo, si levano proteste: è body shaming, puntesclamativo, non ci abbassiamo al loro livello, puntesclamativo, si può insultare qualcuno per come è e non per come è fatto il suo corpo (come se il cervello non fosse un organo del corpo, puntesclamativerei io). Ma, siccome Greta Thunberg è la reginetta dei buoni, non la si può accusare d’un’infamia quale viene reputato il body shaming. Tocca trovare il modo di difenderla.

Siccome i buoni, esattamente come i cattivi, ci sanno fare pochino con le parole, non dicono l’ovvio: sarebbe body shaming se lei ci fosse stata a letto, se l’avesse visto nudo, se sapesse per certo che ce l’ha piccolo. C’è una differenza importante tra la fragilità (ipertrofica) maschile e quella (più moderata) femminile rispetto a questo genere di epiteti: il corpo delle donne si vede. Che sono una vescica di lardo lo sai anche se mi hai vista solo da lontano. Se uno ha una vergogna nascosta nelle mutande lo sa solo lui (e le poverine che quando lo scoprono sono troppo beneducate per chiamare un taxi).

Ma, esattamente come ci hanno insegnato che se una si sente bella poi sarà più bella, se uno sa di avere un trofeo nelle mutande avrà, rispetto al mondo, un atteggiamento diverso da quello di chi nelle mutande ha una vergogna di cui spera non si sparga mai la voce. È da questo incontrovertibile ragionamento che è nata, qualche anno fa, l’espressione big dick energy: la sicumera di chi si aggira per il mondo senza alcun timore che si venga a sapere del vanto che ha nelle mutande, anzi incoraggiandone l’esplorazione. Small dick energy è il suo contrario. È un’ovvietà, ed è anche un’espressione che chiunque abbia qualche consuetudine con la pubblicistica anglofona conosce. Almeno così vi avrei detto fino a Natale.

Però è arrivato il caso Thunberg, e le orde d’inattrezzati difensori che non capiscono l’uso delle lingue, né quello delle figure retoriche, né la selezione delle fonti, né l’inglese, né l’italiano, ma sono determinati a spiegarci il mondo. Small dick energy non ha nulla a che vedere con le misure del suo pene, ribadivano senza mettersi a ridere, me l’ha detto mio figlio perché è un’espressione dei giovani, spiegavano sempre mantenendo invidiabile serietà (dire con la faccia convinta enormi puttanate è un’arte sottovalutata); mentre io pregustavo tutte le prossime volte in cui chiederò «ma hai le tue cose?» a una donna di malumore, e nessuno potrà dirmi che quella battuta ha a che vedere col ciclo mestruale.

Gente che ha continuato stolidamente a togliere l’accento a «sé stesso» non avendo mai non dico letto Serianni, ma neanche fatto una foto a una sua intervista, pubblicava con quella che credeva essere autorevolezza lo screenshot di «Turaligo» (e io che pensavo che Vongola75 fosse sufficientemente iperbolico) che, su un dizionario di gergo ovviamente scritto da autori dilettanti per lettori non disposti a pagare, giurava che l’insulto «pisello piccolo» non avesse «niente a che vedere» con le misure del pisello.

Ho per un attimo pensato di rispondere, a «vivo nella capanna di Unabomber e fino a ieri non avevo mai incontrato la dick energy ma mio figlio ha 13 anni e mi giura che il cazzo non c’entri e i tredicenni salveranno il mondo non noi che non sappiamo le lingue», cosa mi evocava quella ricerca della metafora perduta.

Quel carpiato per non dire le parole ovvie e cercarne di elaborate che celino il tuo disagio ricordava tantissimo quel personaggio che, svegliato troppo presto, rispondeva non con le parole che gli venivano in mente ma con un lessico che «esigeva da me lo stesso sforzo d’equilibrio necessario a chi, saltando da un treno in corsa e correndo per qualche secondo lungo la strada ferrata, riesca tuttavia a non cadere». Poi sono stata zitta. Ho pensato che li avrei costretti a cercare Proust su un’enciclopedia scritta da autori dilettanti per lettori non disposti a studiare, e sarebbe stato contrario allo spirito del tempo: quello perduto, e quello presente.

Di Daisy Jones per vice.com traduzione di Giacomo Stefanini l’1 gennaio 2023.

L’altro giorno mi sono imbattuta in un tweet che diceva tipo: “Postare in griglia sembra quasi cringe ormai.” Il riferimento è al feed di Instagram—una app il cui punto di forza fino a qualche tempo fa era proprio “postare sulla griglia.” 

Non so spiegare bene perché, ma il tweet ha ragione. Ovviamente ciò non ha alcuna importanza se non sei un adolescente pieno di complessi (essere cringe significa essere liberi, ecc.), ma il fatto stesso che questo dibattito esista è il segnale di un cambiamento più ampio in atto. Ossia che le persone non sanno più usare i social media, perché i social media stanno fallendo. 

L’idea che Instagram sia morto circola da un po’ di tempo. Le persone più giovani certo non postano più come una volta e un feed “esteticamente piacevole” è un concetto che appartiene a metà anni Dieci, quando gli utenti postavano scatti di cibo e tramonti.

Il 2022 è stato anche l’anno dell’esodo di massa da Twitter dopo la rovinosa acquisizione della piattaforma da parte di Elon Musk. C’è stata quella settimana in cui tutti sono andati nel panico e hanno condiviso nomi utente di Mastodon e lanciato newsletter improvvisate su Substack. Ho anche notato un certo ritorno di Tumblr, che ha accolto poeti e poetesse di Internet a braccia aperte. Insomma, sembra che gli utenti dei social siano alla ricerca disperata di una nuova casa. 

Ogni tuo parente sotto i 18 anni e il tuo capo ossessionato dai nuovi trend ti diranno che tanto ormai la gente usa solo TikTok. Ma per le persone che non amano postare video-selfie su “cosa ho fatto oggi” o non hanno la vocazione di insegnare agli altri a preparare frullati con dentro centinaia di ingredienti, TikTok non sarà mai lo spazio giusto. 

Parallelamente, BeReal sarà anche divertente per guardare gli schermi del computer dei colleghi e i loro selfie post-pisolino, ma ha i suoi limiti. Non si sviluppano conversazioni su BeReal. Non scorri BeReal per seguire le notizie dal mondo. Stare “online” ormai significa soltanto fare zapping tra diverse app finché non ti rendi conto che non c’è nulla degno di nota da nessuna parte. Allora, che succede?

La gente si sta avvicinando a modi di passare il tempo online molto diversi dai social media che hanno dominato gli anni Dieci,” dice Biz Sherbert, editor culturale di the Digital Fairy, agenzia creativa specializzata in cultura digitale giovanile. Secondo Sherbert, questo non significa che le persone passino più tempo offline, in sé, quanto piuttosto che passino più tempo su piattaforme inerenti più specificamente ai loro interessi: Twitch, Discord, VR, eccetera. 

Sherbert spiega: “Spesso, questi movimenti rispecchiano il modo in cui le persone usavano internet prima dell’omogeneizzazione portata dalle aziende Big Social: le chat room degli anni Duemila oggi sono i server su Discord, mentre Blogspot e Tumblr si sono trasformati in Substack.” 

Zoetanya Sujon, docente di Comunicazione e Media e autrice di The Social Media Age, non crede che piattaforme come Twitter, Instagram e Facebook siano del tutto morte, “anche se si può notare grande movimento nel panorama contemporaneo.”

Più che altro, fa notare, le piattaforme più solide tendono a venire usate per scopi differenti mano a mano che evolvono. “Ciò che si vede osservandole da vicino che è che le persone usano ancora Facebook regolarmente—soltanto per azioni più noiose: programmare attività, organizzare eventi locali, caricare foto, ricordare compleanni, ecc. In altre parole, la gente si diverte su altre piattaforme—Facebook nel 2012/13, Snapchat/Instagram nel 2018—ma fa estremo affidamento su quelle più ‘veterane’ per le proprie attività quotidiane.” 

Anche se le piattaforme principali stanno perdendo la loro aura “cool,” diciamo, non significa necessariamente che perdano anche longevità. Facebook potrebbe sembrare morto perché le persone sotto i 25 anni di età troverebbero altamente bizzarro postarci un album di foto di una serata di festa (a meno che non lo facciano in modo meta e ironico), eppure c’è ancora molta gente attiva là sopra. Basta gettare uno sguardo alle elezioni politiche del 2016 negli Stati Uniti per scoprire cosa succede quando sminuiamo il potere e l’influenza di queste comunità silenziose.

Mark Wong, docente di amministrazione pubblica e metodi di ricerca dell’Università di Glasgow, ha studiato approfonditamente i social media e le interazioni digitali. Dice che le ramificazioni etiche di certe piattaforme hanno avuto un effetto massiccio sul nostro modo di usarle nel 2022. Siamo meno inclini a trasmettere ogni momento della nostra vita su una piattaforma di proprietà di Meta, per esempio. 

Lo spiega così: “Visti i recenti cambiamenti nella fiducia del pubblico verso i social media, e visto chi si trova ai vertici della catena di comando, queste piattaforme non sono più in grado di nascondersi dietro l’illusione che i social media siano neutrali o imparziali.” In altre parole: abbiamo visto bene cosa succede quando riponiamo eccessiva fiducia in entità che non se la meritano.

In molti hanno ipotizzato che il futuro potrebbe andare in una direzione meno virtuale. Ma è uno scenario piuttosto improbabile: Sherbert pensa che la nostra vita online avrà semplicemente un aspetto diverso. 

Il futuro dei social media è più ricco e più intimo—più simile al primo periodo, quando ad accumulare follower erano prima gli individui e poi gli influencer, come nel caso dei giornalisti di moda che sono diventati i primi fashion influencer su Instagram,” prevede. 

Per quel che vale, guardo con curiosità a questo cambiamento. Anche se mi piacerebbe anche avere un luogo dove postare le mie umili fotine. Flickr?

Filippi e la public history ai tempi degli stramaledetti social. Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore, su Il Riformista il 30 Dicembre 2022

Francesco Filippi è quell’apprezzato esperto di “public history” che ha dedicato ben tre volumi per Bollati Boringhieri a smitizzare, smantellare, smontare una serie di vulgate particolarmente poco informate ma assai diffuse sul fascismo.  Con questa sua recentissima Guida semiseria per aspiranti storici social (Bollati Boringhieri, 2022, pp. 128, € 10) ha deciso di riportare le sue impressioni di storico attento a come il racconto storico è riprodotto oggi sulla rete. L’autore naviga e analizza gli ambienti social in cui si tenta (inutilmente, verrebbe proprio da dire) di “discutere” di Storia. L’approccio è quello dell’entomologo che, per capire gli insetti che studia, si traveste da insetto a sua volta.

La prima parte è dunque un susseguirsi di brevi capitoli in cui si raccontano le varie disavventure e frustrazioni incontrate dall’autore o da suoi colleghi nell’interagire con il meraviglioso “popolo della rete”. Presente i famosi “leoni da tastiera” che scambiano sempre la discussione per l’aggressione nei confronti dell’autore di qualunque tesi? Ecco. Non vi sto a elencare quali disavventure & frustrazioni sono qui tratteggiate perché grosso modo possiamo considerare che ciascuno di noi ci si sia trovato invischiato più di una volta, a conferma che esistono dei pattern (vogliamo dire sociologici? e diciamolo; e se preferite con l’attuale ministro della Cultura il termine italiano, direi degli andamenti) comuni un po’ a tutti i campi, dalla “reductio ad Hitlerum“ al “noi” inteso come “us vs them“, alla eterna confusione fra “colpa” e “responsabilità”, ai macroerrori di anacronismo, alla mancanza di relativismo culturale che conduce alla cancel culture, al benaltrismo, al tifo da stadio, al manicheismo, al “mio cuggino mi ha detto”, alla finta citazione dell’ipse dixit, all’errore ingenuo del cattedratico che pensa di poter spiegare (il povero Orsini direbbe “dimostrare”) alla sua platea virtuale di non-studenti aggressivi e ignoranti sulla base di fonti, riflessioni, dati e ragionamenti ex-cathedra. Tutta roba sempre presa dagli interlocutori come provocazione o tentativo di vantarsi di una propria competenza, un peccato mortale questo, vissuto sempre come disdoro personale dal resto degli… utenti, chiamiamoli.

Ma perché Filippi ha pensato di fare un libro del genere, e perché un editore serio e rigoroso come Bollati Boringhieri glielo ha pubblicato? La ragione la troviamo verso la fine del volumetto e non è sciocca. Là dove dice “In questo senso il mondo della storia online è un’opportunità di studio enorme per chiunque voglia comprendere il rapporto tra gli individui, le comunità e addirittura le società e il tempo. Anche perché chi si occupa professionalmente di questi argomenti deve tenere presente: alla gente piace molto parlare di storia e lo fa dappertutto. Il passato è ancora, nonostante decenni di presentismo spinto, una parte centrale del mondo delle idee e dell’immaginario comune in cui le persone vogliono stare.” (106). E ancora: “L’opportunità di avere milioni di persone che spontaneamente dichiarano quel che pensano sul passato non può essere sottovalutata da chi il passato lo studia e lo interpreta.” (110).

Filippi, insomma, ritiene che i social siano la rivoluzione che cambia il modo di raccontare la storia, di informarsi, di cercare fonti, di vagliarle. E’ ben cosciente di quanto poco questi processi critici vengano portati avanti da chi, al momento inflaziona i social, e però dice che gli storici di professione non possono ignorare o far finta che tutto il traffico che si registra sui canali virtuali dove si dibatte di storia non abbia rilevanza.

Insomma, può darsi che “malerrima tempora currunt” e già sento il coro dei miei prof della scuola media inferiore recitare “sed peiora parantur“, ma lo spirito dello scienziato storico, dice Filippi, deve comunque essere quello di interpretare il presente e sapergli raccontare il passato evitando atteggiamenti elitari, torri eburnee e campane di vetro che contribuiscono solo ad allontanare dalle masse (e dai giovani, aggiungo io) una comprensione della storia e del passato meno stronza e farlocca. Lo ammetto: non siamo del tutto lontani da “Mangiate merda: milioni di mosche non possono sbagliare”, ma va detto che le riflessioni di Filippi su un argomento così banale non sono mai, a loro volta, banali. E allora via, assaggiamo.

Il saggio di Mastroianni. Dall’homo sapiens all’homo smartphonicus. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 30 Dicembre 2022

Ti prego, Dio, fa che chiami adesso. Caro Signore, fa che chiami adesso. Non ti chiederò mai niente altro, giuro. Non ti chiedo poi molto. Per te sarebbe proprio una cosetta da niente. Oh Dio, una cosettina-ina-ina. Ma fa che chiami adesso. Ti prego, Dio. Per favore, per favore, per favore. Forse se non ci sto a pensare, il telefono squillerà. A volte succede. Se solo potessi pensare a qualcos’altro. Se solo potessi pensare a qualcos’altro. Forse se contassi per cinque fino a cinquecento, alla fine potrebbe squillare. Conterò lentamente. Niente imbrogli. E se dovesse squillare quando arrivo a trecento, non rispondo: non risponderò prima di essere arrivata a cinquecento. Cinque, dieci, quindici, venti, venticinque, trenta, trentacinque, quaranta, quarantacinque, cinquanta… Oh ti prego, squilla. Per favore”.

L’inizio di Una telefonata – memorabile racconto di Doroty Parker – è tanto anacronistico, quanto attuale. La fatale ironia di Parker è datata 1944. Oggi nessuno rimane più incollato davanti al telefono fisso, aspettando una chiamata che non arriva; nessuno proietta più la sua desiderante impazienza sul riconoscibile squillo del telefono domestico; nessuno torna a casa di fretta sperando in un messaggio lasciato in segreteria. Eppure… Eppure, tutti riconosciamo in quel tragicomico monologo interiore un senso di straziante attesa che non ci è estraneo; quella lotta tra vulnerabilità e orgoglio almeno una volta l’abbiamo sperimentata, anche se non abbiamo più un numero fisso e la suoneria del nostro cellulare è sempre in modalità vibrazione. La notifica che non arriva, il messaggio non visualizzato, le spunte blu a cui non segue risposta, il fiato sospeso mentre compare la scritta sta scrivendo…

Il telefono non è più quello di una volta. Tuttavia – da 150 anni a questa parte – rimane il costante mediatore delle nostre relazioni e dei nostri sentimenti. Ghosting analogico o ghosting digitale, la sostanza non cambia. L’apparecchio telefonico non è stato soltanto un’invenzione tecnologica che ha cambiato semplicemente il nostro modo di comunicare con gli altri, abbattendo le distanze spaziali e accorciando le lontananze. Nella sua Storia sentimentale del telefono (Il Saggiatore Editore), Bruno Mastroianni identifica nell’invenzione del telefono una vera e propria cesura nella storia evolutiva dell’umanità: dall’homo sapiens all’homo smartphonicus, il nostro modo di muoverci, di parlare, di gesticolare, di ascoltare, di litigare, di conoscere, di amare è completamente cambiato con il telefono, un’appendice del nostro corpo senza la quale non riusciamo più a immaginare la nostra vita.

Certo, continuiamo a usare lo stesso termine – il “telefono” appunto – ma tra l’invenzione di Meucci e lo smartphone che abbiamo in tasca c’è un oceano di differenza. Mastroianni ripercorre i suoi cambiamenti di forma e di sostanza: dalle cabine telefoniche al telefono con la rotella, dal cordless al telefonino, dalle tastiere analogiche al touch screen. “Pronto, chi parla?” era l’inevitabile domanda che apriva la conversazione al telefono di casa, subito orientata alla scoperta dell’identità del mittente dall’altra parte del filo. Un’interrogazione unidirezionale che si è trasformata in una domanda reciproca ai tempi delle chiamate fuori casa dal cellulare: “dove sei?” chiediamo a un interlocutore di cui conosciamo l’identità ma non la posizione. Lo faceva notare Maurizio Ferraris, nel lontano 2006, in un libro dal titolo Dove sei? Ontologia del telefonino, il primo saggio di filosofia dedicato al cambiamento essenziale ed esistenziale rappresentato dall’invenzione di questa macchina per parlare, per scrivere e per registrare da tenere comodamente in tasca.

Mastroianni, dopo poco più di 15 anni, ci fa notare un ulteriore cambiamento linguistico. Oggi la domanda più ricorrente è: “Puoi parlare?” Ci scusiamo del disturbo e chiediamo il permesso a causa dell’eccesso di conversazioni possibili nell’epoca della call permanente. Sono lontani i tempi della pubblicità con Massimo Lopez e il suo tormentone “una telefonata allunga la vita”. Oggi la telefonata non solo non allunga la vita, ma “sembra quasi accorciarla con quel suo modo di invadere gli spazi e divorare energie e attenzioni”. I tempi sono cambiati e la nostalgia dei bei tempi del telefono delle origini si fa sentire, soprattutto quanto riguardiamo le corse adrenaliniche di Bruce Willis tra le cabine telefoniche di Die hard o riascoltiamo la voce familiare della Carrà che alza la cornetta in Pronto, Raffaella? Insomma, parafrasando E.T., l’equazione telefono=casa non può che ingenerare un certo struggimento perché la storia del telefono si intreccia con la nostra storia personale.

Ogni generazione ha i suoi aneddoti sulla propria infanzia telefonica: le chiamate lunghissime che facevamo chiusi in cameretta dopo la scuola, l’indignazione dei genitori di fronte ad una bolletta troppo salata, gli scherzi telefonici anonimi in compagnia dell’elenco telefonico, le litigate con la minaccia “ti attacco il telefono in faccia”. Quando ancora era lontana quella “forma pervertita di telefonata senza dialogo” che sono i messaggi vocali… Oggi grazie allo smartphone (o per colpa sua) siamo sempre reperibili, sempre connessi. Avere un telefono vuol dire essere in una giungla di relazioni che non ci danno tregua, dentro e fuori casa, nel tempo lavorativo e nel tempo libero. Siamo sempre “in contatto”, con una miriade di notifiche, commenti, giudizi che non possiamo evitare semplicemente riagganciando la cornetta. Non basta mettere via il telefono per saltare fuori dalle fitte maglie di questa rete telefonica.

Intorno alle nuove “diavolerie” telefoniche, infatti, si apre la consueta battaglia generazionale tra genitori e figli, tra insegnanti e studenti, tra analogici e digitali, tra apocalittici e integrati. Mastroianni mantiene un invidiabile equilibrio tra le posizioni antagoniste, con la disinvoltura di chi è abituato a gestire la polarizzazione del linguaggio dei social – non a caso è anche l’autore del fortunato saggio La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media in pubblico (Cesati 2017). Demonizzare la tecnologia, pensando che basti urlare “spegni quel coso!” per imparare a gestire le nuove sfide della comunicazione smartphonica, è tanto ingenuo quanto deleterio. Urge, invece, una presa di coscienza sul nostro nuovo rapporto con il medium telefonico, una riflessione costante e aperta sulla quantità e sulla qualità del tempo che spendiamo davanti allo schermo dello smartphone.

Il da farsi – spiega Mastroianni – è l’opposto di ciò che urlano gli intellettuali luddisti: “Invece di alleggerire, occorre appesantire. Invece di ridurre, bisogna approfondire. Invece di silenziare, conviene alzare il volume”. Dobbiamo stare in guardia dagli inganni della nostalgia: la soluzione non è un ritorno ad un passato più lento e posato, perché quel passato non è mai esistito. “La comunicazione oggi è frenetica perché una dose di velocità siamo noi a mettercela”; internet, in realtà, ci offre la possibilità di una comunicazione più lenta e ragionata: possiamo pensare prima di premere invio, possiamo prenderci il tempo per riguardare una scena in differita, rileggere un articolo che avevamo liquidato frettolosamente, argomentare con calma la nostra opinione scrivendo un commento più lungo di uno slogan.

Insomma, abbiamo la possibilità di meditare prima di agire: sta a noi decidere se cedere al vittimismo che dà tutte le colpe alla tecnologia, o se dare forma al mondo telefonico di domani prendendoci la responsabilità delle nostre azioni. E magari riscoprire – nell’epoca delle chat piene di parole, di emoticon e di immagini – il potere della telefonata che ci fa sentire amati. Come cantava Stevie Wonder, “I Just Called To Say I Love You”. Lucrezia Ercoli

Farsi carne. Storia di Alessandro D’Avenia su Il Corriere della Sera il 18 Dicembre 2022.   

Il Natale ha lo stesso problema del cristianesimo: diventa una noia quando smette di dare vita. Cristianesimo è la parola che rinchiude Cristo in una dottrina, una filosofia, una morale, tanto che Agostino rispondeva a coloro che si vantavano di essere cristiani come si trattasse di un circolo o di una casta: «Non rallegratevi di essere cristiani, ma di essere Cristo». Lo stesso accade con il Natale: ridotto all’ideologia del «tutti più buoni» e alla morale di regali e brindisi, seppur accarezzati da una ventata di consumismo senza sensi di colpa, ne usciamo pesanti di cose e calorie ma poco pieni... di vita nuova. Natale è la nascita di un tale di nome Gesù, nome che significa Dio salva, ma salva che cosa, a parte qualche giorno di vacanza? Proviamo a usare questo racconto, credenti o no, come risorsa esistenziale per scoprire se ha ancora qualche potere «salvifico», cioè può dare alla nostra vita un’energia più duratura di due regali e un menù. Dio, che tutti più o meno cercano da sempre, si fa carne, si in-carna: la cosa intrigante non è di che colore ha gli occhi o quanto è alto, ma che ha la mia stessa carne e che la mia carne può diventare la sua. Ma che cosa è mai questa carne? La carne, basar nel lessico biblico, non è quella che si compra dal macellaio né la gabbia dell’anima come diceva Platone, ma è l’uomo vivo, nella sua interezza (anima e corpo), e in generale ogni essere vivente («ogni carne in cui è alito di vita» così la Bibbia indica tutti i viventi). C’è una parentela «carnale» tra tutte le cose che hanno vita «a tempo»: limitata. Questa comunione (co-munus: dono comune) non è un ragionamento o un impegno morale, ma un fatto: la carne è dono che ho in comune con una rosa, un dalmata e un passante. Ma nell’uomo c’è un di più, un respiro in più: la carne (non solo la ciccia) si può aumentare! Infatti dell’uomo e della donna uniti si dice addirittura che diventano «una sola carne» (è la mia carne che abbraccio se ti abbraccio; è la mia carne che ferisco se ti ferisco), un nuovo soggetto talmente vivo da poter creare nuova vita. La carne è quindi la relazione più o meno intima che posso intrattenere con tutto ciò che vive per creare altra vita. Disprezzare la carne (non parlo di diete) è disprezzare la vita come legame tra tutte le cose: le filosofie, le morali, le tecniche che dis-incarnano fanno sempre violenza alla vita. La tendenza odierna a sostituire la carne, perché ci inchioda al fatto che siamo «a tempo», con proiezioni o protesi che ci fanno credere di essere illimitati, è un modo di sottrarsi al benedetto peso (pienezza) della vita. C’è dis-incarnazione in una scuola che tiene gli adolescenti dietro un banco per ore come se non avessero corpo; in un social che porta a manipolare la propria immagine per esistere un po’ di più; in un algoritmo che ci stritola in dati; nell’uso mercificato del corpo... A fine giornata, bisognosi di una carezza, di un abbraccio, di un sorriso non siamo più in grado di chiederli o di darli, perché non abbiamo più una carne se non per vergognarci dei suoi limiti, quando sono proprio i limiti a salvarci, perché la carne costringe alla relazione (il limite non è un muro ma una soglia). E allora un Dio che si in-carna è una sorpresa a cui non mi abituerò mai: la carne che unisce tutti i viventi “a tempo” è anche la carne della Vita «senza tempo», tanto che Cristo arriva a dire non solo che chi fa qualcosa a un altro la fa a lui (è la stessa carne) ma anche che chi mangia la sua carne riceve la vita eterna, adesso non domani. Ma allora che cosa è questa carne divina? Non è una bistecca di Dio ma la sua vita, che la carne (relazione con Lui e con tutto/i) può darmi. E che vita è quella di Cristo nella carne? Una vita limitata come la mia, ma non ego-centrata e quindi in affanno a procurarsi qualche giorno in più. Il limite per lui non è una condanna ma la possibilità di aprirsi all’infinito (sempre più e per sempre) in due direzioni: Dio e gli uomini, è un dono per il dono, il limite non fa paura ma fa vita, la povertà di Betlemme non è un inno alla miseria ma all’apertura, alla relazione, alla cura (Dio ha bisogno di tutto, anche del pannolino). Incarnarsi, farsi carne, significa allora in questo racconto diventare, come e dove siamo, un dono di qualcuno per qualcun altro (io sono un regalo per il mondo!), e poter vivere ogni cosa (lavoro, divertimento, fatica, tristezza, gioia...) per amore e per amare. Cristo per 30 di 33 anni ha fatto il falegname in un paesino: facendo tavoli ha salvato il mondo tanto quanto facendo miracoli, solo un undicesimo della sua vita è straordinario (a me accade lo stesso ogni 24 ore: dieci undicesimi, 22 ore, di faticosa ordinarietà e un undicesimo, 2 ore, di sorpresa). Insomma la carne di cui sono fatto può diventare amore e l’amore diventare la carne di cui sono fatto: una vita compiuta ma mai a spese altrui (carnefice è chi usa la carne altrui per riceverne l’energia che non trova in sé). A Natale festeggiamo la pretesa di Dio di farsi carne per darci carne: lo spirito si fa materia, l’eterno si fa tempo, l’immortale si fa mortale, l’infinito si fa finito, il compiuto si fa incompiuto, l’amore si fa desiderio, la pienezza si fa mancanza, il sacro si fa profano, la libertà si fa limite, l’assoluto si fa relativo, l’incondizionato si fa legame, il divino si fa umano... E quindi viceversa: nella carne c’è già Dio, nella materia lo spirito, nel tempo l’eterno, nel mortale l’immortale, nel finito l’infinto, nell’incompiuto il compiuto, nel desiderio l’amore, nella mancanza la pienezza, nel profano il sacro, nella condizione la libertà, nel relativo l’assoluto, nel legame l’incondizionato, nell’umano il divino... Se voglio mi è possibile vivere tutto per amore e per amare, trasformare la carne del mondo in amore ricevuto e dato. La «resurrezione della carne» non sarà quindi il ritorno a lucido dei miei atomi imputriditi, ma il modo in cui esseri limitati possono diventare vivi (creativi, originali, innamorati) ogni ora di più e sempre. Ma come? Se siamo tempo fatto carne, farsi carne significa allora ricevere e dare questa carne-tempo, come Cristo: amare è ricevere tempo da Dio e dare tempo agli uomini, anche se nel mondo dell’efficienza accelerata è diventato difficilissimo (come bisogna «fermarsi a pensare», oggi dovremmo «fermarci ad amare»: a questo servono le vacanze). E vorrei non comprare regali per lenire il senso di colpa della carne-tempo che non ho saputo ricevere e dare. Vorrei fare quanto dice il poeta Pedro Salinas all’amata: «Regalo, dono, offerta?/ Simbolo puro, segno/ che voglio darmi a te./ Come vorrei essere/ quello che io ti do/ e non chi te lo dà./ Ah!, se io fossi la rosa che ti do/ che non ha ora altro futuro/ che essere con la tua rosa,/ la mia rosa,/ vissuta in te, da te./ Fino a che tu la innalzi/ di là dal suo sfiorire/ sicura, inalterabile,/ tutta al riparo ormai/ da altro amore o altra vita/ che non siano i tuoi» (La voce a te dovuta). La rosa diventa carne co-mune e per amore non sfiorisce, perché, donata e ricevuta, è sottratta alla morte. Natale è farsi (ricevere e dare) carne... e non solo carte (di credito e da regalo). Me lo e ve lo auguro. Ci rivediamo il 2 gennaio.

Homo smartphonicus. Le nuove tecnologie sono una virtù, non possono essere trattate con vittimismo. Bruno Mastroianni su L’Inkiesta il 16 Dicembre 2022.

Il telefono compie centocinquant’anni e oggi più che mai assistiamo alla sua portata rivoluzionaria. Nel suo ultimo libro pubblicato per Il Saggiatore, Bruno Mastroianni ripercorre la storia di uno strumento diventato presto indispensabile

Un tempo gli adulti sottovalutavano i giovani, che dovevano tacere, imparare, obbedire e non fare danni; il resto lo avrebbero fatto da grandi. La relazione educativa basata su una posizione di superiorità dei più maturi era simboleggiata dallo stesso telefono classico: un dispositivo posseduto dai genitori e usato dai figli solo per concessione.

Con le tecnologie smartphoniche abbiamo fatto un salto all’estremo opposto: i giovani oggi sono sopravvalutati, ci sembrano dei piccoli geni informatici competentissimi e di fronte ai quali oltre al famigerato «Spegni quel coso» salvifico, sappiamo dire poco.

È il complesso di inferiorità simboleggiato dall’hashtag: una realtà tecnica non padroneggiata che spinge a sentirsi tagliati fuori, poco autorevoli, inadatti a dire qualcosa, e che quindi produce un rifiuto psicologico che disincentiva a occuparsene. Eppure, siamo nell’epoca storica che avrebbe bisogno più che mai di un ritorno al termine medio: vedere i giovani per quello che sono e vedere noi, non più giovani, per quello che siamo.

Entrambi alle prese con un’onlife completamente nuova, tutta da capire e ancora da imparare a gestire. È l’effetto del potenziamento tecnologico: più comunichiamo, più possiamo vederci per ciò che siamo. Anche quando lo facciamo male, il fatto di esternare, di dire e scrivere costantemente, può avere un effetto di aumento dell’autoconsapevolezza; può essere materiale che emerge dall’inconscio al conscio, come in una gigantesca e costante seduta di analisi a cui tutti stiamo partecipando.

Il punto è voler guardare in faccia questa realtà. Sarebbe un peccato, infatti, sprecarla con atti di vittimismo, dando tutta la colpa ai social e alla tecnologia, dimenticando che l’umano è al centro di essi, come responsabile e protagonista. È, come descrive bene Maurizio Ferraris, un atteggiamento quasi superstizioso che sfocia nel negazionismo, cercando di attribuire a forze occulte e incontrollabili – il digitale, la rete, gli smartphone, gli hashtag – ciò che in realtà dipende da noi e noi soltanto.

Il ragionamento del filosofo suona più o meno così: le macchine sarebbero totalmente inutili in assenza di umani; la rete, i like, i messaggini non esisterebbero senza l’individuo che ci mette dentro i suoi consumi, frutto di bisogni, desideri, aspettative – e tutto l’insieme delle debolezze che abbiamo visto. Il che vuol dire che noi siamo letteralmente i signori delle macchine anche se poi, per autoassolverci dai nostri compiti, preferiamo percepirci come schiavi di esse.

Non è l’hashtag il problema, non lo sono nemmeno le istruzioni, l’età, i dispositivi, le piattaforme o le novità che ogni settimana la tecnologia sfodera: il centro della questione è nell’umanità in piena costruzione che ci troviamo a essere, anche con lo smartphone in mano. Chissà perché pensiamo che la storia della natura umana abbia una progressione lineare nel tempo. Crediamo che più andiamo avanti, più ci dovremmo aspettare chiarezza sulla nostra identità, su quale sia la direzione giusta da prendere per capire chi è l’uomo e quale sia il suo posto nel mondo, mentre invece, guardando alla storia, è successo l’esatto contrario.

Nelle tradizioni antiche, molto poco scientifiche e lentissime nelle innovazioni tecnologiche, l’idea dell’uomo era nitida e irreggimentata: ognuno aveva il suo posto nel mondo e quello doveva ricoprire. Chi se ne discostava veniva punito, isolato, emarginato. Gli eretici, gli spiriti liberi, i visionari: tutti spingevano verso nuove direzioni, ma presto venivano riportati nell’alveo della vita correttamente intesa, complice un contesto socioculturale che aveva un’idea abbastanza chiara di cosa era l’uomo, cosa il mondo, chi Dio, ecc.

Più siamo andati avanti e più abbiamo smarginato il ritratto ideale. Più la scienza e la tecnologia ci hanno potenziato e meno certezze sono rimaste sulla combinazione ideale della vita e del suo senso. Più la comunicazione è diventata attività quotidiana, comune, autoprodotta, potente, invasiva e più sono fioccate le domande esistenziali aperte.

Insomma, nell’epoca smartphonica doversi porre le questioni di senso fondamentali sulla vita connessa è ancora più importante e urgente rispetto al passato. Non ci si può più adagiare sulle abitudini mentali, sulle buone vecchie regole che da sempre funzionano, sulle definizioni e i punti di riferimento che hanno dato forma alle nostre vite pre‑smartphoniche.

Oggi ci troviamo in un’epoca caratterizzata da due elementi fondamentali, ovvero la profonda ricerca di senso e l’irrimediabile necessità di dare una forma sostenibile alla nostra vita; altro che priva di spirito e superficiale, come vorrebbero alcuni. Il problema è che questi due aspetti non possono essere imposti, ma devono essere scelti, il che significa che anche l’esatto contrario è ammissibile, ovvero rinunciare e rifugiarsi nel vittimismo dell’hashtag troppo difficile da comprendere, percependoci drammaticamente in balia delle tecnologie e sperare che qualche divinità inesistente ce la mandi buona, prima o poi.

Additare l’hashtag però è una distrazione bella e buona. Si innesta sul presunto problema delle istruzioni complesse, distraendo dal vero punto in questione: non basta saper usare gli apparecchi – anche perché «usare» è una parola troppo limitata per quello che la tecnologia sta potenziando, cioè le relazioni tra esseri umani.

Al saper far funzionare occorre aggiungere, infatti, l’essere in grado di finalizzare le nostre azioni per produrre un bene. L’hashtag si fa quindi ambasciatore di un bivio a cui l’uomo moderno si trova di fronte, dove la scelta della direzione da prendere non può più essere rimandata. Ammettiamolo, lo smartphone è sostanzialmente una scuola di virtù: di autocontrollo, di autoironia, di capacità argomentativa, di pazienza, di apertura alle novità, perfino di umiltà.

Storia sentimentale del telefono, Bruno Mastroianni, Il Saggiatore, 160 pagine, 22 euro

Camilla Sernagiotto per corriere.it il 15 Dicembre 2022.

Sui social network nelle ultime settimane si stanno moltiplicando immagini di avatar artistici dei propri contatti. Il fenomeno è dovuto al nuovo tormentone che va sotto il nome di Lensa AI. Si tratta di un’applicazione creata da Prisma Labs, la stessa società che nel 2016 ha dato i natali a un’altra app di successo (Prisma, che trasformava in dipinti le foto scattate con lo smartphone). Ora il medesimo team di sviluppatori torna a spopolare con Lensa AI. 

Tuttavia parliamo di un’applicazione non certo nuova: è stata inaugurata nel 2018. Il successo di queste settimane è dovuto a una nuova funzione virale, chiamata «avatar magici», lanciata alla fine di novembre.  Qualche numero: secondo le stime preliminari fornite da Sensor Tower, nello stesso mese l'app è stata scaricata 1,6 milioni di volte, con un aumento del 631% rispetto a ottobre 2022.

Oltre quattro milioni di persone in tutto il mondo hanno poi scaricato l'app nei primi cinque giorni di dicembre. E nello stesso arco di tempo, gli utenti hanno speso oltre otto milioni di dollari su Lensa AI. In totale, finora, dal suo debutto nel 2018, l'app è stata scaricata circa 22,2 milioni di volte.  Una curiosità: gli Stati Uniti generano il 58% della spesa totale degli utenti. Nell’ultimo periodo, però, l’applicazione è diventata particolarmente popolare in Brasile.

Appena si scarica Lensa AI sul proprio dispositivo, apparirà sullo schermo un pop-up che invita a una prova gratuita (della durata di sette giorni). Per una settimana si potranno utilizzare gli strumenti di editing AI dell’app, ma attenzione: se ci si dimentica di annullare in tempo il passaggio da prova gratuita a utilizzo a pagamento, ci si vedrà addebitare 39,99 dollari. Pagando tale cifra, Lensa AI potrà essere usata illimitatamente per un anno intero.

Da sottolineare è che la versione gratuita dell'app non include la funzione «avatar magico», quella che ne ha decretato il trionfo (e quella per cui la maggior parte delle persone ora stanno scaricando Lensa). La nuova funzionalità così popolare si ottiene solo pagando, perlomeno con un acquisto in-app di minimo 3,99 dollari.  Con questa cifra si otterranno 50 avatar unici, in cinque varianti di 10 stili diversi. 

Gli avatar targati Lensa segnano un momento epocale: è la prima volta che tante persone interagiscono con uno strumento di intelligenza artificiale generativa. Ed è anche la prima volta che tante persone pagano per ottenere arte generata al computer.

Le applicazioni di fotoritocco virali non sono viste di buon occhio, poiché molte di queste si sono rivelate veicoli di malware. In altri casi, invece, gli utenti si sono preoccupati di cosa accade alle proprie foto. Le applicazioni di editing AI di solito garantiscono che le immagini caricate vengono eliminate nel giro di quarantott'ore, tuttavia ci sono casi in cui si parla anche dell’eventualità di archiviare foto aggiornate nel cloud per «motivi di prestazioni e traffico». 

Guardiamo al caso di Lensa AI. Cosa succede ai selfie che carichiamo sull'app per ottenere ritratti artistici di noi stessi? Prisma Labs, il team che ha sviluppato Lensa AI, ha dichiarato che nel momento stesso in cui viene finalizzato l’addestramento di un modello AI basato sulle foto di un utente, quelle stesse immagini vengono eliminate nell’immediato. È ciò che gli sviluppatori hanno affermato nelle interviste rilasciate ai media statunitensi (tra cui TechCrunch, il blog americano specializzato in tecnologia e informatica).

Ciò che lo scorso novembre hanno fatto gli sviluppatori di Lensa AI è stato aggiungere un nuovo strumento di generazione di avatar basato su Stable Diffusion. Quindi Lensa si appoggia su questo generatore di immagini open source, che è gratuito (ma che in questo caso funziona da intermediario). Stable Diffusion si basa a sua volta su circa 2,3 miliardi di immagini presenti su Internet. 

 Tra queste miriadi di foto, compaiono pure opere protette da copyright, immagini da Pinterest, da Smugmug e Flickr. Ci sono perfino illustrazioni da DeviantArt e ArtStation, così come immagini stock da siti come Getty e Shutterstock. Secondo LAION, l'organizzazione no profit che mette a disposizione del pubblico le risorse di machine learning, questi dati sono elenchi di url di immagini in rete, abbinate al testo alternativo che le descrive.

È comprensibile il fatto che la preoccupazione degli artisti sia crescente. Illustratori, fotografi e artisti temono di venire sommersi dalle copie algoritmiche delle proprie opere. «So che molte persone hanno postato i loro ritratti di Lensa (e di altre app di IA) ultimamente» ha scritto sui social network la doppiatrice Jenny Yokobori (voce di Yoimiya in Genshin Impact e di Kuromi in Hello Kitty and Friends Supercute Adventures). «Vorrei incoraggiarvi a non farlo o, meglio ancora, a non utilizzare il servizio» ha aggiunto Yokobori in un thread su Twitter diventato molto popolare.

Un aspetto inquietante dei ritratti generati attraverso l'intelligenza artificiale è la tendenza algoritmica a sessualizzare i soggetti. I termini di servizio di Lensa puntualizzano che si possono inviare solamente contenuti appropriati. Le foto sull’app non devono contenere nudi, e non è possibile uplodare immagini che ritraggono bambini: solo ed esclusivamente adulti. Nonostante queste siano le restrizioni, c'è chi infrange le regole. 

Inoltre alcuni hanno notato che - quando si caricano foto lungi dall’essere audaci - l’app restituisce ritratti sessualizzati, con pose provocanti e seni resi più prosperosi. E quando le immagini originali non contengono nudi, Lensa talvolta genera comunque opere in cui la nudità viene contemplata. 

Alcuni utenti neri di sesso femminile hanno affermato che Lensa avrebbe sbiancato loro la pelle e modificato i lineamenti. Questa è una riprova del fatto che gli algoritmi di apprendimento automatico riproducono i pregiudizi culturali sia degli ingegneri che li codificano sia dei consumatori che li utilizzano, come hanno teorizzato gli studiosi Ruha Benjamin e Safiya Noble. Dunque gli standard di bellezza (che in questo caso sono canoni estetici occidentali) influirebbero sullo sviluppo degli algoritmi.

Del resto lo stesso Safiya Noble nel suo libro intitolato Algorithms of Oppression (2018) ha dato prova - tramite screenshot - dei risultati di una ricerca su Google Images condotta nel 2014: digitando nella stringa la parola « bella», il motore di ricerca restituiva immagini altamente sessualizzate di donne bianche.

Benché le restrizioni di Lensa AI vietino di caricare immagini di minori, ciò non impedisce ai malintenzionati di farlo. Inoltre svariati utenti che hanno provato a caricare delle foto della propria infanzia affermano di non aver incontrato alcun tipo di impedimento. Anzi: alcuni parlano di come normalissime immagini di bambini di sei anni, per esempio, siano state trasformate in scatti con soggetti, attributi e pose ben diverse.

«Negli ultimi 30 anni, gli sforzi per frenare gli abusi sui minori e il traffico di esseri umani si sono sviluppati insieme a Internet. Ma i generatori di arte AI eludono completamente la moderazione dei contenuti» scrive Olivia Snow sull’edizione statunitense del magazine Wired. Senza nessuna moderazione o supervisione, la violenza generata dall’IA potrebbe diventare davvero terrificante. Snow fa inoltre notare come Lensa non abbia nessuna politica che stabilisca che gli utenti possano caricare solo immagini di se stessi: le uniche specifiche rilevanti sono «la stessa persona su tutte le foto» e «nessun'altra persona sulla foto».

 E un altro aspetto sconcertante e assai allarmante è il seguente: la frequenza di nudi indesiderati generati da un'app basata su algoritmi di apprendimento automatico indica che gli utenti hanno caricato foto esplicite su Lensa (nonostante i suoi termini di servizio) con una frequenza tale da far sì che la nudità si sia inoltrata prepotentemente nella tecnologia.

Articolo di Kate Lindsay per “The Atlantic” pubblicato da “la Stampa” il 12 dicembre 2022.

A ottobre Instagram ha riportato due miliardi al mese di utenti attivi. Questa soglia è stata superata da Facebook, che in autunno si è avvicinata ai tre miliardi di utenti. Perché dunque queste piattaforme sono meno importanti di un tempo? Si è scoperto che riunire più di un quarto della popolazione mondiale in un unico posto crea lo stesso problema che si ha invitando a una festa molta gente pescata a caso: diventa difficile trovare i propri amici. 

L'origine dell'espressione social media non è chiara (molte persone rivendicano di averla coniata), ma si tratta di un fenomeno individuato negli anni Novanta quando internet passò dall'essere uno spazio di archiviazione a spazio di interazione con l'avvento della messaggistica istantanea, di forum e di chat room.

Negli anni Duemila, siti web come Friendster e MySpace istituirono social media perlopiù come spazi di interconnessione tra persone che già si conoscevano nella vita reale, anche se per farlo era indispensabile visitare le pagine del profilo. Facebook e Instagram recapitavano gli aggiornamenti di amici e conoscenti nel feed, un flusso comodo e per taluni aspetti irresistibile. 

Pur continuando nel complesso a crescere, Facebook e Instagram in ogni caso stanno facendo fatica ad attirare e conservare la generazione più giovane, così indispensabile per la loro longevità. Perché? La risposta più semplice è che la Generazione Z preferisce i video.

Meta sta annaspando nel tentativo di riprodurre la magia di TikTok, un'app che i giovani amano. Nel mese di agosto ho parlato del nuovo feed di Facebook influenzato da TikTok che dà la priorità ai contenuti raccomandati in funzione degli algoritmi. I giovanissimi utenti non sono tornati. Instagram poco alla volta ha cercato di concentrarsi di nuovo sui filmati brevi, rendendo difficile accedere a una timeline cronologica e spedendo nei feed i post più raccomandati. La settimana scorsa, ho scritto che Instagram è alla fine.

Le cose stanno così: la gente non posta video affinché solo gli amici li guardino. È possibile fare una videochiamata FaceTime alle persone che stanno maggiormente a cuore, oppure inviare loro una nota vocale. Se si è al liceo o al college, si può messaggiare con i compagni e condividere filmati nel proprio giro social su Snapchat. Quando invece si pubblicano video su TikTok (o Instagram Reels), lo si fa per il pubblico. L'algoritmo lo consente, promuovendo i video nelle pagine "For You" di chiunque risulti essere potenzialmente interessato. 

Come ha scritto di recente in un articolo il mio collega Ian Bogost, «i social media hanno trasformato te, me e chiunque altro in cronisti (per quanto dilettanti)».

Anche se trasmettere non risulta naturale a tutti - sensazione che da Millennial capisco fin troppo bene -, la rapida affermazione di TikTok lascia intendere che il fascino di vedere video girati da perfetti sconosciuti sia universale. Il fatto poi che queste evoluzioni non siano state deludenti quanto basta da innescare il riaffermarsi culturale di un'app come Facebook fa capire che, dopo aver trascorso anni a leggere gli aggiornamenti di stato e a far scorrere le foto dei neonati delle stesse poche decine di membri della famiglia allargata e di vecchi compagni di scuola, forse siamo andati oltre.

Mentre i feed si assottigliano e i video virali hanno la meglio, però, stiamo perdendo qualcosa di importante: un posto da frequentare online. Twitter è la "piazza cittadina", uno spazio per scambiarsi idee e farsi scherzi insensati. (Naturalmente, anche Twitter arranca, ma per colpa della turbolenta leadership di uno della Generazione X, e non per le abitudini destabilizzanti della Gen Z). In ogni caso, non esiste più un equivalente digitale del bar o della caffetteria di quartiere, un luogo nel quale incontrare amici e parenti e instaurare rapporti da persona a persona. 

In pratica, TikTok non offre nessuno strumento dedicato per rapportarsi da persona a persona. (Per esperienza, so che quando la gente si manda messaggi su TikTok perlopiù lo fa soltanto per spedire video). I subreddit e i server su Discord e Mastodon costituiscono gli equivalenti moderni delle vecchie chat room, zone circoscritte per persone che hanno interessi comuni. Tuttavia, oggi più che mai, siamo tutti sui social, circondati da miliardi di persone e per certi aspetti completamente soli.

Giampiero Mughini per Dagospia venerdì 4 agosto 2023.

Caro Dago, mi immagino che nel sapere che il prodigioso nuotatore italiano Thomas Ceccon avesse messo un vistoso "boia chi molla" in testa a un suo post rammemorante il suo non eccezionale esito ai recenti campionati del mondo, legioni di semianalfabeti "antifascisti" fossero insorti dallo sdegno. 

E' così che funziona l'odierna civiltà dello schiamazzo digitale. Due parole messe in fila ed ecco che sopravviene il finimondo. Ma come, Ceccon è il nuovo Pino Rauti, il nuovo sovvertitore della democrazia repubblicana, il nuotatore in camicia nera? Naturalmente non era nulla di tutto questo. Solo che il prode Ceccon non conosceva il truce passato di quelle due parole, ha addirittura chiesto scusa per averle usate.

E' un ragazzo di vent'anni, non ha in casa i sette o otto tomi della biografia mussoliniana di Renzo De Felice, come del resto non ce li hanno in casa la gran parte di quelli che un'ora sì e l'altra no cianciano di fascismo/antifascismo. 

Qualcosa di simile, fare rumore con la bocca a mezzo di un'espressione non politically correct, era successa se non sbaglio al giovane Gigi Buffon, un monumento al calcio moderno che io saluto con affetto e commozione.

Nella società dello schiamazzo digitale basta una parola, basta un niente per suscitare il finimondo delle chiacchiere che durano ognuna trenta secondi. 

Viviamo e nuotiamo nel nulla e purché sia il nulla. Di recente sono stato in mezzo a una compagnia di giovani amici, tutte persone per bene, nessuno dei quali sapeva come fosse morto Benito Mussolini. 

I post sui social sono divenuti la Bibbia della democrazia di massa, e va bene che adesso un ministro vuole apporre delle tasse a carico di chi di quei post ci campa alla grande, alla grandissima. 

Datemene uno e vi solleverò il mondo. Libri che hanno fatto la storia italiana hanno venduto ciascuno un paio di migliaia di copie. Una troietta addobbata unicamente di uno slip si assicura like a milioni. Tutto qui. Vi ci trovate a vostro agio in un mondo così?

Luigi Grassia per “la Stampa” venerdì 4 agosto 2023. 

[…]

«Anche gli influencer devono pagare le tasse» ha detto ieri il ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti, e il concetto preso a sé è ineccepibile: là dove si produce reddito è giusto imporre tributi. 

Giorgetti, che parlava in videocollegamento con la festa della Lega Romagna a Cervia, ha osservato che il sistema economico è molto cambiato negli ultimi decenni, «oggi si deve andare a cercare la base imponibile» anche setacciando attività che in passato non venivano neppure immaginate, come sono quelle che si svolgono in Internet. […]

In realtà non è chiaro quale fosse l'esatto significato delle dichiarazioni di Giorgetti, visto che l'attività economica degli influencer è regolamentata come ogni altra: hanno partita Iva, fatture, a volte intere imprese con dipendenti; può darsi che il ministro sospetti un'ampia evasione. 

Per quanto riguarda i colossi multinazionali dell'universo "social", si tratta invece di una questione macroscopica, ben nota nei suoi contorni e scandalosa: hanno un'attività globale, guadagnano enormemente in tanti Paesi diversi, pagano poche tasse in sedi fiscali di comodo, e per di più si sottraggono alla responsabilità civile e penale sui contenuti che veicolano, sostenendo di essere fornitori di una struttura neutrale, come se i social media fossero l'equivalente di linee telefoniche.

Giorgetti ha notato che anche i tentativi in corso a livello Ue di far pagare qualcosa in più a questi soggetti sono timidi.

Quanto agli influencer, se l'ipotesi è che lì si nascondano sacche di evasione sarà un po' più facile metter loro il sale sulla coda rispetto ai colossi del web. E se il ministro dell'Economia dà questa indicazione agli uffici che da lui dipendono e alla Guardia di Finanza è verosimile che qualcosa succeda.

[…]

Maria Corbi per “la Stampa” venerdì 4 agosto 2023. 

In molti prevedono l'arrivo di anni difficili per gli influencer che dopo aver perso il mantello candido dei cavalieri senza «marchetta», coloro che offrivano garanzia di autenticità dei contenuti senza spintarelle della pubblicità, dovranno reinventarsi per rimanere in sella e farsi pagare i loro preziosi post. Per adesso comunque resistono con platee che magari si fidano di meno ma non smettono di seguire quello che fanno come fosse una soap opera. […]

Chiara Ferragni si porta dietro oltre ai suoi (29,5 milioni) anche i seguaci dei suoi parenti, dal marito Fedez (14,7 milioni), alle sorelle Francesca e Valentina, alla madre Marina Di Guardo e ai suoi figli, le piccole star, Leone e Vittoria. Un vero business di famiglia, non è un caso che abbiano prodotto la serie sulla loro vita, i «Ferragnez» appunto. Lei da sola ha un patrimonio stimato in 40 milioni di dollari […] 

Tante Cenerentole graziate da un talento di comunicazione o da un'abile regia. Vedi Khaby Lame, classe 2000, il tiktoker più seguito al mondo, origini senegalesi e diventato da poco ufficialmente cittadino italiano (con giuramento al Comune di Chivasso). I suoi video brevi, e ironici, di vita quotidiana non smettono di affascinare platee sconfinate di chi vede in lui e in quel modo di affrontare la vita una indicazione per un mondo meno complicato. 

Non parla ma la mimica facciale dice tutto e di più. Una storia, la sua, di rinascita, con il successo arrivato durante la pandemia di COVID-19, dopo essere stato licenziato. Nel 2021 il suo patrimonio netto era stimato tra 1,3 e 2,7 milioni di dollari, mica male per uno che fa due facce strane e strabuzza gli occhi.

[…] Michele Morrone è uno di questi, al quarto posto tra i profili italiani più seguiti testimonial di brand internazionali. Poco più di 30 anni, nato a Vizzolo Predabissi, paesino dell'hinterland milanese, prima di trovare il successo sul social network, era conosciuto per un ruolo nel film ad alto tasso erotico «365 giorni», uscito su Netflix nel 2020. Prima di questo solo piccole parti in serie tv nostrane come «Squadra antimafia 6» e «Provaci ancora prof!» Ma sono stati i social a fargli fare la svolta, almeno nel conto in banca. Perché anche se si intravede una certa stanchezza nel settore la fine di questo regno dei balocchi è di la da venire. 

In Italia, i professionisti attivi nel settore dell'influencer marketing sono oltre trecentocinquantamila e nel 2022 gli investimenti hanno raggiunto oltre duecentonovanta milioni di euro.

Per cui c'è poco da ridere guardando i balletti di Gianluca Vacchi, imprenditore 55enne prestato ai social, che soltanto su Instagram ha 22,4 milioni di follower.

[…]

Per chi poi non si interessa al calcio il nome di Fabrizio Romano potrebbe dire poco o nulla. E invece il giornalista, esperto di calcio mercato, ha ben 21,6 milioni di follower su Instagram, nel 2022 è stato inserito nella lista dei 30 personaggi pubblici under 30 più influenti al mondo dalla rivista statunitense Forbes. Famoso il suo slogan «Here we go!», usato quando annuncia un accordo di calciomercato. 

Per trovare donne in questa top ten degli influencer dobbiamo scendere molto con i numeri. Oltre i cinque milioni di follower ci sono Eva Menta, Giulia De Lellis e Benedetta Rossi, la «cuoca social» che attira fan con le sue ricette. Ancora più sotto l'Estetista Cinica Cristina Fogazzi, che ha creato un impero dando consigli serissimi con confezione ironica a chi vuole prendersi cura del proprio corpo. Ha creato anche una linea di prodotti venduta in tutta Italia. È così ha fatto anche ClioMakeUp, vero nome Clio Zammatteo, che tra youtube e instagram insegna a truccarsi. […]

Estratto dell'articolo di Alessandro Vinci per corriere.it sabato 8 luglio 2023.

Da Instagram a Facebook, da YouTube a TikTok: in tema di social network, per gli aspiranti influencer c'è ormai l'imbarazzo della scelta. Quale il migliore per sfondare sul web? La risposta naturalmente dipende da vari fattori, a partire dal tipo di contenuti che si ha intenzione di condividere e dal pubblico al quale ci si vuole rivolgere. 

Ciò premesso, alcune piattaforme sono più redditizie di altre, con differenze anche notevoli. È quanto certificato dal nuovo «listino» del mercato italiano dell’influencer marketing elaborato da DeRev, società milanese specializzata nella costruzione del posizionamento e della reputazione online. 

Se infatti secondo il rapporto le celebrity nostrane di Facebook (ovvero gli utenti con almeno 3 milioni di follower e lo 0,7% di engagement rate) guadagnano al massimo 5 mila euro per singolo contenuto sponsorizzato, quelle di YouTube (con almeno 1 milione di follower e il 2,5% di engagement) possono arrivare addirittura a 80 mila. 

Instagram al secondo posto, TikTok al terzo

I numeri parlano chiaro, per la felicità anzitutto dei più popolari creator del servizio targato Google. È il caso per esempio di Francesca Presentini (in arte Fraffrog), il cui canale conta 1,45 milioni di iscritti e, come calcolato per il Corriere dalla stessa DeRev, il 3% di engagement. Su un gradino leggermente più basso – quello dei «mega influencer» – si collocano invece utenti come Marco Montemagno (seguito da 852 mila persone), i cui compensi oscillano tra i 20 mila e i 35 mila euro per video. 

Al secondo posto figura poi Instagram, dove un post può fruttare a chi vanta oltre 5 milioni di follower e l'1,8% di engagement tra i 20 mila e i 75 mila euro (una Storia, invece, tra i 7.500 e i 30 mila). Impossibile in questo senso non pensare ai 24,9 milioni di fan di Chiara Ferragni, che tuttavia non supera l'1,5% di engagement. Viceversa, a rientrare in entrambi i parametri è Giulia De Lellis, rispettivamente a quota 5,4 milioni e 1,9%.

Cifre molto simili infine su TikTok, il quarto e ultimo sito preso in esame dall'agenzia, con un minimo di 18 mila e un massimo di 75 mila euro per clip a beneficio degli utenti con più di 5 milioni di follower e il 3% di engagement. In questo caso a guardare tutti dall'alto in termini di seguaci è il «nostro» Khaby Lame (sono addirittura 161,3 milioni), il cui engagement si ferma però all'1,9%. Quello di Fedez – 6,1 milioni – tocca invece addirittura il 7,8%, facendolo così entrare di diritto nella fascia più alta del listino. […]

La Francia apre la strada della regolamentazione per legge degli influencer. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Maggio 2023 

Stop alla promozione degli interventi di chirurgia estetica e degli investimenti a rischio e obbligo di segnalare se su una foto sono stati applicati i filtri di bellezza: al Senato francese arriva una proposta di legge con pene salate

La Francia sarà la prima nazione al mondo ad emanare una legge per disciplinare l’attività spesso occulta degli influencer. Un fenomeno non più soltanto mediatico ma economico, in quanto secondo dati molto recenti, entro il 2029 definirà un mercato in Rete dal valore di oltre 70 miliardi di dollari. Ma che cosa rappresente oggi un influencer? Secondo l’Enciclopedia Treccani che solo recentemente ha aggiunto il vocabolo alla sua lista è un: “personaggio di successo, popolare sui network e in generale molto seguito dai media, che è in grado di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico”. La stretta è stata introdotta per regolamentare l’attività pubblicitaria degli influencer sui social al fine di tutelare gli utenti più giovani ed evitare la promozione di certe attività considerate un rischio per loro. Una Legge di civiltà e buon senso che, c’è da augurarsi venga seguita al più preso da altri Stati, che prevede sino a 6 mesi di carcere e una multa 300mila euro per i trasgressori:

La normativa di legge francese è già stata approvata dall’Assemblea Nazionale alla fine dello scorso marzo e in votazione nel corrente mese di maggio al Senato, inibisce agli influencer alcune attività come la vendita di prodotti finanziari, delle criptovalute, di prodotti palesemente contraffatti e la promozione della chirurgia plastica; per altre attività come ad esempio la promozione del gioco e/o delle scommesse on line impone delle informazioni chiare e trasparenti al pubblico sui possibili rischi; per altre attività dispone delle procedure di trasparenza obbligatorie volte ad esplicitare il contenuto pubblicitario di video o di foto. 

Per tutelare la salute dei più giovani, i content creator avranno l’obbligo di segnalare se su una foto sono stati applicati filtri di bellezza. Inoltre, la proposta si prepone lo scopo di regolamentare anche il ruolo dell’agente degli influencer . Il disegno di legge francese prevede anche norme che riguardano i cosiddetti agenti degli influencer, la figura professionale a cui è affidato il compito di mettere in contatto i creator con i brand. Nuove regole anche per gli influencer che lavorano nei paesi al di fuori dell’Unione europea, che dovranno avvalersi di un’assicurazione civile nell’Unione.

La proposta di legge punta anche ad un migliore inquadramento di chi opera dall’estero, come a Dubai. Chi crea contenuti fuori dai confini dell’Unione europea, della Svizzera o dello spazio economico europeo dovrà sottoscrivere un’assicurazione civile nell’Ue, per indennizzare le vittime potenziali del suo operato sul web. Dopo il via libera dell’Assemblea Nazionale, il testo dovrà passare al vaglio del Senato.

Perchè arriva proprio adesso la legge per gli influencers in Francia?

“I filtri sono diventati parte della vita quotidiana per il 52% delle ragazze, mentre il 77% cerca di cambiare o nascondere almeno una parte del proprio corpo prima di pubblicare una foto che la ritrae.” secondo una ricerca di Edelman Data & Intelligence, per Dove, che esplora l’effetto alterante della percezione di sè con l’utilizzo di filtri modificanti come il Bold Glamour e lancia una campagna con gli hashtag #NoDigitalDistorsion e #TurnYourBack sui social. Il provvedimento francese arriva nello stesso momento e lavora contro questo la Digital Distorsion, il processo distorsione della propria immagine che si sviluppa con una costante esposizione ad immagini filtrate, che comporta ripercussioni sulla salute mentale degli utenti. “Studi accademici hanno scoperto che usare filtri e modificare i selfie sono azioni associate a una negativa percezione del proprio corpo, cattivo umore e bassa autostima“, spiega la Dott.ssa Phillippa Diedrichs, Psicologa Ricercatrice presso il Centre of Appearance Research della University of West England ed esperta di body image nel contesto della ricerca Dove. Il Ministro Francese vuole proteggere sia il benessere psico-fisico e sociale di chi non è capace di distinguere i contenuti modificati online, ma anche i giovani influencer (minori di 18 anni) dallo sponsorizzare questi prodotti, in risposta a una crescente richiesta di interventi di medicina estetica (come il buccal fat removal o i trattamenti con acido ialuronico) in continua ascesa dal 2020 secondo l’Unione Nazionale di Chirurghi Plasica e Ricostruttiva francese (SNCPRE). 

Sarebbe interessante vedere gli influencer comunicare con fonti di informazioni verificate come i media tradizionali, ci sarebbe una sicurezza in più per i consumatori, ma pretendere un’etica e un metodo lavorativo da una professione che nasce sull’espressione libera della creatività che diventa collateralmente un lavoro, non viceversa, potrebbe non essere possibile per natura. diventare una variabile che disincentiva i giovani talenti dal diventare influencer ma allo stesso tempo responsabilizzerebbe molto i professionisti già operanti nell’ambito. Dubbi a parte, quello che certo è che una regolamentazione d elle brand partnerships era più che necessaria

Redazione CdG 1947

Sono arrivati i ‘deinfluencer’: nuova frontiera del consumo critico (e dei like). Marina Savarese su L'Indipendente l’11 Marzo 2023

Don’t buy this jacket” è la frase usata da Patagonia in una celebre campagna del 2011 in cui il marchio in questione suggeriva di non acquistare la loro giacca. Un’immagine che ha fatto scalpore, considerata addirittura “suicida” dai guru del marketing e che invece ne rafforzò l’identità e l’autorevolezza. Un gesto indubbiamente inusuale, di contro-tendenza; simile a quello che sta succedendo sul web ultimamente, dove a fianco di influencer che promuovono la qualunque a suon di #adv, le pubblicità della rete, stanno apparendo figure che suggeriscono cosa non comprare. Ribattezzati prontamente Deinfluencer (che non manchi mai un’etichetta!), sono persone dotate di profili social con più o meno seguito che stimolano alla riflessione, cercano di mitigare l’acquisto d’impulso e invitano a non inciampare nelle trappole del marketing della rete. Paladini del consumo critico, evidenziatori di stili di vita alternativi, instillatori di dubbi. L’altra campana, insomma, in un mondo digitale dove i social sono diventati un tassello imprescindibile dell’e-commerce. Una voce fuori dal coro, quella che invita a non essere “solo” consumatori, ma persone consapevoli, in grado di maturare un proprio pensiero e slegarsi dalla convinzione dilagante del “compro dunque sono”.

In questo caso, il suggerimento preferito dai deinfluencer è “posso anche non comprare nulla”, consci e convinti che la differenza si possa fare senza mettere mano al portafoglio. Finalmente qualcuno che solleva i comuni mortali dall’ansia da prestazione!

Eppure c’è già chi parla di ennesimo hashtag acchiappa consensi, puntando il dito contro chi farebbe di tutto pur di saltare all’attenzione del grande pubblico e andare virale in poco tempo (forse è la viralità il nuovo virus, che ci fa ammalare di sindrome da gratificazione istantanea?). Il fenomeno non è recente e, per molti, non è nemmeno una tendenza momentanea di facciata.

Dagli anti-haul al deinfluencing

In principio erano gli haul, ovvero quei simpatici video, diffusi tramite la piattaforma di Youtube, nei quali le persone si divertivano a mostrare i loro acquisti. Un po’ come quando, dopo un giro di shopping, si tornava a casa svuotando il contenuto delle buste per farlo vedere a mamme/sorelle/amiche, così si fa davanti ad una telecamera, parlando con i futuri spettatori per informarli del bottino dell’ultimo giro in centro. Un esilarante momento d’intrattenimento; senza dubbio una valida alternativa al tiggì delle venti, che ha fruttato milioni di visualizzazioni ai pionieri di questa tipologia di video. Accanto alla quale, però, nel 2015 è apparso il suo opposto: il primo video anti-haul, della drag queen Kimberly Clark, che si diverte a elencare le cose che “non comprerà” durante le vacanze. Una mossa che, nel tempo, è stata seguita da molti e generato tantissimi filmati a tema e altrettante visualizzazioni. 

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Per vedere apparire la parola de-influencing, declinata come verbo, bisognerà aspettare il video di Maddie Wells del 2020, nel quale parla di alcuni prodotti cosmetici che venivano restituiti dalle clienti di note catene per le quali lavorava. Una sorta di pubblicità-negativa, o insomma, un racconto onesto e non edulcorato che riportava fatti realmente accaduti. La parola fu poggiata lì quasi per caso, ma nel tempo divenne rilevante, tanto che a oggi, sui social, è un vero e proprio trend che appare in milioni di video. Fin qui nulla di male, anzi; ben venga armare le persone con la conoscenza e ampliare le conversazioni online, passando dalla lista della spesa a riflessioni sul consumo e sul contesto culturale. Si può attivare il pensiero anche con un minuto di video su TikTok!

Mentre il fenomeno avanza, non manca chi maligna sul fatto che si tratta dell’ennesima bolla di sapone, nata sulla scia della crisi economica, in un periodo in cui tra inflazione, incertezza sul futuro e attenzione alla sostenibilità, è più facile ascoltare un influencer che dice cosa non comprare anziché dare retta ai soliti consigli per gli acquisti (che uno non si può permettere). I più spietati (o forse quelli che hanno paura di perdere il proprio ruolo influente) sostengono che i deinfluencer sono coloro che, non essendo riusciti a entrare nell’olimpo degli influencer con la i maiuscola, stanno tentando di entrare nel giro dalla porta di servizio, sfruttando temi caldi e di rottura per attirare consensi. 

Una linea che, come dimostrano i dati, paga dal punto di vista sociale (le persone, soffocate da consigli per gli acquisti di cose di cui non si ha bisogno, sembrano gradire messaggi di altro tipo), un po’ meno dal punto di vista professionale. In fin dei conti si troveranno sempre più aziende disposte a pagare per una pubblicità a favore, che imprese che ingaggiano deinfluencer onesti e in linea con principi etici. E questo, per chi di lavoro crea contenuti online, non è sicuramente una scelta che strizza l’occhio al conto in banca. 

Gli influencer possono dormire sonni tranquilli: nessuno porterà loro via il lavoro. Potrebbero però prendere ispirazione da questa tendenza e iniziare ad apportare piccoli cambiamenti, moderando i suggerimenti in un’ottica meno consumistica e variando il tono della narrazione. 

L’importante, come al solito, è essere coerenti. Salvaguardare la propria credibilità, supportandola con adeguata informazione e con una convinzione di fondo; perché basta un piccolo scivolone, una bugia costruita a regola d’arte o il seguire un trend-topic per crescere rapidamente, a determinare il crollo della propria reputazione. La comunità di seguaci si sente ingannata, perde fiducia e abbandona: questo mina pericolosamente la base del proprio lavoro, influente o de-influente che sia.

Noi, che guardiamo, leggiamo e ascoltiamo, dobbiamo, in ogni caso, tenere le antenne dritte e il cervello in moto: fidarsi sì, anche con chi è in linea con il nostro pensiero, ma sempre con il beneficio del dubbio. 

[di Marina Savarese]

Il guru a responsabilità limitata Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico - su L'Indipendente l’11 Marzo 2023

Nella città di Utopia un giorno arrivò il guru. Non era il Nazareno, non si chiamava Karl, non lo avevano cacciato da Lugano, no, lui il guru era un paesano e a Utopia piaceva ascoltare le sue parole confortanti, parlava male di tutto meno che dei suoi amici che lo avevano da poco impalmato.

I giovani erano incantati, credevano che fosse John Kennedy, Martin Luther King, o forse addirittura Malcolm X, tuonava contro il potere, parlava della libertà minacciata, lui che aveva tutto quello che gli serviva.

Era a conoscenza che quei ragazzi qualche volta si facevano una canna e dunque si approfittava di un loro momento di gioioso sbandamento mentale per sparare le sue ovvietà da primo della classe.

Amico mio, si fa per dire, il problema sono gli ignoranti non gli intellettuali, i barboni incazzati con la vita, non i borghesi in libera uscita, il problema è la fatica inconcludente, la tragedia di non essere amati, la carità pelosa, le chiacchiere dei filosofi da week end, le prediche ipocrite, le promesse non mantenute.

La tragedia è fare economia su tutto, iniziare la giornata con una rabbia senza uscita, alimentare una speranza come una droga, sopportare perché tutto ciò è inevitabile, sognarsi cinque giorni di crociera su quelle navi del cazzo, e dire sempre sì, sì, sì sperando che serva a qualcosa.

Guru, mettiti un sacco sulle spalle, fai a meno della tua abilità consolatoria e manipolatrice e mettiti in marcia con una compagnia di poveri e di incazzati, di gente semplice, di delusi e sfiduciati.

Falli pensare, metti dei dubbi, non consolarli, indica loro delle strade di verità e di liberazione. Incomincia a vivere e a farli vivere. [di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Baby influencer, piccole star macchine da soldi. Spesso ci sono centinaia di migliaia di dollari in ballo, ma ha prezzo allontanare i bambini dalle pratiche tipiche di quell'età? MARICA DI GIOVANNI su Il Quotidiano del Sud il 9 Gennaio 2023

Non è una novità che tecnologia e generazione Alpha si stiano evolvendo nello stesso periodo. Prima dell’avvento di Internet, i bambini avevano bisogno di una favola letta dai genitori prima di andare a dormire, oggi preferiscono giocare a un videogame sul tablet. Il fenomeno è sempre più in crescita, perché in primis è il mondo della tecnologia che si fa sempre più avanti e portavoce dei bambini, con la creazione di giochi e applicazioni in grado di interessare anche i più piccoli. E si sa, Internet crea dipendenza. Anche per i bambini. Ma da qui, ad esporre i volti dei minorenni, ne passa di acqua sotto i ponti.

Il fenomeno, però, è sempre più attuale, e prende il nome di baby influencer, delle vere e proprie macchine da soldi, ossia quei pre adolescenti, o nel peggiore dei casi, bambini al di sotto degli 8 anni che sono seguiti sui social e sul web dai loro coetanei con numeri spaventosi. I loro canali Youtube possono arrivare a contare anche milioni di utenti iscritti che non si perdono nemmeno un contenuto portato sulla piattaforma. È una tendenza che arriva da oltreoceano e che l’Italia in poche parole ha rubato all’America, dove ormai i baby influencer stanno cavalcando l’onda del successo: per un solo video i brand sono disposti a pagare fino ai 300 mila dollari e il loro guadagno, già da piccolissimi, gli permette di vivere una vita a cinque stelle senza doversi privare di nulla e rendendo i genitori, che ne fanno da garante, ricchi senza muovere un dito.

Nell’immaginario collettivo i bambini dovrebbero fare cose da bambini: giocare all’aperto, andare a scuola e organizzare incontri con i coetanei. Questo però appartiene al passato, bisogna infatti contestualizzare il fenomeno degli influencer minorenni nella società in cui vivono, fortemente interconnessa con il mondo di Internet, in cui le piattaforme digitali sono diventate la modalità di comunicazione più efficace.

I baby influencer rendono felici le proprie famiglie a colpi di like, commenti, condivisioni e soprattutto sponsorizzazioni da milioni di dollari. Grazie al sostegno dei genitori appaiono, infatti, disinvolti e sicuri di sé davanti a qualsiasi telecamera gli venga posta davanti, che sia Instagram o TikTok, ormai è facile incontrarli dappertutto. «Vogliamo arrivare a essere come Chiara Ferragni», queste sono le parole che hanno spaventato in molti quando, lo scorso aprile, la trasmissione Le Iene ha realizzato un servizio proprio sui baby influencer: bambini dai 5 agli 8 anni, che già a questa giovane età sanno bene cosa vogliono dal loro futuro e magari monetizzare in modo “facile”.

Ryan Kaji è il primo che salta in mente se si parla di baby influencer, lui che è il re dei social per minorenni, che a soli 10 anni è una delle star più pagate della piattaforma Youtube con oltre 30 milioni follower. Le modalità non sono diverse rispetto a quelle già ben salde nel sistema dei social, ossia quello delle influencer più grandi: viaggi, make up, vestiti, cibo, tutto ciò che si può vendere a loro è offerto con un solo scopo, ottenere in cambio la pubblicità sui social. Più follower hai, più incassi.

Tanti genitori, si sono accorti che i bambini sono in grado di catturare l’attenzione di chi sfoglia i social, quindi hanno preso la palla al balzo diventando loro stessi i manager dei loro figli, trasformandoli in piccole star: magari tutto nasce per gioco e poi diventa un vero e proprio impegno lavorativo che ad ogni clip genera investimenti grazie alle visualizzazioni.

Qual è il rischio? Che il bambino rimanga intrappolato in questo meccanismo del guadagno che lo allontana chiaramente da quelle che dovrebbero essere le normali abitudini per un preadolescente. È uno di quei temi destinati a dividere l’opinione del pubblico: chi approva e chi vede l’esposizione dei minori come un vero e proprio sfruttamento.

Criticate sono e saranno sempre le mamme, prima fra tutte Chiara Ferragni che ha reso il suo primogenito Leone una fashion star ancora prima di ottenere un profilo social tutto suo.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Dagonews il 30 dicembre 2022.

La rivelazione del MailOnline: Andrew Tate sostiene di essere trilionario, ma è stato arrestato in un magazzino rumeno da 600.000 sterline in una proprietà fatiscente alla periferia di Bucarest, a pochi metri dalla pista dell'aeroporto internazionale. 

L’uomo di 36 anni, è stato arrestato con l'accusa di traffico di esseri umani, stupro e costituzione di un gruppo di criminalità organizzata. La polizia armata con passamontagna lo ha portato via da una proprietà apparentemente piena di pistole, spade, pugnali, supercar, gioielli, orologi e una scacchiera dedicata a suo padre.

L'ex kickboxer professionista, nato negli Stati Uniti ma cresciuto in una casa popolare da 200.000 sterline a Luton, a nord di Londra, ha ripetutamente affermato di essere il primo trilionario del mondo, ma la sua casa alla fine di una strada malmessa nella capitale rumena suggerisce il contrario. 

Sui social media Tate mostra regolarmente il suo stile di vita sfarzoso nella sua fortezza di cemento, con un gruppo di 33 supercar e stanze arredate in modo costoso dove fuma sigari giocando con pile di banconote di Leu rumeno e opere d'arte fatte con banconote di dollari.

Ma la proprietà stessa, vicino all'aeroporto internazionale Aurel Vlaicu, si trova alla fine di una strada malandata con auto abbandonate sui bordi. Il complesso, che secondo l'autore contiene la sua sicurezza armata, è circondato da sterpaglie e progetti edilizi abbandonati. Tate sostiene di non vivere nel Regno Unito perché non può avere legalmente guardie del corpo armate.

Paolo Foschi per corriere.it il 30 dicembre 2022.

L’ex kickboxer americano-britannico Andrew Tate e il fratello Tristan sono stati arrestati in Romania nell’ambito di un’indagine per traffico di esseri umani. Mercoledì l’ex campione era finito sulle pagine dei principali siti Internet in tutto il mondo per aver tentato di irridere Greta Thunberg su Twitter, ricevendo una risposta ironica che lo aveva messo in ridicolo. Adesso Tate, insieme al fratello, è finito al centro di un inquietante episodio di cronaca.

I due sono accusati di aver rapito alcune donne per costringerle a realizzare video porno da vendere online. Gli inquirenti avrebbero trovato 6 donne che hanno confermato le accuse. I legali dei due hanno invece risposto che le donne erano consenzienti. Andrew Tate è stato in passato bandito da alcune piattaforme online per aver pubblicato contenuti misogeni o comunque offensivi.

La notizia è stata diffusa dai media romeni e rilanciata dall’agenzia Ansa. Secondo le ricostruzioni diffuse dalla stampa, i fratelli Tate erano da aprile al centro di un’inchiesta tenuta riservatissima dalle autorità locali. E quando sono entrati in Romania, è scattato l’arresto. Mercoledì Tate aveva avuto uno scambio di tweet con l’attivista per il clima. L’ex kickboxer aveva provocato Greta vantandosi di possedere 30 auto e le aveva chiesto di inviargli la mail per poterle a sua volta mandare l’elenco completo delle vetture con le relative emissioni inquinanti.

La risposta della giovane svedese, che lo invitava a «farsi una vita» scherzando anche sulle dimensioni degli organi sessuali del campione, era diventata virale. L’uomo aveva a sua volta risposto a Thunberg con un video in cui lo si vede fumare il sigaro e mangiare una pizza consegnata a domicilio da una nota catena locale romena, con la scatola e il logo della pizzeria bene in vista. Subito dopo aver postato il video, Tate è stato tratto in arresto.

(ANSA il 28 dicembre 2022) Greta Thunberg non le manda a dire all'ex kickboxer Andrew Tate, facendo il pieno di like su Twitter per una risposta al vetriolo a una provocazione dell'ex campione sportivo, in poco tempo diventata virale. 

"Ciao Greta Thunberg. Ho 33 macchine. La mia Bugatti ha un quad turbo w16 8.0L. Le mie DUE Ferrari 812 Competizione hanno v12 6.5L. Questo è solo l'inizio. Mandami il tuo indirizzo e-mail in modo che io possa inviare un elenco completo della mia collezione di auto e le rispettive enormi emissioni", ha scritto provocatorio l'ex kickboxer, pubblicando una sua foto mentre fa benzina alla sua Bugatti. 

"Si, per favore illuminami", risponde l'attivista per il clima, che il prossimo anno compirà vent'anni. "Mandami un'e-mail a smalldickenergy@getalife.com (letteralmente, energiadelpenepiccolo@fattiunavita.com)". La risposta da 'mic drop' ha fatto esplodere il social, con decine di milioni di visualizzazioni, centinaia di migliaia di retweet e oltre un milione di like.

Alberto Mattioli per “La Stampa” il 31 Dicembre 2022.

Cominciamo dalla fine. Ecco la morale della storia: «This is what happens when you don't recycle your pizza boxes», questo è quel che succede quando non ricicli i tuoi contenitori della pizza, twitta Greta Thunberg, dopo che uno scambio di invettive a mezzo social con un suo celebre hater è finito con l'arresto di quest' ultimo (però per ragioni più serie di aver insultato Greta e anche di non aver messo i cartoni nella raccolta della carta).

La vicenda è, in effetti, incredibile. Protagonisti, la diciannovenne paladina delle lotte ambientaliste e Andrew Tate, come dire il giorno e la notte. Costui è infatti un concentrato di ogni possibile scorrettezza politica, con un curriculum così lungo che perfino la partecipazione al «Grande fratello» britannico sembra la colpa meno grave. Tate, 35 anni, nato in America e cresciuto in Inghilterra, ex campione di kickboxing, debuttò facendosi appunto cacciare dal reality per via di un video dove frustava una donna.  

A seguire, fu estromesso da un bel po' di social dove postava contenuti misogini e omofobi, sessisti e violenti: è di quei tipini fini che pensano che le donne che vengono violentate se lo sono andate a cercare, e lo scrivono pure. Del resto, lui stesso si definisce con autocompiacimento «assolutamente misogino e assolutamente sessista».  

Segno dei tempi, e anche che in questi tempi c'è qualcosa che non funziona, Tate è però riuscito a trasformare le sue incontinenze verbali in un business, diventando una specie di influencer negativo, una Ferragni della sconvenienza, un paladino delle cause più svariate, purché sbagliate: tre milioni di follower su Twitter, undici miliardi di visualizzazioni per i suoi video su TikTok, e gran successo internettiano per la sua «Hustlers' Academy», 120 mila iscritti a 39 sterline al mese, che propugna una virilità tutta soldi, muscoli, turpiloquio, ostentazione, oggetti di lusso e donne oggetto. Elon Musk l'ha riammesso su Twitter che l'aveva bandito e indovinate per chi Tate (cittadino americano oltre che suddito britannico) si è schierato alle ultime presidenziali? Risposta esatta: Donald Trump. 

Nel '17, Tate si è trasferito in Romania, o forse sarebbe meglio dire che ci è scappato, visto che la polizia britannica era sulle sue tracce per un caso di abusi sessuali. Per la verità, neanche quella romena è stata a guardare: già nell'aprile scorso, Andrew e suo fratello Tristan erano stati interrogati per una vicenda di presunto sfruttamento di donne, sequestrate e poi impegnate in film porno. Fin qui, il personaggio. 

A questo punto, e siamo a mercoledì scorso, Tate se l'è presa con Greta, inquinando Twitter con un elogio dell'inquinamento. Ha postato una foto dove fa il pieno alla sua Bugatti con un messaggio per la Giovanna d'Arco degli ambientalisti: «Ciao Greta Thunberg. Ho 33 automobili. La mia Bugatti ha un motore W16 da otto litri con turbo quadruplo. Le mie due Ferrari da competizione hanno un V12 da sei litri e mezzo.  

Questo è l'inizio. Per piacere, mandami il tuo indirizzo e-mail in modo che io possa inviarti un elenco completo della mia collezione di macchine e le rispettive enormi emissioni». Greta naturalmente ha raccolto la provocazione e a stretto giro di tweet ha emesso la risposta sulle emissioni: «Sì, per favore, illuminami. Mandami un'e-mail a smalldickenergy@getalife.com», che tradotto restando nei limiti del pubblicabile suona più o meno così: energiadelpenepiccolo@fattiunavita.com. 

Più che cinguettii, insomma, beccate, che ovviamente hanno mandato in estasi le opposte tifoserie, con una quantità smoderata di retweet e commenti. Per dire: per la replica gretiana, oltre un milione di like, anzi di «mi piace» così è contento il ministro Sangiuliano. Botta e risposta, tutto finito? Macché. 

Tate è passato al contrattacco con un video in cui si mostra in vestaglia mentre fuma un sigaro davanti a due cartoni di pizza presumibilmente vuoti: «Ora so che Greta, con la sua faccia piena di odio e arrabbiata, tremando per il freddo senza riscaldamento sotto il suo cappellino, legge i miei tweet, e questo rende il mio Twitter ancora più divertente». Giovedì però ha smesso di divertirsi perché la polizia romena ha fatto irruzione nella sua villa di Bucarest con grande spiegamento di forze, documentato anche in video, e ha arrestato lui e il fratello per la storia dei video porno.  

Secondo gli internauti pro-Greta, galeotti, è il caso di dirlo, sono stati i due cartoni della pizza, griffati da una nota catena locale (la famosa pizza romena) con un logo in bella vista, chissà. In effetti alcuni media romeni riferiscono che le autorità aspettavano, per arrestare Tate, soltanto la prova che si trovasse effettivamente nel Paese. L'hanno fornita il battibecco internettiano con Thunberg e, soprattutto, le pizze. Quindi ha davvero ragione Greta: riciclate sempre tutto (anche se non avete la polizia alle costole). -

I pugni in tasca. La piaga delle mamme social disposte a farsi umiliare dai figli su TikTok. Assia Neumann Dayan su L’Inkiesta il 30 Dicembre 2022

Siamo in piena dittatura dei ventenni. Ti puntano la telecamera in faccia come fosse una rivoltella e se provi a dargli uno schiaffone lo postano sui social, il video diventa virale, perdi il lavoro, i figli, la casa, l’onore. E allora abbozzi, recitando in video che non fanno ridere

Dopo la gravissima piaga dei minori sui social, dobbiamo occuparci di una piaga ancor più grave: le mamme su TikTok. C’è questa nuovissima tendenza che si chiama turning my mom into me dove le mamme si vestono come le figlie, posano per un attimo l’aspirapolvere, fanno una passerella, non fanno ridere. Si mettono una minigonna, masticano una gomma, camminano scomposte col telefono in mano: sembrano l’amica che accompagna la tizia che deve fare il provino per la parte in un film e che viene scelta al posto suo.

Questo dice quasi tutto sulle madri, e tutto sulle ventenni: cosa credete che diventerete tra vent’anni? Com’è ovvio che sia non sono le mamme ad assomigliare alle figlie, semmai il contrario, ma si sa che i ventenni pensano di aver inventato loro la civiltà, la biologia, la filosofia, il senso dell’umorismo, il punto di vista. L’unico che mi ha fatto ridere è stato un ragazzo: ha scritto turning me into my dad: ha fatto la passerella in corridoio, poi si è nascosto dietro la porta e ha tirato per aria un pugno di ceneri.

Allarghiamo l’orizzonte: certo, i genitori che usano i minori per fare le marchette sponsorizzate dovrebbero trovarsi una fatica nella vita, ma cosa diciamo degli adolescenti che umiliano i genitori? Che forse è il minimo, questo dobbiamo dire, visto la buona predisposizione dei genitori a farsi umiliare. Vengono pubblicati i messaggi privati, figli che fanno fare coreografie a questi disperati, li prendono in giro in tutti i modi possibili, però poi scrivono che li amano, anche perché adesso alla mamma non devi dire che le vuoi bene, le devi dire che la ami.

Il grave, greve, grande problema della mancanza del grande romanzo generazionale scritto da qualche quarantenne, o anche solo dell’assenza di una Bridget Jones (che oggi mai potremmo dire che è grassa, quindi non starebbe in piedi) è questo: il matrimonio è stato sostituito dalla maternità. Nessuno vuole scrivere del grande non detto, tutti vogliono scrivere di una cosa che credono eccezionale, ma non lo è. Di video con moglie e marito spiritosi non ne ho visti, ma in compenso ne ho visti moltissimi di mamme e papà che non fanno ridere: è l’algoritmo che imita la vita o la vita che imita l’algoritmo?

Nei video di TikTok i ragazzi fanno leva sul brutto, con le case piccole, il gres porcellanato effetto legno, i prodotti sottomarca, il Dyson comprato a rate, i pianti in primo piano, la mensola coi Thun, i balletti, il mutuo, tutto atto a mettere in circolo la grande epica del genitore che si spacca la schiena per fargli avere una connessione internet per le loro stronzate. A differenza di Instagram, è tutto orrendo, e per questo sembra vero: chi su Instagram conduce una vita costosa e senza inciampi non può farlo anche su TikTok.

Adesso siamo in piena dittatura dei ventenni, c’è stato un golpe telefonico, ti puntano la telecamera in faccia come fosse una rivoltella e se provi a dargli uno schiaffone quelli ti riprendono, lo postano sui social, il video diventa virale, perdi il lavoro, i figli, la casa, l’onore, i giornali ci fanno le paginate con gli intellettuali, gli psicologi, i sociologi, i teologi, gli influencer del diritto. Vale la pena? No, e allora ti metti lì e abbozzi con i pugni in tasca.

Ci fosse stato internet, Doretta Graneris avrebbe forse avuto milioni di follower e una vita diversa? Forse. Se osi dire che i ventenni che tirano le zuppe ai Monet non sono questi geni rivoluzionari che si pensano di essere, ecco che sei un boomer, un reazionario, un fascista, devi morire, e pure male. Forse il progresso è veramente togliere ai figli la possibilità di ribellarsi: se va tutto bene, se gli diamo ragione su qualunque puttanata, se facciamo i video spiritosi con loro, perché dovrebbero poi romperci i coglioni? Va tutto bene, cosa volete? Stiamo facendo in modo che l’adolescenza arrivi intorno ai trent’anni?

Aspettiamoci a breve l’atteso sequel con le figlie che si trasformano nelle mamme: indovinate? Sarà uguale, non farà ridere, ma faremo finta che vada bene lo stesso.

Perché avevo fame. Le foto birichine della Ferragni, le finte mamme engagé e l’attivismo a colpi di adv.

C’è una differenza evidente tra un’imprenditrice che fa pubblicità in intimo e una donna non influencer che fa un calendario sexy in nome della libertà. Assia Neumann Dayan su L’Inkiesta il 20 Dicembre 2022

C’è un aneddoto che mia nonna mi raccontava sempre, come risposta a domande che non posso, né voglio, ricordare di avere fatto: «Quando chiesero a Marilyn Monroe perché avesse fatto il calendario nuda, lei rispose: perché avevo fame». Nessuno risponde più «perché avevo fame»: adesso la risposta è «per combattere gli stereotipi di genere».

L’altro ieri Chiara Ferragni ha fatto finta di scoprire che l’internet fa l’internet, che ci sono i commentatori cafoni, che le donne sono le peggiori nemiche delle donne, che una mamma è prima di tutto una donna, ma cos’è poi una donna chi lo sa.

Ferragni posta delle foto pubblicitarie in intimo, alcuni le rispondono che le mamme certe cose non le fanno – tipo guadagnare un mucchio di soldi per dei video dentro la propria cabina armadio? – che è troppo magra, che non ha culo, che ci deve dire la verità sul pandoro. Niente di nuovo, le rispondono sempre così.

Una per darle conforto ha scritto che Chiara Ferragni è come le donne iraniane, combatte per la libertà delle donne: pare che il grande libro dell’“anche meno” si sia dato fuoco, Luca Guadagnino e Carlo Antonelli ne stanno scrivendo il necrologio.

Comunque sia, Ferragni risponde agli insulti dicendo che non bisogna confondere la libertà di pensiero con la maleducazione, che i commenti sono misogini – ma forse è più misogino dire che dalle donne non ci si aspetta che siano villane –, che nella vita reale non andiamo dalla gente a dirle che fa schifo: non so da quando lei non frequenti il mondo reale, però insomma. Tutti dicono che è una strategia per sviare dall’affaire pandoro benefico, e se la prendono con quelli che non ne parlano: sotto Natale c’è sempre tanta voglia di tirare le monetine ai pandori rosa fuori da un Raphaël immaginario.

Quindi: una mamma può fare le foto birichine? La questione è che in questo caso non è la domanda da fare, perché le foto di Ferragni sono lavoro: viene pagata, mica lo fa per emancipare le mamme, le donne, le bionde. Le mamme pubblicano foto in intimo gratuitamente? Non credo di aver mai visto una mamma non influencer pubblicare foto in mutande in nome della libertà: al massimo fanno foto innocue per “normalizzare” le smagliature, il grasso, il pianto, anche perché noi al grasso cosa dobbiamo dirgli se non «stai, che sei grasso d’amore»: qua nessuno ha più voglia di avere fame, per questo ci siamo inventati che la dieta è grassofobica.

Se la mamma di un compagno di classe di mio figlio pubblicasse un calendario sexy per dimostrare che le mamme sono anche donne io onestamente chiamerei la guardia medica, mica le farei un applauso.

È un po’ ipocrita far finta che le nostre azioni non abbiano conseguenze: se pubblico una foto mezza nuda la possibilità che mio figlio venga preso per il culo a scuola è piuttosto alta, poi cosa dico, che è bullismo? O che è colpa mia? Abbiamo una visione corta, non riusciamo più a immaginare le conseguenze, e anche se lo facciamo arriviamo alla conclusione che la colpa non sia mai nostra, ma della società, del paternalismo, dei maschi, del capitalismo, della psicoterapia troppo cara.

Abbiamo creduto di poter avere tutto: non è così, bisogna a un certo punto farci i conti. Se diamo un valore economico alle cause, le cause diventano un lavoro: ma come si fa se non sembra un lavoro? Ce la beviamo? Vediamo le luci brutte e lo stendibiancheria sullo sfondo e così ci sembra tutto gratuito e miserabile e veritiero: non è così.

Ogni lavoro è dignitoso, pure quello dell’influencer: se non glielo riconosciamo, come possiamo pensare che abbiamo il potere di licenziarli? O decidiamo che è un lavoro, e quindi va rispettato esattamente come gli altri, o decidiamo che non lo è, e allora vale tutto. Il problema delle Chiara Ferragni è che non possono rispondere «perché avevo fame». Lo fanno le attiviste social quando pubblicano le adv, dicono che pure loro devono campare visto che fanno divulgazione gratis: chi gliel’ha chiesto rimane il più grande mistero italiano dopo il rapimento di Emanuela Orlandi.

«Perché avevo fame» è la miglior risposta a tutto: parla di povertà, di riscatto, di emancipazione attraverso il proprio corpo, di libertà: i nati ricchi questo non possono saperlo, ma, si sa, nessuno è perfetto.

Dagospia su il 19 Dicembre 2022 COMUNICATO STAMPA 

Quella di Jolanda Renga è un’operazione commerciale? Questo il sondaggio lanciato stasera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) dopo che su TikTok, pochi giorni fa, è apparso un video in cui la figlia di Ambra Angiolini si difendeva dagli haters che la criticavano (peraltro ingiustamente) per l’aspetto fisico. 

Le dichiarazioni di Jolanda hanno ricevuto una moltitudine di commenti e articoli di giornali entusiastici. Ma tra gli adoranti della figlia d’arte c’è anche chi si chiede se non si tratti del collaudato format del cosiddetto “redditizio ruolo della vittima” – definizione coniata dal Fatto Quotidiano nell’ottobre 2021 – e se in realtà Jolanda, ragazza peraltro molto carina, non stia studiando da influencer. Come dimostrano le foto postate sui social che la ritraggono testimonial dei gioielli del brand "La Petite Story".

Noi, ovviamente, non sappiamo la risposta e per questo chiediamo al pubblico: non è che questa è tutta un’operazione commerciale per lanciare Jolanda come influencer e, attraverso di lei, riabilitare pure l'immagine della mamma Ambra? Immagine piuttosto ammaccata dopo guai recenti, come l’incendio che quest’estate ha distrutto mezza Stromboli, partito dal set della fiction con Angiolini protagonista. O le polemiche per la casa milanese dei coniugi Pazzini, occupata dall’attrice per molti mesi.

La padrina.  Cher è un’attrice più brava di De Niro, e altre classifiche sonciniane. Guia Soncini su L’Inkiesta il 13 Gennaio 2023.

Ogni volta che viene pubblicata una lista sui giornali c’è qualcuno che si scandalizza e fa partire il «Ma tu guarda questi scemi». Perché non c’è una lista, su qualsivoglia tipo di prodotto, con cui sia d’accordo qualcuno che non è quello che l’ha compilata

Per fortuna non ho mai avuto niente a che fare col giornalismo; almeno, di tutte le paranoie che m’affliggono mentre mi accingo a scrivere ciò che ho per settimane custodito gelosamente nel mio cuoricino, non avrò quella di partecipare al più diffuso genere giornalistico di questo decennio, quello denominato «Ma tu guarda questi scemi».

Dicesi «Ma tu guarda questi scemi» l’articolo in cui un autore – il cui valore professionale è: in anni in cui i giornali erano una cosa seria sarebbe stato messo a compilare le previsioni del tempo – la spara grossissima. Roba tipo: ho visto per la prima volta “Via col vento” e non capisco cosa ci troviate tutti. Oppure: il disco di Achille Lauro è meglio di qualunque cosa mai incisa da Prince.

Il matuguardaquestiscemismo ha una logica impeccabile; Chris Rock direbbe: biafrana. Chris Rock, miglior comico vivente, nel suo spettacolo che a marzo sarà su Netflix dice che siamo così affamati d’indignazione che siamo biafrani dell’indignazione. Quindi: più tu sei disposto a far la figura dello scemo, più io cliccherò.

Gli articoli online, più che al giornalismo, somigliano a Paperissima: certo che sono disposto a scivolare, a fare una figuraccia, persino a rischiare di farmi male, se in cambio arrivano i picchi di share. Quindi: per fortuna io invece faccio letteratura. (Questa è la parte che serve immortalare per allegarla al vostro tweet «quella mitomane di Soncini»).

Il modo più certo per fare dell’efficiente matuguardaquestiscemismo è una classifica. Esiste una classifica, al mondo, su qualsivoglia tipo di prodotto, con cui sia d’accordo qualcuno che non è quello che l’ha compilata? Non riusciamo a metterci d’accordo sulla migliore pizza, figuriamoci sul miglior libro. Tu mi dici il meglio per te, io penso «ma tu guarda questo scemo, lo sanno tutti che il meglio è quello che dico io», e clicco, e giro il link agli amici, e alimento l’indignazione e il tuo successo.

Quando è morto Lucio Dalla, la prima cosa che ho pensato non è stata: non avremo mai più un’altra “Il parco della luna”; non è stata: non sono mai stata a un suo concerto, imbecille che sono; è stata: ora si vergogneranno. La prima cosa cui ho pensato è stata una classifica per cui anni prima m’aveva chiesto di votare Rolling Stone: i cento dischi migliori della storia della musica italiana.

Come tutte le persone sensate, il mio primo disco era il Dalla del 1980, però la classifica finale era una media tra persone perlopiù insensate, e quindi aveva vinto qualcun altro (forse Vasco, vatti a ricordare). Mi pare che Dalla fosse ottavo o giù di lì: ero furibonda vedendo il risultato da vivo, e tutta un «ve l’avevo detto» da morto. Chissà se si sono vergognati, o se hanno pensato: e noi che potevamo saperne che Vasco, con tutto quel che ha fatto per morire giovane, campava più a lungo di Dalla.

Qualche settimana fa l’edizione americana di Rolling Stone ha fatto una classifica delle duecento migliori voci della storia della musica (anzi: cantanti, hanno precisato che si trattava di cantanti e non di voci; chissà con cosa si canta). Come tutte le classifiche, era fatta per farsi dire: ma tu guarda questi scemi.

Tuttavia, poiché viviamo in una strana epoca, che al tempo stesso è nostalgica del passato e feticizza il presente, nessuno s’è scandalizzato per ciò per cui mi sarei scandalizzata io, fossi una che si scandalizza: Frank Sinatra era dieci posti dietro a Beyoncé. Si sono indignati per l’assenza, dai duecento, di Céline Dion. I fan della Dion pare siano andati in redazione a chiedere il riconteggio (quanto tempo libero, che invidia).

E quindi, dopo questo milione di righe di premesse, posso nascondere qua in fondo il mio maguardaquestiscemismo. Avevo resistito mesi al chiacchiericcio su “The Offer”, la serie coi sosia del Bagaglino che racconta le difficoltà incontrate nel riuscire a produrre il primo Padrino. Qualche settimana fa ho ceduto.

La serie è un delirio di casting sbagliato: c’è il pediatra di “Grey’s Anatomy” che fa Marlon Brando, e non credo di dover aggiungere molto. Forse solo una cosa, che però bisogna conoscere la Hollywood degli anni Settanta per capire: Bob Evans – l’uomo più brutto ma più fascinoso dell’epoca – e Ali McGraw – che cinquant’anni dopo è ancora la donna più bella del mondo – sono interpretati da un attore bello e da un’attrice sciapa. Insomma, un mezzo disastro, che però mi ha fatto andare a rivedere non solo i primi due Padrino, che avevo già visto più volte di qualunque altro film, ma anche il terzo, che forse avevo guardato da piccina e poi mai più.

Saprete già quel che si usa dire tra gente che si dà il tono di chi ne capisce: il terzo Padrino è una schifezza, ma il secondo, il secondo è forse l’unico séguito che sia meglio dell’originale. Un’affermazione che mi ha sempre fatto dare delle testate contro il muro: nel secondo Padrino, Robert De Niro fa Marlon Brando da giovane. Chiunque pensi che De Niro sia un degno giovane Brando è evidentemente sordocieco (spero questa frase non venga tacciata d’abilismo: non vorrei diluire le ragioni d’indignazione).

Ora. Guardando il terzo film – di un kitsch assoluto: è impossibile non passare il film a chiedersi dove sia Gabriel Garko, se Al Pacino sia sempre stato così cane, e chi sia lo stagista che ha scritto Connie come tre personaggi completamente diversi nel primo nel secondo e nel terzo film – io mi sono detta: sì, d’accordo, ti chiedi tutto il tempo «Ma dove volete andare, senza Brando», ma non è che una non se lo chieda anche durante il secondo film.

Tuttavia non avrei espresso pubblicamente questa mia posizione, se non avessi per pura coincidenza rivisto “Stregata dalla luna”. “Stregata dalla luna” è una commedia romantica dell’87: tredici anni dopo il secondo Padrino, tre anni prima del terzo. Cher interpreta un’italoamericana, vedova, che sta per sposarsi con un uomo e s’innamora del di lui fratello.

Se guardate il secondo Padrino con l’audio originale, nelle parti di flashback in cui De Niro è il giovane Vito Corleone non capirete una parola. De Niro parla con gli altri italoamericani in quello che dovrebbe essere l’italiano di casa, la lingua appresa da piccolo, prima d’arrivare a Ellis Island. Solo che colui inspiegabilmente equivocato come il più grande attore dei suoi tempi è stato incapace di procurarsi un accento italiano, e quindi parla come quel che è: un anglofono che ha imparato delle battute in una lingua che non conosce e le pronuncia naturalmente con un accento americano, però le biascica sperando che così si senta meno che non ha studiato la parte.

L’unica cui viene concessa una sciatteria del genere, in “Stregata dalla luna”, è la madre morente del quasi sposo, che sul letto di morte dice, con accento e sintassi americana, «Quanto io devo aspettare?» (oltretutto sarebbe l’unica che vive ancora in Sicilia, e che quindi non ha ragioni per l’accento anglofono). Tutti gli altri hanno il suono di gente per cui l’italiano è la prima lingua. Persino Olympia Dukakis, che è greca, sembra italiana; persino la vecchia che Cher incontra in aeroporto e le dice d’aver lanciato una maledizione sull’aereo, persino lei che ha una sola scena, persino lei parla italiano come un’italiana. E sì, lo so che Cher ha vinto un Oscar per quel ruolo, tuttavia nessuno pensa a lei come a una grande attrice (evidentemente neanche come una grande cantante: non è tra i duecento nomi della classifica di Rolling Stone, eppure nessuno s’è indignato, mi pare).

Cher – che è armena – fa l’italiana meglio di come De Niro – simbolo massimo degli italoamericani, almeno finché non è arrivato Tony Soprano – facesse l’italiano. Cher è un’attrice migliore di Robert De Niro. Ma per fortuna, con cento righe di premesse, non rischio che qualcuno si accorga di quest’affermazione e volantini questo articolo per dire che sono una scema nonché ignorante, una che dovrebbe scrivere di uncinetto e ricami, il simbolo del declino dei giornali e la causa del rivoltarsi nella tomba di Pauline Kael. Per fortuna in questo secolo si legge solo il titolo.

I sogni, le cadute e le mille ripartenze. Le strade infinite dell’amicizia. Storia di Paolo Viana, inviato a Rimini su Avvenire sabato 19 agosto 2023.

«Amicizia è un termine spesso abusato». Eugenio Andreatta, il responsabile Comunicazione del Meeting, da buon veneto, ha il pregio della concretezza e nel presentare l’edizione 2023 inquadra perfettamente il problema. Da 44 anni la kermesse si chiama “Meeting dell’amicizia tra i popoli” e il tema dell’amicizia è il filo rosso che ricorre in tutte le estati cielline. Ma non è solo un brand.

Così Com'è

L’amicizia, come declinazione storica, esistenziale e financo corporea della relazione con Dio, è un elemento centrale nella visione del mondo e nella pedagogia di don Luigi Giussani. Non è l’incontro con Cristo, ma lo facilita. Aggiungiamoci pure che il tema dell’anno - “L’esistenza umana è un’amicizia inesauribile” - riprende ancora una volta una citazione del servo di Dio; e non una qualsiasi, tant’è vero che il Papa, nel suo messaggio di saluto, la mette in relazione all’amicizia di Cristo «che sempre tende la mano».

Il problema è che in un mondo formattato sulle relazioni digitali la mano ha la forma del “like” e il concetto di amicizia non è univoco quanto si potrebbe credere. Pensare l’amicizia come misura dell’amore di Dio è dunque l’esercizio che viene proposto da una manifestazione e da un movimento che si pongono in antitesi con l’omologazione digitale delle idee e fondano la propria weltanschauung sulla relazione reale tra le persone, fatta di abbracci e percorsi di fede e di vita. Ciò pone, ovviamente, un problema di linguaggio per rivolgersi alle masse ed infatti al 44esimo Meeting sarà presentato un manifesto - il piano B - con l’obiettivo dichiarato di rifondare la società non «su individui isolati, ma su persone radicate in formazioni sociali e corpi intermedi, uniti da un’amicizia ideale».

Quante potenzialità e quante insidie possano celarsi in un’amicizia così rivoluzionaria ce lo spiega chi partendo da quella scelta ha vissuto potere e scandali, processi e assoluzioni: il riminese Nicola Sanese. Parlamentare per 18 anni, più volte sottosegretario e infine segretario generale della Regione Lombardia, fu inquisito con l’accusa di essere la “mente” che gestiva le tangenti della sanità lombarda. È stato assolto da tutte le accuse, dopo anni. La procura ha persino rinunciato a fare appello. Comunione e Liberazione, nel frattempo, aveva preso le distanze da quella stagione politica. Lui non ha mai lasciato la Fraternità, né il Meeting.

Sanese non nasce ciellino. Si formò nell’Azione Cattolica «e già allora vivevamo l’esperienza cristiana come una relazione profonda, che coinvolgeva le nostre famiglie». Fu conquistato dall’ascolto di Giussani a San Marino, nel 1972. «Erano gli anni in cui si discuteva, con amici come Antonio Smurro, sulla necessità di condividere la nostra amicizia con le migliaia di persone che frequentavano la riviera». I primi anni sono sempre i più audaci - il Meeting partì da un viaggio a Parigi per rintracciare gli esuli russi e portarli nel cuore della Romagna (alla fine degli anni Settanta) a raccontare come si viveva in un gulag russo - ma quell’amicizia, negli anni successivi, ha fatto miracoli anche su terreni meno insidiosi.

«Organizzando tante mostre ed eventi culturali - conferma Alessandra Vitez, responsabile dell’ufficio mostre del Meeting -, con molti soprintendenti e dirigenti del Ministero si è creato un rapporto che va al di là dell’amore per l’arte e della collaborazione professionale. È come se sentissero, e sentano, il Meeting come un luogo accogliente dove condividere ciò in cui si crede». È la storia dell’amicizia con l’ex direttore dei musei vaticani Antonio Paolucci, la storica dell’arte Maria Grazie Benini, il neocardinale Pizzaballa, piuttosto che con Joseph Weiler, che è diventato l’interprete del mondo ebraico al Meeting. Amicizie “impensabili” come quelle di Shodo Habukawa o del compianto Enzo Jannacci. «Ci siamo conosciuti a un concerto e quando lo invitai non era così convinto, poi, una volta a Rimini, è iniziata una amicizia vera che prosegue con il figlio» commenta il direttore artistico della kermesse, Otello Cenci. Insomma, le vie dell’amicizia sono infinite e hanno portato su questo palco leader politici e religiosi, Giovanni Paolo II e Madre Teresa di Calcutta, conquistati dall’originalità dell’approccio, dalla “mano tesa”.

Questa però è “solo” l’amicizia che “contagia”. A monte, ci dev’essere il legame teologico tra chi la sceglie. «A cambiare la mia vita - riferisce Sanese - fu il fatto che la stessa esperienza cristiana che avevo vissuto nell’Ac mi veniva proposta attraverso un rapporto con Cristo interpretato non in termini moralisti o di tradizione, ma con una persona realmente presente nell’oggi. Non si capisce la scelta di molti di noi, di impegnarsi in politica, se non si considera che discende da quella scelta religiosa e che fu una scelta comunitaria; era il gruppo di amici, quindi l’amicizia cristiana che vuole incarnarsi nel mondo, a spronare le persone all’impegno. Era una scelta che derivava dall’esperienza che facevamo di un Cristo che Giussani rendeva immediatamente fruibile: per noi Dio era presente qui ed ora, in quella stessa amicizia, ed era legato all’io sono Tu che mi fai: cioè per noi quello con Gesù non era soltanto un rapporto presente, ma ciascuno si sentiva di dipendere da quella Sua presenza. E poiché Cristo passa attraverso le persone, la nostra fede e la nostra amicizia erano tutt’uno; l’amicizia non poteva essere una pratica astratta e la compagnia veniva vissuta da ciascuno come una cordata».

Anche in cordata, però, se c’è un anello debole si precipita tutti insieme. Flagellata dalle inchieste giudiziarie e accusata di aver rincorso il potere, quella generazione è stata chiamata a una lunga riflessione. La presidenza di Cl, da Julian Carròn a Davide Prosperi, ha lavorato a lungo sul confine che separa l’ispirazione religiosa dalla ricerca dell’egemonia in senso gramsciano, quella che attraverso la politica imprime (ed impone) una determinata evoluzione sociale. Sanese ammette che «furono fatti degli errori» ma non ha il minimo dubbio né sull’onestà del percorso formativo (l’amicizia), né sul disegno politico - «in Lombardia creammo una sanità modello e il buono scuola, valorizzando i corpi intermedi» -, e neanche sulla necessità di questo impegno. «Papa Francesco - ricorda - ha lanciato lo stesso a Firenze e Cesena, a “non restare sui balconi a criticare” ma a sporcarsi le mani». A Rimini, l’amicizia continua a lavorare in questo senso.

Fastidio, la superbia altezzosa di una vera seccatura. Eredità composta dal latino mette insieme orgoglio e noia: difficile immaginare una miscela altrettanto arrogante per la nascita di una parola tanto comune. Paolo Fallai su Il Corriere della Sera il 7 Giugno 2023

La meraviglia e la complessità delle parole composte, che ci regalano sempre rivelazioni sui livelli più profondi del significato, aiutandoci in qualche modo anche ad usarle meglio. Una di queste è fastidio, tanto comune nel nostro linguaggio quotidiano, quanto altezzosa e superba nella sua origine. 

I componenti di un impiccio. Il fastidio è un disagio entrato prestissimo nell’italiano (il dizionario di Tullio De Mauro lo attesta già nella seconda metà del XIII secolo). Erede diretto del latino fastidium, composto di fastŭs «orgoglio, alterigia, disprezzo» e taedium «noia, disgusto, avversione». Difficile immaginare una miscela altrettanto arrogante per la nascita di una parola tanto comune. 

Le sfumature di una insofferenza. L’intensità di questa sensazione di disturbo può variare molto e l’italiano usa il fastidio in modo molto spregiudicato per esprimere diversi tipi di disagio. Il fastidio più forte è quella particolare avversione che proviamo per persone che proprio non ci vanno a genio. Qualcosa di meno dell’ostilità aperta e qualcosa di più dell’antipatia. 

La definizione di un modello. La noia è tale che il fastidio si è insediato nei nostri discorsi per definire tutto ciò che provoca disagio, Specialmente al plurale «creare dei fastidi a qualcuno» equivale a impegnarsi per procurare delle scocciature, descrivere uno screzio, uno scontro. Come segnalano molti dizionari esiste anche una variante eufemistica «avere dei fastidi legali» per descrivere senza clamore la situazione di chi ha guai con la giustizia. 

Ai confini della leggerezza. Ma non è necessario finire sotto processo per doverlo usare: c’è un fondo di gentilezza quando domandiamo «ti dà fastidio la finestra aperta?». E c’è sempre la volontà di non drammatizzare quando utilizziamo questa parola per descrivere un lieve disturbo fisico: «Avverto fastidio al muscolo quando piego la gamba», «è un po’ di tempo che ho dei fastidi al fegato». Descriviamo sempre un malessere che ancora non ha i connotati per trasformarsi in un malore, in compenso è già una seccatura. 

Un aggettivo oggettivo. Forse la fortuna maggiore questa parola l’ha raggiunta con l’aggettivo fastidioso. Applicabile senza difficoltà ad una lettura, a un lavoro, a una grana da risolvere. Perfetto per descrivere l’effetto che ci provocano mosche e zanzare ma adatto perfino a sintetizzare le bizze di un bambino particolarmente molesto «il bambino è stato fastidioso tutta la giornata» (esempio Treccani). A ricordarci lo spazio che si è conquistato nel nostro parlare ci pensano i tanti diminutivi che gli sono fioriti intorno come fastidiosèllo, fastidiosétto, fastidiosùccio; o il peggiorativo fastidiosàccio. Insomma, un corollario di espressioni per la fastidiosità, o fastidiosaggine. Che a quanto pare ci circonda. Fastidiosamente. 

Un garbuglio di verbi. Per descrivere la procurata seccatura, il «dare fastidio» non c’è solo il verbo infastidire. Pur con fortuna minore esiste anche sfastidiare, con una particolarità in più che non è sfuggita alle attenzioni dell’Accademia della Crusca. Nel 2002, il linguista Nicola De Blasi, rispondendo al quesito di un lettore, scriveva: «A complicare le cose si è poi aggiunta una sorta di collisione con una forma identica, un altro sfastidiare, che però ha il significato opposto di ‘togliere il fastidio’ (…) : in un caso s- ha valore intensivo (come in sbattere, sfuggire, sgambettare, sgocciolare, sguazzare), mentre nell’altro caso ha valore negativo privativo (come in sconnettere, sgarbato, sganciare, sguarnire, slegare). A questo proposito, in conclusione, va notato che sfastidiare con valore negativo (“togliere il fastidio”) sembra ormai uscito dall’uso: è possibile che proprio tale circostanza possa ora contribuire a una maggiore circolazione di sfastidiare con significato intensivo − “infastidire (molto)” −, in particolare nella comunicazione espressiva e spontanea». 

Questione di volontà. Abbiamo capito che il fastidio può nascere in modo assolutamente innocente (se il vento forte ci infastidisce possiamo al massimo prendercela con Eolo, il dio dei venti). Ma può essere anche il risultato di una precisa determinazione. Le persone fastidiose possono essere poco consapevoli, raramente sono innocenti. Esiste poi il fastidio decisamente procurato: è il caso di chi protesta ed è determinato ad attirare la nostra attenzione. Ci danno fastidio? Certo e lo fanno apposta. Bisognerebbe impedirglielo? Quando esagerano, non c’è dubbio. Certo è difficile immaginare qualcuno che sta bene, è soddisfatto e non ha problemi, e all’improvviso si mette a protestare. Se lo fa esisteranno dei motivi. Quindi ha ragione? Assolutamente no. Ma potremmo reagire in un modo assolutamente raro di questi tempi. Potremmo ascoltare.

LA CASTA DEGLI INVIDIOSI.

Antonio Giangrande: Come conoscere gli altri?

Chiedendogli se puoi accendere il climatizzatore in auto o in casa. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando da passeggera (anche se posteriore) fa spegnere il climatizzatore in auto, accusando mal di gola, mentre all’esterno ci sono 40°, costringendo gli altri passeggeri ed il proprietario dell’auto a fare bagni di sudore. E la stessa cosa costringerà a fare negli uffici e nelle case altrui. La mancanza di rispetto per gli altri, specialmente verso i familiari, sarà costante ed alla fine, quando l’orlo è colmo e lo farai notare, lo rinnegherà esaltando le sue virtù ed, anzi, ti accuserà di intolleranza e per ritorsione ti affibbierà qualsiasi difetto innominabile.

Chiedendogli come programma le cose da fare. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando pretende e dà per scontato l’ausilio altrui, anche quando gli altri hanno programmi alternativi ai suoi.

Chiedendogli cosa pensa delle persone che dalla vita e dal lavoro hanno avuto soddisfazione. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando da nullafacente e nullatenente sparlerà di chi ha successo nella vita e lo accuserà di aver rubato per ottenere quello che egli stesso non ha.

Non ci resta che il Giappone – Viaggio nell’Italia dell’invidia. Francesca Albergotti su L'Identità l'11 Novembre 2023 

Cento anni fa Kierkegaard pensava che l’invidia fosse ammirazione segreta, felice “perdita di sé” se limitata ad ammirazione, infelice se si fosse deformata in invidia. Tempestata come tutti da immagini terrificanti vere o false che siano, prostrata da panorami geopolitici indiscutibilmente imponderabili, in bilico fra una maligna schaudenfreude (meglio a loro che a noi) e lacerante compassione non avrei mai immaginato che un giorno sarei arrivata a rodermi d’invidia (non ammirazione) per il fenomeno degli hikikomori che dal Giappone si sono espansi in quasi tutto il globo terrestre.

Sono quei giovani che perdono interesse per il flusso della vita e preferiscono decidere di rinchiudersi nella loro stanzetta senza dar noia ai genitori, se non per la preoccupazione di avere un figlio imprigionato di propria volontà. È un fenomeno che conta in Giappone circa 1.000.000 di isolati sociali e secondo le stime degli psicologi in Italia stanno raggiungendo velocemente quota 100.000. Io, anche se magari non sono più abbastanza giovane penso spesso a quanto vorrei chiudermi in camera e rimanere lì con tutte le mie comodità, rimbambendomi di serie televisive e programmi culinari, lontana da un mondo sempre più oscuro. Devo confessare un’altra invidia imbarazzante, quella verso i creatori di NPC (non playble character nei video giochi).

Un fenomeno abbastanza recente, al solito l’hanno architettato quei prodigi d’ingegno e di fantasia degli Statunitensi, a noi l’idea è piaciuta parecchio e in un lampo l’abbiamo fatta nostra. Di fatto funziona così: un essere umano si tramuta in uno di questi “cosi” che vagano negli schermi dei videogiochi, programmati per fare solo un movimento o dire un’unica frase e che vengono citati dai giocatori come “personaggi senza coscienza”, come se i personaggi manovrati da un joystick la coscienza l’avessero. Insomma, selezionata con vena creativa e personalizzata una serie di parole, di espressioni e di movimenti scippati a un NPC è tempo di mettersi su TikTok e aspettare che arrivino le “ricompense”: cuori, le monete, i fiorellini.

A ogni simbolo il nostro NPC replicherà le frasi e i movimenti relativi alle donazioni. Donazioni che non sono un granché, più o meno 1 centesimo ogni mille regali, però vuoi mettere il gusto di stare ore in video con l’unica funzione di ringraziare i generosi utenti con una mise en scene che non prevede alcuna scelta o decisione, partecipazione né contorte interpretazioni? Senza coscienza appunto, ma che gran sollievo. Chi non invidio invece è la signora incinta che non avendo scelto di essere un hikikomori era uscita di casa per passeggiare e sgonfiare un po’ le caviglie scegliendo i sanpietrini di via Frattina a Roma. Improvvisamente si è sentita piombare addosso un rotweiller, più o meno 50 chili di muscoli e nervi.

Si era sentito dire di piogge di rane, di vermi e di pesci, addirittura meduse e ragni, ma cani? Fino ad ora sono stati considerati fenomeni metereologici, un violento vento transitando su bacini d’acqua potrebbe aver trasportato via gli animali che ci stavano sguazzando per scaricarli poi in altro luogo. Comunque per fortuna nel caso del cane la turbolenza non c’entra, pare stesse inseguendo il gatto e nella foga non abbia considerato l’indubitabile superiorità atletica e mentale del mondo felino e una volta sulla ringhiera del balcone era ormai troppo tardi.

Mi spiace per la signora in transito e anche per il cane sconsideratamente giocherellone. Un’altra categoria che non invidio in queste novembrine giornate minacciosamente tiepide è quella dei commercianti di abbigliamento e affini. La categoria denuncia un 25% di calo nelle vendite rispetto all’anno precedente, nessuno vuole smettere di portare i sandali per comprare degli stivali con il pelo, tanto meno golf di lana o cappotti.

Se i saldi cominceranno come al solito i primi di gennaio andrà a finire che i negozianti avranno a disposizione una ventina di giorni scarsi per vendere la collezione invernale, giusto per fare i regali di Natale, anche se ormai ci siamo fatti più furbi (e forse più poveri) e aspettiamo i saldi o meglio il “black Friday”, altra indovinata iniziativa importata da oltreoceano, sequenziale al per noi esotico Thanksgiving con corredo di tacchino incuffiettato, patate dolci e zucche che un anziano vicino di casa mi ha confessato non aver mai coltivate se non come cibo per maiali, “Noialtri non le mangiavamo, altro che tensgivi”.

Purtroppo sono state anche arrestate la moglie e la suocera del deputato Soumaoro che avrebbero potuto dare un piccolo contributo alla categoria dei commercianti in crisi. In nome del “diritto all’eleganza” ma specialmente consapevoli della responsabilità di dover supportare e assistere categorie a rischio le signore avrebbero comunque organizzato un solidale “shopping compulsivo”. Chissà se da casa potranno dare una mano anche a Bezos con qualche acquisto online. Loro però non le invidio. Per niente. Kierkegaard pensava anche che l’idealismo ci avrebbe portato inevitabilmente a una scarsa coerenza fra parole e azione. Cento anni

Come funziona l'invidia (e perché in fondo è utile), scrive Giovanni Camardo il 26 dicembre 2015 su Focus. Tutti la provano, nessuno la confessa. Perché è dolorosa per sé e pericolosa per gli altri. Ma è anche utile: ci avverte che abbiamo perso un confronto, dandoci la spinta a migliorare. Perché lei sì e io no? Si prova astio per chi possiede qualità che si vorrebbero avere: come bellezza e gioventù, in questa foto. L’invidia nasce da un confronto sociale perdente, spesso con una persona simile a sé, in un settore che è rilevante per la persona: per esempio, tra donne, sul campo dell’avvenenza. L'invidia è un moto dell’anima tanto velenoso quanto inconfessabile: è la stretta che si prova quando si esce perdenti da un confronto sociale. Si sperimenta quando un altro ha qualcosa che noi vorremmo: oggetti, posizione sociale, o qualità come la bellezza o il successo in amore. È la sofferenza dovuta a un confronto perdente con qualcuno, in un campo che è importante per la persona. Può essere un’emozione, cioè la “stretta” provata quando si viene a sapere che un altro ci ha superato, o diventare un sentimento duraturo: uno stato di malessere e inadeguatezza, con malevolenza verso la persona invidiata. Tutti la provano, per ciò che sta loro a cuore. «Dai ragazzi, verso il compagno che prende voti migliori o è fidanzato, agli anziani: in una ricerca condotta nelle case di riposo vari ospiti hanno confessato di invidiare chi riceve più visite da figli e nipoti» spiegava Valentina D’Urso, già docente di psicologia generale all’Università di Padova e autrice di Psicologia della gelosia e dell’invidia. Se tutti la provano, quasi nessuno la confessa. Si può ammettere di farsi prendere dall’ira, di crogiolarsi nella pigrizia o di soffrire per gelosia, ma di essere rosi dall’invidia no. «È l’emozione negativa più rifiutata. Perché ha in sé due elementi disonorevoli: l’ammissione di essere inferiore e il tentativo di danneggiare l’altro senza gareggiare a viso aperto ma in modo subdolo, considerato meschino» scriveva D’Urso sul suo libro. Sophia Loren non aveva davvero nulla da invidiare… ma ha comunque lanciato un’occhiata “valutativa” al décolleté di Jayne Mansfield, in un ristorante di Beverly Hills (Usa) nel 1958. L’invidia infatti spesso è caratterizzata dall’ostilità nascosta verso l’altro, dal desiderio di danneggiarlo – magari dietro le spalle con commenti denigratori – e di privarlo di ciò che lo rende... invidiabile. Tradizionalmente si teme proprio lo sguardo malevolo dell’invidioso: non a caso la parola latina invidia, rimasta uguale, ha la stessa radice di videre, vedere. Dante, nella Divina Commedia, mette gli invidiosi in purgatorio, con le palpebre cucite da fil di ferro: così sono chiusi gli occhi che invidiarono e gioirono dalla vista dei mali altrui. Anche un’altra caratteristica dell’invidia la rende difficile da ammettere, persino a se stessi. Si prova soprattutto per chi è simile, per le persone che si considerano paragonabili come condizioni di partenza. Per una donna è bruciante il confronto con la conoscente bella e corteggiata, più che quello astratto e “sproporzionato” con una top model; si invidia il collega che è stato promosso, non il direttore generale. Così bersaglio d’invidia spesso diventano persone che ci sono vicine e a cui vogliamo bene, come compagni di classe, colleghi, ma anche amici o fratelli: l’uguaglianza di opportunità rende doloroso l’essere inferiori rispetto ai successi di un fratello o una sorella, in un campo importante per sé. In più, l’invidia per le preferenze fatte dai genitori – come nel racconto biblico di Giuseppe, prediletto dal padre e venduto dai fratelli – si può mescolare alla gelosia per l’affetto dei genitori, che si teme di perdere. Lui ha la coppa, e io? È doloroso sentirsi inferiori rispetto ai successi di un fratello. Chi è invidioso, quindi, lancia tre messaggi: sono inferiore, ti sono ostile per il tuo successo e potrei anche farti del male. Così come Caino uccise Abele, i cui sacrifici erano più graditi da Dio. Basti pensare a un esperimento condotto da Andrew Oswald, della University of Warwick (Gb), e Daniel Zizzo, della University of East Anglia (Gb): i partecipanti, con un gioco al computer, ottenevano differenti somme di denaro e bonus casuali. Poi avevano la possibilità di bruciare i guadagni degli altri, visibili sullo schermo, restando anonimi ma sacrificando parte delle loro vincite. E il 62% dei giocatori lo hanno fatto, pagando fino a 25 centesimi per ogni euro bruciato, cioè perdendo soldi pur di annichilire la ricchezza altrui. Per invidia e risentimento verso guadagni ingiusti. Non solo gli svantaggiati colpivano i più ricchi e avvantaggiati dai bonus: i ricchi, sapendo che sarebbero stati bruciati, colpivano tutti per rappresaglia... Dal test è emerso, dicono gli autori, “il lato oscuro della natura umana”. «Ecco perché l’invidia è messa al bando e condannata dalla società: implica ostilità ed è socialmente distruttiva, perché la persona invidiosa è potenzialmente pericolosa. Non solo: minaccia lo status quo e mette in dubbio la legittimità della distribuzione delle risorse, stabilita dal Creatore. Non stupisce che nella cultura cristiana sia uno dei 7 vizi capitali» aggiunge Richard ­Smith, psicologo della University of Kentucky (Usa) che studia i meccanismi dell’invidia. L’invidia è velenosa anche per chi la vive. «È spiacevole. Si provano senso di inadeguatezza e inferiorità. Si ha la sensazione che il vantaggio dell’altro non sia meritato, con frustrazione, perché si pensa di non riuscire a ottenere la stessa cosa. Inoltre chi tende a essere invidioso rischia, invece di apprezzare le proprie abilità in senso assoluto, di valutarle solo se confrontate con quelle di altri che appaiono migliori: questo diminuisce l’auto-valutazione» dice Smith. L’invidia è dolorosa, insomma, come ha mostrato uno studio condotto da un team di scienziati giapponesi. Che hanno analizzato con la risonanza magnetica funzionale cosa accadeva nel cervello dei partecipanti, a cui veniva chiesto di immedesimarsi in situazioni con diversi personaggi. Di fronte a quelli simili a loro, ma più brillanti su aspetti per loro rilevanti, scattava l’invidia. E nel loro cervello aumentava l’attivazione della corteccia cingolata anteriore dorsale: tanto maggiore quanto più intensa era l’invidia che il partecipante diceva di provare. «La corteccia cingolata anteriore dorsale è legata all’elaborazione del dolore fisico o sociale» spiega Hidehiko Takahashi del giapponese National institute of radiological sciences, che ha guidato la ricerca. L’attivazione in questa regione cerebrale si ha per esempio in risposta a un dolore sociale, come il senso di esclusione. E può quindi riflettere la caratteristica dolorosa di un’emozione legata al confronto sociale come l’invidia, con la sensazione di essere esclusi da un campo per sé rilevante. Dolorosa per sé, potenzialmente pericolosa per gli altri. Perché allora proviamo questa emozione? Perché l’invidia è come la paura, che è sgradevole ma ci prepara a reagire a un pericolo. È un campanello d’allarme: ci avverte velocemente che siamo perdenti nel confronto sociale. «Essere in una posizione inferiore è svantaggioso, quindi un’emozione che segnala questo stato e ci dovrebbe spingere a uscirne deve essere spiacevole» puntualizza Smith. Secondo David Buss della University of Texas (Usa) e Sarah Hill della Texas Christian University, è un’emozione sviluppata come “sostegno” nella competizione per le risorse (cibo, partner ecc.). Secondo gli studiosi, conta la posizione all’interno del gruppo riguardo a quantità di risorse e capacità di ottenerle: per questo gli esseri umani hanno sviluppato un’attenzione particolare a giudicare tutto in termini di confronto sociale. Per la soddisfazione non conta solo quanto si ha, ma se questo è più o meno di quanto hanno gli altri con cui ci si rapporta. Anche nel mondo animale non fa piacere vedere che i vicini gustano l’uva e noi no… Lo hanno mostrato esperimenti condotti sulle scimmie. Un gruppo di cebi dai cornetti sono stati addestrati a svolgere un compito – mettere pietre nelle mani del ricercatore – ricevendo in premio pezzi di cetriolo. Le scimmie, a coppie, potevano vedersi. Quando a una i ricercatori cominciavano a offrire uva, un cibo preferito, l’altra svolgeva meno velocemente il compito, si agitava, a volte scagliava via pietre e cetrioli: mostrando un’emozione simile all’invidia. Le scimmie, ricevendo una ricompensa minore per lo stesso compito, hanno reagito negativamente alla mancanza di equità. Questa reazione è stata rilevata anche nei cani che mostravano segni di tensione e non davano la zampa al ricercatore senza ricevere nulla in cambio, se vedevano che il compagno era invece premiato con una salsiccia per la stessa azione. E l’invidia è il meccanismo psicologico che avverte che qualcun altro ha guadagnato un vantaggio e dà la spinta per ottenere lo stesso. Nel corso dell’evoluzione si sarebbe rivelata un beneficio: gli individui invidiosi che giudicavano il loro successo sulla base della posizione rispetto ai rivali avrebbero investito più sforzi per raggiungere status e risorse; i meno attenti sarebbero rimasti indietro, sfavoriti nella selezione naturale. Per Buss e Hill è normale che si invidino le persone vicine, amici o fratelli: confronto e competizione avvenivano nei piccoli gruppi in cui un tempo vivevano gli uomini. Anche alcuni comportamenti hanno una funzione precisa. Come il non ammettere l’invidia: non si rende evidente al gruppo la propria posizione inferiore e si è più credibili nelle strategie nascoste di attacco mirate a diminuire lo status del rivale. Una di queste è parlarne male: chi ascolterebbe qualcuno che “parla solo per invidia”? «Questa emozione è una chiamata all’azione. O si cercano modi per “abbassare” una persona (è il caso dell’invidia “maligna”) o si lavora duro per alzarsi al suo livello (ed è quello che accade con una seconda forma di invidia, quella benigna, priva di sentimenti ostili)» dice Smith. «L’invidia può essere benigna quando porta all’emulazione: in questo caso canalizza le energie per cercare di avere un bene o il riconoscimento che è stato dato agli altri. Insomma, è una spinta a metterci in moto: così facciamo appello alle nostre capacità per raggiungere un traguardo. Possono spingere all’emulazione i modelli di persone “invidiabili” (per esempio quelli proposti dalla società, come sportivi o personaggi dello spettacolo) per cui si prova ammirazione, desiderando di essere come loro. E ci sono in fondo casi in cui la competizione è legittima, come nello sport: chi arriva secondo potrà invidiare chi l’ha superato, ma si allenerà per superarlo alla gara successiva» dice D’Urso. Se l’invidia segnala uno svantaggio, impegnarsi per recuperare è la migliore strategia per non rodersi (vedi anche come superare l'invidia). Non solo. Questa spinta all’emulazione fa sì che l’invidia sia una delle basi… della società dei consumi: porta a desiderare i beni degli altri e a comprarli. Susan Matt, storica della Weber State University (Usa), sostiene che ai primi del ’900, nella società americana, l’invidia per i consumi che si potevano permettere i ricchi è stata “sdoganata”: prima condannata, poi incoraggiata come legittima aspirazione della classe media e popolare, a cui erano ormai a disposizione i beni della produzione di massa. Nell’“invidia del consumatore” non si arriva alla malevolenza verso l’altro, ma all’acquisto di una borsa firmata o di uno smart­phone. E il marketing alimenta l’invidia. I beni di consumo d’élite si basano sul fatto che sono esclusivi e chi li possiede è invidiato: e questa, contrariamente all’essere invidioso, è una caratteristica ambita. In fondo dire “Ti invidio per…” è un’espressione di ammirazione: ammessa, perché non si prova davvero questa emozione. La brillante carriera di un invidiato rivale si è interrotta? Si prova “schadenfreude”, il piacere maligno davanti alle disgrazie altrui. Ma all’invidia è collegato anche un piacere. Maligno, certo: è chiamato schadenfreude, ovvero la soddisfazione davanti alle disgrazie altrui. Se la crisi stronca un brillante rivale, se l’affascinante conoscente ha un problema... si può provare schadenfreude. Richard Smith ha condotto diversi esperimenti in cui agli studenti partecipanti erano presentate storie di ragazzi normali oppure brillanti e vincenti: all’invidia scatenata verso questi ultimi si accompagnava poi la soddisfazione nel sapere che avevano avuto problemi. «Il legame era già stato evidenziato da pensatori come Aristotele (384-322 a. C.) o Spinoza (1632-1677)» sottolinea Smith. «L’invidia non è divertente, a meno che la sfortuna (dell’altro) giochi a nostro favore: se la persona che ci ha superato nel confronto sociale ha un problema, ora deve scendere un gradino. E questo ci dà soddisfazione». Anche questo maligno piacere è stato analizzato a livello cerebrale dallo studio giapponese guidato da Hidehiko Takahashi. Di fronte alle sfortune capitate ai personaggi invidiati, i partecipanti provavano schadenfreude: a questo corrispondeva una maggiore attivazione dello striato ventrale, area legata al “circuito della ricompensa” del cervello. Si prova, cioè, un autentico piacere. Come mai? La sfortuna della persona vincente la “abbassa” e c’è quindi un riequilibrio delle posizioni. «Lo svantaggio dell’altro è vantaggio per sé nel terreno della competizione sociale; l’inferiorità e la sua sgradevolezza possono così trasformarsi in superiorità e soddisfazione. Il dolore dell’invidia si riduce e si ha una sensazione piacevole. Infine si placa il senso di ingiustizia che spesso è parte dell’invidia: la sfortuna sembra meritata» spiega Smith. Scatenano schadenfreude anche l’antipatia o il fatto che l’altro abbia meritato il castigo, per esempio finendo nei guai per un comportamento che condannava ipocritamente. E anche situazioni di rivalità tra gruppi, dove una perdita per gli altri è un guadagno per sé: le ricerche hanno evidenziato questa soddisfazione nei tifosi di calcio, per sconfitte della squadra rivale. Uno degli studi di Richard Smith l’ha messa in luce nella politica: «Si prova schadenfreude per i problemi in cui inciampano i politici dei partiti rivali, dagli scandali sessuali alle gaffe. Tuttavia, soprattutto nelle campagne elettorali, si sperimenta soddisfazione anche per eventi che possono avere un peso per la sconfitta dell’avversario, benché si tratti di notizie negative per tutti: per esempio, cattivi risultati economici. Abbiamo rilevato schadenfreude soprattutto nei più coinvolti sostenitori di un partito, pur mescolato alla consapevolezza che i fatti fossero in sé negativi».

I sintomi dell’invidia, scrive Cristiana Milla il 27 dicembre 2015. Quali sono i sintomi dell’invidia? E come si esprimono? Proviamo ad individuarne alcuni aspetti. Chi non è stato invidioso nella sua vita almeno una volta? In certi momenti di più, in altri di meno, noi tutti siamo stati invidiosi o magari lo siamo ancora oggi. A volte l’invidia non è soltanto verso una persona in particolare, ma diventa una invidia diffusa, verso tutti coloro a cui le cose vanno particolarmente bene, che sia in ambito lavorativo o affettivo o altro. Cos’è l’invidia? L’invidia è un meccanismo che mettiamo in atto quando ci sentiamo sminuiti dal confronto con qualcuno, con quanto ha, con quanto è riuscito a fare. Diciamo che è un tentativo alquanto maldestro di recuperare la fiducia, la stima in noi stessi svalutando l’altro. Si tratta quindi di un processo: c’è il confronto, l’impressione devastante di impoverimento, di impotenza e poi la reazione aggressiva. Per cercare di proteggere il nostro valore, svalutiamo il modello abbassandolo al nostro piano, invece che rinunciare alle nostre mete diventando indifferenti. L’invidia è quindi un tentativo di scacciare lo stimolo svalutando l’oggetto, la meta, il modello. Desiderare e giudicare diventano allora le fonti dell’invidia. Dal punto di vista psicologico l’invidia è anche un modo di guardare gli altri, possiamo definirlo un tratto di personalità. Infatti l’invidioso non si limita ad osservare con occhio ostile il suo collega di lavoro, guarda con la stessa modalità anche il vicino di casa, il compagno di sport, l’amico con cui va in vacanza, il fortunato che ha vinto la lotteria, etc. Potremmo addirittura tracciare un profilo di personalità del soggetto invidioso, facendola rientrare nelle tipologie psicologiche. I sintomi dell’invidia. Proviamo allora ad evidenziare alcuni sintomi della presenza dell’invidia quando padroneggia in qualche modo la personalità di un individuo e conferisce un carattere distintivo al suo modo di essere, di pensare, di comportarsi, etc. Proviamo a riconoscere questi sintomi dell’invidia negli altri, e perché no, anche in noi stessi. La malignità. L’invidioso cerca di svalutare l’altro agli occhi del maggior numero possibile di persone, soprattutto di quelle che contano. Appena conoscono qualcuno gli trovano da subito dei difetti: il loro sguardo corre a cercare i limiti, le debolezze e sentono l’esigenza di metterli subito in evidenza, di renderli noti e di provocare il commento negativo degli altri. Solitamente gli invidiosi entrano in azione quando il personaggio da svalutare non è presente, mettendo in moto le “chiacchere da cortile”, partendo talvolta da una semplice battuta o un gesto. Naturalmente una volta avviato il pettegolezzo, c’è sempre qualcuno che si associa, che vuole aggiungere la sua critica, producendo una reazione a catena fin a che la persona in oggetto non viene fatta letteralmente “a pezzi”, derisa, svalutata. Il giudizio. L’invidioso, per opporsi all’ingiustizia universale attacca e svaluta chi è più fortunato, chi è più felice, chi è più forte, chi è più dotato. Nel nome della giustizia si tramuta in un demolitore di tutto ciò che emerge dalle infinite differenze individuali e dalle infinite circostanze della vita. In questo modo l’invidioso troverà sempre una zona buia dell’essere su cui scagliarsi, travestito da giudice e bramoso di vendetta. La critica. Le persone invidiose solitamente non si prodigano, non si impegnano, anzi spesso restano ad osservare chi si dà da fare come meri osservatori. La loro attenzione è rivolta piuttosto a trovare il difetto, il punto debole di chi stanno osservando e a individuare un suo eventuale errore. Poi, nel momento meno appropriato, scagliano le loro critiche, svalutando la loro vittima. Quest’ultima, invece di reagire, rimane basita, turbata, perché non se l’aspettava. Anzi tenta di giustificarsi, di far comprendere le sue intenzione, ma l’altro, l’invidioso, risponde con altri dubbi e critiche, senza nessuna intenzione di volerlo capire, perché il suo obiettivo è invece quello di dimostrargli che non vale, di insinuargli il dubbio e di apparire ai suoi occhi come persona forte e autorevole. Chi sono quindi solitamente le vittime preferite di questi soggetti invidiosi? Tutte quelle persone attive, che si spendono, che si prodigano per gli altri e le persone che hanno progetti da realizzare. Il pessimismo.  Ottimismo e pessimismo non sono soltanto due atteggiamenti verso le difficoltà della vita, possono anche essere due modalità diverse di mettersi in relazione con se stessi e con gli altri esseri umani. Il pessimista ha una visione negativa del futuro. Dagli uomini si aspetta di solito il peggio, e delle gente in generale non ci si deve fidare e non merita il suo aiuto. Se per esempio raccontate un vostro progetto ad un pessimista, lui in brevissimo tempo vi mostrerà tutti gli ostacoli e tutte le difficoltà a cui andrete sicuramente incontro e che, una volta raggiunto l’obiettivo, non avrete che delusioni e frustrazioni. Vi farà alla fine sentire negativi e svuotati. Il pessimista ha infatti uno straordinario potere di contagio. Il vittimismo. L’invidia non si esprime solo attraverso l’aggressività, la svalutazione degli altri, ma anche in maniera opposta attraverso l’autocommiserazione, il lamento, il vittimismo. Solitamente infatti quando ascoltiamo una persona lamentarsi, descrivere i soprusi che ha subito, gli ostacoli che ha incontrato, tutte le disgrazie che le hanno impedito di raggiungere i suoi obiettivi, non pensiamo all’invidia. Anzi, partecipiamo alla sua sofferenza e la compatiamo per non aver potuto realizzare ciò che la vita le aveva promesso. Chi si autocommisera in questo modo è convinto di essere trattato ingiustamente dal mondo che, invece, è stato molto generoso con tutti gli altri. Se le ascoltiamo con attenzione queste persone lamentose sono in realtà profondamente passive, stanno a guardare, non agiscono. Non affrontano la vita, non si buttano, non rischiano. Spesso vorrebbero che fossero gli altri a darsi da fare al posto loro, a risolvergli i problemi. Cristiana Milla, psicologa e psicoterapeuta. 

5 stelle al Sud: la ribellione e le radici della protesta. Un’ondata di rancore attesa e temuta. E destinata ad abbattersi sulla nave ammiraglia e sul timoniere della flotta che a novembre governava ancora non solo a Roma ma in tutte le Regioni del Sud: dalla Puglia alla Sardegna, dalla Calabria al Molise, dalla Basilicata alla Sicilia, scrive Gian Antonio Stella il 5 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". «Avimmo ‘a sfucà tutt’ ‘o tuosseco ca tenimmo ncuorpo»: ecco l’aria che annusavi al Sud. Una collera tossica per l’impoverimento, la disoccupazione, i bambini (uno su sei) afflitti dalla miseria assoluta, il degrado delle periferie, stava lì lì per sfogarsi. Unico dubbio: chi avrebbe premiato? La risposta, salvo sorprese, si è profilata nella notte. Successo dei grillini. Trascinati dal Masaniello in giacchetta e cravattina. E più cresceva l’impressione di uno sfondamento della destra al Nord, più aumentava la probabilità parallela, se non proprio la certezza, di un analogo sfondamento del M5S nel Sud. Segno appunto di quello «sfogo» atteso nella scia di un malessere economico, sociale, sanitario sempre più diffuso. Lo aveva spiegato a novembre il rapporto Svimez: «L’occupazione è ripartita, con ritmi anche superiori al resto del Paese, ma mentre il Centro-Nord ha già superato i livelli pre crisi, il Mezzogiorno che pure torna sopra la soglia “simbolica” dei 6 milioni di occupati, resta di circa 380 mila sotto il livello del 2008, con un tasso di occupazione che è il peggiore d’Europa (di quasi 35 punti percentuali inferiore alla media UE a 28)». Lo aveva ribadito poco dopo il Censis ricordando che sì, l’Italia va meglio ma dopo il «vero tracollo» delle aree metropolitane meridionali «non si è distribuito il dividendo sociale della ripresa economica e il blocco della mobilità sociale crea rancore». Un’ondata di rancore attesa e temuta. E destinata ad abbattersi sulla nave ammiraglia e sul timoniere della flotta che a novembre governava ancora non solo a Roma ma in tutte le Regioni del Sud: dalla Puglia alla Sardegna, dalla Calabria al Molise, dalla Basilicata alla Sicilia. Perduta male, ma proprio male, da un Matteo Renzi che alle Europee aveva preso il 35% e in tutta la campagna per le regionali si è fatto vedere solo di sfuggita, «’na’ffacciata, currennu currennu»…Dice tutto un sondaggio del dossier Eurispes 2018. Alla domanda «quali di questi elementi rappresentano un vero pericolo per la vita quotidiana sua personale e della sua famiglia?» le risposte degli italiani erano centrate (più che sull’immigrazione!) su tre temi legati (soprattutto) al Mezzogiorno: la mafia, la corruzione e «i politici incompetenti». Colpevoli di aver buttato via per decenni decine e decine di miliardi di fondi europei. Pochi dati: usando meglio quei soldi sprecati in regalie clientelari a pioggia (alla macelleria Ileana di Tortorici, alla trattoria «Don Ciccio» a Bagheria…) tutte le regioni della Repubblica Ceca hanno oggi un Pil pro capite superiore a tutto il nostro Sud e così l’intera Slovenia e l’intera Slovacchia. La regione bulgara Yugozapaden, poi, ci umilia: nel 2000 aveva un Pil al 37% della media europea e in tre lustri di rincorsa ha sorpassato tutto il Mezzogiorno, arretrato fino a un disperato 60% della Calabria, mangiando 50 punti alla Campania, 56 alla Sicilia, 64 alla Sardegna. Insomma, han fatto di tutto le classi dirigenti del Sud, per guadagnarsi (salvo eccezioni, ovvio) la disistima se non il disprezzo dei cittadini. Aggravando la crisi. Destra e sinistra, sia chiaro: dal 2008 al 2014 il Mezzogiorno, accusa un’inchiesta del Mattino, ha perso 47,7 miliardi di Pil, 32 mila imprese e 600 mila posti lavoro. E tra il 2010 e il 2013 la classifica del European Regional Competitiveness Index ha visto ruzzolare di 26 posti la Campania, 29 la Puglia, 30 la Sicilia. Al punto che il divario Nord-Sud si è ancor più allargato. Sinceramente: cosa ha fatto la politica per scrollarsi di dosso la mala-reputazione? Manco il tempo d’insediarsi all’Ars e Gianfranco Micciché si tira addosso le ire dei vescovi siciliani dicendosi «assolutamente contrario al taglio degli stipendi alti» che quando passano i 350.000 euro valgono 24 volte quello di un agrigentino. Manco il tempo di aprire la campagna elettorale e nelle liste, da Marsala al Volturno, spuntano impresentabili, figli di papà e (sintesi) figli di papà impresentabili. Per non dire della scelta di candidare qua e là notabili dal passato fallimentare legato alla clientela. C’era poi da stupirsi se nella pancia del Mezzogiorno, quella da cui erano già uscita tra le altre la sommossa dei forconi, covava un sentimento di rivolta? Quanti errori hanno fatto, i partiti tradizionali dell’una e dell’altra parte, per accendere un simile falò?

Il solito velato razzismo ed approssimazione. Estratto dell’articolo di Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” sabato 29 luglio 2023

Mandereste vostro figlio a fare la maturità in una scuola tanto al chilo? Eppure così appaiono certi istituti paritari denunciati in un dossier di Tuttoscuola. Una rete di diplomifici che sfornano ogni anno migliaia di «titoli» buoni per i concorsi pubblici e si vantano online di «rilasciare certificati in media in un giorno» e di «irradiarsi in tutta la penisola con centri di ascolto» e di scansare perfino l’obbligo più ovvio: quello di frequentare almeno una parte delle lezioni. Alla faccia del «merito».

[…] E il direttore Giovanni Vinciguerra si rifiuta di puntare l’indice su questo o su quell’istituto: «È il sistema con le sue regole a consentire storture indecenti». Incrociando i dati e le «promesse» contrattuali offerte sul mercato agli aspiranti diplomandi, però, sul web si trova di tutto. Compresi indirizzi che si sdoppiano e si moltiplicano e rimandano nelle «street view» di Google map a sgarrupate periferie metropolitane, orrendi «bassi» popolari e talora vere e proprie catapecchie: muri scrostati, grondaie arrugginite, mattonelle divelte, spiazzi ingombri di sterpaglie.

Guai a fare d’ogni erba un fascio: la larga maggioranza delle «paritarie» italiane, quattro quinti, è estranea allo spaccio di attestati. I diplomifici, però, ci sono. Al punto di dar vita addirittura a fenomeni di «turismo diplomante». E sono riconoscibili per una caratteristica: hanno pochi o pochissimi studenti iscritti fino alla vigilia della prova finale per il pezzo di carta utile per i concorsi pubblici e poi iscritti che miracolosamente si moltiplicano tra il quarto e il quinto anno.

Un’impennata che nell’ultimo anno scolastico è arrivata a uno stratosferico +166%.

Con punte paradossali.

Un esempio? Quello di un istituto «passato da 11 iscritti in quarta a 296 l’anno dopo in quinta»: ventisette volte di più. Tutto «normale»? «Un altro istituto ha complessivamente avuto negli ultimi sei anni soltanto 31 studenti iscritti al quarto anno, diventati in tutto 1.083 al quinto con un incremento di 1.052 iscritti nel sessennio (+3.194%)». Un altro ancora partito da 138 è salito nello stesso periodo, sempre per il 5° anno, a 1.388: «Ipotizzando una retta media di 5 mila euro, i ricavi di questo istituto solo per le iscrizioni al 5° anno sfiorerebbero in sei anni i 7 milioni».

 […] queste scuole accuratamente scelte per ottenere la benedetta pergamena sono 92. 

Una quota minore (il 6,5%) delle 1.423 «paritarie» che portano gli studenti all’esame di maturità. Ma concentrata in una roccaforte: «Il 90,5% dei 10.941 nuovi iscritti sono in istituti paritari della Campania. Il 6,3% in istituti del Lazio. Il 3,2% in istituti della Sicilia. Stop: nessuno è localizzato in altre regioni d’Italia».  […] 

Una progressione inarrestabile: dal 2015/16 fino a questo anno scolastico «l’incremento di iscritti a livello nazionale nelle paritarie tra il quarto e il quinto anno delle superiori è stato di 166.314».

Oltre 105 mila in Campania, gli altri in tutte le altre regioni messe insieme. Un caso? Dice il Dpr 122/2009 che «ai fini della validità degli anni scolastici, compreso l’ultimo anno di corso (…) è richiesta la frequenza di almeno tre quarti dell’orario annuale». Ma in realtà «in base a quanto risulta da contratti per l’iscrizione nella scuola visionati da «Tuttoscuola», in molti casi sono esplicitamente previste nel corso dell’anno scolastico trasferte di 48-72 ore presso l’istituto dove si svolgerà l’esame finale per un numero di visite che si conta sulle dita di una mano». 

Un weekend ogni tanto… «La violazione di legge sulla frequenza per almeno tre quarti dei giorni di lezione messa in atto quasi sempre dagli istituti in odore di diplomificio è la loro carta vincente verso la clientela». Pronta a pagare, stando ai tariffari on-line, «una cifra compresa tra i 1.500 e i 3.000 euro, più una tassa d’iscrizione che va da 300 a 500 euro.

Per gli esami di idoneità, il prezzo varia tra i 1.500 e i 3.000 Euro. Per il diploma di maturità la retta media è 2.500-4.500 Euro. Ma ci sono casi in cui si arriva a 8.000 o addirittura a 10.000...» E lo Stato che fa? Boh...«Sembra abbia rinunciato alla lotta contro i diplomi facili, azzerando o quasi i controlli». Due numeri: negli anni 90 gli ispettori che facevano le verifiche «erano 696. Ne sono rimasti in servizio solo 24. Alcuni prossimi alla pensione. Ai quali si aggiungono 59 dirigenti tecnici con incarichi triennali che dovrebbero vigilare su circa 8 mila istituzioni scolastiche statali e circa 12 mila paritarie. Ottantatré ispettori per 20 mila scuole… Nel Regno Unito gli ispettori sono circa 2 mila (inclusi quelli part-time), in Francia circa 3 mila».  

Auguri... Perché non ne assumono? Una parola: «Il penultimo concorso è stato nel 1989; il successivo iniziato nel 2005 si è concluso nel 2014. Infine il nuovo concorso ha mosso i primi passi nel 2019 e ad oggi non è stato ancora bandito». Due concorsi in 34 anni. […]

L’80 per cento dei nuovi prof del Sud. Perché trasferirli non è un complotto. I dati di «Tuttoscuola»: nel Meridione c’è soltanto un terzo delle cattedre disponibili. Non potendo muovere scuole e studenti sono i docenti a doversi spostare al Nord, scrive Gian Antonio Stella il 10 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Allora: spostiamo gli studenti al Sud? A leggere certi strilli sulla «deportazione» dei docenti meridionali al Nord cadono le braccia. Certo, è possibile che il famigerato «algoritmo» che ha smistato maestri e professori abbia commesso errori. E vanno corretti. Ma i numeri sono implacabili: 8 insegnanti su 10 sono del Mezzogiorno però lì c’è solo un terzo delle cattedre disponibili. Non per un oscuro complotto anti meridionalista: perché gli alunni delle «primarie» e delle scuole di I° grado sono oggi mezzo milione in meno di vent’anni fa. Lo studio capillare che spazza via certi slogan urlati in questi giorni è di Tuttoscuola. Che grazie a un monitoraggio capillare, nome per nome, regione per regione, dimostra: «Solo il 37% degli studenti italiani risiede al Sud, Isole incluse (18 anni fa era il 47%); mentre ben il 78% dei docenti coinvolti in questa tornata di trasferimenti è nato nel Meridione». Risultato: la scuola italiana è come una «grande nave con un carico molto più pesante a prua (il Nord del Paese), che fa scivolare gradualmente verso quella prua una quota crescente del personale, collocato in misura preponderante a poppa (al Sud)». E non c’è algoritmo che, quella nave, possa raddrizzarla. Almeno in tempi brevi. Il guaio è che, prima ancora della frana 2013/2015, con più morti che nascite come non accadeva dalla influenza spagnola del 1918, il Sud subisce da tempo un’emorragia demografica. Conseguenza: «Meno studenti, meno classi attivate, meno personale docente. Confrontando i dati degli alunni iscritti nelle scuole del primo ciclo nel 1997-98 con quelli degli anni successivi, risulta una flessione costante». Nel ‘97-‘98, ad esempio, gli iscritti meridionali alle materne, alle elementari e alle medie erano 2.032.338 cioè il 46,6% del totale nazionale. Quest’anno 1.586.589, pari al 37,5%. Quasi mezzo milione, come dicevamo, in meno. Contro un aumento parallelo di 320.809 alunni al Nord. Di qua +14%, di là -22%. Va da sé che l’equilibrio domanda e offerta ne è uscito stravolto. E questo «squilibrio», prevede la rivista diretta da Giovanni Vinciguerra, sarà registrato «per altre migliaia di professori della secondaria di II grado». È la conferma che «il Mezzogiorno, da decenni avaro di posti di lavoro, privilegia come valvola di sfogo occupazionale l’insegnamento, mentre i giovani delle altre aree territoriali sembrano non prioritariamente interessati a questa professione, grazie forse a più favorevoli offerte di lavoro locali». Problema: non c’è bicchiere capace di contenere un litro d’acqua. I docenti meridionali sono 30.692 ma i posti a disposizione al Sud sono 14.192: «Come possono 14.192 sedi accogliere 30.692 insegnanti? Neanche Einstein avrebbe potuto inventare un algoritmo in grado di risolvere un’equazione simile». Maestri e professori «in eccedenza» nel Mezzogiorno sono complessivamente 16.500, quelli che mancano al Centro-Nord 17.628. Di qua quasi il 67% in meno, di là quasi il 54% di troppo. Con addirittura un picco del 64,3% di insegnanti in eccesso in Sicilia. La quale copre da sola oltre un terzo dei docenti costretti ad andarsene dalla propria regione. Capiamoci: come dicevamo, e come sono stati costretti ad ammettere la stessa Stefania Giannini o Davide Faraone, l’algoritmo usato per distribuir le cattedre in base a vari parametri (anzianità di servizio, titoli, specifiche esigenze familiari...) «incrociati» con l’ordine delle province preferite (ogni docente poteva metterne in fila cento, dalla propria a quella più lontana o più scomoda da raggiungere) può aver commesso errori. Anzi, vere e proprie ingiustizie che hanno premiato qualcuno a danni di altri. E quelle ingiustizie, come dicevamo, vanno riparate. Partendo dalla massima trasparenza chiesta a gran voce da chi contesta le graduatorie. Mediamente, spiega Tuttoscuola, «soltanto il 38% di docenti meridionali ha trovato sede nella propria regione, mentre il 62% è rimasto fuori. Al contrario, il 74% dei docenti nati nel Centro-Nord è rimasto nella propria regione». Colpa di quella nave sbilanciata a prua. Ma se un pugliese finisce in Sicilia e un siciliano in Puglia, dato che non pesava il merito professionale ma solo l’algoritmo, poteva probabilmente esser fatto di meglio. Ed è vero che, in cambio del posto fisso, viene chiesto a molte persone non più giovani, dopo anni di supplenza, con figli e famiglie radicate, un sacrificio pesante. A volte pesantissimo. Detto questo, le urla contro «la deportazione coatta», i lamenti per «una misura indecente e inaccettabile», le denunce degli «esiti nefasti della mobilità nella scuola», gli appelli contro «l’esodo biblico», sono esasperazioni che si rifiutano di tener conto di un dato di fatto: non potendo spostare scuole e studenti, devono spostarsi i docenti. Come accettò di andare a insegnare in un liceo dell’allora lontanissima Matera Giovanni Pascoli. O dell’ancor più lontana Nuoro Sestilio Montanelli, che si portò dietro tutta la famiglia, a partire dal nostro Indro. E centinaia di migliaia di altri docenti. Consapevole oggi dei disagi, dei problemi, dei drammi familiari, però, il governo potrebbe cogliere l’occasione, come invita Tuttoscuola, per dare una svolta alla scuola meridionale, marcata dall’altissima dispersione e da «scadenti risultati nei test Invalsi e Pisa». Alla larga dall’assistenzialismo, ma vale davvero la pena di tener aperte le scuole meridionali, incentivare il tempo pieno, puntare sull’istruzione. Soprattutto nelle aree a rischio.

Le «due scuole italiane» e la forbice del divario che si allarga. Il Sud trabocca di 100 e lode ma i dati internazionali dipingono un panorama del tutto diverso: che i prof meridionali siano di manica più larga? Afferma Gian Antonio Stella l'11 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera”. Gian Antonio Stella (Asolo, 15 marzo 1953) è un giornalista e scrittore italiano. È nato ad Asolo (TV), dove il padre insegnava, da una famiglia originaria di Asiago. Ha vissuto a Vicenza dove ha frequentato il Liceo ginnasio Antonio Pigafetta. «Questa è una scuola particolare: non c’è né voti, né pagelle, né rischio di bocciare o di ripetere. Con le molte ore e i molti giorni di scuola che facciamo, gli esami ci restano piuttosto facili per cui possiamo permetterci di passare quasi tutto l’anno senza pensarci...». Basterebbero queste poche righe scritte dagli alunni di Don Milani a spiegare quanto i voti possano essere, in una scuola ideale che formi davvero giovani preparati, colti e consapevoli, quasi secondari. Purché, appunto, i ragazzi così la vedano: una scuola «senza paure, più profonda e più ricca». Al punto che «dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi». Ma è così la scuola italiana che esce dagli ultimi dossier? Mah... I numeri pubblicati ieri raccontano di un Mezzogiorno che trabocca di giovani diplomati con 100 e lode, con la Puglia che gode di una quota di geni proporzionalmente tripla rispetto al Piemonte o al Veneto, quadrupla rispetto al Trentino, quintupla rispetto alla Lombardia. Bastonata pure dalla Calabria: solo un fuoriclasse ogni quattro sfornati da Catanzaro, Cosenza o Crotone. Evviva. Ma come la mettiamo, se i dati del P.i.s.a. (Programme for International Student Assessment) dell’Ocse o i test Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo) dipingono un panorama del tutto diverso? Prendiamo la Sicilia, che oggi vanta proporzionalmente il doppio abbondante di «100 e lode» della Lombardia. Dieci anni fa il P.i.s.a. diceva che nessuno arrancava quanto i quindicenni siciliani. La più sconfortante era la tabella sulle fasce di preparazione. Fatta una scala da sei (i più bravi) a uno (i più scarsi) i ragazzi isolani sul gradino più basso o addirittura sotto erano il doppio della media Ocse. Il quadruplo dei coetanei dell’Azerbaigian. Poteva essere lo sprone per una rimonta. Non c’è stata. Lo certifica il rapporto Invalsi 2015: «Il quadro generale delineato dai risultati delle rilevazioni, che non è particolarmente preoccupante a livello di scuola primaria, cambia in III secondaria di primo grado, assumendo le caratteristiche ben note anche dalle indagini internazionali (...): il Nordovest e il Nordest conseguono risultati significativamente superiori alla media nazionale, il Centro risultati intorno alla media e il Sud e le Isole risultati al di sotto di essa». Peggio: «Lo scarto rispetto alla media nazionale del punteggio delle due macro-aree meridionali e insulari, piccolo in II primaria, va progressivamente aumentando via via che si procede nell’itinerario scolastico». Cioè alle superiori. La tabella Invalsi che pubblichiamo in questa pagina dice tutto: dal 2010 al 2015 tutto il Centronord stava sopra la media, tutto il Sud (Isole comprese) stava sotto. Molto sotto. E l’ultimo rapporto Invalsi 2016 non segnala progressi. Allora, come la mettiamo? Come possono i monitoraggi nazionali e internazionali sui ragazzi fino a quindici anni segnalare nel Mezzogiorno una scuola in grave affanno e i voti alla maturità una scuola ricca di spropositate eccellenze? È plausibile che nei due anni finali i giovani meridionali diano tutti una portentosa sgommata alla Valentino Rossi? Mah... Nel 2013 Tuttoscuola di Giovanni Vinciguerra mise a confronto la classifica delle province con più diplomati col massimo dei voti e quella uscita dal capillare monitoraggio Invalsi. I risultati, come forse i lettori ricorderanno, furono clamorosi: Crotone, primissima per il boom di studenti «centosucento», era 101ª nella Hit Parade che più contava e cioè quella della preparazione accertata con i test internazionali. Agrigento, seconda per «geni», era 99ª, Vibo Valentia quinta e centesima. A parti rovesciate, stessa cosa: Sondrio che era prima nella classifica Invalsi era solo 88ª per studenti premiati col voto più alto, Udine seconda e 100ª, Lecco terza e 89ª, Pordenone quarta e 59ª…Assurdo. E le classifiche regionali? Uguali. Un caso per tutti: la Calabria, ultima nei test Invalsi, prima per fuoriclasse. Sinceramente: è possibile un ribaltamento del genere? O è più probabile la tesi che i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po’ più larga? Un punto, comunque, appare fuori discussione. Non solo esistono due Italie e due scuole italiane, due universi di studenti e due di professori. Ma il divario, anziché ridursi, si va sempre più allargando. E ciò meriterebbe da parte di tutti, non solo del governo, un po’ di allarmata attenzione in più.

Povera scuola italiana, ormai è un diplomificio. Maturità, passa il 99,5% degli studenti. Non esiste più selezione. Un danno per i giovani, scrive Mario Margiocco su "Lettera 43" l'11 Agosto 2016. Nato a Genova nel 1945, giornalista dal ’71 («Il Secolo XIX», «Panorama», «Italia Oggi»), dal 1992 al 2010 ha lavorato al «Sole 24 Ore». Corrispondente da Bruxelles e dalla Germania, ha seguito dagli Stati Uniti il crac finanziario e le elezioni presidenziali. Puntuali come le stelle di S.Lorenzo, arrivano tutti gli anni i risultati degli esami di Stato di fine ciclo della scuola media superiore di ogni tipo. E come sempre anche quest’anno in Italia è un trionfo. Anzi, nel 2016 un record: promosso il 99,5% degli ammessi agli esami. In Francia i promossi all’equivalente Bac, compresi quelli che hanno superato l’immediata prova orale di recupero dopo aver fallito la prova principale, sono stati nel 2016 l’88,5% dei candidati, una cifra simile a quella che era una volta la percentuale totale dei promossi anche in Italia. Poiché occorre tenere conto anche dell’ammissione all’esame, quest’anno rifiutata in Italia al 4% degli studenti che non si capisce come siano arrivati all’ultimo anno se ritenuti alla fine incapaci di potersi presentare all’esame, siamo a un soffio dalla promozione totale. La logica è chiara: si nega l’ammissione a quelli che sarebbero proprio un’onta per il corpo docente, e si promuovono tutti gli altri, salvo qualcuno rarissimo che ha proprio sbagliato tutto, magari perché in giornate “no”. Ma perché allora non si risparmiano i soldi necessari per gli esami e non si dichiara la promozione di tutti gli idonei al titolo secondo i docenti dell’istituto di origine? Perché la legge prevede un esame di Stato. Ma che credibilità ha un esame di Stato che promuove tutti? Il confronto con la Francia è micidiale. O la loro è una scuola di aguzzini, o la nostra un inattendibile diplomificio. In certe aree ben più che altrove. In genere chi ha fatto, e i più giovani sono oltre i 60, gli esami di una volta sia ai Licei che agli Istituti se nel sonno sogna ancora un esame scolastico, ed è un incubo, non è in genere un esame universitario, ma quello di maturità. Era, nella calura di luglio e agosto, un tormento, una prova di nervi. E restava sul terreno tra rimandati e bocciati un terzo circa degli studenti. Di questi, un 30% recuperava a ottobre, dopo essersi rovinata l’estate. Poi gradatamente tutto è diventato meno impegnativo e ora lo è assai meno. Bene, non è successo solo in Italia. Da noi però si è andati oltre il lecito e comprensibile, perché solo in Italia l’idea di una selezione che sarebbe in sé “antidemocratica”, quindi da rifiutare in blocco come concetto pedagogico classista, ha fatto breccia anche fra molti insegnanti. Che non a caso si sono formati, i più anziani ormai in pensione ma che hanno in tutti i sensi “fatto scuola”, in un periodo ben preciso della scuola e delle università italiane. L'inizio del declino con i movimenti studenteschi del 1968. Chi ha frequentato l’università, grossomodo, nel decennio 65-75 ricorderà benissimo la forte pressione di gruppi studenteschi organizzati contro la selezione e per la sostituzione di esami difficili con esami facili, per l’abolizione degli scritti, degli esami di lingua straniera dove non si poteva non tradurre decentemente alcune frasette, per iscritto, e via andare. Il danno, nelle facoltà umanistiche in genere perché in quelle tecnico-scientifiche era meno facile declassare il curriculum, è stato enorme. C’era molto da svecchiare, ma in nome della qualità, non della banalità. Vari dubbi sulla serietà del cosiddetto movimento studentesco del 68 – e dei suoi alleati e facilitatori sul fronte politico e sociale - sono incominciati così, osservando la voluta banalizzazione dei corsi di studio. Poi l’ondata ha raggiunto Licei e Istituti di vario genere. E ormai è endemica, e da anni. Tutto questo, si fa finta di ignorare da più parti, arreca grave danno agli alunni di origini modeste, tenuti agli studi con sacrificio personale e della famiglia, che hanno più di altri bisogno di un diploma valido e credibile, non solo perché è di Stato. Investono molto, è irresponsabile consegnargli alla fine un pezzo di carta svalutato. Un discorso particolare, anche quest’anno, meritano i 100 e lode in alcune regioni meridionali. Le prime regioni per numero assoluto di 100 e lode sono del Sud, anche se il Sud non brilla nelle prove internazionali, tipo Ocse e altre, di abilità scolastica degli studenti nelle varie materie. Le lodi sono 934 e in forte aumento sul 2015 in Puglia, (in aumento quasi ovunque, soprattutto al Sud, ma non sempre, è giusto rilevare), che ha meno degli abitanti del Piemonte ma cinque volte più lodati. Va detto che si distinguono, per serietà a parere di chi scrive, Abruzzo, Molise, Basilicata e Sardegna, che se avessero in rapporto alla popolazione gli stessi lodati della Calabria dovrebbero triplicare e oltre i propri. Se la Puglia avesse sulla popolazione gli stessi 100 e lode della Basilicata, ne avrebbe un terzo. Basilicata e la provincia autonoma di Trento, che ha un ottavo degli abitanti della Puglia ma solo un 45mo dei suoi 110 e lode, sono le uniche due realtà dove il massimo voto è meno frequente che nel 2015. Sulla scuola nel Sud Italia scrisse pagine memorabili un secolo fa e oltre Gaetano Salvemini, da Molfetta, uno degli uomini migliori, più onesti, generosi e brillanti, del 900 italiano. La pletora di voti massimi lascia il sospetto che l’analisi di Salvemini non sia del tutto superata, nonostante il molto tempo trascorso. L'intellettuale amava e difendeva la piccola gente del Meridione, allora braccianti per lo più analfabeti, e fece molto per loro. Non amava la media e piccola borghesia meridionale, a caccia di diplomi per assicurarsi il “posto” e continuare a primeggiare sulla piccola gente. E, ancora nel 1955, rieditando vecchi scritti sulla scuola, ripeteva una tesi a lui cara, avendo osservato la ricchezza che gli insegnanti estranei alla mentalità compromissoria locale avevano sempre seminato: inviare nel Sud per cinque anni, a stipendio maggiorato, i vincitori dei concorsi a cattedre del Nord, per spezzare il peso di quella piccola borghesia sul sistema scolastico meridionale. Non è successo proprio così. I più danneggiati da questa fiera diplomistica sono i bravi studenti di quelle regioni troppo generose messi alla pari di loro compagni, bravini forse, ma promossi generali sul campo con rito sommario. Un preside di Brindisi sembra non rendersene conto e, come altri in passato, taglia corto: «I nostri studenti sono davvero bravi». Anzi bravissimi, eccezionali. Tutti 100 e lode strameritati? Troppa grazia.

Essere un’eccellenza appaga mente, cuore e portafoglio. Ma senza esagerare, scrive TGCom 24. Perché se da un lato sono tante le università che, per esempio, prevedono alcune agevolazioni per chi si diploma con 100 e lode, dall’altro nel corso degli anni il premio previsto per gli stessi dal Ministero dell’Istruzione ha subito sforbiciate evidenti. Troppe lodi? Dati alla mano non si direbbe, anche se la polemica sulla generosità delle commissioni al Sud si ripete costantemente.

Il Corriere anche quest'anno rilancia la polemica sui "diplomifici", sostenendo che le scuole del sud Italia sgancino più facilmente votoni agli studenti, con la conseguenza che i maturandi meridionali ad aver preso 100 sono stati il doppio di quelli del Nord. Verità o bugia?

Gli opinionisti “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto equivalente a “Terrone” da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla solita tiritera: ogni qualvolta che il meridione d'Italia eccelle, lì c'è la truffa.

"Il Sud trabocca di 100 e lode ma i dati internazionali dipingono un panorama del tutto diverso: che i prof meridionali siano di manica più larga?", asserisce Gian Antonio Stella, opinionista del nordico “Il Corriere della Sera”. Lui, il buon veneto Gian Antonio Stella, spiega che: «Allora, come la mettiamo? Come possono i monitoraggi nazionali e internazionali sui ragazzi fino a quindici anni segnalare nel Mezzogiorno una scuola in grave affanno e i voti alla maturità una scuola ricca di spropositate eccellenze? Assurdo. Un caso per tutti: la Calabria, ultima nei test Invalsi, prima per fuoriclasse. Sinceramente: è possibile un ribaltamento del genere? O è più probabile la tesi che i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po’ più larga? Un punto, comunque, appare fuori discussione. Non solo esistono due Italie e due scuole italiane, due universi di studenti e due di professori. Ma il divario, anziché ridursi, si va sempre più allargando. E ciò meriterebbe da parte di tutti, non solo del governo, un po’ di allarmata attenzione in più.»

Come si fa da un dato (i monitoraggi nazionali ed internazionali sui ragazzi fino a quindici anni) estrapolare l’assunto del broglio riguardanti i voti della maturità data ai ragazzi di tre o quattro anni più vecchi? E cosa ancora più grave, in considerazione della stima che si ha per un bravo giornalista, come si può mettere sullo stesso piano il dato oggettivo dei monitoraggi nazionali ed internazionali riguardanti il totale del corpo studenti di una data zona rispetto al voto soggettivo di eccellenza profuso in capo al singolo studente meritevole? E se fossero stati premiati apposta per il fatto che si siano elevati rispetto alla massa di mediocrità?

«I più danneggiati da questa fiera diplomistica sono i bravi studenti di quelle regioni troppo generose messi alla pari di loro compagni, bravini forse, ma promossi generali sul campo con rito sommario - rincara Mario Margiocco nato a Genova nel 1945, giornalista dal ’71.- Un preside di Brindisi sembra non rendersene conto e, come altri in passato, taglia corto: “I nostri studenti sono davvero bravi”. Anzi bravissimi, eccezionali. Tutti 100 e lode strameritati? Troppa grazia.». Chiosa in chiusura con evidente sarcasmo il ligure.

Cari signori dal giudizio (razzista) facile. Vi rammento una cosa.

Io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come? 

A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.

A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità statale (non privata) assieme ai giovincelli.

A Milano mi iscrivo all’Università Statale alla Facoltà di Giurisprudenza. Da quelle parti son convinti che al Sud Italia i diplomi si comprano. E nel mio caso appariva a loro ancora più evidente. Bene!

A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza, dopo sosta forzata per attendere il termine legale previsto per gli studenti ordinari.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).

Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense con compiti corretti in altra sede. Così come volle il leghista Roberto Castelli. Perché anche lui convinto degli esami farsa al sud.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università, o dalle sedi di esame di abilitazione o nei concorsi pubblici ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare. Una cultura socio mafiosa agevolata anche da quel tipo di stampa omologata e partigiana che guarda sempre la pagliuzza e mai la trave. Che guarda il dito che indica la luna e non guarda mai la luna.

Alla fine si è sfigati comunque e sempre, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Essere del nord o del sud di questa Italia. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate, e forse, anche perché in Italia nessuno può dirsi immacolato. Per una volta, però, cari giornalisti abilitati (ergo: omologati) guardiamo la luna e non sto cazzo di dito.

Da marche.istruzione.it. Gian Antonio Stella: scheda bibliografica Gian Antonio Stella, 49 anni, vicentino, fa l'editorialista e l'inviato di politica, economia e costume al "Corriere della Sera", giornale in cui, dopo gli anni della gavetta giovanile e l'assunzione al pomeridiano "Corriere d'Informazione", Ë praticamente cresciuto. Sposato, un figlio, cuoco dilettante di un certo talento e chitarrista di appassionata mediocrit‡, vive un po' a Roma, un po' vicino a Venezia, un po' in giro. Vincitore di alcuni premi giornalistici (dall'"E'" assegnato da Montanelli, Biagi e Bocca al "Barzini", dall'"Ischia" al "Saint Vincent" per la saggistica) ha scritto vari libri. Tra i pi˘ noti "Schei", un reportage sul mitico Nordest, "Dio Po / gli uomini che fecero la Padania", un velenoso pamphlet sulla Lega, "Lo spreco", un'inchiesta su come l'Italia ha buttato via almeno due milioni di miliardi di vecchie lire, "Chic", un viaggio ironico e feroce tra gli italiani che hanno fatto i soldi; "Trib˘", uno spassoso e spietato ritratto della classe politica di destra salita al potere nel 2001, e infine ìLíorda, quando gli albanesi eravamo noiî (Rizzoli, 2002; edizione tascabile BUR, 2003), dedicato alla xenofobia e al razzismo anti-italiani che i nostri emigrati vissero sulla loro pelle.

Francesca Salamino il 25 Aprile 2014 su labalenabianca.com. Se muore il sud – copertina. Cosa vuol dire morire? Affondare negli scandali e nelle illegalità? Tramontare all’ombra di un Nord, forse, più potente ma altrettanto corrotto e coinvolto? Essere dimenticato dal resto del Paese e dalla stessa Europa?

« Tornate a bordo, cazzo! » Questo viene voglia di urlare, a tutti quelli che sembrano avere abbandonato il Mezzogiorno al suo destino. Ditelo: ci avete rinunciato, al Sud? avete deciso che non vale la pena salvarlo? avete immaginato che tanto vale lasciarlo andare alla deriva verso un futuro sempre più violento, marginale, miserabile? Vi siete rassegnati all’impossibilità di strapparlo alle mafie, alle clientele, alla malapolitica? Ditelo, almeno. Abbiate il fegato di ammetterlo. Perché il Mezzogiorno sta andando al disastro. E non serve a niente, giorno dopo giorno, voltarsi dall’altra parte. (p. 7)

Risulta difficile apprezzare la metafora della Concordia applicata al Sud, visto che già mezza Europa l’ha utilizzata per dare un’immagine dell’Italia intera. E, se già in quel paragone si avvertiva qualche nota stonata, non si capisce perché risuonare la stessa melodia. Se questo libro ha un merito, però, è quello di aver messo in luce il problema che sta alla base di un Sud sempre più confinato nel dimenticatoio: la contrapposizione costante tra due atteggiamenti mentali, ovvero il suo stesso vittimismo e il distacco del Nord. Da un lato, quindi, l’incapacità di dare vita a progetti ambiziosi e soprattutto realizzati, di autocritica, di seguire le regole; dall’altro, la mancanza di fiducia in un pezzo del proprio stesso territorio e la tendenza a considerarsi separatamente ma solo nella cattiva sorte.

Se è vero che in ogni Paese e in ogni regione si contrappongono differenze geografiche e culturali, in Italia tutto questo supera ogni logica. La ragione è che queste differenze, anziché essere sfruttate come serbatoio di ricchezza, sono vissute come ostacoli. Appare illogico perché basterebbe voltarsi dall’altra parte per scoprire che le differenze non sono a senso unico, e ciò che il Nord critica al Sud il mondo lo critica all’Italia intera, come ha sintetizzato Ivano Russo sul Sole 24 Ore:

Il Nord non è quell’avamposto europeo di sviluppo economico che spesso ci viene raccontato, così come il Sud non è la palla al piede che farebbe affondare un paese altrimenti prospero. (p. 201)

Ciò è vero a tal punto che anche un fenomeno come la Lega Nord, nel libro La razza maledetta di Vito Teti, viene descritto come il figlio naturale dello stesso atteggiamento vittimista che solitamente si imputa al Sud:

Il Nord si scopriva improvvisamente ‘sfruttato’, con strutture e servizi inadeguati, vittima dei meridionali e dei partiti che avevano curato solo i loro interessi. Naturalmente, i gruppi politici meridionali, con le loro pratiche clientelari, con i mille sprechi che non avevano comunque inciso sui problemi del Sud, e anche con le collusioni con gruppi criminali e mafiosi, avevano contribuito ad alimentare il sentimento antimeridionale della gente del Nord. Ma è anche vero che la Lega riusciva in un’operazione di ribaltamento della verità storica e si presentava, in maniera paradossale, col vittimismo e la lamentazione che tradizionalmente avevano caratterizzato gli uomini politici e gli amministratori del Sud. (p. 62)

L’aggravante è che quanto descritto non è affatto recente ma risale a tempi ormai antichi, eppure ognuno continua ancora oggi a difendere il proprio giardino e a curarci un orto che non dà più grandi frutti. Gaetano Salvemini, « un meridionalista che non faceva sconti al Meridione », diceva già molti decenni fa:

Qualunque gruppo di uomini onesti di qualsiasi partito avesse voluto mettere un po’ di freno alla iniquità di una sola fra le clientele che facevano capo a un deputato meridionale, era sicuro di trovarsi contro tutta la marmaglia compatta. Il nostro sistema politico e amministrativo si fondava sull’asservimento della piccola borghesia intellettuale e dei suoi rappresentanti parlamentari ai gruppi politici prevalenti nell’Italia Settentrionale e sul consenso sistematico dei gruppi politici prevalenti nell’Italia settentrionale alla malvagità bestiale delle clientele meridionali. (p. 16)

Stella e Rizzo hanno condotto un’inchiesta approfondita, seria, puntuale e mai eccessivamente « giornalistica ». Nel libro si passano in rassegna tutti i problemi che avviliscono il nostro Mezzogiorno. Si parla, dunque, dei finanziamenti mancati e di quelli sprecati; della mafia che da tempo « abita anche a Milano » e non più solamente al caldo della Sicilia; dei soldi statali utilizzati a scopi personali; degli affari condotti sui terremoti e sulle calamità naturali; della mancanza di lungimiranza nei confronti del turismo e dei beni culturali; dei tagli europei al Sud; dei trasporti che non funzionano; della lobby dei medici in politica; delle infrastrutture mai terminate. Si potrebbero portare innumerevoli esempi per ognuna di queste note dolenti: la gran quantità di nomi e numeri è infatti ciò che riempie le 300 pagine del libro e questa è forse l’unica aporia che gli si può rimproverare. Alla lunga, l’accostamento di un tono colloquiale (ricco di « uffa! » e di considerazioni a carattere personale, basti la quarta di copertina) con dati su dati, risulta stancante.

Conta molto di più, infatti, la capacità degli autori di aver sottolineato la causa culturale che sta alla base dei problemi del Mezzogiorno, ovvero quello scontro tremendo di due mentalità cieche e parallele. Perché del Sud si parla molto ma anche questo argomento si avvicina sempre più ai molti altri cliché che riguardano l’Italia. Esattamente com’è accaduto per « La legge elettorale non può più aspettare » oppure per « bisogna assolutamente fare qualcosa per i giovani di questo paese », le affermazioni sul Meridione, ripetute così tante volte, stanno andando incontro all’inesorabile destino dello svuotamento di significato e quindi della mancanza di azioni concrete. Allora sì che il Sud rischia davvero la morte. Una morte reale a cui poi bisognerà fare fronte:

Lo Svimez (associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, ndr) è preoccupatissimo: il Sud è ormai ‘a forte rischio di desertificazione industriale, con la conseguenza che l’assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente’. (p. 44).

Torna alla mente la scena del film I cento passi dove, alla frase del padre : « Ma non lo capisci che se continui cosi quelli ti ammazzano? », Peppino risponde : « E se quelli mi ammazzano tu che cosa fai? ».

E se muore il Sud, voi che cosa fate?

S. Rizzo, G.A. Stella, Se muore il sud, Milano, Feltrinelli, 320 pp., 19 €. 

Gian Antonio Stella e quando il Veneto rinunciava ai funerali. «Un aneddoto vissuto in prima persona sulla cultura imprenditoriale dei veneti? Se vuoi ti racconto quello che mi è capitato anni fa. È emblematico, credimi. Un giorno mi telefona a casa Antonio Albanese. Io non lo conoscevo, poi siamo diventati amici. Lui sapeva che avevo scritto parecchia roba sui veneti, sugli schei, sul loro attaccamento […] BRUNO PERINI isu nformazionesenzafiltro.it

«Un aneddoto vissuto in prima persona sulla cultura imprenditoriale dei veneti? Se vuoi ti racconto quello che mi è capitato anni fa. È emblematico, credimi. Un giorno mi telefona a casa Antonio Albanese. Io non lo conoscevo, poi siamo diventati amici. Lui sapeva che avevo scritto parecchia roba sui veneti, sugli schei, sul loro attaccamento all’azienda, così mi parla di un suo progetto. Voleva raccontare una storia di fantasia, la storia di un industriale veneto che rinuncia ai funerali di suo padre perché deve fare una consegna importante per la sua azienda. “Ti sembra una storia assurda”, mi chiede Albanese. Assurda? Ti posso assicurare che è una storia vera. È realmente accaduto. Mi è capitato di conoscere un industriale veneto, di cui non farò il nome, che ha rinunciato ai funerali di suo padre perché doveva fare una consegna per la sua fabbrica. E quando io gli ho chiesto perché aveva rinunciato a partecipare ai funerali di suo padre lui mi ha risposto: “Papà mi avrebbe capito”. Questo aneddoto la dice lunga sullo spirito dei veneti».

Quando riesco a rintracciarlo attraverso la segreteria di redazione del Corriere della Sera, Gian Antonio Stella accetta volentieri di parlare del “suo” Veneto e di tutti i volti, le luci e le ombre che caratterizzano il Nord Est d’Italia. Lui quelle terre le conosce bene, le ha vissute da ragazzo, le ha guardate con l’occhio dell’inviato del Corsera e le ha studiate da diverse angolazioni, da sempre. 65 anni, nativo di Asolo, un borgo di poco più di novemila abitanti in provincia di Treviso, inviato ed editorialista del quotidiano di via Solferino, autore di numerosi libri di grande successo come La Casta, scritto assieme a Sergio Rizzo, L’Orda, quando gli albanesi eravamo noi, sulla xenofobia e il razzismo contro gli emigrati italiani, Schei, un’indagine ante litteram sulla patria dei Benetton, dei Marzotto, di Leonardo Del Vecchio, deus ex machina di Luxottica, e di migliaia di piccole e medie imprese che costituiscono la fitta rete del territorio industriale più ricco d’Italia. E ancora La Deriva e poi Negri, froci, giudei & co. L’eterna guerra contro l’altro; un libro sul razzismo di grande attualità definito da Claudio Magris “un potente, ferocemente ilare e doloroso dizionario o prontuario universale di tutte le ingiurie, odi e pregiudizi nei confronti del diverso d’ogni genere”. 

Torniamo indietro negli anni. Schei è un libro di 22 anni fa e racconta come il denaro sia uno degli elementi cruciali per capire il Nord Est. Che cosa è cambiato da allora?

Ovviamente è cambiato tutto. C’era una regione che usciva dal dominio della Democrazia Cristiana ed entrava in una nuova era. A mio parere non è stato neppure un passaggio troppo traumatico: la Lega, anche se il 1996 fu l’anno della dichiarazione d’indipendenza a Venezia (parole, parole, parole…) si rivelò sul territorio assai meno guerresca, subentrando quasi senza traumi, qua e là, alla vecchia dc dorotea.

Dunque la politica ha svolto un ruolo importante nei mutamenti degli ultimi 20 anni.

Direi di no. I cambiamenti sono passati per altre vie. Anzi, sai cosa penso? Che nella politica italiana il Veneto ha sempre contato ben poco. Poi ci torniamo, su questa questione. C’era una battuta: la politica andava lasciata al mona de’a fameja. C’era l’idea che il bravo imprenditore non aveva il tempo di occuparsi di politica, tutto il suo tempo doveva essere dedicato a fare impresa. L’orgoglio più grande in quelle zone è l’azienda di famiglia, non la politica. Luca Zaia è stato coraggioso a ricordare, dopo la tragedia genovese, che fino a due mesi fa i Benetton erano l’orgoglio del Veneto. Poi è crollato il ponte e tutto è cambiato. È giusto indagare sulle responsabilità di quella tragedia e chi ha sbagliato deve pagare, ma nei confronti dei Benetton ci sono stati online anche insulti e volgarità infami. La famiglia Benetton non è solo la Società Autostrade. Fino al ponte di Genova (ripeto: chi ha sbagliato paghi) c’erano stati reportage e polemiche per le immense tenute comprate in Sudamerica, per i rapporti con imprenditori dai modi spicci come Briatore, per qualche operaio troppo giovane assunto in qualche fabbrica delocalizzata. Cosa, com’è noto, sempre negata. Ma in ogni caso nessuno aveva messo in dubbio la loro storia di imprenditori venuti dal nulla: anche loro, nel Veneto di allora, hanno cominciato a lavorare da ragazzi. Giuliana cominciò a 11 anni, a 14 era caporeparto che faceva due turni per portare a casa due stipendi. Gilberto diceva di essere quello dei fratelli che aveva studiato di più: fino a 14 anni. Luciano lo stesso. Semmai si è discusso sull’autosfruttamento, molto diffuso tra gli imprenditori veneti, non solo tra i Benetton.

Una storia simile a quella di Leonardo Del Vecchio, che partendo dallo sfruttamento del lavoro a domicilio nelle case di Agordo è riuscito a costruire un impero come Luxottica. Un’accumulazione di capitale piuttosto dura, fondata spesso sul lavoro dei minori, che ricorda quella dell’Inghilterra del 1700.

C’era anche questo aspetto. È vero. Ma parliamo di aree svuotate da decenni di povertà ed emigrazione: quella era l’alternativa. In ogni caso anche per Leonardo del Vecchio vale il discorso dell’autosfruttamento: la sua vita era pazzesca. Partiva alla mattina prima dell’alba per Milano con la sua Fiat 1100, consegnava gli occhiali, tornava subito ad Agordo (e non c’era l’autostrada di oggi), lavorava fino a notte e la mattina dopo tornava a Milano. Così ogni giorno. In ufficio, dietro la sua scrivania ad Agordo, paesotto di quattromila abitanti dove venne fondata la Luxottica nel 1961, Leonardo Del Vecchio teneva attaccata alla parete la cambiale del primo prestito.

Mi stai dicendo che questi due esempi, Benetton e Leonardo Del Vecchio, rappresentano lo spirito imprenditoriale del Veneto?

Non solo loro. Ci sono tanti casi simili. Penso ad esempio a Ivano Beggio, il fondatore di Aprilia (poi passata alla Piaggio) morto nel marzo di quest’anno. Il giovane Beggio si costruisce il primo “cinquantino” da solo, nel negozio di bombole, ferramenta e biciclette del papà. Quando gli subentra comincia a fabbricare motorini e vent’anni dopo, battendo la Honda, vince il primo di 56 titoli mondiali e comincia ad assumere, lui con la terza media, decine e decine di ingegneri.

Oggi il Nordest che ho conosciuto e che ho provato ad analizzare e capire è molto diverso. Il passaggio generazionale non sempre ha funzionato come era nelle speranze dei “condottieri” degli anni d’oro. Si pensi, ad esempio, al caso di Pietro Marzotto, che era un gigante, ma…

Che cosa invece non è cambiato a tuo parere?

Il rapporto con la politica. Ne parlavamo all’inizio della nostra conversazione. Nonostante il Veneto, dagli anni ‘60 in poi sia stato uno dei motori più potenti dell’economia italiana, non ha mai avuto un peso né nella politica né in Confindustria. Pietro Marzotto è stato per anni vicepresidente di Confindustria ma non è mai arrivato alla presidenza. E quando gli chiedevano perché non si candidava a guidare la Confindustria lui rispondeva: «Mi son un industrial, no un presidente». Lo stesso vale per la politica. Dopo il democristiano Mariano Rumor (unica eccezione con Luigi Luzzatti in 150 anni di storia!), citami un politico veneto che abbia avuto un peso vero a livello nazionale. Gui? Tremonti, forse. Ma è solo di origine veneta. Sì per un certo periodo, negli anni Ottanta ci sono stati uomini politici come Gianni De Michelis e Carlo Bernini. Ma è poca roba se si pensa al peso che il Veneto ha avuto nella crescita economica dell’Italia.

E la Lega di Matteo Salvini ce la siamo dimenticata? Lo sanno tutti che il Nord Est è la base elettorale della Lega.

Direi che anche in questo caso non cambia niente. Anzi: si tratta di una conferma della regola. Bossi, Maroni, Salvini: ma un veneto, gli altri sono lombardi. I contrasti sono noti e comunque non credo che gli imprenditori del Nord Est si identifichino totalmente con la Lega che oggi governa. Certo, i voti vengono anche da quel bacino, ma ad esempio sul tema dell’immigrazione e dell’integrazione ci sono modi diversi di gestire il fenomeno.

Questo è vero. Un imprenditore del Nord Est mi raccontava che, se gli portassero via la manodopera straniera, per le loro aziende sarebbe un tragedia. È così?

Certo che è così. Poco tempo fa sul Corriere della Sera ho raccontato una storia che è significativa a proposito dell’immigrazione.

Racconta.

Bepi Covre, proprietario a Oderzo, nella grassa provincia trevisana, di un’azienda metalmeccanica che fa componenti per l’arredamento e di un’altra che fa tavole e sedie (soprattutto per Mondo Convenienza, «roba buona perché alla prima “carega” che si rompe, nel nostro settore, hai chiuso»), mi ha raccontato di avere cercato a lungo personale da assumere. «Ne abbiamo 250, ce ne servivano quaranta. Non sono poche, quaranta assunzioni a tempo indeterminato. Con uno stipendio di partenza intorno ai 1.300 o addirittura 1.500 euro. Niente da fare. Alla fine, dopo il “decreto dignità” di Di Maio ne ho presi una decina qui della zona e una trentina di varia provenienza. Rumeni, moldavi, indiani, bosniaci, africani; residenti in Italia, magari nati in Italia, scolarizzati in Italia. Gente che non fa problemi a spostarsi e andare a lavorare dove c’è il lavoro. Gli diamo anche una mano a trovar casa».

Meridionali niente? Zero, mi ha risposto l’imprenditore: «Solo uno, Piero, viene da Norcia, dove aveva perso il lavoro a causa del terremoto. L’ho assunto e son contento. Come è contento lui». Il punto è che qui sì, il lavoro c’è. Ma, dispiace dirlo, non troviamo giovani meridionali disposti a venir su. Non solo io, anche tanti colleghi. C’è un mio amico, importante fornitore di Ikea, oltre 1.200 dipendenti, che ha incaricato le agenzie interinali di fare scouting al Sud per cercare lavoratori disposti a trasferirsi in provincia di Pordenone. Non per lavori in miniera: soprattutto periti, tecnici, operai specializzati. Niente da fare. Pensi che siamo arrivati a “prenotare” ragazzi che vanno ancora a scuola», mi ha detto l’imprenditore in quell’intervista che ti ho citato. La realtà è che in Veneto molti immigrati si sono integrati meglio che in altre regioni. E quando c’è stato un problema è stato gestito e risolto. Guarda il caso di via Anelli a Padova. Via Anelli era il simbolo italiano del degrado, della violenza, dello spaccio. Simile (in peggio) a quello che oggi è il quartiere di San Lorenzo a Roma. Lo hanno risolto. Ora quel problema non c’è più. Ma non l’hanno risolto con le ruspe. Hanno sparpagliato la gente, hanno trovato appartamenti e lavoro a chi ne aveva bisogno. Hanno risolto in modo semplice un problema complicato. È un po’ questa la natura dei veneti.

Alla fine di questa conversazione vorrei farti una domanda su un tema assai delicato. Come mai il livello dei suicidi è stato così alto in Veneto negli anni della grande crisi?

Se il lavoro è tutto, se pensi solo a quello, se tutto il resto passa in secondo piano (la famiglia, gli amici, il tempo da spartire con gli altri, la fede religiosa stessa), se lavori anche di notte e poi anche il sabato e poi anche la domenica, se rinunci ai funerali di tuo padre per una consegna urgente… Alla fine, se le cose vanno male, ti spari. Perché ti manca tutto. Il centro di gravità. L’ossigeno. La crisi? È stata come una giungla, è sopravvissuto chi è riuscito a non farsi schiacciare dalle difficoltà. Oggi in Veneto la disoccupazione è bassissima. Di recente il Sole 24 ore ha pubblicato un servizio nel quale si dimostrava che il manifatturiero italiano (Veneto in testa) è cresciuto negli ultimi tre anni più che in Germania, in Gran Bretagna o Francia.

Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 18/11/2010, 18 novembre 2010  

«Siamo avvezzi ad attacchi interessati» scrisse Totò Cuffaro in una lettera aperta ai direttori dei giornali dopo la pubblicazione di un’inchiesta del settimanale inglese «Economist» che aveva definito la Sicilia «il terzo mondo dell’Unione Europea». (...) Dopo di che aveva buttato lì il solito sospetto: «Mi chiedo quali interessi ci siano dietro a queste analisi, giunte proprio in un momento nel quale per una convergenza di diversi fattori, non ultimo quello di una nuova stabilità politica, qualificati investitori internazionali guardano alla Sicilia come concreto orizzonte della loro espansione. A chi interessa accreditare l’immagine di un’isola alla deriva?». (...) Sempre così va a finire, quando i giornali o i servizi televisivi stranieri o «del Nord» si occupano di quello che non va in Sicilia. Con le reazioni stizzite, le lagne vittimiste, le ipotesi di un complotto. Raffaele Lombardo, come è noto, è diventato col tempo, dopo essere stato un suo alleato, un nemico mortale di Cuffaro. Al punto di scherzare su un gallo che, ai bei tempi, aveva regalato «all’amico Totò». Gallo usurpatore che s’era presto impadronito del pollaio ammazzando il gallo cuffariano. Eppure, davanti a un nuovo intervento dello stesso «Economist», che nella primavera 2010 aveva proposto ironicamente di ridisegnare i confini dell’Europa e [...]

 GIAN ANTONIO STELLA: UN GIORNALISTA ANTIRAZZISTA MERITEVOLE DI PLAUSO OPPURE…… un generico piratello di brandelli di ricerche altrui? Salvatore Palidda il 14 Aprile 2019

Si legga qua di seguito l’ultimo articolo di Stella e si capirà. Non è la prima volta che dà prova di questa sua abitudine che, come si sa, è comune a tanti suoi colleghi più o meno illustri … salvo che gli editori preferiscono pubblicare e pompare quasi come best sellers i Stella anziché i ricercatori. Peraltro, non è dato sapere se poi i signori Stella o Saviano o Camilleri e altri almeno donano qualche borsa di laurea o di master o di dottorato per i giovani che spesso sono costretti ad andare a cercarla all’estero. Ciò che è ancor più deplorevole è che i giornalisti avvezzi a questo genere di articoli non si curano neanche minimamente di approfondire qualche aspetto essenziale né di citare le fonti. Per esempio, a proposito di questo celebre linciaggio degli italiani a New Orleans perché Stella non cita il film-documentario Pane Amaro dell’italo-americano Gianfranco Norelli che per realizzarlo fece ricerche per 10 anni . In Pane Amaro si mostra non solo l’eccidio di New Orleans, ma anche il fatto che dopo i neri gli italiani sono stati i più numerosi fra le vittime del Klu Klux Klan. Inoltre, secondo il documentario di Olla il capo della polizia pare fosse stato assassinato per un regolamento di conti con la criminalità di cui era complice. E ancora, i casi di razzismo e linciaggio di italiani in diversi paesi di immigrazione sono stati molteplici (fra altri quello di Aigues Mortes in Francia nel 1893). Infine Stella non dice nulla su quanto scrissero Lombroso e i suoi discepoli a proposito dei meridionali (che cominciavano sotto il 45° parallelo cioè sotto il Po): la “razza maledetta” – che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il Mezzogiorno d’Italia, ch’è tanto affine per la sua criminalità, per le origini e per i suoi caratteri antropologici alla prima – dovrebbe essere ugualmente trattata col ferro e col fuoco e dannata alla morte co-me le razze inferiori dell’Africa, dell’Australia ecc. [citato da VITO TETI in La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale (1993) manifestolibri].Insomma il razzismo assassino è sempre stato tipico dei Paesi di immigrazione e istigato fra la popolazione autoctona a sostegno dell’inferiorizzazione degli immigrati. Negli Stati Uniti come altrove si volevano gli italiani solo come neo-schiavi (in alcuni casi erano pagati meno degli stessi neri). E come si dice alla fine del film Pane Amaro, la storia si ripete: oggi negli Usa la razzializzazione colpisce ancora i neri ma anche gli ispanici, così come in Italia nei feudi leghisti e non solo colpisce gli immigrati a cui si vuole negare ogni diritto (vedi Mobilità umane, 2008). 

Vendetta, libro di Richard Gambino sugli italiani linciati a New Orleans.  Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 10 aprile 2019 Il libro “Vendetta” del docente americano Richard Gambino che ricostruisce il linciaggio del 14 marzo 1891 a New Orleans, dove la prigione della contea fu presa d’assalto da migliaia di “bravi cittadini” decisi a uccidere 11 italiani, compreso un disabile mentale di nome Emmanuele Polizzi, che erano stati assolti al processo per l’omicidio di un poliziotto, David Hennessy, racconta dettagli agghiaccianti sulla cieca ferocia degli assassini.Gli organizzatori del linciaggio “fecero disporre in fila alcuni dei cadaveri in una vasta stanza, per consentire alla gente di sfilarvi davanti. Migliaia di individui, tra i quali si stimò ci fossero circa 2500 fra donne e bambini, continuarono ad affluire per cinque ore. (…) Alcune delle donne inzupparono i propri fazzoletti di pizzo nel sangue dei morti per ricordo”.

Quanto odio occorre accumulare per arrivare a tanto? Quanto? Il libro “Vendetta” del docente americano Richard Gambino che ricostruisce il linciaggio del 14 marzo 1891 a New Orleans, dove la prigione della contea fu presa d’assalto da migliaia di “bravi cittadini” decisi a uccidere 11 italiani, compreso un disabile mentale di nome Emmanuele Polizzi, che erano stati assolti al processo per l’omicidio di un poliziotto, David Hennessy, racconta dettagli agghiaccianti sulla cieca ferocia degli assassini. Ed è una consolazione sapere che il sindaco della città della Louisiana, come scriveva giorni fa il nostro Paolo Di Stefano, chiederà scusa giovedì alla comunità italiana per quell’eccidio che il “Republic” di St. Louis bollò subito come razzista spiegando che i nostri erano stati linciati “in forza dell’unica prova disponibile, quella di essere dagoes”. Uno dei nomignoli sprezzanti con cui erano definiti.

Ma come fu gonfiata, giorno dopo giorno, quella bolla di odio contro i nostri nonni? Dice tutto una vignetta pubblicata dalla rivista “The Mascot” edita a New Orleans il 7 settembre 1883. Sotto il titolo “Regarding the italian population” (a proposito della popolazione italiana) c’erano cinque vignette con le relative didascalie. La prima mostrava immigrati italiani che bivaccavano in mezzo alla strada: “Un fastidio per i pedoni”.

La seconda italiani accatastati l’uno sull’altro: “Gli appartamenti in cui dormono”. La terza italiani che si accapigliavano a coltellate: “Un piacevole passatempo pomeridiano”. La quarta italiani ammassati dentro una gabbia calata con una carrucola in mare: “Come sbarazzarsi di loro”. La quinta italiani rabbiosi portati via dal carro dell’accalappiacani: “Come arrestarli”.

Così vedevano i nostri immigrati in America, allora. Lo stesso il sindaco di New Orleans, Joseph Shakespeare, dopo l’omicidio del poliziotto, sfogò i suoi peggiori pregiudizi accusando i siciliani d’essere gli “individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistano tra noi”. Brutta storia il razzismo. Peccato che molti se ne accorgano solo quando lo subiscono loro…

NOTA DELLA BOTTEGA

Vale segnalare che sul linciaggio di New Orleans, il quotidiano il manifesto ha pubblicato (il 12 aprile) un’aggiornata ricostruzione di Giuseppe Galzerano; nel sommario – nel testo no – c’è un errore: si parla del 14 aprile 1891 invece che del 14 marzo. Le immagini sono riprese dalla rete.

Il Nord Italia e la scuola: Quando l’invidia la fa da padrona.

Prove Invalsi – Ocse ed Esame di Maturità con lode: c’è chi fa, volutamente, confusione per instillare, ancora una volta, malsane stille di razzismo. Si fa confondere l’oggettivo con il soggettivo.

Quando il nord vuol sempre primeggiare e quando i dati vengono analizzati dalle opinioni risibili e partigiane degli opinionisti settentrionali.

Inchiesta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, alla luce dei risultati scolastici degli studenti italiani diffusi l’11 agosto 2016 dal ministero dell'Istruzione, solleva il problema delle modalità di valutazione degli studenti nelle scuole italiane, scrive “L’Ansa" il 12 agosto 2016. «E' evidente che c'è qualcosa che non funziona nella scuola italiana e nei suoi sistemi di valutazione - accusa - se i ragazzi del Nordest, in testa alle classifiche Ocse e Invalsi per preparazione, poi risultano all'ottavo posto nelle statistiche dei "cento e lode" alla maturità». Da qui l'appello al ministro: «convochi al più presto una commissione ministeriale di esperti, riattivi sistemi di verifica su campioni omogenei di scuole e di studenti». E' un leghista e per tale va trattato.

Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi (Bertrand Russell)

L’ignorante parla a vanvera. L’intelligente parla poco. ‘O fesso parla sempre (Totò)

Maturità: 100 e lode al Sud, governatori del Nord in rivolta, scrive Tiziana De Giorgio nel suo articolo pubblicato il 13 agosto “La Repubblica”. Exploit di diplomi col massimo dei voti in Puglia e Campania, che da sole superano Lombardia, Veneto e Piemonte messe insieme. Ma i risultati di rilevazioni nazionali come l’Invalsi vedono gli studenti del Nord di gran lunga più bravi. Si riaccende così il dibattito sulle divergenze nei parametri di valutazione. Solo Toti si smarca: “Complimenti ai ragazzi di un Sud che vuole ripartire da merito e impegno”.

In Veneto è stata bollata come “un’emergenza”. Con la Regione guidata dalla Lega che parla di giovani del Nord-Est ingiustamente penalizzati. E che lancia un appello al ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini: si invocano controlli a campione sugli alunni, ispezioni a sorpresa negli istituti di tutta Italia, commissioni ministeriali formate da esperti che possano in qualche modo garantire uniformità, quando vengono assegnanti i voti in classe. In Piemonte, è l’assessore all’Istruzione del Pd, Gianna Pentenero, a chiedere un cambio di rotta: “Non ne faccio una questione Nord e Sud – precisa -, ma non si può non ammettere che c’è una divergenza evidente tra i parametri di valutazione”. I risultati della maturità pubblicati nei giorni scorsi dal ministero – che mostrano un profondo squilibrio fra le regioni del Nord e quelle del Sud nella distribuzione dei voti più alti – entrano nel dibattito politico. E sono in tanti, dal Piemonte all’Emilia Romagna, dal Veneto alla Lombardia, a chiedere in maniera trasversale una riflessione. “Servirebbe, per esempio, che i test Invalsi diventassero un elemento comune da cui partire per rivedere i criteri di valutazione su base comune – prosegue Pentenero – così da non svantaggiare gli studenti che devono far valere quei voti per l’accesso nelle università”. Perché è questo uno degli aspetti che ha riacceso il grande dibattito sulla valutazione. E sull’Italia a diverse velocità in tema di scuola: da un lato, l’exploit di diplomi da 100 e lode in regioni come Puglia e Campania, che da sole superano quelli di Lombardia, Veneto e Piemonte messe insieme. Dall’altro i risultati di rilevazioni nazionali come l’Invalsi, sugli studenti di seconda superiore, che capovolgono la piramide e vedono gli studenti del Nord di gran lunga più bravi rispetto a quelli del Sud. In Emilia Romagna, l’assessore alla Scuola, Patrizio Bianchi, parla di un esame di maturità “poco affidabile” rispetto a meccanismi di valutazione più standardizzati come l’Ocse. E invita tutti a non prendere il punteggio dell’esame finale come metro di valutazione del livello delle strutture scolastiche o della preparazione degli studenti. “Questi dati non sono certo una novità – commenta invece il governatore della Lombardia, Roberto Maroni – ma sorprendono sempre. E rispetto a quelli rilasciati dall’Invalsi stridono”. Fuori dal coro, invece, il forzista Giovanni Toti, presidente della Liguria: “È sempre difficile fare questo genere di classifiche – spiega – perché cambiano le sensibilità e i contesti da regione a regione”. Quindi, sui voti dei neodiplomati, preferisce guardare il bicchiere mezzo pieno: “Faccio i complimenti ai ragazzi del Sud. Spero siano il simbolo di un Sud che ha voglia di ripartire sul merito e l’impegno”.

L'invidia è un moto dell’anima tanto velenoso quanto inconfessabile: è la stretta che si prova quando si esce perdenti da un confronto sociale. L’invidia è un meccanismo che mettiamo in atto quando ci sentiamo sminuiti dal confronto con qualcuno, con quanto ha, con quanto è riuscito a fare. Diciamo che è un tentativo alquanto maldestro di recuperare la fiducia, la stima in noi stessi svalutando l’altro. Si tratta quindi di un processo: c’è il confronto, l’impressione devastante di impoverimento, di impotenza e poi la reazione aggressiva.

Essere un’eccellenza appaga mente, cuore e portafoglio. Ma senza esagerare, scrive TGCom 24. Perché se da un lato sono tante le università che, per esempio, prevedono alcune agevolazioni per chi si diploma con 100 e lode, dall’altro nel corso degli anni il premio previsto per gli stessi dal Ministero dell’Istruzione ha subito sforbiciate evidenti. Troppe lodi? Dati alla mano non si direbbe, anche se la polemica sulla generosità delle commissioni al Sud si ripete costantemente.

Il Corriere anche quest'anno rilancia la polemica sui "diplomifici", sostenendo che le scuole del sud Italia sgancino più facilmente votoni agli studenti, con la conseguenza che i maturandi meridionali ad aver preso 100 sono stati il doppio di quelli del Nord. Verità o bugia?

Gli opinionisti “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto equivalente a “Terrone” da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla solita tiritera: ogni qualvolta che il meridione d'Italia eccelle, lì c'è la truffa.

"Il Sud trabocca di 100 e lode ma i dati internazionali dipingono un panorama del tutto diverso: che i prof meridionali siano di manica più larga?", asserisce Gian Antonio Stella, opinionista del nordico “Il Corriere della Sera”. Lui, il buon veneto Gian Antonio Stella, spiega che: «Allora, come la mettiamo? Come possono i monitoraggi nazionali e internazionali sui ragazzi fino a quindici anni segnalare nel Mezzogiorno una scuola in grave affanno e i voti alla maturità una scuola ricca di spropositate eccellenze? Assurdo. Un caso per tutti: la Calabria, ultima nei test Invalsi, prima per fuoriclasse. Sinceramente: è possibile un ribaltamento del genere? O è più probabile la tesi che i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po’ più larga? Un punto, comunque, appare fuori discussione. Non solo esistono due Italie e due scuole italiane, due universi di studenti e due di professori. Ma il divario, anziché ridursi, si va sempre più allargando. E ciò meriterebbe da parte di tutti, non solo del governo, un po’ di allarmata attenzione in più.»

Come si fa da un dato (i monitoraggi nazionali ed internazionali sui ragazzi fino a quindici anni) estrapolare l’assunto del broglio riguardanti i voti della maturità data ai ragazzi di tre o quattro anni più vecchi? E cosa ancora più grave, in considerazione della stima che si ha per un bravo giornalista, come si può mettere sullo stesso piano il dato oggettivo dei monitoraggi nazionali ed internazionali riguardanti il totale del corpo studenti di una data zona rispetto al voto soggettivo di eccellenza profuso in capo al singolo studente meritevole? E se fossero stati premiati apposta per il fatto che si siano elevati rispetto alla massa di mediocrità?

«I più danneggiati da questa fiera diplomistica sono i bravi studenti di quelle regioni troppo generose messi alla pari di loro compagni, bravini forse, ma promossi generali sul campo con rito sommario - rincara Mario Margiocco nato a Genova nel 1945, giornalista dal ’71.- Un preside di Brindisi sembra non rendersene conto e, come altri in passato, taglia corto: “I nostri studenti sono davvero bravi”. Anzi bravissimi, eccezionali. Tutti 100 e lode strameritati? Troppa grazia.». Chiosa in chiusura con evidente sarcasmo il ligure.

Cari signori dal giudizio (razzista) facile. Vi rammento una cosa.

Io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come? 

A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.

A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità statale (non privata) assieme ai giovincelli.

A Milano mi iscrivo all’Università Statale alla Facoltà di Giurisprudenza. Da quelle parti son convinti che al Sud Italia i diplomi si comprano. E nel mio caso appariva a loro ancora più evidente. Bene!

A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza, dopo sosta forzata per attendere il termine legale previsto per gli studenti ordinari.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).

Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense con compiti corretti in altra sede. Così come volle il leghista Roberto Castelli. Perché anche lui convinto degli esami farsa al sud.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università, o dalle sedi di esame di abilitazione o nei concorsi pubblici ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare. Una cultura socio mafiosa agevolata anche da quel tipo di stampa omologata e partigiana che guarda sempre la pagliuzza e mai la trave. Che guarda il dito che indica la luna e non guarda mai la luna.

Alla fine si è sfigati comunque e sempre, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Essere del nord o del sud di questa Italia. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate, e forse, anche perché in Italia nessuno può dirsi immacolato. Per una volta, però, cari giornalisti abilitati (ergo: omologati) guardiamo la luna e non sto cazzo di dito.

L’ITALIA DEGLI INVIDIOSI. (1901 - Luigi Capuana, Il Marchese di Roccaverdina, Vallecchi, Firenze, 1972) -  "E se c'era qualcuno che osava di fargli osservare che si era fatto sempre così, da Adamo in poi e che era meglio continuare a fare così, il marchese alzava la voce, lo investiva: - Per questo siete sempre miserabili! per questo la terra non frutta più! Avete paura di rompervi le braccia zappando a fondo il terreno? Gli fate un po' il solletico a fior di pelle, e poi pretendete che i raccolti corrispondano! Eh, sì! Corrispondono al poco lavoro. E sarà ancora peggio!" (p. 45) -  "Noi abbiamo quel che ci meritiamo. Non ci curiamo di associarci, di riunire le nostre forze. Io vorrei mettermi avanti, ma mi sento cascare le braccia! Diffidiamo l'uno dell'altro! Non vogliamo scomodarci per affrontare le difficoltà, nel correre i pericoli di una speculazione. Siamo tanti bambini che attendono di essere imboccati col cucchiaino... Vogliamo la pappa bell'e pronta!" (pp. 86-87)

(1913 - Grazia Deledda, Canne al vento, Mondadori, Milano, 1979) -  "Che posso fare, che posso io? Tu credi che siamo noi a fare la sorte? ... E tu, sei stato tu, a fare la sorte?" "Vero è! Non possiamo fare la sorte - ammise Efix." (p. 195) -  "Sì, - egli disse allora, - siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento." "Sì, va bene: ma perché questa sorte?" "E il vento, perché? Dio solo lo sa." (p. 240) 

(1915 - Norman Douglas, Vecchia Calabria, Giunti Martello, Firenze, 1978) -  "... qual è il più evidente vizio originario? L'invidia, senza il minimo dubbio." "D'invidia gli uomini patiscono e muoiono, per invidia si uccidono l'un l'altro. Produrre una razza più placida (con l'aggettivo 'placida' io intendo solida e riservata), diluire le invidie e le azioni da esse ispirate, è, in fin dei conti, un problema di nutrizione. Sarebbe interessante scoprire di quanto cupo arrovellarsi e di quanti gesti vendicativi è responsabile quel ditale di caffè nero mattutino." (p. 191)

(1930 - Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte, Garzanti, Milano, 1981) -  "Glielo aveva detto tante volte di non menar vanto del figlio e di non gloriarsi dell'avvenire, perché l'invidia ha gli occhi e la fortuna è cieca. Signore Iddio, com'è fatta la gente! che non può vedere un po' di bene a nessuno, e anche se non hanno bisogno di nulla, invidiano il pane che si mangia e le speranze che vengono su." (pp. 68-69)

(1959 - Morris L. West, L'avvocato del diavolo, Mondadori, Milano, 1975) -  "Eccolo qui, il maledetto guaio di questo paese! La vedi bene anche tu la ragione per cui siamo di cinquant'anni più indietro che tutto il resto d'Europa. Non vogliamo organizzarci, non vogliamo neanche sentire la parola disciplina. Non vogliamo collaborare. Ma è impossibile costruire un mondo migliore con una zuppiera piena di pasta e un secchio d'acqua santa." (p. 111)

(1975 - Giuseppe Fava, Gente di rispetto, Bompiani, Milano, 1975) -  "Elena, hai mai pensato... quante volte, dinanzi alle cose che accadono, una sciagura, una malattia... l'essere umano ha un moto di disperazione e si chiede perché... la ragione delle cose voglio dire... nascere, poi soffrire o morire? Solo un attimo di ribellione, perché subito ognuno si rassegna all'idea che è Dio a muovere le cose e deve avere il suo segreto disegno. Così l'essere umano sopporta il suo destino; ma che altro può fare? Pensa che tutto deve necessariamente accadere, anche il dolore e la morte, e di questo fa la sua consolazione..." "E questo cosa c'entra con la miseria? Che c'entra con l'ingiustizia? Sono soltanto due cose umane: perché i poveri dovrebbero subirle?" "Perché quasi sempre il povero pensa che tutte le cose umane siano come la morte: la miseria, l'ignoranza fanno parte di questa fatalità. Altrimenti..." "Altrimenti cosa?" "Altrimenti da migliaia di anni gli uomini avrebbero già dovuto uccidere e sgozzare i potenti e i fortunati ... Di questo paese non ci dovrebbe essere più pietra su pietra." (pp. 163-164)

ITALIA, IL PAESE DOVE L’INVIDIA TRIONFA? Siamo davvero affetti da quella malattia chiamata invidia? Scrive “Plindo”. Perchè la tendenza degli italiani è quella di criticare sempre in negativo l’operato degli altri? Perchè spesso ci limitiamo a guardare solo con estrema superficialità le cose anziché approfondire e cercare di capire? In Italia davvero trionfa l’invidia? Oppure è diffusa in egual modo in tutto il mondo? La difficoltà delle persone ad andare oltre e cercare di capire qualcosa di diverso, è davvero grande. I più purtroppo si soffermano sull’aspetto più esposto dell’argomento senza scendere in profondità, arruolandosi il diritto di criticare e dare suggerimenti senza che nessuno li abbia richiesti. Tutto questo viene spesso si confonde con la libertà di pensiero. La libertà di pensiero non ha niente a che vedere l’invidia. Ed è giustissimo che ognuno di noi abbia la libertà di esprimere ciò che pensa come meglio crede, tuttavia è allo stesso tempo consigliabile informarsi, approfondire e cercare di capire altrimenti si corre il rischio che la nostra libertà di pensiero sia fraintesa per invidia. L’invidia nasce da un confronto tra noi e gli altri ed è sgradevole sia per chi la prova in prima persona che per chi la riceve. L’invidioso è una persona che desidera possedere ciò che altri hanno e che ritiene di non poter avere. Ci sono diverse tipologie di invidia. La prima è quella rabbiosa, la più pericolosa. Spesso chi ne è affetto non prova nemmeno a chiedersi se ha capito bene. Critica impulsivamente a spada tratta qualsiasi cosa, con quella rabbia (e talvolta ignoranza) tipica di colui che ha disperatamente cercato di farcela nella vita senza mai riuscirci realmente. La seconda tipologia di invidia è quella passiva, altrettanto pericolosa. Ne sono affetti quelli che provano un sentimento di invidia forte che però lo dimostrano con l’indifferenza più totale; quest’ultimi non muovono alcuna critica, semplicemente evitano di cooperare per non portare alcun tipo di vantaggio alla persona oggetto di invidia. Il terzo e ultimo tipo di invidia è quella che affligge coloro che inizialmente, per esempio, fanno concretamente parte di un determinato progetto, dopodichè, allontanandosi da questo per le più svariate vicissitudini, lo criticano in maniera feroce, tuttavia, in incognito. Pericolosissimi. E voi in quale tipologia di invidia vi ritrovate?

Se l’eguaglianza trasuda invidia. L’Italia paralizzata e la lezione americana sulla mobilità sociale, scrive Francesco Forte il 6 Maggio 2015 su “Il Foglio”. Wall Street Journal e Nbc News Poll hanno pubblicato un sondaggio dal quale risulta che la preoccupazione più grande per la maggioranza degli americani intervistati non è la diseguaglianza di reddito in sé, ma la mancanza di mobilità sociale, ossia chance uguali per tutti per andare avanti economicamente. Questa preferenza è molto più marcata tra i repubblicani che tra i filodemocratici: ma comunque solo il 37 per cento di questi ultimi si preoccupa della diseguaglianza più che della mobilità. Fra i filorepubblicani quelli che hanno a cuore la riduzione della diseguaglianza più della mobilità scendono al 15 per cento. Ma il dato che più colpisce è che solo il 34 per cento di coloro che stanno in classi di reddito inferiore ai 30 mila dollari (25 mila euro) annui assegna alla diseguaglianza un’importanza maggiore della mobilità. Le donne che si preoccupano più della diseguaglianza che delle opportunità di modificarla sono solo il 25 per cento contro il 32 degli uomini. Temo che i risultati in Italia siano diversi, data la facilità con cui incontrano più consenso quelli che sostengono la patrimoniale, il reddito minimo garantito, il posto fisso, le imposte progressive, rispetto a quelli che vorrebbero l’ascensore sociale più a portata di mano e la meritocrazia. Forse ciò dipende dal fatto che sino agli anni 50 quasi metà della nostra popolazione viveva di agricoltura e che la maggioranza agognava ad avere un pezzo di terra da coltivare, nel proprio paese, con la casa sopra. Erano stanziali, abitudinari. Invece gli americani avevano il carro dei pionieri, erano mobili; allevavano il bestiame, più che coltivare orti e poderi con la coltura intensiva. Ma c’è anche il fatto che da noi la sinistra politica dall’Ottocento in poi si è imbevuta della lotta di classe, della concezione marxista, per cui il ricco è generalmente uno sfruttatore del lavoro altrui. Va invidiato, tartassato o espropriato, non ammirato e imitato. Non credo che ciò abbia a che fare con l’etica cattolica, in confronto alla protestante, secondo la vulgata di Max Weber. Infatti nell’Italia del Rinascimento la ricchezza era oggetto di ammirazione, assieme alla bellezza. E ciò non solo nei vestiti, nelle carrozze e nelle case dei signori, ma anche nelle cattedrali e nelle vesti dei prelati. Del resto, c’è stata un’epoca, negli anni 80 dello scorso secolo, in cui è sembrato che, insieme al trionfo della televisione, ci fosse anche quello della mobilità sociale, con la riduzione delle diseguaglianze nelle opportunità e la dinamica della competizione al primo posto rispetto alla riduzione delle diseguaglianze nei redditi. Ora abbiamo i No Tav, i No Expo, i No all’abrogazione dell’articolo 18, i No al cambiamento di mansione, di sede, di incarico, di turnazione. La richiesta del reddito di cittadinanza, il bonus in rapporto inverso al reddito e non in proporzione alla produttività, la tutela dall’inflazione per le pensioni minime e in proporzione inversa all’aumento del loro livello, non in base ai contributi versati, e via elencando. A ciò consegue un tasso di crescita del paese che è solo dello 0,6 per cento del pil e un’elevata disoccupazione generale e giovanile. Tu l’as voulu, George Dandin.

Briatore: è l’Italia degli invidiosi. "Da questo Paese si deve fuggire". La scelta dell’imprenditore: "All’estero ammirano chi ce la fa", scrive Leo Turrini il 23 luglio 2016 su “Il Quotidiano.net”.

«Giù le mani da Bonolis! E comunque esiste soltanto una soluzione...».

Sarebbe a dire?

«Lasciarsi alle spalle l’Italia, diventata la patria dell’invidia sociale».

Flavio Briatore non capisce più il Paese delle origini. Lui, sette volte campione del mondo di Formula Uno con Michael Schumacher e Fernando Alonso, non si sottrae al ruolo di simbolo. Di una opulenza mai nascosta, per capirci.

«Io ormai ho rinunciato a comprendere i miei connazionali – sbotta il manager piemontese – Non vi capisco più».

Cosa abbiamo fatto di male?

«Vede, io non voglio scomodare Trump, il discorso nemmeno riguarda la politica. Qui parliamo di una cultura negativa impossibile da estirpare. C’è una differenza enorme tra gli italiani e gli americani, gli inglesi, eccetera».

Quale differenza?

«All’estero ammirano chi ce la fa, chi conquista il successo. Chi diventa ricco per meriti suoi si trasforma in un simbolo positivo».

Da noi invece...

«Ma prenda proprio il caso di Bonolis! A parte il fatto che immagino abbia preso un aereo privato per ragioni di famiglia, mica ha sperperato soldi pubblici. Uno sarà libero di usare il suo denaro come meglio crede o no?».

Beh, non fa una piega.

«Le dirò di più. Basta con questi moralismi da strapazzo. Bonolis è un grande professionista della televisione, uno showman che muove un cospicuo giro d’affari. Ogni sua produzione genera centinaia di posti di lavoro! Di cosa stiamo parlando, mi scusi?».

Forse di niente.

«Eh, bisognerebbe spiegare ai ragazzi che la ricchezza non va detestata. In Italia invece l’invidia sociale si trasforma addirittura in odio. Dovremmo augurarci di stare tutti meglio, ma prevale l’idea assurda che tutti dovremmo stare peggio».

Il trionfo del pauperismo.

«E infatti non se ne può più. Quando ho aperto il Billionaire in Sardegna, mi descrivevano come un nemico del popolo. Ma se spendo soldi miei e rispetto le leggi, di cosa dovrei sentirmi colpevole? Di avercela fatta?».

«Anche i ricchi piangano», recitava uno sfortunato slogan elettorale.

«Appunto. Non sono ottimista perché sradicare un sentimento così profondo non è impresa facile. Infatti io ho preso una decisione ormai venti anni fa e non mi sono mai pentito».

È andato a vivere all’estero.

«Sicuro. Potendo, dall’Italia bisogna andarsene».

Magari con l’aereo di Bonolis. Ma Briatore non tornerebbe nemmeno se lo chiamasse la Ferrari?

«Per carità! Io la Formula Uno non la seguo più da tempo. E comunque anche la Ferrari, per tornare a vincere, deve andare all’estero».

Addirittura.

«O Marchionne apre una base tecnica in Inghilterra o le vittorie se le scorda, si fidi».

L’invidia in Italia …il piccolo decalogo dell’invidioso cronico, scrive Beppe Servegnini (da Il Corriere della Sera, giovedì 16 febbraio 2012, pag. 45). Come attaccare chiunque abbia successo in un Paese di simpatici demagoghi. Una settimana senza Internet, terminata ieri a mezza­notte (questa rubrica è stata dettata). Una quaresima 2.0 che mi ha evitato di commentare due sconcertan­ti esibizioni dell’Intere una di Adriano Celentano: le prime, diciamo, non me le aspettavo. La quarta figuraccia – candidarci per un’Olimpiade che non possiamo permet­terci- è. stata evitata. L’Italia ha bisogno di manutenzione, non di un’altra (costosa) inaugurazione. Un altro tema che avrei volu­to discutere in settimana è l’assalto scomposto a Silvia Deaglio, giovane professoressa associata dì medicina presso l’Università di Torino, figlia dell’economista Mario Deaglio e del ministro El­sa Fornero. Non la conosco di persona; mentre, se non ricordo male, ho incontrato due volte il papà e una volta la mamma (che mi ha salutato con una domanda tremenda). Ma ho letto l’appun­to di Tito Boeri per lavoce.info - arrivato per fax, sempre a cau­sa del digiuno digitale. Leggo: Silvia Deaglio è quattro volte so­pra la media per l’indice H (che misura il numero di lavori scien­tifici in rapporto al numero di citazioni ricevute). In queste valu­tazioni internazionali – credetemi – mamma e papà non conta­no. Tutto lascia pensare che la connazionale sia una giovane don­na in gamba. L’astio delle reazioni, tuttavia, mi ha fatto pensare, Affinché sia più facile, in questo Paese di sim­patici demagoghi, attaccare indi­scriminatamente chi ha successo, ho pensato di stilare il piccolo de­calogo dell’invidioso cronico.

1. Chi ha successo ha certamen­te inlbrogIMo.Altr.ib1ehti avresti avuto successo pure tu. O no?

2. In Italia nulla è metodico, sal­vo il sospetto.

3. A pensar male si fa peccato, ma si indovina. Senza dimentica­re che per il peccato, poi, c’è l’assoluzione.

4· Chiunque ottenga apprezzamento pubblico, dimostra che il pubblico non capisce niente.

5· La mediocrità è un esempio di democrazia applicata. lI merito, una forma di arroganza.

6. Se esiste il minimo comune denominatore, scusate, perché insistere nel dare il massimo?

7· Nella conventicola dell’università italiana, è possibile solo il modello Frati (il rettore della Sapienza dov’è accademicamente sistemata tutta la sua famiglia). II resto è ipocrisia applicata.

8. I genitori di successo possono – anzi, devono – produrre soltanto figli infelici e frustrati. In caso contrario, l’onere della prova spetta a questi ultimi: dimostrate di non avere imbrogliato, marrani!

9· Bisogna diffidare del plauso internazionale. Come si per­mettono americani, inglesi e tedeschi di farci i complimenti? Co­sa contano le università di Columbia e Yale, che oltretutto si chia­mano come una casa cinematografica e una serratura?

1o, Quando si tratta di concorsi, incarichi, titoli e promozioni l’importante è fare di tutta l’erba un fascio. E se qualcuno vi accusa per questo, urlategli in faccia: «Fascista sarà lei!”.

Invidiosi o gufi, quando la politica non tollera i diversi. L’eterna abitudine a isolare chi ha opinioni diverse, scrive Mattia Feltri il 24/11/2014 su “La Stampa”. C’è una parte di sinistra, dice il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che «sembra assecondare l’Italia invidiosa». Dunque chi è perplesso o apertamente contrario alle politiche di governo non è che la pensi in altro modo, semplicemente è invidioso: termine contenuto nel vocabolario renziano fra gufi e rosiconi, come il premier è abituato a definire gli avversari. Se è un peccato, lo è doppio. Primo perché non è un linguaggio nuovo: erano «invidiosi», secondo Silvio Berlusconi, quelli che lo attaccavano nei giorni tumultuosi delle olgettine; erano «invidiosi», secondo Roberto Formigoni, quelli che prevedevano sconfitte del centrodestra in Lombardia; erano «invidiosi», secondo l’allora leader dei giovani di Forza Italia, Simone Baldelli, i coetanei di sinistra che deridevano una loro iniziativa (e da cui erano chiamavano «piazzisti», tanto per sottolineare la profondità dell’analisi). Sui gufi c’è da star qui mezza giornata. Erano «gufi» e pure «cornacchie» appollaiati sulla Quercia, secondo il fondatore di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, quelli che si aspettavano la crisi del primo governo Berlusconi, 1994; erano «gufi» (e di nuovo «cornacchie»), sempre secondo Fini, quelli che nel 2004 davano in discesa il suo partito; erano «gufi», secondo Dario Franceschini, quelli che nel 2009 vedevano il Pd in difficoltà nel posizionamento europeo (coi socialisti o coi popolari?); erano «gufi» e «veterocomunisti», secondo Berlusconi, i contendenti di centrosinistra. I gufi da queste parti svolazzano da molto prima che li avvistasse Renzi, e ora che li ha avvistati parlano tutti di «gufi»: Beatrice Lorenzin, Nunzia De Girolamo, Luigi De Magistris. È un peccato - secondo motivo - perché i rottamatori non hanno rottamato un metodo fastidioso, il metodo di attribuire a chi è in disaccordo secondi fini inconfessabili perché meschini o loschi. Il sostantivo più usato nel ventennio della Seconda repubblica è «malafede». Sono stati dichiarati in malafede Francesco Rutelli da Francesco Storace, l’intero Pds da Maurizio Gasparri, l’intera An da Luigi Manconi, l’intero centrodestra da Luciano Violante, Massimo D’Alema da Pier Ferdinando Casini, Walter Veltroni da Adolfo Urso, Umberto Bossi da Barbara Pollastrini, Giulio Tremonti da Vincenzo Visco, l’intera Forza Italia da tutta la Margherita, l’intero Ulivo da Renato Schifani, Piero Fassino da Giorgio Lainati, i fuoriusciti del M5S dai non fuoriusciti del M5S...Potremmo andare avanti fino all’ultima pagina di questo giornale, ma tocca segnalare che gufi, rosiconi, invidiosi e disonesti sono tutti figli dei coglioni - linguisticamente e psicologicamente parlando - con cui Berlusconi tratteggiò gli elettori di sinistra nella campagna elettorale del 2006. Se qualcuno non è convinto dalle tue ricette, è un coglione. E siccome la vita è un andirivieni da tergicristallo, a loro volta gli elettori di centrodestra erano irrimediabilmente «coglioni» (o, con le attenuanti, «fessi») secondo l’analisi di Dario Fo; Antonio Di Pietro, assecondando le sue attitudini, li iscrisse in un politico registro degli indagati in quanto «complici».  Un meraviglioso ribaltamento della logica spinge a escludere di essere un po’ tardo chi non capisce gli altri: sono gli altri a essere tardi. Ci abbiamo messo del nostro anche noi giornalisti, poiché negli anni si sono letti autorevoli commentatori parlare - per esempio - della «dabbenaggine» e della «complicità nella furbizia illegale» degli ostinati sostenitori di Forza Italia, che a sua volta - secondo esempio - prendeva i voti nella «zona grigia dell’illegalità fiscale» (per non parlare delle perpetue e reciproche accuse di servaggio fra star dei quotidiani). Gli evasori votano Berlusconi, in Sicilia chiunque vinca è perché lo ha votato la mafia, in Italia chiunque vada al governo è a ruota dei padroni e della finanza globale. Una così solida indisponibilità a prendere in considerazione le ragioni degli interlocutori non aveva bisogno dell’esplosivo sbarco sul pianeta della politica di Beppe Grillo (annunciato con un benaugurante vaffanculo). Lui ha riunito in una banda planetaria di farabutti, o in alternativa di imbecilli, chiunque non si inebri alle sue sentenze. A proposito, eccone una delle più rilassate: «Il vero gufo è Renzi».

Il secondo vizio capitale degli Italiani: l’invidia. Che si appunta più sui lontani che sui vicini, scrive Nico Valerio. “Essere stati onesti non ci è convenuto”, ragioneranno tra sé e sé i ministri italiani che una volta tanto hanno fatto gli americani dichiarando pubblicamente redditi, proprietà e perfino numero e modello di automobile posseduta. L’invidia generale, il secondo vizio capitale in Italia, dopo l’antipatia, si è appuntata su di loro. Ma è un falso bersaglio. E anche lo stesso tiro con l’arco in questo caso è uno sport sbagliato. E così, ancora una volta l’Italiano medio si rivela. I paesani, si sa (l'Italia è il classico Paese di provincia), sono invidiosi se un loro concittadino, ritenuto a torto o a ragione "uguale a loro", ha più successo o guadagna di più. Ma vista l’ipocrisia sociale del municipalismo e della meschina solidarietà di quartiere o borgo, di solito l’invidia si appunta meno sui vicini di casa, che un giorno potrebbero esserti utili, che sui personaggi lontani e inaccessibili. Come i governanti e i politici, appunto, ma anche gli attori, i presentatori della televisione, i calciatori e qualunque “personaggio pubblico”. Così anziché lodare l’autodenuncia all'anglosassone di redditi e proprietà da parte dei ministri del governo Monti, su internet e sui giornali i concittadini li stanno investendo di ironia, astio, critiche di ogni tipo. Eppure, sono sicuri questi invidiosi che davvero gli piacerebbe la vita che fanno (e hanno fatto, per arrivare a questo punto della loro carriera) quei ricchi ministri “tecnici” (finanzieri, economisti di grido, industriali o avvocatoni)? Conoscendo bene gli Italiani, rispondo di no. Gli Italiani, certo, vorrebbero la pappa già cotta, ma nessun sacrificio per ottenerla. Nessun italiano medio appena benestante resterebbe così a lungo con auto così vecchie come quelle denunciate dai ministri. Dunque è solo pura (in realtà non c’è nulla di più impuro dell’invidia) invidia sociale e personale. Impura, perché anziché impegnarsi a studiare o a fare comunque imprese geniali o cose creative in genere, cioè a misurarsi nella scala del merito individuale, gli Italiani invidiosi invidiano il risultato, fortuito o meno, di quelle altrui imprese: il successo economico. Ovvero, l’ultimo gradino. E’ come se uno scalatore invidiasse un altro soltanto per essere arrivato sul Monte Bianco, senza calcolare tutta la sua preparazione, magari ultradecennale, e comunque l’intera e difficoltosa salita. L’impiegato tipo, in particolare (categoria da cui solitamente vengono le critiche e le invidie maggiori), uomo o donna che sia, che spesso ha scelto o si è accontentato di questo lavoro proprio per la sua manifesta tranquillità, per il minimo potere decisionale e quindi per la quasi nulla responsabilità personale, non può invidiare chi da solo, rischiando e impegnando tutta la propria personalità, coi relativi alti rischi, persegue posizioni elevate in cui proprio le capacità personalissime di giudizio critico e decisionali sono gli elementi che procurano alti guadagni. Un grande errore, perciò, questo genere di invidia lavorativa. E poiché l’invidia ottunde la ragione anche dei pochi intelligenti, gli invidiosi non capiscono che l’autodenuncia dei ministri serve nei Paesi liberali a mettere in luce preventivamente eventuali interessi in conflitto, non a favorire invidie e moralismi da strapazzo. In un sistema liberale è lecito e perfino auspicabile che la gente guadagni e diventi ricca, se lo vuole e può, perché si presume, fino a prova contraria, che c’entri in qualche misura un particolare merito. Ecco perché le raccomandazioni o le cordate di “amici”, e i privilegi in genere sono o malvisti o addirittura puniti severamente. Come atti di “concorrenza sleale” o illecita. Benissimo, quindi, se un concittadino è diventato meritatamente ricco. A patto però che non solo paghi tutte le tasse, ma che abbia (come i liberali ricordano sempre alla borghesia) anche dei doveri, che insomma sia grato alla società per la possibilità insolita che ha avuto, e che quindi sia sempre attento ai bisogni delle classi meno abbienti e povere. E invece alcuni ministri “tecnici” ricchi, non provenendo dalla politica, e non avendo perciò quel minimo di frequentazione diretta dei ceti disagiati o poveri dell’elettorato, sono apparsi insensibili quando hanno scelto di tassare ancor più i ceti medi e bassi, anziché quelli alti (per es., operazioni di finanza, banche, assicurazioni) e di svendere inutili enti o proprietà di Stato. E sono apparsi odiosi quando hanno ironizzato sui “fannulloni” o sugli “impiegati pigri” o sugli “sfigati” che guadagnano 500 o 1000 euro al mese, come se tutti costoro fossero degli incapaci. In realtà la psicologia ci insegna che il vedersi sbarrata ogni strada elevata dal sistema della raccomandazione e delle “amicizie giuste”, spesso ereditate dalla famiglia, può far cadere in depressione e abulia individui anche di valore. Stiano attenti, perciò i neo-politici tecnici o i ministri ricchi a ostinarsi a frequentare solo i pari grado sociale, cioè i ricchi e potenti. Accade invece nei veri Paesi liberali che sono quelli anglosassoni, forse nello spirito antico del calvinismo e luteranesimo (religioni che a differenza del cattolicesimo non vogliono le sfacciate ostentazioni e ritengono successo e soldi una sorta di riconoscimento di Dio), i ricchi, politici o no, per farsi in qualche modo perdonare di aver ricevuto più di quanto hanno dato nella grande partita a poker che è la vita, non solo facciano beneficienza a larghe mani, non solo finanzino premi e fondazioni e istituti di ricerca scientifica, favoriti anche dall’esenzione fiscale, ma svolgano addirittura “lavori socialmente utili”. Come appunto, se ne sono capaci, quello quasi onorifico di aiutare a gestire la cosa pubblica. Ecco, dopo ricchissimi padroni delle ferriere che hanno depredato il Paese pensando egoisticamente solo ai propri interessi economici, fiscali e giudiziari, dopo ministrucoli senza arte né parte che privi di altre occupazioni (tanto meno studi, figuriamoci!) hanno preso la Politica come unica fonte delle loro ricchezze e dei loro privilegi, ci piace immaginare che i super-ricchi del governo Monti stiano svolgendo, pur con gli inevitabili errori e limiti (devono essere votati in Parlamento proprio dai Partiti che hanno combinato o sottovalutato dolosamente il disastro economico) una sorta di anno sabbatico a favore del Paese. E il fatto che qualcuno di loro abbia rinunciato almeno allo stipendio di ministro avvalora questa sensazione del tutto nuova, ma anche un po’ antica, che ci riporta ai tempi dell’800, quando fare politica era quasi un “servizio”, un “dovere civile”. E c’erano deputati ricchi che si impoverivano a causa della politica. “Ma perché i governanti devono per forza essere ricchi?” chiedono i cittadini comuni. E’ vero, ci sono stati parlamentari che al momento di entrare alla Camera o al Senato erano operai o disoccupati, e tuttora non pochi parlamentari italiani hanno come unico reddito lo stipendio. Ma, attenzione, questi sono proprio i famigerati “politici di professione”, quelli più malvisti dal pubblico. Ed anche l’avvocato che smette la professione per fare il deputato, alla lunga diventa un politico di professione. Però lo stipendio in Italia è tale da trasformare un povero in un benestante, e dopo un’intera legislatura, in un ricco. Per i governanti, poi, lo stipendio totale è ancora più alto, anche se di poco. E’ quindi impossibile che chi siede al Governo sia povero. Diversissimo, invece, il caso dei tanti dirigenti o managers di Stato (e anche privati) che dimostrano quotidianamente di non meritare affatto l’alto stipendio guadagnato, e ancor meno la pensione d’oro. In questo caso la critica popolare, pur manifestata con i colori sgradevoli dell’invidia, svolge un ruolo prezioso. Può aiutare a farli vergognare di se stessi.

L’odio figlio dell’Invidia.

Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 17 dicembre 2019. Portare rancore è un lavoro molto impegnativo, e la maggior parte delle volte non ne vale proprio la pena. Il rancore è un' emozione negativa causata da una situazione avversa che si è verificata, dalla quale ci si sente feriti, una condizione che non si è affrontata apertamente e che non si è risolta, la quale prolunga a tempo indeterminato il malessere alimentando sentimenti di dolore e rabbia rispetto ad un accadimento o verso una persona che si è comportata male. Il rancore è sempre preceduto dal risentimento, un carico emozionale anch' esso negativo che non permette di ristabilire l' equilibrio psicologico, perché il ricordo dell' ingiustizia subita o del danno provocato spingono a restituire il dolore, a progettare atti di vendetta, favorendo atteggiamenti di ostilità e di aggressività verso la persona responsabile della sofferenza e del danno inflitto. In realtà l' unica persona che soffre è la stessa che porta rancore, che prolunga la sua insoddisfazione senza risolvere il problema, ed anche se il tempo la allontana da quella situazione sgradevole vissuta e da colui/colei che l' ha provocata, chi custodisce il rancore si infligge sofferenza e conflitti interiori dai quali non tende a liberarsi La parola rancore deriva dal latino "rancore(m), derivato da "rancere", ossia essere rancido, acido o guasto, ed è usata da secoli per descrivere colui che prova astio, rabbia inespressa, profonda e persistente, covata talmente a lungo e così tenacemente da essere in grado di guastare o irrancidire l' animo umano. Questo sentimento di profonda avversione nasce solitamente a seguite di un torto subìto o un' offesa ricevuta, e si traduce spesso in un desiderio represso di rivalsa, che però non viene manifestata immediatamente nel momento del danno subìto, bensì tenuta nascosta e covata nell' animo, in modo silenzioso e logorante, al punto che tale subdola emozione non fa che essere dannosa per chi la nutre. Non riconducibile ad un fenomeno psichico meramente intraindividuale, il rancore è definito in psichiatria un' esperienza emotivamente disturbante e destabilizzante, provata, rivissuta e rielaborata di continuo nella mente, che presenta varie gradazioni di intensità, ma che provoca quasi sempre la dissonanza cognitiva, ovvero la mancata consapevolezza della grettezza associata al proprio atteggiamento o ai propri sentimenti negativi ed ostili. Spesso dietro il rancore si nasconde un profondo disagio che non si riesce a disciplinare, che può sfociare in una fobia in grado di minare anche i rapporti apparentemente più solidi, che in realtà solidi non sono mai stati, ed in definitiva il risentimento si basa sulla necessità di dire qualcosa che non si è mai stati in grado di esprimere, o almeno con l' intensità desiderata, per cui la persona è in un certo senso delusa e genera nella sua mente una serie di idee negative verso la persona oggetto del suo odio. Generalmente si tratta di personalità fragili e insicure, che tendono ad attribuire la propria inadeguatezza a dubbie ingiustizie subìte o percepite, a colpevolizzare gli altri sul mancato raggiungimento di traguardi od obiettivi, accumulando frustrazioni causa di profonda infelicità ed animosità. Con il passare del tempo questi pensieri diventano ossessivi e sempre più intensi, i quali possono causare molti problemi, dalla semplice ansia alle malattie psicosomatiche, fino a favorire vere e proprie malattie, via via più importanti, poiché a forza di portare sulle spalle un pesante fardello, oltre ai sentimenti negativi prevalenti, ci si nega la possibilità della benché minima serenità psicofisica. Inoltre dietro alla persona che prova rancore si nasconde quasi sempre il giudizio o la sensazione di essere migliore dell' altra, di quella che ha commesso l' errore, senza valutare di giudicare se stessi invece di vivere indossando i panni di giudice, e soprattutto ignorando che ognuno è diverso e che le persone cambiano, per cui è sbagliato restare troppo immersi nell' immagine che si ha di quel lui/lei da non rendersi conto che questa non corrisponde più alla realtà che ci si aspettava. Nella vita tutti prima o poi sperimentano molte cose che si considerano ingiuste, e comunque le si consideri è difficile trovare il lato positivo, ma in molti casi è meglio lasciar perdere piuttosto che farsi consumare dall' amarezza che condiziona il vivere quotidiano. Ed anche se esistesse la possibilità di vendetta, questa non sarà mai la soluzione al dolore accumulato, perché le conseguenze o i conflitti successivi alla restituzione del danno subìto difficilmente restituiscono serenità e soddisfazione, perché il dolore altrui non è in grado di placare il dolore di chi serba rancore in corpo, abituato a sopportare un peso innecessario al quale si è ormai abituati e con il quale si convive. Ma come si evita il rancore? La cosa più conveniente sarebbe risolvere la situazione quando questa si verifica, senza tentennamenti o timidezze, per esprimersi e farsi rispettare sul momento, evitando l' insorgere del risentimento e di tutto quello che questo sentimento negativo comporta. Dopodiché bisogna anche imparare a rispettare il comportamento e il pensiero delle altre persone, libere come tutti di esprimersi, e decidere di conseguenza che relazione mantenere con quell'individuo, poiché rispettare non significa condividere il suo modo di agire, evitando così di vivere una situazione simile un' altra volta. Provare rancore dunque non conviene, perché questo sentimento negativo e livoroso fa male alla salute, condiziona il carattere, rende animosi e astiosi, spegne il sorriso spontaneo, lo trasforma in un ghigno malefico che condiziona il comportamento, e le persone rancorose diventano agli occhi degli altri antipatiche, insopportabili e moleste, difficili da approcciare, o meglio da evitare, sempre avverse e tendenti a parlar male, a lamentarsi e recriminare, per cui si chiudono e vengono isolate, aggravando la loro situazione psicologica di profondo disagio. Il livore infatti, alla lunga diventa un tarlo che divora, che influenza negativamente se stessi e chi vive accanto, è distruttivo, sia dal punto di vista fisico che psicologico, e fa ammalare, quindi molto meglio un atto spontaneo di rabbia espressa sul momento, piuttosto che un sentimento talmente negativo da irrancidire e logorare la serenità della mente e dell' anima.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 19 dicembre 2019. L' amica Melania Rizzoli ha scritto un articolo (qui, martedì) per spiegare che il rancore accorcia la vita, che perlopiù non vale la pena, che spesso rappresenta la mancata soluzione di un malessere che conduce a squilibri emotivi, insomma: il rancore - riassumo - non serve a niente se non a inacidirsi, logorarsi, accumulare frustrazione, perdere serenità, guadagnare fobie, insomma è un inferno che è meglio evitare per non farsene consumare o diventare «animosi, astiosi, antipatici, distruttivi» più altre caratteristiche che in vita mia mi hanno attribuito spesso: anche perché io, in effetti, sono una persona che porta rancore. Proprio così: lo ammetto, io in genere non dimentico, e non voglio farlo, anzi, coltivo amorevolmente i miei rancori e giudico la vendetta un' arte irrinunciabile, nonché, entro certi limiti, un basamento della giustizia umana. Quindi non sono/sarei d' accordo con l' articolo che Melania Rizzoli ha scritto, per come mi era sembrato: ma spiegare il perché, anzitutto, è importante per non generalizzare - come ho fatto io per primo, leggendo - ed è importante anche per capire se usiamo lo stesso vocabolario quando parliamo di rancore, o livore, vendetta, rivalsa, ripicca, risentimento, animosità, astio e altri termini che attenzione, non sono sempre sinonimi: e non sempre si possono liquidare come agenti che fanno male alla salute. Naturalmente esiste un limite che divide ciascuno dal patologico, dalla nevrosi, dalla malattia: ma quello c' è per tutti i sentimenti umani, del resto è anche vero che molti grandi uomini erano dei grandi malati o dei grandi depressi. Invito a riflettere su una banalità, intanto: quasi tutti noi, quando andiamo al cinema, tendiamo a vedere film squisitamente intrisi di vendette e vendicatori, di rancori serbati per anni o per decenni, o, in caso di buonismo, di vendette della vita, che fatalmente tende far quadrare le cose: tutte storie spesso «fuori dalle regole», «con metodi poco ortodossi», con «uomini veri» rispetto a ominicchi, in ossequio a stilemi che non appartengono al nostro quotidiano ma che una parte di noi ammira. Poi, però, quando usciamo dal cinema, quei modelli che li ricacciamo nell' immaginario, e mai, per dire, li insegneremmo a dei bambini. Perché la violenza non serve. Vendicarsi è inutile. Farsi giustizia da soli è incivile. I duelli sono da regrediti. Gli uomini veri, figurati, sono una cazzata. E naturalmente, ecco: il rancore accorcia la vita. Sono solo dei film, ho capito: ma i film in teoria copiano la vita e comunque c' è lo stesso qualcosa che non quadra, o forse, secondo me, c' è una verità che sta nel mezzo, tanto per cambiare. Ed è questa: da una parte c' è la necessità di basare la società su regole civili, non si discute; ma, dall' altra, c' è una maggioranza che non serba rancore perché semplicemente non ne è capace. Gente che non si vendica perché non ne è in grado. Non si fa giustizia perché non è abbastanza forte, oppure ha paura. Soprattutto, gente che ha la memoria corta (che è il mezzo più comodo per tirare avanti) e attenzione, sto parlando di rivalse o vendette rigorosamente dentro le regole, non di pagliacciate di chi ha visto appunto troppi film. La gente, voglio dire, tende a dimenticare. La gente finge di aver perdonato. La gente non serba rancore: ma non tanto perché fa filosofia, ma perché serbare rancore senza abbruttirsi o ammalarsi, o comunque senza diventarne vittima, è un lavoro che necessita di, come dire, due palle così. Il rancore va gestito e bisogna poterselo permettere, altrimenti meglio lasciar perdere. Non sto parlando degli invidiosi sociali, degli haters, degli abbruttiti che serbano rancori (contro chiunque) pur di non incolpare se stessi dei propri insuccessi: quelli sono un' altra cosa, anche se è una cosa importante, perché gli invidiosi sociali stanno prendendo il potere. Io sto parlando di un' incapacità di portare rancore che coincide con la legittimazione di uno dei peggiori difetti italiani: il lasciar perdere perché «non serve», perché tutto s' aggiusta, perché il tempo lava le ferite, e che t' incazzi a fare, il passato è passato, ancora stai a pensarci, domani è un altro giorno. Un cazzo, dico io. Adagio per adagio, allora aggiungo che la vendetta va servita fredda: ma per conservarla serve una dispensa ampia, capiente, riempita anche della vita che intanto continua a marciare senza che la dignità personale e il passato siano d' intralcio, ma neppure abbiano date di scadenza. Senza la memoria, e il rancore che la tiene viva, non può neanche esserci un perdono (che è un' eccezione, non una regola) anche se il classico italiano, o forse l' uomo moderno, ha la prescrizione troppo facile: se t' incazzi per il passato, lui cerca di farti passare per scemo, cioè per rancoroso. Purtroppo abbiamo cattivi riferimenti, anche perché in politica, per esempio, il rancore non dovrebbe esistere, la politica non si fa col risentimento - quante volte me l' hanno detto - e io infatti non faccio politica, anche perché in politica il tradimento è tranquillamente ammesso, e io i traditori li impiccherei tutti. Nella vita reale dovrebbe essere diverso, ma ormai si tende a politicizzare anche i rapporti personali e a gestire i rapporti più con il cervello e meno con il cuore. E lo dico nonostante io abbia vissuto per anni a Roma, dove è bellissimo mischiarsi e dove è normalissimo abbracciare una persona che ha tentato di accoltellarti la sera prima. Insomma, io il rancore ce l' ho, e me lo tengo, mi tiene vivo, anche se non vivrò mai per esso: tuttavia lo reggo, ha il suo posto, mi consente di ricordare che cosa sono gli uomini in generale, che cosa sono alcuni uomini in particolare, e persino - riguardandomi allo specchio, ogni tanto - vagamente chi sono io.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2019. Caro direttore, io credo che questo continuo parlare di «odio» e queste «manifestazioni contro l' odio» possano sortire l' effetto di crearlo, e siano perciò pericolose. Credo pure che ad averlo inteso sia proprio Liliana Segre, che l' altra sera ha tentato di dirlo: «Siamo qui per parlare di amore e non di odio». E sarebbe bello: se non fosse che una manifestazione «contro» presuppone sempre qualcosa o qualcuno da fronteggiare, un convitato di pietra, ed è quello che si stanno inventando. Sotto processo non finisce solo il mancato unanimismo per certe commissioni che è lecito trovare superflue, oppure lo scrivere per giornali che simpatizzano per il centrodestra: ci finisce anche la verità, quando non utile. L' altra sera, a margine della manifestazione milanese «contro l' odio» (dove tutto è filato liscio, a quanto so) l' enciclopedia online wikipedia ha cancellato la notizia che i «200 attacchi social al giorno» contro Liliana Segre, a suo tempo denunciati da Repubblica, in realtà erano riferiti al corso dell' intero anno 2018, dunque «non ad un singolo giorno, e indirizzati non esclusivamente alla senatrice». Questo ha detto il rapporto ufficiale dell' Osservatorio sull' antisemitismo: ma, su wikipedia, qualcuno ha cancellato, e ha sostituito con la seguente dicitura: «La notizia è stata rilanciata da altre testate». Ecco: è proprio su internet, a proposito degli «anonimi leoni da tastiera», citati anche da Liliana Segre, che ho notato qualche nervosismo di troppo. Mi spiego. Durante una pausa della Prima della Scala, sabato sera, in un corridoio di accesso alla platea, sono uscito dal bagno e mi sono ritrovato Liliana Segre di spalle, davanti a me, che camminava molto piano (essendo anziana) con tre uomini di scorta che ostruivano il corridoio nel circondarla; dopo un po', nella situazione di stallo, sono riuscito a superarli uno alla volta, sfiorando la senatrice, dopodiché mi sono chiesto però a che cosa servisse la scorta, visto che eluderla sembrava così semplice. Questo ho scritto in rete. Un dubbio, si badi, tecnico, non una contestazione circa l'esistenza della scorta: vicenda su cui non ho informazioni sufficienti per esprimermi. Bene: non sto a dire gli insulti che ho ricevuto, ma anche, attenzione, i plausi. Brutta faccenda. Gli insulti, non sto a ripetermi, erano di gente rimbecillita che ormai vede odio dappertutto e che, oltre ad associarmi spregevolmente a Libero, non poteva concepire che Liliana Segre non fosse oggetto di adorazione messianica punto e basta; gli altri, i plaudenti, non erano leoni da tastiera o anonimi «haters», ma un misto tra i tradizionali «anticasta» (insospettiti perché Liliana Segre, sino a poco tempo fa, non l' avevano mai sentita nominare) e altri che reagivano più che altro all' odio degli anti-odio. Dunque, direttore, questo è il quadro che mi sono fatto: da una parte, una consueta minoranza di presunti «migliori» che ti mettono sulla lista dei sospettati solo perché non partecipi alle manifestazioni, o non santifichi a prescindere chicchessia, o, ancora, esprimi idee scorrette anche senza volerlo, come l' adorabile ottantenne Giorgio Carbone, che è stato lapidato per aver scritto che la Nilde Iotti della fiction è «grande in cucina e grande a letto, il massimo che in Emilia si chiede a una donna»; dall'altra, poi, eccoti un' altra minoranza che non sa bene chi sia o fosse Liliana Segre, salvo apprendere che dai 14 ai 15 anni fu segregata dai nazisti in un campo di concentramento, e che poi, senza una precisa professione, dopo decenni di anonimato, è passata al ruolo ufficiale di testimone e quindi a incassare premi, lauree, scranni da senatrice e canonizzazioni imposte da Repubblica, o altri fabbricatori di santi e di mostri. Queste due minoranze messe insieme, temo, compongono una maggioranza di «società civile» vanamente corteggiata da noi giornalisti, con evidenti e meravigliosi risultati.

«Non sei cremonese se...»: l’addio dell’amministratore: «In questi gruppi Facebook c’è troppo odio». Pubblicato sabato, 14 dicembre 2019 su Corriere.it da Enrico Galletti. Sono veri e propri borghi digitali, ce n’è uno in ogni Comune. Molti scambiano ricordi e consigli, ma spesso si litiga. Il caso Monteverdi: «Torno alla vita reale». Sono simili, nati per ricordare i tempi passati, condividere le cartoline della città e provare, insieme, a trasformare un gruppo Facebook in un laboratorio di idee per rendere il proprio posto un posto migliore. Che si chiami «Non sei di Napoli se...” o di Mantova, Brescia, Salerno e Pozzuoli, poco importa. Conta che chi fa parte di quel gruppo la città la conosca per davvero. Una vera tendenza, quella dei gruppi social di singole città che, nati quasi per scherzo, da poche decine di iscritti sono diventati veri e propri borghi digitali, dove non è detto che ci si conosca tutti. Ci sono alcuni leader e ogni community ha le sue certezze: una signora Maria che ogni mattina manda il buongiorno agli altri ventimila iscritti sfoderando ogni volta immagini diverse di albe e prati bagnati dalla rugiada; una signora Giuliana che le fa eco e commenta: «Sto per mettere su il caffè, qualcuno vuole favorire?». A catena tutti gli altri, coi loro dubbi e le loro richieste. «Ferraresi, ho voglia di carne alla brace. Posto in centro senza spendere molto?»; e ancora: «Chi si ricorda la Pina del bar della Ferrovia?». E così dai gruppi delle grandi città, con i relativi fondatori, ne sono nati altri: anche un comune di mille anime, dove ci si conosce tutti, reclama il suo nido digitale dove poter discutere di quella donna che aveva sposato il fruttivendolo negli anni Ottanta, fatto due figli e finita chissà dove.

La politica resta fuori, o almeno così vorrebbe il regolamento. Tutto fila liscio, fino a quando cominciano a nascere i primi litigi. Quando al signor Luigi, il fatto che la signora Maria per la seconda volta critichi l’amministrazione comunale per la ristrutturazione del parco giochi, proprio non va giù. E partono botte da orbi: dieci, venti, cento commenti nel giro di un’ora, dove tutti si insultano e controbattono al ritmo incessante di un commento al minuto: la replica e la replica della replica. Fino a quando un amministratore se ne accorge e prende Luigi, Maria e gli altri trasgressori del regolamento e li butta fuori dal gruppo. Molte pagine nel tempo hanno chiuso, altre non vengono più moderate, alcune sono diventate strumenti di mera propaganda politica o di pubblicità personale. Altre, invece, resistono.

Poi c’è il caso di Cremona. Lì il gruppo «Non sei Cremonese se…» è nato diversi anni fa da un’idea di Lu Bertolini e Stefano Guindani. Dopo poco tempo dalla creazione, nella community è entrato anche Davide Monteverdi, 49 anni, dj di professione. Quattro anni passati a moderare i commenti, a controllare e rileggere ogni singolo post pubblicato, scremando le offese, gli attacchi personali, i contenuti politici, ragionando anche per ore sulle possibili conseguenze delle parole pronunciate da altri. «Se scegli di prenderti questo impegno lo fai per amore della tua città, non può esserci un’altra motivazione visto che non guadagni un centesimo — spiega Monteverdi —. Lavorando tutto il giorno, passavo le notti sveglio a leggere i post, era divertente: la gente chiede di tutto e spesso su quel gruppo vengono segnalati problemi che nel giro di pochi giorni si risolvono, c’è una valenza pubblica e sociale importante».

La pagina Facebook. Poi, però, i primi problemi. «Anche le discussioni più tranquille diventavano un pretesto per litigare. Cancellavo i contenuti che violavano il regolamento. Quando ti accorgi che i commenti di certa gente danneggiano le persone o le fanno soffrire c’è poco da fare: devi bannare gli utenti irrispettosi, arginare il problema. E così ho fatto, ma mentre cercavo di rendere quel gruppo migliore, per me cominciavano le minacce. Un utente che ho bannato dalla community perché non accettava che altri non la pensassero come lui e diventava violento, ha cominciato a scrivermi in modo compulsivo. È arrivato a creare diciannove profili falsi per importunare me e gli altri membri. Un giorno me lo sono trovato fisicamente sul posto di lavoro ad accusarmi di avergli rovinato la vita». Per Monteverdi il gruppo di 17mila cittadini resta una risorsa: ha fatto del bene, ha aiutato molta gente (come quella volta che da un post nacque una vera e propria mobilitazione e alcuni clochard che vivevano sotto un cavalcavia al freddo passarono in una notte dal sacco a pelo sulla strada a una casa popolare), ma ha anche svelato parte del lato più oscuro dei social. «Se tu, amministratore del gruppo, allontani una persona dalla pagina per “purificare” l’ambiente questa non ti chiede scusa, ma ti domanda come ti sei permesso di fare una cosa simile. Non sopportavo più quella pressione». Qualche giorno fa Monteverdi, sul gruppo su cui ha investito gran parte del suo tempo per anni, ha pubblicato un messaggio. «Cari cremonesi, dopo una notte di riflessione la decisione è presa: oggi è il mio ultimo giorno come amministratore e membro del gruppo. Vi ringrazio per questi anni incredibili, ma la vita reale mi chiama e io desidero risponderle. Un abbraccio a tutti, sapete dove trovarmi». «Vedi? — racconta Monteverdi —. Questo è il messaggio che ho ricevuto pochi giorni fa da un ragazzino a cui ho chiesto di rispettare le regole del gruppo. “Sei il cancro”. Come avrei potuto andare avanti? Mi fermo qui, torno alla vita». Per Davide, che da domani continuerà a dedicarsi a tempo pieno alla sua attività nel campo della musica, c’è spazio per un’ultima riflessione. «Stiamo attraversando anni bui, di crisi economica, lavorativa e istituzionale senza precedenti. La gente si sfoga davanti al cellulare, oggi il proscenio per eccellenza in cui scaricare cattiveria e frustrazione è internet. Il problema è credere che in rete tutto sia lecito». Servono segnali forti? «Io, nel mio piccolo, ci ho provato. Volevo creare un’onda positiva, ho conosciuto l’odio».

Invidia, il motore del mondo tra peccato e malattia: qual è il pericolo più grave che corri. Melania Rizzoli l'8 Settembre 2019 su Libero Quotidiano. «L'invidia appartiene ai mediocri, agli inutili, ai falliti, a coloro che hanno bisogno di sminuire la vita degli altri per sentirsi appagati». Da "Frasi & Aforismi". Ma l'invidia è un peccato o una malattia? Sicuramente è un sentimento non sano, uno stato d' animo per cui, in relazione a un bene o una qualità posseduta da un altro, si prova dispiacere e astio, per non avere noi quel bene o quella qualità, e a volte il risentimento è tale da desiderare il male di colui che la possiede. L' invidia di per sé è una emozione negativa, è la "stretta" che si prova quando si viene a sapere che un altro ci ha superato, una vera e propria sofferenza che nasce da un confronto perdente, in un campo che è ritenuto importante per la persona invidiosa, e può diventare un sentimento duraturo, evolvere cioè in uno stato di malessere, di malumore e di malevolenza perpetua verso la persona invidiata. Tutti conoscono l' invidia, perché tutti l' hanno provata anche se nessuno osa confessarla, anzi, essa viene sempre negata di fronte all' evidenza, e spesso viene giustificata come ira o gelosia, perché tutti sanno che è una emozione meschina, la più infida e la più nascosta, in quanto ha in sé due elementi disonorevoli, ovvero l' ammissione di sentirsi inferiore e il tentativo di danneggiare l' altro senza gareggiare a viso aperto, ma in modo subdolo, vile e sotterraneo, con una ostilità negata, mascherata da commenti denigratori nel tentativo ossessivo di privare la persona invidiata proprio di ciò che la rende invidiabile. Tradizionalmente si teme lo sguardo malevolo dell' invidioso, perfido e sottile, che non tutti riconoscono, e non a caso la parola latina invidia ha la stessa radice di "videre" ossia vedere, preceduta da "in" che implica inverso, ovvero vedere al contrario la realtà, e non a caso Dante Alighieri, nella Divina Commedia, mette gli invidiosi in purgatorio, con le palpebre cucite con fil di ferro, per chiudere gli occhi che invidiarono e gioirono alla vista dei mali altrui.

COLLEGHI E AMICI. L'invidia non si prova per i grandi della terra, per le persone irraggiungibili, sarebbe uno sforzo ed un confronto inutile, ma insorge soprattutto verso chi è simile, per le persone che si considerano paragonabili come condizioni di partenza, e spesso il bersaglio di invidia diventano quelle più vicine, a cui si vuole bene, come compagni di classe, colleghi, ma anche amici o fratelli, perché dal punto di vista psicologico l' uguaglianza di opportunità rende doloroso l' essere o il diventare inferiori rispetto ai successi di una persona ritenuta uguale o minoritaria. Perché lei sì e io no? Più il confronto è bruciante, astratto o sproporzionato, più la persona invidiosa invidia, diventa ostile, e desidera ferire, sminuire, denigrare e addirittura far del male alla persona invidiata, pur di annichilire il rivale, colpirlo con maldicenze, pregiudizi, cattiverie, costruire prove false al fine di dileggiarlo e danneggiarlo agli occhi dell' altro. Se non stupisce che nella cultura cristiana l' invidia sia uno dei 7 vizi capitali, per la psicologia essa è considerata una debolezza emotiva del paziente, una frustrazione accompagnata da infelicità, da senso di inadeguatezza ed inferiorità, con un deficit grave di auto-valutazione. Non solo. L'invidia viene considerata alla stregua di una malattia dolorosa, e gli scienziati che hanno analizzato con Risonanza Magnetica funzionale cosa accade nel cervello dei pazienti invidiosi, hanno constatato l' aumento dell' attivazione della corteccia cingolata anteriore e dorsale dell' encefalo (legate all' elaborazione del dolore fisico o sociale) tanto maggiore quanto più intensa era l' invidia che il partecipante diceva di provare, come anche il suo senso di esclusione.

OSTILITÀ. Dunque l' invidia è dolorosa, ma è anche potenzialmente pericolosa per gli altri, dal momento che implica ostilità, è socialmente distruttiva, minaccia lo status quo e mette in dubbio la correttezza professionale, la legittimità delle scelte e la credibilità della persona invidiata. L' invidia però è velenosa per chi la vive, per chi la esprime cercando di sopraffare il senso di inadeguatezza, ed autoconvincendosi che il successo dell' altro non sia meritato, che si sia in possesso di qualità migliori, e che le stesse non si sono potute esprimere per situazioni svantaggiose causate dall' altro. Mentre dunque per la psicologia l' invidia è considerata un disturbo patologico dell' umore, un deficit temporaneo o permanente, che condiziona e distorce fortemente l' emotività ed il comportamento, per la psichiatria invece, l' invidia nel corso dell' evoluzione in molti casi si sarebbe rivelata un beneficio, poiché viene descritta come un meccanismo psicologico che avverte che qualcun altro ha guadagnato un vantaggio e dà la spinta per ottenere lo stesso. Secondo uno studio dell' University of Texas l' invidia è un' emozione sviluppata come "sostegno" nella competizione per le risorse, come può essere la conquista di un partner o del cibo, e gli individui invidiosi che giudicano i rivali investono più in sforzi per raggiungere l' obiettivo e non restare indietro, essendo già in partenza sfavoriti nella selezione naturale. Comunque nessuno mai ammette l' invidia, sia per non rendere evidente la propria posizione inferiore, sia per non essere riconosciuto come uno che "parla solo per invidia", ma è bene sottolineare che all' invidia è collegato anche un piacere, ovvero la soddisfazione che si prova davanti alle disgrazie altrui. La psichiatria ha chiamato questo disturbo "schadenfreude", ovvero il fenomeno che insorge quando una crisi stronca un brillante rivale, o la gioia nascosta che si percepisce quando un affascinante conoscente, fino ad allora ammirato e adorato da tutti, ha avuto un grosso problema e deve scendere uno o più gradini, cosa che provoca un più che sottile piacere. Anche questo fenomeno è stato analizzato a livello cerebrale, e di fronte alle sventure capitate ai personaggi invidiati, è stata registrata l' attivazione dell' area encefalica legata al "circuito della ricompensa", poiché nel momento che la sfortuna della persona vincente la "abbassa" al nostro livello, si registra un riequilibrio delle posizioni mentali, e lo svantaggio dell' altro si trasforma in superiorità e soddisfazione dell' invidioso, in modo che il dolore dell' invidia si tramuta in una sensazione di gioia, placando il senso di ingiustizia subìto psicologicamente.

LE DONNE. Gli studiosi hanno evidenziato che l' invidia è ugualmente sviluppata in entrambi i sessi, anche se sono le donne a manifestarla pubblicamente in modo maggiore, soprattutto nel campo dell' avvenenza, oppure nei confronti di rivali che possiedono qualità che si vorrebbero avere, come bellezza, gioventù, riconoscimento sociale, approvazione generale e successo, ma è una emozione negativa che insorge anche in età infantile, quando cominciano le competizioni e si educano i bambini alla condivisione sociale. In più l' invidia dei piccoli pazienti si può mescolare alla gelosia per l' affetto dei genitori, che si teme di perdere, e che si subisce per le loro preferenze o scelte effettuate ed imposte e non condivise. L'invidioso in genere lancia tre messaggi: sono inferiore, ti sono ostile e potrei anche farti del male. Per questo l' invidia è distruttiva, richiede uno spreco di energie fisiche e mentali, minaccia la salute psicologica dell' invidioso, che diventa instabile e aggressivo, reagisce aspramente agli eventi ostili, ed attribuisce il suo insuccesso alla sfortuna, invidiando ancora di più i risultati positivi del rivale. Oggi l' invidia è diventata il peccato capitale più diffuso dell' era dei social, soprattutto tra i giovani, ed è più intensa per la facilità con cui ci si addentra alle foto e commenti degli altri postati su Instagram o su Facebook, alle esperienze positive che non si possono realizzare e che scatenano le reazioni più disparate, sempre negative, come il desiderio di essere al posto di quella persona, se non addirittura desiderare che si ammali o sperare che muoia. L'invidia comunque è un sentimento che divora chi lo nutre, maschi e femmine, e chi la prova non riesce ad instaurare reazioni positive con gli altri, restando bloccato in sentimenti come il risentimento, l' astio e la vergogna, con un senso di insicurezza che si approfondisce e che porta al crollo della fiducia in se stessi. Per cui continuare a chiedere al proprio riflesso: "specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?" non serve a nulla, perché l' invidia è come una malattia maligna, è cattiva, è progressiva ed ha sempre due facce. Sta a noi decidere quale guardare. Melania Rizzoli

Carlo Bordoni per “la Lettura - Corriere della Sera” il 7 novembre 2019. Il riconoscimento delle emozioni non è una novità.  Nella sua versione più attuale risale almeno a un secolo fa, al pensiero di Edmund Husserl e alla rinnovata centralità dell' individuo. Non a caso la fenomenologia riporta in primo piano l'emotività come espressione dell' autentico e come strumento di conoscenza. Nella prevalenza del soggetto c' è tutta l' esigenza di contrastare la deriva «socializzante» dell' Ottocento e del primo Novecento (sindacalismo, socialismo, anarchismo, comunismo); di fronte alla minaccia di sovversione da parte delle masse popolari si apre la prospettiva di un «ritorno all' ordine» che trova utili alleati nel darwinismo sociale, nell' antropologia criminale di Cesare Lombroso e nell' elitismo di Vilfredo Pareto. Max Scheler (1874-1928) si situa in questo periodo critico, a cavallo della Prima guerra mondiale, quando pesanti tensioni gravano sull' Europa. La sua è una posizione di mediazione: lontano da ogni simpatia per il socialismo, cerca di trovare una giustificazione ai comportamenti del singolo individuo, grazie a una metodologia fenomenologica che utilizza la psicologia, la sociologia e l' antropologia, dove la tradizione cristiana è il porto sicuro a cui approdare in caso di tempesta. Il suo approccio è essenzialmente etico e riguarda le forme espressive individuali che caratterizzano il soggetto nella relazione con altri, come la simpatia, il pudore, il pentimento e il risentimento. A quest' ultima emozione dedica un saggio del 1912, ripreso e ampliato nel 1915 e nel 1919, riedito ora da Chiarelettere (a cura di Laura Boella), in cui si riflette il clima di turbamento esistenziale che, per la sua frequenza e ampiezza, ha finito per divenire un problema sociale. La riabilitazione delle emozioni non è solo un residuo romantico, ma una modalità altra di rivalutare l' umano in tempi di sfiducia e confusione; poggia su basi tradizionali e per giunta risponde a una visione fenomenologica della realtà (restituzione al soggetto della facoltà di giudizio), ma soprattutto raccoglie l'eredità di una grande tradizione spirituale che viene dalla «logica del cuore» di Blaise Pascal e dall' Ordo Amoris di Agostino d' Ippona per una corretta gerarchia del sistema valoriale. Nella condizione d'incertezza propria degli anni precedenti al primo conflitto mondiale, ristabilire un ordine dei sentimenti (in primo luogo della supremazia dell'amore divino) significa fornire rassicurazione, consolazione e fiduciosa speranza. Così Scheler si affida alla morale cristiana e ne fa il fulcro della sua argomentazione filosofica (soprattutto nel terzo capitolo, il più denso, «La morale cristiana e il risentimento»), passando curiosamente attraverso Friedrich Nietzsche, del quale analizza, talvolta in aperta contraddizione, la Genealogia della morale (1887), con la denuncia della «rivolta degli schiavi» e delle conseguenze etiche. Il risentimento - emozione forte che Scheler usa nella stessa grafia francese di ressentiment impiegata da Nietzsche - è necessario per comprendere il comportamento umano e, malgrado le apparenze, può avere esiti positivi. Nonostante sia un «autoavvelenamento dell' anima», come ogni veleno ( Pharmakon ), comprende il suo rimedio. È il prodotto di un' emozione negativa, di rabbia e frustrazione che non trova sfogo e provoca uno stato di sofferenza, una sensazione di inadeguatezza e di depressione. «L' ambito del risentimento - scrive Scheler - è quindi limitato innanzitutto a coloro che sono perennemente servi e dominati e invano lusingano alla rivolta contro il pungolo di un' autorità». Dal risentimento nasce il desiderio di vendetta, proprio dei deboli, e l' anima offesa coltiva l' odio, il rancore, l' invidia per l' altro. Si tratta sempre di reazioni a posteriori, mediate e meditate, poiché «agli schiavi - per dirla con Nietzsche - è preclusa una reazione vera, quella dell' azione, che possono soddisfare solo grazie a una vendetta immaginaria». Quando il risentimento lascia un senso di impotenza di fronte all' inutilità della reazione, può dare luogo alla rassegnazione, alla rinuncia, all' accettazione, forse accompagnate a una «deviazione dell' attenzione» o persino a una «falsificazione dell' immagine del mondo». Ma anche a una sublimazione del desiderio di vendetta, disposto a lasciare spazio a sentimenti opposti, «salvifici» per il proprio spirito: il valore positivo della povertà, del dolore, del sacrificio, della morte, che si traducono in dispositivi creativi. È quello che, per Nietzsche, è accaduto nel cristianesimo: il rovesciamento dell' ordine morale. Se nella Grecia classica si guardava verso l' alto (i meno nobili aspiravano alla perfezione; i più nobili odiavano l' imperfezione), adesso vige il contrario. Benché rivolgersi verso il debole sia una morale «da schiavi», in questo caso il risentimento si rivela un valore positivo, tanto che «l' idea cristiana dell' amore è il fiore più raffinato del risentimento». In questo capovolgimento dei principi etici, nell' educazione morale volta a privilegiare l' inferiore, sta la perdita del rispetto di sé e della propria integrità individuale. Contrariamente a Nietzsche, Scheler trova in questa sublimazione del risentimento una dimostrazione di forza e una nobiltà d' animo propria dei santi. Da un sentimento negativo può nascere l' amore, quando si accetta con responsabilità la condizione umana. Il risentimento è un' emozione attuale anche nella sua coniugazione odierna: dentro e fuori la rete, è divenuto una costante nei rapporti interpersonali, benché privo di ogni forma di sublimazione. Non tanto perché «gli schiavi hanno infettato i padroni» - come sosteneva Nietzsche - quanto perché la società contemporanea non ha più validi punti di riferimento, ma vive in una sorta di precarizzazione dell' etica che soddisfa il bisogno inesauribile di emozioni sempre nuove.

Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 5 ottobre 2020. Perché mai è così piacevole sparlare degli amici? Si domandava Virginia Wolf. Perché la polemica, la prevaricazione, la superbia e la rabbia hanno così tanto bisogno di mostrarsi? Perché ci sono persone che non riescono a controllarsi? Cosa consente ad alcuni di riuscire a gestire gli alti e bassi della vita, gli ostacoli e gli scontri con calma e compostezza, mentre altri s' infiammano al minimo soffio di vento, vanno in pezzi di fronte alla più piccola frustrazione e trasformano delusioni insignificanti in tragedie? «Un cambiamento di prospettiva è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per non reagire in maniera smodata», rivela David J. Lieberman, autore di Come non perdere mai più la calma (editore Tea). Che nel libro suggerisce di osservare la rabbia attraverso una lente olistica che ne sveli le componenti emozionali, spirituali e fisiche nascoste, oltre ad alcuni pratici e semplici strumenti per eliminarla ancora prima che sopraggiunga. Lieberman, psicologo e specialista di fama mondiale nel campo delle scienze comportamentali e dei rapporti interpersonali, spiega: «Chi si altera spesso e volentieri anche per futili motivi ha delle grosse voragini nella sua autostima, spesso provocate da un' infanzia problematica (caotica o traumatica), da relazioni disfunzionali (passate o presenti) o da una vita vissuta senza passione o gioia che ha alimentato un risentimento sotterrano». Ma si può uscirne. Come? «Cambiate la concezione di voi stessi e cambierete la vostra vita», insegna l' esperto, «partendo dalla meditazione e respirazione (le cui radici affondano profondamente in quasi tutte le religioni o le pratiche spirituali): è un primo passo per vedere le cose con chiarezza, perché l' ira distorce la prospettiva della realtà dei fatti. Ovvio che «una mente preda del caos con un sistema nervoso sotto tensione renda vano qualsiasi sforzo di mantenere la calma». Più si è sereni nei periodi di normalità più sarà facile controllare la collera in quegli difficili. E lo sport aiuta. La riduzione dello stress derivante dall' esercizio fisico è ben documentata in molti studi trasversali. In particolare, Nathaniel Thom, fisiologo di fama mondiale, sostiene che «l' attività fisica anche in quantità modeste, può avere un sostanziale effetto protettivo» contro il montare della rabbia. Va ricordato tuttavia, come riporta uno studio internazionale pubblicato sulla rivista ufficiale dell' American Heart Association, che non bisogna fare sport mentre si è arrabbiati, perché il rischio d' infarto entro la prima ora di attività risulterebbe tre volte maggiore.

RALLENTARE. È importante rallentare il ritmo della propria vita per cercare di trovare la giusta prospettiva in modo da non sprecare energie di fronte a un insulto irrilevante, se non adiritttura falso. «Ci sono alcune tecniche per impedire ai neuroni che seguono i percorsi della reazione di rabbia di risvegliarsi. Il primo passo è riconoscere e accettare i propri punti deboli, così da limitare le occasioni di ritrovarsi faccia a faccia con le cause scatenanti». Per esempio, se non si è nella disposizione mentale giusta meglio tenersi alla larga dalle conversazioni potenzialmente conflittuali. E poi bisogna lavorare sulla propria forza di volontà per tenere a freno la rabbia. Le persone che esercitano autocontrollo con maggiore successo, solitamente, sono quelle che impostano la vita in modo da minimizzare le tentazioni nel corso della giornata. In pratica, «stabilire in anticipo una linea di condotta da seguire, basata su una serie di azioni prestabilite permette di reagire in maniera responsabile (e pacata) quando non si è in grado di riflettere ed elaborare una risposta corretta e rispettosa. Questa modalità si rivela efficace perfino nei casi in cui si è a secco di forza di volontà, perché non bisogna pensare troppo al da farsi», spiega lo psicologo.

INTERROMPERE LO SCHEMA. Quando le emozioni virano sui binari della rabbia, non c' è altro da fare che far deragliare il treno il prima possibile. Lo schema va interrotto con un improvviso scossone per tenere a freno la locomotiva affinché non prenda velocità. E sappiamo bene con quali risultati. Cosa può spegnere il fuoco, in questi casi? Magari un pensiero buffo che distoglie l' attenzione. «Provate a rimpicciolire l' irritante interlocutore davanti ai vostri occhi», immaginatelo come un nanetto da giardino oppure seduto sulla tazza del water. Sorriderete, e il risentimento si attenuerà. E se non bastasse, prima di esplodere con aggressività, provate la sana vecchia regola di contare, la riporta pure Lieberman: fermatevi un attimo e calmatevi, respirando profondamente. Questa tecnica funziona per due motivi: la forza di volontà ha una base biologica e la respirazione lenta e profonda attiva il cervello pensante. Il secondo motivo è che respirare invia al cervello il messaggio positivo che la situazione non costituisce una minaccia. «Respirate, rilassate la mascella, le spalle e magari sorridete, concentratevi sull' aria che entra ed esce dai polmoni». Spostare la consapevolezza sul respiro riporta immediatamente con i piedi per terra e interrompe l' acutizzarsi delle emozioni. All' inizio questa operazione avrà bisogno di una certa pratica, ma in breve la reazione diverrà automatica. Le ricerche scientifiche mostrano che nelle situazioni particolarmente stressanti non servono più di 90 secondi perché il nostro sistema riesca a elaborare ogni forma di rabbia o emozione basata sulla paura. Possiamo non avere il controllo del mondo e nemmeno di parte dei nostri comportamenti ma possiamo indirizzare i nostri pensieri e concentrarci su ciò che ci entusiasma piuttosto che su quello che ci disturba. Nello spazio tra desiderio e realtà scatta la delusione: più è alta l' aspettativa più sale la delusione. E di conseguenza la rabbia. Che si può contenere regolando l' elemento sorpresa. Non stiamo parlando di prevedere la realtà, ma di viverci dentro. La consapevolezza di essere delle persone imperfette che vivono in una società imperfetta può essere l' opportunità per sviluppare una forma di resilienza emotiva e di autocontrollo. Ma vi sarete davvero liberati dalla rabbia latente quando avrete sgomberato la mente dal risentimento, dalla colpa e dalla vergogna per vivere in modo sano e con gioia. La felicità è come una calamita avvicina alle cose belle. E chiudo con le parole di Salomone: «Non essere facile a irritarti in cuor tuo, perché la collera dimora in seno agli stolti».

Vittorino Andreoli: “La cattiveria esiste in una società di idioti”. Francescapaola Iannacone su Il Quotidiano del Sud il 27 settembre 2020. «Giunti alla mia età si scopre di non essere un uomo, ma una storia». Con queste parole il professor Vittorino Andreoli, che da poco non solo ha compiuto 80 anni ma ha anche pubblicato il suo ultimo libro “80 anni di follia. E ancora una gran voglia di vivere” (Rizzoli, 2020), racconta cosa sia per lui davvero la vecchiaia e come la società contemporanea la consideri, anche alla luce dell’ultima tragedia che ha colpito il mondo intero. Una vita – quasi sessant’anni – spesa per la cura e la comprensione dei suoi “matti” a cui tiene ancora tanto; è un uomo con una gran voglia di fare, che osserva la realtà con lo sguardo di chi, attraverso la consapevolezza dell’età, può affrontare liberamente qualsiasi riflessione esistenziale.

Professore, l’idea predominante nella società contemporanea, dove c’è una corsa spasmodica a restare per forza giovani e a cercare di fermare il tempo, è che la vecchiaia sia l’anticamera della morte. Considerata quasi come un flagello. Nel suo senso pieno e reale invece, che cos’è?

«C’è da fare una premessa. In tutte le società cosiddette primitive, è stato dimostrato che la figura del vecchio fosse associata a quella del saggio. Io stesso – che ho vissuto per un periodo in Africa – ho potuto constatare come questa figura in un villaggio rappresentasse l’autorità. Era quell’uomo a cui si portava massimo rispetto perché conoscitore non solo della storia ma della vita, proprio perché aveva più anni. Inoltre, se diamo uno sguardo alla cultura ebraica e quindi all’Antico Testamento, possiamo notare come i vecchi fossero il punto di riferimento della storia di un popolo. Alla luce di questo, possiamo dire che è una caratteristica della civiltà occidentale considerare la vecchiaia l’anticamera della morte, vista come “la vita che lenta si spegne come una candela”. La vecchiaia – e parlo da vecchio – così come viene vista in questo periodo, è una novità assoluta. Basti pensare che fino alla Seconda Guerra Mondiale l’età media di un essere umano non superava i quarantacinque anni. La vecchiaia di oggi, invece, ha un’età media che si aggira intorno agli ottant’anni e più, è quasi raddoppiata anche grazie ad una scienza medica che ha permesso e permette di arrivarci in ottime condizioni e a una condizione economica molto più favorevole del passato. Una nuova vecchiaia che va definita come l’ultimo capitolo di una vita, di un libro. Di solito l’ultimo capitolo di un libro è sempre quello più interessante, perché se ne capisce il senso. Confrontare la vecchiaia con l’età della giovinezza è sbagliato. Il giovanilismo a tutti costi è il desiderio, presente in alcune persone vecchie, di nascondere la loro età cercando di sembrare più giovani. Questa è una malattia perché si vuole sembrare quello che non si è, mentre è bellissimo essere vecchi».

Proprio perché viviamo in una società in cui il numero delle persone anziane è elevato, in che modo si può riscrivere il loro ruolo all’interno di una realtà in cui la liquidità esistenziale sta facendo in modo che i punti di riferimento manchino e in cui la digitalizzazione sta riscrivendo il modo di concepire l’esistenza?

«Una società che non considera positivamente i vecchi è una società fallita, è una società di idioti. Certamente se la nostra società viene considerata solo dal punto di vista dell’economia è chiaro che i vecchi non partecipano attivamente alla produttività. Questo concetto errato vale per quella civiltà che vuole fondarsi esclusivamente sull’economia. Ma la vita non è fatta solo di denaro. Considero la ricchezza la più grande patologia sociale perché impedisce di vedere il patrimonio di una civiltà, dove al suo interno si può trovare anche la persona anziana, che è interessata non più all’io. Io sono vecchio e so di non dover dimostrare nulla a nessuno. Non devo fingere, sono quello che sono».

Quindi se il potere e il denaro fanno perdere di vista una società fondata sui valori, in questo contesto storico come se ne può riscrivere una nuova fondandola sul senso etico delle cose?

«Nella Grecia antica, un grande uomo, Platone, distingueva le leggi dai princìpi. I princìpi non sono dentro la storia ma dentro l’umanesimo che è l’insieme di ciò che serve a vivere in pace. Platone parlava della felicità di tutti ma questa è un’utopia perché non è stata ancora realizzata. Le leggi servono per affrontare problemi storici. Quelli della cronaca, immediati. E per questo Platone aveva pensato alla res pubblica, a questo nuovo sistema di gestione della città, alla politeia. Invece i princìpi non sono parte della politica, perché fanno parte dell’esistenza. Platone annoverava tra questi, ad esempio, il rispetto della vita, il rispetto dell’altro. Ad esempio nei suoi “Dialoghi” tutti parlano, poi arriva il maestro che conduce a una visione condivisa. Le idee non sono una questione da legiferare. Il pensare e la libertà di pensare non possono essere legiferati, come direbbe Platone. Quindi come si fa ad impostare una differenza tra quella che è una civiltà e una società. La civiltà guarda ai bisogni dell’uomo, la società – questa di oggi, ad esempio – guarda agli interessi che sono dei più forti. Una società vergognosa, dalle enormi differenze sociali e ingiustizie. C’è chi ha l’inutile e chi non ha il necessario. A tutto questo si aggiunge il voler escludere la persona anziana. Se penso a come i vecchi sono stati considerati in questa grave crisi che è la pandemia, mi indigno perché sono diventati materiale di terza categoria. Questo ci mostra le fondamenta sulle quali si edifica questa realtà: l’economia. Anche in questo momento in cui è in gioco una certa esistenza, tra la vita e mantenere l’economia si è scelta quest’ultima. Il ragionamento è stato e continua ad essere: “Che vita sarebbe senza benessere?” Sarebbe una vita. Le persone povere vivono. Il criterio scelto da questa società, è stato quello di dare un peso all’“ossigeno” e al “denaro” e di scegliere quest’ultimo».

Professore, proprio perché ci sono molti anziani anche la medicina si sta evolvendo non solo nell’essere predittiva ma anche per cercare di contrastare quelle malattie degenerative come l’Alzheimer. Proprio la settimana scorsa si è tenuta una giornata commemorativa per fare il punto della situazione su questa malattia che spegne i ricordi. Quando scompaiono che cosa rimane?

«Quando parliamo di memoria dobbiamo farlo al plurale. Non ne esiste solo una, ma diverse: c’è quella dei numeri, delle parole, delle immagini, quella vista come ricordo. C’è la memoria biografica, quella della propria storia, la memoria dei sentimenti. Nell’Alzheimer c’è la perdita della memoria dell’identità, ma non quella del sentimento».

Crede nell’aldilà?

«Questo è un tema molto difficile. Se partiamo dall’origine dell’universo e dall’origine di ciascuno di noi che si lega alla natura, a questo frammento di universo che si chiama Terra, può essere associata al Big Bang, al Caso oppure a un Dio. Se dovessi inginocchiarmi, preferirei farlo di fronte a un Dio. Credo molto nell’uomo, io amo l’uomo e sono convinto, come diceva Platone, la trascendenza sia un segnale che è dentro l’uomo. Un’esistenza che abbia altre leggi è possibile. Einstein, ad esempio, che era ebreo ma non praticante, quando gli chiedevano se credesse in un Dio o nell’aldilà, rispondeva: “Noi fatichiamo molto per scoprire una piccola legge dell’universo. Ma penso sempre all’infinità di leggi che esistono e che sono state fatte”. La bellezza risiede nel sapere che c’è ancora un po’ di mistero».

Quanto rumore fanno le parole nella società attuale piena di conflitti più che di ideali?

«Sono fondamentali. Bisogna cominciare a controllare il loro significato. Ad esempio, una delle parole che genera guerra è verità perché chi è convinto di averla, tende ad imporsi. La verità bisogna cercarla. Discussione è una parola terribile, meglio dire conversare».

E la parola amore?

«L’amore, non solo quello di coppia ma anche quello tra padre e figlio, o verso gli altri, è solidarietà, rispetto. Diventa il segno di un legame».

Si definisce un “pessimista attivo”. Come si fa ad esserlo?

«Sono un pessimista attivo perché pur vedendo tanti rischi, corro dalla mattina alla sera per cercare che vengano evitati da tutti. Mentre l’ottimista tende a dipendere dal fato e non fa nulla. Ho poca stima dell’ottimista. Poi sono gioioso e lo contrappongo a felice. La persona felice è soddisfatta di ciò che capita a lui, mentre la gioia è anche una percezione di ciò che di positivo succede all’altro. Amando l’uomo ed essendomi occupato di quelli che io chiamo “rotti”, dei giovani più estremi, di delinquenti, non ho mai trovato “mostri”, ho sempre trovato l’uomo».

Esiste la cattiveria?

«Sì, certo. Esiste in una società di idioti. Perché la cattiveria significa fare del male all’altro, e una delle modalità per sentirsi vivo può essere commettere il male. Ma dobbiamo ricordarci che il cattivo potrebbe essere buono o non cattivo perché il peso degli altri su ciascuno di noi, è molto forte».

Mariella Bussolati per "it.businessinsider.com" il 28 agosto 2020. Ai tempi della Germania nazista, rispettabili cittadini tedeschi, che fino a quel momento non avevano torto un capello a nessuno, hanno denunciato i loro vicini ebrei pur sapendo che fine avrebbero fatto. Nella sanguinosa battaglia tra Hutu e Tutsi in Ruanda, perfino i contadini hanno imbracciato le armi contro chi fino a quel momento aveva lavorato insieme a loro. Gli esempi possono continuare con persone più direttamente coinvolte, come soldati di bassa leva che hanno fatto stragi, o personale delle carceri che si è trasformato in aguzzino. Come mai gente apparentemente normale si può trovare a un certo punto a commettere crimini orrendi? L’empatia, la caratteristica che ci permette di condividere il dolore e di attivare un comportamento altruistico, è fortemente impressa nella nostra biologia umana, ed è servita a farci evolvere. Tanto che è visibile nel nostro cervello: quando vediamo che qualcuno soffre si attiva la parte anteriore e la corteccia cingolata che ci portano ad agire per il bene degli altri. In pratica mappiamo il loro disagio nel nostro stesso sistema di riconoscimento del male grazie ai neuroni a specchio. Quindi in pratica non procuriamo esperienze negative perché non le vogliamo provare a nostra volta. Anche gli altri mammiferi, come i roditori o i primati, hanno lo stesso meccanismo. Chi invece riesce a ignorare questo impulso e a impartire sofferenza evidentemente deve seguire tutt’altro processo. Un gruppo di ricercatori dell’Istituto olandese di Neuroscienze è andato dunque a indagare il motivo per cui tutto questo possa avvenire. E hanno scoperto che il motore che permette di ignorare le proprie pulsioni biologiche è l’obbedienza a ordini, impartiti in modo violento. Stiamo parlando di un’obbedienza particolare, quella che corrisponde a una gerarchia di poteri, in cui la persona che impartisce l’ordine ha uno stato più alto di chi lo riceve. Per capire come mai in questo caso basti un comando per spingere a essere immorali hanno utilizzato coppie di partecipanti, uno con il ruolo di agente, l’altro di vittima. Poi hanno scambiato i ruoli, facendo si che le vittime diventassero agenti. Agli agenti veniva effettuata nel frattempo un risonanza magnetica che permette di studiare le reazioni del cervello. Gli veniva chiesto di decidere, schiacciando un bottone, se infliggere o no uno shock alla vittima. In caso positivo ricevevano anche 0,05 euro. Ma si trattava di una libera scelta. In un momento successivo gli sono stati imposti ordini autoritari e il comando di procurare un supplizio. In questo caso gli agenti hanno schiacciato più spesso il bottone per impartire danni alla vittima. Il loro cervello dimostrava che a causa di questa situazione le regioni dell’empatia erano meno attive, erano inibite anche le zone che mostrano un riconoscimento di quanto fatto e quindi il senso di responsabilità. Erano anche inibite le aree relative al senso di colpa. Inoltre pensavano di fare meno male rispetto a quando potevano decidere liberamente. Non a caso, quando alla fine dell’esperimento veniva chiesto quanto si sentivano cattivi o se provavano dispiacere, i partecipanti rivelavano che avevano provato un maggiore senso di disagio quando avevano potuto decidere da soli. Adolf Eichmann, giustiziato nel 1962 per aver organizzato l’Olocausto e aver pianificato lo sterminio degli ebrei, nel processo aveva espresso sorpresa nel sapere che lo odiavano, rivelando di aver solo obbedito. Nel suo diario aveva anche scritto che gli ordini erano per lui una delle cose di più alto livello nella sua vita, e eseguirli era senza discussione. Eppure gli psichiatri lo avevano dichiarato sano di mente, e veniva da un normalissima famiglia. La storia di Eichmann aveva interessato Stanley Milgram, uno dei primi psicologi che ha effettuato esperimenti sull’obbedienza. Aveva ottenuto gli stessi risultati del team olandese, ma non ne conosceva le cause. La risonanza magnetica invece evidenzia chiaramente questo processo: la corteccia anteriore cingolata, il putamen caudato, un gruppo di nuclei che sono interconnessi con la corteccia cerebrale, il lobo parietale inferiore, la giunzione temporoparietale in cui i lobi temporale e parietale si incontrano, la circonvoluzione frontale inferiore apparivano come disattivate in seguito agli ordini. In pratica quando si eseguono comandi perentori la risposta neurale dimostra chiaramente un modo di interagire con il prossimo completamente differente da quanto la nostra evoluzione ci porterebbe naturalmente a fare. Il potere e l’autorità dunque hanno un’enorme responsabilità sul comportamento umano e gli studiosi ritengono che per evitare che in futuro si possano ripresentare le situazioni che in passato hanno permesso di sterminare intere popolazioni, sia necessario prevenire queste modalità di governo. I ricercatori hanno fatto anche notare che uno dei partecipanti all’esperimento non ha mai inflitto shock neppure quando gli veniva ordinato. Per questo motivo non è stato considerato nello studio. Ma può essere considerata una speranza.

Da leggo.it l'1 gennaio 2020. Le emozioni influiscono sulla nostra salute più di quanto pensiamo e dunque non esprimerle può compromettere il nostro sistema immunitario. A dimostrarlo sono studi scientifici fatti nel settore della Psiconeuroimmunologia (PNEI), secondo i quali reprimere le emozioni ha ripercussioni negative sul sistema immunitario. Stress, collera, rabbia sono tutte emozioni che abbassano le difese del nostro sistema immunitario, rendendoci più vulnerabili e più predisposti a ipertensione, attacchi di cuore, ictus.. I ricercatori hanno notato come persone soggette a maggiore stress, siano anche soggette a maggiori cambiamenti immunitari. E se un atteggiamento ostile, un'aperta aggressività, frequenti scatti di rabbia, hanno un effetto negativo avere uno stato d'animo positivo e buone relazioni sociali porta ad un aumento della risposta immunitaria.

Il caso Silvia Romano e l’odio degli italiani: per favore un po’ di serietà. Walter Siti su Il Riformista il 20 Maggio 2020. L’odio è una passione paziente: può scatenarsi all’improvviso come un colpo di fulmine, per un incontro o un avvenimento, ma poi si sedimenta e mette radici, si cristallizza e costruisce intorno a quel primo granello una corazza pietrosa e inscalfibile. La persona (o categoria) odiata diventa un punto di riferimento costante della nostra esistenza, una risorsa psicologica per i nostri momenti difficili; immaginare quella persona (o quella categoria) come responsabile del male del mondo porta con sé una specie di sollievo. Il tempo si ferma, le circostanze storiche variabili scivolano via e resta, fisso, il piacere di immaginare la vendetta, la nuda violenza esercitata da noi personalmente, o da nostri emissari, sul corpo di chi si odia. Riversare su di lui (o lei, o loro) tutte le colpe ci esime dal riflettere sulle nostre personali e civili responsabilità. Colui (o ciò) che odiamo ci definisce come persone: semplifica, radicalizza e ci preserva dall’angoscia del dubbio. In questo l’odio assomiglia all’amore, e non è da tutti odiare di cuore come non è da tutti innamorarsi perdutamente. L’odio insomma è una cosa seria, che spetta a chi lo prova tenere a freno e alla società limitare, senza speranza di poterlo uccidere una volta per sempre. Se contrastato e indicato come peccato imperdonabile, l’odio si nasconde, si traveste, attende tempi a lui più favorevoli. Questa pandemia, che ha chiuso in casa mezza popolazione mondiale, sembra proprio un tempo favorevole; la dice lunga il fatto che in questo periodo, secondo dati attendibili, siano aumentate del 30% le chiamate ai centri antiviolenza familiare. I coniugi, per i quali le ore di separazione lavorativa erano un ammortizzatore dei conflitti, si sono ritrovati muso a muso a fare i conti con la realtà del loro rapporto; i maschi privati di bar e partite hanno sfogato le loro repressioni su donne e bambini; i ragazzini, senza cortili o strade per giocare con gli amici, si sono mostrati più impegnativi del solito. Il malumore ha fatto emergere l’odio latente, nei non pochi casi in cui incubava da anni sotto la cenere del quieto vivere. Lo stesso è accaduto per gli odii sociali più antichi e stratificati, in primis il razzismo e l’odio religioso. Molti hanno sperato che l’epidemia esplodesse in Africa, ma per ora si scontrano con l’evidenza delle statistiche; così han dovuto ripiegare, prendendosela con gli africani che dagli italici ghetti vengono prelevati la mattina per andare a raccogliere frutta e pomodori. È bastata una ragazza ingenua, che per leggere il Corano ha aspettato di essere prigioniera, a far scrivere sui social parole orrende contro di lei e contro l’Islam “religione inferiore”. Sono casi di odio genuino, covato a lungo come ossessione; ma proprio per questo facilmente identificabile. Più insidioso e pervasivo è l’odio che si traveste, non possedendo né il coraggio né la dignità del proprio nome; meno pericoloso nel fondo, ma più dannoso per la convivenza civile nel breve e medio periodo. L’antipatia strisciante per i cugini francesi, duplicata da rivalità calcistiche; il ricordo bellico dei tedeschi rastrellatori, misto a invidia per la loro organizzazione e i loro soldi. L’insofferenza delle regioni meridionali, più libere dal contagio, per una Lombardia che appesantisce e rallenta; quella uguale e contraria dei settentrionali per un Sud che tanto può fare quello che vuole, non sono loro a incrementare in modo decisivo il Pil. Il fastidio dei giovani per i vecchi troppo prudenti, e dei vecchi per i giovani che non indossano le mascherine. La voglia serpeggiante di delazione, il rancore che si traveste da giustizia; la preoccupazione di pararsi il culo per quando arriveranno i magistrati. I media amplificano e spettacolarizzano: la sindrome dei “polli di Renzo” di manzoniana memoria (che essendo legati per le zampe si ingegnano di beccarsi l’uno con l’altro) diventa platealmente odio di scena nei battibecchi dei talk politici, le cui livide bordate si distinguono a stento da quelle, in odore di audience, dei reality trash. Sui social si lapidano due influencer fidanzati perché lui ha raggiunto lei pur abitando in una Regione diversa; si dà credito ai più inverosimili complotti, ci si dichiara sicuri che la pandemia sia un inganno ordito dai “poteri forti”; perfino gli odiatori dell’odio alzano i toni, perché sono certi che l’odio riguarda soltanto gli altri e mai loro, anime belle. Onda confusa di rinfacci reciproci, in un Paese sull’orlo d’una crisi di nervi. L’odio rischia di diventare una scorciatoia per cavarsi d’impaccio in una situazione che non sembra avere vie d’uscita. L’Italia i soldi pubblici non ce li ha, c’è poco da fare; ha molta ricchezza privata, come si è sbandierato per anni, ma nessuno adesso osa ricordarlo. La forza politica maggioritaria in Parlamento non è più la prima forza politica del Paese, ma oggi una crisi di governo è impensabile e le elezioni sarebbero ostacolate anche da motivi sanitari. L’odio senza conseguenze è quello più facile: sgrugnarsi e insultarsi sapendo che tutto resterà uguale, almeno per un po’. Più che odio, mugugno: insoddisfazione generalizzata, guardare il proprio vicino con sospetto; il bar che non ce la fa a tirare avanti denuncia l’altro bar che si è venduto ai cinesi; l’azienda sotto inchiesta per irregolarità nell’importazione di mascherine dice perché non guardate a chi ha fatto anche peggio di me. L’estrema destra si proclama delusa dalla scarsa reattività di Salvini e Meloni, e accusa siete casta pure voi, cane non mangia cane, come i ladri di Pisa che litigavano di giorno e di notte andavano a rubare insieme. Un urlìo confuso di risentimenti incrociati non è la premessa migliore per affrontare i tempi duri che verranno. La buona volontà dei singoli, e anche dei governanti, non manca, il buonsenso cerca di stare a galla evitando gli scogli più perigliosi. Ma l’amore per gli altri, quello vero che ha il fulgore della carità, potrebbe dispiegarsi con più energia se l’odio gli si opponesse senza maschere.

Più cattivi di così... e l’ironia diventa educazione «cinica». Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Luca Bergamin. Il cinismo diventa un’arma per combattere gli estremismi e gli integralismi di una società che ha perso le buone maniere e anche un po’ il senso dell’ironia. Ma ha voglia di reagire e farsi sentire attraverso il web. L’idea venuta a Enrico Nocera ed Edoardo Scognamiglio, realizzata attraverso i video dell’agenzia ComboCut di Milano, ha raccolto più di cento milioni di visualizzazioni grazie ai fan intercettati con Facebook - il canale principale - poi con Youtube e Instagram, oltre che attraverso i lavori fatti in sinergia con grandi aziende italiane e multinazionali. È Nocera a spiegare: «Il nostro progetto cross-social permette di parlare in libertà, dire quello che non si potrebbe per ragioni di convenzione sociale ed eccessiva correttezza. Mi riferisco a situazioni limite come l’anziana che ruba il posto nella fila al supermercato, alla ragazza che si ostina a occupare l’unico posto libero al parcheggio piazzandocisi sopra in attesa dell’auto del fidanzato, alla maestra che si trova dinnanzi una rappresentante di classe arrogante, o la vegana che pretende di mangiare secondo i propri dettami alimentari in un ristorante normale. Ecco, con la nostra cinica ironia vogliamo far aprire gli occhi su casi di fronte ai quali per debolezza spesso si tace». I video di Educazione Cinica, piaciuti anche a Paola Cortellesi che ne è stata interprete e a Rosario Fiorello che ha voluto Nocera e Scognamiglio fra gli autori di VivaRaiPlay, sono utilizzati come scudo in più direzioni. Contro le convenzioni ma anche contro i maleducati. In una clip, anticipata in esclusiva alla presentazione della Civil Week nella Sala Buzzati del Corriere, attaccano i pregiudizi legati al razzismo: «Abbiamo proposto un video del ragazzo nero che va a un appuntamento al buio - racconta ancora Nocera - e gli tocca ascoltare una serie di strafalcioni culturali e religiosi dovuti principalmente all’ignoranza verso il diverso che regna in questo Paese. Ecco dunque che trattare questi temi con un linguaggio ironico aiuta a sensibilizzare l’opinione pubblica affinché si faccia appunto un esame di coscienza di fronte alle ingiustizie».

Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

Melania Rizzoli per "Libero Quotidiano" il 12 agosto 2020. Secondo Erich Fromm l'umanità è più propensa all'odio che all'amore, cioè l'uomo riesce più ad odiare che ad amare. La posizione del filosofo tedesco è sicuramente discutibile, ma è evidente che non si può criminalizzare l'odio, un sentimento nascosto in ognuno di noi e considerato dalla scienza naturale come l'amore. Dal 27 luglio alla Camera dei Deputati si sta discutendo su una proposta di legge che mira a contrastare l'odio e la discriminazione contro l'orientamento sessuale e l'identità di genere, e molti sono stati i commenti negativi sulla minaccia alla libertà di espressione, che hanno parlato di misura liberticida, mentre l'intento della legge sarebbe quello di voler combattere quei reati che nascono dall'odio come gli atti di violenza. Ma la domanda è: può una legge contrastare l'odio, ovvero un sentimento violento che nasce da un disturbo dell'affettività? Perché di questo si tratta, in quanto l'odio è riconosciuto come un disturbo mentale della sfera affettiva, ed è considerato patologico, in quanto causa un'emozione non razionale di tipo ostile, focalizzata sul detestare e sul rivendicare, che comporta un desiderio profondo e duraturo di far del male a qualcuno o a qualcosa, misto a sensazioni di rifiuto, ripugnanza, contrarietà, intolleranza e soprattutto vendetta. Non va confuso con l'ira o la rabbia, che sono anch'essi disturbi dell'affettività ma si distinguono per essere momentanei e passeggeri, mentre l'odio è un sentimento astioso e rancoroso più "ruminato", cioè calcolato e rimuginato silenziosamente anche per lunghi periodi, represso e covato, che poi esplode in modo potente rivelando una aggressività maligna e distruttiva con un facile sconfinamento nella violenza e nel sadismo. Inoltre l'odio si differenzia dall'antipatia, dall'invidia, dall'avversione o da altre forme di giudizio negativo, poiché in queste manca la volontà di "far del male" o di "farla pagare", ovvero di comminare una sonora punizione all'oggetto odiato, anche se l'invidia può trasformarsi in odio quando si vuole che la persona odiata, per esempio, subisca qualcosa di negativo, come una malattia, un licenziamento o declassamento.

La vendetta Per raggiungere il suo scopo spesso chi odia si sente in diritto di infrangere la legge ("mi faccio giustizia da solo") pur di punire la persona odiata poiché sente di agire nel giusto o comunque ritiene che l'eccezione sia valida per salvaguardare la propria persona e vendicarsi, ed in questi casi occorre valutare se il soggetto che odia sia equilibrato mentalmente o no, ovvero se una persona considerata equilibrata possa spingersi fino ad odiare, a punire ed a commettere reati. L'odio potenzialmente risiede dentro ognuno di noi, emerge nel tragico ruolo dell'inconscio nella guerra dei conflitti, e la psichiatria lo considera comunemente in contrapposizione all'amore, in quanto i due sentimenti possono essere accostati per intensità ed impeto pur non essendo paritetici, mentre come sentimento intermedio tra i due, privo sia di punti positivi che negativi, troviamo l'indifferenza. Naturalmente esistono diverse forme di tale disturbo, ma quella più frequente è "l'odio reattivo", scaturito da un evento negativo, da una profonda ferita o da una situazione immutabile che rende impotenti e genera ostilità violenta, ma in molti casi però l'odio è una peculiarità del carattere, e risiede nella predisposizione di una persona ad essere ostile, come quegli individui che appaiono sempre arrabbiati e si relazionano solo in modo negativo, contestando ogni fatto od opinione diversa dalla loro, non accettando critiche od appunti sul loro comportamento e sul loro carattere.

L'aggressività. La psicanalisi gioca un ruolo di primaria importanza nella comprensione di tale sentimento, addirittura attribuendogli una posizione riparativa finalizzata alla neutralizzazione e sublimazione dell'aggressività ("mors tua vita mea") durante il conflitto tra conscio e inconscio, un confine spesso molto sottile e facilmente valicabile. L'odio, che trova comunque le sue radici nella frustrazione, nell'invidia, nella gelosia, nella competizione, nelle differenze sociali e nel desiderio di vendetta, non sempre alimenta stati emotivi che si impregnano di violenza, perché l'odio cosiddetto "freddo" è tipico delle persone che si limitano a tenere le distanze da quelle ritenute negative o repellenti, percepite come esseri inferiori da guardare con disprezzo e superiorità, che è caratteristico di chi cela bassa autostima, insicurezza, immaturità affettiva ed egocentrismo, e che per liberarsi delle proprie paure sfrutta l'indignazione, la furia verbale e niente di più. In termini psicoterapeutici infatti coloro che tendono ad odiare proiettano sul mondo esterno i loro aspetti peggiori, quelli che non vorrebbero avere ma che abitano il profondo dell'inconscio, ombre che generano incubi e pensieri avversi, sentimenti torbidi e angosce che non si vogliono portare alla luce. Ogni uomo in determinate circostanze ha bisogno di un nemico, a cui addebitare regolarmente le cattiverie, le slealtà, le crudeltà e le prepotenze in cui ci si imbatte nella vita quotidiana, e comprendere questa finzione scenica ideata dalla psiche è dunque essenziale per capire che spesso il male abita dentro, e non fuori, per non arrivare a farsi possedere e sopraffare dall'odio. Chi odia comunque prova un sentimento forte, ed il paradosso è che l'odio non solo si alterna all'amore ma ne è parte integrante, indipendentemente dalla volontà, ("amare il proprio nemico"), poiché i due sentimenti sono destinati ad intrecciarsi in una inevitabile coessenzialità, ed ambedue sono in grado di incidere profondamente sugli stati d'animo, con la differenza che l'odio è un sentimento notevolmente inferiore all'amore, non è paritetico ma condannabile, perché sempre distruttivo e devastante. L'odio non più esistenziale invece, è quello che sfocia nella patologia, che si trasforma in un'idea ossessiva inseguendo la quale non si abbandona mai il tentativo di eliminare l'oggetto che si detesta, quasi fosse una liberazione, per cui il sentimento, non privo inizialmente di una sua nobiltà, muta in delirio. Comunque quando compare, il sentimento dell'odio ha un carattere difensivo ed è impossibile reprimerlo, soprattutto dopo una forte ingiustizia, ma lo si può dominare e razionalizzare, ed è una emotività che fa parte del nostro Dna, della nostra espressività ("uno sguardo d'odio") che può arrivare a ritorcersi anche contro se stessi, fino a scaricare contro di sé tutta la sua forza distruttrice.

Senza passionalità. L'odio moderno invece, quello digitale privo della passionalità succitata, per il quale è stata coniata la locuzione "hate speech", oggi trova spazio attraverso i mezzi di comunicazione di massa, soprattutto attraverso la rete Internet, la cui caratteristica è la disinibizione, ovvero la facilità con cui si postano messaggi di odio incentivati dalla sensazione di anonimato, dalla permanenza perenne dei commenti depositati nel web, dall'amplificazione della portata del messaggio negativo e dalla difficoltà di rimozione e censura, per cui è emerso un fenomeno sociale di diffusione di vastissime frange di odio, che si scatenano non solo su temi tradizionali, politica, sessualità, razzismo o religione, ma si allargano su contesti sempre più variabili e imprevedibili, che sovente scatenano un'ondata di commenti carichi di odio, verso persone che non si conoscono nemmeno, e con le quali non si è avuta mai alcuna relazione, ma delle quali si è invidiosi, gelosi e rancorosi per la loro visibilità. L'essere umano è pressoché l'unica specie che aggredisce, violenta e prova piacere nel fare del male, ma alla lunga l'odio non rende soddisfazione, perché è rozzo e ignorante, non controllabile dalla ragione, fa soffrire, è corrosivo, ed oltre che stupido è spesso inutile a risolvere i problemi che lo hanno provocato.

 Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 24 dicembre 2019. «Non fare del bene se non sei preparato a sopportare l' ingratitudine» diceva Confucio a proposito di questo sentimento umano negativo, oggi molto diffuso, elaborato nel proprio intimo per fronteggiare le conseguenze psicologiche di un debito di riconoscenza derivante da un beneficio ricevuto. Sempre più persone infatti, sembrano incapaci di provare gratitudine verso chi ha fatto loro del bene o chi ha elargito loro un favore, non riconoscono il valore dell' atto, lo svuotano del contenuto affettivo, di stima o di generosità, e stravolgono le motivazioni che hanno mosso il benefattore verso di loro. L' incapacità di riconoscere il dono accettato può addirittura portare ad assumere un atteggiamento opposto, ovvero invece di ringraziare e di essere grati, si finisce per negare, manifestare ostilità, rancore ed aggressività nei confronti del benefattore, sia nel caso in cui l'aiuto sia stato fornito spontaneamente, sia in quello in cui sia stato espressamente richiesto, e tale fenomeno chiama in gioco sentimenti complessi ed ambivalenti, nel tentativo di eliminare il peso "insopportabile" della riconoscenza. Tale comportamento anomalo sfiora il disturbo mentale, è chiamato "Sindrome rancorosa del beneficiato" ed insorge spesso in chi ha un deficit di sviluppo delle esperienze affettive, basate sulla logica del dono piuttosto che su quella del possesso, cosa che esprime sempre un infantilismo narcisistico, una immaturità combinata ad una svalutazione delle proprie capacità, a un senso di inferiorità o di dipendenza, ad una bassa autostima, che possono far insorgere nel beneficiato un moto di competizione ed arroganza nei confronti del suo benefattore una volta ottenuto il riconoscimento, la promozione, il contatto giusto e così via. Il rancoroso cioè, invece di riconoscere spontaneamente il bene ricevuto, non riesce, fino in fondo, ad accettare di averlo avuto, al punto di arrivare a dimenticarlo, negarlo o sminuirlo, a trasformarlo in un fastidio dal quale liberarsi, ed a considerare chi lo ha aiutato come una persona da allontanare, da evitare, da dimenticare, da tradire se non addirittura da penalizzare e calunniare, in una conflittualità psicologica distorta e senza senso logico. L'ingratitudine di chi riceve il favore diventa più comprensibile se si considerano i rapporti di potere in gioco e i sentimenti ambivalenti chiamati in causa, in quanto tale reazione negativa deriva spesso dall' invidia nei confronti di chi dona, che proprio in quanto nelle condizioni di poter dare, gode di una posizione di superiorità, di maggiori risorse e di più elevate competenze, per cui il senso di inferiorità e dipendenza di chi ottiene l' aiuto o il favore viene pertanto ulteriormente rimarcato, scatenando una suggestione superiore ed una risposta inconscia di rivalsa: «Io non gli/le devo niente, il merito è solo mio, anzi è lui/lei che dovrebbe ringraziarmi». Sono soprattutto le persone narcisistiche, o quelle con un ego sproporzionato al proprio talento e alle proprie capacità, quelle che fanno più fatica a dire "grazie", perché vivono il ringraziamento come un atto di sottomissione all' altro, proprio quell' altro che li ha fatti emergere, assumere, lavorare, salvati o strappati da situazioni difficili, per cui iniziano a blaterare, a rimarcare il loro valore che non hanno, ed a convincersi che il dono ricevuto sia soltanto un atto dovuto che meritavano. Il beneficiato infatti, non coglie il valore dell' aiuto, lo svaluta della sua componente di generosità, perché lo interpreta come un debito, come una sconfitta in una competizione, e tale moto d' animo è caratteristico delle persone che sostengono di fare sempre tutto da sole, che il merito è solo loro, del loro impegno e del loro lavoro, e che nella vita non hanno mai avuto bisogno di niente e di nessuno, dimenticando o addirittura tradendo colui/colei che gli ha presentato, per esempio, la persona influente che ha cambiata loro la vita. In realtà più una persona ha attorno persone elevate, più si evidenzia la sua mediocrità, più diventa insicura e se si aggiungono le ridotte capacità e la bassa autostima, più quella persona ha difficoltà a ringraziare, ad essere riconoscente, sviluppando una ridicola ostilità che induce spesso alla rivalsa. Per molto tempo si è pensato che l'ingratitudine fosse solo un sentimento, mentre invece ha una importante componente cognitiva che diventa dissonante e viene rimossa, perché dovrebbe far apprezzare il gesto ricevuto, l' atto in se stesso, ma è noto che l' apprezzamento è una abilità che gli ingrati non hanno sviluppato e non elaboreranno mai. La psichiatria infatti, sostiene che l'ingratitudine si sviluppa nei primi anni di vita, quando i genitori non insegnano ai figli a valorizzare ed apprezzare ciò che gli altri fanno per loro, per cui molto spesso questi bambini manifestano quella che viene chiamata "Sindrome dell' imperatore", una visione egocentrica ed egoistica che li seguirà nell' età adulta, presumendo che gli altri siano tenuti a soddisfare i loro bisogni e desideri, cosa che impedirà loro di provare sia riconoscenza che generosità. La gratitudine e l' ingratitudine non sono due principi assoluti, bensì due atteggiamenti mentali molto diversi, promotori di interessi e obiettivi, a seconda di come ciascuno valuta il principio del dare e del ricevere, che spesso si intrecciano in un rapporto unico di reciprocità che non si può dividere. Ma nell' interiorità del beneficato che ha ricevuto, si stabilisce quasi sempre un vincolo di soggezione, un legame psicologico o materiale con chi ha dato, il quale sentimento, se viene covato ed elaborato in modo negativo nella mente, ingigantisce il potere del beneficante, generando nel beneficato la sensazione di limitazione della sua libertà mista ad invida. Eppure l' ingrato, prima di diventare tale, ammira in modo indefesso colui o colei che formula il beneficio, ne esalta le gesta, lo prende ad esempio, ne adula la personalità, per poi, al raggiungimento dell' obiettivo, distruggerne pubblicamente la credibilità con ipocrisie e maldicenze. Nelle teorie comportamentali tale atteggiamento racchiude in sé non tanto un atto circostanziale fine a se stesso, ma il carattere di una persona, incapace di riconoscere le qualità di chi ha donato, fino a sviluppare una vera sindrome, con un complesso di sintomi che concorrono a caratterizzare un quadro clinico deviato, ovvero a manifestare una vera e propria forma di devianza, derivata da problematiche di ordine psichico difficili da curare. Attenzione quindi ad essere troppo generosi con chi non lo merita, con le persone poco equilibrate, inquiete, che cambiano spesso umore, che danno sempre la colpa agli altri delle proprie sventure, che parlano spesso male e con rancore dei loro amici o congiunti, perché l' ingratitudine è un processo perverso e svilente della mente per il quale chi ha avuto prima o poi si rivolterà contro il suo benefattore, e non a caso è nato il proverbio: «Amico beneficato, nemico dichiarato».

Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 17 dicembre 2019. Portare rancore è un lavoro molto impegnativo, e la maggior parte delle volte non ne vale proprio la pena. Il rancore è un' emozione negativa causata da una situazione avversa che si è verificata, dalla quale ci si sente feriti, una condizione che non si è affrontata apertamente e che non si è risolta, la quale prolunga a tempo indeterminato il malessere alimentando sentimenti di dolore e rabbia rispetto ad un accadimento o verso una persona che si è comportata male. Il rancore è sempre preceduto dal risentimento, un carico emozionale anch' esso negativo che non permette di ristabilire l' equilibrio psicologico, perché il ricordo dell' ingiustizia subita o del danno provocato spingono a restituire il dolore, a progettare atti di vendetta, favorendo atteggiamenti di ostilità e di aggressività verso la persona responsabile della sofferenza e del danno inflitto. In realtà l' unica persona che soffre è la stessa che porta rancore, che prolunga la sua insoddisfazione senza risolvere il problema, ed anche se il tempo la allontana da quella situazione sgradevole vissuta e da colui/colei che l' ha provocata, chi custodisce il rancore si infligge sofferenza e conflitti interiori dai quali non tende a liberarsi La parola rancore deriva dal latino "rancore(m), derivato da "rancere", ossia essere rancido, acido o guasto, ed è usata da secoli per descrivere colui che prova astio, rabbia inespressa, profonda e persistente, covata talmente a lungo e così tenacemente da essere in grado di guastare o irrancidire l' animo umano. Questo sentimento di profonda avversione nasce solitamente a seguite di un torto subìto o un' offesa ricevuta, e si traduce spesso in un desiderio represso di rivalsa, che però non viene manifestata immediatamente nel momento del danno subìto, bensì tenuta nascosta e covata nell' animo, in modo silenzioso e logorante, al punto che tale subdola emozione non fa che essere dannosa per chi la nutre. Non riconducibile ad un fenomeno psichico meramente intraindividuale, il rancore è definito in psichiatria un' esperienza emotivamente disturbante e destabilizzante, provata, rivissuta e rielaborata di continuo nella mente, che presenta varie gradazioni di intensità, ma che provoca quasi sempre la dissonanza cognitiva, ovvero la mancata consapevolezza della grettezza associata al proprio atteggiamento o ai propri sentimenti negativi ed ostili. Spesso dietro il rancore si nasconde un profondo disagio che non si riesce a disciplinare, che può sfociare in una fobia in grado di minare anche i rapporti apparentemente più solidi, che in realtà solidi non sono mai stati, ed in definitiva il risentimento si basa sulla necessità di dire qualcosa che non si è mai stati in grado di esprimere, o almeno con l' intensità desiderata, per cui la persona è in un certo senso delusa e genera nella sua mente una serie di idee negative verso la persona oggetto del suo odio. Generalmente si tratta di personalità fragili e insicure, che tendono ad attribuire la propria inadeguatezza a dubbie ingiustizie subìte o percepite, a colpevolizzare gli altri sul mancato raggiungimento di traguardi od obiettivi, accumulando frustrazioni causa di profonda infelicità ed animosità. Con il passare del tempo questi pensieri diventano ossessivi e sempre più intensi, i quali possono causare molti problemi, dalla semplice ansia alle malattie psicosomatiche, fino a favorire vere e proprie malattie, via via più importanti, poiché a forza di portare sulle spalle un pesante fardello, oltre ai sentimenti negativi prevalenti, ci si nega la possibilità della benché minima serenità psicofisica. Inoltre dietro alla persona che prova rancore si nasconde quasi sempre il giudizio o la sensazione di essere migliore dell' altra, di quella che ha commesso l' errore, senza valutare di giudicare se stessi invece di vivere indossando i panni di giudice, e soprattutto ignorando che ognuno è diverso e che le persone cambiano, per cui è sbagliato restare troppo immersi nell' immagine che si ha di quel lui/lei da non rendersi conto che questa non corrisponde più alla realtà che ci si aspettava. Nella vita tutti prima o poi sperimentano molte cose che si considerano ingiuste, e comunque le si consideri è difficile trovare il lato positivo, ma in molti casi è meglio lasciar perdere piuttosto che farsi consumare dall' amarezza che condiziona il vivere quotidiano. Ed anche se esistesse la possibilità di vendetta, questa non sarà mai la soluzione al dolore accumulato, perché le conseguenze o i conflitti successivi alla restituzione del danno subìto difficilmente restituiscono serenità e soddisfazione, perché il dolore altrui non è in grado di placare il dolore di chi serba rancore in corpo, abituato a sopportare un peso innecessario al quale si è ormai abituati e con il quale si convive. Ma come si evita il rancore? La cosa più conveniente sarebbe risolvere la situazione quando questa si verifica, senza tentennamenti o timidezze, per esprimersi e farsi rispettare sul momento, evitando l' insorgere del risentimento e di tutto quello che questo sentimento negativo comporta. Dopodiché bisogna anche imparare a rispettare il comportamento e il pensiero delle altre persone, libere come tutti di esprimersi, e decidere di conseguenza che relazione mantenere con quell'individuo, poiché rispettare non significa condividere il suo modo di agire, evitando così di vivere una situazione simile un' altra volta. Provare rancore dunque non conviene, perché questo sentimento negativo e livoroso fa male alla salute, condiziona il carattere, rende animosi e astiosi, spegne il sorriso spontaneo, lo trasforma in un ghigno malefico che condiziona il comportamento, e le persone rancorose diventano agli occhi degli altri antipatiche, insopportabili e moleste, difficili da approcciare, o meglio da evitare, sempre avverse e tendenti a parlar male, a lamentarsi e recriminare, per cui si chiudono e vengono isolate, aggravando la loro situazione psicologica di profondo disagio. Il livore infatti, alla lunga diventa un tarlo che divora, che influenza negativamente se stessi e chi vive accanto, è distruttivo, sia dal punto di vista fisico che psicologico, e fa ammalare, quindi molto meglio un atto spontaneo di rabbia espressa sul momento, piuttosto che un sentimento talmente negativo da irrancidire e logorare la serenità della mente e dell' anima.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 19 dicembre 2019. L' amica Melania Rizzoli ha scritto un articolo (qui, martedì) per spiegare che il rancore accorcia la vita, che perlopiù non vale la pena, che spesso rappresenta la mancata soluzione di un malessere che conduce a squilibri emotivi, insomma: il rancore - riassumo - non serve a niente se non a inacidirsi, logorarsi, accumulare frustrazione, perdere serenità, guadagnare fobie, insomma è un inferno che è meglio evitare per non farsene consumare o diventare «animosi, astiosi, antipatici, distruttivi» più altre caratteristiche che in vita mia mi hanno attribuito spesso: anche perché io, in effetti, sono una persona che porta rancore. Proprio così: lo ammetto, io in genere non dimentico, e non voglio farlo, anzi, coltivo amorevolmente i miei rancori e giudico la vendetta un' arte irrinunciabile, nonché, entro certi limiti, un basamento della giustizia umana. Quindi non sono/sarei d' accordo con l' articolo che Melania Rizzoli ha scritto, per come mi era sembrato: ma spiegare il perché, anzitutto, è importante per non generalizzare - come ho fatto io per primo, leggendo - ed è importante anche per capire se usiamo lo stesso vocabolario quando parliamo di rancore, o livore, vendetta, rivalsa, ripicca, risentimento, animosità, astio e altri termini che attenzione, non sono sempre sinonimi: e non sempre si possono liquidare come agenti che fanno male alla salute. Naturalmente esiste un limite che divide ciascuno dal patologico, dalla nevrosi, dalla malattia: ma quello c' è per tutti i sentimenti umani, del resto è anche vero che molti grandi uomini erano dei grandi malati o dei grandi depressi. Invito a riflettere su una banalità, intanto: quasi tutti noi, quando andiamo al cinema, tendiamo a vedere film squisitamente intrisi di vendette e vendicatori, di rancori serbati per anni o per decenni, o, in caso di buonismo, di vendette della vita, che fatalmente tende far quadrare le cose: tutte storie spesso «fuori dalle regole», «con metodi poco ortodossi», con «uomini veri» rispetto a ominicchi, in ossequio a stilemi che non appartengono al nostro quotidiano ma che una parte di noi ammira. Poi, però, quando usciamo dal cinema, quei modelli che li ricacciamo nell' immaginario, e mai, per dire, li insegneremmo a dei bambini. Perché la violenza non serve. Vendicarsi è inutile. Farsi giustizia da soli è incivile. I duelli sono da regrediti. Gli uomini veri, figurati, sono una cazzata. E naturalmente, ecco: il rancore accorcia la vita. Sono solo dei film, ho capito: ma i film in teoria copiano la vita e comunque c' è lo stesso qualcosa che non quadra, o forse, secondo me, c' è una verità che sta nel mezzo, tanto per cambiare. Ed è questa: da una parte c' è la necessità di basare la società su regole civili, non si discute; ma, dall' altra, c' è una maggioranza che non serba rancore perché semplicemente non ne è capace. Gente che non si vendica perché non ne è in grado. Non si fa giustizia perché non è abbastanza forte, oppure ha paura. Soprattutto, gente che ha la memoria corta (che è il mezzo più comodo per tirare avanti) e attenzione, sto parlando di rivalse o vendette rigorosamente dentro le regole, non di pagliacciate di chi ha visto appunto troppi film. La gente, voglio dire, tende a dimenticare. La gente finge di aver perdonato. La gente non serba rancore: ma non tanto perché fa filosofia, ma perché serbare rancore senza abbruttirsi o ammalarsi, o comunque senza diventarne vittima, è un lavoro che necessita di, come dire, due palle così. Il rancore va gestito e bisogna poterselo permettere, altrimenti meglio lasciar perdere. Non sto parlando degli invidiosi sociali, degli haters, degli abbruttiti che serbano rancori (contro chiunque) pur di non incolpare se stessi dei propri insuccessi: quelli sono un' altra cosa, anche se è una cosa importante, perché gli invidiosi sociali stanno prendendo il potere. Io sto parlando di un' incapacità di portare rancore che coincide con la legittimazione di uno dei peggiori difetti italiani: il lasciar perdere perché «non serve», perché tutto s' aggiusta, perché il tempo lava le ferite, e che t' incazzi a fare, il passato è passato, ancora stai a pensarci, domani è un altro giorno. Un cazzo, dico io. Adagio per adagio, allora aggiungo che la vendetta va servita fredda: ma per conservarla serve una dispensa ampia, capiente, riempita anche della vita che intanto continua a marciare senza che la dignità personale e il passato siano d' intralcio, ma neppure abbiano date di scadenza. Senza la memoria, e il rancore che la tiene viva, non può neanche esserci un perdono (che è un' eccezione, non una regola) anche se il classico italiano, o forse l' uomo moderno, ha la prescrizione troppo facile: se t' incazzi per il passato, lui cerca di farti passare per scemo, cioè per rancoroso. Purtroppo abbiamo cattivi riferimenti, anche perché in politica, per esempio, il rancore non dovrebbe esistere, la politica non si fa col risentimento - quante volte me l' hanno detto - e io infatti non faccio politica, anche perché in politica il tradimento è tranquillamente ammesso, e io i traditori li impiccherei tutti. Nella vita reale dovrebbe essere diverso, ma ormai si tende a politicizzare anche i rapporti personali e a gestire i rapporti più con il cervello e meno con il cuore. E lo dico nonostante io abbia vissuto per anni a Roma, dove è bellissimo mischiarsi e dove è normalissimo abbracciare una persona che ha tentato di accoltellarti la sera prima. Insomma, io il rancore ce l' ho, e me lo tengo, mi tiene vivo, anche se non vivrò mai per esso: tuttavia lo reggo, ha il suo posto, mi consente di ricordare che cosa sono gli uomini in generale, che cosa sono alcuni uomini in particolare, e persino - riguardandomi allo specchio, ogni tanto - vagamente chi sono io.

Invidia, il motore del mondo tra peccato e malattia: qual è il pericolo più grave che corri. Melania Rizzoli l'8 Settembre 2019 su Libero Quotidiano. «L'invidia appartiene ai mediocri, agli inutili, ai falliti, a coloro che hanno bisogno di sminuire la vita degli altri per sentirsi appagati». Da "Frasi & Aforismi". Ma l'invidia è un peccato o una malattia? Sicuramente è un sentimento non sano, uno stato d' animo per cui, in relazione a un bene o una qualità posseduta da un altro, si prova dispiacere e astio, per non avere noi quel bene o quella qualità, e a volte il risentimento è tale da desiderare il male di colui che la possiede. L' invidia di per sé è una emozione negativa, è la "stretta" che si prova quando si viene a sapere che un altro ci ha superato, una vera e propria sofferenza che nasce da un confronto perdente, in un campo che è ritenuto importante per la persona invidiosa, e può diventare un sentimento duraturo, evolvere cioè in uno stato di malessere, di malumore e di malevolenza perpetua verso la persona invidiata. Tutti conoscono l' invidia, perché tutti l' hanno provata anche se nessuno osa confessarla, anzi, essa viene sempre negata di fronte all' evidenza, e spesso viene giustificata come ira o gelosia, perché tutti sanno che è una emozione meschina, la più infida e la più nascosta, in quanto ha in sé due elementi disonorevoli, ovvero l' ammissione di sentirsi inferiore e il tentativo di danneggiare l' altro senza gareggiare a viso aperto, ma in modo subdolo, vile e sotterraneo, con una ostilità negata, mascherata da commenti denigratori nel tentativo ossessivo di privare la persona invidiata proprio di ciò che la rende invidiabile. Tradizionalmente si teme lo sguardo malevolo dell' invidioso, perfido e sottile, che non tutti riconoscono, e non a caso la parola latina invidia ha la stessa radice di "videre" ossia vedere, preceduta da "in" che implica inverso, ovvero vedere al contrario la realtà, e non a caso Dante Alighieri, nella Divina Commedia, mette gli invidiosi in purgatorio, con le palpebre cucite con fil di ferro, per chiudere gli occhi che invidiarono e gioirono alla vista dei mali altrui.

COLLEGHI E AMICI. L'invidia non si prova per i grandi della terra, per le persone irraggiungibili, sarebbe uno sforzo ed un confronto inutile, ma insorge soprattutto verso chi è simile, per le persone che si considerano paragonabili come condizioni di partenza, e spesso il bersaglio di invidia diventano quelle più vicine, a cui si vuole bene, come compagni di classe, colleghi, ma anche amici o fratelli, perché dal punto di vista psicologico l' uguaglianza di opportunità rende doloroso l' essere o il diventare inferiori rispetto ai successi di una persona ritenuta uguale o minoritaria. Perché lei sì e io no? Più il confronto è bruciante, astratto o sproporzionato, più la persona invidiosa invidia, diventa ostile, e desidera ferire, sminuire, denigrare e addirittura far del male alla persona invidiata, pur di annichilire il rivale, colpirlo con maldicenze, pregiudizi, cattiverie, costruire prove false al fine di dileggiarlo e danneggiarlo agli occhi dell' altro. Se non stupisce che nella cultura cristiana l' invidia sia uno dei 7 vizi capitali, per la psicologia essa è considerata una debolezza emotiva del paziente, una frustrazione accompagnata da infelicità, da senso di inadeguatezza ed inferiorità, con un deficit grave di auto-valutazione. Non solo. L'invidia viene considerata alla stregua di una malattia dolorosa, e gli scienziati che hanno analizzato con Risonanza Magnetica funzionale cosa accade nel cervello dei pazienti invidiosi, hanno constatato l' aumento dell' attivazione della corteccia cingolata anteriore e dorsale dell' encefalo (legate all' elaborazione del dolore fisico o sociale) tanto maggiore quanto più intensa era l' invidia che il partecipante diceva di provare, come anche il suo senso di esclusione.

OSTILITÀ. Dunque l' invidia è dolorosa, ma è anche potenzialmente pericolosa per gli altri, dal momento che implica ostilità, è socialmente distruttiva, minaccia lo status quo e mette in dubbio la correttezza professionale, la legittimità delle scelte e la credibilità della persona invidiata. L' invidia però è velenosa per chi la vive, per chi la esprime cercando di sopraffare il senso di inadeguatezza, ed autoconvincendosi che il successo dell' altro non sia meritato, che si sia in possesso di qualità migliori, e che le stesse non si sono potute esprimere per situazioni svantaggiose causate dall' altro. Mentre dunque per la psicologia l' invidia è considerata un disturbo patologico dell' umore, un deficit temporaneo o permanente, che condiziona e distorce fortemente l' emotività ed il comportamento, per la psichiatria invece, l' invidia nel corso dell' evoluzione in molti casi si sarebbe rivelata un beneficio, poiché viene descritta come un meccanismo psicologico che avverte che qualcun altro ha guadagnato un vantaggio e dà la spinta per ottenere lo stesso. Secondo uno studio dell' University of Texas l' invidia è un' emozione sviluppata come "sostegno" nella competizione per le risorse, come può essere la conquista di un partner o del cibo, e gli individui invidiosi che giudicano i rivali investono più in sforzi per raggiungere l' obiettivo e non restare indietro, essendo già in partenza sfavoriti nella selezione naturale. Comunque nessuno mai ammette l' invidia, sia per non rendere evidente la propria posizione inferiore, sia per non essere riconosciuto come uno che "parla solo per invidia", ma è bene sottolineare che all' invidia è collegato anche un piacere, ovvero la soddisfazione che si prova davanti alle disgrazie altrui. La psichiatria ha chiamato questo disturbo "schadenfreude", ovvero il fenomeno che insorge quando una crisi stronca un brillante rivale, o la gioia nascosta che si percepisce quando un affascinante conoscente, fino ad allora ammirato e adorato da tutti, ha avuto un grosso problema e deve scendere uno o più gradini, cosa che provoca un più che sottile piacere. Anche questo fenomeno è stato analizzato a livello cerebrale, e di fronte alle sventure capitate ai personaggi invidiati, è stata registrata l' attivazione dell' area encefalica legata al "circuito della ricompensa", poiché nel momento che la sfortuna della persona vincente la "abbassa" al nostro livello, si registra un riequilibrio delle posizioni mentali, e lo svantaggio dell' altro si trasforma in superiorità e soddisfazione dell' invidioso, in modo che il dolore dell' invidia si tramuta in una sensazione di gioia, placando il senso di ingiustizia subìto psicologicamente.

LE DONNE. Gli studiosi hanno evidenziato che l' invidia è ugualmente sviluppata in entrambi i sessi, anche se sono le donne a manifestarla pubblicamente in modo maggiore, soprattutto nel campo dell' avvenenza, oppure nei confronti di rivali che possiedono qualità che si vorrebbero avere, come bellezza, gioventù, riconoscimento sociale, approvazione generale e successo, ma è una emozione negativa che insorge anche in età infantile, quando cominciano le competizioni e si educano i bambini alla condivisione sociale. In più l' invidia dei piccoli pazienti si può mescolare alla gelosia per l' affetto dei genitori, che si teme di perdere, e che si subisce per le loro preferenze o scelte effettuate ed imposte e non condivise. L'invidioso in genere lancia tre messaggi: sono inferiore, ti sono ostile e potrei anche farti del male. Per questo l' invidia è distruttiva, richiede uno spreco di energie fisiche e mentali, minaccia la salute psicologica dell' invidioso, che diventa instabile e aggressivo, reagisce aspramente agli eventi ostili, ed attribuisce il suo insuccesso alla sfortuna, invidiando ancora di più i risultati positivi del rivale. Oggi l' invidia è diventata il peccato capitale più diffuso dell' era dei social, soprattutto tra i giovani, ed è più intensa per la facilità con cui ci si addentra alle foto e commenti degli altri postati su Instagram o su Facebook, alle esperienze positive che non si possono realizzare e che scatenano le reazioni più disparate, sempre negative, come il desiderio di essere al posto di quella persona, se non addirittura desiderare che si ammali o sperare che muoia. L'invidia comunque è un sentimento che divora chi lo nutre, maschi e femmine, e chi la prova non riesce ad instaurare reazioni positive con gli altri, restando bloccato in sentimenti come il risentimento, l' astio e la vergogna, con un senso di insicurezza che si approfondisce e che porta al crollo della fiducia in se stessi. Per cui continuare a chiedere al proprio riflesso: "specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?" non serve a nulla, perché l' invidia è come una malattia maligna, è cattiva, è progressiva ed ha sempre due facce. Sta a noi decidere quale guardare. Melania Rizzoli

Carlo Bordoni per “la Lettura - Corriere della Sera” il 7 novembre 2019. Il riconoscimento delle emozioni non è una novità.  Nella sua versione più attuale risale almeno a un secolo fa, al pensiero di Edmund Husserl e alla rinnovata centralità dell' individuo. Non a caso la fenomenologia riporta in primo piano l'emotività come espressione dell' autentico e come strumento di conoscenza. Nella prevalenza del soggetto c' è tutta l' esigenza di contrastare la deriva «socializzante» dell' Ottocento e del primo Novecento (sindacalismo, socialismo, anarchismo, comunismo); di fronte alla minaccia di sovversione da parte delle masse popolari si apre la prospettiva di un «ritorno all' ordine» che trova utili alleati nel darwinismo sociale, nell' antropologia criminale di Cesare Lombroso e nell' elitismo di Vilfredo Pareto. Max Scheler (1874-1928) si situa in questo periodo critico, a cavallo della Prima guerra mondiale, quando pesanti tensioni gravano sull' Europa. La sua è una posizione di mediazione: lontano da ogni simpatia per il socialismo, cerca di trovare una giustificazione ai comportamenti del singolo individuo, grazie a una metodologia fenomenologica che utilizza la psicologia, la sociologia e l' antropologia, dove la tradizione cristiana è il porto sicuro a cui approdare in caso di tempesta. Il suo approccio è essenzialmente etico e riguarda le forme espressive individuali che caratterizzano il soggetto nella relazione con altri, come la simpatia, il pudore, il pentimento e il risentimento. A quest' ultima emozione dedica un saggio del 1912, ripreso e ampliato nel 1915 e nel 1919, riedito ora da Chiarelettere (a cura di Laura Boella), in cui si riflette il clima di turbamento esistenziale che, per la sua frequenza e ampiezza, ha finito per divenire un problema sociale. La riabilitazione delle emozioni non è solo un residuo romantico, ma una modalità altra di rivalutare l' umano in tempi di sfiducia e confusione; poggia su basi tradizionali e per giunta risponde a una visione fenomenologica della realtà (restituzione al soggetto della facoltà di giudizio), ma soprattutto raccoglie l'eredità di una grande tradizione spirituale che viene dalla «logica del cuore» di Blaise Pascal e dall' Ordo Amoris di Agostino d' Ippona per una corretta gerarchia del sistema valoriale. Nella condizione d'incertezza propria degli anni precedenti al primo conflitto mondiale, ristabilire un ordine dei sentimenti (in primo luogo della supremazia dell'amore divino) significa fornire rassicurazione, consolazione e fiduciosa speranza. Così Scheler si affida alla morale cristiana e ne fa il fulcro della sua argomentazione filosofica (soprattutto nel terzo capitolo, il più denso, «La morale cristiana e il risentimento»), passando curiosamente attraverso Friedrich Nietzsche, del quale analizza, talvolta in aperta contraddizione, la Genealogia della morale (1887), con la denuncia della «rivolta degli schiavi» e delle conseguenze etiche. Il risentimento - emozione forte che Scheler usa nella stessa grafia francese di ressentiment impiegata da Nietzsche - è necessario per comprendere il comportamento umano e, malgrado le apparenze, può avere esiti positivi. Nonostante sia un «autoavvelenamento dell' anima», come ogni veleno ( Pharmakon ), comprende il suo rimedio. È il prodotto di un' emozione negativa, di rabbia e frustrazione che non trova sfogo e provoca uno stato di sofferenza, una sensazione di inadeguatezza e di depressione. «L' ambito del risentimento - scrive Scheler - è quindi limitato innanzitutto a coloro che sono perennemente servi e dominati e invano lusingano alla rivolta contro il pungolo di un' autorità». Dal risentimento nasce il desiderio di vendetta, proprio dei deboli, e l' anima offesa coltiva l' odio, il rancore, l' invidia per l' altro. Si tratta sempre di reazioni a posteriori, mediate e meditate, poiché «agli schiavi - per dirla con Nietzsche - è preclusa una reazione vera, quella dell' azione, che possono soddisfare solo grazie a una vendetta immaginaria». Quando il risentimento lascia un senso di impotenza di fronte all' inutilità della reazione, può dare luogo alla rassegnazione, alla rinuncia, all' accettazione, forse accompagnate a una «deviazione dell' attenzione» o persino a una «falsificazione dell' immagine del mondo». Ma anche a una sublimazione del desiderio di vendetta, disposto a lasciare spazio a sentimenti opposti, «salvifici» per il proprio spirito: il valore positivo della povertà, del dolore, del sacrificio, della morte, che si traducono in dispositivi creativi. È quello che, per Nietzsche, è accaduto nel cristianesimo: il rovesciamento dell' ordine morale. Se nella Grecia classica si guardava verso l' alto (i meno nobili aspiravano alla perfezione; i più nobili odiavano l' imperfezione), adesso vige il contrario. Benché rivolgersi verso il debole sia una morale «da schiavi», in questo caso il risentimento si rivela un valore positivo, tanto che «l' idea cristiana dell' amore è il fiore più raffinato del risentimento». In questo capovolgimento dei principi etici, nell' educazione morale volta a privilegiare l' inferiore, sta la perdita del rispetto di sé e della propria integrità individuale. Contrariamente a Nietzsche, Scheler trova in questa sublimazione del risentimento una dimostrazione di forza e una nobiltà d' animo propria dei santi. Da un sentimento negativo può nascere l' amore, quando si accetta con responsabilità la condizione umana. Il risentimento è un' emozione attuale anche nella sua coniugazione odierna: dentro e fuori la rete, è divenuto una costante nei rapporti interpersonali, benché privo di ogni forma di sublimazione. Non tanto perché «gli schiavi hanno infettato i padroni» - come sosteneva Nietzsche - quanto perché la società contemporanea non ha più validi punti di riferimento, ma vive in una sorta di precarizzazione dell' etica che soddisfa il bisogno inesauribile di emozioni sempre nuove.

Roberto D'agostino per "Vanity Fair" il 22 novembre 2021. Tanta. Tantissima. Forse più di sempre. Di sicuro, più contagiosa del Covid. E' una stagione trionfale per i “rosiconi”. Dalla politica all'economia, dallo spettacolo al costume, un unico codice segreto sembra governare gli avvenimenti: la legge dell'invidia, la regola del livore, la normativa della rabbia. ‘’Ogni qual volta che un amico ha successo una piccola parte di me muore”, confessava sconsolato lo scrittore Gore Vidal. È un vizio capitale, ma è anche l’unico vizio che non dà alcun piacere a chi lo prova. Nondimeno la proviamo quasi tutti. Già Seneca ai tempi dei fasti imperiali romani filosofeggiava: “Il vero amico non è colui che è solidale nella disgrazia, ma quello che sopporta il tuo successo’’. Senza “rosicare” la nostra vita sarebbe eccitante come un caffè senza caffeina, sexy come un vibratore senza pile, depressa come la recitazione di Margherita Buy, moscia come Lilli Gruber senza silicone. Invidia deriva dal latino in-videre (“guardare di sbieco”, “guardare storto”) ed è uno dei sentimenti che non conosce confini di razza, religione, censo. Infatti la proviamo tutti. E se qualcuno dichiara di non conoscere l’invidia, affrettarsi a dargli dell'ipocrita. Tutti conosciamo – e bene - quello spasmo doloroso che devasta la bocca dello nostro stomaco alla vista di qualcuno che possiede quello che non possediamo e che desideriamo. E parte la solita solfa. Che cosa gli fa meritare tutto quel successo? Che cosa ha quel Giuseppe Conte, quel Fedez, quei Maneskin in più di me? Non c’è una ragione perché Gigi Marzullo sia ancora davanti a una telecamera! Allora vuol dire che il mondo non premia in base ai meriti, alle capacità. Perché? Perché? Perché? Dio esiste o esistono solo i raccomandati? Un sentimento di impotenza e di ingiustizia, di livore e di risentimento che deflagra nell’istante in cui si ha la bruciante consapevolezza di essere dei falliti. Allora ci tormentiamo, cercando di trattenere l’esplosione della bile, cercando di dire al nostro fegato che gli altri sbagliano. Ma quanti imbecilli però continuano ad applaudirlo, a cliccarlo, a postare like. Allora si prova di convincerli del contrario, cercando di screditarlo. Essì, se l’invidia fosse un lavoro, in Italia non ci sarebbero disoccupati. Prendete, con le dovute cautele, Giuseppe Conte: il cosiddetto ‘’Avvocato del popolo’’ non riesce, dopo un anno, a metabolizzare la sua cacciata da Palazzo Chigi. Quando Lucia Annunziata a ‘’Mezz’ora in più’’ gli chiede se sia giusto esaltare la leadership di Mario Draghi, il presidente del M5s riserva al presidente del Consiglio l’ennesima frecciata di una lunga serie: “Draghi erede della Merkel? Io aspetterei…”. Ma cosa sarebbe il mondo della politica senza invidia? E' come vedere Berlusconi senza cerone, D’Alema senza baffi, la Boschi senza i paparazzi. Salvini rosica per ogni riga che i quotidiani dedicano alle parole di Giorgia Meloni, Enrico Letta posta immagini di gioia ogni volta che Matteo Renzi finisce sotto schiaffo (cioè tutti i giorni), Franceschini non riesce a trattenersi per essere stato scavalcato nel governo da Andrea Orlando, e via rosicando. Anche nel campo della cultura, congratularsi vuol dire esprimere con garbo la propria invidia, vedi le lodi a mezza bocca degli scrittori italiani verso il successo globale di Elena Ferrante. C’è poi il risentimento retroattivo, come espresso dall’ottima  Natalia Aspesi nei confronti della mitica Fallaci: “Oriana, Oriana. Non si fa che parlare di Oriana. Lei era la protagonista. Quando incontrava Kissinger o Khomeini, sembrava che fossero loro a intervistarla e non viceversa. Se tu oggi rileggi i suoi pezzi ti accorgi che non c’era una notizia“. Cosa resta dopo la fine della lotta di classe? Da una parte, gli invidiosi; dall'altra, gli invidiatissimi. Prendete in mano (con le dovute cautele) il cannoneggiamento da parte di  della matura Paola Ferrari verso il silicone espanso di Diletta Leotta: “Di lei non condivido l'esprimere in modo troppo vigoroso la sua sensualità. Certo io alla sua età ero meno brava. Ma quest'anno avrà filo da torcere: da Mediaset arriva Giorgia Rossi, una molto simile a Ilaria D'Amico”. Secondo round. Recentemente la popputa signorina di Dazn si è lasciata col suo fidanzato, Can Yaman. Il commento di Paoletta è tagliente: “Ma col turco non c'è mai stata la Leotta, lei ha altri amori che magari non dice…”. La tensione fra le opinioniste del GF VIP, Sonia Bruganelli, gamba corta, e Adriana Volpe, coscia lunga, ha preso un sapore acido. Galeotta fu una foto di Bruganelli con Giancarlo Magalli, che Volpe ha denunciato per diffamazione. Il conduttore ha ammesso: “L’intento era chiaro: che lei la vedesse e se la prendesse del fatto che Sonia si facesse una foto con uno che lei ha fatto diventare il suo peggior nemico“. Al tempo del coronavirus e dei virologi in tv, gli stessi virologi, diventati personaggi pubblici, finiscono inevitabilmente nel mirino dell’invidia. Così il giovane e aitante Matteo Bassetti è stato infilzato dal “Tiè!” del rigorosissimo Massimo Galli, professore in pensione: “Sentire quel che dice Bassetti? Anche no. Sono un anziano professore, ho già fatto la mia carriera. Io non ho bisogno di inchinarmi a nessuno. e non sono il nano e ballerina di nessuno”. A proposito di nani e ballerine, sentite lo sfogo del 70enne Christian De Sica: ‘’Ti basta accendere la tv per vedere tanti, troppi attori non professionisti, scritturati solo in base al numero dei follower che hanno sui social. E grazie che sono dei cani”. Aveva proprio ragione Moravia: l'invidia, secondo dei sette peccati capitali (dopo la superbia), "è come una palla di gomma che più la spingi sotto e più ti torna a galla".

Laura Avalle per “Libero quotidiano” il 30 marzo 2021. Ci sono fratelli (o sorelle) che hanno molte affinità, oppure diversissimi fra loro. Spesso i primi ad accorgersene e a risaltare disparità o somiglianze sono proprio i genitori e tutto questo definisce l' identità dei loro figli. Ne parliamo con la dottoressa Gaia Vicenzi, psicologa e psicoterapeuta: «I fratelli, l'uno per l' altro, possono rappresentare modelli positivi da imitare, mentre difficilmente ne imiteranno gli aspetti negativi. Nel primo caso "mi piaccio perché sono come mio fratello", nel secondo "mi piaccio perché sono diverso da lui". All' interno di queste dinamiche, mamme e papà cercheranno inevitabilmente di incoraggiare o di scoraggiare questi comportamenti. Poi ovviamente ci sono differenze dettate dal genere (tra un fratello e una sorella) e differenze di gap generazionale (se ci sono molti anni di differenza fra i due fratelli). La famiglia dovrebbe fare in modo che l' individuo si definisca indipendentemente dall' altro, bypassando la logica del confronto e della competizione, della definizione dell' uno in relazione all' altro». Capita spesso che fratelli e sorelle che da piccoli si ignoravano, da grandi si ritrovino e si avvicinino molto l' uno all' altro. Come mai succede questo? «Una possibile spiegazione è che è vero che fino a un certo momento della loro vita erano due mondi diversi che non si sono incontrati, ma all' interno comunque della stessa famiglia», risponde la dottoressa Vicenzi. «Poi, magari terminato il percorso di studi e cominciata la carriera, diventa piacevole condividere i traguardi, gli stessi ricordi e le stesse esperienze magari da due punti di vista. È un arricchimento perché ognuno ritrova nell' altro una sorta del proprio bagaglio di vita, che nessun altro può avere così in comune come un fratello. È un modo per sentirsi ancora più integri nel momento in cui si entra nel mondo del lavoro o di una nuova famiglia, perché si riconosce nell' altro lo stesso patrimonio fatto di vissuti, di valori e di esperienze. Questo succede in maniera esplosiva quando, nel corso degli anni, i due fratelli si ritrovano a gestire i genitori anziani. L' aspetto di supporto reciproco diventa importante sia dal punto di vista materiale, sia emotivo. Di nuovo, ci si ritrova a condividere emozioni, pensieri, progetti, e avere una spalla su cui appoggiarsi rende sicuramente più forti. Diventa non solo un' esigenza, ma anche un riconoscimento di risorsa da non trascurare». Due altri temi ricorrenti tra fratelli e sorelle, a prescindere dall' età, sono invidie e gelosie «La gelosia c' è nella misura in cui bisogna spartirsi la stessa fetta di torta e magari ho l' impressione che mio fratello abbia avuto più di me», sottolinea la psicologa. «L' invidia è un passaggio successivo dove, a seguito del continuo confronto, io ritengo che l' altro sia migliore di me. Se questo produce una voglia di miglioramento, può essere un modo per evolvere che fa parte di un buon processo di crescita (maturazione), viceversa se è un sentimento nocivo mi deprimo, senza possibilità di crescita e di miglioramento. È il caso, per esempio, di coloro che hanno un fratello bravissimo in tutto e che invidiano a tal punto da non fare più niente: non studiano, non lavorano, si definiscono loro stessi "la pecora nera della famiglia", entrando in questa identità perché pensano sia impossibile cambiare le cose. In realtà non c' è mai una pecora nera, così come non c' è mai una pecora bianca: ci dovrebbe essere un' apparente invidia che mi sprona a migliorare, a riconoscermi diverso in certi aspetti da mio fratello e migliore in altri».

Giuliano Aluffi per “il Venerdì di Repubblica” l'8 maggio 2022.

Se nella vita reale possiamo ancora gloriarci, con amici e colleghi, del magnifico weekend trascorso in montagna, non appena ci connettiamo a Instagram siamo inondati da foto di vacanze in luoghi più esotici, con panorami più spettacolari, e di soggetti che sembrano tutti più in forma, più agiati e più felici di noi. 

Ecco che scatta (ma non in tutti, per fortuna) quell'emozione dolorosissima che si chiama invidia. «I social media sono la macchina perfetta per generare questo sentimento, e il fenomeno si è acuito particolarmente nell'era pandemica, in cui abbiamo vissuto più online che offline. Per di più subendo limitazioni personali, come i lockdown, da cui gli altri, perlomeno nel mondo edulcorato delle loro pagine Facebook, apparivano esenti».

A parlare è Sara Protasi, che dopo una laurea alla Sapienza di Roma e un dottorato a Yale, oggi è docente di filosofia alla Puget Sound University di Tacoma (Usa), dove ha fatto dell'invidia un campo di indagine approfondita.

Ha pubblicato da poco uno studio sul Journal of hate studies sul ruolo dell'invidia nelle relazioni online al tempo del Coronavirus e quindi il libro The philosophy of envy (Cambridge University Press, pp. 260, euro 74), dove fornisce una nuova definizione dell'invidia trovandone anche il lato positivo. Le abbiamo chiesto subito perché i social ne sono il regno indiscusso.

«Per prima cosa lì tutti si sforzano di mettere in vetrina soltanto il loro meglio. Fallimenti e momenti no restano invisibili: esistono solo i successi. Paragonare la propria vita a quegli esempi inarrivabili può scatenare il senso di inferiorità, e quindi l'invidia» spiega Protasi. Conta anche il fatto che i nostri contatti sono per lo più persone con interessi, professioni, livello d'istruzione e valori grossomodo vicini o comparabili ai nostri.

«E l'invidia è spesso una reazione di avversione a un'inferiorità che percepiamo rispetto a chi gioca, per così dire, nel nostro stesso campionato». Anche perché con chi fa parte della nostra cerchia è più probabile che si competa per le stesse risorse. Il villaggio globale di Internet, inoltre, non lascia scampo: ha messo in evidenza criteri oggettivi e misurabili su cui confrontarsi, come il numero di amici o follower, o il numero di like e retweet collezionati con i nostri post.

Il che accentua gli effetti negativi del senso di sconfitta: «Siccome sentirsi invidiosi è doloroso perché comporta l'ammissione di un'inferiorità, il risultato è un aumento di ansia e depressione» spiega Protasi. «Scatta un circolo vizioso: chi è insicuro presta più attenzione ai post di amici che sembrano passarsela meglio, e ciò accresce il malessere».

Ma attenzione, di invidia non ce n'è una sola: secondo Protasi ce ne sono ben quattro, che si distinguono in base al loro bersaglio (invidiamo qualcuno per qualcosa che ha o per come è?) e alla possibilità di successo nel rimettersi in pari. 

La prima è la cosiddetta "invidia dispettosa": «Quando notiamo qualcuno per una sua capacità e sentiamo che il divario è incolmabile - ad esempio una ballerina di fila che detesta un'etoile per la sua superiore agilità - allora prevale il sentimento che porta a desiderare la rovina dell'invidiato. La ballerina può sperare che l'etoile si rompa una gamba» spiega Protasi.

La seconda è l'"invidia aggressiva": «Quando ci accorgiamo che qualcuno ha qualcosa in più di noi ma che in effetti potrebbe essere alla nostra portata, può nascere il desiderio di sottrarre all'altra persona il bene concupito. Ad esempio si potrebbe voler "rubare" l'attraente partner di un'amica». Ancora più subdola e disperata è la cosiddetta "invidia inerte": «La prova chi, sentendo che il divario con l'altro è incolmabile, ne trae una sofferenza passiva e il desiderio di rifuggire quel pensiero tormentoso. Un esempio? C'è chi non riesce a gioire davvero dei successi scolastici o in altri ambiti dei figli degli amici o amiche perché, pur volendoli fortemente, non ha avuto figli». 

Finalmente il quarto tipo, il meno esecrabile. «È l'"invidia emulativa". La proviamo quando sentiamo di poter raggiungere la condizione dell'invidiato - che non odiamo ma anzi prendiamo a modello - se solo ci sforzassimo di più. Anzi, potremmo trasformare gli altri tipi in questo, ben più edificante e produttivo, adottando una mentalità rivolta alla crescita, convincendoci che i nostri talenti non siano fissi e immutabili» spiega Protasi.

Più o meno dannoso che sia, ogni tipo di invidia è comunque inconfessabile: esplicitarlo significa inimicarsi gli altri. «C'è uno stigma antico e universale» dice Protasi «Da sempre infatti le culture umane ammoniscono dall'ostentare le proprie fortune per evitare, ad esempio, il "malocchio", ovvero lo sguardo malevolo dell'invidioso».

Ma se l'invidia - l'emozione più negativa di tutte, perché addolora sia chi la prova che chi ne è oggetto - è una forza così distruttrice per i rapporti umani, come mai non è stata cancellata dall'evoluzione? Secondo lo psicologo evoluzionista David Buss, dell'Università del Texas a Austin, ha avuto un ruolo importante, per tutta la storia dell'Homo sapiens, nel favorire l'acquisizione di risorse necessarie per la sopravvivenza e la riproduzione. 

La natura umana è stata molto competitiva: fino alla relativamente recente (10-12 mila anni fa) invenzione dell'agricoltura le risorse per cui competere erano scarse e il vantaggio di uno si traduceva nello svantaggio di qualcun altro: è quindi probabile che la nostra mente contenga ancora oggi quell'istinto di confrontarci che ha permesso ai nostri antenati di capire il loro status rispetto agli altri membri del loro gruppo.

Ogni informazione è preziosa: se un membro della tribù capisce di essere il più bravo a seguire le tracce degli animali, può specializzarsi in quello e lasciare che a scoccare le frecce sia un altro più dotato di mira. Se poi competiamo per risorse limitate, la strategia ottimale deve tenere conto sia delle nostre capacità che di quelle altrui. 

La regola "Fai meglio del tuo rivale più prossimo" permette di dosare le energie evitando gli sprechi: quando ci si accorge di aver superato il rivale, ad esempio nella capacità di cacciare, si possono riservare le restanti energie ad altre sfide, come trovare un partner per riprodursi. Se invece la regola è assoluta - "Fai sempre del tuo meglio" - non è chiaro a che punto si può interrompere uno sforzo per dedicarsi ad altri obiettivi.

«In quest' ottica evoluzionistica, il dolore provocato dall'invidia è un utile allarme che ci segnala un cambiamento a cui prestare attenzione: qualcuno ci ha superato in una dimensione importante per la sopravvivenza» sottolinea Protasi. «Questo dolore ci porta a evitare distrazioni, a focalizzarci sullo svantaggio che abbiamo percepito e sulla persona dell'invidiato, così da investigare su come questi sia riuscito ad avvantaggiarsi. E ci pungola a cercare di ridurre il divario». 

L'ipotesi di Buss spiega anche perché questa emozione sia così inconfessabile. Celarla ha un valore strategico: la nostra reale capacità personale di acquisire risorse è un'informazione che di norma non è facilmente acquisibile dagli altri, ed è proprio l'ambiguità su questo dato che permette a ognuno di manipolare le impressioni degli altri in una maniera vantaggiosa.

Ammettere l'invidia rovinerebbe questo gioco, perché segnalerebbe a tutti che siamo inferiori su qualcosa che ci sta a cuore, svelerebbe la nostra vulnerabilità e comprometterebbe l'esito delle azioni successive. Se chi viene superato da Tizio in un concorso fa spallucce e non rivela il suo malanimo, potrà poi far passare un messaggio - tipo: "Che coincidenza! Sapete che Tizio è il nipote del commissario d'esame?" - senza che gli altri lo squalifichino automaticamente come l'illazione di un invidioso.

L'invidia sociale che avvelena il clima. Andrea Indini il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Crisanti nel tritacarne social per la notizia (se di notizia si può parlare) dell'acquisto di una villa. Oltre alla propaganda no vax ci troviamo infestati dall'odio sociale nei confronti della ricchezza.

Cosa spinge l'acquisto di una casa a diventar notizia? Cosa spinge quella notizia a diventare trend topic su Twitter con relativo fiume di insulti, teoremi strampalati, allusioni meschine e attacchi complottardi vari? L'investimento immobiliare di un qualsiasi cittadino non dovrebbe mai e poi mai riempire le pagine dei giornali, se non forse quelle gossippare che vanno a ficcare il naso nelle vite dei vip. Così i più assennati devono aver strabuzzato gli occhi quando ieri si sono visti sul Corriere del Veneto un articolo (con tanto di video) che raccontava l'acquisto da parte di Andrea Crisanti di una residenza del Cinquecento, Villa Priuli Custoza, ai piedi dei Colli Berici. Dentro c'erano tutte le info del caso, manco fossimo su un sito di immobili: costo (due milioni di euro circa), modalità di pagamento (mutuo), le amenties che offre ("circondata da 1,2 ettari di giardini"). Ma che notizia è mai questa?, si saranno chiesti. Perché tanto clamore da farla addirittura rilanciare tra le prime notizie del sito del Corsera? E, mentre cercavano di dare una risposta a queste ovvie domande, ecco la bacheca di Twitter infiammarsi.

"Crisanti che si compra una villa del '600 da due milioni chiude il cerchio sulla farsa che è stata la pandemia in Italia". "Ma Crisanti ha ringraziato tutti i coglioni ipocondriaci grazie ai quali si è comprato una villa da due milioni di euro?". E giù tutti a postare immagini, scorci della tenuta, vedute del "villone". C'è chi lo accusa di essersela comprata andando in tivù a terrorizzare gli italiani e chi invece millanta che si sarebbe arricchito con i soldi della Pfizer. "Questo verme ha speculato sulla morte di 150mila persone - urlano - si è comprato una bella villona palladiana con i soldi di Big Pharma". Ce n'è per tutti i gusti. Complottismo all'ennesima potenza che degenera in una farsa vomitevole. Nella corsa a chi posta il tweet più assurdo ha, infatti, un che di grottesco l'interesse degli sfegatati anti vaccinisti per il numero di bagni (e quindi di cessi) che Villa Priuli Custoza offre al suo interno. Ben sette. Nell'immaginario dell'odiatore seriale la possibilità di defecare ogni giorno della settimana su una tazza diversa deve essere il non plus ultra della libidine. Libidine da arricchiti. Ma è su questi insignificanti particolari che la narrazione passa in un battibaleno dall'insulto ("A quanto pare la villa del 600 acquistata da Crisanti ha sette cessi. Con lui saranno otto!") alle minacce di morte con tanto di fotomontaggi del professore già al campo santo.

A spingere tutto questo odio non è solo l'esasperazione dopo due anni di pandemia. Sarebbe troppo semplice bollare la polemica in una faida tra sì vax e no vax. Qui c'è molto di più, e di ben più radicato nel dna (malato) della nostra società. Se si scava a fondo, dietro i tweet più facinorosi, c'è un odio atavico contro la ricchezza. "Per mantenere una dimora del genere - sussurrano alcuni - ci vogliono una barca di soldi, altro che mutuo". È quella stessa invidia sociale a lungo cavalcata dalla sinistra a suon di slogan "Anche i ricchi piangeranno" per sponsorizzare la patrimoniale e poi fatta propria dal grillismo più becero che vede dietro ogni fortuna l'ombra di una magagna, di una ruberia, di una truffa ai danni dello Stato. Crisanti è vittima di tutto questo odio. Tanto che oggi è finito per rilasciare un'intervista (sempre al Corriere del Veneto) per giustificarsi di non essersi "arricchito con la pandemia" ma di essere "frutto dei risparmi di una vita". Ma davvero oggigiorno uno deve abbassare il capo e spiegare che quello era il sogno della sua vita, che con la moglie hanno aspettato a lungo per fare questo passo e via dicendo. Non poteva limitarsi a dire "Sono solo affari miei!", per non usare particolari anatomici maschili più dettagliati. Se lo avesse fatto gli odiatori seriali, che in questi giorni per la stessa ragione twittano con la bava alla bocca per attaccare chi compra usando i contanti, lo avrebbero impalato sulla pubblica piazza.

Nel delirio che da ieri mattina sta infognando le bacheche di Twitter c'è anche chi grida al contro-complotto. E cioè che è colpa della stampa che ha messo in piedi tutta 'sta storia per "screditarlo totalmente". "Magari - spiegano - serve a distrarre dai suoi colleghi che i milioni li tengono in Svizzera. D'altronde è uno dei pochi che si è lasciato andare a dichiarazioni contro il governo". Questo perché Crisanti andava bene quando aveva fatto il "miracolo" di Vo' Euganeo (ricordate?), ma poi aveva iniziato a stare sul gozzo a chi non aveva alcuna voglia di sentir parlare di chiusure, vaccinazioni e mascherine. Ma poi, ultimamente, è tornato ad andare bene quando ha messo per iscritto che sì, c'è un nesso tra tutti quei morti in Val Seriana e la mancata zona rossa, tra l'assenza di un piano pandemico aggiornato e il propagarsi del contagio durante la prima fase della pandemia. Questo perché gli eroi sprofondano negli abissi, nel giro di una notte. L'invidia sociale e il rancore nei confronti del vicino più ricco, invece, non tramontano mai: offuscano sempre il cuore degli stolti che poi finiscono per sfogarsi sui social (ma non solo).

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia.Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sbarcato" sugli scaffali delle librerie con un romanzo inchiesta sulla movida milanese: Unhappy hour (Leone Editore). Nel 2011 ho doppiato l'impresa col romanzo La notte dell'anima (Leone Editore).Cattolico ed entusiasta della vita. Sono sposato e papà di due figlie stupende.

Vito Punzi per "Libero quotidiano" il 30 dicembre 2021. Rainer Zitelmann, tedesco di Francoforte sul Meno e classe 1957, è storico e sociologo neoliberista e libertario, membro del Fdp, il partito liberale guidato dal neo ministro delle finanze Christian Lindner, ma anche investitore immobiliare, in due parole: un ricco. Dopo aver pubblicato l'anno scorso La forza del capitalismo, l'Istituto Bruno Leoni presenta ora il suo ultimo libro, Ricchi! Borghesi! Ancora pochi mesi! Come e perché condanniamo chi ha i soldi (p. 324, 20,00), per la cui versione originale tedesca l'autore in realtà non ha scelto uno slogan, ma un più prosaico La società e i suoi ricchi. Pregiudizi sudi una minoranza invidiata. 

Un libro che Zitelmann, fiero del suo essere ricco, ha scritto partendo dai risultati di un sondaggio condotto in Francia, Gran Bretagna, Germania, Usa e Italia dagli autorevoli istituti Ipsos Mori e Allensbach, finalizzato alla comprensione dell'atteggiamento delle persone verso i ricchi, intendendo questi come coloro che, oltre a una casa, possiedono almeno un milione di euro, di sterline o di dollari: un'indagine comparativa internazionale che in questi termini non aveva precedenti.

Per capirne il valore è sufficiente leggere l'esito delle risposte alla prima domanda: quali di questi gruppi (musulmani, immigrati, ebrei, neri, omosessuali, disabili, persone che vivono di sussidi, donne, cristiani, disoccupati e ricchi) bisogna stare attenti a non criticare in pubblico? In tutti i Paesi indagati il gruppo che risulta dare meno problemi se criticato pubblicamente è quello dei ricchi (quasi scontato rimarcare che in cima alla lista dei non criticabili vi siano i musulmani e i neri). 

CHI VINCE E CHI PERDE Tra gli altri risultati del sondaggio c'è la conferma che nei Paesi indagati un ruolo chiave nel plasmare la posizione delle persone nei confronti dei ricchi è giocato (ancora) dal cosiddetto «pensiero a somma zero», secondo il quale i ricchi diventano tali a spese degli altri; la vita economica, cioè, non sarebbe altro che un gioco «come il tennis, in cui un giocatore deve perdere perché l'altro vinca».

ESEMPIO CINESE Anche in questo caso, come in altre sue pubblicazioni, Zitelmann per confutare questa visione "erronea" ricorda quanto avvenuto dal 1981 ad oggi in Cina, dove il costituirsi di un folto gruppo di miliardari (da uno, allora, a oltre 400, oggi) è stato accompagnato dal quasi azzeramento della popolazione in condizioni di estrema poverta. Dunque, dice Zitelmann, senza porsi troppe domande circa la libertà d'opinione, di culto ecc., «il forte calo della povertà e il contemporaneo aumento del numero di miliardari sono due facce della stessa medaglia». Chi ha particolarmente sorpreso (in positivo) Zitelmann sono stati i giovani italiani (all'Italia sola, non alle altre nazioni, dedica una capitolo specifico). Una soddisfazione, rispetto alle loro risposte, che il tedesco, dicendosene «molto contento», esprime già nella Prefazione: «I giovani italiani hanno molti meno pregiudizi verso i ricchi rispetto ai connazionali più anziani e sono meno prevenuti rispetto, per esempio, ai giovani americani. Nel complesso, l'invidia sociale è più bassa in Italia che in Francia e nel Paese in cui vivo, la Germania».

IL CAPRO ESPIATORIO Tra gli altri capitoli del libro, molto interessante quello dedicato alla psicologia del capro espiatorio: «Nel corso della storia», scrive Zitelmann, «alcuni gruppi sono stati identificati come colpevoli di eventi negativi che non potevano essere spiegati in altro modo». E nelle situazioni di crisi sociale è il ricco, o più genericamente la persona o il gruppo altolocati, ad essere individuati dalle masse come capri espiatori. Ed è nel suo Paese che lo studioso riscontra a questo proposito i dati più negativi: «Il pensiero da capro espiatorio e la credenza nel gioco d'azzardo a somma zero sono molto pronunciati in Germania, specie nei Länder orientali. Addirittura più della metà dei tedeschi concorda con l'affermazione: Molti ricchi hanno raggiunto la loro prosperità solo perché si sono arricchiti a spese degli altri». Ciò che invece sorprende positivamente Zitelmann è il giudizio dei tedeschi con un passato migratorio: la loro avversione per i top manager, gli investitori immobiliari e finanziari e per i banchieri è minore rispetto a quella dei tedeschi autoctoni. Per concludere: se nei primi capitoli, per rispondere alle «ambizioni scientifiche» dello studio, vengono trattati i diversi concetti e le definizioni e sono presentate le metodologie utilizzate, per il resto Zitelmann si è sforzato, riuscendoci, di scrivere un libro facile da capire e piacevole da leggere, pieno di spunti accessibili ad un ampio pubblico di lettori.

RANCORE, LA PICCINERIA SCIOCCA CHE CI FRULLA LA TESTA. CLETO CORPOSANTO su Il Quotidiano del Sud il 20 Agosto 2023.

Provare rancore nei confronti di qualcuno è qualcosa che, più o meno intensamente, è toccato a chiunque. Il termine deriva dal latino rancere, essere rancido o irrancidito; e in effetti il  rancore  è un sentimento di odio che può avere differenti livelli di profondità, spesso non manifestato apertamente, ma tenuto nascosto e quasi covato nell’animo.

È quello che Madre Teresa di Calcutta ha spesso definito il sentimento più brutto. Forse proprio a causa della non capacità di portare a galla e risolvere un problema nei confronti di qualche altra persona.

Ma è anche volgare il rancore, secondo Oriana Fallaci che così ne ha scritto nel suo “Gli antipatici” del 1963. Il rancore è stato spesso oggetto di interesse da parte di scrittori e studiosi di moltissime discipline differenti: lo scrittore e sceneggiatore canadese Mordecai Richler, per esempio, spesso viene ricordato per una frase, “C’è chi colleziona francobolli, o scatole di fiammiferi. Tu collezioni rancori” che fotografa alla perfezione il suo pensiero rispetto a questo sentimento. Ma è soprattutto Elias Canetti, saggista bulgaro naturalizzato britannico, premio Nobel per la letteratura nel 1981, ad aver dedicato alcuni passaggi molto interessanti sul rancore.

Nel suo “La provincia dell’uomo” del 1973, ci ricorda che “la cosa più stupida sono le rimostranze: c’è sempre qualcuno verso il quale nutrire rancore. Capita sempre che l’uno o l’altro ci abbia offeso. Capita sempre che l’uno o l’altro ci abbia fatto un torto. Cosa gli è saltato in mente, che vuol dire questo e stavolta non la passerà liscia. Questa piccineria sciocca continua a frullarci in testa; piccineria, perché riguarda soltanto noi stessi, e anzi solo una minima parte della nostra persona, i suoi confini sempre artificiosi.

Di tali rimostranze la vita si riempie come se fossero prove di saggezza. Invadono tutto come cimici, si moltiplicano più in fretta dei pidocchi. Si va a dormire con loro, ci si sveglia con loro; la vita di relazione degli uomini non consiste d’altro”. Dopo un altro passaggio in un testo del 1994, La rapidità dello spirito, Canetti torna sul tema anche un paio d’anni dopo: in “Un regno di matite” afferma testualmente che “il rancore è meschino, non bisognerebbe coltivarlo e lasciarlo suppurare, bisognerebbe sbarazzarsene”.

D’altro canto, già moltissimi anni prima Arthur Schnitzler, nel suo “Il libro dei motti e delle riflessioni” del 1927, ci ricordava che “non esiste rancore più implacabile di quello che portiamo verso chi, pur non volendolo, ci ha posto nella condizione di manifestare i lati negativi del nostro carattere proprio nel rapporto con lui, oppure ci ha dato per primo motivo di scoprirli”. Il rancore, insomma, finisce con l’incidere e corrodere relazioni sociali, ma soprattutto mette di fronte chi prova questa tipologia di sentimento a sé stesso, alle debolezze e alle fragilità che albergano in ciascuno di noi.

È importante sottolineare che le cause del rancore possono variare a seconda del contesto culturale, storico e sociale. Inoltre, le emozioni come il rancore spesso si sviluppano da una combinazione complessa di fattori individuali, sociali e ambientali. Gli studi in questo senso sono molteplici, e mettono in luce una serie di cause che possono veicolare sentimenti di rancore. Molte analisi convergono sul convincimento che una delle cause principali siano le ingiustizie percepite: Il rancore può scaturire da un senso di ingiustizia, sia reale che percepita.

Quando le persone si sentono trattate in modo inequabile o ricevono un trattamento ingiusto, possono sviluppare rancore verso coloro che percepiscono come responsabili delle ingiustizie. Così come le situazioni di competizione e rivalità possono generare rancore, specialmente quando il fallimento o la sconfitta sono percepiti come risultato di azioni ostili o scorrette. Anche le tensioni e i conflitti che non vengono risolti adeguatamente possono lasciare sentimenti di rancore sia a livello interpersonale che intergruppo.

Sempre per rimanere nell’ambito individuale, le persone che subiscono discriminazioni o pregiudizi possono sviluppare rancore nei confronti di coloro che li trattano in modo discriminatorio o pregiudizievole, così come le esperienze di trauma, sia individuali che collettive, possono scatenare il rancore verso coloro che sono stati coinvolti nella causa del trauma. A livello collettivo, la percezione di corruzione o inefficienza nelle istituzioni sociali o governative può alimentare il rancore nei confronti delle istituzioni stesse o di coloro che ne fanno parte; in alcuni casi, le informazioni e la retorica negative diffuse dai media possono influenzare il rancore e i sentimenti di ostilità tra gruppi. E naturalmente, I cambiamenti sociali rapidi possono portare al rancore nei confronti di gruppi che sono percepiti come responsabili di tali cambiamenti o che beneficiari di tali cambiamenti a scapito di altri.

La produzione scientifica e saggistica sul tema del rancore sociale è davvero vasta. Perché Il rancore può portare alla polarizzazione tra gruppi o comunità. Quando le persone nutrono forti sentimenti di rancore nei confronti di un altro gruppo, possono diventare più inclini a identificarsi in modo rigido con il proprio gruppo e a considerare il gruppo avversario come l'”altro”, accentuando le differenze e rafforzando le barriere sociali.

Ancora, il rancore può alimentare il conflitto intergruppo o interetnico, poiché le emozioni negative possono portare a comportamenti ostili o persino violenti verso il gruppo percepito come responsabile dell’ingiustizia o della ferita; in questo senso il rancore può contribuire alla discriminazione e al pregiudizio tra gruppi. Le persone possono sviluppare pregiudizi negativi verso il gruppo avversario, basati sulla rabbia e sull’odio.

Ne è convinto per esempio il saggista indiano Pankaj Mishra, che nel suo “The Age of Anger: A History of the Present” indaga la rabbia e il rancore nelle società contemporanee e offre una prospettiva storica sulle radici di queste emozioni. E se molti studi analizzano in particolare la situazione negli Usa (spaziando dal rancore politico nelle comunità rurali del Wisconsin a quello che affrontano gli studenti LGBT nelle scuole statunitensi, per giungere anche al rancore e alla rabbia tra gli uomini bianchi americani e al suo impatto sulla politica e sulla cultura), altri esaminano invece come l’invidia e il rancore siano collegati allo status sociale e come queste emozioni possano influenzare le interazioni e le relazioni umane.

Il rancore collettivo può avere insomma ripercussione negative importanti: può rendere più difficile la risoluzione pacifica dei conflitti, poiché le emozioni negative possono bloccare la comunicazione e la comprensione reciproca. Ma può anche alimentare la riduzione della fiducia sociale: Il rancore può erodere la fiducia tra gruppi o all’interno della società. Quando le persone si sentono ferite o ingiustamente trattate, possono diventare più scettiche e meno disposte a fidarsi di altri, e se il rancore diventa generalizzato o pervasivo all’interno di una società, può portare a tensioni costanti e instabilità sociale.

Da non dimenticare anche gli effetti a medio-lunga scadenza: il rancore può portare alla perdita di opportunità di collaborazione e sviluppo reciproco tra gruppi, impedendo la crescita sociale ed economica. In questa prospettiva può quindi ostacolare il progresso sociale e la cooperazione tra gruppi, rendendo difficile l’adozione di politiche o decisioni che comportino un beneficio comune.

Me contro te. Odio e paura sono le due emozioni con cui i social fortificano le divisioni identitarie. Max Fisher Linkiesta il 16 Agosto 2023

Come spiega Max Fisher ne "La macchina del caos", le piattaforme che gestiscono i social hanno amplificato i nostri impulsi innati a fare gruppo tra “noi” per difenderci da “loro”, facendo leva su appartenenze identitarie vere, pompate ad arte o addirittura inventate dal nulla

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine, con gli articoli di Big Ideas del New York Times. Si può comprare, qui sullo store, con spese di spedizione incluse, oppure in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia.

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La forza più potente dei social media è l’identità. È questo lo stimolo che funziona meglio di tutti su queste piattaforme, che sono quindi progettate per attivarlo e dargli maggiore intensità. Esprimere e perfezionare l’identità, vedere e definire il mondo attraverso le sue lenti: questo effetto ha rivoluzionato il funzionamento dei social, perché i loro supervisori e i sistemi automatizzati si sono pian piano orientati sull’identità, un elemento che era molto utile ai loro scopi. Per comprendere il potere dell’identità iniziate a chiedervi: con quali parole posso descrivere meglio la mia? Potrebbero venirvi in mente la nazionalità, l’etnia o la religione. Forse la città in cui vivete, il lavoro che fate, o il vostro genere. Il nostro senso dell’io deriva in gran parte dalla nostra appartenenza a uno o a più gruppi. Ma questo impulso – le sue origini e i suoi effetti sulla nostra mente e sulle nostre azioni – «resta un mistero imperscrutabile per gli psicologi sociali», come scrisse Henri Tajfel nel 1979, quando decise di provare a risolverlo.

Tajfel aveva avuto un assaggio diretto del potere dell’identità di gruppo. Nel 1939 la Germania occupò il suo Paese natio, la Polonia, mentre lui era a studiare a Parigi. Ebreo e preoccupato per la sua famiglia, si finse francese per unirsi all’esercito. E continuò con quella pantomima anche quando venne catturato dai tedeschi. Dopo la guerra, rendendosi conto che la sua famiglia era stata sterminata, Tajfel diventò ufficialmente francese e poi britannico. Quelle identità erano meri costrutti sociali: come avrebbe fatto, altrimenti, a cambiarle come si cambiano i vestiti? Eppure avevano il potere di stimolare le manie omicide o la pietà nelle persone che lo circondavano e di spingere un intero continente sull’orlo dell’autodistruzione.

Le domande nate in quel contesto perseguitarono e affascinarono Tajfel per molti anni. Lui e alcuni colleghi iniziarono a studiare il fenomeno, che battezzarono “teoria dell’identità sociale”. Ripercorsero le sue origini arrivando ai primordi dell’umanità. Molti primati vivono in piccoli branchi. Gli esseri umani, al contrario, sono comparsi in collettivi numerosi, in cui l’appartenenza familiare non era sufficiente a legare i membri che perlopiù non erano imparentati fra loro. Il dilemma era che il gruppo non era capace di sopravvivere senza che ciascun membro contribuisse al benessere dell’insieme, e a sua volta nessun individuo poteva sopravvivere senza l’aiuto del gruppo.

L’identità sociale, come venne dimostrato da Tajfel, è il modo in cui leghiamo con il gruppo e in cui il gruppo lega con noi. È per questo che ci sentiamo spinti ad appendere una bandiera davanti a casa, a indossare una felpa con il nome dell’università che abbiamo frequentato o ad appiccicare un qualche adesivo sulla macchina. Sono manifestazioni che dicono al gruppo che teniamo alla nostra affiliazione, che la consideriamo un’estensione di noi stessi e che quindi siamo individui affidabili, pronti a fare il bene del gruppo. L’impulso a coltivare un’identità condivisa è talmente potente che ce ne costruiamo una anche dal nulla. In un esperimento alcuni ricercatori hanno assegnato ai soggetti una tra due etichette mediante il lancio di una monetina, dopo di che hanno fatto fare loro un gioco. Il risultato? Ognuno si mostrava più generoso con chi aveva la sua stessa etichetta, anche se sapeva che si trattava di definizioni prive di significato.

Lo stesso comportamento è emerso in decine di altri esperimenti e di situazioni reali, in cui le persone coglievano al volo qualsiasi occasione per stabilire un divario tra “noi” e “loro”, mostrando poi sfiducia, e perfino ostilità, verso il gruppo “altro”. Ad esempio, durante le pause per il pranzo sul set del film Il pianeta delle scimmie, girato nel 1968, le comparse si dividevano spontaneamente ai tavoli a seconda che interpretassero uno scimpanzé o un gorilla. Per anni, dopo quel film, Charlton Heston, che ne era il protagonista, parlò della «segregazione istintiva» definendola «inquietante». Nel sequel del film, un diverso gruppo di comparse si comportò esattamente allo stesso modo. Questo istinto è stato sempre animato da pregiudizio e ostilità. […] La mente ci costringe a questi comportamenti stimolando due emozioni in particolare: la paura e l’odio.

[…] Si tratta di istinti profondamente sociali e pertanto le piattaforme di social media, trasformando ogni click e ogni swipe in un atto sociale, li fanno riaffiorare. E poiché le piattaforme premiano i sentimenti che provocano engagement, spesso danno forma a questi istinti nella loro manifestazione peggiore. Il risultato crea una realtà fittizia in cui il gruppo cui l’utente appartiene è sempre virtuoso ma assediato, i gruppi estranei sono sempre una minaccia terrificante e quasi tutto ciò che succede è una questione di “noi” contro di “loro”. All’inizio, ovviamente, la tendenza dei social di indulgere sull’identità non era dannosa. Ma è sempre stata ben nota.

[…] «L’identità è la fionda», come ha scritto Ezra Klein, fondatore del sito di notizie Vox, in un libro sulla polarizzazione. «All’inizio in pochi capivano che il modo di vincere la guerra dell’attenzione era imbrigliare il potere della comunità per creare identità. Ma i vincitori sono emersi in fretta, spesso usando tecniche di cui neanche loro capivano fino in fondo i meccanismi». E tali vincitori erano dei provocatori superfaziosi, delle fabbriche di click a scopo di lucro, degli sfacciati truffatori. Liberi da vincoli che li costringessero all’imparzialità, alla precisione o a perseguire il bene comune, costoro trovavano pubblici enormi cavalcando, o provocando, i conflitti d’identità. Le conseguenze, lì per lì, non sembravano estendersi al di fuori di Internet. Ma gli avvertimenti più terribili su quello che sarebbe successo dopo, che con il senno di poi erano chiarissimi, arrivavano già da anni, da una parte del mondo in cui la posta in gioco non avrebbe potuto essere più alta e verso cui l’attenzione non avrebbe potuto essere più bassa: il Myanmar.

[…] Per decenni questo Paese era rimasto avvolto in uno degli isolamenti più totali che una nazione abbia mai sperimentato sulla Terra. Il governo militare, composto di individui paranoici, aveva vietato l’accesso a Internet, ai cellulari, ai media stranieri e ai viaggi internazionali. […] Nel 2011 l’anziano leader Than Shwe fu sostituito dall’ennesimo generale, Thein Sein. Quest’ultimo si scoprì un’inclinazione riformista: convinse gli esiliati a tornare a casa, allentò le restrizioni sui media e liberò i prigionieri politici. Poi prese le distanze dalla Cina, il vicino settentrionale che mostrava tendenze sempre più imperialistiche, e aprì il dialogo con gli Stati Uniti. […] Un player molto utile, seppur ingombrante, nel rilancio della nazione asiatica, accolto con favore sia dal governo birmano sia dai leader americani, fu la Silicon Valley. Portare online il Paese, si diceva, ne avrebbe modernizzato l’economia, dando ai suoi 50 milioni di abitanti il potere di favorire la transizione alla democrazia.

[…] Facebook giocò un ruolo di primo piano. Stipulando accordi con le aziende locali, fece in modo che ogni smartphone fosse venduto con l’applicazione base di Facebook già preimpostata. Nei Paesi più poveri, quali appunto il Myanmar, in cui il salario medio si aggira sui 3 dollari al giorno, il traffico dati del cellulare ha un costo proibitivo. Per superare l’ostacolo e vincere la corsa per aggiudicarsi i due, tre miliardi di clienti più poveri del mondo, Facebook e altre aziende tech americane lanciarono il “costo zero”, finanziando cioè intere popolazioni tramite accordi con i vettori locali per esonerare dal costo del traffico dei dati chi utilizzava le loro app. Il Myanmar rappresentò un caso di studio e, per Facebook, un successo senza precedenti. Una fetta enorme della popolazione imparò a messaggiare e a navigare sul web esclusivamente tramite Facebook, tanto che molti birmani rimasero del tutto inconsapevoli del fatto che esistessero altri modi di comunicare e di leggere le notizie online.

Arrivai in Myanmar all’inizio del 2014 per raccontare la lenta transizione del Paese verso la democrazia. […] Correndo in continuazione da un’intervista con un politico a una con un attivista finii per accorgermi che il futuro del Paese era più traballante di quanto ce lo dipingessero. L’esercito aveva ancora qualche potere residuo e sembrava riluttante a cederlo. Nel clero buddista si stava facendo largo una frangia estremista. E i social media, la novità di quell’epoca, erano zeppi di razzismo e di teorie complottiste. Online gli utenti furibondi parlavano ovunque di minoranze traditrici.

Intervista dopo intervista continuavo a sentire un nome che mi preoccupava: Wirathu. Quel monaco buddista era rimasto dieci anni in carcere per i suoi sermoni pieni d’odio ed era appena stato liberato nell’ambito dell’amnistia generale concessa dal governo. Wirathu aveva subito aperto degli account su Facebook e YouTube. E allora, invece di girare il Paese da un tempio all’altro per diffondere odio, si limitava a usare quelle piattaforme per canonizzare gran parte della nazione, anche diverse volte al giorno. Wirathu accusava la minoranza musulmana di crimini aberranti, infarcendo quei suoi discorsi di sfacciate falsità. Su Facebook, soprattutto, i suoi post circolavano e ricircolavano tra utenti che li prendevano come fatti indiscutibili, creando una realtà alternativa al sapore di rabbia e di teoria del complotto. Wirathu era ormai una star assoluta.

Aela Callan, una ricercatrice di Stanford che aveva lavorato in Myanmar, riferì al giornalista Timothy McLaughlin di essersi incontrata con i senior manager di Facebook alla fine del 2013 per avvertirli che la piattaforma era sommersa di messaggi d’odio. Per un Paese con centinaia di migliaia di utenti, che ben presto diventarono milioni, Facebook impiegava un solo moderatore capace di controllare i contenuti in birmano: la piattaforma era sostanzialmente senza supervisione. I manager dissero a Callan che in ogni caso Facebook non avrebbe limitato la propria espansione in Myanmar.

All’inizio del 2014 Callan lanciò un altro avvertimento: il problema stava peggiorando, e c’era il serio rischio che scoppiassero disordini. Ancora una volta cambiò poco o niente. Qualche mese più tardi Wirathu condivise un post in cui affermava, mentendo, che due musulmani, proprietari di altrettante sale da tè a Mandalay, avevano violentato una donna buddista. Scrisse i nomi dei presunti responsabili e dei loro locali, definendo quella loro aggressione il primo passo verso una rivolta di massa dei musulmani contro i buddisti. Wirathu sollecitava il governo a fare irruzione nelle case dei musulmani e nelle moschee in una sorta di attacco preventivo – che è la pretesa comune di ogni genocida, il cui messaggio implicito è che i cittadini debbano agire al posto delle autorità. Il post diventò virale e dominò i feed di tutto il Paese. Gli utenti indignati si incoraggiavano a vicenda a fare piazza pulita dei musulmani. A Mandalay si rivoltarono in centinaia, assaltando gli esercizi commerciali dei musulmani e i loro proprietari. Arrivarono perfino a uccidere due persone, ferendone innumerevoli altre.

Con il diffondersi dei tumulti, un membro senior del governo telefonò a un suo contatto nell’ufficio birmano dell’impresa di consulenza Deloitte per chiedergli aiuto: voleva contattare Facebook. Ma nessuno dei due riuscì a parlare con qualcuno all’interno dell’azienda. Disperato, il governo bloccò l’accesso a Facebook in tutta Mandalay. Le rivolte scemarono. Il giorno seguente da Facebook risposero al rappresentante della Deloitte, non per parlare delle violenze, ma per chiedergli se sapesse come mai la piattaforma fosse stata bloccata.

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Il rabbioso esercito di Conte. Michel Dessì il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Giuseppi aizza le folle nel suo tour per difendere il reddito di cittadinanza e l'odio social corre veloce da una bacheca all'altra. Rimbalza sulla rete e ferisce. Dietro i post, spesso, si nasconde l'esercito dei percettori del reddito di cittadinanza che, sentendosi spalleggiati, non si fanno problemi ad "odiare". Ma il pericolo è che qualcuno molli la tastiera e prenda il bastone per scendere in piazza

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Odio, odio e ancora odio. Un sentimento frequente che popola soprattutto i social network dove si espande e corre da una bacheca all'altra. Rimbalza sulla rete e ferisce. Chi segue "La Buvette" lo sa, per due settimane ci siamo occupati del bonus tecnologico da 5.500 euro che i deputati si sono auto regalati per potersi comprare pc, tablet, cuffie e cellulari di ultima generazione. Un provvedimento disonesto per un periodo come questo che stiamo attraversando dove, agli italiani, si chiedono sacrifici. Vi abbiamo raccontato anche l'ipocrisia di Giuseppi, l’avvocato grillino che, solo dopo il polverone mediatico che si è alzato, ha deciso di schierarsi e prendere posizione attaccando chi, quella determina, l'ha voluta e firmata. Ha attaccato tutti, tranne il suo Filippo Scerra che, all'onor del vero, l'ha difesa.

È bastato far notare questo cortocircuito per essere assaliti da minacce e commenti violenti e cattivi. Tutti provenienti da sostenitori dell'avvocato, tutta gente a "libro paga". Percettori del reddito di cittadinanza in poche parole. D'altronde, ormai è quello l'elettorato del Movimento 5 Stelle, di Giuseppe Conte. Ascolta nel podcast l'opinione di Andrea Indini, responsabile de ilGiornale.it.

La natura del Movimento 5 Stelle non cambia. Sono loro i veri populisti, i veri giustizialisti. D'altronde è la storia a parlare per loro. "Sei la melma del giornalismo, sappiamo chi sei" - e ancora - "Giornalista di parte e arrogante", accuse rivolte (al sottoscritto) solo per aver sollevato delle domande. Legittime. "Usi molto la lingua, sei un lecchino" - e ancora - "Sei una testa vuota". "Povero scemo". "Conte ci ha salvati". Potremmo andare avanti all'infinito ma è inutile. Un fatto è certo: c'è gente che si sente legittimata ad offendere. Spalleggiata. Un bel guaio per il nostro Paese.

L'odio della rete non si ferma solo a chi mette in discussione l'operato di Giuseppe Conte ma si estende, va oltre. C'è perfino chi punta il dito e accusa la cantante Cristina d'Avena per aver partecipato alla festa dei 10 anni di Fratelli d'Italia.

Robe da matti.

S.D. per “Tpi” il 15 Dicembre 2022.

Monica Cirinnà sceglie un hater come social media manager. «Ominide del Texas, qui l'unico troll che non si vedrà più sei tu. Tiriamo la catena», risponde "S" direttamente dal profilo della senatrice paladina dei diritti civili, a chi la giubilava per la mancata rielezione in Parlamento. 

Le unioni civili «permettono a migliaia di persone di vivere in un paese civile dove i Minus habentes come lei non hanno che i social per scaricare le frustrazioni e le impotenze. Provi con preparazione H, ma non come dentifricio come di solito». 

Così, senza risparmiare epiteti in difesa della leonessa, "S" dà fondo all'immaginazione pur di offendere i contestatori. Dopo anni di performance, gli appassionati si sono interrogati ironicamente sul suo futuro: «In questo triste momento, l'unica cosa che mi preoccupa è la sorte del povero "S" che rimarrà disoccupato».

Insomma, "S" spende tutto se stesso per la causa, ma quella sigla sembra proprio essere una presa di distanze preventiva della senatrice rispetto ai contenuti scritti dal suo assistente che invece di moderare le discussioni le aizzano in maniera provocatoria e voluta. 

Dietro la bestiolina della Cirinnà si cela Simone Barbieri, archeologo prestato da tre legislature all'assistenza parlamentare, vicino alle sigle Lgbt e il suo nome fa capolino nelle carte dell'inchiesta Mondo di Mezzo. Insomma, "S" è tutto quello che non dovrebbe fare un social media manager.

DAGONEWS il 13 dicembre 2022.

Kanye West potrebbe non vincere mai più un altro premio legato alla musica, ma c'è un gruppo che lo sta onorando affibbiandogli un titolo non molto lusinghiero, quello di "Antisemita dell'anno". 

Dopo diverse settimane e quasi 10.000 voti online, il gruppo di sorveglianza StopAntisemitism ha nominato Westla persona più antisemita del 2022 

Liora Rez, direttore esecutivo di SA, ha detto: «Kanye usa la sua celebrità per promuovere pericolosi messaggi antisemiti sugli ebrei e il potere e si rifiuta di fermarsi. L'odio per gli ebrei è già fuori controllo negli Stati Uniti e l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è una celebrità come Kanye a mettere benzina sul fuoco».

Non è difficile trovare le prove a sostegno della vittoria di Kanye come "Antisemita dell'anno". Dopo una serie di sparate contro gli ebrei, Kanye ha dichiarato di amare Hitler, ha negato parti dell'Olocausto e ha chiesto che i nazisti fossero meno odiati.

Dagonews il 12 dicembre 2022.

Non c’è stato solo l’Olocausto, ci sono stati tantissimi genocidi nel mondo ma se voi ci fate caso siamo portati a pensare solo a quello che ha colpito gli ebrei, che poi non tutti gli ebrei, perché quelli ricchi si sono venduti pure le sorelle, le famiglie”.

Rabbì (diminutivo- spregiativo in romanesco di Rabbino, ndr) la storia è ciclica: prima pecore e poi lupi. E lo sanno tutti che il terrorismo non ha la Kefiah ma va in giro con i tank”. Firmato “Free Palestine” (sic.)

Non è semplice comprendere e smontare bugie secolari, negazionismi, complottismi, propaganda che da decenni fa sistematicamente whitewashing razziale, greenwashing per l’ambiente, pinkwashing per quanto riguarda l’LGBT. Eppure sono queste le menzogne che quotidianamente nutrono il mondo occidentale la cui vittima principale non è solo il popolo palestinese ma anche quello siriano, libanese, iracheno, afgano, arabo e il mondo islamico in generale, quest’ultimo sempre strumentalizzato e colpevolizzato ad arte (qui). 

Gli artefici massimi di questa corruzione di costumi in quell’area sono stati la colonizzazione imperialista occidentale e la distorsione del pensiero giudaico-cristiano. Pensa che anche gli indù stanno facendo una carneficina in Kashmir, essendo i maggiori partners in crime di Israele e USA. Mi pare evidente che si sta cercando di tacciare l’ennesima religione scomoda come tante lo sono state in passato, la storia è ciclica, si sa”

Com’è possibile che ai vertici e nei posti di comando ci siano sempre persone di una certa appartenenza (qui)? Per fare un esempio lampante, ad Hollywood il 90% di attori, registi, produttori sono ebrei. Adam Sandler, Natalie Portman, Winona Ryder, Spielberg, Polanski, J.J. Abrams”. Sto notando e faccio notare che c’è uno schema, una costanza in questo fenomeno. Se metti queste persone ai vertici automaticamente il pubblico empatizza con loro e ci si riconosce, si affeziona. In questo modo non andrà mai a pensare male di Israele, la patria acquisita di tante star planetarie. Figuriamoci poi fare una ricerca tale da scoprire che questo Paese è colpevole di numerosi ed efferati crimini”. 

Liliana Segre, per esempio. Sopravvissuta all’orrore dell’Olocausto e massima autorità italiana del messaggio contro l’odio e contro il razzismo, ogni volta che è stata interpellata in materia di Palestina ha sempre glissato, dicendo: ‘io non parlo di politica’”. 

Io non capisco perché un Saviano…non abbia mai parlato in difesa del popolo palestinese e della causa del diritto al ritorno. Sembra quasi che gli sia impedito pronunciare la parola ‘Palestina’”.

Barometro dell’odio, il 9% dei contenuti pubblicati dai politici è offensivo. MARIA TERESA PEDACE su Il Quotidiano del Sud il 12 Dicembre 2022

Circa 9 contenuti su 100 tra quelli pubblicati online dai politici italiani risultano offensivi, discriminatori oppure incitano all’odio: a rilevarlo è la sesta edizione del Barometro dell’odio di Amnesty International dedicata alle “Elezioni politiche 2022”. Durante cinque settimane, tra agosto e settembre 2022, sono stati raccolti oltre 30.000 contenuti dalle pagine Facebook e dagli account Twitter di 85 candidati alle elezioni politiche, selezionati tra i capilista dei seggi plurinominali e i candidati ai seggi uninominali.

Di questi, 28.238 post e tweet sono stati catalogati, mentre poco meno di 2mila sono stati scartati perché non valutabili. Per ciascun contenuto sono stati indicati il tema, l’accezione, l’eventuale presenza e il grado di problematicità, la tipologia di bersaglio, il gruppo vulnerabile cui ricondurre il bersaglio e l’ambito a cui fa riferimento l’odio. A effettuare il lavoro di catalogazione dei contenuti è stata una squadra di 50 tra attiviste e attivisti di Amnesty International, affiancati dallo staff; a elaborare e analizzare i dati, invece, è stato un gruppo di data scientist, ricercatori, esperti ed esperte dell’organizzazione stessa.

I politici italiani hanno, quindi, fatto uso di hate speech nel 9% dei casi e, dei contenuti discriminatori e offensivi rilevati, circa quattro contenuti su dieci sono attacchi rivolti ad altre figure politiche. I diritti umani sono invece presi di mira solo in un quarto dei contenuti. Al centro dei temi che sono stati maggiormente oggetto di linguaggio dell’odio troviamo l’immigrazione (53%), le minoranze religiose (36%), il mondo della solidarietà (35%), Lgbtqia+ (31%) e giustizia di genere (26%). A emergere è anche una nuova tendenza, cioè una forma di discriminazione e intolleranza di tipo classista nei confronti delle persone in stato di svantaggio economico. A generare contenuti d’odio sono anche temi quali il Covid, la guerra e la crisi climatica. I diritti umani compaiono in meno di 1 post e tweet su 4 e, anche in quel caso, spesso il contenuto non è in chiave costruttiva.

Tra le prime cento parole nei contenuti che incitano all’odio spiccano termini quali italiani, blocco, popolo, regole, decreti, casa, stupro, violenza, mare, vita: rimarcano, cioè, la necessità di porre fine a qualcosa, introducendo così la dimensione della sicurezza. Ci troviamo in continuità con il passato, non solo per i temi, ma anche per i lemmi e le proposte di limitazione dei diritti.

La coalizione di centro-destra ha pubblicato più del doppio dei contenuti discriminatori o offensivi rispetto alla coalizione di centro-sinistra: rispettivamente il 9% e il 4%. Azione-Italia Viva ha pubblicato il 6% di questa tipologia di contenuto, mentre il Movimento e Stelle circa il 3%.

Osservando i cinque esponenti politici che hanno pubblicato il maggior numero di contenuti – post e/o tweet – offensivi, che incitavano alla discriminazione oppure fungevano da attacco ad altri esponenti politici, si possono ricondurre a tre partiti: Lega, con i post di Matteo Salvini, Manfredi Potenti, Claudio Borghi Aquilini, Edoardo Rixi e Severino Nappi; Fratelli d’Italia, con i contenuti di Lucio Malan e Roberto Menia; Azione, con i post di Carlo Calenda. In testa ai leader troviamo Matteo Salvini (18%), seguito da Giorgia Meloni (16%), Carlo Calenda (9%), Silvio Berlusconi (5%), Nicola Fratoianni (4%), Giuseppe Conte (2) e Enrico Letta (1%).

Per Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, “Se i politici quelle energie che mettono nell’insultarsi l’un l’altro le dedicassero a parlare di diritti in maniera costruttiva, saremmo già un passo avanti nella lotta alla discriminazione”. Il linguaggio d’odio, insomma, viene sdoganato proprio da quella classe dirigente che dovrebbe invece rimettere al centro dell’attenzione i temi sociali e le persone. Ci troviamo, invece, di fronte a un dibattito desolante in cui a farla spesso da padrona sono l’intolleranza, l’esclusione sociale, le generalizzazioni, le rappresentazioni stereotipate e, appunto, l’hate speech.

L’attività del Barometro dell’odio non si limita, tuttavia, all’analisi dei dati raccolti, ma fornisce raccomandazioni preziose. Se da un lato vi è l’invito alle piattaforme social a una vigilanza attiva e a una maggiore chiarezza sulla gestione delle segnalazioni, dall’altro vi è un accorato appello al nuovo Governo affinché vengano rafforzate le campagne di comunicazione e informazione sul rispetto dei diritti umani, si intensifichino i programmi di educazione all’interno delle scuole, si fermino le discriminazioni e si condannino, con prontezza, tutti gli episodi di discorsi d’odio.

Una società migliore passa anche da una politica migliore.

La filosofia del contemporaneo. Terrificanti e attraenti: il nostro amore per i mostri. Incarnazione di una diversità, di una deviazione dalla norma. Racchiude tutto ciò che non possiamo fare e non possiamo essere, ma che segretamente desideriamo sperimentare. L’amore per il mostro è l’amore per il proibito. Lucrezia Ercoli su L'Unità il 5 Luglio 2023

“Il minotauro sognò di essere un uomo, eppure mentre sognava sapeva di essere un mostro cui mai sarebbe concesso linguaggio, mai fratellanza, mai amicizia, mai accoglienza, mai amore, mai intimità, mai il calore. Sognò come gli esseri umani sognano gli déi”. Così Friedrich Dürrematt riscrive il mito del Minotauro, il mostro per eccellenza, un ibrido, il corpo di un uomo e la testa di toro; una figura duplice che tiene insieme la malinconia dell’humanitas e la ferocia dell’animalitas.

Una storiaccia da manuale di psicanalisi. La bellezza di un magnifico toro conquista Pasifae, la moglie di Minosse, re di Creta. La regina nascosta dentro la prima macchina del sesso della storia, una giovenca in legno progettata dal grande Dedalo, si offre alla bestia e dal mostruoso rapporto nasce il Minotauro, letteralmente il taurus, il toro di Minosse. Lo rinchiudono nel labirinto realizzato dal solito Dedalo. Gli ateniesi ogni anno devono sfamare i suoi appetiti consegnandogli l’innocenza di sette fanciulli e di sette fanciulle. Sarà l’eroismo di Teseo a spezzare la spirale di sesso e morte. Con un artificio raggiunge il centro del ‘dedalo’ e trafigge l’essere deforme.

Da allora però il minotauro continua a sopravvivere nella fantasia di artisti e scrittori che hanno cantato la sua triste storia. Da Picasso a Borges, dalla Yourcenar a Cortázar, in tanti hanno cercato negli occhi di questa creatura di confine – spaventosa e spaventata, al tempo esclusa e rinchiusa – tutte le ambiguità del mostruoso che alberga nel cuore dell’umano. Anche l’etimologia del termine latino monstrum ci può illuminare. Deriva dal verbo “monere”, che significa “ammonire, avvertire”. Il mostro è un monito, un avvertimento, un segno prodigioso inviato dagli dèi, un presagio tremendo che viene da un altro mondo e che siamo chiamati a interpretare.

Riusciremo a interpretare il messaggio enigmatico e sfuggente che arriva dal monstrum? “Il mostro racconta quasi caricaturalmente la genesi delle differenze”, ha scritto il filosofo Michel Foucault che ha dedicato al mostruoso alcune delle sue lezioni al Collège de France sugli “anormali”. I mostri sono l’incarnazione di una diversità, di una deviazione dalla norma, di un’anomalia rispetto al canone, di un eccesso sproporzionato rispetto alla medietà. Il mostro, in quanto a-normale e de-forme, è l’escluso per eccellenza. In questa prospettiva, il mostro non è necessariamente il “cattivo”, ma molto più spesso è il segno di un’infrazione biologica (il “freak”) o giuridica (il “criminale”).

Ma il criterio con cui individuiamo questa anomalia mostruosa non è oggettivo e non è univoco. Ogni epoca storica ha la sua “teratologia”, la sua tassonomia mostruosa: ciò che è mostruoso per una società e per un individuo, non lo è necessariamente per un altro contesto e per un altro ambiente sociale. Pensare il mostro, dunque, vuol dire interrogarsi sul relativismo delle nostre categorie morali e identitarie. Chi ha il potere di definirle e modificarle ha il potere di ‘mostrificare’ l’altro: creare mostri vuol dire detenere il potere di includere e di escludere qualcosa o qualcuno dal cerchio dei normali.

Per usare un esempio pop: il mostro è come il “molliccio” di Harry Potter, una creatura informe che prende le sembianze di ciò che – in quel preciso momento e in quel preciso contesto – ci fa più paura. E la società di massa – dal true crime alla serialità televisiva, dai videogiochi all’intelligenza artificiale – produce costantemente mostri usa e getta, da amare, da deridere, da temere, da sacrificare. D’altronde l’esigenza di costruire un confine tra “noi” e gli “altri”, tra “alleati” e “nemici”, tra “normali” e “mostri” è costitutiva dell’essere umano, ci fa sentire protetti e al sicuro. Creiamo la nostra identità in contrapposizione a quella dell’altro da noi. Non è un caso che il sistema binario su cui sono costruiti i nuovi media – sempre divisi tra “followers” e “haters” – alimenti a dismisura questa tendenza alla polarizzazione e alla ‘mostrificazione’.

Ma la costante spettacolarizzazione del mostruoso e il suo incredibile successo ci aiuta a capire qualcos’altro: dietro la paura del mostro, si nasconde una forma di attrazione; un desiderio perverso che ci spinge ad amare i mostri oltre che a respingerli. Il mostruoso ingenera una reazione doppia di repulsione e attrazione, un sentimento di terrore e di meraviglia. Forse perché rappresenta l’irregolare e l’illecito: racchiude tutto ciò che non possiamo fare e che non possiamo essere, ma che segretamente desideriamo sperimentare e desideriamo incarnare. L’amore per il mostro è l’amore per il proibito.

Anche nel linguaggio comune usiamo la parola “mostro” in modo duplice: definiamo mostruoso un comportamento immorale, ma anche un record atletico o un risultato scientifico. E non a caso “freak out” diventa il motto di una generazione di ribelli che rifiutano i canoni normati e normalizzanti della società. Ogni controcultura è sempre figlia del mostruoso, così come ogni rivoluzione rivendica un termine originariamente ingiurioso come affermazione positiva di una diversità.

Siamo attratti dall’eccezionalità del mostruoso. L’amore per i mostri svela il nostro desiderio di sfuggire alla tirannia della normalità. In un mondo che cerca di eliminare i mostri e di nascondere le anomalie, cerchiamo uno specchio per far risplendere non solo le nostre paure, ma anche i nostri desideri più oscuri e inconfessabili. Ci innamoriamo dei mostri perché grazie a loro superiamo il limite di ciò che ci è consentito. Attraverso il filtro delle creature mostruose dell’immaginario pop, evochiamo le forze caotiche che albergano nel nostro inconscio.

“C’è una cosa che preferirei all’uccisione del Minotauro – dice il Teseo di Cortázar – essere il Minotauro”. L’eroe, schiacciato dalla responsabilità, vuole dismettere i panni che il suo ruolo gli impone. Ognuno di noi vuole sfuggire al destino che gli è stato assegnato e segretamente desidera essere il Minotauro, libero nella sua prigione. “C’è solo un mezzo per uccidere i mostri – risponde il Minotauro a Teseo, prima di offrirsi alla sua spada senza opporre resistenza – accettarli!”. Lucrezia Ercoli 5 Luglio 2023

La Teratofilia è l’attrazione sessuale per le persone deformi o mostruose. La parola deriva dalle parole greche τέρας che significa mostro e φιλία che significa amore

Teratofilia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera

La teratofilia si riferisce all'attrazione sessuale per i mostri . La parola deriva dal greco τέρας , che significa mostro, e φιλία , che significa amore . 

In generale. La teratofilia è classificata come una parafilia . Piuttosto che vedere la condizione come un nodo , i difensori della teratofilia credono che permetta alle persone di vedere la bellezza al di fuori degli standard sociali . Tra le altre cose, è stato suggerito che i mostri possano funzionare come una fantasia di evasione per alcune donne, dal momento che il mostro è in grado di incarnare attributi maschili senza presentarsi come un uomo, il che può incarnare trauma e terrore in casi estremi, o aggravando minimamente le disposizioni patriarcali . 

Il “mostro” e la “mostrificazione dell’altro”. CARMEN DELLA PORTAPOSTED il 9 marzo 2023 su  ultimavoce.it

Dalla parte di chi lotta per essere riconosciuto, dell'essere umano e dei suoi diritti.

Dalla mitologia greca alla psicologia sociale il concetto di “mostro” e il processo di “mostrificazione dell’altro” sono stati usati per nominare e definire la categoria di “altro” e di “diverso”

Partendo dall’etimo del termine “mostro” ci proponiamo di comprendere cosa intendiamo quando parliamo di “mostrificazione dell’altro”. Innanzitutto, monstrum viene dal latino monere che significa “ammonire”, “richiamare alla memoria”. Indica l’apparizione di qualcosa di straordinario, di eccezionale che rinvia a un “ammonimento” divino. “Mostruoso”, come diceva il grammatico Festo nel II secolo d.C., «è ciò che travalica l’ordine naturale delle cose, come un serpente con i piedi, un uccello con quattro ali, un uomo con due teste». Il mostruoso si riferisce a figure presenti nella tradizione culturale dell’antica Grecia che hanno un ruolo preciso e un’identità definita, ma che sono anche l’incarnazione di incubi o sogni per ogni uomo di ogni tempo. Per questo continuano a vivere ancora oggi trasmutandosi in forme nuove.

Le caratteristiche fondamentali del “mostro”

Una delle caratteristiche fondamentali dei mostri è l’essere ibrido. Il mostruoso è ciò che sfugge alle leggi della natura e alle regole della ragione. Spesso mescola alla forma umana quella divina e bestiale. Il mostro si sottrae a ogni definizione ed è spesso indescrivibile. La sua forma è inafferrabile, indicibile. È l’incarnazione di un paradosso. Perciò, il mostro è anche un enigma, e non a caso i mostri sono appunto custodi di enigmi, come la Sfinge, o abitano luoghi simili a rompicapi, come il Minotauro nel Labirinto. Le lotte degli eroi contro i mostri sono descritte nei miti attraverso scene che hanno il valore allegorico di una sfida del Bene contro il Male, in cui il mostro ibrido è caratterizzato da una natura satanica. L’ibrido non è però l’unica forma attraverso cui si dà il mostruoso. L’abnorme e l’insolito sono altrettanti attributi della mostruosità: un’altra forma del mostruoso è dunque la dismisura. Mostruoso può essere, quindi, ciò che è troppo grande o troppo piccolo, come il gigante o il folletto. A volte il mostro gigante può essere antropomorfo. La mitologia conosce molti giganti. Gerione aveva tre corpi e tre teste. Oto ed Efialte, figli del dio del mare Posidone, tentarono la scalata all’Olimpo mettendo una montagna sopra un’altra per raggiungere la sede degli dei. Ulisse affronta terribili giganti tra cui i Ciclopi.

La “mostrificazione dell’altro” come processo di deumanizzazione

I mostri del mito continuano a vivere perché ci sono sempre nuovi scrittori che ne riscrivono le storie. Gli archetipi delle narrazioni antiche sopravvivono oggi attraverso l’immaginazione di nuove storie, ma anche attraverso il loro riuso nella propaganda politica. Il mostro mitologico ancora oggi si reincarna nell’altro, nel diverso. Ma cosa è la “mostrificazione dell’altro”? Come avviene e cosa vuol dire “mostrificare”? “Mostrificare” vuol dire, innanzitutto, introdurre una asimmetria tra chi gode di tratti umani e chi ne è considerato privo o carente. La “mostrificazione dell’altro” è un processo di deumanizzazione, di sottrazione dell’umanità dell’altro. La mostrificazione, cioè la deumanizzazione dell’altro può assumere molte facce. Tutto quello che la psicologia sociale è stato in grado di dire in questi anni riguarda la società occidentale. In particolare, trattare l’altro come animale è stata la forma prioritaria di relazione con l’altro che si è affermata nella nostra cultura. Si è trattato di mettere l’altro fuori dalla condizione umana. Poiché la facoltà prototipica dell’umanità è la razionalità, la civiltà occidentale ha cercato sempre di sminuire l’altro considerandolo un essere senza ragione. La presentazione mostruosa è servita ad alimentare nel tempo una narrazione incentrata sull’odio e sull’autoproclamazione di superiorità di se stessi sull’altro. A partire dai barbari nella civiltà classica e passando per la donna che era vista come meno razionale e meno capace dell’uomo. Senza dimenticare che la mostrificazione dell’alterità degli “uomini selvaggi” nel ‘500 durante la fase di colonizzazione dell’America servì a legittimare il genocidio e l’espropriazione dei territori indigeni da parte degli occidentali. Inoltre, il fenomeno ha riguardato nel tempo anche le classi sociali inferiori, mentre di recente si è parlato di mostrificazione del nemico nel conflitto russo-ucraino. La parola “orchi” (орки), infatti, è stata usata per indicare i soldati russi, entrando nell’uso comune dei civili e dei media ucraini.

Mostro” è anche il mio “simile”

L’analisi che abbiamo condotto non basta a cogliere tutte le sfumature attraverso cui il mostruoso sopravvive nella nostra cultura e società. Agli esempi fatti in precedenza aggiungiamo che lo psicanalista e drammaturgo italiano Sandro Gindro sosteneva che un atteggiamento xenofobo originasse già nei confronti di un nuovo arrivato nella famiglia, ovvero del fratello o sorella cadetta. Non è solo lo smisurato bisogno di amore e protezione a rendere meno tollerante la nuova presenza nella famiglia, ma secondo Gindro l’insofferenza si può originare anche rispetto a ciò che ci è simile, a ciò che è a noi vicino. In qualche modo, il nuovo o la nuova arrivata rappresenterebbero il perturbante, così come lo intese Freud. Il perturbante risiederebbe, in questo caso, nella figura di un individuo appartenente al mio stesso gruppo familiare che, nonostante la sua familiarità, risulta essere per me non-familiare, estraneo, e per il suo modo diverso di stare al mondo, a me incomprensibile. Da sempre, quindi, l’altro, cioè il nemico, l’estraneo, il lontano, è stato identificato come “mostro”, come “inumano”. Ma posso avvertire come “mostruoso” anche il mio vicino, l’appartenente a un mio stesso gruppo familiare o sociale. Pertanto, a partire dal concetto di mostruoso dobbiamo interrogarci sulle relazioni umane da cui sentiamo provenire quel “richiamo alla memoria” di qualcosa di eccezionale o straordinario, senza per questo imporci sull’altro o alimentare un odio che deriva dall’incomprensione e dalla sua inafferrabilità. Questo meccanismo di “mostrificazione” e deumanizzazione è certamente autodistruttivo. Il disprezzo e la disistima per l’altro non fanno che accumulare un clima di odio, di tensione e di paura fra tutti i popoli. Avremmo bisogno, al contrario, di più sforzi per ricercare insieme il senso di una nuova umanità e di una cooperazione sociale che sia universale, proprio esplorando il lato seduttivo dell’estraneità senza pregiudizi o sopraffazioni. Carmen della Porta